Scrittrici in esilio tra Ottocento e Novecento 9788822908520, 9788822913586

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Scrittrici in esilio tra Ottocento e Novecento
 9788822908520, 9788822913586

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Quodlibet Studio Scienze della cultura

Scrittrici in esilio tra Ottocento e Novecento A cura di Silvia Tatti e Chiara Licameli

Quodlibet

Prima edizione: ottobre 2022 © 2022 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di nw presso lo stabilimento Legodigit Srl, Lavis (tn) isbn 978-88-229-0852-0 e-isbn 978-88-229-1358-6 Quodlibet Studio. Scienze della cultura Collana a cura di Francesco Fiorentino Comitato scientifico: Luca Crescenzi, Tiziana Crivelli, Franco D’Intino, Werner Frick, Hans-Thies Lehmann, Gabriele Pedullà, Giovanni Sampaolo I testi della Collana sono sottoposti a un sistema di valutazione paritaria e anonima (peer-review) Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Lettere e Culture moderne, Sapienza Università di Roma

Indice

7 Silvia Tatti



La scrittura femminile alla prova della storia e dell’esilio tra Ottocento e Novecento

13 Gabriella Romani



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«Il municipalismo del dolore»: l’identità ebraica di Erminia Fuà Fusinato esule tra Firenze e Roma Chiara Licameli

«Od esule od oppresso / Visse chi grande fu»: militanza politica e poesia in Erminia Fuà Fusinato Laura Fournier-Finocchiaro, Monica Salvetti

L’esilio volontario di Clementina de Como nell’Italia del Risorgimento attraverso la sua autobiografia Mercedes Arriaga Flórez

Memoria, racconto e autobiografia in Ricordi dall’esilio di Cristina Trivulzio di Belgiojoso Alessia Testa

Questione di genere, imperialismo ed autobiografismo nella letteratura d’esilio di Cristina Trivulzio di Belgiojoso Ombretta Frau

Una congiura di buoni. L’esilio dell’anima in Una fra tante Patrizia Guida

L’altrove negli scritti di Louise Hamilton Caico

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indice

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Camilla M. Cederna

Alterità e métissage nella scrittura di esilio di Elisa Chimenti, «eterna viaggiatrice nel paese delle chimere» Katjia Torres

Elisa Chimenti, la donna mediterranea y su riḥla – viaje de vida en contexto islámico – en el imaginario de género Elisabetta Sarmati

María Zambrano. I luoghi dell’esilio: la frontiera, il deserto e l’isola Rosanna Morace

Lingua materna/matrigna/adottiva: il trauma dell’esilio e le sue orme verbali Flavia Caporuscio

Cartografie ortesiane: esilio, patria, utopismo Franca Sinopoli

Riflessi della condizione “esilica” nella cultura contemporanea: intersezioni tra esilio e critica in Edward W. Said Indice dei nomi

La scrittura femminile alla prova della storia e dell’esilio tra Ottocento e Novecento Silvia Tatti

Questo volume nasce da un incrocio tra percorsi di studio diversi e occasioni di riflessione comune che riguardano da un lato le ricerche sull’esilio e sul dispatrio, temi ai quali molte delle autrici che hanno partecipato a questa pubblicazione dedicano da anni la loro attenzione1, e dall’altro la scrittura femminile, un ambito di ricerca comune alle studiose che contribuiscono a questo volume2 e che, almeno per l’Ottocento, al centro di tanti saggi qui pubblicati, necessita di una nuova messa a punto che lo collochi all’interno della produzione letteraria del secolo3. Anche attraverso affondi come quello proposto da questa raccolta di saggi che indagano, a partire da un’esperienza come l’esilio, la produzione letteraria femminile, è dato di riconsiderarne lo sviluppo non da un’ottica esclusivamente di genere, ma da una prospettiva ampia, 1  Ricordo solo alcune monografie recenti: Rosanna Morace, Il prisma, l’uovo, l’esorcismo: Meneghello e il dispatrio, Ets, Pisa 2020; Franca Sinopoli, Interculturalità e transnazionalità della letteratura: questioni di critica e studi di casi, Bulzoni, Roma 2014; Silvia Tatti, Esuli. Scrittori e scrittrici dall’antichità a oggi, Carocci, Roma 2021. 2  Si citano solo alcune monografie di autrici che hanno collaborato a questo volume: Patrizia Guida, Scrittrici con la valigia. Capitoli e censimento dell’odeporica femminile italiana dall’Antichità al Primo Novecento, Congedo Editore, Galatina 2019; Ombretta Frau, Cristina Gragnani, Sottoboschi letterari: sei case studies fra Otto e Novecento: Mara Antelling, Emma Boghen Conigliani, Evelyn, Anna Franchi, Jolanda, Flavia Steno, Firenze University Press, Firenze 2011. 3  Al rapporto tra esilio e scrittura femminile sono stati dedicati due seminari che si sono tenuti a Roma il 12 dicembre 2019 e il 15 settembre 2021, organizzati dal Laboratorio associato internazionale dedicato a Esilio e scrittura femminile stabilito sulla base di una convenzione tra Sapienza Università di Roma (Silvia Tatti) e Université de Lille (Camilla Cederna); il secondo seminario si è avvalso anche della collaborazione del Grupo de investigación Escritoras y Escrituras dell’Universidad de Sevilla coordinato da Mercedes Arriaga Flórez.

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silvia tatti

in cui le scrittrici acquistano una loro riconoscibilità e un peso all’interno della storia letteraria complessiva e contribuiscono a ridefinire il rapporto con la tradizione, le genealogie e canonizzazioni. Penso che l’Ottocento sia un secolo chiave per la scrittura femminile, in grado di illuminare, retrospettivamente, anche la produzione settecentesca attraverso nuove chiavi di accesso. La dimensione non accademica della letteratura ottocentesca, il rapporto strettissimo con la storia e la politica, l’ampliamento a più classi sociali di una coscienza di genere e soprattutto l’infittirsi di interrogativi sulla condizione della donna, pur in un contesto storico e soprattutto sociale di affermazione del modello borghese per certi versi costrittivo nei confronti delle donne: sono tutte piste di ricerca che integrano le consuete strade di accesso alla scrittura femminile, di analisi letteraria e tematica, spesso limitata ad alcuni specifici generi letterari e ad alcune esperienze circoscritte. L’Ottocento è un secolo altalenante per quanto riguarda la questione femminile, all’interno del quale le conquiste politiche e sociali confliggono con un rinnovato conformismo sociale che verso la metà del secolo rallenta e interferisce con le rivendicazioni legate alla stagione rivoluzionaria e risorgimentale; quando si affronta il problema della letteratura al femminile bisogna tenere conto di questi elementi e riconoscere che non esiste un progresso lineare, ma che spesso a momenti di aperture legati magari a esplosioni rivoluzionarie seguono fasi di chiusura e arretramento; inoltre è difficile parlare di un panorama generale, visti i condizionamenti religiosi (il caso di Erminia Fuà e non solo il suo mostra quanto sia rilevante l’appartenenza alla cultura ebraica) e quelli culturali e geografici che incidono in modo determinante nel quadro complessivo, con profonde differenze tra Nord e Sud del Paese. D’altra parte, il tardo Ottocento è periodo chiave, almeno in Italia, per il rafforzamento e l’estensione delle pratiche letterarie al femminile, che coinvolgono generi diversi e che sperimentano una dimensione internazionale; si tratta inoltre di un momento decisivo anche per quanto riguarda la riflessione sui percorsi formativi e sull’accesso ai saperi in anni che precedono l’evoluzione dell’epoca moderna e che introducono a un panorama novecentesco dominato da una diversa consapevolezza e autonomia dell’autorialità femminile4. 4  Su questo arco temporale, per una recente indagine, cfr. Lettrici italiane tra Arte e Letteratura, a cura di Giovanna Capitelli e Olivia Santovetti, Campisano, Roma 2021.

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Questo volume dedicato alla scrittura d’esilio e alla sua teorizzazione (per cui si veda il saggio di Franca Sinopoli che chiude il testo) intende quindi contribuire a un approccio non limitato a coordinate di genere, ma volto a considerare la scrittura femminile come esperienza letteraria complessiva, utile a qualificare la specificità della produzione letteraria del pieno e tardo Ottocento e la transizione al Novecento. Ripensare l’Ottocento letterario, rivedendone gli schemi storiografici eccessivamente rigidi e appiattiti sulla storia politica o debitori a classificazioni astratte e inadeguate, apre quindi a una valorizzazione di tanta produzione sommersa o poco nota che deve essere riscoperta e indagata e che potrebbe contribuire a ridefinire il quadro della letteratura del periodo e anche, per quello che riguarda il nostro discorso, aprire a una nuova considerazione della scrittura femminile ottocentesca e novecentesca. Il riequilibrio del corpus, anche attraverso il recupero di scrittori e scrittrici meno noti e la valorizzazione di generi diversi, serve anche a compensare in un certo senso il rapporto ambivalente che le scrittrici intrattengono con la tradizione letteraria, di filiazione controversa potremmo dire, di riconoscimento di un debito innegabile nei confronti dei linguaggi consolidati e del canone vigente, ma di ricerca anche di sollecitazioni diverse, attraverso la costruzione di genealogie alternative che si consolidano soprattutto nel ventesimo secolo. Il tema dell’esilio che lega i contributi qui pubblicati costituisce una prospettiva particolarmente efficace perché si presta a una duplice lettura. Da un lato, infatti, l’esilio è esperienza effettivamente vissuta da tante donne (come Cristina di Belgiojoso, Erminia Fuà Fusinato, Agota Kristof) che sono dovute fuggire dalla patria per motivi politici, abbandonando i riferimenti affettivi, linguistici e culturali e che hanno dovuto ricostruire una propria storia e una propria identità, anche letteraria, in condizioni profondamente diverse. Il caso emblematico di Maria Zambrano ci proietta nel Novecento avanzato ed è un’esperienza che condensa, per la sua natura così estrema e potente, per la profondità dell’indagine speculativa dell’autrice e per l’intensità tragica della sua esperienza, tutto il significato profondo e la forza reattiva che la scrittura riveste come elemento di resistenza contro la negatività del trauma. Dall’altro, l’esilio, nella tradizione letteraria e tanto più nella storia delle scrittrici, non è soltanto esperienza biografica, conseguenza

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di eventi politici o religiosi, ma è diventato, soprattutto nel Novecento (per cui si veda anche il caso di Anna Maria Ortese), dopo la fase eroica dell’esilio politico romantico-risorgimentale, una sorta di tema trasversale che ha fornito un vocabolario di base, un linguaggio metaforico in grado di dar voce a ogni dimensione di esclusione e straniamento esistenziale o di confronto con orizzonti diversi, a prescindere da situazioni di effettiva costrizione. Si tratta di aspetti che accompagnano la letteratura della crisi della modernità e che si prestano particolarmente, in pieno e tardo Ottocento, a esprimere la difficile costruzione di un’identità autoriale femminile già minata in partenza da condizionamenti culturali e sociali. Proprio per questo l’esilio e lo sradicamento possono essere per le donne, in determinate circostanze, delle opportunità di crescita professionale lontano dai vincoli e dalle costrizioni delle società di partenza, in situazioni nuove seppure spesso tragiche, nelle quali però la scrittura trova una nuova dimensione e la letteratura diventa una risorsa per superare e archiviare l’emergenza. Nel caso della scrittura femminile questa potenzialità del linguaggio esiliaco ha intercettato non solo una dimensione di alterità comune a tutte le esperienze di allontanamento dalla patria, ma anche lo straniamento che appartiene in modo specifico a una scrittura delle donne segnata da una marginalità autoriale, da una difficile affermazione pubblica, da un rischio di perdita e di isolamento comune a tante scrittrici fino ai primi decenni del Novecento. Per le scrittrici al centro dei saggi (da Cristina di Belgiojoso, inizialmente esule costretta a partire, ma anche viaggiatrice per scelta in Oriente, a Erminia Fuà Fusinato, Emma, Clementina de Como, Louise Hamilton, Elisa Chimenti, Agota Kristof) lo straniamento e il contatto con l’alterità linguistica, esistenziale, religiosa, culturale diventano il motore di una scrittura che registra indubbiamente lo sgomento del cambiamento, ma che si apre anche a nuove strade e potenzialità e che serve a metabolizzare l’esperienza, ad archiviarla e a raccontarla. La scommessa di questo volume è dunque quella di portare l’indagine all’interno di questo specifico spaccato temporale otto-novecentesco, di verificare quali sono le conseguenze di ogni esperienza di straniamento prevalentemente reale, ma anche esistenziale, sulla

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scrittura e sulla dimensione pubblica delle donne, di riflettere sull’ipotesi di una specificità della scrittura dell’esilio al femminile e sulle ripercussioni di ogni esperienza di sradicamento nelle scelte biografiche e nei linguaggi letterari. Ma la scommessa di questo volume è anche quella con cui questo breve discorso è iniziato; considerare la scrittura così ricca e eterogenea delle scrittrici dell’Ottocento e del primo Novecento in un’ottica non esclusivamente di genere ma complessiva, utile a ridefinire nella sua totalità lo studio del periodo, attraverso il recupero di documenti, l’approfondimento dell’evoluzione dei generi, la considerazione delle diversità anche geografiche e delle peculiarità sociali. Una strada lunga, della quale questo volume costituisce un piccolo ma, speriamo, significativo tassello.

«Il municipalismo del dolore»: l’identità ebraica di Erminia Fuà Fusinato esule tra Firenze e Roma Gabriella Romani

Molto è stato scritto sull’esilio dei patrioti e delle patriote risorgimentali in Europa nella prima metà dell’Ottocento1, meno, invece, su quello avvenuto entro i confini nazionali dopo il 1860. Mi riferisco, in particolare, all’emigrazione politica di quei giovani che dopo l’Unità d’Italia partirono dal Veneto, ancora sotto il dominio austriaco, per raggiungere Torino e Firenze e partecipare al processo di costruzione della nazione italiana2. Sono storie forse meno eclatanti, che appartengono a una fase tardiva dell’emigrazione politica ottocentesca, ma che ci propongono un’ulteriore riflessione sulla valenza poliedrica dell’esperienza dell’esilio – “istituzione” della nuova Italia, come la definì Carlo Cattaneo (Cattaneo 1981, 536) – come espressione di dolore per lo sradicamento fisico dalla terra di origine, ma anche come condizione esistenziale di solitudine di chi continua a sentirsi esule in patria – un’accezione quest’ultima che emergerà in modo sempre più netto nella letteratura ermetica, decadentista o modernista del primo Novecento3. Un esempio di questa duplice esperienza di esilio postunitario ci viene offerto da Erminia Fuà Fusinato (1834-1876), poetessa veneta 1  Tra le pubblicazioni più recenti cfr. Audenino 2012; Isabella 2009, trad. it. 2011; Bistarelli 2009, 2011; Sofia 2011; Di Giannatale 2011; Ginsborg 2009; Guidi 2007. 2  Alla fine del 1859 più di 40.000 uomini e donne lasciano il Veneto e vanno in esilio in Piemonte e Toscana, cfr. Perocco 2012, 71. Sull’emigrazione veneta in Piemonte si veda Cella 1964; De Fort 2003; Alberton 2012. 3  La rappresentazione dell’esilio nella letteratura moderna, come espressione di una condizione interiore di emarginazione, non si esaurisce chiaramente con il Modernismo, e può assumere connotazioni non solo negative. Studi recenti sul concetto di “dispatrio”, ad esempio, hanno messo in evidenza la valenza positiva del concetto di esilio nella scrittura postcoloniale e della migrazione. In questo contesto il “dispatrio” suggerisce l’idea di alterità come luogo di arricchimento dell’esperienza dell’io e di incontro con l’altro. Si veda Pisani 2020, 7-11.

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e figura minore del panorama letterario ottocentesco4, ma che emerge come una delle rare voci femminili della poesia italiana dell’esilio5. Erminia Fuà Fusinato ci ha lasciato diverse poesie che in modo più o meno esplicito si rifanno alla sua esperienza di esiliata dal Veneto. Qui nasce e vive la poetessa fino a quando decide di seguire il marito in esilio a Firenze nel 1864 e qui rimangono a vivere i suoi genitori 4  Erminia Fuà nasce a Rovigo il 5 ottobre del 1834, ma trascorre gli anni della fanciullezza e giovinezza a Padova dove la famiglia, di origine ebraica, si trasferisce poco dopo la sua nascita. Non frequenta la scuola, ma riceve in casa poche e basilari lezioni di letteratura, grammatica, botanica e astronomia, impartite da uno zio ingegnere e seguace dei metodi pedagogici di Pestalozzi e Fröebel, che si stanno lentamente diffondendo anche in Italia. Nel 1852 Erminia conosce il poeta Arnaldo Fusinato in una delle soirée che la famiglia Fuà intrattiene regolarmente in casa e a cui partecipano poeti e artisti che gravitano nel mondo culturale padovano. Erminia e Arnaldo si innamorano e si sposano il 6 agosto del 1856 a Venezia, contro il volere della famiglia di lei, che non accetta l’idea che la figlia si converta al Cattolicesimo, una scelta obbligata per chi come Erminia sceglie il matrimonio esogamico prima del 1866, quando, ovvero, il Codice Pisanelli renderà obbligatorio il matrimonio civile in Italia. Vive a Castelfranco Veneto con il marito e i tre figli, Guido, Gino e Teresita fino al novembre del 1864, quando seguirà il marito in esilio a Firenze. Durante il soggiorno fiorentino frequenta i principali salotti letterari della città e si prodiga per la pubblicazione del romanzo di Ippolito Nievo, Confessioni di un ottuagenario, che non senza difficoltà la poetessa riesce infine a pubblicare nel 1868 presso l’editore fiorentino Le Monnier. A causa dei gravi problemi finanziari incorsi dalla famiglia a seguito di investimenti avventati del marito, nel 1871 Erminia accetta un impiego che le viene offerto dal Ministro Correnti e si trasferice da sola a Roma per lavorare prima come ispettrice delle scuole femminili di Roma e Napoli e poi come direttrice della Scuola Femminile Superiore, da lei fondata nel 1874. In quello stesso anno, crea la Società per l’istruzione superiore della donna, un ciclo di conferenze settimanali per giovani donne che avevano già ottenuto il diploma di scuola superiore. Muore inaspettatamente il 30 settembre 1876. Al suo funerale, celebrato in via ufficiale, partecipano le massime autorità governative della città. Le sue poesie, pubblicate in varie riviste e giornali, sono raccolte in due volumi, di cui uno uscito postumo: Versi, Firenze, Le Monnier, 1874, e Versi, Milano, 1879. Gli scritti letterari e educativi sono raccolti in Scritti letterari, a cura di Gaetano Ghivizzani, Milano, Carrara, 1882 e Scritti letterari e scritti educativi, Foligno, Campitelli, 1931. Al 1877 risale la pubblicazione del diario, curato da Pompeo Gherardo Molmenti per l’editore Treves, Erminia Fuà Fusinato e i suoi ricordi, Milano, Treves, 1877. 5  Mentre dalla letteratura odeporica dell’Ottocento stanno emergendo, grazie soprattutto a recenti studi di genere, figure di donne viaggiatrici di grande interesse storico, culturale e letterario, del viaggio femminile come esperienza di esilio, sappiamo ancora molto poco. Cristina Trivulzio di Belgiojoso e Amalia Nizzoli rimangono le due figure più studiate. Laura Beatrice Mancini Oliva, poetessa napoletana, ha scritto diverse poesie durante il suo esilio a Torino, che però tematicamente non descrivono la condizione di esiliata. Anche perché, come la stessa poetessa afferma nella prefazione al suo volume di poesie, Torino («ch’io non chiamava mai terra d’esiglio») non viene da lei percepito come un luogo di spaesamento geografico o esistenziale. Cfr. Mancini Oliva 1861, 1. Su donne e esilio, vedi Tatti 2021.

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e familiari più stretti a cui dedica nel corso della sua vita versi infusi di rimandi ai topoi della letteratura dell’esilio (sofferenza, rinuncia, nostalgia) e che ci permettono, tra le altre cose, di esplorare un aspetto meno noto, ma rilevante, della biografia della poetessa, ovvero la sua origine ebraica. Erminia Fuà Fusinato è stata negli ultimi decenni al centro di vari studi, grazie, soprattutto, al lavoro di storiche e studiose di genere che hanno riportato alla luce le vicende personali e professionali di questa singolare figura storica e culturale dell’Ottocento6. La sua identità ebraica, però – nel senso di appartenenza innanzitutto familiare e culturale alla comunità ebraica dell’Ottocento italiano – è ancora oggi poco nota o tenuta di poco conto, in parte perché la poetessa non ne parla apertamente nei suoi scritti7, e in parte perché essendosi convertita al Cattolicesimo per poter sposare Arnaldo Fusinato, molti studiosi hanno ritenuto che la sua fosse una conversione di fede8 e hanno interpretato la sua ideologia moderata come un’adesione ai precetti della fede cattolica. In realtà, nel corso della sua vita Erminia rimane saldamente anticlericale e se di religione si nutre il suo pensiero si tratta essenzialmente di religione civile della nazione. Visto il tema del volume – donne e esilio – non si intende in questa sede approfondire il discorso, alquanto complesso, dell’identità religiosa della poetessa; ciò che qui però si vuole sottolineare è che leggendo la sua poesia e ripercorrendo gli eventi che hanno segnato gli anni del suo allontanamento dal Veneto, non si può non tenere conto del fatto che con il matrimonio esogamico lei non abbandona il mondo ebraico da cui proviene (il nome Fuà che mantiene anche da sposata costituisce di per sé già un forte segnale)9 e che durante l’esilio la famiglia di origine assurge a simbolo di un passato eroico 6  Tra gli studi più recenti dedicati all’opera e alla figura storica di Erminia Fuà Fusinato, si veda Romani 2018, 2019a; Filippini 2011, 63-65, 2014; Mori 2011; Leuzzi 2008; Savini 2002; Finotti 1994; Sordina 1981. 7  Con la raggiunta emancipazione civile e legale, gli ebrei italiani nell’Italia postunitaria aderirono alla formula «ebrei in casa e cittadini fuori», fondato sul binomio pubblicoitaliano/privato-ebraico. Si veda Ferrara degli Uberti 2011. 8  In un saggio scritto nel 1976 in occasione del centenario della morte della poetessa, ad esempio, Giuseppe Biasuz afferma che lei «professò poi la nuova fede con profonda convinzione» (Biasuz 1976, 11). 9  Gli ebrei che si convertivano al Cattolicesimo secondo le procedure della casa dei Catecumeni di Venezia o Roma normalmente cambiavano il nome. Cfr. Ioly Zorattini 2008.

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con cui la poetessa cerca nostalgicamente di recuperare gli ideali che avevano ispirato gli anni della sua giovinezza e militanza patriottica in Veneto. Risalgono a questi anni gli scritti con cui patrioti risorgimentali come D’Azeglio, Cattaneo e Tommaseo promuovono la causa dell’emancipazione degli ebrei italiani ponendo la questione in termini di rigenerazione dell’intera società italiana e di formazione di una cittadinanza universale di stampo laico. In fondo, questo era lo spirito con cui molti ebrei italiani avevano aderito alla causa risorgimentale e con cui la stessa poetessa si era avvicinata al matrimonio misto: creare un nucleo famiglia/società basato su una comune identità italiana10. Quanto segue sarà, pertanto, un tentativo di lettura dell’esperienza dell’esilio di Erminia Fuà Fusinato nel contesto postunitario di formazione di una identità nazionale e nella tradizione, inaugurata da Foscolo nelle lettere ortisiane, dell’esule che si sente solo e “straniero in Italia”. «Ma l’amico tuo non trova requie» Jacopo Ortis confida in una lettera all’amico Lorenzo Alderani: «spero sempre – domani, nel paese vicino – e il domani viene ed eccomi di città in città, e mi pesa sempre più questo stato di esilio e solitudine. […] Così noi tutti italiani siamo fuoriusciti e stranieri in Italia»11. Anche per la poetessa veneta, l’esperienza dell’esilio si traduce in un vagare irrequieto tra Firenze e Roma che nel corso degli ultimi anni della sua breve vita la porta a maturare la consapevolezza che la realtà postunitaria, in special modo quella in cui lei si trova ad operare con incarichi istituzionali a Roma nei primi anni ’70, è ben diversa da quella che aveva immaginato negli anni giovanili. Temi come la disillusione e lo spaesamento, pertanto, contraddistinguono i versi che la poetessa scrive durante il periodo trascorso in esilio. Cresciuta in una famiglia ebraica secolarizzata e ben integrata nella società padovana, Erminia Fuà Fusinato rappresenta un caso abbastanza unico per la sua generazione di donna doppiamente “emancipata”. Come ebrea, infatti, gode dei diritti civili e legali che la comunità ebraica ha da poco conquistato e che le permette da adulta di arrivare 10  Mi riferisco a Ricerche economico-legali sull’interdizione della possidenza agli israeliti (1836) di Carlo Cattaneo, Diritti degli Israeliti alla civile uguaglianza (1848) di Niccolò Tommaseo e Dell’emancipazione civile degl’Israeliti (1848) di Massimo D’Azeglio. 11  Lettera del 25 settembre, Firenze, (Foscolo 1974, 124). Sul concetto di straniamento nell’Ortis di Foscolo, si veda l’ottimo saggio di Vianello 2013.

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a Roma nel 1871 con un nome palesemente ebraico, Fuà, in un contesto politico fortemente polarizzato – tra forze laiche e democratiche da una parte e ultra conservatrici, soprattutto di matrice cattolica, dall’altra – e di emergere come figura istituzionale di rilievo in una città annessa al Regno d’Italia solo un anno prima e memore delle forti restrizioni imposte nei secoli agli ebrei, tra cui la secolare residenza coatta nel ghetto. Come donna, inoltre, Erminia sa cogliere i vantaggi offerti dai mutamenti sociali e culturali del momento, compiendo delle scelte di libertà individuale (come il matrimonio esogamico con Fusinato contro il volere dei genitori), che riflettono sì le sue prerogative sentimentali di donna innamorata ma anche quelle di militante che condivide con il compagno prescelto di vita un progetto di rinnovamento politico collettivo, fondato sul nesso risorgimentale famiglianazione e sui valori di progresso sociale e di superamento di un sistema d’ancient régime che tanto aveva pesato sul destino degli italiani12. Nel 1854, quando Erminia e Arnaldo si sposano, sono ancora rari i matrimoni misti, e la loro unione, benché concepita secondo gli schemi convenzionali della famiglia borghese, deve fare un certo scalpore sia all’interno della comunità ebraica, che osteggia l’esogamia, sia nella società borghese i cui i modelli comportamentali femminili lasciano ben poco spazio all’autodeterminazione femminile. Non a caso i contemporanei la definiscono la «donna dei tempi nuovi», tant’è la novità che lei rappresenta in quegli anni di trasformazione epocale e democratizzazione della società italiana (Piazza 1877, 22). Se, infine, con il matrimonio misto lei fuoriesce formalmente dalla comunità ebraica, la poetessa non abiura le sue origini ebraiche e mantiene, come del resto altre figure pubbliche dell’ebraismo postunitario13, un rapporto strettamente privato con la propria identità ebraica, relegata alla sfera degli affetti familiari, mentre in pubblico preferisce proiettare un’immagine di sé come donna italiana. Come la poetessa suggerisce in alcuni versi scritti nel 1863 in occasione del matrimonio di sua sorella Elvira, benché l’amore l’abbia 12  A questo proposito si veda il concetto di “amore patriottico-matrimonio” che nell’immaginario risorgimentale si presenta come nesso fondativo del progetto di rigenerazione nazionale in una ipotetica congiunzione tra amore romantico e amore patriottico. Cfr. Banti-Ginsborg 2007, XXXI. 13  Tullo Massarani e Luigi Luzzatti, ad esempio, per citare due importanti figure dell’ebraismo laico ottocentesco.

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formalmente portata fuori dalla comunità, l’attaccamento alla famiglia rimane immutato: Oggi, benché divisa / Ma non col cor, dalle paterne case / al vostro desco assisa / Mi vedete, ché amor sì mi suase. / Ed al natio soggiorno / Ove splende la gioia in ogni viso / Volli in sì lieto giorno / D’altri figli apportarvi i baci e il riso. / In queste conscie stanze / Quanti aspetti già noti io veggo accolti! / Che dolci rimembranze / Nel mio pensier ridestano que’ volti! (Ai miei genitori, Fusinato 1879, 115)14

La poetessa non è ancora in esilio, ma anticipa qui il tema dell’attaccamento affettivo alla famiglia di origine e il ricordo nostalgico («le dolci rimembranze») verso gesti e volti familiari del suo passato, da cui sarebbe stata «divisa» secondo le logiche di rigida appartenenza religiosa. Nelle poesie che scriverà da questo momento in poi, la famiglia acquisterà un valore simbolico sempre più forte di continuità col passato, nostalgicamente evocato nei momenti di malinconica disillusione verso la realtà, e affettivamente esaltato come patria elettiva. Ermina Fuà Fusinato comincia a scrivere poesie da bambina e a partire dal 1852 le pubblica su «Ore Casalinghe» e «La Ricamatrice», riviste rivolte ad un pubblico femminile borghese su cui scrivono alcune delle principali firme del giornalismo e panorama letterario dell’epoca, da Caterina Percoto, Carlo Tenca, Francesco Dall’Ongaro, allo stesso Arnaldo Fusinato15. In generale, i suoi versi appartengono al genere della poesia occasionale (matrimoni e genetliaci secondo la voga dell’epoca), e a quello patriottico-commemorativo, tematicamente legato a figure e vicende della storia risorgimentale (In morte di Tommaso Grossi, Ad Adelaide Ristori, Ad Andrea Maffei, In morte di Ippolito Nievo, A Venezia, ecc.) e retoricamente ispirato agli ideali di virtù femminile, sacrificio e amore materno (La poesia di una donna è, in questo senso, la più emblematica) di cui si nutrivano gran parte delle poetesse della sua generazione. Poco apprezzata da Giosuè Carducci, che la considera una favorita del mondo politico fiorentino, ma accla14  Questa e le seguenti citazioni dalle poesie di Erminia Fuà Fusinato sono tratte dall’edizione Carrara del 1879. 15  Erminia Fuà Fusinato scriverà poesie durante tutto il corso della sua vita, molte delle quali appariranno sui principali periodici e giornali nazionali: «Corriere delle dame», «Fanfulla», «Illustrazione italiana», «Nuova Antologia», «Pungolo» e «Rivista Europea».

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mata come poetessa «di spontaneità semplice e schietta, quasi primitiva» in una recensione alla seconda edizione dei suoi Versi (anonima ma probabilmente di Ferdinando Martini), apparsa sul «Fanfulla della Domenica» il 7 marzo 1880, Erminia Fuà Fusinato gode di grande fama tra i contemporanei. Quando, infatti, la poetessa arriva a Firenze nel 1864 al seguito del marito, ricercato dalla polizia austriaca per le sue attività insurrezionali in Veneto, lei è una figura già nota agli ambienti culturali e politici della città, al punto che di lì a quattro mesi le autorità municipali le chiedono di partecipare in via ufficiale alle celebrazioni dantesche del 14 e 15 Maggio del 1865 – un evento di grande importanza simbolica, oltre che culturale, con cui la città di Firenze, da poco proclamata nuova capitale d’Italia, intende offrire alla nazione uno «spettacolo maestoso» con cui lasciare un «ricordo glorioso della gioia di un giorno che cancella un dolore di secoli», come commenta un cronista della Nazione (Serino 2015, 338). In una lettera datata 9 marzo 1865, il sindaco di Firenze, Luigi Guglielmo Cambray-Digny, la invita pertanto a far parte degli «insigni scrittori» che sono stati prescelti dalla commissione letteraria per la Festa del Centenario16. Erminia Fuà Fusinato accetta di buon grado l’invito e per l’occasione scrive Gemma Donati17, una poesia in cui commemora la figura della moglie di Dante Alighieri, che la poetessa considera ingiustamente ignorata dal mondo e oscurata dalla fama di Beatrice, musa ispiratrice straordinariamente popolare nella produzione artistica ottocentesca, ma anche contestata da alcune scrittrici italiane che tentano faticosamente di affermarsi in un mondo culturale in cui la figura femminile appare ancora troppo spesso oggetto piuttosto che soggetto della creazione artistica18. Se con Gemma Donati Erminia Fuà Fusinato riprende il mito dantesco ottocentesco, la poetessa sceglie la moglie del sommo poeta come figura di riferimento simbolico per le sue aspirazioni civili e risorgimen16 

La lettera è conservata presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze, Fondo Cambray-Digni, Collocazione NA 657.1 17  Erminia Fuà Fusinato avrebbe dovuto declamare questa poesia nella Sala della Società Filarmonica dell’Accademia, ma non facendo parte, alla fine, del ristretto numero di invitati ammessi alle cerimonie, la sua poesia l’avrebbe letta un’altra persona. Erminia Fuà Fusinato rifiuta l’invito e legge la poesia durante una soirée a casa di Teresa Pulszky, moglie del patriota ungherese Ferenc Pulszky, e famosa salonnière di Firenze. Per una descrizione della serata si veda, La Gioventù 1865. 18  Sul tema musa/scrittrice rimando al mio saggio Romani 2019b.

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tali. «Ma intanto il mondo, che intender ricusa / Questa d’amor pudica ritrosia / D’una bugiarda accusa / Pria t’offese vilmente, ed or t’oblia / Talché nel giorno consacrato al rito / Di chi ti fu marito / Ahi! Per te il mondo intero / Un accento non ha, non ha un pensiero» (Fusinato 1879, 137-140: 139). Si tratta di una poesia militante-commemorativa, come è stato già notato, in cui Dante, poeta civile d’Italia, diventa per le patriote letterate il simbolo di un nuovo linguaggio educativo al femminile, all’insegna di un ideale laico che doveva sostituire quello cattolicoconservatore19. La scelta di concentrarsi sulla figura storica di Gemma riflette il modo in cui la poetessa aderisce ai dettami della retorica risorgimentale che, sin dai tempi di Mazzini, aveva messo in evidenza il ruolo che la famiglia e la donna, in particolare nella sua vocazione domestica, avrebbero dovuto svolgere nel processo di rigenerazione della società italiana. Ma la poetessa introduce qui anche un elemento inusuale della rappresentazione femminile dell’epoca e, in particolare, di Gemma Donati, che viene commemorata non solo come moglie di Dante ma anche come donna in esilio che lascia la terra natia e «le paterne case» per amor di patria e di famiglia: «Di quante angoscie, che nessuno avvisa / Fu segno allor quell’esistenza oscura! / Con lo sposo indivisa / Gloria no, ma soltanto ebbe sventura. / Dello splendor delle paterne case / Nulla più a lei rimase / Languì povera e mesta / Pur nessuna pietà di lei si desta» (ivi, 138). In questi versi, contrariamente a quanto si evince dalla storiografia dantesca (Piattoli 1970), Gemma Donati non rimane a Firenze, ma segue il marito in esilio, una scelta di natura ideologica, con cui la poetessa vuole assegnare un ruolo di attivismo civico-politico alla figura della moglie risorgimentale, ma anche funzionale alla sua storia personale di esiliata. Come Gemma, con cui la poetessa si identifica pienamente, anche lei aveva dovuto abbandonare i luoghi cari dell’infanzia e della giovinezza. Se quindi per Gemma Firenze è la città dello «splendor delle paterne case», per Erminia è il Veneto il luogo «dell’anima», la piccola patria acquisita per nascita, lingua, cultura, e tradizioni familiari. In una lettera inviata al marito poco prima di partire per Firenze, Erminia scrive dal Veneto: Non sarà certo senza dolore e vivissimo che lascierò patria e famiglia ed amici. Patria forse non avrei dovuto dire, ma fino a che la sorte divide il Veneto 19 

Si veda in particolare, Bonfatti 2013.

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dagli altri paesi italiani, io la chiamerò sempre la patria vera nostra. Sarà lo stesso forse anche per te, giunto a quel punto, e tu non hai il papà e gli altri che ho io da lasciare […]. L’avvenire sarà forse più lieto a Firenze, pure una parte dell’anima nostra resterà sempre qui dove siamo nati, dove morirono e vivono i nostri, dove abbiamo appreso ad amarci, dove nacquero i nostri bambini. Sono triste non lo posso celare. (Molmenti 1877, 208)

Erminia arriva a Firenze incerta e addolorata per la perdita della sua «vera patria» e benché venga subito accolta favorevolmente dagli ambienti intellettuali dell’élite fiorentina, fa fatica ad adattarsi alla nuova realtà di vita in cui l’esilio l’ha precipitata. Durante un incontro con Gino Capponi in quei primi anni di soggiorno a Firenze la poetessa non nasconde la nostalgia che prova per il Veneto e lo statista fiorentino le rammenta bonariamente che l’unico municipalismo consentito nell’Italia unita è quello del «dolore»20. Non è chiaro se con l’espressione «municipalismo del dolore» Capponi facesse riferimento solo all’origine veneta della poetessa o anche al suo doppio particolarismo, come veneta ma anche come discendente di ebrei veneti che solo in tempi moderni cominciano a godere di diritti civili e politici acquisiti attraverso un graduale e non sempre pacifico processo di integrazione. Sono questi anni di cambiamenti epocali che investono una comunità ebraica numericamente piccola, ma visibile nel dibattito nazionale sul processo di integrazione delle minoranze nella nuova nazione. Di sicuro, il “dolore municipalistico” di Erminia Fuà Fusinato proprio perché radicato nel territorio, il Veneto, in cui le vicende familiari si avvicendano per diverse generazioni, non può non investire la sfera dei ricordi familiari connessi al mondo ebraico in cui è cresciuta. A questo proposito, Alberto Cavaglion ci spiega con il concetto di «patriottismo del paesaggio», come a partire dal secondo ’800 l’identità ebraica – rappresentata dalle varie comunità della pe20  Erminia Fuà Fusinato ricorda l’incontro con Gino Capponi nel suo diario dove scrive: «Il Capponi conobbi nel ’64. Rammento ch’ero triste d’aver lasciato il Veneto in condizione dolorosissima, e tanti miei cari carcerati. Perciò non volevo (parevami) affezionarmi a cose nuove – tutto il mio affetto lo volevo serbare ai più disgraziati. E il Capponi mi disse: “Le piace Firenze? Che le pare delle sue bellezze d’arte, dei suoi ricordi storici?”– “Li guardo” gli risposi “e me ne rallegro più che non me ne meravigli, poiché vengo da Venezia, dove tali ricordi non fanno difetto, e tanti più ne trovo, e tanto meno parmi di esserne lontana”. Era cosa poco cortese rispondere così, io sì poco nota, al Capponi sì degno d’ogni rispetto; ma il Capponi comprese il sentimento mio, ed esclamò vivamente: “Brava! Il municipalismo del dolore è il solo che sia virtù!”», Molmenti 1877, 70-71.

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nisola – è connotata da uno strettissimo legame con il paesaggio che diventa un aspetto intrinseco del processo di integrazione e di formazione di una coscienza nazionale. «Gli ebrei italiani dell’Ottocento», scrive Cavaglion, «legano la propria identità a qualche ‘tovagliolo’: uno scoglio, un vincolo, una bottega, le tende di un mercato»21. Lo stesso nesso varrà anche per il ’900, dove troviamo scrittori come Italo Svevo, Primo Levi e Giorgio Bassani che intrecciano indissolubilmente la narrazione della propria identità ebraica alle città di origine, rispettivamente, Trieste, Torino e Ferrara. Ma per tornare all’800 e a Erminia Fuà Fusinato, possiamo dire che per la poetessa risorgimentale il Veneto rappresenta un paesaggio tanto fisico quanto simbolico, a cui si avvicinerà poeticamente negli anni dell’esilio con la coscienza che il discorso patriottico risorgimentale di cui lei si fa interprete, si fonda primariamente su un concetto di nazione intesa come comunità di parentela e di discendenza. Nella sua famiglia veneta, e nel Veneto per estensione, pertanto, la poetessa troverà negli anni dell’esilio non solo una sua personale genealogia, ma anche il nucleo fondativo di un concetto di famiglia/nazione che negli anni di militanza risorgimentale lei aveva concepito come laica, pluralista e come armonico affratellamento di tutti i cittadini italiani, a prescindere dalla loro appartenenza etnica o religiosa. In una poesia intitolata I miei conforti, la poetessa rende esplicito il nesso natura, arte, patria e famiglia: […] Oh qual soave lume, Quanta fede e vigor novo m’infonde La virtù di un volume Che ai segreti del cor sensi risponde! Ma se per poco all’alma Perfin del meditar la possa è tolta, Chieggio conforto e calma Ai mari, ai campi, alla siderea volta. Le tele pinte, i marmi, Un imago, un ricordo, un’armonia 21  Cavaglion 2018, 175-192:176. Secondo Cavaglion, il processo di integrazione degli ebrei nella seconda metà dell’800, che lo studioso considera incompiuto, ha provocato un attaccamento particolare al territorio – un legame condiviso sia tra coloro che si avviarono alla secolarizzazione sia tra chi, invece, rimase legato alla tradizione dei Padri.

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Valgono a trasportarmi Nei dì più lieti della vita mia. Questi conforti arcani Che mi vengon dal core e non dal mondo, Agli occhi dei profani Come cosa celeste io li nascondo. Né fino all’ultim’ore Mi potranno fallir questi conforti Che m’assentono al core Natura ed Arte, i miei vivi e i miei morti (Fusinato 1879, 184-185)

Siamo nel 1869, cinque anni ovvero dopo la partenza dal Veneto, e in una condizione ormai di esilio interiore che accompagnerà la poetessa fino alla fine dei suoi giorni. In questa visione patriottico-familiare del paesaggio si delinea, attraverso il conforto dei luoghi fisici e affettivi, un discorso poetico nostalgicamente rivolto al passato da cui emergono figure come quella del padre, del fratello e della nonna paterna – «conforti arcani» che la poetessa teme possano essere fraintesi o giudicati pregiudizialmente da chi non ha familiarità con il suo mondo ebraico antico. Sono sentimenti che lei sente di dover dissimulare davanti al pubblico scrutinio – «agli occhi dei profani» – e che possono spiegare la riluttanza della poetessa, non solo in questi versi, ma in generale nella sua vita pubblica, a fare riferimento all’ebraismo della sua famiglia. È nella poesia, però, per la sua capacità di scandagliare i «segreti del cor», che si palesano le questioni su cui Erminia Fuà Fusinato si interroga in quegli anni – il rapporto con la sua famiglia di origine, il concetto di discendenza nella definizione della sua italianità, il senso di spaesamento che la fa sentire come una povera «navicella in un mare burrascoso» (Molmenti 1877, 84) – ed è nella poesia che la poetessa descrive con grande modernità la crisi di un “io” poetico che mette in dubbio le certezze del passato, e che esprime, con la molteplicità delle sue esperienze identitarie (come italiana di origine ebraica), una più complessa se non disincantata visione dell’ottimismo del presente. La prima poesia con cui Erminia Fuà Fusinato affronta il tema dell’esilio è A Castelfranco, scritta alla vigilia della partenza per Firenze il 4 novembre del 1864. Sono presenti i temi classici della poesia dell’esilio, anelito alla libertà, sofferenza, sacrificio («L’ansia di

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libertà che mi tormenta / E nell’esiglio – oh! breve sia – mi tira») che mettono in luce la dimensione emozionale e familiare dell’esperienza della separazione dai luoghi del cuore («Addio, terra ospital, che m’accogliesti / Nova sposa, e che in pianto ora abbandono» Fusinato 1879, 132). Troviamo nel diario un appunto scritto proprio in quei giorni, in cui la poetessa descrive la scena della partenza dal Veneto e di come, in un’immaginaria geografia del cuore, la famiglia, intesa come rete parentale, diventi simbolicamente la patria e il luogo prediletto a cui ritornare: E giunta a Padova, nelle accoglienze ancor più affettuose del solito che mi prodigarono i miei, nella loro sollecitudine per tenermi compagnia e nelle parole tanto dolci al mio cuore che mi venivano dal papà, io trovava sempre nuovi argomenti di commozione e di dolore. Mi pareva che allora, soltanto, avessi a staccarmi veramente dalla famiglia, dalla patria. (Molmenti 1877, 212)

Erminia Fuà Fusinato torna in Veneto appena può, quando cioè gli obblighi istituzionali glielo consentono, soprattutto d’estate. Nel suo diario esprime spesso la sofferenza per la lontananza dal padre e si preoccupa per lui, come nota il 30 dicembre 1871: Ho scritto lungamente a mio padre. Poveretto! Nessuna di noi tre gli rimase vicina! Sognavo di averlo meco in una bella casa con un bel giardino dov’egli potesse coltivare i suoi fiori […] Invece gli sono ancora più lontana! In queste notti ho pianto spesso, e mi pesava tanto l’essere disgiunta da coloro che più amo! E poi avevo pensieri così funesti, dubbi così dolorosi! Ma tutto passa e lo spirito si rialza davanti al dovere. (ivi, 74-75)

Al padre dedica una poesia nel 1871 in occasione del suo compleanno, in cui riafferma l’idea del legame intergenerazionale e il concetto, spesso evocato nella letteratura dell’esilio che la lontananza rafforzi il sentimento di appartenenza alla terra natia e connoti il destino dell’esiliato di eroico senso del sacrificio e dovere. «Ma, se il destin da te lungi mi tiene / Non giunge il suo potere oltre la creta / E a ritrovarti l’anima or sen viene / Libera e lieta. / E tra i figli, i fratelli ed nepoti / Io già ti scorgo alla mensa festiva / E i miei confondo ai lor giocondo voti / Ai loro evviva» (A mio padre, Fusinato 1879, 240-241). Se l’esilio l’aveva allontanata dalla sua terra, è attraverso il legame familiare che la poetessa, senza soluzione di continuità, recupera gli spazi e i tempi di un passato «che, più lontani son, più ci

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son cari» (ivi, 241). E in un’altra poesia, Il fiore della nonna (Rimembranze infantili) del 1874, la poetessa ricorda una scena familiare della sua fanciullezza in cui la nonna predilige «fra tanti fiori / Ricchi di tinte e di soave odori» il fiore più modesto («La vecchierella scelse il più modesto»), esaltando in questa idillica rimembranza del passato la semplicità di un mondo di valori schietti e antichi che lei sente ancora di condividere. Ah! La nonna, la mamma e due fratelli / Da quel giorno perdei / Ed or neppur potrei / Pianger sui loro avelli… / Pur, quand’io sono più sola e più dolente / La gaia scena tornami alla mente / E tutte vi riveggo, anime care / E vivo ancor m’appare / Quel tuo sguardo amoroso, o nonna mia / Che parea benedirmi e mi seguia / Pei fronzuti viali; ond’io tra i fiori / Ricchi di tinte e di soave odori / Prescelgo il più modesto / Però che il fior della mia nonna è questo. (ivi, 295)

L’uso, infine, dell’avverbio pure («Pur»), con valore accrescitivo, delinea il confine tra passato e presente, tra la felicità dell’infanzia e lo sconforto di un’età adulta “dolente”, tra la forza consolatoria degli affetti personali e il peso debilitante di una vita pubblica da cui rifugge attraverso l’arte e la riflessione poetica. Al 1874 risale la poesia Il tarlo scritta durante un soggiorno estivo in Veneto al termine di un periodo particolarmente impegnativo per la poetessa22. Erminia Fuà Fusinato soffre ormai da anni di una malattia debilitante, che la costringe a rimanere a letto per giorni e che le impedisce di affrontare con serenità i sempre più pressanti impegni istituzionali. Sono anni anche di aperta ostilità nei suoi confronti. Se ne lamenta nel diario, e lo confermano le testimonianze dei contemporanei e alcuni articoli della stampa cattolica più conservatrice in cui viene derisa e attaccata per la sua attività di riformatrice del sistema educativo femminile della capitale23. Erminia Fuà Fusinato si rende conto di essere osservata e giudicata per il ruolo che ricopre nella sua veste istituzionale e agisce cautamente 22  Oltre agli impegni per l’Istituto superiore femminile e la Società per l’istruzione superiore della donna – per i quali si era spesa molto negli anni romani – durante l’estate del 1874 partecipa come delegata del Comune di Roma ad un Convegno pedagogico in Veneto e presenta presso l’Accademia Veneta delle Scienze una conferenza sulla figura di Laura di Petrarca. 23  Tra le testate del cattolicesimo più intransigente della capitale, «La voce della verità» e «L’Unità Cattolica» scrivono di lei in modo poco lusinghiero e in un contesto di costante vilipendio della presenza ebraica nelle istituzioni governative.

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nel timore di creare polemiche o tensioni che possano compromettere la sua reputazione e, di conseguenza, la sua attività di educatrice, a cui tiene moltissimo. E se in pubblico, negli interventi nelle scuole e cerimonie istituzionali, continua ad incarnare il modello muliebre tradizionale che si compiace del progresso compiuto dalla società postunitaria, nel privato della scrittura intimista, emerge un messaggio meno rassicurante. Il tarlo è, in questo senso, una poesia emblematica della crisi esistenziale che si acuisce nel momento in cui la poetessa si trova all’apice del suo successo professionale. Alcuni studiosi considerano questa poesia «il segno di un turbamento di una crisi sofferta nel chiuso della propria coscienza» (Savini 2002, 42-43) e la denuncia di «un contrasto non risolto» (Finotti 1994, 211) senza però, specificare la natura del turbamento e del contrasto, se non in termini di generale sfiducia verso un mondo romantico-risorgimentale che la poetessa considera con amarezza ormai avviato verso la fine. È appena trascorso un mese dalla stesura di Il fiore della nonna, in cui la poetessa presenta le rimembranze familiari come antidoto al dolore della solitudine, quando Erminia Fuà Fusinato scrive Il tarlo, in cui paragona il lavorio incessante dell’insetto al tormento interiore che le divorava il cuore: «Sol mentre ad ogni orecchio manifesto / Rendi il tuo lavorio / Non conosce che Dio / Quanto l’altro a quel cor torni funesto / Di fuori il riso e la vernice, e ognora / Di dentro il tarlo e legno e cor divora.» (Fusinato 1879, 298). Troviamo qui di nuovo il tema della dissimulazione e della necessità di contenere nel segreto del cuore un dolore che non può essere reso manifesto e che si dissolverà solo nella pace eterna della morte. «Questi celati roditori e lenti / Così proseguon nello strano accordo / Dall’insensibil legno escon lamenti / E tace il core o il suo lamento è sordo./Lì materia consuma e qui la vita / Il tarlo parassita / E quasi al par del legno si dissolve / Il cor che pace avrà col legno in polve» (ibid.). Non sappiamo esattamente a cosa si riferisca qui la poetessa quando parla di «celati roditori e lenti». Gli attacchi della stampa conservatrice? Le resistenze alle sue riforme nell’ambiente scolastico romano, ancora fortemente papalino? Riferimenti diretti o indiretti alla sua identità ebraica di origine? Di sicuro il contrasto tra «il riso e la vernice» dell’apparenza esteriore e il tarlo interiore che divora il cuore rivela un tormento che in un continuo gioco dialettico tra realtà e coscienza, esprime sfiducia

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verso il presente e, in termini di integrazione della minoranza ebraica, timore che l’ideale di cittadinanza universale, per il quale aveva compiuto forti sacrifici e grandi rinunce, tardasse a compiersi. Durante gli anni dell’esilio trascorsi prima a Firenze e poi, dal 1871, a Roma, non mancano ad Erminia Fuà Fusinato soddisfazioni in ambito professionale e riconoscimenti da parte dei contemporanei. Eppure proprio in quegli anni inizia una crisi personale da cui cerca sollievo nel ricordo dei luoghi e delle persone che ha lasciato in Veneto: «Ma nell’ore più amare / D’un disinganno e d’un fugace sdegno / Cerco l’anime care / Che tutto alla virtù sacran l’ingegno» scrive nel 1869» (I miei conforti, ivi, 184). A Firenze trascorre anni difficili, anche a causa delle disastrose vicende finanziarie del marito («Conviene che lo confessi, non mi duole molto lasciare Firenze dove soffersi tanto nel corpo e dell’anima!» (Molmenti 1877, 120), ma è nel periodo romano che si acuisce la sua sofferenza dinanzi alla delusione prodotta dalla realtà dei tempi moderni non più all’altezza degli ideali perseguiti negli anni di militanza giovanile nei moti risorgimentali. Raminga tra Firenze e Roma, Erminia Fuà Fusinato continuerà a sentirsi un’esiliata anche dopo l’annessione del Lombardo-Veneto al Regno d’Italia e si spegnerà il 30 settembre 1876 poco dopo essere tornata a Roma dall’ennesimo ed ultimo viaggio in Veneto. Nell’ ultima pagina del diario scrive con tragico presentimento: Domani ripartiremo per Firenze e Roma. Dio voglia che ci possa arrivare senza che si accrescano le sofferenze che mi molestano. […] Mi affligge più dell’ordinario lasciare questi luoghi. […] Lascio tante persone care, tante anime afflitte! Il papa sente ormai molto gli anni, non può avere l’assistenza, i conforti che gli sarebbero necessari. Ma pur vicina, a che gli potrei giovare con la mia scarsa salute? Saluto questi luoghi, questi esseri diletti, come fosse l’ultima volta che li rivedessi! (ivi, 182-183) Bibliografia Alberton, Angela Maria 2012 «Finché Venezia salva non sia». Esuli e garibaldini veneti nel Risorgimento, Cierre edizioni, Verona. Audenino, Patrizia 2012 Esilio e Risorgimento. Nuove ricerche e nuove domande: una discussione, «Memoria e Ricerca», 41, settembre-dicembre.

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«Od esule od oppresso / Visse chi grande fu»: militanza politica e poesia in Erminia Fuà Fusinato Chiara Licameli

Erminia Fuà Fusinato, conosciuta soprattutto per il suo impegno in ambito pedagogico1, è una figura nodale nel vivace panorama risorgimentale veneto2. Quando nel ’64 la donna decide di seguire a Firenze suo marito Arnaldo, costretto al secondo esilio3, vive già sotto lo stretto controllo della polizia ed è nota a livello locale per l’attività rivoluzionaria che manda avanti da lungo tempo, tanto da essere soprannominata “Quarantotto” dalla gente del suo borgo adottivo, Castelfranco di Treviso, oggi Castelfranco Veneto4. Molmenti racconta diversi episodi che testimoniano l’impegno dell’autrice nel difendere le proprie idee politiche e proteggere il circolo di patrioti che si riunisce abitualmente nella sua abitazione (Molmenti 1878, 37-45). Le fonti, del resto, confermano diffusamente il racconto del biografo e il ruolo centrale svolto dalla donna nella gestione di questioni pratiche e diplomatiche relative alle attività dei patrioti. Quando Garibaldi invia al Comitato Nazionale Centrale di Venezia 1  Sul ruolo di educatrice di Fusinato rimando a Fusinato 1931; Sordina 1981, 264269; Leuzzi 2008. 2  Sul ruolo avuto dalle donne nel contesto risorgimentale veneto cfr. Filippini 2006 e in particolare qui, in riferimento a Fusinato, 110, 125, 127-128, 152-153; Filippini, Gazzetta 2011. Per un inquadramento di carattere storico sugli avvenimenti veneti negli anni di interesse di questa trattazione rimando in particolare a Alberton 2010; 2016. 3  Arnaldo Fusinato era stato esule la prima volta in seguito al fallimento dei moti del ’48, in cui aveva avuto un ruolo attivo. Per un profilo bio-bibliografico dell’autore rimando a Pes 1998b. 4  Per un approfondimento sulla vita e le opere dell’autrice si leggano Molmenti 1878; Biasuz 1976; Costa-Zalessow 1982, 230-233; Finotti 1991; Urettini 1992; Pes 1998a; Billi-Bruni 1999, 19-21, 57, 63-67; Savini 2002; Melis 2006; Sari 2006; Chaarani Lesourd 2011; Filippini-Gazzetta 2011, 63-65, 176-177, 184-185, 192-195; Mori 2011, 26-27, 35-38, 73, 79, 90, 93, 103, 108, 114, 122-123; Filippini 2015; Sari 2005 e 2016; Romani 2018; Zambon 2019, 10-12, 51-52, 64-67; Favino 2020, 208-213, 220, 227-228.

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una missiva in cui esorta i patrioti coinvolti a continuare a riferirgli con frequenza «notizie utili a sapersi» affinché siano «sgombre di soldati Stranieri» le «Contrade» venete e «sia completa la redenzione dell’Italia»5, Erminia risponde all’appello con una epistola a nome del Comitato con la quale ringrazia il Generale e ribadisce la sua fiducia in lui e in Vittorio Emanuele II6. In seguito la donna esorta Garibaldi alla collaborazione con il re7 e scrive a nome delle donne venete una lettera che deve accompagnare la consegna di una daga celebrativa, in ringraziamento dell’operato del generale, la cui forgiatura aveva richiesto il coinvolgimento di un fitto numero di cospiratori e causato l’arresto due anni prima di Maddalena Montalban Comello e Leonilde Lonigo Calvi, promotrici del gesto8. L’impegno di Erminia, del resto, si dipana in una fitta rete di scambi e relazioni che la vedono coinvolta in diverse organizzazioni, come l’Associazione Filantropica delle donne italiane, guidata dall’attivissima patriota Felicita Bevilacqua La Masa e caratterizzata da un respiro internazionale (Sodini 2004, 331-350; 2010, XLIV-XLVI; LXX-LXXI). La collaborazione, già evidenziata da Sodini, che ha 5  G. Garibaldi, Lettera ai benemeriti Patrioti componenti i Comitati delle provincie venete, Rezzato 24 aprile 1862, in Giuseppe Garibaldi: corrispondenza, lettera n. 166, Collezione Autografi, Archivio Storico di Castelfranco Veneto (da qui ASC), edita in Garibaldi 1986, 76. Si segnala che nella trascrizione dei testi inediti è stata normalizzata la grafia per le forme ʃ > s e j > i, così come è stata normalizzata, laddove necessario, la punteggiatura; si è mantenuto l’uso delle maiuscole, mentre sono state sciolte le abbreviazioni. Le sottolineature sono state rese con il corsivo. 6  Si legga in Comitato nazionale centrale in Venezia [Erminia Fuà Fusinato], Venezia 15 maggio 1862, in Tre copie autografe di lettere inviate da Erminia Fua Fusinato, 1M 6, ASC: «Si Generale! i Veneti soffrono, ma non si piegano. Confidenti negli alti destini della patria, nella volontà incrollabile del loro magnanimo Re, negli eroici e meravigliosi vostri ardimenti, guardano senza sgomento le loro catene, ed attendono con paziente fermezza quell’ora, che li chiami a combattere le supreme battaglie del nazionale risorgimento». 7  La minuta dell’epistola, s.d., si trova in Tre copie autografe di lettere inviate da Erminia Fua Fusinato, 1M 6, ASC. 8  La lettera, che reca sul recto la data 26 giugno 1864, è in Tre copie autografe di lettere inviate da Erminia Fua Fusinato, 1M 6, ASC e riferisce l’intento di voler inviare il dono da molto tempo. Nello stesso fascicolo è presente la descrizione della daga e la minuta di una lettera s.d. collocabile dopo il 29 agosto del ’62, data in cui Garibaldi fu ferito ad una gamba sull’Aspromonte, in cui si augura una pronta guarigione al generale. Il riferimento ad un’arma che si sta donando, la daga di cui si parla nel documento successivo, rende incerto l’invio della missiva. Per un approfondimento sulla questione della daga, che causò una severa repressione austriaca e anche le critiche di chi, come Ubaldino Peruzzi e Alberto Cavalletto, giudicarono il gesto troppo rischioso e venne infine consegnata solo nel maggio del ’65 cfr. Bianchi 1978, 53-61; Filippini 2006, 130-133; Cosmai 2009; Lonigo 2012.

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rintracciato il nome di Fusinato nell’inventario della posta ricevuta dall’Associazione conservato presso la Biblioteca Civica di Verona, è confermata dalle epistole rivolte a La Masa da questa9. Erminia partecipa alla Strenna Femminile a profitto dell’Associazione Filantropica delle donne Italiane, edita a Torino nel 1861 per conto di Arnaldi, con il componimento Il fiore del pianto, che incappa nella ripetuta censura della polizia, e si impegna a coinvolgere nell’iniziativa altre donne illustri, quali Luigia Codemo, Eugenia Pavia Gentilomo Fortis, Adriana Zannini, Maria Balbi Valier Fava, Francesca de Lutti10. Nell’agosto del ’64 Arnaldo è costretto a rifugiarsi a Firenze per il suo coinvolgimento nei comitati segreti e per aver tentato di far evadere di prigione il fratello Clemente, ed Erminia, almeno in un primo momento, ha l’essenziale ruolo, ricoperto, come sottolinea Guidi, da tante donne mogli, figlie, e sorelle di esuli, di connessione tra questi e il luogo di origine (Guidi 2007, 225-252). La donna, tuttavia, non ha potere decisionale sulla gestione del denaro di famiglia, che invia suo malgrado al marito Arnaldo, il quale ha deciso di investire nell’edilizia cittadina dopo aver appreso dall’amico di famiglia Luciano Beretta che a breve sarà stipulato un accordo con Napoleone III che comporterà lo spostamento della capitale a Firenze11. Di lì a poco, 9  Le lettere dell’associazione sono state oggetto di indagine nel più ampio studio di Sodini 2010, in cui si è provveduto a catalogare la porzione del fondo Bevilacqua conservata presso la Biblioteca Civica di Verona sfuggita ad un primo riordino avvenuto negli anni ’70. La collaborazione di Erminia all’associazione è confermata dalla presenza del suo nome nel Protocollo per le lettere d’arrivo e di partenza (Sodini 2004, 341), di una sua missiva all’associazione datata 18 ottobre 1861(Sodini 2010, 182-183), e da quanto emerge dalle lettere inviate a Felicita rintracciabili alla collocazione Lettere a Felicita Bevilacqua La Masa, Carteggio La Masa, busta 427, 5 lettere, 1861-1869, Biblioteca Civica di Verona. 10  I nomi delle donne figurano diffusamente in E. Fuà Fusinato, Lettere a Felicita Bevilacqua La Masa, Carteggio La Masa, busta 427, 5 lettere, 1861-1869, Biblioteca Civica di Verona. Sulla censura si legga in particolare la n. 3 (Castelfranco 21 dicembre 1861), in cui l’autrice asserisce: «io non so darmi ragione del non aver ricevuto una parola di riscontro alle due lettere che per diverso mezzo le indirizzava e che includevano entrambe una copia dei versi da me destinati per la Strenna di donne italiane. Sospetto che in tutto questo c’entri qualchecosa di poliziesco, e perciò la prego di voler dirigermi una sua parola a Padova, non già al mio nome, che’ allora si ricadrebbe nell’inciampo ch’io temo, ma bensì a quello della mia mamma che le trascrivo […]». Sulla partecipazione di de Lutti alla Strenna si legga anche Fava, 2013, 68, 89-92, 151-152. 11  Sulla questione rimando a Ghivizzani 1882, XXXIV-XXXVIII; Savini 2002, 5354; Leuzzi 2008, 76-78. La preoccupazione della donna è evidente nelle lettere inviate ad Arnaldo nell’ottobre del ’64. In particolare si legga in Molmenti 1878, 182: «Castelfranco, ottobre 1864. – …Ora veniamo a noi, cioè a te ed a’ tuoi affari. – Non ti nascondo, e te

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il 5 novembre, Erminia segue il marito in un esilio non inaspettato e accompagnato da grande preoccupazione economica. Narrazione pubblica e riflessioni private I versi di Erminia Fuà Fusinato affrontano diffusamente la questione dell’esilio ben prima che questo diventi un fatto privato12. L’autrice racconta le vicende di patrioti italiani quali Alberto Cavalletto e Tommaso Grossi, costretti alla prigionia o alla fuga dai gravi fatti politici che affliggono la nazione in costruzione, collocandole in una dimensione idealizzata in cui questi sono descritti come eroi, martiri dell’epoca moderna (Fusinato 1879, 21, 35-36). Si tratta di una definizione consueta dei protagonisti del Risorgimento, come nota Tatti diffusa soprattutto tra gli anni ’30 e ’40 (Tatti 2013, 99), volta a una mitizzazione dell’esilio, e di conseguenza della causa italiana, che rafforza il suo simbolismo tramite una associazione tra patria e fede di matrice mazziniana (Banti 2007, 637-664; Tatti 2013, 89-100). Erminia negli anni antecedenti al ’64, quando non ha ancora vissuto direttamente l’esperienza dell’esilio, la immagina tramite le vicende di amici, conoscenti, parenti – si pensi allo stesso futuro marito Arnaldo – che nei componimenti vengono collocati in un pantheon ideale retto dall’intento civico della scrittura e nutrito da una educazione patriottica di lungo corso (Leuzzi 2008). L’esilio, dunque, è trattato innanzitutto come topos letterario funzionale a rafforzare il discorso patriottico, come evidenziato da Savini, protagonista dei brani in versi (Savini 2002). Tale visione trova spazio in componimenti come In morte di Silvio Pellico, risalente al 1855, in cui l’autrice afferma perentoriamente che «Od esule od oppresso / Visse chi grande fu» e immagina che Pellico abbia accolto la morte «Forte del suo martirio, / Seren tra i lunghi affanni». Il discorso è rafforzato dall’associazione di Pellico non solo a esuli esemplari quali Dante e Tasso, ma anche a Cristo, poiché, come asserisce la personificazione lo scrissi anche ieri, che le tue speculazioni, per belle che siano, mi portano un’agitazione continua. Tu sei padrone del tuo ned io intendo imporre alla tua volontà; ma credo di avere diritto e dovere di dirti ciò che penso, ned è possibile che tu te n’abbia a male». 12  Sulla letteratura dell’esilio e sull’esilio rimando a Tatti 1999 e 2021; Isabella 2009, trad. it. 2011; Bistarelli 2011; Gola, Vanden Berghe 2020.

