Scrivi più bianco: Trova il tuo stile, comunica con parole brillanti 9788889831809, 8889831804

«Accidenti, adesso cosa scrivo?». Lo dice Chiara Gandolfi all'inizio del suo manuale Scrivi più bianco. Trova il tu

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Scrivi più bianco: Trova il tuo stile, comunica con parole brillanti
 9788889831809, 8889831804

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© 2018 Zandegù di Marianna Martino ISBN 978-88-89831-80-9 Copertina di Alessandro Pelissetti Impaginazione a cura di Agnese Tortosa www.zandegu.it [email protected] facebook.com/zandegu @Zandegueditore instagram.com/zandegueditore/

Scrivi più bianco Trova il tuo stile, comunica con parole brillanti Chiara Gandolfi

Zandegù

A mia madre Nina, a cui dovrò regalare un ebook reader, se no come farà a commuoversi?

Introduzione

«Nient’altro che del bianco a cui badare». Arthur Rimbaud

(Interno di un supermercato, una signora sta facendo spesa e nel carrello ha un fustino di Dash, le si avvicina un uomo che le rivolge la parola)

Uomo: Signora, vedo che ha comprato Dash. Se io le offrissi questi due fustini di un altro detersivo al posto del suo Dash… Signora: No, no, mi dispiace, mi tengo il mio. Dash lava più bianco. Voce fuoricampo: Visto? Dash non si scambia, perché più bianco non si può.

Si concludeva così uno degli spot televisivi italiani di Dash (in inglese «lucente»), uno dei primi detersivi per lavatrice arrivato in Italia e prodotto da Procter & Gamble. Siamo negli anni ’70 e Dash fa furore tra le casalinghe di tutta la penisola. Lo slogan è destinato a rimanere nelle menti di tutti. Dash: più bianco non si può.

Bianco è brillante È il bianco brillante di Dash a rendere fedeli alla marca le casalinghe, è la caratteristica che lo distingue da tutti gli altri detersivi.

Scrivi più bianco è un manuale che ti aiuta a capire come trovare la brillantezza nel tuo stile di scrittura professionale, per contrastare i grigi e le parole opache, per mantenere i tes(su)ti brillanti. Parla di contenuto e forma, di idee e di creatività, di molle e salti da fare, di regole e di regole migliori. Contiene tre buone intenzioni, tre tecniche di pensiero creativo, otto stili creativi di scrittura, 15 esercizi, 29.973 parole.

Scrivi più bianco incoraggia la ricerca di una scrittura che è più della somma delle parti, in cui la differenza la fai tu. Troverai molti esempi di messaggi pubblicitari che hanno fatto la storia dell’advertising: se non impariamo a essere brillanti dai maestri della luccicanza, da chi potremmo mai?

Questo manuale vuole stimolare una scrittura mai banale, mai pigra, mai deludente. Se stai parlando del tuo brand o del tuo prodotto, c’è sempre un modo migliore di farlo, che può arrivare più in profondità, più vicino al tuo target.

Bianco è un’opportunità Quante volte ti è successo di dire: «Accidenti, adesso cosa scrivo?». Scrivi più bianco parla anche di fogli bianchi, di fogli bianchi che non fanno paura, ma che sono un’opportunità. Il segreto non è andare in cerca di nero inchiostro, ma di più bianco. Cercare quella chiarezza, a tratti trasparenza, che faccia venire fuori i nostri messaggi rilevanti, le idee, il modo inconfondibile che abbiamo di pensare, dritto o a rovescio.

In Una storia noiosa di Cechov, il professore di medicina deve scrivere un breve biglietto di auguri per una bella ragazza, ma si accorge di come sia molto più facile per lui scrivere un lungo articolo scientifico che qualche riga sincera. Davanti a un foglio bianco, siamo tutti uguali. Lui si moltiplica e diventa gigante mangiando, masticando e sputando tutte le nostre buone idee, ma alla fine gli riconosciamo il merito di averci dato la possibilità di mettere in fila i pensieri.

Il foglio bianco è il compagno di chi scrive: del Copywriter, per esempio. Ogni giorno lo aspetta-

no decine di fogli bianchi, ma invece di scrivere poesie per l’affascinante ragazzo o messaggi per la misteriosa ragazza, lo deve fare per valorizzare una confezione di pannolini o una dentiera. Provare a conoscere davvero un prodotto, in qualche modo amarlo e tirargli fuori l’anima, è una sfida emozionante. Il copy diventa esperto di ammorbidenti, amante dell’home decor, ecologista o stilista, sostenitore dell’illuminazione a led, pronto a prendere sul serio allo stesso modo un dentifricio e una banca.

Bianco è una lettera d’amore Ti sei mai innamorato nella tua vita? Spero vivamente di sì. E spero anche che tu abbia scritto qualche lettera d’amore e che ne abbia ricevute. Con il calamaio, la penna o la tastiera del computer non importa, hai scritto; mosso da una consapevolezza, spinto dall’urgenza di comunicarla e di entrare nella vita di qualcuno a cui tenevi.

Scrivi più bianco prende questo stato d’animo come punto di partenza, come condizione necessaria per scrivere ogni messaggio che ha intenzione di funzionare. La consapevolezza e l’urgenza fanno scattare l’attenzione, la lucidità, la sincerità: così, scrivere un messaggio con questi presupposti e spedirlo a chi vorremmo ci amasse, ci fa trovare parole a cui legarci stretti, che fanno brillare noi e chi le riceve. Scrivere lettere dal nostro brand with love ci insegna a sbobinare il cervello con cura, a mettere nero su bianco le nostre intenzioni e a intraprendere una relazione duratura con chi ci legge.

Usiamo la carta, usiamo Internet, inventiamo un mezzo nuovo. Il punto di vista che ti propongo in queste pagine è valido sia per la scrittura analogica che per quella digitale. I principi della brillantezza sono gli stessi: non sono i mezzi a creare i contenuti, sono le persone.

Scrivi più bianco nasce quindi da queste tre necessità: combattere la pigrizia nello stile, utilizzare il foglio bianco come rilevatore della chiarezza del nostro pensiero, scrivere con la stessa urgenza e con la stessa sincerità delle lettere d’amore.

Questo libro è diviso in tre parti.

La prima parte è dedicata ai concetti alla base della scrittura, che, se considerati in sinergia, ci aiutano a scrivere testi più potenti, che funzionano meglio: io e te; verità e persuasione; contenuto e forma.

La seconda parte è dedicata alle idee, all’importanza di avere qualcosa di rilevante da dire per essere letti e suggerisce metodi per generare concept fertili. Andiamo alla ricerca di idee memorabili, da raccontare con voce forte e chiara, che ci appartengano e che arrivino dritte al pubblico.

La terza parte è dedicata alla ricerca dello stile nella scrittura, passando attraverso gli strumenti che abbiamo a disposizione e l’esercitazione.

Capitolo 1. Un gioco di squadra

Io e te: scrivere per incrociare i destini

«Il linguaggio è il modo in cui raccontare agli altri quello che vogliamo, quello che ci aspettiamo da loro e ciò che speriamo di realizzare insieme. Senza linguaggio, non siamo in grado di collaborare». Abby Covert, How to make a sense of any mess

Questo è il paragrafo in cui ti racconto come ogni singolare si coniuga al plurale, in cui capisci che a scrivere si è almeno in due.

Insieme

E così pubblichi. Quando schiacci il tasto, senti il tonfo del frutto maturo che si stacca dall’albero. Condividi ciò che hai scritto perché lo ritieni pronto per il tuo pubblico. Sei al termine di un lungo percorso di lima e forbici, ago e filo, metro e punti a croce, punti e virgole che sembrano punti di sutura; aggiusti, stringi, dici meglio, più dettagli e meno parole. Che fatica scrivere.

Ma se pensi di aver fatto tutto da solo, ti sbagli: il tuo lettore ti ha aiutato a scrivere, parola dopo parola. Si chiama cooperazione testuale ed è lo sforzo che chiediamo a chi legge di completare quello che abbiamo scritto, con la sua esperienza, con le sue intuizioni, con i suoi bisogni.

«Un testo vuole che qualcuno lo aiuti a funzionare», così dice Umberto Eco in Lector in fabula.

La realtà, infatti, non ha un significato unico e statico, ma assume un senso particolare in base

alla voce che la racconta e all’orecchio che la ascolta. Il testo è sempre un particolare punto di vista che possiede un’identità che non è astratta, ma che è definita nel momento in cui il lettore riconosce nel messaggio qualcosa che gli appartiene: il testo è un processo sociale che trasforma un qualsiasi evento in una situazione capace di dirci qualcosa.

Quando comunichiamo, mettiamo tutto il nostro impegno per far arrivare i nostri messaggi, selezionando le informazioni a cui vogliamo dare importanza. È un continuo atto di codifica e decodifica in cui scrittore e lettore determinano contesti, costruiscono e deducono significati.

Comunicare significa agire sugli altri modificando il loro spazio cognitivo tramite segni e indizi; significa consegnare alle persone elementi linguistici, perché ne interpretino il significato. E questo, oggi, è ancora più decisivo, perché la comunicazione si esprime nel dialogo con persone vere e non nel lancio di messaggi a un target immaginato.

Non si tratta più di scaraventare i nostri messaggi addosso a segmenti di persone individuati grazie a ricerche e analisi di comportamenti d’acquisto, come succedeva e succede in molti banner e campagne, spot, volantini e post di Facebook, pieni di offerte che non offrono valore (compra qui, iscriviti lì, scopri!). Si tratta, invece, di trasmettere valore e valori con narrazioni che risuonano nel destino delle persone che sono interessate a noi e al nostro brand. La domanda non è più: «Cosa fanno i nostri messaggi alle persone?», ma: «Cosa fanno le persone dei nostri racconti, della pubblicità, dei nostri messaggi?». È tempo di offrire qualcosa di sorprendente che li faccia pensare, che parli di loro, che sia scritto da loro e per loro, che possano usare.

Non potranno essere le offerte e gli sconti (dove l’unica esperienza emozionante è quella del predatore che scopre il grado di convenienza e si sbriga ad approfittarne) a comandare. È pericoloso, infatti, puntare solo sulla logica del prezzo, perché questo meccanismo provoca la scomparsa delle differenze percepite come significative per le persone. Probabilmente con questa mossa guadagnerai oggi, ma non avrai di certo costruito una relazione che duri nel tempo e che potrebbe portarti molta più soddisfazione nel medio-lungo periodo.

In un mercato sempre più complesso, dove si moltiplica l’offerta e aumentano i brand, è necessario distinguersi sul piano dell’identità, capire quali pedali si possono schiacciare per andare più

veloci verso le persone. L’unicità è la sola via per creare la differenza e assicurarsi maggiore fedeltà e, sì, complicità. Se vendi qualcosa, la sfida è quella di creare un mondo in cui sentirti a tuo agio e in cui far sentire a proprio agio le persone che ti seguono, pieno di valori e modelli di comportamento universali, che possano essere significativi anche per gli altri.

Ed è qui che arriva la scrittura, così importante per dare risposte, per connettere persone e brand. Scrivere è trovare soluzioni: è la somma di quello che vogliono leggere i tuoi lettori e di quello che vuoi dire tu. È quel momento in cui i problemi del tuo pubblico si incontrano con le tue soluzioni. Testi sinceri e brillanti nascono dal rispetto, dalla capacità di relazione, di collaborazione, di coinvolgimento, dal saper ragionare sulle persone e su quello che le persone fanno. A questo si aggiungono la strategia, le tecniche di scrittura e, senza dubbio, la creatività.

I tuoi testi dovrebbero idealmente:



ascoltare le necessità di chi legge;



risolvere problemi reali;



fare in modo che le cose accadano, conducendo chi legge a un’azione.

La scrittura è un corteggiamento, una danza, una proposta. E la creatività contribuisce ad avvicinare brand e persone su un piano più empatico rispetto al passato. La scrittura autocelebrativa, i testi vuoti e senza una vera intenzione dietro, i pop-up aggressivi, generano un interesse minimo nelle persone. Nella scrittura che mette in relazione, che considera chi manda il messaggio allo stesso livello di chi lo riceve, non ti devi preoccupare di dire quanto sei eccezionale, ma devi spiegare cosa ti rende così eccezionale. Per attirare le persone giuste, interessate ai tuoi messaggi, è bene partire da due domande utili: «Chi sono io?», «Chi sei tu?».

Io brand, tu target

Diversamente dal passato, in cui si creava un dislivello tra me – brand – e te – target –, dove io ti convincevo della bontà del mio prodotto e tu ti facevi convincere, oggi preferiamo stare sullo stesso piano, dove ci incontriamo e possiamo dialogare, dove ascoltiamo proposte e critiche, opi-

nioni, generiamo realtà e universi simbolici che tengono conto della vita delle persone. Grazie a Internet possiamo conoscere i clienti a uno a uno e per ognuno avere una parola differente, una conversazione.

Io brand

«Chi sei davvero è una domanda alla quale devi sapere rispondere in una, due frasi massimo, che catturino l’attenzione del potenziale cliente. Deve essere una definizione di te e del tuo lavoro e che sia giusta per il tuo target». Francesca Marano, Chi ha paura del business plan?

Il primo passo per comunicare è sapere chi sei tu. Saperlo esattamente, non pressappoco. E non lo sai finché non lo scrivi: «Chi sono davvero?». Prova a rispondere a questa domanda in un paio di righe, selezionando tra tutte le informazioni pertinenti quelle che rispondono sul serio a quel davvero. Sappi fin da ora che per scrivere un testo corto ci vorrà più tempo che per scriverne uno lungo e che quando si tratta di scrivere di te è più difficile, ma puoi farcela. Idealmente, queste due righe dovrebbero contenere quello che fai, la tua filosofia (come lo fai), il perché lo fai e cosa vuoi diventare. Simon Sinek ha scritto un libro che può esserti utile in questa scoperta, si intitola Inizia dal perché. Trasmettere il perché aiuta le persone a comprendere il tuo messaggio: lo legano a un loro comportamento concreto ed è più facile per loro farlo proprio. Se spieghiamo perché l’abbiamo fatto, le persone avranno basi razionali per determinare le proprie opinioni e per orientare le proprie decisioni.

È importante che prima di scrivere qualsiasi riga tu ti prenda il tempo necessario per riflettere e determinare con precisione chi sei e chi sono le persone con cui vuoi parlare.

Immagina la scrittura come un appuntamento galante. Questa fase è la preparazione, dove metti a punto i dettagli, immagini cosa potrà piacerle/gli, decidi dove portarla/o e come vestirti. La riuscita del tuo appuntamento dipende anche da tutto questo.

Uno strumento utile e strategico per capire chi sei tu, come crei e condividi il tuo messaggio, è il Business Model Canvas. È un metodo che serve a capire come orientare i tuoi risultati, a conoscerti meglio e a sapere chi sono i tuoi clienti, come li stai raggiungendo, se ci stai riuscendo, che valore stai comunicando. Il Business Model Canvas ti scatta una fotografia, traduce idee e programmi in processi operativi ed è fatto così:

Questa griglia è composta di nove spazi-elementi che devi compilare con la massima sincerità.

1. Customers Segments: chi sono le persone a cui ti rivolgi? Cosa ti fa capire? A chi sei utile: chi sono le persone che ricevono benefici dal tuo lavoro (clienti, colleghi, partner, ecc.).

2. Value Proposition: perché le persone dovrebbero scegliere te? Cosa ti fa capire?

In che modo sei utile: scopri cosa ti fa essere necessario alle persone.

3. Channels: quali sono i canali che usi per metterti in relazione con loro? Cosa ti fa capire? I mezzi attraverso cui ti fai conoscere: come entri in contatto con i tuoi clienti e distribuisci i tuoi prodotti/servizi.

4. Customer Relationships: che tipo di relazione instauri con i clienti? Cosa ti fa capire? Come gestisci i rapporti con i clienti (relazioni personali, come acquisisci nuovi clienti, come gestisci quelli che hai già).

5. Revenue Streams: che benefici e guadagni ottieni? Cosa ti fa capire? Cosa e quanto ne ricavi: cosa ottieni dalla tua attività, non solo in termini economici, ma anche a livello di soddisfazione o riconoscimento sociale. 

6. Key Resources: su quali risorse puoi contare? Cosa ti fa capire? Chi sei e su cosa puoi contare: quali sono le tue conoscenze, competenze, capacità, interessi.

7. Key Activities: quali attività sono centrali per il tuo business? Cosa ti fa capire? Che cosa fai: quali sono le attività che ti distinguono dagli altri, le azioni utili a creare e sviluppare il tuo lavoro.

8. Key Partners: chi sono i tuoi collaboratori, fornitori, partner?  Cosa ti fa capire? Su chi puoi contare, chi ti aiuta: non solo colleghi e guru, ma anche la tua rete professionale di contatti o amici e familiari, se partecipano in qualche modo.

9. Cost Structure: quali sono i costi che devi sostenere?

Cosa ti fa capire? Ti dà una stima di quanto investi nella tua attività: sia in spese dirette che indirette (utenze come Internet, bollette e affitto, formazione, auto, abbigliamento, cellulare, tempo, stress, ecc.).

Tu target

«La responsabile degli acquisti non è una scema: è vostra moglie; è un insulto alla sua intelligenza pensare che basti uno slogan cretino e qualche aggettivo consunto per convincerla a comprare qualsiasi cosa». David Ogilvy

Non esiste un target, esistono Paolo, Francesca, Beatrice. Il pubblico è una persona, che esiste in relazione a quello che le viene proposto. È una persona, è intelligente e si merita il meglio di te. Se McLuhan non si offendesse, si potrebbe dire che people is the message.

Un tempo la comunicazione usava ricerche e statistiche per identificare target e segmenti di pubblico pronti a diventare i contenitori di tutte le parole che i brand decidevano di versarci dentro. Ma questo a cosa ha portato? A una totale disaffezione e disillusione nei confronti di comunicazione e pubblicità, campi in cui molti si sono improvvisati.

La comunicazione, per essere efficace, ha bisogno di professionisti che considerino le persone individui da coinvolgere e non target da colpire. Mentre prima la ricerca, la pianificazione e l’esecuzione erano frutto di analisi dei comportamenti di acquisto, oggi è l’empatia il nuovo strumento che ci aiuta a comprendere le persone e ad attirarle a noi. Abbiamo a che fare con un pubblico sempre più complesso, composto di curiosi, di esploratori, individui predisposti al cambiamento che

di fronte alle novità del mercato vogliono provare. Non sono lineari nei loro acquisti, sono meno fedeli alle marche, sfuggenti e lunatici, più individualisti, bisognosi di riconoscersi, rinnovarsi, distinguersi. Il mercato è fatto di persone e le persone sono imprevedibili.

È un pubblico più esigente e selettivo perché più informato sui brand e sui prodotti, che richiede ai propri interlocutori-produttori una cura maggiore per stare al passo con i loro desideri. Un pubblico consapevole delle logiche di promozione e di vendita, quindi più diffidente verso le azioni di marketing e pubblicità. Critico e disincantato nei confronti delle istituzioni e della società, portato per questo a fare da sé.

Un pubblico poligamo che compra te e forse anche il tuo competitor. Penso a casa mia: la maggior parte dei mobili e dei complementi d’arredo arriva da Ikea, diciamo il 45%, il 35% da Maison Du Monde e il 20% dall’artigianato italiano. Per me un brand non esclude l’altro, ogni elemento fa parte della mia filosofia di vita, rispecchia il mio mondo di legno. Uno risponde alla funzionalità, un altro alla ricerca del benessere, un altro ancora all’unicità.

Un pubblico che vive il digitale, assecondandone i ritmi e la comunicazione fluida di un pensiero scritto o di una scrittura orale, in una rete umana che si appoggia su relazioni fidate, a maglie più o meno strette.

Un pubblico che vuole essere partner di chi produce, desidera un’esperienza condivisa a cui arrivare grazie a narrazioni coerenti che sono il mix di verità, entusiasmo e ricerca di senso.

Sbagliamo ogni volta che consideriamo il nostro lettore come un semplice ricettore passivo dei nostri messaggi. La sfida dei copywriter, dei creativi, dei pubblicitari, la tua sfida (se stai leggendo questo libro vuol dire che sei in cerca di un modo nuovo di comunicare), è creare occasioni d’incontro basate sulla sorpresa e sull’emozione.

Il modo in cui ti rivolgi al tuo pubblico rispecchia l’idea di pubblico che hai. E tu, chi pensi sia il tuo pubblico? Se pensi che sia composto di scimmie ammaestrate parlerai con caratteri cubitali, in maiuscolo e con verbi all’infinito, ma se pensi che sia composto di uomini e donne, userai un linguaggio che faccia appello all’umanità, all’intelligenza, alle emozioni, all’iro-

nia, al buongusto.

Chi pensi sia il tuo pubblico? Per scoprirlo puoi usare le personas.

Le personas

Le personas sono profili ideali di clienti reali: sono schede che crei tu e che contengono i bisogni, i comportamenti, gli interessi e le aspirazioni delle persone a cui ti rivolgi. Ti orientano nella creazione di messaggi, perché ti danno un’idea delle persone a cui stai parlando: i profili non sono quasi mai definitivi, si modellano, si perfezionano, si chiariscono nel tempo.

Si definiscono in base all’analisi dei clienti che hai già, dei clienti potenziali e di quei contatti che ti chiedono informazioni sul tuo lavoro. A questo si aggiunge lo studio dei dati di navigazione del tuo sito (Google Analytics è uno strumento molto utile).

Facciamo un esempio

BalenaLab è «Il laboratorio di parole quasi palindromo», in cui lavoro come copywriter: agli inizi della mia attività avevo scelto di rivolgermi alle agenzie di pubblicità che avevano bisogno di una mano nella scrittura e nell’ideazione di concept. Così ho creato il mio primo profilo di personas, sulla base di quello che pensavo fosse il mio pubblico. All’idea che mi ero fatta in astratto, ho però voluto aggiungere un’intervista a due miei clienti reali, titolari di agenzie di comunicazione, che mi avrebbero aiutato a capire meglio se le mie ipotesi erano corrette.

La sorpresa fu grande, perché quello che avevo immaginato fino a quel momento non era la realtà. Chi avevo in mente? Un laureato, sportivo (che passava con disinvoltura dal kite surf allo snowboard e non disdegnava il free climbing), tecnologico (sempre con lo smartphone in mano e anche un po’ hacker), viaggiatore (faceva almeno tre viaggi all’anno oltre oceano), grande lettore di saggi (appassionato di marketing, comunicazione, politica, storia e biografia di grandi personaggi), amante di arte, mostre, cinema e serie TV, trentacinquenne, single. Sembrava più il fidanzato

ideale, che il mio cliente reale.

Come erano invece i due clienti che avevo davanti a me?

Alberto era un accanito giocatore di PlayStation (l’unico solido contatto con la tecnologia), amante della letteratura fantasy, pigro (niente sport per lui, nemmeno due passi a piedi per raggiungere il ristorante nella pausa pranzo), 28 anni, che il sabato e la domenica si distruggeva con gli amici. La sua parola preferita: «Fatturare».

Marco era un cinquantacinquenne con moglie, tre figli, che si alzava alle sei della mattina e andava in giro tutto il giorno dai clienti, una formazione da grafico, appassionato di recitazione e teatro, aveva creato un’agenzia di giovanissimi perché credeva nella loro freschezza, indifferente e quasi ostile ai social e al web, ancorato a un caldo mondo analogico di contatto umano, strette di mano, incontri e telefonate. La sua parola preferita: «Relazione».

Avevo capito una cosa, anzi due, forse tre:

1. il cliente è quello che io scelgo e quello che mi sceglie; 2. le mie proiezioni sulle sue caratteristiche ideali si devono incontrare a un certo punto con quelle reali e devo tenere conto di entrambe; 3. un cliente reale è meglio di un cliente ideale, perché quello ideale non esiste e quindi non ti paga. Per cui anche se non fa snowboard e free-climbing, sii felice del suo bonifico.

La creazione delle personas è l’incrocio di immaginazione e realtà: avere ben chiaro chi hai di fronte ti aiuta a capire come comunicare, che argomenti trattare, che media o format utilizzare. Dov’è? Cosa fa? Di cosa ha bisogno? Puoi basarti sui clienti che hai già e su quelli che desideri, puoi intervistarli sottoponendo domande, indagando i loro obiettivi e i loro bisogni.

Come faccio io?

