Sei la mia vita
 8804653019, 9788804653011

Table of contents :
Il libro
L’autore
Sei la mia vita
Sei la mia vita
Prologo
Via Ostiense
E se…
Una sera sul Ponte Sisto
La seconda primavera
Una dea in parrucca
Il dono più bello
Il Buco
L’amore che uccide, l’amore che salva
Il coraggio di essere se stessi
Danzando con il fuoco
Il principe dei ladri e la cassiera tradita dalle stelle
I luoghi del cuore
La cena degli addii
Epilogo
Indice

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Il libro

Un’auto lascia Roma di primo mattino. Alla guida, c’è un affermato regista. Sul sedile accanto, l’uomo che da molti anni ama di un amore sconfinato. Dove stanno andando? Mentre la città si allontana e la strada comincia a inerpicarsi dentro e fuori dai boschi, il regista decide di narrare al compagno silenzioso il suo mondo «prima di lui»: «La mia vita è la tua e ora te la racconterò, perché domani sarà solo nostra». Inizia così un viaggio avanti e indietro nel tempo: i primi anni in Italia, dove era giunto dalla Turchia non ancora diciottenne con il sogno di studiare e fare cinema, le persone che hanno lasciato il segno, gli amici, gli amori, le speranze, le delusioni, i successi. Storie che conducono ad altre storie, popolate da figure indimenticabili e bizzarre: una trans egocentrica sul viale del tramonto, un principe cleptomane, un centralinista con il rimpianto della recitazione, una cassiera tradita dalle congiunzioni astrali, una bellissima ragazza dallo spirito inquieto. E poi, raffinati intellettuali, inguaribili romantiche, noti cinefili, amanti respinti e madri niente affatto banali. Sullo sfondo, il palazzo di via Ostiense dove tutto accade, crocevia di solitudini diverse, ma anche di intense amicizie e travolgenti passioni. Il palazzo che nel tempo si è trasformato, conservando però intatti i suoi più intimi segreti. E, soprattutto, la città di Roma, come nessuno l’ha mai raccontata. Gli anni Settanta-Ottanta e la contagiosa atmosfera di libertà senza freni, le lunghe estati nel segno della trasgressione, il femminismo, la progressiva presa di coscienza di sé della comunità gay, l’Aids, la solidarietà che cementa i legami, gli incontri folgoranti con alcuni protagonisti del cinema italiano, le stagioni, i luoghi e le voci di un passato ormai perduto per sempre. Tante storie, esilaranti eppure commoventi, che compongono «la Storia» di un’esistenza che si annulla in un’altra come estremo dono d’amore. Un Amore che non si arrende, un sentimento assoluto capace di resistere a qualsiasi prova. Con sguardo irresistibile, lieve e toccante al tempo stesso, al suo secondo libro Ferzan Ozpetek, il regista che più di ogni altro sa parlare di sentimenti, ci rivela un mondo sospeso tra lacrime e risate, fiction e realtà, fino all’epilogo, struggente e inaspettato. Un mondo che pare fatto della stessa materia dei suoi film. E che, pagina dopo pagina, ci incanta e ci colpisce. Proprio come la vita.

L’autore

Ferzan Ozpetek, regista e sceneggiatore, è nato a Istanbul, ma dal 1976 vive a Roma. Nel 1997 esordisce con Il bagno turco (Hamam), cui seguono Harem Suaré, Le fate ignoranti, La finestra di fronte, Cuore sacro, Saturno contro, Un giorno perfetto, Mine vaganti, Magnifica presenza, Allacciate le cinture. Ha inoltre diretto Aida (2011) e Traviata (2012). Ha vinto i più importanti premi e riconoscimenti cinematografici e nel 2008 il MoMa di New York gli ha dedicato una retrospettiva. Nel 2013 ha pubblicato il suo primo libro, il bestseller Rosso Istanbul.

Ferzan Ozpetek

SEI LA MIA VITA

Sei la mia vita

A Jytte A Domenico L’unico modo per allontanare ciò di cui abbiamo paura è raccontarlo.

«Ho ancora bisogno di una tua parola, di un tuo sguardo, di un tuo gesto. Ma poi all’improvviso sento i tuoi gesti nei miei, ti riconosco nelle mie parole. Tutti quelli che se ne vanno ti lasciano sempre addosso un po’ di sé. È questo il segreto della memoria? Se è così allora mi sento più sicura, perché so che non sarò mai sola.» La finestra di fronte

Prologo

«Sei la mia vita.» Così mi avevi scritto, ricordi? Avevo lasciato il cellulare in funzione silenziosa, accanto al letto. All’improvviso, lo schermo si era illuminato nel buio ed erano apparse quelle quattro parole. Semplici, essenziali, ma sconvolgenti. Era notte fonda. Dovevano essere passate le due. Mi rigiravo nel letto con il cuore pesante, senza riuscire a prendere sonno. Avevamo litigato. Non so più nemmeno la ragione. È sempre così che succede. Sono le cose prive di importanza che possono spezzare i legami più profondi. Una mezza parola buttata lì senza pensarci, uno scatto di nervi, una sfumatura nel tono di voce, un’occhiata che credi non sia per te e che pare mettere in dubbio ciò che solo un attimo prima davi per certo. In quei momenti, sei attraversato da una tristezza così enorme che sembra essere la quintessenza di tutte le sofferenze sperimentate in passato. Torni bambino e ti struggi dalla nostalgia. Vorresti essere tra le braccia di tua madre, sentire il suo calore, avvertire il tocco leggero delle sue mani, mentre ti accarezzano dolcemente. Vorresti essere di nuovo piccolo, per rifugiarti in quell’abbraccio, l’unico davvero capace di farti sentire al sicuro e immune a qualsiasi dolore del mondo. Poi, all’improvviso, il comodino si è illuminato ed è apparso il tuo messaggio: «Sei la mia vita». E allora, senza bisogno di aggiungere altro, ogni cosa ha riacquistato il suo giusto sapore. Perché non basta amarsi, occorre il coraggio di dirselo sino in fondo. Anche nei momenti difficili, quando buttarsi tutto alle spalle pare più facile. Quella notte tu mi hai ridato la speranza nella quale crescono e prendono fuoco gli amori più grandi. Con la tua sincerità così limpida e diretta, priva di difese, hai consegnato

la tua anima nuda al mio ego ferito. Mi hai fatto capire che nessun ostacolo, nessun malinteso di poco valore, nessun equivoco ci avrebbe più separati. Perché la mia vita era la tua. È ciò che ho pensato allora, così come lo so adesso con ogni cellula di me stesso, mentre parlandoti guido la nostra vecchia auto, lungo una stretta strada di campagna, su e giù attraverso paesaggi che sembrano ritagliati da antiche cartoline degli anni Sessanta. Siamo partiti presto, questa mattina. Roma pareva ancora mezza addormentata. Solo il bar all’angolo era aperto. Siamo usciti dalla città quasi senza incontrare traffico. Come se vigili invisibili, per farci piacere, avessero dissolto i consueti ingorghi poco prima del nostro passaggio. I semafori scattavano magicamente al verde. I tir erano scomparsi ben oltre il raccordo anulare. Questa mattina Roma era nostra come non lo era mai stata. E ora ce la siamo lasciata alle spalle per inoltrarci in questo mare di colline. Abbiamo appena superato un villaggio così minuscolo che lo si coglieva tutto in un solo sguardo. Tre case, una piccola chiesa, la strada che si allarga in una piazza, un negozio di alimentari, un bar, qualche tavolino fuori e tre anziani intenti a parlare di chissà che. Abbiamo rallentato e i loro volti intensi e vissuti, la pelle rugosa e cotta dal sole di chi ha lavorato all’aria aperta una vita intera, sono sfilati attraverso i finestrini dell’auto. Ci hanno sorriso, hai visto? È così che si fa nei piccoli paesi. E sai una cosa? Mi ha fatto piacere. Ora la strada pare poco più di un viottolo asfaltato, mentre il paesaggio intorno a noi è diventato buio e spettrale. Siamo in mezzo a un bosco e mi assale un’angoscia senza nome che quasi mi toglie il respiro. Te ne sei accorto? A un certo punto quella sensazione come di panico mi ha fatto quasi sbandare. Mi sono aggrappato al volante e, invece di fermarmi, ho leggermente accelerato. È stato solo un attimo, ed eccoci di nuovo in pieno sole. Il bosco, oscuro e impenetrabile, è dietro di noi. Ne troveremo altri lungo il viaggio? Tu, che in questi posti ci sei cresciuto, dovresti saperlo, ma non rispondi.

Mentre il mio sguardo resta fisso sulla strada, mi pare di vederti, con la coda dell’occhio, arricciare le labbra in quel modo tuo, amabile e divertito. Un sorriso capace di ridimensionare ogni problema. Un sorriso che sembra dire: «Dai, non è successo niente!». Guardo le radure illuminate dal sole succedersi alle grandi macchie verde scuro della vegetazione più fitta, lecceti e querceti secolari, adagiati sulle colline intorno a noi, e non posso fare a meno di pensare che anche la vita è così. Un succedersi di momenti felici che irradiano calore, incontri fortunati, eventi dagli sviluppi comici irresistibili. Che, poi, quando meno te l’aspetti, vengono interrotti da cupe zone d’ombra. La luce scompare e tu ti ritrovi a vagare senza più sapere chi sei, da dove vieni e dove stai andando: ogni ostacolo ti sembra insormontabile, qualsiasi strada imbocchi porta con sé l’incognita di finire in un vicolo cieco. Ma il tuo sorriso, che conosco a memoria, che riesco a leggerti anche nel sonno, che non ti abbandona mai, nemmeno quando in fondo al cuore sai di essere triste, quel tuo meraviglioso sorriso che evoca in me il ricordo dei nostri anni spensierati, mi costringe a crederci ancora, a non arrendermi, nonostante tutto. A essere ancora certo che, anche attraverso la foresta più intricata, possono penetrare i raggi del sole. Proprio come sei stato capace di fare tu tanti anni fa, quando con quel messaggio luminoso hai squarciato il buio nel quale stavo già precipitando. Alzo gli occhi e mi sembra quasi di leggere le tue parole salire lievi come segnali di fumo, nel cielo terso che ci sovrasta. La mia vita è la tua e ora te la racconterò, perché domani sarà solo «nostra».

I

Via Ostiense Mi sembra ieri quando sei arrivato per restare. Avevi con te solo una sacca da palestra con qualche ricambio, un paio di scarpe, il dentifricio e lo spazzolino. Allora non potevo sapere se ti saresti fermato per qualche giorno, o qualche anno. Ma dentro di me sentivo che qui saresti stato a casa. In questo vecchio palazzo dalle mura spesse e dalle finestre sottili, dove ancora vivono i fantasmi di tanti amici. Me lo sentivo, come può sentirlo chi desidera una cosa con tutto se stesso e non riesce nemmeno a immaginare un’altra eventualità. Ti aggiravi tra la sala e la cucina, il grande tavolo di legno un po’ consumato, i ripiani colmi di barattoli, spezie, mestoli, scatole di biscotti e tisane, su e giù per la breve rampa di scale interne che percorrevi a lunghi passi, come per prendere le misure della tua nuova tana. Io ti seguivo con gli occhi senza darlo a vedere, mentre cucinavo per te. Avevo bisogno di sapere dov’eri, di sapere che c’eri. Poi un giorno quest’urgenza è sparita, e allora ho capito che non te ne saresti più andato. Ogni mattina ti svegliavi all’alba per essere in orario al lavoro, dall’altra parte della città, e io, che dormirei fino a tardi, mi alzavo insieme a te. Roma ancora sonnecchiava, avvolta nel buio, mentre gli ultimi nottambuli tornavano a casa dopo aver inseguito la loro sete d’amore. Ti preparavo un caffè forte, insistevo per farti mangiare biscotti integrali, pane e marmellata, latte con i fiocchi. E, di nascosto, ti infilavo una barretta energetica nella tasca del giubbotto. Fosse stato per te, ti saresti nutrito solo di merendine e snack ipercalorici presi dai distributori automatici, ma avevi bisogno di cibo sano per sostenere le forze. Le tue giornate erano lunghe e impegnative. Penso all’emozione di quelle prime mattine ancora sprofondate nella notte e, automaticamente, la mia mente corre

ad altre mattine. A un ragazzo, che sale di corsa le scale del palazzo con una borsa sulle spalle. Dentro ha tutto ciò che possiede. Quel ragazzo sono io. Quarant’anni fa. Via Ostiense, un vecchio edificio in un vecchio quartiere popolare. Cinque piani senza ascensore e una terrazza condominiale con vista sul viavai di camion ai mercati generali. Poco più in là, un gasometro si staglia in un angolo dimenticato di città, tra le sterpaglie e i binari morti della ferrovia. Tutt’intorno, Roma sparge il suo fascino polveroso. La mia storia non può che iniziare da qui. Mi basta chiudere gli occhi per vedere lo stesso orizzonte carico di promesse che osservavo con lo sguardo incantato della mia giovinezza. Oltre ai tetti accarezzati dal sole, alle cupole e ai campanili, oltre l’azzurro, l’ocra e l’oro che la fanno risplendere da secoli, la città si estendeva, allora come oggi, in un meraviglioso caleidoscopio di differenti civiltà, consistenze, luci, ombre, suoni e silenzi. Amo Roma: ha lo stesso respiro di Istanbul, dove batte l’altra metà del mio cuore. Quando vi ho messo piede la prima volta, il palazzo aveva vissuto decisamente tempi migliori: gli anni e l’usura avevano lasciato le loro tracce evidenti. L’intero edificio era di proprietà di un’anziana signora che nessuno aveva mai visto: gli affitti non erano certo cari, in compenso la manutenzione lasciava molto a desiderare. Era la metà degli anni Settanta ed ero ancora un adolescente. Un ragazzo appena arrivato in Italia con il sogno di entrare nel mondo del cinema. Come presto ebbi modo di scoprire, quel palazzo un po’ fané ospitava sì un paio di famiglie «tradizionali», ma era abitato perlopiù da una varia, eccentrica, stupenda umanità. Per buona parte del mondo, a quei tempi, non erano altro che emarginati, checche, travestiti, pervertiti. Invece, sarebbero diventati la «mia» famiglia. Ogni giorno, allora, poteva essere un’avventura. C’era sempre qualcosa di nuovo da fare, persone da conoscere, inviti e incontri che nascevano e si sviluppavano, portandoti lungo

direzioni del tutto impreviste. Ci si trovava per strada, nei locali che animavano i vicoli e le piazzette di Trastevere di chiacchiere e risate fino a notte fonda. A quei tempi, funzionava così. Ci si parlava guardandosi dritto negli occhi. Ci si piaceva e conquistava con un sorriso diretto, senza schermi. Non c’era bisogno di digitare una password per entrare in contatto con qualcuno, e ogni mattino ti svegliavi con un amico in più. Erano i primi anni dell’Estate Romana, la manifestazione che rivoluzionò il clima culturale dell’epoca. Ad agosto, la città ribolliva di eventi, di concerti al parco, di feste dove andare anche senza essere invitati. La basilica di Massenzio la notte si trasformava in uno spettacolare cinema all’aperto. Ovunque si respirava un senso quasi assoluto di libertà. L’amore e il sesso erano forme pure di conoscenza senza censure né limiti, tranne quelli che stabilivi tu. Eravamo una generazione spensierata come nessuna mai era stata prima. Coraggiosa, avventurosa, che si dava al mondo senza risparmiarsi. Non potevamo immaginare, allora, come tutto sarebbe cambiato. Da lì a non troppo, l’Aids ci avrebbe rubato per sempre quella libertà, costringendoci a diventare circospetti e timorosi. Un virus micidiale si preparava a portarci via, insieme all’innocenza, tanti amici, che ancora ignari riempivano i tavolini all’aperto dei bar con i loro sogni e le loro risate. Ma noi non potevamo saperlo. Respiravamo immersi in un’inebriante sensazione di felicità condivisa. Ci sentivamo immortali, i padroni del mondo. Esplodevamo di vita. Dopo aver tentato di entrare al Centro sperimentale di cinematografia, mi ero iscritto all’Accademia nazionale d’Arte drammatica Silvio D’Amico. La mia esistenza seguiva due binari che procedevano paralleli, senza apparenti interferenze. Uscivo con Luisa, una compagna di corso, ma allo stesso tempo frequentavo diversi ragazzi. Erano, perlopiù, storie occasionali. Ci si incontrava quasi sempre per caso. La mattina dopo ci scambiavamo i numeri di telefono, scritti frettolosamente sul pacchetto di sigarette o su un pezzo di

carta qualsiasi, prima di accomiatarci. Avevo una collezione di quei biglietti. Non richiamavo quasi mai. Quando ho conosciuto Valerio, l’estate stava finendo. È stato lui a portarmi in via Ostiense. Abitava là. Era un bel tipo, capelli castani sempre un po’ arruffati, un filo di barba, il corpo atletico. Ma ciò che colpiva di più in lui erano gli occhi color miele, profondi e luminosi. Ci eravamo intesi al volo. Come da copione, dopo il primo incontro mi aveva lasciato il suo numero. Feci passare qualche giorno, poi decisi di chiamarlo. Da un telefono pubblico in un cineclub sul Lungotevere. Rispose al quinto squillo. Io ero sul punto di mettere giù. Stava uscendo a cena con un gruppo di amici. «Perché non ci raggiungi? Siamo a mangiare da Tiziana» mi disse. Conoscevo il posto, era un ristorante con i tavolini in strada, le tovaglie di carta e un vino sfuso della casa che ti dava subito alla testa. Ai lati dell’ingresso, due alti arbusti di glicine in vaso si arrampicavano lungo la parete esterna. In primavera la fioritura era spettacolare. Mangiavi, chiacchieravi, davi un’occhiata in giro sul passeggio serale e intanto ti facevi vedere. Raffiche di battute irresistibili, bisbigli, scoppi di risate si alzavano da ogni tavolata in un pettegolo e bonario botta e risposta. Con Valerio, trovai un paio di facce conosciute e qualche volto nuovo, tra cui una donna simpatica, generosa di parole e di forme, che troneggiava tra i suoi amici gay come una papessa. Valerio scherzava con tutti, ma non mi perdeva mai di vista. Quando mi giravo verso di lui, coglievo il suo sguardo fisso nel mio, come una tacita promessa. La prima volta ci eravamo baciati a lungo nella notte, appena dietro a un portone di una casa abbandonata. Era un posto molto frequentato dagli amanti notturni: ricordo che, a pochi metri da noi, c’erano un ragazzo e una ragazza abbracciati con altrettanta passione. Quella sera, invece, mi portò da lui. Abitava all’ultimo piano, lo sai, un bilocale affacciato sulla terrazza condominiale.

Ora parecchie cose sono cambiate, nel palazzo e dentro di me. Valerio non abita più qui da anni e la mansarda è stata ristrutturata: ha conquistato più spazio e, insieme a esso, anche la terrazza. Da tempo, ormai, la mia casa, la nostra casa, è al secondo piano, ma appena ho potuto quel bilocale me lo sono comprato. Negli anni Settanta il palazzo era suddiviso in molti più appartamenti rispetto a oggi. Alcuni erano davvero minuscoli. Quello di Valerio era assai spartano, ma aveva un privilegio: la finestra della sala, che era anche la cucina, nonché l’ingresso, si affacciava, appunto, sulla terrazza condominiale, cui si accedeva attraverso una porticina a vetri sul pianerottolo, proprio accanto a quella di casa. La mattina dopo, mi ero svegliato insolitamente tardi. Valerio aveva già preparato il caffè. Era una splendida giornata di settembre. Stavo accingendomi ad andarmene, quando lui mi fermò: «Che fretta hai? Resta a pranzo. La domenica si mangia tutti insieme in terrazza con un po’ di amici del palazzo…». Aveva un tono rilassato, quasi distratto, come se stesse pensando ad altro. In quel preciso istante realizzai che Valerio, in realtà, io non lo conoscevo affatto e che sarebbe stato meglio tornarmene a casa. Abitavo lontano, sul Flaminio, e dovevo studiare per un esame. Intanto, lui si era messo a pulire il bagno come una esperta casalinga, in calzoncini, a torso nudo, fischiettando come se niente fosse, come se la mia presenza lì fosse la cosa più naturale del mondo. È difficile descrivere quello che provai tutto d’un tratto, ma il punto è che mi sentii a casa. Restai. E fu così che conobbi gli abitanti di quello strano, bizzarro piccolo mondo a parte, anime candide ma esperte di vita, ciascuna con la sua solitudine da offrire. Insomma, un salotto molto esclusivo. «Non so nemmeno io quando è cominciata. L’abbiamo organizzato una volta e poi, senza bisogno di darsi appuntamento o mettersi d’accordo, la domenica dopo

eravamo di nuovo tutti qui, come se non avessimo fatto altro da anni» mi spiegò Valerio mentre sistemavamo il grande tavolo all’esterno, disponendo intorno le sedie, almeno una decina. «Basteranno?» chiesi, tanto per dire. «Se ci sarà bisogno, qualcuno ne porterà altre!» mi rispose con un sorriso. La prima ad arrivare era stata lei, Vera. Ne avevo già sentito parlare: era la trans più estrosa e richiesta di Roma. E anche una delle prime in città, se è per questo. Aveva fatto la sua comparsa in terrazza in tutta la sua maestosità, la spettacolare parrucca bionda, gli occhi penetranti, lo sguardo impaziente, il corpo tozzo e muscoloso che le dava un’andatura da scaricatore di porto anche sui tacchi. Indossava un miniabito che la avvolgeva come una seconda pelle, mettendo in evidenza cosce di marmo e un seno generoso (come avrei presto scoperto, era nuovo di zecca). Tra le braccia, esibiva con fierezza il suo piatto del giorno: spezzatino con contorno di patate. Quando tu l’hai conosciuta era già una signora di una certa età, anche se nessuno avrebbe mai osato farglielo notare. Ai tempi d’oro era invece irresistibile: un mix tra Tina Turner e Anna Magnani. La regina delle drag queens capitata per sbaglio in un film neorealista. Quante volte mi ha fatto impazzire con i suoi capricci e le sue richieste più strampalate, eppure Vera ormai fa parte di me. Ancora oggi, quando mi capita qualcosa di speciale, non importa se bella o brutta, penso a lei, a che direbbe. Con quel suo spirito incazzoso e un po’ baraccone riuscirebbe a ridimensionare ogni contrarietà. Mi sembra perfino di sentirla mentre, con una battuta delle sue, fa piazza pulita delle mie insicurezze e preoccupazioni. Forse è qui anche ora, in questo preciso momento, e si gode il viaggio. La domenica si presentava in terrazza, puntuale, intorno all’una. Ancor prima che sbucasse dalla porticina, si sentivano le sue urla – ce l’aveva sempre con qualcuno o qualcosa, un

vicino che lasciava il sacchetto della spazzatura sul ballatoio, uno scalino sbrecciato – accompagnate dal profumo delle carni arrostite. Ed ecco che appariva lei, con un foulard variopinto legato sotto il mento, per completare l’effetto Nannarella. La sua voce drammatica riempiva l’aria. Viveva al centro di un palcoscenico invisibile, dove recitava la parte della protagonista in una farsa sempre sul punto di trasformarsi in tragedia. Ma appena i toni rischiavano di scivolare davvero nel dramma, ecco che ti spiazzava con un guizzo di umorismo, sagace e tagliente. E la farsa riprendeva il suo ritmo. Intanto, alla spicciolata, arrivavano gli altri habitué. Alcuni venivano da «fuori», come Bruno, che per noi era la Postina di Monteverde. Lo chiamavamo così perché faceva il portalettere in quel quartiere. Ernesto, invece, abitava qui. Era emiliano, lavorava alla centrale operativa della società telefonica come centralinista per l’estero. Allora, infatti, per le chiamate fuori Italia occorreva che qualcuno mettesse fisicamente in collegamento le linee tra gli utenti. In passato, era stato allievo del Centro sperimentale e aveva provato a fare l’attore. Gli era andata male e questo aveva alimentato in lui un profondo rancore che riversava in particolare su una famosa soubrette televisiva, ai tempi sua compagna di studi. Tra loro, a detta di Ernesto, era nata una grande amicizia che, però, lei aveva tradito. Quando erano solo due giovani di belle speranze, si erano promessi di aiutarsi reciprocamente nella carriera, ma appena lei aveva iniziato ad avere successo, si era dimenticata di Ernesto. E adesso che il suo nome era sulle bocche di tutti, grazie alla straordinaria notorietà televisiva, lui schiumava dalla rabbia. Un altro bersaglio delle sue gelosie era Vera che, dal canto suo, lo accusava di farle scappare via i clienti. Quando salivano da lei fino al terzo piano, dovevano passare per forza davanti all’appartamento di Ernesto, che era al primo. Ed ecco che, mentre il malcapitato di turno non era ancora arrivato al pianerottolo, lui apriva la porta adagio, abbastanza per mostrarsi in vestaglia, lo squadrava con sguardo torvo e scandalizzato e poi, tutto d’un tratto, richiudeva la porta

sbattendola fragorosamente. Già sulle spine per la trasgressione erotica che si accingevano a consumare – si trattava perlopiù di probi padri di famiglia – quelli spesso se la davano a gambe levate. Nel palazzo abitava anche la famiglia della portinaia, Rosita, una donna grassissima e molto gioviale. Aveva quattro figli, paffuti quasi quanto lei, il più grande andava in terza media, il piccolo all’asilo. Il pomeriggio il suo gabbiotto sembrava un doposcuola affollato di alunni diligenti. Chi faceva i compiti, chi disegnava, chi giocava con una macchinina. Erano silenziosissimi. Anche perché le loro voci sarebbero state comunque sovrastate dalla musica. Rosita, infatti, adorava la lirica e spesso accendeva il giradischi a tutto volume. Dalla porta a vetri che dava sull’atrio e che lei lasciava sempre aperta, allora si libravano nell’aria infilandosi fin su per la tromba delle scale le note delle arie più struggenti della Traviata o del Nabucco. Aveva una passione quasi maniacale per Verdi e coltivava il sogno impossibile di «piantare baracca e burattini», una delle sue espressioni preferite, per andare all’Arena di Verona a seguire l’intera stagione operistica. Tra gli inquilini, c’erano una giovane coppia con un bimbo piccolo e una famiglia molto tradizionale con due figli, un maschio e una femmina, ormai grandi. La madre era una gentile signora di mezza età, ben curata. La figlia, che veniva spesso in visita, era sposata con un ragazzo avvenente, alto, i capelli ricci biondi, gli occhi azzurri. Fin dalle sue prime apparizioni nel palazzo, «il Genero» – tra noi lo chiamavamo così – fu concupito praticamente da tutto il resto degli inquilini. Appena si presentava l’occasione, veniva invitato la domenica a pranzo, insieme alla moglie per salvare le apparenze. L’atmosfera, allora, si surriscaldava. Euforici per quella che ci appariva come una straordinaria occasione, ci prodigavamo per lui, offrendogli chi il miglior pezzo di arrosto, chi un altro bicchiere di vino. Il Genero conversava in modo amabile con ognuno dei suoi ospiti, apparentemente ignaro dell’eccitazione generale e dei corteggiamenti

nemmeno troppo velati, dei doppi sensi e, talvolta, persino delle scenate di gelosia. Quanto alla moglie, poveretta, seduta accanto a lui, faceva fatica persino a farsi passare il pane. Anch’io mi trovai al centro di premurose attenzioni, quella prima domenica in terrazza. Mi avevano guardato incuriositi. «Sarà il nuovo amico di Valerio o solo una conoscenza di passaggio?» sembravano chiedersi tutti. Chiudo gli occhi ed ecco la voce di Vera, sempre in lotta con il mondo, inveire contro «quell’ipocrita schifoso», le nostre risate, Valerio che chiede il bis di spezzatino, Ernesto che tossisce fra una sigaretta e l’altra. E, in sottofondo, Mina che canta E se domani. All’inizio ero stato un po’ sulle mie, intimidito da quella strana compagnia che mi occhieggiava come un comitato di parenti eccentrici, ma assai solidali tra loro. Poi mi ero lasciato andare. Forse perché era l’inquilino più prossimo alla terrazza, Valerio si comportava un po’ da padrone di casa. E, senza darlo a vedere, dirigeva il traffico delle chiacchiere, attento a che tutti partecipassero. Fra un boccone e l’altro, un sorso di vino e una battuta, mi ero conquistato un po’ di spazio in quel magico circo, composto da checche di tutte le età, travestiti, donne di spirito, amanti infedeli e cacciatori di farfalle. Tornai in via Ostiense dopo soli due giorni. Avevo telefonato a Valerio la sera precedente e lui si era mostrato impaziente di vedermi. Era mattina. Giunto in Lungotevere, salii sul 23 per percorrere l’ultimo tratto di strada. Era la prima volta che passavo di lì alla luce del giorno. L’autobus imboccò quello che allora era ancora un viale. Grandi alberi rigogliosi su entrambi i lati intrecciavano i loro rami, alti fino ai secondi piani dei palazzi, tessendo sopra le nostre teste una galleria verde. Avrei percorso quel tragitto molto spesso negli anni a seguire, e il tetto di foglie mi avrebbe raccontato il succedersi delle stagioni: dal verde scuro al rosso, poi il giallo bruciato, il marrone spoglio dei rami che d’inverno bucano l’azzurro del

cielo. E poi di nuovo il verde, fresco, intenso, della vita che germoglia. Ora non è più così. Tu non hai fatto in tempo a vederli, ma quegli alberi che parevano l’essenza stessa dell’energia vitale sono stati sradicati. Per ironia della sorte, proprio la ragione della loro forza e bellezza ne ha decretato la fine. Le radici che affondavano nel terreno stavano procurando problemi alla rete idrica e alle tubature del gas, fu la versione dell’assessore municipale che ne decise l’eliminazione. Ci misero giorni e giorni per toglierli. Lo stridio delle motoseghe ammorbò l’aria. Non è così facile uccidere ciò che trabocca di linfa vitale, che ha già pronti i germogli e le foglie e i fiori che profumeranno le prossime estati. Quel giorno mi sentii come se stessi tornando a casa dopo un lungo viaggio. Ogni residua riserva su Valerio, se mai ne avevo avute, era scomparsa. Non facemmo nulla di particolare, eppure tutto era speciale. Avevamo voglia l’uno dell’altro. Dalla finestra giungevano i soliti rumori della città, ma lì il tempo sembrava essersi fermato. Eravamo soli nell’universo. Soli, spregiudicati e appassionati, come in quella poesia di Walt Whitman: Noi due ragazzi che stretti ci avvinghiamo, mai che l’uno lasci l’altro, sempre su e giù lungo le strade … godiamo della nostra forza, gomiti in fuori, pugni serrati.

Più tardi, Valerio preparò una pasta al sugo di pomodoro mentre io apparecchiavo e stappavo una bottiglia di vino. Il pomeriggio trascorse ascoltando musica, parlando di libri che avevamo letto, di film che ci erano piaciuti. Lui amava il cinema americano di rottura, aveva visto Easy Rider decine di volte. Io preferivo i grandi maestri del cinema italiano, Francesco Rosi, Pietro Germi, Vittorio De Sica, Antonio Pietrangeli… Avevo trovato il mio posto nel mondo. Il nido da dove avrei potuto spiccare il volo, raggiungere e ottenere qualsiasi cosa desiderassi. Allora era solo una sensazione,

seppure profonda, ma oggi ne ho la piena consapevolezza: è solo quando riesci a mettere radici in un luogo che puoi davvero andare lontano. Perché sapere da dove vieni ti aiuta a tenere a mente chi sei, ovunque ti trovi. Nel giro di una settimana mi trasferii da Valerio, diventando a pieno diritto un frequentatore privilegiato della terrazza e dei suoi pranzi domenicali. Ormai non ero più né un intruso, né un’eccitante novità. In cima a quel palazzo avevo trovato davvero una nuova famiglia. Ho abitato per molti anni lassù con Valerio. Ma questo lo sai. Ci sono arrivato da studente con poca esperienza e tanti progetti. Lì ho nutrito i miei sogni, ho provato ogni tipo di emozione, ho capito chi ero davvero. E che cosa desideravo fare della mia vita. Mi ero innamorato di Roma attraverso i film neorealisti in bianco e nero, scoperti in un vecchio cinema a Istanbul. Ora la città sembrava essere ai miei piedi. E guardandola dall’alto ne coglievo lo splendore e le rovine, le luci, le ombre e la magia. Continuavo a frequentare l’accademia e l’ambiente teatrale, ma ero sempre più convinto che il mio futuro sarebbe stato il cinema, la regia. Frequentavo diversi aspiranti attori, ma non condividevo i loro interessi. Che gusto c’era nel calarsi in un solo personaggio, nel mettersi nei panni di qualcun altro, quando potevi raccontare un intero universo? Presi a scrivere soggetti che non osavo mostrare a nessuno. Il mio sogno era creare la trama perfetta per il film d’amore più struggente di sempre. Capii che non dovevo fare altro che tenere le orecchie e gli occhi bene aperti, osservare e ascoltare. Vivevo immerso in un mare di storie che chiedevano solo di essere narrate.

II

E se…

Ora potrà sembrarti strano, ma non è facile per me ricordare quella notte in cui ti ho baciato per la prima volta. Il sapore delle tue labbra, la sensazione da pelle d’oca, l’espressione attonita dei tuoi occhi. È tutto dentro di me, registrato con precisione manco avessi avuto una cinepresa al posto del cuore. Eppure, le immagini si confondono. E il motivo lo conosco: ci penso troppo spesso. È come quando guardi e riguardi una foto che ritrae la persona che più ami al mondo colta in un meraviglioso attimo fuggente, ormai scivolato via anni e anni fa. Te la porti sempre dietro, nel portafoglio, perché ti ricorda qualcosa di prezioso, un istante perfetto, prima che il tempo facesse il suo lavoro. E dopo averla estratta e rimirata, accarezzata, riposta con cura e ritirata fuori per osservarla ancora e ancora un miliardo di volte, perché non ne sei mai sazio, giorno dopo giorno si consuma, finché quel viso diventa indistinto e i lineamenti quasi scompaiono. È ciò che succede, ormai, quando con la mente torno laggiù, a quella notte di tredici anni fa e ai brevi incontri che l’hanno resa possibile. Non sai quanto spesso ho riavvolto il nastro della memoria per rivederne ogni piccolo dettaglio, soffermandomi su ogni inquadratura, per assaporarlo a fondo, come uno spettatore solitario in un cinema vuoto che guarda per l’ennesima volta il film che l’ha incantato da bambino, cercando di afferrarne sino in fondo il segreto. La memoria non è in digitale, gira come una vecchia pellicola, si consuma. E le immagini troppo amate si bruciano. Se apro gli occhi ti vedo, ma se li chiudo fatico a metterti a fuoco.

Non sai quante volte ho ripercorso quegli stessi passi, ho ripetuto gli stessi gesti, ho preso le stesse decisioni, in apparenza insignificanti, che mi hanno condotto da te. E puntualmente mi chiedo: e se quella sera, invece, fossi rimasto a casa? E se un impegno improvviso mi avesse portato fuori città? Iniziavo a essere un regista conosciuto, anche se esordiente. La mia agenda si stava riempiendo di appuntamenti, interviste, presentazioni, eventi. Ma il gioco dell’«e se…», quando lo inizi, non ha fine ed è un tripudio di ansia che si autoalimenta. E se mi fossi rifiutato di seguire Alessio nella sua pazza scorribanda notturna? E se non avessi avuto sete proprio in quel momento? E se, invece di un maglione, avessi indossato una camicia? E se quel maglione fosse stato azzurro, invece che blu? Avrei rischiato di non incontrarti? Ci saremmo sfiorati nella folla, senza nemmeno vederci? Quando mi afferrano questi pensieri definitivi, mi si gela letteralmente il sangue nelle vene. La consapevolezza che è stato il caso a farci conoscere, invece di riempirmi di buonumore, mi rende superstizioso. Mi sento come un sopravvissuto a un disastro. Il disastro che sarebbe potuta diventare la mia vita se non ti avessi incontrato. «L’ho scampata bella!» mi dico. Ma, in fondo al cuore, ho ancora paura. È così raro che due persone fatte l’una per l’altra si incontrino. Il mondo è pieno di esseri infelici che s’innamorano del tipo sbagliato, che restano soli, che soffrono, che piangono lacrime amare. Che credono di conoscere il sapore dell’amore e, invece, ne hanno assaggiato solo un pallido surrogato. Allungo una mano e ti accarezzo la spalla. Indossi il maglione blu con il collo a V che ti ho regalato l’anno scorso a Natale. Tu, automaticamente, ricambi la mia carezza sfiorandomi il ginocchio. Io e te abbiamo avuto fortuna.

Se mi soffermo a pensarci, però, invece di gioirne mi atterrisce la consapevolezza di quanto fosse sottile il filo che ci ha portati l’uno fra le braccia dell’altro. Avrebbe potuto spezzarsi in qualsiasi momento. È questa certezza che mi riporta al gioco dell’«e se…». Sarebbe bastato un minimo dettaglio a fare la differenza. Svegliarsi un’ora prima o un’ora più tardi, scegliere un altro tipo di scarpe, ricevere una telefonata inattesa. Secondo la teoria del caos, può bastare il battito d’ali di una farfalla per innescare la reazione a catena che origina la catastrofe. Eppure, quella sera le farfalle hanno dispiegato le ali solo per noi. Circa un mese prima, una domenica qualsiasi di fine novembre, mi ero alzato tardi di cattivo umore. Uno di quei giorni che vorresti passasse in un istante, perché già sai, o credi di sapere, tutto quello che ti riserverà, cioè nulla di importante. Come se l’avessi già vissuto. È uno stato d’animo che mi assale ogni volta che ho terminato un film. E non importa se ha successo. L’ha scritto anche Oscar Wilde: «In questo mondo non vi sono che due tragedie: una è causata dal non ottenere ciò che si desidera, l’altra dall’ottenerlo. Quest’ultima è la peggiore, la vera tragedia». Lo so, sembra un’assurdità, ma è proprio così. Era uscito il mio primo film di grande successo e io, invece di toccare il cielo con un dito, sprofondavo nell’angoscia e nella depressione. Quando era squillato il telefono, avevo subito pensato a uno scocciatore. Infatti era Paolo. Vacuo e logorroico, amico di tutti e di nessuno, era un pubblicitario molto inserito nella Roma che conta. Nonostante non facessi nulla per indurlo a crederci, si reputava un mio caro amico. Più cercavo di sottrarmi alla sua compagnia, più lui mi assillava con telefonate e inviti. Quel giorno voleva convincermi a uscire per un brunch da Bibli, un mix tra un caffè e una libreria, frequentato da giovani artisti e intellettuali. Lo ringraziai ma no, non ne avevo voglia. Invece di battere in ritirata, come suo solito Paolo non si arrese e tornò a insistere. Non intendevo uscire nel modo più assoluto, ma tant’è, alla fine cedetti. Si può dire per sfinimento.

Lo sai anche tu, del resto: non di rado mi ritrovo a fare l’esatto contrario di quello che voglio. È una mia debolezza. Ma anche una forza. La vita mi ha insegnato che non sempre desideriamo davvero ciò che crediamo di volere. Mentre una proposta a un primo sguardo irricevibile, deprimente o irritante, può celare la scoperta meravigliosa che non ti aspetti. La scoperta che ti cambierà la vita. Paolo passò a prendermi poco più tardi. Arrivammo nel locale e io ero ancora più inverso. C’eravamo appena seduti quando lui scorse poco lontano una tavolata di amici suoi. Senza tenere conto più di tanto del mio parere, mi chiese di unirci a loro. Ero già arrivato a detestarlo, ma mentre lo seguivo passivamente sentii di odiarlo. Alla fine, però, la compagnia era risultata più piacevole di quello che mi ero aspettato e alcuni di loro, tra cui Bianca, già li conoscevo. Le solite chiacchiere, un giro di brindisi chi con un caffè americano, chi con una spremuta, chi con un calice di vino, e la convivialità aveva preso quota. Ricevetti anche molti complimenti per il mio ultimo film. La popolarità, per me, era cosa recente. Non c’ero ancora abituato. Ogni lode mi provocava un piacere immenso. Non che oggi sia diverso, ma allora aveva addirittura un effetto terapeutico. Era il potente balsamo che mi ripagava di fatiche, delusioni e rifiuti che prima di arrivare fin lì avevo subito, e che ancora marcavano la mia anima con le loro ferite. Poi, sei arrivato tu. Sei comparso come una visione in compagnia di un amico e ti sei seduto proprio di fronte a me. Ti dovetti guardare come imbambolato: eri di una bellezza da mozzare il fiato. Quella domenica non smisi un solo attimo di fissarti. E tu, invece, non mi guardavi mai, sembrava non esistessi. Ecco, pensai: questo è l’uomo della mia vita! Tornai a casa trasognato. Mi aspettava una settimana di fuoco, mi si erano accavallati diversi impegni di lavoro, tra cui

la partecipazione a un convegno che si prospettava noiosissimo. Ma l’immagine di quel ragazzo, spuntato per caso nella mia vita da chissà dove, mi avrebbe accompagnato per tutti i giorni successivi, alleviandomi ogni fatica. Chissà chi era? Sarei riuscito a rincontrarlo? Lasciai passare ancora qualche giorno, poi non mi trattenni più: telefonai a Bianca e le chiesi chi fosse. «Pensa, lui mi ha domandato la stessa cosa di te. Non sapeva nemmeno chi eri!» mi rispose con una risata. Quel covo di intellettuali caffeinomani diventò la meta preferita di tutte le mie uscite domenicali. Trovavo ogni scusa per farci un salto. Vi trascinavo amici e lontani conoscenti, vi organizzavo appuntamenti di lavoro. Speravo sempre di rincontrarti. Tre settimane dopo era domenica ed eccomi di nuovo lì, in compagnia di Francesco, un amico attore. Appena entrato ti scorsi in mezzo a una tavolata di gente. Restai senza fiato. Con la coda dell’occhio, mi accorsi che Francesco ti aveva salutato. «Lo conosci?» gli chiesi, una volta seduti al nostro tavolo. Ero emozionatissimo, ma cercavo di non darlo a vedere. «Sì. Carino, vero? Peccato sia talmente stupido che dopo cinque minuti non sai più di cosa parlare» ti liquidò lui, perfido, lanciandomi un’occhiata di sbieco, come per controllare se me l’ero bevuta. «Sarà anche scemo, ma almeno per una sera vale la pena eccome di conoscerlo!» pensai. Dieci giorni dopo ti rincontrai nell’ultimo posto al mondo dove avrei creduto di trascorrere una serata. In discoteca, il classico luogo chiassoso da cui in genere sto alla larga. Tutto di quella nottata, i colori, le luci, i volti, gli odori, la musica, mi risuona dentro ancora oggi, in fondo in fondo, in un angolo molto intimo di me, provocandomi fuochi d’artificio e vortici di emozioni, come un giro sulle montagne russe, amplificato

da una reazione chimica. Il fatto è che quella sera, quasi senza accorgermene, avevo bevuto decisamente troppo. Proprio io che non reggo l’alcol, che non fumo più, che considero il cumino, la cannella e l’origano le uniche droghe cui non riesco davvero a resistere! Ma tu sai anche quanto sia attratto da ciò che non conosco. La serata era iniziata a casa mia. Mi aveva raggiunto Alessio, appena rientrato a Roma da Mosca, dove era andato per lavoro. Ricordo che era agitatissimo: si muoveva per la mia cucina come posseduto da uno spirito maligno. Aveva portato con sé una bottiglia di vodka molto pregiata – si era dilungato a spiegarmi che era stata distillata cinque volte in alambicchi di legno di betulla e argento – e persino dei bicchierini, che aveva acquistato all’aeroporto prima di prendere l’aereo di ritorno verso l’Italia. Aveva conosciuto un ex generale di origine siberiana che gli aveva descritto il vero modo di bere la vodka e ora voleva insegnarlo anche a me. Intanto che mi parlava, aveva aperto il frigorifero e infilato bottiglia e bicchieri nel freezer, perché si raffreddassero. La gente pensa che la si debba bere ghiacciata, ma non è così, mi aveva informato in modo quasi pedante. La vodka deve essere fredda, non gelata! E, soprattutto, va buttata giù tutta d’un sorso a stomaco vuoto. «Ci beviamo giusto un paio di bicchierini e poi andiamo a fare stragi in discoteca!» mi aveva proposto eccitato. Al primo giro la trangugiai ubbidiente tutta d’un fiato, come fosse acqua. E sembrava davvero acqua, visto che non pareva farmi alcun effetto. Commisi l’errore di dirlo ad Alessio, che mi sfidò a berne un secondo bicchierino, poi un terzo. Al quarto lo fermai. Ero arrivato quasi ai quarant’anni e non avevo mai preso una vera sbornia in vita mia. L’idea di sentirmi male non mi attirava granché e glielo dissi. Ridendo e scherzando avevamo fatto fuori circa due terzi della bottiglia e io iniziavo a sentirne gli effetti. Senza quasi rendermene conto, dopo poco mi ritrovai in auto con Alessio, diretti in discoteca.

Il resto lo sai, ma non tutto. Il locale ribolliva di gente, la musica techno sparata a tutto volume. Alterato dall’alcol, mi pareva di muovermi al rallentatore, come se fossi immerso in una vasca piena d’acqua. Anzi, di vodka. Alessio, che ballava accanto a me, invece, si muoveva freneticamente. Sembrava parecchio su di giri. «Non te l’ho mai confessato, ma tu mi piaci moltissimo!» mi urlò all’improvviso in un orecchio, cercando di farsi sentire nonostante il bombardamento acustico. Erano anni che ci conoscevamo e non avevo mai avuto il minimo sentore di piacergli. «Ma quanti bicchieri ti sei bevuto?» gli gridai di rimando, dopo un istante di sbigottimento. «Sei!» fece lui raggiante, gli occhi che gli luccicavano. Anch’io volevo scatenarmi come Alessio. E, per incredibile che fosse, avevo pure sete. Raggiunsi a fatica il bancone e ordinai un vodka lemon. Nel giro di pochissimo – mi parvero istanti – mi sentii il fuoco dentro, un bruciore insopportabile. Mi feci largo fino ai bagni. Pensai: «Ora muoio». Ricordo confusamente che poi uscii fuori dal locale, estrassi il cellulare e iniziai a telefonare e mandare sms a raffica agli amici dando istruzioni in caso di eventuale ricovero d’urgenza. Se nelle prossime ore non avessi più risposto al telefono voleva dire che ero andato in coma etilico e occorreva chiamare l’autoambulanza, ripetevo. «Ci pensi tu a spiegare tutto al medico del pronto soccorso?» sbraitavo immancabilmente a ciascun malcapitato nel cuore della notte. Parlavo e gesticolavo infervorato davanti all’entrata della discoteca con un maglioncino addosso, incurante del freddo, nonostante fossero i primi di gennaio. Respirare all’aria aperta mi fece stare meglio. Ancora ubriaco, ma padrone di me, rientrai nel locale: l’alcol aveva

sciolto completamente i miei freni inibitori. Mi sentivo un incrocio tra Tom Cruise e Sharon Stone. Ogni residua timidezza era scomparsa. Procedevo fendendo la folla, guardando i ragazzi che mi piacevano dritto negli occhi. Ballavo e flirtavo, flirtavo e ballavo, come se non avessi mai fatto altro nella vita. Quella notte ho capito che nel rimorchio c’è solo una cosa che fa davvero la differenza: essere sicuri del proprio fascino. E che tu ce l’abbia o meno non ha importanza, perché dal momento in cui ci credi, diventi irresistibile. All’improvviso, ebbi di nuovo sete. È stato a quel punto che ti ho visto. Da solo, al bar. Sorseggiavi qualcosa guardandoti intorno, con l’aria un po’ spaesata di chi è ancora sobrio. Ti ho salutato e ti ho baciato. Ricordi? Così, senza lasciarti nemmeno il tempo di un «Ciao». Pur essendo parzialmente fuori di me, non ero mai stato così me stesso. Hai sempre sostenuto che la cosa che più ti ha colpito di quella sera era stata la mia sicurezza. La determinazione con cui avevo attraversato la sala fino al bar senza mai staccarti gli occhi di dosso, per venire da te e baciarti. Così, di punto in bianco. Come se prima di quel bacio ci fossimo già detti tutto. Eri rimasto scioccato. Non ti era mai successa una cosa simile. Nemmeno a me, e ora lo sai. La vodka, però, non c’entra. È solo un alibi che per alcuni è indispensabile procurarsi. Una scusa per non essere costretti a riconoscere come si è davvero. Non ho mai più preso una sbronza in vita mia. Non ne ho bisogno. Io so chi sono. La musica, le luci psichedeliche, i corpi scatenati sulla pista da ballo, all’improvviso tutto intorno a noi era scomparso. Siamo rimasti abbracciati per non so quanto.

Si erano fatte quasi le cinque del mattino. Ti domandai se ti andava di venire da me. «Devo tornare a casa: abito fuori Roma, sono con amici, e guido io. Sai, sono l’unico che non ha bevuto…» mi dicesti quasi scusandoti. Mi era piaciuta molto questa tua risposta. Te l’ho mai confessato? «Sarà anche stupido, ma è uno che non fa le cose a vanvera. Ha bisogno di rifletterci e questo è un punto a favore» avevo pensato, ricordando le parole malevole di Francesco. Prima di conoscerti, adoravo corteggiare. Perché ti fa sentire vivo. Non è solo il cuore a pompare più forte, il sangue a scorrere più velocemente, il respiro ad aumentare di frequenza. Anche i pensieri scorrono più intensamente e tu sei immerso in una strana, fantastica euforia. Amavo la fase del corteggiamento perché sapevo che non dura mai abbastanza, che dopo sarebbero sopraggiunte le abitudini, la noia, il distacco. Ma con te l’euforia dei primi giorni non si è mai spenta. Ci amiamo oggi come allora e sarà così sino alla fine. Quando tornai a casa, albeggiava. In tasca avevo quattro numeri di telefono. Uno, naturalmente, era il tuo. Ti ho chiamato appena sveglio, verso mezzogiorno. Potevi raggiungermi solo due giorni dopo. Questo, ovvio, lo sai. Ma non cosa è successo nelle ore a seguire. Non te l’ho mai raccontato per non farti arrabbiare. E anche per pudore. Ora, però, non ha più senso tacere. Voglio che tu sappia tutto ciò che c’è da sapere. Perché è anche la tua vita, no? E so, anzi lo sento, che mi stai ascoltando come un altro me stesso. Ci accordammo per rivederci di lì a due giorni, dunque. Nel frattempo, però, mi sentivo già sprofondare nell’ansia dell’attesa. Come avrei fatto a resistere fino ad allora? Pensai che avrei potuto approfittare almeno di una delle altre possibilità che mi si erano dischiuse la notte prima.

