Scrittori dell’Età Augustea 9788841892329

Con il nome di Scriptores historiae Augustae o Historia Augusta viene comunemente designata una raccolta di trenta biogr

1,096 358 8MB

Italian Pages 1100 Year 2013

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Scrittori dell’Età Augustea
 9788841892329

Table of contents :
Frontespizio......Page 3
Colophon......Page 4
Indice Del Volume......Page 1099
Introduzione......Page 6
Nota bibliografica......Page 49
Nota critica......Page 65
Segni diacritici nel testo latino......Page 120
I. Vita di Adriano......Page 128
II. Elio......Page 177
III. Antonino Pio......Page 190
IV. Vita di Marco Antonino filosofo......Page 210
V. Vero......Page 254
VI. Avidio Cassio......Page 271
VII. Commodo Antonino......Page 293
VIII. Elvio Pertinace......Page 322
IX. Didio Giuliano......Page 344
X. Severo......Page 358
XI. Pescennio Nigro......Page 394
XII. Vita di Clodio Albino......Page 413
XIII. Antonino Caracalla......Page 434
XIV. Antonino Geta......Page 453
XV. Opilio Macrino......Page 464
XVI. Antonino Diadumeno......Page 486
XVII. Antonino Eliogabalo......Page 500
XVIII. Alessandro Severo......Page 545
XIX. I due Massimini......Page 629
XX. I tre Gordiani......Page 671
XXI. Massimo e Balbino......Page 713
XXII. I due Valeriani......Page 737
XXIII. I due Gallieni......Page 747
XXIV. I trenta tiranni......Page 781
XXV. Il divo Claudio......Page 841
XXVI. Il divo Aureliano......Page 867
XXVII. Tacito......Page 929
XXVIII. Probo......Page 954
XXIX. Firmo, Saturnino, Proculo e Bonoso......Page 987
XXX. Caro, Carino e Numeriano......Page 1007
Indice dei nomi......Page 1031
Indice delle tavole......Page 1098

Citation preview

CLASSICI LATINI COLLEZIONE FONDATA DA AUGUSTO ROSTAGNI DIRETTA DA ITALO LANA

SCRITTORI DELL’ETÀ AUGUSTEA A cura di PAOLO SOVERINI UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE

© De Agostini Libri S.p.A. - Novara 2013 UTET www.utetlibri.it www.deagostinilibri.it ISBN: 978-88-418-9232-9 Prima edizione eBook: Marzo 2013 © 1983 Unione Tipografico-Editrice Torinese nella collana Classici latini Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico o in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. La casa editrice resta a disposizione per ogni eventuale adempimento riguardante i diritti d’autore degli apparati critici, introduzione e traduzione del testo qui riprodotto.

GUIDA ALLA CONSULTAZIONE Gentile lettore, essendo venuta meno l’originale struttura con testo a fronte, per questi titoli è stata ideata una nuova fruizione del testo, allo scopo di favorire la navigazione all’interno dell’opera. Ogni capitolo/libro è suddiviso in tre distinte sezioni: testo in lingua originale testo tradotto note critiche al testo Ogni sezione rimanda direttamente a un’altra secondo le seguenti modalità: Dal testo in lingua originale, clicca sul numero di verso/riga di cui vuoi leggere la traduzione e vai direttamente al testo corrispondente. Dal testo tradotto, clicca sul numero di verso/riga di cui vuoi leggere il testo in lingua originale e vai direttamente al testo corrispondente. Nella sezione del testo tradotto, i numeri di verso/riga in neretto indicano la presenza di una nota critica. Clicca sul numero per leggere la nota. Gli indici conclusivi rendono possibile ritrovare con facilità tutte le informazioni particolari che sia necessario cercare, attraverso un link al numero del verso/della riga di testo corrispondente.

INTRODUZIONE

a ricordo di Elio Pasoli Con il nome di Scriptores historiae Augustae o Historia Augusta1 viene comunemente designata una raccolta di trenta biografie imperiali (alcune delle quali, per l’esattezza, costituiscono gruppi di più vite) che abbracciano il periodo compreso fra il 117 d. C. (ascesa al trono di Adriano) e il 284-285 d. C. (fine del regno di Carino e Numeriano). Esse figurano scritte, secondo quanto si ricava da dediche e indirizzi diretti rivolti agli imperatori regnanti in varie parti dell’opera, in epoca diocleziano-costantiniana (285-337 d. C.), e sono attribuite dalla tradizione manoscritta a sei diversi autori, non altrimenti conosciuti: Aelius Lampridius, Aelius Spartianus, Flavius Vopiscus, Iulius Capitolinus, Trebellius Pollio, Vulcacius Gallicanus2. Per la verità il titolo dato alla raccolta dal ramo più autorevole di tale tradizione è quello di Vitae diversorum principum et tyrannorum a divo Hadriano usque ad Numerianum diversis compositae; la denominazione Scriptores historiae Augustae in riferimento esclusivo3 ai sei autori e al corpus delle biografie ad essi attribuite compare per la prima volta nell’edizione curata nel 1603 dall’umanista francese Isaac Casaubon, che dichiarava di averlo desunto da una delle biografie stesse, quella dell’imperatore Tacito, in cui lo storico omonimo viene ad un certo punto definito con l’appellativo di scriptor historiae Augustae (cfr. Tac. 10, 3). La silloge comprende, oltre alle vite dei veri e propri imperatori regnanti (Augusti), anche quelle di Caesares, cioè principi designati alla successione che però non ebbero mai a regnare, e tyranni, come vengono chiamati nell’opera gli usurpatori, che sorsero in vari periodi in contrapposizione agli augusti ufficiali. L’estensione delle biografie è abbastanza ineguale: si va dai sette capitoli di quelle di Elio Vero e Geta ai sessantotto di quella di Alessandro Severo. Si deve tener conto inoltre che, a partire dalla vita dei due Massimini, fanno la loro comparsa, accanto a quelle dedicate ai singoli principi, biografie che potremmo dire «plurime», che riuniscono cioè le vite di più personaggi (membri della stessa famiglia, imperatori coregnanti, gruppi di usurpatori). La raccolta, così come ci è stata tramandata, appare interrotta da una lacuna, compresa tra la vita di Massimo e Balbino e quella dei due Valeriani (quest’ultima, fra l’altro, mutila di tutta una prima parte), che doveva concernere gli anni 244-253 d. C., corrispondenti ai regni di Filippo l’Arabo,

Decio, Treboniano Gallo, Volusiano. Una spiegazione più che plausibile per la mancanza di queste biografie potrebbe essere quella della perdita accidentale di un blocco di fogli, evento non raro a verificarsi nella trasmissione dei testi classici; ma è stato pure da taluno ipotizzato che la lacuna, al pari di altri dati apparenti presentati dall’opera, possa costituire in realtà una finzione4. Una lacuna potrebbe forse esistere anche all’inizio di tutta la serie delle biografie: in effetti meraviglia un po’ che in una silloge di questo tipo e di questa mole mancasse una qualsiasi forma di presentazione proemiale (di essa appunto non vi è traccia nella Vita Hadriani), e che inoltre non venisse realizzato – risultando omessa la trattazione delle vite di Nerva e Traiano – il collegamento con l’opera di Svetonio, modello dichiarato, come avremo modo di dire meglio anche in seguito, degli Scriptores, e che appunto era giunto, nella sua raccolta di biografie imperiali, sino a Domiziano. La questione, seppure oggetto anche in tempi recenti di discussioni e approfondimenti, appare destinata – alla luce dei dati in nostro possesso – a rimanere irrisolta. L’impressione immediata che si ricava ad un primo esame della silloge nella forma in cui ci è giunta è la sensazione di un diffuso disordine. Perplessità suscita la distribuzione stessa delle singole biografìe ai vari autori, specialmente nel corso dei primi due terzi della raccolta dove – a differenza di quanto avviene nell’ultima parte, in cui si hanno due gruppi omogenei di vite, assegnati a Pollione e Vopisco – vediamo alternarsi e intersecarsi le attribuzioni in modo disorganico e all’apparenza per lo più casuale, senza che traspaia un preciso criterio coordinante. In particolare notiamo che, mentre a Gallicano risulta assegnata una sola breve vita (Avidius Cassius), Sparziano (con Hadrianus, Aelius, Didius Iulianus, Severus, Pescennius Niger, Antoninus Caracallus, Antoninus Geta), Capitolino (con Antoninus Pius, Marcus Antoninus Philosophus, Verus, Pertinax, Clodius Albinus, Opilius Macrinus, Maximini duo, Gordiani tres, Maximus et Balbinus), e Lampridio (con Commodus Antoninus, Diadumenus Antoninus, Antoninus Heliogabalus, Alexander Severus) figurano quali autori di biografie non contigue di imperatori del II sec. e III sec. d. C., e ciò lascia tanto più perplessi allorché ci imbattiamo in palesi contraddizioni fra l’attribuzione risultante dalle titolature e quella ricavabile da passi delle vite stesse, come avviene nel caso delle biografie di Pescennio Nigro e Clodio Albino che, collegate dalla tradizione manoscritta rispettivamente ai nomi di Sparziano e Capitolino, stando a Pesc. Nig. 9, 3 e Cl. Alb. 1, 4 risulterebbero opera – quale

che egli fosse – del medesimo autore, o come quando leggiamo nella vita del giovinetto Diadumeno, ascritta a Lampridio, l’affermazione cuius vitam iunxissem patris gestis… (6, 1), da cui lo stesso biografo apparirebbe aver scritto anche quella del padre Macrino (assegnata invece dai codici a Capitolino). Né mancano confusione e incongruenze nell’ambito delle dediche agli imperatori regnanti e dei riferimenti al tempo di composizione delle singole biografie e all’attività degli autori: Sparziano nelle vite di Elio, Severo e Pescennio Nigro si rivolge a Diocleziano5, ma si indirizza inaspettatamente a Costantino in quella di Geta6; Flavio Vopisco, l’unico fra i sei Scriptores a mostrare espressamente conoscenza dell’esistenza di qualcuno degli altri cinque, cita, a Prob. 2, 7, Capitolino e Lampridio quali propri predecessori nel genere biografico: ma mentre egli figura scrivere sotto la tetrarchia dioclezianea o, al più tardi, nel 305-306 d. C., fra l’abdicazione di Diocleziano e la morte di Costanzo Cloro7, gli altri due si rivolgono più volte a Costantino8 e, in particolare, Lampridio risulta aver scritto dopo l’eliminazione di Licinio (324 d. C.)9. Lo stesso Vopisco lascia intendere di comporre le sue biografie seguendo l’ordine cronologico10; ma la vita di Aureliano, da un riferimento preciso (44, 5), può essere fatta risalire al tempo in cui Costanzo era già divenuto Augusto, mentre la successiva biografia di Caro, Carino e Numeriano impiega talora (9, 3; 17, 6; 18) una fraseologia che sembra presupporre che all’epoca della composizione Costanzo fosse ancora Cesare. A complicare ulteriormente il quadro si aggiungono le dichiarazioni di alcuni degli Scriptores, dalle quali risulterebbe che essi hanno composto un numero maggiore di vite o che starebbero lavorando nell’arco di un programma più vasto di quello risultante dal corpus a noi giunto. Così Elio Sparziano e Vulcacio Gallicano11 affermano che loro proposito è scrivere le biografie di tutti gli imperatori, da Giulio Cesare in poi, il primo specificando inoltre che intende trattare anche di coloro che ebbero il titolo di Cesari in quanto appartenenti alla famiglia imperiale. Dal canto suo Elio Lampridio esprime l’intenzione di comporre, dopo quella di Elagabalo, le vite dei successivi imperatori fino a Diocleziano e Massimiano e ai quattro rivali di Costantino12. Nessuna traccia però, né all’interno dell’opera né in alcun’altra fonte, ci indica che questi progetti abbiano mai avuto realizzazione. Di fronte a questo sconcertante accavallarsi di dati diversi e contrastanti ci si può di fatto chiedere quale sia il reale valore da attribuire alle ascrizioni

delle singole biografie, testimoniate nel codice più autorevole soltanto dalle indicazioni di incipit ed explicit unite ad ognuna (e non sempre, peraltro, complete)13 e dall’index generale premesso alla raccolta, tenendo fra l’altro conto che, quale ulteriore elemento di confusione, si deve anche registrare il turbamento dell’ordine cronologico che si riscontra nel suddetto manoscritto fra le vite di Vero e Alessandro Severo, e che d’altro canto eventuali tentativi di ridistribuzione – a parte il carattere già in sé metodologicamente discutibile di una tale operazione – non sembrano in grado di conciliare in maniera soddisfacente l’insieme di contraddizioni e incongruenze presenti nei dati offerti dalla tradizione. Appare dunque evidente, anche solo alla luce di un primo esame sommario, che l’opera si presenta a noi con una quantità di aspetti oscuri e di risvolti problematici, tali da alimentare una questione complessa e appassionante che, come vedremo, si allarga, in una lettura storico-critica delle vite, ad implicazioni di notevole portata. Ma limitiamoci per ora a vedere da vicino gli aspetti di più immediato interesse per il lettore che per la prima volta si accosti a quest’opera per tanti versi sconcertante, quelli cioè che meglio possono definirla nella sua essenza letteraria e caratterizzarla quale espressione culturale e di costume. È importante innanzitutto notare come la raccolta si inserisca in un genere e in una tradizione storiografica ben precisi. Sono gli stessi Scriptores a indicarci espressamente più volte14 quale modello principe delle loro vite Svetonio Tranquillo, l’emendatissimus et candidissimus scriptor15 autore delle Vite dei Cesari dal divo Giulio a Domiziano e rappresentante eminente di quel genere biografico da essi esplicitamente contrapposto, pur nel suo aspetto più modesto e dimesso, alla storiografia degli scrittori disertissimi: questa, infatti, se pure certamente più ambiziosa e stilisticamente elevata, rischierebbe peraltro una minore adesione alla realtà concreta dei fatti, a quel vere memoriae tradere16 cui i nostri intendono programmaticamente conformarsi. Ecco, appunto, quanto afferma «Flavio Vopisco» a conclusione del lungo proemio programmatico posto a capo della vita di Probo: «nel narrare le vite dei vari imperatori e i loro tempi il mio scopo non è stato quello di imitare i Sallustii, i Livii, i Taciti, i Trogi e tutti gli scrittori dallo stile più elegante, ma bensì Mario Massimo, Svetonio Tranquillo, Fabio Marcellino, Gargilio Marziale, Giulio Capitolino, Elio Lampridio e tutti gli altri che tramandarono questi e simili argomenti non tanto badando all’eleganza formale, quanto alla

verità dei fatti». Una presa di posizione – come si vede – molto decisa, e particolarmente interessante per l’accostamento a Svetonio, fra gli altri, di due dei pretesi autori della raccolta, Capitolino e Lampridio, anche se andrà prudentemente precisato che la rivendicazione della maggiore veridicità della formalmente più modesta narrazione biografica – che ritorna, seppure con toni meno marcati, anche in varie altre parti dell’opera» è da considerarsi in realtà più alla stregua di una «posa» che non di una sincera convinzione programmatica17. Anche al di là, del resto, delle specifiche affermazioni degli autori, l’inserirsi delle nostre vite nel filone biografico svetoniano appare con evidenza da alcuni elementi caratterizzanti dell’opera stessa, a cominciare dal criterio di ordinamento del materiale documentario per species, vale a dire in rubriche corrispondenti a «categorie» generali in cui vengono inquadrati aspetti, fatti, situazioni inerenti al personaggio trattato e alla sua esistenza, svincolate dall’obbligo di una rigida successione cronologica dei fatti. Alla base delle biografie si può in effetti riconoscere – anche se a volte in forma piuttosto sfumata e incompleta – uno schema fondamentale, nell’ambito del quale si succedono varie sezioni, riguardanti generalmente gli antenati e la famiglia del principe, la nascita, i nomi e soprannomi, i presagi di impero, il suo carattere, la sua vita nel periodo precedente l’ascesa al trono, gli eventi svoltisi nel corso del suo regno con le operazioni militari, i provvedimenti amministrativi e le opere pubbliche che lo caratterizzarono, la data e le circostanze della sua morte, i presagi che l’avevano annunciata, il suo ritratto esteriore, gli eventuali onori tributatigli dopo la morte. Nell’ambito di ogni singola biografia sono peraltro riscontrabili variazioni nell’ordine delle suddette sezioni, omissioni, aggiunte di vario genere: la serie delle rubriche può risultare compressa o estesa a seconda del materiale storico a disposizione, delle caratteristiche peculiari del personaggio, del particolare interesse dell’autore per certi aspetti e motivi collegati alla vita dell’imperatore in questione, di modo tale che in vari casi lo schema di fondo che abbiamo ricordato appare oscurato e scarsamente riconoscibile: ad esempio le rubriche riguardanti gli omino, imperii e gli omina mortis non sono presenti in tutte le vite e può persino accadere che in una biografia – quella di Tacito – manchino completamente accenni alla famiglia dell’imperatore e alla sua carriera precedente l’ascesa al trono; d’altro lato a volte si assiste allo sviluppo sproporzionato di una certa sezione, allorché la personalità del principe offre spunto alla trattazione di una tematica che stimola in modo particolare

l’interesse e la fantasia dell’autore: il caso più significativo appare quello della vita di Elagabalo, l’imperatore dissoluto e vizioso per eccellenza, nel corso della quale il biografo, terminato il racconto delle principali vicende di questo personaggio, sino alla morte ignominiosa che ebbe giustamente a subire, dedica più di quindici capitoli consecutivi (18-33) alla descrizione minuziosa dei particolari più aberranti, ridicoli, scabrosi della sua condotta dissipata; altre volte, come nella vita di Alessandro Severo, il tessuto della biografìa è costituito dall’intersecarsi di varie narrazioni, senza una fusione organica che permetta di seguire lo svolgersi ordinato dello schema narrativo. Oltre a questa più o meno coerente adesione esteriore a procedimenti e formule narrative, gli Scriptores historiae Augustae rispecchiano appieno – portandolo dal canto loro alle estreme conseguenze – quello che è il dato più caratteristico della concezione svetoniana, e cioè l’assoluta prevalenza dell’interesse biografico e aneddotico su quello più propriamente storiografico, che richiederebbe l’analisi delle molteplici implicazioni, collegamenti, interdipendenze fra i tanti fattori politici, sociali, economici, militari, religiosi che sono al fondo di ogni evento storico. Questo distacco fra biografia e storiografìa, inconcepibile per la nostra mentalità moderna, costituisce invero nell’ambito della cultura antica un elemento costantemente sentito, che sta anzi alla base della nascita della prima come genere indipendente e a sé stante18; nel corso del medio e basso impero, in particolare, esso assume aspetti peculiari, inquadrandosi nel complesso processo di dissoluzione della storia in biografia proprio di questa età, in cui il progredire dell’interesse per l’individualità e l’intimità dell’uomo e di una più avvertita sensibilità verso la sfera dei problemi religiosi e morali si incontrano con una realtà politica caratterizzata dall’accentramento di ogni potere nelle mani dei principi, nella vicenda umana dei quali si tende sempre più a vedere rispecchiata e riassunta la storia di tutto l’impero; una storia ridotta così essenzialmente a storia degli Augusti: historia Augusta, appunto. I nostri autori guardano dunque all’imperatore soprattutto nella sua individualità di personaggio, osservato in se stesso quale protagonista indiscusso della propria vita e inserito nel suo tempo e nel mondo in cui vive e opera solo per gli elementi più ovvii e scontati, quali la famiglia e le amicizie, per gli episodi della sua vita pubblica e privata più singolari e curiosi ma anche spesso storicamente irrilevanti; manca del tutto l’analisi della sua personalità «politica», il consapevole necessario aggancio con lo sfondo «storico» in cui si muove. Le figure – anche di importanti sovrani – che si succedono sotto i nostri occhi, ci appaiono per lo

più in una dimensione quasi astratta, avulse dal clima di aspirazioni, tensioni, fermenti, interessi di vario genere che animavano la società del loro tempo determinandone le crisi, i rivolgimenti, i conflitti: nell’ambito, dunque, di una prospettiva decisamente limitata e non in grado di cogliere e adeguatamente valutare le direttive più significative e di vasto respiro della loro azione. Invano, ad esempio, cercheremmo nella biografia di Adriano, al di là del succedersi e, a volte, accavallarsi di una pur abbondante messe di notizie sulla sua vita pubblica e privata, uno svolgimento organico del racconto e una disposizione sistematica del materiale storiografico in grado di individuare e focalizzare le linee politiche caratterizzanti di questo importantissimo principato, in particolare quella fondamentale tendenza ad un governo illuminato, rigidamente centralizzato e ad un tempo aperto alle esigenze delle province, nella quale trovano il loro significato e la loro giustificazione i molteplici aspetti della personalità e dell’azione del grande imperatore. Così nella lunga serie di notizie, curiosità, particolari di vario genere che arricchiscono la vita di Marco Aurelio difficilmente il lettore potrà trovare un quadro organico e storicamente motivato delle importanti campagne militari condotte da questo valoroso principe e ancor meno, al di là della scrupolosa citazione dei suoi maestri e dei suoi studi, nonché degli aneddoti sul suo amore per la saggezza e la virtù, una soddisfacente caratterizzazione della sua personalità di filosofo inserita nella cultura del tempo, quale componente rilevante della sua figura e della sua opera di sovrano. Né leggendo la biografia di Caracalla, tutta volta a presentarci l’immagine di un principe maniaco ed irresponsabile, potremmo in alcun modo farci un’idea della grande importanza che il suo regno ebbe a rivestire nella storia dell’impero: l’autore, ad esempio, non manca di informarci scrupolosamente sui provvedimenti presi da questo sovrano nei confronti di coloro che fossero stati sorpresi a orinare accanto alle sue statue o a sfilarne le corone19, ma neppure un cenno egli ritiene di fare sulla promulgazione della famosa Constitutio Antoniniana, l’editto – di fondamentale rilevanza politica – che estendeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero, concludendo il processo, ormai da tempo in atto, di ampliamento in senso sempre più «universale» delle basi ormai inadeguate del vecchio Stato italico. Osservazioni e riserve di questo genere potrebbero farsi, anche se a diverso titolo e con varie accentuazioni, a proposito di tutte le biografie della raccolta. Se dunque appare evidente che manca ai nostri Scriptores la capacità critica di analizzare su di un piano propriamente «storico» il senso e la portata

reale dell’azione dei singoli imperatori, e di mettere adeguatamente a fuoco il rapporto con l’ambiente, l’epoca, le situazioni che l’hanno condizionata e determinata, si nota invece costantemente viva in essi un’attenzione tutta particolare verso la sfera «privata» della vita del principe: il biografo indulge volentieri a riportare episodi anche futili e insignificanti, aneddoti privi di fondamento o di dubbio gusto, voci tendenziose e infamanti, soprattutto laddove, per il loro carattere particolarmente curioso e piccante, apparissero in grado di solleticare e soddisfare i gusti pseudo-eruditi e pettegoli del suo pubblico: di lettori, cioè, divenuti ormai più appassionati alla conoscenza di questo tipo di notizie dall’apparenza inedita e riservata o dal tono ghiottamente scandalistico, che non ad una riflessione ponderata e fruttuosa sulla storia passata e sui suoi protagonisti20. Questo prevalere dell’interesse per la vita privata degli imperatori era pur esso un’indubbia eredità di Svetonio, ma la degenerazione di esso in senso frivolo e scandalistico è tutta addebitabile ai nostri autori; essi, del resto, scrivono in un secolo e per un pubblico diversi da quelli del modello, in un mondo che vive un processo sempre più inarrestabile di decadenza e di dissoluzione dei valori della tradizione e, parallelamente, vede crearsi una frattura sempre più netta fra popolo e sovrano: viene meno l’ideale dell’optimus princeps e l’imperatore cessa di essere visto come il rappresentante di un’autorità suprema e sovrapersonale per apparire alla semplice stregua di un dominus, un padrone cui bisogna per forza di cose sottostare, ma che si sente estraneo ai propri interessi e alla propria vita, e del quale può risultare semmai stimolante scandagliare senza ritegni le debolezze, le manie, i vizi, i risvolti umani meno nobili e «regali». In questo senso la Historia Augusta può rappresentare una delle più significative espressioni della storiografia che riflette la crisi e la decadenza dell’impero. Se la tendenza in questione è facilmente riscontrabile ovunque nel corso dell’opera, è peraltro indubbio che le vite di certi imperatori potevano più facilmente e ampiamente offrire lo spunto a pretese indagini e approfondimenti nel senso suindicato; così le biografie di principi come Vero, Commodo, Elagabalo, la cui condotta morale era passata alla storia per aspetti poco edificanti, costituiscono l’occasione per narrazioni diffuse e particolareggiate – non importa quanto storicamente fondate – dei loro vizi e delle loro aberrazioni, che fanno da evidente e voluto contraltare alle virtù eccezionali di un Marco Aurelio (rispettivamente fratello e padre dei primi due) e di un Alessandro Severo (successore del terzo e vero prototipo

dell’imperatore «santo»). I temi si ripetono, anche se con dettagli e sviluppi diversi. Vero, partito per la Siria, adulteriis et iuventutis amoribus infamatus est e, al suo ritorno, istituisce popinam domi, facendosi servire da omni genere turpium personarum (Ver. 4, 4-5); vaga di notte per tabernas ac lupanaria (4, 6), organizza a Palazzo gladiatorum… pugnas quale spettacolo durante la cena (4, 9), allestisce conviti straordinariamente dispendiosi (5, 1-5). Commodo, dal canto suo, è sin dalla fanciullezza turpis, improbus, crudelis, libidinosus (Comm. 1, 7), né gli manca l’infamia inruentium in se iuvenum (5, 11); senza badare a pudore o a spese, installa in permanenza popinas et ganeas in Palatinis aedibus (2, 7); riempie la reggia di concubinae e exoleti (5, 4), gozzoviglia fino a giorno fatto e appena tornata la sera è nuovamente pronto a volitare per tabernas ad lupanaria (3, 7); combatte in contese gladiatorie domestiche con i suoi camerieri (5, 5); i suoi pranzi sono pieni di stranezze e aberrazioni (11, 1-3). Con Elagabalo, infine, tutti i vizi sono elevati all’ennesima potenza: la sua vita è un campionario di ogni più sfrenata forma di dissolutezza, dissipazione, oscenità, presentate con una dovizia di particolari e di esemplificazioni che non trova riscontro in tutta l’opera. Questo principe, per cuncta cava corporis libidinem recipiens (Heliog. 5, 2), è insaziabile nella ricerca di tutte le possibili depravazioni sessuali – di cui il biografo indulge spesso a descriverci, anche minuziosamente, i particolari –, essendosi riempito il Palazzo degli individui più «dotati» per tali scopi reperibili in tutta Roma (cfr. 6, 4; 6, 7; 9, 3; 12, 2 ecc.); nello spazio di un sol giorno è capace di passare da tutte le meretrici della città per donare loro, sotto mentite spoglie, una somma di denaro, soggiungendo: «nemo sciat, Antoninus haec donat» (32, 9); si fa allestire spesso, quale spettacolo nel corso del pranzo, combattimenti di gladiatori (25, 7); quanto a luxuria, afferma di voler imitare gente come Apicio, Nerone, Otone e Vitellio (18, 4), e in effetti i suoi conviti sono un concentrato di lusso sfrenato, ricercatezze e stravaganze d’ogni genere (19 segg.); gli scherzi di dubbio gusto costituiscono alcune delle sue «prodezze» più significative, che il biografo non perde occasione per riferirci, aggiungendo un tocco di humour al quadro oscuro della sua vita dissipata: così vediamo Elagabalo far rovesciare i divani «mobili» dei convitati, ricoprendo i malcapitati di una montagna di violae et flores (21, 5), o ancora farli sedere su cuscini sgonfiabili che, complici appositi schiavetti a ciò

delegati, si afflosciavano tutto d’un tratto (25, 2-3), o addirittura far apparire all’improvviso durante il pranzo leones et leopardos addomesticati (21, 1), con tremendi spaventi per gli ignari commensali; non mancano neppure trovate ingegnosamente maliziose, come quella di far rinchiudere per tutta la notte gli amici in camere da letto in cui i disgraziati si ritrovavano accanto, anziché le donne pulcherrimae da lui promesse, delle non proprio affascinanti Aethiopes aniculae (32, 5).21 Come si vede da questi pur limitatissimi accenni – ché molti altri esempi, come il lettore stesso avrà modo di constatare da sé, possono trarsi un po’ da tutte le vite – siamo ben al di là di quanto obiettivamente richiesto dal carattere di rappresentazione dei mores proprio, in generale, di tutta la biografia antica, come pure del comprensibile e, in certa misura, condividibile proposito di documentare gli aspetti più infami e turpi della tirannide, o comunque di riportare le figure degli imperatori entro i limiti dei comuni mortali (intento che è riscontrabile già nel modello svetoniano e appare del resto caratteristico della biografìa imperiale in genere): nella Historia Augusta è sempre e su tutto prevalente il gusto per il pettegolezzo, il particolare curioso, l’aneddoto piccante, ricercati con compiacimento solo in se stessi e quale mezzo per catturare l’attenzione dei lettori22. Non si deve peraltro credere che i nostri Scriptores rinuncino a rivendicare per il loro racconto il fondamento di un’informazione storica seria e autentica: è infatti un’altra caratteristica tipica di queste biografie la tendenza ad inserire nel corso della narrazione discorsi riportati in forma diretta, lettere, atti ufficiali, proclami, verbali di adunanze, tutta una serie, insomma, di pretesi «documenti» che dovrebbero offrire al lettore la garanzia di una scrupolosa consultazione di archivi pubblici e privati, testimonianze dirette e via dicendo. Anche per questo aspetto è possibile trovare riscontro nella biografia svetoniana, ricca pur essa di «documenti» di vario tipo citati in più occasioni a sostegno di determinate notizie e affermazioni; ma mentre nel caso del modello esiste la garanzia rappresentata dalle importanti cariche23 rivestite da Svetonio alla corte di Traiano e Adriano, che gli avevano fatto godere per lungo tempo di libero accesso agli archivi imperiali con l’opportunità, quindi, di attingere effettivamente a materiale di prima mano e a una documentazione che poteva davvero vantare tutti i crismi dell’ufficialità e dell’autenticità, non altrettanta fiducia appaiono meritare questi autori assai meno scrupolosi, che sicuramente non avevano la stessa possibilità di ricognizione diretta, e che per

di più accrescono a dismisura, rispetto all’esempio del modello, il numero di tali inserzioni (alla fine saranno circa 150)24. In effetti questi pretesi documenti, come la critica moderna ha ampiamente appurato, risultano generalmente privi di qualsiasi fondamento storico, pieni come sono di incongruenze, contraddizioni, errori di fatto, spesso anche assai evidenti, senza contare che in numerosi casi mostrano caratteristiche di lingua e stile in comune con il dettato stesso delle biografie, confermandosi così anche sotto questo aspetto qualche cosa di più simile a invenzioni – a volte anche pacchiane – della fantasia degli autori, che non a copie fedeli di atti e resoconti ufficiali. Non è certo, del resto, casuale il fatto che essi si trovino distribuiti, come avremo ancora occasione di notare, tanto più abbondantemente nelle biografìe che presentano il minor grado di attendibilità storica, quelle in cui l’autore, proprio per ovviare alla scarsa disponibilità di materiale autentico, era portato a rimpolpare la narrazione inventando di sana pianta notizie false e, appunto, fantomatici «documenti». Spesso, a conferma di notizie anche secondarie inerenti a un determinato personaggio, o semplicemente per illustrare aspetti del suo carattere, vengono «riportate» pretese copie di lettere che lo riguardano, la lettura delle quali risulta talora particolarmente tediosa anche per i numerosi dettagli di corrispondenza spicciola tramandati nella «citazione». La breve vita di Avidio Cassio, ad esempio, ne contiene ben sette, mentre quella di Claudio dedica quattro capitoli consecutivi (14-17) alla registrazione di varie epistulae contenenti giudizi di altri imperatori su questo principe. Notevole è anche l’indulgere dei biografi sui resoconti delle sedute senatorie in occasione dell’elezione degli imperatori, con i discorsi ufficiali, le repliche, le lunghe stereotipate acclamazioni: nel caso di Alessandro Severo, ad esempio, la cosa si prolunga per sei capitoli consecutivi (Al. Sev. 6-11); in quello di Tacito, dove alla cerimonia nella Curia si susseguono quelle dinanzi al popolo e all’esercito, il «verbale» della proclamazione occupa quasi un terzo dell’intera biografia (Tac. 3-8). Il tutto naturalmente non senza un senso di pesantezza e noia per il lettore moderno, che sa per giunta di trovarsi quasi sempre di fronte a più o meno scoperte falsificazioni (genuino è generalmente riconosciuto solo il senatoconsulto che segue la morte di Commodo, riportato alla fine della sua biografia). Per concludere su questo aspetto, non potremo fare a meno di sottolineare la gravità che riveste, dal punto di vista storico, questa mancanza di serietà e

rigore documentario da parte degli Scriptores: se infatti una tale attitudine appare relativamente scusabile nel caso dei discorsi, il cui carattere in qualche misura fittizio poteva considerarsi una specie di convenzione comunemente accettata nell’ambito della letteratura storiografica, essa non può essere in alcun modo giustificata quando abbiamo a che fare con lettere, senatoconsulti, acclamazioni, atti pubblici e simili, tutto quel materiale, insomma, riportato in forma di citazione diretta con le apparenze dell’ufficialità e l’esplicita pretesa di figurare come autentico. Da quanto sinora osservato appare chiaro che l’intento, espressamente dichiarato dagli Scriptores historiae Augustae, di uniformarsi alla maniera di Svetonio, si realizza, di fatto più per aspetti esteriori e formali che per lo spirito che informa la ricerca storiografica determinandone la serietà e il reale valore; da questo punto di vista occorre, come abbiamo visto, sottolineare l’aspetto di degenerazione ed esasperazione che assumono nell’opera certe tendenze pur già presenti nella biografia svetoniana, e chiamare in causa l’influsso di altri autori: in tal senso non si può ignorare il ruolo senza dubbio rilevante che dovette rivestire un altro biografo imperiale, Mario Massimo, quale modello – certamente in misura maggiore che Svetonio – per l’inserimento di «documenti» di ogni tipo e per l’interesse sproporzionato nei riguardi degli aspetti privati e personali della vita dei principi. Questo personaggio, da identificare con ogni probabilità con l’omonimo console che rivestì la carica per la seconda volta nel 223 d. C., sembra aver composto sotto Alessandro Severo una raccolta di vite a continuazione di quella di Svetonio, comprendente quelle di Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Commodo, Pertinace, Didio Giuliano, Settimio Severo, Caracalla, Macrino ed Elagabalo25; il suo nome è ricordato da Ammiano Marcellino (XXVIII, 4, 14: un passo che avremo occasione di riportare più avanti), in uno scolio a Giovenale e nella stessa Historia Augusta, dove egli viene citato una trentina di volte come fonte per lettere, discorsi, acclamazioni, nonché per aneddoti, dicerie scandalose, particolari piccanti. Quale pezza d’appoggio per quest’ultimo tipo di informazione minuta vengono inoltre citati nel corso delle vite anche altri autori che però, a differenza di Massimo, non risultano altrimenti noti: tra essi un posto di rilievo pare assumere Giunio Cordo, scrittore che più d’ogni altro avrebbe amato indulgere a registrare anche i dettagli più volgari e insignificanti, e al quale viene perciò rimandato più d’una volta – con un tono fra ironico e sprezzante che lascia sconcertati considerando da che pulpito vengono tali censure – il lettore curioso di simili

futili frivolezze26. È lecito a questo punto chiedersi se, al di là dell’adesione a una particolare tradizione letteraria rappresentata dal genere biografico svetoniano, con gli aspetti strutturali e formali ad essa collegati, e dell’inserimento nel filone scandalistico – particolarmente congeniale alla mentalità e alle attitudini narrative degli Scriptores – che aveva trovato espressione cospicua nell’opera di Mario Massimo, non esista un elemento di più profonda unità che caratterizzi l’intero corpus e ci permetta di individuare un sottofondo ambientale, culturale, ideologico che possa costituire – indipendentemente dalle questioni inerenti all’identità dei presunti autori – la matrice comune di una raccolta di queste proporzioni. La risposta, come vedremo subito, è senz’altro affermativa, e configura anzi uno dei pochi punti fermi che ci sia concesso stabilire in riferimento a quest’opera così problematica. L’unico dato veramente costante e caratterizzante, che si ritrova con varie accentuazioni nel corso dell’intera raccolta, è il deciso atteggiamento tradizionalista e filosenatorio, contrario all’ascesa politica dei novi homines – in particolare dei cavalieri – e al sempre più invadente potere dell’esercito. Questa tendenza appare informare in maniera univoca la presentazione di tutti i principi, e costituisce anzi il fondamentale criterio distintivo che determina la simpatia o la più o meno aperta avversione dei nostri autori nei confronti del personaggio in questione, portando spesso di conseguenza – come è facilmente comprensibile – a presentazioni distorte e tendenziose27. Gli imperatori migliori sono quelli provenienti dall’ordine senatorio, o comunque quelli che nella loro azione di governo avevano manifestato reale deferenza nei confronti dell’illustre consesso, tenendone nel dovuto conto le prerogative, l’autorità morale e politica, gli interessi economici. Ottimo fra gli ottimi è Probo, proclamato addirittura superiore a principi di gran fama quali Traiano, Adriano, Antonino Pio, Alessandro Severo, Aureliano e Claudio il Gotico in quanto riuniva in se stesso tutte le loro migliori qualità: quia in illis varia, in hoc omnia praecipua iuncta fuere (Tac. 16, 6; cfr. Prob. 12, 2); un simile enfatico e quasi iperbolico pronunciamento non farà meraviglia a chi rifletta che mai il senato romano aveva goduto di tanto potere e influenza come sotto il suo regno: all’imperatore più filosenatorio spetta di diritto l’elogio più alto e incondizionato. Caso-limite nel senso opposto si configura invece sotto ogni aspetto Gallieno: forse di nessun altro imperatore nel corso di tutta l’opera sono stati a tal punto alterati e grossolanamente distorti i

lineamenti storici come quelli di questo personaggio reo, agli occhi della tradizione filosenatoria, di aver colpito gravemente gli interessi dell’ordine escludendo i senatori da tutte le più alte cariche militari, per affidarle a uomini scelti fra i cavalieri. Il biografo, trascurando volutamente i molti aspetti positivi del suo regno – che hanno portato la storiografia moderna a riconoscere in lui una grande figura di sovrano, che con il suo spirito culturalmente aperto, la sua valentia militare, le sue riforme ebbe a rivestire un ruolo di primaria importanza nell’evoluzione dell’impero romano28 – non esita a ricoprirlo delle accuse più calunniose e infamanti, rimproverandogli ripetutamente e con i toni più sprezzanti dissipatezza e turpitudini nella vita privata e conseguente inettitudine nel governo dello Stato, e giungendo a rinfacciargli persino di aver lasciato colpevolmente morire nelle mani dei Persiani il padre Valeriano. Sorte non molto migliore tocca a Macrino, l’homo novus giunto al potere dopo una carriera burocratica di funzionario equestre e autore di una politica di risanamento morale ed economico dello Stato, che viene da «Giulio Capitolino» coperto di ogni infamia e presentato come un individuo squallido e spregevole: dal seno dei ceti inferiori non è ammissibile che possano in alcun modo venire dei buoni imperatori. Invece la politica filosenatoria svolta da Alessandro Severo – anche se in gran parte sotto l’influenza determinante della potente madre Mamea – nel corso di tutto il suo impero vale a questo principe una lunghissima biografia-panegirico, che fa di lui un personaggio idealizzato, poco meno che un «santo», significativamente contrapposto al «mostro» Elagabalo, suo predecessore, abituato per contro a contemnere i senatori al punto da chiamarli sprezzantemente mancipia togata (Heliog. 20, 1). Anche figure del tutto secondarie quali Pescennio Nigro o i Gordiani ricevono, in grazia della loro fedeltà al senato, un rilievo del tutto sproporzionato – quando non una vera e propria esaltazione alla stregua di «eroi» – contrapposte rispettivamente a Settimio Severo e Massimino il Trace, personaggi ben più importanti e determinanti nelle vicende dell’impero ma presentati in una luce assai meno positiva o addirittura, nel caso di Massimino, pessima, in quanto entrambi rei, pur nelle diversità del loro carattere e della loro azione politica, di aver perseguitato crudelmente i membri del sacro ordine. Significativo è pure quanto avviene in alcune biografìe di imperatori incontestabilmente «grandi», trattando dei quali non era ovviamente possibile sottrarsi a una presentazione fondamentalmente positiva, ma nei cui confronti

è facile cogliere talora l’espressione di un malcelato senso di ostilità, conseguente a certe loro prese di posizione e direttive politiche sfavorevoli all’ordine senatorio. Così, nel caso di Adriano, colpevole di atteggiamenti troppo personalistici e dell’uccisione di quattro senatori, il biografo indulge senza ritegno – e forse con un certo compiacimento – a riportare tutte le voci meno lusinghiere riguardanti le modalità della sua ascesa al trono, come in particolare quella secondo cui la sua adozione da parte di Traiano non sarebbe stata che una messa in scena operata quando l’imperatore era ormai già morto, con l’ausilio di un uomo sostituito al principe, che pro Traiano fessa voce loquebatur (Hadr. 4, 10); né si astiene dal riferire le dicerie più infamanti circa i rapporti osceni che il giovane avrebbe avuto con i favoriti dello stesso Traiano (4, 5), così come non manca di sottolineare, ogniqualvolta se ne offra l’occasione, le intemperanze sessuali che gli venivano attribuite (11, 7; 14, 6; 23, 10). Anche l’autore della vita di Aureliano deve riconoscere gli indiscutibili meriti di questo imperatore, che arrivò a pacificare «l’Oriente, le Gallie e il mondo intero» (Aurel. 32, 4), ma non può certo scordare quanto la sua tendenza ad un rigido centralismo e ad una monopolizzazione del potere nelle sue mani avesse colpito gli interessi della classe senatoria e aristocratica, e quanto egli fosse stato spietato nella dura repressione contro gli oppositori, repressione nella quale ebbero ad incorrere anche nobiles senatores (21, 5): di qui i giudizi poco lusinghieri sul personaggio, volti a mettere in rilievo il suo carattere crudele e sanguinario (36, 2 severus, truculentus, sanguinarius fuit princeps), o volutamente ambigui (37, 1 hic finis Aureliano fuit, principi necessario magis quam bono; 44, 1 et Aurelianum quidem multi neque inter bonos neque inter malos principes ponunt), da cui trapela comunque in modo abbastanza scoperto la reale antipatia di fondo dell’autore nei suoi confronti. La Historia Augusta, dunque, dà voce allo stato d’animo insoddisfatto e risentito e alla mentalità tradizionalista e conservatrice di un’aristocrazia senatoria tenacemente gelosa di un potere che le va inesorabilmente sfuggendo di mano, sotto l’incalzare di nuove forze che si affacciano prepotentemente sulla scena politica dell’impero: un’élite ormai chiusa in se stessa, non ancora rassegnata ad accettare l’inevitabile scadimento del proprio ruolo, che si aggrappa con tutte le residue forze alla sterile difesa del suo prestigio e della passata grandezza. Non meraviglia che agli occhi del biografo della Vita Taciti assuma contorni ideali un momento come quello rappresentato dall’interregno succeduto alla morte di Aureliano29, che vide

l’esercito, qui creare imperatorem raptim solebat, dimettere una volta tanto il suo atteggiamento prevaricatore e prepotente e rimettere la scelta del nuovo principe direttamente al senato; questo a sua volta dapprima restituì all’esercito stesso la «cortesia», demandando ad esso la decisione, ma alla fine, dopo sei mesi trascorsi in un idillico scambio di atti di ossequio e attestazioni di stima reciproche, fu il sanctus ordo ad eleggere dal proprio seno l’anziano ma saggio Tacito. Tale fu la gioia e l’entusiasmo dei senatori in questa occasione, da spingerli ad inviare lettere ai loro parenti e in tutte le province: «tutti gli alleati e tutti i popoli dovevano sapere che lo Stato era tornato alla sua antica costituzione, e che ora era il senato ad eleggere gli imperatori, anzi il senato stesso era diventato il vero sovrano, e ad esso bisognava rivolgersi per avere nuove leggi, ad esso avrebbero indirizzato le loro suppliche i re barbari, e pace e guerra sarebbero dipese dalla sua iniziativa» (Tac. 12, 1). E di queste epistulae, tutte incentrate sull’entusiastica fiducia in una restaurazione della res publica in antiquum statum, «Vopisco» si compiace di riportarne, alla fine della stessa vita, ben quattro: ché – egli ne è certo – il suo pubblico le leggerà cum cupiditate et sine fastidio (12, 2). Accanto a queste forme, quasi ingenue e patetiche, di aspirazione a impossibili riviviscenze di un mondo ormai per sempre tramontato, il conservatorismo di questa cerchia tradizionalista assume talora ulteriori coloriture in senso nazionalistico e antibarbarico, nonché, sul piano religioso, filopagano; si pensi, da una parte, all’orgogliosa affermazione di fede nella forza vittoriosa e conquistatrice di Roma contro ogni nemico e contro qualsiasi presunto limite «fatale» alla sua espansione che troviamo nella vita di Carino (9, 3): «È del tutto lecito, e sempre lo sarà (è stato dimostrato dall’esempio del venerabile Cesare Massimiano), vincere i Persiani e spingersi anche oltre le loro terre, e ritengo che così sarà in futuro, a meno che i nostri non operino in modo da perdere il promesso favore degli dèi»; dall’altra, all’accettazione delle manifestazioni soprannaturali – soprattutto sotto forma di fatti prodigiosi che assumono valore di presagio di avvenimenti futuri (omina) –, al gusto per le profezie e gli oracoli, riportati più volte «testualmente» con la citazione dei versi, e a una certa avversione per i culti non tradizionali e genuinamente romani, compresi quello giudeo e cristiano. Gli elementi esaminati configurano, nel complesso, un ambiente politicosociale e culturale proprio di un’età di crisi e di travaglio profondi, e un prodotto letterario che, mentre risulta espressione emblematica di esso, si

inquadra significativamente, al di là del problema di una determinazione più specifica del periodo in cui vide la luce, nel generale processo di dissoluzione della storiografia pagana nel corso del IV sec. d. C. Un problema molto importante – per qualsiasi opera storica, ma per la Historia Augusta in modo particolare – risulta quello delle fonti impiegate dagli autori, anche in relazione alle questioni inerenti alla validità del materiale offerto dalle biografìe. Esso ci conduce ad operare distinzioni all’interno del corpus delle vite, isolando gruppi di esse che presentano caratteristiche ben precise e significative anche per la loro composizione e struttura. Prendiamo innanzitutto in esame – secondo un criterio diffuso – la sezione dell’opera comprendente le vite da Adriano a Geta, nell’ambito della quale si alternano biografie raggruppabili in due serie fondamentali. La più importante è quella delle cosiddette «vite principali», quali tradizionalmente vengono definite le biografie di Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Commodo, Pertinace, Didio Giuliano, Severo, Caracalla, alle quali è da aggiungere – come è stato dimostrato in tempi recenti30 – quella di Lucio Vero. Esse si staccano notevolmente, quanto ad intrinseco valore storico, dal resto della raccolta, in quanto, pur non mancando di elementi spurii o inattendibili – presenti comunque in misura relativamente limitata31 –, offrono senza alcun dubbio anche un abbondante numero di notizie e dati storicamente sicuri e di dettagli autentici, quali non sono assolutamente riscontrabili in tutte le altre vite: ciò che ha fatto giustamente ritenere che alla base di questa serie debba necessariamente esservi una fonte di buona lega. Sull’identificazione di essa molto si è discusso, e la questione è ancora controversa. Nei primi decenni del secolo ebbe notevole fortuna l’idea che si trattasse di uno storico autore di un’opera di tipo annalistico, continuatore di Tacito (la sua storia sarebbe giunta sino all’età dei Severi, terminando, al più tardi, nel 223 d. C.) e paragonabile, quanto al valore, sia a quest’ultimo che al greco Cassio Dione: si amava definirlo come l’«ultimo grande storico di Roma». Tenendo per base questa teoria, si riteneva addirittura di poter scernere, entro le vite in questione, una parte «annalistica» da quella biografica vera e propria, tentando anche di ricostruire le caratteristiche dell’anonima fonte, secondo criteri evidentemente soggettivi e arbitrari. Fu G. Barbieri, nel 193432, a demolire, attraverso una critica sistematica, questa posizione che in effetti, successivamente, non ha più trovato nuovi adepti e risulta ai nostri giorni del tutto abbandonata. È infatti ormai generalmente

riconosciuto dagli studiosi che la «buona fonte» alla base delle «vite principali» è in ogni caso una fonte biografica: ciò su cui permane disaccordo è se questo biografo debba identificarsi con Mario Massimo33, seguendo l’indicazione della stessa Historia Augusta che, come già detto, lo cita più volte, oppure se si tratti di un altro autore a noi sconosciuto (R. Syme, il più tenace sostenitore di questa tesi, gli ha dato il nome di «Ignotus»), utilizzato dagli Scriptores quale fonte principale, integrata da Mario Massimo solo per l’aggiunta di particolari secondari e curiosi, spesso di natura scandalosa34. Una questione scottante è collegata alla Vita Veri: da una parte si argomenta che, non avendo Mario Massimo scritto una biografia separata di questo personaggio (che gli avrebbe fatto superare il numero «svetoniano» di dodici), egli non potrebbe costituire la fonte della Historia Augusta per questa e, di conseguenza, per le altre vite del gruppo; dal lato opposto si è propensi a credere che la Historia Augusta abbia tratto la maggior parte del materiale per la vita in questione dalla biografìa dedicata dallo stesso Massimo a Marco Aurelio, la quale, presumibilmente ampia35, doveva con ogni probabilità contenere anche numerose notizie relative al fratello. Nel complesso la discussione, che verte pure su numerosi altri punti, può ritenersi sostanzialmente aperta, anche se, per il peso determinante che la valutazione soggettiva viene a rivestire in essa, appare diffìcile raggiungere una conclusione sicura in un senso o nell’altro. Intercalate nella serie delle vite principali troviamo altre biografìe più brevi dedicate a personaggi di secondo piano, quali eredi designati morti prima di giungere al trono (Elio), giovani imperatori che hanno regnato per breve tempo in sottordine a un parente (Geta)36, usurpatori (Avidio Cassio, Pescennio Nigro, Clodio Albino): sono le cosiddette «vite minori» o «secondarie» o «sussidiarie». Scarsa è l’attendibilità storica di queste composizioni, e il poco materiale valido in esse contenuto appare per lo più37 come rielaborazione – non senza peraltro ripetizioni e coincidenze a volte letterali – di nuclei di notizie già presentate nel corso delle vite principali. A differenza di queste ultime, che si configurano per lo più strutturate attraverso il semplice accostamento di brevi narrazioni e periodi, le biografie di questo secondo gruppo sono in genere caratterizzate da una coloritura retorica (che si avverte soprattutto in coincidenza dei numerosi proemi ed epiloghi, quasi38 del tutto assenti nella serie precedente), e contengono in percentuale notevole citazioni di versi, aneddoti curiosi, nomi e genealogie nonché documenti

inventati, lunghe ed elaborate descrizioni dell’aspetto fisico, del carattere e dei costumi del protagonista, tutti espedienti attraverso i quali l’autore cerca evidentemente di sopperire alla mancanza di effettiva informazione a proposito di personaggi piuttosto oscuri, dei quali ben poco doveva essere stato tramandato. Più complessa la situazione per quanto riguarda le biografie immediatamente successive a quella di Geta. La vita di Macrino, che dovrebbe teoricamente rientrare nel gruppo delle vite principali, presenta un indubbio mutamento nella struttura e nel metodo compositivo. Accanto a una certa base di materiale storicamente valido, essa contiene alcuni degli espedienti letterari tipici delle vite secondarie, come inserzione di discorsi e lettere, citazioni di versi, personaggi inventati, nonché una specie di prologo iniziale. L’autore non pare aver potuto qui usufruire di una valida fonte di base, fosse questa il presunto Ignotus o lo stesso Mario Massimo (il cui impiego può solo essere presupposto, in minima misura); si direbbe anzi che egli non si sia servito sistematicamente di alcuna fonte regolare, se pure coincidenze occasionali siano riscontrabili con altri storici greci e latini. Più semplice appare il caso della contigua biografìa del figlio Diadumeno, che non offre, dal punto di vista storico, elementi nuovi rispetto a quella del padre, e contiene versi, lettere, digressioni retoricamente intonate: essa può essere appropriatamente accostata al gruppo delle precedenti vite secondarie. Seguono le biografie di Elagabalo e Alessandro Severo: tradizionalmente collegate fra di loro e considerate spesso come costituenti una specie di corpo unico, esse devono in realtà essere esaminate separatamente, diverso risultando il loro grado di validità storica anche se, complessivamente, in entrambe inferiore a quello delle vite principali. La prima, prescindendo dalla lunga dedica finale a Costantino, è da suddividere in due parti ben distinte: se infatti una lunga sezione (18, 4-33, 6) è interamente occupata dal racconto delle stravaganze e degli eccessi viziosi del corrotto imperatore, risultando piena di falsificazioni e particolari inventati, i capitoli precedenti, dedicati alla narrazione del suo regno, sono di tutt’altra qualità, e contengono – pur tra elementi chiaramente spurii – nomi genuini, particolari autentici, notizie preziose sulla politica religiosa di Elagabalo. D’altro canto sono assenti nella vita pretesi documenti ufficiali, lettere, discorsi, citazioni di versi, personaggi inventati ecc., cioè alcuni degli elementi più caratteristici delle vite secondarie. La fonte principale è concordemente riconosciuta in Mario Massimo, espressamente citato quale autore di una biografia di questo imperatore (11,

6). Quanto alla vita di Alessandro Severo che, più che quello di una biografia vera e propria, ha l’aspetto di un lungo panegirico (68 capp.), volto a rappresentare l’ideale del perfetto principe in evidente contrapposizione con la figura del «mostro» Elagabalo, essa contiene una percentuale relativamente scarsa di materiale storico autentico. L’autore cita espressamente, quali fonti per alcune singole notizie, i greci Dexippo ed Erodiano; ma è possibile che vi sia stato anche un impiego saltuario della cosiddetta «EnmannKaisergeschichte» (EKG), una perduta storia imperiale in latino (che ha preso il nome dello studioso che l’ha ipotizzata per primo) di cui parleremo fra poco quale presunta fonte per la Historia Augusta, Aurelio Vittore ed Eutropio. Un gruppo a sé costituiscono le tre successive vite dei Maximini duo, dei Gordiani tres e di Maximus et Balbinus, oggetto di particolare interesse per la ricostruzione della complessa cronologia degli eventi susseguitisi nell’anno 238 d. C.: tale gruppo è caratterizzato principalmente dall’ampio uso di Erodiano (che, più volte espressamente citato, è la fonte per larga parte del materiale qui contenuto) e, in misura minore, di Dexippo (soprattutto nella biografia dei Gordiani). L’ultima parte della raccolta comprende le due serie successive di biografie attribuite rispettivamente a Trebellio Pollione (Valeriani duo, Gallieni duo, Tyranni triginta, Claudius) e a Flavio Vopisco (Aurelianus, Tacitus, Probus, Quadrigae tyrannorum, Carus et Carinus et Numerianus). Caratteristica comune ad entrambe è l’accentuarsi dell’intonazione «retorica» e il numero sempre maggiore di errori e falsificazioni, proporzionale alla diminuzione del materiale storico autentico e valido di cui l’autore poteva di fatto disporre. In linea generale la Historia Augusta sembra avere qui usufruito di fonti greche per noi perdute (lo stesso Dexippo è citato ancora nella biografia dei Trenta Tiranni e di Claudio il Gotico), ma numerosi sono pure i passaggi che mostrano stretta affinità con il Liber de Caesaribus di Aurelio Vittore e il Breviarium ab urbe condita di Eutropio (due compendi risalenti entrambi alla seconda metà del IV sec. d. C.): a questo proposito vari studiosi presuppongono l’impiego comune, da parte delle tre opere, di una fonte latina perduta, e già dal 1884 venne ipotizzata da A. Enmann l’esistenza di una storia imperiale (Kaisergeschichte) che doveva giungere al periodo dioclezianeo, in relazione alla quale si potrebbero spiegare tutte le coincidenze che si riscontrano fra la Historia Augusta e i due epitomatori; non mancano peraltro studiosi scettici su questo punto, e propensi piuttosto a ravvisare spesso una dipendenza

diretta della prima dagli altri due, particolarmente da Vittore: questa posizione si ricollega al problema di una post-datazione della Historia Augusta (di cui avremo modo di parlare ampiamente in seguito), ma va detto che il postulato di questa perduta «storia imperiale» (che la tesi oggi più seguita vorrebbe giunta sino alla morte di Costantino) rappresenta una questione tuttora aperta anche fra i sostenitori della composizione tarda della raccolta39. Come appare da questo – seppur rapido – esame, lo studio delle fonti della Historia Augusta risulta alquanto complesso e propone questioni tutt’altro che chiuse, come quella riguardante l’autore che è alla base delle vite principali, e quella connessa al postulato di una perduta Kaisergeschichte40. Né privo di interesse appare il problema dei numerosi nomi di autori non altrimenti conosciuti citati nel corso delle vite e considerati generalmente come invenzioni dei biografi; la maggior parte di essi (così, ad esempio, Asclepiodoto, Giulio Eteriano, Dagellio Fusco, Turdulo Gallicano ecc.) compare nella seconda metà della raccolta, in corrispondenza con il venir meno delle fonti migliori, ma alcuni (come Emilio Parteniano, Lollio Urbico e altri) si incontrano anche nella prima parte dell’opera. Una particolare importanza sembra rivestire – come già notato – quello di Elio Giunio Cordo, l’unico ad essere citato con una certa frequenza, e sulla cui totale inautenticità può ragionevolmente sussistere qualche dubbio41. Riassumendo possiamo affermare che diverso appare il valore storico delle biografie che compongono l’opera: in particolare, un sensibile mutamento è chiaramente riconoscibile fra la prima e la seconda parte di essa. La tendenza ad inserire falsificazioni, invenzioni, pretesi «documenti», presente dapprima soprattutto – se non quasi esclusivamente – nelle vite secondarie della prima sezione della raccolta, va ampliandosi sempre più nel passaggio alle biografie successive42, anche in misura superiore a quella che potrebbe ragionevolmente giustificarsi con il progressivo venir meno delle fonti più attendibili. Parallelamente alla crescente mancanza di scrupoli da parte degli Scriptores, si osserva anche una sempre più spiccata intonazione retorica nel dettato delle vite, avvertibile particolarmente nella ricercata composizione di pretenziosi prologhi, digressioni politico-moraleggianti, esposizioni di carattere storicometodologico. Si assiste inoltre a una presentazione sempre più tendenziosa degli imperatori, volta ora a idealizzare, ora ad infamare oltre misura questo o quel personaggio43, il tutto, naturalmente, senza reale fondamento storico. C’è insomma una specie di processo involutivo che si

concretizza in un effettivo scadimento dell’attendibilità delle biografie, culminante nelle due serie continue attribuite a Pollione e Vopisco. La Historia Augusta costituisce la documentazione più ampia di cui possiamo disporre per la storia romana del II-III sec. d. C., e in certi casi rappresenta l’unica fonte cui ci è dato attingere: che la sua attendibilità risulti diseguale e, nel complesso, decisamente limitata, è indubbiamente un fatto assai grave per la ricerca storica, con cui peraltro bisogna inevitabilmente fare i conti. Occorre grande prudenza nell’accostarsi al materiale da essa offerto, tenendo presente che, accanto a notizie di buona lega, vi trovano posto una gran quantità di invenzioni, falsificazioni, errori di fatto. Senza giungere a posizioni estreme, che neghino aprioristicamente ogni opportunità di ricavare elementi validi dall’opera, sarà buona norma cercare, per ogni dato proveniente dalle biografie, tutte le possibili conferme ricavabili dalle scienze ausiliarie della storia (archeologia, epigrafia, numismatica, papirologia ecc.). Ogni notizia andrà criticamente vagliata, onde sceverare il nucleo autenticamente storico (quando esiste) da tutto quanto può costituire elemento spurio e falsificazione, ciò che richiede ovviamente uno studio sistematico, analitico di ogni vita, esaminata in tutti gli elementi che la caratterizzano in se stessa e nell’ambito più vasto della raccolta. Così, ad esempio, quando «Elio Sparziano» ci informa, nella vita di Adriano (11, 3), che Svetonio fu da questo imperatore rimosso dalla carica di magister epistularum per il fatto di essersi preso confidenze eccessive e non strettamente «protocollari» con l’imperatrice Sabina, ci offre un dato storicamente prezioso attestante la carriera equestre del personaggio – della quale abbiamo avuto di recente conferma, anche in relazione allo stesso ufficio in questione, da un’iscrizione africana –, inserito in quello che con ogni verisimiglianza non è altro che uno dei soliti pettegolezzi piccanti tanto cari ai nostri autori. Non certo più alto è da considerarsi il valore strettamente letterario dell’opera. Le vite sono composte in uno stile che potremmo definire, riprendendo una felice espressione del Momigliano44, «giornalistico» – intendendo l’aggettivo nel senso più comune e meno nobile –: esso si presenta quasi ovunque pedestre, monotono – spesso decisamente sciatto –, e in genere privo di qualsiasi coloritura artistica. Anche là dove si manifesta una certa ricerca di elevatezza, come nei proemi, nelle dediche, nelle enunciazioni di programmi e metodologie di ricerca storiografica, non mancano cadute di tono e trascuratezze linguistiche, a denotare il fondamentale impaccio espositivo dell’autore. La lingua appare del resto aperta ai fenomeni propri del

latino tardo, con ampio uso di forme e costrutti di stampo colloquiale, disseminati in tutte le parti della raccolta. Interessante risulta talora l’impiego di termini rari o caratterizzati da particolari accezioni tecniche45. Distinto da quello della validità storica di notizie e documenti contenuti nella Historia Augusta sta un problema ancora più importante e complesso, quello dell’attendibilità della presentazione che l’opera stessa dà di sé quanto alla paternità e all’epoca della propria composizione: esso costituisce una delle più spinose – ma anche più affascinanti e stimolanti – questioni che la filologia classica e la ricerca storiografica conoscano. Si tratta invero di una problematica sorta in tempi relativamente recenti: sino al penultimo decennio del secolo scorso, infatti, non sussistevano particolari discussioni intorno all’epoca e agli autori della raccolta: nessuno metteva in dubbio la datazione in età diocleziano-costantiniana, quale era chiaramente ricavabile dalle dediche e dagli indirizzi a questi imperatori, nonché l’esistenza dei sei Scriptores tradizionali; del resto, pur riconoscendo che non tutto nell’opera era assolutamente degno di fede46, non si nutrivano soverchi sospetti neppure sulla complessiva attendibilità del materiale documentario contenuto nelle vite, ed era sui dati da esse offerti che ci si basava principalmente per la ricostruzione della storia del II-III sec. d. C., cercando semmai di conformare e adattare ad essi gli elementi ricavati dalle altre fonti. A scuotere dalle fondamenta un complesso di convinzioni tanto radicate da essere ormai tramandate e accolte in maniera acritica fu nel 1889 – data che segna «ufficialmente» l’inizio della questione – un giovane studioso tedesco, H. Dessau, con la pubblicazione di un saggio47 che è stato giustamente definito «rivoluzionario»48. In esso egli, analizzando molti passi dell’opera, vi riscontrava numerosi elementi che contrasterebbero in modo evidente con la datazione che essa pretende attribuirsi: così incongruenze e contraddizioni di vario tipo, accanto a patenti anacronismi, a nomi inventati o appartenenti a famiglie in auge nella seconda metà del IV sec. d. C., a termini tecnico-amministrativi non in uso all’epoca dichiarata ma d’impiego corrente al tempo di Teodosio, a interi passaggi che sembrano tradire derivazione diretta da Aurelio Vittore e Eutropio, obbligavano – a suo parere – a ritenere che la raccolta fosse stata scritta in un tempo diverso e posteriore a quello che intenderebbe far credere; inoltre le caratteristiche comuni a tutte le biografie, sia dal punto di vista storico che linguistico e letterario, parlerebbero a favore

di un unico autore celatosi sotto i sei nomi fittizi cui la tradizione attribuisce la paternità di esse: questi, così come tutti i riferimenti ai tempi di Diocleziano e Costantino, altro non sarebbero che indizi disvianti da lui seminati nel corso dell’opera, la quale dovrebbe dunque considerarsi una falsificazione, databile, secondo lo studioso, all’epoca di Teodosio I (379-395 d. C.)49. L’articolo del Dessau ebbe – com’era ovvio attendersi – grande risonanza, scatenando immediatamente un vivacissimo dibattito, che trovò dapprima nelle prestigiose riviste filologiche tedesche il suo naturale campo di battaglia, vedendo impegnati alcuni dei maggiori studiosi di quel paese. A favore della tesi della falsificazione tarda e dell’unicità dell’autore si schierò subito O. Seeck50, che peraltro, scorgendo per parte sua in alcuni passi dell’opera velate allusioni all’imperatore Onorio, era propenso a spostare un po’ più avanti la datazione, sino ai primi anni del V sec. d. C. Ma non si fecero attendere neppure voci decisamente contrarie alle teorie di Dessau e Seeck: una posizione nettamente conservatrice fu assunta – pur con differenziazioni nei particolari – da E. Klebs, E. Wölfflin, H. Peter51, mentre una tesi che potremmo definire moderatamente conservatrice o conciliativa fu elaborata da Th. Mommsen52 il quale, pur riconoscendo la validità di alcuni degli argomenti del Dessau, ne respingeva peraltro le conclusioni, ammettendo soltanto che le biografìe, composte di fatto in origine alle date tradizionalmente assegnate a ciascuna, siano state in seguito fatte oggetto di inserzioni e ritocchi, concretatisi in due successive edizioni, la prima intorno al 330 d. C., e quella definitiva verso la fine del IV sec.: a quest’opera di revisione e rielaborazione sarebbero appunto da ascrivere gli anacronismi che si incontrano talora nel corso della raccolta; in particolare, poi, egli poneva ai seguaci del Dessau la famosa domanda cui bono?, ritenendo indispensabile che essi, per sostenere il loro assunto, dovessero indicare chiaramente la finalità che avrebbe perseguito il presunto autore di una falsificazione di quella mole, ciò che significava in pratica individuare nell’opera una tendenza manifesta e costante che potesse giustificare quella presentazione antedatata e mistificante: un problema che è rimasto sempre – come avremo espressamente modo di vedere – uno dei punti chiave della discussione. Qualche anno più tardi la disputa si allargava anche al di fuori dei confini germanici: dopo una dissertazione in senso conservatore dell’olandese H. Vermaat53, una presa di posizione particolarmente autorevole nello stesso senso veniva nel 1896 da parte dello storico italiano G. De Sanctis54, che in un

lungo articolo ribadiva con grande fermezza l’attendibilità dei dati offerti dalla tradizione. Nel corso del primo quarto del nostro secolo la discussione incentrata sulla datazione sembrò per qualche tempo placarsi, dato l’interesse sempre crescente che veniva assumendo il problema delle fonti55, ma tornò decisamente in primo piano con gli studi – pubblicati a partire dal 1911 – di E. Hohl56, che si schierava nettamente a sostegno delle tesi del Dessau, mentre faceva pure la sua comparsa, con A. Domaszewski57 e la sua scuola, una posizione estremistica che situava l’opera nella seconda metà del VI sec. d. C., la datazione più bassa che sia mai stata proposta (generalmente si accoglie oggi come sicuro terminus ante quem per la raccolta l’uso fattone nella sua Storia di Roma da Q. Aurelio Memmio Simmaco, suocero di Boezio e console nel 485 d. C., testimoniato dallo storico goto Iordanes). Anche la tendenza conservatrice continuava tuttavia a mantenersi viva, particolarmente con Ch. Lécrivain e L. Homo58. La problematica doveva trarre nuovo impulso e vigore nel 1926, grazie ad un importante studio di N. H. Baynes59 che, pur accogliendo i presupposti fondamentali della teoria del Dessau, riteneva che ci si fosse spinti troppo avanti nell’individuazione dell’epoca di composizione: a suo parere la Historia Augusta sarebbe stata scritta al tempo di Giuliano l’Apostata (361-363 d. C.), quale opera destinata al grande pubblico e avente lo scopo di esaltare la persona di questo imperatore (in particolare la vita di Alessandro Severo costituirebbe una specie di biografia idealizzata di Giuliano), nonché di propagandarne le idee politiche e religiose. Questa tesi riscosse l’adesione di numerosi studiosi – particolarmente importante fu la «conversione» ad essa di un’autorità come lo Hohl60 –, e per un certo periodo rappresentò la dottrina dominante; ma era destinata a vivere un declino altrettanto netto, finendo poi inesorabilmente per scomparire assieme agli entusiasmi – forse eccessivi e un po’ ingenui – che aveva suscitato alla sua apparizione. La posizione «teodosiana», mai del tutto tramontata, doveva riprendere nuova forza non molti anni più tardi grazie principalmente a W. Hartke, che già nel 194061 riproponeva con decisione questo tipo di soluzione, cercando di individuare con maggiore precisione il periodo e la situazione storica in cui l’unico autore avrebbe operato: in questo senso, riprendendo un suggerimento di A. Alföldi62, egli indicava quale epoca di composizione gli anni immediatamente successivi alla battaglia del Frigido (394 d. C.), che pose fine

all’usurpazione di Eugenio, segnando la definitiva vittoria di Teodosio; lo studioso giungeva persino a suggerire un nome, quello di Nicomaco Flaviano il giovane, prefetto dell’Urbe al tempo di Eugenio e ora caduto in disgrazia sotto i nuovi governanti. Le tesi di Hartke – da lui stesso approfondite in un successivo lavoro del 195163, peraltro manifestando maggiore prudenza sul problema dell’autore – offrirono nuovo impulso alla discussione, contribuendo a fissare negli anni intorno al 392-394 d. C. un terminus post quem accettato da molti studiosi; anche il presupposto collegamento dell’autore con la famiglia dei Nicomachi non mancò di suscitare consensi, ed è stato in particolare ripreso e sviluppato da E. Demougeot64. In questi ultimi decenni, se si eccettua il tentativo – rimasto peraltro isolato e senza seguito – di H. Stern65 di spostare la redazione della raccolta molto più indietro, intorno al 353 d. C. (sotto il regno di Costanzo II)66, si può dire che l’orientamento generale degli studiosi sostenitori del falso tende a delimitare il periodo di composizione della raccolta entro un lasso di tempo compreso fra il 392 e il 423 d. C., naturalmente con particolari preferenze manifestate da ciascuno nei confronti di un determinato arco di anni. Troviamo infatti chi propende per l’ultima parte del regno di Teodosio (392395 d. C.: così J. Schwartz e R. Syme)67, chi per gli inizi di quello di Onorio (394-399 d. C.: così A. Chastagnol, W. Schmid)68, chi – rifacendosi più al Seeck che al Dessau – guarda senz’altro al v secolo (come J. Straub e S. Mazzarino, orientati verso gli anni intorno al 420 d. C.)69; di recente K. P. Johne70 ha espresso favore per il periodo compreso fra il 394 e il 404 d. C. Sarebbe ovviamente troppo lungo elencare qui tutti gli studiosi che hanno toccato in qualche modo il problema: ci limiteremo a osservare che, nel complesso, sembra prevalere la tendenza a scegliere una datazione che coinvolga gli ultimi anni del IV secolo, sostanzialmente nel solco tracciato, specie nell’evoluzione ultima del suo pensiero, dal Dessau. Di quest’ultimo sono state peraltro sviluppate e ampliate le argomentazioni, mentre sono venute via via aprendosi ulteriori e interessanti prospettive di indagine, suscettibili forse di ancora nuovi e impensati sviluppi. Sull’altro versante, che chiameremo genericamente «conservatore», l’unica trattazione sistematica del problema, dopo quelle ottocentesche, è stata quella condotta da A. Momigliano in un articolo del 195471 – più volte ristampato72 – che, sia per l’autorevolezza dello studioso che per il valore scientifico intrinseco, ha avuto in questi anni molta risonanza, meritando un posto di

primo piano nella storia della questione. In esso lo studioso italiano passava in rassegna i più importanti argomenti messi in campo, a partire dal Dessau, contro la datazione tradizionale, concludendo che nessuno di essi poteva considerarsi assolutamente cogente; di conseguenza egli preferiva sospendere il proprio giudizio, almeno sino a che non fossero state portate dai fautori della falsificazione tarda reali e convincenti prove per il loro assunto. Giudicando così quello della Historia Augusta un problema ancora irrisolto, egli sollecitava gli studiosi verso una doppia possibilità: riformulare la teoria della datazione post-costantiniana in modo più persuasivo, oppure approfondire meglio le implicazioni di una datazione sotto Costantino. Ora, se gli studi nel primo senso non sono certo mancati nel corso di questi anni, apportando anche nuove e importanti argomentazioni – tanto che lo stesso Momigliano è giunto successivamente ad attenuare la propria posizione di scetticismo73 –, non si sono invece avute ulteriori e per certi aspetti auspicabili indagini complete e metodiche del problema da parte di studiosi «tradizionalisti»: cosicché in questo campo possiamo citare per lo più soltanto prese di posizione e affermazioni isolate – anche se autorevoli – generalmente non corredate dall’esame sistematico di una problematica che è venuta assumendo dimensioni e implicazioni sempre più ampie (in ordine a cui il richiamo al saggio del Momigliano – non più aggiornato dopo il 1960 – non appare più in tutto sufficiente) e da un’analisi capillare che porti a individuare e raccogliere con metodo le argomentazioni «in positivo», che parlino cioè nell’opera a favore della datazione dichiarata: un lavoro che è forse oggi essenziale ai fini di ogni tentativo fondato di difesa. Tra gli studiosi cui si possono ascrivere pronunciamenti in varia misura favorevoli al dato tradizionale, e vicini comunque alla posizione del Momigliano, citiamo qui O. Gigon, F. Dornseiff, A. H. M. Jones, St. I. Oost, S. Timpanaro74; un certo seguito riscuote ancora la teoria «conciliativa» che si rifà al Mommsen: ad essa si sono richiamati ad esempio, seppure anche con sfumature diverse e in modo più o meno marcato, A. Piganiol, E. Manni, E. M. Schtajermann, L. Pareti, E. Pasoli, V. Tandoi, E. Demougeot75 (e comunque l’idea che l’opera abbia potuto subire rielaborazioni di qualche genere è in certa misura accolta anche da studiosi dell’altro versante, come lo Schwartz e il Mazzarino)76. Dopo questo – per forza di cose – rapido e sommario cenno storico (per un’informazione più completa rimandiamo alle rassegne dedicate da vari studiosi alla storia della questione, e citate nella Nota Bibliografica), possiamo

tentare di addentrarci un po’ più direttamente nel merito della controversia. Non è questa la sede per una rassegna completa e sistematica di tutti gli aspetti e i dati di una problematica che, in sé estremamente complessa, si può considerare ancora suscettibile di approfondimento, e che in effetti si arricchisce ogni anno di nuovi e stimolanti contributi. Ci limiteremo perciò a tracciare un quadro – per forza di cose ristretto e limitato – di quelli che ci sembrano i punti cardine della questione e delle tematiche che debbono essere affrontate nella sua discussione, e a presentare alcuni degli argomenti che ci paiono più significativi e degni di considerazione in vista di un giudizio motivato – quale che abbia ad essere – su di essa. Innanzitutto gli anacronismi: un campo di indagine vario e complesso nel quale, a partire dal Dessau, hanno avuto modo di dispiegarsi l’acume e l’erudizione di molti valenti studiosi. Appare metodico, in relazione ai problemi fondamentali connessi con l’opera, distinguerne essenzialmente due tipi. Il primo è rappresentato da alcuni riferimenti che ci conducono all’epoca di Costantino in biografie che figurano scritte sotto i predecessori77: questi anacronismi non apportano evidentemente prove per una postdatazione dell’opera nel suo complesso, ma risultano bensì importanti in ordine ad un giudizio sulla Historia Augusta come «falso», indipendentemente dall’età in cui sia stata scritta, anche se non potrebbe scartarsi in assoluto l’eventualità che determinate incongruenze cronologiche fossero ascrivibili a successivi stadi di lavoro degli autori stessi o a cambiamenti e aggiunte introdotte dall’editore conclusivo del corpus78. L’altro tipo è quello costituito dagli anacronismi «postcostantiniani», quelli cioè che indurrebbero a ritenere che la Historia Augusta sia stata scritta in età successiva a quella nell’arco della quale la raccolta figura essere stata composta: si tratta evidentemente del gruppo più importante, in quanto da esso – ove si prescinda dall’ipotesi di interpolazioni e rimaneggiamenti – dipende la postdatazione dell’opera e l’ammissione che essa costituisce una falsificazione di autore tardo. Nell’ambito del secondo tipo di anacronismi molto si è indagato intorno a quelli di carattere storico-istituzionale, relativi cioè a luoghi dell’opera che tradirebbero conoscenze di fatti, di leggi e disposizioni varie in campo civile e militare, di personaggi e situazioni che riportano per lo più alla seconda metà del IV sec. d. C. Si tratta di argomenti di valore nel complesso ineguale, che finiscono per acquistare soprattutto una forza cumulativa dato che,

singolarmente presi, non possono sottrarsi, nella maggior parte dei casi, al condizionamento a volte determinante della valutazione soggettiva. La serrata requisitoria condotta da A. Momigliano79 per dimostrare come nessuna prova decisiva per la postdatazione sia stata apportata da questo tipo di discussioni, potrà apparire a qualcuno ispirata ad eccessivo scetticismo o non sempre ugualmente probante, ma se ne ricava effettivamente l’impressione di fondo che difficilmente per tale via si possa giungere a risultati inconfutabili. Così in particolare si potrebbe discutere all’infinito sulle argomentazioni – tanto acute quanto estremamente sottili – collegate ai cosiddetti oracoli post-eventum (apparenti «profezie» che sarebbero spia di avvenimenti accaduti all’epoca reale in cui il falsario scriverebbe)80, ma anche in altri casi si può rimanere in dubbio se certe deduzioni – pur in sé ragionevoli e fondate – non siano soprattutto il risultato di una lettura in chiave ipercritica del testo, non necessariamente condivisibile81. Nel campo poi delle cariche e titolature ufficiali, occorre tener conto della possibile obiezione che esse potevano già esistere ed essere conosciute in epoca antecedente rispetto alle prime attestazioni a noi disponibili, così come non sarà da escludere a priori l’eventualità che la Historia Augusta abbia potuto far riferimento a provvedimenti legislativi già in progetto e in discussione molto tempo prima della loro codificazione definitiva e ufficiale. Le riserve metodologiche cui abbiamo accennato non intendono peraltro in alcun modo negare che l’indagine condotta nel senso che stiamo esaminando abbia prodotto indizi molto seri e degni della massima considerazione; ma è una constatazione di fatto che essa appare ai nostri giorni in qualche misura superata82, e ha ceduto il posto ad altre tematiche che sembrano in grado di offrire acquisizioni più precise e sicure, nonché all’interesse preminente per la genesi, le motivazioni, i processi compositivi, i meccanismi di falsificazione dell’opera. Importantissimo risulta lo studio dei possibili rapporti della Historia Augusta con autori che risultano aver scritto in epoca post-costantiniana: rapporti che, una volta accertati, potrebbero rivestire evidentemente una rilevanza decisiva nella questione della datazione della raccolta. La strada in questo senso fu aperta già dallo stesso Dessau che, nel famoso articolo sopra citato, espose un argomento estremamente probante ai fini della determinazione di una connessione diretta con l’opera di Aurelio Vittore, che si data sicuramente a dopo il 360 d. C. Esiste un passo della vita di Settimio

Severo (17, 5-19, 4) che presenta affinità tanto evidenti, spesso addirittura coincidenze letterali, con il brano parallelo del Liber de Caesaribus di tale autore, da postulare necessariamente una stretta interdipendenza fra i due luoghi. Che sia stato Aurelio Vittore a copiare sembra escluderlo lo stesso metodo compositivo usato generalmente da questo storico, che non appare mai trascrivere ad verbum da una fonte, e dà alle sue espressioni una marcata impronta personale83. V’è inoltre una circostanza che appare decisiva al fine della determinazione della dipendenza da parte della Historia Augusta: Aurelio Vittore confonde ad un certo punto (20, 1) l’imperatore Didio Giuliano con il giurista Salvio Giuliano, affermando che Severo, dopo aver sconfitto Giuliano, Salvii nomen atque eius scripta factave aboleri iubet; quod unum effici nequivit84; ora la Historia Augusta, che pure in altro luogo mostra di conoscere e anzi puntualizza la distinzione fra i due personaggi85, cade qui nel medesimo errore e, proprio all’inizio del brano in questione (Sev., 17, 5), scrive che Severo Salvii Iuliani decreta iussit aboleri; quod non optinuit, mostrando così chiaramente che in quel punto aveva preso a seguire la narrazione disviante dell’altro autore. Né appare d’altro canto convincente e metodica una spiegazione che chiami in causa – in un caso come questo – la EnmannKaisergeschichte quale presunta fonte comune ai due testi86. Questo argomento, che è sempre rimasto quale uno dei punti più fermi nella discussione sulla datazione dell’opera, è stato, in questi ultimi anni, affiancato dai risultati delle ulteriori ricerche dedicate ai rapporti con le fonti, che hanno permesso di individuare altri passi che tradiscono una diretta dipendenza da Vittore87, così che l’utilizzazione da parte della Historia Augusta di questo autore si può ormai considerare un fatto non isolato, anche se esistono ad un tempo coincidenze sulle quali rimane difficile dare una valutazione sicura, per via dell’effettiva possibilità che alla base di esse vi sia un’altra opera storica per noi perduta. Parallelo al problema dell’uso di Aurelio Vittore sta quello dei possibili rapporti della Historia Augusta con l’altro epitomatore della seconda metà del IV sec., vale a dire Eutropio, l’autore del Breviarium ab urbe condita (databile posteriormente al 364 d. C.). In questo caso, però, la dimostrazione di una diretta dipendenza della Historia Augusta risulta più ardua, anche per il carattere meno personale dello stile di questo secondo autore: sicché non si può parlare di certezza neppure per il lungo passo della vita di Marco Aurelio

(M. Ant., 15, 3-19, 12) che il Dessau invocava, parallelamente a quello della Vita Severi, come derivato da un luogo corrispondente di Eutropio (VIII, 1114); nondimeno gli studi più recenti hanno messo in luce alcune coincidenze assai significative, soprattutto inerenti a nomi di personaggi citati in forma scorretta, che lasciano pensare che la Historia Augusta abbia potuto attingere direttamente anche al Breviarium88. Rimanendo nell’ambito storiografico, un grosso problema sul tappeto è quello dei possibili rapporti con Ammiano Marcellino, il grande storico della seconda metà del IV sec. d. C., le cui Res Gestae in trentuno libri furono pubblicate negli anni successivi al 390. Il primo a indicare presunte tracce dell’opera di Ammiano nelle biografie fu J. Straub89; altri sondaggi nello stesso senso furono compiuti in seguito anche da J. Schwartz90, ma il pieno sviluppo dell’argomento, anche in funzione di una particolare ed originale interpretazione della stessa genesi della Historia Augusta – cui faremo cenno in seguito – è dovuto a R. Syme, autore di uno studio intitolato significativamente Ammianus and the Historia Augusta. Le concordanze ipotizzate fra i due testi non sono sempre palmari e tali da consentire conclusioni sicure, tanto è vero che non sono mancate su questo problema autorevoli voci decisamente dissenzienti91, anche in relazione al fatto che, di contro, appare con ogni probabilità da escludersi l’impiego, da parte della Historia Augusta, dei libri perduti di Ammiano (I-XIII), nei quali era compreso anche il racconto degli anni corrispondenti all’arco delle vite contenute nella raccolta92. Peraltro in qualche caso la possibilità di riscontrare un’eco ammianea in una delle nostre biografìe presenta un certo grado di probabilità, come quando, in due passi che offrono concordanze anche testuali fra loro, sia Costanzo II (Ammiano Marcellino, XIX, 12, 14) che Caracalla (Historia Augusta, Carac., 5, 7) sono detti aver condannato persone per il fatto di aver portato amuleti intorno al collo come rimedi contro le febbri93. E ulteriori interessanti proposte di raffronto sono venute negli anni successivi anche da parte di altri studiosi. In sostanza un argomento da trattare indubbiamente con metodica prudenza tenendo conto che, come sottolinea lo stesso Syme94, avremmo qui a che fare non con riprese dirette dal testo ammianeo, ma con semplici riminiscenze: ma da tenere nondimeno nella giusta considerazione, anche in vista di sempre possibili approfondimenti e conferme.

Ma la problematica dei possibili rapporti della Historia Augusta con altri autori non riguarda soltanto gli storici: in tempi recenti sono state indicate e analizzate tracce di una conoscenza diretta da parte degli Scriptores dell’opera del poeta satirico Giovenale. Ci si può chiedere naturalmente quale significato abbia eventualmente a rivestire, ai fini della datazione dell’opera, la constatazione che i biografi potevano leggere questo autore, che aveva scritto in epoca ben precedente a quella stessa in cui le vite pretendono essere state composte. L’importanza sta nel fatto che l’opera di Giovenale rimase per lungo tempo dimenticata – coinvolta nel generale disinteresse per gli scrittori dell’età «argentea», caratteristico delle tendenze e dei gusti arcaizzanti sviluppatisi fra II e III sec. d. C. –, e tornò pienamente in auge solo nell’ultima parte del IV sec., come testimoniano citazioni e allusioni da parte di un gran numero di autori sia pagani che cristiani: un risveglio di interesse ricollegabile soprattutto all’attività di Servio e della sua scuola. Molto importante risulta inoltre l’attestazione di Ammiano Marcellino secondo cui Giovenale e Mario Massimo costituivano le letture predilette dell’aristocrazia romana di quel periodo (XXVIII, 4, 14 quidam detestantes ut venena doctrinas, Iuvenalem et Marium Maximum curatiore studio legunt, nulla volumina praeter haec in profundo otio contrectantes)95: giacché, come sappiamo, Mario Massimo è più volte ricordato e citato nel corso delle vite, appare giustificato chiedersi se non risultino individuabili in esse anche elementi – pur se ovviamente meno numerosi e appariscenti, non trattandosi qui dell’impiego di una fonte – che permettano di riconoscere una lettura del poeta da parte dei biografi, e di inquadrare così la redazione della Historia Augusta nel medesimo ambito culturale delineato dal passo ammianeo. Ad aprire la via per questa importante prospettiva di ricerca fu un prezioso studio di A. D. E. Cameron96, che impostava i termini della questione e segnalava sette impronte a Giovenale in diverse biografìe, alcune invero difficilmente confutabili. Ulteriori tracce giovenaliane venivano successivamente indicate – con maggiore o minore attendibilità a seconda dei casi – da J. Schwartz97, il cui merito maggiore è peraltro quello di aver individuato punti di contatto anche con gli scoli alle satire del poeta, la cui compilazione risale proprio all’ultimo periodo del IV sec. d. C. Questo aggancio risulta particolarmente significativo in quanto l’esistenza di rapporti fra il materiale scoliastico suddetto e le vite della Historia Augusta, confermata anche da analogie di «lingua, interessi, cultura»98 che i due testi rivelano ad

una attenta lettura, costituisce un elemento di grande importanza per la configurazione di un unico ambiente erudito filoaristocratico e filosenatorio, inserito nel milieu culturale delineato dalla testimonianza di Ammiano, che potrebbe essere stato sede di un’attività di studio, ricerca e approfondimento condotta sui testi allora più «alla moda», quali Giovenale e Mario Massimo: attività all’interno della quale potrà giustificarsi, come da un lato il costituirsi della scoliastica intorno alle satire del poeta di Aquino, così dall’altro l’apparizione di un’opera come la Historia Augusta, quale sviluppo e completamento del filone biografico rappresentato appunto da Massimo. Non meno stimolante, ma forse non ancora giunta a risultati altrettanto probanti, è la questione inerente ai possibili rapporti con S. Girolamo. Va premesso che l’ipotesi di un impiego di Girolamo da parte della Historia Augusta è venuta sviluppandosi particolarmente in relazione all’affermazione dell’esistenza in quest’ultima di una tendenza religiosa anticristiana, che da eventuali raffronti – collegati a spunti polemici da parte degli Scriptores – fra le biografie e l’opera del Santo trarrebbe evidentemente significative conferme: poiché tuttavia la tesi suddetta, come avremo modo di sottolineare meglio in seguito, non si può considerare un dato sicuro e accertato, ecco che non dovrà apparire fuori luogo un richiamo alla prudenza di fronte ad argomenti che, pur presentando accostamenti indubbiamente interessanti, sembrano peraltro trarre forza più dalla quantità che non dalla loro qualità intrinseca, e che risultano convincenti soprattutto nella misura in cui si accetti quale punto di partenza quella determinata prospettiva di indagine. Un primo importante raffronto era già stato suggerito sin dal 1927 da B. Schmeidler99 fra il prologo della Vita Probi e quello della gerolimiana Vita Hilarionis, che presentano entrambi una citazione da Sallustio e una da Cicerone, in termini tali da far ritenere come estremamente probabile che uno dei due autori abbia avuto sotto gli occhi l’altro (anche se, obiettivamente, da un’analisi testuale comparativa dei due brani appare assai difficile poter stabilire con reale fondamento chi dei due abbia «copiato»)100. Ma lo studioso che, riproponendo questo confronto e indicandone di nuovi, ha avviato in modo sistematico questa interessante tematica di ricerca, è stato J. Straub101. Ulteriori contributi sono stati portati da J. Schwartz102 e A. Chastagnol: quest’ultimo in particolare – attraverso un’analisi acuta, ma che può lasciare perplessità per la larga parte che riveste in essa l’elemento soggettivo – ha utilizzato l’argomento in chiave di interpretazione della genesi di un’intera

biografia, le cosiddette Quadrigae tyrannorum, come parodia di motivi presenti in due lettere di S. Girolamo, vedendo peraltro in quest’ultima, più che l’atteggiamento anticristiano, il dispiegarsi della ricca e impertinente vena umoristica dell’autore103. Confronti sono stati tentati anche con altri autori del IV sec. d. C., ma le risultanze appaiono, almeno al momento attuale, del tutto marginali e non apportano sostanziali contributi alle questioni di fondo che interessano l’opera. A questo punto conviene invece affrontare un altro grosso tema, che potrebbe offrire un contributo essenziale ai fini di chiarire la natura e i caratteri particolari della raccolta e che, specialmente negli ultimi decenni, ha occupato largamente l’attenzione degli studiosi fautori della datazione tarda: quello della ricerca di una Tendenz, di una finalità ben precisa alla base dell’opera, che possa configurarsi come il motivo costante e informatore di essa e gettar luce sull’epoca e l’ambiente politico e culturale che ne hanno visto la genesi; una ricerca cha appare di importanza determinante anche in ordine alla possibilità di dare conto, rispondendo finalmente al famoso cui bono? del Mommsen, delle ragioni per cui l’ignoto autore, scrivendo verso la fine del IV o l’inizio del V sec. d. C. una serie di biografie di imperatori, avrebbe sentito il bisogno di ricorrere ad una falsificazione di quella mole circa la propria identità e l’epoca della composizione. Si è così cercato di individuare all’interno delle vite affermazioni, allusioni o espressioni di qualsiasi genere che potessero definire una linea di fondo caratterizzante, tentando ad un tempo di delineare il quadro storico nel quale l’opera sarebbe nata, sotto il condizionamento di situazioni e circostanze che avrebbero contribuito a determinarne l’aspetto assolutamente singolare. Tramontata ormai la visione del Baynes per il quale, come abbiamo visto, la Historia Augusta si presentava come un libro per il grosso pubblico, caratterizzato da un fine eminentemente propagandistico volto alla celebrazione della figura di Giuliano l’Apostata e alla diffusione delle sue idee politiche e religiose, in tempi più recenti W. Hartke104 ha avanzato la già ricordata ipotesi che autore della raccolta sia un personaggio compromessosi al tempo dell’usurpazione di Eugenio (392-394 d. C.), suggerendo addirittura un nome preciso, quello di Nicomaco Flaviano, prefetto di Roma a quel tempo, e caduto evidentemente in disgrazia dopo la vittoria di Teodosio: conformemente a questa convinzione, lo studioso era propenso a riconoscere

nell’opera una coerente e costante opposizione al principio della successione ereditaria, ricollegabile da una parte al desiderio di giustificare l’usurpazione di Eugenio, e dall’altra all’intento di condannare la successione a Teodosio dei due figli Arcadio e Onorio. In effetti non mancano nella Historia Augusta vigorose prese di posizione nel senso suindicato, particolarmente a Sev., 20-21 e a Tac., 6, nonché in alcuni altri passi isolati. È pure vero che la stessa Historia Augusta mostra un particolare interesse e a volte – ma non sempre105 – una certa simpatia per gli usurpatori. D’altro lato è stato però osservato106 che lo stesso preteso autore della Vita Taciti, cioè Vopisco, risulta avere particolarmente caro il tema celebrativo della successione naturale nell’impero dei discendenti di Claudio il Gotico, il che appare in qualche modo contrastare con l’idea di una tendenza dominante e univoca avversa al principio ereditario. Maggiore interesse ha nel complesso riscosso la tendenza filopagana e avversa al Cristianesimo, sulla quale ha concentrato ultimamente la sua attenzione soprattutto la critica tedesca, dapprima con A. Alföldi, che considerava la Historia Augusta come un «pamphlet contro il Cristianesimo»107, poi soprattutto con J. Straub, che sviluppava sistematicamente l’argomento dedicandovi un intero volume dal titolo molto significativo: Heidnische Geschichtsapologetik in der Christlichen Spätantike. La formula iniziale, che parla di «apologetica storica pagana», indica chiaramente la sfumatura particolare che la tematica in questione assume agli occhi dello studioso: la Historia Augusta è in effetti una Historia adversus Christianos, ma da interpretarsi, più che come un attacco diretto al Cristianesimo, come un’apologia del paganesimo, composta quale risposta polemica alla presentazione della storia di Roma in chiave cristiana da parte di opere come le Historiae adversus paganos di Paolo Orosio (417 d. C.), e ad un tempo quale tentativo di ottenere da parte dei nuovi detentori del potere un trattamento tollerante nei confronti della religione e della cultura pagana. In questa prospettiva lo Straub indicava, oltre alla ripresa polemica di S. Girolamo – cui abbiamo già fatto cenno in precedenza –, alcuni passi della vita di Alessandro Severo, dai quali apparirebbe come la Historia Augusta intendesse presentare la figura di un imperatore pagano particolarmente tollerante verso la fede e le costumanze cristiane (e anche giudaiche), al fine di suscitare lo stesso atteggiamento da parte dei governanti cristiani in un tempo

in cui le parti si erano praticamente invertite. La strada indicata da Straub, pur in sé attraente e in grado di apportare contributi interessanti nell’ambito di una prospettiva limitata, presentata invece quale chiave di interpretazione108 di tutto il complesso dell’opera appare non immune da possibili obiezioni. Soprattutto meraviglia il fatto che in un’opera di grande estensione, scritta programmaticamente quale apologia del paganesimo nei confronti del Cristianesimo, i passi che fanno diretto riferimento a Cristo e ai Cristiani siano pochissimi (sedici in tutto) e, per la maggior parte, privi di qualsiasi rilevanza polemica, senza contare che anche le più o meno velate allusioni inerenti a questa tematica che, a parere dello Straub e di altri studiosi che ne hanno ampliato la ricerca, sarebbero riconoscibili nel corso delle vite, oltre a non risultare sempre sicure, appaiono pur esse decisamente scarse, sempre in rapporto alla mole complessiva della raccolta. La giustificazione secondo cui l’autore sarebbe stato costretto ad esprimersi oscuramente in quanto scriveva in un momento nel quale pubblicare scritti propagandistici filopagani poteva risultare pericoloso, propone la complessa questione della sussistenza della libertà di espressione dei pagani sotto l’imporsi del regime cristiano, questione in ordine alla quale non mancano voci autorevoli del tutto discordi dalle tesi di Straub, di studiosi, cioè, propensi a negare – particolarmente in riferimento alle indicazioni cronologiche da lui avanzate – l’esistenza di oggettivi divieti per il mondo pagano di manifestare anche attraverso gli scritti le proprie opinioni109. Ma anche senza voler entrare nel merito di tale problema, può lasciare a priori perplessi un’argomentazione che da un lato delinea una tendenza che dovrebbe informare e caratterizzare l’intera opera nella sua genesi, composizione ed essenza, e dall’altro esibisce le ragioni per cui questa stessa presunta tendenza si manifesta di fatto in modo così sporadico e, per lo più, poco perspicuo. Non a caso è opinione di più d’uno studioso110 che il Cristianesimo non sia certo da considerarsi fra gli interessi e preoccupazioni principali di chi ha composto la raccolta. A nostro parere l’unica tendenza che può essere riconosciuta nella Historia Augusta come veramente uniforme e caratterizzante è quella – su cui già ci siamo ampiamente soffermati – filosenatoria e avversa tanto ai novi homines che al potere militare; una tendenza, dunque, conservatrice e tradizionalista, che per ciò stesso può assumere talora – ma solo in via collaterale e secondaria – coloriture filopagane (dato che il senato, di fronte all’incalzante

affermazione del Cristianesimo, veniva sempre più configurandosi come l’ultima roccaforte della vecchia religione) e accenti nazionalisti e antibarbarici (particolarmente vivi nell’esaltazione degli imperatori che combatterono i barbari, primo fra tutti Claudio il Gotico). Indubbiamente essa può oggettivamente accordarsi con la tesi di una datazione tarda: e in questo senso, di recente, K. P. Johne111 si è sforzato di delineare e mettere a fuoco un milieu politico-culturale di impronta aristocratico-senatoria, situabile tra la fine del IV e gli inizi del V sec. d. C., cui l’unico e ignoto biografo avrebbe fatto capo e del quale sarebbe stato espressione nel suo proposito propagandistico di rivendicare la dignità del senato in linea con la tradizione genuinamente romana. Ma, pur senza voler negare il valore di indagini di questo tipo, si dovrà riconoscere che una tendenza fìlosenatoria, mentre non appare in grado di dare sufficientemente conto delle ragioni della falsificazione, non potrà mai d’altro canto costituire di per sé un elemento determinante ai fini della datazione dell’opera, dato che un conflitto di interessi fra aristocratici e homines novi, fra senato ed esercito, nei termini in cui emerge da una lettura senza pregiudiziali, non appare certo inconciliabile neppure con l’epoca dichiarata delle biografie. In effetti è sempre difficile e forse, almeno in certi casi, impossibile, determinare in senso specifico o addirittura incasellare in questo o quel decennio preciso le fasi evolutive di una concezione tradizionalista volta più a guardare con rimpianto al passato che non ad operare con lucida concretezza sul presente e a tracciare programmi fondati per il futuro. Esiste un arco di tempo particolarmente ampio, a partire dalla restaurazione politico-religiosa di Diocleziano e via via lungo il IV e anche lo stesso V sec. d. C., in cui trova vita e sviluppo tutto un filone della letteratura e del pensiero romano, cristallizzato attorno alle medesime idee, legato ai fantasmi della gloria passata, aggrappato tenacemente alle stesse mai sopite illusioni (si pensi al tentativo di rinascita culturale promosso da un Simmaco, all’orgogliosa celebrazione della grandezza di Roma da parte di un Rutilio Namaziano): quanto di un tale spirito trova espressione nella Historia Augusta potrà essere ricollegato di preferenza a questo o quel periodo particolare solo attraverso impressioni inevitabilmente soggettive, cui non sarebbe metodologicamente prudente attribuire un peso troppo determinante. Dalla ricerca di una tendenza politica o religiosa nella Historia Augusta prescinde completamente l’interpretazione che dell’opera e della sua genesi ha

proposto, con argomentazione acuta e originale, R. Syme112. A parere di questo studioso la raccolta sarebbe stata composta attorno al 395 d. C. da un grammaticus, una strana figura di erudito un po’ stravagante che, rimasto insoddisfatto dalla lettura dei Rerum Gestarum libri di Ammiano Marcellino, avrebbe concepito il disegno di contrapporre polemicamente all’opera di questo scrittore, che si riconnetteva agli standards della storiografìa vera e propria – in particolare tacitiana –, una serie di biografie chiaramente ispirate al modello svetoniano. Poiché peraltro costui era uomo non meno dotto che privo di scrupoli, e soprattutto dotato di ottimo senso dello humour, si sarebbe divertito a costellare la sua narrazione di falsificazioni e invenzioni di ogni genere, dispiegandovi a piacimento, e in misura sempre più audace col progredire della composizione, la propria fantasia. Inutile allora evidentemente cercare l’impronta caratterizzante di una tendenza politica o religiosa di qualsiasi tipo in un’opera come questa: un’opera che si presenta scritta sostanzialmente come divertissement, e appare destinata a un pubblico particolarmente bramoso di curiosità erudite e piccanti, quale quello costituito dall’aristocrazia romana di quegli anni – i cui gusti abbiamo già visto significativamente illustrati proprio da Ammiano nel citato brano di XXVIII, 4, 14. Nessun profondo e consistente motivo ispiratore è alla base delle biografie se non il gusto dell’inganno e dell’impostura fine a se stessi, in collegamento ai quali prende corpo la sistematica parodia dei metodi propri della vera e seria ricerca storiografica. Il risultato di tutto questo è una specie di storia romanzata – di mythistoria, prendendo a prestito il termine dall’opera stessa113 –, nell’ambito della quale peraltro l’invenzione prevale nettamente sulla storia vera e propria fino a sommergerla, anche se in misura diversa a seconda dei gruppi di vite e in relazione alla crescente spregiudicatezza dell’autore. Per la verità, una sorta di tesi di fondo nell’opera è individuata in qualche misura anche dal Syme, allorché attribuisce al suo grammaticus la volontà di contrapporre il metodo e lo stile biografico a quello propriamente storiografico: intento che lo studioso individua particolarmente in alcuni diretti pronunciamenti dell’autore stesso, come quello, su cui già abbiamo avuto modo di fermarci, di Prob., 2, 7, dove «Flavio Vopisco» afferma a tutte lettere in prima persona che non intende imitare i grandi autori «canonici» della storiografia annalistica, ma bensì gli esponenti più significativi e rappresentativi del genere biografico.

L’intervento del Syme nella discussione sulla Historia Augusta rivestiva grande importanza sia per il prestigio dello studioso che per l’interesse oggettivo delle sue tesi, che proponevano una chiave di interpretazione del tutto nuova per giungere alla soluzione dell’enigma, offrendo un tipo di approccio tutto particolare – spostato dal piano più marcatamente storico a quello letterario – al complesso problema della genesi dell’opera. Ciò non significa, naturalmente, che la sua posizione abbia trovato unanimità di consensi: né poteva essere diversamente, visto che l’interpretazione da lui proposta coinvolge questioni particolarmente spinose. Così l’affermazione che la spinta a scrivere sarebbe venuta al grammaticus dalla lettura di Ammiano – che significa ammettere che la pubblicazione delle Res Gestae sarebbe antecedente a quella della Historia Augusta – comporta il riconoscimento di tracce evidenti dell’opera dello storico nelle biografie, che ne attestino indiscutibilmente la conoscenza da parte del nostro autore: e abbiamo già avuto modo di constatare che su questo punto esistono riserve da parte di vari studiosi, non pienamente convinti della validità delle coincidenze richiamate dal Syme114. D’altro canto la presunta contrapposizione fra biografia e storiografìa, sottolineata con forza nella visione dello studioso inglese, coinvolge il problema più vasto della sussistenza o meno nel IV sec. d. C. del senso di una chiara distinzione fra i due generi, problema pur esso delicato e aperto a soluzioni che possono anche portare in una direzione diversa da quella da lui indicata115. Ma, al di là delle considerazioni specifiche che possono formularsi sui diversi punti di essa, è essenzialmente la figura dell’autore, pur delineata in modo acuto e brillante, che rimane l’elemento più soggettivo – e con ciò stesso in qualche misura discutibile – della pur attraente costruzione del Syme: e appare in effetti lecito chiedersi se la creazione di questa ineffabile personalità di grammaticus con attitudini da «romancer», fantasioso, imbroglione e spiritoso quanto si voglia, possa bastare a fornire una spiegazione sotto ogni aspetto convincente di una falsificazione tanto imponente, complessa e varia nelle sue implicazioni. Come appare chiaro analizzando le posizioni dei vari studiosi, al problema della datazione si ricollega necessariamente quello – non meno importante – della paternità dell’opera, dato che chi sostiene la falsificazione temporale è portato ovviamente ad estendere il proprio scetticismo ai sei nomi non meglio conosciuti cui la tradizione ascrive le singole biografie e a ritenere che sotto di essi si celi in realtà un unico autore – appunto il falsario di epoca tarda.

Questa è la tesi largamente dominante ai nostri giorni, e in verità appare sempre più confermata – anche prescindendo dalle questioni più generali – da argomentazioni obiettive, basate sull’analisi e il confronto del testo delle varie vite, da cui risultano accertate caratteristiche stilistiche, tematiche, e di metodo comuni alle biografie indipendentemente dalle attribuzioni116, nonché una sostanziale uniformità linguistica che pervade da cima a fondo tutto il corpus117. Non mancano naturalmente elementi che potrebbero avvalorare anche il dato tradizionale: già abbiamo avuto modo di parlare del mutamento di sostanza e di toni che si avverte nella seconda parte dell’opera e, su di un piano più specifico, si potrebbero citare differenze stilistiche e contraddizioni di contenuto fra le vite, che parrebbero distinguere l’uno dall’altro i vari biografi. Peraltro a questi argomenti si può opporre da un lato la considerazione dell’effettiva minore disponibilità di fonti ampie e storicamente valide per le vite della seconda parte della raccolta, che potrebbe aver sollecitato così la fantasia come l’abilità retorica dello stesso autore che aveva sin lì lavorato con maggiore sobrietà e rigore, e dall’altro l’obiettiva constatazione che a volte è anche uno stesso fra i pretesi Scriptores a contraddirsi, persino all’interno di una medesima biografìa. Certo è che ciascuna spiegazione lascia comunque adito a qualche interrogativo. Nella prospettiva di una paternità unica per la raccolta si sono avuti anche tentativi di ricostruire la storia delle varie fasi di composizione delle vite, un tema di indagine, peraltro, in cui difficilmente è possibile uscire dal labile campo delle supposizioni. Un problema che risulta al centro dell’interesse è quello della composizione delle vite secondarie, viste come un gruppo a sé scritto in una fase ben precisa della redazione della raccolta: a parere di R. Syme118 il momento più probabile sarebbe quello compreso fra la composizione della Vita Caracallae e quella della Vita Macrini, che segna un certo stacco con la serie precedente; secondo T. D. Barnes119, invece, la composizione del gruppo sarebbe avvenuta susseguentemente a quella della Vita Alexandri Severi. Un’ipotesi particolarmente originale è quella formulata da A. D. E. Cameron120: a suo parere la prima biografia ad essere composta sarebbe stata quella di Alessandro Severo, alla quale avrebbero poi fatto seguito quelle dei successivi imperatori sino al 284 d. C.: il programma dell’autore era infatti originariamente quello di continuare Mario Massimo sino all’avvento di Diocleziano. In un secondo tempo egli sarebbe ritornato sugli imperatori

precedenti, adattando e completando le corrispondenti biografìe di Massimo, e aggiungendo quale contributo più personale le vite di Cesari e usurpatori, assenti nell’altro biografo. Una tematica, dunque, anche questa, aperta, e suscettibile di nuovi contributi. Di importanza, peraltro, relativamente secondaria. Al termine di questa, pur sommaria, introduzione, crediamo che il lettore abbia potuto rendersi conto soprattutto di una cosa: e cioè che la Historia Augusta costituisce, da ogni punto di vista, un’opera singolarissima e misteriosa, per certi aspetti un vero e proprio enigma, quale – aggiungiamo – difficilmente è dato incontrare, e non solo nell’ambito della letteratura latina. L’impressione può risultare accentuata dal fatto che si è volutamente cercato di non seguire, in questa presentazione, una prospettiva predeterminata che accogliesse a priori una tesi sulla genesi, la paternità e la datazione dell’opera, così che alla fine nessuno dei problemi nodali è apparso chiaramente risolto in un senso o in un altro. Un tale modo di procedere può essere giudicato in qualche misura limitante e poco costruttivo. Ma ci è sembrato l’unico che permettesse di offrire al lettore che, non prevenuto, si accosti – magari per la prima volta – alle spinose questioni che investono la raccolta, l’opportunità di un’informazione che, pur tenendo nel dovuto conto gli orientamenti dominanti allo stato attuale della ricerca, lasciasse spazio alle possibili obiezioni e ad opinioni anche contrastanti: un’informazione, insomma, che potesse dare un’idea, per quanto incompleta, del multiforme articolarsi di una problematica sempre aperta a una fervida – e talora accanita – discussione. Del resto non ci pare sia stata ancora formulata una teoria in grado di gettar luce, in maniera veramente completa e soddisfacente, su tutti i molteplici e sconcertanti aspetti di un prodotto letterario la cui realtà risulta tanto complessa da far apparire insufficiente una chiave univoca di interpretazione. Significativo può considerarsi il fatto che esistono ancor oggi – seppure in netta minoranza – autorevoli121 oppositori della tesi della falsificazione, e che d’altro lato, pur nell’accoglimento di tale presupposto di base, sussistono fra numerosi studiosi contrasti e differenze di vedute – anche di non lieve rilevanza – sulle questioni inerenti la genesi e la datazione precisa dell’opera nonché la personalità dell’autore. Queste considerazioni non intendono certo indurre ad un atteggiamento di incostruttivo scetticismo, che porti a sminuire acriticamente i risultati apportati dal poderoso lavoro di indagine condotto sulle nostre vite nella scia

del dibattito aperto un secolo fa dal Dessau: risultati che consentono di affermare che l’ipotesi che vede nella Historia Augusta l’opera di un falsario attivo verso la fine del IV sec. d. C. si presenta obiettivamente più fondata di qualsiasi altra. Ci sembra però importante mettere in guardia contro il pericolo di assolutizzazioni teoriche tali da orientare ogni aspetto della ricerca sulla Historia Augusta lungo un unico senso obbligato, in cui ciascun dato offerto dall’opera debba per forza essere fatto rientrare entro gli schemi di una logica prefissata: con ciò impedendo che venga posto nella giusta luce anche quanto in essa appare pienamente inserito nell’atmosfera e nei problemi del III secolo. Un richiamo a una vigile – anche se non ottusa – prudenza metodologica, che permetta di leggere il testo della Historia Augusta anche per quello che di fatto esso dice prescindendo da quanto invece dovrebbe da esso «trasparire», ci pare dunque utile in vista di una ricerca che possa portare ad una conoscenza criticamente approfondita e articolata della raccolta e a una valutazione sempre più fondata di tutti i problemi che essa pone; e non risulterà stonato particolarmente a capo di una nuova edizione che, anche in ragione del suo fine principalmente divulgativo, intende presentare al lettore un’opera di eccezionale interesse, oltre che per l’intricata problematica da cui è avvolta, per l’importanza che essa riveste pur sempre quale fonte essenziale per la conoscenza di un fondamentale periodo della storia antica.

NOTA BIBLIOGRAFICA

L’opera 1. La tradizione manoscritta. La tradizione manoscritta della Historia Augusta è articolata in due classi di codici, che ne costituiscono i due filoni fondamentali: la prima classe fa capo al codice Palatinus Latinus 899 della Biblioteca Vaticana (P), risalente al IX secolo, che costituisce il testimonio più antico di tutta la tradizione: già impiegato, nei primi decenni del ’600, dal Gruter e dal Saumaise per le loro edizioni, rimase in seguito per lungo tempo ignorato; la sua riscoperta, avvenuta nel 1861 per merito di A. Kiessling, diede impulso alla realizzazione delle edizioni moderne e scientificamente fondate dell’opera. Per la sua antichità si segnala anche il Bambergensis E. III. 19 (= Klassiker 54) (B), attribuibile alla fine del IX secolo stesso, mentre assai più recenti sono il Vaticanus Latinus 1899 (XIV sec.), il Parisinus Latinus 5816 (scritto nel 1356 per commissione del Petrarca) e vari altri codici del XV secolo. La seconda classe è costituita dalla famiglia di codici di età umanistica denominata ∑: il più antico rappresentante di essa sembra essere il Codice Vaticanus Latinus 1897 (V) risalente alla prima metà del XIV secolo; del XV secolo sono l’Admontensis 297 (A), il Chigianus H. VII. 239 (Ch), ora alla Bibl. Vaticana, il Parisinus Latinus 5807 (R), il Vaticanus Latinus 1898. Entrambe le classi presentano la grossa lacuna corrispondente alle vite degli imperatori da Filippo l’Arabo a Valeriano, e le lacune sparse che si riscontrano nelle vite di Valeriano e Gallieno: ciò che indica indubbiamente per esse una matrice comune. Notevoli però sono anche le differenze che caratterizzano i due rami della tradizione: mentre P offre una lettura che tende a riprodurre fedelmente l’archetipo, e rifugge di norma da integrazioni e aggiunte anche là dove il testo appare chiaramente alterato, i codici ∑

mostrano un trattamento assai più libero del testo stesso, che non disdegna interventi arbitrari, drastiche emendazioni e mutilazioni di esso, spostamenti di brani da un punto all’altro di una vita con conseguenti riadattamenti e rielaborazioni del nuovo contesto, e così via. In compenso, peraltro, la tradizione facente capo alla famiglia Σ presenta le biografìe (a parte quella di Avidio Cassio) in perfetto ordine cronologico, mentre in P si riscontra una confusione nell’ordine delle vite, fra quella di Vero e quella di Alessandro Severo; non si è inoltre verificato in essa l’accidente meccanico che ha provocato in P la trasposizione di due lunghi passaggi (Al. Sev., 43, 7-58, I e Maxim. 5, 3-18, 2), ciascuno dei quali corrispondeva ad un gruppo di fogli, andato smarrito e poi reinserito in un punto sbagliato della serie. Le questioni fondamentali inerenti alla tradizione manoscritta della Historia Augusta – che ora, grazie soprattutto ai lunghi e approfonditi studi condotti su di essa da E. Hohl in vari lavori preparatori122 alla sua prima edizione teubneriana del 1927, appaiono risolte in modo definitivo – si possono considerare essenzialmente due: – il problema dei rapporti fra P e B: fino alla seconda metà del secolo scorso quest’ultimo era considerato più antico di P (e su tale presupposto erano fondate metodologicamente le edizioni ottocentesche di JordanEyssenhardt e Peter); furono dapprima Th. Mommsen123 e H. Dessau124, e successivamente lo Hohl, a dimostrare senza possibilità di dubbio che P, risalente al IX e non al X secolo come si credeva in precedenza, costituisce l’esemplare più antico in nostro possesso, mentre B, pur se appartenente allo stesso secolo, rappresenta solo una trascrizione di esso: e nondimeno, essendo stato copiato da P quando tale codice non aveva ancora subito i vari strati di correzioni cui è stato sottoposto nel corso della sua storia – e che hanno in vari casi alterato il testo primitivo – permette non raramente di risalire alla lezione genuina, che esso originariamente conteneva; – il problema del rapporto che intercorre fra i due rami della tradizione: già il Peter, pur giudicando sostanzialmente non degna di fede la tradizione ∑, non aveva escluso la possibilità di ammettere un’indipendenza di essa da P; questa idea fu ripresa e sostenuta con grande vigore da Hohl, che puntualizzò e mise nel dovuto rilievo gli argomenti fondamentali in tal senso: quelli, già ricordati, inerenti all’ordine cronologico delle vite, sostanzialmente rispettato in ∑ a differenza che in P, e della mancanza, in Σ, della trasposizione dei brani delle vite di Alessandro Severo e Massimo e Balbino (la cui corretta risistemazione poté essere effettuata, verso la fine del XV secolo, proprio

attraverso la collazione dei codici ∑); la circostanza – estremamente significativa – che vari passaggi, particolarmente nella vita di Aureliano, che risultano «purgati» o del tutto eliminati da P in quanto potevano costituire espressione di apprezzamento nei riguardi della religione pagana, siano offerti da Σ nella loro forma genuina125; il fatto che, accanto agli interventi arbitrari e peggiorativi del testo, quest’ultima tradizione presenti anche un certo numero di lezioni indubbiamente migliori di quelle di P. Né si può dire abbia avuto successo il tentativo di Susan Ballou126 di dimostrare che, al contrario, ∑ dipende da P e che le divergenze presentate da tale famiglia nei confronti di P possono essere ricondotte all’opera di un abile – anche se poco scrupoloso – redattore, che avrebbe trascritto il testo di questo codice, già pieno delle correzioni e addizioni successive, seguendo lo scopo di fornire una versione scorrevole e leggibile, anche a prezzo di interventi e rimaneggiamenti sul testo. Le tesi di Hohl hanno convinto anche i più scettici, e al giorno d’oggi si può affermare che la tradizione manoscritta della HA non presenta più, in ordine ai problemi accennati, elementi di oscurità o di incertezza. Per completezza di trattazione ricorderemo che una qualche – seppur assai limitata – importanza possono rivestire per la costituzione del testo anche gli Excerpta Cusana et Parisina raccolti da Sedulio Scotto nel IX secolo (contenuti nei Codici Cusanus C 52 e Parisinus Latinus 1750, entrambi del XII sec.) e il Florilegium Vaticanum Latinum 5114 (del XIV sec.), raccolte di brani scelti dell’opera che hanno il pregio, al pari della tradizione Σ, di non dipendere dal Palatinus. Un cenno merita anche il Codice Murbacensis (così detto in quanto citato in un catalogo della Biblioteca del castello di Murbach all’inizio del IX sec.), che è andato perduto ma del quale abbiamo indiretta testimonianza attraverso l’edizione Frobeniana curata nel 1518 da Erasmo da Rotterdam. 2. Le edizioni. L’editio princeps uscì a Milano nel 1475, curata da Bonus Accursius. Nel XVI secolo si segnalano le edizioni di G. B. Egnazio, stampata a Venezia nel 1516, e di Erasmo da Rotterdam, pubblicata a Basilea nel 1518. Nel secolo successivo compaiono le importanti edizioni di I. Casaubon (Parisiis 1603), J. Gruter (Hanoviae 1610-11), Cl. Saumaise (Parisiis 1620) – quest’ultima di importanza fondamentale per l’uso sistematico di P –: tutte e tre corredate da annotazioni esegetiche, che si ritrovano poi riprodotte in forma miscellanea in varie edizioni dei secoli successivi. Dello stesso secolo sono anche quelle di M.

Z. Boxhorn (Lugduni Batavorum 1632), di K. Schrevel (Lugduni Batavorum 1661) e di U. Obrecht (Argentorati 1677). Nel ’700 segnaliamo l’edizione Lipsiense del 1774, curata da I. L. E. Putmann e J. P. Schmid, e quella Bipontina del 1787. Nel secolo scorso, precedute dall’edizione italiana di T. Vallauri (Torino, 1853), compaiono, in coincidenza con la riscoperta di P, le edizioni più scientificamente fondate dell’opera: quella di H. Jordan e F. Eyssenhardt (Berolini, 1864; al primo studioso è attribuita la responsabilità per le vite da Adriano ad Alessandro Severo; al secondo quella per tutte le successive) e le due Teubneriane di H. Peter (Lipsiae, 1865 e 1884). Nel nostro secolo vede la luce la fondamentale edizione Teubneriana di E. Hohl (Lipsiae, 1927), che mise a frutto il ponderoso lavoro condotto dallo studioso sulla tradizione manoscritta dell’opera. Di essa si è avuta una ristampa del I volume nel 1955, con addenda et corrigenda dovuti allo stesso Hohl, ed una successiva e completa curata da Ch. Samberger e W. Seyfarth che, oltre ad aumentare gli addenda al primo volume e a compilare quelli per il secondo, sono inoltre intervenuti a rettificare direttamente il testo, laddove il procedimento di riproduzione stereotipica lo consentiva; questa edizione, apparsa nel 1965, è stata ristampata (solo con qualche lieve aggiunta bibliografica) nel 1971. Non particolarmente numerose sono le edizioni limitate a singole vite: quelle più degne di nota sono tutte relativamente recenti: ricordiamo in particolare quella dei Maximini duo curata dallo stesso Hohl (Berlin, 1949), quella delle Vite di Valeriano e Gallieno dovuta a E. Manni (Palermo, 19511; 19692), quella della vita di Opilius Macrinus, opera di E. Pasoli (Bologna, 1968), variamente corredate da traduzione in lingua moderna, commento e apparato critico (particolarmente ampio quello fornito dal Pasoli, volto a dare ragione delle scelte testuali alla luce delle peculiarità linguistiche e dell’usus scribendi propri degli autori). 3. Le traduzioni. In italiano: la prima traduzione organica e completa apparve a Venezia nel 1852 ad opera di studiosi vari. Recenti sono quella di L. Agnes (Torino, 1960) e di F. Roncoroni (Milano, 1972). In francese: la prima traduzione completa è quella di M. De Marolles (Paris, 1667); seguirono quella di G. De Moulines (Berlin, 17381; Paris, 18062), quella uscita negli anni 1844-1846 a Parigi presso l’ed. Panckoucke ad opera di

studiosi vari, e infine quella di Th. Baudement per la «Collection Didot» (Paris, 1845 = 1883), che rimane a tuttora la più recente. In inglese: la prima traduzione completa risale al 1698, e fu pubblicata a Londra da J. Bernard (se ne ebbero altre due successive edizioni nel 1713 e nel 1740). Nel nostro secolo grande fortuna ha incontrato quella curata da D. Magie per la collezione Loeb (London/Cambridge, Massachusetts, 1921-1932, più volte ristampata), corredata tra l’altro da numerose e utilissime note. In spagnolo: l’unica traduzione in lingua spagnola è quella curata da F. Navarro y Calvo (Madrid, 1889-1890 = 1919). In tedesco: la prima traduzione è quella di J. Ph. Ostertag (Frankfurt, 17901793); seguirono quelle di L. Storch (Prenzlau, 1828) e di A. Closs (Stuttgart, 1857). Di recente data è l’uscita del I vol. (relativo alle vite fino ad Alessandro Severo) della traduzione che E. Hohl curò tra il 1942 e il 1944 – rivedendola poi a più riprese sino alla sua morte (1957) – e che solo ora ha iniziato a vedere la luce per le cure di E. Merten e A. Rösger, che l’hanno anche corredata di numerosissime note (Zürich und Mùnchen, 1976). Una traduzione completa dell’opera è stata di recente curata anche in lingua russa da S. P. Kondrat’Eva (Moskva, 1957-1960), e n lingua rumena da D. Popescu e C. Dragulescu (Bucaresti, 1971). Fra le traduzioni parziali segnaliamo in particolare quella inglese di A. Birley nei Penguin Classics (Harmondsworth, 1976) delle vite da Adriano ad Elagabalo. Per maggiori particolari ed informazioni rimandiamo ai preziosi lavori di A. Bellezza, indispensabili per ogni studio attinente alle edizioni e traduzioni dell’opera: Historia Augusta, parte I: Le edizioni, Genova, 1959, e Prospettive del testo della HA, Brescia, 1979. La critica Per una bibliografia particolareggiata sulle questioni inerenti alla datazione, paternità e modalità di composizione dell’opera rinviamo a: H. PETER, Bericht über die Literatur zu den ShA in dem Jahrzehnt 1883-1892, «Bursians Jahresberichte», LXXVI, 1893, pp. 119-161. ID., Bericht über die Literatur zu den ShA in den Jahren 1893-1905, «Bursians Jahresberichte», CXXX, 1906, pp. 1-40.

M. SCHANZ-C. HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur, IV, 12, München, 1914 (= 1959), pp. 52-54. E. DIEHL, in Pauly-Wissowa, Real Encyclop., VIII, 1913, coll. 2051-2110. E. HOHL, Bericht über die Literatur zu den ShA für die Jahre 1906-1915, «Bursians Jahresberichte», CLXXI, 1915, pp. 95-146. ID., Bericht über die Literatur zu den ShA für die Jahre 1916-1923, «Bursians Jahresberichte», CC., 1924, pp. 167-210. ID., Zur HA-Forschung, «Klio», XXVII, 1934, pp. 149-164. ID., Bericht über die Literatur zu den ShA fur die Jahre 1924-1935, «Bursians Jahresberichte», CCLVI, 1937, pp. 127-156. P. LAMBRECHTS, Le problème de l’HA, «Ant. Class.», III, 1934, pp. 503-5I6. A. J. DOVATUR, Die Geschichte des Studiums der ShA, in «Bibl. Class. Or.», V, 1960, coll. 162-173 (ed. tedesca dell’art, apparso in lingua russa in «Vestnik Drevnej Istorii», LIX, 1957, I, pp. 245-256). A. CHASTAGNOL, Le problème de l’HA: État de la question, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 43-71. ID., Les recherches sur l’HA de 1963 à 1969, in Recherches sur l’HA, Bonn, 1970, pp. 1-37. T. DAMSHOLT, HA Problemet, in “Studier fra Sprong-og Oldtidsforskning”, CCLXXVII, 1971. VL. ILIESCU, Stadiul actual al cercetarilor despre HA, «Studii Clasice», XVII, 1977, pp. 167-177. Tra gli studi generali più importanti sui problemi suddetti segnaliamo: H. DESSAU, Über Zeit und Personlichkeit der ShA, «Hermes», XXIV, 1889, pp. 337-392. ID., Über die ShA, «Hermes», XXVII, 1892, pp. 561-605. E. KLEBS, Die Sammlung der ShA, «Rhein. Mus.», XLV, 1890, pp. 436465. TH. MOMMSEN, Die ShA, «Hermes», XXV, 1890, pp. 228-292 (= Gesammelte Schriften, B. VII, Berlin, 1909, pp. 302-352). O. SEECK, Studien zur Geschichte Diocletians und Constantins, III: Die Entstehungszeit der HA, «Jahrbb. für Class. Philol.», XXXVI, 1890, pp. 609639. H. PETER, Die ShA. Sechs litterargeschichtliche Untersuchungen, Leipzig, 1892.

G. DE SANCTIS, Gli ShA, «Riv. St. Ant.», I, 1896, pp. 90-119. CH. LÉCRIVAIN, Études sur l’HA, Paris, 1904. E. HOHL, Das Problem der HA, «Neue Jahrbb. für das Klass. Altertum», XXXIII, 1914, pp. 698-712. ID., Über das Problem der HA, «Wiener Studien», LXXI, 1958, pp. 132 segg. N. H. BAYNES, The HA. Its date and purpose, Oxford, 1926. W. HARTKE, Geschichte und Politik im spàtantiken Rom, «Klio», suppl. XLV, 1940. ID., Romische Kinderkaiser. Eine Strukturanalyse romischen Denkens und Daseins, Berlin, 1951. S. MAZZARINO, Aspetti sociali del IV secolo, Roma, 1951. A. ALFÖLDI, A conflict of ideas in the late Roman Empire, Oxford, 1952. J. STRAUB, Studien zur HA, Berne, 1952. ID., Heidnische Geschichtsapologetik in der christlichen Spätantike. Untersuchungen Über Zeit und Tendenz der HA, Bonn, 1963. E. MANNI, Recenti studi sulla HA, «La parola del Passato», VIII, 1953, PP. 71-80. H. STERN, Date et destinataire de l’HA, Paris, 1953. A. MOMIGLIANO, An Unsolved Problem of historical Forgery: the «ShA», in «Journal of the Warburgh and Cartauld Institutes», XVII, 1954, pp. 22-46 (ripubblic. con tre appendici in «Secondo contributo alla storia degli studi classici», Roma, 1960, pp. 105-143). A. CHASTAGNOL, Notes chronologiques sur l’HA et le Laterculus de Polemius Silvius, «Historia», IV, 1955, pp. 173-188. Vd. anche le sue due rassegne già citate. J. SCHWARTZ, Sur la date de l’HA, «Bull. Fac. Lettr. Strasbourg», 1961, pp. 71-80. R. SYME, Ammianus and the HA, Oxford, 1968. ID., Emperors and Biography. Studies in the HA, Oxford, 1971. ID., The HA. A call of clarity, Bonn, 1971. K. P. JOHNE, Kaiserbiographie und Senatsaristokratie. Untersuchungen zur Datierung und sozialen Herkunft der HA, Berlin, 1976. Fra gli studi su problemi generali di carattere storico-antiquario

ricordiamo: A. VON DOMASZEWSKI, Die Topographie Roms bei den ShA, «Sitzungsber. d. Heidelb. Akad.», Phil.-Hist. Klasse, 1916, Abh. 7. ID., Die Geographie bei den ShA, ibid., 1916, Abh. 15. ID., Die Daten bei den ShA, ibid., 1917, Abh. 1. ID., Die Personnenamen bei den ShA, ibid., 1918, Abh. 13. ID., Der Staat bei den ShA, ibid., 1920, Abh. 6. A. REINTJES, Untersuchungen zu den Beamten bei den ShA, Düsseldorf, 1961. S. CONDORELLI, Aspetti della vita quotidiana a Roma e tendenze letterarie nella HA, Messina, 1965. E. W. MERTEN, Zwei Herrscherfeste in der HA. Untersuchungen zu den pompae der Kaiser Gallienus und Aurelianus, Bonn, 1968. J. GAUDEMET, Le concept d’imperium dans l’HA, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 91-97. G. KERLER, Die Aussenpolitik in der HA, Bonn, 1970. Y. DE KISCH, Les sortes Vergilianae dans l’HA, «Mélanges d’Archeol. et d’Hist. de l’Ecole Franç de Rome», LXXXII, 1970, pp. 321-362. B. MOUCHOVÁ, Omina mortis in der HA, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 111-149. TH. PEKÁRY, Statuen in der HA, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 151172. J. SCHWARTZ, Le limes selon l’HA, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, PP. 233-238. ID., La place de l’Egypte dans l’HA, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 175-186. A. SZELEST, Rolle und Aufgaben der Reden und Briefe in der HA, in «Eos», LIX, 1971, pp. 325-338. ID., Die HA und die frühere römische Geschichte, «Eos», LXV, 1977, pp. 139-150. G. CLEMENTE, Storia amministrativa e falsificazione nella HA, «Riv. fil. istr. cl.», C., 1972, pp. 108-123. J. BÉRANGER, L’héredité dynastique dans l’HA. Procédé et tradition, in BHAC, 1971, Bonn, 1974, pp. 1-20.

ID., L’expression du pouvoir suprème dans l’HA, in BHAC, 1971, Bonn, 1974, pp. 21-49. F. KOLB, Die Paenula in der HA, in BHAC, 1971, Bonn, 1974, pp. 81-101. T. LIEBMANN-FRANKFORT, Les Juifs dans l’HA, «Latomus», XXXIII, 1974, PP. 579-607. S. MAZZARINO, Precetti del buon governo (Praecepta gubernandae reip.) e problemi di economia militare, in BHAC, 1971, Bonn, 1974, pp. 103-112. R. SYME, Astrology in the HA, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 291309. ID., Bogus authors, ibid., pp. 311-321. ID., The Pomerium in the HA, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 217231. J. BURIAN, Das dynastische Denken in der HA, «Acta Archaeol. Acad. slovène Ljubljana», XXVIII, 1977, pp. 446-454. ID., Der Gegensatz zwischen Rom und den Barbaren in der HA, «Eirene», XV, 1977, pp. 55-96. E. VAN’T DACK, L’HA et l’èpigraphie, in Historiographia antiqua. Commentationes Lovanienses in hon. W. Peremans septuag. editae, Leuven, 1977, pp. 315-336. S. A. STERTZ, Christianity in the HA, «Latomus», XXXVI, 1977, pp. 694715. G. ALFÖLDY, Die römische Sozialordnung in der HA, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 1-51. J. STRAUB, Juristische Notizen in der HA, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 195-216. Per questioni particolari riguardanti le singole vite e passi di esse, oltre alle note alla traduzione, sono da tenere presenti alcuni studi monografici, come: W. WEBER, Untersuchungen zur Geschichte des Kaisers Hadrianus, Leipzig, 1907. J. SCHWENDEMANN, Der historische Wert der Vita Marci bei den ShA, Heidelberg, 19232. A. BIRLEY, Marcus Aurelius, London, 1966. E. KLEBS, Die Vita des Avidius Cassius, «Rhein Mus.», XLIII, 1888, pp. 321-346.

J. M. HEER, Der historische Wert der Vita Commodi in der Sammlung der ShA, «Philologus», Suppl. IX, 1904, pp. 1-208. R. WERNER, Der historische Wert der Pertinaxvita in den ShA, «Klio», XXVI, 1933, pp. 283-322. J. HASEBROEK, Untersuchungen zur Geschichte des Kaisers Septimius Severus, Heidelberg, 1921. A. BIRLEY, Septimius Severus, the African Emperor, London, 1971. J. HASEBROEK, Die Fälschung der Vita Nigri und Vita Albini in den ShA, Heidelberg, 1916. W. REUSCH, Der historische Wert der Caracallavita in den ShA, «Klio», Beih. XXIV, N. F. Heft. XI, Leipzig, 1931. R. SYME, The Son of the Emperor Macrinus, «Phoenix», XXVI, 1972, pp. 275-291. O. F. BUTLER, Studies in the Life of Heliogabalus, «University of Michigan Studies», Humanistic Series, IV, 1910, pp. 1-169. K. HÖNN, Quellenuntersuchungen zu den Viten des Heliogabalus und des Severus Alexander im Corpus der ShA, Leipzig, 1911. T. OPTENDRENK, Die Religionspolitik des Kaisers Elagabal im Spiegel der HA, Bonn, 1968. A. JARDÉ, Études critiques sur la vie et le règne de Sévère Alexandre, Paris, 1925. G. M. BERSANETTI, Studi sull’imperatore Massimino il Trace, Roma, 1940. A. BELLEZZA, Massimino il Trace, Genova, 1964. J. BURIAN, Zur historischen Glaubwurdigkeit der Gordiani tres in der HA, in «Atti del Colloquio Patavino sulla HA», Roma, 1964, pp. 41-66. E. MANNI, L’impero di Gallieno, Roma, 1949. H. PETER, Die romischen sogenannten Dreissig Tyrannen, “Abh. Leipzig”, XXVII, 1909, pp. 179-222. A. ROESGER, Usurpatorenviten in der HA, in Festgabe J. Straub, hrsg. von A. Lippold & N. Himmelmann, Bonn, 1977, pp. 359 segg. P. DAMERAU, Kaiser Claudius II, Gothicus (268-270 n. Chr.), «Klio», Beih. XXXIII, 1934. W. H. FISHER, The Augustan Vita Aureliani, «Journ. Rom. Stud.», XIX,

1929, pp. 125-149. E. HOHL, Vopiscus und die Biographie des Kaisers Tacitus, «Klio», XI, 1911, pp. 178-229; 284-324. G. VITUCCI, L’imperatore Probo, Roma, 1952. A. CHASTAGNOL, Sources, thèmes et procédés de composition dans les Quadrigae Tyrannorum, in Recherches sur l’HA, Bonn, 1970, pp. 69-98. P. MELONI, Il regno di Caro, Numeriano e Carino, «Annali Cagliari», XV, 2, 1948. D. ROMANO, I proemi delle Vitae di Vopisco, «Atti Acc. Sc. Lett. Palermo», XXXV, 1975-76 [1977], pp. 267-290. Sul tema dei rapporti con gli altri storici e autori vari, trattato anche in numerose delle opere già citate, ricordiamo alcuni studi specifici: A. ENMANN, Eine verlorene Geschichte der romischen Kaiser, «Philologus», Supplbd. IV, 1884, pp. 337-501. E. KLEBS, Die ShA, «Rhein. Mus.», XLVII, 1892, pp. 537 segg. (sui richiami sallustiani). B. SCHMEIDLER, Die ShA und der heilige Hieronymus, «Philologische Wochenschrift», XLVII, 1927, coll. 955-960. G. BARBIERI, Il problema del cosidetto ultimo grande storico di Roma, «Ann. Sc. Norm. Pisa», S. II, III, 1934, pp. 525-538. ID., Mario Massimo, «Riv. fil. istr. cl.», XXXII, 1954, pp. 33-66; 262-275. A. D. E. CAMERON, Literary allusions in the HA, «Hermes», XCII, 1964, pp. 363-377. T. DAMSHOLT, Zur Benutzung von dem Breviarium des Eutrop in der HA, «Classica et Mediaevalia», XXV, 1964, pp. 138-150. W. SCHMID, Eutropspuren in der HA: ein Beitrag zum Problem der Datierung der HA, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 123-133. J. SCHWARTZ, Arguments philologiques pour dater l’HA, «Historia», XV, 1966, pp. 454-463. A. CHASTAGNOL, Emprunts de l’HA aux Caesares d’Aurelius Victor, «Rev. de Philol.», XLI, 1967, pp. 85-97. ID., L’utilisation des Caesares d’Aurelius Victor dans l’HA, in BHAC, 1966-67, Bonn, 1968, pp. 53-65. A. ALFÖLDI, Die verlorene Enmansche Kaisergeschichte und die

Caesares des Julianus Apostata, in BHAC, 1966-67, Bonn, 1968, pp. 1-8. S. MAZZARINO, La HA e la EKG, in Atti del Colloquio Patavino sulla HA, Roma, 1964, pp. 29-40. R. SYME, Not Marius Maximus, «Hermes», XCVI, 1968, pp. 494-502. ID., Ammianus and the HA, cit. A. MOMIGLIANO, Ammiano Marcellino e la HA, «Atti Acc. Sc. Torino», CI. Sc. Mor., CIII, 1969, pp. 423-436. F. KOLB, Literarische Beziehungen zwischen Cassius Dio, Herodian und der HA, Bonn, 1972. B. BALDWIN, Festus the historian, «Historia», XXVII, 1978, pp. 197-217 (per i rapporti col Breviarium di Festo). T. D. BARNES, The sources of the HA, Coll. Latomus, CLV, Bruxelles, 1978. Nell’ambito degli studi inerenti alla lingua e allo stile, nonché a problemi di critica testuale, ricordiamo: F. RICHTER, Über die Script. VI hist. Aug., «Rhein. Mus.», VII, 1850, pp. 16-51. J. GOLISCH, Beiträge zur kritik der ShA, Schweidnitz, 1870 e 1877. C. PAUCKER, De latinitate ShA meletemata, Dorpat, 1870. AE. BAEHRENS, Adversaria critica in ShA, «Fleckeisens Jahrbücher», CIII, 1871, pp. 649-664. A. KELLERBAUER, ZU den ShA, «Fleckeisens Jahrbücher», CXV, 1877, pp. 623-648. J. OBERDICK, ZU den ShA, «Zeitschrift für österreichischen Gymnasien», XIX, 1868, pp. 340-343; XXIII, 1873, pp. 803-807. M. PETSCHENIG, Beiträge zur Textgeschichte der HA, «Sitzungsberichte der Wiener Akademie», Philol.-Hist. Klasse, XCIII, 1879, pp. 355-418. ID., Bemerkungen zum Text der ShA, «Philologus», LII, 1893, pp. 348365. J. KLEIN, Kritische Bemerkungen zu den ShA, «Rhein. Mus.», XXXIV, 1879, PP. 142-147; XXXVII, 1882, pp. 274-291. FR. S. KRAUSS, De praepositionum usu apud sex ShA, Vindobonae, 1882. C. COTTA, Quaestiones grammaticae et criticae de Vitis a ShA conscriptis, Breslau, 1883.

R. BITSCHOFSKI, Kritisch-exegetische Studien zu den ShA, Wien, 1888. K. LESSING, Studien zu den ShA, Berlin, 1889. S. FRANKFURTER, Textkritisches zu den ShA, «Wiener Studien», XIII, 1891, pp. 245-254. E. KLEBS, Die ShA, «Rhein. Mus.», XLVII, 1892, pp. 1-52; 515-546. G. LENZE, Quaestiones criticae et grammaticae ad ShA pertinentes, Münster, 1894. R. ELLIS, On the HA, «Hermathena», XIII, 1905, pp. 399-420; XIV, 1906, pp. 1-17. F. RÜHL, Zu den ShA, «Rhein. Mus.», LXII, 1907, pp. 1-8. TH. MOMMSEN, ZU den ShA, in Gesammelte Schriften, Bd. VII, Berlin, 1909, pp. 352-362. F. WALTER, Beiträge zur Textkritik der ShA, Regensburg, 1909. O. GROSSE, Bemerkungen zum Sprachgebrauch und Wortschatz der ShA, Leipzig, 1913. O. HIRSCHFELD, Kleine Schriften, Berlin, 1913. A. WOLDT, De ShA copia verborum et facultate dicendi, Greifswald, 1914. E. TIDNER, De particulis copulativis apud ShA quaestiones selectae, Uppsala, 1922. ID., In ShA adnotatiunculae, in Strena philologica Upsaliensis, Uppsala, 1922, pp. 149-162. G. THÖRNELL, Ad ShA et Amm. Marc, adnotationes, in Skrifter utgivna av K. Humanistiska Vetenskaps-Samfundet i Uppsala, 24, 6, 1927, pp. 3-8. A. KLOTZ, Beiträge zur Textgeschichte und Textkritik der ShA, «Rhein. Mus.», LXXVIII, 1929, pp. 268-314. H. ARMINI, «Eranos», XXVIII, 1930, pp. 36-38. M. HALLÉN, In ShA studia, Uppsala, 1941. H. L. ZERNIAL, Über den Satzschluss in der HA, Berlin, 1956. E. PASOLI, Note al testo degli ShA, «Convivium», N. S., 1959, pp. 729734. ID., In ShA, Op. Macr. 3, 6-7 adversaria critica, «Ant. class.», XXVIII, 1959, pp. 232-242. ID., In ShA, Op. Macr. criticae animadversiones, in Miscellanea critica

Teubner, II, 1965, pp. 245-257. S. D’ELIA, Appunti sul testo degli ShA, «Rend. Acc. Arch. Lett. e B. Arti Napoli», XXXV, 1960, pp. 71-98. H. SZELEST, Kritische Bemerkung zu den ShA (Treb. Gall. 20), «Eos», LVII, 1967-68, pp. 130-135. B. MOUCHOVÁ, Textkritisches zur HA, «Listy Filologické», XCII, 1969, pp. 257-259. ID., Untersuchungen über die ShA, Praha, 1975. V. TANDOI, Restauri testuali nell’HA, «St. it. fil. cl.», XLIII, 1971, pp. 101114. ID., Marco Aurelio al «trionfo» di Commodo, in Studi Classici e Orientali, voll. XIX-XX, Pisa, 1970-71, pp. 471-486. P. G. FORNI, Note al testo e sulla lingua delle Vite di Caracalla e di Alessandro Severo degli ShA, «Boll. St. lat.», II, 1972, pp. 20-35. C. VENTURI, idem, «Boll. St. lat.», III, 1973, pp. 35-51. P. SOVERINI, Note al testo degli ShA, «Boll. St. lat.», V, 1975, pp. 224-239. ID., Note su Ael. Spart. Ael. 5, 9 e sui rapporti tra la HA e Apicio, «St. it. fil. cl.», XLIX, 1977, pp. 231-254. ID., Problemi di critica testuale nella HA, Bologna, 1981. J. N. ADAMS, The linguistic unity of the HA, «Antichthon», XI, 1977, pp. 93-102. I. MARRIOT, The Authorship of the HA: Two computer studies, «Journ. Rom. Stud.», LXIX, 1979, pp. 65-74. Ricordiamo inoltre, quale indispensabile strumento per ogni ricerca di carattere linguistico-testuale sulla HA: C. LESSING, Scriptorum historiae Augustae Lexicon, Lipsiae, 1901-1906 (= Hildesheim, 1964). Citiamo infine qualche studio su particolari aspetti narrativo-compositivi: H. SZELEST, Le digressioni negli ShA (in polacco con riassunto in latino), «Eos», LVIII, 1969-70, pp. 115-123. ID., Zur Kompositionsart der HA, «Wissenschaftl. Zeitschr. Univ. Rostock», XVII, 1969, pp. 457-462. ID., Rolle und Aufgaben der Reden und Briefe in der HA, «Eos», LIX, 1971, pp. 325-338.

G. CARLOZZO, SU alcuni procedimenti di composizione nella HA, «Pan», V, 1977, pp. 43-78. ID., Il faceto nella HA, «Pan», VI, 1978, pp. 59-64. J. BURIAN, Fides historica als methodologischer Grundsatz der HA, «Klio», LIX, 1977, pp. 285-298. B. BALDWIN, Verses in the HA, «Bull. Inst. Class. Stud. Univ. London», XXV, 1978, pp. 50-58.

La presente edizione Per il testo latino è stata presa come base l’ultima edizione dello Hohl, dalla quale ci siamo peraltro discostati in numerosi punti, che verranno qui di seguito elencati con una breve giustificazione delle scelte operate. La versione italiana è stata condotta cercando di conciliare l’esigenza di una resa scorrevole e di uno stile non sciatto con l’impegno rigoroso di fedeltà e servizio al testo latino, evitando di rifugiarsi in una traduzione troppo libera laddove risultasse arduo rendere il pensiero, a volte espresso in modo oscuro e impacciato, dell’autore, o occorresse prendere posizione per un’interpretazione controversa. Si sono naturalmente tenute presenti le traduzioni più importanti e diffuse, nei confronti delle quali non sono peraltro rare divergenze anche sostanziali nella resa di vari passi. Quanto alle note, ci siamo largamente valsi del prezioso e imprescindibile sussidio di quelle, numerosissime, contenute nell’edizione del Magie, preoccupandoci d’altro lato di arricchire e aggiornare tale materiale di base tenendo conto dei numerosissimi contributi esegetici inerenti a problemi generali o specifici che, specialmente in questi ultimi anni, hanno ampliato in misura veramente cospicua la bibliografia sulla HA (per il primo gruppo di vite ci è stata di particolare aiuto in questo senso, fra gli altri sussidi, la consultazione delle note curate da E. Merten e A. Rösger per il primo volume della traduzione di Hohl).

NOTA CRITICA

Facciamo seguire ora l’elenco e l’esame dei passi in cui ci siamo discostati dal testo dell’ultima edizione di E. Hohl (quale risulta tenendo anche conto delle variazioni apportate dallo stesso studioso e dai revisori Ch. Samberger e W. Seyfarth a quello stabilito nella prima edizione del 1927). Nel breve apparato critico viene per ogni luogo in questione riportata la lezione dei codici e quella, appunto, accolta da Hohl (o dai revisori); i codici vi sono indicati con le sigle già in precedenza citate (cfr. al num. 1 della Nota bibliografica): precisiamo in particolare che con P1 e P corr. si fa riferimento alla prima mano del Palatinus e a quella del correttore di età posteriore, mentre con Pa e Pb alla prima mano dello stesso codice e alla correzione operata o dal medesimo amanuense o da mano comunque contemporanea; e che con «P1 t. (= teste) B» si indica la lezione della prima mano di P (illeggibile su tale codice) testimoniata dal Bambergensis. Le edizioni vengono citate col nome del curatore (a quella di Jordan-Eyssenhardt si fa di norma riferimento solo con l’uno o l’altro dei due nomi, in relazione alla singola responsabilità dei due studiosi rispettivamente sulla cura della prima e della seconda parte dell’opera). La sigla «edd.» indica la concordanza fra le edizioni di JordanEyssenhardt e Peter, mentre con «vulgo» viene contrassegnata la lezione accolta nelle edizioni antiche. Per i segni diacritici cfr., infra, p. 131, l’elenco contenuto nel prospetto premesso a testo e traduzione. Per le osservazioni di carattere paleografico ci siamo valsi particolarmente dei lavori di L. HAVET, Manuel de critique verbale appliquée aux textes latins, Paris, 1911, di W. M. LINDSAY, Notae latinae, Cambridge, 1915 (= Hildesheim, 1963), di A. CAPPELLI, Dizionario di abbreviature latine e italiane, Milano, 19676. Onde evitare confusioni, si tenga presente che, nelle trattazioni testuali che seguono, con «nota a» si indicano le singole trattazioni stesse, mentre per eventuali riferimenti alle note esegetiche si parla sempre esplicitamente di «nota di

commento ad loc.». Avvertiamo infine che le lezioni prese in esame sono state controllate su riproduzione microfilmica del Palatinus 899 e del Chigianus H. VII. 239; il confronto con quest’ultimo codice ci ha fornito un’indicazione supplementare, anche se non rappresentativa dell’intera famiglia, per certi luoghi in cui Hohl non cita in apparato la lezione di ∑. In alcuni casi, in cui poteva risultare significativo per la trattazione in oggetto, abbiamo dunque dato conto anche di quanto offerto da Ch. HADRIANUS 2, 7 †Gallo favente Hohl. Ritengo che il testo tràdito si presenti qui lacunoso. Dal contesto risulta che vi fu una specie di intrigo ordito contro Adriano da certi paedagogi, che dovette consistere in un’opera di denigrazione nei confronti del giovane presso Traiano, se è vero che per un determinato periodo (quo quidem tempore) egli dovette sentirsi in effetti sollicitus de imperatoris erga se iudicio (cfr. § 8), e che in conseguenza di tale episodio ebbe di fatto a perdere l’amicizia dell’imperatore (cfr. § io ad amicitiam Traiani pleniorem redit). Propongo di integrare un sostantivo come factio, che appare adatto a questa interpretazione (nella quale anche il Gallo qui ricordato risulterebbe essere stato, almeno in tale occasione, nemico di Adriano; per una presunta sua identificazione cfr. L. PEPE, Questioni adrianee. Appio Annio Treboniano Gallo [hist. Aug. Hadr., 2, 7], «Giorn. it. fil.», XIV, 1961, pp. 69 segg. e H. W. BENARIO, Hadrian’s Supporter Gallus, «Class. Journ.», LXXVI, 1980, pp. 9 segg., i quali però – naturalmente attraverso letture del testo diverse da quella da noi proposta – vedono invece in lui un fautore del giovane) e la cui caduta potrebbe paleograficamente giustificarsi se inserito dopo favente. Per l’esposizione e la giustificazione di questa congettura cfr. P. SOVERINI, Problemi di critica testuale nella HA, Bologna, 1981, pp. 25 segg.

4, 5 sepelisse PΣ saepe inisse Hohl (Ellis, de Winterfeld). Propongo di leggere saepe polluisse (per l’uso di polluo nel senso di «aver commercio sessuale» con qualcuno cfr. TACITO, Ann., XII, 46 paelicem regiam polluerat ed Epitome de Caesaribus 38, 8 cuius dicebatur coniugem polluisse: con riferimento a uomini l’impiego appare tipico della HA: cfr. Comm., 1, 7 e 5, 11; Heliog. 6, 7). Per una discussione più completa cfr. P. SOVERINI, Ael. Spart. Hadr., 4, 5, «Maia», XXXII, 1980, pp. 187 segg.

5, 6 iniusso P, Hohl iussu Σ. Stranamente Hohl accoglie qui la forma tràdita di ablativo in -o anziché in -u, mentre in altri casi consimili non ammette mai lo scambio – eventualmente attestato nei codici – fra le due desinenze. Preferiamo – pur non senza esitazione, ma obbedendo a una certa prudenza metodologica — adottare nel testo la forma emendata (confermata dalla lezione, pur corrotta, di Σ): numerosi compaiono, nel corso della tradizione manoscritta dell’opera, gli scambi tra o e u nell’ambito di desinenze di ablativo (e di accusativo), ma non sembra possibile stabilire con sufficiente sicurezza se si abbia a che fare con una caratteristica propria della lingua degli Scriptores, o con variazioni esclusivamente ascrivibili a responsabilità dei copisti (per una trattazione in merito cfr. M. HALLÉN, In ShA studia, Uppsala, 1941, pp. 144 seg., incline ad una posizione totalmente conservatrice nei confronti delle forme «anomale», che non mi pare sufficientemente convincente e fondata); in questa materia ci siamo perciò attenuti – a parte il caso presente – alle scelte di Hohl.

7, 5 stati PΣ statum Hohl (Juret). Preferisco conservare la lezione tràdita; sottolineare che il servizio postale fosse status («definito», «regolare») non aggiunge, nel particolare contesto, nulla di essenziale alla sostanza dell’informazione, senza contare che l’aggettivo in questione non è altrove attestato nell’opera, mentre statim compare anche in altri luoghi della stessa Vita, in cui si parla, come qui, di provvedimenti presi da Adriano, a sottolinearne la rapidità (cfr. 7, 3; 5, 1; 5, 5).

10, I casuariis PΣ civitates variis Hohl (Rösinger, Damsté). Preferisco leggere, col Mommsen, eas variis, emendazione paleograficamente ottima (frequente è lo scambio e/c nella tradizione manoscritta della HA: cfr. ad es. M. Ant., 15, 3; Av. Cass., 14, 5; Sev., 1, 4; Al. Sev., 60, 4) e accettabile anche per il senso.

10, 5 fibula stringer&ur PΣ fibula 〈sagum〉 stringeret Hohl. Conservo, col Jordan, il testo tràdito; ritengo infatti che la varietà di costrutti ammissibile con i verbi inerenti al concetto di vestirsi, indossare o sistemarsi addosso qualche capo di abbigliamento, ci consenta di ipotizzare come possibile anche l’esistenza di una combinazione sintattica costituita da un verbo medio-riflessivo accompagnato non dall’accusativo di relazione del nome della veste, che risulta solo sottinteso, ma direttamente dall’ablativo dell’oggetto-accessorio per mezzo del quale si esplica sulla veste stessa l’azione significata dal verbo (in questo caso la fibula). Per una discussione in proposito cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 31 segg. 11, 3 uniussu eius P1 iniussu eius P corr. in usu eius Hohl (Petschenig). Preferisco conservare la lezione tràdita; la medesima espressione compare, in questa stessa vita, a 5, 6.

12, 4 prudenter caute P prudenter et caute Σ prudenter cauteque Hohl (Brakman). Accolgo la lezione dei codici ammettendo qui, con E. TIDNER, De particulis copulativis apud ShA quaestiones selectae, Uppsala, 1922, p. 46, la presenza di un asindeto, costrutto frequentissimo nell’opera (cfr. ibid., pp. 29 segg. e M. HALLÉN, In ShA studia, cit., passim).

14, 11 simulator 〈dissimulator〉 Hohl. Concordo sulla necessità di integrare un aggettivo che faccia coppia con simulator; tenendo però conto che nel contesto abbiamo a che fare con coppie di aggettivi di senso opposto, disposti fra l’altro, sempre quanto al senso, in posizione chiastica nell’ambito di ogni raggruppamento di due coppie, la soluzione migliore mi sembra quella proposta da E. ORTH, ZU den ShA, «Philol. Wochenschr.», XLIX, 1929, pp. 1470 seg.: 〈simplex〉 simulator.

16, 3 Brittanos PΣ, Hohl. Accolgo la lieve correzione, suggerita da V. TANDOI, rec. all’ed. di Hohl, «At. e Roma», XIII, 1968, p. 86, di Brittanos in Britannos per ragioni metriche.

17, 12 munta dona PΣ, Hohl (Tidner). Leggo, con R. NOVÁK, Observationes in ShA, Pragae, 1896, p. 38, munera [dona], non ritenendo attribuibile agli scrittori della HA l’impiego di munia nel senso di «doni», e vedendo in dona una glossa esplicativa d’età medievale scivolata nel testo (su tutta la questione cfr. P. SOVERINI, HA, Hadr., 17, 12 e il significato di munia, «Prometheus», V, 1979, PP. 73 segg.). 18, 2 ullis P1 ulli’* (i.e. ullius) P corr. ulla Σ vilis Hohl (Mommsen). Preferisco accogliere, con Peter e Magie, la lezione del correttore di P ullius (la presenza

dell’indefinito trova conferma anche nella lezione di Σ).

20, 9 emendavit PΣ emendarit Hohl. Mantengo – contro la regolarizzazione emendarit comunemente accolta – la lezione tràdita emendavit (già difesa da E. PASOLI, Note al testo degli ShA, «Convivium», N. S., VI, 1959, p. 629) ammettendo, qui come altrove nell’opera (cfr. anche la nota succ), l’impiego dell’indicativo in una proposizione consecutiva: su quest’uso, in linea generale, cfr. J. B. HOFMANN-A. SZANTYR, Lateinische Syntax und Stilistik, Mùnchen, 1965 p. 639, ove si ricorda fra l’altro la presenza di esso nella lingua dei giuristi – come Gaio, Ulpiano, Marciano – che potrebbe risultare significativa tenendo conto che in varie occasioni si riscontrano nella HA coincidenze con tale ambito linguistico (cfr. ad es. l’impiego passivo di tueor, riscontrabile non raramente nei giureconsulti [v. H. G. HEUMANN E. SECKEL, Handlexicon zu den Quellen des rom. Rechts, Jena, 19269, s. v.], a Hadr., 5, 3, la forma lupanarium = lupanar [attestata nei Digesti: cfr. Th. I. L., VII, 2, 1846, 20 segg.], a Comm., 2, 8, e l’uso metonimico di studium col valore di «luogo di studio» [di cui un altro es. è in Cod. Theod., XIV, 9, 3] a M. Ant., 26, 3; altre coincidenze saranno puntualizzate, ogni volta che si presentino, nelle note successive).

20, 11 non satis novit PΣ non satis noverit Hohl. Accolgo il testo tramandato da tutti i codici, ammettendo anche qui l’uso dell’indicativo in una consecutiva, nell’ambito della quale è da sottintendere, come suggerisce Hohl in apparato, «prae imperatoris rei publicae scientia». Per una discussione complessiva del passo cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 38 segg. 21, 12 Mesopotamenos P1 t. B Mesopotamiis** P corr, in rasura 〈a〉

Mesopotamenis Hohl 1927. Accolgo la lezione della prima mano di P (testimoniata da B), in favore della quale si esprime del resto lo stesso Hohl in un addendum nell’edizione del 1955. Sull’uso di exigo con doppio accusativo cfr. HOF-MANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 43.

23, 4 suspicionibus adductus ẽ. P suspicionibus adductus, et Hohl (Jordan). Considero, con HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 111, l’espressione tràdita (in cui ẽ equivale ad est) come parentetica, rinunciando ad ogni emendazione. Per l’ampio uso di parentetiche nel corso dell’opera cfr. ibid., pp. 110 segg. e A. KLOTZ, Beiträge zur Textgeschichte und Textkritik der ShA, «Rhein. Mus.», LXXVIII, 1929, pp. 307 segg.

25, 9 quae P, Hohl quo Σ. Accolgo in questo punto il testo e l’interpretazione proposti da I. MARIOTTI, Animula vagula blandula, in St. For. A. Ronconi oblata, Roma, 1970, pp. 233 segg., che valorizza la lezione di Σ quo (intesa quale avverbio di luogo), dopo abibis.

AELIUS 2, 2 viri & PΣ virtute Hohl (Bernhardy). Tanto l’emendazione virtute, accolta – da ultimo – anche da Hohl, che quella veri et, che, al pari dell’altra, ha ricevuto numerosi consensi fra studiosi ed editori, presentano qualche incongruenza, soprattutto sul piano logico: ciò spiega la mancanza, tuttora, di una soluzione generalmente accettata (veri et è stato difeso di recente dallo Hartke; lo Helm, nell’apparato di Hohl, vorrebbe invece mantenere la lezione dei codici intendendo viri nel senso di plane viri). Ho tentato perciò un’ulteriore proposta di lettura: visi et; in essa la doppia determinazione participiale visi et designati

(avente heredes quale predicativo) verrebbe a sottolineare uno dopo l’altro due aspetti della condizione di «figliolanza» collegata all’assunzione del nome di Cesari, sia cioè quello dell’«apparire» agli occhi di tutti i futuri successori, sia quello della «designazione» ufficiale all’eredità dell’impero. Per una discussione delle varie emendazioni sinora proposte per il passo, e l’esposizione di quella in questione cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 42 segg.

5, 9 atq; idem ovidii ab aliis relata idem apicii libros amorum P atque ad verbum memor iterasse fertur. idem croballius relatum idem apicii vidi libros amorum Σ atque idem Apicii (ab aliis relata), idem Ovidii libros amorum in ledo semper habuisse, idem Martialem, epigrammaticum poetam, Vergilium suum dixisse { atque ad verbum memoriter scisse fertur }. Hohl. Questa la lettura da me adottata, a partire dal § 8: quae etsi non decora, non tamen ad perniciem publicam prompta sunt, atque 〈aliter〉 ab aliis relata. Idem Apicii, idem Ovidii libros Amorum in lecto semper habuisse, idem Martialem, epigrammaticum poetam, Vergilium suum dixisse { atque ad verbum memor 〈iter〉 iterasse fertur }, che presuppone avvenuto, nella trasmissione del testo, dapprima il salto, e poi l’errato reinserimento di una riga in posizione diversa da quella originaria; l’espressione coinvolta nell’accidente paleografico doveva essere, a mio parere, 〈aliter〉 ab aliis relata che, unita ad atque, avrebbe fatto parte del periodo precedente; essa risulta corrotta in entrambe le redazioni (Σ ci ha però conservato in quel cr – probabilmente il residuo della parola iniziale, forse abbreviata – qualcosa di più che non P) verosimilmente in conseguenza del guasto maggiore. Per l’esposizione completa di questa proposta di lettura, unitamente ad un’ampia trattazione del passo, cfr. P. SOVERINI, Note su Ael. Spart. Ael., 5, 9 e sui rapporti tra la HA e Apicio, «St. it. fil. cl.», XLIX, 1977, PP. 231 segg. (a completamento della quale aggiungo, quale ulteriore esempio di una precisazione simile a quella che appare nel testo da noi presupposto, il rimando a Op. Macr., 4, 5 sed et haec dubia ponuntur, et alia dicuntur ab aliis).

ANTONINUS PIUS 2, 2 comparatus PΣ comparatur Hohl (edd.). Conservo la lezione tràdita, sottintendendo un sit (cfr., per ellissi del genere col congiuntivo di esse, la nota a Heliog., 14, 1). La forma passata del verbo, che viene così a distinguere la proposizione relativa in questione da quella analoga che incontriamo alla fine della Vita (cfr. 13, 4 prorsus sine civili sanguine et hostili… vixit et qui vite comparetur Numae), appare giustificabile – a mio avviso – col riferimento alla bonorum sen-tentia, attraverso il quale l’autore potrebbe voler fare diretto riferimento al giudizio dei contemporanei di Antonino (il richiamo ai boni mi sembra orientare più facilmente in questo senso; cfr. Al. Sev., 2, 5 dignum se exhibuit… quem omnium bonorum sententia principem diceret). 2, 10 in omni privata P1 in omni vita sua privata P coir., Σ, Hohl. Non credo che in questo caso la lezione di Σ meriti di essere rivalutata, dato che presenta piuttosto l’aspetto di un intervento regolarizzante; ove non si ammetta qui l’esistenza di un’ellissi del sostantivo (che, specialmente nel caso di nomi femminili, non manca di qualche attestazione nella HA: cfr. M. PETSCHENIG, Beiträge zur Textkritik der ShA, «Sitzbb. Wien. Akad.», XCIII, 1879, p. 386, che difende qui il testo di P1; in questo caso, però, l’ellissi appare particolarmente dura), mi pare risulti più probabile che vita si trovasse originariamente dopo privata, data la possibilità che si sia verificata, in tale condizione, una specie di aplografia (cfr. inoltre Pert., 12, 2 in privata vita; e si

noti che, in questo passo, vita è caduto nel cod. B); questa è del resto la soluzione adottata dagli altri editori.

3, 3 traliis P Trallibus Hohl (Casaubon). La lezione di P può forse – anche se con una certa dose di dubbio – conservarsi tenendo conto che, per quanto riguarda il locativo dei temi in -i plurali, «le forme -ibus» – come ricorda G. FUNAIOLI nel suo studio sul locativo in Studi di letteratura antica, Bologna, 1947, II, 2, pp. 247 segg. [originariamente in «Arch. f. lat. Lex.», 13, pp. 301 segg.] – «ebbero nel latino tardo varietà secondaria -is»: cfr. Vulgata, Apoc. Ioh., I, II Sardis e Codex Theodosianus, VIII, 36, 5 ove si ha lo stesso Tr aliis (significativa la coincidenza con la lingua giuridica, cui già abbiamo fatto cenno [cfr. nota a Hadr., 20, 9], e in particolare con quella del Codex Theodosianus; l’opportunità di confronti con quest’ultima è stata sottolineata di recente da V. TANDOI, recens. cit., p. 90). Per l’indicazione di un’ulteriore possibilità di conservazione della lezione tràdita (intesa come accusativo in luogo del locativo: per tale costrutto nella HA cfr. le note a M. Ant., 6, 1 e 8, 9 e a Comm., 8, 5), si veda P. SOVERINI, Nota a HA, Iul. Cap. Ant. Pius, 3, 3, «Giorn. filol. ferrarese», III, 1980, pp. 75 segg.

3, 5 monitus sed penitus eius P monitus se penitus eius Σ monitus est penatibus suis Hohl (Casaubon). Se l’emendazione est penatibus appare ineccepibile, non altrettanto opportuno risulta qualsiasi intervento suggerito dalla «irregolarità» sintattica rappresentata dall’impiego di eius, come appunto l’emendazione suis. Scambi tra anaforico e riflessivo sono riscontrabili, oltre che in generale – specialmente nel latino tardo (cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 175) –, nella stessa HA (come a M. Ant., 25, 6 simul petit, ne qui senator… occideretur, ne eius pollueretur imperium; altri ess. in C. LESSING, ShA Lexicon, Lipsiae, 1901-1906 = Hildesheim, 1964, p. 295, s. v. is, 12). 8, 9 famosa percussus P1 famosa voce perc. P corr. famose perc. Σ fama

percussus Hohl. Accolgo, col Magie, la soluzione del Novák 〈fabula〉 famosa che, mentre conserva opportunamente la lezione di P1 (sulla quale – confermata com’è dalla stessa banalizzazione che ne dà Σ – non appare metodologico intervenire), integra dinanzi ad essa un sostantivo come fabula, la cui caduta è paleograficamente ammissibile pensando ad una specie di aplografia, e che offre un senso soddisfacente (tra l’altro lo si trova anche altrove nella HA esplicitato da una proposizione introdotta da quod: cfr. Ver., 11, 2 nota est fabula… quod… porrexerit).

MARCUS ANTONINUS PHILOSOPHUS 2, 3 polono P polione A Ch, Hohl pollione R. Accolgo l’emendazione Polensi (che permette un significativo pendant come Cotiaensi e Siccensi) espungendo la precedente et (il cui inserimento nel testo è forse conseguenza della corruttela dell’aggettivo); è la soluzione proposta con interessante argomentazione da A. R. BIRLEY, Some Teachers of M. Aurelius, in BHAC, 1966-67, Bonn, 1968, pp. 40 seg.

2, 7 usus est etiam Commodo magistro, cuius ei adfinitas fuerat destinata, usus est et Apollonio Chalcedonio stoico philosopho PΣ, Hohl Si tratta di un passo assai problematico, per il quale non credo risulti in ogni caso possibile accogliere in toto – come fa Hohl – il testo dei codici. Posto che il Commodo qui citato è da identificare con tutta probabilità con L. Elio (il termine adfinitas si adatta più propriamente al

rapporto configurato nella promessa di matrimonio tra la figlia di Elio e Marco [cfr. 4, 5], che non a quello fra lo stesso Marco e il fratello d’adozione L. Vero), il vedere in tale personaggio – caratterizzato nella biografia a lui dedicata come alquanto frivolo e superficiale (cfr. in partic. Ael., 5) – un maestro di filosofia di Marco Aurelio appare un controsenso. Peter e Magie accolgono la soluzione dell’Obrecht, emendando in Commodi ed espungendo il susseguente usus est et; l’introduzione del genitivo appare anche a me inevitabile, mentre la successiva espunzione mi pare ponga grossi problemi, in quanto con essa si viene a presupporre che il nome di Commodo indichi qui L. Vero (dato che Apollonio non poteva essere stato maestro di Elio, in quanto fatto venire a Roma da Antonino Pio [cfr. Ant. Pius, 10, 4], mentre lo era in effetti stato di Vero [cfr. Ver., 2, 5]): un’identificazione, questa, che abbiamo già detto essere assai improbabile. Da parte nostra ci siamo dunque limitati all’emendamento Commodi, ammettendo che il biografo faccia qui riferimento, oltre che ad Apollonio, anche ad un altro non meglio precisato maestro di Marco Aurelio, che lo era già stato anche di Elio.

3, 3 et praecipue PΣ set praecipue Hohl (Helm). Intendo la frase che precede peripateticae vero studiosus audivit Claudium Severum come parentetica; in tal modo non risulta necessaria l’emendazione accolta da Hohl allo scopo di ottenere un senso avversativo ad introdurre la successiva menzione di uno stoico.

4, 8 fuit autem vitae indulgentia, ut PΣ, Hohl (edd.). Hohl conserva il testo tràdito, rinunciando opportunamente a integrare un correlativo di ut (come fanno invece vari studiosi ed editori). In effetti abbiamo a che fare con una sostantiva con valore esplicativo nei confronti di indulgentia (come ad es. a Heliog. 17, 1 addita iniuria cadaveri est, ut…), e quello che a mio parere manca nella sovraordinata non è tanto un correlativo, quanto un pronome personale in dativo riferito a Marco Aurelio che, lasciando praticamente immutato il senso, permetterebbe di avere un costrutto meno duro. Ho pertanto inserito – con un lieve intervento paleografico – un ei dopo autem. 4, 9 pugilatum luctamina P1 pugilatum 〈et〉 luctamina Hohl (Helm). L’integrazione della congiunzione non appare necessaria: i due sostantivi possono considerarsi uniti per asindeto, per via della maggiore affinità semantica che li lega, a differenza degli altri (cfr. la trattazione in proposito del TIDNER, De particulis, cit., p. 36 con altri esempi tratti dalla HA).

6, 1 baias P 〈apud〉 Baias Hohl (Helm). Accolgo il testo di P riconoscendo in Baias un accusativo impiegato con funzione locativa (di questo avviso è anche S. TIMPANARO, Accusativo invece del locativo nell’HA, in Contributi di filologia e di storia della lingua latina, Roma, 1978, pp. 423 segg. [già in Studi di storia antica in mem. di L. Ferrero, Torino, 1971, pp. 128 segg.]); cfr. 8, 9 e Comm., 8, 5.

6, 2 & eum P, Hohl utrum Saekel. Il passo in questione contiene sicuramente una lacuna, ma il senso generale è facilmente ricostruibile (cfr. la nota di commento ad loc.): in base ad esso non sembra possibile mantenere – come fa Hohl – la lezione tràdita et eum, in quanto dopo sciscitatus est si avverte la necessità della presenza di una formula introduttiva di una proposizione interrogativa: accolgo perciò l’emendazione utrum del Saekel (cfr. Aurel., 44, 4 sciscitantem, utrum…).

7, 6 coepit,…lictum Hohl (edd.). Anziché lasciare – come fa Hohl – intatta la lacuna che il testo tràdito presenta evidentemente dopo coepit, preferisco integrare 〈cum imperium sibi de〉latum. La scelta di delatum in luogo del relictum di Mommsen – che pure è più vicino al lictum offerto dalla tradizione manoscritta – è

legata al fatto che il nesso deferre imperium appare maggiormente rispondente all’usus scribendi riscontrabile nell’opera (cfr., proprio in riferimento al caso di Marco, Ver., 3, 8 cum illi soli senatus detulisset imperium).

8, 9 romam P 〈apud〉 Romam Hohl (Helm). Conservo anche qui la lezione tràdita riconoscendo un impiego dell’accusativo in luogo del locativo (v. TIMPANARO, Acc. invece del locat. nell’HA, cit., pp. 423 segg.): cfr. 6, 1; Ant. Pius, 3, 3; Comm., 8, 5.

10, 12 lętoria P lectoria Σ Laetoria Hohl. Accolgo dubitativamente il lieve emendamento del Jordan (così anche il Magie; cfr. inoltre le trad. di Roncoroni e Birley) Plaetoria, dizione forse preferibile a Laetoria (i due nomi risultano talora scambiati nei manoscritti) in riferimento a una legge a noi nota e il cui contenuto si adatta al contesto in questione (cfr. nota di comm. ad loc.). 12, 2 moderantissimus P1 t. B, Hohl modera*t- P corr. moderat- Σ. Accolgo la lezione di P corr. e Σ: cfr. 12, 2 moderate e 12, 7 moderatissime. 12, 12 puerum Pa puerorum Pb Σ, Hohl. Accolgo la lezione della prima mano di P, che si fa preferire all’altra soprattutto in relazione all’usus scribendi riscontrabile nell’opera, che, mentre presenta vari altri esempi di impiego di post in unione a un participio congiunto, non offre per contro attestazioni del sostantivo lapsus: cfr. in proposito V. TANDOI, Marco Aurelio al «trionfo» di Commodo (Iul. Cap., M. Ant., 16, 2), in Studi Classici e Orientali, Univ. di Pisa, Ist. Sc. Antich., vol. XIX-XX, 1970-71, p. 483 n. 29.

13, 4 velle abfricar&ur P velle fabricaretur Σ 〈ut〉 vellet fabricaretur Hohl (Jordan). Accolgo la lettura di Jordan e Hohl integrando però ubi in luogo di ut (secondo una congettura già proposta in un primo tempo dal Peter, e poi accolta dal Novák): in un caso di pestilenza doveva apparire di fondamentale importanza, ancor più che determinare le modalità di costruzione dei sepolcri, stabilire con leggi rigorose la loro localizzazione.

14, 8 biaquoque P via quoque Σ biduoque Hohl (Unger). Accolgo, pur con qualche incertezza, la lettura del Peter viaque; per l’impiego, qui assai problematico, del nudo ablativo via nel senso del nostro «per (in) via» (=«durante il viaggio»), richiamerei soprattutto il confronto, all’interno dell’opera stessa, con l’impiego di iter a Al. Sev., 27, 4 matronas tamen intra urbem paenulis uti vetuit, itinere permisit e 22, 6 praesides… itineribus secum semper in vehiculo habuit.

16, 2 sine imperator P sine imperatoris Σ sine… imperator Hohl. Accolgo l’integrazione sine 〈purpura〉, proposta già da Helm e difesa successivamente da V. TANDOI (cfr. M. Aur. al «trionfo» di Comm., cit., pp. 471 segg.).

16, 4 qui praecipue displicebant P quae praecipue displicebant Hohl. Nell’ambito di questo periodo elaborato e involuto che, come spesso accade in casi del genere, finisce in realtà per rivelare quello che è il fondamentale impaccio espositivo dell’autore, ritengo preferibile conservare la lezione tràdita qui, riferendo l’antecedente his ad erroribus, e considerando i successivi ablativi institutis… e moribus in funzione appositiva, ad esplicare in che cosa consista il secondo «tipo» – appunto – di errores. Anche il cod. Chigianus, che ho qui controllato, offre, pur in

una diversa disposizione delle parole, qui. 23, 6 exhibere Pa exhiberi Pb (ut

videtur), Hohl.

Accolgo senz’altro la lezione di Pa rinunciando a ricorrere alla «regolarizzazione» exhiberi. La possibilità di una dipendenza da iubeo di un costrutto più libero, con un infinito attivo impiegato anche senza che sia espressa la persona che riceve il comando, è riscontrabile sia in linea generale (cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 342; Th. l. L., VII, 2, 578, 64 segg.), che nell’ambito della stessa HA (cfr. Sev., 11, 7; Heliog., 25, 6; v. HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 118 segg.).

27, 1 in italia PΣ initialia Hohl (Salmasio). Anziché accogliere, in luogo della corrotta lezione dei codici, l’emendazione generalmente accettata initialia, preferisco adottare la lettura del NOVÁK, Observationes, cit., p. 8 (seguito dal Magie) initia, dato che questo termine – a differenza del precedente – risulta frequentemente attestato in riferimento alle pratiche di iniziazione ai culti misterici (cfr. specialmente AURELIO VITTORE, Caes., 14, 4 initia Caereris Liberaeque… percoleret). Si tenga del resto conto che non pare si abbiano mai attestazioni di un neutro plurale sostantivato initialia, e che l’aggettivo stesso initialis è estraneo all’usus scribendi degli Scriptores. 27, 3 italia P1 t. B, Hohl italiam P corr. Non comprendo come Hohl pensi di giustificare la lezione di P1, da lui conservata nel testo a dispetto della sua traduzione («Über Brundisium in Italien eingetroffen»); l’emendazione – peraltro lievissima – del correttore di P appare indispensabile, ed è stata accolta dai precedenti editori (cfr. per uno svolgimento formale simile Aurel., 22, 3 per Byzantium in Bithyniam transitum fecit). Italiam leggo anche sul cod. Chigianus.

27, 11 minime PΣ, Hohl 〈quod moreretur, sed quod moveretur talem〉 post ferre add. Hohl (Helm). Ho conservato, con HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 49 seg., il testo dei codici, ad eccezione del tràdito minime, corretto in nimie; ritengo che il problematico participio relinquens si possa giustificare (senza quindi bisogno di ricorrere ad emendazioni di tale forma nominativa [Casaubon, Peter leggono: relinquentem], sia ad integrazioni onerosissime per salvarla [Hohl-Helm]), tenendo conto che, specialmente negli storici, è talora attestato il caso in cui un participio (soprattutto perfetto, ma anche presente o futuro) corrispondente per il senso all’espressione di una data condizione, viene accordato con il soggetto della principale anziché con quello della subordinata con accusativo e infinito (cfr. bibliogr. ed ess. in HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 392 e HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 49 seg.).

VERUS 4, 3 et pro consensu imperii graviter se et ad Marci mores egit P, Hohl. La conservazione pura e semplice del testo tràdito appare problematica, in quanto la frase in questione (che ha per soggetto Vero) è coordinata ad una precedente proposizione che presenta come soggetto espresso Marcus. Ritengo necessaria nella frase in questione l’integrazione del soggetto Verus, situandola dopo mores, seguendo la proposta di G. LENZE, Quaestiones criticae et grammaticae ad ShA pertinentes, Munster, 1894, p. 11, che giustifica tale posizione in base a considerazioni inerenti l’usus scribendi riscontrabile nell’opera in casi analoghi. 4, 11 omnia nesciens P1 omnia quasi nesciens P corr. omnia resciens Hohl

(Jordan). dissimulabat ·

· P dissimulabat rem Σ dissimulabat rescisse Hohl (Helm).

L’emendazione resciens è paleograficamente ottima, ma introduce un verbo mai altrove attestato nel corso dell’opera; assai meno onerosa ci è parsa la soluzione proposta dal Peter, che legge 〈non〉 nesciens (la caduta di un non è abbastanza frequente sia nella tradizione manoscritta della HA che anche in generale nei codici). Poco convincente anche l’emendazione successiva rescisse, suggerita a Hohl da Helm, in luogo della lezione rem, presente nei codici Σ e ricavabile forse dallo stesso P, che appare offrire un senso soddisfacente (cfr. B. MOUCHOVÁ, Textkritisches zur HA, «Listy Filol.», XCII, 1969, pp. 257 seg.). 6, 1 provincia P1 provincialibus P corr. 〈e〉 provincia Σ, Hohl (Salmasio). Preferisco mantenere, seguendo HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 116, la lezione della prima mano di P (quella di P corr. è un’evidente bana lizzazione), rinunciando ad integrare – come fanno Hohl e gli altri editori – la e offerta dai codici Σ dinanzi a provincia; bisogna infatti tener conto che anche altrove nella HA si riscontra l’uso del nudo ablativo separativo con nomi di luogo (cfr. ibid., pp. 115 segg.), e considerare altresì che il sostantivo in questione non riveste qui solo tale funzione, ma anche quella puramente locativa richiesta da acceperit (su questo secondo aspetto, che potrebbe vieppiù giustificare l’impiego del semplice ablativo provincia – riscontrabile nel latino tardo anche col valore di in provincia –, con la doppia funzione di ablativo separativo in riferimento a miserit e di ablativo locativo in riferimento ad acceperit, cfr. W. A. BAEHRENS, Beiträge zur lateinischen Syntax, «Philologus», Sup-plementband, XII, Leipzig, 1912, p. 367).

8, 8 paribus PΣ Paridis Hohl. La lezione tràdita è a mio avviso accettabile, in quanto par è attestato anche in senso negativo (cfr. PLAUTO, Rud. prol., 49 erat ei hospes par sui: SALLUSTIO, Cat., 14 par similisque ceteris efficiebatur; CICERONE, Phil., IV, 15; TACITO, Hist., IV, 2).

8, 8 praesentia ulla P praesentia nulla Σ praesentiae nulla Hohl (vulgo). Accolgo la lezione di Σ, in quanto il verbo insum è sicuramente attestato anche nell’impiego con l’ablativo (v. Th. l. L., VII, 1, 2051, 11, ove, tra l’altro, notiamo che anche questo, così come altri usi particolari rilevabili nell’opera, trova riscontro nella lingua dei giuristi; cfr. nota a Hadr., 20, 9).

9, 2 fratres suos PΣ, Hohl. Il testo tràdito mi pare insostenibile, giacché non vi è dubbio che il riferimento del sostantivo vada unicamente a Marco, chiamato da Libone proprio frater ( = «cugino»). Accolgo perciò l’emendazione del Peter fratrem suum se – che consente fra l’altro di recuperare il soggetto dell’infinitiva – paleograficamente giustificabile pensando ad un’originaria scrittura fratrē suū se divenuto poi fratre suo se (lo scambio um/o è frequentissimo nella tradizione manoscritta dell’opera) e infine fratres suos, con l’assorbimento del se nella parola precedente e l’ovvio adattamento in fratres.

9, 8 veccatus (potius quam vectatus) P vectatus Σ venatus Hohl (Obrecht). Conservo la lezione tràdita (attestata con chiarezza da Σ, ma ricavabile sostanzialmente anche da P), rinunciando all’emendazione comunemente accolta venatus, che mi pare – tutto sommato – superflua. Il verbo vectari può essere impiegato anche assolutamente col senso di «andare in carrozza», e nella stessa HA lo si trova attestato in riferimento ad un altro imperatore scioperato e

dissoluto come Elagabalo (cfr. Heliog., 28, 1; 29, 2), in contesti in cui viene necessariamente ad assumere – come nel nostro caso – una coloritura negativa (cfr. il nostro «scarrozzare»), che invece non si riscontra mai, nell’ambito di queste vite, nell’impiego di veho.

9, 9 quidem P partim Hohl. L’emendazione di Hohl, priva com’è di qualsiasi base paleografica, mi sembra davvero inaccettabile, anche se bisogna riconoscere che anche le soluzioni proposte da altri studiosi per sanare il problematico passo offrono adito a dubbi e perplessità. Così l’espunzione dell’intero inciso quidem… est proposta dal Mommsen e accolta dal Jordan appare un rimedio troppo drastico e immetodico; l’introduzione del pronome interrogativo quid (quid[em]: Novák; quidem (quid): Peter) dà luogo ad una doppia interrogativa indiretta con il verbo all’indicativo, un costrutto, questo, che, pur se indubbiamente ammissibile nel latino tardo e parlato, appare decisamente estraneo all’usus scribendi degli ShA; neppure il doppio quadam proposto da H. ARMINI («Eranos», XXVIII, 193° p. 37) convince pienamente, non solo perché tale ablativo avverbiale non è altrove attestato nell’opera, ma anche e soprattutto perché con questa soluzione – come avviene nel caso del partim di Hohl, cui risulta affine per il senso e l’interpretazione del periodo che ne deriva – soggetto di gestum est diviene bellum (sottinteso), e non potrà non apparire impropria un’affermazione diretta secondo cui la guerra era stata «condotta» — anche se solo per una certa parte – dagli ambasciatori di pace nemici. Per parte mia proporrei, pur con ogni cautela, una nuova emendazione: quiddam… quiddam…; oltre che paleograficamente plausibile, pensando ad un facile scambio con quidam e poi con quidem (per quest’ultimo cfr. Pesc. Nig., 9, 6), essa permetterebbe da una parte di conservare il carattere parentetico dell’inciso in questione, in armonia con la presenza del verbo all’indicativo, e dall’altra di evitare il riferimento diretto del verbo stesso a bellum, con l’incongruenza sopra ricordata. Il senso potrebbe essere vicino a quello di aliquid (nel latino tardo il valore di quidam presenta non raramente questo slittamento, e ciò si verifica in modo particolarmente significativo anche nella HA, come espressamente notato in HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 197; cfr. anche gli ess. ammianei citt. da M. PETSCHENIG in «Arch. für lat. Lex.» 6, p. 268), anche se forse non risulterebbe qui inappropriata la stessa sfumatura semantica fondamentalmente inerente al pronome in questione, in relazione al carattere di voluta genericità che viene ad assumere tutta l’espressione che ci interessa nel particolare contesto del passo, quale accenno fuggevole a fatti che si afferma aver già ampiamente trattato altrove. Per il nesso con gerere cfr. Ant. Pius, 6, 12 domestica quaedam gerens.

