Se dico radici dico storie

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Se dico radici dico storie

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli, per l’edizione italiana Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council La cartina alle pagine 2-3 è stata realizzata da Leandro Agostini. L’opera a pagina 151, Le radici davanti (acquerello su carta fotografica), è di Maria Bruni. Entrambe le immagini sono riprodotte in questo libro per gentile concessione degli autori.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9565-1

Ciò che si porta fuori da un paese, ce lo si porta dentro, in faccia Herta Müller Le radici della sua esistenza si nascondono in una foresta inestricabile Haruki Murakami

Indice

1. Sono anche geografie le storie 5

Il canto delle varianti

2. Le radici sono qualcosa che sarà

Dal Vietnam a Rueglio, con mio padre e suo padre, senza sua madre

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3. Nelle storie affondano le radici

Su e giù per l’albero genealogico, con Albino, Giacomo Filippo, Antonio, Nonnamaria, Carluccio e lo zio Enzo

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4. Dove ha radici il mio torrente? Alle sorgenti del Chiusella, con Charlie, Maghìt, Pier, Orzo, e mancava Pelota

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5. Le radici sono sempre plurali

Da un campo di calcio a una pedana di scherma, con Gigi Radice, Paolo Pulici, Kumìn, Janos Kevey e molti portieri

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6. Tutti hanno radici in un giardino

Nell’Eden, nel mio giardino e in altri quattro, con César Manrique, Paolo Pejrone, lo zenzero e le mangrovie

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7. Viaggiare è fare incontrare radici

Da Torino a Benares, da Trinidad al Lago Turkana, con Charles Simic, Ennio Flaiano, Alistair, Sara San Juan e una ragazza che non vuole dire il suo nome

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8. Il vocabolario è un luogo di radici Al galoppo fra le pagine, con Ugo di San Vittore, Stanlio e Ollio, Springsteen, Montaigne, Nicolás Gómez Dávila e Allah

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9. Gli sguardi non sono forse radici? Al cinema, a teatro, a Pandora, nel West, con gli Omaticaya e Giulio Cesare, Capaldi, John Ford e Valerio Innocenti

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10. Le radici sono il luogo dell’incontro A Tokyo, Kyoto, Kagoshima, Chiran, con Jun, Taki, la sorella di Taki, Aya, Federico, Mai Kubo, Tomokichi-san, Kuzuhara Ryo, senza sapere che sarebbe arrivata la grande onda

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11. Se insegui radici trovi persone

Fino a Montréal, Amsterdam, New York, Madrid, con un coro di ventuno io e con Kim Mäkelä, Ryan Bingham, Gerrit van Honthorst, Vermeer, Andrew Wyet, Bill Viola, la Maddalena

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12. Cinque radici in forma di ricette A tavola con mio padre e con vitel tonné, spaghetti di riso, anatra alle mele, purè di patate, marrons glacés e una bottiglia di Cordon Rouge

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Se dico radici dico storie

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Sono anche geografie le storie Il canto delle varianti

Io non so la Storia – mi piaceva come materia, la studiavo con profitto, ma non la so –, non la conosco bene, sono un orecchiante. So le storie, con tutte le loro azioni opere omissioni, le loro varianti e i loro silenzi. Le vite sono fatte di storie più che di atomi e ciascuno ha le sue, ciascuno è le sue storie. Diventano sue anche quelle degli altri, se ascoltate, poiché l’ascolto le fa rivivere. E nelle storie affondano le radici. Ho bisogno delle storie, delle voci che raccontano storie per entrare nelle cose. Le ho dovute conquistare. Conquistare storie, a volte, può essere un lavoro: attraverso le parole acquisisci i fatti, le esperienze, diventi parte dei sentimenti che esse trasportano. Le storie ramificano e così si oppongono al caso. Possono ergersi, uniche, a sfidare la falce del tempo. Sono anche geografie, le storie. Le persone sono i luoghi da cui provengono, da cui vanno e vengono, in cui abitano o passano, da cui partono e ritornano, e in certi casi, più di quanto non si sia disposti a riconoscere, sono i luoghi in cui non ritornano. 5

È questione di tempo oltre che di spazio, che ci portiamo dentro come sangue. L’albero genealogico è una clessidra – come una clessidra, non ha principio e fine. Lo puoi girare. La parte di sotto può ritrovarsi sopra. Sono speculari: le radici come i rami, come le fronde, i tuoi avi come la tua progenie. In mezzo, il tronco, il luogo dove s’incontrano i due coni, la strettoia che dice il tempo. I granelli di sabbia, passando, dicono il tempo. Il tronco tagliato, con i suoi anelli, dice il tempo: non soltanto il numero di anni trascorsi, dice anche se in quegli anni ha fatto freddo o caldo, se ci sono state gelate o carestie, se l’albero ha patito. E poi, con il legno costruisci case, carri, imbarcazioni. Serve a stare e serve ad andare, serve a navigare. Non sono catene, legacci, non sono un lucchetto che tiene prigionieri, le radici. Sono un movimento. E contengono la memoria degli uomini. Quando penso alla memoria, talvolta penso a una moria di me. Questo è alla base della memoria: lasciare indietro parti di sé, staccarsi di dosso pezzi di ciò che si è stati per andare avanti e crescere. Potare e diserbare, oltre che irrigare. La memoria è selezione, scelta, non accumulo indifferenziato. In quanto selezione e scelta, è anch’essa movimento. Non monumento, non museo, non magazzino, ripostiglio in un angolo buio di noi, ma rete, articolazione, come quella di vene e arterie, come l’architettura dello scheletro, come le radici che si ramificano, si fanno spazio, si fanno viaggio, leggere, adattabili, modificabili, in cerca della migliore condizione per ricevere e dare nutrimento. Anche la memoria ricerca la miglior condizione per dare e ricevere nutrimento. Esplora tutte le varianti, le cataloga, ne tiene conto. 6

Bisogna tenere conto delle varianti, diceva mio padre. Sul campo da tennis, durante una partita a carte o a scacchi, nel lavoro, in famiglia, nelle decisioni più importanti, metteva in pratica quello che gli aveva insegnato la vita, diceva, poiché ogni azione ha le sue conseguenze, anche se a volte vorremmo negarlo. Bisogna avere una visione complessiva, raffigurarsi le varie possibilità, tenere conto dei mutamenti, delle eventuali modifiche, della pluralità delle ipotesi: fare il conto delle varianti. Adesso che lo scrivo, e lo ripeto ad alta voce, il conto delle varianti mi suona canto, il canto delle varianti, un coro polifonico in cui si armonizzano le radici e le fronde, il passato e il futuro, il tempo e lo spazio, il singolare e il plurale.

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Le radici sono qualcosa che sarà Dal Vietnam a Rueglio, con mio padre e suo padre, senza sua madre

È nato in Vietnam, la prima volta. A Tuyên Quang, capoluogo di provincia, nella regione di Dong Bac, centotrenta chilometri a nord-ovest di Hanoi, oltre quello che è diventato il parco nazionale di Tam Dao. Allora, all’inizio del secolo scorso, il Vietnam era una colonia francese. Era l’Indocina, non India e non Cina, ma uno spazio di mezzo, come la battigia, che prende il meglio dell’una e dell’altra, così come della terra e del mare. Sua madre è vietnamita. I genitori l’hanno chiamata Dang, Phung Thi Dang, donna della famiglia Phung, lontane origini cinesi, ma tutti la chiamano Caroline. Così si presenta agli stranieri che occupano la sua terra: Caroline, je vous en prie. Suo padre è italiano, battezzato Giacomo Filippo con i nomi dei patroni del paese, che possano proteggerlo anche quando è lontano! – lui è sempre lontano. La lingua dei primi anni è il francese. Ascolta i suoni vietnamiti della madre e dei domestici, ascolta il cinese di molti manovali e, quando il padre – monsieur l’entrepreneur, monsieur Philippe o monsieur Jacques, a seconda degli interlocutori e dei documenti, qualche volta sempli8

cemente Giacu o Phil, l’Herr Jakob che per guadagnarsi la vita, in anni lontani, ha imparato il tedesco – quando suo padre parla con la colonia ruegliese del Tonchino, impegnata a costruire ponti e a scavare gallerie per la ferrovia dello Yunnan Orientale, familiarizza con l’italiano e con la lingua di Rueglio, ma lui parla e capisce soltanto il francese. La madre che lo lascia andare e il padre che lo porta in un posto che egli stesso non potrebbe chiamare casa, poiché manca da una ventina d’anni: tutto questo accade nel 1921, o forse l’anno seguente. Lo rivedo in una fotografia: la faccia da bambino chiusa in un broncio olivastro, cresciuto nell’abitudine al silenzio, alla discrezione. Sarà lui mio padre. Ha quattro anni. Si morde il labbro. Gli occhi grandi e neri sono velati da quella tristezza infantile che è un rigurgito di spavento. La diffidenza per le novità lo disorienta. Si volta. Cerca uno sguardo familiare. Segue con gli occhi il passaggio di un venditore di tè. In silenzio – l’assoluto silenzio delle fotografie, che appena scattate scolorano e si mangiano il tempo. Diventerà una fotografia: lui, questo momento e nient’altro. Tutto è caotico. Gli hanno fatto dei racconti, sì, ma adesso è lì di persona e può vedere. Ciò che vede lo invade: quello è il mondo e lui è solo un bambino. E straniero. Comunque, straniero. Ovunque vada, è straniero. Sempre. Non capisce la confusione intorno, nemmeno l’agitazione nel petto. Che cos’è questo azzopparsi del respiro in gola? Le gambe non riescono a reggerlo, si fanno molli, si disfano in latte – è faticoso rimanere in piedi e attendere. L’hanno educato a resistere, a non mostrare debolezze: sii uomo, è l’imperativo a cui è appeso. 9

Il volto ha il broncio severo di chi s’aspetta di diventare adulto da un momento all’altro: un gesto, uno scatto, un caso, e sei adulto senza avere raggiunto l’età dei grandi. I grandi! Un giorno sarò grande anch’io, penserà il bambino negli anni a venire: è la speranza di sentirsi libero, la sua rivincita. Potrà finalmente decidere. Perché i grandi decidono, scelgono. La parola che i padri più conoscono è no, pensa, i padri ripetono no. A volte anche le madri dicono no, ma le madri non sono i grandi, le madri sono madri. Questo crede di aver capito, anche se adesso non capisce più nulla. La sua persona è perfettamente in ordine, il fazzoletto in tasca, le piccole dita che sbucano dalle maniche della blusa, il colletto largo a righe orizzontali, l’orlo ricamato, un po’ abbondante per la crescita. Non ha volontà. È frastornato. Un ronzio nelle orecchie attutisce il mondo intorno a lui. Lo allarma, ma prova lo stesso a fare finta di niente. Impugna una canna, un bastone sottile e nodoso di bambù, probabilmente uno scudiscio per cavalli. Le dita giocano con il pomello di latta dorata. Si capisce che non sa cosa farsene, della canna. Non sa cosa fare di sé. Ma è ubbidiente. Ubbidire è ciò che ha imparato: rimani lì!, e lui rimane, a disagio, con il magone, prigioniero del comando. Ubbidire alla madre – minuta e fiera, la schiena dritta, lo sguardo alto, la faccia uguale a lui, tonda, stessa carnagione, stesse labbra marcate, molto giovane; ha solo sedici anni più del figlio e preferisce il silenzio alle parole, gli abbracci alle spiegazioni; lo tiene fra le braccia e non c’è bisogno di spiegazioni, gli abbracci sciolgono le paure e le domande, accolgono i perché e li liberano dai punti interrogativi. Ma sua 10

madre non c’è, è rimasta a casa, e lui è abbastanza lontano da casa, chilometri e chilometri lontano. Ubbidire al padre – robusto, non molto alto, possente e distinto, un uomo impeccabile, capelli pettinati di lato, baffi folti e curati, barba nera che punta diritto in basso, triangolare, fino a coprire il nodo della cravatta, una severità d’aspetto che incute soggezione: nonostante la statura, sembra un gigante; è un uomo compatto, determinato, di quelli che fanno girare il mondo sotto i piedi, quando lo attraversano, e si sentono a casa ovunque capiti di vivere. Il luogo dove sono nati è il punto di partenza, poi c’è il mondo, e il mondo è loro, basta andarci, costruirselo attorno e abitarlo – così suo padre, di cui non si conoscono paure, né scoramenti, né viltà, né mai il gesto di abbassare lo sguardo. Una pellaccia d’uomo, si direbbe, capace di comandare. Appena adolescente, ha dovuto arrangiarsi da solo. Adolescente! Non esisteva l’adolescenza ai suoi tempi, nelle sue condizioni. Camminando dietro il lavoro, dietro il bisogno e la fame, a sedici anni ha iniziato il primo giro del mondo: cosa vuoi che sia per uno così la lontananza? È sempre stato altrove, è altrove anche quando sta con lui, altrove adesso, pur non essendo fisicamente distante: il bambino è qui e il padre poco più in là, impegnato a scandire ordini a uomini scalzi che s’ingobbiscono e chinano il capo. Per natura, per abitudine, il bambino è silenzioso: sua madre è silenziosa e abbraccia, lui è silenzioso e aspetta. Ha imparato il silenzio che non è rinuncia, ma principio dell’ascolto. Non piange. Per una cosa del genere non si piange. Le lacrime servono o seguono i capricci, e qui non c’è capriccio. Le lacrime vengono dopo un’umiliazione, e questa non 11

è un’umiliazione. Le lacrime sono per un dolore, e lui non li ha ancora misurati, i dolori, non ne ha contezza, è solo un bambino piccolo di fronte ai fatti della vita. E questo è un fatto della vita. Altrui. Un fatto di suo padre e di sua madre. Questa è una partenza. Il bambino è partito da casa. È salito su un calesse, poi su una barca o su una piroga, se si possono chiamare piroghe le imbarcazioni che scendono il fiume, poi su una carrozza. Due giorni di viaggio, ed è arrivato al mare. Al porto. Non aveva mai visto un porto, solo colline e boschi, la sua piccola città e la capitale. Quando il padre e la madre andavano nella capitale, lo portavano con loro: un giorno per andare e un giorno per tornare. Lo vestivano con l’abito della festa, perché nelle fotografie sembrasse un piccolo uomo. Oggi non è tempo di fotografie. Oggi va, oggi è solo per andare. Lascia la terra e si mette nel mare. Dal mare tira un vento umido, freddo. Non sembra primavera. Calza scarponcini a mezza gamba. Ha l’aria vaga di chi è con il cuore in tumulto, ma non vuole far trapelare il disagio, l’ansia. È inconsapevole. Sta per essere rapito. In fondo, questo è: un rapimento, il suo. La madre lo lascia andare, rimane nella piccola città, non esce sulla veranda per salutarlo, resta seduta in cucina, impietrita a capotavola – il posto di solito occupato dal padre, quando c’è. Come ultimo gesto, gli stringe la piccola mano fra le sue, piccole anche le sue, ben curate. Sono la parte del corpo a cui tiene di più, le mani – le mani, insieme agli occhi e al collo: il collo sempre pulito, perché è l’appoggio della testa, e la testa conserva i pensieri, e i pensieri devono potersi posare sul pulito; gli 12

occhi, perché sono il luogo da cui passa lo sguardo, e lo sguardo deve leggere il mondo, deve essere fiero, deve sapere quello che fa e ciò che porta a casa, gli occhi ne sono responsabili; le mani, poiché sono quelle che per prime toccano il mondo, toccano gli altri, fanno le cose, lavorano, e perché un lavoro venga bene bisogna avere cura degli strumenti che lo realizzano, le mani belle fanno un buon lavoro, se vogliono, se c’è lo spirito, naturalmente, lo Spirito Santo, è religiosa sua madre, molto religiosa come accade ai convertiti, ma anche di questo il bambino ancora non si rende conto. Chissà se la madre pensa di rivederlo, un giorno, chissà se spera. Gli vuole dare futuro, più futuro, vuole dare possibilità al suo ometto, dice, petit homme, dice, e il futuro è a Occidente, no?, non per sempre, ma allora era ancora a Occidente. Gli vuole dare il mondo, la possibilità del mondo, e anche il mondo è a ovest, pensa, da dove vengono gli stranieri, da dove vengono i barbari, quelli che conquistano costruiscono disboscano e sfruttano – la raccontano in un altro modo, loro, la storia dei colonizzatori. Dunque, la madre lo lascia andare, ma il padre lo rapisce. Il bambino si volta e non vede più Khieu, che lo ha accompagnato fino al porto. Quando non stava con la madre, stava con Khieu e lo guardava trafficare. Era abituato alla lenta laboriosità di quella figura smilza e ossequiosa. Se una cosa si può fare in cinque minuti, vuol dire che si può fare con tutta tranquillità anche in dieci: questo era l’insegnamento di Khieu, con cui il bambino ha passato più tempo di quanto non ne abbia trascorso con il padre. Bisogna sbrigarsi. Il padre lo comanda con gli occhi. Tiene la mano ferma sulla sua spalla e gli lascia la canna. Zoppica 13

vistosamente per una caduta da cavallo – l’anca e il femore non torneranno più a posto. Il bambino si appoggia a lui. Salgono sulla nave. Il bambino cammina davanti, non osserva nient’altro che la passerella. Guarda dove mette i piedi – gli scarponcini sono impolverati, nota, sua madre se ne dispiacerebbe. Solo quando è a bordo, con la gente sulla banchina che saluta i passeggeri, solleva gli occhi. Il parapetto è alto, chiude la vista. Là dietro, duecento chilometri più a ovest, a nord del grande fiume, oltre le colline, c’è la piccola città dove è nato. Sotto i piedi ha il mare che lo porta via. Patirà sempre le partenze, le vivrà come abbandoni. Non avrà mai voglia di andarsene. E però, da qui, il seme: molto più tardi, ragionando, perdendo e ritrovando, intuirà che le case non sono i luoghi, gli edifici, sono le persone che scegli di avere accanto, e che ti scelgono. Il bastimento francese è un castello di ferro che fa le onde. La nave è quella cosa che sotto si muove il mare, dice il bambino, quella casa che il mare spinge, pensa, sempre più in là, verso il futuro, verso il tramonto. Chissà perché uno deve andare verso il futuro e non stare nel presente, dove c’è la mamma, pensa. Non voglio il futuro, pensa – ma non può dirlo. E ora che nessuno lo vede, piange. Raccoglie con i polpastrelli tutte le lacrime, non le lascia sulle guance, le mette in tasca. Possono servire, non si devono sprecare. La terra si tiene stretta la casa dove il bambino ha abitato, salda fra altre case, attorno a una piazza, in mezzo a muri e tetti – la nave non ha tetti, solo soffitti. Le case hanno vicino i fiumi, ma non ci vanno dentro. Le navi, invece, sono a casa sull’acqua. La terra tiene, l’acqua lascia. La terra è la madre, e 14

rimane. L’acqua, soprattutto il mare, l’espressione più potente, più vasta dell’acqua, l’infinito dell’acqua oceano è il padre, e se ne va. E lui insieme. Ma non si può abitare il mare, il mare è un passaggio, come il passaggio del venditore di tè. La nave è diretta a Marsiglia. Dopo Marsiglia, Genova. Dopo Genova, Torino. Dopo Torino, Ivrea. Dopo Ivrea, diciassette chilometri a ovest, direzione Gran Paradiso, tutto in salita, Rueglio. La piazza di Rueglio, Valchiusella, Canavese, Piemonte, Italia, Europa, Mondo, è una chiesa messa di traverso, come non ne ha mai viste; a sinistra, un grande edificio a tre piani, il municipio, con finestre che sono il doppio di tutte le finestre conosciute; a destra, un albergo rosa e giallo che sembra uscito da una fiaba; qualche panchina e, in mezzo, un monumento scortato da due ippocastani con un soldato in piedi, un fucile in mano, che sta azzardando un passo: se non pesasse troppo, riuscirebbe a muoversi, scenderebbe dal basamento, prenderebbe la strada e verrebbe via da dove lui è arrivato. Dopo la piazza di Rueglio, con tutte le sue meraviglie, con uomini che parlano una lingua caverna, una lingua che sembra notte, sembra fascina che brucia e gorgoglio d’acqua; dopo la piazza di Rueglio, il viaggio prosegue fino a una cascina. Alla cascina il bambino arriva di sera su un carretto trainato da un mulo. Al paese è arrivato in calesse, seguito da un carro carico di bauli e oggetti vari, anche una poltrona di tek e una chaise-longue di vimini. In cascina, dopo che il padre ha salutato la sorella e dopo che il figlio della sorella, suo cugino, di qualche anno maggiore, lo ha rivoltato con uno sguardo insolente, dopo un’ora che non passava più, dopo una scodella di latte che gli ha squassato 15

la pancia, su nella camera alta, fredda, nel letto gelido, tutto vestito sotto le coperte con uno scaldino ai piedi, làsa drumir la màsnâ, kà s’àrpôsu, solo, sento che piange. Non ferma più le lacrime. Non c’è motivo, nessuno lo vede. Singhiozza. Sono i singhiozzi a bagnare la federa; liberano il terrore, la disperazione, il senso di impotenza repressi da un mese – tanto è il tempo impiegato per arrivare fin lì. Questo è il bambino che un giorno chiamerò papà, nato due volte. Io vengo, provengo da lui, che era straniero ovunque, lo è sempre stato, qui e altrove. Ottant’anni vissuti stranieri, come uomo che doveva sempre dimostrare qualcosa a qualcuno: questo è lo straniero, una persona obbligata ad adattarsi agli altri. In un solo luogo ha provato a non sentirsi straniero, ha provato a se stesso di non esserlo, un luogo che consisteva in due persone: sua moglie e suo figlio, la famiglia – non quella da cui provieni, quella che costruisci. Mio padre raccontava poco di sé. Osservava, studiava, voleva capire, prendeva le misure e reagiva. Era orgoglioso e combattivo, come sono i vietnamiti, come sono i ruegliesi. Non ha più rivisto sua madre. Non ha mai parlato di sua madre. Ho fatto qualche domanda solo quando ormai era vecchio. Rispondeva a monosillabi. Piazzava in mezzo a noi uno dei suoi sorrisi cortesi, cordiali all’apparenza ma impenetrabili, e si faceva sfuggente: una vera barriera – non una costruzione che si erge nello spazio, ma un dilatarsi inesorabile, inaffrontabile, del tempo. Una sola volta, che io ricordi, ha risposto secco con vergognoso fastidio: lasciamo stare questi discorsi. Questi discorsi erano la madre e l’infanzia in Vietnam. Certe cose sono così 16

difficili da concepire che la mente le relega nel dolore. Le regala al dolore. Quando sono andato a vedere dove è nato, ha avuto paura che non tornassi più. Aveva ottant’anni e mi ha rivisto bambino, si è rivisto in me, credo. Aveva trent’anni quando ha scritto questa poesia: «Vorrei avere una figlia, / per vederle negli occhi / il dolce sorriso di mia madre, / teneramente soffuso di melanconia, / così com’io la penso». Ne aveva quaranta quando sono nato. Quarant’anni è l’età in cui un uomo comincia a prendere l’odore del proprio padre. Io ho cominciato a prendere il suo odore a quell’età, l’odore che ho conosciuto da bambino. L’età: una cosa strana, se penso a mio padre, alla sua figura e a quello che so della sua vita. Come a certe persone toccate dall’incanto, gli anni non lasciavano segni su di lui, non gli rimanevano addosso, non più di tanto. Lo attraversavano, lo costruivano, lo smontavano e rimontavano, ma da fuori non si vedeva. Per decenni non è invecchiato. Alla fine ho potuto vederlo così come appariva nelle fotografie di ottant’anni prima, i lineamenti appena più sfumati, l’incarnato sbiadito, pochissime rughe. La sua faccia aveva dato l’addio al broncio, gli occhi erano rimasti uguali, più acquosi, ma uguali: un bambino che conteneva un’ipotesi di vecchiezza e sorrideva con cortesia. L’hanno definito giovane, quando aveva quarant’anni. Dopo la vittoria in un torneo di tennis, i giornali hanno titolato: «Il giovane Favetto trionfa». Il giovane Favetto, e lui ne aveva compiuti quarantuno! Li portava bene, come se non avesse età, solo prestanza. Una distinzione naturale, atletica. L’aspetto esotico, pelle bruna, liscia e lucente, pochissima 17

barba. La timidezza lo aiutava a non strafare. Sembrava trovarsi sempre al suo posto. Troppo spesso accade che dalla giovinezza non si passi alla vecchiaia, ma si finisca direttamente nella tomba. La giovinezza è il partire, la vecchiaia è l’arrivare. A lui piaceva il transito. Bisognerebbe trovargli un nome: età di mezzo non va, maturità nemmeno. Non ha aggettivo e non ha nome, il transitare, è un passaggio, un paesaggio, un passo che dal passato si dirige verso il futuro. Quando ha superato gli anni destinati a vivere – così si è espresso una volta: ho superato ormai gli anni che mi erano destinati –, mio padre è tornato a essere il bambino che è stato nella sua prima terra. Ora so che cosa intendeva, forse. Era seduto in terrazzo, a Rueglio. Negli ultimi tempi, il suo sedersi in poltrona e accendersi una sigaretta era ogni volta, quando arrivava la sera, un discorso di addio: si sedeva e si assentava. Guardava la schiena del grande municipio giallo che, insieme alle poste e alla farmacia, ospita anche la scuola elementare. Penso volesse dire che il tempo destinato alla tua vita è quello necessario a farti tornare bambino, e i tuoi ultimi anni dipendono dal bambino che sei stato. Non aveva fretta di morire e non aveva voglia di rimanere. Era stanco, sereno e un po’ annoiato – libero da ogni pensiero. Il suo silenzio era finalmente soltanto silenzio. Aveva ottantasei anni, era un bambino e stava morendo, gli occhi sommersi d’acqua, lo sguardo opaco, il gorgoglio in gola. Cercava di fare la voce buona: una voce che fosse una voce, non un soffio, un rametto sottile che si spezza. Era tornato a fare sì con il capo. Ubbidiente. Osservavo il suo volto e vedevo il colore andarsene via. Il 18

colore sul viso di un uomo da mesi in trattativa con la morte si prosciuga e sviene. L’andar via di un uomo è uno svenire. Quando cerchi di guardarla in faccia, non c’è la morte, c’è soltanto la persona che muore. E continuerà a morire, per quanto tu possa sforzarti. Solo che adesso vedi anche con gli occhi di tuo padre. Il suo sguardo è passato in te: questa è l’eredità. Di lui rimangono le lettere, le lettere che compongono il suo nome, Albino Favetto, quello che è stato. E le date in cui è stato, dal 1917 al 2003. Voleva non lasciare disordine. Noi eravamo le uniche cose che gli rimanevano: due persone, non altro, non oggetti, case, possedimenti. Eravamo il suo futuro. Lo siamo – finché dura. Nel futuro ha messo le sue radici – le radici sono sempre radici di futuro, sono qualcosa che sarà. Le ha portate con sé e le ha lasciate libere nel futuro. Le ha fatte scendere nell’acqua. È accaduto dopo mezzanotte. All’ospedale. Pare abbia chiesto un bicchiere d’acqua. Non per bere, per guardarla. Ci sono persone che riconoscono l’acqua come il loro elemento naturale. Mio padre nell’acqua si sentiva a casa. Non voleva morire di notte. Voleva morire con un po’ di luce davanti. Diceva che la luce, alla sua età, in quel letto, lungo quei giorni inesorabili, a fine estate, a volte, la scambiava per acqua. Entrava dalla finestra impetuosa come un torrente e illuminava le pareti della stanza come, quando lo guardi con fiducia, ti illumina il mare.