Era già pomeriggio inoltrato. Riesaminai il «bottino» della serata, passando al vaglio gli altri numeri di telefono. Non mi ricordavo nemmeno più i volti di chi me li aveva dati. Ne scelsi uno a caso. Mi rispose un tipo dalla voce roca, sembrava si fosse appena svegliato. Nel giro di mezzora era già sotto il portone. Lo feci salire. Occhi azzurri, ciuffo biondo, vari tatuaggi sulle braccia: quando lo ebbi davanti mi ricordai vagamente di lui. Non era male, ma mi sembrò più magro e meno affascinante. Di lì a qualche minuto, mi squilla il cellulare. Era Giovanni. «Ma che, stai con un tipo? Siamo a tavola con dieci amici e questo tizio, che conosco appena, mi ha mandato ora un sms: “Sto pomiciando con il regista!” c’è scritto.» Me ne liberai immediatamente. Questo è il prezzo che paghi quando inizi a essere conosciuto. Cinque anni prima non mi sarebbe mai successo. Cinque anni prima, nel bene e nel male, in gioco c’ero io e nessun altro. Chi avvicinavo o mi avvicinava aveva solo me e non la proiezione di una sua fantasia o, peggio, l’occasione fortuita per accedere a un minuto di celebrità. Una volta, stavamo insieme da pochi mesi, abbiamo preso un aereo e la hostess mi si è avvicinata quasi con le lacrime agli occhi. «Lei mi ha cambiato la vita, adoro i suoi film!» mi aveva detto, la voce tremante per l’emozione. Tu eri rimasto estasiato. Io, invece, avevo fatto finta di niente. «Mi capita continuamente» ti avevo detto con sufficienza, ma non era vero. Volevo darmi un tono, la verità è che ero emozionato più di lei. Con questo, però, non voglio sostenere che oggi, ormai, mi sono abituato ai complimenti e alle manifestazioni d’affetto e

che non ci faccia più caso. È meraviglioso sentirsi ringraziare da perfetti sconosciuti, perché in ciò che fai si sono rispecchiati, perché sei riuscito a farli vibrare insieme a te, esprimendo emozioni e sentimenti universali. La felicità che sento è la loro. Le sofferenze che descrivo sono le stesse che ciascuno chiama con nomi diversi, ma che vive con identico struggimento. Però tutti credono di conoscerti, mentre in realtà nessuno sa chi sei. Questa è l’altra faccia della celebrità, quella dove puoi sentirti perdutamente solo. Una volta Bianca mi ha raccontato che l’idea di avere una storia con uno famoso non ti attirava per niente. Temevi i commenti, la sovraesposizione, il gossip. Non ti piaceva quel mondo, le avevi detto. Sei sempre stato un tipo semplice e schietto, ti interessava la persona, non l’aura di successo che avvolgeva ogni cosa, mettendo sullo stesso piano falsi adulatori e veri amici. Ma questo era stato prima. Prima di quel bacio. Il giorno successivo, sei arrivato tu. Mi piacevi, e molto, peccato che da uno «scemo integrale» non potevo aspettarmi granché. E invece… Rimasi affascinato dai tuoi ragionamenti profondi, sinceri, emozionanti. Quel giorno ci siamo presi le misure l’uno dell’altro molto lentamente, senza fretta. E a ogni nuovo elemento, scoprivamo di essere perfetti. Era scesa la sera allungando le sue ombre sui nostri corpi. Non potevi trattenerti. Dovevi correre via, tornare a casa. La mattina ti alzavi all’alba per andare a lavorare. C’era sempre qualcosa, un treno da prendere al volo, un cartellino da timbrare, un incantesimo da non sfidare, che ti portava via da me. Ma io non restavo mai solo. Baciandomi ancora una volta, mi regalavi la certezza che saresti tornato.

Quattro giorni dopo abitavamo insieme.

III

Una sera sul Ponte Sisto

All’improvviso, mi viene il dubbio di essermi scordato le medicine, le capsule bianche e rosse del mattino. Ho frenato bruscamente per accostarmi sul ciglio della strada. Tu ti giri e mi guardi, con aria interrogativa. Una settimana fa ho incontrato Ernesto. Tu l’hai conosciuto poco, quando sei arrivato in via Ostiense si era già trasferito altrove. Stavo facendo la spesa al piccolo supermarket dietro l’angolo e me lo sono visto lì, davanti al banco della carne. Ha un ottimo aspetto, per la sua età. In verità, non ho mai saputo quanti anni avesse esattamente, ma era già un uomo maturo negli anni Ottanta. Ci siamo messi a parlare del passato. Eravamo lì, in piedi, uno di fronte all’altro, ciascuno con il suo cesto della spesa traboccante di scatolette (il suo) e di verdure fresche insacchettate (il mio), nel bel mezzo di un anonimo alimentari di catena, ma è stato come se fossimo entrati in una capsula del tempo. Quando abitava nel palazzo, Ernesto non si perdeva un pranzo domenicale. All’improvviso eravamo di nuovo seduti attorno a una grande tavola imbandita, insieme a tutti gli altri amici: Valerio, la Postina di Monteverde, il bel Genero con la moglie, persino le Nane, perfide e malevole, che abitavano al primo piano ed erano gli unici inquilini del palazzo a chiudere a doppia mandata la porta di casa. Ernesto ci raccontava del suo lavoro alla centrale telefonica, delle storie bizzarre che intercettava. Era un fumatore incallito, ma non l’ho mai visto con un pacchetto di sigarette in mano. Le teneva in una scatola d’argento, come un gentiluomo del passato. Allampanato e nervoso, me lo sono

sempre immaginato seduto al suo posto di combattimento, il busto inclinato in avanti verso la foresta di fili e spinotti che gestiva con la veemente energia di un direttore d’orchestra. Gli anni di studio di recitazione lo avevano reso enfatico e teatrale anche nei piccoli gesti quotidiani. Quando non se la prendeva con la soubrette di turno o con Vera, amava fare la vittima. Al telefono la gente era maleducata e arrogante, si lamentava. Fra tante voci sgradevoli e sbraitanti, un giorno ne aveva captata una melodiosa come una sonata di Chopin. Per uno come lui, che era del mestiere, riconoscere una tra le più famose dive degli anni Sessanta, con ingaggi a Hollywood e flirt internazionali, era stato un gioco da ragazzi. Almeno, questo è quanto sosteneva lui, che non di rado amava ricorrere alla fantasia per rendere più eccitante la realtà. «Mi perdoni l’ardire, ma è proprio lei…?» le avrebbe chiesto emozionato, ricevendone conferma. Ne era nato un dialogo surreale, nel quale lui, trascinato dal pathos del momento, dichiarava all’attrice tutta la sua ammirazione, cosa che non corrispondeva affatto a verità, mentre lei lo vezzeggiava come il più caro degli amici. Aveva bisogno di parlare con Chicago, Illinois, sarebbe stato così caro da non addebitarle la telefonata? «Per lei, questo e altro!» le aveva risposto Ernesto. Ma presto se ne sarebbe pentito. Per mesi la celebre diva, che ormai aveva il suo numero diretto, avrebbe preso a contattarlo anche più volte al giorno, con la prospettiva di telefonare a scrocco in ogni angolo del globo. «È una persecuzione!» si sfogava lui nei nostri incontri settimanali in terrazza. Puntualmente, però, saltava su Vera: «Non ti permettere di dire falsità su di lei!» sbraitava, minacciando Ernesto con una forchetta.

I consigli su come disfarsi dell’importuna costituirono uno dei nostri argomenti preferiti per diversi mesi. Ci divertivamo a fornire le soluzioni più bislacche, mentre Vera protestava a gran voce. Il reale motivo di quella loro vecchia ruggine non si seppe mai. Chissà, forse Ernesto segretamente invidiava la scelta di Vera: non aveva avuto lo stesso coraggio, ma invece di avercela con se stesso, gli era più facile prendersela con lei. Alla fine, nella gara del tempo, ha vinto lui. Vera non c’è più, mentre questo anziano signore se ne va in giro a fare la spesa da solo, senza nemmeno l’aiuto di un badante. Ci siamo salutati con trasporto. Ma poi, ritrovatici alle casse, mi ha fatto appena un cenno ed è fuggito via. Confesso di aver provato un pizzico di sollievo anch’io nel vederlo allontanarsi di nuovo. Quando ti imbatti nel fantasma del tuo passato felice, la consapevolezza di quanto hai perduto ti sommerge con un’ondata quasi insopportabile di rimpianto. Allora vuoi solo nasconderti in un luogo sicuro a leccarti le ferite, perché la tua anima è come un animale domestico, che il dolore ha reso selvatico. Con Ernesto abbiamo parlato di tante cose, ma non della nostra vita di adesso. Sapevo che dopo avermi venduto il suo vecchio appartamento – i locali dove oggi abbiamo la cucina, lo studio e il bagno di servizio – si era trasferito in un altro quartiere. Poco dopo, seduto in cucina al nostro grande tavolo di legno, una tazza di tè fumante davanti, l’ho immaginato affrontare con l’alibi della spesa un viaggio impegnativo per la sua età in metropolitana e poi ancora in autobus, pur di venire qui. Nel tentativo di tornare indietro nel tempo aveva trovato me. Io ero stato il suo fantasma del passato, proprio come lo era stato lui per me. Non so perché, ma questo pensiero mi ha sollevato. L’ondata di rimpianto si è trasformata in una calda pozza di dolci ricordi, nella quale mi sono immerso, abbandonando ogni paura. Ed è allora che mi sono ricordato dell’altro vecchio.

Te ne ho mai parlato? Naturalmente sì. Ma come succede nelle conversazioni quotidiane, mentre ti arriva un messaggio sul cellulare, risuona una sirena per strada, ti alzi a riprendere il libro che stai leggendo. La quotidianità pretende la tua attenzione e il racconto che vorresti fare si disperde in mille rivoli finché ne perdi il filo. Ho messo il telefonino in modalità silenziosa in fondo a una sacca. La strada è libera. Ho tutto il tempo di raccontare, adesso. Era una serata fredda, per Roma. Valerio e io eravamo stati a cena da alcuni amici. Camminavamo lungo Ponte Sisto, diretti alla fermata dell’autobus che ci avrebbe riportati a casa. Il cielo era terso. Notammo la sagoma di un uomo venirci incontro sullo stesso lato del marciapiede. Procedeva incerto, rasente la balaustra. A volte vi si appoggiava, come se stesse camminando da giorni e non avesse più fiato. Ricordo di averlo indicato a Valerio ed entrambi raggiungendolo avevamo rallentato il passo per dargli un’occhiata distratta. Saremmo passati oltre e quell’incontro non sarebbe stato altro che l’immagine fugace di un’ombra, tra le tante che abitano la notte, ma proprio mentre lo stavamo superando, quell’uomo incespicò. Se non fossimo entrambi scattati in avanti a sorreggerlo, sarebbe senz’altro caduto. Era un signore anziano, molto distinto. Indossava un cappotto di sartoria e al collo portava una sciarpa che aveva tutta l’aria di essere di cachemire. Ci guardò smarrito e alla luce fioca del lampione, nonostante il viso solcato dalle rughe, i suoi occhi azzurri apparvero sperduti come quelli di un bambino. Lo rimettemmo in piedi e gli chiedemmo come si sentiva. Forse aveva avuto un malore? «Ho camminato tutto il giorno e mi sono perso!» disse frugandosi freneticamente in una tasca.

Nel frattempo, si erano avvicinati altri nottambuli, incuriositi dalla scena. Un omaccione con un’aria poco raccomandabile cercò di attirarne l’attenzione. Se aveva bisogno di un taxi, l’avrebbe portato lui dove voleva! Solo dopo averlo allontanato ci accorgemmo che l’anziano si era messo ad agitare tra le mani un mazzetto di banconote da diecimila lire. «Posso pagare! Se mi aiutate, posso pagare!» gridava, tutto agitato. Riuscimmo a fatica a convincerlo a mettere via quei soldi che avrebbero attirato solo malintenzionati ma, quando gli chiedemmo come si chiamava e in che zona di Roma abitasse, sprofondò di nuovo nell’agitazione. Non ricordava nulla. Chi era, cosa faceva, dove viveva. Zero assoluto. Era come se fosse nato vecchio, cinque minuti prima, su quel ponte. Finì che ce lo portammo a casa con noi. Cos’altro potevamo fare, abbandonarlo al primo rapinatore che passava di lì? Avendolo soccorso, ci prendemmo il diritto di dargli un nome. Decidemmo per Massimo. A lui sembrò piacere. Lo sistemammo nel divano-letto che avevamo nel piccolo salottino con cucina a vista. Lui era così distinto e il nostro appartamentino così modesto. Non era da noi, eppure Valerio e io ci sentimmo intimiditi dalla sua presenza. Scegliemmo per lui il pigiama più elegante che possedessimo e gli consegnammo il miglior asciugamano della casa: una salvietta di spugna che un amico aveva sottratto l’estate prima al Grand Hotel di Rimini. Doveva essere un professore universitario. Oppure un aristocratico. Oppure un famoso avvocato. Oppure un medico in pensione. Oppure… Quella notte ci sbizzarrimmo a immaginare la sua vera identità. Chissà che cosa avrebbe pensato, se avesse saputo dove era finito, sotto lo stesso tetto

di una così stramba e pittoresca comunità. Ridemmo convulsamente sotto le lenzuola, ma prima di prendere sonno decidemmo che era meglio non lo venisse proprio a sapere. Era come se fossimo tornati ragazzini, timorosi che il maestro scoprisse la nostra segreta trasgressione. Il bacio scambiato al buio, nello spogliatoio della palestra. I biscotti rubati dalla dispensa. Stabilimmo di dirgli che Valerio abitava lì e io ero suo cugino, in visita per qualche giorno. Ma dovevamo avvertire anche gli altri. Il mattino dopo, quando ci alzammo, lui era già sveglio e vestito di tutto punto. Mentre io preparavo il caffè, Valerio riprovò a chiedergli se, ora che si era riposato, si ricordasse qualcosa. Pareva profondamente rammaricato. No, non gli era venuto in mente nulla. Poi, un lampo attraversò il suo sguardo azzurro dipingendogli una smorfia di terrore sul bel viso incartapecorito. «Non mi fanno più entrare!» esclamò. Le mani gli tremavano visibilmente. «Come, non la fanno più entrare? L’hanno cacciata di casa?» gli chiesi. «Hanno cambiato la chiave! Dopo tutti questi anni!» Era costernato, come se l’avesse scoperto in quel preciso momento. «Forse, semplicemente, ha usato la chiave sbagliata, a volte capita anche a me. Quella del portone è molto simile alla chiave di casa e allora…» Valerio si interruppe. In automatico si era messo a parlare come si fa con un bambino: nonostante l’aspetto curato, il povero vecchio probabilmente era un po’ via di testa per l’età. Massimo, però, non l’ascoltava nemmeno. Era sopraffatto dalla disperazione. L’oblio è una grande medicina, la più dolce e pietosa. Qualcuno potrebbe dire che è roba da vigliacchi, ma solo perché non ha mai conosciuto il dolore vero, profondo, assoluto. Sarebbe bello poter cancellare le esperienze che fanno più male con un semplice click, una pastiglia, un procedimento neurologico che, però, ti lasci intatta ogni altra

funzione cerebrale. Sarebbe bello, tuttavia so anche che non sarebbe né giusto né possibile. Che vita potrebbe essere, dopo, senza nemmeno quel dolore a ricordare ciò che è stato? Già, quale vita? Ora che aveva aperto un piccolo squarcio nel guscio spesso in cui aveva sigillato la sua memoria, il vecchio signore pareva più confuso di prima. Annichilito dal dolore per la scoperta, non riusciva a ricordare nient’altro. Che cosa era successo? Se davvero era stato cacciato via dalla sua casa, chi era stato a farlo? Con che coraggio aveva messo sulla strada una persona anziana? E cosa era accaduto, dopo? A quelle domande Massimo non riusciva a dare una risposta. Gli chiedemmo se aveva una famiglia. Disse di essere vedovo. Era l’unica cosa che sapeva con certezza. «Ma non l’ho mai amata» aggiunse guardandoci negli occhi, prima uno poi l’altro, con un’imbarazzante fissità. Ebbi l’impressione che lo stesse ammettendo per la prima volta. Aveva scelto noi per questa confidenza, forse animato dalla stessa necessità che spinge molte persone ad affidare i più intimi segreti in treno a perfetti sconosciuti, nella certezza che, giunti in stazione, non li rivedranno mai più. Forse era rimasto traumatizzato dalla recente scomparsa della moglie. Un’emorragia improvvisa. Un incidente domestico. Chissà. Insistere, in quel momento, non era il caso. Decidemmo che a quel punto era necessario rivolgersi alla polizia. Non potevamo certo tenerci a casa un uomo di cui non sapevamo nulla, del quale probabilmente i parenti avevano ormai denunciato la scomparsa! Valerio si offrì di accompagnarlo al commissariato di zona, mentre io avrei aspettato a casa. Poi saremmo andati a fare la

spesa al mercato del Testaccio: era sabato mattina e il frigorifero era vuoto. Salutai Massimo con trasporto, certo di non rivederlo mai più. Immaginavo che sarebbe stato trattenuto per l’identificazione, per poi essere restituito alla propria famiglia. Anche lui sembrava commosso. Presi Valerio in disparte e gli ricordai di chiedere ai poliziotti di tenerci aggiornati sugli sviluppi della vicenda: ero curioso di sapere chi fosse realmente. Si era fatto quasi mezzogiorno e Valerio non era ancora tornato. Stufo di aspettare, e preoccupato che si andasse oltre l’orario del mercato – le bancarelle migliori sbaraccavano già verso l’una – decisi di avviarmi per conto mio. Quel giorno c’era parecchia gente e per raggiungere il banco dei formaggi dovetti farmi largo nella folla. Ero là che stavo aspettando il resto, quando mi sentii chiamare. Era Valerio. Accanto a lui c’era Massimo. «Ma che ci fa ancora con te? E la polizia?» chiesi sorpreso. Mi raccontò che al commissariato avevano trovato una coda lunghissima. Per un po’ si erano messi in fila ma, quando si era accorto che rischiavano di fare notte là dentro, aveva invitato Massimo a soprassedere e se ne erano andati. Tanto, la polizia mica chiude la domenica: sarebbero tornati l’indomani! «Sapevo che ormai ti avrei trovato qui!» aveva aggiunto Valerio soddisfatto. Oggi il mercato del Testaccio è cambiato: si è trasferito in un’altra zona del quartiere e ha perso parecchio della sua vivacità. Non so, forse è la nostalgia che rende più vividi i miei ricordi, ma allora tutto mi sembrava più intenso. Le urla dei venditori, i profumi di olive in salamoia che si mischiano a quelli delle alici e del basilico, l’arcobaleno di colori, dal verde dei fagiolini al giallo acceso dei peperoni. Man mano che ci inoltravamo tra le bancarelle, Massimo si riprendeva. Il mercato lo aveva vivificato.

I gamberetti non erano un granché freschi, ci fece notare con sicurezza. «Prendete il pesce spada, è in offerta e ha un ottimo aspetto» aggiunse. Scelse per noi i pomodori, ci consigliò un vino e insistette per pagarlo. Così mi immaginai che fosse un eccentrico nobiluomo amante della buona tavola, abituato a controllare in prima persona gli acquisti della servitù. La sua cantina doveva essere molto ben fornita. Mentre Valerio, che già allora si considerava un gran cuoco, si dava da fare ai fornelli, Massimo non si perdeva una mossa. E io, a mia volta, osservavo lui. Mangiammo. Il pesce era buono. Il nostro ospite, però, ne lasciò un’abbondante porzione nel piatto. Non aveva molta fame, si giustificò. Il vino, invece, parve gradirlo. Pensammo che un paio di bicchieri avrebbero potuto fargli tornare in mente qualcosa di più e così, di lì a poco, tornammo alla carica. Era un esperto di vini? Faceva spesso la spesa a casa sua? Come mai sapeva riconoscere così bene il pesce? «Lei lo mangiava tutti i giorni» rispose evasivo. «Le davo gli avanzi migliori della cucina. Ora chi la nutrirà?» Stava parlando della sua gatta, appurammo poi. Ci guardammo sorpresi. Di lei si ricordava. Si chiamava Micia. «Devo tornare: chi le darà da mangiare?» La notizia che avevamo accolto un vecchio smemorato naturalmente aveva già fatto il giro del palazzo. Vera aveva consigliato di metterlo a dormire in terrazza: «Amo’, fagli prendere aria e la memoria gli torna sicuro» mi aveva suggerito incrociandomi sul pianerottolo. Era convinta, in assoluta buona fede, che l’aria avesse dei poteri terapeutici efficaci per ogni tipo di disturbo, dalla gastroenterite all’amnesia.

Rosita, la portinaia, mandò uno dei suoi figli più piccoli per consegnare all’anziano signore un’abbondante fetta della sua specialità, una torta al cioccolato che nessuno di noi era mai riuscito a mangiare. (Dolce in modo nauseante e untissima, doveva metterci una quantità spaventosa di zucchero e margarina, del cioccolato in realtà aveva solo il colore. Rosita ne faceva in quantità industriali distribuendola a tutti i condomini con generosità e, dato che per il resto era una donna straordinariamente amabile, nessuno aveva mai osato dirle che faceva schifo. Ce ne liberavamo di nascosto, buttandola nei cestini dei rifiuti in strada ad almeno due isolati da casa, per il timore che la scoprisse nel sacco della spazzatura condominiale.) Quanto a Ernesto, si era offerto di fare una ricerca nella sua rete di conoscenze telefoniche. Non fosse mai che qualcuno avesse intercettato l’avviso di una persona scomparsa. Intanto, spargemmo tra i condomini la voce che avevamo fatto credere allo smemorato di essere cugini. Massimo era un uomo anziano, di sicuro con un’altra mentalità. Ed era già abbastanza traumatizzato di suo, inutile sconvolgerlo ulteriormente. Qualcuno doveva averlo cacciato di casa in piena notte, poverino. Anzi, se l’indomani a pranzo anche loro avessero cercato di trattenersi… Dopotutto, aveva appena perduto la moglie. Omettemmo di aggiungere che di questa perdita non sembrava granché addolorato e tutti si dichiararono disposti non solo a reggerci il gioco, ma a trasformarsi in persone «normali», «distinte» e «di un certo livello». Così il giorno successivo, domenica, ci ritrovammo tutti in terrazza con Massimo seduto a capotavola. Dal lato opposto, Vera faceva del suo meglio per essere una credibile estetista nel suo giorno libero. A un certo punto, presa dalla foga dell’interpretazione, si offrì addirittura di fargli la manicure. Quella domenica aveva preparato lo spezzatino con le patate. Massimo mostrò di apprezzarlo o, perlomeno, le chiese che taglio di carne avesse usato e se aveva aggiunto l’alloro.

Vera si trasformò in una casalinga modello, mentre sciorinava la sua ricetta segreta. Invece di starsene semplicemente zitto, Ernesto pensò bene di rispolverare gli studi accademici inventandosi la parte dell’innamorato respinto da una ballerina di cancan. Alcuni di noi si chiesero se ce ne fosse almeno una in tutta Roma. Guardai apprensivo Massimo, ma non sembrava averci fatto caso. Persino la Postina di Monteverde si trattenne dal commentare le sue conquiste immaginarie della sera precedente. Il Mostro Marino, invece, per non sbagliare, se ne stava, lui sì, insolitamente silenzioso. L’avevamo soprannominato così per l’impressionante capigliatura ricciuta che lo faceva assomigliare a una piovra. Non abitava nel palazzo, ma veniva spesso ai nostri pranzi portandoci come ospiti splendidi ragazzi che non avrebbe mai avuto. Lo faceva per farsi bello ai nostri occhi. Alcuni erano solo fugaci apparizioni, altri sarebbero poi ritornati in qualità di amanti di qualcuno di noi. Anche quella domenica il Mostro Marino aveva rimorchiato un bel tipo, alto, moro, con gli occhi intensi. Nessuno ci provò per buona parte del pranzo, tranne Vera, naturalmente. Come darle torto? In virtù del suo ruolo femminile al cento per cento, sarebbe parso addirittura strano se non avesse degnato di uno sguardo un tale bocconcino. Gli altri convitati, però, non avevano affatto gradito. Sotto il tavolo impazzavano gomitate e pestate di piedi. Avrebbero avuto tutto il diritto di rimorchiarlo, invece, le nostre amiche vigilesse, Chiara e Cinzia, ospiti fisse delle domeniche in terrazza. Peccato fossero troppo occupate a raccontarci la loro precedente serata in discoteca in compagnia di due «omuncoli estremamente maleducati e cafoni». Fosse stato per loro, li avrebbero arrestati per oltraggio a pubblico ufficiale! Implacabili con gli antipatici, gli stronzi e i brutti, erano pronte a chiudere un occhio davanti alle infrazioni di un bel ragazzo, specie se alto, muscoloso e con gli occhi azzurri, salvo tornare inflessibili anche con lui non appena si materializzava un’eventuale fidanzata.

Arrivati al caffè, senza una vera ragione Ernesto ci informò che la ballerina di cancan che gli aveva spezzato il cuore era una mora favolosa, con due occhi neri come carboni ardenti. Lo disse guardando fisso il protégé del Mostro Marino. E provocando un certo tramestio. Il ragazzo sorrise perplesso. Vera rovesciò l’acqua ghiacciata per sbaglio sulla camicia di Ernesto. Chiara iniziò a ridere e quasi si strozzò, mentre Cinzia le versava un po’ di vino nel bicchiere. «I suoi occhi mi ricordano qualcuno…» Chi aveva parlato? Restammo un istante tutti immobili e muti per la sorpresa, come se uno spirito superiore ci avesse messo in pausa per meglio assimilare il colpo di scena. «Mi ricordano una persona piena di talento, a me molto cara. L’unico amore della mia vita, si può dire» aggiunse Massimo con voce sognante, quasi parlasse solo a se stesso. Dunque, ora ricordava? Nessuno di noi osò fiatare per paura di spezzare quel fragile filo che lo ricollegava alla sua identità perduta. Era riuscito a ritrovarlo e ora lo stava riavvolgendo con visibile emozione. «L’avevo conosciuta praticamente inciampando tra le sue gambe magre e slanciate. Stava scappando. L’ortolano l’aveva beccata a rubare una mela. Voleva chiamare i carabinieri. La guerra non era poi finita da molto, la gente aveva ancora fame. Rubare della frutta, che delitto poteva essere? Mi offersi di pagare io. Solo dopo mi accorsi che la conoscevo. Suo fratello minore era compagno di scuola di mia figlia, frequentavano la quinta elementare, e la loro famiglia abitava nel nostro stesso caseggiato. Non so, mi fece simpatia o, forse, intuii che meritava di essere aiutata. Decisi di assumerla nel mio ristorante su due piedi. Mi sentii in dovere di darle una possibilità, ma era a me stesso che la stavo dando.» Tacque. Nessuno aveva il coraggio di parlare. Si versò un po’ di vino, sembrò controllarne il colore controluce e lo

bevve sino in fondo. Dopo un minuto di silenzio che parve eterno, Massimo riprese il racconto. «Adesso non posso continuare la mia storia senza riaprire una profonda ferita che ancora mi crea sofferenza e che in passato è stata causa di scandalo…» Ci guardò uno per uno, timoroso. Sembrava seriamente incerto se continuare oppure no, preoccupato del nostro giudizio. Avremmo potuto calare allora la maschera per rassicurarlo: qualsiasi fosse stata la sua rivelazione, chi meglio di noi l’avrebbe accolta senza giudicare? E poi, avevamo notato una certa vaghezza nel descrivere quella «persona di talento»: che fosse un maschio? Ancora una volta, però, nessuno fiatò. Eravamo all’aperto su quel terrazzo esposto ai venti romani, ma non si sentiva volare una mosca. «Questa creatura così giovane, fragile, eppure fortissima, della quale avrei potuto essere il padre, ha conquistato il mio cuore cambiandomi la vita. L’ho amata come nessun’altra mai.» «Ma, dunque, lei è…? Insomma, la persona… la creatura… era un ragazzo?» era sbottato Ernesto a quel punto. Pur essendo consapevole della delicatezza del momento, non era più riuscito a trattenersi, dando voce al dubbio che stava crescendo in tutti noi. Seguì un attimo di gelo, nel quale restammo una volta di più senza fiatare. Ma subito Massimo spezzò la tensione con un sorriso arguto. «L’amore non ha sesso» affermò, guardando Ernesto dritto negli occhi. Poi, rivolgendosi a tutti, aggiunse: «Sarò anche anziano e smemorato, ma non ottuso. So ancora riconoscere le persone che ho davanti!». «Ma noi non volevamo certo offenderla, noi…» provò a ribattere Ernesto. «Offeso? E perché? Che importa chi siamo? Che importa chi amiamo? Io ho amato, e questo deve bastare. Voi amate, e questo ci rende uguali. Uniti nell’amore. Abbiamo baciato,

accarezzato, abbracciato, consolato, atteso con folle felicità un suo “sì”. Perché l’amore condiviso è la forza che ci rende migliori. Anche quando è sfiorito, anche quando ci ha lasciato, anche quando è un ricordo che brucia con la sua assenza. Noi viviamo d’amore.» Tacque per prendere fiato. Si riempì il bicchiere di vino e lo svuotò. Lo guardavamo increduli e ammutoliti. Sembrava un’altra persona. Pareva posseduto. «Io amavo quella ragazza» continuò. «Non come una figlia e nemmeno come un’amica. L’ho amata come si ama l’unica donna della propria vita. E lei amava me. Quando l’ho conosciuta aveva sì e no sedici anni. Io trentaquattro. Ed ero sposato da dieci. C’è voluto un po’ per renderci conto del nostro sentimento. Lavoravamo insieme, le insegnavo il mestiere. Prima l’ho messa a fare la lavapiatti, poi ha iniziato a dare una mano in cucina. Le ho pagato un corso di pasticceria e, nel giro di poco tempo, si è occupata lei dei dessert. La gente veniva apposta per la sua millefoglie, la meringata, il semifreddo di torroncino. «Mi fermavo sempre più tardi al lavoro, mia moglie non capiva perché. Nemmeno io ne ero consapevole. «Poi, una sera – avevamo già chiuso il locale – mi cadde di mano un vassoio e Sonia mi aiutò a raccogliere i cocci. Accovacciati per terra, ci guardammo smarriti e capimmo di essere innamorati persi. «Quando ci baciammo per la prima volta io ero un uomo fatto e lei poco più di una bambina. Per l’epoca, potevo passare per un pervertito…» «Mannooooo!» L’urlo ci era venuto fuori talmente spontaneo che tememmo di averlo spaventato. Per fortuna, Massimo riprese il suo racconto. «Il ristorante si era specializzato in piatti di pesce ed era diventato rinomato. Avrei potuto uscire allo scoperto e mettermi con lei, come del resto mi chiedeva. Ma non ce l’ho fatta. Non ne ho avuto il coraggio. Il mio matrimonio era solo

di facciata, ma mia moglie era malata da tempo. Le avevano diagnosticato una forma di leucemia che sarebbe peggiorata da lì a pochi anni. Non potevo abbandonarla. E mia figlia? Ogni volta che pensavo a lei, mi bloccavo ulteriormente. Come avrebbe preso una tale notizia? Era ormai un’adolescente, fragile e sensibile. Così, almeno, credevo. «Sonia viveva male la situazione. Lei non si faceva di questi problemi. E invece, per causa mia, era costretta a fingere. «Poi è successo quello che è successo…» Pendevamo dalle sue labbra. «Cosa?» non si trattenne dal chiedere Vera. «Era il compleanno di Sonia. Era sera. Camminavamo non troppo lontano dal ristorante. Ci abbracciavamo senza nasconderci, da veri incoscienti, lei con la testa abbandonata sulla mia spalla. Mia figlia con il suo ragazzo passò di lì e ci vide.» Un mormorio di orrore accompagnò questo colpo di scena. «Ma una figlia capisce sempre il proprio padre!» esclamò il Mostro Marino che aveva due figli maschi e una ex moglie a Reggio Calabria. «Ci ho messo tutto il resto della mia vita per tentare di farmi perdonare, ma non ci sono riuscito. Ho perso Sonia, e nemmeno questo è servito. Se n’è andata via, lontano. In Australia. Dall’altra parte del mondo. Ha aperto un ristorante laggiù. Mi ha dato del vigliacco. Mi ha detto che le spezzavo il cuore. «Quello che non sa, e non saprà mai, è che a quel punto avrei fatto di tutto per lei. Avrei divorziato da mia moglie, trovando il modo di non farle mai mancare il mio sostegno nella malattia. Avrei persino affrontato il disprezzo di mia figlia. Ma lei ci voleva denunciare.» «Come, vi voleva denunciare?!» chiese quasi urlando la Postina di Monteverde.

«È stato per via del suo ragazzo, che lavorava da un commercialista» spiegò. «Dopo quella sera in cui ci aveva visti insieme, piena di rancore gli aveva fatto controllare di nascosto i conti del ristorante. E, come spesso accade, c’erano degli errori fiscali. Fra l’altro, Sonia figurava come dipendente, ma io da anni dividevo i guadagni a metà con lei. Era il minimo. Se gli affari andavano a gonfie vele lo dovevo anche a lei. Però non avevo mai regolarizzato questa consuetudine. Come potevo farlo? Il locale era in comproprietà con mia moglie. «Mia figlia cominciò a ricattarmi: se non avessi troncato con Sonia, sarebbe corsa dalla guardia di finanza. Aveva fatto le fotocopie di tutti i documenti contabili.» Sospirò. «Così ho lasciato l’amore della mia vita.» Eravamo tutti ammutoliti. «L’ultima volta che l’ho vista aveva una valigia più grande di lei. Era in aeroporto. Ce l’ho ancora davanti agli occhi, di schiena, le spalle contratte, i capelli biondi tirati su in uno chignon un po’ sfatto, mentre si avvicina al bancone del check-in. L’avevo seguita di nascosto, all’alba, fino a Fiumicino. Avrei voluto correrle dietro, fermarla, abbracciarla. Invece, mi voltai e tornai in città. Perché se l’avessi chiamata, se si fosse voltata, se mi avesse guardato, le avrei detto tutto e, chissà, forse sarebbe rimasta… Ma non ne ho avuto il coraggio.» Tacque e noi, chi più chi meno, avevamo i lucciconi agli occhi. Nessuno, per un po’, ebbe il coraggio di dire alcunché. Ma poi l’emozione ci prese alla gola e, a quel punto, abbandonando definitivamente ogni messa in scena, esplodemmo in un coro solidale di esclamazioni. Massimo con la mente era ancora là, a Fiumicino, guardando il suo unico grande amore allontanarsi per sempre. Si risvegliò dal torpore solo per rivelarci il nome del ristorante: «La paranza». «C’è ancora? Dove si trova?» gli chiese Valerio, ma lui era di nuovo lontano.

Quella fu l’unica domenica in cui nessuno sembrava voler più lasciare la terrazza. Di solito, terminato il pranzo, era un fuggi fuggi generale: chi aveva un appuntamento, chi se ne andava a rimorchiare al cinema, chi a farsi un giro in autobus (allora i mezzi pubblici erano il più esteso luogo di incontri di Roma)… Invece, si era fatto pomeriggio ed eravamo ancora tutti lì. Valerio, sebbene a malincuore, ci ricordò che bisognava tornare al commissariato. Era giusto così: Massimo doveva riunirsi alla sua famiglia. Chiara e Cinzia, però, saltarono su a dire che se ne sarebbero occupate loro. A che serviva lavorare nella polizia municipale, sennò? Sarebbero corse immediatamente in sede a fare ricerche nell’archivio dei pubblici esercizi. Se esisteva, o era mai esistito, un ristorante chiamato «La paranza», loro l’avrebbero senz’altro trovato. Se ne andarono precipitosamente, con la promessa di telefonarci non appena avessero scoperto qualcosa. Grazie a una prolunga, sistemai l’apparecchio telefonico sul davanzale della finestra che dava verso la terrazza: così l’avremmo sentito suonare anche da lì. Dopo essersi tanto accalorato nel racconto, Massimo ora aveva un aspetto affaticato. Aveva bevuto parecchio e gli si chiudevano gli occhi. Mi chiese se poteva coricarsi da qualche parte, per riposarsi un po’. Lo accompagnai nella camera di Valerio e accostai la porta, perché non venisse disturbato dalle nostre chiacchiere. Intanto, Vera, aiutata dal nuovo amico del Mostro Marino, faceva per noi un secondo caffè. Era trascorsa poco più di un’ora quando Cinzia ci chiamò. Avevano trovato il ristorante, ma risultava chiuso. Erano appena tornate da un sopralluogo: il locale c’era ancora, ma le saracinesche erano arrugginite dal tempo. Avevano chiesto al cameriere della gelateria proprio lì accanto: non lo vedeva aperto da almeno dieci anni. Dai documenti risultava che l’ultimo proprietario era una donna, si chiamava Michela Guardi, ma all’indirizzo indicato non rispondeva nessuno con quel nome. Era forse la moglie? O la figlia? L’unica cosa da fare era chiederlo a Massimo. Quando mi girai verso la porta della camera dove l’avevo lasciato a

riposare poco prima, mi accorsi che era socchiusa. Ebbi un presentimento. La aprii ed entrai: la stanza era vuota. Il copriletto e il cuscino erano ancora stropicciati, ma di lui non era rimasta altra traccia. Massimo, o chissà come si chiamava, se n’era andato in silenzio, e – col vociare che c’era in terrazza – nessuno se n’era accorto. Aveva scelto di sparire e noi non avremmo mai saputo chi era veramente. Quante volte, la domenica a pranzo, abbiamo fantasticato sulla sua identità. E anche quando abbiamo smesso di parlarne, era sempre lì, nei nostri pensieri, come un ospite invisibile. Ci aspettavamo di vedercelo comparire davanti, per finire il suo racconto. Lui sapeva dove e quando avrebbe potuto ritrovarci. Ma non tornò. Non lo rivedemmo mai più, e la sua vita restò avvolta nel mistero. Ancora oggi mi chiedo che fine abbia fatto. E se ci abbia raccontato la verità.

IV

La seconda primavera

Ieri sera, mentre facevo le valigie, mi sono soffermato a pensare quanto fossero leggere. Di solito, le riempio fino all’inverosimile. Mi porto dietro un sacco di cose inutili, un altro maglione blu, un paio di scarpe di cui probabilmente non saprò che farmene, un romanzo che non avrò il tempo di leggere. Lo faccio perché, ovunque vada, mi piace avere con me un po’ del nostro mondo casalingo. Oggi, invece, ho preso solo lo stretto indispensabile. Perché, questa volta, saremo io e te e nient’altro. Saremo noi tutto il nostro mondo, e ci basteremo. «Questo lo portiamo, vero?» mi hai chiesto, con un tono timoroso, porgendomi un libro sulla cui copertina appare una famosa foto di un bacio per strada. Mi sono commosso profondamente, anche se ho cercato di non darlo troppo a vedere. Soltanto tu e io sappiamo cosa si nasconde tra quelle pagine. È la raccolta Poesie d’amore di Nâzim Hikmet, un poeta che amo. Uno dei primi regali che ti ho fatto. Quante volte l’abbiamo letto e riletto insieme? Tra le sue pagine consumate c’è una fotografia di noi due, felici, vicino a un ruscello. Ce l’eravamo fatta con l’autoscatto qualche anno fa durante una passeggiata, proprio in uno di questi boschi che stiamo attraversando in auto. Non è finita lì per caso. Tiene compagnia a una delle nostre poesie preferite: 1949. Di tutti i versi, quelli che ami sono: Sei la mia schiavitù sei la mia libertà sei la mia carne che brucia.

Ora quel libro spunta dalla tua sacca, appoggiata sui sedili posteriori. È un ricordo, ma è anche il nostro presente. Un

presente nel quale non smetteremo mai di innamorarci come la prima volta. Ci sono amori che si avviano lentamente, alcuni addirittura a scoppio ritardato. Ci si conosce a vent’anni, si diventa amici, si rimane in contatto mentre la vita fa il suo corso. Ci si scrive lunghi messaggi nel cuore della notte, ci si confida pene sentimentali, ci si scambia regali poco costosi ma preziosi, perché conosciamo perfettamente i gusti l’uno dell’altro. Poi, ci si incontra una sera per caso a una festa e all’improvviso tutto cambia. L’amore che andavamo cercando era lì, presente da anni nelle nostre vite, solo che non ce ne eravamo accorti. I nostri destini, dopo essersi incrociati, sembravano doversi allontanare fatalmente, distratti da un milione di cose, eppure quel sentimento senza nome ci aveva impedito di perderci di vista. Forse portava con sé ricordi adolescenziali troppo intimi, così l’abbiamo ignorato finché non si è materializzato come una rivoluzione. Perché l’amicizia può diventare la forma più trasgressiva dell’amore, quello che sovverte antichi equilibri consolidati. Poi ci sono gli amori che esplodono come una bomba, facendo terra bruciata tutt’intorno. Nascono e muoiono senza nemmeno lasciarti il tempo di capire che cosa stia succedendo e, a volte, lasciano ferite impossibili da rimarginare. Allora ti aggiri per anni tra le macerie di ciò che avevi vissuto come la tua unica opportunità di essere felice, e non riesci a credere di essere ancora vivo. Infine, ci sono amori che sanno unire la forza gentile della tenerezza alla potenza di fuoco della passione. Che ti travolgono e non smettono più di farlo. Amori che aiutano a restare vivi l’uno per l’altro, qualsiasi cosa succeda. Mentre ti affido questi pensieri mi ripeto per l’ennesima volta quanto siamo stati fortunati, tu e io. Sei arrivato in punta di piedi, con la discrezione di un ospite di passaggio. Ho dovuto insistere perché sistemassi le tue cose negli armadi. Eppure, fin dalla prima notte ho avvertito la tua presenza dappertutto. Da subito mi sei entrato nel sangue come una medicina necessaria, di cui prima paradossalmente nemmeno

sospettavo l’esistenza. Una settimana dopo che abitavamo insieme già mi chiedevo come avevo fatto fino ad allora. Come avevo potuto sopportare quel silenzio, senza che le nostre voci si inseguissero tra le stanze e poi tacessero del tutto, abbandonandosi in un unico respiro. Il tuo accappatoio ancora umido in bagno. La lama di luce che la domenica mattina gioca sul tuo viso addormentato. Le nostre pantofole accanto al letto, i dolci alle rose che ci piacciono tanto, la tazza sbeccata che ti scegli sempre a colazione, per lasciare a me quella intatta. È il nostro mondo, l’alfabeto della felicità. Quando vivevo solo e avevo quasi smesso di credere nell’amore, nemmeno immaginavo in che maniera la mia esistenza sarebbe cambiata. Tu hai reso la mia vita migliore. Mi hai restituito la stessa spensieratezza di quando avevo vent’anni e guardavo il mondo dall’alto senza avere la certezza di riuscire a realizzare i miei sogni. Ieri sera ho aperto il tuo armadio, stavo cercando una cintura. Nascosto sul fondo ho trovato il mio pesciolino rosso. Chissà come c’era finito? L’avevo comprato in un minuscolo negozio di vetri di Murano dietro piazza San Marco, a Venezia, quando ero ancora un ragazzo che stava scoprendo l’Italia. C’ero andato in compagnia di un americano, conosciuto solo la sera precedente in un ristorante di Firenze. Allora erano cose che ti potevano capitare. Mi ero appena trasferito nel capoluogo toscano dopo alcuni mesi trascorsi a Perugia per studiare l’italiano all’università per gli stranieri. All’epoca mio padre mi passava una discreta somma mensile per mantenermi, sicché potevo permettermi di alloggiare in una deliziosa pensione dalle parti di San Frediano. In realtà, non ci dormivo quasi mai. Frequentavo ragazzi come me, che venivano da ogni parte del mondo, e facevo l’alba tutte le notti. Ero innamorato di una ragazza californiana, Christina: era stata mia compagna di studi a Perugia e insieme avevamo deciso di trasferirci a Firenze. Ciò non mi impediva, però, di intrattenere anche una relazione con Claudio, un giovane carrozziere, ed ero spesso disponibile a

nuovi incontri. Tutto era facile, allora. Entusiasmante. Un’avventura continua. Avevo 18 anni, ma mi sentivo grande: avrei potuto spaccare il mondo. Fumavo Camel senza filtro, portavo maglioni neri con il collo alto da esistenzialista, provavo l’inebriante sensazione di essere irresistibile. E avevo la possibilità abbastanza straordinaria di vivere (e bene) in una delle più belle città del mondo, circondato dall’arte. Insomma, mi divertivo parecchio. Ad agganciarmi era stato lui, Samuel, 35 anni, alto e moro. Veniva da Seattle, faceva l’ingegnere. Stavo cenando con alcuni amici in una piccola trattoria vicino a Santa Maria Novella, e lui era seduto al tavolo accanto. Attaccò discorso parlandomi dell’impero ottomano. Finì che uscimmo insieme dal locale e andammo ad appartarci in un angolo buio dei Giardini della Fortezza. «Perché non andiamo a Venezia con il primo treno, domani mattina?» mi propose lui di punto in bianco, mentre ci fumavamo una sigaretta per strada. Si erano fatte ormai quasi le tre. Ci recammo a piedi alla stazione, che era poco distante, per controllare gli orari. Poi ci salutammo complici, dandoci appuntamento di lì a poco, per le sei. Fu uno dei giorni più lunghi ed emozionanti della mia vita. Quando arrivammo, Samuel mi portò all’Hotel Danieli. Chiese una stanza con vista sul Canal Grande. Restammo quasi sempre chiusi in camera. Il giorno seguente tornammo a Firenze e la sera mi invitò a cenare con lui. A quel punto, io ero completamente preso. «Ma tu, cosa vuoi fare da grande?» mi chiese all’improvviso. «Perché?» gli feci io, con lo sguardo perso nei suoi occhi. Scoprii così che l’indomani sarebbe partito per il Kuwait, dove si sarebbe fermato a lungo per lavoro. «Vieni con me!» mi esortò.

E io, dimentico dei miei progetti, decisi seduta stante che l’avrei seguito in capo al mondo. Al mattino successivo, però, ebbi un’amara sorpresa. Quando mi recai al suo hotel, come stabilito, il portiere mi disse che era già partito. Non aveva lasciato nessun messaggio e nemmeno un recapito. Con il senno di poi posso affermare che è stato meglio così, ma quel giorno ho assaggiato per la prima volta il sapore amaro dell’abbandono. E della delusione. È stato allora che sono diventato veramente adulto. Ecco, il pesciolino di smalto l’avevo preso proprio durante l’unica passeggiata che avevamo fatto io e Samuel nel dedalo di calli intorno a San Marco. Quella creatura rossa, tutta sola in una piccola boccia di vetro, mi aveva fatto tenerezza. Negli anni, è diventato un oggetto portafortuna. So cosa stai per chiedermi: sì, l’ho preso. È al sicuro in valigia, avvolto in un maglione. Sta viaggiando insieme a noi. Il pesciolino di smalto mi riporta alla mente un altro portafortuna marino, un ramo di corallo segnato dal mare da cui non si separava mai Federica. L’aveva trovato su una spiaggia in Sardegna e lo portava sempre al collo appeso a un sottile laccio di pelle nera. Federica è stata una delle donne più importanti della mia vita: labbra morbide e affamate, capelli biondi e lisci, occhi azzurri che in alcune giornate diventavano viola. Era una ragazza bellissima, ma soprattutto aveva una personalità irresistibile, forte e travolgente. Dove sarà ora? È da un po’ che non ricevo una cartolina dalla Thailandia, dall’Australia o dal Giappone, il suo modo per farmi sapere che mi sta pensando, mentre se ne va in giro per il mondo, irrequieta e ribelle come quando l’ho incontrata la prima volta. Lei aveva 26 anni, io tre di meno. La conobbi a una festa, dove ero andato insieme a Valerio. Ci conquistò entrambi. A quei tempi abitavo in via Ostiense per conto mio, mi ero trasferito in un bilocale in affitto due piani sotto Valerio, ma spesso ero da lui in mansarda. Ed è lassù che una notte, mezzo ubriachi, finimmo a letto tutti e tre insieme.

Per me fu una rivelazione. Non era certo la prima donna a colpirmi: a fare la differenza era la persona. A fare la differenza era Federica. Tra noi scattò un’intesa sessuale fortissima. Eravamo due ragazzi che traboccavano di energia: i nostri corpi si sfioravano e già emettevamo scintille. Valerio forse se ne accorse ancor prima di noi: forte della saggezza dell’esperienza – è più vecchio di me di una decina di anni – si fece da parte lasciandomi libero di godere quel momento magico sino in fondo. Allo stesso tempo, mi fece capire che per me lui ci sarebbe sempre stato: poteva aspettare. Federica era già allora una cittadina del mondo, un’anima in pena. Lavorava a Parigi nell’alta moda, ma non riusciva a stare troppo a lungo lontana da Roma. Era costantemente in movimento. Arrivava, si fermava una settimana, ripartiva, tornava per pochi giorni, spariva di nuovo. Apparteneva a una famiglia ricchissima, di nobili origini. Era una sorta di ereditiera, ma nessuno l’avrebbe mai detto a un primo sguardo: in certi giorni era infatti capace di vestirsi come una pezzente. Poi la sentivi parlare, la osservavi muoversi tra la gente, e dal tono sicuro della sua voce, dalla perfetta padronanza di sé che non l’abbandonava mai, in qualsiasi ambiente e situazione, capivi che era stata educata per stare sempre al centro dell’universo. Dentro quell’esile corpo di ragazza si celava una principessa. Con Federica ho capito l’importanza della personalità, che va oltre un paio di occhi seducenti, un ovale perfetto, una bocca carnosa. La bellezza esteriore non è altro che un puro involucro, ciò che rende irresistibili è quel magnetismo nello sguardo, quell’energia, quella capacità di sorridere con leggerezza, quello charme che trasforma una giornata qualunque in un’avventura. La nostra storia è durata tre anni. Soprattutto i primi tempi la passione letteralmente ci consumava. Facevamo l’amore più volte al giorno. Non mi era mai successo prima. Il profumo della sua pelle, il suono della sua risata, la morbidezza dei suoi

capelli sparsi sul cuscino mi erano entrati dentro come una droga e non potevo più farne a meno. Quando una donna si infila nella tua vita, tutto cambia. È l’amore stesso che assume una forma differente, anzi, si fa cangiante, instabile, sempre sorprendente. Con un uomo è diverso, lo sai. Ne abbiamo spesso parlato. Oltre al desiderio e alla sensualità, c’è una complicità diffusa che ti avvolge e ti sostiene, certi equilibri non vengono toccati, solo ridefiniti. Ma con una donna, be’, all’improvviso il tuo spazio si trasforma, i tuoi ritmi si dilatano, poi si restringono. È una tempesta di emozioni. Puoi anche non capire più chi sei. Federica arrivava da Parigi e doveva subito uscire, andare a una cena, organizzare una festa, raggiungere certi amici al mare. Oppure, con la stessa energia si impegnava a mettere ordine nelle cose pratiche della mia esistenza. Cambiava posto ai libri, radunava i dischi che amavo lasciare in giro dove capitava e li riponeva in una scatola, dichiarava guerra ai calzini abbandonati per la stanza. In lei, istinto di protezione e desiderio di possesso si sovrapponevano in modo indistinto. E io, così giovane e poco abituato all’esercizio del potere femminile nella mia vita autonoma, mi prestavo con entusiasmo a diventare il suo terreno di conquista. Eravamo una coppia che si amava molto da vicino, ma capace di ignorarsi quando si era lontani. Cosa faceva Federica dal momento in cui usciva dalla porta di casa mia per raggiungere il mezzo di trasporto che l’avrebbe portata via per chissà quanti giorni? Era una domanda che nemmeno mi ponevo. E per lei era lo stesso. Viceversa, quando era in città vivevamo in simbiosi. Frequentavo i suoi giri della Roma bene, trascorrevo i weekend nella sua villa di famiglia al Circeo, la accompagnavo a inaugurazioni di mostre ed eventi, a spettacoli e concerti. Però, al medesimo tempo, sapevo di non aver tagliato – e non poter tagliare – alcun legame con la mia «altra» vita: era come se avessi lasciato il mio appartamento per qualche mese per abitare temporaneamente lontano da lì, ma ci tornassi spesso per dipingere, scrivere, gettare i semi per il mio prossimo futuro.

Con Federica vivevo un presente infuocato e sospeso, sfidando ogni regola. Era come ballare un lento abbracciati stretti stretti, a piedi scalzi sulla spiaggia, mentre i Rolling Stones suonavano Satisfaction e tutti si scatenavano intorno a noi. Quando stavo con lei ero solo agli inizi della mia avventura professionale. Il mio futuro era ancora in salita. Frequentarla era terribilmente eccitante, ma anche molto impegnativo. Amava lanciare sfide, oltrepassare i limiti. Non si fermava davanti a niente. Piano piano, iniziammo a vederci più di rado, poi sempre meno. Si era stufata di lavorare nella moda, e in fondo non ne aveva nemmeno bisogno. Per dare un taglio al passato, aveva deciso di aprire un ristorante in Sudafrica con due soci italiani. Quando si trasferì laggiù, la nostra relazione era ufficialmente finita. Il legame che ci univa si è trasformato con gli anni in una di quelle amicizie che sembrano crescere con la distanza. Ci siamo rincontrati ancora un paio di volte, quando la mia carriera era già decollata. Lei era rimasta la stessa ragazza irrequieta di un tempo, il ramo di corallo al collo, la valigia pronta e un aereo che l’aspetta per portarsela dall’altra parte del pianeta. Si è sposata, si è separata, tuttora immagino non sappia cosa farà da grande. Eppure, quando tra la posta scoprivo una delle sue cartoline – spesso irresistibilmente kitsch: panorami esotici al tramonto ritoccati, vedute dall’alto di metropoli lontane con allegre frasi di saluto –, era come se Federica fosse di nuovo accanto a me, e ci facessimo insieme una risata. Tu sei riuscito anche a farmi riconciliare con il passato. Oggi mi volto indietro e non provo più quel senso di struggimento per ciò che è scomparso, per il tempo che passa e, inesorabilmente, ci segna nella pelle e nell’anima. Mi guardo allo specchio e mi riconosco in ogni piccola ruga. Sono sempre io, un ragazzo che ha vissuto e gode di ogni giornata come fosse l’ultima.