10, 5 anteventum Lucium Faustina PΣ 〈a〉 Faustina Hohl (Mommsen). Conservo il testo tràdito, ammettendo qui la presenza di un ablativo semplice con valore d’agente (cfr. nota a Heliog., 4, 4).

11, 4 totam purgatam confutatamque PΣ totum purgatum confutatumque Hohl (Casaubon). Ritengo, con HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 26, che il testo tràdito possa conservarsi vedendo qui una concordanza a senso non col precedente quod, ma col sostantivo fabula, presente poco prima (§ 2), nei confronti del quale i due verbi si trovano in evidente rapporto logico-semantico. AVIDIUS CASSIUS

1, 1 tamen novo P A Ch homine novo Hohl (Mommsen). Ritengo anch’io, con la maggioranza degli editori, che la presenza di homine vada comunque reintegrata nel passo, e ciò non perché, in linea generale, non risulti ammissibile l’uso del semplice novus ═ homo novus (cfr. CICERONE, De leg. agr., 2, 3; QUINTO CIC., pet. cons., 1, 2; SALLUSTIO, Bell.

Iug., 63, 7), ma perché tale impiego risulta estraneo all’ usus scribendi degli ShA, e lo stesso testo tràdito, piuttosto problematico in ordine alla collocazione e al preciso valore di tamen, offre un’impressione di incompletezza. La soluzione accolta da Hohl di ricavare homine dall’emendazione – e quindi dall’eliminazione – di tamen risolve ogni problema in maniera, a mio avviso, troppo drastica e ardita, mentre quella del Klebs tamen (homine) novo lascia aperto il problema del tamen, che offre difficoltà sia considerato in riferimento a genitus (per la collocazione iniziale di frase), che in collegamento al precedente per matrem (per il senso; così è comunque inteso dal LESSING, Lexicon, cit., p. 656 e dal Magie). Per parte mia proporrei la lettura 〈homine〉 tamen novo, richiamando particolarmente a confronto un passo come Cl. Alb., 1, 3 fuit autem Clodius Albinus familia nobili, Hadrumetinus tamen ex Africa, in cui si ha un andamento logico simile, con l’affermazione dell’appartenenza dell’imperatore a una famiglia importante e nobile, che viene subito dopo «temperata» da una precisazione che la ridimensiona, sottolineata da un tamen collocato fra due parole indicanti l’aspetto meno «onorevole» della sua origine. Sulla perdita di homine può aver influito una certa – seppur limitata – somiglianza grafica con tamen.

8, 4 pertinace & PΣ [Pertinace &] Hohl (Lipsius). L’espunzione è indubbiamente fondata, per via dell’evidente anacronismo provocato dalla citazione di Pertinace in riferimento ai giudizi di Marco Aurelio. Io però sono propenso a credere che, più che ad un’aggiunta indebita di un copista, la presenza del nome in questione sia qui dovuta ad una svista dello stesso biografo (o di un eventuale successivo rielaboratore) che forse è stato portato, parlando dell’avarizia negli imperatori, ad accomunare meccanicamente, nella citazione, due principi tradizionalmente noti per tale vizio (per Galba cfr. in partic. AURELIO VITTORE, Caes., 6, 2; su Pertinace cfr. Pert., 9, 4-5); e si noti che nell’unica altra occasione in cui il nome di Galba compare ancora nel corso dell’opera, esso viene a trovarsi – pur se in un diverso contesto – in collegamento a quello di Pertinace (cfr. Claud., 12, 5). L’opportunità di conservare il testo tràdito è stata di recente sostenuta da R. SYME, Emperors and Biography, Oxford, 1971, p. 132 n. 2.

9, 8 timens P timetis Σ timeas Hohl (Gruter). La lezione di P è conservabile, collegando direttamente timens a veni (cfr. HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 93 seg.).

COMMODUS ANTONINUS 1, 8 fingeret P, Hohl frangeret Σ. Accolgo la congettura ingereret, proposta e difesa con acuta argomentazione da V. TANDOI (V. «At. e Roma», XIII, 1968, p. 87 e Restauri testuali nell’HA, in «St. it. fil. cl.», XLIII, 1971, pp. 101 segg.), a parere del quale, tra le occupazioni indegne di un principe attribuite a Commodo, verrebbe qui ricordato l’aver servito a tavola, da coppiere, tema ripreso più avanti (cfr. 2, 9 aquam gessit ut lenonum minister). 2, 8 lupanarium & dibrium P1 lupanarium & ludibrium P corr., A Ch ad

ludibrium R, Hohl. Non ritengo indispensabile ricorrere all’emendazione del testo tràdito: anche altre volte, infatti, nel corso dell’opera, si trovano uniti con et due membri, dei quali il secondo costituisce una precisazione in termini più specifici della connotazione semantica insita nel primo (cfr. TIDNER, De particulis, cit., pp. 25 seg.).

2, 8 imitatus PΣ invectus (an insectatus?) Hohl (Helm).

Anche in questo caso non ritengo necessario correggere il testo tràdito, in quanto tutto il passo (§ 7-8) appare volto a stigmatizzare la tendenza di Commodo a riprodurre a corte ambienti di dissipazione e vizio, e ad imitare personalmente chi esercitava mestieri infamanti o comunque indegni di un imperatore, come appunto quello dei propolae.

3, 9 contemplo PAR 〈e〉 contempto Hohl (Paucker). La lettura accolta da Hohl non manca di porre qualche difficoltà in quanto, in espressioni quali quella che viene in tal modo presupposta, deve esistere un più diretto nesso logico-semantico (di affinità o di opposizione che sia) fra le due determinazioni in questione (si vedano in proposito gli esempi citati in LESSINO, Lexicon, cit., p. 197 s. v. facere, 7, c e p. 209 s. v. fieri 2, b). Ritengo perciò che abbiamo qui più probabilmente a che fare col semplice ablativo causale del sostantivo contemptus (cfr. il nesso con fieri in Gall., 5, 1 haec omnia Gallieni contemptu fiebant). In relazione alle riserve sull’attendibilità delle attestazioni della tradizione manoscritta inerenti ad eventuali confusioni morfologiche nelle desinenze di sostantivi della IV declinazione, che abbiamo già avuto modo di esprimere nel corso della nota a Hadr., 5, 6, si è preferito accogliere nel testo – in armonia con l’esempio succitato della Vita Gallieni – la forma contemptu. 8, 1 tridente P1 t. B tradente P corr. ridente Σ inridente Hohl (Peter). Accolgo la lezione di Σ ridente, dato che anche rideo è usato spesso nell’opera col senso di «deridere» (cfr. LESSINO, Lexicon, cit., p. 566 s. v., 2, a). Sulla genesi della lezione di P1 ha probabilmente influito la presenza immediatamente antecedente della t finale di semet.

8, 3 sororis Lucillae PΣ sororis(que) Lucillae Hohl (Brakman). A parere di M. HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 100, non sarebbe necessario aggiungere qui una particella copulativa, dato che risulta essere un costrutto tipico della HA l’unione asindetica di due elementi con l’interposizione di altre parole; in questo caso, però, tale interposizione è costituita dalla relativa qui… interemit, riferita ad Alexandri; mentre, esaminando gli altri esempi che di questo tipo di asindeto ricorrono nella HA (così come – a quanto sembra – negli altri autori che lo impiegano: cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 831; HALLÉN, ibid., pp. 96 seg.), appare come fra i membri in questione siano comprese parole o espressioni comuni, per riferimento logicosemantico, ad entrambi. Non sarei perciò troppo propenso a ricollegare anche questo passo al «tipo» descritto; con tutto ciò non accolgo, come Hohl, l’emendazione del Brakman, in quanto mi sembra paleograficamente più plausibile l’integrazione, quale particella copulativa, di una et dinanzi a sororis, facilmente giustificabile dopo la finale di interemit (così anche il Magie). 8, 4 diligere P A1 Ch del- R, A corr., Hohl. L’emendazione non mi pare necessaria, data la frequente confusione, forse già presente in epoca classica e accentuatasi nel tardo latino, riscontrabile fra i due verbi certo al di là dei pur ammissibili scambi paleografici. In P troviamo diligo col valore di deligo ben otto volte, e negli altri casi anche Hohl evita la regolarizzazione (cfr. ad es. Aurel., 41, 13 de imperatore diligendo).

8, 5 lanuvium PΣ 〈apud〉 Lanuvium Hohl. Anche in questo caso (come a M. Ant., 6, 1 e 8, 9) accolgo il testo tràdito rinunziando all’integrazione di Hohl, dato che nella lezione attestata concordemente da tutta la tradizione manoscritta si può fondatamente riconoscere l’impiego di un accusativo in funzione locativa (cfr. TIMPANARO, Acc. invece del loc., cit., pp. 423 segg.).

10, 2 cum etiam P eum etiam Hohl (edd.). Conservo la lezione di P (presente anche nel cod. Chigianus, da me consultato) che è stata – a

mio avviso senza vera necessità – emendata dagli editori. Non è raro infatti riscontrare nella HA l’impiego di cum e quando in inizio di periodo con la funzione di introdurre la menzione di un fatto avvenuto in collegamento a circostanze descritte in precedenza (col valore, dunque, di quo tempore), spesso in unione con quidem, ma anche altrimenti: cfr. ad es. Sev., 12, 1 cum et Hispanorum et Gallorum proceres multi occisi sunt; nella stessa Vita Commodi cfr. l’impiego di quando a 1, 9 (per altri esempi v. LESSING, Lexicon, cit., pp. 104 s. v. cum e 508 s. v. quando). Per ciò che riguarda l’omissione, che viene così ad aversi, del pronome dimostrativo riferito al relativo qui, cfr. ad es. Al. Sev., 23, 8 qui de eo fumos vendiderat… in crucem tolli iussit; Av. Cass., 14, 7; Tyr. trig., 3, 10.

10, 3 praedixisset PΣ, Hohl. Accolgo la congettura pro eo dixisset proposta da V. TANDOI, Ael. Lampr. Comm. Ant. 10, 3, «At. e Roma», XVI, 1971, pp. 126 segg., sottolineando, tra l’altro, la «dipendenza ‘artistica ’ dell’aneddoto da Svetonio» (cfr. Calig., 14, 2 e 27, 3).

10, 4 obtunsioneris P obtunsi oneris Σ obtunsione rostri Hohl (Helm). Accolgo l’emendazione di M. PETSCHENIG, Beiträge, cit., p. 395, obtunsione oris (così anche Peter e Magie), paleograficamente migliore di quella di Helm-Hohl e giustificabile anche per il senso (per l’uso di os in riferimento al becco di animali cfr. CICERONE, De divin., I, 27 e PLINIO, Nat. Hist., X, 156). Si confronti inoltre, per il nesso terminologico, 9, 6 capita… obtundebat ore simulacri.

11, 2 sibi PΣ [sibi] Hohl (Helm). Mantengo il testo tràdito, in quanto exhibeo si ritrova ancora, nel corso dell’opera, in unione al dativo del riflessivo, anche in contesti analoghi, come nel caso della vita di Elagabalo (cfr. 32, 4 ut cenas sibi exhiberet tales; 25, 8; 27, 1).

11, 4 genera leguminum PΣ genera (omnia) leguminum Hohl (Helm) raro vocavit PΣ raro (non) vocavit Hohl. Ritengo, con J. N. MADVIG, Adversaria critica ad script. Graec. et Lat., II, Hauniae, 1873, p. 633, che l’espressione genera leguminum coctorum vada collegata – opportunamente emendata – al precedente deformato vultu, ad indicare da che cosa la faccia del malcapitato prefetto era «deturpata», «imbrattata». Non mi pare infatti ammissibile considerare genera… oggetto di vocavit, e ciò alla luce stessa dell’usus scribendi riscontrabile nell’opera, dove vocare ad convivium (ad cenam, ecc.) è sempre riferito ad ospiti che vengono, appunto, invitati (cfr. LESSING, Lexicon, cit., pp. 743 seg., s. v., 2). Non credo però sufficiente la sola emendazione del Madvig di genera in genere (tale lezione è presente nel cod. Chigianus, da me consultato): occorre anche un determinativo del sostantivo, che potrebbe essere vario (la cui caduta si potrebbe ipotizzare favorita dalla presenza immediatamente antecedente di un’altra parola della stessa lunghezza, pur essa iniziante per v). Nell’ambito poi della proposizione ad convivium… vocavit (in cui l’integrazione non di Hohl andrà decisamente respinta) l’espressione propter luxuriae continuationem non verrà a rivestire valore finale (secondo l’interpretazione più invalsa: del resto un uso di propter in tal senso non trova altre attestazioni nel corso dell’opera), ma bensì causale, analogo a quello dell’ablativo luxuriae continuatione che si ha a Tyr. trig., 9, 1. Il suo essere continuamente preso nei vizi di una vita dissoluta non permetteva a Commodo di avere con una certa frequenza ospiti a pranzo: e ciò appare comprensibile dagli accenni alle portate tutt’altro che invitanti che l’imperatore faceva spesso allestire (cfr. 11, 1-2), nonché, in particolare, da quanto viene detto subito dopo il passo in questione, dove il motivo della luxuriae continuatio (lavabat per diem septies atque octies), compare in diretta

correlazione con quello della difficoltà ad organizzare regolari convivia (et in ipsis balneis edebat).

12, 1 Pisone Iuliano P, Hohl Pisone et Iuliano Σ, P corr. Accolgo la lezione del correttore di P e dei codici Σ nel corso dell’opera i nomi dei due consoli citati per l’indicazione di un determinato anno sono sempre uniti da una et (cfr. LESSINO, Lexicon, cit., p. 87 s. v., b; KLOTZ, Beiträge, cit., p. 292), così come avviene del resto per altre quattro date ricordate nell’ambito dell’intero brano (11, 3-12, 8).

12, 12 〈vel〉 elephantos Hohl (Helm). Dinanzi ad elephantos preferisco integrare una et: più che il senso di «perfino», è qui richiesto quello di «anche», in armonia con il valore puramente aggiuntivo assunto spesso dalla formula ita ut nel corso dell’opera (cfr. in proposito LENZE, Quaestiones, cit., p. 37).

13, 5 Pannoniae quoque compositae 〈et〉 Brittannia Hohl (Jordan). L’integrazione può essere evitata riconoscendo qui la presenza di un asindeto a membri separati, un costrutto che appare tipico nella Historia Augusta (v. HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 96 segg.: il passo in questione è trattato a p. 99; HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 831).

15, 3 spectator P speculator Σ secutor Hohl (Petschenig). Il testo tràdito, pur con qualche impaccio nello svolgimento logico del discorso, non mi sembra insostenibile, solo che si scandiscano i momenti della scena descritta in questo modo: Commodo, intervenuto quale spettatore allo spettacolo gladiatorio, a un certo punto scendeva nell’arena prendendo lui stesso le armi e spogliandosi, evidentemente, delle vesti imperatorie; sulle nude spalle avrebbe però posto un drappo di porpora, quasi a conservare anche in quella situazione un tratto di distinzione regale (panno… advelans andrà cioè riferito solo a gladiatoria… sumpsit, non anche a spectator).

19, 8 viro P (scil. plane viro) Hohl. L’interpretazione presupposta da Hohl per conservare il testo tràdito mi pare troppo forzata linguisticamente e per senso. Preferisco accogliere la lieve emendazione viso proposta da O. HIRSCHFELD, Kleine Schriften, Berlin, 1913, p. 806 e accolta da Peter e Magie: lo studioso richiamava a confronto in particolare un’acclamazione registrata nella tavola del Carmen Arvale: CIL, VI, n. 2086, b, v. 17 o nos felices, qui te imp(eratorem) videmus; per parte mia citerei anche PLINIO, Paneg., 22, 3 inde alii se satis vixisse te viso, te recepto… praedicabant.

PERTINAX 1, 4 idem PΣ item Hohl. Ritengo che la lezione dei codici possa essere (coi precedenti editori) conservata, tenendo conto che anche più oltre, in questa stessa Vita, idem viene ad assumere – in unione al nome dell’imperatore – una sfumatura di significato in qualche misura corrispondente al nostro «a sua volta» (cfr. 3, 9 seditione legionis paene occisus… Quam quidem rem idem Pertinax acerrime vindicavit). Sull’impiego di idem nelle varie vite della HA cfr. B. MOUCHOVÁ, Untersuchungen uber die ShA, Praha 1975, pp. 89 segg.; la studiosa considera pur essa «unnötig» emendare nel nostro passo la lezione tràdita (cfr. p. 93 n. 16), accostando peraltro ad esso per confronto due esempi poco calzanti (in quanto in M. Ant., 23, 8 idem Marcus il pronome riveste la funzione coordinanteaggiuntiva che ha spesso nell’opera, e in Op. Macr., 3, 6 et idem Macrinus esso corrisponde a «il nostro», «il medesimo» di cui si parla).

2, 4 quorundam a partibus P quorundam relatu a partibus Σ quorundam

apparatibus Hohl. L’emendazione di Hohl introduce un sostantivo mai altrove attestato nell’opera e che non pare del resto – anche in linea generale – poter rivestire da solo quella implicazione negativa che il contesto richiede, e che è invece in grado di assumere artibus, che doveva essere certamente presente nel testo originario. Tuttavia anche l’emendazione più semplice e piana – dal punto di vista del senso – quorundam artibus (Jordan, Peter, Magie) non appare del tutto convincente, in quanto non può offrire una valida giustificazione della lezione a partibus attestata da P e confermata dagli stessi codici Σ, pur nell’ambito di un tentativo di aggiustamento del passo con l’introduzione della congettura relatu. Non è possibile, a mio avviso, prescindere dal riconoscimento che tra quorundam e artibus doveva essere originariamente presente un’altra parola, andata quasi del tutto perduta per via di una corruttela che ha peraltro lasciato qualche traccia nella tradizione manoscritta. In questa prospettiva ho accolto la lettura di F. WALTER, Beiträge zur Textkritik der ShA, Regensburg, 1909, p. 24: quorundam impar artibus paleograficamente accettabile (ammettendo una riduzione a quorundam partibus per fenomeni di aplografia e successiva introduzione di una a in collegamento a remotus est) e valida anche per il senso (tra i raffronti citati dallo studioso, particolarmente interessante mi pare SVETONIO, Iul., 15 impar optimatium conspirationi actionem deposuit; nella HA mancano esempi esattamente corrispondenti per impar, ma può risultare utile, a mio parere, richiamare un uso consimile di par: Gall., 2, 1 cum par esset omnibus… quae contra eum poterant cogitari).

7, 8 senem PΣ Severum Hohl (Rühl). Preferisco attenermi alla lezione dei codici; la presentazione del biografo non manca di sottolineare volentieri tratti negativi della figura di Pertinace (in campo erotico cfr. 13, 8 ipse… Cornificiam infamissime dicitur dilexisse).

11, 3 castris P in castris Σ de castris P corr. e castris Hohl (Petschenig). Conservo il testo di P riconoscendo, con HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 115 seg., l’impiego – qui come in altri luoghi dell’opera – del nudo ablativo separativo (cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 103 e la bibliogr. ivi cit.). DIDIUS IULIANUS

2, 3 dixitque PΣ dixit: 〈observa〉que Hohl (Helm). Il testo tràdito presenta qui sicuramente una lacuna. Preferisco accogliere l’integrazione 〈sit〉que proposta dal TANDOI, Restauri testuali, cit., pp. 104 segg., paleograficamente ottima (basta presupporre una semplice aplografia con la finale del precedente dixit), e del tutto appropriata anche per il senso (cfr. l’ampia documentazione sull’uso di reverentia con esse e composti, offerta nel cit. art.).

3, 1 〈se〉 Suicidano coniunxerat Hohl (Helm). Ritengo non necessaria l’integrazione del riflessivo (del resto operata, fra gli editori, dal solo Hohl). L’impiego intransitivo con significato riflessivo è attestato nel corso dell’opera anche con altri verbi, come ostendere (Comm., 1, 8) e praebere (Maxim., 6, 3). Sul problema in generale, anche con preciso riferimento a coniungo, si veda HOFMANN SZANTYR., Lat. Synt., cit., pp. 295 segg. e la bibliogr. ivi cit.

3, 7 emendationem… reparandum PΣ emendationem… reparandarvi Hohl (edd.).

Conservo, pur con qualche esitazione, la lezione tramandata concordemente sia da P che da Σ, tenendo specialmente conto del fatto che la costruzione impersonale della perifrastica passiva reggente un complemento oggetto oltre ad essere, in generale, ammissibile nel latino tardo (cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., pp. 372 seg.), trova in particolare varie attestazioni nella lingua dei giuristi (cfr. W. KALB, Roms Juristen, nach ihrer Sprache dargestellt, Leipzig, 1890, p. 123), con la quale, come già abbiamo avuto modo di osservare (cfr. in partic. la nota a Hadr., 20, 9), il dettato degli ShA presenta talora interessanti consonanze.

6, 5 inanem P inane Ch R mane A inanem… Hohl (Jordan). Il passo è sicuramente lacunoso. Accolgo, pur dubitativamente, l’integrazione del Peter inanem 〈rem〉, paleograficamente ben giustificabile per aplografia con la finale precedente dell’aggettivo.

8, 8 idem [Iulianus] Hohl (Helm). Non vedo la necessità dell’espunzione adottata da Hohl: anche altre volte nel corso dell’opera può riscontrarsi l’unione di idem col nome dell’imperatore di cui si sta narrando la vita, con un’evidente sovrabbondanza espressiva (cfr. LESSING, Lexicon, cit., p. 248, s. v., 5; MOUCHOVÁ, Untersuchungen, cit., pp. 89 segg. e, su questo passo, p. 95 n. 22).

SEVERUS 4, 5 unum fundū · Invenit &iam P etiam unum fundum inventi Σ unum fundum in Venetia Hohl (Salmasio). Accolgo la congettura Veientanum, proposta da M. HAMMOND, Septimius Severus, Roman Bureaucrat, «Harvard Stud. in Class. Philol.», LI, 1940, pp. 143 seg.: il nonno di Severo possedeva una proprietà nel territorio di Veio.

9, 6 se PΣ saeve Hohl (Peter). Espungo il se tràdito, tenendo conto che anche in altri casi compare nel testo dei codici l’introduzione indebita di un se, più o meno facilmente ricollegabile ad accidenti paleografici (così in questo caso può aver giocato la finale – s del precedente multos): cfr. ad es. Ver., 3, 2; Comm., 18, 5; Pesc. Nig., 3, 1 e 4, 5; Carac., 5, 9. Per l’uso di animadverto – nel senso qui richiesto – senza determinazione avverbiale cfr. infra, 10, 8.

11, 7 dividere P Ch dividi R deicere A diu iacere Hohl (Keller-bauer). Accolgo, con HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 118 seg., il testo tràdito: dividere è accettabilissimo per il senso (cfr. par. 5 cadavera dissipari iussit nonché lo stesso passo parallelo di Cl. Alò., 9, 7 citato da Hohl in apparato per la presenza di iacuisse, ma in cui leggiamo anche, in riferimento al corpo di Albino, laniatum… a canibus), e giustificabile anche dal punto di vista linguistico-sintattico dato che, come già abbiamo avuto modo di osservare (cfr. nota a M. Ant., 23, 6), l’impiego di iubeo con un infinito attivo anche senza che sia espressa la persona che riceve il comando è attestato ancora sia in linea generale che nell’opera stessa; nell’ambito di esso, un caso che si riscontra di frequente è proprio quello di due infinitive coordinate, l’una con l’infinito passivo, l’altra con quello attivo (cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 342; Th. I. L., VII, 2, 579, 42 segg.).

17, 7 ille quod facturus est P ille quod tu facturus (futurus) es (est) Σ ille 〈si suo loco esset〉, quid facturus esset Hohl (Helm). Ritengo che nell’esaminare il passo non si possa prescindere dalla considerazione che ci troviamo qui di fronte ad un riassunto negligente e sconnesso del testo parallelo di Aurelio Vittore che, come è noto, il nostro autore ha senza dubbio avuto sotto gli occhi nella redazione dell’intero

brano 17, 5-19, 4; basta infatti mettere a confronto le due narrazioni, sia in questo specifico punto che, in generale, in tutta la parte derivata, per rilevare la tecnica del tutto meccanica e superficiale con cui l’autore ha operato, limitandosi a mutuare dall’altro testo intere frasi o gruppi di parole, ricuciti alla meglio, e a sintetizzare gli episodi ivi narrati in maniera per lo più scarna e incompleta, a volte senza alcun preciso discernimento del senso e del filo logico che informava il racconto della fonte (nel nostro caso, ad es., rispetto al testo di VITTORE nam cum quidam hostium, quem tamen, uti bellis civilibus solet, condicio loci ad Albinum detulerat, causa exposita, novissime conclusisset: «Quid, quaeso, faceres, si tu esses?», ille respondit: «Ea perferrem, quae tu» [Caes., 20, 11], il biografo ha eliminato, evidentemente non avendo compreso il succo dell’episodio, quello che costituiva il punto culminante e ad effetto di esso, e cioè la battuta di risposta di Severo). Sotto questo punto di vista non potrà non apparire immetodico intervenire sul testo tràdito con emendazioni e integrazioni massicce, laddove sarà invece consigliabile rimanere – per quanto è possibile – aderenti ad esso, cercando piuttosto di ricollegare al massimo incongruenze e durezze logico-linguistiche alla genesi tutta particolare del brano. A mio avviso, dunque, il testo di P può essere quasi completamente conservato (tranne l’ovvia e lieve emendazione di est in esset) vedendo in ille quod facturus esset una enunciativa dipendente da dixisset che riproduce in forma indiretta l’affermazione che il prigioniero voleva esprimere nella sua domanda chiaramente retorica, e cioè che «lui [Severo], avrebbe agito così» (e si noti, per quanto riguarda l’aspetto linguistico, che la forma di irreale -urus essem – difficilmente ammissibile in forma diretta – si riscontra ancora nell’opera proprio e unicamente in una proposizione di questo tipo: cfr. Maxim., 17, 3; né costituisce difficoltà insuperabile l’omissione di un id riferito al concetto precedente qui richiamato, che ha altri riscontri nell’opera, specialmente Con facio [cfr. ad es. Pesc. Nig., 10, 5; CI. Alb., 10, 10 ecc.], e neppure l’ordine invertito fra soggetto e congiunzione subordinante, attestato non di rado nella HA [cfr. ad es. Av. Cass., 10, 3; Ver., 9, 7; Geta, 5, 3; Heliog., 11, 3 ecc.]). Per una trattazione del passo e la discussione particolareggiata e documentata della presente proposta di soluzione v. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 48 segg.

17, 7 est mollitus PΣ emollitus Hohl (Unger). Non ritengo necessario intervenire sul testo tràdito. Non sono rari nell’opera gli esempi di coordinazione asindetica (cfr. TIDNER, De particulis, cit., pp. 72 segg.) e, in particolare, la coordinazione per asindeto di iubeo ad una precedente proposizione negativa è riscontrabile almeno in un altro passo: CI. Alb., 5, 8 ne hoc omen pater abnuit, iussit aquilas ali (cfr. SOVERINI, Problemi, cit., p. 50 n. 3).

19, 5 &iam ianae P lane Σ etiam ianuae Hohl (Egnazio). Impossibile indicare una soluzione sicura della corruttela (lo stesso Hohl, nella sua traduzione, abbandonava la congettura dell’Egnazio per seguire quella del Becker etiam balneae). Per parte mia darei la preferenza al Septimianae di K. ZANGEMEISTER, Zur romischen Topographie (Vita Severi, XIX), «Rhein. Mus.», XXXIX, 1884, pp. 635 seg., accolto anche da specialisti come A. v. DOMASZEWSKI, Die Topographie bei den ShA, «Sitzbb. Heid. Akad.», VII, 1916, p. 5; G. LUGLI, Gli antichi monumenti di Roma e suburbio, Roma, 1934, II, p. 257.

3 diu bene PΣ diutine Hohl (Helm). L’emendazione diutine non soddisfa né dal punto di vista paleografico, né in relazione all’usus scribendi degli Scriptores (l’avverbio non compare altrove nell’opera). Il testo dei codici appare da conservare: ciascuno dei due avverbi risulta funzionale in rapporto al particolare contesto (la sola determinazione temporale può adattarsi al caso di Geta, ma in quello di Caracalla vengono chiamati in causa anche i suoi corrotti mores, sicché la notazione bene risulta tutt’altro che superflua): anzi, si

potrebbe dire che essi vengono in pratica a completarsi nella necessità di esprimere un’idea che deve riferirsi a due situazioni non in tutto uguali, anche se, dal punto di vista linguistico, più che un caso di unione asindetica, sarà qui da vedere la determinazione da parte di diu dell’intero nesso logico bene mansit (cfr. 21, 11 nomenque illud venerabile diu minus amatum est). Cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 63 segg.

22, 5 fuisti PΣ fudisti Hohl (Hirschfeld). A mio avviso la lezione dei codici va conservata, in quanto riveste una sua funzionalità nell’ambito della battuta ad effetto del soldato-scurra; questi sottolinea due fatti: che Severo è stato tutto (riprendendo volutamente il famoso detto dello stesso principe: cfr. 18, 11 omnia fui), e che ha vinto tutto; la conclusione, evidentemente ironica, è che, ora appunto che è «stato» tutto, non gli rimane ancora da «essere» che un dio (il che comporta evidentemente che crepi), ma beninteso, dato che ha «vinto» tutto, un dio «vittorioso». I due motivi dell’essere e del vincere vengono così ripresi e amalgamati insieme nella battuta finale. Cfr. la trattazione completa della questione in SOVERINI, Problemi, cit., pp. 66 segg. Favorevole alla conservazione del testo tràdito anche B. MOUCHOVÁ, Textkritisches zur HA, cit., pp. 258 seg.

24, 4 〈in〉 regium atrium Hohl (Helm). Concordo con Helm e Hohl sulla necessità di integrare la preposizione in a reggere regium atrium, dato che appare necessario esplicitare – come avviene per il precedente Palatinis aedibus – la dipendenza da aditum (per l’usus scribendi degli Scriptores con le espressioni introdotte da hoc est, id est cfr. LESSING, Lexicon, cit., p. 174, s. v. esse, a); preferisco però – seguendo il suggerimento di HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 123 seg., cui si rimanda per la discussione completa del passo – inserirla, anziché prima di regium, dopo tale parola, posizione che offre maggiore verisimiglianza paleografica. PESCENNIUS NIGER 4, 5 se severus P1 sed et severus P corr. sed severus Σ, Hohl. La presenza di un sed all’inizio del periodo in questione appare poco congruente col contesto in cui questo è inserito, in quanto ciò che viene affermato a proposito delle intenzioni benevole di Severo nei confronti del pur già nemico Pescennio non presenta alcun contrasto logico con quanto detto fin lì a proposito della stima espressa da vari imperatori – tra essi proprio lo stesso Severo – sul conto del personaggio. Sarei quindi propenso a vedere nella lezione dei codici Σ un’emendazione banalizzante di quel se che era probabilmente la lezione originaria dell’archetipo, e che ci è stata conservata dalla prima mano di P: tale lezione, certamente frutto di una corruttela, sarà a mio avviso più opportunamente da espungere, ammettendo una facile dittografìa col se- iniziale della parola successiva. Per altri casi di intrusione nel testo di una spuria lezione se cfr. nota a Sev., 9, 6.

5, 3 statum. tantū PΣ statum tantum. Hohl (Mommsen). La presenza di tantum presenta in ogni caso notevoli difficoltà di lingua e di senso. Ho ritenuto perciò preferibile, seguendo R. NOVÁK, Observationes, cit., p. 15, espungere tale lezione, anche in considerazione della facilità di giustificazione paleografica offerta dalla presenza contigua di statum.

10, 7 qui venisset P qui venissent Σ quibus obvenisset Hohl (Helm). L’emendazione adottata da Hohl, paleograficamente onerosa, non mi sembra assolutamente indispensabile. Il senso di «toccare in sorte» può infatti essere assunto anche dal semplice venio, specialmente quando si parli di eredità (cfr. ad es. CICERONE, II Verr., I, 127 quibus hereditas venerit). Preferisco dunque accogliere la più semplice soluzione del Salmasio (così fanno anche

Peter, Jordan e Magie) cui venisset, che comporta solo una lievissima emendazione del testo tràdito (tra l’altro lo scambio c/q si riscontra anche altre volte nella tradizione manoscritta dell’opera).

11, 2 portavit PΣ putavit Hohl (Hirschfeld). Concordo sulla necessità di emendare la lezione tràdita portavit (che pure è stata accolta da Jordan e Magie) che implicherebbe un’eccessiva forzatura del senso del verbo portare, ma mi sembra che il semplice putavit risulti insufficiente ad esprimere il senso completo qui richiesto dal contesto, che comporta tanto l’idea di «assegnare» che quella di «portare» (cfr. quantum… ferebatur); sulla scia perciò dell’emendazione suggerita da Helm portandum mandavit, propongo a mia volta por〈tandum pu〉tavit («assegnò da portare») che si potrebbe giustificare, dal punto di vista paleografico, pensando che il copista sia ad un certo punto saltato con l’occhio dal ta di portandum a quello della successiva parola – di aspetto grafico abbastanza simile – putavit. Per il senso e l’uso di puto cfr. Al. Sev. 34, 2 putavit alendos.

11, 5 cuius P cuiusque Σ vel cuiusvis Hohl (Baehrens). Difficile risulta, a mio avviso, spiegare paleograficamente la caduta contemporanea di vel e -vis. Preferisco adottare l’emendazione del LENZE, Quaestiones, cit., p. 22, vel alicuius che, paleograficamente giustificabile supponendo una specie di aplografia con le due sillabe finali di Annibalis (facilmente ammissibile una volta che si fosse verificato in tale parola il frequentissimo scambio b/v), può inoltre offrire un senso soddisfacente intendendo aliquis impiegato qui col valore di aliquis alius, che talora il pronome può assumere, soprattutto in collegamento a una particella disgiuntiva (cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 195 e la bibliogr. ivi cit.; Th. l. L., I, 1608, 73 segg. e 1609, 42 segg.). Nella HA un valore simile si può riconoscere a Tac., 17, 4 seu terrae motu seu casu aliquo conciderunt; cfr. anche la nota a Heliog., 16, 1.

CLODIUS ALBINUS 2, 5 me praesentem et ad me P1 t. B me praesente et ad me Σ, P corr., Samberger-Seyfarth vel praesente me et 〈admissus〉 ad me Hohl 1927 (Helm). Le soluzioni proposte nell’edizione di Hohl non mi paiono convincenti: se è vero infatti che troppo onerosi risultano gli interventi sul testo suggeriti da Helm, neppure la conservazione quasi in toto del testo tràdito raccomandata dai revisori mi sembra francamente accettabile, soprattutto considerando la ripetizione, che verrebbe così ad aversi, di espressioni indicanti la presenza di Commodo accanto ad Albino quale condizione per l’uso da parte sua del pallium coccineum, laddove in realtà il privilegio in questione deve risultare sfruttabile innanzitutto nell’attuale situazione in cui l’imperatore è lontano. Propongo perciò una nuova diversa soluzione per risolvere le difficoltà insite nel passo: essa consiste da una parte nell’espungere me e nel riferire praesentem a facultatem (ad indicare che la concessione in questione ha valore sin da quel momento), dall’altra nel presupporre uno scambio, peraltro facilissimo, tra ad e ab, vedendo quest’ultima preposizione impiegata in dipendenza da fueris (ammettendo un uso ἀπò ϰοινού del cum; per altri esempi del costrutto cfr. nota a Tyr. trig., 13, 2) con un valore corrispondente a quello di longe ab (cfr. il nesso manere ab in M. Ant., 7, 2), che porterebbe ab me a fare pendant con il successivo mecum. Quanto ad habiturus, tale participio futuro, da qualche interprete erroneamente collegato a cum mecum fueris, segnerebbe, in funzione predicativa, il passaggio a un’idea ulteriore, proiettata in un momento successivo («per poi…»). Mi discosterei inoltre da Hohl anche per ciò che riguarda l’emendazione del sicuramente corrotto accedam, accogliendo la congettura del Walter accedat iam (cfr. Beiträge, cit., p. 5), ma collegando, a differenza di tale studioso, l’avverbio ad habebis anziché ad accedat, a sottolineare ulteriormente l’effetto immediato (il futuro ha qui valore di comando, con riferimento al momento del ricevimento della lettera) della concessione. Per la trattazione completa e documentata della proposta di soluzione qui indicata rimandiamo a SOVERINI, Problemi, cit., pp. 69 segg.

3, 1 anonio P omnino Σ Albinus Hohl (Helm). Ritengo metodologicamente più prudente accogliere la lezione di Σ (cfr. l’ampio impiego di omnino nel corso dell’opera quale rafforzativo di negazione, per cui v. LESSING, Lexicon, cit., p. 406 s. v., 1).

13, 1 & ut PΣ et 〈stupendo〉 ut Hohl (Helm). L’integrazione accolta da Hohl è paleograficamente troppo onerosa, anche se è probabilmente giusto presupporre la caduta di un altro aggettivo dopo la et tràdita; in questa prospettiva propongo 〈tali〉, la cui perdita appare più facilmente ammissibile (eventualmente in seguito ad abbreviazione

fraintesa od omessa accanto alla t precedente della congiunzione).

13, 5 〈essent〉 in imperio consulari Hohl (Mommsen). Rinuncio all’integrazione, conservando, con Jordan e Magie, il testo tràdito, e ammettendo l’ellissi di un erant o di un fuerunt (per le frequenti ellissi di esse nel corso della HA cfr. ad es. note a Heliog., 14, 1 e Aurel., 4, 2).

13, 6 Galliam 〈senatus addidit〉 Hohl (Helm). Il testo tràdito può essere qui accolto riconoscendo un costrutto asindetico a membri separati (Galliam senatus subegit, Hispanias): cfr. HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 100.

13, 6 subegiss& stavarum P subegisset avarum Σ subegisset, nisi avarum Hohl (Helm). Paleograficamente mi pare meglio giustificabile la soluzione accolta dalla maggioranza degli editori: nisi tam avarum.

ANTONINUS CARACALLUS 1, 1 bassianum au optinuit se imperium P Bassianum obtinuisse imperium Σ Bassianum autem (notum) optinuisse imperium Hohl (Helm). La presenza di notum (sott. est), o di un’espressione verbale di significato equivalente appare anche a mio avviso necessaria per sanare il passo; ma preferisco, con M. PETSCHENIG, Beiträge, cit., p. 383, presupporre che tale parola si nasconda sotto la lezione au di P, che potrebbe in effetti costituire il risultato di una corruttela, fraintesa come abbreviazione di autem (si noti che Σ omette tale lezione, che forse doveva apparire nell’archetipo poco chiara).

3, 5 interemit eum PΣ interemit 〈sed et〉 eum Hohl (Helm). Qualcosa deve essere senz’altro caduto dopo interemit: in luogo di sed et accolto da Hohl, preferisco integrare – con PETSCHENIG, Beiträge, cit., p. 383, Peter, Magie – un item, la cui caduta risulta paleograficamente meglio giustificabile (in relazione alla parte finale della parola che precede e a quella iniziale della successiva), e che appare egualmente in grado di sottolineare la significativa parità di trattamento riservata da Caracalla agli uccisori e ai fautori di Geta.

8, 5 per se PΣ, Samberger-Seyfarth pro se Hohl 1927 (Salmasio). I revisori hanno inopportunamente ripristinato la lezione dei codici per che giustamente Hohl (così come gli altri editori moderni) aveva emendato, seguendo il Salmasio, in pro (l’intervento è facilmente giustificabile pensando alla confusione che poteva nascere fra le abbreviazioni, in certi casi assai simili, delle due preposizioni). La motivazione è data attraverso l’aggiunta in apparato di un rimando a E. LÖFSTEDT, Philologischer Kommentar zur Peregrinatio Aetheriae, Uppsala, 1911 (= Darmstadt, 1970), p. 335, dove in effetti viene difesa la lezione tràdita: ma il Löfstedt (così come pure M. PETSCHENIG, Bemerkungen zum Texte der ShA, «Philologus», LII, 1893, p. 361, dove aveva sostenuto prima di lui la stessa posizione) sembra aver equivocato sul senso qui richiesto dall’espressione in questione, inserendo il nostro passo nell’ambito di una trattazione sull’impiego di per se con il valore di «ipse, ‘selbst’, ‘persönlich’» – impiego per il quale si possono effettivamente citare vari esempi nella stessa HA –, mentre in realtà il caso in oggetto è del tutto diverso, poiché il se non si riferisce al soggetto stesso della proposizione (Papiniano), bensì a Caracalla, e il senso richiesto dal nesso preposizionale è quello di «in sua vece» (esprimibile anche dal semplice «per lui»), per il quale è evidentemente necessaria la presenza di pro (cfr. Hadr., 4, 10 supposito qui pro Traiano fessa voce loquebatur; Ver., 4, 3 pro ambobus ad milites est locutus). Accolgo dunque nel

testo la lievissima – quanto indispensabile – emendazione.

8, 6 aliud esse parricidium, aliud accusare innocentem occisum PΣ, Hohl. Il senso offerto dal testo tràdito non appare soddisfacente: si sente la mancanza di un altro infinito che, nel primo membro dell’espressione, faccia da pendant ad accusare nella dipendenza da aliud esse. Accolgo il suggerimento di P. H DAMSTÉ, Ad ShA, «Mnemos.», XL, 1912, p. 269, che propone l’integrazione di excusare; anziché però dopo parricidium – come vorrebbe il suddetto studioso – inserisco tale infinito dopo esse, laddove la sua caduta può risultare paleograficamente meglio giustificabile, specialmente ipotizzando che abbia subito ad un certo punto un compendio tale da renderlo graficamente più vicino all’infinito precedente.

8, 8 dicentem PΣ dicens eum Hohl (Petschenig). La lezione tràdita va qui conservata riconoscendo la presenza di un anacoluto, che si esplica in una specie di struttura «mista» personale/impersonale in dipendenza dal passivo di un verbum dicendi (cfr. KLOTZ, Beiträge, cit., p. 305; HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 46 seg.; HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 365).

9, 4 ulla imitatione qua facta est fieri P ulla imitatione, qualis facta est, fieri Hohl (Helm). Il testo tràdito non convince, data la mancanza di raffronti nell’opera per il senso qui richiesto dell’avverbio qua. In luogo dell’emendazione di Helm-Hohl preferisco però proporre una nuova soluzione consistente nella lettura imit〈atione eadem r〉atione qua facta est, paleograficamente giustificabile presupponendo che il copista sia saltato con l’occhio dalla finale -atione di imitatione a quella di ratione (cfr. altre corruttele di questo tipo a Pesc. Nig., 2, 6 miserator P1 da mis〈erat quasi imp〉erator [P corr., Hohl]; Al. Sev., 6, 1 praeferam P da prae〈beam, pro〉feram [Helm-Hohl]; v. anche la nota a Tyr. trig., 17, 1). Cfr. il nesso eadem ratione qua in Diad., 6, 9.

9, 5 negant potuissent P negent (om. potuissent) Σ negent potuisse Hohl (edd.). Se l’emendazione potuisse non lascia dubbi di sorta, non altrettanto mi sembra doversi dire di negent; lo stesso testo offerto da Σ sembra costituire un aggiustamento privo di autorità (come testimonia la voluta omissione di potuissent) e, lungi dall’offrire conferma all’emendazione in questione, pare anzi suggerire che la lezione originaria dell’archetipo fosse proprio quella testimoniata da P. L’uso dell’indicativo nelle consecutive è senz’altro attestato nel latino tardo e, a nostro avviso, compare ancora nella stessa HA (cfr. note a Hadr., 20, 9 e 11; PASOLI, Note, cit., p. 629; su questo passo v. P. G. FORNI, Note al testo e sulla lingua delle vite di Carac. e Al. Sev. degli ShA, «Boll. St. lat.», II, 1972, pp. 25 seg.). ANTONINUS GETA

2, 2 atq: PΣ idque Hohl (Salmasio). Preferisco conservare la lezione tràdita, riconoscendo ad atque valore corrispondente a «et quidem» (quale lo stesso Hohl riconosce ad ac in un passo formalmente abbastanza simile: Diad., 7, 4 ac trium principum amore); tale formula compare espressamente poco più oltre (§ 4). Per una trattazione completa della questione cfr. SOVERINI, Problemi, cit., p. 78 segg.

2, 2 marci vel fratrem suum sem (semet P corr.) dicebat P Marci quem vel fratrem suum fuisse dicebat Σ Marci, 〈quem patrem〉 vel fratrem suum

sem〈per〉 dicebat Hohl (Helm). Preferisco leggere, seguendo il Klotz, Beiträge, cit., p. 311, 〈quem patrem〉 [vel fratrem] suum (vel fratrem è probabilmente una variante penetrata nel testo scacciandone la lezione genuina: risulta infatti che Severo usasse chiamarsi solo figlio, non fratello, di Marco), mantenendo però, a differenza di tale studioso, l’emendazione del corrotto sem di P in semper (per questa congettura cfr. LENZE, Quaestiones, cit., p. 24), dato che il fuisse di Σ – da lui accolto – ha in questo caso soprattutto l’aspetto di una congettura erudita. Per maggiori particolari cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 81 segg.

3, 4 idq; ioco. quod dictum P Idq; quod ioco dictum Ch R (Idque dictum ioco A) idque ioco [quod] dictum Hohl (vulgo). Ritengo possibile conservare, pur con qualche riserva, il testo di P: idque ricorre altre volte nell’opera con la funzione di aggiungere un’ulteriore determinazione alla proposizione precedente (cfr. Sev., 21, 10; Heliog., 29, 4; Tac., 17, 1) e, d’altro canto, il nesso quod dictum, posto proprio in inizio di periodo ad introdurre una notazione sull’accoglienza, da parte degli uditori, di una frase «profetica» pronunziata subito prima da un personaggio, ricorre ancora poco dopo nella stessa biografia di Geta a 4, 5 e 6, 7 (cfr. inoltre SALLUSTIO, Bell. Iug., 11, 7 quod verbum in pectus Iugurthae altius, quam quisquam ratus erat, descendit). Ove non si voglia espungere il primo dei due ioco (soluzione che non mi sentirei comunque di escludere in assoluto), la proposta più prudente mi pare sia quella di ammettere qui la ripetizione letterale e concettuale del termine, ascrivibile alla sciatteria che in tanti punti contraddistingue il dettato di queste biografie, ove ridondanze linguistiche e concettuali anche pesanti non dovranno troppo meravigliarci (una certa, seppur relativa, somiglianza nelle modalità contestuali della ripetizione, sembra presentare Maxim., 9, 3-4 mimus… praesente illo dicitur versus Graecos dixisse… Et haec imperatore ipso praesente iam dicta sunt). Per una discussione completa del problema cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 84 segg.

4, 1 anarboretractator P (om. Σ lacuna significata) avarus, verborum tractator Hohl (Helm). L’emendazione adottata da Hohl introduce, con verborum tractator, una notazione che non appare molto congruente in un contesto ove si stanno enumerando caratteristiche inerenti all’indole del personaggio. Propongo una diversa congettura che, accogliendo nella prima parte quella di Helm-Hohl (in effetti la presenza di avarus – data la possibilità del riscontro con quanto detto successivamente a 5, 2 – appare molto probabile, ed era stata in precedenza sostenuta, pur se nell’ambito di una diversa soluzione, anche dal Baehrens), offra però anche nella seconda una determinazione direttamente relativa al carattere: avar〈us, la〉bo〈rum〉 retractator. È vero che retractator sembra presentare, fuori dell’opera, una sola altra attestazione, purtroppo dubbia (cfr. TERTULLIANO, De ieiun., 15, 3), ma si può notare che nel corso della HA appare usato spesso il verbo retracto, anche nel senso di «essere recalcitrante» e simili (nella forma participiale retractans: cfr. Hadr., 12, 4; Heliog., 35, 1; Gord., 8, 5; Prob., 10, 5). Dal punto di vista paleografico si può ipotizzare che si sia verificato il salto di alcune sillabe che ha portato ad unificare le due espressioni in un’unica parola, forse in diverse fasi (la corruttela è certo antica: l’archetipo stesso doveva fornire una lettura alquanto incerta e confusa se Σ ha rinunciato addirittura a riportarla).

4, 5 quasi… quasi PΣ qua… qua Hohl (Helm). Non ritengo necessaria l’emendazione di Helm-Hohl, dato che il senso fondamentale di «un po’ per gioco, un po’ sul serio» può ottenersi anche dalla lezione tràdita, che letteralmente varrà «come scherzando e (ad un tempo) come parlando seriamente». Il testo dei codici è conservato inalterato anche dal Peter e dal Magie.

OPILIUS MACRINUS 1, 5 …sed ex parte lacunam statuit Hohl. Conservo il testo tràdito, che offre un senso soddisfacente (cfr. E. PASOLI, In ShA, Opilium Macrinum criticae animadversiones, in Miscellanea critica Teubner, II, 1965, p. 247).

2, 5 cum 〈ille〉 auctor Hohl (Helm). L’integrazione di un nominativo che indichi Macrino quale soggetto della proposizione appare anche a me indispensabile. In luogo di ille preferisco però inserire 〈pater〉 che, richiamando il precedente filius Macrini, contribuisce a sottolineare in modo ancora più forte la stranezza dell’assunzione del nome di Antonino proprio da parte del figlio di colui che un Antonino aveva ucciso. La collocazione che suggerisco è dopo nuncupari (è facile pensare ad una specie di aplografia con la parte finale di questa parola, specialmente ove si ipotizzi una scrittura abbreviata di pater, priva della t); la posposizione del cum (come del resto di altre congiunzioni subordinanti: cfr. SOVERINI, Problemi, cit., p. 146 n. 10) si riscontra in varie occasioni nel corso dell’opera: cfr. Av. Cass., 8, 1; Pert., 4, 9; Gord., 6, 5; Max. Balb., 17, 7 (secondo la lez. da noi proposta); Aurel., 11, 1; Quadr. tyr., 4, 4; Geta, 5, 3: quest’ultimo esempio risulta particolarmente significativo dal nostro punto di vista, in quanto si ha in esso una situazione analoga a quella da noi ipotizzata per il passo in questione, con la posposizione del cum rispetto ad una lezione pater che però in P è caduta (mentre è invece conservata da Σ).

3, 5 aut qui PΣ aut quia Hohl (Jordan). Preferisco ammettere (coll’Egnazio e col Magie) lo scambio di posto fra congiunzione e pronome, e leggere qui aut.

3, 7 & ab PΣ set ab Hohl (Baehrens). La lezione tràdita può essere conservata vedendo nella proposizione et ab ipsis Antoninis… hoc nomen magis quam proprium retentum est, una coordinata a quelle precedenti introdotte da inde est quod («Da quella predizione deriva il fatto che…»): per un’interpretazione in questo senso di tutto il passo cfr. E. PASOLI, Iul. Capit., Op. Macrinus, intr., t. crit., trad., note, Bologna, 1968, p. 33.

4, 1 〈factum〉 imperatorem Hohl (Helm). La lezione tràdita può conservarsi senza difficoltà sottintendendo accanto ad imperatorem la copula esse (cfr. Maxim., 4, 6). In proposito v. HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 130; PASOLI, Op. Macrinus, cit., p. 34.

4, 1 ea dicta sunt appareat P ea dicta sunt ut appareat Σ ea dicta sunt 〈unde〉 appareat Hohl (Jordan). Accolgo l’integrazione ut offerta dai codici Σ; cfr. PASOLI, Op. Macrinus, cit., p. 34.

4, 3 in postremo PΣ in 〈ludo〉 postremo Hohl (Helm). Accolgo la congettura di V. TANDOI, Restauri testuali, cit., pp. 106 segg. in 〈foro〉 postremo, ove postremo è inteso nel senso riassuntivo di «insomma».

4, 8 interemptum P interemptus Hohl (edd.). Conservo, pur con qualche riserva, la lezione di P, riconoscendo un uso impersonale di dicor (cfr. Ver., 5, 1 duodecim accubuisse dicitur), come fanno HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 129 (a cui rimandiamo anche per l’esame di analoghe oscillazioni di costrutto con altri verba dicendi ricorrenti nell’opera) e PASOLI, Op. Macrinus, cit., p. 35.

8, 1 susceptos P1 suscepto bello P corr., Hohl 1927 suscepto s. c. Σ suscepto Hohl 1955 (Petschenig, Löfstedt). Accolgo, seguendo PASOLI, Op. Macrinus, cit., p. 38, la lezione di Σ, che trova una pur parziale conferma nella corrotta lezione della prima mano di P. 11, 3 in latinum Pa in latum Pb infacetum Hohl (Mommsen). Preferisco accogliere l’emendazione inlautum, già presente nelle correzioni degli excerpta Palatina, e adottata da Peter, Magie, Pasoli.

11, 4 poterit P Σ poterat P corr., Hohl (edd.). Abbiamo accolto l’interpretazione dell’epigramma proposta dal PASOLI, Op. Macrinus, cit., pp. 39 seg., nell’ambito della quale l’intero penultimo verso e il primo emistichio dell’ultimo vanno intesi riferiti non a Macrino stesso, ma alla natura umana in genere (in armonia con l’ordine di idee introdotto dal verso precedente), ciò che comporta anche una precisa funzionalità semantica della lezione tràdita.

14, 1 mirū P nimiam Σ morum Hohl (Salmasio). Preferisco accogliere l’emendazione del PETSCHENIG, Beiträge, cit., p. 380, miram. Si ha così un pendant col precedente aggettivo antiquam riferito a vilitatem.

DIADUMENUS ANTONINUS 1, 6 divum PΣ diu vivum Hohl (Petschenig). Conservo la lezione dei codici divum – che ha suscitato perplessità in quanto tale titolo, attribuito a vivi, costituiva un omen infaustum – intendendo Antoninum riferito al morto Caracalla. Per una trattazione completa e documentata della questione cfr. SOVERINI, Note al testo degli ShA, «Boll. St. lat.», V, 1975, pp. 224 segg.

1, 8 patre P puer Σ, Hohl. Conservo la lezione di P riconoscendo nell’espressione in questione una struttura asindetica a membri separati (patre Antoninus dignus, imperio), un modulo che ricorre assai frequentemente nell’opera; cfr. HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 97 seg. (la presente interpretazione sintattica del passo in questione, con espressa citazione di esso, è anche in HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 831; cfr. anche W. HARTKE, Römische Kinderkaiser, Berlin, 1951, p. 226 n. 3, che sottolinea la posizione ἀπò ϰoινoύ di Antoninus dignus).

4, 3 viris intersede*ntib; P viris intetsedentibus R viris intercedentibus V nervis intercedentibus Hohl (Helm). A mio parere ogni tentativo di sanare la corruttela dovrà lasciare inalterata la tràdita lezione viris e presupporre la presenza di tendo, verbo tecnico parlando di un arco e del relativo nervus. In vista di ciò la soluzione più probabile mi sembra resti quella che ebbe già a proporre il Salmasio: viris inter se tendentibus.

5, 2 posuisse 〈fertur〉 Hohl (Helm). Concordo con Hohl sulla necessità di integrare un verbum dicendi a reggere posuisse, ma preferisco inserire fertur, anziché dopo lo stesso infinito, dopo factus (posizione paleograficamente più atta a giustificare la caduta, data la somiglianza grafica delle due parole).

5, 6 litteris PΣ litteras Hohl (edd.). Accolgo, pur non senza prudenti riserve, la lezione tràdita, anche se contrasta con l’usus più

frequentemente riscontrabile negli ShA, dove normalmente ricorre il nesso referre in litteras. Si deve però tener conto del fatto che il verbo refero è soggetto a oscillazioni di costrutto, sia in linea generale (cfr. CICERONE, De nat. deor., I, 12, 29 in deorum numero refert e SVETONIO, Claud., 45 in deorum numerum relatus est) che all’interno dell’opera (cfr. Aurel., 37, 5 id quod in historia relatum est, tacere non debui e Op. Macr., 3, 1 quae in annales relata sint proferam), e che il tipo referre in litteris compare ancora attestato a Gord., 5, 6. Non si dimentichi infine che è caratteristica del latino tardo l’oscillazione dei costrutti di in + acc. e in + abl. (cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., pp. 276 segg. e la bibliogr. ivi cit.). Su tutta la questione rimandiamo alla nostra trattazione in Note al t. degli ShA, cit., p. 227. 6, 1 emerat ui P1 t. B memoratui P corr. memoratu Σ, Hohl (edd.). Accolgo, pur con qualche prudente riserva, la lezione tràdita. Il nesso digna memoratui è ancora attestato a Prob., 24, 6 (passo citato, per la forma in questione, anche da HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 382), e può essere ammesso tenendo conto da una parte della possibilità di riscontrare nel latino tardo l’uso di dignus col dativo, dall’altra dell’esistenza di un’uscita in -ui del supino – propria del dativo – che, attestata già in Plauto, ritorna a volte negli scrittori tardolatini, probabilmente come riecheggiamento di una forma arcaica stereotipata conservatasi nella lingua parlata. Per una trattazione più ampia e documentata sull’argomento cfr. SOVERINI, Note al testo delle vite di Ant. Diadumenus e di Ant. Heliogabalus dagli ShA, «Atti Acc. Sc. Bo», Cl. Sc. Mor., Rend., LIX, 1970-71, pp. 245 seg.

6, 3 antoninus P Antoninos Hohl (edd.). Conservo la lezione di P riconoscendo qui la presenza di un nominativo appellativo (costrutto nel quale il nome mantiene la forma nominativale irrigidita – come fra virgolette – e svincolata da ogni relazione sintattica): cfr. KLOTZ, Beiträge, cit., pp. 288 seg., che cita per la HA accanto a quello presente anche gli esempi di Geta, 1, 7, Op. Macr., 3, 6, Al. Sev., 1, 1 (v. anche le note a Al. Sev., 10, 45 e Maxim., 14, 5). Sul costrutto in generale cfr. R. KÜHNER-C. STEGMANN, Ausführliche Grammatik der lateinischen Sprache, Satzlehre, Leverkusen, 19553, I p. 421; HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 27; E. PASOLI, In ShA, Opil. Macr. 3, 6-7 adversaria critica, «Ant. Class.», XXVIII, 1959, pp. 233 segg. ANTONINUS HELIOGABALUS

2, 2 quidem P quidam Σ, Hohl (edd.). Conservo la lezione di P, tenendo conto del valore asseverativo qui richiesto e della frequenza nell’opera del modulo et… quidem in inizio di periodo (cfr. SOVERINI, Note al t. delle vite di Ant. Diad. e Ant. Heliog., cit., p. 249).

2, 2 eodem P eidem Σ, Hohl (Jordan). Conservo anche qui la lezione di P, riconoscendo una forma di dativo eodem anziché eidem, attestata anche a Pesc. Nig., 4, 7 e, fuori dell’opera, nella lingua dei giuristi (cfr. Th. l. L., VII, 181, 62; si noti subito prima l’espressione, di stampo giuridico, vulgo conceptus, e si ricordi il ricorrere in più occasioni, nel corso dell’opera, di elementi di contatto con tale ambito linguistico: cfr. SOVERINI, Nota a HA, Ant. Pius 3, 3 cit., p. 76 e n. 10). Per la difesa della lezione in questione cfr. KLOTZ, Beiträge, cit., p. 297 e SOVERINI, Note al t. delle vite di Ant. Diad. e Ant. Heliog., cit., pp. 249 segg.

4, 4 Sedsymiamira P sub Symiamira Hohl (Damsté). Conservo il testo di P (e Ch), vedendo in Symiamira un nudo ablativo d’agente: v. SOVERINI,

Note al t. degli ShA, cit., pp. 229 segg. 5, 1 subar & Pa Σ, Hohl subiger&

Pb (B).

Preferisco accogliere la lezione di Pb subigeret, anche se con essa deve ammettersi il confluire qui di un’altra tradizione relativa ad un Elagabalo anche paedicator – oltre che, quale appare nel resto della vita, pathicus –, tradizione che è comunque attestata in CASSIO DIONE, per di più anche in un passo, fra gli altri, che presenta significative analogie formali col nostro (LXXIX, 5). Su tutta la questione rimandiamo all’ampia discussione da noi condotta in Note al t. delle vite di Ant. Diad. e Ant. Heliog., cit., pp. 251 segg.

6, 3 cordium PΣ, Hohl. Adotto qui, a 12, 1 e a 15, 2 la grafia Gordius/m anziché Cordius/m, seguendo le indicazioni di H. SOLIN, Zu Namen Gordius in der HA, «Eranos», LXI, 1963, pp. 65 segg. 6, 8 quā quisgo maxima P1 quā quis virgo maxima P corr. quoniam quis

Gomaxima Σ quam virgo maxima Hohl (Novák). Leggo, con il PETSCHENIG, Beiträge, cit., p. 403, quamque virgo maxima: la corruttela è probabilmente nata dall’abbreviazione del que (ad es. in q;); per spiegare la presenza di quest’ultimo si può pensare ad un impiego pleonastico della congiunzione (per cui v., in linea generale, HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., pp. 475 segg.; nella HA, cfr. Gord., 14, 4), o anche collegare quamque… monstraverat a quasi veram. Per una più ampia trattazione della questione cfr. TIDNER, De particulis, cit., p. 132.

8, 5 dictum P dictu Σ victu et Hohl ut in vita eius… lacunam statuit Hohl (Peter). La lezione di P dictum (confermata indirettamente anche da Σ, che modifica la desinenza verosimilmente in relazione alla presenza del precedente de) è probabilmente genuina, solo che si trova chiaramente fuori posto fra de eiusdem e luxuria, che andranno direttamente accostati fra loro (cfr. Car., 17, 7 si de eius luxuria plura velim dicere). Adotto quindi la soluzione del Jordan di trasporre dictum dopo in vita eius, eliminando lacune di sorta. Il fatto che nella Vita Diadumeni non si faccia cenno a questa damnatio memoriae nei confronti del giovane, è elemento di scarso peso nella discussione, giacché si tratterebbe solo di un’altra delle numerose incongruenze presenti nel testo dell’opera, forse ricollegabile a rielaborazioni successive.

11, 5 dicere PΣ dicens Hohl (Peter). Accolgo la lezione tramandata da tutti i codici, riconoscendo la presenza di un asindeto a membri separati (cfr. HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 105). 13, 3 & P1 t. B (i. e. etiam) P corr., Hohl (edd.).

Conservo la lezione della prima mano di P, che permette un’opportuna correlazione tra i due concetti dell’amari da parte dei soldati e dell’acceptum esse ai due ordini: la collocazione poco ortodossa della prima particella può essere tollerata (cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 523). Per maggiori particolari cfr. SOVERINI, Note al t. delle vite di Ant. Diad. e Ant. Heliog., cit., pp. 258 seg. Aggiungo che il cod. Chigianus, da me ora consultato, porta et.

14, 1 ab hisque 〈sit〉 interjectus Hohl (edd.). Rinuncio all’integrazione, ammettendo la presenza di un’ellissi del verbo sum, fenomeno che si riscontra non raramente nel corso dell’opera: nell’ambito di una proposizione con cum e il

congiuntivo potremmo citare a confronto Tyr. trig., 26, 6 (in cui, peraltro, gli editori intervengono – come qui – sul testo tràdito; ma cfr. la nota ad loc.) e, in particolare, Gord., 16, 3 cum in Africa nihil praesidii (sc. esset), dove il testo è generalmente accolto. Si noti infine che nel nostro caso il verbo era già stato espresso nella precedente coordinata (conversa sint). Per ellissi di sum in proposizioni subordinate al congiuntivo (anche in unione ad un participio perfetto) cfr., in linea generale, HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 421; nella HA cfr. ancora ad es. Gall., 20, 1 scis… quales homines (sott. sint).

16, 1 aliquam PΣ alium quempiam Hohl (Helm). Accolgo la leggera emendazione del Jordan aliquem, sottintendendo alium: cfr., per quest’uso, Tac., 17, 4 e la nota a Pesc. Nig., 11, 5. Per altri esempi nell’opera di espressioni che presuppongono sottinteso alius cfr. TIDNER, De particulis, cit., p. 2.

16, 5 qui (quae Σ) mala in heliogabalum pararant P quod mala in Alexandrum Heliogabalus pararat Hohl vel quod sibi viderent invidiam 〈fore ex Alexandri amore, inter se congressi sunt〉 Hohl (Helm). primum conscii 〈libidinum eius occisi sunt vario〉 genere mortis Hohl (Helm).

Il testo tràdito presenta sicuramente grosse lacune, probabilmente dovute alla caduta di qualche riga di codice nel corso della tradizione ma noscritta. Piuttosto che tentare macroscopiche integrazioni o addirittura emendazioni delle parti di testo verosimilmente giunte sane, preferisco conservare quanto offerto da P segnando lacuna nei due punti in cui appare chiaramente essere caduto qualcosa, cioè dopo invidiam e dopo conscii.

16, 5 vitalibus PΣ, Hohl. Emendo con A. GEMOLL, Specilegium criticum in ShA, Wohlau, 1876 (opera che non mi è stato possibile consultare), il tràdito vitalibus in genitalibus, lezione richiesta – a mio avviso – dal senso generale del discorso, in cui si sta precisando come i compagni di lussuria di Elagabalo venissero uccisi in modi «particolari», che avessero diretta attinenza con i vizi esplicati in vita, ut mors esset vitae consentiens. In questa prospettiva il correlato ab ima parte perfoderent che segue a vitalibus exemptis necarent, sembra richiamare inequivocabilmente nell’espressione precedente proprio il concetto che verrebbe espresso nell’emendazione in questione, la quale, del resto, non risulta paleograficamente molto onerosa. A quest’ultimo proposito, peraltro, più che un vero e proprio accidente paleografico, sarei propenso a vedere qui una variante introdotta da un copista medievale, ad eliminare un’espressione troppo cruda e specifica in senso sessuale: questa interpretazione può risultare avvalorata dalla presenza in un altro passo di una variante vitalia, attestata da Pa e Σ, laddove la lezione sicuramente genuina, attestata da Pb, è genitalia (Claud., 13, 7 ei, qui genitalia sibi contorserat, omnes dentes uno pugno excussit. Quae res indulgentiam meruit pudoris vindictae), trattandosi forse di una situazione simile a quella già incontrata nel caso della variante subaret a Heliog., 5, 1.

17, 9 antonini P Antoninus Hohl (Peter). Conservo qui la lezione tràdita, considerando lavacrum Antonini l’equivalente di thermae Antoninianae (Carac., 9, 9); cfr. sul passo la trattazione da noi data in Note al t. degli ShA, cit., pp.

232 seg. Aggiungo che la consultazione del cod. Chigianus porta conferma alla lezione Antonini (cui il copista ha conformato il successivo Caracalli).

19, 2 vitreum alia, 〈alia〉 die venetum Hohl (Helm). Propongo di conservare il testo tràdito, ponendo virgola dopo die, e riconoscendo una struttura asindetica a membri separati (il successivo et deinceps andrà inteso nel senso di «e così via»). Si veda la nostra trattazione del passo in Note al t. delle vite di Ant. Diad. e Ant. Heliog., cit., pp. 262 segg.

24, 3 sestertiis P sestertium Hohl (edd.). La lezione tràdita va conservata, essendo qui il sostantivo impiegato in funzione di «apposizione partitiva» (che fa le veci del più normale genitivo partitivo): cfr. HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 86 seg. con esemplificazione e bibliogr.; più in gen. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 429.

24, 7 clare P dare Σ collocare Hohl (Peter). Paleograficamente, la soluzione più ovvia per la corruttela presente in P è senza dubbio il dare dei codici Σ (frequentissima, anche nella tradizione manoscritta della HA, è la confusione d/cl), lezione accettabile anche per il senso, e accolta pure dal Jordan e dal Magie.

25, 6 exhibere PΣ exhiberi Hohl (Petschenig). La lezione tràdita exhibere può essere conservata, come già avvenuto nei casi analoghi di M. Ant., 23, 6 e Sev., 11, 7 (cfr. le note ad locc.).

30, 8 sed et haec nonnulla PΣ sei et haec 〈et alia〉 nonnulla Hohl (Peter). Limito, col Jordan, l’integrazione alla et, dato che alius può essere a volte sottinteso accanto a pronomi indefiniti come aliquis o aggettivi come omnes; cfr. TIDNER, De particulis, cit., p. 2, n. 1 e le note a Pesc. Nig., 11, 5 e Heliog., 16, 1.

31, 7 ad PΣ adhibens Hohl (Helm). L’emendazione suggerita a Hohl dallo Helm è inaccettabile; l’ad di tutti i codici è infatti giustificabilissimo inteso con valore strumentale: cfr. Hadr., 26, 1 flexo ad pectinem capillo. Trattazione ed esempi in SOVERINI, Note al t. delle vite di Ant. Diad. e Ant. Heliog., cit., p. 266; v. anche HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 128.

33, 1 malorum PΣ imperatorum Hohl (Oberdick, Baehrens). L’emendazione appare paleograficamente molto onerosa. Preferisco mantenere la lezione tràdita intendendo veteres con valore sostantivato nel senso di «predecessori» (v. per quest’uso LESSING, Lexicon, cit., p. 725; cfr. ad es. Al. Sev., 42, 1 thermis et suis et veterum… usus est), mentre malorum rivestirà semplice funzione aggettivale (diversamente il Magie, che pure conserva il testo tràdito, interpreta veteres come aggettivo e mali con valore sostantivato; ma il risultato è – a mio avviso – linguisticamente e semanticamente più duro). Per il frequente impiego aggettivale di malus in riferimento a imperatori nella HA cfr. LESSING, Lexicon, cit., s. v., A.

33, 7 per scurras PΣ per scutarios Hohl. La lezione tràdita è da conservare; scurra è attestato altre due volte nell’opera con valore corrispondente a satelles: cfr. Al. Sev., 61, 3 e 62, 5. Per tale accezione del termine cfr. anche Schol. in Iuv., IV, 31 (p. 55 Wessner).

ALEXANDER SEVERUS 3, 5 eos digno ad desce videbat P eos dignos adesse iubebat Σ eos, 〈quos〉

dignos ad discendum videbat Hohl (Helm). Una costruzione dignus ad non ha altre attestazioni nel corso dell’opera. In realtà la presenza successiva di addiscere rende alquanto sospetta la strana lezione ad desce presente in P, rendendo verosimile l’ipotesi che, per qualche accidente paleografico, la forma verbale suddetta sia stata inserita anche fuori posto (per esempio in seguito a un fatto di soprascrizione o scrittura a margine), seppure in forma che doveva risultare già nell’archetipo graficamente poco chiara. In base a tali considerazioni seguo la proposta del Novák (citata con assenso in LESSING, Lexicon, cit., p. 140, s. v. dignus) di espungere la problematica lezione in questione.

4, 3 fuerant, 〈relictis, cum ante〉 salutare Hohl (Helm) principem PΣ principes Hohl poterat PΣ poterant Hohl. Sembra difficile che l’autore potesse affermare che ante(a), cioè prima di Alessandro Severo, non fosse consentito salutare principes, quale che ne fosse la ragione. Preferisco perciò tentare una diversa risistemazione del periodo, tramandato in modo certamente lacunoso, integrando, dopo fuerant, 〈furibus autem〉 (magari presupponendo una doppia abbreviazione furib; aut, che avrebbe potuto essere all’origine di una specie di aplografia), e lasciando immutato il testo successivo, dove intendo videre non posse nel senso del nostro «non poter sopportare la vista», «non poter vedere» (per tale valore cfr. Maxim., 17, 6); sull’odio e l’insofferenza anche fisica che Alessandro Severo provava nei confronti dei ladri cfr. i capp. 17-18; cfr. anche in particolare, per uno sviluppo logico simile a quello che avremmo nel nostro passo, 20, 1 seg. moderationis tantae fuit, ut… consessum omnibus semper offerret praeter eos, quos furtorum densior fama perstrinxerat. Nell’ambito del lungo periodo, dunque, il discorso iniziale riguardante direttamente i rapporti fra Alessandro e gli amici si è ad un certo punto allargato: salutaretur vero rappresenta il punto di passaggio ad un tema più ampio e generale, quello cioè delle modalità che caratterizzavano la salutatio quale si svolgeva sotto di lui, evidentemente non più solo in ristretto riferimento agli amici stessi; nell’ambito dello svolgimento di questo tema, mentre, dal punto di vista formale, continua ancora la dipendenza consecutiva, da quello logico ci si è ormai svincolati da un riferimento stretto alla lontana reggente, per puntualizzare essenzialmente i due motivi fondamentali legati sempre al tema della salutatio nei confronti di questo imperatore: quello dell’affabilità e informalità nel rapporto con lui, e quello del divieto di accedervi alle persone di cattiva fama, con specialissimo riguardo per i ladri. Per una trattazione completa e documentata del passo e della proposta in questione cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 88 segg.

4, 4 aculem P ac virilem Hohl (edd.) decoreum esse P decorem inesset Hohl (Salmasio) [militis] Hohl (Baehrens). In luogo di aculem leggo ac cultum (per una difesa di questa congettura cfr. P. G. FORNI, Note al t. e sulla l. delle vite di Carac. e Al. Sev., cit., p. 27; essa era peraltro già stata proposta da S. CONDORELLI, Aspetti della vita quotidiana a Roma e tendenze letterarie nella HA, Messina, 1965, p. 110), e in luogo di decoreum esse leggo decor ei inesset, unendo decor a staturae militaris (cfr. Tyr. trig., 26, 7 nam sunt non statura decori) e robur a militis, che quindi non andrà espunto. 8, 5 equi antem P1 t. B (i exp. P corr.) equitatem Σ aequiperantem Hohl

digerentem PΣ degentem Hohl (Gruter).

Per quanto riguarda la prima corruttela, preferisco emendare, con la maggioranza degli editori, in aequantem. Quanto alla seconda, preferisco leggere, col Jordan, degenerantem (per il nesso ferre/degenerare cfr. Gall., 4, 3 Galli, quibus insitum est leves ac degenerantes [degerantes P1] … principes ferre non posse; per degenerare in riferimento a nomen e con impiego forse transitivo cfr. Op. Macr., 7, 7), rinunciando però ad integrare – come tale editore – un aut dinanzi al participio in questione, ma riconoscendo invece qui un altro esempio di collegamento asindetico a membri separati, un modulo che abbiamo già visto ricorrere frequentemente nel corso dell’opera. Per maggiori particolari cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 98 segg.

9, 2 si PΣ si 〈quidem〉 Hohl (Helm). Il tràdito si può essere conservato, essendo a volte in grado la congiunzione in questione di assumere anche da sola una sfumatura causale (cfr. C. VENTURI, Note al testo e sulla lingua delle vite di Caracalla e di Alessandro Severo degli ShA, «Boll. St. lat.», III, 1973, pp. 40 seg.); l’uso compare ancora in questa stessa vita a 27, 2 (ove si ha il congiuntivo, trattandosi di oratio obliqua).

9, 4 inte P rite Σ inepte Hohl (Peter). L’emendazione del Peter, accolta qui da Hohl, offre un senso troppo debole in rapporto al contesto, mentre inpie del PETSCHENIG (cfr. Beiträge, cit., p. 404) appare paleograficamente discutibile. Preferisco accogliere iniuste (emendazione citata dal Petschenig, loc. cit., come proposta già dal Baehrens), avverbio impiegato anche altrove nell’opera in riferimento ad onori attribuiti a personaggi indegni (cfr. Comm., 20, 3 iniuste sepultus est), e la cui corruttela può aver avuto origine in un primo stadio dalla perdita del gruppo interno iu per una specie di aplografia col precedente in-.

10, 3 quid vos 〈moveat〉 ad hoc Hohl (vulgo). Per ovviare alla mancanza del verbo preferisco, in luogo dell’integrazione 〈moveat〉 comunemente accolta, adottare quella proposta dal WALTER 〈adducat〉 (cfr. Beiträge, cit., p. 8), paleograficamente meglio giustificabile, data la successiva presenza di ad hoc.

10, 4-5 sunt dicti sunt P sunt dicti. sic Hohl (Helm) antoninus idem sepius PΣ Antoninus id est Pius Hohl (Helm). Leggo sunt dicti [sunt]. Antoninus item 〈de〉 se Pius, considerando Antoninus un nominativo appellativo (cfr., per tale costrutto, la nota a Diad., 6, 3), ed espungendo il secondo dei due sunt, omesso anche dal cod. Chigianus, da me consultato (per l’errata ripetizione di una parola a breve distanza cfr., ad es., Al. Sev., 9, 2 si hoc ipso deterior [si]; Aurel., 41, Σ qui vel errarunt [qui]). Quanto a item de, ritengo che si sia avuto dapprima un facile scambio item/idem, e una successiva caduta della preposizione de per aplografia (verosimile specialmente pensando ad una grafia idē de).

10, 5 aurelio P Vario Σ, Hohl. Conservo la lezione di P: il nome ufficiale di Elagabalo da imperatore era M. Aurelius Antoninus Augustus (cfr. VENTURI, Note al t. e sulla l. delle vite di Carac. e Al. Sev., cit., p. 43).

13, 6 commendarent PΣ commentarent Hohl (Helm). L’emendazione di Helm-Hohl non appare necessaria, dato che qui il verbo commendo è perfettamente al suo posto, nel senso di «far voti per»; cfr. in questa stessa Vita, 60, 3 cum natalem diem commendaret e Geta, 3, 8.

15, 4 iudicare P iudicari R iudiciales Hohl (Casaubon).

La lezione di P offre un testo soddisfacente, e appare opportunamente prudente conservarla (come fanno, del resto, Jordan e Peter): cfr. VENTURI, Note al t. e sulla l. delle vite di Carac. e Al. Sev., cit., pp. 44 seg.

16, 2 cogitandum〈que〉 Hohl (vulgo). Rinuncio all’integrazione generalmente accolta, riconoscendo – con TIDNER, De particulis, cit., p. 45 – la presenza di un asindeto fra parole di significato collegato (disquirendum cogitandum).

21, 4 non diu non P non diu Σ nondum Hohl (Hirschfeld). Accolgo, con Mommsen, Jordan, Peter, Magie, la più semplice emendazione [non] diu non, facilmente giustificabile dal punto di vista paleografico anche in relazione alla possibilità di aplografia di non con la finale del precedente omnino.

24, 4 iactant P iactati Hohl (Salmasio). Preferisco, in luogo dell’emendazione generalmente accolta iactati, la congettura iactante proposta da S. FRANKFURTER, Textkritisches zu den ShA, «Wien. Stud.», XIII, 1891, p. 250.

26, 8 omnib; PΣ omnimodis Hohl (Helm). Conservo la lezione tràdita – del resto comunemente accolta –, dato che omnis può già di per sé assumere un significato affine a quello ottenuto con l’emendazione adottata da Hohl (cfr. FORNI, Note al t. e sulla l. delle vite di Carac. e Al. Sev., cit., p. 32).

27, 2 si PΣ si 〈quidem〉 Hohl (Helm). Conservo il testo tràdito (cfr. nota a 9, 2).

28, 7 lacessitus erat P lacessitus Σ lacessiverant Hohl (Peter) 〈et〉 archiereum Hohl (vulgo). Accolgo, con HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 88 segg., la lezione lacessitus erat di P (inaccettabile appare l’emendazione lacessiverant: del resto anche Σ conferma, pur mutilandolo, il testo del codice migliore), ammettendo la presenza, nel periodo in questione, di un anacoluto, causato dall’oscillazione espressiva fra struttura passiva e attiva, che ha portato il participio vocantes – che grammaticalmente è riferito al soggetto della proposizione incidentale – a rimanere in qualche modo «sospeso» nell’ambito della proposizione in cui si trova (si ha così in pratica una specie di contaminazione fra le due proposizioni). Diversamente da Hallén ritengo però necessario integrare una 〈et〉 dinanzi ad archiereum, da considerare correlativa a quella che sta dinanzi a Syrum archisynagogum.

29, 4 post multam operam P post multam horam operam Σ post 〈…non〉 multam operam Hohl (Helm). Accolgo la semplicissima correzione post multa (Scaligero, Jordan), in luogo del multam dei codici, dovuto evidentemente ad assimilazione con la finale di operam. Per questa soluzione e una discussione delle altre emendazioni cfr. FORNI, Note al t. e sulla l. delle vite di Carac. e Al. Sev., cit., pp. 34 seg. 30, 3 utrum P1 Σ utrum〈que〉 P corr., Hohl (edd.). Accolgo la lezione di P1 e Σ utrum. Per l’impiego del semplice uter col valore di uterque cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 202. In generale, per l’uso di pronomi indefiniti privi del -que finale nel latino tardo cfr. W. A. BAEHRENS, Ad Panegyricos Latinos aliosque scriptores observationes, «Mnemos.», XXXVIII, 1910, pp. 417 seg.; con particolare riferimento alla HA v.

TIDNER, De particulis, cit., p. 34 n. 1.

33, 4 & purpureaq: non magna P et purpureas non magna Σ et 〈pallia coccina〉 purpureaque Hohl (Helm). L’integrazione di Helm-Hohl appare paleograficamente troppo onerosa, e discutibile anche per il senso (cfr. F. KOLB, Kleidungsstucke in der HA: Textkritisches zu AS 33,4. 41,1. A 45,5, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, p. 154). Il testo tramandato da P non è insostenibile, in quanto il pleonasmo et… -que, attestato altre volte nel latino tardo (cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 523), si ritrova ancora nel corso della stessa HA: cfr. Hadr., 23, 14 (secondo il testo stabilito da Sam-bergerSeyfarth); Al. Sev., 14, 5 e Tyr. trig., 24, 2 (ove il costrutto è ammesso anche da Hohl). Cfr. TIDNER, De particulis, cit., p. 117; KLOTZ, Beiträge, cit., p. 299.

41, 1 & tunico pallio P unico pallio Σ, Hohl (edd.). Accolgo, qui come ad Aurel., 45, 5, la lezione tràdita, seguendo KOLB, Kleidungsstücke, cit., pp. 169 segg. (cfr. la nota di commento ad loc.). Si noti come l’aggettivo unicus compaia altrove nella HA solo nel senso – che qui risulterebbe fuori luogo – di «singolare», «eccezionale». 44, 6 agnos P1 agnoscens P corr. in annos Σ antiquas ac novas Hohl

(Helm).

L‘emendazione adottata da Hohl appare paleograficamente molto onerosa, e risulta inoltre, dal punto di vista del senso, sostanzialmente banalizzante. Preferisco accogliere la congettura del Mommsen agonis (cfr. 35, 4 agoni praesedit…).

45, 3 ambulabant PΣ ambulabant 〈incerti〉 Hohl (Helm). Preferisco accogliere l’integrazione del Baehrens 〈nescii〉, inserendola però non, come propone tale studioso, dopo ambulabant, ma dopo omnes, ove mi pare paleograficamente meglio giustificabile. Per maggiori particolari e una trattazione puntuale del passo, anche in relazione alla determinazione del significato ivi assunto dal sostantivo dispositio, cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 101 segg.

46, 5 si P etsi Hohl (Salmasio). L‘emendazione etsi, comunemente accolta, non appare congruente con l’usus scribendi degli Scriptores, che impiegano tale congiunzione solo con l’indicativo (ad introdurre concessive «reali»); in un caso come quello in questione l’impiego attestato nell’opera è quello di etiamsi (cfr. LESSING, Lexicon, cit., p. 182 s. v., d). Dal punto di vista paleografico l’emendazione comporta più o meno lo stesso onere, specialmente in considerazione della possibilità di abbreviazione , frequentemente attestata (cfr. ad es. Quadr. tyr., 1, 4).

48, 6 iussu imperatoris 〈Maximini〉 Hohl (Helm) et 〈Alexander〉 a militibus Hohl (Helm). Il testo è irrimediabilmente corrotto. In luogo di emendazioni non sufficientemente fondate, preferisco ipotizzare che nel periodo in questione sia caduto qualcosa, stabilendo una lacuna dopo occisus est.

53, 7 graecorum morem & quidem se instituunt P more grecorum se instituunt A et more gr. se instituunt Ch R Graecorum more et 〈ad luxuriam〉 quidem se instituunt Hohl (Helm).

Accolgo la lettura proposta dal TANDOI, Restauri testuali, cit., p. 112 n. 2 〈ad〉 Graecorum morem, et quidem se instituunt, vicinissima al testo di P (è solo necessaria l’integrazione di ad modale, per cui cfr. Hadr., 5, 1 ad priscum se statim morem instituit; Ver., 4, 3; Maxim., 5, 7).

55, 1 subiectus tuteli P subiectus tum tela Σ subiectus telis Hohl (Petschenig). Preferisco accogliere l’emendazione del Casaubon sub iactu teli (cfr. Maxim., 22, 6 a teli iactu satis tutus), accolta da Jordan, e difesa dal NOVÁK, Observationes, cit., p. 17 e dal LENZE, Quaestiones, cit., pp. 31 seg. Contro la congettura adottata da Hohl si può tra l’altro notare che nel corso dell’opera versavi non compare mai impiegato assolutamente.

60, 7 〈ut〉 tribunal ascendit, 〈ut〉 contionaretur Hohl (Helm). Difficilmente ammissibile mi sembra la presenza di due ut – pur se con funzioni diverse – a così breve distanza. Preferibile, anche per il senso, è a mio avviso integrare dinanzi a tribunal un cum la cui caduta, data la possibilità di abbreviazioni ridotte sostanzialmente a una sola lettera, è ipotizzabile senza grandi problemi (se ne hanno del resto numerosi esempi nel corso dell’opera: cfr. in questa stessa vita 5, 3 e 21, 7). Per una movenza espressiva simile cfr. Tac., 8, 3 cum primum tribunal ascendit… in haec verba disseruit eqs.

61, 3 scurrarum PΣ scutariorum Hohl in app. scutarium (i. e. gen. plur.) Hohl in textu (Helm). Conservo il testo tràdito; cfr. nota a Heliog., 33, 7.

61, 4 est hic P est Σ istic Hohl (Jordan). Istic non è altrove attestato nell’opera. Propongo di accogliere la lezione offerta da Σ: cfr. Tyr. trig., 30, 23 quid est, Zenobia? Ausa es insultare Romanis imperatoribus? (si tratta di un modulo espressivo in cui, a una breve interrogazione con quid est, succede una domanda più circostanziata, proprio come avviene nel nostro caso). Dal punto di vista paleografico possiamo ipotizzare che nel testo di P la hic spuria si sia inserita in seguito ad una specie di dittografia con le lettere iniziali di inquit.

61, 8 hominum PΣ homines Hohl (Helm). La lezione tràdita può conservarsi o vedendo in omnis generis hominum una determinazione di apparatus coordinata con potentissimus (così TIDNER, De particulis, cit., p. 137), oppure, meglio, intendendo la stessa coordinata ai precedenti accusativi, sottintendendo – a reggere il genitivo – il concetto nominale collegato ad essi, cioè milites (cfr. HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 75 seg.; cfr. CESARE, De bell, civ., III, 4, 6 huc… Macedonas, Thessalos ac reliquarum gentium et civitatum adiecerat).

62, 5 scurrae PΣ scutari Hohl. Conservo la lezione tràdita; cfr. 61, 3 e nota a Heliog., 33, 7.

65, 5 que rem temporis vitę. ille P quam rem (res) publ. patris vite. Ille Σ qui rem p. temperandam vitiosissimis libertis concesserit illo Hohl. Si tratta di un passo assai problematico; la soluzione adottata da Hohl offre un senso soddisfacente, ma risulta paleograficamente troppo onerosa. Preferisco accogliere una lettura che rimanga il più possibile aderente al testo dei codici, come quella proposta, con diffusa argomentazione, da S. D’ELIA, Appunti sul testo degli «ShA», «Rend. Acc. Arch. Lett. e Belle Arti

Napoli», XXXV, 1960, pp. 71 segg., cioè atque ideo illum magis odio fuisse quam rem p. temporis sui, et ille: «quia…», vedendo in dipendenza da cum ille diceret un’affermazione di Traiano, cui succederebbe – introdotta da et ille, con ellissi del verbum dicendi – la battuta pungente e ad effetto di Omullo, e conservando il tràdito illum inteso in riferimento a Domiziano.

66, 3 & pervifuerit P et pervi omittit Flor. Vat. Lat. 5114 lacunam significans pervi omittit Σ lacuna partim indicata partim neglecta et pueri servi fuerint Hohl (Helm). Propongo et semper servi fuerint, emendazione che viene a sottolineare particolarmente la continuità di quella situazione servile; all’origine della corruttela potrebbe essere un’abbreviazione come s er (sp er servi > spervi> pervi). Cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 107 segg.

MAXIMINI DUO 2, 1 nonnum P nonnumquam B corr. iuvenum Hohl. Accolgo la lezione nonnumquam di B corr. (cfr. il nesso nonnumquam etiam anche a 28, 7 e a Al. Sev., 31, 1). Su tutto il passo, anche in relazione al termineprocer, cfr. SOVERINI, Note al t. degli ShA, cit., pp. 233 segg.

2, 6 fortissimis quibus PΣ fortissimis quibus 〈que〉 Hohl (edd.). Accolgo la lezione di tutti i codici. Su quis = quisque cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 202 (ove si ricorda come già in Tacito sia riscontrabile un’alternanza ut quis / ut quisque, impiegati in contesti analoghi rispettivamente a Ann., II, 83, 1 e Hist., I, 57, 1) e la bibliogr. ivi cit. Cfr. ancora, nella HA, i casi di Gall., 13, 3 e Tyr. trig., 22, 1, e v. sulla questione TIDNER, De particulis, cit., p. 34 n. 1 e HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 27 n. 3. 4, 6 imperatore P1 t. B -rem P corr. imperare S, Hohl (Peter). Accolgo con Eyssenhardt, la lezione di P corr., sottintendendo esse; cfr. Op. Macr., 4, 1 e HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 129 seg. 6, 5 iam grandevos P1 t. B iam grandęvos P corr. idem (item) quindenos Σ

idem quindenos Hohl. Leggo, con Eyssenhardt, Peter, Magie, iam grandaevus, privilegiando la testimonianza di P, e intendendo l’aggettivo col valore di «in età matura» o «avanti con gli anni» (cfr. 4, 6 ubi Heliogabalum… imperatorem comperit, iam maturae aetatis…; l’episodio che ci interessa, avvenuto sotto Alessandro Severo, si riferisce a non meno di quattro/cinque anni più tardi): una certa esagerazione nell’impiego del termine (grandaevus si riferisce per solito a vecchiaia, e Massimino – nato probabilmente nel 173 d. C. – avrà avuto qui una cinquantina d’anni o poco più) sarà forse da ricollegare alla volontà di sottolineare vieppiù il carattere eccezionale delle imprese di Massimino. Grandaevus è termine impiegato ancora nell’opera (cfr. M. Ant., 20, 6). 12, 1 amnes P1 per amnes P corr. ad amnes Σ a campis Hohl (Peter). L’emendazione accolta da Hohl presenta notevoli difficoltà dal punto di vista paleografico, anche se troverebbe sostegno nel testo di ERODIANO, VII, 2, 5, ove si parla di «pianure». D’altro canto la possibilità di riconoscere la presenza del sostantivo amnes appare fortemente dubbia, sia per la mancanza di altre attestazioni di esso nell’opera, sia per la poca plausibilità che esso assumerebbe nel contesto. La soluzione più verisimile mi sembra possa avanzarsi solo considerando amnes come il risultato della corruttela di un aggettivo riferito a Germani: in mancanza di

congetture più valide accolgo omnes dell’Eyssenhardt (seguito dal Magie); sulla corruttela può aver influito la finale della parola precedente -ani.

12, 2 〈milites〉 liberassent Hohl (Helm). L’integrazione non risulta necessaria, in quanto il soggetto può essere in questo caso estratto dal contesto stesso, anche senza che sia direttamente espresso (v. HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 7 seg.). Di questo avviso, pur non intervenendo sul testo, si dichiarano – negli addenda all’edizione di Hohl – i revisori Samberger e Seyfarth.

12, 6 〈vel〉 quinquaginta Hohl (edd.). Concordo con Samberger-Seyfarth nel considerare non necessaria l’integrazione; l’asindeto era stato già difeso da TIDNER, De particulis, cit., p. 90 (cfr. KÜHNER-STEGMANN, Ausführl. Gramm., cit., II, p. 151).

13, 1 bella plurima proelia P proelia omittit Σ, delevit Hohl (Salmasio). Conservo il testo tràdito, proponendo di interpungere bella plurima, proelia e vedendo qui un altro esempio di coordinazione asindetica a membri separati (v. P. SOVERINI, Per il testo della Vita dei Maximini duo dell’HA, «Boll. St. lat.», V, 1975, p. 32).

13, 5 siccis PΣ, Hohl (edd.). L’aggettivo siccus in unione a vehiculis non può, a mio avviso, fornire alcun senso soddisfacente. Propongo perciò di riferirlo, con lieve emendazione, ad alios, cioè alle vittime che Massimino esponeva su dei carri lasciandole, verosimilmente, a patire la sete (assieme alla fame e alle intemperie). Ho ritenuto dunque di leggere siccos.

14, 4 per PΣ propere Hohl (Peter). Propongo di leggere per 〈Africam〉 (cfr. in proposito SOVERINI, Per il t. della V. dei Maxim, duo, cit., pp. 30 seg.); cfr., per la struttura dell’espressione, Gord., 26, 5 inde per Syriam Antiochiam venit. 14, 5 augustus P1 t. B Augusti Hohl (edd.). Conservo la lezione della prima mano di P, intesa come nominativo appellativo (v. in proposito SOVERINI, Per il t. della V. dei Maxim, duo, cit., pp. 31 seg.); cfr. la nota a Diad., 6, 3 e la bibliogr. ivi cit.

17, 2 alios PΣ aliquos Hohl (Helm). La lezione tràdita offre un testo veramente duro, ma l’emendazione di Helm appare piuttosto banale. Forse risulta più appropriata la congettura aulicos del Kellerbauer, accolta anche dal Magie, che potrebbe trovare un sostegno nel confronto con Op. Macr., 13, 3 in verberandis aulicis tam impius… 27, 8 & omnes gegias Pa & omnes regias Pb et coronas regias Σ auratas [et]

omnes 〈et〉 regias Hohl (Helm). Mantengo la et nella collocazione offerta da P (e indirettamente confermata anche da Σ), dato che il senso risultante è comunque soddisfacente.

28, 7 〈in genua mea〉 [pedibus meis] Hohl. Conservo la lezione dei codici, che non appare ingiustificata, dato che il comportamento – qui indirettamente stigmatizzato – del giovane Massimino, comprendeva anche – come detto subito prima – il lasciarsi baciare nonnumquam etiam pedes. Cfr. V. TANDOI, M. Aurei, al trionfo di Comm., cit., p. 481 n. 26.

GORDIANI TRES 3, 5 populi romani P populo Romano Hohl (edd.). Accolgo, con HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 54, la lezione di P, riconoscendovi l’impiego, attestato anche altrove nell’opera (anche se in un certo numero dei tantissimi casi citati dallo studioso suddetto [p. 53 segg.] si puó restare fondatamente perplessi, e pensare più prudentemente che le lezioni in questione siano dovute ad accidenti paleografici), del genitivo in luogo del dativo. Su quest’uso, in linea generale, cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., pp. 87 seg.

5, 6 litteris P litteras Hohl. Accolgo la lezione di P (cfr. la nota a Diad., 5, 6).

8, 6 quod maximinianis necessario fautorib; dubie imminebat P quod 〈a〉 Maximinianis [necessario] 〈dubie, a〉 fautoribus [dubie] 〈necessario〉 imminebat Hohl (Peter). Conservo, con F. KOLB, Zu SHA, Gd. 7,4 – 8,4 und 8,6, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 143 seg., il testo tramandato da P, che offre un senso del tutto accettabile: per i seguaci di Massimino il pericolo si presentava in quel momento ineluttabile, mentre per i fautores della ribellione poteva sussistere, pur nell’incertezza del futuro, una speranza di positivi sviluppi della situazione. La consultazione del cod. Chigianus conferma l’ordine delle parole offerto da P.

9, 5 alii P alibi Σ, Hohl. Alibi non è usato altrove nell’opera. Conservo con Eyssenhardt, la lezione di P, ammettendo un costrutto brachilogico in cui si ha l’ellissi di un verbum dicendi, e dove risulta sottinteso il già precedentemente espresso infinito cognominatos (esse), riferito ad Antonios (cfr. E. TIDNER, In ShA adnotatiunculae, in Strena Philologica Upsaliensis, Uppsala, 1922, p. 159; SOVERINI, Note al t. degli ShA, cit., pp. 235 seg.).

13, 1 ille PΣ Ma Hohl (Eyssenhardt). Mantengo la lezione tràdita: ille si ricollega al Maximinum immediatamente precedente, ma nel prosieguo del discorso, con la lunga digressione sulla incapacità umana di mantenere i segreti, l’autore ha – come in altri casi – scordato come aveva iniziato il periodo, finendo per ripetere il soggetto (cfr. Aurel., 13, 1 con la ripetizione di Valerianus Augustus): v. sul passo TIDNER, In ShA adnotatiunculae, cit., pp. 150 seg. e HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 48 n. 6. Il nesso illa omnia non pare del resto usuale nel corso di queste vite (cfr. LESSING, Lexicon, cit., pp. 407 seg., s. v. omnia, II, 1, a).

17, 1 ut nonnulli, ab Antoninis, ut plurimi, ab Antoniis duxit P, Hohl quam ut nonnulli eqs. Ch. Hohl conserva il testo di P seguendo il TIDNER, De particulis, cit., p. 119 n. 1 che ipotizza l’ellissi di originem. Tale costrutto mi pare qui alquanto duro (si noti fra l’altro che subito prima si ha già anche l’ellissi di un verbum dicendi); preferisco perciò operare, dinanzi a ut nonnulli, l’integrazione di un quam (riferito al precedente nobilitatem), lezione offerta dal cod. Chigianus, che rende il testo più semplice e piano. Essa è accolta nelle edizioni di Jordan-Eyssenhardt e Magie, e difesa dal KLOTZ, Beiträge, cit., p. 308. 18, 1 conlissici P1 t. B coll…. Ch lacuna indicata scolis si quis P corr. in

rasura conlusu si qui Hohl (Petschenig).

Di un sostantivo conlusus non si hanno altre attestazioni in latino. Preferisco accogliere la lezione di P corr. scolis, che risulta anche più adatta al contesto, ove si parla di punizioni.

18, 6 obsecutus PΣ ab senatu Hohl (Madvig). Conservo il testo tràdito; il verbo obsequor appare adatto ad esprimere anche il rapporto legatoproconsole (cfr. Ver., 4, 2): v. R. BITSCHOFSKY, Kritisch-exegetische Studien zu den ShA, Wien, 1888, p. 29 e SOVERINI, Note al t. degli ShA, cit., pp. 236 seg.

19, 6 vita sua nec tamen P vita sua, nec tamen Hohl (Helm). Il testo di P mi pare troppo duro; preferisco leggere, col cod. Chigianus qui consultato, nec tamen (in) vita sua, presupponendo avvenuta in P una trasposizione dell’espressione ablativale, ricollegabile forse a una scrittura in alto o a margine mal reinserita, che avrebbe comportato – quale ulteriore e concomitante accidente paleografico – anche la perdita della in: la presenza della preposizione appare richiesta dall’usus scribendi riscontrabile nell’opera in espressioni del genere (cfr. ad es. Tyr. trig., 3, 1 in omni vita gravis; Valer., 5, 6 in tota vita sua fuit censor).

19, 6 bonis P 〈a〉 bonis Hohl (Salmasio). Conservo il nudo ablativo separativo, ricorrente non di rado nella HA (cfr. HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 115 segg.), e attestato altre volte, in linea generale, in collegamento a degenero (cfr. ad es. MANILIO, IV, 72 degenerant nati patribus). Per maggiori particolari cfr. SOVERINI, Note al t. degli ShA, cit., pp. 237 segg. Aggiungo che la consultazione del cod. Chigianus in questo punto ha confermato la lezione di P.

24, 4 inte PΣ tete Hohl (Helm). La forma tete non è altrove attestata nella HA. Espungo, con P. H. DAMSTÉ, Ad ShA, «Mnemos.», XXXIX, 1911, p. 190, inte, non indispensabile alla comprensione del senso, e sorto verosimilmente per dittografia con le lettere finali della parola precedente (volente).

25, 3 quod ad mauros P quod cum maurus Σ quod et mater nos Hohl (Petschenig). Il testo appare irrimediabilmente corrotto. Ritengo più prudente segnare la crux, anziché congetturare problematiche emendazioni.

26, 6 & post artaxansen P et post artaxerxen R qui post Artaxerxen 〈regnabat〉 Hohl. La lezione Artaxerxen appare degna di valorizzazione (risulta che Sapore fu effettivamente successore di questo re), al contrario di artaxansen, che dovrebbe rappresentare il nome di una presunta – a noi sconosciuta – città orientale; l’emendazione adottata da Hohl appare però troppo onerosa. Preferisco ipotizzare, pur con tutte le riserve del caso, un’originaria collocazione di post Artaxerxen dopo Persarum rege: in seguito ad un qualche accidente paleografico – come una soprascrizione o una scrittura a margine – l’espressione in questione può essere stata spostata dalla sua sede primitiva e ricollocata dopo summoto, subendo nel contempo corruttele (artaxansen doveva essere appunto la lezione dell’archetipo) e adattamenti (come l’aggiunta della et). 27, 10 praetototius urbis tutoris re P1 t. B praetori totius urbis tutori* rei

P corr. praetorii praefecto totius urbis tutori rei p. Σ { praefecto } praetorii, totius orbis 〈tutori resti〉tutori rei p. Hohl (〈resti〉 tutori Hirschfeld).

Non ritengo necessaria l’integrazione di un altro sostantivo accanto a tutori) quest’ultimo termine, infatti, può essere considerato riferito contemporaneamente sia a orbis (l’emendazione del tràdito urbis appare indispensabile) che a rei publicae, riconoscendo la presenza di un ulteriore caso di costrutto asindetico a membri separati, tipico nell’usus scribendi di questi Scriptores e che, significativamente, ritroviamo anche in questo preteso «documento», senza dubbio inventato dal biografo. Per ciò che riguarda la restituzione del nesso praetorii praefecto, preferisco accogliere – a differenza di Hohl – l’ordine delle parole offerto da Σ, sia perché offre una migliore giustificazione paleografica della corruttela presente in P (prae〈torii praefec〉to), sia perché il testo di tale tradizione – che è anche quello da noi adottato in ordine al precedente problema – appare per questo passo degno di fede. Su tutto il passo cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 110 segg.

28, 3 & fossatorum P fossato Σ et fossas eorum Hohl (Novák). La lezione di P (che trova indiretta conferma nell’aggiustamento presente in Σ) doveva essere quella originaria dell’archetipo, e appare giustificabile ammettendo un impiego del genitivo partitivo in funzione di oggetto (cfr. HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 84; sul costrutto in generale cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 54).

28, 6 poculorū P poculum Σ Hohl (edd.). Anche in questo caso accolgo (con HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 80) la lezione di P, riconoscendo in poculorum un genitivo partitivo in funzione di oggetto; si noti come quanto segue immediatamente (mutatis, quae fuerant parata) sembri proprio richiamare la presenza del plurale del sostantivo.

29, 4 gubernar& PΣ gubernare Hohl (edd.). Accolgo, col Magie, il testo tràdito, che offre un senso accettabile e soddisfa all’esigenza di rispondenza nella struttura delle due successive relative, dotate evidentemente di una sfumatura consecutiva.

30, 8 ficta P factione Σ refecta Hohl (Lenze). Accolgo la lezione di P, intendendo fingo nel senso di «plasmare», «manipolare», «lavorare» la volontà – in questo caso – di qualcuno (così da fargli cambiare atteggiamento): per maggiori particolari cfr. SOVERINI, Note al t. degli ShA, cit., pp. 238 seg.

31, 7 〈ausus〉 abradere Hohl (Helm). L’integrazione non appare necessaria: abbiamo qui una serie di infiniti storici (per questo costrutto cfr. ad es. Maxim., 3, 6).

32, 6 pariter & PΣ pariter pateret Hohl (Peter). L’emendazione del Peter, accolta da Hohl, lascia perplessi quanto al senso richiesto per pariter, comunque estraneo all’usus degli ShA. Preferisco, pur con riserve, accedere alla soluzione della vulgata, difesa da M. PETSCHENIG, Zur kritih der ShA, Graz, 1885, p. 13, leggendo solamente pateret e presupponendo, dal punto di vista paleografico, che la corruttela abbia avuto origine da un distacco della et finale della desinenza del verbo, con conseguente successivo aggiustamento della lezione monca risultante pater.

32, 7 sine usu P sui usui (visui) Σ intus Hohl (Madvig). L’emendazione intus, paleograficamente discutibile, banalizza il testo. Accolgo la lezione di P con la semplice integrazione di un ne, soluzione risalente già al Salmasio (sul riferimento della finale a tutto il periodo, e non solo alla precedente consecutiva, dato il particolare valore – puramente aggiuntivo – che assume spesso la formula ita ut nell’usus di questi Scriptores, cfr. LENZE,

Quaestiones, cit., p. 37).

MAXIMUS ET BALBINUS 5, 11 veluti P veliti (velit) Σ veluti 〈meritum〉 Hohl. Propongo di leggere velut utili, vedendo in velut una sfumatura causale (cfr. LESSING, Lexicon, cit., p. 714 s. v., b) collegata all’aggettivo utilis, che ricorre più volte, nella HA, ad esprimere il concetto di «utilità» di un personaggio dal punto di vista del bene dello Stato (cfr. ad es. Al. Sev., 4, 5; Av. Cass., 13, 10). Per una trattazione completa del passo cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 114 segg.

8, 7 coeciuntes P cohortes Σ coorientes Hohl (Helm). Il verbo coorior non è mai attestato nel corso dell’opera. Preferisco accogliere (come Eyssenhardt, Peter, Magie) l’emendazione coeuntes, più vicina alla lezione di P e migliore anche per il senso (per coire inter se cfr. Th. l. L., III, 1417, 63 segg.).

12, 2 acrispino P et Crispino Σ ducibus Cr. ac Men. Hohl. L‘emendazione di Hohl è paleograficamente troppo onerosa, né convince appieno una congettura ac (Eyssenhardt, Peter, Magie), dato che subito dopo la stessa congiunzione ricompare in funzione dell’accoppiamento specifico dei nomi dei due consolari; in questa enumerazione dei vincitori di Massimino i primi due membri (oppidani e milites) sono coordinati da et, ed è assai probabile che lo stesso avvenisse anche con il terzo (la coppia dei consulares): propongo perciò di accogliere la lezione di 2 (forse nell’archetipo la congiunzione era rappresentata da una sigla, fraintesa in una a da P).

17, 7

PΣ 〈etsi confirmata〉 esse Hohl (Baehrens).

L’emendazione adottata da Hohl appare paleograficamente onerosissima, e discutibile anche per il senso, dato che un impiego di confirmo col valore qui richiesto non trova altri riscontri nell’opera. Propongo di leggere et haec esse (sc. probata) 〈cum〉 confidam…, con la sola lievissima integrazione di un cum con valore concessivo. Per una trattazione particolareggiata si veda SOVERINI, Problemi, cit., pp. 117 segg. VALERIANI DUO 1, 2 posteris P1 et posteris P corr. posterisve Σ, Hohl. Accolgo la lezione di P1, riconoscendo anche in questo caso un asindeto a membri separati (v. HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 104).

GALLIENI Duo 2, 2 a principibus P a omittit Σ ac principibus Hohl (Kellerbauer). Leggo, col Peter, et in luogo del tràdito a, probabile fraintendimento di una sigla della congiunzione (cfr. la nota a Max. Balb., 12, 2).

2, 5 haec P hec sed Hohl (vulgo). Leggo, col LENZE, Quaestiones, cit., p. 39, 〈post〉 haec, congettura che mi sembra paleograficamente meglio giustificabile, pensando ad un’abbreviazione di post non intesa e perduta, e che corrisponde inoltre all’usus scribendi riscontrabile nell’opera, dove l’espressione ricorre in inizio di frase una trentina di volte (cfr. LESSING, Lexicon, cit., p. 235 s. v., 2). 3,

9 votivum P, Hohl 1927 votivumque Σ, Samberger-Seyfarth.

La lezione di P può essere conservata riconoscendo qui la presenza di un asindeto conclusivo (v. HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 106; cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 830).

5, 1 spem bonorum PΣ splendorem Flor. Vat. Lat. 5114, Hohl. La lezione adottata da Hohl si discosta notevolmente da quella dei codici più autorevoli, ed appare poco appropriata anche per il senso (in correlazione con audaciam ci si aspetta l’indicazione di un sentimento, come può essere appunto la spes); poiché il bonorum dei codici, che dà un senso troppo generico, ed è stato accolto con poco discernimento dagli editori precedenti, è probabilmente una corruttela ricollegabile alla successiva presenza di bonis, propongo di leggere spem honorum. Per maggiori particolari cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 120 seg.

8, 3 flacculis P, Hohl (Salmasio) flosculis Σ. Accolgo la congettura dell’Ellis flocculis, difesa ultimamente da E. K. Borthwick, sulla base di un raffronto con un passo di Filostrato (v. la nota di commento ad loc.).

9, 6 solertia PΣ insolentia Hohl (Cornelissen). Conservo, con gli editori precedenti, la lezione tràdita, intesa in un senso all’incirca corrispondente a quello assunto dal relativo avverbio a Hadr., 11, 1 reditus… provinciales solerter explorans.

17, 9 iocari se PΣ iocularia saepe Hohl (Helm). Accolgo, con gli editori precedenti, la lezione tràdita (per la quale propendono anche, negli addenda all’ediz. di Hohl, Samberger e Seyfarth), rinunciando all’emendazione di Helm, non necessaria per il senso e paleograficamente molto onerosa.

19, 7 vita (dicta sunt, multa) in libro Hohl (Helm). Ritengo sufficiente, con TIDNER, De particulis, cit., p. 98 n. 1, l’integrazione di multa: il verbum dicendi mancante nella prima parte può essere mentalmente integrato – nella forma temporale richiesta – ricavandolo dal successivo loquemur (si veda, per tale fenomeno di «Ergänzung anderer Tempusformen zum ersten Glied aus den Tempusformen des zweiten», HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 825; nella HA cfr. ancora, ad es., Tac, 7, 3 ut qui hactenus sententiis suis rem p., nunc adiuvet iussis atque consultis).

21, 2 occuparetur PΣ occupetur Hohl (Kellerbauer). Conservo, col Peter, la lezione tràdita. La libertà dagli stretti legami di consecutio appare qui ammissibile, tenendo conto della natura consecutiva della proposizione, nonché del fatto che l’autore può aver inteso rapportare l’espressione al momento in cui il lettore si sarebbe trovato di fronte il libro compiuto (cfr. in questo senso anche Tyr. trig., 20, 1 et bene venit in mentem ut, cum de hoc Valente loquimur, etiam… diceremus; Quadr. tyr., 1, 4 non tamen minima fuerit [futuro] cura ut… non taceremus).

TYRANNI TRIGINTA 7, 2 unus PΣ titulus Hohl (Casaubon). La lezione tràdita riveste una sua funzionalità a sottolineare come i due personaggi fossero accomunati da un’unica iscrizione; leggo perciò: unus 〈titulus〉. 10, 9 dunc P1 tunc P corr., Hohl (Peter) ad hunc A Ch adhuc R. Accolgo, con KLOTZ, Beiträge, cit., p. 294, la lezione di R adhuc (cfr. Al. Sev., 5, 4 adhuc privatus; Aurel., 16, 2 adhuc a privato).

11, 2 Macrino P, Hohl. Accolgo la forma corretta del nome Macriano, offerta da Σ (cfr. la medesima corruttela in P

anche col nome del padre a 12, 15).

13, 2 sed ad facta aut quantum in bellis P sed ad facta autem quantum in bellis Σ sed 〈quid〉 ad fata aut quantum in bellis Hohl (Helm). Conservo il tràdito facta, col valore di «imprese» (nel senso positivo, cioè, che appare qui appropriato in dipendenza dal nesso valere ad); propongo inoltre la conservazione completa del testo di P (confermato – a parte l’evidente «aggiustamento» rappresentato dalla variazione di aut in autem – anche da Σ), considerando l’avverbio quantum impiegato ἀπò ϰοινύ (per tale costrutto cfr. nota a CI. Alb., 2, 5, e inoltre Al. Sev., 9, 7 sed primum displicet alienae familiae nomen adsumere, deinde quod gravari me credo; in linea generale v. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 835).

17, 1 filii herodes P filii herodis Σ filii Herodis 〈luxuriem〉 Hohl (Helm). Accolgo la congettura del TANDOI, Restauri, cit., pp. 111 segg., filii Hero〈dis sor〉des, paleograficamente ottima (cfr. nota a Carac., 9, 4); a differenza però di questo studioso, intendo il termine non in riferimento a «grettezza», «avarizia» del personaggio, ma ricollegato al concetto di luxuria (intesa in senso ampio, quale abuso di lusso, fasto, mollezze: cfr. 16, 1 homo omnium delicatissimus et prorsus orientalis et Graecae luxuriae, così come in relazione a piaceri erotici: cfr. 16, 2 quidquid concubinarum regalium… eidem tradidit); poco dopo si dice di Meonio, l’uccisore di Odenato ed Erode, anch’egli a sua volta ucciso pro suae luxuriae meritis, che hic quoque spurcissimus fuit (facendo indiretto riferimento ad Erode), un’accusa relativa chiaramente a «spregevolezze», «sozzure» inerenti a corruzione morale e sessuale (cfr. Al. Sev., 9, 4, dove spurcissimus è detto Elagabalo). Per l’uso, nel corso dell’opera, di sordes e derivati con valori ricollegabili al concetto di turpitudine, abiezione, corruzione, dissolutezza (specialmente con riferimento erotico), cfr. Tyr. trig., 12, 11 sordidissimus feminarum omnium (detto di Gallieno); Heliog., 5, 1 cum omnia sordide ageret (di Elagabalo); Ver., 6, 8 multa in eius vita ignava et sordida… deteguntur (di Vero). Per una più diffusa trattazione della questione cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 122 segg.

21, 6 ad alium PΣ ad alium 〈locum〉 Hohl (Richter). Intervenendo a costituire, in dipendenza da ad, un’espressione indicante luogo, quest’ultima viene necessariamente a collegarsi con transferendae, presupponendo un impiego assoluto di positae sunt, che verrebbe a comportare un significato del verbo diffìcilmente ammissibile (quello, cioè, di «rimuovere», «spostare»; ciò a meno di non accedere a rese estremamente forzate di tutta l’espressione, come quella del Magie: «was erected only [?] to be moved elsewhere»). Preferisco conservare il testo tràdito, intendendo alium riferito ad un altro personaggio «divinizzato», tenendo presente che pono può trovarsi in unione con ad e accusativo nel senso di «dedicare» qualcosa a qualcuno: per solito tale impiego è con riferimento a divinità (cfr. ad es. VARRONE in NONIO, p. 134 Lindsay, primum capillum… demptum… ad Apollinem ponere solent), ma appare verosimile che l’impiego fosse estensibile anche a personaggi di grande rilievo morti e divinizzati (come appunto Pisone e – si può supporre – l’alium nuovo dedicatario della quadriga). Per una discussione completa del passo cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 127 segg.

22, 8 sed P si Σ et Hohl (Baehrens). Accolgo, con l’Eyssenhardt, la lezione di Σ: si quidem è infatti formula frequentissima in queste vite, anche in espressioni analoghe a quella in questione, che fanno appunto richiamo a quanto affermato da altre fonti a giustificazione di una notizia presentata dall’autore (cfr. ad es. Hadr., 1, 1 origo imperatoris Hadriani vetustior a Picentibus, posterior ab Hispaniensibus manat, si quidem

Hadria ortos maiores suos apud Italicam… resedisse in libris vitae suae Hadrianus ipse commemoret; Gall., 14,10 quod veri simile non est, si quidem capto iam Valeriano scriptum invenimus in fastis…).

22, 12 〈cum〉 consulatum cupit Hohl (Peter). L’integrazione non appare del tutto convincente per il senso (ci si aspetterebbe di più semmai un qui). Concordo con HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 112, nel conservare il testo tràdito intendendo l’espressione in questione come un inciso parentetico.

26, 2 quare PΣ qua erat Hohl (Eyssenhardt). L’emendazione accolta qui da Hohl non offre un senso soddisfacente: lo stesso imperfetto erat che ne risulta appare incongruente col contesto, dato che l’espressione usata dal biografo deve evidentemente riferirsi ad avvenimenti puntuali, precisi, in cui si sarebbe manifestata concretamente la crudelitas di Gallieno contro Trebelliano, e non semplicemente ad una costante e generica disposizione d’animo nei confronti dell’usurpatore: semmai ci dovremmo dunque aspettare un fuit; per di più si può osservare come il tema della crudelitas venga a rapportarsi, nello svolgimento del racconto, non a Trebelliano, ma al timor degli Isauri (§ 5 timore, ne in eos Gallienus saeviret; cfr. § 1 ea crudelitas, ut iure timer etur), mentre il personaggio in questione è esemplificazione diretta di rebelles plurimos mereretur (espressione collegata al tema della luxuria di Gallieno). Il quare iniziale, attestato più volte in queste vite, sarà da conservare, tentando un’integrazione paleograficamente verisimile della forma verbale mancante nel periodo, in relazione all’idea di una campagna militare condotta contro il ribelle: propongo 〈bellatum〉, da inserire per ovvie ragioni paleografiche dopo Tribellianum. Per una trattazione del passo cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 130 segg.

26, 6 & cum PΣ etenim Hohl (Petschenig). Conservo la lezione tràdita, rinunciando però all’integrazione di un sit dopo eorum, adottata nelle edizioni di Jordan-Eyssenhardt e Peter. L’ellissi del verbo sum non è rara in queste biografie, anche nell’ambito di proposizioni subordinate al congiuntivo: cfr. nota a Heliog., 14, 1; in particolare, sul nostro passo, v. in questo senso TIDNER, In ShA adnotatiunculae, cit., p. 153 e HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 121.

31, 12 Titus enim et Censorinus…, quorum Hohl (Helm). Il passo appare effettivamente lacunoso, e difficilmente accettabile si presenta la proposta di HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 52, di conservare il testo tràdito così come è, riconoscendo, come in altre parti dell’opera, la presenza di un costrutto anacolutico. Poiché enim sembra suggerire un diretto collegamento con il concetto espresso subito prima, quello, cioè, della completezza che il liber viene a raggiungere col numero di trenta tyranni, si avverte nel periodo in questione la mancanza di un verbo che espliciti che lo scopo risulta ottenuto attraverso l’aggiunta delle vite dei due personaggi. In questa prospettiva propongo, pur con ogni cautela, di integrare, dopo Censorinus, (inseruntur), presupponendo avvenuta una specie di aplografia (dato che esiste una certa somiglianza grafica tra (C)ensorinus e la lezione suddetta). Si noti che l’uso di insero in collegamento diretto al nome del personaggio oggetto di una biografia – indicata appunto attraverso tale nome – appare perfettamente in linea con l’usus degli Scriptores: cfr. Prob., 18, 6 ac ne requiras plura vel de Saturnino vel de Proculo vel de Bonoso, suo e o s d e m inseram libro.

32, 1 alii PΣ illi Hohl (edd.). Dall’emendazione illi risulterebbe che tutti gli scrittori precedentemente citati (Dexippus…

Herodianus… omnesque, qui talia legenda posteris tradiderunt) attribuissero l’assunzione dell’impero da parte di Tito al timor violentae mortis: ora noi possiamo verificare che, almeno nel caso di Erodiano, il dato risulta inesatto (cfr. ERODIANO, VII, 1, 9 ove la spiegazione offerta corrisponde piuttosto a quella data dai plerique: ἐπὶ τὴν ἀρχὴν ἦγον οὔ τι βουλóμενον). Preferisco quindi conservare, col LENZE, Quaestiones, cit., pp. 40 seg., la lezione attestata concordemente da P e S, intendendo l’uno e l’altro gruppo di autori (alii… plerique…) come rientrante nel novero di quelli citati all’inizio del periodo. Per il tipo di correlazione duplice in cui alius precede l’altro termine cfr. Car., 8, 2 alii… plures…; Al. Sev., 4, 5.

33, 8 perurgues P perurges Σ perurgueo Hohl. Conservo la lezione offerta da P (confermata, per quanto riguarda la desinenza, anche da Σ) che appare offrire un senso accettabile. DIVUS CLAUDIUS

3, 3 ut etiam nunc videtur Hohl (edd.). Il testo tràdito mi sembra risulti in ogni caso molto duro, mentre diviene perfettamente leggibile attraverso la lieve emendazione di ut in ubi (già proposta dal Casaubon).

6, 2 in re venerunt P inruperunt Hohl (Peter). Espungo, con Salmasio e Eyssenhardt, in rem p(ublicam), che ha tutta l’aria di una glossa penetrata nel testo. Cfr. 7, 3 in Romanum solum armati venerunt, in riferimento allo stesso avvenimento.

7, 4 alio P Gallieni Hohl (Egnazio). Il testo è sicuramente corrotto: preferisco accogliere l’emendazione dell’Eyssenhardt talis, paleograficamente meglio giustificabile in relazione alla finale della parola precedente contemptu.

9, 2 verba PΣ reliqua Hohl (Kellerbauer) membra Samberger-Seyfarth (Damsté, Thörnell). ad Romanae rei p. omittit Σ ad Romanae rei p. 〈salutem〉 Hohl ad Romanae rei p. 〈corpus〉 Samberger-Seyfarth (Thörnell). L‘emendazione membra dà luogo a un nesso (membra naufragii) semanticamente assai duro e mai altrove attestato. Preferisco leggere reliquias, lezione già congetturata da J. N. MADVIG, Adversaria critica ad scriptores latinos, II, Hauniae, 1873, p. 646, notando come il modulo colligere reliquias risulti ancora attestato nella stessa HA (Quadr. tyr., 5, 3 Firmum… feminei propudii reliquias colligentem) e, fuori di essa e in ambito storico, in LIVIO (cfr. ad es. XXXIII, 41, 9 per l’impiego in senso proprio e XXVIII, 39, 3 per quello in senso figurato). Per ciò che riguarda la seconda parte del brano, invece di integrare corpus (lezione che, anche accogliendo in precedenza membra, può suscitare perplessità, in quanto si avrebbe nel corso della stessa frase una sovrapposizione tra l’immagine dello Stato visto come «corpo» [umano] e come «nave»), propongo di sanare la sicura lacuna finale con restitutionem (cfr. in partic. Tyr. trig., 12, 8 iuvenes aliqui sunt quaerendi,… qui ex diversis partibus orbis humani rem p. restituant, quam Valerianus fato, Gallienus vitae suae genere perdiderunt), dando così a ad il valore finale che con ogni probabilità riveste in questo contesto (un nesso colligere ad appare assai poco usuale per questo verbo, oltre che privo di attestazioni nell’opera). Dal punto di vista paleografico si può forse ipotizzare che entrambe le corruttele siano state originate da abbreviazioni non chiare o fraintese. Per una trattazione più diffusa e documentata del passo v. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 133 segg.

9, 6 bonum P1 t. B, A R bo*um P corr., Hohl bovum Ch. Accolgo la lezione di Ch (così anche il KLOTZ, Beiträge, cit., p. 298), che trova indiretta conferma nella presenza in P di una lettera, seppur erasa, fra o e u. Per la forma cfr. Heliog., 4, 4.

11, 6 fatigari PΣ fugari Hohl (Petschenig). L’emendazione mi pare discutibile, soprattutto per via del senso, non del tutto congruente nell’insieme del contesto (non si tratta infatti evidentemente di una semplice «messa in fuga» dei soldati di Claudio che si erano abbandonati al saccheggio, ma di una vera carneficina operata dagli stessi barbari che in precedenza erano stati sconfitti e costretti a fuggire: cfr. § 7). Penso che la lezione tràdita si possa accettare (così Eyssenhardt e Peter) vedendo nell’uso del verbo fatigo, che probabilmente in questo caso non risulterebbe neppur esso il più appropriato, una voluta ripresa dalla precedente citazione sallustiana (sapientium… animos fatigant), legata al modo di procedere piuttosto pedestre del biografo, che vuole introdurre nella narrazione vera e propria il verbo stesso della «massima» richiamata, anche a costo di forzarne un po’ il senso (che qui corrisponde in certo modo al nostro «mettere in crisi»). AURELIANUS

4, 2 qui PΣ invicti Hohl. L’emendazione di Hohl non pare accettabile, sia per la difficoltà di formularne una verosimile giustificazione paleografica, sia perché il confronto richiamato dallo studioso con 14, 3 (cfr. app. ad loc.) non può rivestire valore probante, dato che anche in quel caso l’aggettivo è introdotto nel testo per una sua discutibile congettura. Credo che la relativa possa essere conservata ammettendo un’ellissi di erat (fra i numerosi esempi di ellissi di sum nella HA – per cui cfr. anche note a Heliog., 14, 1 e Tyr. trig., 26, 6 — citiamo, proprio in relazione ad una proposizione relativa, Al. Sev., 14, 2 vidit alis se Romanae Victoriae, quae in senatu, ad caelum vehi); rimane la difficoltà del riferimento del pronome alla divinità anziché a templum: la soluzione più prudente è forse ammettere una corruttela del relativo, per cui da un primitivo quod si sarebbe giunti ad un qui, probabilmente in seguito al fraintendimento di una sigla (entrambi potevano essere abbreviati in maniera molto simile: e non mancano, nel corso dell’opera, altri esempi in cui le forme del pronome relativo risultano corrotte o confuse nella tradizione manoscritta). Per una discussione particolareggiata cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 139 seg.

quasi in nemo quasi servus P quasi servus Σ quasi domino, nemo quasi servus Hohl. 7, 8

In luogo dell’emendazione di Hohl propongo la lettura – forse paleograficamente meno onerosa – quasi imperatori, nemo quasi servus: la corruttela può infatti giustificarsi senza troppa difficoltà per il tramite di un’abbreviazione come im i o im ; il termine risulta in armonia con il contesto militare, e adatto quindi a richiamare il concetto di un rapporto ad esso congruente. Si veda la trattazione del passo e della proposta in questione in SOVERINI, Problemi, cit., pp. 142 seg.

8, 4 [si quid] ille fecisset, cum Hohl (Salmasio). L’espunzione di si quid non mi convince pienamente, da una parte perché, per la presenza del si, non si può parlare di pura e semplice ripetizione accidentale del quid precedente, dall’altra perché con essa fecisset viene direttamente collegato al precedente timuisse ne, proponendo un costrutto – il piuccheperfetto in luogo dell’imperfetto in dipendenza da un verbum timendi – che non ha altre attestazioni nell’opera. Per di più il successivo cogitaret appare più opportunamente riferirsi ad Aureliano che non al piccolo Gallieno, dato che una certa notio agendi il verbo in questione sembra

rivestirla, nell’ambito dell’usus riscontrabile in questi Scriptores, solo in collegamento ad una connotazione ostile (cfr. Gord., 14, 6 ne quid contra eum… milites cogitarent, ove si può notare anche un’analogia nella struttura formale dell’espressione, e Gall., 2, 1 quae contra eum poterant cogitari). Conservo quindi il testo tràdito con la sola espunzione del cum (paleograficamente abbastanza lieve pensando ad un’abbreviazione), e riferendo cogitaret a ne quid… severius e fecisset (che viene così ad esprimere un normale rapporto di anteriorità) a si quid. Si tratta del testo accolto anche dall’Eyssenhardt, ove però il cum era dato in apparato come integrazione del Salmasio.

11, 1 tecum requirere potuissem PΣ te cum 〈non meliorem〉 requirere potuissem Hohl (Helm). Propongo la conservazione del testo tràdito, che mi sembra possa offrire un senso accettabile: fondamentale risulta un’interpretazione corretta del valore di requirere, da intendere nel senso di «sentire la mancanza», «aver bisogno», «rimpiangere» (cfr. LESSING, Lexicon, cit., p. 556 s. v., 3 e, in particolare, Prob., 12, 2), e non di «trovare» (come stranamente avviene nelle traduzioni di Magie, Agnes, Roncoroni); la proposizione requirere potuissem risulterà come l’apodosi di una sottintesa protasi irreale (cui nella traduzione abbiamo fatto riferimento con un «comunque»), che possiamo considerare corrispondente a quella del periodo precedente si esset alius; l’impiego del piuccheperfetto congiuntivo quale irreale del presente risulta agevolmente giustificabile alla luce del latino tardo (cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 321). Per una trattazione più diffusa cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 144 segg.

14, 3 certus PΣ invictus Hohl. Qui come a 4, 2 l’emendazione di Hohl appare troppo onerosa. Preferisco mantenere la lezione dei codici (che in questo caso, a differenza di quanto avviene per le lezioni immediatamente precedenti nel testo, sono concordi), tenendo conto che certus può essere attribuito anche ad una divinità, con riferimento all’essere «fìdus» (cfr. Th. l. L., III, 923, 50 e 55 segg.). Cfr. SOVERINI, Problemi, cit., p. 139 n. 1. 24, 9 favoriuscuerit P1 favori usque quaque placuerit P corr. favor Σ

(lacuna partim significata partim neglecta) favor viguerit Hohl. Propongo di leggere favor visque iuverit, emendazione paleograficamente giustificabile e congruente per il senso. Sul concetto di una vis portatrice di aiuto, ricollegabile a entità soprannaturali o comunque astratte cfr., nella HA, Aurel., 25, 3 e Claud., 7, 8. Per una trattazione diffusa del passo cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 148 segg.

26, 3 atque hostium quantum si vir a me oppugnandus esset in conscientia et timore longe deteriore PΣ atque hostium 〈tantum〉 quantum si vir a me oppugnandus esset, 〈adest, sed sub fem〉in〈a〉 conscientia et timore longe deteriore Hohl. Propongo di leggere: atque 〈non〉 hostium quantum si vir a me oppugnandus esset, in conscientia et timore longe deteriore, intendendo atque nel valore che risulta più naturale (senza necessità di ricorrere a giustificazioni forzate della funzionalità della congiunzione, come in TIDNER, De particulis, cit., p. 65 richiamato da Hohl in apparato), cioè semplicemente in funzione coordinante nei confronti della precedente proposizione quasi… pugnet (quest’ultimo verbo risulterà sottinteso nella coordinata). La caduta di un non è facilmente ammissibile in conseguenza di

possibili abbreviazioni come , e ne abbiamo vari esempi anche nel corso dell’opera. Per ciò che riguarda il nesso in conscientia et timore… accolgo l’interpretazione di HALLÉN, In ShA studia, pp. 95 seg., che vede qui l’uso di in + ablativo in luogo di una proposizione introdotta da cum (per cui cfr. in generale KÜHNER-STEGMANN, Ausführl. Gramm., cit., I p. 561). Per una discussione più ampia e documentata su tutte le questioni inerenti al passo cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 151 segg.

35, 1 et unusquisque et P, Hohl. Espungo, col Peter, la et dinanzi a unusquisque, che appesantisce il testo in modo – nonostante la difesa del TIDNER, De particulis, cit., p. 96 – difficilmente tollerabile. L’errato inserimento può facilmente ricollegarsi alla presenza, subito dopo il pronome, di un’altra et.

35, 3 pontifices PΣ porticibus Hohl (Scaligero). Conservo la lezione dei codici, accolta anche dal Magie, ma interpretando diversamente da lui il senso del passo (non cioè «he founded its college of pontiffs», ma «rafforzò l’autorità dei pontefici»).

36, 6 〈quod〉 beneficiis Hohl (Salmasio). Mantengo il testo tràdito attribuendo – con HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 112 – all’espressione beneficiis… ingratus valore parentetico. Sull’impiego di espressioni con valore parentetico nel corso della HA, cfr. lo stesso HALLÉN, ibid., pp. 110 segg., che offre una trattazione completa – ma con proposte non sempre accettabili – sull’argomento (che era stato in precedenza meno diffusamente affrontato anche dal TIDNER, In ShA adnotatiunculae, cit., pp. 160 segg. e dal KLOTZ, Beiträge, cit., pp. 307 segg.).

37, 6 ea delectū P delectum Ch R derelictum Vat. 1898 ea de 〈causa〉 relictum Hohl (Helm). L’emendazione di Helm non appare accettabile, sia per la notevole onerosità che comporta dal punto di vista paleografico, sia perché un impiego di de nell’ambito di un complemento di causa non è mai altrove attestato nell’opera. Preferisco perciò accogliere la congettura del Peter eum derelictum.

40, 1 sanctioris PΣ sancti ordinis Hohl (Hirschfeld). L’emendazione viene a rompere il gioco di rispondenze riscontrabile nella frase (senatus / exercitus, gravitas / auctoritas, prudentis / aggettivo riferito a senatus). Conservo, con Eyssenhardt e Magie, il testo tràdito; la presenza del comparativo non appare una difficoltà insormontabile. Essa può essere risolta, a parere di B. MOUCHOVÁ, Textkritisches zur HA, cit., p. 259, riconoscendo qui un impiego del comparativo per il positivo (attestato altrove nell’opera, oltre che ammissibile, in linea generale, nel latino tardo); a mio avviso, peraltro, è preferibile vedere nella forma in questione un vero comparativo, usato in valore assoluto, che potrebbe qui denotare una particolare espressività nell’uso dell’aggettivo, al di là del carattere puramente formale e banalizzato da esso assunto nell’ambito del linguaggio ufficiale (come ad es. a 41, 2 sancti et venerabiles domini p. c.), e con recupero, almeno in qualche misura, del suo valore originario, con riferimento all’integrità, alla superiorità morale, sottolineato anche dal collegamento con gravitas. Un’analoga caratterizzazione, con l’impiego del comparativo con valore assoluto e in funzione espressiva, a sottolineare la virtuosità del Senato, mi sembra possa ritrovarsi a Claud., 2, 8 summi principes eligerent, emendatior senatus optaret (ove è da notare, fra l’altro, una simile correlazione fra le due coppie aggettivo/nome: si osservi in particolare come qui a emendatior faccia da pendant un superlativo, in riferimento a dei principes) nel nostro caso, invece, a sanctioris è correlato il semplice positivo prudentis, già sufficiente per sé a caratterizzare in modo molto lusinghiero un exercitus).

40, 4 delegit PΣ delectus Hohl (Helm). Preferisco leggere, col KLOTZ, Beiträge, cit., p. 294 n. 1, delegitur (per altri esempi di caduta della -ur finale cfr. Hadr., 25, 9; Max. Balb., 11, 6) inteso come presente storico.

45, 5 tunico pallio P unico pallio Σ, Hohl (edd.). Conservo la lezione tunicopallio: v. la nota a Al. Sev., 41, 1.

46, 4 〈et〉 ceteras vestes Hohl (vulgo). Rinuncio alla pur lieve integrazione riconoscendo, con HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 101, una struttura asindetica a membri separati.

48, 2 gratia P gratis Σ, Hohl. Leggo, con HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 82 e HARTKE, Röm. Kinderk., cit., p. 282, gratiam, intendendo si alluda qui alla remissione degli impegni che i proprietari avevano, nei confronti dello Stato, in ordine ai loro terreni non coltivati. Cfr. la nota di commento ad loc.

TACITUS 2, 3 inserenda, 〈servanda〉 eadem eqs. Hohl (Baehrens). Rinuncio all’integrazione, considerando soggetto di inserenda l’espressione eadem… moderatio.

6, 8 pro; communi patria legibus PΣ pro communi patria legibus〈que〉 Hohl (Brakman). Conservo il testo tràdito riconoscendo qui, con TIDNER, De particulis, cit., p. 50, uno dei tanti tipi di asindeto presenti nell’opera.

16, 6 tunc PΣ iunctim Hohl (Helm). L’avverbio iunctim non è mai altrove attestato nel corso dell’opera. Dato che la determinazione concernente l’«unione» delle qualità deve fare pendant col precedente varia cui si contrappone, sembra più appropriata la presenza del participio neutro plurale iuncta, congetturata già dal Baehrens e accolta dal Peter. PROBUS

1, 1 unius cuius P unius cuiusque Σ, Hohl. Conservo, seguendo HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 27 n. 3, la lezione di P. L’impiego di unusquis per unusquisque è presente in numerosi autori tardolatini (cfr. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 202). Per quis = quisque cfr. la nota a Maxim., 2, 6.

4, 6 pondo… Hohl. Seguo il TANDOI («At. e Roma», XIII, 1968, p. 88) nel colmare la lacuna stabilita da Hohl con 〈duo〉: tale integrazione è resa assai probabile dalla possibilità di un’aplografia con la finale della parola precedente. 8, 2 manipu P1 manipulos P corr., Hohl manipularios Σ. Concordo col KLOTZ, Beiträge, cit., p. 296, sull’opportunità di accogliere la lezione di Σ Per ciò che riguarda la lezione di P corr., adottata da Hohl, si noti che nell’unica altra attestazione del sostantivo riscontrabile nell’opera, troviamo la forma plurale neutra manipula (Hadr., 10, 2).

8, 4 〈nomen suum〉 mittere Hohl (vulgo). Accolgo l’integrazione nomina (per il plurale cfr. § 7 militibus, quorum nomina exierant) proposta da WALTER, Beiträge, cit., pp. 16 seg., paleograficamente giustificabile se collocata, come

indicato dallo studioso, dopo urnam, data la possibile somiglianza grafica tra la finale di tale parola ed un’eventuale abbreviazione del sostantivo in questione. L’argomento paleografico mi sembra qui maggiormente cogente che non quello inerente al cursus, in ordine al quale H. L. ZERNIAL, Über den Satzschluss in der HA, Berlin, 1956, pp. 137 seg., preferisce la collocazione della medesima integrazione dopo iussit, secondo la proposta di P. H. DAMSTÉ, Ad ShA, «Mnemos.», XXXIX, 1911, p. 238.

8, 5 ut qui primum 〈emergeret, ei〉 Probo nomen existeret Hohl (Peter). Ritengo che existere, come confermato dall’uso stesso del verbo riscontrabile nel corso dell’opera, non possa figurare che come sinonimo dei successivi emergere e effundi, impiegati parlando degli ulteriori sorteggi (cfr. § 6 iterum Probi nomen emersit… quarto Probi nomen effusum est). Proprio in analogia con le corrispondenti espressioni successive, preferisco rinunciare alla massiccia integrazione del Peter, intervenendo invece sul passo con l’espunzione di qui e la correzione di Probo in Probi, emendazioni che propongo peraltro con grande cautela, data la problematicità del luogo in questione, che non sembra in ogni caso consentire una soluzione del tutto priva di difficoltà; si noti comunque che, nel caso di Probo, la supposta corruttela può forse essere ricollegata ad una scrittura compendiata del nome ridottasi all’unica lettera p corredata da un segno (corrispondendo in tal modo all’abbreviazione di pro), e ad un successivo errore nella restituzione della desinenza: tale scrittura si riscontra varie volte sia in P che in Σ (e poteva essere presente anche nello stesso archetipo): in questo stesso §, subito dopo, sta in luogo di Probi; a 18, 7 di Probo; a 24, 6 di nuovo di Probi (quest’ultimo esempio risulta particolarmente interessante, in quanto il correttore di P è intervenuto sulla scrittura della prima mano aggiungendo un’errata desinenza in -o).

11, 4 meritis 〈iudicetis〉 Hohl (Helm). Accolgo l’integrazione di Helm-Hohl, ma preferisco indicarla nel testo in questo modo: meri〈tis iudice〉tis; ciò per sottolineare quella che mi sembra l’origine della corruttela, e cioè il salto operato con l’occhio da un copista dalla finale di meritis a quella della parola, in origine, successiva. Cfr. le note a Carac., 9, 4 e Tyr. trig., 17, 1.

18, 7 cum Bonoso et Proculo 〈imperare〉 Hohl (Peter). Il verbo imperare, anche se costituisce un pendant significativo col precedente servire, non appare molto adatto in riferimento ad un intero popolo (nel corso dell’opera, infatti, non compare mai in un uso del genere, ma è detto solo di singole persone). Preferisco accogliere l’emendazione, proposta dal WALTER, Beiträge, cit., pp. 17 seg., 〈perire〉; la scelta, per i Germani, non è tra due condizioni di segno opposto, ma fra due alternative entrambe negative, di cui una – la seconda – si presenta nettamente peggiore dell’altra, cosicché il servire finisce per presentarsi come un minor male. Proporrei però di integrare il verbo non subito dopo quam, come vorrebbe il Walter, ma bensì dopo Proculo (allo stesso modo che in precedenza servire è collocato dopo il nome ad esso collegato, cioè Probo), tenendo conto che la caduta di perire può forse più verosimilmente spiegarsi dopo un’altra parola iniziante per p e all’incirca della stessa lunghezza. Per l’uso di pereo in riferimento a interi popoli ricordo, nella HA, Heliog., 30, 6 quo anno Sybaritae… perierunt.

20, 4 subierat pedib; q; totū P subiecerat pedibus totumque Σ subiecerat penitusque totum Hohl (Kellerbauer). Concordo con Hohl e la maggioranza degli editori nell’accogliere la lezione di Σ subiecerat. Non

concordo invece sull’eliminazione della lezione pedibus, che, in un contesto di questo tipo, riveste una sua precisa funzionalità semantica (cfr. 14, 2 quamdiu reguli novem ex diversis gentibus venirent atque ad pedes Probi iacerent; 15, 2). Poiché va d’altro canto riconosciuto che la congettura del Kellerbauer penitus è tutt’altro che priva di attendibilità, dato che l’avverbio in questione compare spesso in espressioni indicanti «il mondo intero», a rafforzare il concetto ivi espresso (cfr. ad es. Claud., 6, 3 toto penitus orbe victoria; Aurel., 41, 7), ritengo di poter proporre una lettura di questo genere per il luogo in oggetto: subiecerat pedibus 〈penitus〉que totum mundum eqs.; la caduta di penitus è facilmente spiegabile come aplografia con la parola precedente, graficamente molto simile.

20, 5 quid est aliud dicere: Romanus iam miles erit nullus; Hohl. Segno un punto interrogativo dopo erit nullus; quid… nullus costituisce infatti una domanda, cui le espressioni che seguono (ubique regnabit eqs.) fanno da risposta.

21, 2 cuperet 〈et〉 P corr., Hohl (edd.). Anche se l’integrazione sarebbe facilmente giustificabile per aplografia con la desinenza del verbo precedente, preferisco conservare il testo originario di P, che offre un ulteriore esempio del costrutto, che abbiamo già visto tanto frequente nel corso dell’opera, dell’asindeto a membri separati (v. HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 104). Aggiungiamo che la et manca pure nel cod. Chigianus. 24, 1 romanā fugerunt Pa romana refugerunt Pb roma refugerunt Σ

romanam rem p. fugerunt Hohl (Novák). Una soluzione accettabile della corruttela deve soddisfare ad una duplice esigenza: da una parte dare una netta preferenza a fugere rispetto a refugere, mai altrove attestato nella HA, e dall’altra evitare di introdurre un’espressione che, quale oggetto del verbo, faccia riferimento all’impero romano nella sua estensione, data l’incongruenza che si avrebbe in relazione alla nuova sede prescelta (compresa sempre nell’ambito di esso). Credo che la lettura più plausibile resti quella presente già nelle edizioni antiche (e ripresa modernamente anche dal Peter) Romanam rem fugerunt, che può trovare appoggio nel confronto con un passo riferito ad una situazione analoga come Tyr. trig., 33, 5 extat eius familia Censorinorum nomine frequentata, cuius pars Thracias odio [questo termine compare anche nel nostro passo] rerum Romanarum, pars Bithyniam petit: in entrambi i luoghi l’espressione res Romana o res Romanae starà ad indicare non genericamente lo Stato romano, ma «ciò che è romano» in senso stretto, così che si potrebbe rendere liberamente anche con «Roma».

24, 6 digna memoratui P digna memoratu Σ, Hohl. Conservo, con Eyssenhardt e Peter, la lezione di P; cfr. la nota a Diad., 6, 1.

QUADRIGAE TYRANNORUM 1, 4 quare &iā quoq; &iā si tamen minima fuerit cura P nobis quoque si non etiam minima tamen fuerat cura Ch quare etiam 〈laudes, quod nobis〉 quoque, etiamsi 〈festinemus〉, non tamen minima fuerit cura Hohl (Helm). La soluzione di Helm-Hohl è paleograficamente troppo onerosa. Scelgo la lettura proposta da MAGIE e ZERNIAL, Über den Satzschl., cit., p. 102: quare nobis quoque, etiamsi 〈non tanta〉, non tamen minima fuerit cura. La genuinità del primo etiam appare in effetti alquanto sospetta, tenendo conto sia della presenza successiva di quoque, sia di quella dell’altro etiam, scritto separato dal si,

mentre si avverte la necessità di un pronome come nobis (che è del resto fornito da uno dei codici Σ); quanto all’integrazione di non tanta, proposta originariamente dal LENZE, Quaestiones, cit., pp. 44 seg., e ripresa poi da Thörnell, Magie, Zernial, essa appare tuttora la congettura migliore per colmare la lacuna che è sicuramente presente fra etiamsi e non tamen. Per l’incongruenza temporale tra fuerit (futuro) e il successivo taceremus, cfr. la nota a Gall., 21, 2.

6, 4 〈in〉 clamide Hohl (Klein). Conservo senz’altro, con HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 101, il testo tràdito, riconoscendo qui la presenza dell’ennesimo costrutto asindetico a membri separati.

7, 4 venti P viri Σ inventi Hohl (Walter) adeo vasi P avidi Σ adeo vani Hohl (edd.). In luogo di inventi, congettura che appesantisce il testo e peggiora il senso, propongo di leggere vani (nel senso di «vanagloriosi», in armonia col significato generale del primo gruppo di aggettivi); tanto P che S rimandano, a mio parere, a una lezione che nell’archetipo doveva già risultare corrotta o comunque non chiara: il copista di P può essere stato portato a leggere venti sotto l’influenza della parola successiva, mentre nel caso della tradizione S si è avuto probabilmente un tentativo di «aggiustamento». Successivamente proporrei di sanare la corruttela adeo vasi di P (l’avidi di Σ rappresenta un altro inaccettabile rimaneggiamento) non introducendo, come Hohl, l’aggettivo vani, ma bensì varii (eventualmente nella grafia vari): esso, che riferito a indole mutevole e incostante ricorre ancora nel corso dell’opera (cfr. Hadr., 14, 11), si adatterebbe bene al tema più proprio del secondo gruppo di determinazioni. Per una trattazione più diffusa del passo e delle proposte in questione cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 154 segg.

8, 6 omnes certe linifiones cui’cūq: artis & videntur P omnes certe linifiones 〈aut〉 cuiuscumque artis et 〈professionis〉 videntur Hohl (Helm). Ritengo che linifiones fosse originariamente situato fra et e videntur (dove appare abbastanza evidente la presenza di una lacuna), e che, nelle vicende della trasmissione del testo, sia finito in un’altra posizione, precisamente dopo certe (ad es. in seguito a soprascrizione mal reinserita), scalzandone la lezione che originariamente si trovava in quel punto; è probabile che essa dovesse avere un aspetto grafico non troppo lontano da quello della parola intrusa, e riterrei verisimile che si trattasse di un aggettivo o sostantivo che reggeva il genitivo cuiuscumque artis (a questo proposito è da sottolineare l’estrema durezza dell’impiego isolato del genitivo di qualità, presupposto sia nella soluzione di Helm-Hohl, che in quella accolta da Eyssenhardt e Peter: 〈alii〉 linifiones, omnes certe cuiuscumque artis): propongo perciò di leggere, in luogo di linifiones, peritiores (l’aggettivo è attestato nell’opera anche nella forma di comparativo assoluto a Aurel., 19, 3, ed è perfettamente adatto a reggere il successivo genitivo), inserendo invece tale sostantivo fra et e videntur. Per questa soluzione cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 157 seg.

8, 10 versicoloris P diversi coloris Σ, Hohl. Ritengo che la lezione di P possa conservarsi senza alcuna variazione, ammettendo – con TIDNER, De particulis, cit., p. 42 – la presenza di un asindeto con aggettivi «idem vel simile significantia»; sull’uscita in -is dell’accusativo plurale cfr. HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 138.

10, 3 additur his PΣ at iuvenis Hohl (Helm). Accolgo la lettura proposta dal KLOTZ, Beiträge, cit., p. 297, alius iuvenis, che permette di stabilire una corrispondenza col precedente pronome quispiam.

12, 8 coalescat P calescat Σ concallescat Hohl (Damsté). Ritengo che la lezione di P possa essere conservata (così anche Eyssenhardt e Peter); coalesco può essere inteso nel senso di «(bene) crescere», «convalescere» (Th. I. L., Ili, 1382, 54), cioè «to take root firmly, grow strong, consolidate growth» (Oxford latin Dictionary, s. v.): cfr. POMPEO TROGO, prol. 3 coaliti… Sicyone et Corintho tyranni; Cod. Theod., I, 29, 8 non sinant crimina impunitate coalescere.

CARUS ET CARINUS ET NUMERIANUS 1, 4 triginta etiam prope tyrannorum 〈conluvionem〉 caesa civilium membra sibimet vindicantium perpessa maeruerit Hohl 1927 (Richter) trig. etiam prope tyr. caesas vilia membra sibim. vind. perp. maer. Hohl 1955. Ciò di cui si avverte chiaramente l’esigenza nel periodo in questione è di integrare (o ricavare attraverso emendazione) un sostantivo dipendente da perpessa, che regga l’espressione al genitivo inerente ai tyranni. Da parte nostra proponiamo 〈avaritiam〉 (da inserire dopo vindicantium), un termine che appare appropriato in riferimento al sostantivo suddetto (cfr. ad es. LIVIO, XXXIII, 44, 8 Nabim… tyrannum avaritia et cru-delitate omnes… tyrannos aequantem) anche nell’ambito di immagini vicine a quella del nostro passo: cfr., nella stessa HA, Max. Balb., 17, 2 gratulatus provinciis, quas inexplebili avaritia tyrannorum laceratas ad spem salutis reduxistis (si noti la presenza del verbo lacero, che ci riporta al concetto dei caesa membra). Si osservi che l’avaritia dei tyranni verrebbe a seguire, nell’enumerazione, la luxuria di Gallieno: e, da un punto di vista generale, avaritia e luxuria sono concetti che appaiono spessissimo in un modo o nell’altro collegati (cfr. Th. I. L., II, 1178 segg., passim). Dal punto di vista paleografico si può pensare che abbia potuto influire sulla caduta la somiglianza di finale con la parola precedente: -antium \ -aritiam. In questa prospettiva civilia andrà inteso nel senso già attestato altrove nella stessa HA di «amministrazione statale» (cfr. Aurel., 22, 1 quae ad… urbis statum et civilia pertinebant). Per una più ampia e dettagliata discussione cfr. SOVERINI, Problemi, cit., pp. 159 segg.

2, 5 tumebat P timebat Σ timebant Hohl. È assai verisimile che si avesse nel passo una corrispondenza mali / boni, che parrebbe richiedere la medesima funzione sintattica – oltre ad una relazione di diretta contrapposizione semantica – per i due termini, ed escludere di conseguenza sia un’interpretazione di boni quale nominativo (Hohl), sia un’emendazione bonis come quella proposta dal Magie. Intendendo dunque, secondo la prospettiva indicata, boni quale genitivo che fa da pendant con il precedente mali, ritengo che la soluzione che ha più probabilità di cogliere nel segno sia quella del Gruter tum habebat, paleograficamente giustificabile con una facile aplografia, e soddisfacente anche per il senso (il «bene» sarà da riferire alla condizione raggiunta dalla res publica sino al momento dell’invasione gallica – cfr. adolevit deinde usque ad tempora Gallicani belli – e soffocato dal naufragium patito in quell’occasione, con tutto il malum che ne ebbe a venire).

3, 6 prope & semper PS, Hohl. In questo caso mi sembra che la conservazione del testo tràdito, adottata da Hohl, risulti veramente troppo dura. Ritengo che la soluzione migliore consista nello spostare, con TIDNER, In ShA studia, cit., p. 104 (ma cfr. già in precedenza LENZE, Quaestiones, cit., p. 45), la et dinanzi a prope (il nesso prope semper si riscontra ancora nella HA: cfr. Tac., 2, 4 e Maxim., 4, 2).

4, 7 〈non〉 feci aliter Hohl (Casaubon). In luogo del 〈non〉 adottato da Hohl preferisco, seguendo il BITSCHOFSKY, Krit. -exeg. Stud., cit., p. 42, accogliere (come fa anche il Magie) l’integrazione 〈nec〉, che mi sembra, seppur leggermente, migliore sia dal punto di vista paleografico che da quello del senso.

8, 2 filii PΣ filiis Hohl. Il genitivo filii, attestato da tutti i codici, può essere mantenuto nel testo riconoscendo qui, con HALLÉN, In ShA studia, cit., pp. 63 seg., la presenza di un costrutto con variatio tra genitivo e dativo (cfr. ad es. Hadr., 13, 6 dedicavit… Iovis Olympii aedem et aram sibi).

8, 5 aegrotaret et 〈in tentorio iaceret〉 Hohl (Kellerbauer). L’integrazione è paleograficamente assai onerosa, mentre non sembra d’altro canto apportare un dato indispensabile allo sviluppo della narrazione, nell’ambito della quale esso risulta sostanzialmente implicito. Preferisco perciò limitarmi ad espungere, come Eyssenhardt e Magie, la et che segue aegrotaret, sorta probabilmente nel testo per dittografia con la desinenza del verbo.

8, 5 in modum [fulgurum] Hohl (Madvig). Non ritengo necessario accogliere l’emendazione: il testo tràdito è infatti accettabile, anche se presenta una certa ridondanza espressiva (del resto non infrequente nello stile degli Scriptores). 13, 1 froncis Pa frontis Pb t. B1 efrontis Σ 〈ferreae〉 frontis Hohl prudentiae

P prudentia et Hohl (Peter). L’emendazione di Hohl non appare del tutto convincente per il senso, che rimanda al concetto di «impassibilità», «insensibilità», «spudoratezza» (cfr. il nostro «faccia di bronzo»): oltre al fatto che l’espressione porta implicita una connotazione negativa certamente inadatta a questo contesto, è da notare che in questo modo non trova giustificazione il sed successivo, che introduce una determinazione che rientra proprio nel tema dell’impassibilità; più congruente col filo logico del periodo mi pare perciò l’integrazione 〈ferae〉 frontis proposta da Helm. Quanto all’emendazione prudentia et in luogo del tràdito prudentiae, non la riterrei necessaria: la lezione di P può, a mio avviso, giustificarsi osservando la struttura delle precedenti espressioni che definiscono il carattere di Diocleziano, costituite – se accogliamo l’integrazione accanto a frontis che, quale che essa sia, appare soluzione senz’altro migliore dell’emendazione effrontis (Eyssenhardt, Peter) – dal collegamento, al genitivo, di un sostantivo e una determinazione attributiva (consilii alti, ferae frontis): può dunque ammettersi che nella terza definizione si abbia un altro sostantivo in genitivo di qualità (prudentiae), a cui risulta direttamente concordato il participio in funzione attributiva comprimentis, che regge l’espressione nimia… pectoris. La lezione prudentiae è conservata anche dall’Eyssenhardt.

13, 5 multa alia quae eqs. PΣ, Hohl. Integro dinanzi a multa alia una et (la cui caduta risulta facilmente ammissibile dopo il precedente est) sottintendendo un predicato sunt.

17, 2 numquam, 〈numquam〉 consulibus Hohl (Gruter). L’integrazione non appare necessaria, dato che il testo tràdito può essere conservato riconoscendo la presenza di un ennesimo asindeto a membri separati (v. HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 98).

18, 1 liber a frenis… mortibus absolutus Hohl. Anche qui ritengo sia da riconoscere un collegamento asindetico fra liber e absolutus, separati

da un’espressione riferibile ad entrambi: segno perciò una virgola prima di absolutus.

18, 4 spereverent P preterea Σ perreverentes Hohl (Petschenig). La forma perreverens non è mai attestata nella HA né, a quanto sembra, in alcun’altra opera latina. Preferisco perciò emendare, col Gruter, in semper reverentes, ipotizzando all’origine della corruttela un’abbreviazione dell’avverbio, come s er.

18, 4 pescate P pres V potentes Ch persancti Hohl (Gruter). La lezione corrotta di P non suggerisce qui la presenza di un altro aggettivo riferito ai due principes, ma dell’ablativo di un sostantivo collegato a graves (come a Tyr. trig., 26, 7 virtute graves). Poiché il gruppo scat ci riporta indiscutibilmente nell’ambito di abbreviazioni inerenti a sanctus e derivati, in luogo di potestate (vulgo) o pietate (Petschenig) propongo semper sanctitate, lezione che si può immaginare corrotta a seguito appunto di compendii di entrambe le parole (per semper cfr. la nota prec. e a Al. Sev., 66, 3). Anche sanctitas (come sanctus) si trova più volte riferito a principi nel corso dell’opera (cfr. ad es. M. Ant., 15, 3; Max. Balb., 7, 2 ecc.).

21, 1 pudore P t. B (littera fìnalis nunc est incerta), Hohl (edd.). Ritengo opportuno emendare in pudor (cfr. SENECA, Phoen., 301 non patris illos tangit afflicti pudor): tangit richiede infatti un soggetto, dato che quod è congiunzione correlata a idcirco (come conferma l’usus riscontrabile nell’opera: cfr. LESSING, Lexicon, cit., p. 246, s. v., b) e non pronome relativo da dare quale soggetto al verbo (come vorrebbe HALLÉN, In ShA studia, cit., p. 27, che vedrebbe tale pronome riferito per sinesi al precedente haec), e troppo duro appare dover intendere quod = ut id (cfr. LESSING, Lexicon, cit., p. 247, s. v. idcirco). Ci si può chiedere piuttosto quale particolare valore la congiunzione assuma in questo contesto, in cui il senso più propriamente causale appare poco congruente: si può pensare ad un impiego di quod con valore finale, secondo un uso non privo di attestazioni nel latino tardo, a partire da Cipriano: v. HOFMANN-SZANTYR, Lat. Synt., cit., p. 582, ove si cita anche il nostro caso, al quale peraltro, sempre con riferimento alla HA, ritengo si possano accostare altri due esempi: Tyr. trig., 18, 1 et tamen eum (se. Ballistam) imperasse, quod nec Gallieno nec Aureolo nec Odenato se crederet; Car., 16, 8 impurum quendam… ad suscribendum poneret, quem obiurgabat plerumque, quod bene suam imitaretur manum (qui abbiamo più propriamente una proposizione con valore volitivo).

SEGNI DIACRITICI NEL TESTO LATINO

〈〉 {} []   † ……

(parentesi acute): indicano le integrazioni al testo di P. (parentesi graffe): indicano le lezioni cadute in P ma conservateci da Σ (parentesi quadre): indicano le espunzioni dal testo di P. (croce): segnala un luogo sicuramente corrotto, per il quale si rinuncia ad ogni tentativo di emendazione. (serie di punti): indicano una lacuna nel testo di P.

1. Normalmente useremo le comuni abbreviazioni ShA e HA. Diamo qui anche l’elenco delle abbreviazioni che verranno impiegate per indicare, nelle citazioni, le singole biografie: Ael. = Aelius; Al. Sev. = Alexander Severus; Ant. Pius = Antoninus Pius; Aurel. = Aurelianus; Av. Cass. = Avidius Cassius; Car. = Carus et Carinus et Numerianus; Carac. = Caracallus; Cl. Alb. = Clodius Albinus; Claud. = Claudius; Comm. = Commodus; Diad. = Diadumenus; Did. Iul. = Didius Iulianus; Gall. = Gallieni duo; Geta = Geta; Gord. = Gordiani tres; Hadr. = Hadrianus; Heliog. = Heliogabalus; M. Ant. = Marcus Antoninus; Max. Balb. = Maximus et Balbinus; Maxim. = Maximini duo; Op. Macr. = Opilius Macrinus; Pert. = Pertinax; Pesc. Nig. = Pescennius Niger; Prob. = Probus; Quadr. tyr. = Quadrigae tyrannorum; Sev. = Severus; Tac. = Tacitus; Tyr. trig. = Tyranni triginta; Valer. = Valeriani duo; Ver. = Verus. Nei rimandi bibliografici BHAC = Bonner Historia Augusta Colloquium. 2. Precisiamo che, ogniqualvolta parleremo di «autori», «scrittori» e simili in riferimento alla paternità delle biografie, intenderemo semplicemente riportare il dato della tradizione, senza voler prendere con ciò posizione di sorta sul problema dell’attribuzione dell’opera. 3. In verità il titolo Historiae Augustae Scriptores aveva già fatto la sua comparsa anche in precedenza, ma in edizioni in cui la raccolta era unita ad altre opere storiografiche sull’età imperiale. Con l’edizione del Casaubon, ove a tale denominazione generale si trova aggiunto il numerale sex, la silloge cominciò ad avere vita autonoma, separandosi dagli altri testi cui era stata fino ad allora accompagnata. Cfr. A. BELLEZZA, Historia Augusta, parte I: Le edizioni, Genova, 1959, pp. 10 seg.; 45 segg.; 50 segg. 4. Cfr. da ultimo A. R. BIRLEY, The lacuna in the HA, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 55-62 (vd. infra, p. 50, n. 2). 5. Cfr. Ael., 1, 1; Sev., 20, 4; Pesc. Nig., 9, 1. 6. Cfr. Geta, 1, 1. 7. Cfr. Car., 18, 3-5; Aurel., 43, 2 e 44, 5. 8. Cfr. rispettivam. Cl. Alb., 4, 2; Maxim., 1, 1; Gord., 34, 6 e Heliog., 34, 1; Al. Sev., 65, 1. 9. Cfr. Heliog., 35, 6. 10. Cfr. Prob., 1, 5; Quadr. tyr., 15, 10. 11. Cfr. rispettivam. Ael., 7, 5; Av. Cass., 3, 3. 12. Cfr. Heliog., 35 (vedi anche Al. Sev., 64, 2). 13. In particolare, per la biografia di Geta e quella dei Gordiani manca del tutto la menzione dei rispettivi autori Elio Sparziano e Giulio Capitolino: essa è ricavabile dall’index iniziale del codice attraverso un eiusdem che fa riferimento alla precedente citazione di tali nomi accanto ai titoli di vite immediatamente antecedenti. 14. Cfr. Max. Balb., 4, 5; Prob., 2, 7. 15. Cfr. Quadr. tyr., 1, 1. 16. L’espressione è a Prob., 2, 7, il passo tradotto subito dopo. 17. Si legga infatti, per contro, il prologo della Vita Aureliani, a conclusione del quale lo stesso «Flavio Vopisco» si fa dare dal praefectus urbis Giunio Tiberiano questo scherzoso ammonimento: «Scrivi pure come ti pare. Potrai dire tranquillamente ciò che vuoi, dato che avrai quali compagni di menzogna (mendaciorum comites) quelli che noi ammiriamo come i maestri dello stile storico» (Aurel., 2, 2). 18. Sul complesso argomento si veda ora la lucida analisi di A. MOMIGLIANO, Lo sviluppo della biografia greca, Torino, 1974, e la bibliografia ivi citata.

19. Cfr. Carac, 5, 7. 20. Un’attestazione di questo decadimento dei gusti letterari ci è offerta da AMMIANO MARCELLINO, in un passo (XXVIII, 4, 14) di cui avremo ancora occasione di occuparci (il riferimento diretto è qui all’aristocrazia romana della seconda metà del IV sec. d. C., ma la validità della testimonianza può essere certamente allargata nel tempo): «certuni, detestando la cultura a mo’ di veleno, leggono con particolare passione Giovenale e Mario Massimo, e nel loro ozio smisurato non hanno fra le mani altri libri se non questi» (si tenga presente che le satire di Giovenale insistevano ampiamente su temi inerenti la corruzione e il vizio e che Mario Massimo, come vedremo fra poco, era autore di biografie ricche di elementi scandalistici e curiosi). 21. Cfr. talune coincidenze nella Vita del malus Gallieno (16-17). 22. Tutto questo contrasta decisamente con le affermazioni di principio – non sapremmo sino a che punto serie – dei nostri Scriptores, stando alle quali «dovere di colui che si accinge a scrivere la biografia di altre persone è di limitarsi a riportare le notizie degne di essere conosciute (digna cognitione perscribere: Op. Macr., 1, 2)». 23. Da ricordare particolarmente quelle di funzionario a studiis e ab epistulis. 24. Per l’esattezza si possono contare 68 lettere, 60 orationes, 20 decreti senatorii e acclamazioni; cfr. CH. LÉCRIVAIN, Études sur l’HA, Paris, 1904, pp. 45 seg. 25. L’esistenza di una vita di Nerva composta da Massimo si ricava da Schol. in Iuvenalem, IV, 53, mentre quella di altre otto biografie (di Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Commodo, Pertinace, Severo, Elagabalo) è testimoniata dalla stessa HA nelle numerose citazioni che fa di questo autore. Ma è in verità abbastanza intuibile che Massimo, scrivendo dopo Elagabalo e in pratica continuando Svetonio, potesse essere naturalmente portato a realizzare l’intera serie – numericamente corrispondente a quella dei Caesares del predecessore – dei dodici imperatori di fatto succedutisi da Nerva al suo tempo: non appare dunque troppo arrischiato credere che la sua opera comprendesse anche le biografie di Didio Giuliano, Caracalla, Opilio Macrino (sull’esistenza di quest’ultima non è però d’accordo A. D. E. CAMERON, recensione a R. SYME, Ammianus and the HA, in «Journ. Rom. Stud.», LXI, 1971, p. 264), seppure non citate in alcuna fonte. 26. Cfr. ad es. Op. Macr., 1, 4; Maxim., 31, 4; Gord., 21, 4. 27. V’è da tener conto fra l’altro che certe biografie, come ad esempio quella di un Alessandro Severo da una parte e quelle di un Commodo, un Caracalla, un Elagabalo dall’altra, tendono a modellarsi in qualche misura sui tratti fondamentali già conferiti da Svetonio rispettivamente agli imperatores boni (quali Augusto, Claudio) e a quelli vitiosi (quali Caligola, Nerone, Vitellio): ciò che finisce evidentemente per infirmare vieppiù il valore documentario delle biografie stesse. Cfr. sull’argomento, con particolare riferimento ai rapporti fra la Vita Commodi e la biografia svetoniana di Caligola, V. TANDOI, Ael. Lampr., Comm. Ant., 10, 3, «At. e Roma», XVI, 1971, pp. 128 seg. (vedi pure «St. it. fil. cl.», XLIII, 1971, pp. 101 seg., n. 1); G. PORTA, Un Caligola dell’HA, Commodo, «At. e Roma», XX, 1975, pp. 165 segg. 28. Così ad es. S. MAZZARINO in G. GIANNELLI - S. MAZZARINO, Trattato di storia romana, II2, a cura di S. M., Roma, 1962, pp. 344-364. 29. Nel corso del 275 d. C. (forse nel periodo aprile-settembre). Cfr. Tac., 1 segg. 30. Cfr. soprattutto T. D. BARNES, Hadrian and Lucius Verus, «Journ. Rom. Stud.», LVII, 1967, pp. 6579. 31. È degno di nota in particolare il fatto che non compaiano in queste vite presunte copie di lettere e neppure pretesi «atti ufficiali», con la sola eccezione delle adclamationes e del senatus consultum – citati come provenienti da Mario Massimo – riportati alla fine della vita di Commodo (18-20): e significativamente è questo – come già dicemmo – l’unico generalmente riconosciuto come autentico fra i «documenti» presenti nella HA.

32. Cfr. G. BARBIERI, Il problema del cosiddetto ultimo grande storico di Roma, «Ann. Sc. Norm. Pisa», S. II, III, 1934, pp. 525-538, cui si rimanda anche per la bibliografia relativa agli studiosi occupatisi del problema (come Domaszewski, Heer, Schulz, Lécrivain, Kornemann, Weber, Hasebroek, Schwendemann). 33. Era l’opinione espressa già dal CASAUBON nella sua edizione parigina del 1603, e normalmente accolta anche dagli studiosi del secolo scorso (cfr. ad es. H. PETER, Die ShA, Leipzig, 1892, p. 108). In tempi relativamente recenti decise prese di posizione in favore di essa sono venute, fra gli altri, da E. HOHL, Das Ende Caracallas, in Miscellanea Academica Berolinensia, II, 1, 1950, pp. 289 segg., A. D. E. CAMERON, rec. a SYME, Amm. and the HA, cit., pp. 262-267, A. R. BIRLEY, Septimius Severus, the African Emperor, London, 1971, pp. 308-326, J. SCHLUMBERGER, Die Epitome de Caesaribus, Munchen, 1974, pp. 124-133, K. P. JOHNE, Kaiserbiographie und Senatsaristokratie, Berlin, 1976, pp. 74 segg. (con ulteriore bibliogr.). 34. Il primo a sostenere in modo deciso e con sistematicità d’argomentazione il carattere solo sussidiario della fonte rappresentata da Mario Massimo fu G. BARBIERI, Mario Massimo, «Riv. fil. istr. cl.», XXXII, 1954, pp. 33-66 e 262-275. La tesi fu ripresa e approfondita, con la delineazione del «buon biografo» Ignotus, da R. SYME in una serie di importanti studi (cfr. partic. Emperors and Biography, Oxford, 1971, pp. 30-53; 113-134). Favorevole ad essa anche T. D. BARNES, di cui cfr. partic. The sources of the HA, Bruxelles, 1978, pp. 99 segg., cui si rimanda anche per una più completa bibliografia sull’argomento. 35. Da Av. Cass., 9, 5 essa risulterebbe esser stata composta di almeno due libri. 36. Falsamente, nella Vita, egli non è presentato come un augusto (cfr. 1, 2). 37. Per un esame dei pochi passaggi di queste vite in grado di fornire materiale informativo autentico non contenuto già nelle corrispondenti vite principali cfr. BARNES, The sources, cit., pp. 49 segg. 38. Fa eccezione solo la Vita Veri, che contiene brevi considerazioni espresse dall’autore in prima persona all’inizio e alla fine. 39. Su tutta la questione cfr. A. ENMANN, Eine verlorene Geschichte der römischen Kaiser, «Philologus», Supplbd. IV, 1884, pp. 337-501; S. MAZZARINO, La HA e la EKG, in Atti d. Colloquio Patavino sulla HA 1963, Roma, 1963, pp. 29-40; T. D. BARNES, The lost KG and the Latin historical tradition, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 13-43. 40. Di rilievo pure il problema di un eventuale uso di Cassio Dione (a favore, da ultimo, F. KOLB, Literarische Beziehungen zwischen Cassius Dio, Herodian und der HA, Bonn, 1972; ma cfr. BARNES, The sources, cit., pp. 79 segg.). 41. Cfr. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, II, 2, Bari, 1966, pp. 285 segg. Su questi presunti autori cfr., in generale, R. SYME, Bogus Authors, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 311-321. 42. Più di un terzo di questi «documenti» ricorrono nel ciclo delle vite di Vopisco. 43. Particolarmente indicativi appaiono, rispettivamente, i casi delle biografie di Probo e Gallieno, di cui abbiamo già avuto modo di parlare. 44. An unsolved problem of historical forgery: the ShA (cit. infra, p. 39, note 3-4), p. 133. 45. Cfr. ad es. tecnicismi castrensi come buccellatum, papilio, stellatura (nella Vita Nigri, rispett. a 10, 4; 11, 1; 3, 8: vedi SYME, Emperors and Biogr., cit., p. 251), cui si può aggiungere il singolare uso di scurra col valore di «guardia del corpo» (Heliog., 33, 7; Al. Sev., 61, 3 e 62, 5: cfr. V. TANDOI, rec. all’ultima ediz. della HA di E. HOHL [1965], «At. e Roma», XIII, 1968, p. 90). Per un elenco di termini rari e scelti di vario genere (come adtaminare [= «rubare»] a Gord., 27, 1 o prostibilis a Op. Macr., 4, 3) cfr. R. SYME, Ammianus and the HA, Oxford, 1968, p. 130, n. 1. 46. Cfr., con riferimento alle lettere e ai discorsi riportati nella vita di Avidio Cassio, C. CZWALINA,

De epistolarum actorumque quae a ShA proferuntur fide atque auctoritate, I, Bonn, 1870. 47. Über Zeit und Persönlichkeit der ShA, «Hermes», XXIV, 1889, pp. 337-392. Da segnalare anche il successivo Über die ShA, «Hermes», XXVII, 1892, pp. 561-605. 48. Così A. CHASTAGNOL, Le problème de l’HA: état de la question, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, p. 46. 49. Quasi trent’anni più tardi il Dessau giungeva a fissare il periodo di composizione nell’ultima decade del IV sec. d. C. (cfr. «Wochenschrift fur Klass. Philol.», XXXV, 1918, pp. 389-393). 50. Die Entstehungszeit der ShA, «Jahrbb. fur Class. Philol.», XXXVI, 1890, pp. 609-639; Zur Echteitsfrage der ShA, «Rhein. Mus.», XLIX, 1894, pp. 208-224. 51. E. KLEBS, Die Sammlung der ShA, «Rhein. Mus.», XLV, 1890, pp. 436-465 (anche: Die ShA, «Rhein. Mus.», XLVII, 1892, pp. 1-52 e 515-549); E. WÖLFFLIN, Die ShA, «Sitzungsbb. der Bayer. Acad.», Philol.hist. Klasse, 1891, pp. 465-538; H. PETER, Die ShA. Sechs litterargeschichtliche Untersuchungen, Leipzig, 1892. 52. Die ShA, «Hermes», XXV, 1890, pp. 228-292 (= Gesammelte Schriften, VII, Berlin, 1909, pp. 302362). 53. De aetate qua conscripta est HA, Leyden, 1893. 54. Gli ShA, «Riv. di St. ant.», I, 1896, pp. 90-119. 55. Con riferimento, in particolare, alla questione del cosiddetto ultimo grande storico di Roma, cui abbiamo fatto cenno in precedenza. 56. Tra cui: Vopiscus und die Biographie des Kaisers Tacitus, Diss. Tübingen, 1911; Das Problem der HA, «Neue Jahrbb. für das Klass. Altertum», XXXIII, 1914, pp. 698-712. 57. Cfr. la serie di articoli da lui pubblicati dal 1916 al 1918 nei «Sitzungsbb. der Heidelb. Akad.», Philol.-hist. Klasse. 58. CH. LÉCRIVAIN, Études sur l’HA, cit.; L. HOMO, Essai sur le règne de l’empereur Aurélien (270275), Paris, 1904. 59. The HA. Its date and purpose, Oxford, 1926. 60. Cfr. «Histor. Zeitschrift», CXXXVI, 1926, p. 180; «Berlin. Philol. Wochenschrift», XLVII, 1927, pp. 711-717. 61. Geschichte und Politik im spätantiken Rom, Leipzig, 1940. 62. A conflict of ideas in the Late Roman Empire, Oxford, 1952, pp. 126-127. 63. Römische Kinderkaiser, Berlin, 1951. 64. Flavius Vopiscus est-il Nicomaque Flavien?, «Ant. class», XXII, 1953, pp. 361-382. 65. Date et destinataire de l’HA, Paris, 1953. 66. Questa teoria era già stata formulata – limitatamente alla serie delle vite di Vopisco – da U. GIRI, In qual tempo abbia scritto Vopisco le biografie degli imperatori, Torino, 1905 (cfr. anche G. COSTA in «Bilychnis», XXII, 1923, pp. 127-133). Di recente D. ROMANO (Il consolato di Furio Placido e la cronologia di Vopisco, «Atti Acc. Sc. Lett. Palermo», XXXV, 1975-76 [1977], pp. 267-290 [= Letteratura e storia nell’età tardoromana, Palermo, 1979, pp. 26-37]), ha ipotizzato che Vopisco abbia dapprima scritto le sue vite fra il 304 e il 313 d. C., divulgandole singolarmente, e ne abbia successivamente pubblicato egli stesso il corpus attorno al 344, non senza revisioni e aggiunte. 67. J. SCHWARTZ, Sur la date de l’HA, in BHAC, 1966-67, Bonn, 1968, p. 99; R. SYME, Amm. and the HA, cit., pp. 72-79 e 220. 68. A. CHASTAGNOL, Le problème de l’HA, cit., p. 66; W. SCHMID in BHAC, 1964-65, Bonn, 1966, pp. 179 seg. 69. J. STRAUB, Heidnische Geschichtsapologetik in der christlichen Spätantike, Bonn, 1963, p. XXIX; S. MAZZARINO, Il pensiero stor. cl., cit., II, 2, pp. 214, 244.

70. Kaiserbiogr. und Senatsaristokr., cit., pp. 177 segg. 71. An unsolved problem of historical forgery: the ShA, «Journ. of the Warburg and Courtauld Institutes», XVII, 1954, pp. 22-46. 72. In Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma, 1960, pp. 105-143, con 3 appendici (a questa redazione facciamo sempre riferimento), e in Studies in Historiography, London, 1966, pp. 142 segg. 73. In «Engl. Hist. Review», LXXXIV, 1969, p. 569 (rec. a SYME, Amm. and the HA), egli riconosce che «per la HA il 395 d. C. è una data da prendere seriamente». 74. O. GIGON in «Mus. Helvet.», VI, 1949, p. 236; F. DORNSEIFF in «Deutsche Literaturzeitung», LXVILXVIII, 1945-47, pp. 72-75 e ibid., LXXV, 1954, pp. 138-142; A. H. M. JONES, The Later Roman Empire, Oxford, 1964, III, p. 1, n. 1 e in «Journ. Theol. Stud.», n. s., XX, 1969, pp. 320-321; ST. I. OOST in «Class. Philol.», LX, 1965, pp. 199-201; S. TIMPANARO in Studi di storiogr. ant. in mem. di L. Ferrero, Torino, 1961, p. 129, n. 6 (= Contributi di filologia e di storia della lingua latina, Roma, 1978, p. 424, n. 3). 75. A. PIGANIOL, L’Empire Chrétien, Paris, 1947, p. 386 e n. 6; E. MANNI, Recenti studi sulla HA, «La parola del passato», VIII, 1953, pp. 71-80 e Treb. Poll., Le vite di Valeriano e di Gallieno, Palermo, 19692, pp. 10-12 e 131-149; E. M. SCHTAJERMANN, Die ShA als Geschichtquelle, «Biblioth. Class. Orient.», V, 1960, coll. 93-110 e Die Krise der Sklavenhalterordnung im Westen des römischen Reiches, Berlin, 1964, pp. 19-21 [entrambi gli studi tradotti dal russo]; L. PARETI, Storia di Roma, VI, Torino, 1961, pp. 328-334; E. PASOLI, Iul. Cap., Opilius Macrinus, Bologna, 1968, p. 17; V. TANDOI, rec. cit., p. 89; E. DEMOUGEOT, art. cit. 76. Cfr. opp. citt.; entrambi parlano di una redazione definitiva, che presuppone ovviamente – quando che sia avvenuta – un’elaborazione precedente. 77. Il più famoso è quello riguardante la discendenza di Costanzo Cloro da Claudio il Gotico, celebrata a più riprese nelle vite di Gallieno, Claudio, Aureliano: queste ultime, infatti, figurano scritte fra il 293 e il 305-306 d. C., ma un panegirico a Costantino del 310 (cfr. Panegyrici Latini, VI [VII], 2) presenta questo tema come non ancora pubblicizzato. 78. Cfr. MOMIGLIANO, An unsolved problem, cit., p. 111. 79. Cfr. An unsolved problem, cit., p. 117 segg. 80. Ad es. nel già cit. brano di Car., 9, 1-3 l’autore afferma che non esiste né esisterà mai alcuna vis fati che impedisca ai Romani di vincere la Persia e di spingersi anche oltre Ctesifonte, come dimostrato dall’esempio di Massimiano, aggiungendo: et futurum reor, si a nostris non deseratur promissus numinum favor. A seconda dei punti di vista può scorgersi qui una simulata profezia alludente a una vittoria sui Persiani (ai tempi di Giuliano secondo il Baynes, sotto Onorio e Arcadio secondo lo Straub), oppure semplicemente un fiducioso auspicio che ogni cittadino animato da spirito patriottico poteva formulare in relazione a un’impresa che aveva sempre avuto per i Romani un fascino misterioso e fatale. 81. Non è qui luogo per un esame analitico dei singoli anacronismi proposti: rimandiamo piuttosto il lettore alla consultazione comparata delle due rassegne di MOMIGLIANO (An unsolved problem, cit., pp. 117 segg.) e CHASTAGNOL (Le problème de l’HA, cit., pp. 57 segg.), dove vengono discussi i medesimi argomenti da visuali opposte. Particolarmente significativa la disputa – protrattasi anche successivamente – fra i due studiosi sulla menzione del iudiciale carpentum a Aurel., 1, 1 (cfr. rispett. Per la interpretazione di Simmaco Relatio 4, «Rend. Acc. Lincei», Sc. Mor., XIX, 1964, pp. 225-230 [= Quarto contr. alla st. degli st. cl., Roma, 1969, pp. 535-541] e Recherches sur l’HA, cit., pp. 27 seg.). 82. A parere di R. SYME, The HA. A call of clarity, Bonn, 1971, p. 45 questa tematica può essere riguardata ai nostri giorni come «largely obsolescent». 83. Cfr. in questo senso S. D’ELIA, Per una nuova edizione critica di Aurelio Vittore: conclusioni,

«Boll. St. lat.», III, 1973, p. 73. 84. Si noti anche quanto aggiunto subito dopo: tantum gratia doctarum artium valet, ut scriptoribus ne saevi mores quidem ad memoriam officiant. 85. Cfr. Did. Iul., 1, 1 Didio Iuliano… proavus fuit Salvius Iulianus eqs. 86. Senza séguito sono rimasti i tentativi in questa direzione di H. STERN, Date et destinat., cit., pp. 17-27 (la possibilità di una fonte comune è ammessa peraltro anche da S. MAZZARINO, Il pensiero stor. cl., cit., II, 2, pp. 236 seg.). 87. Cfr. A. CHASTAGNOL, Emprunts de l’HA aux Caesares d’Aurelius Victor, «Rev. de Philol.», XLI, 1967, pp. 85-97; L’utilisation des Caesares d’Aurelius Victor dans l’HA, in BHAC, 1966-67, Bonn, 1968, pp. 53-65; Recherches sur l’HA, cit., pp. 8 seg. 88. Cfr. W. SCHMID, Eutropspuren in der HA: ein Beitrag zum Problem der Datierung der HA, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 123-133; T. DAMSHOLT, Zur Benutzung von dem Breviarium des Eutrop in der HA, «Classica et Mediaevalia», XXV, 1964, pp. 138-150. 89. Studien zur HA, Berne, 1952, pp. 19-39; Heidn. Geschichtsap., cit., pp. 53-80. 90. Sur la date de l’HA, cit., pp. 91 segg. 91. Cfr. particolarmente le recensioni al libro di Syme del MOMIGLIANO («Engl. Hist. Rev.», LXXXIV, 1969, pp. 566 segg.), di A. J. GRAHAM («Proc. Afr. Class. Assoc.», XI, 1968, pp. 81 segg.), di A. D. E. CAMERON («Journ. Rom. Stud.», LXI, 1971, pp. 255 segg.), e l’art, dello stesso MOMIGLIANO, Ammiano Marcellino e la HA, «Atti Acc. Sc. Torino», Sc. Mor., CIII, 1968-69 (ora, assieme alla rec. cit., in Quinto contr. alla st. degli st. cl., Roma, 1975, pp. 93 segg.). 92. Cfr. J. F. GILLIAM, Ammianus and the HA: The lost Books and the period 117-285, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 125 segg. 93. L’argomento fu enunciato da STRAUB, Heidn. Geschichtsap., cit., pp. 53 segg. e ripreso e approfondito da SYME, Amm. and the HA, cit., pp. 32 seg. 94. Cfr. The HA. A call of clar., cit., p. 37; The composition of the HA: recent theories, «Journ. Rom. Stud.», LXII, 1972, p. 124. 95. Cfr. supra, p. 17, n. 1. 96. Literary allusions in the HA, «Hermes», XCII, 1964, pp. 363-377. 97. Arguments philologiques pour dater l’HA, «Historia», XV, 1966, pp. 454-463. 98. Cfr. V. TANDOI, rec. cit., p. 90. 99. Die ShA und der heilige Hieronymus, «Philologische Wochenschrift», XLVII, 1927, coll. 955-960. 100. Significativo appare che A. D. E. CAMERON, al termine di un esame di questo tipo, ritenga più probabile che a «copiare» sia stato Gerolamo (cfr. rec. a STRAUB, Heidn. Geschichtsap., in «Journ. Rom. Stud.», LV, 1965, pp. 244 segg.). 101. Heidn. Geschichtsap., cit., pp. 81-105. 102. Arguments philol., cit., pp. 463 segg. 103. Cfr. Recherches sur l’HA, cit., pp. 15, 72 segg.; si tratta di una valutazione in chiave più propriamente «letteraria», ricollegabile in qualche misura – come vedremo – alla visione del Syme. Condividibili appaiono le riserve espresse da G. CLEMENTE, Storia amministrativa e falsificazione nella HA, «Riv. fil. istr. cl.», C, 1972, pp. 122 seg. 104. Cfr. supra, pp. 37 seg. 105. Come nota R. SYME, Propaganda in the HA, «Latomus», XXXVII, 1978, p. 189, il racconto delle vite dei quattro pretendenti cui è dedicata la biografia detta comunemente Quadrigae tyrannorum, appare non tanto celebrare l’usurpazione, quanto presentarne la follia.