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Nelle storie affondano le radici Su e giù per l’albero genealogico, con Albino, Giacomo Filippo, Antonio, Nonnamaria, Carluccio e lo zio Enzo Sono settanta pagine battute a macchina, con la copertina marrone, gualcita e macchiata. Il titolo dice: La peste bubbonica nell’Yun-Nan (Cina). È la tesi di laurea in Medicina e Chirurgia di Albino Favetto. Albino Favetto, laureato alla Regia Università di Torino nel 1913 a 37 anni, non era mio padre. Era suo zio, specialista di malattie tropicali, che morì come tenente medico durante la Prima guerra mondiale. Alma / genial eletta e fida / vinto l’avaro fato / trionfante / cadde / dell’Adamello dottore eroico lasciò inciso sulla sua tomba il poeta del paese. Mio nonno è arrivato in Vietnam per una fuga d’amore. Di suo fratello. Albino, più vecchio di tre anni e più alto di dieci centimetri, stesso volto coriaceo, stesso sguardo volitivo, solo meno burbero all’apparenza, era partito per l’Indocina con una giovane vedova del paese, che aveva lasciato a Rueglio due figli piccoli. Prima che la ragazza si sposasse, già si parlavano. Parlarsi era il verbo usato per dire il corteggiamento, la simpatia manifesta: quij dü às pàrlen. Ma Albino era uno studente di Medicina, doveva diven20

tare mèdik, prima ’d tüt à dèf ’dvàntâr mèdik. La famiglia ne aveva bisogno. Per sua madre, anche lei rimasta vedova da giovane, la Maria Teodora della Cooperativa, già sposa di un Oggeri, non era all’altezza, non era abbastanza. Albino viene spedito in città a studiare e Maria viene data in moglie a un compaesano, emigra in Turchia, a Smirne, a Chio, poi in Romania, a Costanza. Morto il marito in un incidente, ritorna al paese con i figli. E dopo qualche tempo riallaccia la relazione con Albino. Ora sono entrambe le famiglie a opporsi: non è un amore, è uno scandalo. E allora, i due, scandalosamente si comportano: abbandonano i figli di lei e da Genova nel 1902 s’imbarcano per Marsiglia, e da Marsiglia raggiungono l’India, e dopo l’India il Vietnam, dove contano di unirsi alla piccola colonia di ruegliesi che lavora fra Lao Cai e Yunnan Sen, fra l’Indocina francese e la Cina meridionale. Giacomo Filippo aveva lasciato il paese molto prima. Se n’era andato a quattordici anni, perché non voleva fare il prete. Quello sarebbe stato il suo destino, almeno per studiare: il primogenito medico, il cadetto prete – una bocca in meno di cui preoccuparsi – e per la terza, la piccola Piera, nata dopo la morte del padre, si sperava in un buon matrimonio. La tonaca per Gjàku Cît, troppo vispo e lunatico come ragazzino, sarebbe stata una camicia di forza. E poi, bisognava pure che qualcuno guadagnasse soldi, in quella famiglia. Così se ne va di casa, emigra. Passa la frontiera, lui piccolino, nascosto sotto le gonne di una merciaia, oh, à-l’hà cjàpâ ’n suràvènt kula vôta, uno spavento quella volta! C’era da pagare, al posto di confine. Lui, i soldi, non li aveva. Potevano 21

respingerlo, se la donna che andava a vendere trini e merletti, bottoni e fettucce in Francia non l’avesse aiutato. A sedici anni è in Prussia, a Heidersdorf, come minatore; a diciotto in Renania, poi nella Ruhr, a Braubach e a Mülheim. Nel 1900, a ventun anni, ritorna in Francia e s’imbarca per Québec City. Comincia il suo primo giro del mondo. A San Francisco, dove si era spostato, gli arriva una lettera della madre: tuo fratello è scappato in Indocina, ha lasciato gli studi e l’onore. Così, Giacomo Filippo nel 1906 raggiunge il fratello, lo convince a rientrare e si ferma al suo posto. Niente più medicine e salassi, ma ponti e ferrovie. A un certo punto incontra Dang ancora ragazzina, chiamata Caroline, alla francese, e sarà lei a rimanere, quando lui se ne andrà. Lei rimarrà sempre. Scenderà dal Nord al Sud, seguirà Bao Dai, l’ultimo imperatore, ma rimarrà. Era una donna tenace, che non si perdeva d’animo, vittima però della sua malinconia. Farà tre figlie con un ex militare francese. Le figlie, a una a una, andranno in Francia, lei rimarrà. Non ha mai voluto venire in Europa. Alla fine si ritira a Biên Hòa, in un convento. Con tutto l’ostinato rimanere nella sua terra, non riesce a far rimanere le ossa – si perdono. Muore nel 1972. Dopo la guerra contro gli americani, i vietcong devastano alcuni cimiteri e profanano molte tombe, disseppelliscono i resti e li abbandonano ai cani. Il Vietnam, dai vietnamiti, viene chiamato Terra e Acqua. È il paese dove terra e acqua abitano lo stesso spazio, si sorreggono, si accompagnano, figliano. Mi sono fatto l’idea che le ossa di mia nonna le abbia prese l’acqua, portandole chissà dove. 22

E chissà dove sono le ossa di mio nonno, che non rimaneva fermo mai, nemmeno morto. Rientrato dal Vietnam, passano due anni e ci ritorna sposato con Zanetta. Un altro paio di anni, ed è di nuovo a Rueglio. Con Zanetta avranno due figlie. E lascia anche loro, insieme a mio padre: loro sono moglie e figli, ma la sua famiglia è il lavoro, l’impresa, la sua famiglia è l’andare. Nel 1930 è in Somalia. Impianta bananeti e coltivazioni di cotone. Ha l’abilità e l’ingegno di scavare pozzi, così profondi, che salveranno le sue piantagioni e le aziende vicine dalla siccità. Muore il primo giugno 1947, o forse il 2, pugnalato alla schiena da un somalo durante una rivolta sobillata dagli inglesi. È seppellito a Merca. In seguito, come tutti gli italiani, viene traslato a Mogadiscio. E anche lì arriva il tempo dei cimiteri assaltati, delle tombe profanate, delle ossa disperse. Bruciate. Tanto, prima o poi, sarebbero diventate cenere. Concime. Le radici vanno a cercare il concime. Sono fatte di concime. Dal concime. So che mio nonno sarebbe voluto tornare all’acqua. Me l’hanno raccontato. Due come Dang, che chiamano Caroline, e Giacomo Filippo, che chiamano Jacques o Phil o Giacu o Philippe o Jakob o Bundéjs dal cognome della madre, due come i miei nonni, che non hanno nemmeno una tomba, non hanno più un cimitero, dove potrebbero abitare se non esistessero le storie?, se attraverso il racconto non si desse loro una casa, un focolare? Non li ho conosciuti, così come non ho conosciuto Antonio, il padre di mia madre, morto qualche mese prima che nascessi. Non l’ho mai chiamato nonno. Era sardo, figlio di sardi, nipote di sardi, e via così arrampicandosi per li rami 23

infiniti di sardignità. Era sardo lui prima che fosse sarda la Sardegna. Di Buddusò, un paese granitico del Montacuto che, con il suo accento, svela la propria natura di passato remoto: buddusai, buddusasti, buddusò. Era un uomo remoto, Antonio, anche lui remoto, una figura arcigna e lontana: gli ultimi anni faceva il custode in una fabbrica, la famiglia viveva altrove, solo ogni tanto i figli andavano a trovarlo. Era smilzo, più nervi che muscoli, fosco il viso, su cui portava espressioni scontrose come cappelli calati sugli occhi. Era uscito dalla Sardegna per la chiamata militare – un obbligo che non aveva intenzione di rispettare. Dicono fosse antifascista: un ribelle naturale più che un oppositore politico, credo. Appena sposato, viene inviato al confino all’isola di Ponza, dove nasce mia madre. Mia nonna, con i tre figli, abita in una casetta sulla spiaggia di fronte al porto. La madre di mia madre è l’unica che abbia conosciuto. Per me è sempre stata Nonnamaria, quella che un po’ mi ha raccontato e, raccontando, mi ha cresciuto. Veniva dal Veneto, ciò, dalla provincia di Vicenza, da Schio, ciò, xè importante Schio, xè una cittadina imperiale, ghe xè l’impero della lana, ciò, noantri ghe xera con i venezian, ciò, xè de Schio anca Arnaldo Fusinato, il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca, ciò, era a Schio anche il tuo Hemingway, quando io andavo a scuola, Schio, ciò... Era di Monte Magrè, per l’esattezza, una frazione distante quattro chilometri. Il padre era nipote e figlio di austriaci rimasti al di qua delle Alpi dopo il Risorgimento italiano e dopo l’annessione del Veneto al nuovo regno. Era proprietario di una miniera. 24

Rimasto vedovo, fallito, se ne andò, e Nonnamaria fu cresciuta dalla madre di sua madre insieme ai tre fratelli. Dovrei ricordarla bene, perché mi ha accompagnato fino quasi ai quarant’anni e perché raccontava, ricamava storie sulla sua famiglia, le sue amiche, i viaggi, Lourdes e Venezia, la guerra, la Prima guerra da bambina, la Seconda guerra ormai donna, quello che ha visto, quello che ha vissuto, Mussolini, i partigiani, la fame, Gesù, la Madonna, sant’Antonio da Padova fammi trovare l’on ca l’hai perdù, le grotte di Toirano e il mare, il bar che ha avuto e il suo compagno di certi anni che io chiamavo zio. Gli zigomi alti: se devo proprio dire, più dei suoi racconti, ricordo gli zigomi alti che facevano da attaccapanni alle guance. Il viso largo e immacolato con gli zigomi alti, ricordo – gli occhi del colore di cui sono gli occhi quando non ti accorgi che hanno un colore, e un’ondulata collinetta di capelli bianchi. Mi devo concentrare per trovare altro del suo viso, e non ci riesco: Nonnamaria, l’unica che ho conosciuto e che adesso non ritrovo. Ho un archivio di ombre e di vaghezze: solo il suo modo infagottato di alzare le spalle e corrugare la fronte, quando pativa uno sgarbo. Era permalosa. Generosa e altrui­ sta, ma permalosa. Era la madre di Elena, mia madre, la secondogenita, un maschiaccio che da piccola saliva sugli alberi, scappava in motorino – li aggiustava anche, i motorini – e faceva danza classica. La madre è una, ovunque. C’è. Fabbrica l’origine. Il racconto viene dopo. Il racconto è la nostalgia dell’origine, del silenzio nella madre. La madre è il vuoto che si fa cellula e poi carne, poi azione viaggio racconto. Il racconto è tutto ciò che 25

resiste quando non c’è più la madre, così mi sono industriato a pensare. Dai genitori, soprattutto dalla madre, bisogna allontanarsi, imparando a comprenderli. Bisogna essere in grado di scorgerne le fragilità e amarli per quello che sono e sono stati, bambini, a loro volta figli, costretti poi al mestiere difficile di rimanere accanto a chi cresce e a lasciare il passo. Puoi accettare, dunque, che la loro vita non sia stata facile. Il paradiso perduto è il ventre della madre, un cibo continuo, una ricchezza protetta e protettiva, un giardino che il racconto prolunga. Si esce per raccontarlo, non per cercarlo. È sempre alle spalle: in qualunque direzione ti muova, è alle spalle. Non cammini per rientrarci, cammini per cantare il perduto o il già digerito. Quello che hai ti spinge avanti con un calcio in culo. Per forza, poi, ti aggrappi alle storie, ne fai la tua sostanza. Oltre a Nonnamaria, le raccontava Carluccio, il cugino di mio padre, sordo a diciott’anni, un coro di cicale in testa fino a ottanta. Aveva la pensione di invalidità, curava la terra, coltivava patate e preferiva gli animali agli uomini. Chiamava Torino la kàpitàl e Ivrea la citâ. Da vecchio passava il tempo con gli occhiali sulla punta del naso tempestato di peli come aghi. Leggeva riviste, giornali e bugiardini. Dove c’erano frasi scritte, c’era lui. Era il suo modo di arginare il silenzio in cui viveva. Bastava mostrare di avere tempo e Carluccio dava fiato ai racconti. Rendeva fantastiche le azioni quotidiane. Colorava i fatti di cronaca. Storpiava i nomi. La voce era rustica, segnata dalla cantilena dialettale. Allungava le vocali, nutrendole con un tono di meraviglia, e ciondolava il capo come se il dondolio rendesse più convincenti le parole. 26

La sua testa era una radice giallastra, gonfia e ritorta. Aveva più peli nelle orecchie che capelli. Il corpo era tozzo e massiccio, ingobbito. L’andatura lenta e meccanica lo faceva sembrare più imponente di quanto non fosse. Era una figura fuori dell’ordinario, un incrocio fra un vegetale e un animale. Si vestiva per restituirsi a una qualche normalità umana. Ma quando incontravi i suoi occhi, non c’era bisogno di altro. La sua umanità sopita alzava il capo, guizzava, si faceva avvolgente. Sgorgava maliziosa, era sguardo. La Villermina, invece, era farfalla in un corpo di pachiderma. Da pachiderma si muoveva, da farfalla pensava e parlava. Due piedini giapponesi reggevano un corpaccione olandese celato sotto grembiuli scuri arricchiti da motivi sgargianti. Era rubiconda. Una vicina di casa al paese. Più che raccontare, chiacchierava. L’avevi salutata, cominciavi ad allontanarti e lei chiacchierava. Eri già lontano e lei chiacchierava ancora. Ti inseguivano fino a Torino le sue chiacchiere rubiconde. E poi c’era zio Enzo, seduto su una sedia dalle gambe nane, lo schienale appoggiato al muro del terrazzo, la sigaretta in mano, gli avambracci sulle ginocchia, il busto in avanti, gli occhiali con le lenti spesse che scivolavano sul naso, costringendolo di continuo a sistemarli – questa era la sua posizione da racconto. Sistemarsi gli occhiali, raddrizzare il busto, gesticolare stretto con le mani richiamate fin sotto le ascelle, portarsi le sigarette alle labbra e aspirare con soddisfazione erano gli unici movimenti che si concedeva. Per il resto, muoveva la bocca e raccontava. A volte raccontava seduto al tavolo, con il posacenere davanti, i polpastrelli che si battevano a ritmo, l’una mano con 27

l’altra. Capitava dopo pranzo o dopo cena. Più spesso la notte, perché il buio dà l’idea che il tempo sia meglio disposto al racconto. Era figlio di Pierina, che era figlia di Maria, la giovane vedova fuggita in Vietnam con Albino, il fratello di mio nonno, che oltre a mio padre, con Zanetta, ha avuto due figlie. Vincenzo David, farmacista figlio di farmacista, è diventato zio Enzo sposando zia Bettina, la secondogenita del nonno. Come persona, ricordava i clown bianchi; come narratore era un intero circo. Quando è scoppiata la guerra, studiava. Venne comandato in sanità, all’ospedale militare di Torino. L’8 settembre 1943, all’annuncio dell’armistizio, si trovava in licenza a Virle, dove il padre aveva la farmacia. Era l’ora di cena. Non riuscì a mangiare un solo boccone. Non si capiva niente, raccontava, cosa dovevo fare?, parlo con gli amici e mi danno un’idea: affidati a chi ne sa più di noi. E chi ne sa più di noi? Tuo zio Paolo. Certi zii sono la salvezza dei nipoti. Ma come faccio a chiedere a zio Paolo? Con una seduta spiritica. Il capitano Paolo David, cadetto dell’Accademia militare di Modena, veterano della guerra d’Africa, muore a 29 anni nel 1915 sul Monte Rothek, al primo assalto contro la trincea austriaca. È medaglia al valor militare, un eroe, sepolto a Santo Stefano di Cadore. Può essere di aiuto. Hanno fatto la seduta spiritica a casa della maestra Pomba. Erano in cinque, quattro amici più la maestra Pomba. Il salotto di casa Pomba, un edificio elegante nel centro del paese, era un accumulo di mobili, soprammobili, quadri, poltroncine, sedie, tappeti e buone cose di pessimo gusto. La più brillante fra le cose di pessimo gusto era la maestra Pomba. Sembrava Loreto impagliato seduto in poltrona. 28

Non partecipava, ospitava soltanto, ma per puntiglio annotava su un quaderno il numero di colpi che la gamba del tavolo batteva. Evocato, lo spirito rispose. La domanda era: che cosa devo fare in questa confusione?, c’era chi andava in montagna, chi si nascondeva, chi si arruolava. Lo zio Paolo dette questa risposta: l’onore dei David sempre! Parlapà! Sapevo che era un tipo di poche parole, che preferiva l’azione alle chiacchiere e andava dritto al sodo, ma che sodo era l’onore dei David? Dopo avere lungamente analizzato la risposta, ho deciso che il mio dovere era tornare al mio posto. Finita la licenza, mi presento all’Ospedale militare e lo trovo deserto. Non c’era nessuno, nemmeno i topi. Percorro un corridoio, apro una porticina e sbuco nel cortile. Sono in divisa, con la valigia in mano. Faccio qualche passo. Dall’altra parte, in fondo, si spalanca il cancello e avanza un enorme carrarmato tedesco, che mi punta. Rimango annichilito dal buco nero del cannone. L’unico pensiero che ricordo, anzi, nemmeno un pensiero, solo un dubbio bruciante, un dubbio da farsela nei pantaloni, è: che abbia interpretato male la risposta dello zio? Mi hanno preso e portato al Fliegenfangen Lager di Monza, un campo di prigionia dove, durante i bombardamenti alleati, eravamo addetti a scavare delle fosse di protezione, piazzare sacchi di sabbia, predisporre difese attorno alle batterie contraeree. Beh, se il compito dei prigionieri è questo, ci sono poche possibilità di sfangarla, abbiamo capito. Eravamo rassegnati. Nessuno sapeva che cosa stesse accadendo nel mondo. Filtravano notizie contraddittorie. Girava voce che fossero sbarcati gli australiani in Italia. Pensavi che i canguri venissero usati come armi segrete. 29

Finché un giorno si presentano due tizi: un alto funzionario delle SS, brutto che non ti immagini, sembrava Hitler ma ancora più brutto, pensa al Führer con le dimensioni di Polifemo, e questo non parlava; l’altro, invece, un italiano, tutto vestito di nero, una specie di scafandro con gradi, mostrine, teschi, il fez rosso in capo, un pistolone e due pugnali infilati nella cintola – con la sventagliata di onorificenze che aveva, sembrava l’ammiraglio Nelson. Quando citava illustri personaggi come Nelson, anche solo di sfuggita o a sproposito, celebrità come Garibaldi e Rommel, quando nominava i più avventurosi emigranti ruegliesi che battevano le strade dei cinque continenti con l’unico scopo, stando ai suoi racconti, di compiere epiche gesta per fornire materia a future narrazioni, subito dopo zio Enzo si concedeva una pausa: aspirava la sua Nazionale, con due tocchi dell’indice faceva cadere la cenere e si abbandonava a uno stato di benessere. Ah, l’ammiraglio Nelson! Comunque, si presentano questi due, l’SS e lo scafandro nero, e fanno un discorso ducesco. Cioè: il crucco taceva e l’altro parlava. Un profluvio di retorica: italiani!, è giunto il momento delle scelte irrevocabili, della resa dei conti! Avete una decisione da assumere! L’Italia è risorta unita e repubblicana sotto la guida del Duce! È stato costituito un esercito nazionale repubblicano! A voi la scelta: o vi arruolate volontari per combattere in nome della patria e della gloria oppure vi affido alle cure del colonnello Derteufel... Il nome era impronunciabile, io lo vedevo come der Teufel, il Diavolo, che ci avrebbe tradotti in Germania per continuare a servire il suo paese da prigionieri. A questo punto il tedesco fa sentire la sua voce. Il discorso dell’italiano era durato venti minuti, lui pronuncia solo una parola: jawohl. Un tuono! E tutti si sono cagati sotto. 30

Avevo stretto amicizia con altri tre torinesi. Abbiamo tenuto un rapido consiglio di guerra e ci siamo arruolati. Ormai pensavamo solo a salvare la pelle. Finiamo all’Ospedale militare di Vittorio Veneto. C’erano i bombardamenti alleati, le bande partigiane, i tedeschi incattiviti, noi in pratica continuavamo a essere prigionieri. Non ce la facevamo più, progettavamo di scappare. Ma come? Un giorno, uno di noi si confessa con un frate che veniva per la questua e per dare assistenza. È titubante, ma prima di ricevere l’assoluzione fa intendere il suo desiderio e i suoi timori. Il frate gli commina una buona dose di pater noster e ave marie, poi gli dice che per quell’altra cosa, per le sue preoc­cupazioni e i suoi desideri, forse qualcuno potrà aiutarlo. Passano un paio di giorni e si ripresenta lo stesso frate. Figliolo, dice, lo sai che dietro quel muro prospiciente la piazza c’è un convento?, e lo sai che in fondo c’è una porticina?, e lo sai che quella porticina rimane sempre chiusa, ma a mezzanotte viene aperta per qualche minuto? Il frate parlava, ma il nostro amico fingeva di non capire, aveva paura di tradirsi. Allora quello sbotta: fieul d’un can, ma no t’è ga capìo?, venite domani a mezzanotte che apriamo la porta. La notte seguente, senza luna in cielo, pieno coprifuoco, a rischio di fucilazione immediata, rasentando i muri, aggirando una postazione di mitragliatrici tedesche, attraversiamo la piazza, passiamo davanti alla porticina e due braccia da Maciste, a uno a uno, ci trascinano dentro. Bruciamo le divise e seppelliamo ciò che rimane. Poco prima dell’alba, quattro frati escono dal portone del convento e s’incamminano verso sud. Via le tonache, ci nascondiamo di 31

giorno e ci muoviamo di notte. Da Mestre, aggiustandoci con i treni merci, raggiungiamo Torino. A conquistarmi non era tanto ciò che diceva, ma la convinzione, la fiducia con cui narrava. È lui ad aver raccontato che mio nonno voleva tornare all’acqua. C’entrava un’altra seduta spiritica – non ne era un fanatico, ma le faceva, e le raccontava. Una sera, sul finire dell’estate, in quella che adesso è la sala dei girasoli, ha evocato il nonno, tuo nonno, raccontava rivolto a me. Mio padre ascoltava impietrito, la faccia che si desertificava, si faceva sabbia e impallidiva infastidita. Il fastidio diventava dolore. Verso la fine del racconto si lasciava sfuggire dei versi indispettiti: premeva la lingua contro i denti e, secca, la ritraeva. Scuoteva il capo. Diceva che s’inventava le fole, lo zio. Intanto, quello continuava, più rauco, aspirando potenti boccate di Nazionali con filtro: come vento arrivavano le parole di tuo nonno, soffiava solenne. Questa la richiesta: tornare in Lavesso. Essere sepolto in Lavesso, così mio nonno, secondo lo zio, che annuiva al suo stesso racconto. A conferma della sofferta veridicità, si passava più volte una mano sul viso. La collina di Lavesso è appena fuori Rueglio, oltre la piana di Cogna. Protegge la valle e guarda in lontananza Torino, controllando chi va e chi viene. Termina in un cocuzzolo cintato per alcuni ettari, chiamato Monte Sinai. Un tempo era un convento; oggi, uno degli ultimi margari della valle tiene le mucche. Sul versante nord, dal muro di cinta fino alla strada sterrata che porta a Issiglio, per un vasto tratto è terreno della 32

nostra cascina, un bosco di noci e castagni arrampicato lungo la costa. La cascina sorge su un terrazzamento e ha un fico davanti. La facciata è di due piani, uniti da una scala esterna; il retro, aggrappato alla terra, ne ha uno solo, quello più in alto. Il piano superiore dispone di due piccole camere e una legnaia. Un camminamento piastrellato, in parte scoperto e in parte protetto da una tettoia, conduce all’edificio che un tempo ospitava il fienile e la stalla. Al piano inferiore, l’ingresso dà in cucina, dominata da un camino imponente, tanto che puoi distenderti dentro e abitarlo. Sul retro della cucina, una stanzetta funge da ripostiglio e attrezzeria. A sinistra del camino, una porta introduce in una camera disadorna, spaziosa. In corrispondenza di questa, sul muro esterno, c’è una fontana che, nei miei ricordi, non ha mai smesso di gettare acqua. La camera è attraversata da una scanalatura, che collega la fontana con la parete opposta, dove, nella collina, è stata scavata una galleria, larga due metri e profonda una quindicina di passi, che finisce in una roccia. L’acqua viene da lì, dalla roccia. A metterci le mani, hai la sensazione di esserne risucchiato: l’acqua continua a colare, risale le braccia, inzuppa le maniche, arriva alle spalle. Come se avesse le dita, ti afferra. Se non ti sottrai, ti prende e ti fa suo. Ti ingloba nella roccia da cui nasce. Diventi la sua sorgente. Più o meno questa è l’impressione che ricordo: diventare sorgente. In quell’acqua vorrebbe tornare mio nonno. Non credo nelle sedute spiritiche, ma ho fiducia nei racconti e credo che il nonno – via da Lavesso – sia destinato a vagare, a non riposare mai. 33

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Dove ha radici il mio torrente? Alle sorgenti del Chiusella, con Charlie, Maghìt, Pier, Orzo, e mancava Pelota

Allora cominci tu, Marco – dico. Marco è una pannocchia sottile, un faccino impugnato da una massa di capelli neri. Comodo su una roccia, rolla una sigaretta. Di che cosa vuoi parlare? – chiedo – Dell’inizio del torrente o del fatto che non abbiamo raggiunto la meta? Esattamente, io direi che... – e comincia a esitare. In genere funziona così: io faccio domande. Mi piace far parlare le persone. Le osservo mentre cercano fra i pensieri e mi sento bene, e aspetto di catturare qualcosa: un’idea, una sensazione, anche solo una parola. Le persone a cui faccio domande, il più delle volte s’impegnano nella risposta e non fanno caso al resto. Quando gli altri parlano, sono tranquillo. Quando raccontano, sono tranquillo. Quando mi ritrovo nelle loro parole, non mi sento solo. Nei racconti non c’è solitudine, c’è intimità. Quello che è successo oggi è indicativo – Marco ha trovato la strada e il tono per percorrerla. Raggiungere un posto determina un successo, sì, ma possiamo considerarlo anche banale. Cristiano, da una roccia di fronte, lo studia per capire dove 34

voglia arrivare. Davide e Gianni sistemano gli zaini e armeggiano con le macchine fotografiche. È un po’ come nei film americani – tira dritto Marco –. Il più delle volte hanno una conclusione scontata che soddisfa il pubblico; noi abbiamo scoperto un posto incantevole, abbiamo incontrato un gregge di pecore, ci siamo fatti delle domande su questo tizio che rimane in montagna per quattro, cinque mesi e sente solo belare; è un’occasione, non ti sembra?, e le occasioni bisogna coglierle, sfruttarle; bisogna saper cambiare programmi, magari perché ci si rende conto che le forze non sono sufficienti per arrivare dove si voleva; abbiamo trovato un posto che ci è piaciuto, un angolo dove abbiamo potuto bere, mangiare, raccontarci le nostre cose, il risultato è stato raggiunto comunque. La sua smorfia vorrebbe essere un sorriso. Gli si è spenta la sigaretta. Lecca la cartina e prova a chiuderla meglio. Cristiano gli lancia l’accendino: è un uomo di quelli che non diresti, un uomo in golf, anche durante una passeggiata in montagna. Non patisce il caldo e non patisce il freddo. Non suda. Non si lamenta. Più silenzi che parole, e gesti decisivi. Siamo venuti in cinque, un sabato di fine settembre, per vedere le sorgenti del Chiusella. Oltre a me, solo Marco conosce la valle. Gianni è venuto qualche volta in gita, Davide e Cristiano mai. Sono l’unico a essere già stato alla Bocchetta delle Oche, sotto il Monte Marzo, dove nasce il Chiusella. Poiché tutto ciò che nasce ha a che fare con l’acqua, l’idea era di andare a vedere le radici dell’acqua. Questo fa uno che scrive: va a vedere. Il lavoro di uno che scrive è, innanzitutto, vedere. Più esattamente, andare a vedere. C’è differenza. Vedere vuol dire che io sono qui, passa una 35

cosa, accade una cosa, e io la vedo. Andare a vedere, invece, è mettere in moto i muscoli, non essere passivi: cammini e vedi. La scrittura parte dal movimento – anche movimento dell’anima –, segue il vedere, il vivere, poi ha bisogno della pagina e dell’inchiostro. Ha bisogno che le parole scorrano sul foglio, così come scorrono i fiumi e i torrenti nei loro letti. Dove comincia a farsi il letto, il Chiusella, che dà nome a una valle in cui il verde ha molte luci e variazioni e improvvisi strascichi d’altri colori?, dove ha le radici il mio torrente? C’è molta acqua in Valchiusella. Rueglio è tutta una sorgente. Nella cantina di casa abbiamo scavato una canalina inclinata perché l’acqua possa scorrere. Le fondamenta galleggiano, sono una chiglia. I tre piani con i due terrazzi, il tetto, la mansarda, la soffitta, le due cucine, i bagni, le otto stanze, le porte, i balconi, le venticinque finestre, sono un bastimento arenato. Di questo bastimento ciò che mi colpisce è l’odore del sole sulle persiane, l’odore degli anni che hanno covato e grattato sulle assicelle di legno, un odore che un tempo era vernice e ora è pergamena. Il prato, laggiù davanti, finisce in una riva scoscesa, la riva da Pek. Sotto, superati due balzi di roccia, scorre il torrente, che qui tutti chiamano fiume. Il Chiusella è un frastuono. Per qualcuno, un frastuomo. La leggenda dice che, anni e anni fa, secoli, fosse un gigantesco uomo dai lunghi capelli, la cui figura riempiva gli occhi. Era giovane e gentile. Cantava, pettinandosi in modo irruente, e intorno a lui facevano coro gli uccelli. Amava la valle, amava quel pezzo di cielo che della valle era specchio, e non voleva abbandonarla. Attendeva che altri arrivassero a lui, attendeva 36

che qualcosa accadesse. Invano. Un giorno, nell’attesa, decise di riposare, chiuse le palpebre e si distese, senza smettere il canto, né la cura della sua chioma. Continuò, sembrando addormentato, e i lunghi capelli divennero correnti, filoni d’acqua, e i gorgheggi gorghi. Ora le pietre, nel suo seno, si divorano l’un l’altra scambiandosi per animali. Non giacciono immobili, fanno le bizze come la spuma e gli spruzzi. I turbini d’aria sulle cascatelle sono goccioline che provocano sensazioni lancinanti. Nessun odore, solo piccole frustate alle narici e agli occhi. In piedi, in mezzo al frastuono, puoi udire il canto delle rocce – una percezione che anche la pelle assorbe. Un buon pescatore può prevedere i movimenti delle trote. A un certo punto, il fragore diventa silenzio e, nel centro del silenzio, con un gesto fulmineo, uno scatto di polso e un mulinare del braccio, vince la trota con cui a lungo si è misurato in duello. Mi piacciono le rocce, sia quando si fanno montagna, sia quando si fanno acqua. In posti come la Bjâsa, la Scjüsa, Kàràvò – le pozze che da Rueglio si raggiungono a piedi, ’l guji dove la corrente prende fiato – il letto del Chiusella si allarga, sprofonda, e si può fare il bagno. Charlie era l’unico che entrava solo fino alle cosce. Per bagnarsi il culo, doveva scivolare e cadere. Scendeva al torrente per prendere il sole e prendere i pesci. Li pescava con le mani. Aveva molta pazienza. Tornava in paese per ultimo. Ogni tanto organizzava una cena. È lui ad avere inventato la risalanza. La risalanza in the Chiosels era la risalita di pezzi di torrente a piedi nudi, di masso in masso, evitando la comoda riva. Era consentito bagnarsi le gambe fin sopra il ginocchio, 37

non di più. Si percorreva un chilometro, veloci ma senza fretta, saltando come camosci: spiccavi un balzo, ammortizzavi e spiccavi di nuovo. Era un gioco di caviglie e ginocchia, azione e reazione, equilibrio ed elasticità. Bisognava essere allenati e trovare il giusto ritmo del respiro. Poi, più lentamente, si tornava alla Bjâsa, alla Scjüsa, in Kàràvò, dove avevamo lasciato i vestiti e le ragazze. Charlie e Maghìt erano i più agili. Io mi difendevo. Pier sballonzolava sulle due banane di piedi che aveva, era ridicolo, non rinunciava a starci dietro e a cadere. Ci sentivamo capitani coraggiosi lanciati in una tasca d’alberi. Negli alberi e in uno spicchio di cielo è l’orizzonte del torrente. Acqua e fracasso rotante. Dopo un po’, il rumore ti scorre nel sangue e la scatola cranica diventa una camera liquida. Nient’altro che spifferi accesi di vento, capaci di trasformarsi in un foulard. Nient’altro che verdi cangianti e una striscia di cielo, e noi con il nostro respiro. Ci univa un sentimento di felicità, impegnati nella missione di scattare insieme, atterrare più morbidamente possibile, percepire la pietra con la pianta dei piedi, individuare gli ostacoli, calcolare le possibilità, sentire il freddo sulle gambe, indicarsi a vicenda le traiettorie migliori, affrontare gli imprevisti. La gente della valle, per la maggior parte, è fatta di soprannomi. Charlie si chiama Bruno. Maghìt si chiama Piero. Pier si chiama Dante. Orzo si chiama Orzo: non so come l’abbiano battezzato i genitori; è orfano, nessuno l’ha mai chiamato in altro modo. E poi c’è Pelota, che si chiamava Massimo, uno che quando gli chiedevano cosa vuoi fare nella vita, rispondeva il lento. È stato il più veloce di tutti, il primo di noi a morire. Solo io ero chiamato con il mio nome, forse perché mi 38

consideravano un villeggiante, vivevo a Torino, non parlavo dialetto, mio padre era mezzo vietnamita: avevo le stimmate del foresto. Metà del mio nome usavano: Luca. Ancora da ragazzo, i vecchi mi riconoscevano come ’l fjêul d’Albin, quwâl Albin?, quel ’d-la Bundèjsa. L’estate successiva alla morte di Pelota, per salutarlo e lasciarlo andare via come avrebbe voluto, non tenerlo prigioniero della nostra rabbia, del nostro dolore, abbiamo rispolverato la risalanza. Raggiunte le Oche Superiori, le sorgenti del Chiusella, e poi la Bocchetta, e il lago dall’altra parte, abbiamo dormito al riparo dell’unica cascina, fumando e brindando a Pelota. Avevamo cinque bicchieri di vetro. Dopo l’ultimo brindisi, a mezzanotte, li abbiamo scagliati nel buio. Il Chiusella, là dove nasce, se li è bevuti. Ma voi avete mai visto il punto esatto dove nasce?, ha domandato Charlie. Intendi lo zampillo?, ha chiesto Maghìt, il più vecchio di noi, trent’anni, faccia furba e aquilina, un roseto curato al posto della barba. Sì, il buco dove viene fuori il primo zampillo. Non c’è un buco, ha detto Orzo accovacciato sui talloni con un filo d’erba in bocca. Era vicino a me. Gli altri si trovavano oltre il fuoco che si stava spegnendo, seduti come tre donne anziane, le mani in grembo e le gambe distese, incrociate all’altezza delle caviglie. Tu l’hai visto?, ha incalzato Pier. Che cosa? Il buco che sputa la prima acqua. Pier era uno che arrivava in ritardo, agli appuntamenti e nei discorsi. Era prolisso 39

anche quando rispondeva sì o no. Aveva scarsa fiducia in sé e parlava a raffica. Orzo aveva poca fiducia in se stesso e preferiva il silenzio. Quella volta ha ribattuto che non c’era nessun buco: c’è solo un largo acquitrino, un prato dove affondi con i piedi, l’acqua viene su come se bollisse, solo che è fredda. Mi piacerebbe mettere una freccia per stabilire che quello è l’inizio, ha insistito Charlie. A volte non si trovano gli inizi. Ci sono, ma si nascondono, non individui la forma. A volte non esistono nemmeno, non li puoi stabilire, né misurare. L’inizio è incerto, solo la fine è certa. Avevamo abbastanza racconti da snocciolare al ritorno. Avremmo raccontato di essere arrivati alle sorgenti del Chiusella quasi tutto in risalanza. Avremmo raccontato dei salici incontrati dopo Fondo, dove avevamo lasciato la macchina, e i frassini, gli ontani, i castagni, i noccioli, le betulle, i biancospini, le rose canine, le gaggie, e due passerelle sospese, un ponte romanico ad arco acuto, e le tracce di numerosi cinghiali, i ragni con le tele brillanti al sole, le trote nelle guie, fatte al cartoccio dove ci siamo accampati, e le lucertole, e un muflone, e una donnola che cattura un topo, una poiana, due poiane, tre forse, e avremmo raccontato di uno scheletro di pecora e di due teschi: saranno stati animali o bambini, feti? Dopo un po’ che dormivamo, Orzo mi ha svegliato: ma la smetti?, piantala lì, ha sorriso, beviti un po’ di grappa e smettila! Sto russando? No che non russi, ma sei sempre lì, mumble mumble, anche quando dormi, às sènten ’l multipliki ’d-la kulunbârda ka giren. Poi si è alzato. 40