Se non ci fossi stato tu a sostenermi, forse non mi sarei nemmeno dato tanto da fare per comprare il vecchio appartamentino dell’ultimo piano, dove avevo abitato con Valerio. Mi hai aiutato a capire che certe decisioni, anche quella di investire una discreta somma nell’acquisto di una casa non necessaria, hanno un valore simbolico e affettivo inestimabile. Perché quelle stanze, una dentro l’altra, aggrappate fra i tetti, sono e saranno sempre un pezzo di me. Quante confessioni, addii, dichiarazioni d’amore e di odio hanno ascoltato le pareti imbiancate a calce della terrazza. Ora è diventata parte integrante dell’appartamento e la custodisco come un luogo sacro. Ieri, sul tardi, sono salito fin lassù. La porta che dava sul pianerottolo nel tempo è stata chiusa. La corta finestra da cui ci passavamo posate e stoviglie, e che scavalcavamo con balzi più o meno atletici, si è allungata in una porta-finestra. Ho guardato il gasometro stagliarsi nel cielo esattamente come una vita fa, e mi sono sentito di nuovo trasportare in fondo ai miei vent’anni. Insieme agli amici, agli amanti, ai miei buoni e cattivi maestri. Nessuno mancava all’appello, nemmeno chi ora vive lontano, nemmeno chi ci ha lasciato per sempre. Ci riempivamo i bicchieri per un altro brindisi, mentre Vera arrivava sbuffando in bilico sui tacchi, con la sua teglia fumante. Ci sono luoghi nei quali si respira un’atmosfera speciale. Sembrano quattro pareti come tante altre, ma avverti la presenza di un’energia alla quale non puoi sottrarti. Forse hanno ospitato persone fuori dal comune. Oppure, sono state le testimoni mute di eventi che hanno segnato un’epoca o anche solo una vita. Ecco, ho sempre pensato che la mansarda di via Ostiense fosse uno di questi luoghi eccezionali. Perciò da qualche tempo preferisco tenerla vuota o usarla come studio, seppure non ne avrei davvero bisogno. Non voglio rischiare di affidarla alla persona sbagliata. E nemmeno a qualcuno che, magari inconsapevole del suo potere magnetico, chissà, vi si potrebbe smarrire.

Sorridi e, infatti, sai che sto scherzando. Ma sai anche che negli scherzi c’è sempre un fondo di verità. Massimiliano, per esempio, non si era in qualche modo smarrito? Non ho mai conosciuto un tipo più agitato e passionale di lui. Non so se fosse per l’origine meridionale o per la sua natura. Aveva occhi grigi un po’ spiritati e folti capelli castani, la fronte ampia e le movenze nervose di chi è abituato ad avere mille pensieri per la testa. Chissà se fa ancora l’oculista? Stava cercando casa e l’appartamento al quarto piano, proprio sotto la mansarda, si era liberato. Mi venne naturale segnalarglielo: il suo ambulatorio era poco distante. Lo conoscevo da tempo, ma in realtà sapevo poco di lui. Era un tipo simpatico e gioviale, che però celava una zona oscura. Il giorno in cui gli diedi il benvenuto nel palazzo, comunque, ignoravo fino a che punto conducesse una vita, diciamo, movimentata. Ma anche l’avessi saputo, non avrebbe fatto troppa differenza. Ci voleva ben altro che qualche stravizio per creare scompiglio. Orari stravaganti con uscite nel cuore della notte, viavai di tipi poco raccomandabili e improvvisi cambi d’umore, dopotutto, per quel vecchio edificio erano la routine. Ai tempi ero spesso a Firenze, dove stavo lavorando alla regia di un’opera lirica. Di solito, mi accompagnavi, oppure rientravo a Roma in serata, ma in quella occasione mi ero dovuto trattenere per la notte, perché l’indomani avevo un appuntamento molto presto. Così mi avevi telefonato: «Sembra che Massimiliano sia sparito!». La tua voce era alterata dall’ansia. In studio, al mattino, lo aspettavano diversi pazienti, ma lui non si era presentato. L’avevano cercato sul cellulare, però prima suonava a vuoto e poi sembrava spento. Così la segretaria, allarmata, aveva chiamato un po’ di conoscenti. Anche tu, dopo averla sentita, avevi provato decine di volte a contattarlo senza risultato. Un ulteriore giro di telefonate ad amici comuni aveva dato lo stesso esito. Nessuno lo vedeva da un paio di giorni. Nessuno ne sapeva nulla.

«Ho un brutto presentimento… un’occhiata su in casa» avevi concluso.

torna

che

diamo

Naturalmente, io avevo una copia della chiave dell’appartamento. Del resto, ho quelle di tutti nel palazzo, casomai succeda qualcosa. E gli altri hanno la mia. Era sera, il mattino dopo mi alzai presto e tornai a Roma di buon’ora. Salimmo le scale con il cuore in gola. Eravamo terrorizzati all’idea che gli fosse davvero capitato qualcosa di terribile, di trovarci davanti alla scena di un crimine, a pozze di sangue, a un cadavere. La porta era chiusa solo con la serratura di servizio. Quando la spinsi da parte per entrare rimasi per un attimo fermo sulla soglia, quasi non avevo il coraggio di andare oltre. Per fortuna, la casa era vuota. In compenso, sul tavolino in sala davanti al divano c’era un piatto con evidenti tracce di polvere bianca. Massimiliano doveva averci dato dentro prima di uscire. Lo rintracciammo la sera in ospedale. Aveva avuto un incidente d’auto. Era stato trovato in stato d’incoscienza, privo di soldi e documenti, pieno di ferite. Probabilmente, dopo che lui aveva sfasciato la macchina, qualche anima pia, invece di soccorrerlo, lo aveva derubato. Era in coma. Avvertimmo la famiglia e il giorno dopo da Foggia arrivò la madre, accompagnata da un nipote, un giovane precocemente calvo, timido e di poche parole. Gente semplice ma per bene, si sarebbe detto una volta. La signora Adelaide, poi, pareva la quintessenza della classica mamma del Sud: scarmigliata e addolorata, gli abiti dimessi, la figura già massiccia ulteriormente appesantita dall’età, la preoccupazione negli occhi per quel «povero figlio mio». Quando mi presentai, abbandonò la sua mano grassoccia e umida nella mia con indolenza, come fosse un pesce morto. Ne ebbi un’impressione curiosa. Quella donna pareva così

vera da sembrare finta. Un’attrice consumata non avrebbe potuto fare di meglio, mi sorpresi a pensare. Scacciai quelle considerazioni archiviandole come una specie di deformazione professionale. A furia di creare personaggi, alle volte non riesco più a distinguere tra finzione e realtà. Doveva essere sfinita dal dolore e dalla fatica, per questo mi era parsa un po’ strana. In fondo, era reduce da un lungo viaggio. E suo figlio lottava tra la vita e la morte. Mi disse che, appena aveva saputo, era partita in fretta e furia, non era nemmeno riuscita a passare in banca a prendere dei soldi. Mi offersi di aiutarla. «Le bastano 300 euro?» le chiesi con sollecitudine, allungandole le banconote. «Ma si figuri, sono troppi!» si schermì lei, mentre prontamente le afferrava, infilandosele nella borsa. Il giorno dopo incontrai una delle Nane per le scale. Commentando lo stato di salute del nostro coinquilino – le condizioni di Massimiliano erano stazionarie, gli avevano cambiato la medicazione, ma giaceva ancora in stato d’incoscienza con la faccia bendata – osservò acida che aveva appena dovuto elargire ben 100 euro alla madre. L’aveva incrociata sul portone e, quando la signora Adelaide le aveva chiesto dei soldi per la spesa, non aveva saputo dirle di no. Rimasi un po’ spiazzato: possibile che avesse già speso tutti quelli che le avevo dato io? Ma forse aveva dovuto saldare dei conti per le cure mediche del figlio. Dopotutto, era una povera donna, una madre distrutta dal dolore. La Nana mi guardò in un modo curioso: «Non sembrava affatto distrutta dal dolore, quando l’ho vista. Era truccata e pareva appena uscita dal parrucchiere. A dirla tutta, sembrava che stesse andando a un appuntamento galante, altro che spesa. Gliel’ho fatto notare e sai cosa mi ha risposto? Che dovrei curarmi di più anch’io del mio aspetto. Per esempio, se mi

tingessi i capelli con dei colpi di sole per nascondere il grigio, ringiovanirei di almeno vent’anni. Tu che ne pensi?». Aveva superato i sessant’anni, ormai, ma nel farmi quella domanda il suo volto solitamente arcigno si era disteso in un sorriso. La guardai allibito. Sembrava quasi che la madre di Massimiliano, scucendole dei soldi, l’avesse pure ammaliata. Due giorni dopo, finalmente il ferito si risvegliò. Era in ospedale da quasi una settimana, ormai. Non poteva ancora parlare, lo avevano dovuto ricucire in più punti, ma era tornato tra noi e questo era l’importante. La sua stanza si riempì di amici, c’erano anche la segretaria e l’assistente del suo studio oculistico, a cui la signora Adelaide, che poi risultò una cuoca eccezionale, dispensava elaborate ricette di specialità meridionali. Eravamo tutti felici e speranzosi. I medici ci avevano rassicurato: danni permanenti non ce ne sarebbero stati. «Il peggio è passato!» «Ora devi solo guarire!» «Adesso c’è qui tua mamma che pensa a te: altro che medicine, ti farà le flebo di pastasciutta d’ora in poi!» gli dicevamo per incoraggiarlo. Stranamente, ogni volta che si nominava sua madre, Massimiliano, attraverso le bende che ancora gli ricoprivano il volto, strabuzzava gli occhi e mugolava. Certo, doveva essere per la felicità. Quella sera, rincasando, incontrai suo nipote Nino sulle scale. Aveva proprio bisogno di soldi per fare la spesa, il frigo era vuoto, mi disse quasi con le lacrime agli occhi. «Ma se avete avuto almeno cinquecento euro in meno di una settimana!» sbottai incredulo. Ero appena venuto a sapere che la signora Adelaide era riuscita a farsi dare dei soldi persino da un infermiere all’ospedale. È così che venne fuori la verità: quella simpatica signora era una giocatrice patologica.

Nel giro di pochi giorni, era diventata una habitué delle sale scommesse della zona. Non appena le avevo messo in mano del contante lei, come attratta da un magnete, vi si era precipitata. Scommetteva sui cavalli, acquistava compulsivamente schedine del lotto e gratta e vinci, si attaccava alle slot-machine finché non aveva più gettoni. E trascorreva le serate nel retro di uno dei bar più malfamati del quartiere, giocando a poker con un manipolo di individui poco raccomandabili, fumando sigari e bevendo whisky. Quando vinceva, le sue risatacce arrivavano fin sulla strada. Ci aveva tutti ingannati, e me più degli altri. Quando l’avevo incontrata la prima volta, infatti, avevo avvertito in lei un non so che di poco convincente. Allo stesso tempo, però, e non riesco ancora a spiegarmi il perché, non smetteva di suscitarmi simpatia. Quante volte capita che ti presentino qualcuno e, al primo impatto, senti che in lui c’è qualcosa che non quadra. Nulla di necessariamente negativo, potrebbe anche essere solo una vena di eccentricità. Una nota stonata che, però, rende più intrigante la sua personalità, suggerendo che oltre le apparenze si nasconde ben altro. Ma poi cambi idea. Perché lui fa del suo meglio per apparire credibile, aderente al personaggio che si è cucito addosso. Arrivi addirittura a domandarti come mai hai avuto quell’impressione iniziale così strana. Del tutto di pancia, inspiegabile, viscerale. Poi passa il tempo, quella persona impari a conoscerla, la vedi all’opera in varie situazioni. Quando si fa festa, ma anche quando c’è da rimboccarsi le maniche. Quando le cose filano lisce, ma anche quando sorgono problemi. E puntualmente scopri che il tuo istinto aveva avuto ragione. Dietro la maschera, si nasconde un carattere più complesso, capace di sorprenderti con gusti e opinioni inaspettate e una visione tutta sua di come va il mondo. Avverto il tuo sorriso di incredulità, quello che fai sempre mentre aggrotti appena la fronte e ti passi le dita tra i capelli. Il tuo modo di farmi sapere con discrezione che non sei del tutto d’accordo.

Lo so, la tua generosità ti porta a non farti troppe domande quando conosci una persona, a coglierne sempre e comunque il lato bello. Ma io non ho il tuo stesso dono. Ed è sempre così, credimi: la «prima impressione» non è una leggenda metropolitana e ignorarla può procurare, a volte, persino qualche guaio. È una lezione che la vita mi ha impartito spesso, eppure non sono sempre stato abbastanza bravo da coglierla. Ecco, quando ho incontrato la signora Adelaide mi si era acceso come un campanello dentro: quella persona era assai diversa da come appariva. Dietro all’aspetto materno così inoffensivo e rassicurante, i fianchi larghi, il seno matronale, i vestitoni a fiori con l’orlo scucito, si nascondeva una simpatica mascalzona capace di lasciarti in mutande eppure contento di averla incontrata. «La prego, d’ora in poi i soldi li dia solo a me» aveva concluso Nino, dopo avermi aperto gli occhi. Ancora frastornato dalla rivelazione, gli consegnai altri 100 euro e raggiunsi il nostro appartamento. Tu saresti rientrato di lì a poco: non vedevo l’ora di aggiornarti. Ecco perché Massimiliano, in ospedale, si agitava così tanto ogni volta che noi, ingenui e in perfetta buona fede, gli nominavamo quella santa donna di sua madre! Aveva cercato di avvertirci di fare attenzione, di non lasciarci abbindolare, e noi non avevamo capito. Se ancora ci fosse stato bisogno di una conferma, qualche giorno dopo fummo testimoni di un colpo di teatro memorabile. I medici avevano preannunciato che Massimiliano sarebbe stato liberato dai bendaggi. Per l’occasione, noi amici eravamo accorsi di nuovo in massa al suo capezzale. Anche tu, che saresti dovuto andare fuori città per un impegno di famiglia, avevi rimandato il viaggio. Rivedo la scena come fosse oggi. L’infermiere che lentamente rimuove le bende, Nino che fa un salto indietro con uno sguardo allarmato, come se avesse preso la scossa, Valerio che sospinge sollecito la signora Adelaide verso il letto perché

abbracci l’amatissimo figlio. E Massimiliano che, finalmente libero di esprimersi, spingendola via urla con quanto fiato ha in gola: «Nooooooooooooooooo!» La genitrice era stata smascherata al pari di una bieca approfittatrice. Massimiliano lentamente si riprese e presto fu in grado di tornare a casa. Il nipote rientrò a Foggia, ma la madre restò. Ancora a letto, circondato da boccette di farmaci e giornali, che leggeva dalla prima all’ultima riga per far passare il tempo, il convalescente sbraitava: «Te-ne-de-vi-an-da-re!», scandendo ogni sillaba come singole pallottole, diventando paonazzo in viso, mentre gli ematomi ancora evidenti passavano dal giallo al viola. La signora Adelaide, però, ad andarsene non ci pensava proprio. Aveva trovato la manna, perché avrebbe dovuto tornarsene a casa? È vero, adesso tutti – e io per primo – eravamo divenuti accorti e certe fortune, come ritrovarsi di punto in bianco con 300 euro da giocarsi in un sol colpo, non le potevano più capitare. Ma non era proprio il tipo che si arrendeva con facilità. Curiosamente, più la conoscevo, più la apprezzavo. Ora che sapevo qual era la sua vera natura, la guardavo con crescente simpatia. Anzi, mi sentivo quasi più in sintonia con lei che con il figlio. Massimiliano, dopotutto, era sempre stato un campione in doppia vita: si atteggiava a serio professionista dagli inossidabili principi morali, pronto a scandalizzarsi per ogni forma di trasgressione, mentre di nascosto si abbandonava a ogni tipo di stravizio. Anche l’omosessualità faceva parte delle sue abitudini clandestine. Aveva un compagno, ma lo presentava a tutti, anche a noi, come un amico. Un pomeriggio – ero salito a trovarlo – sentii la madre dirgli: «Ma che, pensi che sia scema? Pensi che non lo so che è il tuo fidanzato? Perché te ne vergogni? Dovresti vergognarti di vergognartene, piuttosto!». Pazienza se mi aveva ripulito e non aspettava altro che di riprovarci: avrei voluto abbracciarla.

Te lo ricordi? La signora Adelaide era abilissima nell’entrarti in casa con una qualsiasi scusa per poi aggirarsi per le stanze guardandosi intorno con occhio clinico, in cerca di oggetti di pregio. Era maestra nel convincere chiunque a sbarazzarsi dei cimeli di famiglia, purché avessero un certo valore. Che te ne facevi, per esempio, di quel vassoio d’argento? Se lo vendevi, potevi trasformarlo in denaro sonante, ti incoraggiava lei, con fare suadente. Non ci voleva nemmeno troppa fantasia a immaginare in che modo avrebbe poi suggerito di impiegare quei soldi. «Io sono fortunata, caro: con me la vincita è sicura! Ci sarà da guadagnare per entrambi!» blandiva il malcapitato di turno. Ma intanto gli dispensava anche dei consigli preziosi, piccole dritte concrete, piene di buon senso, che inaspettatamente avevano il potere di cambiargli la vita in meglio, con il minimo sforzo. A Ernesto suggerì di spostare il divano da una parete all’altra, così la sala sarebbe stata più spaziosa. A Claudia, una nostra amica single da anni, intimò di trovarsi un uomo e le spiegò come fare. A Patrizio, il panettiere, rivelò la ricetta di una focaccetta con le olive che in breve tempo divenne una delle specialità più richieste del forno. A Sandra, la parrucchiera, che soffriva di mal di testa lancinanti, insegnò un automassaggio con cui far sparire le fitte in un minuto. Ad Amedeo, un inquilino del palazzo accanto, che al bar prendeva caffè decaffeinato anche all’ora dell’aperitivo, ordinò con tono perentorio di chiedere un Martini dry perché dalle cinque di pomeriggio in poi non si poteva fare altrimenti. Lei, a dire il vero, cominciava anche prima. Seppure in modo malandrino, la signora Adelaide aveva portato con sé dal Sud un caldo raggio di sole che aveva illuminato le nostre vite. Come dice una famosa canzone turca, ci aveva regalato «una seconda primavera». Con una mano ti chiedeva del denaro, con l’altra ti regalava un’emozione. Iniziò a cucinare freneticamente strepitosi manicaretti e certe lasagne al ragù e melanzane alla parmigiana che avrebbero fatto resuscitare i morti. Poi fu la volta dei dolci.

Qualcuno l’aveva rifornita di mandorle e nocciole, e lei le aveva utilizzate per farne deliziosi biscotti che ci regalava ancora caldi del forno. Quando non era al bar a giocare a carte, o nella sala scommesse a puntare su Fedayn vincente ed Esmeralda piazzata, superata la nostra iniziale diffidenza, la signora Adelaide seminava buonumore e positività tutt’intorno a sé. La mia prima impressione si rivelava di giorno in giorno sempre più azzeccata. La madre di Massimiliano non era affatto la classica casalinga, mite e depressa, che aveva voluto farci credere all’inizio. Nella sua fantasia noi eravamo, sì, i polli da spennare e cucinare a puntino, ma anche una platea da conquistare con generosità. Questo, finché non se ne andò. Ci venne a salutare portandoci un ultimo vassoio di biscotti. Tu l’avevi ringraziata dicendole che eri certo che sarebbe presto tornata a trovarci. Ma lei, quasi sostenuta, ti rispose in modo sbrigativo che sarebbe stato difficile. Aveva un sacco di cose da fare. «Massimiliano mi ha pregato in ginocchio di restare, ma a Foggia ho lasciato dei cuori infranti: non posso mica farli ancora aspettare…» ci rivelò spiazzandoci ancora una volta. Nelle vesti di seduttrice proprio non ce l’eravamo ancora immaginata. In realtà, noi sapevamo bene che la situazione era un’altra: suo figlio alla fine l’aveva cacciata di casa. Sentimmo tutti la sua mancanza e a lungo abbiamo sperato che tornasse. Ma fu l’ultima volta che la vedemmo. Eppure, qualcosa di lei era rimasto per sempre nelle nostre vite. La nota stonata che avevo subito riconosciuto in quella strana donna si era rivelata una carta vincente. Forse non l’aveva aiutata a guadagnare le grosse somme che millantava – al contrario, diversi testimoni l’avevano vista perdere cifre considerevoli senza battere ciglio – ma era stata un’insperata fonte di ricchezza per tutti noi. Come una strega buona, la signora Adelaide si era divertita a creare parecchio scompiglio, lasciandoci però in regalo un pizzico di felicità in più.

V

Una dea in parrucca Ancora rivedo la scena. Siamo a letto, è tardi. La mezzanotte è già passata. Io leggo un libro di poesie, tu un romanzo. Ho scoperto da poco la poetessa polacca Wisława Szymborska e ne sono rimasto folgorato. Ogni tanto, ti recito ad alta voce qualche verso, tu chiudi gli occhi come per assorbirli meglio. Ti sono sopravvissuta solo e soltanto quanto basta per pensare da lontano.

Fra tante, questa poesia mi aveva colpito. Come nessun’altra coglie il totale struggimento per l’assenza di chi ami, che diventa ancor più dolorosa se ripensi ai luoghi dove si è stati più felici. Sono versi così semplici, eppure profondi e veri che, anche adesso, mentre ci ripenso, un brivido mi trapassa il corpo da parte a parte. «Come si intitola?» mi avevi chiesto. «Addio a una vista.» «Leggimene un’altra!» Quanto ti piace startene sdraiato sotto le coperte, mentre io leggo ad alta voce articoli di giornali, poesie, interi capitoli di romanzi! Una volta mi hai confidato che ti fa tornare bambino, quando tua madre, alla luce tenue di un abat-jour, ti raccontava ancora un’ultima favola per farti addormentare. Ti avevano regalato un grande libro di fiabe dei fratelli Grimm, con enormi illustrazioni colorate, e tu non ti stancavi mai di ascoltarle. Per me la felicità è questa, mi avevi confessato, starmene tra le lenzuola, mezzo assopito, mentre una voce familiare mi conduce per mondi lontani e misteriosi, sapendo che non mi accadrà mai nulla di male.

Siamo ancora lì, tu e io. Sfoglio piano il libro della Szymborska, in cerca di altri versi. Ed ecco che, con una tempistica perfetta, l’assurdo più sublime sceglie di fare la sua comparsa, interrompendo le nostre riflessioni. «Ascolta! C’è di nuovo quel rumore!» esclami all’improvviso, appoggiandomi la mano sul braccio per catturare la mia attenzione. Da alcune notti sentiamo quei colpi secchi, ripetuti, come se qualcuno stesse piantando sul muro un chiodo per un quadro. Non sappiamo esattamente quando siano iniziati, ma stanno diventando un appuntamento molesto. Toc. Toc. Toc. Toc. Toc. Sembrano venire da fuori. Spinti più dalla curiosità che dall’irritazione, scattiamo verso la finestra, spalanchiamo vetri e persiane e ci affacciamo sul cortile. Ritagliata nella luce fredda del lampione condominiale, una figura si agita su un balconcino a pochi metri da noi. È Vera. Sbatte qualcosa con forza contro la ringhiera. Sembra una parrucca. Ci guardiamo increduli. Come possono dei capelli produrre un tale rumore? «Amo’, che c’è di strano? Le do qualche colpetto di assestamento! Vorrei vedere te!… Dopo che ci spalmi il bostik da una vita, diventa dura come il ferro, sai? Come il ferro!» sarebbe stata la sua spiegazione il giorno dopo. Vera è così. Una creatura che, fino all’ultimo, non ha rinunciato a produrre scompiglio con ogni mezzo, nella buona e nella cattiva sorte. Agitando piume colorate, sbattendo ciglia finte, rumoreggiando nella notte. Una creatura capace di irrompere nelle vite altrui con l’energia di una dea guerriera. Perché Vera, in quel suo modo cialtrone e sfacciato, eccentrico

ed emarginato, possedeva l’inconsapevole grandezza degli eroi solitari. Per anni l’ho incontrata per le scale sempre trafelata, che tornava a casa o si precipitava fuori, al «posto di combattimento». Lasciava dietro di sé una scia voluttuosa di Madame Rochas, il suo profumo preferito. Batteva su uno stradone vicino al raccordo anulare, a ridosso di un cavalcavia. Ma lavorava molto anche in casa, di solito nel primo pomeriggio. Diversi suoi clienti, infatti, erano impiegati statali con la propensione a divertirsi in pausa pranzo. Molti se li era fatti grazie agli annunci che metteva periodicamente sul «Messaggero». Più di una volta, su sua richiesta, mi sono recato io stesso alla sede amministrativa del giornale per farli pubblicare. Perché, anche se non l’avrebbe mai ammesso, affrontare gli addetti e la loro becera ironia la faceva sentire a disagio. Lei che di notte non aveva paura di niente, alla luce del giorno, in quegli ambienti freddamente formali, dominati dalla burocrazia, provava vergogna di se stessa. Me la vedo ancora davanti, nelle fredde sere invernali, uscire di casa tutta bardata. La corta pelliccia spelacchiata con le cosce bene in mostra, le enormi scarpe – portava il 43 – dalle zeppe chilometriche, che si era comprata a Parigi. Spesso si trascinava dietro un sacchetto di carbone che le serviva per accendere il fuoco sul viale. Quando era venuta ad abitare in via Ostiense, si chiamava Mario e lavorava come coreografo al Club Méditerranée. Creava show en travesti, musical, balletti e spettacoli comici per allietare sciami di turisti nei villaggi vacanza d’Europa e non solo. Motivo per cui parlava un perfetto francese e inglese. Per anni si era speso alacremente per il divertimento altrui, finché non aveva appurato che fare la trans non solo era molto più remunerativo, ma assai gratificante. La sua era stata una scoperta del tutto casuale. Per lavoro era spesso in giro per località turistiche o nella sede centrale di Parigi. Capitava, dunque, che durante le assenze lasciasse

l’appartamento in prestito ad amici. Uno di questi, un bel giorno, pensò bene di subaffittare a sua volta i locali a un altro tizio. Così, quando Mario ritornò dall’ennesimo tour de force lavorativo, trovò la casa occupata da uno sconosciuto, per giunta convinto di potervi risiedere stabilmente. Volitivo e abituato com’era a farsi rispettare, ci mise un attimo a liberarsi dell’intruso e a riprendere pieno possesso dell’appartamento. Non poteva, però, certo immaginare che quel tipo, nel frattempo, avesse pubblicato su un quotidiano una serie di annunci nei quali offriva i suoi servigi, in qualità di «massaggiatore». L’indirizzo fornito ovviamente era via Ostiense… Certo, se avesse voluto, avrebbe potuto chiarire subito l’equivoco. Ma non lo fece. Allettato dalla possibilità di provare nuove esperienze, lasciò, diciamo, che le cose facessero il loro corso. E con grande sorpresa scoprì quanto quell’attività fosse ben pagata: aveva trovato il modo di diventare ricco divertendosi! E poi, dato che da cosa nasce cosa, ci aggiunse la propria passione per gli abiti sottoveste e le parrucche. Fu dunque per uno scherzo del destino che, quasi da un giorno all’altro, Mario si trasformò in Vera, il più famoso travestito di Roma. E quando, alla fine degli anni Ottanta, il palazzo era stato messo in vendita, lei era stata tra quelli che si erano potuti permettere di comprare il proprio appartamento. Nei tempi d’oro, infatti, aveva guadagnato molti soldi. Però, altrettanti ne aveva spesi. E, alla fine, l’unica cosa che le era rimasta era la casa. Vera, comunque, se l’è sempre cavata. E nei momenti peggiori ha trovato chi l’aiutava. Per diversi anni, ogni mese, per tacito accordo, le ho passato 500 euro. A volte anche qualcosa di più. Quante volte ci siamo affacciati alla finestra e lei era là, ricordi?, seduta al tavolino del bar, sul marciapiede di fronte a casa! Ordinava un cappuccino ed era capace di farselo durare un pomeriggio intero.

Ogni tanto, lanciava improperi irripetibili a qualche passante. Un giorno la vidi accanirsi con particolare trasporto contro una donna che abitava nel quartiere, il viso pallido e segnato, una grossa borsa della spesa in ciascuna mano. «Zozzona!!!» sibilava facendo stridere ogni «z» in modo sinistro, appena la poveretta le si era incautamente avvicinata. Come venni in seguito a sapere, la donna viveva nel palazzo di fronte al nostro e le sue finestre guardavano quelle di Vera. «È da una vita che mi spia, quella schifosa!» mi informò lei, chiudendo l’argomento. A volte, scendendo le scale inciampava rumorosamente, e questo accadeva sempre sul nostro pianerottolo. Attirato dal frastuono, aprivo la porta di casa ed eccola lì, appoggiata alla parete mentre si massaggiava il polpaccio da ciclista. «Povera me, povera me!» si lamentava. Era il suo modo, discreto, per ricordarmi che non le avevo ancora dato i soldi del mese. Quando te l’ho presentata aveva già superato i sessant’anni. Fosse stato per lei, avrebbe continuato a battere ogni notte. Avrebbe ancora pubblicato gli annunci sul «Messaggero» e ricevuto i clienti in pausa pranzo. Il problema è che la sua merce si era deteriorata. A quarant’anni, però, faceva faville. Ogni festa, locale, evento, decollava quando, a una cert’ora, mai troppo presto, arrivava lei, in tutto il suo splendore. Indulgente con se stessa e spietata con tutti gli altri, sfacciata e inossidabile, si era presa il proprio spazio nel mondo e se ne infischiava di chi, invece, e non erano pochi, la vedeva come fumo negli occhi. Portava dentro di sé un inestinguibile fuoco, una bramosia d’avventura che la spingeva a flirtare con il pericolo, senza sosta. Anche la sua vita precedente, però, era stata all’insegna della trasgressione. Nata in un piccolo paese dell’Agro Pontino, era scappata a 14 anni da casa per fare il ballerino, sogno che poi l’avrebbe portata fino a Parigi, ai café-chantant

delle drag queens e, poi, infine, al Club Méditerranée. Se ci pensi, la sua storia ha qualcosa di paradossale: solo quando Vera ha deciso di non togliersi più gli abiti di scena, ha potuto essere se stessa. E una volta donna, ha conquistato il centro del palcoscenico della vita. Se le facevi un torto, sapeva essere vendicativa come una dea primitiva. Eppure, in alcune circostanze, oltre gli strati di make-up, sotto quella pelle dura come cuoio, ruvida e abbronzata, il suo cuore poteva diventare sorprendentemente morbido e delicato, come tuorlo d’uovo. Si divertiva a sedurre schiere di devoti padri di famiglia con le sue provocazioni ed era in grado persino di sbaragliare un manipolo di picchiatori omofobi, con qualche colpo ben assestato fra i testicoli. Eppure, le bastava ricevere una telefonata da casa o, peggio, un invito a una ricorrenza familiare per piombare nella più nera disperazione. Ai genitori non aveva mai detto nulla. Una famiglia semplice e tradizionale, la sua, agricoltori da diverse generazioni. Se n’era andata da giovane uomo, e tale per loro era rimasto. Per sua fortuna, i rapporti con i genitori erano rari e, quanto a lei, si guardava bene dallo stimolarli. Quelle poche volte che riceveva notizie da casa, però, tutta la sua sicurezza andava in pezzi. Diventava un pulcino smarrito e piagnucolante. Fu quello che accadde quando la madre la informò che una sua cugina si sarebbe presto sposata. Vera, anzi, Mario, era invitato al matrimonio. Seppure tra mille patemi, finora, in occasioni simili, se l’era cavata tornando semplicemente a vestirsi da uomo. Nel frattempo, però, alcune cose erano cambiate. A iniziare dal seno. Vera se l’era appena fatto ritoccare e ora lo esibiva più prorompente che mai. «Se non ci vado è peggio. Poi quelli si insospettiscono! Vengono qui e mi scoprono!» gemeva disperata. La sua più grande preoccupazione era deludere Enzo, l’amatissimo nipote, un ragazzo di circa vent’anni, che le

chiedeva soldi di continuo. Vera ne parlava spesso e con adorazione. Una volta era stata capace di mandargli un milione di lire come regalo di compleanno. Eravamo, manco a dirlo, in terrazza, sotto il tiepido sole di una domenica di inizio primavera. Avevamo riunito il consesso degli amici per trovare una soluzione. E alla fine decidemmo all’unanimità che si sarebbe vestita comunque da uomo. Le tette, dopotutto, non erano un problema irrisolvibile. Il matrimonio era il sabato seguente. Quel giorno Valerio e io ci svegliammo all’alba per aiutarla a prepararsi. Un amico infermiere all’ospedale Gemelli ci aveva fornito una benda elastica con la quale le fasciammo il seno talmente stretto che ebbi paura che non riuscisse più nemmeno a respirare. Valerio le prestò il completo scuro che aveva comprato per la cerimonia di laurea e che da allora non aveva più indossato. La giacca le tirava di spalle e i pantaloni le stavano un po’ lunghi – Valerio era più alto di almeno dieci centimetri – ma nel complesso poteva andare. L’altro problema erano le sopracciglia depilate, che Vera si ridisegnava con il kajal. E, poi, avrebbe dovuto rinunciare alla parrucca, il che andava oltre ogni suo limite di sopportazione. Dopo innumerevoli prove e crisi di pianto, optammo per un paio di occhiali scuri e un cappello a falde larghe tipo Borsalino, sempre di Valerio, l’elegantone del gruppo. Non se li sarebbe mai tolti, nemmeno in chiesa, a costo di apparire maleducata e persino irrispettosa, dichiarò Vera con voce da martire. A ogni buon conto, per non dare troppo nell’occhio, le consigliammo di sistemarsi durante la funzione negli ultimi banchi, in fondo. Anzi, magari avrebbe potuto limitarsi a fingere di entrare, per poi appostarsi sul sagrato. «Come strategia difensiva, potresti portarti dietro un sacchetto di riso, da gettare in faccia a chiunque ti guardi con sospetto» le suggerii ironico. Non mi rispose neppure. Le nozze si sarebbero celebrate in una piccola pieve appena fuori dal suo paese. Vedendola così agitata, mi offrii di

accompagnarla io in auto. Avevo appena comprato una Cinquecento usata e ne ero fiero. In quel periodo, infatti, economicamente me la passavo abbastanza bene. Oltre a fare mille lavoretti in attesa della mia grande occasione come regista, avevo ripreso a dipingere – una mia passione adolescenziale – e, grazie all’interessamento di un corniciaio che aiutavo part-time, stavo vendendo parecchi quadri. Quando la lasciai davanti alla chiesa, vidi Vera avviarsi con passo rigido, quasi marziale, nel tentativo di tenere sotto controllo l’abituale incedere sculettante, e provai pena per lei. Tornai a prenderla nel tardo pomeriggio. Non parlò per tutto il viaggio. Aveva un terribile mal di testa, mi informò senza togliersi né gli occhiali scuri né il cappello. Per giorni, poi, era stata di pessimo umore. E guai a chiederle del matrimonio. «Un supplizio!» si limitava a sbraitare. Seguivano imprecazioni colorite. Impossibile cavarle di bocca altro. Di lì a qualche settimana, però, qualcosa si lasciò sfuggire. In pratica, non aveva aperto bocca per tutto il giorno, tanta era la sua paura di tradirsi anche solo con il timbro della voce. Ma più se ne stava zitta, e più gli altri sembravano impegnarsi a farla parlare. Genitori, zii e cugini l’avevano assillata di domande. E che lavoro fai adesso? Ma perché non vieni mai a trovarci? E perché non sei venuto al compleanno della nonna? Ma lei, stretta nel suo dolore, gli occhiali sul naso e il cappello calato sulla fronte, come un gangster in un film americano degli anni Trenta, non aveva fiatato. Non troppo tempo dopo, l’adorato nipote venne a trovarla senza preavviso. Era pomeriggio e Vera riceveva in casa. Per uno scherzo del destino, l’arrivo del ragazzo era coinciso con l’intervallo fra una prestazione e l’altra, sicché ancor prima di potersi annunciare al citofono venne fatto entrare nell’androne del palazzo da un cliente abituale che, trafelato e vergognoso, era corso via disperdendosi tra i passanti.

«Entra bello, sono tutta un fremito» dovette averlo accolto Vera melliflua, stagliandosi in baby-doll trasparente nell’ingresso-tinello, che fungeva anche da alcova. E nel girarsi verso di lui, già sciorinava il tariffario. Era la formula di rito con cui salutava in automatico tutti i clienti, uomini perlopiù orrendi, che lei amava maltrattare quasi quanto a loro piaceva essere strapazzati. Quando dalla penombra del pianerottolo era emerso il volto tondo e dallo sguardo ebete di Enzo, Vera era corsa a rifugiarsi nella stanza in fondo, chiudendosi a chiave. Appoggiando tremante l’orecchio alla porta, sperando che il nipote se ne andasse, lo sentì chiamare: «Signora!». E, dopo qualche secondo di silenzio: «Mi scusi, mi sono scordato i soldi!». Poi, per fortuna, era uscito. Per il terrore di ritrovarselo in paziente attesa davanti allo zerbino, quel giorno rimase tappata in casa senza aprire più a nessuno fino a sera. La notte non scese nemmeno in strada, lei che era capace di andare a battere anche con una febbre da cavallo. L’indomani mattina, non erano nemmeno le nove, suonò alla mia porta. Avevo appena aperto il battente che già si era infilata in cucina, guardandosi ansiosamente alle spalle. Indossava gli occhiali scuri e una specie di accappatoio che la copriva fino ai piedi. Era una maschera di disperazione. «Magari non ti ha riconosciuto…» azzardai con tono ragionevole, cercando di rassicurarla. «Dopotutto, è da anni che ti vede vestita da uomo!» Lei di colpo smise di lamentarsi, si asciugò le lacrime con la mano tozza, le unghie rosso sangue dallo smalto qua e là un po’ scrostato, abbassò la voce e, con il piglio pratico di una cassiera che ti dice il prezzo da pagare, mi sibilò: «Sai che sei veramente scemo?». Vera era così, e lo è stata fino all’ultimo. Procedeva nella vita che si era scelta a passo di carica, traballando sui tacchi,

ma con le gambe ben piantate a terra, le tette in fuori e il sedere sporgente. Aveva intrapreso un cammino difficile, era scivolata innumerevoli volte, era stata spinta a terra, le aveva prese e le aveva date. Amava il lato pericoloso della città, quando scende la notte più scura. Un mondo di auto che rallentano per fermarsi sul ciglio della strada, di cacciatori sconosciuti, di prede che stabiliscono il prezzo da pagare, di fuochi accesi che illuminano il vapore che esce dalla bocca, insieme alle parole. «A’ bbella, quanto vuoi?» Illuminata dalla luce tremula del suo falò tribale, Vera, le mani sui fianchi, i capezzoli sporgenti sotto il miniabito di velo e strass – ne aveva di vari colori, lilla, arancio, blu china… – difendeva la sua porzione di marciapiede, come una tigre in gabbia pronta a scattare. Tornava all’alba, sfinita. Riemergeva il pomeriggio sul tardi, dopo la sessione di marchette casalinghe. Struccata, in pantofole, inguainata nella sua vestaglietta rosa ornata di nastri e volant, la sua idea di eleganza, appariva sul balconcino con una scopa in mano e la sigaretta tra le labbra come una casalinga eccentrica. Ogni tanto, nel suo meritato riposo veniva disturbata dai rumori del giorno, qualcuno che urlava in cortile, una motoretta che rombava per il viale. Allora, spalancava una finestra e protestava con la veemenza di un’onesta cittadina, offesa nella propria dignità. «Ho lavorato tutta la notte con le gambe all’aria, avrò il diritto di riposare, no?!» si sgolava con la vestaglia spalancata ad arte sul décolleté. A volte, parlava da sola, altre alla gatta Mimì, una nuvola di pelo candido, dagli occhi azzurri di porcellana, che un cliente affezionato le aveva «sbolognato». Almeno, così sosteneva lei. «Amo’, guarda cosa ci si guadagna a essere troppo buone! Ti sbolognano un gatto e tu te lo devi pure mantenere!

Un’altra bocca da sfamare, te lo dico io! Non sai quanto mangia, questa.» Se ne lamentava, ma era solo una scena. In realtà, adorava la sua gatta. Anche quando i clienti avevano iniziato a diradarsi e gli affari a calare drasticamente, Vera comprava tutti i giorni per Mimì i fegatini di pollo dal macellaio e spendeva cifre esorbitanti nel negozio di animali del quartiere in raffinate confezioni di paté, straccetti e dadolate al salmone e gamberetti. Un giorno, sentendo un disperato miagolio, mi affacciai alla finestra. Era Mimì, da sola sul balcone. Si lamentava in modo straziante, guardando fisso davanti a sé. Pensai che Vera fosse uscita, dimenticandosi della bestiola. Guardando meglio, però, intravidi oltre i vetri l’inconfondibile sagoma in vestaglia e parrucca. Stava gesticolando, come se volesse tranquillizzare la micia. «Amo’, doveva per forza prendere aria, aveva vomitato!» mi spiegò poi, incredula che io le facessi una domanda su una questione così ovvia. Per lei «prendere aria» era diventata un’autentica panacea. Funzionava con tutti, uomini e gatti. Quel lamento era durato almeno mezzora. Non so se sia stato di giovamento per la povera Mimì, fatto sta che visse felicemente ancora per diversi anni. Nella sua versione pomeridiana, casalinga e borghese, Vera si trasformava in una dispensatrice di antica saggezza sotto forma di consigli. Erano del tutto strampalati, ma illustrati con una tale sicurezza da sembrare lì per lì assolutamente ragionevoli. Un’altra sua fissazione in fatto di salute, per esempio, era che se ti ammalavi dovevi mangiare. «Ieri ero a pezzi, pure la febbre mi è venuta, così mi sono fatta due panini con la mortadella» diceva, come se fosse stata la cosa più logica in quelle circostanze. Quanto al brodo di pollo, era addirittura «un antibiotico naturale». E non era lei ad affermarlo, ma «fior di dottori». I suoi consigli erano molto

pratici: «Ti sei beccato l’influenza? Prendi una coscia di pollo e mettila a bollire». In realtà, ho sempre avuto il sospetto che lei si divertisse un po’ alle nostre spalle. Come un bambino che chiede l’impossibile, per capire fin dove si può spingere nel mettere alla prova l’amore dei propri genitori, Vera sondava la nostra disponibilità a dargliele tutte vinte. E, in definitiva, a credere nel suo personaggio, qualsiasi cosa facesse o dicesse. Il tempo non è quasi mai pietoso con chi non si risparmia, e non lo è stato nemmeno con lei. Anno dopo anno, è invecchiata, mentre la sua parrucca si induriva, ormai ridotta a un ammasso di bostik, polvere, fondotinta, sudore e capelli: «Amo’, so’ veri, mica plastica, e non puoi sapere quanto mi so’ costati!!». Se n’è andata con un’uscita di scena silenziosa, senza alcun preavviso, a 69 anni. Un infarto nel cuore della notte. A trovarla è stato Fulvio, l’amico che a volte dormiva da lei. Era riversa sul letto, come se stesse riposando. Era venuta anche la polizia: la morte di una trans suona subito sospetta. L’avevano portata via in un sacco. Quella mattina pioveva forte e noi, ti ricordi?, dalla finestra, il cuore a pezzi, assistevamo alla scena, mentre quattro addetti la caricavano su un furgone. A pochi metri, il tavolino dove Vera negli ultimi tempi aveva trascorso tante ore sembrava salutarla melanconicamente. Per un attimo, mi era parso di vedere anche la sua tazza con il cappuccino. Forse, è solo andata un attimo in bagno «a rinfrescarsi», ho pensato. Forse ora torna. Quella notte tu avevi dormito come un sasso, mentre io non avevo chiuso occhio. Mimì, che avevamo ospitato in emergenza, aveva miagolato senza posa, aggirandosi per casa disorientata, in cerca della padrona. Era solo una sistemazione provvisoria, la nostra vita nomade non ci ha mai permesso di tenere un animale. Quando Fulvio, che si era offerto di prendersene cura, arrivò con il trasportino, Mimì vi si infilò fiduciosa facendo le fusa.

Dopo avere sperimentato ogni tipo di trasgressione ai principi cristiani, Vera negli ultimi anni si era riavvicinata alla Chiesa. Non ne parlava mai, ma io sapevo che spesso, nei suoi giretti pomeridiani, si spingeva fino alla parrocchia di via del Gasometro, dove si tratteneva a pregare e ad accendere un cero. In chiesa c’era un sacco di gente. Amici, vicini di casa e del quartiere, tantissime persone della comunità gay romana. Di parenti, però, non ne venne nessuno. Solo Enzo, l’adorato nipote, si fece vedere. «Ieri nostra sorella Vera ci ha lasciato» esordì don Giulio, dando inizio al rito. E con queste semplici parole instillò calore e consolazione nei nostri cuori addolorati. Un altro, al posto suo, avrebbe potuto trasformare quella triste occasione in un ulteriore supplizio, in una vana celebrazione dell’ipocrisia. Lui, invece, fece capire a tutti, se mai qualcuno avesse avuto un dubbio, che quel giorno eravamo lì per onorare e rispettare un’amica, che per l’intera vita aveva cercato soltanto di essere se stessa. A un certo punto, dal fondo della chiesa, si sollevò un certo tramestio. Nelle ultime panche si era appena accomodato un variopinto gruppo di trans, visibilmente determinate a mettersi in mostra. Alcune erano agghindate come per un’improbabile première hollywoodiana di un film a luci rosse; altre, fasciate a stento in tailleur color pastello, esibivano cappellini civettuoli che nemmeno la regina d’Inghilterra avrebbe osato portare. Insomma, una squadra di primedonne in cerca del proprio quarto d’ora di celebrità, costrette loro malgrado ad assistere a un trionfo altrui. Peggio, alla celebrazione della pioniera, della guida spirituale di tutte loro, di colei che per prima era riuscita a uscire dal cono d’ombra della notte per divenire un’icona della trasgressione anche alla luce dorata dei salotti radicalchic, tra chiacchiere pruriginose e coppe di champagne. Sentire addirittura un prete renderle omaggio era davvero troppo.

«Una persona così altruista, si dava sempre da fare per gli altri…» continuò don Giulio. Le trans invidiose, già pronte con i loro fazzoletti, ora invece se la ridevano. I doppi sensi fioccavano. Indescrivibili aneddoti venivano ricordati a bassa voce. «Mai che abbia chiuso la porta in faccia a qualcuno, mai che si sia negata…» proseguiva imperterrito il sacerdote, tra scoppi di pianto e di riso appena trattenuto. Mi avevi dato una leggera gomitata e, sebbene entrambi addolorati, anche noi non avevamo potuto fare a meno di sorridere. Vera, invece, sarebbe rimasta imperturbabile, godendo segretamente dell’invidia altrui. Se la sarebbe appuntata sulla scollatura come una medaglia. La cerimonia, ormai, volgeva al termine quando don Giulio, prendendo un po’ tutti in contropiede, chiese: «Qualcuno vuole dire qualcosa?». Nessuno di noi si era preparato un discorso per l’occasione. Salii sul pulpito dove era posizionato il microfono e, rivolgendomi direttamente a Vera, improvvisai un breve commiato. Sul finire mi commossi e le mie parole risultarono tremanti e impacciate. Sentii diversi amici soffiarsi rumorosamente il naso. Dopo di me parlò Valerio, e anche il suo intervento fu toccante. Per qualche secondo restammo raccolti in silenzio. Don Giulio stava per passare alle ultime fasi del rito, quando uno scalpiccio si levò dal fondo. Una trans enorme, quasi correndo, salì sul pulpito per prendere a sua volta la parola. Vederla lì, piazzata davanti al microfono, tra l’altare, il grande crocifisso d’argento e un affresco della Vergine Maria, faceva un certo effetto. I capelli color melanzana erano raccolti in una coda alta e cotonata. Indossava un abito rosso plissettato sull’abbondante scollatura e altrettanto abbondante addome, che cercava di coprire inutilmente, con studiato pudore, sistemandosi sulle spalle uno scialletto dorato.

Completava il look un paio di spaventosi stivali da spazzacamino, con la zeppa. Dopo aver gettato una lunghissima occhiata trasognata a quell’insperato pubblico – e quando mai le sarebbe ricapitata un’occasione simile? – estrasse lentamente il microfono dal supporto. Per un attimo temetti, chissà perché, che si sarebbe messa a cantare. Restammo qualche minuto con il fiato sospeso, finché quella urlò a pieni polmoni: «Grazie!». Poi tacque. Perché aveva ringraziato? Che cosa avrebbe detto ora? Ma la trans si limitò a ripetere un altro paio di «Grazie!» cambiando di tono, prima estasiato, poi drammatico, come se stesse mettendo alla prova le sue doti interpretative. Quindi, si precipitò, quasi inciampando tra i banchi, verso il proprio posto. Intanto, nella chiesa si diffondevano le note strazianti di La vie en rose cantata da Edith Piaf, come Vera avrebbe voluto. Quando ci ritrovammo sul sagrato, eravamo tutti commossi. Con Vera se ne era andato un pezzo delle nostre vite. Anche le trans si asciugavano le lacrime, mentre indossavano occhiali scuri dalle montature incrostate di strass e Swarovski. So cosa vorresti dirmi: la vita, per fortuna, continua a seminare manciate di leggerezza anche nei momenti più tristi. E infatti… C’eravamo appena accomiatati dagli amici e camminavamo con il cuore pesante fianco a fianco verso casa, che non era troppo distante. Quasi all’altezza della pasticceria dalle grandi vetrine colme di vassoi di cioccolatini e torte, alcuni colpi di clacson attirarono la nostra attenzione e una Panda verde mela ci superò sgommando. «Ciaoooooo!» Erano alcune trans che avevamo lasciato in lacrime cinque minuti prima, e ora si sbracciavano dai finestrini salutandoci allegramente, come se avessimo partecipato a una festa.