Prima di iniziare un lavoro di scrittura sottopongo al mio nuovo cliente un questionario, che

comprende delle domande generiche su di lui e sul suo brand e delle domande specifiche sul lavoro che andremo ad affrontare. La prima parte del questionario mi serve per conoscerlo meglio e tenere aggiornate le mie personas, che nell’arco del tempo possono cambiare. La seconda parte è più mirata sul progetto di scrittura che dovrò realizzare. Non c’è un questionario che possa essere uguale per ogni cliente, dipende dalle informazioni che ho io, dalle esigenze che ha lui, dagli obiettivi che ci diamo.

Dopo aver conosciuto Alberto e Marco, ho sistemato il profilo che avevo stilato, perché a quel profilo non corrispondeva più nessuno: stavo parlando nel vuoto. Il nuovo modello di personas mi ha portato a scegliere argomenti diversi per il blog, a usare un tono di voce meno ingessato, a rivedere i testi del sito, a rivalutare i prezzi dei miei servizi e a eliminarne alcuni, a pubblicare i contenuti sui social in orari diversi e ripensarli perché fossero interessanti per il mio nuovo profilo.

Nei mesi successivi ho continuato a presentarmi alle agenzie, ma è successa una cosa che non avevo previsto: hanno iniziato a cercarmi spontaneamente freelance e piccole aziende. Con la mia comunicazione, sui social, con il blog e la newsletter, con i miei valori, stavo agganciando un’altra fetta di pubblico che non avevo considerato, ma che si riconosceva in ciò che dicevo, che riteneva utili i contenuti condivisi, che era interessata al mio lavoro.

Questo mi ha portato a rivedere ancora le mie personas e identificare tre profili: uno è del freelance, un altro è del responsabile della comunicazione di un’azienda di medie dimensioni e l’altro del titolare di un’agenzia (l’evoluzione di Marco e Alberto).

Prendiamo per esempio Veronica, la mia personas freelance. Cosa ho scoperto di lei.

Veronica

Veronica ha 30 anni, un gatto e tre tatuaggi. È una web designer freelance, con una passione smodata per l’arredamento, in particolare per il Nordic Style. Le piacciono gli oggetti di carta e quelli da creare con le mani: visita i mercatini e torna a casa sempre con qualcosa di strambo, di usato, di vintage a poco prezzo. È una maga nel trovare tutto quello che spicca e che costa poco!

Una volta ha fatto un corso di ceramica e le è piaciuto tantissimo. È abbonata a Flow Magazine e riceve tutti i mesi la scatola di Hoppipolla per tuffarsi in un mondo di sorpresa e meraviglia. Ha un bellissimo account Instagram, le sue stories sono ironiche e curate, il suo sito semplice, poche pagine, non ama scrivere sul blog. Ha una newsletter che scrive raramente e si lamenta sempre con se stessa per la sua pigrizia. Ha a cuore le sorti del pianeta: mangia biologico, gira in bici e fa le lavatrici la sera. Lavora sempre con la musica nelle orecchie. Vive in simbiosi con il suo smartphone e fa tanti viaggi brevi per prendere spunto per il suo lavoro e mettere in circolo le idee. Mi ha contattato per aiutarla con la creatività e i testi dei suoi clienti.

Ho completato questa descrizione di Veronica con la sua carta d’identità, immaginando la sua giornata tipo, le sue esigenze, gli obiettivi e le paure che ha relativamente al mio lavoro, cosa posso fare per lei, per attirarla, per tenerla.

La carta d’identità di Veronica

Età: 30 anni Sesso: femminile

Famiglia: vive da sola ma ha un ragazzo Dove vive: a Torino Formazione: IED a Milano Professione: Web designer e illustratrice



La sua giornata tipo: si sveglia tra le 8 e le 9, lavora tutto il giorno, si ritaglia il tempo per

cucinare anche se non riesce bene a separare vita privata e vita lavorativa. Le email e i social sono sempre aperti nella sua tab, quando fa pausa coccola il gatto. Fa almeno una foto al giorno per il suo profilo Instagram. •

Competenze tecnologiche: alte.



Quali sono le sue esigenze: ha visto i testi del sito di una sua cliente scritti da me e ha pen-

sato che non sarebbe male farsi aiutare anche per i testi del suo. Desidera che la rispecchino e che siano creativi, soprattutto desidera non occuparsene lei perché non saprebbe da dove cominciare. •

Quali sono i suoi obiettivi: avere una comunicazione coerente e pulita.



Quali sono i suoi timori: si chiede se un’altra persona sia in grado di raccontare a parole

quello che lei sa trasmettere benissimo con il suo lavoro. •

Cosa sta cercando: una copywriter creativa che sappia tradurre in parole i suoi valori e il suo

modo artigianale e curato di lavorare. •

Come è arrivata a BalenaLab: ho scritto i testi di una wedding planner sua cliente.



Come posso aiutarla: affiancandola nel processo di consapevolezza del suo brand, che si

tradurrà in testi originali in cui potrà rispecchiarsi. •

Come posso fidelizzarla: continuando a raccontare il mondo di BalenaLab sui social, in par-

ticolare su Instagram dove condivido pensieri miei in cui si può riconoscere; con la newsletter a cui è iscritta; dandole spunti di riflessione con il blog; dimostrandole che siamo sulla stessa lunghezza d’onda; coltivando la nostra relazione con attenzioni, entusiasmo e sconti dedicati a lei. •

Con quale tono di voce le parlo: amichevole, motivazionale, ironico.

Questa era Veronica. Lo sforzo è stato quello di mettermi nei suoi panni e di trovare i suoi problemi e le mie possibili soluzioni. I suoi dubbi mi servono per capire come rassicurarla, la sua giornata mi serve per capire le sue fatiche e le sue gioie, i suoi obiettivi mi servono per capire come posso aiutarla a realizzarli.

Verità e persuasione: costruire il senso e il consenso

«Ho un grande trucco. Diciamo la verità». N.M.Ohrbach

Questo è il paragrafo in cui ti svelo come la verità e la persuasione non si escludano, ma collaborino. Possiamo parlare in modo accattivante, senza per questo mentire.

Te lo confesso, io sono una bugiarda convertita. Da piccola raccontavo un sacco di balle perché avevo paura del giudizio delle persone che per me erano importanti: ero talmente brava che a un certo punto io stessa mi convincevo di aver vissuto quelle storie incredibili di cui diventavo protagonista. Con il tempo, qualche consapevolezza acquisita e un po’ di coraggio in più, ho iniziato a dire quello che pensavo davvero, all’inizio con timore, poi con sempre più determinazione. Ora i miei racconti rispecchiano chi sono: per qualcuno che tengo c’è qualcuno che perdo e va bene così, non si può piacere a tutti e quando te ne rendi conto è proprio una liberazione.

Quello che è successo a me, scommetto succeda a tanti brand che, per paura di non piacere, di non essere «abbastanza», dicono cose che non pensano. Paura di non piacere, ma anche pigrizia, incapacità di dire, poca conoscenza di loro stessi. Ogni brand dovrebbe lavorare per scoprire la propria unicità, nutrirla e comunicarla.

Ma non è solo colpa dei brand. Il mercato ha richiesto di essere sempre più eccezionali e di dirlo a tutti, di essere leader di mercato, di definire come imperdibili tutti gli sconti, anche se sono solo del 10% e si replicano ogni due mesi. Tante aziende si sono trovate a essere la copia di altre brutte

copie senza accorgersene.

Ogni brand dovrebbe lavorare per scoprire la propria verità, scrivere storie interessanti basate su di essa e raccontarle bene.

«Al pubblico chiediamo un applauso, l’applauso significa consenso, il consenso nel nostro gergo è reputazione. La reputazione genera fiducia. La fiducia muove gli acquisti, anzi la scelta di un brand da portare dentro la propria vita. Per scegliere un brand dobbiamo conoscerne la storia, i valori, la spinta che motiva il suo stare sul mercato. Per questo le storie possono aiutare. Perché la narrazione di marca diventa fondamentale per creare questo nuovo patto di relazione». Paolo Iabichino, Scripta Volant

Il linguaggio pubblicitario è per sua vocazione persuasivo. La scrittura persuasiva ha a che fare con la selezione di argomenti che possano aiutare le persone a capire meglio quello che stiamo dicendo. Non è abbastanza raccontare i fatti nudi e crudi, la persuasione si basa sulla vendita emotiva e non su quella logica. Potrei dire, semplificando, che la vendita logica si basa sul prodotto fisico, mentre la vendita emotiva si basa sul beneficio del prodotto. La prima vede il prodotto attraverso gli occhi di chi lo produce; la seconda lo vede attraverso gli occhi delle persone che lo compreranno. Gran parte della comunicazione di successo si basa su una vendita emotiva e ha un gran bisogno di parole nuove e ben pensate.

Tutta la lingua è fatta di scelte, ogni volta che parliamo e scriviamo, scegliamo cosa dire e cosa non dire. Dice Michele Serra: «Scrivere è faticoso e molto artificiale – nel senso che non una sola parola è “naturale” e tutte sono il frutto di una scelta». Ogni inizio esclude tutti gli altri inizi, ogni

trattamento e ogni fine escludono ogni altro trattamento e ogni altra fine.

Nonostante le grandi tecnologie, che ci accompagnano e che si sviluppano con noi e per noi, il mestiere del buon comunicatore si basa ancora sulle nozioni della grande, vecchia retorica, in cui i discorsi sono strutturati secondo regole ben precise per portare all’azione. Funzionava già così nella Grecia Antica: ad Atene c’era un uomo politico che quando parlava incantava la folla, poi ce n’era un altro che parlava e tutti dicevano: «Uniamoci e andiamo a combattere contro Sparta».

È qui la differenza tra un bel discorso e un discorso che funziona; la scrittura persuasiva serve proprio a questo, a traghettare da un’idea a un’azione. Non basta incantare la folla, bisogna convincerla a venire in battaglia con noi. Per portare all’azione, la scrittura deve essere curata nei minimi dettagli, deve argomentare e coinvolgere, comunicando informazioni rilevanti in modo interessante. Quando così non è, le persone prendono precauzioni, si difendono da messaggi inutili o ingombranti.

Quando la pubblicità ci risulta molesta, vogliamo eliminarla. L’affollamento pubblicitario non è solo una seccatura, impedisce ai messaggi di arrivare a destinazione. Ma non tutta la pubblicità ci disturba: ci infastidisce quella noiosa e maleducata, quella che non parla con il tono giusto o che usa stereotipi inadeguati come per esempio quelli di genere, dove la donna è ancora oggi dipinta come massaia o come seduttrice.

«La distinzione tra pubblicità e non pubblicità viene avvertita, da sempre, solo quando la pubblicità è fastidiosa: avviene più facilmente sui mass media,

dove per interessare due persone ne disturbi 98». Mafe De Baggis

Senso e consenso

Se vogliamo che la pubblicità continui ad avere e a produrre un senso e che questo senso si traduca in consenso, e quindi in propensione all’acquisto, ci sono almeno due aspetti da curare.

Innanzitutto, dire meno e dire meglio. Anche i social, con le reach organiche1 in picchiata, ci suggeriscono di produrre meno contenuti, ma di prestare più attenzione a quello che pubblichiamo. E non è una questione di mezzi: se dai un’informazione irrilevante o la trasmetti in modo noioso, non c’è digitale o analogico che tenga. Molti brand non ci pensano, sono convinti che la comunicazione sia un fattore tecnologico e non un evento umano.

Il secondo aspetto da curare è il dialogo con il pubblico: puntare su quell’interazione che si sviluppa quando offerte e narrazioni sono delineate sui desideri e sui bisogni dei singoli; quando i messaggi sono rilevanti perché si basano sempre su chi li riceve e sempre meno su chi li produce.

Servono strategia e creatività, l’una per scegliere messaggi più interessanti e veri, l’altra per comunicarli in modo attraente.

Serve pensare a messaggi rilevanti, che abbiano importanza per la gente che vogliamo raggiungere. Perché sono finiti i giorni in cui la pubblicità raggiungeva una nazione intera con uno spot in Tv.

1

Definizione tratta dal centro assistenza Facebook: «La copertura (o reach) del post equivale al numero di per-

sone a cui sono stati mostrati post della tua Pagina. La copertura organica equivale al numero di persone a cui è stato mostrato un post non a pagamento della tua Pagina, mentre la copertura a pagamento equivale al numero di persone a cui è stato mostrato un post a pagamento della tua Pagina».

Oggi abbiamo bisogno di essere sicuri che il messaggio che stiamo mandando sia significativo. Esempi di messaggi non rilevanti ci circondano ogni giorno di più. Probabilmente anche tu hai visto degli spot interessanti e divertenti, ma di cui non ricordi il brand che c’era dietro. Quando succede questo è perché il messaggio è irrilevante, è soltanto un bel contenitore vuoto.

Quante volte abbiamo assistito a spot dove venivano pronunciate frasi inverosimili come: «Con il mais X e un po’ di fantasia, ecco qua, un’insalatona!», oppure: «Vorrei qualcosa di stuzzicante, ma con il giusto equilibrio». Chi pronuncerebbe mai queste parole nella vita vera? Queste persone non esistono, i messaggi non sono studiati per le persone che li riceveranno, non sono credibili. Il pubblico è sempre più scettico su tutto ed è deleterio usare un linguaggio improbabile o affermazioni inverosimili, anche se sincere.

A tutto questo si abbina un impoverimento sempre più palese del linguaggio, pubblicitario e non. Non mi riferisco solo agli usi impropri della lettera «k», o all’abuso dei puntini di sospensione, ma parlo proprio di una pigrizia di fondo in cui si scrive così perché così fan tutte e allora anche io.

A prendere in giro questo tipo di linguaggio ci ha pensato lo spot della Motta con l’asteroide che colpisce una bambina che parla con tutti gli stereotipi linguistici della pubblicità, talmente surreale da risultare ironico.

Si può vendere e allo stesso tempo essere sinceri?

Sì, si può essere onesti in comunicazione, si deve, e i fatti non bastano, bisogna saperli raccontare.

Il grande copywriter Bob Levenson diversi anni fa dava un consiglio molto utile: «Cominciate una lettera con: “Caro Charlie”, poi dite quel che avete da dire e quando avrete finito di scrivere, limitatevi a cancellare “Caro Charlie”».

Bill Bernbach è stato un pubblicitario straordinario, che ha introdotto in pubblicità la verità creativa. Mentre prima la pubblicità si basava sulla ripetizione, quindi sul messaggio memorizzabile, lui ha spostato l’attenzione sul messaggio memorabile.

Voglio portarti tre esempi di sue campagne che sono meglio di qualsiasi spiegazione. Il suo approccio può essere illuminante per realizzare una comunicazione sincera e virtuosa.

Avis

«Noi di Avis siamo solo i numeri due nel noleggio delle auto, quindi dobbiamo impegnarci più degli altri. Ecco perché dovresti venire da noi». Ovvero, come trasformare il proprio punto debole in un vantaggio competitivo. La campagna Avis fa della verità un’arma retorica potentissima. Il testo molto lungo risponde alla domanda: «Perché dovrei comprare questo prodotto?» ed esplicita la reason why, l’argomento razionale che rende credibili i vantaggi promessi dal prodotto.

«Perché ci impegniamo più degli altri. (Quando non sei il numero uno, è la sola cosa da fare). Noi non possiamo proprio permetterci posacenere pieni. O serbatoi mezzi vuoti. O tergicristalli consumati. O automobili sporche. O pneumatici sgonfi. O sedili regolabili che poi non si regolano. Climatizzatori che non climatizzano. Sghiacciatori che non sghiacciano. E, naturalmente, con te dobbiamo essere il più premurosi possibile. Farti iniziare la giornata alla grande, con un bel sorriso e un’automobile fiammante, ad esempio una scattante Ford super torque. Dobbiamo persino saperti indicare dove puoi trovare un buon panino al pastrami se passi da Duluth. Perché? Perché sappiamo di non poterti dare per scontato. Perciò, la prossima volta, scegli noi. La fila al nostro sportello è anche più corta».

Traduzione di Giuseppe Mazza, tratto da Cose vere scritte bene.

Quante aziende avrebbero il fegato di dire che non sono leader di mercato? Eppure Bernbach si rende artefice di questo. Essere i numeri due sembra a tutti gli effetti un limite, mentre nelle sue mani diventa un punto di forza: essere il numero due implica più impegno, più cura, più attenzione e Avis te la darà.

Chapeau, Bill.

Volkswagen

Siamo a New York dopo la seconda guerra mondiale. Immagina la situazione: alla porta della DDB, agenzia fondata da Ned Doyle, Maxwell Dane e William «Bill» Bernbach, ebreo del Bronx (prima di lui non c’erano mai stati né ebrei né bronxiani nelle agenzie di Madison Avenue) bussa un’azienda di auto tedesca, che vuole introdurre nel mercato americano una piccola utilitaria, il

Maggiolino. L’azienda si chiama Volkswagen e non è certo un marchio qualunque. A pochi anni dalla fine della guerra, è il marchio dell’auto di Stato voluta da Hitler: già in partenza sembra una sfida enorme. Bernbach accetta e nel 1959 esce la campagna «Think small»: verrà definita l’ADV più innovativa di sempre.

Com’è? Un Visual in bianco e nero, senza nessun guidatore pieno di fascino, nessuna donna sorridente e rassicurante, nessun dettaglio scintillante: solo un Maggiolino in lontananza, piccolissimo e in secondo piano su un fondo spoglio. Una vera rottura rispetto ai canoni della comunicazione di quegli anni, opulenta e piena di colori.

L’Headline è «Think small.»: il primo nella storia della pubblicità ad avere un punto fermo. È l’austero imperativo che in pieno boom economico invita gli americani a pensare in piccolo, che

anticipa un Bodycopy che spiega i vantaggi di avere una macchina così poco ingombrante. Un annuncio pieno di humor, complice, gratificante, capace di rivelare temi di grande concretezza come il risparmio, la solidità del prodotto, l’oculatezza nell’acquisto. Il messaggio è che la Volkswagen è un’azienda onesta, tutto raccolto in quel «Think small.». È una pubblicità che rispetta il prodotto, ma anche l’intelligenza delle persone: è sincera, umana.

Il risultato di Bernbach fu rivoluzionario per questo suo metodo che chiamò «negative approach»: quello che poteva essere considerato un difetto o una debolezza, come le piccole dimensioni del maggiolino in un mercato in cui il prestigio di un’auto si misura mediante la sua grandezza e potenza, diventa un punto di forza. Sono i fatti, l’umorismo e il fascino di queste righe a tenere testa alle argomentazioni cavalcate dalle pubblicità delle altre auto: il rapporto qualità prezzo, la bellezza della carrozzeria, le alte performance. Un annuncio che nega lo stereotipo pubblicitario e mette in discussione l’atteggiamento americano verso la società dei consumi, un attacco all’auto intesa come status symbol.

Confrontare questa campagna con qualsiasi altra campagna del periodo significa notare le differenze tra complessità e semplicità, tra artificio e realismo:

Ohrnbach’s

«Siamo spiacenti di comunicarti che il tuo materiale scolastico è pronto da Ohrbach’s», così dice l’headline che accompagna il visual di un bambino imbronciato. Bill Bernbach sapeva che seccatura fosse per i ragazzi il ritorno a scuola e aveva scelto di farla finita con tutte le immagini serafiche di bambini che corrono verso l’ingresso della scuola sotto lo sguardo di mamme e maestre fotomodelle. In questa campagna, ancora una volta, è presente l’ironia delicata e onesta di Bernbach, il suo taglio realistico e credibile. E proprio di parole credibili abbiamo bisogno: oggi più che mai il compito di noi copywriter è quello di ristabilire fiducia nelle parole.

Decidi come vuoi ottenere il consenso del tuo pubblico. Con la verità. O con l’aria fritta.

Foto: Adam J. Kurtz, Pick Me Up: A Pep Talk for Now and Later

Contenuto e forma: due facce della stessa medaglia

«Dimenticate parole come “hard sell” o “soft sell”. Vi confondono e basta. Assicuratevi invece che la vostra pubblicità dica qualcosa di sostanzioso, qualcosa che informi e serva al consumatore. E assicuratevi che lo dica come non è mai stato detto prima». William Bernbach

Questo paragrafo rivela una delle mie convinzioni: che la forma è importante quanto il contenuto e, spoiler, che la forma è un contenuto.

Alzi la mano chi, dopo un punto fermo su WhatsApp, non si è sentito un po’ a disagio. «Torno tardi.» Si è arrabbiato? È irritata? Ho scritto qualcosa e adesso è distaccato. Mi sa che la nostra storia è finita!

Se alla domanda: «Ma scusa, tu cosa ne pensi del capitalismo?» ricevessi una stringa di emoticon, o un: «Ahahaha, ke fai la seria oggi?», o: «Credo senza ogni ombra di dubbio che l’unico sistema economico possibile sia il comunismo», o ancora: «La ritengo un’espressione necessaria di una visione idiosincratica del funzionamento del mercato», capirei molto di chi mi risponde, non solo per il contenuto, ma anche grazie alla forma, le parole che usa e come le mette insieme.

Tutti i contenuti hanno una forma. La forma è la condizione necessaria per poter accedere a un contenuto: percepiamo contenuti grazie alla loro forma. Per il pensiero ci sono le parole, per i sentimenti ci sono i gesti (e per i più romantici anche le parole), per il corpo ci sono le proporzioni, per

il tempo ci sono le ore.

La forma nella scrittura non è soltanto la scelta delle parole, del loro ordine, il tono di voce: è anche l’uso dello spazio, l’impaginazione, i grassetti, il corsivo, la grandezza del font.

Il primo approccio che abbiamo al testo è visivo. La scelta di posizionarlo nella nostra pagina fa parte del messaggio che comunichiamo. Se un testo è inguardabile, è anche illeggibile. Seguendo queste indicazioni, il lettore dovrà trovare le sue risposte in un percorso chiaro e coerente. Questo vale sia che si tratti di un annuncio pubblicitario, che di un articolo del blog o una Call to action.

Proviamo con un altro esempio.

Supponiamo che tu produca intimo femminile e che le tue ricerche e analisi di marketing dicano che la donna a cui ti rivolgi desidera un reggiseno comodo, ma allo stesso tempo sexy. Supponiamo che anche i tuoi concorrenti giungano alla stessa conclusione: così vi mettete entrambi a produrre reggiseni comodi e sexy e utilizzate le vostre campagne per dire che i vostri reggiseni sono comodi e sexy.

Cosa succede? Che tutti date la stessa informazione e le donne si trovano a scegliere. E cosa sceglieranno? Chi si farà notare, chi avrà più appeal, chi toccherà le corde giuste.

E questo si fa con la forma, il modo, il come. La forma non è un accessorio di cui si può fare a meno, anzi, è la prima cosa che incontriamo di un contenuto: come un biglietto da visita. Trovo che ci sia sempre un po’ di discriminazione a riguardo: si pensa che il contenuto, la cosa da dire, sia più importante della forma, del come viene detto, ma non è affatto così!

Shakespeare, per scrivere le sue opere, si ispirò alle trame dei libretti dell’epoca: la vera differenza fu nel come mise in scena la storia e proprio quel come lo ha consegnato all’immortalità.

Sempre più, contenuto e forma si sovrappongono. Su Internet, per esempio, la forma della pubblicità non è più così percepibile come una volta: i nostri post sui social sono diventati cartelloni pubblicitari dove parole e immagini si integrano, i siti web sono giornali da sfogliare all’infinito.

Internet non ha scardinato solo tutte le retoriche pubblicitarie, ma anche i suoi formati: i vincoli di spazio prima di tutto. Non sfogliamo una pagina alla volta, ma vediamo lo schermo, seppur definito, espandersi in infinite schermate; i vincoli di tempo, i tassativi 30 secondi dello spot radio o Tv, si sono moltiplicati a piacimento nei video che durano tutto il tempo di cui l’azienda ha bisogno.

La forma mette ordine, esalta, soccorre. Lo stile è il segno della persona, il taglio del suo pensiero, lo sguardo, il suo passo nel mondo. Ci vuole coraggio per trovare il proprio: bisogna mettere da parte la pigrizia, che ci fa scegliere parole e formule confortevoli e già lette, come: soluzioni a 360 gradi, il cliente al centro, soluzioni innovative, le esigenze specifiche del cliente, un partner affidabile, affrontare nuove sfide e anticipare il cambiamento, servizi efficienti ed efficaci. Bisogna mettere da parte anche la paura del vuoto, che ci fa riempire le frasi di elementi non necessari, che ci fa usare aggettivi che non danno valore al nostro testo, come: integrato, rilevante, unico, flessibile, eventuale, esclusivo, imperdibile, opportuno, qualificato, professionale, completo; o avverbi di modo che finiscono in -mente come facilmente, sicuramente, completamente, veramente.

Rolls-Royce

Questa è la famosa campagna per Rolls-Royce, che David Ogilvy realizzò nel 1959.