Il cielo era un’invasione di stelle. Osservavo il Grande Carro attraversato dalla luce intermittente di un aeroplano. Orzo ha tirato fuori il clarino: facciamo l’ultima, ha detto. Ha attaccato un valzer, poi un tango, poi ha cantato. Nel silenzio della notte, tutto ciò che ci circondava si è abbandonato alla musica. Come tutti coloro che amano uno strumento, Orzo diventava lo strumento, la sua voce struggente, diventava la musica. Noi eravamo esclusi: spettatori che potevano solo offrirsi all’ascolto. Charlie soffiava sottovoce seguendo la melodia, io giocavo con un bastoncino, Maghìt sonnecchiava, Pier commentava: certo che è umido qui, il posto più umido del mondo, c’è ancora della grappa? Questa volta, la grappa, l’abbiamo presa al mattino, prima d’incamminarci, al bar del ponte, dove abbiamo parcheggiato le auto. Un goccetto per cominciare l’avventura, aveva proposto Marco. Non abbiamo raggiunto la meta, perché poco allenati e troppo stanchi dopo quattro ore di marcia. Cristiano scuoteva il capo, lo sguardo aveva perso sorriso e malizia. Appena qualcuno si fermava, ne approfittava e si fermava anche lui, e per ultimo riprendeva il cammino. A me sono venuti i crampi. Davide, avvolto nelle macchine fotografiche, era appesantito: andate, voi andate, io arrivo, diceva. Gianni, di solito taciturno, era diventato un furetto di parole. Marco aveva sete, solo sete, fortissimamente sete, aveva finito due borracce e due succhi di frutta e ripeteva: quando ci fermiamo? Là ci fermiamo, che tanto non ce la faccio. Abbiamo superato Tallorno, il Pian della Battaglia, Pasquere; abbiamo lasciato sulla sinistra il ponte romanico e, su dritti, baita dopo baita, ci siamo arrampicati fino all’Alpe Ghiun. 41

La valle si restringe, diventa poco più di un sentiero, un cuneo di verde: ai lati, due pareti di roccia nitide, quasi azzurre in cresta. Voltandoti indietro, puoi far rimbalzare lo sguardo per superare con una carambola il fascio spumoso di smog che schiaccia l’orizzonte. Da certi punti si domina la pianura, coltivata a gas, fumi e nebbie. Non sono nebbie naturali, dice Gianni indicando il grigio in fondo. Spilucca mandorle, fichi secchi e quadratini di cioccolato amaro, amarissimo, di quelli che allappano. Ci siamo fermati alle Oche Inferiori, poco sopra una baita con un ovile e le pecore intorno. Il margaro e il suo cane si fanno vedere un paio di volte. Siamo a duecento metri dalle Oche Superiori, sotto l’acquitrino verde che è la culla del Chiusella. Ci vorrebbero venti minuti per raggiungerlo: non li ho nelle gambe. Sfilo lo zaino, mi siedo e tolgo gli scarponi. Anche gli altri si arrendono. Il torrente, qui, è un rigagnolo scintillante, un chiacchiericcio d’acqua, una serpentina rilassata. La sorgente è appena uno sbalzo di prato più sopra. Oggi non la vedremo. Devo raccontarla io. Devo pescare nel ricordo quel rettangolo di erba, di foglie enormi e pelose, lungo duecento passi e largo cento, azzardo, dove si forma il Chiusella. Una prateria bagnata. Se ci cammini, dico, non te ne accorgi subito, ma a un certo punto fai cic ciac con i piedi, le scarpe s’inzuppano e l’acqua arriva alle caviglie senza che tu riesca a vederla. Racconto del verde: il torrente nasce dal verde, dico. Nel centro dell’avvallamento, il colore è smeraldo, attorno è più cupo, forse per l’ombra incombente del Monte Marzo, dico. Mi dispiace non vedere il luogo dove il Chiusella ha le sue radici. Ma, salendo, sapevo già che non avrei trovato in quel manto d’erba le radici del fiume – a volte lo chiamo fiume anch’io. 42

Stavo pensandolo prima – sorride Cristiano –, trovo giusto legare radici e fiume, nel senso che questi rivoli hanno la capacità di insinuarsi in ogni spazio del terreno, l’acqua s’infila dappertutto, proprio come le radici, vivono in simbiosi, acqua e radici. In effetti, i rigagnoli che formano questo torrente possono essere assimilati alle radici di un albero, dice Gianni. Ha la faccia spigolosa, il cranio rasato. È tutto gomiti, ginocchia, costole e occhi, che sono una fessura potente di sguardo. Sembra un ciottolo sfuggito alla montagna. Glielo dico. Mi hai beccato, fa senza muovere un muscolo, sono un frammento rotolato via; da bambino, ovunque andassi, riportavo pietre su pietre e riempivo la casa; non so neanch’io cosa vado a cercare in montagna, ma il punto di vista dall’alto mi è sempre piaciuto e si riallaccia al discorso delle radici: i miei arrivano da un paesino della Ciociaria arroccato su un cocuzzolo, lì le montagne sono più dolci, ma sei comunque in cima, cammini sulle punte. Davide, invece, cammina sull’acqua. Con l’acqua lavora. Di mestiere fa il fotografo. Fotografa l’acqua. Dovresti vedere le immagini, dice, non è molto diverso che buttare l’occhio lì dentro – indica un riquadro di torrente –, se osservi solo una porzione, l’occhio mette a fuoco il fondo o la superficie o il riflesso delle cose; la macchina fotografica ha il vantaggio di mettere a fuoco i tre campi insieme e restituisce una visione globale, l’occhio non ci riesce; e poi l’acqua è la cosa che mi affascina di più, dopo la luce. Le radici non sono l’inizio, avevo pensato salendo, l’inizio è il seme. A duecento metri da noi, nel pianoro delle Oche Superiori, c’è l’inizio del Chiusella, non ci sono le sue radici. 43

Le sorgenti non sono le radici. Per trovare le radici dell’acqua, di qualsiasi acqua, non devi sgattare in un prato, non devi scavare pozzi come mio nonno, devi alzare lo sguardo e osservare le nuvole: si trovano lì, le radici, passano di lì, nelle nuvole che diventano pioggia, nella pioggia, in una caduta, l’acqua scende, penetra nella terra, poi riaffiora e diventa sorgente, e scivola a valle e diventa torrente, fiume, estuario, e l’estuario di un fiume è un racconto, una raccolta di racconti, e diventa mare, che è romanzo, e questa acqua qui, se ha fortuna, questa qui che adesso sfioro con le dita, se trova le correnti giuste e fila dall’Adriatico, questa acqua qui si fa tutto il Mediterraneo e diventa Oceano, poi si rialza, si risolleva, evapora e diventa nube, le nubi hanno radici nel mare, mobili, e viaggiano, le porta il vento, ritornano qui, dove siamo venuti a cercare le radici del mio torrente, il mio fiume, che in fondo ha radici nel vento. Stanno salendo le nuvole: pioverà. A scendere impieghiamo tre ore. Non so stabilire l’inizio, anche perché le radici non sono l’inizio. Penso alla clessidra e mi chiedo dove sia il suo inizio, in quale dei due coni si trovi. Ogni volta, capovolgendola, ciò che prima era inizio si prepara a diventare fine e il tempo, che si è fermato, ricomincia. Se il tempo non c’è più, il mondo va in rovina, mi ha detto Caroline, che ha otto anni e porta il nome di mia nonna. Si arresta tutto, ha detto, bisogna saper giocare con il tempo e farlo ricominciare. A questo servono le radici, a far ricominciare il tempo, penso.

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Le radici sono sempre plurali Da un campo di calcio a una pedana di scherma, con Gigi Radice, Paolo Pulici, Kumìn, Janos Kevey e molti portieri Le radici sono sempre plurali. Di radice, al singolare, conosco solo Gigi: Radix, come lo chiamava Giovanni Arpino, scrittore dalla penna cruda e la schiena dritta, a cui piacevano le invenzioni della lingua. Il sapiente Arp troncava con una x il finale di quel cognome per renderlo corsaro e adeguarlo allo spirito di chi lo indossava. Gigi Radice è stato l’Asterix degli allenatori, la guida del Torino negli anni Settanta, l’ultimo che ha fatto vincere uno scudetto alla mia squadra. Anche nelle squadre di calcio, almeno in Italia, almeno per ciò che mi riguarda, almeno in quel tempo là, un tempo che si può mogiamente definire il secolo scorso; anche nelle squadre di calcio, dicevo, quando il calcio era uno sport a misura di uomini, al passo con gli uomini, anche nel calcio affondano le nostre radici, e in quella conseguenza laterale e a volte perniciosa che si chiama tifo, più o meno blando, più o meno sentito. Gigi Radice con tutta la squadra di quegli anni aveva le sue radici in una poesia fatta di nomi e uomini, nomi di uomini, un unico lungo verso in carne ossa gioco e memoria: Bacigalupo Ballarin Maroso, pausa, Grezar Rigamonti Castigliano, 45

pausa, Menti Loik Gabetto Mazzola Ossola. Era la squadra per cui tifava mio padre: vinceva le partite, vinceva gli scudetti, vinceva il mondo. È passata alla storia ed è diventata leggenda come il Grande Torino. La mia, invece, quella dell’ultimo scudetto, era semplicemente il Toro e faceva così: Castellini Santin Salvadori, Patrizio Sala Mozzini Caporale, Claudio Sala Pecci Graziani Zaccarelli Pulici. In loro ho un pezzo di radici. A voce alta, la mia squadra suona più prosa che poesia. Però c’è Pulici, Paolino Pulici, Pupi, Pupigol, Puliciclone, potenza, velocità, istinto e acrobazia fatte calciatore, fatte ala sinistra. Un do di petto come calciatore: il petto sempre in fuori, in effetti, e i gol che già li vedevi brillanti sui piedi o incornati sulla fronte appena entrava in campo, prima ancora che iniziasse la partita. Arrotolava i calzoncini sui fianchi e scopriva due querce come cosce. Esultava a balzi, le braccia al cielo: sembrava un ginnasta pronto all’esercizio. Scatti, scarti, contropiedi, rovesciate, destro, sinistro, testa. Si sollevava in area e ci rimaneva, in aria. Gli avversari avevano il tempo di saltare, scendere, risaltare di nuovo, riscendere, provare il fallo, e lui sempre là, le ali alle reni, più in alto di tutti. Risucchiava il pallone con la fronte e lo girava in rete: una cannonata. L’ultima volta che l’ho visto, allacciava le scarpe a un bambino, un fantasmino pallido che sbucava da una casacca rossa molto più grande di lui. Quel balbettio di un metro per diciotto chili si è staccato dal gruppo e gli ha chiesto: mi leghi le scarpe? Pulici si è inginocchiato, ha stretto le stringhe e ha fatto il nodo: va bene? Sì, ha risposto il bambino. Allora vai a giocare e cerca di dare il massimo, lo ha incoraggiato Pupi. 46

Insegnava il pallone ai bambini. Insegnava come si sta su un rettangolo verde con due porte, due aree e due dischetti del rigore. Li guardava crescere e li aiutava. I bambini sono quaderni bianchi, mi ha raccontato, dipende da come li scrivi; se pasticci, cancelli, fai macchie, correggi di continuo, nella loro testa ci sarà solo confusione; se invece scrivi in modo chiaro e coerente, domani ti ritrovi un uomo responsabile, con dei valori; al di là che diventi un calciatore, un ingegnere o un astronauta, sarà comunque in grado di scegliere. Quando i genitori gli chiedono come riesca a incantare i bambini, visto che parlano sempre di lui, Pulici risponde: sto con loro, faccio conoscere il calcio, parlo, ascolto, soprattutto ascolto, e gioco. La stessa cosa faceva con noi, quando sul campo correva con la maglia granata, combatteva e segnava: ci stava vicino, ci parlava, ci ascoltava – lui sul manto erboso, noi sugli spalti o davanti alla televisione o incollati alla radio – e giocava, dio, come giocava! Da uomo. Se lo spieghi a chi è venuto dopo, ed è appassionato di canzoni, puoi dirgli che Pulici sta al calcio come Springsteen sta alla musica; per le punte e per i gol Puliciclone è ancora adesso quello che Bruce Springsteen è per il rock. Rendeva la partita un concerto. Con lui in campo, erano le uniche volte in cui non stavo dalla parte dei portieri, nemmeno per un attimo, di nessun portiere, neppure del mio, Luciano Castellini. Di solito capitava, e oggi capita più di frequente, che tifassi per gli estremi difensori – proprio perché estremi. Nonostante siano avversari, sto dalla loro parte. Mi sono sempre piaciuti. Se vado qualche volta a giocare, mi metto in porta. È il mio posto, fra una traversa, due pali, una rete, con un pezzo di terra davanti che dovrebbe essere prato, erba 47

lucente, ma più spesso è fango, pietruzze, polvere arrochita dal sole e dai tacchetti. Rimane il posto migliore da occupare su un campo di calcio, il luogo dove ritrovarsi. Se è vero che il tempo non esiste, ho capito perché mi piacciono i portieri. Io sono un portiere. All’inizio era solo una sensazione e un’azione, non ancora un sentimento, niente di razionale. Avevo dodici anni, tredici, giocavo e vedevo giocare, e il piacere era l’attimo del volo e l’attimo della terra, l’attesa dello scatto, la forza nelle gambe e lo slancio. In fondo, non importava l’esito: parare o non parare, impedire il gol o intervenire a vuoto. Il piacere era inspiegato e agito, riguardava l’avventura di mettersi in volo per agguantare il pallone o deviarlo con la mano, toccare terra avendo respinto il proiettile avversario, uscire sulle gambe dell’attaccante per rubargli il tempo e rapire il pallone. Poi, proprio con il tempo, è arrivata l’intuizione. Qualche anno fa leggevo un libro di Julian Barbour, un fisico inglese, che sostiene l’inesistenza del tempo così come lo concepiamo. La sua tesi è che il tempo non sia la misura del cambiamento e il moto sia soltanto un miraggio. Nella prefazione prende un impegno preciso: «Sosterrò che l’eterno fluire forse non è che una radicata illusione. Vi condurrò in un punto in cui il tempo finisce». Ecco, là dove il tempo finisce, si trova il portiere. Parlando di sport, di calcio, di azione e contemplazione, parlando di gioco giocato istante per istante, mi sembra di poter credere che il luogo dove il tempo finisce sia la porta, il sacco della porta. E il portiere è il suo guardiano, il suo abitante. Dimora sulla soglia, fra l’inizio e la fine del tempo; anzi, fra l’ultimo secondo e l’abisso del tempo. Mi piace il portiere perché sta sulla soglia e aspetta. Guarda, guata, agisce, pensa. Si muove dentro l’azione altrui e, nel 48

contempo, rimane fuori. La soglia – la linea bianca – è il suo stato, la sua casa, la sua età. L’età che abita la soglia, la linea bianca, un’ombra di bianco sul terreno e nel cuore, è l’adolescenza. Ho la sensazione che l’adolescenza, se non fosse un’età, sarebbe un portiere. I portieri sono quella giovinezza lì, quella freschezza, quel ruggito di nervi e muscoli, quel colpo d’occhio, quell’esuberanza fanciulla, sempre, anche a quarant’anni o a cinquanta. Pura passione, puro istinto, portano sulle spalle e nelle mani tutta la squadra. Sono, ogni volta, la prima volta. Sono istante. Istante dentro istante dentro istante. Loro, così spesso distanti dall’accadere del gioco, sono quelli che, ogni istante, lo abitano intero. Sono ogni singolo attimo dell’azione, ogni singolo fotogramma. Sono il volo, lo scatto, l’inizio del tuffo e la fine, le mani che bloccano la palla, il rinvio, l’attesa, l’inarcarsi della schiena, le reni che cercano ancora un colpo, un guadagno di centimetri, lo stendersi del braccio: e non una cosa dopo l’altra, ma una cosa nell’altra, tutto insieme, contemporaneamente. Questo li conserva adolescenti, li fa appartenere alla giovinezza. Un catalogo di portieri, dunque, è un catalogo di giovinezze. Tante giovinezze nelle quali puoi inscrivere la tua. Sono come quei libri che andrebbero letti da ragazzi, altrimenti si perdono. Quei libri che parlano alla tua adolescenza. Stanno fra Conrad e Salgari, Hemingway e Márquez, Gogol e Pavese. Stanno dove finisce Triste, solitario y final di Osvaldo Soriano. Il mio personale catalogo di giovinezze è una raccolta di uomini del passato. LIDO VIERI. Mi ricordava il mare. Il suo nome alla radio 49

mi diceva il luogo dove mi sarebbe piaciuto essere, fra le onde e la spiaggia, sul lido. È lì che deve stare un portiere, a guardia del confine fra la terra e il mare. Con le mani aperte, pronte ad accogliere. Due mani grandi e forti come quelle di Vieri nessuno le ha mai viste. LEV JASHIN. Il leone dei portieri. L’Aleph dei portieri. Maglia nera, calzoncini neri, mani nere, sguardo nero: in lui si riunivano tutti i portieri del mondo. Un eroe da Iliade. Non si può dire se sia frutto di leggenda o sia realmente esistito. Nessuno, certo, ha mai potuto provare di aver fatto gol a Jashin. FRANCO STURA. Difendeva la porta del mio paese ed era il mio vicino di casa. Piccolino, catenina d’oro al collo, trentotto di piede, capelli impomatati, pettine in tasca, profumo sempre fresco, parlava dialetto come fosse francese. Accarezzava la palla come una donna, come se la portasse a ballare. Non ne lasciava fuggire una. GORDON BANKS. Ripetevo: Gordon Banks, Gordon Banks, parata! Al campetto, quando giocavamo a porta unica, inventavo le radiocronache. Se qualcuno si smarcava e puntava a rete, gli andavo incontro a voce alta: Gordon Banks, Gordon Banks, e paravo. Ha fatto la miglior parata del mondo: colpo di testa di Pelé, colpo di reni di Banks, e il gol non c’è più. ENRICO ALBERTOSI. A parte i capelli e i baffi, mi ricordava Blek Macigno, un eroe dei fumetti. Al posto di Roddy e del Dottor Occultis, gli aiutanti del trapper nella foresta, aveva Cera e Comunardo Niccolai nel Cagliari. Aveva anche Gigi Riva, più avanti. Era l’avventuriero che da grande avrei voluto essere. SEPP MAYER. La felicità e il dispiacere. La grandezza della sconfitta senza resa. Coppa del Mondo, Città del Mes50

sico 1970. Nella notte italiana, è quello che va di là quando la palla viene di qua: disteso come una bandiera controvento, non riesce a impedire la sconfitta. Il suo nome è un sorriso e un monito: Sepp Mayer, 4-3. RAY CLEMENCE. Era un maglione girocollo giallo o rosso, quando gli altri portieri giocavano ancora in nero: la prima macchia di colore in porta. Mi vestivo come Clemence e nelle radiocronache diventavo lui. E come lui provavo a calciare, di sinistro. Guardandolo, imparavi a considerare porta tutta la tua metà campo. LUCIANO CASTELLINI. Lo chiamavano il Giaguaro: un felino con braccia e gambe. Io lo pensavo Tarzan, la sua Jane era il pallone. Aveva liane invisibili fra pali e traversa a cui si attaccava per volare. Era il migliore amico di Pulici. Fuori dal campo, sembrava un ragazzo della via Gluck. Lo vedevi in porta, e la porta diventava la via Gluck. VLADISLAV TRETIAK. Si pronuncia Trefiak. Per niente fiacco. Un gladiatore che scendeva nell’arena come un principe cosacco. Bellissimo e leggendario. Per volto aveva una maschera. Giocava a hokey su ghiaccio nella nazionale sovietica. Tutto stile e leggerezza. Tifavo per lui come fosse un portiere di calcio. LUPO. Era un soprannome. Aveva dieci anni più di me. Veniva al paese a parare per chi gli offriva la cena. La fidanzata lo seguiva dietro la porta con la sorella più giovane. A sedici anni ho cominciato ad andare dietro la porta di Lupo, per lui e per la sorella della sua fidanzata. I portieri sono gli unici che possono avere accanto l’amore, mentre giocano. Con la dovuta attenzione riescono anche a baciarlo. Con tutto lo sport che ho fatto, pieno di stile e buona volontà, sono rimasto un dilettante. Un campione dei dilettanti, 51

sosteneva Giacomo. A volte, uno dice degli altri quello che sente di sé ma non osa pensare. Per Giacomo i campioni c’entravano con il campo e con i lampioni e i dilettanti con il puro diletto. Di professionisti è zeppo il mondo, diceva. Bravi, irreprensibili, capaci: lo illustrava con frasi colorite, ma questo sosteneva. Ci sono parole che, più finiscono per rappresentare l’inconsistenza, più viaggiano di bocca in bocca e si offrono in livrea alle tue orecchie: professionista professionalità professione. Tutto un mondo di professionisti professionalità professioni. ’Nmàgina ’n po’ la skunsulasjun, ahjàmì!, sbuffava Giacomo. Ansi, i t’hè gnin da manka bsugn d-‘nmàginâlu, quàjè kè t-’l vèsi ogni dì dappertüt – dappertutto intorno a te. E ogni giorno scopri l’inganno. Tutti questi professionisti dall’aspetto professionale, chiusi nella loro professionalità, sono dilettanti nell’unica cosa che conta, la vita – più o meno così Giacomo. Risultano dilettanti senza nessun diletto, senza l’anima del diletto. Non come i veri dilettanti, che hanno per unica protezione la propria inadeguatezza e, come destino, la propria sventura – sempre più o meno. Bütji ti ki ’tsâs, ’l pàrôli, wuèrna, wuèrgni dàben, mi i diju mé ki su bun, ma à l’è parè, no? Ajì, si rispondeva da solo. Mettile tu che sai, le parole, custodisci bene, custodisci il pensiero dentro le parole più giuste, intendeva, io parlo come sono capace, ma è così, no? Sì – conosceva la risposta. Si riferiva ai pochi amici che aveva, di cui si fidava. Giacomo era un Bundéjs, uno degli ultimi che il paese abbia spedito all’estero, al di là delle Alpi. Tornava qualche settimana a luglio e ad agosto, e nelle feste. La storia dei dilettanti e dei professionisti l’ha tirata fuori 52

quando già lavorava. La trovata del campione che c’entra con il campo e il lampione, invece, è dell’estate dei quindici anni: il lampione dà luce, il campo è terra, radice; il campione è la radice che illumina e, dunque, il campione più campione di tutti è quello che forma i campioni, quello che li allena, il maestro è il vero campo e il vero lampione. Più o meno così diceva. Con Giacomo – Giakumin, da bambino, per i genitori; Kumìn e basta, per il paese – ci dividevamo su Riva e Boninsegna, Saronni e Moser, Senna e Lauda, cani e gatti, mare e montagna, pasta e riso, bianco e rosso, stare e andare, destra e sinistra. Ci azzuffavamo in battibecchi per i più futili motivi, ma non ci separavamo mai. Il giorno in cui se ne è uscito con il campo e il lampione, mi ha lasciato ammirato e felice, senza parole. Si riferiva ad Aroldo, il postino che due sere a settimana ci insegnava a giocare a pallone. Se nessuno di noi è mai diventato campione, però, non dico io e Kumìn, ma neppure Biciulan o l’Ingegné, né il Fusk, allora vuol dire che non lo era nemmeno lui, non tanto. Il vero campione era un altro. L’avevo incontrato un paio di autunni prima e non me n’ero accorto. A Torino. Al Valentino. A Villa delle Glicini. In un immenso salone grigio, con le vetrate in fondo, che era stato una scuola di ballo e ora di sport. I miei genitori mi avevano mandato a imparare scherma nel luogo dove, vent’anni prima, si erano conosciuti. Mia madre aveva 17 anni, mio padre 33, l’inverso esatto delle loro date di nascita, 1933, 1917. Mia madre frequentava la scuola di danza al primo piano della Villa. Mio padre, proprio sotto, giocava a tennis. Era giugno. Faceva caldo. Le finestre del salone erano aperte. Una pallina dalla traiettoria 53

perfetta finì a saltellare fra arabesque e jeté, pas glissé e pirouette: sorpresa, risolini, eccitazione delle ragazze. Il maestro, un arcigno cinquantenne costipato in ogni stagione, chiede che cosa sia quel disordine. Prima che l’uomo possa prendere provvedimenti, Elena conquista la pallina e, circondata dalle compagne fringuellanti, si affaccia per restituirla ai giocatori. È una bella giornata di sole, pomeriggio inoltrato. I giocatori sono due. Di solito dividono il campo in quattro, perché con il doppio la cifra dell’affitto è dimezzata. Uno dei due è mio padre. Grazie, signorina, dice, quando lei lancia la palla. Mia madre fa in tempo a dire prego e le ragazze intorno scoppiano a ridere. Il maestro le richiama con un urlo. Da quel momento sarà vietato affacciarsi alla finestra e occuparsi delle palline che verranno a morire al primo piano. Io sono l’incontro di una pallina da tennis e una scarpetta di danza. Anni dopo, proprio a Villa delle Glicini – c’erano ancora i campi da tennis, non c’era più la danza, avevano costruito una piscina –, ho cominciato fioretto. La scherma si comincia quasi sempre con il fioretto. Quando cresci, magari, passi a spada. Sciabola è un’altra cosa. Come maestri avevo un giovane che si chiamava Grande e un insegnante di educazione fisica che si chiamava De Tomaso. Quando ho cominciato a tirare di spada, ho avuto Nicola Granieri, criniera leonina su fisico da moschettiere. Camminava impettito, le braccia dietro la schiena. Con una mano impugnava l’arma e con l’altra s’impugnava il polso. Ovunque andasse, prima di lui arrivava l’aria da campione, la sua aura, una sorta di corazza luminosa. Sapeva metterti in posizione con uno sguardo. Ma nemmeno Granieri c’entrava con il campo e il lampione. 54

Bisognava voltarsi e allungare lo sguardo, allora vedevi. Era un uomo imponente. Non usava le nostre pedane, ne occupava una tutta sua in fondo alla sala, in controluce, parallela all’infilata di finestre che si affacciavano sul parco. Janos Kevey insegnava sciabola. Veniva dall’Ungheria e dall’Ottocento. Faccia larga, portamento aristocratico, modi gentili, nessuna cerimonia, schietto. Lo sguardo era una specie di firmamento che planava sugli allievi velato d’insoddisfazione. Era esigente. Puntava a far raggiungere il momento in cui non si hanno più pensieri, solo acido lattico e vittorie. Non aveva opinioni, aveva certezze. Indossava una vecchia tuta scura o una calzamaglia nera aderente e un corpetto bianco. Usava scarpe di tela, sfondate e incerottate. Parlava sei lingue: ungherese, francese, tedesco, russo, polacco e italiano. La voce era un impasto legnoso che diventava favola, quando raccontava come doveva essere la scherma. Nella scherma è il tallone che guadagna centimetri: passo avanti, e vai di tallone. Conquisti spazio puntandolo a terra. Le dita del piede toccano la pedana quando il guadagno è già effettuato. E intanto molleggi, danzi, avanti e indietro, mai fermo, sempre reattivo, i muscoli impegnati. Sulla pedana avanzava come una foresta. Un’intera foresta in un solo uomo. Paziente e inesorabile. A piccoli scatti morbidi, rapidi. Una foresta innevata grazie ai folti capelli bianchi. Era di nobile famiglia, dicevano. Il padre ci teneva al doppio cognome, Richter Kevey. Lui l’aveva lasciato per strada girando mezza Europa. Vantava due lauree, una in scienze naturali e l’altra in psicologia. Studiava i riflessi, la risposta del fisico alle sollecitazioni e quella della mente alla tensione. Quando è nato, nel cuore del vecchio continente regnava55

no ancora i baffi stanchi di Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, re d’Ungheria. Le terre di famiglia, ai confini con i Balcani, rimasero ungheresi fino a dopo la guerra, dopo la sconfitta. Nel 1919 divennero parte di quella che sarebbe stata chiamata Jugoslavia e poi ex Jugoslavia. Aveva intrapreso la carriera militare e imparato a maneggiare la spada. Dicevano fosse la sua passione. Quando ebbe bisogno di guadagnarsi da vivere, la passione diventò mestiere. Amava la teoria più della pratica, lo studio più dell’azione. Era filosofo più che atleta, un vero allenatore. Nel 1947, senza più patria, né terra, con la passione in pugno, arriva in Polonia a dettare scherma: tirava di spada, sceglie di insegnare sciabola. Per insegnare una nuova arma, ricomincia a studiare. Prende appunti, redige tabelle, osserva gli animali, elabora ritratti psicologici degli allievi e allestisce la più forte nazionale mai vista, tutta aggressività e istinto. Cresce uno dei più celebri campioni di ogni tempo, Jerzy Pawlowski. Pawlowski era magro, piccolo di statura. La sua forza risiedeva nei nervi e nel carisma. Gli avversari non riuscivano mai a trovargli il ferro, li anticipava sempre. Si affidava all’intuito. Era simpatico e piaceva alle giurie. Anche questo insegnava Kevey: piacere alle giurie. Janos Kevey sosteneva che la stoccata partisse dal cuore, e dallo sguardo. Non pensate a ciò che fa l’avversario, diceva, cercate di sentirlo. Parate andando a trovare il ferro, non aspettatelo. Rubate il tempo, preoccupatevi del tempo fra voi e l’avversario, non dello spazio. Per annullare il tempo ci vogliono anni di esercizio. Per annullare lo spazio basta uno scatto, basta affidarsi all’aria 56

con una flash, lanciarsi, protendere il braccio e diventare il ferro in volo contro il bersaglio. Ai suoi allievi parlava di scienza, di etologia, e faceva studiare gli animali. Era un eretico che non ostentava di esserlo. In Italia è approdato all’inizio degli anni Sessanta con la fama di maestro dei campioni e campione dei maestri. Quando l’ho conosciuto, mi sono fatto l’idea che i campioni siano coloro che, fra conservazione e bellezza, scelgono la bellezza. D’istinto. Del campione aveva ancora gli occhi, anche se stanchi. A morire, è tornato in Ungheria, a Budapest, in una casa lungo il Danubio. Istruiva gli allievi a non lasciare traccia, se non sul corpetto avversario e sul tabellone che segnava le stoccate. Non devono capire come fate, diceva, non devono ricostruire i vostri movimenti. A questo precetto si è ispirato nella vita. Non ha lasciato traccia, se non nella memoria di chi lo ha frequentato. I campioni da lui cresciuti impugnavano sciabole; Janos Kevey, l’esule, impugnava campioni. Erano loro le sue radici, con le flash e le stoccate, non più l’Ungheria con le sue terre, né la famiglia, né il cognome perso girando il mondo. Grazie a lui, quando penso alle radici, considero il futuro, non solo il passato.