Una volta Vera mi confidò che avrebbe voluto essere cremata. È stato un secolo fa, prima di conoscerti. Era ancora giovane, ma allora ci accadeva spesso di pensare alla morte. Le cure che tengono sotto controllo l’Aids non erano ancora state scoperte e il virus non faceva che mietere vittime tra i nostri amici. Non era stato il timore del contagio, però, a ispirarla, ma un programma radiofonico. Si trattava, in realtà, di una trasmissione su Maria Callas. Sfidando i principi della Chiesa greco-ortodossa cui era fedele, la cantante aveva disposto di venire cremata e che le proprie ceneri fossero sparse nel mar Egeo. Vera era rimasta incantata da un’uscita di scena così spettacolare. Il mare greco, il sole infuocato, il motoscafo che solca le onde. E poi, i suoi resti, come polvere di stelle, sparsi sulle acque scintillanti… Cosa si poteva desiderare di più? Tornò sull’argomento solo un’altra volta, parecchi anni dopo. Come facevo ogni mese le avevo dato un po’ di soldi, e quella volta erano un po’ di più del solito. Sapevo che ne aveva bisogno. Lei, prendendo le banconote, se ne accorse subito e si mise a piangere per la gratitudine. Poi mi disse: «Amo’, quando muoio me devi brucia’». Ci misi qualche minuto a capire che con quella frase intendeva ricordarmi che voleva essere cremata. Cercai di stemperare la tensione facendo lo spiritoso. «Mi spiace davvero, ma non si può fare!» osservai. «Come, non si può fare?» esclamò, contrariata e confusa. «Con te non è possibile» rimarcai io allontanandomi. «Mi porterebbero indietro tre chili di silicone, altro che cenere!» Una sua ciabatta mi sfiorò la spalla. L’agenzia funebre, che si era occupata della cremazione, ci consegnò l’urna dopo pochi giorni. Per adempiere al nostro dovere e realizzare l’ultimo desiderio di Vera non era certo necessario andare fino in Grecia. Saremmo andati al Buco, sul litorale romano. Occorreva, però, una bella giornata. Quasi per farci dispetto, invece, quella settimana il cielo rimase coperto

da una spessa coltre di nubi. Sembrava sempre sul punto di piovere. Guardavamo di continuo le previsioni meteo, in attesa che ricomparisse il sole. Finalmente arrivò. Così, un pomeriggio, ci ritrovammo tra pochi amici per l’ultimo addio. Andammo a Ostia con l’auto di Valerio. Tu quel giorno eri particolarmente triste e taciturno. Non eri legato a Vera da anni di frequentazione, come lo eravamo noi altri, ma avevi perso da poco tuo padre e stavi rivivendo lo stesso dolore. Avremmo potuto sistemare l’urna nel baule della macchina, ma ci venne l’assurda preoccupazione che con le vibrazioni del motore si potesse aprire. Così viaggiai con quella scatola di metallo in grembo, tenendola tra le mani come un oggetto pericoloso, pronto a esplodere. Ricordi con che fatica l’aprimmo? Mi sentivo teso come un violino, le ginocchia tremavano, le dita parevano prive di forza. Posteggiammo davanti a un baracchino chiuso. Nell’aria c’era l’odore salmastro del mare d’inverno. La spiaggia era quasi deserta. Eccetto noi, le uniche presenze erano un uomo e il suo cane, che correvano in lontananza. L’acqua era grigia e appena increspata da piccole onde nervose. Quando fummo in riva al mare, all’improvviso, si alzò il vento e in un attimo la cenere ci volò addosso. Tu urlasti e io, per l’orrore, feci un balzo all’indietro, ma Valerio no, lo prese come un segnale ultraterreno. Sebbene ridotto in polvere, il fantasma di Vera cercava un ultimo abbraccio, prima di volarsene via. «Io la bacio!» gridava Valerio, agitando le braccia nell’aria e saltellando follemente sulla sabbia. E a quel punto, anche noi ci lasciammo andare e tutti insieme improvvisammo con lui una danza, liberatoria e infantile. Per incanto, ogni tensione era sparita. E mentre lottavamo con il vento, cercando la direzione giusta per consegnare Vera a quelle onde dove per tante estati aveva finto di nuotare,

accucciandosi a un metro dal bagnasciuga, il collo teso per non bagnare la parrucca, ci sentimmo finalmente in pace. Afflitti, sì, ma in pace. Se n’era andata, eppure la nostra cara, vecchia amica era ancora lì con noi, più viva che mai. Risaliti in auto, non smettemmo di parlare per tutto il viaggio di ritorno. Ci vennero in mente i ricordi più divertenti. Quella volta che si era fasciata le tette per andare a trovare i suoi. Quella volta di suo nipote. Quella volta… E giù a ridere fino alle lacrime. Non credo di avertelo mai detto, ma a un certo punto mi parve di avvertire le sue ossa aguzze contro i miei fianchi, come se mi stesse seduta accanto e volesse farsi spazio. E la sentii ridere con noi, per la prima volta nella sua vita.

VI

Il dono più bello

Hai sete? Nello zaino che hai tra le gambe c’è una bottiglia d’acqua. Se vuoi mi fermo, così ci sgranchiamo un po’. Non siamo in ritardo con il nostro appuntamento. Nessuno ci sta aspettando. Nessuno ci farà notare che ci abbiamo messo poco o, al contrario, troppo tempo, per addentrarci nella valle e arrampicarci su tra le montagne. Nessuno si accorgerà se arriveremo tra un’ora o tra un mese. Nessuno. Il mio lavoro, lo sai, è raccontare storie. Non le invento, mi limito a ricostruirle. È così che mi piace pensare. Raccolgo discorsi ascoltati in treno, brandelli di stoffa, pietre colorate, sogni a occhi aperti. Come un paziente artigiano, li osservo attentamente da ogni lato, cerco i punti di connessione, le aderenze, i contrasti, le armonie. Così tesso le mie trame, assurde e necessarie come la vita stessa. Cerco tesori nascosti in fondo ai cassetti, antichi segreti di famiglia che i diretti interessati non scopriranno mai. Immersi nelle preoccupazioni quotidiane, loro non sanno che, se quel giorno avessero perso l’autobus, avrebbero trovato l’amore che stanno ancora cercando. Che, se non avessero ignorato una certa telefonata, oggi sarebbero dall’altra parte del mondo. Non hanno la minima idea di essere stati i destinatari di un’e-mail urgente che avrebbe potuto cambiare loro l’esistenza e che, invece, si è persa nella casella sbagliata. Non sanno che per ogni decisione sofferta, un’altra, indipendente dalla propria volontà, è già stata presa. Osservo le loro mosse dall’alto, ogni segreta manovra del destino. Il vicolo dietro casa dove non si affaccia nessuna finestra, la riunione a porte chiuse, le pene d’amore del ragazzo che lavora alla pompa della benzina, la notte di sesso che ha fatto arrivare trafelata in ritardo la cameriera al bar questa mattina.

A volte, lo ammetto, mi diverto a truccare qualche carta. Provoco tempeste senza un alito di vento, trasformo oceani in laghetti vulcanici, rendo mite qualsiasi gelido inverno. Osservo le loro mosse, ogni segreta manovra del destino e ho l’illusione di poterlo governare. Tu sai, però, che illusione effimera sia la mia. Non mi sono mai sentito un dio onnipotente. E non ho nemmeno l’arrogante presunzione di chi guarda dall’alto un formicaio, diviso tra la curiosità e la voglia di distruggerlo con un calcio. Casomai, lo guardo con incanto, determinato a proteggerlo, a preservarlo. Io stesso sono una formica tra miliardi di formiche, però mi sono costruito una piccola collina immaginaria, dalla quale mi affaccio per osservare intorno e raccontare ciò che vedo. Ecco come mi sento. Una minuscola formica in un pianeta immenso, capace di percorrere chilometri alla conquista di una briciola di pane. Con la coda dell’occhio ti guardo. Sai di essere tu la mia briciola di pane. Scrivendo e girando i miei film ho sempre soddisfatto il mio bisogno di felicità. Per questo, oggi che me lo posso permettere, rifletto a lungo prima di accettare un lavoro che mi viene commissionato da altri. Non potrei mai dedicarmi a qualcosa in cui non credo, dove non riconosca almeno un pizzico di me. Ed è anche per questo che accetto di rado di girare spot per la pubblicità, nonostante si ostinino a corteggiarmi. Troppi paletti, troppe condizioni. E quante discussioni a casa, quando ti chiedevo il parere su una proposta in apparenza allettante, che però non mi convinceva sino in fondo! Curioso ed entusiasta come sei sempre stato, tu mi incoraggiavi a provare comunque, mentre io facevo resistenza. Ne valeva davvero la pena? Avrei avuto la possibilità di esprimermi, o sarei stato costretto a sottostare a indicazioni altrui, lontanissime dalla mia sensibilità? Me l’ero chiesto anche in quell’occasione, quando un’importante agenzia mi aveva contattato per la campagna di lancio di un nuovo profumo. Se alla fine ho accettato, è stato per merito tuo. Perché no, mi dicevi. Potrebbe venirtene qualcosa di bello. Be’, hai avuto ragione.

Se avessi rifiutato quell’incarico, infatti, non avrei conosciuto Rossella. E se Rossella non fosse entrata nella nostra vita, avremmo perso qualcosa di inestimabile, ora lo so. Per lavoro si incontrano molte persone. Volti e nomi che, spesso, svaniscono un minuto dopo che ti sono stati presentati. Fra i tanti, però, certi ti rimangono impressi. E qualcuno, poi, ti colpisce addirittura in modo non comune, come se una luce lo illuminasse da dentro, lasciando tutti gli altri in ombra. Al nostro primo appuntamento, nella sede dell’agenzia, una ex fabbrica ristrutturata dove dominavano i colori del mare, Rossella mi colpì immediatamente per la sua personalità forte eppure discreta. Gli occhi grandi, sebbene venati da un pizzico di malinconia, il sorriso dolce, la pelle trasparente, i capelli biondi e ricci: tutto in lei emanava generosità e intelligenza. Doveva affiancarmi nella scrittura del plot: mi bastò guardarla e scambiarci due chiacchiere per capire che le mie riserve non avevano ragione d’essere. Capita di rado di intendersi all’istante con uno sconosciuto, eppure a noi era successo. Quella sera stessa te ne parlai entusiasta. E solo un paio di settimane dopo Rossella era già qui, seduta al grande tavolo in cucina, invitata di riguardo a una «cena di famiglia». La nostra grande famiglia allargata. C’era Valerio, naturalmente, e gli altri amici più cari, quelli con cui, da anni ormai, condividiamo tante emozioni. Alessandro, che fa il dentista ed è così bello e affascinante; un tempo l’ho molto amato e continuerò sempre a volergli bene. Roberto che, invece, è il nostro medico di fiducia. Quante volte mi è capitato di chiamarlo, ipocondriaco come sono, per una mezza lineetta di febbre, o perché mi pareva di avere la pressione troppo bassa! Fossero solo questi i problemi, mi dirai. Già, fossero solo questi… Spesso penso che alimentiamo piccole paure per non pensare a quelle grandi. Ma Roberto non ha mai fatto distinzioni: mi ha sempre ascoltato con pazienza, tranquillizzandomi, rincuorandomi, dandomi coraggio. E poi c’era Giuseppe, che lavora da una vita per il cinema – oggi si occupa dei casting – e chiamiamo «Flash Back» per la sua abitudine di tenersi stretti molti segreti che puntualmente ci

rivela a qualche anno di distanza, riaprendo sorprendenti squarci nel passato. Infine, Stefano, che riesce a raggiungerci di rado, stanco morto com’è per quanto si ammazza di lavoro nella tavola calda dove fa il cuoco, dalle sette di mattina alle sette di sera. Un tempo, aveva un ristorante a Cremona, la sua città, ma qualcosa è andato storto e ha perso tutto. Si è rimboccato le maniche, è venuto a Roma e ha ricominciato da zero. Quando c’è, ci contagia con il suo coraggio. Tra noi, ci chiamiamo le «Mummie». Non mi ricordo nemmeno più chi, per primo, ha iniziato. Siamo un club molto esclusivo, pronto però ad accogliere a braccia aperte chi ci garba. Come Rossella, per esempio, che ormai ne è diventata un membro onorario, la nostra «Mummietta». Vegetariana convinta, il suo arrivo ha portato una piccola rivoluzione nelle nostre cene. La tavola si è riempita di verdure come non era mai successo. E non i soliti ortaggi diafani che trovi sotto strati di pellicola trasparente nel banco refrigerato del supermercato, ma meravigliosi prodotti della terra, pieni di colore e sostanze nutritive. Zucchine dai fiori polposi, piccoli peperoni saporitissimi, zucche che sembrano rubate dalle illustrazioni di una fiaba e, poi, sedani rapa, cavolfiori dalla struttura complessa, barba dei frati, carote appena colte nell’orto. Fin da quella prima volta, Rossella a ogni invito ha preso l’abitudine di presentarsi con un dono. E se non è un bouquet di cornetti e piselli o un cesto di melanzane e pomodori Pachino, è una prelibatezza fatta da lei, una crostata di farina integrale, una torta di bietole e ricotta, uno sciroppo di rosa. E noi, assidui mangiatori di bistecche, purché ben cotte, siamo stati conquistati. Quando avevo intuito nei suoi occhi un bagliore di tristezza, non avevo sbagliato: Rossella aveva un cruccio. Da tempo, voleva con tutta se stessa un figlio, ma non desiderava una famiglia tradizionale, un uomo accanto a sé. Me lo confessò una sera, davanti a una bottiglia di vino rosso. Ormai ci conoscevamo da tempo e dopo la prima volta eravamo tornati a collaborare in diverse occasioni. L’ultima era stata solo pochi mesi prima.

Stavamo appunto festeggiando perché il nostro spot aveva ricevuto un premio, ma all’improvviso era passata a parlarmi di questioni personali. Anche per una donna così riservata come lei, era venuto il momento di abbandonarsi alle confidenze. Oggi ha una compagna, una famiglia, allora era sola: una donna single, con una voglia di maternità che si faceva di giorno in giorno sempre più forte, ma che la società, opponendosi alla natura, non pareva disposta ad accogliere. Creare una famiglia, aspirare a un progetto di vita e di affetti. Mettere al mondo e crescere dei figli, essendo per loro un genitore premuroso. Avere il diritto di amare chi ami, nella buona e nella cattiva sorte, e non solo nel segreto delle mura domestiche, ma davanti alla legge, in un ufficio dell’anagrafe come in una stanza di ospedale. Che cosa c’è di più giusto? Perché tutto questo dovrebbe essere negato a chi ha l’unica «colpa» di amare una persona del proprio sesso? E perché dovrebbe avere meno diritti degli altri? Perché ci dovrebbe essere un solo tipo di amore, quando ne nascono tanti, differenti e speciali allo stesso tempo, ogni giorno? Mentre me lo chiedo mi vengono in mente i bellissimi versi di Pablo Neruda. Se saprai starmi vicino, e potremo essere diversi … Allora sarà amore e non sarà stato vano aspettarsi tanto.

Li ha citati il sindaco di Roma, quando ha celebrato in Campidoglio i primi matrimoni tra persone dello stesso sesso. O, meglio, la loro trascrizione ufficiale, visto che erano già stati convalidati all’estero, in Paesi dove le unioni civili non sono un privilegio di alcuni, ma un diritto riconosciuto per chi si ama, a prescindere dal genere cui appartiene. Se avessi potuto, in mezzo alla folla accorsa a festeggiare quegli uomini e quelle donne favolosi, così carichi d’amore, ci sarei andato anch’io. Ti avrei portato con me tenendoti per mano per non perderti, e avremmo gioito insieme a loro.

Non deve più succedere che mentre il tuo compagno di una vita intera si consuma in solitudine, tra le sofferenze della malattia, tu venga respinto tra i visitatori in un’anonima sala d’attesa, perché qualcuno ti dice che per lui non sei nessuno. E intanto che sei lì, a macerarti dall’angoscia, senza poter fare assolutamente nulla se non sperare nella sensibilità di un medico o di un infermiere, arrivano i suoi familiari, gli stessi che l’hanno sempre giudicato, e ti passano davanti, guardandoti dall’alto in basso come un reietto. Mi escono queste parole come un fiume in piena, tanto è forte l’amarezza che queste situazioni mi suscitano. A noi no, non è successo. Noi siamo stati fortunati. E non lo dico con ironia: anche nei momenti peggiori, abbiamo avuto una buona stella che, da Lassù, ci ha protetto, tenendoci insieme. Ma a quanti amici, invece, è accaduto e ancora accadrà? Un incidente banale, una corsa in autoambulanza a sirene spiegate, una veglia al pronto soccorso in attesa del medico di guardia, un intervento andato male. E ogni cosa cambia. Solo al secondo brindisi, Rossella trovò il coraggio di chiedermelo chiaramente. Se l’avessi aiutata, se avessi acconsentito a diventare il padre biologico di suo figlio, lei sarebbe stata la persona più felice del mondo. Il ginecologo era stato chiaro: più passava il tempo e meno probabilità aveva di restare incinta e portare felicemente a termine una gravidanza. L’orologio biologico se ne infischiava di leggi, divieti e restrizioni. Rimasi ammutolito. Non dico che il pensiero di un figlio non mi avesse mai sfiorato la mente, ma l’avevo archiviato con l’etichetta «impossibile». Per me era un discorso chiuso, anzi, nemmeno mai aperto sul serio. Fui subito sincero con lei, a costo di essere brutale. Le spiegai che la sua era una richiesta enorme. L’istinto paterno senz’altro è meno viscerale di quello materno, ma lo devi sentire. Non è una funzione che puoi mettere in modalità «on» solo perché te lo chiede un’amica. Occorre si sia già acceso per conto suo, dentro di te, ancor prima che un qualsiasi fattore esterno te ne ricordi l’esistenza.

Non basta provare una generica tenerezza per i bambini, o compiacersi dell’idea di avere un erede, qualcuno nelle cui vene scorre il tuo stesso sangue. Mettere al mondo un figlio è una grandissima responsabilità. Bisogna essere davvero molto giovani o incoscienti per prendersela. E io non ero più tanto giovane, e incosciente, perlomeno in questo senso, non lo ero mai stato. Lì per lì, Rossella ci restò male. Nonostante si premurasse di spiegarmi che capiva assolutamente le mie ragioni e che, anzi, si scusava di avermelo addirittura chiesto, la voce le si era fatta sottile sottile. «Sai, sei il primo a cui l’ho domandato… Ti voglio così bene… Non me lo sarei mai perdonata, se non ci avessi almeno provato» aggiunse. Tentai di consolarla: avrebbe trovato di sicuro un’altra soluzione. Ciò che fino a ieri era impossibile, oggi era una pratica diffusa, consolidata e alla portata magari non di tutti, ma quasi. Le promisi anche che te ne avrei comunque parlato. Le avevo risposto per me stesso, certo non per te. Sapevo, però, che avresti avuto una reazione identica alla mia. E non solo perché in passato avevamo in più occasioni affrontato l’argomento figli, trovandoci d’accordo. Dopo anni che ti svegli ogni mattina con una persona accanto, che condividi con lei buona parte delle tue giornate, che parlate, mangiate, andate al cinema, vi scambiate lo shampoo sotto la doccia, alla fine si crea un’empatia assoluta. Sai cosa sta pensando, prima ancora che abbia avuto bisogno di dirtelo. Sai già che quel libro gli piacerà e che quel tizio, invece, gli starà immediatamente sulle scatole, mentre per quell’altro, trovandolo divertente, inventerà un soprannome spassoso. Ma questo non significa che non abbia più sorprese da regalarti: semplicemente, lui è la tua vita e tu la sua, e mille fili invisibili, come terminazioni nervose, vi legano facendovi risuonare in tutto quello che fate. E non è solo una questione mentale. Ti sei mai accorto che, come me, da anni hai l’abitudine di fare una smorfia buffa, accompagnata da un’alzata di spalle, per sottolineare che qualcosa non è andato come previsto? E

che certe parole e modi di dire, con il tempo, sono diventati il nostro intimo lessico famigliare? Ci assomigliamo nei gesti, nei vezzi, nei modi di fare, proprio come certi figli assumono gli stessi atteggiamenti dei padri ed è per loro così naturale che nemmeno se ne accorgono. Mi guardo di sfuggita nello specchietto retrovisore e l’immagine del tuo viso trasognato si sovrappone alla mia. I tuoi occhi sembrano persi in un qualche luogo indefinito e oscuro, sprofondato negli abissi della tua anima. Per un attimo, un fremito ti scuote le ciglia, lunghe e arcuate, come quelle di un adolescente. Riusciremo ancora a trovare quelle parole che ci uniscono? Sarò capace di continuare a lottare, a illuminare il buio nel quale sento che ti sto smarrendo? Mentre me lo chiedo ho già la risposta: chi ama non si arrende mai. Qualche giorno dopo, Rossella mi telefonò. Nonostante avesse incassato anche il tuo rifiuto, era ottimista e ancora determinata a realizzare il suo sogno. Mi spiegò che aveva intenzione di chiederlo anche agli altri, a Valerio e ad Alessandro, per iniziare. Conoscendoli, ero quasi certo che nessuno di loro se la sarebbe sentita, ma mi guardai bene dal farglielo capire. E poi, chissà, magari, mi sarei dovuto ricredere. In realtà, conoscevo bene i miei amici. Uno dopo l’altro, le dissero tutti di no. Una situazione come questa, in altre circostanze e con altri protagonisti, avrebbe potuto decretare anche la fine di un’amicizia. E invece no, il legame che ci univa divenne ancora più forte. Chiedendoci il nostro aiuto, Rossella ci aveva regalato qualcosa di prezioso, la sua fiducia, la sua considerazione. Quanto a noi, lei ora sapeva che in ogni caso non l’avremmo mai lasciata sola. In quei giorni, non facevamo che telefonarci e messaggiarci, scambiandoci pareri, confidandoci dubbi e certezze, condividendo scelte e pensieri che, pur frequentandoci da anni, non avevamo mai ritenuto di esprimere, fino ad allora. Nessuno di noi sarebbe stato il padre biologico del suo bambino, ma tutti, in egual misura, saremmo stati in qualche modo presenti nella sua futura vita. Sarebbe

stato, se non un figlio, un nipote, amatissimo e prediletto. Perché quel bambino sarebbe nato e su questo non c’era più alcun dubbio. Eravamo in tanti, ora, a desiderarlo. Ci stringemmo intorno a Rossella come fratelli animati da una sollecitudine febbrile, impazienti di riempirle la casa di corredini, ciucci, passeggini e ogni sorta di accessori per il bebè. Lei, intanto, si era informata. Fare un figlio da sola non era poi così difficile. Certo, se avesse potuto rivolgersi a un centro italiano sarebbe stato meglio ma, poiché la legge non lo permetteva, come molti altri sarebbe andata all’estero. Avrebbe cercato una clinica specializzata in fecondazione artificiale, in un Paese che la consentiva. Ce lo annunciò una sera a cena. Dibattemmo a lungo sul significato di quell’aggettivo, «artificiale», che tanti pronunciavano con toni di condanna. Che aveva di così diverso, rispetto a «naturale», quando in entrambi i casi, alla fine, la natura, fregandosene dei divieti degli uomini, rendeva tutto quanto meravigliosamente possibile? Rossella, che ormai sull’argomento era preparata, ci spiegò che al momento per la legge italiana le tecniche di procreazione assistita erano permesse solo alle coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età fertile, i cui partner fossero entrambi viventi. Per intenderci, se alla scoperta di un male incurabile dal decorso fulminante un uomo avesse voluto donare alla moglie la possibilità di avere comunque un figlio da lui anche dopo la morte, la crioconservazione dello sperma lo avrebbe permesso, ma la legge no. Ed era in ogni caso vietato a tutti ricorrere alla fecondazione eterologa, cioè utilizzare il seme di un donatore. Un’amica le aveva parlato bene di una clinica di Barcellona e lei, dopo aver visitato il sito online, aveva contattato la loro segreteria. Una gentile addetta, parlando in italiano, aveva risposto con estrema cortesia a tutte le sue domande, invitandola a fissare un primo appuntamento informativo. Ce lo disse raggiante di felicità, perché ormai aveva deciso.

Eravamo i primi a saperlo: ai familiari l’avrebbe comunicato in un secondo momento. «Voglio loro bene, ma ho paura che possano provare a farmi cambiare idea. Glielo rivelerò più avanti, a cose fatte, quando non potrò più tornare indietro» ci confidò. Da quel momento in poi, ogni sua mossa veniva discussa come un «affare di famiglia». Eravamo tutti coinvolti. Nel giro di pochi giorni, Rossella aveva già preso appuntamento per la settimana dopo. Valerio si offrì di accompagnarla a Barcellona. Sarebbero partiti di pomeriggio sul tardi, per presentarsi alla clinica il mattino successivo. Tu e io li portammo in auto all’aeroporto. Di ritorno verso casa, quanto abbiamo scherzato sul fatto che Valerio sembrava più emozionato di lei! La sera stessa del loro rientro, organizzammo una cena da noi per fare il punto della situazione. Rossella era raggiante e Valerio pure. A Barcellona tutto era andato per il meglio, anche oltre le sue stesse aspettative. Attraversando la città in taxi per raggiungere la clinica, l’appuntamento era alle dieci e mezzo, lei si era immaginata il solito edificio freddo e asettico, tutto cemento, vetri e acciaio, una via di mezzo tra un ospedale e un ospizio di lusso, e invece si erano trovati davanti un antico palazzo in stile catalano, ristrutturato con eleganza. Gli interni erano caldi e accoglienti e il personale di rara cortesia. In sala d’attesa, aveva familiarizzato con una coppia italiana e una donna francese. Dopo un iniziale scambio di sorrisi, avevano finito per raccontarsi ciascuno la propria vita. Si erano trovati immediatamente in sintonia: vittime degli stessi pregiudizi, ma accomunati da un’identica speranza. Il medico era una donna, la dottoressa Perales. L’incontro si era svolto in un clima del tutto disteso e informale, ma questo non aveva impedito alla specialista di sottoporla a una lunga serie di domande, necessarie per appurare il suo stato di salute, eventuali problemi e difficoltà. Le aveva parlato anche dei donatori, che venivano selezionati secondo criteri molto rigidi, solo dopo aver superato esami clinici e test psicologici.

Rossella era particolarmente sensibile su questo aspetto. Chiunque fosse, quell’uomo avrebbe trasmesso al futuro bambino metà dei caratteri ereditari e, con essi, chissà cos’altro. La normale procedura prevedeva la scelta del gruppo etnico di appartenenza, se caucasico, asiatico, africano… Ma Rossella aveva ben altre preoccupazioni: avrebbe voluto conoscerne anche il carattere. «Non mi importa il colore della sua pelle, solo una cosa mi interessa: che sia buono!» aveva esclamato. La dottoressa era sembrata un po’ sorpresa dalla sua richiesta, ma poi aveva sorriso. «I bambini diventano ciò che assorbono e respirano. La bontà non è una questione di Dna: è in massima parte l’ambiente in cui crescono a renderli ciò che sono» le aveva risposto. Arrivata a questo punto del racconto, Rossella tacque e noi ci zittimmo commossi insieme a lei. L’ambiente in cui quel bambino sarebbe cresciuto eravamo noi, e a noi spettava circondarlo di bontà. Da Barcellona Rossella si era portata via un’immagine che le era apparsa come uno straordinario segno di buon auspicio. Rientrata in albergo – alloggiava all’ultimo piano di un edificio che dava sul porto – si era affacciata alla finestra per guardare distrattamente il panorama. Erano i primi giorni di primavera, l’aria era limpida e la vista magnifica. Ripensava ancora all’incontro appena avvenuto e al lungo cammino che l’aspettava, quando aveva scorto proprio davanti a lei, sotto il tetto, un nido di erba secca, ramoscelli e, forse, alghe. Al centro, intenta alla cova, se ne stava, immobile, una gabbianella. Da lì a poco, lei sarebbe uscita con Valerio per un giro nella città vecchia. Si era fatta una doccia e, quando era tornata a guardare fuori, l’animale era ancora al suo posto. Quella sera, rientrata in albergo dopo una deliziosa cena a base di paella, crema catalana e nuovi progetti per il futuro, appena in stanza era corsa a controllare: ed ecco la sagoma scura appollaiata, il

becco lungo e ricurvo, stagliarsi contro la parete, illuminata dai fari esterni dell’hotel. Agitata com’era, quella notte Rossella si era svegliata spesso. Ma ogni volta, le era bastato constatare che la gabbianella era ancora là, a guardia delle sue uova, per ripiombare nel sonno. Il mattino successivo, appena aperti gli occhi, aveva sentito un frullare d’ali: era arrivato il maschio, grande quasi il doppio, a darle il cambio. Solo allora, infatti, la gabbianella si era alzata in volo. Ma restò via appena il tempo di procurarsi del cibo: nel giro di pochi minuti, era già di ritorno. «Non credo nel caso: è stato un segno. Qualcuno mi ha voluto dire che, anche se non sarà una passeggiata, andrà tutto bene. E che ho preso la decisione giusta. Perché qualsiasi essere vivente è pronto ad affrontare ogni contrarietà per far nascere una nuova vita» aggiunse Rossella con un filo di voce, quasi parlando a se stessa, nella commozione generale. Non è stata una passeggiata per Rossella, ma tutto ha funzionato in modo quasi miracoloso. Nonostante i timori iniziali, la sua famiglia le fu da subito vicina. Iniziò a sottoporsi ai trattamenti ormonali, indispensabili per consentire il passo successivo, ovvero il prelievo degli ovuli per la fecondazione in vitro. Alle nostre cene ci teneva aggiornati. Spesso queste procedure portano con sé pesanti effetti collaterali, sbalzi d’umore, disturbi di vario genere, insonnia, mal di testa. Rossella, invece, non si era mai sentita meglio in vita sua. Si prendeva cura di se stessa, faceva meditazione e praticava quotidianamente lo yoga. Aveva invece accantonato per un po’ la dieta vegetariana: la dottoressa Perales le aveva detto che non era adatta per sostenere la gravidanza. Tutto procedeva per il meglio e un mese dopo, ad aprile, tornò a Barcellona per l’intervento. Questa volta, ad accompagnarla, oltre a Valerio in nostra rappresentanza, c’era sua madre. Mentre era in volo le mandai un messaggio: «Auguri Ciccia, torna con tre gemelli!». Volevo lo leggesse

appena sbarcata dall’aereo, per farle sentire quanto tutti tifassimo per lei, quanto affetto, quanta energia positiva la circondasse. L’ambiente «buono», su cui contava, stava già preparando il nido. Il prelievo degli ovociti, che poi sarebbero stati fecondati, cadde proprio il giorno di Pasqua: Rossella lo prese come un altro messaggio del destino, un invito a tenere duro, a continuare. Ora, infatti, si trattava di aspettare l’esito dell’operazione. Tra lei e Valerio, ogni giorno ci scambiavamo decine e decine di messaggi e telefonate. Ma più noi eravamo sull’orlo di una crisi isterica per l’attesa, e più Rossella, invece, ostentava una calma assoluta. «Appena chiudo gli occhi, rivedo la gabbianella: è come se stesse covando le uova per me» mi rassicurò al telefono. Era lei che tranquillizzava me! Si trattenne in Spagna quasi un mese e quando tornò a Roma non era sola. Quindici giorni dopo, le analisi dettero conferma: uno dei due embrioni che le erano stati impiantati aveva attecchito. Rossella era incinta e noi tutti eravamo folli di felicità. Alla prima ecografia non era chiaro, ma alla seconda non ci fu più alcun dubbio: era una bambina! I giorni passavano, la pancia di Rossella cresceva, e noi, come vecchi zii amorevoli, seguivamo ogni progresso e fantasticavamo sul nome più appropriato. Là dentro c’era una creatura piena di vita, che faceva capriole, giocava, saltava, a volte aveva addirittura il singhiozzo. Era una delizia appoggiare la mano su quel ventre perfettamente rotondo, per seguire le sue evoluzioni. Parlavamo sottovoce per non disturbarla, quando pareva dormisse, le facevamo ascoltare Mozart e Vivaldi, per trasmetterle armonia non appena la si sentiva muovere. Ci demmo così da fare, che pensò bene di arrivare prima del previsto! A pochi giorni da Natale, in leggero anticipo sui tempi, è nata Luce. Una creatura minuscola, fragile e affamata, che

pure era riuscita a cambiare l’esistenza a talmente tante persone, prima ancora di venire al mondo! Io ero nel mio studio, intento a scrivere una nuova sceneggiatura, tu eri in montagna per sistemare un recinto, quando Valerio ci mandò il messaggio: «È nata!!!». La piccola stanza del reparto maternità era affollata di amici e parenti al settimo cielo. Noi Mummie eravamo quasi al completo, mancava solo Stefano, che non era riuscito ad allontanarsi dalla tavola calda. Sembravamo tanti re Magi, ciascuno con il suo prezioso dono, le scarpine di lana, l’orso di peluche, il carillon con la Sinfonia degli animali, il libro di gomma pieno di pulsanti da toccare e, persino, leccare… Quanta felicità può portare un bambino in una casa? E quanta gioia ci regala Luce, che oggi ha 8 anni, ogni volta che viene a trovarci o che andiamo a prenderla a scuola per passare un pomeriggio insieme! L’abbiamo vista crescere, gattonare, sporcarsi il mento con la prima pastasciutta al sugo. L’abbiamo aiutata a camminare, finché si è retta sulle sue gambe. E anche se siamo solo degli «zii», sebbene molto speciali, grazie a quel miracolo che si è compiuto davanti ai nostri occhi, ci siamo sentiti più in pace con il mondo. Con lei siamo tornati bambini e ci siamo sentiti più grandi.

VII

Il Buco

Immagina di uscire una mattina per strada e scoprire che non c’è un negozio aperto. Tutte le serrande sono abbassate e non è domenica. Fa un caldo assurdo, ti guardi in giro e non vedi nessuno. Le strade sono vuote, i semafori scattano sul rosso e poi sul verde, senza che alcuna auto appaia all’orizzonte. Inizi a pensare che forse sei l’unico uomo rimasto sulla terra, dopo che un virus letale o, chissà, una nube atomica, ha annientato il resto dell’umanità. Ti viene persino in mente 1975 – Occhi bianchi sul pianeta Terra, un vecchio film di fantascienza con Charlton Heston, che ti aveva impressionato da bambino. Ma non si tratta di un morbo invisibile e nemmeno di un cataclisma nucleare: è solo il 10 di agosto e tutti se ne sono andati in vacanza. A me, che non sono nato in Italia, l’esodo estivo ha sempre colto di sorpresa. Ora le città non si svuotano più come una volta. Chi ha un posto di lavoro se lo tiene stretto, non lo abbandona per quattro settimane di fila. E chi non ce l’ha, non possiede nemmeno i soldi per andare chissà dove a divertirsi. Ma negli anni Ottanta avere un impiego non era un lusso e le vacanze potevano durare anche un mese. L’Italia intera abbassava le serrande per ferie e chi, come me, non partecipava al grande rito collettivo, improvvisamente si ritrovava, insieme a pochi altri, a spadroneggiare per strade e piazze deserte. La sola difficoltà, peraltro superabile, era trovare l’unico negozio aperto di tutto il quartiere. Abbandonare la città per trascorrere lunghe vacanze altrove, possibilmente in un luogo lontano ed esotico, per molti non solo era un’abitudine irrinunciabile, ma un obbligo sociale, uno status symbol. Oggi ci si indebita per comprare lo smartphone ultimo modello, e magari non si hanno nemmeno i soldi per mangiare, un tempo si ricorreva agli strozzini pur di pagarsi un soggiorno al mare in un monolocale in

multiproprietà. Oppure, si fingeva di partire alla volta di mete sconosciute e ambitissime e, invece, ci si chiudeva in casa per giorni e giorni, con la dispensa piena di viveri e flaconi di olio abbronzante, come faceva Gigi. Questo, però, lo si è scoperto solo dopo almeno un paio di «vacanze da sogno». Il suo problema era che amava ostentare una certa agiatezza, peccato che invece non possedesse un soldo. Nonostante ciò, magicamente, a metà luglio annunciava a tutti che quell’estate sarebbe andato in Madagascar, a Mauritius o alle isole Fiji, beandosi dell’invidia generale. E da inizio agosto, dopo un ultimo giro di saluti agli amici – «Parto domani! Ci rivediamo tra quindici giorni!» – , effettivamente non lo si vedeva più in giro finché, verso il 30 del mese, ricompariva abbronzatissimo e raggiante. «Hai ricevuto la cartolina? No? In Madagascar le poste sono davvero un disastro! Comunque, laggiù è un paradiso. Ho ancora quel mare davanti agli occhi. E le palme, le noci di cocco!» Per almeno due settimane, ogni volta che si presentava al bar, intorno a lui si formava un capannello di curiosi che pendevano dalle sue labbra. Volevano sapere com’erano le spiagge «laggiù». Si trovavano davvero enormi conchiglie tra la sabbia? E la barriera corallina? E i frutti esotici? E, soprattutto, com’era andata con i mandingo? Avendo un’idea confusa della geografia, ritenevano che tutti i luoghi esotici fossero popolati di «mandingo» dalle forme (e gli attributi) scultoree. Così Gigi, traslucido e color mogano come una scultura lignea di se stesso, godeva la sua stagione di popolarità. Si limitava, però, a dispensare briciole di informazioni con fare circospetto, evitando di scendere troppo nei particolari, come se confidasse malvolentieri un segreto per pochi intimi. Una reticenza che ai più suonava come una forma di snobismo, ma che ad alcuni, con il tempo, iniziò a parere sospetta. Il divario tra il suo abituale tenore di vita, alquanto frugale – faceva il commesso in un centro commerciale –, e quei

soggiorni dispendiosi, infatti, finì per scatenare lo spirito investigativo di alcuni amici parecchio maliziosi. In seguito ad accurate indagini e lunghi appostamenti, emerse la verità. Gigi, dopo gli ultimi saluti, faceva solo finta di partire. In realtà, si tappava in casa per tutto il periodo del «viaggio». Sopravviveva nutrendosi di scatolette e cibi surgelati, di cui aveva fatto scorta in precedenza. Non rispondeva al telefono e, naturalmente, nemmeno al citofono. Prendeva, però, il sole ogni giorno, stendendosi furtivamente sul pavimento del balconcino – abitava a un piano alto – del suo appartamento. Avrebbe potuto godersi l’estate al Buco, nuotando e abbronzandosi in compagnia, tra le dune nostrane, e invece, prigioniero di sogni di grandezza, si arrostiva in solitudine, steso su nude piastrelle nell’afa cittadina. Roma ad agosto era bellissima. Priva di traffico e di folla, tornava a essere un luogo magico e senza tempo, rivelando scorci che di solito restavano nascosti, chiese e palazzi meravigliosi davanti ai quali durante il resto dell’anno passavi di corsa, senza degnarli di uno sguardo. Facevo parte, ormai, di una comunità ristretta di sopravvissuti alla calura pomeridiana, che al tramonto si riuniva per spettegolare amabilmente, sorseggiando un bicchiere di vino bianco e organizzando programmi per la serata. Se di giorno regnava ovunque la desolazione, infatti, con il calare delle tenebre l’atmosfera si animava: drappelli di gente che parevano comparire dal nulla si radunavano intorno ai pochi locali aperti e ai più numerosi eventi estivi. Come falene impazzite, attratte dalla luce dell’unico lampione acceso nella notte, ci accalcavamo disordinatamente sul marciapiede urtandoci con i gomiti e scambiandoci informazioni come cospiratori. Durante la settimana e, qualche volta, anche di sabato, ci si incontrava al Buco. Era la nostra spiaggia, un angolo di paradiso incontaminato, lungo il litorale di Ostia. Se era rimasto miracolosamente indenne al degrado circostante, in realtà una ragione c’era e non aveva nulla di soprannaturale. Faceva parte di una vasta tenuta di proprietà della presidenza

della Repubblica ed era protetto su ogni lato, tranne che sul mare, da un’alta recinzione rinforzata dal filo spinato. Si era così mantenuta negli anni come un’oasi riservata a pochi privilegiati, perlopiù dipendenti del Quirinale e loro familiari. La maggior parte del tempo, però, la spiaggia restava deserta, mentre a pochi passi in linea d’aria i popolari lidi della zona traboccavano di bagnanti. Questo, finché un coraggioso gruppetto di esuberanti adoratori del sole non aveva tagliato la fitta rete metallica e da quel buco – da lì il nome – avevano iniziato a entrare decine di uomini e ragazzi in cerca di un luogo appartato dove abbronzarsi, sì, ma anche sentirsi liberi, incontrarsi, amarsi. Grazie al passaparola, in breve tempo il Buco era diventato la meta preferita di una variegata popolazione di habitué all’ottanta per cento omosessuali. Ma il fascino di quel luogo trasgressivo attirava chiunque amasse la libertà: intellettuali, anarcoidi, nudisti, fricchettoni, giovani ribelli. Il mare, la sabbia fine, le passeggiate sul bagnasciuga, le confidenze sotto l’ombrellone ascoltando Alan Sorrenti a tutto volume da una radio portatile a pile. In spiaggia si consumavano i soliti rituali tra bagnanti, forse un po’ più caciaroni degli altri. Dietro, oltre le prime dune, però, era il regno del sesso selvaggio. Punto di riferimento e luogo degli incontri era la Cattedrale, nome alquanto irrispettoso con cui veniva familiarmente chiamato una specie di altopiano, in posizione strategica. Lassù ci si andava per una cosa sola, e non era guardare il panorama. Ti facevi un giro, il corpo abbronzato coperto solo dagli slip, a volte nemmeno quelli, incrociavi lo sguardo di un ragazzo che ti piaceva ed ecco che ti infrattavi con lui in un angolo appartato. Tra quelle colline tondeggianti, si insinuavano valli profonde e intimi séparé dove ci si amava così, sotto il sole rovente, acquattati tra i cespugli. Dalla spiaggia alle dune era un continuo viavai. Ma non c’era nulla di vizioso, laido o perverso, e niente veniva fatto senza che lo si volesse. Eravamo come giovani semidei di una civiltà primitiva, splendidi, immortali, e padroni del proprio

corpo. Vivevamo allo stato brado, ubbidivamo solo alle leggi universali del piacere. All’epoca stavo con Valerio. Ero, come si dice, felicemente fidanzato. Al Buco ci andavamo insieme e in Cattedrale non salivamo mai. Non ne sentivamo il bisogno: avevamo già tutto ciò che desideravamo dall’amore. Ci godevamo, però, il mare immersi in quell’atmosfera inebriante. L’aria era satura di iodio, ormoni e libertà. E fra una chiacchiera e l’altra nascevano idee, sbocciavano amicizie interessanti, mondi che altrimenti non si sarebbero mai nemmeno sfiorati si davano appuntamento in riva al mare per scoprire di non essere, poi, così distanti. Anzi, di avere un cuore che batteva allo stesso ritmo. Il regista francese Paul Vecchiali, che nel 1988 fu tra i primi a parlare in un film, Encore, di omosessualità e Aids, una volta ha affermato che il mondo gay è il solo a realizzare il vero comunismo, perché unisce tutte le classi sociali, senza distinzioni. Oggi anche tra gli omosessuali si sono erette barriere che separano i poveri dai ricchi, gli acculturati dagli ignoranti, e paradossalmente queste divisioni si sono acuite via via che si è diffusa una maggiore libertà sessuale. Più che i gusti erotici e sentimentali, infatti, nella vita uniscono i divieti: quando questi ultimi cadono, ecco che ci si imborghesisce. Si avvia quel processo di standardizzazione che porta con sé le gerarchie di sempre. Ma allora, nei primi anni Ottanta, la società era una foresta di pregiudizi nella quale ci aggiravamo in punta di piedi. Troppi tabù pesavano sulle nostre spalle. Viceversa, un mutuo soccorso estremamente efficiente ci sosteneva legandoci l’uno all’altro con fili invisibili e sotterranei, che solo noi sapevamo riconoscere. A Roma questa rete di uomini discriminati, che avevano fatto della discrezione la loro filosofia di vita, veniva chiamata la «banda di velluto», per il suo modo felpato di agire, ma anche perché tra le sue file si nascondevano diverse personalità del mondo della cultura e dell’arte, intellettuali, persone colte e raffinate. Avevi bisogno di un medico? Di un

impiegato all’anagrafe che ti aiutasse a recuperare un documento? Di un architetto per arredarti casa? Di un idraulico per aggiustarti un tubo? La «banda di velluto» aveva i suoi uomini dappertutto. Al Buco eravamo tutti uguali. Ti capitava di far tardi guardando il tramonto con lo scrittore Goffredo Parise e la sua compagna, mentre un ragazzo tutto muscoli e fasci di nervi, le mani ruvide e le unghie sporche di grasso, raccontava quanto fosse duro lavorare in un’officina dalle otto di mattina alle sette di sera. Un altro frequentatore abituale della spiaggia era Piero Tosi, il costumista preferito di Luchino Visconti, premio Oscar 2013 alla carriera. Conversare con lui era un piacere. Aveva sempre aneddoti straordinari da raccontare e io bevevo le sue parole senza mai stancarmi. Si divertiva, in particolare, a raccontare della rivalità tra Visconti e Fellini, al di là delle pubbliche dichiarazioni di reciproca stima. A una prima del regista di Rocco e i suoi fratelli, Fellini, che era seduto vicino a Tosi, aveva sbuffato tutto il tempo, agitandosi sulla poltrona e borbottando critiche feroci. Non appena si erano accese le luci in sala, però, era accorso da Visconti complimentandosi calorosamente con lui per lo «splendido film». Oggi scene così sarebbero impensabili: non ci si preoccupa più nemmeno di salvare le apparenze scambiandosi dei falsi complimenti. Piero nel tempo è diventato uno dei miei più cari amici. Ancora oggi, lo sai, gli faccio leggere tutte le sceneggiature: il suo giudizio mi è prezioso. A volte riesce a essere davvero spietato, ma su di lui posso sempre contare perché so che mi dirà comunque la verità. Più di una volta i suoi consigli si sono rivelati essenziali per il mio lavoro. Era maniacale nella cura dei dettagli e me ne accorsi a mie spese quando collaborò a un mio film. Restammo chiusi in una stanza per tre giorni per decidere nei minimi particolari il trucco e gli abiti di Lucia Bosè. D’altra parte, non ci si improvvisa uno dei più grandi costumisti e scenografi del cinema italiano, di film come Il Gattopardo di Visconti e Satyricon di Fellini! Più di recente, stavo lavorando a un soggetto che raccontava di un gruppo di fantasmi attori e non trovavo il

finale che mi soddisfacesse. Gliene parlai e lui, allora, mi provocò: «Cosa avrebbe fatto Pirandello al posto tuo?». «Li avrebbe portati a teatro in tram!» gli risposi senza pensarci due volte. E fu così: io feci andare quegli attori in tram al Teatro Valle, proprio nella storica sala dove nel 1921 si era svolta la prima di Sei personaggi in cerca d’autore. Quando ci incontravamo al Buco e io ero ancora un ragazzo di belle speranze, però, Piero non mi spronava affatto a darmi da fare per costruire il mio futuro. Al contrario, mi esortava a prendermela comoda. «Divertiti! Nella vita alla fine questo è l’importante!» non mancava di ripetermi. Spesso i nostri teli da mare si trasformavano in una sorta di tappeti volanti pieni di mercanzie, soprattutto dischi. A portarli era Elio. Riusciva non si sa come a sottrarne a decine dagli studi di RadioStereoRai, dove lavorava, e ce li vendeva lì, direttamente in spiaggia, come un ambulante al mercato rionale. Erano perlopiù 33 giri di Mina, Patty Pravo o Giuni Russo. Quando uscì Un’estate al mare, divenne subito tra le nostre colonne musicali preferite. Partivamo per il Buco la mattina abbastanza presto, per essere lì verso le 10. La sera precedente ci si telefonava per mettersi d’accordo. Era faticoso raggiungerlo con i mezzi pubblici: occorreva prendere la metro, poi un autobus e, quindi, fare un paio di chilometri a piedi sotto il sole. Perciò la mia Cinquecento era ambitissima: spesso ci stavamo anche in cinque, schiacciati l’uno sull’altro. Trovare un buon posto vicino alla riva, poi, non era un problema nemmeno nei fine settimana più affollati. Alcuni amici arrivavano in spiaggia all’alba, direttamente dalla discoteca del venerdì sera, e occupavano le migliori postazioni anche per noi. Quando giungevamo, loro dormivano ancora. Verso le 2 andavamo a mangiare in un baracchino di pescatori proprio sulla spiaggia. All’inizio era un posto davvero ruspante, non aveva nemmeno l’elettricità, e per raffreddare le bevande usavano la ghiacciaia. Però il pesce era freschissimo e lo cucinavano in modo eccellente. A gestirlo era una famiglia numerosa, composta da Carla, la madre, che

stava in cucina, e dalle quattro figlie, ma era Anna, la maggiore, una ragazza estremamente energica e dalla simpatia contagiosa, a gestire l’attività. I tavoli, solo una decina, si trovavano sotto una pergola di edera che creava un’ombra freschissima, anche quando tutt’intorno il sole bruciava. Anna portava in tavola fantastici vassoi colmi di bruschette – tanto per iniziare – seguiti da moscardini o ricciole alla griglia, sempre accompagnati da ottimo vino, immerso in un rudimentale secchio pieno di ghiaccio. Il menu cambiava spesso, in base al pesce a disposizione. Tosi era un grande estimatore della loro cucina. In spiaggia, aspettando l’ora di pranzo, con lui ci divertivamo a indovinare il piatto del giorno. Quando ripenso a quelle estati, mi stupisco di quanto fossimo felici. Eppure, ogni cosa era faticosa in un modo che adesso ci parrebbe addirittura assurdo se non intollerabile. Paradossalmente, le difficoltà davano più gusto alla vita. Se ci tenevi a qualcuno, non te la cavavi mandandogli un messaggino con un gesto distratto, come accade ora, mentre continui a farti i fatti tuoi, limitandoti a controllare di tanto in tanto il display del cellulare, casomai ti fossi perso la suoneria. Eri fuori casa? Ti consumavi le suole delle scarpe per cercare una cabina telefonica o un bar con un apparecchio pubblico, e poi dovevi ancora procurarti i gettoni. E quando finalmente riuscivi a fare quella telefonata, magari dall’altra parte non ti rispondeva nessuno. Quante emozioni, quanta energia dedicavi a quella persona! Non erano parole scritte di fretta su una tastiera con correzione automatica, inviate d’impulso pensando «o la va o la spacca e se non risponde chissenefrega». Ci mettevi la tua voce, la tua faccia, i tuoi sentimenti più autentici. Le telefonavi a casa, facendo prima un lungo respiro per prendere coraggio. L’aspettavi per strada guardandoti intorno ansiosamente, scommettendo con te stesso da quale direzione sarebbe sbucata. E quando infine vi incontravate, eravate voi due e nessun altro, occhi negli occhi. Vi parlavate e potevate toccarvi, odorarvi, conoscervi per ciò che eravate realmente. La tecnologia non aveva ancora tentato di rendere asettici i

nostri sentimenti, «a portata di clic». Se aspettavi una chiamata importante, non potevi fare altro che stare accanto al telefono, in attesa che suonasse. Linda, per esempio, era capace di non uscire di casa per giorni e giorni. Le bastava poco per innamorarsi perdutamente: si sbaciucchiava con uno appena conosciuto, gli dava il numero di telefono ed era già l’uomo della sua vita. Sfortunatamente, quasi nessuno si faceva più vivo. Non era una brutta donna, appena un tantino rotonda, i capelli castani lunghi oltre le spalle, i grandi occhi grigi. Era la fame d’amore che la fregava: gli uomini intercettavano la sua disperazione e scappavano a gambe levate. Per Linda, allora, iniziavano le strazianti attese. Rifiutava qualsiasi invito, si seppelliva nel suo claustrofobico monolocale, pieno all’inverosimile di mobili e ninnoli, fissando l’apparecchio nella speranza di sentirlo, prima o poi, squillare. Se la chiamavi buttava subito giù, dicendoti sbrigativa che non poteva parlare perché non voleva che Tizio, Pinco o Caio trovassero occupato. Erano appena uscite le prime segreterie telefoniche e io, impietosito, gliene regalai una. L’aiutai a installarla e facemmo insieme diverse prove. Ma nemmeno allora si convinse: «E se poi non funziona?» obiettò ansiosa. Ecco, le lunghe estati della mia giovinezza romana erano irte di ostacoli e colme di soddisfazioni. Ogni giorno succedeva qualcosa di meraviglioso. Non che, fra tante occasioni di felicità, non ci fosse anche qualche delusione. Una volta, in agosto venne a trovarmi uno zio dalla Turchia, il padre di una cugina cui sono molto affezionato. Si sarebbe fermato a Roma per qualche giorno e io feci di tutto per farlo sentire a suo agio. Lo portai a spasso per la città, lo presentai agli amici. E, visto che aveva apprezzato la loro compagnia, approfittando di una splendida mattinata di sole gli proposi di andare al mare. Al Buco, naturalmente. Quel giorno lo zio nuotò, mangiò quintali di calamaretti, giocò persino a pallamano sul bagnasciuga e, comunicando rigorosamente a gesti – non sapeva una parola di italiano –, sembrava diventato

il miglior amico di tutti. Tornati a casa, mi confessò di non essersi mai divertito così tanto. Pochi mesi dopo, andai a Istanbul per passare qualche giorno con mia madre. Appena la vidi, però, mi accorsi che c’era qualcosa che non andava. E, infatti, mi annunciò con tono grave che io e lei dovevamo parlare. In breve, lo zio tornato da Roma aveva sollevato un gran polverone in famiglia sostenendo a gran voce che io frequentavo un ambiente di froci e degenerati e che bisognava farmi rientrare al più presto. Rimasi basito. Decisi di affrontarlo immediatamente. Lo chiamai e gli dissi quello che pensavo di lui. «Degenerato sarai tu, ma come ti permetti?» gli urlavo al telefono, cercando di placare la rabbia che mi ribolliva dentro. Quando terminai la conversazione, alzai lo sguardo e vidi mia madre sorridermi dall’altro capo della sala. Capii che era contenta di come mi ero fatto valere. A preoccuparla non era il mio stile di vita o le scelte che avevo fatto e che rispettava senza preconcetti di sorta, ma il modo in cui ero stato infamato. In quell’occasione, compresi una volta di più che donna eccezionale fosse. Educata nel rigore, eppure di un’apertura mentale straordinaria. Amavamo, respiravamo, celebravamo la vita. Facevamo lunghe nuotate in un’acqua incredibilmente limpida, mentre minuscoli pesci ci sfioravano le caviglie. Ci allungavamo sotto il sole come lucertole. Ogni tanto, un amico si alzava, abbandonando il suo avamposto sul bagnasciuga per un po’. «Faccio un salto in Cattedrale» ci annunciava lasciandoci in custodia telo e borsa da spiaggia. Noi lo seguivamo con gli occhi allontanarsi tra le dune e sorridevamo complici. Nel giro di qualche decina di minuti, massimo mezzora, sarebbe tornato. Non c’erano preliminari o convenevoli da rispettare laggiù, si scopava furiosamente e basta. Come al Circo Massimo: la grande alcova a cielo aperto di Roma, fino a quando, con l’avvicinarsi delle celebrazioni per il Giubileo, le autorità decisero che non si poteva più tollerare un simile scandalo.