106. Cfr. ultimamente MOMIGLIANO, An unsolved problem, cit., pp. 119 seg.; PASOLI, Op. Macrinus, cit., p. 13. 107. Storia Antica dell’Università di Cambridge, Milano, 1970, XII, 1, p. 262; cfr. anche Zwei Bemerkungen zur HA, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 1-3. 108. A ragioni religiose ricollega il BIRLEY (cfr. supra, p. 10, n. 1) la stessa lacuna centrale (Decio e Valeriano erano ricordati nel IV sec. come persecutori della Chiesa che avevano fatto una pessima fine). 109. Discussione e bibliografia sull’argomento nella già cit. recensione al libro di Straub di A. D. E. CAMERON, p. 241. 110. Cfr. ad es. MOMIGLIANO, An unsolved problem, cit., pp. 130 seg.; PASOLI, ediz. cit., pp. 12 seg.; CAMERON, rec. cit., p. 248; S. A. STERTZ, Christianity in the HA, «Latomus», XXXVI, 1977, pp. 712 segg.; SYME, Propaganda, cit., p. 188. 111. Kaiserbiogr. und Senatsaristokr., cit. 112. I più significativi contributi del Syme sono già stati via via citati nel corso delle note precedenti. Particolare importanza rivestono i due libri Ammianus and the HA e Emperors and Biography. 113. Cfr. Op. Macr., 1, 5. 114. La già ricordata contro-obiezione del SYME, secondo cui le coincidenze dovrebbero considerarsi solo alla stregua di «riminiscenze», che possono anche essere, come tali, «vaghe e imprecise» (cfr. The composition, cit., p. 124), non è evidentemente in grado di soddisfare chi richiederebbe, per accettare un rapporto HA - Ammiano (con le conseguenze da esso derivanti), prove concrete. 115. Cfr. A. MOMIGLIANO, L’età del trapasso fra storiografia antica e storiografia medievale (320-550 d. C.), «Riv. stor. it.», LXXXI, 1969, pp. 286-303 (= Quinto contr. alla st. degli st. cl., Roma, 1975, pp. 4971), propenso a vedere nei nostri Scriptores – come in generale negli storici del Basso Impero – la mancanza di un chiaro concetto di separazione fra biografia e storiografia. 116. Cfr. P. WHITE, The authorship of the HA, «Journ. Rom. Stud.», LVII, 1967, pp. 115-133. 117. Per l’analisi di alcune particolarità linguistiche ricorrenti nelle vite si è fatto di recente ricorso ai calcolatori elettronici: cfr. I. MARRIOT, The authorship of the HA: Two computer studies, «Journ. Rom. Stud.», LXIX, 1979, pp. 65 segg. 118. The composition, cit., pp. 125 segg. 119. The lost Kaisergeschichte and the Latin historical tradition, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 35 seg. 120. Rec. cit. a Syme, Amm. and the HA, p. 266. 121. Ricorda il SYME (The HA. A call of clar., cit., p. 83) che «cattive cause hanno spesso i migliori avvocati». Ma il fatto che tali avvocati esistono dovrà pure far pensare. 122. Cfr. Beiträge zur Textgeschichte der HA, «Klio», XIII, 1913, pp. 258-288; 387-423; Zur HA, «Rhein. Mus.», LXVIII, 1913, pp. 316-319; Textkritisches zur HA, «Rhein. Mus.», LXX, 1915, pp. 474-479; Zur Textgeschichte der HA, «Klio», XV, 1918, pp. 78-98. 123. Gesammelte Schriften, Bd. VII, Berlin, 1909, pp. 352-362. 124. Cfr. Die Überlieferung der ShA, «Hermes», XXIX, 1894, pp. 393-416. 125. Su questo argomento cfr. anche A. RONCONI, Interpolazioni al testo della HA?, «St. it. fil. cl.», IX, 1931, pp. 25-35 (= Filologia e linguistica, Roma, 1969, pp. 177-188). 126. Cfr. The Manuscript Tradition of the HA, Leipzig, 1914.

I. DE VITA HADRIANI 〈AELII〉 SPARTIANI

VITA DI ADRIANO di ELIO SPARZIANO

[1, 1] Origo1 imperatoris Hadriani vetustior a Picentibus2, posterior ab Hispaniensibus manat, si quidem Hadria3 ortos maiores suos apud Italicam4 Scipionum temporibus resedisse in libris vitae suae5 Hadrianus ipse commemoret. [2] Hadriano pater Aelius Hadrianus cognomento Afer fuit, consobrinus Traiani imperatoris, mater Domitia Paulina Gadibus orta, soror Paulina nupta Serviano6, uxor Sabina, atavus Maryllinus, qui primus in sua familia senator populi Romani fuit. [3] Natus est Romae7 VIIII, kl. Feb. Vespasiano septies et Tito quinquies consulibus8. [4] Ac decimo aetatis anno patre orbatus Ulpium Traianum praetorium tunc9, consobrinum suum, qui postea imperium tenuit, et Caelium Attianum10 equitem Romanum tutores habuit. [5] Imbutusque inpensius Graecis studiis, ingenio eius sic ad ea declinante, ut a nonnullis Graeculus diceretur. [2, 1] Quinto decimo anno ad patriam11 redit ac statim militiam iniit, venando usque ad reprehensionem studiosus. [2] Quare a Traiano abductus a patria et pro filio habitus nec multo post decemvir litibus iudicandis12 datus atque inde tribunus secundae Adiutricis13 legionis creatus. [3] Post haec in inferiorem Moesiam translatus extremis iam Domitiani temporibus14. [4] Ibi a mathematico quodam de futuro imperio id dicitur comperisse, quod a patruo magno Aelio Hadriano peritia caelestium callente praedictum esse conpererat. [5] Traiano a Nerva15 adoptato ad gratulationem exercitus missus {in} Germaniam superiorem translatus est. [6] Ex qua festinans ad Traianum, ut primus nuntiaret excessum Nervae, a Serviano, sororis viro, (qui et sumptibus et aere alieno eius prodito Traiani odium in eum movit) diu detentus fractoque consulte vehiculo tardatus16, pedibus iter faciens eiusdem Serviani beneficiarium17 antevenit. [7] Fuitque in amore Traiani, nec tamen ei per paedagogos puerorum, quos Traianus impensius diligebat Gallo18 favente 〈factio〉 defuit. [8] Quo quidem tempore cum sollicitus de imperatoris erga se iudicio Vergilianas sortes19 consuleret, «Quis procul ille autem ramis insignis olivae sacra ferens? Nosco crines incanaque menta regis Romani, primam qui legibus urbem fundabit, Curibus parvis et paupere terra

missus in imperium magnum, cui deinde subibit»20,

sors excidit, quam alii ex Sibyllinis versibus21 ei provenisse dixerunt. [9]

Habuit autem praesumptionem imperii mox futuri ex fano quoque Niceforii22 Iovis manante responso, quod Apollo-nius Syrus Platonicus23 libris suis indidit. [10] Denique statim suffragante Sura24 ad amicitiam Traiani pleniorem redit, nepte per sororem25 Traiani uxore accepta favente Plotina26, Traiano leviter, ut Marius Maximus27 dicit, volente. [3, 1] Quaesturam gessit Traiano quater et Articuleio consulibus28, in qua cum orationem imperatoris in senatu agrestius pronuntians risus esset, usque ad summam peritiam et facundiam Latinis operam dedit. [2] Post quaesturam acta senatus curavit29 atque ad bellum Dacicum30 Traianum familiarius prosecutus est; [3] quando quidem et indulsisse vino se dicit Traiani moribus obsequentem atque ob hoc se a Traiano locupletissime muneratum. [4] Tribunus plebis factus est Candido et Quadrato iterum conss.31, [5] in quo magistratu ad perpetuam32 tribuniciam potestatem omen sibi factum adserit, quod paenulas33 amiserit, quibus uti tribuni plebis pluviae tempore solebant, imperatores autem numquam. Unde hodieque imperatores sine paenulis a togatis videntur. [6] Secunda expeditione Dacica34 Traianus eum primae legioni Minerviae35 praeposuit secumque duxit; quando quidem multa egregia eius facta claruerunt. [7] Quare adamante gemma, quam Traianus a Nerva acceperat, donatus ad spem successionis erectus est. [8] Praetor factus est Suburano [bis] et Serviano iterum conss.36, cum sestertium iterum vicies ad ludos edendos a Traiano accepit. [9] Legatus postea praetorius in Pannoniam inferiorem37 missus Sarmatas compressit, disciplinam militarem tenuit, procuratores latius evagantes coercuit. [10] Ob hoc consul est factus38. In quo magistratu ut a Sura conperit adoptandum se a Traiano esse, ab amicis Traiani contempni desiit ac neglegi. [11] Et defuncto quidem Sura Traiani ei familiaritas crevit, causa praecipue orationum quas pro imperatore dictaverat. [4, 1] Usus Plotinae quoque favore, cuius studio etiam legatus expeditionis Parthicae tempore39 destinatus est. [2] Qua quidem tempestate utebatur Hadrianus amicitia Sosi Papi40 et Platori Nepotis41 ex senatorio ordine, ex equestri autem Attiani, tutoris quondam sui, et Liviani42 〈et〉 Turbonis43. [3] In adoptionis sponsionem venit Palma et Celso44, inimicis semper suis et quos postea ipse insecutus est, in suspicionem adfectatae tyrannidis lapsis. [4] Secundo consul favore Plotinae factus totam praesumptionem adoptionis emeruit. [5] Corrupisse eum Traiani libertos, curasse delicatos eosdemque saepe polluisse per ea tempora quibus in aula familiarior fuit, opinio multa

firmavit45. [6] Quintum iduum August.46 diem legatus Suriae litteras adoptionis accepit, quando et natalem adoptionis celebrari iussit. [7] Tertium iduum earundem, quando et natalem imperii statuit celebrandum, excessus ei Traiani nuntiatus est. [8] Frequens sane opinio fuit Traiano id animi fuisse, ut Neratium Priscum47, non Hadrianum successorem relinqueret, multis amicis in hoc consentientibus, usque eo ut Prisco aliquando dixerit: «commendo tibi provincias, si quid mihi fatale contigerit». [9] Et multi quidem dicunt Traianum in animo id habuisse, ut exemplo Alexandri Macedonis sine certo successore moreretur, multi ad senatum eum orationem voluisse mittere petiturum, ut, si quid ei evenisset, principem Romanae rei publicae senatus daret, additis dum taxat nominibus ex quibus optimum idem senatus eligeret. [10] Nec desunt qui factione Plotinae mortuo iam Traiano Hadrianum in adoptionem adscitum esse prodiderint, supposito qui pro Traiano fessa voce loquebatur. [5, 1] Adeptus imperium ad priscum se statim morem48 instituit et tenendae per orbem terrarum paci operam intendit. [2] Nam deficientibus his nationibus, quas Traianus subegerat, Mauri49 lacessebant, Sarmatae50 bellum inferebant, Brittanni teneri sub Romana dicione non poterant, Aegyptus seditionibus urgebatur, Libya denique ac Palaestina51 rebelles animos efferebant. [3] Quare omnia trans Eufraten ac Tigrim reliquit exemplo, ut dicebat, Catonis, qui Macedonas liberos pronuntiavit, quia tueri non poterant52. [4] Parthamasirin53, quem Traianus Parthis regem fecerat, quod eum non magni ponderis apud Parthos videret, proximis gentibus dedit regem. [5] Tantum autem statim clementiae studium habuit, ut, cum sub primis imperii diebus ab Attiano per epistolas esset admonitus, ut et Baebius Macer54 praefectus urbis55 si reniteretur eius imperio, necaretur et Laberius Maximus56, qui suspectus imperio in insula exulabat, et Frugi Crassus57, neminem laederet; [6] quamvis Crassum postea procurator egressum insula, quasi res novas moliretur, iniussu eius occiderit. [7] Militibus ob auspicia imperii duplicem largitionem dedit. [8] Lusium Quietum58 sublatis gentibus Mauris, quos regebat, quia suspectus imperio fuerat, exarmavit Marcio Turbone Iudaeis conpressis ad deprimendum tumultum Mauretaniae destinato. [9] Post haec Antiochia digressus est ad inspiciendas reliquias Traiani, quas Attianus, Plotina et Matidia59 deferebant. [10] Quibus exceptis et navi Romam dimissis ipse Antiochiam regressus praepositoque Syriae Catilio Severo60 per

Illyricum61 Romam venit. [6, 1] Traiano divinos honores datis ad senatum et quidem accuratissimis litteris postulavit et cunctis volentibus meruit, ita ut senatus multa, quae Hadrianus non postulaverat, in honorem Traiani sponte decerneret. [2] Cum ad senatum scriberet, veniam petit, quod de imperio suo iudicium senatui non dedisset, salutatus scilicet praepropere a militibus imperator, quod esse res publica sine imperatore non posset. [3] Cum triumphum ei senatus, qui Traiano debitus erat, detulisset, recusavit ipse atque imaginem Traiani curru triumphali vexit, ut optimus imperator ne post mortem quidem triumphi amitteret dignitatem. [4] Patris patriae nomen delatum sibi statim et iterum postea distulit, quod hoc nomen Augustus sero62 meruisset. [5] Aurum coronarium63 Italiae remisit, in provinciis minuit, et quidem difficultatibus aerarii ambitiose ac diligenter expositis.

L’esordio della Storia Augusta in un codice del secolo IX (Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Pal. Lat. 899, fol. 2r).

[6] Audito dein tumultu Sarmatarum et Roxalanorum64 praemissis exercitibus Moesiam petit. [7] Marcium Turbonem post Mauretaniam praefecturae infulis65 ornatum Pannoniae Daciaeque ad tempus praefecit. [8] Cum rege Roxalanorum, qui de imminutis stipendiis querebatur, cognito negotio pacem conposuit. [7, 1] Nigrini66 insidias, quas ille sacrificanti Hadriano conscio sibi Lusio et multis aliis paraverat, cum etiam successorem Hadrianus sibimet destinasset, evasit. [2] Quare Palma Tarracenis, Celsus Bais67, Nigrinus Faventiae, Lusius

in itinere senatu iubente, invito Hadriano, ut ipse in vita sua dicit, occisi sunt. [3] Unde statim Hadrianus ad refellendam tristissimam de se opinionem, quod occidi passus esset uno tempore quattuor consulares, Romam venit Dacia Turboni credita, titulo Aegyptiacae praefecturae68, quo plus auctoritatis haberet, ornato, et ad conprimendam de se famam congiarium69 duplex praesens populo dedit ternis iam per singulos aureis70 se absente divisis. [4] In senatu quoque excusatis, quae facta erant, iuravit se numquam senatorem nisi ex senatus sententia puniturum71. [5] Statim cursum fiscalem72 instituit, ne magistratus hoc onere gravarentur. [6] Ad colligendam autem gratiam nihil praetermittens infinitam pecuniam, quae fisco debebatur, privatis debitoribus in urbe atque Italia, in provinciis vero etiam ex reliquis ingentes summas remisit syngrafis in foro divi Traiani73, quo magis securitas omnibus roboraretur, incensis. [7] Damnatorum bona in fiscum privatum74 redigi vetuit omni summa in aerario publico recepta. [8] Pueris ac puellis, quibus etiam Traianus alimenta75 detulerat, incrementum liberalitatis adiecit. [9] Senatoribus, qui non vitio suo decoxerant, patrimonium pro liberorum modo senatoriae professionis explevit76, ita ut plerisque in diem vitae suae dimensum sine dilatione praestiterit. [10] Ad honores explendos non solum amicis77, sed etiam passim aliquantis multa largitus est. [11] Feminas nonnullas ad sustentandam vitam sumptibus iuvit. [12] Gladiatorium munus per sex dies continuos exhibuit et mille feras natali suo edidit. [8, 1] Optumos quosque de senatu in contubernium imperatoriae maiestatis78 adscivit. [2] Ludos circenses praeter natalicios decretos sibi sprevit. [3] Et in contione et in senatu saepe dixit ita se rem publicam gesturum, ut sciret populi rem esse, non propriam. [4] Tertio consules, cum ipse ter fuisset, plurimos fecit, infinitos autem secundi consulatus honore cumulavit. [5] Ipsum autem tertium consulatum et quattuor mensibus tantum egit et in eo saepe ius dixit. [6] Senatui legitimo, cum in urbe vel iuxta urbem esset, semper interfuit. [7] Senatus fastigium in tantum extulit difficile faciens senatores, ut, cum Attianum ex praefecto praetorii79 ornamentis consularibus praeditum faceret senatorem80, nihil se amplius habere, quod in eum conferri posset, ostenderit. [8] Equites Romanos nec sine se de senatoribus nec secum iudicare permisit. [9] Erat enim tunc mos, ut, cum princeps causas agnosceret, et senatores et equites Romanos in consilium81 vocaret et sententiam ex omnium deliberatione proferret. [10] Exsecratus est denique principes, qui minus senatoribus detulissent. [11] Serviano sororis viro, cui tantum detulit, ut

ei venienti de cubiculo semper occurrerit, tertium consulatum, nec secum tamen, cum ille bis 〈ante〉 Hadrianum fuisset, ne esset secundae sententiae82, non petenti ac sine precatione concessit. [9, 1] Inter haec tamen et multas provincias83 a Traiano adquisitas reliquit et theatrum, quod ille in campo Martio posuerat, contra omnium vota destruxit. [2] Et haec quidem eo tristiora videbantur, quod omnia, quae displicere vidisset, Hadrianus mandata sibi ut faceret secreto a Traiano esse simulabat. [3] Cum Attiani, praefecti sui et quondam tutoris, potentiam ferre non posset, nisus est eum obtruncare, sed revocatus est, quia iam quattuor consularium occisorum, quorum quidem necem in Attiani consilia refundebat, premebatur invidia. [4] Cui cum successorem dare non posset, quia non petebat, id egit, ut peteret, atque, ubi primum petit, in Turbonem transtulit potestatem; [5] cum quidem etiam Simili84 alteri praefecto Septicium Clarum85 successorem dedit. [6] Summotis his a praefectura, quibus debebat imperium, Campaniam petit86 eiusque omnia oppida beneficiis et largitionibus sublevavit optimum quemque amicitiis suis iungens. [7] Romae vero praetorum et consulum officia frequentavit, conviviis amicorum interfuit, aegros bis ac ter die, et nonnullos equites Romanos ac libertinos, visitavit, solaciis refovit, consiliis sublevavit, conviviis suis semper adhibuit. [8] Omnia denique ad privati hominis modum fecit. [9] Socrui suae honores praecipuos inpendit ludis gladiatoriis ceterisque officiis. [10, 1] Post haec profectus in Gallias87, omnes eas variis liberalitatibus sublevavit. [2] Inde in Germaniam transiit pacisque magis quam belli cupidus militem, quasi bellum inmineret, exercuit tolerantiae documentis eum imbuens, ipse quoque inter manipula vitam militarem magistrans, cibis etiam castrensibus in propatulo libenter utens, hoc est larido, caseo et posca88, exemplo Scipionis Aemiliani89 et Metelli90 et auctoris sui Traiani, multos praemiis, nonnullos honoribus donans, ut ferre possent ea, quae asperius iubebat; [3] si quidem ipse post Caesarem Octavianum labantem disciplinam incuria superiorum principum retinuit ordinatis et officiis et inpendiis, numquam passus aliquem a castris iniuste abesse, cum tribunos non favor militum, sed iustitia commendaret, [4] exemplo etiam virtutis suae ceteros adhortatus, cum etiam vicena milia91 pedibus armatus ambularet, triclinia de castris et porticus et cryptas et topia dirueret, [5] vestem humillimam frequenter acciperet, sine auro balteum sumeret, sine gemmis fìbula stringeretur, capulo vix eburneo spatham clauderet, [6] aegros milites in

hospitiis suis videret, locum castris caperet, nulli vitem92 nisi robusto et bonae famae daret nec tribunum nisi plena barba faceret aut eius aetatis, quae prudentia et annis tribunatus robor inpleret, [7] nec pateretur quicquam tribunum a milite accipere, delicata omnia undique summoveret, arma postremo eorum supellectilemque corrigeret. [8] De militum etiam aetatibus iudicabat, ne quis aut minor quam virtus posceret, aut maior quam pateretur humanitas, in castris contra morem veterem versaretur, agebatque, ut sibi semper noti essent, et eorum numerus sciretur. [11, 1] Laborabat praeterea, ut condita militaria diligenter agnosceret, reditus quoque provinciales solerter explorans, ut 〈si〉 alicubi quippiam deesset, expleret. Ante omnes tamen enitebatur, ne quid otiosum vel emeret aliquando vel pasceret. [2] Ergo conversis regio more militibus Brittaniam petit, in qua multa correxit murumque per octoginta milia passuum primus duxit, qui barbaros Romanosque divideret93. [3] Septicio Claro praefecto praetorii et Suetonio Tranquillo94 epistularum magistro95 multisque aliis, quod apud Sabinam uxorem iniussu eius96 familiarius se tunc egerant, quam reverentia domus aulicae postulabat, successores dedit, uxorem etiam ut morosam et asperam dimissurus, ut ipse dicebat, si privatus fuisset. [4] Et erat curiosus non solum domus suae sed etiam amicorum, ita ut per frumentarios97 occulta omnia exploraret, nec adverterent amici sciri ab imperatore suam vitam, priusquam ipse hoc imperator ostenderet. [5] Unde non iniocundum est rem inserere, ex quo constet eum de amicis multa didicisse. [6] Nam cum ad quendam scripsisset uxor sua, quod voluptatibus detentus et lavacris ad se redire nollet, atque hoc Hadrianus per frumentarios cognovisset, petente illo commeatum Hadrianus ei lavacra et voluptates exprobravit. Cui ille: «Num et tibi uxor mea, quod et mihi, scripsit?». [7] Et hoc quidem vitiosissimum putant atque huic adiungunt, quae de adultorum amore ac nuptarum adulteriis, quibus Hadrianus laborasse dicitur, adserunt, iungentes quod ne amicis quidem servaverit fidem98. [12, 1] Conpositis in Brittania rebus transgressus in Galliam Alexandrina seditione turbatus, quae nata est ob Apidem99, qui, cum repertus esset post multos annos, turbas inter populos creavit, apud quem deberet locari, omnibus studiose certantibus. [2] Per idem tempus in honorem Plotinae basilicam apud Nemausum100 opere mirabili extruxit. [3] Post haec Hispanias petit et Tarracone hiemavit101, ubi sumptu suo aedem Augusti restituit. [4] Omnibus

Hispanis Tarraconem in conventum vocatis dilectumque ioculariter, ut verba ipsa ponit Marius Maximus, retractantibus Italicis102, vehementissime ceteris prudenter caute consuluit. [5] Quo quidem tempore non sine gloria gravissimum periculum adiit apud Tarraconem spatians per virdiaria servo in se hospitis cum gladio furiosius inruente, quem retentum ille ministris adcurrentibus tradidit et, ubi furiosum esse constitit, medicis curandum dedit in nullo omnino commotus. [6] Per ea tempora et alias frequenter in plurimis locis, in quibus barbari non fluminibus sed limitibus dividuntur, stipitibus magnis in modum muralis saepis funditus iactis atque conexis barbaros separavit. [7] Germanis regem constituit, motus Maurorum compressit103 et a senatu supplicationes emeruit. [8] Bellum Parthorum per idem tempus in motu tantum fuit, idque Hadriani conloquio repressum est. [13, 1] Post haec104 per Asiam et insulas ad Achaiam105 navigavit et Eleusinia106 sacra exemplo Herculis Philippique107 suscepit, multa in Athenienses contulit et pro agonotheta108 resedit. [2] Et in Achaia quidem etiam illud observatum ferunt, quod, cum in sacris multi cultros haberent, cum Hadriano nullus armatus ingressus est. [3] Post in Siciliam navigavit, in qua Aetnam montem conscendit, ut solis ortum videret arcus specie, ut dicitur, varium. [4] Inde Romam venit109 atque ex ea in Africam transiit110 ac multum beneficiorum provinciis Africanis adtribuit. [5] Nec quisquam fere principum tantum terrarum tam celeriter peragravit. [6] Denique cum post Africam Romam redisset, statim ad orientem profectus per Athenas iter fecit atque opera, quae apud Athenienses coeperat, dedicavit, ut lovis Olympii aedem et aram sibi, eodemque modo per Asiam iter faciens tem-equilibrio sui nominis111 consecravit. [7] Deinde a Capadocibus servitia castris profutura suscepit. [8] Toparchas et reges ad amicitiam invitavit, invitato etiam Osdroe rege Parthorum remissaque illi fìlia, quam Traianus ceperat, ac promissa sella, quae itidem capta fuerat. [9] Cumque ad eum quidam reges venissent, ita cum his egit, ut eos paeniteret, qui venire noluerunt, causa speciatim Farasmanis112, qui eius invitationem superbe neglexerit. [10] Et circumiens quidem provincias procuratores et praesides pro factis supplicio adfecit, ita severe ut accusatores per se crederetur inmittere. [14, 1] Antiochenses inter haec ita odio habuit, ut Syriam a Phoenice separare voluerit, ne tot civitatum metropolis Antiochia diceretur. [2] Moverunt ea tempestate et Iudaei bellum, quod vetabantur mutilare genitalia113. [3] Sed in monte Casio114, cum videndi solis ortus gratia nocte

ascendisset, imbre orto fulmen decidens hostiam et victimarium sacrificanti adflavit. [4] Peragrata Arabia Pelusium115 venit et Pompei tumulum magnificentius extruxit116. [5] Antinoum117 suum, dum per Nilum navigat, perdidit, quem muliebriter flevit. [6] De quo varia fama est aliis eum devotum pro Hadriano118 adserentibus, aliis, quod et forma eius ostentat et nimia voluptas Hadriani119. [7] Et Graeci quidem volente Hadriano eum consecraverunt oracula per eum dari adserentes, quae Hadrianus ipse conposuisse iactatur120. [8] Fuit enim poematum et litterarum nimium studiosissimus. [9] Arithmeticae, geometriae, picturae peritissimus. Iam psallendi et cantandi scientiam prae se ferebat. In voluptatibus nimius. Nam et de suis dilectis multa versibus composuit. [amatoria carmina scripsit.] [10] Idem armorum peritissimus et rei militaris scientissimus, gladiatoria quoque arma tractavit. [11] Idem severus laetus, comis gravis, lascivus cunctator, tenax liberalis, 〈simplex〉 simulator, saevus clemens et semper in omnibus varius. [15, 1] Amicos ditavit et quidem non petentes, cum petentibus nil negaret. [2] Idem tamen facile de amicis, quidquid insusurrabatur, audivit atque ideo prope cunctos vel amicissimos vel eos, quos summis honoribus evexit, postea ut hostium loco habuit, ut Attianum et Nepotem et Septicium Clarum. [3] Nam Eudaemonem121 prius conscium imperii ad egestatem perduxit, [4] Polyaenum122 et Marcellum123 ad mortem voluntariam coegit, [5] Heliodorum124 famosissimis litteris lacessivit, [6] Titianum125 ut conscium tyrannidis et argui passus est et proscribi. [7] Umidium Quadratum126 et Catilium Severum et Turbonem graviter insecutus est, [8] Servianum sororis virum nonagesimum iam annum agentem, ne sibi superviveret, mori coegit; [9] libertos denique et nonnullos milites insecutus est. [10] Et quamvis esset oratione et versu promtissimus et in omnibus artibus peritissimus, tamen professores omnium artium semper ut doctior risit, contempsit, obtrivit. [11] Cum his ipsis professoribus et philosophis libris vel carminibus invicem editis saepe certavit. [12] Et Favorinus127 quidem, cum verbum eius quondam ab Hadriano reprehensum esset atque ille cessisset, arguentibus amicis, quod male cederet Hadriano de verbo, quod idonei auctores usurpassent, risum iocundissimum movit; [13] ait enim: «Non recte suadetis, familiares, qui non patimini me illum doctiorem omnibus credere, qui habet triginta legiones». [16, 1] Famae celebris Hadrianus tam cupidus fuit, ut libros vitae suae scriptos a se libertis suis litteratis dederit iubens, ut eos suis nominibus

publicarent; nam et Phlegontis libri Hadriani esse dicuntur. [2] Catacannas128 libros obscurissimos Antimachum129 imitando scripsit. [3] Floro130 poetae scribenti ad se: ego nolo Caesar esse, ambulare per Britannos, 〈latitare per……….,〉 Scythicas pati pruinas

[4] rescripsit:

ego nolo Florus esse, ambulare per tabernas, latitare per popinas, culices pati rutundos.

[5] Amavit praeterea genus vetustum dicendi131, controversias132 declamavit. [6] Ciceroni Catonem, Vergilio Ennium, Salustio Coelium133 praetulit eademque iactatione de Homero ac Platone iudicavit. [7] Mathesin sic scire sibi visus est, ut sero kalendis Ianuariis scripserit, quid ei toto anno posset evenire, ita ut eo anno, quo perit, usque ad illam horam, qua est mortuus, scripserit, quid acturus esset. [8] Sed quamvis esset in reprehendendis musicis, tragicis, comicis, grammaticis, rhetoribus, oratoribus facilis, tamen omnes professores et honoravit et divites fecit, licet eos quaestionibus semper agitaverit. [9] Et cum ipse auctor esset, ut multi ab eo tristes recederent, dicebat se graviter ferre, si quem tristem videret. [10] In summa familiaritate Epictetum134 et Heliodorum philosophos et, ne nominatim de omnibus dicam, grammaticos, rhetores, musicos, geometras, pictores, astrologos habuit, prae ceteris, ut multi adserunt, eminente Favorino. [11] Doctores, qui professioni suae inhabiles videbantur, ditatos honoratosque a professione dimisit. [17, 1] Quos in privata vita inimicos habuit, imperator tantum neglexit, ita ut uni, quem capitalem habuerat, factus imperator diceret «evasisti». [2] His, quos ad militiam ipse per se vocavit, equos, mulos, vestes, sumptus et omnem ornatum semper exhibuit. [3] Saturnalicia135 et sigillaricia136 frequenter amicis inopinantibus misit et ipse ab his libenter accepit et alia invicem dedit. [4] Ad deprehendendas obsonatorum fraudes, cum plurimis simmatibus pasceret, fercula de aliis mensis etiam ultimis quibusque {iussit sibi} adponi. [5] Omnes reges muneribus suis vicit. Publice frequenter et cum omnibus lavit. [6] Ex quo ille iocus balnearis innotuit: nam cum quodam tempore veteranum quendam notum sibi in militia dorsum et ceteram partem corporis vidisset adterere 〈parieti〉, percontatus, cur se marmoribus destringendum daret, ubi audivit hoc idcirco fieri, quod servum non haberet, et servis eum donavit et

sumptibus. [7] Verum alia die cum plures senes ad provocandam liberalitatem principis parieti se adtererent, evocari eos iussit et alium ab alio invicem defricari. [8] Fuit et plebis iactantissimus amator. Peregrinationis ita cupidus, ut omnia, quae legerat de locis orbis terrarum, praesens vellet addiscere. [9] Frigora et tempestates ita patienter tulit, ut numquam caput texerit. [10] Regibus multis plurimum detulit, a plerisque vero etiam pacem redemit, a nonnullis contemptus est, [11] multis ingentia dedit munera, sed nulli maiora quam Hiberorum, cui et elephantum et quinquagenariam cohortem post magnifica dedit dona. [12] Cum a Farasmane ipse quoque ingentia mune 〈r〉 a [dona] accepisset atque inter haec auratas quoque clamydes, trecentos noxios cum auratis clamydibus in harenam misit ad eius munera deridenda. [18, 1] Cum iudicaret, in consilio habuit non amicos suos aut comites137 solum sed iuris consultos et praecipue Iuventium Celsum138, Salvium Iulianum139, Neratium Priscum aliosque, quos tamen senatus omnis probasset. [2] Constituit inter cetera, ut in nulla civitate domus aliqua transferendae ad aliam urbem ullius materiae causa dirueretur. [3] Liberis proscriptorum duodecimas bonorum concessit. [4] Maiestatis crimina non admisit. [5] Ignotorum hereditates repudiavit nec notorum accepit, si filios haberent. [6] De thesauris ita cavit, ut, {si} quis in suo repperisset, ipse potiretur, si quis in alieno, dimidium domino daret, si quis in publico, cum fisco aequabiliter partiretur. [7] Servos a dominis occidi vetuit eosque iussit damnari per iudices, si digni essent. [8] Lenoni et lanistae servum vel ancillam vendi vetuit causa non praestita. [9] Decoctores bonorum suorum, si suae auctoritatis essent, catomidiari in amphitheatro et dimitti iussit. [10] Ergastula servorum et liberorum tulit. Lavacra pro sexibus separavit. [11] Si dominus in domo interemptus esset, non de omnibus servis quaestionem haberi sed de his, qui per vicinitatem poterant sentire, praecepit. [19, 1] In Etruria praeturam140 imperator egit. Per Latina oppida dictator141 et aedilis et duumvir142 fuit, apud Neapolim demarchus143, in patria sua quinquennalis144 et item Hadriae quinquennalis, quasi in alia patria, et Athenis archon145 fuit. [2] In omnibus paene urbibus et aliquid aedificavit et ludos edidit. [3] Athenis mille ferarum venationem in stadio exhibuit. [4] Ab urbe Roma numquam ullum venatorem aut scaenicum avocavit. [5] Romae post ceteras inmensissimas voluptates in honorem socrus suae aromatica populo donavit, in honorem Traiani balsama et crocum per gradus theatri fluere iussit. [6]

Fabulas omnis generis more antiquo in theatro dedit, histriones aulicos publicavit. [7] In circo multas feras et saepe centum leones interfecit. [8] Militares pyrrichas populo frequenter exhibuit. Gladiatores frequenter spectavit. [9] Cum opera ubique infinita fecisset, numquam ipse nisi in Traiani patris templo nomen suum scripsit. [10] Romae instauravit Pantheum146, saepta147, basilicam Neptuni148, sacras aedes plurimas, forum Augusti149, lavacrum Agrippae150, eaque omnia propriis auctorum nominibus consecravit. [11] Fecit et sui nominis pontem151 et sepulchrum iuxta Tiberim152 et aedem Bonae Deae153. [12] Transtulit et colossum154 stantem atque suspensum per Decrianum architectum de eo loco, in quo nunc templum Urbis155 est, ingenti molimine, ita ut operi etiam elephantos viginti quattuor exhiberet. [13] Et cum hoc simulacrum post Neronis vultum, cui antea dicatum fuerat, Soli consecrasset, aliud tale Apollodoro architecto auctore facere Lunae molitus est. [20, 1] In conloquiis etiam humillimorum civilissimus fuit, detestans eos, qui sibi hanc voluptatem humanitatis quasi servantes fastigium principis inviderent. [2] Apud Alexandriam in musio156 multas quaestiones professoribus proposuit et propositas ipse dissolvit. [3] Marius Maximus dicit eum natura crudelem fuisse et idcirco multa pie fecisse, quod timeret, ne sibi idem, quod Domitiano157 accidit, eveniret. [4] Et cum titulos in operibus non amaret, multas civitates Hadrianopolis158 appellavit, ut ipsam Karthaginem et Athenarum partem159. [5] Aquarum ductus etiam infinitos hoc nomine nuncupavit. [6] Fisci advocatum160 primus instituit. [7] Fuit memoriae ingentis, facultatis inmensae; nam ipse orationes et dictavit et ad omnia respondit. [8] Ioca eius plurima exstant; nam fuit etiam dicaculus. Unde illud quoque innotuit, quod, cum cuidam canescenti quiddam negasset, eidem iterum petenti sed infecto capite respondit «Iam hoc patri tuo negavi». [9] Nomina plurimis sine nomenclatore161 reddidit, quae semel et congesta simul audiverat, ut nomenclatores saepius errantes emendavit. [10] Dixit et veteranorum nomina, quos aliquando dimiserat. Libros statim lectos et ignotos quidem plurimis memoriter reddidit. [11] Uno tempore scripsit, dictavit, audivit et cum amicis fabulatus est [si potest credi]. Omnes publicas rationes ita complexus est, ut domum privatam quivis paterfamilias diligens non satis novit. [12] Equos et canes sic amavit, ut eis sepulchra162 constitueret. [13] Oppidum Hadrianotheras163 in quodam loco, quod illic et feliciter esset venatus et ursam occidisset aliquando, constituit.

[21, 1] De iudicis omnibus semper cuncta scrutando tamdiu requisivit, quamdiu verum inveniret. [2] Libertos164 suos nec sciri voluit in publico nec aliquid apud se posse, dicto suo omnibus superioribus principibus vitia imputans libertorum, damnatis omnibus libertis suis, quicumque se de eo iactaverant. [3] Unde extat etiam illud severum quidem sed prope ioculare de servis. Nam cum quodam tempore servum suum inter duos senatores e conspectu ambulare vidisset, misit, qui ei collafum daret 〈diceret〉que: «Noli inter eos ambulare, quorum esse adhuc potes servus». [4] Inter cibos unice amavit tetrafarmacum165, quod erat de fasiano, sumine, perna et crustulo. [5] Fuerunt eius temporibus fames, pestilentia, terrae motus, quae omnia, quantum potuit, procuravit multisque civitatibus vastatis per ista subvenit. [6] Fuit etiam Tiberis inundatio. [7] Latium166 multis civitatibus dedit, tributa multis remisit. [8] Expeditiones sub eo graves nullae fuerunt167; bella etiam silentio paene transacta. [9] A militibus propter curam exercitus nimiam multum amatus est, simul quod in eos liberalissimus fuit. [10] Parthos in amicitia semper habuit, quod inde regem retraxit, quem Traianus inposuerat. [11] Armeniis regem habere permisit, cum sub Traiano legatum habuissent. [12] Mesopotamenos non exegit tributum, quod Traianus inposuit. [13] Albanos168 et Hiberos amicissimos habuit, quod reges eorum largitionibus prosecutus est, cum ad illum venire contempsissent. [14] Reges Bactranorum169 legatos ad eum amicitiae petendae causa supplices miserunt. [22, 1] Tutores saepissime dedit. Disciplinam civilem non aliter tenuit quam militarem. [2] Senatores et equites Romanos semper in publico togatos170 esse iussit, nisi si a cena reverterentur. [3] Ipse, cum in Italia esset, semper togatus processit. [4] Ad convivium venientes senatores stans excepit semperque aut pallio171 tectus discubuit aut toga summissa. [5] Diligentia iudicis sumptus convivii constituit et ad anticum modum redegit. [6] Vehicula cum ingentibus sarcinis urbem ingredi prohibuit. Sederi equos in civitatibus non sivit. [7] Ante octavam horam172 in publico neminem nisi aegrum lavari passus est. [8] Ab epistolis et a libellis primus equites Romanos habuit173. [9] Eos, quos pauperes et innocentes vidit, sponte ditavit, quos vero calliditate ditatos, etiam odio habuit. [10] Sacra Romana diligentissime curavit, peregrina contempsit. Pontificis maximi174 offìcium peregit. [11] Causas Romae atque in provinciis frequenter audivit adhibitis in consilio suo consulibus atque praetoribus et optimis senatoribus. [12] Fucinum lacum emisit. [13] Quattuor

consulares per omnem Italiam iudices constituit. [14] Quando in Africam venit, ad adventum eius post quinquennium pluit, atque ideo ab Africanis dilectus est. [23, 1] Peragratis sane omnibus orbis partibus capite nudo et in summis plerumque imbribus atque frigoribus in morbum incidit lectualem. [2] Factusque de successore sollicitus primum de Serviano cogitavit, quem postea, ut diximus, mori coegit. [3] Fuscum175, quod imperium praesagiis et ostentis agitatus speraret, in summa detestatione habuit. [4] Platorium Nepotem, quem tantopere ante dilexit, ut veniens ad eum aegrotantem Hadrianus inpune non admitteretur – suspicionibus adductus est –, [5] eodem modo et Terentium Gentianum176, et hunc vehementius, quod a senatu diligi tunc videbat, [6] omnes postremo, de quorum imperio cogitavit, quasi futuros imperatores detestatus est. [7] Et omnem quidem vim crudelitatis ingenitae usque eo repressit, donec in villa Tiburtina profluvio sanguinis paene ad exitum venit. [8] Tunc libere Servianum quasi affectatorem imperii, quod servis regis cenam misisset, quod in sedili regio iuxta lectum posito sedisset, quod erectus ad stationes militum senex nonagenarius processisset, mori coegit multis aliis interfectis vel aperte vel per insidias. [9] Quando quidem etiam Sabina uxor non sine fabula veneni dati ab Hadriano defuncta est. [10] Tunc177 Ceionium Commodum, Nigrini generum insidiatoris quondam, sibi forma commendatum adoptare constituit. [11] Adoptavit ergo Ceionium Commodum Verum178 invitis omnibus eumque Aelium Verum Caesarem appellavit. [12] Ob cuius adoptationem ludos circenses dedit et donativum populo ac militibus expendit. [13] Quem praetura honoravit ac statim Pannoniis inposuit decreto consulatu cum sumptibus. Eundem Commodum secundo consulem designavit. [14] Quem cum minus sanum videret, saepissime dictitavit: «In caducum parietem nos inclinavimus et perdidimusque ter milies sestertium, quod populo et militibus pro adoptione Commodi dedimus». [15] Commodus autem prae valetudine nec gratias quidem in senatu agere potuit Hadriano de adoptione. [16] Denique accepto largius antidoto ingravescente valetudine per somnum perit ipsis kalendis Ianuariis179. Quare ab Hadriano Votorum180 causa lugeri est vetitus. [24, 1] Et mortuo Aelio Vero Caesare Hadrianus ingruente tristissima valetudine adoptavit Arrium Antoninum181, qui postea Pius dictus est, et ea quidem lege, ut ille sibi duos adoptaret, Annium Verum et Marcum Antoninum182. [2] Hi sunt qui postea duo pariter Augusti primi rem publicam

gubernaverunt. [3] Et Antoninus quidem Pius idcirco appellatus dicitur, quod socerum fessum aetate manu sublevaret. [4] Quamvis alii cognomentum hoc ei dicant inditum, quod multos senatores Hadriano iam saevienti abripuisset, [5] alii, quod ipsi Hadriano magnos honores post mortem detulisset. [6] Antonini adoptionem plurimi tunc factam esse doluerunt, speciatim Catilius Severus, praefectus urbi, qui sibi praeparabat imperium. [7] Qua re prodita successore accepto dignitate privatus est. [8] Hadrianus autem ultimo vitae taedio iam adfectus gladio se transfigi a servo iussit. [9] Quod cum esset proditum et in Antonini usque notitiam venisset, ingressis ad se praefectis et filio rogantibusque, ut aequo animo necessitatem morbi ferret, iratus illis auctorem proditionis iussit occidi, qui tamen ab Antonino servatus est. [10] Statimque testamentum scripsit nec tamen actus rei publicae praetermisit, dicente Antonino parricidam se futurum, si Hadrianum adoptatus ipse pateretur occidi. [11] Et post testamentum quidem iterum se est conatus occidere; subtracto pugione saevior factus est. [12] Petit et venenum a medico, qui se ipse, ne daret, occidit. [25, 1] Ea tempestate supervenit quaedam mulier, quae diceret somnio se monitam, ut insinuaret Hadriano, ne se occideret, quod esset bene valiturus. Quod cum non fecisset, esse caecatam. Iussam tamen iterum Hadriano eadem dicere atque genua eius osculare 〈oculos〉 recepturam, si id fecisset. [2] Quod cum ex somnio implesset, oculos recepit, cum a 〈qua〉, quae in fano erat, ex quo venerat, oculos abluisset. [3] Venit et de Pannonia quidam vetus caecus ad febrientem Hadrianum eumque contigit. [4] Quo facto et ipse oculos recepit, et Hadrianum febris reliquit. Quamvis Marius Maximus haec per simulationem facta commemoret. [5] Post haec Hadrianus Baias petit Antonino Romae ad imperandum relicto. [6] Ubi cum nihil proficeret, arcessito Antonino in conspectu eius apud ipsas Baias perit die VI. iduum Iuliarum183. [7] Invisusque omnibus sepultus est in villa Ciceroniana Puteolis. [8] Sub ipso mortis tempore et Servianum nonaginta annos agentem, {ut} supra dictum est, ne sibi superviveret atque, ut putabat, imperaret, mori coegit et ob leves offensas plurimos iussit occidi, quos Antoninus reservavit. [9] Et moriens quidem hos versus fecisse dicitur: animula vagula blandula, hospes comesque corporis, quo nunc abibis? In loca pallidula rigida nudula nec, ut soles, dabis iocos.184

[10] Tales autem nec multo meliores fecit et Graecos. [11] Vixit annis LX[X]II, mensibus V, diebus XVII. Imperavit annis XXI, mensibus XI. [26, 1] Statura fuit procerus, forma comptus, flexo ad pectinem capillo, promissa barba, ut vulnera, quae in facie naturalia erant, tegeret, habitudine robusta. [2] Equitavit ambulavitque plurimum armisque et pilo se semper exercuit. [3] Venatus frequentissime leonem manu sua occidit. Venando autem iugulum et costam fregit. Venationem semper cum amicis participavit. [4] In convivio tragoedias, comoedias, Attellanas185, sambucas186, lectores, poetas pro re semper exhibuit. [5] Tiburtinam villam mire exaedificavit187, ita ut in ea et provinciarum et locorum celeberrima nomina inscriberet, velut Lycium, Academian, Prytanium, Canopum, Poecilen, Tempe188 vocaret. Et, ut nihil praetermitteret, etiam inferos finxit. [6] Signa mortis189 haec habuit: natali suo ultimo, cum Antoninum commendaret, praetexta190 sponte delapsa caput ei aperuit. [7] Anulus, in quo imago ipsius sculpta erat, sponte de digito delapsus est191. [8] Ante diem natalis eius nescio qui ad senatum ululans venit; contra quem Hadrianus ita motus est, quasi de sua morte loqueretur, cum eius verba nullus agnosceret. [9] Idem cum vellet in senatu dicere «post filii mei mortem», «post meam» dixit. [10] Somniavit praeterea se a patre potionem soporiferam impetrasse. Item somniavit a leone se oppressum esse. [27, 1] In mortuum eum a multis multa sunt dicta. Acta eius inrita fieri senatus volebat. [2] Nec appellatus esset divus, nisi Antoninus rogasset. [3] Templum denique ei pro sepulchro apud Puteolos constituit et quinquennale certamen et flamines192 et sodales193 et multa alia, quae ad honorem quasi numinis pertinerent. [4] Qua re, ut supra dictum est, multi putant Antoninum Pium dictum.

[1, 1] Il ramo più antico della famiglia1 dell’imperatore Adriano trae la sua origine nel Piceno2, quello più recente nella Spagna: egli stesso, infatti, nella sua Autobiografia3, riferisce che i suoi antenati, originari di Adria4, all’epoca degli Scipioni avevano risieduto ad Italica5. [2] Il padre di Adriano fu Elio Adriano, soprannominato «Afro», cugino dell’imperatore Traiano, sua madre Domizia Paolina, nativa di Cadice, sua sorella Paolina, sposata a Serviano6, Sabina la moglie; suo trisavolo fu quel Marullino che per primo nella famiglia fu senatore romano. [3] Nacque a Roma7 il 24 gennaio dell’anno corrispondente al settimo consolato di Vespasiano e al quinto di Tito8. [4] Essendo rimasto, a dieci anni, orfano di padre, ebbe come tutori suo cugino Ulpio Traiano, che allora aveva già rivestito la pretura9 e in seguito sarebbe divenuto imperatore, e Celio Attiano10, cavaliere romano. [5] Fu iniziato con particolare profondità allo studio delle lettere greche, rivelandovi un’inclinazione naturale così spiccata, che parecchie persone lo chiamavano «il Grechino». [2, 1] Quando aveva quindici anni fece ritorno nella sua patria11, e subito intraprese il servizio militare, dedicandosi ad un tempo con tanta passione alla caccia da giungere a ripost ceverne biasimo. [2] Per questo motivo venne richiamato di là da Traiano, che lo trattò come un figlio, e poco tempo dopo fu fatto decemviro nella corte giudiziaria12 e, in seguito, creato tribuno della seconda legione Ausiliaria13. [3] Dopo di che, già sul finire dell’impero di Domiziano, fu trasferito nella Mesia inferiore14. [4] E si dice che proprio lì ricevette da un astrologo a riguardo del suo futuro potere imperiale la medesima predizione che egli sapeva essere stata fatta dal fratello del nonno, Elio Adriano, uomo dotato di grande perizia nello studio degli astri. [5] Quando Traiano fu adottato da Nerva15, Adriano venne trasferito nella Germania superiore, inviato là con l’incarico di porgergli le congratulazioni dell’esercito. [6] Di là poi, mentre si affrettava per raggiungere Traiano onde essere il primo a portargli la notizia della morte di Nerva, fu trattenuto a lungo dal cognato Serviano (il quale lo aveva reso inviso a Traiano, riferendogli della prodigalità di Adriano e dei suoi debiti) e ulteriormente ritardato dal fatto che la sua carrozza era stata deliberatamente messa fuori uso16; ciononostante compiendo a piedi il tragitto, riuscì a precedere il messo personale17 dello stesso Serviano. [7] Si acquistò allora il favore di Traiano, né tuttavia mancò contro di lui una macchinazione ad opera dei pedagoghi dei

fanciulli favoriti di Traiano, con l’appoggio di Gallo18. [8] Proprio in quella occasione, essendo in angustia perché non sapeva quale fosse la disposizione dell’imperatore nei suoi riguardi, consultò l’oracolo virgiliano19; ne uscì questo responso: «Ma chi è colui che da lontano, coronato di rami d’olivo, i sacri arredi porta? Riconosco i capelli ed il canuto mento del re romano, che la città primitiva sulle leggi fonderà, dall’umil Curi, da una povera terra sortito a un grande impero. Cui poi seguirà…»20;

Questa profezia, a parere di altri, gli sarebbe venuta dai libri Sibillini21. [9] Ricevette inoltre il preannuncio che sarebbe divenuto presto imperatore anche in un responso oracolare uscito dal tempio di Giove a Niceforo22, che Apollonio Siro, il Platonico23, riportò nei suoi scritti. [10] Infine, grazie ai buoni uffici di Sura24, ritornò ben presto, e in modo ancor più pieno, nei favori di Traiano, e ne sposò la nipote25 con l’appoggio di Plotina26, mentre Traiano, a quanto riferisce Mario Massimo27, non era molto entusiasta di tale matrimonio. [3, 1] Sotto il quarto consolato di Traiano e il primo di Articoleio28, rivestì la carica di questore; nell’esercizio di questo ufficio gli capitò di essere deriso per aver letto in senato un discorso dell’imperatore con una pronuncia piuttosto grossolana: si impegnò allora nello studio delle lettere latine sino ad acquistare una grande perizia e facondia. [2] Dopo la questura attese all’ufficio di redigere gli Atti del senato29, e quindi seguì Traiano nella guerra dacica30 godendo di un rapporto di particolare dimestichezza con lui; [3] e fu proprio in questa occasione che – a quanto ammette egli stesso – per compiacere ai costumi di Traiano si lasciò andare al bere, e per questo venne da Traiano ricompensato con grande larghezza. [4] Nell’anno del secondo consolato di Candido e di Quadrato31 fu creato tribuno della plebe [5] e, a quanto egli dice, durante questa magistratura ebbe a ricevere un presagio indicante che avrebbe conservato la potestà tribunizia a vita32: gli avvenne infatti di perdere il mantello33 di cui i tribuni della plebe erano soliti servirsi quando pioveva, e che gli imperatori invece non portavano mai. E in effetti ancor oggi gli imperatori si fanno vedere in pubblico senza mantello. [6] Durante la seconda spedizione dacica34, Traiano gli diede il comando della prima legione, la Minervia35, e lo condusse con sé; in quella occasione risaltarono molte sue imprese valorose. [7] E avendo ricevuto in dono a motivo di esse il diamante che Traiano aveva avuto da Nerva, concepì nuove

speranze di potergli succedere. [8] Nell’anno del secondo consolato di Suburano e di Serviano36, divenne pretore e in tale occasione ricevette da Traiano quattro milioni di sesterzi per allestire i giochi. [9] In seguito, mandato nella Pannonia inferiore37 in qualità di legato pretorio, riuscì a tenere a bada i Sarmati, mantenne la disciplina nell’esercito, richiamò all’ordine i procuratori che abusavano dei loro poteri. [10] In grazia di tutto questo fu fatto console38. Durante questa magistratura, non appena da Sura gli venne comunicato che sarebbe stato adottato da Traiano, gli amici dell’imperatore cessarono di guardarlo con sprezzo o indifferenza. [11] Quando poi morì Sura, crebbe la sua intimità con Traiano, soprattutto in forza del fatto che era lui a preparare all’imperatore i discorsi ufficiali. [4, 1] Poté avvalersi pure del favore di Plotina, grazie all’interessamento della quale egli fu inoltre nominato legato al tempo della spedizione contro i Parti39. [2] Proprio in quel tempo Adriano era legato da rapporti di amicizia con Sosio Papo40 e Platorio Nepote41, entrambi appartenenti all’ordine senatorio, e, nel rango equestre, con Attiano, un tempo suo tutore, Liviano42 e Turbone43. [3] Quando Palma e Celso44, che gli furono sempre nemici e che a sua volta in seguito egli non mancò di perseguitare, caddero in disgrazia, in quanto sospettati di mirare alla conquista del potere, ebbe la garanzia che sarebbe stato adottato. [4] Designato console per la seconda volta grazie all’appoggio di Plotina, ottenne con ciò il sicuro preannunzio dell’adozione. [5] Una voce molto diffusa diceva che, all’epoca in cui era di casa a corte, egli avrebbe corrotto i liberti di Traiano, e avrebbe circuito i giovani favoriti dell’imperatore, in molte occasioni anche abusando di loro45. [6] Il 9 di agosto46, mentre era governatore in Siria, ricevette la lettera che gli comunicava ufficialmente l’adozione, e questa data volle che fosse celebrata quale anniversario di quell’avvenimento. [7] L’11 dello stesso mese ricevette la notizia della morte di Traiano, e questo giorno stabilì che dovesse essere solennizzato come anniversario della sua accessione al trono. [8] Era invero opinione diffusa che Traiano avesse avuto in animo di lasciare come successore non Adriano, ma Nerazio Prisco47, avendo in questo l’approvazione di molti suoi amici, tanto che un giorno ebbe a dire a Prisco: «Affido a te le province, nel caso mi dovesse succedere una qualche disgrazia». [9] Molti poi dicono che la reale intenzione di Traiano fosse – sull’esempio di Alessandro il Macedone – di morire senza nominare un successore, altri soggiungono che egli si sarebbe proposto di inviare al senato

un messaggio ufficiale per richiedere che, se gli fosse accaduto qualcosa, fosse tale consesso a dare un principe allo Stato romano, aggiungendo soltanto i nomi tra i quali lo stesso senato avrebbe scelto il migliore. [10] Né manca un’altra versione – che fu messa in giro da taluni – secondo la quale Adriano avrebbe ricevuto l’adozione quando Traiano era già morto, in grazia di un’abile manovra di Plotina, consistente nella sostituzione di un’altra persona fatta parlare con voce flebile in luogo di Traiano. [5, 1] Ottenuto il potere, subito si orientò secondo la primitiva politica imperiale48 adoperandosi per il mantenimento della pace in tutto il mondo. [2] Infatti i popoli che Traiano aveva sottomesso stavano sollevandosi: i Mauri49 compivano atti provocatori, i Sarmati50 erano all’offensiva, i Britanni non era ormai più possibile tenerli sottomessi all’autorità di Roma, l’Egitto era in preda alle ribellioni, la Libia e la Palestina51, infine, erano animate da spiriti ribelli. [3] Per questo egli abbandonò tutti i territori al di là dei Tigri e dell’Eufrate seguendo, come diceva, l’esempio di Catone, che proclamò che la Macedonia dovesse essere indipendente, dal momento che non era possibile difenderla52. [4] E poiché vedeva che quel Partamasiri53 che Traiano aveva creato re dei Parti aveva scarsa autorità su quel popolo, lo mise a capo di popolazioni limitrofe. [5] Fu poi sin dall’inizio tanto incline alla clemenza che, sebbene Attiano, nei primi giorni del suo impero, gli avesse suggerito per lettera di togliere di mezzo il prefetto di Roma54 Bebio Macro55, nel caso avesse manifestato ostilità nei riguardi della sua ascesa al trono, e Laberio Massimo56, che era esule in un’isola perché sospetto al governo imperiale, e inoltre Crasso Frugi57, non volle colpire alcuno; [6] per quanto, in seguito, un procuratore imperiale – senza ordine di Adriano – uccise Crasso, che aveva lasciato l’isola, col pretesto che stesse tramando qualche nuova cospirazione. [7] Per solennizzare la sua elevazione al potere imperiale, elargì ai soldati un donativo doppio. [8] Privò Lusio Quieto58 del comando degli uomini delle tribù Maure che militavano sotto di lui e lo allontanò dall’esercito, poiché si era reso sospetto al governo imperiale, affidando a Marcio Turbone, che veniva da una spedizione in cui aveva represso i moti giudaici, il compito di soffocare l’insurrezione scoppiata in Mauretania. [9] Dopo ciò partì da Antiochia per vedere le spoglie di Traiano che Attiano, Plotina e Matidia59 stavano trasportando. [10] Presele formalmente in consegna, le mandò a Roma con una nave; mentre egli, ritornato ad Antiochia, ove affidò a Catilio Severo60 il governo della Siria,

venne poi a Roma attraverso la via dell’Illirico61. [6, 1] Indirizzando al senato una lettera accuratamente riguardosa, chiese e, col consenso generale, ottenne, che fossero concessi onori divini a Traiano, facendo sì che i senatori, di loro stessa iniziativa, decretassero per Traiano anche molte onoranze che Adriano non aveva richiesto. [2] Sempre scrivendo al senato, si scusò del fatto che non aveva lasciato ad esso la prerogativa di sancire la sua accessione al trono, spiegando che era stato acclamato imperatore dai soldati senza il minimo indugio, perché lo Stato non poteva rimanere senza un capo. [3] Avendogli poi il senato decretato il trionfo, che spettava a Traiano, egli lo rifiutò, e sul carro trionfale fece trasportare l’immagine di Traiano, affinché quell’ottimo principe non venisse privato, neppure dopo la morte, degli onori del trionfo. [4] Rifiutò l’appellativo di «padre della patria» che gli era stato offerto sin dal primo momento, e un’altra volta successivamente, ricordando che Augusto non aveva ricevuto se non dopo molti anni62 questo titolo. [5] Quanto all’imposta «coronaria»63, la condonò in Italia e la diminuì nelle province, non senza ad un tempo aver sottolineato con tono ostentato e in tutti i particolari le difficoltà che gravavano sull’erario. [6] Venuto poi a conoscenza della rivolta dei Sarmati e dei Rossolani64, spedì avanti a sé gli eserciti e partì per la Mesia. [7] A Marcio Turbone, reduce dalla campagna condotta in Mauretania, conferì le insegne65 di prefetto e affidò il governo temporaneo della Pannonia e della Dacia. [8] Con il re dei Rossolani, che si lagnava per la diminuzione dei suoi sussidi, esaminati i termini della vertenza, concluse un trattato di pace. [7, 1] Riuscì a sfuggire ad un complotto che Nigrino66 – che pure Adriano aveva designato come proprio successore – aveva ordito, con la complicità di Lusio e di molti altri, per assassinarlo mentre stava compiendo un sacrifìcio. [2] A motivo di esso, per ordine del senato ma contro il volere di Adriano (come dice egli stesso nella sua Autobiografia), furono soppressi Palma a Terracina, Celso a Baia67, Nigrino a Faenza e Lusio mentre si trovava in viaggio. [3] Allora Adriano, per cancellare la pessima fama che si era fatto per aver permesso che in una sola volta fossero messi a morte quattro consolari, si recò immediatamente a Roma, dopo aver affidato il governo della Dacia a Turbone, insignito – perché fosse accresciuta la sua autorità – del rango proprio della prefettura d’Egitto68; e, onde far tacere le voci negative che circolavano su di lui, appena arrivato concesse al popolo un congiario69

doppio, dopo che già, quando era ancora lontano, aveva fatto distribuire a ciascun cittadino tre aurei70. [4] Volle anche scusarsi in senato di quanto era avvenuto, e giurò che mai avrebbe in futuro punito un senatore se non dopo un voto espresso dal senato stesso71. [5] Subito istituì un servizio postale gestito a spese del fisco72, perché i magistrati fossero sollevati da questo onere. [6] Nulla poi tralasciando di quanto potesse acquistargli favore, condonò in Roma e in Italia un’infinità di debiti contratti da privati con il fisco, e anche nelle province condonò ingenti somme corrispondenti a debiti non completamente estinti, facendo bruciare le obbligazioni nel foro del divo Traiano73, perché tutti avessero a sentirsi maggiormente sicuri. [7] Vietò che i beni dei condannati fossero assegnati al suo patrimonio privato74, facendo sì che ogni somma di denaro venisse incamerata nel pubblico erario. [8] Accrebbe generosamente i sussidi75 ai fanciulli e fanciulle per i quali già Traiano li aveva stanziati. [9] Mediante un’indennità rapportata al numero dei figli reintegrò il patrimonio di quei senatori che, senza loro colpa, avevano perduto le loro sostanze, in modo da renderlo proporzionato alle esigenze della loro posizione76; fu così che a un gran numero di essi fece corrispondere puntualmente, al giorno stabilito, il sussidio assegnato loro per vivere. [10] Non solo verso i suoi amici77, ma anche verso numerose altre persone fu prodigo di larghe sovvenzioni perché potessero far fronte alle esigenze proprie delle loro cariche. [11] Portò aiuto a molte donne offrendo ad esse i sussidi necessari per il loro sostentamento. [12] Diede spettacoli gladiatori per sei giorni consecutivi, e, nel suo genetliaco, allestì uno spettacolo con mille bestie feroci. [8, 1] Tutti gli uomini migliori del senato li fece entrare in un rapporto di stretta confidenza con la sua imperiale maestà78. [2] Rifiutò che si celebrassero in suo onore giochi nel circo, ad eccezione di quelli per il suo genetliaco. [3] Sia in pubbliche assemblee che in senato ebbe più volte a dire che avrebbe amministrato lo Stato nella consapevolezza che esso apparteneva al popolo, non a lui. [4] Essendo stato lui stesso tre volte console, conferì il terzo consolato a moltissime persone, e senza numero poi furono quelli che innalzò all’onore del secondo. [5] Da parte sua, resse il terzo consolato solo per quattro mesi, e nel corso di esso spesso amministrò la giustizia. [6] Quando si trovava in Roma o nelle vicinanze della città, partecipò sempre alle sedute legali del senato. [7] Mostrandosi molto cauto ed esigente nella creazione dei senatori, accrebbe a tal punto il prestigio del senato che, quando da prefetto

del pretorio79 nominò Attiano senatore80 – dopo avergli attribuito le prerogative di ex-console –, fece intendere che non disponeva di alcuna dignità di maggior rilievo di cui potesse insignirlo. [8] Non permise che i cavalieri sia in sua assenza sia con lui presente giudicassero cause che coinvolgevano dei senatori. [9] Infatti vigeva allora la prassi che quando il sovrano istruiva i processi, convocasse a consiglio81 senatori e cavalieri, e pronunciasse la sentenza tenendo conto del parere espresso da tutti. [10] Manifestò inoltre la sua riprovazione nei confronti di quegli imperatori che non avevano mostrato la dovuta deferenza verso il senato. [11] Al cognato Serviano, che trattava con tanto rispetto che sempre gli andava incontro ad ossequiarlo allorché usciva dai suoi appartamenti, concesse, senza che gliene avesse fatta richiesta o preghiera, il terzo consolato, non però assieme a sé perché, essendo stato Serviano console due volte prima di Adriano, l’imperatore non venisse a perdere il diritto di precedenza nell’esprimere il suo parere82. [9, 1] Frattanto abbandonò molte province83 conquistate da Traiano e, contrariamente ai voti di tutti, distrusse il teatro che il predecessore aveva costruito nel Campo Marzio. [2] E questi provvedimenti apparivano ancor più odiosi, in quanto Adriano tutto ciò che vedeva risultare impopolare, voleva farlo passare come esecuzione di ordini comunicatigli in segreto da Traiano. [3] Poiché mal tollerava il potere assunto da Attiano, suo prefetto e un tempo tutore, si adoperò nel proposito di sopprimerlo, ma ne fu distolto dal pensiero che già pesava su di lui il malcontento per l’uccisione dei quattro consolari, la cui eliminazione egli ascriveva proprio ai consigli di Attiano. [4] E non potendo nominargli un sostituto, poiché non lo chiedeva, face in modo di provocare la sua richiesta, e non appena ciò avvenne, trasferì il potere a Turbone; [5] e in quella stessa occasione, elesse come successore a Simile84 l’altro prefetto, Setticio Claro85. [6] Rimossi dalla prefettura quelli ai quali doveva il suo potere imperiale, si recò in Campania86, dove portò aiuto con benefìci e largizioni a tutte le città, stringendo amicizia con tutti i cittadini più ragguardevoli. [7] A Roma poi era di frequente accanto ai pretori e ai consoli durante l’esercizio delle loro funzioni, partecipava ai conviti degli amici, faceva visita a quelli ammalati – e tra essi parecchi erano semplici cavalieri e liberti – due o tre volte al giorno, li rianimava portando loro soccorso, li confortava con i suoi consigli, li ammetteva sempre ai suoi conviti. [8] In tutto, insomma, si comportava come un privato cittadino. [9] Tributò

onoranze speciali alla suocera, con giochi gladiatori e con altre manifestazioni di omaggio. [10, 1] Dopo ciò partì per le Gallie87 e beneficò tutte quelle regioni con vari sussidi. [2] Di là passò in Germania e, pur avendo di mira più la pace che la guerra, tenne in esercizio i soldati come se una guerra fosse imminente: così li istruiva dando loro prova di come si dovesse resistere alla fatica, conducendo egli stesso, a mo’ di esempio, una vita da soldato tra i manipoli, e accettando inoltre di buon grado di mangiare, all’aperto, i cibi distribuiti ai soldati, cioè lardo, formaggio e acqua mista ad aceto88, sull’esempio di Scipione Emiliano89 e Metello90, e del padre Traiano; a molti assegnava premi, a parecchi onorificenze, perché risultassero loro più sopportabili i suoi ordini più pesanti; [3] in effetti Adriano pose un freno al rilassamento della disciplina che si era andato verificando dopo Cesare Ottaviano per via della negligenza degli imperatori che l’avevano preceduto: regolò gli uffici e le spese, mai permise che alcuno si assentasse dall’accampamento senza un giustificato motivo, mentre d’altro canto non la popolarità goduta tra i soldati, ma solo il giusto merito era titolo di preferenza per la nomina dei tribuni; [4] era di incitamento agli altri con l’esempio della sua condotta: era capace di marciare, con le armi indosso, anche per venti miglia91; eliminò dall’accampamento, facendoli demolire, triclini, portici, passaggi coperti, aiuole; [5] indossava spesso vesti molto dimesse, portava la cintura senza finiture d’oro, usava come fermaglio una fibbia senza gemme, aveva l’impugnatura della spada a malapena d’avorio; [6] andava a visitare i soldati malati nei loro quartieri, sceglieva il luogo adatto per l’accampamento, concedeva il grado di centurione92 solo a uomini gagliardi e di buona reputazione, né creava uno tribuno se non avesse già una folta barba o un’età tale da poter essere all’altezza, per maturità e per anni, del duro impegno richiesto dal tribunato, [7] e vietò che i tribuni accettassero alcunché dai soldati; bandì da ogni parte ogni forma di rilassatezza, e infine rinnovò l’armamento e l’equipaggiamento dei soldati. [8] Giudicava inoltre personalmente dell’età che dovevano avere i soldati, per evitare che, in contrasto con le antiche usanze, avessero a prestare il servizio militare o elementi troppo giovani per averne le doti richieste, o troppo vecchi perché il senso di umanità potesse permetterlo, e faceva in modo di conoscerli sempre tutti e di essere al corrente del loro numero. [11, 1] Si preoccupava inoltre di mantenere un controllo accurato sui depositi militari, e si informava anche scrupolosamente delle risorse delle

province, in modo da poter sopperire ad eventuali carenze che si fossero da taluna parte manifestate. Tuttavia si sforzava più che tutti gli altri imperatori di non acquistare o mantenere mai nulla di improduttivo. [2] Riformato dunque l’esercito in modo degno di un sovrano, si recò in Britannia, dove mise in opera molte riforme, e per primo fece erigere un muro lungo 80 miglia, il cui scopo era quello di tenere separati i barbari dai Romani93. [3] Sostituì nell’ufficio Setticio Claro, prefetto del pretorio, Svetonio Tranquillo94, segretario imperiale95, e molti altri perché, senza il suo permesso96, avevano intrattenuto in quel tempo con la moglie Sabina rapporti troppo confidenziali rispetto a quanto l’etichetta della casa reale esigeva, e, come diceva, avrebbe anche ripudiato la moglie, come donna bisbetica e intrattabile, se solo fosse stato un privato cittadino. [4] Ed era curioso non solo delle faccende di corte, ma anche di ciò che riguardava gli amici, in modo tale che, servendosi dei suoi agenti informatori97, spiava tutti i loro affari riservati, e gli amici non si accorgevano che l’imperatore era al corrente della loro vita privata, prima che egli stesso lo rivelasse loro. [5] A tale proposito vale la pena di riportare un gustoso aneddoto, dal quale appare chiaramente come egli riuscisse a sapere molte cose dei suoi amici. [6] Una volta una donna aveva scritto a suo marito, lamentandosi che, tutto preso tra divertimenti e bagni, non volesse ritornare da lei, e Adriano, attraverso i suoi informatori, era venuto a conoscenza di ciò: così, quando quello venne a chiedere una licenza, Adriano gli rinfacciò i bagni e le gozzoviglie. E quello, di rimando: «Forse che mia moglie ha mandato anche a te la stessa lettera che ha scritto a me?». [7] E in verità questo è riguardato come un suo difetto estremamente riprovevole, ma in aggiunta ad esso gli viene fatto carico di quanto si racconta a proposito delle sue relazioni con uomini adulti e degli adultèri con donne sposate, a cui dicono che Adriano sia stato dedito, nonché dell’accusa di aver mancato di lealtà persino verso gli amici98. [12, 1] Sistemate le cose in Britannia e passato in Gallia, fu turbato dalla notizia di una sommossa scoppiata ad Alessandria a motivo del dio Api99 il cui ritrovamento dopo molti anni aveva creato agitazione tra quei popoli, dato che tutti si disputavano accanitamente il privilegio di offrire ad esso la sede. [2] Nel medesimo periodo presso Nemauso100 fece erigere in onore di Plotina una basilica di costruzione mirabile. [3] Dopo ciò si recò in Spagna e trascorse l’inverno a Tarragona101, dove restaurò a sue spese il tempio di Augusto. [4]

Chiamati ivi a raccolta tutti gli Spagnoli per la leva, di fronte all’atteggiamento di rifiuto assunto quasi per scherzo, per dirla con le parole di Mario Massimo, dagli Italici102, ma invece con estrema decisione da tutti gli altri, prese provvedimenti ispirati ad equilibrio e discrezione. [5] E proprio allora corse un gravissimo pericolo, che peraltro giovò alla sua fama, allorché, mentre passeggiava in un giardino nei pressi di Tarragona, un servo del suo ospite, armato di spada, si scagliò contro di lui con furia dissennata: Adriano lo ridusse all’impotenza e lo consegnò ai servi che accorrevano in suo aiuto e, quando si seppe che era un pazzo, lo diede ai medici perché lo curassero, senza mostrare in alcunché il minimo segno di emozione. [6] In quel periodo, e spesso altre volte in moltissimi luoghi, dove i confini con i popoli barbari sono fissati non da fiumi, ma da divisioni artificiali, fece erigere una barriera di separazione da essi costituita da grandi pali conficcati profondamente e legati insieme, a guisa di una cinta muraria. [7] Diede un re ai Germani, domò le ribellioni dei Mauri103, e ottenne dal senato la celebrazione di pubbliche azioni di grazie. [8] In quel medesimo periodo si ebbero le avvisaglie di una guerra coi Parti, che Adriano riuscì a scongiurare attraverso contatti personali con essi. [13, 1] Successivamente104, attraverso l’Asia Minore e l’arcipelago, navigò alla volta dell’Acaia105 e, sull’esempio di Ercole e Filippo106, si fece iniziare ai misteri Eleusini107, fu largo di donazioni nei confronti degli Ateniesi e sedette, ai giochi, in qualità di agonoteta108. [2] E dicono che in Acaia non passò inosservato il fatto che, nonostante la presenza ai sacrifici di molte persone munite di coltello, Adriano vi partecipava senza alcuna scorta armata. [3] Poi si recò per mare in Sicilia, e là salì sull’Etna per vedere il sorgere del sole che, a quanto si dice, vi appare in una varietà di colori, come un arcobaleno. [4] Di lì si recò a Roma109, donde passò in Africa110 e fu prodigo di benefici a favore delle province africane. [5] Né forse alcuno degli imperatori ebbe a viaggiare con tale rapidità per tanta parte del mondo. [6] Ritornato infine, dopo l’Africa, a Roma, immediatamente partì per l’Oriente passando per Atene, ove inaugurò le opere che aveva iniziato presso gli Ateniesi, come il tempio di Giove Olimpio e un altare dedicato a se stesso, e, analogamente, proseguendo il viaggio attraverso l’Asia, consacrò dei templi intitolati al suo nome111. [7] Poi prelevò di tra i Cappadoci degli schiavi per utilizzarli nel servizio agli accampamenti. [8] Invitò ad incontri amichevoli i governatori e i re, e tra essi anche Osdroe, il re dei Parti, a cui liberò la figlia, fatta prigioniera da Traiano,

promettendogli anche la restituzione del trono che parimenti era caduto in mano romana. [9] Ed avendo alcuni re accolto l’invito di recarsi da lui, egli fece loro un’accoglienza tale da far sì che quelli che non erano voluti andare ebbero a pentirsene, spinto a ciò dall’atteggiamento di Farasmane112, che con sprezzante superbia aveva ignorato il suo invito. [10] E nel corso di questo suo giro per le province, inflisse punizioni così severe a procuratori e presidi colpevoli di reati, che si era giunti a pensare che egli stesso istigasse gli accusatori. [14, 1] In questo frattempo prese ad odiare a tal punto gli Antiocheni da meditare di separare la Siria dalla Fenicia, perché Antiochia non avesse ad esser chiamata capitale di tante città. [2] In quel periodo vi fu anche una rivolta dei Giudei, a motivo del divieto loro fatto di praticare la circoncisione113. [3] Una volta, mentre stava sacrificando sul monte Casio114 dove era salito di notte per contemplare l’alba, scoppiò un temporale, nel corso del quale cadde un fulmine che gli andò a colpire la vittima e il sacerdote. [4] Attraversata l’Arabia giunse a Pelusio115 dove ricostruì più grandioso il monumento sepolcrale di Pompeo116. [5] Nel corso di una navigazione sul Nilo perdette il suo Antinoo117, e lo pianse con accenti muliebri. [6] E a proposito di questo diverse sono le voci: alcuni dicono che sacrificò la sua vita per Adriano118, altri fanno illazioni su quanto la sua bellezza fisica e la troppo spiccata tendenza di Adriano ai piaceri sensuali lasciano immaginare119. [7] Furono i Greci che, per volere dell’imperatore, lo divinizzarono, affermando che si ricevevano da lui dei responsi oracolari che, stando alle voci, era stato lo stesso Adriano a preparare120. [8] Aveva una grande passione per la poesia e la letteratura, [9] ed era espertissimo di aritmetica, geometria, pittura. Dava inoltre apertamente saggio della sua perizia nell’arte di suonare e cantare. Nei piaceri sensuali non conosceva misura: e molti componimenti in versi scrisse sulle persone oggetto dei suoi amori. [10] Aveva poi una grande perizia nel campo delle armi e una profonda competenza nell’ambito della strategia militare: e sapeva pure maneggiare le armi da gladiatore. [11] Era ad un tempo serio e gioviale, affabile e contegnoso, sfrenato e controllato, avaro e generoso, schietto e simulatore, crudele e mite, e sempre in ogni cosa mutevole. [15, 1] Gli amici li riempì di ricchezze anche se non gli chiedevano nulla: ché se poi gli manifestavano qualche richiesta, non negava loro alcuna cosa. [2] Nondimeno era sempre pronto a prestare orecchio a tutto ciò che si

sussurrava sul conto degli amici; e perciò quasi tutti quelli che avevano goduto di un più stretto rapporto di amicizia con lui, o quelli che egli aveva innalzato alle più alte dignità, finì poi per tenerli in conto di nemici, come Attiano, Nepote e Setticio Claro. [3] Così ridusse alla miseria Eudemone121, che in precedenza era stato a parte con lui negli affari del governo, [4] costrinse al suicidio Polieno122 e Marcello123, [5] perseguitò Eliodoro124 in componimenti pesantemente diffamatori, [6] lasciò che Tiziano125 fosse accusato e proscritto come partecipe di un complotto per la conquista del potere. [7] Perseguitò fieramente Ummidio Quadrato126, Catilio Severo e Turbone, [8] costrinse al suicidio suo cognato Serviano, che pure era già nel novantesimo anno d’età, affinché non avesse a sopravvivergli; [9] non mancò infine di volgersi contro liberti e vari soldati. [10] E per quanto egli fosse molto versato sia nell’eloquenza che nella poesia ed avesse eccezionale perizia in tutte le discipline, tuttavia sempre irrise, disprezzò, umiliò coloro che ne erano maestri, come chi si sente ad un livello di cultura superiore, [11] Con questi stessi maestri e filosofi ebbe spesso a gareggiare scambiando con essi libelli e componimenti in versi. [12] Una volta, avendo Adriano criticato una parola usata da Favorino127, questi non aveva replicato: rimproverato dagli amici di avere indebitamente dato ragione ad Adriano in merito ad una parola che era stata usata anche da scrittori autorevoli, suscitò grande ilarità con questa risposta: [13] «Voi non mi consigliate bene, amici miei, quando non vorreste che io considerassi come più dotto di tutti uno che possiede trenta legioni». [16, 1] Adriano aspirava a tal punto a raggiungere una vasta fama che consegnò ai suoi liberti provveduti di un’istruzione letteraria i libri in cui aveva scritto la sua autobiografia, dando loro disposizione perché li pubblicassero sotto i loro nomi; ché, a quanto si dice, anche i libri di Flegonte, sarebbero in realtà di Adriano. [2] Scrisse ad imitazione di Antimaco128 un’opera molto oscura intitolata Catacannae129. [3] Al poeta Floro130, che gli scriveva: «Io non voglio essere Cesare vagolare tra i Britanni 〈appiattarmi……….,〉 scitico gelo patire».

[4] rispose:

«Io non voglio essere Floro vagolare tra i tuguri appiattarmi nelle bettole

grasse zanzare patire».

[5] Amava inoltre lo stile arcaico131. Declamò controversie132. [6] Preferiva Catone a Cicerone, Ennio a Virgilio, Celio133 a Sallustio, e con la stessa iattanza trinciava giudizi su Omero e Platone. [7] Si considerava tanto esperto nell’astrologia che al più tardi al primo di gennaio aveva già scritto ciò che gli sarebbe accaduto nel corso di tutto l’anno: fu così che l’anno in cui morì aveva messo per iscritto tutto ciò che avrebbe fatto, sino all’ora della sua morte. [8] Per quanto egli fosse sempre pronto a criticare i musici, i tragici, i comici, i grammatici, i retori, gli oratori, tuttavia conferì onori e ricchezze a tutti i maestri di tali arti, pur non mancando di provocarli continuamente sollevando nuove questioni. [9] E, mentre proprio lui faceva sì che molti lasciassero la sua presenza mortificati, diceva che gli dispiaceva profondamente vedere triste qualcuno. [10] Fu in rapporto di grande amicizia con i filosofi Epitteto134 e Eliodoro e, tralasciando di fare il nome di ciascuno, con grammatici, retori, musici, geometri, pittori, astrologi: fra tutti gli altri, a quanto dicono in molti, aveva un posto particolare Favorino. [11] I maestri che apparivano non all’altezza del loro compito, li esonerava dall’esercizio della loro professione, non senza aver prima dispensato loro ricchezze ed onori. [17, 1] Quelli che, nel corso della sua vita da privato cittadino, aveva considerato suoi nemici, una volta imperatore si limitò ad ignorarli, così che ad uno che aveva tenuto in conto di nemico mortale, dopo che fu salito al trono disse: «L’hai scampata!». [2] Quando chiamava personalmente qualcuno alla vita militare, sempre lo provvedeva di cavalli, muli, vesti, sovvenzioni e ogni genere di equipaggiamento. [3] Spesso mandò agli amici – che non se lo sarebbero aspettato – i doni tradizionali dei Saturnalia135 e dei Sigillaria136, ed egli stesso gradiva riceverne da loro, per poi contraccambiare con altri doni. [4] Per sventare le frodi degli addetti alle provvigioni, quando dava banchetti che richiedevano un gran numero di tavolate comandava che gli fossero portate innanzi le vivande servite nelle altre mense, anche in quelle più lontane. [5] Superò con i suoi doni ogni altro sovrano. Si lavava spesso nei bagni pubblici, e insieme alla gente comune. [6] E a questo proposito si diffuse il seguente aneddoto di argomento «balneare»: un giorno vide un veterano, che aveva conosciuto durante una campagna, strofinarsi la schiena e il resto del corpo contro una parete; avendogli domandato il perché usasse per detergersi il marmo, quando udì che era costretto a ciò perché non disponeva di un servo, gli fece dono di schiavi e denaro. [7] Ma un’altra volta, siccome diversi vecchi avevano preso a stropicciarsi contro la parete con la speranza di

suscitare la generosità del sovrano, li fece chiamare e impose loro di strofinarsi a vicenda gli uni contro gli altri. [8] Ostentava uno sviscerato amore per il popolo. Era tanto appassionato per i viaggi che, di tutto ciò che aveva letto sulle varie regioni della terra, voleva anche avere una conoscenza diretta. [9] Aveva una tale resistenza al freddo e alle intemperie, che non portava mai un copricapo. [10] Concesse grandi favori a molti re, e dai più ottenne in cambio atti di pace, mentre da alcuni fu trattato con sprezzo; [11] a molti fece ricchi doni, ma a nessuno maggiori di quelli fatti al re degli Iberi, a cui, tra gli altri magnifici doni, regalò un elefante e una coorte di cinquanta uomini. [12] Avendo ricevuto a sua volta ricchi doni da Farasmane, e tra essi anche clamidi dorate, mandò nell’arena trecento criminali con indosso clamidi dorate, per mettere in ridicolo i doni di quello. [18, 1] Quando giudicava sulle cause, aveva nel suo consiglio non solo i suoi amici o i funzionari di corte137, ma anche dei giuristi, in particolare Giovenzio Celso138, Salvio Giuliano139, Nerazio Prisco e anche altri, purché avessero ricevuto l’approvazione unanime del senato. [2] Stabilì, tra le altre disposizioni, che in nessuna città si demolissero case con lo scopo di trasportare materiale alcuno in altre città. [3] Ai figli dei proscritti lasciò la dodicesima parte dei beni paterni. [4] Non permise le accuse di lesa maestà. [5] Rifiutò le eredità provenienti da persone sconosciute, e neppure accettò quelle di persone a lui note, se avevano figli. [6] A riguardo dei tesori, diede disposizioni per cui se uno effettuava il ritrovamento nel suo terreno, ne diventava egli stesso proprietario, se in terreno altrui ne doveva cedere metà al padrone, se in terreno pubblico, doveva dividerlo in parti eguali con il fisco. [7] Vietò che i servi fossero messi a morte dai padroni e ordinò che, ove lo meritassero, fossero condannati dai giudici. [8] Proibì di vendere schiavi o ancelle a lenoni o maestri di gladiatori senza produrne giustificato motivo. [9] Ordinò che coloro che avevano dissipato le proprie sostanze, se legalmente responsabili, venissero frustati nell’anfiteatro e poi lasciati andare. [10] Soppresse le case di pena a lavori forzati sia per gli schiavi che per i liberi. Nei bagni costituì due sezioni distinte per i due sessi. [11] Stabilì che, se un padrone veniva ucciso in casa sua, non fossero sottoposti ad interrogatorio tutti i servi, ma quelli che, per essersi trovati nelle vicinanze, potevano essersi accorti del fatto. [19, 1] Mentre era già imperatore, esercitò in Etruria la pretura140. In varie città del Lazio fu dittatore141, edile e duumviro142, a Napoli demarco143; nella sua città natale fu magistrato quinquennale144, e così parimenti ad Adria, sua

seconda patria; ad Atene fu arconte145. [2] In quasi tutte le città innalzò qualche edificio e indisse giochi pubblici. [3] Ad Atene allestì nello stadio una caccia con mille fiere. [4] Non allontanò mai dalla città di Roma alcun cacciatore o attore. [5] A Roma, in aggiunta a tutti gli altri divertimenti disposti con sfrenato dispendio in onore della suocera, distribuì pure al popolo donativi di spezie, e in onore di Traiano fece scorrere sulle gradinate del teatro balsami e croco. [6] Fece rappresentare in teatro opere di ogni genere secondo il costume antico, lasciando esibire in pubblico gli attori di corte. [7] Nel circo fece uccidere molte bestie feroci, tra cui più volte cento leoni. [8] Di frequente offrì al popolo esibizioni di danze guerresche. Assisteva spesso agli spettacoli gladiatori. [9] Sebbene avesse costruito ovunque innumerevoli opere, non vi fece mai iscrivere il proprio nome, ad eccezione che nel tempio dedicato al padre Traiano. [10] A Roma restaurò il Pantheon146, i recinti del voto147, la basilica di Nettuno148, moltissimi templi, il foro di Augusto149, le terme di Agrippa150, e tutte queste opere consacrò coi nomi originali degli antichi fondatori, [11] Costruì inoltre un ponte intitolato al proprio nome151, un sepolcro sulle rive del Tevere152, e il tempio della dea Bona153. [12] Valendosi dell’opera dell’architetto Decriano fece trasferire il Colosso154 dal luogo in cui vi è ora il tempio dell’Urbe155, tenendolo in posizione eretta e sollevato da terra, con uno sforzo tanto imponente da richiedere l’impiego di ventiquattro elefanti. [13] E dopo aver consacrato questa statua, che in precedenza aveva il volto di Nerone, cui era stata dedicata, al Sole, progettò di costruirne un’altra simile in onore della Luna sotto la direzione dell’architetto Apollodoro. [20, 1] Nelle conversazioni che aveva, anche con le persone più umili, era molto affabile, detestando coloro che, col pretesto di salvaguardare la dignità imperiale, avrebbero voluto privarlo della soddisfazione che gli veniva da questo atteggiamento umano. [2] Nel Museo156 ad Alessandria propose ai dotti molti quesiti, risolvendo a sua volta quelli che gli vennero proposti. [3] Mario Massimo dice che egli era di natura crudele, e che in molte cose si comportò umanamente solo per il timore che gli succedesse di fare la stessa fine di Domiziano157. [4] E, se non amava apporre iscrizioni sulle opere pubbliche, diede però il nome di Adrianopoli158 a molte città, come la stessa Cartagine, e ad una parte di Atene159. [5] Diede il suo nome anche ad un’infinità di acquedotti. [6] Per primo istituì la carica di avvocato del fisco160. [7] Aveva una memoria prodigiosa, e una formidabile disposizione all’eloquenza; di

persona, infatti, componeva i suoi discorsi e rispondeva su tutte le questioni. [8] Vengono ricordate numerosissime sue battute: infatti sapeva anche essere spiritoso. Tra le altre anche questa divenne famosa: avendo risposto negativamente ad una richiesta fattagli da un tizio coi capelli ormai bianchi, quando la medesima persona, che questa volta si era tinti i capelli, tornò a presentargli nuovamente la sua istanza, rispose: «Ho già detto di no a tuo padre». [9] Era in grado, senza far ricorso al nomenclatore161, di salutare con i loro nomi – che pure aveva uditi una sola volta e tutti insieme – un gran numero di persone, al punto da correggere i frequenti errori dei nomenclatori stessi. [10] Sapeva elencare anche i nomi dei veterani che in varie occasioni aveva congedato. Libri letti in un momento, e prima a lui sconosciuti, li ripeté a memoria a moltissime persone. [11] Era capace di scrivere, dettare, ascoltare e conversare con gli amici, tutto nel medesimo tempo. Ebbe una conoscenza così completa di tutti gli affari riguardanti la pubblica amministrazione che, al paragone, qualsiasi padre di famiglia, anche diligente, non conosce adeguatamente le cose di casa sua. [12] Amava a tal punto i cavalli e i cani, da erigere per essi dei sepolcri162. [13] Fondò una città col nome di Adrianotera163 in una località dove una volta aveva cacciato con successo uccidendo un’orsa. [21, 1] Sul conto di ogni causa giudiziaria conduceva lunghe inchieste, indagando sempre su tutti i particolari, fintantoché non scopriva la verità. [2] Quanto ai liberti164, non permise che avessero relazioni pubbliche né che godessero di alcuna influenza su di lui, imputando espressamente a tutti i suoi predecessori gli abusi dei liberti stessi, e non mancando di punire chiunque tra i suoi avesse vantato i propri rapporti con lui. [3] In proposito si ricorda ancora il seguente episodio, indicativo della sua maniera severa, ma insieme quasi scherzosa, di trattare con i servi: una volta, avendo visto un suo servo che, senza dare nell’occhio, passeggiava in mezzo a due senatori, mandò uno a dargli un ceffone e a dirgli: «Non camminare in mezzo a gente di cui potresti ancora diventare servo». [4] Tra i cibi ebbe una particolarissima predilezione per il tetrafarmaco165, composto di fagiano, maiale, prosciutto e pasticceria. [5] Vi furono, durante il suo regno, carestie, pestilenze, terremoti, ed egli si prodigò, per quanto poté, per lenire tutte queste calamità, e recò soccorsi a molte popolazioni colpite da esse. [6] Ci fu anche un’inondazione del Tevere. [7] A molte città concesse i privilegi delle città laziali166, a molte altre condonò i tributi. [8] Sotto di lui non vi fu alcuna campagna militare di particolare rilievo167, e anche le guerre passarono quasi inosservate. [9] Dai soldati fu molto

benvoluto, sia a motivo della cura fin troppo scrupolosa dedicata all’esercito, sia per la grande liberalità che mostrava nei loro confronti. [10] Ebbe sempre a godere dell’amicizia dei Parti, grazie al fatto che aveva spodestato il re imposto ad essi da Traiano, [11] Permise agli Armeni di avere un proprio re, mentre sotto Traiano avevano avuto un legato. [12] Condonò ai Mesopotamici il tributo imposto loro da Traiano. [13] Si acquistò una grandissima amicizia da parte degli Albani168 e degli Iberi ricolmando di benefici i loro re, sebbene avessero disdegnato di andare a rendergli omaggio. [14] I re dei Battriani169 gli mandarono ambasciatori a pregarlo di concedere loro la sua amicizia. [22, 1] Molto spesso si occupò dell’assegnazione dei tutori. Mantenne la disciplina civile con la stessa severità con cui aveva curato quella militare. [2] Ordinò che i senatori e i cavalieri romani si presentassero sempre in pubblico indossando la toga170, a meno che non fossero di ritorno da un pranzo. [3] Egli stesso, quando si trovava in Italia, si mostrava sempre in pubblico con la toga. [4] Quando i senatori venivano a pranzo da lui, li riceveva in piedi, e sempre stava a tavola indossando il pallio171 o con la toga calata. [5] Con la scrupolosità di un giudice vagliò le spese per i banchetti, e le riportò entro i limiti di un tempo. [6] Proibì l’ingresso in città ai veicoli con carichi pesanti. Non permise che i cavalli stazionassero entro le mura urbane. [7] Vietò a chiunque l’accesso ai bagni pubblici prima dell’ora ottava172, eccezion fatta per i malati. [8] Fu il primo a tenere quali segretari e ufficiali addetti alle petizioni persone appartenenti al ceto equestre173. [9] A coloro che vedeva privi di mezzi senza loro colpa, portava di sua iniziativa consistenti aiuti economici, mentre giungeva ad odiare coloro che si erano arricchiti con la frode. [10] Coltivò con grande scrupolosità i riti religiosi romani, mentre tenne in spregio quelli stranieri. Rivestì l’ufficio di pontefice massimo174. [11] Più volte giudicò delle cause a Roma e nelle province, introducendo nel suo consiglio i consoli, i pretori e i più in vista tra i senatori. [12] Fece aprire un canale di scolo per le acque del lago Fucino. [13] Stabilì quattro ex-consoli con la funzione di giudici per tutta l’Italia. [14] Quando andò in Africa, al suo arrivo venne a piovere dopo cinque anni di siccità, e ciò gli procurò l’amore di quei popoli. [23, 1] Con questo suo andare in giro per tutte le parti del globo sempre a capo scoperto e spesso esposto alle piogge e ai freddi più pesanti, contrasse una grave malattia che lo costrinse a letto. [2] Preoccupandosi dunque del successore, pensò in un primo tempo a Serviano, che però in seguito, come

dicemmo, costrinse a darsi la morte. [3] Per Fusco175 – giacché, stimolato da presagi e visioni, nutriva speranze di successione – ebbe la più profonda antipatia. [4] Arrivò ad odiare (vi fu condotto a forza di sospetti) Platorio Nepote, cui pure in passato era stato tanto affezionato da non punirlo quando quello, malato, non aveva voluto ricevere l’imperatore che era andato a fargli visita, [5] così pure anche Terenzio Genziano176, e costui con maggior acredine in quanto lo vedeva allora appoggiato dal senato, [6] e tutti quelli, insomma, a cui aveva in precedenza pensato quali successori, e che ora gli apparivano potenziali concorrenti nell’impero. [7] Riuscì peraltro a frenare gli impulsi violenti del suo temperamento crudele fino al giorno in cui nella sua villa Tiburtina una emorragia lo ridusse quasi in fin di vita. [8] Allora, senza più ritegno, costrinse Serviano a darsi la morte come reo di aspirare all’impero, per il solo fatto che aveva mandato un pranzo ai servi del re, si era seduto sul seggio dell’imperatore, posto vicino al letto, e si sarebbe recato, lui vecchio ormai novantenne, ai quartieri dei soldati, in atteggiamento di ostentata fierezza; e molti altri fece uccidere, apertamente o in segreto. [9] La stessa morte in quel tempo della moglie Sabina non mancò di suscitare voci circa un avvelenamento di lei per opera di Adriano. [10] Fu allora177 che decise di adottare Ceionio Commodo, genero di quel Nigrino che un tempo aveva cospirato contro di lui, uomo a lui accetto per via della sua bellezza fisica. [11] Adottò dunque, pur contro il parere di tutti, Ceionio Commodo Vero178, e lo chiamò Elio Vero Cesare. [12] Per festeggiare la sua adozione indisse giochi nel circo e distribuì donativi al popolo e ai soldati. [13] Gli conferì la pretura e subito gli affidò il governo della Pannonia con il titolo di console e l’autorizzazione alle relative spese; poi lo designò console anche per l’anno successivo. [14] Ma vedendolo di salute malferma, ebbe a ripetere più volte: «Ci siamo appoggiati ad un muro pericolante e abbiamo sprecato i trecento milioni di sesterzi donati al popolo e ai soldati per l’adozione di Commodo». [15] Del resto Commodo, a motivo della sua cattiva salute, non poté neppure ringraziare in senato Adriano per la sua adozione. [16] Infine, peggiorata vieppiù la sua salute per aver ingerito una dose eccessiva di antidoto, morì nel sonno proprio il primo di gennaio179. Perciò Adriano, ricorrendo in quei giorni la solennità dei Voti augurali180, proibì il lutto. [24, 1] Morto dunque Elio Vero Cesare, Adriano, sotto l’incalzare delle sue critiche condizioni di salute, adottò Arrio Antonino181 – che in seguito fu

chiamato Pio – e precisamente con questa clausola, che egli a sua volta adottasse altri due, cioè Annio Vero e Marco Antonino182. [2] Sono questi che più tardi, insigniti entrambi del titolo di Augusti, per primi esercitarono insieme il governo dello Stato. [3] Ad Antonino, poi, il nome di «Pio» fu dato, a quanto si dice, per aver egli assistito personalmente il suocero reso malconcio dagli anni; [4] per quanto altri affermino che tale soprannome gli venne attribuito perché riuscì a sottrarre molti senatori all’imperversare della crudeltà di Adriano, [5] e altri ancora per aver tributato grandi onori ad Adriano dopo la sua morte. [6] L’avvenuta adozione di Antonino spiacque a molti, specialmente al prefetto dell’urbe Catilio Severo, che si dava da fare per aprirsi la strada al potere. [7] Ma venutasi a sapere la cosa, fu destituito dall’ufficio e sostituito. [8] Intanto Adriano, in preda ormai alla più totale nausea di vivere, ordinò a un servo di trafiggerlo. [9] Ma la cosa trapelò, giungendo sino alle orecchie di Antonino, sicché i prefetti e il figlio si recarono al suo capezzale e lo esortarono a sopportare con animo forte le conseguenze inevitabili della malattia: a questo punto egli, adiratosi con loro, ordinò che fosse ucciso chi aveva rivelato il suo proposito; ma questi si salvò per l’intervento di Antonino. [10] Subito dopo stese il proprio testamento, senza però trascurare gli affari dello Stato, mentre Antonino andava ripetendo che si sarebbe sentito un parricida se, proprio lui che ne era stato adottato, avesse lasciato che Adriano si facesse uccidere, [11] Dopo dunque aver fatto testamento, tentò nuovamente di uccidersi; si riuscì a sottrargli il pugnale, ma ciò lo rese ancor più furioso. [12] Chiese anche un veleno al suo medico, il quale, pur di evitare di darglielo, si uccise. [25, 1] Fu appunto allora che si presentò una donna la quale sosteneva che le era stato ingiunto in sogno di dire ad Adriano di non uccidersi, perché sarebbe poi perfettamente guarito, e che per non averlo fatto era diventata cieca; peraltro in un secondo sogno le era stato nuovamente intimato di dire ad Adriano le medesime cose e di baciargli le ginocchia con la promessa che, se lo avesse fatto, avrebbe riacquistato la vista. [2] E in effetti, quando ebbe compiuto ciò, in accordo a quanto le era stato prescritto nel sogno, non appena si fu lavata gli occhi con l’acqua del tempio da cui era venuta, riebbe la vista. [3] Venne inoltre dalla Pannonia un vecchio cieco al capezzale di Adriano febbricitante e lo toccò: [4] immediatamente egli riacquistò la vista e la febbre lasciò Adriano. Peraltro, stando a quanto dice Mario Massimo, si sarebbe trattato in entrambi i casi di simulazione.

[5] Dopo questi fatti Adriano si ritirò a Baia, lasciando in Roma come reggente Antonino. [6] Poiché anche là la sua salute non migliorava per nulla, fece chiamare Antonino e, mentre questi era al suo capezzale, morì nella stessa Baia il 10 di luglio183. [7] Tra l’odio generale, fu sepolto a Pozzuoli, nella villa che era stata di Cicerone. [8] Fu proprio in questo periodo che precedette la morte che, come già dicemmo, costrinse al suicidio Serviano, già novantenne, perché non avesse a sopravvivergli e, come pensava, a succedergli al trono, e ordinò la morte di molte persone anche per colpe di lieve entità: costoro tuttavia furono salvati da Antonino. [9] Si dice che, proprio sul punto di morire, abbia composto questi versi: anima mia mutevole, dilettevole, ospite e compagna del corpo, dove ora andrai? In luoghi foschi, freddi, nudi né più i soliti scherzi farai.184

[10] Anche in greco compose versi di questo genere, né di molto migliori. [11] Visse sessantadue anni, cinque mesi e diciassette giorni. Regnò per ventuno anni e undici mesi. [26, 1] Era alto di statura, di aspetto distinto, con i capelli sempre ben pettinati e la barba fluente per coprire cicatrici che aveva sul viso fin dalla nascita, e di costituzione robusta. [2] Si dedicò con grande impegno all’equitazione e alla marcia, e si mantenne in costante esercizio nell’uso delle armi e nel lancio del giavellotto. [3] Praticò anche la caccia, e più volte uccise di sua mano dei leoni; proprio a caccia, peraltro, ebbe a rompersi la clavicola ed una costola. Divise sempre le sue prede con gli amici. [4] Durante i suoi banchetti presentava sempre, a seconda delle circostanze, tragedie, commedie, Atellane185, concerti di sambuche186, letture, recite di versi. [5] Costruì una villa a Tivoli con eccezionale sfarzo187, facendo iscrivere, nelle varie parti di essa, i nomi dei luoghi e delle province dell’impero che avevano maggior rinomanza, come «Liceo», «Accademia», «Pritaneo», «Canopo», «Pecile» e «Tempe»188; e, per non tralasciare proprio nulla, vi fece anche porre una raffigurazione degli inferi. [6] Questi furono i presagi della sua morte189: durante la celebrazione del suo ultimo genetliaco, mentre formulava voti per Antonino, la pretesta190 gli scivolò giù da sé lasciandogli il capo scoperto; [7] l’anello su cui era riprodotta la sua effigie gli si sfilò da solo dal dito191. [8] Il giorno prima del genetliaco, uno sconosciuto era entrato in senato mandando strane urla, e Adriano si infuriò contro di lui come se avesse capito che parlava della sua morte, mentre

nessuno era in grado di comprenderne le parole. [9] Un’altra volta poi, volendo dire in senato «dopo la morte di mio figlio», disse invece: «dopo la mia». [10] Sognò inoltre di aver avuto da suo padre una pozione soporifera; sempre in sogno gli parve di essere stato ucciso da un leone. [27, 1] Dopo che fu morto, furono in molti a lanciare accuse di ogni genere contro di lui. Il senato voleva annullare i suoi atti; [2] e non gli sarebbe stato concesso neppure l’appellativo di «divus», se non fosse intervenuto a richiederlo espressamente Antonino. [3] Alla fine gli fece erigere un tempio presso Pozzuoli in luogo della tomba, e istituì in suo onore gare quinquennali, un ordine di flamini192, un sodalizio religioso193, e molte altre onoranze convenienti al culto proprio di un dio. [4] Appunto per tutto questo, come già si è detto, molti ritengono che Antonino abbia meritato l’appellativo di «Pio».

1. Sull’origine di Adriano e sui personaggi citati nel corso della Vita cfr. H. G. PFLAUM, La valeur de la source inspiratrice de la vita Hadriani et de la vita Marci Antonini à la lumière des personnalités contemporaines nommément citées, in BHAC, 1968-69, pp. 173 segg. Più in generale, sul valore storico della biografia, cfr. A. GADEN, Structure et portée historique de la Vie d’Hadrien dans l’HA, «Ktema», I, 1976, pp. 129 segg. 2. La regione corrispondente alle odierne Marche. 3. Di questa perduta autobiografia (Libri vitae suae) si fa ancora cenno in questa Vita a 7, 2 e 16, 1; dalle poche citazioni fatte dall’autore (forse si fa riferimento ad essa anche a 3, 3 e 5), pare dovesse avere tono apologetico, essendo volta a scagionare Adriano dalle accuse che ricorrevano nei suoi confronti. 4. Non l’odierna Adria, ma Atri, presso Teramo. 5. Cittadina della Spagna Betica, sul fiume Baetis (l’odierno Guadalquivir), nei pressi di Siviglia. 6. L. Giulio Urso Serviano, più volte ricordato nella Vita. Console a più riprese sotto Traiano e Adriano, fu costretto da quest’ultimo ad uccidersi nel 136 d. C. (cfr. 23, 2 e 8; 25, 8). 7. Ciò è in contraddizione con quanto detto a 2, 1-2 e 19, 1, ove risulta che la patria di Adriano era Italica (cfr. anche EUTROPIO, VIII, 6, 1 e GEROLAMO, Chron., p. 197 b Helm). Sulla giovinezza di Adriano e i rapporti con la sua patria v. R. SYME, Hadrian and Italica, «Journ. Rom. St.», LIV, 1964, pp. 142 segg. 8. Il 76 d. C. 9. Traiano fu pretore attorno all’85; fino al 91, anno in cui diventò console, egli rivestiva dunque il rango pretorio (era cioè vir praetorius). 10. Dalle iscrizioni appare che il suo vero nome era Acilius Attianus; originario anch’egli della Spagna, era stato nel 117 prefetto del pretorio sotto Traiano. 11. Cioè in Spagna. 12. I decemviri litibus (termine arcaico: stlitibus) iudicandis presiedevano in età repubblicana ai processi di libertà e cittadinanza; si trattava di una magistratura minore, rivestita in genere dopo il tribunato militare, che costituiva una specie di passaggio obbligato per poter aspirare alla questura. Augusto affidò loro la presidenza del tribunale dei centumviri, che si occupava di questioni di eredità, tutele e altre questioni di ambito civile (cfr. SVETONIO, Aug., 36). 13. Così chiamata perché costituita all’inizio del 70 d. C. da Vespasiano con un corpo ausiliario di marinai; di stanza dapprima in Britannia, a partire dall’87 d. C. rimase dislocata probabilmente nella Pannonia inferiore (regione corrispondente a parte dell’odierna Ungheria e Jugoslavia). 14. Adriano fu tribuno militare della V legione Macedonica, stanziata nella Mesia inferiore (regione compresa fra il basso corso del Danubio e la Tracia, corrispondente a parte dell’odierna Bulgaria), nel 96 d. C., che fu appunto l’ultimo anno dell’impero di Domiziano, iniziato nell’81. 15. M. Cocceio Nerva, imperatore dal 96 al 98 d. C. 16. Probabilmente l’episodio è inventato: cfr. su questo punto e sui rapporti fra Adriano e Serviano W. C. MC DERMOTT, SHA, Vita Hadriani, 2, 1-6, «Mnemos.», XXII, 1969, pp. 186 segg. 17. Beneficiarius (normalmente è attestata solo la forma plurale) era il soldato o sottufficiale che, distaccato dal suo comandante per qualche compito particolare (ad es. come sua guardia del corpo), «beneficiava» dell’esenzione dai servizi militari più gravosi (come la costruzione delle trincee, l’approvvigionamento di viveri ecc.). 18. Cfr. Nota critica, ad loc. 19. Le sortes Vergilianae costituivano una forma di predizione oracolare del futuro basata sull’opera di Virgilio (allo stesso modo, in precedenza, erano state impiegate quelle di Omero ed Esiodo e, successivamente, lo stesso avvenne con la Bibbia da parte dei Cristiani): venivano estratti a sorte passi di Virgilio trascritti su fogli, che gli addetti a questo particolare «rito» interpretavano in relazione alla situazione dell’interpellante. Nella HA esse compaiono ancora a Cl. Alb., 5, 4; Al. Sev., 4, 6 e 14, 5; Claud.,

10, 4 seg. Per deduzioni in merito a una datazione tarda dell’opera cfr. Y. DE KISCH, Les sortes Vergilianae dans l’HA, «Mél. Éc. Fr. Rome», LXXXII, 1970, pp. 321 segg. 20. VIRGILIO, Aen., VI, 808-812: i versi si riferiscono a Numa Pompilio. A parere di R. ZOEPFFEL, Hadrian und Numa, «Chiron», VIII, 1978, pp. 391 segg., la presenza dell’oracolo di Numa in questa parte della vita, basata sull’Autobiografia di Adriano, rispecchia lo sforzo di Adriano stesso di incarnare nella propria persona l’esempio del mitico re. 21. Si allude qui alle sentenze in versi contenute nei libri Sibillini, testi antichissimi che registravano le profezie attribuite alla Sibilla: queste erano formulate in tono oscuro e generico, così da poter essere adattate ad ogni singola situazione. 22. Si trattava forse di una località nei pressi di Pergamo. 23. Non altrimenti conosciuto. 24. L. Licinio Sura, famoso generale di Adriano. 25. Cioè figlia della sorella di lui. 26. La moglie di Traiano. 27. Su Mario Massimo cfr. Introduzione, p. 22 e passim. 28. Nel 101 d. C. 29. Il curator actorum senatus aveva il compito di sovraintendere alla redazione dei verbali delle riunioni del senato. 30. Si tratta della prima guerra dacica, condotta da Traiano nel 101-102 d. C. La Dacia era una regione danubiana, comprendente parte delle odierne Ungheria e Romania. 31. Nel 105 d. C. 32. La potestà tribunizia a vita era una prerogativa dell’imperatore (e veniva conferita anche al successore designato). 33. La paenula era una sorta di mantello rotondo e senza maniche, spesso dotato di un cappuccio, fatto di lana spessa o cuoio. Si portava sopra la tunica o la toga, soprattutto per ripararsi dal freddo o dal mal tempo, e durante i viaggi. V. in partic. F. KOLB, Die paenula in der HA, in BHAC, 1971, Bonn, 1974, pp. 81 segg. 34. Fra il 105 e il 106 d. C. 35. Costituita da Domiziano nell’83 d. C., aveva stanza nell’odierna Bonn. 36. L’indicazione dei consoli è inesatta: nell’anno della pretura di Adriano, che dovrebbe essere il 107 d. C. (cfr. CIL, III, 550), consoli erano Sura (per la terza volta) e Q. Sosio Senecione. 37. La Pannonia (cfr. n. 2 a p. 136) era una delle province «imperiali», quelle cioè che in teoria erano alle dirette dipendenze dell’imperatore, anche se in realtà venivano governate da un legatus Augusti pro praetore designato personalmente dall’imperatore stesso (qui Adriano è detto leg. praetorius in relazione alla sua condizione di vir praetorius: cfr. n. 9 a p. 135). Le provincie «senatorie», cioè affidate al controllo del senato, erano governate da un proconsul. 38. Nel 108 d. C. 39. Nel 114 d. C. 40. Un personaggio di questo nome non ci è altrimenti conosciuto. Il PFLAUM, La valeur, cit., p. 148 ritiene che il testo sia corrotto, ipotizzando che originariamente si facesse riferimento a Q. Sosio Senecione, un personaggio di spicco sotto Traiano, e a un altro personaggio di quel tempo, lo spagnolo Emilio Papo. 41. A. Platorio Nepote, importante funzionario sotto Traiano e responsabile per la costruzione del vallo di Adriano in Britannia. 42. Tib. Claudio Liviano: prefetto del pretorio sotto Traiano, partecipò alla prima guerra dacica. 43. Q. Marcio Turbone, nativo della Dalmazia, la cui brillante carriera è descritta ai cc. 5-7. Su di lui e sulla sua carriera cfr. R. SYME, The wrong Marcius Turbo, «Journ. Rom. St.», LII, 1962, pp. 87 segg. 44. A. Cornelio Palma e L. Publilio Celso: come i personaggi sopracitati, avevano anch’essi rivestito

importanti uffici sotto Traiano. 45. Qui come in altri casi l’autore non disdegna affatto di riprendere e riportare con evidenza voci sfavorevoli ad Adriano. Sembra nel complesso trasparire nel corso della biografia, pur nell’ambito di una presentazione generale necessariamente positiva, una certa malcelata ostilità di fondo, espressione dell’acrimonia che l’ambiente senatoriale (sulla tendenza politica della HA cfr. Introduzione) doveva nutrire nei confronti di un sovrano la cui politica accentratrice e personalistica si era rivelata decisamente contraria agli interessi del senato. 46. Del 117 d. C. 47. Famoso giurista e già membro del consilium principis di Traiano, fu tra i consiglieri di Adriano in materia giuridica: cfr. 18, 1. 48. Traiano, con le sue conquiste (Dacia, Armenia, Mesopotamia, Assiria), aveva interrotto la politica – instaurata da Augusto e seguita anche dai successivi imperatori – di mantenere l’impero nei suoi confini naturali (Reno, Danubio, Eufrate), badando soprattutto a difendere e rafforzare questi ultimi. 49. La Mauritania occupava l’attuale Marocco e parte dell’Algeria. 50. La Sarmazia corrispondeva all’incirca all’odierna Polonia e a parte della Russia europea. 51. Allusione alla rivolta giudaica del 115-117 d. C. che coinvolse Egitto, Libia e Palestina. 52. Dopo la vittoria di Pidna (167 a. C.) la Macedonia era stata divisa dai Romani in quattro distretti indipendenti. 53. Un errore dell’autore: il personaggio cui qui si allude si chiamava in realtà Parthamaspates, figlio del re partico Osroe. 54. Il praefectus urbi(s) era un’antica carica repubblicana, scomparsa con l’istituzione della pretura e ripristinata nel periodo imperiale: rivestiva essenzialmente funzioni di polizia (alla carica era connesso il comando di tre o quattro coorti urbane in ordine, appunto, alla custodia urbis), ma era dotata pure di giurisdizione penale per le materie rientranti nell’ambito delle sue competenze. Cfr., in generale, A. CHASTAGNOL, La préfecture urbaine à Rome sous le bas-Empire, Paris, 1960; si veda anche, con riferimento specifico alla HA, K. P. JOHNE, Zur Bedeutung der Stadtpräfektur in der HA, in Actes XIIe Conf. Eirene, Bucarest, Amsterdam, 1975, pp. 403 segg., a parere del quale l’autore doveva essere legato al prefetto dell’Urbe o comunque alle famiglie tra le quali questi veniva scelto, che lo avrebbero spinto alla composizione della raccolta. 55. È ricordato da PLINIO IL GIOVANE (cfr. Epist., III, 5; IV, 9, 16 segg. e 12, 4), di cui era amico e corrispondente. 56. Console per la seconda volta nel 103 d. C., aveva partecipato alla prima guerra dacica. 57. C. Calpurnio Crasso Frugi: sappiamo da CASSIO DIONE (LXVIII, 3 e 16) che aveva in precedenza cospirato contro Nerva e Traiano. 58. Mauro di nascita e comandante, sotto Traiano, di un contingente di cavalieri mauri sia nel corso della guerra dacica che di quella partica. 59. La suocera di Adriano. 60. È ricordato anche nella Vita di Marco Aurelio (1, 4), come bisnonno di tale imperatore. Sappiamo che era amico e corrispondente di PLINIO IL GIOVANE (cfr. Epist., I, 22; III, 12). 61. L’Illirico era all’incirca corrispondente alla Dalmazia e all’Albania odierna. 62. Augusto ricevette tale titolo nel 2 a. C., cioè venticinque anni dopo aver assunto il potere. Adriano lo accetterà solo nel 128 d. C. 63. L’aurum coronarium era il contributo in oro che le province offrivano per la corona d’oro che veniva portata durante il trionfo dal generale vittorioso. Già in epoca repubblicana esso aveva finito per assumere sempre più l’aspetto di una vera e propria imposta, che veniva riscossa in occasione di qualche celebrazione festosa. 64. I Rossolani erano una popolazione stanziata presso la foce del Danubio. 65. Le infulae erano originariamente bende o ghirlande con cui venivano adornati oggetti di culto, o

di cui si cingevano il capo i sacerdoti a mo’ di diadema o di turbante, quale distintivo della loro dignità. Nel tardo impero venivano portate anche da magistrati e dallo stesso principe ma, riferita al tempo di Adriano, la notazione concernente l’assunzione delle infulae praefecturae appare anacronistica. 66. Suocero di L. Ceionio Commodo (cfr. 23, 10), è forse identificabile con il C. Avidio Nigrino di cui fa menzione PLINIO IL GIOVANE in Epist., X, 65 e 66. 67. Città sulla costa campana (tra Cuma e Pozzuoli), era una rinomata stazione termale. 68. La prefettura d’Egitto costituiva l’unico caso di governo di una provincia imperiale affidato a un personaggio di rango equestre anziché senatoriale: essa poteva costituire un precedente anche per questo comando straordinario affidato a Turbone – che era appunto un cavaliere – sulle due provincie imperiali della Pannonia e della Dacia. 69. Il congiarium costituiva originariamente la misura (corrispondente a poco più di tre litri) di olio, vino, grano, sale che venivano elargiti quale donativo alla popolazione o ai soldati. Successivamente il termine passò ad indicare l’equivalente in denaro del donativo in natura, che fu appunto sostituito da una somma distribuita a ciascuno dei destinatari dell’elargizione. 70. L’aureus era la moneta d’oro equivalente a cento sesterzi o venticinque denarii. 71. Sebbene all’imperatore competesse la giurisdizione capitale anche su personaggi di rango senatorio, la condanna a morte di un senatore appariva comunque in contrasto con l’ideale del buon principe; cfr. in proposito Av. Cass., 8, 7; Sev., 7, 5; Al. Sev., 52, 2; M. Ant., 10, 6; 25, 6; 26, 13; 29, 4. 72. Il servizio postale (detto anche cursus vehicularius a Ant. Pius, 12, 3 e munus vehicularium a Sev., 14, 2) era stato istituito da Augusto a carico delle province; di un passaggio di esso a spese dell’erario al tempo di Adriano (e così pure di Pio e Severo) non abbiamo altre attestazioni. 73. Era situato nell’angolo sud-occidentale del Colle Esquilino. 74. La denominazione di fiscus privatus, che non compare in altri testi, appare qui indicare il patrimonio privato dell’imperatore, in contrapposizione al pubblico erario. 75. Alimenta erano chiamati i contributi in denaro concessi in favore dei bambini poveri di nascita libera residenti in Italia; istituiti da Nerva, erano a carico del patrimonio imperiale, e venivano distribuiti in base ad una suddivisione del territorio in distretti che prendevano il nome dalla strada che li attraversava. Due tabulae alimentariae relative alla fondazione di queste istituzioni da parte di Nerva e Traiano furono ritrovate a Velleia (1747) e a Campolattaro (1823). Cfr. anche M. Ant., 11, 2; Pert., 2, 2; Did. Iul., 2, 1. 76. Già dai tempi di Augusto la somma considerata necessaria in relazione alle esigenze proprie della posizione di senatore era di un milione di sesterzi. 77. Con la denominazione di amici principis o amici Augusti venivano indicati i personaggi ufficialmente autorizzati ad essere ammessi per primi alle udienze dell’imperatore e a frequentarlo: appartenevano all’ordine senatorio ed equestre e, a seconda appunto del diverso rango, si distinguevano rispettivamente amici di prima o seconda «classe»; grazie a questa loro posizione essi potevano naturalmente esercitare un ruolo notevole nella politica e nell’amministrazione imperiale. 78. L’espressione contubernium imperatoriae maiestatis designa qui il consilium principis, su cui cfr. n. 3 a p. 150. 79. Il praefectus praetorii (o: praetorio), creato sotto Augusto, costituiva la più alta fra le cariche equestri: chi la esercitava era una specie di capo di stato maggiore, preposto al quartier generale delle cohortes praetoriae (in pratica le guardie del corpo dell’imperatore) di cui aveva appunto il comando. I prefetti del pretorio erano in genere due, e vennero assumendo sempre maggiore influenza non solo in campo militare, ma anche giuridico e civile, tanto che alcuni di essi ebbero a rivestire un ruolo di primo piano nella vita dell’impero. 80. La concessione della dignità senatoriale assieme a quella, ad essa collegata, delle insegne consolari, non costituiva, per la verità, un caso assolutamente eccezionale: cfr. Ant. Pius, 10, 6. Cfr. su

tutto l’argomento A. CHASTAGNOL, L’HA et le rang des préfets du prétoire, in Recherches sur l’HA, Bonn, 1970, pp. 39 segg. 81. Una cerchia di «consiglieri» dell’imperatore, scelti nell’ambito degli amici Augusti (cfr. n. 6 a p. 148), era sempre esistita, ma è proprio nel corso del II secolo – al più tardi con Marco Aurelio – che essi vennero ad assumere una posizione ufficiale e permanente, come è attestato da iscrizioni che parlano di consiliarii Augusti stipendiati. Di questo consilium principis ebbero a far parte anche importanti giuristi. Cfr. J. CROOK, Consilium principis, Cambridge, 1955; A. REINTJES, Untersuchungen zu den Beamten bei den ShA, Düsseldorf, 1961, pp. 19 segg. 82. Si intende nelle dichiarazioni di voto in senato. 83. Le conquiste al di là dell’Eufrate (Siria, Mesopotamia, Armenia) e parte della Mesia inferiore. 84. C. Sulpicio Simile fu prefetto dell’annona, nonché prefetto d’Egitto e, infine, prefetto del pretorio. 85. C. Setticio Claro, amico di Plinio il giovane e di Svetonio (che gli dedicarono rispettivamente l’Epistolario e il De vita Caesarum), rivestì sotto Adriano la prefettura del pretorio che, come vedremo (v. 11, 3), ebbe a perdere allorché cadde in disgrazia assieme a Svetonio stesso. 86. Nel 119 d. C. 87. Nel 121 d. C. 88. Posca era detta una mistura di acqua e aceto, citata anche, ad es., in PLAUTO, Mil., 836. 89. Scipione Africano il giovane, il conquistatore di Cartagine. 90. Q. Cecilio Metello Numidico, generale nella guerra contro Giugurta, re della Numidia (109-107 a. C.). 91. Il miglio romano corrispondeva circa a 1480 metri. 92. Il termine latino vitis (lett. = «tralcio di vite») poteva assumere, impiegato con valore metonimico, il senso di «bastone di comando» (fatto appunto con un tralcio tagliato) dei centurioni, e quindi indicare direttamente tale grado. 93. Si tratta del famoso vallum Hadriani, che, partendo dal golfo di Solway, giungeva dopo 118 km alla foce del Tyne, pressappoco lungo la linea su cui corre oggi il confine tra Inghilterra e Scozia; il muro era alto tre metri e mezzo, ed era accompagnato da un fossato scavato dietro di esso, con terrapieni che correvano lungo i margini. È questa la sola testimonianza letteraria antica della costruzione del vallo ad opera di Adriano. Su tutto l’argomento cfr. E. BIRLEY, Research on Hadrian’s Wall, Kendal, 1961. 94. Su Svetonio, storico del tempo di Adriano e per tanti aspetti modello della HA, cfr. quanto detto nell’Introduzione, pp. 13 segg. 95. L’impiego della denominazione magister epistularum è anacronistico, in quanto questo titolo non appare prima del tempo di Diocleziano; l’incarico in questione si chiamava, al tempo di Svetonio, ab epistulis (così è indicato, del resto, nella stessa HA, in Hadr., 22, 8; Al. Sev., 31, 1; Car., 18, 5). Il funzionario che lo ricopriva era una specie di segretario che doveva redigere la corrispondenza imperiale: si trattava di un ufficio fondamentale nell’ambito della cancelleria di corte, in quanto veniva a passare per le mani di questo personaggio tutta l’amministrazione dello Stato. Che Svetonio ebbe realmente a ricoprire questa e altre procuratele imperiali proprie del cursus bonorum equestre è stato di recente confermato da un’iscrizione ritrovata nel 1952 a Bona in Algeria (l’antica Ippona), dove è appunto riportata la carriera dello storico. 96. B. BALDWIN, Was Suetonius disgraced?, «Ech. Mond. CI.», XIX, 1975, pp. 22 segg., nega che la sostituzione di Svetonio sia stata dovuta ad un guastarsi dei suoi rapporti coll’imperatore; l’espressione iniussu eius andrebbe riferita alla stessa Sabina. 97. In origine i frumentarii erano soldati incaricati di acquistare le provvigioni di viveri per i loro reparti. Fu forse ad iniziare da Traiano che cominciarono a venir impiegati come corrieri per recapitare dispacci militari, finché con Adriano furono adibiti a mansioni sempre più specifiche al servizio dell’imperatore, che se ne serviva anche come spie e per scopi simili. Sotto Commodo e altri imperatori

essi diventarono una vera e propria polizia militare segreta del principe, acquistando sempre maggior influenza e potere. Cfr. Hadr., 11, 6; Comm., 4, 5; Op. Macr., 12, 4; Max. Balb., 10, 3; Claud., 17, I. 98. Su questi particolari negativi cfr. n. 10 a p. 141. 99. Il bue sacro venerato a Menfi dagli Egiziani, che, secondo la leggenda, sarebbe stato generato da un raggio di luce (venuto dal sole o dalla luna): cfr. ERODOTO, III, 28. 100. L’odierna Nîmes. Di qui era probabilmente originaria la famiglia di Plotina. 101. Si tratta dell’inverno del 122-123 d. C. 102. Difficile affermare con sicurezza a chi l’autore intenda qui alludere col termine Italici. Sembra comunque da escludere che possa trattarsi di coloni italici (come vorrebbe il MAGIE, che rende: «Italian settlers»), mentre appare più probabile – pur con tutte le riserve del caso – l’ipotesi che si faccia qui riferimento ad indigeni cui erano stati riconosciuti tutti i diritti e i privilegi spettanti agli abitanti dell’Italia (attraverso la Italica adlectio di cui si parla a M. Ant. 11, 6-7); cfr. da ultimo J. GAGÉ, «Italica adlectio», à propos de certaines formes du «ius Italicum» en Espagne au temps de Trajan, «Rev. ét. anc.», LXXI, 1969, pp. 65 segg. Altri ritiene che qui Italici costituisca una forma abbreviata per Italicenses, gli abitanti della città di Italica, patria di Adriano (cfr. SYME, Hadrian and Italica, cit., pp. 142 segg.). 103. Secondo R. CHOWEN, The problem of Hadrian’s visits to North Africa, «Class. Journ.», LXV, 1970, pp. 323 seg., è possibile che Adriano non sia stato personalmente presente in Mauritania nel corso di questa campagna, svoltasi nel 122 o 123 d.C. (all’imperatore veniva infatti ascritta la paternità della vittoria indipendentemente dal fatto che avesse condotto la campagna personalmente o meno). Può essere dunque che Adriano sia stato in Africa solo in un’occasione (nel 128 d. C.: cfr. 13, 4 e 22, 14), e che qui abbia avuto modo di visitare la Mauritania. 104. Nel 123-125 d. C. Il biografo omette il viaggio compiuto dalla Spagna in Siria nella primavera del 123. 105. Con il nome di Acaia si indicava la provincia romana comprendente tutta la Grecia. 106. Filippo di Macedonia, il padre di Alessandro il Grande. 107. Così detti dalla città di Eleusi in Attica, i misteri eleusini erano celebrati in onore di DemetraCerere; a chi vi era iniziato essi offrivano la certezza di una vita migliore nell’oltretomba. 108. Presidente dei giochi, probabilmente quelli tenuti in occasione delle feste Dionisiache nel marzo del 125 d. C. 109. Nell’estate del 125 d. C. 110. Nel 128 d. C.: cfr. n. 1 a p. 158; il biografo omette gli avvenimenti di circa tre anni, nel corso dei quali Adriano costruì molti edifici pubblici in varie città d’Italia. 111. Si trattava di piccoli templi dedicati al culto dell’imperatore e chiamati semplicemente «templi di Adriano»: cfr. Al. Sev., 43, 6 ove è riportata la voce secondo cui sarebbe stata intenzione di Adriano consacrarli al culto del Cristo. 112. Re degli Iberi, una popolazione transcaucasica. 113. Per quanto ne sappiamo, Adriano si limitò ad emanare un decreto contro la castrazione, di validità generale (un espresso divieto contro la circoncisione non ci è attestato prima di Antonino Pio); in realtà, come ci riferisce CASSIO DIONE, che fornisce nel complesso un racconto più verisimile degli eventi in questione (cfr. LXIX, 12-14), il vero motivo della rivolta dei Giudei – protrattasi, sotto il comando di Simeon Bar-kosba, dal 131 al 135-136 d. C. – sarebbe stata la costruzione di un tempio dedicato a Giove Capitolino sulle rovine del tempio di Gerusalemme, nonché la denominazione di Gerusalemme stessa come Colonia Aelia Capitolina. 114. Probabilmente il monte che sorgeva alle foci del fiume Oronte, nei pressi di Antiochia, e che portava appunto questo nome. 115. Città del Basso Egitto, nella regione orientale del delta del Nilo; Adriano vi giunse nel 130 d. C. 116. Sulla veridicità della notizia cfr. TH. PEKÁRY, Das Grab des Pompeius, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 195 segg. 117. Il giovinetto originario della Bitinia, favorito di Adriano, che fondò, nel luogo in cui egli morì,

una città chiamata Antinoopoli. 118. Questa versione, stando a CASSIO DIONE, LXIX, 11, sarebbe stata quella presentata da Adriano stesso nella sua Autobiografia. 119. Cfr. n. 10 a p. 141. 120. Il biografo pone qui bruscamente fine alla sezione riguardante i viaggi di Adriano (per passare ad illustrare i vari tratti della sua personalità e del suo carattere). In realtà, dopo la morte di Antinoo (130 d. C.) e prima del suo ritorno a Roma, che avvenne solo nel 134 d. C., l’imperatore fu ancora in Asia Minore, in Grecia e in Palestina. 121. Valerio Eudemone, prefetto d’Egitto sotto Antonino Pio. 122. Non altrimenti conosciuto. 123. C. Publicio Marcello, governatore della Siria intorno al 132 d. C. 124. Probabilmente C. Avidio Eliodoro, padre di Avidio Cassio (che peraltro era ancora prefetto d’Egitto alla morte di Adriano), a meno che non alluda al filosofo dello stesso nome citato a 16, 10. 125. Un Atilius Titianus è ricordato in Ant. Pius, 7, 3 come l’unico reo adfectatae tyrannidis sotto il regno di Antonino; più che ipotizzare una identificazione, sarà più probabilmente il caso di pensare ad una confusione dei due personaggi da parte del biografo. 126. C. Ummidio Quadrato fu console assieme ad Adriano nel 118 d. C. Suo figlio sarebbe divenuto marito di Annia Cornificia, sorella di Marco Aurelio. 127. Famoso retore originario di Arles (80-150 d. C.), amico di PLUTARCO e GELLIO, e da quest’ultimo più volte ricordato nel corso delle Noctes Atticae; è menzionato spesso anche da altri autori come LUCIANO e FILOSTRATO. 128. Poeta elegiaco greco del V-IV secolo a. C., famoso per l’erudizione e lo stile ricercato, a volte oscuro. 129. La forma del titolo è incerta nella tradizione manoscritta, e per noi comunque oscura. 130. Si tratta quasi certamente del poeta ANNIO FLORO, del quale conosciamo alcuni epigrammi, e che è identificabile con lo storico omonimo (autore di un’epitome dell’opera di LIVIO) e retore. 131. Si fa qui riferimento al movimento arcaizzante che, rinnegando il classicismo dell’età flaviana, si rifaceva alla lingua e alla letteratura delle origini: esso cominciò a svilupparsi e ad estendere la sua influenza proprio sotto Adriano. 132. Le controversiae erano le dispute condotte, per lo più su argomenti fittizi, nelle scuole di retorica, per esercizio o per semplice sfoggio di abilità oratoria. 133. L. Celio Antipatro, lo storico del II secolo a. C. che aveva narrato la seconda guerra punica. 134. Il famoso filosofo stoico, morto intorno al 135 d. C. 135. La festa dei Saturnali si celebrava dal 17 dicembre in poi, a ricordo dell’aureo regno di Saturno nel Lazio; tra le altre consuetudini ad essa legate vi era quella di inviarsi reciprocamente dei regali. 136. Negli ultimi giorni dei Saturnali si celebravano i Sigillaria, cioè la festa delle «statuette» (sigillum è appunto il diminutivo di signum = «statua»), nel corso della quale era d’uso scambiarsi in dono figurine in cera o in argilla. Cfr. anche Carac., 1, 8; Aurel., 50, 2; SVETONIO, Claud., 5. 137. Sugli amici principis cfr. n. 6 a p. 148; quanto al termine comes, esso ha in questo tempo un valore sempre più tecnico-formale, nel senso che abbiamo indicato nella traduzione. 138. Famoso giurista, frequentemente citato nei testi giuridici, ed autore egli stesso di un Digesto in 39 libri. 139. Pur egli giurista insigne, rimasto particolarmente famoso per la compilazione dell’Edictum perpetuum, una raccolta di tutti gli editti pretorii emanati anno per anno (l’editto del pretore era il programma nel quale il pretore enunciava i principi secondo i quali intendeva amministrare la giustizia nel corso dell’anno). 140. Qui col valore di carica onorifica, che lo poneva quale magistrato supremo di un gruppo di città. 141. In alcune città italiche questo titolo rimase a lungo ad indicare la carica più alta.

142. Uno dei duumviri iuri dicundo, che costituivano nell’ambito di colonie e municipi i magistrati supremi (alla stregua dei consoli a Roma) cui era demandato l’esercizio della pubblica amministrazione e della giustizia. 143. Nome greco (Napoli era appunto città d’origine greca) indicante il magistrato supremo della città; nell’ambito italico questa titolatura appare solo a Napoli. 144. Svolgeva, nei municipi e nelle colonie, funzioni corrispondenti a quelle del censore romano. 145. Il supremo magistrato di Atene. 146. Il tempio dedicato a tutti gli dèi, eretto nel 27 a. C. da M. Agrippa. 147. I Saepta Iulia o Agrippiana nel Campo Marzio, dove il popolo Romano si recava a votare. Iniziati da Giulio Cesare, furono terminati da Agrippa, che li inaugurò nel 27 a. C. Dall’originario impiego elettorale, il loro uso si allargò all’allestimento di giochi, mercati e altre manifestazioni pubbliche. 148. A nord dei Saepta, fu costruita da Agrippa nel 25 a. C. in memoria delle vittorie su Sesto Pompeo e Antonio. 149. A nord-ovest del Foro Romano; si trovava in esso il tempio di Marte Ultore. 150. Nei pressi del Pantheon. Alcuni studiosi ipotizzano che sia qui da accogliere la lezione di P corr. e Σ Agrippinae, mettendo in relazione questo passo con una testimonianza epigrafica rinvenuta su una fistula plumbea (CIL, XV, 7247), relativa a un lavacrum Agrippinae, e in cui compare la menzione di Adriano (cfr. G. LUGLI, Fontes ad topographiam ueteris urbis Romae pertinentes…, Romae, 1957, IV, XIII, p. 263; S. CONDORELLI, Aspetti della vita quotidiana a Roma e tendenze letterarie nella HA, Messina, 1965, pp. 81 seg.). 151. Si tratta del Pons Aelius, oggi Ponte S. Angelo, che Adriano fece costruire quale accesso al suo Mausoleo. 152. Il Mausoleum Hadriani, ora divenuto Castel S. Angelo. 153. Sul lato orientale dell’Esquilino. Bona era la dea della fecondità e della fortuna in ogni attività privata e politica. 154. La colossale statua in bronzo dorato di Nerone, alta circa 120 piedi (= 40 metri), opera dell’architetto greco Zenodoro; originariamente collocata nel vestibolo della Domus Aurea, dopo la morte di Nerone fu da Vespasiano trasformata in statua del dio Sole, e fatta porre da Adriano in un punto a nord ovest del Colosseo (tra il Colosseo stesso e il tempio di Venere e Roma), ove si conservano ancora i resti della sua base. 155. Il tempio di Venere e Roma, eretto da Adriano nel 135 d. C. e sito nella parte più alta della via Sacra, su parte dello spazio occupato dalla Domus Aurea di Nerone; la porzione a ovest è oggi assorbita nella chiesa di S. Francesca Romana. 156. Un’accademia fondata nel 280 a. C. da Tolomeo I Sotere e dedicata alle Muse (e per questo detta «Museo»), dotata di una biblioteca ricca di opere letterarie e scientifiche. L’ultimo studioso che viene citato come appartenente a tale accademia è Teone di Alessandria, morto nel 415 d. C. 157. Domiziano fu assassinato a quarantacinque anni (18 settembre 96 d. C.) da una congiura di palazzo. 158. Varie città di questo nome furono fondate nell’Asia Minore (in Caria, Bitinia, Pisidia, Tracia, ecc.). 159. Questa parte di Atene era situata ad oriente dell’Acropoli, fra il muro di Temistocle e il fiume Ilisso. 160. L’advocatus fisci aveva il compito di curare gli interessi della cassa privata dell’imperatore nelle cause in cui si trovava ad essere direttamente coinvolta. Era un ufficio riservato all’ordine equestre, e costituiva il primo gradino del cursus honorum proprio di tale rango. 161. Il nomenclator era in genere un servo che aveva il compito di ricordare al padrone i nomi delle persone che incontrava.

162. In effetti sappiamo da CASSIO DIONE, LXIX, 10, 2 che Adriano fece erigere ad Apte (nella Gallia Narbonese) una tomba con stele funeraria e un’iscrizione (CIL, XII, 1122), alla memoria del suo cavallo da caccia preferito, Boristene. 163. In Bitinia. Il nome significa «la caccia di Adriano». 164. Specialmente a partire da Claudio, i liberti (cioè gli ex schiavi liberati) avevano assunto un’importanza sempre maggiore a corte, influendo a volte in modo pesante sulla condotta dell’imperatore e, di conseguenza, sull’intera amministrazione statale. 165. V. in proposito I. CAZZANIGA, Il «tetrafarmacum» cibo adrianeo, in Poesia latina in frammenti. Miscellanea filologica, Genova, 1974, pp. 359 segg. 166. Lo ius Latii (diritto latino) era concesso originariamente ad alcune città del Lazio, e costituiva una specie di grado intermedio fra la cittadinanza romana e la condizione di stranieri. In epoca imperiale esso veniva concesso a municipi fuori dell’Italia e consisteva soprattutto in un’autonomia locale e nel conferimento della piena cittadinanza romana ai magistrati annuali. 167. Fece eccezione, per la verità, la guerra di Giudea. 168. Popolazione transcaucasica, stanziata a est degli Iberi (questi ultimi abitavano la regione corrispondente all’odierna Georgia). 169. La Battriana era una delle province orientali dell’impero persiano. 170. La toga costituiva la sopravveste tipica dei Romani, e consisteva in un taglio di stoffa di lana bianca di forma semicircolare od ovale. Si metteva in modo che il braccio sinistro vi riposava come in una fascia, rimanendo libera soltanto la mano, mentre il braccio destro era completamente libero. 171. Il pallium era il tipico mantello greco, pur esso in lana bianca; poteva coprire entrambe le spalle, oppure essere indossato in modo che la spalla destra rimanesse scoperta e una estremità fosse avvolta alla spalla o al braccio sinistro. 172. All’incirca le ore 14. 173. Questi uffici della cancelleria imperiale erano in precedenza per lo più tenuti da liberti (ma già sotto Domiziano, Nerva e Traiano è documentata la presenza di un ab epistulis di ordine equestre). Il funzionario ab epistolis è il magister epistularum già visto in precedenza (cfr. n. 4 a p. 154); il funzionario a libellis era il maestro delle petizioni, che si occupava delle suppliche che venivano indirizzate all’imperatore: se ne ha notizia a partire da Tiberio, e divenne, con Claudio, un ufficio stabile di corte. Su entrambi si veda inoltre REINTJES, Untersuchungen, cit., pp. 52 seg. e 55 segg. 174. Il pontefice massimo costituiva la più alta autorità religiosa romana; era il primo nel collegio dei pontifices, che esercitavano la sorveglianza del culto ufficiale e pubblico. A partire dal 12 a. C. la carica fu collegata alla dignità imperiale e assunta dai singoli imperatori (compresi quelli cristiani) nella loro titolatura ufficiale; da essa fu abolita solo nel 379 d. C. da Graziano (cfr. ZOSIMO, IV, 36, 5). 175. Pedanio Fusco, nipote di Serviano, ucciso all’età di diciotto anni. 176. Aveva partecipato, sotto Traiano, alla guerra dacica, rivestendo un importante comando militare. 177. Alla fine del 136 d. C. 178. La forma corretta del nome è L. Ceionius Commodus; il cognomen Verus (cfr. anche Ael., 2, 1 e 6) non fu mai portato da questo personaggio (non è infatti mai attestato né nelle iscrizioni né nelle monete), e l’attribuzione che ne viene qui fatta ad esso pare dovuta ad una confusione col figlio, che salì al trono col nome di L. Aurelio Vero. Sul complesso problema della successione di Adriano, cfr. H. G. PFLAUM, Le règlement successoral d’Hadrien, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 95 segg. 179. Del 138 d. C. 180. I voti solenni formulati all’inizio dell’anno dai funzionari pubblici per la salute dell’imperatore. 181. T. Aurelio Fulvio Boionio Arrio Antonino, il futuro imperatore Antonino Pio. 182. I nomi dei due figli adottivi di Antonino appaiono qui confusi dal biografo: uno era L. Ceionio Commodo il giovane, figlio di L. Elio Cesare, che, dopo l’adozione, si chiamò L. Aelius Aurelius

Commodus (e, una volta salito al trono, prese il nome di L. Aelius Verus); l’altro era il futuro imperatore Marco Aurelio Antonino che, prima dell’adozione, si chiamava M. Annius Verus, e dopo l’adozione probabilmente M. Aelius Aurelius Verus. 183. Del 138 d. C. 184. Come per il testo (cfr. Nota critica), anche per quanto riguarda l’interpretazione dei versi seguo I. MARIOTTI, «Animula vagula blandula», in Studia Florentina A. Ronconi oblata, Roma, 1970, pp. 235 segg. 185. L’Atellana (così detta dalla città di Atella, in Campania) era una specie di farsa, recitata da attori che interpretavano il ruolo di maschere fisse su un rudimentale intreccio a carattere buffonesco, di tono spesso sboccato e osceno. 186. La sambuca era uno strumento a corde, di forma triangolare, che produceva suoni assai acuti e stridenti. 187. A circa 6 km dall’odierna Tivoli sono ancora visibili le grandiose rovine della villa, che costituiscono uno dei complessi archeologici più suggestivi della romanità. 188. Il Liceo era il ginnasio di Atene, dove insegnava Aristotele; l’Accademia era la scuola ove insegnava Platone; il Pritaneo era l’edificio in cui si riunivano, in Grecia, le più alte autorità cittadine: qui il riferimento è probabilmente a quello di Atene, sull’Acropoli, particolarmente famoso; Canopo era una città del Basso Egitto, nota per la lussuria dei suoi abitanti; il Pecile era il grande portico dipinto che si trovava nella piazza di Atene; Tempe era la valle della Tessaglia, famosa per la sua bellezza, in cui gli antichi situavano il paradiso terrestre. 189. Sull’argomento in generale cfr. B. MOUCHOVÁ, Omina, mortis in der HA, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 111 segg. 190. La (toga) praetexta era la sopravveste listata di porpora indossata dai magistrati più importanti (come i consoli, i pretori, gli edili curuli, le autorità dei municipi e delle colonie), nonché da vari sacerdoti, oltre che dai fanciulli ingenui (cioè di nascita libera) sino all’età virile (sedici-diciassette anni). 191. Il significato era evidente: era ormai giunto il momento che anch’egli passasse l’anello al suo successore, come aveva fatto Traiano con lui: cfr. 3, 7. 192. Il flamen (così chiamato dal filo di lana – detto appunto filamen o flamen – che doveva portare attorno al capo scoperto o al copricapo sacerdotale) era il sacerdote consacrato a una singola divinità, nel caso specifico all’imperatore divinizzato. 193. I sodales erano i sacerdoti facenti parte di una confraternita o collegio istituito in onore di un imperatore del quale era stata decretata la divinizzazione (si avevano quindi sodales Augustales, Flaviales, Hadrianales ecc.).

II. AELIUS 〈AELII〉 SPARTIANI

ELIO di ELIO SPARZIANO

Diocletiano Augusto Aelius Spartianus suus sal. [1, 1] In animo mihi est, Diocletiane Auguste, tot principum maxime, non solum eos, qui principum locum in hac statione, quam temperas, retentarunt, ut usque ad divum Hadrianum feci, sed illos etiam, qui vel Caesarum nomine appellati sunt nec principes aut Augusti fuerunt vel quolibet alio genere aut in famam aut in spem principatus venerunt, cognitioni numinis tui sternere. [2] Quorum praecipue de Aelio Vero dicendum est, qui primus tantum1 Caesaris nomen accepit, adoptione Hadriani familiae principum adscitus. [3] Et quoniam nimis pauca dicenda sunt, nec debet prologus inormior esse quam fabula, de ipso iam loquar. [2, 1] Ceionius Commodus, qui et Aelius Verus2 appellatus est, quem sibi Hadrianus aevo ingravescente morbis tristioribus pressus peragrato iam orbe terrarum adoptavit, nihil habet in sua vita memorabile, nisi quod primus tantum Caesar est appellatus, [2] non testamento, ut antea solebat, neque eo modo quo Traianus est adoptatus, sed eo prope genere, quo nostris temporibus a vestra clementia Maximianus atque Constantius Caesares dicti sunt, quasi quidam principum fili, visi et designati augustae maiestatis heredes3. [3] Et quoniam de Caesarum nomine in huius praecipue vita est aliquid disputandum4, qui hoc solum nomen indeptus est, Caesarem vel ab elephanto, qui lingua Maurorum caesai dicitur, in proelio caeso eum, qui primus sic appellatus est, doctissimi viri et eruditissimi putant dictum, [4] vel quia mortua matre, sed ventre caeso5, sit natus, vel quod cum magnis crinibus6 sit utero parentis effusus, vel quod oculis caesiis et ultra humanum morem viguerit. [5] Certe quaecumque illa, felix necessitas fuit, unde tam clarum et duraturum cum aeternitate mundi nomen effloruit. [6] Hic ergo, de quo sermo est, primum Lucius Aurelius Verus est dictus, sed ab Hadriano ascitus in Aeliorum familiam, hoc est in Hadriani, transscriptus et appellatus est Caesar7. [7] Huic pater Ceionius Commodus8

fuit, quem alii Verum, alii Lucium Aurelium, multi Annium prodiderunt. [8] Maiores omnes nobilissimi, quorum origo pleraque ex Etruria fuit vel ex Faventia. [9] Et de huius quidem familia plenius in vita Lucii Aurelii Ceionii Commodi Veri Antonini, filii huiusce, quem sibi adoptare Antoninus iussus est, disseremus. [10] Is enim liber debet omnia, quae ad stemma generis pertinent, continere, qui habet principem, de quo plura dicenda sunt. [3, 1] Adoptatus autem Aelius Verus ab Hadriano eo tempore, quo iam, ut superius diximus, parum vigebat et de successore necessario cogitabat, [2] statimque praetor factus et Pannonis dux ac rector inpositus, mox consul creatus et, quia erat deputatus imperio, iterum consul designatus est. [3] Datum etiam populo congiarium causa eius adoptionis conlatumque militibus sestertium ter milies, circenses editi, neque quicquam praetermissum, quod posset laetitiam publicam frequentare. [4] Tantumque apud Hadrianum principem valuit, ut praeter adoptionis adfectum, quo ei videbatur adiunctus, solus omnia, quae cuperet, etiam per litteras impetraret. [5] Nec provinciae quidem, cui praepositus erat, defuit. [6] Nam bene gestis rebus vel potius feliciter etiamsi non summi, medii tamen optinuit ducis famam. [7] Hic tamen valetudinis adeo miserae fuit, ut Hadrianum statim adoptionis paenituerit potueritque eum amovere a familia imperatoria, cum saepe de aliis cogitaret, si forte vixisset. [8] Fertur denique ab his, qui Hadriani vitam diligentius in litteras rettulerunt, Hadrianum Veri scisse genituram et eum, quem non multum ad rem publicam regendam probarat, ob hoc tantum adoptasse, ut suae satisfaceret voluptati et, ut quidam dicunt, iuri iurando, quod intercessisse inter ipsum ac Verum secretis conditionibus ferebatur. [9] Fuisse enim Hadrianum peritum matheseos Marius Maximus usque adeo demonstrat, ut eum dicat cuncta de se scisse, sic ut omnium dierum usque ad horam mortis futuros actus ante perscripserit. [4, 1] Satis praeterea constat eum de Vero saepe dixisse: «Ostendent terris hunc tantum fata neque ultra esse sinent»9.

[2] Quos versus cum aliquando in hortulo spatians cantitaret, atque adesset unus ex litteratis, quorum Hadrianus speciosa societate gaudebat, velletque addere: «nimium vobis Romana propago visa potens, superi, propria haec si dona fuissent»,

[3] Hadrianus dixisse fertur «Hos versus vita non capit Veri», illud addens: «manibus date lilia plenis; purpureos spargam flores animamque nepotis

his saltim accumulem donis et fungar inani munere».

[4] Cum quidem etiam illud dicitur cum risione dixisse: «Ego mihi divum10 adoptavi, non filium». [5] Nunc tamen cum eum consolaretur unus de litteratis, qui aderat, ac diceret: «Quid? Si non recte constellatio eius collecta est, quem credimus esse victurum?», Hadrianus dixisse fertur: «Facile ista dicis tu, qui patrimonii tui, non rei p. quaeris heredem». [6] Unde apparet eum habuisse in animo alium deligere atque hunc ultimo vitae suae tempore a re publica summovere. [7] Sed eius consiliis iuvit eventus. Nam cum de provincia Aelius redisset atque orationem pulcherrimam, quae hodieque legitur, sive per se seu per scriniorum11 aut dicendi magistros parasset, qua kalendis Ianuariis Hadriano patri gratias ageret, accepta potione, qua se aestimaret iuvari, kalendis ipsis Ianuariis perit. [8] Iussusque ab Hadriano, quia Vota interveniebant, non lugeri12. [5, 1] Fuit hic vitae laetissimae, eruditus in litteris, Hadriano, ut malivoli locuntur, acceptior forma quam moribus. [2] In aula diu non fuit, in vita privata etsi minus probabilis, minus tamen reprehendendus ac memor familiae suae, comptus, decorus, pulchritudinis regiae, oris venerandi, eloquentiae celsioris, versu facilis, in re publica etiam non inutilis. [3] Huius voluptates ab his, qui vitam eius scripserunt, multae feruntur, et quidem non infames sed aliquatenus diffluentes. [4] Nam tetrafarmacum13, seu potius pentefarmacum, quo postea semper Hadrianus est usus, ipse dicitur repperisse, hoc est sumen, fasianum, pavonem, pernam crustulatam et aprunam. [5] De quo genere cibi aliter refert Marius Maximus, non pentefarmacum sed tetrafarmacum appellans, ut et nos ipsi in eius vita persecuti sumus. [6] Fertur etiam aliud genus voluptatis, quod Verus invenerat. [7] Nam lectum eminentibus quattuor anacliteriis fecerat minuto reticulo undique inclusum eumque foliis rosae, quibus demptum esset album, replebat iacensque cum concubinis velamine de liliis facto se tegebat unctus odoribus Persicis. [8] Iam illa frequentantur a nonnullis, quod et accubitationes ac mensas de rosis ac liliis fecerit et quidem purgatis. Quae etsi non decora, non tamen ad perniciem publicam prompta sunt, atque 〈aliter〉 ab aliis relata. [9] Idem Apicii14, idem Ovidii libros Amorum in lecto semper habuisse, idem Martialem, epigrammaticum poetam, Vergilium suum dixisse {atque ad verbum memor 〈iter〉 iterasse15 fertur}. [10] Iam illa leviora quod cursoribus suis exemplo Cupidinum alas frequenter adposuit eosque ventorum nominibus saepe vocitavit, Boream alium, alium Notum et item Aquilonem aut Circium ceterisque nominibus appellans et

indefesse atque inhumaniter faciens cursitare. [11] Idem uxori conquerenti de extraneis voluptatibus dixisse fertur: «Patere me per alias exercere cupiditates meas: uxor enim dignitatis nomen est, non voluptatis». [12] Eius est filius Antoninus Verus, qui adoptatus est a Marco, – vel certe cum Marco16 – et cum eodem aequale gessit imperium. [13] Nam ipsi sunt qui primi duo Augusti appellati sunt, et quorum fastis consularibus sic nomina praescribuntur, ut dicantur non duo Antonini sed duo Augusti. [14] Tantumque huius rei et novitas et dignitas valuit, ut fasti consulares nonnulli ab his sumerent ordinem consulum. [6, 1] Pro eius adoptione infinitam pecuniam populo et militibus Hadrianus dedit. [2] Sed cum eum videret homo paulo argutior miserrimae valetudinis, ita ut scutum solidius iactare non posset, dixisse fertur: [3] «Ter milies perdidimus, quod exercitui populoque dependimus; si quidem satis in caducum parietem incubuimus et qui non ipsam rem publicam, sed nos ipsos sustentare vix possit». [4] Et haec quidem Hadrianus cum praefecto suo locutus est. [5] Quae cum prodidisset praefectus, ac per hoc Aelius Caesar in dies magis magisque sollicitudine, utpote desperati hominis, adgravaretur, praefecto suo Hadrianus, qui rem prodiderat, successorem dedit volens videri, quod verba tristia temperasset. [6] Sed nihil profuit. Nam, ut diximus, Lucius Ceionius Commodus Verus Aelius Caesar (nam his omnibus nominibus appellatus est) perit sepultusque est imperatorio funere, neque quicquam de regia ni mortis habuit dignitatem. [7] Doluit ergo illius mortem, ut bonus pater, non, ut bonus princeps. Nam cum amici solliciti quaererent, qui adoptari posset, Hadrianus dixisse fertur his «Etiam vivente adhuc Vero decreveram». [8] Ex quo ostendit aut iudicium suum aut scientiam futurorum. [9] Post hunc denique Hadrianus diu anceps, quid faceret, Antoninum adoptavit Pium cognomine appellatum. Cui conditionem addidit, ut ipse sibi Marcum et Verum Antoninus adoptaret filiamque suam17 Vero, non Marco daret. [10] Nec diutius vixit gravatus languore ac diverso genere morborum saepe dicens sanum principem mori debere, non debilem. [7, 1] Statuas sane Aelio Vero per totum orbem colossas poni iussit, templa etiam in nonnullis urbibus fieri. [2] Denique illius merito filium eius Verum, nepotem utpote suum, qui pereunte Aelio in familia ipsius Hadriani remanserat, adoptandum Antonino Pio cum Marco, ut iam diximus, dedit saepe dicens: «Habeat res publica quodcumque de Vero». [3] Quod quidem contrarium his, quae de adoptionis paenitentia per plurimos intimata sunt, cum Verus posterior nihil dignum praeter clementiam in moribus habuerit,

quod imperatoriae familiae lumen adferret. [4] Haec sunt, quae de Vero Caesare mandanda litteris fuerunt. [5] De quo idcirco non tacui, quia mihi propositum fuit omnes, qui [vel] post Caesarem dictatorem, hoc est divum Iulium, vel Caesares vel Augusti vel principes appellati sunt, quique in adoptationem venerunt, vel imperatorum filii aut parentes Caesarum nomine consecrati sunt, singulis libris exponere, meae satisfaciens conscientiae, etiamsi multis nulla sit necessitas talia requirendi.

A Diocleziano Augusto dal suo Elio Sparziano salute. [1, 1] È mio intendimento, Diocleziano Augusto, massimo fra tanti imperatori, offrire alla conoscenza della Tua Divina Maestà non solo le vite di quanti esercitarono il potere imperiale su questo trono che tu ora reggi, come ho già fatto sino al divo Adriano, ma anche di quelli che ottennero il nome di Cesare senza diventare poi imperatori o Augusti, o che a qualsiasi altro titolo ebbero fama o nutrirono speranza di andare al potere. [2] Fra essi è d’obbligo ricordare in special modo Elio Vero che, divenuto membro della famiglia imperiale in virtù dell’adozione di Adriano, fu il primo a ricevere unicamente1 il titolo di Cesare. [3] E poiché le cose da narrare sono assai poche, e il prologo non deve risultare più lungo della commedia, comincerò subito a parlare di lui. [2, 1] Ceionio Commodo, chiamato anche Elio Vero2, che Adriano aveva adottato quando, dopo aver ormai girato in lungo e in largo tutto il mondo, cominciava a soffrire il peso degli anni ed era incalzato dall’aggravarsi della sua salute, non presenta nel corso della sua vita alcunché degno di ricordo, se non il fatto che fu il primo che ricevette solo il titolo di Cesare, [2] non per una disposizione testamentaria, secondo quanto soleva avvenire in precedenza, né allo stesso modo in cui fu adottato Traiano, ma all’incirca secondo la stessa procedura con la quale nei tempi nostri Vostra Grazia ha conferito il titolo di Cesari a Massimiano e Costanzo, quali, in certo modo, figli di principi, apparsi e designati come eredi della augusta maestà imperiale3. [3] Ma poiché bisogna pure che ci soffermiamo un poco a parlare del nome di Cesare4 trattando della vita di uno che ha portato solo questo titolo, l’opinione di uomini di grande cultura ed erudizione è che il primo ad essere chiamato Cesare lo fu per aver ucciso nel corso di una battaglia un elefante, che in lingua maura è chiamato caesai,[4] o per essere nato in seguito a un

taglio praticato nel ventre della madre morta5, o per essere venuto alla luce dal grembo della madre con una folta chioma6, o per la vivezza straordinaria dell’azzurro dei suoi occhi. [5] Certo, qualunque essa sia stata, fu certo una felice circostanza quella da cui trasse origine un nome tanto illustre e destinato a durare in eterno quanto il mondo. [6] Questi, dunque, di cui stiamo parlando, fu dapprima chiamato Lucio Aurelio Vero, ma poi, adottato da Adriano, entrò a far parte della famiglia degli Elii, quella appunto di Adriano, e ricevette il nome di Cesare7. [7] Suo padre era Ceionio Commodo8, che alcuni ricordano col nome di Vero, altri di Lucio Aurelio, e molti ancora di Annio. [8] Tutti i suoi antenati, originari per lo più dell’Etruria o di Faenza, erano di elevata nobiltà. [9] Ma della sua famiglia tratteremo più compiutamente nel corso della biografia di Lucio Aurelio Ceionio Commodo Vero Antonino, figlio di costui, che Antonino ebbe l’ordine di adottare. [10] Quel libro, infatti, che ha per oggetto un imperatore la cui vita richiede una trattazione più ampia, deve contenere tutti i dati concernenti l’albero genealogico. [3, 1] Elio Vero fu adottato da Adriano nel tempo in cui già – come abbiamo detto sopra – si trovava in cattive condizioni di salute e pensava alla necessità di designare un successore: [2] subito fu fatto pretore e posto al governo militare e civile della Pannonia; successivamente gli fu conferito il consolato che, in qualità di erede designato al trono imperiale, gli venne poi rinnovato. [3] Inoltre per festeggiare la sua adozione fu elargito al popolo un donativo e distribuiti ai soldati trecento milioni di sesterzi, vennero allestiti dei giochi nel circo, e non fu tralasciato nulla di quanto potesse accrescere l’esultanza generale. [4] E tale era la sua influenza presso Adriano che, anche a parte il rapporto di affetto che appariva legarlo a lui per via dell’adozione, lui solo era in grado di ottenere dall’imperatore tutto ciò che desiderava, anche semplicemente per lettera. [5] Si mostrò inoltre pienamente all’altezza del governo della provincia che gli era stata affidata. [6] Infatti l’esito positivo o, per meglio dire, fortunato, delle operazioni militari gli procurò la fama se non proprio di sommo, per lo meno di discreto comandante. [7] Era tuttavia di salute così malferma che ben presto Adriano ebbe a pentirsi dell’adozione e, se per avventura fosse vissuto più a lungo, lo avrebbe escluso dalla famiglia imperiale, dato che più di una volta pensò ad altri possibili successori. [8] Quelli che hanno scritto biografìe più particolareggiate di Adriano riferiscono anzi che l’imperatore era a conoscenza dell’oroscopo di Vero e che lo adottò – pur considerandolo poco adatto a governare lo Stato – al solo motivo di

soddisfare il proprio capriccio e, a quanto soggiungono alcuni, un giuramento che sarebbe intercorso, in termini segreti, fra lui stesso e Vero. [9] Che infatti Adriano fosse esperto di astrologia Mario Massimo lo attesta con tale certezza da affermare che egli conosceva tutto sul proprio destino, così da scrivere prima dettagliatamente le azioni che avrebbe compiuto giorno per giorno, sino alla morte. [4, 1] Inoltre è risaputo che Adriano ebbe più volte a dire di Vero: «Lo mostreranno al mondo appena i fati, né più oltre lasceranno vi stia»9.

[2] E un giorno mentre passeggiando in giardino cantilenava questi versi, ed era lì presente uno di quei letterati della cui brillante compagnia egli si compiaceva, questi volle aggiungere: «Troppo a voi la romana stirpe sarebbe parsa potente, o dei, se tali doni goduto avesse»;

[3] allora Adriano, a quanto narrano, esclamò: «Questi versi non si confanno alla vita di Vero», aggiungendo: «Datemi gigli a piene mani; ch’io sparga purpurei fiori e allo spirito del nipote questi doni almeno procuri e renda il vano tributo».

[4] Si narra che in quella stessa occasione ebbe a dire con una risata: «Mi sono adottato un dio10, non un figlio». [5] Ad uno poi dei letterati lì presente che lo consolava dicendogli: «E se il suo oroscopo fosse stato compilato in modo errato? Noi crediamo che sopravviverà», Adriano, a quanto dicono, rispose: «Fai presto a parlare così tu, che cerchi un erede per il tuo patrimonio, non per tutto un impero». [6] Da ciò si vede chiaramente che egli aveva in animo di scegliere un altro, e di allontanare costui dal governo dello Stato verso la fine della propria vita. [7] Ma i suoi piani ebbero il favore degli eventi. Infatti Elio, dopo che era tornato dalla provincia, e aveva preparato – o da solo o dandone l’incarico ai suoi segretari11 o a maestri di eloquenza – un’orazione bellissima, che ancor oggi si legge, intendendo pronunciarla il primo di gennaio quale discorso di ringraziamento rivolto al padre Adriano, morì in quello stesso giorno, dopo aver ingerito una pozione che pensava gli dovesse far bene. [8] E per ordine di Adriano, dato che ricorreva la solennità dei Voti, non fu celebrato per lui il pubblico lutto12. [5, 1] Era molto amante dei piaceri della vita, versato nelle lettere, e accetto ad Adriano – a quanto insinuano le male lingue – più per la sua bellezza fisica che per i suoi costumi. [2] Non stette a corte per molto tempo, e nella vita privata, se non meritò particolari elogi, non tenne neppure un

comportamento riprovevole; era sollecito nei confronti della sua famiglia, elegante, distinto; la sua bellezza aveva i tratti della regalità, il suo volto incuteva rispetto; era dotato di un’eloquenza assai raffinata, e di una fertile vena poetica; non era privo di una qualche attitudine anche per il governo dello Stato. [3] I biografi ci riportano in gran numero i suoi divertimenti, per la verità non propriamente disonorevoli, ma improntati a una molle sensualità, almeno in certa misura. [4] Si dice infatti che sia stato proprio lui a inventare per primo il tetrafarmaco13, o meglio pentefarmaco, che fu poi il piatto preferito di Adriano, cioè maiale, fagiano, pavone, prosciutto con pasta e cinghiale. [5] Di questo tipo di cibo Mario Massimo riferisce una ricetta diversa, chiamandolo non pentefarmaco, ma tetrafarmaco, come abbiamo fatto noi pure descrivendolo nel corso della biografia di Adriano. [6] Si racconta anche un altro tipo di divertimento da lui escogitato, [7] consistente in un letto fornito di quattro alti cuscini, avvolto tutt’intorno in una cortina di sottile rete e riempito da lui di petali di rose mondati della parte bianca, su cui egli giaceva con le sue concubine, coprendosi con un lenzuolo di gigli, cosparso il corpo di aromi persiani. [8] Alcuni raccontano poi che aveva fatto divani e mense di rose e gigli, e questi – si noti – mondati. Tutte cose che, anche se non proprio onorevoli, non arrecano tuttavia alcuna catastrofe alla comunità, senza contare che v’è chi le racconta in un modo e chi in un altro. [9] Dicono inoltre che egli tenesse sempre nel letto l’opera di Apicio14 e gli Amori di Ovidio, e che chiamasse il poeta epigrammatico Marziale «il suo Virgilio», ripetendone i versi a memoria parola per parola15. [10] Si ricordano anche cose più banali, come il fatto che di frequente attaccava alle spalle dei suoi corrieri delle ali in modo da farli somigliare ad Amorini, e si rivolgeva loro con i nomi dei venti, chiamando uno Borea, un altro Noto, e parimente uno Aquilone e un altro Circeo, e così via con tutti gli altri nomi, e facendoli impietosamente correre senza posa. [11] Alla moglie, che si lagnava delle sue avventure extraconiugali, si dice abbia risposto: «Lasciami sfogare con altre le mie voglie: ché ‘ moglie ’ è sinonimo di dignità, non di piacere». [12] Suo figlio è Antonino Vero, che fu adottato da Marco – o per lo meno insieme a Marco16 – e con lui resse alla pari l’impero: [13] essi infatti furono i primi ad essere chiamati «i due Augusti», e nei fasti consolari i loro nomi sono registrati appunto non con la dizione «i due Antonini» ma con quella «i due Augusti». [14] E tale fu la novità e l’importanza di questo fatto, che alcuni fasti consolari iniziano da loro l’elenco dei consoli. [6, 1] Per festeggiare la sua adozione Adriano elargì ingenti somme al

popolo e ai soldati. [2] Ma, da uomo che la sapeva piuttosto lunga, quando si accorse che le condizioni fìsiche di quello erano tanto precarie da non consentirgli di maneggiare uno scudo di una certa consistenza, si dice abbia esclamato: [3] «Abbiamo sprecato i trecento milioni di sesterzi distribuiti all’esercito e al popolo, giacché abbiamo preso quale appoggio un muro malfermo e che non è in grado di sostenere non che lo Stato, neppure noi stessi». [4] Queste cose Adriano le aveva dette al suo prefetto. [5] Questi però diede pubblicità alle sue parole, e a causa di questo Elio Cesare era ogni giorno di più consumato dall’angoscia, come chi ha perso ormai ogni speranza: allora Adriano destituì il suo prefetto che aveva divulgato la cosa, volendo così dar l’impressione di sdrammatizzare il senso funesto delle sue parole. [6] Ma non ne ebbe alcun risultato. Infatti, come abbiamo detto, Lucio Ceionio Commodo Vero Elio Cesare (ché tutti questi nomi egli aveva) morì, e fu sepolto con pompa imperiale: e quelle che ricevette in occasione della sua morte furono le uniche onoranze proprie della dignità imperiale di cui egli ebbe a godere. [7] Della sua morte Adriano si dolse in quanto buon padre, non certo come principe accorto. Infatti, quando gli amici gli chiesero ansiosi chi avesse ora possibilità di essere adottato, si dice che Adriano rispose: «Lo avevo deciso fin da quando Vero era ancora vivo». [8] Col che diede prova o dell’acume dei suoi giudizi o delle sue virtù profetiche. [9] Dopo la morte di Vero Adriano, rimasto a lungo in dubbio sul da farsi, si decise infine ad adottare Antonino soprannominato Pio, imponendogli la condizione che egli stesso adottasse a sua volta Marco e Vero, e che desse in sposa sua figlia17 a Vero, non a Marco. [10] Né visse ancora a lungo, sfinito com’era dalla debolezza e da diverse malattie, dicendo spesso che un imperatore dovrebbe morire quando è nel pieno del suo vigore, e non così mal ridotto. [7, 1] Ordinò che venissero innalzate in onore di Elio Vero delle statue colossali in tutto l’impero, e che in varie città fossero eretti dei templi. [2] E inoltre, per riguardo a lui, volle che il figlio Vero, che era rimasto nella famiglia dello stesso Adriano anche dopo la morte di Elio, venisse adottato, in quanto suo nipote, da Antonino Pio insieme con Marco – come già abbiamo riferito – dicendo spesso: «Abbia lo Stato qualcosa di Vero, qualunque essa sia». [3] E questo contraddice quanto è stato scritto da molti autori a proposito del presunto pentimento di Adriano nei riguardi dell’adozione, dato che il giovane Vero, se si eccettua la mitezza di comportamento, non possedeva alcunché in grado di portare degnamente lustro alla famiglia imperiale. [4] Questo è tutto quanto v’era da scrivere su Elio Vero. [5] Non ho voluto

passare sotto silenzio questo personaggio perché ciò che mi sono proposto è di narrare singolarmente le vite di tutti coloro che, a partire dalla dittatura di Cesare, cioè dopo il divo Giulio, ebbero il titolo di Cesari o Augusti o principi, e di coloro che ottennero l’adozione e furono chiamati col nome di Cesari in quanto figli o parenti di imperatori: e questo solo per un mio scrupolo di coscienza, anche se per molti non vi sarebbe necessità alcuna di raccogliere tali informazioni.

1. Infatti Elio non ebbe mai ad assumere il titolo di imperatore, e quindi l’appellativo di Augustus. 2. Sul nome cfr. Hadr., 23, 11, n. 4. 3. A differenza di quanto si afferma comunemente, la procedura adrianea dell’adozione con conferimento del nome di Cesare, indicativo della designazione alla successione, non costituisce un’assoluta innovazione, essendo già stata sostanzialmente seguita da Galba e Nerva nei confronti rispettivamente di Pisone e Traiano: cfr. in particolare per questo aspetto, nonché per tutte le questioni inerenti al significato e alla funzione del nome di Cesare nel corso dell’impero, J. STRAUB, Dignatio Caesaris, in Legio VII Gemina, Leon, 1970, pp. 157-179 = Regeneratio Imperii, Darmstadt, 1972, pp. 36-63. 4. Su queste presunte etimologie cfr. A. ALFÖLDI, Die Erklärung des Namens «Caesar» in den spätrömischen Kompendien (zu v. Ael., 2, 3-5), in BHAC, 1966-67, Bonn, 1968, pp. 9 segg. 5. Cfr. PLINIO, Nat. Hist., VII, 47. 6. In latino una folta chioma è detta caesaries. 7. Per l’esattezza, il suo nome dopo l’adozione fu L. Aelius Caesar. 8. Si sa che fu console nel 106 d. C. Cfr. H. G. PFLAUM, Les personnages nommément cités par les Vitae Aelii et Avidii Cassii de l’HA, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 189 segg. 9. Questi versi ed i successivi sono presi da VIRGILIO, Aen., VI, 869-70; 870-71; 883-86. Si tratta del brano dedicato a Marcello, il nipote di Augusto prematuramente morto nel 23 a. C. a soli diciannove anni. 10. Allusione all’usuale divinizzazione dei membri della famiglia imperiale dopo la morte. 11. Il termine scrinium è impiegato a partire da Diocleziano per l’indicazione degli uffici della cancelleria imperiale, determinato da un altro sostantivo che esplicita la funzione specifica di ciascuno di essi (ad es. libellorum, epistularum, ecc.); la denominazione magistri riferita ai funzionari che li dirigevano appare solo nel IV secolo. Cfr. A. REINTJES, Untersuchungen zu den Beamten bei den ShA, Düsseldorf, 1961, pp. 58 seg. 12. Cfr. Hadr., 23, 16, note 1 e 2. 13. Cfr. Hadr., 21, 4, n. 4. 14. Famoso buongustaio vissuto ai tempi di Tiberio, sotto il cui nome ci è giunta una raccolta di ricette (che nella forma che possediamo risale alla fine del IV secolo d. C.) intitolata De re coquinaria libri X. 15. I versi di Virgilio venivano studiati e «ripetuti» a memoria nelle scuole Il richiamo a Marziale in contrapposizione a Virgilio, sottolinea la frivolezza del giovane principe che, alla conoscenza del testo canonico per la formazione dei giovani, nonché di quello che era considerato il «santo» tra i poeti, maestro di virtù e saggezza, sostituiva quella di un poeta esattamente agli antipodi di tutto ciò, anzi il poeta frivolo per eccellenza. 16. Questa seconda è la versione esatta (cfr. Hadr., 24, 1): entrambi furono adottati da Antonino Pio. 17. Annia Galeria Faustina Minore: cfr. Ant. Pius, 10, 2.

III. ANTONINUS PIUS IULI CAPITOLINI

ANTONINO PIO di GIULIO CAPITOLINO

[1, 1] Tito Aurelio Fulvo Roionio Antonino Pio paternum genus e Gallia Transalpina, Nemausense scilicet, [2] avus Titus Aurelius Fulvus, qui per honores diversos ad secundum consulatum et praefecturam urbis pervenit, [3] pater Aurelius Fulvus, qui et ipse fuit consul, homo tristis et integer, [4] avia materna Boionia Procilla, mater Arria Fadilla, avus maternus Arrius Antoninus, bis consul, homo sanctus et qui Nervam miseratus esset, quod imperare coepisset, [5] soror uterina Iulia Fadilla, [6] vitricus Iulius Lupus consularis, socer Annius Verus, uxor Annia Faustina, [7] filii mares duo1, duae feminae2, gener per maiorem filiam Lamia Silvanus, per minorem Marcus Antoninus fuere. [8] Ipse Antoninus Pius natus est XIII. kl. Oct. Fl. Domitiano XII et Cornelio Dolabella conss.3 in villa Lanuvina4. Educatus Lori5 in Aurelia6, ubi postea palatium extruxit, cuius hodieque reliquiae manent. [9] Pueritiam egit cum avo paterno, mox cum materno, omnes suos religiose colens, atque adeo et consobrinorum et vitrici et multorum adfinium hereditate ditatus est. [2, 1] Fuit vir forma conspicuus, ingenio clarus, moribus clemens, nobilis, vultu placidus, ingenio singulari, eloquentiae nitidae, litteraturae praecipuae, sobrius, diligens agri cultor, mitis, largus, alieni abstinens, et omnia haec cum mensura et sine iactantia, [2] in cunctis postremo laudabilis et qui merito Numae Pompilio ex bonorum sententia conparatus. [3] Pius cognominatus est a senatu, vel quod soceri fessi iam aetatem manu praesente senatu levaret (quod quidem non satis magnae pietatis est argumentum, cum impius sit magis, qui ista non faciat, quam pius qui debitum reddat) [4] vel quod eos, quos Hadrianus per malam valetudinem occidi iusserat, reservavit, [5] vel quod Hadriano contra omnium studia post mortem infinitos atque inmensos honores decrevit, [6] vel quod, cum se Hadrianus interimere vellet, ingenti custodia et diligentia fecit, ne id posset admittere, [7] vel quod vere natura clementissimus et nihil temporibus suis asperum fecit. [8] Idem fenus trientarium, hoc est minimis usuris exercuit, ut patrimonio suo plurimos adiuvaret. [9] Fuit quaestor liberalis, praetor splendidus, consul cum Catilio Severo7 [10] Hic in omni privata 〈vita〉 in agris frequentissime vixit, sed clarus in locis omnibus fuit. [11] Ab Hadriano inter quattuor consulares, quibus Italia committebatur, electus est ad eam partem Italiae regendam, in qua plurimum possidebat, ut Hadrianus viri talis et honori consuleret et quieti. [3, 1] Huic, cum Italiam regeret, imperii omen8 est factum. Nam cum tribunal ascendisset, inter alias adclamationes dictum est «Auguste, dii te

servent». [2] Proconsulatum Asiae sic egit9, ut solus avum vinceret. [3] In proconsulatu etiam sic imperii omen accepit: nam cum sacerdos femina Trallis10 ex more proconsules semper hoc nomine salutaret, non dixit «ave pro consule», sed «have imperator». [4] Cyzici11 etiam de simulacro dei ad statuam eius corona translata est. [5] Et post consulatum in virdiario taurus marmoreus cornibus ramis arboris adcrescentibus adpensus est12, et fulgur caelo sereno sine noxa in eius domum venit, et in Etruria dolia, quae defossa fuerant, supra terram reperta sunt, et statuas eius in omni Etruria examen apium replevit, et somnio saepe monitus est penatibus13 eius Hadriani simulacrum inserere. [6] Profìciscens ad proconsulatum fìliam maiorem amisit. [7] De huius uxore multa dicta sunt ob nimiam libertatem et vivendi facilitatem, quae iste cum animi dolore compressit. [8] Post proconsulatum in consiliis Hadriani Romae frequens dixit de omnibus, quibus Hadrianus consulebat, mitiorem sententiam semper ostendens. [4, 1] Genus sane adoptionis tale fertur: mortuo Aelio Vero, quem sibi Hadrianus adoptaverat et Caesarem nuncupaverat, dies senatus habebatur; [2] eo Arrius Antoninus soceri vestigia levans venit atque idcirco ab Hadriano dicitur adoptatus. [3] Quae causa sola esse adoptionis nec potuit omnino nec debuit, maxime cum et semper rem publicam bene egisset Antoninus et in proconsulatu se sanctum gravemque praebuisset. [4] Ergo cum eum Hadrianus adoptare se velle publicasset, acceptum est spatium deliberandi, utrum adrogari ab Hadriano vellet. [5] Adoptionis lex huiusmodi data est, ut quemadmodum Antoninus ab Hadriano adoptabatur, ita sibi ille adoptaret M. Antoninum, fratris uxoris suae filium, et L. Verum, Aelii Veri, qui ab Hadriano adoptatus fuerat, filium, qui postea Verus Antoninus est dictus. [6] Adoptatus est V. kl. Mart.14 die in senatu gratias agens, quod de se ita sensisset Hadrianus. [7] Factusque est patri et in imperio proconsulari et in tribunicia potestate15 collega. [8] Huius primum hoc fertur, quod, cum {ab} uxore argueretur quasi parum nescio quid suis largiens, dixerit: «stulta, posteaquam ad imperium transivimus, et illud, quod habuimus ante, perdidimus»16. [9] Congiarium militibus populo de proprio dedit et ea, quae pater promiserat. [10] Et ad opera Hadriani plurimum contulit et aurum coronarium17, quod adoptionis suae causa oblatum fuerat, Italicis totum, medium provincialibus reddidit. [5, 1] Et patri, cum advixerit, religiosissime paruit. Sed Hadriano apud

Baias mortuo reliquias eius Romam pervexit sancte ac reverenter atque in hortis Domitiae conlocavit, etiam repugnantibus cunctis inter divos eum rettulit. [2] Uxorem Faustinam Augustam appellari a senatu permisit. Pii appellationem recepit. Patri et matri atque avis et fratribus iam mortuis statuas decretas libenter accepit. Circenses natali suo dicatos non respuit aliis honoribus refutatis. Clipeum Hadriano magnificentissimum posuit et sacerdotes instituit. [3] Factus imperator nulli eorum, quos Hadrianus provexerat, successorem dedit fuitque ea constantia, ut septenis et novenis annis in provinciis bonos praesides detineret. [4] Per legatos suos plurima bella gessit. Nam et Brittannos per Lollium Urbicum18 vicit legatum alio muro cespiticio19 summotis barbaris ducto et Mauros ad pacem postulandam coegit et Germanos et Dacos et multas gentes atque Iudaeos rebellantes contudit per praesides ac legatos. [5] In Achaia etiam atque 〈apud〉 Aegyptum rebelliones repressit. Alanos20 molientis saepe refrenavit. [6, 1] Procuratores suos et modeste suscipere tributa iussit et excedentes modum rationem factorum suorum reddere praecepit nec umquam ullo laetatus est lucro, quo provincialis oppressus est. [2] Contra procuratores suos conquerentes libenter audivit. [3] His, quos Hadrianus damnaverat, in senatu indulgentias petit dicens etiam ipsum Hadrianum hoc fuisse facturum. [4] Imperatorium fastigium ad summam civilitatem deduxit; unde plus crevit recusantibus aulicis ministris, qui illo nihil per internuntios agente nec terrere poterant homines aliquando nec ea, quae occulta non erant, vendere21. [5] Senatui tantum detulit imperator, quantum, cum privatus esset, deferri sibi ab alio principe optavit. [6] Patris patriae nomen delatum a senatu, quod primo distulerat, cum ingenti gratiarum actione suscepit. [7] Tertio anno imperii sui Faustinam uxorem perdidit, quae a senatu consecrata est delatis circensibus atque templo22 et flaminicis et statuis aureis atque argenteis, cum etiam ipse hoc concesserit, ut imago eius cunctis circensibus poneretur. [8] Statuam auream delatam a senatu positam suscepit. [9] M. Antoninum quaestorem consulem petente senatu creavit. [10] Annium Verum, qui postea dictus est Antoninus, ante tempus23 quaestorem designavit. [11] Neque de provinciis neque de ullis actibus quicquam constituit, nisi quod prius ad amicos24 rettulit, atque ex eorum sententia formas composuit. [12] Visus est sane ab amicis et cum privatis vestibus et domestica quaedam gerens. [7, 1] Tanta sane diligentia subiectos sibi populos rexit, ut omnia et omnes, quasi sua essent, curaret. Provinciae sub eo cunctae floruerunt. [2]

Quadruplatores extincti sunt. [3] Publicatio bonorum rarior quam umquam fuit, ita ut unus tantum proscriberetur affectatae tyrannidis reus, hoc est Atilius Titianus25, senatu puniente, a quo conscios requiri vetuit, filio eius ad omnia semper adiuto. [4] Perit et Priscianus26 reus affectatae tyrannidis, sed morte voluntaria. De qua coniuratione quaeri vetuit. [5] Victus Antonini Pii talis fuit, ut esset opulentia sine reprehensione, parsimonia sine sordibus, et mensa eius per proprios servos, proprios aucupes, piscatores ac venatores instrueretur. [6] Balneum, quo usus fuisset, sine mercede populo exhibuit nec omnino quicquam de vitae privatae qualitate mutavit. [7] Salaria multis subtraxit, quos otiosos videbat accipere, dicens nihil esse sordidius, immo crudelius, quam si rem p. is adroderet, qui nihil in eam suo labore conferret. [8] Unde etiam Mesomedi27 lyrico salarium inminuit. Rationes omnium provinciarum adprime scivit et vectigalium. [9] Patrimonium privatum in filiam contulit, sed fructus rei publicae donavit. [10] Species imperatorias superfluas et praedia vendidit et in suis propriis fundis vixit varie ac pro temporibus. [11] Nec ullas expeditiones obiit, nisi quod ad agros suos profectus est et ad Campaniam dicens gravem esse provincialibus comitatum principis, etiam nimis parci. [12] Et tamen ingenti auctoritate apud omnes gentes fuit, cum in urbe propterea sederet, ut undique nuntios, medius utpote, citius posset accipere. [8, 1] Congiarium populo dedit, militibus donativum addidit. Puellas alimentarias28 in honorem Faustinae Faustinianas constituit. [2] Opera eius29 haec extant: Romae templum Hadriani30 honori patris dicatum, Graecostadium31 post incendium restitutum, instauratum amphitheatrum32, sepulchrum Hadriani33, templum Agrippae34, pons sublicius35; [3] Fari36 restitutio, Caietae portus, Terracinensis portus restitutio, lavacrum Ostiense, Antiatium aquae ductus, templa Lanuviana. [4] Multas etiam civitates adiuvit pecunia, ut opera vel nova facerent vel vetera restituerent, ita ut et magistratus adiuvaret et senatores urbis ad functiones suas. [5] Hereditates eorum, qui filios habebant, repudiavit. Primus constituit, ne poenae causa legatum relictum maneret. [6] Successorem viventi bono iudici nulli dedit nisi Orfito praefecto urbi, sed petenti. [7] Nam Gavius Maximus praefectus praetorii usque ad vicensimum annum37 sub eo pervenit, vir severissimus, cui Tatius Maximus successit. [8] In cuius demortui locum duos praefectos substituit Fabium Repentinum et Cornelium Victorinum38. [9] Sed Repentinus 〈fabula〉 famosa percussus est, quod per concubinam principis ad

praefecturam venisset. [10] Usque adeo sub eo nullus percussus est senator, ut etiam parricida confessus in insula deserta poneretur, quia vivere illi naturae legibus non licebat. [11] Vini, olei et tritici penuriam per aerarii sui damna emendo et gratis populo dando sedavit. [9, 1] Adversa eius temporibus haec provenerunt: fames, de qua diximus, circi ruina, terrae motus39, quo Rhodiorum et Asiae oppida conciderunt, quae omnia mirifice instauravit, et Romae incendium, quod trecentas quadraginta insulas vel domos absumpsit. [2] Et Narbonensis civitas40 et Antiochense oppidum et Carthaginense forum arsit. [3] Fuit et inundatio Tiberis, apparuit et stella crinita, natus est et biceps puer, et uno partu mulieris quinque pueri editi sunt. [4] Visus est in Arabia iubatus anguis maior solitis, qui se a cauda medium comedit. Lues etiam in Arabia fuit. Hordeum in Moesia in culminibus arborum natum est. [5] Quattuor praeterea leones mansueti sponte se capiendos in Arabia praebuerunt. [6] Pharasmanes rex ad eum Romam venit plusque illi quam Hadriano detulit41. Pacorum regem Lazis42 dedit. Parthorum regem43 ab Armeniorum expugnatione solis litteris reppulit. Abgarum44 regem ex orientis partibus sola auctoritate deduxit. [7] Causas regales terminavit. Sellam regiam45 Parthorum regi repetenti, quam Traianus ceperat, pernegavit. [8] Rhoemetalcen46 in regnum Bosforanum audito inter ipsum et Eupatorem47 negotio remisit. [9] Olbiopolitis48 contra Tauroscythas49 in Pontum auxilia misit et Tauroscythas usque ad dandos Olbiopolitis obsides vicit. [10] Tantum sane auctoritatis apud exteras gentes nemo habuit, cum semper amaverit pacem, eo usque ut Scipionis sententiam frequentarit, qua ille dicebat malle se unum civem servare quam mille hostes occidere50. [10, 1] Mensem Septembrem atque Octobrem Antoninum atque Faustinum appellandos decrevit senatus, sed id Antoninus respuit. [2] Nuptias filiae suae Faustinae, cum Marco Antonino eam coniungeret, usque ad donativum militum celeberrimas fecit. [3] Verum Antoninum post quaesturam consulem fecit. [4] Cum Apollonium51, quem e Calchide acciverat, ad Tiberianam domum52, in qua habitabat, vocasset, ut ei Marcum Antoninum traderet, atque ille dixisset «Non magister ad discipulum debet venire, sed discipulus ad magistrum», risit eum dicens: «Facilius fuit Apollonio a Calchide Romam venire quam a domo sua in palatium». Cuius avaritiam etiam {in} mercedibus notavit. [5] Inter argumenta pietatis eius et hoc habetur, quod, cum Marcus mortuum educatorem suum fleret

vocareturque ab aulicis ministris ab ostentatione pietatis, ipse dixerit: «Permittite», inquit, «illi, ut homo sit. Neque enim vel philosophia vel imperium tollit affectus». [6] Praefectos suos et locupletavit et ornamentis consularibus donavit. [7] Si quos repetundarum damnavit, eorum liberis bona paterna restituit, ea tamen lege, ut illi provincialibus redderent, quod parentes acceperant. [8] Ad indulgentias pronissimus fuit. [9] Edita munera, in quibus elephantos et corocottas et tigrides et rhinocerotes, crocodillos etiam atque hippopotamos et omnia ex toto orbe terrarum cum tigridibus exhibuit. Centum etiam leones una missione edidit. [11, 1] Amicis suis in imperio suo non aliter usus est quam privatus, quia et ipsi numquam de eo cum libertis per fumum aliquid vendiderunt; si quidem libertis suis severissime usus est. [2] Amavit histrionum artes. Piscando se et venando multum oblectavit et deambulatione cum amicis atque sermone. Vindemias privati modo cum amicis agebat. [3] Rhetoribus et philosophis per omnes provincias et honores et salaria detulit. Orationes plerique alienas esse dixerunt, quae sub eius nomine feruntur; Marius Maximus eius proprias fuisse dicit. [4] Convivia cum amicis et privata communicavit et publica [5] nec ullum sacrificium per vicarium fecit, nisi cum aeger fuit. [6] Cum sibi et filiis honores peteret, omnia quasi privatus fecit. [7] Frequentavit et ipse amicorum suorum convivia. [8] Inter alia etiam hoc civilitatis eius praecipuum argumentum est, quod, cum domum Homulli53 visens miransque columnas porphyreticas requisisset, unde eas haberet, atque Homullus ei dixisset: «Cum in domum alienam veneris, et mutus et surdus esto», patienter tulit. Cuius Homulli multa ioca semper patienter accepit. [12, 1] Multa de iure sanxit ususque est iuris peritis Vindio Vero, Salvio Valente, Volusio Maeciano, Ulpio Marcello et Diaboleno54. [2] Seditiones ubicumque factas non crudelitate sed modestia et gravitate compressit. [3] Intra urbes sepeliri mortuos vetuit. Sumptum muneribus gladiatoriis instituit. Vehicularium cursum summa diligentia sublevavit. Omnium, qua gessit, et in senatu et per edicta rationem reddidit. [4] Perit anno septuagensimo55, sed quasi adulescens desideratus est. Mors autem eius talis fuisse narratur: cum Alpinum caseum in cena edisset avidius, nocte reiectavit atque alia die febre commotus est. [5] Tertia die, cum se gravari videret, Marco Antonino rem publicam et filiam praesentibus praefectis commendavit Fortunamque auream, quae in cubiculo principum poni solebat, transferri ad eum iussit, [6] signum tum tribuno aequanimitatis dedit atque ita conversus quasi dormiret, spiritum reddidit apud Lorium. [7]

Alienatus in febri nihil aliud quam de re p. et de his regibus, quibus irascebatur, loquutus est. [8] Privatum patrimonium filiae reliquit. Testamento autem omnes suos legatis idoneis prosecutus est. [13, 1] Fuit statura elevata decorus. Sed cum esset longus et senex incurvareturque, tiliaciis tabulis in pectore positis fasciabaturut rectus incederet. [2] Senex etiam, antequam salutatores venirent, panem siccum comedit ad sustentandas vires. Fuit voce rauca et sonora cum iocunditate. [3] A senatu divus est appellatus cunctis certatim adnitentibus, cum omnes eius pietatem, clementiam, ingenium, sanctimoniam laudarent. Decreti etiam sunt omnes honores, qui optimis principibus ante delati sunt. [4] Meruit et flaminem et circenses et templum et sodales Antoninianos solusque omnium prope principum prorsus 〈sine〉 civili sanguine et hostili, quantum ad se ipsum pertinet, vixit et qui rite comparetur Numae, cuius felicitatem pietatemque et securitatem cerimoniasque semper obtinuit.