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Tutti hanno radici in un giardino Nell’Eden, nel mio giardino e in altri quattro, con César Manrique, Paolo Pejrone, lo zenzero e le mangrovie L’umanità comincia con un giardino. Non uno a caso, proprio quello: il Giardino. Prima c’era il Giardino, ed era un paradiso. Chi lo abitava era uno nessuno centomila e con lui c’era una nessuna e centomila. Con la cacciata è nata l’umanità, che ha provato a ricostruirli per conto proprio, i paradisi, alcuni zeppi di caos, di folle, di follia, capaci di nascondere l’inferno, non di sconfiggerlo. La mia idea è che il giardino completi l’uomo, non tanto la casa. Per chi lo cura, per chi lo visita con rispetto, oltre che un luogo è un tempo. Ci sono i giardini delle letture, i giardini delle cose viste, i giardini dei ricordi, i giardini delle emozioni; ci sono i giardini delle nostalgie e delle meraviglie, i giardini delle cose fatte, i giardini delle amicizie. Tutti non sono che echi: hanno le loro radici in un giardino di piante, fiori, frutti, erbe, colori, profumi, dove sei passato anche solo una volta, dove la mamma ti portava da bambino, un giardino botanico o il giardino dello zio, un angolo di terra dove accade di piantare un albero, di mettere a dimora radici. Fiori, frutti, colori, profumi, ma soprattutto radici. Il giardino è una casa di radici. La sua anima è sotto terra, nascosta, 58

o in te, che lo curi, comunque celata alla vista. Ciò che vedi è un carnevale messo in scena, solo bellezza. Uno coltiva il suo giardino di cose memorie pensieri dubbi curiosità e se lo porta dietro, sempre dietro – anche il più metropolitano degli uomini –, dietro e dentro. Lo porta in viaggio con sé. È il suo zaino, la sua valigia. Lì custodisce le proprie radici. Ogni tanto le bagna. Ogni tanto le fa respirare. Fa loro vedere il mondo. Le adopera come polpastrelli. È con le radici che incontri il mondo, con ciò che le radici producono. Mi ha raccontato Marco, quello della camminata lungo il Chiusella – che se stavamo a casa e alzavamo gli occhi al cielo e studiavamo le nuvole in viaggio verso nord nordovest; se rimanevamo quieti a contemplarle, scrutandone le forme, le variazioni di colore, il movimento, lasciando camminare la fantasia, e dietro la fantasia il pensiero; se facevamo questo, potevamo scoprire le radici del torrente contenute nella pioggia, nelle singole gocce di pioggia trasportate dal vento –, comunque Marco, il lungo lungo che sembra una pannocchia, mi ha raccontato delle installazioni realizzate da un artista spagnolo, César Manrique, il profeta ecologista delle Canarie, l’inventore di Raíces en el cielo. Alcune sono collocate a Tenerife, nel lago Martiánez, nelle piscine comunali di Puerto de la Cruz. Una, in particolare, è un boschetto di dieci tronchi piantati con la chioma nel terreno. In cima ai fusti bianchi e levigati, spuntano a ciuffo le radici, simili a certe acconciature dei giovani d’oggi, così Marco. Il vento le muove un po’, tuttavia sono ben salde, danno l’idea della solidità. È una visione che lo ha colpito, perché capovolge il signifi59

cato delle radici. Mostra qualcosa che, guardando un albero, di solito non prendi in considerazione, ma per la sua vita è un aspetto più importante della chioma, così Marco. I giardini sono luoghi cosmopoliti, esperienze in cui la globalizzazione esiste da secoli, dove si armonizzano e convivono le diversità. Anche il mio è così. Nel ricordo vivido che ne ho, seduto davanti alla pagina bianca come fosse una finestra da cui ammirarlo, faccio cominciare il mio giardino con un brindisi, un calice alzato e un canto. Lo metto a dimora in queste pagine, pianta dopo pianta. Il mio giardino, quello da cui provengo, è composto da: – un calicanto, il Chimonantus praecox arrivato dalla Cina nel 1776, la prima pianta a fiorire in pieno inverno, nel cielo terso lancia un acuto di fiori gialli sui rami spogli e un caldo rotondo profumo – quasi di tè al gelsomino – che, come un canto di sirena, ti raggiunge lontano, e spacca il freddo; – due meli con l’artrosi, vecchi come la casa, dalle sembianze pellegrine; – un melo cotogno, sacro a Venere, deciduo, come la maggior parte delle piante, delle cose, degli uomini, che appena lo dici, cotogno, astringe la bocca, allappa; – un melo ruggine, che ancora ruggisce, sebbene rauco; – un melo giapponese, che però forse viene dalla Cina; – un carpandù, dalle mele piatte e verrucose, polpa asprigna e soda; – due peri estivi, su cui mi arrampicavo a meditare e a progettare capanne; – tre peri invernali, che paiono vecchi viandanti sbilenchi appoggiati a un bastone, sempre sul punto di partire; – un pero dei fratelli Ingegnoli comprato nel 1925, Inge60

gnoli, Ingegnoli, chi eran costoro?, mi sembra di ricordarli, hanno ancora il negozio a Milano; – un martin sec, che fa piccole pere da cuocere, il più simile fra gli alberi a un animale, il martin pescatore, becco lungo, ali e coda brevi, giallo ruggine e blu metallo; – un susino bianco, che un anno fa e uno no; – due pruni, che conservano le spine, sebbene siano domestici; – un ramasin, il pruno di Damasco, dai frutti aciduli e buonissimi con cui fare marmellate senza zucchero; – un mirabolano, il pruno ciliegia, con frutti stucchevoli a forma di ghiande, adoperati per unguenti; – una siepe di bosso, dal busto eretto, il corpo compatto; – molte ortensie, blu, rosse, viola, bianche, screziate, che con distinzione fanno gran festa; – un pino nero, piantato da zio Enzo; – una betulla, venuta dal Monte Sinai come un bastone – il nostro Monte Sinai, che guarda verso Torino –, la pianta pioniera che attecchisce nelle radure trascurate, corteccia di velluto fatta a fogli di carta velina raccolti uno sull’altro; se incidi il tronco e infili una cannuccia, riempi un’intera bottiglia di buona linfa dolciastra, dice Mauro, figlio di Censin, nato a Vado Ligure, in mezzo alle fabbriche, in un’osteria con cucina e affittacamere, che da trent’anni lavora orti e custodisce giardini; – due metri quadrati di felci; – una sinforina, ricadente con bacche e frutti bianchi, abituata a strafare; – un’edera, che è una pianta radice, amichevole e soffocante, detta brasabosc, dotata di un abbraccio caldo che può diventare mortale – quando a febbraio non si trova cibo, le sue bacche sono l’unico pasto dei merli; 61

– una forsythia, che ha il pregio di interrompere l’inverno: il calicanto lo fa con il profumo, la forsythia con i colori; – quattro weigelie, raffinate e generose con la loro cascata di fiori; – tre ibischi, bianchi violetti e porpora – come diceva un vecchio giardiniere toscano: piante che fanno fracasso; – un salice giapponese, un acero giapponese, un nespolo giapponese, una kerria japonica, un’aucuba, che in Giappone chiamano ookiba: insieme sono il festival di Turandot; – due chaenomeli, spinosi e lenti a crescere, anche loro giapponesi come molte piante e fiori e sorprese; – un giglio selvatico, che dà la sensazione di un giardino benedetto da qualcuno – non può essere solo fortuna o talento; – un sorbo montano, detto tùmel, pianta antica e fresca, gioia di merli e tordi; – un ciclamino, il vero ciclamino europeo; – un ginepro, che ti viene da bere dopo cena; – una piracanta, che ha bacche rosse e in francese si chiama buisson ardent; – un melograno con fiori semplici, due melograni con fiori doppi, un melograno nano: simboli della felicità prolifica, fra le piante più belle che si possano avere; – una magnolia, che arriva da Ravaner e fa correre le radici in superficie; – due peonie, rustiche bianche esplosive e cinesi; – un ciliegio, che non dà più frutti; – un cachi, che in autunno è caviale per gli uccelli; – un giglio blu, che forse è un iris e ha le radici profumate; – una deutzia, degna signora di una certa età; – un cespuglio di euonymus o capel da preive, a larghe tese; – due rododendri, parenti più coriacei dei mirtilli che non tutti riescono a far venire come vorrebbero, cioè felici – sono 62

piante che, in genere, in un giardino sentono la mancanza di libertà; – tre azalee, ericacee anch’esse, aggraziate e irsute a un tempo; – un glicine, il cui profumo è vistoso, materico; – un lillà, che è una finestra sull’Ungheria e sui Balcani; – due gelsomini, che sono due finestre sul Mediterraneo e sull’Asia; – un alloro, dalle drupe nere e lucide, che vorrei veder crescere per dieci piani, fino a raggiungere il tetto del municipio, il culmine del campanile, ma purtroppo bisogna potarlo; – un lauro cerasus, femmina, una laura con bacche color porpora per eccessiva timidezza; – quattro cespugli di salvia e tre di rosmarino, che profumano i cibi e rendono superflue le medicine; – due cespugli di lavanda, che fanno Provenza; – uno di lacrime della Madonna, o myosotis o non-ti-scordar-di-me; – uno di medaglie del Papa, o lunaria, ché le capsule dei semi mostrano la trasparenza opalescente della luna; – la menta, il basilico, il timo serpillo, l’origano, il prezzemolo, l’erba cipollina, che sono cucina all’aria aperta, e la santoreggia, dal gusto antico e genovese; – il rafano, maschio e medioevale, robusto e violento; – il capelvenere, sublimazione della felce; – le campanelle di Natale, una pianta grassa; – le rose di Spagna, un’altra pianta grassa; – i gerani, anche rampicanti; – i mughetti, simbolo della foresta europea; – un vaso di dalie, che sono l’immagine del Messico; – una passiflora, i cui stami, stili, corona e viticci ricordano la passione di Cristo; 63

– una heuchera sanguinea, che attira farfalle e colibrì; – una pianta di maresìna, come la chiamano nel vicentino, illustrissima signora nessuno, serva vostra; – dieci metri di lamponi, che durano fino a ottobre; – i mirtilli, il ribes, l’uva spina; – un albero di Giuda, o siliquastro, in forma d’arbusto, che fa macchia mediterranea; – un finocchio selvatico; – una vite canadese, che viene appunto dal Canada, addossata al bàràkôt; – una verbena, la pianta più chiacchierona; – una begonia gialla; – un pumin d’amour, cugino del peperone, ma più distinto, o almeno così vuol dare a intendere; – i fiori di San Giuseppe, che sono una grande gioia, giapponesi anch’essi; – l’erba di San Pietro, con cui alla stazione di Ceva, lungo la linea ferroviaria che da Torino scende al mare, un tempo facevano le frittate più ghiotte; – qualche acetosella, di cui si masticavano i gambi da ragazzini, buona nelle minestre o come salsa acida per il pesce; – una pianta di peperoncini, con l’orto intorno, varie insalate, dalla lattuga al radicchio, dall’indivia alla cicoria, catalogna, coste, finocchi, carote, porri, sedano, cavolo nero, cavolo cinese, fagiolini, zucchini, melanzane, rape; – il ricordo di un noce piantato dal nonno, che ha spinto le radici per metri e metri fino alla casa ed è stato tagliato, albero nobilissimo, dal legno bello e forte, albero delle streghe sotto cui è meglio non dormire: porta la morte, dicono; – molte rose, create dall’uomo, bianche, gialle, carminio, porpora, viola, rosa, nane, rampicanti, la rugosa e la spinosissima, la centifolia e la zambra, la moschata, la damascena, 64

la gallica, la rubrifolia, e poi una rosa di zia Romilda e una di Carluccio, la rosa è la rosa; – infine, una banksiae lutea, Award of Merit della Royal Horticultural Society nel 1960, rampicante, originaria della Cina, portata in Occidente nel 1807, deliziosamente vigorosa; in Italia se ne trovano esemplari molto vecchi e belli, i più belli d’Europa; è una rosa senza spine a ramificazioni lunghe e sottili, la mia raggiunge gli otto metri, arrampicata su un castelletto di legno di betulla, le foglie sono oblungo-lanceolate, dentate e glabre, i fiori profumati, doppi, riuniti a mazzi; per descriverne il colore il visconte Charles de Noailles, il più grande giardiniere francese del dopoguerra, dettava con solennità: il loro colore non è bianco, il loro colore non è giallo, il loro colore è burro – e dopo una pausa gonfia di francesità, aggiungeva: di Normandia; la fioritura dura una decina di giorni a maggio, la prima pioggia se la porta via. Poi, ci sarebbe lo zenzero. Se fosse per me, ci sarebbe una pianta rigogliosa di Zingiber officinalis, della famiglia delle zingiberacee, dal rizoma carnoso e ramificato, un’erbacea da climi tropicali che da noi non passa l’inverno. Ho provato a piantarla a inizio primavera: non è mai stata in salute, non dà fiori e il gelo la stronca. Vi rinuncio a malincuore, mi rimane il nome. La parola italiana tintinna come un sonaglio d’Oriente, una cavigliera. Zenzero: lo dici ed è un principio di musica. Anche il sapore è musica sulle papille gustative – pungente, fresco. Profuma di canfora. Sa di danze con i sette veli e sorrisi brillanti: tanto brillano che possono accecare. In cucina è una spezia imperiosa. Nelle bevande e nelle frutte candite corregge e friziona il sapore. In farmacia è carminativo, dal latino carminativus, che agisce per incantesimo 65

incanto canto: promuove l’espulsione dei gas dallo stomaco e dall’intestino. Molto di tutto questo, sul mio giardino, l’ho imparato in un giorno di pioggia autunnale a casa di Paolo Pejrone, a Revello, nel cuneese, a spasso per il suo, di giardino, un parco scosceso, impressionante, di quattro-cinque ettari, dove la magnificenza non inibisce un sentimento di familiarità. Paolo Pejrone, laurea in architettura, faccia da signore, mestiere contadino, custode di tradizioni e saperi, è il prototipo dei giardinieri. Come ogni vero giardiniere, è uno psicologo delle radici. Sostiene che in giardino non si è mai soli, perché ogni pianta è una personalità con modi, bisogni e capricci tutti suoi. Ogni pianta è memoria vivente di persone, stagioni, imprese, storie. Il garofano bianco, per esempio, mi ricorda un’altera signora inglese di 104 anni, spiega. E il cerfoglio mi riporta alla mente mio padre: era l’unica passione che condividevamo, dice, un’erba da mezza stagione, simile al prezzemolo, che il gelo brucia e il caldo secca. Il giardino è liberatorio, racconta davanti a una frittata di erbe che si sta intiepidendo, è una valvola di sopravvivenza, di sicurezza. Stempera le tensioni. Insegna ad avere pazienza e tenacia. Ah, sospira alzando le sopracciglia, non è detto sia tutta letizia, ci sono delusioni e amarezze, ci sono gli alberi che muoiono, i periodi neri, però è tutta un’altra tragicità. È una vita antica, in cui la tragedia è parte del quotidiano, come la gioia e il successo. Le piante non parlano, ma comunicano, dice, hanno un rapporto non mediato con te, un rapporto diretto di sensi che non ha bisogno di interpretazioni. Giardinieri non si nasce, si diventa a poco a poco, è una forma 66

di maturazione, dice. Dal suono della voce capisco che sta cercando nei ricordi. Da quarant’anni gira il mondo architettando giardini: faccio figli che poi affido ad altri e spero sempre che non finiscano per strada, sorride. Ha la fortuna di averne uno tutto suo, di figlio: è questa la mia famiglia – con un gesto del braccio indica lo spazio intorno – in questo posto sono le mie radici. Ha piantato, coltivato, curato, dato acqua. La mia vita si divide in quattro giardini, racconta. Il primo è il giardino della nonna – qui vicino, là sotto, un po’ più in basso. Non so com’è adesso, dice, era chiuso da alti muri, profumatissimo, pieno di fragoline, garofanini, peonie, gigli e rose. Natalie, sua nonna, rimasta orfana con una buona dote, fu data in sposa a diciott’anni. La suocera non voleva vederla in casa, se non a pranzo e a cena: che se ne stesse in giardino! A momenti, in giardino partoriva anche i figli. Faceva crescere i limoni mettendo nei vasi la cenere dei camini e aggiungeva un mestolo di acqua piovana raccolta in un vascone, dove confluivano gli strami del pollaio e della stalla. Aveva trecento piante di limoni, fiere, raggianti. Sembravano monumenti. Poi ci fu il giardino dell’infanzia in città, a Torino, sulla collina di Valsalice, a un passo dalla scuola che frequentava. Ho cominciato a sei anni coltivando insalata, ricorda. I miei genitori mi scaricavano volentieri, convivevo con Giovanni e Maria, il giardiniere e sua moglie. Era molto vasto, con alberi bellissimi, un sottobosco di mughetti, grandi frutteti e un pollaio. Passavo il mio tempo in mezzo ai pulcini, dice, a ognuno 67

davo un nome: Grillo, Ghiaione, Rolando, Bello, Minchino... La cosa non piaceva a mio padre, che era severo ed era un cacciatore. Un giorno decise che era arrivata la volpe e li aveva ammazzati tutti. Per non farmi rammollire, immagino. Capisci che una cosa così, se sei un bambino, e a metterla in pratica è tuo padre, rimarrà sempre un intralcio fra te e lui. Non la cancelli per tutta la vita e puoi solo condividere il cerfoglio nell’insalata. Poco dopo, vendette la fattoria, il posto dove mi sentivo a casa, ricorda chinando il capo, avevo quattordici anni e stava cominciando l’estate. È un uomo dolce e imponente, Pejrone, ironico, uso al mondo, pieno di favole. Ha settant’anni e ancora si commuove. Fu un dolore fortissimo, dice, ti strappano un pezzo di te, un pezzo di carne. Tu eri lì e poi non sei più. Diventi orfano. Chi ha provato sa che cosa significa non poter tornare nel luogo dell’anima, dove sei stato felice. Ho passato la vita a cercare di ricostruirlo. I giardini non sono quelli dei vialetti, delle ghiaie, delle aiuole graziose. I giardini sono quelli della memoria. A trentun anni ricomincia. Tornato a Revello, mette su il terzo giardino. Mi è servito da passaggio, utile per imparare a conoscere il clima e le esigenze di questa terra, racconta. Un giardino sperimentale, dove ho cercato di mettere a frutto il bagaglio di cultura e di esperienze fatte in Inghilterra e in Brasile con i miei maestri. Le gioie. Le scoperte. Le prove. Anche le delusioni, come quando non riusciva a coltivare i rododentri, non riusciva a farli felici. Le piante allevate in un giardino devono avere un aspetto 68

felice, dice, non scontento. Non c’è niente di più crudele, di più stupido che far stare male le piante. Ha anche sperimentato il giardino senza giardiniere: un’utopia e una sciocchezza, liquida. L’idea stessa di giardino comporta che ci sia l’uomo, dice, che le piante vengano coltivate, fatte crescere insieme con armonia ed equilibrio, e che tu cresca con loro. Il quarto giardino, infine, è il presente, questo qui, scosceso e scenografico, iniziato nel 1992, molto amato, dove le piante sono tutte ripetute, perché la natura vuole la ripetizione, dice. Di preesistente c’era una grande quercia, e alcuni castagni malati di cancro. Il giardino si è sviluppato con squarci di panorama che somigliano a pitture orientali. Mentre ci inoltriamo fra ulivi e calicanti, chiedo quale sia la sua pianta preferita. La Davidia involucrata, risponde e mi porta a vederla. Le foglie, a forma di cuore, sono ingiallite e cominciano a cadere. Da noi si chiama l’albero dei fazzoletti, spiega, perché quelle specie di pennacchi, le brattee, che proteggono i piccoli fiori, sembrano pezzi di tessuto bianco, proprio dei fazzoletti. Viene dalla Cina. L’ha portata in Europa a metà Ottocento un missionario francese, Armand David. La mia, l’ho avuta in regalo da un vivaista che non riusciva a venderla. Appartiene alla famiglia delle cornacee. A me piacciono le mangrovie, dico. Ho in mente quelle del delta del Mekong. Sono alberi che m’incantano, perché hanno tante radici quante fronde, e sono a vista, galleggiano nell’acqua e nell’aria, là dove c’è la marea, dove le acque dolci incontrano le acque salmastre, si aggrappano alle rocce, si trovano a casa nel pantano e resistono libere e ostinate. Potrei 69

persino immaginarle in volo, quasi fossero orchidee, con i fiori che sembrano eliche e le radici aeree. Le orchidee mi fanno pensare a Tino Buazzelli, Nero Wolfe e Rex Stout, interprete, personaggio, autore. Le radici aeree mi fanno pensare alla possibilità di vivere diverse vite, mobili e fluttuanti, imprevedibili. Gli chiedo che cosa sappia delle mangrovie, che cosa può raccontarmi. Pejrone lascia l’albero dei fazzoletti, chiama i suoi tre cani intorno a sé, mi fa annusare il timo, raccoglie da terra un rametto di ulivo, s’incammina e dice che non sa niente. So poco o niente delle mangrovie, dice. Proprio niente, ripete alzando le spalle. Non so nemmeno di che famiglia siano, dice. E lo chiede a me. Si volta, mi guarda e chiede: di che famiglia sono le mangrovie? La domanda è come uno schiocco. Non me l’aspettavo. Non lo so. Pensavo potesse dirmelo lui. Sono il tuo albero non il mio, dice, tu che parli di radici devi saperlo, è importante la famiglia per capire le piante. È la lezione con cui lascio il giardiniere, una delle buone lezioni di oggi. L’aria dell’imbrunire è aspra e frizzante. Inalo il primo farsi della sera, gli ultimi respiri freschi di chi lascia il paese per tornare in città. Me ne vado come se me ne andassi da casa mia. Sulla strada del ritorno, fra me e me, gioco con le mangrovie, mani grosse, grosse vie, grovigliate, mancino, mangiare, gruviera, margravio, parole che sembrano parenti e fanno famiglia allargata. So che devo cominciare a imparare le mangrovie. A casa scopro che la mangrovia non è una pianta, ma un termine, giusto una parola, una voce scientifica per definire un tipo di vegetazione costituita da piante prevalentemente legnose che si sviluppano lungo litorali bassi e paludosi. È 70

caratterizzata da speciali radici. Talvolta il termine viene impiegato come nome comune delle singole specie. Una famiglia, comunque, le mangrovie ce l’hanno: quella delle Rhizophoraceae. C’entrano con il rizoma. Come lo zenzero, che suona accompagnando il chimonantus nel suo canto.

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Viaggiare è fare incontrare radici Da Torino a Benares, da Trinidad al Lago Turkana, con Charles Simic, Ennio Flaiano, Alistair, Sara San Juan e una ragazza che non vuole dire il suo nome Eppure mi piacciono le città. Pure mi piacciono. Anche. Dopo la ruota e la scrittura, sono la più straordinaria invenzione dell’uomo. Sono architetture di spazio e di tempo. Come la ruota e la scrittura, viaggiano e raccontano. Le persone come me sono fatte dalle città in cui hanno vissuto più che dalle montagne o dai mari che hanno desiderato. Fra le vette e le onde, nella natura, ho la testa; ma sull’asfalto, strade, incroci, piazze, automobili, luci, ho i piedi. Da qui comincio il cammino, qui sono cresciuto e sono cresciute con me le fondamenta in movimento che chiamo radici. La città è il luogo dove gli opposti più improbabili si incontrano, dove le nostre intuizioni per un attimo convergono, annota Charles Simic, poeta e cacciatore di visioni: è un’immensa macchina di immagini, una slot machine per solitari che tutto trasforma, spiccioli di fantasticherie, poesia, passioni segrete, follia. La città mangia e si diffonde, agglomera, deglutisce, consuma ettari di suolo, paesaggio. La città si fa urbana per educazione. Vive di giorno, ma non dorme del tutto la notte, rallenta un po’ i battiti e il respiro, e lascia ogni tanto calare 72

le palpebre. Si satura di numeri gente persone, di traffico traffici usi. La città è delle macchine giulive e roche che l’attraversano. È mobile. È fiume che tracima, va oltre, oltre sé, oltre i confini, le vie, i palazzi, i negozi. È immigrazioni, proiezioni, escogitazioni, sguardi che si accumulano e si contraddicono. Nelle contraddizioni dà forma alla molteplice identità che la distingue – contraddistingue. Nelle contraddizioni dice il suo presente. Parla a noi, parla di noi e da noi. Non ha silenzi. La città è dialoghi continui, discussioni, monologhi che si accavallano, flussi di coscienza in cui acquistano funzione di parola le finestre, il traffico, i semafori, i marciapiedi, gli alberi, le piste ciclabili, le cantine. Fa sentire la sua voce, e non è sempre musica celestiale, a volte è disarmonia, rumore, altre volte incanto, jazz. Ma ogni volta, alla fine di ogni frase, di ogni verso, ripete: presente! Dice: io ci sono, respiro, mi muovo, produco, partecipo al mondo, riassumo il mondo in me. È un io plurale, quello che pronuncia. La città sono essere singolare plurale. Un essere, molti essere – molti modi di essere. Non un sostantivo, che definisce, cataloga, blocca; un verbo che agisce, che è differenti agire, un verbo che contiene una personalità comunitaria, una personalità multipla. Sono un continuo mutare e intrecciarsi di luoghi, ipotesi, pensieri, gesti, passi, cammini, un sovrapporsi di punti di vista, la città. E i punti di vista sono corpi, uomini. La città sono parti dell’uomo, oltre che porti – per l’uomo e per le merci. Non ha solo sensi unici e doppi sensi. Possiede vista tatto udito olfatto gusto. Osserva tocca ascolta annusa assapora e percepisce. Possiede il sesto senso, e poi il senso dello spazio e quello del tempo. 73

Non è fatta solo di divieti, regolamenti, ragione, ma di libertà, disordine, improvvisazione. Non cresce con obblighi da aggiungere a obblighi, ma con scelte libere. Tutto questo, perché la città sono gli uomini che la abitano, che la vivono e ci dormono e si risvegliano e la mangiano, passeggiando sul suo corpo. Sa essere straniera odalisca araba latina slava cinese africana dorata, la città. Si offre a chi l’accarezza meglio. Le spingono in bocca tutte le lingue del mondo, se è il mondo quello, e tu con loro, straniero fra gli stranieri. A lei, come a nessun’altra, si accostano facce mani falli da tutto il mondo, se ancora lo chiamiamo mondo e non uomo, non persona, una grande unica ardente persona piena di sorrisi. Non c’è vergogna, non c’è timore, piuttosto orgoglio e sorpresa. E come tutte le ragazze, lei, la città, finalmente si mette i fiori nei capelli nelle piazze e il profumo lungo le strade gli argini i giardini. Nessuno vale un altro, pensa concedendosi, ciascuno è chi è ed è bene che sia così. E allora sì, dice di sì. E con tutto il corpo le case gli occhi gli alberi i viali le aiuole, con tutte le sue gambe e cosce rive rose, con tutte le sue rose spalancate, si trascina addosso l’amore, lo abbraccia e lo prende con sé in modo che possa annusare il petto profumato la vita profumata e il cuore. E il tuo cuore batte impazzito per lei e sì, dice la città, sì, ripete, voglio sì. Le città si muovono quasi tutte allo stesso modo, formano un unico paese, una nazione che si riconosce unita senza bisogno di continuità territoriale. Alcune sono stati d’animo: essere di quella città è uno stato d’animo. Per esempio, New York. O Parigi. Venezia. Istanbul. Per me, anche Nizza. Tut74

te città internazionali. E poi c’è Torino, la capostipite delle mie città, di quelle città che mi fanno sentire a casa. Tutte hanno in comune l’acqua. Si appoggiano al mare o a un fiume. Che città sono le città senza una sponda, senza un approdo? Altre sono bellissime, affascinanti, per un angolo, per un modo, un piccolo mondo che ritrovi, una stradina, la facciata di un palazzo, il sorriso di una persona, ma sono tutte le altre città, le città degli altri, ai miei occhi. La mia è le mie, plurale, e non può essere diverso. Raccoglie il Valentino e la Union Station, la Promenade des Anglais e Galata, Hagia Sofia e la Bastille, la Senna e il Bosforo, l’Hudson, il Po e il Canal Grande, Mirafiori e Greenwich Village, Porta Palazzo e il vecchio mercato dei fiori, il Pere Lachaise e il Pera Palas, il Negresco e la Marciana, l’Empire State Building e la cisterna dello Yerebatan Sarayi, Montmartre e la Mole tenuti insieme dal ponte di Brooklyn. So di non essere internazionale, non ho quel passo, quella leggerezza, nemmeno quell’indifferenza sbrigativa e decorosa; non sono neppure provinciale, mi manca il posizionamento, la solidità e la fiducia; non posso definirmi cittadino del mondo, perché è troppo grande il mondo per me; non sono uomo di mondo, non ne ho il carattere, le espressioni, i vizi, le virtù, e tuttavia non sono un paesano, non ne ho le virtù, i vizi, le espressioni, il carattere: io che tutto questo non sono, sento di potermi dire newyorkese, parigino, nizzardo, veneziano, e mi innervosisco se gli altri non ci credono, se non lo intuiscono. Sono parti di me, sento, che si innestano sull’essere cresciuto a Torino. Anche di Istanbul, l’Illustre Venerabile, vorrei sostenere di essere, se solo sapessi come dire, come chiamare uno che 75

abita a Istanbul, uno fatto di Istanbul. Se sei di Torino, sei torinese; se sei di Istanbul, sei...? Viaggio attraverso le città. Nella città mi muovo a piedi: è il modo migliore di prenderla, di comprenderla, e darsi tempo, disporla intorno a te, mentre la cammini. E poi viaggio di città in città. Viaggiare è fare incontrare radici. Non ti lasci a casa, quando ti metti in viaggio: parti e ti porti con te. Porti le parti che più sono te. Con esse, che in genere sono le più nascoste, incontri gli altri e i loro mondi, abitudini, costumi, usanze, le loro forme di cultura, le loro radici. Tre, quattro cose ho imparato dal viaggiare e da ciò che ne consegue, il racconto, che è il modo di continuare il viaggio, quando sei arrivato. Si ferma il viaggiatore, prosegue il viaggio. Nemmeno la morte può arrestarlo: continua nei libri. Altri, leggendo, raccolgono il testimone, raccolgono i chilometri e le avventure, ne prendono il passo. Scrivere appartiene allo stesso movimento del viaggiare. Un’azione porta all’altra e viceversa. Il viaggio è sovversivo come la scrittura, riesce a esserlo quando diventa incontro. Dunque, le cose imparate. La prima è che, viaggiare, si viaggia sempre verso casa. L’ho letto in un libro, l’Enrico di Ofterdingen, l’unico romanzo di Novalis, il poeta degli Inni alla notte, il giovane romantico vissuto a fine Settecento. Ne ho fatto esperienza viaggiando. Metti il piede fuori casa, ti chiudi la porta alle spalle, scendi i primi gradini, non hai ancora raggiunto la strada, l’auto, la stazione, non sei ancora in cammino e già viaggi verso casa, non importa la direzione. È inscritto nel viaggio il ritorno, così come nella salita alle vette è inscritta la discesa, e solo allora il viaggio si compie. 76