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della Religione, giunta con la Poesia a vegliare sull’uomo sul letto di morte, la terra «D’un serto di spine ricinse» il suo «crin». La metafora cristologica risulta in questo contesto particolarmente significativa se si considera che Erminia, di religione ebraica13, si convertirà al cattolicesimo solo l’anno successivo, allo scopo di sposare Arnaldo Fusinato, e attinge ad una retorica dell’esilio che travalica il proprio credo personale per evidenziare la funzione positiva e purificatrice del martirio («Allor che il poeta dannato è al dolore / Un serto la Gloria gli posa sul crin. / Se l’estro lo infiamma che vien dal Signore, / Non sente le spine dell’aspro cammin» Fusinato 1879, 43-48). L’esilio, in una prospettiva sacrale di memoria dantesca, assume dunque qui le fattezze di un rito di purificazione, in una visione diffusa tra gli esuli e condivisa, ad esempio, con Tommaseo (Tatti 2011, 178-180; 2021, 79-81). I Versi, del resto, nonostante spesso affrontino questioni personali legate al quotidiano tali da indurre Sari a definirli «un’autobiografia poetica» (Sari 2016, 1) restano una raccolta di forte impronta letteraria, in cui l’esposizione del fatto privato è rafforzativa di un discorso complessivo più ampio o legata ad un intento celebrativo. La toccante narrazione, nel componimento Dopo sette anni, della storia del cognato Clemente, prigioniero per la sua attività sovversiva, vuole essere ad esempio di monito per i futuri cittadini d’Italia, nel testo rappresentati dagli stessi figli dell’autrice, cui lei si rivolge in virtù del suo ruolo di educatrice («Della invocata libertà il tesoro / Serbar sappiate nell’età ventura / E alla Madre comun crescer decoro» Fusinato 1879, 260-263)14. Alla luce di ciò non stupisce che la narrazione dell’autrice della propria vicenda personale negli scritti letterari venga demandata al solo componimento poetico A Castelfranco, scritto poche ore prima della partenza per Firenze. Nel brano Erminia, dopo aver detto addio alla terra che l’accolse dopo il matrimonio e alla sua casa, testimone di 13 

Sul rapporto di Erminia Fusinato con l’ebraismo cfr. Leuzzi 2008, 68-69; Romani

2018. 14  Sul valore pedagogico del componimento rimando anche a Piazza 1877, 65; Filippini 2015, 73-74. Sui riferimenti alla necessità pedagogica di educare i futuri cittadini d’Italia nei versi di Fusinato si legga Mori 2011, 103, 104. Il legame tra la funzione civile della letteratura e la funzione di educatrice dei cittadini della futura Italia che deve assumere la donna è una questione ampiamente dibattuta, in proposito rimando almeno a Soldani 2004, 2007.

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tanti progetti rivoluzionari, auspica che quest’ultima possa ispirare nei suoi futuri abitanti lo stesso desiderio di libertà che l’ha condotta all’esilio («Oh mia casa, non dir quanto vedesti, / Né di quai voci ti percosse il suono. […] / Taci, ma ne’ tuoi novi ospiti inspira / L’ansia di libertà che mi tormenta, / E nell’esiglio – oh! breve sia – mi tira» ivi, 132). La scarna argomentazione relativa ai fatti personali accaduti permane nei versi successivi, in cui Erminia preferisce continuare a trattare la questione unitaria dal punto di vista letterario tramite la scrittura di componimenti politicamente connotati, in cui i timidi accenni ai fatti privati sono funzionali ad accentuare l’enfasi letteraria, come nel sonetto A Claudina Frullani, in cui dichiara «Io chiuderò nel combattuto seno / L’amor di patria, cui l’esiglio avviva» (ivi, 144). Venezia, del resto, patria ideale, soggetto di diversi scritti dell’autrice a partire dal ’59, raccolti e pubblicati poi con il titolo A Venezia in onore della liberazione della stessa avvenuta nel ’67 (Fusinato 1867), sostituisce del tutto Castelfranco nella narrazione della patria in quanto rappresentativa per sineddoche del Veneto tutto e in virtù di una sua immagine mitica, letterariamente più efficace, molto radicata nel XIX secolo (Franco 2001; Filippini, Gazzetta 2011, 26). La città, nel già citato componimento Il fiore del pianto, risalente al 1860, è la madre benigna che pur di offrire un futuro migliore ai propri figli-cittadini li allontana («Qual madre inferma a provida nutrice / Abbandona gemendo il caro figlio, / Io così, perch’ei trovi aer più felice, / Da me lo esiglio» Fusinato, 1867, 15). L’esilio, in questo contesto, assume un significato ancora differente: non più ritenuto necessario rito di espiazione e sublimazione, esso viene a coincidere piuttosto con la speranza di un futuro dignitoso. Le parole scritte da Erminia al marito nel ’64, sul punto di lasciare Castelfranco, confermano questa visione. La donna confessa apertamente di avere la speranza che l’allontanamento conduca ad un domani migliore («L’avvenire sarà forse più lieto a Firenze») sebbene stia abbandonando con grande dolore il Veneto, nei cui confini è racchiusa la sua «patria vera»15. Si tratta di una prospettiva condivisa con tanti esuli i quali, come ha diffusamente sottolineato la critica, colgono nell’esperienza dell’esilio un’opportunità di crescita (Guidi 2007, 249-250; Bistarelli 2011, 15  La lettera citata è edita in Molmenti 1878, 84 ed è oggetto di riflessione critica anche nel saggio di Romani nel presente volume, cui rimando per un approfondimento sul rapporto tra Fusinato e il Veneto.

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26-27; Isabella 2009, trad. it. 2011, 297-302; Tatti 2013 e 2021; Pagliardini 2013) e che conduce ad uno sdoppiamento nella scrittura di Fusinato, la quale negli scritti privati affronta il grave momento vissuto svestendolo della sua aura di sacralità e caricandolo di concretezza: Mi trovo in un momento per me assai grave, forse solenne. – L’idea di staccarmi da tante cose care, da tante memorie di dolore e di gioia, è un’idea che mi scuote, che mi commuove. […] Fortuna che ho poi della forza d’animo e non mi lascio vincere da simili impressioni quando specialmente conviene ch’io agisca, e per due16

Nei giorni che precedono la partenza, il trasferimento, ben lungi dall’essere idealizzato, viene affrontato con senso pratico, da un lato in quanto condizione, sebbene dolorosa, necessaria e inevitabile, dall’altro in quanto possibile occasione di crescita per l’intera famiglia. Nel carteggio con l’amico patriota e studioso Paolo Lioy, Erminia, ormai alle porte della partenza, afferma: Sì caro Paolo! Arnaldo è già da 3 settimane a Firenze, e vuole che tutti ci rechiamo in brevissimo a raggiungerlo. Non è che pensiamo a non ritornare mai più ne’ cari nostri paesi. Oh! questo non ci sarebbe possibile! ma comprenderete bene che una volta incominciata là l’educazione de’ figli qui non si tornerà che nell’autunno. Questo trasloco ci procurerà molti vantaggi e ci renderà più bella forse la vita sociale. Oh! ma io ho adesso l’anima mesta tanto che non nel so dire. […] Ed il lasciare nel lutto il proprio paese credete che sia poco dolore codesto!… Ma non è elezione è necessità questa che ci obbliga a ciò17

Il giudizio positivo su Firenze è confermato anche in una lettera rivolta all’amica Anna Mander Cecchetti collocabile nel gennaio del ’65 ed edita da Ghivizzani, in cui l’autrice, pur ribadendo la nostalgia per il Veneto, loda il clima della città che «dona anche nel gennaio qualche giorno d’aprile», la sua bellezza, il fatto che offra al contempo la possibilità di «dare più larga educazione» ai figli e frequentare «un eletto cerchio di amici veneti», e infine ammette di stare vivendo qui «dolcezze famigliari e sociali»18. 16  E. Fuà Fusinato, Lettera ad Arnaldo Fusinato, Castelfranco, 4 ottobre 1864, in Molmenti 1878, 186-187. 17  E. Fuà Fusinato, Lettera a Paolo Lioy, Castelfranco, 11 ottobre [1864], in Sari 2005, 168. 18  E. Fuà Fusinato, Lettera a Anna Mander Cecchetti, s.d. [gennaio 1865], in Ghivizzani, 1882, XLn. La lettera è citata anche in Leuzzi, 2008, 79.

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Questa prospettiva, osservata anche da Ghivizzani, il quale nota come all’autrice non «rincrescesse venire a Firenze, ma solo lasciare il Veneto» (Ghivizzani 1882, XXXIX-XLI:XXXIX-XL) anche per cortesia nei confronti dei lettori fiorentini, è indicativa del modo in cui Erminia elabora la decisione del marito di individuare Firenze come città di destinazione. Firenze, città culturalmente attiva e lontana dalla censura austrica, in un primo momento guardata con timore, viene descritta in seguito dall’autrice in toni più moderati soprattutto perché – come racconta Erminia alle amiche Anna Mander e Francesca de Lutti – potrebbe essere foriera di possibilità per i figli che potranno godere di una buona educazione, e per il cognato Clemente, che i coniugi Fusinato sperano possa qui trovare una buona professione una volta uscito di prigione19. All’indomani dell’Unità d’Italia, dunque, i Fusinato si apprestano a vivere il paradosso, condiviso da tanti patrioti provenienti dalle regioni d’Italia non ammesse al regno sabaudo, di essere esuli in patria. In questo contesto anomalo è da evidenziare la connotazione peculiare dell’esilio, da un lato più lieve in quanto manchevole di gravi elementi di disagio usuali come le difficoltà linguistiche (Tatti 2021, 106-109), dall’altro appesantito dal trasferimento in una Italia di neo formazione per quanto agognata ancora incompleta e dunque non riconosciuta come vera patria. Un esilio laborioso Una volta approdata a Firenze, Erminia entra in contatto con un coeso circolo di uomini e donne di cultura quali i patrioti Atto Van19  E. Fuà Fusinato, Lettera a Francesca de Lutti, Castelfranco, 15 ottobre [1864], Fondo Famiglia de Lutti/ Maffei, LF-19, Archivio Storico di Riva del Garda: «Avrei tante cose a dirti circa questa nostra repentina deliberazione e circa le ragioni che ce la impongono. Ma tutto non si può dire, e tu saprai molto indovinare. Abbiamo dovuto fare così – ecco tutto! – Dovendo poi lasciare il veneto abbiamo prescielta quella Città dove mio cognato potesse più agevolmente trovarsi una conveniente occupazione, ed ove i nostri figli avessero il modo di godere d’una educazione quale la desideriamo noi». Fusinato e de Lutti ebbero un rapporto assiduo testimoniato da 55 lettere inviate da Erminia a Francesca (Castelfranco, 07 gennaio 1857 - Roma, 30 dicembre 1875; s.d.), conservate in Fondo Famiglia de Lutti/ Maffei, LF19, Archivio Storico di Riva del Garda. L’amicizia tra le due è stata oggetto di studio da parte di Fava 2013, 55, 70-74, 149-165, in cui sono edite 12 delle lettere in questione.

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nucci, Giovanni Prati, Pietro Giannone, frequenta le abitazioni dei Pozzolini e dei Mozzo, ospita un salotto nella propria casa di Borgo Allegri (Biasuz 1976, 8; Leuzzi 2008, 79-81; Melis 2006, 164). All’amica de Lutti, pochi mesi dopo il trasferimento, scrive: Vediamo molti veneti – e ciò ne fa parere men grave il dolore d’avere lasciato il nostro povero paese. Conobbi il Frullani che trovai compitissimo. Vidi la sua Claudina […] Conobbi il Capponi, il Lambruschini, il Tommaseo e la Milli […]20

La permanenza fiorentina è fondamentale nella gestione dei rapporti con contatti preziosi, come i coniugi Peruzzi. Ubaldino, infatti, è un uomo politico di rilievo, mentre Emilia, nata Toscanelli, ospita nella propria abitazione di Borgo dei Greci uno dei salotti culturali più importanti della città e ha una significativa influenza sulle decisioni del marito21. La Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze conserva 53 lettere scritte da Erminia ad Emilia tra il 1864 e il 1875 che testimoniano un rapporto assiduo, instauratosi prima della permanenza fiorentina dell’autrice (Melis 2006, 151-152). La donna, a dispetto dell’atteggiamento positivo mantenuto al momento del trasferimento, racconta nelle lettere a Emilia la difficile condizione degli esuli veneti e rimarca l’affermazione per cui, pur essendo italiana, si sente esule in patria: Noi da due mesi ci siamo stabiliti in Firenze, poiché ormai non ci restava che la fuga dal veneto, o la carcere austriaca. Fra brevi giorni sarà qui anche mio cognato, e qui resteremo fino a tanto che una parte migliore sorrida all’infelice nostra Venezia. […] sebbene siamo ancora in Italia, pure fino a che il veneto è oppresso è per noi durissimo esiglio22.

È stato osservato che l’elaborazione dell’esilio da parte degli esuli viene affrontata tramite percorsi molteplici e mutevoli: alcuni, ad esempio, si rifugiano nella scrittura, altri nell’attivismo politico e culturale, altri ancora nel riserbo; qualcuno, come ad esempio San20  E. Fuà Fusinato, Lettera a Francesca de Lutti, Firenze, 20 febbraio 1865, Fondo Famiglia de Lutti/Maffei, LF-19, Archivio Storico di Riva del Garda, edita in Fava 2013, 157-158. 21  In proposito si leggano Soldani 2002; Menconi 2006; Melis 2006; del salotto si parla anche in Ceccuti 1994, 17-24 e diffusamente in Mori 2011. Per un approfondimento sulle vicende dei coniugi Peruzzi cfr. Bagnoli 1994. 22  E. Fuà Fusinato, Lettera a Emilia Peruzzi, Firenze, 9 febbraio 1865, Raccolta E. Peruzzi, cassetta 74, busta 18, n. 12, BNCF.

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tarosa, ricorrere a più espedienti (Tavella 2020)23. Erminia dedica innanzitutto un impegno costante, laborioso e attivo, all’organizzazione di un comitato che si occupi degli esuli rifugiati a Firenze, o semplicemente di passaggio, e delle loro famiglie. La donna nelle sue lettere chiede frequentemente a Emilia Peruzzi di intercedere presso il marito per ottenere aiuti in favore dei fuoriusciti: Ubaldino, del resto, ministro dell’Interno dal dicembre ’62 al settembre ’64, era stato il promotore della legge che aveva autorizzato il finanziamento da parte del governo italiano dei comitati segreti guidati da Alberto Cavalletto, segretario del Comitato politico centrale di Torino che era nato con lo scopo di coordinare i comitati nati nell’Italia centrale e settentrionale (Alberton 2010, 23, 42-44). Emilia, che gestisce una politica di patronato basata su favori e raccomandazioni che perdurerà negli anni successivi (Andreucci 1994; Menconi 2006, 156-159), accorda quando può le sue richieste. Nelle lettere di Erminia, oltre a riferimenti a frequentazioni politicamente finalizzate, come quella dello stesso Cavalletto, si leggono dunque richieste di aiuto in favore di fuoriusciti e patrioti veneti più o meno noti quali, oltre al già citato Paolo Lioy, il veterinario Marco de Tuoni, l’avvocato Clemente Pellegrini, lo studioso Alberto Errera24. Erminia istituisce anche una raccolta fondi per le famiglie povere vendendo oggetti d’arte in stato di abbandono (Piazza 1877). Il comitato d’emigrazione è a ben vedere uno strumento fondamentale nella gestione di una rete di esuli che si spiega ben oltre i confini di Firenze. Interessante, in questo senso, è anche il rapporto intrattenuto dalla donna con il comitato per l’emigrazione polacco. Le vicende della Polonia in seguito allo scoppio della rivoluzione del ’63-’64 avevano generato un interesse diffuso in Italia dove una frangia rivoluzionaria di tendenza mazziniana, il cui massimo rappresentante era stato Francesco Nullo, sosteneva la necessità di aiutare gli insorti polacchi e auspicava una rivolta che partisse dal Veneto per poi estendersi a tutta Europa (Funaro 1964; Alberton 2010, 28 e 2016, 22-24). 23  Sulla questione si leggano Gola, Vanden Berghe 2020; Tatti 2021 e, in riferimento all’esperienza femminile dell’esilio nel Novecento, Bianchi-Lotto 2008. 24  Rispettivamente su Lioy vd. busta 18, n. 10-11, su Cavalletto busta 19 n. 4, su De Tuoni busta 18 n. 7, su Pellegrini vd. busta 18 n. 14 e 17, su Errera busta 19 n. 16 in Fondo Peruzzi, cassetta 74, BNCF. Per un profilo biografico del De Tuoni, in seguito docente di veterinaria presso l’Università di Perugia cfr. Necrologia 1879.

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La stessa Fusinato aveva dedicato a questi eventi il componimento Venezia alla Polonia in cui mostrava solidarietà per la causa polacca (Fusinato 1867, 21-23). Ubaldino Peruzzi aveva avuto in proposito un atteggiamento moderato (Funaro 1964, 69-70; Pegollo 1994, 83-84), tuttavia questo non precludeva un interesse dei Peruzzi, da poco trasferitisi a Firenze dopo il soggiorno torinese, per i movimenti del comitato di emigrazione polacco che aveva sede a Firenze. È su richiesta di Emilia, infatti, che Erminia si impegna nella ricerca dei componenti del comitato («Circa al comitato Polacco io ne richiesi a vari, ma nessuno crede che esista in Firenze – ove io giungessi a scoprirlo gliene darò tosto l’avviso»25), di cui individua il rappresentante, come emerge da una breve comunicazione a Emilia nel ’65 («le mando il nome e l’indirizzo del Signore che qui rappresenta il Comitato Polacco»26). Allo stesso periodo risalgono anche i contatti dei Fusinato con il letterato e patriota ungherese Ferenc Pulszky e sua moglie Teresa, che organizzano nel febbraio dello stesso anno una mostra di quadri viventi in favore degli emigrati veneti durante la quale Arnaldo, vestendo provocatoriamente i panni di Goldoni in partenza per la Francia, declama dei versi antifrancesi (Cimegotto 1898, 196-197). Il componimento, che doveva avere avuto l’approvazione dei Pulszky, massoni in contatto con le frange più radicali del movimento rivoluzionario antiaustriaco (Mori 2011, 114; Ciuffoletti 1993), non trovò altrettanto consenso tra quanti lo ascoltarono presso la sala Filarmonica di Firenze27, come si evince dall’accorata difesa che ne fa Erminia in una lettera a Peruzzi. La donna nel difendere il marito palesa una lettura smaliziata degli eventi che avevano provocato quello che a suo giudizio è un eccessivo coinvolgimento dei francesi nelle vicende italiane: Quale italiano non avrebbe desiderato poter omettere la cessione di Nizza e Savoia, e quale toscano non comprenderà che la sua gloria maggiore nella storia contemporanea è quella di non avere ceduto alle lusinghe di G. Napoleone? Infine se noi diamo la benvenuta alla Convenzione non è forse per la brama e 25  E. Fuà Fusinato, Lettera a Emilia Peruzzi, Firenze, 27 marzo s. a [1865?], Raccolta E. Peruzzi, cassetta 74, busta 18, n. 6, BNCF. 26  Ead., Lettera a Emilia Peruzzi, Firenze, 29 marzo 1865, Raccolta E. Peruzzi, cassetta 74, busta 18, n. 15, BNCF. 27  Il componimento si intitola appunto Goldoni che parte per la Francia ed è edito in Fusinato 1871, 259-261.

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la fede che presto i francesi lascino Roma? ed ove non la lasciassero non sentiremmo noi tutti diritto e dovere di adoperare altro linguaggio?28

I rapporti tra i Fusinato e i Pulszky continuano anche negli anni successivi, e dalle lettere emerge il perdurare di una fervida attività di beneficenza volta alle famiglie povere, per lo più gestita da Erminia, Teresa, e la stessa Emilia Peruzzi: Non ho potuto renderle la Scheda per la soscrizione in favore delle famiglie povere […], essendo che con una mia lettera la inviai da molti giorni al Pulszky il quale non mi ha punto risposto. Gli farò una visita per costringerlo a fare qualche cosa. Se ci fosse qui la sua moglie avrebbe già fatto!29

Le parole di Erminia sono sintomatiche soprattutto di una forte fiducia nella gestione femminile degli affari, in una comunità di donne compatta. L’esilio fiorentino, che doveva durare solo pochi mesi, si trasforma così in una fucina laboriosa da cui Fusinato attinge per avere un ruolo attivo in un processo risorgimentale che tarda a trovare il suo completamento. All’indomani dell’annessione del Veneto, Erminia destina ai fuoriusciti anche i proventi della sua raccolta in versi intitolata A Venezia30. Tatti ha evidenziato che per molte donne emigrate, come Belgiojoso, la scrittura durante l’esilio rappresenta uno strumento importante di legittimazione personale anche in termini economici, nonostante alcune di esse al momento della pubblicazione sentano la necessità di giustificare l’audacia del gesto con un intento caritatevole. È il caso, ed esempio, di Madame de Genlis, che dichiara che i profitti del romanzo Malvina andranno ad un amico in difficoltà (Tatti 2021, 121-126, 129-135). Il caso di Fusinato è simile eppure presenta le sue peculiarità: Erminia non riesce ad affermare la propria professionali28  E. Fuà Fusinato, Lettera a Emilia Peruzzi, Firenze, 15 marzo 1865, Raccolta E. Peruzzi, cassetta 74, busta 18, n. 14, BNCF. 29  Ead., Lettera a Emilia Peruzzi, Firenze, 22 luglio 1866, Raccolta E. Peruzzi, cassetta 74, busta 19, n. 7, BNCF. Del legame con la famiglia Pulszky dà notizia anche Leuzzi, 2008, 80. 30  Berti 1866, 4-6 nella prefazione al volume A Venezia asserisce che Erminia stia pubblicando il volume allo scopo «di concorrere col dono de’ suoi versi alla fondazione di una società generale di mutuo soccorso fra gli artigiani della nostra Venezia» e che a tal scopo anche «il sign. Iacob ed il sig. Nodari fabbricatori di carta ed il tipografo sign. Cecchini, non volendo essere inferiori all’autrice largirono, dietro suo invito, senza compenso, la carta ed i torchii».

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tà di autrice né a rivendicare un guadagno economico, e si contenta di pubblicare un testo che trova la sua liceità solamente nella causa pubblica. È frequente, per i fuoriusciti, vivere l’esilio come un momento della vita doloroso, eppure nobilitante (Tatti 2013, 89); Erminia, pur riconoscendo il valore dell’esperienza altrui, non palesa il riconoscimento soggettivo del proprio vissuto se non in stretta connessione ad un intento benefico. Alla luce di queste considerazioni è possibile rileggere l’impegno investito dall’autrice a partire dal ’65 nella pubblicazione e nella diffusione del romanzo dell’amico Ippolito Nievo31 come la caduta in un meccanismo di rielaborazione del proprio vissuto tramite il racconto delle vicende di chi ha provato esperienze analoghe tipico di tanti esuli, come Camillo Ugoni, che si dedicano al genere biografico (Banti 2007; Tatti 2011, 129-141 e 2013). Fusinato, a ben vedere, continua a raccontare quei martiri del Risorgimento protagonisti dei suoi scritti letterari in prosa e in versi, quali Daniele Manin, Francesco Dall’Ongaro, Ugo Foscolo (Fusinato 1879, 172, 195-197 e 1882, 249-255), come un manipolo di eroi di cui lei è, tuttavia, membro autoescluso. Si tratta di un paradigma applicato a ben vedere non solo a sé stessa, ma in generale all’universo femminile. Nel momento in cui l’autrice scrive il profilo biografico di Laura Maresia Alvisi, veneta in esilio a Firenze morta prematuramente di malattia, ne esalta soprattutto l’impegno nelle opere caritatevoli (Fusinato 1882, 159-163). La donna viene elogiata come «colei che, dotata di un eletto ingegno, lo tiene in pregio soltanto perch’esso vale a renderla, più che ad altri, cara all’uomo del suo cuore» (ivi, 160) ed è ammessa nella schiera degli uomini e delle donne da ricordare soprattutto in quanto esempio di modestia femminile e attitudine familiare. Si tratta di valori propri dell’«emancipazionismo moderato» di cui Erminia si fa portavoce, teso a rimarcare una rigida distinzione tra generi e ruoli che sarà centrale nella sua riflessione pedagogica (Pes 1998a; Filippini 2015).

31  Sull’impegno di Fusinato nella pubblicazione e diffusione del romanzo e sulle molteplici difficoltà incontrate vd. Melis 2006; il carteggio tra la donna e la famiglia Nievo, che testimonia il suo impegno editoriale, è stato edito a cura di Andreina Ciceri (Fusinato 1967).

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Il ritorno rifiutato Quando l’agognata annessione del Veneto avviene, i coniugi Fusinato non tornano stabilmente a Castelfranco poiché hanno ormai avviato degli affari a Firenze. I fatti politici successivi conducono ad una ricollocazione della famiglia nella nuova Italia e ad una ridefinizione dei ruoli: Arnaldo, affaticato dai cattivi investimenti fatti, concentra infruttuosamente le sue energie nel teatro delle Logge e tocca dunque ad Erminia prendere delle decisioni drastiche per la famiglia. La donna accetta nel 1871 l’incarico propostole da Cesare Correnti di diventare ispettrice delle scuole di Napoli, dell’Umbria e poi di Roma, trasferendosi di lì a poco nell’Urbe da sola, per poi richiamare a sé la famiglia, esattamente come anni prima aveva fatto il marito. In questo senso, nella vicenda di Fusinato, l’esilio assume soprattutto un valore liberatorio: è una chiave di accesso, come accade per tante donne, all’emancipazione economica e sociale (Tatti 2021, 13). È il primo sradicamento, il trasferimento da Castelfranco a Firenze, a ben vedere, a rendere possibile il secondo, e ancor più complesso, passaggio da Firenze a Roma. Quando il ministro Scialoja propone alla donna un ritorno «in patria» per l’anno scolastico 1873-74 lei rifiuta di tornare a Venezia, dove ricoprirebbe il ruolo di insegnante di lettere e dove pure studia il figlio Guido, perché preferisce restare a Roma, dove si impegna nell’organizzazione della scuola della Palombella, di cui le viene affidata la direzione (Leuzzi 2008, 145-149). Nelle lettere scritte ai familiari l’autrice, pur non osando esprimere ambizioni di sorta, manifesta la ferma convinzione di voler seguire il proprio percorso, l’orgoglio di mantenersi autonomamente32. A partire dagli anni romani Erminia completa un processo di affermazione del sé in quanto individuo autonomo: pubblica, senza giustificazioni di circostanza, scritti pedagogici e letterari (Fusinato 1874), vive del suo lavoro e mantiene la sua famiglia, dirige una scuola. Il Veneto, al contempo, diventa simbolo di una patria che non 32  Si legga E. Fuà Fusinato al figlio Guido, 22 gennaio 1872, in Molmenti 1878, 165: «ho un altro sommo conforto, e questo deriva dal poter dire: Io mi guadagno il mio pane! Oh se tu sapessi, figlio mio, come fa bene questo pensiero! Bastare a sé stessi, […] cercare e trovare la propria ricchezza in sé stessi, ecco lo scopo migliore cui possiamo e dobbiamo aspirare!».

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è più, legata alla dimensione del ricordo e dunque non riconducibile all’attualità del quotidiano33. Nelle sue lezioni pedagogiche Erminia si sofferma più volte sulla questione dell’esilio, sostenendo che per apprezzare pienamente la libertà patria «è necessario aver provati, o immaginare almeno, i tormenti dell’esule» (Fusinato 1931, 94). In questo contesto, tuttavia, l’esperienza femminile dell’esilio viene del tutto omessa: «Come e perché non ameremo noi questa Italia, per la quale i nostri padri, i nostri fratelli hanno tanto patito nelle battaglie, nelle carceri e nell’esilio; questa Italia alla quale dobbiamo educare una generazione degna dei lieti destini che finalmente la Provvidenza le assentiva?» (ivi, 135). L’esule, dunque, è uomo. Del resto, nella nuova Italia, come ha rimarcato Filippini, la donna per Fusinato può avere un ruolo attivo solo nei contesti specifici e circostanziati della scuola e della famiglia, non deve occuparsi di politica, ma onorare la patria educando i futuri cittadini, in quanto madre, oppure insegnante (Filippini 2015). La diretta conseguenza di questo pensiero è che Erminia, pur ribadendo la centralità dell’esilio nel processo risorgimentale, nella rielaborazione delle vicende unitarie cancella non solo il suo ruolo, ma anche quello di tutte le donne che, come lei, sono state compagne di lotte e d’esilio di quegli uomini di cui racconta alle sue allieve. Timidi accenni a figure femminili dal sapore mitico che nei tempi andati furono costrette a gesti eroici per la patria, come Cinzica de’ Sismondi, sono accompagnati dalla ferma precisazione che queste non possono assumere un ruolo esemplare in quanto «le straordinarie virtù non si possono mostrare se non nelle straordinarie sventure» (Fusinato 1931, 96). La scrittura di Fusinato, esattamente come negli anni fiorentini, vuole a ben vedere assolvere a una funzione sociale: se negli anni dell’esilio, tuttavia, questa era stata strumento per chiedere aiuto, tessere relazioni e fissare nella memoria collettiva fatti e persone, ora è soprattutto mezzo per formare giovani cittadine. L’esclusione delle donne dal Risorgimento in azione è dunque funzionale a consolidare il modello educativo pro33  In proposito rimando ai passi del diario dell’autrice editi da Molmenti, in particolare a [Rovigo] 23 ottobre [1871]: «Volevo vedere la mia bella Venezia dopo sette anni – la mia casa paterna, tutto ciò che mi ricorda l’età fuggita» (ivi, 54) e Venezia, 11 agosto 1872: «Oggi per la prima volta vidi le bandiere nostre sulle antenne di piazza S. Marco, su quelle antenne dove sventolavano le gialle e nere, quando io venni l’ultima volta a Venezia, a salutare il mio povero cognato, prigioniero a San Giorgio. – Oh patria, quanto ci costi, e quanto ci sei sacra e cara!» (ivi, 79).

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mosso, ma paradossalmente apre il passo ad una realtà altra, in cui Erminia può infine riconoscere, sebbene mai apertamente, i propri meriti di patriota attribuendo al fervido attivismo che la accompagnò prima e dopo l’esilio un valore stra-ordinario. Bibliografia Alberton, Angela Maria 2010 Aspettando Garibaldi: il Veneto tra il 1859 e il 1866, «Venetica», 2-22. 2016 Dalla Serenissima al Regno d’Italia. Il plebiscito del 1866, Biblioteca dei Leoni, Asolo. Andreucci, Franco 1994 «Vorrei procacciarmi un’occupazione proficua». Nemesio Fatichi e il clan Peruzzi fra clientelismo, raccomandazioni, politica, in Paolo Bagnoli (a cura di), Ubaldino Peruzzi, un protagonista di Firenze capitale. Atti del convegno di Firenze 24-26 gennaio 1992, Festina Lente, Firenze. Bagnoli, Paolo (a cura di) 1994 Ubaldino Peruzzi, un protagonista di Firenze capitale. Atti del convegno di Firenze 24-26 gennaio 1992, Festina Lente, Firenze. Banti, Alberto Mario 2007 La memoria degli eroi, in Alberto Mario Banti e Paul Ginsborg (a cura di), Storia d’Italia, vol. xxii, Il Risorgimento, Einaudi, Torino. Berti, Antonio 1867 Ai lettori, in Erminia Fuà Fusinato, A Venezia, Cecchini, Venezia. Bianchi, Bruna, Lotto, Adriana (a cura di) 2008 Donne in esilio. Esperienze, memorie scritture, «DEP», 8. Bianchi, Giuseppe 1978 Maddalena di Montalban e i suoi tempi (1820-1869), Marton, Treviso. Biasuz, Giuseppe 1976 Nel centenario della morte. Erminia Fuà Fusinato, «Padova e la sua provincia», 10-22. Billi, Laura, Bruni, Manuela 1999 Le giardiniere del cuore. Una lettura di scritti femminili nella seconda metà dell’Ottocento, Tufani, Ferrara. Bistarelli, Agostino 2011 Gli esuli del Risorgimento, il Mulino, Bologna. Ceccuti, Cosimo 1994 Il salotto di Emilia Peruzzi, in Paolo Bagnoli (a cura di), Ubaldino Peruzzi, un protagonista di Firenze capitale. Atti del convegno di Firenze 24-26 gennaio 1992, Festina Lente, Firenze.

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L’esilio volontario di Clementina de Como nell’Italia del Risorgimento attraverso la sua autobiografia Laura Fournier-Finocchiaro, Monica Salvetti

Quando incauta mi tolsi ai patrii lari Quando raminga, ed esigliata e mesta Il piè stanco calcò terra straniera Intorno a me tetra si fé natura In cupo tenebror mi vidi immersa E la fronte chinai… Nel rialzarla La cingeva d’amor l’aura celeste De Como 2010, 132

La maestra provenzale Clémentine de Como (Bonnieux, 1803 – Torino, 1871), nel secondo volume della sua imponente autobiografia intitolata Émancipation de la femme (De Como 2010), pubblicata in lingua francese a Torino nel 1853, racconta il suo travagliato percorso di esule volontaria nel nord Italia in pieno periodo di guerre risorgimentali, dove diventò una pioniera della lotta per i diritti delle donne (Merlo 2007; Fournier-Finocchiaro 2021a, 2021b). Nata nel Midi della Restaurazione, in una famiglia legittimista e cattolica, Clémentine de Como si era avviata alla professione di insegnante presso la Congregazione delle suore di San Carlo a Lione, ma decise dopo la Rivoluzione di luglio 1830 di abbandonare il convento e di creare diversi collegi nel sud della Francia. Nel 1839, seguì il padre a Savigliano in Piemonte (la sua città natale), ma poco dopo il suo arrivo il padre sparì, lasciando la figlia sola e senza risorse. Invece di ritornare in Francia, Clémentine de Como decise di rimanere espatriata in Italia, senza reti o sostegno, e si impegnò per assicurarsi un onesto sostentamento. Però fu facile preda sia di uomini di chiesa che di seduttori malintenzionati. Sedotta e sfruttata dal poeta di Casale Monferrato Pietro Corelli, racconta nella sua autobiografia dieci anni di vagabondaggio nel nord Italia e i suoi

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spostamenti da Casale Monferrato a Genova, poi Firenze, Bologna, Milano (al momento delle Cinque Giornate del marzo 1848), e infine a Torino e Chieri. Il lettore scopre nel corso delle pagine i tormenti ai quali l’amante l’ha sottoposta, e soprattutto assiste alla maturazione della sua coscienza politica e femminista. Attraverso l’esilio e i suoi calvari, de Como si libera gradualmente della sua educazione, fino a mettere radicalmente in discussione gli eccessi del potere clericale e patriarcale. La scrittura autobiografica non segue la linearità della narrazione, poiché l’autrice aggiunge al suo racconto in francese delle poesie e soprattutto dei brani epistolari in italiano tratti dalle lettere inviategli da Corelli, come mezzo di prova delle bugie e degli inganni del suo seduttore. Il testo finale è quindi bilingue e composto dall’alternanza di voci. La sua singolare testimonianza ci interessa qui per comprendere la vita quotidiana di una donna straniera che doveva cavarsela da sola nel contesto molto complesso (e pericoloso) delle guerre d’indipendenza italiane, per capire il ruolo e il punto di vista delle donne sul Risorgimento, infine per denunciare l’assenza di libertà delle donne dell’epoca.

Spostarsi sola nello spazio italiano Le memorie di Clémentine de Como ci informano sulla complessità dei viaggi e sulle difficoltà di trovare lavoro per le donne sole dell’epoca, sull’ostracismo dell’amministrazione e sull’oppressione esercitata dal clero. Alla fine del primo volume di Émancipation de la femme, la maestra provenzale racconta che la decisione di lasciare la Francia è legata alla volontà del padre di farle visitare il Piemonte, “la sua patria” che non aveva rivisto da cinquant’anni. Padre e figlia si imbarcano il 3 giugno 1839 a Marsiglia per recarsi a Nizza (De Como 2009, 407), poi raggiungono il Piemonte attraversando il Colle di Tenda. Arrivano a Savigliano e lì si stabiliscono in albergo. In un primo tempo, il padre sembra aver ritrovato parte della famiglia e spinge la figlia a trasferirsi definitivamente in Piemonte; ma dopo averla aiutata a vendere i suoi averi in Francia, improvvisamente scompare, lasciando Clémentine senza più notizie: «me voilà seule et perdue au sein

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d’une nation étrangère, moi, l’habituée aux effusions de la famille et à l’animation du ménage. Cet esseulement me semblait être l’oubli de l’exil» (ivi, 421-422). La maestra narra con molti dettagli le difficoltà incontrate per farsi raggiungere dalla sorella Angélique, sprovvista di lasciapassare e quindi bloccata alla frontiera. Solo dopo aver supplicato invano l’ambasciatore francese a Torino, e grazie all’aiuto del ministro delle Finanze Stefano Gallina, Clémentine riesce a ricongiungersi con sua sorella, con la quale tenta di avviare un’attività di insegnamento a Savigliano. Il racconto di de Como non è mai una semplice testimonianza neutra dei fatti accaduti: la sua scrittura serve anche a ringraziare o accusare le diverse persone incontrate lungo il suo percorso. Ad ogni tappa, distribuisce lodi e rimproveri, spesso citando chiaramente nomi e casati, e più raramente nascondendo l’identità, lasciando solo l’iniziale. La maestra biasima i comportamenti del clero, ad esempio quando le due sorelle sono vittime del canonico di Savigliano, che in un primo tempo aveva accolto la maestra, e poi decide di far chiudere la loro scuola per favorire le nipoti. Clémentine e Angélique de Como si devono quindi trasferire nel luglio 1841 a Casale Monferrato, dove avevano ottenuto l’autorizzazione per fondare una casa di educazione per fanciulle (ASCS, lettera 43). Le due sorelle espatriate sono limitate nelle loro azioni sia dal potere ecclesiastico, sia dall’autorità civile: autorizzate soltanto ad istruire fanciulle di famiglie nobili, sono strettamente sorvegliate anche dal clero. Poco dopo il suo arrivo a Casale, Clémentine de Como è inoltre vittima di un “seduttore”, il poeta Pietro Corelli (18151867), che la torturerà psicologicamente per quasi dieci anni, obbligandola a rimanere sempre nei suoi paraggi e costringendola a seguire le decisioni e gli spostamenti del fidanzato: «Mi dici che vuoi tornare in Francia: e per qual cagione?… per allontanarti vieppiù da me? E credi che la mia immagine non ti seguirà dovunque?» (De Como 2010, 186). Corelli manipola la maestra francese, al fine di sfruttarla per ragioni economiche; il secondo volume di Émancipation è dedicato quasi interamente alla tragica vicenda amorosa tra il poeta casalese, nato da umile famiglia, e la maestra francese che lavora senza tregua per mantenere il fidanzato. Corelli le promette regolarmente un ma-

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trimonio, che però è sempre differito, finché il poeta fabbrica un finto certificato di nozze, col quale illude l’ingenua maestra. Clémentine decide di scrivere le sue memorie appunto per mettere in guardia le donne contro i seduttori, raccontando con molti dettagli le tecniche di manipolazione, le menzogne e le umiliazioni subite. La relazione con Corelli porta inoltre l’istitutrice a molte peregrinazioni nello spazio italiano in piena effervescenza risorgimentale. Le memorie rendono conto dei suoi spostamenti attraverso diversi Stati dell’Italia del Nord, e anche delle personalità incontrate nelle varie città. Nel settembre 1845, Clémentine porta sua sorella malata a Genova, sperando di poterla poi trasferire in Francia: «Me voici de nouveau séparée de lui… Ma sœur frappée du mal de mort… Un pays inconnu… Presque sans argent… Il fallait trouver de l’occupation » (ivi, 257). Clémentine fa spesso riferimenti alla sua amata Francia, accentuando la nostalgia di essere lontana, ma allo stesso tempo tesse le lodi delle nobili famiglie italiane e dei “buon patrioti” che l’hanno accolta e aiutata ad integrarsi nel mondo culturale dell’epoca (ad esempio il poeta genovese Gian Carlo Di Negro, o a Firenze lo scrittore repubblicano Giovanni Battista Niccolini). Nell’aprile 1847, Clémentine è mandata da Corelli a Bologna per trovare lavoro come istitutrice; è ricevuta dalla scrittrice Isabella Rossi Gabardi Brocchi, che però la caccia via quando viene a sapere che è incinta. Notiamo che Clémentine non è ben accettata dalle letterate; rimane al margine dei principali salotti cittadini, e le sue memorie non menzionano i nomi delle grandi animatrici culturali risorgimentali. Nella città pontificia, riesce comunque a trovare lavoro presso i marchesi Cavriani, che le fanno conoscere la marchesa patriota Brigida Fava Ghisilieri Tanari. Nell’ottobre 1847, parte alla volta di Milano per cercare nuove lezioni. Nella capitale lombarda, la maestra espatriata si rivolge sempre in priorità ai rappresentanti maschili del mondo culturale risorgimentale (Aurelio Bianchi Giovini, Carlo Tenca, Luigi Toccagni…), ma non menziona mai il nome di Clara Maffei. Nel marzo 1848, avviene la svolta principale della sua vita: Clémentine è testimone dell’insurrezione delle Cinque giornate, e in onore dei milanesi pubblica la poesia Impressions d’une française sulla rivista «La Moda» (ivi, 474-475).

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Dopo la sconfitta delle truppe piemontesi nell’agosto 1848, la maestra francese, che si sente solidale dei rivoluzionari milanesi, decide di seguire i rifugiati a Torino per non subire il giogo austriaco, cosciente tuttavia di essere privilegiata per la sua condizione di espatriata: «Combien je les plaignais tous ces pauvres Milanais, qui abandonnaient ainsi leurs toits hospitaliers, pour aller souffrir tous les maux de l’exil plutôt que de porter l’esclavage; je les plaignais et les admirais; j’aurais fait comme eux, si j’eusse été italienne; mais j’étais française, rien ne m’obligeait à faire soumission à cet odieux gouvernement qui allait être imposé à la ville» (ivi, 495-496). A Torino, riprende la coabitazione con Corelli in un misero appartamento, dove vive le scene più drammatiche della sua relazione, inscenando persino un tentativo di suicidio. Nelle sue memorie, si lamenta dell’indifferenza dei preti che non le offrono nessuna consolazione né aiuto: «Non, dans cette maudite affaire, je n’ai pas trouvé un prêtre qui m’ait tendu la main» (ivi, 589). Tuttavia riesce a trovare appoggio presso la Legazione francese di Torino per far causa a Corelli, che cerca di far accusare di seduzione con truffa1, aiutata anche da letterati e artisti, tra cui Vincenzo Gioberti (ivi, 563). De Como insiste sulle difficoltà specifiche dell’esilio femminile; secondo lei è più difficile trovare lavoro nelle sue condizioni di donna espatriata sola e “compromessa” da un seduttore: «Que reste-t-il à faire à une pauvre femme qu’un malheur pareil au mien a atteinte? Que voitelle dans son avenir, surtout lorsque, comme à moi, son gagne-pain repose dans la bonne opinion, dans la confiance que le public peut avoir en elle?» (ivi, 564). Ancora una volta, la maestra francese è costretta a lasciare a malincuore Torino per stabilirsi a Chieri, dove inizia la redazione della sua autobiografia. L’arrivo nella cittadina di provincia è vissuto con molto dolore; de Como assimila l’esclusione di cui è vittima per via del suo seduttore allo sradicamento dell’esilio: «je ne saurais peindre 1  Anche se il codice penale piemontese aveva eliminato il reato di seduzione sotto promessa di matrimonio nel 1839 – reintrodotto nel 1859 solo per le vittime sotto i diciotto anni – il Tribunale ecclesiastico continuò per diversi anni ad aggirare la legislazione civile per proteggere le ragazze madri e le loro famiglie (Palombarini 1995; Pelaja 2001). Le seduzioni erano oggetto di numerose cause civili e penali, che potevano portare alla condanna degli autori di finti atti di matrimonio, ai quali era negato il certificato di stato libero e quindi la possibilità di contrarre un nuovo matrimonio, e talvolta anche al risarcimento dei danni (Borgione 2018, 63-64).

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tout le douloureux de l’impression que j’éprouvai en entrant dans Chieri. C’était quelque chose qui ressemblait au désespoir de l’exilé […] Ah ! c’était donc là le dénouement, la récompense de cet amour si beau, si désintéressé, si touchant qui m’avait animée ? quoi ! l’abandon et l’exil…?» (ivi, 608). Le peregrinazioni di Clémentine de Como sembrano arrestarsi nel 1853, quando, dopo essere tornata a Torino, decide di pubblicare le sue memorie, che tuttavia sono ricevute molto freddamente dalla critica, rimanendo sconosciute fino a tempi recenti2. Si tratta difatti di un testo difficile da classificare, poiché «periferico sia rispetto alla letteratura femminile in lingua francese del periodo – l’autrice non è pubblicata in Francia e si ispira ad esperienze vissute nell’Italia del Risorgimento – sia rispetto alle produzioni italiane – per la rarità di scritti femminili di questo tipo (autobiografici e impegnati nella difesa delle donne) nella penisola preunitaria, vale a dire in un contesto spesso ostile all’attività letteraria delle donne (Fournier-Finocchiaro 2021b, 68). Tra racconto odeporico e memorialistica risorgimentale L’autobiografia dell’esilio di Clémentine de Como oscilla inoltre tra diario di viaggio e cronaca delle lotte risorgimentali. Possiamo notare che a mano a mano che la maestra provenzale entra in contatto con gli attori e le attrici delle guerre d’indipendenza italiane, le sue descrizioni dedicano sempre più spazio al tema della Nazione, alla difesa dei diritti degli “italiani” sul loro territorio e al ruolo della monarchia sabauda. Le prime impressioni di viaggio riportate dalla maestra francese adottano un tono enfatico segnato dalla retorica, abbastanza frequente all’epoca.3 Ad esempio, descrive il suo arrivo a Casale Monferrato con una profusione di aggettivi elogiativi e qualche notizia storica: «Casal 2  Si trova qualche accenno in Prolo 1937, LXXXIII-LXXXIV e Pieroni Bortolotti 1963, 114. Il testo è stato ripubblicato, in edizione anastatica, nel 2009-2010 per iniziativa dello storico Maurice Mauviel e dell’editrice Françoise Mingot. 3  Non abbiamo potuto approfondire qui, per ragioni di spazio, il paragone tra il suo stile di scrittura e quello di altre viaggiatrici in Italia nello stesso periodo. Sui racconti di viaggi al femminile, vedi in particolare Corsi 1999; Ricorda 2011 e sulle straniere che viaggiano in Italia: Bourguinat 2017.

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est une fort jolie ville, qui renferme de bien beaux hôtels et de magnifiques promenades. Ses entourages sont enchanteurs avec leurs collines ombreuses, couronnées d’un diadème de verdure. Et ce romantique Pô qui serpente majestueusement au pied du pays amphithéâtral ! La position de cette ville en fait une place forte que se disputèrent tour-àtour plusieurs puissances…» (De Como 2009, 438). Lo stesso stile odeporico riprende al suo arrivo a Firenze; notiamo però che Clémentine non descrive precisamente i monumenti e le opere d’arte, soffermandosi invece sulle sensazioni e le emozioni suscitate dallo spettacolo della bellezza: En pénétrant dans cette ville aux palais gothiques et grandioses, aux monuments chef-d’œuvre de l’art, aux sculptures animées et parlantes, aux statues qui semblent se mouvoir, aux peintures où la nature végète, et où l’homme agit, je me crus transportée dans un monde fatidique et enivrant ; il me semblait n’avoir de ma vie rien vu encore; une main enchanteresse me paraissait planer sur cette ville artistique, dont chaque muraille, chaque pierre semble avoir été posée là par la main d’un génie tout puissant. D’abord le saisissement m’ôta la parole… (De Como 2010, 370).

Durante il suo soggiorno fiorentino, lo sguardo della maestra espatriata sulla città si modifica gradualmente: i monumenti acquisiscono dei significati simbolici e profetici che si riallacciano al clima culturale risorgimentale. Lo possiamo notare nella descrizione del David di Michelangelo: «Ce David affrontant Goliath absent, me semblait être l’esprit des populations italiennes, menaçant l’étranger oppresseur de leurs libertés, et reprochant en même temps à l’Italie son inertie à secouer le joug du servage (l’année mémorable 1848 n’avait pas sonné encore» (ivi, 388). Lo stile della scrittura si trasforma; la scrittrice esprime grande empatia per il popolo italiano soggiogato dai “nemici della patria”, e anche per i patrioti liberali favorevoli alla democrazia. Gradualmente, seguiamo l’evoluzione patriottica di Clémentine, che condivide le speranze dei patrioti, e moltiplica le dichiarazioni di solidarietà con il popolo rivoluzionario, in particolare nel racconto del suo soggiorno a Milano durante le Cinque Giornate. Le sue descrizioni della città di Milano dopo la liberazione non riflettono più lo sguardo di una straniera che osserva le meraviglie turistiche, ma l’ammirazione di una militante che condivide pienamente il patriottismo italiano:

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Je n’avais de ma vie contemplé le coup d’œil magique qu’offrait alors la ville. D’abord les barricades, dont la construction si variée présentait au regard étonné ici un amphithéâtre doré et scintillant ; là un monceau de fumier formant rempart […] Et les oriflammes, et les cocardes, et les panaches tricolores voltigeant à tous les chapeaux, et dominant la foule comme autant d’arbustes en fleurs ! Oh ! c’était une vraie prairie ondoyante, un prisme irisé, une féerique vision ! (ivi, 470-471).

La caratteristica della scrittura memorialistica di Clémentine de Como è inoltre di mettere in parallelo e sullo stesso livello eventi pubblici e privati; ad esempio, il racconto della sconfitta piemontese a Custoza è occasione per equiparare il dramma di Carlo Alberto e la sua sofferenza per il nuovo abbandono da parte di Corelli: «Infortuné Charles! Tes lèvres dégustèrent tous les genres d’amertume. Comme lui, j’avais beaucoup souffert, et je sus apprécier sa souffrance!» (ivi, 493). Allo stesso modo, la sua cronaca dei tumulti torinesi nell’ottobre 1848 mescola la sua empatia per le vittime dell’oppressione austriaca e le sue pene per i tormenti inflitti da Corelli: «C’était toujours octobre 1848. Du 19 au 22 il y eut quelques troubles à Turin. Et simultanément toute l’Europe se trouvait en fermentation; les émeutes et les révolutions surgissaient de partout, et l’Autriche tournait sa victoire à d’inouïes atrocités, et moi qui souffrait tant, j’avais néanmoins des larmes, beaucoup de larmes pour les victimes de l’oppression» (ivi, 54). Clémentine de Como si sente ancora più abbattuta dopo la sconfitta di Novara e soprattutto dopo la morte di Carlo Alberto: «Et Charles-Albert mourut!!! Sûrement aucun membre de la Famille royale n’a donné plus de larmes que moi au héros défunt; j’étais inconsolable; il me fallut me remettre au lit, et chaque tintement du glas royal vibrait si douloureux en mon âme, que je la sentais se briser. Ah! mourir avant moi!…» (ivi, 605). Le memorie di Clémentine de Como offrono così una testimonianza per indagare la specificità del patriottismo femminile, che si esprime nel testo attraverso l’emozione e la compassione («Oh, Italia, mia cara e bella Italia, che ne è di te? Piango e singhiozzo mettendomi le mani nei capelli in segno di disperazione […] Un forte dolore si accresce in me: “I miei poveri milanesi!”»); ci permettono di ripercorrere l’evoluzione politica di un’esule francese durante le

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vicende italiane del 1848 e la maturazione del suo amore per l’Italia. Tuttavia, nessuna delle rare recensioni di Émancipation de la femme colse l’interesse del racconto storico né dell’esempio di amor di patria offerto da de Como. La maestra francese rimase stranamente estranea alle reti di scrittrici e poetesse che parteciparono al progetto comune di celebrazione patriottica (Mori 2011), forse perché non ricalcava il linguaggio canonico delle donne, quello materno e pedagogico (Guidi 2004, 16) e denunciava invece l’oppressione sociale e patriarcale delle donne propugnando la loro emancipazione.

La denuncia della schiavitù femminile Clémentine de Como narra non solo le personali difficoltà incontrate durante il suo esilio in Italia, ma denuncia più largamente l’oppressione esercitata su tutte le donne dalla religione, dalla società e dagli uomini. La maestra francese spiega la propria vulnerabilità in quanto ex suora non preparata alle relazioni amorose e in quanto espatriata senza appoggi in terra straniera per far valere i suoi diritti, ma ben presto si rende conto che le sue condizioni sono facilmente generalizzabili alla maggior parte delle donne. La narrazione autobiografica è inframmezzata da molti commenti ed esclamazioni dell’autrice, che accusa la società, le famiglie e gli uomini di impedire o frenare lo sviluppo delle donne. Possiamo supporre che questa consapevolezza, e la maturazione della coscienza femminista di Clémentine de Como, siano il frutto delle sue esperienze e delle sue osservazioni durante il suo soggiorno in Italia. In effetti, anche se a momenti de Como esprime una certa nostalgia per la sua “bella Francia”, il suo discorso non costruisce un contrasto, per quanto riguarda specificamente la condizione femminile, tra il suo paese d’origine e le usanze italiane. Lo sradicamento in Italia le permette al contrario di notare con più lucidità le contraddizioni che causano la sofferenza femminile. Spiega in effetti in un primo tempo: «nous ignorions que dans ce beau pays, déjà la proie de tant de déprédations étrangères, la femme, outre le malheur commun, eût à porter l’opprobre de la déconsidération et de la dégradation publique…» (De Como 2010, 62). Ma la situazione non è molto diversa in Francia, come appare nella sua domanda retorica: «Et en

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France même, oui, dans ce pays, mon bien aimé pays, les lois sontelles plus équitables à l’égard d’une malheureuse fille qui […] cède à […] la force de la séduction?» (ivi, 62-63). Durante le sue peregrinazioni nelle varie città italiane, Clémentine è colpita dall’arretratezza dell’educazione femminile, e le sue descrizioni suonano come dei rimproveri contro le mentalità retrograde. Ad esempio, al suo arrivo a Savigliano nel 1839, osserva: Le Piémont n’étant point mûr encore pour la diffusion de l’enseignement, les jeunes personnes surtout végétaient enveloppées dans les denses brouillards de l’ignorance, et les pères de famille dédaignaient […] d’admettre leurs filles au développement de leur intelligence. Par un système absurde et déraisonnable ils prétendaient et prétendent que la femme n’a pas besoin d’instruction (De Como 2009, 429).

La maestra francese, ben lungi dal rimanere una spettatrice passiva, prende chiaramente posizione per difendere l’educazione femminile in tutte le classi sociali, animata dalla convinzione che le donne non devono essere mantenute in condizioni di marginalità culturale, per permettere loro di contribuire al benessere sociale: «Il est vrai qu’à présent on commence à sentir que l’influence et l’intervention de la femme entrent pour quelque chose dans le bien être social. Mais la femme ne peut faire le bien qu’autant qu’elle se trouve dignement posée et affranchie de cette crasse ignorance dans laquelle le préjugé la condamna à croupir» (ivi, 91-92). Durante i suoi soggiorni nelle varie città italiane, dove cerca di fondare istituti per fanciulle o di essere assunta come educatrice, presta un’attenzione ai costumi, ai comportamenti delle famiglie, non esitando a condannare chi accetta la subordinazione femminile, o addirittura ne approfitta. In particolare, racconta nelle sue memorie di aver vissuto sulla propria pelle la sopraffazione del patriarcato, lasciandosi sfruttare da Corelli per permettergli di fare carriera nel mondo delle lettere. Generalizza quindi il suo dramma personale, affermando che molto spesso l’uomo acquisisce la sua reputazione con l’oppressione della donna: «Combien d’hommes n’ont acquis une renommée honorable qu’au prix de plus d’un martyre silencieusement imposé par eux à de pauvres victimes que leur ambition avaient désignées à servir de manteau à leur hypocrisie» (De Como 2010, 302).

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Émancipation de la femme è una denuncia continua dell’ingiustizia della doppia morale che colpisce le donne; mentre l’uomo seduttore è pienamente accettato da tutti, la donna sedotta è marchiata d’infamia: «C’est l’homme qui commet le délit, c’est la femme qui en porte le châtiment» (ivi, 377). Oltretutto, non esiste nessuna solidarietà femminile per le vittime degli inganni maschili: «ce que je trouve affreux, c’est que des femmes, d’autres femmes, les semblables, les amies, les sœurs de la femme outragée, d’autres femmes marquées aussi, elles, au doigt du préjugé, soient les premières à jeter la pierre à l’infortunée» (ibid.). Il desiderio di aiutare altre donne, grazie alla sua testimonianza, matura in lei attraverso la scrittura autobiografica, che le permette di curare le proprie sofferenze inflitte dal suo seduttore: «Dieu m’a fait un miracle, il m’a donné une céleste vision: car quelque chose a crié dans moi d’une voix vibrante et impérative: “Vis pour écrire tes mémoires, qui pourront présenter d’utiles enseignements. Vis, et que ta plume réhabilite ton honneur, qu’elle te venge, puisqu’il n’est personne pour te venger”» (ivi, 614). De Como spera così di fornire un esempio e un modello per informare le donne, e persino per impedire a qualche uomo di comportarsi in modo disonesto. Le sue riflessioni sulla condizione femminile, così come le sue proposte di cambiare le mentalità – e persino le leggi4 – per raggiungere l’ideale di una società più egualitaria, maturano non a caso durante gli anni della prima guerra d’indipendenza italiana e delle rivoluzioni cittadine che Clémentine ha potuto osservare dall’interno. È l’esperienza del Quarantotto, che contribuì a trasformare la percezione che le donne stesse avevano di sé e del loro ruolo nella società (Soldani 2007), che modifica le opinioni di de Como sul ruolo subalterno generalmente attribuito alle donne. Anche se le sue memorie raccontano la tragica vicenda di una donna manipolata e ingannata da un uomo senza scrupoli, Émancipation de la femme può essere inteso come espressione di una nuova libertà femminile: quella di dare voce alle vittime, valorizzando 4  «Ah, s’il était donné à la femme de devenir législatrice à son tour, je voudrais consumer mes facultés intellectuelles à la recherche d’un système légal qui parât aux injustes préventions qui pèsent sur la femme; oui, je voudrais faire assumer à l’homme séducteur partie du châtiment qui est exclusivement le partage de la femme séduite» (ivi, 676).

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la loro soggettività. L’esperienza della lontananza e dell’esclusione vissuta dalla maestra francese in esilio ha stimolato il racconto della sua redenzione e della sua resilienza attraverso la scrittura memorialistica. Clémentine mostra il ruolo dell’autobiografia come terapia, e allo stesso tempo come denuncia e strumento di emancipazione. Bibliografia ASCS Registro delle lettere ricevute dalla Regia intendenza provinciale dal 1° gennaio 1830 a tutto dicembre 1839, Archivio Storico della Città di Savigliano, sezione Istruzione pubblica. Borgione, Andrea 2018 Il Risorgimento tra moglie e marito. Le separazioni coniugali a Torino (1838-1865), «Passato e Presente», 105. Bourguinat, Nicolas 2017 “Et in Arcadia ego”: voyages et séjours de femmes en Italie, 1770-1870, Éditions du Bourg, Montrouge. Corsi, Dinora (a cura di) 1999 Altrove. Viaggi di donne dall’antichità al Novecento, Viella, Roma. De Como, Clémentine 2009 Émancipation de la femme, t. I: 1803-1841, Éditions Wallâda, Châteauneuf-les-Martigues. 2010 Émancipation de la femme, t. II: 1841-1853, Éditions Wallâda, Châteauneuf-les-Martigues. Fazio, Ida 2016 Storia delle donne e scrittura nell’Italia in formazione: tra pubblico e privato, in Marinella Fiume (a cura di), Mariannina Coffa. Sguardi plurali, Siciliano, Messina. Fournier-Finocchiaro, Laura 2021a Clémentine de Como, féministe et témoin du Risorgimento disparue de l’Histoire, in Elsa Chaarani Lesourd, Laurence Denooz e Sylvie Thiéblemont-Dollet (a cura di), Pleins feux sur les femmes (in)visibles, PUN-Éditions universitaires de Lorraine, Nancy. 2021b Risorgimento italiano e emancipazione della donna nelle memorie di Clémentine de Como (1803-1871), «WOLL- Women Language Literature in Italy», 3. Guidi, Laura (a cura di) 2004 Scritture femminili e storia, ClioPress, Napoli.

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Memoria, racconto e autobiografia in Ricordi dall’esilio di Cristina Trivulzio di Belgiojoso Mercedes Arriaga Flórez

Il presente intervento pretende analizzare la combinazione di tre elementi nella scrittura di Ricordi dall’esilio di Cristina Trivulzio di Belgiojoso: memoria, racconto e autobiografia, con l’aiuto di alcuni dei concetti della storia delle emozioni, che si addice particolarmente alla condizione dell’esilio, marcata dal disagio e dall’automarginazione. L’intreccio di questi tre elementi corrisponde a una narrazione sdoppiata in due registri: quello strettamente autobiografico, in cui Cristina è l’unica protagonista al centro di intrecci o riflessioni di marcata impronta romantica, e quello del racconto, dove lei occupa la posizione di narratrice onnisciente per raccontare episodi di vite altrui, seguendo registri tipicamente memorialisti e realisti. La principessa parla in prima persona, ma non racconta soltanto sé stessa: è presente nel suo libro come testimone, di un tempo storico e di altre persone, che dà voce e visibilità soprattutto alle donne (Scriboni 1994). Così la memoria, personale e allo stesso tempo collettiva, agisce da elemento di unione fra autobiografia e racconto. Questi tre elementi costituiscono l’intreccio avvincente di una narrazione che, in parte, è frutto della scrittura dell’autrice e, in parte, dell’intervento degli editori di Le National che tagliano e riorganizzano il contenuto delle lettere private che Cristina invia alla amica Carolina Jaubert in maniera da comporre un testo che stuzzica la curiosità dei lettori, pubblicato in forma di feuilleton in 23 puntate fra il 5 settembre e il 12 ottobre del 1850. D’altra parte, i testi sono tenuti assieme da una componente emozionale e passionale molto forte. Il registro dell’autobiografia è caratterizzato da un io che scrive e si presenta sotto le forme alle volte della sofferenza per quello che è stato, lasciato indietro e perduto, ma anche dell’entusiasmo della scoperta di nuovi persone e luoghi. L’esilio come espressione aristocratica di una condizione non imposta,

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ma voluta e scelta liberamente, affiora in questi passaggi. La convivenza di questi due regimi emozionali segna una lotta in cui la realtà si scontra tanto con la memoria quanto con la finzione letteraria, riflettendo le incertezze di un io disancorato. Come sostiene Maria Zambrano (1961) «sulla persona esiliata ricade tutta l’ambiguità della condizione umana». Nel registro del racconto, invece, l’intensità emozionale traspare nella predilezione per le storie d’amore con finali alle volte tragici, oppure per le storie comiche che riprendono la tradizione faceta e si presentano come delle scenette dialogate in cui intervengono diversi personaggi con botte e risposte argute, nelle quali la principessa prende il ruolo di sermo princeps e di personaggio principale. Molti episodi del passato vengono raccontati sotto questa luce che trascura gli avvenimenti esterni per concentrarsi sulle trasformazioni interne delle protagoniste, come è il caso delle donne romane che accudiscono i feriti negli ospedali: In quasi tutte le donne reclutate all’ospedale ho visto nascere questo contrasto tra il passato e il presente: tutte si trasformavano nello stesso modo. Quando la pietà entra nei loro cuori, essa ne scaccia o per lo meno riduce al silenzio tutti i vizi che fino a quel momento li dominavano. La donna fissa il suo sguardo su di un morente, i suoi occhi si riempiono di lacrime… è il segno di quel felice mutamento. Quel morente fosse vostro fratello o vostro figlio, affidatelo senza timore alla samaritana che ha pianto, perché essa ne avrà cura come ne fosse la sorella o la madre. (Trivulzio di Belgiojoso 1978, 50)

È notevole la nobilitazione di queste donne del popolo attraverso la loro adesione ai sentimenti patriottici e Cristina ne parla da un punto di vista passionale, nel quale gli affetti prendono il sopravvento. L’intersezione di piani realtà-finzione molte volte caratterizza l’esilio come luogo delle meraviglie, bizzarro, o quanto meno curioso, utopico e altrove, dove tutto può succedere ed è verosimile e quindi diventa luogo letterario per eccellenza. La realtà che la principessa racconta è costantemente filtrata da uno sguardo intertestuale che rimanda ai libri letti che comunque la accompagnano nel suo viaggio: Vi ho veduto delle ragazze e delle donne la cui splendente bellezza non è possibile descrivere; fra le altre, una sembrava discendere in linea diretta da quella bellezza che il genio dell’Ariosto ha reso immortale (ivi, 56). […]

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Bisbinos, riparatore di torti, protettore delle vedove e degli orfani, giusto, disinteressato, incorruttibile, schiavo della parola data, ecc… era un vero bandito da opera comica, mentre i suoi uomini, scellerati e veri klepti, non avevano altro scopo che il furto e le rapine e godevano nel sottoporre a tormenti gli infelici dopo averli spogliati (ivi, 86).