Da tempo, in realtà, era diventato un luogo degradato e poco raccomandabile. Ma nei primi anni Ottanta, anche laggiù, tra alberi secolari e antiche rovine romane, si celebravano la vita e il sesso con spensierata allegria. Impiegati statali, operai, docenti universitari, liberi professionisti, camerieri: dalle 8 di mattina, appena prima dell’inizio dell’orario di lavoro, fino alle 9 di sera, con picchi di attività durante la pausa pranzo di mezzogiorno, il Circo Massimo attraeva uomini di ogni tipo. La promiscuità sociale e sessuale era totale. Ci si incontrava e si faceva sesso, il più velocemente possibile. Del resto, non c’erano altri posti dove andare, non esistevano portali web dove chattare, scambiarsi i contatti e darsi appuntamento. Per poi, magari, non concludere nulla, come succede spesso oggi. L’unica alternativa, specie d’inverno, era infilarsi in un cinema. Ce n’erano alcuni dove, durante la settimana, si andava apposta solo a rimorchiare. Era un continuo viavai dalla sala ai corridoi e ai bagni. La frase classica del rimorchio era: «Hai da accendere?». Dalla sigaretta al rinchiudersi nella toilette era un attimo. Ma poteva capitare anche di consumare sulle poltroncine in sala, tanto di certo non disturbavi nessuno. Avrò visto quaranta volte film come Quando volano le cicogne o La bisbetica domata, eppure non me ne ricordo una sola scena. Quell’abbuffata di film sentimentali, però, doveva avermi segnato, seppure a livello inconscio, perché proprio in quel periodo avevo scoperto di essere capace anch’io di creare atmosfere ad alto tasso di romanticismo. Tutto era iniziato per caso, quando Nicola, un amico che faceva l’assicuratore, mi chiese di aiutarlo a rispondere a una lettera. Era di un ragazzo che aveva conosciuto a una cena di comuni conoscenti. Patrice, così si chiamava, era italo-francese, abitava a Parigi e a Roma si trovava solo di passaggio. Quella sera non avevano nemmeno avuto modo di parlarsi: si erano piaciuti guardandosi da lontano, da un capo all’altro di una lunga tavolata. Una settimana dopo Nicola aveva ricevuto inaspettatamente una lettera dalla Francia, in cui Patrice gli dichiarava di essere rimasto molto colpito da lui, usando

parole appassionate e sfoggiando un certo stile forbito. Così si era rivolto a me, quasi pregandomi in ginocchio di dargli una mano a mettere giù una risposta altrettanto toccante, che non lo facesse sfigurare. Nonostante avesse una bellezza aristocratica, la fronte alta, il naso importante e i riccioli ribelli spesso impomatati, era un uomo di gusti semplici e di cultura modesta: la scrittura non era propriamente la sua specialità. Mi feci un po’ pregare, ma la cosa mi divertiva. Sentendomi un inedito erede di Cyrano, mi ci buttai con entusiasmo. Fu così che io e Patrice stabilimmo un intenso scambio epistolare per quasi sei mesi. Inframmezzavo le mie lettere di piccoli episodi, rigorosamente inventati, per esempio di quando avevo salvato un cagnolino con una zampa ferita portandolo dal veterinario. Gli raccontavo dei libri che leggevo, dei film che vedevo, della musica che ascoltavo. Mi facevo trascinare dall’enfasi, confessandogli quanto mi aveva emozionato vedere La Traviata al Teatro dell’Opera. E, soprattutto, lo rincuoravo ogni volta che lui mi confidava i suoi crucci: era medico e non andava d’accordo con un cugino con cui divideva lo studio. In realtà, chi davvero corrispondeva con Patrice non ero nemmeno io, ma un altro me stesso, assai più sentimentale, per non dire svenevole. Se avessi firmato le lettere con il mio nome, avrei usato uno stile del tutto differente, più asciutto, ironico, disincantato. Per non parlare di Nicola, che aveva la sensibilità di un bisonte. Ma ormai quel gioco mi aveva preso la mano. Grazie alla possibilità di dare la voce, anzi la penna, a un personaggio del tutto immaginario – quando mai Nicola si sarebbe espresso così? – stavo assaporando una nuova forma di divertimento: creare un mondo parallelo dove reinventare la realtà. In pratica, stavo scrivendo un romanzo epistolare! Patrice, a quanto pare, ne era entusiasta. Le sue missive si fecero sempre più frequenti, finché non combinammo un incontro. Lo scribacchino ipersentimentale che viveva dentro di me avrebbe adorato un appuntamento, che so, in cima alla Tour Eiffel all’ora del tramonto, o a Place des Vosges, davanti alla statua equestre nei giardini, a mezzanotte. Ma Nicola, che

di solito non metteva becco, questa volta fu irremovibile: gli avrebbe proposto di vedersi a Ischia. Non esisteva al mondo posto migliore di un hotel dotato di centro termale, massaggi, bagni, vapori e cucina partenopea, per un incontro destinato a fare scintille. Ischia doveva essere e Ischia scrissi, sebbene a malincuore. Nel giro di pochi giorni, arrivò l’entusiastica conferma di Patrice e io non riuscii a fare a meno di provare una punta di contrarietà. Il mio amico partì, dunque, pieno di aspettative e sicuro del proprio fascino. Dopotutto, quella famosa sera lo aveva colpito solo sorridendogli da lontano: ora che finalmente si sarebbero incontrati di persona, chissà che cosa sarebbe successo! Ma non andò tutto secondo i suoi piani. Nicola tornò con le pive nel sacco due giorni prima del previsto. «Chissà chi si crede questo! Figurati che mi ha detto che si era fatto di me un’idea diversa e che di persona non gli piaccio!» mi rivelò al ritorno, furibondo. Non avrei dovuto, ma in cuor mio ne fui felice. In fondo, Patrice mi era stato fedele. Il genere di bellezza che possiede Nicola non passa mai inosservato. Ovunque vadano, queste persone si fanno notare, attirando su di sé gli sguardi di chiunque, come i più potenti dei magneti. Però, via via che le conosci meglio, ci parli, ti confronti, provi a fare una battuta, il loro fascino evapora. Quasi sempre, alla fine, si rivelano uomini di poca sostanza, privi di mistero e di spessore, insulsi e dimenticabili, che certo continueranno a mietere facili conquiste, forti della loro superficialità. La bellezza che ci colpisce immediatamente spesso svanisce con la stessa velocità, perché è troppo vicina ai canoni che già conosciamo. Non ha nulla capace di stupirci. Ma se a farti innamorare, invece, è un difetto? Allora sì che la passione può scatenarsi come un fiume in piena. Può persino diventare una condanna. E poi ci sono creature come te, di una bellezza profonda come il mare aperto. Creature così meravigliose, eppure tanto restie ad ammetterlo guardandosi allo specchio. Al contrario,

pronte a sminuirsi, vedersi come le caricature di se stesse, quasi un concentrato di difetti. Da cosa dipende? Perché chi è realmente bello spesso vive nella dolorosa certezza di non piacere a nessuno, mentre altri, dotati di percentuali di fascino infinitamente inferiori, se ne vanno in giro come fossero padroni del mondo? Ormai il Buco, così come l’ho conosciuto, non esiste più. A metà degli anni Ottanta abbiamo scoperto dolorosamente l’esistenza dell’Aids e quella solare spensieratezza estiva si è dissolta. Al posto di amanti innocenti e giocosi, tra le dune sono comparsi personaggi equivoci, esibizionisti e guardoni, e il nostro paradiso perduto, in poco tempo, si è trasformato in un inferno. Avevo già smesso di frequentarlo da un paio di anni quando accadde un evento molto triste che finì per gettare su quel luogo un definitivo alone di sventura. In un pomeriggio autunnale di pioggia, Anna, così solare, energica e piena di vita, aveva sbandato con l’auto finendo dentro un fosso. L’incidente era avvenuto sulla strada che dal Buco portava alla provinciale verso Ostia. Era morta poco dopo, sull’ambulanza che la portava in ospedale. Anna stava tornando a casa: il baracchino, che con gli anni era divenuto un ristorante a tutti gli effetti, era chiuso per fine stagione, ma erano in corso alcuni lavori di ripristino. Aveva poco più di trent’anni. Lo appresi casualmente qualche giorno dopo, da un amico incontrato in una libreria a due passi da Trastevere. Mi sembra di avvertire ancora la sensazione di gelo che mi aveva assalito quando, senza quasi salutare, mi chiese a bruciapelo: «Hai saputo di Anna?». Era un amico dei tempi del Buco, ma a differenza di me, sebbene saltuariamente, aveva continuato a frequentare la spiaggia. Qualche settimana dopo, grazie al passaparola, ci ritrovammo sul tratto di strada dell’incidente in una ventina di vecchi habitué, per una cerimonia di suffragio. C’erano anche la mamma e le sorelle di Anna. Molti, però, mancavano

all’appello. Chi se n’era andato chissà dove, chi era morto di Aids, chi aveva rinunciato alla libertà di essere se stesso, lasciandosi risucchiare dalla routine perbenista della cosiddetta normalità. Un amico, in ricordo di Anna, aveva fatto incidere una piccola lapide, che sistemammo sul ciglio della strada, proprio nel punto in cui aveva chiuso gli occhi per sempre. Alcuni di noi avevano portato dei fiori: crisantemi, gigli, margherite. Io quel mattino avevo acquistato per lei undici rose rosse. Sapevo che le sarebbero piaciute. Una volta, scherzando, mi aveva detto che da un uomo avrebbe accettato solo rose in numero dispari, perché altrimenti portano sfortuna. Ma a cosa le sarebbe servito, ora, il mio gesto scaramantico?

VIII

L’amore che uccide, l’amore che salva

«Questo è per te, è il mio intero cuore. È il libro che ti avrei letto quando fossimo stati vecchi» dice Leonard Cohen in una canzone. I nostri visi sono ancora lisci e la vecchiaia ci guarda da lontano, ma a volte il destino ci fa fretta, ci spinge a bruciare i tempi, a giocare d’anticipo. Così continuo a sfogliare la mia vita, la tua vita, mentre mi siedi accanto, assorto e rapito dal paesaggio che sfila oltre il finestrino. È da questa mattina che sei silenzioso. Ci siamo alzati presto. Io non ho chiuso occhio tutta la notte: nella penombra ti guardavo dormire come un ragazzino dopo una giornata di corse all’aria aperta. Ti sei svegliato e sei andato in bagno, come immerso nel tuo mondo di sogni, la bocca sigillata. Quando sei silenzioso, tutto lo diventa intorno a noi. Era silenziosa la cucina. Silenziose le finestre. Silenzioso il palazzo. Silenziosa Roma. Di uno di quei silenzi che, troppo spesso, ormai mi stringono il cuore. E mi fanno paura. Hai mai avuto paura che la vita ti sfuggisse? Non dico quella paura vaga, esistenziale, fisiologica, che assale tutti, prima o poi, quando finisce l’era incantata dell’adolescenza che ti rende così fragile, ma ti fa sentire immortale. Intendo la paura vera, concreta, basata su un calcolo sfavorevole delle probabilità. La paura che ti impedisce di pensare a qualsiasi altra cosa, che ti secca la bocca e ti stringe lo stomaco in una morsa d’acciaio. Una paura che vedi guardandoti allo specchio, ma che riconosci anche sul volto dei tuoi amici più cari, tanto da diventare uno stato d’animo collettivo. Io l’ho provata. Paura di ammalarmi. Paura di morire. Paura dell’Aids. In Italia per la mia generazione, per fortuna, non è

stato un flagello improvviso come altrove. La sua portata emotiva, però, è stata potentissima. Perché fino ad allora noi non avevamo timore di nulla. Il Virus si è insinuato nelle nostre vite a poco a poco. Ciò che sembrava solo una delle tante leggende metropolitane di cui si accenna nelle chiacchiere da bar, per poi cambiare subito discorso, è diventato una realtà che già ci stava toccando tremendamente da vicino. Un’infezione letale che si diffondeva attraverso i rapporti sessuali, capace di scavarti via la vita da dentro, prima ancora di ucciderti, riducendoti a una larva umana che si spegne velocemente per consunzione. Proprio così: la morte si propagava lungo le stesse vie dell’amore. E i primi a essere colpiti erano gli omosessuali. Dagli Stati Uniti e dalla grande comunità gay di San Francisco ci giungevano notizie allarmanti. Il destino ci aveva voltato le spalle schiacciandoci sotto il peso di una paura colossale, biblica, definitiva. Qualcuno stava giocando con noi alla roulette russa, decidendo il nostro futuro: «Tu sei salvo, tu presto ti ammalerai, tu sei già morto…». In Italia, alla fine l’impatto fu un po’ meno drammatico, sebbene sufficiente a cancellare in un attimo tutte le conquiste libertarie del Sessantotto. Ben presto, il senso di panico lasciò il posto a una reazione sana e gli omosessuali iniziarono a organizzarsi per diffondere corrette informazioni, offrire assistenza, difendere i diritti di quanti, oltre a subire i danni della malattia, avrebbero potuto rischiare di diventare vittime di discriminazioni. Occorreva interrompere il prima possibile la catena del contagio, consentire a chi si era ammalato di accedere al più presto alle cure, peraltro ancora sperimentali, e a chi risultava sieropositivo, cioè si era infettato ma non aveva ancora sviluppato l’Aids, di adottare uno stile di vita sano e più consapevole. Prevenzione era la parola chiave. Nel frattempo, era arrivato il test per la ricerca del virus Hiv e a Roma alcune associazioni gay avevano aperto un ambulatorio con medici e operatori sanitari volontari che eseguivano gratuitamente gli esami. Molti di noi si misero, dunque, in fila con lo stomaco sottosopra e le ginocchia

tremanti. E mentre l’infermiere ci prelevava un campione di sangue, il pensiero andava alle volte che avevamo fatto sesso con uno sconosciuto. Aveva tossito? La sua pelle era macchiata da uno sfogo cutaneo? Dalle prime informazioni che circolavano, risultava fossero quelli i segni visibili della malattia. Per farmi forza, andai a ritirare il referto insieme a Valerio e a Giulio, un nostro caro amico, che aveva fatto anche lui l’esame. Fino a pochi mesi prima eravamo tre giovani uomini sempre pronti a scherzare e con mille progetti per la testa, ora pareva che qualcuno ci avesse spento dentro tutta quella energia. I tempi in cui ci si ritrovava a Trastevere a bere l’ultima birra prima di andare a casa o a rimorchiare qualcuno con cui concludere la nottata sembravano appartenere a un passato remoto. Sedevamo in silenzio in una squallida saletta, i muri di un bianco abbacinante, che ancora odoravano di vernice, i volti tirati, le occhiaie profonde, gli sguardi sfuggenti. Per contrasto, il nostro abbigliamento, invece, era estroso e colorato. Io stesso, che già allora prediligevo i colori scuri, il blu e il nero, avevo sentito il bisogno di indossare una sciarpa rosso corallo, aggrappandomi a quel colore come a un serbatoio d’energia. Il referto dell’esame era «materia sensibile», si direbbe ora. Per garantire riservatezza, veniva quindi consegnato in uno studiolo attiguo, a porte chiuse. Se il virus non era stato trovato, l’operazione era più che rapida. Ma nel caso contrario… Fui il primo a essere chiamato. Quando aprii la busta e lessi: «Negativo», tirai un profondo respiro di sollievo e, allo stesso tempo, mi ripromisi in futuro di fare la massima attenzione. Poi fu il turno di Valerio. Anche lui sorrise sollevato: era sano come un pesce. Chiamarono Giulio. Nella stanza c’era un grande orologio appeso a una parete, come unico elemento ornamentale. La lancetta dei minuti avanzava e lui non era ancora riapparso. Adesso tutta la nostra

felicità era come cristallizzata dall’ansia. Perché non tornava? Che cosa gli stavano dicendo? Dopo quasi mezzora, si aprì finalmente la porta e lui ricomparve. Se possibile, era più pallido di quando era entrato, però non ci disse nulla. Ci avviammo per il corridoio, verso l’ascensore. Ma una volta che fummo dentro e la cabina iniziò a scendere, Giulio azionò il comando di arresto. «Sono sieropositivo!» urlò scoppiando a piangere, mentre agitava in aria la busta del referto. Ci abbracciammo tra le lacrime. Piangevamo tutti e tre in modo convulso. Però poi, quando uscimmo e fummo in strada, ci comportammo come se niente fosse. È capitato anche a noi. Condividere la sofferenza di un grande dolore, ma poi andare avanti. Stringendo i denti, ricacciando indietro le lacrime. Mi volto a guardarti e tu mi rispondi con uno di quei tuoi sorrisi appena accennati. Quella parte di te che ancora mi può sentire si tormenta di ciò che ti sta accadendo. Ma ora sei al sicuro. Ora penserò io a te. E saremo felici. Giorno dopo giorno. Anche se per il momento Valerio e io eravamo stati graziati dal destino, la malattia era riuscita a insinuarsi tra noi, non potevamo girarci dall’altra parte, fingere che non fosse successo niente, tornare a condurre la nostra solita vita di sempre. Il seme del male era stato piantato in profondità: sarebbero passati anni, forse secoli, prima di poterlo sconfiggere in modo definitivo. Giulio sviluppò i sintomi iniziali della malattia molto presto, nel giro di alcuni mesi. Eppure, fino a quel maledetto giorno all’ambulatorio, quando aprì la busta del referto scoprendo di essersi infettato, pareva scoppiare di salute. Quasi che la consapevolezza della malattia avesse azionato un meccanismo di non ritorno, guastando rapidamente le sue difese immunitarie e accelerando i processi degenerativi. Noi amici non lo lasciavamo mai solo, dandoci il cambio. Venne ricoverato in ospedale, in un’area riservata alle forme

epidemiche altamente contagiose. Per entrare nella sua stanza dovevamo indossare speciali camici, cuffie e soprascarpe usa e getta. La sua famiglia era di Perugia. Oltre ai genitori, che erano molto anziani e invalidi, aveva una sorella con cui non parlava da tempo. Considerato il precipitare degli eventi, decisi di contattarla. Appena la aggiornai sulla situazione, si scapicollò a Roma. Per stare accanto al fratello fino all’ultimo, si trasferì in una pensione poco distante dall’ospedale. Nella tragedia, se non altro, si erano ritrovati. Giulio morì l’anno seguente, tredici mesi dopo avere scoperto di essere ammalato. Dopo il funerale, nella cappella dell’ospedale, la sorella volle abbracciare tutti noi amici, per ringraziarci, ma anche per chiederci di mantenere il riserbo sulla causa della sua morte. La versione ufficiale, diffusa dalla famiglia, fu «complicazioni da broncopolmonite». Scoprirsi malato, per la maggior parte delle persone, significava morire due volte. Perché non c’era ancora una cura che funzionasse davvero, ma anche perché subito diventavi un appestato. Se malauguratamente il tuo stato di salute diveniva di dominio pubblico, anche la tua identità di essere umano, le speranze, le passioni, gli studi che avevi fatto, i libri che avevi amato, tutto scompariva nel buco nero del sospetto e della condanna moralistica. Una condanna che permaneva anche dopo la morte. Così, si preferiva tacere. Gli amici stendevano fitti veli di riservatezza, i parenti non evocavano mai la malattia con il suo nome. O, come nel caso di Giulio, preferivano chiamare in causa addirittura un’altra malattia, meno «infamante». Mi piacerebbe poter affermare che le cose oggi sono cambiate. E, in effetti, almeno in parte è così. L’Aids non è certo stata debellata, ma grazie ai farmaci è possibile convivere con il virus conducendo un’esistenza del tutto normale. Quell’altra morte, quella sociale, però, persiste. Ammettere pubblicamente di essere sieropositivo ancora adesso significa creare il vuoto intorno a sé.

Dopo Giulio, ho perso altri amici. Il virus si stava diffondendo anche tra i tossicodipendenti e, a poco a poco, smise di fare differenze di genere. Ormai, con il passare del tempo, ci stavamo abituando a convivere con quel nemico invisibile, capace di entrare nelle nostre vite in modo subdolo, trasformando chiunque in una bomba umana. Tu sei più giovane. Ti sei affacciato all’amore già con la consapevolezza del rischio. Non hai sperimentato il trauma di chi, come me, ha vissuto il prima e il dopo. L’incoscienza della libertà e il disinganno. Non hai letto negli occhi di un amico la paura della morte. Perché allora avere l’Aids equivaleva a una condanna definitiva: mentre il corpo privo di anticorpi soccombeva, la mente, giorno dopo giorno, regrediva in piccoli pensieri infantili, fino a spegnersi del tutto. Ecco, almeno in questo, le malattie sono uguali: più o meno velocemente, alla fine, ti colpiscono allo stesso identico modo. Non posso fare a meno di pensarlo, mentre ti vedo passarti una mano tra i capelli, in un gesto ormai a me familiare. Sei sempre tu, il mio amore che mi siede accanto, con cui ho corso sotto la pioggia, ho fatto a gara su per le scale a chi arrivava primo ad aprire la porta di casa. Il ragazzo con cui ho litigato e fatto la pace centinaia di volte. Eppure, sei anche quell’uomo dall’espressione indecifrabile, perso in un deserto cosmico che, all’improvviso, può guardarmi come se non sapesse chi sono. Quando mi sento affondare dentro l’onda della disperazione, ecco, allora penso all’amore. Perché è l’amore che ci salva, l’amore che cambia tutto, l’amore che rende possibile l’impossibile, bello il brutto, accettabile l’inaccettabile. Anche se ti toglie il sonno, ti accorcia il respiro, ti invade ogni pensiero, senza darti requie. Anche se ti ferisce lasciandoti un segno indelebile. Anche se ti consuma in una passione non corrisposta, che non riesci, non vuoi combattere, ma alla quale ti abbandoni con tutto te stesso, assaporandone ogni lacrima. Sì, persino soffrire è meglio che sopportare una gelida esistenza. Perché, quando ami, vivi, e ne vale sempre la pena. Saresti capace di fare qualunque follia in

nome dell’amore. Ma anche gesti grandiosi. Potresti valicare davvero confini mai esplorati prima, costruire un tempio in una foresta, un castello in cima a una montagna, trasformarti da vittima predestinata in eroe. Perché l’amore non ubbidisce ad alcuna logica umana. L’ho già visto succedere, sai? Sto pensando a Adriano. Occhi dal taglio orientale e profondissimi, zigomi alti e labbra carnose. Sembrava un pirata. Bello da mozzare il fiato. Piaceva a tutti, uomini e donne. Pur conducendo una vita piuttosto movimentata, aveva una storia da molti anni con Sergio, un architetto un po’ più vecchio di lui. Lavorava in un ufficio ministeriale, ma nessuno aveva mai capito bene che cosa facesse. Certo, non era il tipo con cui parlare d’arte o di filosofia, però era brillante, con la battuta sempre pronta. Amava divertirsi, prendere dalla vita tutto ciò che gli offriva. Lo incontrai un pomeriggio sul tardi in un bar di via del Corso. Ero entrato per un caffè. Lui stava uscendo e quasi c’eravamo scontrati sulla soglia. Era da un po’ di tempo che non lo vedevo in giro: di solito lo incrociavo nella pasticceria sotto casa. Lo salutai calorosamente e gli chiesi di Sergio, più per educazione che per altro, visto che lo conoscevo appena. «È morto» mi rispose brutalmente. «Aveva l’Aids. Anch’io ce l’ho» aggiunse senza tanti giri di parole. Solo allora, guardandolo meglio, mi accorsi di quell’espressione quasi febbrile negli occhi, che aggiungeva alla sua bellezza un che di soprannaturale. La malattia, però, non sembrava ancora averlo toccato. Nessuno di noi due aveva impegni imminenti, dunque lo invitai a rientrare e a bere qualcosa insieme, mentre mi raccontava più nel dettaglio cosa gli era successo. Ci sedemmo a un tavolino d’angolo. Lui ordinò un bicchiere di whisky, poi iniziò a parlare.

Quando aveva scoperto di essere ammalato, per Sergio era stata una doccia fredda. Non aveva mai avuto abitudini particolarmente promiscue. Era stato sposato per otto anni e per tutta la durata del matrimonio si era comportato da marito fedele, anche se non c’erano figli da salvaguardare. Aveva sempre soffocato ogni altro suo desiderio, finché non era stata la moglie a lasciarlo per un altro. Solo allora si era deciso a smettere di recitare una parte che non era mai stata la sua. Ma anche dopo questa decisione, coerentemente al suo carattere riservato e solitario, aveva mantenuto uno stile di vita schivo, con poche frequentazioni. E le sue relazioni si potevano contare sulle dita di una mano. Un giorno aveva fatto il test come tutti, quasi per scaramanzia. E poi anche perché era un uomo molto attento alla propria salute. Certo, non avrebbe immaginato di essere stato infettato. Quando glielo aveva comunicato, Adriano si era sentito morire dentro. Lui sì che aveva avuto mille e più occasioni di contagiarsi e, a sua volta, contagiare! L’ultima, solo pochi giorni prima: pur amando Sergio, non riusciva a resistere alla tentazione di continuare a fare conquiste. E sempre sfidando la sorte. Ma, al contrario del suo compagno, non si era minimamente preoccupato di fare l’esame. «Quando me lo confessò, pensai che se Sergio aveva l’Aids era soltanto colpa mia. E invece…» Adriano si era interrotto per bere un lungo sorso di whisky. «E invece?» lo incalzai. «Feci il test e l’esito fu negativo: non ero stato io a contagiarlo. Per ironia della sorte, lui che non fumava, mangiava cibo salutare, giocava a tennis due volte la settimana e amava da tempo solo me, aveva contratto il virus, mentre io, che l’avevo tradito infinite volte e non avevo mai fatto nulla per proteggere la mia salute, ero sano come un pesce.» C’era una nota di intollerabile esasperazione nella sua voce, come se fosse stato vittima di un’imperdonabile ingiustizia. La sofferenza doveva aver tracciato solchi profondi nel suo cuore:

non era più il ragazzo gioviale di un tempo, pronto a buttare sul ridere qualsiasi tentativo di fare un discorso serio. Ora davanti a me sedeva un uomo forgiato dalla vita, capace di provare sino in fondo i propri sentimenti. «E allora, quando l’ho saputo, ho voluto tutto da lui, anche la malattia» aggiunse. Nel dirlo, mutò espressione e l’ombra di un sorriso gli addolcì il volto. Quel giorno aveva smesso di giocare con Sergio come il gatto con il topo, mettendone alla prova la pazienza, approfittando di una relazione dove lui era quello che si faceva pregare, mentre il suo compagno soffriva in silenzio. Aveva chiuso per sempre con la vita frivola di un tempo quando, insaziabile, passava da una festa a un’altra, da un amante all’altro. Il virus lavora freneticamente, portandosi via ogni giorno qualcosa. Mancava poco tempo ormai e lui l’avrebbe tutto dedicato al suo uomo. «Per qualche mese ci siamo amati come mai prima di allora. Sembrava che la malattia ci avesse concesso una tregua. Poi, ha iniziato a farsi sentire. Lo accompagnavo in ospedale per gli esami, e a sottoporsi a una cura sperimentale che lo riduceva a uno straccio. Intanto, pregavo che il virus avesse preso anche me. Desideravo solo stargli accanto. Condividere tutto. Il dolore, l’annichilimento, la morte.» Dopo qualche mese, arrivò per Adriano il momento di ripetere il test. Il referto, questa volta, non lo deluse. «Ero raggiante. L’infermiera che mi aveva appena dato la notizia mi guardava attonita, non riuscendo a capacitarsi della mia reazione. Probabilmente, avrà pensato che la malattia mi aveva già ottenebrato la mente» osservò, recuperando per un attimo il suo antico gusto per le battute. Sergio aveva lottato a lungo, ma ormai l’infezione si era propagata ovunque. Un tempo era un uomo alto, dal fisico asciutto ma atletico. Alla fine, era diventato una larva, pelle e ossa. La sua bocca si era riempita di afte. Aveva le braccia e il

collo ricoperti di sfoghi cutanei. Non mangiava più, faticava a respirare, restava sdraiato immobile a letto, senza più la forza di mettersi seduto. Adriano si era preso cura di lui come di un neonato. Lo imboccava, lo lavava, gli leggeva il giornale, gli dava le medicine, lo accarezzava per farlo addormentare. Non l’aveva mai abbandonato, neppure per un attimo, fino all’ultimo. Gli chiesi se stava già prendendo dei farmaci e mi spinsi a osservare che, forse, bere superalcolici nel suo stato di salute non era il massimo, visto che possono contribuire a indebolire le difese immunitarie. Di nuovo, mi fulminò con uno sguardo così diretto che quasi avvertii una scossa. «Non prendo nessuna medicina, non mi curo, non mi interessa» disse con tono perentorio. Aggiunse: «È morto da due mesi, ormai» e finì il whisky d’un fiato. Quel gesto mi fece capire una volta di più che ora per lui si trattava solo di accelerare il processo. Di fatto, era già morto. Quell’incontro mi lasciò addosso una profonda tristezza. Si era fatto buio e, camminando verso casa dopo essermi accomiatato, sebbene fosse un tiepido autunno mi sentii improvvisamente pervaso dal gelo. Pensai persino di avere la febbre alta e, appena rincasato, me la misurai. Non avevo nulla che non andasse, dal punto di vista fisico: vedere Adriano in quello stato, ascoltare le sue parole, mi aveva semplicemente raggelato dentro. C’è un che di masochistico nell’amore, quando pensi di non meritartelo davvero. È qualcosa che credo abbia origini remote. Se cresci senza nessuno che ti dica mai che sei bello o che sei bravo, senza una parola di conforto che ti rassicuri dandoti il tuo posto al sole nel mondo, niente sarà mai abbastanza per ripagarti di quel silenzio. Dentro resterai sempre un bambino affamato di gentilezza, che si sente brutto, incapace e manchevole, qualsiasi cosa accada. E non importa se, nel frattempo, sei diventato la più bella delle creature.

Ignoro che tipo di infanzia abbia avuto Adriano, ma penso che possa aver sperimentato qualcosa di simile. Sono antiche ferite che non guariscono mai. Che ti spingono a farti del male, a buttarti a testa bassa nelle rapide dei sentimenti, dove l’acqua è più profonda, perché il dolore è l’unico sapore che hai conosciuto dell’amore. Un dolore che sei portato a dare, ma anche a ricevere. Non so se mi stai ascoltando davvero, mentre contempli il bosco che scorre veloce oltre il finestrino, ma è da tanto tempo che volevo chiedertelo. Perché? Come può essere che anche una persona come te, che so per certo essere cresciuta nell’affetto di genitori più che amorevoli, possa rivelarsi così poco consapevole della propria bellezza, del tutto incapace di riconoscerla persino davanti all’evidenza di uno specchio? Quante volte ti ho sentito sminuire i tuoi meriti, svalutare le tue qualità. Un uomo attraente, intelligente e sensibile, che si comporta come fosse l’essere più sgraziato della terra. Hai visto quell’uccello dal ciuffo e le ali bianche e nere che si è alzato in volo oltre quegli alberi? Sembrerebbe un’upupa. Sei tu che mi hai insegnato a riconoscere gli animali del bosco, a me, uomo di città e di mare. Le felci alte fino alla vita, i noccioli e i castagni che si arrampicano su per le pendici della montagna, il terreno disseminato di muschi, tane e ramoscelli secchi che scricchiolano sotto i nostri passi: questi sono i tuoi elementi. Ti sento muovere sul sedile accanto al mio, appoggi la fronte al finestrino per vedere meglio. Sembra quasi che il bosco ti chiami. Domani sarei dovuto partire per Los Angeles. Sono stato invitato come ospite d’onore a una rassegna di cinema europeo. Invece ho annullato tutti gli impegni, buttato via l’agenda. So che il cellulare, da qualche parte nella mia sacca da viaggio, sta vibrando, ma non m’importa. L’ho messo in modalità silenziosa perché non voglio essere disturbato. Non ci sono più per nessuno. Voglio esserci solo per te. Anche se

adesso tu forse sei lontano mille miglia, perso nel tuo bosco delle meraviglie, a contare i passi che ti separano dalla capanna che da bambino ti sei costruito in mezzo alla macchia, sulla riva di un ruscello. E la mia non è generosità o altruismo o bontà disinteressata. Lo faccio per necessità, perché senza di te sono perduto. Quanti giorni siamo stati davvero lontani l’uno dall’altro? È successo solo in un paio di occasioni. Cinque notti senza averti accanto, in più di dieci anni insieme. E che sofferenza! La prima volta ero andato a New York. Tu non avevi potuto accompagnarmi perché tuo padre stava male. Per stare via il minor tempo possibile, avevo concentrato in poche ore gli appuntamenti, inclusa una serata di gala al Moma. Ma mentre mi trovavo là, in quelle meravigliose sale, facevo fatica a gustare i festeggiamenti. Non potevo che pensare a te. A te e a dov’eri in quel preciso momento. Cosa stavi facendo? Pur non avendone alcun motivo, ero pazzo di gelosia. Avevamo stabilito di sentirci più tardi quella notte, e io non vedevo l’ora di tornare in albergo per mandarti almeno un messaggio. «Mi manci» ti avevo scritto. «Mi manci» mi avevi risposto. È il nostro linguaggio segreto della nostalgia. Ci siamo separati ancora un’altra volta, per due giorni appena, in occasione di un mio breve viaggio a Istanbul per una questione di famiglia. Poi non è più successo. E non succederà più. Perché noi due siamo una cosa sola, lo sai. Beviamo dallo stesso bicchiere, mangiamo dallo stesso piatto. Respiriamo la stessa aria, occupiamo lo stesso spazio. Non smetto di ringraziare gli dei per averti messo sul mio cammino. Sembra assurdo, ma non è da tutti. Non è da tutti riconoscere la felicità, quando la incontri. Capire che è proprio quella la persona che ti cambierà la vita, e che senza di lei ora nulla avrebbe più senso. Quante occasioni vengono perse a

causa di questa strana forma di cecità sentimentale che impedisce di vedere chiaro dentro di noi! Il mondo è pieno di uomini e donne che hanno avuto le loro chance di amare ed essere amati, ma non le hanno colte. Oppure le hanno sprecate, passando il resto della propria esistenza a pentirsene amaramente. Anche Giuseppe, sai, ha buttato via l’amore della sua vita, tanti anni fa, molto prima che tu lo conoscessi. La felicità gli era accanto, ma lui non faceva che lamentarsi. Giuseppe è il tipo che si appassiona più a plasmare la realtà che a viverla: il suo problema è sempre stato questo. Proiettato com’è nel proprio mondo immaginario, snobba la quotidianità. Qualsiasi cosa abbia il vago sapore della routine lo annoia. Nulla e nessuno saranno mai all’altezza di ciò che la sua fervida mente è sempre pronta a elaborare. La vita, però, sa darti amare lezioni, quando ti rifiuti di prenderla sul serio. A sentire lui, per esempio, Giacomo non sembrava mai farne una giusta, eppure si frequentavano ormai da alcuni mesi. Era un ragazzo piccolo di statura, magro, timido e un po’ nervoso. Giuseppe giganteggiava accanto a lui, con la sua personalità istrionica, ma nell’insieme sembravano compensarsi: tanto l’uno faceva la prima donna, tanto l’altro pareva preoccupato di stargli sempre un passo indietro, nell’ombra, per non rubargli spazio. Giacomo era un uomo attento e generoso, pronto a dargli una mano quando si trovava in ristrettezze economiche, il che accadeva spesso, visto che allora Giuseppe faceva l’agente, con alterne fortune. In questi frangenti, Giacomo c’era sempre, disponibile e discreto. Una volta gli regalò persino un frigorifero. Noi amici restammo molto colpiti da questo gesto. Donare un elettrodomestico, fra l’altro piuttosto costoso, fatto per durare nel tempo, ci sembrò la più devota delle dimostrazioni d’amore. Come dire: «Sono con te e intendo starci ancora a lungo». Eppure, qualsiasi cosa lui facesse, Giuseppe non era mai contento. Lo redarguiva se cercava di dire la sua nel corso di una vivace discussione, ma anche se se ne stava

semplicemente zitto. Al ristorante, dopo un lauto pranzo, era capace di fargli una scenata sia che ordinasse un ipercalorico dessert sia che, al contrario, vi rinunciasse. E appena lui non era nei paraggi, ne approfittava per lamentarsene con crescente esasperazione. Devi sapere che Giacomo aveva studiato arte, il suo sogno era disegnare tessuti, ma a Roma si era dovuto adattare facendo il grafico. Ancor prima di incontrare Giuseppe, però, coltivava la speranza che un fantomatico zio, proprietario di un piccolo atelier di tessuti importanti a Bologna, lo chiamasse a lavorare con sé. «Magari ci andasse davvero!» iniziò ad augurarsi Giuseppe sempre più spesso. «Non vedo l’ora!» ripeteva, sbuffando e roteando gli occhi in segno di insofferenza. Poi, una sera era tornato a casa e Giacomo se n’era andato davvero. Se l’era augurato così tante volte, ma adesso si aggirava per le stanze vuote, in cerca di qualche traccia di lui, un calzino spaiato, la custodia degli occhiali. Giacomo, però, si era portato via tutto quel poco che aveva e Giuseppe si sentì sprofondare nel panico e nella disperazione. Naturalmente, questo avveniva prima dell’invenzione dei cellulari, altrimenti tutto si sarebbe potuto risolvere in un banale susseguirsi di messaggi e telefonate. Allora, invece, ogni gesto recava in sé conseguenze dalla portata definitiva. Nessuna rete poteva attutire la caduta di chi giocava a fare l’acrobata, sfidando le leggi della gravità in amore. Non ricordo come Giuseppe venne poi a sapere che, in effetti, Giacomo era andato a Bologna. L’unica esile traccia per trovarlo era lo zio, però non sapeva nemmeno come si chiamasse. Sperando fosse uno zio paterno e, quindi, avesse lo stesso cognome di Giacomo, si procurò una guida telefonica di Bologna e iniziò a cercare. Trovò cinque abbonati: li chiamò a uno a uno, in preda a un’agitazione crescente, ma nessuno corrispondeva al suo uomo. Ormai non pensava ad altro che a lui e al terrore di averlo perduto per sempre. Doveva

assolutamente parlargli, spiegargli che si era sbagliato, chiedergli perdono. Era lui l’amore della sua vita! Sempre più disperato, qualche giorno dopo decise di andare a Bologna: chissà, una volta lì magari lo avrebbe incontrato. Partì di prima mattina. In treno non faceva che ripassare mentalmente il suo piano. Eppure, era semplicissimo. Avrebbe camminato in lungo e in largo, percorrendo ogni strada e piazza della città, in centro e in periferia, animato dalla folle speranza di vederselo ricomparire davanti. Era già buio quando la sera ripartì per Roma, i piedi doloranti, un nodo alla gola che non lo faceva quasi respirare. La sua spedizione era stata un fallimento totale. Nonostante ciò, prima di arrendersi definitivamente, Giuseppe tornò a Bologna altre tre volte, tuttavia il miracolo non avvenne. In decine di occasioni gli era sembrato di riconoscere Giacomo tra la folla, ma era sempre qualcuno che gli assomigliava soltanto. Di questi viaggi sono venuto a sapere solo di recente. Com’è sua abitudine, Giuseppe «Flash Back» ama lasciar sedimentare gli episodi della sua vita a lungo, prima di farne materia di racconto. La storia del suo amore perduto, però, non era ancora finita. Passò qualche anno quando, a una festa, Giuseppe incontrò per caso un tipo che aveva lavorato con Giacomo. Gli disse che erano rimasti in contatto per un po’, fino alla tragedia. «Quale tragedia?». «Come, nessuno te l’ha detto? Giacomo è morto.» Fu così che lo venne a sapere. Giacomo era effettivamente andato a Bologna dove aveva realizzato il sogno di fare il designer tessile. Ma il suo sogno era durato poco. Una sera, rientrando a casa da una serata in collina presso alcuni conoscenti dello zio, aveva avuto uno spaventoso incidente. L’auto era finita fuori strada andando a schiantarsi contro un albero e per lui non c’era stato più nulla da fare. Lo zio l’aveva

seppellito in un piccolo cimitero di campagna, a pochi chilometri dalla città. Giuseppe non ci voleva credere. Alla fine, si fece dare le indicazioni su come raggiungerlo: sarebbe andato a controllare. Vi si recò da solo, come si va a un appuntamento d’amore, cercando quel volto serio e compunto che conosceva così bene, tra decine e decine di ritratti di defunti, sbiaditi dal tempo e dalle intemperie. Tomba dopo tomba, aveva percorso i vialetti ricoperti di ghiaia, sperando fino all’ultimo di essere stato vittima di uno scherzo di pessimo gusto, quasi aspettandosi che gli comparisse davanti, soddisfatto della propria vendetta, ma pronto a una catartica rappacificazione. Ma Giacomo era davvero là, sotto terra. Ci aveva messo un sacco di tempo a trovarlo, e ora lui non avrebbe più potuto sentire tutto ciò che aveva in cuore di dirgli. Giuseppe restò a lungo in piedi davanti alla lapide in marmo candido. Nella foto in bianco e nero, Giacomo lo guardava sorridente, proprio lui che da vivo era sempre stato così serio e compunto. Sembrava persino allegro, come se fosse felice di vederlo arrivare. Finalmente, l’amore della sua vita in quel cimitero fuori mano. Proprio così, Giuseppe immaginò che lo stesse aspettando: ovunque si trovasse, Giacomo sapeva che lo aveva tanto cercato. Quel sorriso era per lui, per quando si sarebbero ritrovati. Oggi, forse, l’esperienza lo ha reso più disponibile ad apprezzare ciò che di bello può offrire il destino. Giuseppe ama la vita, che celebra collezionando quelle storie bizzarre che poi ci racconta a cena, deliziando noi Mummie, il suo ristretto pubblico di amici. Non ho mai conosciuto nessuno che sappia narrare meglio di lui, incantando chiunque lo ascolti. Quando ci riuniamo, se è nello spirito giusto, prende la parola e nessuno lo ferma più. Allora pendiamo letteralmente dalle sue labbra. Come un attore consumato, si cala non in uno ma in un esercito di personaggi, cambia persino voce e postura. Crea per noi uno scenario attraverso il quale ci conduce in un viaggio fantasmagorico, affollato di episodi assurdi, di cui spesso asserisce essere stato il protagonista o,

almeno, il testimone. Dà vita a gag e scene madri che, sospettiamo, in realtà non sono mai avvenute. Talvolta, sembra vivere lui stesso in una dimensione parallela, dove tutto è possibile, anche l’inspiegabile. È come se, a furia di usare l’immaginazione, Giuseppe finisse per attirare nella propria orbita eventi surreali e, addirittura, paranormali, di cui probabilmente nessun altro comune mortale si accorgerebbe nemmeno. Come quando è venuto ad abitare nel nostro quartiere, a due passi da noi. Aveva preso in affitto un appartamento al terzo piano di un palazzo appena ristrutturato. Si trattava di un edificio bombardato durante la guerra che, per ragioni misteriose, era rimasto abbandonato per molti anni in completa rovina: il tetto crollato in più punti, le balaustre dei balconi pericolanti, intere sezioni di stanze – una cucina, una cameretta di bambini – esposte alle intemperie, quasi a testimoniare la violenza della vita domestica violata. Ma ora, grazie a un’operazione immobiliare in grande stile, il palazzo era stato interamente ricostruito e rinnovato. Appena insediatosi nella nuova casa, però, Giuseppe aveva iniziato ad avvertire delle strane presenze. Da buon vicino, veniva spesso a trovarmi. Capitava anche il mattino presto, e insieme facevamo colazione. Seduto davanti alla tazza di caffellatte, mi aggiornava di volta in volta sui sempre più inquietanti fenomeni che parevano manifestarsi nel suo appartamento. La sera precedente, mi raccontava, mentre se ne stava tranquillo sul divano a guardare la televisione, aveva sentito qualcosa muoversi dietro di lui. Si era girato appena, paralizzato dal terrore, e aveva scorto una donna vestita di nero, che lo fissava dal fondo della stanza. Un pomeriggio, invece, era salito sulla terrazza condominiale e lì gli era apparsa una bambina vestita alla marinara, come si usava negli anni Trenta, che giocava con una bicicletta antiquata. Si era subito informato, ma tra gli inquilini del palazzo nessuno aveva figli di quell’età. Un’altra sera ancora, era già sotto le coperte e stava per prendere sonno quando qualcuno si era sdraiato sul letto alle sue spalle.

«Chi era?» gli avevo chiesto, incuriosito. «Non lo so, ho preferito non scoprirlo» mi aveva risposto laconicamente. Era rimasto lì, immobile, ed era pure riuscito a addormentarsi. Sebbene fosse difficile credergli, anche le sue affermazioni più inverosimili sembravano supportate da prove insindacabili e da diverse testimonianze. Poi un giorno erano volate via le persiane della cucina, e un altro si era bruciato all’improvviso e senza alcuna ragione apparente lo scaldabagno nuovo di pacca. Ogni mattina, verso le dieci, si avvertivano dei colpi sordi accompagnati da rumori più attutiti, come se si trascinasse qualcosa, e non si riusciva a capire da dove provenissero. Nel giro di qualche settimana, la domestica si licenziò: quell’appartamento le metteva l’angoscia, succedevano troppe cose inspiegabili. Arrivò sua madre in visita dalla Sicilia, terra d’origine di Giuseppe: avrebbe dovuto trattenersi almeno un mese, dopo tre giorni invece preparò la valigia e se ne andò, non prima di essersi fatta promettere dal figlio che avrebbe al più presto cambiato abitazione. Nonostante tutto, invece, Giuseppe restò lì ancora per diversi anni. Superato lo shock iniziale, convivere con i fantasmi doveva essergli sembrata la sistemazione ideale, visto che non sopportava l’idea di dividere con qualsiasi essere umano i propri spazi quotidiani, ma allo stesso tempo soffriva la solitudine. Su di lui abbiamo scherzato bonariamente un sacco di volte alle cene delle Mummie. Dedicare almeno una battuta ai «fantasmi» di Giuseppe era diventato quasi un rituale. In realtà, come in seguito venni a scoprire, non c’era niente da ridere. Che ci si credesse o meno, quelle misteriose presenze celavano un triste segreto. A raccontarmelo fu un anziano portinaio del quartiere. Mi informò che durante la guerra l’appartamento era stato teatro di una tragedia. La donna che

vi abitava si era buttata giù da una finestra insieme alla figlioletta di 8 anni, durante i bombardamenti. Non so perché, ma ultimamente a Giuseppe piace moltissimo raccontare del mio funerale. Verrà celebrato nella basilica di Santa Maria in Montesanto, la chiesa degli Artisti, in piazza del Popolo. Tutti gli amici più cari, ormai, saranno morti, tiene a precisare Giuseppe. Tutti tranne lui, naturalmente, che avrà 118 anni e, assistito da Luce, a quel punto una signora di 68 anni, provvederà alla cerimonia. Mi vestirà con uno dei miei migliori completi di Giorgio Armani, ma il resto del mio guardaroba lo terrà per sé. Tanto, a me non servirà più a nulla… Giuseppe ama sottolineare che indosserà un abito identico a quello che avrà scelto per me, per il mio ultimo viaggio. Prima, però, dovrà farselo restringere un po’ dal sarto, perché lui è molto più magro. Finché ero vivo, continua perfidamente con un sorriso sulle labbra, mi ha sempre fatto credere di essere un uomo atletico e in perfetta forma, ma non era affatto vero… In chiesa ci sarà moltissima gente, professionisti del cinema, attori, comparse, tecnici, agenti. Tra loro, Margherita Buy, lei pure ultracentenaria ma inossidabile, deporrà sul mio feretro un fascio di rose rosse. Gli addobbi, le corone di fiori, il libro degli intervenuti, la musica: ogni minimo dettaglio sarà curato da Giuseppe con attenzione maniacale. E sempre lui canterà con trasporto Racconterai di Patty Pravo, fendendo la folla in lacrime quando la bara verrà portata all’esterno per essere caricata su una limousine. A furia di parlare della mia morte, Giuseppe deve avermi allungato la vita di almeno cent’anni! Proprio a me che, per ironia della sorte, ogni giorno che passa mi convinco dell’inutilità del vivere senza la forza del tuo amore.