Chi guida una Rolls-Royce si aspetta un’auto silenziosa e questo viene detto nell’ADV. Supponiamo che David Ogilvy avesse scritto: «La macchina più silenziosa al mondo», invece di: «A 60 miglia all’ora il rumore più forte che sentirete in questa nuova Rolls-Royce sarà il ticchettio dell’orologio elettrico».

Il concetto dei due enunciati è lo stesso, ma senti come è più forte la seconda frase? Perché? Perché non afferma in modo spudorato, ma coinvolge, ti fa sentire alla guida dell’auto, inserisce un elemento percettivo ed entra nella quotidianità di chi legge, che può immedesimarsi molto più facilmente.

Ancora Volkswagen

«Rottame. Questa Volkswagen ha perso la sua occasione. Il listello cromato del cruscotto è difettoso, deve essere sostituito. Tu probabilmente non te ne sarai nemmeno accorto; l’addetto al controllo qualità, Kurt Kroner, l’ha fatto. Nel nostro stabilimento di Wolfsburg ci sono 3.389 operai che hanno

un solo compito: controllare la qualità delle Volkswagen in ogni fase della produzione. (Ogni giorno vengono prodotte 3.000 Volkswagen; ci sono più addetti al controllo qualità che automobili.) Ogni ammortizzatore viene collaudato (i controlli a campione non lo fanno), ogni parabrezza è esaminato. Alcune VW sono state scartate per dei graffi appena visibili a occhio nudo. Il controllo finale è davvero impressionante: gli addetti al controllo VW guidano ogni auto all’interno del Funktionsprüfstand (il padiglione di prova auto), passando attraverso 189 punti di controllo, fino al banco di prova dei freni e dicendo “no” a una VW su cinquanta. Quest’attenzione ai dettagli significa che una VW durerà più a lungo e richiederà meno manutenzione, in generale, rispetto alle altre vetture. (Significa anche che una VW usata si svaluta meno di qualsiasi altra vettura.) Noi raccogliamo i rottami; a te restano i gioielli».

Traduzione di Lino Bellissimo, tratto da Cose vere scritte bene di Giuseppe Mazza.

Questo invece è l’annuncio Volkswagen realizzato da Bill Bernbach, il cui titolo è: «Rottame» (lemon in inglese), seguito da un bodycopy che racconta la scrupolosità dei controlli qualità delle auto Volkswagen. Mi chiedo: quale marca automobilistica avrebbe il coraggio di inserire la parola rottame nella propria pubblicità di auto? Ci si può esprimere così parlando del proprio prodotto? Pensa se avesse detto: «Il più grande sistema di controllo qualità al mondo», invece della singola scioccante parola rottame. Forse nessuno l’avrebbe notato.

L’uso dell’ironia e del paradosso sono il sintomo di una comunicazione che gioca con il suo pubblico, chiede collaborazione, lo rende complice. Ci vuole audacia per differenziarsi nel tutto uguale, ci vuole coraggio per portare avanti le proprie idee, quando queste spaccano gli argini delle vecchie regole.

Dall’agenzia Young & Rubicam ci arriva questo consiglio: «Make the familiar strange and the strange familiar», proviamoci sempre.

Sgranchiamoci le idee



Rispondi alla domanda: «Chi sei davvero?» in massimo 200 caratteri, inserendo il perché,

il come e il cosa fai, in questo ordine di priorità. Può aiutarti individuare cinque parole chiave che per te sono importanti e che sono collegate al tuo lavoro: abbi cura di inserirle in modo naturale nel tuo testo. •

Stampa in grande la griglia del Business Model Canvas o disegnane una tu. Prenditi il tempo

per compilare le varie sezioni e aggiustare le risposte fino a che non saranno il più vicine possibile alla realtà. •

Individua le tue personas seguendo il modello di Veronica, poi compila la loro carta d’iden-

tità. Appena puoi, intervista alcuni tra i tuoi clienti: serve per aggiustare il tiro dei tuoi profili e anche per nutrire la vostra relazione. •

Scrivi la tua verità, 10 righe che parlino davvero di te come persona.



Quella stessa sincerità applicala al tuo brand, scrivi 10 righe sincere sul tuo lavoro. Scrivere-

sti cose diverse, se sapessi di doverle leggere davanti a una platea di persone? •

Prendi un oggetto che hai in casa e diventa tu stesso quell’oggetto. Ci sei? Ora prova a ven-

derti a un tuo amico o a un famigliare. Scrivi un testo che contenga i motivi per cui qualcuno dovrebbe comprarti, dando risalto ai cinque sensi: vista, olfatto, udito, tatto, gusto.

Capitolo 2. Cosa dire: l’idea

Argomentare e illuminare

«Il fine ultimo di ogni discorso è prendere una cosa a cui tenete moltissimo e ricostruirla nella mente di chi vi sta ascoltando. Quella cosa si chiama idea». Chris Anderson, Il migliore discorso della tua vita

Questo paragrafo ti rivela cosa c’è dietro un’idea di successo.

Einstein ha rischiato diverse volte di essere bocciato a scuola, eppure è il padre della rivoluzionaria teoria della relatività; fu lui e nessuno dei suoi colleghi (alcuni di loro lo prendevano anche in giro) ad arrivare agli straordinari risultati che hanno condizionato tutte le ricerche future. Einstein ha scoperto le cose più originali sul tempo e sullo spazio perché non si è lasciato imprigionare dalla conoscenza matematica, non ha battuto i sentieri già percorsi, ma ha tenuto la mente aperta alle verità, spesso semplici, che gli stavano intorno. Lui stesso riferisce di avere avuto «visioni» che gli hanno permesso di accedere alle conoscenze che poi ha condiviso con il mondo intero. Dal regno dei fatti, materia prima degli scienziati, sapeva passare al regno dell’immaginazione, materia prima dei poeti, tanto che la sua idea sulla relatività è il frutto della combinazione di esperienza e intuito.

Einstein non è un’eccezione.

Newton, matematico straordinario e grande scienziato, a cui dobbiamo la scoperta della gravità, usava come strumenti delle sue scoperte le intuizioni e le congetture, le prove venivano sempre dopo.

Bertrand Russell, uno dei matematici più interessanti del ’900, dice: «Il modo in cui lavoro è avere la sensazione che qualcosa sia in un certo modo. Dopodiché, torno indietro e lavoro sulla matematica per provarlo. Se la matematica non quadra, non butto via l’idea, butto via la matematica. E riparto da capo».

Oltre le conoscenze, le intuizioni

Una delle caratteristiche peculiari della conoscenza è che riguarda il passato, qualcosa che già esiste; se vogliamo costruire qualcosa di nuovo, dobbiamo predisporci ad accoglierlo, per superare quello che sappiamo già. Oggi più che mai abbiamo bisogno di buone intuizioni, di idee capaci di sfondare il muro del rumore generato dal surplus di messaggi.

Immagina una giornata al computer. Quante informazioni ricevi? Dalla bacheca di Facebook, dalla casella email, da WhatsApp, dai link che spuntano in ogni dove e che invitano a cliccare su un altro link e poi su un altro ancora. In mezzo a tutto questo movimento eccentrico e non concentrico, come si può far soffermare le persone su quello che abbiamo da dire noi?

Con idee buone

Il nostro metabolismo è cambiato, non digeriamo più i messaggi ripetuti fino allo sfinimento, gli slogan da imparare a memoria, i tormentoni vuoti e senza valore, la collezione degli stereotipi. Ed è un bene, perché questo ci spinge e costringe a pensare a nuove idee, migliori, che siano in grado di tradurre la promessa che facciamo con i nostri prodotti e servizi, in una comunicazione credibile e di impatto.

Non c’è nemmeno da distinguere tra online o offline, ma da ricercare idee semplici, capaci di essere declinate su tutti i media. Molti messaggi mancano di una proposta vera e sincera e, allo stesso tempo, sono pieni di aggressività. Una buona idea, invece, non si limita a promuovere un prodotto o un servizio, ma inserisce gli interessi del singolo in un mondo di valori collettivi, promuovendo qualcosa di più grande del nostro brand, che sia condivisibile e in cui ci si possa identi-

ficare.

Dietro una buona idea, c’è sempre un problema. Semplice o spinoso non importa: l’ostacolo è necessario per mettere in moto pensiero e creatività. Quando abbiamo qualcosa da risolvere, allora abbiamo anche l’opportunità di trovare quello che ci serve. Il nostro cervello, infatti, non ha la capacità di pensare nel vuoto, la creatività non scaturisce dal nulla, ma si accende quando è in presenza di un problema da risolvere, un ostacolo da superare, un vincolo da sciogliere, una teoria da sviluppare e rendere attuale. Per trovare una buona idea bisogna comprendere il problema, avere il coraggio di osare e conquistare la fiducia delle persone a cui la nostra idea è rivolta.

Il metro di giudizio per capire se un’idea è piaciuta è ancora il caro vecchio passaparola. Offline è il «Ci troviamo e ti parlo di questo spremi lime meraviglioso che ho comprato»; online è la condivisione di un articolo sui social, l’inoltro di una newsletter, il commento sotto il video, il tag all’amico.

Un’informazione potente si diffonde a prescindere da chi la sta condividendo, a prescindere dalla capacità di persuasione di chi se ne fa ambasciatore, a prescindere dal numero di amici che può avere.

Un’idea di successo risponde a uno di questi tre stimoli:



il coinvolgimento;



la meraviglia;



iI valore pratico.

Sono tre leve che portano un’idea a essere amata e condivisa. Le stesse che guidano un individuo verso un’azione. 


Le persone approcciano la realtà e quindi anche la pubblicità e la comunicazione, con le proprie emozioni, pregiudizi, aspirazioni, bisogni; cercano di razionalizzare i fatti per poterli comprendere e fare propri. Non solo: c’è un forte valore sociale nella condivisione. Se mi dai qualcosa di mio interesse, sarò felice di condividerlo con gli altri, perché quello che mi piace mi racconta e dirlo a

tutti mi definisce e mi distingue. Condividere storie, informazioni o annunci pubblicitari originali, singolari e interessanti, contribuisce a far sembrare le persone più originali, singolari e interessanti.

Coinvolgimento, meraviglia e utilità inducono le persone a parlare, scegliere, usare un prodotto o un servizio. Per questo dobbiamo curare al meglio quello che scriviamo e porre attenzione a quello che il lettore ne ricava. Dobbiamo avere chiaro come legge, come ascolta e come impara. Per meglio comprendere questi stimoli utilizzerò tre esempi di messaggi che hanno avuto un grande passaparola. Tre video che hanno raggiunto un elevatissimo numero di visualizzazioni.

Il coinvolgimento

Hai presente la madeleine di Proust?

Basta un piccolo dolce, la madeleine, per far ritrovare a Marcel Proust un mondo di nostalgia. Il tempo è perduto, ma il ricordo è vivo e arriva inaspettato e senza controllo. Basta un profumo e il naso diventa la porta d’ingresso della memoria. È una circostanza casuale che fa riemergere un ricordo: quando uno stimolo è legato a un’emozione, si fissa nella memoria più di uno stimolo neutro senza coinvolgimento.

E così vale anche per i nostri messaggi.

Quando siamo coinvolti, ritroviamo un sentimento o uno stato d’animo in cui ci riconosciamo, che abbiamo provato o vorremmo provare di nuovo. Non possiamo ignorarlo, anzi, vogliamo tenerlo con noi o condividerlo. Le persone comprano sulla base della loro storia personale, di meccanismi inconsci, metafore e mondi in cui si riconoscono. Per essere coinvolgente, un concept deve contenere un’associazione molto forte tra il mondo rappresentato e quello personale. Se dico marmellata, molti pensano al burro, se faccio vedere una tazza di caffè, altrettanti pensano al cioccolato, se dico Google, tutto è possibile.

Hai detto Google? Non fare quell’interfaccia che poi mi commuovo.

È il 2010 e Google deve comunicare le novità apportate alla sua interfaccia, che è diventata più veloce, pratica e intuitiva grazie alle nuove funzioni tra cui il cerca voli, il correttore automatico e il traduttore. Ci sono un paio di idee in ballo: un tutorial che mostra le nuove funzioni e un quiz online che richiede l’uso delle nuove funzioni di ricerca per risolvere quesiti complessi. Bene, sì, ma niente di veramente convincente, tutto già visto e nessuna emozione. Anthony Cafaro, giovane designer del Creative Lab incaricato da Google di realizzare il video, propone una strada alternativa: invece di limitarsi a sottolineare le ultime funzioni del motore di ricerca, ricorda agli utenti di Google perché lo amano così tanto. Così Anthony produce un video, intitolato Parisian Love, in cui si racconta la nascita di una storia d’amore tra un ragazzo americano e una ragazza francese, attraverso le ricerche su Google. Il video consiste in frasi che vengono inserite nella stringa del motore di ricerca: «Studiare all’estero Parigi», «Traduzione di tu es très mignon», «Sorprendere una ragazza francese», «Consigli per mantenere una relazione a distanza», «Lavoro a Parigi». Più si aggiungono particolari, più comprendiamo la storia in un crescendo di musica ed emozioni. «Continuate a cercare», è il messaggio che conclude questo video. Google riesce dunque a creare una storia commovente, senza far vedere nemmeno una persona, semplicemente usando la sua interfaccia: i risultati offerti da un motore di ricerca diventano i risultati che valgono per le persone, che si concretizzano nella vita di tutti giorni. Google ha trovato un concept in cui le persone si sono riconosciute. Non invita a consumare il suo prodotto/servizio, invita a consumare più vita e questo è molto più potente. Parisian love: https://www.youtube.com/watch?v=nnsSUqgkDwU

La meraviglia

La meraviglia è quella sensazione di sconcerto ed esaltazione che si sperimenta quando siamo ispirati da un concetto, da una bellezza che ci sovrasta. È l’esperienza di trovarsi di fronte a qualcosa più grande di noi: sorpresa, stupore o mistero. La meraviglia è un misto di ammirazione e ispirazione e può essere provocata da qualsiasi cosa: un’opera d’arte, una melodia, un paesaggio, un’impresa, una scoperta, un video.

Sul palco del Britain’s Got Talent sale questa signora, ha quasi 50 anni; un’età insolita per esse-

re una partecipante al talent, l’aria un po’ sciatta, i capelli arruffati, vestita come una delle nostre nonne, in confronto agli altri concorrenti che brillano di luce propria con trucco, pailettes, pantaloni stretti ed effetti speciali. È nervosa e quando le chiedono che sogno ha, lei risponde che vuole fare la cantante. Tutto è presagio di un’esibizione disastrosa, i giudici sembrano non vedere l’ora di passare al prossimo concorrente, poi parte la musica di I dreamed a dream dal musical Les Misérables: quando entra la voce della signora sconosciuta, a tutti in studio viene la pelle d’oca. Lei è Susan Boyle e con quella potenza coglie tutti di sorpresa. Il video della sua esibizione è uno dei più virali di sempre: in soli 9 giorni le visualizzazioni sono più di 100 milioni. Il video suscita stupore e meraviglia ed ecco che le persone lo condividono. Non servono grandi budget o effetti speciali, ma cogliere di sorpresa il pubblico con idee semplici. Susan Boyle: https://www.youtube.com/watch?v=RxPZh4AnWyk

Il valore pratico

Quando teniamo a qualcosa vogliamo condividerlo, ma è vero anche il contrario: condividere qualcosa significa considerarlo importante. Alle persone piacciono i contenuti che le aiutano nella loro quotidianità: utili e rilevanti. Utili, che servono a qualcosa; rilevanti, che sono pertinenti perché trattano un argomento che interessa.

Nel 2008 ClioMakeUp carica il suo primo video su YouTube, dove annuncia il desiderio di condividere, di lì in poi, i suoi progressi col make up. Quando inizia è una sconosciuta che ha appena iniziato una scuola di trucco, oggi è una famosa beauty blogger. Non sono le sue capacità tecniche di ripresa o montaggio a impressionarci, infatti per realizzare ogni video servono pochi minuti: play&rec, parla, stop, carica. È la rilevanza dei suoi contenuti a conquistarci. Clio condivide qualcosa che è utile e interessante per qualcuno. Nei suoi video, le persone trovano convenienza e valore. Tutti i contenuti che aiutano in qualcosa di pratico, fanno guadagnare tempo o competenze, migliorano la salute, fanno risparmiare denaro o distinguono chi ne fruisce, sono i preferiti dalle persone. ClioMakeUp: https://www.youtube.com/watch?v=ZYgEQU3gGkw

Generare un concept

«Oggi, ogni tanto, voltandomi indietro, ripenso alla mia vita come un lungo discorso che ho ascoltato. La retorica a volte è originale, a volte piacevole, a volte inconsistente (il discorso dell’incognito) a volte maniacale, a volte pratica, a volte come l’improvvisa puntura di un ago, e io l’ascolto da tempo immemorabile: come pensare, come non pensare; come comportarsi, come non comportarsi; chi detestare e chi ammirare; cos’abbracciare e quando scappare; cos’è entusiasmante, cos’è massacrante, cos’è lodevole, cos’è superficiale, cos’è sinistro, cos’è schifoso, e come restare un’anima pura. Si direbbe che parlare con me non sia un ostacolo per nessuno. Questa forse è una conseguenza del mio essere andato in giro per anni con l’aria di chi aveva un gran bisogno che qualcuno gli rivolgesse la parola.  Ma qualunque ne sia la ragione, il libro della mia vita è un libro di voci. Quando mi chiedo come sono arrivato dove sono, la risposta mi sorprende: “Ascoltando”». Philip Roth, Ho sposato un comunista

Questo paragrafo introduce il concetto di creatività: che cos’è e che cosa fa.

Marcel Proust durante la stesura de La ricerca del tempo perduto fece rivestire di sughero le pareti del suo appartamento parigino, così da isolarlo acusticamente. Scriveva di notte, disteso a letto, proprio come Mark Twain, George Orwell, Truman Capote: quest’ultimo si definiva uno «scrittore orizzontale», perché pensava di non riuscire a scrivere se non sdraiato.

Virginia Woolf dedicava alla scrittura due ore e mezza ogni mattina: si metteva al suo tavolo da lavoro, piuttosto alto e dal piano inclinato, così da poter guardare ciò che aveva scritto sia da lon-

tano che da vicino. Poi si costruì un tavolo personalizzato a cui aveva attaccato un vassoio, in cui posizionava i materiali di scrittura, per non doversi alzare nel caso avesse avuto bisogno di penne e inchiostro. A ogni tipologia di scritto riservava un diverso colore di inchiostro: per scrivere le lettere, ad esempio, usava il porpora.

Victor Hugo scriveva nudo: in vista della consegna del romanzo Notre-Dame de Paris, ordinò al domestico di confiscargli gli abiti per obbligarsi a non uscire di casa.

Jack Kerouac riusciva a scrivere solo di notte, riempiendo le ore notturne di riti e superstizioni che trovava indispensabili per sfornare i suoi capolavori: per esempio ripeteva alcune azioni nove volte, perché credeva nella magia del numero nove.

Vladimir Nabokov scrisse la maggior parte dei suoi romanzi su piccoli cartoncini che venivano poi ordinati, pinzati e conservati dentro piccole scatole.

Maya Angelou affittava una camera in un hotel nella sua stessa città, in cui non dovevano essere presenti quadri per evitare distrazioni, chiedendo al personale di non disturbarla nemmeno per cambiare le lenzuola.

Potrebbero sembrarti abitudini bizzarre e forse lo sono, ma dietro ognuna di loro c’è uno scrittore e una forte urgenza: non perdere la concentrazione, stimolare la creatività e incoraggiare l’insight, il momento folgorante dell’illuminazione in cui arrivano le idee.

Cos’è la creatività?

Thomas Edison (lui sì che di insight se ne intendeva!) disse: «Il genio è l’un percento di ispirazione e il novantanove per cento di sudore. Dunque, una persona geniale è spesso soltanto una persona di talento che ha fatto bene i suoi compiti».

Viene quindi da pensare che non si nasca creativi, ma ci si alleni per essere sempre più pronti. E infatti è proprio così. Il talento ci accompagna dalla nascita, ma la creatività si conquista con tem-

po e fatica: anche i migliori talenti naturali devono impegnarsi, se vogliono sviluppare le proprie potenzialità. Insomma, il talento aiuta, ma ci vuole una pratica costante per generare concept utili a metterci in relazione con le persone. Per quei pochi secondi di lavoro inconscio, quello in cui ci arriva l’illuminazione, ci vogliono ore e ore di lavoro cosciente.

La capacità di creare qualcosa ha un legame più stretto con l’impegno, la disciplina, il metodo, la testardaggine, che con la fantasia, l’immaginazione, l’ispirazione. Le lampadine si accendono ancora all’improvviso, ma non hanno niente di casuale o magico, sono il risultato di un’attenta preparazione al buio. Pensa, la più completa definizione di creatività l’ha data un matematico, fisico teorico e filosofo naturale francese: credevi forse che le menti scientifiche non usassero la creatività? Si chiama Henri Poincaré e per lui la creatività è la «Capacità di unire elementi preesistenti in combinazioni nuove, che siano utili».

Puntiamo l’attenzione sui tre elementi che compongono questa definizione:

1. connessione: la creatività mette in collegamento due elementi che fanno parte di due mondi; 2. nuovo: la connessione deve essere inedita, se la connessione è già nota non abbiamo scoperto niente; 3. utile: deve servire a qualcosa, se non è rilevante per le persone a cui stiamo parlando non si tratta di creatività.

Spesso si pensa che la creatività coincida con la rottura delle regole, invece si tratta di superare le vecchie regole trovandone di nuove che funzionino meglio. Questo significa che per superare una regola bisogna prima conoscerla.

Diego Fontana è un copywriter che ha inserito la parola «merda» all’interno di un suo lavoro, un copy-ad, un annuncio di solo testo senza visual. Non ha fatto questa scelta perché voleva essere il primo a scrivere una parola volgare in una pubblicità, ma perché era funzionale al suo scopo.

Ti ha colpito, non è vero?

Questo tipo di disobbedienza è ciò che tiene viva l’attenzione: i messaggi di marketing tendono a essere tristi e informativi, per questo è sempre necessario coltivare la ricerca stilistica, evitando di ricorrere alle formule standard. Non si può essere cauti e allo stesso tempo creativi, per cui metti da parte la prudenza. Ma tieni a mente sempre quello che diceva Gavino Sanna, grande pubblicitario: «La creatività deve essere innovativa per essere nuova, ma non così nuova da essere incomprensibile». La creatività non è solo metodo, non è solo regole migliori, ma è anche un atteggiamento. Possiamo essere creativi in tutti i campi e settori, anche nella scienza, come ci hanno dimostrato Einstein, Newton e Russell.

Annamaria Testa definisce la creatività come: «Uno stile di pensiero che si esprime in processi mentali caratteristici. Procede essenzialmente per associazioni tra idee, concetti, fatti, e dà origine a idee e concetti nuovi, invenzioni, scoperte: insomma, a risultati tanto originali quanto efficaci». Il pensiero creativo comprende l’attitudine a essere curiosi, a porsi domande inedite, a invischiarsi in situazioni non comuni, ad affrontare il rischio di sbagliare e la capacità di imparare dagli errori.

Ogni giorno siamo di fronte a diversi problemi che risolviamo con la creatività, trovando di

continuo modi anche minimi di fare meglio le cose. Chi scrive si trova a dover tradurre le necessità della propria azienda o di altre aziende (se sei un copywriter), in messaggi laterali e originali.

A me, per esempio, le idee migliori vengono quando non sono davanti al computer. Quando preparo la cena, quando sono stesa sul divano, nel bel mezzo di una passeggiata, sotto la doccia, la mattina appena sveglia ancora sotto le coperte, quando scarabocchio su un foglio durante una telefonata. Quando mi concentro sulla risoluzione di un problema metto in campo tutte le mie risorse cognitive, quando non ci sto pensando, il cervello è libero e va dove vuole.

Il pensiero creativo

«Proprio nel momento in cui decidete di tradire le regole, dovete far sì che la coerenza tra tutti gli elementi che compongono il messaggio sia assoluta, tanto da suggerire l’esistenza di una regola nuova, compiuta, riconoscibile, necessaria e sufficiente a giustificare le vostre scelte». Annamaria Testa

Questo paragrafo parla di cervelli che funzionano, pensano e creano. Di intuizione, pazienza, curiosità, tenacia e coraggio.

Per capire come generare un concept, è necessario prendere consapevolezza del processo che lo determina: in questo modo potrai nutrire la creatività e allenarla mediante le azioni che la favoriscono.

Vediamo brevemente, senza complicarci troppo la vita, come funziona il nostro cervello e cosa succede quando cerchiamo un’idea creativa.