Si può dire che l’esilio di Cristina ha una natura magmatica segnata da un itinerario di conflitti, ma anche di idee nuove e creazione, un carosello emozionale che va e viene dal presente al passato e si confronta con sentimenti collaudati (Rodríguez-López 2014). Più che sulla perdita Cristina punta sull’avventura, come conseguenza dell’impostazione romantica con la quale concepisce la propria vita: «Ma basta! Non è mio costume porre fiducia nelle precauzioni: la pongo in non so bene quale cosa, che dagli uni è chiamata stella, dagli altri provvidenza». Il suo carattere è prima di tutto quello di una donna di azione che guarda il presente e il futuro: «Nutrirmi di rimpianti è contrario alla mia natura» (Trivulzio di Belgiojoso 1978, 45), e che ha uno spirito libero che la porta ad impersonare le figure della viaggiatrice, girovaga, pellegrina, esploratrice e donna curiosa di geografie altrui. Così dichiara: «voglio viaggiare» (ivi, 46), facendo dell’espatrio una scelta voluta e non un’imposizione. La Belgiojoso viene bandita da Roma e nel primo capitolo dei Ricordi si presenta come persona perseguitata dallo Stato Pontificio, ma in nessun momento accetta il ruolo di vittima, né il ruolo passivo né il sentimento negativo dell’esclusione (la memoria allora serve a mitigare questo sentimento) e invece prende un ruolo attivo in cui si riveste della condizione di fuggitiva e straniera. Fuga ed esilio, che nella Grecia antica erano due parole omonime, rimandano al concetto di esercitare un diritto, più che subire una punizione (Agamben 1996, 16) che si traduce in un senso di “leggerezza” derivato dalla solitudine che permette l’immedesimarsi. Anche se legata alla causa patriottica e alla sorte politica dell’Italia, in lei prevale l’elemento spirituale, di appartenenza interna dell’io: Fino a quando la nostra giovinezza dura, la nostra vita è paragonabile a quelle piante che traggono dall’aria il loro nutrimento e non hanno sostegni: ci si può allora trapiantare. Più tardi noi mettiamo radici, e da queste traiamo sostentamento. L’esilio si rende allora letale. Io non sono ancora giunta a quel punto; manco d’abitudini, i miei sentimenti non sono ancora abbarbicati al

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suolo. L’aria, l’elemento spirituale e sottile del pensiero, mi basta. (Trivulzio di Belgiojoso 1978, 45)

Quindi non è l’esilio quello che orienta la narrazione verso forme e temi propri, ma al contrario l’esilio si mostra come un alibi per portare a termine la natura inquieta della principessa. Nei testi dell’esilio è frequente il riferimento all’infanzia, momento felice dell’esistenza che contrasta con l’infelicità e le amarezze del presente; nella Belgiojoso l’infanzia come emozione dove ripararsi è sostituita nel testo dal ricordo della vita mondana svolta durante il suo primo esilio a Parigi, che funge da giovinezza spensierata nei confronti della costrizione del presente. In effetti tutte le conoscenze del signor CB e di sua moglie sono state convocate nell’intento di mostrare la bestia curiosa, la vostra umilissima serva… peccato io non sia Balzac per dipingervi tutti quei ridicoli! Vi ricordate come Balzac piovve un giorno a casa mia quando noi contavamo di pranzare assieme a tu per tu?…ci fece notare, di passaggio, che il nostro sesso è così irragionevole che basta, in generale, lasciarlo fare: la donna, come un ragazzo terribile, ha mille trovate per distruggere il suo riposo, la sua salute, la sua esistenza. Ciò che prova, diciamo noi, che la donna non è posseduta dell’amore di se stessa, mentre a voialtri uomini, profondamente egoisti, non mancano mai né l’istinto né la presenza di spirito quando di tratta del vostro interesse personale (ivi, 43-44)

Molte pagine di Ricordi sull’esilio sono dedicate ad evocare il primo esilio a Parigi, ricco di incontri con personaggi famosi del tempo come Heine, Liszt, de Musset, e di avvenimenti mondani. Quindi la scrittura autobiografica, già di per sé scrittura in abisso, acquista un carattere speculare, dove il secondo esilio rimanda al primo, stabilendo intrecci fra di loro e dove la stessa condizione eccezionale dell’essere esiliata diventa una normalità, una maniera di vita cosmopolita e una risorsa per la scrittura, una condizione exotopica dalla quale scontrarsi con l’alterità, ma soprattutto guardare e giudicare sé stessa in primis: Quando penso al periodo che vivevo, allorché ero libera, da topo di biblioteca e da pupattola da salotto allorché non lo ero, mi sembra siano trascorsi venti anni, eppure non sono passati che tre anni da allora (ivi, 29)

La ricerca del passato non è soltanto individuale, ma di tutta una comunità affettiva che si intrattiene in una vita mondana che funge

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da paradiso perduto. Come segnala Iris Zavala l’esilio «se escribe en la medida en que se van situando los objetos perdidos hasta que al final se comprende la imposibilidad del retorno; o sea el reconocimiento de que hay algo perdido para siempre» (Zavala 2010, 66). Il viaggio di Cristina verso l’esilio in Oriente le permette di prendere le distanze geografiche, ma anche le distanze da sé stessa e dalla vita che faceva prima, che torna costantemente attraverso il racconto o il ritratto. Tanto i ricordi di Parigi quanto la descrizione dei luoghi, dei posti e delle persone che via a via conosce nel suo viaggio seguono il modello del microracconto, che è una costante nei capitoli che compongono questo libro e che riflettono a loro volta un’altra condizione abissale: narrazione dell’io che contiene racconti di altri. All’interno di questi microracconti non mancano mai le descrizioni dei luoghi fatte in maniera particolareggiata: i vestiti, gli arredi, la descrizione di ambienti, palazzi, monumenti ecc. Non manca nemmeno l’interesse per i personaggi famosi o insoliti. Artisti e banditi sono trattati allo stesso modo. Soprattutto appare un interesse per donne fuori dal comune e con caratteri forti o qualità intellettuali, che in certo modo costituiscono un alter ego della principessa, come è il caso di M.me de Plaisance che «ha opinioni bizzarre e gusti stravaganti che la pongono in un certo contrasto col mondo: sono delle asprezze che impediscono il nascere di ogni intimità» (Trivulzio 1978, 76). La componente autobiografica di questi personaggi è sottolineata dai commenti della principessa che si schiera a favore di donne come questa, alle quali rende una specie di omaggio, che ricorda lo stile delle lodi che le poetesse tessono intorno ad altre donne nei loro versi: «È così che la società si comporta verso donne il cui carattere non è stato smussato dall’educazione, mentre agli uomini si fa, al contrario, un merito di ciò che si chiama originalità. La duchessa di Plaisance non è lontana dai 70 anni ed è affetta da una malattia cronica che basterebbe per costringere a letto i nove decimi degli uomini più vigorosi» (ivi, 77). L’interessamento per le figure femminili e per il commento da un punto di vista, si potrebbe dire, femminista ante literam, è una costante nel testo, in cui la principessa non può fare a meno di notare la disuguaglianza o l’ ingiustizia che comporta l’essere una donna: Poiché l’Ordine dei Camldolesi è particolarmente prediletto dalle nobile famiglie romane, questo convento era quasi interamente occupato da figlie di

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buona discendenza: l’avarizia, il pregiudizio o la superstizione dei parenti le avevano votate al chiostro fin dall’infanzia (ivi, 59)

L’esilio si presenta a Cristina come un’opportunità per conoscere nuovi orizzonti. La natura poliedrica del testo corrisponde al carattere della principessa, curiosa delle vite altrui, attenta ai particolari che la circondano ma anche, come buona romantica, riflessiva, votata all’introspezione, nostalgica. Il suo esilio interiore ci presenta un io diviso, in cui l’intertesto biografico permette di avvicinare ciò che è lontano e ciò che non esiste più. La mancanza o la scomparsa del proprio mondo, l’acosmia, si compensa nel testo con la presenza di altri mondi presenti in questi microracconti disseminati lungo i diversi capitoli. Cristina si dibatte fra creare quello spazio di prossimità e indifferenziazione con l’altro/le altre e l’idea romantica della scrittrice come persona isolata che tenta di far parlare i propri fantasmi: Ho perduto il sonno. Vedo da qui, la nostra amicizia allarmarsi per queste parole e preoccuparsi per la mia salute malferma. Il male non viene di li, non è l’insonnia che i perseguita, ma quando i mei occhi a appesantiti e il mio spirito depresso perdono la cognizione della realtà che mi circonda, un lungo corteo di dolci e tristi fantasmi si pone al mio capezzali (ivi, 27).

Cristina mantiene un dialogo nel testo con l’amica, ma soprattutto con sé stessa, facendo un bilancio della propria vita e tornando con la memoria ad episodi del passato. La sua scrittura potrebbe essere caratterizzata come intima e interna, in cui l’io mantiene con sé stesso un monologo che ogni tanto comprende anche l’interlocutrice, Madame Jaubert, che costituisce una specie di ancora, una comunità emozionale con la quale condividere ricordi. L’amica costituisce il legame con il passato che è anche un legame familiare con la patria lontana. Questa comunità emozionale perduta Cristina tenta di ripristinarla con gli altri esuli italiani da subito nello stesso porto di Civitavecchia, ma anche nei diversi luoghi che va visitando lungo il suo viaggio nei quali trova i suoi compatrioti: Tutte quelle anime erranti e in pena si conoscevano, si ricercavano, si confidavano reciprocamente timori e speranze (ivi, 24). Il console inglese, dal quale avevo ottenuto il passaporto a Roma, non aveva riflettuto che la mia posizione di esiliata colpita da sequestro mi obbligava

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a rimandare i miei domestici, mentre il loro nome rimaneva sul passaporto. Offrii a due miei conoscenti lombardi questa via di scampo che venne accettata immediatamente (ivi, 25).

L’esilio per Cristina più che essere in rapporto a un territorio è un sentimento di appartenenza-identificazione con certe utopie. Il suo viaggio ha una componente politica, ma da un punto di vista privato è in rapporto a sentimenti ed emozioni personali, in bilico fra la negatività o la delusione e la ricerca interiore ed evasione del mondo conosciuto. Leggendomi comprenderete, spero, come a tutti i mei risentimenti, in veste di italiana, contro il vostro governo, se ne aggiungano, per così dire, di personali, la cui amarezza deriva da una speranza data e non mantenuta. Questo vi spiega anche perché andrò cercando un rifugio fino nelle solitudini dell’Asia, anziché tornare in Francia (ivi, 141).

Dal punto di vista della memoria, la narrazione del presente, destinata a chi legge, si sviluppa adoperando un registro diaristico, quasi un acta diurna sulla quale la principessa torna in diversi momenti del giorno: «Se a quest’ora, inoltrata la notte, io sacrifico il riposo del letto al piacere di intrattenermi con voi, dove è il disinteresse? Non è forse un bene inteso amore di me stessa?» (ivi, 44). Cristina presenta sé stessa come intenta a scrivere, anche nei momenti più inopportuni, come una donna colta che fa riferimento a personaggi mitici e ad altri scrittori o artisti che lei ha conosciuto personalmente e anche come appassionata lettrice. Offre quindi un ritratto completo di sé stessa come scrittrice che condivide anche con il genere diaristico la poetica del frammento: in uno stesso capitolo sono presenti diversi registri narrativi e l’io che scrive si presenta come diviso in questi frammenti che lo compongono. In questo senso Cristina rimane sempre sulla frontiera, senza decidere da quale parte stare, proiettando nel testo le sue molteplici maschere. Contrariamente alla scrittura del diario, fatta di ripetizioni e di quotidianità, quella dell’esilio come spazio utopico e atopico permette la mancanza di normalità, mentre l’io dell’autrice si presenta come ancorato a sé stesso, sempre uguale e fedele alle sue idee, senza soffrire nessuna perdita di identità, malgrado sia attraversato dalla distanza geografica e dal tempo: «Inutilmente sono interrotta per dare ordini di partenza per un viaggio in Asia: in questo istante il mio cuore e il

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mio spirito trasmigrano a Parigi o a Marly, al centro del mio circolo intimo» (ivi, 186). Il testo di Cristina si iscrive costantemente sotto i registri autobiografici della verità e della sincerità: «Avrei forse esitato, qualche anno fa, a dirvi con tutta franchezza il mio sentimento sugli orientali. Sciolta dai pregiudizi puerili che si trovano spesso inoculati nelle donne con la educazione, ho acquistato col tempo il coraggio di dire sinceramente le mie opinioni» (ivi, 80). La nostra autrice offre la sua versione della storia, contraria a quella dei conservatori, e si esprime con accenti di propaganda patriottica: «Nulla uguaglia il disinteresse e la devozione, dei quali ciascuno ha dato prova in quelle terribili circostanze. Tutte le anime si elevavano, si purificavano dinanzi alle passioni più nobili: l’amore della patria e la carità» (ivi, 48). Capire la propria vita nello sguardo retrospettivo significa anche costruire un proprio mito personale. Quello di Cristina si forgia, appunto, sulla carità e sul patriottismo riflettendo così i due ideali-valori che lei segnala come elementi morali che caratterizzano gli italiani. Si produce così ancora questo movimento speculare in cui l’io riflette la patria che è portata via con sé altrove nell’esilio, incorporata nell’io. Come succede in altri racconti sull’esilio, ristabilire la verità su sé stessa e sulla storia collettiva è una necessità dell’io che cerca riparazione nella scrittura, unica patria dove è possibile altro spazio e altro tempo. L’esilio di Cristina è una fuga verso il futuro che si fa possibile grazie al disancoraggio della patria e del passato, dove la scrittura funge da compensazione della perdita ma allo stesso tempo apertura verso la libertà di creazione. Vivere lontana, vivere in un altrove permette a Cristina di prendere distanza dai valori che dominano la sua società: la sua risposta è sempre empatica ed emozionale davanti all’alterità. Sostiene Agamben (1996) che l’esiliato è un concetto limite che aiuta a ripensare le categorie esistenti e a proporre delle nuove. Cristina attraverso i suoi Ricordi sull’esilio diventa quell’elemento inquietante che Sofocle aveva definito come apolide, cioè, colei che mette in discussione l’ordine stabilito. Il senso dello straniamento, che caratterizza il presente e futuro incerto dell’esiliata, cambia rotta e si dirige verso il passato.

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Questione di genere, imperialismo ed autobiografismo nella letteratura d’esilio di Cristina Trivulzio di Belgiojoso Alessia Testa

Cristina Trivulzio di Belgiojoso è una patriota, giornalista, saggista e narratrice che ha devoluto la sua intera esistenza alla causa risorgimentale. Nel 1850 raggiunge la Turchia ottomana, terra di cui scriverà per il pubblico americano e francese. L’esperienza dell’esilio le consente di esplorare, per la prima volta, il genere della narrativa; tra il 1856 e il 1858, sul periodico francese «Revue des deux mondes», compaiono le novelle Emina, Un prince Kurde, Les deux Femmes d’Ismaïl-Bey, Un paysan turc e Zobeïdeh. Assieme al testo teatrale Un Pacha de l’ancien régime, esse costituiscono un corpus da esplorare in una prospettiva di genere e post-coloniale. Nel presente articolo si metteranno in luce tre aspetti delle opere in esame, vale a dire: la presenza, in esse, di un’ideologia imperialista d’impronta sansimoniana, il discorso di genere che Belgiojoso costruisce al loro interno ed infine il carattere autobiografico dei libri. La Turchia dell’esilio belgiojosiano (1850-55) è parte di un Impero Ottomano in declino, la cui sfera d’influenza va progressivamente riducendosi. In uno sforzo di sopravvivenza, la Sublime Porta sceglie la strada dell’occidentalizzazione, promulgando i cosiddetti tanzimat, una serie di riforme che ne europeizzano la struttura militare, amministrativa, sociale, economica e religiosa. Quando Belgiojoso si esilia in terra ottomana, la Francia e l’Inghilterra hanno già compreso che è necessario allearsi con l’Impero al fine di contrastare lo strapotere russo e, a partire dal 1853, muovono le pedine di quella che passerà alla storia come Guerra di Crimea. Non è la prima volta che la Porta Ottomana subisce ingerenze esterne da parte di Francia, Gran Bretagna e Russia; queste, infatti, erano ricorse all’etica dell’intervento umanitario già in occasione della rivolta greca. Alla metà del XIX secolo, quindi, il grande malato è preda della politica impe-

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rialista delle grandi potenze, che, pur di garantirsi la tutela di precisi interessi economici, si fanno carico della gestione di guerre e conflitti. Nell’introduzione all’antologia Le voyage en orient, Jean-Claude Berchet analizza con lucidità la relazione che la letteratura orientalista dell’Ottocento intrattiene con l’ideologia imperialista: On marginalise [ainsi] un Orient coupable de rester en arrière, de ne pas suivre la marche des autres. On le considère de plus en plus comme un espace clos, replié sur lui-même, exténué par son attente passive. […] Flaubert note: «Voilà le vrai Orient, effet mélancolique et endormant.» Sommeil, engourdissement maléfique, mort sont des images de plus en plus fréquentes. Forbin décrit déjà Éphèse en ces termes: «Les habitants sont pales et malades. Un aga, aussi misérable que le peuple qu’il gouverne, se mourait aussi de la fièvre […]. Façon rien moins qu’innocente de le définir ainsi comme vide à combler, comme désert à défricher. Cette idéologie de la colonisation manifeste une autre fonction du palimpseste: effacer une écriture présente, mais inutile, non pour faire réapparaître des signes plus anciens, mais pour parler, sur une page de nouveau blanche, le langage du futur. C’est pourquoi, confronté à une idéologie du progrès humaniste qui valorise le travail, la responsabilité, la production, le bonheur matériel, le vieil Orient vacille après 1830. Sa répugnance profonde à entreprendre quoi que ce soit va se heurter, pour une lutte inégale, à la volonté occidentale de transformer le monde à son image, c’est-à-dire à son usage. (Berchet 1985, 19-20)

Negli scritti del filone orientalista, Berchet rileva inoltre la presenza di una sessualizzazione del discorso, e a tal proposito, cita Prosper Enfantin, l’erede di Saint-Simon che nel 1833 presenta un primo progetto di costruzione del canale di Suez. La smania virile ravvisabile nelle parole di Enfantin è sintomatica dell’approccio sansimoniano alla questione d’Oriente, in cui la relazione tra l’Europa e il Vicino Oriente viene metaforizzata secondo una dicotomia di genere. La dottrina sansimoniana auspica, infatti, un’unione tra Occidente e Oriente, un matrimonio officiato in nome del progresso, ma nell’immaginarlo ricorre a una strutturazione patriarcale della relazione. Dalla narrazione sansimoniana, l’Oriente emerge come monco e passivo, e si carica di valori femminili a connotazione negativa; l’Occidente invece è maschio, e viene associato alle facoltà intellettuali, nonché alla potenza fecondatrice. Canali e infrastrutture, quindi, vengono costruiti al fine di instaurare con i territori ottomani una comunicazione monodirezionale di stampo imperialista. La costruzione di un simile discorso pare in contraddizione col noto impegno della Scuola

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per l’emancipazione femminile, e in proposito si sono espressi diversi studiosi, tra cui la storica Michèle Riot-Sarcey: Complément indispensable à l’homme – être social par excellence –, la femme – être «passif» – personnifie le dévouement; elle demeure au service de l’homme, «être actif», seul capable de mettre en œuvre les transformations nécessaires au progrès de l’humanité. […] Si donc, en 1831, l’affranchissement des femmes mobilise les énergies masculines, si Enfantin y consacre son temps et ses enseignements, l’enjeu est ailleurs. La liberté des femmes, question d’actualité, est déportée «dans aucun lieu nulle part» afin d’agir sur les hommes, à leur insu, par l’énoncé du dogme de la nouvelle Église. Les mots libérateurs masquent la volonté de pouvoir qui les anime: le discours sur l’affranchissement des femmes recouvre le désir de dominer la pensée des apôtres. (Riot-Sarcey 1994, 73-74)

Anche Ginevra Conti Odorisio, in un contributo che mette in luce l’impegno protofemminista di Emile Barrault, precisa che, tuttavia, la rivoluzione auspicata riservava alle donne un ruolo domestico, che rimaneva inscritto nei confini della relazione con l’altro sesso. Nei molti volumi in cui gli eredi di Saint-Simon teorizzano la dottrina, non si registra infatti nessun tentativo reale di riforma politica, civile o sociale, che avrebbe reso possibile alla donna, non solo di sperimentare nel concreto il concetto di liberazione che veniva formulato per lei, ma di partecipare attivamente alla sua attuazione (Conti Odorisio 2004, 171). Negli anni del suo esilio parigino, Belgiojoso entra in contatto con la dottrina sansimoniana, e, pur senza formalizzare la sua adesione alla scuola, ne frequenta assiduamente le riunioni. Il tema del progresso, mutuato anche dalla filosofia vichiana1, permea la sua opera, e già nelle prime pagine di La vie intime et la vie nomade en orient. Scènes et souvenirs de voyage2, si incontrano riferimenti all’impegno profuso dalle potenze europee per la civilizzazione del Vicino Oriente. Nel passaggio che segue, Belgiojoso allude in particolare a due criticità, che sono la conflittualità interna dei territori ottomani e lo stato di stagnazione industriale ed economica in cui questi versano. Quels qu’aient été de nos jours les efforts pour réveiller en Orient la douce influence du bien-être et de la civilisation, les bienfaits de la paix ne semblent 1  Belgiojoso traduce in francese La Scienza Nuova, che appare oltralpe nel 1844 per l’editore J. Renouard. Cfr. Trivulzio di Belgiojoso 1844. 2  Reportage odeporico che funge da ipotesto ai récits turco-asiatiques.

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pas devoir de sitôt venir effacer ici les traces de la guerre. Les ruines subsistent, mais les édifices nouveaux n’apparaissent pas encore. La vallée de Ciaq-MaqOglou est un de ces lieux où l’empreinte du passé est restée profonde, et où l’influence du présent ne se révèle que par d’insuffisants efforts. (Trivulzio di Belgiojoso, 1855, I, 467)

Come leggiamo, l’influenza civilizzante del Vecchio Continente è «dolce», ma gli sforzi messi in atto dallo stesso Oriente per andare incontro alla modernità risultano «insufficienti». Tale visione etnocentrica emerge ancora nel romanzo breve Un paysan turc, quando il giovane protagonista Benjamin si ritrova a prendere parte ad una delle azioni finali della Guerra di Crimea. Il suo reggimento, infatti, viene inviato nella città di Kars, in rinforzo alla guarnigione turca assediata. In queste circostanze belliche, egli ha l’occasione di uscire dall’angusta vallata in cui è cresciuto, e di frequentare, per la prima volta, degli europei. Belgiojoso costruisce una sorta di mise en abîme, in cui l’intervento di Francia e Gran Bretagna non solo consente alla Porta Ottomana di resistere ai colpi dell’espansionismo russo, ma permette a Benjamin di godere dell’influenza benefica della cultura europea. L’intervento occidentale è presentato quindi come necessario, tanto sul piano politico e mondiale, quanto su quello sociale e privato. Sempre in Un paysan turc, leggiamo: Il venait d’entrevoir des mondes nouveaux et merveilleux ; il voulait en mesurer l’étendue, en sonder les profondeurs, en admirer les magnificences. Dès-lors on ne le vit plus que dans la société des officiers francs. […] en fréquentant une société plus éclairée que celle des drogmans et des sous-officiers de son corps, il découvrit que les mots amour et bonheur n’avaient pas pour toutes les âmes la même signification. […] Le sort voulut que son régiment fût appelé à Constantinople. Les Anglais, les Français et les Piémontais y affluaient en ce moment. Benjamin ne fraya qu’avec les Européens, et négligea complètement ses compatriotes. En peu de temps, il apprit suffisamment de français, d’anglais et d’italien pour lire assez couramment les ouvrages écrits dans ces trois langues. Il se livra aussitôt à l’étude avec une ardeur fébrile. (Trivulzio di Belgiojoso 1857, III, 512-514)

Grazie alla compagnia dei soldati franchi e allo studio delle lingue e della cultura europea, il giovane protagonista vede la sua intelligenza svilupparsi rapidamente «come si sarebbero sviluppate le molte intelligenze che lo stato attuale della società orientale condanna a sonnecchiare incolte e che, per sbocciare con potenza, forse attendo-

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no soltanto un impulso favorevole» (Trivulzio di Belgiojoso 1857, trad. it. 2019, 127). La stretta connessione tra influenze occidentali e progresso morale, civile e spirituale, si esplicita ancora nel lieto fine del romanzo, quando Benjamin si appresta a «conciliare felicemente l’indole onesta e laboriosa di un contadino dell’Asia Minore, con le nobili ambizioni che la civiltà occidentale risveglia in tutte le anime talentuose» (ivi, 146-147). Nell’opera di Belgiojoso l’ideologia imperialista si declina in vari modi, ma è sempre presente, esplicita, metaforizzata o incarnata. Tuttavia, la sua narrativa presenta degli elementi di novità, e si distingue in maniera piuttosto netta da quella dell’orientalismo letterario preso in esame dalla critica post-coloniale. Nei récits turco-asiatiques non troviamo fascinazione esotica o mistero, né rintracciamo i toni di evocazioni oniriche ed erotiche. La narrativa di Belgiojoso è didascalica, a tratti giornalistica, si muove tra lo spazio pubblico e quello privato, tra gli harem e i consigli sultaniali; si serve della precisione dell’etnografia e della visione d’insieme della sociologia. Il suo è un orientalismo realista (Spackman 2009, 163) in cui la Turchia non è un altrove immaginifico, ma uno spazio politico e sociale. Come alcune studiose sottolineano (Dell’Abate-Çelebi 2012, 41-53), nel criticare il discorso orientalista, Edward Said ha tralasciato di prendere in analisi la letteratura femminile e al femminile, che talvolta è in grado di restituire la complessità del reale, o comunque di discostarsi dalla visione patriarcale. Un altro elemento che viene tralasciato dagli studi post-coloniali è quello della classe sociale di autrici e autori del filone orientalista. Essa, inevitabilmente, influenza la loro percezione dell’altro, così come la decostruzione e ricostruzione letteraria che ne viene proposta. Cristina Trivulzio di Belgiojoso è una donna del XIX secolo – non del tutto conforme ai canoni sociali del suo tempo – che appartiene ad un gruppo sociale specifico assimilabile ad una minoranza. Tuttavia, in Anatolia, la sua appartenenza di genere le consente di accedere a spazi preclusi ai viaggiatori uomini, andando a costituire un privilegio. In maniera analoga, la sua classe sociale e il fatto di essere europea fanno sì che la sua letteratura risulti marcata da una retorica del privilegio, e questo, in un’ottica di genere, complica l’interpretazione della sua opera. A riscontrarlo per prima è stata la comparatista americana Barbara Spackman:

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Describing herself as “mieux placée,” Belgiojoso dutifully implies that her privilege is one of gender; that is to say that, “as a woman,” she is able to enter the harem. Yet her placement in her own narrative, and in the places and spaces it represents, suggests a more complicated scenario, in which her gendered identity is itself riven. If her femininity guarantees her access to the harem, her class belonging and identity as a Frank secure her exemption from its constraints. […] She represents herself as taking up the position of the “exceptional woman” for whom mobility implies freedom from gender norms, and whose exceptionality requires a dis-identification with other women, in this case, with the inhabitants of the Oriental harems. […] Within Belgiojoso’s narrative, her affinities and placement thus seem to align her with the highly placed Muslim men […] her travelogue contributes to the figuration of her as the “virile woman” or, as her contemporary Victor Cousin put it, and as her biographers are fond of citing, “Foemina sexu, ingenio vir”. (Spackman 2009, 165)

Alla luce di queste considerazioni, aggiungo che l’esperienza dell’esilio, e di conseguenza della relazione con una civiltà ritenuta arretrata, libera Belgiojoso da quel sentimento di marginalità che ogni intellettuale donna sperimenta a prescindere dalle contingenze. L’esilio politico implica un confronto inevitabile con l’alterità, che in questo caso sembra compensare l’insufficienza e la delegittimazione artistica e sociale che l’autrice sperimenta in patria3. Non a caso, l’esilio è il luogo in cui, per la prima volta, Belgiojoso concepisce la possibilità di dedicarsi alla narrativa, di esplorare il giornalismo di costume e di raccontare storie private. Come sottolinea Silvia Tatti (Tatti 2021), possiamo concludere che l’esilio rappresenta per la 3  Nelle lettere che invia a Jules Mohl tra il dicembre 1840 e il febbraio 1841, Belgiojoso manifesta un atteggiamento autocensorio nei confronti della sua autorialità. Mentre lavora all’Essai sur la formation du dogme catholique, scrive all’orientalista: «Vous savez que depuis quelques années je m’occupe des Pères. Ce que j’ai fait est resté bien longtemps enfoui dans un tiroir sans que je songeasse à l’en faire sortir. Monsieur Mignet, l’abbé Cœur et Sampayo l’ayant vu dernièrement m’ont engagé à en faire ce que l’on fait des choses écrites. J’y ai consenti à condition que mon nom ne fut pas prononcé ni exposé. Ces Messieurs disent que c’est très bien ; pour mon compte je n’en sais rien absolument, et même j’avoue que mon impression est différente de la leur. […] Je n’ai jamais osé vous en parler car je sais que vous n’aimez pas les femmes auteurs (et je ne les aime pas non plus)». (Locate, 23 novembre 1840). E ancora, nelle lettere successive: «[…] je me figurais que je vous étais devenue antipatica depuis que vous me saviez un manuscrit» (Locate, 21 gennaio 1841) e infine: «Je ne vous en ai pas parlé parce que j’ai le préjugé d’avoir honte de dire que j’ai fait un livre, et je pensais que vous aviez aussi peu de gout pour les femmes auteurs» (Locate, 15 febbraio 1841). L’atteggiamento perifrastico, indiretto e sfuggente della Principessa che non vuole proclamarsi scrittrice è sintomatico della collocazione marginale della donna in seno all’intellighenzia europea. Cfr. Tatti 1998, 63-157: 104-107.

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principessa un’opportunità scrittoria, e una legittimazione del suo status di autrice a tutto tondo. In Oriente i vincoli sociali si allentano e non è più necessario muoversi in spazi a connotazione maschile per vedersi riconosciuto il diritto alla scrittura. Dal mio studio del corpus, emerge inoltre un elemento che va a complicare questo gioco di specchi e di contraddizioni e che ci aiuta a comprendere la plurivocità individuale di una figura così complessa. Infatti, posto che quello di Belgiojoso non è un contro-discorso, ma un disegno piuttosto articolato che si inscrive nel quadro della stessa ideologia orientalista (Spackman 2009, 163), e attestato che la sua produzione dell’esilio resta intrisa di imperialismo, è necessario sottolineare che l’afflato progressista dell’Occidente, in essa, è quasi sempre associato a figure femminili. Si assiste quindi ad un rovesciamento dello schema di attribuzione simbolica che abbiamo identificato nel discorso sansimoniano e, più in generale, orientalista. Talvolta si tratta di un’identificazione autobiografica in cui Belgiojoso si attribuisce un ruolo civilizzante e salvifico, altre dell’attribuzione di tratti occidentali e di influenze modernizzanti a personaggi femminili, altre ancora di una vaga femminilizzazione dei personaggi maschili cui viene assegnato un ruolo positivo. Specularmente, i personaggi maschili sono più spesso stereotipati, e in essi si addensano una serie di luoghi comuni tipicamente orientali. Per quanto riguarda l’aspetto autobiografico, premettiamo che i récits poggiano su aneddoti la cui veridicità, in certi casi, è riscontrabile negli articoli odeporici pubblicati in precedenza. Nelle novelle Emina, Un prince kurde, Les deux femmes d’Ismaïl-Bey e Zobeïdeh, Belgiojoso riveste il triplice ruolo di autrice, narratrice e personaggio. Nella lettura si registrano infatti dei passaggi, talvolta repentini, da una narrazione eterodiegetica alla terza persona, ad una prima persona omodiegetica. Tali slittamenti narrativi, per l’autrice, costituiscono l’occasione di autoritrarsi, affermando la propria identità in correlazione all’alterità cui si trova confrontata. L’auto-percezione e l’auto-rappresentazione di Belgiojoso, tuttavia, è filtrata anche attraverso lo sguardo dell’altro, e dai testi emerge che sono i turchi stessi ad accordarle una certa superiorità. A tratti, la considerazione di cui gode l’Occidente sembra sfociare in un’idea di onnipotenza, come nel passaggio in cui Hamid Bey, protagonista maschile della novella intitolata Emina, afferma «Vous autres Européens, vous pouvez

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tout ce que vous voulez» (Trivulzio di Belgiojoso 1856a, II, 757). Nell’opera, che si rivela un caso di studio estremamente interessante, il passaggio ad una narrazione omodiegetica si verifica quando Belgiojoso racconta di aver assistito l’eroina eponima, ormai morente. La principessa approfitta di questa dimensione narrativa per offrirsi al lettore sotto la veste di medico e benefattrice, e raccontare con compiacenza gli onori ricevuti. Nous marchions encore, que déjà nous étions entourés des principaux habitants de l’endroit, chacun nous suppliant de lui donner la préférence sur son voisin ; mais notre conducteur, paraissant regarder notre choix comme arrêté de toute éternité, éconduisit tous les prétendants moins un, dont c’était l’imprescriptible droit de nous héberger. Nous nous laissâmes faire, et bientôt nous fûmes introduits sur une espèce de balcon ouvert, dont le plancher était abondamment garni de tapis, de matelas et de coussins. Le souper fut promptement servi, après quoi, m’excusant sur la fatigue de la journée, je demandai la permission de me retirer. […] - Reposez-vous, me dit mon hôte, et demain j’aurai une grande grâce à vous demander. - Bon ! fis-je à part moi ; quelque marmot à guérir, ou une vieille femme qui veut avoir son quatorzième enfant! (ivi, II, 756)

Reduce dall’esperienza di infermiera e direttrice degli ospedali durante la Repubblica Romana, in Asia Minore Belgiojoso usa mettere le sue competenze mediche al servizio della popolazione. Ciò contribuisce a creare un’epica attorno alla sua figura, e accresce negli orientali quel debito di riconoscenza che è già presente nelle dinamiche sociopolitiche dell’imperialismo. Hamid Bey, disperato all’idea di perdere la giovane moglie Emina, le si rivolge infatti con queste parole: «J’ai épousé, il n’y a pas encore un an, une jeune fille que j’aime de tout mon cœur et qui est très malade. Si vous parveniez à la guérir, vous me rendriez le plus heureux des hommes, et ma reconnaissance ne connaîtrait pas de bornes» (ivi, II, 757). In una dimensione autobiografica, Belgiojoso si fa simbolo del Vecchio Continente che cura il grande malato, e la cui scienza è percepita come necessaria dallo stesso Oriente. L’eroina del romanzo incarna il simbolo cristologico dell’agnello sacrificale: sposa bambina e vittima di un sistema di valori – quello musulmano – che Belgiojoso denuncia lungo tutta la produzione turco-asiatica. Così, alla richiesta di assistenza medica avanzata dal personaggio di Hamid, si aggiunge una supplica tutta spirituale da parte della protagonista stessa. Emi-

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na, «anima fiera, forte e contemplativa»4, ha trascorso la sua infanzia in un primitivismo che l’ha resa avulsa dal sistema di valori musulmano, e all’interno dell’harem sperimenta un senso di estraneità che pare coincidere con quello dell’esule. «Emina possédait un tour d’esprit, une intelligence élevée […] [elle] se préoccupait fort de Dieu et de la vie qui l’attendait au-delà du tombeau ; elle avait à ce sujet des idées qui se rapprochaient beaucoup plus des nôtres que des siennes» (ivi, II, 762). Così, conscia di non potersi sottrarre alla morte e desiderosa di accedere al paradiso cristiano, chiede alla principessa di battezzarla. Belgiojoso non espleta l’atto liturgico ma improvvisa per lei una catechesi «à l’usage d’une femme turque dont les jours sont comptés» (ivi, II, 760). È chiaro che il personaggio di Emina e il filo narrativo di questa porzione di romanzo hanno carattere fittizio e allegorico. Il ruolo evangelico che Belgiojoso si attribuisce introduce al lettore il tema religioso, filo conduttore di tutta l’opera turco-asiatica dell’autrice. In Zobeïdeh, romanzo a tinte fosche in cui la protagonista commette una serie di infanticidi, per esempio, leggiamo: Nous sommes des créatures singulièrement inexorables, nous autres descendants d’Adam et d’Ève; nous ne consentons presque jamais à sortir de la place où Dieu nous a fait naître, pour juger les choses extérieures, selon le seul point de vue possible à ceux que la Providence a placés autrement que nous. Nous sommes soumis à des lois que nous connaissons, si admirablement conçues et rédigées qu’elles nous embrassent de toutes parts, et nous obligent à nous développer dans le sens, la mesure et les proportions du moule où nous entrons dès le berceau; mais ce vêtement orthopédique n’a pas été distribué à tous les enfants du premier homme. La loi chrétienne est inconnue de la grande majorité du genre humain. La partie de cette loi qui est déposée par Dieu même dans le cœur des hommes: la pitié, l’amour, le respect pour la vérité, ce dévouement qui s’appelle courage, et que tout le monde admire, tout cela est souvent combattu, contredit, arraché violemment des cœurs par des lois qu’on dirait conçues dans une heure de folie et de délire, tant elles sont en opposition flagrante avec les instincts naturels de l’humanité. L’influence de ces lois, nous la connaissons, et il est des actes pourtant que nous jugeons presque toujours sans nous en préoccuper, le meurtre par exemple. Toute créature humaine qui verse le sang de son semblable en sachant ce qu’elle fait, quoi qu’elle dise, n’est pas chrétienne. La loi chrétienne ne prend-elle pas soin de rendre le meurtre impossible en nous ordonnant d’aimer nos ennemis? Ne nous dit-elle

4  Traduzione redazionale, nel testo originale: «âme fière, forte et contemplative». Cfr. ivi, I, 482.

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pas: «La vengeance appartient au Seigneur! Malheur à celui qui prétend l’usurper !» Et quand elle défend à chacun de se charger de sa propre vengeance, elle ne l’autorise certes pas à venger son voisin! Non, un cœur où la foi chrétienne a pénétré est inaccessible à tout sentiment haineux capable de conduire au meurtre; mais combien y a-t-il de vrais chrétiens sur cette terre! Zobeïdeh n’était pas chrétienne. (Trivulzio di Belgiojoso 1858, II, 894)

Per l’autrice, è solo abbracciando la morale cristiana che le popolazioni anatoliche possono affrancarsi dal loro stato di inferiorità. Se Zobeïdeh cede alla vendetta, se impazzisce sotto il peso della gelosia per le rivali, è perché ignora la fede cristiana e i principi su cui poggia la struttura socioculturale dell’Occidente. Stando all’interpretazione di Belgiojoso, alla base della corruzione morale e del degrado della famiglia in Oriente, c’è la scarsa considerazione che l’Islam accorderebbe al focolare e alle donne; da qui il fervore con cui l’esperienza scrittoria si trasforma in un’occasione per denunciare la poliginia, i matrimoni precoci e combinati e il sentimento di rivalità che si instaura tra spose e favorite. L’intento didascalico si annuncia a chiare lettere già nel prologo di Zobeïdeh, che vede Belgiojoso rivolgersi direttamente al lettore musulmano. In questo romanzo, la finzione autobiografica trova la sua espressione in una struttura circolare, che si articola su due piani narrativi. Nel primo, l’autrice riferisce del suo incontro con Zobeïdeh e con un altro personaggio femminile soprannominato l’Européenne; nel secondo – che costituisce il corpo del romanzo – riporta al lettore la storia delittuosa della protagonista, che a sua volta le è stata raccontata proprio dall’Europea. Si registra quindi una corrispondenza tra il personaggio della principessa e quello dell’Européenne, occidentalizzata da un lungo soggiorno nel Vecchio Continente. È lei la prima depositaria di quel racconto, e il suo sguardo è sovrapponibile a quello dell’autrice. Analogamente a quanto accade in Emina, dove si fa portatrice di istanze protofemministe in favore della protagonista, in Un prince kurde Belgiojoso si attribuisce un ruolo attivo e positivo, volto a ristabilire gli equilibri interni all’intreccio. Secondo lo schema già osservato in Emina, nel passaggio alla prima persona, l’autrice si auto-ritrae sotto la veste di pellegrina e medico, stavolta sottolineando il carattere miracoloso che gli orientali associano al suo operato. Ces visiteurs venaient de l’Occident ; c’étaient des Francs, et trois femmes se trouvaient parmi eux, une petite fille, sa mère et sa camériste. On se disait tout bas que l’une des femmes connaissait la médecine, que partout sur son

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passage les boiteux devenaient ingambes, et les aveugles clairvoyants. L’une des épouses du maître de la maison se souvint qu’elle était fort malade depuis quelques années : elle voulut consulter la dame franque, qui n’était autre que moi-même. (Trivulzio di Belgiojoso 1856b, I, 257)

La protagonista della novella è la figlia del console di Svezia e Danimarca a Baghdad, che dopo essere stata rapita da una banda di zingari, viene condotta nell’harem del condottiero curdo Mehemed. Rispondendo alla sua richiesta di aiuto, la principessa s’incarica di denunciare alle autorità il suo rapimento, consentendole di riavere la libertà. Ancora una volta, Belgiojoso esercita un potere sul mondo, muove le cose, dall’alto della sua superiorità le rende giuste. Nel romanzo, Habibé si configura come un doppio dell’autrice: ha alle spalle un’esperienza di sradicamento e porta in sé una natura biculturale. È una figura che sceglie di restare ai margini dello spazio domestico dell’harem, poiché disapprova la poligamia e si dissocia dagli usi musulmani. Proprio come Belgiojoso, è una donna europea di religione cristiana, e Mehemed, il principe curdo che incarna il Vicino Oriente, si sottomette con docilità alla sua influenza: Comme beaucoup de ses compatriotes, qui ne peuvent échapper à la pression de plus en plus puissante des populations chrétiennes, […] était forcé de reconnaître l’ascendant de la civilisation occidentale, représentée par l’intelligence supérieure de cette faible et gracieuse femme que le sort lui donnait pour compagne. Lui-même ne craignait pas de s’humilier devant elle et de proclamer hautement la perfection qu’il désespérait d’égaler. (ivi, II, 517-518)

Nella narrativa turco-asiatica, Belgiojoso sembra quindi insistere sulla componente femminile dell’Occidente. E infatti, Habibé non è l’unica figura che ci parla di un occidente declinato al femminile. Si può concludere che, nelle forme più svariate, Belgiojoso operi una riabilitazione del “sesso debole”, mettendo in scena situazioni in cui le donne non solo detengono un potere – identificabile in quello civilizzante e modernizzatore dell’Europa – ma sono in grado di esercitarlo sulle figure maschili. Emina, ad esempio, non è soltanto una vittima sacrificale; molto prima di ricevere l’assistenza della princesse ruinée5 sul letto di morte, il suo personaggio si carica di una valenza salvifica. Quando la sua esistenza scorre ancora negli spazi montagnosi e 5  È così che Cristina si firma quando, negli anni dell’esilio parigino, lavora come bozzettista per il quotidiano «Le Constitutionnel».

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aperti dell’Asia Minore, infatti, l’eroina guarisce il giovane Saed, il quale, colmo di gratitudine, si lascerà guidare dalla sua saggezza, e le riconoscerà una superiorità per certi versi simile a quella che Mehemed accorda ad Habibé. aussi voua-t-il à sa bienfaitrice quelque chose qui ressemblait plutôt à un culte qu’à tout autre sentiment. Partout où il croyait la trouver, il s’y dirigeait ; partout où il pouvait la suivre, il la suivait ; tout ce qu’elle disait était pour lui article de foi ; ses opinions devenaient aussitôt les siennes, même lorsqu’il ne les comprenait pas ; ses goûts, il les partageait ; ses moindres désirs étaient des lois pour lui ; rien enfin n’était à ses yeux aussi beau, aussi parfait qu’Emina. […] la petite bergère se complaisait dans un double sentiment, celui de l’affection qu’elle éprouvait pour Saed et de l’ascendant qu’elle venait de conquérir sur lui ; […] les exemples et les paroles d’Emina commençaient à exercer sur Saed une salutaire influence. (Trivulzio di Belgiojoso 1856a, I, 473-478)

Stringendo l’inquadratura sulle figure maschili, scorgiamo volti indolenti. Uomini disorientati o consumati dagli eccessi, facce inebetite. Caratterizzazioni allegoriche, a segno negativo, di quello che Belgiojoso chiama ancien régime, vale a dire dell’assetto sociopolitico dell’Impero pre-riformistico. Erjeb-Pacha représente très exactement l’ancien régime turc dans ce mélange de décrépitude et de magnificence qui le caractérise. Il est gros, il a la vue basse et la parole embarrassée ; il est mis avec luxe, mais sans goût et sans soin. Le trait principal du personnage est une vanité excessive, qui le fait tomber dans toute sorte de piégés, dont il semble que ses habitudes de ruse devraient le garantir. (Trivulzio di Belgiojoso 1856d, 401)

Il pascià protagonista dell’unica pièce del corpus crede di aver architettato un piano infallibile per riottenere la carica che il sultano riformatore Abdülmecid I gli ha revocato; ma i tempi sono cambiati, e per la prima volta la corruzione si rivela un’arma obsoleta. Erjeb finirà costretto ad un esilio ancora più duro, nonostante i generosi tentativi di Lindaraxa, che cerca di metterlo in guardia circa tradimenti e delusioni. La perspicacia e l’anticonformismo di quest’ultima – non a caso – sono il prodotto dei lunghi anni che ella ha trascorso a Istanbul in seno all’alta società europea. Nell’harem, Lindaraxa trasmette i principi della cultura occidentale a suo nipote Halil, che si fa simbolo dell’Impero rinnovato. Nel sistema dei personaggi le tre figure di Erjeb, Lindaraxa e Halil rappresentano rispettivamente: il sistema

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ottuso e corrotto che cerca di resistere al processo di europeizzazione; l’influenza civilizzante del Vecchio Continente; e la duttilità della nuova generazione turca, che si riconosce in valori occidentali e laici. In una delle scene centrali della pièce, Halil si esprime in questo modo: «Les musulmans sont restés jusqu’ici tels qu’ils étaient il y a quelques centaines d’années, sans rien apprendre, sans rien oublier, et ils étaient fiers de leur immobilité, de leur ignorance ; mais aujourd’hui un vent transformateur souffle sur nous : il nous a réveillés, et il nous empêche de retomber dans notre torpeur» (ivi, 421). Se il personaggio di Lindaraxa ricalca, senza grandi elementi di novità, la figura dell’Européenne (e, in maniera più vaga, di Emina ed Habibé), la caratterizzazione di Halil presenta tratti adolescenziali, che si pongono in netto contrasto con la decrepitezza mentale e fisica riscontrabile nella maggior parte delle altre figure maschili. Come lui, Benjamin e Osman, rispettivamente in Un paysan turc e Les deux femmes d’Ismaïl-Bey, hanno una fisicità gracile, quasi femminea, e sono sospesi tra l’infanzia e l’età adulta, in un’epoca di trasformazione in cui è ancora tutto possibile. Avviandoci alla conclusione di questa analisi dettagliata dei testi, è bene sottolineare che la contestualizzazione storico-politica ed ideologica che si è provato a tratteggiare costituisce un sostrato imprescindibile per la comprensione non solo dei limiti, ma anche della modernità di questa letteratura dell’esilio. Il discorso di genere che Belgiojoso struttura all’interno di un’ideologia di stampo orientalista pone lettrici e lettori, studiose e studiosi, di fronte a delle asimmetrie che appaiono insolvibili, se considerate alla luce di teorie contemporanee come il femminismo decoloniale o intersezionale. Si può parlare di istanze protofemministe per un’autrice che, in conclusione, si limita a declinare al femminile un atteggiamento dominante, storicamente maschile? Probabilmente no. Al netto dell’aspra denuncia alla cultura patriarcale islamica, è nella sua patria cristiana ed europea che Belgiojoso non osa proclamarsi scrittrice. Scrive da sempre, ma tale attività infaticabile, ai suoi stessi occhi, viene legittimata dallo scopo politico e sociale che riveste. I territori della politica e della storiografia, alla metà del XIX secolo, hanno connotazione maschile, e forse un anelito mimetico nei confronti del sesso forte è ritenuto meno tracotante e più compiacente rispetto all’affermazione di un’autorialità en bas-bleus. Come afferma Silvia Tatti, la scrittura

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dell’esilio al femminile non può non avere un carattere peculiare, alla luce della condizione di marginalità preesistente data dal genere (Tatti 2021). Nelle autrici donne vi è un bisogno di legittimazione che, spesso, viene colmato proprio nell’esilio, in quanto luogo della perdita dei condizionamenti sociali. Possiamo concludere che, nel caso della narrativa turco-asiatica di Belgiojoso, il vantaggio civile e culturale sperimentato in Asia Minore abbia contribuito ad una compensazione di quel sentimento di inferiorità legato al genere, quindi alla costruzione di un’identità autoriale a tutto tondo. Lo spazio di relazione con l’alterità si rivela quindi essere il luogo del riscatto autoriale, e di un rovesciamento delle attribuzioni simboliche correlate al genere, in cui tutte le figure femminili del corpus sono coinvolte. Bibliografia Berchet, Jean-Claude (a cura di) 1995 Le voyage en Orient: anthologie des voyageurs français dans le Levant au XIXe siècle, R. Laffont, Paris. Conti Odorisio, Ginevra 2004 Barrault et l’émancipation féminine dans l’école saint-simonienne, in Pierre Musso (a cura di), L’actualité du saint-simonisme. Colloque de Cerisy, PUF, Paris. Dell’Abate-Çelebi, Barbara 2012 Orientalisme et Identité de genre dans les écrits de voyage de Cristina di Belgiojoso, «Synergies Turquie», 5. Riot-Sarcey, Michèle 1994 La démocratie à l’épreuve des femmes. Trois figures critiques du pouvoir 1830-1848, Albin Michel, Paris. Spackman, Barbara 2009 Hygiene in the Harem: The Orientalism of Cristina di Belgiojoso, «MLN», 124. Tatti, Silvia 1998 La scrittura epistolare di Cristina di Belgiojoso e le lettere inedite a Jules Mohl (1837-1868), «Franco-Italica», 13. 2021 Esuli: scrittori e scrittrici dall’antichità a oggi, Carocci, Roma. Trivulzio di Belgiojoso, Cristina 1844 La Science Nouvelle par Vico traduite par l’auteur de l’Essai sur la formation du dogme catholique, J. Renouard & C., Paris. 1855 La vie intime et la vie nomade en Orient. Scènes et souvenirs de voyage, parte I, La vie nomade en Orient. Les harems, les patriarches et les der-

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viches, les Arméniennes de Césarée, «Revue des deux mondes», 25-9, 1 febbraio 1855; parte II Les montagnes du Giaour. Le harem de Mustuk-Bey. Les femmes turques, 25-9, 1 marzo 1855; parte III Le touriste européen dans l’Orient arabe, 25-10, 1 aprile 1855; parte IV Les Européens à Jérusalem. La Turquie et le Koran, 25-11, 15 settembre 1855. In volume: Asie Mineure et Syrie. Souvenirs de voyage, Michel Lévy Frères, Paris 1858. 1856a Emina. Récits turco-asiatiques, «Revue des deux mondes», 26, parte I (1 febbraio 1856); parte II (15 febbraio 1856). In volume: Emina. Récits turco-asiatiques, W. Gerhard, Paris-Leipzig 1856. 1856b Un prince kurde, «Revue des deux mondes», 26-2, parte I (15 marzo 1856); parte II (15 aprile 1856). 1856c Les deux femmes d’Ismaïl-Bey. Récits turco-asiatiques, «Revue des deux mondes», 26-4, parte I (1 luglio 1856); parte II (15 luglio 1856). 1856d Un pacha de l’ancien régime. Scènes turco-asiatiques, «Revue des deux mondes», 26-5, 15 settembre 1856. 1857 Un paysan turc, «Revue des deux mondes», 27-12, parte I (1 novembre 1857); parte II (15 novembre 1857); parte III (1 dicembre 1857); trad. it. Un contadino turco, Croce editore, Roma 2019. 1858 Zobeïdeh. Scènes de la vie turque, «Revue des deux mondes», 28-14, parte I (1 aprile 1858); parte II (15 aprile 1858).

Una congiura di buoni. L’esilio dell’anima in Una fra tante Ombretta Frau

Una fra tante è il titolo di un romanzo di denuncia sociale di Emma, nom de plume della lombarda Emilia Ferretti Viola (Milano, 1844-Roma, 1929), pubblicato nel 1878 dall’editore milanese Brigola e apprezzato, fra gli altri, da Benedetto Croce e Angelo De Gubernatis (Vignuzzi 2008, 323-324). La vicenda si può riassumere brevemente: l’ingenua fanciulla montanara Barberina viene mandata a servizio nella città di X. In seguito al doloroso trauma della separazione dagli affetti e dai luoghi a lei cari, Barberina si sforza di abituarsi alla nuova vita, la famiglia per cui lavora la rispetta e, date le circostanze, tutto sembra procedere per il meglio. Finché Barberina non si ammala e non viene ricoverata in ospedale. La malattia della protagonista e il ricovero ospedaliero si rivelano eventi decisivi e segnano l’inizio di una lunga discesa, una catabasi che in realtà si è già avviata con il trasferimento dalla montagna verso la grande città in pianura1. Sarà questa caduta precipitosa che porterà Barberina, una volta dimessa dall’ospedale e abbandonata dalla famiglia presso cui prestava servizio – allontanatasi improvvisamente dalla città a causa di un grave dissesto economico – a vagare da sola per l’oscuro labirinto urbano dopo avere persino pensato di chiedere asilo nel nosocomio da cui è appena uscita2. Come la sfortunata protagonista di una fiaba sperduta in una foresta minacciosa, Barberina cadrà, nel giro di poche ore, in una trappola insidiosa dopo avere ingenuamente accettato la promessa 1  In nome della presunta veridicità della vicenda di Barberina Emma non fornisce precise indicazioni geografiche. Tuttavia nelle montagne di Barberina si possono riconoscere le Alpi e, dietro alla grande città di X si nasconde probabilmente Milano. 2  «Signora Rosa, disse piano, se la Beppa non mi trova un servizio subito, potrei tornare all’ospedale? All’ospedale! esclamò questa. Che, le ha dato di volta il cervello? Ma se è guarita, che cosa la ci vuol fare all’ospedale? Crede che sia una locanda? […]» (Emma 1878, 59).

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di un ricovero in una casa ai suoi occhi bellissima, dove viene rivestita e sfamata: Quando Barberina entrò nella porta di quella casa, fu maravigliata di trovarsi di faccia ad una bella scala con tappeti, con imbottitture di velluto alle ringhiere di ferro, con eleganti candelabri ornati da gran palle di vetro fine, lavorate e scannellate. Quel lusso l’intimidì, e nel mettere la grossa suola delle sue scarpe su quel bel tappeto a fiori, le pareva d’insudiciarlo, e salì tutta confusa e sgomenta, pensando che se anche il quartiere dei suoi futuri padroni era tanto di lusso, non si sarebbero mai potuti accontentare del servizio d’una povera ragazza, com’era lei. […] La donna […] la fece entrare in una bella camera, ariosa, pulita, nella quale era un bel letto parato. Questa è la mia camera? (Emma 1878, 109-113)

Una volta stabilita nel nuovo lussuoso alloggio, Barberina si interroga3 e, da fanciulla cresciuta nell’indigenza, a stento crede al suo repentino cambiamento di sorte. Ma la stanchezza prende il sopravvento e la giovinetta si lascia trascinare nell’illusione. Per il lettore tutto è fin troppo chiaro: come in una fiaba, la fanciulla sola e sperduta ha incontrato la sua strega, anzi una successione di streghe, la portiera dello stabile dove abitavano i suoi datori di lavoro, l’ortolana e finalmente una vecchia vestita di «un abito logoro e sudicio, un cappello unto e bisunto» (ivi, 71), dalle dita «magre e lunghe, di un color livido» (ivi, 72) che la introduce nelle maglie della prostituzione di stato, all’epoca regolata dalla legge Cavour del 1860, da cui uscirà solo in seguito a un violento rito iniziatorio, uno stupro di gruppo a cui sopravvive a malapena4. 3  «Mi manderanno qui il lavoro? Dovrò forse cucire di bianco? […] Ma è proprio necessario… – azzardò timidamente la Barberina, – che io mi metta oggi questa veste?» (ivi, 114 e 119). 4  Di questo aspetto del romanzo si è occupata Sara Positano: «II 13 febbraio 1860 la legge Cavour (il cui testo di riferimento ideologico è quello di Parent-Duchatelet De la prostitution dans la ville de Paris considérée sous le rapport de l’hygiène publique, de la morale et de l’administration), […] riapre le case di tolleranza. La loro regolamentazione normalizza il fenomeno dell’antica ars meretricalis e legalizza la professione di prostituta che, se iscritta al registro della polizia, può esercitare il mestiere. Può farlo restando indisturbata se si attiene a controlli bisettimanali, finalizzati ad accertare la sua immunità da contagio venereo. Qualora la donna trovi scampo alla visita viene arrestata, e qualora, invece, risulti affetta da malattie, è previsto per lei il ricovero coatto presso i sifilicomi. Al centro della stessa legge serpeggiano inaspettati inganni e abusi: le autorità, poliziotto e medico (detto ‘chirurgo visitatore’), ‘a capriccio imprimevano marche di disonore […], rovinando per sempre la reputazione di alcune di loro.’ Qualunque donna sorpresa a pas-

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Ha così inizio la seconda parte del romanzo, interamente improntata sulla «congiura di buoni» (ivi, 201) del mio titolo, in cui per iniziativa di persone vicine alla Chiesa e in netta polemica con le disposizioni del regolamento del Regno d’Italia, Barberina viene liberata e restituita alla pace dei suoi monti, assicurando così un tiepido lieto fine alla sua tragica avventura: «Barberina è tuttora iscritta nei registri della Questura; la casa che la reclama è tuttora aperta […]» (ibid.) osserva amaramente l’autrice a voler sottolineare che l’esilio e il supplizio di Barberina non possono avere un epilogo pienamente positivo a causa del grave trauma dello stupro e delle pesanti implicazioni legali della vicenda. Sebbene l’esilio inteso in senso politico non sia, sarà superfluo sottolinearlo, il tema del libro di Emma, la nozione di esilio e di un confino legato a esigenze economiche, insieme al tema della lontananza sono tutti elementi presenti fin dal primo momento, quello in cui Barberina è costretta a lasciare la famiglia, la casa e il giovane di cui è innamorata, il capraio Luca5. A questo proposito vengono in mente le parole del recente studio di Silvia Tatti Esuli: scrittori e scrittrici dall’antichità a oggi su cui ho fatto particolare affidamento per il mio saggio: «Il linguaggio dell’esilio acquista quindi molto presto una sua autonomia da eventi storico-politici reali e diventa in letteratura una modalità espressiva in grado di dar voce a ogni condizione di disagio esistenziale e di esclusione» (Tatti 2021, 12). La raison d’être del mio capitolo va ricercata nell’ambito degli studi sulla letteratura e sul giornalismo al femminile dell’Ottocento italiano di cui mi occupo da tempo. È in questa ottica che ho sentito l’esigenza di rileggere il romanzo di Emma concentrandomi sul concetto di esilio da intendersi come sradicamento e condizione spirituale piuttosto che politica. seggiare nelle ore di coprifuoco è considerata adescatrice e costretta a visita obbligatoria; qualunque donna non illibata che passi sotto le mani del ‘chirurgo visitatore’ è denominata prostituta (a vita). Per riuscire in quest’ardua impresa, ‘chirurgo visitatore’ e poliziotto sottopongono a osceni e iniqui rastrellamenti la popolazione femminile. Le malcapitate sono schedate e ricevono un patentino infamante, che sarà irrevocabile e persino soggetto a speciali tasse, sostituite, poi, da altre nel caso dell’interruzione del mestiere. Intanto il ‘chirurgo visitatore’ che raccoglie il maggior numero di prostitute, viene lautamente premiato. Inoltre la prostituta che dimostra di aver depositato una grossa somma di guadagno nelle casse di risparmio vince un premio. Lo Stato sembra quindi incoraggiare e tutelare volentieri la prostituzione.» (Positano 2019, 10-11). 5  Il lieto fine tradizionale è altresì reso impossibile dall’asserzione: «Di Luca, non so nulla» (Emma 1878, 208).

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La critica sull’opera di Emma è piuttosto scarna; per quel che riguarda il terzo millennio sarà doveroso segnalare il saggio di Serena Badalassi, Emma. Dal salotto all’impegno, e il capitolo intitolato La carriera di Emilia Ferretti Viola – improntato soprattutto sull’importante collaborazione di Emma alla Nuova Antologia di Francesco Protonotari – dell’ottima tesi di dottorato di Maria Cecilia Vignuzzi. Nell’ultimo decennio Sara Positano si è occupata degli aspetti storico-sociali di Una fra tante, del peso della denuncia di Emma e dell’influenza esplicita del romanzo francese, da Zola a Flaubert (Positano 2019, 7), sottolineando inoltre le affinità fra Una fra tante e il romanzo sociale italiano, da Jessie White Mario, a Antonio Ranieri e Cletto Arrighi (ivi, 8). La scrittura di Emma si inserisce poi nella lotta contro il «meretricio statale» portata avanti in particolare dal gruppo di Anna Maria Mozzoni, come nota ancora Positano (ivi, 9). L’impegno di Emma fu notato, fra gli altri, anche da Giovanni Verga che in una lettera all’autrice si complimenta per il «dono graditissimo di Una fra tante ma anche per congratularmi con Lei della sua buona e coraggiosa azione. […] Ella ha fatto bravamente il suo dovere sollevando senza false ripugnanze il velo che nasconde simile infamia agli occhi della gente onesta»6. Eppure, le pagine in cui la collera di Emma è più manifesta sono anche, paradossalmente, le più deboli del volume, in quanto cariche di una retorica moralista che, a mio avviso, l’autrice non è riuscita a incorporare con efficacia nella trama del romanzo. È in queste lunghe digressioni che la riflessione sui pericoli e sul degrado in cui versavano le condizioni delle giovani donne sole come Barberina diventa vera e propria indignazione, in polemica non solo con la legge Cavour ma anche con l’attività sterile di molti istituti di beneficenza, associazioni di cui gli indigenti non erano a conoscenza e su cui non potevano quindi fare affidamento7. Nella pagina introduttiva 6 

Lettera di Giovanni Verga a Emilia Ferretti Viola. In Positano 2019, 8. Si veda in particolare il quinto capitolo del romanzo: «Giunti a questo punto della nostra narrazione, molti fra i miei lettori faranno forse delle obiezioni; diranno che in tutte le principali nostre città vi sono istituti di beneficenza, asili per le giovanette abbandonate, per i bambini, per gli infermi; istituti fondati coll’intenzione di aiutare precisamente le infelici che si trovassero nelle condizioni della povera Barberina; ed è questa un’osservazione vera, ed io posso aggiungere di mio, che nella civile e colta città italiana, nella quale seguiva il fatto che sto narrando, di tali istituti ve ne sono parecchi e commendevoli, […]. Ma 7 

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all’edizione Lucarini 1988 di Una fra tante, Dacia Maraini denuncia l’«illuminismo manicheo» di Emma e nota che, nella seconda parte, «la prosa di Emma perde quella misura intelligente che l’aveva accompagnata nella prima parte del romanzo per prendere la strada del moralismo […] perdendo di vista la realtà per seguire gonfie considerazioni sociologiche e morali»8. La Dacia Maraini degli anni Settanta e Ottanta, femminista militante e alfiera di una necessaria liberazione sessuale che includeva le lavoratrici del sesso, presenta necessariamente un punto di vista diverso rispetto a quello dell’ottocentesca Emma. Ma è innegabile che i frequenti interventi aside dell’autrice appesantiscano notevolmente la prosa del romanzo. Secondo Edward Said, «Exile is strangely compelling to think about but terrible to experience. It is the unhealable rift forced between a human being and a native place, between the self and its true home: its essential sadness can never be surmounted. And while it is true that literature and history contain heroic, romantic, glorious, even triumphant episodes in an exile’s life, these are no more than efforts meant to overcome the crippling sorrow of strangement» (Said 2000, 173). La scelta lessicale di Said nel descrivere con lucida furia i sentimenti legati a un forzato – e spesso definitivo – esilio, evoca sentimenti agghiaccianti e paralizzanti (terrible, unhealable, crippling). Le parole di Said si possono agilmente applicare alla vicenda della protagonista di Emma, la cui proscrizione è un espatrio geografico e culturale, un esilio dell’anima. In questa forma di esilio, resa ancora più dura dal trauma dello stupro, possiamo poi riconoscere elementi vicini alla sfera del femminile, come nota anche Silvia Tatti, secondo la quale per la scrittura delle donne si può parlare di esilio come di «condizione di marginalità identitaria, linguistica e culturale che appartiene alla letteratura femminile nel suo complesso, indipendentemente dalle situazioni di effettivo dispatrio» (Tatti 2021, 115). Nel caso di Barberina, che la sua creatrice raffigura «ignorante come le pecore e le capre che aveva portato a pascere per tanti anni nei monti dove era nata» (Emma 1878, 1), la patria non può intendersi come unità politica, ma come poteva essa saperlo, se neppure la signora Rosa e la Beppa gliene avevano parlato? Perché né la Rosa, né la Beppa sapevano esattamente se ci fossero, o dove fossero, […]. E questi istituti apparivano loro piuttosto come attuazioni di un’astratta teoria di carità […]» (Emma 1878, 74-75). 8  Maraini in ivi, IX.