IX

Il coraggio di essere se stessi

Ti sento sospirare accanto a me, la testa abbandonata sul sedile. Sei qui e mi manchi. «Mi manci» mormoro con un filo di voce, riprendendo la nostra antica formula d’amore. Vorrei fermarmi in mezzo a questa stretta strada di montagna per rassicurarmi della tua presenza, per prenderti tra le braccia e cullarti. Invece stringo forte le mani sul volante fino a che le nocche mi si sbiancano. Tengo duro e continuo il mio racconto perché c’è poco tempo, ormai. Nel mondo che amo, ciascuno può essere semplicemente se stesso, con naturalezza e libertà, senza per questo sentirsi giudicato. Può vestirsi come gli pare, ballare come si sente, cantare a squarciagola nella notte, se ha voglia di far sapere a tutti che è felice. Può nutrire i suoi sogni, coltivare i desideri, seminare il proprio futuro di nuove speranze. Può chiamare il suo amore per nome a voce alta, infischiandosene se a qualcuno potrà dare fastidio. A volte, però, il destino si diverte a creare ostacoli che era impossibile preventivare. È quello che è capitato a Marcelo, un brasiliano che avevo conosciuto anni fa a un concerto di sonate di Bach all’auditorium di Santa Cecilia. Finite le superiori a San Paolo, dove era nato e cresciuto, aveva deciso di trasferirsi a Roma per studiare pianoforte e canto. I suoi genitori erano entrambi di origine italiana, ormai alla seconda generazione. Il nonno paterno, che veniva dalla provincia di Benevento, aveva impiantato in Brasile una piccola fabbrica di biscotti e dolciumi, che negli anni era divenuta una delle più importanti realtà dell’industria alimentare del Paese. Suo padre, il signor Augusto, viveva esclusivamente per il lavoro. Sebbene Marcelo ne parlasse come di un uomo brusco e all’antica, si percepiva quanto gli fosse affezionato. Alla madre, dona Maria

de Nazaré, poi, era legatissimo: nonostante il fuso orario a sfavore, si telefonavano quasi tutti i giorni. Aveva un fratello maggiore, Ricardo, di cui parlava spesso, e una valanga di zii e di cugini, dei quali amava raccontare aneddoti molto divertenti. Una famiglia ideale, insomma. E i genitori avevano sempre dato per scontato che prima i figli e poi i nipoti si sarebbero succeduti alla guida della loro azienda assicurandone la continuità, di generazione in generazione. Crescendo, Marcelo, da ragazzino simpatico e un po’ impacciato che era sempre stato, si era trasformato in un’autentica bellezza. Ovunque andasse, finiva attorniato da ragazze convinte di riconoscere in lui il proprio uomo ideale. Un po’ se ne compiaceva e gli capitava spesso di giocare con loro sul filo dell’ambiguità, finché queste si stufavano o si accontentavano di restargli amiche. Perché a Marcelo le donne, in realtà, non interessavano affatto e mettere su una famiglia tradizionale, come la immaginavano i suoi, non rientrava esattamente nei piani che si era posto. Come, del resto, non rientrava nei propri progetti l’impresa dolciaria. Amava altre cose, la musica innanzitutto. Così, mentre suo fratello Ricardo, fresco di laurea in economia, sedeva già nel consiglio di amministrazione, Marcelo finito il liceo aveva segretamente fatto domanda per entrare all’Accademia di Santa Cecilia di Roma. Aveva studiato pianoforte fin da piccolo, e su questo i genitori non avevano avuto nulla da dire, anche perché era sempre stato un bambino pieno di interessi, praticava karate e giocava a tennis piuttosto bene. Quando aveva chiesto alla madre se poteva prendere lezioni di canto, è vero, lei aveva un po’ storto il naso, ma dopotutto Marcelo aveva ottimi voti a scuola e presto si sarebbe iscritto alla facoltà di ingegneria all’Università statale di San Paolo; che male c’era se si dilettava ancora un po’ con quelle attività artistiche? A suo padre, in fabbrica per dodici ore al giorno, non l’avevano neppure fatto sapere. Il giorno in cui gli era arrivata la comunicazione ufficiale che la domanda alla Santa Cecilia era stata accettata, a Marcelo era parso di scoppiare di felicità. Ma come

annunciarlo ai suoi? La soluzione più rischiosa era anche la più facile: avrebbe semplicemente evitato di farlo. Perché, invece, non esprimere il desiderio di completare la propria formazione all’estero, iscrivendosi alla facoltà di ingegneria dell’Università di Roma, per esempio? Del resto, non era forse ciò che faceva buona parte degli amici dei genitori, che mandavano i propri rampolli a studiare in Europa o negli Stati Uniti, prima di far loro prendere le redini dei vari business familiari? L’Italia, poi, era o no la loro patria del cuore? Marcelo espose le proprie intenzioni con un tale fervore che la madre prima e il padre subito dopo capitolarono con facilità. Anzi, furono entusiasti di questa decisione, come se l’idea fosse venuta a loro. Il secondogenito avrebbe, dunque, studiato ingegneria a Roma, era deciso. Il fatto che la medesima città ospitasse casualmente anche uno dei templi mondiali della musica passò del tutto inosservato. Dona Maria de Nazaré, tramite conoscenze, gli trovò un delizioso trilocale a Trastevere. Dopo essersi assicurato che almeno una stanza fosse grande a sufficienza per ospitare comodamente un pianoforte a coda, Marcelo aveva fatto le valigie ed era partito. Quando l’ho conosciuto stava ormai per diplomarsi. Ci univano diversi amici comuni, così capitava spesso di vederci. Insieme a due compagni di accademia aveva messo su un trio jazz: quando si esibivano in qualche locale mi invitava sempre. Finché una sera, ero appunto andato a sentirlo suonare, mi aveva annunciato che, seppur a malincuore, di lì a qualche settimana sarebbe rientrato in Brasile. Intendeva tentare la carriera musicale come cantautore nel suo Paese. Congedandosi mi aveva dato il suo recapito telefonico a San Paolo. Così, qualche tempo dopo, quando ricevetti un invito ad andare a Rio de Janeiro per la presentazione di un mio film, all’interno di una rassegna sul cinema europeo, mi venne naturale provare a rintracciarlo. Marcelo fu felicissimo di sentirmi. Mi disse che, per combinazione, il giorno seguente sarebbe dovuto venire a Rio. Non vedeva l’ora di incontrarmi

e, se non mi spiaceva, avrebbe portato anche Ricardo, suo fratello, che viaggiava con lui. Ci incontrammo in un elegante ristorante di pesce a Leblon. I due fratelli si assomigliavano molto, sebbene Ricardo fosse leggermente più alto e avesse gli occhi scuri. Quanto a Marcelo, lo trovai più abbronzato e atletico di come me lo ricordavo. Mi raccontò che, venendo spesso a Rio, e soggiornando a due passi dalla spiaggia, aveva preso a fare surf con una certa frequenza. Cavalcare le onde gli era sempre piaciuto, ma quando viveva stabilmente a San Paolo, lontana dall’oceano un’ottantina di chilometri, poteva dedicarsi a quello sport solo di rado. Tra una caipirinha e una moqueca di pesce, osservavo i miei commensali con attenzione. L’intuito mi stava suggerendo che, per incredibile che fosse, anche Ricardo era gay. Così, quando ci salutò per correre a un appuntamento di lavoro, rimasto solo con Marcelo, non mi trattenni dal fargli la domanda che avevo sulla punta della lingua da buona parte della serata. «Ma tuo fratello, è anche lui…?» «Già, proprio così. Quel che si dice una combinazione, no? Qualche mese fa l’ha annunciato in famiglia.» Il tono di voce tradiva una nota di amara esasperazione. A quanto pareva, non ne era affatto contento e gliene chiesi il perché. «Contento? Mi ha rovinato la vita!» mi rispose di rimando. Marcelo era tornato in Brasile pieno di buoni propositi, più che mai determinato a mettere ordine nella sua vita e a dire finalmente tutta la verità ai suoi, e cioè che a lui non interessavano né i biscotti né le ragazze né, tanto meno, l’ingegneria. Tale era la voglia di liberarsi di ogni fardello, che aveva iniziato a confidarsi con il fratello in auto, durante il tragitto dall’aeroporto internazionale verso casa, una villa di tre piani circondata da alti muri e con un sistema di sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro, in un quartiere residenziale molto esclusivo.

Lungo l’autostrada a sei corsie si succedevano agglomerati di baraccopoli, interrotti ogni tanto da qualche grattacielo solitario. Ricardo era andato a prenderlo con un’auto nuova fiammante, una Jeep dai vetri oscurati e antiproiettili che pareva una camionetta delle squadre speciali della polizia. Stando in Europa tutto quel tempo, Marcelo si era quasi scordato di quanto la paura di sequestri, furti e violenza in Brasile condizionasse la vita di chi possedeva molto, quando invece la maggior parte della popolazione non aveva nulla. Il fratello, accanto a lui, guidava avvolto in un insolito silenzio, ma sul momento non ci aveva fatto caso, distratto com’era dai propri pensieri. Era una domenica mattina, e la famiglia, come da tradizione, si sarebbe riunita per il pranzo, reso ancora più speciale dal ritorno del «figlio ingegnere». A tavola, quel giorno, avrebbe finalmente dichiarato la propria omosessualità, aveva precisato, distogliendo per un attimo lo sguardo da quello struggente paesaggio per osservare la reazione di Ricardo. Lui gli aveva lanciato un’occhiata sorpresa, ma subito era tornato a fissare la strada davanti a sé, riprendendo la sua solita espressione enigmatica, la stessa con la quale da piccolo annunciava al nonno «Scacco al re!» stracciandolo per l’ennesima volta alla scacchiera. «Ti ho sconvolto? Di’ la verità: non avevi mai sospettato che fossi gay?» gli aveva chiesto a bruciapelo Marcelo, pur di provocargli una qualsiasi reazione. Ma Ricardo era parso di nuovo totalmente assorbito dalla guida e dal ruolo di fratello maggiore scafato, «che tutto sa e nulla lo sconvolge». Si era limitato a sottolineare che non era sua abitudine immischiarsi nelle scelte delle persone, anche le più care, soprattutto se riguardavano la sfera sessuale. Dopo una pausa, però, aggiunse: «Comunque, hai tutto il mio appoggio, figurati!». Nel tono di voce Marcelo aveva avvertito qualcosa di forzato, ma era pur vero che suo fratello possedeva un carattere che definire chiuso era poco, e poi erano almeno due

anni che non si vedevano. Fatte tali considerazioni, aveva deciso che non era il caso di crearsi paranoie e che era meglio concentrarsi sull’immediato futuro. «Mi sentivo così entusiasta, così carico di energia, pronto a prendere finalmente il destino tra le mani nel mio Paese, da cui mancavo da tanto tempo…» mi aveva confidato sorseggiando il whisky che il cameriere ci aveva appena servito, mentre la voce gli si spezzava in una curiosa inflessione di rimpianto. Perché quel tono tragico? Sempre più incuriosito, lo invitai a spiegarsi meglio. Ma lui, che amava i colpi di scena, volle continuare a raccontare la storia a modo suo. A casa tutti lo aspettavano come un eroe che torna vincitore da una battaglia. I figli adolescenti di un cugino di secondo grado, con l’aiuto di un paio di cameriere, avevano persino decorato il vialetto del parco che portava all’ingresso della villa con striscioni di benvenuto. Quanto a sua madre, aveva personalmente preparato i «maccaroni» al forno in suo onore. Per tutto il pranzo Marcelo non aveva fatto altro che sentire il battito del cuore crescere di volume, portata dopo portata. Ormai era assordante, ma doveva resistere fino al dolce. Aveva stabilito, infatti, di parlare solo allora e non aveva alcuna intenzione di cambiare il suo piano proprio adesso. Da settimane non faceva che ripetere mentalmente il suo discorso. Aveva pensato a quel momento centinaia di volte e ogni cosa stava procedendo nel modo esatto in cui lui l’aveva immaginata, come se tutti stessero seguendo nei minimi dettagli una sceneggiatura scritta da lui. Per dessert suo padre volle che assaggiassero una torta, dall’inedita ricetta, che «avrebbe rivoluzionato i gusti dei brasiliani, grandi e piccini». Si trattava di un panettone al cioccolato e noci del Pará, messo a punto dal Centro ricerca nuovi prodotti. Qualcuno stappò una bottiglia di spumante prodotto da una piccola casa vinicola del Rio Grande do Sul. Teso allo spasimo per ciò che stava per fare, Marcelo si sentiva quasi estraniato. Aveva la sensazione di trovarsi in una bolla di cristallo. Una bolla che stava, finalmente, per

scoppiare. Si era riempito il calice di vino, buttandone giù un sorso generoso per prendere coraggio, aveva inspirato profondamente e… «Ho un annuncio molto importante da fare!» sentì qualcuno dire. Che strano, era come se gli avessero rubato le parole di bocca. Mise a fuoco chi le aveva pronunciate: Ricardo! Lo assalì una paura assurda. Un presentimento. Cosa mai doveva comunicare di tanto importante? E perché proprio adesso? Forse voleva rivelare a tutti la confidenza che lui gli aveva appena fatto, anticipando inutilmente la sua confessione? «Ho un annuncio molto importante da fare: sono gay e non intendo più continuare a nasconderlo come in tutti questi anni.» L’allegro chiacchiericcio nella sala si era spento di colpo, come se qualcuno avesse azionato un interruttore. Nel silenzio generale, si levò la voce di suo padre. «Passami la bottiglia Maria, questo nostro spumante non ha nulla da invidiare a quelli italiani. Che dico? Nemmeno ai francesi! Vero Ricardo? Ricordi quando abbiamo affrontato a mani nude quel maiale selvatico che ci aveva inseguito mentre facevamo jogging nella tenuta fuori Porto Alegre? E la finale del torneo di calcio aziendale l’anno scorso? Quante di queste bottiglie abbiamo stappato alla premiazione?» Il signor Augusto stava evidentemente seguendo una doppia strategia: fingere di non aver sentito nulla e rivangare episodi che trasudavano virilità per neutralizzare ogni possibile minaccia al suo mondo di certezze. In un altro momento Marcelo ne avrebbe riso, ora era solo annichilito. Qualcuno, suo fratello, gli aveva rubato la libertà. Così l’aveva fissato con furore e Ricardo, di rimando, gli aveva fatto spallucce. Il suo sguardo sembrava dirgli: «Mi spiace, non ho potuto comportarmi altrimenti: o io o te!».

«Forse non hai capito quello che ho appena detto, papà, quindi te lo ripeto con parole certo a te più congeniali: sono frocio, e non ho più alcuna intenzione di nasconderlo.» Poi gettò il tovagliolo sulla tavola e se ne andò. Adesso non sarebbe stato più possibile continuare a far finta di niente. Il padre aveva iniziato a urlare brandendo la bottiglia come se volesse scagliarla in aria, il volto rubizzo, gli occhi fuori dalle orbite. Dona Maria de Nazaré, invece, pallidissima, era quasi svenuta sul tavolo da pranzo. Le cognate le facevano vento con i loro larghi ventagli colorati, dando ordini perentori alla servitù perché si spalancassero le finestre dato che «mancava aria» e la povera dona Maria «doveva pur respirare». E lui, Marcelo, aveva assistito a quel parapiglia come un anonimo spettatore che assiste a un film che pare ispirato alla sua vita, ma nel quale nulla va come dovrebbe andare. Stupefatto e infelice, aveva ascoltato il padre, sempre più rosso in viso, urlare epiteti irripetibili all’indirizzo di Ricardo, roteando la bottiglia a destra e a manca, accompagnato dalle urla dei parenti, mentre le tate si precipitavano a prendere in custodia i bambini, alcuni in lacrime, altri sovreccitati da tutto quel clamore. «Nessuno più pronunci il nome di Ricardo in questa famiglia! Da oggi lo disconosco: non merita più un posto in questa casa e in fabbrica!» Dopo aver pronunciato tale editto, suo padre si era rivolto a lui: «Marcelo, tu non mi hai mai deluso, sei il sangue del mio sangue e, adesso che sei tornato, entrerai in azienda e insieme faremo grandi, grandissime cose! Ora spetta a te dare degli eredi a questa famiglia». Il vino che fino a qualche istante prima aveva accentuato la sua ira, adesso lo aveva reso oltremodo sentimentale. Aveva stritolato Marcelo con un maschio abbraccio, subito seguito da violente pacche sulle spalle. Proprio in quell’istante, si era sentito uno schianto: dona Maria de Nazaré, che da alcuni anni era in crescente

sovrappeso e aveva raggiunto il ragguardevole traguardo di novantasette chili, mentre seguiva il consiglio delle cognate di andare a sdraiarsi sul letto, era crollata a terra, preda di un mancamento, spaccando in due un tavolino da tè. A questo punto il racconto di Marcelo era diventato davvero assurdo e io scoppiai a ridergli letteralmente in faccia. Sapevo troppe cose sul suo conto per non trovare comica la situazione nella quale si era messo. «Non c’è proprio niente di divertente!» osservò lui offeso. Ma poi si unì alla mia risata: Marcelo è sempre stato un ragazzo spiritoso e dotato di autoironia. «Capisci in che guaio mi ha cacciato Ricardo? Ti rendi conto? All’improvviso, proprio io che da anni ormai mi sentivo lontano mille miglia dalla famiglia ed ero tornato solo per confessare la verità, mi ritrovavo catapultato al centro di tutte le loro aspettative. Ero diventato la loro unica speranza!» mi disse accalorandosi di nuovo. Suo padre era soggetto a violenti attacchi d’ira, che però si sgonfiavano velocemente. E, infatti, nel giro di pochi giorni si era già dimenticato delle parole di fuoco pronunciate contro Ricardo. Dona Maria de Nazaré, invece, non si capacitava di non essersi mai accorta di niente. Una madre certe cose dovrebbe intuirle… «Devi aiutarmi a capire!» supplicava Marcelo, asciugandosi le lacrime con uno dei suoi fazzoletti ricamati a mano, profumati alla vaniglia. Sdraiata sul letto, la testa ormai candida sostenuta da un mucchio di cuscini in varie gradazioni di rosa, pareva la versione invecchiata della Madonna Addolorata circondata di fiori ritratta nel piccolo quadro appeso alla parete proprio sopra di lei, un’immagine preziosa dai poteri miracolosi, almeno così diceva il nonno che se l’era portata in nave dall’Italia, nascosta tra la biancheria nell’unica valigia da migrante. Ciò che più la tormentava era il fatto che in tutti quegli anni Ricardo «gliel’aveva fatta davanti al naso».

Anche zia Lucia e zia Ana Carla, le sorelle del padre, non si capacitavano. Nemmeno loro si erano mai rese conto di nulla e ora si sentivano tradite da Ricardo. Ma come? Gli omosessuali non parlavano in falsetto? Non ridevano in modo acuto come fanno le donne? Non camminavano sculettando? Non indossavano camicie dai colori sgargianti a cui abbinavano foulard fantasia? Quel loro nipote, invece, si era sempre abbigliato in modo ultraclassico in blu o, al limite, marrone o verde sottobosco… Da piccolo giocava a calcio, da grande andava a caccia con suo padre: queste erano cose da uomini, o no? Gli chiesi a che punto fosse adesso la situazione, visto che, a quanto pareva, Ricardo l’avevano poi perdonato. «A che punto è la situazione? Semplice! Tra pochi mesi mi sposo! Ecco a che punto è la situazione!» mi rispose con gli occhi vitrei dalla disperazione. La cosa più assurda era che adesso proprio Ricardo sosteneva l’importanza di assicurare una continuità all’impresa di famiglia, anche più del padre. Sembrava finito in una trappola senza via d’uscita. Pur di non deludere i suoi dando loro un dispiacere che avrebbe potuto essere troppo grande da sopportare, aveva taciuto la realtà e si era sacrificato sull’altare delle aspettative della famiglia. Ormai svuotato di ogni suo vero interesse, aveva anche accettato di lavorare in azienda. Il signor Augusto l’aveva affidato a uno dei suoi collaboratori più validi, il dottor Luiz Fernando, che dirigeva la divisione marketing. Questi, un uomo piccolo e rotondo dal temperamento vivace, se l’era preso sotto la sua ala. L’aveva portato in giro nei vari settori dello stabilimento, gli aveva mostrato grafici e numeri a lui del tutto incomprensibili. Erano stati giorni terribili: a furia di fingere e cercare di evitare una gaffe dopo l’altra, si ritrovava la sera con un mal di testa ottenebrante. Il dottor Luiz Fernando aveva una figlia, Beatrice, una ragazza graziosa e molto determinata a farsi largo nella società paulista come organizzatrice di eventi. A 25 anni aveva già

un’azienda di catering e stava per aprire un locale specializzato in sandwich gastronomici da abbinare a una prestigiosa scelta di vini, una formula importata direttamente da Milano. Anche la famiglia di Beatrice era italiana, sebbene solo da parte di madre. Marcelo ben presto si era sentito puntati su di lui non solo gli occhi dei suoi genitori, ma anche quelli del dottor Luiz Fernando. E di Beatrice, naturalmente… Non mi trattenni e scoppiai a ridere di nuovo. Era proprio il Marcelo che conoscevo che mi stava parlando di una donna? «Sei crudele!» osservò lui, con la voce tremante. Stava per piangere! Però poi subito si riprese e continuò il racconto. A iniziare erano state le zie, osservando quasi per caso che lui, Marcelo, e Beatrice, così belli e pieni di vita, sembravano fatti l’uno per l’altra, dopodiché ritrovarsi ufficialmente fidanzato con lei era stato un attimo. Era come se tutto fosse stato già deciso. Qualcuno aveva sostituito la sua sceneggiatura con un’altra, nella quale lui e Beatrice sarebbero presto divenuti marito e moglie. «Dunque, adesso stai per sposarti e sei a capo della tua azienda? Sei il re brasiliano dei panettoni?» gli chiesi nel tentativo di sdrammatizzare con una battuta di spirito. Ma le cose, per sua fortuna, non erano andate in questo senso. Almeno sul fronte lavoro Ricardo era venuto in suo aiuto. Perché lui non solo ci sapeva fare con gli affari ma, al contrario di Marcelo, erano il suo elemento naturale. E, cosa ancor più importante, amava la loro azienda. Conosceva ogni centimetro dello stabilimento, ogni dipendente, ogni macchinario. La fabbrica era casa sua. E lontano dal rumore di fondo delle gigantesche impastatrici in azione, dalla danza sincronizzata dei distributori automatici di uvette e canditi, dai forni, dai nastri trasportatori che veicolavano ogni giorno centinaia e centinaia di dolci direttamente nei magazzini, non ci poteva stare.

Il signor Augusto, da parte sua, poteva anche essere il peggior retrogrado sulla faccia della terra ma, una volta sbollita la rabbia, lo aveva riaccolto in fabbrica a braccia aperte. Era perfettamente consapevole del fatto che Ricardo fosse oltremodo prezioso per il futuro dell’azienda. E poi sapeva bene di non avere più la capacità di stare dietro alle richieste del mercato come quando aveva trent’anni: lo scenario era cambiato, anzi, era in continua evoluzione, al comando occorreva una persona giovane, dinamica e preparata. E non essendo uno sprovveduto, sapeva altrettanto bene che Marcelo, quel suo figlio tanto amato, non era tagliato per il mondo degli affari. Quindi, per il bene dell’azienda, Ricardo aveva riavuto il suo posto. Anzi, in realtà non l’aveva mai davvero perso. In cambio, si era impegnato a mantenere un basso profilo sulla propria vita affettiva. Sollevato dall’impegno nell’impresa di famiglia, Marcelo, con le dovute cautele, aveva finalmente osato rivelare di sentirsi ed essere musicista a tutti gli effetti. Su sua richiesta, aveva eseguito un piccolo concerto per la madre, che ne era rimasta deliziata. Questo l’aveva incoraggiato anche a rivelare che, in realtà, in Italia non si era laureato, ma aveva conseguito il diploma di perfezionamento in pianoforte all’Accademia di Santa Cecilia, uno degli istituti musicali più prestigiosi del mondo. Alla facoltà di ingegneria a Roma non aveva mai nemmeno messo piede, ma questo particolare lo tenne per sé. In pratica, aveva barattato la musica per l’amore. «Ma è proprio necessario che tu ti sposi?» gli chiesi. «Sì perché devo avere dei figli, i miei ormai se lo aspettano… Non parlano d’altro…» mi rispose con un lampo di disperazione nello sguardo. Qualche mese più tardi, ricevetti le sue partecipazioni. Quel matrimonio si sarebbe veramente celebrato! Non ci andai: avrei riso tutto il tempo. E mi sarei anche fatto del sangue amaro. Le giustificazioni di Marcelo non mi avevano convinto

neanche un po’: trovo folle non avere il coraggio di vivere la propria vita. Da amici comuni venni a sapere che in seguito aveva lasciato San Paolo per trasferirsi a Rio dove stava registrando il primo disco, una raccolta di ballate ispirate ai ritmi della bossa nova della fine degli anni Cinquanta. Quando uscì me lo fece avere, ricordi? Lo ascoltavamo spesso. A un certo punto è sparito, forse l’ho prestato a qualcuno che non me l’ha più restituito. Da anni, ormai, ho perso le tracce anche di Marcelo. Me lo immagino finalmente in pace con se stesso e la sua famiglia, che suona il pianoforte in bermuda, nel salone di un grande appartamento con vista sull’oceano, a un piano alto di un grattacielo di Leblon o di Barra da Tijuca, la tavola da surf appoggiata accanto alla porta, pronta per essere usata. Chissà se ha avuto dei figli? Chissà se ha trovato un modo per essere felice? Da ragazzo Marcelo aveva saputo aspettare l’onda giusta. Era riuscito a cogliere il momento più opportuno per prendere il largo dalla famiglia e realizzare i suoi sogni. Ma poi si era arenato. La vita non è mai esattamente come la vogliamo: ci offre sempre delle sorprese e, più siamo capaci di adattarci ai cambiamenti di programma, meglio è. L’importante, però, è non tradire mai noi stessi. Perché se ci intestardiamo a non ascoltare l’amore, siamo perduti. Ne abbiamo parlato un sacco di volte, tu e io. Le nostre famiglie, così lontane geograficamente e culturalmente, quanto a rispetto e apertura mentale parlano la stessa lingua. Troppi ragazzi gay, invece, vivono ancora i propri sentimenti come un segreto da tenere stretto. Un segreto che spesso è davanti agli occhi di chiunque voglia guardare, ma che tutti fanno finta di non vedere. Perché, a causa del gioco degli specchi dell’ipocrisia, finché nessuna parola viene pronunciata, chiunque può girare il viso dall’altra parte fingendo che nulla sia come appare. E tu, intanto, vivi a metà. Oppure giochi sul

filo di una doppia vita, senza mai poterti sentire tutto intero, perché tra te e la pura e semplice felicità di esistere pienamente si ergono pregiudizi monumentali, capaci di rivelarsi di una durezza granitica appena ti ci scontri. Ancora oggi, e dove meno te lo aspetti. Non è affatto vero che dalle ferite si può sempre guarire. Il disprezzo e le discriminazioni possono far male quanto e più delle percosse. Possono uccidere se ti colpiscono proprio quando sei più fragile, un adolescente smarrito che sta scoprendo l’amore. Non bisogna stupirsi, dunque, se alcuni di noi scelgono il silenzio. O come Vera, tanti anni fa – quando ancora si chiamava Mario –, lasciano il luogo dove sono nati, costruendosi un’altra vita e un’altra identità il più lontano possibile da casa. Ma c’è invece chi quel coraggio di essere se stesso lo trova, nonostante tutto. Anche se il prezzo da pagare si rivela molto, troppo alto. Qualche anno fa, nel corso di un’intervista, per la prima volta ho deciso di parlare di me stesso, oltre che dei miei film. L’ho fatto per questi ragazzi, ma anche per le loro famiglie. È stato come dire a ciascuno che non è solo, abbracciarlo e sostenerlo, nella speranza di trasmettergli un po’ di quella forza che lo aiuterà a difendersi e a continuare per la strada che si è scelto. Pochi giorni dopo l’uscita dell’intervista, un quotidiano turco pubblicò un articolo sprezzante su di me, un concentrato di pregiudizi e falsità. La cosa peggiore era il titolo: Confesso, sono frocio. Non era tra le letture abituali di mia madre, ma purtroppo le capitò tra le mani. La sera mi telefonò per raccontarmi dell’accaduto. «So tutto di te da quando sei nato, che bisogno c’era di dirlo al mondo?» mi rimproverò con dolcezza. L’articolo l’aveva ferita e io me ne rammaricai profondamente. Ma era il prezzo della notorietà. Più ti esponi e maggiori saranno le armi a disposizione di chi vuole colpirti.

Per fortuna, però, le occasioni in cui la stampa parlava di me in modo positivo superavano di gran lunga quelle in senso opposto. «Quando un giornale pubblica la notizia che ho vinto un premio o che ho ricevuto un qualche riconoscimento, tu ne sei fiera, no?» mi permisi di controbattere osservando che, fra l’altro, accadeva piuttosto di frequente. Restò un attimo in silenzio, come per valutare un punto di vista di cui prima non aveva tenuto conto, e subito mi diede ragione. L’argomento era chiuso. Addirittura si scusò. In quell’occasione, una volta di più, ho provato una profonda ammirazione per mia madre, così amorevole, aperta e illuminata. Lei conosce tutto di me: non avrei potuto dirle nulla che già non sapesse. Diffido di chi procede per esclusione, di chi si fa guidare dai preconcetti. È come vivere in bianco e nero, rinunciando alle meravigliose sfumature che riscaldano l’esistenza. Il rosso dell’amore possibile e il viola di quello perduto, il verde dell’amicizia che non morirà mai, il giallo della felicità assoluta. Ogni sentimento ha il suo colore. E quando le troppe emozioni ti confondono, basta chiudere gli occhi per riconoscerle. Io so già cosa vedrei. Vedrei tutti i colori dell’arcobaleno, perché tu sei il rosso dell’amore possibile e il viola di quello perduto, il verde dell’amicizia che non morirà mai e il giallo della felicità assoluta. Eppure, se sei diventato la mia vita, è stato solo per caso. Oggi so che se l’amore ti cerca, spetta a te farti trovare. Per questo occorre lasciare aperte tutte le porte: non sai mai chi potrebbe entrare, cosa ti potrebbe portare. Amo i colpi di scena. Mi è sempre piaciuto sperimentare, avventurarmi lungo strade sconosciute. E poi ho incontrato te, il più inatteso degli imprevisti. Con te rinasco ogni giorno: parto verso pianeti inesplorati, percorro sentieri mai battuti, senza perdermi mai. Lo so che

può essere difficile da credere con tutto quello che ci è successo, ma se solo tu volessi tornare a darmi una direzione, potrei seguirti anche a occhi chiusi, perché tu sei il mio Sud e il mio Nord, la bussola che mi orienta. E anche ora, dove ti sto portando se non nel luogo che più ami e dove sai essere felice? Allungo la mano per una leggera carezza. La tua guancia è fresca. Mi guardi con il tuo sguardo luminoso, poi osservi il bosco che ci circonda da ogni lato. Nel mio cuore c’è solo un prima di te e un durante te: è senza di te che non riesco nemmeno a immaginarmi.

X

Danzando con il fuoco Ho abbassato completamente il finestrino e adesso l’aria pura di montagna ci circonda come un balsamo rigenerante. Mi sembra di avvertire profumo di miele, quasi ci fosse un alveare nelle vicinanze. A te, invece, pare aroma di dolci appena sfornati. «Biscotti» sussurri. Rido, e tu mi segui. Da quanto tempo non succedeva? Una bella risata ha il sapore di una normalità perduta. Forse la nebbia nella quale ti stavo perdendo ha iniziato a dissiparsi per lasciare spazio a una nuova vita. Fatta di cose e gesti concreti. Un mondo perfetto, privo di memoria e ricordi, dove ci ameremo per sempre tu e io, come in una fiaba di cui non voglio ascoltare la fine. Quasi l’avessi evocata, rivedo il viso antico ed enigmatico della Signora Circassa – così la chiamavamo – mentre ci ammaliava con le sue storie di amori e tradimenti, di fanciulle dall’incantevole bellezza e di eunuchi coraggiosi. Era una conoscente di famiglia, una donna imponente dal volto segnato. Aveva i capelli tinti di un rosso acceso con l’henné, come se avesse il fuoco sulla testa. Quando ero bambino veniva spesso a farci visita nella nostra casa a Istanbul. Aveva trascorso buona parte della propria vita all’interno di un harem, probabilmente come inserviente o, comunque, in una posizione subalterna, a giudicare dall’estrema deferenza con cui trattava mia nonna, che era stata sposata con un pasha per ben due volte, in prime e seconde nozze. Nella società turca questo titolo equivaleva a un ruolo di grande potere e autorevolezza. La Signora Circassa era a conoscenza di molti segreti e sapeva narrarli in modo incantevole. Spesso il racconto si faceva particolarmente scabroso e piccante, allora c’era sempre qualcuno, mia madre per esempio, che esclamava: «Questo i bambini è meglio che non lo sentano!». Ma io, che

non mi perdevo una parola, fingevo di dormire, così più nessuno badava a me. Alla fine di ogni storia, prendeva tre mele dalla sua capace borsa di vimini e, facendo il gesto di offrirle al pubblico, diceva: «Sono cadute tre mele dal cielo: una per me, una per chi ha ascoltato, una per l’eroe della storia che ho appena raccontato». In realtà, teneva sempre per sé anche quella dell’eroe. Ormai non siamo troppo lontani dalla nostra meta. La salita si è fatta più ripida e le curve più strette. Quante volte hai percorso questa strada con la macchina carica di attrezzi, bidoni di vernice, campioni di parquet, mentre ti dedicavi anima e corpo a rimettere in sesto la casa che era stata di tuo padre? Ancora qualche tornante e il suo tetto di pietra apparirà sulla costa della montagna più alta per darci il suo benvenuto, parzialmente nascosto dagli alberi. La Signora Circassa mi riporta al microcosmo femminile nel quale sono cresciuto. L’harem di casa mia: la mamma, la nonna, le zie… Risento le loro voci, rivedo i loro gesti, riassaporo le prelibatezze che cucinavano per me. Le donne! Le donne hanno avuto sempre un’importanza primaria nella mia vita. Mi sono state sorelle, amiche, compagne di strada, amanti. Negli anni Settanta, Roma traboccava di femminilità. L’onda lunga della rivoluzione sessuale ne aveva contagiato ogni angolo. Non solo rivendicazioni femministe, manifestazioni e cortei, ma anche autocoscienza collettiva, mostre, happening, teatro sperimentale, le prime sessioni di yoga… Fare l’amore era visto come un modo di conoscere il proprio corpo e riappropriarsi del diritto di godere della propria sessualità. Non erano solo parole, concetti teorici, intellettualismi. Guidati dalle donne, stavamo scoprendo sulla nostra pelle una nuova libertà di essere, di vivere i sentimenti, di andare oltre i soliti ruoli nei quali la società ci aveva imprigionato fino ad allora.

È vero, per alcune di loro la difesa dei propri diritti aveva sconfinato nell’odio generalizzato per il maschio: una volta, attratto da uno scorcio architettonico suggestivo, ero entrato senza saperlo nel cortile della Casa delle donne e ne ero stato scacciato con epiteti alquanto vivaci. Per fortuna, però, più che rifiutarci, le donne desideravano semplicemente sparigliare. Loro si stavano scoprendo più forti, sicure, ribelli, indipendenti. E noi uomini, finalmente, potevamo permetterci, a volte, di sentirci e mostrarci fragili, sentimentali, bisognosi di protezione. Nulla era più come prima e molto c’era ancora da scoprire. Rita, per esempio, organizzava a casa sua affollate riunioni di autocoscienza, durante le quali – si diceva – le partecipanti raggiungevano la piena consapevolezza del proprio corpo danzando nude, toccandosi e dialogando con la propria vagina, con l’aiuto di un piccolo specchio. Occhi neri e profondi e lineamenti affilati, aveva una bellezza zigana e una personalità esuberante. Era una scultrice: il suo studio, un grande loft dalle ampie vetrate, a Trastevere, era frequentato da molti artisti e intellettuali. Rita era sposata con un ragazzo un po’ più giovane di lei, un tipo piuttosto carino, ma questo non le impediva di avere una vita sessuale molto libera. Una sera mi invitò da loro dopo cena. Quando arrivai, c’erano solo lei e il suo compagno, Renato. Percepii immediatamente un’atmosfera strana, come se ci fosse un’energia particolare nell’aria. E infatti, dopo i classici preamboli, mi chiese se mi andava di andare a letto con suo marito: sapeva che frequentavo anche uomini, per questo si era rivolta a me, mi spiegò. Oggi una proposta così verrebbe subito etichettata come «trasgressiva», ma allora era del tutto normale. La promiscuità sessuale era la norma, non l’eccezione: io stesso conoscevo molti ragazzi che andavano a letto con i mariti delle amiche. Rita mi spiegò che aveva avuto un’esperienza lesbica, motivo per cui il suo compagno ora voleva provare come sarebbe stato fare l’amore con una persona del proprio sesso…

L’ho detto, lui non era niente male, quindi mi prestai volentieri al loro esperimento. Lei se n’era appena andata a trovare un’amica, per lasciarci soli, e io stavo ancora pensando a come rompere il ghiaccio quando Renato mi era saltato addosso. Più tardi, in cucina, davanti a un caffè, si accese una sigaretta e prese a chiacchierare come se niente fosse di un viaggio in India che stava progettando da tempo. Evitava di guardarmi negli occhi. Ebbi la netta impressione che fosse il suo modo per dirmi che sì, avevamo fatto sesso, ma per lui era già un capitolo chiuso. Che non mi facessi illusioni sul suo conto, era stato solo un esperimento. Ma io, dentro di me, mi chiesi: se io ero il primo, chissà chi sarebbe stato il secondo! Rita non ha mai smesso di avventurarsi nella vita buttandosi a capofitto nelle cose, senza temere di girare pagina e ricominciare da zero un sacco di volte. Quando l’ho conosciuta faceva spesso delle mostre e le sue opere, maschere e corpi di donna ispirati all’arte primitiva, stavano riscuotendo un discreto successo. Finché decise di punto in bianco di vendere l’atelier. Aveva ricevuto un’offerta da un imprenditore che voleva trasformare il loft in un bar e aveva deciso di accettarla, per cambiare vita. Mezzora dopo aver firmato il compromesso e ricevuto l’anticipo, aveva mutato nuovamente idea. Cercò in tutti i modi di recuperare il suo studio, intentò persino una causa, ma non ci fu niente da fare. Insieme all’atelier Rita diceva di aver perso anche l’ispirazione e smise di scolpire. In seguito, ha avuto una bancarella di vestiti usati a Porta Portese presa d’assalto dalle sue amiche femministe, poi una boutique per signore radical chic, quindi un bed & breakfast per viaggiatori alternativi dai gusti raffinati… Ogni cinque o sei mesi, si lanciava in una nuova attività. A modo suo, Rita è rimasta fedele sino in fondo agli ideali che ci avevano animati più di quarant’anni fa. Quella voglia innocente di assaporare ogni sfumatura della libertà si è del tutto persa, oggi. Presto si farà fatica anche solo a ricordare com’era, quali magnifici orizzonti aveva aperto a una società ancora ferita da un recente passato di sofferenze e orrori. Parlo

della Seconda guerra mondiale, delle bombe, delle persecuzioni razziali, della paura dei rastrellamenti, della mancanza di cibo. Negli anni Settanta queste cose non le studiavi sui libri, te le raccontava chi le aveva vissute, con il ricordo fresco negli occhi. La Signora Circassa e le sue mele lucide e rosse, però, mi richiamano alla mente anche qualcos’altro. La facilità con cui io, che ero solo un bambino e non sapevo ancora nulla della vita, guidato dalla sua voce ipnotica riuscivo a immaginare mondi sconosciuti in maniera così vivida e precisa. Negli anni quelle fantasie indistinte hanno messo radice dentro di me, spingendomi a venire in Italia a studiare, a inseguire quel sogno che mi portavo dentro fin da piccolo. Il sogno di far parlare le immagini, di costruire intorno alla trama impalpabile delle parole una visione che ne avrebbe perfezionato la magia. Per realizzarlo, dopo l’Accademia Silvio D’Amico e qualche esperienza nella compagnia di teatro sperimentale Living Theatre, ho iniziato a bussare alle porte del cinema. Entrare in contatto con quel mondo non era facile, ma non mi sono mai perso d’animo. Come potevo avvicinare gli autori che più ammiravo, quelli con cui avrei tanto desiderato collaborare? Ebbi l’idea di proporre a una rivista turca una serie di interviste a registi italiani famosi o emergenti. Non potevo vantare grande esperienza come giornalista, ma avevo il vantaggio di essere sul posto, e quindi costare poco. Inoltre, possedevo una motivazione fortissima: ero pronto a tutto. Le interviste mi avrebbero dato l’opportunità di conoscere alcune delle personalità più interessanti e geniali del momento e, a fine chiacchierata, avrei potuto accennare alla mia totale disponibilità a fare, per esempio, l’assistente volontario… Fu così che intervistai i grandi maestri del cinema italiano. Furono incontri memorabili. Uno fra i tanti, impossibile da cancellare. Quando andai a trovare Elio Petri, era già malato, ma questo lo venni a sapere solo più tardi. Mentre stavo per accomiatarmi, mi disse: «Tutto ciò che facciamo, è solo per

allontanarci dall’idea della morte». Ripenso spesso alle sue parole, così struggenti e drammaticamente vere. Tra gli autori emergenti, incontrai anche un famosissimo attore che si stava apprestando a dirigere il suo secondo film. Fu lui a offrirmi per primo la possibilità di lavorare «nel» cinema. Quando l’aiuto-regista mi chiamò per convocarmi il mattino seguente a Cinecittà, dove stavano girando, quasi non ci credevo. Ero emozionatissimo. Quel pomeriggio uscii a fare la spesa e a chiunque incontrassi raccontavo la grande novità. In poche ore l’intero quartiere gioiva insieme a me. Arrivai allo studio in forte anticipo, trepidante. In realtà, quel giorno il compito di un assistente volontario sarebbe stato alquanto limitato e poco creativo. In pratica, solo portare i caffè… Non avevo ancora capito che invece prevedeva molto altro. Tornando a casa la sera mi sentii profondamente abbattuto, come se tutte le mie speranze, tutte le aspettative, fossero state tradite in modo irrevocabile. «È davvero questo che voglio?» continuavo a chiedermi, sempre più depresso e sconfortato. Dopo il clamore che avevo sollevato annunciando ai quattro venti il mio debutto nel mondo del cinema, però, non potevo certo deludere le aspettative altrui. Dunque, a chi mi chiedeva come fosse andata, invariabilmente rispondevo: «È stato meraviglioso!» e sfoderavo il migliore dei miei sorrisi. Il giorno successivo fu lunghissimo. Il regista, che era anche autore della sceneggiatura e protagonista del film, si rivelò molto esigente con se stesso, provando e riprovando per ore. La scena si svolgeva in un grande appartamento partenopeo esposto alla luce estiva, ma ricreato in studio. Il set era illuminato come in una mattina di sole. Quando allo stop le porte si aprirono, fuori era ormai notte. Fu in quel preciso istante che capii che cos’è la magia del cinema. Ne comprendi tutto il potere quando ripiombi di colpo

nella realtà, portandoti dietro un’ineffabile malinconia per qualcosa di speciale che è irrimediabilmente svanito. Le riprese andavano avanti di giorno in giorno e io ero sempre più scoraggiato, dilaniato tra la delusione e l’insicurezza. Con gli amici continuavo, però, a ostentare un incontenibile entusiasmo. Poi, piano piano, le cose migliorarono. Mi vennero affidati incarichi di maggior responsabilità, per esempio azionare il campanello del «Silenzio si gira», quello che avvisa di non entrare sul set… Sembrerà assurdo, ma le prime volte mi tremava la mano per l’emozione: temevo sempre di sbagliare i tempi. Tra i miei compiti c’era pure quello, più impegnativo, di far ripetere la parte a un attore anziano che aveva qualche difficoltà a ricordare le battute. Mi ci applicai con gran dedizione, ma lui, come si girava una nuova scena, aveva dei vuoti di memoria e bisognava ricominciare daccapo. Un disastro. Per fortuna, il regista sapeva ricorrere al suo umorismo fatalista e garbato anche per sdrammatizzare imprevisti e incidenti di percorso all’ordine del giorno in ogni set. Alla fine delle riprese si scoprì che c’era un piccolo compenso per me. Non navigavo certo nell’oro e quei soldi mi facevano comunque comodo, eppure non sono mai andato a ritirarli. Mi vergognavo all’idea di ricevere denaro per aver fatto ciò che desideravo di più al mondo. Ora non occorreva più fingere con gli altri: dubbi e delusioni avevano lasciato il posto a un sincero, totale entusiasmo. C’è una cosa che non riuscirò mai a dimenticare di quella prima, irripetibile, esperienza, di fatto il mio battesimo cinematografico: quando, per controllare il sonoro insieme al regista, capitava che indossassi le cuffie di scorta, avvertivo sempre uno strano tic tac di sottofondo. Ci misi un po’ a capire che fosse. Era il suo pacemaker, ma per me suonava come il battito stesso del cuore del cinema. A credere in me fin da subito fu Maurizio Ponzi, un regista e amico che negli anni si è rivelato importantissimo. L’avevo

conosciuto ai tempi in cui frequentavo l’accademia: era venuto per parlarci dei segreti del suo mestiere e io, giovane studente, l’avevo ascoltato con ammirazione. Scoprimmo poi di avere una conoscenza in comune, un pittore turco piuttosto famoso, e così mi prese in simpatia. In breve, divenni una sorta di suo figlioccio. Conservo ancora come un oggetto prezioso La storia del cinema in tre volumi che mi regalò con una lunga dedica di incoraggiamento. Il cinema è un po’ come l’esercito, nelle sue gerarchie. Ci si guadagna i galloni sul campo. Così, dopo aver fatto per qualche anno l’assistente dell’aiuto-regista di Ponzi, Ricky Tognazzi, quando lui passò alla regia, io fui «promosso» suo aiuto. Più tardi, quando è arrivato il mio momento di dirigere film, ho affidato quello stesso incarico proprio a sua sorella Maria Sole. Ho avuto l’opportunità di frequentare casa Tognazzi e non posso scordare la vitalità contagiosa del loro padre, uomo di una ospitalità davvero squisita. Con Maria Sole ho lavorato fianco a fianco in diverse produzioni, finché anche lei ha esordito alla regia. Oggi è per noi, tu lo sai, più che un’amica speciale. Quando ancora ero aiuto-regista, fu proprio Maurizio Ponzi a presentarmi a un giovanissimo autore emergente. Con la sua prima commedia aveva ottenuto un successo straordinario al botteghino e ora stava per cominciare a girare la seconda. Non aveva ancora trovato casa a Roma, così lo ospitai per quasi tre mesi, finché comprò un superattico di lusso ai Parioli. Grazie agli incassi eccezionali del suo debutto, i soldi non gli mancavano e li spendeva senza freni. Era un outsider, un cavallo di razza. Non ho mai conosciuto una persona affascinante come lui. Ma era anche terribilmente solo. L’essere diventato in breve tempo così ricco e famoso lo faceva sentire onnipotente e, allo stesso tempo, lo portava a non fidarsi di nessuno. Una volta, lo accompagnai a trovare l’anziana madre, che viveva in una cittadina di provincia. La sera eravamo usciti a bere qualcosa in un pub in mezzo alla campagna. Un gruppo di ragazzi l’aveva riconosciuto e aveva insistito nel volerci offrire

un gin tonic. Bevemmo e scherzammo insieme a loro allegramente finché lui non iniziò a sbiancare. Mi mormorò in un orecchio che si sentiva malissimo. Forse quei tipi ci avevano drogato? Impressionato, cominciai anch’io ad avvertire i primi sintomi di un’alterazione. Scappammo barcollando dal locale, ci infilammo nella sua Ferrari nuova fiammante e partimmo a razzo. Mentre correvamo nella notte per una stradina solitaria, costeggiata di vigneti, la paranoia lasciò il posto a un’irrefrenabile ilarità. Incominciammo a ridere come due pazzi, senza riuscire più a fermarci. Intanto, però, lui continuava a controllare nello specchietto retrovisore che nessuno ci stesse seguendo. Il suo successivo film andò ancora meglio del precedente. Cinecittà lo riveriva. I giornalisti facevano a gara per intervistarlo. Ogni volta che entravamo in un locale o andavamo al ristorante, veniva letteralmente assalito da sciami di donne in delirio. Eppure, nel giro di qualche anno, sarebbe precipitato all’inferno. Il successo in Italia non gli bastava più. Decise di girare un film negli Stati Uniti e si circondò di nuovi collaboratori. Investì tutto se stesso in una produzione faraonica che, però, si rivelò un flop. Accettare un fallimento, per chi ha costruito gli ultimi anni della propria vita unicamente sul successo, può essere molto doloroso. Anzi, impossibile. Il successo segue leggi misteriose: non va mai dato per scontato. È proprio quando pensi di avere tutte le carte vincenti, che resti a mani vuote. Io credo che il segreto per riuscire in ciò che fai è continuare a coltivare fino all’ultimo quella naturale insicurezza che ti assale ogni volta che metti in gioco tutto te stesso e andare avanti, con i tuoi dubbi, gli attacchi d’ansia, i ripensamenti. Gianni, con cui scrivo i miei film da oltre vent’anni, e con cui ho condiviso trionfi e disastri senza che mai la nostra amicizia e solidarietà venissero incrinate, spesso dice: «La nostra forza, dopo tanti film di grande successo anche

internazionale, è che non siamo mai diventati dei veri professionisti. Ci è rimasta sempre la libertà dei dilettanti». Tu più di chiunque altro sai di cosa sto parlando. Con chi condivido le gioie ma anche i dolori del mio mestiere, le paure, il timore di non aver fatto le scelte giuste, l’angoscia che mi sveglia alle prime luci dell’alba, impedendomi di riprendere sonno? Tutto ciò, però, ormai appartiene al passato. Ci aspettano nuovi giorni felici dai quali ho bandito l’angoscia. Quella per ciò che è stato e per ciò che accadrà. Riuscire a girare il mio film d’esordio non è stato certo facile. Ho dovuto attendere ben sei anni per trovare chi lo producesse, ovvero Marco Risi, un altro regista cui sono molto legato. E alla fine, la storia che ho raccontato non è stata quella che andavo perfezionando da tempo, senza risultati, ma un’altra, completamente diversa, che mi venne in mente un pomeriggio qualsiasi, come un’ispirazione. Ero sdraiato sul divano a fantasticare, quando pensai: e se raccontassi di un imprenditore italiano che eredita da un lontano parente un antico edificio in rovina a Istanbul? E se questo edificio fosse stato un hammam? Quando vivevo là, conoscevo un’anziana signora di origine greca che ne gestiva uno. I proprietari erano italiani, ma la loro famiglia viveva in Turchia dall’Ottocento. Scrissi il soggetto quasi d’impulso. Fra una cosa e l’altra, però, dovette passare ancora parecchio tempo prima dell’inizio delle riprese. Leggendo la sceneggiatura, tutti mi dicevano: «Bella, ma…». E mi suggerivano di cambiare qualcosa: il protagonista, per esempio, non poteva innamorarsi di una ragazza, bisognava proprio parlare di omosessualità? E poi, era proprio necessario girarlo parzialmente in turco? Gli italiani non amano i film sottotitolati, mi facevano notare. Ma io fui irremovibile. Volevo raccontare una storia che facesse da ponte tra i due Paesi che più amavo, ma anche tra due differenti tipi di amore. Fino a quel momento in Italia l’omosessualità al cinema era sempre stata ridicolizzata, il mio film per la prima volta ne avrebbe parlato in modo serio e rispettoso. Dopo molti

tentativi andati a vuoto, riuscii a convincere Risi del progetto e le cose si misero in moto. Gli ostacoli, però, non erano finiti. Una delle difficoltà fu trovare un attore per la parte del protagonista. La trama prevedeva che si innamorasse di un ragazzo, un tema per l’epoca terribilmente scabroso. Non lo fu per Alessandro Gassmann. Poi c’era il problema dei soldi. Per non superare il ristretto budget a disposizione, mi dovetti ingegnare in ogni modo. Mia madre preparò i pranzi delle scene. Gli interni vennero addobbati con arredi e oggetti di famiglia. E la troupe era formata da appena nove persone, le stesse che hanno poi continuato a lavorare con me in tutti questi anni. Tra loro c’era anche Laura, una che si farebbe ammazzare pur di portare a termine tra mille ostacoli un mio film. Me ne aveva parlato almeno dieci anni prima Sergio Citti: «Quando ti servirà una segretaria di edizione, chiama lei!» mi aveva suggerito. Era davvero il meglio che si potesse trovare. Quando andai a cercarla, Laura si mostrò stupita. Nemmeno sapeva chi fossi. Ma il giorno dopo aveva già preso il suo posto di combattimento e non l’ha più abbandonato. Sul set tutti la temono: è considerata un’anima nera perché procede nel suo lavoro come un soldato in trincea con un pugnale tra i denti. Per me è molto più di una segretaria di edizione: le faccio leggere sempre le sceneggiature e a volte litighiamo per i suoi giudizi, però io so che anche lei non mi mentirà mai, a costo di essere spiacevole. Ora che ha raggiunto una certa età, le piace scherzare sulla vecchiaia. «Vedrai che ti accorgerai anche tu della decomposizione del tuo corpo…» mi dice spesso con un sorriso sornione. Le riprese si succedettero senza intoppi. Girammo in appena cinque settimane. Ora, però, si prospettava un altro ostacolo non da poco: far sì che la pellicola raggiungesse il pubblico. Partecipare a un festival era un passaggio obbligato, ma sembrava che il mio film non lo volesse nessuno. Poi, il colpo di fortuna. PierreHenri Deleau, selezionatore per la Quinzaine des Réalisateurs, la prestigiosa mostra cinematografica parallela al Festival di

Cannes, era a Roma in cerca di opere inedite da inserire quell’anno. Stava per andarsene a mani vuote, quando qualcuno si ricordò di me. Il mio film gli piacque immediatamente e lo inserì nel programma. L’aveva scelto tra sessanta opere italiane. È così che è andata. Alla fine, il destino ha tifato per me. Lascia che ti racconti ancora una volta come andò a Cannes la sera della prima. In fondo, ti è sempre piaciuto ascoltarmi mentre ripercorro quei momenti di gioia assoluta. E certo non per piaggeria o compiacenza, ma perché tu solo hai sempre intuito quanto mi renda felice tornare laggiù, anche per un attimo appena. In quel cinema, su quel palco, assaporando i primi applausi della mia vita, dopo aver tanto disperato che arrivassero. Giunsi a Cannes in auto da Roma con Marco Risi, Francesca D’Aloja, l’attrice protagonista, Maurizio Tedesco, l’altro produttore, e sua moglie Paola. Sulla Croisette ci accolse un grande manifesto che promuoveva il mio film. Lo fissai incantato. Non riuscivo a capacitarmene. Ed era solo l’inizio. La proiezione era prevista quello stesso giorno. Dopo aver assistito trepidante insieme al pubblico di critici e appassionati, come da copione facemmo la nostra uscita sul palco. Subito partì l’applauso. Non finiva mai. Ero così emozionato che non mi sembrava nemmeno più di essere io. Ventiquattr’ore dopo il mio era diventato il film del momento: tutti ne parlavano. Rimanemmo a Cannes più del previsto e ogni giorno c’erano due o tre appuntamenti mondani cui partecipare. Allora non possedevo smoking: prima di partire me ne avevano fornito uno di un celebre stilista. Frastornato dagli eventi, non facevo che chiedere ai miei accompagnatori come stavo. E loro: «Come vuoi stare? Lo stesso di ieri!» mi rispondevano ridendo. In pratica, quello smoking non me lo tolsi mai.