Il processo creativo ha bisogno di tutti e due gli emisferi cerebrali: il sinistro, dedicato alla razionalità, alla logica, alla visione dettagliata, all’analisi, alla deduzione; e il destro, dedicato alla creatività, all’intuizione, alla visione globale, alla sintesi. L’emisfero sinistro produce il pensiero convergente, mentre l’emisfero destro il pensiero divergente. Non sono brutti pensieri, sono i modelli a cui appartengono tutti i nostri pensieri, quelli logici e quelli creativi.

Il papà del pensiero divergente è J.P. Guilford: nel 1950 pubblica un articolo in American Psychologist intitolato Creativity dove, accanto al pensiero convergente, logico-deduttivo, che aveva caratterizzato la ricerca scientifica fino a quel momento, individua un pensiero divergente, meno vincolato agli schemi esistenti e in grado di produrre più soluzioni a uno stesso problema.

Il pensiero convergente è il ragionamento logico, un procedimento deduttivo che applica regole apprese e procedure precise, analizza i dati in maniera metodica, procede in modo lineare, per sequenze: causa/effetto, prima/dopo, premesse/conseguenze. È quello che ci fanno allenare a scuola, che ci aiuta a risolvere problemi che hanno una sola soluzione.

Il pensiero divergente è il pensiero creativo, alternativo, originale, che si muove per associazione di idee e che Edward De Bono2 chiama pensiero laterale. È un pensiero multidirezionale, che ci fa guardare le cose da nuovi punti di vista, è in grado di dare molteplici soluzioni a un unico problema e si sviluppa in modo non lineare per somiglianze/differenze, suggestioni, metafore. Ecco che quindi la buona idea ha più a che fare con la scoperta che con la creazione vera e propria.

Come è fatto un pensiero divergente?

1. È fluido: fornisce diverse risposte a un problema. 2. È flessibile: passa velocemente da uno schema di pensiero a un altro. 3. È originale: trova soluzioni innovative o conseguenze inattese a determinate situazioni. 4. È selettivo: sceglie gli stimoli migliori per riorganizzarli su diversi livelli. 5. È generativo: fa crescere idee coerenti con l’idea originaria.

Nella realtà, la produzione creativa è opera della collaborazione continua dei due emisferi, ciascuno dei quali dà il suo apporto con le proprie specifiche attitudini.

Il processo creativo di Graham Wallas

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Edward De Bono è scrittore e pensatore, autorità massima negli studi sul pensiero creativo. Laureato in Psi-

cologia e Medicina, ha collaborato con le università di Oxford, Cambridge e Harvard. Se vuoi conoscerlo meglio inizia leggendo i suoi bestseller: Sei cappelli per pensare, Il pensiero laterale e Creatività e pensiero laterale.

Sebbene il processo creativo sia stato analizzato da molti, la sequenza che trovo più plausibile e a cui tanti si sono ispirati, è la proposta di Graham Wallas, che nel 1926 insieme a Richard Smith, scrive The art of thought. Wallas individua quattro fasi per descrivere il processo creativo: la preparazione, l’incubazione, l’illuminazione e la verifica.

Vediamole nel dettaglio.

Fase uno: preparazione

Nella fase di preparazione si raccolgono i materiali e le informazioni, si organizzano i dati, si definisce il problema a cui si deve trovare una soluzione. I pensieri si muovono tra quello che conosciamo già: ogni azione creativa si regge su tutto ciò che abbiamo vissuto e conosciuto. Niente nasce dal nulla, quindi va da sé che più esperienza, competenze, conoscenze si hanno, più questa fase si dimostra ricca di possibili stimoli e di strade percorribili.

Fase due: incubazione

L’incubazione prevede l’elaborazione di quello che sappiamo, conosciamo, abbiamo vissuto, alla ricerca di un ordine che produca un nuovo senso. È un processo che si sviluppa per prove ed errori, per flussi di pensiero che possono sembrare disordinati e incostanti. In questa fase è fondamentale possedere una propensione a disfarsi delle idee non appropriate o inefficaci, la capacità di comprendere cosa non funziona.

Fase tre: illuminazione

È l’insight, l’intuizione veloce e spontanea che si presenta senza preavviso, brillante e incipiente. È una soluzione differente da tutte quelle prese in considerazione fino a quel momento: arriva all’improvviso e porta con sé anche una forte reazione emotiva di eccitazione. Chi ha intuizioni di questo tipo pensa per immagini e questo gli permette di visualizzare strutture complesse e creare

metafore.

Fase quattro: verifica

Analisi, prove. È questo un momento rigoroso del processo creativo, in cui si verifica la consistenza di un’intuizione: si mette alla prova l’idea confrontandola con la realtà, sistemandola perché funzioni. Per gli scienziati questa fase consiste nelle prove in laboratorio.

Il pensiero creativo è mobile: va avanti e indietro tra l’emisfero destro e quello sinistro. Infatti, nelle quattro fasi di Wallas c’è un’alternanza di pensiero convergente e di pensiero divergente. Troveremo il pensiero convergente nella prima e nell’ultima fase, il pensiero divergente nella seconda e nella terza. È possibile che tu non riesca sempre a stabilire con esattezza dove finisce una fase e dove ne inizia un’altra; dipende dalla natura del problema che stai affrontando, dal tuo carattere, dalla consapevolezza con cui ti inoltri nella fase successiva. Il processo creativo è affascinante e il momento dell’insight è ancora molto misterioso, ma, forse per questo, ancora così commovente.

Jessica Fletcher usa il pensiero divergente.

Sì, proprio lei, La signora in giallo: la sua straordinaria capacità di trovare la soluzione a problemi altrimenti insolubili è dovuta alla sua abilità nell’osservare i fatti di una situazione, senza farsi influenzare dai pregiudizi. Usando il pensiero divergente, spezzetta gli elementi di un problema o di una situazione e li riordina in un modello apparentemente casuale, per arrivare a una visione diversa della situazione e, quindi, a una possibile soluzione. Tratta tutti i personaggi come dei possibili sospetti, è come se dicesse a ognuno di loro: «Non sono sicura di crederti». In questo modo, le si spalancano le alternative. Risolve i casi degli omicidi a Cabot Cove grazie alla sua innata curiosità, con cui si mette sempre nei guai, ma che la rende disponibile ad accogliere l’idea quando è pronta a rivelarsi.

Ci sono delle condizioni che favoriscono il pensiero logico: la concentrazione, il metodo e la lentezza, andare per gradi, un passo dopo l’altro, senza giungere a conclusioni affrettate. E ce ne sono delle altre che ci permettono di accedere al pensiero creativo: sfocare l’attenzione, procedere per associazioni, essere fluidi e rapidi.

Nella fase di incubazione puoi stimolare la mente e la creatività con tecniche di pensiero divergente, per trovare nuove connessioni tra gli elementi che hai a disposizione. I tempi non sono mai standard: a volte bastano un paio d’ore, altre volte non bastano intere giornate. Più ti eserciti, più questo tipo di disciplina può aiutarti ad avere dimestichezza con la lateralità. E, allora, alleniamoci!

Tecniche di pensiero creativo

«La paura trionfa sulle menti poco allenate». Elettrojoyce, L’evoluzione naturale dei pesci

Questo paragrafo ti farà conoscere alcuni metodi per allenare la creatività.

Quando cerchiamo l’idea giusta non arriva mai. Succede perché non abbiamo chiaro come funzioni la creatività, perché la cerchiamo dove lei non c’è o perché non siamo pronti ad accoglierla, quando ci si presenta. La fase di creazione delle idee è delicata: molti mollano il colpo perché pensano di non avere talento o di non essere abbastanza creativi. Ma nemmeno quelli che si definiscono tali hanno le bacchette magiche che riempiono i fogli bianchi. Tutta quella libertà, bianca, può spaventare chiunque. I blocchi arrivano quando capiamo che c’è un problema da risolvere, come per esempio pensare a cosa scrivere nel prossimo post del tuo blog, ma, come abbiamo detto, avere un problema è la condizione necessaria perché si sviluppi il pensiero creativo. Michelangelo guardava il suo blocco di marmo e vedeva la statua, così dovresti fare anche tu: intravedere nel problema la tua soluzione.

Partorire idee può essere una fase molto stimolante o, al contrario, molto stressante, dipende da come la prendi. Tutta la potenziale prolificità del momento, l’eccitazione per la nuova avventura, il desiderio di risolvere il «caso», possono essere infatti sovrastati dall’ansia di produrre qualcosa di concreto, che risponda brillantemente a esigenze e tempistiche. Tempi, modi e risultati possono apparire limiti insormontabili e quindi agire come inibitori delle nostre capacità cognitive. Ma possono anche, al contrario, diventare un’opportunità per tirare fuori il meglio: condizioni più difficol-

tose necessitano di soluzioni più veloci o più performanti.

Impariamo a servirci del tempo, anche e soprattutto del poco tempo e degli strumenti che ci possono aiutare nel processo creativo.

Tre metodi

Io uso tre metodi, la scelta di uno o dell’altro dipende dalla tipologia di lavoro che devo affrontare (concept per una nuova campagna, idea per uno spot televisivo, nuovo format per i social), ma vanno bene per creare connessioni in moltissime altre attività.

Sono tre strumenti per stimolare la mente a creare soluzioni nuove e utili. Tutte e tre queste tecniche di pensiero creativo hanno in comune la fase preliminare, che comprende la raccolta, la lettura e l’analisi del materiale che hai a disposizione. Assicurati di aver compreso e fatto tue le informazioni di partenza: se hai un Brief, un business plan, un catalogo, ricerche e documentazioni sull’argomento, metti tutto sul tavolo, leggi e tieni a mente. Dopo aver acquisito tutte le informazioni necessarie, fai passare una notte prima di gettarti in una selvaggia sessione di Brainstorming. Tra l’altro, a me la parola brainstorming piace davvero tanto. Tempesta di cervelli. Quel momento in cui si mettono le idee sul tavolo senza giudizio e si cerca di produrne il più possibile. Se hai la fortuna di lavorare con qualcuno, puoi contare anche sulla diversità che c’è nel gruppo: più i membri che ne fanno parte presentano delle differenze (di età, genere, sociali, culturali, formative), più c’è la possibilità che si sviluppino idee creative.

Qualche ora di stacco, se possibile di sonno, tra la lettura del materiale e la fase creativa, è molto importante, perché mentre dormi il cervello dà una nuova struttura ai ricordi, connettendo quelli vecchi con quelli più recenti. La mente cosciente si riposa e l’inconscio lavora forsennatamente, elaborando i dati del giorno e creando nuove connessioni tra gli elementi che ha incontrato.

La mattina dopo sarai pronto per applicare le tecniche di pensiero creativo al tuo processo di generazione di idee, tenendo bene a mente che dovrai sospendere il giudizio e il pregiudizio (quell’attitudine che abbiamo a buttare via delle grandi idee perché ci sembrano improbabili) e aspettare

un secondo momento per valutarne l’efficacia.

Cominciamo.

Primo strumento: word listing - connessioni

Questa tecnica si basa sulla produzione di un grande numero di input da mettere poi in relazione e sulla ricerca di connessioni tra due o più elementi, mediante schemi che riteniamo validi.

Si compone di 4 fasi:

1. Individuazione degli elementi. 2. Creazione di uno schema. 3. Ricerca delle connessioni tra gli elementi. 4. Valutazione delle connessioni.

In pratica, prendi un foglio di carta bianco e in alto scrivi una breve frase che sintetizza il messaggio che vuoi comunicare. Di questa frase individua due o più elementi chiave, poi traccia sul foglio tante colonne quanti sono gli elementi che hai trovato e sotto ognuna di esse segna concetti correlati con l’elemento corrispondente, avendo cura di scegliere parole molto concrete.

Una volta compilate tutte le colonne, analizza gli elenchi che hai creato, cercando un collegamento tra gli elementi della prima e della seconda (se ce n’è una terza, anche quella: creare più di tre colonne diventa complesso). Evidenzia i collegamenti che ti sembrano più promettenti e interessanti: troverai degli schemi, dei pattern, che ti faranno visualizzare un’immagine. Analizza i pattern che hai trovato: ce ne sono di più validi e di meno validi. Tieni solo quelli che ti convincono davvero.

Uso il word listing per scrivere headline, Payoff e generare concept per campagne pubblicitarie e storytelling.

Proviamo con un esempio: immaginiamo di dover pubblicizzare i saloni di un parrucchiere che usa prodotti naturali.

1. Individuo gli elementi del problema. CAPELLI NATURA

2. Creo uno schema di immagini reali.

3. Individuo connessioni tra le due colonne.

4. Valuto le connessioni che ho trovato.

Concept

a. Pettine + Foglia. Un pettine che si trasforma in una foglia. Le due categorie si fondono in un’immagine unica molto semplice. b. Testa + Foresta. Una testa di donna con un’acconciatura punk e intorno a lei una foresta che riprende la stessa forma dell’acconciatura. Quando siamo in equilibrio e ci sentiamo bene con noi stessi, liberi, ciò che è fuori prende la forma di ciò che è dentro. c. Capelli + Crescita. Dei capelli lunghi si trasformano in una giungla rigogliosa: per crescere le piante hanno bisogno di tempo, sole e acqua, tutti elementi piuttosto naturali, proprio come questi capelli. d. Frangia + Protezione. Parrucchieri con la frangia (frangia armata?), scudi fatti di foglie giganti e lance fatte di rami e legni intorno a una donna con i capelli in piega: senso di protezione.

Verbalizzazione del concept

Concept: Pettine che si trasforma in foglia. Headline: Per noi è naturale prenderci cura di te.

Concept: Testa con un’acconciatura punk dentro una foresta punk. Headline: Rimani te stesso. Metti la testa a posto.

Concept: Capelli che si trasformano in onde, fiori, cespugli, nidi di uccelli. Headline: Non sarà il solito parrucchiere che taglia corto.

Concept: Parrucchieri con frangia, scudi fatti di foglie giganti e lance fatte di rami e legni intorno alla persona. Senso di protezione – frangia armata. Headline: Tutti i tuoi 110.000 capelli contano su di noi.

Secondo strumento: mind mapping - mappa mentale

È una tecnica di pensiero creativo che si basa sulla realizzazione di mappe che possano stimolarci a cercare connessioni inusuali tra elementi distanti tra loro. La costruzione della mappa procede attraverso libere associazioni mentali e gerarchie di pensiero, si sviluppa dal centro del foglio verso l’esterno, agganciando via via nuovi elementi. La mappa mentale serve a sbloccare il potenziale del nostro cervello: grazie alla sua struttura dinamica, che parte dal centro e si irradia verso l’esterno, dà una visione d’insieme degli elementi e favorisce la generazione di una connessione dietro l’altra.

Funziona così: prendi un foglio di carta bianco e scrivi al centro una parola o una frase che sintetizza il problema che desideri risolvere, per esempio creare la struttura del tuo sito Internet, fare il piano editoriale del tuo blog, organizzare un articolo. Si parte dal centro perché così il cervello ha la possibilità di andare in tutte le direzioni che vuole sentendosi più libero di fare i percorsi che preferisce.

Inizia a riempire la parte restante del foglio di tutto ciò che ti viene in mente (possono essere parole, verbi, frasi, colori, disegni) e che è collegato al problema, creando più livelli di pensiero, dal macro al micro. I disegni o le immagini (puoi pensare anche di ritagliare foto e incollarle), funzionano meglio di mille parole e ti aiutano a scatenare l’immaginazione. Lo stesso vale per i colori, il loro uso aggiunge energia e maggiori possibilità di espressione. Meglio usare linee curve che dritte, danno più possibili punti di arrivo. Non trovi che le frecce siano noiose?

Non giudicare quello che scrivi: avrai tempo per chiederti se tutto questo ha un senso. Ora procedi per associazioni di idee, lasciando aperta più di una chiave interpretativa.

Una volta finito osserva il risultato: piano piano inizierai ad accorgerti che alcuni elementi si richiamano a vicenda. Collegali graficamente e analizza gli stimoli per valutare le connessioni più promettenti, efficaci e utili.

Uso il mind mapping per organizzare i contenuti di un sito e per scrivere un testo: mi aiuta a ordinare le idee al suo interno.

Guarda queste mappe mentali di Tony Buzan per prendere spunto:



L’80% delle volte che uso le mappe mentali lavoro con carta e penna: basta un foglio per dare vita a collegamenti e brillanti intuizioni. Però esistono anche degli strumenti digitali, software e app che ti aiutano a creare mappe mentali. E appunto qui si scatena il restante 20%.

Mindnode è il mio mindmap tool preferito. Mi piace la sua interfaccia e il fatto che sia molto

semplice da usare: è scaricabile e pensato per chi usa i prodotti Apple. https://mindnode.com/

The Brain è invece un programma per creare mappe mentali adatto a tutti gli strumenti: computer, iPad e telefoni (Windows, MacOS, Android e iOS). Ci sono una versione a pagamento e una gratuita, quest’ultima ha tutto quello che ti serve per fare un buon lavoro. https://www.thebrain. com/

Coggle è intuitivo e molto pulito nella grafica. La versione base è gratuita e ti permette di creare mappe mentali su Mac e Pc. Si usa online. https://coggle.it/

Mindmeister è un software online per mappe mentali per catturare, visualizzare, sviluppare e condividere idee. È utile se hai bisogno di collaborare in tempo reale con un team di persone e avere sempre con te le tue mappe. https://www.mindmeister.com/it

Con Visuwords.com costruisci una mappa mentale a partire da una parola. Puoi scegliere la connessione grafica che più ti piace. Il suo limite? È solo in inglese. https://visuwords.com/

Terzo strumento: picture association - associazione d’immagini

Un copywriter deve saper pensare per immagini. La metafora, per esempio, è una figura retorica molto usata nel linguaggio pubblicitario e ha una forte componente visiva. Tramite le immagini si possono visualizzare anche delle strutture di pensiero complesse, che sono funzionali alla narrazione. Le immagini vengono percepite e metabolizzate molto più velocemente delle parole e, anche se non siamo grafici, possiamo utilizzarle per sviluppare la creatività.

La tecnica dell’associazione d’immagini funziona così: raccogli del materiale visivo correlato al tuo problema creativo. Immagini, foto, pagine di giornali, fogli di cataloghi, biglietti, schizzi, cartoline, poster, illustrazioni (fatte a mano o digitali, se sono digitali abbi cura di stamparle), simboli. Ora disponi tutti questi materiali su un tavolo o meglio ancora sul pavimento, per riuscire a guardarli nell’insieme. In tutto questo caos individua degli schemi: raggruppa gli elementi che ritieni siano collegati in qualche modo e crea degli insiemi visivi.

Ora che hai questi insiemi, prendi una penna e dei post-it colorati, scrivi cosa ti suggeriscono i gruppi di immagini, spiegando i collegamenti che hai trovato e, infine, attacca i post-it alle immagini di riferimento. Cerca il più possibile di rendere visibile il ragionamento che hai fatto dall’essenza dell’ispirazione fino al risultato delle connessioni. Una volta che avrai finito, scatta una foto della composizione e stampala. Lascia passare almeno qualche ora prima di analizzare le connessioni.

Uso la picture association per generare concept per spot e campagne pubblicitarie, per scrivere i copy da abbinare ai visual sui social.

Qui sotto trovi un esempio di picture association fatto da BalenaLab. Si tratta della ricerca di un concept per una Campagna pubblicitaria di un marchio di scarpe:

Pensa e agisci da creativo

«Nulla mai si genera dal nulla.» Lucrezio, De rerum natura

In questo paragrafo trovi qualche suggerimento per favorire la creatività nella scrittura.

Io in genere faccio così. Dopo aver letto il brief, metto su un po’ di musica classica. Mozart è il mio preferito in questi momenti, prendo il blocco di fogli bianchi e apro su una pagina nuova. La penna è quasi sempre una di quelle super colorate che mio padre mi regala, della sua banca o delle ditte con cui lavora. Inizio a scrivere. Mozart è nell’aria e la penna va dove le pare. Dopo un’ora do un’occhiata a cosa ho prodotto.



Ci sono molti tratti energici sui bordi del foglio per vedere se la penna scrive. Scrive?



Ho disegnato un pattern che ricorda molto le mattonelle di casa.



Ho scritto diverse frasi a metà e sconnesse tra loro.



Le parole chiave fluttuano nel foglio, acciuffate ogni tanto da linee e curve che le collegano

tra loro.

Ok, non è facile scrivere un testo, il 70% di quello che affido alla carta viene spazzato via, abbandonato in favore di un concetto più evoluto, riscritto da capo. La scrittura ha bisogno delle sue fasi, anche di quelle apparentemente inutili; non solo dell’insight luminoso, ma anche di tutto il lavoro che c’è prima e che c’è dopo.

Per me scrivere un testo non ha niente a che fare con l’immediatezza: sono lenta, ritorno sulle cose più volte, ho l’attitudine a buttare via quello che non funziona (ottimo quando devi essere sintetico).

Per me scrivere un testo prima di un comporre è un distruggere: scorporare dal brief quello che mi serve davvero.

Per me scrivere un testo vuol dire scartare, mettere da parte le idee non abbastanza buone e ricominciare. Non considero intoccabili o troppo preziose le mie idee, perché altrimenti faccio più fatica a vedere se funzionano o no.

Il momento della creazione è difficile e faticoso, per questo ho pensato che ricevere qualche suggerimento non ti sarebbe dispiaciuto.

Agisci da creativo

Se non hai una scadenza, dovresti dartene una. C’è una correlazione tra il momento di panico: «Oddio deve essere pronto per domani!» e lo sbocciare dell’ispirazione. Quando vivi la limitazione come un’opportunità e non come una perdita, riesci a fare tesoro del poco tempo a disposizione. L’eccessiva libertà porta a procrastinare, a rimandare le decisioni da prendere. Più tempo ti dai, più sarà difficile rimanere concentrato su ciò che devi portare a termine. Dedica dei blocchi di tempo definiti a una serie di operazioni necessarie per portare a termine il progetto (ricerca, organizzazione, scrittura, revisione). Se ti dai delle tempistiche chiare, non ci sono rischi di rimandare le attività e perdere tempo. Prova a darti un minimo di 10 minuti per ogni micro obiettivo, vedrai che tutto il processo diventerà più fluido e veloce.

Per prima cosa scrivi il finale Sapere dove vuoi andare renderà più chiaro il percorso. Un testo è un’architettura di connessioni create spesso per deduzione, fatti e argomentazioni. Informazioni che, come una piramide rovesciata, danno il concetto generale per primo e poi vanno nel particolare; partono da un assunto e cercano di dimostrarlo. Basta una scaletta che contenga le parole chiave per organizzare gli

argomenti.

Less is more La semplicità va ricercata con grande costanza, è uno sforzo quotidiano, perché di natura noi siamo portati a complicare. L’impegno più oneroso è quello di rendere fruibile il nostro contenuto. Concetti troppo elaborati, troppa ironia, uno stile ridondante e ampolloso, sono nocivi per il nostro testo. Di tutto quello che puoi imparare nella scrittura, la cosa più preziosa è il buon senso.

Fidati delle tue idee, ma sappi metterti in discussione Se credi che sia giusto, proponi, scrivi, difendi. Ma rimani aperto alle critiche, chiedi pareri a chi può darteli con un po’ di sale in zucca (non ai tuoi amici, per intenderci, che non sono l’interlocutore giusto per il risultato che vuoi ottenere: una critica sensata al tuo lavoro), per scoprire se ci sono passaggi da oliare, battute che non fanno ridere, concetti che hai dato per scontato.

Non avere paura di ricominciare Un testo può sempre essere migliorato. Se quello che hai scritto ti sembra buono, straccialo pure e ricomincia. Può diventare ottimo.

Pensa da creativo

Il mondo, gli ambienti, le situazioni, i viaggi, le persone, sono possibilità. In ogni momento possiamo decidere se fidarci delle nostre intuizioni o limitarci a osservare. Cerca di capire quali sono i luoghi che ispirano di più la tua creatività, quali sono le persone che possono darti qualcosa di buono e nuovo, quali sensazioni provi: meraviglia, disagio, eccitazione, noia, concentrazione. Interessati alle novità, ama l’inaspettato, cerca nuovi punti di vista. Condividi le tue idee: non si è mai sentito di un’idea rimasta nella testa di qualcuno che sia diventata una grande successo.

Abbi il coraggio di portare avanti le tue intuizioni. Vivi il tuo lavoro come un pretesto per generare idee e tutti i progetti come un’opportunità per migliorare, sempre. Insisti. Non accontentarti, non rimandare, non fermarti se ti sembra difficile, non mollare quando il

gioco si fa duro. Dura.