[1, 1] Tito Aurelio Fulvo Boionio Antonino Pio era originario, per parte di padre, della Gallia transalpina, precisamente di Nemauso; [2] suo nonno era Tito Aurelio Fulvo il quale, dopo aver ricoperto varie cariche, era giunto al secondo consolato e alla prefettura urbana; [3] suo padre era Aurelio Fulvo, che fu pure lui console, uomo austero ed onesto, [4] la nonna materna era Boionia Procilla, la madre Arria Fadilla, il nonno materno Arrio Antonino, che fu due volte console, uomo di costumi irreprensibili e noto per aver commiserato Nerva per la sua ascesa al trono; [5] la sorella era Giulia Fadilla, [6] il patrigno Giulio Lupo, di rango consolare, il suocero Annio Vero, la moglie Annia Faustina; [7] ebbe due figli maschi1 e due femmine2, la maggiore sposata a Lamia Silvano, la minore a Marco Antonino. [8] Antonino Pio nacque il 19 settembre dell’anno in cui erano consoli Domiziano per la dodicesima volta e Cornelio Dolabella3, in una tenuta di Lanuvio4. Fu educato a Lorio5, lungo la via Aurelia6, dove successivamente eresse un palazzo, di cui ancor oggi rimangono i ruderi. [9] Trascorse la fanciullezza con il nonno paterno, poi con quello materno, usando sempre grande reverenza nei riguardi dei suoi parenti, così che si trovò arricchito dalle eredità lasciategli dai cugini, dal patrigno, e da molti altri parenti. [2, 1] Era uomo di bell’aspetto, di segnalato ingegno, di costumi improntati alla clemenza, di contegno aristocratico, col volto atteggiato a compostezza; aveva intelligenza fuori del comune, lucida eloquenza, cultura letteraria di prim’ordine; era uomo sobrio, dedito con passione all’esercizio dell’agricoltura; mite, generoso, rispettoso dei beni altrui: e tutte queste virtù le praticava con equilibrio e senza ostentazione; [2] insomma, in tutti i campi il suo comportamento si mostrò degno di lode, e tale che giustamente la sua figura – a giudizio delle persone più degne – fu paragonata a quella di Numa Pompilio. [3] Il senato lo soprannominò Pio, o perché alla presenza dei senatori riuniti aveva sorretto col proprio braccio il suocero ormai malfermo per l’età (ciò che per la verità non costituisce un indizio di grande «pietà», dal momento che sarebbe più empio chi non si prestasse a un tale atto, di quanto non sia pio uno che con ciò adempie semplicemente ad un dovere), [4] o perché aveva salvato la vita a coloro che Adriano, in preda agli attacchi deliranti del male, aveva ordinato di uccidere, [5] o perché, dopo la morte di Adriano, gli aveva decretato, contro il parere di tutti, innumerevoli e straordinarie onoranze, [6] o perché, quando Adriano voleva uccidersi, sottoponendolo ad una sorveglianza assidua e scrupolosa, aveva fatto sì che

non potesse mettere in atto quel proposito, [7] o perché egli era effettivamente molto clemente per natura, sì che, nel corso del suo regno, non compì mai alcuna azione crudele. [8] Prestava denaro al quattro per cento, cioè col minimo di interesse, onde potere sovvenire, col proprio patrimonio, alle necessità di un gran numero di persone. [9] Rivesti la questura, dando prova di liberalità, la pretura, che esercitò con signorile larghezza, e infine il consolato, assieme a Catilio Severo7. [10] In tutti i periodi della sua vita trascorsi libero da pubbliche incombenze, si ritirava assai di frequente in campagna, ma era ben conosciuto dappertutto, [11] Adriano lo elesse tra i quattro consolari a cui era affidato il governo dell’Italia, assegnandogli l’amministrazione di quella parte della penisola, in cui lui aveva estesi possedimenti, così da garantire ad un tempo prestigio e tranquillità di vita a un uomo così valente. [3, 1] Mentre governava l’Italia ebbe un presagio del suo destino imperiale8. Una volta che, infatti, era salito sulla tribuna, fra le altre acclamazioni fu pronunziata anche questa: «Augusto, gli dèi ti salvino». [2] Resse il proconsolato d’Asia9 in modo tale da riuscire, lui solo, a superare la fama del nonno. [3] Anche nel corso di esso ricevette un presagio del suo destino imperiale, in queste circostanze: a Tralle10 la sacerdotessa che, secondo l’uso, salutava sempre i proconsoli appunto con questo titolo, non gli disse: «Ave, proconsole», ma: «Ave, imperatore». [4] Inoltre, a Cizico11 una corona venne trasferita dal simulacro di un dio a una statua di lui. [5] Ancora: dopo il suo consolato un toro di marmo che era posto in giardino fu trovato appeso per le corna ai rami in crescita di un albero12; una folgore cadde a ciel sereno nella sua casa senza provocare alcun danno; in Etruria certi vasi, che erano stati sotterrati, furono rinvenuti alla superficie, e in tutta la regione le statue di lui furono ricoperte da sciami di api; più volte ebbe in sogno l’avvertimento di includere fra i suoi Penati13 anche l’immagine di Adriano. [6] Mentre era in procinto di partire per il suo proconsolato perse la figlia maggiore. [7] Sul conto della moglie corsero molte voci per via della sua eccessiva libertà e facilità di costumi: ma egli, pur soffrendone in cuor suo, cercò di metterle a tacere. [8] Dopo il proconsolato spesso, a Roma, prese la parola nel consiglio di Adriano, sempre esprimendo il parere più conciliante su tutte le questioni di cui Adriano si occupava. [4, 1] L’adozione avvenne – a quanto si racconta – in questo modo: dopo la morte di Elio Vero, che Adriano aveva adottato conferendogli il titolo di

Cesare, era in programma una seduta del senato; [2] alla quale Arrio Antonino si presentò sostenendo i passi malfermi del suocero: fu in seguito a questo – a quanto si dice – che Adriano decise di adottarlo, [3] ma questo non avrebbe assolutamente potuto né dovuto essere il solo motivo dell’adozione, specialmente ove si tenga conto che Antonino aveva sempre amministrato con merito lo Stato, e nel corso del suo proconsolato aveva dato prova di rettitudine e serietà. [4] Dunque, quando Adriano rese pubblica la sua intenzione di adottarlo, egli prese tempo per decidere se volesse accettare o meno l’adozione da parte dell’imperatore. [5] L’adozione fu fatta dipendere da questa condizione, che, come Antonino veniva adottato da Adriano, così egli adottasse a sua volta Marco Antonino, figlio del cognato, e Lucio Vero, figlio di Elio Vero, che era stato adottato da Adriano, il quale in seguito ebbe il nome di Vero Antonino. [6] Fu adottato il 25 febbraio14, e lo stesso giorno ringraziò in senato Adriano per aver avuto tale considerazione nei suoi confronti. [7] Diventò collega del padre nel comando proconsolare e nella potestà tribunizia15. [8] Il primo aneddoto che si racconta su di lui si riferisce a quanto ebbe a rispondere alla moglie che lo rimproverava di essere poco generoso con i suoi famigliari in merito a non so quali spese: «Sciocca, dopo che siamo saliti al potere, abbiamo perso anche quello che possedevamo prima»16. [9] Attingendo al proprio patrimonio elargì un donativo ai soldati e al popolo, concedendo anche quanto aveva promesso il padre. [10] Molto denaro destinò al compimento delle opere iniziate da Adriano, e restituì – per intero agli Italici, per metà agli abitanti delle province – l’oro coronario17 che avevano versato in occasione della sua adozione. [5, 1] Finché il padre fu vivo, gli rimase sottomesso con grandissima devozione. E quando Adriano morì a Baia, fece trasportare a Roma i suoi resti con religiosa reverenza, e li collocò nei giardini di Domizia; inoltre, nonostante il parere contrario di tutti, lo divinizzò. [2] Permise che la moglie di lui, Faustina, ricevesse dal senato il titolo di Augusta. Accettò per sé l’appellativo di Pio. Approvò di buon grado la decisione di erigere statue al padre, alla madre, ai nonni e ai fratelli già morti. Non si oppose all’allestimento di giochi nel circo per la festa del suo genetliaco, ma rifiutò ogni altra onoranza. Consacrò ad Adriano uno splendido scudo, e istituì un ordine sacerdotale in suo onore. [3] Una volta divenuto imperatore non destituì nessuno di coloro che Adriano aveva promosso a qualche ufficio, e si mantenne talmente fermo in questo atteggiamento, che arrivò a mantenere per sette e nove anni ciascuno

nelle province i governatori che avevano esercitato una buona amministrazione. [4] Condusse numerose operazioni militari valendosi dell’opera dei suoi luogotenenti: ad esempio, con Lollio Urbico18 – uno di questi – sconfisse i Britanni e, una volta ricacciati indietro i barbari, fece erigere un altro terrapieno19; costrinse inoltre i Mauri a chiedere la pace e, tramite i suoi governatori e luogotenenti, piegò le ribellioni di Germani, Daci e di molti altri popoli, tra cui i Giudei. [5] Anche in Acaia e in Egitto represse varie ribellioni. In più occasioni riuscì a contenere i tentativi di insurrezione degli Alani20. [6, 1] Ordinò ai suoi procuratori di essere moderati nell’esazione dei tributi, e diede disposizione che coloro che oltrepassavano la giusta misura avessero a render conto del loro operato, né mai si compiacque di alcun guadagno ottenuto con lo sfruttamento dei provinciali. [2] Era di buon grado disponibile a dare udienza a quanti avevano da presentare lagnanze nei confronti dei suoi procuratori. [3] Chiese in senato un’amnistia a favore di coloro che erano stati condannati da Adriano, dicendo che Adriano stesso avrebbe agito così. [4] Sostituì agli aspetti pomposi della dignità imperiale un’assoluta semplicità di costumi, ciò che fece crescere il suo prestigio, nonostante l’opposizione dei funzionari di corte che, dato che egli non compiva alcun atto tramite intermediari, non potevano in alcuna occasione seminare spavento tra la gente con oscure minacce, né vendere informazioni che non erano segrete21. [5] Nei riguardi del senato mostrò quella rispettosa considerazione che, quando era privato, aveva desiderato che gli altri imperatori avessero nei suoi confronti. [6] Accettò – dopo averlo in un primo tempo rifiutato – il titolo di padre della patria offertogli dal senato, esprimendo ad esso la più viva gratitudine. [7] Nel terzo anno del suo impero perdette la moglie Faustina, la quale fu divinizzata dal senato, che le dedicò giochi circensi, un tempio22, sacerdotesse e statue d’oro e d’argento, mentre egli stesso inoltre concesse che l’immagine di lei venisse esposta a tutti gli spettacoli del circo. [8] Accettò l’erezione di una statua d’oro decretata in suo onore dal senato. [9] Su richiesta del senato, conferì il consolato all’allora questore Marco Antonino. [10] Nominò questore prima che avesse raggiunto l’età legale23 Annio Vero, che successivamente ebbe il nome di Antonino. [11] Non prendeva mai alcuna decisione né a proposito delle province, né su provvedimenti di qualsiasi genere, senza aver prima consultato gli amici24, e tenendo conto dei loro pareri formulava i suoi decreti. [12] Si faceva vedere

senza scrupolo dagli amici in abiti da casa mentre sbrigava qualche faccenda domestica. [7, 1] Governò i popoli a lui soggetti con tanta sollecitudine, da prendere a cuore cose e persone come se gli appartenessero personalmente. Tutte le province sotto di lui prosperarono. [2] I delatori sparirono. [3] Le confische dei beni furono più rare che mai, così che il solo Atilio Tiziano25, colpevole di aver aspirato al potere, venne colpito da proscrizione: e a punirlo fu il senato, mentre l’imperatore vietò che il senato stesso ne ricercasse i complici, e aiutò sempre suo figlio in ogni necessità. [4] Sempre in conseguenza dell’essersi reso colpevole di mire imperiali, morì anche Prisciano26, ma di propria mano, e il sovrano non permise che si conducessero indagini sulla congiura. [5] La mensa di Antonino Pio era cosiffatta da presentare un aspetto di abbondanza senza indulgere a deprecabili sprechi, e di frugalità senza cadere nella grettezza, e organizzata in modo che a rifornire la sua tavola provvedevano direttamente i suoi stessi schiavi, uccellatori, pescatori, cacciatori. [6] Dopo aver fatto uso di un bagno, lo metteva gratuitamente a disposizione del popolo, e non mutò assolutamente nulla del tipo di vita che aveva condotto da privato. [7] Privò del salario molti che vedeva riceverlo senza far nulla, affermando che nulla v’è di più vergognoso, anzi di più crudele, del fatto che lo Stato abbia ad essere spolpato da gente che non apporta ad esso alcun beneficio con la propria attività. [8] Per la stessa ragione diminuì il salario anche al poeta lirico Mesomede27. Conosceva perfettamente i bilanci di tutte le province, e delle entrate dello Stato. [9] Donò alla figlia tutto il suo patrimonio privato, ma ne riservò l’usufrutto allo Stato. [10] Vendette le insegne esteriori superflue del potere regio e i terreni di proprietà imperiale, vivendo nell’uno o nell’altro dei fondi di sua proprietà secondo le stagioni. [11] Non intraprese alcun viaggio se non per andare a visitare i suoi poderi, o per recarsi in Campania, giacché diceva che risultava troppo gravoso per i provinciali doversi fare carico di tutto il seguito di un imperatore, anche se di costumi molto frugali. [12] E nondimeno godette di grande prestigio presso tutti i popoli, dato che il suo risiedere a Roma era allo scopo di poter più celermente ricevere – stando, appunto, al centro dell’impero – le notizie provenienti da ogni parte di esso. [8, 1] Elargì al popolo un donativo e distribuì un soprassoldo alle truppe. In onore di Faustina fondò un collegio di fanciulle chiamate Faustiniane, mantenute a spese dello Stato28. [2] Nel campo delle opere pubbliche29 restano di lui: a Roma il tempio di Adriano30, che eresse in onore di suo padre, il

grecostadio31, da lui ricostruito dopo un incendio, l’anfiteatro32, che egli fece restaurare, la tomba di Adriano33, il tempio di Agrippa34, il ponte Sublicio35; [3] la restaurazione del Faro36, il porto di Gaeta, la restaurazione del porto di Terracina, le terme di Ostia, l’acquedotto di Anzio, i templi di Lanuvio. [4] Concesse a molte città sovvenzioni di denaro sia per la costruzione di nuove opere pubbliche sia per la restaurazione di quelle vecchie, e fornì un aiuto finanziario ai magistrati e ai senatori di Roma per l’esercizio delle loro funzioni. [5] Rifiutò di incamerare le eredità di chi aveva dei figli. Per primo proibì che un lascito testamentario rimanesse non goduto dall’erede a motivo di una condanna. [6] Non sostituì mai alcun magistrato degno per tutto il tempo in cui viveva, ad eccezione del prefetto dell’urbe Orfito, ma solo in seguito a sua richiesta. [7] Fu così che sotto di lui il prefetto del pretorio Gavio Massimo, uomo di grande austerità, rimase in carica per vent’anni37; a lui subentrò Tazio Massimo [8] e, quando costui fu morto, Antonino insediò al suo posto due prefetti, Fabio Repentino e Cornelio Vittorino38. [9] Ma su Repentino gravò il peso di una diceria infamante, secondo la quale egli sarebbe giunto alla prefettura grazie agli intrighi della concubina dell’imperatore. [10] Fu tale la sua preoccupazione che sotto di lui nessun senatore fosse messo a morte, che si limitò a confinare in un’isola deserta persino un parricida confesso, con la motivazione che a un uomo di tal genere non era lecito vivere in una società regolata secondo le leggi di natura. [11] Pose riparo alla scarsità di vino, olio e frumento acquistandone a proprio carico delle provviste che poi distribuiva gratuitamente al popolo. [9, 1] Nel corso del suo regno si verificarono eventi funesti: la carestia, di cui abbiamo parlato, il crollo del circo, un terremoto39 che rase al suolo varie città di Rodi e dell’Asia, tutte poi da lui splendidamente ricostruite, e un incendio a Roma, che distrusse trecentoquaranta abitazioni, tra isolati e singole case. [2] Scoppiarono incendi anche a Narbona40, ad Antiochia e nel foro di Cartagine. [3] Vi fu anche un’inondazione del Tevere, e apparve una stella cometa; nacque un bambino con due teste, e una donna partorì in una volta cinque gemelli. [4] Fu visto in Arabia un serpente con una cresta di dimensioni inusitate, che si divorò a mezzo a partire dalla coda. Sempre in Arabia scoppiò una pestilenza. Nella Mesia spuntò orzo sulle cime degli alberi. [5] Ancora in Arabia quattro leoni mansueti si offrirono spontaneamente alla cattura. [6] Il re Farasmane venne da lui a Roma, e si mostrò verso di lui più

deferente di quanto non era stato nei riguardi di Adriano41. Creò Pacoro re dei Lazi42. Con una semplice lettera riuscì a distogliere il re dei Parti43 dall’assalire l’Armenia. Con la sua sola autorità richiamò il re Abgaro44 dall’Oriente. [7] Compose delle contese sorte fra i vari re. Negò recisamente al re dei Parti la restituzione da lui richiesta del trono regale45 che Traiano aveva preso quale parte del bottino. [8] Rimise al governo del Bosforo Remetalce46, dopo aver preso conoscenza dei termini della disputa sorta fra questo ed Eupatore47. [9] Mandò nel Ponto truppe in aiuto agli Olbiopoliti48 nella guerra contro i Taurosciti49, provocando la sconfitta di questi ultimi, che furono perfino costretti a lasciare agli Olbiopoliti degli ostaggi. [10] Nessuno ebbe a godere di tanto prestigio presso i popoli stranieri, in quanto amò sempre la pace, al punto da ripetere spesso il detto di Scipione, in cui affermava che preferiva salvare un solo cittadino che uccidere mille nemici50. [10, 1] Il senato propose che i mesi di Settembre e Ottobre prendessero il nome di Antonino e Faustino, ma Antonino rifiutò. [2] Quando diede in sposa a Marco Antonino sua figlia Faustina, festeggiò le nozze con grandissima solennità, fino a concedere un donativo ai soldati. [3] A Vero Antonino, dopo la questura, conferì il consolato. [4] Una volta aveva chiesto ad Apollonio51, che aveva fatto venire fin da Calcide, di recarsi al Palazzo di Tiberio52, dove egli abitava, per affidargli Marco Antonino, e avendogli quello fatto rispondere: «Non è il maestro che deve andare dal discepolo, ma il discepolo dal maestro», egli esclamò a sua volta ridendo: «È stato più facile, per Apollonio, venire da Calcide a Roma, che da casa sua a Palazzo». E non mancò di stigmatizzare anche la sua avidità nei compensi richiesti. [5] Tra gli altri episodi che confermano la sua sensibilità d’animo si ricorda anche questo: mentre Marco piangeva la morte del suo precettore, e i ministri di corte cercavano di distoglierlo dal manifestare così il proprio affetto, egli intervenne dicendo: «Permettetegli di essere uomo. Ché né la filosofia né il potere sono in grado di soffocare i sentimenti». [6] Arricchì i suoi prefetti e conferì loro la dignità consolare. [7] Se condannava qualcuno per il reato di concussione, rendeva ai figli del condannato i beni paterni, a condizione però che restituissero ai provinciali quanto i padri avevano ad essi estorto. [8] Fu incline all’indulgenza quant’altri mai. [9] Organizzò spettacoli in cui fece comparire elefanti, sciacalli, tigri e rinoceronti, e anche coccodrilli ed ippopotami, e, insieme con le tigri, ogni sorta di animali provenienti da ogni parte del mondo. Presentò anche cento leoni in una volta sola.

[11, 1] Con i suoi amici, anche diventato imperatore, mantenne gli stessi rapporti che aveva da privato, mentre essi, da parte loro, non fecero mai combutta con i liberti per vendere fumo su qualcosa che lo riguardasse; ché, nei riguardi di quelli, Antonino usò sempre grande severità. [2] Amava il teatro. Si divertiva molto ad andare a pesca e a caccia, nonché a passeggiare e chiacchierare con gli amici. Passava il tempo della vendemmia in compagnia degli amici, come si usa tra privati. [3] Distribuì titoli onorifici e stipendi, in tutte le province, ai retori e ai filosofi. Molti hanno sostenuto che le orazioni tramandate sotto il suo nome sono in realtà opera di altri; Mario Massimo afferma invece che sono autenticamente sue. [4] Faceva partecipare i suoi amici ai conviti che dava, così a quelli privati come a quelli pubblici, [5] e non si faceva mai sostituire nella celebrazione di un sacrificio, se non quando era ammalato. [6] Quando chiedeva delle cariche per sé o per i suoi figli, si atteneva in tutto alla procedura in uso per un privato cittadino. [7] Partecipava a sua volta di frequente ai banchetti degli amici. [8] Tra gli altri episodi che attestano la sua bonarietà di carattere, è particolarmente indicativo anche il seguente: trovandosi in visita in casa di Omullo53, osservò con ammirazione alcune colonne di porfido, e chiese dove se le fosse procurate; e, nonostante Omullo gli avesse risposto: «Una volta entrato in casa d’altri, devi essere muto e sordo», non se ne ebbe a male. E accettò sempre con spirito le molte battute di quel tale. [12, 1] Molti furono i suoi provvedimenti nel campo del diritto, dove si valse dei giureconsulti Vindio Vero, Salvio Valente, Volusio Meciano, Ulpio Marcello e Diaboleno54. [2] Represse le ribellioni, dovunque fossero scoppiate, non con crudeltà, ma con moderazione e severità ad un tempo. [3] Proibì di seppellire i morti entro le mura urbane. Istituì uno stanziamento per l’allestimento di spettacoli gladiatori. Dispose con grande cura provvidenze per migliorare il servizio postale. Di ogni suo provvedimento rendeva conto sia in senato sia attraverso pubblici editti. [4] Morì a settant’anni55, ma fu rimpianto come se fosse morto giovane. La sua morte – a quanto si racconta – avvenne in queste circostanze: in seguito a un’indigestione di cacio alpino fatta durante una cena, la notte ebbe una crisi di vomito, e il giorno seguente fu colto dalla febbre. [5] Il terzo giorno, vedendo che le sue condizioni si aggravavano, affidò a Marco Antonino, alla presenza dei prefetti, lo Stato e sua figlia, e ordinò che fosse trasferita da lui la statua d’oro della Fortuna, che era d’uso dovesse stare nella stanza dell’imperatore; [6] poi comunicò al tribuno la parola d’ordine: «equanimità»;

e così, girato su di un fianco come per dormire, spirò a Lorio. [7] Per tutto il tempo in cui rimase in preda al delirio della febbre, non parlò d’altro che dello Stato e dei re con i quali era in quel momento in contesa. [8] Lasciò il suo patrimonio privato alla figlia, ma non mancò di beneficiare anche tutti i suoi parenti con adeguati lasciti. [13, 1] Era un bell’uomo, di elevata statura. Ma, alto com’era, quando, diventando vecchio, cominciò ad incurvarsi, per mantenere sempre un’andatura eretta si fasciava il petto con assicelle, di tiglio. [2] Sempre da vecchio, prima che i cortigiani venissero a porgergli il saluto, mangiava del pane secco per tenersi in forze. Aveva una voce rauca e risonante, che riusciva non sgradevole. [3] Il senato decretò la sua consacrazione divina, dopo che tutti quanti si erano adoperati, quasi a gara, a proporla, esaltando ognuno la bontà d’animo, la clemenza, l’ingegno, la probità di Antonino. Gli furono anche decretati tutti gli onori già in precedenza tributati ai migliori imperatori. [4] Così ebbe meritatamente un flamine, dei giochi circensi, un tempio e un collegio sacerdotale di Antoniniani, e unico forse fra tutti gli imperatori visse, per quanto era in suo potere, senza macchiarsi mai né del sangue dei cittadini né di quello dei nemici, e in modo tale da essere giustamente paragonato a Numa, col quale mantenne sempre in comune la prosperità del regno, la bontà d’animo, la tranquillità e la religiosità.

1. M. Aurelio Fulvo Antonino e M. Galerio Aurelio Antonino, morti entrambi prima che il padre venisse adottato da Adriano e adottasse a sua volta Marco Aurelio e Lucio Vero. 2. Aurelia Fadilla, la maggiore, e Annia Galeria Faustina, la minore. Sui personaggi citati nel corso della Vita cfr. in particolare H. G. PFLAUM, La valeur de la source inspiratrice de la Vita Pii à la lumière des personnalités nommément citées, in BHAC, 1964-65, Bonn, 1966, pp. 143 segg. 3. L’86 d. C. 4. Città antichissima, a sud del lago di Albano. 5. La città di Lorium era situata nell’Etruria meridionale. 6. La via che da Roma, costeggiando il litorale dell’Etruria, giungeva a Pisa. 7. Nel 120 d. C. 8. Sugli omina, imperii cfr., in generale, J. STRAUB, Heidnische Geschichtsapologetik in der christlichen Spätantike. Untersuchungen über Zeit und Tendenz der HA, Bonn, 1963, pp. 125 segg. e, più in particolare, Y. DE KISCH, Sur quelques omina imperii dans l’HA, «Rev. ét. lat.», LI, 1973, pp. 190 segg. 9. Nel 135 d. C. 10. Città della Lidia, in Asia Minore. 11. Città situata sulla Propontide (l’odierno Mar di Marmara). 12. Cfr. A. BALLAND, Un taureau dans un arbre, in Mélanges P. Boyancé, Roma, 1974, PP. 39-56, che avanza l’ipotesi che l’omen imperii qui ricordato sia ispirato a un rituale sacrificale che aveva luogo – come ci è attestato da alcune monete su cui esso è rappresentato – a Ilio in Troade, e in cui una vacca veniva sospesa su un albero e immolata, di fronte alla statua di Atena, in tale posizione. 13. Gli dèi protettori della famiglia e del focolare domestico (presso il quale era celebrato il loro culto) e, più in generale, dello Stato. 14. Del 138 d. C. 15. L’imperium proconsulare, che attribuiva il supremo comando militare, e la tribunicia potestas (cfr. Hadr., 3, 5, n. 12), che aveva quale prerogativa l’intercessio (cioè il diritto di veto su qualsiasi atto magistraturale e decreto senatorio) costituivano la base del potere militare e civile dell’imperatore. 16. Sulla condizione patrimoniale dell’imperatore cfr. in generale H. NESSELHAUF, Patrimonium und res privata des römischen Kaisers, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 73 segg. (per il passo in questione v. pp. 77 seg.). 17. Cfr. Hadr., 6, 5, 11. 2. 18. Q. Lollio Urbico, generale al tempo della guerra giudaica sotto Adriano, nel 142 d. C. ottenne una vittoria sui Britanni. 19. Si tratta del Vallum Antonini, che correva dall’estuario del Forth a quello del Clyde (nell’odierna Scozia), per una lunghezza complessiva di 60 km circa. Iniziato da Agricola nell’8o d. C., venne ulteriormente rafforzato da Antonino Pio nel 142, ed era costituito da un muro costeggiato da un fossato. 20. Popolazione caucasica, stanziata originariamente fra il Don e il Mar Caspio; ai tempi di Adriano si erano spinti sino in Armenia e Cappadocia. 21. Su queste pratiche disoneste di certi funzionari di corte, per le quali era usata anche l’espressione tipica fumos vendere, cfr. anche 11, 1 e Al. Sev., 23, 8 e 36, 2. 22. Alla morte dell’imperatore il tempio fu dedicato anche al divo Antonino; esso sorgeva lungo la Via Sacra, ad oriente del Foro. 23. L’età regolamentare per essere eletti questori in età imperiale era di venticinque anni, mentre Lucio Vero (sulla confusione concernente il nome Annio Vero cfr. Hadr., 24, 1, n. 4) ne aveva allora solo ventitré. 24. Probabilmente i membri del suo consilium (cfr. Hadr., 8, 9, n. 3). 25. T. Atilius Rufus Titianus, console nel 127, probabilmente da identificare col Titianus citato in

Hadr., 15, 6 (cfr. n. 5 a p. 162). 26. Cornelio Prisciano, condannato in Senato nel 145 d. C. in relazione a disordini nella Spagna. 27. Liberto di Adriano, di origine cretese, del quale ci sono rimasti alcuni inni. 28. Un complemento al sistema degli alimenta istituito da Nerva e Traiano (cfr. Hadr., 7, 8, n. 4). 29. Sulla natura, la localizzazione, le date di costruzione o restaurazione degli edifici, monumenti, lavori vari qui citati come opera di Antonino, cfr. F. POESCHL, Erläuterungen zur Vita Antonini Pii in der HA, «Wien. Stud.», LXVI, 1953, pp. 178 segg. 30. Il templo di Adriano, consacrato nel 145 d. C., era situato nel Campo Marzio. 31. Da identificare probabilmente con la Graecostasis, una piazza sita fra la Curia e i Rostri, dove sostavano le ambascierie straniere in attesa di essere ricevute in senato, o per assistere alle assemblee del popolo. 32. Si intende l’Anfiteatro Flavio, cioè il Colosseo. 33. Cfr. Hadr., 19, 11, n. 10. 34. Il Pantheon. L’opera di restaurazione qui attribuita ad Antonino potrebbe riferirsi semplicemente ad un completamento di quella già realizzata da Adriano (cfr. Hadr., 19, 10). 35. Il più antico – e per molto tempo l’unico – ponte sul Tevere, eretto su pali di legno (sublica significa appunto «palo») senza impiego di alcun elemento metallico; era situato nei pressi del Foro Boario. La tradizione ne attribuiva la costruzione ad Anco Marzio. 36. Il famoso faro eretto sull’isola omonima (dinanzi ad Alessandria d’Egitto) sotto Tolomeo II Filadelfo ad opera dell’architetto Sostrato di Cnido (tra il 299 e il 297 a. C.). Alto circa 120 metri, era annoverato fra le sette meraviglie del mondo. 37. Gavio Massimo non dovette ritirarsi prima del 156 d. C., anno in cui il suo successore Tazio Massimo risulta ancora in carica in un altro ufficio. Entrambi i personaggi sono ricordati in numerose iscrizioni. 38. A proposito di questi due personaggi cfr. PFLAUM, Lavaleur, cit., p. 146. 39. Nel 140 d. C. 40. La capitale della Gallia Narbonese, provincia meridionale della Gallia confinante con l’Italia. 41. Cfr. Hadr., 13, 9. 42. Popolazione stanziata sulla riva sud-orientale del Mar Nero. 43. Vologese III. 44. Re dell’Osroene, nella Mesopotamia. 45. Il trono regale preso come bottino da Traiano, che Adriano aveva promesso di restituire a Osroe, predecessore di Vologese (cfr. Hadr., 13, 8). 46. Re del Bosforo Cimmerio (in Crimea). 47. Il nome di questo personaggio (per cui cfr. PIR, II, p. 42 n. 87) è introdotto nel testo per congettura (CARY, HOHL) in luogo del tràdito curatorem. 48. Gli abitanti di Olbia o Olbiopolis, colonia greca nella Russia sud-occidentale, sul Mar Nero. 49. I Tauri o Taurosciti erano i più antichi abitanti del Chersoneso Taurico (l’odierna Crimea). 50. Sulla politica estera di Antonino cfr. in generale K. F. STROHEKER, Die Aussenpolitik des Antoninus Pius nach der HA, in BHAC, 1964-65, Bonn, 1966, pp. 241 segg. 51. Filosofo stoico, maestro di Marco Aurelio e Lucio Vero, ricordato con affetto da Marco nella sua opera autobiografica in greco (cfr. Ad se ipsum, I, 8, 1 e I, 17, 10). Mentre nel nostro passo Apollonio è detto originario di Calcide (nell’isola Eubea), in M. Ant., 2, 7 vien chiamato Chalcedonius (cioè di Calcedone, città della Bitinia, situata all’ingresso del Bosforo di fronte a Bisanzio), e probabilmente quest’ultima è la versione esatta. Si tratta di una confusione che, in questo caso, non meraviglia troppo, visto che anche le altre fonti non sono concordi nell’indicare la città di origine di Apollonio (CASSIO DIONE, LXXI, 35, 1 dà Nicomedia; EUTROPIO, VIII, 12, 1 Calcedone).

52. Era situato sul lato settentrionale del Colle Palatino. 53. Questo personaggio è generalmente identificato con M. Valerius Homullus, console nel 152 d. C. Secondo il PFLAUM, La valeur, cit., pp. 147 seg., sarebbe preferibile postulare un omonimo padre di costui, dato che un uomo che avesse rivestito il consolato in quell’anno doveva essere ancora troppo giovane per godere di un tale rapporto di confidenza con Pio. Cfr. anche M. Ant., 6, 9. 54. Vero, Meciano e Marcello sono spesso citati nei Digesti. Per questi e gli altri nomi qui ricordati cfr. PFLAUM, La valeur, cit. 55. In realtà Antonino Pio morì a settantacinque anni: era nato nel settembre dell’86 e morì nel marzo del 161 d. C.

IV. VITA MARCI ANTONINI PHILOSOPHI IULI CAPITOLINI VITA DI MARCO ANTONINO FILOSOFO di GIULIO CAPITOLINO

[1, 1] Marco Antonino1, in omni vita philosophanti viro et qui sanctitate vitae omnibus principibus antecellit, pater Annius Verus, qui in praetura decessit, [2] avus Annius Verus, iterum consul et praefectus urbi, adscitus in patricios a principibus [a] Vespasiano et Tito censoribus, [3] patruus Annius Libo consul, amita Galeria Faustina Augusta, mater Domitia Calvilla2, Calvisii Tulli bis consulis filia, [4] proavus paternus Annius Verus praetorius ex Uccubitano municipio ex Hispania factus senator, proavus maternus Catilius Severus bis consul et praefectus urbi, avia paterna Rupilia Faustina, Rupili Boni consularis filia, fuere. [5] Natus est Marcus Romae VI. kl. Maias in monte Caelio in hortis avo suo iterum et Augure consulibus3. [6] Cuius familia in originem recurrens a Numa probatur sanguinem trahere, ut Marius Maximus docet; item a rege Sallentino Malemnio, Dasummi filio, qui Lopias4 condidit. [7] Educatus est in eo loco, in quo natus est, et in domo avi sui Veri iuxta aedes Laterani. [8] Habuit et sororem natu minorem Anniam Cornificiam, uxorem Anniam Faustinam5, consobrinam suam. [9] Marcus Antoninus principio aevi sui nomen habuit Catilii Severi, materni proavi. [10] Post excessum vero patris ab Hadriano Annius Verissimus6 vocatus est, post virilem autem togam Annius Verus. Patre mortuo ab avo paterno adoptatus et educatus est. [2, 1] Fuit a prima infantia gravis. At ubi egressus est annos, qui nutricum foventur auxilio, magnis praeceptoribus traditus ad philosophiae scita pervenit. [2] Usus est magistris ad prima elementa Euforione litteratore et Gemino comoedo, musico Androne eodemque geometra. Quibus omnibus ut disciplinarum auctoribus plurimum detulit. [3] Usus7 praeterea grammaticis Graeco Alexandro Cotiaensi, Latinis Trosio Apro [et] Polensi et Eutychio Proculo Siccensi8. [4] Oratoribus usus est Graecis Aninio Macro, Caninio Celere et Herode Attico9, Latino Frontone Cornelio10. [5] Sed multum ex his Frontoni detulit, cui et statuam in senatu petit. Proculum vero usque ad proconsulatum provexit oneribus in se receptis. [6] Philosophiae operam vehementer dedit et quidem adhuc puer. Nam duodecimum annum ingressus habitum philosophi sumpsit et deinceps tolerantiam, cum studeret in pallio et humi cubaret, vix autem matre agente instrato pellibus lectulo accubaret. [7] Usus est etiam Commodi magistro11, cuius ei adfinitas fuerat destinata, usus est et Apollonio Chalcedonio12 stoico philosopho. [3, 1] Tantum autem studium in eo philosophiae fuit, ut adscitus iam {in}

imperatoriam tamen ad domum Apollonii discendi causa veniret. [2] Audivit et Sextum Chaeronensem Plutarchi nepotem, Iunium Rusticum, Claudium Maximum et Cinnam Catulum13 stoicos [3] – peripateticae vero studiosus audivit Claudium Severum – et praecipue Iunium Rusticum14, quem et reveritus est et sectatus, qui domi militiaeque pollebat, stoicae disciplinae peritissimum; [4] cum quo omnia communicavit publica privataque Consilia, cui etiam ante praefectos praetorio semper osculum dedit, quem et consulem iterum designavit, cui post obitum a senatu statuas postulavit. [5] Tantum autem honoris magistris suis detulit, ut imagines eorum aureas in larario15 haberet ac sepulchra eorum aditu, hostiis, floribus semper honoraret. [6] Studuit et iuri audiens Lucium Volusium Maecianum16. [7] Tantumque operis et laboris studiis inpendit, ut corpus adficeret, atque in hoc solo pueritia eius reprehenderetur. [8] Frequentavit et declamatorum scolas publicas amavitque 〈ex〉 condiscipulis praecipuos senatorii ordinis Seium Fuscianum17 et Aufidium Victorinum18, ex equestri Baebium Longum et Calenum. [9] In quos maxime liberalis fuit, et ita quidem ut, quos non posset ob qualitatem vitae rei p. praeponere, locupletatos teneret. [4, 1] Educatus est in Hadriani gremio, qui illum, ut supra diximus, Verissimum nominabat et qui ei honorem equi publici sexenni detulit, [2] octavo aetatis anno in saliorum collegium19 rettulit. [3] In saliatu omen accepit imperii: coronas omnibus in pulvinar20 ex more iacientibus aliae aliis locis haeserunt, huius velut manu capiti Martis aptata est. [4] Fuit in eo sacerdotio et praesul et vates et magister et multos inauguravit atque exauguravit nemine praeeunte, quod ipse carmina cuncta didicisset. [5] Virilem togam sumpsit21 quinto decimo aetatis anno, statimque ei Lucii Ceionii Commodi filia desponsata est ex Hadriani voluntate. [6] Nec multo post praefectus feriarum Latinarum22 fuit. In quo honore praeclarissime se pro magistratibus agentem et in conviviis Hadriani principis ostendit. [7] Post hoc patrimonium paternum sorori totum concessit, cum eum ad divisionem mater vocaret, responditque avi bonis se esse contentum, addens, ut et mater, si vellet, in sororem suum patrimonium conferret, ne inferior esset soror marito. [8] Fuit autem 〈ei〉 vitae indulgentia ut cogeretur nonnumquam vel in venationes pergere vel in theatrum descendere vel spectaculis interesse. [9] Operam praeterea pingendo sub magistro Diogeneto dedit. Amavit pugilatum luctamina et cursum et aucupatus et pila lusit adprime et venatus est. [10] Sed ab omnibus his intentionibus studium eum philosophiae abduxit seriumque et

gravem reddidit, non tamen prorsus abolita in eo comitate, quam praecipue suis, mox amicis atque etiam minus notis exhibebat, cum frugi esset sine contumacia, verecundus sine ignavia, sine tristitia gravis. [5, 1] His ita se habentibus cum post obitum Lucii Caesaris Hadrianus successorem imperii quaereret, nec idoneus, utpote decem et octo annos agens, Marcus haberetur, amitae Marci virum Antoninum Pium Hadrianus ea lege in adoptationem legit, ut sibi Marcum Pius adoptaret, ita tamen ut et Marcus sibi Lucium Commodum adoptaret23. [2] Sane ea die, qua adoptatus est, Verus in somnis se umeros eburneos habere vidit sciscitatusque, an apti essent oneri ferundo, solito repperit fortiores. [3] Ubi autem comperit se ab Hadriano adoptatum, magis est deterritus quam laetatus iussusque in Hadriani privatam domum migrare invitus de maternis hortis recessit. [4] Cumque ab eo domestici quaererent, cur tristis in adoptionem regiam transiret, disputavit, quae mala in se contineret imperium. [5] Tunc primum pro Annio Aurelius coepit vocari, quod in Aureliam, hoc est Antonini, adoptionis iure transisset. [6] Octavo decimo ergo aetatis anno adoptatus in secundo consulatu Antonini24, iam patris sui, Hadriano ferente gratia aetatis facta25 quaestor est designatus. [7] Adoptatus in aulicam domum omnibus parentibus suis tantam reverentiam, quantam privatus exhibuit. [8] Eratque haut secus rei suae quam in privata domo parcus ac diligens, pro instituto patris volens agere, dicere, cogitare. [6, 1] Hadriano Baias absumpto cum Pius ad advehendas eius reliquias esset profectus, relictus Romae avo iusta implevit et gladiatorium quasi privatus quaestor edidit munus. [2] Post excessum Hadriani statim Pius per uxorem suam Marcum sciscitatus est utrum dissolutis sponsalibus, quae cum Lucii Ceionii Commodi…26 desponderi voluerat impari adhuc aetate, habita deliberatione velle se dixit. [3] His ita gestis adhuc quaestorem et consulem secum Pius Marcum designavit27 et Caesaris appellatione donavit et sevirum turmis equitum Romanorum28 iam consulem designatum creavit et edenti cum collegis ludos sevirales adsedit et in Tiberianam domum transgredi iussit et aulico fastigio renitentem ornavit et in collegia sacerdotum iubente senatu recepit. [4] Secundum etiam consulem designavit, cum ipse quartum pariter inierit. [5] Per eadem tempora, cum tantis honoribus occuparetur et cum formandus ad regendum statum rei publicae patris actibus interesset, studia cupidissime frequentavit. [6] Post haec Faustinam duxit uxorem et suscepta filia tribunicia potestate donatus est atque imperio extra urbem proconsulari addito iure quintae relationis29. [7] Tantumque apud Pium valuit, 〈ut〉

numquam quemquam sine eo facile promoverit. [8] Erat autem in summis obsequiis patris Marcus, quamvis non deessent, qui aliqua adversum eum insusurrarent, [9] et prae ceteris Valerius Homullus30, qui, cum Lucillam matrem Marci in virdiario venerantem simulacrum Apollinis vidisset, insusurravit: «Illa nunc rogat, ut diem tuum claudas, et filius imperet». Quod omnino apud Pium nihil valuit: [10] tanta erat Marci probitas et tanta in imperatorio participatu modestia. [7, 1] Existimationis autem tantam curam habuit, ut et procuratores suos puer semper moneret, ne quid arrogantius facerent, et hereditatis delatas reddens proximis aliquando respuerit. [2] Denique per viginti et tres annos in domo patris ita versatus, ut eius cotidie amor cresceret, nec praeter duas noctes per tot annos ab eo mansit diversis vicibus. [3] Ob hoc Antoninus Pius, cum sibi adesse fìnem vitae videret, vocatis amicis et praefectis ut successorem eum imperii omnibus commendavit atque firmavit statimque signo aequanimitatis tribuno dato Fortunam auream, quae in cubiculo solebat esse, ad Marci cubiculum transire iussit. [4] Bonorum maternorum partem Mummio Quadrato31, sororis filio, quia illa iam mortua erat, tradidit. [5] Post excessum divi Pii a senatu coactus regimen publicum capere fratrem sibi participem in imperio designavit, quem Lucium Aurelium Verum Commodum appellavit Caesaremque atque Augustum dixit. [6] Atque ex eo pariter coeperunt rem publicam regere. Tuncque primum Romanum imperium duos Augustos habere coepit, 〈cum imperium sibi de〉latum cum alio participasset. Antonini mox ipse nomen recepit. [7] Et quasi pater Lucii Commodi esset, et Verum eum appellavit addito Antonini nomine filiamque suam Lucillam32 fratri despondit. [8] Ob hanc coniunctionem pueros et puellas novorum nominum frumentariae perceptioni adscribi praeceperunt. [9] Actis igitur, quae agenda fuerant in senatu, pariter castra praetoria petiverunt et vicena milia nummum singulis ob participatum imperium militibus promiserunt et ceteris pro rata. [10] Hadriani autem sepulcro corpus patris intulerunt magnifico exequiarum officio. Mox iustitio secuto publici quoque funeris expeditus est ordo. [11] Et laudavere uterque pro rostris patrem flaminemque ei ex adfinibus et sodales ex amicissimis Aurelianos33 creavere. [8, 1] Adepti imperium ita civiliter se ambo egerunt, ut lenitatem Pii nemo desideraret, cum eos Marullus, sui temporis mimografus, cavillando inpune perstringeret. [2] Funebre munus patri dederunt. [3] Dabat se Marcus totum et philosophiae, amorem civium adfectans. [4] Sed interpellavit istam felicitatem securitatemque imperatoris prima Tiberis inundatio, quae sub illis gravissima

fuit. Quae res et multa urbis aedificia vexavit et plurimum animalium interemit et famem gravissimam peperit. [5] Quae omnia mala Marcus et Verus sua cura et praesentia temperarunt. [6] Fuit eo tempore34 etiam Parthicum bellum, quod Vologessus paratum sub Pio Marci et Veri tempore indixit fugato Atidio Corneliano, qui Syriam tunc administrabat. [7] Imminebat etiam Brittanicum bellum, et Catthi in Germaniam ac Raetiam35 inruperant. [8] Et adversus Brittannos quidem Calpurnius Agricola missus est, contra Catthos Aufidius Victorinus. [9] Ad Parthicum vero bellum senatu consentiente Verus frater est missus; ipse Romam remansit, quod res urbanae imperatoris praesentiam postularent. [10] Et Verum quidem Marcus Capuam usque prosecutus amicis comitantibus a senatu ornavit additis officiorum omnium principibus. [11] Sed cum Romam redisset Marcus cognovissetque Verum apud Canusium aegrotare, ad eum videndum contendit susceptis in senatu votis; quae, posteaquam Romam redit audita Veri transmissione, statim reddidit. [12] Et Verus quidem, posteaquam in Syriam venit, in deliciis apud Antiochiam et Daphnen36 vixit armisque se gladiatoriis et venatibus exercuit, cum per legatos bellum Parthicum gerens imperator appellatus esset, [13] cum Marcus horis omnibus rei publicae actibus incubaret patienterque delicias fratris et prope 〈non〉 invitus ac volens ferret. [14] Denique omnia, quae ad bellum erant necessaria, Romae positus et disposuit Marcus et ordinavit. [9, 1] Gestae sunt res in Armenia prospere per Statium Priscum37 Artaxatis captis, delatumque Armeniacum nomen utrique principum. Quod Marcus per verecundiam primo recusavit, postea tamen recepit. [2] Profligato autem bello uterque Parthicus appellatus est. Sed 〈id〉 quoque Marcus delatum nomen repudiavit, quod postea recepit. [3] Patris patriae autem nomen delatum [a] fratre absente in eiusdem praesentiam distulit. [4] Medio belli tempore et Civicam38, patruum Veri, et filiam suam39 nupturam commissam sorori suae eandemque locupletatam Brundisium usque deduxit, ad eum misit [5] Romamque statim rediit, revocatus eorum sermonibus, qui dicebant Marcum velle finiti belli gloriam sibimet vindicare atque idcirco in Syriam proficisci. [6] Ad proconsules scribsit, ne quis filiae suae iter facienti occurreret. [7] Inter haec liberales causas ita munivit, ut primus iuberet apud praefectos aerarii Saturni40 unumquemque civium natos liberos profiteri intra tricensimum diem nomine inposito41. [8] Per provincias tabulariorum publicorum usum instituit, apud quos idem de originibus fieret, quod Romae apud praefectos aerarii, ut, si forte aliquis in provincia natus causam liberalem

diceret, testationes inde ferret. [9] Atque hanc totam legem de adsertionibus firmavit aliasque de mensariis et auctionibus tulit. [10, 1] Senatum multis cognitionibus et maxime ad se pertinentibus iudicem dedit. De statu etiam defunctorum intra quinquennium quaeri iussit. [2] Neque quisquam principum amplius senatui detulit. In senatus autem honorificentiam multis praetoriis et consularibus privatis decidenda negotia delegavit, quo magis eorum cum exercitio iuris auctoritas cresceret. [3] Multos ex amicis in senatum adlegit cum aediliciis aut praetoriis dignitatibus. [4] Multis [senatibus vel] pauperibus sine crimine senatoribus dignitates tribunicias aediliciasque concessit. [5] Nec quemquam in ordinem legit, nisi quem ipse bene scisset. [6] Hoc quoque senatoribus detulit, ut, quotiens de quorum capite esset iudicandum, secreto pertractaret atque ita in publicum proderet nec pateretur equites Romanos talibus interesse causis. [7] Semper autem, cum potuit, interfuit senatui, etiamsi nihil esset referendum, si Romae fuit; si vero aliquid referre voluit, etiam de Campania ipse venit. [8] Comitiis praeterea etiam usque ad noctem frequenter interfuit neque umquam recessit de curia, nisi consul dixisset: «Nihil vos moramur, p. c.». [9] Senatum appellationibus a consule factis iudicem dedit. [10] Iudiciariae rei singularem diligentiam adhibuit. Fastis dies iudiciarios addidit, ita ut ducentos triginta dies annuos rebus agendis litibusque disceptandis constitueret. [11] Praetorem tutelarem primus fecit, cum ante tutores a consulibus poscerentur, ut diligentius de tutoribus tractaretur. [12] De curatoribus vero, cum ante non nisi ex lege Plaetoria42 vel propter lasciviam vel propter dementiam darentur, ita statuit, ut omnes adulti curatores acciperent non redditis causis. [11, 1] Cavit et sumptibus publicis et calumniis quadruplatorum intercessit adposita falsis delatoribus nota. Delationes, quibus fiscus augeretur, contempsit. [2] De alimentis publicis multa prudenter invenit. Curatores43 multis civitatibus, quo latius senatorias tenderet dignitates, a senatu dedit. [3] Italicis civitatibus famis tempore frumentum ex urbe donavit omnique frumentariae rei consuluit. [4] Gladiatoria spectacula omnifariam temperavit. Temperavit etiam scaenicas donationes iubens, ut quinos aureos scaenici acciperent, ita tamen ut nullus editor decem aureos egrederetur. [5] Vias etiam urbis atque itinerum diligentissime curavit. Rei frumentariae graviter providit. [6] Datis iuridicis44 Italiae consuluit ad id exemplum, quo Hadrianus45 consulares viros reddere iura praeceperat. [7] Hispanis exhaustis Italica allectione46 contra… Traianique praecepta verecunde consuluit. [8] Leges

etiam addidit de vicensima hereditatum47, de tutelis libertorum, de bonis maternis et item de filiorum successionibus pro parte materna, utque senatores peregrini quartam partem in Italia possiderent. [9] Dedit praeterea curatoribus regionum ac viarum potestatem, ut vel punirent vel ad praefectum urbi puniendos remitterent eos, qui ultra vectigalia quicquam ab aliquo exegissent. [10] Ius autem magis vetus restituit quam novum fecit. Habuit secum praefectos48, quorum et auctoritate et periculo semper iura49 dictavit. Usus autem est Scaevola50 praecipue iuris perito. [12, 1] Cum populo autem non aliter egit, quam est actum sub civitate libera. [2] Fuitque per omnia moderatissimus in hominibus deterrendis a malo, invitandis ad bona, remunerandis copia, indulgentia liberandis fecitque ex malis bonos, ex bonis optimos, moderate etiam cavillationes nonnullorum ferens. [3] Nam cum quendam Vetrasinum famae detestandae honorem petentem moneret, ut se ab opinionibus populi vindicaret, et ille contra respondisset multos, qui secum in harena pugnassent, se praetores videre, patienter tulit. [4] Ac ne in quenquam facile vindicaret, praetorem, qui quaedam pessime egerat, non abdicare se praetura iussit, sed collegae iuris dictionem mandavit. [5] Fisco in causis conpendii numquam iudicans favit. [6] Sane, quamvis esset constans, erat etiam verecundus. [7] Posteaquam autem e Syria victor rediit frater51, patris patriae nomen ambobus decretum est, cum se Marcus absente Vero erga omnes senatores atque homines moderatissime gessisset. [8] Corona praeterea civica52 oblata est ambobus; petitque Lucius, ut secum Marcus triumpharet. Petit praeterea Lucius, ut filii Marci53 Caesares appellarentur. [9] Sed Marcus tanta fuit moderatione, ut, {cum} simul triumphasset, tamen post mortem Lucii tantum Germanicum se vocaret, quod sibi bello proprio pepererat. [10] In triumpho autem liberos Marci utriusque sexus secum vexerunt, ita tamen ut et puellas virgines veherent. [11] Ludos etiam ob triumphum decretos spectaverunt habitu triumphali. [12] Inter cetera pietatis eius haec quoque moderatio praedicanda est: funambulis post puerum lapsum culcitas subici iussit. Unde hodieque rete praetenditur. [13] Dum Parthicum bellum geritur, natum est Marcomannicum54, quod diu eorum, qui aderant, arte suspensum est, ut finito iam orientali bello Marcomannicum agi posset. [14] Et cum famis tempore populo insinuasset de bello, fratre post quinquennium reverso in senatu egit, ambos necessarios dicens bello Germanico imperatores.

[13, 1] Tantus autem timor belli Marcomannici {fuit}55, ut undique sacerdotes Antoninus acciverit, peregrinos ritus56 impleverit, Romam omni genere lustraverit; [2] retardatusque bellica profectione sic celebravit et Romano ritu lectisternia57 per septem dies. [3] Tanta autem pestilentia fuit, ut vehiculis cadavera sint exportata serracisque. [4] Tunc autem Antonini leges sepeliendi sepulchrorumque asperrimas sanxerunt, quando quidem caverunt, ne quis 〈ubi〉 vellet fabricaretur sepulchrum. Quod hodieque servatur. [5] Et multa quidem milia pestilentia consumpsit multosque ex proceribus, quorum amplissimis Antoninus statuas conlocavit. [6] Tantaque clementia fuit, ut et sumptu publico vulgaria funera iuberet [et] ecferri et vano cuidam, qui diripiendae urbis occasionem cum quibusdam consciis requirens de caprifici arbore in campo Martio contionabundus ignem de caelo lapsurum finemque mundi affore diceret, si ipse lapsus ex arbore in ciconiam verteretur, cum statuto tempore decidisset atque ex sinu ciconiam emisisset, perducto ad se atque confesso veniam daret. [14, 1] Profecti tamen sunt paludati58 ambo imperatores et Victualis59 et Marcomannis cuncta turbantibus, aliis etiam gentibus, quae pulsae a superioribus barbaris fugerant, nisi reciperentur, bellum inferentibus. [2] Nec parum profuit ista profectio, cum Aquileiam usque venissent. Nam plerique reges et cum populis suis se retraxerunt et tumultus auctores interemerunt. [3] Quadi60 autem amisso rege suo non prius se confirmaturos eum, qui erat creatus, dicebant, quam id nostris placuisset imperatoribus. [4] Lucius tamen invitus profectus est, cum plerique ad legatos imperatorum mitterent defectionis veniam postulantes. [5] Et Lucius quidem, quod amissus esset praef. praetorio Furius Victorinus, atque pars exercitus interisset, redeundum esse censebat; Marcus autem fingere barbaros aestimans et fugam et cetera, quae securitatem bellicam ostenderent, ob hoc ne tanti apparatus mole premerentur, instandum esse ducebat. [6] Denique transcensis Alpibus longius processerunt composueruntque omnia, quae ad munimen Italiae atque Illyrici pertinebant. [7] Placuit autem urgente Lucio, ut praemissis ad senatum litteris Lucius Romam rediret. [8] Via[quo]que, postquam iter ingressi sunt, sedens cum fratre in vehiculo Lucius apoplexi arreptus perit61. [15, 1] Fuit autem consuetudo Marco, ut in circensium spectaculo legeret audiretque ac suscriberet. Ex quo quidem saepe iocis popularibus dicitur lacessitus. [2] Multum sane potuerunt liberti sub Marco et Vero Geminus et Agaclytus.

[3] Tantae62 autem sanctitatis fuit Marcus, ut Veri vitia et celaverit et defenderit, cum ei vehementissime displicerent, mortuumque eum divum appellaverit amitasque eius et sorores honoribus et salariis decretis sublevaverit atque provexerit sacrisque eum plurimis honoraverit. [4] Flaminem et Antoninianos sodales et omnes honores, qui divis habentur, eidem dedicavit. [5] Nemo est principum, quem non gravis fama perstringat, usque adeo ut etiam Marcus in sermonem venerit, quod Verum vel veneno ita tulerit63, ut parte cultri veneno lita vulvam inciderit venenatam partem fratri edendam propinans et sibi innoxiam reservans, [6] vel certe per medicum Posidippum, qui ei sanguinem intempestive dicitur emisisse. Cassius64 post mortem Veri a Marco descivit. [16, 1] Iam in suos tanta fuit benignitate Marcus, ut cum in omnes propinquos cuncta bonorum ornamenta contulerit, tum in filium et Commodum quidem – scelestum atque inpurum – cito nomen Caesaris et mox sacerdotium statimque nomen imperatoris65 ac triumphi participationem et consulatum. [2] Quo quidem tempore66 sine 〈purpura〉 imperator filio ad triumphalem currum in circo pedes cucurrit. [3] Post Veri obitum Marcus Antoninus solus rem publicam tenuit, [4] multo melior et feracior ad virtutes, quippe qui nullis Veri iam impediretur aut simulatis callidae severitatis, qua ille ingenito vitio laborabat, erroribus aut his, qui praecipue displicebant Marco Antonino iam inde a primo aetatis suae tempore, vel institutis mentis pravae vel moribus. [5] Erat enim ipse tantae tranquillitatis, ut vultum numquam mutaverit maerore vel gaudio, philosophiae deditus stoicae, quam et per optimos quosque magistros acceperat et undique ipse collegerat. [6] Nam et Hadrianus hunc eundem successorem paraverat nisi ei aetas puerilis obstitisset. [7] Quod quidem apparet ex eo, quod generum Pio hunc eundem delegit67, ut ad eum, dignum utpote virum, quandocumque Romanum perveniret imperium. [17, 1] Ergo provincias post haec ingenti moderatione ac benignitate tractavit. Contra Germanos res feliciter gessit. [2] Speciale ipse bellum Marcomannicum, sed quantum nulla umquam memoria fuit, cum virtute tum etiam felicitate transegit, et eo quidem tempore, quo pestilentia gravis multa milia et popularium et militum interemerat. [3] Pannonias ergo Marcomannis, Sarmatis, Vandalis, simul etiam Quadis extinctis servitio liberavit et Romae cum Commodo, quem iam Caesarem fecerat, filio, ut diximus, suo, triumphavit. [4] Cum autem ad hoc bellum omne aerarium exhausisset suum neque in animum induceret, ut extra ordinem provincialibus aliquid

imperaret, in foro divi Traiani auctionem ornamentorum imperialium fecit vendiditque aurea pocula et cristallina et murrina68, vasa etiam regia et vestem uxoriam sericam et auratam, gemmas quin etiam, quas multas in repostorio sanctiore Hadriani reppererat69. [5] Et per duos quidem menses haec venditio celebrata est, tantumque auri redactum, ut reliquias belli Marcomannici ex sententia persecutus postea dederit potestatem emptoribus, ut, si qui vellet empta reddere atque aurum recipere, sciret licere. Nec molestus ulli fuit qui vel non reddidit empta vel reddidit. [6] Tunc viris clarioribus permisit, ut eodem cultu quo et ipse vel ministris similibus convivia exhiberent. [7] In munere autem publico tam magnanimus fuit, ut centum leones una missione simul exhiberet [et] sagittis interfectos. [18, 1] Cum igitur in amore omnium imperasset atque ab aliis modo frater, modo pater, modo filius, ut cuiusque aetas sinebat, et diceretur et amaretur, octavo decimo anno imperii sui, sexagesimo et primo vitae, diem ultimum clausit70. [2] Tantusque illius amor adeo die regii funeris claruit, ut nemo illum plangendum censuerit, certis omnibus, quod ab diis commodatus ad deos redisset. [3] Denique, priusquam funus conderetur, ut plerique dicunt, quod numquam antea factum fuerat neque postea, senatus populusque non divisis locis sed in una sede propitium deum dixit. [4] Hic sane vir tantus et talis ac diis vita et morte coniunctus filium Commodum dereliquit: qui si felix fuisset, filium non reliquisset. [5] Et parum sane fuit, quod illi honores divinos omnis aetas, omnis sexus, omnis conditio ac dignitas dedit, nisi quod etiam sacrilegus iudicatus est, qui eius imaginem in sua domo non habuit, qui per fortunam vel potuit habere vel debuit. [6] Denique hodieque in multis domibus Marci Antonini statuae consistunt inter deos penates. [7] Nec defuerunt homines qui somniis eum multa praedixisse augurantes futura et vera concinuerunt. [8] Unde etiam templum ei constitutum, dati sacerdotes Antoniniani et sodales et flamines et omnia, quae de sacratis decrevit antiquitas. [19, 1] Aiunt quidam, quod et verisimile videtur, Commodum Antoninum, successorem illius ac filium, non esse de eo natum sed de adulterio, ac talem fabellam vulgari sermone contexunt. [2] Faustinam quondam, Pii filiam, Marci uxorem, cum gladiatores transire vidisset, unius ex his amore succensam, cum longa aegritudine laboraret, viro de amore confessam. [3] Quod cum ad Chaldaeos71 Marcus rettulisset, illorum fuisse consilium, ut occiso gladiatore sanguine illius sese Faustina sublavaret atque ita cum viro concumberet. [4] Quod cum esset factum, solutum quidem amorem, natum

vero Commodum gladiatorem esse, non principem, [5] qui mille prope pugnas publice populo inspectante gladiatorias imperator exhibuit, ut in vita eius docebitur. [6] Quod quidem verisimile ex eo habetur, quod tam sancti principis filius his moribus fuit, quibus nullus lanista, nullus scaenicus, nullus arenarius, nullus postremo ex omnium dedecorum ac scelerum conluvione concretus. [7] Multi autem ferunt Commodum omnino ex adultero natum, si quidem Faustinam satis constet apud Caietam condiciones sibi et nauticas et gladiatorias elegisse. [8] De qua cum diceretur Antonino Marco, ut eam repudiaret, si non occideret, dixisse fertur: «si uxorem dimittimus, reddamus et dotem». [9] Dos autem quid habebatur 〈nisi〉 imperium, quod ille ab socero volente Hadriano adoptatus acceperat? [10] Tantum sane valet boni principis vita, sanctitas, tranquillitas, pietas, ut eius famam nullius proximi decoloret invidia. [11] Denique Antonino, cum suos mores semper teneret neque alicuius insusurratione mutaretur, non obfuit gladiator filius, uxor infamis: [12] deusque etiam nunc habetur, ut vobis ipsis, sacratissime imperator Diocletiane, et semper visum est et videtur, qui eum inter numina vestra non ut ceteros sed specialiter veneramini ac saepe dicitis vos vita et clementia tales esse cupere, qualis fuit Marcus, etiamsi philosophia nec Plato esse possit, si revertatur in vitam. Et quidem haec breviter et congeste. [20, 1] Sed Marco Antonino haec sunt gesta post fratrem: primum corpus eius Romam devectum est et inlatum maiorum sepulchris72. Divini ei honores decreti. [2] Dein cum gratias ageret senatui, quod fratrem consecrasset, occulte ostendit omnia bellica consilia sua fuisse, quibus superati sunt Parthi. [3] Addidit praeterea quaedam, quibus ostendit nunc demum se quasi a principio acturum esse rem publicam amoto eo, qui remissior videbatur. [4] Nec aliter senatus accepit, quam Marcus dixerat, ut videretur gratias agere, quod Verus excessisset vita. [5] Omnibus deinde sororibus et adfinibus et libertis iuris et honoris et pecuniae plurimum detulit. Erat enim famae suae curiosissimus, requirens ad verum, quid quisque de se diceret, emendans quae bene reprehensa viderentur. [6] Proficiscens ad bellum Germanicum fìliam suam73 non decurso luctus tempore grandaevo equitis Romani filio Claudio Pompeiano dedit genere Antiochensi nec satis nobili (quem postea bis consulem fecit), cum filia eius Augusta74 esset et Augustae filia. [7] Sed has nuptias et Faustina et ipsa, quae dabatur, invitae habuerunt. [21, 1] Cum Mauri Hispanias prope omnes vastarent, res per legatos bene gestae sunt. [2] Et cum per Aegyptum Bucolici75 milites gravia multa

fecissent, per Avidium Cassium retunsi sunt, qui postea tyrannidem arripuit. [3] Sub ipsis profectionis diebus in secessu Praenestino76 agens filium, nomine Verum Caesarem, execto sub aure tubere septennem amisit. [4] Quem non plus quinque diebus luxit consolatusque etiam medicos 〈se〉 actibus publicis reddidit. [5] Et quia ludi Iovis Optimi Maximi erant, interpellari eos publico luctu noluit iussitque, ut statuae tantum modo filio mortuo decernerentur, et imago aurea circensibus per pompam ferenda, et ut saliari carmini77 nomen eius insereretur. [6] Instante sane adhuc pestilentia et deorum cultum diligentissime restituit et servos, quem ad modum bello Punico factum fuerat, ad militiam paravit, quos voluntarios exemplo volonum78 appellavit. [7] Armavit etiam gladiatores, quos obsequentes appellavit. Latrones etiam Dalmatiae atque Dardaniae79 milites fecit. Armavit et diogmitas80. Emit et Germanorum auxilia contra Germanos. [8] Omni praeterea diligentia paravit legiones ad Germanicum et Marcomannicum bellum. [9] Et, ne provincialibus esset molestus, auctionem rerum aulicarum, ut diximus, fecit in foro divi Traiani, in qua praeter vestes et pocula et vasa aurea etiam signa cum tabulis magnorum artificum vendidit. [10] Marcomannos in ipso transitu Danuvii delevit et praedam provincialibus reddidit. [22, 1] Gentes omnes ab Illyrici limite usque in Galliam conspiraverant, ut Marcomanni, Varistae, Hermunduri et Quadi, Suevi, Sarmatae, Lacringes et Burei81 † hi aliique cum Victualis, Sosibes, Sicobotes, Roxolani, Basternae, Halani, Peucini, Costoboci. Inminebat et Parthicum bellum et Brittanicum. [2] Magno igitur labore etiam suo gentes asperrimas vicit militibus sese imitantibus, ducentibus etiam exercitum legatis et praefectis praetorio, accepitque in deditionem Marcomannos plurimis in Italiam traductis. [3] Semper sane cum optimatibus non solum bellicas res sed etiam civiles, priusquam faceret aliquid, contulit. [4] Denique sententia illius praecipua semper haec fuit: «Aequius est, ut ego tot talium amicorum consilium sequar, quam ut tot tales amici meam unius voluntatem sequantur». [5] Sane quia durus videbatur ex philosophiae institutione Marcus ad militiae labores atque ad omnem vitam, graviter carpebatur, [6] sed male loquentum vel sermoni vel litteris respondebat. [7] Et multi nobiles bello Germanico sive Marcomannico immo plurimarum gentium interierunt (quibus omnibus statuas in foro Ulpio collocavit); [8] quare frequenter amici suaserunt, ut a bellis discederet 〈et〉 Romam veniret, sed ille contempsit ac perstitit nec prius recessit, quam omnia bella finiret. [9] Provincias ex proconsularibus consulares aut ex consularibus proconsulares82 aut praetorias83 pro belli necessitate fecit. [10] Res etiam in

Sequanis84 turbatas censura et auctoritate repressit. [11] Compositae res et 〈in〉 Hispania, quae per Lusitaniam turbatae erant. [12] Filio Commodo accersito ad limitem togam virilem85 dedit, quare congiarium populo divisit, et eum ante tempus86 consulem designavit. [23, 1] Si quis umquam proscriptus est a praefecto urbi, non libenter accepit. [2] Ipse in largitionibus pecuniae publicae parcissimus fuit, quod laudi potius datur quam reprehensioni, [3] sed tamen et bonis viris pecunias dedit et oppidis labentibus auxilium tulit et tributa vel vectigalia, ubi necessitas cogebat, remisit. [4] Absens populi Romani voluptates curari vehementer praecepit per ditissimos editores. [5] Fuit enim populo hic sermo, cum sustulisset ad bellum gladiatores, quod populum sublatis voluptatibus vellet cogere ad philosophiam. [6] Iusserat enim, ne mercimonia impedirentur, tardius pantomimos exhibere, non totis diebus. [7] De amatis pantomimis ab uxore fuit sermo, ut superius diximus. Sed haec omnia per epistolas suas purgavit. [8] Idem Marcus sederi in civitatibus vetuit in equis sive vehiculis. Lavacra mixta summovit87. Mores matronarum conposuit diffluentes et iuvenum nobilium. Sacra Serapidis88 a vulgaritate Pelusiaca89 summovit. [9] Fama fuit sane, quod sub philosophorum specie quidam rem publicam vexarent et privatos. Quod ille purgavit. [24, 1] Erat mos iste Antonino, ut omnia crimina minore supplicio, quam legibus plecti solent, puniret, quamvis nonnumquam contra manifestos et gravium criminum reos inexorabilis permaneret. [2] Capitales causas hominum honestorum ipse cognovit, et quidem summa aequitate, ita ut praetorem reprehenderet, qui cito reorum causas audierat, iuberetque illum iterum cognoscere, dignitatis eorum interesse dicens, ut ab eo audirentur, qui pro populo iudicaret. [3] Aequitatem autem etiam circa captos hostes custodivit. Infinitos ex gentibus in Romano solo collocavit. [4] Fulmen de caelo precibus suis contra hostium machinamentum extorsit suis pluvia impetrata, cum siti laborarent90. [5] Voluit Marcomanniam provinciam, voluit etiam Sarmatiam facere, et fecisset, nisi Avidius Cassius rebellasset sub eodem in oriente. [6] Atque imperatorem se appellavit, ut quidam dicunt, Faustina volente, quae de mariti valetudine desperaret. [7] Alii dicunt, ementita morte Antonini Cassium imperatorem se appellasse, cum divum Marcum appellasset. [8] Et Antoninus quidem non est satis motus defectione Cassii nec 〈in〉 eius affectus saevit. [9] Sed per senatum hostis est iudicatus bonaque eius proscripta per aerarium publicum.

[25, 1] Relicto ergo Sarmatico Marcomannicoque bello contra Cassium profectus est. [2] Romae etiam turbae fuerunt, quasi Cassius absente Antonino adventaret. Sed Cassius statim interfectus est, caputque eius adlatum est ad Antoninum. [3] Marcus tamen non exultavit interfectione Cassii caputque eius humari iussit. [4] Maecianum etiam, filium Cassii, cui Alexandria erat commissa91, exercitus occidit; nam et praef(ectum) praet(orio) sibi fecerat, qui et ipse occisus est. [5] In conscios defectionis vetuit senatum graviter vindicare, [6] simul petit, ne qui senator tempore principatus sui occideretur, ne eius pollueretur imperium [7] – eos etiam, qui deportati fuerant, revocari iussit –, cum paucissimi centuriones capite essent puniti. [8] Ignovit et civitatibus, quae Cassio consenserant, ignovit et Antiochensibus, qui multa in Marcum pro Cassio dixerant. [9] Quibus et spectacula et conventus publicos tulerat et omnium contionum genus, contra quos edictum gravissimum misit. [10] Seditiosos autem eos et oratio Marci indicat indita {a} Mario Maximo, qua ille usus est apud amicos. [11] Denique noluit Antiochiam videre, cum Syriam peteret. [12] Nam nec Cyrrum voluit videre, ex qua erat Cassius. [26, 1] Fuit Alexandriae clementer cum his agens. Postea tamen Antiochiam vidit. Multa egit cum regibus et pacem confirmavit sibi occurrentibus cunctis regibus et legatis Persarum. [2] Omnibus orientalibus provinciis carissimus fuit. Apud multas etiam philosophiae vestigia reliquit. [3] Apud Aegyptios civem se egit et philosophum in omnibus studiis, templis, locis. Et cum multa Alexandrini in Cassium dixissent fausta, tamen omnibus ignovit et filiam suam apud eos reliquit. [4] Faustinam suam in radicibus montis Tauri in vico Halalae exanimatam vi subiti morbi92 amisit. [5] Petit a senatu, ut honores Faustinae aedemque decernerent, laudata eadem, cum inpudicitiae fama graviter laborasset. Quae Antoninus vel nesciit vel dissimulavit. [6] Novas puellas Faustinianas instituit in honorem uxoris mortuae. [7] Divam etiam Faustinam a senatu appellatam gratulatus est. [8] Quam secum et in aestivis habuerat, ut matrem castrorum appellaret. [9] Fecit et coloniam93 vicum, in quo obiit Faustina, et aedem illi exstruxit. Sed haec postea aedis Heliogabalo94 dedicata est. [10] Ipsum Cassium pro clementia occisum passus est, non occidi iussit. [11] Deportatus est Heliodorus, filius Cassi, et alii liberum exilium acceperunt cum bonorum parte. [12] Filii autem Cassii et amplius media parte acceperunt paterni patrimonii, et auro atque argento adiuti, mulieres autem etiam ornamentis: ita ut Alexandria, filia Cassii, et Druncianus95 gener liberam vagandi potestatem haberent commendati amitae marito. [13] Doluit denique Cassium extinctum, dicens

voluisse se sine senatorio sanguine imperium transigere [voluisse se]. [27, 1] Orientalibus rebus ordinatis Athenis fuit et initia Cereris96 adit, ut se innocentem probaret, et sacrarium solus ingressus est. [2] Revertens ad Italiam navigio tempestatem gravissimam passus est. [3] Per Brundisium veniens in Italiam togam et ipse sumpsit et milites togatos esse iussit, nec umquam97 sagati fuerunt sub eo milites. [4] Romam ut venit, triumphavit et inde Lavinium98 profectus est. [5] Commodum deinde sibi collegam in tribuniciam potestatem99 iunxit, congiarium populo dedit et spectacula mirifica; dein civilia multa correxit. [6] Gladiatorii muneris sumptus modum fecit. [7] Sententia Platonis semper in ore illius fuit florere civitates, si aut philosophi imperarent aut imperantes philosopharentur. [8] Filio suo Bruttii Praesentis fìliam100 iunxit nuptiis celebratis exemplo privatorum, quare etiam congiarium dedit populo. [9] Dein ad conficiendum bellum conversus101 in administratione eius belli obit102 labentibus iam filii moribus ab instituto suo. [10] Triennio bellum postea cum Marcomannis, Hermunduris, Sarmatis, Quadis etiam egit et, si anno uno superfuisset, provincias ex his fecisset. [11] Ante biduum quam exspiraret, admissis amicis dicitur ostendisse sententiam de filio eandem quam Philippus de Alexandro, cum de hoc male sentiret, addens nimie se aegre ferre filium superstitem relinquens; [12] nam iam Commodus turpem se et cruentum ostentabat. [28, 1] Mors autem talis fuit: cum aegrotare coepisset, filium advocavit atque ab eo primum petit, ut belli reliquias non contempneret, ne videretur rem p. prodere. [2] Et, cum filius ei respondisset cupere se primum sanitatem, ut vellet, permisit, petens tamen, ut expectasset paucos dies, haut simul proficisceretur. [3] Deinde abstinuit victu potuque mori cupiens auxitque morbum. [4] Sexta die vocatis amicis et ridens res humanas, mortem autem contempnens ad amicos dixit: «Quid de me fletis et non magis de pestilentia et communi morte cogitatis?». [5] Et cum illi vellent recedere, ingemescens ait: «Si iam me dimittitis, vale vobis dico vos praecedens». [6] Et cum ab eo quaereretur, cui filium commendaret, ille respondit: «Vobis, si dignus fuerit, et dis inmortalibus». [7] Exercitus cognita mala valetudine vehementissime dolebant, quia illum unice amarunt. [8] Septimo die gravatus est et solum filium admisit, quem statim dimisit, ne in eum morbus transiret. [9] Dimisso filio caput operuit quasi volens dormire, sed nocte animam efflavit. [10] Fertur filium mori voluisse, cum eum talem videret futurum, qualis exstitit post eius

mortem, ne, ut ipse dicebat, similis Neroni, Caligulae et Domitiano esset. [29, 1] Crimini ei datum est, quod adulteros uxoris promoverit, Tertullum et Tutilium et Orfitum et Moderatum, ad varios honores, cum Tertullum et prandentem cum uxore deprehenderit. [2] De quo mimus in scaena praesente Antonino dixit; cum stupidus nomen adulteri uxoris a servo quaereret et ille diceret ter «Tullus», et adhuc stupidus quaereret, respondit ille: «Iam tibi dixi ter, Tullus103 dicitur». [3] Et de hoc quidem multa populus, multa etiam alii dixerunt patientiam Antonini incusantes. [4] Ante tempus sane mortis, priusquam ad bellum Marcomannicum rediret, in Capitolio iuravit nullum senatorem se sciente occisum, cum etiam rebelliones dixerit se servaturum fuisse, si scisset; [5] nihil enim magis et timuit et deprecatus est quam avaritiae famam, de qua se multis epistulis purgat. [6] Dederunt ei vitio, quod et fictus fuisset nec tam simplex quam videretur aut quam vel Pius vel Verus fuisset. [7] Dederunt etiam crimini, quod aulicam adrogantiam confirmaverit summovendo amicos a societate communi et a conviviis. [8] Parentibus consecrationem decrevit. Amicos parentum etiam mortuos statuis ornavit. [9] Suffragatoribus non cito credidit, sed semper diu quaesivit, quod erat verum. [10] Enisa est Fabia104, ut Faustina mortua in eius matrimonium coiret. Sed ille concubinam sibi adscivit procuratoris uxoris suae fìliam, ne tot liberis superduceret novercam.

[1, 1] Marco Antonino1, l’uomo che nel corso di tutta la sua vita coltivò la filosofia, e rifulge sopra tutti i principi per santità di vita, era figlio di quell’Annio Vero, che morì mentre era pretore; [2] suo nonno era Annio Vero, due volte console e prefetto dell’Urbe, che era stato assunto al rango patrizio dagli imperatori Vespasiano e Tito al tempo della loro censura; [3] zio paterno era il console Annio Libone, zia paterna Galeria Faustina Augusta; sua madre era Domizia Calvilla2, figlia di Tullio Calvisio, che era stato due volte console; [4] il bisavolo paterno era stato Annio Vero, ex pretore, originario del municipio di Uccubi in Spagna, divenuto poi senatore, il bisavolo materno Catilio Severo, due volte console e prefetto dell’Urbe, e la nonna paterna Rupilia Faustina, figlia del consolare Rupilio Bono. [5] Marco nacque a Roma il 26 aprile in una villa sul monte Celio, sotto il secondo consolato di suo nonno e il primo di Augure3. [6] Secondo quanto attesta Mario Massimo, è documentato che la sua famiglia, risalendo alle origini, discenderebbe da Numa, e parimenti dal re dei Salentini Malemnio, figlio di Dasummo, fondatore di Lopia4. [7] Venne educato nel luogo dove era nato, e nella casa di suo nonno Vero, nei pressi del palazzo del Laterano. [8] Ebbe inoltre una sorella minore, Annia Cornificia, e sposò Annia Faustina5, che era sua cugina. [9] Marco Antonino portò nei primi anni della sua vita il nome di Catilio Severo, suo bisavolo paterno. [10] Ma dopo che il padre morì, ebbe da Adriano il nome di Annio Verissimo6, e dopo l’assunzione della toga virile, quello di Annio Vero. Dopo la morte del padre fu adottato ed educato dal nonno paterno. [2, 1] Fu, sin dalla prima infanzia, di carattere serio e riflessivo. Non appena uscì dall’età che abbisogna delle cure delle nutrici, venne affidato a valenti precettori, dai quali apprese i principi della filosofia. [2] Ebbe come maestri a livello elementare Euforione per le lettere, Gemino per l’arte scenica, Androne per la musica e la geometria. Verso tutti costoro conservò sempre grande deferenza, quali suoi iniziatori al sapere. [3] Oltre a questi, fu discepolo7 del grammatico greco Alessandro di Cotico, e dei grammatici latini Trosio Apro di Pola ed Eutichio Proculo di Sicca8. [4] Suoi maestri nell’oratoria furono i greci Aninio Macro, Caninio Celere ed Erode Attico9, e il latino Cornelio Frontone10. [5] Fra tutti questi, però, mostrò una grande venerazione per Frontone, tanto da proporre in senato di dedicargli una statua, mentre innalzò Proculo al proconsolato, addossandosi le relative spese. [6]

Coltivò con grande passione la filosofia, e ciò fin da giovane: infatti, appena compiuti gli undici anni, fece proprio il modo di vestirsi e poi la stessa capacità di sopportazione tipica del filosofo, abituandosi a studiare tutto ravvolto nel mantello e a dormire per terra; anzi sua madre dovette faticare per riuscire a convincerlo a sdraiarsi su di un giaciglio fatto di pelli. [7] Fu anche alla scuola del maestro di Commodo11 – del quale sarebbe dovuto diventare parente – e a quella del filosofo stoico Apollonio di Calcedonia12. [3, 1] C’era in lui tanto interesse per la filosofia che, anche dopo essere stato accolto nella famiglia imperiale, continuava a recarsi a casa di Apollonio per ascoltare le sue lezioni. [2] Fu inoltre uditore dei filosofi stoici Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco, Giunio Rustico, Claudio Massimo e Cinna Catulo13 [3] – interessato altresì alla dottrina peripatetica, seguì le lezioni di Claudio Severo – e specialmente di Giunio Rustico14, il massimo esperto di filosofia stoica, per il quale nutrì grande reverenza e di cui fu un fedele seguace, lui che aveva pieni poteri in pace e in guerra; [4] lo teneva infatti a parte di ogni sua decisione pubblica o privata, e non mancava mai di baciarlo famigliarmente anche alla presenza dei prefetti del pretorio, lo designò console per la seconda volta, e dopo la sua morte chiese al senato che gli fossero dedicate delle statue. [5] Del resto onorò a tal punto la memoria dei suoi maestri da tenere le loro statue d’oro nella cappella dei Lari15, e da rendere sempre omaggio alle loro tombe con visite, sacrifici e fiori. [6] Si dedicò anche allo studio del diritto, alla scuola di Lucio Volusio Meciano16. [7] E spese per i suoi studi tanto impegno e fatica da risentirne le conseguenze nella salute: e questo è l’unico eccesso che gli potesse essere rimproverato nella sua giovinezza. [8] Frequentò anche le pubbliche scuole dei declamatori, e tra i suoi compagni ebbe particolarmente cari Seio Fusciano17 e Aufìdio Vittorino18 dell’ordine senatorio, Bebio Longo e Caleno di quello equestre. [9] Verso di loro infatti ebbe a mostrarsi molto generoso, fino al punto che a quanti, a motivo della loro condizione sociale, non poteva far fare carriera politica, provvedeva ad assicurare una condizione economica agiata. [4, 1] Fu allevato sotto lo sguardo premuroso di Adriano, che, come abbiamo detto in precedenza, lo chiamava Verissimo, e che gli conferì la dignità dell’ordine equestre a sette anni, [2] e a otto lo fece entrare nel collegio dei Salii19. [3] Nel periodo di appartenenza a questo collegio, ebbe un presagio del suo destino imperiale: infatti, delle corone che tutti gettavano secondo l’uso rituale sul letto sacro20, le altre si posarono qua e là, mentre la sua andò a

cadere proprio sul capo di Marte, quasi vi fosse stata accomodata sopra a mano. [4] Nell’esercizio di questa dignità sacerdotale fu capo delle processioni danzanti, indovino e maestro, e conferì o tolse la consacrazione a molte persone senza bisogno che vi fosse alcun cerimoniere a suggerirgli le formule rituali, giacché le aveva imparate personalmente tutte quante. [5] A quindici anni assunse la toga virile21, e subito, secondo le disposizioni di Adriano, si fidanzò con la figlia di Lucio Ceionio Commodo. [6] Non molto tempo dopo, fu prefetto nel corso delle Ferie Latine22: nell’esercizio di questa carica si mise in ottima luce nell’esplicare le funzioni dei magistrati assenti e nell’allestimento dei banchetti dell’imperatore Adriano. [7] Dopo di ciò lasciò alla sorella tutto il patrimonio dell’eredità paterna, nonostante la madre lo esortasse invece a dividerlo, e rispose a quest’ultima che lui si accontentava dei beni ereditati dal nonno, aggiungendo che, se voleva, lasciasse anche lei unitariamente il suo patrimonio alla sorella, così che questa non avesse a trovarsi in condizioni di inferiorità nei confronti del marito. [8] Non mancava peraltro in lui una certa disponibilità a godere i piaceri della vita, per cui si lasciava talvolta indurre ad andare a caccia, a recarsi a teatro o a presenziare a degli spettacoli. [9] Si dedicò anche alla pittura sotto la guida di Diogeneto. Amava il pugilato, la lotta, la corsa, l’uccellagione, eccelleva nel gioco della palla e praticava la caccia. [10] Ma da tutte queste attività lo distolse lo studio della filosofia, che diede al suo carattere un’impronta di serietà e austerità, senza che peraltro venisse meno la cordialità che egli sapeva esprimere specialmente nei rapporti con i famigliari, ma pure con gli amici, e anche con le persone che non conosceva: giacché egli era virtuoso, ma senza atteggiamenti troppo rigidi, amava la moderazione, ma non l’inattività, era serio, ma senza mai diventare uggioso. [5, 1] Questo, dunque, era il suo carattere; ma quando Adriano, dopo la morte di Lucio Cesare, cercò un successore, Marco, con i suoi diciotto anni, non pareva ancora idoneo: fu così che l’imperatore adottò Antonino Pio, marito della zia paterna di Marco, con la condizione che Pio adottasse Marco, e che Marco, a sua volta, adottasse Lucio Commodo23. [2] Proprio il giorno dell’adozione, Vero sognò di avere le spalle di avorio e, volendo accertarsi se fossero in grado di reggere dei pesi, le trovò più forti del solito. [3] Quando poi venne a sapere della sua adozione da parte di Adriano, ne provò più spavento che gioia, e a malincuore lasciò la villa della madre per ottemperare all’ordine di trasferirsi nella casa privata di Adriano. [4] E ai famigliari che gli domandavano perché mai gli rincrescesse di ricevere l’adozione imperiale,

rispose con una disquisizione sui mali che il potere contiene in sé. [5] Incominciò allora per la prima volta ad essere chiamato, in luogo di Annio, Aurelio, poiché per diritto di adozione era passato a far parte della famiglia Aurelia, cioè di quella di Antonino. [6] Dopo che dunque, al suo diciottesimo anno d’età, ricevette l’adozione, venne designato questore – in virtù di una deroga ai limiti di età24 concessa su proposta di Adriano – sotto il secondo consolato di Antonino25, divenuto ormai suo padre. [7] Anche una volta che fu divenuto, grazie all’adozione, membro della casa imperiale, continuò ad usare nei riguardi di tutti i suoi parenti lo stesso atteggiamento di deferenza che aveva avuto da privato. [8] Ed era, nell’amministrazione del proprio patrimonio, sobrio e diligente, non diversamente da quando era vissuto in una casa privata, proponendosi di agire, parlare, pensare in conformità al modello paterno. [6, 1] Quando Adriano morì a Baia, mentre Pio si era recato a provvedere al trasporto delle sue spoglie, Marco, rimasto a Roma, compì le onoranze funebri dovute alla memoria del nonno e, sebbene fosse questore, allestì uno spettacolo gladiatorio come privato cittadino. [2] Dopo la morte di Adriano sùbito Pio, tramite sua moglie, sondò le intenzioni di Marco, per sapere se, rotto il fidanzamento che […]26 aveva disposto fosse promessa a Vero, il quale però era ancora troppo giovane: egli, dopo avervi riflettuto, rispose che era d’accordo. [3] Dopo di che Pio lo associò a sé nel consolato27, sebbene fosse ancora questore, e gli conferì l’appellativo di Cesare; quando era già console designato, lo nominò tra i sei comandanti degli squadroni della cavalleria romana28, e durante la celebrazione dei giochi organizzati da Marco insieme con i colleghi, sedette accanto a lui; volle inoltre che si trasferisse nel palazzo di Tiberio e, nonostante la sua riluttanza, lo insignì delle più alte dignità di corte e, su proposta del senato, lo ammise a vari collegi sacerdotali. [4] Lo designò inoltre console per la seconda volta, nello stesso tempo in cui lui iniziava ad esserlo per la quarta. [5] Nel medesimo tempo, per quanto impegnato in tante cariche e pur dovendo restare a fianco del padre nelle attività di governo, al fine di prepararsi a governare a sua volta lo Stato, non smise mai di applicarsi con passione agli studi. [6] Di lì a poco sposò Faustina e, dopo che era diventato padre di una figlia, gli fu conferita la potestà tribunizia e l’autorità proconsolare fuori di Roma, nonché la prerogativa di for mulare fino a cinque proposte29 in una riunione senatoria. [7] Godeva di una tale considerazione da parte di Pio, che questi difficilmente assegnava mai delle cariche a qualcuno senza averlo consultato. [8] Marco nutriva a sua volta

il massimo rispetto verso il padre, anche se non mancavano i maligni che mormoravano talune insinuazioni nei suoi confronti, [9] e primo fra tutti Valerio Omullo30 il quale, avendo visto Lucilla, la madre di Marco, che pregava in giardino davanti alla statua di Apollo, sussurrò all’orecchio di Antonino: «Quella adesso sta pregando che tu tiri le cuoia, così che suo figlio possa salire al trono». Ma Pio non teneva ciò in alcun conto: [10] tanto grande era la rettitudine di Marco e tale lo spirito di sottomissione che mostrava nella sua partecipazione al governo. [7, 1] Aveva tanto a cuore la sua reputazione che fin da ragazzo esortò sempre i suoi procuratori a non comportarsi mai in maniera troppo arrogante, e in vari casi rifiutò le eredità che gli erano state lasciate restituendole ai parenti più stretti del defunto. [2] Insomma, per ventitré anni tenne, vivendo nella casa paterna, un comportamento che fece crescere giorno per giorno l’affetto del padre nei suoi confronti, e nel corso di tanti anni non rimase lontano da lui se non per due sole notti, e in occasioni diverse. [3] Per questo Antonino Pio, quando comprese di essere ormai al termine della sua vita, convocati a sé gli amici e i prefetti, lo raccomandò a tutti confermandolo ufficialmente quale suo successore, e, subito dopo aver dato al tribuno la parola d’ordine «equanimità», ordinò che la statua d’oro della Fortuna, che stava fino ad allora nella sua stanza, fosse trasferita in quella di Marco. [4] Marco lasciò parte del patrimonio della madre a Mummio Quadrato31, figlio della sorella, giacché essa era già morta. [5] Dopo la morte del divo Pio, forzato dal senato ad assumere il potere, designò il fratello quale suo collega nell’impero, dandogli il nome di Lucio Aurelio Vero Commodo, e conferendogli il titolo di Cesare e Augusto. [6] E da quel momento cominciarono a reggere lo Stato con pari poteri. Fu allora per la prima volta che lo Stato romano iniziò ad avere due Augusti, avendo Marco reso partecipe un altro del potere che gli era stato conferito. Successivamente egli stesso assunse il nome di Antonino. [7] E come se fosse stato il padre di Lucio Commodo, gli diede anche il nome di Vero, non senza avergli aggiunto quello di Antonino; promise inoltre in sposa al fratello sua figlia Lucilla32. [8] Per celebrare il fidanzamento disposero che fossero ammessi alle distribuzioni di grano collegi di fanciulli e fanciulle intitolati con nuovi nomi. [9] Compiute dunque, in senato, le formalità d’obbligo, si recarono assieme al quartier militare dei pretoriani, e promisero ai soldati ventimila sesterzi a testa, e a tutti gli altri in proporzione al loro grado, per festeggiare la loro condivisione del potere imperiale. [10] Seppellirono il corpo del padre nel monumento

sepolcrale di Adriano con un solennissimo rito funebre. Seguì poi la sospensione di ogni attività giudiziaria, durante la quale fu anche celebrato il calendario di onoranze funebri da tenersi in pubblico, [11] L’uno e l’altro pronunciarono dai rostri l’elogio del padre, e decretarono in suo onore un flamine, scelto fra i famigliari, e una confraternita di sacerdoti Aureliani33, scelti fra gli amici più intimi. [8, 1] Una volta saliti al potere si comportarono entrambi con tanta mitezza, da non far rimpiangere ad alcuno la clemenza di Pio, nonostante che Marullo, un mimografo del tempo, li mettesse in berlina con i suoi scherni pungenti, senza che peraltro ne subisse conseguenze. [2] Allestirono giochi funebri in memoria del padre. [3] Marco si dedicava totalmente alla filosofìa, cercando di guadagnarsi l’affetto dei cittadini. [4] Ma la prosperità e la tranquillità del suo governo fu turbata dalla prima inondazione del Tevere, che si verificò, in tutta la sua rovinosità, al loro tempo. Questo disastro, infatti, distrusse molte case della città, uccise una gran quantità di bestiame e produsse una terribile carestia: [5] tutte calamità che Marco e Vero cercarono di alleviare con vari provvedimenti e col loro personale intervento. [6] In quel tempo34 si ebbe anche lo scoppio della guerra partica che Vologese, dopo averne condotto i preparativi sotto Pio, mosse apertamente nel corso dell’impero di Marco e Vero, con la cacciata del governatore della Siria Atidio Corneliano. [7] Incombeva inoltre la minaccia di una guerra in Britannia, e i Catti avevano fatto irruzione nella Germania e nella Rezia35. [8] Contro i Britanni fu inviato Calpurnio Agricola, contro i Catti Aufidio Vittorino. [9] Alla guerra partica poi, con il consenso del senato, fu mandato il fratello Vero, mentre Marco rimase a Roma, poiché le incombenze della capitale richiedevano la presenza di un imperatore, [10] Nondimeno accompagnò Vero fino a Capua, e gli fornì un seguito di amici di rango senatorio, unendovi anche i capi di tutti i vari uffici. [11] Ma poiché, una volta tornato a Roma, venne a sapere che Vero giaceva ammalato a Canosa, si recò a visitarlo dopo aver fatto in senato voti per la sua guarigione; voti che poi, dopo il suo ritorno a Roma, non appena gli fu comunicato che Vero aveva compiuto la traversata, subito adempì. [12] Peraltro Vero, quando fu arrivato in Siria, si abbandonò a una vita di divertimenti ad Antiochia e a Dafne36, dedicandosi agli esercizi gladiatorii e alle battute di caccia, così che ricevette il titolo di imperator quando in realtà faceva condurre la guerra partica dai suoi generali; [13] Marco intanto passava ogni ora della giornata occupandosi degli affari dello Stato, e tollerava con pazienza – e quasi senza riluttanza e di buon grado – la

vita gaudente del fratello. [14] Insomma, pur stando a Roma, Marco disponeva e provvedeva quanto riguardava le necessità della guerra. [9, 1] La campagna in Armenia fu condotta con esito felice da Stazio Prisco37, con la presa di Artaxata, e così entrambi gli imperatori ricevettero il titolo di Armeniaco; Marco, per modestia, in un primo momento lo rifiutò, tuttavia successivamente lo accettò. [2] Quando poi fu portata vittoriosamente a termine la guerra partica, l’uno e l’altro ebbero il relativo appellativo. Marco però ripudiò anche quest’altro nome a lui conferito; peraltro più tardi si risolse ad accoglierlo. [3] Rimandò l’accettazione del titolo di «padre della patria», che gli era stato offerto in assenza del fratello, sino al ritorno di quest’ultimo. [4] Mentre era in corso la guerra, accompagnò a Brindisi insieme con Civica38, zio paterno di Vero, sua figlia39 che, in vista dell’imminente matrimonio, aveva affidata alle cure della sorella e provveduta di una cospicua dote, e la mandò da lui; [5] subito dopo ritornò a Roma, richiamato dalla necessità di smentire le malevoli dicerie secondo le quali egli avrebbe voluto rivendicare a se stesso la gloria della conclusione della guerra, e per questo motivo sarebbe partito per la Siria. [6] Scrisse ai proconsoli che nessuno andasse incontro a sua figlia durante il viaggio. [7] Nel frattempo stabilì solide garanzie per le cause riguardanti la libertà personale, a tal punto che per primo ordinò che ciascun cittadino dovesse denunciare ai prefetti dell’erario di Saturno40 i figli nati liberi – con il nome loro imposto – entro il trentesimo giorno dalla nascita41. [8] Istituì nelle province l’impiego di pubblici notai, presso i quali fosse svolta la medesima procedura inerente alle nascite che a Roma veniva espletata negli uffici dei prefetti dell’erario, di modo che, se eventualmente qualcuno nato in provincia doveva sostenere una causa per provare la propria condizione libera, potesse trarre di lì le attestazioni necessarie. [9] Definì stabilmente tutta questa legislazione sulle dichiarazioni di stato libero, e propose altre leggi per regolare l’attività dei banchieri e le vendite all’asta. [10, 1] Pose il senato a giudice nell’ambito di molte inchieste giudiziarie, specialmente di quelle pertinenti alla sua giurisdizione. Stabilì inoltre che indagini sul conto delle persone defunte potessero svolgersi solo entro il quinto anno dopo la morte. [2] Nessun imperatore si comportò con maggiore deferenza nei confronti del senato. Per rendere ad esso omaggio delegò a molti pretori e consoli usciti di carica il compito di comporre varie contese giudiziarie, affinché si accrescesse, attraverso la pratica della legge, la loro autorità. [3] Chiamò a far parte del senato molti dei suoi amici, conferendo

loro la dignità di edili o di pretori. [4] A molti senatori che erano rimasti privi di mezzi senza loro colpa, concesse il rango di tribuni o edili. [5] Ma non accolse mai nell’ordine senatorio se non persone che egli conoscesse bene. [6] Usò nei confronti dei senatori anche questo particolare riguardo, che cioè, ogniqualvolta qualcuno di loro dovesse essere sottoposto a processo capitale, egli avrebbe esaminato approfonditamente la causa a porte chiuse, e solo dopo un tale procedimento avrebbe resa pubblica la sentenza; non avrebbe inoltre permesso che a tali processi prendessero parte membri dell’ordine equestre. [7] Sempre, quando si trovava a Roma, e la cosa gli risultava possibile, prendeva parte alle sedute del senato, anche se non aveva provvedimenti da proporre; se poi aveva qualche proposta da presentare, era capace di venire di persona fin dalla Campania. [8] Partecipava inoltre di frequente alle riunioni dei comizi trattenendosi fino a notte, e mai se ne andava dalla curia se il console non aveva già annunciato: «Non vi tratteniamo più oltre, o senatori». [9] Stabilì che il senato fosse giudice nelle cause d’appello presentate contro i provvedimenti di un console. [10] Rivolse una cura particolarmente attenta all’amministrazione della giustizia. Aggiunse ai normali giorni consentiti altri giorni giudiziali, così da stabilire complessivamente duecentotrenta giorni all’anno dedicati al dibattimento delle cause e alla discussione delle controversie giudiziarie. [11] Per primo nominò un pretore tutelare – mentre in precedenza la designazione dei tutori era riservata ai consoli – per garantire che la scelta dei tutori venisse regolata con maggiore serietà. [12] Quanto poi ai procuratori, mentre in precedenza non venivano assegnati se non nei casi previsti dalla legge Pletoria42, cioè per chi conduceva una vita di dissipazione, o per i matti, stabilì che tutte le persone adulte potessero averli senza rendere conto del motivo. [11, 1] Prese anche provvedimenti in materia di spese pubbliche, e intervenne a por freno alle calunnie di quanti accusavano per ottenere il quarto dei beni delle loro vittime, facendo imprimere il marchio d’infamia agli autori di false delazioni. Non tenne in alcun conto le accuse che si sarebbero risolte in un introito per la cassa imperiale. [2] Introdusse molti accorti provvedimenti inerenti agli approvvigionamenti pubblici. Assegnò a molte città dei sovrintendenti43 provenienti dall’ordine senatorio, al fine di estendere l’autorità del senato. [3] In tempo di carestia rifornì le città italiche con grano proveniente da Roma, e prese provvedimenti in ordine a tutte le questioni di approvvigionamento granario. [4] Pose limitazioni in ogni senso agli spettacoli gladiatori. Limitò inoltre i compensi per gli spettacoli teatrali,

stabilendo che gli attori ricevessero cinque aurei a testa, e che comunque nessun organizzatore superasse i dieci. [5] Pose grandissima cura alla manutenzione delle strade di Roma e di quelle percorse nei lunghi viaggi. Prese severi provvedimenti in materia annonaria. [6] Per provvedere alle necessità dell’Italia assegnò ad essa dei giudici44, adottando il criterio seguito da Adriano45, che aveva disposto che la giustizia fosse amministrata da uomini di rango consolare. [7] Discostandosi invece dalle direttive di […] e di Traiano, agì con discrezione nei confronti delle popolazioni spagnole, impoverite dalle continue promozioni al rango di Italici46 [8] Emanò inoltre nuove leggi concernenti l’imposta sulle eredità47, sulla tutela dei liberti, sui beni materni, e parimenti sulla successione dei figli nel possesso dell’eredità materna, e sull’obbligo dei senatori di origine straniera di investire un quarto del loro patrimonio in Italia. [9] Diede inoltre ai sovrintendenti dei distretti e delle strade la facoltà di punire direttamente o di deferire per la punizione al prefetto dell’Urbe coloro che avessero estorto a qualche cittadino qualcosa in più della tassa dovuta. [10] Egli puntava più alla restaurazione del diritto antico che non alla creazione di uno nuovo. Aveva accanto a sé dei prefetti48, ed emanava sempre le sue leggi49 valendosi della loro autorità e sotto la loro responsabilità. Si fece anche assistere dall’insigne giureconsulto Scevola50. [12, 1] Nei rapporti col popolo si comportava non diversamente da quanto si faceva quando lo Stato era libero, [2] e diede in tutto prova di grandissimo equilibrio, nel distogliere il popolo dal male e nell’incitarlo al bene, nel rimunerare con abbondanza, nel dare la libertà con larghezza di vedute, e riuscì così ad ottenere uomini buoni dai cattivi, e dai buoni persone ancora migliori, sopportando inoltre con pazienza le battute anche insolenti di varie persone. [3] Una volta, ad esempio, un tal Vetrasino, uomo di pessima fama, aveva presentato la sua candidatura per una carica, e Marco lo aveva esortato a riscattare prima la cattiva reputazione che aveva presso l’opinione pubblica: di fronte alla secca risposta di quello, che anche molti che avevano combattuto con lui nell’arena li vedeva ora divenuti pretori, non si adombrò. [4] E adottando il criterio di non indulgere con facilità a comminare punizioni contro chicchessia, a un pretore che, con riguardo a certe incombenze aveva dato pessima prova di sé, non impose di rinunciare alla pretura, limitandosi ad affidare ad un suo collega l’amministrazione della giustizia. [5] Nelle cause di materia finanziaria non pronunciò mai sentenze che avvantaggiassero la cassa imperiale. [6] Senza dubbio, pur essendo uomo di grande fermezza, sapeva

nello stesso tempo agire con misura. [7] Dopo che il fratello fu ritornato vittorioso dalla Siria51, fu decretato il nome di padre della patria ad entrambi, in riconoscimento del comportamento improntato a grande equità tenuto da Marco nei confronti del senato e del popolo tutto durante l’assenza di Vero. [8] Venne inoltre offerta ad ambedue la corona civica52; e Lucio chiese che Marco celebrasse con lui il trionfo. Propose anche che i figli di Marco53 ricevessero l’appellativo di Cesari. [9] Marco però mostrò tale modestia che, pur avendo celebrato il trionfo assieme a lui, dopo la morte di Lucio si riservò soltanto il titolo di Germanico, che si era guadagnato in una guerra condotta personalmente. [10] Nel corteo trionfale condussero anche i figli di Marco, maschi e femmine, comprese le figlie non ancora maritate. [11] Assistettero poi in abito trionfale ai giochi decretati per festeggiare il trionfo. [12] Tra le altre testimonianze della sua bontà d’animo è da ricordare anche questo suo atto di sensibilità umana: dopo che si era verificata la caduta di un giovane, ordinò che venissero distesi sotto gli acrobati dei materassi; donde è venuto l’uso per cui ancor oggi viene stesa una rete di protezione. [13] Mentre era in corso la guerra partica, scoppiò quella contro i Marcomanni54, che fu però differita per molto tempo grazie all’opera accorta di quelli che conducevano le operazioni in queste regioni, nell’attesa che, una volta condotta a termine la guerra in oriente, si potesse entrare in azione sul nuovo fronte. [14] E dopo aver fatto conoscere al popolo, al tempo di una carestia, la situazione inerente alla guerra, al ritorno del fratello dopo cinque anni di assenza discusse la questione in senato, affermando che, per condurre la guerra sul fronte germanico, si rendeva necessaria la presenza di entrambi gli imperatori. [13, 1] Tale fu il panico suscitato dalla guerra contro i Marcomanni55, che Antonino fece venire sacerdoti da ogni parte, celebrò riti di origine straniera56, purificò Roma con ogni sorta di sacrifici espiatori; [2] e avendo rinviato la partenza per la guerra poté così celebrare anche i lectisternia57 secondo il rito romano per sette giorni. [3] Vi fu peraltro una pestilenza di tale virulenza, che per portar via i cadaveri si doveva ricorrere a carrozze e carri. [4] In quell’occasione gli Antonini emanarono leggi severissime sulla sepoltura dei cadaveri e sulla costruzione dei sepolcri, sancendo tra l’altro il divieto che a chicchessia fosse consentito di costruire tombe nel luogo che volesse: divieto che è in vigore tutt’oggi. [5] La pestilenza fece molte migliaia di vittime, molte

anche tra i personaggi di alto rango, ai più illustri dei quali Antonino fece erigere statue. [6] E tale era la sua clemenza che volle che i funerali della gente del popolo si facessero a spese dello Stato; e inoltre, quando avvenne che un ciarlatano – il quale, in compagnia di certi suoi complici, cercava l’occasione buona per seminare lo scompiglio in città – si mise, dall’alto di un albero di caprifico, a tener concione nel Campo Marzio, affermando che sarebbe piovuto fuoco dal cielo e sarebbe arrivata la fine del mondo, se egli cadendo giù dall’albero si fosse trasformato in cicogna, e si buttò giù poi effettivamente ad un momento stabilito, liberando nel contempo una cicogna che teneva nascosta sotto la veste, Marco, fattolo portare alla sua presenza, dove confessò l’imbroglio, lo perdonò. [14, 1] Infine i due imperatori partirono in tenuta da guerra58, mentre i Vittuali59 e i Marcomanni provocavano disordini ovunque, e anche altri popoli, che erano fuggiti sotto la pressione dei barbari provenienti dal nord, erano in procinto di entrare in guerra se non fossero stati accolti entro i confini dell’impero. [2] Né questa partenza e la successiva marcia fino ad Aquileia mancarono di rivestire una notevole importanza strategica. Infatti la maggior parte dei re si ritirarono con i loro popoli, e uccisero i promotori della ribellione. [3] I Quadi60 poi, che avevano perduto il loro re, affermarono che non avrebbero riconosciuto il successore designato, prima che la sua elezione avesse ricevuto il beneplacito dei nostri imperatori. [4] Lucio tuttavia, sebbene la maggior parte dei ribelli mandassero dei messi ai legati imperiali a chiedere il perdono per la loro insurrezione, non era entusiasta della spedizione; [5] e in effetti egli, prendendo a motivo la morte del prefetto del pretorio Furio Vittorino, assieme al quale era andata perduta una parte dell’esercito, esprimeva l’opinione che si dovesse ritornare; Marco invece, ritenendo che i barbari stessero simulando – sia quanto alla loro presunta fuga, sia in tutto il loro modo di comportarsi, volto a dar l’impressione che la situazione militare fosse ormai priva di pericoli – allo scopo di liberarsi dalla pressione schiacciante di un tale spiegamento di forze, giudicava che fosse necessario continuare a controllarli da vicino. [6] Infine, valicate le Alpi, avanzarono ulteriormente, e presero tutte le misure atte alla difesa dell’Italia e dell’Illirico. [7] Si decise però, per le insistenze dell’interessato, che Lucio, previo l’invio di una lettera di comunicazione al senato, ritornasse a Roma. [8] E per via, dopo che si erano messi in viaggio, Lucio morì per un colpo apoplettico mentre sedeva in carrozza col fratello61. [15, 1] Marco aveva l’abitudine di leggere, dare udienza e firmare

documenti mentre si trovava ad assistere agli spettacoli del circo: ciò che lo rese spesso oggetto – a quanto dicono – di battute canzonatorie da parte della gente. [2] Sotto Marco e Vero grande fu il potere di cui godevano i liberti Gemino e Agaclito. [3] Tanta62 era la bontà di Marco che, pur disapprovandoli profondamente, cercò di mimetizzare e giustificare i difetti di Vero, e dopo la sua morte lo fece divinizzare, concesse aiuti e riconoscimenti alle zie e alle sorelle di lui, facendo decretare loro titoli onorifici e sovvenzioni, e onorò la sua memoria facendo celebrare moltissimi sacrifici. [4] Gli dedicò un flamine e un collegio di sacerdoti Antoniniani, nonché tutti gli onori che spettano agli dèi. [5] Ma non v’è alcun principe che possa restare al riparo da dicerie calunniose, e neppure Marco fece eccezione: si sparse infatti la voce che egli aveva tolto di mezzo Vero o col veleno63 – offrendo da mangiare al fratello la parte avvelenata di una vulva di maiale, che egli avrebbe tagliato con un coltello che aveva un lato cosparso di veleno, riservando per sé la parte monda –, [6] o semplicemente servendosi del medico Posidippo, che, a quanto si diceva, avrebbe praticato a Vero un intempestivo salasso. Dopo la morte di Vero Cassio64 si ribellò a Marco. [16, 1] Marco era così generoso verso i suoi famigliari che, se concesse a tutti i parenti le insegne di tutti quanti i titoli onorifici, al figlio, e per di più a uno come Commodo – scelle – rato e depravato –, si affrettò a conferire l’appellativo di Cesare, e successivamente la dignità sacerdotale, nonché quasi subito il titolo di imperatore65, il diritto di partecipare al trionfo, e il consolato. [2] E in quell’occasione66 l’imperatore, spogliatosi della porpora, corse a piedi nel Circo, in onore del figlio, al seguito del suo carro trionfale. [3] Dopo la morte di Vero, Marco Antonino resse da solo lo Stato, [4] potendo esplicare assai più efficacemente e fecondamente le sue virtù, in quanto non era ormai più condizionato da alcuno dei difetti di Vero, né da quelli legati a quella sua simulata e astuta apparenza di serietà, che era un suo vizio congenito, né da quelli che più erano spiaciuti a Marco fin da quando Vero era in tenera età, rappresentati dagli indirizzi di vita e dai costumi propri di un’indole deteriore. [5] Tale era la serenità d’animo di Marco, che non mutava mai l’espressione del volto né in seguito a dolori né a gioie, seguace com’era dei principi della filosofia stoica, quali non solo aveva appreso alla scuola di tutti i migliori maestri, ma aveva raccolto lui stesso da ogni possibile fonte. [6] Difatti lo stesso Adriano aveva pensato di designarlo a suo successore, se non vi fosse stato l’ostacolo della sua troppo tenera età. [7] Ciò

appare chiaramente dal fatto che scelse lui come genero di Pio67, nella speranza che un giorno o l’altro l’impero romano potesse essere affidato a lui, ad un uomo, cioè, che ne fosse veramente degno. [17, 1] Da allora, dunque, governò le province mostrando tutta la sua moderazione e longanimità. Condusse felicemente le operazioni contro i Germani. [2] Portò a conclusione con successo pari al valore la guerra contro i Marcomanni, che fu un episodio a sé, ma che presentò difficoltà che non si ricordavano a memoria d’uomo, e proprio nel periodo in cui una terribile pestilenza aveva falciato molte migliaia di civili e militari. [3] Sbaragliati dunque i Marcomanni, i Sarmati, i Vandali, e ad un tempo anche i Quadi, liberò le Pannonie dal giogo cui erano sottoposte, e celebrò a Roma il trionfo con suo figlio Commodo che, come dicemmo, aveva già nominato Cesare. [4] Poiché peraltro in questa guerra aveva dato fondo al proprio tesoro, e non avendo intenzione di esigere contributi straordinari da parte dei provinciali, organizzò una vendita all’asta, nel foro del divo Traiano, degli oggetti preziosi appartenenti al patrimonio imperiale, ponendo in vendita anche coppe d’oro, di cristallo e di murra68 vasellame regale, vesti di seta e trapunte d’oro appartenenti a sua moglie, e persino una grande raccolta di gemme che aveva trovato nel forziere in cui Adriano aveva tenuto riposti gli oggetti più preziosi69. [5] Questa vendita continuò per due mesi, e se ne ricavò una quantità di denaro sufficiente perché, portate a termine secondo i piani le ultime operazioni della guerra contro i Marcomanni, egli potesse poi autorizzare i compratori, informati che era loro lecito, a restituire, se uno voleva, ciò che aveva acquistato, e a riavere il proprio denaro. Né esercitò antipatiche pressioni su alcuno, sia che non avesse restituito gli oggetti comprati, sia che li avesse resi. [6] In quel tempo egli permise ai personaggi più in vista di dare banchetti con la stessa sontuosità dei suoi, e con pari impiego di servitù. [7] Nell’organizzazione di spettacoli pubblici si mostrò tanto generoso da presentare insieme in una sola volta cento leoni, che vennero uccisi a colpi di frecce. [18, 1] Dopo aver dunque governato circondato dall’affetto di tutti, e considerato e amato dalla gente ora come un fratello, ora come un padre, ora come un figlio, in accordo con l’età di ciascuno, nel diciottesimo anno del suo impero e sessantunesimo della sua vita chiuse i suoi giorni70. [2] E nel giorno dei suoi funerali così grande apparve l’amore di cui godeva che nessuno ritenne di doverlo piangere, nella generale certezza che, così come era stato temporaneamente lasciato agli uomini dagli dèi, agli dèi stessi fosse ritornato.

[3] Infine, prima ancora della sepoltura, secondo quanto dicono i più, il senato e il popolo – cosa che non era mai avvenuta in passato, né sarebbe più avvenuta in futuro – lo proclamarono dio protettore riunendosi non in luoghi diversi ma in un’unica sede. [4] Eppure quest’uomo così grande e virtuoso, unito in vita e in morte agli dèi, lasciò quale figlio Commodo: sarebbe stato fortunato se fosse morto senza figli. [5] E non fu sufficiente che persone di ogni età, sesso, condizione e rango gli tributassero onori divini, ma si giunse ad accusare di sacrilegio chi, pur avendo i mezzi con i quali avrebbe potuto e dovuto farlo, non teneva in casa sua l’immagine di lui. [6] Di conseguenza ancor oggi in molte case le statue di Marco Antonino hanno il loro posto fra quelle degli dèi Penati. [7] Né mancarono persone che affermarono che egli aveva fatto loro in sogno molte profezie, e preannunziarono avvenimenti futuri che poi in effetti si verificarono. [8] Gli fu quindi consacrato un tempio, e gli furono dedicati una confraternita di sacerdoti e dei flamini, col nome di Antoniniani, nonché tutti quegli onori che nell’antichità venivano decretati per la divinizzazione dei principi. [19, 1] Certuni affermano – e la cosa appare verisimile – che Commodo Antonino, suo figlio e successore, non fosse realmente nato da lui, ma in seguito ad un adulterio, intrecciando tale storia con le dicerie popolari. [2] Una volta Faustina, figlia di Pio e moglie di Marco, vedendo passare una sfilata di gladiatori, sarebbe stata presa da ardente passione per uno di essi e, travagliata a lungo dall’inquietudine, si sarebbe decisa a confessare al marito il suo sentimento. [3] Marco riferì la cosa agli indovini Caldei71, il cui responso fu che il gladiatore venisse ucciso e col sangue di lui Faustina si bagnasse le parti basse, e giacesse così col marito. [4] Fatto tutto questo la passione si dissolse, ma in compenso nacque Commodo, un gladiatore, non un principe, [5] il quale, salito al trono, diede quasi mille combattimenti gladiatori pubblicamente, alla presenza del popolo tutto, come si dirà nella sua biografia. [6] Questa storia trae verisimiglianza dal fatto che il figlio di un principe così virtuoso era di costumi peggiori che qualsiasi maestro di gladiatori, istrione, combattente del circo, o, per farla breve, di qualsiasi individuo impastato di tutte le immoralità e scelleratezze. [7] Molti poi sostengono che Commodo era in tutto e per tutto nato da un adultero, dato che è ben noto come Faustina a Gaeta gradisse di preferenza la compagnia di marinai e gladiatori. [8] E a chi gli consigliava di ripudiarla, se non proprio di ucciderla, Marco Antonino si dice che rispondesse: «Se la rimandiamo,

dobbiamo rendere anche la dote». [9] E che cos’era la dote se non l’impero stesso che egli aveva ricevuto dal suocero quando questi l’aveva adottato, secondo le disposizioni di Adriano? [10] Ma tanto grande è il valore della vita di un buon principe, della sua rettitudine, mansuetudine e bontà, che l’odio suscitato da quale che sia dei suoi congiunti non può oscurarne la gloria. [11] Di conseguenza Antonino, vivendo sempre secondo i suoi retti costumi senza lasciarsi disviare dalle maldicenze di alcuno, non vide il suo prestigio sminuito dal fatto che il figlio facesse il gladiatore o dalla condotta svergognata di sua moglie: [12] e ancora adesso è reputato alla pari di un dio, come è stato ed è considerato anche da Voi, o santissimo imperatore Diocleziano, che lo venerate fra i Vostri numi tutelari, e non come tutti gli altri, ma tributandogli onori speciali, e affermate spesso che vorreste essere, nella condotta di vita e nella clemenza, quello che fu Marco, anche se, per quanto concerne la filosofia, neppure Platone, se ritornasse in vita, potrebbe eguagliarlo. Concludiamo, così, questo breve riassunto. [20, 1] Quanto poi agli atti di Marco Antonino dopo la morte del fratello, essi furono i seguenti: in primo luogo il suo corpo fu trasportato a Roma e sepolto nella tomba di famiglia72; gli furono decretati onori divini. [2] Poi, mentre ringraziava il senato per la divinizzazione del fratello, lasciò intendere che tutti i piani della guerra, che avevano consentito di sconfiggere i Parti, erano stati elaborati da lui stesso. [3] Aggiunse inoltre certi discorsi con cui faceva chiaramente capire che allora finalmente avrebbe governato lo Stato come ricominciando dall’inizio, una volta liberato di quello che pareva per lui una vera palla al piede. [4] Né il senato mancò di interpretare le parole di Marco per quello che realmente significavano, tanto che la cerimonia prese l’aspetto di un rendimento di grazie per la morte di Vero. [5] Successivamente concesse alle sorelle, ai parenti e ai liberti una gran quantità di privilegi, dignità e danaro. Era infatti molto geloso della sua reputazione, cercando di indagare fino in fondo che cosa si dicesse di lui, e cercando di correggersi dei difetti che gli venivano rimproverati fondatamente. [6] In procinto di partire per la guerra germanica diede in sposa sua figlia73 – ancor prima che fosse trascorso il periodo di lutto – a Claudio Pompeiano, un uomo ormai vecchio, figlio di un cavaliere romano e originario di Antiochia, non sufficientemente nobile (e appunto Marco successivamente lo creò due volte console) per una Augusta74 e figlia di Augusta quale era sua figlia. [7] E in effetti né Faustina né la sposa furono soddisfatte di queste nozze.

[21, 1] Contro i Mauri, che stavano saccheggiando pressocché tutta la Spagna, fu condotta felicemente una campagna dai suoi legati. [2] E quando le soldatesche dei Bucolici75 si resero protagoniste di gravi atti di ribellione in Egitto, fu Avidio Cassio a domarli, quello stesso che in seguito si arrogò il potere. [3] Mentre trascorreva gli ultimi giorni prima della partenza in ritiro a Preneste76, perse il figlio di sette anni, che aveva nome Vero Cesare, a seguito del taglio di un’escrescenza che gli era venuta sotto l’orecchio. [4] Ma non lo pianse più di cinque giorni, e dopo aver consolato lui stesso i medici, tornò a dedicarsi agli affari dello Stato. [5] E poiché erano in corso i giochi in onore di Giove Ottimo Massimo, non volle che fossero interrotti dalla celebrazione del lutto pubblico, e ordinò che in onore del figlio morto fossero decretate solo delle statue e una immagine in oro da portare in processione nel corso degli spettacoli del circo, e che il suo nome fosse inserito nel Carme Saliare77. [6] Dato il persistere della pestilenza, si diede molta cura di restituire vigore alle pratiche del culto divino, e – come già si era fatto al tempo della guerra punica – reclutò per il servizio militare gli schiavi, che chiamò Volontari, sull’esempio dei Voloni78. [7] Mise in armi anche i gladiatori, che chiamò Ossequenti. Fece diventare soldati anche i briganti della Dalmazia e della Dardania79. Mise in armi pure i Diogmiti80. Assoldò inoltre truppe ausiliarie composte da Germani da impiegare contro i Germani. [8] Addestrò poi con ogni cura le legioni per la guerra germanica e marcomannica. [9] E, per non procurare un aggravio fiscale ai provinciali, bandì – come dicemmo – una vendita all’asta degli oggetti di pregio del patrimonio di corte nel foro del divo Traiano, nel corso della quale, oltre a vesti, e coppe e vasi d’oro, vendette insieme statue e dipinti di insigni artisti. [10] Sgominò i Marcomanni proprio mentre erano impegnati nel passaggio del Danubio, e restituì ai provinciali il bottino che quelli avevano fatto. [22, 1] Si erano uniti nella ribellione tutti i popoli compresi tra il confine dell’Illirico e la Gallia, come i Marcomanni, i Varisti, gli Ermunduri, i Quadi, gli Svevi, i Sarmati, i Lacringi e i Buri81 […] assieme ai Vittuali, i Sosibi, i Sicoboti, i Rossolani, i Basterni, gli Alani, i Peucini e i Costoboci. Si profilava inoltre la minaccia di una guerra coi Parti e i Britanni. [2] Riuscì dunque, a prezzo di enormi sforzi, anche da parte sua – giacché i soldati guardavano a lui come a un esempio da imitare –, a sconfiggere quei popoli tanto bellicosi, coadiuvato nel comando dell’esercito dai suoi luogotenenti e dai prefetti del pretorio, e ottenne la resa dei Marcomanni, molti dei quali fece deportare in

Italia. [3] Prima di prendere qualsiasi provvedimento tanto in campo militare che civile, si consultava sempre con gli ottimati. [4] In breve, il suo pensiero fondamentale fu sempre questo: «È più giusto che io segua i consigli di tanti e tali amici, che tanti e tali amici debbano seguire la volontà di me solo». [5] E poiché Marco, formato com’era ai principi della filosofia, appariva uomo rigido sia nella faticosa vita militare, sia nella vita d’ogni giorno, era fatto oggetto di aspre critiche; [6] ma egli sapeva sempre rispondere ai discorsi e agli scritti dei suoi detrattori. [7] Nel corso della guerra germanica, combattuta contro i Marcomanni, o meglio contro un gran numero di popoli, perirono molti nobili, in onore dei quali tutti fece erigere statue nel foro Ulpio. [8] Per questo gli amici avevano spesso cercato di convincerlo ad abbandonare il teatro delle operazioni e a venire a Roma, ma egli non volle mai ascoltarli, e continuò a rimanere laggiù: né si allontanò dal fronte prima di aver portato a conclusione tutta la campagna. [9] A seconda delle necessità militari trasformò le province proconsolari in consolari e le consolari in proconsolari82 o in pretorie83. [10] Con una politica severa e autorevole represse i disordini che erano scoppiati anche tra i Sequani84. [11] Fu ristabilito l’ordine anche nella Spagna, che era stata sconvolta dai moti della Lusitania. [12] Fatto venire al confine suo figlio Commodo, gli conferì la toga virile85 – e nell’occasione distribuì al popolo un donativo – e lo designò console prima dell’età legale86. [23, 1] Non vedeva di buon grado che qualcuno avesse in alcun caso a subire la proscrizione da parte del prefetto dell’Urbe. [2] Era assai parco nel fare elargizioni col denaro pubblico – ciò che costituisce un titolo di merito piuttosto che di biasimo –, [3] ma tuttavia non mancava di concedere sovvenzioni alle persone meritevoli, forniva aiuti alle città che versavano in situazioni difficili, e, quando si rendeva necessario, condonava tasse e imposte. [4] Quando era assente, si preoccupava vivamente di disporre che venissero allestiti divertimenti per il popolo romano ad opera degli organizzatori più facoltosi; [5] giacché, al tempo in cui aveva arruolato i gladiatori, era circolata fra la gente la voce che egli intendesse indirizzare il popolo alla filosofia, togliendogli i divertimenti. [6] E in effetti aveva ordinato, perché le attività commerciali non ne ricevessero intralcio, di allestire gli spettacoli dei pantomimi ad ore piuttosto tarde, e non lungo tutto il corso delle giornate. [7] Circolavano voci sugli amori di sua moglie con degli attori, come abbiamo riferito più sopra. Ma da tutte queste insinuazioni egli la discolpò sempre nelle sue lettere. [8] Dispose inoltre che non fosse consentito andare a cavallo o in carrozza entro le città. Soppresse i bagni promiscui87. Pose un freno alla

corruzione dei costumi delle matrone e dei giovani della nobiltà. Epurò i riti sacri di Serapide88 dalla promiscuità delle cerimonie pelusiache89. [9] Si era diffusa la voce che certi individui, spacciandosi per filosofi, esercitassero pesanti ingerenze nella vita dello Stato e dei privati cittadini; ma egli smentì anche questa diceria. [24, 1] Antonino era solito punire tutti i crimini con pene più lievi di quelle comminate usualmente dalle leggi, anche se talvolta era inflessibile ed inesorabile contro i colpevoli accertati di gravi delitti. [2] I processi capitali a carico di uomini di riguardo li istruiva lui stesso, e con un grande senso di giustizia, così da giungere a rimproverare un pretore che era stato frettoloso nell’ascolto della difesa degli imputati, e a ordinargli di istruire nuovamente la causa, affermando che la dignità degli accusati richiedeva che essi ricevessero udienza da parte di colui che giudicava in nome del popolo. [3] Mantenne lo stesso senso di giustizia anche nei confronti dei prigionieri di guerra. Accolse nel territorio romano un gran numero di stranieri. [4] Con le sue preghiere ottenne che cadesse dal cielo un fulmine contro una macchina da guerra nemica, ottenendo anche la pioggia per i suoi soldati assetati90. [5] Aveva intenzione di fare della Marcomannia una provincia, e lo stesso per la Sarmazia: e avrebbe messo in atto il suo progetto se non fosse scoppiata sotto di lui la ribellione di Avidio Cassio in Oriente. [6] Questi, a quanto affermano certuni, si sarebbe proclamato imperatore d’accordo con Faustina, che considerava ormai disperate le condizioni di salute del marito. [7] Altri dicono che Cassio assunse il titolo dopo aver diffuso la falsa notizia della morte di Antonino, e dopo averlo divinizzato. [8] Per la verità Antonino non si lasciò eccessivamente turbare dalla ribellione di Cassio, né infierì contro i suoi congiunti. [9] Ma il senato lo dichiarò nemico pubblico, e i suoi beni furono confiscati e incamerati nell’erario. [25, 1] Abbandonata allora la guerra contro i Sarmati e i Marcomanni, partì per affrontare Cassio. [2] A Roma si ebbero anche manifestazioni di panico, al pensiero che Cassio, approfittando dell’assenza di Antonino, stesse arrivando. Ma questi fu ben presto ucciso, e la sua testa venne portata ad Antonino. [3] Marco tuttavia non mostrò gioia per l’uccisione di Cassio, e ordinò che il suo capo fosse sepolto. [4] I soldati uccisero anche suo figlio Meciano, cui era stato da lui affidato il governo di Alessandria91; e si era creato anche un prefetto del pretorio, che fu, lui pure, ucciso. [5] Non permise che il senato punisse con gravi pene i complici della congiura, [6] chiedendo inoltre che nessun senatore avesse ad essere ucciso nel corso del suo governo,

affinché il suo impero non ne fosse così macchiato [7] – ordinò tra l’altro che fossero richiamati quelli che erano stati banditi –: solo pochissimi centurioni furono puniti con la pena capitale. [8] Perdonò anche alle città che avevano dato il loro appoggio a Cassio, perdonò anche agli Antiocheni, che si erano pronunciati molte volte contro di lui e a favore di Cassio. [9] Ad essi aveva tolto la facoltà di organizzare spettacoli e di tenere pubbliche assemblee, nonché ogni genere di riunioni, e nei loro confronti emanò un editto severissimo. [10] Che questa fosse gente ribelle, lo conferma anche un discorso rivolto da Marco a degli amici, e riportato da Mario Massimo. [11] Inoltre, recandosi in Siria, non volle passare per Antiochia. [12] E non volle vedere neppure Cirro, che era la patria di Cassio. [26, 1] Si fermò invece ad Alessandria, e tenne nei confronti degli abitanti di questa città un comportamento ispirato a clemenza. Successivamente, peraltro, acconsentì a visitare anche Antiochia. Condusse molte trattative con i re, e ratificò la pace con tutti quanti i sovrani e gli ambasciatori persiani che erano venuti ad incontrarlo. [2] Fu molto amato in tutte le province orientali. E in molte di esse lasciò testimonianze della sua sapienza filosofica. [3] In Egitto si comportò come un privato cittadino e un filosofo in tutti i luoghi di studio, in tutti i templi, e dovunque si recasse. E sebbene gli Alessandrini si fossero pronunciati più volte in favore di Cassio, perdonò nondimeno a tutti, lasciando sua figlia presso di loro. [4] Nel villaggio di Alala ai piedi del monte Tauro perdette sua moglie Faustina, colpita dal violento attacco di un’improvvisa malattia92. [5] Chiese al senato di decretare per lei onoranze e un tempio, e ne fece le lodi, quantunque avesse pesato su di lei la fama di donna scostumata. Ma di questo Antonino o non era al corrente o fingeva di essere all’oscuro. [6] Per onorare la memoria della moglie morta istituì un nuovo collegio di fanciulle col nome di Faustiniane. [7] Manifestò al senato la sua gratitudine per aver anche divinizzato la moglie. [8] In riferimento al fatto che l’aveva avuta con sé nei quartieri estivi, poté chiamarla «madre dell’accampamento». [9] Trasformò in colonia93 il villaggio dove Faustina era morta, e vi edificò un tempio in suo onore; questo, peraltro, venne in seguito dedicato ad Eliogabalo94. [10] Clemente com’era, alla morte dello stesso Cassio dovette rassegnarsi, ma non fu lui a ordinarla. [11] Il figlio di Cassio Eliodoro fu solo deportato, e gli altri poterono scegliere liberamente la sede del proprio esilio, portando con sé una parte dei beni. [12] Quanto ai figli di Cassio, ricevettero più di metà del patrimonio paterno, e sovvenzioni in oro e argento, le donne anche donativi in gioielli: e anzi una figlia di lui,

Alessandria, e il genero Drunciano95, ebbero il permesso di spostarsi liberamente, sotto la protezione del marito di una zia materna di Marco. [13] Insomma, Marco rimase addolorato per la morte di Cassio, dicendo che avrebbe voluto portare a compimento il suo regno senza che fosse sparso sangue senatorio. [27, 1] Ristabilito l’ordine nella situazione orientale, si fermò ad Atene dove, per dimostrare la propria purezza da qualsiasi colpa, si fece iniziare ai misteri di Cerere96, ed entrò da solo nel sacrario. [2] Mentre ritornava in Italia per nave, si trovò nel mezzo di una violentissima tempesta. [3] Arrivando, per la via di Brindisi, in Italia, indossò la toga e ordinò che la indossassero anche i suoi soldati, né permise che mai97 sotto di lui i soldati portassero il mantello. [4] Non appena giunse a Roma celebrò il trionfo, e ne ripartì subito per recarsi a Lavinio98. [5] Poi prese Commodo quale proprio collega nel tribunato99, distribuì un donativo al popolo, e diede meravigliosi spettacoli; inoltre prese molti provvedimenti di riforma in campo civile. [6] Stabilì un limite alle spese per gli spettacoli gladiatori. [7] Aveva sempre sulle labbra il detto di Platone secondo il quale erano fiorenti quelle città nelle quali o i filosofi fossero governanti, o i governanti filosofi. [8] Fece celebrare il matrimonio di suo figlio con la figlia di Bruzzio Presente100 come se si trattasse di una cerimonia privata, e neiroccasione diede anche al popolo un donativo. [9] Rivolse poi la sua attenzione alla conclusione della guerra101 ma, mentre ne dirigeva le operazioni, morì102; già allora i costumi del figlio cominciavano a deviare dai suoi ammaestramenti. [10] Combatté per tre anni contro i Marcomanni, gli Ermunduri, i Sarmati, e i Quadi, e, se fosse vissuto ancora un solo anno, avrebbe fatto dei loro territori delle province romane. [11] Si dice che due giorni prima di morire, riuniti i suoi amici, espresse a proposito del figlio il medesimo giudizio che Filippo ebbe a manifestare sul conto di Alessandro, quando aveva una cattiva opinione di lui, precisando che gli dispiaceva molto di lasciar vivo dopo di sé il figlio; [12] ché già Commodo stava dando prove di immoralità e crudeltà. [28, 1] La sua morte avvenne così: quando cominciò a sentirsi male, fece chiamare il figlio e in primo luogo gli chiese di non trascurare il compimento delle ultime operazioni di guerra, perché non avesse ad apparire un traditore dello Stato. [2] E, avendogli il figlio risposto che più di ogni altra cosa gli stava a cuore la propria salute, non si oppose alla sua volontà, pregandolo, tuttavia, di attendere pochi giorni, e non partirsene seduta stante. [3] Poi si astenne dal

mangiere e dal bere, bramoso ormai di morire, accrescendo così la forza del male. [4] Il sesto giorno radunò gli amici e, deridendo le cose umane e manifestando il suo disprezzo per la morte, disse loro: «Perché piangete per me e non pensate piuttosto alla pestilenza e al destino di morte che ci accomuna?» [5] E poiché quelli cercavano di scostarsi, esclamò gemendo: «Visto che già volete congedarvi da me, io vi precedo e vi dico addio». [6] E quando gli fu chiesto a chi affidava suo figlio, rispose: «A voi, se ne sarà degno, e agli dèi immortali». [7] I soldati, venuti a conoscenza del suo grave stato di salute, ne erano profondamente addolorati, poiché gli erano straordinariamente affezionati. [8] Il settimo giorno si aggravò, e ammise alla sua presenza solo il figlio, che del resto subito congedò, perché non avesse a subire il contagio. [9] Congedato il figlio, si coprì il capo come se volesse dormire, e durante la notte spirò. [10] Si dice che egli si augurasse che il figlio morisse, vedendolo in procinto di diventare quello che in effetti si rivelò dopo la sua morte, onde non avesse a divenire – come lui stesso diceva – un nuovo Nerone, Caligola o Domiziano. [29, 1] Gli fu rimproverato di aver innalzato a varie dignità gli amanti della moglie, Tertullo, Tutilio, Orfito e Moderato – e Tertullo quantunque l’avesse addirittura sorpreso a pranzare con la moglie. [2] A quest’ultimo fece allusione – presente Antonino – persino un mimo: il classico sempliciotto chiedeva al servo il nome dell’amante della moglie, e questi rispondeva ripetendo per tre volte: «Tullo»; finché, persistendo quello nella domanda, esclamava: «Te l’ho già detto ter, Tullo103 si chiama». [3] E su questo episodio non mancarono i commenti del popolino, e anche da parte di altri che rimproveravano ad Antonino la sua eccessiva tolleranza. [4] Nel periodo che precedette la sua morte, prima di partire nuovamente per la guerra marcomannica, giurò in Campidoglio che nessun senatore era stato messo a morte essendone egli al corrente, aggiungendo che, se fosse stato informato in tempo, avrebbe salvato anche coloro che si erano ribellati; [5] nulla poi temeva e cercava di stornare maggiormente da sé quanto la taccia di avarizia, dalla quale cerca di scagionarsi in molte lettere. [6] Gli fu rimproverato di essere un ipocrita, e non così schietto come sembrava, o come erano stati Pio e Vero. [7] Lo accusarono anche di aver incoraggiato l’arroganza dei cortigiani, allontanando gli amici dalla sua compagnia e dalla sua mensa. [8] Decretò la divinizzazione dei suoi parenti. Fece inoltre erigere delle statue alla memoria dei loro amici. [9] Non era troppo incline a credere alle versioni fornite da uomini di

parte, ma sempre si adoperava in una lunga ricerca della verità. [10] Dopo la morte di Faustina, Fabia104 si diede da fare per riuscire a sposarlo. Egli si prese invece una concubina, la figlia del procuratore di sua moglie, per non imporre una matrigna a tanti figli.

1. Nel corso della HA Marco Aurelio è sempre indicato con questo nome. 2. Il vero nome della madre era Domitia Lucilla. 3. Nel 121 d. C. 4. Probabilmente da identificare con Lupiae, città della Calabria (forse l’odierna Lecce). 5. La figlia adottiva di Antonino Pio. 6. Su questo nome cfr. in particolare H. G. PFLAUM, La valeur de la source inspiratrice de la Vita Hadriani et de la Vita Marci à la lumière des personnalités contemporaines nommément citées, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, p. 212. 7. Sui problemi posti dall’identità di alcuni dei maestri di Marco ricordati qui di seguito cfr. A. R. BIRLEY, Some teachers of M. Aurelius, in BHAC, 1966-67, Bonn, 1968, pp. 39 segg.; cfr. anche PFLAUM, La valeur, cit., pp. 202 segg. 8. Sicca Veneria, in Numidia. 9. Il maggiore oratore del suo tempo, esponente del movimento della Seconda Sofìstica, che si richiamava ai sofisti della grande Atene del V e IV secolo a. C., cercando di riprodurne la lingua e lo stile. 10. M. Cornelio Frontone (100-173 d. C.), leader del movimento arcaista, fu oratore, retore, maestro di scuola; parte della corrispondenza da lui intrattenuta con i discepoli M. Aurelio e L. Vero è giunta sino a noi. 11. Il testo è qui incerto (cfr. Nota critica). Secondo la lettura da noi seguita ci si riferirebbe ad un non meglio identificato personaggio che era stato anche maestro di Elio Vero (qui indicato semplicemente come «Commodo»). 12. Cfr. Ant. Pius, 10, 4, n. 1. 13. Tutti questi filosofi sono ricordati dallo stesso Marco Aurelio in Ad se ipsum, I, 9, 7, 15, 13. 14. Si trattava presumibilmente di un membro della famiglia dell’omonimo personaggio, campione della fede stoica, messo a morte da Domiziano nel 93 d. C. 15. Il Larario era il luogo dove veniva celebrato il culto dei Lari, gli dèi protettori della casa e della famiglia: poteva trattarsi di una semplice nicchia ricavata nel muro o di una vera e propria cappelletta. 16. Giurista frequentemente citato nei Digesti; fu prefetto d’Egitto nel 160 d. C. e successivamente senatore. 17. Menzionato anche in Pert., 4, 3 quale prefetto dell’Urbe al tempo di Commodo; fu console per la seconda volta nel 188 d. C. 18. Genero di Frontone, fu console per la seconda volta nel 183 d. C.; è ricordato anche a 8, 8, a proposito del suo comando in Germania contro i Catti. 19. I Salii (da salire = «danzare») erano i sacerdoti che, nella prima metà di marzo di ogni anno, muovevano in processione per la città e intorno ai luoghi sacri portando gli scudi che si dicevano caduti dal cielo (ancilia) e cantando inni accompagnati da danze guerresche. Il collegio, istituito da Numa Pompilio, era composto originariamente da dodici membri; il numero fu raddoppiato da Tullo Ostilio (e si ebbe una divisione in Salii Palatini e Salii Collini). 20. Nel corso dei banchetti in onore degli dèi, le immagini di questi erano posate sopra cuscini e dinanzi ad esse venivano collocate squisite vivande; cfr. 13, 1. 21. L’assunzione della toga virilis (con il corrispondente abbandono della toga praetexta) sanciva per un giovane il raggiungimento della maggiore età, con l’acquisizione dei diritti propri del cittadino adulto. Avveniva il 17 marzo, nel corso di una festa religiosa; l’età non era fissa, ma oscillava per lo più fra i quindici e i diciotto anni. 22. In epoca repubblicana questo magistrato aveva il compito di provvedere all’amministrazione di Roma nel periodo in cui i consoli erano assenti per la celebrazione delle Feriae Latinae sul Monte Albano (originariamente era la festa celebrata dai comuni della confederazione latina, e, dopo la vittoria su Alba,

venne ripresa dai Romani). Durante l’impero l’ufficio restò, anche se ridotto ad una pura formalità, venendo affidato a qualche giovane di alto rango (cfr. TACITO, Ann., IV, 36; SVETONIO, Nero, 7). 23. Ciò non è esatto in quanto, come sappiamo (cfr. Hadr., 24, 1; Ael., 6, 9; Ant. Pius, 4, 5), Lucio Vero – qui indicato come Lucio Commodo – fu adottato pur egli da Antonino Pio; la stessa confusione abbiamo già incontrato in Ael., 5, 12. 24. Cfr. Ant. Pius, 6, 10, n. 3. 25. Nel 139 d. C. 26. Il testo è qui sicuramente lacunoso. Il senso generale del passo doveva originariamente essere questo: Pio, attraverso la moglie, interpellò Marco per sapere se, sciolta la promessa di matrimonio che aveva contratto con la figlia di L. Ceionio Commodo, volesse prendere in moglie la propria figlia Faustina, che Adriano aveva voluto fosse promessa a Vero, il quale però era troppo giovane per lei (cfr. Ver., 2, 2-3). 27. Per il 140 d. C. 28. I seviri equitum Romanorum erano al comando delle turmae (squadroni di cavalleria costituiti da trenta uomini); designati direttamente dall’imperatore, erano di solito giovani delle famiglie senatorie non ancora ammessi in senato o anche, come nel caso di Marco, principi della famiglia imperiale. Erano avvicendati annualmente. 29. Lo ius tertiae, quartae, quintae relationis consisteva nel diritto – riservato all’imperatore – di poter mettere all’ordine del giorno del senato tre, quattro, cinque oggetti di discussione e votazione in una sola seduta. 30. Cfr. Ant. Pius, 11, 8. 31. Il suo vero nome è M. Ummidio Quadrato, personaggio che fu console nel 167 d. C., ed era appunto figlio della sorella di Marco Annia Cornificia Faustina. 32. Annia Lucilla, la sua terzogenita. 33. Il vero nome della confraternita era quello di sodales Antoniniani (cfr. sull’argomento H. G. PFLAUM, Les sodales Antoniniani de l’époque de Marc Aurèle, Paris, 1966). 34. Nel 161 d. C. 35. Regione delle Alpi orientali, situata fra il Reno e il Danubio (nel paese dei Grigioni); i Catti (una popolazione di stirpe germanica) vi giunsero dalle loro sedi ad est del Reno, sulle montagne del Tauno. 36. Un villaggio nei pressi di Antiochia. 37. La campagna di Stazio Prisco (della cui carriera siamo informati da un’iscrizione: ILS, 1092) fu condotta nel corso del 163 d. C. 38. M. Ceionio Civica Barbaro, console nel 157 d. C. 39. Lucilla. 40. L’aerarium Saturni era il tesoro dello Stato, conservato appunto nel tempio di Saturno, ai piedi del Campidoglio; quali amministratori di esso venivano scelti fra i viri praetorii (personaggi che avevano già rivestito la pretura) due praefecti aerarii, in carica per tre anni. 41. In tal modo era possibile tenere continuamente sotto controllo il numero dei cives nell’impero. L’obbligo di denuncia per i figli legittimi era in vigore sin dai tempi di Augusto; l’innovazione operata da Marco Aurelio consistette forse nell’estensione dell’obbligo anche ai figli naturali; sulla questione cfr. A. REINTJES, Untersuchungen zu den Beamten bei den ShA, Düsseldorf, 1961, pp. 64 segg. 42. Abbiamo accolto qui l’emendazione del JORDAN (cfr. Nota critica: sull’oscillazione del nome nei manoscritti cfr. PAULY-WISSOWA, Spl. V, 578); viene fatto riferimento alla Lex Plaetoria de circumscriptione minorum annis XXV: risalente a prima del 191 a. C., questa legge aveva lo scopo di tutelare da possibili frodi i giovani al di sotto dei venticinque anni, che potevano rivolgersi al pretore onde ottenere un curator. 43. Funzionari designati dall’imperatore al governo di città in cui si fossero verificate manchevolezze

nell’amministrazione delle pubbliche finanze. 44. Il termine iuridici indicava i funzionari che esercitavano la massima giurisdizione civile nei vari distretti giudiziari dell’Italia. 45. Cfr. Hadr., 22, 13 e Ant. Pius, 2, 11. 46. Siamo più propensi a ritenere che l’espressione Italica adlectio si riferisca alle promozioni di indigeni al rango di Italici che non, come altri ritiene, alle leve di coloni italici: cfr. Hadr., 12, 4, n. 6. 47. La tassa del 5% sulle eredità; era stata istituita da Augusto nel 6 d. C. 48. I prefetti del pretorio (cfr. Hadr., 8, 7, n. 1). 49. La carica di praefectus praetorii nel III secolo sotto i Severi fu ricoperta anche da famosi giuristi, come Papiniano e Ulpiano. 50. Q. Cervidio Scevola, frequentemente citato nei Digesti. 51. Nel 166 d. C. 52. La corona civica, fatta con foglie di quercia, era concessa a un cittadino romano che in battaglia avesse salvato da morte un concittadino, uccidendone l’avversario: veniva offerta al salvatore da colui che era stato salvato, e comportava per chi la riceveva particolari privilegi. Nel corso dell’impero finì per diventare un attributo fìsso dell’imperatore. 53. M. Aurelio Commodo e M. Annio Vero. 54. I Marcomanni erano la temuta popolazione germanica stanziata in origine fra il Reno e il Meno e passata poi sulla riva meridionale del Danubio, in corrispondenza dell’Austria e dell’alta Ungheria. Contro di essi Marco condusse, oltre a questa (167 d. C.), altre due spedizioni, nel 174 e 179 d. C. 55. Sappiamo da AMMIANO MARCELLINO, XXIX, 6, 1 che in effetti Marcomanni e Quadi penetrarono in Italia, giungendo a porre l’assedio ad Aquileia. 56. Per questo aspetto cfr. K. B. ANGYAL, Peregrinus ritus in Vita Marci, 13, 1. Contribution à l’étude du rapport entre la politique religieuse impériale et la vie religieuse des provinces danubiennes, «Acta Class. Univ. Debrec.», VII, 1971, pp. 77 segg. 57. Cerimonia purificatoria molto antica (di origine greca, sarebbe stata celebrata la prima volta nel 399 d. C.: cfr. LIVIO, V, 13, 5-6) che consisteva in una specie di banchetto offerto agli dèi: le loro statue venivano posate su cuscini (lecti o pulvinaria come detto a 4, 3; quelle delle divinità femminili su sedie, dette in latino sellae, donde il nome di sellisternium), e dinanzi ad esse venivano poste vivande sacrificali. Originariamente avevano luogo all’aperto, ma successivamente furono celebrati nei templi. 58. Il paludamentum, cioè il mantello militare di porpora, era proprio della tenuta di guerra dell’imperatore (ed era consuetudine che venisse portato solo fuori Roma). 59. Un’altra popolazione germanica. 60. I principali alleati dei Marcomanni, dei quali erano confinanti. 61. Cfr. Ver., 9, 11; la sua morte avvenne nel gennaio del 169 d. C. 62. A partire da questo punto, sino a 19, 12, il racconto presenta stretta analogia con la narrazione del regno di Marco presente in EUTROPIO VIII, 11-14. Molti dei fatti qui trattati ricompaiono narrati in forma più ampia nella seconda parte della biografìa. Sui rapporti fra la HA ed EUTROPIO, cfr. W. SCHMID, Eutropspuren in der HA, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 123 segg. 63. Cfr. anche Ver., 11, 2; CASSIO DIONE, LXXI, 3, 1. Secondo un’altra versione Vero sarebbe stato avvelenato da Faustina. 64. Avidio Cassio, proclamatosi imperatore nel 175 d. C. La notizia, inserita in questo punto, appare completamente fuori posto. 65. Il nome imperator, originariamente distintivo del comandante dell’esercito in campo, divenne in epoca imperiale prerogativa esclusiva del principe e dei personaggi eventualmente associati a lui nel potere. 66. Il trionfo fu celebrato il 23 dicembre del 176 d. C. Cfr. Comm., 2, 4; 12, 5.

67. Questo non è esatto in quanto, secondo la volontà di Adriano, Marco avrebbe dovuto sposare la figlia di Elio Cesare: cfr. 4, 5 e 6, 2. 68. Un minerale che – stando alle ricerche più recenti – dovrebbe essere lo spato fluore. 69. Cfr. su questo passo J. SCHWARTZ, La Vita Marci 17, 4 et ses développements (Problèmes de composition et de polémique anti-chrétienne), in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 249 segg. 70. Morì il 17 marzo del 180 d. C. Poiché era nato nell’aprile del 121, aveva non sessantuno ma cinquantotto anni. 71. I Caldei (cioè gli abitanti della Caldea, la parte sud ovest della regione babilonese) erano famosi nell’antichità per la loro perizia nel campo dell’astrologia e della divinazione. A partire dal tempo di Alessandro il Grande, con questo nome si designava una specie di casta sacerdotale che si caratterizzava per le sue particolari conoscenze in questo campo. A Roma il termine sarà soprattutto impiegato ad indicare gli astrologi. 72. La tomba di Adriano. 73. Lucilla, vedova di Lucio Vero. 74. Il titolo di Augusta fu portato per la prima volta da Livia, vedova di Augusto; a partire da Domiziano divenne un attributo fìsso dell’imperatrice. Talvolta fu concesso anche ad altre donne appartenenti alla famiglia imperiale. 75. Una tribù di pastori e briganti, stanziata nella parte nord-ovest del delta del Nilo, non lontano da Alessandria. Questa rivolta dovette avvenire intorno al 172-173 d. C. 76. L’odierna Palestrina. 77. Nel corso delle loro processioni danzanti i sacerdoti Salii (cfr. 4, 2, n. 5) si accompagnavano con un canto antichissimo, risalente al tempo di Numa Pompilio, in cui venivano invocati gli antichi dèi dello Stato romano. In epoca imperiale a queste divinità furono aggiunti gli imperatori divinizzati, e, a volte, anche membri della casa imperiale che non avevano ufficialmente ricevuto tale consacrazione (come appunto nel caso qui ricordato). 78. Così erano stati chiamati gli schiavi che, dopo la sconfitta di Canne, il senato arruolò quali volontari – riscattandoli dalla servitù – per ovviare alla mancanza di uomini liberi atti a portare le armi (cfr. LIVIO, XXII, 57, 11). 79. La parte sud-orientale della Dalmazia. 80. Una sorta di polizia paramilitare, costituita di soldati armati alla leggera che facevano servizio presso i confini. 81. Il testo è corrotto. Dal confronto con EUTROPIO, VIII, 13, 1 e CASSIO DIONE, LXXI, 3, 1 risultano mancare all’elenco Vandali, Longobardi e Obii. 82. Nel primo caso Marco prese sotto il proprio diretto controllo alcune province senatorie (che evidentemente versavano in una situazione di particolare pericolo) facendone province imperiali, cioè governate da suoi legati di rango consolare e occupate da un contingente di truppe; nel secondo caso, viceversa, trasferì altre province dal controllo imperiale a quello senatorio. Sulla distinzione fra province «imperiali» e «senatorie» cfr. Hadr., 3, 9, n. 2. 83. Non abbiamo testimonianza che sia mai avvenuto un passaggio da province «consolari» a «pretorie». È possibile che il testo sia in questo punto corrotto (sulle varie congetture che sono state tentate in proposito cfr. J. SCHWENDEMANN, Der historische Wert der Vita Marci bei den ShA, Heidelberg, 1923, pp. 97 seg.). 84. Popolazione gallica che abitava la regione fra il Rodano e i Vosgi. 85. Cfr. 4, 5, n. 7. 86. In età imperiale il limite di età per essere eletti consoli sembra essere stato di trentatré (così il Mommsen; secondo altri quarantatré) anni. 87. Simile provvedimento era già stato preso da Adriano (cfr. Hadr., 18, 10). 88. La festa in onore della divinità egiziana Serapide veniva celebrata il 25 aprile. 89. La problematica espressione a vulgaritate Pelusiaca va probabilmente intesa nel senso che Marco

diede a questi riti caratteri propri che li distinguevano dalla massa dei culti di dominio pubblico che venivano celebrati nel corso della festa detta «Pelusia» (collegata alle annuali inondazioni del Nilo). Sull’argomento cfr. MAGIE, I, pp. 190 seg., n. 3 e U. WILCKEN, Zur Geschichte Pelusiums (Vita Marci XXIII, 8), «Klio», IX, 1909, pp. 131 segg.; ID., Grundzüge und Chrestomathie der Papyruskunde, I, 1, pp. 113 seg., n. 3. 90. Il prodigio è riferito anche da CASSIO DIONE, LXXI, 8-10, secondo il quale esso si sarebbe verificato nel corso della guerra contro i Quadi (174 d. C.). La leggenda cristiana (cfr. EUSEBIO, Hist. Eccl., V, 5) attribuiva la venuta della pioggia alle preghiere della legione XII, la legio Fulminata, convertitasi in blocco al cristianesimo. Tanto il prodigio del fulmine che quello della pioggia sono rappresentati nella Colonna Aureliana. 91. Cfr. Av. Cass., 7, 4, n. 2. 92. Un’altra versione (riportata da CASSIO DIONE, LXXI, 29, 1) attribuiva la morte di Faustina a suicidio. 93. Il passaggio a colonia, con cambiamento del nome di Halala in Faustinopolis, comportava per la città l’acquisizione del diritto pubblico romano. 94. Il dio patrono di Emesa in Siria, il cui culto venne introdotto in Roma dall’omonimo imperatore (cfr. Heliog., 1, 5, n. 3). 95. Il nome esatto del genero di Avidio Cassio era Ti. Claudius Dryantianus Antoninus. Ad Av. Cass., 9, 3 il suo nome è citato nella grafia Druentianus. Cfr. PFLAUM, La valeur, cit., p. 220. 96. I misteri Eleusini (cfr. Hadr., 13, 1, n. 5). Cerere, la greca Demetra, era la dea della terra, dell’agricoltura e della fecondità in genere. 97. Relativamente ai periodi di permanenza in Italia, ove tanto il principe che i soldati dovevano indossare di regola la toga. 98. Antica città del Lazio, che la tradizione voleva fondata da Enea. 99. Cfr. Ant. Pius, 4, 7, n. 1. 100. Bruttia Crispina, successivamente esiliata e messa a morte dallo stesso Commodo (cfr. CASSIO DIONE, LXXI, 33, 1; LXXII, 4, 6). 101. Partì assieme a Commodo il 3 agosto del 178 d. C. 102. Il 17 marzo del 180 d. C. La località non è certa: secondo AURELIO VITTORE, Caes., 16, 14 e l’Epitome de Caesaribus, 16, 12 sarebbe morto a Vienna (Vindobona); secondo TERTULLIANO, Apol., 25 a Sirmio in Pannonia. 103. Leggendo insieme le due parole ter («tre volte») e Tullus, usciva appunto il nome di Tertullus. 104. Ceionia Fabia, figlia di L. Elio Cesare e sorella di L. Vero, destinata originariamente da Adriano ad essere appunto sposa di Marco (cfr. 4, 5). È menzionata anche in Ver., 10, 3-4.

V. VERUS IULI CAPITOLINI

VERO di GIULIO CAPITOLINO

[1, 1] Scio plerosque ita vitam Marci ac Veri litteris atque historiae dedicasse, ut priorem Verum intimandum legentibus darent, non imperandi secutos ordinem sed vivendi: [2] ego vero, quod prior Marcus imperare coepit, dein Verus1, qui superstite perit Marco, priorem Marcum, dehinc Verum credidi celebrandum. [3] Igitur Lucius Ceionius Aelius Commodus Verus Antoninus, qui ex Hadriani voluntate Aelius appellatus est, ex Antonini coniunctione Verus et Antoninus2, neque inter bonos neque inter malos principes ponitur. [4] Quem constat non inhorruisse vitiis, non abundasse virtutibus, vixisse deinde non in suo libero principatu, sed sub Marco in simili ac paris maiestatis imperio, a cuius secta lascivia morum et vitae licentioris nimietate dissensit. [5] Erat enim morum simplicum et qui adumbrare nihil posset. [6] Huic naturalis pater fuit Lucius Aelius Verus, qui ab Hadriano adoptatus primus Caesar est dictus et in eadem statione constitutus perit. [7] Avi ac proavi et item maiores plurimi consulares. [8] Natus est Lucius Romae in praetura patris sui XVIII. Kal. Ianuariarum die3, quo et Nero, qui rerum potitus est. [9] Origo eius paterna pleraque ex Etruria fuit, materna ex Faventia. [2, 1] Hac prosapia genitus patre ab Hadriano adoptato in familiam Aeliam devenit mortuoque patre Caesare in Hadriani familia remansit. [2] A quo Aurelio4 datus est adoptandus, cum sibi ille Pium filium, Marcum nepotem esse voluisset posteritati satis providens, [3] et ea quidem lege, ut filiam Pii Verus acciperet, quae data est Marco idcirco, quia hic adhoc impar videbatur aetate, ut in Marci vita exposuimus5. [4] Duxit autem uxorem Marci filiam Lucillam. Educatus est in domo Tiberiana. [5] Audivit Scaurinum grammaticum Latinum, Scauri filium, qui grammaticus Hadriani fuit, Graecos Telephum atque Hefaestionem, Harpocrationem, rhetores Apollonium, Celerem Caninium et Herodem Atticum, Latinum Cornelium Frontonem, philosophos Apollonium et Sextum6. [6] Hos omnes amavit unice, atque ab his in vicem dilectus est, nec tamen ingeniosus ad litteras. [7] Amavit autem in pueritia versus facere, post orationes. Et melior quidem orator fuisse dicitur quam poeta, immo, ut verius dicam, peior poeta quam rhetor. [8] Nec desunt, qui dicant eum adiutum ingenio amicorum atque ab aliis ei illa ipsa, qualiacumque sunt, scripta; si quidem multos disertos et eruditos semper secum habuisse dicitur. Educatorem habuit Nicomedem. [9] Fuit voluptarius et nimis laetus et omnibus deliciis, ludis, iocis decenter aptissimus. [10] Post septimum annum in familiam Aureliam traductus Marci moribus et

auctoritate formatus est. Amavit venatus, palaestras et omnia exercitia iuventutis. [11] Fuitque privatus in domo imperatoria viginti et tribus annis. [3, 1] Qua die togam virilem Verus accepit, Antoninus Pius ea occasione, qua patris templum dedicabat, populo liberalis fuit, [2] mediusque inter Pium et Marcum idem [se] resedit, cum quaestor populo munus daret. [3] Post quaesturam statim consul est factus cum Sextio Laterano. Interiectis annis cum Marco fratre iterum factus est consul7. [4] Diu autem et privatus fuit et ea honorificentia caruit, qua Marcus ornabatur. [5] Nam neque in senatu ante quaesturam sedit neque in itinere cum patre, sed cum praefecto praetorii vectus est, nec aliud ei honorifìcentiae adnomen adiunctum est quam quod Augusti filius appellatus est. [6] Fuit studiosus etiam circensium haut aliter quam gladiatorii muneris. Hic cum tantis deliciarum et luxuriae quateretur erroribus, ab Antonino videtur ob hoc retentus, quod eum pater ita in adoptionem Pii transire iusserat, ut nepotem appellaret. Cui, quantum videtur, fidem exhibuit, non amorem. [7] Amavit tamen Antoninus Pius simplicitatem ingenii puritatemque vivendi hortatusque est, ut imitaretur, et fratrem. [8] Defuncto Pio Marcus in eum omnia contulit, participatu etiam imperatoriae potestatis indulto, sibique consortem fecit, cum illi soli senatus detulisset imperium. [4, 1] Dato igitur imperio et indulta tribunicia potestate, post consulatus etiam honorem delatum Verum vocari praecepit, suum in eum transferens nomen, cum ante Commodus vocaretur. [2] Lucius quidem Marco vicem reddens si 〈quid〉 susciperet obsecutus ut legatus proconsuli vel praeses imperatori. [3] Iam primum enim Marcus pro ambobus ad milites est locutus, et pro consensu imperii graviter se et ad Marci mores 〈Verus〉 egit. [4] Ubi vero in Syriam profectus est8 non solum licentia vitae liberioris, sed etiam adulteriis et iuventutis amoribus infamatus est, [5] si quidem tantae luxuriae fuisse dicitur, ut etiam, 〈postea〉quam [postea] de Syria redit, popinam domi instituerit, ad quam post convivium Marci devertebat, ministrantibus sibi omni genere turpium personarum. [6] Fertur et nocte perpeti alea lusisse, cum in Syria concepisset id vitium, atque in tantum vitiorum Gaianorum9 et Neronianorum ac Vitellianorum fuisse aemulum, ut vagaretur nocte per tabernas ac lupanaria obtecto capite cucullione vulgari viatorio et comisaretur cum triconibus, committeret rixas, dissimulans quis esset, saepeque efflictum livida facie redisse et in tabernis agnitum, cum sese absconderet10. [7] Iaciebat et nummos in popinas maximos, quibus calices frangeret. [8] Amavit et aurigas prasino11 favens. [9] Gladiatorum etiam frequentius pugnas in

convivio habuit trahens cenas in noctem et in toro convivali condormiens, ita ut levatus cum stromatibus in cubiculum perferretur. [10] Somni fuit permodici, digestionis facillimae. [11] Sed Marcus haec omnia 〈non〉 nesciens dissimulabat rem pudore illo, ne reprehenderet fratrem. [5, 1] Et notissimum eius quidem fertur tale convivium, in quo primum duodecim accubuisse dicitur, cum sit notissimum12 dictum de numero convivarum: «Septem convivium, novem vero convicium»; [2] donatos autem pueros decoros, qui ministrabant, singulis, donatos etiam structores et lances singulis quibusque, donata et viva animalia vel cicurum vel ferarum avium vel quadripedum, quorum cibi adpositi erant, [3] donatos etiam calices singulis per singulas potiones, myrrinos13 et crystallinos Alexandrinos, quotiens bibitum est; data etiam aurea atque argentea pocula et gemmata, coronas quin etiam datas lemniscis aureis interpositis et alieni temporis floribus, data et vasa aurea cum unguentis ad speciem alabastrorum, [4] data et vehicula cum mulabus ac mulionibus cum iuncturis argenteis, ut ita de convivio redirent. [5] Omne autem convivium aestimatum dicitur sexagies centenis milibus sestertiorum. [6] Hoc convivium posteaquam Marcus audivit, ingemuisse dicitur et doluisse publicum fatum. [7] Post convivium lusum est tesseris usque ad lucem. [8] Et haec quidem post Parthicum bellum, ad quod eum misisse dicitur Marcus, ne vel in urbe ante oculos omnium peccaret, vel ut parsimoniam peregrinatione addisceret, vel ut timore bellico emendatior rediret, vel ut se imperatorem esse cognosceret. [9] Sed quantum profecerit, cum alia vita tum haec, quam narravimus, cena monstrabit. [6, 1] Circensium tantam curam habuit, ut frequenter provincia litteras causa circensium et miserit et acceperit. [2] Denique etiam praesens et cum Marco sedens multas a venetianis est passus iniurias, quod turpissime contra eos faveret; [3] nam et Volucri14 equo prasino aureum simulacrum fecerat, quod secum portabat; [4] cui quidem passas uvas et nucleos in vicem hordei in praesepe ponebat, quem sagis fuco tinctis coopertum in Tiberianam ad se adduci iubebat, cui mortuo sepulchrum in Vaticano fecit. [5] In huius equi gratiam primum coeperunt equis aurei vel brabia postulari. [6] In tanto autem equus ille honore fuit, ut ei a populo prasinianorum saepe modius aureorum postularetur. [7] Profectum eum ad Parthicum bellum Marcus Capuam prosecutus est; cumque inde per omnium villas se ingurgitaret, morbo inplicitus apud Canusium aegrotavit. Quo ad eum visendum frater contendit. [8] Multa in eius vita ignava et sordida etiam belli tempore deteguntur. [9] Nam cum

interfecto legato15, caesis legionibus, Syris defectionem cogitantibus oriens vastaretur, ille in Apulia venabatur et apud Corinthum et Athenas inter symfonias et cantica navigabat et per singulas maritimas civitates Asiae, Pamphyliae Ciliciaeque clariores voluptatibus immorabatur. [7, 1] Antiochiam posteaquam venit, ipse quidem se luxuriae dedidit. Duces autem confecerunt Parthicum bellum, Statius Priscus et Avidius Cassius et Martius Verus16 per quadriennium17, ita ut Babylonem et Mediam pervenirent et Armeniam vindicarent. [2] Partumque ipsi nomen est Armenici, Parthici, Medici, quod etiam Marco Romae agenti delatum est. [3] Egit autem per quadriennium Verus hiemem Laodiciae, aestatem apud Daphnen, reliquam partem Antiochiae. [4] Risui fuit omnibus Syris, quorum multa ioca in theatro in eum dicta exstant. [5] Vernas in triclinium Saturnalibus18 et diebus festis semper admisit. [6] Ad Eufraten tamen inpulsu comitum suorum secundo profectus est. [7] Efesum etiam redit, ut Lucillam uxorem missam a patre Marco susciperet, et idcirco maxime, ne Marcus cum ea in Syriam veniret ac flagitia eius adnosceret. Nam senatui Marcus dixerat se filiam in Syriam deducturum. [8] Confecto sane bello regna19 regibus, provincias vero comitibus suis regendas dedit. [9] Romam inde ad triumphum invitus, quod Syriam quasi regnum suum relinqueret, redit et pariter cum fratre triumphavit susceptis a senatu nominibus, quae in exercitu acceperat. [10] Fertur praeterea ad amicae vulgaris arbitrium in Syria posuisse barbam. Unde in eum a Syris multa sunt dieta. [8, 1] Fuit eius fati, ut in eas provincias, per quas redit, Romam usque luem secum deferre videretur. [2] Et nata fertur pestilentia in Babylonia, ubi de templo Apollinis ex arcula aurea, quam miles forte inciderat, spiritus pestilens evasit, atque inde Parthos orbemque complesse, [3] et hoc non Lucii Veri vitio sed Cassii, a quo contra fidem Seleucia, quae ut amicos milites nostros receperat, expugnata est. [4] Quod quidem inter ceteros etiam Quadratus20, belli Parthici scriptor, incusatis Seleucenis, qui fidem primi ruperant, purgat. [5] Habuit hanc reverentiam Marci Verus, ut nomina, quae sibi delata fuerant, cum fratre communicaret die triumphi, quem pariter celebrarunt. [6] Reversus e Parthico bello minore circa fratrem cultu fuit Verus; nam et libertis inhonestius indulsit et multa sine fratre disposuit. [7] His accessit, quod, quasi reges aliquos ad triumphum adduceret, sic histriones eduxit e Syria, quorum praecipuus fuit Maximinus, quem Paridis nomine nuncupavit. [8] Villam praeterea extruxit in via Clodia21 famosissimam, in qua per multos dies et ipse ingenti luxuria debacchatus est cum libertis suis et

amicis paribus, quorum praesentia nulla inerat reverentia, [9] et Marcum rogavit, qui venit, ut fratri venerabilem morum suorum et imitandam ostenderet sanctitudinem, et quinque diebus in eadem villa residens cognitionibus continuis operam dedit, aut convivante fratre aut convivia comparante. [10] Habuit et Agrippum histrionem, cui cognomentum erat Memfi, quem et ipsum e Syria velut tropaeum Parthicum adduxerat, quem Apolaustum22 nominavit. [11] Adduxerat secum et fìdicinas et tibicines et histriones scurrasque mimarios et praestigiatores et omnia mancipiorum genera, quorum Syria et Alexandria pascitur voluptate, prorsus ut videretur bellum non Parthicum sed histrionicum confecisse. [9, 1] Et haec vitae diversitas atque alia multa inter Marcum ac Verum simultates fecisse non aperta veritas indicabat23, sed occultus rumor inseverat; [2] verum illud praecipuum quod, cum Libonem24 quendam patruelem suum Marcus legatum in Syriam misisset, atque ille se insolentius quam verecundus senator efferret dicens ad fratrem suum se scripturum esse, si quid forte dubitaret, nec Verus praesens pati posset, bitoque morbo notis prope veneni exsistentibus interisset, visum est nonnullis, non tamen Marco, quod eius fraude putaretur occisus. Quae res simultatum auxit rumorem. [3] Liberti multum potuerunt apud Verum, ut in vita Marci diximus25, Geminus et Agaclytus, cui dedit invito M(arco) Libonis uxorem; [4] denique nuptiis a Vero celebratis Marcus convivio non interfuit. [5] Habuit et alios libertos Verus improbos, Coeden et Eclectum ceterosque. [6] Quos omnes Marcus post mortem Veri specie honoris abiecit Eclecto retento, qui postea Commodum filium eius occidit. [7] Ad bellum Germanicum, Marcus quod nollet Lucium sine se vel ad bellum mittere vel in urbe dimittere causa luxuriae, simul profecti sunt26 atque Aquileiam venerunt invitoque Lucio Alpes transgressi, [8] cum Verus apud Aquileiam tantum vectatus convivatusque esset, Marcus autem omnia prospexisset. [9] De quo bello – quiddam per legatos barbarorum pacem petentium, quiddam per duces nostros gestum est – in Marci vita plenissime disputatum est27. [10] Conposito autem bello in Pannonia urgente Lucio Aquileiam rediere, quodque urbanas desiderabat Lucius voluptates, in urbem festinatum est. [11] Sed non longe ab Altino28 subito in vehiculo morbo, quem apoplexin vocant, correptus Lucius depositus e vehiculo detracto sanguine Altinum perductus, cum triduo mutus vixisset, apud Altinum perit29. [10, 1] Fuit sermo, quod et socrum Faustinam incestasset. Et dicitur

Faustinae socrus dolo aspersis ostreis veneno extinctus esse, idcirco quod consuetudinem, quam cum matre habuerat, fìliae30 prodidisset. [2] Quamvis et illa fabula, quae in Marci vita posita est31, abhorrens a talis viri vita sit exorta, [3] cum multi etiam uxori eius flagitium mortis adsignent et idcirco, quod Fabiae nimium indulserat Verus, cuius potentiam uxor Lucilla ferre non posset. [4] Tanta sane familiaritas inter Lucium et Fabiam sororem fuit, uti hoc quoque usurpaverit rumor, quod inierint consilium ad Marcum e vita tollendum. [5] Idque cum esset per Agaclytum libertum proditum Marco, anteventum Lucium Faustina, ne praeveniret32. [6] Fuit decorus corpore, vultu geniatus, barba prope barbarice demissa, procerus et fronte in supercilia adductiore venerabilis. [7] Dicitur sane tantam habuisse curam flaventium capillorum, ut capiti auri ramenta respergeret, quo magis coma inluminata flavesceret. [8] Lingua impeditior fuit, aleae cupidissimus, vitae semper luxuriosae atque in pluribus Nero praeter crudelitatem et ludibria. [9] Habuit inter alium luxuriae apparatum calicem crystallinum nomine Volucrem ex eius equi nomine, quem dilexit, humanae potionis modum supergressum. [11, 1] Vixit annis quadraginta duobus. Imperavit cum fratre annis undecim33. Inlatumque eius corpus est Hadriani sepulchro, in quo et Caesar pater eius naturalis sepultus est. [2] Nota est fabula, quam Marci non capit vita, quod partem vulvae veneno inlitam, cum eam exsecuisset cultro una parte venenato, Marcus Vero porrexerit. [3] Sed hoc nefas est de Marco putari, quamvis Veri et cogitata et facta mereantur. [4] Quod nos non in medio relinquemus, sed totam purgatam confutatamque respuimus, cum adhuc post Marcum praeter vestram clementiam, Diocletiane Auguste, imperatorem talem nec adulatio videatur potuisse confingere.