Altrimenti è un andare. Se vai e ti fermi dall’altra parte del mondo per il resto della vita, allora è quella la tua casa, è l’altra parte del mondo: lì accade il tuo ritorno. Tutti i libri sono libri di viaggio o non sono: anche questo ho imparato dal viaggiare. E ho imparato che da un viaggio, se veramente ti sei messo in viaggio, torni cambiato. Succede così. In principio sono un uomo maturo occidentale di origine europea, di tradizioni italiane, di abitudini nordiche, acculturato con studi classici e birbanti, appartenente alla media borghesia, forse – se esistono un’appartenenza e una borghesia –, con aspirazioni socioumanitarie, interessato e indotto alla conoscenza del mondo e all’incontro con tutte le culture, sufficientemente consapevole e forte della propria identità – questa parola mi fa scattare sull’attenti, identità, e un po’ mi blocca, allora l’aggiro –, sufficientemente consapevole e forte, dicevo, per essere disponibile a scambiare vedute e metodi con altre identità, ambiziosamente romantico: ecco, comincia da qui il viaggio, e si va. A poco a poco, con l’aiuto del tempo e degli spazi, dei paesaggi, degli orizzonti, spogliato del romantico e dell’aspirante, persi gli orpelli, le definizioni superflue, rimane io sono un uomo. Via l’identità, la borghesia, le tradizioni, l’Occidente, l’età, le incrostazioni della cultura, che a volte non salva dalla mediocrità, ma la ciba, via tutto, rimane l’essenza da raggiungere nel viaggio. Se il viaggiatore approda a sono un uomo, il viaggio è riuscito e può figliare altri viaggi. In questo modo ti arricchisci di perdite: da un lato conosci, scopri, guadagni, dall’altro perdi. Perdi te per tornare cambiato. Le partenze sono infanzie che crescono nel corso del viaggio. Gli arrivi sono il cambio di passo. In mezzo, è il viaggiare; 77

come fra due sponde, in mezzo è il mare. La fatica del distacco e la voglia di partire, lasciarsi alle spalle il quotidiano, il progetto della scoperta, la curiosità, il piacere di visitare luoghi, passare da un posto all’altro senza nessuno scopo che non sia quello di passare da un posto all’altro, vedere alberi e cielo, acquisire un altro ritmo rispetto al solito, una nuova familiarità, una giusta oscillazione fra partenze e arrivi, infine, l’appuntamento con l’ultima partenza, con il rientro, il senso di pienezza con cui ti stacchi dai luoghi attraversati, la voglia di tornare dove sono rimasti gli affetti, dove hai lasciato la lingua, il luogo che chiami paese, casa, destinato a raccoglierti in parte straniero: il punto di arrivo coincide con il punto di partenza. Oggi, che sembrerebbe più facile viaggiarlo, il mondo nasconde meglio le sue meraviglie, si camuffa con l’omologazione. Pensi di saperlo senza muovere i piedi, senza toccare, senza assumere responsabilità, senza compiere azioni, solo gesti. Eppure non c’è niente di piatto al mondo, nemmeno il deserto, nemmeno la pianura. Non c’è niente che non sia unico e non dica, anche sottovoce: presente! In questa unicità, individualità, originalità scorgi l’uguaglianza degli uomini, ovunque e comunque, l’uguaglianza nelle storie e nei sentimenti, nelle paure e nelle speranze. Ennio Flaiano, testimone disincantato, nel suo Diario degli errori trentacinque anni or sono scriveva che la facilità delle comunicazioni non accresce la capacità di conoscere, non affina la cultura del viaggiatore, anzi: la facilità di trasportarsi da un luogo all’altro ottunde il valore della sorpresa e offre come acquisite conquiste che un tempo si dovevano lungamente desiderare. Il pellegrinaggio non è tanto arrivare alla meta, sosteneva, ma raggiungerla con quel conveniente lasso 78

di tempo che permetta di agognarla. Chi con un’ora di volo e due di automobile raggiunge Delfi, guarderà il tempio di Apollo e l’auriga con l’occhio avido del passeggero che può, nella stessa giornata, permettersi un altro traguardo. Non c’è tempo per vedere le città sconosciute come mondi nuovi, per accostarsi a esse con una carica di meraviglia e amore. Bisogna liberare gli occhi dalle guide turistiche, che sono un nido di vespe in cui vanno e vengono nomi di regnanti, hotel, locali, indirizzi, anni di fondazione, tariffe, prezzi in dollari, in euro, in moneta locale, piatti, musei e acquisti raccomandati. Nonostante tutte le informazioni possibili, un viaggio rimane una battuta di pesca: peschi visioni, odori, colori, curiosità, a volte scoperte, a volte nulla. Annotare anche il nulla, viverlo come quotidianità al di fuori del proprio quotidiano: questo è scrivere e viaggiare. Benares, in India, ribattezzata oggi Varanasi, la città sacra, è guardare e non toccare. Di suo, trasformerebbe gli sguardi in mani. La sponda del Gange su cui si allunga è un adombrarsi di palazzi vuoti o abitati da fantasmi, arcate e finestre come sopracciglia e occhi, alti bastioni, il cielo pieno di uccelli e aquiloni. Una luce è accesa in qualche stanza. Le scimmie scalano alberi e muri. Sul lungofiume, gli edifici ricordano le fortezze abbandonate, bivaccano sull’acqua in attesa di caderci dentro. Degradano. Osservano transitare la morte in corteo ogni giorno, controcorrente, più volte al giorno: sanno che, prima o poi, raggiungerà anche loro. E il Gange, la grande madre Ganga, paziente e incurante, attende che i palazzi si lascino andare e affoghino. Una miriade di imbarcazioni galleggia spargendo lumini e fiori. I matrimoni sfilano accanto alle pire funerarie. La mu79

sica incrocia i lamenti e i pianti. Sui ghat si sta come sulla riva dello Stige allestita a Supermercato. Lo sguardo e il clic della macchina fotografica fanno acquisti, sui gradoni come sugli scaffali: mucche, indiani, turisti, venditori, barcaioli, santoni, santini, musicisti, vecchi, donne, mendicanti, scheletri e bambini, tronchi d’albero, cerimonie, cenere, cibo, microfoni, merda – una transumanza, nessun senso di pace. Il secondo giorno passato sui ghat, sfiancato dall’attesa di una rivelazione, incontro Alistair senza cognome, un australiano con il cappellaccio degli australiani, la tesa alzata di lato, camiciotto color coloniale, pelo rossiccio, faccia squadrata come le spalle, due macchine fotografiche a tracolla e una mignon in mano: uno di quelli che, se guarda qualcuno, lo guarda negli occhi. Ci scambiamo il telefono già sapendo che non ci telefoneremo mai. Dice che alla sua età, a quarantadue anni, ha visto troppo mondo e non si sente a casa da nessuna parte. È stanco di avere occhi stranieri. Ha fatto tutti i continenti, anche l’Antartide, attraversando lo stretto di Drake, entrando nel Mare di Weddell e arrivando a piedi fino all’isola di Berkner: troppo mondo, troppo mondo, e non ha più il suo, troppe fotografie, troppe immagini, troppi incontri, e non sa più chi è. Non ha famiglia. Non ha più dove andare. I suoi sorrisi sono orgogliose mestizie. È troppo al largo, ormai, dice, ha perso l’orientamento, non scorge terra all’orizzonte, non gli rimane che nuotare finché reggono i muscoli e il respiro. Sara San Juan, invece, non ha mai lasciato Cuba, ma fa come Alistair, più o meno. A Trinidad, fotografa i turisti così come i turisti fotografano i cubani per strada o nei caffè. 80

Ne ha visto abbastanza di mondo. Oh, il mondo, i tipi che abitano il mondo e lo consumano!, dice seduta davanti alla televisione durante una partita di baseball, con il marito che la riprende ogni due minuti, Sara!, lei tace per qualche secondo, poi a bassa voce riattacca: nonostante Castro, Cuba è meglio del mondo, smozzica furtiva. Fuori c’è tanta gente strana e, prima o poi, passano tutti di qua, dice, dove lei ha il suo patio, la sua cucina, il suo salone con i ricordi appesi alla parete, la sua strada, la sua piccola città, i suoi amici: tutto questo è la sua casa, e vale il mondo. E poi incontri una ragazza che ti fa girare: capelli lunghi lucidi, pelle bruna lucida. Cambi direzione e segui la sua pelle, i suoi capelli. Attacchi discorso e lei ti offre un po’ d’uva. Io qui ci vivo e me ne andrei volentieri per il mondo, dice. Dimostra meno anni di quelli che ha, una ventina. Qui è Bombay: vista sulla carta, ha la forma di una mano sinistra che sbuca da una manica di terra e si protende nel mare, Colaba è l’indice, Malabar Hill il pollice. Le avevo appena detto che lì, in quella mano, io verrei a vivere per un po’, mi piace. Siamo sotto la tettoia del Crawford Market, un’invenzione gotico-alimentare. Passiamo fra banchi di frutta, verdura, carne, montagne di colori e odori, biblioteche di facce e gesti. Lei indossa una maglietta blu e i jeans. Ha uno zaino in spalla e le infradito azzurre, i piedi curati, le mani ricamate con l’hennè, il portamento signorile, la voce morbida con cui parla un inglese cadenzato. Non vuole dire il suo nome, perché tanto non lo ricorderesti, sostiene. Tu verresti a vivere qui?, e io andrei in tutto l’altro mondo, dice seria con un chicco d’uva pronto per me fra le dita. Vuole fare il giro del mondo. Se le faccio fare il 81

giro del mondo, poi mi dice il suo nome. Vedi, a volte, che cosa basta... E tutto questo incide sulle radici, le sagoma, le innaffia, le cura, offre loro corsie e ostacoli con cui fare i conti. Le radici sono alimentate e determinate dai viaggi. Passano insieme a noi nei luoghi e nelle persone che incontriamo: interagiscono e si modificano. Impari dai viaggi che non sei sempre chi credi di essere, che ognuno è altro rispetto a se stesso. Tornando, invece, amici e conoscenti li ritrovi ancora lì, ancora loro, inchiodati all’immagine che ne avevi, non si sono mossi, fermi, immobili. Dei racconti non sanno che farsene: li distrarrebbero dal quotidiano. È intollerabile, di ritorno da un viaggio, l’atteggiamento annoiato delle persone rimaste a casa, la dimostrazione di cinismo esibito con supponenza. Eccoli, gli uomini di mondo, che sono già stati dappertutto e sanno tutto e niente può stupirli ormai, in grado di accogliere le novità con una superficialità sempre disillusa. La differenza è accettabile solo se rimane al suo posto. Janos Kevey, il maestro dei campioni, la sciabola apolide, diceva che il problema con l’avversario è che l’avversario non sta fermo dove vuoi tu, non aspetta, merda, anzi merde! L’avversario si sposta, para, risponde e pretende di colpire, merde! Mio padre, con il conto delle varianti, intendeva questo: tu servi e scendi a rete, l’altro risponde come riesce, e tu devi essere pronto a tutto, devi reagire in base alla pallina che ti trovi di fronte, un lungolinea, un passante incrociato, un pallonetto. A me piacciono i pallonetti, perché mi piacciono gli smash. 82

Lo smash è un colpo lento che alla fine scatta. Lo prepari alzando gli occhi al cielo. Per un attimo, tu che colpirai, l’avversario, il pubblico, tutto si ferma. Poi, con un rapido mulinello, agguanti la pallina e la scagli in un punto lontano. Adoperi la racchetta e tutto il fiato che possiedi. È un gesto liberatorio. Mi piace pensare che un giocatore di tennis si veda dallo smash. Così come un buon narratore di storie si vede dall’ascolto. Anche il racconto è liberatorio per chi lo fa e chi lo legge. A volte è un regalo. Proprio così: tieni, ti regalo questa storia, usala come vuoi. A regalarmi questa storia, consegnandomi un foglio battuto a macchina, è stato anni fa Alberto Salza. Alberto è un amico, un antropologo che ha trascorso buona parte della vita in Africa, sul lago Turkana, dove le scimmie si sono alzate in piedi, sono diventate uomini e hanno cominciato a emigrare. È un eretico, un sovversivo che mi piace, perché, proprio come Janos Kevey, non proclama di farlo, il sovversivo, ma, essendo naturalmente se stesso, lo è: questo basta alla sovversione. È un uomo con l’apostrofo incorporato, s apostrofo alza: così si presenta, poi ti guarda per vedere come reagisci. Una volta mi ha detto che si può viaggiare solo a mente aperta, facendo esperienza della diversità. Partendo dalle diversità, intavoli trattative, medi. Mediando, arricchisci le culture. Ma noi abbiamo smesso di farlo, sostiene, abbiamo preferito costruire l’identità culturale: l’identità culturale è la madre di tutti i razzismi. Basta sentire la parola come suona: identità. E ci siamo di nuovo, con l’identità. Ma bisogna che stia lì ancora un po’. Prima, queste altre parole: le parole della storia che mi ha regalato. È una leggenda oromo, un popolo che vive fra Etiopia e Kenya. 83

Morte era una persona bellissima, che veniva a prendere gli esseri umani e li portava via. Nessuno poteva dire se fosse uomo o donna. La sua bellezza incantava entrambi i sessi. Arrivava e diceva: «Fra cinque giorni passerò a prenderti. Preparati a venire con me». Nessuno resisteva, tutti ubbidivano contenti. Un giorno, si recò da una donna che aveva quattro figli. «Fra cinque giorni passerò a prenderti – le disse – preparati». La donna annuì. La sera, quando i figli tornarono alla capanna, li informò del messaggio di Morte. «Ma come! – esclamarono quelli – Nostra madre è ancora giovane, e poi ci serve per cucinare, prendere l’acqua e tutto il resto. Non possiamo lasciare che se la porti via». Nonostante la blanda opposizione della madre, complottarono per uccidere Morte. Si informarono sulle sue abitudini e scoprirono che, quando prendeva qualcuno, Morte amava sedersi per dare il tempo, a chi doveva condurre via, di prepararsi al viaggio. I figli, allora, scavarono nella capanna una buca profonda venti metri in cui infissero venti lance acuminate. La coprirono con un graticciato su cui posero uno sgabello. Poco discosta, sul letto, fecero accomodare la madre. Quando la trappola fu pronta, scoccò il quinto giorno. Morte arrivò puntuale e invitò la donna a seguirlo. «Un momento che cerco lo scialle – disse lei –. Prego si accomodi». «Grazie, sono stanco», disse Morte sedendosi sullo sgabello. Il graticciato cedette e Morte cadde nella buca, sparendo alla vista della donna. Sentendo le urla, i figli si precipitarono nella capanna: «Morte è morto! Morte è morto! – cantavano e ballavano – 84

Nostra madre rimarrà con noi per sempre! Così deve essere per tutti gli uomini!». Il più giovane si affacciò prudente alla buca, ma non vide nulla. Nessuno riuscì a scorgere il cadavere di Morte là in fondo. Non si preoccuparono. «Non si può sopravvivere a venti lance acuminate dopo venti metri di caduta – dicevano –. Morte è morto e non lo vedremo mai più». Così fu, da allora, per tutti gli uomini. La storia non è finita. Dopo cinque giorni, rientrando al tramonto, i figli trovarono la madre sul letto e, tutto intorno, tracce di sandali di ippopotamo. Provarono a svegliarla. Non ci fu verso. Urlarono. Niente. La donna continuava a dormire, mentre la sua pelle diventava sempre più bianca e fredda. Spaventati, i figli si rivolsero a un vecchio stregone che, vedendo la buca, si allarmò. «Cosa è successo? Che avete fatto?», chiese pizzicando la pelle della donna che si staccò rilasciando un pessimo odore. «Abbiamo ucciso Morte», disse uno dei figli. «Ha fatto un bel botto in quella buca!», disse un altro. «Poi è sparito», chiuse il terzo. Il quarto tacque. «Non si può uccidere Morte – disse il vecchio agitando lo scacciamosche in avorio e coda di gnu –. Morte è tornato, ma non porta più via i corpi come faceva prima. Ora è un problema nostro: abbiamo creato il cadavere. Che ne facciamo?». Da allora, Morte continuò invisibile a portare via soltanto le vite, lasciando dietro di sé miliardi di cadaveri. Gli uomini inventarono di tutto per farli sparire: li seppellirono, li mangiarono, li bruciarono, li diedero in pasto alle fiere. Ma i cadaveri non finivano più. Non finiscono ancora. Non finiranno mai.

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Il vocabolario è un luogo di radici Al galoppo fra le pagine, con Ugo di San Vittore, Stanlio e Ollio, Springsteen, Montaigne, Nicolás Gómez Dávila e Allah Il DNA è una radice a forma di spirale, non si interrompe. È la radice comune dell’umanità. Ciascun individuo è inserito nella radice dell’umanità con la sua minima porzione e passerà, si passerà alle generazioni future, così come si passa un testimone, come si passa un foglietto, come si passa una parola nel gioco del telefono senza fili. Il passa parola è il principio del racconto. Scrivere viene dall’ascoltare e dall’osservare. Ha bisogno di ascolto e di sguardo: è in questi territori che attecchiscono e viaggiano in cerca di nutrimento le sue radici. L’ascolto, a sua volta, ha bisogno di una postura adatta, una posizione del fisico e dell’anima, o del cuore – una disposizione all’accoglienza –; mentre lo sguardo ha bisogno della distanza – anche questa è una posizione –, la giusta distanza dalle cose e dalle persone osservate, una giusta lontananza. Si scrive da lontano e, in certi casi, anche del lontano, di ciò che si vuole raggiungere con il racconto in forma di scrittura, che è una forma di cammino. Come il cammino impone un ordine progressivo dei passi e delle esperienze, così lo scrivere impone un ordine pro86

gressivo delle parole: devi sceglierle con cura per evitare un incedere incerto e difettoso, per non cadere, per avanzare e non sbagliare strada o sentiero. Io sono uno che scrive. Dunque, sono uno che mette in fila le parole, le sceglie a una a una e le passa agli altri, offrendo un senso, una direzione. Dunque, sono uno che legge. Non solo libri, ma il mondo; non solo testi scritti, ma cose, persone, avvenimenti. Come tutti coloro che scrivono, mi rendo conto di avere buona parte delle mie radici nella scrittura, in ciò che racconto, nelle parole che scelgo, nel modo e nelle abitudini con cui le scelgo, più in generale nella lingua che adopero. Non c’è bisogno di scrivere per accorgersi che la lingua è un albero genealogico e che il vocabolario è un luogo delle radici in continua espansione, il luogo in cui si raccoglie quella comunità di parole che si chiama lingua, la propria lingua, la lingua usata per comunicare, anche se non è quella in cui si è nati. La terra di cui abbiamo bisogno è la lingua. È lei che fa essere, il resto fa esistere. C’entra con l’anima, ne è la trascrizione. Fa sentire a casa. Fa avere una patria: la propria biblioteca, la propria memoria. A proposito di patrie, di radicamento: non è tanto questione di geografia, è questione di storie e di persone. È così che formiamo la nostra materia, il nostro territorio, i nostri confini. È questione di memoria e di parole. D’altronde, scrivere c’entra con il misurare territori, cartografare contrade a venire. Ricordo Werner Herzog, regista di Aguirre, Kaspar Hauser, Woyzeck, Nosferatu, Fitzcarraldo, nato con il cognome Stipetic, gran viaggiatore e camminatore... lo ricordo com87

mentare, in un’intervista raccolta da Patrizia Valduga, poetessa e traduttrice, un breve passo che Tzvetan Todorov, filosofo del linguaggio, bulgaro trasferitosi a Parigi, allievo di Roland Barthes, autore di Io e gli altri, prendeva a prestito da Edward Saïd, saggista palestino-statunitense, nato a Gerusalemme, dove è morto nel 2003, docente alla Columbia University, il cui libro più conosciuto rimane Orientalismo, un saggio sui modi dell’Europa di raccontare e rappresentare l’Oriente... Non è però di Saïd la citazione, lui l’ha ricavata da Ugo di San Vittore, teologo e cardinale nato conte di Blanken­burg in Sassonia e vissuto a Parigi, dove è morto nel 1141, filosofo dell’alta scolastica, cioè della prima filosofia cristiana medioevale... di Ugo mi risparmio le opere, che sono molte, tutte in latino, ma è lui che ha completato il processo di razionalizzazione del testo scritto, introducendo le corrette spaziature, l’uso della punteggiatura, la divisione in capitoli con indici alfabetici, cosicché ogni singola parola ha acquistato indipendenza e si sono create le basi per la lettura silenziosa, quella in cui noi siamo cresciuti... dunque, è da Ugo di San Vittore che, di citazione in citazione, lungo la dorsale Saïd-Todorov-Valduga-Herzog, arriva questo frammento: l’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero. Straniero fra gli stranieri sei, in un mondo dove viaggiare rimane una delle poche possibilità per non fuggire – da sé, dalla realtà, dalla verità della vita –, così come scrivere. Io sono uno che scrive, allora. Provo ad analizzare, a mio modo, con l’istinto che assalta la ragione, queste due frasi intimamente legate, due frasi che insieme dicono me. Prendo 88

una parola per volta, la considero nelle sue sfumature, nelle peculiarità, persino in quello che non dice eppure mostra, eppure evoca. Provo a giocarci. Seriamente. Io sono uno che scrive. Io. È un pronome che traduce graficamente Stanlio e Ollio. L’io in sé, come Stanlio e Ollio, una coppia comica. Due lettere che stanno insieme come lo smilzo e il grassone, come Laurel e Hardy. Fanno commuovere, disperare e ridere. Questa è la mia immagine di io: associa la faccia fessa, tutto mento e aggrottar di fronte, del candido Stanlio con lo spazientito, furente sguardo in macchina di Ollio. Se, invece, lo prendo in blocco e me lo figuro come sola entità, io, lo vedo come resto: è ciò che avanza da Dio, di Dio, una rottura, una separazione, la perdita di una lettera, dell’origine, il luogo da cui si nasce, quella D gravida che sforna il pronome personale e lo lascia al suo destino, e quello va e va, naviga e naviga, vola e vola, ed è così sfuggente, ha così poca identità, che a volte si confonde con il raglio di un asino. Sono. Dice l’essere – l’esserci – e il sonare. Nel dire il sonare, afferma un’azione e, al tempo stesso, il prodotto di quell’azione, secondo una variante poetica e popolare. Nel dire l’essere, vale doppio: vale per me e per loro. L’italiano è una delle poche lingue per cui io e essi sempre sono. Buffo. Il primo commento che mi viene è: buffo. Capita che il primo commento non sia il più pertinente, il più giusto. Non è il mio commento, è quello delle mie difese, è un muro che alzo d’istinto, un pregiudizio. Quando poi accerto che attorno nessuno mi attacca, né mi giudica, allora mi rilasso e mi abbandono all’ascolto, e penso: naturale. Naturale che sono sia insieme singolare e plurale, che l’io provi ad apparentarsi con l’essi, invece che con il noi. Uno. È il primo numero naturale. Indica una misura, dà 89

una posizione. Il portiere lo porta sulla schiena, sempre, anche se la maglia ne mostra uno diverso. È il numero su cui tutti gli altri si arrampicano. Come parola è il massimo della individuazione e il massimo della indeterminazione: il numero uno e uno qualunque. Ho visto qualche tempo fa uno spettacolo su Bruce Springsteen, l’ultimo signore del rock, due chitarre che cantavano e una voce recitante. Quando hanno fatto Born in the Usa, la mia giovinezza ha cominciato ad andare, si è alzata in piedi e si è rimessa in cammino, era felice e non si rendeva conto di quanti anni avesse. Bruce Springsteen con la sua voce da armonica a bocca canta gli uno qualunque. Sono uno qualunque, penso, e non è un problema. Che. Del pronome, è l’essere relativo che mi piace, e il suo essere invariabile. E poi mi piace il fatto che sia anche una congiunzione. Arricchisce la e di un suono da picchio che martella l’albero. Incarna un’azione preziosa: si spende per unire, congiungere. Fa da ponte, mette in relazione. Come tutte le congiunzioni, è una parola base della lingua. Ricorda che le cose minuscole, spesso non considerate, contengono l’infinito. Scrive. È quello che faccio, in prima in seconda in terza persona. E anche all’infinito. Chi scrive, scrive all’infinito. Lo scrivere parte dal presente e arriva all’infinito. Se non arriva all’infinito, non è scrivere, è scritto. Circoscritto. La limpidezza, la profondità non dipendono da quello che si scrive, ma da come si scrive. Si scrive da soli, con una folla in testa, ma soli. Non sono silenziose, le parole, anche se riposano in un volume. Hanno ritmo. Dovrebbero averlo, dovrebbero cono90

scerlo e ballarlo. E comunque, basta alzare il volume, prenderlo in mano. Scrivere non è cercare la verità, è cercare quello che manca a sé, frantumare la compiutezza in cui l’esistenza si cristallizza. Scrivere è l’arte del leggere, fuori e dentro di sé. Leggere è un’azione tenera e forte, un’azione ecologica che non consuma. Ma prima ancora è un sentimento – amoroso. Leggi facce paesaggi immagini testi. Conosci il demone della lettura che spinge a muoversi al galoppo fra le pagine, come fossero pianure, lungo le parole, come torrenti impetuosi. Eppure devi darti del tempo, devi dare il tuo tempo al racconto. Quando scrivere e leggere s’incontrano, fanno musica. Questo far musica è raccontare. Il tempo della scrittura è nel racconto, nell’atto di chi scrive. Ma il suo spazio è nel pensiero del lettore, nel modo in cui si conficca in quella parte di mente che scende e si fa esofago, stomaco, intestino, culo, in quella parte di mente che ha l’anima di carne. Se è vero, come dice Michel de Montaigne, il filosofo francese studioso dell’uomo, che la parola è per metà di chi scrive e per metà di chi legge; se è vero, come è vero, secondo un aforisma del colombiano Nicolás Gómez Dávila, che le parole dei libri sono pietruzze gettate nell’animo del lettore e che il diametro delle onde concentriche da esse formate dipende dalle dimensioni dello stagno, allora la letteratura appartiene più alla lettura che alla scrittura. Se appartenesse di più alla scrittura, si chiamerebbe scritteratura e sarebbe cosa scriteriata. È perché appartiene alla lettura – al lato paziente di 91

noi, il lato dell’ascolto, intimo, silenzioso – che si può credere nella letteratura. Chi scrive è nel libro che si sente a casa. Io sono la mia scrittura. Producendo scrittura, genero un’azione. L’azione è quella di diventare altro, altri. La scrittura come corpo mi fa altro da me – differente e ulteriore. Ma perché questo accada, occorre incontrare gli occhi di chi legge, occorre che chi legge indossi il corpo della scrittura e le soffi, dentro, la sua parte di vita. Io non mi penso. Non penso me, mi penso tu. Non mi vedo una forma, non la riconosco, se non in scrittura. Riconosco quello che credo essere un sentimento: l’ambiguità. Scrivo il tu. Divento il testo. Dove c’è il testo non ci sono più io, ci sono tu. Scrivo per una persona alla volta, liberando le parole dalla carta. Finché si trovano su quaderni, bloc notes, foglietti, rimangono appunti. Le prendo e le metto su carne, così diventano racconto, libro. I foglietti di carta li appallottolo e li seppellisco nel cestino. Prendere appunti è archiviare gli sguardi e le sensazioni prima dei pensieri. Dire parole con la penna, scivolando e sbozzando, tracciando dune, filari, scurendo la carta, fornendo a essa un po’ di ombra, di fresco riparo dal bianco abbacinante, produce affinità con il tempo. Le parole agiscono, mettono in essere un cambiamento di stato. Operano. Creano opere. Producono vita, vite. Inventano e realizzano. Coltivano e spargono idee. Catturano cose, sensazioni, impressioni; a volte, le classificano. Conquistano menti, seducono corpi. Descrivono fatti, raccontano e incar92

nano storie. Si lasciano leggere e si lasciano dire. Facendo tutto questo, generano azioni. L’azione, in genere, porta con sé una conseguenza e una responsabilità. Nelle parole cominciano le responsabilità e finiscono le conseguenze. Con la scrittura, a volte, vado a farfalle – con gli occhi, senza retino. Andare a farfalle comporta camminare, darsi tempo e aguzzare la vista. So che scriverle vuole dire fermarle, le parole – come quando blocchi una farfalla e la spilli –, impedire loro di volare. E però, con il libro, allestisco una casa alle parole che formano una storia; predispongo per loro uno spazio in cui esistere anche quando nessuno le pensa, le usa, le ricorda. Quando un’altra mano apre il libro e s’infila dentro, le farfalle tornano a volare: non sono morte, riposano. Non c’è inchiostro che possa inchiodarle. Le posso pensare, anche, come lucciole. Allah per primo creò il calamo, raccontano. Sapeva ciò che faceva: donava una frangia di domani agli uomini. Tutto è inshallah, se dio vorrà: dunque, non è ipotizzabile il futuro all’infuori di dio, tuttavia il presente è affare nostro. E proprio grazie al calamo, nel presente, conquistiamo, disegniamo e pratichiamo il futuro. Con la scrittura. Con piccoli gesti della mano, il più possibile fluidi. Con la calligrafia. La scrittura araba, anche quella a stampa, ricorda una calligrafia. Sembra brevi scivolate sul ghiaccio con sbuffi d’aria intorno. Ogni riga è uno skyline, con puntini e trattini, sopra e sotto, suoni in libertà: come se la mano restituisse la musica, non trascrivesse le parole, ma il canto delle parole. E ogni tanto la parola capitombola nel segno. In una piccola bottega di Ecrivain Publique arabe e français, 93

dotata di computer e vecchie macchine per scrivere elettroniche, a Meknès, antica capitale del Marocco, nel quartiere di Dar el-Kebir, ho visto monsieur Abdellatif andare di penna su una pila di cartoncini bianchi, uno dietro l’altro, tre righe di danze e suoni su ciascuno, tutte diverse, con pazienza, quieta signorilità e morbidezza. Così come dietro ogni lingua c’è l’eco e l’ombra di un’altra lingua, qualunque scrittura, comunque, conserva l’eco e l’ombra della calligrafia: il gesto di una mano che impugna una penna e si muove sul foglio, non su una tastiera. Quando prendo appunti con matite e biro, quando scrivo con la penna, le mie parole ormai si mangiano le lettere. Si cibano di sé. La lettera che segue, a volte, incorpora quella che precede per troppa fame. Non sono errori ortografici, sono orrori cannibali. La lettera che negli anni è peggiorata di più è la s, il suo corpo ormai non conserva niente di sinuoso, è diventata uno sgorbio anoressico. La b è ridotta a semplice stanghetta, senza alcun rigonfio in basso. La v ha la forma della radice quadrata o, volendo, è il simbolo della vittoria con una tettoia sporgente verso la lettera che segue. La p è una freccia puntata verso l’alto. La r si confonde con la i, riconoscibile solo per il puntino, a volte; mentre m e n si piazzano sulla pagina come creste onde ondule andale e via. Fra tutte, la lettera che ha conservato le migliori fattezze, le più rispettose del corsivo originario, quella che, seppur scritta in fretta, fa la sua figura, è la h, la lettera che non si pronuncia, che non suona. Non credo sia una battaglia di retroguardia. Se anche fosse, di retroguardie c’è bisogno – per controllare che nulla si smarrisca, nulla venga perduto, rubato. Ci ammaliamo in 94

modo così infantile di progresso, come un bambino si ammala di gola! La battaglia è questa. Se la scrittura perde la dimensione fisica, allora perde la carne, il sangue, perde la sua natura, la possibilità del racconto, diventa chiacchiera. L’uso del computer, riducendo il tempo, rendendo comodi i passaggi sul testo, comporta un effettivo rischio. Il disuso della mano in presa diretta, con le dita attorno alla penna, a contatto con la carta, favorisce la disincarnazione, non aiuta la consapevolezza, facilita la riduzione a chiacchiera, a rumore di fondo. Le storie sostengono il mondo, lo fanno resistere. Le storie sono uomini e donne. Si tratta di raccontarli, di vederli e farli vedere. Farli vedere è cercare di mostrare come sono, al di là di come appaiono. Raccontarli è dirli, mantenendo un segreto. Credo che raccontare sia mantenere un segreto. Tutto ruota attorno a un non detto, che è il cuore del racconto, da cui partono le visioni, le immaginazioni, le proiezioni del lettore. E allora: la letteratura fa sì che, a proiettare immagini, sia il lettore; il cinema, è lui che proietta immagini sullo spettatore. Se non ho fatto altro che quello che ho fatto, se non me ne sono andato prima, è perché nell’adolescenza, fra i quattordici e i diciott’anni, l’età in cui ci si può sentire più stranieri, più estranei, meno adeguati, meno accettati, ho trovato la letteratura, Pavese e Hemingway, Tom Sawyer e Huckleberry Finn, Goethe e Márquez, La linea d’ombra e Il grande Meaulnes, Puskin e Kafka, Cosimo Piovasco di Rondò e Franz Tunda, Shakespeare e Cervantes. Ho constatato che la letteratura è menzogna e parola, parola d’onore, artificio, a volte fuoco, e costruzione. È più am95

pia di qualunque possibile lettura. Non so se sia realtà virtuale, è realtà virtuosa, un’altra realtà che, non vera, dice il vero. La letteratura dice chi sei tu che leggi, più di quanto non dica chi è colui che scrive. È una lotta contro la morte ed è il modo di vincerla: uno si mette dentro, la vive e guadagna tempo, il suo tempo. Questo fa la letteratura: regala tempo. Fernand Braudel, uno dei massimi storici del secolo scorso, dà questa definizione di cultura: è il modo di crescere vivere amare sposarsi pensare credere ridere nutrirsi vestirsi comportarsi costruire case disegnare città, è saper stare di fronte all’eternità, non scambiare la vita per una corsa inquieta contro il tempo.