Guarda ogni angolo di mondo con ottimismo: ovunque e sempre potresti trovare l’idea rivoluzionaria. Il bicchiere è mezzo pieno di acqua e mezzo pieno di aria. Non farti abbattere da chi ti dice che la tua idea non è buona. Chiedigli perché. Non farti spaventare da un fallimento. Gli errori ti ricordano che nel processo creativo può succedere di tutto e che soltanto chi non fa nulla non rischia di sbagliare.

Credi nelle tue idee, ma non farle diventare la tua torre d’avorio.

Sgranchiamoci le idee



Coinvolgimento, meraviglia, valore pratico. Sono leve tanto forti da spingere all’azione. Per

scoprire qual è l’emozione dietro un’idea, utilizza la tecnica dei «tre perché». Scrivi perché credi che le persone a cui è destinato il tuo messaggio faranno qualcosa. Poi chiediti per tre volte: «Perché?». Per esempio, il messaggio è: «Compra l’ebook Scrivi più bianco». Perché dovresti comprarlo? Perché sarà utile alla tua comunicazione. Perché sarà utile alla tua comunicazione? Perché ti accompagnerà in un percorso alla scoperta della tua unicità, nelle idee e nello stile. Perché ti accompagnerà in un percorso alla scoperta della tua unicità? Perché ti aiuterà a mettere a fuoco i messaggi che vuoi trasmettere e trasformarli in concept di valore per le persone che li riceveranno e a consegnarli a loro con uno stile che ti rappresenti e parli di te. Segna le risposte: saranno il percorso verso il cuore dell’idea, ma anche verso l’emozione che l’ha generata. La leva dietro l’esempio precedente è il valore pratico, l’emozione è il desiderio di essere utile e di promuovere una scrittura che non sia prevedibile, ma che sia capace di creare relazioni e sorprendere, mettendo in scena la nostra verità. •

Cosa succederebbe se dalla vicinanza di due penne nascesse una tazza di tè? Cosa succede-

rebbe se il sole ogni tanto avesse bisogno di essere grattato sulla schiena? Cosa succederebbe se gli esseri umani sapessero leggere nel pensiero di piante, animali e di altri esseri umani? Rispondi a queste tre domande per iscritto immaginando le possibili conseguenze. Il «Cosa succederebbe se…?» è un esercizio che prende spunto dalla tecnica del «what if», contenuta nel test del pensiero creativo del TTCT, Torrance Tests of Creative Thinking. •

Seguendo il procedimento delle connessioni (word listing), scrivi un headline che comunichi

che:

1. Illy Caffè apre uno store a Londra. 2. Interflora, per ogni pianta acquistata per la festa della mamma, regala il vaso. 3. L’Enel sostiene la giornata mondiale della poesia.



Seguendo la tecnica della picture association scrivi il copy per il tuo prossimo post su Fa-

cebook o su Instagram: scegli il messaggio da dare e poi raccogli il materiale visivo che senti collegato all’argomento. Raggruppalo secondo un criterio che ti sembra funzioni: da ogni insieme di foto, immagini e illustrazioni tira fuori una parola chiave. Usa queste parole nel tuo copy e lasciati suggestionare dalle immagini che hai trovato.

Capitolo 3. Come dirlo: lo stile

Farsi capire e sorprendere

«Posso mettere su una pagina l’immagine di un uomo che piange, ed è soltanto l’immagine di un uomo che piange. Oppure posso mettere la stessa immagine in modo che faccia venire da piangere. La differenza sta nell’abilità creativa: quella cosa intangibile di cui il mondo degli affari diffida». Bill Bernbach

Questo paragrafo parla dell’utilità della creatività nella scrittura. Il lavoro del copy è dare forma all’esperienza, a un prodotto, a un servizio. Non esiste niente che non abbia una forma. Le idee, per esempio, hanno le parole. Se sono belle idee, è davvero un peccato trovare parole banali o non curate, per raccontarle.

C’è stato un periodo nella pubblicità in cui la creatività aveva il solo scopo di riuscire a stupire, di lasciare senza parole, in adorazione del genio di quel copy o di quell’art o di quell’agenzia, che erano riusciti a sintetizzare con grande maestria un concetto in una forma mirabile. La pubblicità era considerata un’arte, un esercizio di stile, un susseguirsi di fuochi d’artificio.

Alla pubblicità si è sempre affiancato (ma si guardavano davvero con sguardi truci) il marketing, con i suoi messaggi diretti e orientati alla vendita, convincenti nella misura in cui sapevano toccare le corde di un bisogno urgente, ma spesso tristi e senza appeal.

Creatività e strategia: un approccio integrato

David Ogilvy diceva bene quando affermava: «If it doesn’t sell it isn’t creative», se non vende, non è creativo, unendo di fatto creatività e strategia. Sono convinta che la soluzione risieda proprio nella sintesi dei due approcci, dove lo stupore abbraccia l’utile, dove la memorabilità si fonde con la verità, dove la strategia e la creatività si mettono al servizio l’una dell’altra per arrivare al risultato.

La creatività, quando è pianificata e direzionata, fa uscire i brand dal mondo del tutto uguale, per renderli convincenti, credibili e immediati. Abbiamo tutti messaggi che hanno bisogno di essere comunicati con parole chiare, penetranti e persuasive. Siamo sempre alla ricerca di immagini potenti che convincano, emozionino, coinvolgano e sono quelle immagini che arrivano da parole ricche di sfumature, tanto precise e concrete, da riuscire a essere visualizzate nitide nel nostro cervello.

Quello che di più brutto può succedere a un messaggio non è essere odiato, ma essere ignorato: essere un messaggio invisibile, che nessuno si ferma a leggere o ad ascoltare, perché quello che ha da dire è inutile, o perché il modo in cui è detto è noioso e senza carattere. È compito della scrittura farsi capire ed è compito della scrittura creativa e persuasiva farsi capire e sorprendere: così si affina e lavora su stessa, per rimuovere tutto quello che è superfluo e per potenziare ciò che rimane. La scrittura creativa è simile a un iceberg. Vedi solo la punta e non il gran bel pezzo di ghiaccio che c’è sotto. E se la punta è un headline che sintetizza un mondo di senso, tutto ciò che c’è sotto è il lavoro che lo tiene in piedi e che ha portato fino a lì. Meno si vede, più il copywriter è stato bravo.

Hai presente le ballerine di danza classica? Le osservi muoversi sul palco senza immaginare la fatica che c’è dietro ogni movimento, le ore di allenamento, la stanchezza, i piedi massacrati dallo stare in punta, le braccia tese dopo pomeriggi di sbarra, le ginocchia sbucciate per le cadute, le prove e le riprove. Tu vedi un uccellino che sorride senza alcun affanno e si muove con decisione e leggerezza. Una cosa simile accade ai testi ben fatti: si staccano dalla pagina per venire verso di te leggeri e decisi, senza che tu possa accorgerti del fatto che sono studiati parola dopo parola. Sono bianchi, brillanti e ti sanno trasportare in mondi di senso. Se percepisci che un testo è ben architettato, non

vuol dire che è stato studiato troppo, ma che è stato studiato troppo poco.

Per muovere il pubblico verso di noi occorre aggiungere al messaggio rilevante il talento creativo, l’immaginazione e l’originalità: quando si vede «Il famigliare in un modo diverso» o «Il diverso in un modo famigliare», come dicevano i ragazzi della Young & Rubicam, è lì che scatta la meraviglia.

La creatività nel linguaggio è una sorta di poesia del pensiero, una predisposizione all’eleganza, al riconoscersi di più in quello che diciamo perché caratteristico. Tutti ce l’abbiamo dentro, ma non tutti riusciamo a tirarla fuori.

La creatività comunica in un nanosecondo.

La creatività aumenta l’efficacia della comunicazione, perché avvicina brand e persone su un piano più coinvolgente. Questo avviene con maggior forza rispetto al passato: con il web e i social abbiamo molte più occasioni di usare la creatività per avvicinarci alle persone.

La creatività è un lavoro articolato, ma il suo risultato è una semplificazione. La creatività, infatti, semplifica concetti complessi.

Scrivere ci spinge ad aprire gli occhi, le mani e la mente, ci rende visibile ciò che altrimenti è nascosto. Ogni parola che scriviamo può essere gonfia di ironia, mistero, sorpresa e può illuminarci, mostrandoci in qualsiasi istante il lampo d’intuizione che l’ha generato. Quel momento è come un risveglio. Questa sensazione di chiarezza e sorpresa è quella che fa la differenza tra una scrittura banale e monocorde e una brillante e vivace.

I paragrafi che seguono ti mostreranno quali strumenti usano i copywriter per costruire questa brillantezza: l’ambiguità, le figure retoriche, la sintesi, il tono di voce, il ritmo. Sono strumenti che fanno già parte della maniera in cui guardi il mondo e lo racconti, che usi anche senza accorgertene: per dare una direzione alle nostre parole e renderle funzionali ai nostri obiettivi bisogna essere consapevoli dei mezzi che abbiamo e dei risultati che otteniamo facendo in quel modo o facendo il contrario.

Ambiguità

«E la madre gli disse: “Non essere ingenuo, non credere a tutto quello che ti dicono, sappi che il miglio non è l’unità di misura dei canarini, che i malati di mente vanno pazzi per certe caramelle, che Pino Daniele è il nome proprio di un albero e che fa diesis non è musica ma matematica, e cioè la somma di cinques più cinques! Abbi fiducia in te stesso! Applicati ma non inchiodarti”». Alessandro Bergonzoni

Questo paragrafo parla di come raggiungere quella sensazione di infinita chiarezza dopo che sei riuscito a risolvere un piccolo enigma.

Ma come, finora abbiamo parlato della necessità di idee semplici, di parole semplici, e adesso salta fuori l’ambiguità? Ecco, ti dico subito che non è come pensi. L’ambiguità non è una figura retorica in senso stretto, ma ha comunque un ruolo molto importante nei messaggi che vogliono fare colpo: la usiamo come gancio per attirare l’attenzione. Può essere grammaticale quando riguarda le frasi; lessicale quando riguarda le singole parole. Frasi o parole identiche nell’aspetto, differenti nel senso.

Per esempio, la frase «siamo soli» può significare «siamo da soli, in solitudine», oppure «siamo stelle che risplendono». Questo succede perché la parola «sole» è polisemica, ha cioè più significati: nella lingua italiana ci sono molte parole polisemiche, per esempio «classe», «testata», «divisione», «eroina», «guida», «campagna»: approfittiamo di questa ricchezza per scrivere testi sorpren-

denti!

Con l’ambiguità cerchiamo di evocare un significato che non coincide con quello letterale: mentre facciamo questo, il lettore deve percepire tutte le interpretazioni possibili allo stesso tempo. Nell’ambiguità si creano espressioni connotative o polisemiche, che permettono cioè associazioni di idee o reazioni non univoche, ma con più sensi che si sovrappongono al significato immediato.

È importante che il lettore capisca subito le diverse interpretazioni possibili che si possono dare a quella parola o frase. Sarà poi il contesto a determinare l’interpretazione del testo: quello sforzo, di cui ti parlavo all’inizio di questo libro, che chiediamo a ogni lettore. Per disambiguare la frase serve quel secondo in più, come quando cerchi di risolvere un rebus molto semplice. Il lettore prova la soddisfazione di essere arrivato a qualcosa, di aver conquistato la comprensione del doppio senso. L’ambiguità deve essere risolvibile in pochissimo tempo, perché il messaggio è proprio nella soluzione.

Viene usata moltissimo negli headline, nei titoli e nei naming. Il visual o il bodycopy sono invece spesso gli elementi che disambiguano.

Questo è un parrucchiere. Ti ricorda qualcosa? :)

Lo spettacolo intitolato Nessi di Alessandro Bergonzoni si regge tutto sulle ambiguità linguisti-

che, è un continuo giocare con le parole. È tanto bravo che non stanca mai:

«E sarà morto? Non sarà morto? Come sono le vite in fumo? Come moriamo? Come moriamo? Pensiamo sempre a come moriamo e mai a come viviamo, perché non commemoriamo come viviamo? Morire, si può morire d’un colpo, di colpo, di un attacco di cuore, di un attacco indiano, e se c’è un attacco indiano di solito si muore anche di un attacco di cuore […] e poi si può morire cadendo dalle scale fatte di corsa, in fondo come sono fatte le scale se non di corsa, in fondo, alla morte cosa manca, in fondo alle scale cosa manca, un gradino, ecco perché poi si muore in fondo alle scale». Trascrizione da Nessi, di Alessandro Bergonzoni.

Un altro mago dell’ambiguità è Raymond Queneau che nel suo Zazie dans le métro usa una lingua piena di inventiva, ricca di argot (frasi e parole di gergo), neologismi e calembours. Il calembour è un termine preso a prestito dalla lingua francese, che indica un particolare gioco di parole, basato sull’omofonia di parole che si scrivono in maniera identica o simile, ma hanno significato diverso.

Guarda questi esempi di una delle ultime campagne di Esselunga, tutta basata su calembours:









Anche Amica Chips usa l’ambiguità per la sua comunicazione:







Le figure retoriche

«La cosa che ho amato di più è stata l’aria». Ivan Graziani, Firenze

Questo paragrafo presenta le figure retoriche che possiamo utilizzare per trovare soluzioni creative ai nostri messaggi.

Le figure retoriche non sono altro che schemi di connessione, alcuni semplici, altri complicati, per costruire cortocircuiti emotivi tra parole e concetti. Le figure retoriche hanno a che fare con la persuasione, che ha a che fare con l’argomentare: proporre nuovi collegamenti tra fatti e concetti. In comunicazione, le figure retoriche non servono a descrivere tecnicamente il prodotto, ma a comunicarne i benefici fisici, o di altra natura. Servono a rendere visibili i pensieri, a comunicare attraverso l’esperienza quotidiana.

Sono molto usate nel linguaggio pubblicitario perché agganciano la nostra parte visiva e quella emozionale legata alla nostra sensorialità. Non pensare di dire chissà quali parole altisonanti per farti notare, usa parole abituali, ma mettile insieme in modo originale. Le figure retoriche colpiscono chi legge e chiedono, in cambio di questo stupore, uno sforzo interpretativo: ha senso usarle solo se hai un effettivo vantaggio.

Sembra tutto molto complesso da immaginare, ma in realtà usiamo figure retoriche ogni giorno e usarle è più facile che spiegarle. Quando vuoi offendere l’arbitro che ha appena fischiato un fallo contro la tua squadra non pensi: «Adesso gli urlo una metafora». «Arbitro cornuto» esce così

spontaneo, arriva dritto al cuore dell’arbitro e non ha bisogno di nessuna spiegazione.

Ho scelto alcune figure retoriche, tra le più interessanti e utilizzate, per farti intravedere le loro immense possibilità.

Metafora

Ti presento la più affascinante tra le figure retoriche: la metafora. Se volessimo darle un’espressione matematica sarebbe x = y. Dove x e y sono elementi abbastanza vicini da far intuire il legame che c’è fra di loro, ma sono abbastanza lontani da suscitare l’effetto desiderato: lo stupore.

La metafora afferma un’uguaglianza tra elementi molto diversi e quindi… è una falsità.

«Il mio lavoro è una prigione». Questa affermazione è letteralmente falsa, perché non vado a lavorare davvero in una cella, ma metaforicamente questa frase è vera, perché nel mio ufficio mi sento come se fossi in prigione, perché ci sono degli elementi che mi fanno sentire così: i colleghi sgarbati, gli spazi angusti, il lavoro pesante che fa mancare l’aria, le tante ore di lavoro che mi costringono quasi immobile su una sedia, la sensazione di oppressione e punizione, le scadenze serrate.

La nostra mente non riesce a ignorare il significato letterale delle parole e allo stesso tempo riesce a percepire molto chiaramente le analogie che nascono dalla metafora. La verità metaforica è più forte della nostra capacità di riconoscerla come letteralmente falsa, per cui nessuno si scandalizza se io dico: «Il mio lavoro è una prigione».

L’effetto wow di una metafora è determinato dal grado di innovazione dell’analogia. Nessuno si stupisce più quando qualcuno dice: «Hai un cuore d’oro», perché ormai è un’espressione entrata nel linguaggio comune. La metafora vive intorno a noi: pensa che ne utilizziamo circa sei ogni minuto3. Sono tantissime! Proprio perché ne usiamo tante tutti i giorni, diventa difficile trovarne sempre di nuove, fresche, piene di energia. La metafora è più un modo di pensare, che di parlare. 3

Lo dice James Geary, nell’incipit di questo Ted Talk.

Pensare per metafore è un mezzo per scoprire il mondo. Ci aiuta a capire noi stessi, a comunicare, conoscere e inventare, creare associazioni inedite e aspettative. 

La metafora si usa in comunicazione con parole e immagini, ma si usa anche in poesia (quello è proprio il suo regno), nell’arte, nella vita, ogni volta in cui si vuole colpire e attirare l’attenzione. Questa copertina di un libro sui rifiuti, per esempio, contiene una metafora visiva, dove una busta di plastica è diventata un iceberg:



La metafora è spesso legata alla sinestesia e molte delle metafore che usiamo ogni giorno sono sinestesiche. La sinestesia è l’esperienza di una stimolazione sensoriale attraverso un senso diverso da quello incaricato alla sua decodifica: «dolce silenzio», «bianco inverno», «anni verdi», «atteggiamento freddo», «salute di ferro». La metafora tralascia ciò che è noto, per andare in cerca di qualcosa di nuovo: scoprire cose diverse e interessanti ci provoca piacere. Ha una potenza evocativa, ci fa pensare su più livelli di senso: stimola la nostra intelligenza. Sintetizza, facendoci risparmiare inutili parole: preferiamo la brevità a ciò che è prolisso. Mette in moto i sentimenti: il messaggio risulta coinvolgente.

Questo è il copy di un post della pagina di Barilla su Facebook: «Chi ha orecchiette per intendere intenda!». E questo il suo visual:

Il testo (sia quello del copy che dell’headline nel visual) è più vivace di un’affermazione tipo: «Come sono buone le nostre orecchiette» e il messaggio è allo stesso modo chiaro.

Metonimia

La metonimia è una figura retorica che si costruisce su uno spostamento di significato basato sulla vicinanza spaziale, temporale o causale tra due elementi. Non c’è un’analogia, come nella metafora: x e y appartengono allo stesso mondo semantico, per cui la metonimia è un’affermazione quasi sempre vera.

Gli spostamenti di significato possono essere di tantissimi tipi, per esempio:



La causa per l’effetto: es. non avere soldi al posto di essere poveri.



L’effetto per la causa: es. il sudore al posto del lavoro.



Il materiale per l’oggetto: es. legno per nave, ottoni per trombe, ferro per spada.



Il contenente per il contenuto: es. bere un bicchiere invece di bere del vino.



L’astratto per il concreto: es. essere attenti all’ambiente, rispondere alle obiezioni, l’infanzia

(al posto di bambini). •

Il concreto per l’astratto: es. ascoltare il cuore (nel senso dei sentimenti).



L’autore per l’opera: es. ho comprato un Van Gogh, amo Mozart.



Gli oggetti per professioni o azioni: es. la stampa per dire i giornalisti, la chiesa per dire il

clero. •

La città per gli abitanti: es. lo sa tutta Milano.

Guarda la campagna Absolute Vodka, dove la bottiglia sta sempre al posto della vodka:



In questo annuncio di Pirelli la potenza è personificata da Carl Lewis, mentre l’instabilità è metonimizzata dai tacchi a spillo:

Anche usare testimonial è pensare in termini di metonimia perché le caratteristiche del prodotto vengono trasferite alla persona e viceversa.

La sineddoche è un particolare tipo di metonimia in cui c’è una relazione di quantità, maggiore e minore, tra i due elementi, per esempio:



la parte per il tutto: es. le quattro ruote sta per automobile;



il tutto per la parte: es. l’Italia ha giocato male, si intende la squadra di calcio italiana;



la specie per il genere: es. pane al posto di cibo;



il genere per la specie: es. felino per gatto;



il singolare per il plurale: es. lo spagnolo è focoso, la Terra quando voglio dire gli uomini.

Guarda che begli esempi di sineddoche visiva:



Patrícia Póvoa



Federico Mauro

Tutti i simboli che abbiamo creato hanno origini metonimiche, come per esempio la corona per indicare la regalità, i loghi per i brand, le emoticon per le emozioni corrispondenti.

Iperbole

L’iperbole è la figura retorica in cui la caratteristica di un elemento tende all’infinito. In matematica la sua espressione sarebbe x = + e – ∞. Per realizzare un’iperbole bisogna esagerare, deformando la realtà senza tradirla. Un po’ di verità, nell’iperbole, deve rimanere, ma deve essere stravolta: amplificata o minimizzata. Il patto con il pubblico è chiaro, perché sa che è un espediente linguistico a cui accetta di credere. Ma non c’è intenzione di ingannare, perché quando l’iperbole è ben pensata e ben realizzata il pubblico è complice e partecipa al senso, riconoscendone l’ironia e stando al gioco. La cosa fondamentale, quando creiamo un’iperbole, è che dobbiamo arrivare fino al limite, spingerci davvero nell’esagerazione, perché il rischio è quello di produrre l’effetto barzelletta raccontata male, del vorrei, ma non posso.

Lo spot pubblicitario del Buondì Motta con l’asteroide sfrutta proprio l’iperbole:

Nel linguaggio comune usiamo tantissimo l’iperbole: «È un secolo che ti aspetto!», «Sono stanca morta, te l’ho ripetuto un milione di volte che sono in un mare di guai», «Ti prego, non spezzarmi il cuore».



Ironia

L’ironia afferma una cosa intendendo l’opposto. L’ironia non è per tutti: per cui usala solo se ti senti sicuro del risultato. Fondamentale è che il destinatario sia capace di afferrare lo scarto tra il livello profondo del testo e il livello superficiale. Spesso per capire l’intenzione ironica bisogna rifarsi al contesto: in pubblicità l’ironia si sviluppa dall’intreccio di headline e visual:

La parodia è un tipo particolare di ironia. È l’imitazione di un testo, di un personaggio, o di un tema condotto in termini ironici, per mettere in risalto il rovesciamento del senso:



È lo scarto che si produce tra l’affermazione o il tema originale e l’affermazione o il tema derivato, che produce la parodia. Implica l’intenzione di non essere presi e non prendersi completamente sul serio.

Il tono di voce

«Bisogna assomigliare alle parole che si dicono. Forse non parola per parola, ma insomma ci siamo capiti». Stefano Benni 

Questo paragrafo è sul tono di voce nella scrittura. Possiamo dire molto anche con il modo in cui lo diciamo.

In comunicazione ogni messaggio è composto di due aspetti: il contenuto e la forma. Il contenuto è l’informazione, quello che vuoi dire. Deve essere rilevante per le persone con cui parli e coerente con l’argomento di cui parli. La forma è il modo e ha a che fare con la relazione che intercorre tra chi scrive e chi legge, è un’informazione di relazione. Ad esempio: «Finalmente sei arrivato».  Può voler dire molte cose, al di là delle parole che ho usato per dirlo, tipo:



«Non stavo nella pelle per la voglia vederti» (eccitazione).



«È meraviglioso averti qui con me» (felicità).



«Bene, è ora che inizi questo lavoro che siamo in ritardo» (disappunto).



«Senza di te qui non stavamo combinando niente, per fortuna ora ci sei tu» (sollievo).



«Sei il solito ritardatario» (rimprovero).



«Mi hai fatto fare una figuraccia con gli ospiti, sono arrabbiatissima» (rabbia).

Quando parlo, il contenuto è il messaggio che voglio dare e la forma è composta di tutti gli elementi verbali (le parole che scelgo), paraverbali (tono, volume, timbro, velocità, pause) e non

verbali (gesti, espressione del viso, movimenti del corpo nello spazio). Quando scrivo, però, non ho a disposizione l’espressione del viso, i gesti, né il volume o altro. Quando scrivo, l’informazione di relazione è fatta della stessa materia dei contenuti: le parole.

Il tono di voce nella scrittura

Il tono di voce nella scrittura è l’insieme degli accorgimenti che suggeriscono le intenzioni, i modi e le sensazioni che, parlando, riusciamo a esprimere con la modulazione della voce. Nelle conversazioni di tutti i giorni e in tutti i progetti di comunicazione, il tono di voce è una parte fondamentale che va esplorata, compresa e usata con cognizione, perché trasmette le sensazioni che proviamo e orienta i feedback che riceviamo.

Il concetto di tono di voce, nell’ambito della comunicazione e al di là della fisiologia, oggi riguarda il modo speciale che abbiamo di dire le cose e di percepire quelle dette da altri.