[1, 1] So che i più hanno scritto la storia delle vite di Marco e di Vero, presentando ai loro lettori prima quella di Vero, seguendo non l’ordine in cui hanno regnato, ma quello in cui sono vissuti: [2] io invece, tenendo conto che il regno di Marco iniziò prima di quello di Vero1, il quale poi morì lasciando il fratello da solo, ho ritenuto di dover trattare prima di Marco, e in un secondo tempo di Vero. [3] Ora, Lucio Ceionio Elio Commodo Vero Antonino, che per volere di Adriano ebbe il nome di Elio, e in relazione alla sua parentela con Antonino quelli di Vero e Antonino2, non si colloca né tra i buoni né tra i cattivi imperatori. [4] Non risulta infatti che sia stato né un mostro di vizi né un modello di virtù, e tra l’altro non poté, finché visse, disporre di un potere incontrastato, ma condizionato dalla presenza di Marco, in una forma di autorità imperiale analoga ed equivalente; da lui comunque si distingueva, nella condotta, per la poca serietà dei costumi e la eccessiva libertà di vita. [5] Per carattere era portato all’ingenuità e incapace di nascondere qualcosa. [6] Suo padre naturale era Lucio Elio Vero, quello che, adottato da Adriano, fu il primo a ricevere il nome di Cesare e a morire essendo rimasto fermo a quel grado. [7] I suoi nonni, i suoi proavi, e così molti suoi lontani antenati erano stati personaggi di rango consolare. [8] Lucio nacque a Roma il 15 dicembre3 – lo stesso giorno in cui era nato Nerone, l’imperatore – nell’anno della pretura di suo padre. [9] La famiglia di suo padre era in prevalenza originaria dell’Etruria, quella di sua madre di Faenza. [2, 1] Questa era dunque la sua discendenza, ma quando suo padre venne adottato da Adriano, egli entrò a far parte della famiglia Elia, e nella famiglia di Adriano rimase anche dopo la morte del Cesare suo padre. [2] Da Adriano egli fu destinato in adozione ad Aurelio4, quando l’imperatore, prendendosi particolare cura della sua discendenza, stabilì che Pio gli fosse figlio e Marco nipote, [3] aggiungendo la condizione che Vero sposasse la figlia di Pio, che invece fu data a Marco per il fatto che quello appariva ancora troppo giovane per le nozze, come abbiamo narrato nella vita di Marco5. [4] Sposò invece la figlia di Marco Lucilla. Fu educato nel Palazzo di Tiberio. [5] Seguì le lezioni del grammatico latino Scaurino, figlio di Scauro, che era stato maestro di Adriano, e dei greci Telefo, Efestione, Arpocrazione, dei retori Apollonio, Celere Caninio ed Erode Attico e del latino Cornelio Frontone, dei filosofi Apollonio e Sesto6. [6] Per tutti costoro nutrì un affetto grandissimo, e fu da essi ricambiato, ma non era tuttavia portato per gli studi letterari. [7] In

giovinezza peraltro si dilettò a scrivere poesie, cimentandosi poi a comporre orazioni. E in effetti si dice che sia stato miglior oratore che poeta, o meglio, per dir proprio la verità, che sia stato peggior poeta che oratore. [8] E non manca chi afferma che si sia fatto aiutare da amici d’ingegno e che quelle stesse opere, quale che sia il loro valore, gli siano state scritte da altri; giacché, a quanto si dice, si circondava sempre di molte persone dotate di eloquenza ed erudizione. Ebbe quale pedagogo Nicomede. [9] Era amante dei piaceri, molto allegro di carattere, e assai portato, pur entro i limiti del decoro, per ogni genere di divertimenti, giochi, spettacoli. [10] Dopo i sette anni venne introdotto nella famiglia Aurelia, dove fu educato sotto l’influenza autorevole dei principi di vita di Marco. Amava la caccia, gli esercizi in palestra, e tutte le attività sportive proprie della gioventù. [11] Rimase da privato nella casa imperiale per ventitré anni. [3, 1] Nel giorno in cui Vero assunse la toga virile, Antonino Pio, che in quella stessa occasione consacrava un templo al padre, fece un’elargizione al popolo, [2] e quando lo stesso Vero, divenuto questore, allestì per il popolo uno spettacolo, poté sedersi fra Pio e Marco. [3] Dopo la questura venne subito creato console assieme a Sestio Laterano. Trascorsi alcuni anni, fu designato console per la seconda volta, assieme al fratello Marco7. [4] Per lungo tempo però rimase nella condizione di privato, e non fu insignito di quegli onori che venivano invece conferiti a Marco. [5] Infatti né gli fu concesso, prima che avesse rivestito la questura, di sedere in senato, né poteva viaggiare sulla stessa carrozza del padre, ma assieme al prefetto del pretorio, né fu aggiunto al suo nome alcun altro titolo onorifico se non quello di figlio dell’Augusto. [6] Aveva la passione per i giochi del circo non meno che per gli spettacoli gladiatori. Sviato com’era sulla cattiva strada dei divertimenti e della dissipatezza, appare chiaro che Antonino lo teneva presso di sé solo per rispettare la volontà del padre, che aveva disposto che Vero venisse appunto adottato da Pio, sì da poterlo considerare come proprio nipote. Nei suoi confronti, a quanto pare, Vero mostrò lealtà, non affetto. [7] Nondimeno Antonino Pio apprezzava in lui la spontaneità del carattere e la semplicità di vita, esortando anche il fratello ad imitarle. [8] Alla morte di Pio, Marco gli conferì tutti i poteri, investendolo pure della compartecipazione al potere imperiale, associandolo a sé come collega, sebbene il senato avesse offerto a lui solo l’impero. [4, 1] Dopo avergli dunque conferito la dignità imperiale e averlo insignito della potestà tribunizia, e dopo avergli attribuito anche l’onore del consolato,

ordinò che prendesse il nome di Vero, trasferendogli il proprio nome, mentre in precedenza portava quello di Commodo. [2] Da parte sua Lucio, contraccambiando le attenzioni di Marco, quando questi intraprendeva qualche azione, si sottometteva alla sua autorità come un legato nei confronti del proconsole o un governatore nei confronti dell’imperatore. [3] Nei primi tempi, infatti, Marco parlò ai soldati a nome di entrambi, e dal canto suo Vero, quale espressione della loro concordia di governo, si conformò, con una condotta di vita austera, ai principi di vita di Marco. [4] Ma una volta partito per la Siria8, si acquistò una cattiva fama non solo per la dissipatezza di una vita vissuta con troppa libertà di costumi, ma anche per aver commesso adulteri e praticato rapporti omosessuali con giovani uomini; [5] e in effetti, a quanto dicono, era tale la sua intemperanza che, dopo il suo ritorno dalla Siria, arrivò addirittura ad allestire nel palazzo una taverna, nella quale, dopo aver cenato con Marco, si ritirava, facendosi servire da tutti gli individui della peggior risma. [6] Si racconta inoltre che fosse capace di passare la notte a giocare a dadi, un vizio che aveva preso in Siria, e che a tal punto emulasse Gaio9, Nerone e Vitellio nei loro vizi, che andava in giro di notte per le bettole e i postriboli, coprendosi il capo con un comune berretto da viaggio, e gozzovigliava con la malavita, attaccava briga, dissimulando la sua vera identità, e così spesso ritornava con la faccia livida e pesta, e dopo che aveva finito per farsi riconoscere nelle bettole, nonostante i suoi tentativi di camuffarsi10. [7] Scagliava inoltre delle grosse monete nelle taverne, mirando a rompere i bicchieri. [8] Amava le corse dei cocchi, e teneva per i Verdi11. [9] Assai di frequente inoltre organizzava combattimenti di gladiatori durante i conviti, tirando in lungo le cene sino a notte tarda, e addormentandosi infine sul divano di mensa, di modo che, sollevato di peso insieme con i cuscini, veniva portato direttamente a letto. [10] Dormiva assai poco, e godeva di un’ottima digestione. [11] Marco però, benché non fosse all’oscuro di tutte queste cose, faceva finta di niente, perché aveva scrupolo a rimproverare il fratello. [5, 1] Si racconta di un banchetto da lui organizzato – che restò famosissimo – in cui per la prima volta presero posto ben dodici commensali, laddove è ben noto12 il proverbio sul numero dei convitati: «In sette è un banchetto, ma in nove è un parapiglia»; [2] furono poi donati ai singoli invitati i bei giovinetti che servivano, e a ciascuno dei commensali furono lasciati in regalo anche lo scalco e le stoviglie, nonché esemplari vivi di tutti gli animali, domestici o selvatici, volatili o quadrupedi, di cui erano state

servite le carni. [3] Furono regalati ad ognuno anche i calici usati per ciascuna bevanda, da quelli di murra13 a quelli di cristallo d’Alessandria, tanti per quante volte si era bevuto; furono inoltre distribuite coppe d’oro, d’argento e gemmate, e fìnanco corone intrecciate con nastri dorati e confezionate con fiori fuor di stagione, e vasi contenenti unguenti, in oro anziché in alabastro; [4] vennero fornite anche carrozze complete di mule e cocchieri, con finiture d’argento, per tornare a casa da quel convito. [5] Nel suo insieme si dice che il costo stimato di quel banchetto sia stato di sei milioni di sesterzi. [6] Raccontano che quando Marco ne fu informato manifestò apertamente il proprio dolore, lamentando il triste destino dell’impero. [7] Dopo cena si giocò a dadi sino all’alba. [8] Tutto questo avveniva dopo la guerra partica, alla quale si dice che Marco l’avesse mandato o per evitare che avesse a compiere le sue bravate nella città, davanti agli occhi di tutti, o nella speranza che affrontando quel viaggio in un paese straniero imparasse ad essere sobrio, o che le paure passate in guerra lo facessero ritornare con la testa messa a partito, oppure ancora affinché prendesse coscienza di essere un imperatore. [9] Ma quali fossero stati i progressi potrà mostrarlo chiaramente proprio il banchetto che abbiamo descritto, così come il resto della sua vita. [6, 1] Gli stavano tanto a cuore i giochi del circo che spesso, anche dalle province, teneva scambi di corrispondenza che avevano per oggetto le gare che vi si correvano. [2] Succedeva persino che, quando vi assisteva di persona, sedendo accanto a Marco, venisse ricoperto di insulti dagli Azzurri, contro i quali, a sua volta, egli tifava in maniera indecorosa; [3] infatti si era fatto fare una statuetta d’oro – che portava sempre con sé – del cavallo dei Verdi Volucre14; [4] a questo animale, poi, faceva mettere nella greppia uva passa e noci in luogo dell’orzo, e voleva che glielo conducessero al Palazzo Tiberiano coperto da una gualdrappa color porpora; quando morì, infine, gli costruì una tomba sul Vaticano. [5] Fu proprio in grazia di questo cavallo che per la prima volta cominciarono ad essere richieste monete d’oro e premi per i cavalli. [6] E tale era il pregio in cui era tenuto quel cavallo che spesso quelli della fazione dei Verdi domandavano per lui un moggio di monete d’oro. [7] Quando partì per la guerra partica Marco lo seguì fino a Capua; e poiché in tutte le ville in cui successivamente ebbe a passare si abbandonò agli stravizi, sentitosi male, cadde ammalato a Canosa, dove il fratello si recò a visitarlo. [8] Si conoscono molti episodi della sua vita che testimoniano il suo comportamento inetto e indecoroso anche in tempo di guerra. [9] Infatti, mentre il suo luogotenente15 veniva ucciso, le legioni sbaragliate, la Siria

tramava la ribellione, e tutto l’oriente era in preda alle devastazioni, lui se ne andava a caccia in Apulia, incrociava nelle acque di Corinto e di Atene fra musiche e canti, e se la spassava in ognuna delle città costiere dell’Asia, della Panfilia e della Cilicia più rinomate. [7, 1] Dopo che fu giunto ad Antiochia, si abbandonò completamente a una vita di dissipazione, mentre i suoi generali Stazio Prisco, Avidio Cassio e Marzio Vero16 nel giro di quattro anni17 portarono a termine la guerra partica, giungendo sino a Babilonia e alla Media, e riconquistando l’Armenia. [2] Egli ne ottenne i titoli di Armeniaco, Partico e Medico, che furono conferiti anche a Marco, rimasto a Roma. [3] Per quattro anni Vero trascorse l’inverno a Laodicea, l’estate a Dafne, il resto dell’anno ad Antiochia. [4] Si fece deridere da tutti i Siri, e si conoscono molte battute salaci che venivano pronunciate a teatro sul suo conto. [5] Durante i Saturnali18 e nei giorni festivi ammise sempre gli schiavi di casa a prendere posto nel triclinio. [6] Sotto la spinta dei suoi compagni si spinse comunque due volte sino all’Eufrate. [7] Tornò inoltre ad Efeso a ricevere la moglie Lucilla mandata da Marco, padre di lei, più che altro perché Marco non venisse assieme a lei in Siria e scoprisse così la sua condotta vergognosa. In senato infatti Marco aveva annunciato che avrebbe accompagnato la figlia in Siria. [8] Conclusa la guerra, affidò a sovrani alleati il governo dei regni19, e a suoi funzionari quello delle province. [9] Di là tornò a Roma per il trionfo – ma a malincuore, perché lasciando la Siria gli pareva di abbandonare il suo regno – e lo celebrò insieme al fratello, ricevendo ufficialmente dal senato i titoli con cui l’esercito lo aveva acclamato. [10] Si racconta inoltre che in Siria si fece tagliare la barba per compiacere un’amica di facili costumi; il che suscitò molte chiacchiere su di lui da parte dei Siri. [8, 1] Il suo destino volle che in tutte le province per cui passò ritornando a Roma egli apparisse quale portatore di pestilenza. [2] In realtà si dice che la pestilenza abbia avuto origine in Babilonia, dove da un forziere d’oro del tempio di Apollo che per avventura un soldato aveva forzato, sarebbe spirato fuori il germe appestante, che di lì diffuse il contagio fra i Parti e in tutto il mondo; [3] e questo non per colpa di Vero, ma di Cassio, che, mancando di parola, espugnò Seleucia, città che aveva accolto come amici i nostri soldati. [4] Non manca invero chi, e tra gli altri anche Quadrato20, storico della guerra partica, giustifica questo atto accusando i Seleuciani di essere per primi venuti meno ai patti. [5] Nel giorno del trionfo, che celebrarono insieme, Vero usò nei confronti del fratello Marco il riguardo di condividere con lui i titoli che gli erano stati conferiti. [6] Ma quando ritornò dalla guerra partica, Vero

mostrò meno deferenza verso il fratello: ché si mise a dare troppa confidenza ai liberti, e a prendere molte iniziative di testa sua. [7] A ciò si aggiunse il fatto che aveva portato con sé dalla Siria una schiera di commedianti, come se fossero stati dei re da trascinarsi dietro nel trionfo, tra i quali si distingueva Massimino, da lui chiamato Paride. [8] Inoltre si costruì sulla via Clodia21 una villa rimasta tristemente famosa, nella quale egli stesso per molti giorni gozzovigliava abbandonandosi agli stravizi, in compagnia dei suoi liberti e di amici degni di lui, la cui presenza manifestava la mancanza di ogni ritegno, [9] e una volta invitò anche Marco, che vi andò per dare al fratello un esempio della sua ammirevole purezza di costumi, nella speranza che avesse a imitarla; e, restando per cinque giorni in quella medesima casa, non cessò di occuparsi continuamente delle istruttorie giudiziarie, mentre il fratello era impegnato a banchettare, o ad organizzare nuovi banchetti. [10] Aveva con sé anche l’attore Agrippo, soprannominato Menfi, pur esso da lui portato dalla Siria come un trofeo della guerra partica, e a cui diede il nome di Apolausto22. [11] Si era portato dietro anche suonatori di cetra e di flauto, pantomimi, buffoni da farsa, giocolieri, ed ogni genere di schiavi che costituivano il divertimento degli abitanti della Siria e di Alessandria, tanto che sembrava che fosse reduce non dalla guerra partica ma «istrionica». [9, 1] E questa diversa condotta di vita, assieme a molte altre ragioni, si diceva avesse provocato dei dissapori tra Marco e Vero, a proposito dei quali non si parlava apertamente sulla base di reali prove23, ma si insinuavano illazioni tra le chiacchiere di corridoio; [2] in particolare, poi, si citava questo fatto: Marco aveva mandato in Siria come legato un suo cugino, Libone24, e quello aveva tenuto un atteggiamento troppo arrogante in rapporto alla moderazione che dovrebbe caratterizzare un senatore, affermando che se avesse avuto bisogno di direttive, avrebbe scritto a suo cugino, così che Vero, che era là, non poteva sopportarlo; quando, colpito da un male improvviso, morì, e sul suo corpo si manifestarono tracce di avvelenamento, a molti – non tuttavia a Marco – parve che Vero fosse da considerarsi responsabile della sua morte. E ciò diede incremento alle voci sugli screzi fra i due fratelli. [3] Come già abbiamo riferito nella vita di Marco25 grande potere ebbero a godere con Vero i liberti Gemino e Agaclito, al quale ultimo egli diede in moglie, contro il volere di Marco, la moglie di Libone; [4] fu così che, quando Vero celebrò le nozze, Marco non intervenne al banchetto. [5] Vero teneva presso di sé anche altri liberti privi di scrupoli, come Cede, Ecletto e altri ancora. [6] Tutti costoro Marco, dopo la morte di Vero, li allontanò col pretesto di incarichi

onorifici, ad eccezione di Ecletto, che in seguito sarebbe stato l’uccisore di suo figlio Commodo. [7] Quando scoppiò la guerra germanica – poiché Marco non intendeva mandarvi Lucio senza accompagnarlo, e neppure, per via della sua dissolutezza, lasciarlo a Roma – i due principi partirono entrambi26 e giunsero ad Aquileia, compiendo poi la traversata delle Alpi, contro i desideri di Lucio, [8] che in quella città non aveva fatto altro che scarrozzare e banchettare, mentre Marco si era occupato della preparazione di tutti i piani strategici. [9] Di questa guerra – talune cose furono opera degli inviati dei barbari che richiedevano la pace, talune altre dei nostri generali – abbiamo già ampiamente trattato nel corso della vita di Marco27. [10] Conclusa poi la guerra in Pannonia, ritornarono tra le insistenze di Vero ad Aquileia, e poiché questi sentiva la nostalgia dei divertimenti della capitale, si affrettarono a rientrare a Roma. [11] Ma non lontano da Altino28, mentre era in carrozza, Lucio fu colto all’improvviso da un colpo apoplettico: depostolo fuori dal veicolo, gli praticarono un salasso e lo trasportarono ad Altino, dove morì29, dopo essere rimasto in vita tre giorni privo di parola. [10, 1] Era corsa voce che avesse anche avuto rapporti incestuosi con la suocera Faustina: e così v’è chi dice che fu proprio lei a provocarne la morte avvelenandogli di nascosto delle ostriche, per vendicarsi del fatto che la relazione che aveva avuto con lei l’aveva poi rivelata a sua figlia30. [2] A dire il vero, abbiamo già visto venir fuori anche quell’altra storia, riportata nella vita di Marco31, del tutto incompatibile con la vita di quel grande uomo, [3] mentre molti poi attribuiscono la responsabilità della sua morte alla moglie Lucilla, fondandosi sul fatto che Vero era stato troppo compiacente nei confronti di Fabia, la cui influenza a corte riusciva alla moglie intollerabile. [4] E in verità era tale la confidenza che esisteva tra Lucio e la sorella Fabia, che una voce insinuava perfino che i due avessero tramato un complotto per sopprimere Marco. [5] Ed essendo stato ciò riferito a Marco dal liberto Agaclito, Faustina avrebbe agito prevenendo le mosse di Lucio, nel timore che fosse lui a precederla32. [6] Era un uomo di bella presenza, dal volto amabile, con la barba lunga pressocché all’uso barbaro, alto di statura; l’espressione della fronte – un po’ accigliata – incuteva rispetto. [7] Si dice che curasse a tal punto i suoi capelli biondi, da cospargere il capo di polvere d’oro, perché la chioma irradiasse così maggiormente riflessi dorati. [8] Aveva una certa difficoltà di parola; nutriva

una vera passione per il gioco dei dadi; condusse sempre una vita dedita ai piaceri, e sotto molti aspetti – non però nella crudeltà e nelle ridicole esibizioni istrioniche – fu un nuovo Nerone. [9] Tra gli altri oggetti di lusso possedeva una coppa di cristallo che chiamava Volucre, dal nome del suo cavallo prediletto, di capacità superiore al bere di un uomo. [11, 1] Visse quarantadue anni. Regnò per undici insieme col fratello33. Il suo corpo fu deposto nella tomba di Adriano, nella quale era sepolto anche il suo padre naturale Elio Cesare. [2] È nota la diceria – incompatibile con una vita come quella di Marco – secondo la quale Marco avrebbe dato da mangiare a Vero un pezzo di vulva di maiale avvelenata, avendola tagliata con un coltello che da una parte era stato cosparso di veleno. [3] Ma è un’infamia che si attribuisca una cosa del genere a Marco, anche se il modo di pensare e di agire di Vero l’avrebbe meritato. [4] Perciò noi non lasceremo la faccenda di questa voce in sospeso, ma l’abbiamo già rigettata, respingendola e confutandola totalmente, giacché finora dopo Marco, ad eccezione di Vostra Grazia, Diocleziano Augusto, neppure l’adulazione appare aver potuto inventare un simile imperatore.

1. Nel senso che a succedere ad Antonino Pio fu Marco, che poi si associò al trono il fratello (cfr. M. Ant., 7, 5). 2. Di fatto Vero non ebbe mai il nome di Antonino. 3. Nel 130 d. C. 4. Cioè Antonino Pio che, tra i nomina con cui si chiamava prima dell’adozione, aveva anche questo. Cfr. Ant. Pius, 1, 1. 5. Cfr. M. Ant., 6, 2, n. 3. 6. Molti di questi sono gli stessi maestri avuti da Marco Aurelio. A proposito dei personaggi nominati nel corso di questa Vita cfr. H. G. PFLAUM, Les personnages nommément cités par la Vita Veri de l’HA, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 173 segg. 7. Vero esercitò la questura nel 153 d. C., e il consolato per la prima volta nel 154 e la seconda nel 161 d. C. 8. La partenza di Vero ebbe luogo nella primavera del 161 d. C. 9. Cioè Caligola. 10. Un comportamento simile è narrato di Nerone (cfr. TACITO, Ann., XIII, 25; SVETONIO, Nero, 26; CASSIO DIONE, LXI, 8, 1-2), nonché di Otone (cfr. SVETONIO, Otho, 2, 1) e di Commodo (nella stessa HA: Comm., 3, 7). Non abbiamo invece attestazioni analoghe per Caligola e Vitellio, ricordati assieme a Nerone dal biografo come modelli di Vero in questi vizi. 11. I sostenitori delle varie factiones, cioè delle squadre di corsa che gareggiavano nel Circo, prendevano il nome dal colore delle vesti degli aurighi e dei finimenti dei cavalli: originariamente tali factiones erano solo due, quelle dei Bianchi e dei Rossi, cui più tardi si aggiunsero i Verdi e gli Azzurri. 12. Peraltro questo detto non ci è altrimenti attestato. 13. Cfr. M. Ant., 17, 4, n. 1. 14. Volucer significa «alato», «volante». 15. M. Sedazio Severiano, governatore della Cappadocia. 16. P. Marzio Vero, console nel 179 d. C., è ricordato più volte anche da CASSIO DIONE. 17. Dal 163 al 166 d. C. 18. Cfr. Hadr., 17, 3, n. 2. 19. L’Armenia, l’Osroene e forse altri regni vassalli. 20. Asinio Quadrato, storico del III secolo d. C., autore di una storia di Roma dalla fondazione fino all’impero di Alessandro Severo; è ricordato come storico anche in Av. Cass., 1, 2. 21. Diramandosi dalla via Cassia nei pressi di Veio, correva a nord-ovest di Roma attraverso l’Etruria. 22. Il nome significa in greco «godibile», «di cui si può godere»; dopo la sua liberazione, ottenne numerose onorificenze locali in varie città d’Italia (attestate da alcune iscrizioni), ma venne in seguito fatto uccidere da Commodo nel 189 d. C. (cfr. Comm., 7, 2). 23. Non è possibile, nella traduzione, seguire con aderenza di costrutto il testo latino, che presenta qui un pesante anacoluto, dovuto probabilmente al fatto – che si riscontra anche in altri luoghi dell’opera – che l’autore inizia il periodo avendo in mente una certa impostazione logico-sintattica che poi, nel corso di esso, finisce per abbandonare, seguendone invece un’altra. 24. M. Annio Libone, console nel 161 d. C. 25. Cfr. M. Ant., 15, 2. 26. Nel 166 d. C. 27. Cfr. M. Ant., 14, 2 segg. 28. Antica città del Veneto, alle foci del Piave. 29. Nel gennaio del 169 d. C.

30. Cioè alla moglie Lucilla. 31. Quella cioè che voleva Marco assassino del fratello (cfr. 11, 2 e M. Ant., 15, 5). 32. Cfr. anche CASSIO DIONE, LXXI, 3, 1. 33. Queste cifre sono errate: Vero visse infatti trentotto anni (era nato nel dicembre del 130 d. C.) e regnò per meno di otto.

VI. AVIDIUS 〈CASSIUS〉 VULCACII GALLICANI V. C.1

AVIDIO CASSIO dell’Onorevole1 VULCACIO GALLICANO

[1, 1] Avidius Cassius2 ut quidam volunt, ex familia Cassiorum fuisse dicitur per matrem, 〈homine〉 tamen novo3 genitus Avidio Severo4, qui ordines duxerat et post ad summas dignitates pervenerat; [2] cuius Quadratus5 in historiis meminit, et quidem graviter, cum illum summum virum et necessarium rei p. adserit et apud ipsum Marcum praevalidum; [3] nam iam eo imperante perisse fatali sorte perhibetur. [4] Hic ergo Cassius ex familia, ut diximus, Cassiorum, qui in C. Iulium conspiraverant6, oderat tacite principatum nec ferre poterat imperatorium nomen dicebatque {nil} esse gravius nomine imperii, quod non posset e re p. tolli nisi per alterum imperatorem. [5] Denique temptasse in pueritia dicitur extorquere etiam Pio principatum, sed per patrem, virum sanctum et gravem, adfectationem tyrannidis latuisse, habitum tamen semper ducibus suspectum. [6] Vero autem illum parasse insidias ipsius Veri epistula indicat, quam inserui. [7] Ex epistula Veri: «Avidius Cassius avidus est, quantum et mihi videtur et iam inde sub avo meo, patre tuo7, innotuit, imperii: quem velim observari iubeas. [8] Omnia ei nostra displicent, opes non mediocres parat, litteras nostras ridet. Te philosopham aniculam, me luxuriosum morionem vocat. Vide quid agendum sit. [9] Ego hominem non odi, sed vide, ne tibi et liberis tuis non bene consulas, cum talem inter praecinctos habeas, qualem milites libenter audiunt, libenter vident». [2, 1] Rescriptum Marci de Avidio Cassio: «Epistulam tuam legi, sollicitam potius 〈quam〉 imperatoriam et non nostri temporis. [2] Nam si ei divinitus debetur imperium, non poterimus interficere, etiamsi velimus. – Scis enim proavi tui8 dictum: ‘successorem suum nullus occidit’ –; sin minus, ipse sponte sine nostra crudelitate fatales laqueos inciderit. [3] Adde quod non possumus reum facere, quem et nullus accusat et, ut ipse dicis, milites amant. [4] Deinde in causis maiestatis haec natura est, ut videantur vim pati etiam quibus probatur. [5] Scis enim ipse, quid avus tuus Hadrianus dixerit: ‘misera conditio imperatorum, quibus de affectata tyrannide nisi occisis non potest credi’. [6] Eius autem exemplum ponere 〈malui〉 quam Domitiani, qui hoc primus dixisse fertur9; tyrannorum enim etiam bona dicta non habent tantum auctoritatis, quantum debent. [7] Sibi ergo habeat suos mores, maxime cum bonus dux sit et severus et fortis et rei p. necessarius. [8] Nam quod dicis liberis meis cavendum esse morte illius: plane liberi mei pereant, si magis amari merebitur Avidius quam illi et si rei p. expediet Cassium vivere quam

liberos Marci». Haec de Cassio Verus, haec Marcus. [3, 1] Sed nos hominis naturam et mores breviter explicabimus; neque enim plura de his sciri possunt, quorum vitam et inlustrare nullus audet eorum causa, a quibus oppressi fuerint. [2] Addemus autem, quemadmodum ad imperium venerit et quemadmodum sit occisus et ubi victus. [3] Proposui enim, Diocletiane Auguste, omnes, qui imperatorium nomen sive 〈iusta causa sive〉 iniusta habuerunt, in litteras mittere, ut omnes purpuratos, Auguste, cognosceres. [4] Fuit his moribus, ut nonnumquam trux et asper videretur, aliquando mitis et lenis, saepe religiosus, alias contemptor sacrorum, avidus vini item abstinens, cibi adpetens et inediae patiens, Veneris cupidus et castitatis amator. [5] Nec defuerunt qui illum Catilinam vocarent, cum et ipse se ita gauderet appellari, addens futurum se Sergium10, si dialogistam occidisset, [6] Antoninum hoc nomine significans, qui tantum enituit in philosophia, ut iturus ad bellum Marcomannicum timentibus cunctis, ne quid fatale proveniret, rogatus sit non adulatione sed serio, ut praecepta philosophiae ederet. [7] Nec ille timuit, sed per ordinem paraeneseos – hoc est praeceptionum – per triduum disputavit. [8] Fuit praeterea disciplinae militaris Avidius Cassius tenax et qui se Marium11 dici vellet. [4, 1] Quoniam de severitate illius dicere coepimus, multa extant crudelitatis potius quam severitatis eius indicia. [2] Nam primum milites, qui aliquid provincialibus tulissent per vim, in illis ipsis locis, in quibus peccaverant, in crucem sustulit. [3] Primus etiam id supplicii genus invenit, ut stipitem grandem poneret pedum octoginta et centum [id est materiam] et a summo usque ad imum damnatos ligaret et ab imo focum adponeret incensisque aliis alios fumo, cruciatu, timore etiam necaret. [4] Idem denos catenatos in profluentem mergi iubebat vel in mare. [5] Idem multis desertoribus manus excidit, aliis crura incidit ac poplites dicens maius exemplum esse adviventis miserabiliter criminosi quam occisi. [6] Cum exercitum duceret, et inscio ipso manus auxiliaria centurionibus suis auctoribus tria milia Sarmatarum neglegentius agentum in Danuvii ripis occidissent et cum praeda ingenti ad eum redissent sperantibus centurionibus praemium, quod perparva manu tantum hostium segnius agentibus tribunis et ignorantibus occidissent, rapi eos iussit et in crucem tolli servilique supplicio adfìci, quod exemplum non extabat, dicens evenire potuisse, ut essent insidiae ac periret Romani imperii reverentia. [7] Et cum ingens seditio in exercitu orta esset, processit nudus campestri solo tectus et ait: «Percutite», inquit, «me, si

audetis et corruptae disciplinae facinus addite». [8] Tunc conquiescentibus cunctis meruit timeri, quia ipse non timuit. [9] Quae res tantum disciplinae Romanis addidit, tantum terroris barbaris iniecit, ut pacem annorum centum ab Antonino absente peterent, si quidem viderant damnatos Romani ducis iudicio etiam eos, qui contra fas vicerant. [5, 1] De hoc multa gravia contra militum licentiam facta inveniuntur apud Aemilium Parthenianum12, qui adfectatores tyrannidis iam inde a veteribus historiae tradidit. [2] Nam et virgis caesos in foro et in mediis castris securi percussit, qui ita meruerunt, et manus multis amputavit. [3] Et praeter laridum ac buccellatum atque acetum13 militem in expeditione portare prohibuit et, si aliud quippiam repperit, luxuriem non levi supplicio adfecit. [4] Extat de hoc epistula divi Marci ad praefectum suum talis: [5] «Avidio Cassio legiones Syriacas dedi diffluentes luxuria et Dafnidis14 moribus agentes, quas totas excaldantes se repperisse Caesonius Vectilianus scripsit. [6] Et puto me non errasse, si quidem et tu notum habeas Cassium, hominem Cassianae15 severitatis et disciplinae. [7] Neque enim milites regi possunt nisi vetere disciplina. Scis enim versum a bono poeta dictum et omnibus frequentatum: ‘moribus antiquis res stat Romana virisque’16.

[8] Tu tantum fac adsint legionibus abunde commeatus, quos, si bene Avidium novi, scio non perituros». [9] Praefecti ad Marcum: «Recte consuluisti, mi domine, quod Cassium praefecisti Syriacis legionibus. [10] Nihil enim tam expedit quam homo severior Graecanicis17 militibus. [11] Ille sane omnes excaldationes, omnes flores de capite, collo et sinu militi excutiet. [12] Annona militaris omnis parata est, neque quicquam deest sub bono duce: non enim multum aut quaeritur aut inpenditur». [6, 1] Nec fefellit de se iudicium habitum. Nam statim et ad signa edici iussit et programma in parietibus fixit, ut, si quis cinctus inveniretur apud Dafnen, discinctus18 rediret. [2] Arma militum septima die19 semper respexit, vestimenta etiam et calciamenta et ocreas, delicias omnes de castris summovit iussitque eos hiemem sub pellibus agere, nisi corrigerent suos mores; et egissent, nisi honestius vixissent. [3] Exercitium septimi diei fuit omnium militum, ita ut et sagittas mitterent et armis luderent. [4] Dicebat enim miserum esse, cum exercerentur athletae, venatores et gladiatores, non exerceri milites; quibus minor esset futurus labor, si consuetus esset. [5] Ergo correcta disciplina et in Armenia et in Arabia et in Aegypto res

optime gessit20 amatusque est ab omnibus orientalibus et speciatim ab Antiochensibus, [6] qui etiam imperio eius consenserunt, ut docet Marius Maximus in vita divi Marci. [7] Nam cum et Bucolici milites per Aegyptum gravia multa facerent, ab hoc retunsi sunt, ut idem Marius Maximus refert in eo libro, quem secundum de vita Marci [et] Antonini edidit. [7, 1] Hic imperatorem se in oriente appellavit21, ut quidam dicunt, Faustina volente, quae valetudini Marci iam diffidebat et timebat, ne infantes filios tueri sola non posset atque aliquis existeret, qui capta statione regia infantes de medio tolleret. [2] Alii autem dicunt hanc artem adhibuisse militibus et provincialibus Cassium contra Marci amorem, ut sibi posset consentiri, quod diceret Marcum diem suum obisse. [3] Nam et divum eum appellasse dicitur, ut desiderium illius leniret. [4] Imperatorio animo cum processisset, eum, qui sibi aptaverat ornamenta regia, statim praefectum praetorii fecit; qui et ipse occisus est Antonino invito ab exercitu, qui et Maecianum22, cui erat commissa Alexandria quique consenserat spe participatus Cassio, invito atque ignorante Antonino interemit. [5] Nec tamen Antoninus graviter est iratus rebellione cognita nec in eius liberos aut affectus saevit. [6] Senatus illum hostem23 appellavit bonaque eius proscripsit. Quae Antoninus in privatum aerarium congeri noluit, quare senatu praecipiente in aerarium publicum sunt relata. [7] Nec Romae terror defuit, cum quidam Avidium Cassium dicerent absente Antonino, qui nisi a voluptariis unice amabatur, Romam esse venturum atque urbem tyrannice direpturum, maxime senatorum causa, qui eum hostem iudicaverant bonis proscriptis. [8] Et amor Antonini hoc maxime enituit, quod consensu omnium praeter Antiochenses Avidius interemptus est; [9] quem quidem occidi non iussit sed passus est, cum apud cunctos clarum esset, si potestatis suae fuisset, parsurum illi fuisse. [8, 1] Caput eius ad Antoninum cum delatum esset24, ille non exultavit, non elatus est, sed etiam doluit ereptam sibi esse occasionem misericordiae, cum diceret se vivum illum voluisse capere, ut illi exprobraret beneficia sua eumque servaret. [2] Denique cum quidam diceret reprehendendum Antoninum, quod tam mitis esset in hostem suum eiusque liberos et adfectus atque omnes, quos conscios tyrannidis repperisset, addente illo qui reprehendebat «Quid si ille vicisset?», dixisse dicitur: «Non sic deos coluimus nec sic vivimus, ut ille nos vinceret». [3] Enumeravit deinde omnes principes, qui occisi essent, habuisse causas, quibus mererentur occidi, nec quemquam facile bonum vel victum a tyranno vel occisum, [4] dicens meruisse Neronem, debuisse Caligulam, Othonem et Vitellium nec imperare voluisse. [5] Nam de

Pertinace25 et Galba paria sentiebat, cum diceret {in} imperatore avaritiam26 esse acerbissimum malum. [6] Denique non Augustum, non Traianum, non Hadrianum, non patrem suum a rebellibus potuisse superari, cum et multi fuerint et ipsis vel invitis vel insciis extincti. [7] Ipse autem Antoninus a senatu petit, ne graviter in conscios defectionis animadverteretur, eo ipso tempore, quo rogavit, ne quis senator temporibus suis capitali supplicio adficeretur, quod illi maximum amorem conciliavit; [8] denique paucissimis centurionibus punitis deportatos revocari iussit. [9, 1] Antiochensis, qui Avidio Cassio consenserant, 〈non punivit〉, sed et his et aliis civitatibus, quae illum iuverant, ignovit, cum primo Antiochensibus graviter iratus esset hisque spectacula sustulisset et multa alia civitatis ornamenta, quae postea reddidit. [2] Filios Avidii Cassii Antoninus [Marcus] parte media paterni patrimonii donavit, ita ut filias eius auro, argento et gemmis cohonestaret. [3] Nam et Alexandriae, filiae Cassii, et genero Druentiano liberam evagandi, ubi vellent, potestatem dedit. [4] Vixeruntque non quasi tyranni pignora, sed quasi senatorii ordinis in summa securitate, cum illis etiam in lite obici fortunam propriae vetuisset domus, damnatis aliquibus iniuriarum, qui in eos petulantes fuissent. Quos quidem amitae suae marito commendavit. [5] Si quis autem omnem hanc historiam scire desiderat, legat Mari Maximi secundum librum de vita Marci, in quo ille ea dicit, quae solus Marcus mortuo iam Vero egit. [6] Tunc enim Cassius rebellavit, ut probat epistula missa ad Faustinam, cuius hoc exemplum est: [7] «Verus mihi de Avidio verum scripserat, quod cuperet imperare. Audisse enim te arbitror, quod Veri27 statores de eo nuntiarent. [8] Veni igitur in Albanum, ut tractemus omnia dis volentibus, nil timens». [9] Hinc autem apparet Faustinam ista nescisse, cum dicat Marius infamari eam cupiens, quod ea conscia Cassius imperium sumpsisset. [10] Nam et ipsius epistula extat ad virum, qua urget Marcum, ut in eum graviter vindicet. [11] Exemplum epistulae Faustinae ad Marcum: «Ipsa in Albanum cras, ut iubes, mox veniam: tamen iam hortor, ut, si amas liberos tuos, istos rebelliones acerrime persequaris. [12] Male enim adsueverunt et duces 〈et〉 milites, qui nisi opprimuntur, oppriment». [10, 1] Item alia epistula eiusdem Faustinae ad Marcum: «Mater mea Faustina patrem tuum Pium [eiusdem] in defectione Celsi28 sic hortata est, ut pietatem primum circa suos servaret, sic circa alienos. [2] Non enim pius est imperator, qui non cogitat uxorem et filios. [3] Commodus noster vides in qua

aetate sit. Pompeianus29 gener et senior est et peregrinus. [4] Vide, quid agas de Avidio Cassio et de eius consciis. [5] Noli parcere hominibus, qui tibi non pepercerunt et nec mihi nec filiis nostris parcerent, si vicissent. [6] Ipsa iter tuum mox consequor: quia Fadilla30 nostra aegrotabat, in Formianum venire non potui. [7] Sed si te Formis invenire non potuero, adsequar Capuam, quae civitas et meam et filiorum nostrorum aegritudinem poterit adiuvare. [8] Soteridam medicum in Formianum ut dimittas, rogo. Ego autem Pisitheo nihil credo, qui puellae virgini curationem nescit adhibere. [9] Signatas mihi litteras Calpurnius dedit: ad quas rescribam, si tardavero, per Caecilium senem spadonem, hominem, ut scis, fidelem. [10] Cui verbo mandabo, quid uxor Avidii Cassii et filii et gener de te iactare dicantur». [11, 1] Ex his litteris intellegitur Cassio Faustinam consciam non fuisse, quin etiam supplicium eius graviter exegisse, si quidem Antoninum quiescentem et clementiora cogitantem ad vindictae necessitatem impulit. [2] Cui Antoninus quid rescripserit, subdita epistula perdocebit: [3] «Tu quidem, mea Faustina, religiose pro marito et pro nostris liberis agis. Nam relegi epistulam tuam in Formiano, qua me hortaris, ut in Avidii conscios vindicem. [4] Ego vero et eius liberis parcam et genero et uxori et ad senatum scribam, ne aut proscriptio gravior sit aut poena crudelior. [5] Non enim quicquam est, quod imperatorem Romanum melius commendet gentibus quam clementia. [6] Haec Caesarem deum fecit, haec Augustum consecravit, haec patrem tuum specialiter Pii nomine ornavit. [7] Denique si ex mea sententia de bello iudicatum esset, nec Avidius esset occisus. [8] Esto igitur secura:

L’esordio della vita di Avidio Cassio di Vulcacio Gallicano in un codice del secolo IX (Bamberga, Staatsbibliothek, cod. Class. 54 [= E. III. 19], fol. 56 v). ‘di me tuentur, dis pietas mea … cordi est’31.

Pompeianum nostrum in annum sequentem consulem dixi»32. Haec Antoninus ad coniugem. [12, 1] Ad senatum autem qualem orationem miserit, interest scire. [2] Ex oratione Marci Antonini: «Habetis igitur, p. c., pro gratulatione victoriae generum meum consulem, Pompeianum dico, cuius aetas olim remuneranda fuerat consulatu, nisi viri fortes intervenissent, quibus reddi debuit, quod a re p. debebatur. [3] Nunc quod ab defectionem Cassianam pertinet, vos oro atque obsecro, p. c., ut censura vestra deposita meam pietatem clementiamque servetis, immo vestram neque quemquam ullum senatus occidat. [4] Nemo senatorum puniatur, nullius fundatur viri nobilis sanguis, deportati redeant,

proscripti bona recipiant. [5] Utinam possem multos etiam ab inferis excitare! non enim umquam placet in imperatore vindicta sui doloris, quae si iustior fuerit, acrior videtur. [6] Quare filiis Avidii Cassii et genero et uxori veniam dabitis. Et quid dico veniam, cum illi nihil fecerint. [7] Vivant igitur securi scientes sub Marco vivere. Vivant in patrimonio parentum pro parte donato, auro, argento, vestibus fruantur, sint divites, sint securi, sint vagi et liberi et per ora omnium ubique populorum circumferant meae, circumferant vestrae pietatis exemplum. [8] Nec magna haec est, p. c., clementia, veniam proscriptorum liberis et coniugibus dari: [9] ego vero a vobis peto, ut conscios senatorii ordinis et equestris a caede, a proscriptione, a timore, ab infamia, ab invidia et postremo ab omni vindicetis iniuria detisque hoc meis temporibus, [10] ut in causa tyrannidis, qui in tumultu cecidit, probetur occisus». [13, 1] Hanc eius clementiam senatus his adclamationibus prosecutus est: [2] «Antonine pie, di te servent. Antonine clemens, di te servent. [Antonine clemens, di te servent.] Tu voluisti quod licebat, nos fecimus quod decebat. [3] Commodo imperium iustum rogamus. Progeniem tuam robora. Fac securi sint liberi nostri. [4] Bonum imperium nulla vis laedit. Commodo Antonino tribuniciam potestatem rogamus, praesentiam tuam rogamus. [5] Philosophiae tuae, patientiae tuae, doctrinae tuae, nobilitati tuae, innocentiae tuae. Vincis inimicos, hostes exuperas, di te tuentur». Et reliqua. [6] Vixerunt igitur posteri Avidii Cassii securi et ad honores admissi sunt. [7] Sed eos Commodus Antoninus post excessum divi patris sui omnes vivos incendi iussit, quasi in factione deprehensos. [8] Haec sunt quae de Cassio Avidio conperimus. [9] Cuius ipsius mores, ut supra diximus, varii semper fuerunt, sed ad censuram crudelitatemque propensiores. [10] Qui si optinuisset imperium, fuisset non modo clemens sed bonus, sed utilis et optimus imperator. [14, 1] Nam extat epistola eius ad generum suum iam imperatoris huiusmodi: [2] «Misera res publica, quae istos divitiarum cupidos et divites patitur. [3] Miser Marcus, homo sane optimus, qui, dum clemens dici cupit, eos patitur vivere, quorum ipse non probat vitam. [4] Ubi Lucius Cassius33, cuius nos frustra tenet nomen? Ubi Marcus ille Cato Censorius? Ubi omnis disciplina maiorum? Quae olim quidem intercidit, nunc vero nec quaeritur. [5] Marcus Antoninus philosophatur et quaerit de elementis et de animis et de honesto et iusto nec sentit pro re p. [6] Vides multis opus esse gladiis, multis elogiis, ut in antiquum statum publica forma reddatur. [7] Ego vero istis praesidibus provinciarum – an ego proconsules, an ego praesides putem, qui

ob hoc sibi a senatu et ab Antonino provincias datas credunt, ut luxurientur, ut divites fiant? [8] Audisti praef. praetorii nostri philosophi ante triduum quam fieret mendicum et pauperem, sed subito divitem factum. Unde, quaeso, nisi de visceribus rei p. provincialiumque fortunis? sint sane divites, sint locupletes: aerarium publicum refercient; tantum di faveant bonis partibus: reddent Cassiani rei p. principatum». Haec epistola eius indicat, quam severus et quam tristis futurus fuerit imperator.

[1, 1] Avidio Cassio2, secondo alcuni, era discendente per parte di madre della famiglia dei Cassii, ma aveva avuto per padre un uomo di nobiltà recente3, Avidio Severo4, che era stato centurione e successivamente era approdato alle più alte cariche; [2] di lui parla Quadrato5 ricordandolo nelle sue Storie, e con tutto il rispetto, affermando che era stato un personaggio molto importante e prezioso per lo Stato, nonché molto influente presso lo stesso Marco, [3] sotto il cui impero si dice che sia morto, come volle il destino. [4] Questo Cassio dunque, rampollo, come detto, della stirpe dei Cassii – quelli che avevano cospirato contro Caio Giulio6 –, nutriva in sé un odio segreto per il principato, e non poteva soffrire il titolo di imperatore, affermando che nulla è più funesto del nome di impero, dato che lo Stato non se ne può liberare se non per mezzo di un altro imperatore. [5] Dicono che arrivò perfino, quando era giovane, a tentare di strappare il potere anche a Pio, ma grazie al padre, uomo virtuoso e di austeri costumi, il suo atto sovversivo fu fatto passare sotto silenzio, anche se tuttavia i generali lo guardarono poi sempre con sospetto. [6] Che avesse tramato insidie anche contro Vero è dimostrato chiaramente da una lettera dello stesso Vero, che qui si riporta; [7] dalla lettera di Vero: «Avidio Cassio aspira ad impadronirsi del potere, secondo quanto e risulta a me personalmente e è già apparso a tutti fin dai tempi di mio nonno, tuo padre7: vorrei che tu lo facessi sorvegliare. [8] Disapprova tutto ciò che facciamo, accumula sostanze non indifferenti, deride le nostre lettere. Chiama te vecchietta filosofa e me uno scimunito dissoluto. Vedi un po’ tu il da farsi. [9] Io non nutro odio nei suoi confronti, ma bada di non fare il male tuo e dei tuoi figli tenendo nell’esercito un uomo cui i soldati dànno volentieri ascolto e che vedono di buon occhio». [2, 1] Ecco la risposta di Marco a proposito di Avidio Cassio: «Ho letto la tua lettera, che rivela più un animo inquieto, che non degno di un imperatore, e non è adatta alla circostanza. [2] Ché se egli è destinato per volere divino a venire in possesso dell’impero, non potremo sopprimerlo neanche volendo – conosci infatti quanto diceva il tuo bisavolo8: ‘Nessuno ha mai ucciso il suo successore’ –; diversamente, egli stesso cadrà da solo nella rete preparatagli dal fato, senza bisogno di alcun intervento violento da parte nostra. [3] Tieni anche conto del fatto che non possiamo incriminare uno che nessuno accusa e che, come tu stesso dici, gode delle simpatie dei soldati. [4] Inoltre nei processi

di lesa maestà è tipico che anche chi è provato colpevole finisca per apparire come una vittima. [5] Sai infatti tu stesso che cosa diceva il tuo avo Adriano: ‘Brutta condizione quella degli imperatori, ai quali, quando sono vittima di un complotto, non si può credere se non dopo che sono stati uccisi’. [6] Ho preferito presentare questa citazione come sua piuttosto che di Domiziano, che pure si dice sia stato il primo a fare questa affermazione9; ché le parole pronunciate dai tiranni non rivestono l’autorità che per se stesse dovrebbero avere. [7] Si comporti dunque a suo genio, tanto più che è un buon generale, serio, valoroso e prezioso per lo Stato. [8] Quanto poi alla tua esortazione ad eliminarlo per il bene dei miei figli: ma che muoiano senz’altro i miei figli, se Avidio si mostrerà degno più di loro di essere amato, e se la vita di Cassio si rivelasse più importante per il bene dello Stato di quella dei figli di Marco». Questo scrissero di Cassio Vero e Marco. [3, 1] Ma ora illustreremo brevemente l’indole e i costumi dell’individuo; ché non è possibile venire a conoscenza di molte notizie sul conto di quei personaggi di cui nessuno ha il coraggio di narrare la vita per non spiacere a coloro che li hanno sopraffatti. [2] Aggiungeremo comunque come giunse al trono, in che modo venne ucciso, e dove fu sconfitto. [3] Poiché il mio intendimento, o Diocleziano Augusto, è di narrare le vite di tutti coloro che, legittimamente o meno, hanno portato il titolo di imperatore, per offrire alla tua conoscenza un quadro completo di quanti hanno rivestito la porpora imperiale. [4] Il suo comportamento era tale da farlo sembrare talvolta truce e aspro, a tratti mite e cortese, spesso rispettoso della religione e altre volte sprezzante nei confronti del sacro, avido di vino e parimenti sobrio, ingordo di cibo e capace di sopportarne l’astinenza, libidinoso e amante della castità. [5] V’era chi lo chiamava Catilina, un nome che lui stesso gradiva, aggiungendo che sarebbe diventato anche «Sergio»10, se avesse ucciso il «dialogista», [6] alludendo con questo appellativo ad Antonino, l’imperatore che aveva talmente eccelso nella filosofia che, mentre era in procinto di partire per la guerra marcomannica, nel timore generale che potesse accadergli qualche disgrazia, fu pregato – non per adulazione ma seriamente – di esporre i suoi principi filosofici. [7] Né la cosa lo spaventò, ma per tre giorni di seguito tenne lezione seguendo l’ordine delle esortazioni morali – cioè dei precetti –. [8] Inoltre Avidio Cassio era un tenace fautore della disciplina militare, e voleva che si parlasse di lui come di un secondo Mario11. [4, 1] Abbiamo parlato della sua severità, ma molte testimonianze

indicano che più che di severità si trattava di vera e propria crudeltà. [2] In primo luogo, ad esempio, i soldati che avessero sottratto con la violenza qualcosa ai provinciali, li faceva crocifiggere nei luoghi stessi in cui avevano commesso il fatto. [3] Inoltre fu il primo ad inventare un tipo di supplizio per cui faceva conficcare al suolo un grande tronco di cento ottanta piedi, vi legava per tutta la lunghezza i condannati e appiccava il fuoco dal basso, così che alcuni li bruciava vivi, e altri li faceva morire quali soffocati dal fumo, quali per la sofferenza delle ustioni, quali anche per la paura. [4] Altre volte ordinava che i rei, incatenati a gruppi di dieci, venissero annegati in un fiume o nel mare. [5] Ancora, a molti disertori fece tagliare le mani, ad altri fece troncare le gambe e i ginocchi affermando che risultava di maggior effetto l’esempio di un colpevole che sopravviveva ridotto in condizioni miserevoli, che non quello della sua morte stessa. [6] Una volta, mentre era al comando dell’esercito, una schiera di ausiliari, per iniziativa dei loro centurioni, aveva – a sua insaputa – fatto strage di tremila Sarmati accampati senz’ordine lungo le rive del Danubio, ed erano tornati da lui con un ricco bottino: i loro centurioni speravano in un premio, visto che con un esiguo manipolo di soldati avevano distrutto una tale quantità di nemici, laddove invece i tribuni se ne rimanevano in ozio, ed erano anzi all’oscuro di tutto; ma egli li fece arrestare e mettere in croce, infliggendo loro il supplizio proprio degli schiavi – esempio senza precedenti –, affermando che avrebbero potuto cadere in un’imboscata, e il prestigio romano ne sarebbe venuto meno. [7] Ed essendo scoppiata una violenta rivolta fra le truppe, si fece avanti con addosso soltanto una fascia da lottatore, e disse: «Colpitemi, se ne avete il coraggio, e aggiungete all’insubordinazione un delitto». [8] Allora tutti si fermarono, ed egli meritò così di essere da tutti temuto, giacché lui stesso non aveva avuto paura. [9] E questo episodio accrebbe tanto lo spirito di disciplina dei Romani, e infuse tale terrore ai barbari, da spingerli a chiedere al lontano Antonino una pace di cento anni, dopo che avevano visto condannare per decisione di un comandante romano anche dei soldati che avevano ottenuto una vittoria contro i suoi ordini! [5, 1] Molti severi provvedimenti da lui presi contro l’indisciplina dei soldati sono ricordati nell’opera di Emilio Parteniano12, che ha narrato la storia degli usurpatori, cominciando dai più antichi. [2] Ad esempio, dopo aver fatto battere con le verghe i colpevoli nel foro e in mezzo agli accampamenti, li faceva decapitare con la scure, e a molti faceva tagliare le mani. [3] Non permetteva che i soldati, durante le spedizioni, portassero nulla

all’infuori di lardo, gallette e aceto13 e, se scopriva qualcosa d’altro, puniva severamente tale abuso. [4] Abbiamo una lettera del divo Marco spedita al suo prefetto che parla di lui in questi termini: [5] «Ho affidato ad Avidio Cassio le legioni della Siria che si abbandonavano alle mollezze e tenevano un comportamento degno degli abitanti di Dafne14: Cesonio Vettiliano mi ha scritto di averle trovate ormai tutte con l’abitudine di farsi il bagno con l’acqua calda. [6] E credo di non avere sbagliato, dato che tu pure conosci Cassio, un uomo di severità e disciplina veramente ‘cassiana’15. [7] Non è infatti possibile governare i soldati se non con l’antica disciplina. Tu ricordi del resto quel verso di un grande poeta, che viene universalmente citato: ‘Sui costumi e sugli uomini di antico stampo si fonda la potenza di Roma’16.

[8] Per parte tua vedi che non manchino alle legioni abbondanti rifornimenti, che – se conosco bene Avidio – sono certo non andranno sciupati». [9] Ecco la risposta del prefetto a Marco: «Hai preso una saggia decisione, mio signore, nel mettere a capo delle legioni di Siria Cassio. [10] Per dei soldati abituatisi a vivere alla greca17 non vi è infatti miglior rimedio di un uomo molto severo. [11] Egli certamente spazzerà via tutti i loro bagni caldi e tutte le corone di fiori che si mettono sul capo, attorno al collo e sul petto. [12] Quanto ai rifornimenti, sono approntati: sotto un buon comandante, del resto, non manca mai nulla, perché poco si chiede e poco si consuma». [6, 1] Né egli deluse le aspettative concepite su di lui: ché subito in un’adunata attorno alle insegne fece annunziare un proclama – che affisse anche ai muri – per il quale se qualcuno veniva sorpreso in divisa nei pressi di Dafne, ne sarebbe ritornato privato del cinturone18. [2] Ogni sei giorni19 ispezionava sempre le armi dei soldati, nonché le loro vesti, calzature e schinieri, eliminò dal campo qualunque comodità, e dispose che, se non avessero cambiato il loro modo di comportarsi, avrebbero passato l’inverno sotto la tenda: e così sarebbe stato per loro veramente, se non avessero poi adottato una condotta di vita più decorosa. [3] Per tutti i soldati vi era un giorno ogni settimana un’esercitazione, che consisteva in prove di tiro con l’arco e addestramento al combattimento individuale. [4] Diceva infatti essere deplorevole che, mentre gli atleti, i cacciatori e i gladiatori usavano allenarsi regolarmente, proprio i soldati non si tenessero in esercizio; tra l’altro, la fatica sarebbe loro apparsa meno pesante, una volta che vi fossero stati abituati. [5] Ristabilita dunque la disciplina, condusse con successo le operazioni in Armenia, in Arabia e in Egitto20, facendosi amare da tutte le popolazioni dell’Oriente, e in special modo dagli Antiochesi, [6] che furono dalla sua parte

anche quando prese il titolo di imperatore, come racconta Mario Massimo nella Vita del divo Marco. [7] Inoltre rintuzzò le scorrerie dei guerrieri Bucolici, che provocavano molti e gravi danni in Egitto, come riferisce sempre Mario Massimo nel secondo libro della Vita di Marco Antonino da lui pubblicata. [7, 1] Mentre era in Oriente si proclamò imperatore21, coll’appoggio – a quanto dicono alcuni – di Faustina, che considerava ormai disperate le condizioni di salute di Marco, e temeva di non essere in grado di proteggere da sola i figli ancora in tenera età, e che si facesse avanti qualcuno che, insediatosi sul trono, si sbarazzasse dei fanciulli. [2] Altri poi affermano che Cassio, per distogliere i soldati e i provinciali dall’amore che nutrivano per Marco, sì da poterlo orientare verso di sé, usò l’espediente di far diffondere la notizia che Marco era morto. [3] Si dice infatti che, per lenire il rimpianto per la sua scomparsa, gli attribuì l’appellativo di «divo». [4] Presentatosi all’esercito avendo ormai assunto una mentalità da imperatore, nominò immediatamente prefetto del pretorio colui che gli aveva posto indosso le insegne del potere; anche costui venne poi ucciso, contro la volontà di Antonino, dall’esercito, che mise pure a morte – sempre contro il volere e anzi all’insaputa di Antonino – Meciano22, governatore di Alessandria, che aveva abbracciato la causa di Cassio, nella speranza di giungere a condividerne il potere. [5] Antonino, comunque, quando venne a conoscenza della ribellione, non si adirò con violenza, né infierì contro i figli o i congiunti di Cassio. [6] Fu il senato a dichiararlo nemico pubblico23 e a proscrivere i suoi beni; questi ultimi Antonino non volle che entrassero a far parte del suo patrimonio privato, per la qual cosa il senato dispose che fossero incamerati nel pubblico erario. [7] Né mancarono a Roma momenti di grande panico, quando certuni sparsero la voce che Avidio Cassio, approfittando dell’assenza di Antonino – che era amatissimo da tutti tranne che dai gaudenti –, sarebbe piombato nella città e come un despota l’avrebbe straziata, soprattutto per vendicarsi dei senatori che lo avevano proclamato nemico pubblico confiscando i suoi beni. [8] E l’affetto di cui godeva Antonino apparve massimamente in questo, che tutti – fatta eccezione per gli Antiochesi – approvarono l’uccisione di Avidio; [9] la quale, del resto, non avvenne per ordine di lui, che dovette prendere atto del fatto compiuto, laddove era chiaro a tutti che, se fosse stato in suo potere, lo avrebbe risparmiato. [8, 1] Quando fu portata ad Antonino la testa di Cassio24, egli non esultò

né si inorgoglì, ma anzi si rammaricò che gli fosse stata sottratta l’occasione di esercitare la sua clemenza, affermando che suo desiderio sarebbe stato di prenderlo vivo per rinfacciargli i benefici che aveva da lui ricevuto, e poi risparmiarlo. [2] E inoltre, a un tale che diceva che Antonino era da biasimare per la sua eccessiva mitezza nei confronti di un suo nemico, dei suoi figli, dei suoi congiunti, e di tutti quanti erano stati smascherati quali complici del colpo di stato, aggiungendo – appunto questo suo censore –: «Che cosa sarebbe successo, se quello avesse vinto?», si dice che Antonino abbia dato questa risposta: «La nostra religiosità e la nostra vita non consentivano che egli riportasse la vittoria su di noi». [3] Osservò poi, citandoli per ordine, come tutti gli imperatori che erano stati uccisi avevano, per una ragione o per l’altra, meritato di esserlo, e che difficilmente un buon principe era stato vinto o assassinato da un usurpatore, [4] affermando che Nerone lo aveva meritato, Caligola lo era stato di necessità, mentre Otone e Vitellio non avevano neppur voluto essere imperatori. [5] Su Pertinace25 e Galba la pensava allo stesso modo, dicendo che il peggior difetto in un imperatore è l’avarizia26. [6] Ora appunto né Augusto, né Traiano, né Adriano, né il padre suo avevano potuto essere sopraffatti dai loro oppositori, che pure erano stati numerosi, ma che avevano finito per essere eliminati o contro la volontà o all’insaputa dei sovrani. [7] Antonino stesso richiese al senato che contro i complici della ribellione non fossero presi provvedimenti troppo severi, e nella stessa circostanza propose una legge per la quale durante il periodo del suo regno nessun senatore fosse sottoposto alla pena capitale, ciò che gli procurò grandissime simpatie; [8] infine, puniti solo un numero limitatissimo di centurioni, fece richiamare in patria gli esuli. [9, 1] Non inflisse punizioni agli Antiochesi, che avevano parteggiato per Avidio Cassio, ma tanto a costoro quanto alle altre città che lo avevano sostenuto, concesse il perdono, sebbene in un primo momento si fosse fortemente adirato contro di essi e avesse loro tolto il diritto di allestire spettacoli e molti altri privilegi cittadini, che in seguito nuovamente concesse. [2] Ai figli di Avidio Cassio Antonino lasciò la metà del patrimonio paterno, e salvaguardò il decoro delle figlie col dono di oro, argento e gemme. [3] Inoltre ad Alessandria, una delle figlie di Cassio, e a Druenziano, suo genero, concesse la facoltà di spostarsi liberamente dove volessero. [4] Ed essi vissero così non come figli di un usurpatore, ma nella più completa sicurezza come persone di rango senatorio, avendo egli proibito di rinfacciare loro, anche in giudizio, le sorti passate della loro famiglia, arrivando sino a punire alcuni

delle ingiurie che avevano lanciato loro; li pose inoltre sotto la protezione del marito di sua zia. [5] Se qualcuno poi desidera conoscere tutta questa storia, legga il secondo libro della Vita di Marco scritta da Mario Massimo, nel quale egli narra quanto Marco fece una volta rimasto da solo a governare dopo la morte di Vero. [6] Fu in quel periodo, infatti, che Cassio si ribellò, come conferma una lettera mandata a Faustina, che suona così: [7] «Vero mi aveva scritto la verità quanto alle aspirazioni di potere di Cassio. Immagino infatti che tu abbia sentito quanto hanno riferito sul suo conto i messi di Vero27. [8] Vieni dunque nella villa di Alba, così che, con il favore degli dèi, possiamo occuparci di ogni cosa, senza preoccuparti di nulla». [9] Ne appare chiaro che Faustina era all’oscuro di tali trame, anche se Mario, allo scopo di gettare infamia su di lei, afferma che Cassio aveva assunto il potere con la sua connivenza. [10] Abbiamo del resto anche la lettera di risposta di lei al marito, nella quale esorta Marco con insistenza a prendere severi provvedimenti contro di lui. [11] Ecco il testo della lettera di Faustina a Marco: «Verrò domani stesso, come mi hai ordinato, nella villa di Alba: tuttavia fin d’ora ti esorto, se ami i tuoi figli, a perseguire con grande durezza codesti ribelli. [12] Poiché tanto ufficiali che soldati hanno preso una cattiva abitudine, per cui se non vengono schiacciati, finiranno loro per schiacciare te». [10, 1] Dello stesso tenore un’altra lettera sempre di Faustina a Marco: «Mia madre Faustina in occasione della rivolta di Celso28 ebbe a esortare tuo padre Pio ad adempiere in primo luogo ai doveri di generosità nei confronti dei congiunti, e solo allora poi anche verso gli estranei. [2] Ché non è pio un im peratore che non si dà pensiero della moglie e dei figli. [3] Tu vedi quanto è giovane il nostro Commodo. Il tuo genero Pompeiano29 è molto anziano oltre che straniero. [4] Sta attento a quello che fai di Avidio Cassio e dei suoi complici. [5] Non risparmiare uomini che non hanno avuto scrupolo ad agire contro di te, e che non avrebbero risparmiato né me né i nostri figli, se fossero riusciti vincitori. [6] Presto ti raggiungerò in viaggio: non ho potuto venire nella villa di Formia, poiché la nostra Fadilla30 si è ammalata. [7] Ma se non potrò trovarti a Formia, ti raggiungerò a Capua, una città che potrà risultare di giovamento alla salute mia e dei nostri figli. [8] Ti prego di mandare nella villa di Formia il medico Soterida. Io non ho per niente fiducia in Pisiteo, che non è in grado di prestare adeguate cure a una ragazza così giovane. [9] Calpurnio mi ha consegnato una tua lettera sigillata, alla quale risponderò, se tarderò ad arrivare, tramite il vecchio eunuco Cecilio, che è, come sai, una

persona fidata. [10] Lo incaricherò di riferirti quali discorsi si dice vadano facendo sul tuo conto la moglie, i figli e il genero di Avidio Cassio». [11, 1] Da questa lettera si comprende che Faustina non era d’accordo con Cassio, e anzi cercò di ottenere con particolare insistenza che fosse messo a morte, visto che cercò di far sentire ad Antonino, incline di per sé a non prendere provvedimenti e ad usare clemenza, la necessità di punirlo duramente. [2] La lettera seguente farà conoscere ciò che Antonino le rispose: [3] «Tu, o mia Faustina, ti adoperi con scrupolo per me e per i nostri figli. Ho infatti riletto, nella villa di Formia, la lettera che mi hai inviato, in cui mi esorti a colpire severamente i complici di Avidio Cassio. [4] Io però risparmierò i suoi figli, il genero e la moglie, e scriverò al senato che le proscrizioni non siano troppo severe né le pene eccessivamente crudeli. [5] Ché nulla è in grado di favorire tra i popoli il prestigio di un imperatore romano quanto la clemenza. [6] Fu essa a fare di Cesare un dio, essa a consacrare Augusto, essa che guadagnò a tuo padre l’onore eccezionale del soprannome di Pio. [7] E anzi, se questa guerra fosse stata condotta secondo i miei intendimenti, nemmeno Avidio sarebbe stato ucciso. [8] Dunque stai tranquilla: ‘Gli dèi mi proteggono, agli dèi la mia pietà … sta a cuore’31.

Ho designato il nostro Pompeiano console per l’anno prossimo»32. Questo il testo della lettera di Antonino alla moglie. [12, 1] È interessante conoscere qualcosa del messaggio che inviò al senato. [2] Dal messaggio di Marco Antonino: «Avete dunque, o senatori, in ricambio delle azioni di grazie per la mia vittoria, mio genero quale console, quel Pompeiano la cui età avrebbe già da tempo meritato il riconoscimento del consolato, se non fosse stato per la presenza di uomini insigni, ai quali era d’obbligo conferire quanto lo Stato doveva loro. [3] Ora, per quanto riguarda la rivolta di Cassio, vi prego e vi scongiuro che, lasciata da parte la vostra severità, assecondiate la mia, anzi la vostra bontà e clemenza, e che il senato non abbia a mettere a morte alcuno. [4] Nessun senatore venga punito, non si sparga sangue di alcun nobile, gli esiliati possano ritornare, i proscritti riacquistino i loro beni. [5] E magari potessi richiamare anche dagli inferi i molti che sono morti! Poiché non viene mai approvata, in un imperatore, la vendetta personale degli affronti ricevuti: essa infatti, più è giusta, più appare aspra. [6] Perciò concederete il perdono ai figli, al genero e alla moglie di Avidio Cassio. E che dico il perdono, per essi che non hanno commesso nulla!

[7] Vivano dunque tranquilli, sapendo di vivere sotto Marco. Vivano godendo del patrimonio famigliare, elargito a ciascuno secondo la dovuta proporzione, abbiano oro, argento, vesti, siano ricchi, vivano senza affanni, siano liberi di spostarsi senza vincoli, sì che portino in sé dinanzi agli occhi di tutti i popoli del mondo l’esempio della mia, della vostra clemenza. [8] Né costituisce, o senatori, una grossa prova di clemenza concedere il perdono ai figli e alle mogli dei proscritti: [9] ma io vi chiedo pure che abbiate a risparmiare ai colpevoli appartenenti all’ordine senatorio ed equestre la pena capitale, la proscrizione, il terrore, l’infamia, l’odio e, insomma, ogni genere di affronto, e che lasciate questo vanto agli anni del mio regno, [10] che cioè in un tentativo di usurpazione risulti ucciso solo chi è caduto nel corso della sommossa». [13, 1] Questa sua manifestazione di clemenza fu salutata dal senato con queste acclamazioni: [2] «O pio Antonino, gli dèi ti salvino. O clemente Antonino, gli dèi ti salvino. Tu hai voluto ciò che era in tuo potere, noi abbiamo compiuto ciò che si conveniva. [3] Chiediamo per Commodo il legittimo potere. Rafforza la posizione della tua progenie. Fa’ che i nostri figli vivano tranquilli. [4] Un buon impero è al sicuro da ogni violenza. Chiediamo per Commodo Antonino la potestà tribunizia, invochiamo la tua presenza. [5] Lode alla tua saggezza, alla tua pazienza, alla tua scienza, alla tua nobiltà, alla tua integrità! Tu sconfiggi gli avversari, vinci i nemici, gli dèi sono con te!». E così via. [6] Così i parenti di Avidio Cassio vissero tranquilli e furono ammessi alle cariche pubbliche. [7] Ma Commodo Antonino, dopo la morte del divo suo padre li fece bruciare tutti vivi, come se fossero stati colti in flagrante complotto. [8] Queste sono le notizie che ho potuto trovare sul conto di Avidio Cassio. [9] Il suo carattere, come abbiamo detto sopra, fu sempre mutevole, ma specialmente incline alla severità e alla crudeltà. [10] Se avesse raggiunto il potere, sarebbe stato un imperatore non solo clemente, ma probo, utile allo Stato e pieno di virtù. [14, 1] Ci è rimasta, a riprova di ciò, una lettera indirizzata al genero dopo essere stato proclamato imperatore, di questo tenore: [2] «Povero Stato, che deve soffrire codesti uomini ricchi e assetati di sempre nuove ricchezze. [3] Povero Marco, uomo di grandi virtù che, nel desiderio di essere considerato clemente, tollera che vivano persone di cui disapprova la condotta. [4] Dov’è quel Lucio Cassio33, di cui noi invano portiamo il nome? Dov’è quel Marco Catone il Censore? Dov’è tutta la disciplina degli antenati? Essa un tempo

venne meno, ma ora non la si ricerca neppure. [5] Marco Antonino si occupa di filosofia e indaga sui principi originari, sull’anima, sull’onesto e il giusto, e non ha a cuore lo Stato. [6] Tu vedi che invece c’è bisogno di molte spade, molti processi, perché lo Stato sia reso all’antica condizione. [7] Io poi a codesti governatori delle province… ma devo chiamare proconsoli o governatori individui che pensano che le province siano state loro affidate dal senato e da Antonino per spassarsela, per arricchirsi? [8] Hai sentito del prefetto del pretorio del nostro filosofo, che fino a tre giorni prima di diventarlo era stato un povero pezzente, ma poi tutt’a un tratto è divenuto ricco. Come, chiedo io, se non spolpando lo Stato e derubando i provinciali? Ma siano pure ricchi, abbiano grandi sostanze: rimpingueranno il pubblico erario; solo che gli dèi favoriscano la parte dei migliori: i Cassiani ristabiliranno l’autorità dello Stato». Questa sua lettera mostra chiaramente quale severo e rigido imperatore sarebbe stato.

1. Vir clarissimus (l’espressione che compare, siglata, accanto al nome dell’autore della Vita) era un appellativo onorifico divenuto normale quale attributo dei senatori nel corso del tardo impero. Corrisponde all’incirca ai nostri «onorevole», «eccellenza» e simili. 2. Su vari problemi collegati alla redazione di questa Vita cfr. J. SCHWARTZ, Avidius Cassius et les sources de l’HA, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 135 segg.; B. BALDWIN, The Vita Avidii, «Klio», LVIII, 1976, pp. 101 segg. 3. L’espressione homo (v. Nota critica) novus indicava un personaggio discendente da famiglia non di rango senatoriale od equestre, che per primo in essa aveva rivestito una delle magistrature più alte (edilità curule, pretura, consolato). 4. Il vero nome del padre di Avidio Cassio era C. Avidius Heliodorus: costui era stato segretario di Adriano e prefetto di Egitto sotto Antonino Pio. Sui personaggi ricordati nel corso della Vita cfr. H. G. PFLAUM, Les personnages nommément cités par les Vitae Aelii et Avidii Cassii de l’HA, in BHAC, 197274, Bonn, 1976, pp. 193 segg. 5. Cfr. Ver., 8, 4, n. 5. 6. Si allude ai due personaggi della gens Cassia, C. Cassio Longino e C. Cassio Parmense, che parteciparono alla congiura contro Cesare. 7. Antonino Pio; ritorna qui l’errata versione secondo cui Vero sarebbe stato adottato da Marco (anziché direttamente da Antonino Pio), per la quale cfr. anche M. Ant., 5, 1 e Ael., 5, 12. 8. Traiano. 9. La frase è attribuita a Domiziano in SVETONIO, Domit., 21, dove è riportata in discorso indiretto: condicionem principum miserrimam aiebat, quibus de coniuratione comperta non crederetur nisi occisis. 10. Cioè sarebbe stato in tutto eguale a L. Sergio Catilina che, con la sua congiura contro il potere costituito (sventata nel 63 a. C. da Cicerone), doveva rappresentare per Avidio Cassio un modello particolarmente caro. 11. Caio Mario, il vincitore di Giugurta, visto qui come l’esempio tipico del generale capace di imporre una ferrea disciplina militare. Quanto agli esempi di severità riportati subito dopo cfr. A. CHASTAGNOL, Le supplice inventé par Avidius Cassius. Remarques sur l’HA et la lettre première de Saint Jérôme, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 104 segg. 12. Questo storico non ci è altrimenti conosciuto. 13. Si allude qui alla posca, per cui cfr. Hadr., 10, 2, n. 5. 14. Il sobborgo di Antiochia già ricordato (cfr. M. Ant., 8, 12 [e n. 1] dove compare la forma Daphne, -es, la più frequente nell’impiego della HA), famoso per le sue bellezze naturali. Che si caratterizzasse anche per la dissolutezza dei costumi risulta solo dalla HA. 15. Il gioco di parole allude a L. Cassio Longino Ravilla, famoso giudice dell’epoca repubblicana, la cui severità era divenuta proverbiale (cfr. CICERONE, Pro S. Rose., 84 e VALERIO MASSIMO, III, 7, 9). 16. Si tratta di un verso degli Annales di ENNIO, citato da CICERONE, De rep., V, 1 (cfr. AGOSTINO, De civ. Dei, II, 21). 17. L’aggettivo Graecanicus è qui usato come sinonimo di «effemminato», «molle», secondo un luogo comune molto diffuso. 18. Si trattava di una tipica punizione militare (cfr. SVETONIO, Aug., 24, 2 Centuriones… variis ignominiis adfecit, ut stare per totum diem iuberet ante praetorium, interdum tunicatos discinctosque). 19. Il motivo del «settimo giorno» in relazione ad una pratica ripetuta e importante – motivo che porta in sé l’ovvio richiamo alla settimana giudaica – ritorna anche al § 3 (sempre in ambito militare) e, successivamente, in Al. Sev., 43, 5. Su di esso cfr. A. CHASTAGNOL, Le septième jour dans l’HA, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 133 segg.

20. Fra il 164 e il 166 d. C. Avidio Cassio condusse una fortunata campagna in Oriente, cacciando i Parti di Vologese II dalla Siria, penetrando in Mesopotamia e conquistando la loro capitale Ctesifonte (cfr. M. Ant., 9, 1; Ver., 7, 1-2; CASSIO DIONE, LXXI, 2). 21. Nel 175 d. C. Sui poteri straordinari di Avidio Cassio in Oriente cfr. SCHWARTZ, Av. Cassius, cit., pp. 163 seg. 22. Il figlio di Avidio Cassio, già ricordato in M. Ant., 25, 4. Taluno ritiene che in entrambi i passi Alexandria indichi non già la città dell’Egitto, ma la figlia dello stesso Cassio, citata a M. Ant., 26, 12 e Av. Cass., 9, 3 (cfr. in questo senso S. J. DE LAET, Note sur deux passages de l’HA [v. Marci, XXV, 4; v. Cassii, VII, 4], «Ant. class.», XIII, 1944, pp. 127 segg.); ma cfr. da ultimo J. SCHWARTZ, La place de l’Égypte dans l’HA, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, p. 177. 23. La dichiarazione di hostis (cioè nemico della patria, in armi) comportava la condanna a morte e la confisca dei beni, e a volte anche, dopo la morte, la distruzione delle immagini e la cancellazione del nome dalle iscrizioni. 24. Cfr. M. Ant., 25, 3. Secondo il racconto di CASSIO DIONE, LXXI, 27, 2-3, Avidio Cassio fu ucciso da due ufficiali subalterni, che portarono il suo capo a Marco. 25. Il richiamo a Pertinace – cronologicamente assurdo, dato che questi regnò vari anni più tardi di Marco, nel 193 d. C. – potrebbe considerarsi in effetti l’inserzione errata di un copista, ma non si può escludere in assoluto una disattenzione del poco scrupoloso biografo; cfr. in proposito R. SYME, Emperors and Biography. Studies in the HA, Oxford, 1971, p. 132, n. 2. 26. Sull’avarizia di Galba, che sarebbe risultata causa della defezione delle truppe e della cospirazione da cui fu assassinato, cfr. SVETONIO, Galba, 16 e 17. 27. Il riferimento pare al P. Martius Verus già ricordato a Ver., 7, 1 tra i generali che portarono a conclusione la guerra partica; secondo CASSIO DIONE (LXXI, 23, 3) fu proprio questo personaggio, divenuto governatore della Cappadocia, ad avvertire Marco della sollevazione di Avidio. 28. Nulla si sa intorno a questa congiura, e il personaggio qui ricordato non ci è altrimenti noto. 29. Il secondo marito (dopo Lucio Vero) della figlia Lucilla (cfr. M. Ant., 20, 6). 30. Arria Fadilla, quarta figlia di Marco. 31. Si tratta di versi di ORAZIO, Carm., I, 17, 13 seg. 32. In realtà Pompeiano fu console per la seconda volta nel 173 d. C., cioè due anni prima della rivolta di Cassio. Errori grossolani di questo genere, che ricorrono spesso nelle lettere e negli altri «documenti» riportati dai biografi, confermano l’assoluta inattendibilità della maggior parte di essi (cfr. Introduzione, pp. 20 seg.). 33. Un errore per C. Cassio Longino, il cesaricida (cfr. 1, 4, n. 5).

VII. 〈COMMODUS〉 ANTONINUS AELI LAMPRIDI

COMMODO ANTONINO di ELIO LAMPRIDIO

[1, 1] De Commodi Antonini parentibus in vita Marci Antonini satis est disputatum1. [2] Ipse autem natus est apud Lanuvium cum fratre Antonino gemino prid(ie) kal. Septemb(res) patre patruoque consulibus2, ubi et avus maternus dicitur natus. [3] Faustina cum esset Commodum cum fratre praegnans, visa est in somnis serpentes parere, sed ex his unum ferociorem. [4] Cum autem peperisset Commodum atque Antoninum, Antoninus quadrimus elatus est, quem parem astrorum cursu Commodo mathematici promittebant. [5] Mortuo igitur fratre Commodum Marcus et suis praeceptis et [et] magnorum atque optimorum virorum erudire conatus est. [6] Habuit litteratorem Graecum Onesicraten, Latinum Capellam Antistium; orator ei Ateius3 Sanctus fuit. [7] Sed tot disciplinarum magistri nihil ei profuerunt. Tantum valet aut ingenii vis aut eorum, qui in aula institutores habentur. Nam a prima statim pueritia turpis, improbus, crudelis, libidinosus, ore quoque pollutus et constupratus fuit, [8] iam in his artifex, quae stationis imperatoriae non erant, ut calices ingereret, saltaret, cantaret, sibilaret, scurram denique et gladiatorem perfectum ostenderet. [9] Auspicium crudelitatis apud Centumcellas4 dedit anno aetatis duodecimo; nam cum tepidius forte lotus esset, balneatorem in fornacem conici iussit; quando a paedagogo, cui hoc iussum fuerat, vervecina pellis in fornace consumpta est, ut fidem poenae de fetore nidoris impleret. [10] Appellatus est autem Caesar puer cum fratre [se] Vero5 Quarto decimo aetatis anno in collegium sacerdotum6 adscitus est. [2, 1] Cooptatus est inter † tressolos… princeps iuventutis7, cum togam sumpsit. Adhuc in praetexta puerili8 congiarium dedit atque ipse in basilica Traiani9 praesedit. [2] Indutus autem toga est nonarum Iuliarum die, quo in terris Romulus non apparuit10, et eo tempore, quo Cassius a Marco descivit11. [3] Profectus est commendatus militibus cum patre in Syriam et Aegyptum 〈et cum〉 eo Romam redit. [4] Post haec venia legis annariae impetrata12 consul est factus et cum patre imperator est appellatus V. kal. Dec. die Pollione et Apro consulibus13 et triumphavit cum patre14; nam et hoc patres decreverant. [5] Profectus est cum patre et ad Germanicum bellum15. [6] Adhibitos custodes vitae suae honestiores ferre non potuit, pessimos quosque detinuit et summotos usque ad aegritudinem desideravit. [7] Quibus per patris mollitiem restitutis popinas et ganeas in Palatinis semper aedibus fecit neque umquam pepercit vel pudori vel sumptui. In domo aleam exercuit.

[8] Mulierculas formae scitioris ut prostibula mancipia perficiens lupanarium et ludibrium pudicitiae contraxit. Imitatus est propolas circumforanos. Equos currules sibi conparavit. [9] Aurigae habitu currus rexit, gladiatoribus convixit, aquam gessit ut lenonum minister, ut probris natum magis quam ei loco eum crederes, ad quem fortuna provexit. [3, 1] Patris ministeria seniora summovit, amicos senes abiecit. [2] Filium Salvi Iuliani16, qui exercitibus praeerat, ob inpudicitiam frustra temptavit atque exinde Iuliano tetendit insidias. [3] Honestissimos quosque aut per contumeliam aut per honorem indignissimum abiecit. [4] Appellatus est a mimis quasi obstupratus eosdemque ita, ut non apparerent, subito deportavit. [5] Bellum etiam, quod pater paene confecerat, legibus hostium addictus remisit ac Romam reversus est17. [6] Romam ut redit, subactore suo Saotero post se in curru locato ita triumphavit, ut eum saepius cervice reflexa publice oscularetur. Etiam in orchestra hoc idem fecit. [7] Et cum potaret in lucem helluareturque viribus Romani imperii, vespera etiam per tabernas ad lupanaria volitavit. [8] Misit homines ad provincias regendas vel criminum socios vel a criminosis commendatos. [9] In senatus odium ita venit, ut et ipse crudeliter in tanti ordinis perniciem saeviret fieretque contemptu crudelis. [4, 1] Vita Commodi Quadratum et Lucillam compulit ad eius interfectionem consilia inire, non sine praefecti praetorii Tarruteni Paterni consilio18. [2] Datum autem est negotium peragendae necis Claudio Pompeiano19 propinquo. [3] Qui ingressus ad Commodum destricto gladio, cum faciendi potestatem habuisset, in haec verba prorumpens «Hunc tibi pugionem senatus mittit» detexit facinus fatuus nec implevit multis cum eo participantibus causam. [4] Post haec interfecti sunt Pom-peianus primo et Quadratus, dein Norbana atque Norbanus et Paralius; et mater eius et Lucilla in exilium exacta. [5] Tum praefecti praetorio cum vidissent Commodum in tantum odium incidisse obtentu Saoteri, cuius potentiam p(opulus) R(omanus) ferre non poterat, urbane Saoterum eductum a palatio sacrorum causa et redeuntem in hortos suos per frumentarios occiderunt. [6] Id vero gravius quam de se ipso Commodo fuit. [7] Paternum autem et huius caedis auctorem et, quantum videbatur, paratae necis Commodi conscium et interventorem, ne coniuratio latius puniretur, instigante Tigidio20 per lati clavi honorem21 a praefecturae administratione summovit. [8] Post paucos dies insimulavit eum coniurationis, cum diceret ob hoc promissam Iuliani22 filio filiam Paterni, ut in Iulianum transferretur imperium. Quare et Paternum et Iulianum et Vitruvium Secundum Paterni familiarissimum, qui epistolas imperatorias

curarat, interfecit. [9] Domus praeterea Quintiliorum23 omnis extincta, quod Sextus Condiani filius specie mortis ad defectionem diceretur evasisse. [10] Interfecta et Vitrasia Faustina et Velius Rufus et Egnatius Capito consularis. [11] In exilium autem acti sunt Aemilius Iuncus et Atilius Severus consules. Et in multos alios varie saevitum est. [5, 1] Post haec Commodus numquam facile in publicum processit neque quicquam sibi nuntiari passus est nisi quod Perennis ante tractasset. [2] Perennis autem Commodi persciens invenit, quemadmodum ipse potens esset. [3] Nam persuasit Commodo, ut ipse deliciis vacaret, idem vero Perennis curis incumberet; quod Commodus laetanter accepit. [4] Hac igitur lege vivens ipse cum trecentis concubinis, quas ex matronarum meretricumque dilectu ad formae speciem concivit, trecentisque aliis puberibus exoletis, quos aeque ex plebe ac nobilitate vi pretiisque forma disceptatrice collegerat, in palatio per convivia et balneas bacchabatur. [5] Inter haec habitu victimarii victimas immolavit. In harena rudibus, inter cubicularios gladiator[es] pugnavit lucentibus aliquando mucronibus. [6] Tunc tamen Perennis cuncta sibimet vindicavit; quos voluit, interemit, spoliavit plurimos, omnia iura subvertit, praedam omnem in sinum contulit24. [7] Ipse autem Commodus Lucillam sororem, cum Capreas misisset, occidit. [8] Sororibus dein suis ceteris, ut dicitur, constupratis, consobrina patris complexibus suis iniuncta uni etiam ex concubinis matris nomen inposuit. [9] Uxorem25, quam deprehensam in adulterio exegit, exactam relegavit et postea occidit. [10] Ipsas concubinas suas sub oculis suis stuprari iubebat. [11] Nec inruentium in se iuvenum carebat infamia, omni parte corporis atque ore in sexum utrumque pollutus. [12] Occisus est eo tempore etiam Claudius26 quasi a latronibus, cuius filius cum pugione quondam ad Commodum ingressus est, multique alii senatores sine iudicio interempti, feminae quoque divites. [13] Et nonnulli per provincias a Perenni ob divitias insimulati spoliati sunt vel etiam interempti. [14] His autem, quibus deerat ficti criminis adpositio, obiciebatur, quod scribere noluissent Commodum heredem. [6, 1] Eo tempore in Sarmatia res bene gestas per alios duces in filium suum Perennis referebat. [2] Hic tamen Perennis, qui tantum potuit, subito, quod bello Brittannico militibus equestris loci viros praefecerat amotis senatoribus27, prodita re per legatos exercitus hostis appellatus lacerandusque militibus est deditus28. [3] In cuius potentiae locum Cleandrum29 ex cubiculariis subrogavit. [4] Multa sane post interfectum Perennem eiusque filium quasi a se non gesta rescidit, velut in integrum restituens. [5] Et hanc

quidem paenitentiam scelerum ultra XXX dies tenere non potuit, graviora per Cleandrum faciens quam fecerat per supra dictum Perennem. [6] Et in potentia quidem Cleander Perenni successerat, in praefectura vero Niger30, qui sex tantum horis praef. praet. fuisse perhibetur; [7] mutabantur enim praef. praet. per horas ac dies Commodo peiora omnia, quam fecerat ante, faciente; [8] fuit Marcius Quartus praef(ectus) praet(orio) diebus quinque. Horum successores ad arbitrium Cleandri aut retenti sunt aut occisi; [9] ad cuius nutum etiam libertini in senatum atque in patricios lecti sunt tuncque primum viginti quinque consules in unum annum venditaeque omnes provinciae. [10] Omnia Cleander pecunia venditabat: revocatos de exilio dignitatibus ornabat, res iudicatas rescindebat. [11] Qui tantum per stultitiam Commodi potuit, ut Byrrum31, sororis Commodi virum, reprehendentem nuntiantemque Commodo, quae fìebant, in suspicionem regni adfectati traheret et occideret multis aliis, qui Byrrum defendebant, pariter interemptis. [12] Praefectus etiam Aebutianus inter hos est interemptus; in cuius locum ipse Cleander cum aliis duobus, quos ipse delegerat, praefectus est factus. [13] Tuncque primum tres praef. praet. fuere, inter quos libertinus32, qui a pugione appellatus est. [7, 1] Sed et Cleandro dignus tandem vitae finis inpositus. Nam cum insidiis illius Arrius Antoninus fictis criminibus in Attali gratiam, quem in proconsulatu Asiae damnaverat, esset occisus nec eam tum invidiam populo saeviente Commodus ferre potuisset, plebi ad poenam donatus est, [2] cum etiam Apolaustus aliique liberti aulici pariter interempti sunt. [3] Cleander inter cetera etiam concubinas eius constupravit, de quibus filios suscepit, qui post eius interitum cum matribus interempti sunt. [4] In cuius locum Iulianus et Regillus subrogati sunt, quos et ipsos postea poenis adfecit. [5] His occisis interemit Servilium et Dulium Silanos cum suis, mox Antium Lupum et Petronios Mamertinum et Suram filiumque Mamertini Antoninum ex sorore sua genitum [6] et post eos sex simul ex consulibus, Allium Fuscum, Caelium Felicem, Lucceium Torquatum, Larcium Eurupianum, Valerium Bassianum, Pactumeium Magnum cum suis, [7] atque in Asia Sulpicium Crassum pro consule et Iulium Proculum cum suis Claudiumque Lucanum consularem et consobrinam patris sui Faustinam Anniam in Achaia et alios infìnitos33. [8] Destinaverat et alios quattuor decem occidere, cum sumptus eius vires Romani imperii sustinere non possent. [8, 1] Inter haec Commodus senatu semet ridente, cum adulterum34 matris consulem designasset, appellatus est Pius; cum occidisset Perennem, appellatus est Felix35, inter plurimas caedes multorum civium quasi quidam novus Sylla.

[2] Idem Commodus, ille Pius, ille Felix, finxisse etiam quandam contra se coniurationem dicitur, ut multos occideret. [3] Nec alia ulla fuit defectio praeter Alexandri36, qui postea se et suos interemit, 〈et〉 sororis Lucillae; [4] appellatus est Commodus etiam Brittannicus ab adulatoribus, cum Brittanni etiam imperatorem contra eum diligere voluerint. [5] Appellatus est etiam Romanus Hercules37, quod feras Lanuvium in amphitheatro occidisset; erat enim haec illi consuetudo, ut domi bestias interficeret. [6] Fuit praeterea ea dementia, ut urbem Romanam coloniam Commodianam38 vocari voluerit; qui furor dicitur ei inter delenimenta Marciae39 iniectus. [7] Voluit etiam in circo quadrigas agitare. [8] Dalmaticatus40 in publico processit atque ita signum quadrigis emittendis dedit. [9] Et eo quidem tempore, quo ad senatum rettulit de Commodiana facienda Roma, non solum senatus hoc libenter accepit per inrisionem, quantum intellegitur, sed etiam se ipsum Commodianum vocavit, Commodum Herculem et deum appellans. [9, 1] Simulavit se et in Africam iturum, ut sumptum itinerarium exigeret, et exegit eumque in convivia et aleam convertit. [2] Motilenum, praef. praetorii, per ficus veneno interemit. Accepit statuas in Herculis habitu, eique immolatum est ut deo41. [3] Multos praeterea paraverat interimere. Quod per parvolum quendam proditum est, qui tabulam e cubiculo eiecit, in qua occidendorum erant nomina scripta42. [4] Sacra Isidis43 coluit, ut et caput raderet et Anubim44 portaret. [5] Bellonae45 servientes vere exsecare brachium praecepit studio crudelitatis. [6] Isiacos vero pineis usque ad perniciem pectus tundere cogebat. Cum Anubin portaret, capita Isiacorum graviter obtundebat ore simulacri. Clava non solum leones in veste muliebri et pelle leonina46, sed etiam homines multos adflixit. Debiles pedibus et eos, qui ambulare non possent, in gigantum modum formavit, ita ut a genibus de pannis et linteis quasi dracones tegerentur, eosdemque sagittis confecit. Sacra Mithriaca47 homicidio vero polluit, cum illic aliquid ad speciem timoris vel dici vel fingi soleat. [10, 1] Iam puer et gulosus et impudicus fuit. Adulescens omne genus hominum infamavit, quod erat secum, et ab omnibus est infamatus. [2] Inridentes se feris obiciebat. Cum etiam qui Tranquilli48 librum vitam Caligulae49 continentem legerat feris obici iussit, quia eundem diem natalis habuerat, quem et Caligula50. [3] Si quis sane se mori velle pro eo dixisset, hunc invitum praecipitari iubebat. [4] In iocis quoque perniciosus. Nam eum, quem vidisset albescentes inter nigros capillos quasi vermiculos habere, sturno

adposito, qui se vermes sectari crederet, capite suppuratum reddebat obtunsione oris. [5] Pinguem hominem medio ventre dissicuit, ut eius intestina subito funderentur. [6] Monopodios et luscinios eos, quibus aut singulos {oculos} tulisset aut singulos pedes fregisset, appellabat. [7] Multos praeterea passim extinxit alios, quia barbarico habitu occurrerant, alios, quia nobiles et speciosiores erant. [8] Habuit in deliciis homines appellatos nominibus verendorum utriusque sexus, quos libentius suis osculis applicabat. [9] Habuit et hominem pene prominentem ultra modum animalium, quem onon51 appellabat, sibi carissimum. Quem et ditavit et sacerdotio Herculis rustici praeposuit. [11, 1] Dicitur saepe pretiosissimis cibis humana stercora miscuisse nec abstinuisse gustum aliis, ut putabat, inrisis. [2] Duos gibbos retortos in lance argentea sibi sinapi perfusos exhibuit eosdemque statim promovit ac ditavit. [3] Praef. praet. suum Iulianum togatum praesente officio suo in piscinam detrusit. Quem saltare etiam nudum ante concubinas suas iussit quatientem cymbala deformato vultu 〈vario〉 genere leguminum coctorum. [4] Ad convivium propter luxuriae continuationem raro vocavit. [5] Lavabat per diem septies atque octies et in ipsis balneis edebat. [6] 〈Adibat〉 deorum templa pollutus stupris et humano sanguine. [7] Imitatus est et medicum, ut sanguinem hominibus emitteret scalpris feralibus. [8] Menses quoque in honorem eius pro Augusto Commodum, pro Septembri Herculem, pro Octobri Invictum, pro Novembri Exsuperatorium, pro Decembri Amazonium52 ex signo ipsius adulatores vocabant. [9] Amazonius autem vocatus est ex amore concubinae suae Marciae, quam pictam in Amazone diligebat, propter quam et ipse Amazonico habitu in harenam Romanam procedere voluit. [10] Gladiatorium etiam certamen subiit et nomina gladiatorum recepit eo gaudio, quasi acciperet triumphalia. [11] Ludum semper ingressus est et, quotiens ingrederetur, publicis monumentis indi iussit. [12] Pugnasse autem dicitur septingenties tricies quinquies. [13] Nominatus inter Caesares quartum iduum Octobrium, quas Herculeas postea nominavit, Pudente et Pollione conss53. [14] Appellatus Germanicus idibus Herculeis Maximo et Orfito54 consulibus. [12, 1] Adsumptus est in omnia collegia sacerdotalia sacerdos XIII. kl. Invictas55 Pisone 〈et〉 Iuliano consulibus56. [2] Profectus in Germaniam XIIII. kal. Aelias57, ut postea nominavit. [3] Isdem conss. togam virilem accepit. [4] Cum patre appellatus imperator V. kal. Exsuperatorias Pollione iterum et Apro

〈iterum〉 consulibus58. [5] Triumphavit X. kal. Ian. isdem consulibus. [6] Iterum profectus III. non. Commodias Orfito et Rufo consulibus59. [7] Datus in perpetuum ab exercitu et senatu in domo Palatina Commodiana conservandus XI. kal. Romanas60 Praesente iterum consule61. [8] Tertio meditans de profectione a senatu et populo suo retentus est. [9] Vota pro eo facta sunt nonis Piis Fusciano iterum consule62. [10] Inter haec refertur in litteras pugnasse illum sub patre trecenties sexagies quinquies, [11] item postea tantum palmarum gladiatoriarum confecisse vel victis retiariis63 vel occisis, ut mille contingeret. [12] Ferarum autem diversarum manu sua occidit, ita ut 〈et〉 elephantos occideret, multa milia. Et haec fecit spectante saepe populo Romano. [13, 1] Fuit autem validus ad haec, alias debilis et infirmus, vitio etiam inter inguina prominenti, ita ut eius tumorem per sericas vestes populus Romanus agnosceret. [2] Versus ideo multi scripti sunt, de quibus etiam in opere suo Marius Maximus gloriatur. [3] Virium ad conficiendas feras tantarum fuit, ut elephantum conto transigeret et orygis cornu basto transmiserit et singulis ictibus multa milia ferarum ingentium conficeret. [4] Inpudentiae tantae fuit, ut cum muliebri veste in amphitheatro vel theatro sedens publice saepissime biberit. [5] Victi sunt sub eo tamen, cum ille sic viveret, per legatos Mauri, victi Daci, Pannoniae quoque conpositae, Brittannia, in Germania et in Dacia imperium eius recusantibus provincialibus; [6] quae omnia ista per duces sedata sunt64. [7] Ipse Commodus in subscribendo tardus et neglegens, ita ut libellis una forma multis subscriberet, in epistolis autem plurimis «Vale»65 tantum scriberet. [8] Agebanturque omnia per alios, qui etiam condemnationes in sinum vertisse dicuntur. [14, 1] Per hanc autem neglegentiam, cum et annonam vastarent hi, qui tunc rem p. gerebant, etiam inopia ingens Romae exorta est, cum fruges non deessent. [2] Et eos quidem, qui omnia vastabant, postea Commodus occidit atque proscripsit. [3] Ipse vero saeculum aureum Commodianum nomine adsimulans vilitatem proposuit, ex qua maiorem penuriam fecit. [4] Multi sub eo et alienam poenam et suam salutem pecunia redemerunt. [5] Vendidit etiam suppliciorum diversitates et sepulturas et inminutiones malorum et alios pro aliis occidit. [6] Vendidit etiam provincias et administrationes, cum hi, per quos venderet, partem acciperent, partem vero Commodus. [7] Vendidit nonnullis et inimicorum suorum caedes.

Vendiderunt sub eo etiam eventus litium liberti. [8] Praefectos Paternum et Perennem non diu tulit, ita tamen ut etiam de his praefectis, quos ipse fecerat, triennium nullus impleret, quorum plurimos interfecit vel veneno vel gladio. Et praefectos urbi eadem facilitate mutavit. [15, 1] Cubicularios suos libenter occidit, cum omnia ex nutu eorum semper fecisset. [2] Eclectus66 cubicularius cum videret eum tam facile cubicularios occidere, praevenit eum et factioni mortis eius interfuit. [3] Spectator gladiatoria sumpsit arma, panno purpureo nudos humeros advelans. [4] Habuit praeterea morem, ut omnia quae turpiter, quae inpure, quae crudeliter, quae gladiatorie, quae lenonie faceret, actis urbis67 indi iuberet, ut Marii Maximi scripta testantur. [5] Commodianum etiam p. R. dixit, quo saepissime praesente gladiator pugnavit. [6] Sane cum illi saepe pugnanti ut deo populus favisset, inrisum se credens populum Romanum a militibus classiariis, qui vela ducebant, in amphitheatro interimi praeceperat. [7] Urbem incendi iusserat68, utpote coloniam suam; quod factum esset, nisi Laetus praef. praet. Commodum deterruisset. [8] Appellatus est sane inter cetera triumphalia nomina etiam sescenties vicies Palus primus secutorum69. [16, 1] Prodigia70 eius imperio et publice et privatim haec facta sunt: crinita stella apparuit. [2] Vestigia deorum in foro visa sunt exeuntia. Et ante bellum desertorum71 caelum arsit. Et repentina caligo ac tenebra in circo kalendis Ianuariis oborta. Et ante lucem fuerant etiam incendiariae aves72 ac dirae. [3] De Palatio ipse ad Caelium montem in Vectilianas aedes73 migravit negans se in Palatio posse dormire. [4] Ianus geminus sua sponte apertus est74 et Anubis simulacrum marmoreum moveri visum est. [5] Herculis signum aeneum sudavit75 in Minucia76 per plures dies. Bubo etiam supra cubiculum eius deprehensa est tam Romae quam Lanuvii. [6] Ipse autem prodigium non leve sibi fecit: nam cum in gladiatoris occisi vulnus manum misisset, ad caput sibi detersit et contra consuetudinem paenulatos77 iussit spectatores, non togatos ad munus convenire, quod funeribus solebat, ipse in pullis78 vestimentis praesidens. [7] Galea eius bis per portam Libitinensem79 elata est. [8] Congiarium dedit populo singulis denarios septingenos vicenos quinos. Circa alios omnes parcissimus fuit, quod luxuriae sumptibus aerarium minueret. [9] Circenses multos addidit ex libidine potius quam religione et ut dominos factionum ditaret. [17, 1] His incitati, licet nimis sero, Quintus Aemilius Laetus praef. et Marcia concubina eius inierunt coniurationem ad occidendum eum. [2]

Primumque ei venenum dederunt; quod cum minus operaretur, per athletam, cum quo exerceri solebat, eum strangularunt80. [3] Fuit forma quidem corporis iusta, vultu insubido, ut ebriosi solent, et sermone incondito, capillo semper fucato et auri ramentis inluminato, adurens comam et barbam timore tonsoris. [4] Corpus eius ut unco traheretur atque in Tiberim mitteretur81, senatus et populus postulavit, sed postea iussu Pertinacis in monumentum Hadriani translatum est. [5] Opera eius praeter lavacrum82, quod Cleander nomine ipsius fecerat, nulla exstant. [6] Sed nomen eius alienis operibus incisum senatus erasit. [7] Nec patris autem sui opera perfecit. Classem Africanam instituit, quae subsidio esset, si forte Alexandrina frumenta cessassent. [8] Ridicule etiam Carthaginem Alexandriam Commodianam togatam appellavit, cum classem quoque Africanam Commodianam Herculeam appellasset. [9] Ornamenta sane quaedam colosso83 addidit, quae postea cuncta sublata sunt. [10] Colossi autem caput dempsit, quod Neronis esset, ac suum inposuit et titulum more solito subscripsit, ita ut illum gladiatorium et effeminatum non praetermitteret. [11] Hunc tamen Severus, imperator gravis et vir nominis sui, odio, quam videtur, senatus inter deos rettulit84 flamine addito, quem ipse vivus sibi paraverat, Herculaneo Commodiano. [12] Sorores tres superstites reliquit85. Ut natalis eius celebraretur, Severus instituit. [18, 1] Adclamationes senatus post mortem Commodi graves fuerunt. [2] Ut autem sciretur, quod iudicium senatus de Commodo fuerit, ipsas adclamationes de Mario Maximo indidi et sententiam senatus consulti86: [3] «Hosti patriae honores detrahantur, parricidae honores detrahantur, parricida trahatur. Hostis patriae, parricida, gladiator in spoliario87 lanietur. [4] Hostis deorum carnifex senatus, hostis deorum parricida senatus: hostis deorum, hostis senatus. Gladiatorem in spoliario. [5] Qui senatum occidit, in spoliario ponatur: qui senatum occidit, unco trahatur: qui innocentes occidit, unco trahatur: hostis parricida, vere vere. Qui sanguini suo non pepercit, unco trahatur. [6] Qui te88 occisurus fuit, unco trahatur. [7] Nobiscum timuisti, nobiscum periclitatus es. Ut salvi simus, Iuppiter optime maxime, serva nobis Pertinacem. [8] Fidei praetorianorum feliciter. Praetoriis cohortibus feliciter. Exercitibus Romanis feliciter. [9] Pietati senatus feliciter. [10] Parricida trahatur. Rogamus, Auguste, parricida trahatur. Hoc rogamus, parricida

trahatur. Exaudi Caesar: delatores ad leonem. Exaudi Caesar: Speratum89 ad leonem. [11] Victoriae populi R. feliciter. Fidei militum feliciter. Fidei praetorianorum feliciter. Cohortibus praetoriis feliciter. [12] Hostis statuas undique, parricidae statuas undique, gladiatoris statuas undique. Gladiatoris et parricidae statuae detrahantur. Necator civium trahatur, parricida civium trahatur. [13] Gladiatoris statuae detrahantur. [14] Te salvo salvi et securi sumus, vere, vere, modo vere, modo digne, modo vere, modo libere. [15] Nunc securi sumus: delatoribus metum. Ut securi simus, delatoribus metum. 〈Ut〉 salvi simus, delatores de senatu, delatoribus fustem. Te salvo delatores ad leonem. [16] Te imperante delatoribus fustem. [19, 1] Parricidae gladiatoris memoria aboleatur, parricidae gladiatoris statuae detrahantur. Impuri gladiatoris memoria aboleatur. Gladiatorem in spoliario. Exaudi Caesar: carnifex unco trahatur. [2] Carnifex senatus more maiorum unco trahatur. Saevior Domitiano, impurior Nerone. Sic fecit, sic patiatur. Memoriae innocentium serventur. Honores innocentium restituas, rogamus. [3] Parricidae cadaver unco trahatur, gladiatoris cadaver unco trahatur, gladiatoris cadaver in spoliario ponatur. Perroga, perroga, omnes censemus unco trahendum. [4] Qui omnes occidit, unco trahatur. Qui omnem aetatem occidit, unco trahatur. Qui utrumque sexum occidit, unco trahatur. Qui sanguini suo non pepercit, unco trahatur. Qui templa spoliavit, unco trahatur. [5] Qui testamenta delevit, unco trahatur. Qui vivos spoliavit, unco trahatur. Servis serviimus. [6] Qui pretia vitae exegit, unco trahatur. Qui pretia vitae exegit et fidem non servavit, unco trahatur. Qui senatum vendidit, unco trahatur. Qui filiis abstulit hereditatem, unco trahatur. [7] Indices de senatu. Delatores de senatu. Servorum subornatores de senatu. [8] Et tu nobiscum timuisti, omnia scis, et bonos et malos nosti. Omnia scis, omnia emenda, pro te timuimus. O nos felices, te viso imperante. De parricida refer, refer, perroga. Praesentiam tuam rogamus. [9] Innocentes sepulti non sunt: parricidae cadaver trahatur. Parricida sepultos eruit: parricidae cadaver trahatur». [20, 1] Et cum iussu Pertinacis Livius Larensis90, procurator patrimonii91, Fabio Chiloni92 consuli designato dedisset, per noctem Commodi cadaver sepultum. [2] Senatus adclamavit: «Quo auctore sepelierunt? [3] Parricida sepultus eruatur, trahatur». Cingius Severus dixit: «Iniuste sepultus est. Qua pontifex dico, hoc collegium pontifìcum dicit. [4] Quoniam laeta iam percensui, nunc convertar ad necessaria: censeo, quae is, qui non nisi ad perniciem civium et ad dedecus suum vixit, ob honorem suum decerni coegit,

abolenda. [5] Statuas, quae undique sunt, abolendas, nomenque ex omnibus privatis pu-blicisque monumentis eradendum mensesque his nominibus nuncupandos, quibus nuncupabantur, cum primum illud malum in re publica incubuit».

[1, 1] Dei parenti di Commodo Antonino si è già detto a sufficienza nel corso della vita di Marco Antonino1 [2] Quanto a lui, nacque insieme col fratello gemello Antonino il 31 agosto dell’anno in cui erano consoli suo padre e suo zio paterno2, a Lanuvio, dove si dice sia nato anche il nonno materno. [3] Faustina, mentre era gravida di Commodo e di suo fratello, sognò di partorire dei serpenti, fra i quali però uno era particolarmente feroce. [4] Dopo che poi ebbe dato alla luce Commodo e Antonino, quest’ultimo – che pure gli astrologi predicevano avere, secondo il corso degli astri, lo stesso destino di Commodo – a soli quattro anni morì. [5] Morto dunque il fratello, Marco cercò di educare Commodo sia istruendolo personalmente sia affidandolo a valenti e insigni maestri. [6] Quali insegnanti di lingua ebbe nel greco Onesicrate, nel latino Antistio Capella; maestro di retorica gli fu Ateio3 Santo. [7] Ma tanti maestri di scienza non riuscirono a fargli fare alcun progresso. Tanto può sia il forte influsso dell’indole, sia di coloro che sono tenuti a Palazzo quali istitutori. Infatti sin dalla prima fanciullezza fu corrotto, disonesto, crudele, libidinoso, e pervertito e violentato persino in rapporti orali, [8] e cultore soltanto di quelle arti che non si addicevano alla dignità di un imperatore, come fare il coppiere, ballare, cantare, zufolare, e financo esibirsi come perfetto buffone e gladiatore. [9] Giunto al dodicesimo anno d’età, a Centocelle4, ebbe a manifestare un anticipo di quella che sarebbe stata la sua crudeltà; infatti, avendo trovato l’acqua del bagno troppo tiepida, ordinò di gettare nella fornace l’addetto ai bagni; ma quella volta il pedagogo, che aveva ricevuto personalmente l’ordine di fare ciò, fece bruciare nella fornace una pelle di castrato per fargli credere, dal fetore del fumo, che la punizione era stata eseguita. [10] Ancora fanciullo ricevette il titolo di Cesare assieme al fratello Vero5. A quattordici anni fu ammesso a far parte di un collegio sacerdotale6. [2, 1] Quando indossò la toga, fu assunto fra i […] quale «principe della gioventù»7. Aveva ancora la pretesta propria dei fanciulli8 quando elargì un donativo, presiedendo egli stesso alla distribuzione nella basilica di Traiano9. [2] Indossò la toga il 7 luglio, anniversario della assunzione all’Olimpo10 di Romolo, nello stesso anno della ribellione di Cassio contro Marco11. [3] Accompagnato dal favore dei soldati, partì assieme al padre alla volta della Siria e dell’Egitto, e con lui ritornò a Roma. [4] Dopo di ciò, ottenuta la dispensa dalla legge sui limiti d’età12, fu creato console, e il 27 novembre

dell’anno corrispondente al consolato di Pollione e Apro13, fu acclamato imperatore insieme al padre, e condivise con lui il trionfo14: anche questo infatti era stato decretato dal senato. [5] Partì poi, sempre seguendo il padre, per la guerra germanica15. [6] Non poteva sopportare, fra coloro che erano stati assunti per vigilare sulla sua vita, le persone che si distinguevano per la loro integrità, mentre si teneva cari tutti i peggiori soggetti, e quando gli furono tolti, ne soffrì la mancanza sino ad ammalarsi. [7] E quando per la condiscendenza del padre poté riaverli, creò in permanenza nel Palazzo imperiale bettole e taverne, né mai si fece scrupoli di pudore o di spesa. Giocava a dadi nel Palazzo. [8] Raccolse donnine di particolare avvenenza come schiave prostitute, creando un vero e proprio lupanare, un oltraggio alla pudicizia. Imitò i rivenditori del foro. Si procurò cavalli da corsa. [9] Guidò i carri vestito da auriga, visse assieme ai gladiatori, fece il coppiere come un servo dei lenoni, sì che si sarebbe potuto crederlo nato piuttosto per una vita infamante, che non per la posizione alla quale la sorte lo aveva elevato. [3, 1] Licenziò i funzionari più anziani di suo padre, allontanò i suoi vecchi amici. [2] Cercò di attrarre a una vita dissoluta il figlio del generale Salvio Giuliano16, ma senza successo: per vendicarsi tramò insidie contro Giuliano. [3] Tutte le persone più oneste le allontanò o coprendole direttamente di insulti infamanti, o degradandole ad uffici del tutto indegni di loro. [4] Certi commedianti avevano fatto allusione alle sue perversioni sessuali: egli li fece subito deportare così che non si vedessero più in scena. [5] Abbandonò poi la guerra che il padre aveva quasi condotto a conclusione, accettando passivamente le condizioni imposte dal nemico, e fece ritorno a Roma17. [6] Là giunto, celebrò il trionfo facendo prendere posto dietro di sé sul carro al suo partner di perversione Saotero, e più volte si rigirava a baciarlo alla vista di tutti. La stessa cosa faceva anche sui banchi del teatro. [7] E se fino a giorno fatto si ubbriacava e gozzovigliava dissanguando le risorse dell’impero romano, anche durante la sera vagava tra le bettole recandosi nei postriboli. [8] Mandava a governare le province individui che o erano gli stessi complici dei suoi vizi o gli erano stati raccomandati da delinquenti. [9] Venne talmente in odio al senato, che a sua volta divenuto, sentendosi disprezzato, crudele, finì per infierire senza pietà contro quell’illustre ordine. [4, 1] Le scelleratezze della vita di Commodo spinsero Quadrato e Lucilla a ordire una congiura per ucciderlo, non senza la complicità del prefetto del

pretorio Tarrutenio Paterno18. [2] L’incarico di eseguire l’attentato venne affidato ad un parente, Claudio Pompeiano19. [3] Questi, entrato alla presenza di Commodo col pugnale sguainato e avendo l’occasione buona per agire, se ne venne fuori con queste parole: «Il senato ti manda questo pugnale», svelando così stupidamente il complotto e fallendo l’attuazione della congiura, nella quale erano implicate, oltre a lui, molte persone. [4] Dopo di ciò furono messi a morte prima Pompeiano e Quadrato, poi Norbana e Norbano, nonché Paralio; la madre di questo e Lucilla vennero mandate in esilio. [5] Allora i prefetti del pretorio, visto che Commodo era venuto tanto in odio al popolo romano a motivo di Saotero, il cui strapotere esso non poteva sopportare, condussero con le buone maniere lo stesso Saotero fuori del Palazzo con la scusa di un rito sacro, e, mentre ritornava nei suoi giardini, lo fecero uccidere dai loro sicari. [6] Commodo ne soffrì più profondamente che per quanto era toccato a lui. [7] Per istigazione di Tigidio20 destituì dalla carica di prefetto col pretesto di farlo senatore21 Paterno, autore di questo assassinio e, a quanto pareva, complice dell’attentato ordito contro di lui, che aveva anche interceduto per limitare i provvedimenti punitivi nei confronti dei congiurati. [8] Dopo pochi giorni lo accusò di complotto dicendo che la figlia di Paterno era stata promessa al figlio di Giuliano22 allo scopo di trasferire il potere a Giuliano stesso. Perciò fece uccidere Paterno, Giuliano e Vitruvio Secondo, un amico strettissimo di Paterno, che era stato segretario della corrispondenza imperiale. [9] Inoltre fu sterminata l’intera famiglia dei Quintili23, perché si diceva che Sesto, figlio di Condiano, era riuscito a salvarsi mettendo in giro la notizia della sua morte, onde poter preparare una rivolta. [10] Furono messi a morte anche Vitrasia Faustina, Velio Rufo e l’ex console Egnazio Capitone. [11] I consoli Emilio Iunco e Atilio Severo furono invece mandati in esilio. La repressione infierì in vario modo contro molte altre persone. [5, 1] Dopo quanto avvenuto Commodo si mostrava difficilmente in pubblico, e non voleva che gli venissero portati messaggi senza che prima se ne fosse occupato Perenne. [2] Perenne, poi, che sapeva tutto del carattere di Commodo, trovò il modo di diventare lui stesso potente. [3] Persuase infatti Commodo a dedicarsi completamente ai suoi divertimenti, mentre lui, Perenne, si assumeva le cure del governo; ciò che Commodo accettò con entusiasmo. [4] Vivendo dunque secondo questo accordo, se la spassava nel Palazzo gozzovigliando tra banchetti e bagni in compagnia di trecento concubine, che aveva radunato scegliendole fra le matrone e le meretrici per la loro bellezza, e di giovanetti pervertiti, anch’essi in numero di trecento, che

aveva raccolto a viva forza o comprandoli, tanto fra il popolo quanto di mezzo alla nobiltà, e avendo quale criterio di scelta l’avvenenza. [5] Di tanto in tanto, in veste di sacerdote, immolava vittime. Si cimentava in duelli in qualità di gladiatore, usando nell’arena dei bastoni, mentre, quando combatteva con gli inservienti di corte, con armi talvolta affilate. [6] Intanto comunque Perenne aveva avocato a sé ogni potere; metteva a morte chi voleva, spogliava dei beni moltissime persone, sovvertiva tutte le leggi, si accaparrava tutto ciò che poteva arraffare24. [7] Dal canto suo Commodo fece uccidere la sorella Lucilla dopo averla confinata a Capri. [8] Poi, dopo aver violentato, a quanto si dice, tutte le altre sorelle, e aver anche avuto rapporti con una cugina del padre, arrivò a dare il nome della madre a una delle sue concubine. [9] Sua moglie25, che aveva sorpreso in adulterio, la cacciò di casa, poi la fece deportare, e infine la fece uccidere. [10] Ordinava che le stesse sue concubine venissero violentate sotto i suoi occhi. [11] Né era esente dall’ignominia di essere stato oggetto di rapporti omosessuali con giovani, e non c’era parte del suo corpo, compresa la bocca, che non fosse stata contaminata da aberrazioni sessuali in rapporto ad entrambi i sessi. [12] In quel periodo venne anche ucciso, apparentemente in un’aggressione di briganti, quel Claudio26 il cui figlio una volta era entrato alla presenza di Commodo armato di pugnale, e furono uccisi senza processo molti altri senatori, e anche donne di ricca famiglia. [13] E numerose persone che abitavano nelle varie province furono messe sotto accusa da Perenne a motivo delle loro ricchezze, e spogliate dei loro beni quando non anche uccise. [14] Quelli poi contro i quali non era possibile l’imputazione di un’accusa inventata, venivano incriminati per non aver voluto nominare Commodo loro erede. [6, 1] Nel frattempo Perenne attribuiva al proprio figlio i successi riportati in Sarmazia da altri generali. [2] Tuttavia questo Perenne, che pure era tanto potente, all’improvviso, poiché nella guerra contro i Britanni aveva affidato il comando dell’esercito a uomini dell’ordine equestre togliendolo ai senatori27, non appena la cosa fu riferita dai legati militari, venne dichiarato nemico pubblico e consegnato ai soldati perché lo facessero a pezzi28. [3] A sostituirlo in quel ruolo di preminenza Commodo chiamò uno dei suoi ciambellani, Cleandro29. [4] Dopo l’uccisione di Perenne e di suo figlio, abrogò molti provvedimenti, come se fossero stati disposti a sua insaputa, dandosi l’aria di ristabilire l’antico ordine di cose. [5] Ma non riuscì a conservare per più di trenta giorni questa resipiscenza delle sue malefatte, operando, attraverso Cleandro, in modo ancor peggiore di quanto non aveva fatto tramite il

suddetto Perenne. [6] E come Cleandro era successo a Perenne nella sua posizione di influenza, così nella prefettura del pretorio lo sostituì Nigro30, che si narra sia rimasto in carica solo per sei ore; [7] infatti i prefetti del pretorio venivano cambiati di giorno in giorno e di ora in ora, mentre Commodo si comportava in tutto peggio di quanto non avesse fatto in precedenza; [8] così Marcio Quarto fu prefetto del pretorio per cinque giorni. I successori dei suddetti furono mantenuti in carica o uccisi ad arbitrio di Cleandro; [9] a sua discrezione persino dei liberti venivano ammessi al rango senatorio o patrizio, e allora per la prima volta si ebbero venticinque consoli in un solo anno e il governo di tutte province fu offerto in vendita. [10] Cleandro per denaro concedeva ogni cosa: faceva ritornare gli esiliati e conferiva loro cariche onorifiche, annullava i verdetti giudiziari. [11] A tanto, per causa della stoltezza di Commodo, si estese il suo arbitrio, che poté accusare come sospetto di tramare un’usurpazione e mettere a morte Burro31, cognato di Commodo, che lo rimproverava e riferiva a Commodo quanto accadeva, uccidendo parimente molti altri, che avevano preso le difese di Burro. [12] Tra essi fu ucciso anche il prefetto Ebuziano, che venne sostituito nella carica dallo stesso Cleandro assieme ad altri due individui, sempre scelti da lui. [13] Allora per la prima volta si ebbero tre prefetti del pretorio, fra i quali un liberto32 chiamato «il prefetto del pugnale». [7, 1] Ma anche Cleandro ebbe a subire una buona volta la fine che meritava. Infatti, dopo che, attraverso i suoi intrighi, era stato messo a morte sotto false accuse Arrio Antonino – per compiacere Attalo, a cui quello, durante il suo proconsolato in Asia, aveva inflitto una condanna –, e Commodo non fu più in grado di far fronte all’ondata d’odio scatenatasi nella popolazione infuriata, fu abbandonato al linciaggio della folla, [2] mentre anche Apolausto e altri liberti di corte vennero egualmente trucidati. [3] Cleandro, tra l’altro, aveva anche abusato delle concubine di Commodo, dalle quali aveva avuto dei figli, che dopo la sua morte furono uccisi assieme alle loro madri. [4] Al suo posto subentrarono Giuliano e Regillo, essi pure da Commodo successivamente fatti morire. [5] Eliminati questi, mise a morte Servilio e Dulio, della famiglia dei Silani, assieme ai loro congiunti, e poi Anzio Lupo, i Petronii Mamertino e Sura, il figlio di Mamertino Antonino, nato da una sua sorella, [6] e, dopo questi, sei ex consoli in una sola volta, Allio Fusco, Celio Felice, Lucceio Torquato, Larcio Eurupiano, Valerio Bassiano e Pattumeio Magno insieme con i suoi parenti, [7] mentre in Asia il proconsole Sulpicio Crasso, Giulio Proculo assieme ai suoi parenti, e l’ex

console Claudio Lucano, e in Acaia la cugina di suo padre Annia Faustina, e innumerevoli altre persone33. [8] Aveva anche progettato di uccidere altre quattordici persone, giacché le rendite dell’impero romano non bastavano a coprire le sue spese. [8, 1] In questo frattempo Commodo ricevette dal senato, con atto di scherno, l’appellativo di Pio, per aver designato console l’amante della madre34; quando uccise Perenne, ebbe quello di Felice35, quale in certo senso – fra le innumerevoli stragi perpetrate contro tanti cittadini – un nuovo Silla. [2] Sempre Commodo, lui il Pio, il Felice, si dice abbia persino simulato una congiura contro se stesso, per aver il pretesto di mettere a morte molte persone. [3] Ma in realtà non vi fu alcun’altra ribellione se non quella di Alessandro36, che successivamente si tolse la vita assieme ai suoi, e quella della sorella Lucilla; [4] Commodo ebbe dagli adulatori anche l’appellativo di Britannico, dopo che i Britanni avevano persino voluto eleggere, ribellandosi a lui, un altro imperatore. [5] Ebbe anche il titolo di Ercole romano37, per aver ucciso delle fiere nell’anfiteatro a Lanuvio; aveva infatti anche quest’abitudine, di uccidere belve in patria. [6] Ebbe inoltre la stravaganza di volere che la città di Roma fosse chiamata «Colonia Commodiana»38; questa idea pazza si dice gli sia spuntata tra una carezza e l’altra di Marcia39. [7] Volle anche guidare le quadrighe nel Circo. [8] Si presentava in pubblico indossando la tunica dalmatica40, e dava, così vestito, il segnale di lasciar uscire le quadrighe. [9] Quando annunciò al senato la sua intenzione di rendere Roma «Commodiana», questo non solo l’accolse favorevolmente – per farsi beffe di lui, s’intende –, ma addirittura assunse esso stesso l’appellativo di «Commodiano», conferendo a Commodo quello di Ercole e dio. [9, 1] Finse di voler intraprendere anche un viaggio in Africa, per spillare i soldi per il viaggio, e ottenutili, li spese invece in banchetti e a giocare a dadi. [2] Uccise il prefetto del pretorio Motileno, avvelenandolo con dei fichi. Ebbe delle statue in veste di Ercole, e come a un dio gli furono offerti sacrifici41. [3] Aveva inoltre progettato di uccidere molte persone. Ma il suo piano fu svelato da un fanciullo, che gettò giù dalla sua camera da letto una tavoletta sulla quale stavano scritti i nomi delle vittime destinate42. [4] Praticò i culti misterici di Iside43, radendosi il capo e portando con sé l’immagine di Anubi44. [5] Nella sua smania di crudeltà obbligava i devoti di Bellona45 a tagliarsi veramente un braccio. [6] I sacerdoti di Iside, poi, li costringeva a battersi a sangue il petto con le pigne. Quando portava l’immagine di Anubi, colpiva

violentemente con il volto della statua la testa dei sacerdoti di Iside. Con la clava invece colpiva, vestito da donna e coperto di una pelle leonina46, non solo i leoni, ma anche molte persone. Prendeva individui zoppi, o che non erano in grado di camminare, camuffandoli da giganti, e ricoprendoli dalle ginocchia in giù di coperte e drappi per farli assomigliare a dei draghi, per poi ucciderli a colpi di freccia. Contaminò con un omicidio vero il culto di Mitra47, nel quale di solito ci si limita a descrivere o simulare qualche scena che incuta timore. [10, 1] Fin da fanciullo fu goloso e impudico. Nella sua giovinezza ebbe a disonorare ogni genere di uomini che avevano a che fare con lui, e fu da essi a sua volta disonorato. [2] Quanti lo deridevano, li dava in pasto alle belve. In quei momenti ordinò di gettare alle fiere anche uno che aveva letto il libro di Tranquillo48 contenente la vita di Caligola49, solo perché il proprio giorno di nascita coincideva con quello di Caligola50. [3] Se uno diceva di essere disposto a morire per lui, lo faceva gettar giù da una rupe, nonostante le sue disperate proteste. [4] Anche negli scherzi era esiziale. Per esempio, a qualcuno cui aveva notato dei capelli bianchi in mezzo a quelli neri, che davano quasi l’impressione di piccoli vermi, poneva sulla testa uno storno, così che questo credesse di dare la caccia a dei vermi, facendogli in tal modo venire delle piaghe sul capo per via delle beccate. [5] Fece squarciare a mezzo la pancia a un grassone, perché ne uscissero fuori in un momento tutte le budella. [6] Chiamava «monopodi» e «loschi» coloro ai quali aveva cavato un occhio o spezzato un piede. [7] Inoltre mise a morte qua e là molte altre persone, quali perché si erano presentate a lui vestite alla maniera dei barbari, e quali per il loro abbigliamento troppo vistoso da persone nobili. [8] Aveva tra i suoi oggetti di piacere degli uomini chiamati col nome delle pudende di entrambi i sessi, ai quali profondeva i suoi baci con particolare trasporto. [9] Teneva anche con sé un uomo dal pene prominente oltre misure animalesche, cui aveva dato il nome di Onos51, e che gli era quanto mai caro. Infatti lo arricchì e lo prepose al sacerdozio di Ercole Rustico. [11, 1] Si dice che spesso mischiasse a cibi pregiatissimi dello sterco umano, e che non avesse ritegno neppure ad assaggiarli, pensando con ciò di farsi beffe degli altri. [2] Si fece servire su di un vassoio d’argento due gobbi contorti dopo averli fatti cospargere di senape, dopo di che seduta stante li promosse a qualche carica e li colmò di ricchezze. [3] Gettò in una piscina il suo prefetto del pretorio Giuliano con la toga addosso, alla presenza dei suoi subalterni. E gli ordinò anche di danzare nudo davanti alle sue concubine,

suonando il cembalo e con la faccia imbrattata da vari tipi di legumi cotti. [4] Dato il suo modo di vivere continuamente immerso in voluttuose mollezze, era raro che invitasse a pranzo. [5] Si lavava sette o otto volte al giorno, pranzando nei bagni stessi. [6] Accedeva ai templi degli dèi contaminato da stupri e assassinii. [7] Si divertiva a scimmiottare anche i medici, cavando sangue alle persone con ferri micidiali. [8] I suoi adulatori in suo onore cambiavano anche il nome ai mesi: «Commodo» invece di Agosto, «Ercole» invece di Settembre, «Invitto» invece di Ottobre, «Vittorioso» invece di Novembre, «Amazzonio» invece di Dicembre52, dai suoi vari soprannomi. [9] Quello di Amazzonio gli era stato affibbiato a motivo della sua passione per la concubina Marcia, che gli piaceva veder ritratta come un’Amazzone, per amore della quale volle egli stesso scendere nell’arena di Roma vestito in quel modo. [10] Partecipò anche a combattimenti di gladiatori, e accettava di ricevere nomi di gladiatori con tale gioia quasi gli avessero conferito titoli trionfali. [11] Interveniva sempre agli spettacoli, e ogni sua partecipazione voleva fosse iscritta nei registri ufficiali. [12] Si dice che abbia preso parte a settecentotrentacinque combattimenti. [13] Ricevette l’appellativo di Cesare il 12 del mese di ottobre, chiamato poi da lui «Ercole», sotto il consolato di Pudente e Pollione53. [14] Il 15 dello stesso mese, sotto il consolato di Massimo e Orfito54, ebbe il titolo di Germanico. [12, 1] Fu ammesso quale sacerdote a far parte di tutti i collegi religiosi il 20 di gennaio55, sotto il consolato di Pisone e Giuliano56. [2] Partì alla volta della Germania il 19 maggio57. [3] Nel medesimo anno assunse la toga virile. [4] Fu proclamato imperatore insieme col padre il 27 novembre, sotto il secondo consolato di Pollione e Apro58. [5] Celebrò il trionfo il 23 dicembre dello stesso anno. [6] Partì nuovamente il 3 agosto sotto il consolato di Orfito e Rufo59. [7] Il 22 ottobre60 dell’anno del secondo consolato di Presente61, fu ufficialmente affidato alla protezione perpetua dell’esercito e del senato nel palazzo Palatino, diventato poi Commodiano. [8] Faceva già progetti per un terzo viaggio, ma ne fu trattenuto dal senato e dal popolo. [9] I voti solenni per la sua salute furono celebrati il 5 aprile, sotto il secondo consolato di Fusciano62. [10] Nel frattempo riferiscono che combatté trecentosessantacinque volte durante il regno di suo padre, [11] e successivamente allo stesso modo ottenne tante vittorie gladiatorie sia sconfiggendo sia uccidendo i reziari63, da arrivare a toccare le mille. [12]

Uccise di sua mano molte migliaia di fiere di diverse razze – tra cui abbatté anche degli elefanti. E queste imprese le compiva spesso davanti agli occhi del popolo romano. [13, 1] Ma se in questo campo fu davvero valente, per il resto era debole e malaticcio, anche per via di un’ernia inguinale sviluppata al punto che la gente poteva riconoscerne il gonfiore attraverso le vesti di seta. [2] A tale proposito furono scritti molti versi, che Mario Massimo si vanta di riportare anche nella sua opera. [3] Tale era la forza di cui disponeva quando doveva abbattere le bestie feroci, che trafiggeva un elefante con una picca, e una volta trapassò con un’asta il corno di una gazzella; era poi in grado di uccidere molte migliaia di grosse fiere con un sol colpo ciascuna. [4] Era così spudorato che assai spesso, mentre sedeva al circo o a teatro, beveva in pubblico vestito da donna. [5] Tuttavia, nonostante questo fosse il suo tenore di vita, durante il suo impero furono vinti, grazie all’azione dei suoi comandanti, i Mauri e i Daci, e vennero pacificate la Pannonia e la Britannia, mentre in Germania e in Dacia i provinciali si sollevavano contro il suo potere; [6] ma tutti questi moti furono sedati dai suoi generali64. [7] Commodo era pigro e svogliato anche per sottoscrivere i documenti, tanto che rispondeva a molte petizioni con un’unica medesima formula, e in moltissime lettere scriveva soltanto «Vale»65. [8] Tutti gli affari erano trattati da altri personaggi, che si dice riuscissero a volgere a vantaggio della loro borsa persino le condanne. [14, 1] A causa di questa sua trascuratezza, poiché coloro che gestivano allora l’amministrazione dello Stato rubavano persino sui rifornimenti annonari, ebbe anche a scoppiare a Roma una grave carestia, benché non ci fosse deficienza di prodotti. [2] In seguito questi individui che facevano razzia di ogni cosa Commodo li mise a morte e ne fece proscrivere i beni. [3] Ma egli a sua volta, volendo far apparire che era tornata un’età dell’oro chiamata «Commodiana», impose un abbassamento dei prezzi, con cui finì per rendere più grave la carestia. [4] Sotto di lui molti poterono ottenere a prezzo la condanna altrui e la propria salvezza. [5] Vendeva anche la commutazione delle pene, la concessione della sepoltura, l’alleggerimento dei supplizi, e accettava di mettere a morte gli uni per gli altri. [6] Vendeva anche le province e le amministrazioni, e il ricavato andava parte a quelli che avevano combinato la vendita, parte allo stesso Commodo. [7] Vendette a molti anche la messa a morte dei loro nemici. Sotto di lui i liberti misero in vendita persino gli esiti

dei processi. [8] Non sopportò a lungo i prefetti Paterno e Perenne, e del resto anche di quelli che aveva creato lui stesso, nessuno riusciva a concludere un triennio, in quanto la maggior parte di essi li uccise di veleno o di spada. Con la stessa facilità mutava anche i prefetti dell’urbe. [15, 1] Uccideva senza scrupolo i suoi inservienti, anche se era stato sempre loro succube. [2] Uno di loro, Ecletto66, vedendo che egli con tanta facilità metteva a morte i suoi cortigiani, lo prevenne e prese parte alla congiura che ordì la sua uccisione. [3] Quando era ad assistere a spettacoli gladiatori, a un certo punto prendeva lui stesso le armi, coprendosi le spalle nude con un drappo di porpora. [4] Aveva inoltre l’abitudine di far registrare negli Atti dell’Urbe67 tutti i suoi atti di turpitudine, di dissolutezza, di crudeltà, e le sue imprese di gladiatore e ruffiano, come risulta dagli scritti di Mario Massimo. [5] Chiamò Commodiano anche il popolo romano, in presenza del quale aveva sostenuto innumerevoli combattimenti gladiatori. [6] Una volta che il popolo, durante una delle sue frequenti esibizioni, gli aveva tributato consensi degni di un dio, credendosi beffeggiato, aveva dato ordine ai marinai addetti alle vele di fare nell’anfiteatro una strage fra il popolo romano. [7] Aveva comandato di incendiare la città68, come se fosse stata una colonia di sua proprietà; ciò che sarebbe avvenuto, se il prefetto del pretorio Leto non lo avesse dissuaso. [8] Tra gli altri appellativi trionfali ricevette anche per seicentoventi volte quello di «Capo degli Inseguitori»69. [16, 1] Nel corso del suo impero si verificarono in forme pubbliche o ristretti alla conoscenza di privati cittadini questi prodigi70: apparve una stella cometa. [2] Apparvero nel foro orme di divinità rivolte verso l’uscita. E prima che scoppiasse la guerra dei disertori71 il cielo parve incendiarsi. Nel circo, il primo di gennaio, si alzò d’improvviso una tenebrosa caligine. E prima dell’alba erano comparsi anche uccelli incendiari72 e di cattivo augurio. [3] Egli stesso si trasferì dal Palazzo nella villa Vettiliana73 sul Celio, dicendo che lì non riusciva a dormire. [4] Il templo di Giano bifronte si aprì74 da solo, e la statua di marmo di Anubi fu vista muoversi. [5] La statua di bronzo di Ercole nel portico di Minucio75 per vari giorni stillò sudore76. Inoltre sopra la sua stanza da letto, tanto a Roma che a Lanuvio, fu osservato un gufo. [6] Egli stesso si era attirato a sua volta un presagio non indifferente: messa infatti la mano nella ferita di un gladiatore ucciso, se l’era pulita nei capelli; inoltre, contro la consuetudine, diede ordine che gli spettatori si recassero ad assistere ai giochi gladiatori non in toga, ma col mantello77, come era d’uso nei

funerali, ed egli stesso vi presiedeva vestito di scuro78. [7] Il suo elmo rotolò via per due volte attraverso la porta Libitina79. [8] Elargì al popolo un donativo di settecentoventicinque denari a persona. In tutte le altre occasioni si mostrò invece quanto mai avaro, poiché le spese per la sua vita dissipata assottigliavano l’erario. [9] Aggiunse a quelli già esistenti molti giochi nel circo per proprio capriccio più che per spirito religioso, e allo scopo di procurare lauti guadagni ai capi delle fazioni in gara. [17, 1] Sotto la spinta di questo stato di cose – sebbene troppo tardi – il prefetto Quinto Emilio Leto e la sua concubina Marcia ordirono una congiura per assassinarlo. [2] E in un primo tempo gli somministrarono del veleno: ma poiché questo non si mostrava efficace, lo fecero strangolare da un atleta con il quale era solito allenarsi80. [3] Era fisicamente ben proporzionato, ma con il volto ebete tipico degli avvinazzati; il suo parlare era grossolano; i capelli sempre lisciati e lumeggiati di polvere d’oro; per timore del barbiere regolava capelli e barba bruciandoseli. [4] Il senato e il popolo chiesero che il suo cadavere fosse trascinato con un uncino e precipitato nel Tevere81, ma poi per ordine di Pertinace fu invece sepolto nella tomba di Adriano. [5] Delle sue opere pubbliche, ad eccezione delle terme82 che Cleandro aveva costruito in suo nome, non ne resta alcuna. [6] Ma il senato ebbe a far cancellare il suo nome che egli aveva fatto incidere su opere non sue. [7] Non portò neppure a compimento le opere iniziate dal padre. Istituì una flotta africana che provvedesse ai rifornimenti nel caso che i vettovagliamenti provenienti da Alessandria fossero venuti a mancare. [8] Giunse al ridicolo di chiamare Cartagine Alessandria Commodiana Togata, dopo aver dato anche alla flotta d’Africa il nome di Commodiana Erculea. [9] Aggiunse al Colosso alcuni ornamenti83, che in seguito furono tutti quanti tolti. [10] Tolse ad esempio il capo del Colosso, che raffigurava Nerone, e vi pose sopra una sua testa, facendo poi incidere alla base un’iscrizione secondo il suo solito stile, dove non mancavano i titoli quale gladiatore ed effeminato, [11] Nonostante tutto, un individuo di questo genere fu divinizzato84 da un imperatore pur serio e uomo degno del suo nome quale Severo, per odio – a quanto sembra – nei confronti del senato; questi gli decretò anche un flamine, quello «Erculaneo Commodiano», che egli stesso si era scelto quand’era ancor vivo. [12] Lasciò tre sorelle85. Severo dispose la celebrazione del suo natalizio.

[18, 1] Le acclamazioni del senato dopo la morte di Commodo furono di tenore assai aspro. [2] Perché fosse possibile avere un’idea di quale fu il giudizio del senato nei confronti di Commodo, ho qui inserito le acclamazioni stesse, ricavandole da Mario Massimo, nonché il succo del decreto senatorio86: [3] «Al nemico della patria siano tolti gli onori, al parricida siano tolti gli onori, il parricida sia trascinato via. Il nemico della patria, il parricida, il gladiatore sia fatto a pezzi nello spogliatoio87. [4] Nemico degli dèi, carnefice del senato, nemico degli dèi, assassino del senato: nemico degli dèi, nemico del senato. Il gladiatore allo spogliatoio. [5] Colui che ha ucciso il senato, sia gettato nello spogliatoio: colui che ha ucciso il senato sia trascinato con l’uncino: colui che ha ucciso degli innocenti, sia trascinato con l’uncino: nemico e parricida, sì, sì! Colui che non ha risparmiato neppure i parenti di sangue, sia trascinato con l’uncino. [6] Colui che fu sul punto di ucciderti88, sia trascinato con l’uncino. [7] Hai temuto con noi, sei stato in pericolo con noi. Perché possiamo essere salvi, Giove Ottimo Massimo, salvaci Pertinace. [8] Viva la fedeltà dei pretoriani! Viva le coorti pretorie! Viva gli eserciti romani! [9] Viva la rettitudine del senato! [10] Il parricida sia trascinato. Ti preghiamo, Augusto, il parricida sia trascinato. Questo chiediamo, il parricida sia trascinato. Esaudiscici, Cesare: i delatori in pasto ai leoni! Esaudiscici, Cesare: Sperato89 in pasto ai leoni! [11] Viva la vittoria del popolo romano! Viva la fedeltà dei soldati! Viva la fedeltà dei pretoriani! Viva le coorti pretorie! [12] Dovunque statue del nemico pubblico, dovunque statue del parricida, dovunque statue del gladiatore! Le statue del gladiatore e del parricida vengano abbattute. L’uccisore dei suoi concittadini sia trascinato, l’assassino dei suoi concittadini sia trascinato. [13] Le statue del gladiatore siano abbattute. [14] Salvo te, siamo salvi e sicuri noi pure, sì, sì, ora sì, ora in modo degno, ora sì, ora da uomini liberi! [15] Ora siamo tranquilli: ai delatori il terrore! Affinché noi siamo tranquilli, terrore per i delatori! Affinché siamo salvi, via i delatori dal senato, il bastone per i delatori! Salvo te, i delatori in pasto ai leoni! [16] Con te imperatore, il bastone per i delatori! [19, 1] Del gladiatore parricida sia cancellato il ricordo, del gladiatore parricida siano abbattute le statue. Del sozzo gladiatore sia cancellato il ricordo. Il gladiatore allo spogliatoio! Esaudiscici, Cesare: il carnefice sia trascinato con l’uncino. [2] Il carnefice del senato sia trascinato con l’uncino secondo l’uso dei padri. Più crudele di Domiziano, più turpe di Nerone. Così ha agito, così venga trattato. La memoria degli innocenti sia onorata. Restituisci gli onori agli innocenti, te ne preghiamo. [3] Il cadavere del

parricida sia trascinato con l’uncino, il cadavere del gladiatore sia trascinato con l’uncino, il cadavere del gladiatore sia gettato nello spogliatoio. Interrogaci, interrogaci, tutti proponiamo che sia trascinato con l’uncino. [4] Colui che ha ucciso tutti, sia trascinato con l’uncino. Colui che ha ucciso gente di ogni età, sia trascinato con l’uncino. Colui che ha ucciso senza distinzione di sesso, sia trascinato con l’uncino. Colui che non ha risparmiato neppure il suo sangue, sia trascinato con l’uncino. Colui che ha spogliato i templi, sia trascinato con l’uncino. [5] Colui che ha annullato i testamenti, sia trascinato con l’uncino. Colui che ha spogliato i vivi, sia trascinato con l’uncino. Siamo stati schiavi dei suoi schiavi. [6] Colui che si è fatto pagare per concedere la vita, sia trascinato con l’uncino. Colui che si è fatto pagare per concedere la vita e non ha mantenuto la parola, sia trascinato con l’uncino. Colui che ha venduto il senato, sia trascinato con l’uncino. Colui che ha sottratto ai figli l’eredità, sia trascinato con l’uncino. [7] Via dal senato le spie! Via dal senato i delatori! Via dal senato i corruttori di schiavi! [8] Anche tu hai avuto paura assieme a noi, sai tutto, conosci i buoni e i malvagi. Tu sai tutto, rimedia tu a tutto; noi abbiamo temuto per te. Felici noi, ora che ti abbiamo visto sul trono! Esponi, esponi i capi d’accusa contro il parricida, interroga ad uno ad uno. Chiediamo la tua presenza. [9] Gli innocenti sono rimasti insepolti: il cadavere del parricida sia trascinato con l’uncino. Il parricida ha disseppellito i morti: il cadavere del parricida sia trascinato». [20, 1] Ma per ordine di Pertinace Livio Larense90, procuratore del patrimonio91, affidò il cadavere di Commodo al console designato Fabio Chilone92, ed esso fu seppellito durante la notte. [2] Si levarono proteste da parte del senato: «Chi ha dato l’ordine di seppellirlo? [3] Il parricida sepolto venga dissotterrato e trascinato!». Cingio Severo disse: «È stato indebitamente seppellito. Come lo dico io quale pontefice, così lo dice tutto il collegio dei pontefici. [4] E poiché ho già esaminato le note liete, passerò ora alle misure da prendere: io giudico che tutto ciò, che colui che non è vissuto che per la rovina dei cittadini e la propria degradazione costrinse a decretare in suo onore, debba essere fatto sparire. [5] Le statue, che sono dappertutto, devono essere abbattute, e il suo nome deve essere cancellato da tutti gli edifici pubblici e privati, e i mesi debbono essere chiamati coi nomi con cui erano chiamati allorché primamente quella calamità piombò sullo Stato».

1. V. M. Ant., 1, 1–4. 2. Nel 161 d. C. Per un’ampia ricostruzione del regno e dei tempi di Commodo si veda F. GROSSO, La lotta politica al tempo di Commodo, Torino 1964. 3. La forma corretta del nome sembra essere Aius, come risulta da un’iscrizione romana pubblicata da L. MORETTI in «Riv. filol. class.», XXXVIII, 1960, p. 69. 4. L’odierna Civitavecchia. 5. M. Annio Vero, morto nel 169 d. C. (cfr. M. Ant., 21, 3). 6. I più importanti collegi sacerdotali romani erano quelli dei pontefici, degli auguri, dei quindecemviri e degli epuloni. Vi erano poi le confraternite legate al culto degli imperatori divinizzati e i collegi dei Tizi e dei Feziali. A tutti questi appartenevano di diritto gli imperatori e i membri della loro famiglia associati al potere. 7. Questo titolo, non collegato in sé a prerogative o impegni di carattere politico, veniva conferito a tutti i discendenti dell’imperatore al momento dell’assunzione della toga virile e della loro entrata nell’ordine equestre. In collegamento a ciò vari editori, seguendo il Lipsius, emendano il corrotto tressolos presente subito prima nei codici in trossulos (trossuli erano detti in antico i cavalieri romani; il termine era da lunghissimo tempo in disuso); ma cfr. TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, II, 2, Leipzig, 18873= Graz, 1969, p. 827, n. 4. 8. Oltre che dei più alti magistrati, la pretesta era propria dei giovinetti sino ai sedici-diciassette anni. 9. Era situata nella zona nord-ovest del Foro di Traiano. 10. Abbiamo qui il riferimento alla primitiva leggendaria versione della morte di Romolo. Per la versione «razionalizzata», pur essa presente nella HA, cfr. Maxim., 18, 2. Sull’argomento v. H. SZELEST, Die HA und die frühere Römische Geschichte, «Eos», LXV, 1977, p. 144. 11. 175 d. C. 12. Cfr. M. Ant., 22, 12, n. 6. 13. Nel 176 d. C. 14. In realtà sembra si debba distinguere il vero e proprio trionfo di Commodo, celebrato il 23 dicembre (cfr. 12, 5), da quello di Marco Aurelio, che dovette svolgersi qualche settimana prima. 15. Nell’agosto del 178 d. C. 16. P. Salvio Giuliano, console nel 175 d. C. 17. Nell’ottobre del 180 d. C. Secondo ERODIANO (I, 6), Commodo condusse la guerra senza tenere in alcun conto i consigli degli amici del padre. In ogni caso i termini della pace non dovevano essere realmente disdicevoli per Roma (cfr. CASSIO DIONE, LXXII, 2–3). 18. Probabilmente la congiura ebbe luogo alla fine del 182 d. C. Su di essa si veda H. G. PFLAUM, La valeur de l’information historique de la Vita Commodi à la lumière des personnages nommément cités par le biographe, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 203 segg., a parere del quale il Quadrato qui nominato sarebbe il nipote adottivo – non il figlio, come a lungo si è ritenuto – della sorella minore di Marco Aurelio. 19. Si tratta probabilmente di un nipote del secondo marito di Lucilla, di nome Claudio Pompeiano Quintiano (costui sarebbe stato amante della stessa Lucilla: cfr. CASSIO DIONE, LXXII, 4, 4). 20. Sesto Tigidio Perenne, che ricopriva allora la prefettura assieme a Paterno. 21. Il lati clavi honor era il privilegio, proprio dei senatori, di portare all’orlo della tunica una striscia di porpora larga. 22. Cfr. 3, 1. 23. I due fratelli Sesto Quintilio Condiano e Sesto Quintilio Valerio Massimo (cfr. CASSIO DIONE, LXXII, 5, 3–4). Il Sesto subito dopo citato sarebbe – sempre secondo Dione – figlio del secondo (LXXII, 6).

24. Cfr. ERODIANO, I, 8. 25. Bruzzia Crispina, figlia di Bruzzio Presente: cfr. M. Ant., 27, 8. 26. Si trattava probabilmente di un fratello di Ti. Claudio Pompeiano, marito di Lucilla. Cfr. 4, 2 n. 4 e PFLAUM, La valeur, cit., p. 209. 27. Un’innovazione che si diffuse sempre più nel corso del III secolo d. C., sinché, sotto Gallieno, i senatori vennero definitivamente allontanati dai comandi militari. 28. Secondo la versione di ERODIANO (I, 9), la rovina di Perenne sarebbe stata conseguenza diretta di una congiura ordita dal figlio per rovesciare Commodo. La sua morte avvenne nel 185 d. C. 29. Originario della Frigia e portato a Roma come schiavo, una volta ottenuta la libertà seppe introdursi a Palazzo, finendo per divenire uno dei personaggi di primo piano alla corte di Commodo. 30. Probabilmente solo un omonimo del futuro imperatore. 31. L. Antistio Burro; egli in realtà, assieme al successivamente citato Arrio Antonino (cfr. 7, 1), sarebbe stato accusato di questo reato da Pertinace: cfr. Pert., 3, 7. 32. Cleandro. Il pugnale era il segno distintivo del comando militare conferito dall’imperatore al prefetto del pretorio. 33. Della lunga schiera di personaggi qui ricordati sono a noi noti M. Servilio Silano, console nel 188 d. C., Anzio Lupo, di cui conosciamo l’iscrizione funeraria, i fratelli M. Petronio Sura Mamertino e M. Petronio Sura Settimiano, consoli rispettivamente nel 182 e 190 d. C., Pattumeio Magno, console nel 183 d. C., Annia Fundania Faustina, figlia dello zio di Marco Aurelio M. Annio Libone. 34. Forse L. Tutilio Ponziano Genziano (cfr. M. Ant., 29, 1). 35. Commodo fu il primo imperatore a portare gli appellativi di Pius e Felix (su di essi cfr. Op. Macr., 7, 2). Il successivo riferimento a Silla è legato al fatto che anche quest’ultimo, dopo la vittoriosa conclusione della guerra civile, aveva assunto ufficialmente tale nome (82 a. C.). 36. Giulio Alessandro, di Emesa in Siria; cfr. CASSIO DIONE, LXXII, 14, 1–3. 37. Cfr. CASSIO DIONE, LXXII, 15, 5. 38. La denominazione Col(onia) L(ucia) An(toniniana) Com(modiana) appare su monete del 190 d. C. Cfr. anche CASSIO DIONE, LXXII, 15, 2. 39. La sua concubina, che successivamente congiurò contro di lui (cfr. 17, 1). 40. La dalmatica era una larga tunica bianca dalle lunghe maniche, che giungeva sino alle ginocchia. Cfr. F. KOLB, Kleidungsstücke in der HA. Textkonjekturen und -emendationen zu AS 33, 4. 41, 1. A 45, 5 (mit einem Exkurs über die dalmatica), in BHAC, 1972–74, Bonn, 1976, pp. 157 segg. 41. In effetti possediamo un busto marmoreo raffigurante Commodo come Ercole, con clava e pelle di leone (cfr. M. WEGNER, Die Herrscherbildnisse in antoninischer Zeit, Berlin, 1939, pp. 73, 265 seg.). Propenso a considerare come finito qui fuori posto (da altro punto della biografìa) l’inciso in questione è R. J. PENNELLA, S.H.A., Commodus 9, 2–3, «Am. Journ. Phil.», XCVII, 1976, p. 39. 42. CASSIO DIONE racconta la medesima storia in riferimento a Domiziano (LXVII, 15, 3), sicché è ragionevole pensare che la HA – così come ERODIANO, nella corrispondente versione da lui data a I, 17, 1–5 e II, 1, 10-abbiano operato una trasposizione a Commodo di tale episodio; cfr. in proposito F. KOLB, Literarische Beziehungen zwischen Cassius Dio, Herodian und der HA, Bonn, 1972, pp. 38 segg. 43. Divinità egiziana, identificata come la Natura che genera e nutre ogni cosa: era moglie di Osiride e madre di Oro. 44. La divinità principale degli Egizi, effigiata come un uomo con la testa di sciacallo oppure, presso i Greci e i Romani, con la testa di cane. Il suo culto era spesso collegato e mescolato con quello di Iside. 45. Dea della guerra e compagna di Marte; il suo culto fu introdotto in Roma ai tempi di Silla, ed era caratterizzato da musiche e danze orgiastiche, nel corso delle quali gli adepti si tagliuzzavano le braccia e il corpo. 46. Come appunto veniva raffigurato Ercole (cfr. n. 1). 47. Culto di origine persiana che si diffuse anche a Roma e in tutto l’impero in epoca imperiale

(soprattutto a partire dal II secolo d. C.), allorché tale divinità fu identificata col Sole. 48. Tranquillo Svetonio. 49. Sui tratti «caligoliani» della rappresentazione di Commodo nella HA cfr. G. PORTA, Un Caligola dell’HA, Commodo, «At. e Roma», XX, 1975, pp. 165 segg. 50. Il 31 agosto; cfr. 1, 2 e SVETONIO, Cal., 8, 1. 51. In greco = «asino» (animale considerato particolarmente «dotato» nel membro sessuale). 52. La lista completa dei nuovi nomi dati da Commodo ai mesi è offerta da CASSIO DIONE, LXXII, 15, 3, peraltro con alcune discrepanze rispetto a quella presentata qui dal biografo (cfr. note 4, 6, 9). 53. Nel 166 d. C. 54. Nel 172 d. C. 55. Invictus, a differenza di quanto affermato a 11, 8, ma in accordo con quanto indicato da CASSIO DIONE (cfr. n. 1), corrisponde qui a febbraio. 56. Nel 175 d. C. 57. Aelius, secondo la lista offerta da CASSIO DIONE (cfr. n. 1), corrispondeva a giugno. 58. Nel 176 d. C. 59. Nel 178 d. C. 60. Romanus, secondo la lista offerta da CASSIO DIONE (cfr. n. 1), corrispondeva a novembre. 61. Nel 180 d. C. 62. Nel 188 d. C. A parte l’inserimento dei nomi ‘commodiani’ dei mesi, la serie di notizie che si susseguono da II, 3 a 12, 9 col tono di una registrazione ufficiale risale probabilmente agli Acta Urbis (su cui cfr. 15, 4, n. 2); v. in proposito H. NESSELHAUF, Die Vita Commodi und die Acta Urbis, BHAC 1964–65, Bonn 1966, pp. 127 segg. 63. Gladiatori armati di tridente e rete (quest’ultima per invischiare l’avversario e farlo cadere). 64. Queste campagne dovettero aver luogo nel periodo compreso fra il 182 e il 188 d. C. (cfr. MAGIE, I, pp. 296 segg., note 1–5). 65. La comune formula di saluto (= «sta bene»), posta frequentemente a chiusa delle lettere. 66. Cfr. Ver., 9, 6. 67. Gli Acta Urbis (o: Populi Acta Diurna) costituivano una sorta di gazzetta ufficiale pubblicata a spese dello Stato; l’istituzione di essi risaliva a Cesare (cfr. SVETONIO, Iul., 20): venivano affissi nei luoghi pubblici e contenevano annunci e notizie di vario genere, di carattere pubblico o privato, dei quali il governo intendeva portare a conoscenza il popolo. Cfr. su questo passo H. NESSELHAUF, Die Vita Commodi und die Acta Urbis, cit., p. 134. 68. Si allude qui forse ad un incendio che nel 192 d. C. devastò il quartiere ad occidente del Foro e una parte del Palatino: di esso ci parlano sia ERODIANO (I, 14, 2–6) sia CASSIO DIONE (LXXII, 24), quest’ultimo però negando ogni responsabilità di Commodo in merito a tale evento. 69. Primus palus è analogico di primus pilus, il primo centurione di una legione: qui è il primo dei gladiatori detti secutores (quelli di norma opposti ai reziari – che, appunto, inseguivano –, e armati con spada, scudo ed elmo a visiera). Propriamente il termine palus indicava il bastone di legno con cui si allenavano i gladiatori. 70. Cfr. B. MOUCHOVÁ, Omina, mortis in der HA, in BHAC, 1968–69, Bonn, 1970, pp. 115 segg. 71. Una rivolta scoppiata in Gallia nel 186 d. C. ad opera di militari ribelli, guidati da un certo Materno; fu soffocata da Pescennio Nigro (cfr. Pesc. Nig., 3, 4; ERODIANO, I, 10). Sui dati offerti in merito dalle fonti cfr. G. ALFÖLDI, Bellum desertorum, «Bonn. Jahrb. des Rhein. Landesmus.», CLXXI, 1971, pp. 367 segg. 72. Come risulta da PLINIO, Nat. Hist., X, 36, le opinioni non erano concordi sull’identificazione di questi uccelli di cattivo augurio. 73. Probabilmente sede di una scuola di gladiatori; il sito è incerto.

74. Fin dai tempi antichi le porte del tempio di Giano, posto sul Foro, rimanevano chiuse in tempo di pace, e venivano aperte in tempo di guerra. Giano era il dio italico rappresentato con due facce. 75. Nella regione a ovest del colle Capitolino, probabilmente nei pressi del teatro di Marcello. 76. Su questo e i precedenti due presagi cfr. TH. PEKÁRI, Statuen in der HA, in BHAC, 1968–69, Bonn, 1970, pp. 159 segg. 77. Sulla paenula e la toga cfr. rispettivamente Hadr., 3, 5, n. 13 e 22, 2, n. 2. La paenula era usata a teatro soltanto in occasione della morte di un imperatore (cfr. CASSIO DIONE, LXXII, 21, 3). Cfr. F. KOLB, Die paenula in der HA, in BHAC, 1971, Bonn, 1974, pp. 89 segg. 78. Pullus era il colore bruno, scuro, proprio quindi degli abiti da lutto. 79. Era la porta dell’Anfiteatro attraverso la quale venivano trasportati via i cadaveri dei gladiatori uccisi nell’arena. Era così chiamata dal nome della dea Libitina, la divinità romana preposta ai funerali. 80. Il 31 dicembre del 192 d. C.: la congiura che portò all’uccisione di Commodo è narrata con ampiezza di particolari da CASSIO DIONE (LXXII, 22, 4) ed ERODIANO (I, 16–17). Cfr. F. KOLB, Lit. Beziehungen, cit., pp. 38 segg. 81. Ciò avveniva solitamente per i criminali. 82. L’ubicazione di queste terme ci è ignota. 83. Sul Colosso cfr. Hadr., 19, 12, n. 12. Gli ornamenta cui qui si fa cenno sarebbero la clava e la pelle di leone (i tipici attributi di Ercole), come sappiamo da CASSIO DIONE, LXXII, 22, 3, ove però non si parla della sostituzione del capo della statua, ricordata subito dopo dal biografo; in effetti era stato Adriano (cfr. il passo succitato) a sostituire la testa di Nerone (con quella del Sole). 84. Cfr. Sev., 11, 3; 12, 8. 85. Vibia Aurelia Sabina, Cornificia, Arria Fadilla. 86. Sul valore documentario del senatoconsulto qui riportato cfr. J. M. HEER, Der historische Wert der vita Commodi in der Sammlung der ShA, Leipzig, 1901, pp. 187 segg. 87. Era la parte dell’anfiteatro in cui venivano portati i gladiatori feriti nell’arena, per essere spogliati dell’armatura ed eventualmente ricevere il colpo di grazia. 88. Si intende Pertinace, il successore di Commodo. Di questo presunto attentato – da parte di Commodo – alla vita di Pertinace non siamo altrimenti informati. 89. Probabilmente un delatore. 90. Ricordato come l’ospite nei Deipnosophistae di ATENEO (cfr. PFLAUM, La valeur, cit., p. 233). 91. Carica equestre ducenaria, che comportava la cura del patrimonium costituito dai beni propri della corona, che venivano trasmessi da un imperatore all’altro (questo era perciò distinto dalla res privata, che comprendeva le proprietà di ogni singolo imperatore, e alla quale presiedeva un altro procurator: cfr. Sev., 12, 4). Cfr. H. NESSELHAUF, Patrimonium und res privata des römischen Kaisers, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 73 segg. 92. Cfr. Carac., 3, 2, n. 2.

VIII. 〈HELVIUS〉 PERTINAX IULI CAPITOLINI

ELVIO PERTINACE di GIULIO CAPITOLINO

[1, 1] Publio Helvio Pertinaci pater libertinus Helvius Successus fuit, qui filio nomen ex continuatione lanariae negotiationis, quod pertinaciter1 eam rem gereret, inposuisse fatetur. [2] Natus est Pertinax in Appennino2 in villa matris. Equus pullus ea hora, qua natus est, in tegulas ascendit atque ibi breviter commoratus decidit exspiravit. [3] Hac re motus pater ad Chaldaeum venit. Qui cum illi futura ingentia praedixisset, stipem se perdidisse dixit. [4] Puer litteris elementariis et calculo inbutus, datus etiam Graeco grammatico atque inde Sulpicio Apollinari3, post quem idem Pertinax grammaticen professus est. [5] Sed cum in ea minus quaestus profìceret, per Lollianum Avitum, consularem virum4, patris patronum, ducendi ordinis dignitatem5 petit. [6] Dein praefectus cohortis6 in Syriam profectus, Tito Aurelio7 imperatore a praeside Syriae, quod sine diplomatibus cursum usurpaverat, pedibus ab Antiochia ad legationem suam iter facere coactus est. [2, 1] Bello Parthico8 industria sua promeritus in Brittaniam translatus est ac retentus. Post in Moesia rexit alam9. [2] Deinde alimentis10 dividendis in via Aemilia procuravit. Inde classem Germanicam11 rexit. [3] Mater eum usque in Germaniam prosecuta est ibique obiit; cuius etiam sepulchrum stare nunc dicitur. [4] Inde ad ducenum sestertiorum stipendium12 translatus in Daciam suspectusque a Marco quorundam impar artibus remotus est et postea per Claudium Pompeianum, generum Marci, quasi adiutor eius futurus vexillis regendis adscitus est. [5] In quo munere adprobatus lectus est in senatum. [6] Postea iterum re bene gesta prodita est factio13, quae illi concinnata fuerat, Marcusque imperator, ut conpensaret iniuriam, praetorium14 eum fecit et primae legioni15 regendae inposuit, statimque Raetias et Noricum ab hostibus vindicavit16. [7] Ex quo eminente industria studio Marci imperatoris consul est designatus17. [8] Extat oratio apud Marium Maximum laudes eius continens et omnia, vel quae fecit vel quae perpessus est. [9] Et praeter illam orationem, quam longum fuit conectere, saepissime Pertinax a Marco et in contione militari et in senatu laudatus est, doluitque palam Marcus quod senator esset, praef. praet. fieri a se non posse. [10] Cassiano motu conposito e Syria ad Danubii tutelam profectus est atque inde Moesiae utriusque, mox Daciae regimen accepit. [11] Bene gestis his provinciis Syriam meruit. [3, 1] Integre se usque ad Syriae regimen Pertinax tenuit. Post excessum

vero Marci pecuniae studuit; quare etiam dictis popularibus lacessitus. [2] Curiam Romanam post quattuor provincias consulares, quia consulatum absens gesserat, iam dives ingressus est, cum eam senator antea non vidisset. [3] Iussus est praeterea statim a Perenne18 in Liguriam secedere in villam paternam; nam pater eius tabernam coactiliariam in Liguria exercuerat. [4] Sed posteaquam in Liguriam venit, multis agris coemptis tabernam paternam manente forma priore infìnitis aedificiis circumdedit; fuitque illic per triennium et mercatus est per suos servos. [5] Occiso sane Perenni19 Commodus Pertinaci satisfecit eumque petit 〈per〉 litteras, ut ad Brittanniam profìcisceretur. [6] Profectusque milites ab omni seditione deterruit, cum illi quemcumque imperatorem vellent habere et ipsum specialiter Pertinacem. [7] Tunc Pertinax malivolentiae notam subit, quod dictus est insimulasse apud Commodum adfectati imperii Antistium Burrum et Arrium Antoninum20. [8] Et seditiones quidem contra {Commodum} ipse conpescuit in Brittannia, verum ingens periculum adit seditione legionis paene occisus, certe inter occisos relictus. [9] Quam quidem rem idem Pertinax acerrime vindicavit. [10] Denique postea veniam legationis petit dicens sibi ob defensam disciplinam infestas esse legiones. [4, 1] Accepto successore alimentorum ei cura21 mandata est. [2] Dein pro consule Africae factus est. In quo proconsulatu multas seditiones perpessus dicitur vaticinationibus canum, quae de templo Caelestis22 emergunt. Post hoc praef. urbi factus. [3] In qua praefectura post Fuscianum23, hominem severum, Pertinax mitissimus et humanissimus fuit et ipsi Commodo plurimum placuit, quia † illi esset iterum consul24 Pertinax factus est. [4] Tunc Pertinax interficiendi Commodi conscientiam delatam sibi ab aliis non fugit. [5] Commodo autem interempto Laetus praef. praet. et Eclectus cubicularius ad eum venerunt, ut eum confirmarent, atque in castra duxerunt. [6] Illic Pertinax milites adlocutus est, donativum25 promisit, ingeri sibi imperium a Laeto et Eclecto dixit. [7] Fictum est autem, quod morbo esset Commodus extinctus, quia et milites, ne temptarentur, pertimescebant. Denique a paucis primum est Pertinax imperator appellatus. [8] Factus est autem sexagenario maior26 imp(erator) p(ridie) kal. Ian27. [9] De castris nocte cum ad senatum venisset et cellam curiae iussisset aperiri, neque inveniretur aedituus, in templo Concordiae28 resedit. [10] Et cum ad eum Claudius Pompeianus, gener Marci, venisset casumque Commodi lacrimasset, hortatus Pertinax, ut imperium sumeret29. Sed ille recusavit, quia iam imperatorem

Pertinacem videbat. [11] Statim ergo omnis magistratus cum consule ad curiam venerunt ingressumque Pertinacem nocte imperatorem appellaverunt. [5, 1] Ipse autem Pertinax post laudes suas a consulibus dictas et post vituperationem Commodi adclamationibus senatus ostensam egit gratias senatui et praecipue Laeto, praefecto praetorii, quo auctore et Commodus interemptus et ipse imperator est factus. [2] Sed cum Laeto gratias egisset Pertinax, Falco30 consul dixit: «Qualis imperator es futurus, hinc intellegimus, quod Laetum et Marciam, ministros scelerum Commodi, post te videmus». [3] Cui Pertinax respondit: «Iuvenis es consul nec parendi scis necessitates. Paruerunt inviti Commodo, sed ubi habuerunt facultatem, quid semper voluerint, ostenderunt». [4] Eadem die, qua Augustus est appellatus, et Flavia Titiana uxor eius Augusta est appellata31, his horis quibus ille in Capitolio vota solvebat. [5] Primus sane omnium ea die, qua Augustus est appellatus, etiam patris patriae nomen recepit, [6] [nec] simul etiam imperium proconsulare nec 〈non〉 ius quartae relationis32; quod ominis loco fuit Pertinaci. [7] Ad Palatium ergo Pertinax profectus, quod tunc vacuum erat, quia Commodus in Vectilianis33 occisus est, petenti signum prima die tribuno dedit «militemus» exprobrans utique segnitiam temporum superiorum; quod quidem etiam ante in omnibus ducatibus dederat. [6, 1] Exprobrationem autem istam milites non tulerunt statimque de imperatore mutando cogitarunt. [2] Ea die etiam ad convivium magistratus et proceres senatus rogavit, quam consuetudinem Commodus praetermiserat. [3] Sane cum postero kalendarum die [cum] statuae Commodi deicerentur, gemuerunt milites, simul quia iterum signum idem dederat imperator. Timebatur autem militia sub sene imperatore. [4] Denique tertium nonarum diem Votis ipsis milites Triarium Maternum Lascivium, senatorem nobilem, ducere in castra voluerunt, ut eum rebus Romanis inponerent. [5] Sed ille nudus fugit atque ad Pertinacem in Palatium venit et post ex urbe decessit. [6] Timore sane Pertinax coactus omnia, quae Commodus militibus et veteranis dederat, confirmavit. [7] Suscipere se etiam imperium a senatu dixit, quod iam sponte inierat34. [8] Quaestionem maiestatis penitus tulit cum iureiurando, revocavit etiam eos, qui deportati fuerant crimine maiestatis, eorum memoria restituta, qui occisi fuerant. [9] Filium eius senatus Caesarem appellavit. Sed Pertinax nec uxoris Augustae appellationem recepit et de filio dixit: «Cum meruerit». [10] Et cum Commodus allectionibus innumeris praetorias miscuisset, senatus consultum Pertinax fecit iussitque eos, qui praeturas non gessissent sed allectione accepissent, post eos esse, qui vere

praetores fuissent. [11] Sed hinc quoque grande odium sibi multorum commovit. Census retractari iussit. [7, 1] Delatores cunctos graviter puniri iussit et tamen mollius quam priores imperatores, unicuique dignitati, si delationis crimen incurreret, poenam statuens. [2] Legem sane tulit, ut testamenta priora non prius essent inrita quam alia perfecta essent, neve ob hoc fiscus aliquando succederet; [3] ipseque professus est nullius se aditurum hereditatem, quae aut adulatione alicuius delata esset aut lite [aut] perplexa, ut legitimi heredes et necessarii privarentur35. Addiditque senatus consulto haec verba: [4] «Satius est, p. c., inopem rem p. optinere quam ad divitiarum cumulum per discriminum atque dedecorum vestigia pervenire». [5] Donativa et congiaria, quae Commodus promiserat, solvit. [6] Annonae consultissime providit. Et cum tantam penuriam aerarii haberet, ut praeter decies sestertium non se invenisse fateretur, coactus est ea exigere, quae Commodus indixerat, contra quam professus fuerat. [7] Denique adgressus eum Lollianus Gentianus36 consularis, quod contra promissum faceret, necessitatis rationem accepit. [8] Auctionem rerum Commodi habuit, ita ut et pueros et concubinas vendi iuberet, exceptis his qui per vim Palatio videbantur inserti. [9] Et de his, quos vendi iussit, multi postea reducti ad ministerium oblectarunt senem. Quidam per alios principes usque ad senatoriam dignitatem pervenerunt. [10] Scurras turpissimorum nominum dedecora perferentes proscripsit ac vendidit. [11] Cuius nundinationis pecuniam, quae ingens fuit, militibus donativo dedit. [8, 1] A libertis etiam ea exegit, quibus Commodo vendente ditati fuerant. [2] Auctio sane rerum Commodi in his insignior fuit: vestis subtegmine serico aureis filis [insignior] praeter tunicas paenulasque lacernas et chirodytas Dalmatarum37 et cirratas militares purpureasque clamydes Graecanicas atque castrenses [3] et cuculli Bardaici38 et saga armaque gladiatoria gemmis auroque composita. [4] 〈Vendidit〉 et maceras Herculaneas et torques gladiatorias vasaque electro, auro, ebore, argento vitroque composita [5] atque etiam † phando vitrobuli ex materie eadem et vasa Samnitica calfactandae resinae ac pici devellendis hominibus ac leviginandis. [6] Nec non vehicula arte fabricae nova perplexis diversisque rotarum orbibus et exquisitis sedilibus nunc ad solem declinandum nunc ad spiritus opportunitatem per vertiginem; [7] et alia iter metientia horasque monstrantia et cetera vitiis eius convenientia. [8] Reddidit praeterea dominis eos, qui se ex privatis domibus in aulam contulerant. [9] Convivium imperatorium ex inmenso ad certum revocavit modum. [10] Sumptus etiam omnes Commodi recidit. Exemplo

autem imperatoris, cum ille parcius se ageret, ex omnium continentia vilitas nata est; [11] nam imperatorium sumptum pulsis non necessariis ad soliti dimidium detraxit. [9, 1] Praemia militantibus posuit. Aes alienum, quod primo imperii tempore contraxerat, solvit. Aerarium in suum statum restituit. [2] Ad opera publica certum sumptum constituit. Reformandis viis pecuniam contulit. Stipendia plurimis retro debita exsolvit. Obeundis postremo cunctis muneribus fiscum parem fecit. [3] Alimentaria etiam conpendia, quae novem annorum ex instituto Traiani debebantur, obdurata verecundia sustulit39. [4] Avaritiae suspicione privatus non caruit, cum aput vada Sabatia40 oppressis fenore possessoribus latius suos tenderet fines. [5] Denique ex versu Luciliano agrarius mergus41 est appellatus. [6] Multi autem eum etiam in provinciis, quas consularis gessit, sordide se egisse in litteras rettulere; nam vacationes et legationes militares dicitur vendidisse. [7] Denique cum parentum minimum esset patrimonium et nulla hereditas obvenisset, subito dives est factus. [8] Omnibus sane possessiones suas reddidit, quibus Commodus ademerat, sed non sine pretio. [9] Senatui legitimo semper interfuit ac semper aliquid rettulit. Civilem se salutantibus et interpellantibus semper exhibuit. [10] Eos, qui calumniis adpetiti per servos fuerant, damnatis [servis] delatoribus liberavit in crucem sublatis talibus servis, aliquos etiam mortuos vindicavit. [10, 1] Insidias paravit ei Falco … conquestus est in senatu … volens imperare. [2] Quo quidem … credidit, dum sibi quidam servus, quasi Fabiae42 † setiqui filius ex Ceioni Commodi familia, Palatinam domum ridicule vindicasset … cognitusque iussus est flagellis caesus domino restitui. [3] In cuius vindicta hi, qui oderant Pertinacem, occasionem seditionis invenisse dicuntur. [4] Falconi tamen pepercit et a senatu inpunitatem eius petit. [5] Denique Falco in rebus suis securus vixit et herede filio periit. [6] Quamvis multi Falconem nescisse dixerint imperium sibi parari. [7] Alii etiam servis, qui rationes interverterant, falsis testimoniis adpetitum eum esse dixerunt. [8] Sed Pertinaci factio praeparata est per Laetum praefectum praetorii et eos, quos Pertinacis sanctimonia offenderat. [9] Laetum enim paenituerat, quod imperatorem fecerat Pertinacem, idcirco quia eum velut stultum intimatorem nonnullarum rerum reprehendebat. [10] Grave praeterea militibus visum, quod in causa Falconis multos milites ad unius servi testimonium occidi praeceperat. [11, 1] Trecenti igitur de castris armati ad imperatorias aedes cuneo facto milites venere. [2] Eadem tamen die immolante Pertinace negatur in hostia

cor repertum43 et cum id vellet procurare, caput extorum non deprehendit. Et tunc quidem omnes milites in castris manebant. [3] Qui cum castris ad obsequium principis convenissent et Pertinax eo die processionem, 〈quam〉 ad Athenaeum44 paraverat, ut audiret poetam, ob sacrifìcii praesagium distulisset, hi, qui ad obsequium venerant, redire in castra coeperunt. [4] Sed subito globus ille in Palatium pervenit neque aut arceri potuit aut imperatori nuntiari. [5] Enimvero tantum odium in Pertinacem omnium aulicorum fuit, ut ad facinus milites hortarentur. [6] Supervenerunt Pertinaci, cum ille aulicum famulitium ordinaret, ingressique porticus Palatii usque ad locum, qui appellatur Sicilia et Iovis cenatio. [7] Hoc cognito Pertinax Laetum praef. praet. ad eos misit. Sed ille declinatis militibus per porticus egressus adoperto capite domum se contulit. [8] Verum cum ad interiora prorumperent, Pertinax ad eos processit eosque longa et gravi oratione placavit. [9] Sed cum Tausius quidam, unus e Tungris45, in iram et in timorem milites loquendo adduxisset, hastam in pectus Pertinacis obiecit. [10] Tunc ille precatus Iovem Ultorem toga caput operuit atque a ceteris confossus est46. [11] Et Eclectus47 quidem confossis duobus cum eodem perit, [12] reliqui autem cubicularii palatini (nam suos statim, ut imperator factus est, filiis emancipatis48 dederat) diffugerunt. [13] Multi sane dicunt etiam cubiculum milites inrupisse atque illic circa lectum fugientem Pertinacem occidisse. [12, 1] Fuit autem senex venerabilis, inmissa barba, reflexo capillo, habitudine corporis pinguiore, ventre prominulo, statura imperatoria, eloquentia mediocri et magis blandus quam benignus nec umquam creditus simplex. [2] Et cum verbis esset affabilis, re erat inliberalis ac prope sordidus, ut dimidiatas lactucas et cardus in privata vita conviviis adponeret. [3] Et nisi quid missum esset edulium, quotquot essent amici, novem libras carnis per tres missus ponebat. [4] Si autem plus aliquid missum esset, etiam in alium diem differebat, cum semper ad convivium multos vocaret. [5] Imperator etiam, si sine convivis esset, eadem consuetudine cenitabat. [6] Amicis si quando de prandio suo mittere voluit, misit offulas binas aut omasi partem, aliquando lumbos gallinacios. Fasianum numquam privato convivio comedit aut alicui misit. [7] Cum sine amicis cenaret, adhibebat uxorem suam et Valerianum49, qui cum eodem docuerat, 〈ut〉 fabulas litteratas haberet. [8] Sane nullum ex his, quos Commodus rebus gerendis inposuerat, mutavit, expectans urbis natalem50, quod eum diem rerum principium volebat esse, atque ideo etiam in balneis ei Commodiani ministri necem parasse

dicuntur. [13, 1] Imperium et omnia imperialia sic horruit, ut sibi semper ostenderet displicere. Denique non alium se, quam fuerat, videri volebat. [2] Fuit in curia honorificentissimus, ita ut senatum faventem adoraret et quasi praefectus urbi cum omnibus sermonem participaret. [3] Voluit etiam imperium deponere atque ad privatam vitam redire. [4] Filios suos in Palatio nutriri noluit. Tam parcus autem et tam lucri cupidus fuit, ut apud Vada Sabatia mercaturas exercuerit imp(erator) per homines suos, non aliter quam privatus solebat. [5] Nec multum tamen amatus est, si quidem omnes, qui libere fabulas conferebant, male Pertinacem loquebantur, chrestologum51 eum appellantes, qui bene loqueretur et male faceret. [6] Nam et cives sui, qui ad eum confluxerant iam imperatorem et nihil de eo meruerant, sic eum appellabant. Munera quoque lucri libidine libenter accepit. [7] Reliquit filium et filiam superstites et uxorem, Flavi Sulpiciani filiam, quem praef. urbi loco suo fecerat. [8] Circa uxoris pudicitiam minus curiosus fuit, cum palam citharoedum illa diligeret. Ipse praeterea Cornificiam52 infamissime dicitur dilexisse. [9] Libertos aulicos vehementissime conpressit, unde grande quoque odium contraxit. [14, 1] Signa interitus haec fuerunt: ipse ante triduum quam occideretur in piscina sibi visus est videre hominem cum gladio infestantem. [2] Et ea die, qua occisus est, negabant in oculis eius pupulas cum imaginibus, quas reddunt spectantibus, visas. [3] Et cum apud lares sacrificaret, carbones vivacissimi extincti sunt, cum inflammari soleant. Et, ut supra dictum est, cor et caput in hostiis non est repertum. Stellae etiam iuxta solem53 per diem clarissimae visae ante diem quam obiret. [4] Et ipse omen de Iuliano successore dedisse dicitur. Nam cum ei Didius Iulianus fratris filium obtulisset, cui despondebat filiam suam, adhortatus [est] iuvenem ad patrui observationem, adiecit: «Observa collegam et successorem meum»; [5] nam ante Iulianus ei et in consulatu collega fuerat et in proconsulatu successerat54. [6] Milites eum et aulici odio habuerunt, populus mortem eius indignissime tulit, quia videbat omnia per eum antiqua posse restitui. [7] Caput eius conto fixum milites, qui eum occiderant, per urbem in castra pertulerunt. [8] Reliquiae eius recuperato capite in sepulchro avi uxoris locatae sunt. [9] Et Iulianus, successor illius, corpus eius quanto potuit honore funeratus est, cum id in Palatio repperisset. [10] Qui numquam eius ullam mentionem vel apud populum vel apud senatum publice fecit, sed cum ipse quoque a militibus desertus iam esset, per senatum et populum Pertinax in

deos relatus est. [15, 1] Sub Severo autem imperatore cum senatus ingens testimonium habuisset Pertinax, funus imaginarium ei et censorium55 ductum est, et ab ipso Severo funebri laudatione ornatus est. [2] Ipse autem Severus amore boni principis a senatu Pertinacis nomen accepit. [3] Filius Pertinacis patri flamen est factus. [4] Marciani sodales, qui divi Marci sacra curabant, Helviani sunt dicti propter Helvium Pertinacem. [5] Circenses et imperii natalis additi, qui a Severo postea sublati sunt, et genitalicii, qui manent. [6] Natus autem kal. Augustis Vero et Bibulo conss.56 interfectus est V. kal. Apr. Falcone et Claro57 conss. Vixit annis LX mensibus VII diebus XXVI. Imperavit mensibus II diebus XXV. [7] Congiarium dedit populo denarios centenos. Praetorianis promisit duodena milia nummum, sed dedit sena. Quod exercitibus promissum est, datum non est, quia mors eum praevenit. [8] Horruisse autem illum imperium epistula docet, quae vitae illius a Mario Maximo apposita est. Quam ego inseri ob nimiam longitudinem nolui.

[1, 1] Padre di Publio Elvio Pertinace fu il liberto Elvio Successo, che, a quanto si dice, diede al figlio quel nome a simbolo della propria «pertinacia»1 nel continuare ad esercitare il mestiere di commerciante di lana. [2] Pertinace nacque nella tenuta della madre sull’Appennino2. Nel momento della sua nascita un puledro salì sul tetto e, dopo che vi si fu fermato qualche istante, precipitò giù restando ucciso. [3] Impressionato dal fatto, il padre si recò da un indovino Caldeo. Quando questi gli predisse un grande avvenire per il figlio, esclamò che erano stati soldi buttati via. [4] Il fanciullo fu istruito nei primi rudimenti delle lettere e dell’aritmetica; venne poi affidato ad un grammatico greco, e successivamente a Sulpicio Apollinare3: dopo aver frequentato la sua scuola, lo stesso Pertinace si dedicò alla professione di maestro di grammatica. [5] Ma poiché da essa ricavava scarsi guadagni, grazie ai buoni uffici dell’ex console4 Lolliano Avito, patrono del padre, poté ottenere la carica di centurione5. [6] Poi, partito per la Siria quale prefetto di una coorte6, sotto il regno di Tito Aurelio7, fu costretto dal governatore della Siria, per aver fatto uso delle carrozze pubbliche senza autorizzazione ufficiale, a fare a piedi il viaggio da Antiochia sino al suo reparto. [2, 1] Avendo ben meritato per lo zelo messo in mostra nel corso della guerra partica8, fu trasferito in Britannia, e trattenuto in quella sede. Successivamente in Mesia ebbe il comando di un’ala9. [2] In seguito si occupò della distribuzione dei sussidi alimentari10 lungo la via Emilia. Poi comandò la flotta di Germania11. [3] Sua madre lo seguì fino in Germania, ma là morì; dicono che esista ancora il suo sepolcro. [4] Di lì venne trasferito in Dacia con uno stipendio di duecentomila sesterzi12, ma, caduto in sospetto agli occhi di Marco, impotente com’era a far fronte agli intrighi di certi personaggi, fu destituito, e solo più tardi, grazie all’interessamento di Claudio Pompeiano, genero di Marco, convinto che egli avrebbe potuto essergli utile in futuro, gli fu assegnato il comando di alcuni distaccamenti. [5] Avendo assolto con merito tale incarico, fu eletto senatore. [6] In seguito, dopo che ebbe riportato un nuovo successo militare, fu smascherato l’intrigo13 che gli era stato ordito contro, e l’imperatore Marco, per ripagarlo dell’ingiustizia patita, lo elevò al rango pretorio14, e gli affidò il comando della prima legione15; subito egli riuscì a liberare dai nemici la Rezia e il Norico16. [7] In relazione a ciò, per il particolare zelo con cui si era prodigato, fu designato console su interessamento dell’imperatore Marco17. [8] Mario Massimo ci ha conservato

un discorso ove vengono tessute le sue lodi e si ricordano tutte le sue imprese e le sue peripezie. [9] E oltre che in quel discorso, che qui sarebbe stato troppo lungo riportare, moltissime volte Pertinace ricevette elogi da Marco sia in allocuzioni all’esercito sia in senato; e Marco ebbe a dolersi apertamente di non poterlo nominare prefetto del pretorio, per il fatto che era senatore. [10] Dopo la repressione della ribellione di Cassio, partì dalla Siria per andare a difendere il Danubio, e successivamente ricevette il governo di entrambe le Mesie e poi della Dacia. [11] Avendo operato con successo in queste province, si meritò il governo della Siria. [3, 1] Fino al governatorato della Siria Pertinace si mantenne incorruttibile. Ma dopo la morte di Marco divenne avido di denaro; cosa per la quale era criticato anche nei discorsi della gente. [2] Dopo aver governato quattro province consolari, fece il suo ingresso ormai ricco nella curia romana che, avendo esercitato anche il consolato lontano da Roma, non aveva mai visto prima da senatore. [3] Subito dopo ricevette da Perenne 18 l’ordine di ritirarsi in Liguria, nella tenuta di suo padre; il padre, infatti, aveva gestito in Liguria un’officina tessile. [4] Ma dopo che fu arrivato in Liguria, comprò molti terreni e poté circondare l’officina paterna, mantenuta nella sua forma originale, con un’infinità di edifìci; e rimase lì per tre anni, esercitando il commercio attraverso i suoi servi. [5] Quando Perenne fu ucciso19, Commodo rese giustizia a Pertinace, e gli chiese per lettera di partire per la Britannia. [6] Ed essendovisi egli recato, riuscì a distogliere da ogni proposito di rivolta i soldati, che erano disposti ad accettare quale imperatore chiunque, e in particolare lo stesso Pertinace. [7] In quell’occasione Pertinace dovette subire un’accusa malevola, giacché si insinuò che egli avesse calunniato presso Commodo quali aspiranti al potere Antistio Burro e Arrio Antonino20. [8] E in realtà in Britannia egli ebbe a reprimere delle rivolte contro Commodo, ma si trovò pure a correre un grave pericolo quando, nel corso dell’ammutinamento di una legione, per poco non rimase ucciso – in ogni caso fu abbandonato sul campo tra i caduti –. [9] Lo stesso Pertinace ebbe a punire quel fatto con estremo rigore. [10] Ma poi, in un secondo tempo, chiese di essere esonerato dal comando dicendo che per restaurare la disciplina aveva finito per rendersi ostili le legioni. [4, 1] Rilevato che fu da quell’incarico, gli venne affidata la cura delle distribuzioni alimentari ai poveri21. [2] Poi venne designato proconsole d’Africa. Nel corso del suo governo laggiù si dice che ebbe a far fronte a molte sommosse, seguite ai vaticinii dei «cani», che escono dal tempio di Celeste22.