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come rifugio i cui confini sono segnati dalle amate montagne e il cui ricordo, una volta trasferita in città, viene man mano stilizzato e idealizzato9. Per la povera pastorella sedicenne questo rifugio è rimasto, fino al momento del primo drammatico distacco, sigillato e resistente a ogni influsso esterno. Emma descrive l’inesperienza della sua eroina ricorrendo a una similitudine calzante, quella dell’educanda «appena uscita di convento […] rinchiusa in un breve spazio di tempo segregato dal resto del mondo […] abituata ai lunghi silenzi, alle placide e dolci contemplazioni, e alla monotona disciplina del lavoro» (ivi, 1-2). È solo nel momento in cui, forzati dalla miseria, i genitori di Barberina, grazie all’intervento del parroco (sul ruolo fondamentale della Chiesa nel dipanarsi della vicenda ritorneremo più avanti), le comunicano la partenza imminente, che Barberina è obbligata ad acquisire una sorta di coscienza del mondo che la circonda: Da quel giorno Barberina non ebbe più pace. Le parve che ogni cosa avesse mutato intorno a lei, e che perfino in lei stessa fosse avvenuto un cambiamento, le pareva che nella sua valle silenziosa e deserta giungessero ad ogni istante i rumori del di fuori, voci lontane, grida di folla. E provava una curiosità irresistibile di vedere, di sapere, di uscire dalla solitudine […], e insieme a questo desiderio violento le veniva anche una grande paura di quel mondo che non conosceva e che pur desiderava. […] La natura la dava alla società. La società la prese. (ivi, 5)

L’avvicendarsi di sentimenti che vanno dall’eccitazione, alla curiosità, alla paura dell’ignoto è tipico dell’esule che si prepara al suo destino, alla sua nuova vita, e costituisce una «sintesi della sofferenza della partenza» secondo la definizione che ne ha dato Silvia Tatti (Tatti 2021, 93). Anche prima dell’arrivo nella città di X Barberina ha un timore innato della folla, timore che viene avvalorato prima al suo arrivo alla stazione ferroviaria e in seguito quando, senza casa, senza protezione, affamata e esausta, vaga per le vie della città: Barberina camminava adagio. Aveva paura della gente, cercava di passare fra essa piano piano; avrebbe voluto camminare in punta di piedi per non farsi sentire, e rimpicciolirsi per modo da non essere veduta. (Emma 1878, 62)

9  Agli occhi di Barberina, i monti visti dalla città appaiono come «una sfumatura azzurra e lucente all’orizzonte, tanto distanti che il vederseli così lontani l’aveva allora accorata profondamente; adesso ripensava a quella sfumatura azzurra, vi pensava con terrore e si sentiva proprio e interamente abbandonata da tutti.» (ivi, 24).

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Secondo Emma – che, vale la pena sottolinearlo, scriveva vent’anni prima della pubblicazione della Psicologia delle folle di Gustave Le Bon – «è nella folla soltanto che nasce il sentimento dell’abbandono assoluto e dell’isolamento, e non v’ha landa sterminata o mare senza fine, che ci renda l’animo sgomento e deserto quanto il sentirsi circondati e stretti dalla marea sempre crescente dell’egoismo umano» (ivi, 23-24). Alla folla, e al timore di Barberina della folla, si accompagna la forte sensazione di solitudine e isolamento proprie dell’esilio. Senza voler fare paragoni forzati con la «dolorosa esclusione civile» di cui parla Piero Pieri a proposito dell’esilio nella narrativa di Giorgio Bassani, anche in Una fra tante «Esilio e solitudine sono uno il doloroso riflesso dell’altro» (Pieri 2012, 446). La folla, dunque, e i rumori della città sono il primo segnale del divario fra le due realtà geografiche, la montagna e il conglomerato urbano, una in alto e l’altro in basso, una positiva e paradisiaca, l’altro negativo e demoniaco. L’autrice le mette da subito in un conflitto in cui domina la verticalità. A cominciare dal momento dell’annuncio della partenza imminente, l’esistenza di Barberina è segnata da discese e cadute che la porteranno via via sempre più in basso: la calata dalla montagna verso la città, seguita dalla catabasi fisica e morale che segnerà indelebilmente Barberina nello spirito e nel corpo, seguita ancora dalla faticosa risalita finale costituita dal viaggio di ritorno verso i monti salvifici. La prima – modesta – discesa, alla vigilia della partenza vera e propria, vede Barberina recarsi nella cittadina («situata presso il confine d’Italia, in uno stato limitrofo al nostro» Emma 1878, 8) non lontano dalla montagna dove è cresciuta ignara di tutto, ed è seguita da una mesta risalita verso casa («saliva il pendio ombroso e fiorito del monte, e le pareva di non appartenere più alla gente che abitava in quella casupola», ibid.). Questo primo breve tragitto conferisce a Barberina la coscienza della sua povertà, che fino a quel momento ignorava: «Sì, adesso era povera, lo sapeva, ne era certa. Aveva visto le belle case, le botteghe eleganti, la gente ben vestita, […]» (ivi, 9). Una china più profonda è costituita dal viaggio solitario, in ferrovia, verso la grande città di X, che Barberina affronta con un’unica prospettiva di ritorno, quella legata alla promessa di Luca («starò

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lassù ad aspettarti», ivi, 12)10. Una volta arrivata a X, con atteggiamento tipico dell’esperienza dello sradicamento, Barberina ripensa alle sue montagne con «desiderio, quasi con angoscia» (ivi, 21) e le ‘rivede’ idealizzate e cristallizzate in un luogo sicuro e felice («La vita della montagna le appariva come una festa di luci e di colori» ivi, 22). La suggestione appagante della memoria arriva addirittura a evocare «un’acuta fragranza montanara» (ivi, 21)11. La città, all’opposto, è rappresentata perennemente in negativo come un susseguirsi di luoghi angusti e privi di luce: lo «stretto cortile chiuso fra le case» della casa in cui abita Barberina, che «non le mandava talvolta neppur luce bastante per cucire di bianco» (ibid.); la «triste penombra della sua cucina» (ivi, 22) e il tempo alternativamente afoso, piovoso o nebbioso. Che la città nell’Ottocento sia una delle destinazioni privilegiate della letteratura è cosa nota12. Per restare nell’ambito italiano possiamo affermare che, da Manzoni in poi, la grande città non è solo luogo e sfondo della narrazione ma acquisisce spesso anche delle caratteristiche antropomorfiche. Lo riscontriamo anche nel romanzo di Emma in cui, fin dal primo momento, la città di X viene rappresentata come «un essere vivente e gigantesco» di cui la stazione ferroviaria è il cuore pulsante, «luogo fantastico, pieno d’ignote meraviglie, di sorprese spaventose» (ivi, 19). In Una fra tante dunque la città sostituisce la foresta delle fiabe come luogo misterioso, seducente e costellato di pericoli, per ricevere «ingorda e insaziabile l’ondata umana che entrava dalla sua porta mentre ne riversava un’altra che esciva dal lato opposto e correva pur essa affannosa fuori di lì» (ibid.). Anche nella raffigurazione urbana emerge prepotentemente la verticalità: il tragitto di Barberina verso l’ospedale è una penosa 10  Al contrario di quello di Luca, l’addio della madre di Barberina ha un tono rassegnato e definitivo: «Siamo troppo miserabili […] per sperare di rivederci qui. Ma il tempo passa presto per chi sa rassegnarsi, e giungerà un giorno nel quale il Signore ci richiamerà a sé; cesseranno allora gli stenti e le fatiche e il quel giorno ci rivedremo.» (ivi, 11-12). 11  La tecnica usata da Emma è simile a quella del Pasolini poeta di quasi un secolo più avanti: «Nella raccolta I confini […] o nelle prime poesie in friulano comprese nella sezione Casarsa di Poesie a Casarsa […] Pasolini sottolinea che ogni esperienza è filtrata da una perenne dimensione di lontananza spaziale […] o temporale […]. La campagna friulana è evocata come luogo mitico, lontano da ogni rappresentazione realistica […].» (Tatti 2021, 151). 12  La letteratura sulla raffigurazione e sul significato della realtà urbana è vasta. Fra gli altri, segnalo il volume curato da Anselmi e Ruozzi (Luoghi della letteratura italiana) e il più recente studio di Malcolm Miles, Cities and Literature (2019).

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discesa per le scale del palazzo che la vede «mettersi in un legno» (ivi, 31) in cui il richiamo manzoniano è anche troppo palese. La realtà della degenza in un «letto stretto e duro», in una camerata dove regnavano «afa, un brulichio di gente, un’ombra pesante di mura e di tende», con «una fila indistinta d’altri letti che si perdeva nella grave e triste penombra» (ivi, 31-32) acquista i tratti di una prigionia, di un luogo alieno in cui l’esule viene costretto contro la sua volontà. Quasi ogni recesso della città è presentato in questi termini: buio, stretto, rumoroso, diverso, altro. Le abitazioni sono connotate come prigioni, alte, claustrofobiche e prive di luce. Nel momento in cui Barberina realizza la sua situazione di solitudine assoluta e abbandono in seguito all’uscita dall’ospedale, Emma ricorre ancora una volta all’immagine della caduta: «Quel rumore e quella città diventavano per essa una voragine. Era sull’orlo, cadeva» (ivi, 67). Al suo arrivo nella casa di tolleranza Barberina trova le imposte serrate. È in questi spazi che si consuma la sua dannazione, lo stupro di gruppo. L’accanirsi sul corpo di Barberina, chiaramente suggerito se non raffigurato da Emma, «parrebbe replicare in qualche tratto l’ingegnosità e la meccanicità delle pene dantesche» come nota Gilda Policastro – che a lungo si è occupata dell’immagine della catabasi in letteratura – a proposito della Salò pasoliana (Policastro 2014, 496). La casa dove Barberina viene tenuta prigioniera è di fatto descritta come un ade in cui domina il rosso, il colore demoniaco e erotico per eccellenza: «Che ore passava nella penombra di quella camera rossa, senza ardire di prender sonno, senza avere il coraggio di riposare, sempre desta, sempre attenta! Quante preghiere […]» (Emma 1878, 171). La sua tortura da parte di «tre giovinastri avvinazzati, rozzi e brutali» (ibid.) durerà fino al mattino (ivi, 178). La verticalità delle susseguenti cadute di Barberina si interseca nella circolarità della narrazione: il romanzo si apre e si chiude infatti con la protagonista al sicuro delle sue montagne. Nell’architettura narrativa di Una fra tante si riconoscono inoltre caratteristiche proprie di almeno due generi, quello già citato della fiaba e quello, complementare, del monomito. Come in un’epopea classica Barberina diviene, suo malgrado, l’eroina di un viaggio/esilio che la costringe ad affrontare le sue paure e che solo dopo avere superato gli

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ostacoli posti sul suo cammino le consente la rinascita e il ritorno a casa, l’Heimreise13. Questa circolarità presuppone che Barberina possa ritrovare se stessa solamente nel suo luogo di appartenenza, nella sua patria spirituale, richiamando ancora una volta, insieme alle caratteristiche della fiaba, quella del monomito. Un ulteriore elemento che richiama la circolarità, in un sinistro gioco di anticipazioni e ritorni, è l’incontro di Barberina, durante il suo primo ricovero ospedaliero, con una prostituta gravemente ferita, incontro che, come già sappiamo, preannuncia quello che sarà il destino di Barberina allorché verrà ricoverata nello stesso ospedale con lo stesso cartello alla testa del letto, una targa che è l’equivalente di una marchiatura a fuoco: Poi le due malate si voltarono, e guardarono un altro letto, quello vicino alla bella donna. Una suora e un giovane civilmente vestito stendevano un lenzuolo sopra di esso. È morta! disse la vicina di Barberina. Chi era? chiese dopo un momento di silenzio. Una prostituta! rispose l’altra con aria sprezzante; l’hanno portata qui ferita di coltello. Poi seguì un dialogo a bassa voce, poi una risatina, poi le donne guardarono il cadavere corpulento e grottesco, le cui forme si delineavano sotto le pieghe del lenzuolo, e per un pezzo non dissero più altro. (ivi, 38)

Il conflitto alto/basso risente ovviamente della tradizione del pensiero cristiano, come nota anche Gilda Policastro che, rifacendosi a Jacques Le Goff, sottolinea: È all’interno di una sia pur breve ma più specifica rassegna di alcuni canonici attraversamenti oltremondani che si viene però rimarcando come nella tradizione pagana, ad esempio nell’Eneide, i due luoghi distinti destinati ai giusti e ai reprobi fossero in realtà quasi sempre giustapposti, e connotati spazialmente dalla dicotomia assiale destra/sinistra; mentre l’opposizione verticale alto/basso (con connotazione morale) andrebbe a questo punto considerata un’acquisizione tipicamente cristiana: “il cielo, superiore, il bene, in alto; l’inferno, inferiore, il male, in basso”. (Policastro 2010, 261)

Esilio e discesa agli inferi, fisica o metaforica, trovano modelli illustri nella grande letteratura del passato, da Omero, a Virgilio, a Dante. In un articolo in cui si sofferma su un classico moderno 13  Per la controversa teoria del monomito si vedano il volume di Joseph Campbell, The Hero with a Thousand Faces, originariamente pubblicato nel 1949, e la recentissima replica di Maria Tatar suggestivamente intitolata The Heroine with a 1,001 Faces (2021).

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dell’esilio, Cristo si è fermato a Eboli, Policastro sottolinea che anche il percorso dell’io narrante di Carlo Levi si può caratterizzare come discesa (Policastro 2018, 454) e come la particolare forma di esilio a cui Levi è condannato per attività antifasciste, il confino, si esplichi in un’esistenza di tipo sotterraneo, che conferma l’affinità particolare fra esilio e discesa agli inferi anche negli esempi più moderni, da Una fra tante a Cristo si è fermato a Eboli: il percorso che compie l’io narrante è connotato in più punti come discesa (in virtù dello scosceso paesaggio dei calanchi lucani) e nel corso del romanzo si parla esplicitamente di ‘dannati’. Ancora: la vita del confinato viene definita ‘sotterranea’ e la sua abitazione, scelta dopo molto travaglio, è una casa che dà su un burrone. (ibid.)

A proposito, infine, del retaggio cristiano che serpeggia per tutto il corso del romanzo sarà opportuno soffermarsi brevemente sul ruolo positivo della Chiesa in Una fra tante. È al «parroco del villaggio che giaceva a piè del monte sul quale avevano la loro modesta casupola» (Emma 1878, 5) che si rivolgono i genitori di Barberina alla ricerca di un’occupazione per la figlia ormai adulta che possa alleviare la loro miseria. E sarà ancora un sacerdote dell’ospedale in cui Barberina si trova nuovamente ricoverata – questa volta lei stessa con un cartello che la identifica come prostituta alla parete del lettino – che si rivelerà anello nodale della catena di aiuti che porterà in salvo la ragazza. Dapprima il sacerdote può solamente raccomandare a Barberina pazienza e rassegnazione14. Poi, sostenuto dalle monache dell’ospedale e dal «padre spirituale di un ricovero di beneficenza» (ivi, 191), il religioso si reca inutilmente in questura e nella casa di tolleranza per cercare di riscattare Barberina dai debiti contratti nei confronti del postribolo e della legge: Ma i loro tentativi presso la Questura, presso la padrona del luogo d’onde la poveretta era uscita, non valsero a nulla. Quella donnaccia diceva che la giovinetta si era presentata volontariamente, accompagnata da una mezzana ben nota, […]; diceva che, accolta nella casa di tolleranza, aveva accettato vesti e biancherie che ella s’era perfino portate seco all’ospedale: diceva che vi aveva vissuto lautamente e v’avea contratto un debito così grosso che, per 14 

«Povera ragazza, per ora rassegnatevi» (ivi, 189).

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quanto inverosimile fosse la somma, doveva pur essere pagato dalla ragazza qualora non ci volesse più stare; s’intende che la mezzana, dal canto suo, negava recisamente che la fanciulla, entrando in quella casa, non sapesse dove andava e che non avesse manifestato spontaneamente il desiderio d’entrarvi. (ivi, 191-192)

Questa pagina di Emma ben descrive l’assurdità della situazione di Barberina secondo i dettami delle leggi vigenti: una volta entrata nelle maglie della prostituzione era quasi impossibile per una donna uscirne. E infatti, aggiunge Emma, «i preti e le monache non riescirono» (ivi, 197). È a questo punto che i religiosi attuano un «piano ingegnoso» (ivi, 201) con il favore di un istituto di beneficenza. Barberina sarà costretta a superare un’altra prova e a ritrovare la pace dei suoi monti solo con mezzi illegali: la fuga dall’ospedale e dalla giurisdizione di X. Le pagine che descrivono l’evasione di Barberina, con tanto di travestimento e corsa in carrozza lungo le vie della città, l’arrivo in una casa misteriosa «circondata da ortaglie e da lunghi pergolati» da cui in lontananza può scorgere «la bianca catena de’ suoi monti» (ivi, 205); la successiva ripartenza notturna e il viaggio di ritorno in treno echeggiano tante evasioni e tante fughe, reali e letterarie, dall’esilio, dalla prigionia, dalla schiavitù. Al sorgere dell’alba, «splendida e pura, Barberina era salva» (ivi, 207) ma, alla stregua di un esule, è segnata dalle «peregrinazioni continue» e dalla «condizione di sofferenza e smarrimento dei profughi» (Tatti 2021, 33). È ancora Silvia Tatti a notare che «di fronte a casi di partenze e trasferimenti che non sono veri e propri bandi o espulsioni coatte, il linguaggio dell’esilio e l’immaginario ad esso legato offrono […] un repertorio di situazioni che si prestano a esprimere il disagio esistenziale delle donne […]» (ivi, 120). Emma esprime il disagio di Barberina attraverso la diffidenza verso la città e il timore del rumore, della confusione e, soprattutto, della folla. È tramite questo disagio che l’autrice trasmette al lettore la condizione di emarginazione in cui è costretta la sua piccola esule da una comunità, quella della grande città moderna, che la sfrutta per poi umiliarla, tormentarla e infine rigettarla.

una congiura di buoni. l’esilio dell’anima in una fra tante

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Bibliografia Anselmi, Gian Mario, Ruozzi, Gino (a cura di) 2003 Luoghi della letteratura italiana, Bruno Mondadori, Milano. Badalassi, Serena 2004 Emma: dal salotto all’impegno, Manni, Lecce. Campbell, Joseph 1968 The Hero with a Thousand Faces, Princeton University Press, Princeton. Emma 1878 Una fra tante, Libreria Editrice G. Brigola, Milano. 1988 Una fra tante, con prefazione di Dacia Maraini, Lucarini, Roma. Miles, Malcolm 2019 Cities and Literature, Routledge, New York. Pieri Piero 2012 Un poeta è sempre in esilio. Studi su Bassani, Giorgio Pozzi, Ravenna. Policastro, Gilda 2010 «La ragion perché i morti ebber sotterra…». Per un’antropologia dell’Ade, in Chiara Gaiardoni (a cura di), La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi, Olschki, Firenze. 2015 La catabasi oscena da Pasolini ad Aldo Nove, in Patrizia Bertini Malgarini, Nicola Merola, Caterina Verbaro (a cura di), La funzione Dante e i paradigmi della modernità, Edizioni ETS, Pisa. 2018 Catabasi, tempo e romanzo nel Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, «Filologia Critica», 3-43. Positano, Sara 2019 Una fra tante. Un caso di violenza di stato, in Michela Prevedello, Sandra Parmegiani (a cura di), Femminismo e femminismi nella letteratura italiana dall’Ottocento al XXI secolo, Società Editrice Fiorentina, Firenze. Said, Edward 2000 Reflections on Exile and Other Essays, Harvard University Press, Cambridge. Tatar, Maria 2021 The Heroine with a 1,001 Faces, Liveright, New York. Tatti, Silvia 2021 Esuli: scrittori e scrittrici dall’antichità a oggi, Carocci, Roma. Vignuzzi, Maria Cecilia 2009 La partecipazione femminile al giornalismo politico-letterario. Italia e Francia tra Otto e Novecento, Tesi di dottorato, Università di Bologna, disponibile online (http://amsdottorato.unibo.it/1103).

L’altrove negli scritti di Louise Hamilton Caico Patrizia Guida

Il concetto di altrove implica, apoditticamente, quelli di alterità e di luogo, ovvero paesaggi, usi, lingue e costumi diversi da quelli a cui si è abituati, che determinano in chi è costretto all’espatrio uno spaesamento mai bilanciato né neutralizzato dalla curiosità verso il nuovo. In tale squilibrio straniante gioca un ruolo importante, ovvero decisivo, la percezione pre-migratoria dell’altrove, che si fonda su due livelli dicotomici: uno, di tipo spaziale, tra un luogo ‘familiare’ e un luogo ‘altro’, e un secondo, di tipo temporale, tra un passato, rappresentato dal luogo familiare, e un futuro, rappresentato dall’altrove, per antonomasia il tempo dell’incertezza; al centro si colloca un presente caratterizzato da una progettualità sub conditione. L’altrove così definito con cui si confrontò Louise Hamilton Caico, aristocratica cosmopolita, poliglotta e proto-femminista, è la Sicilia a cavallo tra Otto e Novecento. Louise Hamilton (1861-1927) era la primogenita di Frederick Fitzroy Hamilton (1837-1897), figlio di William Tighe Hamilton e Anne-Louisa Ponsonby, il quale aveva lasciato il Regno Unito a causa dei contrasti con il ramo inglese del casato e si era trasferito a Nizza, dove aveva conosciuto e sposato Zulmà Mathilde Pilatte (1832-1904), figlia di mercanti marsigliesi. Due anni dopo la nascita di Louise, nel 1863, Frederick lasciò Nizza per Firenze, culturalmente più stimolante e per questo motivo più adatta all’educazione dei figli. Fonti d’archivio riportano che il 27 aprile 1863 Hamilton acquistò l’antica villa “La Canovaia” di via di Camerata1, dove nacquero Rosa 1  La villa “La Canovaia” divenne famosa per aver ospitato nel settembre del 1920 D. H. Lawrence, che qui scrisse alcune poesie poi raccolte in Birds, Beasts and Flowers, che lo stesso autore definì «his best book of poems», e avviò la riscrittura della novella iniziata tre anni prima Aaron’s Rod (1922).

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Marie Mathilde, Anna, Giulio ed Eva Letizia. Per compensare alcune speculazioni finanziarie rovinose e garantire un reddito adeguato al ménage familiare, Frederick Hamilton trasformò la grande villa in una boarding house di lusso dove, tra il 1864 e il 1870, soggiornò anche il futuro marito di Louise, il siciliano Eugenio Caico, all’epoca dodicenne, il quale era stato mandato a Firenze per completare gli studi medio-superiori dal fratello Cesare, più anziano di ben ventitré anni, che faceva le veci del padre Franco. La famiglia Caico di Montedoro aveva costruito la sua ricchezza grazie alle miniere di zolfo e ai possedimenti fondiari ed era considerata una delle famiglie più potenti dell’intera isola. Cesare gestiva la famiglia con pugno d’acciaio, mediante decisioni irrevocabili e punizioni esemplari, come quella che riservò ad Eugenio, reo di essersi recato a Roma con un gruppo di amici a festeggiare la Presa di Porta Pia, richiamandolo a Montedoro e obbligandolo a non allontanarsi dall’isola. La segregazione isolana imposta da Cesare durò circa dieci anni. Soltanto nel 1880 Eugenio ebbe il permesso di intraprendere un petit tour, che doveva portarlo in giro per le maggiori città italiane e, passando per Firenze, volle salutare gli Hamilton che, però, nel frattempo si erano nuovamente trasferiti a Bordighera, meta privilegiata degli inglesi grazie alla mitezza del clima e alla sua tranquillità. Anche nel paesino ligure Frederick Hamilton, riproponendo il modello fiorentino, aveva avviato una pensione a Villa Pozzoforte, sulla rinomata via Romana, che ospitava villeggianti, per lo più stranieri, in cerca di climi miti dove trascorrere l’inverno. A Villa Pizzoforte, Eugenio, reduce dal suo isolamento decennale nel paesino dell’entroterra siciliano, si trovò catapultato in un ambiente internazionale, culturalmente molto vivace, animato dalla figura di Frederick, il quale aveva fatto del turismo la sua primaria fonte di introito. Per promuovere la sua attività ricettiva, Hamilton aveva pubblicato un manuale per i turisti inglesi, Bordighera in gennaio 1877. Vade mecum del forestiere (Hamilton 1877; 1883) e aveva fondato un settimanale, «La Via Aurelia» (1876-1884), che affrontava questioni di politica e cronaca locale, ivi compresi matrimoni, nascite e il meteo della settimana. Una pagina del giornale era dedicata agli arrivi dei forestieri e aveva il duplice scopo di creare occasioni di incontro tra i nuovi arrivati e di promuovere il territorio ai futuri turisti. Villa

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Pizzoforte si presentò, dunque, agli occhi di Eugenio come un luogo fantastico, crocevia internazionale di culture, all’interno del quale le sorelle Hamilton si muovevano con grande disinvoltura grazie anche all’educazione cosmopolita2 e progressista che avevano ricevuto, che le rendeva così diverse dalle donne siciliane a cui egli era abituato. Il giovane Caico rimase così affascinato da Louise da volerla sposare prima ancora di avere chiesto e ottenuto il consenso del fratello Cesare, il quale non solo disapprovò il matrimonio ma, esercitando il suo ruolo di capofamiglia, gli negò per punizione la sua quota di eredità. Tale provvedimento ebbe naturalmente conseguenze rovinose sulla quotidianità della coppia che, contrariamente alle aspettative, si trovò a vivere in severe ristrettezze economiche mitigate dall’ospitalità di Frederick Hamilton a Villa Pizzoforte3 e dai proventi del lavoro 2  Louise Hamilton era poliglotta e scriveva per diverse riviste dell’epoca; sua sorella Anna, nota come la “Nightingale francese” per il suo contributo alla ridefinizione del ruolo delle infermiere, fu la prima donna ammessa alla Facoltà di Medicina dell’Università di Bordeaux, dove diresse l’Ospedale Protestante per ben trentaquattro anni e fu insignita della Legion d’onore nel 1930; sua sorella Rosa studiò alla scuola infermiere del London Hospital di Dublino e sposò il medico greco Gerasimo Metaxa Zani (1855-1905), che operava presso l’ospedale di Parigi; suo fratello Giulio si laureò in Medicina a Dublino (cfr. Royal 1892, 403) e praticò la professione a Bordighera (cfr. Annuario 1904, 115; 1924, 250), dove visse con la moglie Charlotte. Analogamente, da parte materna, non mancavano esempi di una visione progressista della realtà. Lo zio materno, Lèon Pilatte, un pastore evangelico che aveva sposato una ricca ereditiera di origine canadese, Julia Whittemore, era piuttosto famoso sia per aver tradotto il romanzo di Harriet Beecher-Stowe, Uncle’e Tom Cabin, sia per la battaglia anticlericale che portava avanti sulle pagine della sua rivista «L’Église libre», che perorava la separazione tra Chiesa e Stato; anche Lèon Pilatte, come il cognato Frederick Hamilton, scrisse una guida turistica della città di Nizza, La Vie a Nice, Conseils et Directions (1865). 3  Si legga la lettera al suocero del 6 ottobre 1895: «Caro Papà, La sua lettera non mi giunge inaspettata, pur nondimeno mi arreca grande dolore nell’impossibilità in cui sono di corrispondere alla sua aspettativa. Non creda però ch’io l’abbia dimenticata, e se non le ho finora dato mie notizie, gli è che ho sperato sempre di poterlo fare in modo che da lei sarebbe stato meglio apprezzato, cioè, con qualche rimessa e certo che, se tutte le contrarietà che mi rincorrono da ogni lato me lo avessero concesso, avrei immancabilmente, come l’ho tanto desiderato, prevenuta la sua lettera nel modo succennato. Quello che posso dirle nello stato attuale delle cose è che, per quanto sconfortato di tutti e di tutto, in mezzo a fieri contrasti ed a difficoltà d’ogni genere, enormi, insormontabili, io non mi do per vinto e non cesso dal tentare ogni via, lottando contro l’ingiustizia e sfidando le umiliazioni per riuscire a qualche cosa. E stia sicuro che per quanto io abbia il desiderio vivo e potente di essere vicino a Loulou nelle attuali condizioni sue di salute, le quali mi tengono assai disturbato, non tornerò a Bordighera senza avere raggiunto il mio scopo, e prima d’ogni altro il soddisfacimento del fitto del villino a lei. La crisi generale zolfifera ha pesato grandemente sulla nostra disgraziata situazione, la quale complicata per sé stessa, si è per ciò

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di pubblicista e traduttrice di Louise. Per i successivi quindici anni e nonostante la nascita di sei bambini – Franco (morto in fasce nel 1881), Lina (1883-1951), Giulia (1885-?), Federico (1889-1972), Beatrice (1891) e Letizia (1893-1968), – Cesare mantenne la sua posizione, complice anche il tracollo finanziario che nel frattempo aveva colpito l’azienda di famiglia causato dalla spietata concorrenza delle miniere americane. Nell’agosto del 1895 Eugenio, persuaso di potersi riappacificare con il fratello e reclamare la sua quota di eredità o almeno una rendita sufficiente per vivere dignitosamente, si imbarcò da Genova per la Sicilia, dove trovò una situazione ancora più seria di quanto immaginasse4. In una lettera del 7 settembre alla aggravata maggiormente, e per la parte pecuniaria è divenuta estrema. Molte cose avrei da dirle che forse potrebbero muoverla ad essermi un po’ indulgente nelle presenti mie difficoltà, ma per lettera mi è impossibile il farlo oltreché temerei di annoiarla e di ottenere il risultato contrario, mancandomi l’attitudine ad esporle ogni cosa con ordine ed efficacia. Conformandomi, invece, alla sua indole, facendo tacere cioè ogni manifestazione del sentimento, che so quanto a lei dispiacciano, mi limito a dirle che sebbene l’animo mio sia dilaniato d’ogni parte, non cesso dal darmi attorno quanto più posso per ottenere danari in qualsiasi modo; a questo unicamente intendo, ed appena avrò la fortuna di riuscirvi, Ella sarà la prima persona ad essere soddisfatta. Abbi ancora pazienza, e se crede ch’io lo meriti in qualche modo, se non può aiutarmi direttamente nella mia disgraziatissima situazione, voglia però essermi indulgente.» (Messana 2000). 4  Si leggano le lettere che in quelle settimane Eugenio scrisse alla moglie per renderla partecipe delle sue frustrazioni: «Sento che sei occupatissima con le tue lezioni e che esse ti fruttano, e godo di sapere che in mezzo a tutto ciò trovi mezzo di distrarti un poco. Vorrei sapere qualcosa di più dei bambini particolarmente; che febbre che ho di rivederli e stringermeli forte, e non meno di loro la loro madre, sai! Ancora nessuna notizia da Montedoro ed io duro fatica e soffro assai a reprimere la smania che mi roda e mi consuma. Cerco di avere pazienza però avendo fiducia nella riuscita delle pratiche che fanno Giulia e Federico. Ti accludo una fotografia di Giulia che si è fatta recentemente, non è più d’un mese. Devo per ora contentarmi di mandarti dei baci che ti giungeranno assai freddi per il lungo viaggio; spero presto dartene insieme ai bambini dei caldissimi!». Scriveva l’11 novembre 1895: «Mia cara Loulou, Federico sembra compenetrato della mia disgraziata situazione e domani ritornando a Montedoro pare che vorrà tentare ancora per vedere se può riuscire a farmi avere tutto o parte di quello che chiedo. Ma le difficoltà, io lo vedo, sono grandi se non sono addirittura insormontabili. Lo zolfo si è ancora più avvilito in questi ultimi giorni ed è quasi ridotto a non aver più valore!». Ed ancora. «Mia cara Loulou, qui siamo alquanto in agitazione pei provvedimenti invocati dal Governo da alcuni interessati a rovinare completamente tutti i piccoli produttori di zolfi. Come avrai visto dai giornali, fu qui deliberato da un cosiddetto Comizio interprovinciale, di chiedere al Governo l’imposizione del Consorzio Forzato e la limitazione della lavorazione delle miniere. Spiegarti qui sarebbe troppo lungo quanto è insidiosa, liberticida e disastrosa cotesta proposta; ti basti sapere che un tale provvedimento sarebbe la rovina di tutti gl’interessati nell’industria dello zolfo, proprietari, gabelloti, ecc. che non sono potenti. Sarebbe insomma lo sfruttamento dei deboli in favore dei forti! Cosicché Cesare è il solo che si agita come meglio può

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moglie si legge la sua frustrazione per la gravità della situazione finanziaria della famiglia, strangolata dai debiti e dai prestiti usurai, e per l’instabilità di Cesare: Ieri sera ebbi con Cesare una discussione assai vivace che mi lasciò un’impressione molto sconfortante, e tuttora mi sento sfibrato enormemente. Cesare è troppo squilibrato e ciò complica assai la nostra disgraziata situazione ed accresce le difficoltà insormontabili di essa. Sarebbe troppo lungo narrarti ogni cosa né mi sento la forza di farlo, ti basti questo accenno per comprendere come io qui non sia sopra un letto di rose. In altri tempi la cosa sarebbe stata di facile attuazione, attualmente tutte le potenze infernali si sono date la mano per presentare degli ostacoli tali che sono veramente insormontabili! In questo mese si devono sistemare molte pendenze urgenti, fra cui la situazione scabrosa in cui si trova Giulia per avere preso tanti denari da vari usurai, per far fronte alle iniziali esigenze di tutto l’insieme delle cose. (Messana 2000)

Soltanto a metà novembre, dopo quattro mesi di permanenza a Palermo, Eugenio riuscì ad ottenere un prestito di tremila lire dalla sorella Giulia a fronte di tre cambiali, che gli consentirono di tornare a Bordighera, pagare i debiti più impellenti e trasferire la famiglia nella casa avita per sottrarsi alle pressanti insistenze del suocero, che pretendeva pagassero la pigione per le stanze occupate nella villa. Ma anche questa ipotesi di dare una dimora stabile alla sua famiglia naufragò nel momento in cui, all’arrivo a Palermo, fu accolto alla banchina del porto da un messo dei Caico, che gli notificò l’ordine del fratello di non mettere piede a Montedoro. Per i successivi due anni, Eugenio e Louise rimasero a Palermo in un appartamento in affitto in via Mazzini; nel 1897, Cesare, gravemente ammalato, diede e cerca di dare l’allarme a tutti gl’interessati che sonnecchiano e non comprendono ciò che li aspetta. Ora vado a scrivere a Federico perché, appena ricevutolo, lanci un telegramma al Ministro in Roma per protestare la rappresentanza comunale di Montedoro contro quella proposta rovinosa appoggiata da disonesti interessati. Il telegramma l’ho compilato io, e Beniamino lo ha approvato. Cesare ha fatto stampare un migliaio di opuscoletti sulla questione zolfifera di cui te ne sono stati spediti tre copie, credo. Ne sono state mandati moltissimi a Roma, oltreché individualmente anche al Presidente della Camera dei deputati ed a quello del Senato, per essere distribuiti ai membri del Parlamento. Altre proteste di proprietari interessati seguiranno, insomma ci agiteremo come meglio si potrà per far luce su cotesta manovra perversa e cercare d’impedire il danno immenso che ci sovrasta. Spero sempre che Federico possa riuscire a ciò che spero, ma finora non ho avuto alcuna notizia sul proposito. Cesare mi chiama per occuparmi della faccenda di cui sopra t’ho parlato e ti lascio quindi. Addio dunque con baci e tenerezze infinite insieme a Lina la buona, a Giulia la ribelle, a Federico il vivace e Letizia la pasticciona cara. Tuo sempre Eugenio» (ivi).

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finalmente il suo assenso al trasferimento a Montedoro, che decretò l’inizio dell’esilio della cosmopolita, femminista ante-litteram, colta e spregiudicata Louise. Nei primi mesi di permanenza a Montedoro, Louise Hamilton utilizzò la scrittura per affrontare questo passaggio traumatico e per conoscere «una regione quasi mai raggiunta da un viaggiatore e, comunque, priva di contatti con il mondo esterno» (Hamilton Caico 1910, trad. it. 1996, 21). Cominciò ad annotare le sue osservazioni sulle usanze dei montedoresi, descrisse le loro feste, scrisse sulla condizione delle donne e dei minori, visitò il territorio circostante sempre accompagnata dalla sua macchina fotografica e dalla scorta. Nel 1910 pubblicò le sue riflessioni in un volume dal titolo Sicilian Ways and Days5, corredato da centoventotto fotografie, che consente di ricostruire il processo di adattamento messo in opera dalla donna per ridurre il senso di estraneità, che provava. Nelle pagine del libro si comprende come la scrittrice fosse riuscita a trasformare l’esperienza dell’esilio in una esperienza di soggettivizzazione delle coordinate spazio-temporali (Floriani 2010), affiancando alle tradizioni isolane quelle della sua cultura di origine per mitigare la «profonda condizione di homelessness [ovvero] una perdita metafisica di ‘dimora’ [che] ha prodotto le sue nostalgie […] relative alla condizione di ‘sentirsi a casa’» (Berger-Berger-Kellner 1973, 82). Secondo gli autori, il percorso di costruzione di un altrove-casa è condizionato, oltre che dal grado di consapevolezza della condizione di homeless, anche dal vissuto pre-migratorio, dal progetto migratorio e dal processo integrativo post-migratorio. Del vissuto pre-migratorio di Louise è noto che è figlia di un esule, che è stata educata come si conveniva alle fanciulle dell’aristocrazia europea dell’epoca, che aveva sposato il rampollo di una delle famiglie più potenti della Sicilia, salvo poi ritrovarsi in ristrettezze economiche tali da dover emigrare alla ricerca di una stabilità. Si badi che nel libro Louise non fa alcun cenno al suo vissuto pre-migratorio, ovvero alla situazione economicamente instabile della famiglia se non attraverso alcuni dettagli come le posate d’argento accompagnate da porcellane spaiate e «bicchieri 5  Louise Hamilton Caico scrisse anche un pamphlet che pubblicò nel 1906 col titolo Per un nuovo costume della donna in Sicilia, la cui genesi probabilmente rimanda alla traduzione di qualche anno prima, How to be Happy Though Married di Edward John Hardy [Come essere felici pur essendo maritate].

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di vetro ordinario» (Hamilton Caico 1910, trad. it. 1996, 141), né l’autrice racconta episodi che riguardino i figli e le loro attività6. Il consorte Eugenio è completamente assente, mai neppure menzionato e sostituito nelle sue passeggiate esplorative a cavallo da Alessandro, uno dei campieri della famiglia, che cita Dante e i classici. Tanto meno si trovano riferimenti alla famiglia Hamilton, alle sorelle e alla madre, ancora vivente. Analogamente, non c’è traccia alcuna del suo progetto migratorio. Il lettore non è mai reso partecipe dei sentimenti che l’autrice prova nel confronto con la dura realtà isolana perché il libro è totalmente privo della dimensione intima della narrazione. Si legga L’arrivo a Montedoro: Un piacevole viaggio in piroscafo da Genova a Palermo, tre giorni a Palermo per fare le nostre commissioni, e poi sei ore di treno, quello che viene subdolamente chiamato ‘il treno diretto’, attraverso le più solitarie regioni dell’interno della Sicilia, fino alla remota stazioncina di Serradifalco, in provincia di Caltanissetta, l’unica provincia siciliana non bagnata dal mare. Appena scesi ci troviamo circondati da un gruppo di briganti – a giudicare dall’aspetto – pittoreschi nei loro abiti di velluto o fustagno marrone, alti stivali infangati, nere papaline in testa, cartucciere alla vita e armati fino ai denti. […] Rapidi si impadroniscono di noi e dei nostri bagagli e veniamo subito cacciati dentro un’orribile scatola giallo canarino sforacchiata da piccoli finestrini che ricordano le aperture di una gabbia per uccelli, in bilico su ruote smisurate, e tirata da tre creature ossute simili a scheletri bardati con briglie e cavezze. […] Infine, con raddoppiati scocchi di frusta e il convulso galoppo finale – carissimo a cocchieri siciliani – facciamo il nostro ingresso a Montedoro, 6  Per esempio, Louise al fine di impegnare e stimolare culturalmente la figlia sedicenne Letizia, molto frustrata dalla noiosa vita di Montedoro, la incoraggiò a inventare una rivista letteraria a costo zero perché manoscritta, una sorta di blog moderno, «Lucciola» pubblicata dal 1908 al 1926, che coinvolse anche la sorella Lina. I testi venivano interamente scritti a mano dalle redattrici (appunto, le lucciole) e redattori maschi, spesso firmati con pseudonimi, in un tempo massimo di 48 ore per poi essere spediti per posta al successivo articolista che spediva anch’esso, come in una catena di Sant’Antonio, al successivo/a. Ogni numero mensile poi tornava al primo mittente, Luisa Cairo a Montedoro, per essere da questa conservato. Ne sono stati rinvenuti in totale 115 numeri, a causa della dispersione dei beni della famiglia Caico, avvenuta con la vendita dell’immobile di famiglia nel dopoguerra. Tra i temi affrontati dalla rivista negli anni, vi furono l’impedimento per le donne di gestire i loro beni e di esercitare la potestà sui figli, determinata dalla minorità giuridica stabilita dall’autorizzazione maritale; il pacifismo contro l’interventismo italiano, prima dell’inizio della prima guerra mondiale; il diritto femminile al voto; il tema del lavoro delle donne, al di fuori della famiglia; il rapporto tra i sessi e il femminile bisogno di dignità e rispetto; l’adulterio femminile; il socialismo e il fascismo; il tema del lavoro e della festa del I maggio.

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imboccando a velocità una strettissima curva, sfrecciando attraverso la grande piazza tutta bianca, e ci fermiamo in un cortile dinanzi a un vecchio palazzotto di venerando aspetto, assai malconcio e fatiscente che, a quanto mi dicono, è casa mia. Con qualche difficoltà ci estrassero dalla scatola gialla; […] Fu già da quel primo incontro che il modo di vivere siciliano cominciò ad incuriosirmi e a sorprendermi, così si potrà vedere dalle pagine seguenti, dove cercherò di descrivere la mia stanza così com’era al mio arrivo, tutto ciò che conteneva e come l’ho trasformata. (Hamilton Caico 1910, trad. it. 1996, 27-29)

Come la maggior parte delle migranti che tendono a riprodurre, in forma cristallizzata, abitudini, atmosfere, usi e rituali portati con sé dal paese di origine, per proteggersi dalle “contaminazioni” con la cultura e la società di approdo e per preservarsi dal dover prendere coscienza del fatto di non appartenere al luogo in cui pur stanno trascorrendo la loro esistenza un giorno dopo l’altro, Louise affrontò il senso di spaesamento attraverso la ri-costruzione di un senso di dimora, in cui gli spazi e i tempi biografici potessero essere tenuti insieme. Come una sorta di Robinson Crusoe al femminile, Louise, appena approdata a Montedoro dopo un viaggio faticosissimo, ricostruì la sua quotidianità imponendo le sue abitudini premigratorie, almeno nei confini della domesticità, che le consentirono di trasformare l’altrove in qualcosa che, seppure vagamente, assomigliava a quello a cui è abituata. Trasformò la sua stanza. Il suo spazio vitale. sul punto di cominciare il viaggio attorno alla mia stanza da letto, non so dirvi perché ho deciso di partire dal letto. […] il letto siciliano, una delle cose più assurde che io abbia mai visto, specialmente quando, di giorno, i materassi stanno arrotolati e accatastati uno sull’altro con lenzuola e coperte ben ripiegate in cima, dando la sensazione che il proprietario sia partito per un lungo viaggio. Ma il mio letto è tutt’altra cosa. Anzitutto è un letto, nel senso comune e accettato della parola; costruito per ciò che serve, con la solita rete a molle, un solo materasso, la cui ragionevole durezza cessò d’infastidirmi quando appresi che era stato fatto dieci anni prima e nessuno ci aveva mai dormito sopra. Rimane un mistero come quest’unico manufatto della specie civilizzata sia capitato qui. Ma, ad ogni modo, c’è. Me ne appropriai lo stesso giorno del mio arrivo, quando, con felice intuizione, mi resi conto che era l’unico letto nel quale avrei potuto chiudere gli occhi nel dolce oblio della vita e dei suoi affanni. […] Continuando il mio pellegrinaggio per la stanza m’imbatto in una tenda di raso di cotone a fiori neri su fondo rosso. Viene dall’Inghilterra e sono sicura che non si trova molto a suo agio qui. La tenda nasconde una porta che dà in un piccolo vano devo sono i miei impianti

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igienici, ma che è anche una pubblica piazza da dove tutti quanti passano, dal sindaco del paese ai numerosi ‘campieri’, a tutte le ore del giorno e della notte […] Tentai, sì, un ‘coup d’état’ durante la prima settimana del mio soggiorno, ma dovetti ben presto rinunziare perché mi trovai a combattere contro uno dei più radicati pregiudizi dei siciliani. Essi sono convinti che è cosa dannosissima alla salute tenere in camera da letto l’attrezzatura per lavarsi […] Ora è la volta di un odioso alto cassettone con lastra di marmo […] ingombra della solita esposizione di tazzine da caffè e caffettiera, dozzinali e vistose, ornamento abituale delle camere da letto siciliane; per non parlare di un prezioso mazzo di fiori di carta rozzamente colorati, prigioniero sotto una campana di vetro. […] al loro posto sistemai vari altri oggetti, un orologio da viaggio, alcune fotografie dei bambini […] Arriviamo ora a un pezzo di mobilio assai importante in una stanza da letto femminile – la toletta […] chiamano ‘pettinatoio’, aderendo alla più stretta verità, dato che viene usata soltanto per sedervisi davanti e pettinarsi o, meglio, perché qualcuno le pettini […] strofinando gentilmente i capelli con olio e poi con aceto da toletta, in modo da spandere intorno un odore da insalata ben condita! I pettini – le spazzole sono sconosciute – le forcine ecc. vengono nascosti alla vista e stanno in disordine dentro il cassetto. Parliamo ora, invece, del modo in cui ho sistemato la mia toletta. […] è diventata oggetto di meraviglia per tutti coloro che, di nascosto, vengono a vedere la mia toletta quando non sono in camera […] Tutti poi restano a bocca aperta davanti alle fotografie in esposizione, poiché qui l’usanza prevede che tutte le foto di cui disponiate vengano ben seppellite al fondo di una cassa di legno verdastro, insieme ai libri, ai quadri, a ogni oggetto ornamentale, che noi, invece, eccentriche creature, amiamo avere alla vista e a portata di mano. È ora la volta della presentazione del mio angolo di lavoro costituito da una bassa seggiola e da un tavolo dall’aspetto zingaresco ricoperto da un panno rosso – quasi tutta la tappezzeria è rossa nella mia stanza – forse perché io amo tanto il blu […] quando, arrivata qui, piazzai la mia libreria e vi allineai i libri, tutti mi considerarono assai bizzarra, perché si usa tenere quasi tutto ciò che si possiede e quindi anche i libri ben richiusi in quelle odiose casse verdi riposte sotto i letti […] l’idea rivoluzionaria di tenere i libri negli scaffali è causa di stupore e di commenti sulle mie strane abitudini […] eccoci alla scrivania, il miglior pezzo della stanza. […] è adorna di simpatici oggetti – del tutto estranei all’atmosfera della casa – come un calamaio di bronzo, un blocco per appunti con custodia di pelle, un astuccio per le forbici, un orologio, un vassoietto per le penne e ancora, una scatola di legno di ulivo, fotografie, un blocco quadrato di zolfo fuso di un giallo intenso che uso come fermacarte. La scrivania è la mia amica. Trascorro, appoggiata a lei, gran parte del mio tempo; è accanto ad essa che mi riesce di pensare e di riflettere […] (ivi, 30-38)

Nel trasformare la sua stanza in qualcosa che fosse congeniale alle sue abitudini, Louise poté ridimensionare la percezione dell’altrove, trasformandolo in una dimora in cui far coesistere le due culture:

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utilizzando la pertinente definizione di Park, potremmo affermare che la scrittrice è assimilabile alla figura dell’«uomo marginale», ovvero della «donna marginale» nel nostro caso, «un ibrido culturale che vive all’interno della vita culturale e della tradizione di due popoli diversi e ad esse partecipa intimamente […] Egli è l’uomo che vive sul confine di due culture e di due società, che non si sono mai completamente fuse e interpenetrate» (Park 1990, 206-207). Louise scelse consapevolmente di non rinunciare a nessuna dimora e riuscì a farle coesistere ordinando le coordinate spazio-temporali fra un luogo più rilevante e uno meno rilevante, fra un tempo prevalente e uno interstiziale e, per attuare il suo progetto, studiò la realtà locale e la descrisse nelle pagine del suo taccuino: «poiché io siedo davanti al nostro casino per osservare tutto quelle che avviene in paese, ho potuto registrare nella mente la completa visione dell’avvenimento» (Hamilton Caico 1910, trad. it. 1996, 79); visitò le proprietà di famiglia: i campi durante il raccolto («un tardo pomeriggio, accompagnata da Alessandro, e spinta dal mio desiderio di conoscere meglio da vicino il lavoro dei campi, mi recai a ispezionare una delle nostre aie» ivi, 92) e la miniera di zolfo, dove «una fila di casupole abbandonate e cadenti, informi e mezzo diroccate, che sembrano rendere ancora più disperato il paesaggio» (ivi, 115), che le fece toccare con mano le condizioni di lavoro dei minatori e, soprattutto, dei carusi, i minori che venivano ingaggiati per trasportare lo zolfo dall’interno della miniera verso i piazzali esterni («Lo spettacolo straziante di quelle condizioni di lavoro così intollerabili mi ossessionava dolorosamente mentre risalivo lentamente fino a rivedere il sole che sorrideva ai campi lontani e alla desolazione della distesa delle miniere brulicante di miserabili carusi. Riflettevo sull’influenza fisica e morale che un tale tremendo lavoro deve avere su di essi e sui piconieri, consideravo il loro salario…» ivi, 117). Per via delle sue idee progressiste in ambito sociale e femminile e per le sue abitudini trasgressive, come quella di andarsene in giro per la campagna a dorso di mulo con la sola compagnia di una macchina fotografica, Louise fu considerata dai montedoresi una «strange woman»: L’apparizione di una straniera munita di macchina fotografica provocò meraviglia e sbigottimento. Giusta reazione, se si pensa che in questi paesi al massimo dell’indipendenza a cui una signora può aspirare consiste nell’andare in chiesa, avvolta in uno scialle da capo a piedi, e mai sola ma sotto la stretta sorveglianza della propria cameriera. (ivi, 87)

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Tuttavia, sembra che l’opinione altrui non sortisse alcun effetto sulla giovane espatriata, la quale reagiva ai commenti delle donne di casa Caico con una generosa dose di ironia. L’ironia è, infatti, la cifra che connota la scrittura di Louise Hamilton Caico e che oltrepassa lo stratagemma letterario per farsi elemento complementare alla strategia di soggettivizzazione dell’esperienza dell’esilio in quanto, come afferma Grice, «intimamente connessa con l’espressione di un sentimento, di un’attitudine, o di una valutazione. Non posso dire qualcosa ironicamente senza che ciò che dico non rifletta un giudizio ostile o derogatorio, oppure un sentimento come l’indignazione o il disprezzo» (Grice 1989, 54). Louise scelse di ironizzare invece di narrare in modo impersonale la quotidianità siciliana e i rituali «barbari» dei siciliani, per ricordare obliquamente la discrasia tra le due realtà, tra le norme sociali, morali o estetiche con le quali era stata educata e quelle con le quali si trovava a convivere, ovvero l’arretratezza della cultura siciliana. Si leggano le pagine dedicate alle tradizioni siciliane, alle norme di comportamento, spesso definite «quanto mai bizzarre», come quello di festeggiare all’alba il santo patrono con la banda, di impedire alle donne di portare un ombrello, di condurre i defunti in processione seduti su una portantina, ma anche situazioni più banali come l’apparecchiatura della tavola o il metodo per spolverare: La mattina dopo, infatti, nel rispetto del più barbaro costume, la banda alle quattro e mezzo del mattino intonò una baldanzosa marcia militare, svegliando l’intero paese; e, come graziosa attenzione alla nostra famiglia, la intonò proprio sotto casa nostra. Con raffinata crudeltà, il raduno dei musicanti sotto i nostri balconi avvenne a passi felpati evitando ogni più piccolo rumore sino a quando l’assetto orchestrale non si fosse sistemato. Solo allora la musica esplose. Quando furono sicuri di averci totalmente e completamente svegliati, se ne andarono. (Hamilton Caico 1910, trad. it. 1996, 52-53) Il funerale segue il più barbaro dei rituali. […] lo scorso inverno, una ragazza di quattordici anni, trasportata al cimitero poche ore dopo la morte, durante il tragitto diede segni di vita. Era stata rimossa senza l’autorizzazione del dottore e questi venne chiamato di grande urgenza, ma senza alcun giovamento, perché per il gran freddo e la neve, la povera ragazza, vestita di abiti leggeri, morì una seconda volta e per sempre. (ivi, 103-104) Al mio arrivo in questa casa, rimasi stupefatta per lo strano modo di apparecchiare la tavola. La regola prevedeva che, al centro, troneggiasse un

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mucchio di piatti alla rinfusa, una montagna di forchette e coltelli, grappoli di bicchieri e altro. La famiglia si sedeva rumorosamente attorno alla tavola, ognuno acchiappava un piatto, si appropriava di un bicchiere, pescava nel mucchio un coltello e una forchetta e cominciava a mangiare, dopo aver mormorato un vago e generale: ‘buon appetito’. Lo sopportai solo per una volta. Il giorno seguente presi un atteggiamento che raramente assumo, se non è proprio necessario: feci valere la mia autorità, affermando che Arcangela avrebbe apparecchiato la tavola come le avevo già insegnato a Palermo. (ivi, 141-142) Se non vi siete ancora stufati di questo giro attorno alla stanza, prima di dare uno sguardo dalla finestra, vorrei dire due parole sul metodo qui adottato per spolverare una stanza, del tutto nuovo e singolare; è il metodo seguito dalla padrona di casa e dalle sue cameriere e non adottato da me. Si comincia coll’accertarsi se la finestra è ben chiusa, e, se non lo è, la si chiude, specialmente dopo una bella giornata. Prendete poi una frusta dal manico corto – una specie di gatto a nove code fatto di strisce di panno e di flanella e di cenci in generale; con lo strumento ben saldo in mano, cominciate a menar colpi a destra e a sinistra, sulle sede, sui mobili, sulle pareti, sulle casse verdi – ce n’è sempre qualcuna, – in aria, sul pavimento, da tutte le parti e, mentre voi dedicate le vostre entusiaste energie a questa specie di danza di guerra domestica, la polvere, disturbata, tenta la fuga e s’innalza in piccole nuvole al di fuori del raggio di azione del gatto a nove code vendicatore. Quando siete stanchi di questa violenta ginnastica, e vi sentite convinti che la stanza è spolverata a sufficienza, allora richiudete le ante della finestra, lasciate la stanza nella sua asfissiante penombra e andate a menar colpi da qualche altra parte. Mi affretto a dirvi che questo famoso sistema scacciapolvere non è da me adottato e che io spolvero con metodo leggermente differente che prevede la totale apertura delle finestre. (ivi, 38-39)

Laddove possibile, Louise impose piccole rettifiche al comportamento dei suoi familiari, come per esempio la partecipazione femminile ai discorsi «da uomini»: «io per prima ho introdotto in questa casa l’assoluta novità dell’intervento di una donna in una conversazione maschile, partecipando ai loro discorsi e mi sembra che abbiano gradito il diversivo – ma resterò sola, poiché nessun’altra seguirò il mio esempio. Credo, anzi, che mi giudichino una sfacciata, dato che, di regola, tutte le altre mangiano in silenzio e si alzano ad ogni momento per servire gli uomini, nonostante la presenza di una mezza dozzina di cameriere in cucina» (ivi, 144); o la disposizione dei posti a tavola che, secondo la maniera isolana, prevedeva di collocare l’ospite a capotavola e «tutti gli uomini da una parte» della tavola «e le donne e bambini, pigiati uno contro l’altro, dall’altra parte della tavola» e che, audacemente, rettificò

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con un’alternanza di uomini e donne «così come si usa in tutti i pranzi del mondo, tranne che in Sicilia». Il ricorso alla strategia di soggettivizzazione e la creazione di una dimora multipla, accompagnato dall’osservazione scientifica della nuova realtà e l’utilizzo dell’ironia, che doveva divertire innanzitutto l’autrice e, dunque, il lettore, non furono tuttavia sufficienti per rendere permanente la sua condizione di donna «marginale». Louise lasciò l’esilio di Montedoro nel 1913 per trasferirsi a Palermo, dove visse dando lezioni di inglese e traducendo autori francesi e inglesi in italiano7. Dopo un intermezzo londinese, durante il quale lavorò per l’International Labour Office, tornò a Palermo, dove morì nel 1927. Aveva sessantasei anni. Bibliografia 1904 «Annuario Sanitario d’Italia», 4. 1924 Guida sanitaria italiana, «Annuario Sanitario d’Italia», 16-3, n.s.. Berger, Peter L., Berger, Brigitte, Kellner, Hansfried 1973 The Homeless Mind. Modernization and Consciousness, Random House, New York. Floriani, Sonia Qui e Altrove? Per una tipologia di migranti fra sociologia e 2010 biografia,«Italies», 14. Grice, H. Paul 1989 Studies in the Way of Words, Harvard University Press, Cambridge, MA. Hamilton Caico, Louise 1910 Sicilian Ways and Days, London; trad. it Vicende e costume siciliani, Edizioni Lussografica, Caltanissetta 1996. Hamilton, Frederick 1877 Bordighera in gennaio 1877. Vade mecum del forestiere, Giribaldi, Bordighera. 1883 Bordighera et la Ligurie Occidentale. Manuel à l’usage de la colonie étrangère, Chez l’Auteur, Bordighera. Kumon-Nakamura, Sachi, Glucksberg, Sam, Brown, Mary 1995 How about Another Piece of the Pie: The Allusional Pretence Theory of Discourse Irony, «Journal of Experimental Psychology: General», 124. 7  Louise Hamilton tradusse in italiano: Emma Frances Drake, Quel che la donna di 45 anni deve sapere (Torino, 1915), Maurice Maeterlinck, Il tempio sepolto (Roma, 1923), Poesie: il regno del silenzio (Roma, 1924), Georges Rodenbach, Visioni di Fiandra (Roma, 1926), Charles Swinburne, Canti scelti (Lanciano, 1931).

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Messana, Federico 2000 Mia Cara Lulù, ovvero, I lamenti di don Eugenio, Milano, disponibile online (http://www.messana.org). Park, Robert E.  1990 Migrazione umana e l’uomo marginale, in Simonetta Tabboni (a cura di), Vicinanza e lontananza: modelli e figure dello straniero come categoria sociologica, Franco Angeli, Milano. 1892 Royal Colleges of Physicians and Surgeons in Ireland, «The Lancet», August 13, 1892.

Alterità e métissage nella scrittura di esilio di Elisa Chimenti, «eterna viaggiatrice nel paese delle chimere» Camilla M. Cederna

Suis-je à Naples, au Casale, à Malte, à Tunis ou au Maroc? Est-ce le présent ou le passé que je vis? Je ne sais pas, je ne sais plus. Je ne trouve plus de terre ferme où appuyer ma sandale d’éternelle voyageuse au pays des chimères… Chimenti, À la limite de l’ombre, 402

Una sola patria, la terra «Nel più cristiano dei mondi / tutti i poeti sono ebrei», così scriveva Marina Cvetaeva nel suo Poema della fine, per definire l’essenza della poesia come sempre legata all’esilio e all’erranza1. Scrivere la propria esperienza migrante al femminile, il proprio dispatrio, volontario o forzato, significa allora in modo ancora più radicale attraversare frontiere, oltrepassare confini di ogni genere. Benché relegate ai margini di una tradizione incentrata su canoni e modelli maschili, alcune scrittrici nomadi e invisibili hanno potuto affermarsi, contribuendo con la loro attività e le loro opere, in modo a volte determinante, a spostare e a volte anche a sovvertire i limiti di questa tradizione2. Tra queste, mi soffermerò in particolare su Elisa Chimenti (Napoli 1883-Tangeri 1969), scrittrice, filosofa, giornalista, trasferi1  «Cosa vuol dire? Ogni poeta è fuori luogo, in viaggio. Si tratta di una condizione dunque non solo ebraica di non appartenenza, di erranza appunto. Le mappe dei poeti saranno dunque sempre instabili e tracciano una geografia nuova», Miglio 2015, 71. 2  Cfr. Tatti 2021; De Lucia 2017; Braidotti 2003.

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tasi nella primissima infanzia con la famiglia prima a Tunisi e poi a Tangeri, in Marocco. Dopo aver viaggiato in Europa ed essersi stabilita per qualche anno per motivi di studio in Germania, dove scriverà i suoi primi due libri in tedesco (1911, 1913), tornerà nella città di Tangeri che eleggerà a sua terra d’esilio-asilo. Qui insegnerà qualche anno alla scuola tedesca, la Deutsche Schule3, per poi fondare con la madre, nel 1914, la prima scuola italiana del Marocco. Proprio questa città, internazionale e multietnica, crogiuolo di lingue, culture e tradizioni, sarà determinante nella particolare formazione della scrittrice, poliglotta e simbolo del dialogo interculturale e interconfessionale. Atea da parte di padre e cattolica da parte di madre, considerata ebrea da alcuni4, Elisa studia da attenta e appassionata antropologa le tre religioni monoteiste. Spinta dal suo bisogno di soprannaturale, che la religione cattolica non soddisfa, ad avvicinarsi sempre di più all’Islam, si avventurerà nei territori della magia popolati da spiriti ostili e irrequieti, jins e alieni, e al tempo stesso svilupperà un infinito amore per l’umanità e la natura nel suo complesso che diffonderà attraverso le sue numerosissime opere. Con le sue esplorazioni nei più diversi campi dell’immaginario, con il suo sguardo volto al passato ma anche al presente e al futuro, questa «eterna viaggiatrice» non ha mai smesso di farci viaggiare con lei oltre confini, pregiudizi, chiusure. Il suo atteggiamento aperto e volto al superamento delle frontiere nazionali e identitarie, nella tensione verso un unico luogo inclusivo di ogni appartenenza, in sintonia con i suoi ideali di fratellanza universale, è chiaramente espresso in questa “briciola” di pensieri, della raccolta inedita Miettes de pensées, miettes d’images, miettes de croyances et de rêves, miettes de sagesse et de folie:

3  A questa esperienza ha dedicato un interessante saggio autobiografico inedito: Die Deutsche Schule. 4  «La littérature marocaine est plus importante en arabe qu’en français. Nous ne trouvons pas de romans écrits en français par des femmes avant l’indépendance du Pays (2 mars 1956) il faut donc attendre 1958 pour voir Elisa Chimenti, Juive de Tanger, publier Au cœur du Harem, roman marocain, le titre lui-même est bien dans la ligne de certains romans français ou d’Elissa Rhaïss en Algérie du temps de la colonisation», Déjeux 1994, 45.