È una parte fondamentale (e troppo spesso trascurata) di qualsiasi progetto di comunicazione, individuale o collettivo, aziendale o istituzionale, proprio perché riguarda le emozioni che trasmettiamo e le conseguenti risposte emozionali.

Il tono di voce è una scelta: scelta di come accostare le singole parole, della costruzione delle frasi, dell’uso della punteggiatura, del ritmo e degli spazi vuoti che circondano le parole e il testo.

Tre cose fondamentali per lavorare sul tono di voce nella scrittura:

1. la relazione: il tono di voce riguarda il senso della comunicazione in quanto atto relazionale, riguarda le persone che stanno comunicando. È quindi fondamentale sapere chi sei tu e chi è il tuo lettore, perché il messaggio sia condiviso e comprensibile. Se sai chi sei e chi è il tuo pubblico, sei già a buon punto. Tono di voce vuol dire mettersi anche nei panni degli altri; 2. il contesto: la seconda cosa da fare è esplicitare il contesto del messaggio, per segnalare la tua intenzione. Il contesto è informazione sull’informazione. Esempio:



«Ce n’è ancora di risotto? Ne prendo un altro po’!»



«Ce n’è ancora di risotto? Ecco, buttalo»;

Ce n’è ancora di risotto è il messaggio, il resto del testo è il contesto, che ci inquadra il sentimento dietro la frase del messaggio principale. Il contesto è l’insieme delle circostanze che influiscono sul significato del messaggio, la premessa all’atto comunicativo, la situazione spazio-temporale. Può essere il luogo-canale che usiamo (il nostro sito Internet, un flyer, una cartolina o un post sui social), può essere il testo che ho scritto prima, quello che dirò dopo, l’immagine che accompagna le mie parole, se è in risposta a qualcos’altro, se scrivo in un momento particolare (se dico «piove» dopo che è piovuto per una settimana di fila è diverso da quando lo dico se non piove da tre mesi; «piove» ne La pioggia nel pineto di Gabriele D’annunzio è diverso da «piove» nelle previsioni del tempo del Tg);

3. la coerenza: tutti gli elementi del testo devono essere congruenti tra loro. Come nel tiramisù non metteresti mai delle bietole (fratelli dei cavoli a merenda), in un testo non puoi inserire parole che non siano compatibili tra loro. Esempio: «Nella nostra struttura potrete trascorrere intensi momenti di relax: nel parco, dall’alba al tramonto, la piscina naturale di acqua calda vi aspetta per rigenerare corpo e mente e per avvolgervi in un’infinità di benefici. Sarà un onore per noi ospitarvi nella nostra struttura, la più figa di tutto il lago. È gradita la prenotazione per gli eventi organizzati». «La più figa» non è coerente con il resto del linguaggio.

Ognuno di noi ha un tono di voce, che lo vogliamo oppure no: possiamo decidere di curarlo perché ci rispecchi e rispecchi la nostra intenzione, o possiamo decidere di trascurarlo o diventare la copia di qualcun altro. Mettiamo che tu debba farti fare un sito Internet: per scegliere il professionista giusto potresti andare a vedere come si presenta, come cerca di trasmetterti, anche attraverso il tono di voce, quello che ritiene importante. Ho preso le about page di alcuni web designer freelance, agenzie di comunicazione e web agency che fanno siti, per farti vedere come, pur facendo lo stesso mestiere, consegnano un senso del loro lavoro, un approccio al cliente completamente diverso. Non hanno bisogno di essere degli stilnovisti, però hanno bisogno che le loro presentazioni li rispecchino quanto i siti che realizzano.

Ivan Rachieli, web designer

Il tono di voce nella scrittura di Ivan è asciutto ed essenziale. Ha scelto di «scomparire» dietro il suo lavoro: non c’è una sua foto, non ci sono riferimenti a lui e alla sua vita, tutto si concentra sul risultato che puoi raggiungere se lavori con lui e sul suo modo di lavorare.

Si appoggia in alcuni punti al parlato: «No, non ho un portfolio», «Sai cosa?», «Hey», cercando una sorta di dialogo con il lettore, immaginando le possibili domande e rispondendo con massicce dosi di concretezza.



Il tono di voce di Ivan è diretto. Quello che ci colpisce è il suo deciso punto di vista, la traiettoria che disegna con i suoi contenuti, portandoci a vedere le cose dalla sua parte.

Juice for breakfast, The Characters Factory

Il mondo di Giulia è pieno di personaggi che lei crea con il suo stile inconfondibile. Il tono di voce della sua comunicazione è vitale, energico, dolce ed emozionale. Qui si presenta.

Non dice: «Realizzare la tua idea», «Disegnare», «Trovare una forma», ma dice: «Dare vita alla tua idea» e ti sembra quasi di sentire respirare i suoi progetti nella vita delle persone. È molto dolce e delicata nei toni e nelle cose che sceglie di condividere con noi, certa che ci faremo un’idea precisa di chi è: «Ho cominciato da piccola», «Calzini», «Buffi personaggi». Spesso utilizza parole sentimentali: «Passione», «Amore per la scrittura», o sensoriali.

Ci tiene a farci sapere che non è tutta colori pastello e sogni, così mette in bella vista le sue competenze e i suoi studi, infilando sempre una componente emotiva: «Mi sono specializzata nell’ambito che più mi affascinava».

Il tema della colazione, che dà il nome alla sua attività, è presente, ma non è mai spiegato davvero, mai invadente: si lascia intuire. È uno stile semplice, ordinato, allegro andante.

Il suo manifesto è un tripudio di positività e di piccole cose che la fanno stare bene: c’è il cuore del suo business in queste righe. Inserisce tantissimi elementi della vita quotidiana che ti possono agganciare, se sei simile a lei. Per il suo pubblico è molto più importante sapere questi dettagli, che per lei sono pilastri, che l’elenco dei programmi di grafica che sa usare.



Mentine, web redesign agency

Mentine si occupa principalmente di redesign di siti Internet. I testi sono molto lunghi, ma mai pesanti, perché puntellati di ironia qua e là. L’ironia di Mentine è «badante», nel senso che ti accompagna un po’ ovunque, spiegandoti anche nel dettaglio cosa intendono per «agenzia abbastanza innovativa».



Sanno il fatto loro e lo capisci. Utilizzano tre volte la parola felicità nella pagina di profilo e ben sei volte la parola obiettivo in questa: vogliono che tu colleghi in modo naturale queste parole alla loro realtà.

Il tono di voce di Mentine è cerebrale: tutte le affermazioni che condividono vanno comprese con un secondo in più di attenzione. Dicono le cose che dicono tutti, ma lo fanno in maniera estremamente personale: «Esistiamo dal 1999, ma siamo figli del ’95, e nipoti dell’89. Possiamo usare l’esperienza per contare quante volte facciamo lo stesso errore, ma abbiamo scelto di sfruttarla per capire istintivamente alcune cose importanti». Non hanno detto: «La nostra esperienza dal 1999». Il credo è chiaro e punta a ispirare senza essere stucchevole.



Mentine prende in giro il linguaggio del marketing portando all’eccesso alcuni stereotipi del mondo della comunicazione.





Nessuna agenzia parla mai dei propri insuccessi: nota come scelgono di dire che non hanno fallito. Originale, no?



Ogilvy & Mather Italia, agenzia di comunicazione, divisione Italia

Ogilvy & Mather è un grande gruppo, che ha fatto la storia della pubblicità. Nel «Chi siamo» il tono è formale e composto: «Ogilvy & Mather Italy è l’agenzia del Gruppo Ogilvy & Mather, uno dei maggiori network di comunicazione al mondo, con più di 500 uffici in 126 paesi, noto per la creatività ed efficacia che lo caratterizza, sia in termini di approccio che di risultati»; «Un partner di provata efficacia». Parlano di loro in terza persona e si allontanano anche dai loro clienti, utilizzando un «loro» generico: c’è un certo distacco in tutta questa precisione di ruoli, risultati e riconoscimenti.

Si alternano frasi più lunghe a frasi più brevi, molti numeri e date a parole generali e più immateriali, come: «Soluzioni», «Expertise», «Servizi a 360°». Alcune parole sono lunghe e pesanti, come «multidisciplinarietà» o «internazionalizzazione», che sostiene tutto il peso della loro storicità. La sfilza di premi, le espressioni formali e il rigore sono elementi fondamentali del loro tono istituzionale.

«Non a caso molte grandi marche italiane» ci fa percepire anche una superiorità che altrove hanno tentato di celare, ma che qui viene inevitabilmente fuori. Anche quando si aprono ai valori, lo fanno come se fossero su un altare: «Su come le cose dovrebbero essere, di come dovrebbe essere la vita, di come dovrebbe essere il mondo», «per fare di questo mondo un posto migliore». Non si parla di siti, di annunci pubblicitari, di comunicazione, si parla di vita e di mondo. Puntano

a coinvolgere attraverso valori e idee, senza usare né emozione, né intensità.



Caffeina, creative digital agency

L’agenzia Caffeina ha scelto un tono di voce in stile pubblicitario: frasi corte e d’effetto, tanti punti fermi, headline creativi. Non hanno paura di usare il linguaggio di settore, perché si stanno rivolgendo a un pubblico esperto. Mischiano con nonchalance italiano e inglese. Si percepiscono un grande orgoglio e una grande sicurezza nelle loro parole.



È un tono deciso e che sceglie parole da battaglia: «Affrontiamo questo mondo», «Pronti a cavalcarla e a vincerla». Usano molti verbi d’azione: «Affronta», «Abbracciano», «Generare». Il tono è fiero e a tratti epico.

Quando parlano di loro lo fanno in termini di assoluto positivo: «Chiedono tutto al team», «Disposte a dare tutte se stesse», «Progetti eccellenti», «Sentirci orgogliosi».

Il concetto su cui puntano tantissimo è la crescita: il tono è fiero, ambizioso e pieno di orgoglio. Usano parole come: «Storia di successo», «Fare sul serio», «Leader», ma poi si scherniscono (forse si rendono conto di essere andati un po’ oltre) e allora la buttano sul ridere con quel: «E ancora un po’ di tempo».



Anche con i numeri si prendono sul serio, ma alleggeriscono il tono con l’uso delle emoticon.

Il loro tono di voce è costellato di elementi che fanno sentire il fermento, coerenti con il loro payoff: «Ideas never sleep».

Hai visto? Anche facendo lo stesso mestiere, professionisti e aziende possono differenziarsi davvero molto, non solo per il prodotto che offrono, ma anche per le informazioni che vogliono dare e per come le presentano. Scrivere per far sentire la tua voce e suscitare immagini nitide nella mente di chi legge richiede impegno, lo stesso che ci vuole per liberarsi dallo stile formale, dalle frasi standard, dalle formule che non hanno niente di magico.

Ricorda che il tono di voce è legato al lettore. È per lui che stai parlando, è lui che deve capire,

è lui che continuerà a leggerti, se continuerai a interessarlo. Domandati a ogni frase: «È davvero chiara?», «Risponde alle sue domande?», «Sto rispettando la sua intelligenza?». Usa un tono di voce che racconti di te per come vuoi essere immaginato nella sua mente. Cerca tre aggettivi che descrivano lo stile che vorresti avere e poi fai di tutto per crearlo proprio così.

Ora scopri la tua voce

Scrivere, provare, scrivere ancora, cercare un metodo personale, è quello che ti serve se vuoi trovare la tua voce. Quando l’avrai trovata lo sentirai, perché ti corrisponderà: racconterà di te in un connubio speciale tra significati e significanti con formule, espressioni e parole capaci di rispecchiarti.

Scrivere con una chiara intenzione, scoprendo la relazione tra te e chi ti legge, scegliendo un linguaggio coerente con il messaggio che vuoi dare, parola dopo parola, esplicitando il contesto, ti permetterà di scoprire il tuo tono di voce, naturale e armonioso, che darà forza e valore alla tua comunicazione e la renderà più coerente.

N.B. il tono di voce e lo stile sono due concetti molto vicini, ma non proprio uguali. Lo stile rimanda al genere di scrittura. Esiste lo stile pubblicitario, lo stile giornalistico, lo stile accademico, il burocratese, lo stile harmony, lo stile per scrivere libri gialli, lo stile divulgativo. Mentre il tono di voce l’abbiamo affrontato in questo paragrafo e ormai dovresti aver scoperto che cos’è. Potresti notare che sono utilizzati in maniera interscambiabile, si fa spesso, così mi permetterò di farlo anche io, giusto per non fare la diversa.

La sintesi: dire meno, dire meglio

«La scrittura vigorosa è concisa. Una frase non deve contenere parole non necessarie, un paragrafo non deve contenere frasi non necessarie, per la stessa ragione per cui un disegno non dovrebbe contenere linee non necessarie o una macchina parti non necessarie». E.B. White, The elements of style

Questo paragrafo parla di sintesi, di come più diminuiscono le parole, più aumenta il valore del messaggio. Ogni parola conta e non deve essere buttata via: più i testi sono brevi, più sono importanti.

Conosci Il magico potere del riordino? È il vendutissimo libro di Marie Kondo, una ragazza giapponese che aiuta le persone a liberarsi del superfluo. Ti insegna a piegare gli abiti in modo da rendere più spaziosi e capienti armadi e cassetti, perché tu possa trovare gli indumenti che ti servono molto più velocemente. Viene a casa tua, minuta e sorridente, e te la ribalta per fare fuori tutto quello che non ti emoziona più, o che non ti metti da un po’. Per noi italiani e per la storia che ci portiamo dietro, suona proprio come un castigo. Penso a mia mamma, che conserva davvero tutto dentro armadi, cassetti, cantine e, quando non basta, in altre case, altri cassetti, altri armadi, altre cantine. Per tanti, invece, Marie Kondo è una salvezza: aiuta a fare spazio e ordine, a moltiplicare l’aria, a respirare. Per molto tempo ho accumulato cose, facendo seguire a lunghi periodi di pienezza, repentini e brevi attimi di vuoto, dove prendevo quello che non sentivo più attuale e lo cacciavo dentro grandi sacchi neri, che di lì a poco sarebbero spariti. Le parole, invece, ho sempre cercato di sceglierle con cura, per non doverle buttare via: quelle giuste ne contengono molte altre, per questo non è necessario dirne troppe. Quando poi le uso per il mio lavoro, spesso devo costrui-

re un mondo, una storia, in sei, otto, dieci parole: devono proprio essere quelle giuste.

Con l’italiano abbiamo un bel vantaggio: c’è una grande libertà nell’ordinare le parole nei modi più diversi. Possiamo dare sfumature e cambiare, di poco o di molto, il senso di quello che diciamo. Per i nostri prodotti e servizi, i nostri brand e la nostra comunicazione, questa è una grande ricchezza. Le parole sono come accessori di moda che puoi abbinare con vestiti, scarpe, borse e cappotti e in diversi contesti assumono sensi diversi.

Perché scrivere cinque articoli del blog ariafrittosi, quando puoi realizzarne uno scritto davvero bene? Perché usare 30 parole, quando puoi usarne 10?

Eliminare il superfluo e coltivare la sintesi

Ci dovrebbe essere una Marie Kondo dentro ognuno di noi. Questa dote è tanto più preziosa oggi che il rumore in rete è aumentato. Con rumore intendo la quantità di informazioni che vengono trasmesse e, soprattutto, il moltiplicarsi di notizie inutili, lanci privi di interesse, video che non insegnano, liste di altre liste. Anche se abbiamo strumenti che ci permettono di delimitare le incursioni dei messaggi nella nostra vita, silenziando notifiche, nascondendo post, lasciando attivo AdBlock, noi e i brand che rappresentiamo non dovremmo scagliarci contro questi sistemi. Dovremmo, piuttosto, preoccuparci di aumentare il valore di quello che proponiamo, di usare parole piene di significato che sappiano lasciare un segno, che sappiano vendere con intelligenza, che facciano venire voglia di essere lette e non di proteggerci da esse. 

La sintesi è la Marie Kondo della scrittura: dove passa lei, rimane solo il necessario. Anche perché oggi, più che leggere, scansioniamo il testo, siamo curiosi, ma allo stesso tempo pigri: è molto più comodo essere rapidi e apprendere i contenuti a colpo d’occhio. Essere sintetici è un’abilità che dovremmo avere tutti nel cassetto, che ci fa capire quanto conta ogni parola, che ci fa arrivare meglio e più rapidamente alle persone. Pensa che per essere più immediata, una frase dovrebbe essere lunga meno di 30 parole.

«Nell’era digitale i testi brevi sono sovrani. Abbiamo sempre più bisogno di ottimi testi brevi. Testi che ci facciano fermare, leggere e riflettere in un mondo sempre più veloce. Una cultura affamata di tempo ha fame di testi snelli, semplici, puliti e diretti». Roy Peter Clark

Essere sintetici vuol dire eliminare ciò che non serve e aggiungere una struttura che tenga insieme gli elementi dando un senso. Ce lo dice anche l’etimologia: sintesi deriva dal greco synthesis, che significa composizione, quindi una buona sintesi necessita di un impegno creativo che costruisca nuove relazioni tra gli elementi e le metta in evidenza. Si tratta di organizzare le informazioni in un testo unico, che è più della «somma delle parti» e che contiene il punto di vista di chi scrive.

È importante, quando sintetizziamo, non cambiare il senso del nostro messaggio: il testo sintetico deve avere lo stesso significato del testo più lungo da cui sei partito. Per cui, bisogna asciugare e riorganizzare le informazioni in modo che il messaggio sia sempre lo stesso. Quando vuoi sintetizzare lavora su questi aspetti:

1. i temi; 2. l’ordine; 3. il modo.

I temi

Tieni le argomentazioni necessarie ed escludi quelle che non lo sono. Ogni volta che argomento, scelgo cosa dire, oriento la percezione e l’interpretazione. Hai notato prima, parlando del tono di voce, come in ognuno degli esempi ci fosse una scelta diversa di contenuto? Volevano convincerti, coinvolgerti, farti sentire fortunato, a casa, farti sorridere. Hanno fatto una selezione ragionata delle cose che volevano dirti.

Ogni volta che dobbiamo scrivere un copy sui social per promuovere un post del nostro blog dobbiamo utilizzare la sintesi e fare una selezione dei temi, non possiamo mica riportare tutto l’articolo! Ecco un esempio di post fatto da BalenaLab, in cui abbiamo sintetizzato il cuore del messaggio e dato il nostro punto di vista, sia con le parole, che con l’immagine (l’articolo completo, invece, lo trovi qui: https://www.balenalab.com/scegliere-cosa-tenere/):

Taglia le parole, le frasi, i concetti che non aggiungono valore a quanto hai già detto. Metti insieme i dati di cui sei in possesso trovando le parole chiave. Se ci sono più frasi che parlano dello stesso argomento, chiediti se servono tutte o se puoi sceglierne una che parli anche per le altre.

Le parole occupano uno spazio: il ruolo della sintesi è anche quello di portare le nostre parole a essere lette. Il fatto che siano lì le fa sembrare necessarie, ma tutti noi abbiamo una tolleranza variabile alla complessità e alle distrazioni, per questo serve semplicità in dosi massicce.

Dovunque si inserisca il tuo testo (in una pagina web, in un annuncio pubblicitario, in accompagnamento a un visual su Facebook), fai in modo che non ci siano troppi elementi, informazioni, contenuti che si rubino l’attenzione a vicenda: inviti all’acquisto, punti esclamativi, caratteri tipografici diversi, colori, animazioni, pop-up. Diventa difficile per il lettore trovare un messaggio davvero interessante, per questo sbarazzati di tutto quello che non sta portando un reale contributo a ciò che vuoi davvero dire.

L’ordine

La verità è che non tutto è importante allo stesso modo. Quando devo dare un nuovo assetto al testo, devo capire cosa è più rilevante e va prima e cosa è meno rilevante e va dopo. Servono delle gerarchie, per minimizzare il rumore e far emergere ciò che merita più attenzione. All’interno di un testo alcuni concetti si rafforzano grazie al contesto che li ospita e alla sequenza in cui vengono disposti insieme agli altri elementi del testo. All’inizio va il tema principale e poi via via i meno importanti. Strutturo le diverse informazioni disponibili sull’argomento, consapevole che l’organizzazione delle informazioni è già di per sé un’informazione che do. Guarda, per esempio, la homepage di Gioia Gottini, coltivatrice di successi (quanta bella sintesi in questo payoff!), che di mestiere aiuta le donne a realizzarsi:

Gioia sceglie di dare il benvenuto definendo innanzitutto chi sei tu (così se non sei tu puoi andare via, ma se sei tu rimani) e di cosa hai bisogno (il tuo problema); la sua missione (che guarda caso risponde ai bisogni che ti ha appena ricordato); un link per approfondire il suo metodo (soluzione); un link per iscriversi alla newsletter (altra soluzione). Se avesse chiesto di iscriversi alla sua newsletter all’inizio, chi si sarebbe iscritto? Se avesse scelto di parlare prima della soluzione e dopo del problema, non trovi che sarebbe stata meno incisiva? È chiaro che per lei è prioritario parlare di chi sei tu e di cosa hai bisogno: infatti questo è il cuore del suo business.

Nella disorganizzazione le pagine sembrano stanze saccheggiate, i testi sono privi di una coerenza interna, i concetti sembrano buttati lì, un obiettivo spesso non c’è, si trascura o sottovaluta il percorso che le persone vogliono compiere. Bisogna creare una gerarchia di informazioni: mettere

in rilievo rispetto al resto ciò che ha più valore, dicendolo prima, magari usando un font più grande o un colore diverso. Quando il nostro testo è organizzato, dà l’impressione di essere costituito da pochi elementi, anche quando è composto da molti: la sintesi è capace di consegnare chiarezza e semplificare.

Il modo

Avere cura nella scelta delle parole e nell’uso della punteggiatura è l’intervento più visibile della sintesi. Scegliere parole concrete e vivide, anche quando parliamo di concetti astratti, non ci fa dilungare in spiegazioni e rende i nostri testi più facili da leggere. Un esempio è la parola «internazionalizzazione».

«È grazie all’internazionalizzazione delle vendite, che la nostra azienda ha potuto svilupparsi a tal punto da generare grandi risultati a livello di fatturato».

Perché non dire: «Da quando vendiamo in tutto il mondo, guadagniamo di più.»? Usare i verbi in forma attiva: la forma passiva è utile e te la consiglio solo se chi subisce l’azione è più importante di chi la compie.

Evitare le perifrasi: non usare cinque parole, se puoi dire la stessa cosa con due.

Stare lontano dalle ridondanze (fare attenzione all’uso degli aggettivi, chiediti se sono necessari): es. progetto futuro, il risultato finale, le reali esigenze.

Eliminare i pronomi relativi quando sono inutili.

Usare con parsimonia gli avverbi, soprattutto quelli di modo: particolarmente, realmente, estremamente, veramente, generalmente, ecc.

Usare la forma verbale più breve: es. disapprovare invece di manifestare la propria disapprovazione.

Preferire la paratassi all’ipotassi. Quando strutturo frasi complesse con «poiché», «dopo che», «essendo», «affinché» ecc. è più facile che io possa prolungare il discorso. A quel punto conviene spezzettare le frasi e capire se sono tutte così necessarie. Lo sforzo è nel sottrarre l’ovvio e aggiungere il significativo. Non aver paura di aver perso qualcosa per strada, anzi, fai in modo di guadagnare in senso.

Un consiglio? Pensa lungo, scrivi breve.

Il ritmo


«Ora, è una cosa molto intensa, questa del ritmo, e va molto più in profondità delle parole. Uno spettacolo, un’emozione, creano quest’onda nella mente, molto prima delle parole giuste per esprimerla; e nella scrittura (così credo adesso) bisogna ricatturarla e farla operare (il che non ha niente a che fare con le parole, ovviamente) e poi, mentre si infrange e precipita nella mente, crea le parole giuste». Virginia Woolf, lettera a Vita Sackville-West 

Questo paragrafo è dedicato al ritmo. Scrivi parole che siano musica.

Conosci il valzer? È una danza con un ritmo molto orecchiabile, che non fa fatica a rimanere in testa. È in tre tempi e l’accento cade sempre sul primo movimento: ùnduetre, ùnduetre, ùnduetre.

Anche i testi che scriviamo hanno un ritmo. La parola ritmo contiene la radice greca ru dal verbo reo (scorrere) e significa scorrere in modo ordinato. Il ritmo è quindi una sequenza di schemi per lo più sonori. Il nostro cervello archivia i suoni e i ritmi, sa riconoscere quelli uguali e tende a preferire le melodie. La scrittura è composta di ritmo, una caratteristica che è determinata dalla posizione, dal suono e dall’accostamento delle parole, nonché dalla sensibilità di ognuno di noi. Sono convinta che a chiunque scriva sia di grande aiuto saper suonare uno strumento o studiare canto: affinare la musicalità è importante, tanto quanto imparare l’alfabeto.