Dopo di ciò fu creato prefetto dell’Urbe. [3] Nell’esercizio di questa carica, nella quale succedette a Fusciano23, un uomo dal pugno di ferro, Pertinace si mostrò quanto mai mite ed umano, e risultò graditissimo allo stesso Commodo, poiché […] per la seconda volta Pertinace fu nominato console24. [4] In quel tempo Pertinace non si sottrasse alla possibilità di complicità, offertagli da altri personaggi, nella congiura per uccidere Commodo. [5] Dopo l’uccisione di Commodo, il prefetto del pretorio Leto e il funzionario di corte Ecletto si presentarono da lui per incoraggiarlo ad agire, e lo accompagnarono nell’accampamento. [6] Lì Pertinace tenne un’allocuzione ai soldati, promettendo un donativo25, e affermando che il potere gli veniva conferito da Leto ed Ecletto. [7] Fu poi coniata la storia che Commodo fosse morto di malattia, poiché i soldati erano resi incerti dal timore che si volesse mettere a prova la loro fedeltà. Alla fine Pertinace fu proclamato – in un primo momento solo da pochi – imperatore. [8] Fu proclamato imperatore a più di sessant’anni26, il 31 di dicembre27. [9] Recatosi di notte dall’accampamento al senato, ordinò di aprirgli la cella della Curia, ma poiché non si riusciva a trovare il guardiano, si fermò nel tempio della Concordia28. [10] Ed essendo andato da lui il genero di Marco, Claudio Pompeiano, a compiangere la sorte di Commodo, Pertinace lo esortò ad assumere il potere29. Ma quello rifiutò, poiché ormai vedeva Pertinace padrone dell’impero, [11] Subito dunque tutti i magistrati assieme al console si recarono nella Curia, e non appena Pertinace vi fece il suo ingresso nella notte, lo acclamarono imperatore. [5, 1] Lo stesso Pertinace, poi, dopo il suo elogio pronunciato dai consoli, e dopo l’esecrazione di Commodo espressa dalle acclamazioni del senato, ringraziò il senato stesso, e particolarmente Leto, prefetto del pretorio, per l’opera del quale Commodo era stato ucciso e lui era diventato imperatore. [2] Ma dopo che Pertinace aveva ringraziato Leto, il console Falcone30 disse: «Quale imperatore tu sarai, lo comprendiamo già dal vedere dietro di te Leto e Marcia, complici delle scelleratezze di Commodo». [3] E Pertinace gli rispose: «Sei giovane, o console, e non conosci ancora ciò che comporta la necessità di ubbidire. Hanno dovuto ubbidire a Commodo contro la loro volontà, ma appena ne hanno avuto la possibilità, hanno dimostrato ciò che avevano sempre voluto». [4] Nello stesso giorno in cui egli fu proclamato Augusto, fu proclamata Augusta anche sua moglie Flavia Tiziana31, nel momento in cui lui era ad

adempiere i voti in Campidoglio. [5] Fu inoltre il primo fra tutti gli imperatori a ricevere, nello stesso giorno in cui fu proclamato Augusto, anche il titolo di padre della patria, [6] nonché ad un tempo il potere proconsolare, e il diritto di presentare fino a quattro proposte in senato32; e questo fu per Pertinace come un auspicio favorevole. [7] Recatosi dunque al Palazzo imperiale, che era allora vuoto in quanto Commodo era stato ucciso nella villa Vettiliana33, Pertinace il primo giorno diede al tribuno che gliela chiedeva la parola d’ordine «Combattiamo», volendo in ogni modo bollare l’inerzia dei tempi precedenti; quella era del resto la parola d’ordine che aveva dato anche in tutti i suoi incarichi di comando. [6, 1] I soldati però non accettarono questo rimprovero, e cominciarono subito a pensare di cambiare imperatore. [2] Quello stesso giorno egli invitò inoltre a pranzo i magistrati e i maggiorenti del senato, secondo una consuetudine che Commodo aveva trascurato. [3] Il 2 di gennaio i soldati ebbero nuovo motivo di lamentarsi in seguito all’abbattimento delle statue di Commodo, e inoltre perché l’imperatore aveva nuovamente dato la stessa parola d’ordine. Preoccupava poi il fatto di dover militare sotto un imperatore ormai avanzato negli anni. [4] Fu così che il 3 di gennaio, il giorno stesso dei Voti, i soldati cercarono di condurre negli accampamenti Triario Materno Lascivio, un senatore della nobiltà, per affidargli l’impero romano. [5] Ma quello se ne fuggì via con quel che aveva indosso andando da Pertinace nel Palazzo; e poi lasciò la città. [6] Sotto la spinta della paura Pertinace confermò tutte le concessioni fatte da Commodo ai soldati e ai veterani. [7] Inoltre affermò di assumere il potere per volontà del senato – mentre già di sua iniziativa se ne era appropriato34 –. [8] Abolì completamente i processi di lesa maestà, impegnandosi in tal senso con un giuramento, e richiamò inoltre quanti erano stati esiliati sotto quell’accusa, riabilitando la memoria di coloro che erano stati messi a morte. [9] Il senato conferì a suo figlio l’appellativo di Cesare. Ma Pertinace non solo rifiutò quello di Augusta che era stato tributato alla moglie, ma anche per ciò che riguardava il figlio volle precisare: «Quando lo avrà meritato!». [10] E poiché Commodo, con innumerevoli assunzioni arbitrarie, aveva tolto omogeneità al rango pretorio, Pertinace, attraverso un decreto senatorio, ordinò che coloro che non avevano esercitato la carica di pretore, ma l’avevano soltanto ricevuta per conferimento onorifico, fossero considerati ad un grado più basso rispetto a quanti erano invece stati pretori a tutti gli effetti. [11] Ma anche questo gli procurò grande odio da parte di molta gente. Dispose

che venissero rinnovati i registri tributari. [7, 1] Ordinò severe sanzioni contro tutti i delatori, peraltro più miti a confronto di quelle degli imperatori precedenti, stabilendo una pena in rapporto al rango di ciascuno di coloro che si rendessero colpevoli di tale reato. [2] Promulgò una legge per la quale i vecchi testamenti non potessero essere annullati prima che ne fossero stati stilati dei nuovi, e in questo modo il fisco non avesse in alcun momento a sottentrare nell’eredità; [3] e dal canto suo affermò solennemente che non avrebbe mai accettato eredità di chicchessia che o gli fosse stata offerta per adulazione di qualcuno o attraverso intrighi giudiziari per i quali ne fossero privati i legittimi eredi e congiunti35. E, dopo il decreto del senato, aggiunse queste parole: [4] «È meglio, o senatori, avere uno Stato povero, che giungere ad accumulare ricchezze camminando per vie pericolose e disonorevoli». [5] Concesse i donativi e le elargizioni che Commodo aveva promesso. [6] Provvide con molta accortezza ai rifornimenti annonari. E poiché aveva l’erario così dissanguato che, a quanto diceva, non vi aveva trovato più di un milione di sesterzi, si trovò costretto ad esigere i tributi che erano stati imposti da Commodo, contrariamente a quanto aveva solennemente affermato. [7] Persino il consolare Lolliano Genziano36 che lo aveva aspramente criticato, perché così facendo veniva meno alle promesse, dovette riconoscere le esigenze dettate dallo stato di necessità. [8] Bandì un’asta per la vendita di quanto era appartenuto a Commodo, ordinando anche di vendere sia i fanciulli sia le concubine, ad eccezione di coloro che apparivano essere stati portati a corte con la forza. [9] E di quelli che erano stati, per suo ordine, venduti, molti successivamente, ripristinati in servizio, furono oggetto di piacere per la sua vecchiaia. Certuni furono promossi da altri sovrani fino al rango senatorio. [10] Mise all’asta e vendette i buffoni che portavano vergognosamente soprannomi osceni. [11] E il denaro ricavato da quella vendita, che costituiva una grossa cifra, lo distribuì quale donativo ai soldati. [8, 1] Si fece inoltre restituire dai liberti i beni di cui avevano potuto arricchirsi quando Commodo svendeva ogni cosa. [2] L’asta degli oggetti appartenuti a Commodo ebbe quali pezzi più pregiati i seguenti: una veste intessuta di seta e ricamata d’oro, oltre a tuniche e mantelli da viaggio, palandrane, tuniche dalmatiche37, vesti militari con le frange, clamidi purpuree alla greca e da guerra; [3] cappucci bardaici38, mantelli e armi gladiatorie ornate di gemme e d’oro. [4] Mise in vendita anche spade simili a quelle con cui è raffigurato Ercole, collane di gladiatori, vasi d’ambra, d’oro,

d’avorio, d’argento e di vetro, [5] e inoltre […] dello stesso materiale, vasi sannitici per far bollire la resina e la pece usate per depilare e lisciare la pelle degli uomini. [6] Inoltre carrozze ultimo modello con ruote dai giri intricati e diversi e con sedili accortamente congegnati in modo che, ruotando, permettessero a seconda dei momenti di evitare il sole o sfruttare la brezza; [7] e altri strumenti che misuravano il cammino percorso e indicavano il tempo impiegato, nonché tutti gli altri arnesi che gli avevano permesso di indulgere alla sua vita dissipata. [8] Restituì poi ai loro padroni gli schiavi che avevano abbandonato le case private per venire a corte. [9] Ridusse le spese per i pranzi imperiali, da spropositate che erano, a limiti ben precisi. [10] Impose tagli a tutte le spese di Commodo. Peraltro in conseguenza delle generali economie ispirate dall’esempio del sovrano – ché egli conduceva una vita particolarmente sobria – si produsse un abbassamento dei prezzi; [11] egli infatti, eliminando le voci superflue, aveva ridotto alla metà dell’usuale le spese di corte. [9, 1] Stabilì premi per i soldati. Pagò i debiti che aveva contratto nei primi tempi del suo impero. Reintegrò l’erario al suo antico livello. [2] Fissò un limite alle spese destinate alla costruzione di opere pubbliche. Stanziò fondi per la riparazione delle strade. Pagò gli stipendi arretrati dovuti a moltissimi funzionari. Insomma, mise il fisco in grado di far fronte a tutti quanti i suoi impegni. [3] Annullò poi, mettendo da parte gli scrupoli, il debito arretrato di nove anni relativo ai sussidi assistenziali fissati da Traiano. [4] Come privato non mancò di suscitare sospetti di avidità, per aver esteso a dismisura i suoi possedimenti presso Vada Sabazia40, a spese dei proprietari, che egli opprimeva con l’usura. [5] Fu addirittura chiamato, con le parole di un verso luciliano, «smergo agrario»41. [6] Molti autori poi hanno riferito che anche nelle province che egli governò come proconsole si comportò dando prova di sordida avarizia: ché, a quel che si dice, giunse a vendere i congedi e gli incarichi militari. [7] Sta di fatto che, pur essendo il suo patrimonio familiare assai modesto, e sebbene non fosse arrivata alcuna eredità a rimpinguarlo, in un momento egli divenne ricco. [8] Restituì a tutti i proprietari i beni che Commodo aveva loro sottratto, ma non senza ricavarne un compenso. [9] Partecipò sempre alle riunioni ufficiali del senato sempre formulando qualche proposta. Si mostrò sempre cortese verso quanti venivano a porgergli il saluto e si rivolgevano a lui. [10] Coloro che erano stati accusati in seguito a calunnie dei loro servi, condannando i delatori, li scagionò, mettendo in croce quei servi; di alcuni anche riabilitò la memoria.

[10, 1] Falcone ordì un’insidia contro di lui […] manifestò critiche in senato […] nell’intento di assumere lui il potere. [2] E per vero […] credette, allorquando un servo, spacciandosi per il figlio di Fabia42 e […] della famiglia di Ceionio Commodo, avanzò ridicole rivendicazioni sulla casa imperiale […] e, smascherato, fu condannato ad essere frustato e riconsegnato al suo padrone. [3] Nella punizione inflitta a costui, quanti odiavano Pertinace colsero – a quanto si dice – il pretesto per ribellarsi a lui. [4] Falcone, peraltro, venne risparmiato da Pertinace, che chiese al senato di non punirlo. [5] Fu così che Falcone poté vivere tranquillamente nel possesso dei suoi beni e alla sua morte lasciarli in eredità al figlio. [6] A dire il vero, molti sostengono che Falcone non sapesse che si progettava di conferirgli il potere. [7] Altri ancora affermano che egli fu messo sotto accusa con false testimonianze dai servi, che avevano falsificato i rendiconti. [8] Comunque la congiura contro Pertinace fu ordita dal prefetto del pretorio Leto, e da quanti si sentivano urtati dalla grande probità dell’imperatore. [9] Leto infatti si era pentito di aver fatto proclamare imperatore Pertinace, offeso dal fatto che questi lo rimproverava come consigliere di un sacco di stupidaggini. [10] Inoltre aveva suscitato un’impressione assai negativa nei soldati il fatto che nel processo per la congiura di Falcone, egli aveva fatto mettere a morte molti di loro sulla sola testimonianza di uno schiavo. [11, 1] E così trecento soldati armati mossero dagli accampamenti, disposti a cuneo, in direzione del Palazzo imperiale. [2] Peraltro in quel medesimo giorno si dice che nel corso di un sacrifìcio presieduto da Pertinace, non si trovò nella vittima il cuore43 e, volendo egli stornare quel cattivo presagio, non riuscì a trovare l’estremità delle interiora. E in quel momento tutti i soldati erano ancora fermi negli accampamenti. [3] Alcuni di essi erano usciti dal campo per andare a fare da scorta all’imperatore, e Pertinace invece, dato il cattivo presagio uscito dal sacrificio, aveva rinviato, per quel giorno, il corteo che aveva disposto per recarsi all’Ateneo44, ad ascoltare un poeta: e così questi, andati per fare da scorta, si erano avviati a rientrare nell’accampamento. [4] Ma d’un tratto quella schiera giunse al Palazzo, e non fu possibile impedir loro di entrare, né avvertire l’imperatore. [5] E in effetti tanto grande era l’odio di tutti i cortigiani nei confronti di Pertinace, che incitavano i soldati all’azione violenta. [6] Sopraggiunsero allorquando Pertinace stava disponendo il servizio di corte, e imboccarono i portici del Palazzo sino al luogo chiamato «Sicilia» e «Cenacolo di Giove». [7] Venuto a

conoscenza di ciò, Pertinace mandò incontro a loro il prefetto del pretorio Leto. Ma quello riuscì ad evitare i soldati, e uscendo attraverso i portici a capo coperto, riparò a casa sua. [8] Quando poi fecero irruzione negli appartamenti interni, Pertinace si fece loro incontro, e con un lungo e fermo discorso riuscì a calmarli. [9] Ma un certo Tausio, un Tungro45, dopo aver parlato in modo da risvegliare l’ira e il timore dei soldati, scagliò un’asta in petto a Pertinace. [10] Allora egli, dopo aver invocato Giove Ultore, si coprì il capo con la toga e si lasciò trafiggere dai colpi di tutti gli altri46. [11] Anche Ecletto47, dopo aver ucciso due di loro, morì con lui, [12] mentre tutti gli altri inservienti di corte (i suoi, non appena divenuto imperatore, li aveva assegnati ai figli dopo la loro emancipazione48) riuscirono a fuggire. [13] Molti invero dicono che i soldati irruppero nella camera stessa di Pertinace, e lì lo ammazzarono, mentre scappava, vicino al suo letto. [12, 1] Era un vecchio dall’aspetto venerando, con una lunga barba, i capelli crespi, un po’ grasso di corporatura, leggermente panciuto, ma regale nella figura; non particolarmente dotato nell’oratoria, e più affabile che realmente generoso, né mai considerato veramente schietto. [2] E, mentre a parole si dimostrava cordiale, di fatto era di animo gretto e di un’avarizia quasi sordida, al punto che, al tempo della sua vita privata, faceva servire nei suoi pranzi lattughe tagliate a metà e carciofi. [3] E a meno che non gli fosse stata mandata in regalo qualche pietanza, serviva in tavola, quale che fosse il numero degli amici invitati, nove libbre di carne in tre portate. [4] Se poi era stato mandato qualcosa di più, lo teneva ancora per un altro giorno, ché aveva sempre a pranzo molti invitati. [5] Anche da imperatore, se non aveva convitati, usava pranzare con lo stesso stile. [6] Se mai decideva di mandare a sua volta agli amici parte del suo pranzo, mandava due bocconi di carne o un pezzo di trippa, talora coscie di pollo. Fagiano non ne mangiò mai nei suoi propri pranzi né ne mandò in regalo ad alcuno. [7] Quando a cena non aveva amici, andava a tavola in compagnia di sua moglie e di Valeriano49, uno che aveva insegnato con lui, per poter fare conversazione su argomenti di carattere letterario. [8] Non destituì nessuno di coloro che Commodo aveva preposto a qualche incarico, preferendo attendere l’anniversario della fondazione di Roma50, ché, secondo le sue intenzioni, quel giorno doveva essere il principio di un nuovo ordine di cose, e proprio per questo si dice che i funzionari di corte di Commodo gli avessero preparato un attentato nei bagni. [13, 1] Aborriva il potere imperiale e le manifestazioni ad esso connesse, a

tal punto che dava sempre a vedere che gli riuscivano sgradite. Desiderava insomma che lo si considerasse lo stesso uomo che era stato in passato. [2] Nella curia era molto ossequioso, esprimendo la sua totale devozione al senato che gli offriva il suo favore, e conversando con tutti come un semplice prefetto dell’urbe. [3] Avrebbe voluto persino rinunciare al potere imperiale e ritornare a vita privata. [4] Non volle che i suoi figli fossero educati a corte. Era poi tanto economo e bramoso di guadagno che anche da imperatore continuò ad esercitare il commercio a Vada Sabazia tramite i suoi uomini, non diversamente da quanto soleva fare da privato. [5] Comunque non fu molto benvoluto, visto che tutta la gente abituata a discorrere senza peli sulla lingua parlava male di Pertinace, chiamandolo «Chrestologo»51, uno cioè che parlava bene e agiva male. [6] Persino i suoi concittadini, infatti, che erano affluiti da lui dopo la sua elezione ad imperatore, senza peraltro riuscire a ottenerne nulla, lo chiamavano in questo modo. Accettava anche volentieri dei doni per brama di guadagno. [7] Lasciò alla sua morte un figlio, una figlia e la moglie, la figlia di Flavio Sulpiciano, che egli aveva creato prefetto dell’urbe al posto suo. [8] Non si interessò molto alla condotta della moglie, sebbene questa avesse notoriamente una relazione con un citarista. Lui poi, a sua volta, si dice se la intendesse scandalosamente con Cornificia52. [9] Pose drastici limiti al potere dei liberti di corte, il che pure costituì un profondo motivo di odio contro di lui. [14, 1] Questi furono i presagi della sua morte: tre giorni prima che fosse ucciso gli parve di vedere nella piscina un uomo che lo assaliva armato di spada. [2] Il giorno poi che fu ucciso, si diceva che non si vedessero nei suoi occhi le pupille con le immagini che esse riflettono a chi le guarda. [3] Inoltre, mentre era intento ad un sacrificio dinanzi ai Lari, i carboni già ardentissimi, invece di avvampare come fanno di solito, si spensero. E, come è stato detto in precedenza, non si trovò nelle vittime né il cuore né l’estremità delle interiora. Il giorno prima della sua morte, inoltre, si videro in pieno giorno stelle risplendere luminosissime accanto al sole53. [4] Lui stesso si dice avesse offerto un presagio della successione di Giuliano. Infatti, quando Didio Giuliano gli presentò il nipote, a cui prometteva in sposa sua figlia, dopo aver esortato il giovane a manifestare deferenza nei confronti dello zio, aggiunse: «Porta rispetto al mio collega e successore»; [5] ché, in precedenza, Giuliano era stato sia suo collega nel consolato sia successore nel proconsolato54. [6] I soldati e i cortigiani lo avevano in odio, ma il popolo provò grande dolore per la sua morte, giacché si rendeva conto che grazie a lui avrebbero

potuto essere ripristinati tutti gli antichi costumi. [7] I soldati che lo avevano ucciso conficcarono il suo capo in cima a una lancia e lo portarono nell’accampamento attraversando la città. [8] I suoi resti, recuperata anche la testa, furono collocati nel sepolcro del nonno di sua moglie. [9] E Giuliano, suo successore, fece seppellire il suo corpo, che aveva trovato nella reggia, con i massimi onori possibili. [10] Egli, peraltro, non parlò mai pubblicamente di lui davanti al popolo o al senato, ma quando anch’egli era ormai stato a sua volta abbandonato dai soldati, il senato e il popolo conferirono a Pertinace onori divini. [15, 1] Sotto l’impero di Severo, inoltre, dopo che Pertinace ebbe ricevuto una solenne attestazione di stima da parte del senato, gli furono dedicate onoranze funebri commemorative del tipo di quelle accordate ai censori55, e fu lo stesso Severo a tenere l’elogio funebre in suo onore. [2] Lo stesso Severo, poi, per dimostrare il suo affetto verso quel buon sovrano, accettò dal senato il nome di Pertinace. [3] Il figlio di Pertinace fu creato flamine del padre. [4] La confraternita dei Marciani, che si occupavano del culto del divo Marco, prese il nome di confraternita degli Elviani in onore di Elvio Pertinace. [5] Furono istituiti anche dei giochi circensi per la commemorazione dell’anniversario della sua ascesa al trono – ma questi vennero successivamente aboliti da Severo –, e altri per celebrare il suo genetliaco, che rimangono tuttora. [6] Nacque il primo agosto dell’anno corrispondente al consolato di Vero e Bibulo56, e fu ucciso il 28 marzo di quello corrispondente al consolato di Falcone e Claro57. Visse sessant’anni, sette mesi e ventisei giorni. Regnò per due mesi e venticinque giorni. [7] Elargì al popolo un donativo di cento denari a testa. Promise ai pretoriani dodicimila sesterzi per ciascuno, ma ne diede seimila. Quanto era stato promesso agli eserciti non poté poi essere distribuito, giacché prima lo colse la morte. [8] Che egli aborrisse il potere imperiale ce lo attesta una lettera inclusa da Mario Massimo nella biografia di lui. Ma io, data la sua eccessiva lunghezza, ho preferito non trascriverla.

1. Non infrequenti, nel corso dell’opera, questi giochi di parole sul nome dell’imperatore: cfr. anche Av. Cass., 1, 7; Sev., 14, 13; Tyr. trig., 10, 4 segg.; Claud., 5, 4 seg.; Aurel., 30, 4; Tac., 6, 4; 16, 6; Prob., 4, 3 seg.; 21, 4; Quadr. tyr., 4, 2; Car., 8, 5. 2. Ad Alba Pompeia in Liguria (cfr. CASSIO DIONE, LXXIII, 3, 1), l’odierna Alba in provincia di Cuneo, il 1° agosto del 126 d. C. 3. Maestro di Aulo Gellio (e da questo frequentemente citato nelle Noctes Atticae), noto come autore di riassunti metrici dell’Eneide e delle commedie di Terenzio. 4. Era stato console nel 144 d. C. Sui personaggi ricordati nel corso della Vita cfr. H. G. PFLAUM, Les personnages nommément cités par la Vita Pertinacis de l’HA, in BHAC, 1971, Bonn, 1974, pp. 113 segg. 5. Ordinem ducere è l’espressione tecnica ad indicare il comando di una centuria. 6. La carriera di Pertinace qui descritta dalla HA ha trovato conferma in una iscrizione scoperta a Brühl, nelle vicinanze di Colonia, nel 1959 (cfr. H. G. KOLBE, Der Pertinaxstein aus Brühl, «Bonner Jahrbücher», CLXII, 1962, pp. 407 segg.). 7. Antonino Pio. 8. La guerra combattuta fra il 162 e il 166 d. C. sotto il comando nominale di L. Vero (cfr. M. Ant., 9, 1; Ver., 7). 9. Probabilmente in qualità di praefectus alae (cioè comandante di uno squadrone di cavalleria), uno degli uffici che doveva rivestire chi aspirava ad una carriera di rango equestre. 10. Cfr. Hadr., 7, 8, n. 4. 11. La flotta del Reno. 12. Cioè in qualità di procurator ducenarius, con l’incarico di esercitare il controllo sullo stato delle finanze della provincia. La determinazione ducenarius si riferisce allo stipendio annuale percepito, che era appunto di 200.000 sesterzi; in base a tale criterio, infatti, a partire da Adriano si distinguevano nell’ambito delle cariche equestri i quattro gradi dei trecenarii, dei ducenarii, dei centenarii, dei sexagenarii. 13. A parere di L. BALLA, Factio in Pertinacem? A propos du premier séjour de P. Helvius Pertinax en Dacia, «Act. class. Univ. Debrec.», VII, 1971, pp. 73 segg., è improbabile che la factio qui ricordata abbia avuto quale bersaglio principale Pertinace, che godeva dell’appoggio di Ti. Claudio Pompeiano, dal 169 d. C. genero di Marco Aurelio. 14. Con ciò Pertinace veniva a rivestire in senato la stessa dignità di coloro che erano stati pretori. 15. La legio I Adiutrix; a partire dal 118 d. C. era di stanza in Pannonia. 16. Ciò avvenne nel corso della campagna condotta da Marco in Pannonia (cfr. M. Ant., 14, 6). 17. Intorno al 175 d. C. 18. Il potente prefetto del pretorio sotto Commodo (cfr. Comm., 4-6 e 14). 19. Nel 185 d. C. 20. Cfr. Comm., 6, 11, n. 2, e 7, 1. 21. L’incarico qui affidato a Pertinace è quello di praefectus alimentorum, con competenza generale su tutto il territorio dell’Italia, ed è da lui ricoperto in quanto personaggio di rango consolare. Di minore portata era invece la carica avuta in precedenza (cfr. 2, 2) di procurator ad alimenta (una semplice procuratela equestre sexagenaria) nell’ambito di un singolo distretto, quello della via Emilia. 22. La divinità tutelare di Cartagine, Tanith, il cui culto nel periodo imperiale si diffuse dall’Africa settentrionale a vaste zone dell’impero; essa veniva chiamata a Roma Caelestis. Il testo appare corrotto: ho accolto, come SAMBERGER-SEYFARTH, la soluzione un po’ ardita ma certo assai interessante avanzata da G. C. PICARD, Pertinax et les prophètes de Caelestis, «Rev. hist. rel.», CLV, 1959, pp. 41 segg., che

propone di leggere, in luogo del tràdito earum, la parola canum, vedendovi la resa latina (canes) di un termine punico indicante i fanatici profeti della dea, responsabili dei disordini. Sulla dea Caelestis cfr. anche Op. Macr., 3, 1, n. 4. 23. Cfr. M. Ant., 3, 8, n. 3. 24. Nel 192 d. C. Il testo è corrotto, probabilmente a causa della caduta di una riga. 25. Cfr. CASSIO DIONE, LXXIII, 1, 2 e LXXIII, 5, 4; sui rapporti fra i due autori in riferimento a questo passo cfr. J. STRAUB, Cassius Dio und die HA, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 274 seg. 26. Secondo CASSIO DIONE, LXXIII, 10, 3, Pertinace aveva sessantasei anni. 27. Del 192 d. C. 28. Questo tempio sorgeva alle pendici del Campidoglio, sul lato nordovest del Foro Romano. Costruito nel 366 a. C. dal dittatore M. Furio Camillo per ricordare la pace fra patrizi e plebei, e ricostruito da Tiberio, era spesso sede delle riunioni del Senato (cfr. anche Al. Sev., 6, 2; Max. Balb., 1, 1; Prob., 11, 5). 29. La circostanza manca nel racconto di CASSIO DIONE (LXXIII, 1, 4), mentre ERODIANO (II, 3, 3-4) identifica il destinatario dell’offerta di Pertinace in M.’Acilio Glabrione. Su questo disaccordo tra le fonti cfr. F. KOLB, Literarische Beziehungen zwischen Cassius Dio, Herodian und der HA, Bonn, 1972, pp. 47 segg. 30. Q. Pompeo Sosio Falcone. 31. Come risulta da 6, 9 e da CASSIO DIONE, LXXIII, 7, 1-2, Pertinace negò alla moglie tale titolo, che risulta però attestato su iscrizioni e monete. 32. Cfr. M. Ant., 6, 6, n. 1. 33. Cfr. Comm., 16, 3, n. 4. 34. Ciò contrasta con quanto detto a 4, 11 (e confermato anche in CASSIO DIONE, LXXIII, 1, 4-5), ove Pertinace risulta essere stato eletto in piena legalità dal senato. 35. La legge in questione è rimasta recepita nel Codice Giustinianeo (Inst. Iust., II, 17, 7 seg.). 36. Figlio di Lolliano Avito, patrono del padre di Pertinace (cfr. 1, 5). 37. Cfr. Comm., 8, 8, n. 8. 38. Il cucullus Bardaicus era un mantello con cappuccio, di stoffa ruvida e pesante, il cui nome derivava probabilmente dalla popolazione illirica dei Bardei. 39. Sull’interpretazione del passo (particolarmente per ciò che attiene al senso del verbo sustulit e alle ragioni della mancata erogazione per nove anni degli alimenta) cfr. J. BÉRANGER, Pertinax et les alimenta: SHA Pert., 9, 3, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 75 segg., e A. R. BIRLEY, Pertinax and the alimenta, ibidem, pp. 87 segg. (diversamente E. LO CASCIO, Gli Alimenta e la ‘politica economica’ di Pertinace, «Riv. fil. istr. cl.», CVIII, 1980, pp. 264 segg.). I nove anni dovrebbero essere quelli tra il 184 e il 192 d. C. 40. L’attuale Vado Ligure, in provincia di Savona. 41. Lo smergo è una sorta di gabbiano, particolarmente noto per la sua voracità (cfr. PLINIO, Nat. Hist., XI, 202). Lucilio è il famoso poeta satirico del II secolo a. C. 42. Fabia Ceionia, la sorella di L. Vero, ricordata in M. Ant., 29, 10 e Ver., 10, 3-4. 43. Analoghi presagi avevano annunciato la morte di Cesare: cfr. CICERONE, De div., I, 119. 44. Originariamente il nome indicava il tempio di Atena ad Atene, dove retori e poeti declamavano le loro opere; tale appellativo fu dato poi da Adriano alla scuola superiore da lui fondata a Roma fra il 133 e il 136 d. C. (cfr. AURELIO VITTORE, Caes., 14, 3). Sulle menzioni di questa istituzione nel corso della HA e i dati cronologici da esse forniti cfr. H. BRAUNERT, Das Athenaeum zu Rom bei den ShA, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 9 segg. 45. I Tungri erano una popolazione della Gallia Belgica, che abitava nell’attuale territorio intorno a

Liegi. 46. Il passo riecheggia la descrizione della morte di Cesare in SVETONIO, Iul., 82, 2-3 (cfr. A. CHASTAGNOL, L’HA et les «Douze Césars» de Suétone, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 109 segg. e in partic. 115). 47. Cfr. Ver., 9, 5-6. 48. Cioè dopo che erano stati resi liberi dall’autorità paterna (patria potestas). 49. Grammatico, amico di Frontone. 50. Il 21 aprile. 51. Dal greco χρηστολóγοζ. L’appellativo è riportato anche in Epitome de Caesaribus, 18, 4 ove si dice che Pertinace era chiamato a quel modo in quanto blandus magis quam beneficus. 52. Forse una delle figlie di Marco Aurelio (cfr. Comm., 17, 12, n. 6). 53. CASSIO DIONE, LXXIII, 14, 4-5, riporta un fenomeno del genere (tre stelle apparse intorno al sole) in riferimento al regno di Didio Giuliano; cfr. in proposito STRAUB, Cass. Dio und die HA, cit., pp. 276 segg.; KOLB, Lit. Beziehungen, cit., pp. 61 segg. 54. In Africa; cfr. 4, 2 e Did. Iul., 2, 3. 55. Cioè fu concesso a Pertinace il tipo di funerale più solenne, quello riservato ai censori (proprio dell’epoca repubblicana, ma ripreso anche nel corso dell’impero). Il funus è qui detto imaginarium in quanto Pertinace era già stato sepolto da tempo, e in luogo del suo cadavere venne bruciata sul rogo una sua imago di cera. 56. Il 126 d. C. 57. Il 193 d. C. Visse dunque sessantasei anni, non sessanta come detto subito dopo.

IX. DIDIUS IULIANUS AELI SPARTIANI

DIDIO GIULIANO di ELIO SPARZIANO

[1, 1] Didio Iuliano, qui post Pertinacem imperium adeptus est, proavus fuit Salvius Iulianus1, bis consul, praefectus urbi et iuris consultus, quod magis eum nobilem fecit, [2] mater Clara Aemilia, pater Petronius Didius Severus, fr(atre)s Didius Proculus et Nummius Albinus, avunculus Salvius Iulianus, avus paternus Insubris2 Mediolanensis, maternus ex Adrumetina3 colonia. [3] Educatus est apud Domitiam Lucillam4, matrem Marci imperatoris. [4] Inter viginti viros5 lectus est suffragio matris Marci. Quaestor ante annum, quam legitima aetas sinebat6, designatus est. [5] Aedilitatem suffragio Marci consecutus est. [6] Praetor eiusdem suffragio fuit. Post praeturam legioni praefuit in Germania vicensimae secundae Primigeniae7. [7] Inde Belgicam8 sancte ac diu rexit. Ibi Cauchis, Germaniae populis, qui Albam fluvium adcolebant9, erumpentibus restitit tumultuariis auxiliis provincialium. [8] Ob quae consulatum meruit testimonio imperatoris. Cattos etiam debellavit. [9] Inde Dalmatiam regendam accepit eamque a confinibus hostibus vindicavit. Post Germaniam inferiorem rexit. [2, 1] Post hoc curam alimentorum10 in Italia meruit. Tunc factus est reus per quendam Severum classiarium militem coniurationis cum Salvio11 contra Commodum. Sed a Commodo, quia multos iam senatores occiderat et quidem nobiles ac potentes in causis maiestatis, ne tristius gravaretur, Didius liberatus est accusatore damnato. [2] Absolutus iterum ad regendam provinciam missus est. Bithyniam deinde rexit, sed non ea fama qua ceteras. [3] Fuit consul cum Pertinace12 et in proconsulatu Africae eidem successit et semper ab eo collega est et successor appellatus. Maxime eo die, cum filiam suam Iulianus despondens adfini suo ad Pertinacem venisset idque intimasset, dixit: «〈Sit〉que debita reverentia, quia collega et successor meus est». Statim enim mors Pertinacis secuta est. [4] Quo interfecto cum Sulpicianus imperator in castris appellari vellet et Iulianus cum genero ad senatum venisset, quem indictum acceperat, cumque clausas valvas invenisset atque illic duos tribunos repperisset, Publicium Florianum et Vectium Aprum, coeperunt cohortari tribuni, ut locum arriperet. [5] Quibus 〈cum〉 diceret iam alium imperatorem appellatum, retinentes eum ad praetoria castra duxerunt. [6] Sed posteaquam in castra ventum est, cum Sulpiciano praef. urbi, socero Pertinacis, contionante sibique imperium vindicante Iulianum e muro ingentia pollicentem nullus admitteret, primum Iulianus monuit praetorianos, ne eum facerent imperatorem, qui Pertinacem vindicaret; deinde scripsit in tabulis se

Commodi memoriam restituturum. [7] Atque ita et admissus est 〈et〉 imperator appellatus rogantibus praetorianis, ne Sulpiciano aliquid noceret, quod imperator esse voluisset. [3, 1] Tunc Iulianus Flavium Genialem et Tullium Crispinum suffragio praetorianorum praef. praetorii fecit stipatusque est caterva imperatoria per Maurentium, qui et ante Sulpiciano coniunxerat. [2] Sane cum vicena quina milia militibus promisisset, tricena dedit. [3] Inde habita contione militari vespera in senatum venit totumque se senatui permisit factoque senatus consulto imperator est appellatus et tribuniciam potestatem, ius proconsulare in patricias familias13 relatus emeruit. [4] Uxor etiam Mallia Scantilla et filia eius Didia Clara Augustae sunt appellatae. [5] Inde se ad Palatium recepit uxore ac filia illuc vocatis, trepidis invitis eo transeuntibus quasi iam imminens exitium praesagirent. [6] Praef. urbi Cornelium Repentinum, generum suum, fecit in locum Sulpiciani. [7] Erat interea in odio populi Didius Iulianus ob hoc, quod creditum fuerat emendationem temporum Commodi Pertinacis auctoritate reparandum habebaturque ita, quasi Iuliani consilio esset Pertinax interemptus. [8] Et iam hi primum, qui Iulianum odisse coeperant, disseminarunt prima statim die Pertinacis cena despecta luxuriosum parasse convivium ostreis et altilibus et piscibus adornatum. Quod falsum fuisse constat14; [9] nam Iulianus tantae parsimoniae fuisse perhibetur, ut per triduum porcellum, per triduum leporem divideret, si quis ei forte misisset, saepe autem nulla existente religione holeribus leguminibusque contentus sine carne cenaverit. [10] Deinde neque cenavit, priusquam sepultus esset Pertinax, et tristissimus cibum ob eius necem sumpsit et primam noctem vigiliis continuavit de tanta necessitate sollicitus. [4, 1] Ubi vero primum inluxit, senatum et equestrem ordinem in Palatium venientem admisit atque unumquemque, ut erat aetas, vel fratrem vel filium vel parentem adfatus blandissime est. [2] Sed populus in rostris atque ante curiam ingentibus eum conviciis lacessebat sperans deponi ab eo posse imperium, quod milites dederant. [lapidationem quoque fecere]. [3] Descendenti cum militibus et senatu in curiam diras inprecati sunt, rem divinam facienti, ne litaret, optarunt. [4] Lapides etiam in eum iecerunt, cum Iulianus manu eos semper placare cuperet. [5] Ingressus autem curiam, placide et prudenter verba fecit. Egit gratias, quod esset adscitus, quod et ipse et uxor et filia eius Augustorum nomen acceperunt. Patris patriae quoque nomen recepit, argenteam statuam respuit. [6] E senatu in Capitolium pergenti populus obstitit, sed ferro et vulneribus et pollicitationibus aureorum,

quos digitis ostendebat ipse Iulianus, ut fidem faceret, summotus atque depulsus est. [7] Inde ad circense spectaculum itum est. Sed occupatis indifferenter omnium15 subselliis populus geminavit convicia in Iulianum: Pescennium Nigrum, qui iam imperare dicebatur, ad urbis praesidium vocavit. [8] Haec omnia Iulianus placide tulit totoque imperii sui tempore mitissimus fuit; populus autem in milites vehementissime invehebatur, qui ob pecuniam Pertinacem occidissent. Multa igitur, quae Commodus statuerat, Pertinax tulerat, ad conciliandum favorem populi restituit. [9] De ipso Pertinace neque male neque bene quicquam egit, quod gravissimum plurimis visum est. [10] Constitit autem propter metum militum de honore Pertinacis tacitum esse. [5, 1] Et Iulianus quidem neque Brittannicos16 exercitus neque Illyricos timebat, Nigrum vero misso primipilario17 occidi praeceperat timens praecipue Syriacos exercitus. [2] Ergo Pescennius Niger in Illyrico, Septimius Severus in Syria18 cum exercitibus, quibus praesidebant, a Iuliano descivere. [3] Sed cum ei nuntiatum esset Severum descivisse, quem suspectum non habuerat, perturbatus est: ad senatum venit impetravitque, ut hostis Severus renuntiaretur; [4] militibus etiam, qui Severum secuti fuerant, dies praestitutus, ultra quam si cum Severo fuissent, hostium numero haberentur. [5] Missi sunt praeterea legati a senatu consulares ad milites, qui suaderent, ut Severus repudiaretur, et is esset imp(erator), quem senatus elegerat. [6] Inter ceteros legatus est Vespronius Candidus19 vetus consularis, olim militibus invisus ob durum et sordidum imperium. [7] Missus est successor Severo Valerius Catulinus, quasi posset ei succedi, qui militem iam sibi tenebat. [8] Missus praeterea Aquilius centurio, notus caedibus senatoriis, qui Severum occideret. [9] Ipse autem Iulianus praetorianos in campum deduci iubet, muniri turres, sed milites desides et urbana luxuria dissolutos invitissimos ad exercitium militare produxit, ita ut vicarios operis, quod uni cuique praescribebatur, mercede conducerent. [6, 1] Et Severus quidem ad urbem infesto agmine veniebat, sed Didius Iulianus nihil cum exercitu praetoriano proficiebat, quem cottidie populus et magis oderat et ridebat. [2] Et Iulianus sperans Laetum fautorem Severi, cum per eum Commodi manus evasisset, ingratus tanto beneficio iussit eum occidi. Iussit etiam Marciam una interfici. [3] Sed dum haec egit Iulianus, Severus classem Ravennatem20 occupat, legati senatus, qui Iuliano promiserant operam suam, ad Severum transierunt. [4] Tullius Crispinus, praef. praetorio, contra Severum missus, ut classem produceret, repulsus Romam redit. [5] Haec cum Iulianus videret, senatum

rogavit, ut virgines Vestales et ceteri sacerdotes cum senatu obviam exercitui Severi prodirent et praetentis infulis rogarent, inanem 〈rem〉 contra barbaros milites parans. [6] Haec tamen agenti Iuliano Plautius Quintillus21 consularis augur contradixit adserens non debere imperare eum, qui armis adversario non posset resistere. [7] Cui multi senatores consenserunt. Quare iratus Didius milites e castris petit, qui senatum ad obsequium cogerent aut obtruncarent. Sed id consilium displicuit. [8] Neque enim decebat, ut, cum senatus hostem Severum Iuliani causa iudicasset, eundem Iulianum pateretur infestum. [9] Quare meliore consilio ad senatum venit petitque, ut fieret senatus consultum de participatione imperii; quod statim factum est. [7, 1] Tunc omen, quod sibi Iulianus, cum imperium acciperet, fecerat, omnibus venit in mentem. [2] Nam cum consul designatus de eo sententiam dicens ita pronuntiasset: «Didium Iulianum imperatorem appellandum esse censeo», Iulianus suggessit: «Adde et Severum», quod cognomentum avi et proavi sibi Iulianus adsciverat. [3] Sunt tamen qui dicant, nullum fuisse Iuliani consilium de obtruncando senatu, cum tanta in eum senatus consuluisset. [4] Post senatus consultum statim Didius Iulianus unum ex praefectis, Tullium Crispinum, misit. [5] Ipse autem tertium22 fecit praefectum Veturium Macrinum; ad quem Severus litteras miserat, ut esset praef. [6] Sed pacem simulatam esse mandatamque caedem Severi Tullio Crispino, praef. praetorii, et populus locutus est et Severus suspicatus. [7] Denique hostem se Iuliano Severus esse maluit quam participem consensu militum. [8] Severus autem statim et ad plurimos Romam scripsit et occulte misit edicta, quae proposita sunt. [9] Fuit praeterea in Iuliano haec amentia, ut per magos pleraque faceret, quibus putaret vel odium populi deleniri vel militum arma conpesci. [10] Nam et quasdam non convenientes Romanis sacris23 hostias immolaverunt et carmina profana incantaverunt et ea, quae ad speculum ducunt fieri, in quod pueri praeligatis oculis incantato vertice respicere dicuntur, Iulianus fecit. [11] Tuncque puer vidisse dicitur et adventum Severi et Iuliani decessionem. [8, 1] Et Crispinus quidem cum occurrisset praecursoribus Severi, Iulio Laeto auctore a Severo interemptus est. [2] Deiecta sunt etiam consulta senatus. Iulianus convocato senatu quaesitisque sententiis, quid facto opus esset, certi nihil comperit a senatu. [3] Sed postea sponte sua gladiatores Capuae iussit armari per Lollianum Titianum24 et Claudium Pompeianum e Tarracinensi ad participatum evocavit, quod et gener25 imperatoris fuisset et diu militibus praefuisset. Sed hoc ille recusavit senem se et debilem luminibus respondens. [4] Transierant et ex Umbria milites ad Severum. [5] Et

praemiserat quidem litteras Severus, quibus iubebat interfectores Pertinacis servari. [6] Brevi autem desertus est ab omnibus Iulianus et remansit in Palatio cum uno de praefectis suis Geniali et genero Repentino. [7] Actum est denique, ut Iuliano senatus auctoritate abrogaretur imperium. Et abrogatum est, appellatusque statim Severus imperator, cum fingeretur, quod veneno se absumpsisset Iulianus. [8] Missi tamen a senatu, quorum cura per militem gregarium in Palatio idem Iulianus occisus est26 fidem Caesaris inplorans, hoc est Severi. [9] Filiam suam potitus imperio dato patrimonio emancipaverat, quod ei cum Augustae nomine statim sublatum est. [10] Corpus eius a Severo uxori Manliae Scantillae ac filiae ad sepulturam est redditum et in proavi monumenta translatum miliario quinto via Labicana27. [9, 1] Obiecta sane sunt Iuliano haec: quod gulosus fuisset, quod aleator, quod armis gladiatoriis exercitus esset, eaque omnia senex fecerit, cum antea numquam adulescens his esset vitiis infamatus. Obiecta est etiam superbia, cum ille etiam in imperio fuisset humillimus28. [2] Fuit autem contra humanissimus ad convivia, benignissimus ad suscriptiones, moderatissimus ad libertatem. [3] Vixit annis quinquaginta sex mensibus quattuor. Imperavit mensibus duobus diebus quinque29. [4] Reprehensum in eo praecipue, quod eos, quos regere auctoritate sua debuerat, regendae rei p. sibi praesules ipse fecisset.

[1, 1] Didio Giuliano, che salì al trono dopo Pertinace, era bisnipote di Salvio Giuliano1, che era stato console per due volte, prefetto della città e giureconsulto – ciò che più lo aveva reso celebre –; [2] sua madre era Clara Emilia, suo padre Petronio Didio Severo, suoi fratelli Didio Proculo e Nummio Albino, e aveva un Salvio Giuliano anche come zio; suo nonno paterno era un Insubre2 di Milano, quello materno era invece originario della colonia di Adrumeto3. [3] Fu educato presso Domizia Lucilla4, madre dell’imperatore Marco. [4] Grazie all’appoggio di lei fu eletto nella magistratura dei venti5. Venne designato questore un anno prima di aver raggiunto l’età legale6. [5] Grazie poi all’appoggio di Marco ottenne l’edilità. [6] Sempre grazie ad esso divenne pretore. Dopo la pretura ebbe il comando della ventiduesima legione Primigenia7 in Germania. [7] Governò quindi la Gallia Belgica8, con grande onestà e per lungo tempo. Lì, con le disordinate truppe ausiliarie costituite di provinciali, riuscì a tener testa agli attacchi dei Cauchi, una popolazione germanica che abitava le sponde del fiume Elba9. [8] Per tali meriti ottenne il consolato, su proposta dello stesso imperatore. Sconfisse duramente anche i Catti. [9] Quindi ebbe il governo della Dalmazia, e la difese dai nemici confinanti. Successivamente governò la Germania inferiore. [2, 1] Dopo di che ottenne l’incarico della sovraintendenza alle distribuzioni alimentari ai poveri10 sul territorio dell’Italia. Fu in quel tempo che egli venne accusato da un certo Severo, un soldato della flotta, di avere ordito insieme con Salvio11 una congiura contro Commodo. Ma Commodo, poiché aveva già messo a morte molti senatori, e per di più nobili e potenti, sotto l’accusa di lesa maestà, per non gravare la propria reputazione di un peso troppo odioso, liberò Didio facendo condannare l’accusatore. [2] Dopo l’assoluzione fu nuovamente inviato a governare una provincia. Ebbe allora il governo della Bitinia, nel quale però non si distinse come aveva fatto in tutti gli altri. [3] Fu console assieme a Pertinace12 e gli successe nel proconsolato d’Africa; e così fu sempre da lui chiamato suo collega e successore. E ciò risultò particolarmente significativo nel giorno in cui Giuliano, al momento di fidanzare sua figlia ad un parente, si era recato da lui per informarlo di ciò, quando Pertinace disse: «E vi sia il dovuto rispetto, poiché si tratta del mio collega e successore»; ché, poco dopo, egli morì. [4] Dopo che questi fu ucciso,

mentre Sulpiciano cercava di farsi proclamare imperatore nell’accampamento, Giuliano si era recato con il genero ad una seduta del senato della cui convocazione aveva ricevuto notizia; e, avendo trovati chiusi i cancelli della curia, vi incontrò invece due tribuni, Publicio Floriano e Vettio Apro, che cominciarono ad esortarlo ad impadronirsi del trono. [5] E sebbene egli dicesse loro che già un altro era stato proclamato imperatore, essi nondimeno lo trattennero conducendolo al castro pretorio. [6] Ma dopo che furono giunti all’accampamento, poiché, essendo in corso un’allocuzione di Sulpiciano, prefetto dell’urbe e suocero di Pertinace, che rivendicava a sé l’impero, nessuno lo lasciava entrare mentre, dal muro di cinta, faceva dal canto suo grandi promesse, Giuliano prima di tutto ammonì i pretoriani a non proclamare imperatore uno che avrebbe vendicato la morte di Pertinace; e poi si impegnò con una dichiarazione scritta a riabilitare la memoria di Commodo. [7] E così fu fatto entrare e proclamato imperatore: i pretoriani richiesero peraltro che non venisse colpito Sulpiciano per il fatto che aveva aspirato a diventare imperatore. [3, 1] Poi Giuliano procedette alla nomina, caldeggiata dai pretoriani stessi, di Flavio Geniale e Tullio Crispino quali loro prefetti, mentre la costituzione della guardia imperiale che lo accompagnava fu operata da Maurenzio, che in precedenza si era unito a Sulpiciano. [2] Sebbene poi avesse promesso ai soldati venticinquemila sesterzi a testa, ne distribuì loro trentamila. [3] Quindi, dopo aver tenuto un’allocuzione ai soldati, verso sera si recò in senato, mettendosi completamente agli ordini di esso; e, con la promulgazione di un decreto senatorio, fu proclamato imperatore, ottenendo la potestà tribunizia e le prerogative proconsolari, e fu assunto tra le famiglie patrizie13. [4] Inoltre venne concesso a sua moglie Mallia Scantilla e alla figlia Didia Clara l’appellativo di Auguste. [5] Poi si recò al Palazzo chiamandovi anche la moglie e la figlia, che vi si trasferirono con trepidazione e malvolentieri, quasi già presagissero l’imminente rovina. [6] Creò prefetto dell’urbe al posto di Sulpiciano suo genero Cornelio Repentino. [7] Intanto però Didio Giuliano era inviso al popolo, in quanto questo si era in precedenza convinto che l’autorità di Pertinace avrebbe portato un radicale rinnovamento rispetto al periodo commodiano, e Giuliano stesso era riguardato quasi come l’ideatore del complotto che aveva ucciso Pertinace. [8] E quanti avevano cominciato ad aver in odio Giuliano, già innanzitutto, sin dal primo giorno, andarono diffondendo la voce che, in spregio della frugalità delle cene di Pertinace, egli avesse allestito un lauto convito a base di ostriche, pollame e

pesci; ciò che risulta fosse falso14: [9] ché si narra invece che Giuliano fosse tanto parsimonioso che, se qualcuno gli mandava una porchetta o una lepre, la faceva durare per tre giorni, e spesso poi, anche se non vi era nessun motivo religioso a richiederlo, si accontentava di cenare con verdure e legumi senza carne. [10] Inoltre non volle cenare prima che fosse sepolto Pertinace, e dopo prese un po’ di cibo immerso nella più profonda tristezza per la morte di lui, trascorrendo poi quella prima notte in veglia, angosciato al pensiero di un impegno così gravoso. [4, 1] Non appena fu giorno, ricevette i senatori e i cavalieri che erano venuti al Palazzo, e si rivolse a ciascuno con parole molto cordiali, come ad un fratello, a un figlio o a un padre, a seconda dell’età. [2] Ma il popolo, attorno ai Rostri e davanti alla Curia, lo ricopriva di pesanti insulti, sperando che avrebbe deposto il potere imperiale che i soldati gli avevano conferito. [3] Mentre scendeva con i soldati ed i senatori nella Curia, la gente invocò contro di lui le Furie, e mentre stava celebrando il sacrifìcio, gli augurarono di non ottenere presagi favorevoli. [4] Giunsero persino a scagliargli contro delle pietre, sebbene Giuliano cercasse continuamente di invitarli alla calma con cenni della mano. [5] Entrato poi nella Curia, parlò con tranquillità e prudenza. Ringraziò i senatori per la sua elezione, e per il conferimento a lui, alla moglie, e alla figlia del titolo di Augusti. Accettò anche quello di padre della patria, mentre rifiutò una statua d’argento. [6] Mentre si dirigeva dal senato in Campidoglio, la gente gli sbarrò il passo, ma venne fatta sgombrare e allontanata a colpi di spada e con la promessa di monete d’oro, che lo stesso Giuliano, per farsi credere, mostrava fra le dita. [7] Quindi ci si recò allo spettacolo nel circo. Ma il popolo, occupati indiscriminatamente i posti di tutte le categorie sociali15, raddoppiò i suoi insulti contro Giuliano: e invocava per la salvezza della città Pescennio Nigro, che si diceva esser già stato eletto imperatore. [8] Giuliano sopportò pazientemente tutte queste manifestazioni ostili, e per l’intera durata del suo impero mostrò grande clemenza; il popolo, dal canto suo, inveiva violentemente contro i soldati, come rei di avere per denaro ucciso Pertinace. Nel tentativo dunque di accattivarsi il favore popolare, rimise in vigore molte disposizioni stabilite da Commodo, che Pertinace aveva abolito. [9] In merito a Pertinace non prese alcuna iniziativa né in bene né in male, ciò che a molti parve estremamente grave. [10] Ma apparve chiaro che egli dovette tacere sugli onori da tributare a Pertinace per timore dei soldati. [5, 1] Giuliano non temeva né gli eserciti della Britannia16 né quelli

dell’Illirico, ma, preoccupato invece in modo particolare da quelli della Siria, aveva mandato un primipilario17 con l’ordine di uccidere Nigro. [2] Fu così che Pescennio Nigro nell’Illirico, Settimio Severo in Siria18 si ribellarono a Giuliano assieme agli eserciti che erano ai loro ordini. [3] Quando gli fu annunziata la ribellione di Severo, sul conto del quale non aveva mai nutrito sospetti, ne rimase profondamente turbato: si recò in senato e ottenne che fosse dichiarato nemico pubblico; [4] ed anche ai soldati che avevano seguito Severo fu fissato un giorno oltre il quale, se fossero rimasti con Severo, sarebbero stati considerati alla stregua di nemici. [5] Il senato mandò quali ambasciatori ai soldati degli ex consoli, con il compito di convincerli ad abbandonare Severo, e ad accettare che fosse imperatore l’eletto del senato. [6] Tra gli altri inviati c’era Vespronio Candido19, un vecchio ex console, un tempo inviso ai soldati a motivo della sua rigidezza e avarizia nel comandare. [7] Fu mandato quale sostituto di Severo Valerio Catulino, come se si potesse realmente dare un successore a uno che aveva già in mano l’esercito. [8] Venne inoltre inviato il centurione Aquilio, noto per aver assassinato vari senatori, con l’incarico di uccidere Severo. [9] Giuliano stesso poi ordinò che si facessero scendere in campo i pretoriani e che si fortificassero le torri; ma erano dei soldati infiacchiti e rammolliti dai lussi della vita cittadina quelli che, contro loro voglia, egli voleva richiamare alla pratica militare, al punto che finivano per assumere a pagamento gente che li sostituisse nell’incarico assegnato a ciascuno di loro. [6, 1] E nel frattempo Severo si appressava minacciosamente a Roma con l’esercito, mentre Didio Giuliano non otteneva alcun risultato con l’esercito dei pretoriani, e ogni giorno il popolo maggiormente lo odiava e rideva di lui. [2] E inoltre Giuliano, sospettando in Leto un partigiano di Severo, nonostante fosse stato Leto a salvarlo dalle mani di Commodo, dimenticata ogni gratitudine per un tale servigio, lo fece mettere a morte. Ordinò inoltre che Marcia venisse uccisa assieme a lui. [3] Ma intanto che Giuliano prendeva questi provvedimenti, Severo si impadronì della flotta di Ravenna20, e gli ambasciatori del senato, che avevano promesso a Giuliano la loro opera, passarono dalla sua parte. [4] Il prefetto del pretorio Tullio Crispino, inviato contro Severo con l’incarico di far scendere in campo la flotta, fu respinto e costretto a rientrare a Roma. [5] Vedendo questa situazione, Giuliano propose in senato che le vergini Vestali e tutti gli altri sacerdoti, assieme agli stessi senatori, andassero in processione incontro all’esercito di Severo e, protendendo le sacre insegne, lo supplicassero – vano

tentativo di fronte ad un esercito di barbari. [6] Ma a questa proposta di Giuliano si oppose Plauzio Quintillo21, ex console e augure, affermando che non doveva essere imperatore chi non era in grado di resistere in armi a un nemico. [7] E molti senatori si dichiararono d’accordo con lui. Per il che Didio, preso dall’ira, chiamò i soldati fuori dagli accampamenti per costringere il senato ad obbedire, pena la morte. Ma tale progetto riscosse solo disapprovazione. [8] Non era infatti ammissibile che il senato, dopo avere dichiarato Severo nemico pubblico, quale atto di appoggio a Giuliano, dovesse poi subire l’ostilità di quest’ultimo. [9] Perciò, venuto a più miti consigli, si presentò in senato chiedendo che fosse promulgato un decreto in merito a una spartizione del potere imperiale; ciò che immediatamente ebbe luogo. [7, 1] Allora a tutti tornò alla mente un presagio di cui Giuliano stesso si era reso artefice nei propri confronti, al momento in cui aveva assunto il potere. [2] Infatti quando il console designato, esprimendo il suo voto su di lui, ebbe a dire: «Ritengo che Didio Giuliano debba essere nominato imperatore», Giuliano soggiunse: «Aggiungi anche Severo»; Giuliano aveva assunto infatti il cognome del nonno e del bisnonno. [3] Vi è tuttavia chi afferma che Giuliano non concepì mai il progetto di mettere a morte i senatori, dopo che il senato aveva decretato tante disposizioni a suo favore. [4] Dopo la promulgazione del decreto senatorio, subito Didio Giuliano ne affidò il recapito a uno dei prefetti, Tullio Crispino. [5] Creò poi quale terzo22 prefetto Veturio Macrino; al quale, però, Severo aveva già conferito la nomina per lettera. [6] Ma il popolo mormorava – e lo stesso Severo ne ebbe il sospetto – che le trattative di pace fossero una finzione, e che al prefetto del pretorio Tullio Crispino fosse stato dato incarico di assassinare Severo. [7] Alla fine questi, d’accordo con l’esercito, preferì essere nemico che non collega di Giuliano. [8] Egli scrisse immediatamente delle lettere per molte persone a Roma, e inviò di nascosto degli editti, che vennero resi noti. [9] Intanto Giuliano era stato preso dalla insana frenesia di far compiere a dei maghi una quantità di sortilegi, con i quali si illudeva fosse possibile placare l’odio del popolo, o fermare le armi dei soldati. [10] Infatti essi sacrificarono certe vittime solitamente estranee al culto romano23, e recitarono formule magiche profane, mentre Giuliano stesso ricorse al sortilegio che si ritiene avvenga davanti a uno specchio, nel quale si dice che dei fanciulli con gli occhi bendati, dopo che sono state pronunciate formule magiche sui loro capi, riescano a vedere, [11] E in quell’occasione – a quanto si dice – un fanciullo vide l’avvento al potere di Severo e la caduta di Giuliano.

[8, 1] Quanto a Crispino, quando incontrò le avanguardie dell’esercito di Severo, fu da quest’ultimo fatto uccidere, su suggerimento di Giulio Leto. [2] Furono inoltre aboliti i decreti del senato. Giuliano, convocato il senato e richiesto il parere dei senatori sul da farsi, non ne ebbe alcuna risposta precisa. [3] Successivamente comunque ordinò di propria iniziativa che Lolliano Tiziano24 armasse i gladiatori a Capua, e chiamò da Terracina Claudio Pompeiano per associarlo al potere, giacché era stato genero25 di un imperatore e aveva comandato a lungo l’esercito. Ma questi rifiutò, rispondendo di essere ormai vecchio e debole di vista. [4] Anche dall’Umbria soldati erano passati dalla parte di Severo. [5] Severo dal canto suo aveva inviato lettere nelle quali ordinava di tenere sotto controllo gli uccisori di Pertinace. [6] In breve Giuliano fu abbandonato da tutti e rimase solo nel Palazzo assieme ad uno dei suoi prefetti, Geniale, e al genero Repentino. [7] Infine si fece in modo che per autorità del senato venisse tolto a Giuliano il potere imperiale. Si procedette alla sua destituzione, e immediatamente fu proclamato imperatore Severo, mentre si faceva spargere la voce che Giuliano si era dato la morte col veleno. [8] In realtà furono inviati dal senato degli emissari che si occuparono di far uccidere Giuliano26 per mano di un soldato semplice nel Palazzo, mentre implorava la protezione del nuovo Cesare, cioè Severo. [9] Quando era salito al trono aveva emancipato sua figlia, conferendole un patrimonio, che ora subito le fu tolto assieme al titolo di Augusta. [10] Il suo corpo fu da Severo restituito per la sepoltura alla moglie Manlia Scantilla e alla figlia, e venne traslato nel monumento sepolcrale del bisavolo lungo la via Labicana27 a cinque miglia da Roma. [9, 1] Questi i difetti rimproverati a Giuliano: che era un goloso, un giocatore di dadi, che aveva la passione di fare il gladiatore, tutte abitudini prese in età molto avanzata, mentre in precedenza, da giovane, non si era mai macchiato di tali vizi. Gli veniva inoltre rinfacciato di essere superbo, mentre in realtà egli anche da imperatore fu persona assai modesta28. [2] Era del resto, al contrario, molto cordiale nei conviti, molto benigno nell’accogliere petizioni, veramente rispettoso della libertà altrui. [3] Visse cinquantasei anni e quattro mesi. Regnò per due mesi e cinque giorni29. [4] La maggiore critica nei suoi confronti fu di aver nominato a posti di responsabilità nel governo dello Stato individui che avrebbe invece dovuto tenere soggetti alla propria autorità.

1. Cfr. Hadr., 18, 1, n. 3. EUTROPIO (VIII, 17, 1) fa di Salvio semplicemente il nonno di Didio Giuliano: ciò appare effettivamente più verosimile, considerando che Salvio era nato verso la fine del I secolo d. C. e Didio non più tardi del 137 d. C. Sui personaggi ricordati nel corso della Vita cfr. H. G. PFLAUM, Les personnages nommément cités par la Vita Didii Iuliani de l’HA, in BHAC, 1971, Bonn, 1974, pp. 139 segg. 2. Gli Insubri erano una popolazione della Gallia Cisalpina. 3. Nell’odierna Tunisia, era capoluogo della regio Byzacena, a sud-est di Cartagine. 4. Cfr. M. Ant., 1, 3, n. 2. 5. In epoca imperiale il vigintivirato era costituito dalla riunione di quattro distinte magistrature che, complessivamente, raggiungevano il numero di venti membri; tra esse vi era anche il decemvirato litibus iudicandis (cfr. Hadr., 2, 2, n. 1), che un’iscrizione (CIL, VI, 1401) ci attesta essere stato rivestito da Didio. 6. Cfr. Ant. Pius, 6, 10, n. 3. 7. Costituita da Caligola nel 39 d. C., nel II e III secolo fu tenuta di stanza a Magonza. 8. La parte settentrionale della Gallia, fra la Marna, la Senna, il Reno e il Mare del Nord. 9. I Cauchi erano stanziati lungo la costa del Mare del Nord, tra le foci dell’Elba e dell’Ems. 10. Cfr. Pert., 4, 1, n. 4. 11. P. Salvio Giuliano. Cfr. Comm., 3, 2, n. 1. 12. Forse nel 175 d. C. Cfr. Pert., 14, 5. 13. Dopo la serie degli imperatori della famiglia giulio-claudia, tutti di estrazione patrizia, appariva necessario che i successivi principi di origine non nobile venissero formalmente ascritti dal senato a tale rango. 14. CASSIO DIONE invece, che è nettamente sfavorevole a Didio Giuliano – e il cui racconto deve perciò essere in questo caso accolto con molta cautela – presenta questa versione diffamatoria come un dato di fatto: cfr. LXXIII, 13, 1 dove si narra anche – in contrasto con quanto affermato nella Vita al § 10 – di un pranzo sontuoso consumato da Giuliano mentre il cadavere di Pertinace si trovava ancora nel Palazzo. Su queste e altre discrepanze della HA con le altre fonti in merito a questi avvenimenti cfr. F. KOLB, Literarische Beziehungen zwischen Cassius Dio, Herodian und der HA, Bonn, 1972, pp. 54 segg. e 61 segg. 15. Il popolo, cioè, occupò anche i posti riservati ai senatori e ai cavalieri. 16. Gli eserciti della Britannia erano al comando di Clodio Albino. 17. Così si chiamava il centurione che comandava o aveva in precedenza comandato il primo manipolo di triari (= i soldati più anziani, che costituivano in battaglia la terza linea). 18. Evidente confusione, giacché Pescennio Nigro si ribellò in Siria e Settimio Severo nell’Illirico (cfr. Pesc. Nig., 2, 1; Sev., 5, 1; CASSIO DIONE, LXXIII, 14, 3). L’errore riguardante Severo si riscontra anche a CI. Alb.,, 1, 1 e in AURELIO VITTORE, Caes., 19, 4. 19. Governatore della Dacia ai tempi di Commodo. 20. A Ravenna era acquartierata la flotta dell’Adriatico. 21. M. Peduceo Plauzio Quintillo fu console nel 177 d. C.; figlio di Ceionia Fabia, sorella di L. Vero, e marito di Fadilla, figlia di M. Aurelio, questo personaggio godeva di grandissima autorità. 22. L’elezione di un terzo prefetto del pretorio era un avvenimento piuttosto eccezionale, pur se attestato anche in altre occasioni (cfr. ad es. Comm., 6, 12). 23. Stando a CASSIO DIONE, LXXIII, 16, 5, sarebbero stati immolati anche dei bambini. 24. Altrimenti sconosciuto. 25. Cioè di Marco Aurelio (cfr. M. Ant., 20, 6). 26. Il 1° giugno del 193 d. C. 27. Usciva da Roma dalla Porta Prenestina (a sud-est della città), e prendeva il nome dalla città di Lavico (alle falde del monte Algido, a circa 22 km da Roma) presso la quale si congiungeva con la Via

Latina. 28. L’autore sembra non voler dare troppo credito alle accuse che venivano rivolte a Giuliano (al contrario ERODIANO, II, 7, 1 sottolinea ed accentua i suoi presunti difetti), nell’ambito di una presentazione che tende sostanzialmente a giustificare e presentare non in cattiva luce la sua figura; v’è chi ha pensato, a questo proposito, che l’autore della biografia possa essere addirittura un membro della famiglia dell’imperatore: su questo e altri aspetti generali della Vita cfr. J. EADIE, The reliability and origin of the Vita Didii Iuliani, «Ann. Sc. Norm. Sup. Pisa», IV, 1971, pp. 1409 segg. 29. CASSIO DIONE, LXXIII, 17, 5 riferisce invece che Giuliano visse sessant’anni, quattro mesi e quattro giorni, e regnò sessantasei giorni.

X. SEVERUS AELI SPARTIANI

SEVERO di ELIO SPARZIANO

[1, 1] Interfecto Didio Iuliano Severus Africa oriundus imperium optinuit. [2] Cui civitas Lepti1 pater Geta, maiores equites Romani ante civitatem omnibus datam2; mater Fulvia Pia, patrui magni Aper et Severus3, consulares, avus maternus Macer4, paternus Fulvius Pius fuere. [3] Ipse natus est Erucio Claro bis et Severo conss.5 VI. idus Apriles. [4] In prima pueritia, priusquam Latinis Graecisque litteris imbueretur, quibus eruditissimus fuit, nullum alium inter pueros ludum nisi ad iudices exercuit, cum ipse praelatis fascibus ac securibus ordine puerorum circumstante sederet ac iudicaret. [5] Octavo decimo anno publice declamavit. Postea studiorum causa Romam venit, latum clavum6 a divo Marco petit et accepit favente sibi Septimio Severo adfìni suo, bis iam consulari7. [6] Cum Romam venisset, hospitem nanctus, qui Hadriani vitam imperatoriam eadem hora legeret, quod sibi omen futurae felicitatis arripuit. [7] Habuit et aliud omen imperii: cum rogatus ad cenam imperatoriam palliatus8 venisset, qui togatus9 venire debuerat, togam praesidiariam ipsius imperatoris accepit. [8] Eadem nocte somniavit lupae se uberibus ut inhaerere vel Romulum. [9] Sedit et in sella imperatoria temere a ministro posita, ignarus quod non liceret. [10] Dormienti etiam in stabulo serpens caput cinxit et sine noxa expergefactis et adclamantibus familiaribus abiit. [2, 1] Iuventam plenam furorum, nonnumquam et criminum habuit. [2] Adulterii causam dixit absolutusque est a Iuliano10 proconsule, cui et in proconsulatu successit et in consulatu collega fuit et in imperio item successit. Quaesturam diligenter egit omisso tribunatu militari. [3] Post quaesturam sorte Baeticam11 accepit atque inde Africam petit, ut mortuo patre rem domesticam conponeret. [4] Sed dum in Africa est, pro Baetica Sardinia12 ei attributa est, quod Baeticam Mauri populabantur. [5] Acta igitur quaestura Sardiniensi legationem proconsulis Africae accepit13. [6] In qua legatione cum eum quidam municipum suorum Lepcitanus praecedentibus fascibus ut antiquum contubernalem ipse plebeius amplexus esset, fustibus eum sub elogio eiusdem praeconis cecidit: «Legatum p. R. homo plebeius temere amplecti noli». [7] Ex quo factum, ut in vehiculo etiam legati sederent, qui ante pedibus ambulabant. [8] Tunc in quadam civitate Africana, cum sollicitus mathematicum consuluisset positaque hora ingentia vidisset, astrologus dixit ei: [9] «Tuam non alienam pone genituram», cumque Severus iurasset suam esse, omnia ei dixit, quae postea facta sunt.

[3, 1] Tribunatum plebis Marco imperatore decernente promeruit eumque severissime exertissimeque egit. [2] Uxorem tunc Marciam14 duxit, de qua tacuit in historia vitae privatae15. Cui postea in imperio statuas conlocavit. [3] Praetor designatus a Marco est non in candida16, sed in conpetitorum grege anno aetatis XXXII. [4] Tunc ad Hispaniam missus somniavit primo sibi dici, ut templum Tarraconense Augusti17, quod iam labebatur, restitueret; [5] deinde ex altissimi montis vertice orbem terrarum Romamque despexit concinentibus provinciis lyra, voce vel tibia. Ludos absens edidit. [6] Legioni IIII. Scythicae dein praepositus est circa Massiliam18. [7] Post hoc Athenas petit studiorum sacrorumque causa et operum ac vetustatum. Ubi cum iniurias quasdam ab Atheniensibus pertulisset, inimicus his factus minuendo eorum privilegia iam imperator se ultus est. [8] Dein Lugdunensem19 provinciam legatus accepit. [9] Cum amissa uxore aliam vellet ducere, genituras sponsarum requirebat, ipse quoque matheseos peritissimus, et cum audisset esse in Syria quandam, quae id geniturae haberet, ut regi iungeretur, eandem uxorem petit, Iuliam20 scilicet, et accepit interventu amicorum. Ex qua statim pater factus est21. [4, 1] A Gallis ob severitatem et honorificentiam et abstinentiam tantum quantum nemo dilectus est. [2] Dein Pannonias proconsulari imperio rexit. Post hoc Siciliam proconsularem sorte meruit. [3] Suscepitque Romae alterum filium22. In Sicilia quasi de imperio vel vates vel Chaldaeos consuluisset, reus factus est. A praefect. praet., quibus audiendus datus fuerat, iam Commodo in odium veniente absolutus est calumniatore in crucem acto. [4] Consulatum cum Apuleio Rufino primum egit, Commodo se inter plurimos designante. Post consulatum anno ferme fuit otiosus; dein Laeto suffragante exercitui Germanico23 praeponitur. [5] Proficiscens ad Germanicos exercitus hortos spatiosos comparavit, cum antea aedes brevissimas Romae habuisset et unum fundum [in] Veientanum. [6] In his hortis cum humi iacens epularetur cum filiis parca cena pomaque adposita maior filius, qui tunc quinquennis erat, conlusoribus puerulis manu largiore divideret paterque illum reprehendens dixisset: «Parcius divide, non enim regias opes possides», quinquennis puer respondit: «Sed possidebo» inquit. [7] In Germaniam profectus ita se in ea legatione egit, ut famam, nobilitatam iam ante, cumularet. [5, 1] Et hactenus rem militarem privatus egit. Dehinc a Germanicis legionibus, ubi auditum est Commodum occisum, Iulianum autem cum odio cunctorum imperare, multis hortantibus repugnans imperator est appellatus

apud Carnuntum idibus Augustis24. [2] Qui etiam … sestertia, quodnemo umquam principum, militibus dedit. [3] Dein firmatis, quas post tergum relinquebat, provinciis Romam iter contendit cedentibus sibi cunctis, quacumque iter fecit, cum iam Illyriciani exercitus et Gallicani cogentibus ducibus in eius verba iurassent; [4] excipiebatur enim ab omnibus quasi ultor Pertinacis. [5] Per idem tempus auctore Iuliano Septimius Severus a senatu hostis est appellatus legatis ad exercitum senatus verbis missis qui iuberent, ut ab eo milites senatu praecipiente discederent. [6] Et Severus quidem cum audisset senatus consentientis auctoritate missos legatos, primo pertimuit, postea id egit corruptis legatis, ut apud exercitum pro se loquerentur transirentque in eius partes. [7] His compertis Iulianus senatus consultum fieri fecit de participando imperio cum Severo. [8] Incertum, vere id an dolo fecerit, cum iam ante misisset notos ducum interfectores quosdam, qui Severum occiderent, ita ut ad Pescennium Nigrum interficiendum miserat, qui et ipse imperium contra eum susceperat auctoribus Syriacis exercitibus. [9] Verum Severus evitatis eorum manibus, quos ad se interficiendum Iulianus miserat, missis ad praetorianos litteris signum vel deserendi vel occidendi Iuliani dedit statimque auditus est. [10] Nam et Iulianus occisus est in Palatio, et Severus Romam invitatus. [II] Ita, quod nulli umquam contigit, nutu tantum Severus victor est factus armatusque Romam contendit. [6, 1] Occiso Iuliano cum Severus in castris et tentoriis quasi per hosticum veniens adhuc maneret, centum senatores legatos ad eum senatus misit ad gratulandum rogandumque. [2] Qui ei occurrerunt Interamnae25 armatumque circumstantibus armatis salutarunt excussi, ne quid ferri haberent. [3] Et postera die occurrente omni famulitio aulico septingenos vicenos aureos legatis dedit [4] eosdemque praemisit facta potestate, si qui vellent remanere ac secum Romam redire. [5] Fecit etiam statim praefectum praetorii Flavium Iuvenalem, quem etiam Iulianus tertium praefectum sibi adsumpserat26. [6] Interim Romae ingens trepidatio militum civiumque, quod armatus contra eos Severus veniret, qui se hostem iudicassent. [7] His accessit quod comperit Pescennium Nigrum a Syriacis legionibus imperatorem appellatum. [8] Cuius edicta et litteras ad populum vel senatum intercepit per eos, qui missi fuerant, ne vel proponerentur populo vel legerentur in curia. [9] Eodem tempore etiam de Clodio Albino sibi substituendo cogitavit, cui Caesarianum decretum a Commodo iam videbatur imperium. [10] Sed eos ipsos pertimescens, de quibus recte iudicabat, Heraclitum ad optinendas Brittannias27, Plautianum28 ad occupandos Nigri liberos misit. [11] Cum Romam Severus venisset,

praetorianos cum subarmalibus inermes sibi iussit occurrere. Eosdem sic ad tribunal vocavit armatis undique circumdatis. [7, 1] Ingressus deinde Romam armatus cum armatis militibus Capitolium ascendit. Inde {in} Palatium eodem habitu perrexit praelatis signis, quae praetorianis ademerat, supinis, non erectis. [2] Tota deinde urbe milites in templis, in porticibus, in aedibus Palatinis quasi in stabulis manserunt, [3] fuitque ingressus Severi odiosus atque terribilis, cum milites inempta diriperent vastationem urbi minantes. [4] Alia die armatis stipatus non solum militibus, sed etiam amicis in senatum venit. In curia reddidit rationem suscepti imperii causatusque est, quod ad se occidendum Iulianus notos ducum caedibus misisset. [5] Fieri etiam senatus consultum coegit, ne liceret imperatori inconsulto senatu occidere senatorem. [6] Sed cum in senatu esset, milites per seditionem dena milia poposcerunt a senatu exemplo eorum, qui Augustum Octavianum Romam deduxerant tantumque acceperant. [7] Et cum eos voluisset comprimere Severus nec potuisset, tamen mitigatos addita liberalitate dimisit. [8] Funus deinde censorium29 Pertinacis imagini duxit eumque inter divos sacravit addito flamine et sodalibus Helvianis, qui Marciani fuerant. [9] Se quoque Pertinacem vocari iussit, quamvis postea id nomen aboleri voluerit quasi omen. Amicorum dehinc aes alienum dissolvit. [8, 1] Filias suas dotatas maritis Probo et Aetio dedit. Et cum Probo genero suo praefecturam urbi optulisset, ille recusavit dixitque minus sibi videri praefectum esse quam principis generum. [2] Utrumque autem generum statim consulem fecit, utrumque ditavit. [3] Alia die ad senatum venit et amicos Iuliani incusatos proscriptioni ac neci dedit. [4] Causas plurimas audivit. Accusatos a provincialibus iudices probatis rebus graviter punivit. [5] Rei frumentariae, quam minimam reppererat, ita consuluit, ut excedens vita septem annorum canonem p. R. relinqueret. [6] Ad orientis statum confirmandum profectus est30 nihil adhuc de Nigro palam dicens. [7] Ad Africam tamen legiones misit, ne per Libyam atque Aegyptum Niger Africam occuparet ac p. R. penuria rei frumentariae perurgeret. [8] Domitium Dextrum in locum Bassi praefectum urbi reliquit atque intra triginta dies, quam Romam venerat, est profectus. [9] Egressus ab urbe ad Saxa rubra31 seditionem ingentem ob locum castrorum metandorum ab exercitu passus est. [10] Occurrit ei et statim Geta frater suus32, quem provinciam sibi creditam regere praecepit aliud sperantem. [11] Nigri liberos ad se adductos in eo habuit honore, quo suos. [12] Miserat sane legionem, quae Graeciam Thraciamque praeciperet, ne eas Pescennius occuparet, sed

iam Byzantium Niger tenebat. [13] Perinthum33 etiam Niger volens occupare plurimos de exercitu interfecit atque ideo hostis cum Aemiliano34 est appellatus. [14] Cumque Severum ad participatum vocaret, contemptus est. [15] Promisit sane Nigro tutum exilium, si vellet, Aemiliano autem non ignovit. [16] Aemilianus dehinc victus in Hellesponto a Severi ducibus Cyzicum35 primum confugit atque inde in aliam civitatem, in qua eorum iussu occisus est. [17] Fusae sunt item copiae ab isdem ducibus etiam Nigri36. [9, 1] His auditis ad senatum Severus quasi confectis rebus litteras misit. Dein conflixit cum Nigro eumque apud Cyzicum37 interemit caputque eius pilo circumtulit. [2] Filios Nigri post hoc, quos suorum liberorum cultu habuerat, in exilium cum matre misit. [3] Litteras ad senatum de victoria dedit. Neque quemquam senatorum, qui Nigri partium fuerant, praeter unum supplicio adfecit. [4] Antiochensibus iratior fuit, quod et administrantem se in oriente inriserant et Nigrum etiam victum iuverant. Denique multa his ademit. [5] Neapolitanis38 etiam Palaestinensibus ius civitatis tulit, quod pro Nigro diu in armis fuerunt. [6] In multos [se] animadvertit, praeter ordinem senatorium, qui Nigrum fuerant secuti. [7] Multas etiam civitates eiusdem partis iniuriis adfecit et damnis. [8] Eos senatores occidit, qui cum Nigro militaverant ducum vel tribunorum nomine. [9] Deinde circa Arabiam plura gessit, Parthis etiam in dicionem redactis nec non etiam Adiabenis39, qui quidem omnes cum Pescennio senserant. [10] Atque ob hoc reversus triumpho delato appellatus est Arabicus Adiabenicus Parthicus. [11] Sed triumphum respuit, ne videretur de civili triumphare Victoria. Excusavit et Parthicum nomen, ne Parthos lacesseret. [10, 1] Redeunti sane Romam post bellum civile Nigri aliud bellum civile Clodi Albini nuntiatum est, qui rebellavit in Gallia40. Quare postea occisi sunt 〈filii eius〉 cum matre. [2] Albinum igitur statim hostem iudicavit et eos, qui ad illum mollius vel scripserunt vel rescripserunt. [3] Et cum iret contra Albinum, in itinere apud Viminacium41 filium suum maiorem Bassianum adposito Aurelii Antonini nomine Caesarem appellavit, ut fratrem suum Getam ab spe imperii, quam ille conceperat, summoveret. [4] Et nomen quidem Antonini idcirco filio adposuit, quod somniaverat Antoninum sibi successurum. [5] Unde Getam etiam quidam Antoninum putant dictum42, ut et ipse succederet in imperio. [6] Aliqui putant idcirco illum Antoninum appellatum, quod Severus ipse in Marci familiam transire voluerit. [7] Et primo quidem ab Albinianis Severi duces victi sunt. Tunc sollicitus cum

consuleret, a Pannonicianis auguribus comperit se victorem futurum, adversarium vero nec in potestatem venturum neque evasurum, sed iuxta aquam esse periturum. [8] Multi statim amici Albini deserentes venere, multi duces capti sunt, in quos Severus animadvertit. [11, 1] Multis interim varie gestis in Gallia primo apud Tinurtium43 contra Albinum felicissime pugnavit Severus; [2] cum quidem ingens periculum equi casu adit, ita ut mortuus ictu plumbeae crederetur, ita ut alius iam paene imperator44 ab exercitu diligeretur. [3] Eo tempore lectis actis, quae de Clodio Celsino laudando, qui Adrumetinus et adfinis Albini erat45, facta sunt, iratus senatui Severus, quasi hoc Albino senatus praestitisset, Commodum inter divos referendum esse censuit, quasi hoc genere se de senatu posset ulcisci. [4] Priusque inter milites divum Commodum pronuntiavit idque ad senatum scripsit addita oratione victoriae. [5] Senatorum deinde, qui in bello erant interempti, cadavera dissipari iussit. [6] Deinde Albini corpore adlato paene seminecis caput abscidi iussit Romamque deferri idque litteris prosecutus est. [7] Victus est Albinus die XI. kal. Martias46. Reliquum autem cadaver eius ante domum propriam exponi ac dividere iussit. [8] Equum praeterea ipse residens supra cadaver Albini egit expavescentemque admonuit, ut et effrenatus audacter protereret. [9] Addunt alii, quod idem cadaver in Rhodanum abici praecepit, simul etiam uxoris liberorumque eius. [12, 1] Interfectis innumeris Albini partium viris, inter quos multi principes civitatis, multae feminae inlustres fuerunt, omnium bona publicata sunt aerariumque auxerunt; cum et Hispanorum et Gallorum proceres multi occisi sunt. [2] Denique militibus tantum stipendiorum quantum nemo principum dedit. [3] Filiis etiam suis ex hac proscriptione tantum reliquit quantum nullus imperatorum, cum magnam partem auri per Gallias, per Hispanias, per Italiam imperatoriam fecisset. [4] Tuncque primum privatarum rerum procuratio constituta est47. [5] Multi sane post Albinum fìdem ei servantes bello a Severo superati sunt. [6] Eodem tempore etiam legio Arabica defecisse ad Albinum nuntiata est. [7] Ultus igitur graviter Albinianam defectionem interfectis plurimis, genere quoque eius extincto iratus Romam et populo et senatoribus venit. [8] Commodum in senatu et contione laudavit, deum appellavit, infamibus displicuisse dixit, ut appareret eum apertissime furere. [9] Post hoc de sua clementia disseruit, cum crudelissimus fuerit et senatores infra scriptos occiderit. [13, 1] Occidit autem sine causae dictione hos nobiles: Mummium

Secundinum, Asellium Claudianum, [2] Claudium Rufum, Vitalium Victorem, Papium Faustum, Aelium Celsum, Iulium Rufum, Lollium Professum, Aurunculeium Cornelianum, Antonium Balbum, Postumium Severum, [3] Sergium Lustralem, Fabium Paulinum, Nonium Gracchum, Masticium Fabianum, Casperium Agrippinum, Ceionium Albinum, Claudium Sulpicianum, [4] Memmium Rufìnum, Casperium Aemilianum, Cocceium Verum, Erucium Clarum, L. Stilonem. [5] Clodium Rufìnum, Egnatuleium Honoratum, [6] Petronium Iuniorem, Pescennios Festum et Veratianum et Aurelianum et Materianum et Iulianum et Albinum, Cerellios Macrinum et Faustinianum et Iulianum, [7] Herennium Nepotem, Sulpicium Canum, Valerium Catullinum, Novium Rufum, Claudium Arabianum, Marcum Asellionem. [8] Horum igitur tantorum ac tam inlustrium virorum48 – nam multi in his consulares, multi praetorii, omnes certe summi viri fuere – interfector ab Afris ut deus habetur. [9] Cincium Severum calumniatus est, quod se veneno adpetisset, atque ita interfecit. [14, 1] Narcissum dein, Commodi strangulatorem49, leonibus obiecit. Multos praeterea obscuri loci homines interemit praeter eos, quos vis proelii absumpsit. [2] Post haec, cum se vellet commendare hominibus, vehicularium munus a privatis ad fìscum traduxit50. [3] Caesarem dein Bassianum Antoninum a senatu appellari fecit decretis imperatoriis insignibus. [4] Rumor deinde belli Parthici extitit. Patri, matri, avo et uxori priori per se statuas conlocavit. [5] Plautianum51 ex amicissimo cognita eius vita ita odio habuit, ut et hostem publicum appellaret et depositis statuis eius per orbem terrae gravi eum insigniret iniuria, iratus praecipue, quod inter propinquorum et adfinium Severi simulacra suam statuam ille posuisset. [6] Palaestinis poenam remisit, quam ob causam Nigri meruerant52. [7] Postea iterum cum Plautiano in gratiam redit et veluti ovans53 urbem ingressus Capitolium petit, quamvis et ipsum procedenti tempore occiderit. [8] Getae minori filio togam virilem dedit, maiori Plautiani filiam54 uxorem iunxit. Hi, qui hostem publicum Plautianum dixerant, deportati sunt. [9] Ita omnium rerum semper quasi naturali lege mutatio est. [10] Filios dein consules designavit55. Getam fratrem extulit56. [11] Profectus dehinc57 ad bellum Parthicum est edito gladiatorio munere et congiario populo dato. [12] Multos inter haec causis vel veris vel simulatis occidit. [13] Damnabantur autem plerique, cur iocati essent, alii, cur tacuissent, alii, cur pleraque figurata dixissent, ut «Ecce imperator vere nominis sui, vere Pertinax, vere Severus».

[15, 1] Erat sane in sermone vulgari Parthicum bellum adfectare Septimium Severum gloriae cupiditate, non aliqua necessitate deductum58. [2] Traiecto denique exercitu a Brundisio continuato itinere venit in Syriam Parthosque summovit. [3] Sed postea in Syriam redit, ita ut se pararet ac bellum Parthis inferret. [4] Inter haec Pescennianas reliquias Plautiano auctore persequebatur, ita ut nonnullos etiam ex amicis suis quasi vitae suae insidiatores appeteret. [5] Multos etiam, quasi Chaldaeos aut vates de sua salute consuluissent59, interemit, praecipue suspectans unumquemque idoneum imperio, cum ipse parvulos adhuc filios haberet idque dici ab his vel crederet vel audiret, qui sibi augurabantur imperium. [6] Denique cum occisi essent nonnulli, Severus se excusabat et post eorum mortem negabat fieri iussisse, quod factum est. Quod de Laeto60 praecipue Marius Maximus dicit. [7] Cum soror sua Leptitana ad eum venisset vix Latine loquens ac de illa multum imperator erubesceret, dato filio eius lato clavo atque ipsi multis muneribus redire mulierem in patriam praecepit, et quidem cum filio, qui brevi vita defunctus est. [16, 1] Aestate igitur iam exeunte Parthiam ingressus Ctesifontem61 pulso rege pervenit et cepit hiemali prope tempore, quod in illis regionibus melius per hiemem bella tractantur, cum herbarum radicibus milites viverent atque inde morbos aegritudinesque contraherent. [2] Quare cum obsistentibus Parthis, fluente quoque per insuetudinem cibi alvo militum longius ire non posset, tamen perstitit et oppidum cepit et regem fugavit et plurimos interemit et Parthicum nomen meruit. [3] Ob {quae} etiam filium eius Bassianum Antoninum, qui Caesar appellatus iam fuerat, annum XIII. agentem participem imperii dixerunt milites. [4] Getam quoque, minorem filium, Caesarem dixerunt, eundem Antoninum, ut plerique in litteras tradunt, appellantes. [5] Harum appellationum causa donativum militibus largissimum dedit concessa omni praeda oppidi Parthici, quod milites quaerebant, inde in Syriam redit62 victor et Parthicus. [6] Deferentibus sibi patribus triumphum idcirco recusavit, quod consistere in curru affectus articulari morbo non posset. [7] Filio sane concessit, ut triumpharet; cui senatus Iudaicum triumphum decreverat, idcirco quod et in Syria res bene gestae fuerant a Severo. [8] Dein cum Antiochiam transisset, data virili toga filio maiori secum eum consulem designavit63, et statim in Syria consulatum inierunt. [9] Post hoc dato stipendio cumulatiore militibus Alexandriam petit64. [17, 1] In itinere Palaestinis plurima iura fundavit. Iudaeos fieri sub gravi

poena vetuit. Idem etiam de Christianis sanxit65. [2] Deinde Alexandrinis ius buleutarum dedit, qui sine publico consilio ita ut sub regibus66 ante vivebant uno iudice67 contenti, {quem} Caesar dedisset. [3] Multa praeterea his iura mutavit. [4] Iucundam sibi peregrinationem hanc propter religionem dei Sarapidis et propter rerum antiquarum cognitionem et propter novitatem animalium vel locorum fuisse Severus ipse postea semper ostendit; nam et Memfim68 et Memnonem69 et piramides et labyrinthum70 diligenter inspexit. [5] Et71 quoniam longum est minora persequi, huius magnifica illa, quod victo et occiso Iuliano praetorianas cohortes exauctoravit, Pertinacem contra voluntatem militum in deos rettulit, Salvii Iuliani decreta72 iussit aboleri; quod non optinuit. [6] Denique cognomentum Pertinacis non tam ex sua voluntate quam ex morum parsimonia videtur habuisse. [7] Nam et infinita multorum caede crudelior habitus et, cum quidam ex hostibus eidem se suppliciter optulisset atque dixisset ille quod facturus esset, non est mollitus tam prudente dicto, interfici eum iussit. [8] Fuit praeterea delendarum cupidus factionum, prope a nullo congressu 〈digressus〉 nisi victor. [18, 1] Persarum regem Abgarum73 subegit. Arabas in dicionem accepit. Adiabenos in tributarios coegit. [2] Brittanniam, quod maximum eius imperii decus est, muro per trans versam insulam ducto utrimque ad finem Oceani munivit74 Unde etiam Brittannici nomen accepit. [3] Tripolim, unde oriundus erat, contusis bellicosissimis gentibus securissimam reddidit ac p. R. diurnum oleum gratuitum et fecundissimum in aeternum donavit. [4] Idem cum inplacabilis delictis fuit, tum ad erigendos industrios quosque iudicii singularis. [5] Philosophiae ac dicendi studiis satis deditus, doctrinae quoque nimis cupidus. Latronum ubique hostis. [6] Vitam suam privatam publicamque ipse composuit ad fidem, solum tamen vitium crudelitatis excusans. [7] De hoc senatus ita iudicavit illum aut nasci non debuisse aut mori75, quod et nimis crudelis et nimis utilis rei publicae videretur. [8] Domi tamen minus cautus, qui uxorem Iuliam famosam adulteriis tenuit, ream etiam coniurationis76. [9] Idem, cum pedibus aeger bellum moraretur idque milites anxie ferrent eiusque filium Bassianum, qui una erat, Augustum fecissent, tolli se atque in tribunal ferri iussit, adesse deinde omnes tribunos, centuriones, duces et cohortes, quibus auctoribus id acciderat, sisti deinde filium, qui Augusti nomen acceperat. [10] Cumque animadverti in omnes auctores facti praeter filium iuberet rogareturque omnibus ante tribunal prostratis, caput manu contingens ait: [11] «Tandem

sentitis caput imperare, non pedes»77. Huius dictum est, cum eum ex humili per litterarum et militiae officia ad imperium plurimis gradibus fortuna duxisset: «Omnia», inquit, «fui et nihil expedit». [19, 1] Perit78 Eboraci79 in Brittannia subactis gentibus, quae Brittanniae videbantur infestae, anno imperii XVIII., morbo gravissimo extinctus, iam senex. [2] Reliquit filios duos, Antoninum Bassianum et Getam, cui et ipsi in honorem Marci Antonini nomen inposuit. [3] Inlatus sepulchro Marci Antonini80, quem ex omnibus imperatoribus tantum coluit, ut et Commodum in divos referret et Antonini nomen omnibus deinceps quasi Augusti adscribendum putaret. [4] Ipse a senatu agentibus liberis, qui ei funus amplissimum exhibuerant, inter divos est relatus. [5] Opera publica praecipua eius extant Septizonium81 et thermae Severianae82, eiusdemque septimianae83 in Transtiberina regione ad portam nominis sui84, quarum forma intercidens statim usum publicum invidit. [6] Iudicium de eo post mortem magnum omnium fuit, maxime quod diu nec a filiis eius boni aliquid rei p. venit et postea invadentibus multis rem p. res Romana praedonibus direptui fuit. [7] Hic tam exiguis vestibus usus est, ut vix et tunica eius aliquid purpurae haberet, cum hirta clamyde umeros velaret. [8] Cibi parcissimus, leguminis patrii85 avidus, vini aliquando cupidus, carnis frequenter ignarus. [9] Ipse decorus, ingens86, promissa barba, cano capite et crispo, vultu reverendus, canorus voce, sed Afrum quiddam usque ad senectutem sonans. [10] Ac multum post mortem amatus vel invidia deposita vel crudelitatis metu. [20, 1] Legisse me apud Aelium Maurum Phlegontis Hadriani libertum87 memini Septimium Severum inmoderatissime, cum moreretur, laetatum, quod duos Antoninos pari imperio rei p. relinqueret exemplo Pii, qui Verum et Marcum Antoninos per adoptionem filios rei p. reliquit, [2] hoc melius quod ille filios per adoptionem, hic per se genitos rectores Romanae rei p. daret: Antoninum scilicet Bassianum quidem ex priore matrimonio susceperat88 et Getam de Iulia genuerat. [3] Sed illum multum spes fefellit. Nam unum parricidium89, alterum sui mores rei p. inviderunt, sanctumque illud nomen90 in nullo diu bene mansit. [4] Et reputanti mihi, Diocletiane Auguste, neminem facile [prope] magnorum virorum optimum et utilem filium reliquisse satis claret. [5] Denique aut sine liberis viri interierunt aut tales habuerunt plerique, ut melius fuerit de rebus humanis sine posteritate discedere. [21, 1] Et ut ordiamur a Romulo: hic nihil liberorum reliquit, nihil Numa

Pompilius, quod utile posset esse rei p. Quid Camillus? Num sui similes liberos habuit? Quid Scipio?91 Quid Catones qui magni fuerunt? [2] Iam vero quid de Homero, Demosthene, Vergilio, Crispo92 et Terentio, Plauto ce-terisque aliis loquar? Quid de Caesare? Quid de Tullio, cui soli melius fuerat liberos non habere?93 [3] Quid de Augusto, qui nec adoptivum bonum filium habuit, cum illi legendi potestas fuisset ex omnibus? Falsus est etiam ipse Traianus in suo municipe ac nepote94 diligendo. [4] Sed ut omittamus adoptivos, ne nobis Antonini Pius et Marcus95, numina rei publicae, occurrant, veniamus ad genitos. [5] Quid Marco felicius fuisset, si Commodum non reliquisset heredem? [6] Quid Severo Septimio, si Bassianum nec genuisset? Qui statim insimulatum fratrem insidiarum contra se cogitatarum parricidali etiam figmento interemit; [7] qui novercam suam – et quid novercam? matrem quin immo, in cuius sinu Getam filium eius occiderat, uxorem duxit; [8] qui Papinianum96, iuris asylum et doctrinae legalis thesaurum, quod parricidium excusare noluisset, occidit, et praefectum quidem, ne homini per se et per scientiam suam magno deesset et dignitas. [9] Denique, ut alia omittam, ex huius moribus factum puto, 〈ut〉 Severus tristior vir ad omnia, immo etiam crudelior pius et dignus deorum altaribus duceretur. [10] Qui quidem divinam Sallusti orationem, qua Micipsa filios ad pacem hortatur97, ingravatus morbo misisse filio dicitur maiori. Idque frustra. Et † hominem tantum valetudine. [11] Vixit denique in odio populi diu Antoninus, nomenque illud venerabile diu minus amatum est, quamvis et vestimenta populo dederit, unde Caracallus est dictus, et thermas magnificentissimas fecerit. [12] Extat sane Romae Severi porticus98 gesta eius exprimens a filio, quantum plurimi docent, structa. [22, 1] Signa mortis eius haec fuerunt: ipse somniavit quattuor aquilis et gemmato curru praevolante nescio qua ingenti humana specie ad caelum esse raptum; cumque raperetur, octoginta et novem numeros explicuisse, ultra quot annos ne unum quidem annum vixit99, nam ad imperium senex venit; [2] cumque positus esset in circulo ingenti aereo, diu solus et destitutus stetit. Cum vereretur autem, ne praeceps rueret, a Iove se vocatum vidit atque inter Antoninos locatum. [3] Die circensium cum tres Victoriolae more solito essent locatae gypseae cum palmis, media, quae ipsius nomine adscriptum orbem tenebat, vento icta de podio stans decidit et humi constitit; ea quae Getae nomine inscripta erat, corruit et omnis comminuta est; illa vero, quae Bassiani titulum praeferebat, amissa palma venti turbine vix constitit. [4] Post murum apud vallum visum in Brittannia cum ad proximam mansionem rediret non

solum victor sed etiam in aeternum pace fundata volvens animo, quid ominis sibi occurreret, Aethiops100 quidam e numero militari, clarae inter scurras famae et celebratorum semper iocorum, cum corona e cupressu facta eidem occurrit. [5] Quem cum ille iratus removeri ab oculis praecepisset et coloris eius tactus omine et coronae, dixisse ille dicitur ioci causa: «Totum fuisti, totum vicisti, iam deus esto victor». [6] Et civitatem veniens cum rem divinam vellet facere, primum ad Bellonae templum ductus est errore haruspicis rustici, deinde hostiae furvae sunt adplicitae. [7] Quod cum esset aspernatus atque ad Palatium101 se reciperet, neglegentia ministrorum nigrae hostiae, et usque ad limen domus Palatinae, imperatorem secutae sunt. [23, 1] Sunt per plurimas civitates opera eius insignia. Magnum vero illud in civilitate eius, quod Romae omnes aedes publicas, quae vitio temporum labebantur, instauravit nusquam prope suo nomine adscripto102, servatis tamen ubique titulis conditorum. [2] Moriens septem annorum canonem, ita ut cottidiana septuaginta quinque milia modium expendi possent, reliquit; olei vero tantum, ut per quinquennium non solum 〈urbis〉 usibus, sed et totius Italiae, quae oleo eget, sufficeret. [3] Ultima verba eius dicuntur haec fuisse: «Turbatam rem p. ubique accepi, pacatam etiam Brittannis relinquo, senex ac pedibus aeger firmum imperium Antoninis meis relinquens, si boni erunt, inbecillum, si mali»103. [4] Iussit deinde signum tribuno dari «laboremus»104, quia Pertinax, quando in imperium adscitus est, signum dederat «militemus». [5] Fortunam deinde regiam, quae comitari principes et in cubiculis poni solebat105, geminare statuerat, ut sacratissimum simulacrum utrique relinqueret filiorum; [6] sed cum videret se perurgueri sub hora mortis, iussisse fertur, ut alternis diebus apud filios imperatores in cubiculis Fortuna poneretur. [7] Quod Bassianus prius contempsit quam faceret parricidium. [24, 1] Corpus eius a Brittannia Romam usque cum magna provincialium reverentia susceptum est; [2] quamvis aliqui urnulam auream106 tantum fuisse dicant Severi reliquias continentem eandemque Antoninorum sepulchro inlatam, cum Septimius illic, ubi vita functus est, esset incensus. [3] Cum Septizodium107 faceret, nihil aliud cogitavit quam ut ex Africa venientibus suum opus occurreret [4] et, nisi absente eo per praefectum urbis medium simulacrum eius esset locatum, aditum Palatinis aedibus, id est regium 〈in〉 atrium, ab ea parte facere voluisse perhibetur. [5] Quod etiam post Alexander108 cum vellet facere, ab aruspicibus dicitur esse prohibitus,

cum hoc sciscitans non litasset.

[1, 1] Dopo l’uccisione di Didio Giuliano, prese il potere Severo, originario dell’Africa. [2] Era nativo di Leptis1, e figlio di Geta; i suoi antenati erano cavalieri romani prima ancora che venisse concessa a tutti la cittadinanza romana2; sua madre era Fulvia Pia, suoi prozii dal lato paterno Apro e Severo3, ex consoli, suo nonno materno Macro4, paterno Fulvio Pio. [3] Nacque l’8 aprile dell’anno corrispondente al secondo consolato di Erucio Claro e al primo di Severo5. [4] Nella sua prima fanciullezza, prima di essere avviato allo studio delle lettere latine e greche – nelle quali giunse a somma erudizione l’unico suo gioco cogli altri fanciulli fu quello del giudice, nel quale egli, dopo la processione preceduta dai fasci e le scuri, sedeva e giudicava attorniato dalla schiera dei compagni. [5] A diciott’anni tenne in pubblico una declamazione. Poi si recò a Roma per continuare gli studi: con l’appoggio del suo parente Settimio Severo, già due volte console6, chiese ed ottenne dal divo Marco il laticlavio7. [6] Giunto a Roma, si imbatté in un ospite che in quel preciso momento stava leggendo la vita dell’imperatore Adriano: ciò che egli prese come presagio della sua futura fortuna. [7] Ebbe anche un altro preannuncio dell’impero: una volta che, invitato a cena dall’imperatore, vi si era recato indossando il pallio8 – mentre avrebbe dovuto presentarvisi in toga9 – ricevette in prestito una toga da parata dello stesso imperatore. [8] Quella stessa notte sognò di succhiare le mammelle di una lupa, come Remo e Romolo. [9] Gli capitò inoltre di sedersi sul trono imperiale che un servo sbadatamente gli aveva accostato, senza sapere che era proibito. [10] Un’altra volta ancora, mentre stava dormendo in una locanda, un serpente gli si avvolse intorno al capo e, tra le grida dei familiari destatisi, se ne andò senza fargli alcun male. [2, 1] Condusse una giovinezza disseminata di passioni inconsulte, talvolta anche di delitti. [2] Dovette difendersi da un’accusa di adulterio, e ne fu assolto dall’allora proconsole Giuliano10, al quale successe nel proconsolato e di cui fu collega nel consolato, succedendogli poi anche nell’impero. Ricoprì la questura – che esercitò con zelo – senza essere stato prima tribuno militare. [3] Dopo la questura ebbe in sorte il governo della Betica11, e di lì si recò in Africa per sistemare il patrimonio familiare dopo la morte del padre. [4] Ma, mentre si trovava in Africa, gli venne assegnata la Sardegna al posto della Betica12, dato che quest’ultima era in preda alle scorrerie dei Mauri. [5]

Esercitata dunque la questura in Sardegna, ricevette la nomina al proconsolato d’Africa13. [6] Nel corso di esso capitò una volta che un suo concittadino di Leptis benché fosse un plebeo, gli gettò le braccia al collo quale suo vecchio compagno d’armi, mentre lui procedeva preceduto dai littori: egli allora lo fece frustare, facendo contemporaneamente ripetere al banditore: «O uomo plebeo, non ardire di abbracciare un legato del popolo romano!». [7] Dal che venne in uso che anche i legati, che prima andavano a piedi, impiegassero la carrozza. [8] Sempre in quel periodo, preoccupato del futuro, consultò in una città africana un astrologo, il quale, tratto l’oroscopo, e avendo visto grandi cose, gli disse: [9] «Dammi i tuoi dati di nascita, non quelli di un altro»; e dopo che Severo gli ebbe giurato che erano veramente i suoi, gli predisse tutto ciò che poi realmente accadde. [3, 1] Per volere dell’imperatore Marco ottenne il tribunato della plebe, e lo esercitò con grande serietà ed energia. [2] Fu allora che sposò Marcia14 della quale non fece mai menzione nella storia della sua vita da privato15. Ma quando fu imperatore le dedicò poi delle statue. [3] A trentadue anni fu designato pretore da Marco non fra un gruppo di candidati16, ma tra una folla di competitori. [4] Fu poi mandato in Spagna, dove prima sognò che gli venisse dato l’ordine di restaurare il tempio di Augusto a Tarragona17, ormai cadente; [5] successivamente gli parve di contemplare dalla vetta di un monte altissimo il mondo intero e Roma, mentre le province lo acclamavano cantando al suono della lira e del flauto. Pur assente da Roma, indisse dei giochi. [6] In seguito fu posto al comando della quarta legione Scitica di stanza a Marsiglia18. [7] Dopo di ciò si recò ad Atene per approfondirvi i suoi interessi culturali e religiosi, nonché per conoscere le opere pubbliche e gli antichi monumenti. Avendo là subito certi atti irriguardosi da parte degli Ateniesi, divenne loro nemico e, una volta salito al potere, si vendicò col limitare i privilegi di cui godevano. [8] Poi ricevette quale legato la provincia Lugdunese19. [9] Perduta la moglie e volendo risposarsi, andava esaminando l’oroscopo delle possibili spose – essendo egli stesso espertissimo in fatto di astrologia –, e avendo sentito dire che vi era in Siria una giovane il cui oroscopo prediceva che si sarebbe unita ad un re, la richiese in moglie – si chiamava Giulia20 – e, grazie ai buoni uffici di alcuni amici, la poté avere. Ed essa ben presto lo rese padre21. [4, 1] A motivo della sua serietà, decoro e sobrietà, fu amato dai Galli quant’altri mai. [2] In seguito ebbe il governo proconsolare della Pannonia.

Dopo di che ottenne in sorte la provincia proconsolare della Sicilia. [3] A Roma intanto ebbe il suo secondo figlio22. In Sicilia fu accusato di avere consultato indovini e astrologi Caldei sulla successione dell’impero. Ma i prefetti del pretorio, cui era stato consegnato per l’interrogatorio, nel clima di ostilità che andava ormai diffondendosi nei confronti di Commodo, lo assolsero, facendo mettere in croce l’autore della calunniosa accusa. [4] Esercitò il suo primo consolato assieme ad Apuleio Rufino, su designazione diretta di Commodo, che lo scelse fra molti. Dopo il consolato rimase inattivo per circa un anno; poi, grazie all’appoggio di Leto, fu posto a capo dell’esercito di Germania23. [5] Mentre era in procinto di partire per raggiungere gli eserciti di stanza in Germania, acquistò un vasto parco, mentre in precedenza possedeva unicamente un’abitazione assai modesta a Roma e un unico fondo nel territorio di Veio. [6] Proprio in questo parco una volta stava consumando seduto per terra una parca cena assieme ai figli, quando il maggiore di essi, che aveva allora cinque anni, prese a distribuire con troppa larghezza tra i piccoli compagni di gioco la frutta che era stata servita: avendolo allora il padre rimproverato col dirgli: «Sii più moderato a distribuire, ché non possiedi le ricchezze di un sovrano», quel piccolo di cinque anni rispose: «Ma le possiederò». [7] Partito per la Germania, operò nell’esercizio di quell’incarico in modo tale da incrementare la fama già in precedenza diffusasi su di lui. [5, 1] E fin qui la sua carriera militare condotta quando era ancora un privato. Nel periodo successivo, quando si diffuse la notizia che Commodo era stato ucciso, e che d’altro canto Giuliano si trovava ad esercitare il potere fra l’ostilità generale, il 13 di agosto nei pressi di Carnunto24 fu acclamato imperatore dalle legioni di Germania, tra le esortazioni di molti che cercavano di vincere la sua ritrosia. [2] Allora egli giunse a distribuire ai soldati una somma di […] sesterzi, quanto nessun principe aveva mai fatto. [3] Poi, consolidata la situazione delle province che lasciava dietro di sé, puntò la sua marcia verso Roma, senza incontrare alcuna resistenza dovunque ebbe a passare, giacché gli eserciti dell’Illirico e della Gallia, sotto la guida dei loro comandanti, avevano già abbracciato la sua causa; [4] era infatti riguardato da tutti come il vendicatore di Pertinace. [5] Nel frattempo su proposta di Giuliano Settimio Severo venne dal senato dichiarato nemico pubblico e furono mandati all’esercito per disposizione del senato dei messi a trasmettere ai soldati l’ordine di defezionare da lui, in nome di quanto il senato stesso aveva decretato. [6] Dal canto suo Severo, quando seppe che i messaggeri erano stati inviati per disposizione unanime del senato, dapprima fu preso da

timore, poi, corrotti gli inviati stessi, ottenne che parlassero all’esercito in suo favore e passassero dalla sua parte. [7] Venuto a conoscenza di questi fatti, Giuliano fece promulgare un decreto senatorio per la spartizione dell’impero con Severo, [8] ma non si sa bene se lo abbia fatto in buona fede o tramando un inganno, dal momento che in precedenza aveva già mandato certi individui che avevano fama di aver ucciso dei generali, a sopprimere Severo, così come aveva inviato sicari ad uccidere Pescennio Nigro, il quale pure, acclamato imperatore dagli eserciti di Siria, aveva assunto il potere in opposizione a lui. [9] Ma Severo, sfuggito dalle mani dei sicari inviati da Giuliano ad ucciderlo, mandò ai pretoriani delle lettere con le quali ordinava loro di abbandonare Giuliano o di sopprimerlo, e subito fu ubbidito. [10] Infatti Giuliano fu ucciso nel Palazzo, e Severo venne invitato ad entrare in Roma. [11] E così – cosa che non era mai toccata ad alcuno – Severo si trovò vincitore in virtù di un semplice comando, e si diresse con le truppe verso Roma. [6, 1] Dopo l’uccisione di Giuliano, poiché Severo continuava a rimanere accampato e chiuso nella sua tenda, come se stesse avanzando in territorio nemico, il senato gli inviò un’ambascieria di cento senatori per congratularsi e chiedere il suo perdono. [2] Essi lo incontrarono a Interamna25, e furono ammessi a porgergli omaggio – armato e circondato da uomini armati – dopo essere stati perquisiti, onde non avessero con sé delle armi. [3] Il giorno successivo, essendo venuto ad incontrarlo tutto il personale di corte, distribuì settecentoventi monete d’oro ad ogni messo, [4] e li mandò avanti, offrendo peraltro a quanti lo volessero la possibilità di restare e tornare a Roma con lui. [5] Nominò inoltre subito quale prefetto del pretorio Flavio Giovenale, che anche Giuliano si era assunto quale terzo prefetto26. [6] Frattanto a Roma c’era grande agitazione fra i soldati e i cittadini, al pensiero che Severo stava marciando in armi contro coloro che lo avevano dichiarato nemico pubblico. [7] A ciò si aggiunse che egli venne a sapere che Pescennio Nigro era stato proclamato imperatore dalle legioni di Siria. [8] Grazie alla connivenza dei messi, riuscì ad intercettare i proclami e le lettere inviati da quello al popolo e al senato, in modo che non fossero portati a conoscenza del popolo o letti in senato. [9] In quel medesimo tempo prese inoltre in esame la possibilità di farsi succedere Clodio Albino, al quale sembrava che già da Commodo fosse stata conferita l’autorità di Cesare. [10] Ma avendo forte timore proprio di quelle persone, sulle quali nutriva una giusta opinione, inviò Eraclito ad assicurare il possesso della Britannia27, e Plauziano28 a sequestrare i figli di Nigro. [11] Giunto a Roma, Severo ordinò che i pretoriani gli andassero

incontro indossando solo la tunica. E così inermi li convocò presso il palco, dopo aver dislocato tutt’intorno soldati armati. [7, 1] Poi, entrato in Roma, sempre armato e scortato da soldati armati, salì al Campidoglio. Di là, con lo stesso apparato, si recò a Palazzo, preceduto dalle insegne che aveva tolto ai pretoriani, tenute con le punte non erette, ma rivolte verso il basso. [2] Quindi, per tutta la città, i soldati si installarono nei templi, nei portici, nei palazzi del Palatino come se fossero alberghi, [3] e l’ingresso di Severo risultò quindi odioso e spaventevole, ché i soldati facevano razzia di tutto senza pagare, minacciando di mettere a sacco l’intera città. [4] Il giorno successivo si recò in senato, scortato non solo da soldati, ma anche da una schiera di amici armati. In quel consesso diede ragione della sua iniziativa di assumere il potere, e addusse a giustificazione il fatto che Giuliano aveva mandato per farlo uccidere dei sicari noti per aver già ucciso dei generali. [5] Fece inoltre promulgare un decreto senatorio in base al quale non fosse consentito all’imperatore mettere a morte un senatore, senza aver consultato il senato stesso. [6] Ma mentre si trovava ancora nella curia, i soldati tumultuando richiesero al senato diecimila sesterzi a testa, appellandosi all’esempio di quelli che avevano scortato in Roma Ottaviano Augusto, e avevano ricevuto appunto tale somma. [7] E, dopo aver tentato di metterli a tacere senza riuscirvi, Severo poté tuttavia farli ritirare placandoli con la concessione di un donativo. [8] Poi rese all’immagine di Pertinace onori funebri di rango censorio29, e lo consacrò dio, decretandogli un flamine e una confraternita di sacerdoti Elviani – quelli che prima erano stati i Marciani. [9] Volle pur egli essere chiamato Pertinace, anche se in seguito decise di deporre questo nome, considerandolo di cattivo augurio. Quindi pagò tutti i debiti degli amici. [8, 1] Diede come spose le sue figlie a Probo ed Ezio, fornendole della dote. E avendo offerto al genero Probo la prefettura dell’Urbe, quello rifiutò affermando che essere prefetto gli pareva pur sempre un privilegio minore che non essere il genero dell’imperatore. [2] Subito nominò entrambi i generi consoli, e li colmò di ricchezze. [3] Il giorno seguente si recò in senato e, messi sotto accusa gli amici di Giuliano, ne ordinò la proscrizione e la morte. [4] Prese parte a numerosissimi processi. Punì con severità, una volta accertate le loro responsabilità, alcuni governatori che erano stati accusati dai provinciali. [5] Provvide così efficacemente ai rifornimenti annonari – che aveva trovati ridotti al minimo – da lasciare alla sua morte al popolo romano scorte di viveri corrispondenti all’imposta complessiva di sette anni.

[6] Partì poi per ristabilire la situazione in Oriente30, pur non facendo ancora apertamente menzione di Nigro. [7] Tuttavia mandò delle legioni in Africa, per impedire che Nigro, avanzando attraverso la Libia e l’Egitto, avesse ad occuparla e ad imporre al popolo romano la minaccia della carestia. [8] Lasciò Domizio Destro prefetto dell’Urbe in luogo di Basso, e nel giro di trenta giorni dacché era entrato in Roma, se ne partì nuovamente. [9] Appena uscito dalla città, dovette subire nei pressi di Saxa rubra31 una violenta rivolta scoppiata nell’esercito per un contrasto sul luogo in cui si doveva porre l’accampamento. [10] Immediatamente lo raggiunse anche il fratello Geta32, al quale però – nonostante nutrisse ben altre speranze – si limitò a confermare l’incarico del governo della provincia che gli era stata assegnata, [11] I figli di Nigro, che gli erano stati condotti, li trattò con le stesse premure che i propri. [12] Aveva mandato una legione ad occupare la Grecia e la Tracia, onde Pescennio non avesse ad impossessarsene, ma Nigro teneva già in suo potere Bisanzio. [13] Avendo intenzione di occupare anche Perinto33, Nigro mise a morte moltissimi soldati, e pertanto fu dichiarato, assieme ad Emiliano 34, nemico pubblico. [14] Avendo poi invitato Severo ad una spartizione del potere, ne ricevette uno sprezzante rifiuto. [15] A Nigro promise di poter andare in esilio, se lo voleva, avendo salva la vita, mentre non perdonò ad Emiliano. [16] Emiliano, sconfitto in seguito dai generali di Severo sull’Ellesponto, dapprima si rifugiò a Cizico35, poi di lì in un’altra città, nella quale venne ucciso per ordine di quelli. [17] Da quegli stessi generali furono parimenti sbaragliate anche le truppe di Nigro36. [9, 1] Appresi questi avvenimenti, Severo inviò al senato una lettera come se la campagna fosse conclusa. Poi venne a battaglia con Nigro, e lo uccise nei pressi di Cizico37, facendo poi portare in giro la sua testa conficcata a una lancia. [2] Dopo ciò mandò in esilio assieme alla loro madre i figli di Nigro, che aveva trattato con lo stesso riguardo dei propri. [3] Mandò al senato una lettera con l’annuncio della vittoria. Non mise a morte alcuno dei senatori che avevano parteggiato per Nigro, tranne uno. [4] Mostrò particolare risentimento nei confronti degli Antiochesi, perché lo avevano deriso quando era governatore in Oriente, e avevano favorito Nigro anche dopo la sconfitta. Fu così che tolse loro molti privilegi. [5] Privò inoltre del diritto di cittadinanza gli abitanti di Neapoli38 in Palestina, poiché avevano combattuto per lungo tempo come alleati a Nigro. [6] Condannò molte persone che avevano seguito Nigro, ad eccezione dei membri dell’ordine senatorio. [7]

Colpì inoltre con sanzioni ingiuste e pesanti molte città che erano state dalla parte di quello. [8] Mise a morte quei senatori che avevano militato nell’esercito di Nigro col grado di comandante o tribuno. [9] Poi condusse molte operazioni in Arabia, sottomettendo anche i Parti nonché gli Adiabeni39, i quali tutti avevano preso posizione per Pescennio. [10] E perciò al suo ritorno gli fu decretato un trionfo in cui ricevette gli appellativi di Arabico, Adiabenico e Partico. [11] Ma egli lo rifiutò, onde non apparire di celebrare un trionfo per una vittoria in una guerra civile. Declinò anche l’offerta del nome di Partico, per evitare di provocare i Parti. [10, 1] Proprio mentre era di ritorno a Roma dopo la guerra civile contro Nigro, gli fu annunziata un’altra guerra civile ad opera di Clodio Albino, che in Gallia40 si era ribellato. In conseguenza di ciò i suoi figli furono poi messi a morte assieme alla madre. [2] Proclamò immediatamente nemici pubblici Albino e quanti, scrivendogli o rispondendo alle sue lettere, avevano mostrato troppa disponibilità nei suoi confronti. [3] E mentre marciava contro Albino, a Viminazio41, conferì al figlio maggiore Bassiano il titolo di Cesare, dopo avergli posto il nome di Aurelio Antonino, onde frustrare le speranze di successione al trono che il fratello Geta aveva concepito. [4] E in effetti la ragione per cui diede al figlio il nome di Antonino, fu che aveva sognato che a succedergli sarebbe stato un Antonino. [5] Onde certuni pensano che anche a Geta venne dato il nome di Antonino perché egli pure potesse succedergli nell’impero. [6] Alcuni ritengono che Bassiano fu chiamato Antonino42 per il fatto che Severo stesso aveva voluto entrare a far parte della famiglia di Marco. [7] E in un primo tempo i generali di Severo furono sconfitti da quelli di Albino. Fu allora che, preoccupato della situazione, consultò degli auguri della Pannonia, dai quali gli fu predetto che sarebbe risultato vincitore, e che l’avversario non sarebbe caduto in suo potere e neppure gli sarebbe sfuggito, ma sarebbe perito vicino a delle acque. [8] Ben presto molti amici di Albino disertarono e passarono dalla sua parte, e vennero catturati molti generali, che furono da Severo giustiziati. [11, 1] Nello stesso tempo, dopo aver condotto in Gallia molte operazioni con vario esito, Severo riportò un primo brillante successo contro Albino a Tinurzio43; [2] in quell’occasione corse un grave pericolo a causa della caduta del suo cavallo, sì che fu creduto morto come colpito da una palla di piombo, e l’esercito stava quasi per nominare un altro imperatore44. [3] In quei giorni Severo, alla lettura della risoluzione ufficiale approvata in senato in lode di

Clodio Celsino, che era di Adrumeto e parente di Albino45, si adirò contro il senato stesso, interpretando questo atto come un riconoscimento da parte di esso nei confronti di Albino, e stabilì che Commodo fosse consacrato dio, quasi in tal modo potesse vendicarsi del senato. [4] E prima proclamò Commodo dio di fronte alle truppe, dandone poi notizia al senato con una lettera che conteneva anche la relazione sulla vittoria. [5] Quindi diede ordine che i cadaveri dei senatori che erano stati uccisi in guerra venissero dilaniati. [6] Quando poi gli fu portato il corpo ormai agonizzante di Albino, gli fece tagliare il capo, spedendolo a Roma accompagnato da una lettera. [7] Albino fu vinto il 19 di febbraio46. Il resto del suo cadavere ordinò che fosse esposto e poi fatto a pezzi davanti a casa sua. [8] Inoltre, montandolo egli stesso, fece passare un cavallo sopra il cadavere di Albino, spronando la bestia imbizzarrita, così che, sciolta poi da ogni freno, si scatenasse a calpestarlo. [9] Altri aggiungono che diede ordine di gettare il cadavere nel Rodano, assieme a quelli della moglie e dei figli. [12, 1] Furono messi a morte innumerevoli partigiani di Albino, fra i quali vi erano molti dei cittadini più in vista e molte donne di nobile famiglia, e i beni di tutti costoro furono confiscati, andando ad accrescere l’erario; in quell’occasione vennero uccisi molti maggiorenti della Spagna e della Gallia. [2] Fu così che poté distribuire ai soldati stipendi quali nessun sovrano aveva mai pagato. [3] Inoltre, grazie ai proventi di questa proscrizione, lasciò ai suoi figli una fortuna di tali proporzioni, quale nessun altro imperatore ebbe mai a lasciare in eredità, avendo reso di proprietà imperiale gran parte dell’oro raccolto per le Gallie, le Spagne e l’Italia. [4] Allora per la prima volta fu istituito un ufficio per l’amministrazione dei beni privati47. [5] Molti che erano rimasti fedeli ad Albino, anche dopo la sua morte, furono da Severo sconfitti in battaglia. [6] In quello stesso periodo, giunse la notizia che anche la legione Arabica aveva disertato, passando dalla parte di Albino. [7] Punita dunque con grande durezza la rivolta di Albino, con l’uccisione di moltissime persone e la soppressione dei suoi stessi familiari, si diresse alla volta di Roma, pieno d’ira contro il popolo e i senatori. [8] Sia in senato sia di fronte ad un’assemblea del popolo fece le lodi di Commodo, lo proclamò dio, affermò che era stato impopolare solo tra la gente di mala fama, affinché apparisse ben chiaro che egli era davvero su tutte le furie. [9] Dopo di che prese a parlare della propria clemenza, mentre era invece un uomo crudelissimo, che mise a morte tutti i senatori che ora elencheremo. [13, 1] Uccise dunque senza processo questi personaggi di rango nobiliare:

Mummio Secondino, Asellio Claudiano, [2] Claudio Rufo, Vitalio Vittore, Papio Fausto, Elio Celso, Giulio Rufo, Lollio Professo, Aurunculeio Corneliano, Antonio Balbo, Postumio Severo, [3] Sergio Lustrale, Fabio Paolino, Nonio Gracco, Masticio Fabiano, Casperio Agrippino, Ceionio Albino, Claudio Sulpiciano, [4] Memmio Rufino, Casperio Emiliano, Cocceio Vero, Erucio Claro, Lucio Stilone, [5] Clodio Rufino, Egnatuleio Onorato, [6] Petronio Iuniore, i Pescennii Festo, Veraziano, Aureliano, Materiano, Giuliano e Albino, i Cerellii Macrino, Faustiniano e Giuliano, [7] Erennio Nepote, Sulpicio Cano, Valerio Catullino, Novio Rufo, Claudio Arabiano, Marco Asellione. [8] Eppure colui che mise a morte questa sequela di uomini tanto importanti e tanto illustri48 – ché molti fra di loro erano di rango consolare, molti di rango pretorio, tutti sicuramente uomini di prim’ordine – è considerato dagli Africani alla stregua di un dio. [9] Accusò falsamente Cincio Severo di aver tentato di avvelenarlo, e in tal modo lo fece uccidere. [14, 1] Diede poi in pasto ai leoni Narcisso, colui che aveva ucciso Commodo strangolandolo49. Eliminò inoltre anche molti uomini tra la gente comune, in aggiunta a quelli che avevano già perso la vita in combattimento. [2] Dopo ciò, volendo accattivarsi le simpatie della gente, trasferì dai privati al fisco le spese per il servizio postale50. [3] Fece quindi conferire dal senato a Bassiano Antonino il titolo di Cesare, decretandogli le insegne imperiali. [4] Poco dopo sorsero voci su una guerra contro i Parti. Fece erigere a sue spese delle statue al padre, alla madre, al nonno e alla prima moglie. [5] Plauziano51, da amico suo intimo che era, una volta venuto a conoscenza della vita che conduceva, lo prese in tal odio che giunse a proclamarlo nemico pubblico e, fatte abbattere le sue statue, lo rese tristemente noto in tutto il mondo tanta fu la severità nel colpirlo, sdegnato particolarmente perché aveva collocato la propria statua fra quelle dei parenti e consanguinei di Severo stesso. [6] Concesse ai Palestinesi la remissione delle pene che avevano meritato per aver appoggiato Nigro52. [7] Successivamente si riconciliò con Plauziano, ed entrato con lui in città come in un corteo trionfale53, si recò in Campidoglio, anche se poi, qualche tempo dopo, lo fece uccidere. [8] Conferì la toga virile al figlio minore Geta, diede in moglie al maggiore la figlia di Plauziano54. Coloro che avevano dichiarato Plauziano nemico pubblico vennero deportati. [9] Così ogni cosa, quasi per una legge di natura, è soggetta a continue mutazioni. [10] Successivamente designò i figli consoli55. Rese le onoranze funebri al fratello Geta56. [11] Quindi57, dopo aver dato uno spettacolo gladiatorio e aver

distribuito un donativo al popolo, partì per la guerra Partica. [12] Nel frattempo aveva continuato a mettere a morte molte persone, per motivi reali o inventati. [13] I più venivano condannati solo per aver scherzato, altri per aver taciuto, altri per aver pronunciato molti giochi di parole, come: «Ecco un imperatore veramente degno del suo nome, davvero Pertinace, davvero Severo». [15, 1] Circolava la voce che Settimio Severo avesse intrapreso la guerra Partica non perché spintovi da qualche reale necessità, ma per pura ambizione di gloria58. [2] Preso dunque il mare con l’esercito da Brindisi, continuando il viaggio senza interruzione raggiunse la Siria e costrinse i Parti alla ritirata. [3] Ma in seguito tornò in Siria, onde prepararsi a sferrare l’offensiva contro i Parti. [4] Nel frattempo, su istigazione di Plauziano, egli dava la caccia ai superstiti seguaci di Pescennio, arrivando persino ad agire contro numerosi suoi amici, sospettandoli di tramare insidie contro la sua vita. [5] Mandò inoltre a morte molte persone sotto l’accusa di aver consultato astrologi e indovini su quanto egli era destinato a vivere59, sospettando in modo particolare tutti quelli che avevano i requisiti per poter aspirare all’impero, dato che i suoi figli erano ancora fanciulli, ed egli riteneva o aveva sentito che proprio di questo parlavano quelli che profetizzavano la propria ascesa al potere. [6] Infine, dopo che parecchie persone erano state mandate a morte, Severo cercava di liberarsi da ogni responsabilità affermando, ad esecuzione avvenuta, che quanto era accaduto non era stato ordinato da lui. E questo fu vero, come afferma Mario Massimo, specialmente nel caso di Leto60. [7] Essendo venuta a trovarlo una sua sorella di Leptis, che parlava stentatamente il latino e della quale l’imperatore si vergognava assai, concesso al suo figliolo il laticlavio e a lei stessa molti doni, la fece ritornare in patria assieme al figlio, che poco dopo morì. [16, 1] Quando dunque l’estate volgeva ormai alla fine, invase la Partia, scacciandone il re e giungendo sino a Ctesifonte61, che fu da lui presa al principio dell’inverno – ché in quei paesi la stagione invernale è la più adatta per condurre campagne militari – quantunque i soldati, costretti a nutrirsi di radici di erbe, finissero per contrarre varie malattie e disturbi. [2] Per cui, sebbene sia per la resistenza dei Parti sia per le dannose conseguenze dei disturbi intestinali di cui soffrivano i soldati per non essere assuefatti a quel tipo di cibo, non fosse in grado di avanzare ulteriormente, nondimeno persistette nell’impresa, espugnò la città, costrinse il re alla fuga, uccise un gran numero di nemici, guadagnandosi così il titolo di Partico. [3] In seguito a

questi fatti i soldati proclamarono il figlio dodicenne Bassiano Antonino – cui in precedenza era già stato conferito il titolo di Cesare – suo collega nell’impero. [4] Diedero il titolo di Cesare anche al figlio minore Geta, attribuendogli, secondo quanto afferma la maggioranza delle fonti, il nome di Antonino. [5] A compenso di questi titoli distribuì ai soldati un donativo molto generoso, e concesse loro, come chiedevano, tutto il bottino raccolto nella città partica; poi tornò vincitore in Siria62 col titolo di Partico. [6] Rifiutò il trionfo che i senatori gli decretavano in quanto, affetto com’era dalla gotta, non era in grado di reggersi sul carro. [7] Permise allora che fosse il figlio a celebrare il trionfo; il senato gli aveva infatti decretato il trionfo giudaico, in grazia dei successi ottenuti da Severo anche in Siria. [8] Poi, passato ad Antiochia, conferì al figlio maggiore la toga virile, e lo designò console assieme a lui63; e iniziarono immediatamente in Siria il loro consolato. [9] Dopo di che, aumentato lo stipendio ai soldati, si diresse alla volta di Alessandria64. [17, 1] Nel corso del viaggio stabilì numerose leggi in favore dei Palestinesi. Vietò con pene severe la conversione alla religione giudaica. La stessa disposizione sancì pure riguardo al Cristianesimo65. [2] Poi concesse agli Alessandrini il diritto di avere un proprio senato, dato che essi vivevano ancora, allo stesso modo di quando erano soggetti ai loro re66, senza avere alcuna pubblica assemblea deliberativa, adattandosi ad essere retti unicamente dal governatore67 che Cesare aveva imposto loro. [3] Introdusse inoltre molti cambiamenti nelle loro leggi. [4] Severo stesso in seguito dichiarò sempre che questo viaggio era stato per lui piacevole, per la possibilità di conoscere il culto del dio Serapide, di visitare gli antichi monumenti e di vedere animali e luoghi sconosciuti; infatti visitò con attenzione Memfi68, il Memnone69, le piramidi e il labirinto70. [5] E71 poiché risulterebbe troppo lungo narrare in dettaglio i fatti di minore importanza, ecco le sue imprese più significative: lo scioglimento delle coorti pretoriane dopo la sconfìtta e l’uccisione di Giuliano, la divinizzazione di Pertinace contro la volontà dei soldati, l’ordine da lui dato – che peraltro non ebbe effetto – di annullare i decreti di Salvio Giuliano72. [6] Quanto poi al soprannome di Pertinace, sembra averlo ricevuto non tanto per sua volontà, quanto per il suo carattere parsimonioso. [7] Inoltre fu considerato un uomo assai crudele per le innumerevoli esecuzioni di tante persone, e basti dire che una volta che un suo nemico gli si era consegnato supplicandolo e

ricordandogli che lui avrebbe agito così, non si lasciò intenerire da parole così avvedute, e lo fece uccidere. [8] Fu inoltre suo desiderio stroncare le fazioni, risultando quasi da ogni scontro vincitore. [18, 1] Sottomise Abgaro73, re dei Persiani. Soggiogò gli Arabi. Rese tributari gli Adiabeni. [2] Fortificò la Britannia costruendo un muro difensivo che attraversava l’isola da una costa all’altra dell’Oceano74 – ciò che costituì l’impresa più gloriosa del suo impero. Di qui ricevette anche il nome di Britannico. [3] Rese Tripoli, sua terra d’origine, del tutto sicura domando popolazioni bellicosissime, e assicurò in permanenza al popolo romano un’abbondante razione giornaliera di olio gratuita. [4] Come fu implacabile contro i reati, così mostrò singolare accortezza nel favorire tutte le persone valenti. [5] Si dedicò con notevole impegno agli studi di filosofìa ed eloquenza, e mostrò grande interesse anche per la cultura in generale. In qualsiasi luogo combatté aspramente i disonesti. [6] Scrisse egli stesso la storia della sua vita privata e pubblica, mantenendosi fedele alla verità, a parte la tendenza a giustificare la sua crudeltà. [7] Su di lui il senato espresse questo giudizio: che o non sarebbe dovuto nascere, o non sarebbe dovuto morire75, giacché appariva ad un tempo molto crudele, ma anche estremamente utile allo Stato. [8] Nella vita famigliare era tuttavia meno avveduto, tant’è che mantenne accanto a sé la moglie Giulia, famosa per i suoi adultèri e responsabile anche di aver preso parte ad un complotto76. [9] Una volta che, a causa dei suoi disturbi agli arti inferiori, aveva dovuto rallentare le operazioni di una campagna militare, e i soldati, impazienti, mal sopportando la cosa, avevano nominato Augusto suo figlio Bassiano che lo accompagnava, si fece sollevare e portare sulla tribuna, e ordinò che successivamente si presentassero tutti i tribuni, i centurioni, i comandanti e le coorti, che erano stati responsabili di quanto accaduto, e poi comparisse alla sua presenza il figlio, che aveva accettato il titolo di Augusto. [10] Ordinò allora di punire tutti i responsabili del fatto, ad eccezione del figlio: tutti, prostrandosi dinanzi alla tribuna, implorarono il suo perdono, ed egli allora, toccandosi il capo con la mano, esclamò: [11] «Finalmente vi accorgete che è la testa a comandare, non i piedi!»77. C’è una sua frase che riassume il senso dell’ascesa cui la fortuna a grado a grado lo condusse, da un’umile condizione – attraverso i progressi nello studio e le cariche rivestite nella milizia -sino all’impero: «Sono stato ogni cosa, e non mi serve a nulla». [19, 1] Morì78 a Eboraco79 in Britannia, dopo aver soggiogato le popolazioni che apparivano minacciare la regione, nel diciottesimo anno di

impero, sopraffatto da una malattia gravissima, ormai vecchio. [2] Lasciò due figli, Antonino Bassiano e Geta: a quest’ultimo pure aveva imposto, in onore di Marco, il nome di Antonino. [3] Fu sepolto nella tomba di Marco Antonino80, che egli venerò a tal punto fra tutti gli imperatori, che giunse a divinizzare persino Commodo, e a ritenere che il nome di Antonino fosse da allora in poi da conferire a tutti i sovrani, come quello di Augusto. [4] Egli stesso, su proposta dei figli, che gli avevano allestito uno splendido funerale, fu dal senato divinizzato. [5] Le sue principali opere pubbliche ancor oggi esistenti sono il Settizonio81 e le terme Severiane82, e sue inoltre sono anche le Settimiane83 in Trastevere, nei pressi della porta a lui intitolata84, le quali però, causa il crollo dell’acquedotto, furono subito chiuse al pubblico. [6] Dopo la sua morte il giudizio unanime su di lui fu altamente positivo, e ciò dipese soprattutto dal fatto che per lungo tempo allo Stato non venne alcunché di buono dai suoi figli, e successivamente lo Stato romano stesso, esposto agli assalti di molti, divenne oggetto di preda per dei briganti. [7] Severo indossava abiti così modesti che la sua stessa tunica aveva appena un filo di porpora, e per coprirsi le spalle usava una clamide di tessuto ruvido. [8] Era molto sobrio nel mangiare, ghiotto di verdure della sua terra85, e talvolta beveva volentieri il vino, mentre spesso non assaggiava neppure la carne. [9] Era bello, imponente86, portava la barba lunga, aveva i capelli bianchi e crespi, un volto che ispirava rispetto, la voce armoniosa, ma con un certo qual accento africano che conservò sino alla vecchiaia. [10] Dopo la sua morte, venuto meno ogni motivo d’odio nei suoi confronti o di timore della sua crudeltà, fu molto rimpianto. [20, 1] Ricordo di aver letto in un’opera di Elio Mauro, liberto di Flegonte, che lo era di Adriano87, che Settimio Severo, mentre stava per morire, manifestò senza alcun ritegno la sua soddisfazione per il fatto che lasciava allo Stato due Antonini con eguali poteri, sull’esempio di Pio che aveva lasciato allo Stato i due Antonini Vero e Marco, suoi figli adottivi, [2] e anzi aveva fatto meglio di lui in quanto, mentre quello aveva dato allo Stato dei figli adottivi, egli invece lasciava ad esso due principi da lui stesso generati: e in effetti Antonino Bassiano lo aveva avuto dalla prima moglie88, e Geta lo aveva generato da Giulia. [3] Ma le sue speranze andarono di molto deluse: ché l’uno fu strappato allo Stato dal fratricidio89, l’altro dai suoi pessimi costumi, e quel nome santo90 non fu portato a lungo felicemente da nessuno dei due. [4] E, a

ben pensarci, o Diocleziano Augusto, a me pare proprio chiaro che difficilmente qualcuno dei grandi uomini ha lasciato un figlio virtuoso e utile allo Stato. [5] In breve, essi o morirono senza figli, o i più ne ebbero di tal fatta che sarebbe stato per loro meglio lasciare il mondo senza una discendenza. [21, 1] E, per cominciare da Romolo, né lui né Numa Pompilio lasciarono figli che potessero risultare utili allo Stato. E Camillo? Ebbe forse dei figli simili a lui? E Scipione?91 E i grandi Catoni? [2] E che dire poi di Omero, Demostene, Virgilio, Crispo92 e Terenzio, Plauto, e di tutti gli altri? E di Cesare? E di Tullio, per il quale più che mai sarebbe stato meglio non avere figli?93 [3] E di Augusto, che non riuscì ad avere neppure un figlio adottivo buono, lui che pure aveva la possibilità di sceglierlo fra tutti? Cadde in errore perfino Traiano nella scelta del suo concittadino e nipote94. [4] Ma, lasciando da parte i figli adottivi, perché incontreremmo anche i casi degli Antonini Pio e Marco95, veri numi tutelari dello Stato, veniamo ai figli di sangue. [5] Chi sarebbe stato più fortunato di Marco, se non avesse lasciato suo erede Commodo? [6] Chi più fortunato di Settimio Severo, se non avesse neppure generato Bassiano? Il quale subito, accusato il fratello di avere complottato contro di lui, giunse a farlo uccidere con il falso pretesto dei suoi intenti fratricidi; [7] che si unì alla sua matrigna, ma che dico matrigna? dovrei dire piuttosto madre, tra le braccia della quale aveva ucciso suo figlio Geta; [8] che mise a morte Papiniano96, uomo che era tempio del diritto e tesoro di giurisprudenza, perché non aveva voluto avallare il suo delitto, quel Papiniano che era stato elevato al rango di prefetto, affinché un uomo così grande per se stesso e per il suo sapere non avesse a rimanere privo dell’onore di una carica. [9] In breve, per non parlare del resto, credo che proprio il confronto con i costumi di quell’individuo abbia fatto sì che un uomo molto duro in ogni cosa, anzi direi proprio veramente crudele come Severo, finì per essere considerato pio e degno degli altari degli dèi. [10] Si dice che egli, ormai oppresso dall’aggravarsi del male, mandasse al figlio maggiore quel sublime discorso sallustiano nel quale Micipsa esorta i figli alla pace97. Ma lo fece invano […] [11] Antonino visse a lungo odiato dal popolo, e quel nome venerabile per lungo tempo fu meno amato, anche se egli distribuì al popolo delle vesti – dal nome delle quali fu soprannominato Caracalla – e fece costruire splendide terme. [12] Esiste ancora a Roma il portico di Severo98, sul quale sono raffigurate le sue imprese, che fu costruito – a quanto moltissimi dicono – dal figlio.

[22, 1] Questi furono i presagi della sua morte: egli stesso sognò di essere stato rapito al cielo su di un carro gemmato tirato da quattro aquile, preceduto nel volo da una misteriosa figura umana di grandi dimensioni; e mentre veniva rapito, aveva contato fino al numero ottantanove, che corrispose esattamente al numero di anni che egli visse99, ché era giunto all’impero in età avanzata; [2] ed essendo stato posato su di un grande disco di bronzo, vi rimase a lungo da solo e abbandonato a se stesso, e quando ormai temeva di precipitare giù, si sentì chiamare da Giove e si vide porre tra gli Antonini. [3] Nel giorno dei ludi circensi avvenne che, collocate secondo l’uso le tre statuette di gesso raffiguranti la Vittoria con una palma in mano, un colpo di vento spinse giù dalla balaustra quella di mezzo, che reggeva nella mano una sfera con scritto il suo nome, ed essa cadde rimanendo in posizione eretta e tale si fermò a terra; quella che portava scritto il nome di Geta, rovinò giù frantumandosi completamente; invece quella che recava la scritta col nome di Bassiano, si mantenne in piedi a stento fra le raffiche del vento, perdendo la palma. [4] Una volta che, dopo aver ispezionato in Britannia il muro difensivo, stava ritornando al campo più vicino e, ora che ormai non si sentiva più soltanto vincitore, ma aveva anche stabilito una pace perpetua, andava ripensando in cuor suo quali segni augurali avrebbe incontrato, un soldato Etiope100, molto famoso tra i buffoni, e notissimo per le sue battute, gli andò incontro con una corona fatta di fronde di cipresso. [5] E quando Severo ordinò adirato di toglierlo dalla sua vista, impressionato com’era dal cattivo presagio rappresentato dal colore della sua pelle e dalla corona di cipresso, si dice che quello abbia scherzosamente risposto: «Tutto sei stato, tutto hai vinto: non ti resta che essere un dio vincitore». [6] Giungendo in città e volendo celebrare un sacrificio, prima, per un errore dell’aruspice inesperto, fu condotto al tempio di Bellona, e poi gli furono portate vittime nere. [7] E quando, disgustato, ebbe rinunciato al sacrificio, e si recò al Palazzo101, per via della negligenza degli inservienti quelle vittime nere seguirono l’imperatore fino alla soglia della reggia. [23, 1] In moltissime città restano insigni opere pubbliche a lui dovute. Particolarmente significativo a dimostrazione del suo senso civico appare il fatto che restaurò tutti gli edifici che erano a Roma pericolanti per via della loro vecchiaia, senza aggiungere il suo nome quasi in nessuno di essi102, e avendo comunque conservato dappertutto le iscrizioni relative ai primitivi fondatori. [2] Alla sua morte lasciò scorte granarie corrispondenti all’imposta complessiva di sette anni, così che se ne potevano distribuire giornalmente

settantacinquemila moggi; e quanto all’olio, riserve tali da soddisfare per cinque anni non solo le esigenze di Roma, ma anche quelle di tutta quanta l’Italia, che ne ha penuria. [3] Si dice che le sue ultime parole furono: «Ho ricevuto uno Stato in preda ovunque al disordine, lo lascio pacificato, anche in Britannia; vecchio e malato ai piedi qual sono, lascio però ai miei Antonini un impero stabile, se sapranno essere virtuosi, vacillante se invece saranno malvagi»103. [4] Ordinò poi di dare al tribuno la parola d’ordine: «Impegnamoci»104, ricordando che Pertinace, allorché era stato assunto al potere, aveva dato: «Militiamo». [5] Aveva inoltre disposto che venisse fatto un duplicato della Fortuna regia che, secondo l’uso, accompagnava gli imperatori e veniva posta nella loro camera da letto105, così da poter lasciare quella santissima immagine a entrambi i suoi figli; [6] ma quando comprese che l’ora della morte incombeva ormai su di lui, si narra che ordinasse che la statua della Fortuna fosse collocata a giorni alterni nelle stanze dei due figli imperatori. [7] Disposizione che Bassiano non tenne in alcun conto, prima ancora di compiere il fratricidio. [24, 1] Il suo corpo fu trasportato dalla Britannia a Roma, oggetto di grande venerazione da parte degli abitanti delle province; [2] per il vero alcuni sostengono che vi fosse soltanto una piccola urna d’oro106 contenente le ceneri di Severo, che fu tumulata nel sepolcro degli Antonini, dato che Settimio sarebbe stato cremato sul luogo stesso dove era morto. [3] Costruendo il Settizonio107, non si prefisse altro scopo se non quello che il suo monumento si presentasse alla vista di quanti giungevano dall’Africa [4] e, se durante una sua assenza il prefetto dell’urbe non avesse fatto collocare al centro una statua di lui, la sua intenzione sarebbe stata – a quanto raccontano – di costruire da quella parte un’entrata al Palazzo imperiale, cioè nell’atrio della reggia. [5] Quando in seguito anche Alessandro108 si propose di realizzare tale progetto, si dice che ne fu distolto dal divieto degli aruspici, in quanto, consultandoli in merito ad esso, non aveva ottenuto presagi favorevoli.

1. Leptis (ma la forma primitiva era Lepci) Magna, nell’attuale Tripolitania. Sulla forma del nome cfr. A. R. BIRLEY, Some Notes on HA Severus, 1-4, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 59 seg. 2. Nel 212 d. C. l’editto di Caracalla, figlio di Severo, estese la cittadinanza romana a tutta la popolazione libera dell’impero. Secondo però A. R. BIRLEY, Septimius Severus the African emperor, London, 1971, pp. 42 seg., omnibus si riferirebbe qui a tutti gli abitanti di Leptis, che ricevettero la cittadinanza già al tempo di Traiano, allorché la città assurse al rango di colonia. 3. P. Settimio Apro, console nel 153 d. C., e C. Settimio Severo (console forse nel 160 d. C.: sulla nomenclatura di questo personaggio cfr. A. R. BIRLEY, C. Septimius C. F. Qui. Severus. A note, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 63 seg.): essi dovevano essere, più probabilmente che zii, cugini del padre di Severo. 4. Ma il nonno dell’imperatore portava il suo stesso nome, Lucius Septimius Severus. Macro doveva essere un più lontano antenato. Cfr. BIRLEY, Some Notes, cit., p. 65. 5. Nel 146 d. C. 6. Cfr. n. 3; la notizia del secondo consolato di questo personaggio appare scarsamente fondata. Cfr. BIRLEY, Some Notes, cit., p. 67. 7. Cfr. Comm., 4, 7, n. 2. 8. Cfr. Hadr., 22, 4, n. 3. 9. Cfr. Hadr., 22, 2, n. 2. 10. Il Iulianus qui ricordato sembra essere il giurista P. Salvio Giuliano (console nel 148 d. C.), che fu proconsole d’Africa nel 168-9. Il biografo lo ha qui confuso con lo stesso imperatore Didio Giuliano, del quale – come sappiamo (cfr. Did. Jul., 1, 1, n. 1) – era parente. Cfr. BIRLEY, Some Notes, cit., p. 69 e Sept. Severus, cit., p. 79. 11. La provincia della Hispania Baetica, così detta dal fiume Baetis (l’odierno Guadalquivir), occupava, nel sud della Spagna, la regione corrispondente all’attuale Andalusia. 12. È probabile che l’invasione dei Mauri (cfr. M. Ant., 21, 1) abbia imposto, data la situazione di particolare pericolo in cui veniva a trovarsi la Betica, il passaggio di questa provincia dall’amministrazione senatoria a quella imperiale (cfr. M. Ant., 22, 9, n. 2); in sostituzione di essa sarebbe stata assegnata al governo senatorio appunto la Sardegna. Cfr. MAGIE, I, p. 374, n. 1. 13. La notizia della HA trova in questo caso conferma in un’iscrizione di Leptis recentemente scoperta, dalla quale risulta che Severo fu legato del proconsole dell’anno 174 d. C.: quest’ultimo era il suo parente C. Settimio Severo. Cfr. BIRLEY, Some Notes, cit., p. 70, e Sept. Severus, cit., p. 88. 14. Il nome esatto, come si ricava da un’iscrizione africana, doveva essere Paccia Marciana, con ogni probabilità una donna di Leptis. 15. Questa Autobiografia fu scritta da Severo dopo la morte di Clodio Albino per giustificare il proprio operato in relazione alle accuse di crudeltà che gli venivano rivolte, e accusare a sua volta il rivale. Essa è andata perduta, ma la troviamo ancora citata, oltre che in altri luoghi della HA (Pesc. Nig., 4, 7; Cl. Alb., 7, 1 e 10, 1; in questa stessa Vita a 18, 6), anche da AURELIO VITTORE, Caes., 20, 22, CASSIO DIONE, LXXV, 7, 3 ed ERODIANO, II, 9, 4. 16. L’espressione in candida (sott. toga) corrisponde a quella tecnica candidatus Caesaris, detta di quei magistrati che venivano nominati direttamente dall’imperatore. 17. Già restaurato anche da Adriano (cfr. Hadr., 12, 3). 18. In realtà dall’inizio dell’impero di Claudio la legio IIII Scythica era acquartierata in Siria. Anziché ritenere il testo corrotto o emendarlo (ad es. leggendo, col THOMSEN, Massiam, città della Siria) è possibile, con N. REED, Massilia nicht in Syrien. Legioni IIII Scythicae dein praepositus est circa

Massiliam, «Historia», XXIV, 1975, pp. 633 seg., intendere semplicemente il passo in questione nel senso che Severo ricevette la nomina per il comando di Siria proprio a Marsiglia, al suo ritorno dalla Spagna. 19. Da Lugdunum (Lione); era la regione della Gallia compresa fra la Loira, la Senna, la Marna e la Saona. 20. Giulia Domna, figlia maggiore di Giulio Bassiano, il gran sacerdote del dio Eliogabalo a Emesa, in Siria. 21. Ci si riferisce qui alla nascita di Caracalla, il figlio maggiore di Severo, nato nell’aprile del 186 d. C. a Lione. Altre volte però la HA presenta Giulia Domna come matrigna di Caracalla (così in questa stessa Vita a 20, 2, e inoltre a Carac., 10, 1 e Geta, 7, 3), seguendo una tradizione con tutta probabilità falsa, ma ricorrente peraltro anche in AURELIO VITTORE, Caes., 21, 3; Epitome de Caes., 21, 5; EUTROPIO, VIII, 20. Che Giulia fosse vera madre di Caracalla è confermato da CASSIO DIONE, LXXVIII, 23, 1 e 24, 1 e da un’iscrizione (ILS, 451). 22. Geta, nato il 27 maggio del 189 d. C.; a Geta, 3, 1 il luogo di nascita risulta Milano. Cfr. BIRLEY, Some Notes, cit., p. 73. 23. Si tratta evidentemente di un errore, in quanto in realtà Settimio Severo fu governatore della Pannonia, come confermato dal fatto che la sua acclamazione ad imperatore avvenne a Carnunto (cfr. 5, 1), appunto in quella regione: la notizia del § 2, che appare fuori posto, si riferisce verosimilmente a questo momento. Cfr. CASSIO DIONE, LXXIII, 14, 3 e ERODIANO, II, 9, 2; sulla questione si veda J. HASEBROEK, Untersuchungen zur Geschichte des Kaisers Septimius Severus, Heidelberg, 1921, p. 15. 24. Severo fu proclamato imperatore a Carnunto (antica città celtica sul Danubio, nell’alta Pannonia) nel 193 d. C.; ma la data del 13 agosto, considerando che Didio Giuliano fu ucciso il 1o giugno, quando Severo era ormai non lontano da Roma, appare evidentemente errata. Cfr. in proposito HASEBROEK, Untersuchungen, cit., pp. 17 segg., che situa la proclamazione nella prima metà di aprile; si trattava, probabilmente, del 9 di tale mese (cfr. BIRLEY, Sept. Severus, cit., pp. 158 seg.). 25. Città dell’Umbria, l’odierna Terni, nei pressi della confluenza dei fiumi Nera e Velino (donde il nome latino: cfr. VARRONE, De Lingua Lat., V, 28 oppidum Interamna dictum, quod inter amnis est constitutum). 26. Probabilmente dopo l’uccisione di Tullio Crispino; cfr. Did. Iul., 8, 1. 27. In Pesc. Nig., 5, 2 è detto invece che Eraclito fu inviato da Severo in Bitinia, il che peraltro appare meno probabile. Cfr. BIRLEY, Sept. Severus, cit., p. 159. 28. C. Fulvio Plauziano, un parente di Severo: cfr. 14, 5. 29. Cfr. Pert., 15, 1, n. 1. 30. Nel luglio del 193 d. C. 31. Un borgo dell’Etruria, lungo la Flaminia, nei pressi del fiume Cremera (oggi Grotta Rossa). 32. P. Settimio Geta. Si sa che governò la Dacia nel 195 d. C., e che, in precedenza, aveva amministrato la Mesia inferiore. 33. Città della Tracia, con un porto su di una piccola penisola nella Propontide (Mar di Marmara). Ai tempi di Costantino ebbe il nome di Eraclea (oggi Erekli). 34. Asellio Emiliano, proconsole d’Asia nel 192-193 d. C., fu il predecessore di Nigro nel governo della Siria, divenendo poi comandante del suo esercito. 35. Città sulla riva meridionale della Propontide, sull’istmo che congiunge la penisola (o più propriamente: isola) omonima al continente: oggi Balkiz. 36. Nei pressi di Nicea, in Bitinia, stando a CASSIO DIONE, LXXIV, 6, 5 seg. 37. La notizia, che ritroviamo a Pesc. Nig., 5, 8, ed è accolta anche da AURELIO VITTORE, Caes., 20, 8 e EUTROPIO, VIII, 18, 4, è inesatta; come apprendiamo infatti da CASSIO DIONE, LXXIV, 7 e ERODIANO, III, 4, 2 seg., la sconfìtta decisiva di Nigro ebbe luogo nei pressi di Isso in Cilicia (Nigro riuscì a fuggire, ma fu raggiunto e ucciso vicino ad Antiochia: cfr. CASSIO DIONE, LXXIV, 8, 3).

38. Si allude a Flavia Neapolis, oggi Naplus. 39. L’Adiabene era la più importante provincia dell’Assiria, e corrispondeva all’odierno Kurdistan. 40. Clodio Albino, che era stato fino ad allora governatore della Britannia ed aveva avuto da Severo il titolo di Cesare, era passato in Gallia, stabilendosi a Lione e assumendo il titolo di Augustus. 41. Capitale della Mesia Superiore. 42. Sull’attribuzione del nome di Antonino a Geta cfr. 16, 4; 19, 2; Geta, 1, 1 seg.; 5, 3; Diad., 6, 9. Esso non appare comunque nelle iscrizioni e monete che si riferiscono al personaggio. Sul nome di Antonino nella HA cfr. W. HARTKE, Römische Kinderkaiser. Eine Strukturanalyse römischen Denkens und Daseins, Berlin, 1951, pp. 123 segg.; R. SYME, Emperors and Biography. Studies in the HA, Oxford, 1971, pp. 78 segg. 43. Probabilmente l’odierna Tournus sulla Saona. 44. Stando a ERODIANO, III, 7, 4 si sarebbe trattato di Giulio Leto (cfr. 15, 6, n. 1). 45. Stando a Cl. Alb., 9, 6 e 12, 9, sarebbe stato un fratello di Clodio Albino. Propenso a considerare questo personaggio come inventato è T. D. BARNES, A senator from Hadrumetum and three others, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 51 seg. 46. Del 197 d. C. 47. Cfr. Comm., 20, 1, n. 2. La notizia appare inesatta, dato che la carica in questione esisteva già al tempo di Antonino Pio: Severo le avrebbe conferito solo maggiore importanza, avendo aumentato con le confische la res privata. Cfr. H. NESSELHAUF, Patrimonium und res privata des römischen Kaisers, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 73 segg. 48. Dall’analisi condotta da G. ALFÖLDY, Eine Proskriptionsliste in der HA, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 1 segg., risulta che – a parte taluni chiaramente falsi – la maggior parte dei nomi sono genuini. 49. Stando però a CASSIO DIONE, LXXIII, 16, 5, Narcisso sarebbe stato messo a morte da Didio Giuliano. 50. Cfr. Hadr., 7, 5. 51. Il potente prefetto del pretorio, parente di Severo. 52. Il periodo è qui chiaramente fuori posto, e si ricollega all’inizio del c. 17. 53. L’ovatio era una forma minore di trionfo, celebrata in casi particolari (ad es. se la guerra non era stata formalmente dichiarata, o se la vittoria era stata incruenta): il comandante faceva il suo ingresso in città non sopra un carro – come in occasione del trionfo – ma a cavallo o a piedi, con una corona di mirto sul capo. 54. Fulvia Plautilla. Il matrimonio ebbe luogo nel 204 d. C. 55. Entrambi rivestirono il consolato nel 205 d. C. 56. Nel 204 d. C. 57. Nel 197 d. C. 58. In realtà questa seconda campagna di Severo contro i Parti fu la conseguenza di un’invasione operata dal re Vologese nella nuova provincia romana dell’Osroene nella speranza di recuperare i territori perduti e di placare il malcontento dei suoi vassalli. D’altro canto Severo intendeva giungere ad una sistemazione completa e definitiva del confine orientale. 59. Il consultare indovini e astrologi circa la durata della vita del principe era considerato un reato passibile della pena capitale; cfr. J. STRAUB, Severus Alexander und die mathematici, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 247 segg., 253, 264 seg. 60. Forse da identificare con il Giulio Leto menzionato in Did. Iul., 8, 1. Da CASSIO DIONE sappiamo che fu uno dei luogotenenti di Severo durante la precedente campagna mesopotamica e che fu da questo messo a morte durante l’assedio di Hatra (cfr. LXXV, 2, 3 e 10, 3). Doveva essere, inoltre, l’uomo che fu lì lì per essere eletto imperatore a Lugdunum (cfr. ERODIANO, III, 7, 4 e Sev., 11, 2). Si veda sul problema BIRLEY, Sept. Severus, cit., pp. 345 seg.

61. La capitale del regno dei Parti, sulla sponda orientale del Tigri. Fu conquistata il 28 gennaio del 198 d. C. 62. Verso la metà del 199 d. C. 63. Nel 202 d. C. 64. Abbiamo qui confusione nell’ordine dei fatti: questo viaggio in Egitto deve essere stato precedente al 202 d. C., anno in cui Severo iniziò il suo ritorno in occidente. 65. Cfr. K. H. SCHWARTE, Das angebliche Christengesetz des Septimius Severus, «Historia», XII, 1963, pp. 185 segg., ove si nega che Severo abbia apportato variazioni di sorta nello stato giuridico dei Cristiani: la legge qui ricordata sarebbe quindi null’altro che un’invenzione del biografo. 66. La dinastia dei Lagidi, fondata da Tolomeo I. 67. Il iuridicus Alexandriae. 68. Città del Medio Egitto, a pochi km a sud del Cairo, famosa per le piramidi e il culto del bue Api. 69. A Memnone, il mitico eroe figlio di Titone e dell’Aurora, erano dedicate due statue colossali site dinanzi al santuario di Amenofi III a Tebe; una di esse, rovinata da un terremoto, aveva cominciato da allora – stando alla leggenda – ad emettere suoni (la cosiddetta «canzone di Memnone») al sorgere del sole. 70. L’immenso edificio con tremila stanze sul lago di Meride nel Medio Egitto; v. ERODOTO, II, 148; PLINIO, Nat. Hist., XXXVI, 84. 71. Sui rapporti fra la sezione della biografia che qui ha inizio (17, 5-19, 4) e il corrispondente brano dell’opera di AURELIO VITTORE, cfr. Introduzione, pp. 43 seg. 72. Anche sulla confusione tra Salvio e Didio Giuliano cfr. Introduzione, loc. cit. 73. Abgaro IX; in realtà non era re dei Persiani, ma dell’Osroene. 74. Più che alla costruzione di una seconda linea di fortificazione parallela al Vallum Hadriani (cfr. Hadr., 11, 2, n. 2), sarà qui da pensare ad un’opera di risistemazione e restauro di quest’ultimo. 75. Lo stesso giudizio era stato espresso su Augusto, alla sua morte: cfr. Epitome de Caesaribus, 1, 28 utinam aut non nasceretur aut non moreretur. 76. Secondo CASSIO DIONE, LXXV, 15, 6-7 la presunta condotta riprovevole di Giulia Domna sarebbe un’invenzione del prefetto del pretorio Plauziano (cfr. 14, 5, n. 4), che cercava di screditarla agli occhi dell’imperatore (cfr. anche LXXVIII, 24, 1). La HA segue qui invece la tradizione sfavorevole all’imperatrice, nella quale rientrano evidentemente anche le notizie riguardanti il rapporto incestuoso che essa avrebbe avuto col figliastro Caracalla (cfr. 21, 7 e Carac, 10, 1-4; per questa tradizione contraria a Giulia Domna cfr. anche AURELIO VITTORE, Caes., 21, 3). 77. L’episodio si verificò probabilmente durante la spedizione in Britannia, nel corso della quale, stando a CASSIO DIONE, LXXVI, 14, 3 segg., Caracalla avrebbe tentato di ribellarsi al padre e anche di ucciderlo. 78. Il 4 febbraio del 211 d. C. 79. In Britannia: l’odierna York, circa 30 km a nord di Londra. 80. Il Mausoleum Hadriani (cfr. Hadr., 19, 11, n. 10), in cui era sepolto appunto Marco; dopo Adriano infatti, vi furono tumulati gli imperatori Antonini e Severi, nonché altri personaggi illustri delle loro famiglie. 81. Un grande edificio lungo circa 90 m e alto 30, eretto da Settimio Severo nel 203 d. C. nel lato sudest del Palatino, e costituito da un grandioso porticato con vari ordini di colonne. 82. Nulla ci è rimasto delle terme di Severo, né si conosce con precisione la loro ubicazione; verosimilmente sorgevano a sud di quelle di Caracalla, nella parte meridionale della città, a meno che non fossero direttamente incorporate in esse. Cfr. H. W. BENARIO, Severan Rome and the HA, «Latomus», XX, 1961, p. 284. 83. Il testo è incerto e problematico. Abbiamo adottato la lettura dello ZANGEMEISTER (cfr. Nota critica, ad loc.), pur non nascondendoci la difficoltà connessa alla mancanza di qualsiasi indizio di

costruzioni termali di Severo nella zona qui indicata. Cfr. S. CONDORELLI, Aspetti della vita quotidiana a Roma e tendenze letterarie nella HA, Messina, 1965, pp. 82 seg. 84. La Porta Septimiana, aperta nelle mura Aureliane, nel lato est della città. 85. A proposito di questo non meglio identificato legume si veda la discussione di R. SYME, Ammianus and the HA, Oxford, 1968, p. 201, propenso a vedere nel particolare in questione, alla pari che in quello concernente la mole fisica di Severo (cfr. n. succ.), un’invenzione. 86. CASSIO DIONE, LXXVI, 16, 1 descrive Severo come fisicamente piccolo, ma forte; si tratta di una testimonianza fondata, in quanto lo storico greco ebbe a conoscere personalmente l’imperatore. 87. Cfr. Hadr., 16, 1. 88. Ciò contrasta con quanto detto a 3, 9; l’affermazione – priva di fondamento – ricompare in Carac., 10, 1 e Geta, 7, 3, e si riscontra pure in AURELIO VITTORE, Caes., 21, 3. 89. Geta, che morì assassinato nel 212 d. C. 90. Quello di «Antonino». 91. Scipione Africano il giovane. 92. Lo storico C. Sallustio Crispo. 93. Il figlio di Cicerone (Tullio) aveva fama di essere un ubriacone. 94. Adriano. Affiora anche qui la tradizione avversa a questo imperatore, che compare qua e là nel corso della sua biografìa, espressione dell’acrimonia che l’ambiente senatoriale nutriva nei confronti di tale sovrano (cfr. Hadr., 4, 5, n. 10). 95. Figli adottivi rispettivamente di Adriano e dello stesso Antonino Pio. 96. Emilio Papiniano, parente acquisito di Severo ed insigne giurista, che divenne prefetto del pretorio nel 205 d. C., dopo l’uccisione di Plauziano. Cfr. R. SYME, Three jurists, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 312 seg. 97. SALLUSTIO, Bell. Iug., 10. 98. Citato anche in Carac., 9, 6; la sua ubicazione ci è ignota. 99. Questa cifra è data anche in Pesc. Nig., 5, 1, ma appare sicuramente errata, in quanto Settimio Severo, che morì il 4 febbraio del 211 d. C., era nato, stando a questa stessa Vita, l’8 aprile del 146 d. C. (secondo CASSIO DIONE, LXXVI, 17, 4 nel 145 d. C)., O. HIRSCHFELD, Kleine Schriften, Berlin, 1913, p. 896, ha notato come il numero di 89 corrisponda invece agli anni intercorsi fra la nascita di Settimio e la morte di Alessandro Severo (235 d. C.), col quale si chiuse la dinastia. 100. L’incontro con un Etiope, così come il cipresso citato successivamente, potevano costituire presagio di morte. Cfr. B. MOUCHOVÁ, Omina mortis in der HA, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, p. 136 seg. 101. Qui come in altri passi Palatium indica semplicemente ogni residenza – anche transitoria – dell’imperatore fuori di Roma. 102. Stando invece a CASSIO DIONE, LXXVI, 16, 3, era suo costume aggiungere un’iscrizione col suo nome. 103. Si ha qui una rielaborazione dell’ammonizione che Sallustio mette in bocca a Micipsa morente (cfr. anche 21, 10), indirizzata ai figli Iempsale e Aderbale (cfr. Bell. Iug. 10, 6 ego vobis regnum trado firmum, si boni eritis, sin mali, imbecillum). 104. Invero la versione autentica è con tutta probabilità quella offertaci da CASSIO DIONE, LXXVI, 15, 2 («Siate concordi, arricchite i soldati, disprezzate tutti gli altri!»). Cfr. J. STRAUB, Die ultima verba des Septimius Severus, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 171 seg. 105. Cfr. Ant. Pius, 12, 5. 106. Di porfido secondo CASSIO DIONE, LXXVI, 15, 4, di alabastro secondo ERODIANO, III, 15, 7. Cfr. F. KOLB, Literarische Beziehungen zwischen Cassius Dio, Herodian und der HA, Bonn, 1972, pp. 149 seg.

107. Cfr. 19, 5 (n. 4) dove troviamo la forma corretta Septizonium. 108. L’imperatore Alessandro Severo.

XI. PESCENNIUS NIGER 〈AELI SPARTIANI〉

PESCENNIO NIGRO di ELIO SPARZIANO

[1, 1] Rarum atque difficile est, ut, quos tyrannos aliorum victoria fecerit, bene mittantur in litteras, atque ideo vix omnia de his plene in monumentis atque annalibus habentur. [2] Primum enim, quae magna sunt in eorum honorem, ab scriptoribus depravantur, deinde alia supprimuntur, postremo non magna diligentia in eorum genere ac vita requiretur, cum satis sit audaciam eorum et bellum, in quo victi fuerint, ac poenam proferre. [3] Pescennius ergo Niger, ut alii tradunt, modicis parentibus, ut alii, nobilibus fuisse dicitur, patre Annio Fusco, matre Lampridia, avo curatore1 Aquini, ex qua familia originem ducebat; quod quidem dubium etiam nunc habetur. [4] Hic eruditus mediocriter litteris, moribus ferox, divitiis inmodicus, vita parcus, libidinis effrenatae ad omne genus cupiditatum, [5] ordines diu duxit multisque ducatibus pervenit, ut exercitus Syriacos iussu Commodi regeret, suffragio maxime anthletae qui Commodum strangulavit, ut omnia tunc fìebant. [2, 1] Is postquam comperit occisum Commodum, Iulianum imperatorem appellatum eundemque iussu Severi et senatus occisum, Albinum etiam in Gallia sumpsisse nomen [eius] imperatoris, ab exercitibus Syriacis, quos regebat, appellatus est imperator2, ut quidam dicunt, magis in Iuliani odium quam in aemulationem Severi. [2] Huic ob detestationem Iuliani primis imperii diebus ita Romae fautum est, a senatoribus dum taxat, qui et Severum oderant, ut inter lapidationes exsecrationesque omnium illi feliciter optaretur, «Illum principem superi et illum Augustum» populus adclamaret. [3] Iulianum autem oderant populares, quod Pertinacem milites occidissent et illum imperatorem adversa populi voluntate appellassent. Denique ingentes ob hoc seditiones fuerunt. [4] Ad occidendum autem Nigrum primipilarem Iulianus miserat, stulte ad eum qui haberet exercitus, se tueri posset, proinde quasi qualis libet imperator a primipilario posset occidi. [5] Eadem autem dementia etiam Severo iam principi Iulianus successorem miserat. [6] Denique etiam Aquilium centurionem notum caedibus ducum miserat 〈quasi imperat〉or tantus a centurione posset occidi. [7] Par denique insania fuit, quod cum Severo ex interdicto de imperio egisse fertur, ut iure videretur principatum praevenisse. [3, 1] Et de Pescennio Nigro iudicium populi ex eo apparuit, quod, cum ludos circenses Iulianus Romae daret, et indiscrete [se] subsellia circi maximi repleta essent ingentique iniuria populus adfectus esset, per omnes uno consensu Pescennius Niger ad tutelam urbis est expetitus, odio, ut diximus,

Iuliani et amore occisi Pertinacis; [2] cum quidem Iulianus dixisse fertur neque sibi neque Pescennio longum imperium deberi, sed Severo, qui magis esset odio habendus a senatoribus, militibus, provincialibus, popularibus. Quod 〈res〉 probavit. [3] Et Pescennius quidem Severo eo tempore, quo Lugdunensem provinciam regebat3, amicissimus fuit; [4] nam ipse missus erat ad conprehendendos desertores, qui innumeri Gallias tunc vexabant. [5] In quo officio quod se honeste gessit, iucundissimum fuit Severo, ita ut de eo ad Commodum Septimius referret adserens necessarium rei p. virum. Et revera in re militari vehemens fuit. [6] Numquam sub eo miles provinciali lignum, oleum, operam extorsit. [7] Ipse a milite nihil accepit. Cum tribunatus ageret, nihil accipi passus est. [8] Nam et imperator iam tribunos duos, quos constitit stellaturas accepisse, lapidibus obrui ab auxiliaribus iussit. [9] Extat epistula Severi, qua scribit ad Ragonium Celsum Gallias regentem: «Miserum est, ut imitari eius disciplinam militarem non possimus, quem bello vicimus: [10] milites tui vagantur, tribuni medio die lavant, pro tricliniis popinas habent, pro cubiculis meritoria: saltant, bibunt, cantant et mensuras conviviorum vocant [cum] hoc sine mensura potare. [11] Haec, si ulla vena paternae disciplinae viveret, fierent?4 Emenda igitur primum tribunos, deinde militem. Quem, quamdiu timuerit, tamdiu tenebis. [12] Sed scias idque de Nigro militem timere non posse, nisi integri fuerint tribuni et duces militum». [4, 1] Haec de Pescennio Severus Augustus. 〈De hoc〉 adhuc milite Marcus Antoninus ad Cornelium Balbum: «Pescennium mihi laudas: agnosco; nam et decessor tuus eum manu strenuum, vita gravem et iam tum plus quam militem dixit. [2] Itaque misi litteras recitandas ad signa, quibus eum trecentis Armenicis et centum Sarmatis et mille nostris praeesse iussi. [3] Tuum est ostendere hominem non ambitione, quod nostris non convenit moribus, sed virtute venisse ad eum locum, quem avus meus Hadrianus, quem Traianus proavus non nisi exploratissimis dabat». [4] De hoc eodem Commodus: «Pescennium fortem virum novi et ei tribunatus iam duos dedi: ducatum mox dabo, ubi per senectutem Aelius Corduenus rem p. recusaverit». Haec de eo iudicia omnium fuerunt. [5] [se] Severus ipse saepe dixit ignoturum se Pescennio, nisi perseveraret. [6] A Commodo denique Pescennius consul declaratus5 Severo praepositus est, et quidem irato, quod primipilaribus commendantibus consulatum Niger mereretur. [7] In vita sua Severus dicit se, priusquam filii sui id aetatis haberent, ut imperare possent, aegrotantem id in animo habuisse, ut, si quid forte sibi accidisset, Niger Pescennius eodem et

Clodius Albinus succederent, qui ambo Severo gravissimi hostes extiterunt. [8] Unde apparet, quod etiam Severi de Pescennio iudicium fuerit. [5, 1] Si Severo credimus, fuit gloriae cupidus Niger, vita fictus, moribus turpis, aetatis provectae, cum in imperium invasit (ex quo cupiditates eius incusat), proinde quasi Severus minor ad imperium venerit, qui annos suos contrahit, cum decem octo annis imperavit et octogesimo nono6 periit. [2] Sane Severus Heraclitum ad optinendam Bithyniam misit7, Fulvium autem ad occupandos adultos Nigri filios. [3] Nec tamen in senatu quicquam de Nigro Severus dixit, cum iam audisset de eius imperio, ipse autem proficisceretur ad conponendum orientis statum [tantum]. [4] Sane illud fecit proficiscens, ut legiones ad Africam mitteret, ne eam Pescennius occuparet et fame populum Romanum perurgueret. [5] Et videbatur autem id facere posse per Libyam Aegyptumque vicinas Africae, difficili licet itinere ac navigatione. [6] Et Pescennius quidem veniente ad orientem Severo Graeciam, Thracias, Macedoniam interfectis multis inlustribus viris tenebat, ad participatum imperii Severum vocans. [7] A quo causa eorum, quos occiderat, cum Aemiliano hostis est appellatus. Dein a ducibus Severi per Aemilianum pugnans victus est. [8] Et cum illi tutum exilium promitteret, si ab armis recederet, persistens iterum pugnavit et victus est atque apud Cyzicum circa paludem fugiens sauciatus et sic ad Severum adductus atque statim mortuus8. [6, 1] Huius caput circumlatum pilo Romam missum, filii occisi, necata uxor, patrimonium publicatum, familia omnis extincta. [2] Sed haec omnia, postquam de Albini rebellione cognitum est, facta sunt; nam prius et fìlios Nigri et matrem in exilium miserat. [3] Sed exarsit secundo civili bello, immo iam tertio9 et factus est durior, [4] tunc cum innumeros senatores interemit Severus et ab aliis Syllae Punici, ab aliis Marii nomen accepit10. [5] Fuit statura prolixa, forma decorus, capillo in verticem ad gratiam reflexo, vocis {raucae sed} canorae, ita ut in campo loquens per mille passus audiretur, nisi ventus adversaretur, oris verecundi et semper rubidi, cervice adeo nigra, ut, quemammodum multi dicunt, ab ea Nigri nomen acceperit, [6] cetera corporis parte candidus et magis pinguis, vini avidus, cibi parcus, rei veneriae nisi ad creandos liberos prorsus ignarus11. [7] Denique etiam sacra quaedam in Gallia, quae castissimis decernunt, consensu publico celebranda suscepit. [8] Hunc in Commodianis hortis in porticu curva pictum de musio inter Commodi amicissimos videmus sacra Isidis ferentem; [9] quibus Commodus adeo deditus fuit, ut et caput raderet et Anubim portaret et omnis

pausas expleret12. [10] Fuit ergo miles optimus, tribunus singularis, dux praecipuus, legatus severissimus, consul insignis, vir domi forisque conspicuus, imperator infelix; usui denique rei p. sub Severo, homine tetrico, esse potuisset, si cum eo esse voluisset. [7, 1] Sed deceptus est consiliis scaevis Aureliani13, qui filias suas eius filiis despondens persistere eum fecit in imperio. [2] Hic tantae fuit auctoritatis, ut ad Marcum primum deinde ad Commodum scriberet, cum videret provincias facili administrationum mutatione subverti, primum ut nulli ante quinquennium succederetur provinciae praesidi vel legato vel proconsuli14, quod prius deponerent potestatem quam scirent administrare. [3] Deinde ne novi ad regendam rem p. accederent praeter militares administrationes, intimavit, ut assessores15, in quibus provinciis adsedissent, in his administrarent. [4] Quod postea Severus et deinceps multi tenuerunt, ut probant Pauli et Ulpiani praefecturae, qui Papiniano16 in consilio fuerunt ac postea, cum unus ad memoriam17, alter ad libellos18 paruisset, statim praefecti facti sunt. [5] Huius etiam illud fuit, ut nemo adsideret in sua provincia, nemo administraret, nisi Romae Romanus, hoc est oriundus urbe. [6] Addidit praeterea consiliariis19 salaria, ne eos gravarent, quibus adsidebant, dicens iudicem nec dare debere nec accipere. [7] Hic erga milites tanta fuit censura, ut, cum apud Aegyptum ab eo limitanei vinum peterent, responderit: «Nilum habetis et vinum quaeritis?», si quidem tanta illius fluminis dulcitudo, ut accolae vina non quaerant. [8] Idem tumultuantibus his, qui a Saracenis20 victi fuerant, et dicentibus: «Vinum non accepimus, pugnare non possumus», «Erubescite», inquit, «illi, qui vos vincunt, aquam bibunt». [9] Idem Palaestinis rogantibus, ut eorum censitio levaretur, idcirco quod esset gravata, respondit: «Vos terras vestras levari censitione vultis: ego vero etiam aerem vestrum censere vellem»21. [8, 1] Denique Delfici Apollinis vates in motu rei p. maximo, cum nuntiaretur tres esse imperatores, Severum Septimium, Pescennium Nigrum, Clodium Albinum, consultus quem expediret rei publicae imperare, versum Graecum huiusmodi fudisse dicitur: «Optimus est Fuscus, bonus Afer, pessimus Albus».

[2] Ex quo intellectum Fuscum Nigrum appellatum vaticinatione, Severum Afrum, Album vero Albinum dictum. [3] Nec defuit alia curiositas, qua requisitum est, qui esset obtenturus rem publicam. Ad quod ille respondit alium versum talem:

«Fundetur sanguis albi nigrique animantis, imperium mundi Poena reget urbe profectus»22.

[4] Item cum quaesitum esset, quis illi successurus esset, respondisse itidem Graeco versu dicitur: «Cui dederint superi nomen habere Pii».

[5] Quod omnino intellectum non est, nisi cum Bassianus Antonini, quod verum signum Pii fuit, nomen accepit. [6] Item cum quaereretur, quamdiu imperaturus esset, respondisse Graece dicitur: «Bis denis Italum conscendit navibus aequor23: si tamen una ratis transiliet pelagus».

Ex quo intellectum Severum viginti annos expleturum. [9, 1] Haec sunt, Diocletiane maxime Augustorum, quae de Pescennio didicimus ex pluribus libris. Non enim facile, ut in principio libri diximus, quisquam vitas eorum mittit in libros, qui aut principes in re p. non fuerunt aut a senatu appellati non sunt imperatores aut occisi citius ad famam venire nequiverunt. [2] Inde quod latet Vindex24, quod Piso25 nescitur, quod omnes illi, qui aut tantum adoptati sunt aut a militibus imperatores appellati, ut sub Domitiano Antonius26, aut cito interempti vitam cum imperii usurpatione posuerunt. [3] Sequitur nunc, ut de Clodio Albino dicam27, qui quasi socius huius habetur, quod et pariter contra Severum rebellarunt et ab eodem victi atque occisi sunt. [4] De quo ipso neque satis clara extant, quia eadem fortuna illius fuit quae Pescennii, etiamsi vita satis dispar. [5] Ac ne quid ex his, quae ad Pescennium pertinent, praeterisse videamur, licet aliis libris cognosci possint, de hoc Severo Septimio vates dixerunt, quod neque vivus neque mortuus in potestatem Severi venturus esset, sed iuxta aquas illi pereundum esset. [6] Quod quidam dicunt ipsum Severum de mathesi, qua callebat, dixisse. Nec abfuit responsis veritas, cum ille inventus sit iuxta paludem semivivus. [10, 1] Hic tantae fuit severitatis, ut, cum milites quosdam in cauco argenteo expeditionis tempore bibere vidisset, iusserit omne argentum summoveri de usu expeditionali, addito eo ut ligneis vasis uterentur. Quod quidem illi odium militare concitavit. [2] Dicebat enim posse fieri, ut sarcinae militares in potestatem hostium venirent, nec se barbarae nationes argento nostro gloriosiores facerent, cum alia minus apta hosticam viderentur ad gloriam. [3] Idem iussit vinum in expeditione neminem bibere, sed aceto universos esse contentos. [4] Idem pistores sequi expeditionem prohibuit, bucellato iubens milites et omnes contentos esse. [5] Idem ob unius gallinacei direptionem decem commanipulones, qui raptum ab uno comederant, securi

percuti iussit, et fecisset, nisi ab omni exercitu prope usque ad metum seditionis esset rogatus. [6] Et cum pepercisset, iussit, ut denorum gallinaceorum pretia provinciali redderent decem, qui simul furto convixerant, addito eo ut tota in expeditione in commanipulatione nemo focum faceret, ne umquam recens coctum cibum sumerent, sed pane ac frigida vescerentur, adpositis speculatoribus, qui id curarent. [7] Idem iussit, ne zona milites ad bellum ituri aureos vel argenteos nummos portarent, sed publice commendarent, recepturi post proelia quod dederant, addens liberis eorum et uxoribus heredibus certe reddendum, cui venisset, ne ad hostes aliquid praedae perveniret, si quid forte adversi fortuna fecisset. [8] Sed haec omnia, ut se habuerat Commodi temporum dissolutio, adversa eidem fuere. [9] Denique etiamsi nemo fuit, qui suis temporibus dux severior videretur, perniciem illi magis ista quam …28 mortuo, ubi et invidia et odium deposita erant, talia exempla valuerunt. [11, 1] Idem in omni expeditione ante omnes militarem cibum sumpsit ante papilionem nec sibi umquam vel contra solem vel contra imbres quaesivit tecti suffragium, si miles non habuit. [2] Tantum denique belli tempore ratione militibus demonstrata sibi et servis suis vel contubernalibus por〈tandum pu〉tavit, quantum a militibus ferebatur, cum servos suos annona oneraret, ne illi securi ambularent et onusti milites idque ab exercitu cum suspirio videretur. [3] Idem in contione iuravit se, quamdiu in expeditionibus fuisset essetque adhuc futurus, non aliter egisse acturumque esse quam militem, Marium ante oculos habentem et duces tales. [4] Nec alias fabulas umquam habuit nisi 〈de〉 Annibale ceterisque talibus. [5] Denique cum imperatori facto quidam panegyricum recitare vellet, dixit ei: «Scribe laudes Marii vel Annibalis 〈vel ali〉cuius ducis optimi vita functi et dic, quid ille fecerit, ut eum nos imitemur. [6] Nam viventes laudare inrisio est, maxime imperatores, a quibus speratur, qui timentur, qui praestare publice possunt, qui possunt necare, qui proscribere». Se autem vivum placere velle, mortuum etiam laudari. [12, 1] Amavit de principibus Augustum, Vespasianum, Titum, Traianum, Pium, Marcum, reliquos feneos vel venenatos vocans; maxime tamen 〈in〉 historiis Marium et Camillum et Quinctium29 〈et〉 Marcium Coriolanum dilexit. [2] Interrogatus autem, quid de Scipionibus sentiret, dixisse fertur felices illos fuisse magis quam fortes; idque probare domesticam vitam et iuventutem, quae in utroque minus speciosa domi fuisset. [3] Apud omnes constat, quod, si rerum potitus fuisset, omnia correcturus fuerit, quae Severus

vel non potuit emendare vel noluit, et quidem sine crudelitate, immo etiam cum lenitate, sed militari, non remissa et inepta atque ridicula. [4] Domus eius hodie Romae visitur in campo Iovis30, quae appellatur Pescenniana, in qua simulacrum eius in trichoro constitutum post annum ex Thebaico maimore31, quod ille ad similitudinem sui factum a rege Thebaeorum acceperat. [5] Extat etiam epigramma Graecum, quod Latine hanc habet sententiam: [6] «Terror Aegyptiaci Niger astat militis ingens, Thebaidos socius, aurea saecla32 volens.