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Patrie Pour chacun de nous Un petit intérêt égoïste Qu’on défend envers et contre tous Il ne devrait y avoir pour tous les hommes Qu’une seule patrie, la terre5. (Miettes, 20)

Malgrado l’oblio quasi totale in cui è caduta dopo la sua scomparsa, da qualche anno questa grande scrittrice e intellettuale è stata riscoperta. La sua figura e la sua opera che, oltre ai testi già pubblicati6, comprende numerosissimi inediti, più di trenta, di eccezionale interesse dal punto di vista letterario, storico e antropologico, sono oggi al centro di un importante progetto internazionale di ricerca e di edizione7. A partire da alcuni testi per la maggior parte inediti, vorrei qui riflettere sul modo in cui, per quanto riguarda la rappresentazione degli spazi e dei luoghi, l’esperienza dell’esilio, nella sua dimensione femminile, ha influenzato la sua scrittura che appare caratterizzata dalla trasgressione delle frontiere linguistiche, culturali e generiche e da una particolare relazione con l’alterità. Lo spazio, come vedremo, assume un ruolo centrale nelle sue opere, in quanto costruzione culturale, «paradigma della proiezione sul territorio di una serie di significati già elaborati in precedenza», deposito e «grande collettore di motivi e moduli culturali» (Alfano 2010, 31-32). Alcune città come Napoli, la città natale e luogo di partenza, da un lato, e Tunisi e Tangeri, luoghi di transito e di arrivo, dall’altro, emergono come entità composite e multiculturali, risultato dell’ibridazione e del métissage, attraverso le quali esprimere lo sradicamento e al tempo stes5  Si tratta di una raccolta di aforismi su vari aspetti dell’attualità e della cultura marocchina, scritto negli anni del dopoguerra. 6  Chimenti 2009: questa antologia raccoglie tutte le opere pubblicate durante la sua vita: Légendes marocaines (1959); Au cœur du harem (1958); Èves marocaines (1934); Le sortilège et autres contes séphardites (1964); Chants de femmes arabes (Rennaiat ennessa) (1942). 7  Il Laboratoire Associé International (LAI) tra l’Università di Lille e La Sapienza, al quale collaborano molte altre università in Francia, Spagna e Italia, tra le quali l’Università di Pisa e l’Università di Siviglia. Per la riscoperta dell’opera di Elisa Chimenti, cito tra le principali ricerche: Bénayoun-Szmidt 1999; Cutrufelli 2001; Benzakour Chami 2001; Benini 2001; Benchekroun 2009; Tamburlini 2009; Zemmouri 2006a, 2006b, 2007, 2017a, 2017b; Torres Calzada 2017; Marchetti 2017; Re-Roso 2019. Per quanto riguarda i suoi inediti: Cederna 2019, 2020, 2021.

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so valorizzare la diversità e la pluralità delle appartenenze8. D’altra parte, la rappresentazione degli spazi è anche un campo in cui si confrontano e spesso oppongono diversi modelli e comportamenti culturali, rispetto ai quali la scrittrice prende apertamente posizione: il Marocco e più in generale il Maghreb, da un lato, e l’Europa e l’Occidente, dall’altro. In quanto risultato di fenomeni di circolazione, incroci tra lingue, culture, tradizioni, alcuni luoghi del dispatrio, come la città di Tangeri, per esempio, vengono femminilizzati, mentre altri, profondamente segnati dalla presenza femminile, assumono un ruolo centrale nella narrazione. Sono gli spazi (terrazza, casa, harem, cortile), frequentati dalle donne che li invadono con i loro riti, ma soprattutto con la loro voce, i loro racconti, mettendo in circolazione miti, leggende, tradizioni, credenze popolari, canti di amore e di nostalgia, che costituiscono il tessuto e la trama della scrittura di Elisa Chimenti. Luoghi e voci d’esilio: Elisa/Khadidja9, dall’Italia al Marocco In un testo autobiografico inedito di grande interesse, Khadidja de l’île sarde10, Napoli, la città in cui la scrittrice è nata alla fine dell’800, diventa il punto di partenza da cui tracciare la sua genealogia dell’esilio. Nel breve paragrafo iniziale, appaiono tutti gli ingredienti del métissage geografico e culturale delle sue molteplici appartenenze: Je suis née dans un vieux ‘palazzo’ napolitain dont les sept terrasses fleuries dominaient une des baies les plus belles du monde. Mon père, Don Giovanni Azzuni était absent de Naples à ce moment. Il se trouvait en Sardaigne, près de Sassari et surveillait la cueillette des olives dans notre domaine de ‘Monte di 8  Per quanto riguarda la nozione di “ibrido” e “ibridazione”, come coesistenza e combinazione in un testo di una molteplicità di stili e di voci, rimando a Bakhtine 1978, e al saggio di Budor-Geerts 2004. Per la nozione di métissage, Contini 2009; LaplantineNouss, 1997, trad. it. 2006; Glissant 1990, trad. it. 2007. 9  Khadija, la prima moglie del profeta Maometto, occupa un ruolo particolare nell’Islam, in quanto donna libera, commerciante, poi sposa madre e amante; sarebbe stata, secondo la tradizione musulmana, la prima a credere nella profezia di Maometto e per questo sarebbe la seconda musulmana dopo di lui (https://www.bbc.com/afrique/monde-56009180). 10  Si tratta del capitolo finale di un vasto romanzo inedito di esilio e di formazione, L’appel magique de l’Islam.

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Manu’. Ma mère, une Parisienne que la Commune avait chassée de France et que le mariage avait fixée à Naples se désolait de voir l’octobre mourir dans les brouillards et le mois de novembre s’annoncer par des pluies froides et tenaces ‘capables d’éteindre le Vésuve lui-même’, disait Rafaella, la forte Calabraise qui devait me servir de nourrice. (Khadidja, 263)

In questa evocazione delle coordinate spazio-temporali delle proprie origini famigliari (napoletane, sarde, francesi), la narratrice, Elisa/Khadidja, modifica la filiazione operando un salto generazionale, sostituendo al padre (Rosario) e alla madre (Maria Luisa Ruggio), rispettivamente l’antenato materno di origini sarde (Don Giovanni Azzuni) e la nonna parigina (Clémence Charloneix). Più avanti nella narrazione, il bisnonno, il fisico inglese Tiberio Cavallo, viene definito «nostro zio». Questa contrazione temporale permette alla narratrice di sottolineare la sua condizione di esilio comune ad altri membri della sua famiglia, e al tempo stesso di rivendicare la pluralità della propria identità. Le origini napoletane sono evocate attraverso i passaggi iniziali in cui la narratrice ricorda le circostanze della propria nascita descrivendo la città di Napoli nel giorno dei morti con una precisione sorprendente, per averci vissuto solo i primissimi mesi di vita e non esserci mai più tornata in seguito. Al tempo stesso, i segni dello sradicamento e dell’alterità caratterizzano fin dalla nascita la protagonista, che come lei stessa osserva, appena nata assomigliava a «una turca di Tunisi o di Algeri»: «J’étais, paraît-il, aussi brune qu’une Turque de Tunis ou d’Alger et petite, si frêle, que ma mère craignant pour mon éternité décida de me faire baptiser sans attendre le retour de mon père» (ivi, 264). Questa sua somiglianza si spiega in effetti subito dopo, con la descrizione dei luoghi in cui affondano le sue più antiche radici, «l’isola sarda» irrigata dal sangue ardente degli avi saraceni, che determinerà i suoi comportamenti, il suo temperamento coraggioso e vendicativo, ed anche le sue credenze nel mondo magico e misterioso dei «djins orientali»: Ma marraine Donna Marietta Nolli suspendit à mon cou, de nombreuses amulettes pour me délivrer des effets de l’œil mauvais; elle traça sur mon front le signe de la croix afin de me protéger du démon et aussi, dit-elle, de mes lointains aïeux les Sarrasins qui, amis des vents imprévus et habiles dans l’art des abordages s’étaient rendus maîtres de l’Île Sarde et y avaient régné pendant plusieurs siècles. Ils y avaient laissé, en la quittant – qui pouvait l’ignorer sur le continent? – leur sang ardent, la pâleur de leur teint, leur indomptable courage,

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une partie de leurs croyances, leur amour de la guerre, leur soif de vengeance et, dans les ‘mystérieuse nurraghe’, des génies frères des ‘patrunelle du locu’, filles dégénérées des dieux lares, et des djinns orientaux. (ivi, 264-265)

Questo profondo legame con il mondo arabo grazie alle origini sarde, è sottolineato anche nella breve biografia posta in epigrafe dell’opera inedita scritta a quattro mani con Moulay Driss, Cherif De Ouazzan, A Fairy Tale / Un conte de fées: Madame Elisa Chimenti l’auteur de plusieurs livres sur le Maroc est de par son père, l’arrière-petite-fille du célèbre physicien anglais Lord Tiberio Cavallo. Elle descend de par sa mère, du vice-roi de Sardaigne Azzuni, et garde de ses ancêtres sardes, l’amour de l’Islam et la compréhension de l’âme arabe dont nul arcane ne lui est ignoré. Aussi ses livres sont-ils une image fidèle de la pensée, des croyances, des mœurs du Maroc. (A Fairy Tale / Un conte de fées, 2)

Elementi appartenenti a diverse tradizioni e credenze mediterranee, tra la Sardegna, Napoli e il Marocco, si mescolano nella descrizione della sua terra di origine, così «nei misteriosi nuraghi» si possono ritrovare «i geni fratelli delle “patrunelle du locu”, figlie degenerate dei Lari e dei djins orientali» (Khadidja, 265). La Sardegna, Napoli, i luoghi delle origini, come quelli in cui si stabilirà in seguito, sono per Elisa Chimenti palinsesti di voci, di tracce che uomini e donne lasciano nel loro cammino attraverso le diverse aeree e sponde del Mediterraneo. Le città stesse sembrano segnate dall’esperienza dell’erranza, come Napoli che in un’altra “briciola di pensieri” definisce, «Une ville andalouse égarée en Italie» (Miettes, 17). Sulle ragioni della partenza da Napoli della famiglia Chimenti all’inizio del 1884, circolano diverse ipotesi e la ricerca è ancora in corso11. Tuttavia, i motivi politici che avrebbero costretto all’esilio il padre Rosario, garibaldino, anarchico e libertario, sono chiaramente enunciati in Khadidja12 e nel lungo romanzo autobiografico inedito, 11  La complessa vicenda biografica, per molti aspetti ancora da studiare, è stata ricostruita da Maria Pia Tamburlini, con la collaborazione di Mirella Menon, sulla base di documenti d’archivio e numerose testimonianze da lei stessa raccolte, cfr. https://www.elisachimenti.org/biographie_fr.html; https://www.elisachimenti.org/texte/biographie_elisa_doc/ chronologie.pdf 12  «Bien que descendant d’une famille de tyranneaux et très fier e son origine, mon père aimait les humbles d’un grand amour fait de pitié et de justice. Fermement convaincu qu’on ne pouvait trouver cette dernière comme le paradis qu’à l’ombre des épées croisées,

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À la limite de l’ombre. In quest’ultima opera scritta in prima persona da una narratrice che Elisa finge essere sua madre, vengono descritte con vari interessanti particolari le persecuzioni di cui fu vittima il marito a causa della sua attività politica, da parte delle autorità italiane e francesi, prima a Napoli e in seguito in Tunisia. A Napoli, Don Bruno, così viene nominato il padre nel romanzo, si diceva che facesse parte di una società segreta «infinitamente più pericolosa della ‘camorra’», poiché aveva come scopo la condivisione tra tutti gli uomini delle ricchezze della terra e il raggiungimento della giustizia sociale13. Dimentico della propria famiglia, elargiva i suoi averi con grande generosità e collaborava con un quotidiano, «l’Africano», che propagava pericolose idee sovversive «risalenti ai tempi dei Vangeli», scrive la narratrice con ironia14. Venne persino arrestato, e infine «obbligato a lasciare l’Italia»: «Surveillé par les autorités qui ne demandaient qu’un prétexte pour se défaire de lui, mon mari fut obligé de quitter l’Italie, de recommencer sa vie ailleurs» (À la limite de l’ombre, 439)15. Tunisi, la prima tappa dell’esilio, coincide con la scoperta di un nuovo mondo di magia e di misticismo, dove la bambina potrà soddisfare la propria sete di soprannaturale, la propria attrazione verso le forze incognite e misteriose. È nella vecchia casa araba, nel quartiere di Halfahouine dove la famiglia va a abitare, che sentirà per la prima volta la voce del muezzin, «la voix nouvelle et pourtant familière du mouddhen, l’appel solennel, tendre, impérieux de l’Islam clamer dans la luminosité des matins, à la mort du jour et dans les ténèbres, la grandeur infinie de Dieu et m’appeler du lointain des générations et des âges» (Khadidja, 268). La bambina si appropria degli spazi, il luttait pour le peuple contre les grands et défendait avec passion ses droits méconnus. Il fut jugé dangereux en haut lieu, persécuté et enfin exilé», Khadidja, 265. 13  «Don Bruno, disait-on, faisait partie d’une société secrète, infiniment plus dangereuse que celle de la ‘camorra’ car elle s’était donnée pour but de partager entre tous les hommes également les richesses de la terre et de faire régner ce qu’ils appelaient la justice sociale. Il était donc surveillé par la police et avait même connu la prison …», À la limite de l’ombre, 433. 14  «Bruno donnait son bien sans compter. Oublieux de la famille à venir, il fondait des hôpitaux, créait des écoles, publiait un quotidien ‘l’Africano’. Ce journal qui propageait ces idées qu’on appelle dangereuses et nouvelles, sans doute parce qu’elles datent du temps de l’Évangile, enseignent ou réclament la justice […]», ivi, 438. 15  Troviamo la spiegazione circa le ragioni politiche dell’esilio anche nel Journal de Tanger del 12 maggio 1962.

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«j’avais la cour», «le riad m’appartenait», a lei si rendono visibili gli spiriti, i geni che infestano il pozzo, soprattutto all’ora del tramonto. Ma il luogo che più l’affascina è la terrazza, «o piuttosto una lunga serie di terrazze» che «sembrava non avessero confini». Dall’alto può sporgersi sul vuoto e ammirare il paesaggio delle case e dei tetti in lontananza, osservare i passanti per le strade. Poi lo sguardo si sposta verso l’alto e come in una visione le appaiono i minareti, «simili a enormi asfodeli», che assumono sembianze umane e s’innalzano cantando con una voce infinitamente malinconica: «Pareils à de géantes asphodèles, ils montaient dans l’air pâle et chantaient d’une voix grave, mélancolique infiniment, qui s’élevait comme une aile jusqu’aux teintes de pourpre de l’horizon et revenait mourir en lents murmures sur la ville et sur nos terrasses» (ivi, 270). L’incredibile attrazione della bambina verso il misticismo dell’Islam viene qui descritta grazie a un’abile strategia retorica, caratterizzata dal ricorso a metafore tratte dal campo semantico della natura (asfodeli), e a personificazioni. I minareti, ai quali viene attribuita una voce, per metonimia, le sembrano addirittura piangere nel ricordo dei dolori dell’esilio, per aver lasciato l’Andalusia. Così sostiene Joselito, il vecchio giardiniere, mentre la madre, citando le celebri terzine dantesche, Era già l’ora in cui volge il desio ai navigante intenerisce il core lo dì che han detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin d’amore piange se ode squilla da lontano che paia il giorno pianger che si muore. (ibid.)16

suggerisce che il muezzin pianga per il giorno che muore, «le mouddhen pleure l’agonie du jour qui se meurt». Attraverso la descrizione dei luoghi, la narratrice racconta la propria progressiva conversione all’Islam, avvenuta, come abbiamo visto, anche grazie alla magia della voce del muezzin poiché, come le diranno le amiche della madre e come lei stessa imparerà ben presto, «l’Islam est une liqueur enivrante celui qui en a une fois goûté ne peut plus 16  Il testo corretto delle terzine qui citate a memoria, è: «Era già l’ora in cui volge il disio / ai navicanti e ‘ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio; / e che lo novo peregrin d’amore / punge, se ode squilla di lontano / che paia il giorno pianger che si more», Purgatorio VIII, I-6.

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s’en passer» (ivi, 276). Questa voce diventerà sempre più presente e invadente fino al punto di penetrare in una chiesa di Tangeri, dove la narratrice si troverà con la sorella alcuni anni dopo, nell’età della maturità, e dove all’improvviso sentirà una voce solenne in lode di Allah irrompere nel tempio: la chahada, l’irrestibile richiamo dell’Islam: «Ce n’est pas une illusion, cette voix je la connais: c’est la même qui, jadis, m’appelait sur les terrasses de Halfaouine: celle qui par les nuits animées du ramadan tunisien se glissait dans ma chambre enténébrée pour dissiper mes craintes d’enfant […] C’est l’appel irrésistible, l’appel impérieux de l’Islam, comment pourrais-je lui résister?» (ivi, 290). La città di Tangeri viene adesso osservata da una nuova prospettiva, un nuovo punto di vista, nato da una profonda consapevolezza religiosa, che ora distingue e assegna agli spazi urbani, significati diversi, anzi opposti. La città appare divisa. Nel quartiere elevato, la Casbah, «lontano dalla vita occidentale», nel quale abita la narratrice e dove regna una forte devozione religiosa, la voce del muezzin «sale come un incenso verso Dio», accompagnata di tanto in tanto dalle voci degli umili artigiani, mulattieri, portatori di acqua (guerrab) venditori di pane: «Dans mon quartier, éloigné de toute vie occidentale, la voix du minaret évocatrice des joies lointaines de l’enfance, monte comme un encens vers Dieu, les Musulmans dévots se hâtent vers la paix des mosquées et des sanctuaires» (ivi, 291). Mentre in basso, ai piedi della collina, ai suoni e agli odori agro dolci del quartiere popolare, pervaso dal sentimento religioso, si oppongono i rumori della «ville européenne», dove i caffè brulicano, i cinema e i cabaret risuonano di «note troppo allegre», le ragazze si «rammolliscono il cuore» e s’infiammano davanti alle immagini «convenzionali», ossia non autentiche, stereotipate, che offre loro la pellicola: «jeunes femmes et jeunes filles en robe du dimanche vont s’amollir le cœur et s’enflammer l’imagination aux scènes d’amour conventionnelles que leur offre l’écran» (ibid.). Tra questi due mondi, quello dei ricchi, gli occidentali, gli abitanti della città europea, spensierati e inconsapevoli, da un lato, e quello dei musulmani umili e devoti, gli abitanti della città alta, dall’altro, non c’è comunicazione17. Anche la natura, tanto amata e celebrata in tutti i suoi scritti, con le sue distese di fiori, margherite, narcisi, mimose, 17  I non valori della colonia europea, sono espressi nel breve testo-briciola «Colonie européenne de Tanger: Ambiance cosmopolite composée presqu’entièrement des non valeurs d’Occident», Miettes, p. 20.

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biancospini, «champignons largement ouverts comme des parasols de fées coquettes» (ibid.), i suoi animali, le piccole vacche, i cavalli, i tori, le cicogne, gli aironi, appartiene a un mondo semplice e autentico, pieno di mistero e di magia, incompatibile con la vita occidentale. Alla sera, sulle strade «les automobiles des riches, glaces levées, il fait froid, rentrent de la campagne» (ibid.), bisogna difendersi, fuggire dall’ombra traditrice che al tramonto invade l’Oriente: Six heures déjà! l’ombre s’en vient, sournoise, elle envahit l’Orient cependant que le couchant verse des flots d’or froid sur les montagnes. Effrayées par l’approche de la nuit, les Européennes les bras chargés de paniers remplis de fleurs – iris bleus ou narcisses au cœur d’or – et de champignons – oronges, mousserons ou giroles – regagnent les autos qui les attendent sagement au bord de la piste. (ivi, 292)

La voce del muezzin che occupa ogni spazio fisico e mentale nell’esperienza della protagonista del racconto, fino a spingerla alla conversione finale, costituisce il filo conduttore del racconto. Un filo che s’intreccia alle molte altre voci che riempiono spazi più chiusi e privati, occupati dalle donne di casa, tra le quali la levatrice Donna Maddalena Micione (la vammana), la madrina Donna Marietta Nolli, e poi le balie venute dall’Italia, per accompagnare la famiglia in esilio durante il primo soggiorno a Tunisi: Rafaella, la calabrese, Nzula venuta da Girgenti che aveva «la grazia dei marmi antichi» (ivi, 271), Catarina e Nannina le napoletane. Sedute, nelle serate d’autunno, davanti a un braciere, con le loro leggende di santi, i loro canti popolari e colti, queste figure femminili onnipresenti, compresa la madre, aiutano ad alleviare la malinconia della bambina. Le credenze popolari, come quella dell’intervento nefasto del diavolo al momento del battesimo, si mischiano alle ninne nanne cantate da Rafaella («Je savais déjà que la musique est un exorcisme», ivi, 277), alle arie natalizie degli Appenini, quelle di un villancico spagnolo e ancora al canto, Stille nacht, imparato dalla narratrice in esilio: «Je chantais le “stille nacht, heilige nacht” – nuit tranquille, nuit silencieuse – appris dans l’exil» (ivi, 301). I canti si alternano alle leggende dei santi (San Nicola, Santa Filomena, Santa Lucia), a quelle di Caterina, la napoletana dai capelli crespi, più andalusa che italiana, che sono un miscuglio di tradizioni greche e spagnole, retaggio della presenza araba sulle coste della Sicilia e della Campania, e alla canzone di Rinaldo che Nannina aveva imparato sul

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molo del Carmine dai lazzaroni: «Nannina ne connaissait que la chanson de Rinaldo qu’elle avait apprise sur le môle du Carmine aux jours lointains où les lazzaroni qui ne s’appelaient pas encore des scugnizzi et ne s’occupaient guère de politique, se nourrissaient d’une tranche de pastèque et d’un chant du Tasse ou de l’Arioste» (ivi, 278). Si tratta di recitativi imparentati con forme musicali arabo-andaluse, migrate dalla Spagna in Nord Africa, poi in Sicilia e infine nelle campagne del Sud Italia: «Les yeux fermés elle commençait un lent récitatif fils ces étranges noubas qui nées en Andalousie envahirent tout le Nord de l’Afrique et se glissèrent jusqu’en Sicile et dans les campagnes du Sud de l’Italie où elles sont connues sous le nom de ‘canta a figliola’» (ivi, 278-279). Alcuni di questi racconti sono in forma di poemi popolari, come lo zejel, un poema in rima, dalle armonie un po’ orientali, spiega la narratrice, e un po’ occidentali, inventato dal poeta musulmanoandaluso Ben Moustapha el Cabri, che si diffuse in Francia e in Italia. Ripreso dai poeti spagnoli del Medioevo, scomparve in Andalusia nel XVII secolo, ma il suo ricordo è ancora vivo nella poesia popolare marocchina (ivi, 279). Trasmesso dalle figure femminili, questo patrimonio culturale orale di canti, leggende e credenze popolari che emerge attraverso i ricordi dell’infanzia si mescola a quello popolato da geni, creature invisibili e soprannaturali, che le sarà raccontato più tardi dalle donne marocchine nelle case di Tangeri. Elisa Chimenti riesce a cogliere le affinità, tematiche e stilistiche, gli incroci, i passaggi tra queste diverse forme dell’immaginario che attraversano i vari paesi, dal Nord al Sud, dalla Spagna, all’Italia e al Marocco, per confluire nel grande bacino del folklore mediterraneo. Studia, rielabora, traduce questo materiale nel ricchissimo e diversificato laboratorio della sua scrittura, che risulta essere fortemente ibrida e polifonica, anche grazie alla disseminazione di parole, frasi e citazioni in lingue diverse: – in italiano, oltre alle terzine di Dante già citate: palazzo; castagnari; lazzaroni; gelati; rosolio; popolino; scugnizzi; bambino Gesù; zampognari; Saraceni; vendetta; Signore perdonatele; – in napoletano: vammana; signurinedda; patrunelle du locu; canta a figliola; Felice notte, Signurina; Masaniello, puverielle, Faticava pe mangia; – in spagnolo: Camino des espinas; camino de flores; par donde caminan todos los pastores; De… Napoles ni el polvo;

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– in tedesco: Stille nacht, heilige nacht; – in arabo: kefra; guerrabs; qacida; neffar; attar; sefaj; zaouia; chahada; djinn; cab; mejmars; riad; merheba bik; harem; asfa; tolba; faquiha «Les villes comme les hommes ont un destin»18. Tangeri città plurale: tra storia e leggenda Tangeri, la sua città di adozione, zona internazionale dal 1923, città multietnica e multiculturale, situata strategicamente sullo Stretto di Gibilterra, porta d’accesso al Mediterraneo occidentale, terra d’esilio e d’asilo, che ha accolto rifugiati e viaggiatori da tutta l’Europa, costituisce uno spazio simbolico estremamente ricco di significati (Tamburini 2006; El Kouche-Samrakandi 2006). All’incrocio tra storia e leggenda, questo luogo di transizione, di circolazione e di scambio tra le diverse culture, lingue e tradizioni, tra passato e presente, Oriente e Occidente, Nord e Sud, oceano Atlantico e Mediterreaneo, ha particolarmente segnato la scrittura di Elisa Chimenti. Contrasto, mosaico, contatto, crogiuolo, amalgama: con questi termini la scrittrice si riferisce alla sua città, spazio multietnico e multiculturale, risultato di un continuo processo di ibridazione e di métissage, come risulta da queste “briciole di pensieri”: Tanger d’hier Contraste unique et prodigieux Entre le moyen âge Et la civilisation d’Occident (Miettes, 32) Tanger Mosaïque de races (ivi, 39) Tanger Contact singulier de langages, De mœurs, de races, de croyances (ivi, 23) Tanger Un creuset (ivi, 67) Tangérois Amalgame de religions et de races (ivi, 66) 18 

Epigrafe del racconto inedito, Agmat, FMEC.

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Per capire i percorsi di questa scrittura polifonica e plurale, un testo particolarmente significativo è il saggio La légende à Tanger (1932), che apre la sua raccolta Légendes marocaines (1959). Le radici della cultura tangerina-marocchina e delle sue leggende in particolare vengono analizzate attraverso un’analisi storica delle origini, al tempo stesso ricostruendo i miti e le tradizioni secondo una complessa cartografia che include leggende pre-islamiche e islamiche, spagnole, ebraiche, cristiane, miti e racconti primitivi riportati dai geografi arabi. Il testo ben rivela la strategia della scrittura di Elisa Chimenti, sul piano dell’espressione e del contenuto, nel tentativo di esprimere la circolazione e la contaminazione tra i diversi miti, credenze e tradizioni, che ancora una volta la scrittrice definisce «un amalgama», all’origine delle leggende di Tangeri: Bien que faisant partie du folklore marocain, le trésor des légendes tangéroises diffère de celui des autres régions du Maroc en ce qu’il n’est ni purement arabe ni entièrement berbère- la pensée mâle des Arabes, celle rude des Berbères s’arrêtent aux abords de Tanger, femme et voluptueuse- mais un amalgame de toutes les croyances que firent connaître à la ville et à son Fahs […] les peuples dont elle fut la captive et l’aimée […] (Chimenti 2009, 22).

Per questa sua natura composita e plurale, fonte estremamente fertile di creazione, oggetto di amore e di conquista da parte d’innumerevoli popoli colonizzatori19, la città è rappresentata al femminile: «[…] car telle une courtisane antique initiée de bonne heure aux mystères d’Astarté et d’Adonis, cette reine de la Méditerranée parfumée comme la Sulamite du roi Souleiman de myrrhe, d’encens et de toutes sortes d’essences, sut de tout temps attirer l’étranger par son charme et lui demeurer fidèle, à quelques révoltes à quelques infidélités près» (ibid.). La disseminazione delle molteplici origini, tra storia e invenzione, della città e delle sue leggende, comporta una decostruzione dell’idea stessa d’identità, proponendo una genealogia non più fondata su una radice unica o totalitaria, ma su una radice multipla o rizoma, nozione alla base della poetica della 19  «Après les Grecs, vinrent les Carthaginois. […] Puis les Romains, les Goths, les Vandales, les Byzantins, les Wisigoths d’Espagne, les Arabes, les Normands, les Républiques Italiennes, Gênes, Pise, Venise, les Portugais, les Espagnols, les Anglais abordent à nos rives», ivi, 27.

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relazione, secondo la quale «ogni identità si definisce in rapporto all’alterità»20. Crogiuolo di lingue, culture, tradizioni diverse, l’essenza della città e delle sue leggende può essere solo espressa attraverso un testo palinsesto disseminato di frammenti, riferimenti poetici e storici, citazioni, espressioni in lingue diverse (arabo, ebraico, italiano), traduzioni, che si alternano dialogando tra di loro: […] car malgré la grande lumière des temps nouveaux le Maroc demeure encore et toujours, la patrie des génies, Ifrikia Eddolma l’Afrique Ténébreuse, dont la porte occidentale, le Noukba-Yam-Rabba des vieux textes hébreux, le Bab-el-Yam du géographe arabe El-Bekri ne serait autre que le Boughas, le détroit redoutable où les eaux vivantes de la Mer obscure [Océan atlantique] se mariaient aux flots lourds et salés de la mer Blanche Intérieure [la Méditerranée], où les vents en se rencontrant formaient l’éternel tourbillon dont s’inspira le poète arabe et au centre duquel Dante au troisième chant de sa Divine comédie place: «Le anime tristi di coloro Che visser senza infamia e senza lode»  [les âmes coupables de ceux qui vécurent sans infamie et sans louanges] (La légende à Tanger, 23)

Ketaba: la scrittura come talismano Chacun de ces livres rappelle dans sa beauté, sa grandeur, sa foi, sa poésie profonde et mystique, sa vaillance son gracieux Volklore, le Maroc d’autrefois afin que ceux qui viendront après puissent y penser avec amour et admiration, avec regret aussi car il fut accueillant et généreux et offrit asile sûr à ceux qui vinrent y chercher une protection, l’oubli, la paix, le charme d’un passé partout, ailleurs aboli (Varie, sept. 2019)21.

20  Secondo l’idea sviluppata da Deleuze e Guattari, così ripresa da Édouard Glissant: «Gilles Deleuze et Félix Guattari ont critiqué les notions de racine et peut-être d’enracinement. La racine est unique, c’est une souche qui prend tout sur elle et tue alentour; ils lui opposent le rhizome qui est une racine démultipliée, étendue en réseaux dans la terre ou dans l’air, sans qu’aucune souche y intervienne en prédateur irrémédiable. La notion de rhizome maintiendrait le fait de l’enracinement, mais récuse l’idée d’une racine totalitaire. La pensée du rhizome serait au principe de ce que j’appelle une poétique de la relation, selon laquelle toute identité s’étend dans un rapport à l’Autre», Glissant 1990, 23. 21  Foglio inedito.

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In questo appunto inedito, pur riferendosi in particolare alle sue raccolte poetiche («chacun de ces livres») dedicate al Maghrib (Chants du Maghrib), l’autrice sta in realtà descrivendo la materia prima di tutta la sua opera, il Marocco, nella «sua bellezza, il suo splendore, la sua fede, la sua poesia profonda e mistica, il suo coraggio, il suo grazioso folklore». Il Marocco «d’autrefois», di una volta, specifica, come a sottolineare una perdita di valori della sua terra d’asilo, accogliente e generosa, che ha eletto a patria di adozione e che ha cercato attraverso la sua scrittura di far conoscere, capire e amare. Si tratta del paese più sconosciuto dell’Africa, il più oscuro, vicino eppure distante, come scrive in un articolo inedito, Moorish Women Thirty Years Ago, scritto due anni prima della morte (1967), proponendoci di svelarne il mistero: If everything we do not know is a mystery, then I am going to reveal to you a mysterious world – so near that it can be seen at a glance yet so far removed in respect to religion, learning, and all the arts and social customs, that even those who have lived many years in this land of the setting sun can catch only a glimpse of its strange beauty, its poetry, its harmony, and, alas, its sorrows. (Moorish, 1)

Il Marocco sembra vicino, ma occorrono molti giorni, mesi, anni per raggiungerlo, come le sue città nascoste dietro mura di bronzo, ed è poi impossibile varcare i suoi misteriosi cancelli, senza possedere l’anello di re Salomone. Perché per conoscerlo veramente bisogna capire l’anima segreta dei suoi abitanti, altrettanto impenetrabili, nascosti dietro un velo spesso di diffidenza e sospetto («thick veil of mistrust and suspicion against foreigners and unbelievers»). In questa visione, est ed ovest diventano le coordinate geografiche emblematiche della distanza che separa e spesso oppone due punti di vista, due prospettive: quella europea, occidentale, da un lato, e quella marocchina e musulmana, dall’altro: «East is far from the west and the difficulty of getting them to understand one another is enormous» (ivi, 3). Questa distanza può essere superata grazie al talismano, la ketaba, che con il suo articolo, e più in generale con tutta la sua opera, la scrittrice ci vuole offrire, per aprirci «the gates of mistrust and indifference», come l’anello di Salomone che aprì «the gates of genii cities enclosed by walls of brass» (ivi).

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La ketaba22, come spiega nel suo articolo, è la scrittura magica e religiosa, alla quale ricorrono le donne giovani o anziane, quando vogliono liberarsi da un marito insensibile o da un amico crudele, o proteggersi dal malocchio: […] they go to a fquih – that is, a learned man – and for a few coins, receive a long, thin slip of paper on which wise and holy words are written. This manuscript the call a ‘Ketaba’ and holding it with the greatest faith is the best way to make it efficacious. Like the key, I will give you a ‘Ketaba’ on which I will write many words which you must memorize before trying to gain the sympathy and love of this people- a talisman to open their hearts and let you know the ideals they pursue (ivi, 3-4).

Il mondo misterioso che Elisa Chimenti vuole svelarci in particolare è quello delle donne moorish23, ovvero marocchine o nordafricane, facendoci entrare nella loro casa, l’harem, per poterlo comprendere dall’interno, oltre gli stereotipi diffusi da alcuni osservatori occidentali. Con questo testo, la scrittrice intende infatti rispondere a una giornalista svizzera, che senza conoscere l’oggetto della sua indagine, né una parola di arabo, due anni prima aveva scritto un articolo denso di pregiudizi e di approssimazioni, considerando l’harem un luogo peggiore del manicomio. A questo proposito, ci ricorda il significato religioso della parola araba horma24, per poi definire questo luogo, un rifugio, uno spazio sacro, nel quale difendersi dalla crudeltà della vita: «a refuge against life and its cruelty, the sacred spot were the family lives in peace and affection, where modesty is possible» (ivi, 7). Oltre che per il suo valore documentario, l’articolo è particolarmente interessante sotto vari aspetti. Innanzitutto, per l’originalità del punto di vista dell’autrice, della sua riflessione, che si situa al tempo stesso all’esterno e all’interno della cultura marocchina, per 22 

In arabo kitaba significa scrittura, e kataba, écrire. Nella cultura popolare ha assunto il significato anche di talismano. Elisa Chimenti cita questa credenza in altri suoi scritti, per esempio nel romanzo Au cœur du harem, e nel racconto Le sortilège, nell’antologia (Chimenti 2009), rispettivamente a p. 239 e p. 613. 23  Moor, nell’uso inglese, significa marocchino, o anche musulmano di origini miste, arabe, spagnole, berbere proveniente dalla Spagna (Al-Andalus) dopo la riconquista. Qui sta a significare una persona di origini marocchine o nord-africane. Cfr. https://www.britannica.com/topic/Moor-people 24  Cosa sacra, inviolabile; onore; rispetto, venerazione.

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cercare di capirne e di farne capire le differenze dal pensiero occidentale («Always remember the Muslims do not think as we do» ivi, 4). Inoltre, con questa difesa delle donne marocchine, la scrittrice continua la sua battaglia di tutta una vita per dare loro voce e visibilità, valorizzando al tempo stesso il patrimonio culturale di cui sono portatrici. Come gli altri spazi frequentati in prevalenza dalle figure femminili, l’harem, la casa delle donne, a cui ci dà l’accesso, grazie al suo articolo-talismano, è il luogo dove nascono e si trasmettono i racconti, le leggende, i canti, le poesie, il luogo della ricchissima tradizione orale che nutre, trasformandosi la sua immensa opera ancora in gran parte da scoprire. Infine, il testo ci fa riflettere sulla funzione performativa della scrittura nomade di questa eterna viaggiatrice, che come una ketaba, un manoscritto dotato di poteri magici, può ora diventare ponte sospeso tra mondi altrimenti inconciliabili e irrimediabilmente lontani. Bibliografia Alfano, Giancarlo 2010 Paesaggi mappe tracciati. Cinque studi su letteratura e geografia, Liguori, Napoli. Bakhtine, Mikhail 1978 Esthétique et théorie du roman, Gallimard, Paris. Bénayoun-Szmidt, Yvette 1999 Mémoire culturelle judéo-marocaine en miroir in Le sortilège (et autres contes séphardites) d’Elisa Chimenti, in Vassiliki Lalagianni (a cura di), Femmes écrivains en Méditerranée, Publisud, Paris. Benchekroun, Ahmed 2009 Préface, in Elisa Chimenti, Anthologie, Senso Unico, Mohammedia, Casablanca. Benini, Emanuela 2000 Elisa Chimenti donna mediterranea, in Elisa Chimenti, Al cuore dell’harem, a cura di Emanuela Benini, E/O, Roma. Benzakour Chami, Anissa 2000 Elisa Chimenti vista dal Marocco, in Elisa Chimenti, Al cuore dell’harem, a cura di Emanuela Benini, E/O, Roma. Braidotti, Rosi 2003 Les sujets nomades féministes comme figure des multitudes, «Multitudes», 12-2.

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2017a Elisa Chimenti. Écrivaine marocaine, in Dictionnaire des créatrices, disponibile online (https://www.desfemmes.fr/dictionnaire-des-creatrices/). 2017b Lieux de Tanger dans Souvenirs d’une Tangéroise d’Elisa Chimenti, in Khalid Amine, Andrew Hussey, Barry Tharaud, José Manuel Goni Pérez (a cura di), Performing/Picturing Tangier. Tangier scénique (8-11 febbraio 2007, Tangeri), Altopress, Tangeri. Fonti manoscritte Tutti gli inediti di Elisa Chimenti sono conservati alla Fondation Méditerranéenne Elisa Chimenti di Tangeri (FMEC) (https://www.elisachimenti.org/ accueildef.html) Deutsche Schule Miettes de pensées, miettes d’images, miettes de croyances et de rêves, miettes de sagesse et de folies Khadidja de l’île sarde A Fairy Tale / Un conte de fées (scritto in collaborazione con Moulay Driss, Cherif De Ouazzan) À la limite de l’ombre Moorish Women Thirty Years Ago (1 maggio, 1967).

Elisa Chimenti, la donna mediterranea y su riḥla – viaje de vida en contexto islámico – en el imaginario de género Katjia Torres

1. Introducción Conforme a la propuesta investigadora de la profesora Celia del Moral (1998) que considera que la literatura es una disciplina que aporta documentación válida que esclarece la historia, abordamos la biografía de Elisa Chimenti desde la documentación contrastable de su poliglotía, al considerar esta última reflejo de su riḥla (viaje de vida por etapas). El período vital que registra más actividad viajera se extiende desde los 0 hasta los 29 años de edad, es decir, entre 1884 y 1913/4. En ese espacio de años, los 16 primeros, en su etapa tunecina, como los 8 siguientes, hasta 1907, en el inicio de su etapa tangerina, están estrechamente vinculados con las decisiones de su padre en lo que afectaba a su vida privada y laboral como médico, involucrando a la familia al completo. La tercera, hasta 1913/4, año del regreso definitivo a Tánger, marca un nuevo comienzo, hasta su fallecimiento, que amerita un estudio de investigación futuro. En la primera etapa (1884-1899) Elisa Chimenti, sin cumplir el año de vida, es trasladada de Nápoles a Túnez capital. En la segunda (18991907), la familia migra al Tánger bajo el protectorado europeo (Minṭaqa Ṭanŷa al-Duwalīya o Zona Internacional de Tánger). En 1907, se produce el fallecimiento inesperado de su padre y, hasta este momento, recorrerá el atlas rifeño acompañándolo, como su asistente en sus funciones de médico en los entornos domésticos de las mujeres donde tenía vetado, por tradición local, el acceso por su condición de hombre. La tercera (1907-1913/4), previo regreso de su supuesta riḥla de estudios en Alemania (Tamburlini-Menon 1998, 96), quedan comprendidos su viaje de novios, por Europa, en 1912, y los que realizase por Europa visitando Italia, España, Portugal, Holanda, Suiza y Polonia.

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El primer tercio de su longeva vida – 86 años –, está muy marcado, desde una perspectiva de género: 1) por la figura paterna1 (ivi, 91-93); 2) por la aculturación patriarcal en las tres culturas monoteístas – cristianismo, judaísmo e islam –, en el marco de la Alliance Israélite Universelle (Laskier 1984)2 la escuela coránica de Túnez capital y, posteriormente, en la Pharmacie Sorbier3, posteriormente conocida como Pharmacie Totier y; 3) por su condición de apátrida, al no ser reconocida ciudadana italiana, tras haber recibido la nacionalidad alemana, por la vía de la unión matrimonial con un naturalizado alemán de origen polaco. Su riḥla queda reflejada en su escritura, como manifestación de su hibridación cultural, religiosa y lingüística y, más especialmente, al internarse en la experiencia del exilio institucionalizado, socialmente hablando (Scattolin 1995, 3), del harén de las mujeres del Marruecos en el que vivió. Como muestra documental de dicha experiencia, presentamos una de sus obras más representativas de este imaginario colectivo de género en contexto islámico, en el marco de su riḥla al interior del país y a sus entornos íntimos de las mujeres de zonas rurales de montaña aisladas: Chants des femmes arabes. Rennaiat ennessa4. Constituye un cancionero que, según transmite Henri Duquaire5 de la correspondencia mantenida con la 1  Rosario Ruben Chimenti (Nápoles 1850-Tánger 1906/7). Escritor y cantante, garibaldino convencido, «dottore in medicina» y «professore alla facoltà di Napoli», es hijo de Nicola y Elisa Cavallo y, según recoge Elisa Chimenti en A Fairy Tale y biznieto del célebre físico inglés Lord Tiberio Cavallo (Nápoles, 1749-Londres, 1809). Con su esposa, Maria Luisa Ruggio, tuvo tres hijas Maria Esther Clemence, Maria Giulia Elia Clemence y Maria Dina Lorenzina, y un hijo, Ricardo Ermanno Renato Cesare. Todos nacidos en Túnez, salvo la más joven, Maria Dina, que nació en Tánger. Tenía una relación extramatrimonial con otra mujer, Maria Giraldi, con la que tuvo un hijo llamado Roberto (Túnez 24.09.1884-Tánger 21.02.1937), integrados en el mismo núcleo familiar. El dato de ejercer la profesión como profesor en la Facultad de Medicina de su ciudad natal, lo ofrece su biznieta Danielle Chimenti, en 1997. 2  Alliance israélite universelle Les écoles de l’Alliance israélite universelle en Tunisie https://www.youtube.com/watch?v=1YJU0AV_GDo. 3  Nombre recibido de su propietario el farmacéutico Mr. Edouard Sorbier. 4  Apareció originalmente en París, en el año 1942, de la mano de la editorial Plon, pero utilizamos la reedición de 2009, en Elisa Chimenti. Anthologie. 5  Periodista francés, nacido en Lyon, en 1904 y formado en la Faculté catholique de dicha ciudad. Es autor de numerosas obras vinculadas con el cristianismo, pero destacamos las relacionadas con Marruecos y, especialmente, con la cultura Tamazhga

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autora, recopila canciones/poemas traducidas, «littéralment, sans la moindre altération, mot pour mot» (Chimenti 2009, 783), de extensión variable y que se hallan dispersas en toda la producción literaria de Elisa Chimenti, como elementos estructurales de composición, siendo el caso de la primera novela del Marruecos independiente (1956): Au cœur du harem. Roman marocain (1958) de la que es autora (Torres 2019). Con este cancionero, Elisa Chimenti parece dar continuidad a un primero Meine Liedes6 (Leipzig 1911) – supuestamente, compuesto en su etapa universitaria en Alemania –, dando muestras – como comprobaremos en el apartado dedicado al imaginario de género, último de este estudio – de seguir la corriente cultural centroeuropea de finales del siglo XIX y principios del XX, de recopilación y conservación del lied o canción. Chants des femmes arabes. Rennaiat ennessa refleja la creación original y espontánea de mujeres que expresan su propio mundo interior desde el harén, conservado por Elisa Chimenti, desde la labor de etnóloga y/o antropóloga diletante, no solo como testigo de primera fila del proceso, sino también, como parte integrante del mismo, en su labor de recopilación y conservación a viva voz. 2. El viaje de vida por etapas (riḥla) y su narración (el jabar) La experiencia vital de la riḥla pasa a la tradición escrita en el siglo X d.C., bajo formato de jabar, dentro del género bio-bibliográfico (Ávila-Marín 1997; Rodríquez Mediano 1995; Wensinck 1978) en la literatura árabe e islámica que, al ser posterior al viaje, deviene crónica del mismo. Célebres son la Riḥla del valenciano Ibn Ŷubayr (m. 1217) y la posterior Riḥla del tangerino Ibn Baṭṭūṭa (m. 1368 o 1377). marroquí, siendo entre otras las más relevantes Anthologie de la littérature marocaine arabe et berbère y de la obra fotográfica sobre las mujeres bereberes Images du Maroc berbère, ambas publicadas en París, por la Librairie Plon, en 1942 y 1947, respectivamente. Reside en Marruecos desde 1929 colaborando, en calidad de enviado especial, con los periódicos Écho de Paris, Époque y Journal, en este último hace seguimiento de la Guerra Civil española. Desde 1960, es designado corresponsal permanente de Le Figaro, en Marruecos. 6  Así escrito en su curriculum vitae firmado el 21 de junio de 1956. Chimenti 2009, 873.

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El formato del jabar (noticia bio-biliográfica) utilizado por Elisa Chimenti7 es: una información, una relación de tipo oral y fragmentario, en la que el autor transmisor de la narración no se confunde con el narrador. El jabar pertenece a un mundo socio cultural en el que los viajeros que hablan de sus viajes no sienten la necesidad de consignarlos por escrito. Cuando se ponga por escrito en el siglo IX se hará entre los materiales recogidos en los diccionarios bio-biográfícos para luego desarrollarse en el cuadro de la epístola. (Maíllo Salgado 2006-2007, 107)

De esta forma, en el cuento “La Cadia” (1934) – encabezamiento, inicio y elementos estructurales compositivos – se evidencia que Elisa Chimenti es conocedora de esta tradición culta literaria, gracias a su formación clásica semítica: Je te raconte, «Ne crains rien, ne crains pas les génies. Les femmes de siècles passés, au dire de Mennana, ma voisine et amie, ne ressemblaient guère à celles d’aujourd’hui’hui. Dédaignant les riches caftans de soie à ramages d’or, les transparentes ferrajiat8, les sebani9 à longues franges, les bijoux, les subtils parfums et les fards qui embellissent, elles recherchaient la science «du berceau à la tombe» suivant le conseil du Hadith10. «La science, disaient-elles, vaut mieux que les richesses et le savoir est un plus grand trésor que les diamants et les perles.» Aussi, trouvait-on à Fès et ailleurs au Maroc, des femmes médecins, des femmes oukilat11 et même des cadiat12». (Chimenti 2009, 434)

Estas noticias (ajbār) son la estructura básica de las obras genealógicas y hagiográficas islámicas dentro de lo que se podría denominar el género biográfico en contexto islámico. Su función suele ser ilustrativa y su fin ejemplarizante y/o simbólico de dar veracidad a la revelación de las sagradas escrituras y a la tradición 7  A título de ejemplo, destacamos el cuento “La Cadia”, dentro de la colección Èves marocaines (Chimenti 2009, 434-439), cuya primera edición corrió a cargo de André Éditions Internationales y fue publicada en Tánger, en 1934. 8  Tuniques légères [Nde]. 9  Foulards [Nde]. 10  Con mayúscula en la edición [Nda]. 11  Avocates [Nde]. 12  Femmes cadi, juges [Nde].

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profética del islam, a través de las cadenas de transmisión consideradas fiables y veraces (Rodríguez Mediano 1995, 23), conformadas por ulemas, cadíes y tradicionistas, de los que se suele ofrecer una semblanza hagiográfica. Actualizado a su tiempo e innovando en la fórmula narrativa híbrida de este cuento-jabar “La Cadia”, Elisa Chimenti, respeta esta tradición: Or, à cette époque, il était à Fes, certain cadi riche et sage, qui avait épousé la fille d’un ouzir13, belle et chaste personne, profondément versée dans le droit musulman et s’honorant du titre de cadia auquel les Fassi14 pourtant frondeurs, avaient ajouté celui de adila15. Les oulama et les riches bourgeois s’étaient bien un peu moqués de Si El-Arbi, qui était allé chercher son épouse dans la phalange des chaqiat16. (Le mot féministe n’étant pas encore connu c’est ainsi qu’on nommait les femmes aux idées avancées.) Mais le cadi, au courant des critiques et des moqueries, ne disait mot et souriait dans sa belle barbe de roi assyrien : il paraissait satisfait de son mariage et amoureux de sa cadia. Zouleima, d’ailleurs, était très belle, bonne, charitable et traitait son mari d’égal et non point d’inférieur, bien qu’elle prétendit que les hommes manquaient de subtilité et de discernement, et qu’ils se laissaient influencer plus facilement que les femmes. (ivi, 435-436)

En su calidad de acto lingüístico, registran un nivel particular de discurso que requiere a todos los miembros del grupo un saber idiomático concreto que, en los fragmentos señalados, esta característica se desprende. Por ello, la riḥla de Elisa Chimenti, estrechamente vinculada con su identidad judeocristiana17 (Fer13 

Ministre du sultan [Nde]. Originaires de Fès [Nde]. 15  Juste [Nde]. 16  Malheureusses [Nde]. 17  Según reza en el acta de matrimonio (http://elisachimenti.org/texte/biographie_ elisa_doc/doc_bio2/29/29_acte_mariage.jpg) recogido en la página 10 del Trabajo de Fin de Grado de la alumna Dña. Barbara Weronika Kosowska. Reconstrucción biográfica de la Donna mediterranea Elisa Chimenti (Naples, 1883-Tanger, 1969), la primera novelista del Reino de Marruecos, tutorizado por la Dra. María Katjia Torres Calzada y defendido en junio de 2021, en el Área de Estudios Árabes e Islámicos del Departamento de Filologías Integradas de la Facultad de Filología de la Universidad de Sevilla, Elisa Chimenti es de confesión católica (Tamburlini-Menon 1998, 99; Benini 1999, 53), y su marido, protestante. Según el crítico literario Jean Déjeux (1995, 45) la define como «juive de Tanger». Esta acta nos induce a lanzar la hipótesis de que pueda ser judeocristiana, en realidad, bajo la consideración de que sea judía étnica (livorni) y que ambos tuvieran un sentimiento de pertenencia a la identidad judía. Solo baste recordar que el apellido Dombrowski es de origen judío y, en relación a la historia 14 

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nández 1975) y su estatus jurídico-legal de «italiana» apátrida (Tamburlini-Menon 1998, 102, 104, 112)18, queda diseminada en toda su producción narrativa y en la recopilación y conservación por escrito, esencialmente en francés pataouète, de la oralidad de las mujeres marroquíes, a través de cuentos populares, poemas y canciones, en su calidad de educadora y maestra, al tiempo que de antropóloga y etnóloga diletante.

reciente de España, conocida es la participación, como brigadistas internacionales, de miles de judíos polacos voluntarios en la Guerra Civil, en la Brigada Dombrowski de 1937 (150 BI), conocida posteriormente, como Brigada Botwin, dado que el primer nombre no era el oficial. Se trata de la única brigada de voluntarios judía, que luchó contra el fascismo y el nazismo. Fue la encargada de crear el primer periódico en yiddish, publicado el 12 de diciembre de 1937 y de la canción/marcha del batallón, titulada Marcha del Batallón y Brigada Dombrowski, Marsz Brygady Dąbrowskiego, compuesta en España a finales de 1936 por Anatol Czak, con música de autor desconocido. El texto en polaco es el que aparece en el Cancionero de las Brigadas Internacionales, editado por Ernst Busch en 1937 (http://hdl.handle.net/10366/22961). 18  No reconocida como ciudadana del Reino de Italia (1861-1946), en el momento de su nacimiento, ni, posteriormente, con el establecimiento de la República (1946) en el país, obtendrá la nacionalidad alemana, por vínculo matrimonial con un polaco naturalizado alemán, en 1912 y, tras su divorcio, en 1924, posiblemente, por considerarse confirmado el fallecimiento de este (Kosowska 2021, 16) en plena Primera Guerra Mundial, la República Federal de Alemania, la sigue reconociendo ciudadana alemana hasta el final de sus días. En su pasaporte alemán, obtenido en 1968 y anulado en 1970, tras fallecer, aparece como Elisa Chimenti Dombrowski. A partir del año 1912, no consta que Elisa Chimenti realizase traslados a otros países fuera de Marruecos con documentación expedida por las autoridades marroquíes, que la consideran italiana, pese a su recién adquirida nacionalidad alemana. En 1928, bajo la dictadura de Mussolini, al declararse apolítica, evitando así adherirse al régimen, fue despojada de su pasaporte, «chiudendole la possibilità di uscire da Tangeri» (Tamburlini-Menon 1998, 104), por lo que recurrió a sus amistades más influyentes para conseguir un pasaporte Nansen, el cual la Oficina Internacional Nansen para los Refugiados expedía a apátridas o personas privadas de pasaportes emitidos por su propio país. En 1935, Elisa Chimenti solicita la expedición de un pasaporte a las autoridades italianas en su calidad de ciudadana italiana o un «foglio di via», para poder realizar sus viajes a España, por motivos de investigación documental para la redacción de un nuevo libro, pero, según consta en el Vice Consolato Generale Italiano de Tánger, en carta fechada el 13 de julio de 1967 dirigida al Consulado de la República Federal de Alemania, Elisa Chimenti «non ha mai acquisito la nazionalità italiana» (ivi, 112), puesto que la considera alemana por la expedición del mencionado pasaporte fechado en 1968, «registrato con numero B5357875», según «carteggio fra Bunderwalttungsamt di Koln e il Consolato italiano di Tangeri» (ivi, 100).

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3. Esbozo biográfico de la donna mediterranea a partir de su poliglotía identitaria Elisa Chimenti, por línea materna, según ella misma indica, en una nota autobiográfica en la inédita A Fairy Tale, es descendiente del virrey de Cerdeña Domenico Alberto Azuni (1749-1827) y, por línea paterna, del célebre físico inglés Lord Tiberio Cavallo (Nápoles, 1749-Londres, 1809) (ivi, 91-93). Su acervo lingüístico correspondiente al área geográfica de la cuenca mediterránea, constatable, hasta los 30 años de edad, asciende a más de diez lenguas (Chimenti 2009, 872-873) habladas y escritas, siendo bilingüe en francés e italiano – su lengua materna – tanto en sus formas estandarizadas, como en, al menos, las variantes del francés pataouète tunecino y marroquí, del sardo, y del napolitano. Hasta el año 1899, fecha en la que la familia abandona Túnez, Elisa Chimenti, adquiere el francés norteafricano culto y el coloquial denominado pied-noir o pataouète, el judeo-árabe y el árabe dialectal urbano de Túnez capital. Estará escolarizada tanto en la escuela coránica, donde aprenderá el árabe coránico, como en la institución laica de la Alliance Israélite Universelle donde será formada en el hebreo y, también, en el árabe de los textos sagrados, por el eminente rabino y reformador líder de la corriente haskala El’azar Farḥī19 (Túnez, 1851-1930) (Bunis-Chetrit-Sahim 2002; Tobi 2010), quien dejará una marcada influencia en su posterior obra literaria y educativa (Chimenti 2009, 604, 872). La salida del país a la ciudad de Tánger, donde Elisa Chimenti entra en contacto con el lissan franji tangérois y otros geolectos rifeños, entre ellos, el laḥŷa maghribīya rīfīya (judeo-beréber rifeño) de la zona rural montañosa del norte del actual Marruecos (Rif), da inicio a una formación escolar no reglada, al no existir en la época escuelas afiliadas a los sistemas educativos de las potencias colonizadoras, por lo que a modo de «une école sui generis» (ivi, 872), la conocida como Pharmacie Sorbier (y posteriormente, Pharmacie Totier), destinada a los hijos de europeos residentes y de los notables locales (González 19  El’azar (Eliezer) Farḥī erudito de la élite judía tunecina, responsable, junto con Ḥai Sitrūk, de la edición en judeoárabe de Sīrat Ḏāt al-Himma, impresa en Túnez (1890), cuyo manuscrito (MS Arabe 3480-51 – ss. XVII-XVIII) se encuentra en la Bibliothèque nationale de Francia. Intelectual extremadamente preocupado por la reforma educativa en el seno de la comunidad judía.

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González 2010, 30-110; Miège 1962; Paye 1992), será el: «centro di riunione degli intellettuali spagnoli, italiani, francesi e inglesi, che allora si trovavano in quella Tangeri […] descritta ne “Les petits blancs marocains”. Ciascuno delle persone presenti teneva una lezione ai bambini» (Tamburlini-Menon 1998, 96). Hasta 1907, al acompañar a su padre como asistente por el Alto Atlas, aprende y emplea variantes orales de los entornos de mujeres en harén, de toda condición, origen y estatus socio-económico, quedando patente en toda su obra, especialmente, en dos aspectos estructurales compositivos vinculados con la plasmación y recuperación de la oralidad de las mujeres en entornos de reclusión – y no de seclusión – : 1) la oralidad de los cuentos y leyendas entretejida de canciones y jarchas que, incluso, es elemento fundamental en su Au cœur du harem: roman marocain (1958) considerada la primera novela del Marruecos independiente (1956; y 2) la transmisión de dicha oralidad de manera sistemática, al tiempo que divulgativa. En 1913, al ser contratada por la Hohe Deutsche Schule20 de Tánger como profesora de español y francés, se constata su conocimiento de esta primera lengua – y quizás, también, de la hakitía o jaquetía (judeoespañol)21 –, además, de su formación en alemán. Previamente, en 1912, se casa con el conde de origen polaco y naturalizado alemán, Friederick Dombrowski, obteniendo la nacionalidad alemana y su apellido (ivi, 99-100). Con él recorre Europa – Portugal, España, Inglaterra, Holanda, Alemania, Polonia y Rusia –, permitiéndole diversificar su acervo lingüístico, supuestamente ya enriquecido de su período universitario en Alemania. Toda esta riḥla queda registrada, en su producción literaria, pero nos centraremos en su labor de conservadora del folclore local – a viva voz –, a través de la traducción literal de canciones/poemas realizada por ella misma, de mujeres rifeñas Tamazgha del norte de Marruecos en entorno de harén, de principios del siglo XX, con el fin de exponer el proceso de conservación seguido por la autora en su empeño de mantener viva una cultura susceptible de desaparecer: la creatividad oral y musical de estas mujeres.

20  https://www.elisachimenti.org/texte/biographie_elisa_doc/doc_bio2/35/35_ deutschen_school.pdf 21  Ḥākītīā o ladino occidental del norte de Marruecos.

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4. El imaginario de género que evidencia la riḥla de la donna mediterranea en contexto islámico: Chants des femmes arabes. Rennaiat ennessa (1942) De toda la producción editada de Elisa Chimenti, seleccionamos este cancionero por plasmar el carácter híbrido de su contenido, ya desde su título bilingüe, a través de uno de los mecanismos sintácticos más representativos de la lingua franca (Dakhlia 2008, 15) utilizados por la autora: la estructura paralela – en una mezcla de lenguas que ninguna otra lengua común a los hablantes tiene –. Dicha estructura introduce y define un objeto, concepto y/o fenómeno exclusivo de una cultura concreta (realia) siendo, en el caso que nos ocupa, el concepto chants de femmes en contexto del imaginario de género marroquí. Se trata de una colección de 56 canciones22, de extensión variable, recuperadas de la oralidad transmitida por las mujeres que habitan el territorio del actual Marruecos en entorno de harén. La vocación de Elisa Chimenti persigue compilar y divulgar las canciones que considera un sustrato del folclore que se desvanece ante sus ojos de etnóloga y antropóloga y que poseen unos rasgos únicos que ella describe haciendo alarde de una solvente formación literaria y musical. Así, en la introducción del cancionero explica: Les chansons de femmes ne s’appellent pas plus Djarkat23 que Arak24 ou Hasin25, elles ne viennent pas, comme les colombes qui nichent dans nos murs, de Séville, de Cordoue ou de Grenade, elles naissent dans nos villes, sous les plafonds de cèdres sculpté, dans nos campagnes, aux abords des douars, sous la tente mobile que fait palpiter le vent, autour de la source ou de la daïa où les épouses s’en vont au soir […] (Chimenti 2009, 800)

22  Además de otra serie recogida en la introducción firmada por Henri Duquaire, entre las cuales destacan: Le chant de la poudre, La grande daïa, Les jours, La petite maison cachée dans le verger, Longs comme la longueur de l’éternité, Ma chambre est parée comme pour une venue, Celui qui parcourt le vaste monde o Chanson de la nuit. 23  Djarkat: un des vingt-quatre modes de la musique andalouse, caractérisée par deux demi-tons entre la quatrième et la cinquième et entre la septième et la huitième notes [Nde]. 24  Arak: un des 24 modes andalous caractérisé par trois demi-tons entre la troisième et la quatrième, et entre la sixième et la septième notes [Nde]. 25  Hasin: un des vingt-quatre modes andalous. Il n’en demeure plus que le nom et quelques fragments [Nde].

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Y especifica, una clasificación de tres categorías básicas del tipo de canciones que las mujeres cantan y/o componen: Comme la griha26, la chanson de femmes se partage en trois modes principaux : 1- Un mechergui27 quelque peu transformé dont la langueur rappelle les lentes harmonies asiatiques et dont les tonalités se modulent sur la chanson du jet d’eau de la vasque, le bruit du flot sur la grève, le susurrement de la brise dans le feuillage et la plainte flûtée du crapaud dans le silence nocturne. Le «Mecherqui» célèbre la gloire immense du Prophète de Dieu [sur lui la prière et le salut], les hauts faits des guerriers musulmans et les beautés de la nature. 2- Un meqsour-el-djenah28 plaintif dont le rythme tantôt lent, tantôt précipité, rappelle les battements du cœur dont il a les passions. Ce mode dit les amours, les illusions, les révoltes des musiciennes naïves qui l’ont composé ; jeunes filles ou jeunes femmes qui appelèrent l’amour, que l’amour a déçues et qui revêtent d’une parure de sonorités languides leurs rêves nostalgiques. 3- Le meslouq, humoristique et léger que font naître les évènements du jour et qui n’a rien de commun avec la satire antique, le hidja aux mots fétiches, aux effets magiques que chantait le Chair, le poète de la tribu, et qui pouvait guérir le mal ou le conjurer, exorciser les démons, vaincre l’ennemi en le bafouant. Ses airs vifs, légers, raillent les travers des petits et des grands et disparaissent pour faire place à des chansons nouvelles. (ivi, 801).