Come la musica è un insieme di note in equilibrio sul pentagramma, la scrittura è un insieme

di parole in equilibrio su una pagina. Tutte e due sono in grado di suonare e tutte e due possono essere molto evocative. Dipende dall’abilità dell’autore e da quella dell’esecutore. È una questione di accenti e di posizioni: come nella musica, anche nella scrittura il ritmo dipende dalla lunghezza (delle note e delle parole), dal suono (delle singole lettere, dall’altezza delle note) e dal loro alternarsi. Le singole lettere formano le parole, le parole insieme formano le frasi, le frasi formano i paragrafi e poi i testi. Il ritmo coinvolge tutti questi attori a livello microscopico (le singole lettere), fino ad arrivare al macro (le frasi, i paragrafi, il testo tutto). Il ritmo si costruisce con questi 4 elementi:

1. la lunghezza; 2. il suono; 3. la disposizione; 4. la punteggiatura.

La lunghezza

Per comporre i nostri testi abbiamo a disposizione parole di lunghezza variabile: corte, molto corte, lunghe, molto lunghe. Sappiamo che la monotonia nel ritmo uccide la lettura (diciamo che uccide un po’ qualsiasi cosa). Per questo, la reazione a queste due sequenze di sillabe è abbastanza deludente:

pa-pa-pa-pa-pa-pa-pa [breve-breve-breve-breve-breve-breve-breve] zanzibamàtaro-zanzibamàtaro-zanzibamàtaro [lunga-lunga-lunga]

Entrambe sono molto noiose per il nostro orecchio, nessuna variazione, nessun colpo di scena, nessuna emozione. Sono due esempi di ritmo, uno più veloce e uno più lento, dove si ripete lo stesso schema: tutto breve o tutto lungo. L’ideale nella scrittura è alternare parole brevi a parole lunghe, per dare all’occhio e all’orecchio la possibilità di ricreare la musica del testo. Lo stesso succede per le frasi: c’è stato un passato, nemmeno troppo passato, in cui si preferiva costruire periodi lunghi e articolati, in cui molti verbi erano al passivo, la sintassi era complessa, si faceva un grande

uso di subordinate e frasi aperte dentro altre frasi.

Più recentemente, le preferenze si sono spostate verso una lingua più veloce: periodi brevi, verbi all’infinito, una sintassi piana e semplice, l’egemonia dell’asindeto. Il linguaggio pubblicitario fa largo uso di questa scrittura veloce, che porta con sé un ritmo immediato e diretto.

Le frasi lunghe trasportano alla riga successiva, le frasi brevi alzano il ritmo.

Le frasi troppo lunghe stancano, le frasi troppo brevi mettono ansia.

Dipende tutto dalla sensazione che vuoi suscitare. Se vuoi sorprendere il lettore, fare affermazioni decise, non c’è niente di meglio di una frase breve, soprattutto se posizionata all’inizio o alla fine di un testo. All’inizio suona come un invito, alla fine diventa, passami l’immagine, la lingua sul bordo che chiude la busta. La frase breve ha tanta più forza se precede o segue frasi più lunghe. La differenza è già un’informazione e l’alternanza di frasi brevi e lunghe mantiene viva l’attenzione, produce significato ed emoziona.

Una frase lunga ha senso quando devi accompagnare il tuo lettore in un viaggio e quando hai bisogno di un sistema logico di affermazioni per sostenere un’argomentazione. È perfetta per elencare (nomi, verbi, frasi subordinate), soprattutto se poi tieni per la fine l’elemento più potente o più importante. Le frasi più lunghe, proprio per la loro complessità, richiedono una revisione più attenta di quelle brevi, ma non per questo devi avere paura di usarle. Ci sono frasi molto lunghe che leggi tutte d’un fiato e frasi molto corte in cui continui a inciampare. Questo dipende dalla fluidità.

Se, per esempio, mettiamo un lungo inciso iniziale; se soggetto e verbo sono separati senza motivo; se ci sono parentesi all’interno del periodo, la lettura si blocca. Ascolta il ritmo di Proust, nella lunghissima frase che segue senza un punto, fino alla fine, tratta dall’opera Alla ricerca del tempo perduto – Dalla parte di Swann.

«Ma avevo riveduto ora l’una ora l’altra le stanze che avevo abitate nella mia vita, e finivo col ricordarle tutte nelle lunghe fantasticherie che seguivano al mio risveglio: camere invernali dove, quando siamo a letto, rannicchiamo il capo in un nido intessuto delle cose più disparate, un

angolo del guanciale, l’orlo delle coperte, una cocca di scialle, la sponda del letto e un numero dei “Débats roses”, nido che poi alla fine si cementa secondo la tecnica degli uccelli, standovi appoggiati indefinitivamente; dove, quando il tempo è gelido, il piacere che si prova è di sentirsi divisi dal mondo di fuori (come la rondine marina ha il suo nido nel fondo d’un sotterraneo, nel calore della terra), e dove, mantenendosi acceso il fuoco del camino tutta la notte, si dorme in un gran mantello d’aria calda e fumosa, percorsa dai bagliori dei tizzoni che si riaccendono, una specie di impalpabile alcova, di calda caverna scavata in seno alla camera stessa, zona ardente e mobile nei suoi contorni termici, aerata da aliti che ci rinfrescano il viso, e vengono dagli angoli, dalle parti più vicine alla finestra o lontane dal focolare e diventate fredde; camere estive dove piace unirsi alla notte tepida, dove il chiaro di luna venuto a posarsi sulle imposte socchiuse getta fino al piede del letto la sua scala incantata, dove si dorme quasi all’aperto, come la cingallegra cullata dalla brezza in cima a un raggio; a volte la camera Luigi XVI, così allegra che neppure la prima sera non mi ci ero sentito molto triste, dove le colonnine che sostenevano leggere la vòlta con tanta grazia si scostavano per mostrare e serbare il luogo del letto; a volte invece quella, piccola e col soffitto molto elevato, scavata a forma di piramide all’altezza di due piani e in parte rivestita di mogano, dove fin dal primo momento ero stato moralmente intossicato dall’odore sconosciuto di gramigna indiana, convinto dell’ostilità delle tende viola e dell’indifferenza insolente della pendola che cicalava forte come se io non ci fossi stato; dove uno strano e spietato specchio quadrangolare a bilico, sbandando di sbieco uno degli angoli della stanza, si apriva a forza nella dolce pienezza del mio ordinario campo visuale un posto che non vi era preveduto; dove il mio pensiero, sforzandosi per ore e ore di estendersi, di innalzarsi per prendere l’esatta forma della stanza e giungere a riempire fino all’alto il suo imbuto gigantesco, aveva sofferto molte altre notti penose, mentre me ne stavo disteso nel letto, con gli occhi alzati, l’orecchio ansioso, la narice restia, il cuore che batteva: fino a quando l’abitudine non avesse mutato il colore delle tende, fatto tacere la pendola, insegnato la pietà allo specchio obliquo e crudele, dissimulato, se non messo in fuga interamente, l’odore della gramigna indiana, e diminuito in modo notevole l’apparente altezza del soffitto».

Senti invece il ritmo di due frasi corte in questo annuncio della Illy: «Un’immagine vale mille parole. Ma un gusto può lasciarti senza».

Il copy poteva scegliere di mettere la virgola al posto del punto, ma ha deciso di spezzare le due

frasi per farci soffermare di più sulla prima parte e poi lanciarci con più sorpresa verso la seconda, per non farci sfuggire proprio nulla. Le parole lunghe o corte, le frasi lunghe o corte; il discorso che abbiamo fatto fin qui sulla lunghezza vale anche per i paragrafi. I paragrafi esplodono i punti principali della scaletta che hai stilato prima di iniziare a scrivere il testo e per ciascuno potresti inserire un titolo che ne riassuma il contenuto e aiuti nel percorso di lettura.

Il ritmo di un testo è composto anche dal suo aspetto grafico. Con i capoversi (l’azione di andare a capo ogni volta che cambi argomento), ad esempio, puoi far respirare il testo, come se ci fosse una pausa più forte della punteggiatura: chi legge sa che stai cambiando concetto.

Il suono

«Il Lonfo non vaterca né gluisce e molto raramente barigatta, ma quando soffia il bego a bisce bisce, sdilenca un poco e gnagio s’archipatta. È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna arrafferia malversa e sofolenta! Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna se lugri ti botalla e ti criventa. Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto che bete e zugghia e fonca nei trombazzi fa legica busia, fa gisbuto; e quasi quasi in segno di sberdazzi gli affarferesti un gniffo. Ma lui, zuto t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi».

Fosco Maraini

Questa è la poesia Il Lonfo di Fosco Maraini: è una poesia metasemantica, vuol dire che è composta da un linguaggio basato sulle regole della nostra lingua, ma che usa parole inventate, onoma-

topeiche per lo più, parole che prendono significato in base al contesto o alla forma o al suono della parola. Senti nella poesia come l’accostamento di vocali e consonanti crea un suono che significa? Non te lo sei immaginato, tu, il Lonfo?

Le parole hanno un suono e un peso. Il suono di un testo è composto della specifica struttura di ciascuna parola scritta: vocali e consonanti alternate ad altre vocali e altre consonanti. Il suono delle parole è il risultato dell’accostamento fra singole lettere, che insieme possono creare armonia o cacofonia. Ogni lettera suggerisce un sentimento:



le vocali a ed e sono aperte, luminose, suggeriscono immagini verdi o bianche, piene di en-

tusiasmo e gioia di vivere, come nelle parole energia, vivacità, carta, anima, estasi; •

la i è acuta e magra, quindi parole come pini, ciuffi, istrici, nitidi, danno l’idea di sottile e di

alto; •

le vocali o e u sono chiuse, cupe, scure ed ecco che arrivano mostro, ululato, oscuro, ombro-

so; •

la consonante r è sonora e gioiosa, risuona e rimane, la lingua indugia un po’ di più sul pala-

to come in arrivare, ridere, ramarro, terra; •

la c e la g hanno suoni d’impatto, decisi, di gola, tranne quando sono seguiti da i o da e: gor-

gogliare, cuccare, cocca, cargo; •

le consonanti v e f evocano leggerezza, tenerezza: farfalla, soffio, volo, favola;



la b e la l invece, fluidità: bella, bimba, bolle, balla;



la m e la n sono accoglienti, nasali, avvolgenti: mamma, ninna nanna, norma, manna;



la t e la p sono secche e pesanti: truppa, steppa, troppo, potato, danno il senso della fatica e

di qualcosa di definito, tagliato.

Con i suoni si possono ricreare un’atmosfera, un colore, una sensazione e quindi anche un ritmo, un’idea, un sentimento. Il naming, per esempio, si basa tantissimo su queste considerazioni sul suono delle singole lettere.

Per esempio, una consonante vicino a una /l/ crea un’atmosfera giocosa, come in Google o Apple; un nome che termina per consonante è sempre più serio di un nome che termina per vocale, come Medium, Henkel, Microsoft, oppure Chiquita, Esso, Nestlé; i brand che contengono

una /k/ nel nome sono potenti, ambiziosi e aggressivi (Nike, Ikea, Kodak, Klout, Kellogg’s, Kimbo), la /z/ rende un nome imponente ed elegante (Zara, Zalando, Tezenis, Calzedonia), le consonanti fricative /f/ /v/ /s/ comunicano una grande leggerezza (Sky, Vodafone, Feedly, Transavia), la liquida /l/ è melodica e, come dicevamo prima, crea fluidità (Lego, BalenaLab, Illy, Volotea), la consonante vibrante /r/ gratta, ci obbliga a fermarci un tempo in più per cercare più attenzione (Novartis, Nespresso, Groupon).

Puoi leggere un testo ad alta voce e renderti conto della sua fluidità: se nella lettura ti blocchi o inciampi in qualche parola, probabilmente puoi scriverlo meglio. Puoi scegliere un sinonimo, spostare l’accento della frase (lo vedremo fra poco nella disposizione), aggiungere o togliere elementi sintattici. Se ti sembra buffo leggere ad alta voce, sappi che non lo è; è solo che non siamo più abituati. Per imparare, leggevamo proprio tutti i giorni, con la mamma o il papà, in classe, davanti a compagni e alla maestra; c’erano perfino le gare di lettura. La lettura ad alta voce ci aiuta a capire se c’è qualcosa che stride nella costruzione della frase. Anche questo libro è stato letto tutto ad alta voce!

Le figure retoriche di suono, quelle relative alla fonetica delle parole, come la rima, l’allitterazione, la paranomasia, l’assonanza, possono esserti utili per rompere la monotonia del testo e attirare l’attenzione su alcuni elementi che vuoi mettere in rilievo.

L’assonanza, per esempio, è la somiglianza di suono tra le ultime sillabe di due parole, che presentano stesse vocali, ma consonanti diverse. Il compito dell’assonanza è di collegare i due elementi e di sottolineare le analogie testuali. Per esempio «amore» e «benedizione», hanno le stesse vocali finali la /o/ e la /e/, oppure «nostro volto». La pioggia nel Pineto di Gabriele D’Annunzio è piena di assonanze che spesso sostituiscono le rime, senti come suona già dall’inizio:

Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie

lontane.

Intorno alle parole scritte ci sono pause e altre parole. Sia le pause, sia le altre parole, influiscono sul suono di un testo: è per questo che un ruolo fondamentale ce l’ha la loro disposizione. Sì, fanno parte del suono anche le pause. Definire degli spazi di respiro nella narrazione è fondamentale, nei testi brevi, nei lunghi, come anche nelle singole frasi.

La disposizione

Come mettiamo insieme le parole è un’informazione: dice quali elementi sono rilevanti nel nostro racconto. Facciamo un esempio:

«Sono io il re della foresta». «Io sono il re della foresta». «Della foresta sono il re».

Questa inversione del soggetto comunica molto del nostro messaggio: ogni frase ha un accento e spostare elementi nella frase sposta, oltre all’accento, anche il significato.

Nella frase: «Sono io il re della foresta», l’accento è su io, sono proprio io, non lui, il re della foresta. Se la pronunciassimo a voce alta sarebbe quasi da inserire una virgola dopo io.

«Io sono il re della foresta» vuol dire che non sono lo spazzino, sono il re, l’accento è su re.

«Della foresta sono il re» significa che non sono il re della Spagna, sono il re della foresta, l’attenzione è tutta sulla foresta: questa costruzione ci riconsegna un tono barocco e poetico.

Ancora Proust, con l’incipit de Alla ricerca del tempo perduto – Dalla parte di Swann, questa volta in un alternarsi di frasi brevi e una frase lunga:

«Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera.

A volte, non appena spenta la candela, mi si chiudevan gli occhi così subito che neppure potevo dire a me stesso: “M’addormento”. E, una mezz’ora dopo, il pensiero che dovevo ormai cercar sonno mi ridestava; volevo posare il libro, sembrandomi averlo ancora fra le mani, e soffiare sul lume; dormendo avevo seguitato le mie riflessioni su quel che avevo appena letto, ma queste riflessioni avevan preso una forma un po’ speciale; mi sembrava d’essere io stesso l’argomento del libro: una chiesa, un quartetto, la rivalità tra Francesco primo e Carlo quinto».

Percepisci la velocità delle prime due frasi, dove la candela si spegne, il protagonista si addormenta, il discorso diretto è brevissimo. Subito dopo il ritmo rallenta, sembra anche a te di non riuscire più a dormire, il tempo si dilata, quasi si ferma, ti giri nel letto, e poi ancora e ancora. Senti ora questo esperimento di Gary Provost, 100 Ways to Improve Your Writing:

«Questa frase ha cinque parole. Ecco qui altre cinque parole. Frasi di cinque parole vanno bene. Ma troppe insieme causano monotonia. Ascolta quel che sta succedendo. Lo scritto sta diventando noioso. Il suo suono ti dà voglia di dormire. È come un disco rotto. L’orecchio implora un po’ di varietà. Adesso ascolta. Cambio la lunghezza delle frasi, e con essa creo la musica. Musica. Lo scritto canta. Ha un ritmo piacevole, una cadenza, un’armonia. Uso frasi corte. E uso frasi di media lunghezza. E a tratti, quando sono certo che il lettore sia riposato, lo coinvolgo in una frase di considerevole lunghezza, una frase che brucia d’energia e s’innalza con l’impeto di un crescendo, il rullo dei tamburi, il tuonante clangore dei piatti – suoni che dicono “Ascoltami, questo è importante!”».

Le figure retoriche

Anche le figure retoriche di ordine hanno una certa importanza nel determinare il ritmo, perché hanno la funzione di mettere in evidenza gruppi di parole, attirando l’attenzione su di esse, creando ripetizioni, inversioni, accostamenti.

L’anafora È la ripetizione di una o più parole all’inizio di una frase (l’epifora, invece, alla fine di una frase).

«Per me si va nella città dolente Per me si va nell’etterno dolore Per me si va tra la perduta gente»

Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto III, vv. 1-3

«Scusa è tardi, e penso a te ti accompagno e penso a te  ti telefono e intanto penso a te»

Lucio Battisti, E penso a te

Pensavi che non avessero niente in comune Dante e Mogol-Battisti, e invece…

L’anastrofe È l’inversione di due parole rispetto all’ordine consueto. Esempio: verbo e soggetto. Da espressioni comuni come «vita natural durante» o «eccezion fatta», fino alla poesia, come «io nel pensier mi fingo» da L’infinito di Giacomo Leopardi.

L’antitesi L’accostamento all’interno della stessa frase di termini o concetti di senso opposto, ad esempio: «buoni si nasce, cattivi si diventa». Spesso sono introdotti da ma o da non.

L’asindeto L’accostamento delle parole senza l’uso di nessuna congiunzione, ma mediante virgole.

Il polisindeto La coordinazione ripetendo la stessa congiunzione.

«E tu. E noi, e lei fra noi».

Patty Pravo, Pensiero stupendo

Il chiasmo La disposizione incrociata di due parole o di due gruppi di parole in una frase: «Marianna è la prima, l’ultimo è Marco».

Il climax La successione di parole o di frasi in ordine di progressiva intensità (ascendente), o di attenuazione (discendente): «Era bella, bellissima, meravigliosa».

L’ellissi La soppressione di una o più parole che possono essere sottintese: «Spiegami come fare. Come posso risolvere questo problema enorme».

L’iperbato La separazione di due parole che dovrebbero restare vicine, inserendo nel mezzo altri elementi della frase: «Potrei, se solo avessi voglia, dirti tutta la verità».

La punteggiatura

La punteggiatura è un elemento di stile, uno strumento che dà ritmo al testo, che ne delinea l’intonazione, necessaria nei testi brevi o nelle singole frasi, indispensabile nei testi lunghi. Se usata a sproposito può compromettere la leggibilità di un testo anche se ben scritto, quindi prestaci grande attenzione.

Il punto Ogni volta che metti un punto significa che quel pensiero può reggersi da solo come se fosse una micro-narrazione: inizia, si svolge e finisce.

La virgola È indispensabile nelle enumerazioni di verbi, nomi o aggettivi che, oltre a informare su caratteristiche tecniche di prodotto, aiutano a dare enfasi e ritmo.

Es.: gustosa, sana, ricca di vitamine. Es.: scrivere per stupire, coinvolgere, diventare memorabili.

Severgnini, nel suo libro L’italiano – Lezioni semiserie, dice:

«C’è chi, con una virgola, ha fatto i soldi. È il caso di Lynne Truss, autrice del bestseller Eats, Shoots & Leaves (2003). Il titolo descrive le azioni d’un pistolero (“Mangia, spara e se ne va”). Basta levare la virgola (“Eats Shoots and Leaves”), e racconta le abitudini di un panda (“Mangia germogli e foglie”)».

Dopo i vocativi, la virgola va messa sempre. La sua mancanza potrebbe essere fatale alla nonnina:

«Vengo a mangiare nonna» (ehi, ciao Hannibal Lecter!). «Vengo a mangiare, nonna» (ciao Cappuccetto Rosso, porta pure la torta già che ci sei).

Una virgola salva la vita.

Il punto e virgola Non si usa spesso, è una pausa più forte della virgola, ma meno forte del punto. Per lo più oggi lo usiamo per scandire degli elenchi di elementi molto lunghi all’interno di una stessa frase e per marcare il confine tra le parole che precedono e quelle che seguono.

Due punti Quello che c’è dopo i due punti risponde alla domanda: «Perché?», ma lo fa in maniera più elegante e sobria. Descrive, spiega, introduce un elenco.

Il punto esclamativo e il punto interrogativo Vanno usati con moderazione. Se senza il punto esclamativo la tua frase non ha niente di esortativo, allora forse dovresti rivedere le parole che hai scelto. In ogni caso, per quanto tu stia urlando, sia indignato o arrabbiato, se proprio devi metterlo, sappi che è uno e uno soltanto! Il punto interrogativo è usato di tanto in tanto negli headline per fare domande provocatorie o retoriche, si abbina al visual per avere maggior forza e per non diventare una domanda vuota. Anche il punto interrogativo è solo uno.

Punto interrogativo e punto esclamativo possono andare in coppia: in quel caso dovrai scriverli in questo ordine: «?!». Capito?! Scrive ancora Severgnini:

«Se la virgola è francese, il punto è americano, il punto interrogativo è tedesco, il punto esclamativo è decisamente italiano. Un segno emotivo, eccitabile e lievemente enfatico. Per questo è di moda. L’Italia è oggi in piena fase esclamativa. Titoli, pubblicità, programmi Tv, siti Internet, messaggi email: da qualche tempo tutti esclamano in modo incontrollato, e portano in giro i loro segni come baccanti (Venite! Leggete! Comprate! Cliccate qui!! Guardate là!! Uau, fantastico!!!). Chi aveva rinunciato al punto esclamativo dopo le elementari, ritenendolo ridondante, oggi si trova circondato. Come spiegare il fenomeno, al di là del carattere nazionale? Una possibilità è

questa: nel mercato delle mille offerte, chi vende/annuncia deve alzare il volume, per farsi sentire. Oppure si tratta di una scorciatoia per esprimere sorpresa, stupore, entusiasmo, delusione. Ottenere lo stesso effetto con le parole è più elegante (e magari questo libro vi aiuterà). Ma non tutti lo sanno fare, purtroppo!».

Puntini di sospensione I punti di sospensione sono kitsch. In pubblicità non li mettiamo mai, perché indicano un discorso sospeso, una battuta o un’esitazione. Nella scrittura creativa, dove lo stupore ha un ruolo fondamentale, non è il caso di avvisarti che sta per succedere qualcosa, ti rovinerei la sorpresa e io, credimi, non vorrei mai. Sui social, nelle email e nei messaggi sono usati tantissimo proprio per quella connotazione emozionale che ti dicevo prima. I puntini di sospensione sono un unico segno di interpunzione: vuol dire che sono sempre e solo tre e come tutta la punteggiatura vanno attaccati alla parola che seguono e staccati da quella che precedono. Es.: «Non so se lo sai, ma… ho rotto il tuo computer!».

Quando scrivi assegna a ogni periodo un solo pensiero e a ogni paragrafo un argomento preciso, poi collega i pensieri fra loro e metti il punto solo dov’è necessario. La punteggiatura è un’arma potente per comunicare pause, sospiri, emozioni e anche toni di voce. Disegna le emozioni di chi parla: un punto fermo chiude un pensiero con decisione, una virgola è un’apertura, un punto interrogativo passa la palla a chi deve rispondere, un punto esclamativo è una sorpresa, una gioia, qualcosa da evitare. Alternare punteggiatura forte (punto, punto esclamativo e punto interrogativo) con punteggiatura debole (virgola, due punti, punto e virgola), definisce l’andamento del testo.

Otto stili creativi

«Nella cassetta degli attrezzi di un creativo, oggi, gli strumenti ci sono tutti. C’è la Unique Selling Proposition di Reeves, quella che vediamo ancora oggi in certe campagne Ferrero e Mulino Bianco. C’è la nozione di brand image come nelle vecchie campagne per la pasta Barilla. C’è l’animazione di personaggi simbolo, come quello dello spot per riso Gallo, con il galletto che parla, o della carta igienica Foxy, con la volpe. C’è la grande lezione di Bernbach, ancora oggi viva nelle campagne Volkswagen e Audi. O la lezione inglese di ieri e di oggi, come nelle campagne Lacoste o Superga. C’è la voglia di disubbidienza e il tentativo di suscitare il desiderio negli spot per Sambuca Molinari o per i jeans Diesel. E c’è la pagina bianca, sulla quale esercitare gli strumenti: e il creativo, ogni mattina, non sa quali userà, o se ne inventerà un altro, tutto suo, mai usato, pulitissimo, così nuovo e così efficace, forse». Emanuele Pirella

Impariamo a scrivere dai grandi. Questo paragrafo mette in luce otto insegnamenti di otto pubblicitari che possiamo utilizzare nella nostra scrittura.