Dopo Cannes, tutto è cambiato. Ma quell’ansia che ti fa rimettere ogni volta completamente in gioco, lo sai, non l’ho mai persa. Quando il film uscì in Italia, ero ancora in Francia. Le Mummie erano andate in massa alla prima romana. Unica assente, Vera. Lei non si è mai capacitata sino in fondo del mio successo. Si stupiva che fossi diventato un personaggio famoso, ma era profondamente orgogliosa di quanto mi stava accadendo. «Perfetti sconosciuti mi parlano di te come se ti conoscessero, come se l’estranea fossi io» si lamentava. Da allora l’ho sempre invitata a ogni prima, ma non è mai venuta. Perché fuori dal proprio ambiente si vergognava di sé. Con la terza pellicola arrivò il grande successo di pubblico, oltre che di critica, e io fui colto alla sprovvista. Fino al giorno precedente l’uscita nelle sale cinematografiche, ero pieno di dubbi e timori. In quel film ci avevo messo tutto me stesso, forse troppo. Avevo scritto il soggetto in un periodo in cui uscivo da una storia d’amore che si era interrotta bruscamente. Lui aveva sempre giocato a comportarsi da uomo misterioso: si faceva desiderare, rimandava gli appuntamenti, più di una volta avvertendomi all’ultimo momento. Non mi aveva mai detto nemmeno dove abitava. Da tempo, sospettavo avesse un’altra relazione. Poi, era sparito. In seguito, avevo scoperto che era sposato. Mi tradiva, sì, ma con sua moglie, conducendo una vita parallela di marito e padre di famiglia. Sono cose che succedono quando l’amore è un segreto, e tu sei quello che deve restare nell’ombra. Ignori tutto di chi ami, anche se magari lui conosce ogni cosa di te. Ogni film è una storia dentro una storia dentro una storia: ciascuno vi coglie ciò che vuole, ma nessuno trova mai quello che ci vedo io. Ogni film è una scommessa. E una volta che l’hai consegnata al mondo, e non devi fare altro che aspettare la

prossima sfida, be’ allora, che sia un successo o una catastrofe, che tu stia per vincere o perdere la tua partita, l’adrenalina scende sotto il livello del suolo e tu ti senti spogliato di ogni entusiasmo. Depresso, svuotato, quasi sull’orlo della disperazione. Perché ogni film, in fondo, è una storia d’amore che finisce.

XI

Il principe dei ladri e la cassiera tradita dalle stelle Si è sollevato un po’ di vento. Vedi quella nuvola là in fondo? Forse il tempo sta cambiando. Ma a noi, che importa? Stasera accenderemo la grande stufa che avevi fatto installare un paio di anni fa nella tua accogliente, antica casa di pietra, proprio al centro della sala. Ce ne staremo al caldo con le luci spente, osservando dalla finestra il bosco immerso nelle tenebre, nella speranza di scorgere qualche animale selvatico. Ti ricordi quando da dietro un albero era comparso un capriolo per poi scappare subito via? Il contadino del casolare vicino, quando glielo avevamo raccontato, ci aveva detto che era impossibile. Che da queste parti non ce ne sono. Né cerbiatti, né cervi, né caprioli. Ma noi l’avevamo visto! Forse ti stai addormentando? Non manca molto, ormai. Hai visto che bella la trattoria dove ci siamo fermati per bere un caffè lungo la strada? Chissà quante volte ci siamo passati davanti con l’auto, eppure non c’eravamo mai entrati. È stato come tornare indietro nel tempo. Uno di quei luoghi che sembrano appartenere a un passato ormai scomparso: il bancone di legno annerito dall’usura, gli scaffali polverosi colmi di grappe e amari locali, scatole di biscotti e barattoli di conserve. Alle pareti, vecchie foto ingiallite che ritraggono pittoresche vedute dei dintorni. Un mix di bar-tabacchi, circolo ricreativo, ristorante e negozio di alimentari come se ne vedono solo nei piccoli paesi più sperduti. L’aria era impregnata di odore di alcol e caffè. Su cinque tavolini, solo uno era occupato. Naturale, non era nemmeno mezzogiorno. Quattro uomini anziani giocavano a carte proprio davanti al camino dove scoppiettava il fuoco. Nonostante sia autunno, da queste parti le temperature sono piuttosto basse.

Al nostro ingresso, la porta del bar ha risuonato con un din don fortissimo. Sembravi improvvisamente davvero felice. Oggi, felice di un suono inaspettato come altre volte lo sei di un semplice colpo di vento, o di un filo d’erba che ti solletica il naso. Poi, un attimo dopo, scivoli di nuovo, inafferrabile, in quel tuo mondo da dove mi guardi adesso, dove ogni emozione viaggia alla velocità della luce, si accende e si spegne lasciandoti, e lasciandomi, al buio. Il barista ci ha servito il caffè, ristretto per me, decaffeinato per te, con i gesti cerimoniosi di un cameriere d’altri tempi e, forse, di locali più raffinati. Lo hai notato? Sorpreso, mi sono soffermato a osservarlo con maggiore attenzione. Sebbene di corporatura massiccia, si muoveva con un’agilità felina, le movenze di un grosso gatto domestico, che ogni tanto allunga una zampata. Ti ho guardato con timore versare un po’ di latte e aggiungere lo zucchero nel caffè – quante volte abbiamo scherzato sui nostri gusti differenti, tu che ami il dolce e io l’amaro –, per poi afferrare la tazzina e portartela alle labbra. Ho letto tempo fa in un articolo scientifico che bere e mangiare, essendo azioni automatiche guidate dall’istinto di sopravvivenza, sono tra le ultime funzioni che perdiamo, anche quando l’attività cerebrale è compromessa o danneggiata. Quando siamo usciti dalla trattoria un brivido di freddo mi ha percorso la schiena. La temperatura si è decisamente abbassata. Tu, invece, non hai fatto una grinza e non sai quanto ciò mi conforta. Almeno in questo non sei cambiato, almeno in questo sei rimasto lo stesso, capace di andartene in giro con un maglione sottile, incurante del vento e del gelo. Ora che ci penso, sai chi mi ha fatto venire in mente il barista con i suoi gesti agili? Niccolò. Te lo ricordi? Anche se non l’hai conosciuto personalmente, a Roma tutti sapevano chi fosse. Lui pure sapeva sfoderare una sorprendente agilità, nonostante fosse un uomo apparentemente sgraziato e

magrolino. Omosessuale dichiarato in un’epoca in cui era necessario avere molto fegato per essere se stessi alla luce del sole, amava i ragazzi quasi quanto adorava disubbidire alle regole, specie quelle della legge. La sua forma di trasgressione preferita era il furto. Che praticava con sommo divertimento il più spesso possibile, come un atleta adrenalinico si dedica a uno sport estremo. Rubava qualsiasi cosa, in qualsiasi occasione. Dischi, bottiglie di vino, portacenere, forchette, libri, cappelli, saponette, ombrelli. Casa mia era piena di piatti, uno diverso dall’altro. Me li portava Niccolò di volta in volta, tirandoli fuori dalla tasca dell’impermeabile dopo un’incursione tra i negozi del centro. La sua deontologia «furfantesca», infatti, non gli avrebbe mai permesso di rubare a casa di amici o nelle trattorie dove mangiava abitualmente. Ti ho mai raccontato di quando, una domenica estiva, tentò di rubare una palma a Porta Portese? Sarà stata alta due metri. Si stagliava nel suo vaso in mezzo a una selva di altre piante, buganvillee, ibischi e gelsomini, in bella mostra davanti alla bancarella di un fiorista. Niccolò l’aveva notata subito, e subito gli era venuto lo sfizio di prendersela. E così fece. Ora, immagina la scena. Lui, piccolo e smilzo, che si carica tra le braccia questo enorme albero e si allontana a passo spedito come se niente fosse, sotto lo sguardo allibito dell’ambulante. Il mercato era pieno di gente, ma il ciuffo della palma ondeggiava ben al di sopra della folla: impossibile non notarlo. Dunque, venne prontamente raggiunto dal fiorista imbufalito. A quel punto, come poi mi raccontò con una certa fierezza, si svolse il seguente dialogo surreale: Ambulante: «Aò, ma ’ndo’ vai?». Niccolò: «È per mamma!». Ambulante: «Sai quanto costa?». Niccolò: «No…». Ambulante: «Quindicimila lire». Niccolò: «Ah, allora no, è troppo cara, se la tenga!».

E così dicendo, con fare flemmatico aveva appoggiato la pianta a terra e se l’era data a gambe, lasciando il suo pubblico a bocca aperta per tanta spudoratezza. Non di rado mi capitava di incontrarlo in azione, nel bel mezzo di un «colpo». Una volta, per esempio, stavo camminando per via del Corso, quando dalla Rinascente era uscito correndo un uomo, tallonato da un paio di energumeni della sicurezza. Superandomi, senza rallentare, mi salutò allegramente: «Ciao nì!!». Solo allora mi ero accorto che era lui. Anche nelle circostanze più concitate non perdeva mai il suo savoir faire. Non gli era difficile, del resto, con l’educazione che aveva ricevuto. Niccolò, infatti, non era affatto cresciuto nell’indigenza, non aveva imparato a rubare per sopravvivere agli stenti e alla fame. Al contrario, apparteneva – sebbene a un ramo secondario – a una di quelle famiglie romane antichissime e di nobile schiatta, proprietarie di palazzi che portano il proprio nome, e che possono contare tra gli antenati principi e papi. Niccolò rubava per puro divertimento. E, a modo suo, anche in questo principe lo era. Il principe dei ladri. Non te l’ho mai detto, ma ci fu persino un’occasione in cui mi sono ritrovato quasi suo complice involontario. Stavamo passeggiando per il centro senza meta, chiacchierando del più e del meno. A un certo punto, passammo davanti alla vetrina di una grande libreria dove erano esposte diverse copie di un libro fotografico su Stanley Kubrick, fresco di stampa. Era uno di quei volumi in grande formato, molto ingombranti e dalla copertina rigida e pesante. Un attimo di distrazione, ed ecco che Niccolò non era più al mio fianco. Mentre mi chiedevo dove accidenti si fosse cacciato, lo vidi uscire a passo svelto dal negozio, bello tranquillo con il libro sotto il braccio. Era fatto così, aveva quel guizzo artistico che riusciva a trasformare un banale taccheggio in una performance situazionista. Infatti, era un artista. Cantava e ballava in un trio en travesti che si esibiva in numeri di cabaret al Teatro Bagaglino e in altri locali. Negli anni, grazie alla

partecipazione a un popolare programma televisivo, il suo gruppo acquistò una certa notorietà. Quando era più giovane, aveva anche recitato in piccoli ruoli in diversi film, tra cui un paio di capolavori del cinema italiano del dopoguerra. Nelle sue vesti di scena, truccatissimo e agghindato con piume di struzzo e paillette, era un’esuberante vedette ma, in verità, Niccolò riusciva quasi a essere più eccentrico nella vita di tutti i giorni. Tra un furto con destrezza e una fuga rocambolesca, ogni tanto qualcuno riusciva ad acciuffarlo e a consegnarlo alla polizia. Ricordo di averlo incontrato una volta davanti al Bagaglino che era appena uscito da Regina Coeli. Ne era entusiasta: «Nemmeno in sogno avrei mai sperato di stare chiuso in una stanza con un esercito di maschioni come quelli: se solo fossi potuto rimanere ancora un po’…». Aveva trascorso tutto il tempo tra le sbarre facendo sesso o, almeno, così sosteneva. Non ho mai conosciuto nessun altro capace come lui di trasformare il peggior dramma in una farsa. Non l’ho mai sentito lamentarsi, recriminare o piangersi addosso. Combatteva i tiri del destino prendendosene gioco, ignorandoli con il sorriso sulle labbra. È un dono che in pochi hanno. Un dono forse pericoloso, ma che ti mette al riparo da ogni rimpianto. Tutto si può dire di lui, tranne che non si sia sempre preso dalla vita quello che voleva. Pensandoci bene, è l’esatto contrario di Donata. La sfortuna pareva perseguitarla, e lei non faceva nulla per opporsi alle sue imboscate. Anzi, pareva quasi darle una mano, sebbene inconsapevolmente. Attirava le disgrazie e, anche quando non parevano stagliarsi all’orizzonte, le evocava con le sue aspettative esagerate e, soprattutto, malriposte. Il maggiore punto debole di Donata era l’amore. Non più giovanissima, occhiali da miope dalla montatura rossa en pendant con la tintura dei capelli, che portava tagliati alle spalle e con una frangetta, non riusciva mai a trovare un uomo onesto e sincero che la amasse e la rispettasse veramente. Faceva la cassiera al piccolo supermercato del quartiere, che io

e Valerio frequentavamo abitualmente (adesso non c’è più, al suo posto ha aperto un negozio per animali). Perciò era diventata una nostra amica e qualche volta ci raggiungeva a pranzo la domenica in terrazza. Allora, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, squattrinati com’eravamo, riempivamo il cestello del supermercato dei prodotti più economici: pasta, uova, scatolette, qualche verdura… Ma, contando sulla complicità di Donata che faceva passare alla cassa solo un articolo ogni tre, spesso ne aggiungevamo di più costosi: un paio di bottiglie di Lancers e Mateus, i vini rosé che allora andavano per la maggiore, un buon taglio di carne per l’arrosto… Guai, però, a mostrarsi amici suoi! Una delle prime volte in cui mettemmo in atto il nostro piano di «esproprio proletario», dimentico delle sue raccomandazioni, l’avevo salutata a gran voce e lei aveva fatto finta di non conoscermi. La domenica successiva, in terrazza, mi aveva fatto la ramanzina. Se il direttore si fosse accorto che eravamo suoi amici avrebbe potuto insospettirsi, mi sgridò. Così ogni volta che ci presentavamo alla cassa con la spesa, pareva la pantomima di un film di spionaggio. Donata assumeva un’aria circospetta, manco fosse stata un agente segreto del Kgb. (Io ho sempre pensato che il suo atteggiamento guardingo si attirasse ancora più sospetti, ma naturalmente non osai mai dirglielo.) Donata era una persona molto generosa, ma bastava poco per mandarla in crisi. Quando poi si trattava di uomini, la sua fragilità diventava trasparente. Sembrava avere una particolare abilità nel trovare i peggiori elementi in circolazione. Loschi figuri che approfittavano di lei. Che le promettevano mari e monti per poi abbandonarla con il cuore infranto. Eppure, lei prendeva le sue precauzioni. Appena conosceva un uomo, ancor prima di chiedergli come si chiamasse, si informava sul suo segno zodiacale. Quindi, gli domandava quando e a che ora fosse nato, per calcolare ascendente e tema natale. Lei era un Capricorno con ascendente Capricorno e sperava sempre di conoscere un Toro o un Vergine che, secondo i suoi calcoli astrologici, erano i più compatibili in amore. E quando si

imbatteva malauguratamente in un Sagittario, segno con il quale l’affinità era bassa se non inesistente, sprofondava nella disperazione. Che gli astri fossero più o meno propizi, però, alla fine si ritrovava comunque con il cuore a pezzi. Forse si fidava troppo degli oroscopi. Oppure credeva di conoscere le stelle, e invece non ci azzeccava mai. La delusione più cocente gliela diede un Cancro che, come scoperse quando fu il momento di organizzare il loro matrimonio, era già sposato. «Eppure è un segno cardinale come il Capricorno, hanno la stessa natura, non riesco a capire cosa sia andato storto!» si era disperata poi. Qualche tempo dopo, sembrava di nuovo sprizzare felicità da tutti i pori. Aveva appena conosciuto un Vergine affascinante e raffinato, che la riempiva di mille attenzioni, mi raccontò emozionata incontrandomi per strada. «Si chiama Gaetano. È la persona giusta, la mia anima gemella, me lo sento! E questa volta le stelle non sbagliano!» aggiunse. Il supermercato aveva appena chiuso e Donata si stava recando al loro primo appuntamento. Si era alzata all’alba per farsi la messa in piega, ed era andata al lavoro portandosi gli abiti per la sera in una borsona di tela. A fine orario si era cambiata nel bagno del retrobottega e ora eccola lì, tutta in tiro, le palpebre truccate con ombretto azzurro che le brillavano attraverso le lenti degli occhiali. Si era messa anche un rossetto carminio e dalle orecchie le pendevano un paio di vistosi orecchini di strass. Inguainata in un abito disseminato di paillette, calzava un paio di décolleté di vernice con il tacco a spillo, acquistate apposta il giorno prima. «Sai, è un uomo molto facoltoso, stasera mi porta in un ristorante elegantissimo!» mi annunciò quasi senza fiato per l’emozione. Pronunciò il nome del locale con una punta di orgoglio: era uno dei più costosi di Roma. Purtroppo, anche quella volta le cose non andarono affatto come aveva sperato. Me lo raccontò circa una settimana dopo, quando ero passato a trovarla nell’ora della pausa pranzo. All’epoca

l’orario continuato era una pratica impensabile anche per i supermarket. La poverina era a pezzi. Le chiesi cosa fosse successo: forse lui non si era presentato? «Peggio!» rispose, quasi sul punto di piangere. «Molto peggio!» In effetti, aveva i suoi motivi per essere a terra, come mi raccontò. All’inizio della serata Gaetano era stato fantastico. Era passato a prenderla in auto, una berlina nera. Il ristorante, poi, era davvero speciale. Talmente lussuoso che lei si era sentita un po’ a disagio, ma lui era stato un vero cavaliere, l’aveva trattata da regina. Avevano pasteggiato a ostriche e champagne e Donata, poco abituata alle galanterie di Gaetano e a tutte quelle bollicine, si era sentita euforica. Una serata meravigliosa, insomma, finché lui non si era alzato per andare un attimo a rinfrescarsi e non era più tornato. «Come, non è più tornato?» non mi trattenni dal farle eco io, allibito. «E tu, che cosa hai fatto allora?» «Cosa potevo fare? Ho aspettato e aspettato e aspettato!» mi rispose la poveretta, cui ripensare a quell’esperienza aveva ora fatto sgorgare grosse lacrime da sotto gli occhiali. Era rimasta lì, attaccata al tavolo come una cozza al suo scoglio durante una burrasca, mentre la speranza che quel campione di eleganza e raffinatezza riapparisse da un momento all’altro si affievoliva con il passare dei minuti. Di tanto in tanto, doveva respingere gli assalti del cameriere che le si avvicinava per versarle dell’altro vino o per chiederle se volesse intanto vedere la carta dei dessert. Alla fine, si era ormai fatta quasi mezzanotte e non fu più possibile temporeggiare. Il cameriere era tornato alla carica, questa volta in modo perentorio. L’iniziale cortesia aveva lasciato il posto a toni fermi. Il ristorante stava chiudendo e c’era il conto da pagare. A quel punto Donata era scoppiata in un pianto dirotto. Nel portafoglio aveva giusto gli spiccioli per l’autobus fino a casa, come faceva a tirar fuori 90.000 lire? Era intervenuto il direttore del locale e, dopo una faticosa contrattazione,

l’avevano lasciata andare, ma non prima di essersi fatti consegnare la carta d’identità, con la promessa che sarebbe tornata con i soldi il giorno successivo. «Ho dovuto chiedere un prestito al mio principale, mi tratterrà 10.000 lire dalla paga ogni mese per quasi un anno!» concluse affranta il racconto. Alla fine, però, Donata riuscì a far tesoro dell’esperienza e imparò a fidarsi sì delle stelle, ma un po’ meno degli uomini. E facendosi più accorta non tardò a fidanzarsi con un bravo ragazzo, persino più giovane di lei. È andata ad abitare con lui fuori Roma. Io ne ho perso le tracce, ma qualcosa mi spinge a credere che abbia davvero trovato l’anima gemella. Ecco, la prossima curva è quella così stretta che, se non la prendi bene, per farla occorrono diverse manovre e diventa una faticaccia. Ti ricordi quella volta con la pioggia? L’asfalto era scivoloso e le gomme avevano slittato paurosamente. Stavi tu alla guida ed eri riuscito a mantenere un perfetto sangue freddo. Senza toccare il freno avevi ingranato la prima e c’eravamo tolti dall’impaccio. Se ci fossi stato io, chissà cosa sarebbe successo. Magari sarei andato nel panico e saremmo finiti giù nel burrone. Stritolati tra i rottami, tra le rocce della scarpata… Io sono sempre stato il più emotivo tra noi due, come negarlo… Ma ora so che devo farmi forza. Perché non potrai più essere tu quello che aggira abilmente gli ostacoli con una sterzata, lo sguardo diritto sulla strada, le mani salde sul volante. Adesso spetta a me guidarti. E prenderti per mano. Ti laverò, ti pettinerò, ti aiuterò a vestirti, ti rimboccherò le coperte, se necessario. Inventerò per te nuove fiabe che ti accompagnino nel sonno. Anche se, in fondo, potrei ripeterti ogni sera sempre la stessa, senza che tu te ne accorga. Raccontare, del resto, per me non è certo una fatica. Anzi, è un piacere. Narrare le emozioni, le speranze, le delusioni, le rivincite. Quando era appena uscito il mio primo film e non sapevo ancora bene come orientarmi per i prossimi lavori, Mauro Bolognini un giorno mi suggerì: «Concentrati sulle emozioni, è ciò che resta di più nel cuore della gente». A presentarmelo era stato Roberto Tatti, suo aiuto-regista, una mia vecchia conoscenza del Buco, che negli anni è stato

per me un importante punto di riferimento. Essendo agli esordi, non conoscevo ancora le preoccupazioni che il grande successo, inevitabilmente, porta con sé. Ero sereno, entusiasta, ma anche in cerca di un mentore che mi desse buoni consigli. Bolognini abitava in un appartamento in piazza di Spagna. Ma non usciva più perché era molto malato, così presi l’abitudine di andare a trovarlo con una certa frequenza, di solito a metà mattina. Lo raggiungevo nella sua stanza, dove mi riceveva seduto su una comoda poltrona, tutto imbacuccato sotto strati di coperte. Mi parlava dei suoi amori, le donne, il cinema, di ciò che aveva imparato nella sua lunga esperienza artistica. Aveva visto e apprezzato il mio film e in quelle chiacchierate mattutine, sorseggiando un tè deteinato, mi ripeteva di non cedere mai alla tentazione di piacere a intellettuali e critici perché, secondo lui, avevo il dono di parlare direttamente alla gente. Mi incitava a restare fedele a me stesso: il mio era un pubblico trasversale, uomini e donne di ogni età e classe sociale. Gli ultimi tempi, a causa della malattia, non riusciva più nemmeno a parlare. Ma teneva accanto a sé su un tavolino un quadernetto dalle pagine quadrettate che riempiva con la calligrafia ordinata ed elegante. Poi me lo passava perché potessi leggere le sue riflessioni e dirgli cosa ne pensavo. Quando se n’è andato, ho provato un dolore profondo. E ancora adesso, ogni volta che passo da piazza di Spagna, non posso fare a meno di alzare gli occhi per guardare la sua finestra. Con il trascorrere degli anni sento sempre di più il peso delle assenze, delle persone che ci hanno lasciato. Sono consapevole del fatto che esistiamo nei ricordi che riusciamo a suscitare negli altri. Eppure, continua a impressionarmi la facilità con cui tanti riescono a dimenticare. Persino Bolognini, che è stato un regista famoso e quindi dovrebbe essere ben presente nella memoria collettiva. Per non parlare delle tante persone meno note, ma non per questo meno interessanti, che ho avuto la fortuna di conoscere e che se ne sono andate senza quasi lasciare traccia: Vera, Niccolò, Giulio,

Adriano… Spesso avverto in modo quasi doloroso la responsabilità di preservarne la memoria. Anche se mi sembra solo ieri che erano qui, accanto a me in carne e ossa, e ridevamo, bevevamo un bicchiere insieme e facevamo progetti per il futuro. Mi insegnavano i segreti della vita, mi davano consigli preziosi, senza i quali forse non sarei ciò che sono oggi. Come quelli che mi dispensava Maria Clara. Autorevolissima esperta di marketing, a lei si rivolgevano le aziende più importanti ogni volta che si trattava di lanciare sul mercato un nuovo prodotto: Maria Clara suggeriva sempre la strategia giusta, non sbagliava mai. L’avevo incontrata la prima volta in occasione di una riunione preliminare per una prestigiosa campagna pubblicitaria. Cercavano un regista per una serie di spot. Allora non avevo ancora diretto i film che mi avrebbero reso famoso e sapevo di non essere il solo in lizza per quel lavoro. Fu proprio Maria Clara a farmi il colloquio. Verso il termine dell’incontro, dopo avermi invitato a esporre il mio progetto, mi chiese come pensavo sarebbero stati accolti gli spot che avevo in mente, se avrebbero avuto un buon riscontro. «Potrei dirle che piaceranno moltissimo e che avranno senz’altro un grande successo, ma non me la sento di assicurarglielo. Quello che mi chiedete è un’opera creativa, come tale può sempre riservare delle sorprese. Non si può mai sapere come andrà davvero, se susciterà l’attenzione della gente o la lascerà indifferente» le risposi. Avevo voluto essere sincero sino in fondo, ma poi, tornando a casa, un po’ me ne pentii. Gli altri registi interpellati avevano sicuramente risposto in modo diverso, promettendo successi assicurati. Certo di essermi giocato il lavoro, ci avevo quasi già messo una pietra sopra, quando mi comunicarono che, invece, Maria Clara aveva scelto proprio me. E in seguito, scoprii che a fare la differenza era stata quella mia forse poco diplomatica risposta. Fu lei stessa a rivelarmelo. «Le sue parole, sincere e meditate, mi hanno fatto capire che era lei la persona che

cercavo» mi spiegò quando entrammo un po’ più in confidenza. Dava del lei a tutti, quasi a mantenere le distanze, anche a chi apprezzava e di cui si fidava. Pur essendo una donna di grande disponibilità e cortesia, era estremamente riservata. Gli spot andarono molto bene e noi due collaborammo diverse altre volte. Maria Clara, te l’ho detto, aveva una straordinaria capacità di intercettare i gusti della gente, per questo presi l’abitudine di farle leggere in anteprima le sceneggiature cui stavo lavorando, per chiederle un parere. È sempre stata sincera e, sai una cosa?, non ha mai sbagliato un giudizio. Poi, per un certo periodo, sparì. Non era da lei, attaccata al lavoro com’era, eppure a quanto pare si era presa una lunga vacanza. La rincontrai dopo qualche mese. Era tornata con la stessa energia e determinazione di prima, ma ora portava chiaramente sul capo una parrucca. Quando me ne accorsi ci restai malissimo e non riuscii a far finta di niente. Ma lei, nel suo consueto modo garbato e allo stesso tempo reticente a parlare di sé, osservò: «Apriamo una parentesi: sì sono stata male, ma ora sto bene, chiusa parentesi», e riprese a discutere di lavoro come niente fosse. La sua assenza era stata causata dalla necessità di curarsi dalla grave malattia che da lì a pochi anni se la sarebbe portata via. Ma di cui non disse mai nulla a nessuno. Anche di Maria Clara, tra qualche anno, non resterà traccia? Quello che so è che io porterò la sua memoria con me, insieme a tutto il resto, ai ricordi belli e tristi, divertenti e amari, che hanno fatto di me l’uomo che ti ama, e che per te è pronto a rinunciare anche a se stesso. La sola idea di sopravviverti mi riesce addirittura intollerabile. Ho sviluppato una nuova forma di ipersensibilità, come chi all’improvviso si scopre allergico a un certo polline cui prima non aveva mai fatto caso. La mancanza di speranza, l’insensatezza del destino mi sgomentano profondamente.

Adesso, per esempio, so cosa ha provato Carlo quando Doriana se n’è andata all’improvviso, lasciandoci tutti con l’amaro in bocca. Allora, invece, nonostante il mio dolore, nonostante il bene che volessi a tutti loro, ero l’ultima persona al mondo che potesse capire. E lo sai perché? Perché ero felice. Avevo te e non ero in grado nemmeno di immaginare cosa volesse dire perdere qualcuno che ti è necessario come l’aria che respiri. Certe sofferenze non le puoi comprendere se prima non ci passi in mezzo. Anche Carlo, solo un mese prima, era la persona più ottimista e gioviale che avessi mai incontrato. Se qualcuno mi avesse chiesto: «Chi è l’uomo più felice che hai mai conosciuto?» avrei indicato lui, senza timore di sbagliare. Una di quelle persone alle quali la vita sembra sempre sorridere. L’ho conosciuto perché gestiva insieme alla sua famiglia l’edicola sotto casa, in via Ostiense. Scendevo la mattina a comprare il giornale e scambiavamo due chiacchiere. E questo succedeva un secolo fa, quando ero ancora uno studente di belle speranze. A volte c’era Carlo, altre sua moglie Bice, che in breve tempo è diventata la mia amica del cuore. Non ho mai avuto a che fare con una persona più ospitale e generosa di lei. Poi, con il passare degli anni, sempre più spesso si davano il cambio le figlie, Doriana e Lorella. Tranne quest’ultima, che chiamavano non per niente «la piccola di casa», in famiglia erano tutti enormi, dei veri giganti. Quelle conversazioni mattutine davanti all’edicola per me avevano un che di intimo, di domestico. Si parlava di quello che era successo nel mondo, di politica, di sport, e io mi sentivo in famiglia. Una famiglia molto diversa da quella del palazzo di via Ostiense, ma non per questo meno accogliente. Io che avevo lasciato i miei per andare a vivere così lontano, avevo trovato una sorta di genitori adottivi, pronti ad accogliermi nella propria casa circondandomi di affetto e, soprattutto, di cibo, il che per loro era poi la stessa cosa. La loro sala da pranzo, specie la domenica sera, era una tappa obbligata. Ci andavo da solo o, più spesso, con amici che

passavano a trovarmi, provenienti dai Paesi più diversi, Brasile, Francia, Svizzera. E dalla Turchia, naturalmente. Abitavano in un appartamento dalle parti di via Portuense. Appena entravi, ti venivano incontro almeno tre o quattro gatti persiani, una passione di Bice. Ma la cosa più impressionante erano le numerose statue di Lenin disseminate sui piedistalli negli angoli più strategici della casa. Le collezionava Carlo, che era un comunista della vecchia guardia, nostalgico della rivoluzione bolscevica e dei piani quinquennali. Un’estate, erano i primi anni di Gorbaciov, Carlo trascinò tutta la famiglia in vacanza in Unione Sovietica, coronando il sogno di una vita. Andai a trovarlo al suo ritorno e mi accorsi, stupendomi non poco, che le numerose effigi di Lenin erano tutte sparite. In seguito, Doriana mi spiegò che la trasferta russa l’aveva profondamente amareggiato: credeva di trovare la realizzazione concreta di ogni sua convinzione, e invece aveva scoperto che gli ideali che aveva sempre difeso proprio laggiù erano stati traditi. Appena aveva rimesso piede a casa non aveva più voluto saperne di quegli imbarazzanti custodi dell’ortodossia comunista. Ma, non avendo il coraggio di buttarli via, si era limitato a ficcarli negli armadi, insieme a vecchie valigie e ricordi dimenticati. Il crollo del Muro di Berlino contribuì a dare un ulteriore, definitivo colpo a ciò che restava delle sue convinzioni ideologiche. In tutto ciò, però, Carlo si era mantenuto un uomo ottimista e volitivo, capace di assaporare la vita con il sano appetito del gaudente. E di certo non rischiava di fare la fame. Oltre ai gatti e alle statue di Lenin, poi scomparse, casa loro traboccava di cibo. Sembrava un negozio di alimentari: ovunque ti girassi c’era una scatola di caramelle, un vassoio di biscotti, una confezione di cioccolatini… Intanto, dalla cucina si diffondevano perennemente profumi di sugo all’amatriciana, abbacchio, carciofi e puntarelle alle acciughe. Romani fino al midollo, anche in cucina si rifacevano alla più genuina delle tradizioni. Me li vedo ancora, giganteschi com’erano, troneggiare intorno al tavolo da pranzo, mentre si riempivano i piatti di porzioni esagerate, insistendo a voler rimpinzare in

particolare me, oltre a Lorella, sempre troppo magra per i loro standard. Quando, fresco di patente, mi ero comprato la Cinquecento ed ero sempre in cerca di una scusa per mettermi al volante, spesso mi alzavo all’alba per andare a prendere Bice a casa sua e poi portarla all’edicola dove Carlo era già al lavoro da almeno un paio d’ore. Prima, però, era prevista una deviazione in pasticceria per la colazione: caffè e cornetto vuoto per me, doppio cappuccino e due cornetti alla crema per lei. Carlo di solito faceva il primo turno, il più duro, in piedi che era ancora notte, a spacchettare i quotidiani freschi di stampa. Quando sono divenuto anch’io un personaggio di cui giornali e riviste si occupano con una certa frequenza, specie in occasione di un festival o dell’uscita di un film, Doriana dalla sua postazione mi preparava la rassegna stampa ritagliando con precisione tutti gli articoli nei quali veniva citato il mio nome. Ogni tanto, mi divertivo a prendere il suo posto, mentre lei sgattaiolava al bar a bere qualcosa di caldo. Circondato da quotidiani e riviste di gossip, pacchetti di figurine a mazzi e dispense di ricette e ricami, scambiavo due parole con i clienti, protetto dalla penombra del chiosco. Un pomeriggio, rientrando da Lecce, dove ero stato per un sopralluogo in vista del film cui stavo lavorando, ho incrociato Doriana per strada, andava di fretta. Una settimana prima era morta Vera e al suo funerale ci eravamo scambiati un lungo abbraccio. Mi aveva colpito la sua mole: doveva essere ingrassata ulteriormente, ricordo di aver pensato. Quel pomeriggio, dunque, mi aveva salutato con la consueta irruenza, confessandomi di sentirsi parecchio stanca. Suo padre ormai aveva una certa età, non se la sentiva più di alzarsi così presto, e lei si stava sobbarcando i doppi turni. Comunque, quella sera – bando al lavoro – sarebbe andata fuori a cena con gli amici a divertirsi, mi annunciò felice. Aveva 42 anni e tanta voglia di godersi la vita, nonostante la fatica. Doriana quella sera è arrivata in effetti in pizzeria, ma è stata l’ultima cosa che ha fatto in vita sua. È morta così,

d’infarto, mentre cenava con i suoi amici. La notizia ci arrivò quella notte stessa. Eravamo increduli, ricordi? Come se qualcuno ci avesse dato una botta in testa. Avremmo voluto chiamare Bice e Carlo, ma temevamo che non fossero ancora stati avvertiti. Così restammo svegli tutta la notte, distrutti e svuotati, finché fece giorno e, a quel punto, non potendo più aspettare, ci recammo da loro. Doriana era molto amata: per tutta la mattina arrivarono fiumi di persone addolorate per renderle omaggio e abbracciare i genitori. Pur essendo affollato di gente, però, l’appartamento che di solito risuonava di voci e risate restava avvolto nel silenzio, interrotto solo da un rumore secco: toc toc. Era Carlo, abbandonato sul divano, che tamburellava con un dito sul tavolino di cristallo davanti a lui, lo sguardo perso. «Nella nostra vita non ci saranno più feste, Natali o compleanni. Sono finiti per sempre quei tempi» mormorò. Aveva parlato a bassa voce, ma io lo sentii bene e le sue parole non le ho più scordate. Oggi anche lui se n’è andato e Bice è diventata l’ombra di se stessa: insieme ai suoi cari ha perso completamente la gioia di vivere. Ci sentiamo al telefono e lei, ogni volta, mi rassicura: «Va tutto benissimo!». Ma sento che la sua voce si incrina. Piange spesso, esce di casa raramente e non mangia quasi più. Che gusto c’è a cucinare e gustare i cibi, se non li puoi condividere con chi ami? L’edicola c’è ancora, ma ha cambiato gestione. E io, pur di non passarci davanti e riaprire vecchie ferite, faccio lunghi giri dell’isolato.

XII

I luoghi del cuore

A quest’ora Valerio sarà entrato nell’appartamento vuoto, con ancora qualche traccia di aroma di caffè nell’aria. Il nostro ultimo caffè. Me lo immagino guardarsi intorno smarrito, per poi accorgersi della lettera che gli ho lasciato, appoggiata sul tavolo, insieme a un mucchietto di documenti e ai nostri mazzi di chiavi. In realtà, più che una lettera sembra una comunicazione di servizio. Le parole importanti ce le siamo già dette. Caro Valerio, amico mio di una vita, ormai la decisione è stata presa. Quando leggerai queste righe noi saremo già in viaggio. Starò via per tutto il tempo necessario, forse per sempre. E che non ti venga l’idea di cercarci: dillo anche agli altri. Il tempo delle Mummie, delle cene e delle risate in compagnia, per noi è finito. Affido a te le chiavi dell’appartamento e gli ultimi documenti firmati. Sai cosa fare.

Mentre nomino Valerio ti lancio uno sguardo di sfuggita, per controllare se il suo nome produca in te una qualche reazione. Ma tutta la tua attenzione sembra calamitata su un punto imprecisato davanti a te. Vorrei che fosse almeno uno scorcio del paesaggio montano che stiamo attraversando; forse però è solo una macchia sul parabrezza. «Carino, no, Valerio?» ti chiedo speranzoso. Ti giri appena verso di me e mi fissi vacuo e confuso. So che stai disperatamente cercando una qualche scintilla di luce nel buio nel quale sei immerso, ma è troppo tardi. Conosci Valerio da tanti anni, ti sei abbandonato tra le sue braccia in uno struggente abbraccio soltanto ieri sera e oggi non hai la minima di idea di chi sia. Questo nome non ti dice niente. Ripenso continuamente al giorno in cui ti sei perso. La malattia ti aveva già toccato con le sue dita maligne, ma per me tutto è cominciato da allora. Una mattina iniziata allo

stesso identico modo di tante altre, che però ha cambiato ogni cosa. Eri uscito per andare a comprare un cavetto per il computer. «Ci vediamo per pranzo!» mi avevi salutato allegro, mentre ti infilavi il giaccone. «Ok, ti aspetto qui a casa e poi magari andiamo da Daniele: ieri mi ha detto che oggi avrebbe avuto delle orate freschissime» ti avevo risposto distrattamente. Avevamo da poco scoperto questa nuova pescheria con ristorante, di cui presto saremmo diventati degli habitué. Le ore mi erano passate veloci, tra varie telefonate e appuntamenti di lavoro da fissare. Stavo cercando le location per il mio prossimo film – il film che per la prima volta, ora, non ho più alcun desiderio di girare – ed ero molto concentrato. Quando avevo guardato l’orologio e mi ero accorto che era già l’una, mi ero stupito della tua assenza e avevo avuto un brutto presentimento. Avevo provato a chiamarti, il tuo cellulare suonava a vuoto. Allora avevo pensato che forse eri già da Daniele: nel frastuono del locale, sempre affollato anche all’ora di pranzo, era probabile che tu non avessi sentito la suoneria. Così ero uscito di corsa, infilandomi malamente il giaccone: nell’agitazione avevo anche strappato un bottone lottando con la cerniera. Ero arrivato al ristorante senza fiato, quasi sicuro di vederti lì, tranquillo, già seduto a un tavolo ad aspettarmi. Oppure, intento a far quattro chiacchiere con Daniele nell’attesa. Mi avresti scorto attraverso la vetrina, mi avresti sorriso e io mi sarei dato dello scemo. Che cos’era, poi, tutta quella preoccupazione? E invece, tu non c’eri. Né Daniele né i camerieri ti avevano visto quel giorno. Ricordo lo sforzo con cui cercai di mantenere una compassata amabilità, mentre dentro di me ero già precipitato nel panico. Ero uscito dal locale e avevo riprovato a chiamarti. Al sesto squillo, finalmente avevi risposto. E io, folle di felicità per il solo fatto di sentirti, subito non avevo prestato attenzione alla tua voce. Biascicavi le parole, eri strano.

«Dove sei?» ti avevo chiesto. Ma tu non sapevi dirmelo. Sbigottito, ti incalzavo di domande alle quali ribattevi in modo confuso. Poi mi ero imposto di calmarmi e ti avevo parlato con dolcezza e piano piano eri tornato in te. Non eri distante, ti trovavi dietro alla stazione Ostiense. Ti dissi di non muoverti: sarei arrivato in pochi minuti. Quando ti ho visto da lontano, in piedi appoggiato al muro, le spalle contratte, la testa china di lato, mi si è stretto il cuore. Solitamente non sono il tipo che ama mostrare i propri sentimenti in pubblico, ma quel giorno ti ho abbracciato stretto stretto, incurante dei passanti. Era come se qualcosa o qualcuno stesse tentando di trascinarti via, lontano da me, e io glielo stessi impedendo con tutta la forza di cui ero capace. Tu ti sei abbandonato tra le mie braccia, frastornato e sfinito. Una volta a casa, poi, hai cercato di ricostruire cosa ti fosse successo. Stavi camminando per strada, quando all’improvviso non eri più riuscito a ricordarti dov’eri, chi eri, cosa stavi facendo, mi avresti spiegato poi. Il tuo cervello aveva avuto un blackout momentaneo. Per alcuni attimi, che ti erano parsi ore, si era spento. Probabilmente è lo stress, ti avevo detto cercando di rassicurare entrambi. Cos’altro poteva essere? Tra la ristrutturazione della casa di montagna e tutto il resto, stavi lavorando troppo. Eri stanco, per questo avevi avuto quel malore. Fiducioso e ottimista come sei sempre stato, avevi accolto queste spiegazioni come verosimili. Fosse stato per te, l’incidente era chiuso. Non valeva più la pena parlarne. Dentro di me, però, la preoccupazione, invece di scemare, saliva. Su mia insistenza il giorno successivo avevi chiamato Roberto, medico e amico insostituibile, che ti suggerì di fare subito una scappata nel suo studio. Ti accompagnai e lui ci rincuorò: lo stress poteva effettivamente causare sintomi simili e persino attacchi di panico, nei quali si precipita in uno stato emotivo confusionale. Ti fece un sacco di domande e poi ti prescrisse una lunga serie di esami. Però quando volle

telefonare lui stesso, davanti a noi, a un famoso neurologo per prenderti un appuntamento il prima possibile, mi sentii ripiombare nell’angoscia. Perché si dava così da fare? Perché stava dicendo al suo collega che era urgente, se si trattava solo di un po’ di stress? Lo stress, naturalmente, non c’entrava affatto. E nemmeno le mie peggiori previsioni – aneurisma, tumore al cervello – si avverarono. La realtà, allora non lo potevo sapere, era ancora più atroce. Tutti quegli accertamenti, i test, le visite di controllo. Io che cercavo di farti sorridere: «Sul serio devi fare un esame che si chiama Tomografia a Emissione di Positroni? Sei sicuro che non sia un test per partecipare alla prossima missione su Marte?». Ma non c’era nulla da ridere. «Demenza precoce degenerativa primaria assimilabile a sindrome di Alzheimer.» Così era scritto sul referto di quell’esame che pareva il preludio di una fantascientifica guerra dei mondi. E la guerra per noi è iniziata davvero. «Avrei preferito avere il cancro» mi confidasti la sera con gli occhi asciutti, ma la voce rotta. Che cosa si può rispondere a chi arriva a farsi un simile augurio? Non ci sono parole. Non c’è nulla da dire che possa curare un dolore tanto grande. Ti ho abbracciato in silenzio cullandoti ancora una volta tra le mie braccia, accarezzandoti piano i capelli, baciandoti dolcemente sulle guance, sulla fronte, sulle labbra. Aveva cominciato a piovere forte: oltre ai nostri respiri si sentiva solo lo scrosciare dell’acqua sulla strada. Eravamo in piedi nel locale che usiamo come studio, e restammo lì abbracciati, chissà per quanto. Proprio lì, nella nostra stanza segreta. Ricordi? Le sue pareti emanano un fluido benevolo, protettivo. Perché custodiscono una storia di amicizia che ha saputo resistere alla violenza, alla sopraffazione, alla guerra. E

io che stavo in quell’appartamento da tanti anni non ne avevo mai sentito parlare. A raccontarmelo era stato il vecchio portinaio in pensione che incontravo spesso nei negozi sotto casa, lo stesso che mi aveva rivelato la tragedia che si era consumata nell’appartamento di Giuseppe durante la guerra. Lui conosce il quartiere come le sue tasche: ogni muro, ogni finestra, ogni angolo di strada. Non li osserva come possiamo farlo noi: i suoi occhi vedono anche ciò che non c’è più, che si è perduto per sempre. Così, un giorno, mi aveva parlato della stanza segreta. Ti ricordi com’ero commosso quando te l’ho raccontato la prima volta? Oggi è un luogo dedicato al lavoro, vi abbiamo sistemato le nostre scrivanie, una accanto all’altra, ci sono i computer, la stampante, una libreria strapiena di libri… E una portafinestra dà su un terrazzino. Ma c’è stato un tempo, durante l’ultima guerra, in cui questo locale era stranamente molto più piccolo, con una sola finestra a dargli luce. Infatti, il proprietario di allora, un libraio, aveva suddiviso la stanza e ricavato un ambiente nascosto, minuscolo ma confortevole. Non fidandosi di nessuno, si era improvvisato muratore e aveva tirato su in una notte una parete sottile alta fino al soffitto. Una porticina, occultata dietro a uno specchio, era l’unico accesso. Tutta quella segretezza, naturalmente, aveva una ragione precisa. Solo così il libraio era riuscito a tenere nascosto per i lunghi mesi delle persecuzioni razziali un caro amico ebreo, suo antico insegnante di letteratura. Era lui che gli aveva trasmesso la passione per la lettura. Il mondo là fuori andava a pezzi, la guerra infuriava, i bombardamenti si succedevano implacabili, i rastrellamenti seminavano ovunque morte e terrore, ma il vecchio professore, al sicuro in quella stanza, si era salvato. La sera, a volte, dopo aver condiviso il magro pasto con l’amico, il libraio si fermava a chiacchierare con lui. Parlavano di poesia, di letteratura francese, di teatro. Ed evocando Verlaine e Rimbaud, Flaubert

e Shakespeare, tornavano come per magia in un mondo di pace, nel quale l’amicizia e l’amore sono più potenti di qualsiasi bomba. Scoprire che proprio il nostro appartamento era stato teatro di un tale miracolo dei sentimenti ci aveva commosso entrambi profondamente. Eccitati, avevamo cercato le tracce di quella piccola stanza, racchiusa in un’altra stanza, lungo i muri e il pavimento dello studio: una leggera depressione del suolo, un segno sulla parete. Ma il tempo e le ristrutturazioni le avevano ormai cancellate per sempre. Ti tenevo tra le braccia con tutta la forza e la tenerezza di cui sono capace, e tu ti eri abbandonato a me completamente. I nostri corpi si sono parlati e si sono detti tutto ciò che c’era da dire. Perché l’amore non ha bisogno di nient’altro per vivere, nient’altro che una reciproca, assoluta fiducia. È stato in quel momento che ha iniziato a prendere forma questa mia folle idea di abbandonare ogni cosa e andarcene via, tu e io soltanto, tra le montagne della tua infanzia. E ora sto raccontando tutto questo a te, ma anche a me stesso, per un’ultima volta, perché poi anch’io voglio dimenticare. Quando arriveremo nella dimora di pietra che ci sarà di rifugio, mi butterò il passato alle spalle. E allora saremo uguali. Senza memoria, solo un presente da assaporare istante per istante, isolati dal mondo, lontani nel tempo e nello spazio da tutto ciò che abbiamo condiviso finora. Da quella che è stata la nostra vita. Perché così ho deciso. Cancellare il passato, abbandonarsi al nulla e riscoprire l’universo in ogni piccolo gesto. Mentre ti parlo, rivedo i nostri luoghi del cuore, dove siamo stati felici. Mi scorrono davanti agli occhi come se si volessero congedare. Rivedo i mari che più ho amato. Quello a me così familiare, lungo il litorale di Ostia, che custodisce i ricordi del Buco e della mia giovinezza selvaggia e incosciente. E poi, il mare di Sabaudia, dove da adulto ho trascorso tante estati spensierate tra amici, nuotate, chiacchiere e cene indimenticabili. E ancora, il mare turchese di Punta della

Suina, in Puglia, e quello blu di Meganisi, l’isola greca dove abbiamo passato quella che chiamiamo la «nostra» estate… Ripenso a tali momenti e non provo alcuna tristezza perché adesso tutto ciò che desidero è solo starti accanto. Cosa hai detto? Chissà perché all’improvviso ti sei messo a canticchiare una canzone che solo tu conosci. A Sabaudia, sarà stato ormai più di dieci anni fa, la sera spesso qualcuno portava la chitarra e iniziava a suonare vecchi successi del passato. Cantavamo a squarciagola davanti al mare, all’ora del tramonto, sorseggiando un bicchiere di vino. Quanto eravamo felici! Per diverse stagioni abbiamo affittato una bianca villa spaziosa, che si affacciava direttamente sulla spiaggia. Lì ci raggiungevano, appena potevano, i nostri amici: chi rimaneva un giorno, chi si tratteneva per settimane. Stavamo ore a chiacchierare, con Tilde e Ivan, e tutti gli altri, seduti in riva al mare, mentre distrattamente raccoglievamo le telline. E intanto, discutevamo infervorati dei massimi sistemi oppure, semplicemente, ci prendevamo in giro e scherzavamo tra noi. A fine giornata rientravamo in casa con sacchetti pieni di conchiglie che usavamo per preparare squisite pastasciutte. È stato durante una di quelle estati che è morto Fabio. Tu avevi fatto un salto a Roma, non mi ricordo nemmeno più per quale impegno, e già che c’eri ti avevo chiesto di passare da casa a prendermi una camicia che avevo dimenticato lì. Mentre stavi uscendo, era squillato il telefono. Si trattava dell’anziana domestica di Fabio: voleva avvertirci che lui aveva avuto un malore mentre si trovava solo nel suo appartamento, e ora lottava tra la vita e la morte. Appena ci hai chiamato, ci siamo subito messi tutti in viaggio alla volta dell’ospedale. A Roma quel pomeriggio si soffocava per l’afa, ma eccoci lì, sudati e affranti, in quel corridoio desolato, attendendo notizie sulle sorti del nostro amico. Fabio non aveva parenti, c’eravamo solo noi, la sua vera famiglia.