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Gli sguardi non sono forse radici? Al cinema, a teatro, a Pandora, nel West, con gli Omaticaya e Giulio Cesare, Capaldi, John Ford e Valerio Innocenti Gli Omaticaya appartengono al popolo Na’vi. Vivono su Pandora, in un villaggio che è un immenso albero in mezzo alla foresta, e sono una storia raccontata al cinema. Dopo un’ora di film, dopo tre mesi passati su quel pianeta, Jake Sully, il marine arrivato per distruggere, diventa Jacsully, il nuovo amico del popolo Na’vi: non sono più la stessa persona, e quelli non sono più i nemici. Avatar, la favola che James Cameron ha inventato per stupire e appassionare con gli effetti speciali, è piena di alberi, radici, memoria. È una sinfonia visiva sulla natura, con i semi dell’Albero delle Anime che fluttuano simili a meduse luminose, mentre la rete di energia avvolge le creature viventi. Niente di nuovo nella storia, molto di nuovo nel modo di raccontarla. A un certo punto, Jacsully, arrivato il momento dell’iniziazione, deve trovare il suo ikran. Gli ikran sono cavalcature volanti dotate di becchi, artigli e ali. Bisogna andare a cercarli sulle leggendarie Montagne Fluttuanti di Pandora. Il paesaggio è pura estasi: un incrocio fra René Magritte e Apocalypse Now, la Baia di Ha Long e Arnold Böcklin. In mezzo a questa visione, Jacsully si arrampica per raggiungere 97

la rupe dove si annidano gli ikran. La scelta fra ikran e cavaliere è reciproca. Come faccio a sapere chi di loro sceglie me?, chiede. Lo capisci, perché quello che ti sceglie è colui che ti attacca, risponde il capo pattuglia. Quando accade, la lotta comincia. Il cavaliere cerca di fare suo l’ikran. Rischia il fallimento e la morte. Per aiutare Jacsully, Neytiri, innamorata di lui, urla: ricorda tsa’heylu! Tsa’heylu è il legame. Il legame con gli altri, con l’altro, con l’animale, la pianta, l’aria... Gli animali su Pandora, anche le robuste zebre monocolori che sostituiscono i cavalli, sono dotati di lunghe appendici che scendono dal cranio e contengono dei fasci nervosi prensili. Le capigliature dei Na’vi e degli Avatar finiscono in una coda. All’estremità della coda si celano i terminali nervosi. Tsa’heylu si instaura quando, avvicinando la capigliatura all’appendice dell’animale, i rispettivi filamenti si cercano, si riconoscono, s’intrecciano. Questa è la mia immagine delle radici: qualcosa di mobile e prensile, un apparato ricettivo tenuto dietro le spalle, che portiamo davanti quando incontriamo un altro – persona, animale, cosa. Attraverso le radici, conosciamo, entriamo in comunicazione, ci mettiamo in comune. Questa è anche la mia immagine di visione, di sguardo. Nello sguardo e nelle visioni, in ciò che nasce appositamente per produrre manufatti che interessino la vista – cinema, teatro, arte –, a lungo ho messo le mie radici. È nello sguardo e nelle visioni che le mie radici si sono sviluppate, in ciò che appare impalpabile, aereo, ma è anch’esso 98

sostanza: puro nutrimento che dà sostanza all’essere. E le radici appartengono all’essere, più che all’esistere. La vista è aria, pulviscolo, distacco e approccio, gioco di luce, geometria. Nell’atto di vedere, in ciò che ho visto e vedo, ci sono io. Gli sguardi non sono, forse, filamenti di radici che mettiamo nelle cose? Sono stato uno spettatore militante, uno che pensava a ciò che vedeva e ci scriveva sopra. Andavo a teatro e al cinema come un inviato speciale in paesi stranieri. Da laggiù spedivo cronache per raccontare, a chi era rimasto a casa, che cosa accadeva altrove. Per vent’anni, dal 1989 al 2009, ho visto un film al giorno in sala, cinque-sei alla settimana, a seconda delle stagioni, per non parlare dei festival. E prima che cominciassi con questo ritmo, erano almeno un paio alla settimana. Per venticinque anni, dal 1979 al 2003, ho visto due-tre spettacoli teatrali ogni settimana, anche in questo caso senza tener conto dei festival in mezza Italia. E prima che cominciassi con questo ritmo, avevo l’abbonamento giovani a un paio di teatri. Per una quindicina d’anni, le due attività si sono sovrapposte. Inevitabile che io sia anche i film visti e gli spettacoli vissuti. Inevitabile che sia l’azione del vedere. Con il tempo, mi sono fatto l’idea che il teatro non sia il luogo della rappresentazione, non solo: è l’incontro con l’altro. È ciò che accade quando l’attore agisce in presenza dello spettatore, è ciò che lo spettatore ascolta e sente. Dove si trovano spettatore e attore – che in sé contiene teatro, ne è l’anagramma –, dove occupano lo stesso tempo e lo stesso spazio, lì si manifesta il teatro. 99

La prima volta che mi è capitato di sentire che cosa sia il teatro, che cosa accade quando accade il teatro, è stato mentre guardavo il primo lavoro che il giorno dopo avrei dovuto recensire. Avevo vent’anni. Era il Giulio Cesare di William Shakespeare con la regia di Maurizio Scaparro. Renzo Giovampietro interpretava Cesare; Luigi Diberti, Bruto; Pino Micol, Marco Antonio. La lettura del regista la restitui­va come una tragedia del potere incentrata su solitudine e finzione. C’erano una pedana circolare e dei praticabili lignei. Regnava il vuoto. Nessun arredo, nessun oggetto di scena, solo gli attori con le loro battute. Nudo il teatro, cruda la parola, ironica la recitazione. La vicenda seguiva il suo corso fino all’assassinio di Cesare. Quando veniva il momento delle orazioni funebri, arrivava il colpo di teatro, il colpo al cuore scoccato dal teatro. Bruto per difendersi e Marco Antonio per accusare pronunciavano i loro discorsi come fossero monologhi interiori, non rivolti alla folla, come se preparassero l’arringa da svolgere in pubblico. Una sorta di collaudo, di dietro le quinte. Non c’era folla, c’eri tu e c’era Antonio, con il suo attacco Amici, romani, concittadini, popol mio, prestatemi orecchio. Provava la parte, gli accorgimenti per persuadere il futuro pubblico, ma intanto, ora, lo faceva con te, lì a spiare, solo con te. Tu eri il suo specchio. Lo guardavi ed eri – insieme con lui – il teatro che accadeva. Non c’era spiegazione, non c’era racconto che reggesse: c’era magia, incanto. Il teatro dovrebbe dare la sensazione che l’acqua venga trasformata in vino, raccomandava Giorgio Albertazzi, uno dei grandi attori della scena italiana. Non è che l’acqua si trasformi veramente in vino. Se così fosse, sarebbe un miracolo, non teatro. Ma devi essere rapito a tal punto da credere di avere davvero bevuto vino. 100

È quello che accadde allora con Marco Antonio, che era proprio Marco Antonio, non Pino Micol, e lottava per il suo futuro e per il potere, e intanto chiedeva il mio consenso, la mia partecipazione: vado bene così?, faccio l’effetto giusto?, riesco a sedurre il popolo? C’era lui e c’ero io. Le parole diventavano liane, ci univano. Mi ha fatto sentire il teatro. Mi ha fatto sentire teatro. Non esiste di più. Il resto è spettacolo. Il cinema non ti fa sentire cinema, ti fa sentire storia, ti fa sentire a casa con una storia, in una storia. Tralasciando i cartoni animati, la prima volta per me è stata al Colosseo, ingresso con facciata bombata, via Madama Cristina angolo via Bidone, San Salvario, Torino, con mia madre; la seconda volta al Corso, anche il Corso aveva l’ingresso su un angolo, fra corso Vittorio e via Carlo Alberto, zona Centro, sempre Torino, con mio padre. Ero alla fine dell’infanzia. Proiettavano due western. All’italiana. Un Ringo con Giuliano Gemma e un Trinità con Bud Spencer e Terence Hill. Oggi il Colosseo è un teatro e il Corso non esiste più, al suo posto c’è una banca d’affari. La mia è stata l’ultima generazione a cui il western ha dato qualcosa. Ha dato il senso del cinema, quello dell’avventura e della scoperta. In più, a me, a diciassette anni, ha dato un bel voto a scuola. Giuseppe Capaldi era il nostro insegnante di greco, ed era il vicepreside del liceo. Era anche l’autore della grammatica e del libro di versioni su cui studiavamo, il Capaldi. Sembrava un incrocio fra un vecchio liberale del Risorgimento e un giocatore di pallacanestro, uno di quegli uomini nati con addosso l’età che hanno quando li incontri: quell’età hanno avuto in principio e sempre avranno, anche da morti. Non la puoi dire in numeri, solo definire con una frase vaga: l’età 101

matura di chi conosce il mondo, l’età dell’equilibrio, di chi aiuta la giovinezza a farsi solida umanità senza rinunciare alle speranze. Nella mia classe era il professore di un’unica materia, ma era il nostro professore, più degli altri: alto, dinoccolato, testa allungata, fronte come una piazza d’armi, pochi capelli, baffi curati, occhiali sulla punta del naso, le dita della destra ingiallite dalla nicotina. L’espressione austera, gli sguardi scaltri e sorridenti, gli occhi piccoli e chiari, il tono possente e la voce lenta, come i gesti, che si prendevano il tempo necessario prima di compiersi, di giungere alla fine: era l’autorevolezza fatta persona, capace di sorprendere e comprendere, oggetto di ammirazione e timore, quando percorreva ad ampie falcate i corridoi della scuola. Per noi l’Università è cominciata con lui. Inumidiva l’indice con la lingua e sfogliava un calepino nero in cui annotava i giudizi sugli studenti. Andava avanti e indietro con le pagine. Quando si fermava, sollevava gli occhi sulla classe, poi li volgeva al registro. Era il momento delle interrogazioni. Seconda liceo, un giovedì, terza ora, subito dopo l’intervallo. Chiama me. Sono in piedi, il libro delle versioni aperto fra le mani, sudate. Comincia a leggere, ordina Capaldi. Leggo la prima riga e mezzo, fino al punto, e traduco. La versione è intitolata Usi e costumi degli antichi. Non devo aver fatto nessun errore. C’è il verbo òida nella frase, che significa sapere. Come forma verbale, è un perfetto: il sapere è la conseguenza del vedere. Più o meno così. Capaldi chiede di òida. Non ricordo perfettamente, ma so 102

che devo rispondere qualcosa sulla forma verbale. Prendo tempo. Lui ci ha insegnato a prendere tempo. Credo di essere in confusione, di non sapere. Intanto, dopo la domanda, il professore si gira verso la classe e parla degli usi e dei costumi degli antichi. Chi sono gli antichi ai tempi dei greci?, chiede. I compagni tacciono e lui spiega. Un po’ lo ascolto, un po’ cerco di recuperare alla mente qualcosa di plausibile su òida. Più ci penso, meno riesco. Mi distraggo, seguo il discorso di Capaldi. Va avanti dieci, quindici minuti. Parla dell’epopea come genere letterario, delle narrazioni epiche ai tempi dei greci e ai tempi nostri. Le epopee sono racconti di chi non ha visto accadere quello che racconta, più o meno così il professore. Tutti pendono dalla sua voce. Ho chiuso il libro, lo tengo dietro la schiena. Ho perso il segno della pagina. Parla di frontiera americana, degli indiani e dei cowboy, dei nativi e dei coloni, di chi c’era prima e di chi è venuto dopo. Un po’ come ai tempi dei greci, dice, che sono venuti dopo e hanno colonizzato intere regioni. E qui s’infila nel cinema. Ciò che in tempi antichi faceva la penna, dice, nel nostro secolo, il Novecento, lo ha fatto la macchina da presa. È il cinema che ha svolto la funzione del cantare epico, e più di tutti è stato il genere western. Sorrido – vedi che vale la pena guardare la televisione, la sera? C’erano soltanto i tre canali Rai, allora. I film venivano trasmessi il lunedì su Rai Uno e il mercoledì su Rai Due, inseriti in cicli. Da qualche mese su Rai Due la programmazione era dedicata ai grandi maestri del western. La sera prima avevo visto Ombre rosse di John Ford con John Wayne. 103

Quello che conta di John Wayne sono la faccia – quando sta fermo con la sua maschera e osserva gli altri che si dannano, spiegano, cavalcano, attaccano, lui impassibile, poi parte con un pugno o un colpo di pistola, ma è il meno, il più è la faccia prima di agire – e la camminata. La camminata di John Wayne è una camminata con gli stivali, un dondolio cigolante di fatalità e maniera, che vale il film. Ci sono la sua faccia e la sua camminata in Ombre rosse, e poi la diligenza, gli apaches, il medico ubriacone, la prostituta, il giocatore d’azzardo, l’inseguimento, la stazione di posta e Ringo evaso di prigione per vendicare la morte del padre e del fratello. Capaldi parla, parla, proteso in avanti, il busto ripiegato sulla cattedra, ancora un po’ e finisce l’ora. Indipendentemente da come si conclude l’interrogazione – potrei anche protestare, perché non è stata una vera interrogazione, come può giudicarmi?, come può rifilarmi un voto?, ci vorrebbe un’altra domanda, almeno –, posso comunque raccontare agli amici alcune cose sull’epopea e sul cinema western. Nel preciso momento in cui sono più sprofondato dentro i miei pensieri, Capaldi smette di parlare. Sento il silenzio. Che cosa succede? Ha fatto una domanda, capisco. L’ha fatta alla classe. È ancora voltato verso i miei compagni e i miei compagni tacciono. Allora si appoggia allo schienale, impugna con la mano il bracciolo della sedia e si rivolge a me. Per esempio, m’investe la sua voce gutturale, qual è il film che illustra meglio l’epopea del West? Appena mi ha guardato, ho riportato l’antologia davanti al petto, cercando la pagina della versione. Sto sfogliando a vanvera, mentre il professore mi fa la domanda. Non capisco bene: capisco film, capisco epopea e capisco West, ma non li metto insieme. Ci vuole un attimo, il tempo di 104

deglutire, far tornare la saliva in bocca, diradare la nebbia nel cervello. Incrocio il suo sguardo. Dentro di me, gli do del tu e chiedo: ma vuoi che risponda?, devo rispondere io?, sul West? Capaldi aspetta immobile, baffi e occhiali che mi puntano, la giacca stazzonata, la camicia bianca, la cravatta sottile, l’aria spavalda. Alzo le spalle incredulo. Sta succedendo a me: vuole proprio saperlo. L’ho visto ieri sera, dico. Bene, qual è?, tuona lui. Io so per aver visto: vedi che c’entra òida. Sono perché ho visto, penso adesso. Allora non pensavo, mi limitavo a sorridere. Sorrido e dico: Ombre rosse. Chi è il regista, il cantore di questa epopea?, insiste, come se mi chiedesse di Tucidide. John Ford, rispondo. Bravo, otto, vai pure. Prende la penna e segna il voto sul registro. Schizzo al mio posto, secondo banco fila delle finestre. Nessuno mai, dopo un’interrogazione, è filato a posto più svelto di me quella volta. Non ho mai cambiato idea sul western e su John Ford, Jack come lo chiamavano, Sean Aloysius O’Feeney come risulta dall’atto di nascita, figlio di un proprietario di saloon, ultimo di tredici fratelli, che nel cinema ha cominciato a lavorare nel 1914, uno che strappava le pagine delle sceneggiature per mettersi in pari con i giorni di lavorazione. Chi era, lo dicono i suoi film e questo aneddoto raccontato da Joseph L. Mankiewicz, il regista di Cleopatra e Gli inso105

spettabili, premio Oscar per Lettera a tre mogli e Eva contro Eva. Manckiewicz, all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, nel periodo del maccartismo, il periodo della paura rossa, quando i liberal erano sospettati di essere comunisti, ed era facile venire accusati di attività antiamericane, era presidente dell’Associazione registi. Una parte dell’associazione, guidata da Cecil B. De Mille, altro mostro sacro di Hollywood, I dieci comandamenti e Il più grande spettacolo del mondo, uno dei fondatori del cinema, voleva obbligare gli iscritti a un giuramento di fedeltà. Manckiewicz era contrario e cominciarono a girare voci che fosse un rosso. In quei tempi un’insinuazione equivaleva a un fatto provato, e la sua carriera era in pericolo. Venne indetta una riunione a cui parteciparono tutti gli iscritti, come non succedeva da anni. Per quattro ore la fazione di De Mille attaccò e pretese il giuramento: chi si opponeva non era un vero americano e non aveva diritto di lavorare. Durante l’assemblea tutti si chiedevano che cosa pensasse John Ford, considerato il Grande Vecchio dell’associazione, la figura più influente. Se ne stava seduto vicino al corridoio con le scarpe da ginnastica e un berretto da baseball in testa, un po’ stravaccato, e taceva. Dopo l’ultimo intervento di De Mille, che pretendeva la testa di chi non si allineava, era sceso un silenzio imbarazzato. Nessuno si muoveva. Allora John Ford si tolse il cappello e alzò la mano. Bisognava identificarsi per lo stenografo, che compilava il verbale. Ford, in piedi nel corridoio, disse: mi chiamo John Ford e faccio western. Elogiò i film di De Mille e De Mille come regista. Ma tu non mi piaci come persona, gli disse in faccia, e non mi piace quello che hai detto stasera, 106

suggerisco di dare la fiducia a Joe e andiamo tutti a dormire. Così è stato. Grazie a quelli come lui, a quelli che mi chiamo John Ford e faccio western, quando siedo al cinema o in un teatro, mi sembra di essere in uno dei posti più belli del mondo. Provo un piacere che non ha eguali. Su quella poltrona. In quella penombra che si accosta al buio. Mentre il brusio del pubblico si acquieta. E tutto il resto tace, tacciono i pensieri, gli affanni, tace il quotidiano, tace l’io che parla sempre in me e comincia l’altro, comincia l’avventura. È come se fossi nato per ascoltare le storie degli uomini, penso a volte, per accoglierle. Mi piacerebbe fosse vero e che, veramente, non occorresse altro. Non occorre altro, quando entri al cinema. Entri al cinema e, una volta dentro, il cinema entra in te, fa cuccia in te, piazza radici, e tu fai cuccia in lui, piazzi radici. E mentre lui ti abita, tu lo abiti, ne fai una stanza tua. E stanza dopo stanza ti costruisci una casa, una reggia di casa. Come ha saputo fare il mio amico Innocenti, che ogni tanto mi invita. Valerio Innocenti ha una casa fatta di cinema. Di tanti film. Tutti quelli che ha amato. L’ha tirata su da solo nel tempo libero, come un manovale della visione, in provincia di Biella. Ogni film, per lui, è una stanza di casa sua. Ha moltissime stanze da letto e moltissimi bagni. È una casa che, quando varchi la soglia, non ha mai fine, non è mai vuota. Il tempo – che pure sembra scorrervi – non ha etichette, non è prigioniero del presente, né del passato, né del futuro: infinito. Il tempo è all’infinito nella sua casa, dove i film sono lunghi corridoi e saloni. Shining, per esempio, è un lungo corridoio. 2001 Odissea 107

nello spazio è un lungo corridoio con anticamera annessa. Film Blu Film Bianco Film Rosso sono tre saloni uno in fila all’altro. C’era una volta in America è un salone e una fumeria, Orlando un salone delle feste, Moulin Rouge una festa di saloni, La dolce vita una sala da ballo, Good Night and Good Luck un ballo. Acque del Sud, invece, è un bagno retrò, Betty Blue una stanza da letto in riva al mare. Anche Jules e Jim è una stanza da letto e L’Atalante è un bagno, La ronde una stanza da letto e Un uomo da marciapiede un bagno, Il grande sonno una stanza da letto, Il raggio verde un bagno. Fitzcarraldo una stanza da letto, ma vista al mattino appena svegli, mentre Full metal jacket è una stanza da letto durante un incubo. Paris, Texas un bagno senza doccia e Brazil un portico. Il cacciatore è un garage, Fanny e Alexander una camera per bimbi, L’attimo fuggente uno studio per ragazzi, Stand by me uno studio per adulti. Smoke è un pergolato. La 25esima ora è l’angolo del bar, I soliti sospetti l’angolo del biliardo. 21 grammi è una camera dei giochi, Dogville il guardaroba, Soldato Blu una lavanderia dove i panni non diventano puliti. Amici miei è una sala da pranzo all’ora di colazione dopo una bisboccia notturna. Il pranzo di Babette è una cucina, Il grande freddo un cucinino, Fuori orario un salotto nel caos, Le voyage dans la Lune un solaio, Blade runner una balconata, Underground una cantina. Million Dollar Baby è una palestra per lo spirito, Lontano da dio e dagli uomini un bovindo, Manhattan un terrazzo dove rilassarsi, Casablanca è tutto ciò che desideri sia. Notorious e Gli uccelli sono scale a chiocciola, Nickelodeon un piccolo ingresso démodé, carta da parati gialla, penombra, pavimento in legno consumato, riccioli di polvere negli angoli. L’esercito delle 12 scimmie è un trompe-l’oeil. La febbre dell’oro è la camera dei segreti. Arca russa è una stanza progettata da 108

Piranesi, istanti che si misurano in centimetri capaci di contenere tre secoli, è una visita alla storia e alla bellezza. Un sogno lungo un giorno, infine, è una meravigliosa notte di luglio, artificiale. Nella valle di Elah è un dolore, la camera del dolore di mamma e papà. Il cavaliere della valle solitaria è una porta, Brivido caldo è un andare via. Quando Valerio Innocenti esce, inserisce l’allarme che si è fatto sceneggiare su misura: Il silenzio degli... Nessuno ruba in casa sua.

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Le radici sono il luogo dell’incontro A Tokyo, Kyoto, Kagoshima, Chiran, con Jun, Taki, la sorella di Taki, Aya, Federico, Mai Kubo, Tomokichi-san, Kuzuhara Ryo, senza sapere che sarebbe arrivata la grande onda Una sera d’inverno una donna rincasa da sola. Sembra un fagotto che cammina. Non alta, un po’ curva, procede senza fretta, come se avesse da poco imparato a camminare. Ha sessant’anni. L’ho osservata al Ginkaku-ji, il Tempio d’Argento. È stata l’ultima a uscire, dopo aver fatto le sue cerimonie e le sue offerte con gesti deferenti. Controllavo il cartellone su cui, all’ingresso, è disegnata la mappa del tempio, con il parco, gli edifici, i sentieri. Le scritte sono in carattere kanji: pennellate di scrittura, onde di scrittura, sensazioni e immagini, non parole. Non c’era più nessuno. Sceso il buio, si sono accesi i lampioni e lei è uscita. Il bavero rialzato, il cappuccio in testa, lo zaino sulle spalle, ero uno sconosciuto, uno straniero, per quel che si poteva vedere, e lei ha cominciato con i convenevoli. Borbottando qualcosa di melodioso, s’inchinava con tutto il corpo, quattro cinque volte, infine si è incamminata. Mi è venuto naturale seguirla. Le piccole mani sul ventre sono in posizione compita. Sembrano un ornamento del vestito, ma non stanno mai ferme, si muovono indaffarate come per dar ordine ai suoni che 110

battono in qualche parte del corpo, irraggiungibile. Cammina pochi passi avanti a me. Ogni tanto mi avvicino, ogni tanto rallento. L’ombra creata dai lampioni sopravvanza la sua figura, che ora è piuttosto infantile. A Kyoto nevica. Da un paio d’ore scende a larghe falde, lenta e consistente. La parola falde mi fa venire in mente le montagne, le falde del Kilimangiaro, penso a Hemingway, al suo racconto La breve vita felice di Francis Macomber e all’altro in cui un uomo con la gamba in cancrena attende un aereo che lo porti in salvo, alle falde del Kilimangiaro, e penso a I Watussi, la canzone con l’inizio squillante: alle falde del Kilimangiaro, paraponziponzipò. Penso alle falde acquifere e alle falde del soprabito, alle falde del cappello. Solo in ultimo penso alla neve come questa, con fiocchi che sono carrozze, aquiloni, qualcosa di placido e sorridente sulla strada che, dal Ginkaku-ji, mi conduce all’appuntamento. Sono in ritardo. Taki mi aspettava alle quattro e mezzo. Sono molto in ritardo. Ma nevica, mi dico, e ho telefonato a Jun, perché avvertisse la signora Taki – tutti la chiamano così, ma il suo nome è un altro e nessuno sembra conoscerlo. Jun mi ha spiegato che, ogni tanto, Taki cambia nome. Un tempo in Giappone era una consuetudine diffusa. Si cambiava nome nel corso della vita, a seconda di dove si era arrivati, di ciò che si faceva, delle nuove fasi dell’esistenza. Anche in punto di morte si poteva cambiare nome, perché non esiste un io soltanto, una sola personalità. Forse avrei dovuto cambiare nome un paio di volte, ho pensato. Ne ho dentro alcuni che, da anni, puntualmente, si fanno vivi, compiono azioni, dicono, scrivono, e poi si risie111

dono in fondo a me, laggiù dove non c’è luce e l’individualità rifluisce, si riaccorpa in magma. Nessuno di quei nomi è diventato persona e ha preso possesso di me. Forse succederà, forse no. Forse cambio nome, prima di morire, così non sono io che muoio. Pensavo a questo, mentre organizzavo il trasferimento da un ryokan vicino alla stazione a casa di Taki. Ma volevo vedere ancora alcune cose, volevo passeggiare, concedermi tempo. E poi c’era la neve, e non era semplice orientarsi con gli autobus, le fermate, i pagamenti in base al percorso. A differenza di Tokyo, a Kyoto sono poche le parole scritte in inglese. Soltanto ora, superato il fagocitante quartiere di Gion, sono approdato nella zona di Higashiyama, dopo aver camminato per mezza città, risalendo il Kamo-gawa, il fiume che costeggia la collina dei templi. Ho recuperato lo zaino all’ultimo. Nevica e sono accaldato. Mi fa male la gamba destra, ho fitte al ginocchio e all’anca, non sento più il collo. Sento la sciarpa intorno al collo, sento il colletto del pile, ma non sento il collo. Percepisco un indolenzimento bagnato, un rumore di ossicini nervetti muscoletti che scricchiolano insieme. Penso che non devo perdere contatto con la donna che mi fa strada – parla da sola, sottovoce. Che mi abbia fatto da guida, me ne accorgo quando arriviamo all’incrocio fra Shirakawa-dori e Imadegawa-dori. Aspettiamo che il semaforo diventi verde. Attraversiamo. La donna si volta e indica una vetrina illuminata. La sua piccola mano diventa una paletta, il gesto è perentorio e il suo corpo s’inchina. È una gentilezza laboriosa che mantiene le distanze. Non le avevo detto niente. L’ho incontrata venti minuti 112

fa. Ho preso un appunto su di lei, che qui ho già trascritto, ma non ci siamo parlati. A parte gli inchini, non credevo mi considerasse, e ora indica il luogo dove mi aspettano. Ogni volta che s’inchina lei, mi inchino io, solo con il capo. Ripeto, cercando di azzeccare la pronuncia, arigato gozaimas. Aggiungo un ta, come ho sentito da loro: arigato gozaimas-ta. Dovrebbe significare molte grazie per quello che avete fatto per me. Dietro la vetrina, una signora a braccia conserte scruta nel buio. Mi avvicino continuando a ringraziare la donna, che mi segue con la mano sempre a paletta. Quando mi vede, la signora che mi aspetta s’illumina più di tutta la vetrina e alza le mani, scuotendole. È la sorella di Taki. Apre la porta. Entro in un negozio di antiquariato con quadri alle pareti, mobili, librerie e, al fondo, un bancone e tre tavoli dove servono tè, caffè, dolci agli avventori e la cena agli ospiti delle camere all’ultimo piano. La sorella di Taki si ferma sulla porta, saluta la donna che mi ha accompagnato, poi quella se ne va e lei mi segue trillando. Mi preoccupo di non urtare sedie, ceramiche, lampade. Oltre allo zaino, in mano ho una piccola sacca. Sono stanco. Davanti al bancone mi aspetta Taki. Le braccia lungo il corpo, si impugna le mani. Parla in giapponese con il sorriso. Jun, accanto a lei, traduce – lavora in teatro, organizza spettacoli di danza contemporanea, è un amico di famiglia. Sarà lui, più tardi, a darmi informazioni sulla camera, sull’uso del bagno e del riscaldamento. Prendiamo accordi per la cena e la colazione del giorno dopo. Taki è un connubio di eleganza e malinconia. Vedo il suo viso pallido, delicatamente ombreggiato, e le mani scolpite. 113