Añade a esa categorización específica del folclore local, los tres tipos de poemas cultos cantados más popularizados en toda la cultura árabe e islámica y cómo han sido adaptados y popularizados al gusto musical del territorio norteafricano centrado, en este caso, en la temática amorosa: À ces trois modes principaux il faut ajouter la narration musicale ou radjaz, simple mélopée, la cantilène des berceuses, les nénies des jours de deuil et certains chants rythmés pareils aux hida, la chanson monotone du chamelier guidant la caravane à travers les sables du désert […] Quant à la qacida ou poème qui accompagne ces mélodies, elle va du style le plus noble au plus familier. C’est tantôt une prose rimée, sadj, tantôt une poésie non exempte de défauts, car, bien qu’ayant le sens inné de la mesure poétique, les Marocaines ignorent les lois de la métrique et n’ont pour les guider ni les batteurs de fer de Khalil

26 

Música popular [Nda]. Mechergui, l’oriental, un des modes de la griha [Nde]. 28  Meqsour-el-djenah, celui qui a les ailes coupées, qui est accablé de douleur: un des modes de la griha-Mezlouq, le glissé, mode de la griha [Nde]. 27 

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le grammairien29 ni le pas cadencé du chameau qui, prétendent les Arabes, fournit aux Bédouins la mesure de hida. Sadj et qacida ont pour thème les sentiments humains les plus simples, les plus profonds aussi : la douleur ou le bonheur d’aimer, les affres de la jalousie, le regret du pays natal ! Tantôt, bédouine au visage tatoué, aux colliers multiples, à la poitrine ornée de la tassedit d’argent, la qacida parle le dialecte campagnard et chante en mélodies agrestes, imprégnées des parfums et des sèves des prairies et des bois marocains, les matins lumineux, la pâleur dorée des couchants, les sillons fumants, les douars cachés dans la verdure, les amours des Montagnards et des Nomades. Tantôt, souvenir lointain d’Andalousie, elle a l’attrait des légendes populaires et fait revivre les reines de Castille et de León, les chevaliers et les dames des temps passés, les princesses musulmanes et les favorites, les jasmins et les roses. Et, toujours, tendre et pathétique, elle déplore les fatalités du destin, regrette le passé évanoui qui, selon l’expression arabe «a la beauté que prête à ce qui n’est plus, le mensonge du souvenir», invoque l’ami absent, se plaint des tourments causés par la passion, pleure, telles des mortes aimées les années de la jeunesse «aux bouches fleuries de rires et aux yeux d’espoir». Mais son thème principal est l’amour, l’amour volupté, l’amour teinté de mélancolie, l’amour plus fort que la mort et que la destinée. (ivi, 802).

En su valoración final, a título de conclusión, Elisa Chimenti manifiesta su reconocimiento por la expresión original y única que desvelan el sentir de unas mujeres en contextos de dominación masculina, por un lado y, por otro, la transmisión de una cultura que solo depende de ellas – desde un entorno de reclusión –, aunque buena parte de las comunidades de las que son originarias sea conocedora de este acervo musical (Chimenti 2009, 803): «Composée sans art, sans habilité, mais non dépourvue de puissance, spontanée, expressive, passionnée, la chanson de femmes a une saveur étrange qui lui est bien propre». Y añade: Elle ne ressemble ni à la mélancolique canzonetta napolitaine ni aux tragiques malagueñas d’Espagne, et, bien que ses modulations d’une exquise douceur rappellent vaguement certains Volkslieder, les plus anciens, les plus beaux, elle conserve cependant un caractère particulier, le caractère de l’imagination marocaine, vive, brillante, passionnée, sensuelle, aussi éprise de poésie, de prestiges, de magies et fortement teintée de mysticisme. (ivi, 803).

29  Les Arabes prétendent que Khalil conçut l’idée de sa métrique en entendant les ouvriers batteurs de fer du bazar frapper alternativement l’enclume de leurs coups cadencés [Nde].

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Con el término “Volkslieder”, en referencia a la canción popular alemana (lied), evoca la colección de Des Knaben Wunderhorn (El cuerno mágico del doncel / de la juventud) (1805) más utilizada para los compositores de este género, caso de Gustav Mahler (1860-1911) y su Lieder eines fahrenden Gesellen (Canciones de un compañero de viaje) (1884-5) o Des Knaben Wunderhorn (1888-1889), de Johannes Brahms (1833-1897) o los cancioneros español – Spanisches Liederbuch – e italiano – Italienisches Liederbuch –, del compositor austríaco de origen esloveno Hugo Filipp Jakob Wolf (1869-1903). Hugo Wolf tradujo al alemán ambos cancioneros, siendo el segundo un ciclo de 46 poemas anónimos italianos previamente traducidos por el novelista, dramaturgo y poeta alemán de origen judío y Premio Nobel de Literatura en 1910, Paul Heyse (1830-1914). Heyse tomó como fuente documental de su cancionero otros cuatro italianos: Canti popolari (1841) de Niccolò Tommaseo (1802-1874), Canti popolari Toscani, raccolti e annotati (1856) de Giuseppe Tigri (18061882), Canti popolari inediti (1855) de Oreste Marcoaldi (18251879) y Canti del popolo veneziano (1848) de Angelo Dalmedico (1817-1896). Este interés por el cancionero español lleva a señalar, que el folklore sefardí ha mantenido vivos otros textos como Wehe der, die mir verstrichte (Mal haya quien los envuelve, de Gil Vicente), extendido en Tetuán con diferentes variantes dentro de la comunidad judía, o Und schläfft du, mein Mädchen (Si dormís, doncella, también de Gil Vicente) (Pastor Comín, 2011-2018: 129). La descripción aportada por Elisa Chimenti de los distintos tipos de canciones propias de mujeres – mechergui meqsour-el-djenah o meslouq – en la introducción a su cancionero sigue la pauta inicial del cancionero de Hugo Wolf quien da el título de cada canción/ poema y la clave en las que son cantadas, especificando de manera alterna, cuáles son interpretadas por un barítono y cuáles por una soprano. Es en este aspecto donde se comprende la innovación lograda de Elisa Chimenti en su cancionero, cuando señala la diferencia con los géneros cultos djarkat, arak, hasin, aala30, radjaz, hida y qacida vinculados, tradicionalmente, con la producción masculina, frente a la de las mujeres, la cual describe en los términos siguientes: 30  Aala: musique classique composée de onze noubas ou modes dont chacune marque le développement d’un thème principal sur des rythmes successifs [Nde].

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D’inspiration très simple, mais fraîches, gracieuses et riches de poésie naturelle, elles servent à charmer les heures d’oisiveté du gynécée, à alléger le fardeau souvent très lourd des travaux domestiques ou agricoles, à rappeler les joies et les tristesses passées […] Jaillies le plus souvent du fonds populaire, ces chansons ne ressemblent en rien à l’aala savante aux airs compliqués qui regrette en langue littéraire et en vers précieux […] Humbles filles du peuple, elles s’apparentent à la griha31 aux harmonies simples, aux paroles naïves et souvent touchantes […](Chimenti 2009, 800)

A modo de botón de muestra, reproducimos las dos canciones más célebres de los mencionados en la introducción por el editor, pero no recogidos en el cancionero. La primera es Le chant de poudre (ivi, 781-782), del cual hay registrada una versión cantada en su lengua original, el 21 de octubre de 2010, por el grupo de mujeres rifeñas Izran al-Hoceima, en sede del Istituto Italiano di Cultura de Rabat, con motivo del homenaje a la autora Elisa Chimenti, donna mediterranea, (Fondation Elisa Chimenti 2010): Le chant de poudre32 Elle est arrivée jusqu’à moi, Portée par le vent des montagnes Elle était venue à moi triomphante Elle m’a enivrée de joie Comme bondit l’animal des rochers Que l’amour enflamme Dans la plus belle des saisons. Je suis allée dans les camps Où se réunissent les guerriers J’ai entendu la poudre parler Son langage bruyant Je vu les balles s’envoler Et bourdonner comme des abeilles J’ai senti, avec quelles délices33, L’odeur de la poudre guerrière S’élever lentement dans l’air Chargé de vengeance et de haine. Dans la noblesse des fêtes Les poètes ont chanté Le parfum suave de l’encens. 31  32  33 

Música popular [Nda]. La traducción al castellano es de la autora. Así en el original.

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Les femmes ont loué, ravies, L’odeur des jasmins et de roses ; Mais quelle fleur, quelle résine Aura jamais34 l’odeur, l’odeur chaude, L’odeur enivrante, l’odeur guerrière De la poudre des combats ? Elle est arrivée portée par le vent L’odeur de la poudre… Que les hommes dignes de ce nom Revêtent des tuniques neuves. Qu’ils serrent l’ampleur des vêtements D’une forte ceinture de cuir Et se préparent à la victoire Ou à la mort, la mort glorieuse, Des guerriers musulmans. Vainqueurs, ils rapporteront au douar Les biens nombreux des vaincus, Leurs chevaux et leurs tentes. Morts, ils vivront sans fin Dans les délices éternelles35, Parmi les amis de Dieu, Ceux qui se laissèrent enivrer Par l’odeur de la poudre, De la poudre héroïque et sainte Qui brûle dans les combats.

Y la segunda «Aixa est allée à midi chercher de l’eau à la grande daïa», a la cual, según explica el proprio Henri Duquaire (Chimenti 2009, 783), tuvo acceso gracias a la correspondencia mantenida con la autora, en 1942. Posteriormente, en 1958, Elisa Chimenti la introduce como elemento estructural de la novela Au cœur du harem. Roman marocain, definiéndola como «qacida» y aclarando en nota a pie de página número 34 que ha de entenderse por «poème, poésie» (ivi, 208). Esta qacida es puesta en boca del personaje femenino Mennouch, una «servante rifaine» (ivi, 188) que, en los ratos de descanso de las tareas domésticas, ameniza las reuniones de las mujeres de la casa de los protagonistas Si Bou-Djemaa, «le chaouch 34  35 

Así en el original. Así en el original.

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à la légation de France» (ivi, 82) y Lalla Sakina «sa femme […] grande et bien faite, entièrement tatouée d’un fin réseau de lignes bleues» (ivi, 187). Mennouch, una vez acabado el refrigerio de té y pasteles, comienza a bailar al compás del tar (tamboril), entonando canciones «naïves, aux mélodies agrestes simples et fortes, vibrantes de passion et toutes imprégnées de parfum des bois et des montagnes: chansons des fellahs et des montagnards qui faisaient sourire les citadines et mettait des larmes dans les yeux de celles qui venaient du cœur du Maroc. Elle commençait invariablement par la qacida36 de la grande daia, le poème d’Aicha la malheureuse que son ami avait abandonnée» (ivi, 208-209): Aicha est allée au matin chercher l’eau à la grande daia37 Sa mère lui a dit: Ô mon enfant, les lueurs de l’aurore ont déteint sur les joues Jamais je ne te vis de si belles couleurs. Ô ma mère l’air est vif au matin, l’amphore est lourde La course a rosi mes joues38. Aicha est allée à midi chercher l’eau à la grande daia Elle a rencontré son ami39 et il lui a serré les mains Sa mère lui a dit: Ô ma fille comme tes mains son rouges! Jamais le henné ne les a teintes ainsi Ô ma mère, j’ai cueilli des roses le long des haies. Les épines m’ont piqué et le sang a rougi mes doigts. Aicha est allée au maghrib chercher l’eau à la grande daia Elle a rencontré son bien aimé40. Elle est revenue les lèvres rouges de ses baisers Sa mère lui a dit:

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Poème, poésie [Nde]. La puntuación del texto es tal cual aparece en la versión recogida en la novela. 38  Henri Duquaire, quien edita este texto, antes que la versión ofrecida por la autora, ofrece la siguiente variante: «LA GRANDE DAÏA. [Une daïa est une dépression de terrain qui se remplit d’eau à la saison des pluies] Aicha est allé au matin chercher l’eau à la grande daïa. Elle y rencontré son ami, et ses joues se sont empourpées / Sa mère lui a dit: «ô mon enfant ! les lueurs de l’aurore ont déteint sur tes joues / Jamais je ne te vis d’aussi belles couleurs» / – Ô ma mère ! L’air est vif au matin, l’amphore est lourde / La course a rosi mes joues». 39  Henri Duquaire transmite «Elle y a rencontré son ami bien aimé […]». 40  Henri Duquaire transmite «Elle y a rencontré son ami bien aimé […]». 37 

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Ô, ma fille tes lèvres son pareilles au corail du Riff Jamais je ne t’ai41 vu des lèvres aussi rouges. Ô, ma mère, j’ai mangé des baies et elles ont rougi42 mes lèvres. Aicha est allée au soir chercher l’eau à la grande daia Elle est revenue les joues blanches et les cheveux défaits Sa mère lui a dit: Ô, ma fille ton visage est blanc Jamais je ne t’aivu un telle pâleur43 Ô, ma mère, prépare mon linceul et fais creuser ma fosse Car mon ami m’a abandonnée …

Según señala Juan José Pastor Comín (2011-2018, 131, n. 58), sirviéndose directamente del cancionero de Elisa Chimenti, esta canción es la correspondiente paralela a «Wer that deinem Füsslein Weh?» («Qui t’a fet lo mal de peu»), anónima traducida al alemán por Emanuel Geibel (1815-1884)44 recogida en el cancionero Flor de Enamorados (1562) y vinculada al baile de La Mariona (fol. 98v-99): „Wer tat deinem Füsslein weh? La Marioneta, Deiner Ferse weiss wie Schnee? La Marion.“ Sag’ Euch an, was krank mich macht, Will kein Wörtlein Euch verschweigen: Ging zum Rosenbusch zur Nacht, Brach ein Röslein von den Zweigen; Trat auf einen Dorn im Gang, La Marioneta, Der mir bis ins Herze drang, La Marion. Sag’ Euch alle meine Pein, Freund, und will Euch nicht berücken: Ging in einen Wald allein, Eine Lilie mir zu pflücken; Traf ein Stachel scharf mich dort, La Marioneta, 41 

Henri Duquaire transmite «Jamais je ne te vis […]». Henri Duquaire transmite «[…] elles ont teint […] ». 43  Henri Duquaire transmite «Jamais je ne te vis un visage si pâle». 44  El poeta y escritor alemán Franz Emanuel August Geibel, cuyos textos inspiraron las obras de Hugo Wolf y a Johannes Brahms, entre otros. Colaboró con Heyse en la traducción del Spanisches Liederbuch. 42 

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War ein süsses Liebeswort, La Marion. Sag’ Euch mit Aufrichtigkeit Meine Krankheit, meine Wunde: In den Garten ging ich heut, Wo die schönste Nelke stunde; Hat ein Span mich dort verletzt, La Marioneta, Blutet fort und fort bis jetzt, La Marion. „Schöne Dame, wenn Ihr wollt, Bin ein Wundarzt guter Weise, Will die Wund’ Euch stillen leise, Dass Ihr’s kaum gewahren sollt. Bald sollt Ihr genesen sein, La Marioneta, Bald geheilt von aller Pein, La Marion.

Fig. 1. Hugo Wolf, Spanisches Lieder, Schott, Mainz, 1891

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5. Conclusión La poliglotía reflejada en la producción literaria de Elisa Chimenti es resultado de su riḥla de migrante desarrollada en el primer tercio de su vida. Exiliada involuntaria sujeta a las decisiones paternas, hasta 1899, y el viaje de vida y de formación, hasta 1913/4, construyó su pensamiento en diversos entornos marcadamente patriarcales, pero al tiempo multiculturales, híbridos y no-reglados, cultural y lingüísticamente hablando. Es, precisamente, el factor lingüístico el que, quizás, nos pueda confirmar la veracidad de su formación universitaria en su riḥla alemana, al hacer referencia al folclore centro europeo que, en aquella época, si no es por medio del viaje de vida, sería muy difícil conocer desde el Tánger de principios de siglo XX, con la profundidad que la investigación de J.J. Pastor Comín (2011-2018) refleja al citarla como fuente fiable. Esta circunstancia plantea considerar posible la redacción, en su estancia alemana, del cancionero en alemán que muy probablemente Elisa Chimenti compiló, en 1911, siguiendo esta moda centroeuropa. Paralelamente, la aculturación patriarcal recibida a través de la Alliance Israélite Universelle, la escuela coránica de Túnez capital y la Pharmacie Totier contribuye en su hibridación cultural, religiosa y lingüística, especialmente, al internarse en la experiencia del exilio institucional, socialmente hablando, del harén al que tuvo acceso en esta etapa de la vida objeto de estudio y de la que el cancionero Chants des femmes arabes. Rennaiat ennessa es evidencia documental. Referencias bibliográficas Ávila, María Luisa, Marín, Manuela (a cura di) 1997 Biografías y género biográfico en el occidente islámico. Estudios Onomásticos-biográficos de al-Andalus VIII, CSIC, Madrid. Benini, Emanuela 1999 Elisa Chimenti (Napoli, 1883-Tangeri, 1969): una donna mediterranea, in Donne Mediterranee, Atti del Seminario, Futura press, Bologna. Bunis, M. David, Chetrit, Joseph, Sahim, Haideh 2002 Jewish Languages Enter the Modern Era, in Reeva Spector Simon, Michael M. Laskier, Sara Reguer (a cura di), The Jews of the Middle East and North Africa in Modern Times, Columbia University Press, New York.

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Cancionero 1953 Cancionero llamado Flor de enamorados (Barcelona, 1562), reimpreso por vez primera del ejemplar único. Con un estudio preliminar de Antonio Rodríguez-Moñino y Daniel Devoto, «Floresta, Joyas poéticas españolas», 2, Castalia, Valencia. Chimenti, Elisa 2009 Anthologie, Éditions Du Sirocco, Senso Unico Éditions, Le Maroc. Dakhlia, Jocelyne 2008 Lingua franca. Histoire d’une langue métisse en Méditerranée, Actes Sud, Paris. Déjeux, Jean 1970 La littérature maghrébine d’expression française, Centre culturel français, Argel. Del Moral, Celia 1998 Contribución a la historia de la mujer a partir de las fuentes literarias andalusíes, in Ricardo Izquierdo Benito, Ángel Sáenz-Badillos (a cura di), La sociedad medieval a través de la literatura hispanojudía, VI curso de Cultura Hispano-Judía y Sefardí de la Universidad de Castilla-La Mancha, Ediciones de la UCLA, Cuenca. Fernández, Alberto 1975 Judíos en la Guerra de España, «Tiempo de historia», I, 10, settembre 1975, disponibile online (http://hdl.handle.net/10366/22961). Fondation Elisa Chimenti 2010 Elisa Chimenti et les Chants des femmes arabes, in Elisa Chimenti, donna mediterranea, 15 dicembre 2010, disponibile online (https://www.youtube.com/watch?v=7HRrgFqaAGw). Geibel, Emanuel, Heyse, Paul 1852 Spanisches Liederbuch, Verlag von Wilhelm Herz, Berlin. González González, Irene 2010 Escuela e ideología en el Protectorado español en el Norte de Marruecos (1912-1956), Tesis doctoral dirigida por Dr. D. Miguel Hernando de Larramendi, Universidad de Castilla La Mancha, Toledo. Laskier, Michael M. 1983 Aspects of the Activities of the Alliance Israélite Universelle in the Jewish Communities of the Middle East and North Africa: 1860-1918, «Modern Judaism», 3, 2. Maíllo Salgado, Felipe 2007 “Riḥla” de Ibn Yubayr y de los lugares santos de Damasco, «Bulletin d’études orientales», 57. Miège, Jean-Louis 1962 Le Maroc et l’Europe. 1822-1906, Editions La Porte, Rabat.

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Pastor Comín, Juan José 2018 La reescritura inconsciente del pasado. Hugo Wolf y el Cancionero musical de Palacio, «Itamar, revista de investigación musical», 4. Paye, Lucien 1992 Introduction et évolution de l’Enseignement Moderne au Maroc (Des origines jusqu’à 1956), a cura di Mohammed Benchekroun, Imprimérie al-Risāla, Rabat. Rodríguez Mediano, Fernando 1995 Familias de Fez (ss. XV-XVII), CSIC Madrid. Scattolin, Giuseppe 1995 La mujer en el misticismo islámico, «Encuentro islámico-cristiano», 282. Tamburlini, Maria Pia, Menon, Mirella 1998 Elisa Chimenti. Archivio, Tánger. Tobi, Yosef 2010 Farḥī, Eliezer, in Encyclopedia of Jews in the Islamic World, a cura di Norman A. Stillman, Brill, Leiden 2010, disponibile online (https://referenceworks.brillonline.com/entries/encyclopedia-of-jews-in-theislamicworld/farhi-eliezer-SIM_0007630). Torres Calzada, Katjia 2019 Elisa Chimenti (Naples, 1883-Tanger, 1969): première romancière du Maroc, in La recherche en Études Françaises: un éventail de possibilités, Editorial Universidad de Sevilla, Sevilla. Wensinck, Arent Jan 1978 Khabar, in Encyclopédie de l’Islam, IV, E.J. Brill, Leiden.

María Zambrano. I luoghi dell’esilio: la frontiera, il deserto e l’isola Elisabetta Sarmati

La utopía, nuestra utopía, se nos ha cuidadosamente repartido: a vosotros, los muertos, os dejaron sin tiempo; a nosotros, los supervivientes, nos dejaron sin lugar Zambrano 1998, 209

1. La frontiera La filosofa María Zambrano attraversa la frontiera spagnola il 28 gennaio del 1939 insieme alla madre1, alla sorella Araceli, più giovane di 7 anni2, al compagno di lei, il dirigente repubblicano Manuel Muñoz Martínez, e ad Agustín, figlio del primo matrimonio di Muñoz Martínez 3. Di questa famiglia di esuli, solo María farà 1 

Tra i pochi ritratti di Araceli Alarcón Delgado, madre della Zambrano, maestra elementare e pedagoga, risalta quello rievocato dalla filosofa spagnola in Delirio y destino, autobiografia in terza persona iniziata a Parigi nel 1949 e portata a termine a La Habana nel 1952, ma rimasta quasi del tutto inedita sino al 1989. Immagine particolarmente struggente nella prospettiva di chi, stando in esilio, ritorna con la memoria a un tempo di pace e serenità è quella di una giovane donna che rincasa tenendo per mano la figlioletta: «a la salida [de la escuela], la madre joven con un ramo de violetas casi siempre en el manguito, con el velillo moteado recogido tras el sombrero, la llevaba de la mano, dándole calor con su mano de la que no la aislaban los guantes suaves», cfr. Zambrano 1998, 27. Il tema della madre, nella sua valenza simbolica, percorre molta parte dell’opera della Zambrano, caricandosi di riflessioni importanti sulle stesse origini della violenza europea intesa anche come tendenza di genere. Sul punto v., soprattutto, Tarantino 2014. Per una focalizzazione generale dell’elemento materno in María Zambrano, cfr. Pittarello 2005, 3-23. 2  Sulla figura di Araceli Zambrano v. Sígler Silvera 2015. 3  Il padre di María, Blas José Zambrano (1874-1938), anch’egli maestro elementare, intellettuale, pedagogo e amico di Miguel de Unamuno e di Antonio Machado – con il quale collaborò nella fondazione dell’Università popolare di Segovia –, allo scoppio della guerra civile si trasferì a Barcellona assieme alla famiglia, qui morì nel 1938. Sempre in Delirio

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ritorno in Spagna, il 20 novembre del 1984, dopo 45 anni di esilio, oramai anziana e malata4. Nata a Vélez, in provincia di Malaga, il 22 aprile del 1904, quando varca il confine a Le Perthus, valico montano di frontiera che collega la Spagna del Nord al Sud della Francia, María Francisca Zambrano Alarcón ha 35 anni ed è una delle prime donne spagnole ad essersi laureata in filosofia e ad aver intrapreso gli studi di dottorato, sempre in filosofia5, in un contesto storico in cui, come lei stessa stigmatizzò, sottolineando l’eccezionalità della sua condizione, «una filosofa era casi una mujer barbuda, una herejía, una curiosidad de circo» (Zambrano 1998, 20). In vari momenti María Zambrano tornò su quella fredda giornata invernale del 1939 in cui aveva varcato la frontiera francese, rimarcandone l’insanabile carattere di dolorosa e traumatica frattura esistenziale, ma facendone anche l’inizio di una radicale rinascita6. In una filosofia, come quella zambraniana, che fa dell’«immagine» uno strumento dell’attività conoscitiva7, due le visioni più note e che con y destino è presente un significativo ritratto paterno, tratteggiato con nostalgia e affetto e indicativo dell’ammirazione verso l’uomo che l’avviò agli studi filosofici e che la Zambrano ricorderà sempre come suo primo e insostituibile mentore: «Su padre le miraba en silencio, es que él sabía, lo sabía todo, como siempre. Le vio como de niña en aquellas imágenes que su memoria había guardado, puro misterio, se acordaba de cuando aún no podía saber lo que es esto de ser padre. Y era ‘aquél’ que la llamaba y la hacía despertar de sus embebecimientos», Zambrano 1998, 32. La letteratura critica sull’opera di María Zambrano è andata crescendo negli ultimi decenni in modo imponente, con approcci di taglio non solo prettamente filosofico, ma anche semantico e testuale. In quest’ultima chiave, per l’acuta capacità di coniugare il dato stilistico alla semantica del testo, si v. ancora Pittarello 2004, 419-426. 4  La madre della Zambrano morì nel settembre del 1946 e la sorella, con la quale si era ritrovata e aveva peregrinato assieme per l’Europa, tra Francia, Svizzera e Italia, la lasciò il 20 febbraio del 1972. Il deputato repubblicano Manuel Muñoz Martínez, imprigionato nel famigerato carcere parigino di La Santé durante il regime di Vichy, fu estradato e fucilato in Spagna il 1° dicembre del 1942. 5  La Zambrano compie i suoi studi nell’Ateneo di Madrid, ove poi collaborerà con la cattedra di Metafisica dal 1931 al 1935, come allieva di Xavier Zubiri e di José Ortega y Gasset. Di Ortega riconoscerà sempre il magistero, nonostante il progressivo allontanamento maturato sia sul piano filosofico che su quello ideologico. Lo definì: «perenne maestro», cfr. Zambrano 1987, 73. Viva testimonianza di un sentimento di profondo, seppur critico, discepolato sono gli articoli e le lettere raccolti in Zambrano 2011. 6  Tra le varie metafore che connoteranno l’esperienza dell’esilio, si ricorda qui una sua definizione che lo qualifica «esplendor y regalo», cfr. Zambrano 1998, 55. 7  Già a partire dal saggio Filosofía y poesía (1939) e, soprattutto, nel posteriore Claros del bosque (1977), María Zambrano fa del concetto di “razón poética” il cuore della sua epistemologia. Il costrutto “ragione poetica” fu proposto dalla filosofa come supe-

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maggiore forza descrivono quel frangente con la necessità e l’urgenza di ritrovarlo, esplorarlo nella memoria e indagarne compiutamente il senso. La prima: tra la colonna di profughi che abbandonava la Spagna oramai in mano all’esercito franchista, María, che viaggia assieme alla famiglia in macchina (la stessa Hispano-suiza in cui l’ultimo presidente della Seconda Repubblica spagnola, Manuel Azaña, aveva attraversato la frontiera giorni prima), scorge l’amico e poeta Antonio Machado che cammina con difficoltà, abbracciato alla madre tra la folla di esuli. María scende dalla macchina e lo invita a salire ma, di fronte al rifiuto del poeta perché «su lugar estaba con el pueblo», anche María decide di percorrere a piedi, insieme agli ultimi, gli ultimi chilometri che la separano dalla frontiera8. La seconda immagine si suggella in un potente simbolo sacrificale e, al contempo, di pietas, quello dell’agnellino: Tuvimos que pasar la frontera de Francia uno a uno, para enseñar los más la ausencia de pasaporte, que yo sí tenia por haberlo sacado con mucha anterioridad, cuando tuve que ir a Chile. Y el hombre que me precedia llevaba a la espalda un cordero, un cordero del que me llegaba su aliento y por un instante, de esos indelebles, de esos que valen para siempre, por toda una eternidad, me miró y yo le miré. Nos miramos el cordero y yo. Y el hombre siguió y se perdió por aquella muchedumbre, por aquella inmensidad que nos esperaba del lado de la libertad. ¿Qué hacer ahora? Yo no volví a ver aquel cordero, pero ese cordero me ha seguido mirando. Y yo me decía y hasta creo que llegué a decírselo a media voz a algún amigo o a algún enemigo, o a nadie, o al Señor, o a los olivos, que yo no volvería a España sino detrás de aquel cordero. Y luego he vuelto. Y el cordero no estaba esperándome al pie del avión. Ahora bien, procuré, cuando ya puse el pie en tierra, quedarme completamente sola y pisar la tierra española sola, sin apoyo. Pero el hombre del cordero no estaba. ¿Cuándo he venido a darme cuenta? Pues ahora, cuando, tal vez por misericordia, tal vez por veracidad, me han dicho algunas personas que estimo, que he llegado a la hora precisa, que he llegado cuando debía de llegar y como debía de llegar. Y cuando he visto las imágenes que sacaron los fotógrafos que

ramento, e non negazione, della “razón vital” di Ortega y Gasset, perché anzi “la razón poética” trovò le sue premesse proprio nel razional-vitalismo di Ortega, in quanto revisione e critica del razionalismo moderno. Con l’espressione sintetica di “ragione poetica” si propone la riabilitazione dell’intuizione come metodo di conoscenza e l’uso di un linguaggio che utilizza immagini, metafore e simboli, rivelatore di un sapere capace di captare la realtà più intima e profonda delle cose. 8  Cfr. Ortega Muñoz 2003, 158, e Colinas 2019.

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me aguardaban, tan conmovedoras, tan blancas, tan puras, entonces vi que el cordero era yo. El hombre no aparecía sosteniéndome en su espalda porque yo me había asimilado al cordero (Zambrano 1995, 16)9.

Se, nel mischiarsi tra la folla rinunciando ai vantaggi della propria posizione, la prima immagine segnala una scelta di condivisione e di parte10, la seconda, rilasciata a distanza di un lustro dopo aver oltrepassato il confine in senso contrario verso la propria patria, vuole essere testimonianza dell’avvenuta “trasformazione” dell’esule che, strappato alla sua terra, come l’agnellino-sacrificale di risonanza vetero e neo-testamentaria11 e condotto inerme sulle spalle dell’uomo che le cammina davanti nella fila degli esiliati, non torna annichilito o prostrato ma più consapevole e trafigurato, perché nell’esperienza dell’esilio, in quanto completa spoliazione di sé, la Zambrano riconobbe un segno, una “rivelazione”12: Sono concetti assai noti alla critica zambraniania, capisaldi del pensiero della filosofa veleña, che fece i conti incessantemente con la sua condizione di esiliata perché, fin dall’«instante mismo de levantar los pies del suelo de la tierra de España, en el vacío sin límites que dejaba la patria a nuestras espaldas, sentimos llegar para instalarse definitivamente lo que siempre llega cuando hemos perdido algo: una deuda, un 9  In una delle foto più note pubblicate sui giornali in occasione del suo ritorno in Spagna, si può vedere effettivamente la filosofa appena scesa dall’aereo il 20 novembre del 1984 con il suo cappotto bianco, sorretta per il braccio da Jaime Salinas figlio del poeta Pedro (cfr. https://algundiaenalgunaparte.com/2009/11/29/xxv-aniversario-de-la-vueltade-maria-zambrano-a-espana/ ultima consultazione 07.09.2021). Per un approfondimento sulla presenza del simbolo dell’agnello nell’opera della Zambrano, cfr. Bundgaard 2002. Sul passo appena citato, v. Valentini 2008, 136-137, e De Luca 2006, 26, nt. 5: «E agnello María Zambrano lo era divenuta in quello scambio pietoso che era avvenuto tra lei e l’agnello, in cui qualcosa – la mitezza, la vulnerabilità, l’innocenza, l’animalità stessa – era trapassato in lei e in lei era silenziosamente germinato nei lunghi anni dell’esilio». 10  Antonio Colinas ricorda che María attraversava la frontiera su una macchina ufficiale e probabilmente provvista di passaporto diplomatico, in quanto moglie dello storico Alfonso Rodríguez Aldave, segretario della Ambasciata spagnola in Cile, cfr. Colinas 2019, s. p. 11  Sulla metafora cristologica dell’Agnus-Dei, v. Krautter 2019. 12  Nell’accostarsi al pensiero zambraniano sull’esilio, bisognerà sempre distinguere tra le valenze speculative e filosofiche che ne animano il discorso e che ne hanno reso celebri alcune asserzioni – dall’“amo mi exilio” all’“exilio como patria” – improntate a una metafísica avversa a ogni nichilismo, e il giudizio insindacabilmente tragico espresso sul piano esistenziale. Basti il passo seguente: «Mi exilio está plenamente aceptado, pero yo, al mismo tiempo, no le pido ni le deseo a ningún joven que lo entienda, porque para entenderlo tendría que padecerlo, y yo no puedo desear a nadie que sea crucificado», in Zambrano 2009, 66.

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deber. El deber de recoger esta experiencia, de clarificar en enseñanza […] todo el dolor de todo un pueblo» (Zambrano 1940a, 44). Nell’urgenza di definire le caratteristiche ontologiche della condizione dell’esiliato, in un passaggio cruciale de Los bienaventurados (1990), ultima opera della filosofa pubblicata prima della sua morte – ma che raccoglie riflessioni che risalgono ad oltre un ventennio prima13 – María Zambrano distingue diverse condizioni di espatrio. Accomunati dalla comune perdita della propria patria, il refugiado, il desterrado e l’exiliado, figure di prossimità, vivono dimensioni psicologiche ineguali rispetto alla terra di appartenenza o di “approdo”. Il rifugiato, in quanto accolto, o almeno tollerato, in un altro paese può pensarsi parte di un nuovo spazio. Il desterrado, invece, vive come costantemente presente lo strappo da una tierra (come indica l’etimologia) che gli è stata tolta, negata; prevale, in questo caso, il sentimento dell’espulsione dal proprio paese, che però si continua a sentire presente e proprio: «El destierro no se hace sentir en el exilio, sino ante todo la expulsión» (Zambrano 1990, 32)14. All’esiliato, invece «le caracteriza más que nada no tener lugar en el mundo, ni geográfico, ni social, ni político, ni […] ontológico. No ser nadie […], no ser nada […]. Haberlo dejado de ser todo para seguir manteniéndose en el punto sin apoyo ninguno» (ivi, 36). Nella sfumatura di queste diverse condizioni legate alla percezione del rapporto con lo spazio – riconoscersi in un altrove come rifugiato; cristallizzarsi nello strappo violento dalla patria (sempre rivissuto, sempre rinnovato) del desterrado; e sentire dolorosamente di non avere più “alcun luogo nel mondo”, né quello dell’arrivo e neanche quello dello sradicamento – è insita la condizione esiziale dell’esiliato. Delle tre figure del desgarro patrio (Abellán 2001), infatti, è in quest’ultima nella quale la Zambrano si addentra con pervicacia e acume, facendone l’origine e il perno di ogni sua futura riflessione. Partendo dalla «terribile ora presente»15 del suo personale esilio, la Zambrano arriverà a considerare l’esilio esperienza «esencial», ad «amarlo» ed eleggerlo sua unica e «imprescindibile patria»16: 13  Il progetto di un libro intitolato Desde el exilio, che rimase nella fase di appunti sparsi, risale al 1961. 14  I beati del titolo corrispondono a chi è riuscito a superare l’aporia tra pensiero e vita. 15  La citazione è da Zambrano 1940b, trad. it. 2009, 40. 16  Sono tutte affermazioni rese celebri dalla singolarità dei paradossi presenti.

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Yo no concibo mi vida sin el exilio que he vivido. El exilio ha sido como mi patria, o como una dimensión de una patria desconocida, pero que una vez que se conoce es irrenunciable. […] Es una contradicción, qué le voy a hacer, amo mi exilio, será porque no lo busqué, porque no fui persiguiéndolo. No, lo acepté; y cuando se acepta algo de corazón, porque sí, cuesta mucho trabajo renunciar a ello. (Zambrano 2009, 66)

2. Il deserto Nel linguaggio immaginifico adottato dalla Zambrano come metodo ermeneutico della sua “ragione poetica”17, la metafora che meglio definisce l’esilio è quella del deserto. El lugar del exilio. El desierto è proprio il titolo di uno dei capitoli di Los bienaventurados. Per la Zambrano la progressiva presa di coscienza dell’essere un esiliato si costituisce di vari fasi o pasos del exilio, che Juan Fernando Ortega Muñoz sistematizza in cinque categorie: 1. L’irreversibilità dell’esilio; 2. L’abbandono; 3. La solitudine; 4. L’uomo, come essere sconosciuto a sé stesso e agli altri; 5. L’uomo come essere divorato dalla storia18. La metafora del deserto prende corpo nel linguaggio zambraniano per rappresentare il desamparo (des- privativo + amparo = protezione), inteso come sentimento di deprivazione e abbandono che coglie l’esiliato quando prende coscienza dell’irreversibilità della sua condizione. «Siccità di terra senza acqua» e «deserto senza frontiera e senza miraggi» sono i correlativi di una condizione esistenziale di carenza (rafforzata dalla ripetizione della preposizione sin) dell’uomo che, senza patria, rimane anche «senza lacrime, senza sogni, senza parole, attonito»: No se sabe si es del destierro o del exilio, que en él se va ganando, de donde proviene esa sequedad, sequedad de tierra sin agua, desierto sin fronteras y sin espejismos, el espejismo de la fuente que permite beber en sueños. Y no hay tampoco sueños del presente en los que se realice algo en compensación. […] Al propiamente refugiado, al únicamente refugiado, el desierto no le absorbe. Alguna ráfaga de sentimiento, o más bien de sentimentalidad, que le hace asomar lágrimas a los ojos […] y se siente así más fiel a su tierra que nunca, más que nadie, más que los demás.

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Vedi qui nota 8. Ortega Muñoz traduce la parola pasos con il termine heideggeriano di existenciarios, in quanto «carácteres de la structura ontológica de la condición humana», cfr. Ortega Muñoz, in Zambrano 2014, XLIV, nt. 84. 18 

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Y mientras el desterrado mira, sueña con los ojos abiertos, se ha quedado atónito sin llanto y sin palabra, como en estado de pasmo. (Zambrano 1990, 36-37)19

Del “deserto” esistenziale dell’esiliato, la Zambrano risalta l’“infinità” (dell’abbandono), raffigurata come categoria di uno spazio reputato “sconfinato” («el ilimitado desierto», ivi, 39; «vivir en la ilimitación», ivi, 41), anche per l’assenza di prospettiva e di orientamento («inexistencia del horizonte», ibid.). L’esiliato resta, nelle parole della Zambrano, in precario equilibrio, «manteniéndose en el punto sin apoyo ninguno», senza coordinate di riferimento (rese nel lessico zambraniano con il termine «mediación»20): «El firmamento, el horizonte familiar; la ciudad y aún el lugar que en él se habita, son mediadores» (ivi, 39). In una condizione siffatta quale soluzione si prospetta all’esiliato per sopravvivere «a los largos ayunos de calor y a salvarse de él cuando llega como una irrupción» (ivi, 41-42)? Come non soccombere all’annichilimento? La risposta, carica di risonanze della psicologia del profondo, ma che fa tesoro anche della lezione di sant’Agostino e dei mistici21, è la seguente: per non perdersi nel deserto, l’uomo lo deve “interiorizzare”: «Para no perderse, enajenarse, en el desierto, hay que encerrar dentro de sí el desierto, hay que adentrar, interiorizar el desierto en el alma, en la mente, en los sentidos mismos, aguzando 19 

Il corsivo è mio. La parola mediación, intesa come «punto di riferimento, orientamento e di appoggio» nello spazio-deserto ma, per traslato nell’anima dell’esiliato, è un concetto chiave nella riflessione zambraniana sull’esilio. L’assenza di mediación provoca lo smarrimento esistenziale dell’esiliato: «Y así el firmamento mismo se retira, desaparece su firmeza, su mediación. Pues que es la mediación la que hace sentir la presencia del padre cuando se oculta y la que sostiene su presencia cuando se aparece», cfr. Zambrano 1990, 40. 21  La Zambrano entrò in contatto con il pensiero di Freud e di Jung attraverso la mediazione di Ortega y Gasset. In un famoso articolo del 1940, intitolato El freudismo, testimonio del hombre actual, dichiarò la sua presa di distanza dallo psicanalista viennese. Invece singolari prossimità si possono riscontrare tra alcune sue concezioni filosofiche e la psicologia analitica junghiana. L’opera di Jung inizia a conoscersi in Spagna a partire dal 1925, con la traduzione di Ortega dell’articolo Tipos psicológicos (introvertidos e y extravertidos), pubblicato sulla «Revista de Occidente», cui seguiranno Lo inconsciente en la vida psíquica normal y patológica (1927); La mujer en Europa (1929); El hombre arcaico (1931); Picasso (1934) e Los arquetipos del inconsciente colectivo (1936). Sulla diffusione del pensiero di Jung in Spagna e la sua influenza nel pensiero della Zambrano v. Neves 1999 e 2000 e anche Ugena Sancho 2017. 20 

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el oído en detrimento de la vista para evitar los espejismos y escuchar las voces»22. Nella filosofa spagnola l’“oggettivazione interiore” del “deserto”, come soluzione allo stato di angoscia e smarrimento dell’esiliato, prospetta la trasformazione dell’esilio da esperienza subita a causa del «forzado arranque de lo que fue patria, ciudad, casa, horizonte, paisaje familiar» (ivi, 41), a opportunità di rinascita. È lo scavo introspettivo che, evitando il pericolo dell’alienazione e della dispersione, dà all’uomo la possibilità di riscontrare singolari risonanze («escuchar voces») tra “il deserto” del presente causato dallo “strappo” dalla madrepatria ed altri “strappi” già esperiti, sia sul piano personale che collettivo o archetipico. E se il ricordo del trasferimento famigliare dalla natia Andalusia alla capitale spagnola riemergerà come una sua prima esperienza di esilio biografico23, a un livello di sempre maggiore astrazione la filosofa riconoscerà nell’estrema condizione dell’esiliato, nel suo ritrovarsi spogliato di tutto, l’eco della forza e della fecondità di uno status nascens, di un incipit vita nova (ibid.), una somiglianza, dunque, con l’esperienza primordiale della nascita: «ir despojándose cada vez más de todo […] para quedarse desnudo y desencarnado: tan solo y hundido en sí mismo y a la par a la intemperie, como uno que está naciendo» (Zambrano 2014, 4). 22  La metafora zambraniana del deserto come paesaggio dell’anima ha radici antiche. Presente nel Vecchio e Nuovo Testamento e nella letteratura mistica, il deserto vi rappresenta «quello stadio cruciale di evoluzione interiore in cui la consapevolezza perviene a un vicolo cieco» (cfr. Medici 2019), dal quale è indispensabile partire per acquisire un più pieno sviluppo spirituale. La formulazione zambraniana trova singolari coincidenze con l’immagine del “deserto” junghiano quale archetipo della psiche. Esperienze nel deserto si intitola, infatti, uno degli undici capitoli della Prima parte del Libro rosso dello psicanalista svizzero, da cui riporto il seguente stralcio: «La mia fede, la mia vista è accecata dal fulgore rutilante del sole del deserto. Il calore mi opprime con la sua cappa di piombo. Mi tormenta la sete, non oso pensare all’interminabile durata del cammino e, soprattutto, non vedo nulla dinanzi a me», cfr. Jung 2009. Il Libro rosso (Das Rote Buch), scritto approssimativamente tra il 1914 e il 1930, fu pubblicato solo nel 2009, ottanta anni dopo la sua stesura. È impossibile, perciò, che la Zambrano abbia potuto leggerlo. Tuttavia già da tempo Jung aveva elaborato il metodo dell’“immaginazione attiva”, le cui analogie con la “ragione poetica” della filosofa spagnola meriterebbero di essere approfondite. I primi riferimenti si trovano già nel suo saggio La funzione trascendente, scritto nel 1916, ma pubblicato nel 1956. 23  «Sus padres habían sido ya ‘exiliados’ en Castilla, donde nadie de la familia había vivido, porque nadie había vivido sin ‘tierra’. Y había vivido así, sintiendo el destierro, y que había perdido el lazo con la tierra y con la pequeña historia familiar», cfr. Zambrano 1998, 185.

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Se poi ogni nascita presuppone una frattura, un separarsi da un’unità originaria, l’intera storia dell’umanità si configura come l’essere stati strappati da una patria originaria per essere gettati nel mondo: Antes del inicio de la historia humana, allá en el Paraíso, sucedió lo que había de convertir a todo hombre a un exiliado: la expulsión en vista de la transgresión cometida por los primeros Padres. Adán, el hombre entero y verdadero, y Eva, extraída de su costado. […] Y así el hombre se vio en una vida con dificultades, dolor y muerte […] condiciones que resplandecen en el exiliado. (Ivi, 51)

3. Le isole e l’isola di Portorico: l’esilio in una prospettiva di genere Se il deserto rimane confinato nello spazio simbolico dell’esilio, l’insularità è, invece, una delle caratteristiche non solo della scrittura ma anche della vita di María Zambrano24. Il 1º gennaio del 1940, infatti, la filosofa si stabilì a Cuba per oltre un decennio, con brevi soggiorni a Porto Rico e in Messico e una più lunga permanenza a Parigi, dove si recò nel settembre del 1946, in seguito alla morte della madre, per rimanervi sino al gennaio del 1948, quando fece ritorno a La Avana. Il suo rapporto con le isole caraibiche, seppure non privo di contraddizioni e di crisi legate al difficile adattamento al clima («cuyo calor no puedo sufrir […] empieza en abril [un] calor inenarrable»), agli stili di vita («No tengo nada, sólo cansancio de esta vida y aburrimiento del trópico en el cual llevo cinco años») e alle difficoltà economiche, andrà profilandosi su un piano simbolico carico di suggestioni25. Già il primo incontro con l’isola di Cuba è rievocato in una lettera all’amico e poeta José Lezama Lima, attraverso un richiamo al tempo mitico della sua infanzia andalusa, oggetto di nostalgia e rimpianto. En aquel domingo de mi llegada en que le conocí la sentí recordándomela, creí volver a Málaga con mi padre joven vestido de blanco – de alpaca – y yo de 24  Sulla presenza della isotopia insulare in María Zambrano v. Arcos 2003; Moreno Sanz 2004; Cacciatore 2013; Trapanese 2014. 25  Si legga la lettera privata che María indirizzò alla madre e alla sorella Araceli, datata L’Avana, 1 gennaio del 1946 e catalogata come M. 147 nell’archivio della Fundación María Zambrano di Málaga, oggi pubblicata con il titolo La carta testimonial del exilio, in Zambrano 2014, 15-26. Le citazioni sono rispettivamente alle pp. 16, 25.

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niña en un coche de caballos. Algo en el aire, en las sombras de los árboles, en el rumor del mar, en la brisa, en la sonrisa y en un misterio familiar. Y siempre pensé que al haber sido arrancada tan pronto de Andalucía tenía que darme el destino esa compensación de vivir en La Habana tanto tiempo, pues que las horas de la infancia son más lentas. Y ha sido así. En La Habana recobré mis sentidos de niña, y la cercanía del misterio, y esos sentires que eran al par de destierro y de la infancia, pues todo niño se siente desterrado. Por eso quise sentir mi destierro allí donde se me ha confundido con mi infancia. (Zambrano 1996, 207-208)

Spingendosi oltre e impiegando ancora una volta una metafora di tipo genetico, arriverà a riconoscere in Cuba, secondo i postulati della sua “ragione poetica”, la propria “patria prenatale”, sorta di luogo identitario e costitutivo di una più profonda essenza di sé, diverso dalla Patria come categoria storica: «y así, yo diría que encontré en Cuba mi patria pre-natal» (ivi, 107); «Y así, sentí Cuba poéticamente, no como cualidad sino como substancia misma. Cuba: substancia poética visible ya. Cuba: mi secreto» (Zambrano 2007, 92-93). Il discorso zambraniano sull’insularità dell’esilio si fa particolarmente ricco di allusioni erratiche, come erratico è l’esilio stesso, in quanto «peregrinar en busca de las entrañas» (Zambrano 2014, 49). Le «isole» sono, per loro stessa natura, correlati dell’isolamento e della solitudine dell’esiliato. Anch’esse vengono ad essere il «lugar propio del exiliado que las hace sin saberlo allí donde no aparecen» (ivi, 41). Allo stesso tempo l’esilio è anche «un océano sin isla alguna a la vista, sin norte real, punto de llegada, meta» (ivi, 45). È soprattutto nel saggio Isla de Puerto Rico (Nostalgia y esperanza de un mundo mejor), però, che il motivo dell’isola si dispiega in tutta la sua portata, anche utopica, come avverte bene il sottotitolo. Se «i continenti», infatti, «sembrano aver svolto il compito di essere la terra del lavoro, la dimora abituale dell’uomo dopo la sua dannazione», scrive la Zambrano in pagine di grande forza espressiva, l’isola, collocandosi tra nostalgia e speranza, è percepita dall’uomo come «il residuo di qualcosa, la traccia di un mondo migliore, di una perduta innocenza», ed al contempo è sempre una promessa. «Una promessa che si avvera e che è come il premio per una lunga fatica. Le isole sono il regalo fatto al mondo in giorni di pace perché questo ne goda» (Zambrano 1940b, trad. it. 2009, 30). La Zambrano non elude le coordinate storiche, di una speculazione

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solo all’apparenza astratta, su quanto la cultura occidentale deve alle «isole del Mar Egeo, ai tempi luminosi della Grecia; alle isole delle Antille, quando il mondo, grazie a un geniale visionario, divenne rotondo» (ivi, 31). Speculazione che, proprio a partire dalla dialettica nostalgia e speranza, si fa indagine sul «fallimento del nostro passato di spagnoli» e sull’«angoscia del nostro presente di europei» (ivi, 40). È qui che la filosofa, che già altrove non aveva taciuto le sue critiche alla crisi dell’Occidente e alla cultura della sopraffazione e della violenza perpetrata contro i più deboli, individua nelle isole e nella sua popolazione la risposta e l’alternativa alle barbarie che hanno insanguinato il Secolo breve e lo fa con delle categorie che appartengono a una lettura condotta anche nella prospettiva del gender (Zambrano 2000). Alla violenza maschile del mondo occidentale, volto alla conquista e allo sfruttamento, le isole caraibiche, e l’isola di Porto Rico in particolare, si dispiegano nella loro «tenerezza» e nella loro «grazia» tutta femminile. Femminilità nella sua «fecondità umile», nella sua natura «esuberante», in «questo straripare senza fatica né superbia» (Zambrano 1940b, trad. it. 2009, 38). Contro «la religione del successo», «dei risultati» e «dei prodotti» (ivi, 53), l’isola si prospetta come alternativa: «ogni angolo della sua terra è carico di bellezza; non c’è nulla di statico, morto, sterile; tutto vibra e si giustifica nella grazia. Così sola e così piena di sé!» (ivi, 38). Contro l’«ansia irrefrenabile di dominio» (ivi, 37), l’isola, quintessenza di un «mondo migliore», si configura come speranza e utopia. Bibliografia Abellán, José-Luis 2001 Tres figuras del desgarro: refugiado, desterrado, exiliado, in Id., El exilio como constante y como categoría, Ediciones Biblioteca Nueva, Madrid. Arcos, Jorge L. 2003 María Zambrano o la isla como utopía, in Id., La palabra perdida. Ensayos sobre poesía pensamiento poético, Ediciones Unión, La Habana. Bundgaard, Ana 2002 “La fidelidad del cordero”. Interpretación de la imagen simbólica del cordero en textos escogidos de María Zambrano, «Aurora. Papeles del Seminario María Zambrano», 4.

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Lingua materna/matrigna/adottiva: il trauma dell’esilio e le sue orme verbali Rosanna Morace

Ogni individuo è prigioniero del proprio linguaggio […]. L’uomo è messo a nudo, svelato dal suo linguaggio. Roland Barthes, Il grado zero della scrittura

Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo che con l’aiuto di un dizionario da consultare di frequente. È per questa ragione che definisco anche la lingua francese una lingua nemica. (Kristof 2004, trad. it. 2005, 28)

L’affermazione suona paradossale, se si pensa che a pronunciarla è stata una delle più grandi autrici francofone del secondo novecento, Agota Kristof, in un «racconto autobiografico» dal titolo significativo, L’analfabeta. La parola è forte ed è evidentemente utilizzata in senso connotativo, anzi, è caricata in senso emotivo, perché è impensabile che una scrittrice sia «analfabeta» nella lingua che le ha permesso di scrivere un capolavoro come La trilogia della città di K. Ma, in effetti, il rapporto che un parlante ha con le lingue è anzitutto emotivo: la lingua è memoria e la nostra capacità di ricordare è resa possibile dalla parola, che trasforma i ricordi nel raccontarli, avvicinandoli, distanziandoli o rielaborandoli attraverso il filtro linguistico; ma c’è di più: il suono e il ritmo di una singola parola e di una lingua sono essi stessi sensazione ed emozione, perché attraverso la vibrazione della voce il ricordo si vivifica per via sensoriale, istintiva. In esilio o in una meno drammatica condizione di dispatrio, queste peculiarità emotive si amplificano, perché l’esilio è anche uno «spartiacque linguistico»: accade così che la lingua materna divenga «una lingua monca, senza vecchiaia», e quella d’adozione un idioma «senza infanzia,

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perché, appunto, i colori e i sapori dell’[…] infanzia parlano in un’altra lingua» (Bravi 2017, 11). Il rapporto tra questi due idiomi può dunque essere conflittuale, come appunto nel caso di Kristof, che conclude: «Ma ce n’è un’altra, di ragione [per la quale definisco anche la lingua francese una lingua nemica], ed è la più grave: questa lingua sta uccidendo la mia lingua materna» (Kristof 2004, trad. it. 2005, 28). La lingua adottiva sta commettendo un matricidio, anzi un doppio matricidio: il primo è meramente linguistico-lessicale, posto che due lingue allo stesso livello di conoscenza non possono coesistere, e mentre l’una avanza l’altra regredisce e si cristallizza nell’uso del tempo e del luogo da cui si è stati esiliati o ci si è allontanati; il secondo matricidio è emotivo e finanche affettivo: i ricordi iniziano a parlare un’altra lingua, non quella in cui sono stati vissuti, e mutano forma e forza, si traslano, si distanziano. Ma questa distanza, come vedremo, può anche essere salvifica, se il passato affonda le sue radici nel trauma e nell’orrore. La lingua materna può allora divenire la lingua nemica, e anzi si può scegliere la via del dispatrio proprio per esiliarsi dalla lingua, fino a percepire materna la madrepatria, ma matrigna la madrelingua. Per Kristof – invece e più comunemente – la lingua matrigna è la lingua adottiva, anzi le lingue adottive: il francese è la terza, in ordine di tempo, preceduta da tedesco e russo: la prima «faceva venire in mente la dominazione austriaca ed era anche la lingua dei soldati stranieri che in quel periodo occupavano il nostro paese» (ivi, 24), l’Ungheria: subentra poi il russo, verso il quale la popolazione oppone un «sabotaggio intellettuale nazionale […] che si mette in moto da sé» (ivi, 26). Ma, benché lingue dell’oppressore, nessuna delle due surclassa mai l’ungherese, che continua ad essere la lingua della comunicazione quotidiana, della vita. Quando l’Armata Rossa invade l’Ungheria, però, Agota Kristof è costretta a fuggire per motivi politici in Svizzera col marito e in braccio il figlio di appena quattro mesi. Commette così un matricidio linguistico per salvare il futuro del suo bambino, e paradossalmente la lingua nemica diverrà la madre del proprio figlio, anzi dei propri figli: biologici e letterari. Ecco, la vicenda di Kristof – con tutti gli apparenti paradossi che il breve explicit da cui si sono prese le mosse racchiude – spinge a chiedersi: la letteratura femminile esprime una peculiarità sua propria nel dar voce al rapporto tra lingua materna e d’adozione? Cosa

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cambia, per una donna che è madre, trovarsi ad allevare i figli in una lingua matrigna, o quantomeno d’adozione1, e non materna? E per una scrittrice, generare opere in un idioma senza infanzia? Inoltre, ogni donna è stata figlia e ogni donna è potenzialmente madre. Il legame che unisce madre e figlia è perciò doppiamente viscerale, e può capovolgersi in condizioni estreme, fino a mutarsi nel divenire madre della propria madre. Dunque, quest’istinto materno si attiva anche nei confronti della madrelingua? Mi domando perciò se, in ambito teorico, sia possibile e produttivo postulare una lettura della scrittura femminile del dispatrio sotto il segno di questa metafora, e se questa possa intersecarsi con l’approccio critico sulla subalternità culturale, letteraria e linguistica femminile: una marginalità che in esilio diviene marginalità al quadrato2. Ma partiamo innanzi tutto da un aspetto dell’esilio non marcato da statuti di genere, e nemmeno da implicazioni politiche, coloniali o storiche: «la condizione che chiamiamo esilio», scrive Brodskij, «è, prima di tutto, un evento linguistico», perché in tale condizione «tutto quel che resta a un uomo è lui stesso e la sua lingua, senza più nessuno o nulla in mezzo» (Brodskij 1987, trad. it. 1988, 32). Persino per chi, come il Premio Nobel 1987, è stato rinnegato dalla propria patria e ha traslato il rancore in avversione verso la propria madrelingua3, l’idioma natio è un rifugio, una capsula, un filo d’Arianna che lega a ciò che si era prima dell’esilio, a ciò che si è dovuto abbandonare per sempre. Per questo, «la lingua materna non muore mai, permane silenziosa in fondo all’anima» (Baron Supervielle 2007, trad. it. 2010, 59): essa continua a parlare dentro la lingua d’adozione, le si innerva dentro provocando impercettibili sussulti inconsci e sposta «leggermente il senso come fa con la pronuncia» (Monteiro Martins 2010, s.p.), dando vita a un nuovo idioma, ric1  Utilizzo ‘lingua d’adozione’ in accezione neutra, e ‘lingua matrigna’ in riferimento a una connotazione emotiva di ordine conflittuale o negativa. 2  Sulla scrittura femminile del dispatrio, cfr. Del Zoppo-Gangemi 2020; e Tatti 2021, alla quale si rimanda anche per approfondimenti bibliografici: vd. pp. 113-141 e 175. 3  Cfr. Brodskij 1986, trad. it. 2008, 200-201: «So che non si dovrebbe stabilire un’equazione tra Stato e lingua, ma il russo è la lingua in cui due vecchi, costretti a trascinarsi da una cancelleria all’altra e da un ministero all’altro nella speranza di ottenere un permesso per un viaggio all’estero, per andare a trovare il loro unico figlio prima di morire, si sentirono rispondere tante volte, per dodici anni di seguito, che lo Stato considera “non pertinente” un viaggio del genere […]. Che un’altra lingua accolga dunque i miei morti».

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co «per addizione» (Abate 2010). E questo, si badi bene, non è in contraddizione con la sensazione di Kristof, di sentirsi analfabeta: anche dentro il suo francese, dentro questa lingua così scarnificata e asciutta, tagliente come una lama nella sua nettezza, l’ungherese agisce come substrato. Questo «interplay», questa «interazione» tra le lingue4 permette alla patria di divenire «matria», permette cioè all’esule di superare il senso di estraneità, nostalgia, vendicatività che sorge in prima battuta in una terra straniera, e di riconciliarsi con i traumi vissuti nel proprio paese natio osservando il proprio passato attraverso il filtro linguistico distanziale. “Matria” è un interessante neologismo coniato da Igiaba Scego nel racconto omonimo, dove lo sradicamento vissuto da lei e dalla sua famiglia si incarna nella valigia: metafora non di viaggio, ma di impossibilità psichica ed emotiva ad accettare una stabilità nel paese d’adozione. In casa della protagonista non c’erano armadi, solo valige, per essere pronti a tornare alla madre Africa: E attendevamo… Attendevamo… Attendevamo… E poi niente […] Eravamo in continua attesa di un ritorno nella madrepatria che probabilmente non ci sarebbe mai stato. Il nostro incubo si chiamava dismatria. Qualcuno a volte ci correggeva e ci diceva: «In italiano si dice espatriare, espatrio, voi quindi siete degli espatriati». Scuotevamo la testa, un sogghigno amaro, e ribadivamo il dismatria appena pronunciato. Eravamo dei dismatriati […] e chi è orfano di solito che fa? Sogna. E così facevamo noi. (Scego 2005, 11)

È «il tormento degli esuli», magistralmente descritto da Said in Riflessioni dall’esilio, che si conclude postulando la possibilità di superarlo mediante il pensiero contrappuntistico. La chiusa di Scego muove in quella direzione: «Voglio comprarmi casa, mamma. Voglio andare a vivere da sola. Voglio un armadio, anche, e non più valige, mai più». Mamma invecchiò di trent’anni sotto i miei occhi. Nessuno in casa aveva mai parlato così. Avevo rotto il patto dei dismatriati. Ero una paria ribelle. «Ma […] questa non è la nostra terra» 4  Cfr. Meneghello 1987, 1079: «Questa è la fase dei liberi scambi reciproci fra le lingue, fra il dialetto e la lingua letteraria: il rapporto che in inglese si chiamerebbe interplay, in italiano mi piace dire interazione, arieggiando un po’ il linguaggio della fisica moderna».

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«No, mamma […]. Voglio un buco mio in questo mondo e poi, mamma, questa è la mia terra». L’abbracciai come non avevo mai fatto in tutti i trent’anni della nostra conoscenza e lei ringiovanì. Sentivo il suo calore sotto le mie braccia e la sentii per la prima volta piccola e fragile. Eravamo dismatriate, orfane, sole. (ivi, 19-20)

Eppure, quando la madre apre la sua ultima valigia (anzi, chiede alla figlia di farlo), dentro vi sono custoditi solo souvenir e ricordi romani: «Che significa?», dicevano i nostri occhi. «Non mi volevo dimenticare di Roma», disse mamma in un sospiro. E poi sorrise. Ci guardammo tutti. Sorriso globale. Non lo sapevamo, ma avevamo un’altra matria. (ivi, 21)

Avere due «matrie» non è solo la condizione delle seconde generazioni, di cui fa parte Igiaba Scego: l’Italia è, infatti, divenuta una seconda madre anche per la mamma, nonostante abbia vissuto sulla propria pelle tutta la sofferenza del distacco dalla prima vera madre, la Somalia. Anche Anilda Ibrahimi ha vissuto direttamente il dispatrio, e il potentissimo libro d’esordio muove ancora oltre verso il pensiero contrappuntistico, coniugando il discorso identitario a quello linguistico: Rosso come una sposa è un romanzo epico e corale, che narra un secolo di storia albanese con una prospettiva tutta femminile. Le fila narrative sono tenute dai due personaggi principali, l’affascinante Saba, e Dora, sua nipote. È un romanzo che conserva l’oralità e il calore delle storie tramandate di donna in donna (più che di generazione in generazione), a cui si aggiunge (e questo è il tocco davvero femminile, più dei tanti personaggi a cui ha dato vita la penna dell’autrice) il profumo di odori legati alla terra, alla cucina, alla casa, e la ritualità di gesti e tradizioni che si vorrebbe non morissero mai e di cui le donne sono custodi, attuando nella prassi narrativa un ribaltamento concettuale della subalternità culturale femminile, per il quale la famiglia e la società appaiono assolutamente matriarcali. L’epilogo si apre su una morte e una nascita che unisce le generazioni al di là del mare: «Nonna Saba è morta il Io febbraio 2003, lo stesso giorno in cui mettevo al mondo mio figlio» (Ibrahimi 2008, 259).

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In questo passaggio di testimone tra vivi e morti, Dora attende un segno dalla nonna, in virtù di quella misteriosa capacità che le permetteva di mettersi in contatto con l’aldilà: Aspetto da anni sue notizie. Prima pensavo di trovarmi nel posto sbagliato e […] l’ho cercata nei suoi luoghi e mi sono spostata nei suoi campi durante la raccolta del mais: per lei erano il centro del mondo […]. Forse, ho pensato, non è sbagliato il posto in cui l’aspetto, ma è sbagliata la lingua. Io parlo un idioma a lei sconosciuto e così ci rincorriamo da una parte all’altra. Forse lei cerca di riconoscermi dalle parole, dalla lingua piena di colori e sfumature che mi ha insegnato, dai nostri strani discorsi che solo noi sapevamo decifrare. Ma la sua lingua, azzurra, verde, gialla, come le stagioni dei suoi campi, quella che vorrebbe sentire da me non è più mia. Ho partorito due volte, in due idiomi diversi, nessuno dei due era il mio, il suo […]. Con me ho portato tutto ciò che mi è rimasto di lei. Senza traduzione. (ivi, 259-260)

Il passaggio di testimone – e la possibilità per Dora di essere trait d’union non solo tra vivi e morti ma anche tra tre lingue e culture, e tra passato e futuro – risiede nella lingua madre e nelle sensazioni sonore-tattili-olfattive che essa veicola. Senza traduzione, infatti, Dora ha portato con sé l’odore delle mele cotogne: […] quest’odore è quello delle madri felici e di quelle abbandonate. È l’odore delle madri che addormentano i figli e di quelle che cantano le ninnananne alle bambole di pezza. È anche l’odore asprigno del latte materno, quello delle mamme eclissate dal troppo amore delle nonne […]. Le stagioni delle donne della mia terra, le stagioni delle mele cotogne piombano così nella mia nuova vita altrove. Mi sono stancata di aspettare e alla fine ho scritto per prima, queste pagine confuse in cui parlo di lei, di noi, di altri […]. Le ho scritto nella lingua che parlo con i miei figli, questo le basterà. (ivi, 260-261)

La lingua madre, così carica di ricordi sentimenti sensazioni emozioni vite, parla ora nella lingua dei figli. Non c’è stato matricidio, e nemmeno una duplicazione della madre, ma una fusione: la lingua colorata e carica di nonna Saba si è avvinghiata coi «tralci prensili dei sensi» (Meneghello 1963, 41) nel nuovo idioma di Dora, e attraverso lei passerà nei figli, regalando nuove sfumature e odori sconosciuti alla lingua italiana: esattamente come fa Anilda Ibrahimi in questo romanzo.