Rosser Reeves

Nel 1960 Rosser Reeves scrive un testo intitolato Reality in advertising, in cui c’è tutto quello in cui crede. La fiducia nel contenuto del messaggio che deve sempre racchiudere una promessa.

Nasce con lui la Unique Selling Proposition (USP). Per lui ogni messaggio deve proporre un beneficio, unico ed esclusivo nel proprio settore, che non sia già offerto dalla concorrenza. Dovrà essere un beneficio così forte da spingere le persone all’acquisto, per questo quel beneficio va mostrato in modo chiaro.

«Le M&M’s si sciolgono in bocca e non in mano».

Ed era vero: lo zucchero fuori evitava che il cioccolato si sciogliesse sulle dita.

Cosa possiamo imparare da Rosser Reeves? Il valore di quello che stiamo proponendo: essere sicuri che quello che vogliamo dire si poggia su basi solide, su un beneficio, su qualcosa di valore che possiamo mettere sul piatto.

David Ogilvy

Un grande pubblicitario che aveva a cuore la personalità del brand, ma prima ancora un narcisista che ha anche venduto elettrodomestici (basta leggere Confessions of an Advertising Man, una divertente autobiografia che ti consiglio). Una pubblicità elegante e fascinosa, la sua. Sempre alla ricerca di una suggestione, spesso sensoriale. Il suo stile mette insieme titoli evocativi e testi molto lunghi e ben argomentati.

«A 60 miglia all’ora, il rumore più forte di questa nuova Rolls-Royce viene dal ticchettio dell’orologio elettrico».

Ogilvy è capace con un dettaglio di suggestionare e rivelare il significato di un mondo di eleganza, di lusso, di comfort totale, di alta tecnologia.

Un altro esempio.

Portorico è uno stato verso cui i turisti americani non si muovevano volentieri, frenati dai pregiudizi: nella loro testa c’era l’immagine di una Portorico pericolosa, sporca, povera. Caraibi, sì, ma con una patina di squallore. David Ogilvy scardina il pregiudizio con una splendida fotografia di un violoncello appoggiato a una sedia in un interno elegante e raffinato.

«Pablo Casals è tornato a casa, a Portorico».

Il violoncellista non c’è, ma il suo violoncello sì e in quel silenzio c’è tutto il fascino di un paese da conoscere. Ogilvy riesce a fare di un’assenza una presenza colta e raffinata.

Cosa possiamo imparare da David Ogilvy? Il fascino. Proviamo a non cadere mai nell’ovvio e nel banale, ricercando prima l’eleganza del pensiero e poi anche della forma.

Leo Burnett

Nato nel Midwest, nel Michigan e poi sbarcato a Chicago, elabora uno stile creativo rustico, duro, pieno di pragmatismo: «Dentro ogni prodotto c’è un dramma», diceva, «da scoprire e da tenere caro».

Nel 1954 la Philip Morris, gigante del tabacco, aveva da poco introdotto le Marlboro, sigarette col filtro, nel tentativo di compensarne gli effetti nocivi. Ma aveva un problema: fin dalla loro nascita, le Marlboro erano considerate sigarette per donne (il filtro rosso era perfetto per nascondere i segni del rossetto), mentre la Philip Morris voleva fare la differenza nel mercato maschile.

Leo Burnett decise di lanciare la campagna The sheriff, con un cowboy come testimonial, associando all’essere virile la sicurezza e l’anticonformismo, esaltando il tocco dell’uomo comune. La campagna fu declinata con altri testimonial, mandriani veri, gente che aveva lavorato nei ranch, alternata ad attori come Wayne McLaren, David McLean e Dick Hammer: 20 anni di successi, fino alla fine degli anni ’80.



Cosa possiamo imparare da Leo Burnett? La forza della semplicità. La sua grande capacità di riuscire a far diventare familiare l’universale.

William «Bill» Bernbach

1949. William Bernbach promuove una visione inedita del linguaggio pubblicitario: civile, mai

banale, basata sulla verità. Al centro non ci sono le mode dei sondaggi, ma le emozioni autentiche, la ricerca della verità completa. Con il suo negative approach mette in evidenza i difetti del prodotto, per poterne affermare meglio i pregi con uno stile mirabile. È suo il merito di aver messo a lavorare insieme per la prima volta un art director e un copywriter. Tutti i suoi annunci, infatti, sono capolavori di intesa tra parole e immagine. Ecco ad esempio la Volkswagen: in un mondo di auto grandi e costose, io te ne propongo una piccola ed economica, ma che ti porta dove vuoi.

Uno spot sempre della Volkswagen si chiudeva così: «Vi siete mai chiesti come fa l’uomo che guida lo spazzaneve ad arrivare allo spazzaneve? Ci arriva con una Volkswagen. Così potete smettere di farvi domande».

«È brutto, ma ti porta dove vuoi».

Cosa possiamo imparare da William Bernbach? L’irriverenza. Se oggi possiamo essere divertenti con la pubblicità lo dobbiamo a lui.

Howard Gossage

Howard Gossage era un anticonformista, non ha mai voluto piegarsi al linguaggio standard, al contrario ha sempre cercato nuove strade, soprattutto con parole che solleticassero l’assurdo. Riusciva ad attivare il pubblico con idee originalissime, come nessuno mai prima di lui. Quando scrisse questo annuncio per Fina andavano di moda i toni enfatici ed esortativi: fino ad allora non era mai stato scritto niente di più anti-pubblicitario di questo, ma allo stesso tempo di così umano.



«Se state guidando e vedete una stazione Fina ed è dalla vostra parte così da non dover fare un’inversione di marcia e non ci sono sei macchine in attesa e avete bisogno di benzina o di qualsiasi altra cosa, per favore fermatevi alla nostra stazione». Fu lui a inventare l’aria rosa, sempre per Fina. A chi avesse fatto il pieno da Fina sarebbero state gonfiate le ruote con aria rosa. Parteciparono in tantissimi. Gli annunci addirittura diventarono coupon da ritagliare, compilare e spedire, per richiedere gratis una razione di aria rosa. L’aria rosa è stata forse il primo prodotto pubblicitario interattivo, prima di ogni concorso, prima di ogni iniziativa che oggi ci sembra la frontiera dell’interazione.

Cosa possiamo imparare da Gossage? Il coraggio di sperimentare. Ci sentiamo a nostro agio con le cose che conosciamo già, tendiamo d’istinto verso il famigliare, piuttosto che verso l’ignoto. Un principio difficile con cui convivere se vogliamo scrivere qualcosa di originale. Immagino che sia questo il motivo per cui tutta la comunicazione in ogni settore tende in modo preoccupante ad assomigliarsi. Si sacrifica la sorpresa a favore del comfort. Lasciamo da parte la nostra pigrizia e la comodità della strada battuta per andare oltre la pagina, oltre il post dei social, oltre l’articolo o lo spot, costruendo contenuti out of the box.

Se lui ha inventato l’aria rosa, cosa possiamo inventare noi?

Jacques Séguéla

Un caratterino mica male, Jacques, egocentrico e pieno di sé, inventa la star strategy: a differenza della copy strategy, che crea messaggi su una base razionale, Séguéla parte da un’analisi emotiva e spettacolare. Rende il prodotto una persona e fa di questa persona una star: attribuisce ai prodotti un fisico, un carattere e uno stile. Il fisico è la funzione del prodotto, il carattere è il valore aggiunto, ciò che lo farà amare; lo stile è il modo con cui il prodotto comunica con il pubblico. In fase di analisi, pone al cliente domande sul prodotto obbligandolo a parlarne come se fosse una persona: «Se fosse un’automobile? Se fosse un animale?» ecc.

Nel 1981, si occupa della comunicazione di François Mitterrand, che, anche grazie alla sua strategia, vince le elezioni presidenziali francesi.

La «forza tranquilla» è una figura retorica, si chiama ossimoro e si forma con una coppia di parole che si escludono l’un l’altra: è una forma di antitesi di singole parole che vengono accostate con effetti paradossali (come per esempio paradiso infernale, ghiaccio bollente).

Cosa possiamo imparare da Séguéla? Ogni prodotto può avere un’anima: troviamola. Sarà il suo carattere a suggerirci come va comunicato.

Emanuele Pirella

«Chiquita: 10 e lode». «O così. O Pomì». «Che morbido, è nuovo? No, lavato con Perlana».

Questi slogan sono di Emanuele Pirella, sono gli slogan che lo consacrano uno dei creativi più ammirati in Italia. Nel 1971, dopo essersi fatto un bel po’ di esperienza dai grandi (Young & Rubicam su tutte), fonda Agenzia Italia, un’agenzia tutta sua che diventa l’ariete con cui contrapporsi ai colossi statunitensi. La sua è una comunicazione irriverente e provocatoria. Questo annuncio, per esempio, è per Jesus Jeans, l’headline recita: «Chi mi ama mi segua».



«O così. O Pomì». Questo slogan contiene due figure retoriche di suono, la paranomasia, che accosta due parole con suoni simili, ma significato diverso (così, Pomì) e l’anafora, la ripetizione di un elemento, in questo caso la lettera o. Sceglie di opporsi ai trend del momento, per differenziarsi. Se gli altri puntano sull’immagine, lui sulle parole; se gli altri urlano, lui sussurra; se gli altri si prendono sul serio, lui punta sull’ironia. Emanuele Pirella stimava René Magritte considerandolo un pubblicitario, oltre che uno dei più grandi artisti del ’900. Vedeva in lui un punto di riferimento per la pubblicità, in grado di sorprendere chi la guarda, ma anche di creare con le persone un rapporto complice e privilegiato.

Cosa possiamo imparare da Pirella? L’originalità con buon senso. Imparare a distinguere le idee che sono davvero rivoluzionarie da quelle che sono soltanto bizzarre. L’invito a non seguire i trend o copiare le idee di qualcun altro cercando sempre la forza di essere differenti, non tanto per uscire dagli schemi, quanto per essere aderenti a se stessi e coerenti con il proprio scopo.

Gavino Sanna

Sardo, allievo di Andy Warhol, vince sette Clio (gli Oscar della pubblicità in America), sette leoni

a Cannes e l’unico Telegatto assegnato alla pubblicità con Barilla, per cui cura e inventa le famose campagne degli anni ’80, contraddistinte dal celebre claim: «Dove c’è Barilla c’è casa», inventando uno stile pubblicitario fatto di semplicità e buoni sentimenti.

Te lo ricordi lo spot della bambina con l’impermeabile giallo e il gattino? Sanna è stato l’uomo giusto per Barilla e anche per De Cecco, Tuborg, Giovanni Rana, Fiat, Ariston, Simmenthal.

Cosa possiamo imparare da Sanna? L’emozione semplice che parla un linguaggio universale e sempre attuale. Trova l’emozione che vuoi suscitare e raccontala.

Sgranchiamoci le idee







Che figure retoriche sono state usate in questi annunci?



Guarda questa immagine qui sotto e scrivi un copy usando una metafora.



Ogni scrittore ha il suo stile e ogni scrittore talentuoso può cambiarlo a piacere fino a ren-



dersi irriconoscibile. Hai letto Esercizi di stile di Raymond Queneau? Un libro sperimentale dove la stessa storia è raccontata in 99 modi diversi. Scrivi un breve testo (meno di 100 parole) che racconti cosa hai fatto ieri sera:

1. come se dovessi dirlo al tuo dottore;

2. come se fossi molto triste e volessi essere consolato; 3. come se dovessi conquistare un tuo cliente.



Prendi il tuo ultimo post del blog e riscrivilo in 100 parole, poi in 50 e poi in meno di 20. Un

aiuto: sottolinea le parole chiave, quelle che danno il senso all’articolo, elimina il superfluo, tutte quelle parole e frasi che non aggiungono informazioni rilevanti. Riorganizza il resto: metti in ordine ciò che è rimasto e poi taglia ancora. •

Leggi ad alta voce un testo di un libro che ti piace. Riesci a sentire il ritmo? Indica le frasi

narrative (brevi e lunghe). Ora sostituisci alle parole dell’autore parole tue, rispettando la lunghezza, la struttura e la punteggiatura del testo, in modo che abbia un senso.

Conclusione

Lo stile non nasce da un giorno all’altro. Si coltiva, aggiungendo, ma soprattutto togliendo il prevedibile e il già sentito, per far spazio alla propria voce.

Imparare la grammatica, le regole, le tecniche, il metodo, leggere molto (mai abbastanza!). Dimenticare la pigrizia. Scoprire la bellezza di una scrittura autentica, rispettosa dell’intelligenza delle persone, che non prende in giro ma stimola, fa sorridere, stupisce.

Fai pratica: non devi scrivere tanto, né poco. Dovresti scrivere con la voglia di farlo, lavorare sodo alla ricerca delle parole giuste, della forma giusta, del ritmo giusto. Tutti scrivono, ma non tutti sanno scrivere: ogni giorno un copywriter incontra un cliente che ha un nipote che usa il computer e che può fargli i testi del sito Internet gratis, ma questo non significa comunicare.

Il tuo stile nasce quando il pensiero è chiaro e sincero, quando l’idea che c’è dietro ti sta a cuore, quando scegli una forma perché hai un obiettivo, quando ti senti rappresentato da ogni singola parola.

Così parlerai alla nicchia che ami di quello che è importante per te con la tua voce lasciando un segno.

Glossario minimo di scrittura pubblicitaria

Brief È il documento che riassume gli obiettivi e i contenuti di una campagna pubblicitaria, redatto dall’account dell’agenzia dopo l’incontro con il cliente. Contiene informazioni essenziali per la creazione dei messaggi pubblicitari, quali le caratteristiche del prodotto, gli obiettivi di comunicazione, il pubblico e i competitors.

Brainstorming Dall’inglese, letteralmente «tempesta di cervelli». Indica la riunione in cui con il metodo dell’associazione libera di pensieri, il gruppo di persone coinvolte nel progetto butta giù le idee per individuare la soluzione migliore a un problema di comunicazione.

Bodycopy È il testo di un annuncio pubblicitario dedicato a descrivere le caratteristiche del brand o del prodotto e a sviluppare il messaggio lanciato nell’headline.

Call to action L’invito testuale a compiere un’azione: per esempio a comprare il prodotto, a visitare il sito web, a registrarsi a una newsletter.

Campagna pubblicitaria L’insieme delle attività pubblicitarie a favore di uno stesso prodotto, coerenti fra di loro, mirate a raggiungere un obiettivo prefissato e destinate ai vari media.

Copywriter

Nell’approccio tradizionale, è il professionista che spesso arriva da un’esperienza maturata in agenzia di pubblicità e si dedica alla ricerca e allo sviluppo di un concept utile a creare un ponte tra brand e pubblico. Una volta che l’ha trovato, il suo compito è quello di metterlo in parole e dialogare con le immagini o i suoni a cui si accompagna. In un contesto più allargato, il copywriter oggi è la figura professionale che si occupa della scrittura per business online e offline. Ha una formazione eterogenea: può essere un web writer, business writer, content editor, storyteller, content & social media manager, in cui il lavoro quotidiano è meno orientato al pensiero creativo e all’insight e più alle tecniche di scrittura, in modo da rispettare ed esaltare le qualità intrinseche dei singoli canali di comunicazione (per esempio i principi della SEO).

Headline L’headline è la frase di apertura di una pagina pubblicitaria. Ha il compito di catturare l’attenzione e invitare a guardare l’immagine o continuare la lettura del testo. È breve, diretta e contiene il messaggio principale.

Payoff La parola o la frase che accompagna il logo e che sintetizza il «come» dell’azienda. Fa parte della brand identity, per questo non cambia mai, a differenza dell’headline, che è specifico per ogni campagna e quindi per ogni messaggio. Breve e memorabile, la sua massima ambizione è essere riconoscibile anche senza logo.

Unique Selling Proposition (USP) È l’argomento unico di vendita, la caratteristica che rende unico quel prodotto.

Visual L’illustrazione o la foto presente in un annuncio.

Bibliografia

Abby Covert, How to Make Sense of Any Mess Alberto Abruzzese, Metafore della pubblicità Annamaria Testa, Farsi capire: comunicare in modo efficace, interessante, persuasivo Annamaria Testa, La parola immaginata. Teoria, tecnica e pratica del lavoro di copywriter Annamaria Testa, Minuti scritti – 12 esercizi di pensiero e scrittura Annamaria Testa, (da Nuovo e Utile, blog), Poincaré: una definizione di creatività Anton Cechov, Una storia noiosa Arthur Rimbaud, Non sono venuto qui per essere felice. Corrispondenza (1870-1886) Austin Kleon, Semina come un artista. 10 idee per condividere la tua creatività e far conoscere il tuo lavoro Beppe Severgnini, L’italiano. Lezioni semiserie Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica Bruno Ballardini, Gesù lava più bianco. Ovvero come la Chiesa inventò il marketing Carmine Gallo, Comunicare come Steve Jobs e i migliori oratori degli eventi TED. I 9 segreti di un discorso vincente Chris Anderson, Il migliore discorso della tua vita: come imparare a parlare in pubblico Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto V David Ogilvy, Confessioni di un pubblicitario Derrick de Kerckhove, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato. Come le tecnologie della comunicazione trasformano la mente umana Diego Fontana, Digital Copywriter: pensa come un copy, agisci nel digitale D&Ad, The Copy Book: How Some of the Best Advertising Writers in the World Write Their Advertising Edward De Bono, Sei cappelli per pensare Emanuele Pirella, Il copywriter. Mestiere d’arte Emanuele Pirella, La mia pubblicità Francesca Marano, Chi ha paura del business plan? Gary Provost, 100 Ways to Improve Your Writing: Proven Professional Techniques for Writing with Style and Power Gavino Sanna, Professione creativo

Gavino Sanna, Le uova di Woody Allen. Guida arbitraria ai misteri e ai piaceri della pubblicità George Lois, Damn Good Advice (for People with Talent!). How to Unleash Your Creative Potential by America’s Master Communicator Geppi De Liso, Creatività & Pubblicità. Manuale di metodologie e tecniche creative Gianfranco Bettetini, Stefania Garassini, Barbara Gasparini e Nicoletta Vittadini, I nuovi strumenti del comunicare Giuseppe Mayer, Dallo spot al post: la pubblicità dopo i social media Giuseppe Mazza (a cura di), Bernbach pubblicitario umanista. La prima raccolta dei testi del più grande tra i Mad Men Giuseppe Mazza (a cura di), Cose vere scritte bene: i più grandi annunci copy per i copy di oggi Graham Wallas, The Art of Thought Isabella Pezzini e Paolo Fabbri (a cura di), Le avventure di Pinocchio. Tra un linguaggio e l’altro Jacopo Matteuzzi, Inbound Marketing. Le nuove regole dell’era digitale Jacques Séguéla, Hollywood lava più bianco Jacques Séguéla, Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… Lei mi crede pianista in un bordello Jean Guitton, Il lavoro intellettuale. Consigli a coloro che studiano e lavorano Jonah Berger, Contagioso: perché un’idea e un prodotto hanno successo e si diffondono J.P. Guilford, Creativity. American Psychologist, 5, 444-454 Kenneth Roman e Joel Raphaelson, Writing that Works: How to Communicate Effectively in Business Kristina Halvorson e Melissa Rach, Content Strategy per il web. I contenuti fanno la differenza Lee Strasberg, Lezioni all’Actors Studio. Il racconto di un’esperienza mitica Luc de Brabandere, Pensiero magico. Pensiero logico: piccola filosofia della creatività Lucrezio, De rerum natura Luisa Carrada, Il mestiere di scrivere. Le parole al lavoro, tra carta e web Mafe De Baggis, Il blocco della pubblicità online: dove andremo a finire? (Intervista sul blog di Paolo Ratto) Mara Mancina, Bill Bernbach e la rivoluzione creativa. Il mito di un personaggio e di un movimento che hanno cambiato la storia della pubblicità Marcello La Matina, Cronosensitività. Una teoria per lo studio filosofico dei linguaggi

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto Marco Lombardi e We are social, Creatività in pubblicità: dalla logica alle emozioni Maria Bettetini, Breve storia della bugia. Da Ulisse a Pinocchio Mason Currey, Rituali quotidiani. Da Tolstoj a Mirò, da Beethoven a Marina Abramovic, da Proust a Murakami Massimo Coppola e Alberto Piccinini con Giovanni Robertini, Brand: New Matteo Civaschi e Gianmarco Milesi, Shortology: da Alien a Mark Zuckerberg, 101 ministorie per chi non ha tempo da perdere Michelangelo Coviello, Il mestiere del copy. Manuale di scrittura creativa Paolo D’Achille e Giuseppe Patota, L’italiano e la creatività: marchi e costumi, moda e design Paolo Iabichino e Stefano Gnasso, Existential Marketing: i consumatori comprano, gli individui scelgono Paolo Iabichino, Scripta Volant: un nuovo alfabeto per scrivere (e leggere) la pubblicità oggi Paul Arden, It’s not How Good You Are, It’s How Good You Want To Be Paul Arden, Whatever You Think, Think the Opposite Pete Barry, The Advertising Concept Book: Think Now, Design Later: A Complete Guide to Creative Ideas, Strategies and Campaigns Philip Roth, Ho sposato un comunista Raymond Carver, Il mestiere di scrivere Robert Miquel, L’universo delle forme sonore. L’azione e gli effetti del suono sull’uomo Roberto Kalamun Pasini, Crisi d’identità: costruire un’identità visiva senza sapere da che parte iniziare Roy Peter Clark, Writing Tools: 50 Essential Strategies for Every Writer Simon Sinek, Partire dal perché: come tutti i grandi leader sanno ispirare collaboratori e clienti Sybil Oldfield (a cura di), Lettere in morte di Virginia Woolf Stefano Bartezzaghi, Come dire: galateo della comunicazione Tim Clark in collaborazione con Alexander Osterwalder e Yves Pigneur, Business Model You Tony Buzan e Barry Buzan, Mappe mentali. Come utilizzare il più potente strumento di accesso alle straordinarie capacità del cervello per pensare, creare, studiare, organizzare Ugo Volli, Figure del desiderio. Corpo, testo, mancanza Umberto Eco, Lector in fabula

Vera Gheno, Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi) William Strunk Jr. e Richard De A’Morelli, The Elements of Style

Discografia

Elettrojoyce, Illumina Ivan Graziani, Firenze Lucio Battisti, E penso a te Patty Pravo, Pensiero stupendo

Teatrografia

Alessandro Bergonzoni, Nessi Gigi Proietti, Il lonfo (poesia di Fosco Maraini)

Videografia

James Geary, Metaphorically speaking (TED Talk)

Chiara Gandolfi

Copywriter e speaker pubblicitaria: uso la scrittura e la mia voce per creare narrazioni intorno ai brand e coinvolgere le persone. Da più di 14 anni lavoro nell’advertising: inizio come speaker in una radio locale, poi scrivo testi e spot per radio nazionali, lavoro in libreria, in agenzia e redazione; imparo a scegliere le parole giuste per attirare l’attenzione giocandomela sempre in pochi secondi.

Nel 2014 creo BalenaLab: un laboratorio quasi palindromo dove presto le parole (senza volerle indietro) ai brand che vogliono raccontarsi sia online che offline. Realizzo campagne pubblicitarie, testi e storie per piccoli bellissimi clienti pieni di entusiasmo e per grandi aziende come Generali Assicurazioni, Illy, Samsung, Kinder Ferrero, Ravelli, Gibus.

Sono senior copywriter di Caroselling, agenzia di comunicazione che sviluppa siti Internet e brand identity, a partire da idee creative e strategiche.

Nata con la carta, cresciuta nella radio, ora vivo nel web. Per il resto si accettano scommesse.

Indice

Scrivi più bianco Introduzione Capitolo 1. Io e te: scrivere per incrociare i destini Verità e persuasione: costruire il senso e il consenso Contenuto e forma: due facce della stessa medaglia Sgranchiamoci le idee Capitolo 2. Argomentare e illuminare Generare un concept Il pensiero creativo Tecniche di pensiero creativo Pensa e agisci da creativo Sgranchiamoci le idee Capitolo 3. Farsi capire e sorprendere Ambiguità Le figure retoriche Il tono di voce La sintesi: dire meno, dire meglio Il ritmo
 Otto stili creativi Sgranchiamoci le idee Conclusione Glossario minimo di scrittura pubblicitaria Bibliografia Chiara Gandolfi