La veste chiara rende trasparente la sua persona. Anche il suo sguardo è trasparente, mite. Sono venuto in Giappone per vedere l’altro più altro che c’è. Un colpo d’occhio. Non per capire, ma per sentire – sentire l’altro, il diverso, l’opposto. Toccare con mano la lontananza, che non è fuori, non si allunga solo nello spazio esterno, spesso è dentro di noi. Sono venuto a cercarla dentro di me in Giappone. Tutti raccontano che il Giappone è il luogo più lontano che esista. È l’assoluto altro, lo straniero perturbante. Scrivo un libro sulle radici e non posso concluderlo, penso, senza passare attraverso l’altro, dalle parti dell’altro. Raccontano che è impossibile comprendere questa terra. È un universo alieno, scioccante: preparati all’inverosimile. Se il giapponese è il massimo dello straniero, vado a trovarlo a casa sua, dove sono io lo straniero, il diverso, colui che scrive all’incontrario. In Giappone, noi siamo i mancini. Loro scrivono in colonna, dall’alto in basso e da destra a sinistra. Noi scriviamo come i granchi, dicono. Dice Fosco Maraini: il confronto mette le ali agli occhi. Il Giappone può suggerire qualcosa su noi stessi; proprio per le sue lontananze, diventa uno specchio. Riflette i lineamenti facendo il vuoto. Li ridispone intorno a te. Ti ridisegna, e così comincia a galleggiare e a prendere forma l’altro che sei. Sarà perché è Ginza, il quartiere più internazionale di ­Tokyo, ma non vedi alieni, vedi l’altra possibile parte di te. L’aspettativa di estraneità si ribalta in comprensibile vicinanza: sono stranieri, non estranei. La stranierità è reciproca. Si è stranieri almeno in due, accomunati dalla medesima condi114

zione: entrambi ospiti, colui che dà e colui che riceve ospitalità. Portiamo lo stesso nome. Ha diciotto milioni di abitanti, un ritmo non convulso e automobili discrete. Tokyo è silenziosa, parla con le immagini e il movimento. Entrare in un paese dalla capitale è il modo per intercettare il suo passaggio nella contemporaneità. Sono a cena a Shinjuku. Sulla mappa di Tokyo è il quartiere in alto a sinistra. Il locale dove mangio con Aya, Federico e Mai Kubo si trova talmente a sinistra che è fuori dalla cartina turistica. Bisogna fare ancora qualche chilometro, qualche fermata di metrò sulla Chuo-Line. È un posto shita-machi, dicono, una zona popolare non totalmente inglobata nell’urbanizzazione recente, rimangono evidenti le tracce della vecchia città. Un luogo per avventurosi, lo definisce Federico. Federico è un bresciano poco più che trentenne. Laureato a Venezia con una tesi su Okamoto Taro, un pittore nato un secolo fa, si è trasferito in Giappone cinque anni or sono per occuparsi di arte. Adesso lavora come import manager di prodotti alimentari. Mai Kubo è la sua fidanzata, napoletana più che nipponica. Il sorriso, gli occhi, il gesticolare delle mani e la pronuncia italiana sono partenopei. Si occupa di cioccolato e cioccolatini, sembra uscita da un uovo di Pasqua. Li ho fatti incontrare con Aya, che ho conosciuto davanti allo store della Apple a Ginza. È figlia di giapponesi, nata a Milano, dove ha frequentato le scuole e l’Università. A ventitré anni, nel 2005, è venuta a Tokyo. Parliamo e beviamo. Beviamo e mangiamo. Birra e sake caldo. Pollo cotto e crudo. Pesce cotto e crudo. Zuppe cotte 115

e crude. Piccoli assaggi in piccole scodelle, ciotole che sono una delizia per occhi e palato. Siamo gli unici avventori, ma valiamo per quaranta. In quaranta non starebbero nel ristorante di Tomokichi, che ha sei posti al bancone e tre tavoli bassi nella stanza che si apre sulla destra. Tomokichi ha vissuto otto anni a New York. Lavora, prepara, cuoce i suoi piatti davanti a noi. Porge le sue creazioni, serve da bere e ogni tanto interviene. Aya immagina le radici come qualcosa di fisso: ma le mie no, scuote la testa, le mie sono esili, volanti, sono fili. Ha un’aria timida ed elegante, mentre mangia. Penso che quasi tutti abbiano un luogo sulla Terra che li fa stare in equilibrio ed è lì che stanno piantati con le gambe, dice, invece le mie sono gracili, si stanno formando, non hanno un punto fisso. Ciascuno espone le proprie considerazioni in libertà. Birra e sake aiutano a essere liberi. Federico è addossato al muro: ai giapponesi, le radici, le hanno strappate gli americani, brontola, mi viene da piangere e non so perché, che me ne frega dei giapponesi, ne amo una ma che me ne frega degli altri, vivo in Giappone ma che me ne frega di loro. Tira su con il naso due volte di seguito. È commosso. Da qualche parte, sotto cinismo e spavalderia, germoglia la commozione. Le mie radici non le ho più, confessa, le radici cominciano a crescere dalla nascita, sono cose solo tue e puoi farne anche a meno, se vuoi; io le ho dimenticate per strada, penso a fiorire, non a nutrirmi. Tomokichi, che i miei compagni hanno preso a chiamare Tomokichi-san, a fine cena beve con noi. Parla di New York e del suo ritorno a Tokyo dopo tanto tempo. Dice che lui, le radici, le ha nei coltelli avuti in regalo dal nonno. Ne mostra 116

uno – non è un coltello, è una lama sinfonica e ipnotica. Con questo taglio e lavoro il pesce, dice, è l’eredità che si tramanda in famiglia. Mescoliamo giapponese, inglese, italiano e alcol. Può darsi intenda male ciò che dicono, ciò che a volte sottintendono. Mai Kubo mantiene vivi tre discorsi insieme, è una giocoliera della chiacchiera: dice che Federico esagera sempre; dice che l’italiano è una lingua più precisa del giapponese; dice che le radici sono quelle da cui proveniamo, e allora loro, che sono il Sol Levante, tutti loro, le radici le hanno nel sole. Ma quando arriverai a Kagoshima, in fondo al Kyushu, vedrai che lì hanno le radici nel vulcano che sovrasta la città, avverte. Indossa una maglia amaranto e un golfino nero. Il suo viso è una porcellana, boccuccia, nasino, occhietti e una slavina di capelli che scende da un fiocco piazzato sulla testa. La voce di Aya è la più sottile. Sento le mie radici in Italia, racconta, ma quando torno, le persone mi vedono giapponese; mi accorgo che sono percepita come straniera e perdo sicurezza; l’Italia dovrebbe essere la mia casa, ma non vengo riconosciuta; che ci faccio allora con le mie radici italiane?; me ne ricreo altre in Giappone?; ma se crescono qui, muoiono là?; io cerco di innaffiarle bene in entrambi i miei paesi, cerco di mantenere l’equilibrio, provo a diventare un ponte, ma forse sbaglio. Capisco che il Giappone non è Asia, il Giappone è il Giappone. Si trova alla fine dell’Oriente, non all’inizio. Oltre, c’è il mare e, alla fine del mare, l’Occidente. Sulla carta geografica, è l’unica terra che ha l’Occidente a destra. Mi chiedono perché voglio andare a sud, che senso ha?, rimani qui. Non voglio vedere solo Tokyo, Kyoto e Hiroshima, ri117

spondo. E poi a sud è nata la civiltà giapponese. Ed è lì che inizia la fioritura di pruni e ciliegi. Le radici senza i boccioli non hanno senso, dico. Vivere è produrre frutti – questo non lo dico, ma è il pensiero più forte. E infine, essendo inverno, non ho intenzione di andare a gelare a Sapporo. A Kagoshima il clima è più mite, e vado a Kagoshima. Nella mia mente, nella mia memoria, questa serata è un’immagine che dilegua a poco a poco. Fra i libri che ho portato in viaggio, ho due romanzi giapponesi. I giapponesi raccontano il dolore più atroce in modo lieve: è lancinante, ma non fanno capire che fa male. È come se appartenesse al volo. Volteggia nello spirito e nel corpo degli uomini, e nelle cose. Non c’è ridondanza, né compiacimento, lo dicono con bellezza. Il loro dolore è come la neve. È nevicato per tutta la notte. Al mattino, la città è un teatro d’ombre, ma bianco. Con Kyoto il Giappone comincia a farsi paese. A colazione mi accoglie Dvorak, la Sinfonia del Nuovo Mondo a tutto volume. Taki, di spalle, sembra dirigerla. È un 33 giri che suona – ogni tanto gracchia e aumenta il fascino della musica. Metà mattinata la passo in negozio, dove si è raccolta una piccola folla. C’è Taki, una ceramica di donna con un certo sussiego smarrito. Veste colori tenui, sciacquati dalla luce. Vive in una contrada dove nessun altro abita, dotata di una soffusa estraneità: non in quanto giapponese, ma in quanto Taki. Finita la Sinfonia del Nuovo Mondo, il giradischi rimane acceso e dall’impianto cd comincia Schumann. Lei continua a dirigere con impercettibili movimenti delle dita, senza smettere di controllare con gli occhi ciò che succede intorno. 118

La sorella di Taki parla anche per Taki. Serve il tè, fa la spola fra i tavoli. Si chiama Konoha, che significa foglia. Come una foglia si muove tra gli ospiti. Jun traduce per me. È un uomo giovane e secco, occhiali e una dentatura rimarchevole. Parla fitto con gli altri, poi mi scodella qualche frase in inglese. Ci sono due donne in kimono: una più giovane e grassottella, avvolta in una stoffa rosa con ricami bianchi; l’altra più anziana, un po’ curva, indossa un viola brillante con piccoli fiori blu e gialli. Lei la conosco, ma non lo so ancora. Seduto in un angolo, un ragazzo segue le conversazioni. Partecipa con l’ascolto, brilla per il silenzio. Me l’hanno presentato come un cugino di nome Hikaru, che significa, appunto, brillare. È magro, le scapole sembrano due alucce. Quando entra un cliente, lo accompagna volando fra i mobili. La sorella di Taki mi spiega che la signora in kimono viola è la persona che mi ha accompagnato da loro. È una vicina, sapeva che aspettavano uno straniero, immaginava che mi fossi perso. Ah sì, grazie, mi avventuro, arigato gozaimas-ta, e chino più volte il capo sorridendo. Tutti fanno altrettanto, con più naturalezza. Non dico che scrivo, dico che insegno arte, mi sento più tranquillo. Chiedo notizie su Kyoto e sul Sud. Mi rispondono precisi e gentili. M’informo sui loro giardini, quali siano i più amati in città e nel resto del Giappone. Parlano con molta pazienza, scandiscono i suoni. Ai loro occhi sembro dolorante e affaticato. In effetti, lo sono. Non fossi in viaggio, rimarrei a letto. Potrei cercare un luogo dove fanno massaggi. La donna in viola si avvicina seguita dall’amica, Jun traduce e, ogni tanto, la sorella di Taki commenta. Fra tutti, 119

mi spiegano che non posso trascurare i Giardini botanici di Kyoto e, a Okayama, il Koraku-en, proprio sotto il castello. Peccato non sia passato per Kanazawa, mi sono perso il Kenroku-en, il sestuplice giardino, questo significa il suo nome: di più belli non ce n’è, sembra. Dico loro di considerare i giardini giapponesi come dei racconti – mentre lo dico, mi accorgo di non credere io stesso alla mia affermazione. Aggiungo, ancor meno convinto: sono una raccolta di haiku da percorrere con occhi e piedi. Tacciono senza distogliere lo sguardo. Mi imbarazzo da solo. Nel silenzio che si è creato, tutti, nello stesso istante, sorseggiamo il tè che abbiamo davanti. Poi, la donna in viola dice che, se arrivo fino a Kagoshima, come ho spiegato, devo visitare il Sengan-en, lungo la baia, devo passare qualche ora in quel giardino creato tre secoli fa dalla famiglia Shimazu: è il regalo più bello che Kagoshima possa fare, sostiene. Si chiama Keiko, Murakami Keiko; l’amica in kimono rosa, Matsuo e non capisco il cognome. Un momento, ha detto Murakami. Murakami!, m’illumino. C’è uno scrittore giapponese molto amato in Italia che si chiama Murakami, dico. A parte Jun, nessuno dà segno di conoscerlo. Keiko racconta di avere avuto un antenato samurai, quando già i samurai erano stati soppressi, prima della guerra russo-giapponese, all’inizio del secolo scorso: forse intendevo quel Murakami lì. No, lo scrittore, ripeto. Cerco di spiegare che è vivo e, se fosse un samurai, sarebbe un samurai della scrittura. Rimane perplessa. Anche Matsuo e la sorella di Taki esitano. Jun non riesce a tradurre. Hikaru non segue più e Taki 120

continua a dirigere Schumann, se è ancora Schumann quello che suona. Salgo in camera, prendo il libro di Murakami, mostro la copertina e indico il nome. Keiko soffia: ah Murakami, e basta. Gli altri ciondolano il capo. Hikaru, che si è alzato in piedi per vedere, ciondola il capo più di tutti. Non ci capiamo perfettamente. Cioè, il nostro non capirsi è perfetto e fantasioso. Da questa perfezione e fantasia ascolto Keiko. Dice che a Sengan-en lavora Saika, la figlia di Ryo, un caro amico, Kuzuhara Ryo. Kuzuhara Saika è sua figlia e abita a Kagoshima. Se vado al giardino, posso chiedere di lei e conoscerla. Poi, visto che sono là, mi conviene prendere un pullman e andare a Chiran, dove vive il padre. Le altre donne fanno il coro. Sono un gruppo che canta a tre voci. Perché devo andare a Chiran?, chiedo incuriosito. La risposta la capisco benissimo. Perché sì, risponde Keiko. Rimango spiazzato: come?, è una battuta? In altre occasioni avrei scambiato la premura per inganno e l’asciuttezza per supponenza. Ma qui siamo in Giappone, non in Italia; qui sono loro, non sono io. Mi riprendo e decido: va bene, vado, come si chiama il posto? Chiran, dice Jun. E a Chiran vado a fare... – rivolto a lui, lascio in sospeso la frase. Ci sono le case dei samurai da vedere, spiega Keiko, sono sette, una accanto all’altra, e poi vai da Kuzuhara Ryo che ti toglie la fatica e ti rimette a posto. Kuzuhara Ryo è uno che, con le mani, rimette a posto ossa, muscoli e pensieri, pare. Mi rimette a posto collo spalle schiena gamba ginocchio testa, calcolo fiducioso. Kuzuhara Ryo, arrivo. 121

Ryo può significare imperatore. La sua pronuncia, in giapponese, è simile a drago. Sono venuto in un paese dove portano i cani e i gatti in passeggino o in braccio, riparati sotto il cappotto. Dove le ragazze sfidano il freddo con le gambe nude. Dove bisogna sfilarsi le scarpe di continuo: entri in un tempio, in un ryokan, in un ristorante, in una casa, e ti togli le scarpe, calzi un paio di ciabatte, e se vai in bagno sfili quelle e ne infili altre. Sono venuto in un paese dove i giardini sono pietre, non prato e l’essenziale spodesta il rigoglioso. Dove cultura e natura viaggiano insieme, una lavorata e ricreata dall’altra. Dove le persone vivono in più epoche contemporaneamente e il loro oggi è molteplici passati e alcuni possibili futuri. Dove modernità e tradizione, rigore e dolcezza, sobrietà e follia abitano lo stesso spazio, la medesima corrente. Sono venuto in un paese cresciuto nello sguardo, fatto di occhi e dettagli, dove la bellezza attiene all’armonia e l’eleganza è un’intima disposizione d’animo. Dove il vuoto vale quanto il pieno e il silenzio quanto il suono. Sono venuto in un paese che non conosce il pianterreno: l’affaccio sulla strada lo chiamano primo piano e il primo piano diventa secondo. Un paese dove il tempo non è un’opinione, ma è quell’ora lì, quel minuto lì, quel secondo, non è un’approssimazione, ma un dato certo. Un paese dove si succhia il brodo, facendo tirate sonore: la cosa non è scostumata, soffiarsi il naso in pubblico, sì. Per questo paese sono partito il giorno dopo essermi preso un raffreddore disumano. Ho prodotto una quantità di muco e catarro da cavallo, se i cavalli producono muco e catarro; tanto da consumare due confezioni di fazzoletti al giorno, senza contare salviette, tovagliolini e carta igienica. Ho pas122

sato dieci giorni a soffiarmi il naso, ovunque, per strada, nei locali, sui treni, sugli autobus, in metrò, come il peggior villano che abbia mai messo piede in Giappone. Loro facevano finta di niente e succhiavano il brodo. A Sengan-en, una calma visione di rocce, pietre, torrenti, bambù, musei e sentieri, pruni e ciliegi in fiore, e la baia davanti e – a un battito di ciglia – impettito, il Sakura-jima, il vulcano con il suo grigio pennacchio di fumo; al Sengan-en, Kuzuhara Saika, la figlia di Kuzuhara Ryo, mi chiede se parlo francese. Rispondo di sì. Avevo capito bene, esclama trionfale, Paris! Dopo due frasi in inglese, mi ha scambiato per parigino. O forse l’informazione è giunta da Kyoto. Dice che Parigi è la città dei suoi sogni. Anche dei miei, dico. Sapeva che sarei passato. Quando voglio andare da suo padre?, chiede. Domani. Allora lo avvisa. Mi aspetterà dopo pranzo. In Giappone mangiano presto. Ho fatto Tokyo, Nara, Kyoto, Okayama, Naoshima, Kurashiki, Hiroshima, Hakata, Kagoshima e arrivo a Chiran. Sul pullman – un sabato mattina di sole, con l’aria di primavera che si mangia l’inverno – sono tutti anziani. Salgono e scendono per un’ora e mezzo di viaggio. Hanno borse, bastoni, sacchetti, cappelli, mascherine. Chiran è due strade parallele, un corso d’acqua, un canale pieno di carpe, un vallone, un grazioso tempio buddista, le pendici di una collina, una cornice di boschi, una fila di negozi, un museo dedicato ai kamikaze della Seconda guerra mondiale, diecimila abitanti e un grosso edificio con l’insegna Tea World e, dentro, un amabile museo del tè e un pezzo d’Inghilterra, con bus rosso a due piani, Sherlock Holmes e la regina Elisabetta. Prima di pranzo visito i giardini dei sette samurai: ricorda123

no come la caducità esalti la bellezza. A volte si tratta solo di riempire gli occhi, accogliere visioni a cui non si è abituati, a cui è persino temerario abbandonarsi. Poco prima delle due, busso alla porta di Kuzuhara Ryo. La casa è al fondo della via dei samurai, bisogna attraversare una strada, superare il torrente, scendere gli scalini di un piccolo anfiteatro sulla sponda orientale e proseguire costeggiando un campo per un centinaio di metri. Mi apre una figura minuta, il collo e il volto protesi in avanti. Potrebbe essere una tartaruga. La faccia sembra una crêpe, la pelle è marmellata di ciliegia. È l’uomo che cerco. Vive solo, con un botolo di cane peloso. Sua figlia sembrava molto giovane, lui sembra molto vecchio sotto una scodella di capelli neri tagliati a caschetto, come i Beatles. Tolgo le scarpe in ingresso. Mi fa accomodare. Lui sa. Mi fido e mi distendo su un materassino coperto con un lenzuolo. Kuzuhara Ryo si inginocchia accanto a me. La camera è quindici metri quadrati, comprese due rientranze nel muro: in una è srotolata una carta con una scritta beneaugurante; nell’altra, su un mobiletto largo un palmo, si trovano il telefono, il bollitore e la televisione. Un tavolino basso, due sedili e una lampada completano l’arredamento. Il pavimento è di legno. Sopra la mia testa, nell’angolo del soffitto, si allarga una macchia scura di umidità. Kuzuhara Ryo mi parla in giapponese. Rispondo in italiano: ogni viaggio, a un certo punto, mette in campo la nostalgia della lingua. Non c’è imbarazzo, non ci sono remore, né incomprensioni, non c’è nulla, c’è lui che con le sue mani comincia a toccarmi, palpa, sfiora. Ho la sensazione che entri in me, collo, 124

spalle, fianchi, gamba, ginocchio, petto, gomiti, polsi. Sa e sente. Anch’io sento: il paesaggio del mio corpo, i torrenti del mio corpo e i giardini. Quello che sento, quando preme, sono i giardini del mio corpo, rocciosi e alberati. Ryo li fa fiorire. Sono supino, poi prono, poi di nuovo a faccia in su. Osservo le sue mani. Mi piacciono molto le mani. Sono fra le prime cose che guardo nelle persone, insieme a occhi e postura, al modo in cui uno si muove nell’aria. Ha mani piccole e dure. La pelle è chiazzata dal tempo. Gli anni si ripiegano su di lui, lo inghiottono nella vecchiaia, che è una foresta cupa, assalita da edera e muschio, dove sembra non esserci aria. Ha nove dita soltanto, nove e mezzo, manca una falange dell’anulare destro. Ho l’impressione sia mancino. Penso alle radici come al tocco delle sue mani. Sento le sue mani mettere radici in me. Mi figuro che nelle mani abbia radici: mi fanno rifiorire, sbocciare. Se quelli che ho in questo momento sono pensieri, e non sogni, non sentimenti, penso le radici come tatto. Quando aprirò gli occhi, devo ricordarmi di vedere le radici come luogo dell’incontro, il vero luogo dove le persone s’incontrano. Sono come le viscere. Quando ormai mi percepisco liquido e non mi accorgo più di avere collo spalle gambe e il resto, Ryo tira fuori un oggetto, una specie di iPad iPod iPam. Pigia i tasti e i suoi kanji diventano brevi frasi in inglese. Me le fa leggere. Parla, digita e comunica. Io leggo, traduco e annuisco. Puoi andare adesso, dice. Mi verrebbe da chiedere: dove? È come se mi rispondesse. Sei pronto per vedere dove comincia il Giappone, il luogo che regge il peso delle nostre isole. Il Giappone poggia su Sata – il Kami che porta in testa il mondo, Capo Sata, l’estremo Meridione. 125

Dovrei raggiungere Yamakawa, prendere il traghetto per Nejime, un’ora di traversata. Di lì, scendere venti chilometri e affacciarmi su una scogliera a strapiombo, dove vento e sale avvolgono la maestosità di Capo Sata. Non posso. Domani torno a Tokyo. Quindici giorni più tardi, un violento terremoto avrebbe colpito il Giappone e sulle coste nord orientali dell’Honshu sarebbe arrivata l’onda che pialla e infanga, la grande onda falciatrice, e il nucleare avrebbe mostrato la sua faccia sporca, e la terra per settimane e settimane avrebbe continuato a tremare. Il Giappone è un incantamento sospeso nei tempi – non in uno solo, in una pluralità di tempi. È lieve, affonda poco nel terreno, per questo resiste ai terremoti più devastanti. Come nessun altro. Non si può spiegare. Con tutte le sue diversità e tradizioni, vizi e virtù, segue la sua via dentro la modernità mostrando come l’io non sia che un veniale incidente, un noi che ha perduto qualcosa. Gli incantamenti bisogna provarli, sapendo che poi ne esci, perché hai un biglietto di ritorno, perché qualcuno a casa ti aspetta, perché hai un libro da finire. Il ragazzo seduto accanto a me sull’aereo che mi riporta in Italia è ordinato e composto. Ha il ciuffo, gli occhiali grandi, il pullover grigio a losanghe e la camicia bianca abbottonata sul pomo d’Adamo. Con le mani più vecchie della sua età regge un libro, Fondamenta degli incurabili di Iosif Brodskij tradotto in giapponese. Nel suo viaggio italiano andrà a Venezia, dove potrà di126

menticare se stesso nella scia di una città che ha smesso di farsi vedere, come scrive il poeta russo. Ho anch’io un libro. Non l’ho letto, solo sfogliato. È sgualcito per tutte le volte che l’ho estratto e infilato nello zaino, per il viaggio che gli ho fatto fare. La copertina è azzurra, con un profilo di donna in kimono nel metrò. Si intitola Autostop con Buddha. Viaggio attraverso il Giappone. Lo ha scritto un canadese di nome Will Ferguson. Capo Sata è dove finisce il Giappone, così attacca. Dove comincia, suggerisce Kuzuhara Ryo. Dove comincia il cammino. Le radici sono il cammino nella storia, penso.

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Se insegui radici trovi persone Fino a Montréal, Amsterdam, New York, Madrid, con un coro di ventuno io e con Kim Mäkelä, Ryan Bingham, Gerrit van Honthorst, Vermeer, Andrew Wyet, Bill Viola, la Maddalena Ciascuno di noi, a quante minoranze appartiene? A una moltitudine, credo. Una sola moltitudine di minoranze. Nessuno è maggioranza sempre, quasi mai. E quando accade, è comunque una maggioranza relativa. Passiamo il tempo in minoranza, in molte minoranze, continue minoranze concentriche. Di questo bisogna tenere conto. Di questo tengono conto le radici che abbiamo e che siamo, che sanno più di noi. Sono dei minatori, le radici – come mio nonno, in principio, e il bisnonno. Scavano fuori e dentro di noi. Procurano il sostentamento. Fanno stare in piedi. Danno un senso, una direzione: verso l’altro. Volevo scrivere alto, verso il cielo, su; ho scritto altro. La t e la r sulla tastiera sono vicine, si sono battute insieme e hanno lasciato traccia entrambe. Il senso, la direzione che le radici ci danno è, contemporaneamente, verso l’alto e verso l’altro. Parlando di radici, è verso l’altro che devi muoverti, inseguendole. Se insegui radici, trovi persone, più persone che terre o territori. Girando con la domanda che cosa ti viene in mente se dico radici, ho ricevuto risposte come quella dei minatori: le radici sono minatori che scavano. 128

Ho annotato in foglietti sparsi le risposte di amici, conoscenti, compagni di treno. Non si escludono a vicenda, coesistono. Sono varianti che cantano insieme. Io?, radici?, penso alle radici amare che i miei facevano bollite, penso a casa, in Val di Non, sarebbero la Scorzonera, amarognola ma ricca di vitamina C, calcio e fosforo, mi vengono in mente cibo e casa, ma casa per me vuol dire il bosco piantato da mio padre. Io so dove c’è un bosco che balla, vicino a Ivrea, tu corri e il terreno va su e giù, come se le piante rimbalzassero, hanno radici superficiali e molto elastiche, le radici superficiali possono far cadere l’albero e fare inciampare i passanti. Io, le radici, mi viene in mente la mia storia, i genitori, i nonni, arriviamo da lì anche quando le famiglie non funzionano, non buttiamo via le storie. Io penso ai libri fondamentali della mia vita, e potrei dirlo anche delle musiche, di certi concerti, penso alle pagine e ai brani che sono stati fondamentali per me, si sono installati nella mia vita, hanno messo radici e lo hanno fatto così profondamente che non so più dire quando li ho letti o ascoltati per la prima volta, li sento in me da sempre. Io dico pianoforte, se tu dici radici, i suoi tasti bianchi e neri sono le radici della mia musica, fanno scaturire il suono; se suonassi il violino, direi le corde, però anche suonando il pianoforte, adesso che ci penso, dovrei dire le corde, visualizzo i tasti, ma sono le corde colpite dai martelletti a dare i suoni. Io so che sono una cosa che c’è, ma non si vede, penso al giardino del mio condominio, eravamo tanti bambini a giocare, era un giardino chiuso da un’inferriata, con aiuole, alberi e una siepe di bacche arancioni che chiamavamo pomodorini, 129

giocavamo al mercato, intorno, non dentro, nessuno poteva entrare per non rovinarlo. Io penso al fare, le radici ti fanno fare, se te le danno i genitori o il luogo dove sei nato, non lo so, so che le radici ti fanno fare le cose, poi, come farle, dipende da te. Io l’altro giorno ho visto due video di arte contemporanea, una video-intervista ad alcune persone e una ripresa con tavoli, sedie, bicchieri, bottiglie in mezzo al ghiaccio e dei colpi di fucile che spazzavano tutto, i video erano girati in Islanda, la vastità islandese incute soggezione e un senso di soffocamento, e io mi chiedevo: dove hanno le radici gli islandesi?, nell’orizzonte?, in quello che sembra uno spazio infinito e infinito non è?, le hanno nel ghiaccio?, e se il ghiaccio si scioglie?, le hanno nella solitudine?, nel silenzio? Io sento un vuoto, un silenzio, dici radici e dentro di me suona il silenzio, non le ho mai avute, sono nato a Milano da genitori napoletani negli anni Cinquanta, la gente mi faceva sentire sradicato, spaesato, persino i compagni di classe a scuola, se penso alle radici, sento un buco. Io faccio quello che fai tu di solito, le scompongo, scompongo la parola radici: ra di ci, maiuscolo, Ra di ci è un’invocazione al Dio Sole, perché si manifesti e parli a noi, o Ra, vocativo, o Ra, padre dei Faraoni, nonché Zeus e Giove, dicci qualcosa, di’ una cosa, parlaci! Io mi vedo davanti i coralli, sono sarda, figlia dell’insularità, il nostro cordone ombelicale è con una realtà liquida, le nostre radici si sviluppano come coralli, con una particolare paura, quella del nemico che viene dal mare. Io credo ai cuochi, non agli chef, posso rispondere così?, credo alle tradizioni, non alle mode, credo alle novità e alle meraviglie, non alle innovazioni e alle eccellenze, in quello in cui credo ancora, dopo tutti questi anni, ho le mie radici. 130