Le ore passavano, e nessuno aveva il coraggio di assentarsi, nemmeno per andare a prendere un caffè alla macchinetta, che si trovava in un’ala distante. Io a un certo punto ho fatto una corsa per prendere almeno qualche bottiglia d’acqua, e proprio mentre tornavo era comparsa un’infermiera. La situazione era stazionaria ma permaneva gravissima, ci informò. Fabio era giunto in ospedale privo di conoscenza e tuttora non l’aveva ripresa. Le sue condizioni di salute non migliorarono neppure nei giorni successivi. Era agosto inoltrato, Roma era deserta, ma nessuno di noi per un solo momento pensò che il suo posto non fosse lì, accanto a lui. La speranza che si riprendesse ci teneva uniti. Restammo a turno, fermandoci anche la notte, dormendo su una panca in corridoio. «Andate a mangiare qualcosa, non potete fare nulla per lui adesso» ci intimò il decimo giorno l’infermiera. Il tono di voce era burbero, ma io avvertii un che di gentile in lei che mi rincuorò. Al nostro ritorno, Fabio non c’era più. Ignoro se qualcuno, forse quella stessa infermiera, avesse lasciato di proposito che la natura facesse il suo corso, evitando l’agonia dell’accanimento terapeutico, ma so di sicuro che a lui non sarebbe affatto piaciuto spegnersi lentamente, come un vegetale intrappolato in un letto. Era un grande conoscitore di cinema, senz’altro avrebbe preferito un’uscita di scena rapida e drammatica. Intanto si era fatta sera. Valerio espresse la paura che aleggiava nel cuore di tutti noi: ci avrebbero permesso di vederlo? Di dargli un ultimo saluto? Nonostante ci legassero a Fabio anni di amicizia, per la burocrazia noi non eravamo nessuno per lui. Sebbene fosse illuminato da potenti luci al neon, l’obitorio dell’ospedale era spettrale. Di lì a poco si aprì una porta e un inserviente domandò, rivolgendosi a tutti: «Parenti?». «Sì!» rispondemmo in coro.

Non chiese altro. Ti ricordi quando a Sabaudia ci raggiunse mia madre? Lei, una signora ormai anziana – aveva 83 anni –, abituata a una vita piuttosto solitaria e ritirata, si era trovata a suo agio in quella allegra comunità di buontemponi. Si era immediatamente inserita nel gruppo conquistando i nostri amici a uno a uno. Sebbene sapessi quanto fosse aperta e tollerante, cercavo di evitarle situazioni che potessero metterla in imbarazzo. Ma ci voleva ben altro che qualche innocua trasgressione per scandalizzarla. Una sera, per esempio, terminata la cena, un’amica aveva acceso uno spinello. La cosa non le era sfuggita: iniziò a insistere nel voler provare anche lei. Tentai di dissuaderla, spiegandole che non era una sigaretta, ma mia madre lo sapeva benissimo. Fece un paio di tiri e poi prese a ridere che niente più la fermava. «Stanotte ho dormito benissimo: adesso ho capito perché la gente si droga!» mi annunciò il mattino dopo, a colazione, tutta raggiante. Nonostante l’età, scendeva in spiaggia e si godeva il mare facendo lunghe nuotate. Ecco un’altra cosa che non ti ho detto mai: quando la accompagnai all’aeroporto, di ritorno verso Istanbul, salutandomi mi abbracciò forte, poi, staccandosi da me e guardandomi fisso negli occhi, mi disse: «Questo ragazzo è meraviglioso, non perderlo mai, tienitelo stretto». Parlava di te. Diversi anni dopo abbiamo rivissuto lo stesso stato di grazia a Meganisi, durante le nostre vacanze con Maricla e Sandro. Girare in motorino alla ricerca della caletta perfetta, quella che si raggiunge con fatica, camminando per ripidi sentieri profumati di timo ed elicriso. Immergersi in un mare che si confonde con l’azzurro intenso del cielo, sentendosi gli unici abitanti della terra. Raccogliere di nascosto i ricci di mare da mangiare crudi ancora con i piedi nell’acqua. E, poi, tornare in albergo, poco più che una taverna, semplice ma accogliente. Gustarsi in compagnia un piatto di feta, pomodori dolci e olive con il pane, nella grande terrazza affacciata sul

mare. Rifugiarsi in camera per fare l’amore e poi abbandonarsi al riposo, l’uno tra le braccia dell’altro, mentre fuori le cicale si scatenano nel loro assordante concerto. E, quindi, scendere di nuovo in spiaggia, finché il sole lentamente si inabissa all’orizzonte, tingendo il cielo e il mare di sangue. E pensare che avremmo dovuto fermarci lì solo per pochi giorni! I nostri piani originali prevedevano di imbarcarci quasi subito sullo yacht di Piero, un recente amico. Ricordi? Ci aveva invitato a unirci a lui per una crociera nel mar Ionio. Una volta giunti sull’isola, però, avevamo appreso che il nostro ospite era stato trattenuto al porto di Otranto per problemi all’imbarcazione. Ciò che di primo acchito poteva sembrare un noioso contrattempo, ben presto si rivelò una fortuna. Ho ancora davanti agli occhi il blu quasi fosforescente del mare. Sento ancora le onde infrangersi sulla spiaggia, mentre ceniamo a lume di candela. La sera, prima di rifugiarci di nuovo in camera, camminavamo a piedi nudi lungo la riva, parlando del futuro. In quell’isoletta così minuscola che si fa fatica a scorgerla nelle cartine geografiche, poco abitata e quasi priva di lampioni stradali, il cielo notturno pareva più luminoso che mai, punteggiato da centinaia di migliaia di stelle che sembravano a portata di mano. Ci sdraiavamo sulla spiaggia e restavamo lì, noi due soli, a guardare la notte, ammaliati da tanta bellezza. Da tanta pace. L’indomani ci saremmo risvegliati con la certezza di poter rivivere ogni cosa con la medesima intensità, e se anche tutto sarebbe stato uguale, avrebbe avuto un gusto differente. È questa la felicità. Sentirsi, anima e corpo, in assoluta armonia con l’universo, insieme a chi ami. Da allora, tante cose sono successe, eppure non era molto tempo fa. Sembrava che quella pace dovesse durare per sempre, e invece in un attimo ci ha travolti uno tsunami. Siamo stati spazzati via dalla nostra isola felice, abbiamo imbarcato acqua, abbiamo perso tutto. Siamo stati sbattuti contro gli scogli della vita, abbiamo avuto paura di non

farcela. Ma ora il peggio è passato. Adesso ricostruiremo la nostra isola felice, tu e io. La ricostruiremo giorno per giorno, protetti da un altro mare, il tuo. Verde, ombroso, vitale. Ne esploreremo le radure e le colline, i sentieri e i ruscelli. Ci immergeremo tra gli arbusti del sottobosco, raccoglieremo more e lamponi, berremo dalle fonti. Proveremo a perderci per ritrovarci. Fermiamoci un attimo, ti va? Voglio compiere un ultimo rito. La vedi la piazzola davanti a noi, con quello stretto belvedere che si affaccia a strapiombo sulle rocce? Voglio liberarmi del cellulare buttandolo nel vuoto da quassù. Non mi va di ritrovarmi, prima o poi, a combattere con la tentazione di accenderlo e quindi lasciarmi di nuovo attirare dal mondo che stiamo lasciando, dagli amici. Persone meravigliose che sapranno capire questa nostra scelta. Che potrebbe apparire disperata, e invece non lo è. Alcuni di loro sono legati a un altro dei mari che mi porto dentro, quello di Otranto, di Punta della Suina, di Lecce… Come Elisabetta, per esempio. Quando mi avevano invitato la prima volta a Otranto per ricevere un premio, gli organizzatori dell’evento ci avevano prenotato una stanza in un bellissimo albergo, una masseria immersa nella natura, non lontano dalla costa. Mai avremmo potuto immaginarci di trovare tanta cura e ospitalità. E, soprattutto, di conoscere una persona che ci sarebbe diventata così cara. Elisabetta gestisce la sua masseria con un’attenzione e un amore particolari. Dalle lenzuola di lino ai dolci per la prima colazione, tutto è frutto di scelte accurate. Perché per lei la masseria è molto più di un albergo e i suoi ospiti più che clienti. Un tempo l’edificio principale era un rudere abbandonato, all’interno delle vaste terre di famiglia. Ci andava suo figlio adolescente a giocare con gli amici. Il figlio che l’aveva presto lasciata sola, rapito da una malattia incurabile. E lei allora aveva riportato quelle rovine al loro antico splendore, per amor suo. Quindi, animata dal desiderio di condividere quel luogo magico con gli altri, ne aveva fatto un hotel di charme.

Restammo in Salento solo pochi giorni, ma quei posti ci avevano conquistato, nonostante a tratti la bellezza del paesaggio marino fosse offesa da qualche osceno palazzone, costruito prima che la legge vietasse la cementificazione delle coste. Mentre giravamo per le antiche stradine di Otranto, accompagnati dall’assessore alla Cultura, mi era parso di avvertire ancora nell’aria quella miscela di civiltà che ne aveva fatto la storia. Entrato nella cattedrale, rimasi impressionato nel vedere le pareti della navata principale ricoperte di decine e decine di teschi. Domandai di chi fossero e il nostro accompagnatore esclamò: «Sono stati i turchi!». E aggiunse, non senza una punta di malizia, che l’edificio dove di lì a poco si sarebbe tenuta la premiazione non era altro che un castello dove la popolazione locale anticamente si rifugiava per sottrarsi ai loro attacchi. Arrivavano con le navi quando meno te l’aspettavi e avevano la pessima abitudine di rapire le persone. La sera, ritirando il premio, dissi: «Vi chiedo scusa per i miei avi, che in passato hanno fatto un po’ di danni, sebbene molto meno dei vostri costruttori negli anni Sessanta!». Tutti risero e partì un applauso che mi mise subito a mio agio. Tra i vari oratori che si succedettero in quell’occasione, uno raccontò un aneddoto risalente all’epoca degli scontri con i turchi, che mi è rimasto impresso. Dopo una feroce battaglia, era calata la notte quando dall’accampamento dei nemici, che si erano sistemati poco fuori la città, appena dietro le mura del castello, si era alzato un canto melanconico e melodioso, in una lingua sconosciuta. Era un soldato turcomanno che cercava così di alleviare la nostalgia per il proprio Paese e lo sfinimento dovuto alla guerra. Quella canzone così struggente si sollevò nell’aria e tutti, assalitori e assediati, vincitori e vinti, restarono in silenzio ad ascoltarla rapiti. Elisabetta mi ha fatto conoscere tanti altri amici, tra cui Maricla che abita appena fuori Lecce, che è diventata la terza città del mio cuore: non è un caso se poi vi ho girato più di un film. Con gli anni vi siamo tornati sempre più spesso, tanto che Maricla ormai fa parte della nostra famiglia. E ogni volta

che rientravamo a Roma, di solito carichi di doni, ci scoprivamo sì pieni di energia, ma anche con almeno cinque chili di troppo. La nostra vita sociale laggiù, infatti, è sempre stata scandita da pranzi e cene, assaggi di dolci e splendide confetture. Con Barbara, maestra in cotognate; Davide, suo fratello, che ha un ristorante di pesce; Marina, che prepara crostate irresistibili; Claudia, che ha una farmacia a Gallipoli e ci sa sempre consigliare il rimedio giusto; Antonio che ogni domenica, ovunque noi siamo, ci manda un messaggio per salutarci e chiederci come va. Ho fermato la macchina sulla piazzola e ho recuperato il cellulare dalla sacca. Per forza d’abitudine, l’ho guardato: è stato più forte di me. C’erano diversi messaggi. Domenico che mi scriveva: «Come stai? Dobbiamo assolutamente sentirci per quel nuovo progetto. Chiamami!». E poi, Kasia: «Sono appena tornata a Roma, quando ci vediamo? Ho un sacco di cose da raccontarti!». E ancora, Cristina, che mi manda sempre delle parole bellissime: «Oggi mi sono svegliata presto e il sole, spuntando da dietro le colline, ha allungato un suo raggio proprio sul mio cuscino. Regalo anche a te questo segno di augurio. Buona giornata!». La vita mi sta chiamando, non vorrebbe lasciarmi andare verso il nulla dove sono diretto. Io, però, mi sono fatto coraggio, ho spento il cellulare, mi sono affacciato sullo strapiombo e l’ho gettato tra i rovi e l’intrico di arbusti che ricoprono la scarpata. Ho fatto un respiro profondo, guardando i monti ricoperti di fitta vegetazione e, molto più sotto, il fondovalle e le case del paese che abbiamo attraversato solo poco fa, piccole come giocattoli. Ho salutato tra me e me ogni amico, ogni cosa che ancora mi parla del mondo che sto lasciando: non so quando tornerò. Se tornerò. E intanto che pensavo a quanto possa essere difficile per alcuni dire addio, mentre per altri è un sollievo, mi è venuta in mente proprio lei, la «Signora del teatro italiano», il suo fascino impermeabile al tempo, le sue telefonate, la sua malinconia. Anna Proclemer è stata una straordinaria attrice,

ma anche una meravigliosa compagna di viaggio: avrei voluto averla incontrata prima. Quando l’ho cercata per chiederle di recitare in un mio film la conoscevo solo di fama. Allora aveva già 86 anni. Ero andato a descriverle il mio nuovo progetto cinematografico e aveva fumato di continuo, una sigaretta via l’altra. Mi aveva parlato tutto il tempo attraverso una spessa cortina di fumo che mi faceva bruciare gli occhi. Intanto si era bevuta non meno di quattro bicchierini di vodka. Era una vera diva dalla personalità carismatica e io ne rimasi da subito ammaliato. Tra noi poi è nata un’amicizia profonda. Anche una volta terminato il film, abbiamo continuato a sentirci. Ci telefonavamo tutte le sere. Mi raccontava le sue giornate. In realtà, lei viveva di notte. Si svegliava verso le due del pomeriggio, faceva colazione con cappuccino e brioche, poi trascorreva il tempo a leggere e scrivere. Cenava verso le dieci di sera, consumando pasti frugali a base di brodi e zuppe di verdura, ma non prima di aver buttato giù un bicchiere di vodka a stomaco vuoto. Aveva subito un’operazione a cuore aperto, dunque ogni tanto le chiedevo preoccupato: «E che dice il medico?». E lei, invariabilmente, rispondeva: «Non lo sa». Una volta mi chiamò, voleva la accompagnassi in Svizzera. «Sai, c’è quella clinica…» aggiunse. «Sono stanca, il mio corpo non mi ubbidisce più, i miei amici sono tutti morti…» si giustificò, senza abbandonare la sua consueta leggerezza. Non la accompagnai mai in Svizzera, ma Anna dopo poco tempo ci lasciò. Quando mi raggiunse la notizia mi trovavo a Tokyo e ci rimasi malissimo. Stavo per iniziare un nuovo film e avevo già un ruolo per lei. Credo che quella sia stata la sua telefonata di addio.

XIII

La cena degli addii

Qualche anno fa, proprio in questo periodo, eravamo a Parigi. Non era certo la prima volta, ma sono stati davvero dei giorni speciali. Indimenticabili. Eravamo andati in Francia come al solito per impegni di lavoro – il mio ultimo film era in uscita nelle sale d’Oltralpe ed erano previsti alcuni incontri con il pubblico – ma, quasi per magia, eravamo riusciti a ritagliarci diversi intensi momenti tutti per noi. Ci avevano raggiunto anche Maricla, Sandro, Tilde e altri amici: ciascuno durante il giorno seguiva i propri programmi – chi in giro per shopping, chi per monumenti –, e poi ci si dava appuntamento la sera. Noi giravamo per la città senza meta, perdendoci nelle stradine affollate che si affacciano sul Canal Saint-Martin, oppure passeggiavamo per gli Champs-Élysées come due turisti qualsiasi, ammaliati dal loro monumentale splendore. Visitammo anche il Museo d’Orsay: entrambi l’avevamo visto da giovani, ma non avevamo mai avuto occasione di tornarci insieme. «Guarda questo abbraccio! È proprio vero che l’arte sa rendere eterno l’amore, attraverso gli occhi di chi guarda!» avevi esclamato davanti a un dipinto ottocentesco che raffigurava una coppia di amanti. Ci eravamo attardati così a lungo davanti a ogni singolo quadro, per coglierne anche i minimi particolari, che quando uscimmo nell’ampio piazzale davanti al museo ci stupimmo nel constatare che, nel frattempo, era calato il buio. La giornata era volata. Avevamo persino scordato di mangiare. Ci eravamo fatti largo per ore tra quella straordinaria abbondanza di opere d’arte, come due esploratori inviati nell’angolo più incontaminato del globo per classificare specie botaniche e animali mai visti prima. O come due bulimici davanti a un banchetto regale. Ci inoltravamo nella bellezza che ci circondava da ogni parte con

gli occhi spalancati per lo sforzo di imprimerci il più a lungo possibile quelle magnifiche visioni. Non posso fare a meno di chiedermi che cosa ti sia rimasto, oggi, di tutto ciò. Certo, il neurologo non avrebbe difficoltà a rispondere: «Nulla». Anzi mi sembra quasi di sentirlo, con quel suo tono di voce freddo e autorevole: «Nulla». Nulla: una parola che ha il sapore della condanna. Ma a me piace pensare che, da qualche parte, in fondo alla tua anima, ci sia una stanza segreta dove custodisci il ricordo perfetto di quei capolavori. Ora hai semplicemente perso la chiave e non riesci più a entrarci, ma conservi dentro di te intatti l’energia e il talento che quegli artisti hanno saputo esprimere. Oltre quella porta chiusa, continuano a trasmetterti un’impalpabile sensazione di felicità. Ti lancio un’occhiata di sfuggita, mentre siedi tranquillo accanto a me in quest’ultimo tratto di strada, e ripenso ancora alle tue parole. È proprio così, l’arte rende eterno l’amore, ma serve anche la complicità degli occhi di chi guarda. E io, finché avrò occhi, ti amerò. Ci sono passi molto difficili da compiere. Decisioni che devi prendere in solitudine, senza ascoltare nessuno. Nemmeno gli amici più fidati o le persone che ti sono care, nemmeno chi da sempre ti sostiene con i suoi consigli e a cui ricorri quando hai bisogno di un parere duro ma sincero, di qualcuno capace di dire solo la verità, costi quel che costi. Scelte definitive, che non possono essere condivise. Perché ormai non puoi permetterti di fare nient’altro se non ciò che, in cuor tuo, hai già deciso. Non è contemplato cambiare idea. Non questa volta. Del resto, in simili occasioni prevedere un «piano B» non rientra fra le priorità. Non ci pensi proprio. Sarebbe come tradire ciò che possiedi di più sacro: lo spirito stesso dell’amore. Hai preso la tua decisione d’impulso e te la sei portata appresso, giorno dopo giorno, come una conseguenza ineluttabile. È maturata dentro di te come un minuscolo germoglio, un progetto di idea che sarebbe potuto cadere dal

ramo alla prima gelata. E che invece è sopravvissuto all’inverno, è cresciuto con la primavera, ha gettato foglie verdissime e infiorescenze delicate, finché è comparso il frutto, microscopico, verde e sodo. L’hai sorvegliato a lungo con la coda dell’occhio, mentre una parte di te ti rassicurava ripetendoti che non saresti mai arrivato a desiderare di coglierlo davvero. Chissà quante cose dovevano ancora succedere: presto quel folle piano che non avevi avuto il coraggio di confessare a nessuno sarebbe stato superato dagli eventi, mostrando tutta la sua insensatezza. Allora ne avresti riso, sollevato, fra te e te, grato di non averne fatto parola ad anima viva. Il tuo silenzio si sarebbe rivelato ancora più opportuno. Chissà, attaccato da una colonia di parassiti o da acquazzoni fin troppo abbondanti, quel frutto non sarebbe mai maturato. L’avresti dimenticato sull’albero e, alla fine, sarebbe diventato rugoso, molliccio e scuro, per poi cadere a terra confondendosi con l’erba alta. Ma le cose non vanno quasi mai come le si desidera. Ci sono scelte che restano nell’aria, nonostante tu cerchi a lungo di procrastinarle nell’assurda speranza che accada l’impossibile, un miracolo che ti riporti dentro la traiettoria che ti eri scelto e che non avresti mai voluto abbandonare. E invece accadono mille cose, ma l’appunto che ti eri segnato in agenda è rimasto di stretta attualità. Il germoglio ha gettato radici profonde, le foglie sono diventate più scure, i fiori più profumati e il frutto è lì, succoso e maturo, di un giallo brillante. Ogni giorno ti invita ad allungare la mano per tastarne la compiutezza. È così che arriva il momento in cui non puoi più rimandare. Ti alzi la mattina, ti guardi allo specchio e annunci a te stesso e al mondo con dolore e determinazione in parti uguali: «È ora!». È ciò che mi sono ripetuto solo un paio di settimane fa. Mi ero svegliato in piena notte e tu non eri accanto a me. Sarà andato in bagno, ho pensato. Ma tu non ritornavi… Ti ho trovato in piedi in mezzo alla sala. Immobile. Avvolto dall’oscurità. Chissà da quanto tempo te ne stavi lì, infreddolito. Dovevi esserti alzato meccanicamente e

altrettanto meccanicamente essere avanzato di qualche passo, ma poi all’improvviso era sopraggiunto il buio dentro di te. Eri a un metro dalla nostra camera da letto, ti sarebbe bastato allungare il braccio per trovare l’interruttore della luce, la cui posizione fino a ieri conoscevi a occhi chiusi. E invece sei rimasto fermo dov’eri, paralizzato dalla più completa inconsapevolezza. Non sapevi più cosa dovevi fare, dove andare. Chi eri. Ti ho preso per mano per riportarti a letto. E tu, seguendomi docilmente, come un bambino che si è perduto, mi hai ringraziato dandomi del lei. Già, proprio così, per te in quel momento ero un estraneo… Non ne ho voluto parlare finora semplicemente perché è la cosa che mi fa più male: ormai, a volte, non mi riconosci. Sapevo che, prima o poi, sarebbe accaduto, ma finché te lo dice il medico, o lo leggi nelle decine di libri, riviste e siti web che consulti per documentarti, non ti sembra possibile che presto potrebbe succedere anche a te. Non sei mai preparato abbastanza al momento in cui anche tu finirai risucchiato dal buco nero che sta divorando chi ami. Ti sei raggomitolato su un fianco, appena girato verso di me, il tuo lato preferito, e ti sei addormentato quasi subito, sul viso un vago sorriso di sollievo. Mi è venuto in mente un articolo scientifico che ho letto di recente sull’ultima fase della malattia che ti incatena. Spiegava come alla fine si perde anche la capacità di sorridere. Non sono più riuscito a prendere sonno. È stato allora, mentre ti guardavo con il cuore a pezzi, che questa folle idea ha preso forma definitivamente dentro di me, trasformandosi in un progetto concreto. Un piano da preparare nei minimi dettagli, prima che sia troppo tardi. A dirla tutta, inizialmente avevo pensato a un’azione ben più definitiva. Avevo ipotizzato di farla finita. Per entrambi. Come avrei potuto, infatti, abbandonarti? Il modo lo si trova sempre e sarebbe stato, come si dice, dolce e indolore. Ce ne saremmo andati insieme come abbiamo vissuto, addormentandoci un’ultima volta, l’uno tra le braccia dell’altro.

Fosse stato solo per me, l’avrei fatto davvero. È stato il pensiero di te a fermarmi. Mi è mancato il coraggio. Allora mi sono detto che, se ero pronto a rinunciare alla mia vita, tanto valeva te la regalassi, almeno per questi ultimi anni che ti restano, prima che la malattia abbia il sopravvento. Dopo, quando tutto sarà finito, avrò l’amara soddisfazione di essere libero di fare ciò che voglio di me. Ho capito che non volevo perdermi più nemmeno un istante della nostra esistenza insieme, che tu mi riconoscessi o meno. Ti avrei riconquistato ogni giorno. Ogni ora. Ogni minuto, se sarebbe stato necessario. Tuttavia, per farlo, dovevo prima sbarazzarmi di ogni cosa che tu non potessi condividere. Ci sono decisioni molto dure da prendere, ma se è il cuore a guidarti nelle scelte, e non solo la testa, stai tranquillo che non avrai mai rimpianti né ripensamenti. L’importante, appunto, è capire con quale parte di te stai ragionando. Molte persone credono di desiderare cose di cui, in realtà, non importa loro nulla. La mente umana, a volte, è davvero complicata: può arrivare ad attribuirsi persino sogni altrui – dei propri genitori, della società, di chi pensa di dover decidere al posto tuo – da perseguire con accanimento, senza accorgersi che in questo modo non fa altro che costruirsi una prigione d’infelicità. Io non ho corso alcun rischio di cadere in simili miraggi: l’amore rende tutto più chiaro. Pensavo a ciò mentre preparavo la cena per le Mummie. La nostra cena degli addii. Ormai la decisione era stata presa e dentro di me mi sentivo profondamente sollevato, una sensazione che non provavo da tempo. Eppure, la prospettiva di rivelare i miei immediati programmi per il futuro ai più cari amici di una vita mi agitava non poco. Come l’avrebbero presa? Avrebbero capito? E Valerio, cosa avrebbe detto? E Roberto, in quanto nostro medico, avrebbe avuto da obiettare? Non posso certo scordare l’espressione attonita del neurologo quando solo pochi giorni fa gli ho comunicato le mie intenzioni. Mi aveva appena consigliato di sistemarti in

una «residenza protetta», così le chiamano, no? Perché quando la malattia arriva a uno stadio avanzato, la sua gestione può diventare insopportabile per i familiari, aveva osservato. In quel momento l’ho profondamente detestato, e lui deve essersene accorto. Alla fine, però, si è tolto la maschera professionale con cui tratta tutti i pazienti, infarcendo ogni discorso di studi scientifici, esami all’avanguardia e standard certificati, e ha aggiunto soppesando con cura le parole: «È una scelta coraggiosa la sua, non conosco nessuno che abbia mai fatto qualcosa di simile. Che vuole che le dica, non si dimentichi i farmaci e gli integratori che gli ho prescritto e… qualora avesse bisogno di me, sa dove trovarmi. Buona fortuna!». Mentre mi stringeva vigorosamente la mano, ho percepito il calore della sua partecipazione e mi è parso, per la prima volta, umano. Per le Mummie ho cucinato uno stufato di pollo allo zenzero con riso e per Rossella una ratatouille di verdure. Ci tenevo che ogni cosa fosse perfetta. Aggrappato al nostro tavolo come un naufrago in mezzo al mare, tu mi guardavi muovermi davanti ai fornelli. Era inutile spiegarti. Non vedevo l’ora che arrivasse oggi, perché tu potessi vedere con i tuoi occhi la sorpresa che ti stavo preparando. Così, per spezzare quel vortice di ansia che mi stava salendo nel petto, cercavo di concentrarmi ancora di più in ciò che stavo facendo, nei gesti pratici e rassicuranti che la preparazione del cibo richiede. Ho apparecchiato la tavola con ancora maggiore attenzione del solito, disponendo con cura i nostri piatti migliori, quelli decorati a mano che ho acquistato una vita fa in un antico negozio di porcellane a Istanbul. Ho distribuito i bicchieri di cristallo colorato, facendo attenzione ad abbinare a ciascun commensale il suo colore preferito: lilla per Luce, acqua marina per te, arancio per Rossella, rosso per Giuseppe, verde per Roberto, blu per Valerio, viola per Alessandro, azzurro per me… Ho tagliato il pane per sistemarlo nel cestino quando era ancora tiepido dal forno. Il suo profumo si è sparso per la cucina mescolandosi agli aromi degli altri cibi.

Come sempre, Giuseppe è stato il primo ad arrivare. Si è seduto accanto a te e, dopo averti abbracciato, si è messo a mangiucchiare distrattamente il pane, raccontandoci le sue ultime avventure. Dopo poco hanno suonato Roberto e Valerio, che si erano incontrati davanti al portone. Di lì a dieci minuti ci avevano raggiunto anche Alessandro, Rossella con Paola e la piccola Luce. È arrivato persino Stefano, che ultimamente non riesce quasi mai a unirsi a noi. Tutti ti hanno colmato di attenzioni. Luce, poi, aveva per te un regalo speciale, un disegno bellissimo che aveva eseguito a scuola: una casa illuminata da un enorme sole rosso. Per un attimo la mia determinazione è quasi vacillata e ho iniziato a chiedermi se non stessi sbagliando tutto, se non sarebbe stato meglio restare. All’improvviso non ero più tanto convinto di quello che stavo accingendomi a fare: chi ero io per portarti via da tanto calore? Ma, appunto, è stato solo un attimo. La convinzione di non avere reali alternative ha cancellato ogni ultimo dubbio. Avevo aspettato di avere le Mummie al gran completo per fare la mia rivelazione, così, quando è arrivato anche Stefano, ho deciso che era venuto il momento di parlare. Poi sarebbe successo quello che doveva succedere, ho pensato con una certa dose di cupo fatalismo. Intanto, intorno al tavolo si intrecciavano tre o quattro diverse discussioni: chi raccontava di un comune amico incontrato il giorno prima, chi lodava il pollo, chi consigliava di leggere un libro di una scrittrice emergente. E Luce ti narrava sottovoce una storia complicatissima a proposito del suo disegno. Catturare l’attenzione generale non sarebbe stato facile. Allora, per interrompere quel flusso di chiacchiere, ho fatto in modo che la bottiglia di plastica colma d’acqua minerale mi scivolasse dalle mani e cadesse pesantemente in mezzo ai bicchieri. All’improvviso, tutti si sono zittiti e mi hanno guardato. Solo Luce ha continuato a parlarti piano. «Ecco, avrei una cosa importante da dirvi» ho esordito con la voce malferma. Il resto, però, mi è venuto fuori senza sforzo: ti osservavo e le parole mi scorrevano dalle labbra

come un torrente in piena lungo i suoi argini naturali, dopo che finalmente è stata riaperta la diga che l’aveva troppo a lungo trattenuto. Purtroppo le tue condizioni negli ultimi mesi avevano avuto un rapido peggioramento, ho spiegato. E ora stavi per entrare nella fase terminale della malattia. La tua memoria era già compromessa in modo grave: presto saresti diventato completamente dipendente e avresti richiesto un’assistenza continua. Quando un malato arriva a questo stadio, di solito i parenti lo sistemano in strutture specifiche, o prendono un badante che lo segua giorno e notte. Ho fatto una pausa a effetto e nessuno ha fiatato. Io non avrei mai potuto scegliere nessuna di queste due soluzioni, ho precisato con forza. Non avrei mai potuto affidare il mio amore a mani che non fossero le mie. La vita, a volte, ci combina dei tragici scherzi e, proprio quando crediamo di avere tutto, ci lascia senza nulla. Era successo a noi: solo poco tempo prima eravamo le persone più serene del mondo, ma ora non era più così. E, per me, continuare a vivere come se niente fosse era diventato insopportabile. Era venuto il momento di dedicarti completamente me stesso. Per questo avevo cancellato il film che avrei dovuto girare, annullato ogni altro tipo di impegno, dato disposizioni a Moira, la mia agente, all’avvocato e al commercialista di congelare ogni mia attività. Loro erano i primi amici cui lo dicevo, il giorno dopo avrei comunicato la mia decisione per telefono anche agli altri, che vivevano lontano. Questa era l’ultima volta che ci si vedeva: nessuno di loro avrebbe dovuto più cercarci. Di lì a pochi giorni, infatti, saremmo partiti per la tua casa di montagna, il luogo che ti è più caro al mondo, dove ti sarei stato accanto nel più completo isolamento, per prendermi cura di te sino alla fine. Questa era la nostra ultima cena. La cena d’addio. Tu per tutto il tempo non hai mai smesso di guardare il disegno di Luce; rapito, seguivi con un dito i contorni della casa. Chissà, forse con la mente eri già lì, tra le vecchie pareti di pietra che ami.

Quando ho finito di parlare, per qualche istante nessuno ha osato aprire bocca. Mi ero immaginato questo momento un sacco di volte, ma mai avevo previsto un simile silenzio. Al contrario, mi aspettavo un’esplosione di reazioni scomposte, urla, pianti, domande accorate… «Mi passi il vino?» A parlare per primo è stato Giuseppe, rivolgendosi a Rossella come se niente fosse. «E così l’altro giorno hai incontrato Alessio?» ha poi chiesto Roberto a Valerio, con la stessa disinvoltura. La conversazione che avevo interrotto poco prima con la mia rivelazione era ripresa nella sua più totale normalità. Senza bisogno di pensarci due volte né tanto meno di discuterne ad alta voce, i nostri amici hanno assorbito e fatto propria la mia decisione così sofferta, con assoluto rispetto e pudore. E io, nella mia disperazione, ho provato un immenso sollievo. Ogni tensione e incertezza sono scomparse e mi sono sentito di nuovo leggero, riconoscente, persino felice. La nostra famiglia ci ha dimostrato ancora una volta di quanto amore possa essere capace. Ha compreso tutto ciò che c’era da comprendere, come fosse la cosa più ovvia del mondo. Quanto mi «mummiesche»!

mancheranno

le

nostre

chiacchiere

Alessandro che, da grande estimatore dei prodotti alimentari di antica tradizione, ci illustra le qualità di un certo pane integrale cotto sulla pietra. Roberto che riesce sempre a spegnere sul nascere le mie preoccupazioni da ipocondriaco con un’amabile battuta. Valerio che si fa aggiornare da Luce sui suoi successi scolastici. Rossella che mi parla della sua ultima campagna pubblicitaria. E Giuseppe, che si lancia in un improbabile ricordo del passato, o che si diverte ad aggiungere ulteriori particolari alla grandiosa descrizione del mio funerale, uno dei «pezzi» forti del suo repertorio… L’altra sera sulla porta di casa ci siamo salutati come se niente fosse, come se l’indomani potessimo riprendere le

nostre consuetudini, scambiarci messaggi, darci appuntamento, telefonarci anche solo per augurarci la buonanotte… Come se ci si dovesse rivedere nel giro di pochi giorni. Finché Luce, con la sua voce innocente e un po’ assonnata, ci ha chiesto se sabato saremmo andati a prenderla a scuola. Una domanda del tutto naturale, la sua, visto che almeno un paio di volte al mese la recuperiamo alla fine delle lezioni per trascorrere il pomeriggio insieme. Io sono ammutolito: cosa avrei potuto risponderle, senza addolorarla? Ho guardato Rossella in cerca di aiuto, e lei è intervenuta con vaghe rassicurazioni, spiegandole che per un po’ non ci avrebbe visto perché stavamo per partire per un lungo viaggio. Le parole di addio che fino a quel momento non avevamo voluto pronunciare ci sono piovute addosso sotto forma di una profonda commozione. È stato duro abbracciarci così, con le lacrime agli occhi. Ma anche bello. Ti ho accompagnato in camera, e ti ho aiutato a coricarti. Poi sono tornato di là in cucina, per rassettare. Ho finito di sparecchiare, ho lavato i piatti, ho riposto le bottiglie. E, prima di spegnere la luce e raggiungerti a letto, ho dato un ultimo sguardo a quella stanza dove abbiamo trascorso tanta parte delle nostre giornate. Solo pochi minuti prima i nostri amici più cari l’avevano riempita con le loro voci. Ma domani si parte, e non è ancora tempo del rimpianto. Adesso che in fondo alla strada vedo il cancello del giardino e il piazzale sterrato dove di solito parcheggiamo, mi pare già di non ricordare più nulla, di essermi liberato io stesso, una volta per tutte, di ogni fardello. I miei ricordi, normalmente nitidi e precisi, sembrano mescolarsi in un guazzabuglio di luci e ombre. Come ha scritto Simone Signoret, la nostalgia non è più quella di un tempo. La memoria è strana, alcune immagini nella nostra testa con il passare degli anni cambiano forma. Accade così che ti aggrappi ad alcuni particolari con l’illusione di avere ogni cosa scolpita nella mente e, invece, è tutto sbagliato. Quella sciarpa, che eri sicuro fosse verde, è sempre stata blu. Il cortile della scuola, dove durante l’intervallo ti aggiravi da ragazzino con

la sensazione che fosse immenso, nella realtà è lungo e angusto quanto un vicolo. La nostalgia sta già cambiando i colori e le dimensioni dei miei ricordi. Ho aperto la porta di legno scuro e l’odore di resina e legno affumicato della casa di tuo padre ci ha dato il suo consueto benvenuto. Molte cose sono mutate da quando ci venivi da bambino. Ma quell’odore, che mi hai descritto tante volte, è rimasto. Parla di travi di abete annerite dal tempo, di rami secchi appena raccolti nel bosco e di pigne che prendono fuoco scoppiettando nel camino. Ieri Fausto, il contadino del casolare vicino, su mia richiesta è salito fin qui per accendere la caldaia, così la casa ora è tiepida. Ho portato parte dei nostri bagagli in camera da letto e sistemato i viveri nella dispensa in cucina. Per almeno due settimane dovrebbero bastarci, poi chiederemo a Fausto di fare rifornimento anche per noi, quando scende in paese. Mi hai aiutato a riporre le confezioni di pasta e le scatolette sugli scaffali. «Passami gli spaghetti» dico, indicandoti le grosse buste che ho appena appoggiato sul tavolo. E tu, felice di aver compreso le mie indicazioni, me le porgi con sollecitudine. Oltre la finestra dai doppi vetri incassata nelle spesse pareti di pietra, ormai è calata la notte. Mi guardo intorno e penso che la mia storia appartiene a tradizioni lontanissime, del tutto diverse dalle tue, eppure questa casa colma dei tuoi ricordi mi infonde un profondo senso di pace e tranquillità. È la casa dove ho l’illusione che tu possa tornare a essere te stesso, una creatura solare, padrona del proprio corpo e dei propri pensieri. Ma anche quando non sarai nemmeno più l’ombra di te stesso, quando guardandoti faticherò a riconoscere la luce del tuo sguardo, ugualmente so che mi innamorerò di nuovo di te, ogni giorno. Ricordo l’impressione che mi hai fatto la prima volta che ti ho visto sciare. Era febbraio, la notte aveva nevicato parecchio e l’indomani ci avevano raggiunto tua sorella con il marito e

tuo nipote. Io non mi ero mai accorto che appena dietro la montagna si intravedeva la cima di uno skilift. Bastava percorrere con gli sci il sentiero che attraversa il bosco, per sbucare proprio davanti all’impianto che conduce alle piste, mi avevi spiegato con entusiasmo. Per un uomo freddoloso come me, la prospettiva di buttarsi con un paio di assi di legno ai piedi sulla neve fresca non esercitava la benché minima attrattiva, ma quando ti ho visto scendere in velocità giù per la collinetta dietro casa, disegnando una serie di curve perfette, sono rimasto conquistato dalla tua eleganza. Tuo nipote, cui stavi dando lezione, ti aveva seguito in modo goffo e i suoi genitori non facevano che scattare foto. Che esagerati, avevo pensato. Ma oggi avrei voluto averlo fatto anch’io. Avrei stampato e incorniciato la tua immagine più bella, mentre fendi l’aria gelata con il tuo corpo atletico, le ginocchia lievemente piegate, le bacchette salde tra le mani, e me la terrei accanto al letto, sul comodino, per ricordarmi sempre di cosa sei capace. Ho cucinato una pasta e un paio di bistecche, che abbiamo mangiato seduti davanti al camino. Ho lavato i piatti e tu li hai asciugati. Mi sono sorpreso a pensare che, in certi momenti, la nostra sintonia è tale che potremmo fare a meno persino di parlare. Ma poi mi sono detto che invece no, devo sforzarmi di farlo. Le parole non sono mai inutili. Al contrario, sono necessarie. Così, adesso che siamo seduti per terra, sul kilim a pochi centimetri dal fuoco, ti propongo un gioco che so facevi da bambino: «Cosa vedi tra le fiamme?». Ci hai messo un po’ per rispondermi: «Un cavaliere con la sua spada di fuoco. Sta combattendo contro un esercito di zombie!» hai esclamato alla fine, soddisfatto. «E tu?» hai aggiunto dopo qualche istante di silenzio. Non sai quanto mi abbia emozionato ascoltare queste due semplici parole: «E tu?». Il mondo a parte dove pensavo tu fossi già prigioniero non ha ancora finito di erigere la sua cupola di cristallo. O, se l’ha

fatto, ci deve essere una crepa, una sottile linea trasparente, attraverso la quale riesci ancora a pensare a me. Nonostante tutto, forse, riusciremo ancora a essere felici.

Epilogo

Questa mattina mi sono svegliato molto presto. Tu dormivi ancora, profondamente. Ho colto, nella luce filtrata dalle persiane chiuse, un che di brillante cui non ero più abituato, così ho aperto piano le imposte, per non svegliarti, lo spazio appena sufficiente per consentirmi di dare uno sguardo alla giornata che si stava preparando. Non mi ero sbagliato: la vallata, le vette, gli alberi, tutto è illuminato da un meraviglioso sole nascente. La pioggia, che sembrava non dovesse finire mai, finalmente ha smesso di inzuppare i prati, mentre la neve che ci ha costretti in casa per così tanti giorni si è sciolta ovunque, tranne che sulle cime più alte. Persino le nubi, basse e fitte come ovatta, che nelle stagioni fredde si insinuano lungo i pianori e i crinali delle montagne avvolgendo ogni cosa, si sono diradate per lasciare spazio a un cielo terso, pulito, di un blu metallico con bagliori d’argento. Sì, è tornato a splendere il sole. Non mi ricordavo che i suoi raggi potessero essere così caldi. Sono uscito dalla nostra stanza e ho fatto il giro della tua, della nostra, casa spalancando tutte le finestre per farli entrare. Questi vecchi muri hanno assorbito parecchia umidità durante il lungo inverno, ma ora si potranno asciugare. Più tardi, siamo usciti in giardino e abbiamo respirato a pieni polmoni. La natura si sta risvegliando. È primavera, la senti anche tu? Avverti questa strana elettricità nell’aria? Quasi all’inizio del bosco, stanno fiorendo i narcisi selvatici. Ho imparato a riconoscerli da alcuni vecchi libri di botanica che ho trovato in casa e che mai in passato avrei notato né, tantomeno, mi sarebbe venuto in mente di sfogliare. Quando venivamo qui per il weekend, eravamo sempre di fretta. Arrivavamo e già era ora di ripartire. Ci sembrava di non avere abbastanza tempo per tutto ciò che ci sarebbe

piaciuto fare. Percorrevamo il sentiero che scende fino al torrente, ma con la mente – almeno io – ero già proiettato in altri luoghi, in altre dimensioni temporali. Mille preoccupazioni incombevano. Intorno a me la natura dispiegava inutilmente le sue bellezze: io ero già lontano decine e decine di chilometri, in aeroporto pronto a imbarcarmi per un viaggio pianificato da mesi, o a Roma, intento a presentare il mio ultimo progetto. Tu hai sempre saputo vivere il presente con maggiore consapevolezza, non io: la vita laggiù nel mondo mi distraeva di continuo, mi irretiva. Adesso ho tutto il tempo che voglio. Certo, non posso dire con sicurezza fino a quando durerà. Quanto ce ne resti ancora. Però la malattia ultimamente è stata gentile con te. Ha rallentato la sua corsa. Ti ruba poche parole alla volta. Ti sta spegnendo, sì, ma piano piano. Come se, da quando siamo venuti quassù, si fosse impietosita o dimenticata un po’ di noi. O forse è che io, qui, ho semplicemente smesso di farmi domande. Vivo ogni istante come fosse l’ultimo. E sai una cosa? Non mi fa più molta impressione. Tutto sta ad abituarsi. Ripenso a un momento qualsiasi della mia vita di prima e quasi fatico a mettermi a fuoco. Ero proprio io? Ero davvero io quel regista che riceveva applausi a scena aperta a Cannes? Ero io quell’uomo che veniva invitato a New York? Che firmava autografi a Parigi? Lo stesso uomo che ha appena finito di raccogliere la legna per la stufa, rallegrandosi perché finalmente è abbastanza secca da non riempire la stanza di fumo? Guardo l’auto oltre il cancello. È lì dove l’ho parcheggiata mesi fa. Non so nemmeno se riuscirò mai più a rimetterla in moto. Mi sembra siano passati mille anni da quando siamo arrivati qui. Mille anni da quando ho salutato le Mummie, dopo la nostra ultima cena. «Guarda cosa ho trovato!» hai gridato alle mie spalle. Le piogge devono aver sospinto fin sul prato davanti a casa un vecchio pallone che avevi perduto dopo un tiro più potente

degli altri, chissà quante estati fa. È malandato e un po’ sgonfio, ma tu lo contempli entusiasta, come se avessi scoperto un tesoro. Tiri due calci e, anche se vanno a vuoto, torni il bambino che sei stato, quando giocavi a calcetto con i compagni dopo la scuola, nel cortile dietro la chiesa, a pochi passi dalla tua casa di città. Ho provato a guardare quel pallone con i tuoi stessi occhi e anch’io mi sono sentito riportare indietro nel tempo, nel cuore stesso della mia infanzia, in un altro cortile, in un altro Paese, in un’altra città. Ma con lo stesso entusiasmo addosso, la stessa voglia di correre, di urlare, di schivare gli sgambetti e le gomitate degli altri ragazzini, di buttare finalmente la maledetta palla in porta, perché è quello che può renderti felice. Ci siamo tolti i giubbotti e abbiamo iniziato a rincorrerci rubandoci una palla immaginaria, passandocela e rubandocela ancora, finché non ci siamo buttati a terra dove l’erba è più soffice, stremati. I nostri respiri affannati si sono mischiati insieme nell’aria e dal nulla è comparsa la prima farfalla di stagione, azzurra bordata di nero. Ha svolazzato un po’, si è posata sulla tua fronte e poi è volata via facendo frullare le sue ali sottili. Ho pensato: forse è un segno… Subito, però, mi sono anche chiesto: sì, ma quale? Non voglio saperlo. A cosa servirebbe? Ogni volta che cerco di salire la china, che mi sforzo di vedere le cose in un’ottica migliore, che inizio a illudermi che, per incanto, forse ce l’abbiamo fatta, ecco che affondo di nuovo nelle sabbie mobili di una realtà che non potrà mai più cambiare. Dietro la legnaia, il prato in pendenza forma una piccola collina e tu ti ricordi all’improvviso di quell’altro gioco che ti piaceva tanto: rotolare giù dall’alto fino a dove inizia il bosco. Non so se è la malattia o le medicine, ma oggi sei euforico. Ogni tanto succede. Ancora una volta ti seguo, perché non

posso fare altrimenti. Saliamo in cima e ci sdraiamo a terra, uno di fianco all’altro. «Sei pronto?» mi chiedi gridando con tutto il fiato che hai in gola. Pare sia assolutamente fondamentale buttarci insieme per rotolare in perfetta sincronia. E mentre me lo spieghi, la tua voce assume lo stesso tono eccitato e impaziente che dovevi avere da ragazzino, quando con la tua combriccola di amichetti e cugini partivate ogni giorno per esplorare luoghi selvaggi e sconosciuti, e il prato era una prateria attraversata da tribù indiane, il bosco una giungla equatoriale, la legnaia una grotta abitata da mostri spaventosi che solo voi potevate vedere. Ci lasciamo cadere avvitandoci su noi stessi, giù giù fino in fondo. Tutto intorno a noi inizia a girare, il cielo, le montagne, le cime ancora splendenti di neve, il prato. Quasi ci schiantiamo contro la quercia in mezzo alla macchia profumata di narcisi. Urliamo, ridiamo e ci abbracciamo stretti, in un groviglio di braccia e gambe che non so più a chi appartengano. Non so più dove finisco io e dove cominci tu perché siamo una cosa sola e il tuo ginocchio sbucciato è il mio, la spalla dove abbandono la fronte è tua. Ma anche mia. Restiamo lì in silenzio, ascoltando il battito dei nostri cuori tornare regolare. Poi ci aiutiamo ad alzarci e ancora la testa ci turbina vorticosamente. Mentre torniamo a riprendere i giubbotti e ci avviamo verso casa, sbandiamo come ubriachi, i pantaloni umidi e striati di verde. Non mi sono mai sentito tanto vicino a qualcuno, in modo così naturale, istintivo, viscerale. Me lo ripeto anche adesso, mentre ti aiuto a entrare nella vasca, ti insapono e ti lavo i capelli per toglierti l’erba che vi si è infilata. E tu ti abbandoni completamente alle mie cure. All’improvviso, ogni forza ti ha lasciato e non sei altro che un bambino piccolo, impacciato e timoroso, che ha bisogno di tutto. Devo persino fare attenzione a tenerti su per le spalle, altrimenti potresti scivolare sott’acqua. Potresti affogare. Provo l’orrore di una madre impreparata che si ritrova sola ad

affrontare il primo bagnetto del proprio figlio, schiacciata da una responsabilità troppo grande. Solo che tu non crescerai, non imparerai ogni giorno una parola nuova, non inizierai a gattonare per poi arrampicarti dappertutto e cominciare a esplorare la vita. Il tuo sarà solo un crescente abbandono. Ti ho infilato a fatica l’accappatoio e ora ti abbraccio cercando di asciugarti, mentre tu ti lasci andare quasi a peso morto tra le mie braccia. Per poco non cadiamo. Provo a scherzarci sopra con una battuta, ma tu non mi segui. Guardi nel vuoto. Ecco, quando arrivano questi momenti la mia sofferenza diventa fisica: ma non posso fare altro che stringere i denti e procedere. So che te ne stai andando e io non posso fare nulla per trattenerti. Se non ripeterti per l’ennesima volta che io, invece, non ti abbandonerò. Che continuerò ad amare ogni singolo respiro di te, finché avrai aria nei polmoni e oltre. Non separarsi mai. È questo che voglio. È soltanto questo che mi interessa. Del resto, me lo ripeto dal primo momento che ti ho conosciuto: l’essenziale è non separarsi mai. Mai. Perciò ho deciso di cancellare tutto quello che ti ho raccontato. Tutto quello che ho vissuto. Anche se significa gettarmi alle spalle il passato, annullarmi completamente in te. Non mi interessa avere un’altra vita, senza la tua presenza accanto. Respirare, ridere, piangere, camminare, mangiare: nulla avrebbe più senso per me. Forse qualcuno penserà che sono semplicemente impazzito. Ma la verità è un’altra. La verità è che non esiste amore senza follia. E che soltanto chi ama follemente può sapere che cosa significa voler bene davvero a qualcuno. Io lo so.

Il primo grazie va ancora una volta alle persone che «abitano» le storie raccontate in queste pagine. E a quelle che riconosceranno qualcosa di sé in personaggi che non sono solo frutto della mia fantasia. Tutte loro sono una parte importante della mia vita. Grazie alla mia editor e amica-nemica Nicoletta Lazzari, colpevole almeno quanto me di questa mia seconda prova di scrittura. E a Adelaide Barigozzi, che mi è stata accanto correggendomi e consigliandomi con competenza e affetto durante la stesura del libro. Grazie a Moira Mazzantini e a Gianni Romoli per i suggerimenti. Ma più di chiunque altro, naturalmente, grazie a Simone. Tu, sì, sei la mia vita.

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.librimondadori.it Sei la mia vita di Ferzan Ozpetek © 2015 Mondadori Libri S.p.A., Milano Ebook ISBN 9788852064531

*** COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHIC DESIGNER: CRISTINA BAZZONI | FOTO © FERZAN OZPETEK «L’AUTORE» || FOTO © ROMOLO EUCALITTO

Indice

Il libro L’autore Frontespizio Sei la mia vita Prologo I. Via Ostiense II. E se… III. Una sera sul Ponte Sisto IV. La seconda primavera V. Una dea in parrucca VI. Il dono più bello VII. Il Buco VIII. L’amore che uccide, l’amore che salva IX. Il coraggio di essere se stessi X. Danzando con il fuoco XI. Il principe dei ladri e la cassiera tradita dalle stelle XII. I luoghi del cuore XIII. La cena degli addii Epilogo Copyright