Hunc reges, hunc gentes amant, hunc aurea Roma, hic Antoninis carus 〈et〉 imperio. Nigrum nomen habet, nigrum formavimus ipsi, ut consentiret forma, metalle, tibi».

[7] Quos quidem versus Severus eradi noluit, cum hoc ei et praefecti suggererent et offìciorum magistri, addens: [8] «Si talis fuit, sciant omnes, qualem vicerimus; si talis non fuit, putent omnes nos talem vicisse: immo sic sit, quia fuit talis».

[1, 1] È cosa rara e difficile che si riesca a scrivere biografìe esaurienti di coloro che la vittoria altrui ha fatto diventare «usurpatori», e per questo motivo non tutte le notizie che li riguardano sono compiutamente riferite nei documenti e negli annali. [2] Innanzitutto, infatti, le imprese di una certa importanza che tornerebbero a loro onore vengono dagli storici distorte, altre poi vengono del tutto tralasciate, e infine non si richiederà grande cura di particolari nella ricostruzione della loro genealogia e della loro vita, dal momento che risulta sufficiente fare accenno al loro atto di temerarietà, alla guerra in cui furono sconfitti, e alla pena che ricevettero. [3] Pescennio Nigro, dunque, avrebbe avuto – stando alla versione di alcuni – modesti natali, nobili, invece, a quanto affermano altri; suo padre era Annio Fusco, sua madre Lampridia, il nonno era procuratore1 di Aquino, città dalla quale la famiglia avrebbe tratto origine; il che rimane dubbio ancor oggi. [4] Uomo di mediocre istruzione, di carattere altero, smisuratamente avido di ricchezze, sobrio nel tenore di vita, privo di alcun freno nel dar sfogo ad ogni genere di passioni, [5] per lungo tempo fu centurione e, attraverso numerose cariche militari, giunse infine a comandare per ordine di Commodo gli eserciti di Siria, grazie particolarmente all’appoggio di quell’atleta che poi ebbe a strangolare Commodo, secondo quanto avveniva a quei tempi in ogni cosa. [2, 1] Non appena giunse la notizia che Commodo era stato ucciso, che Giuliano era stato proclamato imperatore e poi ucciso per ordine di Severo e del senato, e che anche Albino in Gallia aveva assunto il titolo di imperatore, fu proclamato imperatore dagli eserciti che comandava in Siria2, più in odio a Giuliano che in alternativa a Severo. [2] Grazie all’ostilità nei confronti di Giuliano, nei primi giorni del suo impero poté raccogliere a Roma dei consensi, almeno da parte di quei senatori che odiavano anche Severo, nel senso che, tra le sassate e le maledizioni che venivano lanciate da tutti, gli venivano formulati auguri di successo, e il popolo acclamava: «Lui ci diano gli dèi come principe, lui come Augusto!». [3] La plebe odiava Giuliano perché i soldati avevano ucciso Pertinace e avevano proclamato lui imperatore contro la volontà del popolo. E così, a motivo di ciò, erano scoppiati dei grossi tumulti. [4] Giuliano, dal canto suo, aveva mandato un primipilare ad uccidere Nigro, commettendo una sciocchezza ad agire così contro uno che disponeva di un esercito, e poteva ben difendersi, proprio come se qualunque imperatore potesse essere ucciso da un primipilario. [5] Dimostrando la medesima incoscienza Giuliano aveva mandato uno a prendere il posto di

Severo, quando questi era già stato eletto imperatore. [6] E inoltre aveva inviato anche il centurione Aquilio, famoso per aver assassinato vari generali, come se un così grande imperatore potesse essere ucciso da un centurione. [7] Non minore pazzia infine fu quella di agire nei confronti di Severo – a quanto si narra – emanando un editto che gli proibiva di assumere l’impero, perché apparisse che egli a buon diritto si era assunto il potere, precedendo l’avversario. [3, 1] E la considerazione in cui il popolo teneva Pescennio Nigro apparve quando, in occasione dei giochi circensi organizzati a Roma da Giuliano, nel corso dei quali i seggi del Circo Massimo erano stati riempiti senza rispettare le distinzioni di rango e il popolo si sentiva profondamente offeso, da tutti a una sola voce venne invocato in difesa della città Pescennio Nigro, per odio – come abbiamo detto – verso Giuliano e per l’affetto che nutrivano verso l’ucciso Pertinace; [2] in quell’occasione si narra che Giuliano ebbe ad affermare che né a lui né a Pescennio sarebbe toccato un impero duraturo, bensì a Severo, il quale pure avrebbe dovuto essere più di loro in odio ai senatori, ai soldati, ai provinciali, al popolo. E ciò fu confermato dai fatti. [3] E invero Pescennio era stato molto amico di Severo al tempo in cui questi era governatore della provincia Lugdunese3; [4] egli era stato infatti mandato a catturare i disertori, che in gran numero allora agitavano le Gallie. [5] Il modo onorevole in cui ebbe a condurre questo incarico piacque molto a Severo, tanto che Settimio riferì di lui a Commodo, affermando che si trattava di un uomo necessario al bene dello Stato. E in effetti, nell’ambito della vita militare, era inflessibile. [6] Mai sotto di lui alcun soldato ebbe a sottrarre ad un provinciale legno, olio, manodopera. [7] Lui stesso non ricevette mai nulla dai soldati. Quando esercitava il tribunato, non permise di ricevere alcunché. [8] Infatti, anche già divenuto imperatore, diede ordine che due tribuni, accertati quali colpevoli di essersi fatti corrompere dai fornitori militari, fossero lapidati dagli ausiliari. [9] Esiste una lettera di Severo, in cui questi scrive a Ragonio Celso, governatore della Gallia: «È un male che non riusciamo ad imitare la disciplina militare di quelli che abbiamo vinto in guerra: [10] i tuoi soldati vanno in giro vagabondando, i tribuni fanno il bagno a mezzogiorno, hanno per triclini le bettole, e per stanze da letto i bordelli; ballano, bevono, cantano e questo loro bere smodato lo definiscono la giusta misura per dei banchetti, [11] Accadrebbero queste cose, se fosse ancora viva una minima stilla della disciplina dei nostri padri?4 Richiama all’ordine dapprima i tribuni, poi i soldati. Questi, fino a quando avranno timore, tu li

avrai in pugno. [12] Ma impara anche questo dall’esempio di Nigro, che non è possibile che i soldati provino timore, se i loro tribuni e comandanti non sono irreprensibili». [4, 1] Così si esprimeva su Pescennio Severo Augusto. Di lui, quando era ancora un semplice soldato, così scriveva Marco Antonino a Cornelio Balbo: «Tu mi fai le lodi di Pescennio: ma io già lo conosco; ché il tuo predecessore me ne parlò come di un uomo valoroso nell’azione, di costumi di vita severi, e già fin d’allora da più di un comune soldato. [2] Perciò ho inviato una lettera da leggersi dinanzi all’esercito riunito attorno alle insegne, nella quale ordino che gli sia affidato il comando di trecento Armeni, cento Sarmati e mille dei nostri soldati. [3] Tocca ora a te dimostrare che non attraverso intrighi – ciò che non è conforme ai nostri princìpi –, ma in grazia dei suoi meriti egli è arrivato ad occupare questo posto, che il mio avo Adriano e il mio proavo Traiano concedevano unicamente a uomini di pienamente comprovata fiducia». [4] Sempre su di lui scrive Commodo: «Conosco Pescennio come un uomo di valore, e gli ho già assegnato per due volte il tribunato: e presto, non appena Elio Cordueno si ritirerà dalla vita pubblica per raggiunti limiti di età, gli assegnerò un comando in capo». Queste erano le opinioni che generalmente si avevano di lui. [5] Severo stesso affermò più volte che gli avrebbe concesso il perdono, se si fosse arreso. [6] Fu così che Pescennio venne nominato console da Commodo5, che lo antepose a Severo, non senza che questi si adontasse del fatto che Nigro ottenesse il consolato grazie all’appoggio dei primipilari. [7] Nella sua Autobiografia Severo afferma che, prima che i suoi figli raggiungessero l’età necessaria per poter regnare, trovandosi ammalato aveva concepito il progetto che, se mai gli fosse successo qualcosa, avessero a succedergli Nigro Pescennio e Clodio Albino, quelli, cioè, che diventarono poi i suoi più fieri nemici. [8] Da ciò si rivela quale fosse la considerazione che anche Severo aveva nei riguardi di Nigro. [5, 1] Se vogliamo credere a Severo, Nigro fu bramoso di gloria, ipocrita nel suo modo di vivere, di costumi immorali, e di età ormai avanzata quando tentò di impadronirsi dell’impero (e per questo egli mette sotto accusa la sua ambizione), quasi poi che Severo fosse giunto all’impero più giovane, lui che – anche se cerca di diminuirsi l’età – regnò in effetti per diciotto anni e morì che era al suo ottantanovesimo6. [2] Severo dunque mandò Eraclito a occupare la Bitinia7 e Fulvio a catturare i figli, ormai adulti, di Nigro. [3] Né tuttavia, sebbene avesse già avuto notizia che Nigro aveva assunto l’impero ed egli stesso si accingesse a

partire per portare a soluzione la crisi orientale, fece alcun accenno a Nigro in senato. [4] Di fatto, al momento di partire, egli dispose l’invio di legioni in Africa, onde impedire che Pescennio avesse ad occuparla e a stringere così il popolo Romano nella morsa della fame. [5] E del resto quello appariva in grado di farlo, attraverso l’occupazione della Libia e dell’Egitto, adiacenti all’Africa, anche se il viaggio si presentava diffìcile sia per terra che per mare. [6] Dal canto suo Pescennio, all’arrivo di Severo in Oriente, aveva in suo potere la Grecia, la Tracia e la Macedonia, conquistate mettendo a morte molti uomini di rango, e lo invitava a una spartizione del potere. [7] Ma questi, a motivo delle persone da lui uccise, lo proclamò nemico pubblico assieme ad Emiliano. Successivamente, in una battaglia in cui il suo esercito era guidato da Emiliano, fu sconfitto dai generali di Severo. [8] E quantunque questi gli promettesse che avrebbe potuto andarsene salvo in esilio, se avesse deposto le armi, lui, persistendo nella lotta, diede nuovamente battaglia, e venne sconfitto e ferito mentre fuggiva nei pressi di una palude vicino a Cizico: fu portato in quelle condizioni alla presenza di Severo, dove spirò subito dopo8. [6, 1] Il suo capo venne portato in giro su di una picca, per poi essere inviato a Roma, i suoi figli furono uccisi, sua moglie pure messa a morte, il suo patrimonio confiscato, e tutta la sua famiglia estinta. [2] Ma tutte queste cose avvennero dopo che si venne a sapere della ribellione di Albino; ché, in precedenza, sia i figli di Nigro sia la loro madre erano stati da Severo soltanto esiliati. [3] Ma questa seconda – anzi, ormai terza9 – guerra civile esasperò Severo rendendolo più crudele; [4] fu allora che mise a morte innumerevoli senatori, e ricevette il soprannome ora di Silla Punico, ora di Mario10. [5] Era un uomo di alta statura, di bell’aspetto, con i capelli leggiadramente arricciati all’indietro sul capo; aveva una voce roca ma sonora, così che quando parlava sul campo, lo si udiva – se non spirava vento contrario – a mille passi di distanza; il suo volto ispirava rispetto e aveva sempre un colorito sanguigno, e il collo era tanto nero che, secondo quanto affermano molti, egli prese da esso il nome di Nigro, [6] mentre tutto il resto del corpo era di carnagione chiarissima; piuttosto obeso, avido di vino, sobrio nel mangiare, si asteneva completamente da rapporti sessuali se non in funzione procreativa11. [7] E così una volta, in Gallia, gli venne persino affidata, col consenso generale, la celebrazione di certi riti sacri che là riservano alle persone più segnalate per la loro castità. [8] In un mosaico nei giardini di Commodo, sotto l’arcata di un portico, lo vediamo raffigurato fra gli amici più intimi di lui, nell’atto di portare i sacri arredi alla festa di Iside,

[9] al cui culto Commodo era tanto devoto, che si radeva i capelli, portava l’immagine di Anubi e osservava tutte le stazioni rituali delle processioni12. [10] Fu dunque ottimo soldato, tribuno di segnalato valore, eccellente generale, governatore molto severo, console insigne, personaggio ragguardevole in patria e fuori, ma imperatore sfortunato; avrebbe potuto essere, insomma, di utilità allo Stato sotto un uomo rigido come Severo, se avesse voluto stare dalla sua parte. [7, 1] Fu invece ingannato dai funesti consigli di Aureliano13 che, promettendo in spose le sue figlie ai figli di lui, lo spinse a persistere nel suo tentativo di usurpazione. [2] Tale era la sua autorevolezza che, vedendo come le province venivano ad essere gravemente danneggiate dai frequenti cambiamenti di amministrazione, scrisse prima a Marco e poi a Commodo, in primo luogo che non venisse avvicendato alcun governatore, legato o proconsole14 di una provincia prima di un quinquennio di esercizio della carica, poiché ora deponevano il potere prima ancora di aver imparato a governare. [3] Inoltre, onde evitare che avessero ad accedere all’amministrazione dello Stato – a parte le cariche riservate ai militari – persone inesperte, propose il principio che coloro che avevano svolto funzioni di assistenti all’amministrazione15 potessero solo ricevere il governo di quelle province in cui avevano esercitato tale incarico. [4] Questo principio fu poi mantenuto da Severo e via via da molti, come testimoniano le prefetture di Paolo e Ulpiano, che furono consiglieri di Papiniano16 e successivamente, dopo essere stati addetti l’uno alla stesura degli annali17, l’altro alle petizioni18, furono subito nominati prefetti. [5] Un’altra sua disposizione fu che nessuno svolgesse funzioni di assistente all’amministrazione o avesse a governare nella propria provincia di nascita, eccetto il caso di un Romano, cioè di uno nativo della città, a Roma. [6] Stabilì inoltre uno stipendio per i consiglieri19, perché non fossero di peso ai loro superiori, affermando che il giudice non deve né dare né ricevere. [7] Nei confronti dei soldati fu di una tale rigidezza che, allorché le truppe di stanza alla frontiera d’Egitto gli domandarono del vino, rispose: «Avete il Nilo, e volete del vino?!» – dato che tale è la dolcezza dell’acqua di quel fiume che gli abitanti del luogo non sentono il bisogno di bere vino. [8] Un’altra volta, di fronte alle manifestazioni di scontento dei soldati che erano stati sconfitti dai Saraceni20, e dicevano: «Non abbiamo avuto il vino e non possiamo combattere!», ebbe ad esclamare: «Vergognatevi! Quelli che vi

vincono bevono acqua!». [9] Ancora, ai Palestinesi che gli chiedevano che il loro tributo venisse alleggerito, dato che aveva subito un aggravio, rispose: «Voi volete che le vostre terre siano alleggerite dall’imposta: io invece vorrei tassare anche la vostra aria»21. [8, 1] Si racconta che nel periodo di massimo sconvolgimento dello Stato, allorché giungeva notizia che vi erano tre imperatori – Severo Settimio, Pescennio Nigro, Clodio Albino –, l’oracolo di Apollo Delfico, consultato su quale di essi convenisse allo Stato che diventasse imperatore, diede come responso un verso greco di questo tenore: «Ottimo è il Fosco, buono l’Africano, pessimo l’Albo».

[2] Se ne dedusse che nel vaticinio col «Fosco» si intendeva Nigro, con l’«Afro» Severo, con l’«Albo» Albino. [3] Vi fu anche la curiosità di domandare chi avrebbe raggiunto il potere. Al che l’oracolo rispose altri versi che suonavano così: «Sarà sparso il sangue dell’uomo bianco e del nero, avrà l’impero del mondo quello venuto da una città Punica»22. [4] Gli fu allora richiesto chi sarebbe a quello succeduto, al che si dice abbia risposto con un altro verso greco: «Colui cui gli dèi concederanno aver nome Pio».

[5] Questa predizione rimase del tutto oscura fino a quando Bassiano ricevette il nome di Antonino, che era stato il vero nome di Pio. [6] Venendogli poi richiesto per quanto tempo avrebbe regnato, si narra che rispose in greco: «Con venti navi prende il mare d’Italia23: se pure una sola riuscirà ad attraversarlo».

Da queste parole si comprese che Severo avrebbe compiuto i venti anni di regno. [9, 1] Questo, o Diocleziano, sommo tra gli Augusti, è tutto quanto abbiamo potuto apprendere di Pescennio consultando numerose fonti. Infatti non è un compito facile per chicchessia – come abbiamo detto al principio – comporre le biografie di coloro che o non occuparono un posto di preminenza nello Stato, o non furono riconosciuti dal senato quali imperatori, o che non poterono raggiungere la fama in quanto troppo presto uccisi. [2] È questa la ragione per cui la vita di Vindice24 ci rimane oscura, per cui non sappiamo di Pisone25, né di tutti quelli che o furono soltanto adottati, o proclamati imperatori dai soldati, come sotto Domiziano Antonio26, o che furono subito uccisi, così che la loro morte segnò ad un tempo la fine della loro usurpazione.

[3] Mi resta ora da parlare di Clodio Albino27, che è considerato quasi suo collega, in quanto si ribellarono entrambi contro Severo e da lui furono vinti ed uccisi. [4] Anche sul conto di costui non si hanno notizie molto precise, giacché gli toccò la stessa sorte di Pescennio, anche se la sua vita fu abbastanza diversa. [5] E perché non sembri che abbiamo omesso qualcosa di quanto riguarda Pescennio – quantunque questi particolari possano ricavarsi da altri libri – ricorderò come a proposito di lui gli oracoli avevano predetto a Settimio Severo che costui non sarebbe mai caduto né vivo né morto nelle sue mani, ma che il suo destino era di morire nelle vicinanze di un corso d’acqua. [6] Certuni affermano che questa profezia fu fatta dallo stesso Severo, valendosi delle arti astrologiche, nelle quali era assai esperto. Né tale responso rimase irrealizzato, dato che egli fu ritrovato fra vivo e morto presso una palude. [10, 1] Tale era la sua severità che, avendo visto certi soldati – nel corso di una spedizione – bere in una coppa d’argento, diede ordine che, durante le campagne militari, fosse bandito l’uso di qualsiasi oggetto d’argento, disponendo per di più che si impiegassero solo recipienti di legno. Il che gli suscitò contro l’odio dei soldati. [2] Diceva infatti che poteva avvenire che i bagagli dei soldati cadessero in mano ai nemici, e in tal caso i popoli barbari non avrebbero potuto farsi belli della nostra argenteria, dato che quegli altri oggetti apparivano meno atti a suscitare il vanto dei nemici. [3] Ordinò inoltre che durante le campagne militari nessuno bevesse vino, ma tutti quanti si accontentassero dell’aceto. [4] Vietò poi che vi fossero dei fornai al seguito delle spedizioni, disponendo che i soldati, e tutti gli altri, si limitassero a consumare gallette. [5] Un’altra volta diede l’ordine che fossero decapitati dieci soldati dello stesso manipolo, rei di aver mangiato un unico pollo rubato da uno di loro: e lo avrebbe fatto eseguire, se non si fosse trovato di fronte alle proteste dell’esercito, tanto vibrate da far temere una sedizione. [6] E, se li risparmiò, ordinò però che i dieci che si erano mangiati insieme la refurtiva rifondessero ciascuno al provinciale derubato una somma corrispondente al valore di dieci polli, disponendo inoltre che per tutta la durata della spedizione nessuno accendesse il fuoco nel bivacco, onde non avessero mai a prendere cibi cotti di fresco, ma si nutrissero di pane e acqua fredda, ponendo degli addetti a sorvegliare che ciò venisse eseguito. [7] Vietò che i soldati in partenza per la guerra portassero con sé nel cinturone monete d’oro o d’argento, disponendo invece che le affidassero al pubblico erario, dal quale, dopo la guerra, avrebbero riavuto ciò che avevano depositato, e aggiungendo

che, se la cattiva sorte avesse procurato qualche disgrazia, si sarebbero dovute senz’altro restituire ai figli e alle mogli, loro eredi, cui fosse spettato, perché il nemico non avesse a far bottino di alcunché. [8] Ma tutti questi provvedimenti, data la corruzione imperante ai tempi di Commodo, gli si ritorsero contro. [9] E così, quantunque non vi fosse ai suoi tempi chi apparisse generale di più severi costumi, codeste disposizioni gli procurarono più danno che […]28 da morto, quando si erano spenti l’invidia e l’odio nei suoi confronti, l’esempio di tali direttive fu tenuto nella giusta considerazione. [11, 1] Durante tutte le campagne militari egli consumava il rancio che prendevano i soldati, alla presenza di tutti, dinanzi alla sua tenda, né cercava mai per sé l’ausilio di un riparo contro il sole o la pioggia, se i soldati non l’avevano. [2] Inoltre in tempo di guerra assegnava da portare per sé, per i suoi servi e il suo séguito esattamente quanto portavano i soldati, rendendone ad essi conto, facendo poi trasportare personalmente ai suoi servi i viveri, perché non avessero a marciare in scioltezza mentre i soldati procedevano carichi, e ciò non fosse visto di malocchio dall’esercito. [3] Nel corso di un’allocuzione ai soldati giurò che in tutto il tempo in cui aveva partecipato a campagne e vi avrebbe ancora preso parte in séguito, non si era mai comportato, né lo avrebbe fatto in futuro, altrimenti che quale un semplice soldato, avendo presente innanzi agli occhi la figura di Mario e dei generali di quello stampo. [4] Né aveva mai sulla bocca altre storie se non quelle di Annibale e di tutti gli altri famosi condottieri. [5] E così una volta – quando era già stato proclamato imperatore – ad un tale che voleva recitare un panegirico in suo onore, rispose: «Scrivi le lodi di Mario, o di Annibale, o di qualche altro ottimo generale già morto, e raccontane le imprese, acciocché possiamo imitarlo. [6] Ché il celebrare persone vive non è una cosa seria, specialmente se si tratta di imperatori, dai quali si spera di ricevere, nei confronti dei quali si nutre paura, che possono favorire la carriera pubblica di uno, così come possono mettere a morte o proscrivere». Quanto a lui, diceva, desiderava da vivo riuscire accetto, da morto anche essere lodato. [12, 1] Tra i principi amava Augusto, Vespasiano, Tito, Traiano, Pio, Marco, chiamando gli altri fantocci o pesti; tra i personaggi della storia, peraltro, prediligeva Mario, Camillo, Quinzio29 e Marcio Coriolano. [2] Richiesto poi del suo parere sugli Scipioni, si narra abbia affermato che essi furono più fortunati che valorosi; e prova di ciò sarebbe stata la loro vita privata nel corso della giovinezza, che nel caso di entrambi era trascorsa in patria senza particolare risalto. [3] Tutti dànno per scontato che, se avesse

raggiunto il potere, avrebbe posto rimedio a tutti i problemi che Severo non poté o non volle risolvere, e per di più l’avrebbe fatto senza ricorrere alla crudeltà, anzi persino con moderazione, di quella però che è propria di un uomo d’armi, e non è sinonimo di fiacchezza, inettitudine e mancanza di serietà. [4] La sua casa, detta Pescenniana, si può visitare ancor oggi a Roma nel Campo di Giove30; in essa, dopo un anno, fu collocata, in una nicchia tripartita, una statua in marmo tebano31 che lo raffigurava, ricevuta in dono dal re di Tebe. [5] È ancora leggibile un epigramma greco, che in latino suona così: [6] «Qui sta il grande Nigro, terrore del soldato egizio, alleato di Tebe, che aspirava all’età dell’oro32. Lui amano i re, le genti e l’aurea Roma, lui è caro agli Antonini e all’impero. Nigro ha nome, e nero l’abbiamo scolpito, onde l’aspetto fosse conforme, o marmo, a te».

[7] Questi versi Severo, nonostante i prefetti e i funzionari di corte glielo suggerissero, non volle venissero cancellati, affermando: [8] «Se fu tale, sappiano tutti qual uomo abbiamo vinto; se non lo fu, credano tutti che abbiamo vinto un uomo siffatto: anzi, resti così perché tale egli è stato».

1. Cfr. M. Ant., 11, 2, n. 2. 2. La successione degli avvenimenti risulta qui inesatta, in quanto – come si ricava da Sev., 10, 1 – la ribellione di Nigro precedette quella di Clodio Albino. 3. Cfr. Sev., 3, 8. 4. Cfr. PERSIO, Sat. I, 103 seg. haec fierent, si testiculi vena ulla paterni/viveret in nobis? 5. Non conosciamo con precisione l’anno, che comunque dovette essere antecedente al 189 d. C. (l’anno in cui fu eletto console Severo). 6. Severo visse in realtà sessantacinque anni; cfr. Sev., 22, 1, n. 4. 7. Cfr. Sev., 6, 10, n. 1. 8. Nel 194 d. C. 9. Cioè la rivolta di Albino, da lui affrontata dopo avere già combattuto contro Didio Giuliano e Pescennio Nigro. 10. Si fa riferimento alle proscrizioni compiute contro i loro avversari politici da Mario e Silla nell’8o a. C. CASSIO DIONE (LXXV, 8, 1) riferisce che Severo ebbe a lodare – in un suo discorso – la crudeltà dei due famosi personaggi. 11. Ciò contrasta del tutto con quanto detto a 1, 4 (libidinis effrenatae ad omne genus cupiditatum). Sul motivo della «castità» nella HA cfr. J. F. GILLIAM, Three passages in the HA: Gord. 21, 5 and 34, 2-6; Tyr. trig., 30, 12, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, p. 108. 12. Cfr. Comm., 9, 4, n. 4. 13. Altrimenti sconosciuto. 14. Cfr. Hadr., 3, 9, n. 2. 15. L’assessor era una specie di «coadiutore» che assisteva il governatore in tutto quanto riguardava l’amministrazione della giustizia nella provincia. 16. Giulio Paolo, Domizio Ulpiano ed Emilio Papiniano: tutti e tre furono famosi giuristi. Cfr. R., SYME, Three jurists, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 309 segg.; P. SALMON, La préfecture du prétoir de Julius Paullus, «Latomus», XXX, 1971, pp. 664 segg. 17. Il funzionario a memoria (in epoca tarda chiamato anche magister memoriae) era incaricato di registrare i fatti avvenuti nel corso dell’impero (sotto questo aspetto era una specie di storiografo di corte); curava inoltre la stesura delle disposizioni minori dell’imperatore, delle nomine militari, degli abbozzi per i discorsi ufficiali. La carica, rivestita dapprima da liberti, divenne in seguito appannaggio dell’ordine equestre. Cfr. A. REINTJES, Untersuchungen zu den Beamten bei den ShA, Dusseldorf, 1961, pp. 60 segg. 18. Cfr. Hadr., 22, 8, n. 5. 19. Cioè i precedenti assessores. 20. Popolazione dell’Arabia. 21. Cfr. J. STRAUB, Pescennius Niger und die «Luftsteuer», in Festschrift für Friedr. Oertel, Bonn, 1964, pp. 175 segg. 22. Il verso sembra riecheggiare VIRGILIO, Aen., I, 340 imperium Dido Tyria regit urbe profecta. 23. Il verso costituisce un adattamento di VIRGILIO, Aen., I, 381 bis denis Phrygium conscendi navibus aequor. 24. C. Giulio Vindice, governatore della Gallia Lugdunensis; si ribellò nel 68 d. C. a Nerone, alleandosi a Galba, ma la sua rivolta venne soffocata dall’esercito di Germania (cfr. SVETONIO, Nero, 40). 25. C. Calpurnio Pisone, che capeggiò la congiura cosiddetta «dei Pisoni», ordita contro Nerone nel 65 d. C. e in cui vennero coinvolti personaggi di spicco come Seneca e Lucano (cfr. TACITO, Ann., XV, 4859).

26. L. Antonio Saturnino; era governatore della Germania Superiore quando, nell’88 d. C., si ribellò a Domiziano, venendo però ben presto sconfitto e messo a morte (cfr. SVETONIO, Domit., 6). 27. Di fatto la biografìa della HA dedicata a Clodio Albino è attribuita a Giulio Capitolino, il quale a sua volta, a Cl. Alb., 1, 4, figura aver scritto anche una biografia di Pescennio. 28. Il testo è qui sicuramente lacunoso; il senso comunque doveva essere che tali azioni sul momento apportarono a Pescennio più danno che riconoscimenti, ma dopo che fu morto, una volta placati gli animi, vennero apprezzate nel loro reale valore. 29. Cioè Cincinnato, il famoso dittatore vincitore degli Equi. 30. Di questo campus Iovis si parla solo in questo luogo della HA, ed è legittimo il sospetto che possa trattarsi di un nome inventato dall’autore modellandolo su quello del Campo Marzio (cfr. J. STRAUB, Studien zur HA, Bern, 1952, p. 153 n. 27). 31. Basalto nero, importato dall’Egitto (cfr. PLINIO, Nat. Hist., XXXVI, 58). 32. Cfr. G. ALFÖLDY, Das neue saeculum des Pescennius Niger, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 1 segg.

XII. VITA CLODII ALBINI IULII CAPITOLINI

VITA DI CLODIO ALBINO di GIULIO CAPITOLINO

[1, 1] Uno eodemque prope tempore post Pertinacem, qui auctore Albino1 interemptus est, Iulianus a senatu Romae, Septimius Severus ab exercitu in Syria2, Pescennius Niger in oriente, Clodius Albinus3 in Gallia imperatores appellati. [2] Et Clodium quidem Herodianus dicit Severi Caesarem fuisse4. Sed cum alter alterum indignaretur imperare nec Galli ferre possent aut Germaniciani exercitus, quod et ipsi suum specialem principem haberent, undique cuncta turbata sunt. [3] Fuit autem Clodius Albinus familia nobili5, Hadrumetinus6 tamen ex Africa. [4] Quare sortem illam, qua Severum laudatum in Pescennii vita diximus7, ad se trahebat, nolens intellegi «pessimus Albus», quod eodem versu continebatur, quo et Severi laus et adprobatio Nigri Pescennii. [5] Sed priusquam vel de vita eius vel de morte dissero, etiam hoc dicendum est, quod eum nobilem fecit. [2, 1] Nam ad hunc eundem quondam Commodus, cum [eum] successorem Albino daret, litteras dederat, quibus iusserat, ut Caesar esset8. Exemplum indidi: [2] «Imperator Commodus Clodio Albino. Alias ad te publice de successione atque honore tuo misi, sed hanc familiarem et domesticam, omnem, ut vides, mea manu scriptam, qua tibi do facultatem, ut, si necessitas fuerit, ad milites prodeas et tibi Caesareanum nomen adsumas. [3] Audio enim et Septimium Severum et Nonium Murcum male de me apud milites loqui, ut sibi parent stationis Augustae procurationem. [4] Habebis praeterea, cum id feceris, dandi stipendii usque ad tres aureos liberam potestatem, quia et super hoc ad procuratores meos litteras misi, quas ipse signatas excipies signo Amazonio9 et, cum opus fuerit, rationalibus dabis, ne te non audiant, cum de aerario volueris imperare. [5] Sane ut tibi insigne aliquod imperialis maiestatis acced〈at, i〉am habebis utendi coccini pallii10 facultatem [me] praesentem et ab me et cum mecum fueris, habiturus et purpuram11 sed sine auro, quia ita et proavus meus Verus12, qui puer vita functus est, ab Hadriano, qui eum adoptavit, accepit». [3, 1] His litteris acceptis omnino facere id, quod iubebat, noluit, videns Commodum propter mores suos, quibus rem pub. perdiderat et se dedecoraverat, quandocumque feriendum et timens, ne ipse pariter occideretur. [2] Extat denique illius contio, qua, cum accepit imperium et quidem Severi, ut quidam, voluntate fìrmatum, huius rei memoriam facit. [3]

Cuius hoc exemplum est: «Invitum me, conmilitones, ductum ad imperium etiam illud probat, quod Commodum donantem me Caesareano nomine contempsi; sed et vestrae voluntati et Severi Augusti parendum est, quia credo sub homine optimo et viro forti posse bene rem p. regi». [4] Nec negari potest, quod etiam Marius Maximus dicit, hunc animum Severo primum fuisse, ut, si quid ei contingeret, Pescennium Nigrum et Clodium Albinum sibi substitueret. [5] Sed postea et filiis iam maiusculis studens et Albini amori invidens sententiam mutasse atque illorum utrumque bello oppressisse, maxume precibus uxoris adductus. [6] Denique Severus eum et consulem designavit, quod utique nisi de optimo viro non fecisset, homo in legendis magistratibus diligens. [4, 1] Sed ut ad eum redeam, fuit, ut dixi, Albinus Hadrumetinus oriundo, sed nobilis apud suos et originem a Romanis familiis trahens, Postumiorum scilicet et Albinorum et Ceioniorum13. [2] Quae familia hodie quoque, Constantine maxime, nobilissima est et per te aucta et augenda, quae per Gallienum et Gordianos plurimum crevit. [3] Hic tamen natus lare modico, patrimonio pertenui, parentibus sanctis, patre Ceionio Postumo, matre Aurelia Messalina, primus suis parentibus fuit. [4] Cum exceptus utero, quod contra consuetudinem puerorum, qui na-scuntur et solent rubere, esset candidissimus, Albinus est dictus. [5] Quod verum esse patris epistula {ad} Aelium Bassianum tunc proconsulem Africae data designat, adfinem, quantum videtur, eorum ipsorum. [6] Epistula Ceioni Postumi ad Aelium Bassianum: «Filius mihi natus est VII. kal. Decembres, ita candidus statim toto corpore, ut linteamen, quo exceptus est, vinceret. [7] Quare susceptum eum Albinorum familiae, quae mihi tecum communis est, dedi, Albini nomine inposito. Fac, ut rem publicam et te et nos, ut facis, diligas». [5, 1] Hic ergo omnem pueritiam in Africa transegit, eruditus litteris Graecis ac Latinis mediocriter, quod esset animi iam inde militaris et superbi. [2] Nam fertur in scolis saepissime cantasse inter puerulos: «Arma amens capio, nec sat rationis in armis»14,

repetens:

«arma amens capio».

[3] Huic multa imperii signa, cum esset natus, facta dicuntur; nam et bos albus purpureis ad plenum colorem cornibus natus est, quod mirandum fuit cum cornibus 〈tum colore〉. [4] Quae tamen in templo Apollinis Cumani ab eodem posita iam tribuno diu fuisse dicuntur, quod, cum illic sortem de fato suo tolleret, his versibus eidem dicitur esse responsum: «Hic rem Romanam magno turbante tumultu

sistet eques, sternet Poenos Gallumque rebellem»15.

[5] Et in Gallia quidem eum multas gentes domuisse constat. Ipse autem suspicabatur de Severo sibi praedictum «sternet Poenos», quod Septimius Afer esset. Fuit et aliud signum futuri imperii. [6] Nam cum Caesareana familia hoc speciale habuerit, ut parvuli domus eius in testudineis alveis lavarentur, nato infantulo testudo ingens patri eius munere piscatoris adlata est: [7] quod ille homo litteratus omen accipiens et testudinem libenter accepit et eam curari iussit atque infantulo ad excalda-tiones pueriles dicari, nobilitandum etiam hinc sperans. [8] Cum rarum esset aquilas in his locis videri, in quibus natus est Albinus, septima eius die16 hora convivii, quod celebritati pueri deputabatur, cum ei fierent nomina, septem aquilae parvulae de nidis adlatae sunt et quasi ad iocum circa cunas pueri constitutae: ne hoc omen pater abnuit, iussit aquilas ali et diligenter curari. [9] Accessit omen, quod, cum pueri eius familiae russulis fasciolis inligarentur, quod forte lotae atque udae essent russulae fasciolae, quas mater praegnas paraverat, purpurea matris [fascea] inligatus est fascea: unde illi ioco nutricis etiam Porfyri17 nomen inditum est. [10] Haec atque alia signa imperii futuri fuere. Quae qui volet nosse, Aelium Cordum18 legat, qui frivola super huius modi ominibus cuncta persequitur. [6, 1] Adulescens igitur statim se ad militiam contulit atque Antoninis per Lollium Serenum et Baebium Maecianum et Ceionium Postumianum suos adfines innotuit. [2] Egit tribunus equites Dalmatas; egit et legionem quartanorum et primanorum19; Bithynicos exercitus eo tempore, quo Avidius rebellabat20, fideliter21 tenuit. [3] Dein per Commodum ad Galliam translatus22, in qua fusis gentibus Transrenanis celebre nomen suum et apud Romanos et apud barbaros fecit. [4] Quibus rebus accensus Commodus Caesareanum ei nomen obtulit et dandi stipendii facultatem et pallii coccini utendi. [5] Quibus omnibus ille prudenter abstinuit dicens Commodum quaerere, qui aut cum eo perirent, aut quos cum causa ipse posset occidere. [6] Quaesturae gratia illi facta est. Qua concessa aedilis non amplius quam decem diebus fuit, quod ad exercitum festino mitteretur. [7] Dein praeturam egit sub Commodo famosissimam. Nam eiusdem ludis Commodus et in foro et in theatro pugnas exhibuisse perhibetur. [8] Consul a Severo declaratus23 est eo tempore, quo illum sibi paraverat {cum} Pescennio subrogare. [7, 1] Ad imperium venit natu iam grandior et maior Pescennio Nigro, ut Severus ipse in vita sua loquitur. [2] Sed victo Pescennio, cum et filiis suis

imperium servare cuperet et ingentem senatus amorem circa Clodium Albinum videret, quod esset vir antiquae familiae, litteras ad eum per quosdam summi amoris ac summae adfectionis misit, quibus hortabatur, ut, quoniam occisus esset Pescennius Niger, ipse cum eo fideliter rem p. regeret. Quarum exemplum hoc esse Cordus ostendit: [3] «Imperator Severus Augustus Clodio Albino Caesari, fratri amantissimo et desiderantissimo, salutem. [4] Victo Pescennio litteras Romam dedimus, quas senatus tui amantissimus libenter accepit. Te quaeso, ut eo animo rem p. regas, quo dilectus es frater animi mei, frater imperii. [5] Bassianus et Geta te salutant. Iulia nostra et te et sororem salutat. Infantulo tuo † Pescennio Princo24 munera digna suo loco tuoque mittemus. [6] Tu velim exercitus rei p. ac nobis retentes, mi unanime, mi carissime, mi amantissime». [8, 1] Et has quidem litteras missis stipatoribus fidelissimis dedit, quibus praecepit, ut epistolam publice darent, postea vero dicerent se velle pleraque occulte suggerere, quae ad res bellicas pertinerent et ad secreta castrorum atque aulicam fidem; ubi vero in secretum venissent quasi mandata dicturi, quinque validissimi eum interimerent gladiolis infra vestem latentibus. [2] Nec illorum quidem fides defuit; nam cum ad Albinum venissent et epistolam dedissent, qua lecta cum dicerent quaedam secretius suggerenda et locum semotum ab omnibus arbitris postularent, et cum omnino neminem paterentur ad porticum longissimam cum Albino progredi ea specie, ne mandata proderentur, Albinus intellexit insidias. [3] Denique indulgens suspicionibus eos tormentis dedit. Qui diu primo pernegarunt, sed postea victi necessitate confessi sunt ea, quae Severus isdem praeceperat. [4] Tunc iam proditis rebus et apertis insidiis ea, quae suspicabatur, Albinus clara esse intellegens exercitu ingenti collecto contra Severum atque eius duces venit25. [9, 1] Et primo quidem conflictu habito contra duces Severi potior fuit, post autem Severus ipse, cum id egisset apud senatum, ut hostis iudicaretur Albinus, contra eum profectus acerrime fortissimeque pugnavit in Gallia non sine varietate fortunae. [2] Denique cum sollicitus augures consuleret, responsum illi est, ut dicit Marius Maximus, venturum quidem in potestatem eius Albinum, sed non vivum nec mortuum. Quod et factum est. [3] Nam cum ultimo proelio commissum esset, innumeris suorum caesis, plurimis fugatis, multis etiam deditis Albinus fugit et, ut multi dicunt, se ipse percussit, ut alii, servo suo percussus semivivus ad Severum deductus est – unde confirmatum

est augurium, quod fuerat ante praedictum –, [4] multi praeterea dicunt a militibus, qui eius nece a Severo gratiam requirebant. [5] Fuit Albino unus, ut aliqui dicunt, filius; Maximus dicit, duo. Quibus primum veniam dedit, postea vero eos cum matre percussit et in profluentem26 abici iussit. [6] Caput eius excisum pilo circumtulit Romamque misit litteris ad senatum datis, quibus insultavit, quod Albinum tantopere dilexissent, ut eius adfines et fratrem praecipue ingenti honore cumularent. [7] Iacuisse ante praetorium Severi Albini corpus per dies plurimos dicitur usque ad fetorem, laniatumque a canibus in profluentem abiectum est. [10, 1] De moribus eius varia dicuntur. Et Severus quidem ipse haec de eodem loquitur, ut eum dicat turpem, malitiosum, improbum, inhonestum, cupidum, luxuriosum. [2] Sed haec belli tempore vel post bellum, quando ei iam velut de hoste credi non poterat, [3] cum et ipse ad eum quasi ad amicissimum frequentes miserit litteras et multi de Albino bene senserint et Severus ipse Caesarem suum eundem appellari voluerit et, cum de successore cogitaret, hunc primum habuerit ante oculos. [4] Extant praeterea Marci epistolae de hoc eodem, quae testimonium et virtutum eius ferant et morum. [5] Quarum unam inserere ad praefectos datam super eius nomine absurdum non fuit. [6] «Marcus Aurelius Antoninus praefectis suis salutem. Albino ex familia Ceioniorum, Afro quidem homini sed non multa ex Afris habenti, Plautilli genero, duas cohortes alares regendas dedi. [7] Est homo exercitatus, vita tristis, gravis moribus. Puto eum rebus castrensibus profuturum, certe offuturum 〈non〉 esse [non] satis novi. [8] Huic salarium duplex decrevi, vestem militarem simplicem, sed loci sui, stipendium quadruplum. Hunc vos adhortamini, ut se rei p. ostentet, habiturus praemium quod merebitur». [9] Est et alia epistula, qua idem Marcus Avidii Cassi temporibus de hoc eodem scripsit, cuius exemplum hoc est: [10] «Laudanda est Albini constantia, qui graviter deficientes exercitus tenuit, cum ad Avidium Cassium confugerent. Et nisi hic fuisset, omnes fecissent. [11] Habemus igitur virum dignum consulatu, quem suffìciam in locum Cassi Papiri, qui mihi exanimis prope iam nuntiatus est. [12] Quod interim a te publicari nolo, ne aut ad ipsum Papirium aut ad eius affectus perveniat nosque videamur in locum viventis consulem subrogasse». [11, 1] Et istae igitur epistulae constantem virum27 Albinum fuisse indicant, et illud praecipue, quod ad eas civitates instaurandas, quas Niger adtriverat, pecuniam misit, quo facilius sibi earum accolas conciliaret. [2] Gulosum eum Cordus, qui talia persequitur in suis voluminibus, fuisse dicit, et

ita quidem ut pomorum tantum hauserit, quantum ratio humana non patitur. [3] Nam et quingentas ficus passarias, quas Graeci callistruthias28 vocant, ieiunum comedisse dicit et centum persica Campana et melones Ostienses decem et uvarum Labicanarum29 pondo viginti et ficedulas centum et ostrea quadringenta. [4] Vini sane parcum fuisse dicit, quod Severus negat30, qui eum adserit ebrium etiam in bello fuisse. [5] Cum suis ei numquam convenit vel propter vinulentiam, ut dicit Severus, vel propter morum [vi] acrimoniam. [6] Uxori odiosissimus fuit, servis iniustus, atrox circa militem. Nam saepe etiam ordinarios31 centuriones, ubi causae qualitas non postulavit, in crucem sustulit. Verberavit certe virgis saepissime neque umquam delictis pepercit. [7] In vestitu nitidissimus fuit, in convivio sordidissimus et soli studens copiae, mulierarius inter primos amatores, aversae Veneris semper ignarus et talium persecutor, agri colendi peritissimus, ita ut etiam Georgica scripserit. [8] Milesias32 nonnulli eiusdem esse dicunt, quarum fama non ignobilis habetur, quamvis mediocriter scriptae sint. [12, 1] A senatu tantum amatus est, quantum nemo principum, in odium speciatim Severi, quem vehementer ob crudelitatem oderant senatores. [2] Denique victo eo plurimi senatores a Severo interfecti sunt, qui eius partium vel vere fuerant vel esse videbantur. [3] Denique cum apud Lugdunum eundem interfecisset, statim litteras requiri iussit, ut inveniret vel ad quos ipse scripsisset, vel qui ad eum rescripsissent, omnesque illos, quorum epistolas repperit, hostes iudicari a senatu fecit; [4] nec his pepercit, sed et ipsos interemit et bona eorum proposuit atque in aerarium publicum rettulit. [5] Extat epistola Severi, quae ostendit animum suum, missa ad senatum, cuius hoc exemplum est: [6] «Nihil mihi gravius potest evenire, p. c., quam ut vestrum iudicium Albinus haberet potius quam Severus. [7] Ego frumenta rei p. detuli, ego multa bella pro re p. gessi, ego populo Romano tantum olei detuli, quantum rerum natura vix habuit. Ego interfecto Pescennio Nigro vos a malis tyrannicis liberavi. [8] Magnam sane mihi reddidistis vicem, magnam gratiam: unum ex Afris et quidem Hadrumetinis, fingentem, quod de Ceioniorum stemmate sanguinem duceret, usque adeo extulistis, ut eum principem habere velletis me principe salvis liberis meis. [9] Defuitne quaeso tanto senatu, quem amare deberetis, qui vos amaret? Huius fratrem honoribus extulistis, ab hoc consulatus, ab hoc praeturas, ab hoc speratis cuiusvis magistratus insignia. [10] Non eam gratiam mihi redditis quam maiores vestri contra Pisonianam factionem33, quam item pro Traiano, quam nuper contra Avidium Cassium praestiterunt: fictum illum et ad omnia mendaciorum

genera paratum, qui nobilitatem quoque mentitus est, mihi praeposuistis. [11] Quin etiam audiendus in senatu fuit Statilius Corfulenus, qui honores Albino et eius fratri decernendos ducebat, cui hoc superfuit, ut de me ille decerneret homo nobilis et triumphum. [12] Maior fuit dolor, quod illum pro litterato laudandum plerique duxistis, cum ille neniis quibusdam anilibus occupatus inter Milesias Punicas34 Apulei sui et ludicra litteraria consenesceret». [13] Hinc apparet, quanta severitate factionem vel Pescennianam vel Clodianam vindicaverit. [14] Quae quidem omnia in vita eius posita sunt. Quae qui diligentius scire velit, legat Marium Maximum de Latinis scriptoribus, de Graecis scriptoribus Herodianum, qui ad fidem pleraque dixerunt. [13, 1] Fuit statura procerus, capillo renodi et crispo, fronte lata, candore mirabili et 〈tali〉, ut plerique putent, quod ex eo nomen acceperit, voce muliebri et prope ad eunuchorum sonum, motu facili, iracundia gravi, furore tristissimo, in luxurie varius, nam saepe appetens vini, frequenter abstinens, [2] armorum sciens, prorsus ut non male sui temporis Catilina diceretur. [3] Non ab re esse credimus causas ostendere, quibus amorem senatus Clodius Albinus meruerit: [4] cum Brittannicos exercitus regeret iussu Commodi35 atque illum interemptum adhuc falso comperisset, cum sibi ab ipso Commodo Caesareanum nomen esset delatum, processit ad milites et hac contione usus est: [5] «Si senatus p. R. suum illud vetus haberet imperium nec in unius potestate res tanta consisteret, non ad Vitellios neque ad Nerones neque ad Domitianos publica fata venissent. In imperio consulari nostrae illae gentes Ceioniorum, Albinorum, Postumiorum, de quibus patres vestri, qui et ipsi ab avis suis audierant, multa didicerunt. [6] Et certe Africam Romano imperio senatus adiunxit, Galliam senatus subegit, Hispanias, orientalibus populis senatus dedit leges, Parthos temptavit senatus; subegisset, nisi tam avarum principem36 Romano exercitui fortuna rei p. tunc dixisset. [7] Brittanias Caesar subegit, certe senator, nondum tamen dictator. Hic ipse Commodus quanto melior fuisset, si timuisset senatum? [8] Et usque ad Neronem quidem senatus auctoritas valuit, qui sordidum et inpurum principem damnare non timuit37, cum sententiae in eum dictae sint, qui vitae necisque potestatem atque imperium tunc tenebat. [9] Quare, conmilitones, ego Caesareanum nomen, quod mihi Commodus detulit, nolo. Di faxint, ut ne alii quidem velint. [10] Senatus imperet, provincias dividat, senatus nos consules faciat. Et quid dico senatus? Vos ipsi et patres vestri; eritis enim ipsi senatores». [14, 1] Haec contio vivo adhuc Commodo Romam delata est. Quae

Commodum in Albinum exasperavit, statimque successorem misit Iunium Severum, unum ex contubernalibus suis. [2] Senatui autem tantum placuit, ut miris adclamationibus absentem eum ornaret et vivo Commodo et deinceps interempto, ita ut nonnulli etiam Pertinaci auctores fuerint, ut eum sibi socium adscisceret, 〈et〉 apud Iulianum de occidendo Pertinace ipsius plurimum auctoritas valuerit38. [3] Ut autem hoc verum intellegatur, epistolam Commodi ad praef. praet. suos datam inserui, qua de occidendo Albino signifìcavit suam mentem: [4] «Aurelius Commodus [Severus] praefectis salutem. Audisse vos credo primum fictum esse, quod ego meorum consilio interfectus essem, deinde contionem Clodii Albini apud milites meos habitam, qui se multum senatui commendat, idque, quantum videmus, non frustra. [5] Nam qui principem unum in re p. negat esse debere quique adserit a senatu oportere totam rem p. regi, is per senatum sibi petit imperium. Cavete igitur diligentissime; iam enim hominem scitis vobis, militibus populoque vitandum». [6] Has litteras cum Pertinax invenisset, in Albini odium publicavit. Quare Albinus occidendi Pertinacis Iuliano auctor fuit.

[1, 1] Dopo Pertinace, che fu ucciso per istigazione di Albino1, furono proclamati pressocché contemporaneamente imperatori Giuliano a Roma dal senato, e Settimio Severo in Siria2, Pescennio Nigro in Oriente, Clodio Albino3 in Gallia, da parte dell’esercito. [2] Secondo quanto afferma Erodiano, Clodio sarebbe stato Cesare sotto Severo4. Ma poiché nessuno dei due era disposto a sottostare all’autorità dell’altro, ed essendo i Galli e gli eserciti della Germania insofferenti, avendo anch’essi ciascuno un proprio imperatore da sostenere, si ebbe ovunque uno sconvolgimento generale. [3] Clodio Albino era di familia nobile5, nativo di Adru-meto6 in Africa. [4] Perciò interpretava a proprio favore l’oracolo in cui, come abbiamo detto nella vita di Pescennio7, veniva lodato Severo, rifiutando che fosse riferito a lui l’accenno al «pessimo Albo», che si trovava nel medesimo verso in cui erano contenute la lode nei confronti di Severo e l’esaltazione nei confronti di Pescennio. [5] Ma prima ch’io cominci a parlare della sua vita e della sua morte, bisogna ricordare anche il fatto che lo rese celebre. [2, 1] Una volta Commodo, nell’atto di sostituire Albino nella sua carica, gli mandò una lettera in cui gli ordinava di assumere il titolo di Cesare8. Ne riporto copia: [2] «Commodo imperatore a Clodio Albino. Altre lettere, ufficiali, ti ho inviato in merito alla tua sostituzione e all’onore che intendo conferirti, ma questa te la mando in forma privata e confidenziale, e scritta interamente, come vedi, di mio pugno; con essa ti concedo la facoltà che, se se ne presentasse la necessità, tu possa mostrarti ai soldati assumendo il titolo di Cesare. [3] Sento dire infatti che Settimio Severo e Nonio Murco parlano male di me ai soldati, allo scopo di ottenere l’elezione alla dignità imperatoria. [4] Avrai inoltre, dopo aver fatto ciò, pieno potere di distribuire stipendi fino alla somma di tre monete d’oro, giacché anche in merito a questo ho inviato lettere con le relative disposizioni ai miei procuratori; anche tu ne riceverai una sigillata con una figura di Amazzone9 e, quando si renderà necessario, la presenterai ai funzionari, perché non abbiano ad eludere le tue richieste, allorché vorrai prendere provvedimenti inerenti all’erario. [5] E affinché ti tocchi pure un qualche segno distintivo della dignità imperiale, avrai ormai la facoltà immediata di indossare il mantello rosso10, quando tu abbia a trovarti sia lontano da me, sia in mia compagnia, per poi ricevere anche la porpora11, senza però l’oro, giacché queste furono le prerogative che ebbe a ricevere

anche il mio bisnonno Vero12 – che morì ancora ragazzo – da parte di Adriano, che lo aveva adottato». [3, 1] Ricevuta questa lettera, egli non volle punto fare quanto quello ordinava, prevedendo che Commodo, per via dei suoi pessimi costumi, con cui aveva portato alla rovina lo Stato e disonorato se stesso, prima o poi sarebbe stato ucciso, e temendo che gli capitasse di trovare la morte assieme a lui. [2] Possediamo il discorso in cui, allorché gli fu conferito il potere imperiale – tra l’altro, secondo certuni, rafforzato dal consenso di Severo –, fa menzione di questo fatto. [3] Eccone copia: «Contro voglia, o commilitoni, sono stato elevato all’impero, e ne è prova anche il fatto che quando Commodo mi conferì il titolo di Cesare gli opposi un rifiuto; ma occorre sottomettersi alla vostra volontà e a quella di Severo Augusto, giacché io credo che sotto la guida di una persona integerrima che sia ad un tempo un uomo valoroso lo Stato possa essere proficuamente amministrato». [4] Né si può negare – lo attesta anche Mario Massimo – che in un primo tempo Severo ebbe in animo, per il caso gli fosse successo qualcosa, di nominare suoi successori Pescennio Nigro e Clodio Albino. [5] Ma successivamente, sia perché intenzionato a favorire i suoi figli, ormai cresciuti, sia perché invidioso delle simpatie di cui godeva Albino, cambiò parere e schiacciò in guerra l’uno e l’altro, istigato soprattutto dalle sollecitazioni della moglie. [6] E inoltre Severo lo designò anche console, cosa che non avrebbe in ogni caso fatto se non si fosse trattato di un uomo assolutamente meritevole, essendo egli molto oculato nella scelta dei magistrati. [4, 1] Ma per tornare a lui, Albino, come ho detto, era nativo di Adrumeto, ma di stirpe nobile in quella terra e che traeva origine da famiglie romane, quelle, cioè, dei Postumii, degli Albini e dei Ceionii13. [2] Questa famiglia ancor oggi, o sommo Costantino, è assai illustre, da te elevata in passato e destinata ad esserlo ancora, come già ebbe ad accrescere grandemente il suo prestigio grazie al favore di Gallieno e dei Gordiani. [3] Costui tuttavia nacque in una casa modesta e povera, ma da genitori virtuosi, Ceionio Postumo il padre e Aurelia Messalina la madre, e fu il loro primogenito. [4] Poiché quando venne tratto dal grembo della madre – contrariamente a quanto avviene di solito per i bambini che, al momento della nascita, hanno la pelle rossastra – era di carnagione bianchissima, gli fu dato il nome di Albino. [5] Che questo è vero lo prova una lettera del padre mandata a Elio Bassiano, che era allora proconsole d’Africa, e che – a quanto sembra – era loro parente. [6] Ecco la lettera di Ceionio Postumo a Elio Bassiano: «Il 25 novembre mi è nato

un figlio, di carnagione tanto chiara in tutto il corpo, già appena nato, da superare in candore i panni di lino in cui è stato avvolto. [7] Perciò, all’atto del riconoscimento, l’ho inserito nella famiglia degli Albini, cui entrambi siamo imparentati, imponendogli il nome di Albino. Conserva l’amore che hai per lo Stato, per te stesso e per noi». [5, 1] Costui dunque trascorse tutta la fanciullezza in Africa, ricevendo una sommaria istruzione nelle lettere greche e latine, ché già fin da allora la sua indole fiera lo portava alla vita militare. [2] Si narra infatti che spessissimo nelle scuole cantasse in mezzo agli altri fanciulli: «L’armi come un pazzo afferro, né v’è senno nell’armi»14,

ripetendo:

«L’armi come un pazzo afferro».

[3] All’epoca della sua nascita ebbe, a quanto si dice, molti presagi della sua futura dignità imperiale; infatti venne alla luce un vitello bianco con le corna di color rosso porpora pieno, il che apparve un prodigio, sia per le corna sia, in particolare, per il colore. [4] Esse peraltro furono da lui collocate, quando ormai era tribuno, nel tempio di Apollo Cumano, dove rimasero per lungo tempo, perché, avendo egli consultato lì l’oracolo sul proprio destino, gli era stato risposto – a quanto dicono – con questi versi: «Questi le sorti di Roma, da grave turbate tumulto

rialzerà, cavaliere, e abbatterà i Punici e il Gallo ribelle»15.

[5] È noto in effetti che egli ebbe a soggiogare in Gallia molte popolazioni. Egli poi arguiva che la predizione fattagli «abbatterà i Punici» si riferisse a Severo, giacché Settimio era appunto un Africano. Vi fu anche un altro presagio del futuro potere imperiale. [6] Era un costume proprio della famiglia dei Cesari di lavare i bambini del casato in recipienti fatti di guscio di testuggine: ora, dopo la nascita del fanciullo, fu portata in dono a suo padre da un pescatore una grossa testuggine: [7] ed egli, da quell’uomo colto che era, interpretò il fatto come un buon augurio, e accettò di buon grado il dono della testuggine, ordinando che il suo guscio venisse lavorato e destinato in uso al neonato, per i bagni caldi che si fanno ai bambini, nella speranza che anche ciò avesse a rendere più glorioso il suo destino. [8] Dalle parti in cui nacque Albino era raro vedere delle aquile: ma al suo settimo giorno di vita16, nel momento in cui si svolgeva il banchetto indetto per festeggiare il fanciullo all’atto dell’imposizione dei nomi, furono portati dai loro nidi e deposti accanto alla culla quasi a mo’ di giocattoli sette aquilotti: neppure questo presagio il padre ebbe a trascurare, ma diede ordine che le aquile fossero allevate e custodite con cura. [9] Si aggiunse a questi un altro segno augurale:

mentre i neonati di quella famiglia venivano solitamente avvolti in piccole fasce rossicce, in questo caso – poiché per avventura le fasce di quel colore, che la madre aveva preparato durante la gravidanza, erano lavate di fresco e umide egli fu avvolto in una fascia della madre di color porpora: dal che la nutrice gli diede scherzosamente anche il nome di Porfirio17. [10] Questi e altri furono i preannunzii del suo futuro potere imperiale. Chi vorrà conoscerli, vada a leggersi Elio Cordo18, che si sofferma su tutti gli insignificanti particolari attinenti a siffatti presagi. [6, 1] Appena dunque fu adolescente intraprese la carriera militare e, grazie all’appoggio di Lollio Sereno, Bebio Meciano e Ceionio Postumiano, suoi parenti, si fece conoscere dagli Antonini. [2] In qualità di tribuno fu a capo dei cavalieri Dalmati; comandò anche i soldati della Quarta e Prima legione19; al tempo della rivolta di Avidio20, mantenne lealmente21 nei ranghi gli eserciti della Bitinia. [3] Successivamente fu da Commodo trasferito in Gallia22, dove, sbaragliati i popoli d’oltre Reno, rese il proprio nome famoso sia presso i Romani sia presso i barbari. [4] Impressionato da questi successi, Commodo gli offrì il titolo di Cesare, nonché la facoltà di dare stipendi ai soldati e di indossare il mantello rosso. [5] Egli però, prudentemente, si guardò dall’accogliere tutte quelle onorificenze, affermando che Commodo andava cercando gente che o lo accompagnasse nella rovina, o che egli potesse avere il pretesto di uccidere. [6] Gli fu concessa l’esenzione dall’esercizio della questura. Ottenuta questa dispensa, ricoprì l’ufficio di edile per non più di dieci giorni, in quanto fu inviato con urgenza a raggiungere l’esercito. [7] Successivamente esercitò sotto Commodo una pretura che rimase famosissima. Infatti nel corso dei giochi da lui indetti si racconta che Commodo ebbe a dare combattimenti nel Foro e nel teatro. [8] Fu nominato console da Severo23, nel periodo in cui questi aveva concepito il disegno di fare di lui, assieme a Pescennio, il suo successore. [7, 1] Giunse all’impero quando già era piuttosto anziano e più vecchio di Pescennio Nigro, come afferma Severo nella sua Autobiografia. [2] Ma questi, dopo aver sconfitto Pescennio, poiché da una parte desiderava conservare l’impero per i suoi figli, e dall’altra vedeva il grande favore del senato nei confronti di Clodio Albino, in quanto personaggio di antico lignaggio, gli inviò, tramite certi emissari, una lettera di tono assai affettuoso e amichevole, in cui lo invitava, visto che Pescennio Nigro era stato eliminato, a governare assieme a lui lealmente lo Stato. Stando a Cordo, questo ne è il testo: [3] «L’imperatore Severo Augusto saluta Clodio Albino Cesare, suo

fratello affezionatissimo e carissimo. [4] Dopo la vittoria su Pescennio ho mandato a Roma una lettera che il senato – che nutre molto affetto nei tuoi confronti – ha accolto con favore. Ti prego di governare lo Stato con quella stessa disposizione d’animo con cui io ti ho affettuosamente sentito quale fratello mio di cuore e di impero. [5] Bassiano e Geta ti salutano. La nostra Giulia saluta te e tua sorella. Al tuo piccolo Pescennio Princo [?]24 manderemo regali degni della sua e tua dignità. [6] Possa tu mantenere le truppe fedeli allo Stato e a noi, o mio amico concorde, mio carissimo, mio devotissimo». [8, 1] Questa la lettera che Severo consegnò a delle sue guardie fidatissime, mandandole ad Albino con l’ordine di consegnargliela pubblicamente, ma di dirgli poi che volevano comunicargli in segreto numerose informazioni relative alla guerra, ai segreti militari e alla fedeltà della corte; quando poi si fossero ritrovati in un luogo appartato, come per riferirgli i messaggi loro affidati, i cinque più forti lo avrebbero ucciso con i pugnali nascosti sotto la veste. [2] Né da parte loro mancò la fedeltà agli ordini ricevuti; infatti si presentarono ad Albino e gli consegnarono la lettera; dopo che la ebbe letta gli dissero che avevano certe cose da comunicargli in forma più riservata, chiedendo di incontrarlo in un luogo lontano da ogni occhio indiscreto: ma quando arrivarono a pretendere che non vi fosse assolutamente alcuno che mettesse piede con Albino nel lunghissimo porticato – sotto il pretesto che i messaggi loro affidati non avessero ad essere propalati –, Albino fiutò il tranello. [3] E così, seguendo i suoi sospetti, li sottopose a tortura. Essi dapprima negarono recisamente, ma poi, messi alle strette, confessarono la missione loro affidata da Severo. [4] Allora, svelata ormai ogni cosa e scoperto il complotto, Albino, comprendendo che i suoi sospetti erano fondati, raccolse un grosso esercito e mosse contro Severo e i suoi generali25. [9, 1] E in un primo scontro egli riuscì ad avere la meglio sui generali di Severo, ma poi Severo stesso, dopo aver ottenuto dal senato che Albino fosse dichiarato nemico pubblico, marciò contro di lui ingaggiando una lotta accanitissima e violentissima in Gallia, non senza alternanza di fortuna. [2] Infine, preoccupato della situazione, Severo consultò gli àuguri: gli fu risposto – come riferisce Mario Massimo – che Albino sarebbe caduto, sì, nelle sue mani, ma né vivo né morto. Ciò che in effetti avvenne. [3] Infatti, nel corso della battaglia decisiva, dopo che erano stati uccisi un gran numero dei suoi, moltissimi messi in fuga, e molti anche si erano arresi, Albino si diede alla fuga e, secondo quanto affermano in molti, si trafisse con le proprie mani, o,

come vogliono altri, colpito da un suo servo fu portato fra la vita e la morte al cospetto di Severo – col che ebbe adempimento la profezia che era stata in precedenza fatta –: [4] molti poi sostengono che ad ucciderlo furono i soldati, che cercavano, con la sua uccisione, di guadagnarsi il favore di Severo. [5] Albino, a quanto affermano alcuni, ebbe un figlio; secondo Massimo, due. In un primo tempo Severo concesse loro il perdono, successivamente, però, li fece uccidere assieme alla madre, e ordinò che fossero gettati nelle acque di un fiume26. [6] Fatta tagliare la testa di Albino, la fece sfilare in cima ad una picca, e la inviò a Roma accompagnandola con una lettera al senato, in cui ne insultava i membri perché avevano tanto amato Albino da colmare di grandi onori i suoi parenti, e particolarmente il fratello. [7] Si narra che il corpo di Albino rimase parecchi giorni dinanzi al quartier generale di Severo sino a mandar fetore, finché, dopo essere stato straziato dai cani, fu gettato nelle acque del fiume. [10, 1] Sul suo carattere vari sono i giudizi. Severo, dal canto suo, parla di lui come di un uomo turpe, malizioso, malvagio, disonesto, avido, lussurioso. [2] Ma questo nel periodo in cui erano in guerra, o in quello successivo ad essa, quando – come a chi parli di un nemico – non si poteva più dargli fede, [3] mentre si sa che lui stesso ebbe a mandargli di frequente delle lettere come ad un intimo amico, e che molti avevano un’ottima opinione di Albino, e che proprio Severo volle gli fosse conferito il titolo di suo Cesare e, quando pensava alla sua successione, teneva presente innanzitutto lui. [4] Abbiamo inoltre delle lettere di Marco sempre sul suo conto, che forniscono testimonianza delle sue doti e del suo carattere. [5] Non era qui fuori luogo riportarne una, appunto in merito a lui, indirizzata ai prefetti. [6] «Marco Aurelio Antonino saluta i suoi prefetti. Ho affidato ad Albino, della famiglia dei Ceionii, uomo originario dell’Africa ma che non ha molto del carattere degli Africani, genero di Plautillo, il comando di due coorti alari. [7] È uomo di esperienza, di vita austera e costumi rigorosi. Ritengo che apporterà un positivo contributo al governo delle truppe, sono certo comunque che la sua presenza non sarà dannosa. [8] Gli ho decretato un salario doppio, l’uniforme militare semplice, ma competente al suo grado, uno stipendio quadruplicato. Esortatelo voi a mostrare allo Stato le sue qualità – con l’intesa che riceverà il premio che meriterà». [9] V’è anche un’altra lettera nella quale sempre Marco, all’epoca di Avidio Cassio, scrive di lui; eccone una copia: [10] «Bisogna lodare la fermezza di Albino, che ha saputo tenere a freno le truppe, in un momento di

gravi defezioni a favore di Avidio Cassio. E se non ci fosse stato lui, tutti i soldati avrebbero agito a quel modo. [11] Abbiamo dunque un uomo degno del consolato, al quale lo nominerò in sostituzione di Cassio Papirio, che mi è stato or ora annunziato essere in fin di vita. [12] Nel frattempo però non voglio che tu abbia a divulgare la notizia, perché non giunga alle orecchie o dello stesso Papirio o dei suoi parenti, e non sembri che noi abbiamo designato un successore nel consolato ad uno che è ancor vivo». [11, 1] Queste lettere dimostrano dunque che Albino fu uomo di carattere deciso27, così come ne è specialmente prova il fatto che mandò dei fondi per la restaurazione delle città che Nigro aveva devastate, per trarre più facilmente alla sua causa gli abitanti di esse. [2] Cordo che, nel corso della sua opera, si sofferma minutamente su tali particolari, dice che era goloso, a tal punto da rimpinzarsi di frutta in maniera indescrivibile. [3] Racconta infatti che a digiuno divorava cinquecento fichi passi, di quelli che i Greci chiamano callistruzie28, cento pesche campane, dieci meloni di Ostia, venti libbre di uva labicana29, cento beccafichi e quattrocento ostriche. [4] Aggiunge che era sobrio nel bere, il che è invece negato da Severo30, che afferma che si ubriacava persino in guerra. [5] Con i suoi famigliari non andò mai d’accordo, vuoi per il vizio di bere, come dice Severo, vuoi per l’asprezza del suo carattere. [6] Nei confronti della moglie era quanto mai odioso, ingiusto verso i servi, crudele con i soldati. Più volte infatti arrivò a far crocifìggere perfino dei centurioni ordinari31, anche quando l’entità del caso non lo richiedeva. Di sicuro faceva spessissimo battere con le verghe, e non perdonava mai uno sbaglio. [7] Era elegantissimo nel vestire, ma molto volgare a tavola, dove si preoccupava solo della quantità dei cibi; con le donne era amatore di prim’ordine, sempre alieno invece da rapporti contro natura, punendo anzi siffatti vizi; molto esperto di agricoltura, scrisse perfino delle Georgiche. [8] Molti gli attribuiscono anche delle Milesie32, che hanno avuto una discreta fama, quantunque siano di scarso valore letterario. [12, 1] Fu amato dal senato quanto nessun altro principe, specialmente in odio a Severo che, per la sua crudeltà, era profondamente detestato dai senatori. [2] E così, dopo che fu sconfìtto, molti membri del senato che avevano parteggiato per lui – realmente o anche solo in apparenza – furono da Severo messi a morte. [3] Dopo che, nei pressi di Lione, lo ebbe ucciso, subito ordinò che si cercasse il suo epistolario al fine di identificare sia le persone cui aveva scritto, sia quelle che gli avevano risposto, e tutti quelli di

cui trovò lettere, li fece dichiarare dal senato nemici pubblici; [4] né li risparmiò, ma li fece uccidere, confiscando i loro beni, che furono da lui incamerati nel pubblico erario. [5] Abbiamo una lettera di Severo indirizzata al senato, che illumina bene il suo stato d’animo; eccone copia: [6] «Nulla di più spiacevole poteva accadermi, o senatori, del fatto che Albino avesse a godere della vostra stima più che il sottoscritto. [7] Eppure io ho procurato frumento allo Stato, io per lo Stato ho combattuto molte guerre, io ho fornito al popolo romano tanto olio quanto la natura a stento poteva produrne. Io, uccidendo Pescennio Nigro, vi ho liberati dai guai della tirannide. [8] Mi avete davvero reso un bel contraccambio, un bel ringraziamento: uno originario d’Africa, anzi di Adrumeto, che si spacciava per discendente dalla famiglia dei Ceionii, lo avete innalzato a tal punto da volerlo avere come sovrano mentre io ero già il vostro imperatore e i miei figli erano vivi. [9] Non c’era, di grazia, in un così grande senato, uno che vi sentiste di dover amare, e che vi amasse davvero? Avete elevato ad alti onori suo fratello, vi aspettate da lui i consolati, da lui le preture, da lui le insegne di qualsivoglia magistratura. [10] Non avete nei miei confronti quella lealtà che i vostri antenati mostrarono quando si trattò di far fronte alla congiura dei Pisoni33, quando parimente ci fu da difendere Traiano, nonché in tempi più recenti nell’opporsi ad Avidio Cassio: mi avete preferito quell’imbroglione rotto ad ogni genere di menzogna, che è arrivato a spacciarsi per nobile. [11] Ma anzi, si doveva ascoltare in senato Statilio Corfuleno, mentre proponeva di conferire onori ad Albino e a suo fratello: mancava solo che quel galantuomo proponesse per loro anche il trionfo su di me. [12] Più ancora mi è spiaciuto il fatto che la maggior parte di voi abbia ritenuto che lo si dovesse lodare quale uomo di lettere, lui che, occupato in chiacchiere da vecchiette, consumava i suoi anni tra le Milesie puniche34 del suo Apuleio e altre sciocchezze letterarie». [13] Da quanto riportato si può ben arguire con quanta severità egli abbia poi tratto le sue vendette contro i partigiani di Pescennio e Clodio. [14] Tutte queste cose, comunque, sono state narrate nella sua biografia. Chi desiderasse approfondire l’argomento, legga Mario Massimo fra gli storici latini, e fra quelli greci Erodiano, che ne hanno scritto diffusamente e attendibilmente. [13, 1] Era alto di statura, con i capelli ricciuti e crespi, la fronte spaziosa, la carnagione di una bianchezza straordinaria, e tale che i più ritengono che proprio da essa egli abbia preso il nome; aveva un tono di voce femminile, quasi col timbro proprio degli eunuchi; era facile ad eccitarsi, duro nelle sue ire, terribile quando si infuriava; nei piaceri era mutevole, infatti spesso era

avido di vino, ma molte altre volte non lo toccava; [2] era esperto in fatto di armi, tanto che non certo a torto era detto il Catilina del suo tempo. [3] Non riteniamo fuori luogo spiegare le ragioni per le quali Clodio Albino si guadagnò la simpatia del senato: [4] al tempo in cui comandava per ordine di Commodo gli eserciti di Britannia35, gli giunse la notizia – ancora non vera – che l’imperatore era stato ucciso; egli che, in precedenza, aveva già ricevuto dallo stesso Commodo l’offerta del titolo di Cesare, si presentò allora ai soldati e tenne loro questo discorso: [5] «Se il senato del popolo romano avesse ancora quella sua autorità di un tempo e un potere di tale portata non fosse racchiuso nelle mani di un solo, le sorti dello Stato non sarebbero finite in balia dei Vitelli, dei Neroni o dei Domiziani. Sotto un regime consolare erano quelle nostre famose famiglie dei Ceionii, degli Albini, dei Postumii, sulle quali i vostri padri hanno appreso molte cose, che essi stessi avevano ascoltato dai loro vecchi. [6] E certo è stato il senato a conquistare l’Africa all’impero romano, è stato il senato a sottomettere la Gallia, le Spagne, è stato il senato a dettar legge ai popoli dell’Oriente, il senato a intraprendere le ostilità contro i Parti; li avrebbe sottomessi, se la cattiva sorte dello Stato non avesse allora assegnato all’esercito romano un generale così avido di ricchezze36. [7] Cesare soggiogò la Britannia certamente quando era ancora un senatore, non ancora comunque un dittatore. Questo stesso Commodo, quanto migliore sarebbe stato, se avesse tenuto un comportamento deferente verso il senato! [8] E in effetti fino ai tempi di Nerone il senato poté far valere la sua autorità, quando non esitò a condannare quel principe spregevole ed empio37, pronunciando frasi di accusa nei confronti di lui, che pure aveva allora, con l’autorità imperiale, pieno potere di vita e di morte. [9] Perciò, o commilitoni, io rifiuto il titolo di Cesare che Commodo mi ha conferito. Vogliano gli dèi che neppure altri lo accettino. [10] Sia il senato a comandare, a ripartire le province, il senato a nominarci consoli. Ma che dico il senato? Siate voi e i vostri padri; voi stessi infatti sarete un giorno senatori». [14, 1] Questo discorso fu riferito a Roma quando Commodo era ancora vivo. Esso ebbe l’effetto di renderlo furioso contro Albino, sì che mandò subito a sostituirlo uno dei suoi amici, Giunio Severo. [2] Al senato invece piacque a tal punto da fargli tributare, pure in sua assenza, straordinarie acclamazioni, sia quando Commodo era ancora in vita, sia in seguito, dopo che fu ucciso, così che alcuni suggerirono addirittura a Pertinace di associarselo quale collega, e la sua influenza ebbe grandissimo peso sulla decisione di Giuliano di uccidere Pertinace38. [3] Perché poi possa giudicarsi la verità di quanto ho

detto, ho inserito una lettera di Commodo indirizzata ai suoi prefetti del pretorio, nella quale manifestava la sua intenzione di eliminare Albino: [4] «Aurelio Commodo saluta i prefetti. Credo abbiate saputo in primo luogo della falsità della notizia secondo la quale io sarei stato ucciso in, un complotto ordito dai miei amici, e poi del discorso tenuto da Clodio Albino ai miei soldati, nel quale egli si raccomanda caldamente al senato e – a quanto possiamo vedere – non senza scopo. [5] Chi infatti nega vi debba essere nello Stato un unico principe e afferma che lo Stato stesso nella sua interezza debba essere governato dal senato, costui cerca, attraverso il favore del senato, di mettere le mani sull’impero. State dunque assai bene in guardia; ché ormai conoscete l’uomo da cui voi, i soldati e il popolo dovete guardarvi». [6] Questa lettera venne in possesso di Pertinace, che ne divulgò il contenuto, allo scopo di rendere odioso Albino. Fu per questo che Albino istigò Giuliano ad uccidere Pertinace.

1. La notizia di una responsabilità di Clodio Albino nella morte di Pertinace trova conferma, oltre che in questa stessa Vita a 14, 2 e 6, anche in EUTROPIO (VIII, 18, 4) e AURELIO VITTORE (Caes., 20, 8), mentre non se ne trova traccia né in CASSIO DIONE né in ERODIANO; si tratta probabilmente di un’invenzione della propaganda severiana. 2. In realtà Settimio Severo fu proclamato imperatore in Pannonia; cfr. Did. Iul., 5, 2, n. 4. 3. Per l’esattezza Albino fu proclamato imperatore nel 196 d. C., cioè quando Pescennio Nigro era già stato ucciso. 4. Cfr. ERODIANO, II, 15, 3 e inoltre CASSIO DIONE, LXXIII, 15, 1. C’è da dire che, mentre questi due storici ritengono che la concessione del titolo di Cesare ad Albino costituisse solo un espediente con il quale Severo mirava a tenerlo a freno mentre era impegnato in Oriente nella guerra contro Pescennio Nigro, il nostro biografo afferma chiaramente che l’imperatore voleva fare di lui il suo successore (cfr. 3, 4-5 e 10, 3). 5. Sulla famiglia e la carriera di Albino cfr. G. ALFÖLDY, Herkunft und Laufbahn des Clodius Albinus in der HA, in BHAC, 1966-67, Bonn, 1968, pp. 19 segg. 6. Contro la notizia dell’origine adrumetina di Albino cfr. da ultimo T. D. BARNES, A senator from Hadrumetum and three others, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 52 segg., con bibliografìa sulla complessa e controversa questione. 7. Cfr. Pesc. Nig., 8, 1. Si noti la contraddizione nell’attribuzione delle due Vitae (cfr. Pesc. Nig., 9, 3, n. 2). 8. La lettera qui riportata, così come la stessa notizia del conferimento ad Albino, da parte di Commodo, del titolo di Cesare, appare con ogni probabilità un’invenzione del biografo. 9. Sul nome di Amazonius in riferimento a Commodo cfr. Comm., 11, 8-9. Il signum Amazonium sarà evidentemente un’altra invenzione dell’autore; cfr. J. HASEBROEK, Die Fälschung der Vita Nigri und Vita Albini in den ShA, Berlin, 1916, p. 16. 10. Si trattava di un privilegio concesso ai membri della famiglia imperiale. 11. La veste propria dell’imperatore. 12. Lucio Elio Cesare, padre di Lucio Vero, detto qui inesattamente proavus di Commodo. Sul cognomen Verus impropriamente attribuitogli anche qui, come in vari altri luoghi dell’opera cfr. Hadr., 23, 11, n. 4. 13. Pare che l’autore intenda qui stabilire e sottolineare, a scopo celebrativo, un collegamento – tramite appunto Albino – tra la famiglia dei Ceionii Albini (conosciuta e rinomata nel corso del IV secolo d. C.) e quella dei Postumii Albini (famosi in epoca repubblicana). 14. VIRGILIO, Aen., II, 314. 15. VIRGILIO, Aen., VI, 857 seg. (si parla di M. Claudio Marcello, vincitore di Annibale a Nola e dei Galli a Casteggio). 16. Il cosiddetto dies lustricus, nel quale il bimbo veniva purificato mediante un sacrificio, e gli veniva imposto il praenomen, cioè il suo nome individuale (cui si allude qui con nomina). 17. Il gioco di parole è basato sul fatto che il nome greco Porfirio significa etimologicamente «purpureo» (si ha qui allusione, evidentemente, alla porpora imperiale). 18. Elio Giunio Cordo, il biografo citato più volte (in tutto ventiquattro) nel corso dell’opera, ma di cui non si sa nulla al di fuori di quanto riferitoci dall’opera stessa. Viene solitamente chiamato in causa quale fonte per notizie sulla vita privata degli imperatori, soprattutto in riferimento a dettagli di secondaria o infima importanza, dei quali egli sarebbe stato minuzioso e pedante raccoglitore. La sua reale esistenza è stata negata da vari studiosi (cfr., nei tempi più recenti, E. HOHL, Über die Glaubwürdigkeit der HA, «Sitzbb. Deutsch. Akad. Wissens. Berlin», 1953, 2, p. 2; R. SYME, Ammianus and the HA, Oxford, 1968, pp. 96 segg.; ID., Bogus Authors, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 316 seg.);

più propenso invece ad ammetterla appare S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, II, 2, Bari, 1966, p. 224. 19. La legio IV Flavia era stanziata nella Mesia Superiore; la legio I Italica nella Mesia Inferiore; l’indicazione è però imprecisa, e la notizia potrebbe essere un’invenzione del biografo. Cfr. ALFÖLDY, Herkunft und Laufbahn, cit., pp. 23 seg. 20. Nel 175 d. C. 21. Nei confronti di Marco Aurelio. 22. Probabilmente come governatore della Germania Inferiore. Cfr. ALFÖLDY, Herkunft und Laufbahn, cit., pp. 28 segg. 23. Albino fu console per la seconda volta nel 194 d. C. 24. Il testo appare qui – in corrispondenza col presunto nome del figlio di Albino – con ogni probabilità corrotto. 25. Nel 196 d. C.; fu in questo periodo che egli venne acclamato Augusto. Cfr. ERODIANO, III, 5, 3-8. 26. Nel Rodano (cfr. Sev., 11, 9). 27. In effetti anche CASSIO DIONE giudica positivamente le sue qualità di combattente e di generale (cfr. LXXV, 6, 2). 28. Una specie di fico di cui sono particolarmente ghiotti i passeri (cfr. PLINIO, Nat. Hist., XV, 69; COLUMELLA, De re rust., X, 416). 29. Forse l’uva prodotta a Lavico, antica città del Lazio (cfr. Did. Iul., 8, 10, n. 4). Il tema del mangiare smodato, in misure eccezionali, ricompare varie volte nel corso dell’opera: cfr. Maxim., 4, 1-2, Aurel., 50, 4, Quadr. tyr., 14, 4-5. Sulla narrazione di particolari straordinari nel corso della HA cfr. W. HARTKE, Römische Kinderkaiser, Berlin, 1951, pp. 26 segg. 30. Evidentemente nella sua Autobiografia (cfr. Sev., 3, 2, n. 2). 31. Cosiddetti in quanto effettivamente al comando di una centuria (ordo), e non distaccati per altri servizi. 32. Con questo nome si indicavano novelle di carattere erotico e licenzioso, che si richiamavano appunto ai Mιλησιαχά del greco ARISTIDE di Mileto (II secolo a. C.), racconti fantastici di carattere salace che furono tradotti in latino da CORNELIO SISENNA nella prima metà del I secolo a. C. Vere e proprie fabulae (cioè «novelle») Milesiae sono confluite nei romanzi di PETRONIO (il Satyricon) e di APULEIO (le Metamorphoses); quest’ultimo è citato espressamente più avanti (12, 12) proprio come autore di «Milesie». 33. Cfr. Pesc. Nig., 9, 2, n. 5. 34. Cfr. 11, 8, n. 2. Le Milesiae di Apuleio vengono dette Punicae in relazione al fatto che l’autore era africano (di Madaura, in Numidia). 35. La notizia non è priva di fondamento, in quanto Albino doveva aver assunto il governo della Britannia già sotto Commodo, con tutta probabilità nel 192 d. C. (cfr. AURELIO VITTORE, Caes., 20, 9). Cfr. ALFÖLDY, Herkunft und Laufbahn, cit., pp. 30 seg. 36. Probabilmente l’autore si riferisce qui a M. Crasso, che subì dai Parti la gravissima e ignominiosa sconfitta di Carre (53 a. C.): il termine princeps è qui impiegato nel senso, frequente in epoca repubblicana, di «condottiero». La sua avidità (cui qui si allude con l’aggettivo avarum) è ricordata anche da CICERONE, De fin., III, 75 e PLUTARCO, Crassus, 17, 8-9. 37. Cfr. SVETONIO, Nero, 49, 2. 38. Cfr. 1, 1, n. 1.

XIII. ANTONINUS CARACALLUS 〈AELI SPARTIANI〉

ANTONINO CARACALLA di ELIO SPARZIANO

[1, 1] Ex duobus liberis, quos Septimius Severus reliquit, [Getam et Bassianum], quorum unum 〈Antoninum〉 exercitus, alterum pater dixit, Geta hostis est iudicatus1, Bassianum2 notum optinuisse imperium. [2] De cuius maioribus frustra putamus iterandum, cum omnia in Severi vita3 satis dicta sint. [3] Huius igitur pueritia blanda, ingeniosa, parentibus adfabilis, amicis parentum iucunda, populo accepta, grata senatui, ipsi etiam ad amorem conciliandum salutaris fuit. [4] Non ille in litteris tardus, non in benivolentis segnis, non tenax in largitate, non lentus in clementia, sed sub parentibus, visus. [5] Denique, si quando feris obiectos damnatos vidit, flevit aut oculos avertit. Quod populo plus quam amabile fuit. [6] Septennis puer, cum conlusorem suum puerum ob Iudaicam religionem gravius verberatum audisset, neque patrem suum neque patrem pueri velut auctores verberum diu respexit. [7] Antiochensibus et Byzantiis interventu suo iura vetusta restituit, quibus iratus fuit Severus, quod Nigrum iuverant. Plautiani4 odium crudelitatis causa concepit. [8] Quod a parentibus gratia sigillariorum5 acceperat, id vel clientibus vel magistris sponte donavit. Sed haec puer. [2, 1] Egressus vero pueritiam seu patris monitis seu calliditate ingenii sive quod se Alexandro Magno Macedoni aequandum putabat, restrictior, gravior, vultu etiam truculentior factus est, prorsus ut eum, quem puerum scierant, multi esse non crederent. [2] Alexandrum Magnum eiusque gesta in ore semper habuit. Tiberium et Syllam in conventu plerumque laudavit. [3] Patris superbior fuit; fratrem magna eius humilitate despexit. [4] Post patris mortem6 in castra praetoria7 pergens apud milites conquestus est circumveniri se fratris insidiis, atque ita fratrem in Palatio fecit occidi8. Eius corpus statim cremari praecepit. [5] Dixit praeterea in castris fratrem sibi venenum parasse, matri eum inreverentem fuisse; egitque publice his gratias, qui eum occiderunt. [6] Addidit denique his quasi fidelioribus erga se stipendium. [7] Pars militum9 apud Albam Getam occisum aegerrime accepit, dicentibus cunctis duobus se fidem promisisse liberis Severi, duobus servare debere, [8] clausisque portis diu imperator non admissus nisi delenitis animis, non solum querellis de Geta et criminationibus editis, sed inormitate stipendii militibus, ut solet, placatis, atque inde Romam redit. [9] Tunc sub veste senatoria10 loricam habens cum armatis militibus curiam ingressus est. Hos in medio inter subsellia duplici ordine conlocavit et sic verba fecit. [10] Questus est de fratris insidiis involute et incondite ad illius accusationem 〈et

excusationem〉 sui. [11] Quod quidem nec senatus libenter accepit, cum ille dixisset fratri se omnia permisisse, fratrem ab insidiis liberasse, et illum tamen sibi gravissimas insidias fecisse nec vicem amori reddidisse fraterno. [3, 1] Post hoc relegatis deportatisque reditum in patriam restituit. Inde ad praetorianos processit et in castris mansit. [2] Altera die Capitolium petit, 〈ad〉 eos, quos occidere parabat, adfabiliter est locutus innitensque Papiniano11 et Ciloni12 ad Palatium redit. [3] Cum flentem matrem Getae vidisset aliasque mulieres post necem fratris, mulieres occidere conatus est, sed ob hoc retentus {ne} augeretur fratris occisi crudelitas. [4] Laetum13 ad mortem coegit misso a se veneno: ipse enim inter suasores Getae mortis primus fuerat, qui et primus interemptus est. [5] Ipse mortem eius saepissime flevit. Multos, qui caedis eius conscii fuerant, interemit, 〈item〉 eum, qui imaginem eius honoravit. [6] Post hoc fratrem patruelem Afrum, cui pridie partes de cena miserat, iussit occidi. [7] Qui cum se praecipitasset percussorum timore et ad uxorem crure fracto erepisset, tamen per ludibrium percussoribus deprehensus est et occisus. [8] Occidit etiam Pompeianum, Marci nepotem, ex filia natum et ex Pompeiano14, cui nupta fuerat Lucilla post mortem Veri imperatoris, quem et consulem bis fecerat et omnibus bellis praeposuerat, quae gravissima tunc fuerunt, et ita quidem ut videretur a latronibus interemptus. [4, 1] Dein in conspectu eius Papinianus securi percussus a militibus et occisus est. Quo facto percussori dixit: «Gladio te exequi oportuit meum iussum». [2] Occisus est etiam eius iussu Patruinus15 ante templum divi Pii16, tractaque sunt eorum per plateam cadavera sine aliqua humanitatis reverentia. Filium etiam Papiniani, qui ante triduum quaestor opulentum munus ediderat, interemit. [3] Isdem diebus occisi sunt innumeri, qui fratris eius partibus faverant. Occisi etiam liberti, qui Getae administraverant. [4] Caedes deinde in omnibus locis. Et in balneis factae caedes, occisique nonnulli etiam cenantes, inter quos etiam Sammonicus Serenus17, cuius libri plurimi ad doctrinam extant. [5] In summum discrimen etiam Chilo iterum praefectus et consul venit ob hoc, quod concordiam inter fratres suaserat. [6] Et cum idem Chilo sublata veste senatoria nudis pedibus ab urbanicianis18 raptus esset, Antoninus seditionem compressit. [7] Multas praeterea postea caedes in urbe fecit, passim raptis a militibus nonnullis hominibus et occisis, quasi seditionem vindicans. [8] Helvium Pertinacem19, suffectum consulem20, ob hoc solum, quod filius esset imperatoris, occidit. [9] Neque cessavit umquam

sub diversis occasionibus eos interficere, qui fratris amici fuissent. [10] Saepe in senatum, saepe in populum superbe invectus est aut edictis propositis aut orationibus editis, Syllam se etiam ostendens futurum. [5, 1] His gestis Galliam petit21 atque ut primum in eam venit, Narbonensem22 proconsulem occidit. [2] Cunctis deinde turbatis, qui in Gallia res gerebant, odium tyrannicum meruit quamvis aliquando fingeret et benignum, cum esset natura truculentus. [3] Et cum multa contra homines et contra iura civitatum fecisset, morbo inplicitus graviter laboravit. Circa eos, qui eum curabant, crudelissimus fuit. [4] Dein23 ad orientem profectionem parans omisso itinere in Dacia resedit. Circa Raetiam non paucos barbaros interemit militesque suos quasi Syllae24 milites et cohortatus est et donavit. [5] Deorum sane se nominibus appellari vetuit, 〈quod〉 Commodus fecerat, cum quod leonem aliasque feras occidisset, Herculem dicerent. [6] Et cum Germanos subegisset25, Germanicum se appellavit vel ioco vel serio, ut erat stultus et demens, adserens, si Lucanos vicisset, Lucanicum26 se appellandum. [7] Damnati sunt eo tempore qui urinam in eo loco fecerunt, in quo statuae aut imagines erant principis, et qui coronas imaginibus eius detraxerunt, ut alias ponerent, damnatis et qui remedia quartanis tertianisque27 collo adnexa gestarunt28. [8] Per Thracias cum praef. praet. iter fecit; inde cum in Asiam traiceret, naufragii periculum adit antemna fracta, ita ut in scafam cum protectoribus [ita] descenderet. Unde in triremem a praef. classis receptus evasit. [9] Excepit apros frequenter, contra leonem etiam stetit. Quando etiam missis ad amicos litteris gloriatus est seque ad Herculis virtutem accessisse [se] iactavit. [6, 1] Post hoc ad bellum Armeniacum Parthicumque conversus ducem bellicum29, qui suis conpetebat moribus, fecit. [2] Inde Alexandriam petit, in gymnasium30 populum convocavit eumque obiurgavit; legi etiam validos ad militiam praecepit. [3] Eos autem, quos legerat, occidit exemplo Ptolomaei Euergetis31, qui octavus hoc nomine appellatus est. Dato praeterea signo militibus, ut hospites suos occiderent, magnam caedem Alexandreae fecit. [4] Dehinc per Cadusios32 et Babylonios ingressus tumultuarie cum Parthorum satrapis manum contulit, feris etiam bestiis in hostes inmissis33. [5] Datis ad senatum quasi post victoriam litteris Parthicus34 appellatus est; nam Germanici35 nomen patre vivo fuerat consecutus. [6] Deinde cum iterum vellet Parthis bellum inferre atque hibernaret Edessae36 atque inde Carras37 Luni38 dei gratia venisset, die natalis sui, octavo idus Apriles39, ipsis

Megalensibus40, cum ad requisita naturae discessisset, insidiis a Macrino praef. praet. positis, qui post eum invasit imperium, interemptus est41. [7] Conscii caedis fuerunt Nemesianus et frater eius Apollinaris42 Triccianusque43, qui praef. legionis secundae Parthicae militabat et qui equitibus extraordinariis praeerat, non ignorantibus Marcio Agrippa44, qui classi praeerat, et praeterea plerisque officialium inpulsu Martialis45. [7, 1] Occisus est autem46 in medio itinere inter Carras et Edessam, cum levandae vessicae gratia ex equo descendisset atque inter protectores suos, coniuratos caedis, ageret. [2] Denique cum illum in equum strator eius levaret, pugione latus eius confodit, conclamatumque ab omnibus est id Martialem fecisse. [3] Et quoniam dei Luni fecimus mentionem, sciendum doctissimis quibusque id memoriae traditum atque ita nunc quoque a Carrenis praecipue haberi, ut qui Lunam femineo nomine ac sexu putaverit nuncupandam, is addictus mulieribus semper inserviat; [4] qui vero marem deum esse crediderit, is dominetur uxori neque ullas muliebres patiatur insidias. [5] Unde, quamvis Graeci vel Aegyptii eo genere quo feminam hominem, etiam Lunam deum dicant, mystice tamen Lunum dicunt47. [8, 1] Scio de Papiniani nece48 multos ita in litteras rettulisse, ut caedis non adsciverint causam, aliis alia referentibus; sed ego malui varietatem opinionum edere quam de tanti viri caede reticere. [2] Papinianum amicissimum fuisse imperatori Severo, ut aliqui loquuntur, adfinem etiam per secundam uxorem49, memoriae traditur; [3] et huic praecipue utrumque fìlium a Severo commendatum, atque ob hoc concordia fratrum Antoninorum favisse; [4] egisse quin etiam, ne occideretur, cum iam de insidiis eius Bassianus quereretur; atque ideo una cum his, qui fautores fuerant Getae, a militibus non solum permittente verum etiam suadente Antonino occisum. [5] Multi dicunt Bassianum occiso fratre illi mandasse, ut et in senatu pro se et apud populum facinus dilueret, illum autem respondisse non tam facile parricidium excusari posse quam fieri. [6] Est etiam haec fabella, quod dictare noluerit orationem, qua invehendum erat in fratrem, ut causa eius melior fieret, qui occiderat; illum autem negantem respondisse aliud esse 〈excusare〉 parricidium, aliud accusare innocentem occisum. [7] Sed hoc omnino non convenit: nam neque praef. poterat dictare orationem, et constat eum quasi fautorem Getae occisum. [8] Et fertur quidem Papinianus, cum raptus a militibus ad Palatium traheretur occidendus, praedivinasse dicentem

stultissimum fore, qui in suum subrogaretur locum, nisi adpetitam crudeliter praefecturam vindicaret. [9] Quod factum est: nam Macrinus {Antoninum} occidit, ut supra exposuimus50. [10] Qui cum filio factus in castris imperator fìlium suum, qui Diadumenus vocabatur, Antoninum vocavit, idcirco quod a praetorianis multum Antoninus desideratus est. [9, 1] Bassianus vixit annis quadraginta tribus51 Imperavit annis sex. Publico funere elatus est. [2] Filium reliquit, qui postea et ipse Marcus Antoninus Heliogabalus dictus est; ita enim nomen Antoninorum inoleverat, ut velli ex animis hominum non posset, quod omnium pectora velut Aug(usti) nomen obsederat. [3] Fuit male moratus et patre duro crudelior. Avidus cibi, vini etiam adpetens, suis odiosus et praeter milites praetorianos omnibus castris exosus. Prorsus nihil inter fratres simile. [4] Opera Romae reliquit thermas nominis sui eximias52, quarum cellam solearem53 architecti negant posse ulla imit〈atione eadem r〉atione qua facta est, fieri. [5] Nam et ex aere vel cypro cancelli suppositi esse dicuntur, quibus cameratio tota concredita est, et tantum est spatii, ut id ipsum fieri negant potuisse docti mechanis. [6] Reliquit et porticum patris nomine54, quae gesta illius contineret et triumphos et bella. [7] Ipse Caracalli nomen accepit a vestimento55, quod populo dederat, demisso usque ad talos. Quod ante non fuerat. [8] Unde hodieque Antoninianae dicuntur caracallae huiusmodi, in usu maxime Romanae plebis frequentatae. [9] Idem viam novam munivit56, quae est sub eius thermis, Antoninianis scilicet, qua pulchrius inter Romanas plateas non facile quicquam invenias. [10] Sacra Isidis Romam deportavit et templa ubique magnifice eidem deae fecit; sacra etiam maiore reverentia celebravit, quam antea celebrabantur. [11] In quo quidem mihi mirum videtur, quemammodum sacra Isidis primum per hunc Romam venisse dicantur, cum Antoninus Commodus ita ea celebraverit, ut et Anubin portaret et pausas ederet57; nisi forte iste addidit celebritati, non eam primus invexit. [12] Corpus eius Antoninorum sepulchro58 inlatum est, ut ea sedes reliquias eius acciperet, quae nomen addiderat. [10, 1] Interest scire quemadmodum novercam suam Iuliam uxorem duxisse dicatur59. [2] Quae cum esset pulcherrima et quasi per neglegentiam se maxima corporis parte nudasset dixissetque Antoninus «Vellem, si liceret», respondisse fertur: «Si libet, licet. An nescis te imperatorem esse et leges dare, non accipere?». [3] Quo audito furor inconditus ad effectum criminis

roboratus est nuptiasque eas celebravit, quas, si sciret se leges dare vere, solus prohibere debuisset. [4] Matrem enim (non alio dicenda erat nomine) duxit uxorem et ad parricidium iunxit incestum, si quidem eam matrimonio sociavit, cuius fìlium nuper occiderat. [5] Non ab re est etiam diasyrticum quiddam in eum dictum addere. [6] Nam cum Germanici et Parthici et Arabici et Alamannici nomen adscriberet (nam Alamannorum gentem60 devicerat), Helvius Pertinax, filius Pertinacis, dicitur ioco dixisse: «Adde, si placet, etiam Geticus Maximus», quod Getam occiderat fratrem et Gothi Getae dicerentur, quos ille, dum ad orientem transit, tumultuariis proeliis devicerat. [11, 1] Occidendi Getae multa prodigia extiterunt, ut in vita eius exponemus. [2] Nam quamvis prior ille e vita excesserit, nos tamen ordinem secuti sumus, ut qui et prior natus est et qui prior imperare coeperat, prior scriberetur. [3] Eo sane tempore, quo ab exercitu appellatus est Augustus vivo patre, quod ille pedibus aeger gubernare non posse videretur imperium, contusis animis militum et tribunorum Severus dicitur animo volutasse, ut et hunc occideret, nisi repugnassent praef. eius, gravis viri. [4] Aliqui contra dicunt praef. voluisse id fieri, sed Septimium noluisse, ne et severitas illius crudelitatis nomine inquinaretur, et, cum auctores criminis milites fuerint, adulescens stultae temeritatis poenas lueret tam gravis supplicii titulo, ut a patre videretur occisus. [5] Hic tamen omnium durissimus et, ut uno conplectamur verbo, parricida et incestus, patris, matris, fratris inimicus, a Macrino, qui eum occiderat, timore militum et maxime praetorianorum inter deos relatus est. [6] Habet templum, habet salios, habet sodales Antoninianos, qui Faustinae61 templum et divale nomen eripuit, [7] certe templum, quod ei sub Tauri radicibus fundaverat maritus, in quo postea fìlius huius Heliogabalus Antoninus sibi vel Iovi Syrio vel Soli – incertum id est – templum fecit62.

[1, 1] Dei due figli lasciati da Settimio Severo, i quali ricevettero il nome di Antonino, uno dall’esercito, l’altro dal padre, Geta fu dichiarato nemico pubblico1, Bassiano2 divenne – come si sa – imperatore. [2] Sugli antenati di questo riteniamo sia inutile soffermarsi ancora, dato che di tutto si è già parlato ampiamente nella vita di Severo3. [3] Fu dunque un fanciullo amabile, intelligente, affabile con i genitori, caro ai loro amici, ben accetto al popolo, gradito al senato: ciò che gli giovò ad acquistarsi la simpatia generale. [4] Non apparve mai indolente nello studio, né pigro a compiere atti di benevolenza o restio a mostrarsi liberale o tardo a gesti di clemenza, almeno finché visse sottomesso ai genitori. [5] Insomma, se talvolta vedeva dei condannati gettati in pasto alle fiere, piangeva o volgeva altrove lo sguardo; ciò che gli conquistò grande affetto da parte del popolo. [6] A sette anni, avendo saputo che un fanciullo suo compagno di giochi era stato frustato a sangue per aver professato la religione giudaica, tenne a lungo il broncio a suo padre e al padre di quello quali responsabili di quelle percosse. [7] Fu grazie al suo intervento che furono restituiti agli abitanti di Antiochia e Bisanzio, contro i quali si era scatenata l’ira di Severo per l’aiuto da essi prestato a Nigro, i loro antichi privilegi. Ebbe in odio Plauziano4 a motivo della sua crudeltà. [8] Era solito regalare di sua iniziativa ai suoi clienti e maestri i doni che riceveva dai genitori in occasione delle feste sigillari5. Ma tutto questo riguarda la sua fanciullezza. [2, 1] Non appena, però, fu uscito da quell’età, vuoi per effetto dei consigli del padre, vuoi per la sua innata scaltrezza o per il fatto che si era prefìsso di assomigliare ad Alessandro Magno il Macedone, divenne più riservato, più severo, e anche più torvo nell’espressione del viso, al punto che molti non volevano credere che fosse lo stesso che avevano conosciuto da piccolo. [2] Aveva sempre sulle labbra Alessandro Magno e le sue gesta e, quando era in compagnia, lodava di continuo Tiberio e Silla. [3] Era più superbo del padre, e disprezzava profondamente il fratello per il suo atteggiamento molto dimesso. [4] Dopo la morte del padre6 si recò nel castro pretorio7, e si lamentò con i soldati che il fratello gli tendeva insidie: così lo fece uccidere8 nel Palazzo, ordinando che il suo cadavere venisse subito cremato. [5] Parlando ai soldati, ebbe inoltre a dire che il fratello aveva tentato di avvelenarlo, e che si era mostrato irrispettoso verso la madre; e ringraziò pubblicamente quelli che lo avevano ucciso, [6] aumentando persino loro lo stipendio, come soldati che avevano mostrato maggior fedeltà nei suoi confronti. [7] Una parte dei

soldati9, che stazionavano ad Alba, accolse la notizia dell’uccisione di Geta con grande disappunto: tutti quanti dicevano di aver promesso fedeltà ai due figli di Severo e che dovevano quindi serbarla ad entrambi; [8] chiuse dunque le porte dell’accampamento, per lungo tempo non lasciarono entrare l’imperatore, finché questi riuscì a calmare gli animi, non solo ripetendo le lamentele e le accuse nei confronti di Geta, ma soprattutto placando i soldati, come è d’uso, mediante la distribuzione di enormi somme di denaro; ritornò quindi a Roma. [9] Entrò allora nella curia indossando una corazza sotto l’abito senatorio10 e facendosi accompagnare da una guardia di soldati armati, che dispose in duplice fila in mezzo ai sedili: e così tenne il suo discorso. [10] Si lagnò delle insidie che il fratello gli avrebbe teso, con lo scopo evidente di accusare quello e giustificare se stesso, parlando peraltro in modo involuto e disordinato. [11] Ma un discorso del genere, in cui egli affermava che non aveva negato mai nulla a suo fratello, e addirittura lo aveva più volte salvato da gravi pericoli, mentre quello, anziché ricambiare il suo affetto fraterno, aveva tramato contro di lui un complotto mortale, non fu certo accolto con favore dal senato. [3, 1] Dopo ciò concesse ai confinati e ai deportati il ritorno in patria. Poi si recò dai pretoriani e rimase nel loro accampamento. [2] Il giorno seguente salì al Campidoglio, e conversò cordialmente con quelli che si preparava ad uccidere; poi ritornò al Palazzo sottobraccio a Papiniano11 e Cilone12. [3] Avendo visto la madre di Geta e altre donne piangere dopo l’assassinio del fratello, si era risoluto ad ucciderle, ma ne fu trattenuto dal timore di accrescere la propria fama di crudeltà legata all’uccisione del fratello. [4] Costrinse al suicidio Leto13, mandandogli lui stesso il veleno; così costui, che era stato il primo a consigliare l’uccisione di Geta, fu anche il primo ad essere ucciso. [5] Egli stesso, poi, pianse molte volte la morte del fratello. Giunse ad eliminare molti che erano stati complici dell’assassinio di lui, così come, parimenti, chi avesse reso onore all’immagine del defunto. [6] Dopo di ciò ordinò di uccidere suo cugino Afro, al quale solo il giorno prima aveva mandato una porzione della sua cena; [7] quello, datosi a fuga precipitosa per il terrore dei sicari, riuscì, pur essendosi spezzata una gamba, a trascinarsi da sua moglie: nondimeno fu catturato dagli assassini, che lo finirono tra gli scherni. [8] Fece eliminare anche Pompeiano, nipote di Marco Aurelio – era infatti nato da sua figlia Lucilla e da quel Pompeiano14 che l’aveva avuta in moglie dopo la morte dell’imperatore Vero, e che egli aveva fatto console due volte affidandogli anche il comando in tutte le più importanti guerre che vi

furono in quel tempo –, e in modo tale da far sembrare che fosse stato ucciso dai briganti. [4, 1] In seguito, alla sua presenza fu ucciso a colpi di scure dai soldati Papiniano: al che l’imperatore si rivolse all’uccisore dicendo: «Con la spada avresti dovuto eseguire il mio ordine!». [2] Per suo ordine fu pure ucciso Patruino15, davanti al tempio del divo Pio16, e il suo cadavere, insieme con quello di Papiniano, furono trascinati attraverso la piazza senza alcun ritegno dettato da sentimenti di umanità. Mise a morte anche il figlio di Papiniano, che solo tre giorni prima aveva allestito, in qualità di questore, splendidi giochi. [3] In quegli stessi giorni furono uccise moltissime persone che erano state partigiani di suo fratello; furono eliminati anche i liberti che avevano curato gli affari di Geta. [4] Si ebbero poi stragi in ogni luogo. Vi fu anche chi venne sorpreso nel bagno, e molti furono uccisi persino mentre erano a tavola, e tra essi anche Sammonico Sereno17 del quale ci sono rimaste molte dotte opere. [5] Anche Cilone, due volte prefetto e console, venne a trovarsi in gravissimo pericolo, solo perché aveva cercato di mettere pace tra i due fratelli. [6] E mentre Cilone veniva trascinato via dalla milizia urbana18, privato della veste senatoria e a piedi nudi, scoppiò una rivolta, che peraltro Antonino riuscì a soffocare. [7] Dopo di che egli operò nella città molte altre stragi, facendo catturare qua e là gruppi di persone dai soldati e uccidendole, a mo’ di rappresaglia per la sedizione. [8] Mandò a morte anche Elvio Pertinace19, console sostituto20 di quell’anno, per il solo motivo che era figlio di un imperatore, [9] e non cessò mai, qualsiasi occasione gli si presentasse, di trucidare chiunque fosse stato amico del fratello. [10] Più volte, attraverso editti da lui promulgati o discorsi tenuti pubblicamente, lanciò tracotanti attacchi contro il senato e il popolo, facendo presagire financo che sarebbe divenuto un nuovo Silla. [5, 1] Dopo questi fatti, partì per la Gallia21, e non appena vi giunse, uccise il proconsole della Narbonese22. [2] Tutti i funzionari che amministravano la Gallia ne furono profondamente turbati, ed egli si guadagnò un odio pari a quello per un tiranno, quantunque talora ostentasse anche un atteggiamento benevolo, che contrastava con la ferocia della sua indole. [3] E dopo avere in più modi infierito contro la popolazione, calpestando i diritti delle comunità, cadde gravemente ammalato; sfogò allora la sua crudeltà contro le persone che lo curavano. [4] Poi23 si accinse ad un viaggio per l’Oriente, ma, interrotta la marcia, si fermò in Dacia. Passando attraverso la Rezia mise a morte un

gran numero di barbari, arringando e riempendo di donativi i suoi soldati, come se fossero truppe di Silla24. [5] Non permise che lo si chiamasse con nomi di divinità – ciò che invece aveva fatto Commodo, allorché molti si rivolgevano a lui con l’appellativo di Ercole, perché aveva ucciso un leone e altre fiere. [6] Quando ebbe sconfitto i Germani25, si fece chiamare Germanico, affermando, non so se per scherzo o sul serio, data la sua stoltezza e demenza, che se avesse vinto i Lucani, si sarebbe fatto chiamare Lucanico26. [7] In quel periodo furono condannati coloro che venivano sorpresi ad orinare nei luoghi in cui si trovavano statue o immagini del principe, e anche quanti avessero tolto dai suoi busti le corone per sostituirle con altre; vennero condannati anche quelli che portavano appesi al collo degli amuleti27 contro le febbri quartane e terzane28. [8] Viaggiò attraverso la Tracia accompagnato dal prefetto del pretorio. Mentre poi di là stava passando in Asia, corse pericolo di far naufragio, essendosi spezzato l’albero della nave, di modo tale che dovette scendere su di una scialuppa insieme con le sue guardie del corpo: di lì poi fu raccolto su una trireme dal prefetto della flotta, e riuscì così a salvarsi. [9] Uccise spesso cinghiali, e affrontò persino un leone: fu allora che, vantandosi per lettera con gli amici, arrivò a gloriarsi di aver eguagliato in valore Ercole. [6, 1] Successivamente, volgendosi alle vicende della guerra contro gli Armeni e i Parti, nominò quale comandante in capo un individuo29 della sua stessa pasta. [2] Poi si recò ad Alessandria, e qui convocò il popolo nel ginnasio30, muovendo aspri rimproveri e ordinando che tutti gli uomini ancora validi venissero arruolati. [3] Ma questi stessi che aveva fatto arruolare, li fece poi uccidere, sull’esempio di Tolomeo Evergete31, l’ottavo di quelli che portarono quel nome. Oltre a ciò, diede ordine ai soldati di uccidere coloro che li ospitavano e fu così che provocò in Alessandria una grande strage. [4] Quindi, entrato nel territorio dei Cadusi32 e dei Babilonesi, condusse una campagna disordinata contro i satrapi dei Parti, nella quale lanciò contro il nemico anche delle bestie feroci33. [5] Mandò poi al senato una lettera in cui ne dava notizia come se avesse ottenuto una vera e propria vittoria, e gli fu così conferito l’appellativo di Partico34 – mentre quello di Germanico35 l’aveva ottenuto quando il padre era ancora vivo. [6] Successivamente svernò ad Edessa36, con l’intenzione di riprendere nuovamente la guerra contro i Parti; fu allora che, essendosi recato a Carre37 per rendere onore al dio Luno38, proprio il 6 aprile39, giorno anniversario della sua nascita nonché festa Megalese40, venne ucciso a tradimento41, mentre si

era appartato per fare i suoi bisogni, dal prefetto del pretorio Macrino, che dopo la sua morte si impadronì del potere. [7] Complici dell’assassinio furono Nemesiano, suo fratello Apollinare42 e Tricciano43, prefetto della seconda legione e comandante del corpo scelto di cavalleria, ma non ne erano all’oscuro neppure Marcio Agrippa44, che comandava la flotta, e inoltre la maggior parte dei funzionari, istigati da Marziale45. [7, 1] Venne dunque ucciso46 nel mezzo del viaggio tra Carre ed Edessa, allorché era smontato da cavallo per orinare e si trovava tra i soldati della sua guardia, tutti complici della congiura. [2] Fu il suo staffiere che, mentre lo aiutava a salire a cavallo, gli affondò un pugnale nel fianco: e tutti proclamarono a una voce che a compiere ciò era stato Marziale. [3] E poiché abbiamo menzionato il dio Luno, bisogna sapere che fra le persone più erudite circola una tradizione, ancora viva soprattutto tra gli abitanti di Carre, secondo cui chi ritiene che la Luna debba essere chiamata così, con nome e sesso femminile, sarà sempre schiavo delle donne; [4] mentre chi crede che questa divinità sia un maschio, dominerà la moglie e non sarà soggetto alle insidie femminili. [5] Perciò i Greci e gli Egiziani, quantunque parlino della Luna come di un «dio» allo stesso modo in cui usano il termine «uomo» in riferimento anche alla donna, nondimeno nei loro riti misterici la chiamano col termine maschile «Luno»47

Frontespizio della Storia Angusta nell’edizione frobeniana curata da Erasmo da Rotterdam (Basilea, 1518).

[8, 1] Molti, a quanto ne so, hanno scritto della morte di Papiniano48 in maniera tale da non pronunciarsi, essendovi varie versioni contrastanti, sulla causa che la provocò; io invece preferisco riportare una varietà di opinioni, piuttosto che tacere sull’assassinio di un uomo così grande. [2] Viene generalmente riferito che Papiniano fu intimo amico dell’imperatore Severo e, a quanto dicono alcuni, anche suo parente tramite la seconda moglie49; [3] era soprattutto a lui che Severo aveva affidato i suoi due figli, e proprio per questo egli aveva sempre cercato di mantenere la concordia tra i due fratelli Antonini; [4] si adoperò anzi per impedire il fratricidio, quando già Bassiano aveva preso a lamentarsi delle insidie del fratello; e a motivo di ciò venne ucciso dai soldati insieme con i partigiani di Geta, non solo con il consenso,

ma per espressa istigazione di Antonino. [5] Molti dicono che Bassiano, dopo aver ucciso il fratello, abbia dato a Papiniano l’incarico di giustificare a nome suo il delitto davanti al senato e al popolo, ma egli avrebbe risposto che scusare un fratricidio non era altrettanto facile quanto commetterlo. [6] Circola anche quest’altra versione, secondo la quale egli si rifiutò di comporre un discorso in cui, per sostenere le ragioni dell’assassino, avrebbe dovuto attaccare violentemente il fratello; avrebbe allora rifiutato, rispondendo che altro è giustificare un fratricidio, altro accusare un innocente ucciso. [7] Ma qui i conti non tornano proprio: giacché, in primo luogo, egli, in quanto prefetto, non poteva dettare un’orazione, e inoltre è risaputo che egli fu ucciso quale fautore di Geta. [8] Si racconta inoltre che Papiniano, mentre, catturato dai soldati, veniva trascinato al Palazzo per essere messo a morte, fece una predizione affermando che chi gli fosse succeduto sarebbe stato quanto mai stolto se non avesse vendicato quel feroce attacco alla carica di prefetto. [9] Il che di fatto si avverò: infatti, come già abbiamo detto50, Macrino uccise Antonino. [10] Costui, acclamato imperatore dai soldati insieme al figlio, diede a quest’ultimo, che si chiamava Diadumeno, il nome di Antonino, e questo perché i pretoriani mal sopportavano la mancanza di un Antonino. [9, 1] Bassiano visse 43 anni51, ed ebbe il potere per sei. Ebbe funerali a spese pubbliche. [2] Lasciò un figlio, che in seguito ebbe a sua volta il nome di Marco Antonino Eliogabalo; il nome degli Antonini infatti si era così profondamente radicato negli animi della gente da non poterne essere più strappato, giacché aveva conquistato nei cuori di tutti un posto pari a quello del nome di Augusto. [3] Fu uomo di costumi corrotti e più crudele del già crudele suo padre; avido di cibo, come pure ingordo di vino, odiato dai familiari e detestato da tutti i soldati, ad eccezione dei pretoriani. Tra lui e suo fratello non vi era davvero niente in comune. [4] Tra le opere pubbliche che lasciò a Roma vi furono le magnifiche terme che portano il suo nome52, la cui cella per il bagno a forma di sandalo53 è costruita, secondo gli architetti, con una tecnica che non si può riprodurre con nessun tipo di imitazione. [5] Si dice infatti che la costruzione a volta si regga tutta intera su sottostanti strutture di bronzo e rame, e lo spazio vi è tanto ampio che gli stessi esperti in ingegneria non riescono a spiegare come tutto ciò abbia potuto essere realizzato. [6] Lasciò anche un portico intitolato al padre54, tale da contenere la rappresentazione delle sue gesta, i suoi trionfi e le sue guerre. [7] Il nome di Caracalla gli venne da quello di un tipo di veste55

lunga fino ai piedi e mai in uso prima di allora, che egli aveva fatto distribuire al popolo. [8] Onde ancor oggi coteste siffatte «caracalle», molto in uso soprattutto tra la plebe romana, sono dette Antoniniane. [9] Fece inoltre aprire una nuova strada56 che costeggiava le sue terme, quelle, cioè, chiamate Antoniniane, tale che difficilmente, nell’ambito della viabilità romana, si potrebbe trovare qualcosa di più bello. [10] Introdusse a Roma il culto di Iside e fece costruire dappertutto magnifici templi in suo onore, celebrando i riti della dea con una solennità più grande di quella mai vista in passato. [11] A questo proposito, comunque, a me pare strano come si possa dire che i misteri di Iside furono introdotti per la prima volta in Roma da lui, dal momento che già Antonino Commodo li celebrava portando la statuetta di Anubi, e adempiendo a tutte le pause rituali della processione57; a meno che non si intenda che Bassiano contribuì alla diffusione del culto, senza peraltro esserne l’iniziatore. [12] Il suo corpo fu sepolto nella tomba degli Antonini58, affinché quel medesimo sito, cui doveva il suo nome, avesse anche ad accogliere i suoi resti mortali. [10, 1] Può essere interessante sapere in che modo si dice che sia giunto a sposare la sua matrigna Giulia59. [2] Una volta che costei, una donna di singolare bellezza, gli si era mostrata seminuda in atteggiamento di ostentata trascuratezza, Antonino le disse: «Vorrei, se fosse lecito»; al che essa, a quanto si dice, rispose: «Se tu lo vuoi, puoi. Non sai che tu sei l’imperatore, e che sei tu che fai le leggi, non le ricevi?». [3] All’udire queste parole la sua sfrenata passione trasse vigore per portare ad effetto un atto scellerato, e fu così che egli celebrò quelle nozze che, se fosse stato veramente consapevole di essere lui a fare le leggi, avrebbe più che chiunque dovuto proibire. [4] Infatti egli sposò sua madre (ché altro nome non le si sarebbe potuto dare) e al fratricidio aggiunse un incesto, dato che si unì in matrimonio con la donna di cui poco tempo prima aveva fatto uccidere il figlio. [5] Non è fuor di luogo ricordare anche una battuta pungente pronunziata contro di lui. [6] Allorquando egli volle assumere gli appellativi di Germanico, Partico, Arabico ed Alamannico (giacché aveva sconfitto anche gli Alamanni)60, si dice che Elvio Pertinace, figlio dell’imperatore omonimo, avrebbe commentato ironicamente: «Se ti va, aggiungici anche quello di Getico Massimo!», con allusione al fatto che aveva ucciso il fratello Geta, e che «Geti» era il nome di quei Goti che egli, nel corso della sua spedizione in Oriente, aveva battuto nel corso di qualche zuffa disordinata.

[11, 1] Vi furono molti prodigi che preannunziarono l’assassinio di Geta, come riferiremo nella sua biografia; [2] infatti, sebbene quest’ultimo sia morto prima del fratello, non abbiamo tuttavia inteso venir meno al criterio d’ordine secondo cui avesse a precedere la biografia di chi è nato prima e prima è stato assunto all’impero. [3] Allorché i soldati lo proclamarono Augusto pur essendo ancora in vita il padre che, a motivo della sua malattia ai piedi, pareva ad essi non più in grado di reggere il governo dell’impero, si dice che Severo, una volta rintuzzati i disegni eversivi dei soldati e dei tribuni, abbia meditato di uccidere anche lui, ma incontrò l’opposizione dei suoi prefetti, uomini di grande autorità. [4] Alcuni, al contrario, dicono che sarebbero stati i prefetti a volere la sua uccisione, ma Severo si sarebbe opposto nel timore che la sua severità potesse essere travisata come crudeltà, e perché il ragazzo non avesse a pagare un semplice atto di sciocca arroganza con il marchio di una punizione così grave – apparire messo a morte da suo padre –, laddove i veri colpevoli erano stati in realtà i soldati. [5] Ad ogni modo questo individuo, crudele quanto nessun altro, e, per dirla breve, fratricida e incestuoso, nemico del padre, della madre, del fratello, fu poi divinizzato da Macrino, il suo uccisore, che temeva le reazioni dei soldati, e in particolare dei pretoriani. [6] Così ora ha un tempio, ha un collegio di Salii, ha una confraternita di «Antoniniani», proprio lui che aveva sottratto a Faustina61 il suo tempio e l’appellativo di divinità, [7] quel tempio, dico, che il marito le aveva fondato alle falde del monte Tauro, e dove successivamente il figlio di costui, Eliogabalo Antonino, fece erigere un tempio a se stesso, o a Giove Sirio o al Sole62 – la cosa non è ben chiara.

1. Cfr. CASSIO DIONE, LXXVII, 12, 6. 2. Il suo nome originario era Giulio Bassiano, da quello del nonno materno. Nel 196 d. C. ricevette da Severo quello di M. Aurelio Antonino (dovendo apparire come nipote di Marco Aurelio). Il soprannome di Caracalla (nel corso della HA troviamo impiegata unicamente la forma Caracallus) gli venne dato in relazione al nome della veste di origine gallica (cfr. 9, 7-8; si trattava di una specie di mantello con maniche e cappuccio, lungo fino alle caviglie) che egli era solito portare e che lo rese popolare a Roma. 3. Cfr. Sev., 1, 1-2. 4. Cfr. Sev., 14, 5, n. 4. 5. Cfr. Hadr., 17, 3, n. 3. 6. Viene qui omessa la narrazione degli eventi successivi alla morte di Severo in Britannia (4 febbraio del 211 d. C.): i due fratelli, conclusa una pace provvisoria, tornarono a Roma, assieme alla madre Giulia Domna, ai primi di maggio, e governarono assieme sino alla morte di Geta, avvenuta il 26 febbraio del 212 d. C. Per una ricostruzione di questi avvenimenti attraverso i dati forniti dalle altre fonti, cfr. G. ALFÖLDY, Der Sturz des Kaisers Geta und die Antike Geschichtsschreibung, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 23 segg. e 29 segg. 7. Il «Castro Pretorio», cioè la caserma in cui erano acquartierati i pretoriani, era situata nei pressi dell’ordierna Porta Pia. 8. Cfr., sull’assassinio di Geta, ALFÖLDY, Der Sturz des Kaisers Geta, cit., pp. 33 segg. 9. Si trattava della legio II Parthica, di stanza allora ad Alba (la moderna Albano). 10. L’abbigliamento proprio dei senatori presentava quali caratteristiche distintive il colore rosso delle calzature e la striscia di porpora larga (latus clavus) che listava la tunica bianca. 11. Cfr. Sev., 21, 8, n. 1. 12. L. Fabio Cilone, console nel 193 d. C. e nel 204 d. C., egli pure, successivamente, vittima dell’imperatore. 13. Si tratta probabilmente di quel Laetus o Laenus che era stato prefetto insieme a Papiniano, e che, designato pure lui come vittima, dovette la salvezza al fatto di trovarsi malato (cfr. CASSIO DIONE, LXXVII, 5, 4). 14. Cfr. M. Ant., 20, 6. 15. Forse Valerio Patruino, che fu prefetto del pretorio assieme a Papiniano e Leto. 16. Il tempio dedicato ad Antonino Pio e alla moglie Annia Galeria Faustina (cfr. Ant. Pius., 6, 7, n. 2). 17. Autore di varie opere a carattere antiquario, per noi perdute. MACROBIO parla di lui come vir saeculo suo doctus (cfr. Saturnalia, III, 9, 6), e autore di Rerum reconditarum libri, una raccolta erudita. Potrebbe però anche trattarsi dell’autore del Liber medicinalis (una raccolta di ricette in esametri), forse figlio del precedente. 18. Gli urbaniciani erano i soldati che facevano parte delle cohortes urbanae create da Augusto nel 27 a. C. per il mantenimento dell’ordine nella città. Dapprima agli ordini del praefectus urbis, passarono successivamente sotto il controllo del prefetto del pretorio. 19. Il figlio dell’omonimo imperatore (cfr. Pert., 6, 9; 15, 3; Carac., 10, 6; Geta, 6, 6). 20. Mentre i consules ordinarii entravano regolarmente in carica all’inizio dell’anno – dando ad esso il loro nome –, i consules suffecti succedevano ai precedenti nel corso dell’anno stesso (suffectus vale appunto «sostituito»): questo avvicendamento, specialmente in epoca imperiale, poteva anche verificarsi più di una volta all’anno, sicché la durata di questi consolati poteva risultare varia. 21. Nella primavera del 213 d. C. 22. Cfr. Ant. Pius., 9, 2, n. 1.

23. Nella primavera del 214 d. C. Ma prima di questo viaggio Caracalla aveva condotto nel 213 d. C. una campagna in Rezia contro gli Alamanni, invadendo il territorio germanico e conseguendo una grande vittoria sul Meno. A questa campagna, che portò fra l’altro a rilevanti modifiche al sistema confinario romano nella provincia di Rezia, dovrebbe appunto ricollegarsi quanto detto subito dopo a proposito di operazioni militari in quella regione. 24. Si allude qui alla grande capacità di Silla di accattivarsi il favore dei soldati attraverso promesse di donativi e prede di guerra. 25. Il riferimento è probabilmente alla campagna del 213 d. C. (cfr. 5, 4, n. 7). 26. C’è qui con tutta probabilità un’allusione alla lucanica, una varietà di salsiccia. Cfr. E. HOHL, Ein politischer Witz auf Caracalla, «Sitzbb. Deutsche Akad. d. Wissenschaften Berlin», 1950, I, pp. 4 segg. 27. A parere di J. STRAUB, Heidnische Geschichtsapologetik in der christlichen Spätantike, Bonn, 1963, pp. 53 segg. e di R. SYME, Ammianus and the HA, Oxford, 1968, pp. 32 seg., avremmo qui una dipendenza da un passo di AMMIANO MARCELLINO (XIX, 12, 14), ove si parla di condanne per reati del genere con riferimento al 359 d. C. 28. Forme di febbre malarica, cosiddette dalla durata (quattro o tre giorni). 29. Si trattava, come sappiamo da CASSIO DIONE, LXXVII, 21, 1-4, del liberto Teocrito. 30. Il gymnasium era, in Grecia, un edificio pubblico adibito ad esercizi fisici e all’addestramento nelle attività sportive, nonché, in alcuni casi, all’insegnamento della musica. 31. Si tratta di Tolomeo VIII Fiscone Evergete, morto nel 116 a. C., autore di un massacro ad Alessandria nel 125 a. C. 32. Popolo guerriero stanziato nella Media, sulle rive del Mar Caspio. 33. CASSIO DIONE parla dell’impiego di un leone (cfr. LXXVIII, 1, 5). 34. Il titolo di Partico era già stato conferito a Caracalla nel 199 d. C., in occasione della guerra condotta contro i Parti dal padre Severo. 35. Tale nome era stato da lui assunto nel 213 d. C., dopo la campagna germanica condotta in quell’anno (cfr. 5, 4, n. 7). 36. Capitale dell’Osroene, in Mesopotamia (oggi Urfa). Vi trascorse l’inverno del 216-217 d. C. 37. La città della Mesopotamia famosa per la sconfitta che i Romani, comandati da Crasso, vi subirono ad opera dei Parti nel 53 a. C. 38. Si tratta del dio semitico Sîn, adorato a Carre come divinità lunare maschile, e per questo appunto indicato dall’autore con la forma Lunus. 39. Del 217 d. C. Stando a CASSIO DIONE, Caracalla era però nato il 4, non il 6 aprile, e morì l’8 (cfr. LXXVIII, 6, 5). 40. Erano le feste — istituite sin dal 204 a. C. — in onore della dea Cibele (ἡ μεγάλη Mήτηρ la Magna Mater), che si celebravano a Roma dal 4 al 10 aprile. 41. Secondo questa versione, dunque, Caracalla sarebbe morto a Carre, mentre più oltre (7, 1) è detto che la sua uccisione avvenne a metà strada fra Carre e Edessa. Sul problema della fine di Caracalla in rapporto alle fonti cfr. E. HOHL, Das Ende Caracallas. Eine quellenkritische Studie, in Miscell. Acad. Berolinens., II, 1, Berlin, 1950, pp. 276 segg.; F. KOLB, Literarische Beziehungen zwischen Cassius Dio, Herodian und der HA, Bonn, 1972, pp. 118 segg. 42. Nemesiano e Apollinare erano tribuni della guardia pretoriana. 43. Elio Decio Tricciano, di cui ci parla anche CASSIO DIONE (LXXVIII, 13; LXXIX, 4). 44. Schiavo di nascita, ebbe a far carriera sotto Severo, Caracalla e Macrino; la flotta che comandava era probabilmente quella impiegata per il trasporto delle truppe. 45. Giulio Marziale; secondo CASSIO DIONE (LXXVIII, 5, 3) costui, che di fatto fu l’esecutore materiale del delitto, covava odio contro Caracalla perché questi gli aveva rifiutato la nomina a centurione. 46. I capp. 7-8, che offrono nulla più che precisazioni su notizie già in precedenza fornite, hanno l’aria di aggiunte posteriori al corpo originario della biografia (cfr. MAGIE, I, p. XXIII). 47. Da questa discussione pseudo-erudita il culto di Sîn (per cui cfr. 6, 6, n. 5) appare confuso con

quello della divinità greca Selene. 48. Cfr. 4, 1. 49. Giulia Domna. 50. Cfr. 6, 6. 51. In realtà, come attestatoci da CASSIO DIONE, LXXVIII, 6, 5 ed Epitome de Caesaribus, 21, 7, Caracalla morì a ventinove anni. Il biografo è stato evidentemente indotto in errore dal ritenere che l’imperatore fosse figlio della prima moglie di Severo, anziché di Giulia Domna (cfr. 10, 1, n. 3). 52. Le Thermae Antoninianae, iniziate da Caracalla nel 211 d. C. e inaugurate nel 217; furono completate in seguito da Eliogabalo e Alessandro Severo, e restaurate da Aureliano. Erano site lungo la Via Nova, la strada che correva parallelamente alla Via Appia, nei pressi dell’odierna Porta S. Sebastiano. 53. Era forse una specie di salone in cui erano apprestate grandi vasche per bagni privati (cfr. S. B. PLATNER-T. ASHBY, A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Oxford, 1929, p. 523). 54. La porticus Severi; cfr. Sev., 21, 12, n. 3. 55. Cfr. 1, 1, n. 2. 56. Forse il Vicus Sulpicius, che costeggiava la Via Appia, costituendo un accesso al lato meridionale delle Terme. 57. Cfr. Comm., 9, 4 e 6, n. 4; Pesc. Nig., 6, 9. 58. Cioè il Mausoleo di Adriano. 59. Si manifesta qui, come già in altre occasioni (cfr. Sev., 18, 8 e 20, 2, nn. 3; 2), una tradizione ostile all’imperatrice, sorta in un ambiente che mirava a screditarla agli occhi del marito Severo. 60. Cfr. 5, 4, n. 7. Gli Alamanni erano un gruppo di popolazioni germaniche discendenti dagli Svevi, stanziate tra il Danubio, l’alto corso del Reno ed il Meno. 61. Annia Faustina, figlia di Antonino Pio e moglie di Marco Aurelio. 62. Cfr. M. Ant., 26, 9; Heliog., 1, 5; W. REUSCH, Der historiche Wert der Caracallavita in den ShA, «Klio», Beiheft XXIV, 1931, p. 61 (quest’opera risulta di utile consultazione anche in relazione a numerosi altri problemi inerenti alla Vita).

XIV. ANTONINUS GETA 〈AELI SPARTIANI〉

ANTONINO GETA di ELIO SPARZIANO

[1, 1] Scio, Constantine Auguste, et multos et clementiam tuam quaestionem movere posse, cur etiam Geta Antoninus a me tradatur. De cuius priusquam vel vita vel nece dicam, disseram, cur et ipsi Antonino1 a Severo patre sit nomen adpositum. [2] Neque enim multa in eius {vita} dici possunt, qui prius rebus humanis exemptus est, quam cum fratre teneret imperium2. [3] Septimius Severus quodam tempore cum consuluisset ac petisset, ut sibi indicaretur, quo esset successore moriturus, in somnis vidit Antoninum sibi successurum. [4] Quare statim ad milites processit et Bassianum, filium maiorem natu, Marcum Aurelium Antoninum appellavit. [5] Quod 〈cum〉 fecisset ex paterna cogitatione vel, ut quidam dicunt, a Iulia uxore commonitus, quae gnara erat somnii, quod minori filio hoc facto ipse interclusisset aditum imperandi, etiam Getam, minorem filium, Antoninum vocari iussit. [6] Itaque semper ab eo in epistulis familiaribus dictus est, cum si forte abesset, scriberet: [7] «Salutate Antoninos filios et successores meos». Sed nihil valuit patris cautio, nam ei solus ille successit, qui primus Antoninus nomen accepit. Et haec de Antonini nomine. [2, 1] Geta autem dictus est vel a patrui3 nomine vel avi paterni4, de cuius vita et moribus in vita Severi Marius Maximus primo septenario satis copiose rettulit. [2] Fuit autem Antoninus Geta etiam ob hoc ita dictus, quod in animo habuit Severus, ut omnes deinceps principes quemadmodum Augusti, ita etiam Antonini dicerentur, atque amore Marci, 〈quem patrem〉 [vel fratrem] suum semper dicebat et cuius philosophiam litterarumque institutionem semper imitatus est. [3] Dicunt aliqui non in Marci honorem tantum Antonini nomini delatum, cum id Marcus adoptivum habuerit, sed in eius, qui Pius cognominatus est, Hadriani scilicet successoris, [4] et quidem ob hoc quod Severum ille ad fisci advocationem5 delegerat ex formularia forensi, cum ad tantos processus ei patuisset dati ab Antonino primi gradus vel honoris auspicium, [5] simul quod nemo ei videretur felicior imperator ad commodandum nomen eo principe, cuius proprium nomen iam per quattuor principes6 cucurrisset. [6] De hoc eodem Severus, gnarus geniturae illius, cuius, ut plerique Afrorum, peritissimus fuit, dixisse fertur: [7] «Mirum mihi videtur, Iuvenalis7 amantissime, Geta noster divus futurus, cuius nihil imperiale in genitura video». Erat enim Iuvenalis praef. eius praetorii. Nec eum fefellit. [8] Nam Bassianus, cum eum occidisset ac vereretur tyrannicam ex parricidio notam audiretque posse mitigari facinus, si divum fratrem appellaret, dixisse fertur:

«Sit divus, dum non sit vivus». [9] Denique eum inter divos rettulit8 atque ideo utcumque redit fama in gratiam parricida. [3, 1] Natus est Geta Severo et Vitellio cons(ulibu)s10 Mediolanii, etsi aliter alii prodiderunt9, VI. Kal. Iunias ex Iulia, quam idcirco Severus uxorem duxerat, quod eam in genitura habere compererat, ut regis uxor esset, isque privatus sed iam optimi in re p. loci. [2] Statim ut natus est, nuntiatum est ovum gallinam in aula peperisse purpureum. [3] Quod cum allatum Bassianus frater eius accepisset et quasi parvulus adplosum ad terram fregisset, Iulia dixisse ioco fertur: «Maledicte parricida, fratrem tuum occidisti». Idque ioco. [4] Quod dictum Severus altius quam quisquam praesentium accepit, a circumstantibus autem postea velut divinitus effusum adprobatum est. [5] Fuit etiam aliud omen: nam cum in villa cuiusdam Antonini, plebei hominis, agnus natus esset, qui vellus in fronte purpureum haberet, eadem die atque hora, qua Geta natus est, audissetque ille ab aruspice post Severum Antoninum imperaturum ac de se ille auguraretur, sed tamen tale fati timeret indicium, ferro eum adegit. [6] Quod et ipsum signo fuit Getam ab Antonino interimendum, ut postea satis claruit. [7] Fuit etiam aliud omen, ut postea ingens exitus docuit, huius facinoris, quod evenit: [8] nam cum infantis Getae natalem Severus commendare vellet, hostiam popa nomine Antoninus percussit. [9] Quod tunc nec quaesitum nec animadversum, post vero intellectum est. [4, 1] Fuit adulescens decorus, moribus asperis, sed non impius, avarus, laborum retractator, gulosus, cupidus ciborum et vini varie conditi. [2] Huius illud pueri fertur insigne, quod, cum vellet partium diversarum11 viros Severus occidere et inter suos diceret: «Hostes vobis eripio» consentiretque adeo usque Bassianus, ut eorum etiam liberos, si sibi consuleret, diceret occidendos, Geta interrogasse fertur, quantus esset interficiendorum numerus; [3] cumque dixisset pater, ille interrogavit: «Isti habent parentes, habent propinquos?». Cum responsum esset habere, ait complorans: «Plures ergo in civitate tristes erunt quam laeti quod vicimus». [4] Et optinuisset eius sententia, nisi Plautianus praefectus vel Iuvenalis institissent spe proscriptionum, ex quibus ditati sunt. His accedebat Bassiani fratris nimia crudelitas. [5] Qui cum contenderet et diceret quasi ioco quasi serio omnes cum liberis occidendos partium diversarum, Geta ei dixisse dicitur: «Tu qui nulli parcis, potes et fratrem occidere». Quod dictum eius tunc nihil, post vero pro praesagio fuit. [5, 1] Fuit in litteris adsequendis [et] tenax veterum scriptorum, paternarum etiam sententiarum memor, fratri semper invisus, matri amabilior

quam frater, subbalbe tamen canorus. [2] Vestitus nitidi cupidissimus, ita ut pater rideret. Si quid accepit a parentibus, ad suum contulit cultum neque quicquam cuipiam dedit. [3] Post Parthicum bellum {pater} cum ingenti gloria floreret, Bassiano participi imperii appellato Geta quoque Caesaris et Antonini, ut quidam dicunt, nomen accepit. [4] Familiare illi fuit has quaestiones grammaticis proponere, ut dicerent, singula animalia quomodo vocem emitterent, velut: [5] agni balant, porcelli grunniunt, palumbes minurriunt, [porci grunniunt], ursi saeviunt, leones rugiunt, leopardi rictant, elefanti barriunt, ranae coaxant, equi hinniunt, asini rudunt, tauri mugiunt, easque de veteribus adprobare. [6] Sereni Sammonici libros familiarissimos habuit, quos ille ad Antoninum scripsit. [7] Habebat etiam istam consuetudinem, ut convivia et maxime prandia per singulas litteras iuberet scientibus servis, [8] velut in quo erat anser, apruna, anas, item pullus, perdix, pavus, porcellus, piscis, perna et quae in eam litteram genera edulium caderent, et item fasianus, farrata, ficus et talia. Quare comis etiam habebatur in adulescentia. [6, 1] Occiso eo13 pars militum, quae incorrupta erat, parricidium aegerrime accepit, dicentibus cunctis duobus se liberis fidem promisisse, duobus servare debere, clausisque portis diu non est imperator admissus. [2] Denique nisi querellis de Geta editis et animis militum delenitis, inormibus etiam stipendiis datis Romam Bassianus redire non potuit. [3] Post hoc denique et Papinianus et multi alii interempti sunt, qui vel concordiae faverant vel qui partium Getae fuerant, ita ut utriusque ordinis14 viri et in balneo et cenantes et in publico percuterentur, Papinianus ipse securi percussus sit, inprobante Bassiano, quod non gladio res peracta sit. [4] Ventum denique est usque ad seditionem urbanicianorum15 militum, quos quidem non levi auctoritate Bassianus compressit tribuno16 eorum, ut alii dicunt, interfecto, ut alii, relegato. [5] Ipse autem tantum timuit, ut loricam sub lato habens clavo etiam curiam sit ingressus atque ita rationem facti sui et necis Geticae reddiderit. [6] Quo quidem tempore Helvius Pertinax, filius Pertinacis, qui postea est ab eodem Bassiano interemptus, recitanti fausta praetori et dicenti «Sarmaticus maximus et Parthicus maximus» dixisse dicitur: «Adde et Geticus maximus», quasi Gothicus17. [7] Quod dictum altius in pectus Bassiani descendit, ut postea nece Pertinacis est adprobatum, nec solum Pertinacis sed et aliorum, {ut} supra dictum est, passim et inique. [8] Helvium autem etiam suspectum habuit adfectatae tyrannidis, quod esset in amore omnium et filius Pertinacis imperatoris. Quae res nulli facile privato

satis tuta est. [7, 1] Funus Getae accuratius fuisse dicitur quam eius, qui fratri videretur occisus. [2] Inlatusque est maiorum sepulchro, hoc est Severi, quod est in Appia via euntibus ad portam dextra, specie Septizodii18 extructum, quod sibi ille vivus ornaverat. [3] Occidere voluit et matrem Getae, novercam suam, quod fratrem lugeret, et mulieres, quas post reditum de curia flentes repperit. [4] Fuit praeterea eius inmanitatis Antoninus, ut his praecipue blandiretur, quos ad necem destinabat, ut eius magis blandimentum timeretur quam iracundia. [5] Mirum sane omnibus videbatur, quod mortem Getae totiens etiam ipse fleret, quotiens nominis eius mentio fieret, quotiens imago videretur aut statua. [6] Varietas autem tanta fuit Antonini Bassiani, immo tanta sitis caedis, ut modo fautores Getae, modo inimicos occideret, quos fors obtulisset. Quo facto magis Geta desiderabatur.

[1, 1] So bene, o Costantino Augusto, che molti – e la Tua stessa Grazia – potrebbero sollevare la questione del perché io racconti anche la vita di Antonino Geta. Però, prima di parlare della sua vita e di come fu ucciso, mi soffermerò a spiegare le ragioni per cui suo padre Severo diede anche a lui il nome di Antonino1. [2] Né del resto vi sarebbero molte cose da raccontare sulla sua vita, che fu stroncata prima che egli potesse salire al potere insieme col fratello2. [3] Settimio Severo consultò una volta gli oracoli chiedendo che gli fosse indicato chi sarebbe stato, alla sua morte, il suo successore: gli fu rivelato in sogno che a succedergli sarebbe stato un Antonino. [4] Raggiunse allora immediatamente le truppe e conferì al figlio maggiore Bassiano il nome di Marco Aurelio Antonino. [5] Ma dopo questo primo atto, vuoi per una riflessione dettata da spirito paterno, vuoi perché – come dicono certuni – sua moglie Giulia, che era al corrente del sogno, gli aveva fatto notare che con ciò egli aveva chiuso al figlio minore ogni possibilità di accedere al potere, ordinò che anche Geta, che era appunto il secondogenito, avesse il nome di Antonino; [6] e in questo modo lo chiamò sempre nelle lettere ai familiari, in cui, se si trovava ad essere assente da casa, scriveva: [7] «Saluti agli Antonini miei figli e successori». Ma le precauzioni del padre non valsero a nulla, poiché quello dei due che aveva ricevuto per primo il nome di «Antonino», fu anche l’unico a succedergli al potere. Questo per quanto riguarda il nome di Antonino. [2, 1] Il nome di Geta invece gli venne da quello dello zio3 o del nonno paterno4, sulla vita e i costumi del quale riferisce abbastanza diffusamente Mario Massimo nei primi sette capitoli della sua Vita di Severo. [2] Ma Geta ebbe il nome di Antonino anche per quest’altro motivo, che cioè Severo ebbe in animo di stabilire che tutti i principi da allora in poi, allo stesso modo in cui ricevevano il titolo di Augusti, fossero anche chiamati Antonini, e ciò invero per l’affetto che portava a Marco, del quale parlava sempre come proprio padre, e il cui indirizzo filosofico e letterario si sforzò sempre di seguire. [3] Alcuni invece dicono che una tale deferenza nei confronti del nome di Antonino non era in ossequio a Marco, dato che questi l’aveva ricevuto solo per via di adozione, ma bensì a colui che prese il soprannome di Pio, cioè il successore di Adriano, [4] e ciò evidentemente per il fatto che quegli aveva innalzato Severo dal grado di procuratore forense a quello di avvocato del fisco5, dato che questa nomina da parte di Antonino al primo gradino di autorità, cioè al suo primo ufficio pubblico, era stata di buon auspicio per

aprirgli la via ad una così brillante carriera; [5] un’altra concomitante ragione era che a Severo nessun imperatore pareva rappresentare miglior auspicio onde mutuarne il nome di quello il cui nome originale era stato successivamente già assunto da quattro sovrani6. [6] Sempre a proposito di Geta, si racconta che Severo, venendo a conoscenza dell’oroscopo legato alla sua nascita – si trattava di un’arte nella quale, come la maggior parte degli Africani, era molto esperto – dicesse: [7] «Mi sembra strano, mio carissimo Giovenale7, che il nostro Geta, nel cui oroscopo non vedo alcun segno imperiale, sia destinato a diventare ‘divo’» (Giovenale era il prefetto del pretorio). Né si era ingannato. [8] Dicono infatti che, dopo l’assassinio di Geta, Bassiano, timoroso che il fratricidio gli procurasse la taccia di tiranno, sentendo dire che l’odiosità del suo delitto avrebbe potuto essere mitigata se avesse proclamato la divinizzazione del fratello, ebbe ad esclamare: «Sia divo, purché non sia vivo!». [9] Fu così che lo consacrò tra gli dèi8, e con ciò quel fratricida riacquistò in qualche modo, grazie alla fama di quell’atto, un certo favore. [3, 1] Geta nacque a Milano – quantunque altri riferiscano diversamente9 – sotto il consolato di Severo e Vitellio10, il 27 maggio, da Giulia, che Severo aveva sposato in quanto aveva saputo che secondo l’oroscopo essa sarebbe diventata la moglie di un sovrano, mentre egli era ancora un privato, già però in posizione elevata. [2] Non appena venne al mondo, fu riferito che nella reggia una gallina aveva fatto un uovo color porpora. [3] Non appena fu portato, suo fratello Bassiano lo prese e, come avrebbe fatto appunto un bambino, lo gettò a terra e lo ruppe: al che Giulia, a quanto raccontano, ebbe a dire scherzosamente: «Maledetto assassino, hai ucciso tuo fratello!». Ma per scherzo. [4] Questa frase invece fu da Severo presa più seriamente che non da alcuno dei presenti: e in seguito coloro che ne erano stati testimoni, vi riconobbero un’ispirazione divina. [5] Vi fu anche un altro presagio: nella fattoria di un plebeo di nome Antonino, nello stesso giorno e alla stessa ora in cui era venuto alla luce Geta, nacque un agnello che aveva sulla fronte una striscia di vello purpureo; il padrone, avendo saputo da un aruspice che dopo Severo sarebbe stato un Antonino a regnare, interpretò la profezia come riferita a se stesso, senonché, spaventato da un segno del destino di tale portata, scannò l’agnello. [6] Anche questo fu un presagio che Geta sarebbe stato ucciso da Antonino, come risultò poi chiaro in seguito. [7] Vi fu inoltre un altro presagio – che fu in seguito illuminato dal terribile esito – del delitto che poi di fatto avvenne: [8] durante una festa voluta da Severo per

festeggiare il compleanno del piccolo Geta, la vittima fu uccisa da un sacerdote di nome Antonino. [9] Sul momento del fatto non si cercò ragione né vi si pose particolare attenzione; ma più tardi se ne comprese il significato. [4, 1] Era un giovane di bell’aspetto, di carattere non facile, ma non malvagio, avaro, recalcitrante alle fatiche, goloso, avido di cibo e di vino variamente aromatizzato. [2] Di lui fanciullo viene riferito un episodio degno di nota: nella circostanza in cui Severo, che aveva in animo di eliminare i suoi avversari politici11, ebbe a dire alla presenza dei suoi: «Vi libero dai nemici!», mentre Bassiano si mostrò d’accordo, a tal punto da dire che, se sapeva far bene i suoi interessi, Severo doveva uccidere anche i figli, Geta – a quanto si racconta -chiese quale sarebbe stato il numero delle vittime; [3] saputolo dal padre, domandò ancora: «Costoro hanno genitori, hanno parenti?». Avutane risposta affermativa, esclamò in lacrime: «Dunque vi sarà in città più tristezza che gioia per la nostra vittoria»; [4] e le sue parole avrebbero avuto effetto se il prefetto Plauziano e Giovenale non avessero insistito, nella speranza delle proscrizioni, grazie alle quali in effetti si arricchirono. Costoro trovavano appoggio nella smisurata crudeltà di suo fratello Bassiano. [5] E mentre questi sosteneva le sue idee, affermando un po’ per scherzo e un po’ seriamente che bisognava fare piazza pulita di tutti quelli della fazione avversaria insieme con i loro figli, Geta, a quanto dicono, gli ribatté: «Tu che non hai pietà di nessuno, saresti capace di uccidere anche tuo fratello». Queste sue parole passarono allora inosservate, ma in seguito si rivelarono un vero e proprio presagio. [5, 1] Negli studi letterari era un patito degli scrittori antichi; teneva a mente, inoltre, i detti di suo padre. Fu sempre odiato dal fratello, mentre la madre lo prediligeva rispetto a quest’ultimo. Leggermente balbuziente, aveva però un timbro di voce melodioso. [2] Aveva la passione dei vestiti eleganti, suscitando i commenti scherzosi del padre. Se riceveva qualcosa in regalo dai parenti, la destinava al proprio uso personale, senza dare niente a nessuno. [3] Dopo la guerra partica, quando il padre era all’apice della gloria e aveva già associato all’impero Bassiano, anche Geta ricevette il nome di Cesare e – secondo alcuni – anche quello di Antonino. [4] Aveva l’abitudine di proporre ai suoi maestri di grammatica questioni di questo genere: dire il nome specifico del verso di ogni animale, come per esempio: [5] gli agnelli belano, i maiali grugniscono, le colombe tubano, gli orsi mugghiano, i leoni ruggiscono, i leopardi ringhiano, gli elefanti barriscono, le rane gracidano, i cavalli nitriscono, gli asini ragliano, i tori muggiscono; e cercava le attestazioni di

questi termini negli antichi scrittori. [6] Aveva grandissima familiarità con le opere di Sereno Sammonico, da questo dedicate ad Antonino. [7] Aveva anche questa strana abitudine, di far apprestare, con la collaborazione di servi al corrente dei suoi intenti, dei conviti, e soprattutto dei pranzi in privato, ispirati di volta in volta a una lettera dell’alfabeto, [8] come, ad esempio, uno in cui vi era anser, apruna12, anatra, o, allo stesso modo, pollo, pernice, pavone, porco, pesce, prosciutto, e tutti i tipi di vivanda che cominciavano con quella data lettera; così parimente fagiano, farinata, fichi, e così via: per il che, fin dalla sua adolescenza, era considerato anche un buontempone. [6, 1] Quando fu ucciso13 la parte dell’esercito che non era stato possibile corrompere, apprese la notizia del fratricidio con forte disappunto; tutti dicevano che, come avevano giurato fedeltà ai due figli di Severo, dovevano serbarla ad entrambi; perciò, chiuse le porte, per lungo tempo non lasciarono entrare l’imperatore. [2] Infine, solo quando fu riuscito a placare gli animi dei soldati con accuse nei confronti di Geta e in più con la distribuzione di enormi somme di denaro, Bassiano poté tornare a Roma. [3] Dopo di ciò dunque furono eliminati Papiniano e molti altri che o si erano adoperati per portare concordia tra i due fratelli, o erano stati apertamente partigiani di Geta, di modo tale che uomini appartenenti ad entrambi gli ordini14 venivano trucidati mentre erano nel bagno o a tavola o per strada; Papiniano stesso fu ucciso a colpi di scure, e qui Bassiano riprovò duramente che per l’esecuzione non fosse stata usata la spada. [4] Si arrivò infine ad una rivolta della milizia urbana15, stroncata con notevole fermezza da Bassiano, che fece porre a morte, secondo una versione, o esiliare, secondo un’altra, il loro tribuno16. [5] Egli stesso, comunque, si trovò in grande apprensione, a tal punto che quando entrò nella curia per rendere conto del proprio operato e dell’uccisione di Geta, teneva sotto il laticlavio una corazza. [6] Fu in questa occasione che, a quanto riferiscono, Elvio Pertinace, figlio dell’imperatore omonimo, che successivamente fu ucciso dallo stesso Bassiano, rivolgendosi al pretore che, indirizzando il suo discorso augurale all’imperatore, lo salutava col titolo di «Sarmatico Massimo e Partico Massimo», esclamò: «aggiungi anche ‘Getico Massimo’», come per dire «Gotico»17. [7] Questa battuta ferì profondamente l’animo di Bassiano, come poi fu provato dall’uccisione di Pertinace, e non solo di Pertinace, ma anche – come si è detto in precedenza – di altre persone messe a morte indiscriminatamente e senza processo. [8] Elvio, del resto, lo considerava anche sospetto di aspirare al potere, perché era amato da tutti ed

era figlio dell’imperatore Pertinace; il che costituisce per qualsiasi cittadino privato una situazione non priva di rischi. [7, 1] Si dice che il funerale di Geta sia stato più sfarzoso di quanto non fosse conveniente per uno che appariva essere stato vittima di un fratricidio. [2] Fu sepolto nella tomba di famiglia (quella di Severo), che si trova sulla via Appia, a destra andando verso la porta, e che era stata costruita a guisa di Settizonio18 e abbellita da Severo durante la sua vita. [3] Antonino avrebbe voluto uccidere anche la madre di Geta, sua matrigna, colpevole di piangere il fratello, e altre donne che aveva trovato in lacrime al ritorno dalla Curia. [4] Era inoltre così crudele da mostrarsi particolarmente affabile verso coloro che aveva destinato di uccidere, così che era visto con più timore un suo atto di benevolenza che uno scatto d’ira. [5] Certo appariva a tutti strano che egli si mettesse a piangere per la morte di Geta ogni volta che sentiva pronunziare il suo nome o ne vedeva un’immagine o una statua. [6] Tanto grande fu in Antonino Bassiano l’incostanza, anzi tanta l’insaziabile sete di sangue, che uccideva a casaccio ora i fautori ora gli avversari del fratello; il che rendeva ancor più vivo il rimpianto per Geta.

1. La notizia secondo cui Geta avrebbe portato il nome di Antonino (che ritroviamo anche in 2, 2 e 5, 3, nonché in Sev., 10, 5; 16, 4; 19, 2; 23, 3; Op. Macr., 3, 4; Carac., 8, 3) non compare in altre fonti letterarie, né trova conferma alcuna nelle iscrizioni o nelle monete. Cfr. J. HASEBROEK, Die Fälschung der vita Nigri und vita Albini, Berlin, 1916, Anhang: Analyse der vita Getae, pp. 73 seg.; C. LÉCRIVAIN, Études sur l’HA, Paris, 1904, p. 260. 2. Per l’esattezza Geta, che era stato fatto da Severo coreggente assieme a Caracalla nel 209 d. C., dopo la morte del padre (4 febbraio del 211 d. C.) regnò assieme al fratello. 3. Cfr. Sev., 8, 10, n. 3 e 10, 3; 14, 10. 4. Cfr. Sev., 1, 2. 5. Ufficio istituito da Adriano: cfr. Hadr., 20, 6, n. 5. Scettico sul reale fondamento di questa notizia (che compare anche in AURELIO VITTORE, Caes., 20, 30 e EUTROPIO, VIII, 18, 2) appare A. BIRLEY, Septimius Severus the African Emperor, London, 1971, p. 302. 6. Antonino Pio, Marco Aurelio, Lucio Vero, Commodo. 7. Flavio Giovenale, già prefetto del pretorio sotto Didio Giuliano, e confermato nella carica da Severo; cfr. Sev., 6, 5; Geta, 4, 4. 8. La notizia della divinizzazione di Geta è falsa; siamo invece informati di una damnatio memoriae operata contro di lui (cfr. EUTROPIO, VIII, 19; CASSIO DIONE, LXXVII, 12, 6; ERODIANO, IV, 4, 8), testimoniata anche dalle rasure operate in corrispondenza del suo nome in varie iscrizioni. 9. Stando a quanto detto a Sev., 4, 3, Geta sarebbe nato a Roma. Cfr. A. BIRLEY, Some notes on HA Severus, 1-4, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 73 seg., n. 62. 10. Nel 189 d. C. 11. I partigiani di Clodio Albino: cfr. Sev., 12-13. 12. Anser: oca; apruna: carne di cinghiale. 13. L’assassinio di Geta è narrato nelle sue modalità da CASSIO DIONE (LXXVII, 2, 1 segg.) e ERODIANO (IV, 4, 1 segg.). 14. Senatorio ed equestre. 15. Cfr. Carac., 4, 6, n. 2. 16. In realtà di un «tribuno» alla testa delle cohortes urbanae – sempre peraltro sotto il comando supremo del prefetto dell’Urbe – sembra si possa parlare solo a partire da Aureliano; cfr. A. CHASTAGNOL, La préfecture urbaine à Rome sous le bas-Empire, Paris, 1960, pp. 58, 225. 17. L’arguzia della battuta appare più chiara in Carac., 10, 6. 18. Il passo suscita notevoli perplessità, in quanto sappiamo che Caracalla, così come in precedenza lo stesso Severo e gli Antonini, erano stati sepolti nel mausoleo di Adriano (cfr. Sev., 19, 3 e 24, 2; Carac., 9, 12; Op. Macr., 5, 2; CASSIO DIONE, LXXVI, 15, 4; LXXVIII, 9, 1; LXXVIII, 24, 3); l’accenno al Settizonio (per cui cfr. Sev., 19, 5, n. 4) non appare ben chiaro: il MAGIE (II, p. 44, n. 4) ipotizza una confusione del biografo tra i due edifici.

XV. OPILIUS MACRINUS IULI CAPITOLINI

OPILIO MACRINO di GIULIO CAPITOLINO

[1, 1] Vitae illorum principum seu tyrannorum sive Caesarum, qui non diu imperarunt, in obscuro latent, idcirco quod neque de privata eorum vita digna sunt, quae dicantur, cum omnino ne scirentur quidem, nisi adspirassent ad imperium, et de imperio, quod non diu tenuerunt, non multa dici possunt: nos tamen ex diversis historicis eruta in lucem proferemus, et ea quidem quae memoratu digna erunt. [2] Non enim est quisquam, 〈qui〉 in vita non ad diem quodcumque fecerit. Sed eius qui vitas aliorum scribere orditur, officium est digna cognitione perscribere. [3] Et Iunio quidem Cordo1 studium fuit eorum imperatorum vitas edere, quos obscuriores videbat; qui non multum profecit. [4] Nam et pauca repperit et indigna memoratu adserens se minima quaeque persequuturum, quasi vel de Traiano aut Pio aut Marco sciendum sit, quotiens processerit, quando cibos variaverit et quando vestem mutaverit et quos quando promoverit. [5] Quae ille omnia exsequendo libros mythistoriis replevit talia scribendo, cum omnino rerum vilium aut nulla scribenda sint aut nimis pauca, si tamen ex his mores possint animadverti, qui re vera sciendi sunt, sed ex parte, ut ex ea cetera colligantur. [2, 1] Occiso ergo Antonino Bassiano2 Opilius3 Macrinus, praefectus praetorii eius, qui antea privatas curabat4, imperium arripuit, humili natus loco et animi atque oris inverecundi, seque nunc Severum nunc Antoninum5, cum in odio esset omnium et hominum et militum, nuncupavit [2] statimque ad bellum Parthicum profectus6 et iudicandi de se militibus seu rumoribus, quibus premebatur, adolescendi potestatem demit; [3] quamvis senatus eum imperatorem odio Antonini Bassiani libenter acceperit, cum in senatu omnibus una vox esset: [4] «Quemvis magis quam parricidam, quemvis magis quam incestum, quemvis magis quam inpurum, quemvis magis quam interfectorem et senatus et populi». [5] Et mirum omnibus fortasse videatur, cur Diadumenus7 filius Macrini Antoninus voluerit nuncupari, 〈pater〉 cum auctor necis Antoninianae fuisse dicatur. [3, 1] De ipso, quae in annales relata sint, proferam: vates Caelestis8 apud Carthaginem, quae dea repleta solet vera canere, sub Antonino Pio, cum sciscitanti proconsuli de statu, ut solebat, publico et de suo imperio futura praediceret, ubi ad principes ventum est, clara voce numerari iussit, quotiens diceret Antoninum, tuncque adtonitis omnibus Antonini nomen Augusti octavo edidit. [2] Sed credentibus cunctis, quod octo annis Antoninus Pius

imperaturus esset, et ille transcendit hunc annorum numerum, et constitit apud credentes vel tunc vel postea per vatem aliud designatum. [3] Denique adnumeratis omnibus, qui Antonini appellati sunt, is Antoninorum numerus invenitur. [4] Enimvero Pius primus, Marcus secundus, Verus tertius, Commodus quartus, quintus Caracallus, sextus Geta, septimus Diadumenus, octavus Heliogabalus Antonini fuere. [5] Nec inter Antoninos referendi sunt duo Gordiani, [aut] qui 〈aut〉 praenomen tantum Antoninorum habuerunt aut etiam Antonii dicti sunt, non Antonini9. [6] Inde est quod se et Severus Antoninus vocavit et plurimi fuerunt, et Pertinax et Iulianus et idem Macrinus, [7] et ab ipsis Antoninis, qui veri successores Antonini fuerunt, hoc nomen magis quam proprium retentum est. Haec alii. [8] Sed alii idcirco Antoninum Diadumenum a Macrino patre appellatum ferunt, ut suspicio a Macrino interfecti Antonini militibus tolleretur. [9] Alii vero tantum desiderium nominis huius fuisse dicunt, ut, nisi populus et milites Antonini nomen audirent, imperatorium non putarent10. [4, 1] Et de Macrino quidem in senatu multis, quando nuntiatum est Varium Heliogabalum imperatorem, cum iam Caesarem Alexandrum senatus dixisset11, ea dicta sunt, 〈ut〉 appareat ignobilem, sordidum, spurcum fuisse. [2] Verba denique Aurelii Victoris, cui Pinio12 cognomen erat, haec fuerunt: [3] «Macrinum libertinum, hominem prostibilem, servilibus officiis occupatum in domo imperatoria, venali fide, vita sordida sub Commodo, a Severo remotum etiam a miserrimis officiis relegatumque in Africam, ubi, ut infamiam damnationis tegeret, lectioni operam dedisse, egisse causulas, declamasse, in 〈foro〉 postremo dixisse. [4] Donatum autem anulis aureis13, patrocinante sibi conliberto suo Festo, advocatum fisci14 factum sub Vero Antonino15». [5] Sed et haec dubia ponuntur, et alia dicuntur ab aliis, quae ipsa quoque non tacebimus. Nam plerique gladiatoriam pugnam eum exhibuisse dixerunt et accepta rudi16 ad Africam isse; [6] venatorem primo, post etiam tabellionem fuisse, deinceps advocatum fuisse fisci. Ex quo officio ad amplissima quaeque pervenit. [7] Dein cum esset praefectus praetorii collega ablegato, Antoninum Caracallum imperatorem suum interemit tanta factione, ut ab eo non videretur occisus. [8] Nam stratore eius redempto et spe ingenti proposita id egit, ut quasi militaribus insidiis, quod vel ob parricidium vel [ne] incestum displiceret, interemptum diceretur. [5, 1] Statim denique arripuit imperium filio Diadumeno in participatum adscito, quem continuo, ut diximus, Antoninum appellari a militibus iussit. [2]

Dein corpus Antonini Romam remisit sepulchris maiorum inferendum. [3] Mandavit collegae dudum suo praefecto praetorio17, ut munus suum curaret ac praecipue Antoninum honorabiliter sepeliret ducto funere regio, quod sciebat ob vestimenta populo congiaria data multum Antoninum a plebe dilectum. [4] Adcedebat etiam illud, quod militarem motum timebat, ne eo interveniente suum impediretur imperium, quod raptum ierat, sed quasi invitus acceperat: [5] ut sunt homines, qui ad ea se cogi dicunt, quae vel sceleribus comparant. Timuit autem etiam collegam, ne et ipse imperare cuperet18, sperantibus cunctis, quod, si unius numeri concessus accederet neque ille recusaret, et omnes cupidissime id facerent odio Macrini vel propter vitam probram vel propter ignobilitatem, [6] cum omnes superiores nobiles19 fuissent imperatores. [7] Infulsit praeterea in nomen Severi, cum illius nulla cognatione tangeretur. Unde iocus extitit: «Sic Macrinus est Severus, quo modo Diadumenus Antoninus». Statim tamen ad delendum militum motum stipendium et legionariis et praetorianis dedit solito uberius, [8] utpote qui extenuare cuperet imperatoris occisi crimen. Profuitque pecunia, ut solet, cui innocentia prodesse non poterat; retentus est enim aliquanto tempore20 in imperio homo vitiorum omnium. [9] Ad senatum dein litteras misit de morte Antonini divum illum appellans excusansque se et iurans, quod de caede illius nescierit. Ita sceleri suo more hominum perditorum iunxit periurium, a quo incipere decuit hominem improbum, cum ad senatum scriberet. [6, 1] Interest scire, cuiusmodi oratio fuerit, qua se excusavit, ut et inpudentia hominis noscatur et sacrilegium, a quo initium sumpsit improbus imperator. [2] Capita ex oratione Macrini et Diadumeni imperatorum: «Vellemus, p. c., et incolomi Antonino nostro et revecti cum triumpho vestram clementiam videre. Tunc demum enim florente re p. et omnes felices essemus, et sub eo principe viveremus, quem nobis Antoninorum loco di dederant. [3] Verum quia id evenire per tumultum militarem non potuit, nuntiamus primum, quid de nobis exercitus fecerit, [4] dein honores divinos, quod primum faciendum est, decernimus ei viro, in cuius verba iuravimus, cum exercitus ultorem caedis Bassiani neminem digniorem praefecto eius putavit, cui et ipse utique vindicandam factionem mandasset, si vivus deprehendere potuisset». [5] Et infra: «Detulerunt ad me imperium, cuius ego, p. c., interim tutelam recepi, tenebo regimen, si et vobis placuerit, quod militibus placuit, quibus iam et stipendium dedi et omnia imperatorio more iussi». [6] Item infra: «Diadumenum filium meum vobis notum et imperio miles donavit et

nomine, Antoninum videlicet appellans, ut cohonestetur prius nomine, sic etiam regni honore. [7] Quod vos, p. c., bono faustoque omine adprobetis petimus, ne vobis desit Antoninorum nomen, quod maxime diligitis». [8] Item infra: «Antonino21 autem divinos honores et miles decrevit, et nos decernimus et vos, p. c., ut decernatis, cum possimus imperatorio iure praecipere, tamen rogamus dicantes ei duas statuas equestres, pedestres duas habitu militari, sedentes civili habitu duas, item divo Severo duas triumphales. [9] Quae omnia, p. c., vos impleri iubebitis nobis religiose pro prioribus ambientibus». [7, 1] Lectis igitur in senatu litteris contra opinionem omnium et mortem Antonini senatus gratanter accepit et Opilium Macrinum libertatem publicam curaturum sperans primum in patricios allegit, novum hominem et qui paulo ante procurator privatae22 fuisset. [2] Eundem, cum scriba pontificis esset, quos hodie pontifices minores23 vocant, pontificem maximum appellavit Pii nomine decreto. [3] Diu tamen lectis litteris, cum omnino nemo crederet de Antonini morte, silentium fuit. [4] Sed posteaquam constitit occisum, senatus in eum velut in tyrannum invectus est. Denique statim Macrino et proconsulare imperium et potestatem tribuniciam detulerunt24. [5] Filium sane suum, cum ipse Felicis nomen recepisset, ut suspicionem occisi a se Antonini removeret, Antoninum vocavit, Diadumenum antea dictum. [6] Quod quidem nomen etiam Varius Heliogabalus, qui se Bassiani filium diceret, homo sordidissimus et ex meretrice conceptus, idem postea nomen accepit. [7] Denique versus extant cuiusdam poetae, quibus ostenditur Antonini nomen coepisse a Pio et paulatim per Antoninos usque ad sordes ultimas pervenisse, si quidem solus Marcus nomen illud sanctum vitae genere auxisse videatur, Verus autem degenerasse, Commodus vero etiam polluisse sacrati nominis reverentiam. [8] Iam quid de Caracallo Antonino, quidve de hoc potest dici? Postremo etiam quid de Heliogabalo, qui Antoninorum ultimus in summa inpuritate vixisse memoratur? [8, 1] Appellatus igitur imperator suscepto s. 〈c.〉 contra Parthos profectus est magno apparatu, studens sordes generis et prioris vitae infamiam victoriae magnitudine abolere. [2] Sed conflictu habito contra Parthos25 defectu legionum, quae ad Varium Heliogabalum confugerant, interemptus est. Sed anno amplius imperavit. [3] Sane cum esset inferior in eo bello, quod Antoninus gesserat, Artabane graviter necem suorum civium vindicante, primo Macrinus repugnavit; postea vero missis legatis petit pacem, quam libenti animo interfecto Antonino Parthus concessit26. [4] Inde cum se Antiochiam recepisset ac luxuriae operam

daret, iustam causam interficiendi sui praebuit exercitui ac Bassiani, ut putabatur, filium sequendi, id est Heliogabalum Bassianum Varium, qui postea est et Bassianus et Antoninus [et Antoninus] appellatus. [9, 1] Fuit aliqua mulier Maesa sive Varia27 ex Emisena urbe, soror Iuliae uxoris Severi Pertinacis Afri, quae post mortem Antonini Bassiani ex aulica domo fuerat expulsa per Macrini superbiam; cui quidem omnia concessit Macrinus, quae diu illa collegerat. [2] Huic erant duae filiae, Symiamira28 et Mamaea29, quarum maiori filius erat Heliogabalus [et Bassiani et Antonini nomen accepit]. Nam Heliogabalum Foenices vocant solem30. [3] Sed Heliogabalus pulchritudine ac statura et sacerdotio conspicuus erat ac notus omnibus hominibus, qui ad templum veniebant, militibus31 praecipue. [4] His Maesa sive Varia dixit Bassianum filium esse Antonini, quod paulatim omnibus militibus innotuit. [5] Erat praeterea Maesa ipsa ditissima (ex quo etiam Heliogabalus luxuriosissimus), qua promittente militibus legiones abductae sunt a Macrino. [6] Suscepta enim illa noctu in oppidum cum suis nepos eius Antoninus est appellatus imperii delatis insignibus. [10, 1] Haec ubi sunt Macrino apud Antiochiam posito nuntiata, miratus audaciam muliebrem, simul etiam contemnens, Iulianum32 praefectum ad obsidendos eos cum legionibus misit. [2] Quibus cum Antoninus ostenderetur, miro amore in eum omnibus inclinatis occiso Iuliano praefecto ad eum omnes transierunt. [3] Dein parte exercitus coniuncta venit contra Macrinum Antoninus contra se festinantem, commissoque proelio Macrinus est victus33 proditione militum eius et amore Antonini. Fugiens sane Macrinus cum paucis et filio in vico quodam Bithyniae occisus est cum Diadumeno34, ablatumque eius caput est et ad Antoninum perlatum. [4] Sciendum praeterea, quod Caesar fuisse dicitur, non Augustus Diadumenus puer, quem plerique pari fuisse cum patris imperio tradiderunt. [5] Occisus est etiam filius, cui hoc solum attulit imperium, ut interficeretur a milite. [6] Non enim aliquid dignum in eius vita erit, quod dicatur, praeter hoc quod Antoninorum nomini est velut nothus adpositus. [11, 1] Fuit tamen in vita imperatoria paulo rigidior et austerior sperans se ante acta omnia posse oblivioni dare, cum ipsa severitas illius occasionem reprehendendi et lacerandi eius aperiret. [2] Nam et Severum se et Pertinacem35 voluerat nuncupari, quae duo illi asperitatis nomina videbantur. Et cum illum senatus Pium ac Felicem nuncupasset, Felicis nomen recepit, Pii habere noluit. [3] Unde in eum epigramma non inlautum Graeci cuiusdam

poetae videtur extare, quod Latine hac sententia continetur36: [4] «Histrio iam senior turpis, gravis, asper, iniquus, impius et felix sic simul esse cupit, ut nolit pius esse, velit tamen esse beatus, quod natura negat nec recipit ratio. Nam pius et felix poterit dicique viderique: impius infelix est, [et] erit ille sibi».

[5] Hos versus nescio qui de Latinis iuxta eos, qui Graeci erant propositi, in foro posuit. Quibus acceptis Macrinus his versibus respondisse fertur: [6] «Si talem Graium tetulissent fata poetam, qualis Latinus gabalus37 iste fuit,

nil populus nosset, nil nosset curia, mango nullus scripsisset carmina tetra mihi».

[7] His versibus Macrinus longe peioribus, quam illi Latini sunt, respondisse se credidit, sed non minus risui est habitus quam poeta ille, qui de Graeco Latine coactus est scribere. [12, 1] Fuit igitur superbus et sanguinarius et volens militariter imperare, incusans quin etiam superiorum temporum disciplinam ac solum Severum prae ceteris laudans. [2] Nam et in crucem milites tulit et servilibus suppliciis semper adfecit et, cum seditiones militares pateretur, milites saepius decumavit, aliquando etiam centesimavit38, quod verbum proprium ipsius est, cum se clementem diceret, quando eos centesimaret, qui digni essent decimatione atque vicensimatione. [3] Longum est eius crudelitates omnes aperire, attamen unam ostendam non magnam, ut ipse credebat, sed omnibus tyrannicis inmanitatibus tristiorem. [4] Cum quidam milites ancillam hospitis iam diu pravi pudoris affectassent atque per quendam frumentarium39 ille didicisset, adduci eos iussit interrogavitque, utrum esset factum. [5] Quod cum constitisset, duos boves mirae magnitudinis vivos subito aperiri iussit atque his singulos milites inseri capitibus, ut secum conloqui possent, exertis; itaque poena eos affecit, cum ne adulteris quidem talia apud maiores vel sui temporis essent constituta supplicia. [6] Pugnavit tamen et contra Parthos40 et contra Armenios41 et contra Arabas, quos Eudaemones42 vocant, non minus fortiter quam feliciter. [7] Tribunum, qui excubias deseri passus est, carpento rotali subteradnexum per totum iter vivum atque exanimem traxit. [8] Reddidit etiam Mezentii43 supplicium, quod ille vivos mortuis inligabat et ad mortem cogebat longa tabe confectos. [9] Unde etiam in circo, cum favor publicus in Diadumenum se proseruisset, adclamatum: «Egregius forma iuvenis,

cui pater haud Mezentius esset»44.

[10] Vivos etiam homines parietibus inclusit et struxit. Adulterii reos semper vivos simul incendit iunctis corporibus. Servos, qui dominis fugissent, reppertos ad gladium ludi deputavit. [11] Delatores, si non probarent, capite affecit; si probarent, delato pecuniae praemio infames dimisit. [13, 1] Fuit in iure non incallidus, adeo ut statuisset omnia rescripta45 veterum principum tollere, ut iure, non rescriptis ageretur, nefas esse dicens leges videri Commodi et Caracalli et hominum inperitorum voluntates, cum Traianus numquam libellis responderit, ne ad alias causas facta praeferrentur, quae ad gratiam conposita viderentur. [2] In annonis tribuendis largissimus fuit, in auro parcissimus, [3] in verberandis [uel] aulicis tam inpius, tam pertinax, tam asper, ut servi illum sui non Macrinum dicerent, sed Macellinum, quod macelli specie domus eius cruentaretur sanguine vernularum. [4] Vini cibusque avidissimus, nonnumquam usque ad ebrietatem, sed vespertinis horis. Nam si prandisset vel privatim, parcissimus, in cena effusissimus. [5] Adhibuit convivio litteratos, ut loquens de studiis liberalibus necessario abstemius. [14, 1] Sed cum eius vilitatem homines antiquam cogitarent, crudelitatem miram viderent, hominem putidulum in imperio ferre non possent, et maxime milites, qui multa eius meminerant funestissima et aliquando turpissima, inita factione illum occiderunt cum puero filio Diadumeno, scilicet Antonino cognomine, de quo dictum est, quod in somnis Antoninus fuisset. [2] Unde etiam versus extant huiusmodi46: «Vidimus in somnis, cives, nisi fallor, et istud: Antoninorum nomen puer ille gerebat, qui patre venali genitus sed matre pudica, centum nam moechos passa est centumque rogavit. Ipse etiam calvus moechus fuit47, inde maritus: en Pius, en Marcus, Verus48 nam non fuit ille».

[3] Et isti versus ex Graeco [ex] translati sunt in Latinum, nam Graece sunt disertissimi, videntur autem mihi ab aliquo poeta vulgari translati esse. [4] Quod cum Macrinus audisset, fecit iambos, qui non extant; iucundissimi autem fuisse dicuntur. [5] Qui quidem perierunt in eo tumultu, in quo ipse occisus est, quando et omnia eius a militibus pervastata sunt. [15, 1] Genus mortis, ut diximus, tale fuit: cum in Antoninum Heliogabalum exercitus inclinasset, ille fugit belloque victus est et occisus in suburbano Bithyniae suis partim deditis, partim occisis, partim fugatis. [2] Ita Heliogabalus clarus creditus est, quod videretur patris vindicasse mortem, atque inde in imperium venit, quod dedecoravit vitiis ingentibus, luxurie,

turpitudine, abligurritione, superbia, inmanitate. Qui et ipse similem exitum vitae suae sortitus est. [3] Haec de Macrino nobis sunt cognita multis aliqua variantibus, ut se habet omnis historia. [4] Quae de plurimis collecta serenitati tuae, Diocletiane Auguste, detulimus, quia te cupidum veterum imperatorum esse perspeximus.

[1, 1] Le vite di quegli imperatori o usurpatori o Cesari che non ebbero a regnare a lungo, sono avvolte nell’oscurità, perché, da una parte, riguardo alla loro vita privata, non ci sono notizie degne di essere ricordate, dato che costoro nemmeno sarebbero conosciuti, se non avessero aspirato al potere, dall’altra, per quanto riguarda il loro governo, non si può dire gran che, visto che non lo ressero a lungo; noi tuttavia pubblicheremo le notizie che abbiamo estratto da vari storici, particolarmente quelle che risulteranno degne di menzione. [2] Non v’è infatti alcuno che, nel corso della sua esistenza, non abbia fatto giorno per giorno una qualche cosa. Ma dovere di colui che si accinge a scrivere la biografia di altre persone è di limitarsi a riportare le notizie degne di essere conosciute. [3] Anche Giunio Cordo1, per esempio, si studiò di pubblicare le vite di quegli imperatori che vedeva essere meno conosciuti; ma non approdò a risultati particolarmente felici. [4] Infatti riuscì a raccogliere pochi dati, e per di più non meritevoli di menzione, lui che affermava che intendeva indagare ogni più minuto particolare, come se riguardo a Traiano, o a Pio, o a Marco fosse essenziale sapere quante volte siano usciti di casa, quando abbiano cambiato dieta e quando si siano cambiati d’abito, nonché chi e in quali occasioni abbiano fatto avanzare nella carriera. [5] Andando dietro a tutte queste bazzecole, egli riempì i suoi libri di storia romanzata, riportando appunto tali notizie, mentre per certo dei fatti di poco conto, o non se ne deve scrivere nessuno, o molto pochi, purché da questi ci si possa fare un’idea del carattere, che è realmente da conoscere, ma solo in parte, quanto basta perché di lì si possa ricavare anche il resto. [2, 1] Ucciso dunque che fu Antonino Bassiano2, mise le mani sull’impero Opilio3 Macrino, suo prefetto del pretorio, che in precedenza era stato suo amministratore privato4, uomo di basse origini e turpe di dentro e di fuori, e, quantunque fosse inviso alla totalità tanto del popolo che dell’esercito, si proclamò ora Severo, ora Antonino5; [2] partito poi immediatamente per la guerra contro i Parti6, tolse ai soldati la possibilità di giudicarlo e pose un freno alle dicerie dalle quali era perseguitato; [3] va però detto che il senato, per odio nei confronti di Antonino Bassiano, lo accettò di buon grado come imperatore: nel senato infatti non si udiva che una sola voce unanime: [4] «Chiunque piuttosto che quell’assassino dei suoi congiunti, chiunque piuttosto che quell’incestuoso, chiunque piuttosto che quel sozzo individuo, chiunque piuttosto che quel carnefice del senato e del popolo».