Io vedo che le radici costituiscono un legame, fanno appartenere, ma a che cosa?, al proprio tempo o alla propria terra? Io penso alla memoria, radici uguale memoria, e non sono ebreo, mio padre è ebreo, figlio di una ebrea, ma laico, mia madre è una gentile, ma so che le radici esistono nella memoria e nel Libro. Io penso alle mie radici complesse, appartengo alla diaspora, ho origini ebree e arabe, mia nonna veniva da una famiglia di mercanti, e i mercanti seguono gli affari e vivono di scambi. Io ripeto quello che dicono i maestri di arti marziali: per essere radicati, bisogna avere radici ma pensare di non averle, facendo arti marziali capisci che cosa significa, metti radici e togli radici continuamente, un alternarsi di pieno e di vuoto. Io credo che le radici servano per vedere il mondo, non per guardare il proprio ombelico, sono il posto dove hai cominciato a parlare, sono la famiglia, più ti allontani dalle radici, più loro si consolidano, ti sembra di perderle, ma non è vero, restare fermi indebolisce, è come sposarsi fra parenti. Io non rispondo, dipende da troppi fattori, dal momento, dallo stato d’animo, da cosa intendi per radici, in fondo, le nostre parole sono radici, i nostri propositi, i nostri progetti, i nostri prodotti sono radici. Io... – temporeggia, sospira. Per lei le radici sono un sospiro. Che cosa ti viene in mente se dico radici?, ripeto. Vuoi una parola sola?, chiede. Taccio. Qualcosa di lontano, riprende, mi vengono in mente le storie delle madri e i luoghi da cui sono partiti i padri, i padri dei padri, i padri dei padri dei padri, su su fino a che non smetti di ricordare, allora non ci sono più radici. Io... – sembra una vedova che svende il proprio dolore, il volto impietrito in una smorfia severa, una sterile radice di 131

dolore che spiega di avere nei figli le proprie radici, hanno quindici e vent’anni e sono tutto ciò che le rimane, spiega, è separata dal marito, orfana di padre, madre anaffettiva, per questo i figli sono le sue radici, spiega, le radici spingono in alto, no?, i figli sono la sua spinta. Io... – mi aspetta sul pontile, pallida la luna all’orizzonte e, a Occidente, le ultime impronte rossastre del sole che marca il cielo. È robusto e giovanile. Devo fare da solo, non mi aiuta. Scendendo dalla barca, rischio di cadere in acqua. Non sono pratico e sono in imbarazzo. Lego la cima a un corrimano. Esito, ho il tono di voce che si scusa da solo: tu sei... Io sono Kim Mäkelä e tu sei in ritardo. Di venti minuti, in effetti. Il suo atteggiamento mi fa pensare che non si sia mai visto un ritardo simile a queste latitudini. Si avvia lungo il pontile: vieni pure, concede. La sua voce è una stonatura, una pernacchia da trombetta di Carnevale, non ti aspetti possa uscire da un fisico come il suo. Sono venuto a nord di Tampere, perché avevo un appuntamento con Kim Mäkelä. Devi andare a scoprire la sauna finlandese, quella vera, mi avevano convinto. Se non conosci Kim Mäkelä, non conosci i finlandesi e non conosci la sauna. Quando ha digerito il mio ritardo, dopo avermi lasciato a bagnomaria per un tempo che a me è sembrato un’eternità, Kim Mäkelä mi dice che i finlandesi hanno le radici nella sauna, il carattere è forgiato dai carboni ardenti, dal sudore e dal fuoco, dal respiro di fuoco, dice, e poi la neve. Mentre mi dice della neve, mi accompagna fuori, nudo, senza asciugamano. Sono le dieci di sera. Ulula felice come un ragazzino. E mi fionda nella neve, giù a far tana. Non so dire la sensazione che ho provato, come una sventagliata di bacchette sul 132

corpo, credo, dai piedi ai capelli, soprattutto sul collo, una scudisciata sul collo, e anche dentro, fino al cervello. Quando nel mio personale anglogesticolio gli dico che soffro di sinusite, sempre che riesca a capire, Kim Mäkelä mi conforta: bene, fa bene, la nostra sauna fa bene, è la migliore, rende migliori... E questo è il suo aiuto. Provo una contemporanea espansione e riduzione fisica, un effetto a fisarmonica su ossa, muscoli, sangue, pelle. Le impronte che i finlandesi lasciano nella neve buttandosi con il corpo sono le loro radici. Abbiamo ripetuto un paio di volte il tuffo: dentro e fuori, sauna e neve. Così facendo, ho lasciato un po’ di mie radici a nord di Tampere, l’ombra delle mie radici, l’eco. Quest’opera di purificazione del corpo e dello spirito rafforza il legame con la terra, dice Kim Mäkelä, consolida un patto di appartenenza, altrimenti non ci sarebbe nessun motivo per rimanere in Finlandia, ci sono tanti posti migliori, più godibili, dice. Puoi fare il giro del mondo con le radici, con la storia delle radici, le storie. Che sono aeree. Sono aerei. Mezzi di trasporto che ti fanno cambiare stato, aggirano le frontiere. Non arrivano fin quassù le frontiere. Hai l’illusione dello spazio infinito. Chi ha le proprie radici in cielo, non poteva che creare un’auto fuori dall’ordinario, declamava la pagina pubblicitaria con cui la Saab ha lanciato la nuova 9-5. Se è vero, è l’automobile ideale per Ryan Bingham. Conoscerlo, significa volare con lui. Lo dice all’inizio del film. Il film è Tra le nuvole di Jason Reitman, tratto da un romanzo di Walter Kirn, Up in the Air. Ryan Bingham ha la faccia e il portamento di George Cloo­ ney, i suoi sguardi e il suo sorriso. Viene dal Wisconsin. Ri133

ceve la posta a un indirizzo di Omaha, in Nebraska. Fa il tagliatore di teste per conto di aziende in crisi. Si sposta di continuo. È in viaggio più di trecento giorni l’anno, aerei, aeroporti, camere d’albergo. Viaggia e licenzia. Tiene conferenze motivazionali in cui insegna a non impegnarsi. Quanto è pesante la vostra vita?, chiede. Immaginate uno zaino sulle spalle, riempitelo con tutte le cose che avete, piccole e grandi, oggetti, vestiti, fotografie, e poi i mobili, le auto, la casa, e poi le persone, gli amici, i parenti, pigiate tutto dentro lo zaino, e ora provate a camminare... Ci appesantiamo così tanto da non riuscire a muoverci, conclude, solo il movimento è vita. Colleziona punti mille miglia dell’American Airlines. Vuole arrivare a dieci milioni di miglia. Sarebbe la settima persona al mondo. C’è stata molta più gente sulla Luna. Ricevi lo status executive, conosci il capo pilota e il tuo nome viene scritto sulla fiancata di un aereo, si vanta. Ah, ecco, e poi? Poi ci sarebbe la vita: la sua si può chiamare vita? Dopo aver sbattuto il muso e quello che resta delle illusioni, contro Alex, una donna in carriera, viaggiatrice come lui, che però una vita, in un posto, a Chicago, ce l’ha, una casa, una famiglia, e considera Ryan solo una parentesi piacevole, e lo ama per come si presenta, come una parentesi appunto, e gioca come gioca lui; ecco, mentre Ryan Bingham se ne torna a Omaha dopo aver sbattuto il muso, a metà volo una hostess annuncia: un passeggero ha raggiunto dieci milioni di miglia. Oh no, si lascia sfuggire lui. Gli offrono un calice di champagne. Si presenta il capopilota: lei è il più giovane arrivato a dieci milioni, non so dove abbia trovato il tempo. Neanch’io, replica Ryan. L’uomo in divisa gli consegna la tessera: benvenuto nel nostro piccolo club, allora, lei di dov’è? 134

Ryan Bingham, con il naturale talento di Clooney, lascia andare gli occhi quel tanto che basta per rendere lo spaesamento e la futilità del tutto, si gira fra le mani la tessera e dice: sono di qui. È in volo, fra le nuvole. Quella luce appena più luminosa delle altre è l’ala del suo aereo che passa in cielo. Alzo lo sguardo per vederlo. So che non può essere, perché tutto questo accade in una sala cinematografica e nella mia mente, non altrove, ma guardo lo stesso. Scrivo queste pagine a Venezia, in una fredda giornata d’inverno. Il cielo è un asciugamano fradicio. Venezia è ritornare all’acqua con cui ho cominciato, l’acqua del torrente, l’acqua di Rueglio, l’acqua di mio padre che voleva nuotare. La prima impressione è che sia una città con le radici nell’acqua, i canali, la laguna intorno... È così in parte, la prima parte dello sguardo, che vede l’acqua ristare, sciacquettare, ballare lenta o agitata sempre sulla medesima mattonella, e non sembra neppure che evapori e salga in cielo. Cielo e canali sono collegati, così come un braccio asfaltato e ferrato collega la terraferma al Tronchetto e a Santa Lucia. Ma dopo aver soggiornato giorni e giorni, arriva un momento in cui i campanili, gli edifici, le fondamenta, i passi, le voci svelano come la terraferma di Venezia sia il cielo, e lì in alto siano sistemate le sue radici, che un tempo raggiungevano gran parte del mondo conosciuto, i porti del Levante, Istanbul, la Cina. Venezia prende la mano e la fantasia. Le radici prendono coraggio e si oppongono. Si oppongono all’identità, parola difficile e concetto pericoloso come una tempesta. Tra i miei appunti ritrovo questo. 135

Bisogna dirla a voce alta, la parola identità, cantarla: identità, dunque. Dentro c’è l’idem, il medesimo, il doppio, l’uguale; ci sono i denti, che battono insieme, masticano, dividono, strappano, hai presente il morso di un carnivoro quando ti azzanna e non molla?; c’è un’entità, grande o piccola a seconda dei casi, una presenza; e c’è l’età, quella che hai nel momento in cui ti ritrovi qui, nel momento in cui leggi. Identità, dunque. Tieni conto del dunque che attacco a identità. È un suono che dà ritmo alla lettura: dum que que, dum que que, è un valzer. L’identità è un valzer con se stessi. Ogni tanto bisogna cambiare partner. Così, il vecchio appunto preso a matita. Non mi piace identità. Mi sembra una catena, un cippo che segna il territorio, che incastra, un morso di denti. Rispetto all’identità, le radici sono il cammino, sono le strade, più lievi da percorrere e da portare come bagaglio, perché camminano insieme con noi. È solo una questione di parole, forse, ma è pur sempre una questione, essere o non essere, una questione di punti di vista. Le radici fanno essere noialtri, cioè un ossimoro: siamo gli altri di noi stessi. Chi ci rende noi, se non gli altri? Mentre l’identità imprigiona in una condizione, a volte in una ideologia. Le radici non fanno sentire soli. È la perdita delle radici a interrompere il legame con il prossimo. Hanno a che fare con la concretezza del nostro corpo, che non è altro rispetto alla mente. Hanno a che fare con i nostri limiti, con i confini. Ho letto Elogio delle frontiere di Régis Debray, una folgorazione di novanta pagine che riprende una conferenza tenuta alla Casa franco-giapponese di Tokyo il 23 marzo 2010. 136

Certifica la necessità delle frontiere. La frontiera riconosce l’altro, sostiene, gli dà pari dignità e garantisce l’incontro. Favorisce la pluralità dei punti di vista. È condivisa e mette in comunicazione. È fisica. La prima frontiera, il primo confine è la pelle. Appartiene alla tridimensionalità. Infastidisce il web, che è bidimensionale e tende a rendere ininfluente lo spazio. L’esaltazione virtuale ha per risultato l’eliminazione del corpo, considerato un ostacolo, non uno strumento. Individua la fisicità come una prigione e si illude di annullarla. Abolire le frontiere non favorisce la libera circolazione delle idee – che, in quanto idee, sono già libere – ma quella del capitale, delle merci, della manodopera. La frontiera è un luogo. Il digitale e il virtuale – come l’identità – sono una condizione, un carattere. Fare delle radici frontiere, terra di confine, questo penso. Orizzontali, non verticali. Non muri, ma passaggi. I confini ci sono per essere superati, come le finestre, le porte, superati con lo sguardo e con il passo, con il coraggio. Come i quadri. Ogni tanto sogno di entrare in un quadro: passare di là e far girare il tempo, rimetterlo in moto. La prima volta mi è capitato a Montréal, al Musée des Beaux Arts. Era una specie di attrazione, una curiosità felice: il desiderio di infilarmi in Le duo, dietro la coppia dipinta da Gerrit van Honthorst, lui compreso e baffuto, lei discinta e deliziosa, due cantanti di fronte a uno spartito; raggiungerli a lume di candela e aggregare la mia voce alla loro. E poi ad Amsterdam, con Vermeer: ritrovarmi accanto alla donna che legge una lettera davanti alla finestra; l’aspetto dietro la tenda dorata; appena finisce di leggere, viene da me; 137

oppure mi ritrovo accanto al militare e alla giovinetta con una coppa in mano, anzi, l’uomo in giubbone rosso e cappellaccio nero sono io, se mi voltassi di più, mi si potrebbe riconoscere, e non sono un militare, sono un viaggiatore, e fra pochi minuti mi alzerei e in compagnia della ragazza uscirei da quella stanza e dalla vista. E al MoMA di New York: finire nel Mondo di Christina di Andrew Wyet, un campo giallo che si allunga fino a una collinetta, dove sorge la fattoria con il fienile, e Christina in primo piano, seduta a terra di schiena, le gambe allungate di lato, il braccio destro a sorreggerla, i capelli neri raccolti che un po’ si ribellano, il vestito rosa, io che le arrivo alle spalle e mi seggo accanto, prendo la sua posizione, come se fossimo corsi fin lì insieme e ora guardassimo la nostra casa: prima o poi tocca alzarsi, tornare al lavoro, preparare la cena, organizzare la serata. Non accade sempre, né sempre ci penso. È una sensazione – l’intuizione che sarebbe possibile, che nella tela c’è vita e c’è posto, e forse basterebbe un passo, un po’ di coraggio. Capita nei musei, davanti a quadri che non ho mai visto, non così popolari. Capita quando sono fuori dalla mia lingua e dal mio quotidiano, quando sono all’estero e ho il mio tempo a disposizione, flanello, vago, vagheggio. Capita quando sono in viaggio. È accaduto con Bill Viola, l’artista americano che dipinge con il video e nei suoi schermi fa avanzare e respirare il tempo in forma di uomini e donne, lo fa lavare e lo fa bruciare. Davanti a Observance ho pensato: che cosa ci vuole a passare di là e a mettersi in fila con quelle persone che fluiscono continuamente?, sono in coda, quasi in processione, voglio vedere anch’io ciò che loro guardano contriti; certo, il soggetto non è così interessante, sono io, al di qua del video ci sono io, 138

loro vengono verso di me, sono in fila davanti a me, ma io li frego, passo di là, mi accodo, divento dei loro, a questo punto che cosa vengono a vedere, se io non ci sono più? Ho buone speranze di convincerli ad andare insieme altrove. L’ultima volta mi è capitato al Museo del Prado, a Madrid. I grandi musei sono fatiche all’impiedi, accumuli di secoli e opere, archivi di mode, saperi, bellezze, macchine del tempo, chilometri di passeggio baldanzoso, all’inizio, poi trascinato, con la schiena le gambe le spalle i piedi che si stancano... Il loro senso è nel farti ritrovare al cospetto di uno, due, cinque lavori che ti smuovono, ti accendono, capaci di produrre in te incanti e idee, metamorfosi. Allora valgono la pena. Come il Louvre, il Metropolitan e pochi altri, il Prado è un vasto territorio che appartiene all’impalpabile, cioè all’essenza delle cose e delle persone. Io sono qui, ora, passo dopo passo, passo di sala in sala, passo e chiudo con la folla circostante, in compagnia ma solo, davanti a Santa Barbara del Parmigianino, una fanciulla con il volto già nel nostro tempo; davanti a Bruegel e Bosch, che nel Cinquecento facevano film con i pennelli, davanti alle loro nostalgie di futuro in cui ogni dettaglio ricorda qualcosa che verrà dopo, Escher e Dalí, Tolkien e Avatar, Cortázar e l’iPad, il Luna Park, Spoon River e Le città invisibili; davanti alle Pinturas Negras di Goya, maschere, incubi, fantasmi a cui la mano e la vecchiaia del pittore hanno dato materia ed esperienza; davanti all’Esopo di Velázquez, che è una vecchia in vestaglia, stanca e disillusa, come se narrare storie fosse tenere pulite le stanze, come se le favole fossero pulizie di primavera; davanti alla Maddalena bellissima, sciagurata e pura, spalle scoperte e pelle candida, di José de Ribera. Cerco di scrollarmi di dosso una coppia molesta che az139

zoppa tutte le frasi con il suo romanesco arrochito. Fa il mio stesso giro. Quando cambio direzione, me la ritrovo fra i volti moderni di Tiziano e Van Dyck. Allungo il passo. M’infilo in quello che sembra un sottoscala, supero le toilette e gli ascensori, mi affaccio su un corridoio largo, una sorta di anticamera: là in fondo riprendono le grandi sale e il passeggio dei visitatori. Sulla parete di sinistra – su quella destra non ci sarebbe spazio, non è nemmeno una parete, è un disimpegno architettonico – campeggia una grande tela. È affollata di personaggi. Accanto a me, una ragazza osserva la Decollazione di San Giovanni Battista e banchetto di Erode, 1630-1633, di Bartolomeo Strobel il Giovane. Un’altra mia fantasia, piuttosto comune, credo, è che una donna, durante la visita a un museo, mi porti via, e io porto via lei: mi guarda, io la guardo, condividiamo le opere che siamo venuti ad ammirare, facciamo qualche sala insieme, ci perdiamo, ci ritroviamo, si odono soltanto i nostri passi, ci appartiamo. Tutto avviene naturalmente. Si avvicina l’orario di chiusura. Pur senza nasconderci, rimaniamo invisibili ai guardiani. Il museo chiude. Mettono l’allarme, ma con noi non funziona, non segnala la nostra presenza. Ci muoviamo con cautela, perlustriamo le sale, siamo emozionati e increduli. Poi, accade quello che può accadere fra un uomo e una donna che si attraggono e si desiderano. Al Prado non capita. Ma io sono lì e anche lei è lì. Si tiene un avambraccio sulla pancia e con la mano sfiora il fianco. Sembra sorreggere il petto che riempie l’abitino color cachi. Le ginocchia rimangono scoperte. Contempla la scena del quadro, io contemplo lei. La sua carnagione bruna è ammirevole, i lineamenti severi. È concentrata, nessuno la può 140

distrarre. Gli orecchini sono lunghe foglioline dorate che vibrano come se il vento le scuotesse. Calza sandali che sono una semplice fettuccia di cuoio e indossa un soprabito primaverile color verde petrolio. Ad attrarla è il dipinto. È come se si attendesse qualcosa da quella decollazione e da quel banchetto – un invito. È in una posizione rilassata, le caviglie incrociate, solo il volto tradisce un’inquietudine dominata a fatica. Io provo la curiosità felice di essere anche altrove. Lì dentro c’è tutto il tempo del mondo. Lei all’apparenza non si muove, ma va. La seguo. Non scavalla nemmeno le caviglie, eppure si avvia. Fa quello che avrei fatto io, prima o poi. Lo facciamo insieme. Adesso io sono la terza figura a sinistra in primo piano, affondato in un’armatura. Anche se volessi comunicare, non mi è possibile, lei è dalla parte opposta, dietro le dame che portano su un vassoio la testa di Giovanni. Si riconosce per come sorregge il petto con il braccio e per i sandali, che però dal vostro punto di vista non si vedono, bisogna credermi sulla fiducia. Io non credo nella frase da nessuna parte e in tutti i luoghi. È vuota. Non credo nella sua pulviscolare irresponsabilità. È di una bellezza vana. Non ha presenza, prestanza, e il suono svanisce presto. Io voglio essere qui. Un verso di Archiloco, il lirico greco che si guadagnava da vivere come oplita, con la lancia e lo scudo, dice: resisteva sulla punta dell’onda e del vento. Arrivato fin qui, mi sembra sia la mia condizione. Tutti i libri e tutte le generazioni, con le loro storie, sono onda e vento. E passano. Passando, mettono radici in noi, nostre radici diventano. 141

In un quadro puoi finire, so. In un libro non finisci, cominci, ricominci. Chi scrive un libro finisce in una persona e in quella persona continua. Anche leggendo un libro, finisci in una persona e di quella persona segui le rotte, i sensi, la direzione. E per un po’ la custodisci. Questo chiedono i versi di Alda Merini: prendete un autore e amatelo / immensamente, come se fosse un libro / difatti lo è.

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Cinque radici in forma di ricette A tavola con mio padre e con vitel tonné, spaghetti di riso, anatra alle mele, purè di patate, marrons glacés e una bottiglia di Cordon Rouge Io e lui. Davanti a un piatto fumante, io, una minestra di verdure, pezzi di carote, zucchini, patate, cavolo, rape, porri e una manciata di piselli. Davanti a una tazza bollente, lui, piena di latte e caffè, con in mano mezzo biciulan vecchio di un giorno. Io un po’ titubante, che cerco di evitare i pezzi di verdura, di bere soltanto il brodo; lui goloso. Il bambino e il padre. Lo vedo incurvato sul tavolo, non distinto come al solito, le gambe accavallate, mentre porta alla bocca il cucchiaio con un tocco di pane inzuppato. È una sera di fine estate al paese, settembre, qualche giorno prima che inizi la scuola. Siamo già scesi in città, a Rueglio veniamo nei fine settimana. Può essere un venerdì – mio padre, uscito dall’ufficio, è passato a prenderci e siamo saliti. E adesso mi dice: la cultura comincia dalla tavola. Raddrizza il corpo, scavalla le gambe, si accomoda sulla sedia, si pulisce la bocca con il tovagliolo e, mentre inghiotto un cucchiaio di brodo con un pezzo di patata, ripete: lo sai?, la cultura comincia dalla tavola. Ora che è morto e ho imparato a conoscerlo meglio – non posso più reagire di scatto e oppormi per principio –, ora che so ritrovare le sue parole, capisco che, con quella frase, 143

intendeva sia il cibo, sia il modo di prepararlo, il modo di imbandire la tavola, il modo di starci, a tavola, il modo di accogliere gli ospiti, il modo di fare chiacchiere. Tutto questo è la tavola e da qui comincia la cultura. Se comincia la cultura, cominciano le storie. Attorno alla tavola e sui fuochi dove si preparano i piatti, là si nutrono e si mantengono in buona salute le radici di una comunità, di una famiglia, di una persona. Odori, sapori, briciole, abitudini, inclinazioni, sperimentazioni, tutto ciò che riguarda il cibo, il modo di cucinarlo, goderlo e consumarlo, attiene alle radici, le consolida, le rende rigogliose. Hai le radici nelle storie, nelle immagini che nutrono le storie, nelle ricette, che già di loro sono storie e alimentano chi le vive e le racconta. Un pranzo o una cena, di quelli che si prendono tempo e lo restituiscono ai commensali, contengono le mie radici. Cinque radici in forma di ricette. Era usanza, la domenica, pranzare al ristorante, perché almeno una volta alla settimana la mamma non cucinasse. Come molti bambini, al ristorante mi annoiavo, perché bisognava rimanere seduti a lungo. Non c’era niente da fare, se non mangiare. E io non avevo mai abbastanza fame. Però avevo un piatto preferito: avrei sopportato l’intero pranzo, se potevo iniziare con il mio piatto preferito, il vitel tonné, come si chiama in Piemonte, il vitello tonnato, che comincia con le uova. Butti il bianco e tieni il rosso: quattro rossi d’uova. In una tazza metti un pizzico di sale e, sopra, spacchi le uova. Con una forchetta cominci a girare, dando secchi colpi di polso. Di tanto in tanto, versi due-tre gocce d’olio, finché la maionese diventa soda. Alla fine, aggiungi quattro-cinque gocce di limone. A parte, con il tritatutto, spappoli il tonno, lo trasfor144

mi in crema e lo mescoli con la maionese, un cucchiaio alla volta, finché non si amalgama. Intanto, hai preso un tondino di vitello e lo hai messo in una pentola con tre bicchieri di vino bianco secco, un po’ d’acqua, il sedano, la carota, la cipolla, uno spicchio d’aglio, salvia, rosmarino, finocchio. Ti fai dire dal macellaio quanto deve cuocere, lui lo sa in base al pezzo di carne che ti ha venduto: in genere, tre quarti d’ora. La carne, dentro, deve rimanere rosa. Spegni il gas, copri la pentola e aspetti che si raffreddi. Cucini la sera per il giorno dopo. Quando è fredda, tagli la carne a fettine sottili, le distendi sul piatto e le ricopri con la salsa. Se avanza un po’ di tonnata, fai due patate bollite e via. Quando andavamo in Costa Azzurra a trovare i parenti vietnamiti, a casa di Vinh e Pierre o al ristorante impallidivo stordito dagli odori e dai sapori. Mangiavo solo banane. Tutti si servivano dai piatti di portata e con le bacchette tricotavano nella loro ciotola, io rimanevo digiuno, tormentato da quello che percepivo come un odore di marcio. I miei si scusavano: è un bambino! I parenti scuotevano il capo con rassegnata comprensione. Avevo tredici anni. Un giorno d’estate, fummo invitati a pranzo da amici dei nostri parenti sulla collina di Nizza: i figli in terrazza, i genitori in sala. C’erano due ragazzine bionde e una con i capelli neri che arrivavano ai fianchi. Ero seduto accanto alla ragazzina con i capelli neri. Davanti avevo la coppia di ragazzine bionde che parlavano fitto con Lulù e Bebè, i figli più piccoli di Vinh e Pierre. Mangiavano tutti. C’erano in tavola spaghetti di riso con verdure, gamberi e maiale. Li avevo sempre rifiutati. A un certo punto, la ragazzina dai capelli neri si voltò verso di me e nel suo francese celestiale, indicando i vari piatti di portata, mi chiese che cosa volessi. Celui-ci, dissi. Questo qui, 145

il più vicino. Tutto sommato, si trattava di spaghetti. Lei si era già servita e servì me. Quel giorno, per la prima volta, adoperai le bacchette. Alla ragazzina dai capelli neri dovevo sembrare buffo. Ogni tanto le scappava da ridere. Comincia così la mia carriera di mangiatore vietnamita, con il mì xào rau thâ.p câ’m, tôm và thi.t, spaghetti di riso con verdure, gamberi e carne. Per prepararli, secondo una ricetta della provincia di Phu Khanh, negli altopiani centrali, bisogna immergere gli spaghetti nell’acqua tiepida per circa trenta minuti. Nel frattempo, si lavano le verdure, carote, sedano, germogli di soia, zucchini, peperoni, e si tagliano a piccoli pezzi. Si devono soffriggere in padella con poco olio e disporre su un piatto a parte. Si fanno soffriggere anche i gamberi e la carne, preferibilmente di maiale. Appena pronti, si mettono in un altro piatto. Buttata via l’acqua degli spaghetti, li cuoci in una padella con olio e un po’ di soia. Quando sono quasi cotti, li mescoli con i gamberi e la carne. Infine, aggiungi le verdure e continui a mescolare. Il piatto si serve fumante, con salsa gnuc mam, cetrioli e foglie di insalata. Di secondo, per unire memoria e palato attuale, Oriente e Occidente, di qua e di là delle Alpi, tradizione e curiosità, a tentarmi è l’anatra alle mele, zenzero e Calvados. Prendo il petto d’anatra, lo fiammeggio sul fuoco per bruciare i resti delle piume e poi, a una a una, tolgo le cannule rimaste, perché anche l’anatra più pulita conserva le cannule delle piume. Alla fine dell’operazione, il petto è pronto per essere cucinato. Verso l’olio in un tegame e lo lascio scaldare. Aggiungo qualche rondella di porro e due spicchi d’aglio interi, che poi tolgo. Faccio in modo che si stufino e insaporiscano l’olio. 146

Metto il petto d’anatra e lo lascio rosolare per qualche minuto a fiamma vivace. Poi lo sfumo con il Calvados, aggiungo una tazzina di brodo, che ho preparato precedentemente, oppure, alla disperata, va bene anche una tazzina di acqua, chiudo con il coperchio e abbasso la fiamma. Lascio cuocere a fuoco lento per un quarto d’ora e depongo il petto d’anatra su un piatto. Nel tegame, sul fondo di cottura, metto lo zenzero fresco tagliato a striscioline. Lo lascio qualche minuto, poi lo tolgo e metto gli spicchi di mele. Le mele devono essere tipo Golden, a pasta dura, altrimenti si disfano: otto spicchi per ogni mela. Li ripasso sul fondo a fuoco vivo, girandoli spesso, finché si caramellano. Quindi taglio il petto d’anatra, lo incido fin quasi alla base: la carne, dentro, deve essere rosa accesa, non completamente cotta. Nelle fessure inserisco qualche filetto di zenzero, mentre sopra e intorno dispongo gli spicchi di mela. Al fondo di cottura rimasto sul fuoco con fiamma bassa, aggiungo un bicchierino di Calvados, per renderlo più liquido, e guarnisco il piatto con il sugo. Come contorno, la prelibatezza più semplice che esista: purè di patate. Cuoci le patate senza pelarle. Le sbucci, le passi nello schiacciapatate e le metti in una zuppiera, non prima di aver predisposto un pizzico di sale sul fondo. Aggiungi un bicchiere di latte caldo, un po’ per volta, e sbatti bene. Ultimo tocco: una grattata di parmigiano e, volendo, di noce moscata. Come dolce, marrons glacés. Ancora adesso, con un marron glacé mi metto buono. Ma quanta fatica: non per mettermi buono, per prepararli. Si impiegano giorni, ci vuole 147

pazienza e cura. Per un chilo di marroni, occorre una stecca di vaniglia e mezzo chilo di zucchero. Dopo averli lavati e incisi con una croce, bisogna lessarli per un minuto e sbucciarli. Alla fine, si sistemano in una casseruola sul fuoco, ricoperti di acqua fredda. Quando l’acqua bolle, si abbassa la fiamma e si lasciano sobbollire per un quarto d’ora. Poi, delicatamente, si scolano con un cucchiaio di legno forato, cercando di non romperli. In un’altra casseruola con tre dita d’acqua si fanno sobbollire per cinque minuti lo zucchero e la stecca di vaniglia, senza girare. Si depositano i marroni e si fa riprendere l’ebollizione per un minuto. Si spegne, si copre e si lascia riposare ventiquattro ore. Il giorno dopo, si rimette tutto sul fuoco basso, si porta a ebollizione, si spegne dopo un minuto e si lascia riposare per altre ventiquattro ore. Il terzo giorno si ripete l’operazione. Il quarto giorno si tolgono i marroni dallo sciroppo. Si fanno asciugare su una griglia per due-tre ore e si passano nello zucchero semolato. Per finire il libro e le ricette, per innaffiare il pasto e le radici, c’è lo champagne, il Mumm, che mio padre ha sempre chiamato Cordon Rouge, quello con la barra rossa trasversale sull’etichetta bianca. Ahjàmì mâri ke gést, esclamò don Colombo, don Fortunato Colombo, parroco di Rueglio dal 1904 al 1930, mamma mia che roba, che figura, che scandalo! À l’è gnin vàlid, trasalì, ’l véus fjêul à n’à da manka e vìtu. Bisognava rifare il battesimo, e in fretta, altrimenti niente comunione: ma come era possibile? Avrebbe dovuto immaginarlo il nonno: che genitore, che buon cristiano era? Mà pusìbel, ke kuràgi!, non si dava pace don Colombo. Che coraggio, che incoscienza, che ignoranza! 148

Sì-sgnor pervòst, chinava la testa insolitamente smarrito il nonno. Pôr fjêul, ripeteva il prevosto, deve fare la comunione e non è nemmeno battezzato! Eppure sì, noi un battesimo l’abbiamo fatto come potevamo... Gnin vàlid, ruggì Colombo. Quando è nato mio padre, suo padre era lontano, in cantiere – e d’altronde, quando sono nato io, mio padre, il pomeriggio, era già a Sanremo a giocare il doppio in un torneo di tennis. Quando il nonno, dopo alcune settimane, ha visto suo figlio, hanno fatto festa. Partecipavano tutti coloro che, nella zona, lavoravano sulla linea ferroviaria che da Lao Cai saliva in Cina. Erano uomini che conoscevano il fatto loro, non i fatti della Chiesa. Ogni tanto passava un prete, dicono. Passava e andava. Forse nemmeno lui conosceva bene i fatti della Chiesa o, se li conosceva, li adeguava alla realtà del luogo, al di là delle montagne, tra le foreste del Nord Vietnam. Laggiù non fu un prete a battezzare mio padre, ma un amico del nonno, mentre un altro amico reggeva il fagottino e la madre osservava. Non c’era acqua benedetta, c’era acqua sporca. Non andava bene. L’acqua deve essere benedetta o è inutile. Peggio che peggio l’acquavite. Non c’era nemmeno l’olio benedetto. Forse avevano bevuto troppo. Come possono rimediare alla mancanza di acqua e di olio benedetti? Ci vorrebbe qualcosa di prezioso, qualcosa di nobile. Avevano il Cordon Rouge, con l’etichetta che sembra una veste da messa. Se l’acqua non è benedetta e manca l’olio, sia benedetto lo champagne, in nome del padre, del figlio, dello spirito santo. Con lo champagne in fronte e sulle labbra, mio padre fu assolto dal peccato originale ed entrò nella schiera del Signore. Certo, aveva un posto tutto suo, un posto a parte. 149

A raccontarlo era zio Enzo, alla sua maniera, allegra e minuziosa. Lo raccontava anche Carluccio, quasi con le stesse parole e un brontolio divertito. Ne ridevano zia Carmen e zia Bettina e dicevano che questa, guarda, è una storia di famiglia, mica tutti ne hanno una così! Persino gli amici conoscevano l’aneddoto e ne approfittavano per ripeterlo, i Cibrario, gli Stavej, gli inseparabili cugini Bon, Guido e Vittorio, che giocavano a carte con mio padre. Di solito, veniva fuori alla fine del pranzo: ma sai che tuo padre è stato battezzato con lo champagne!, dicevano e lo indicavano girando il capo verso di lui. Lo sapevo e mi sentivo orgoglioso: riconoscevano che mio padre era unico, il più speciale del mondo, diverso da tutti, non solo per la pelle e i lineamenti. Erano gli anni Sessanta e io avevo un papà originale. Seduto al suo posto, a capotavola, il braccio destro allungato sulla tovaglia, le dita a giocare con le briciole del pane, la mano sinistra in grembo, mio padre distoglieva lo sguardo, fissava un bicchiere, una posata, un piatto, e chissà che cosa vedeva, che cosa pensava. Gli sfuggiva un mezzo sorriso. L’espressione era divertita e rassegnata. Aveva quella storia, lui, veniva da un luogo e andava nel tempo, questo è avere una storia, aveva quel passato, quella famiglia, quale famiglia?, era quel racconto, e con il capo faceva sì.