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Il movimento tra le lingue che imprime Ibrahimi è fusione vettoriale; quello di Scego arricchimento in parallelo; Jhumpa Lahiri dà vita, invece, a un triangolo a rifrazione prismatica: In altre parole è una sorta di diario linguistico, in cui narra il suo graduale processo di acquisizione della lingua italiana, dai primi tentativi di costeggiala al coraggio di attraversarla in profondità. Ma, soprattutto, narra il suo amore per l’idioma di Dante, di cui sono spia i numerosissimi lessemi che fanno riferimento a tale ambito semantico. Come per molti altri autori translingue dall’antichità a oggi (Brugnolo 2009), anche per Lahiri l’italiano è la lingua dell’amore. La scrittrice, premio Pulitzer 2000 per la narrativa, è statunitense ma nata a Londra e di origine bengalese5: la lingua materna è quindi presto stata sostituita dall’inglese, che è divenuta una seconda lingua materna, come per Scego e per le seconde generazioni. Ma non senza traumi: Mi vergognavo di dover parlare bengalese davanti alle mie compagne americane […]. Volevo occultare, quanto più possibile, il mio rapporto con quella lingua. Volevo negarlo. Mi vergognavo di parlare bengalese, e al contempo mi vergognavo di provare vergogna. Non era possibile parlare in inglese senza avvertire un distacco dai miei genitori, senza provare una sensazione inquietante di separazione. (Lahiri 2015, 111-112)

L’italiano è dunque la terza lingua, e per tale ragione Lahiri descrive il suo interplay con la figura geometrica del triangolo, nell’omonimo capitolo di In altre parole. L’arrivo dell’italiano, il terzo punto del mio percorso linguistico, crea un triangolo. Crea una forma anziché una linea retta. Un triangolo è una struttura complessa, una figura dinamica. Il terzo punto cambia la dinamica di questa vecchia coppia litigiosa. Io sono figlia di quei punti infelici, ma il terzo non nasce da loro. Nasce dal mio desiderio, dalla mia fatica. Nasce da me. (ivi,113)

Lahiri è figlia di due lingue madri che hanno trasmesso infelicità, vergogna, sensi di colpa6, perché l’una occultava la possibilità di mettere radici nella patria di nascita; e l’altra di essere figlia della «matria» dei 5  Dopo In altre parole, Jhumpa Lahiri ha scritto in italiano anche Il vestito dei libri e il romanzo Dove mi trovo. 6  Per il rapporto tra lingua e senso di colpa e vergogna, anche in Lahiri, mi permetto di rimandare a Morace 2020.

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genitori. Da questa «coppia litigiosa» si genera un figlio del desiderio, un figlio voluto e amato che smorza i contrasti, appiana i conflitti, permette alle altre due lingue di riconciliarsi. La metafora materno-filiale ricorre con buona frequenza nell’ultima parte del saggio, sostituendosi a quella del rapporto d’amore7. Lo scarto si attua nel capitolo L’adolescente peloso, dove l’autrice ricorda il primo tentativo di auto-traduzione dall’italiano all’inglese: esperienza traumatica, perché la lingua più forte, l’inglese, divora il testo originale, lo smonta (ivi, 91), e lei si sente «infedele. Temo, controvoglia, a malincuore, di aver tradito l’italiano» (ivi, 90). Dal tradimento all’istinto materno di protezione: Voglio difendere il mio italiano, che tengo in braccio come un neonato. Voglio coccolarlo. Deve dormire, alimentarsi, deve crescere. Rispetto all’italiano, il mio inglese mi sembra un adolescente peloso, puzzolente. Vattene, voglio dirgli, non molestare il tuo fratellino. (ivi, 91)

Nonostante questa prima sensazione sgradevole, accade poi che «viaggiare tra le due versioni risulta utile […], lo sforzo […] rende la versione in italiano più chiara, più articolata, serve alla scrittura, anche se sconvolge la scrittrice» (ivi, 92), e dall’ «incontro dinamico tra le due lingue» nasce una sensazione dapprima di rinnovamento, poi di vera e propria rinascita: la metafora filiale è insistita, infatti, anche nel successivo capitolo, «Il secondo esilio»8; e si tramuta nel già citato «Il triangolo», dove l’inglese muta facies: mentre in rapporto all’italiano è un fratello adolescente peloso, in rapporto al bengalese è una vera e propria «matrigna», per il motivo analogo alla Kristof: mette continuamente in crisi la madrelingua, «non più capace, da sola, di crescermi» (ivi, 110)9. In una nuova terra, la lingua del futuro è necessariamente altra. Ma grazie all’italiano, si è detto, si genera qualcosa di nuovo: il figlio-lingua rigenera la madre, che ne diviene figlia a sua volta. Una lingua nuova è quasi una vita nuova, grammatica e sintassi ti rifondono, scivoli dentro un’altra logica e un altro sentimento. (ivi, 119)

Il capitolo «Metamorfosi», che si apre sul segmento di Starnone appena citato, prosegue nell’immagine ovidiana di Dafne per descri7  8  9 

È l’autrice stessa a notare questo slittamento, cfr. Lahiri 2015, 91. Per le metafore filiali, si veda ivi, 95; 97. Si vedano anche le pp. 113 e 114.

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vere la trasformazione che la lingua ha attuato: una moltiplicazione identitaria che non rinnega le radici ma le fortifica per dar vita a un nuovo albero, entro la quale si realizza appieno il «pensiero contrappuntistico» di Said: «tale pluralità [di prospettiva] produce a sua volta una consapevolezza, dell’esistenza di dimensioni simultanee, una consapevolezza cioè che, prendendo a prestito un termine musicale, è contrappuntistica» (Said 2000, trad. it. 2008, 230). Ma giungere a questa dimensione contrappuntistica è tanto più difficile quanto più è traumatico il rapporto con la lingua materna. In questo breve excursus, abbiamo analizzato la metafora materna o filiale in autrici che amano la propria madrelingua, e per le quali dunque la L2 o è e resta matrigna (Kristof), o progressivamente viene accettata e amata quanto la L1 (Scego, Ibrahimi); con Lahiri ci siamo spostati su un rapporto conflittuale con la madrelingua, anzi con le due lingue madri. Ma se, invece, è la lingua materna ad essere matrigna, o addirittura nemica? Se la lingua adottiva prende il posto di quella materna fino a scalzarla o a divenire una heimat più accogliente di quella natìa? Se sono proprio i suoni materni a vivificare ricordi, esperienze, traumi storici e personali che si devono assolutamente distanziare, per poter sopravvivere e per poter tentare di ritrovare se stessi, quale rapporto si instaura con la materna lingua? È possibile sanare il conflitto tra il dovere rinnegare una parte di sé, per salvare una parte di sé? Caso davvero emblematico è quello di Helga Schneider, nella cui vicenda si incarna anche il trauma più abnorme che l’Occidente abbia dovuto affrontare nella sua storia recente, l’Olocausto10. Nell’autobiografico Lasciami andare madre, del 2001, la scrittrice narra l’ultimo incontro avvenuto con la genitrice novantenne, tre anni prima, in una casa di cura viennese. Sono passati esattamente trent’anni dal loro penultimo incontro, sempre a Vienna, nel 1971; ed esattamente sessanta dal terz’ultimo, nella Berlino devastata dalla guerra: la donna lascia Helga e il fratellino Peter in una casa vuota, con le finestre oscurate per via degli attacchi aerei, e la promessa che presto sarebbe arrivata la zia a prenderli. Li abbandona per arruolarsi nelle SS e divenire una delle più spietate guardiane di Birkenau. 10  Tralascio volutamente, perché esula dalle finalità del presente studio, il nodale discorso che riguarda il rapporto tra la lingua tedesca e i reduci della Shoah: rimando (anche per ulteriori approfondimenti bibliografici) a Villa 2012, che incentra l’analisi non solo su Helga Schneider, ma anche su Edit Bruck ed Elisa Springer.

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Fatti odiare, madre! Fatti odiare. Sarebbe la soluzione giusta. Dì qualcosa di immondo su quelle ebree che a Birkenau erano sotto la tua custodia, quelle ebree che comandavi a bacchetta, sulle quali avevi facoltà di vita e di morte. Il demone che mi possiede mi suggerisce la mossa giusta. (Schneider 2001, 110)

Il demone è quello che spinge Helga, durante tutto l’ultimo incontro, a farle domande sempre più spietate per placare la necessità di sapere cosa accadeva nei campi, cosa la madre facesse, a quali atrocità si fosse spinta, e con quale e quanta convinzione. E le risposte che riceve sono sempre più immonde, in un climax atroce che si snoda per un centinaio di pagine. Eppure, le risposte immonde non saziano Helga. Perché non è la volontà di sapere a spingerla: lei già sa. Conosce a perfezione il fascicolo del tribunale di Norimberga sulla madre: non una semplice guardiana dei campi di sterminio, ma talmente coriacea e fanatica da essere selezionata per collaborare a Ravensbrück agli esperimenti sulle cavie umane; talmente «infida» da aver denunciato i suoi stessi compagni di sterminio per ottenere una riduzione della pena come criminale di guerra. E, d’altronde, cosa sapere di più di quel che già aveva vissuto e visto con i propri occhi nel 1971? Quando la porta si aprì, vidi una donna che mi somigliava in modo impressionante. L’abbracciai piangendo, sopraffatta da un’incredula felicità, pronta a comprendere, a perdonare, a mettere una pietra sopra il passato. Lei iniziò subito a parlare, a parlare di sé. Nessun tentativo di giustificare il suo abbandono, nessuna spiegazione. Raccontava. Molti anni addietro l’avevano arrestata nel campo di concentramento di Birkenau, dove faceva la guardiana. Vestiva un’impeccabile uniforme «che le stava così bene». Non erano ancora passati venti minuti che già apriva un maledetto armadio per mostrarmi, nostalgica, quella stessa uniforme. «Perché non te la provi? Mi piacerebbe vedertela addosso». […] Perdetti mia madre per la seconda volta. Non so se sia ancora viva. Ogni tanto qualcuno mi chiede se l’ho perdonata. (Schneider 1995, 9-10)

Così si apre lapidariamente Il rogo di Berlino, del 1995. Una pagina secca, cruda nella sua nettezza scarnificata, dopo la quale più non si parla della madre. Eppure lei è in ogni pagina, perché lei è dietro la devastazione della Germania, dietro le morti, le atrocità perpetrate sui civili e sugli ebrei, dietro le vite appese a un filo, dietro

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i privilegi delle SS, che Helga vive entrando nel bunker del Führer, mentre fuori l’intera Berlino moriva letteralmente di fame. Il rogo di Berlino è l’attraversamento di questo sfacelo visto con gli occhi di una bambina sola, scacciata dalla madre e detestata dalla matrigna, una bambina devastata come la terra e le vite che vede bruciare. Perché, ovviamente, il rogo di Berlino è anche il rogo dei campi di concentramento, di cui Helga sente parlare, senza ancora associare la madre allo sterminio. Ma il lettore, che ha aperto il romanzo su quella pagina lapidaria, sa. In Lasciami andare, madre, a distanza di sei anni, si aggiunge poi un secondo flashback di quel ricongiungimento del 1971; un particolare ancora più agghiacciante, che il tempo ha dovuto lenire con maggior distanziamento: il tentativo di regalarle dell’oro degli ebrei, gelosamente custodito in un cassetto. Tra gli svariati oggetti, una «di quelle catenine che si regalano alle bimbe per il loro quarto o quinto compleanno» (Schneider 2001, 18). Subito, alla figlia si sovrappone nella mente l’immagine della madre che sospinge nella camera a gas la bambina. Possibile, mi arrovello, che mai sia sbocciato in questa donna un sentimento diverso da quelli che gli erano stati inculcati? Amore anziché odio, pietà anziché crudeltà? «Una volta», la sento dire a un tratto. […] «ma lo superai subito. Non potevo permettermi questo genere di cose, voglio dire pena e rammarico per chi meritava di stare in un campo. Dopo di allora non mi accadde mai più. Ero della Waffen-SS, io. Non potevo permettermi il sentimentalismo della gente comune». Aveva demandato al Furher la sovranità dei suoi sentimenti, e ancora difendeva quella sconfitta. (ivi, 67)

Questa donna, di cui mai una volta è pronunciato il nome – come se il nazismo l’avesse privata anche dell’identità – non solo è una SS criminale di guerra; è soprattutto una donna che altro non ha che il suo passato da nazista, le sue convinzioni da nazista; è una donna che ha fatto terra bruciata della famiglia, degli affetti, della vita e persino di ogni lacerto di sentimento, per identificarsi totalmente con l’ideologia del terzo Reich: «col nazismo ero qualcuno, dopo non sono stata più niente» (Schneider 1995, 10). È una donna che «ha subito un addestramento di disumanizzazione», a cui è stato raschiato il «diritto di provare compassione», e, ancor

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più, che ha annichilito la sua capacità di giudizio morale e di discernimento tra umano e non umano: è questo che le ha permesso di continuare la sua vita a Vienna in modo del tutto normale, di percepire come giuste le sue azioni, senza sensi di colpa, continuando a professarsi innocente. Ed è qui che risiede La banalità del male. Per molti aspetti lo scavo che compie la Schneider è analogo a quello di Hannah Arendt durante il processo Eichmann. Le conclusioni sono simili, e mirano a sondare fino a che punto un individuo e una società possano annientare o ribaltare il proprio senso etico senza averne percezione. L’inquisizione che compie la figlia su quella madre che le «somigliava in modo impressionante» è, allora, un sondare se stessa e, attraverso se stessa, la potenzialità che la banalità del male ritorni ad «estendersi come un fungo in superficie» (Arendt 2003, trad. it. 2004, 419) nell’intera società. E più scava in questo abominevole doppio, più vorrebbe odiarla; ma non ci riesce, qualunque cosa ella dica, qualunque cosa ella faccia, perché in lei convive la contraddizione insanabile tra l’istinto di una figlia che ha bisogno di ritrovare sua madre, e la vergogna e l’orrore dell’abominio storico di cui ella è l’emblema personificato. Ma c’è poi una ragione più profonda: il non riuscire a odiarla nonostante tutto è l’unico modo per provare a se stessa di non essere come lei. Il romanzo è costruito su un triplo movimento ed ha un impianto fortemente teatrale: prima dell’incontro è un dialogo in absentia con la madre, che dà voce alla speranza di trovarla cambiata; segue un tentativo di dialogo in presenza, che presto si tramuta in un gioco al massacro da entrambe le parti, appena la figlia sperimenta l’infìda natura manipolatrice dell’ex SS. Il cambio di ritmo narrativo diviene qui repentino, in un continuo ribaltamento del ruolo di vittima e carnefice: la pertinacia con cui la figlia si ostina a interrogare con tono inquisitorio una madre che, in certi momenti, riesce quasi a far tenerezza nella sua senilità prosciugante, è direttamente proporzionale all’insidiosità ipocrita con cui questa cerca di ottenere una qualche manifestazione d’affetto da una figlia anch’essa prosciugata, ma di ogni speranza; e così l’una snocciola avidamente i particolari più osceni su Birkenau solo per trattenere l’altra, che la ricatta: o racconti o me ne vado; e ugualmente l’altra: o mi chiami Mutti o non racconterò nulla.

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È sintomatico che Mutti, mamma, sia l’unica parola tedesca presente in tutto il romanzo11, accanto al diminutivo con cui la madre chiama la figlia, Mausi12. Ma Mutti è proprio la parola che Helga non riesce mai a pronunciare, neanche nel Rogo di Berlino. Il trauma incistito in quella parola è talmente forte che nemmeno la nuova lingua le ha donato la capacità di pronunciarla: mai, una sola volta, in italiano è usato l’ecolalico e dolce “mamma” in luogo di “madre”, rappresentazione ideale di una mamma mai avuta, proiezione astratta di una dolcezza mai ricevuta. Il peso emotivo di una singola parola diviene coacervo di sentimenti che ne esulano, la parola qui è sintomo. Ma sintomo sono anche le modalità espressive e l’uso retorico della lingua da parte di entrambe, e questo credo sia uno degli aspetti più interessanti e non indagati del romanzo. «Bugiarda, opportunista, fanatica, infida» sono gli aggettivi con cui la madre è descritta nel dossier di Norimberga. Durante il colloquio Helga sperimenta continuamente queste tendenze, insieme ad altre due: il camaleontico cambio repentino di umore, atteggiamento e ritmo, ottenuto mediante drammatizzazione e pathos; e il ricorso all’eufemismo, ovvero due modalità comunicative assolutamente in linea con la lingua del nazismo: la prima col fine di far presa sull’emotivo, in modo da ridurre al silenzio l’intelletto; la seconda per nascondere o minimizzare realtà atroci, e alterare i fatti, come sottolinea anche Primo Levi ne I sommersi e i salvati. Di questa alterazione retorica della realtà, di questa colpevole e ricercata diminutio, la madre della scrittrice dà prova tenace in moltissimi contesti, il più eclatante dei quali è il già accennato racconto degli esperimenti che si svolgevano a Ravenbrück: «Perché vuoi sapere di Ravenbrück?» Mi scruta attenta. «Perché vuoi sapere di Ravenbrück? Non c’era nulla di interessante a Ravenbrück». I suoi occhi azzurrissimi sono trasparenti. Candidi e trasparenti. Davvero, madre? (Schneider 2001, 60)

11 

In realtà, qualche sporadica frase in tedesco viene pronunciata dalla madre, tra sé

e sé. 12  «“La mia piccola Mausi”, ripete, e sorride dolce, affettuosa. Ma è un attimo. Eccola di nuovo scaltra, perfida»: Schneider 2001, 110.

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E tocca alla scrittrice colmare la lacuna lasciata ad arte dalla madre, citando Eugen Kogon, Der SS-Staat. Das System der deutschen Konzentrationslager. La figlia inizialmente crede che la reticenza sia dettata da remora e vergogna. Ma la prassi è reiterata in modo glaciale, e si concentra soprattutto su certe parole accuratamente evitate: «Non ha pronunciato la parola “sterminio” […]. Del resto è strano che stesse per sfuggirle quell’espressione. «Loro» non li chiamavano così» (ivi, 1179). No, infatti, «loro» non usavano queste espressioni; e non pronunciando quelle parole, o pronunciandole al massimo sottovoce, gli abomini venivano rimossi dalla coscienza collettiva; e, quando non poterono più essere taciuti, si agì sulla semantica, ribaltando il significato e il portato emotivo di certe parole. Sotto questi aspetti, la Lingua del Terzo Reich fu un meccanismo perfetto: una lingua, scrive Victor Klemperer nel miliare LTI, che rivolge tutti i suoi sforzi a privare il singolo della sua natura di individuo, ad anestetizzare la sua personalità, a renderlo un elemento del gregge senza pensiero né volontà, spinto con violenza in una determinata direzione, a farne un atomo di un masso rotolante. La LTI è la lingua del fanatismo di massa. (Klemperer 1947, trad. it. 2019, 40)

Consciamente o inconsciamente, è forse anche per questa ragione che le modalità espressive di Schneider scrittrice si pongono in antitesi a quelle della madre: la sua lingua è secca, diretta, priva di qualsiasi sfumatura di pathos e teatralizzazione, tesa a utilizzare il linguaggio in senso denotativo e senza perifrasi, reticenze, eufemismi; sempre fondata sui documenti, laddove si muove per colmare le lacune lasciate dalla madre; o, nei successivi romanzi, per raccontare gli abomini del nazismo tralasciati o dimenticati, nella ferrea volontà di ricostruire lo sfacelo e la violenza che ha distrutto le vite private di una coralità sussunta in collettività dalla Storia, entro una narrativa di impianto storico che si incaglia negli anni 1941-1945, moltiplicando i punti di osservazione e le stratigrafie in modo ossessivo. Ed è indubbio (lo dichiara l’autrice stessa) che la scrittura abbia agito come esorcismo catartico, già a partire dal romanzo d’esordio, che nel narrare il rogo di Berlino sembra anche volere ridare vita alla città. Così come è indubbio che la lingua italiana, la lingua d’adozione, abbia agito da filtro distanziale delle emozioni che la lingua tedesca evocava. Emozioni torbide, contraddittorie, traumatiche, che difficilmente

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avrebbero potuto essere espresse con le medesime lucidità, nettezza e asciuttezza nell’idioma in cui quei traumi sono stati vissuti. Scrive Eva Taylor, poetessa e traduttrice anch’essa di origine tedesca: Cercate di immaginarvi solo per un momento di aver il tedesco come madrelingua, di averla in bocca, di parlare il tedesco ad altre persone, forse potete sentire quella tensione tra le due bocche di cui nella poesia citata sopra. Non perché il tedesco sia una lingua particolarmente difficile, ma perché questa lingua porta ancora un peso storico-culturale che non è svanito. Voi mi direte, ma no, esageri, non è cosi. Lo metto in conto e nonostante ciò sento l’eredità della mia lingua come una contraddizione che si crea tra la bellezza e straordinaria leggerezza delle poesie di Heinrich Heine per esempio e il suono della voce di chi comandava e di chi ha poi costruito un muro per dividere il paese. Non era la lingua, sia chiaro, ma erano le voci degli esseri umani che ab-usavano della lingua. È una contraddizione che mi ha portato a sentire i dolori in bocca, quella bocca che non si vede, ma che sanguina. (Taylor 2013, 104)

Eva Taylor nasce nel 1956. Dunque avverte il peso storico della lingua del nazismo, che si trasla di riflesso in peso emotivo. Ma per coloro che nei campi di sterminio, nella brutalità quotidiana perpetrata giorno dopo giorno, nella segregazione subita mese dopo mese, nella privazione di ogni libertà infittita di anno in anno, hanno sentito contro se stessi la violenza di quei suoni, beh, per loro la lingua materna è divenuta lingua nemica. Come osserva Primo Levi, la lingua del lager (e del nazismo, più in generale) era per i tedeschi ancor più ustionante che per gli alloglotti; e per gli scrittori, di una violenza insopportabile: Anche Jean Améry afferma di aver sofferto per la mutilazione del linguaggio […], eppure lui era di lingua tedesca. Ne ha sofferto in modo diverso da noi alloglotti ridotti alla condizione di sordomuti: in un modo, se mi è lecito, più spirituale che materiale. Ne ha sofferto perché era di lingua tedesca, perché era un filologo amante della sua lingua […]. La sofferenza dell’intellettuale era dunque diversa, in questo caso, da quella dello straniero incolto. Per questo, il tedesco del Lager era un linguaggio che lui non capiva, con rischio della sua vita; per quello era un gergo barbarico, che lui capiva, ma che gli scorticava la bocca se cercava di parlarlo. (Levi 2020, 105)

Il caso della lingua tedesca è certamente il più emblematico di come una lingua materna possa tramutarsi in nemica, persecutrice, inumana. Di fronte a ciò, le reazioni dei sopravvissuti sono state le più disparate, dall’allontanamento definitivo (Améry, Uhlman), al tentativo di recuperare la lingua ab-usata alla sua dignità (Arendt,

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Auerbach). Helga Schneider ha risposto rimuovendo la lingua madre: Sto per andarmene, e ho paura che non riuscirò a spezzare il legame che mi unisce a lei. E dire che ho tentato di farlo mille volte, in mille modi diversi. Perfino rinnegando la mia madrelingua. Qualche tempo dopo la visita a Vienna, nel 1971, incontrai a Bologna una connazionale che, naturalmente, cominciò a parlarmi in tedesco. Mi bastarono poche frasi per rendermi conto che non ero più in grado di parlare correntemente e correttamente la mia lingua. (Schneider 2001, 109)

Più netta, in un’intervista: Mi accorgevo che troppo presto non riuscivo a mettere insieme le frasi in tedesco. Questa cosa mi ha inquietato molto, come se avessi avuto una lobotomia. […] L’abbandono della lingua forse è stato inconsapevole, perché anche la nostra psiche, il nostro subconscio fanno delle cose per i fatti loro. (Mauceri 2003)

Parlare una nuova lingua, ripensare al proprio passato attraverso il filtro distanziale di un nuovo idioma può arrivare ad essere un modo per aggirare il subconscio, per acquietarlo. E, anche, per partorire un nuovo sé, dopo il matricidio. Ma la madre, si è visto, non muore mai, non può morire, il legame è viscerale e «va oltre l’attrazione e la compatibilità» (Lahiri 2015, 92). E, allora, altro non rimane che divenire la madre di sé stessa. Bibliografia Abate, Carmine 2010 Vivere per addizione e altri viaggi, Mondadori, Milano. Amery, Jean 1966 Jenseits von Schuld und Suhne: Bewaltigungsversuche eines Uberwaltigten, Szczesny, Munchen; trad. it. di Enrico Gianni, Intellettuale a Auschwitz, presentazione di Claudio Magris, Bollati Boringhieri, Torino 1987. Ardolino, Francesco 2002 Helga Schneider: la ferita aperta della scrittura, «Quaderns d’Italià», 7. Arendt, Hannah 2003 Responsibility and Judgment, Schocken books, New York; trad. it di Davide Tarizzo, Responsabilità e giudizio, a cura di Jerome Kohn, Einaudi, Torino 2004.

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1963 Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, The viking press, New York; trad. it. di Piero Bernardini, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2019. Baron Supervielle, Silvia 2007 L’alphabet du feu: petites études sur la langue, Gallimard, Paris; trad. it. di Anna Bertaccini, L’alfabeto di fuoco, Pagina d’arte, Capriasca 2010. Barthes, Roland 1953 Le degré zéro de l’écriture, Editions du Seuil, Paris; trad. it. di Giuseppe Bartolucci, Renzo Guidieri, Leonella Prato Caruso e Rosetta Loy Provera, Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino 1982. Bravi, Adrian 2017 La gelosia delle lingue, EUM, Macerata. Brodskij, Iosif Aleksandrovič 1986 Less Than One: Selected Essays, New York-Farrar, Strauss and Giroux; trad. it. di Gilberto Forti, Fuga da Bisanzio, Adelphi, Milano 2008. 1987 The Condition we Call Exile, in Id., On Grief and Reason. Essays, Straus and Giroux, New York-Ferrar 1995; trad. it. di Gilberto Forti, La condizione che chiamiamo esilio, in Dall’esilio, Adelphi, Milano 1988. Brugnolo, Furio 2009 La lingua di cui si vanta Amore. Scrittori stranieri in lingua italiana dal Medioevo al Novecento, Carocci, Roma. Del Zoppo, Paola, Gangemi, Rosanna (a cura di) 2020 Tra due rive. Autrici del Novecento europeo sul confino o sull’esilio, prefazione di Micaela Latini, postfazione di Chiara Nannicini Streitberger, Aracne, Roma. Ibrahimi, Anilda 2008 Rosso come una sposa, Einaudi, Torino. Klemperer, Victor 1947 LTI – Notizbuch eines Philologen, Aufbau Verlag, Berlin; trad. it. di Paola Buscaglione Candela, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, Firenze 2019. Kristof, Agota 1998 Trilogia della città di K. Il grande quaderno, La prova, La terza menzogna, Einaudi, Torino. 2004 L’analphabète: Récit autobiographique, Zoé, Ginevra; trad. it. di Letizia Bolzani, L’analfabeta. Racconto autobiografico, Casagrande, Bellinzona 2005. Lahiri, Jhumpa 2015 In altre parole, Guanda, Milano. 2016 Dove mi trovo, Guanda, Milano. 2016 Il vestito dei libri, Guanda, Milano. Levi, Primo 2020 I sommersi e i salvati (1986), Einaudi, Torino.

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Sebbene Anna Maria Ortese, a differenza di quanto contemplato dal modello dantesco-foscoliano della mitologia classica dell’esilio, non abbia esperito nel corso della sua vicenda biografica un forzato allontanamento dalla patria, Monica Farnetti (2005) e Rossella Di Rosa (2015) hanno ampiamente evidenziato come l’esilio rappresenti per la scrittrice «una dimensione di vita e di pensiero» (Farnetti 2005, 220) che la colloca a pieno titolo nella galleria degli esuli2. Al fine di comprendere le ragioni di tale inclusione, sarà opportuno fare chiarezza sui due vocaboli coinvolti nel discorso, ovvero esilio e patria, e verificare nel caso di Ortese a cosa corrispondano i due contenitori lemmatici. Una volta decifrate le voci del dizionario ortesiano, sarà allora possibile circoscrivere la rilevanza del pensiero sull’esilio all’interno della poetica della scrittrice, con particolare riferimento a quel «piccolo trattato di cosmologia politica che è Corpo celeste» (Buttarelli 2017, 159). Senza ripercorrere la sterminata bibliografia relativa all’origine e all’evoluzione semantica del termine esilio3, non sarà superfluo partire da una preliminare distinzione tra «esilio reale», che ha origine dall’evento storicamente individuabile dell’espulsione coatta dalla propria patria e che si traduce in una distanza fisicamente misurabile dal luogo geografico riconosciuto come casa, ed «esilio metaforico e talora anche metafisico, per quelli che sperimentano una situazione di estraneità pur restando sul territorio della propria patria, senza limiti o costrizioni apparenti» (Luperini 2014, 17). Evidentemente Ortese appartiene a questa seconda categoria di 1 

Questo saggio deve molto al magistero di Armando Gnisci e a lui è dedicato. Si veda anche Della Coletta 2015. 3  Si rimanda a Tatti 2007; 2021. 2 

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esuli, il cui displacement non è direttamente legato alla relazione forzatamente interrotta con le coordinate geografiche associate al suolo patrio, ma migra dal piano fisico a quello metafisico. In realtà se, come evidenziato da Iosif Brodskij nel contributo capitale The Condition We Call ‘Exile’ (1990), l’esilio è sempre una condizione metafisica, anche nel caso di un esilio reale4, non può non essere sottolineata la differenza significativa che pertiene l’assenza di limiti e divieti fisicamente circoscrivibili all’origine dell’evento traumatico del disadattamento. L’assenza del limes invalicabile, però, rivela la sua natura apparente se si considera il rifiuto della scrittrice di fare ritorno a Napoli – ossia nella città associata al concetto di casa ben più della nativa Roma – anche dopo gli ultimi strascichi della nota polemica con gli intellettuali napoletani del gruppo Sud, scatenatasi dopo la pubblicazione de Il mare non bagna Napoli (1953), rifiuto sul quale giustamente Farnetti insiste molto all’interno del discorso sull’esilio ortesiano (Farnetti 2005, 221). La distanza autoimposta dalla città partenopea diviene allora per Ortese la chiave d’accesso al regno dell’esilio, laddove le precedenti peregrinazioni al seguito della famiglia (Roma, Puglia, Basilicata e Libia) non avevano intaccato la relazione con l’istituzione della casa che trova una prima stabile collocazione geografica ed emotiva solo successivamente al trasferimento a Napoli nel 1928. Sarà bene precisare preliminarmente che nel dizionario ortesiano i due concetti di patria ed esilio rimandano a una stratificazione di significati eterogenei per i quali Farnetti evoca apertamente una volontà autoriale di depistaggio (Farnetti 1998, 108) e, pertanto, non si potrà che procedere a strati nell’analisi, senza che necessariamente un livello conduca direttamente al successivo, secondo un modello a cerchi concentrici in cui il centro è condiviso ma le circonferenze non hanno punti in comune. Se dunque inizialmente la patria viene identificata con Napoli e l’esilio con il rifiuto di farvi ritorno – almeno fisicamente perché, come già evidenziato da Farnetti, l’intera opera ortesiana è un estremo tentativo di riappropriarsi tramite la scrittura dell’immaginario partenopeo (Farnetti 2005, 221-222) – gradualmente per la scrittrice, però, lo stato esule muta da una condizione storica e sociale, 4  Cfr. Brodskij 1990, 103: «For the other truth of the matter is that exile is a metaphysical condition. At least, it has a very strong, very clear metaphysical condition».

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legata alla marginalizzazione subita dalla cultura ufficiale, a una condizione ontologica con il conseguente ampliamento dei confini patrii che assumono infatti dimensioni cosmiche, abbandonando progressivamente il terrestre per il celeste. Rispetto all’analisi puntuale fatta da Di Rosa che, sulla base delle tipologie di esilio designate da José Luis Abellán, rintraccia in Ortese «una forma ibrida, che inizia come esilio in senso antropologico [per cui la vita terrena stessa è vista come esilio dal luogo originario], passando poi alla categoria culturale [che ha origine cioè in un evento storico], dopo la pubblicazione de Il mare non bagna Napoli nel 1953» (Di Rosa 2015, 64), questo contributo si propone di circoscrivere lo stadio finale dell’esilio ortesiano nel quale, acquisito il punto di vista cosmico, il confino diviene condizione intraspecifica condivisa a fronte di un considerevole ampliamento del concetto stesso di patria. Non potrà essere sottovalutato, poi, che parallelamente alla celebrazione di Napoli-Toledo come patria reale e ideale allo stesso tempo5, Ortese, presentandosi come genealogicamente sradicata6, nega implicitamente di avere un luogo di origine geolocalizzabile ed evoca apertamente una diversa patria che si rivela poi appartenere a una geografia fiabesca: la casa dai merli bianchi. Sul termine dei miei quotidiani vagabondaggi per le vie della città straniera, mi arrestavo spesso in una località strana e isolata e selvaggia, cui si giungeva a un tratto, superato un ponte. Un fiumicello dalle acque calme, di un turchino cupo a larghi e irrequieti anelli neri, scendeva molleggiando tra le sponde di mirto. […] In fondo, dove il fiume faceva gomito, spiccavano sul cielo di un azzurro raro, quasi tra verde e nero, i merli candidi di una strana casa. […] Io non uscii più da quella Casa, quale gioia! […] Qui, non era più voce del mondo, tristezza e squallore, pena delle mortali vie; non tormento di umani, non esigenze sociali, non rimproveri di religione. (Ortese 2002, 714 e 718)

La «bella casa», come recita il titolo del racconto rivisto per Il porto di Toledo (1975), già pubblicato come Isola in Angelici dolori 5  Sulle ragioni della sovrapposizione della città ispanica dell’entroterra sulla sinopia della costiera Napoli, originata da una folgorazione visiva associata al dipinto Veduta di Toledo di El Greco e cristallizzata nel romanzo Il porto di Toledo, si veda Farnetti 2002, XXIV-XXV. 6  Si veda quanto dichiarato nell’incipit de Il porto di Toledo: «Sono figlia di nessuno. Nel senso che la società, quando io nacqui, non c’era, o non c’era per tutti i figli dell’uomo» (Ortese 2002, 363).

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(1937), ubicata in una località nettamente separata dagli intricati vicoli napoletani che la protagonista lascia alle sue spalle, viene descritta seguendo i dettami di una geografia fantastica: è la classica casa delle fiabe, situata sulle rive di un tranquillo corso d’acqua, locus amoenus isolato spazialmente da un ponte che rappresenta l’unica via di collegamento con il resto della città. Si tratta della casa d’elezione ortesiana, familiare ma al tempo stesso estranea: le appartiene per nascita perché è la casa-museo del nonno scultore mai conosciuto e incontrato per la prima volta nella finzione narrativa del racconto, ma Ortese ne prende possesso solo tramite la scrittura. Nella bella casa, indicata nel testo come la «Casa» con la lettera maiuscola, avviene infatti l’investitura di Anna Maria come scrittrice e le vengono consegnate dal nonno Asa le chiavi d’accesso alla «seconda irreale realtà» (ivi, 470): «Nel senso che io ora avevo certezza di sapere – il centro della condizione – […]» (ivi, 723). Si tratta di una certezza che, a distanza di poche righe, scivola ossimoricamente, secondo il consueto stile ortesiano, in incertezza che si rivela però essere l’elemento imprescindibile della conoscenza metafisica: «Questa incertezza è sempre, è pavimento dell’oltre!» (ivi, 723). La bella casa è infatti la casa della letteratura dove le viene rivelato il segreto, cioè che la realtà «è a tanti strati» e alla scrittura spetta il compito di svelare l’inganno dell’«occhio popolare»7. Per colei che si professa «figlia di nessuno» (ivi, 363), allora, la patria non può essere identificata con un domicilio terrestre, ma l’unica casa possibile è la letteratura, a cui accede per linea genealogica, seppure di natura fiabesca, grazie al nonno Asa. Alla casa dai merli bianchi, dunque, è legata una duplice declinazione della patria che se da una parte si rispecchia in un orizzonte fantastico-fiabesco che è la porta d’accesso alla letteratura e il «pavimento dell’oltre», dall’altro respinge la stanzialità del concetto stesso di patria legandolo a un’azione di dissotterramento degli strati di cui è costituito il reale. Risulta allora 7  Nella versione rivista del racconto, pubblicata ne Il porto di Toledo, Ortese inserisce una postilla di fondamentale importanza: «Sì, avvertivo lentamente questo: che la Realtà è a tanti strati, secondo l’occhio. L’occhio mio ripudiava sempre più ciò che all’occhio popolare è reale» (ivi, 726). Si tratta del dato fondamentale della poetica ortesiana, che richiama con prestiti lessicali molto precisi quanto affermato ne L’Iguana: «Purtroppo, non si tiene conto che il reale è a più strati, e l’intero Creato, quando si è giunti ad analizzare fin l’ultimo strato, non risulta affatto reale, ma pura e profonda immaginazione» (Ortese 2005, 56).

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evidente come la rivelazione del segreto legato alla stratigrafia del reale liberi di fatto l’idea di patria dalla sua natura sedentaria, mettendone in evidenza l’aporia ineliminabile, e, parafrasando Rosi Braidotti (1995), evochi apertamente una coscienza definibile come nomade8. Per Ortese, dunque, sembra delinearsi un progressivo e lento smarcamento dal tradizionale stato di esule che passa proprio attraverso il superamento del rimpianto della patria perduta e che porta al riposizionamento del soggetto all’interno di una cartografia i cui confini non possono essere tracciati per definizione. Il nomade e il cartografo procedono di pari passo. Condividono lo stesso bisogno situazionale. Il nomade sa però come leggere mappe invisibili, o mappe scritte nel vento, sulla sabbia e i sassi, nella vegetazione. […] La mappa è invisibile, o forse, invece, può essere letta solo da coloro che hanno imparato a leggere segni d’invisibile inchiostro. (Braidotti 1995, 21-22)

Le mappe invisibili cartografate dalla scrittrice sono infatti «le grandi mappe dei sogni» ovvero quelle del «sovramondo» dei corpi celesti rispetto al quale – ed è questa l’evidenza rivelata da Corpo celeste (1997) – la Terra non è oggetto alieno, bensì «un oggetto azzurro collocato nello spazio» esattamente come gli altri corpi celesti (Ortese 1997, 9). Sottratta dunque alla Terra la sua presunta natura «terrosa, niente affatto aerea» (ibid.), viene meno la stessa fissità dei confini che si perdono nell’azzurro indistinto che è il monocromo dell’universo tutto: […] su un corpo celeste […] vivevamo anche noi: corpo celeste, o oggetto del sovramondo, era anche la Terra, una volta sollevato delicatamente quel cartellino col nome di pianeta Terra. […] Una cosa era certa, era nozione ormai incancellabile: tutto il mondo era quel sovramondo. Anche la Terra e il paese dove abitavo, e la collocazione, o vera patria di tutti, era quel sovramondo! (ivi, 9-10)

Modificate in tal modo le coordinate del luogo da associare al concetto di patria, l’esilio non è più condizione marginale condivisa da 8  Cfr. Braidotti 1995, 20: «Scrivere in questo modo [il riferimento è a Christa Wolf, Kassandra (1983)] significa voler liberare le parole dalla loro natura sedentaria, destabilizzare significati comunemente accettati, decostruire forme tradizionali di coscienza». Anche Di Rosa (Di Rosa 2015, 68) sottolinea l’affinità della posizione di Ortese con il pensiero di Braidotti.

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pochi reietti, bensì status comune a tutti gli abitanti della Terra, autoconfinatisi nel mondo terrestre senza partecipare del sovramondo celeste, «vera patria di tutti». Tale declinazione inclusiva dello stato esule, diretta conseguenza della rivelazione della natura celeste della Terra, apre allora a uno slittamento verso il nomadismo che meglio esprime la «capacità di ricreare la propria dimora ovunque» (Braidotti 1995, 21), così come autorizzato dall’allargamento cosmico dei confini patrii. Sconfessate infatti le «piccole patrie» dalle quali poter essere espulsi, la grande patria del sovramondo celeste non ammette esuli: non esiste, infatti, luogo nell’intero universo dove l’uomo possa dirsi straniero, ma solo nomade, a casa propria ovunque. Corpo celeste e la «nostalgia di futuro» Se, com’è noto, all’esilio è implicitamente legata l’eventualità – reale o semplicemente vagheggiata – del ritorno, Farnetti sancisce in maniera inequivocabile come in Ortese «si spezza il nesso – classico, omerico, posto a fondamento della cultura d’Occidente – fra viaggio (o di spatrio che dir si voglia) e ritorno, luogo d’origine e nostalgia» e che il ritorno, anziché identificarsi con un atto compiuto che pone definitivamente termine alla distanza spaziale imposta dal paese natale, «non sia mai un ritorno “finito” […] ma che vi sia piuttosto una condizione di esistenza – l’esilio, appunto – che permette il continuo ritorno» (Farnetti 2005, 222). È così che l’esilio diventa «fecondo», indirizzato com’è non al nóstos definitivo, ma ai molteplici ritorni resi possibili proprio dalla scrittura in exilium «che sostituisce al cerchio che si chiude un disegno […] aperto e a spirale» (ivi, 223). Conclude, dunque, Farnetti che la nostalgia espressa dalla scrittura ortesiana non è più la nostalgia classica del modello omerico, bensì una «nostalgia di mondo, di futuro – se così si può dire –, di libertà» (ivi, 225). Tale «nostalgia di futuro» è, a mio avviso, l’elemento chiave per decifrare quella straordinaria operazione utopica di rifondazione della «coscienza terrestre» (Ortese 1997, 41) portata avanti dal testamentario Corpo celeste: «un piccolo libro, forse strano, forse insopportabile, alla fine paradossale, ma spero non inutile» (ivi, 14). Si tratta di un libro nato in esilio, che però avanza una proposta nuova di ricollocazione tanto del soggetto quanto del

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mondo in cui vive, che sconfessa e supera la logica di patria ed esilio. Infatti, nella patria celeste indicata da Ortese (da non confondere con il regno dei cieli della tradizione cristiana), il concetto stesso di esilio perde di significato nel momento in cui viene meno un altrove come polo oppositivo dell’idea di patria. Se dunque non esiste un altrove rispetto al sovramondo celeste che è patria comune, non possono pertanto verificarsi le condizioni di espulsione all’origine dell’evento esilio. Ed è questa la rivelazione ultima di Corpo celeste che, prendendo le mosse dalla constatazione del dato – tanto ovvio quanto sottovalutato – che la Terra è un corpo celeste, ridisegna la cartografia del cosmo per poi sovvertire la visione piramidale dei viventi sulla Terra, suggerendo una visione di futuro che procede in direzione contraria rispetto a quella colpevolmente abbracciata dalla storia del pianeta. Il volume raccoglie due memorie (Attraversando un paese sconosciuto e Dove il tempo è un altro) e tre conversazioni (La virtù del nulla, La liberta è un respiro, Non da luoghi di esilio), scritte tra il 1974 e il 1989 e accomunate dal «filo dorato» di una parola – «corpo celeste» appunto – che, per stessa dichiarazione autoriale sono opere del «tempo sommerso, scuro quanto nessun altro» (ivi, 10), scritte negli anni dell’esilio in Liguria, caratterizzati da «una pace inerte, senza più speranza»: «La vita era alle spalle» (ivi, 11). Nata, dunque, come un paradosso – opera postuma nel momento stesso della sua stesura – Corpo celeste si profila come uno straordinario «laboratorio filosofico» (Clerici 2002, 633) che, pur partendo dall’autobiografia dell’esule affidata alle due memorie ivi raccolte, non guarda al passato, bensì orienta la nostalgia di futuro a sostegno di un’etica rinnovata che è il vero testamento poetico dell’autrice. E se all’indomani della pubblicazione Ortese, rammaricata ancora una volta per la tiepida accoglienza del libro, scrive ad Alessandra Farkas: «Questa Italia senza compassione e piena di superbia politica mi rattrista profondamente. Mi sento davvero in esilio» (ivi, 634), ribadendo così la sua condizione di scrittrice esiliata, tenuta ai margini dall’industria culturale italiana9, Corpo celeste ribalta 9  La rabbia per la scarsa considerazione ricevuta dalle sue opere, che la costringe a una vita indigente per lunghissimi anni, è una costante della biografia ortesiana: «Ho smesso persino di comprare giornali e aprire il televisore. Di questo mondo – così ingarbugliato

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la prospettiva limitata del cronotopo terrestre e ne smentisce i presupposti. Dirmi che sono nata in questo paese, in quell’altro, per me non ha senso. La mia patria (piccolissima a sua volta) è la Via Lattea, sperduta nel fuoco bianco di infinite altre Galassie. […] Così, se io dormo, o veglio, […] ugualmente il mio treno viaggia, il mio carro senza nome, con ruote di luce senza nome, sale o discende sentieri spaventevoli. (Ortese 1997, 114-115)

Risulta dunque evidente come l’esilio, che trova una sua collocazione all’interno della scala terrestre (infinitamente piccola), riveli la sua indecifrabilità e inconsistenza se analizzato dalla prospettiva di una patria dai confini galattici. L’identità municipale, infatti, radicata in un paese o in una città del suolo terrestre, non è altro che il risultato di una distorsione prospettica e di una visione dal basso che contempla unicamente una porzione di spazio irrilevante nella scala delle dimensioni cosmiche. Alla perdita del luogo terrestre come specchio identitario è poi associata la perdita del nome, frutto della superba attività classificatoria dell’uomo e sia l’uomo, sia l’universo tutto si riducono a «un paese senza nome»10. E se il pianeta Terra viene ricollocato in posizione decentrata e trascurabile all’interno della mappa cosmica delle galassie, allo stesso modo l’uomo perde il privilegio del centro e il vertice della piramide per beneficiare, al pari di tutti i viventi, unicamente della caratteristica basilare della vita: il respiro, che è il respiro universale, «il rollio inavvertibile e misterioso della vita» (ivi, 116-117). «Ma tutto il mondo respira, non solo l’uomo» (ivi, 116) e, pertanto, ogni forma di sopraffazione che privilegi la difesa del proprio respiro a scapito di altre «creature che respirano» (ivi, 117), siano esse piante o animali o individui della specie umana, risulta inaccettabile. Si profila qui una delle accuse più incalzanti al sistema culturale dominante nella società contemporanea che si ostina nella tutela della posizione privilegiata dell’uomo, al centro della vita nell’universo.

inguaribile e cattivo – non m’importa più nulla. […] La mia risposta è un crescente rancore per questo paese (tutto il paese!) che trova giusto, normale, lasciare un essere umano nella disperazione» (Clerici 2002, 535). 10  Cfr. Ortese 1997, 115: «Un paese senza nome: l’uomo – e tutto il vasto universo – è questo».

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Secondo una valutazione non tanto approssimativa, l’era tolemaica è finita. Ma non per religioni e ideologie. Queste mettono ancora l’uomo al centro dell’essere. […] Voglio dire che la specie umana, sebbene specie e famigliaguida, e in modo anche molto clamoroso, non è detto che sia – per così dire – la migliore: la più affidabile e gradevole. Generalmente, anzi, non lo è (ivi, 136).

Ed è così che, con quasi cinquecento anni di ritardo, con evidenti richiami all’amato Leopardi delle Operette morali (1835), Ortese svela le implicazioni filosofiche volutamente ignorate della rivoluzione copernicana e attacca alle fondamenta ogni baluardo di antropocentrismo residuo: la specie umana non è la migliore del pianeta Terra – sebbene si ritenga tale – anzi è la responsabile dell’istituzione di un ordine distorto che ha portato alla dittatura nefasta dell’intelligenza (ivi, 143) e allo scempio della Natura, con il conseguente genocidio dei suoi figli più deboli. La radice di tale orrore planetario viene allora individuata proprio nella separazione, avvenuta nell’uomo moderno, di ragione e intelligenza, che perseguono due opposti fini: l’una la conoscenza e la tutela delle leggi della vita e l’altra il rovesciamento di tali leggi e lo sciagurato dominio dell’uomo sulla Natura11. Una data storica segna, per la scrittrice, l’inizio dello strapotere dell’intelligenza sulla ragione ed è il 14 luglio 1789, la gloriosa rivoluzione francese, colpevole di aver travestito l’intelligenza da ragione, promuovendo l’uguaglianza anziché le differenze e producendo così «una sterminata piattezza dovunque» (ibid.)12. Il risultato, dimostrato da incontestabili evidenze storiche, è la «precipitazione – dell’umanità in massa» (ibid.) e la perdita tanto della memoria storica quanto della memoria biologica quali argini allo strapotere dell’uomo13. Ne consegue dunque l’urgenza di un ridimensionamento dell’uomo e della sua «cultura d’arroganza, che lo ha posto al centro dei sistemi, padrone e torturatore, corruttore e venditore di ogni anima della Vita» (ivi, 125) ed è questo il fine 11 

Si veda quanto dichiarato in ivi, 139: «Non possiamo infatti negare che tutto ciò che sta accadendo, e in parte è già accaduto – il logorio, lo schianto della Natura e delle sue leggi, lo smarrimento e lo strazio di ogni piccolo figlio della Terra – accade in nome della intelligenza, e nel rispetto di questo programma alla dinamite che vede la Natura, e il mondo da essa generato, sconfitti per sempre dalla intelligenza». 12  Sulla tutela delle differenze si veda ivi, 32: «Credete che tutte le diversità interiori […] non siano […] gran parte della ricchezza reale di un paese?». Per un approfondimento sulla critica ortesiana alla civiltà moderna, si rimanda a Iannaccone 2003, 150-166. 13  Cfr. Ortese 1997, 127-128.

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ultimo della rivoluzione etica proposta da Corpo celeste che, come sottolinea anche Buttarelli, aspira a presentare un vero e proprio progetto politico di rifondazione della comunità umana in accordo con le leggi della vita del cosmo (Buttarelli 2017, 159-160).

Dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo: l’utopismo come «sentiero nomade» Nonostante venga volutamente presentato come «un piccolo libro», Corpo celeste non rappresenta certo l’esito di un tentativo ingenuo di abbracciare una materia altra rispetto alla precedente produzione, bensì il compendio dell’intera opera ortesiana che, sempre più marcatamente negli ultimi anni, si aggira ossessivamente attorno a fondamentali questioni filosofiche relative alla vita e al dolore. Lo dimostrano gli scritti inediti pubblicati nel volume Le Piccole Persone (2016) che, come sottolinea Angela Borghesi, possono essere considerati «un allegato postumo – un composito, ignoto antigrafo – di Corpo celeste» (Borghesi 2016, 246) e testimoniano il progressivo addensarsi della riflessione di Ortese intorno al rapporto dell’uomo con la Natura. Come dichiara nella lettera a Guido Ceronetti datata 8 febbraio 1983, «il dolore degli animali è ormai il primo dei miei pensieri […]. E cercare tante strade per la “pace”, come si fa nel mondo, senza prima togliere l’orrore della mancanza di pietà e di giustizia verso “loro” – che errore» (Ortese 2016, 210). Si tratta del motivo centrale della poetica della scrittrice che, spogliato della veste narrativa, vede luce in Corpo celeste come una sorta di manifesto politico-poetico che risponde all’urgenza di una nuova convivenza inclusiva di tutte le forme di vita. L’errore, da sempre storicamente commesso, risiede infatti, secondo Ortese, nel considerare in quelle qualsivoglia «strade per la “pace”» unicamente il benessere degli esemplari della specie Homo sapiens, tagliando fuori gli altri animali e la Natura stessa dal disegno di armonica convivenza. Al contrario, tale armonia è possibile solo a fronte di un ridimensionamento dell’uomo posto di fronte a una cartografia inedita che lo costringe a riconoscersi ai margini anziché al centro dell’universo, ospite ignaro del sovramondo celeste rispetto al quale il pianeta Terra non è che una periferia o, per meglio dire, un insospettabile luogo d’esilio. Ed

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è proprio l’esilio il nucleo tematico che indirizza tutta la riflessione ortesiana, conferendole un punto di osservazione privilegiato dal quale accedere alla rivelazione dell’appartenenza a un’altra realtà, ben più vasta di quella estremamente limitata registrata dalla storiografia. Vari anni fa, a Roma, una sera assistei a una insolita trasmissione televisiva; argomento: lo Stellato. […] Una voce disse: ecco la nostra Galassia, e io mi spinsi avanti avidamente a cercare dove fosse il sistema solare, e i pianeti, e il nostro, e sul nostro pianeta l’Europa, l’Italia, Roma e – cosa assurda – Montemario e la mia casa di Piazza Ennio, dove abitavo. Ma nulla, non c’era nulla. Forse questo pianeta […] esisteva, ma […] non si poteva vedere. Probabilmente era una pagliuzza di luce. Della mia casa, e di me stessa, certamente niente. Eppure io esistevo. […] Ma ero «dentro» […] e rispetto ad esso [l’universo], ero inesistente, e così era inesistente l’intero pianeta, con le sue particolarità azzurre. […] Inoltre, […] nulla aveva nome, né data […]: tutto era, nel suo peso e moto, semplice apparizione, e basta. […] Una volta, sempre in quella stanza […] avevo letto riflessioni di Lucrezio, sulla materia. E quelle pagine, dove si vedeva chiaramente che della storia dei giorni e degli uomini […] non resta nulla, […] mi avevano atterrita. Dunque la famosa Storia non esisteva affatto […]. Patrie sorgono, patrie declinano, e quanto dolore – di cui non udiamo i gridi – […] e quante stupide vittorie, dato che tutti, poi, dico TUTTI!, sono destinati al morire definitivo, e l’Universo non aspetta che di ingoiarli insieme, giustiziati e giustizieri, domani, neppure saprà che esisterono. (Borghesi 2016, 253-255)

Ed ecco che si profila la fonte primaria della speculazione ortesiana che si richiama apertamente al De rerum natura di Lucrezio14, qui utilizzato per sottolineare l’estrema precarietà delle opere degli uomini, vanamente affaccendati nel perseguire falsi obiettivi che però non possono evadere l’esito finale, comune a tutte le forme di vita, di una morte che quasi nulla incide sul ciclo di aggregazione e disgregazione della materia. Non è affatto casuale, poi, il richiamo al concetto di patria proprio qui dove viene messa sotto accusa la 14 

Sull’influenza di Lucrezio sul pensiero filosofico ortesiano si veda Ortese 1987, 118-119: «Ed ecco che un giorno […], prendo e apro un antico libro: Lucrezio, e la verità mi si fa avanti in modo terribile: […] il Passato non è più, non tornerà più! Assieme a questo schianto, sempre alla guida di Lucrezio, altri se ne presentavano: che il Futuro, fratello del Passato, nemmeno era, come realtà fisica […]. Sarebbe restato il Presente: ma […] lo stesso presente non era, in quanto pura linea immaginaria tra i due stati […]. Non dunque passato, non dunque futuro, non dunque presente; solo (avvertiva Lucrezio), materia senza fine, la cui durata dà il tempo. Perciò alberi animali e uomini, solo come fenomeni temporanei della materia».

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vacuità dell’agire umano di cui le piccole patrie terrestri rappresentano forse la fola da condannare con maggiore severità, perché foriera di quella distorsione prospettica che ha colpevolmente promosso la visione dal basso storicamente vincente, propria di geocentrismo e antropocentrismo. Al contrario, dalle immagini spaziali della Via Lattea emerge l’inganno della visione: quelle patrie altisonanti, indicate da nomi altrettanto altisonanti, non sono che un miraggio, invisibili e, pertanto, con tutta probabilità inesistenti. Dopo aver sconfessato il tradizionale concetto di patria sulla scala dell’infinitamente grande rappresentato dalla galassia, con uno scarto che sovente caratterizza il pensiero ortesiano, ecco che l’infinitamente piccolo viene inaspettatamente recuperato per essere eletto a vera e unica patria della scrittrice. Ma la mia idea di patria è modesta. Amo ciò che è piccolo, amo le cose e creature infinitamente piccole, mute, che ci guardano con coraggio. Esse si appellano a noi dal fondo della loro tristezza e innocenza… ecco la mia idea di patria: lo sguardo mite e interrogante della Tartarughina del Levante, lo sguardo calmo degli Ultimi. Ho lì la mia casa, i miei inni, le memorie, le fiammanti e lacere […] care Bandiere. (Ortese 1997, 158-159)

Si tratta però di un infinitamente piccolo ben diverso, al quale Ortese arriva proprio a partire dal riconoscimento dell’appartenenza al sovramondo celeste rispetto al quale la Terra e l’uomo rappresentano un dettaglio insignificante. Ecco allora che il recupero di ciò che è piccolo non è altro che il risultato di un rispecchiamento e l’aperta ammissione della nuova location di specie. Tale riposizionamento rappresenta a tutti gli effetti il punto focale della riflessione filosofica ortesiana e autorizza il passaggio dalla pars destruens alla pars construens del programma rivoluzionario di «rinascita della vita morale» portato avanti da Corpo celeste15. Si apre, infatti, proprio qui la strada alla costruzione del progetto utopico di rifondazione di un’umanità nuova – basata sull’inedito principio di «essere con gli altri, invece che contro, o sugli altri» (ivi, 42) – che non può 15  Si veda quanto dichiarato in ivi, 131: «Credo che riforme e rivoluzioni inizino di dentro, e abbiano una sola strada da percorrere: il rinnovamento della coscienza e del cuore dell’uomo. Tutte le riforme e le rivoluzioni che non abbiano per oggetto il rinnovamento, la rinascita della vita morale (prima che religiosa e politica) dell’uomo, sono illusorie, e destinate alla sconfitta in partenza».

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prescindere dall’inclusione del soggetto uomo nella categoria del piccolo, abitata dagli ultimi, primi fra tutti gli altri animali. Viene così annullata ogni forma di sopruso e dominio, proprio perché eradicata alla base la logica grande-piccolo, forte-debole, superiore-inferiore: l’uomo condivide la stessa modesta patria della Tartarughina del Levante ed è solo tale ricollocazione in posizione decentrata che può consentire la sostituzione dell’arroganza criminale con la «reverenza per l’Antenato [la Terra] e il Bambino [la Bestia]» (ivi, 151). Il discorso utopico ortesiano, legato a doppio filo con la riflessione sull’esilio, non nasce dunque ex nihilo, ma si configura come il «sentiero nomade» di cui parla Braidotti, capace di esprimere nuove figurazioni proprio a partire da una soggettività decentrata16. Baricentro del sistema filosofico della scrittrice, infatti, l’esilio è utilizzato come catalizzatore del pensiero, sconfessando da una parte i presupposti della cultura e della morale contemporanea e dall’altra avviando il laboratorio utopico per una umanità nuova che ha come fine quello di sostituire al culto dell’uomo il culto della vita tutta17. L’utopismo accarezzato da Ortese, allora, diviene il progetto di costruzione di una speranza non molto distante da quella già vagheggiata da Theodor Adorno, ovvero «che la creazione animale possa sopravvivere all’ingiustizia che ha subito ad opera dell’uomo, e magari all’uomo stesso, e produrre una specie migliore, destinata finalmente a riuscire» (Adorno 1951, trad. it. 1979, 139). Come giustamente sottolineato da Cosetta Seno, non si tratta però dell’elaborazione del classico non-luogo della tradizione utopica, ossia di una proposta di un mondo parallelo in sostituzione di quello reale, ma piuttosto di una ben più coraggiosa operazione correttoria di quello esistente, meglio definibile come utopismo18. Tale correzione viene attuata da Ortese tramite lo strumento, a lei ben noto, della scrittura che deve avere come unico fine quello di 16 

Cfr. Braidotti 1995, 39: «L’utopia […] è dunque un sentiero nomade dove vigono ruoli o modelli altri. Definirò qui questa utopia nei termini di una speranza politica per una via d’uscita dal fallologocentrismo: essa è alla base della coscienza nomade. Il pensiero nomade è quel progetto che consiste nell’esprimere e nominare diverse figurazioni di questo tipo di soggettività decentrata». La via d’uscita dal fallologocentrismo, offerta dal sentiero nomade, si pone esattamente sulla stessa linea dell’uscita dall’antropocentrismo di cui parla Ortese. 17  Si veda in particolare Ortese 2016, 85. 18  Cfr. Seno 2013, 108-113.

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«pensare strutture di luce, e gettarle come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra» (Ortese 1997, 51): una scrittura, dunque, dal forte impegno etico, custode di civiltà, che si mette al servizio della vita difendendone le forme più deboli19. Risulta evidente la vocazione pedagogica della scrittura ortesiana che presto diviene risposta all’urgenza di salvare la vita in pericolo, oggetto del massacro operato dall’uomo moderno e dalla sua cultura del numero, che è cultura dell’utile e del denaro. D’altronde, i disastri provocati dalla sconsiderata declinazione inumana del predominio di conoscenza dell’uomo sul pianeta e sulle sue forme di vita sono, allora come ora, innegabili. Così l’uomo è l’oggetto più sordo e cieco dell’Universo, e si spiega a questo punto la sua necessità di considerare il luogo dove vive, la Terra, un oggetto meccanico, a lui pienamente soggetto, di cui egli conosce tutti i segreti e dispone di tutti i comandi. Ed egli s’illude quindi di controllare terremoti, maree, inondazioni, epidemie, disastri celesti, e ogni altro orrore: e forse pensa – anzi pensa senza dubbio – almeno io, il più forte tra gli uomini […] mi salverò, a causa dei miei soldi. […] Così piccolo e miope è il più grande e il più forte dei terrestri. (Ortese 2016, 34-35)

In direzione contraria rispetto alla salvezza miope dei pochi, la scrittura ortesiana promuove la salvezza della vita tutta – in primis degli ultimi – e la redenzione di tutti coloro che, schiavi di quella cultura sterminatrice, hanno creduto possibile un destino d’elezione a scapito dei più deboli. È dunque questo il compito di chi scrive: salvezza e redenzione che necessariamente derivano dalla conoscenza – alias il segreto rivelato dalla scrittura – che sembra presuppore quello che Adorno definisce «un punto di vista sottratto, sia pure di un soffio, dal cerchio magico dell’esistenza» (Adorno 1951, trad. it. 1979, 304). Ed è, forse, proprio quel «punto di vista sottratto» che Ortese guadagna con l’esilio, il solo orizzonte di pensiero dal quale è visibile una nuova etica, unitamente alle storture della morale dominante, come viene apertamente ribadito dalla conclusione di Corpo celeste. Giunta alla fine dell’autointervista che chiude il 19  Cfr. Ortese 1997, 52: «Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo».

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volume, infatti, Ortese si domanda: «Forse ascolterò, coi lettori, parole meno severe sulla intelligenza?» (Ortese 1997, 159)20. La risposta lapidaria – «Non da me. Non da luoghi di esilio» (ibid.) – conferma ancora una volta la diretta dipendenza del pensiero filosofico ortesiano dalla dimensione dell’esilio, «quello disposto, per i non consenzienti, dall’immensa e maligna intelligenza che ormai domina su questo caro Corpo celeste» (ivi, 13). Non c’è spazio, dunque, per «parole meno severe» laddove la scrittura è chiamata ad assolvere il compito ineludibile di conoscenza e redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica. Ottenere queste prospettive senza arbitrio e violenza, […] questo, e questo soltanto, è il compito del pensiero. (Adorno 1951, trad. it. 1979, 304) Bibliografia Adorno, Theodor W. 1951 Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Suhrkamp, Berlin-Frankfurt am Main; trad. it. di Renato Solmi, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, introduzione di Leonardo Ceppa, Einaudi, Torino 1979. Borghesi, Angela 2016 Dio nelle ciliegie, in Anna Maria Ortese, Le Piccole Persone. In difesa degli animali e altri scritti, a cura di Angela Borghesi, Adelphi, Milano. Braidotti, Rosi 1995 Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, a cura di Anna Maria Crispino, Donzelli, Roma. Brodskij, Iosif Aleksandrovič 1990 The Condition We Call ‘Exile’, in John Glad (a cura di), Literature in Exile, Duke University Press, Durham. Buttarelli, Annarosa 2017 Sovrane. L’autorità femminile al governo, il Saggiatore, Milano. 20  Si veda ivi, 13: «Ma io contesto, ovviamente, una pseudo-intelligenza, una intelligenza a livello industriale, e di dimensioni planetarie, che ha preso posto dovunque, e sa di beffa e di fine».

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Clerici, Luca 2002 Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese, Mondadori, Milano. Della Coletta, Cristina 2015 Biographies of Displacement and the Utopian Imagination: Anna Maria Ortese, Hannah Arendt, and the Artist as “Conscious Pariah”, in Gian Maria Annovi e Flora Ghezzo (a cura di), Anna Maria Ortese: Celestial Geographies, University of Toronto Press, Toronto. Di Rosa, Rossella 2015 Anna Maria Ortese e María Zambrano: da «luoghi di esilio» per una filosofia poetica, «Italica», 92-1. Farnetti, Monica 1998 Anna Maria Ortese, Mondadori, Milano. 2002 I romanzi di Anna Maria Ortese, in Anna Maria Ortese, Romanzi, a cura di Monica Farnetti, I, Adelphi, Milano. 2005 Mettere in moto le lingue del mondo. Il discorso dell’esilio di Anna Maria Ortese, in Franca Sinopoli e Silvia Tatti (a cura di), I confini della scrittura. Il dispatrio nei testi letterari, Cosmo Iannone, Isernia. Iannaccone, Giuseppe 2003 La scrittrice reazionaria. Il giornalismo militante di Anna Maria Ortese, Liguori, Napoli. Luperini, Romano 2014 L’intellettuale in esilio, in Novella di Nunzio e Francesco Ragni (a cura di), «Già troppe volte esuli». Letteratura di frontiera e di esilio, Università degli Studi di Perugia, Perugia, I. Ortese, Anna Maria 1987 In sonno e in veglia, Adelphi, Milano. 1997 Corpo celeste, Adelphi, Milano. 2002 Il porto di Toledo, in Ead., Romanzi, a cura di Monica Farnetti, I, Adelphi, Milano. 2005 L’Iguana, in Ead., Romanzi, a cura di Andrea Baldi, Monica Farnetti, Filippo Secchieri, II, Adelphi, Milano. 2016 Le Piccole Persone. In difesa degli animali e altri scritti, a cura di Angela Borghesi, Adelphi, Milano. Seno, Cosetta 2013 Anna Maria Ortese. Un avventuroso realismo, Longo, Ravenna. Tatti, Silvia 2007 Esilio, in Remo Ceserani, Mario Domenichelli, Pino Fasano (a cura di), Il grande dizionario enciclopedico dei temi letterari, I, UTET, Torino. 2021 Esuli: scrittori e scrittrici dall’antichità a oggi, Carocci, Roma.

Riflessi della condizione “esilica” nella cultura contemporanea: intersezioni tra esilio e critica in Edward W. Said Franca Sinopoli

Tre studi dedicati negli ultimi due decenni alla riflessione sul fenomeno dell’espatrio e dell’esilio nella storia culturale occidentale, due più recenti l’altro meno, possono essere richiamati qui quali tre modalità diverse di riflessione sull’ “esilio”, si tratta di Exiles and Expatriates in the History of Knowledge, 1500–2000 (2017) dello storico Peter Burke, che utilizza un ampio quadro storico comparativo per trattare il suo argomento, La condition de l’exilé. Penser les migrations contemporaines (2015), di Alexis Nouss e Reflections on Exile (2000) di Edward W. Said, entrambi critici letterari e della cultura. I tre studi provengono quindi da campi disciplinari diversi, ma proprio per le molteplici prospettive che essi offrono possono essere evocati in una proficua relazione reciproca al fine di focalizzare nella sua complessità un’esperienza umana altamente sfuggente e universale qual è l’esilio; infatti se i primi due affrontano il discorso sul significato dell’espatrio e dell’esilio (e delle altre accezioni con cui si è soliti esprimere nelle lingue europee l’allontanamento dal suolo patrio) partendo da una contestualizzazione sociale e culturale contemporanea essenzialmente occidentale, il terzo è un volume in cui l’autore ripercorre decine di suoi articoli inquadrando tale ricomposta e cronologicamente estesa moltitudine di studi con una introduzione su Criticism and Exile (La critica e l’esilio), dove la personale esperienza dell’espatrio vissuto prima all’interno dei paesi del Medio Oriente e poi da lì agli Stati Uniti viene interconnessa allo sviluppo della sua attività di critico della cultura, come era apparso del resto evidente già nel memoir Out of place (1999) sul quale ci soffermeremo. Al di là delle differenze, tutti e tre gli autori si pongono poi il problema della distinzione tra diverse figure e incarnazioni che può assumere l’esperienza dell’emigrazione: espatriati, esiliati, rifugiati,

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dislocati ecc., con lo scopo di individuare un minimo comune denominatore, a partire del quale elaborare poi una riflessione ad ampio raggio sui propri oggetti di studio. Con un approccio comparativo, come si diceva, lo storico Burke studia pertanto il contributo degli esuli e degli espatriati non solo alla diffusione della conoscenza, ma anche alla sua creazione: Infatti l’aspetto più importante del contributo che i nuovi arrivati potevano apportare non era rappresentato da informazioni ma da un nuovo modo di pensare, una mentalità, un habitus che differiva da quello dominante nel paese nel quale si erano stabiliti. (Burke 2017, trad. it. 2019, 242)

Precisa inoltre che vi sono tre strategie di esilio: «assimilazione alla cultura del paese ospite, resistenza a quella cultura, oppure, la più fruttuosa delle tre, integrazione o sintesi degli strumenti di entrambe le culture» (ivi, 225). Nouss incentra invece il suo saggio sulla «condition exilique» che considera essere il minimo comune denominatore di tutte le forme di migrazione, alle quali dona concretezza consentendoci di cogliere l’individualità psicologica e l’umanità del migrante: Et puis le terme de «condition exilique» est utile justement en opposition à la catégorie des «migrants» qui constitue à la fois une réalité socio-économique et un foyer de fantasmes, nourrissant, à ce double titre, des discours tant politiques que journalistiques. Cependant, le «migrant» dessine une figure sans chair et sans ombre qui vient illustrer ou susciter une logique gestionnaire. Essentialiser la migration sous le signe de l’exil équivaut alors à faire vivre les migrants. (Nouss 2015, 14)

Questa definizione di «condizione esilica» appare particolarmente proficua a delineare il caso rappresentato dalla particolare morfogenesi dell’identità del critico americano di origine palestinese Edward W. Said. Esilio e reinvenzione dell’identità sono al centro, come è noto, della sua ultima fase di attività, durante la quale appare il volume Reflections on exile, che raccoglie tra i vari suoi saggi almeno tre contributi di notevole interesse: l’introduzione generale, dedicata come si è detto al rapporto tra l’esperienza dell’esilio e quella dell’esercizio critico; il saggio pubblicato su «Granta» n. 13 nel 1984 che dà il titolo al libro, dove corrisponde al capitolo 17; e infine Between worlds, apparso il 7 maggio 1998 sulla «London Review of Books»,

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capitolo 45 del libro. Quest’ultimo sembra essere, alla luce di Out of Place. A Memoir (pubblicato solo un anno dopo, e sul quale Said stava lavorando), un ennesimo “transfer” della riflessione sul proprio esilio in quello altrui, qui nella fattispecie dello scrittore anglo-polacco Joseph Conrad, una sorta di «cantus firmus» o presenza costante della propria attività intellettuale come dice Said stesso: mi sono trovato per anni a leggere e a scrivere di Conrad, assumendolo come una sorta di cantus firmus, un continuo accompagnamento di basso a molto di quello che ho provato. Per anni, cioè, nel lavoro che ho svolto ho dato l’impressione di concentrarmi su questo tipo di situazioni, ma sempre attraverso la scrittura di altri. (Said 2002, trad. it. 2008, pos 11724)

Dunque, è proprio quest’ultimo dei suoi molti interventi su Conrad e sull’esilio in generale che fa da ponte alla realizzazione del memoir, un cambio di genere letterario che segna il passaggio dal saggio ad una scrittura diremmo oggi di “non-fiction”, che si avvale cioè di tecniche letterarie, è basata sulla memoria emotiva di episodi della propria esistenza, seppure guidata dal raziocinio, e su un andamento non necessariamente cronologico né tantomeno esaustivo. A differenza di Burke e Nouss, che indagano l’esilio su un piano storico e filosofico, Said trae pertanto le sue riflessioni su questa cruciale esperienza umana dall’interno del proprio percorso di critico letterario, che si confronta con diversi autori, molti dei quali segnati essi stessi dall’esilio, evitando di trattarlo come un “tema” e leggendolo invece come motivazione dello stile di scrittura e della modalità di ragionare sulla realtà, basti a titolo di esempio un altro passo di Tra mondi laddove dice sempre a proposito di Conrad: Tutti gli amici di Conrad dicevano che fosse molto felice all’idea di diventare inglese […] E tuttavia, nel momento in cui ci si addentra nella sua scrittura, l’aura di spiazzamento, instabilità ed estraneità che emana è qualcosa di inconfondibile. Nessuno avrebbe potuto rappresentare il destino di perdita e disorientamento meglio di lui, come nessun altro è riuscito a rendere in termini altrettanto ironici lo sforzo per tentare di sostituire quella condizione con soluzioni nuove e nuovi tipi di compromesso […] (ivi, 11703)

Il caso di Said, dunque, si presenta particolarmente adatto a visualizzare l’intersezione tra condizione esilica e attività intellettuale, tra esilio e critica appunto, anche se si tratta di “riflessi” ovvero di

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interferenze indirette mediate dalla interpretazione di altra letteratura. Ciò è vero almeno sino all’uscita del memoir, con il quale l’autore potremmo dire “esce allo scoperto” e palesa tale interconnessione in modo più diretto, anche se sub specie storiografica, cioè dando importanza alla narrazione del milieu storico-politico e sociale mediorientale dai primi anni Trenta al ’51, anno dell’espatrio negli Stati Uniti. A differenza degli altri due autori qui menzionati, Said ha affiancato quindi alla sua attività di studioso della cultura e di accademico quella di scrittore, cimentandosi con un genere, il memoir, che ha amplificato la sua fama, “svelando” per così dire la condizione esilica alla base della sua identità di intellettuale e di critico della letteratura. Il suo è perciò un esempio particolarmente interessante ed esplicito di imbricazione reciproca tra dimensione critica e letteraria, tra teoria e narrazione, tra autobiografia e attività intellettuale. Prima di osservare un po’ più da vicino il caso da lui rappresentato, non si può non menzionare uno dei suoi modelli ispiratori, sia sul piano personale che su quello professionale: Erich Auerbach, autore, tra le numerose opere, di quello che Said in Humanism and Democratic Criticism (2004) ha definito «libro dell’esilio» ovvero Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur (1946). La figura intellettuale e umana del filologo e critico tedesco è stata, com’è ormai noto, sia fonte ispiratrice che oggetto di studio per Said, il quale non cessa di ritornare a riflettere sulle sue pagine e sul ruolo che la Storia ha avuto nella condizione divenuta esemplare di intellettuale in esilio, coinvolto nel processo migratorio determinato dalle leggi razziali naziste. Queste lo condussero in Turchia nel 1936, da cui poi Auerbach emigrò nuovamente nel secondo dopo guerra per approdare negli Stati Uniti, dove rimase dal 1947 alla morte senza far più ritorno in patria. Testimoni di questa condizione sono le parole con cui lui stesso chiude e inquadra la sua opera più importante: Ma le difficoltà erano troppo grandi, e, a parte questo, avevo a che fare con testi di tre millenni, dovendo poi spesso lasciare il terreno mio proprio delle letterature romanze. A ciò si aggiunga che il lavoro [Mimesis] fu scritto durante la guerra, a Costantinopoli. Colà non esistono biblioteche ben fornite per studi europeistici, le relazioni internazionali erano interrotte, sicché dovetti rinunciare a quasi tutti i periodici, alla maggior parte delle nuove ricerche. Spero tuttavia che fra tutti questi possibili errori non se ne trovi alcuno che

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in qualche punto intacchi il pensiero direttivo. Si connette alla mancanza di periodici e di letteratura specializzata anche il fatto che il libro non porti note; all’infuori dei testi faccio pochissime citazioni, e queste poche si lasciano facilmente inserire nella stessa esposizione. Del resto, è possibilissimo che il libro debba la sua esistenza proprio alla mancanza d’una grande biblioteca specializzata; se avessi potuto far ricerche, informandomi su tutto quello che è stato scritto intorno a tanti argomenti, forse non mi sarei più indotto a scriverlo. Con ciò ho detto quanto credevo di dover dire ai lettori. Resta solo da trovare questi, cioè appunto i lettori. Possa questo mio volume raggiungerli, tanto i miei amici d’un tempo ancor viventi, quanto tutti gli altri a cui è destinato; e contribuisca a riunire tutti coloro che hanno custodito puro l’amore per la nostra storia occidentale. (Auerbach 1956, II, 343)

Come ha messo bene in luce Riccardo Castellana nella sua monografia dedicata al capolavoro di Auerbach, in particolare nella seconda parte del passo seguente, a tal fine qui evidenziata in corsivo, è pertanto impossibile dissociare il significato di Mimesis dalle vicende che ne determinarono origine e intenti: È del resto quasi impossibile separare i due aspetti, quello strettamente metodologico e quello più personale o generazionale, nella lettura di un libro come Mimesis. L’elemento autobiografico che affiora, in modo discreto ma netto, in molte pagine è rimasto un topos della sua ricezione fino ad oggi. E non si comprenderebbe fino in fondo il significato culturale del libro, il suo valore di posizione nel campo della critica del secondo dopoguerra, se si trascurasse di ricordare al lettore di oggi che chi lo ha scritto era un professore tedesco di origine ebraica, obbligato dalla promulgazione delle leggi razziali a lasciare da un giorno all’altro la cattedra di Filologia romanza all’università di Marburg e fortunosamente approdato nella lontana e allora quasi ignota Turchia dove trovò asilo. (Castellana 2013, 9)

Da qui deriva il fatto che per Said questo intreccio intenso tra piano autobiografico e scrittura, così come in Auerbach e in Conrad, sia al contempo un tema di studio e uno specchio in cui proiettare mutatis mutandis la propria vicenda umana e professionale. Analogo interesse spinse Said ad interessarsi dell’esperienza di altri intellettuali europei emigrati negli Stati Uniti come Adorno, le cui meditazioni sull’esilio sono riprese e rimeditate nel capitolo 17 del già citato Reflections on Exile, che riprende il saggio del 1984. Va detto che questa sezione del volume è di grande importanza per gli studi sull’esilio poiché, al di là della concentrazione sulla propria vicenda umana, è sempre il confronto con l’esperienza e la riflessione di altri espatriati

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del Novecento a consentire a Said di fondare una teoria dell’esilio novecentesco come condizione antinomica, «irrimediabilmente secolare e insopportabilmente storica» (Said 2002, trad. it. 2008, pos 4065). A differenza dell’esilio romantico, quello novecentesco è un fenomeno che ha riguardato milioni di persone strappate, per continuare ad usare le sue stesse parole, «al nutrimento di una tradizione, una famiglia, una geografia»: Ma la differenza tra gli esuli del passato e quelli del presente è soprattutto – ed è essenziale ribadirlo – un fatto di scala: il nostro tempo, il suo moderno imperialismo militare, le ambizioni quasi teologiche dei suoi governanti dispotici e totalitari, è il tempo dei rifugiati, dei profughi, dell’immigrazione di massa. Di contro a questo scenario vasto e impersonale l’esilio non può venire invocato a sostegno di ipotesi umanistiche: per le proporzioni che assume nel XX secolo non è più comprensibile né esteticamente né umanisticamente. (ivi, 4037)

E difatti in questo capitolo del libro sull’esilio, non vengono ricordati soltanto gli intellettuali europei emigrati nel nuovo mondo, ma anche numerosi poeti, traduttori e pensatori mediorientali che con Said hanno condiviso la condizione dell’esilio e l’esodo di massa succeduto al 1948. Il memoir pubblicato nel 1999 arriva sei anni dopo Culture and Imperialism e dieci rispetto a The World The Text and the Critic, in cui Said si presenta quale critico letterario impegnato nella rilettura della relazione tra Oriente e Occidente. La sua opera più famosa, Orientalism, era uscita nel 1978, preceduta da Beginnings. Intention and Method (1975), saggio fondamentale per capire il metodo della sua critica della cultura condotta dalla prospettiva di esule negli Stati Uniti e aperta sia alla letteratura che ad altri linguaggi della cultura, siano essi documenti musicali, pittorici o cinematografici. Rispetto ai lavori precedenti Out of Place è un momento autoriflessivo e inevitabilmente “conclusivo”, alla luce della malattia, un’occasione per tirare lucidamente le somme della sua attività intellettuale di espatriato, per scavare nel proprio passato, con uno sforzo di chiarificazione e di comprensione delle sue radici. Successiva al memoir è la curatela di una raccolta delle opere di Henry James (Henry James: Complete Stories 1884-1891), uno sforzo critico-letterario dedicato allo scrittore americano espatriato in Inghilterra che richiama, come in un circolo che si chiude, il primo libro pubblicato da Said nel 1966 e de-

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dicato a un altro grande espatriato, per di più, a differenza di James, translingue ovvero il polacco Conrad (Joseph Conrad and the fiction of autobiography), ennesima prova di una costante attenzione per il nesso tra esilio, pensiero, lingua e scrittura. Il memoir mostra molto chiaramente come il suo autore abbia trasformato positivamente il “non ritorno” in una vera e propria teoria della non appartenenza, del non voler identificarsi attraverso alcun luogo specifico o stato nazionale. Il conflitto tra palestinesi e israeliani in merito al possesso delle terre, dopo la nascita nel 1947 dello Stato d’Israele, se condotta sulla base di una logica dell’esproprio, del possesso e dell’esclusione non porta, secondo Said, ad una soluzione pacifica e condivisa tra ebrei, musulmani e cristiani. Per quanto lo riguarda personalmente, da intellettuale in esilio, egli riconosce di aver potuto elaborare un pensiero della diaspora per superare la dimensione del conflitto e del “lamento” rispetto alla non appartenenza a uno specifico stato nazionale. Del resto, egli attribuisce più in generale agli intellettuali palestinesi in esilio questa funzione fondamentale di elaborazione di un pensiero della propria cultura della diaspora, orientato a comporre i conflitti in corso. Insieme all’esilio e alla diaspora, nel suo discorso compare anche un’altra forma di disappartenenza, quella propria del “rifugiato”, certamente più radicale e foriera di sofferenza, giacché determinata da condizioni di persecuzione individuale e collettiva, non a caso generalmente garantita da specifica tutela da parte del paese ospitante. Tuttavia, egli non si ritiene un rifugiato, avendo presente la differenza tra una fuga “protetta” da condizioni familiari favorevoli, come era stato nel suo caso, e la fuga disperata tipica degli esodi di massa i cui protagonisti non posso contare su risorse economiche sufficienti a permettersi una fuga in sicurezza. Per Said il concetto di “rifugiato” rimanda dunque a cattiva salute, miseria sociale, privazione, dislocazione, tutti elementi caratterizzanti quello status in cui dichiara di non riconoscersi, pur sentendosi tagliato fuori dalle proprie origini, e per questo identificandosi più agevolmente nella condizione di “esule”. Cosa significa dunque per Said essere “out of place”? L’essere “fuori posto” o “sempre nel posto sbagliato”, come è stato tradotto il titolo del memoir, accentuando il senso negativo della dislocazione, è il motivo conduttore del libro, sin dalle prime pagine dedicate all’infanzia. Ad esempio, a proposito della nascita a Gerusalemme, seguita dalla

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migrazione al Cairo e dall’infanzia vissuta da straniero rispetto ai coetanei e alle stesse sorelle, nate invece in Egitto, così come narrando il passaggio da una scuola all’altra, Said sottolinea sempre questo suo status di estraneità. Si potrebbe dire che, dalla prospettiva del dopo testimoniata dal memoir, ciò che alla fine della vita si tradurrà in una consapevole poetica del non ritorno nasce invece come sensazione negativa di esclusione e di disappartenenza, che assume man mano diverse forme: da quella linguistica (l’arabo e l’inglese parlati dalla madre che lo privano della unicità o monolinguismo propri della lingua madre) a quella geografica (l’assenza di una patria), divenendo solo nella maturità un fattore positivo della sua identità. Il giovane Said emigrato negli Stati Uniti, dove nel 1951 inizia il suo percorso di studi superiori e poi universitari, prova il disagio del non sentirsi veramente americano e nemmeno più solo palestinese, sperimentando una nuova cesura identitaria, dopo quella causata dall’allontanamento con i genitori da Gerusalemme, che costituisce un’altra tappa nel suo lungo percorso di elaborazione di un’identità esilica. Questa costruzione progressiva dell’identità viene significativamente enunciata da Said nei termini di una “invenzione”, facendo riferimento all’etimo retorico latino di “inventio” cioè “ritrovamento”. Non si tratta dunque di un trovare dal nulla, ma di un “riordinare” l’archivio della propria memoria ricavandone una memoria “vivente” o funzionale (Assmann 2002, 149), che poi corrisponde a quell’atto di narrare le proprie origini con cui si apre Out of Place, laddove sostiene di aver voluto far luce sull’oscurità dell’infanzia e della giovinezza riordinando i frammenti dei ricordi personali e dei racconti ascoltati dai genitori. L’invenzione di sé è dunque ottenuta riordinando il passato e il racconto altrui del proprio passato, quindi la scrittura stessa del memoir è un atto di reinvenzione della propria identità. Il riferimento a Giambattista Vico, poi, rafforza ulteriormente questo atto di fiducia nella propria capacità poietica, derivando da lui l’idea che i popoli fanno la propria storia, come sovente dichiarato da Said anche in occasione di alcune interviste1. Con Gramsci e Auerbach, Vico è infatti una fonte importante della formazione umanistica di Said, per il quale l’autodeterminazione dei 1  A titolo di esempio si può citare Mon droit au retour, Entretien avec Ari Shaviz, «Ha’aretz Magazine», Tel Aviv, 2000.

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popoli è un elemento strutturante della sua idea di umanesimo, così come le origini individuali sono atti di volontà. Il timore della morte che accompagna l’ultimo decennio della vita e della produzione intellettuale di Said è quindi la paura di non riuscire a ritrovare, riformulare e a reinterpretare parti e aspetti della propria vita rimasti in ombra, e a cui sente di dover assegnare un valore, momenti che però sono altrettanto importanti per la storia collettiva a cui sa di appartenere. Accanto al timore di non poter reinterpretare il racconto del suo passato, c’è in Said consapevolezza piena che quel mondo pre1948 non esiste più, anzi già nei racconti dei genitori quel mondo era un mondo “inventato”, nel senso che abbiamo visto prima, tuttavia permane la volontà di reinterpretarlo, di riraccontare “una storia di perdita”, in cui l’idea di ritorno è impossibile. Preziosa acquisizione di questo percorso reinterpretativo è poi la certezza che ogni essere umano può reinterpretare il proprio passato, che cioè tale processo di consapevolezza è una possibilità aperta a tutti. Reinterpretare il passato è al contempo anche l’occasione di ridare una qualche consistenza a un mondo e a una collettività ormai perduti. Un altro tema forte di Out of Place è non a caso la relazione tra storia collettiva e storia personale: […] questo libro, in cui cercavo di far conoscere la vita che si viveva allora, tra il 1935, l’anno della mia nascita, e il 1962, l’anno del mio dottorato, può avere un certo valore come testimonianza, sia pure privata e soggettiva, su quegli anni tumultuosi in Medio Oriente. Mi ero trovato a raccontare la storia della mia vita sullo sfondo della seconda guerra mondiale, della perdita della Palestina, della fondazione dello stato d’Israele, della fine della monarchia in Egitto, della guerra di Nasser nel 1967, della nascita del movimento per la liberazione della Palestina, della guerra civile in Libano, del processo di pace a Oslo. Benché questi eventi compaiano solo per accenni nel libro, la loro presenza si fa sentire. (Said 1999, trad. it. 2002, 12)

Sul piano della storia internazionale dunque, il punto di arrivo sono gli accordi di Oslo nel 1993 tra Arafat e Pèrez alla presenza del Presidente americano Clinton, e tutta la vicenda storico-politica costituisce uno sfondo reattivo, non neutrale, alla propria storia personale. I singoli episodi della Storia internazionale non svolgono una mera funzione di contestualizzazione della vicenda personale, ma reagiscono ad essa e con essa nel processo di formazione dell’identità pubblica e privata di Said, cioè ne testimoniano sul piano collettivo

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il progetto e la sua realizzazione dall’adolescenza alla maturità. Nel memoir emerge anche un particolare interessante, e cioè il silenzio della famiglia sulla storia della Palestina e dell’esodo collettivo, o meglio Said rappresenta la famiglia come silente sia sul trauma dell’esodo che sulle sofferenze e sulle conseguenze da esso causate. Che la Storia non sia utilizzata da Said nel memoir come mero sfondo alla propria vicenda personale ovvero come materiale di contesto lo dimostra il fatto che una data come il 1948 - inizio dell’esodo palestinese a seguito della fine del mandato britannico sulla Palestina e anno di nascita dello stato di Israele - non compaia nel testo e nemmeno nei ricordi dei protagonisti. Sono altre le date cruciali menzionate, ad esempio il 1942 con la minaccia dell’occupazione del Cairo da parte delle truppe coloniali tedesche e la conseguente fuga della famiglia. La “traduzione” della storia personale, di cui si parla in un altro punto del libro, va a toccare invece la questione della lingua e della memoria in rapporto ad essa, nel caso in cui ci si trovi costretti a raccontare nella lingua della diaspora il proprio passato vissuto in un’altra lingua: Tutti noi viviamo la nostra vita in una data lingua: le nostre esperienze, dunque, sono vissute, assorbite e ricordate in quella lingua. Nella mia vita, la scissione di fondo è stata quella tra l’arabo, la mia lingua materna, e l’inglese, la lingua dei miei studi e della mia successiva espressione come studioso e come insegnante; perciò, riuscire a produrre un testo che raccontasse le esperienze fatte in una lingua con il pensiero dell’altra (per non parlare di tutte le commistioni e contaminazioni tra le due che avvenivano di continuo in me) ha rappresentato un compito stimolante e complesso. (ivi, 13)

Il fatto che il memoir sia stato scritto in inglese, la lingua della diaspora, produce nell’autore e nel lettore uno straniamento: è un paradosso infatti ricordare nella nuova lingua – la lingua dell’identità americana di Said, che è al contempo l’idioma dell’espatrio, del “non sentirsi a casa” - una esperienza vissuta altrove e in un’altra lingua: Tanti, ripetuti ritorni al passato, tentativi di recuperare pezzetti di vita e di persone scomparse: in questo consistette la mia reazione di fondo ai crescenti tormenti della malattia. […] Quando la iniziai [la chemioterapia], nel marzo 1994, mi resi conto di essere entrato nella fase finale della mia vita, quanto meno di aver raggiunto un punto di non ritorno, come Adamo ed Eva cacciati dall’Eden. Nel maggio dello stesso anno incominciai a scrivere questo libro. (ivi, 231)

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Sono parole queste che denotano con estrema chiarezza l’impulso e la motivazione che stanno alla base di Out of Place, con la conseguente narrazione del proprio mondo privato. Tutto ciò poi è anche razionalmente funzionale, dal punto di vista della narrazione patografica, a convincere il lettore, il quale è indotto a credergli, permettendo l’attivazione del così detto, da Lejeune in poi, “patto autobiografico”: La ragione principale che mi ha indotto a scrivere questo libro, tuttavia, è il bisogno di colmare la distanza temporale e spaziale che divide la mia vita di oggi dalla mia vita di allora. […] mi sembra che il mio primo obbligo morale debba essere la fedeltà ai ricordi, alle esperienze e ai sentimenti, per quanto soggettivi e discutibili. […] Spero risulti evidente, inoltre, che, in quanto narratore e insieme personaggio della narrazione, non ho consapevolmente inteso risparmiare nemmeno a me stesso né l’ironia né eventuali rivelazioni imbarazzanti. (ivi, 13-14)

Nel passaggio seguente, inoltre, emerge pienamente il carattere ossimorico e paradossale della sua condizione esilica, al contempo reiterativamente traumatica e, ciò nonostante, desiderata: In quanto costituisce una delle mie risposte alla malattia, questo libro mi ha proposto un nuovo tipo di sfida: non tanto un nuovo tipo di coscienza vigile, quanto un progetto il più possibile lontano dalla mia vita professionale e politica. I motivi di fondo che rintraccio […] sono l’emergere di un secondo me stesso [….] e il numero straordinario di distacchi che fin dal suo inizio hanno sconvolto la mia esistenza. Nessuna esperienza, a mio avviso, caratterizza la mia vita (ed è altrettanto dolorosa e, paradossalmente, altrettanto desiderata) meglio dei numerosi cambiamenti di nazione, città, residenza, lingua, ambiente che mi hanno tenuto in costante movimento in tutto questo tempo. (ivi, 232)

La “verità” del memoir, dunque, non è né verità storica né verità del tutto soggettiva, bensì un ibrido tra le due, un progetto di scrittura dove agiscono insieme il soggetto patografico e il critico che lo osserva. Allo stesso modo, il rapporto tra autore e personaggio origina una figura, una maschera, che non si identifica pienamente né con l’autore né con il protagonista del racconto ma che è funzionale a giustificare a posteriori in senso di un’esistenza. L’autore mette in scena ciò che lui stesso chiama «un secondo me stesso», un bambino e poi un adolescente e un giovane osservati dall’uomo maturo e malato qual era Said allorché si accingeva a scrivere il proprio memoir.

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Un altro aspetto rilevante della condizione esilica è la questione della genealogia, giacché qui l’autore-narratore riconduce l’autopoiesi della propria identità alla particolarità della sua famiglia, a sua volta artefice di una continua auto-invenzione in un contesto multiculturale e postcoloniale: Così diventai “Edward”, una creatura inventata dai miei genitori, le cui quotidiane sofferenze erano osservate da un’altra personalità, molto diversa, nascosta dentro di lui, ma ancora dormiente e il più delle volte incapace di recargli aiuto. […] La sua invenzione fu resa necessaria dal fatto che i suoi genitori si erano a loro volta dovuti inventare: due palestinesi, con ambienti di provenienza e temperamento vistosamente differenti, che vivevano nel Cairo coloniale e facevano parte di una minoranza cristiana all’interno di una vasta sacca di minoranze, con solo l’appoggio reciproco su cui contare, senza precedenti cui ispirarsi in ciò che stavano facendo se non un curioso miscuglio di usi palestinesi anteguerra; con un folklore americano abborracciato a casaccio da libri e riviste e dai dieci anni di mio padre negli Stati Uniti […] con atteggiamenti coloniali inglesi che mescolavano insieme rappresentazioni della classe dominante e della “gente comune” dominata; e, infine, con lo stile di vita percepito intorno a loro in Egitto, che essi cercavano di adattare alla loro particolare situazione. Poteva “Edward” non sentirsi fuori posto? (ivi, 33-34)

In questo brano si succedono in sequenza rapida tre atteggiamenti chiave dell’autopoiesi familiare condotta dai genitori di Said: il folklore americano acquisito dal padre nella sua precedente residenza negli Stati Uniti, quale cittadino americano, e desunto in modo posticcio dalla pubblicistica più varia di provenienza americana di cui anche la famiglia poteva disporre al Cairo, la mimicry tipica di chi è stato colonizzato e vuole innalzarsi da questa condizione di soggezione imitando gli usi e i costumi del colonizzatore, e infine la necessità di adattarsi a un contesto culturale limitrofo costituito dalle diverse minoranze non arabofone, nonché dalla stessa comunità egiziana, per non restarne isolati. La complessità linguistica e culturale della figura materna, come si accennava, sta del resto a testimoniare la particolare genealogia familiare alla base del “senso di pluralità di identità” vissuto da Said e positivamente sublimato solo da adulto: Allora non avevo idea di dove venisse il suo inglese [della madre] e neppure sapevo chi fosse mia madre dal punto di vista della nazionalità; […] Al Cairo […] la sua parlata suonava se non in tutto e per tutto shami, percettibilmente

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influenzata da tale variante dell’arabo. Shami (damasceno) è il termine, sostantivo e aggettivo, usato dagli egiziani per indicare sia i non egiziani che parlano arabo, e in particolare coloro che provengono dalla Grande Siria, vale a dire la Siria stessa, il Libano, la Palestina e la Giordania; sia il dialetto arabo parlato dagli shami. […] mia madre possedeva una perfetta conoscenza dell’arabo classico oltre che del demotico. Non abbastanza però da farla passare per egiziana, e infatti non lo era. Essendo nata a Nazareth, era palestinese, anche se sua madre, Munira, era libanese e lei stessa era stata mandata da ragazza in collegio a Beirut. Non ho mai conosciuto il nonno materno, ma veni a sapere che era il pastore battista di Nazareth, benché fosse originario di Safed, con un soggiorno texano nel mezzo.

E ancora: […] non ero in grado di assimilare, e men che meno di padroneggiare, tutte le tortuosità e le cesure causate da questi particolari che interrompevano quella che sarebbe dovuta essere una lineare sequenza genealogica; non riuscivo neppure a capire perché mai mia madre non potesse essere una normale mamma inglese. Questo instabile senso di una pluralità di identità, per lo più conflittuali, mi è rimasto addosso per tutta la vita, insieme al vivo ricordo del mio sconsolato desiderio di poter essere tutto arabo, o tutto europeo o americano, o tutto cristiano ortodosso, o tutto musulmano, o tutto egiziano, e via elencando. (ivi, 19)

In sostanza già la genealogia predisponeva Said a riconoscersi in un’identità non semplice, dalle tortuosità difficilmente spiegabili, poiché si trattava di una genealogia interrotta dall’esilio, causa di una molteplicità di situazioni psicologiche conflittuali rispetto alle quali l’omogeneità linguistico-culturale restava un desiderio oggettivamente inappagabile. Potremmo concludere a tale proposito osservando come una volta emigrato negli Stati Uniti Said scelga passo dopo passo di ricostruirsi una genealogia, muovendo inizialmente lui stesso da un atteggiamento di mimicry nei confronti della nuova patria, segno di un ancora irrisolto disagio di appartenenza: All’origine del mio problema mi sembrava ci fossero la nazionalità, l’ambiente di provenienza, le mie origini, le mie azioni passate, tutto […] Fu allora, in America, che decisi di comportarmi come se fossi un tipo semplice e trasparente e di non accennare mai volontariamente alla mia famiglia e alle mie origini. Di diventare, cioè, il più anonimo possibile, come tutti gli altri. La scissione tra “Edward” (o “Said” come sarei stato chiamato durante il

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resto della mia carriera scolastica) ovvero il mio Io pubblico, esteriore, e il mio Io più intimo e privato, libero, irresponsabile, dedito alle fantasticherie e a metamorfosi continue, si fece molto più marcata. Finché le manifestazioni del mio Io interiore incominciarono a erompere con frequenza e forza sempre maggiori. (ivi, 152)

Il proposito e il processo stesso di ricostruzione della propria duplice genealogia ha quindi la funzione di superare l’idea di una identità “netta”, impossibile da acquisire per un individuo che attraversi e viva costantemente la condizione esilica; qualsiasi tentativo in tale direzione avrebbe costituito una gabbia o si sarebbe risolta in uno ripetuto scacco nel tentativo di dar forma a un’impossibile identità omogenea, da cui una parte di sé sarebbe sfuggita in continuazione. Per tale ragione, dunque, la costruzione di un’identità esilica assume in Out of Place un ruolo fondamentale e risolutivo, il passaggio cioè dalla persona pubblica del Said americano a una soggettività più complessa, consapevolmente retroattiva, in grado di ricomporre i frammenti dell’identità linguistica e culturale mediorientale precedente. Il punto di arrivo del percorso autobiografico è pertanto dato dalla volontà di superare i confini tra le diverse identità culturali che lo compongono, colmando attraverso la scrittura letteraria una sorta di vuoto costituito dal passato traumatico rimosso della sua storia personale e al contempo collettiva, identità linguistico-culturali contrastanti che nella matura riflessione sulla condizione esilica trovano uno strumento e una consapevolezza che le portano finalmente a convergere. Bibliografia Si citano solo le edizioni originali consultate e/o le traduzioni utilizzate Amstrong, Paul B. 2003 Being ‘Out of Place’: Edward Said and the Contradictions of Cultural Differences, «Modern Language Quarterly», 64-1. Assmann, Aleida 2002 Ricordare, il Mulino, Bologna. Auerbach, Erich 1956 Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino, 2 voll. Burke, Peter 2017 Exiles and Expatriates in the History of Knowledge, 1500-2000, The University of Chicago Press, Chicago; trad. it. Espatriati ed esuli nella storia della conoscenza, 1500-2000, il Mulino, Bologna 2019.

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Castellana, Riccardo 2013 Erich Auerbach. Una introduzione a «Mimesis», Artemide, Roma. Lejeune, Philippe 1996 Le pacte autobiographique, Seuil, Paris. Loddo, Mariarosa 2020 Patografie: voci, corpi, trame, Mimesis, Milano. Nouss, Alexis 2019 La condition de l’exilé. Penser les migrations contemporaines, Éditions de la Maison des sciences de l’homme, Paris. Said, Edward W. 1978 Orientalism, Pantheon, New York. 1999 Out of Place. A Memoir, Vintage Books, New York; trad. it., Sempre nel posto sbagliato, Feltrinelli, Milano 2002. 2000 Mon droit au retour, Entretien avec Ari Shaviz, «Ha’aretz Magazine», Tel Aviv; trad. it. Il mio diritto al ritorno. Intervista con Ari Shavit, Nottetempo, Roma 2007. 2002 Reflections on Exile and Other Essays, Harvard University Press, Cambridge (MA); trad. it., Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano 2008 (edizione Kindle). Sinopoli, Franca 2007 Edward Said e la questione della tradizione europea nella critica letteraria post-coloniale, «Ermeneutica letteraria», 3. Smith, Sidonie, Watson, Julia 2001 Reading Autobiography. A Guide for Interpreting Life Narratives, University of Minnesota Press, Minneapolis-London.

Indice dei nomi

Abate, Carmine, 178, 190 Abellán, José-Luis, 165, 171, 195 Adorno, Theodor W., 205-207, 213 Agís Villaverde, Marcelino, 172 Alarcón Delgado, Araceli, 161n Alberton, Angela Maria, 13n, 27, 31n, 40, 46 Alfano, Giancarlo, 123, 137 Alfonzetti, Beatrice, 28 Alighieri, Dante, 19, 20, 34, 102, 113, 131, 134, 181 Alonso, Alejandro, 172 Améry, Jean, 189, 190 Amstrong, Paul B., 222 Andreucci, Franco, 40, 46 Annovi, Gian Maria, 208 Anselmi, Gian Mario, 100n, 105 Arcos, Jorge L., 169n, 171, 173 Ardolino, Francesco, 190 Arendt, Hannah, 186, 189, 190 Ariosto, Ludovico, 68, 131 Arriaga Flórez, Mercedes, 7n, 75, 76 Arrighi, Cletto, 96 Arru, Angiolina, 65 Arslan, Antonia, 29, 47 Assmann, Aleida, 216, 222 Audenino, Patrizia, 13n, 27 Auerbach, Erich, 190, 212, 213, 216, 222 Ávila, María Luisa, 143, 158 Azaña, Manuel, 163 Azuni, Domenico Alberto, 126, 147 Azzuni, Giovanni, 124, 125 Badalassi, Serena, 96, 105 Bagnoli, Paolo, 39n, 46, 49 Bakhtine, Mikhail, 124n, 137

Balbi Valier Fava, Maria, 33 Baldassarri, Guido, 28, 49 Baldi, Andrea, 208 Balzac, Honoré de, 70 Banti, Alberto Mario, 17n, 28, 29, 34, 43, 46, 48, 50, 65 Barbiera, Raffaello, 75 Baron Supervielle, Silvia, 177, 191 Barrault, Emile, 79 Barthes, Roland, 175, 191 Bartolucci, Giuseppe, 191 Bassani, Giorgio, 22, 99 Beecher-Stowe, Harriet, 109n Belgiojoso, Cristina Trivulzio di, 9, 10, 14n, 42, 67-76, 77-91 Ben Moustapha el Cabri (Mucaddam Ben Mufa el Cabri), 131 Bénayoun-Szmidt, Yvette, 123n, 137 Benchekroun, Ahmed, 123n, 137 Benchekroun, Mohammed, 160 Beneyto, José Maria, 172 Benini, Emanuela, 123n, 137, 138, 145n, 158  Benucci, Elisabetta, 50 Benzakour Chami, Anissa, 123n, 137 Berchet, Jean-Claude, 78, 90 Beretta, Luciano, 33 Berger, Brigitte, 112, 119 Berger, Peter L., 112, 119 Bernardini, Piero, 191 Bertaccini, Anna, 191 Berti, Antonio, 42n, 46 Bertini Malgarini, Patrizia, 105 Bertolo, Bruna, 75 Bevilacqua La Masa, Felicita, 32, 33n Bianchi Giovini, Aurelio, 56

228 Bianchi, Bruna, 40n, 46 Bianchi, Giuseppe, 32n, 46 Biasuz, Giuseppe, 15n, 28, 31n, 39, 46 Billi, Laura, 31n, 46 Bistarelli, Agostino, 13n, 28, 34n, 36, 46 Blanco Martínez, Rogelio, 173 Bolzani, Letizia, 191 Bonfatti, Rosella, 20n, 28 Borghesi, Angela, 202, 203, 207, 208 Borgione, Andrea, 57n, 64 Bortone, Sandro, 76 Bourguinat, Nicolas, 58n, 64 Braidotti, Rosi, 121n, 137, 197 e n, 198, 205 e n, 207 Bravi, Adrian, 176, 191 Brodskij, Iosif Aleksandrovič, 177 e n, 191, 194 e n, 207 Brown, Mary, 119 Brugnolo, Furio, 181, 191 Brunello, Piero, 75 Bruni, Manuela, 31n, 46 Bruzzese, Marina, 75 Budor, Dominique, 124n, 138 Bundgaard, Ana, 164n, 171 Bunis, M. David, 147, 158  Burke, Peter, 209-211, 222 Buscaglione Candela, Paola, 191 Butafuoco, Annarita, 75 Buttarelli, Annarosa, 193, 202, 207 Cacciatore, Giuseppe 169n, 172 Caico, Beatrice, 110 Caico, Cesare, 108-111 Caico, Eugenio, 108-111, 113 Caico, Federico, 110, 111n Caico, Federico, fratello di Eugenio, 110n, 111n Caico, Franco, padre di Eugenio, 108 Caico, Franco, 110 Caico, Giulia, 110, 111n Caico, Giulia, sorella di Eugenio, 110n, 111 Caico, Letizia, 110, 111n, 113n Caico, Lina, 110, 111n, 113n Calvo, Maria Josefa, 75 Cambray-Digny, Luigi Guglielmo, 19 Campbell, Joseph, 102n, 105 Cannì, Giovanna, 65 Capitani, Flavia, 192 Capitelli, Giovanna, 8n

indice dei nomi Caporuscio, Flavia, 75 Capponi, Gino, 21 e n, 39 Caputo, Francesca, 192 Carducci, Giosuè, 18 Carlo Alberto, re di Sardegna, 60 Carrano, Patricia, 75 Cartoni, Flavia, 75 Castellana, Riccardo, 213, 223 Cattaneo, Carlo, 13, 16 e n, 28 Cavaglieri, Livia, 50 Cavaglion, Alberto, 21, 22 e n, 28 Cavalletto, Alberto, 32n, 34, 40 e n Cavallo, Tiberio, 125, 126, 142n, 147 Cavour, Camillo Benso di, 94 e n, 96 Cecchinato, Eva, 75 Ceccuti, Cosimo, 39n, 46 Cederna, Camilla M., 7n, 123n, 138 Cella, Sergio, 13n, 28 Cepeda Fuentes, Marina, 75 Ceppa, Leonardo, 207 Ceronetti, Guido, 202 Ceserani, Remo, 208 Chaarani Lesourd, Elsa, 31n, 47, 64, 138 Charloneix, Clémence, 125 Chemello, Adriana, 29, 47 Chetrit, Joseph, 147, 158 Chimenti, Elisa, 10, 121-140, 141-160 Chimenti, Rosario, 125, 126, 142n Ciceri, Andreina, 43n, 48 Cimegotto, Cesare, 41, 47 Ciuffoletti, Zeffiro, 41, 47 Clerici, Luca, 199, 200n, 208 Codemo, Luigia, 33 Coen, Emanuele, 192 Colinas, Antonio, 163n, 164n, 172 Comberiati, Daniele, 29 Conrad, Joseph, 211, 213, 215 Conti Odorisio, Ginevra, 79, 90 Contini, Annamaria, 124n, 138 Corelli, Pietro, 53-57, 60, 62 Correnti, Cesare, 14n, 44 Corsi, Dinora, 58n, 64 Cosmai, Franca, 32n, 47 Costa-Zalessow, Natalia, 31n, 47 Crispino, Anna Maria, 207 Croce, Benedetto, 93 Cutrufelli, Maria Rosa, 123n, 138 Cvetaeva, Marina, 121

indice dei nomi D’Azeglio, Massimo, 16 e n D’Eredità, Diletta, 139 Dakhlia, Jocelyne, 149, 159 Dall’Ongaro, Francesco, 18, 43 Daniele, Antonio, 48 De Amicis, Edmondo, 50 De Como, Clémentine, 10, 53-65 De Fort, Ester, 13n, 28 De Gubernatis, Angelo, 93 De Luca, Pina, 164n, 172 De Lucia, Stefania, 121n, 138 de Lutti Alberti, Francesca, 33 e n, 38 e n, 39 e n De Martino, Giulio, 75 de Musset, Alfred, 70 de Plaisance, Madame, 71 de Tuoni, Marco, 40 e n de’ Sismondi, Cinzica, 45 Déjeux, Jean, 122n, 138, 145n, 159  del Moral, Celia, 141, 159  Del Zoppo, Paola, 177n, 191 Deleuze, Gilles, 134n Dell’Abate-Çelebi, Barbara, 81, 90 Della Coletta, Cristina, 193n, 208 Denooz, Laurence, 64, 138 Devoto, Daniel, 159 Di Giannatale, Fabio, 13n, 28 Di Iasio, Valeria, 49 Di Negro, Gian Carlo, 56 di Nunzio, Novella, 208 Di Rosa, Rossella, 193, 195, 197n, 208 Domenichelli, Mario, 208 Donati, Gemma, 19, 20 Douzou, Catherine, 138 Driss El Ouazzani, Moulay, 126, 140 Duquaire, Henri, 142, 149n, 154, 155n, 156n  El Kouche, Boubkeur, 132, 138 El-Bekri, 134 Emma (Emilia Ferretti Viola), 10, 93-105 Enfantin, Prosper, 78, 79 Errera, Alberto, 40 e n Farkas, Alessandra, 199 Farnetti, Monica, 193, 194, 195n, 198, 208 Fasano, Pino, 208 Fava Ghisilieri Tanari, Brigida, 56 Fava, Stella, 33n, 38n, 39n, 47

229 Favino, Federica, 31n, 47 Fazio, Ida, 64 Fernández, Alberto, 145, 146, 159  Ferrara degli Uberti, Carlotta, 15n, 28 Ferraro, Alessandra, 138 Ferroni, Giovanni, 49 Filippini, Nadia Maria, 15n, 28, 31n, 32n, 35n, 36, 43, 45, 47 Finotti, Fabio, 15n, 26, 29, 31n, 47 Fiume, Marinella, 64 Flaubert, Gustave, 78, 96 Floriani, Sonia, 112, 119 Fondation Elisa Chimenti, 153, 159  Forti, Gilberto, 191 Foscolo, Ugo, 16 e n, 29, 43 Fournier-Finocchiaro, Laura, 53, 58, 64 Frances Drake, Emma, 119n Franchini, Silvia, 50 Franco, Carlo, 36, 47 Frau, Ombretta, 7n Freud, Sigmund, 167n Frullani, Claudina, 39 Frullani, Emilio, 39 Fuà Elvira, 17 Fuà Fusinato, Erminia, 8-10, 13-30, 3151 Fugazza, Mariachiara, 75 Funaro, Elda, 40, 41, 48 Fusinato, Arnaldo, 14n, 15, 17, 18, 31 e n, 33-35, 37 e n, 41, 44, 48 Fusinato, Clemente, 33, 35, 38 Fusinato, Gino, 14n Fusinato, Guido, 14n, 44 e n Fusinato, Teresita, 14n Gaiardoni, Chiara, 105 Gaiga, Silvia, 192 Gallina, Stefano, 55 Gangemi, Rosanna, 177n, 191 García Valdés, Pablo, 76 Garibaldi, Giuseppe, 31, 32 e n, 48, 51 Gasparinetti, Anna, 75 Gazzetta, Liviana, 28, 31n, 36, 47 Geerts, Walter, 124n, 138 Geibel, Emanuel, 156 e n, 159 Genlis, Caroline-Stéphanie-Félicité du Crest, Comtesse de, 42 Gesù Cristo, 34 Ghezzo, Flora, 208

230 Ghivizzani, Gaetano, 14n, 29, 33n, 37 e n, 38, 48 Gianni, Enrico, 190 Giannone, Pietro, 39 Ginsborg, Paul, 13n, 17n, 28, 29, 46, 48, 50, 65 Gioacchino Napoleone Murat, re di Napoli, 41 Gioberti, Vincenzo, 57 Glad, John, 207 Glissant, Édouard, 124n, 134n, 138 Glucksberg, Sam, 119 Gnisci, Armando, 193n Gola, Sabina, 34n, 40n, 48, 50 Goldoni, Carlo, 41 Gómez Blesa, Mercedes, 173 Goni Pérez, José Manuel, 140 Gonzalez de Sande, Estela, 76 González Fuentes, Juan Antonio, 172 González González, Irene, 147, 148, 159  Gottardi, Michele, 29 Gragnani, Cristina, 7n Gramsci, Antonio, 216 Grice, H. Paul, 117, 119 Grossi, Tommaso, 34 Guareschi, Massimiliano, 192 Guattari, Félix, 134n Guida, Patrizia, 7n Guidi, Laura, 13n, 29, 33, 36, 48, 50, 61, 64 Guidieri, Renzo, 191 Hamilton Caico, Louise, 10, 107-120 Hamilton, Anna, 108, 109n Hamilton, Charlotte, 109n Hamilton, Eva Letizia, 108 Hamilton, Frederick Fitzroy, 107-109, 119 Hamilton, Giulio, 108, 109n Hamilton, Rosa Marie Mathilde, 108, 109n Hamilton, William Tighe, 107 Hardy, Edward John, 112n Heine, Heinrich, 70, 189 Hernando de Larramendi, Miguel, 159 Heyse, Paul, 152, 156n, 159  Hussey, Andrew, 139, 140 Iannaccone, Giuseppe, 201n, 208 Ibn Ŷubair, 143 

indice dei nomi Ibrahimi, Anilda, 179-181, 183, 191 Ioly Zorattini, Pietro, 15n, 29 Iounes-Vona, Rosaria, 29 Isabella, Maurizio, 13n, 29, 34n, 37, 48 Isnenghi, Mario, 75 Izquierdo Benito, Ricardo, 159 James, Henry, 214, 215 Jansen, Monica, 192 Jaubert, Carolina, 67, 72 Jung, Carl Gustave, 167n, 168n, 172 Kellner, Hansfried, 112, 119 Khalid, Amine, 139, 140 Klemperer, Victor, 188, 191 Kohn, Jerome, 190 Krautter, Philippe-Emmanuel, 164n, 172 Kristof, Agota, 9, 10, 175-178, 182, 183, 191 Kumon-Nakamura, Sachi, 119 La Salvia, Sergio, 48 Lahiri, Jhumpa, 181-183, 190, 191 Lalagianni, Vassiliki, 137 Lambruschini, Raffaello, 39 Laplantine, François, 124n, 138 Laskier, Michael M., 142, 158, 159 Latini, Micaela, 191 Lawrence, David Herbert, 107n Le Bon, Gustave, 99 Le Goff, Jacques, 102 Lejeune, Philippe, 219, 223 Leopardi, Giacomo, 201 Lepschy, Giulio, 192 Lerner, Isaías, 172 Leuzzi, Maria Cristina, 15n, 29, 31n, 33n, 34, 35n, 37n, 39, 42n, 44, 48 Levi, Carlo, 103 Levi, Primo, 22, 187, 189, 191 Lezama Lina, José, 169 Lioy, Paolo, 37 e n, 40 e n Liszt, Franz, 70 Loddo, Mariarosa, 223 Lonigo Calvi, Leonilde, 32 Lonigo, Alberto, 32n, 48 Lotto, Adriana, 40n, 46 Loy Provera, Rosetta, 191 Lucrezio Caro, Tito, 203 e n Luperini, Romano, 193, 208

231

indice dei nomi Luzzatti, Luigi, 17n Machado, Antonio, 161n, 163 Maeterlinck, Maurice, 119n Maffei, Clara, 56 Magris, Claudio, 190 Maíllo Salgado, Felipe, 144, 159  Mancini Oliva, Laura Beatrice, 14n, 29 Mander Cecchetti, Anna, 37 e n, 38 Manin, Daniele, 43 Maraini, Dacia, 97 e n, 105 Marchetti, Maddalena, 123n, 139 Maresia Alvisi, Laura, 43 Marín, Manuela, 143, 158  Marini, Quinto, 50 Martini, Ferdinando, 19 Massarani, Tullo, 17n Mauceri, Maria Cristina, 190, 192 Mauviel, Maurice, 58n Mazzini, Giuseppe, 20 Medici, Francesco, 168n, 172 Melis, Rossana, 31n, 39 e n, 43n, 48 Menconi, Silvia, 39n, 40, 49 Meneghello, Luigi, 178n, 180, 192 Menon, Mirella, 126n, 141, 145n, 146 e n, 148, 160  Merlo, Elisa, 53, 65 Merola, Nicola, 105 Messana, Federico, 110n, 111, 120 Metaxa Zani, Gerasimo, 109n Miège, Jean-Louis, 148, 159 Miglio, Camilla, 121n, 139 Miles, Malcolm, 100n, 105 Milli, Giannina, 39 Mingot, Françoise, 58n Mohl, Jules, 82n Molmenti, Pompeo Gherardo, 14n, 21 e n, 23, 24, 27, 29, 31 e n, 33n, 36n, 37n, 44n, 45n, 49 Monga, Luigi, 76 Montalban Comello, Maddalena, 32 Monteiro Martins, Julio, 177, 192 Morace, Rosanna, 7n, 181n, 192 Moreno Sanz, Jesús, 169n, 172 Mori, Maria Teresa, 15n, 28, 29, 31n, 35n, 39n, 41, 47, 49, 61, 65 Mozzo, famiglia, 39 Mozzoni, Anna Maria, 96 Muñoz Martínez, Agustín, 161

Muñoz Martínez, Manuel, 161, 162n Musso, Pierre, 90 Nannicini Streitberger, Chiara, 191 Napoleone III, re, 33 Neves, Maria João, 167n, 172 Niccolini, Giovanni Battista, 56 Nievo, Ippolito, 14n, 43 Nival, Roberto, 172 Nizzoli, Amalia, 14n Nobili, Eliana, 172 Nouss, Alexis, 124n, 138, 209-211, 223 Nullo, Francesco, 40 Omero, 102 Ortega Muñoz, Juan Fernando, 163n, 166 e n, 172, 173 Ortega y Gasset, José, 162n, 163n, 167n Ortese, Anna Maria, 10, 193-208 Pagliardini, Angelo, 37, 49 Palombarini, Augusta, 57n, 65 Park, Robert E., 116, 120 Parmegiani, Sandra, 105 Pasi, Antonia, 65 Pasolini, Pier Paolo, 100n Pastor Comín, Juan José, 152, 156, 158, 160  Pavia Gentilomo Fortis, Eugenia, 33 Paye, Lucien, 148, 160  Pegollo, Mario, 41, 49 Pelaja, Margherita, 57n, 65 Pellegrini, Clemente, 40 e n Pellico, Silvio, 34 Percoto, Caterina, 18 Perocco, Daria, 13n, 29 Peruzzi, Ubaldino, 32n, 39-41 Pes, Luca, 31n, 43, 49 Pescarolo, Alessandra, 28, 47 Piattoli, Renato, 20, 30 Piazza, Rosa, 17, 30, 35n, 40, 49 Pieri, Piero, 99, 105 Pieroni Bortolotti, Franca, 58n, 65 Pietrobon, Ester, 49 Pilatte, Lèon, 109n Pilatte, Zulmà Mathilde, 107 Pisani, Carla, 13n, 30 Pittarello, Elide, 161n, 162n, 172 Pizzamiglio, Gilberto, 29, 47 Policastro, Gilda, 101-103, 105

232 Ponsonby, Anne-Louise, 107 Porciani, Ilaria, 49 Positano, Sara, 94n, 95n, 96 e n, 105 Pozzolini, famiglia, 39 Prati, Giovanni, 39 Prato Caruso, Leonella, 191 Prevedello, Michela, 105 Proia, Gianna, 75 Prolo, Maria Adriana, 58n, 65 Protonotari, Francesco, 96 Pulszky, Ferenc, 19n, 41, 42 Pulszky, Teresa, 19n, 41, 42

indice dei nomi

Ragni, Francesco, 208 Rahola, Federico, 192 Ranieri, Antonio, 96 Re, Lucia, 123n, 139 Reguer, Sara, 158 Ricorda, Ricciarda, 58n, 65 Ríos Vicente, Jesús, 172 Riot-Sarcey, Michèle, 79, 90 Rodenbach, Georges, 119n Rodríguez Aldave, Alfonso, 164n Rodríguez Mediano, Fernando, 143, 145, 160 Rodríguez-López, Carolina, 69, 76  Rodríguez-Moñino, Antonio, 159 Romani, Gabriella, 15n, 19n, 30, 31n, 35n, 36n, 49 Rörig, Karoline, 75 Rosenwein, Barbara, 76 Roso, Kelly, 123n, 139 Rossi Gabardi Brocchi, Isabella, 56 Rossi, Mino, 76 Ruggio, Maria Luisa, 125, 142n Ruozzi, Gino, 100n, 105

Sari, Carmen, 31n, 35, 37n, 49 Sassernò, Agata Sofia, 65 Savini, Marta, 15n, 26, 30, 31n, 33n, 34, 50 Scaffei, David, 29, 48 Scattigno, Anna, 28, 47 Scattolin, Giuseppe, 142, 160  Scego, Igiaba, 178, 179, 181, 183, 192 Schneider, Helga, 183-190, 192 Scialoja, Antonio, 44 Scriboni, Mirella, 67, 76 Secchieri, Filippo, 208 Seno, Cosetta, 205 e n, 208 Serino, Vinicio, 19, 30 Sertoli, Giuseppe, 50 Severgnini, Luigi, 76 Severini, Marco, 139 Sígler Silvera, Fernando, 161n, 172 Simon, Reeva Spector, 158 Sinopoli, Franca, 7n, 9, 208, 223 Smith, Sidonie, 223 Sodini, Elena, 32, 33n, 50 Sofia, Francesca, 13n, 30 Sofocle, 74 Soldani, Simonetta, 28, 35n, 39n, 47, 50, 63, 65 Solmi, Renato, 207 Sorcinelli, Paolo, 65 Sordina, Emilia, 15n, 30, 31n, 50 Spackman, Barbara, 81-83, 90 Speelman, Raniero, 192 Sperti, Valeria, 138 Starnone, Domenico, 182, 192 Stillman, Norman A., 160 Svevo, Italo, 22 Swinburne, Charles, 119n

Sáenz-Badillos, Ángel, 159 Sahim, Haideh, 147, 158 Said, Edward W., 81, 97, 105, 178, 183, 192, 209-223 Salinas, Jaime, 164n Salinas, Pedro, 164n Salomone, 133, 135 Samrakandi, Mohammed Habib, 132, 138 Santarosa, Filippo Annibale Santorre De Rossi conte di, 39, 40 Santovetti, Olivia, 8n Sanvitale, Francesca, 76

Tabboni, Simonetta, 120 Tamburini, Francesco, 132, 139 Tamburlini, Maria Pia, 123n, 126n, 139, 141, 145n, 146 e n, 148, 160  Tarantino, Stefania, 161n, 173 Tarizzo, Davide, 190 Tasso, Torquato, 34, 131 Tatar, Maria, 102n, 105 Tatti, Silvia, 7n, 14n, 30, 34 e n, 35, 37, 38, 40n, 42-44, 50, 76, 82 e n, 89, 90, 95, 97, 98, 100n, 104, 105, 121n, 139, 177n, 192, 193n, 208

233

indice dei nomi Tavella, Chiara, 40, 50 Taylor, Eva, 189, 192 Tejada, Ricardo, 173 Tenca, Carlo, 18, 56 Tharaud, Barry, 139, 140 Thiéblemont-Dollet, Sylvie, 64, 138 Tobi, Yosef, 147, 160  Toccagni, Luigi, 56 Tomasi, Franco, 28 Tomassetti, Isabella, 173 Tommaseo, Niccolò, 16 e n, 35, 39, 152 Torres Calzada, Katjia, 123n, 139, 143, 145n, 160  Toscanelli Peruzzi, Emilia, 39-42 Trapanese, Elena, 169n, 173 Ugena Sancho, Sofía, 167n, 173 Ugoni, Camillo, 43 Unamuno, Miguel de, 161n Urettini, Luigi, 30n, 51 Valentini, Lucia, 164n, 173 Vanden Berghe, Dirk, 34n, 40n, 48, 50 Vannucci, Atto, 38, 39 Ventura Herranz, Daniel, 76 Verbaro, Caterina, 105 Verdino, Stefano, 50 Verga, Giovanni, 96 e n Vianello, Valerio, 16n, 30 Vico, Giambattista, 216 Vignuzzi, Maria Cecilia, 93, 96, 105 Villa, Cristina, 183n, 192 Virgilio Marone, Publio, 102 Vittorio Emanuele II, re, 32 Watson, Julia, 223 Wensinck, Arent Jan, 143, 160 White Mario, Jessie, 96 Whittemore, Julia, 109n Wolf, Christa, 197n Wolf, Hugo Filipp Jakob, 152, 156n, 157n Zambon, Patrizia, 31n, 51 Zambrano, Blas José, 161n Zambrano, María, 9, 68, 76, 161-173 Zamperlin, Patrizia, 47 Zannini, Adriana, 33 Zavala, Iris, 71, 76 Zemmouri, Mohamed Saâd, 123n, 139

Zimarri, Francesca, 139 Zola, Émile, 96 Zubiri, Xavier, 162n

Quodlibet Studio



scienze della cultura

Francesco Fiorentino (a cura di), Icone culturali d’Europa Giovanni Sampaolo (a cura di), Kafka: ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni, trasgressioni Flavio Cuniberto, La foresta incantata. Patologia della Germania moderna Francesco Fiorentino (a cura di), Al di là del testo. Critica letteraria e studio della cultura Guglielmi Marina, Giulio Iacoli (a cura di), Piani sul mondo. Le mappe nell’immaginazione letteraria Fiorentino Francesco, Carla Solivetti (a cura di), Letteratura e geografia. Atlanti, modelli, letture Alessandro Bosco, Il romanzo indiscreto. Epistemologia del privato nei «Promessi Sposi» Maria Carolina Foi, La giurisdizione delle scene. I drammi politici di Schiller Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Lessico mitologico goethiano. Letteratura, cultura visuale, performance Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Critica/crisi. Una questione degli studi culturali Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Rappresentanza/rappresentazione. Una questione degli studi culturali Michele Cometa, Roberta Coglitore (a cura di), Fototesti. Letteratura e cultura visuale Roberta Coglitore, Le vertigini della materia. Roger Caillois, la letteratura e il fantastico Daniele Balicco, Nietzsche a Wall Street. Letteratura, teoria e capitalismo Raffaello Palumbo Mosca (a cura di), La realtà rappresentata. Antologia della critica sulla forma romanzo 2000-2016 Lorenzo Marchese, Storiografie parallele. Cos’è la non-fiction? Gabriele Guerra, L’acrobata d’avanguardia. Hugo Ball tra dada e mistica Guido Bartorelli, Giovanni Bianchi, Rosamaria Salvatore, Federica Stevanin (a cura di), Il corpo parlante. Contaminazioni e slittamenti tra psicoanalisi, cinema, multimedialità e arti visive Gianluca Paolucci, «Vieni! Guarda e senti Dio». Teologia performativa in Herder Filippo Grendene, Il dialogo della tradizione. Intertestualità, Ri-uso, Storia Camilla Miglio, Ricercar per verba. Paul Celan e la musica della materia Silvia Tatti, Chiara Licameli (a cura di), Scrittrici in esilio tra Ottocento e Novecento