[5] Tutti forse si chiederanno con meraviglia il perché Diadumeno7, il figlio di Macrino, abbia voluto essere chiamato Antonino, mentre si dice che il padre fu responsabile dell’uccisione di un Antonino. [3, 1] Intorno a questo riferirò quanto è riportato nelle fonti storiche: la sacerdotessa di Celeste8 a Cartagine, che, quando è invasata dalla dea, suole predire il vero, interrogata una volta, al tempo di Antonino Pio, dal proconsole sulla situazione dello Stato, com’era d’uso, e sul proprio governo, stava pronunziando i suoi vaticinii: allorché si arrivò a parlare degli imperatori, essa invitò a contare ad alta voce quante volte avrebbe ripetuto il nome di Antonino, e allora, fra l’attenzione generale, pronunciò otto volte il nome di Antonino Augusto. [2] Ma mentre tutti credevano che ciò significasse che Antonino Pio avrebbe regnato per otto anni, questi oltrepassò invece tale numero di anni, e così si radicò in quanti le prestavano fede la convinzione, sia allora sia in seguito, che la sacerdotessa avesse inteso alludere a qualcos’altro. [3] E in realtà, se si conteggiano tutti coloro che furono chiamati Antonini, il numero di Antonini che si ricava è proprio quello. [4] Questi infatti furono gli Antonini: Pio il primo, Marco il secondo, Vero il terzo, Commodo il quarto, il quinto Caracalla, il sesto Geta, il settimo Diadumeno, l’ottavo Eliogabalo. [5] Né tra gli Antonini si debbono computare i due Gordiani, i quali o ebbero solo il prenome di Antonini, o anche furono detti Antonii, non Antonini9. [6] Di qui viene il fatto che Severo assunse il nome di «Antonino», e furono in molti – così Pertinace e Giuliano e lo stesso Macrino –, [7] e che gli Antonini autentici, che furono i veri successori di Antonino, tennero caro questo nome più che il proprio. Così dicono certe fonti. [8] Altri invece riferiscono che Diadumeno fu chiamato Antonino da suo padre Macrino, per allontanare dai soldati il sospetto che ad uccidere Antonino fosse stato appunto Macrino. [9] Altri poi affermano che il rimpianto per questo nome era così vivo che il popolo e i soldati, se non udivano il nome di Antonino, non riconoscevano alcuna dignità imperiale10. [4, 1] Sul conto di Macrino in senato – allorché giunse la notizia che Vario Eliogabalo era il nuovo imperatore, mentre il senato aveva già nominato Cesare Alessandro11 – furono fatte da molti dichiarazioni tali che da esse risulta come egli fosse di origine non nobile, e fosse un individuo volgare e dissoluto. [2] In particolare queste furono le parole di Aurelio Vittore, soprannominato Pinio12: [3] «Macrino, un liberto, che sotto Commodo era stato un uomo pubblicamente prostituito, adibito a mansioni da schiavo a corte, pronto a vendersi, immerso in una vita spregevole, era stato allontanato

da Severo anche dai più bassi servizi e relegato in Africa, dove, per tenere nascosta la vergogna della condanna subita, aveva fatto il lettore pubblico, il patrono di cause di poco conto, il declamatore, aveva insomma svolto attività oratoria nel foro. [4] Aveva poi ricevuto gli anelli d’oro13 grazie all’interessamento del suo collega d’affrancamento Festo ed era stato nominato avvocato del fìsco14 sotto Vero Antonino»15. [5] Però da un lato queste notizie vengono tramandate come incerte e dall’altro ne vengono riferite versioni diverse a seconda delle fonti: neppure di queste noi vogliamo tacere. Molti infatti hanno raccontato che egli fece il gladiatore, e, una volta ricevuta la verga del congedo16, se ne andò in Africa; [6] dapprima combatté nel circo contro le fiere, poi fece pure il notaio, e successivamente fu avvocato del fisco. Da questo incarico prese le mosse per giungere alle cariche più prestigiose. [7] Poi, mentre era prefetto del pretorio, durante un’assenza del collega, uccise il suo imperatore Antonino Caracalla con un’insidia tanto abilmente ordita, da non far apparire che fosse stato ucciso da lui. [8] Infatti, concedendo la libertà allo scudiero dell’imperatore, e facendogli balenare la speranza di grandi ricompense, fece in modo che si dicesse che era stato ucciso come per una cospirazione militare, in quanto era odiato sia per il fratricidio sia per l’incesto. [5, 1] Infine mise senz’altro le mani sul potere imperiale, associandosi come collega il figlio Diadumeno, al quale subito, come dicemmo, fece conferire dai soldati il nome di Antonino. [2] Poi rimandò a Roma la salma di Antonino, onde fosse tumulata nella tomba di famiglia. [3] Diede ordine al prefetto del pretorio17 – sino a poco prima suo collega – di adempiere scrupolosamente al suo ufficio e in particolare di seppellire Antonino con tutti gli onori, allestendo un funerale degno di un sovrano, giacché sapeva che, a motivo delle elargizioni di vestiario concesse al popolo, Antonino era stato molto benvoluto dalla plebe. [4] C’era poi anche il fatto che paventava una sollevazione militare, ché, verificandosi, non avesse a impedirgli di esercitare quel potere che egli aveva arraffato, anche se si era dato l’aria di accettarlo controvoglia: [5] così sono gli uomini, che affermano di essere costretti a cose che in realtà cercano di procurarsi anche col delitto. Egli ebbe timore anche del suo collega, che non aspirasse pure lui a regnare18, dato che tutti speravano che, se si fosse avuta una manifestazione di consenso nei confronti di quello anche da parte di un solo reparto militare, ed egli non l’avesse rifiutata, anche tutti gli altri facessero lo stesso con grande entusiasmo per odio contro Macrino, a motivo della sua vita vergognosa e della sua bassa

origine [6] – mentre tutti i precedenti imperatori erano stati nobili19. [7] Egli poi inserì nel suo nome quello di Severo, quantunque non avesse alcun legame di parentela con questo. Donde nacque il motto: «Macrino è Severo, come Diadumeno è Antonino». Per spegnere comunque il fermento che v’era tra i soldati, pagò subito ai legionari e ai pretoriani uno stipendio più alto del solito, [8] come colui che mirava a soffocare l’accusa di aver ucciso l’imperatore. E, come suole accadere, a colui al quale non poteva giovare l’innocenza, giovò il denaro; infatti poté mantenersi nel potere imperiale per un certo tempo20 un uomo rotto a tutti i vizi. [9] Egli poi inviò al senato una lettera circa la morte di Antonino, attribuendogli il titolo di «divo», giustificandosi e giurando di non aver saputo nulla della sua uccisione. Così, alla maniera degli uomini scellerati, aggiunse al suo delitto lo spergiuro, da cui era naturale che avesse a prendere le mosse un uomo perverso come lui, scrivendo al senato. [6, 1] È interessante conoscere di quale tenore fosse la relazione con la quale presentò le proprie giustificazioni, onde ci si possa rendere conto dell’impudenza di quell’uomo e del sacrilegio da cui prese l’avvio quel tristo imperatore. [2] Passi scelti dalla relazione degli imperatori Macrino e Diadumeno: «Avremmo voluto, o senatori, vedere le Clemenze Vostre con il nostro Antonino sano e salvo e tornando trionfanti. Solo allora infatti, con lo Stato nel suo pieno fulgore, noi tutti saremmo stati felici e saremmo vissuti sotto quel principe che gli dèi ci avevano dato a successore degli Antonini. [3] Ma poiché questo non è potuto avvenire a causa di una sollevazione militare, in primo luogo vi annunziamo che cosa abbia fatto di noi l’esercito, [4] poi – cosa, questa, che è da farsi prima di tutte – decretiamo onori divini a quell’uomo a cui giurammo fedeltà, dal momento che l’esercito ha ritenuto che nessuno sia più degno vendicatore dell’assassinio di Bassiano che il suo prefetto, a cui egli stesso avrebbe in ogni caso demandato la punizione della cospirazione, se l’avesse potuta smascherare da vivo». [5] E più oltre: «Hanno voluto offrire il potere imperiale a me, ed io, o senatori, per il momento ne ho assunto la tutela, e ne terrò l’esercizio, se anche voi approverete quanto hanno deciso i soldati, ai quali ho già pagato lo stipendio, dando loro tutte le altre disposizioni al modo di un imperatore». [6] E ancora, più avanti: «A mio figlio Diadumeno, che voi conoscete, i soldati hanno conferito il potere imperiale ed il nome, chiamandolo cioè Antonino, perché riceva onore, come in primo luogo dal nome, così anche dalla dignità regale. [7] E noi, o senatori, vi chiediamo di approvare coi più favorevoli e fausti auspici queste decisioni,

perché non abbia a mancarvi il nome degli Antonini, che prediligete in massimo grado». [8] E ancora, più oltre: «Ad Antonino21 poi i soldati hanno decretato, e noi pure decretiamo, onori divini: che abbiate a decretarli a vostra volta, o senatori, sebbene potremmo ordinarvelo per diritto di imperatori, tuttavia ve ne preghiamo, dedicandogli anche due statue a cavallo, due a piedi in abito militare, due da seduto in abito borghese, e del pari due trionfali al divo Severo. [9] Tutti questi provvedimenti, o senatori, voi darete disposizione affinché vengano attuati: siamo noi che ve ne preghiamo, ispirati da sentimenti di devozione verso i nostri predecessori». [7, 1] Dopo la lettura in senato di questa lettera, contrariamente all’aspettativa generale, il senato stesso accolse con compiacimento la notizia della morte di Antonino, e, sperando che Opilio Macrino avrebbe difeso la libertà pubblica, per prima cosa lo iscrisse tra i patrizi, per quanto fosse un personaggio privo di lignaggio, e che fino a poco tempo prima era stato amministratore dei beni privati22 dell’imperatore. [2] E, sebbene egli fosse uno scrivano pontificale, di quelli che al giorno d’oggi vengono chiamati «pontefici minori»23, lo nominò pontefice massimo decretandogli il nome di Pio. [3] Invero, appena letta la lettera, poiché proprio nessuno credeva veramente alla morte di Antonino, si ebbe un lungo silenzio. [4] Ma dopo che apparve certo che era stato ucciso, il senato prese ad inveire contro di lui come nei confronti di un tiranno. Infine conferì subito a Macrino l’autorità proconsolare e la potestà tribunizia24. [5] Egli, dopo aver ricevuto il nome di Felice, diede a suo figlio, onde allontanare da sé il sospetto che avesse ucciso Antonino, il nome stesso di Antonino, mentre prima si chiamava Diadumeno. [6] Questo stesso nome poi ebbe ad assumerlo in seguito anche Vario Eliogabalo, che si proclamava figlio di Bassiano, un individuo quanto mai spregevole e nato da una prostituta. [7] A questo proposito si possono ancora leggere i versi di un poeta, in cui si mostra come il nome di Antonino ebbe inizio con Pio e via via passando per i vari Antonini a poco a poco scese ai più bassi livelli, dal momento che il solo Marco appare aver dato prestigio a quel sacro nome con la sua condotta di vita, mentre Vero degenerò da esso, e Commodo poi arrivò addirittura a profanare la riverenza dovuta a quel nome consacrato. [8] E che cosa poi si può dire di Antonino Caracalla, nonché di questo? E infine che cosa di Eliogabalo, che, ultimo degli Antonini, è ricordato aver vissuto nella più completa abiezione? [8, 1] Nominato dunque imperatore, assunto per decreto del senato il

comando della spedizione contro i Parti, partì con grande apparato militare, mirando a cancellare con una grande vittoria l’umiltà delle sue origini e l’infamia della sua vita passata. [2] Ma, dopo uno scontro con i Parti25, a causa della ribellione delle legioni, che erano passate a Vario Eliogabalo, venne ucciso. Ma il suo impero era durato per più di un anno. [3] Pur essendo in condizioni di inferiorità in quella guerra, intrapresa da Antonino, essendo Artabane deciso a vendicare aspramente l’uccisione dei suoi sudditi, in un primo tempo Macrino riuscì a resistere; in seguito però mandò ambasciatori a chiedere la pace, che il re partico, ora che Antonino era stato ucciso, accordò di buon animo26. [4] Ritiratosi poi ad Antiochia e abbandonatosi a una vita di piaceri, offrì all’esercito un giusto motivo per ucciderlo e per passare dalla parte del presunto figlio di Bassiano, cioè Eliogabalo Bassiano Vario, che in seguito venne chiamato e Bassiano e Antonino. [9, 1] V’era una certa Mesa o Varia27 della città di Emesa, sorella di Giulia, moglie di Severo Pertinace l’africano, la quale, dopo la morte di Antonino Bassiano, era stata scacciata dal palazzo imperiale dall’arroganza di Macrino; tuttavia Macrino le lasciò tutte le sostanze che essa aveva accumulato in un lungo periodo. [2] Questa aveva due figlie, Simiamira28 e Mamea29, la maggiore delle quali era madre di Eliogabalo – i Fenici chiamano Eliogabalo il sole30. [3] Eliogabalo, poi, si segnalava per la sua bellezza, la sua statura e la dignità sacerdotale, ed era noto a tutti coloro che frequentavano il tempio, particolarmente ai soldati31. [4] A questi Mesa (o Varia) disse che Bassiano era figlio di Antonino, e questa voce a poco a poco si diffuse tra tutti i soldati. [5] Inoltre Mesa era di suo ricchissima (e anche in conseguenza di ciò Eliogabalo era quanto mai dissoluto), e fu per le promesse che essa fece ai soldati che le legioni si staccarono da Macrino. [6] Infatti, dopo che essa fu accolta di notte in città assieme ai suoi congiunti, suo nipote ricevette il nome di Antonino e gli furono conferite le insegne imperiali. [10, 1] Appena questi avvenimenti furono annunziati a Macrino, che se ne stava ad Antiochia, egli, stupito dell’audacia della donna, e ad un tempo disprezzandola, mandò il prefetto Giuliano32 con le legioni ad assediare i ribelli. [2] Ma quando ai soldati venne mostrato Antonino, essi provarono tutti una grande simpatia nei suoi confronti e, ucciso il prefetto Giuliano, passarono in massa a lui. [3] Poi, riunita così una parte dell’esercito, Antonino marciò contro Macrino che muoveva in gran fretta contro di lui e, attaccata

battaglia, Macrino fu sconfitto33 per il tradimento dei suoi soldati e la simpatia di cui godeva Antonino. Mentre fuggiva con pochi dei suoi e il figlio, Macrino venne ucciso in un villaggio della Bitinia assieme a Diadumeno34, e la sua testa fu spiccata dal corpo e portata ad Antonino. [4] Bisogna inoltre sapere che il ragazzo Diadumeno fu, secondo quanto si dice, Cesare e non Augusto, anche se molti autori hanno riferito che ebbe poteri eguali a quelli del padre. [5] Fu ucciso dunque anche il figlio, al quale il potere imperiale portò il solo privilegio di essere ucciso dai soldati. [6] Non si troverà infatti nella sua vita alcunché degno di essere riferito, se non il fatto di essere stato aggiunto come un bastardo al nome degli Antonini. [11, 1] Nella sua vita da imperatore Macrino fu comunque un po’ troppo rigido e severo, sperando di poter far dimenticare così i suoi trascorsi, mentre la sua stessa severità offriva il destro per criticarlo e attaccarlo. [2] Infatti aveva voluto essere chiamato Severo e Pertinace35, due nomi che gli parevano richiamare l’idea della durezza. E avendogli il senato conferito i nomi di Pio e Felice, accettò quello di Felice, ma rifiutò quello di Pio. [3] Da ciò sembra essere derivato un epigramma – che ancora si conserva – non privo di arguzia, di un poeta greco, che in latino suona così36: [4] «Quel buffone ormai vecchio, sozzo, opprimente, duro, ingiusto, empio e felice vuol essere ad un tempo, sì che non vuol esser pio, però vuol essere felice, ciò che la natura nega né la ragione accetta. Ché si potrà dire e vedere che uno è ‘pio e felice’: l’empio invece è infelice, e quello lo sarà per se stesso».

[5] Uno scrittore latino, non si sa bene chi, affisse questi versi nel foro accanto a quelli che erano stati esposti in greco. Dopo averne presa visione, si dice che Macrino abbia risposto con questi versi: [6] «Se il fato avesse creato un poeta greco tale quale è stato codesto pendaglio da forca37 latino,

niente avrebbe saputo il popolo, niente avrebbe saputo la curia, nessun mascalzone avrebbe composto versi offensivi al mio indirizzo».

[7] Con questi versi, che sono di gran lunga peggiori di quegli altri latini, Macrino credette di aver risposto a tono, ma ebbe ad essere oggetto di risa non meno che il poeta che era stato costretto a tradurre dal greco in latino. [12, 1] Era dunque arrogante, sanguinario e deciso a governare con metodi militareschi, deplorando anzi la poca disciplina dei tempi passati ed elogiando fra tutti gli altri imperatori il solo Severo. [2] Infatti metteva in croce i soldati e infliggeva loro sempre punizioni da schiavi, e, trovandosi a dover fronteggiare ribellioni militari, assai spesso decimò i soldati, talvolta anche li

«centesimò»38, secondo un termine coniato da lui stesso, che si diceva clemente, per il fatto che li centesimava, mentre essi sarebbero stati degni della decimazione e «vicesimazione». [3] Sarebbe troppo lungo ricordare qui tutte le sue crudeltà; tuttavia ne descriverò una non grande, a quanto giudicava lui, ma in realtà più odiosa di tutte le efferatezze proprie dei tiranni. [4] Poiché alcuni soldati avevano insidiato la serva di uno che li ospitava, donna di costumi già da un pezzo corrotti, ed egli era venuto a conoscenza di ciò tramite un suo informatore39, li fece condurre alla sua presenza e chiese loro se il fatto fosse realmente avvenuto. [5] Essendo questo risultato sicuramente provato, diede ordine di squartare all’istante vivi due buoi di eccezionali dimensioni, e di rinchiudere all’interno di essi ciascun soldato, lasciando che sporgesse fuori solo la testa, di modo che potessero parlare tra di loro; e li punì in questo modo, mentre né presso gli antichi né presso i contemporanei erano mai stati comminati supplizi del genere neppure agli adulteri. [6] Combatté comunque contro i Parti40, contro gli Armeni41 e contro gli Arabi detti Felici42, con valore non meno che con successo. [7] Un tribuno che aveva permesso che venissero trascurati i turni di guardia, lo fece legare sotto un carro a ruote e trascinare lungo tutto il percorso, vivo e anche quando era ormai morto. [8] Ripristinò anche il supplizio usato da Mezenzio43, col quale quest’ultimo legava persone vive a cadaveri e le faceva morire consumate da un lento marcire. [9] Da questo poi si spiega come una volta nel circo, essendosi avute manifestazioni di simpatia da parte del popolo nei confronti di Diadumeno, si levò l’acclamazione: «È un giovane di rara bellezza:

magari non avesse per padre un Mezenzio!»44.

[10] Arrivò persino a chiudere e murare vivi degli uomini nelle pareti. I colpevoli di adulterio li faceva sempre bruciare vivi insieme, dopo averne legati insieme i corpi. Gli schiavi fuggiti dai padroni, una volta ripresi, li destinava a combattere come gladiatori. [11] I delatori, se non riuscivano a provare le loro accuse, li metteva a morte; se vi riuscivano, dava loro una ricompensa in denaro e li congedava coperti di infamia. [13, 1] In materia di diritto era un discreto intenditore, tanto che aveva stabilito di abolire tutti i rescritti45 degli imperatori precedenti, affinché le decisioni venissero prese in base al diritto codificato, non ai rescritti, affermando che era un’empietà che fossero considerati alla stregua di leggi i capricci di un Commodo, di un Caracalla, e di altre persone giuridicamente sprovvedute, mentre Traiano non aveva mai dato risposta alle petizioni, onde

non potessero essere invocate come precedenti per altre cause disposizioni che apparivano essere state emesse in via di favore personale. [2] Nel concedere distribuzioni di grano era molto largo, molto parco invece quando si trattava di distribuire oro; [3] nel fustigare i servi di corte era tanto crudele, implacabile, duro, che i suoi servi lo chiamavano non Macrino, ma «Macellino», giacché la sua casa era insanguinata come una macelleria del sangue degli schiavi. [4] Era avidissimo di vino e di cibo, talvolta sino ad ubriacarsi, me solo nelle ore serali. Infatti a pranzo, anche in privato, era molto sobrio, smodato invece a cena. [5] Invitava a banchetto dei letterati pensando che, trovandosi a parlare di argomenti dotti, si sarebbe mantenuto necessariamente sobrio. [14, 1] Ma poiché la gente aveva sempre presente la sua bassa condizione di un tempo, vedeva la sua smisurata crudeltà, e non riusciva a sopportare come imperatore una persona così disgustosa, e questo particolarmente i soldati, che ricordavano molte sue azioni estremamente crudeli e a volte quanto mai vergognose, proprio questi, ordita una cospirazione, lo uccisero assieme al giovane figlio Diadumeno, soprannominato Antonino, del quale si disse che era stato Antonino solo in sogno. [2] In proposito, anzi, ci sono stati conservati questi versi46: «Abbiamo visto in sogno, o cittadini, se non erro, anche questo: il nome degli Antonini portava quel ragazzo, che è nato da un padre che si vende, ma da una madre pudica; infatti cento amanti si è fatta, e a cento ha fatto la corte. Pure lui, il calvo, è stato suo amante47, poi suo marito: ecco il Pio, ecco il Marco: Vero48 però non lo fu mai».

[3] Anche questi versi sono stati tradotti dal greco in latino: in greco però sono molto eleganti, mentre mi sembra siano stati tradotti da un qualche poeta dozzinale. [4] Quando Macrino ne venne a conoscenza, compose dei giambi, che non possediamo; si dice però che fossero molto divertenti. [5] Essi andarono perduti in quella sommossa nel corso della quale egli fu ucciso, allorché i soldati fecero scempio anche di tutto quanto gli apparteneva. [15, 1] La sua morte, come abbiamo detto, avvenne in questo modo: essendo l’esercito passato dalla parte di Antonino Eliogabalo, egli fuggì e venne sconfitto in combattimento e ucciso in un sobborgo della Bitinia, mentre dei suoi parte si arresero, parte furono uccisi e parte messi in fuga. [2] Così Eliogabalo assunse agli occhi di tutti un’aureola di prestigio, in quanto sembrava aver vendicato la morte di suo padre, e grazie a ciò arrivò all’impero, che disonorò con i suoi enormi vizi, il lusso, la sconcezza, la

dissipazione, l’arroganza, la mostruosa crudeltà. Questi fece, lui pure, una fine del genere. [3] Questo è quanto sono venuto a sapere di Macrino: molte fonti variano qualche particolare, come è naturale in ogni ricerca storica. [4] Queste notizie, raccolte da un gran numero di fonti, ho offerte, o Diocleziano Augusto, alla Tua Serenità, giacché ho visto che tu sei desideroso di conoscere gli imperatori del passato.

1. Cfr. Cl. Alb., 5, 10, n. 2. 2. Nell’aprile del 217 d. C. 3. La forma Opilius è quella ricorrente anche in AURELIO VITTORE ed EUTROPIO. Quella corretta, però, attestata nelle monete e nelle iscrizioni, doveva essere Opellius. 4. Era stato cioè procurator rei privatae (cfr. Comm., 20, 1, n. 2 e Sev., 12, 4, n. 2). 5. Il suo nome ufficiale era M. Opellius Severus Macrinus Augustus; non risulta che abbia mai portato anche il nome di Antoninus. 6. Macrino continuò la guerra contro i Parti iniziata da Caracalla e da quest’ultimo condotta sino alla morte (nell’aprile del 217 d. C.: cfr. Carac., 6); nei primi anni del 218 d. C. fu conclusa la pace. 7. Diadumenus è la forma che ritroviamo, oltre che nella HA, anche in AURELIO VITTORE ed EUTROPIO; in CASSIO DIONE ed ERODIANO, COSì come nelle monete e nelle iscrizioni, il figlio di Macrino è chiamato col nome di Diadumeniano. 8. La dea tutelare di Cartagine, Tanith, il cui culto si diffuse, in epoca imperiale, anche a vaste zone dell’impero, col nome di Caelestis Afrorum dea. A parere di T. D. BARNES, The goddes Caelestis in the HA, «Journ. Theol. Stud.», XXI, 1970, pp. 96 segg., le affermazioni che compaiono nel corso della HA in relazione al culto di questa divinità (cfr. anche Pert., 4, 2 e Tyr. trig., 29, 1) sono destituite di fondamento storico. 9. Cfr. Gord., 4, 7. 10. Nel corso dell’impero, particolarmente in epoca tarda, il nome di Antonino assurse a una tale dignità e prestigio da essere considerato – alla pari di quello di Augusto – quale simbolo dell’autorità imperiale. Cfr. in proposito G. TROPEA, Antonini nomen negli ShA, «Riv. St. Ant.», IV, 1889, pp. 233 segg.; E. PASOLI, In ShA, Op. Macr., 3, 6-7 adversaria critica, «Ant. Class.», XXVIII, I959, pp. 236 segg.; W. HARTKE, Römische Kinderkaiser, Berlin, 1951, pp. 123 segg.; 138 segg.; R. SYME, Emperors and Biography, Oxford, 1971, pp. 78 segg. 11. Da ERODIANO, V, 7, 1 sappiamo che fu Eliogabalo ad adottare, nel 221 d. C., il cugino Alessandro conferendogli il titolo di Cesare; questo titolo, quindi, non gli fu conferito dal senato nel 218 d. C. Questa versione deformata, che ricorre ancora in Heliog., 10, 1 e Al. Sev., 1, 2, e compare anche in AURELIO VITTORE, Caes., 23, 3, potrebbe – a parere di T. D. BARNES, Ultimus Antoninorum, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 66 seg. – essere fondamentalmente derivata da Mario Massimo, costituendo una deliberata invenzione messa in giro al tempo del regno di Alessandro Severo. In ogni caso la presenza di essa nella HA e in VITTORE appare facilmente riconducibile alla tendenza fìlosenatoria propria di queste due opere, mirante a sottolineare il ruolo svolto dal senato nell’ascesa dell’ottimo imperatore; cfr. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, II, 2, Bari, 1966, p. 280. 12. Secondo il MAZZARINO, Il pensiero storico cit., II, 2, p. 240, il nostro biografo dipenderebbe qui dal racconto di AURELIO VITTORE (peraltro il giudizio negativo su Macrino e Diadumeno è espresso nell’opera di questo autore assai concisamente: Caes., 22, 3 horum nihil praeter saevos atque inciviles animos interim reperimus) e, per nascondere tale dipendenza (che rivelerebbe evidentemente la mistificazione sulla datazione della biografia), avrebbe trasformato lo storico in un senatore che interviene in senato – esprimendo appunto drastici giudizi su Macrino –, applicandogli quello strano cognomen di Pinius. Per una discussione di questa ipotesi cfr. E. PASOLI nell’ediz. della Vita di Macrino, Bologna, 1968, pp. 78 seg. 13. L’anello d’oro era segno distintivo dell’ordine equestre. 14. Per questa carica cfr. Hadr., 20, 6, n. 5. 15. Non può trattarsi di Lucio Vero, morto nel 169 d. C. allorché Macrino aveva appena cinque anni (era nato infatti, come sappiamo da CASSIO DIONE, LXXVIII, 40, 3, nel 164 d. C.). Può darsi che ci

troviamo di fronte ad un errore nella designazione di un imperatore successivo, quale Commodo o – con la maggiore probabilità dal punto di vista cronologico – Severo. 16. La rudis era una bacchetta, originariamente impiegata negli esercizi di scherma, che veniva consegnata ai gladiatori all’atto del congedo dalla carriera nell’arena. 17. M. Oclatinio Avvento, prefetto del pretorio assieme a Macrino sotto Caracalla (cfr. ERODIANO, IV, 12, 1) e console con lui nel 218 d. C. (cfr. CASSIO DIONE, LXXVIII, 14, 1-4). 18. Sulle ambizioni di Avvento cfr. CASSIO DIONE, LXXVIII, 14, 2-4. Stando a ERODIANO, IV, 14, 1 gli sarebbe stato offerto il titolo imperiale, da lui però rifiutato. 19. Non tutti i precedenti imperatori erano di estrazione nobiliare: tutti però – compreso Pertinace che era figlio di un liberto – avevano fatto parte del senato (per Pertinace cfr. Pert., 2, 5), il che nel caso di Macrino non si era verificato. 20. Dal 6 aprile del 217 d. C. all’8 giugno del 218 d. C. (cfr. CASSIO DIONE, LXXVIII, 37, 3 e 39, 1). 21. Caracalla. 22. Cfr. 2, 1, n. 4. 23. I pontifices minores erano in origine gli inservienti dei pontefici ma, col passar del tempo, avevano costituito un vero e proprio collegio, cui potevano accedere i cavalieri. 24. Ricevette cioè in pratica i pieni poteri in campo militare e civile (cfr. Ant. Pius, 4, 7, n. 1). 25. La battaglia in questione parrebbe essere quella di Nisibis in Mesopotamia, in cui Macrino sarebbe stato sconfìtto (cfr. CASSIO DIONE, LXXVIII, 26,2-27,2). 26. Macrino, stando a CASSIO DIONE (cfr. loc. cit.), avrebbe dato ad Artabane duecento milioni di sesterzi a titolo di indennità. 27. Giulia Mesa, sorella di Giulia Domna, figlia di Bassiano, il sommo sacerdote della divinità solare il cui culto veniva celebrato a Emesa (l’odierna Homs, nella Siria centrale). Non abbiamo altre attestazioni per il presunto nome di Varia. 28. Giulia Soemia Bassiana; sulla sua vita dissoluta e i suoi presunti amori con Caracalla cfr. Heliog., 2, 1 seg. 29. Giulia Mamea, la madre di Alessandro Severo. 30. Cfr. Heliog., 1, 5, n. 3. 31. Si trattava dei soldati della legio III Gallica, di stanza appunto nelle vicinanze di Emesa. 32. Il prefetto del pretorio Ulpio Giuliano. 33. Stando al racconto di CASSIO DIONE (cfr. LXXVIII, 37, 3 e 39, 1), la battaglia ebbe luogo presso un villaggio distante 180 stadi (= 33 km circa) da Antiochia, e Macrino sarebbe fuggito prima della fine del combattimento. 34. Macrino fu catturato nelle vicinanze di Calcedonia sul Bosforo, e ucciso nel corso del viaggio verso Antiochia. Anche il figlio, che egli aveva inviato al re dei Parti, fu catturato lungo la strada ed ucciso (cfr. CASSIO DIONE, LXXVIII, 40, 1). 35. In realtà non risulta che Macrino abbia mai portato questo nome. 36. Anche altrove troviamo nella HA queste presunte traduzioni di originari componimenti in versi greci (cfr. anche Op. Macr., 14, 2 seg., Diad., 7, 3 seg.; Al. Sev., 14, 4; 38, 5 seg.; Maxim., 9, 3 seg.; Tyr. trig., 11, 5 seg.). A parere di B. BALDWIN, Verses in the HA, «Bull. Inst. Class. Stud. Univ. London», XXV, 1978, pp. 50 segg., abbiamo in realtà a che fare con composizioni latine, fatte passare per traduzioni. Non è forse necessariamente detto, peraltro, che si tratti in tutti i casi di invenzioni del biografo (cfr. il caso, in questa stessa vita, di 14, 2, su cui v. n. 2 ad loc.). 37. Gabalus è termine popolare di origine celtica, sinonimo di patibulum, ed equivalente al nostro «forca»: in questo caso, in senso traslato, indica uno degno di esservi appeso, corrispondendo alla nostra espressione «pendaglio da forca». A parere del PASOLI, ediz. cit., p. 84, nell’uso del termine potrebbe qui forse vedersi «un’allusione al nome di Elagabalo, le cui pretese imperiali potevano non essere ignote a Macrino quando questi scrisse la sua pretesa risposta».

38. La procedura punitiva della centesimazione e della vicesimazione appare attestata unicamente nella HA: l’uso normale e conforme alla tradizione militare più antica era quello della decimazione. 39. Cfr. Hadr., 11, 4, n. 1. 40. Nella campagna descritta sopra (cfr. 8, 2, n. 1). 41. Da CASSIO DIONE, LXXVIII, 27, 4 risulta solo che Macrino ebbe a ricevere gli omaggi formali di rito da parte di Tiridate, pretendente al trono d’Armenia, che fu da lui incoronato. 42. Erano chiamati Eudaemones (cioè, in greco, «felici») gli antichi abitanti della parte meridionale della penisola arabica (detta appunto Arabia Felix). Di questa presunta campagna che Macrino avrebbe condotto in tale regione non siamo informati da altre fonti. 43. Il mitico re di Cere in Etruria che combatté, alleato con Turno, contro Enea. Il supplizio di cui qui si parla è ricordato, in relazione a Mezenzio, da VIRGILIO, Aen., VIII, 485-488. 44. Il primo emistichio è tratto da VIRGILIO, Aen., XII, 275, dove l’espressione è usata in riferimento a un giovane Arcade ucciso da Tolumnio. Il secondo è tratto da Aen., VII, 654, dove si parla di Lauso, il figlio di Mezenzio, di indole ben diversa dal padre. 45. Si chiamavano così le risposte scritte che l’imperatore, assistito dai giuristi che costituivano il suo consilium, dava ai quesiti di diritto che gli venivano sottoposti dai magistrati delle province. Essi, anche se, a stretto rigore, non avevano un valore assoluto, finivano in realtà per costituire un precedente di grande autorità, che assumeva la forza vincolante di un vero e proprio ordine. 46. A parere di I. CAZZANIGA, Gli epigrammi contro Diadumeniano e Macrino (H.A.) e la tradizione epigrammatica, «La parola del Passato», XXVII, 1972, pp. 137 segg., l’epigramma qui citato sarebbe autentico dal punto di vista letterario, ma non da quello storico; il biografo l’avrebbe tratto da una silloge retorica di epigrammi indirizzati contro i Severi. 47. L’espressione sembra richiamare un epigramma, riportato da SVETONIO in Iul., 51, recitato dai soldati all’indirizzo di Cesare durante il suo trionfo: urbani, servate uxores: moechum calvom adducimus. 48. Gioco di parole: Verus era il nome di vari appartenenti alla famiglia degli Antonini – cui Macrino avrebbe ambito appartenere –, e ad un tempo poteva essere inteso quale aggettivo col senso di «sincero».

XVI. DIADUMENUS ANTONINUS 〈AELII〉 LAMPRIDII

ANTONINO DIADUMENO di ELIO LAMPRIDIO

[1, 1] Antonini Diadumeni1 pueri, quem cum patre Opilio Macrino imperatorem2 dixit exercitus occiso Bassiano factione Macriniana, nihil habet vita memorabile, nisi quod Antoninus est dictus et quod ei stupenda omina sunt facta imperii non diutini, ut evenit. [2] Nam cum primum innotuit per legiones occisum esse Bassianum, ingens maeror obsedit omnium pectora, quod Antoninum in re p. non haberent, existimantium, quod cum eo Romanum esset imperium periturum. [3] Id ubi Macrino iam imperatori nuntiatum est, veritus, ne in aliquem Antoninorum, qui multi ex affinibus Antonini Pii erant inter duces, exercitus inclinaret, statim contionem parari iussit filiumque suum tunc puerum3 Antoninum appellavit. [4] Contio: «Videtis, conmilitones, et me aetatis iam provectae et Diadumenum puerum, quem diu principem, si di faveant, habebitis. [5] Intellego praeterea desiderium ingens Antoniniani nominis apud vos manere. Quare, quoniam mihi per conditionem fragilitatis humanae non multum superesse videtur ad vitam, hunc puerum Antoninum vobis auctoribus nuncupo diu vobis Antoninum repraesentaturum». Adclamatum: [6] «Macrine imperator, di te servent. Antonine Diadumene, di te servent. Antoninum4 divum omnes rogamus. [7] Iuppiter optime maxime, Macrino et Antonino vitam. Tu scis, Iuppiter, Macrinus vinci non potest. Tu scis, Iuppiter, Antoninus vinci non potest. [8] Antoninum habemus, omnia habemus. Antoninum nobis di dederunt. Patre Antoninus dignus, imperio». [2, 1] Macrinus imperator dixit: «Habete igitur, commilitones, pro imperio aureos ternos, pro Antonini nomine aureos quinos et solitas promotiones sed geminatas. Di facient, ut haec saepius fiant. Dabimus autem per cuncta quinquennia hoc, quod hodie putavimus». [2] Post hoc ipse puerulus Diadumenus Antoninus imperator dixit: «Gratias vobis, commilitones, quod me et imperio donastis et nomine, si quidem dignos et me et patrem meum duxistis, quos imperatores Romanos diceretis et quibus committeretis rem p. [3] Et pater quidem meus curabit, ne desit imperio, ego autem elaborabo, ne desim nomini Antoninorum. Scio enim me Pii, me Marci, me Veri suscepisse nomen, quibus satis facere perdifficile est. [4] Interim tamen causa imperii, causa nominis id omne quod pater et tantundem promitto honoribus, ut et venerandus Macrinus pater praesens promisit, duplicatis». [5] Herodianus Graecus scriptor5 haec praeteriens Diadumenum tantum Caesarem dicit puerum a militibus nuncupatum et cum patre occisum. [6] Hac habita contione statim apud Antiochiam moneta Antonini

Diadumeni nomine percussa est, Macrini usque ad iussum senatus dilata est. [7] Missae etiam ad senatum litterae, quibus nomen Antonini indicatum est. Quare etiam senatus imperium id libenter dicitur recepisse, quamvis alii Antonini Caracalli odio id factum putent. [8] Paraverat sane paenulas populo coloris russei dare Macrinus imperator in honorem Antonini filii sui, quae vocarentur Antoninianae, ut caracallae Bassiani dictae sunt, adserens melius filium suum Paenuleum vel Paenularium6 dicendum, quam Caracallus esset [et] dictus Bassianus. [9] Congiarium etiam per edictum Antoninianum promisit, ut ipsum edictum poterit indicare. [10] Verba edicti: «Vellem, Quirites, iam praesentes essemus: Antoninus vester vobis congiarium sui nominis daret. Incideret praeterea et pueros Antoninianos et puellas Antoninianas7, quae tam grati nominis gloriam propagarent». Et reliqua. [3, 1] His ita gestis signa in castris et vexilla fieri Antoniniana iussit fecitque Bassiani simulacra ex auro atque argento8 atque dies septem supplicatio pro Antonini nomine celebrata est. [2] Puer fuit omnium speciosissimus, statura longiuscula, crine flavo, nigris oculis, naso deducto, ad omnem decorem mento composito, ore {ad} oscula parato, fortis naturaliter, exercitio delicatior. [3] Hic ubi primum indumenta coccea et purpurea ceteraque castrensia imperii insignia accepit, quasi sidereus et caelestis emicuit, ut amaretur ab omnibus gratia venustatis. [4] Haec 〈sunt〉 quae de puero sint dicenda. Nunc veniamus ad omina imperii, quae cum in aliis tum in hoc praecipue sunt stupenda. [4, 1] Die, qua natus est, pater eius purpuras, tunc forte procurator aerarii maioris9, inspexit et quas claras probavit, in id conclave reduci praecepit, in quo post duas horas Diadumenus natus est. [2] Solent deinde pueri pilleo insigniri naturali, quod obstetrices rapiunt et advocatis credulis vendunt, si quidem causidici hoc iuvari dicantur10. [3] At iste puer pilleum non habuit sed diadema tenue, sed ita forte ut rumpi non potuerit, viris inter se tendentibus specie nervi sagittari. [4] Ferunt denique Diadematum puerum appellatum, sed ubi adolevit, avi sui nomine materni Diadumenum vocatum, quamvis non multum abhorruerit ab illo signo Diademati nomen Diadumeni. [5] In agro patris eius oves purpureas duodecim ferunt natas, quarum una tantum varia fuerit. [6] Eadem die, qua hic natus est, aquilam ei constat sensim palumbum regium parvulum attulisse et posuisse in cunis dormienti ac recessisse sine noxa. Pantagathi11 in domo patris eius nidum posuerunt. [5, 1] His diebus, quibus ille natus est, mathematici accepta genitura eius exclamaverunt et ipsum filium imperatoris esse et imperatorem, 〈quasi〉 mater

eius adulterata esset, quod fama retinebat. [2] Huic eidem aquila pilleum in agro ambulanti tulit12 et, cum comitum infantis clamor esset factus, 〈fertur〉 in monumento regio, quod iuxta villam esset, in qua tunc pater agebat, supra statuam regis posuisse ita ut capiti eius aptaret. [3] Quod multi ominosum putarunt et morti adcommodum, clarum autem eventus ostendit. [4] Natus est praeterea natali Antonini13 et ea hora et signis prope concinentibus, quibus et Antoninus Pius; quare dixerunt mathematici et imperatoris illum filium futurum et imperatorem, sed non diu. [5] Die, qua natus est, quod Antonini esset natalis, mulier quaedam propinqua dicitur exclamasse «Antoninus vocetur», sed Macrinus timuisse, quod nullus ex eius genere hoc nomine censeretur, 〈et〉 abstinuisse nomine imperatorio, simul quod iam rumor de vi geniturae illius emanasset. [6] Haec atque alia omina fuisse multi in litteris rettulerunt, sed illud praecipue quod, cum in cunis esset Diadumenus et leo14 ruptis [ruptis] vinculis, ut quidam, ferus effugisset atque ad incunabula eius venisset, puerum delinxit et inviolatum reliquit, cum nutrix se in leonem misisset atque eius morsu adfecta perisset; atque sola forte in areola inventa erat, in qua infans iacebat. [6, 1] Haec sunt quae digna memoratui in Antonino Diadumeno esse videantur. Cuius vitam iunxissem patris gestis15, nisi Antoninorum nomen me ad edendam pueruli specialem expositionem vitae coegisset. [2] Et fuit quidem tam amabile illis temporibus nomen Antoninorum, ut qui eo nomine non niteretur, mereri non videretur imperium. [3] Unde etiam quidam et Severum et Pertinacem et Iulianum Antoninorum praenominibus honorandos putant, unde postea duos Gordianos, patrem et filium, Antoninus cognominatos putant. [4] Sed aliud est cum praenomen adscitur, aliud cum ipsum nomen inponitur. [5] Nam Pius verum nomen Antonini habuit, cognomen Pii, Marcus verum nomen Verissimi habuit, sed hoc sublato atque abolito non praenomen Antonini sed nomen accepit. [6] Verus autem Commodi nomen habuit, quo abolito Antonini non praenomen sed nomen accepit. [7] Commodum autem Marcus Antoninum appellavit atque ita in publicas edidit die natalis sui. [8] Iam Caracallum Bassianum satis constat vel somnii causa, quod Severus viderat, cum sibi Antoninum successorem praedictum sensisset, anno demum tertio decimo Antoninum dixit, quando ei etiam imperatoriam addidisse dicitur potestatem. [9] Getam vero, quem multi Antoninum negant dictum, eadem ratione qua Bassianum appellatum satis constat, ut patri Severo succederet, quod minime factum est. [10] Post hoc ipse Diadumenus ut commendaretur exercitui senatui populoque Romano, {cum} esset ingens

desiderium Bassiani Caracalli, Antoninum appellatum satis constat. [7, 1] Extat epistola Opili Macrini, patris Diadumeni, qua gloriatur non tam se ad imperium pervenisse, qui esset secundus imperii16, quam quod Antoniniani nominis esset pater factus, quo clarius illis temporibus non fuerat vel deorum. [2] Quam epistolam priusquam intexam, libet versus inserere in Commodum dictos, qui se Herculem appellaverat, ut intellegant omnes tam clarum fuisse Antoninorum nomen, ut illi ne [de] deorum nomen commode videretur adiungi. [3] Versus in Commodum Antoninum dicti: «Commodus Herculeum nomen habere cupit, Antoninorum non putat esse bonum, expers humani iuris et imperii, sperans quin etiam clarius esse deum, quam si sit princeps nominis egregii. Non erit iste deus nec tamen ullus homo».

[4] Hi versus a Graeco nescio quo compositi a malo poeta in Latinum translati sunt, quos ego idcirco inserendos putavi, ut scirent omnes Antoninos pluris fuisse quam deos, ac trium principum amore, quo sapientia, bonitas, pietas consecrata sit, in Antonino pietas, in Vero bonitas, in Marco sapientia. [5] Redeo nunc ad epistolam Macrini Opilii: «Opilius Macrinus Noniae Celsae coniugi. Quid boni adepti sumus, mi uxor, caret aestimatione. Et fortassis de imperio me putes dicere – non magnum est istud, quod etiam indignis fortuna concessit, -: [6] Antonini pater factus sum, Antonini mater es facta. O nos beatos, o fortunatam domum, praeclaram laudem nunc demum felicis imperii. [7] Di faxint et bona Iuno, quam colis, ut et ille Antonini meritum effingat, et ego, qui sum pater Antonini, dignus omnibus videar». [8, 1] Hac epistola indicatur, quantum gloriae adeptus sibi videretur, quod vocatus est filius Antoninus. [2] Hic tamen quarto decimo mense imperii ob incivilem patris atque asperum principatum interfectus est17 cum patre, non suo nomine. [3] Quamvis etiam istum ultra aetatem saevisse in plerosque repperiam, ut docent litterae ab hoc eodem ad patrem missae. [4] Nam cum quidam defectionis suspicionem incurrissent et eos Macrinus saevissime punisset filio forte absente atque hic audisset auctores quidem defectionis occisos, 〈conscios〉 tamen, quorum dux Armeniae18 erat et item legatus Asiae atque Arabiae, ob antiquam familiaritatem dimissos, his litteris convenisse patrem dicitur, paribus missis etiam ad matrem, quarum exemplum historiae causa inserendum putavi: [5] «Patri Augusto filius Augustus. Non satis, mi pater,

videris in amore nostro tenuisse tuos mores, qui tyrannidis adfectatae conscios reservasti sperans eos vel amiciores tibi futuros, si his parceres, vel ob antiquam familiaritatem dimittendos: [6] quod nec debuit fieri nec proderit. Nam primum omnium iam te exulcerati suspicionibus amare non possunt. Deinde crudeliores inimici sunt, qui obliti veteris familiaritatis se inimicissimis tuis iunxerunt. Adde quod adhuc exercitus habent. [7] ‘ Si te nulla movet tantarum gloria rerum, Ascanium surgentem et spes heredis Iuli

respice, cui regnum Italiae Romanaque tellus debetur ‘19.

[8] Feriendi sunt isti, si vis esse securus. Nam vitio generis humani alii non sunt defuturi, cui isti servantur». [9] Hanc epistolam quidam ipsius, quidam magistri eius Caeliani ferunt, Afri quondam rhetoris, ex qua apparet, quam asper futurus iuvenis, si vixisset. [9, 1] Extat alia epistola ad matrem ab eodem destinata talis: «Dominus noster et Augustus nec te amat nec ipsum se, qui inimicos suos servat. Age igitur, ut Arabianus et Tuscus et Gellius20 ad palum deligentur, ne, si occasio fuerit, non praetermittant». [2] Et, quantum Lollius Urbicus21 in historia sui temporis dicit, istae litterae per notarium proditae illi puero multum apud milites obfuisse dicuntur. [3] Nam, cum patrem occidissent, quidam hunc servare voluerunt, sed extitit cubicularius, qui has epistolas contioni militum legit. [4] Interfectis igitur ambobus et capitibus pilo circumlatis in Marcum Aurelium Antoninum22 caritate nominis inclinavit exercitus. Is filius Bassiani Caracalli ferebatur. [5] Erat autem templi Heliogabali sacerdos, homo omnium inpurissimus et qui fato quodam Romanum deformarit imperium. [6] De quo quidem, quia multa sunt, loco suo disseram.

[1, 1] La vita del fanciullo Antonino Diadumeno1 creato imperatore2 dai soldati insieme col padre Opilio Macrino, dopo che Bassiano era stato ucciso in seguito alla cospirazione ordita da quest’ultimo, non presenta alcun aspetto degno di ricordo, se non il fatto che egli ebbe il nome di Antonino, e che vi furono straordinari prodigi a preannunciare per lui un impero non lungo, come in effetti si verificò. [2] In effetti, non appena si sparse tra le legioni la notizia che Bassiano era stato ucciso, grande fu lo sconforto che prese gli animi di tutti, al pensiero di non avere più un Antonino a capo dello Stato: ritenevano infatti che, con la fine di quel nome, l’impero romano sarebbe andato alla rovina. [3] Quando ciò fu riferito a Macrino, già divenuto imperatore, costui, temendo che l’esercito volgesse il suo favore a qualcuno degli Antonini parenti di Antonino Pio che vi erano numerosi tra i comandanti, subito ordinò di convocare un’adunata delle truppe e conferì al figlio, ancora bambino3, il nome di Antonino. [4] Questo il suo discorso: «Voi lo vedete bene, commilitoni: io sono in età ormai avanzata, mentre Diadumeno è ancora un fanciullo e, con il favore degli dèi, sarà per lungo tempo il vostro imperatore. [5] Comprendo d’altro canto che è rimasto in voi un grande rimpianto per il nome di Antonino. Perciò, dato che a me, per la fragilità della natura umana, non sembra debba ormai rimanere molto da vivere, voglio dare a questo fanciullo, con la vostra sanzione, il nome di Antonino, perché abbia per lungo tempo a rappresentare ai vostri occhi la presenza al trono di un Antonino». [6] Le acclamazioni dei soldati furono: «Macrino imperatore, che gli dèi ti salvino. Antonino Diadumeno, che gli dèi ti salvino. Tutti chiediamo che Antonino4 sia ‘ divo ’. [7] Giove Ottimo Massimo, concedi lunga vita a Macrino e Antonino. Tu lo sai, o Giove, Macrino non può essere vinto. Tu lo sai, o Giove, Antonino non può essere vinto. [8] Abbiamo un Antonino, abbiamo tutto. Gli dèi ci hanno concesso un Antonino. Antonino è degno di suo padre e dell’impero». [2, 1] Ecco quanto aggiunse l’imperatore Macrino: «Abbiate dunque, o commilitoni, quale compenso per avermi conferito il potere imperiale, tre aurei a testa, e per l’attribuzione del nome di Antonino, cinque aurei, oltre alle usuali promozioni, ma raddoppiate. Gli dèi faranno in modo che questo possa accadere molto spesso. Dal canto nostro, noi continueremo a dare ogni cinque anni ciò che vi abbiamo destinato quest’oggi». [2] Dopo di ciò lo stesso fanciullo Diadumeno Antonino imperatore disse: «Vi ringrazio, commilitoni, del potere imperiale e del nome che mi avete conferito, giacché avete

considerato me e mio padre degni di essere da voi acclamati imperatori romani e di ricevere dalle vostre mani il governo dello Stato. [3] Per parte sua mio padre farà il possibile per non venir meno ai suoi doveri imperiali, mentre io mi impegnerò per essere sempre all’altezza del nome di Antonino. So bene infatti che ho assunto il nome che fu di Pio, di Marco, di Vero, modelli difficilissimi da eguagliare. [4] Per il momento, comunque, per il potere imperiale e il nome che mi avete conferito, vi confermo tutto ciò che vi ha promesso mio padre, e in più vi prometto altrettanto, con le promozioni, secondo quanto vi ha personalmente garantito anche il mio venerando padre Macrino, raddoppiate». [5] Lo scrittore greco Erodiano5, tralasciando tutti questi particolari, dice soltanto che il fanciullo Diadumeno ricevette dai soldati il titolo di Cesare e che fu poi ucciso per mano di essi insieme col padre. [6] Dopo questa assemblea, subito fu coniata ad Antiochia una moneta col nome di Antonino Diadumeno, mentre si rimandò la coniazione di una moneta con il nome di Macrino fino a che non giungesse il benestare del senato. [7] Fu inoltre mandata una lettera al senato in cui si dava notizia del conferimento del nome di Antonino; per questo si dice che anche il senato accolse volentieri la notizia di quell’investitura imperiale, quantunque altri ritengano che ciò avvenne soltanto in odio ad Antonino Caracalla. [8] Macrino, eletto imperatore, aveva stabilito di distribuire al popolo delle mantelline di color rosso in onore di suo figlio Antonino, da chiamarsi «antoniniane», come «caracalle» erano state chiamate le vesti distribuite da Bassiano, affermando che sarebbe risultato più appropriato soprannominare suo figlio Penuleo o Penulario6, di quanto non lo era stato soprannominare Bassiano Caracalla. [9] Attraverso un editto promise, sempre in nome di Antonino, un’elargizione in denaro, come si vedrà dal testo dell’editto stesso, [10] che suona così: «Vorrei, o Quiriti, che potessimo essere già alla vostra presenza: il vostro Antonino vi concederebbe un’elargizione in suo proprio nome, e iscriverebbe fanciulli e fanciulle in collegi di Antoniniani e Antoniniane7, per diffondere la fama di quel nome così caro». E così via. [3, 1] Dopo questi provvedimenti, ordinò che negli accampamenti si ponessero insegne e vessilli col nome di Antonino, e fece costruire statue di Bassiano in oro e argento8; fu inoltre celebrata una solenne cerimonia di ringraziamento per il nome di Antonino, della durata di sette giorni. [2] Diadumeno era un fanciullo di bellezza eccezionale, di statura discreta, biondo di capelli, con gli occhi neri e il naso aquilino, il mento conformato

con ogni grazia, la bocca fatta per i baci; di costituzione forte per natura, ma resa particolarmente elegante dall’esercizio fisico. [3] Non appena indossò gli abiti scarlatti e purpurei e ricevette le altre insegne militari proprie degli imperatori, apparve splendido come una luminosa creatura divina, sì da essere amato da tutti per la sua grazia e bellezza. [4] Questo è quanto vi è da dire al riguardo del fanciullo. Veniamo ora ai prodigi che predissero la sua ascesa all’impero i quali, se anche per altri principi risultarono straordinari, nel suo caso lo furono in maniera particolare. [4, 1] Il giorno della sua nascita il padre, che si trovava allora ad essere amministratore dell’erario maggiore9, si era messo ad esaminare le vesti di porpora, e quelle che gli erano parse più belle, le aveva fatte radunare proprio in quella stanza nella quale, due ore dopo, venne alla luce Diadumeno. [2] Ancora: normalmente i bambini nascono con una specie di involucro naturale sul capo, che le ostetriche tolgono loro e vendono poi agli avvocati superstiziosi, ché vi è la diceria che porti ad essi fortuna10; [3] invece questo neonato non aveva in testa il casco in questione, ma un diadema sottile, tanto resistente, però, che non si riuscì a spezzarlo, benché vari uomini si provassero a tenderlo fra di loro come si fa con la corda di un arco. [4] Narrano che al fanciullo, in seguito a ciò, fu dato nome Diademato ma, non appena fu cresciuto, venne chiamato, dal nome del suo nonno materno, Diadumeno; è vero, comunque, che anche il nome di Diadumeno non mancava di suggerire una relazione con quel segno premonitore del diadema. [5] Si racconta ancora che nel podere di suo padre nacquero dodici pecore di color porpora, delle quali una sola era screziata. [6] Sempre nello stesso giorno in cui nacque, si sa che un’aquila, accostatasi delicatamente alla sua culla portando un piccolo colombo reale, ve lo depose sopra mentre il neonato dormiva, e poi se ne volò via senza fargli alcun male. Inoltre dei pantagati11 fecero il nido nella casa di suo padre. [5, 1] Nei giorni che seguirono immediatamente alla sua nascita gli astrologi, leggendo il suo oroscopo, proclamarono che egli era figlio di un imperatore ed imperatore lui stesso, come se davvero – a conferma delle voci che circolavano su di lei – sua madre fosse stata sedotta da qualcuno. [2] Un’altra volta, mentre stava passeggiando in campagna, un’aquila gli portò via il berretto12 e, tra le grida dei compagni, andò – a quel che dicono – a deporlo, in modo da sistemarvelo proprio sul capo, sopra la statua di un re, che faceva parte di un monumento imperiale sito nei pressi della villa in cui abitava allora suo padre: [3] questo episodio parve a molti carico di cattivi

auspici e presagio di morte, mentre gli eventi successivi lo dimostrarono un preannuncio di gloria. [4] Tra l’altro nacque nello stesso giorno in cui era nato Antonino13, anzi nella stessa ora e quasi sotto la medesima congiunzione astrale; fu per questa ragione che gli astrologi predissero che egli sarebbe stato figlio di un imperatore e imperatore egli stesso, solo, però, per breve tempo. [5] Si dice che il giorno della sua nascita una sua parente, mossa dalla coincidenza con quella di Antonino, abbia esclamato: «Chiamiamolo Antonino!)); ma Macrino fu preso da timore giacché nessuno della sua famiglia si chiamava così, e non volle dargli quel nome da imperatore, anche perché si erano già diffuse delle voci sulla sua nascita illegittima. [6] Sul verificarsi di questo e di altri presagi hanno riferito molti scrittori, ma ve ne è ancora uno particolarmente degno di menzione: mentre Diadumeno era coricato nella sua culla, un leone14 – a quanto dicono certuni – rotte le sue catene, fuggì via inferocito; giunto accanto al giaciglio del fanciullo, si limitò a leccarlo, lasciandolo illeso, mentre la nutrice, scagliatasi contro la belva, ne era stata sbranata: ed era in effetti la sola persona che in quel momento si era venuta a trovare nel piccolo cortile in cui era stato posto a riposare il neonato. [6, 1] Questo è tutto quanto appare degno di menzione nella vita di Antonino Diadumeno; ne avrei anzi unito la trattazione alla biografia del padre15, se la presenza del nome degli Antonini non mi avesse imposto di dedicare alla vita del fanciullo una trattazione distinta. [2] E in effetti il nome degli Antonini fu a quei tempi oggetto di tanto amore, che chi non poteva contare sul prestigio di quel nome, non era considerato degno del potere imperiale; [3] così si spiega anche come certuni reputino che si debba attribuire il prenome di Antonino a Severo, Pertinace e Giuliano, e come ritengano che in seguito i due Gordiani, padre e figlio, abbiano avuto il soprannome di «Antonino». [4] Ma altro è quando viene assunto un prenome, altro quando viene imposto il nome vero e proprio. [5] Per esempio, Pio ebbe Antonino come vero nome, e Pio quale soprannome; il vero nome di Marco era Verissimo, ma poi, messo da parte e cancellato quest’ultimo, egli assunse quello di Antonino, non in qualità di semplice prenome, ma di nome effettivo. [6] Vero dal canto suo ricevette originariamente il nome di Commodo, ma quando quest’ultimo fu annullato, egli pure prese quello di Antonino quale vero nome, non prenome. [7] Quanto a Commodo, fu chiamato Antonino da Marco, che provvide ad iscriverlo con questo nome il giorno della sua nascita nei registri dello stato civile. [8] Di Caracalla Bassiano, poi, si sa ormai con certezza che Severo, indotto specialmente da un sogno che egli stesso aveva

fatto, e che gli aveva rivelato che un Antonino era predestinato ad essere suo successore, lo chiamò Antonino proprio all’entrata del tredicesimo anno d’età, al momento in cui – a quanto si dice -gli conferì anche la dignità imperiale. [9] Si sa poi che anche Geta, che pure molti negano sia stato chiamato Antonino, ebbe quel nome, in base alle stesse considerazioni per cui lo ricevette Bassiano, perché cioè avesse lui pure la possibilità di succedere al padre Severo; il che peraltro non avvenne, [10] Dopo di che, come si sa, fu Diadumeno a ricevere a sua volta il nome di Antonino, affinché potesse risultare ben accetto all’esercito, al senato e al popolo romano, dato che grande era il rimpianto per Bassiano Caracalla. [7, 1] Si conserva una lettera di Opilio Macrino, padre di Diadumeno, nella quale si vanta non tanto di essere assurto all’impero, dato che già prima vi teneva il secondo posto16, quanto di essere diventato padre di uno che portava il nome di Antonino, che a quei tempi era più illustre persino di quello degli dèi. [2] Ma prima di riportare questa lettera, desidero riferire alcuni versi composti contro Commodo, che si era fatto chiamare Ercole, perché tutti possano comprendere che il nome di Antonino godeva di tale prestigio che non sembrava conveniente aggiungervi neppure quello di una divinità. [3] Ecco i versi contro Commodo Antonino: «Commodo vuole per sé il nome di Ercole, quello di Antonino non lo soddisfa, lui che non sa nulla di leggi e di governo, pensando che gli dia più prestigio essere un dio che non un principe dal nome glorioso. Costui non sarà invece un dio, e neppure uno straccio d’uomo».

[4] Questi versi, composti da non so quale autore greco, furono tradotti in latino da un poeta di scarso valore, ma io ho ritenuto di doverli inserire per far capire a tutti come gli Antonini avessero maggior prestigio degli dèi, e questo grazie all’affetto che seppero guadagnarsi tre sovrani, dal quale ricevettero consacrazione le virtù della saggezza, della bontà e della pietà: la pietà nella persona di Antonino, la bontà nella persona di Vero, la saggezza nella persona di Marco. [5] Torniamo ora alla lettera di Opilio Macrino: «Opilio Macrino a sua moglie Nonia Celsa. Il bene che abbiamo conseguito, mia cara consorte, è inestimabile. Tu penserai che io alluda all’impero – ma codesto non è poi un gran dono, visto che la Fortuna l’ha concesso anche a uomini indegni -: [6] è che io sono diventato padre di un Antonino, e tu sei diventata madre di un Antonino. O beati noi, o casa fortunata, o altissimo motivo di gloria per un impero che finalmente ora si preannuncia felice! [7] Concedano gli dèi e la buona Giunone, cui tu sei

devota, che egli sappia imitare le virtù di Antonino e che io, che di un Antonino sono padre, ne appaia degno di fronte a tutti». [8, 1] Da questa lettera si vede chiaramente quale grande onore gli pareva di aver ottenuto per il fatto che il figlio era stato chiamato Antonino. [2] Peraltro Diadumeno, dopo appena 13 mesi di regno, venne ucciso17 insieme al padre, non per sua colpa, ma a causa del governo tirannico e violento di suo padre; [3] anche se, a dire il vero, ho potuto appurare che anche lui ebbe a mostrarsi crudele più di quanto non comportasse la sua età verso molte persone, come dimostra una lettera da lui mandata a suo padre. [4] Fu nell’occasione in cui certuni risultarono sospetti di aver tentato una rivolta, e furono puniti da Macrino con la massima severità; il figlio allora era assente: quando però venne a sapere che, mentre i promotori della ribellione erano stati messi a morte, ai complici, tra cui vi erano anche il governatore militare dell’Armenia18 e i legati dell’Asia e dell’Arabia, era stata concessa la grazia in quanto legati da antica amicizia con Macrino, si rivolse – a quanto dicono -al padre con la seguente lettera, inviandone una di identico tenore anche alla madre, il cui testo ho ritenuto di inserire qui per scrupolo di verità storica: [5] «Il figlio Augusto al padre Augusto. Non mi sembra, padre mio, che tu ti sia comportato in maniera veramente conforme all’affetto che dovresti avere verso di me, salvando i complici di una congiura per il potere, nella erronea convinzione che essi o ti sarebbero stati in futuro più amici, se li avessi risparmiati, o che dovessero essere graziati in nome dell’antica amicizia; [6] questo non si sarebbe dovuto fare, e non servirà a nulla. Infatti in primo luogo, esasperati come sono dai sospetti, non possono ormai nutrire affetto nei tuoi confronti; inoltre coloro che, dimentichi degli antichi legami d’amicizia, si sono uniti ai tuoi più accaniti nemici, costituiscono dei nemici ancor più crudeli. Aggiungi poi che hanno ancora delle truppe. [7] ‘ Se per nulla ti muove la gloria di eventi sì alti, ad Ascanio che cresce, alla speranza di Iulo tuo erede guarda, cui d’Italia il regno e la romana terra son dovuti ’19.

[8] Devi colpire costoro, se vuoi vivere tranquillo; ché, per la malvagità propria della natura umana, chi risparmia codesta gente, altri ne avrà contro in futuro». [9] Questa lettera certuni la attribuiscono a lui stesso, altri a Celiano, suo maestro e un tempo retore in Africa; da essa appare chiaro che carattere crudele avrebbe sviluppato il fanciullo, se fosse vissuto. [9, 1] Esiste un’altra lettera mandata sempre da lui alla madre, che suona

così: «Il nostro Signore e Augusto, salvando i suoi nemici, mostra di non amare né te né se stesso. Cerca dunque di far in modo che Arabiano, Tusco e Gellio20 siano messi al palo, affinché non possano più cogliere alcuna occasione che avesse a presentarsi». [2] E, secondo quanto narra Lollio Urbico21 nella storia del suo tempo, queste lettere, divulgate dal suo segretario, si dice siano risultate fatali al ragazzo procurandogli l’odio dei soldati; [3] infatti, dopo l’uccisione del padre, alcuni avrebbero voluto risparmiarlo, ma si fece avanti un funzionario di corte che lesse di fronte all’esercito radunato le suddette lettere. [4] Così furono uccisi entrambi, e le loro teste vennero portate in giro conficcate su picche: dopo di che i soldati si volsero, attratti dal nome, a Marco Aurelio Antonino22. Costui si diceva fosse figlio di Bassiano Caracalla; [5] era sacerdote del tempio di Eliogabalo, e uomo turpe oltre ogni misura; uno che, strumento di un destino funesto, trascinò nell’infamia l’impero romano. [6] Ma di lui, poiché v’è molto da raccontare, parlerò diffusamente a suo luogo.

1. Per la corretta forma del nome cfr. Op. Macr., 2, 5, n. 3. 2. Nelle monete Diadumeniano ha di regola il titolo di Cesare (una sola volta quello di Augusto). La notizia della sua nomina ad imperatore, riportata anche in Op. Macr., 10, 4, pare ricevere conferma da quanto riferito in CASSIO DIONE, LXXVIII, 34, 2, che cioè Macrino, dopo la rivolta di Emesa, nominò il figlio αὐτοχράτωρ. 3. Diadumeniano era nato nel 208 d. C., e doveva avere a quel tempo solo nove anni. 4. Caracalla; cfr. Nota critica, ad loc. 5. Cfr. ERODIANO, V, 4, 12. 6. Da paenula, un mantello da viaggio (cfr. Hadr., 3, 5, n. 13). 7. Cfr. Ant. Pius, 8, 1, n. 4. 8. CASSIO DIONE riferisce invece che Macrino fece abbattere alcune statue di Caracalla che si trovavano a Roma (cfr. LXXVIII, 19, 2). 9. Non conosciamo un ufficio così denominato; forse si tratta di una dizione non tecnica riferita al procurator thesaurorum, che era appunto responsabile tra l’altro della custodia dei vestiti dell’imperatore. Cfr. O. HIRSCHFELD, Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Diocletian, Berlin, 19052, p. 307, n. 2.

10. Si credeva che tale calotta naturale portasse con sé il dono dell’eloquenza, e costituisse altresì una protezione contro il pericolo di annegamenti; cfr. MAGIE, II, p. 90, n. 1. 11. Uccelli considerati di buon augurio (dal senso che ha in greco il loro nome: «del tutto buono»): sembra fossero simili a beccacce. Cfr. HOHL, I, p. 309 (addendum). 12. Un presagio di questo tipo è descritto anche da LIVIO (I, 38, 8). 13. Il riferimento parrebbe ad Antonino Pio, che era nato il 19 settembre (cfr. Ant. Pius, 1, 8); stando però a CASSIO DIONE, LXXVIII, 20, 1, Diadumeniano sarebbe nato il 14 settembre. 14. Il leone era evidentemente collegato al concetto di maestà imperiale. 15. Sui rapporti fra le Vite di Diadumeniano e Macrino, e le questioni inerenti all’autore, alle fonti, alla cronologia, cfr. R. SYME, The son of the emperor Macrinus, «Phoenix», XXVI, 1972, pp. 275 segg. 16. In quanto prefetto del pretorio. 17. Nel giugno del 218 d. C. 18. La denominazione dux Armeniae non esisteva al tempo in cui questa lettera – evidentemente fittizia – figurerebbe essere stata scritta. I duces, in questa particolare accezione, erano i generali cui era stato affidato il comando degli eserciti di stanza lungo le varie frontiere, e furono istituiti nel secolo III, con le riforme amministrative operate da Diocleziano. Cfr. A. REINTJES, Untersuchungen zu den Beamten bei den ShA, Düsseldorf, 1961, pp. 36 segg. 19. VIRGILIO, Aen., IV, 272-276: sono le parole di rimprovero rivolte da Mercurio ad Enea che, trattenuto a Cartagine dall’amore di Didone, pareva aver dimenticato la sua missione. 20. Questi nomi di partecipanti alla congiura non ci sono altrimenti conosciuti, e sono probabilmente fittizi, al pari della lettera stessa. 21. Altrimenti sconosciuto. 22. Elagabalo.

XVII. ANTONINUS HELIOGABALUS AELI LAMPRIDII

ANTONINO ELIOGABALO di ELIO LAMPRIDIO

[1, 1] Vitam Heliogabali Antonini1, qui Varius2 etiam dictus est, numquam in litteras misissem, ne quis fuisse Romanorum principem sciret, nisi ante Caligulas et Nerones et Vitellios hoc idem habuisset imperium. [2] Sed cum eadem terra et venena ferat et frumentum atque alia salutaria, eadem serpentes et cicures, conpensationem sibi lector diligens faciet, cum legerit Augustum, Traianum, Vespasianum, Hadrianum, Pium, Titum, Marcum contra hos prodigiosos tyrannos. [3] Simul intelleget Romanorum iudicia, quod illi et diu imperarunt et exitu naturali functi sunt, hi vero interfecti, tracti, tyranni etiam appellati, quorum nec nomina libet dicere. [4] Igitur occiso Macrino eiusque filio Diadumeno, qui pari potestate imperii Antonini etiam nomen acceperat, in Varium Heliogabalum imperium conlatum est, idcirco quod Bassiani filius diceretur. [5] Fuit autem Heliogabali vel Iovis vel Solis3 sacerdos atque Antonini sibi nomen adsciverat vel in argumentum generis vel quod id nomen usque adeo carum esse cognoverat gentibus, ut etiam parricida Bassianus causa nominis amaretur. [6] Et hic quidem prius dictus est Varius, post Heliogabalus a sacerdotio dei Heliogabali, cui templum Romae in eo loco constituit, in quo prius aedes Orci4 fuit, quem e Suria secum advexit. [7] Postremo cum accepit imperium, Antoninus appellatus est atque ipse in Romano imperio ultimus Antoninorum fuit. [2, 1] Hic tantum Symiamirae5 matri deditus fuit, ut sine illius voluntate nihil in re p. faceret6, cum ipsa meretricio more vivens in aula omnia turpia exerceret, Antonino autem Caracallo stupro cognita7, ita ut hic vel Varius vel Heliogabalus vulgo conceptus8 putaretur; [2] et aiunt quidem Varii etiam nomen idcirco eodem inditum a condiscipulis, quod vario semine, de meretrice utpote, conceptus videretur. [3] Hic fertur occiso Macrini factione patre, ut dicebatur, Antonino in templum dei Heliogabali confugisse, velut in asylum, ne interficeretur a Macrino, qui saevissime cum fìlio luxurioso et crudeli exercuit imperium. [4] Sed de nomine hactenus, quamvis sanctum illud Antoninorum nomen polluerit, quod tu, Constantine sacratissime, ita veneraris, ut Marcum et Pium inter Constantios Claudiosque, velut maiores tuos, aureos formaveris adoptans virtutes veterum tuis moribus congruentes et tibi amicas caras. [3, 1] Sed ut ad Antoninum Varium revertamur, nanctus imperium Romam nuntios misit; excitatisque omnibus ordinibus, omni etiam populo ad nomen Antoninum, quod non solum titulo, ut in Diadumeno fuerat, sed etiam

in sanguine redditum videbatur, cum se Antonini Bassiani filium scripsisset, ingens eius desiderium factum est. [2] Erat praeterea etiam rumor, qui novis post tyrannos solet donari principibus, qui nisi ex summis virtutibus non permanet et quem multi mediocres principes amiserunt. [3] Denique ubi in senatu lectae sunt litterae Heliogabali, statim fausta in Antoninum9 et dira in Macrinum eiusque filium dicta sunt, appellatusque Antoninus princeps volentibus cunctis et studiose credentibus, ut sese habent vota hominum ad credulitatem festinantium, cum, quod optant, verum esse desiderant. [4] Sed ubi primum ingressus est urbem10, omissis, quae in provincia gerebantur, Heliogabalum in Palatino monte iuxta aedes imperatorias consecravit eique templum fecit11, studens et Matris12 typum et Vestae13 ignem et Palladium14 et ancilia15 et omnia Romanis veneranda in illud transferre templum et id agens, ne quis Romae deus nisi Heliogabalus coleretur16. [5] Dicebat praeterea Iudaeorum et Samaritanorum religiones et Christianam devotionem illuc transferendam, ut omnium culturarum secretum Heliogabali sacerdotium teneret. [4, 1] Deinde ubi primum diem senatus habuit, matrem suam17 in senatum rogari iussit. [2] Quae cum venisset, vocata ad consulum subsellia scribendo adfuit, id est senatus consulti conficiendi testis, solusque omnium imperatorum fuit, sub quo mulier quasi clarissima loco viri senatum ingressa est18. [3] Fecit et in colle Quirinali senaculum, id est mulierum senatum19, in quo ante fuerat conventus matronalis, solemnibus dumtaxat diebus et si umquam aliqua matrona consularis coniugii ornamentis esset donata, quod veteres imperatores adfinibus detulerunt et his maxime, quae nobilitatos maritos non habuerant, ne innobilitatae remanerent20. [4] Sed Symiamira facta sunt senatus consulta ridicula de legibus matronalibus: quae quo vestitu incederet, quae cui cederet, quae ad cuius osculum veniret, quae pilento, quae equo, quae sagmario, quae asino veheretur, quae carpento mulari, quae bovum, quae sella veheretur et utrum pellicia an ossea an eborata an argentata, et quae aurum vel gemmas in calciamentis haberent. [5, 1] Ergo cum hibernasset21 Nicomediae atque omnia sordide ageret inireturque a viris et subigeret, statim milites facti sui paenituit, quod in Macrinum conspiraverant, ut hunc principem facerent, atque in consobrinum eiusdem Heliogabali Alexandrum22, quem Caesarem senatus Macrino interempto appellaverat23, inclinavere animos. [2] Quis enim ferre posset principem [qui] per cuncta cava corporis libidinem recipientem, cum ne

beluam quidem talem quisquam ferat? [3] Romae denique nihil egit aliud, nisi ut emissarios haberet, qui ei bene vasatos perquirerent eosque ad aulam perducerent, ut eorum conditionibus frui posset. [4] Agebat praeterea domi fabulam Paridis ipse Veneris personam subiens, ita ut subito vestes ad pedes defluerent, nudusque una manu ad mammam altera pudendis adhibita ingenicularet posterioribus eminentibus in subactorem reiectis et oppositis. [5] Vultum praeterea eodem, quo Venus pingitur, schemate figurabat corpore toto expolitus eum fructum vitae praecipuum existimans, si dignus atque aptus libidini plurimorum videretur. [6, 1] Vendidit et honores et dignitates et potestates tam per se quam per omnes servos ac libidinum ministros. [2] In senatum legit sine discrimine aetatis, census, generis pecuniae merito, militaribus etiam praeposituris et tribunatibus et legationibus et ducatibus venditis, etiam procurationibus et Palatinis officiis. [3] Aurigas Protogenen et Gordium24 primo in certamine curruli socios, post in omni vita et actu participes habuit. [4] Multos, quorum corpora placuerant, de scena et circo et harena in aulam traduxit. [5] Hieroclen vero sic amavit, ut eidem inguina oscularetur, quod dictu etiam inverecundum est, Floralia sacra25 se adserens celebrare. In virginem Vestalem26 incestum admisit. [6] Sacra p. R. sublatis penetralibus profanavit. [7] Ignem perpetuum extinguere voluit. Nec Romanas tantum extinguere voluit religiones, sed per orbem terrae, unum studens, ut Heliogabalus deus ubique coleretur, et in penum Vestae, quod solae virgines solique pontifices adeunt, inrupit pollutus ipse omni contagione morum cum his, qui se polluerant. [8] Et penetrale sacrum27 est auferre conatus cumque seriam28 quasi veram rapuisset, quamque virgo maxima falso monstraverat atque in ea nihil repperisset, adplosam fregit; nec tamen quicquam religioni dempsit, quia plures similes factae dicuntur esse, ne quis veram umquam possit auferre. [9] Haec cum ita essent, signum tamen, quod Palladium esse credebat, abstulit et auro vinctum in sui dei templo locavit. [7, 1] Matris etiam deum sacra accepit et tauroboliatus29 est, ut typum eriperet et alia sacra, quae penitus habentur condita. [2] Iactavit autem caput inter praecisos fanaticos et genitalia sibi devinxit et omnia fecit, quae Galli30 facere solent, ablatumque sanctum in penetrale dei sui transtulit. [3] Salambonem31 etiam omni planctu et iactatione Syriaci cultus exhibuit omen sibi faciens inminentis exitii. [4] Omnes sane deos sui dei ministros esse aiebat, cum alios eius cubicularios appellaret, alios servos, alios diversarum

rerum ministros. [5] Lapides, qui divi dicuntur32, ex proprio templo, 〈simulacrum〉 Dianae Laodiciae33 ex adyto suo, in quo id Orestes34 posuerat, adferre voluit. [6] Et Orestem quidem ferunt non unum simulacrum Dianae nec uno in loco posuisse, sed multa in multis; [7] posteaquam se apud Tria flumina circa Hebrum35 ex responso purificavit, etiam Orestam condidit civitatem, quam saepe cruentari hominum sanguine necesse est. [8] – Et Orestam36 quidem urbem Hadrianus suo nomini vindicari iussit eo tempore, quo furore coeperat laborare, ex responso, cum ei dictum esset, ut in furiosi alicuius domum vel nomen inreperet; [9] nam ex eo emollitam insaniam ferunt, per quam multos senatores occidi iusserat, quibus servatis Antoninus Pii nomen meruit, [10] quod eos post ad senatum adduxit, quos omnes iussu principis interfectos credebant37. – [8, 1] Caedit et humanas hostias lectis ad hoc pueris nobilibus et decoris per omnem Italiam patrimis et matrimis38, credo ut maior esset utrique parenti dolor. [2] Omne denique magorum genus aderat illi operabaturque cottidie hortante illo et gratias dis agente, quos amicos eorum invenisset, cum inspiceret exta puerilia et excruciaret hostias ad ritum gentilem suum. [3] Cum consulatum inisset, in populum non nummos vel argenteos vel aureos 〈vel〉 bellaria vel minuta animalia, sed boves opimos et camelos et asinos et cervos populo diripiendos abiecit, imperatorium id esse dictitans. [4] Insecutus est famam Macrini crudeliter, sed multo magis Diadumeni, quod Antoninus dictus est, Pseudoantoninum ut Pseudophilippum39 eum appellans, simul quod ex luxuriosissimo extitisse vir fortissimus, optimus, gravissimus, severissimus diceretur. [5] Coegit denique scriptores nonnullos nefanda, immo potius impia de eiusdem [dictum] luxuria disputare, ut in vita eius 〈dictum〉. [6] Lavacrum publicum in aedibus aulicis fecit, simul et Plautiani populo exhibuit, ut ex eo condiciones bene vasatorum hominum colligeret. [7] Idque diligenter curatum est, ut ex tota penitus urbe atque ex nauticis onobeli40 quaererentur; sic eos appellabant, qui viriliores videbantur. [9, 1] Cum Marcomannis bellum inferre vellet, quod Antoninus41 pulcherrime profligarat, dictum est a quibusdam per Chaldaeos42 et magos43 Antoninum Marcum id egisse, ut Marcomanni p. R. semper devoti essent atque amici, idque factum carminibus et consecratione. Cum quaereret, quae illa esset vel ubi esset, suppressum est. [2] Constabat enim illum ob hoc consecrationem quaerere, ut eam dissiparet spe belli concitandi, et idcirco

maxime quod audierat responsum fuisse ab Antonino bellum Marcomannicum finiendum, cum hic Varius et Heliogabalus et ludibrium publicum diceretur, nomen autem Antonini pollueret, in quod invaserat. [3] Prodebatur autem per eos maxime, qui dolebant sibi homines ad exercendas libidines bene vasatos et maioris peculii opponi. Unde etiam de nece eius cogitari coepit. Et haec quidem domi. [10, 1] Sed milites pestem illam imperatoris velari nomine pati nequierunt ac primum inter sese dein per coronas iecere sermones, in Alexandrum omnes inclinantes, qui iam Caesar erat a senatu eo tempore, consobrinus huius Antonini, nam Varia una is erat avia, unde Hsseliogabalus Varius dicebatur. [2] Zoticus44 sub eo tantum valuit, ut ab omnibus offìciorum principibus45 sic haberetur quasi domini maritus. [3] Erat praeterea idem Zoticus, qui hoc familiaritatis genere abutens omnia Heliogabali dicta et facta venderet fumis quam maxime divitias enormes parans, cum aliis minaretur, aliis polliceretur, omnes falleret egrediensque ab illo singulos adiret dicens: «De te hoc locutus sum, de te hoc audivi, de te hoc futurum est». [4] Ut sunt homines huius modi, qui, si admissi fuerint ad nimiam familiaritatem principum, famam non solum malorum sed et bonorum principum vendunt et qui stultitia vel innocentia imperatorum, qui hoc non perspiciunt, infami rumigeratione pascuntur. [5] Nubsit et co〈it cum illo〉 ita, ut et pronubam46 haberet clamaretque «Concide Magire»47, et eo quidem tempore quo Zoticus aegrotabat. [6] Quaerebat deinde a philosophis et gravissimis viris, an et ipsi in adulescentia perpessi essent, quae ipse pateretur, 〈et〉 quidem inpudentissime; [7] neque enim umquam verbis pepercit infamibus, cum et digitis inpudicitiam ostentaret, nec ullus in conventu et audiente populo esset pudor. [11, 1] Fecit libertos praesides, legatos, consules, duces omnesque dignitates polluit ignobilitate hominum perditorum. [2] Cum ad vindemias vocasset amicos nobiles48 et ad corbes sedisset, gravissimum quemque percontari coepit, an promtus esset in venerem, erubescentibusque senibus exclamabat: «Erubuit, salva res est»49, silentium ac ruborem pro consensu ducens. [3] Addidit praeterea ipse quae faceret, sine ullius pudoris velamento. [4] Postquam senes vidit erubescere ac tacere, vel quia aetas vel quia dignitas talia refutabat, contulit se ad iuvenes et ab his coepit omnia exquirere. [5] A quibus cum audiret aetati congrua, gaudere coepit, dicere vere liberam50 vindemiam esse, quam sic celebraret. [6] Ferunt multi ab ipso primum repertum, ut in vindemiarum festivo multa in dominos iocularia et audientibus dominis dicerentur, quae ipse conposuerat, et Graeca maxime.

Horum pleraque Marius Maximus dicit in vita ipsius Heliogabali. [7] Erant amici inprobi et senes quidam et specie philosophi, qui caput reticulo componerent, qui inproba quaedam pati se dicerent, qui maritos se habere iactarent. Quos quidam fìnxisse dicunt, ut illi fierent vitiorum imitatione cariores. [12, 1] Ad praefecturam praetorii saltatorem51, qui histrionicam Romae fecerat, adscivit, praefectum vigilum52 Gordium53 aurigam fecit, praefectum annonae Claudium tonsorem. [2] Ad honores reliquos promovit commendatos sibi pudibilium inorera mitate membrorum. Ad vicensimam hereditatium54 mulionem curare iussit, iussit et cursorem, iussit et cocum et claustrarium artificem. [3] Cum ingressus est vel castra vel curiam aviam suam Variam nomine, de qua superius dictum est, secum induxit, ut eius auctoritate honestior fieret, quia per se non poterat: nec ante eum, quod iam diximus55, senatum mulier ingressa est ita, ut ad scribendum rogaretur et sententiam diceret. [4] In conviviis exsoletos maxime iuxta se ponebat eorumque adtrectatione et tactu praecipue gaudebat, nec quisquam ei magis poculum, cum bibisset, dabat. [13, 1] Inter haec mala vitae inpudicissimae Alexandrum, quem sibi adoptaverat, a se amoveri iussit, dicens se paenitere adoptionis, mandavitque ad senatum, ut Caesaris ei nomen abrogaretur. [2] Sed in senatu hoc prodito ingens silentium fuit; si quidem erat optimus iuvenis Alexander, ut postea conpro-batum genere imperii eius, cum ideo displiceret patri, quod inpudicus non esset. [3] Erat autem eidem consobrinus, ut quidam dicunt; a militibus et amabatur et senatui acceptus erat et equestri ordini. [4] Nec defuit tamen furor usque ad exitium voti pessimi. Nam ei percussores inmisit, et hoc quidem modo: [5] ipse secessit ad hortos Spei veteris56, quasi contra nocuum iuvenem vota concipiens, relicta in Palatio matre et avia et consobrino suo iussitque, ut trucidaretur iuvenis optimus et rei p. necessarius; [6] misit et ad milites litteras, quibus iussit, ut abrogaretur nomen Caesaris Alexandro; [7] misit qui et in castris statuarum eius titulos luto tegeret, ut fieri solet de tyrannis; [8] misit et ad nutritores eius, quibus imperavit sub praemiorum spe atque bonorum, ut eum occiderent quo vellent modo, vel in balneis vel veneno vel ferro. [14, 1] Sed nihil agunt improbi contra innocentes. Nam nulla vi quis adduci potuit, ut tantum facinus impleret, cum in ipsum magis conversa sint tela, quae parabat aliis, ab hisque interfectus, quibus alios adpetebat. [2] Sed ubi primum lutati sunt tituli statuarum, milites omnes exarserunt,

et pars in Palatium, pars in hortos, in quibus erat Varius, ire tendunt, ut Alexandrum vindicarent hominemque inpurum eundemque parricidalis animi tandem a re p. depellerent. [3] Et cum in Palatium venissent, Alexandrum cum matre atque avia custoditum diligentissime postea in castra duxerunt. [4] Secuta autem erat illos Symiamira mater Heliogabali pedibus, sollicita filio. [5] Inde itum est in hortos, ubi Varius invenitur certamen aurigandi parans, exspectans tamen intentissime, quando eidem nuntiaretur consobrinus occisus. [6] Qui subito militum strepitu exterritus in angulum se condit obiectuque veli cubicularis, quod in introitu erat cubiculi, se texit, [7] missis praefectis alio ad conpescendos milites in castra, alio vero ad eos placandos, qui iam in hortos venissent. [8] Antiochianus igitur e praefectis unus milites, qui in hortos venerant, sacramenti admonitione exoravit, ne illum occiderent, quia nec multi venerant et plerique cum vexillo, quod Aristomachus tribunus retinuerat, remanserant. Haec in hortis. [15, 1] In castris vero milites precanti praefecto dixerunt se parsuros esse Heliogabalo, si et inpuros homines et aurigas et histriones a se dimoveret atque ad bonam frugem rediret his maxime summotis, qui cum omnium dolore apud eum plurimum poterant et qui omnia eius vendebant vel veritate vel fumis. [2] Remoti sunt denique ab eo Hierocles, Gordius et Myrismus et duo improbi familiares, qui eum ex stulto stultiorem faciebant. [3] Mandatum praeterea a militibus praefectis, ne paterentur illum ita diutius vivere et ut Alexander custodiretur nevel illi aliqua vis adferretur, simul ne Caesar quempiam amicum Augusti videret, ne ulla fieret imitatio turpitudinis. [4] Sed Heliogabalus et ingenti prece Hieroclem reposcebat inpudicissimum hominem et insidias in dies Caesaris propagabat. [5] Denique kal. Ianuariis57, cum simul tum designati essent consules, noluit cum consobrino procedere58. [6] Ad extremum cum ei avia et mater dicerent inminere milites ad eius exitium, nisi concordiam viderent inter se consobrinorum, sumpta praetexta hora diei sexta processit ad senatum avia sua ad senatum vocata et ad sellam perducta. [7] Deinde in Capitolium ad vota concipienda et perfìcienda solemnia ire noluit, omniaque per pr(aetorem) urbanum facta sunt, quasi consules illic non essent. [16, 1] Nec distulit caedem consobrini, sed timens, {ne} senatus ad aliquem se inclinaret, si ille consobrinum occidisset, iussit subito senatum urbe decedere. Omnesque, quibus aut vehicula aut servi deerant, subito proficisci iussi sunt, cum alii per baiulos, alii per fortuita animalia et mercede conducta veherentur. [2] Sabinum59 consularem virum, ad quem libros Ulpianus scripsit60, quod in urbe remansisset, vocato centurione mollioribus verbis

iussit occidi. [3] Sed centurio aure surdiori imperari sibi credidit, ut urbe pelleretur, itaque fecit. Sic vitium centurionis Sabino saluti fuit. [4] Removit et Ulpianum61 iuris consultum ut bonum virum et Silvinum rhetorem, quem magistrum Caesaris fecerat. Et Silvinus quidem occisus est, Ulpianus vero reservatus. [5] Sed milites et maxime praetorianus, vel scientes, qui mala in Heliogabalum pararant, vel quod sibi viderent invidiam… factaque conspiratione ad liberandam rem p. primum conscii… genere mortis, cum alios genitalibus exemptis necarent, alios ab ima parte perfoderent, ut mors esset vitae consentiens. [17, 1] Post hoc in eum impetus factus est atque in latrina, ad quam confugerat, occisus62. Tractus deinde per publicum. Addita iniuria cadaveri est, ut id in cloacam milites mitterent. [2] Sed cum non cepisset cloaca fortuito, per pontem Aemilium63 adnexo pondere, ne fluitaret, in Tiberim abiectum est, ne umquam sepeliri posset. [3] Tractum est cadaver eius etiam per circi spatia, priusquam in Tiberim praecipitaretur. [4] Nomen eius, id est Antonini, erasum est senatu iubente remansitque Varii Heliogabali, si quidem illud adfectato retinuerat, cum vult videri filius Antonini. [5] Appellatus est post mortem Tiberinus et Tractatitius64 et Inpurus et multa, si quando ea erant designanda, quae sub eo facta videbantur. [6] Solusque omnium principum et tractus est et in cloacam missus et in Tiberim praecipitatus. [7] Quod odio communi omnium contigit, a quo speciatim cavere debent imperatores, si quidem nec sepulchra mereantur, qui amorem senatus populi ac militum non merentur. [8] Opera publica ipsius praeter aedem Heliogabali dei, quem Solem alii, alii Iovem dicunt, et amphitheatri65 instaurationem post exustionem et lavacrum in vico Sulpicio, quod Antoninus Severi filius coeperat, nulla extant. [9] Et lavacrum quidem Antonini Caracallus dedicaverat66 et lavando et populum admittendo, sed porticus defuerant, quae postea ab hoc subditivo Antonino extructae sunt, ab Alexandro perfectae. [18, 1] Hic ultimus Antoninorum fuit (quamvis cognomine postea Gordianos multi Antoninos putent, qui Antonii dicti sunt, non Antonini) vita, moribus, improbitate ita odibilis, ut eius senatus et nomen eraserit. [2] Quem nec ego Antoninum vocassem nisi causa cognitionis, quae cogit plerumque dici ea etiam nomina, quae sunt abolita. Occisa est cum eo et mater Symiamira67, probrosissima mulier et digna filio. [3] Cautumque ante omnia post Antoninum Heliogabalum, ne umquam

mulier senatum ingrederetur utique inferis eius caput dicaretur devovereturque, per quem id esset factum. [4] De huius vita multa in litteras missa sunt obscaena, quae quia digna memoratu non sunt, ea prodenda censui, quae ad luxuriam pertinebant, quorum aliqua privatus, aliqua iam imperator fecisse perhibetur, cum ipse privatus diceret se Apicium68, imperatorem vero 〈Neronem〉, Othonem et Vitellium imitari. [19, 1] Nam primus omnium privatorum toros aureis toralibus texit, quia tunc ex Antonini Marci auctoritate id fieri licebat, qui omnem apparatum imperatorium publice vendiderat69. [2] Deinde aestiva convivia coloribus exhibuit, ut hodie prasinum, vitreum alia die, venetum et deinceps exhiberet, semper varie per dies omnes aestivos. [3] Primus deinde authepsas argenteas habuit, primus etiam caccabos, vasa deinde centenaria argentea scalpta et nonnulla schematibus libidinosissimis inquinata. [4] Et mastichatum70 et puleiatum71 et omnia haec, quae nunc luxuria retinet, primus invenit. [5] Nam rosatum ab aliis acceptum pinearum etiam adtritione odoratius reddidit. Denique haec genera poculorum ante Heliogabalum non leguntur. [6] Nec erat ei ulla vita nisi exquirere novas voluptates. Primus fecit de piscibus isicia, primus de ostreis et lithostreis et aliis huiusmodi marinis conchis et lucustis et cammaris et scillis72. [7] Stravit et triclinia de rosa et lectos et porticus ac sic ea deambulavit, idque omni florum genere, liliis, violis, hyacinthis et narcissis. [8] Hic non nisi unguento nobili aut croco piscinis infectis natavit. [9] Nec cubuit in accubitis facile nisi his, quae pilum leporinum haberent aut plumas perdicum subalares, saepe culcitas mutans. [20, 1] Senatum nonnumquam ita contempsit, ut mancipia togata appellaret, p. R. unius fundi cultorem, equestrem ordinem in nullo loco habens. [2] Praefectum urbicum saepe post cenam ad potandum vocabat adhibitis et praefectis praetorio, ita ut, si recusarent, magistri officiorum eos cogerent. [3] Voluit et per singulas urbis regiones praefectos urbi facere [et], ut essent in urbe quattuordecim73. Et fecisset, si vixisset, promoturus omnes turpissimos et ultimae professionis homines. [4] Hic solido argento factos habuit lectos et tricliniares et cubiculares. [5] Comedit saepius ad imitationem Apicii calcanea camelorum et cristas vivis gallinaceis demptas, linguas pavonum et lusciniarum, quod qui ederet a pestilentia tutus diceretur. [6] Exhibuit et Palatinis 〈patinas〉 ingentes extis mullorum refertas et cerebellis foenicopterum et perdicum ovis et cerebellis turdorum et capitibus psittacorum et fasianorum et pavonum. [7] Barbas sane

mullorum tantas iubebat exhiberi, ut pro nasturtiis74, apiasteris et faselaribus et feno Graeco exhiberet plenis fabatariis et discis. Quod praecipue stupendum est. [21, 1] Canes iecineribus anserum pavit. Habuit leones et leopardos exarmatos in deliciis, quos edoctos per mansuetarios subito ad secundam et tertiam mensam iubebat accumbere ignorantibus cunctis, quod exarmati essent, ad pavorem ridiculum excitandum. [2] Misit et uvas Apamenas75 in praesepia equis suis et psittacis atque fasianis leones pavit et alia animalia. [3] Exhibuit et sumina apruna per dies decem tricena cottidie cum suis vulvis, pisum cum aureis, lentem cum cerauniis76, fabam cum electris, orizam cum albis exhibens. [4] Albas praeterea in vicem piperis piscibus et tuberibus conspersit. [5] Oppressit in tricliniis versatilibus parasitos suos violis et floribus77, sic ut animam aliqui efflaverint, cum erepere ad summum non possent. [6] Condito piscinas et solia temperavit et rosato atque absentato. Vulgum ab bibendum invitavit et ipse cum populo tantum bibit, ut in piscina eum bibisse intellegeretur, viso quod unus bibisset. [7] Eunuchos pro apophoretis dedit, dedit quadrigas, equos stratos, mulos, basternas et redas, dedit et aureos millenos et centena pondo argenti. [22, 1] Sortes sane convivales scriptas in coclearibus habuit tales, ut alius exiret «decem camelos», alius «decem muscas», alius «decem libras auri», alius «decem plumbi», alius «decem strutiones», alius «decem ova pullina», ut vere sortes essent et fata temptarentur. [2] Quod quidem et ludis suis exhibuit, cum et ursos decem et decem glires et decem lactucas et decem auri libras in sorte habuit. [3] Primusque hunc morem sortis instituit, quem nunc videmus. Sed vere ad sortem scaenicos vocavit, cum et canes mortuos et libram bubulae carnis haberet in sorte et item centum aureos et mille argenteos et centum folles aeris78 et alia talia. [4] Quae populus tam libenter accepit, ut eum postea imperare gratularentur. [23, 1] Fertur in euripis79 vino plenis navales circenses exhibuisse, pallia de oenanthio fudisse et elefantorum quattuor quadrigas in Vaticano agitasse dirutis sepulchris, quae obsistebant, iunxisse etiam camelos quaternos ad currus in circo privato spectaculo. [2] Serpentes per Marsicae80 gentis sacerdotes collegisse fertur eosque subito ante lucem, ut solet populus ad ludos celebres convenire, effudisse, multosque adflictos morsu et fuga. [3] Usus est aurea omni tunica, usus et purpurea, usus et de gemmis Persica, cum gravari

se diceret onere voluptatis81. [4] Habuit et in calciamentis gemmas, et quidem scalptas. Quod risum omnibus movit, quasi possent scalpturae nobilium artifìcum videri in gemmis, quae pedibus adhaerebant. [5] Voluit uti et diademate gemmato, qui pulchrior fieret et magis ad feminarum vultum aptus. Quo et usus est domi. [6] Fertur et promisisse foenicem82 convivis vel pro eo libras auri mille, ut imperatorie eos dimitteret. [7] Marinae aquae colymbos exhibuit, in mediterraneis locis maxime, eosdemque singulis amicis natantibus dimisit et iterum cum piscibus implevit. [8] Montem nivium in virdiario domus aestate fecit advectis nivibus. Ad mare piscem numquam comedit, in longissimis a mari locis omnia marina semper exhibuit. Murenarum lactibus et luporum in locis mediterraneis rusticos pavit. [24, 1] Pisces semper quasi in marina acqua cum colore suo coctos conditura veneta comedit. Momentarias de rosato et rosis piscinas exhibuit et lavit cum omnibus suis caldarias de nardo exhibens. Idem in lucernis balsamum exhibuit. [2] Idem mulieres numquam iteravit praeter uxorem. Lupanaria domi amicis, clientibus et servis exhibuit. [3] Idem numquam minus centum sestertiis cenavit, hoc est argenti libris triginta83; aliquando autem tribus milibus sestertiis cenavit omnibus supputatis, quae inpendit. [4] Cenas vero et Vitellii et Apicii vicit84. Pisces e vivariis suis bubus traxit85. Per macellum transiens mendicitatem publicam flevit. [5] Parasitos ad rotam aquariam ligabat et cum vertigine sub aquas mittebat rursusque in summum revolvebat eosque Ixionios86 amicos vocavit. [6] Stravit et saxis Lacedaemoniis87 ac porphyreticis plateas in Palatio, quas Antoninianas vocavit. Quae saxa usque ad nostram memoriam manserunt, sed nuper eruta 〈et〉 exsecta sunt. [7] Constituerat et columnam unam dare ingentem, ad quam ascenderetur intrinsecus, ita ut in summo Heliogabalum deum collocaret, sed tantum saxum non invenit, cum id de Thebaide88 adferre cogitaret. [25, 1] Ebrios amicos plerumque claudebat et subito nocte leones et leopardos et ursos exarmatos immittebat, ita ut expergefacti in cubiculo eodem leones, ursos, pardos cum luce vel, quod est gravius, nocte invenirent, ex quo plerique exanimati sunt. [2] Multis vilioribus amicis folles pro accubitis sternebat eosque reflabat prandentibus illis, ita ut plerumque subito sub mensis invenirentur prandentes; [3] primus denique invenit simma in terra sternere, non in lectulis, ut a pedibus utres per pueros ad reflandum spiritum solverentur. [4] In mimicis adulteriis ea, quae solent simulato fieri, effici ad

verum iussit. [5] Meretrices a lenonibus cunctis redemit saepe et manumisit. [6] Cum inter fabulas privatas sermo esset ortus, quanti herniosi esse possent in urbe Roma, iussit omnes notari eosque ad balneas suas exhibere et cum isdem lavit, nonnullis etiam honestis. [7] Gladiatores ante convivium pugnantes sibi et pyctas frequenter {exhibuit}89. [8] Stravit sibi triclinium in summo lusorio et, dum pranderet, noxios et venationes sibi exhibuit. [9] Parasitis in secunda mensa saepe ceream cenam, saepe ligneam, saepe eburneam, aliquando fictilem, nonnumquam vel marmoream vel lapideam exhibuit, ita ut omnia illis exhiberentur videnda de diversa materia, quae ipse cenabat, cum tantum biberent per singula fercula et manus, quasi comedissent, lavarent. [26, 1] Primus Romanorum holoserica veste usus fertur, cum iam subsericae90 in usu essent. Linteamen lotum numquam attigit, mendicos dicens qui lineis lotis uterentur. [2] Dalmaticatus91 in publico post cenam saepe visus est, Gurgitem Fabium92 et Scipionem se appellans, quod cum [cum] ea veste esset, cum qua Fabius et Cornelius a parentibus ad corrigendos mores adulescentes in publicum essent producti. [3] Omnes de circo, de theatro, de stadio et omnibus locis et balneis meretrices collegit in aedes publicas et apud eas contionem habuit quasi militarem, dicens eas commilitones, disputavitque de generibus schematum et voluptatum. [4] Adhibuit in tali contione postea lenones, exsoletos undique collectos et luxuriosissimos puerulos et iuvenes. [5] Et cum ad meretrices muliebri ornatu processisset papilla eiecta, 〈ad〉 exoletos habitu puerorum, qui prostituuntur, post contionem pronuntiavit his quasi militibus ternos aureos donativum petitque ab his, ut a dis peterent, ut alios haberet ipsis commendandos. [6] Iocabatur sane ita cum servis, ut eos iuberet millena pondo sibi aranearum deferre proposito praemio, collegisseque dicitur decem milia pondo aranearum, dicens et hinc intellegendum, quam magna esset Roma. [7] Mittebat parasitis pro cellario salaria annua vasa cum ranis et scorpiis et cum serpentibus et huiusmodi monstris. [8] Claudebat in cuiuscemodi vasis infìnitum muscarum, apes mansuetas eas appellans. [27, 1] Quadrigas circensium in tricliniis et in porticibus sibi semper exhibuit pransitans et cenitans, convivas senes agitare cogens, nonnullos honoratos. [2] Iam imperator iubebat sibi et decem milia murum exhiberi, mille mustelas, mille sorices. [3] Dulciarios et lactarios tales habuit, ut, quaecumque coqui de diversis edulibus exhibuissent vel structores vel

pomarii, illi modo de dulciis modo de lactariis exhiberent. [4] Exhibuit parasitis cenas et de vitreis et nonnumquam tot picta mantelia in mensam mittebat, his edulibus picta quae adponerentur, quot missus esset habiturus, ita ut de acu aut de textili pictura exhiberentur. [5] Nonnumquam tamen et tabulae illis pictae exhibebantur, ita ut quasi omnia illis exhiberentur et tamen fame macerarentur. [6] Miscuit gemmas pomis ac floribus. Iecit et per fenestram cibos totidem, quot exhibuit amicis. [7] Iusserat et canonem p. R. unius anni meretricibus, lenonibus, exoletis intramuranis dari, extramuranis alio promisso, cum eo tempore iuxta provisionem Severi et Bassiani septem annorum canon frumentarius Romae esset93. [28, 1] Canes quaternos ingentes iunxit ad currum et sic est vectatus intra domum regiam, idque privatus in agris suis fecit. [2] Processit in publicum et quattuor cervis iunctis ingentibus94. Iunxit sibi et leones, Matrem magnam95 se appellans. Iunxit et tigres, Liberum96 sese vocans eodemque habitu agens, quo dii pinguntur, quos imitabatur. [3] Aegyptios dracunculos Romae habuit, quos illi agathodaemonas97 vocant. Habuit et hippopotamos et crocodillum et rhinocerotem et omnia Aegyptia, quae per naturam sui exhiberi poterant. [4] Struthocamelos exhibuit in cenis aliquotiens, dicens praeceptum Iudaeis, ut ederent98. [5] Illud sane mirum videtur, quod dicitur ab eo factum, ut de croco sigma straverit, cum summos viros rogasset ad prandium, pro eorum dignitate se dicens fenum exhibere. [6] Transegit et dierum actus noctibus et nocturnos diebus, aestimans hoc inter instrumenta luxuriae, ita ut sero de somno surgeret et salutari inciperet, mane autem dormire inceptaret. Amicis cottidie 〈largiebatur〉 nec quemquam facile indonatum relinquebat, nisi quem frugi quasi perditum repperisset. [29, 1] Habuit gemmata vehicula et aurata contemptis argentatis et eboratis et aeratis. [2] Iunxit et quaternas mulieres pulcherrimas et binas ad pabillum vel ternas et amplius et sic vectatus est, sed plerumque nudus, cum illum nudae traherent. [3] Habuit et hanc consuetudinem, ut octo calvos rogaret ad cenam et item octo luscos et item octo podagrosos, octo surdos, octo nigros, octo longos et octo pingues, cum capi non possent uno sigmate, ut de his omnibus risus citaret. [4] Donavit et argentum omne convivis, quod habuit in convivio, et omnem apparatum poculorum, idque saepius. [5] Hydrogarum99 Romanorum ducum primus publice exhibuit, cum antea militaris mensa esset, quam postea statim Alexander reddidit. [6] Proponebat praeterea his quasi themata, ut iura

nova dapibus condiendis invenirent, et cuius placuisset commentum, ei dabat maximum praemium, ita ut sericam vestem donaret, quae tunc et in raritate videbatur et in honore; [7] si cuius autem displicuisset, iubebat, ut semper id comesset, quamdiu tamen melius inveniret. [8] Semper sane aut inter flores sedit aut inter odores pretiosos. [9] Amabat sibi pretia [rerum] maiora dici earum rerum, quae mensae parabantur, orexin convivio hanc esse adserens. [30, 1] Pinxit se ut coppedinarium, ut seplasiarium, ut popinarium, ut tabernarium, ut lenonem, idque totum domi semper et exercuit. [2] Sescentorum strutionum capita una cena multis mensis exhibuit ad edenda cerebella. [3] Exhibuit aliquando et tale convivium, ut haberet viginti et duo fercula ingentium epularum, sed per singula lavarent et mulieribus uterentur et ipse et amici cum iure iurando, quod efficerent voluptatem. [4] Celebravit item tale convivium, ut apud amicos singulos singuli missus appararentur et, cum alter maneret in Capitolio, alter in Palatio, alter super aggerem100, alter in Caelio, alter trans Tiberim et ut quisque mansisset, tamen per ordinem in eorum domibus singula fercula ederentur ireturque ad omnium domos. [5] Sic unum convivium vix toto die fìnitum est, cum et lavarent per singula fercula et mulieribus uterentur. [6] Sybariticum101 missum semper exhibuit ex oleo et garo, quem quo anno102 Sybaritae reppererunt, et perierunt. [7] Dicitur et balneas fecisse multis locis ac semel lavisse atque statim destruxisse, ne ex usu balneas haberet. Hoc idem de domibus, de praetoriis, de zetis fecisse dicitur. [8] Sed et haec 〈et〉 nonnulla fidem transeuntia credo esse ficta ab his, qui in gratiam Alexandri Heliogabalum deformare voluerunt. [31, 1] Fertur et meretricem notissimam et pulcherrimam redemisse centum sestertiis eamque intactam velut virginem coluisse. [2] Huic eidem privato cum quidam diceret «Non times pauper fieri?», dixisse dicitur: «Quid melius quam ut ipse mihi heres sim et uxori meae?». [3] Habuerat praeterea facultates a multis dimissas gratia patris. Idem filios se nolle dicebat, ne quis ei frugi contingeret. [4] Odores Indicos sine carbonibus ad vaporandas zetas iubebat incendi. Iter privatus numquam minus sexaginta vehiculis fecit avia sua Varia reclamante, quod omnia perditurus esset; [5] imperator vero etiam sescenta vehicula dicitur duxisse, adserens decem milibus camelorum Persarum regem iter facere et Neronem quingentis carrucis iter inisse103. [6] Causa vehiculorum erat lenonum, lenarum, meretricum, exoletorum, subactorum etiam bene vasatorum multitudo. [7] In balneis semper cum mulieribus fuit, ita ut eas ipse psilothro curaret104, ipse quoque barbam psilothro accurans, quodque pudendum dictu sit, eodem quo mulieres

accurabantur et eadem hora; rasit et virilia subactoribus suis ad novaclum manu sua, quo postea barbam fecit. [8] Scobe auri porticum stravit et argenti dolens, quod non posset et electri, idque frequenter quacumque fecit iter pedibus usque ad equum vel carpentum, ut fit hodie de aurosa harena105. [32, 1] Calciamentum numquam iteravit, anulos etiam negatur iterasse; pretiosas vestes saepe conscidit. Ballenam cepit et appendit atque ad eius aestimationem ponderis pisces amicis exhibuit. [2] Naves onustas mersit in portum106, magnanimitatis hoc esse dicens. Onus ventris auro excepit, in myrrinis et onychis minxit. [3] Idem dixisse fertur: «Si habuero heredem, dabo illi tutorem, qui illum haec facere cogat, quae ipse feci facturusque sum». [4] Habuit etiam istam consuetudinem, ut cenas sibi exhiberet tales, ut una die nonnisi {de} fasianis totum ederet omnesque missus sola fasianorum carne strueret107, item alia die de pullis, alia de pisce illo et item illo, alia de porcis, alia de strutionibus, alia de holeribus, alia de pomis, alia de dulciis, alia de opere lactario. [5] Saepe amicos suos cum Aethiopibus aniculis inclusit nocturnis mansionibus et usque ad lucem detinuit, cum pulcherrimas his diceret apparatas. [6] Fecit hoc idem etiam de pueris et tunc, ante Philippum108 utpote, licebat. [7] Ridebat autem sic nonnumquam, ut publice in theatro solus audiretur. [8] Ipse cantavit, saltavit, ad tibias dixit, tuba cecinit, pandurizavit109, organo modulatus est. [9] Fertur et una die ad omnes circi et theatri et amphitheatri et omnium urbis locorum meretrices tectus cucullione mulionico, ne agnosceretur, ingressus, cum tamen omnibus meretricibus sine effectu libidinis aureos donaret addens: «Nemo sciat, Antoninus haec donat». [33, 1] Libidinum genera quaedam invenit, ut spinthrias veterum malorum vinceret, et omnis apparatus Tiberii et Caligulae et Neronis norat. [2] Et praedictum eidem erat a sacerdotibus Syris biothanatum se futurum. [3] Paraverat igitur funes blatta et serico et cocco intortos, quibus, si necesse esset, laqueo vitam finiret. [4] Paraverat et gladios aureos, quibus se occideret, si aliqua vis urgeret. [5] Paraverat et in cerauneis et in hyacinthis et in smaragdis venena, quibus se interimeret, si quid gravius inmineret. [6] Fecerat et altissimam turrem substratis aureis gemmatisque ante se tabulis, ex qua se praecipitaret, dicens etiam mortem suam pretiosam esse debere et ad speciem luxuriae, ut diceretur nemo sic perisse110. Sed nihil ista valuerunt. [7] Nam, ut diximus, et occisus est per scurras et per plateas tractus et sordidissime per cloacas ductus et in Tiberim submissus est. [8] Hic finis Antoninorum nomini in re p. fuit, scientibus cunctis istum Antoninum tam vita falsum fuisse quam nomine.

[34, 1] Mirum fortasse cuipiam videatur, Constantine venerabilis, quod haec clades, quam rettuli, loco principum fuerit, et quidem prope triennio: ita nemo in re p. tum fuit, qui istum a gubernaculis Romanae maiestatis abduceret, cum Neroni, Vitellio, Caligulae ceterisque huius modi numquam tyrannicida defuerit111. [2] Sed primum omnium ipse veniam peto, quod haec, quae apud diversos repperi, litteris tradidi, cum multa improba reticuerim et quae ne dici quidem sine maximo pudore possunt; [3] ea vero, quae dixi, praetextu verborum adhibito, quantum potui, texi. [4] Deinde illud, quod clementia tua solet dicere, credidi, esse respiciendum: «Imperatorem esse fortunae est». [5] Nam et minus boni reges fuerunt et pessimi. Agendum vero, quod pietas tua solet dicere, ut sint imperio digni, quos ad regendi necessitatem vis fatalis adduxerit. [6] Et quoniam hic ultimus Antoninorum fuit neque postea hoc nomen in re p. loco principum frequentatum est, etiam illud addendum est, ne quis error oriatur, cum duos Gordianos narrare coepero, patrem et filium, qui se de Antoninorum genere dici volebant: non nomen in illis primum fuit sed praenomen; [7] deinde, ut in plerisque libris invenio, Antoni dicti sunt, non Antonini. [35, 1] Haec sunt de Heliogabalo, cuius vitam me invitum et retractantem ex Graecis Latinisque collectam scribere ac tibi offerre voluisti, cum iam aliorum ante tulerimus. [2] Scribere autem ordiar, qui post sequentur. Quorum Alexander optimus et cum cura dicendus est annorum tredecim princeps, semestres alii et vix annui et bimi, Aurelianus praecipuus et horum omnium decus auctor tui generis Claudius112. [3] De quo vereor ad clementiam tuam scribens vera dicere, ne malivolis adulator videar esse, sed absolvar contra livorem inproborum, cum et apud alios clarum esse perspexerint. [4] His iungendi sunt Diocletianus113, aurei parens saeculi, et Maximianus114, ut vulgo dicitur, ferrei, ceterique ad pietatem tuam. [5] Te vero, Auguste venerabilis, multis paginis isdemque disertioribus illi prosequentur, quibus id felicior natura detulerit. [6] His addendi sunt Licinius115 Severus116, Alexander117 atque Maxentius118, quorum omnium ius in dicionem tuam venit, sed ita ut nihil eorum virtuti derogetur. [7] Non enim ego id faciam, quod plerique scriptores solent, ut de his detraham, qui victi sunt, cum intellegam gloriae tuae accedere, si omnia de illis, quae bona in se habuerint, vera praedicaro119.

[1, 1] Non mi sarei mai risolto a scrivere la vita di Antonino Eliogabalo1 (altrimenti detto Vario)2 – nella speranza che nessuno sapesse che egli era stato un imperatore romano –, se in precedenza questo stesso impero non avesse avuto dei Caligola, dei Neroni, dei Vitelli. [2] Ma, dal momento che la medesima terra produce, sì, i veleni, ma anche il grano e le altre erbe salutari, e sempre la stessa terra genera ad un tempo serpenti e animali domestici, il lettore avveduto saprà trovare una compensazione quando leggerà, di contro alle vite di questi mostruosi tiranni, quelle di Augusto, Traiano, Vespasiano, Adriano, Pio, Tito, Marco. [3] E ad un tempo saprà apprezzare la capacità di discernimento dei Romani, giacché gli ultimi regnarono a lungo e morirono di morte naturale, gli altri invece furono trucidati, trascinati per le strade, bollati con il nome di tiranni, e nessuno vuole più pronunciare neppure il loro nome. [4] Dunque, una volta uccisi Macrino e suo figlio Diadumeno che, associato all’impero con parità di poteri, aveva ricevuto anche il nome di Antonino, il titolo di imperatore fu conferito a Vario Eliogabalo, grazie alle voci che lo facevano figlio di Bassiano. [5] Di fatto egli era un sacerdote di Eliogabalo, una divinità ora identificata con Giove, ora col Sole3, e si era attribuito il nome di Antonino sia quale prova della sua presunta discendenza, sia perché sapeva bene che quel nome era tanto caro alla gente che, in grazia di esso, anche un fratricida come Bassiano godeva ancora simpatie. [6] In un primo tempo ebbe dunque il nome di Vario, successivamente quello di Eliogabalo, dal fatto che era sacerdote del dio Eliogabalo, a cui, dopo averne importato il culto dalla Siria, costruì a Roma un tempio nel luogo in cui in precedenza sorgeva quello in onore dell’Orco4. [7] Infine, quando salì al potere, prese il nome di Antonino, e fu l’ultimo imperatore romano a portare tale nome. [2, 1] Costui era tanto succube della madre Simiamira5, che non prendeva alcuna iniziativa di governo senza il suo consenso6, sebbene quella, vivendo da meretrice, praticasse nella reggia ogni genere di lussuria – ebbe tra l’altro rapporti intimi con Antonino Caracalla7 – così che codesto Vario o Eliogabalo si riteneva fosse stato concepito da un’unione illegittima8; [2] e in effetti – a quanto si racconta – dai compagni di scuola gli fu affibbiato anche il nome di «Vario», proprio in relazione al fatto che lo si considerava concepito dal seme di «vari» uomini, come è proprio del figlio di una meretrice. [3] Si narra che, quando il suo presunto padre Antonino fu ucciso in seguito alla congiura

ordita da Macrino, egli si rifugiò nel tempio del dio Eliogabalo, cercandovi rifugio, per non farsi uccidere da quello, che in effetti esercitò il potere con feroce intolleranza, assieme al figlio dissoluto e crudele. [4] Ma non è il caso di dilungarsi ancora sul nome: v’è comunque da dire che egli profanò quel sacro nome degli Antonini che tu, venerabile Costantino, tieni in così alta considerazione da aver effigiato in oro Marco e Pio, collocandoli tra i Costanzi e i Claudii come tuoi antenati, proponendoti di imitare le virtù dei grandi del passato, che sono in piena armonia con la tua indole e a te gradite e care. [3, 1] Ma, per tornare ad Antonino Vario, ottenuto l’impero mandò a Roma degli emissari che seppero suscitare in tutte le classi, persino in tutta la plebe, l’entusiasmo per il nome di Antonino, che appariva restituito non solo quale titolo aggiunto, come era stato nel caso di Diadumeno, ma per discendenza di sangue, ché egli si era qualificato per iscritto figlio di Antonino Bassiano: e così fu grande l’attesa che si creò nei suoi confronti. [2] Egli poteva inoltre godere del favore che l’opinione pubblica solitamente concede ai nuovi sovrani che succedono ai tiranni: esso però rimane vivo solo nel caso lo si sappia conservare mostrando grandi virtù, ed è per questo che molti imperatori mediocri ebbero a perderlo. [3] In breve, quando in senato si diede lettura del messaggio di Eliogabalo, subito si levarono espressioni augurali nei confronti di Antonino9 e di esecrazione per Macrino e suo figlio, e Antonino fu proclamato imperatore col consenso di tutti, ormai pronti a credergli ciecamente, come del resto accade sempre quando gli uomini desiderano ardentemente qualcosa: sono quanto mai portati alla credulità, dato che ciò che bramano vorrebbero anche fosse vero. [4] Ma non appena entrò in Roma10, trascurando gli affari delle province, si preoccupò di consacrare il culto del dio Eliogabalo, facendogli erigere un tempio11 sul colle Palatino, nei pressi del palazzo imperiale, con l’intenzione di trasferirvi il simulacro della Gran Madre12, il fuoco di Vesta13, il Palladio14, gli scudi ancili15, e tutti gli oggetti sacri ai Romani, per far sì che a Roma non fosse venerata alcuna divinità se non Eliogabalo16. [5] Diceva inoltre che in quel tempio dovevano essere trasferiti anche i culti delle religioni dei Giudei e dei Samaritani, nonché i riti dei Cristiani, affinché l’ordine sacerdotale di Eliogabalo divenisse depositario dei misteri di tutti i culti. [4, 1] Poi, quando tenne la prima seduta con il senato, diede ordine che sua madre17 fosse invitata a parteciparvi. [2] Al suo arrivo, fu invitata a sedersi su uno degli scanni riservati ai consoli, e presenziò personalmente alla redazione del verbale, in altre parole fu testimone della stesura del decreto

senatorio; ed egli fu l’unico fra tutti gli imperatori sotto il cui regno una donna, quasi fosse un’Eccellenza, entrò in senato18 a svolgere mansioni riservate agli uomini. [3] Fece inoltre costruire sul colle Quirinale un «senatino», cioè un senato di donne19, proprio dove in passato si riunivano le matrone romane, ma solo in occasione di particolari solennità, od ogniqualvolta una qualche matrona riceveva le insegne riservate alle spose dei consoli, un privilegio che gli antichi imperatori avevano talora concesso alle loro parenti, specialmente a quelle che avevano sposato uomini privi di titoli nobiliari, perché non avessero a perdere il loro rango20. [4] Ma ora, ad opera di Simiamira, furono emanati ridicoli decreti circa le regole di comportamento per le matrone, stabilendo con quale vestito ciascuna dovesse presentarsi in pubblico, a chi dovesse cedere il passo, quale di loro e da chi dovesse ricevere baci, quale dovesse viaggiare in carrozza, quale a cavallo, quale a dorso di mulo o d’asino, quale su un cocchio trainato da muli o su uno tirato da buoi, quale potesse andare in portantina, e se questa dovesse essere rivestita di pelle, o fatta d’ossa, o intarsiata d’avorio, o argentata, e chi di loro, infine, potesse portare calzature ornate d’oro e di pietre preziose. [5, 1] Dopo che dunque Eliogabalo ebbe passato l’inverno a Nicomedia21, vivendo nella più sordida depravazione e abbandonandosi con altri uomini a rapporti omosessuali attivi e passivi, ben presto i soldati si pentirono di quanto avevano fatto, cospirando contro Macrino e creando imperatore un tale individuo: volsero allora il loro favore al cugino dello stesso Eliogabalo, Alessandro22, che, dopo l’uccisione di Macrino, aveva ricevuto dal senato il titolo di Cesare23. [2] Chi infatti avrebbe potuto sopportare un imperatore che aveva fatto di ogni orifizio del suo corpo uno strumento per indulgere ad ogni sorta di libidine, dal momento che neppure in una bestia sarebbe ammissibile tutto ciò? [3] In breve, a Roma non si premurò d’altro se non di incaricare dei suoi emissari di cercargli uomini «superdotati» e di portarglieli alla reggia, onde poter godere di quei loro eccezionali attributi. [4] Amava inoltre mettere in scena nella reggia il dramma di Paride, sostenendo lui stesso la parte di Venere, così che ad un certo punto lasciava cadere all’improvviso le vesti ai suoi piedi, e, rimasto nudo coprendosi con una mano le mammelle e con l’altra le pudende, si inginocchiava lasciando sporgere in alto il di dietro, girato proprio di fronte ai suoi partners di depravazione. [5] Atteggiava poi il volto nella medesima espressione in cui viene solitamente raffigurata Venere nei dipinti, con tutto il corpo depilato, considerando come il più grande

risultato che potesse raggiungere nella propria vita l’essere giudicato adeguato e atto a soddisfare la libidine del maggior numero possibile di persone. [6, 1] Vendeva, personalmente o attraverso i suoi servi e i suoi compagni di stravizi, cariche, onorificenze, posti di autorità. [2] Ammetteva nell’ordine senatorio senza alcun criterio di età, di patrimonio, di nascita, badando solo al prezzo che veniva pagato, vendendo allo stesso modo anche le cariche di comando nell’esercito, da quella di tribuno, a quella di legato e di generale, e persino le cariche di procuratore e gli uffici palatini. [3] Gli aurighi Protogene e Gordio24, originariamente suoi compagni nella corsa dei carri, furono da lui messi a parte, da allora in poi, di ogni atto della sua vita. [4] Molti furono quelli che, attratto dalle loro bellezze fìsiche, portò a palazzo, prendendoli dal teatro, dal circo, o dall’arena. [5] Aveva poi una violenta passione per Ierocle, tanto da arrivare a baciarlo nell’inguine – roba che fa vergogna anche solo a dirla – affermando che così lui celebrava i riti della dea Flora25. Commise incesto con una vergine Vestale26. [6] Profanò i sacri culti del popolo romano, depredando i reliquiari dei templi. [7] Avrebbe voluto persino spegnere il fuoco perenne. Né ebbe in animo soltanto di abolire i culti romani, ma quelli di tutto il mondo, animato da quest’unica aspirazione, che il dio Eliogabalo fosse venerato ovunque; e una volta fece irruzione nel santuario di Vesta, dove possono accedere solo le vergini e i pontefici – proprio lui, insozzato com’era da ogni possibile appestamento morale – in compagnia di quelli che erano stati i suoi partners di depravazione. [8] Tentò anche di rubare il sacro reliquiario27, ma portò via, credendo che fosse quello giusto (glielo aveva indicato, ingannandolo, la Vergine Massima) un vaso28 in cui invece non trovò nulla: e allora lo scagliò a terra, mandandolo in pezzi; il culto, comunque, non ebbe a soffrire in alcunché di questo suo furto, in quanto – a quel che dicono – sono stati fatti costruire molti vasi simili a quello autentico, proprio affinché nessuno possa mai portarlo via. [9] Pur stando così le cose, riuscì nondimeno a portar via la statua che credeva essere il Palladio e, incoronatala d’oro, la collocò nel tempio dedicato alla sua divinità. [7, 1] Si fece iniziare anche al culto della Madre degli dèi e, per poter sottrarre la statua e gli altri oggetti sacri che sono tenuti nascosti in un luogo segreto, si sottopose al rito del taurobolio29. [2] Dimenò il capo partecipando alle danze orgiastiche dei fanatici evirati, e si legò i genitali, facendosi iniziare a tutti i riti che i Galli30 sogliono celebrare; trafugata infine la statua della dea, la trasferì nel santuario della sua divinità. [3] Celebrò anche il culto di

Salambo31, cercando di riprodurre in ogni particolare, battendosi il petto e gesticolando freneticamente, il rito siriaco, creandosi in tal modo un presagio della propria fine imminente. [4] Diceva che tutti quanti gli dèi erano servitori della sua divinità, chiamandone alcuni suoi camerieri, altri suoi schiavi, altri suoi aiutanti nelle più varie necessità. [5] Avrebbe anche voluto portar via dal loro tempio le pietre che sono dette essere divine32, e la statua di Diana dal suo santuario di Laodicea33, dove l’aveva collocata Oreste34. [6] E a proposito di Oreste, si dice che egli non abbia consacrato a Diana una sola statua e in un solo luogo, ma molte e in molti posti; [7] e dopo che si fu purificato, secondo l’indicazione dell’oracolo, nel luogo dove i «tre fiumi» confluiscono nell’Ebro35, fondò anche la città di Oresta, che è destinata ad essere spesso teatro di stragi umane. [8] – Proprio questa città di Oresta36 Adriano, nel periodo in cui cominciò a manifestare segni di squilibrio mentale, fece chiamare col suo nome, seguendo l’ordine di un oracolo, che gli aveva detto di introdursi nella residenza di un qualche pazzo o di sottrargli il nome; [9] e dicono che grazie a ciò risultò mitigata quella follia, per la quale in precedenza aveva dato l’ordine di uccidere molti senatori, che furono invece salvati da Antonino: [10] questi li ricondusse in seguito in senato, quando ormai tutti pensavano che, secondo l’ordine del sovrano, fossero stati messi a morte, meritandosi con ciò il nome di Pio37 –. [8, 1] Sacrificò anche vittime umane, scegliendo allo scopo dei fanciulli di famiglia nobile e di bell’aspetto prelevati da tutta Italia, e con il padre e la madre ancora vivi38, allo scopo, credo, di provocare un dolore più grande, se sofferto da entrambi i genitori. [2] In breve, si era circondato di ogni genere di maghi, e ogni giorno faceva operare loro qualche incantesimo, sempre esortandoli e ringraziando gli dèi per averli trovati ben disposti verso di essi mentre, dal canto suo, lui esaminava le viscere dei fanciulli e torturava le vittime secondo il rituale del suo paese d’origine. [3] In occasione della sua investitura a console, i doni di cui fece distribuzione al popolo perché se li contendesse non furono monete d’argento e d’oro, o dolci o piccoli animali, ma buoi grassi, cammelli, asini e cervi: e andava dicendo che questo era un gesto da vero imperatore. [4] Attaccò con ferocia la memoria di Macrino, ma molto di più quella di Diadumeno, per il fatto che aveva ricevuto il nome di Antonino, chiamandolo Pseudoantonino, alla maniera dello Pseudofilippo39, e inoltre perché si diceva che quello, da individuo quanto mai dissoluto, aveva saputo divenire un uomo

veramente forte, virtuoso, dignitoso e serio. [5] In breve, costrinse vari scrittori a trattare della sua lussuria narrando cose irripetibili, anzi addirittura empie, come è stato detto nella sua biografia. [6] Fece costruire un bagno pubblico nel palazzo reale, e nello stesso tempo aprì al popolo quello di Plauziano, onde potere, attraverso di esso, fare raccolta degli uomini ottimamente dotati nei loro attributi virili. [7] Una cura particolare fu messa nella ricerca in tutta la città, e specialmente fra i marinai, dei cosiddetti onobeli40, come venivano chiamati quelli che avevano maggiormente sviluppate le parti virili. [9, 1] Mentre si apprestava a muovere una nuova guerra ai Marcomanni, dopo il pieno successo che Antonino41 aveva riportato nella precedente campagna, gli fu detto da qualcuno che Marco Antonino era riuscito nello scopo di rendere da allora in poi i Marcomanni fedeli amici di Roma con l’aiuto di astrologi Caldei42 e maghi43: e ciò sarebbe stato ottenuto grazie a incantesimi e ad una formula magica; ma quando egli chiese quale fosse quest’ultima e dove si trovasse, non ottenne risposta. [2] Appariva chiaro infatti che egli voleva conoscere la formula magica per distruggerla, nella speranza di poter nuovamente scatenare la guerra, specialmente in relazione al fatto che aveva saputo di un oracolo secondo il quale essa sarebbe stata portata a termine da un Antonino; ma va detto che il nome con cui lui veniva chiamato era Vario o Eliogabalo o addirittura zimbello pubblico, e quello di Antonino, che si era indebitamente accaparrato, lo profanava. [3] Gli si volgevano contro poi soprattutto coloro che si rammaricavano di vedersi preferiti degli uomini virilmente ben dotati, per la soddisfazione delle sue libidini, e dalla borsa più capace; fu così che si cominciò a pensare di eliminarlo. Questo per quanto riguarda gli affari interni. [10, 1] I soldati, dal canto loro, non potevano più sopportare che una tale peste di uomo si mascherasse sotto il nome di imperatore e, prima in pochi, poi a gruppi sempre più numerosi, si consultarono reciprocamente, tutti volgendo le loro simpatie verso Alessandro, che già aveva ottenuto il titolo di Cesare dal senato, ed era cugino di questo Antonino; avevano infatti in comune la nonna Varia, da cui Eliogabalo aveva preso il nome di Vario. [2] Sotto il suo regno un certo Zotico44 divenne talmente influente che tutti i funzionari-capi45 lo consideravano un po’ come il «marito del padrone». [3] Questo stesso Zotico era poi uno che, abusando di questa particolare intimità, sapeva vendere fumo sfruttando ogni parola o gesto di Eliogabalo, accumulando enormi ricchezze: ad alcuni riferiva minacce, ad altri faceva

promesse, tutti indistintamente ingannava e, uscendo dopo un’udienza dell’imperatore, si rivolgeva ora all’uno ora all’altro dicendo: «Ho detto così e così sul tuo conto», «L’ho sentito dire questo di te», «Questo è quello che ti aspetta». [4] Era insomma di quella razza di individui che, una volta ammessi ad un’eccessiva intimità con i sovrani, fanno mercato della loro reputazione, siano essi cattivi o anche buoni, e che per la stoltezza o l’ingenuità degli imperatori, che non se ne accorgono, fanno ottimi affari con quell’infame commercio di chiacchiere. [5] Celebrò con lui una cerimonia nuziale, e consumò l’unione, avendo persino la pronuba46, ed esclamando: «Al lavoro, Cuoco!»47, e proprio in un momento in cui Zotico era ammalato. [6] Inoltre chiedeva a filosofi o a uomini di grande serietà se anch’essi, in gioventù, si fossero sottoposti alle stesse esperienze sessuali a cui lui si prestava, e per di più con la massima sfrontatezza: [7] ché non aveva mai ritegno alcuno ad usare le espressioni più sconce, evidenziandole anche con gesti osceni, né v’era in lui alcun pudore per il fatto di trovarsi in pubbliche riunioni e alla presenza del popolo. [11, 1] Creò dei liberti governatori, legati, consoli, generali, e degradò tutte le magistrature con uomini corrotti e di bassa origine. [2] Una volta invitò alla vendemmia alcuni nobili amici48 e, sedutosi con loro presso le ceste d’uva, cominciò a chiedere ai più seri tra essi se conservavano una pronta sensibilità agli stimoli erotici; i più vecchi arrossivano, ed egli allora esclamava: «È arrossito: tutto bene!»49, interpretando il silenzio e il rossore come una risposta affermativa. [3] Aggiunse poi il racconto di quello che faceva lui, senza alcun ritegno dettato dal pudore. [4] Vista la reazione dei vecchi, che tacevano e arrossivano all’udire cose che ripugnavano alla loro età e alla loro dignità, passò dai giovani, e cominciò a fare loro domande su tutti questi argomenti. [5] Da essi ricevette risposte consone all’età, e allora cominciò a rallegrarsi, e a dire che una vendemmia celebrata in quel modo poteva veramente dirsi «libera»50. [6] Molti dicono inoltre che egli fu il primo a introdurre l’usanza di indirizzare, in occasione della festività della vendemmia, molti salaci lazzi ai padroni, anche alla presenza dei padroni stessi; egli stesso ne aveva composti, soprattutto in greco. Molti di questi sono citati da Mario Massimo nella vita dello stesso Eliogabalo. [7] Aveva degli amici depravati, alcuni vecchi e con l’aria da filosofi, che raccoglievano i capelli in una reticella, che ammettevano apertamente di prestarsi a certe turpi relazioni, che menavano vanto di avere dei «mariti». A parere di taluni si trattava però di una finzione, con la quale cercavano di accattivarsi maggiormente la sua simpatia imitandolo nei vizi.

[12, 1] Assunse alla prefettura del pretorio un saltimbanco51, che aveva già esercitato a Roma la sua arte, creò prefetto dei vigili52 l’auriga Gordio53, e prefetto all’annona il suo barbiere Claudio. [2] Promosse alle rimanenti cariche gente che gli si raccomandava per l’enormità delle parti virili. Ordinò che a sovrintendere alla tassa di successione54 fosse un mulattiere, poi un corriere, poi un cuoco, e infine un fabbro ferraio. [3] Quando faceva il suo ingresso nei quartieri militari o in senato, portava con sé la nonna, di nome Varia – quella di cui s’è detto precedentemente –, perché dal prestigio di lei gli venisse quella rispettabilità che da se stesso non poteva guadagnarsi; né prima di lui, come già dicemmo55, alcuna donna ebbe mai a mettere piede in senato, così da essere invitata a partecipare alla redazione dei decreti, e a dire il proprio parere. [4] Durante i banchetti si prendeva vicino soprattutto i suoi amasii, e godeva molto ad accarezzarli e palparli in maniera lasciva, né alcuno più di loro era pronto a porgergli la coppa, dopo che aveva bevuto. [13, 1] Nel mezzo di queste brutture di cui era piena la sua turpe vita, diede ordine che Alessandro, che pure aveva adottato come suo successore, fosse allontanato da lui, affermando di essersi pentito dell’adozione; e ingiunse al senato che gli fosse revocato il titolo di Cesare. [2] Ma quando in senato venne palesata la sua decisione, seguì un profondo silenzio; ché Alessandro era un ottimo giovane, come in seguito ebbe a dimostrare il modo in cui governò, ed era inviso al padre adottivo per il solo fatto di non essere un depravato. [3] Era poi, a quanto dicono alcuni, suo cugino; era amato dai soldati ed era ben accetto al senato e all’ordine equestre. [4] Né tuttavia la furia bestiale di Eliogabalo venne meno alla funesta attuazione di un piano malvagio. Infatti gli mandò dei sicari, in conformità ad un preciso disegno: [5] egli, lasciando nel Palazzo sua madre, la nonna e il cugino, si ritirò nei giardini della Spes Vetus56, facendo voti quasi dovesse difendersi contro un giovane che gli faceva del male, e ordinò che venisse trucidato un ragazzo che era invece pieno di virtù e prezioso per lo Stato. [6] Mandò inoltre un’ordinanza scritta ai soldati, con cui imponeva che fosse revocato ad Alessandro il titolo di Cesare; [7] mandò anche degli emissari a coprire di fango le iscrizioni delle sue statue negli accampamenti, come si fa di solito con i tiranni; [8] prese persino contatto con i servi che custodivano Alessandro per indurli, promettendo loro premi e onorificenze, ad ucciderlo in qualunque modo volessero, o sorprendendolo nel bagno, o avvelenandolo, o pugnalandolo. [14, 1] Ma nulla possono le trame dei malvagi contro gli innocenti. Ché nessuna forza poté indurre alcuno a commettere un così tremendo delitto, e

invece contro lo stesso Eliogabalo finirono per rivoltarsi proprio le armi con cui intendeva colpire gli altri, e ad ucciderlo furono quei medesimi che dovevano servirgli come sicari. [2] Ma non appena le iscrizioni delle statue furono imbrattate di fango, tutti i soldati arsero di sdegno, e puntarono chi verso il Palazzo, chi verso i giardini in cui stava Vario, col proposito di vendicare Alessandro e di cacciare una buona volta dallo Stato quell’individuo sozzo e per di più di indole assassina. [3] Non appena furono giunti nel Palazzo, con grande scrupolo presero sotto la loro scorta Alessandro insieme alla madre e alla nonna, e lo condussero poi negli accampamenti. [4] Simiamira, la madre di Eliogabalo, trepidante per la sorte del figlio, li seguiva a piedi. [5] Poi si recarono nei giardini, dove trovarono Vario affaccendato nei preparativi per una corsa di cocchi, ma in ansiosa attesa che gli venisse portata la notizia dell’uccisione del cugino. [6] Egli, atterrito dall’improvviso clamore dei soldati, si acquattò in un angolo, e si coprì avvolgendosi nella tenda che era all’ingresso della stanza, [7] dopo aver mandato i prefetti l’uno a calmare i soldati nei loro quartieri, l’altro a trattenere la collera di quelli che erano già penetrati in giardino. [8] Uno dei due, Antiochiano, riuscì per parte sua a persuadere, rammentando loro il giuramento di fedeltà, i soldati che erano entrati nei giardini a risparmiare Eliogabalo; ché del resto non erano venuti in molti, e la maggior parte era rimasta col drappello che il tribuno Aristomaco aveva tenuto indietro. Questo è quanto accadde nei giardini. [15, 1] Nell’accampamento invece i soldati dissero al prefetto che li invitava alla calma che avrebbero risparmiato Eliogabalo a patto che avesse allontanato i depravati, gli aurighi, gli istrioni di cui si era circondato, e che fosse tornato a una condotta di vita più onesta; soprattutto dovevano essere cacciati quegli individui che, con danno per tutti, avevano una smisurata influenza su di lui, e facevano commercio di ogni suo atto o parola, veri o inventati che fossero. [2] Così furono allontanati da lui Ierocle, Gordio e Mirismo, e inoltre due servi disonesti, che lo rendevano più stolto di quanto non fosse già per natura. [3] Inoltre i soldati diedero incarico ai prefetti di non permettere che egli avesse a continuare ulteriormente in una tale condotta di vita, e di proteggere Alessandro non solo da eventuali attentati, ma anche dal pericolo che il giovane Cesare, venendo in contatto con qualche amico dell’imperatore, potesse essere in qualche modo tentato di imitarne la vita corrotta. [4] Ma intanto Eliogabalo richiedeva con grande insistenza di riavere con sé quell’essere immondo che era Ierocle, e, di giorno in giorno, si

adoperava a tramare contro il suo Cesare. [5] Così, il primo di gennaio57, quando furono designati consoli insieme, rifiutò di apparire in pubblico58 accanto al cugino. [6] Alla fine, solo quando sua nonna e sua madre gli dissero che i soldati erano ormai pronti ad ucciderlo, se avessero visto che non andava d’accordo col cugino, si decise a indossare la pretesta, e all’ora sesta fece il suo ingresso in senato, non senza avervi invitato sua nonna ed averla fatta accomodare su di un seggio curule. [7] Successivamente, però, si rifiutò di recarsi in Campidoglio per la formulazione dei voti e la celebrazione dei riti tradizionali, che furono così celebrati dal pretore urbano, come se i consoli fossero assenti da Roma. [16, 1] Né rinunciò al proposito di assassinare il cugino, ma temendo che il senato si volgesse a qualche altro pretendente, se egli avesse ucciso il cugino, ordinò che i senatori abbandonassero immediatamente la città. L’ordine di partenza immediata valeva anche per coloro che non possedevano carrozze o servi, cosicché costoro dovettero viaggiare chi ricorrendo a facchini, chi ad animali da soma trovati per miracolo o presi a nolo. [2] Un ex-console, quel Sabino59 cui Ulpiano aveva dedicato alcune sue opere60, era rimasto a Roma: l’imperatore allora, chiamato un centurione, gli ordinò, usando un’espressione eufemistica, di toglierlo di mezzo. [3] Ma il centurione, che era piuttosto duro d’orecchio, credette che l’ordine fosse di allontanarlo dalla città, e così fece. Così il difetto di quel centurione significò la salvezza per Sabino. [4] Allontanò anche il giureconsulto Ulpiano61, colpevole solo di essere una persona onesta, e il retore Silvino, che aveva fatto tutore del Cesare; Silvino, poi, fu ucciso, mentre Ulpiano venne risparmiato. [5] Ma i soldati, e particolarmente i pretoriani, sia perché ben conoscevano – essi che già avevano cospirato contro Eliogabalo – sia perché vedevano apertamente l’odio che egli nutriva contro di loro […] e fatta una congiura per liberare lo Stato, prima di tutto i suoi complici […] con un tipo di morte […] dato che alcuni li uccidevano dopo averli evirati, altri li trafiggevano dal di sotto, perché la morte risultasse conforme al tipo di vita. [17, 1] Dopo di che fu assalito lui pure e ucciso in una latrina in cui aveva cercato di rifugiarsi62. Fu poi trascinato per le vie. Per colmo di disonore, i soldati gettarono il cadavere in una fogna. [2] Poiché però il caso volle che la cloaca risultasse troppo stretta per ricevere il corpo, lo buttarono giù dal ponte Emilio63 nel Tevere, con un peso legato addosso perché non avesse a galleggiare, di modo che non potesse aver mai a ricevere sepoltura. [3] Prima di essere precipitato nel Tevere, il suo cadavere fu anche trascinato attraverso

il Circo. [4] Per ordine del senato fu cancellato dalle iscrizioni il nome di Antonino, che egli aveva assunto pretestuosamente, volendo apparire figlio di Antonino Bassiano, e gli rimase quello di Vario Eliogabalo. [5] Dopo la morte fu chiamato il «Tiberino», il «Trascinato»64, l’«Impuro» e in molti altri modi, ogniqualvolta capitava di dover dare un nome ai fatti della sua vita. [6] E fu il solo fra tutti i principi ad essere trascinato, buttato in una cloaca, ed infine precipitato nel Tevere. [7] Questo accadde per il generale odio di tutti, dal quale gli imperatori debbono guardarsi in maniera particolare, dato che chi non riesce a guadagnarsi l’amore del senato, del popolo e dei soldati, non merita neppure la sepoltura. [8] Delle opere pubbliche realizzate sotto di lui nessuna ci è rimasta, ad eccezione del tempio del dio Eliogabalo, che alcuni chiamano Sole, altri Giove, e della restaurazione dell’Anfiteatro65 dopo l’incendio, e delle terme nel quartiere Sulpicio, iniziate da Antonino figlio di Severo. [9] E in effetti Caracalla aveva inaugurato le terme Antoniniane66, come bagni personali e aprendole anche al pubblico, ma erano rimasti da costruire i portici, che successivamente furono eretti da questo Antonino «spurio», e completati da Alessandro. [18, 1] Costui fu l’ultimo degli Antonini (va però detto che molti ritengono che in seguito i Gordiani abbiano portato il nome di Antonini: ma in realtà essi furono chiamati Antonii, non Antonini), un individuo così detestabile per la sua vita, il suo carattere, la sua depravazione, che il senato volle cancellarne anche il nome. [2] Neppure io, del resto, lo avrei chiamato Antonino se non per quello scrupolo di documentazione storica che costringe il più delle volte a citare nomi che furono ufficialmente soppressi. Fu uccisa insieme con lui anche la madre Simiamira67, una donna svergognata e degna del figlio. [3] E dopo Antonino Eliogabalo, la prima cosa che ci si preoccupò di stabilire fu che mai più una donna potesse entrare in senato, e che chi si fosse reso responsabile del verificarsi di un fatto del genere, fosse condannato a morte e la sua memoria maledetta. [4] Sulla vita di costui sono stati riportati molti aneddoti osceni: poiché però questi non sono degni di essere ricordati, ho ritenuto di riferire solo quelli che illustrano le sue stravaganti raffinatezze, e di cui egli fu protagonista, a quanto dicono le fonti, in parte nel corso della sua vita privata, in parte quando fu eletto imperatore; lui stesso infatti diceva che da privato imitava Apicio68, mentre suo modello da imperatore erano Nerone, Otone, Vitellio.

[19, 1] Per esempio, fu il primo cittadino privato a coprire i letti con coperte trapunte d’oro; allora infatti ciò poteva avvenire per autorizzazione stessa di Marco Antonino, che aveva fatto vendere per conto dell’erario tutto l’arredamento imperiale69. [2] Inoltre organizzò banchetti estivi intonati a vari colori, così che oggi dava un convito in verde, un altro giorno in glauco, o in azzurro e così via, variando sempre di giorno in giorno lungo tutta l’estate. [3] Fu anche il primo a possedere fornelli e pentole d’argento, e inoltre vasi cesellati, sempre d’argento, del peso di cento libbre ciascuno, e alcuni raffiguranti le scene più sconce. [4] Per primo inventò il vino aromatizzato con la resina di lentischio70 o con la menta71, e tutto questo genere di misture che sono ancora oggi di moda tra le persone raffinate. [5] Quanto poi al vino «rosato», la cui ricetta aveva imparato da altri, trovò, dal canto suo, il modo di renderlo più fragrante mediante l’aggiunta di polvere di pigne. Insomma di tal genere di bevande non si ha notizia prima di Eliogabalo. [6] Per lui la vita non aveva alcun significato se non nella ricerca di sempre nuovi piaceri. Per primo fece fare le polpette con carne di pesce e di ostriche, litostriche e altri simili molluschi marini, e di gamberi, calamari e squille72. [7] Faceva cospargere di rose i triclini, i letti e i porticati, e si compiaceva di passeggiare per essi; e così pure usando ogni altro genere di fiori, gigli, viole, giacinti e narcisi. [8] Non prendeva il bagno in piscina prima di avervi fatto versare profumi pregiati ed essenza di croco; [9] né si adattava facilmente a sedersi su divani che non fossero imbottiti con pelo di lepre o piume subalari di pernice, e faceva cambiare di frequente i cuscini. [20, 1] Mostrò talvolta un tale disprezzo per il senato, da chiamare i senatori «schiavi in toga», mentre il popolo Romano lo definiva «coltivatore di un solo podere», e neppure per l’ordine equestre aveva alcuna considerazione. [2] Spesso invitava a bere, dopo cena, il prefetto di Roma, convocando anche i prefetti del pretorio, e, se mai rifiutavano, erano i suoi maestri di cerimonie a costringerli con la forza. [3] Avrebbe voluto costituire per ciascuna regione di Roma dei prefetti dell’Urbe, di modo che in città ve ne fossero quattordici73; e, se la vita gliene avesse dato il tempo, l’avrebbe fatto, intenzionato com’era a dare una carica a tutti gli individui più turpi e ignobili. [4] I letti, sia delle sale da pranzo sia delle camere, li aveva di argento massiccio. [5] Mangiava abbastanza spesso, ad imitazione di Apicio, calcagni di cammello e creste strappate a galli vivi, lingue di pavone e di usignolo, perché vi era la diceria che chi mangiava quella roba restasse immunizzato dalla peste. [6] Fece servire nei banchetti per la corte imperiale enormi piatti

pieni di fegatini di triglia, cervella di fenicottero, uova di pernice, cervella di tordo, teste di pappagallo, di fagiano, di pavone. [7] Faceva preparare così grandi quantità di barbe di triglia, da usarle al posto del nasturzio74, della melissa, delle fave e del fiengreco, servendoli in grandi recipienti e piatti: una trovata, certo, da far restare a bocca aperta chiunque. [21, 1] Nutriva i suoi cani con fegati d’oca. Teneva tra i suoi oggetti di trastullo anche dei leoni e dei leopardi ammansiti che, ammaestrati da domatori, faceva all’improvviso saltare sui divani durante la seconda o la terza mensa, divertendosi a spaventare a morte tutti quanti i commensali, che non sapevano trattarsi di animali resi inoffensivi. [2] Faceva portare nelle stalle ai suoi cavalli dell’uva di Apamea75, e nutriva leoni e altre bestie con pappagalli e fagiani. [3] Fece imbandire quotidianamente per dieci giorni trenta mammelle di scrofa selvatica con le loro vulve, piselli con contorno di monete d’oro, lenticchie con cerauni76, fave con ambra, riso con perle bianche. [4] Le perle, inoltre, le usava per condire i pesci e i tartufi in luogo del pepe. [5] Facendo azionare il soffitto girevole di certi triclinii, sommergeva i suoi parassiti con una pioggia di viole e altri fiori77, tanto che alcuni, non riuscendo a risalire alla superficie, vi morirono soffocati. [6] Mescolò nelle piscine e nelle vasche da bagno del vino aromatizzato, alla rosa e all’assenzio. Invitava il popolo a bere, ed egli stesso beveva assieme alla gente, ma così smodatamente da far dubitare che fosse solito bere in una delle sue piscine, visto quanto si era scolato da solo. [7] Come doni di tavola offrì eunuchi, offrì quadrighe, cavalli bardati, muli, lettighe e carrozze; diede persino mille monete d’oro e cento libbre d’argento per volta. [22, 1] Faceva incidere sui cucchiai il nome dei doni che ciascun convitato avrebbe avuto in sorte: ed erano di tal genere che ad uno poteva toccare «dieci cammelli», ad un altro «dieci mosche», ad un altro «dieci libbre d’oro», ad un altro «dieci di piombo», ad uno ancora «dieci struzzi», ad un altro «dieci uova di gallina», in modo che si trattasse veramente di un sorteggio, e fosse quindi chiamata in causa la fortuna. [2] Usava questo sistema anche nei giochi che organizzava, dove infatti venivano distribuiti in sorte dieci orsi, o dieci ghiri, dieci lattughe o dieci libbre d’oro: [3] fu insomma il primo a introdurre il sistema, che ancor oggi è in voga, dell’estrazione a sorte. Gli attori pure erano da lui costretti né più né meno a tentare la sorte, dato che i compensi che metteva in palio per loro erano cani morti o una libbra di carne bovina e, allo stesso modo, cento monete d’oro, o mille d’argento, o cento monete di rame78; e così via. [4] Tutto

ciò piacque molto al popolo, tanto che dopo di allora si rallegrava di avere un imperatore come lui. [23, 1] Si dice che organizzasse spettacoli navali nel Circo in canali79 riempiti di vino, e che facesse innaffiare i mantelli della gente con essenza di vite selvatica, che abbia guidato sul Vaticano quattro quadrighe di elefanti, distruggendo alcune tombe che ostruivano la via, che in occasione di uno spettacolo privato nel Circo abbia aggiogato ai carri persino quattro cammelli per volta. [2] Si racconta inoltre che, dopo aver raccolto, servendosi dell’opera di alcuni sacerdoti dei Marsi80, dei serpenti, li fece spargere all’improvviso una mattina presto, quando la gente era solita recarsi in gran numero ad assistere ai giochi, e molti rimasero vittima dei morsi dei rettili e del fuggi fuggi generale. [3] Indossava tuniche intessute completamente d’oro; ne usava anche di porpora, o di foggia persiana, ricoperte di gemme, dicendo che così sentiva il peso del piacere81. [4] Portava gemme persino sui calzari, e per di più ornate da incisioni; il che suscitava l’ilarità generale: quasi si potessero notare le incisioni di famosi artisti nelle gemme che lui aveva attaccate ai piedi. [5] Volle che anche il suo diadema fosse tempestato di gemme, per rendere il suo aspetto più avvenente e femmineo: e lo indossava anche in casa. [6] Si narra che una volta promise ai suoi convitati la fenice82, o in cambio di essa mille libbre d’oro, perché voleva comunque congedarli in maniera degna di un imperatore. [7] Apprestò delle piscine alimentate con acqua marina, e questo soprattutto in luoghi lontani dalla costa, e le mise a disposizione di ognuno dei suoi amici per potervi nuotare, oppure le riempì nuovamente di pesci. [8] Una volta, in estate, si fece fare nel giardino di casa una montagna con della neve che aveva fatto trasportare sin lì. Al mare non mangiò mai pesce, mentre in luoghi lontanissimi dalla costa faceva sempre servire ogni tipo di specialità marine. A contadini dell’entroterra fece gustare latte di murene e di spigola. [24, 1] Il pesce lo mangiava sempre in una salsa bluastra, che lo faceva apparire come se fosse stato cotto in acqua di mare, conservando il suo colore naturale. Faceva allestire delle piscine, preparate al momento, riempite di vino alla rosa e di rose vere, e prese il bagno insieme con tutti i suoi cortigiani, facendo apprestare vasche calde ripiene di olio di nardo. Nelle lucerne, poi, faceva ardere gomme odorose. [2] Quanto alle donne, se si eccettua la moglie, non volle mai avere più di un rapporto con una di esse. Creò a corte dei bordelli per gli amici, i clienti e i servi. [3] Non spendeva mai, per le sue cene, meno di centomila sesterzi, cioè trenta libbre d’argento83; talvolta poi, il costo

toccò i tre milioni di sesterzi, tenendo conto di tutto ciò che fu speso. [4] Superò così le cene di Vitellio e di Apicio84. Faceva portare il pesce dai suoi vivai su carri trainati da buoi85; passando poi davanti al mercato, scoppiava in lacrime commiserando la povertà in cui viveva la gente. [5] Legava i suoi parassiti a una ruota da mulino, che poi faceva girare vorticosamente, in modo che essi venivano di continuo immersi nell’acqua e poi di nuovo risollevati: e li chiamava amici di Issione86. [6] Fece pavimentare con marmo spartano87 e porfido i cortili della reggia, che chiamò Antoniniani. Tale pavimentazione era rimasta, sino ai nostri giorni, ma di recente è stata completamente asportata. [7] Aveva anche deciso di erigere una colonna singola di enorme grandezza, sulla quale si potesse salire attraverso una scala interna, e in cima ad essa collocare la statua del dio Eliogabalo: ma non riuscì a trovare un blocco di pietra tanto grande, neppure nella Tebaide88, da dove aveva pensato di farlo portare. [25, 1] Spesso rinchiudeva i suoi amici, quando erano brilli, e poi all’improvviso, durante la notte, faceva irrompere nella stanza leoni, leopardi e orsi addomesticati, di modo che quelli, svegliandosi di soprassalto, si ritrovavano all’alba o, quel che è peggio, di notte, nella stessa stanza in compagnia di leoni, orsi, leopardi; e la maggior parte ne morivano di spavento. [2] A molti degli amici di più bassa condizione faceva trovare, al posto dei normali divani di mensa, dei cuscini pieni d’aria, e, durante il pranzo, li faceva sgonfiare, così che spesso i poveretti si ritrovavano all’improvviso a mangiare sotto il tavolo; [3] fu così che egli per primo ebbe ad escogitare la trovata di far disporre il semicerchio dei sedili per terra, anziché sui letti tricliniari, per rendere possibile agli schiavetti che stavano ai piedi degli ospiti di sciogliere e sgonfiare i cuscini. [4] Durante le rappresentazioni sceniche di adultèri, volle che le azioni che di solito vengono solo mimate, fossero effettivamente compiute. [5] Riscattò molte volte le meretrici da tutti quanti i loro protettori, mettendole poi in libertà. [6] Poiché in una conversazione tra amici era nata una discussione su quanti potessero essere a Roma gli uomini affetti da ernia, ordinò che fossero tutti registrati, e di presentarli nei suoi bagni, e si lavò assieme a loro, incurante che vi fossero tra essi anche persone di tutto rispetto. [7] Prima di mangiare gli piaceva spesso assistere a combattimenti di gladiatori o a incontri di pugilato89. [8] Si fece imbandire la mensa sulla parte più alta dell’anfiteatro e, mentre pranzava, si godeva lo spettacolo dei combattimenti fra i condannati e con le bestie feroci. [9] Ai suoi parassiti offriva spesso, nella seconda imbandigione, una cena fatta tutta con cibi di

cera, molte volte anche di legno, oppure d’avorio, talvolta anche di creta, in certi casi persino di marmo o di pietra, così che essi si vedevano porre dinanzi agli occhi tutte le vivande che lui mangiava, fatte però di una diversa sostanza, e dovevano accontentarsi di bere tra una portata e l’altra, e di lavarsi le mani, come se avessero realmente mangiato. [26, 1] Si dice che fu il primo dei Romani a indossare vesti di pura seta, mentre in precedenza erano in uso solo abiti di mezza seta90. Non volle mai toccare biancheria che fosse stata già lavata, chiamando mendicanti coloro che ne facevano uso. [2] Spesso, dopo cena, si faceva vedere in pubblico con addosso una dalmatica91, dicendo di essere Fabio Gurgite92 e Scipione, poiché portava la stessa veste con cui Fabio e Cornelio, quando erano ancora giovanetti, erano stati mandati in pubblico dai loro genitori per imparare le buone maniere. [3] Raccolse dal Circo, dal teatro, dallo Stadio, e da tutti i possibili luoghi, compresi i bagni, tutte le meretrici che trovò in un edificio pubblico, e tenne loro una specie di allocuzione militare, chiamandole «commilitoni», e discutendo con esse sui vari tipi di posizioni erotiche e sui diversi generi di libidine. [4] A tale assemblea fece poi partecipare anche lenoni, omosessuali adulti raccolti da ogni parte, e i fanciulli e giovani più depravati. [5] E, mentre alle meretrici si era presentato in abbigliamento muliebre, col petto scoperto, agli omosessuali adulti invece apparve acconciato al modo dei ragazzi che si prostituiscono; dopo il discorso promise loro, come a dei soldati, un donativo di tre monete d’oro a testa, e chiese loro che pregassero gli dèi perché potesse disporre di altri elementi buoni per loro. [6] Amava scherzare coi servi: una volta diede loro l’incarico, promettendo un premio, di portargli mille libbre di ragnatele; ebbene, si dice che ne mise insieme ben diecimila libbre, onde andava dicendo che anche quello era un segno manifesto della grandezza di Roma. [7] Mandava ogni anno ai suoi parassiti, quali provvigioni alimentari che costituivano il loro salario, dei vasi pieni di rane, scorpioni, serpenti e altri animali ripugnanti. [8] In siffatti vasi rinchiudeva anche un’infinità di mosche, che chiamava api domestiche. [27, 1] Mentre pranzava o cenava, voleva che gli fossero tenute sempre pronte nel triclinio o lungo i porticati delle quadrighe da circo, costringendo ogni tanto a guidarle dei convitati di età avanzata, alcuni fra essi persone di riguardo. [2] Anche da imperatore ordinava che gli fossero portati diecimila topi, mille donnole, mille topiragno. [3] Aveva esperti di pasticceria e latteria

tanto abili che, qualunque cosa tra i possibili generi di vivande gli avessero servito i suoi cuochi – fossero quelli addetti a cucinare i piatti o a provvedere alla frutta – essi gliela riproducevano identica, usando ora dolciumi ora latticini. [4] Imbandiva per i suoi parassiti delle cene con cibi fatti di vetro, e talvolta faceva mettere sulla mensa tanti tovaglioli ricamati – raffiguranti le vivande che sarebbero state servite – quante sarebbero state le portate da lui ordinate, di modo che queste ultime venissero servite solo attraverso figurazioni ricamate a mano o col telaio. [5] Talvolta poi offriva loro anche dei quadri dipinti, così che essi si vedevano presentare davanti quasi tutto il pranzo, e nondimeno dovevano struggersi per la fame. [6] Metteva delle gemme in mezzo alla frutta e ai fiori. Faceva gettare dalla finestra una quantità di cibo non inferiore a quella che serviva in tavola agli amici. [7] Aveva ordinato che venisse data alle meretrici, ai lenoni, agli omosessuali, residenti a Roma, una quantità di grano pari al canone d’imposta annuo pagato dal popolo romano, e altrettanto ne promise a quelli residenti fuori della città, approfittando del fatto che, grazie all’approvvigionamento operato da Severo e Bassiano, vi erano in quel tempo a Roma scorte di grano pari al canone d’imposta di sette anni93. [28, 1] Era capace di aggiogare al cocchio quattro grossi cani e di girare a quel modo all’interno della reggia, come aveva fatto, quando era ancora un privato cittadino, nei suoi poderi. [2] Si fece vedere in pubblico anche guidando quattro grandi cervi94. Aggiogò al suo carro anche leoni, facendosi chiamare Gran Madre95. Aggiogò anche tigri, prendendo allora il nome di Libero96: e assumeva sempre i medesimi atteggiamenti in cui vengono solitamente raffigurate le divinità che imitava. [3] Volle avere a Roma quei serpentelli egiziani che laggiù chiamano «geni benevoli»97, e inoltre degli ippopotami, un coccodrillo e un rinoceronte, e tutte quelle specie esotiche egizie che, per le loro caratteristiche, si potevano far venire. [4] Talvolta servì a cena carne di struzzo, dicendo che i Giudei hanno l’obbligo di mangiarla98. [5] Un’altra stravaganza che si racconta di lui è quella per cui, in occasione di un pranzo offerto ad alcuni personaggi molto importanti, fece coprire il divano semicircolare del triclinio di fiori di zafferano, dicendo che apprestava loro il genere di fieno che si addiceva al loro rango. [6] Trasferiva le occupazioni proprie del giorno alla notte, e quelle proprie della notte al giorno, considerando un tratto di grande raffinatezza il fatto di alzarsi da letto la sera tardi, e cominciare a ricevere allora gli omaggi, e di coricarsi invece il mattino. Non passava giorno senza che facesse doni agli amici, e difficilmente

lasciava qualcuno a mani vuote, a meno che non si imbattesse in uno che fosse onesto, il che era per lui come una colpa infamante. [29, 1] Le sue carrozze erano adorne di pietre preziose e rifinite in oro, mentre disdegnava quelle lavorate in argento, in avorio, o in bronzo. [2] Giunse ad aggiogare a un carrozzino anche delle donne di eccezionale bellezza, a quattro, a due, a tre, e anche più, e si faceva portare in giro a questo modo, quasi sempre nudo, come erano nude quelle che lo trainavano. [3] Aveva anche questa consuetudine, di invitare a cena otto calvi, oppure otto strabici, o otto podagrosi, otto sordi, otto scuri di pelle, otto spilungoni e otto ciccioni: di questi ultimi, poi, che non riuscivano a trovar posto nel giro di un unico divano, si serviva per suscitare l’ilarità generale. [4] Arrivava a far dono ai convitati di tutti gli oggetti d’argenteria che erano stati impiegati durante il banchetto, così come di tutto il servizio di coppe; e questo lo fece più volte. [5] Fu il primo sovrano romano a far servire in un banchetto pubblico una salsa di pesce allungata in acqua99, che fino ad allora costituiva un condimento tipico dei pasti dei soldati – quale ritornò poi immediatamente ad essere per opera di Alessandro. [6] Inoltre proponeva ai suoi commensali una specie di tema, consistente nell’inventare nuove ricette di salse per condire le vivande; a chi ne escogitava una che fosse risultata di suo gusto, dava un premio ricchissimo, come addirittura una veste di seta, che a quei tempi, per la sua rarità, era tenuta in gran pregio; [7] a chi ne aveva inventata una non di suo gusto, ordinava di continuare a mangiarne sino a che non ne avesse ideata una migliore. [8] Si sedeva sempre in mezzo ai fiori e circondato da profumi raffinati. [9] Gli piaceva che nel riferirgli il costo di ciò che gli veniva servito a mensa si esagerassero i prezzi, affermando che ciò stuzzicava l’appetito. [30, 1] Si fece ritrarre nelle sembianze di un pasticcere, di un profumiere, di un oste, di un bottegaio, di un lenone; tutte queste occupazioni, del resto, le esercitava anche sempre di fatto in casa sua. [2] Nel corso di una sola cena con molte portate, fece servire le teste di seicento struzzi, perché se ne mangiassero le cervella. [3] A volte fece allestire un banchetto in cui v’erano ventidue portate stracolme di vivande, ma tra l’una e l’altra sia lui sia gli amici dovevano prendere un bagno e possedere donne, il tutto sotto giuramento che ne ricavavano piacere. [4] Non meno singolare fu un altro banchetto che organizzò in modo tale che le singole portate venissero apparecchiate ciascuna a casa di un amico: e così, sebbene uno abitasse sul Campidoglio, un altro sul Palatino, un altro sui bastioni100, un altro sul Celio, un altro in Trastevere e

così via, nondimeno ogni portata veniva consumata per ordine in ciascuna delle loro case, andando successivamente a casa di tutti quanti. [5] In questo modo un solo convito difficilmente poteva concludersi pur nel corso di una intera giornata, dato poi che, tra una portata e l’altra, prendevano il bagno e se la facevano con donne. [6] Faceva sempre servire una specialità di Sibari101 composta di olio e salsa di pesci, inventata dai Sibariti nell’anno stesso102 in cui la città venne distrutta. [7] Dicono che fece costruire in molti luoghi dei bagni in cui si lavò una sola volta, per poi immediatamente distruggerli, sempre per la sua mania di non avere ad adoperare roba già usata. La stessa cosa fece, a quanto riferiscono, con case, ville, padiglioni. [8] Ma questi e vari altri particolari che vanno al di là di ogni credibilità, credo siano stati inventati da coloro che, volendo ingraziarsi Alessandro, avevano interesse a denigrare in tutti i modi Eliogabalo. [31, 1] Si narra che riscattò una famosa e bellissima meretrice per centomila sesterzi, e se la mantenne scrupolosamente intatta come se fosse una vergine. [2] Quando era ancora un privato cittadino, uno gli chiese: «Non hai paura di diventare povero?»; egli, a quanto si dice, rispose: «Che cosa di meglio che essere io stesso erede di me e di mia moglie?». [3] Era già ricco, del resto, per le donazioni che molti gli avevano fatto in grazia di suo padre. Diceva poi che non desiderava avere figli, per timore che gliene capitasse uno virtuoso. [4] Per profumare le sue stanze, faceva bruciare gli aromi indiani direttamente, senza porli sui carboni del braciere. Ancora quando era un privato, non viaggiò mai con meno di sessanta carri, incurante dei rimproveri di sua nonna Varia, che diceva che così avrebbe sperperato ogni suo avere. [5] Allorché poi fu diventato imperatore, portò con sé un seguito anche di seicento carri, affermando che il re dei Persiani viaggiava con diecimila cammelli, e che Nerone una volta si era messo in viaggio con un seguito di cinquecento carrozze103. [6] Il motivo di tutti quei veicoli era legato al gran numero di lenoni, mezzane, meretrici, omosessuali, e dei suoi superdotati partners di perversione. [7] Faceva sempre il bagno con donne, e le massaggiava egli stesso con un unguento depilatorio104, lui pure trattando la sua barba con l’unguento, e – ciò che dovrebbe far vergogna solo a dirlo – lo stesso che veniva usato per il trattamento femminile, e nello stesso momento. Inoltre depilava personalmente il pube ai suoi partners con lo stesso rasoio con cui poi si faceva la barba. [8] Cosparse il portico di polvere d’oro e d’argento, rammaricandosi di non potere fare lo stesso con l’ambra, e questo

lo fece di frequente, qualunque fosse il luogo per cui doveva passare per arrivare al cavallo o al cocchio, come si usa fare al giorno d’oggi con la sabbia dorata105. [32, 1] Non portò mai due volte le stesse calzature, e lo stesso si dice facesse per gli anelli; spesso lacerò vesti preziose. Fece pesare una balena che aveva preso, e distribuì agli amici una quantità di pesci corrispondente al peso che era stato misurato. [2] Fece affondare in porto navi cariche di merci106, affermando che ciò era prova di grandezza d’animo. Faceva i suoi bisogni in vasi d’oro, mentre per orinare si serviva di vasi di spato e d’onice. [3] Gli si attribuiscono queste parole: «Se avrò un erede, gli assegnerò un tutore che lo costringa a fare tutto ciò che io stesso ho fatto e ancora farò». [4] Aveva anche l’abitudine di farsi servire cene di questo tipo: un giorno decideva di mangiare esclusivamente fagiano107, e allora faceva confezionare ogni portata con carne di fagiano; un altro giorno avveniva lo stesso per il pollo, un altro giorno per questa o quella specie di pesce, un altro per il maiale, per lo struzzo, per i legumi, per la frutta, per i dolci, per i latticini. [5] Spesso rinchiuse dei suoi amici in stanze da letto in compagnia di vecchiette etiopiche – con le quali li costrinse a passare tutta la notte – dicendo che erano state messe là a riceverli donne stupende. [6] Fece lo stesso scherzo anche usando dei fanciulli (a quel tempo, cioè prima dei provvedimenti di Filippo108, certe cose erano consentite). [7] Talvolta, in teatro, si lasciava andare a risate così sguaiate che si faceva notare fra tutta la gente. [8] Egli stesso poi cantava, ballava, recitava al suono del flauto, suonava la tromba, la pandura109 e l’organo. [9] Raccontano che in un solo giorno fece il giro di tutte le meretrici del Circo, del teatro e dell’anfiteatro, e di tutti i luoghi pubblici della città, coprendosi con un cappuccio da mulattiere per non essere riconosciuto: si limitava però con tutte a donare delle monete d’oro senza richiedere alcuna prestazione erotica, dicendo: «Che nessuno lo sappia: questo regalo viene da Antonino». [33, 1] Escogitò certi generi di godimenti pervertiti, così da superare in ciò gli amasii dei suoi predecessori viziosi, ed era ben al corrente di tutti gli apparati di depravazione di Tiberio, di Caligola e di Nerone. [2] Gli era stato predetto da dei sacerdoti Siri che sarebbe perito di morte violenta. [3] Si era perciò fatto preparare delle funi intrecciate con fili di porpora, di seta e di panno scarlatto, con le quali, se fosse stato necessario, avrebbe potuto uccidersi impiccandosi. [4] Teneva pronte anche delle spade d’oro con cui trafìggersi, se una qualche azione violenta non gli avesse lasciato scampo. [5] Inoltre aveva preparato del veleno nascosto dentro pietre di

ceraunio, di ametista, di smeraldo, con cui poteva darsi la morte se la situazione fosse stata disperata. [6] Si era poi fatto costruire un’altissima torre, ai piedi della quale aveva fatto stendere delle tavole dorate e tempestate di gemme: e così avrebbe potuto eventualmente gettarsi da essa, ché anche la sua morte – come lui diceva – doveva essere «preziosa» e improntata al lusso, perché si potesse poi dire che nessuno era morto così110. Ma tutto ciò a nulla valse. [7] Infatti, come già abbiamo detto, finì ucciso dalle guardie del corpo, trascinato per le piazze, cacciato vergognosamente giù per le fogne, e infine precipitato nel Tevere. [8] Questa fu la fine che fece a Roma il nome di Antonino, nella generale consapevolezza che costui era stato un falso Antonino, tanto nel nome che nella condotta di vita. [34, 1] Forse a qualcuno potrà sembrare strano, o venerabile Costantino, il fatto che questo flagello, di cui ti ho parlato, abbia potuto sedere sul trono imperiale, e, per di più, per quasi tre anni: e in effetti non vi fu allora alcuno nello Stato che intervenisse ad allontanare costui dal governo imperiale di Roma, mentre per un Nerone, un Vitellio, un Caligola, e tutti gli altri tiranni di quella risma non era mai mancato uno che ponesse fine, uccidendoli, al loro dispotismo111. [2] Ma prima di tutto io sento il bisogno di scusarmi se ho dovuto riferire cose come queste, che pure ho ricavato da diverse fonti, per quanto abbia cercato di tacere su molti episodi disgustosi e a cui non si può neppure accennare senza la provarne più profonda vergogna; [3] quello che poi non ho potuto fare a meno di dire, mi sono sforzato di velarlo usando, nei limiti del possibile, dei giri di parole. [4] Inoltre ho ritenuto si debba tenere nella massima considerazione quanto Tua Grazia è solito dire: «Diventare imperatore è opera della fortuna». [5] E così, in effetti, abbiamo avuto sovrani meno buoni o addirittura pessimi. Ma, come Tua Grazia spesso ripete, bisogna operare perché coloro che il potere del fato ha condotto per le sue vie ineluttabili al governo dello Stato, siano degni dell’impero che hanno ricevuto. [6] E poiché costui fu l’ultimo degli Antonini, né in seguito questo nome ebbe più a ricorrere tra quelli degli imperatori, debbo precisare anche un altro particolare, perché non abbiano a sorgere confusioni quando prenderò a narrare la biografia dei due Gordiani, padre e figlio, che pretendevano di essere riconosciuti discendenti della famiglia degli Antonini: e cioè, in primo luogo, nel loro caso non si trattava di nome, ma solo di prenome; [7] in secondo luogo, poi, come affermano numerose testimonianze, essi furono chiamati Antonii, non Antonini.

[35, 1] Questa è dunque la biografia di Eliogabalo che io, benché controvoglia e riluttante, per tuo desiderio ho scritto, attingendo a fonti greche e latine, e ti ho offerto insieme alle altre che ti ho presentato in precedenza. [2] A questo punto mi accingerò a scrivere dei successori. Tra questi Alessandro si presenta come sovrano eccellente e meritevole di una trattazione particolarmente accurata, lui che tenne il principato per ben tredici anni, di fronte ai regni di sei mesi o al massimo di uno o due anni degli altri, ed emerge pure Aureliano, ma in particolare Claudio, gloria di tutti loro e fondatore della tua stirpe112. [3] Nello scrivere a Tua Grazia di quest’uomo, io ho paura, pur dicendo il vero, di incorrere nella taccia di adulatore da parte dei malevoli, ma l’invidia delle male lingue non mi toccherà, ché so bene che egli gode di splendida fama anche presso altri autori. [4] A questi sono da unire Diocleziano113, padre del «secolo d’oro», e Massimiano114, padre, come si suol dire, di quello «di ferro», e tutti gli altri fino a giungere a Tua Grazia. [5] Te poi, venerabile Augusto, celebreranno con pagine numerose e di più alto stile coloro a cui una natura particolarmente generosa avrà concesso le doti per farlo. [6] Al novero di quegli imperatori si devono aggiungere Licinio115, Severo116, Alessandro117 e Massenzio118, il potere dei quali è stato tutto riunito sotto il tuo scettro, parlando però di loro in modo tale da nulla togliere alle loro virtù. [7] Non voglio infatti comportarmi io pure secondo quanto suole fare la maggioranza degli storici, cercando cioè di sminuire le qualità dei vinti, poiché sono convinto che, se saprò con verità mettere in luce tutte le doti che furono in loro, contribuirò ad accrescere la tua gloria119.

1. Sul valore storico di questa Vita cfr. da ultimo T. D. BARNES, Ultimus Antoninorum, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 53 segg.; secondo questo studioso solo i primi 18 capp. deriverebbero da una fonte attendibile – da lui identificata con Mario Massimo –, mentre il resto appare come invenzione dell’autore. 2. Il suo nome originario era Varius Avitus, e divenne imperatore con quello di M. Aurelius Antoninus. In quanto sacerdote del dio Elagabal, patrono di Emesa, ebbe anche il nome di Elagabalus (gli scrittori latini usano sempre la forma Heliogabalus, per cui cfr. n. 3), che però non risulta impiegato in alcun documento «ufficiale» che lo riguardi. 3. Elagabalo era il dio patrono di Emesa, in Siria, dove era adorato sotto forma di una pietra nera conica, che si narrava caduta dal cielo (cfr. ERODIANO, V, 3, 5). Considerato una divinità solare, fu venerato in Roma come Deus Sol Elagabalus o Invictus Sol Elagabalus. Fu proprio da questa identificazione col Sole che ebbe origine la forma greca Ἡλιοιγάβαλνς (ἥλιος = «Sole») e la corrispondente latina Heliogabalus, impiegata in alternativa a quella corretta sia per il dio che per l’imperatore. Cfr. TH. OPTENDRENK, Die Religionspolitik des Kaisers Elagabal im Spiegel der HA, Bonn, 1969, p. 103. 4. Nulla di preciso sappiamo di questo tempio, costruito presso una per noi sconosciuta aedes Orci; sul problema della localizzazione di esso cfr. OPTENDRENK, Die Religionspolitik cit., pp. 84 segg. 5. Il nome esatto, quale appare dalle iscrizioni, era Iulia Soemia Bassiana, figlia di Giulia Mesa e sorella di Giulia Mamea (cfr. Op. Macr., 9, 1-2). A parere di A. BIRLEY, Lives of the Later Caesars, Harmondsworth, 1976, p. 291, n. 2, la forma Symiamira potrebbe spiegarsi come una semplice trascrizione di un’originale espressione semitica significante «Soemia la principessa». 6. L’affermazione appare esagerata: in realtà Elagabalo era soprattutto succube della potentissima nonna Giulia Mesa. 7. Fu Mesa che, allo scopo di conferire maggiore fondamento alle pretese al trono di Elagabalo, diffuse la notizia che quest’ultimo fosse figlio naturale di Caracalla (cfr. Carac., 9, 2; Op. Macr., 9, 4). 8. Vulgo conceptus è espressione tecnica del linguaggio giuridico: cfr. ad es. MODESTINO, Dig., I, 5, 23; Cod. Theod., VI, 30, 15. 9. Stando a CASSIO DIONE, LXXIX, 2, 1 segg. ed ERODIANO, V, 5, 2, il senato lo proclamò imperatore solo per timore dei soldati; in particolare Elagabalo era già stato acclamato imperatore dalla legio III Gallica, e aveva ormai assunto a tutti gli effetti tale titolo. 10. Nel luglio del 219 d. C., dopo aver trascorso l’inverno 218-219 a Nicomedia in Bitinia (cfr. 5, 1). 11. Portata a Roma la pietra sacra del dio, costruì in suo onore due templi, uno sul Palatino e un altro presso i giardini della Spes Vetus, nella parte orientale della città. 12. La Dea Madre Cibele; cfr. Carac., 6, 6, n. 7. 13. Dea del focolare e del fuoco e, più in generale, dell’economia e della vita domestica, il suo culto rivestiva importanza fondamentale nella vita religiosa dello Stato. Nel suo tempio ardeva il fuoco sacro custodito dalle vergini Vestali, il cui spegnersi rappresentava per lo Stato un presagio quanto mai funesto. 14. Il simulacro di Pallade-Atena, conservato nel tempio di Vesta, e che si diceva fosse quello stesso un tempo custodito a Troia, dopo essere caduto dal cielo; il suo possesso era garanzia di prosperità e salvezza per lo Stato che lo deteneva. 15. Gli ancilia Martis, i dodici scudi custoditi dai sacerdoti Salii (cfr. M. Ant., 4, 2, n. 5), tra cui vi era anche quello sacro, di forma semicircolare, che, secondo la leggenda, sarebbe caduto dal cielo nell’ottavo anno di regno di Numa Pompilio. 16. Sulle aspirazioni di Elagabalo a questa forma di «monoteismo» cfr. OPTENDRENK, Die Religionspolitik cit., pp. 88 segg.

17. A 12, 3 è detto che fu la nonna Mesa (Varia) ad entrare in senato. Stando a CASSIO DIONE, LXXIX, 17, 2 entrambe avrebbero presenziato in senato all’adozione di Severo Alessandro da parte di Elagabalo. 18. In precedenza, si sa che Agrippina, la madre di Nerone, aveva avuto il permesso di assistere a una seduta del senato, stando però nascosta dietro a una tenda (cfr. TACITO, Ann., XIII, 5). 19. Propriamente, invece, il senaculum indicava una specie di sala d’attesa ove i senatori si riunivano prima di entrare in seduta. Sulla notizia in questione cfr. J. STRAUB, Senaculum, id est mulierum senatus, in BHAC, 1964-65, Bonn, 1966, pp. 221 segg. 20. Sposando un uomo di condizione inferiore, una donna veniva automaticamente a decadere dal proprio rango nobiliare, a meno che non ricevesse autorizzazione ufficiale a conservarlo, grazie a un decreto imperiale. 21. L’inverno 218-219 d. C. Inizia qui la descrizione ampia e particolareggiata delle depravazioni sessuali di Elagabalo, un tema che viene sviluppato anche nel capitolo successivo e che ritorna ancora più volte nel corso della biografia, costituendone quasi il Leitmotiv. A proposito dell’insistenza particolare sui dati riguardanti la vita sessuale degli imperatori che si nota in certe vite della HA, e in particolar modo in quella di Elagabalo, cfr. H. G. PFLAUM, Les amours des empereurs dans l’HA, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 157 segg. 22. Il figlio di Giulia Avita Mamea, sorella minore della madre di Elagabalo: dopo l’adozione da parte di quest’ultimo il suo nome fu M. Aurelius Alexander e, divenuto imperatore, M. Aurelius Severus Alexander. 23. In realtà Alessandro fu nominato Cesare nel 221 d. C. (cfr. Op. Macr., 4, 1. n. 3) 24. Su questi due personaggi cfr. BARNES, Ultimus Antoninorum cit., pp. 58 seg. Sulla forma del nome del secondo cfr. Nota critica, ad loc. 25. Antiche feste, celebrate dal 28 aprile al 3 maggio di ogni anno in onore della dea Flora (la dea dei fiori e dei giardini), nel corso delle quali venivano date rappresentazioni teatrali di carattere estremamente spregiudicato ed osceno (v. in proposito le aspre critiche di LATTANZIO, Inst., I, 20, 10 e TERTULLIANO, De spect., 17). Cfr. OPTENDRENK, Die Religionspolitik, cit., pp. 25 segg. 26. Aquilia Severa, da lui sposata nel 221 d. C. 27. Probabilmente nella parte più interna e sacra del santuario, dove era custodito fra l’altro il Palladio. 28. Sembra in effetti che i sacri oggetti fossero contenuti in un grande vaso; PLUTARCO (Camillus, 20), accenna all’esistenza di due vasi custoditi nel santuario, uno dei quali sarebbe stato vuoto. 29. Rito collegato al culto della dea Celeste e della Magna Mater Cibele, assai diffuso a Roma nel II e III secolo d. C.; consisteva nel sacrificio di un toro il cui sangue veniva effuso su di una fossa ricoperta di tavole bucherellate entro la quale era sceso il credente. La cerimonia rivestiva evidentemente un significato di purificazione ed espiazione. Sulla notizia cfr. OPTENDRENK, Die Religionspolitik, cit., pp. 29 segg. 30. Galli o Gallae si chiamavano i sacerdoti di Cibele. 31. Divinità fenicio-punica della fertilità, il cui culto aveva una certa affinità con quello della Magna Mater. Cfr. OPTENDRENK, Die Religionspolitik, cit., pp. 38 segg. 32. Così l’idolo della Magna Mater e la pietra conica del dio Elagabalo. 33. Città sulla costa siriana. Su tutto il passo cfr. OPTENDRENK, Die Religionspolitik, cit., pp. 59 segg. 34. Il figlio di Agamennone e Clitennestra. 35. Fiume della Tracia. 36. Città della Tracia. Questo passo (7, 8-10), che interrompe lo svolgersi organico della narrazione, ha tutta l’aria di un’aggiunta posteriore, in cui si può riconoscere un’allusione alle due grandi battaglie avvenute ad Oresta-Adrianopoli nel 324 d. C. (vittoria di Costantino su Licinio) e nel 378 d. C. (sconfitta di Valente ad opera dei Goti).

37. Cfr. Hadr., 24, 4 e Ant. Pius, 2, 4. 38. Patrimi et matrimi erano appunto detti nel linguaggio sacrale i bambini che avevano vivi entrambi i genitori: essi venivano impiegati nelle cerimonie sacrificali in vista della loro condizione di innocenza che, non ancora turbata da alcun dolore, appariva perciò più piena. 39. Pseudophilippus era il nome con cui era stato generalmente chiamato Andrisco, un avventuriero apparso nel 148 a. C. in Macedonia spacciandosi per Filippo figlio di Perseo, e suscitando la terza guerra macedonica, conclusasi nel 147 a. C. 40. Cioè dotati di organi genitali di grosse proporzioni, come appunto gli asini («asino» è, in greco, ὄνος); cfr. Comm., 10, 9, n. 4. 41. Il riferimento può intendersi o alla campagna di Caracalla contro gli Alamanni del 213 d. C. o alla guerra combattuta da Marco Aurelio contro i Marcomanni. 42. Cfr. M. Ant., 19, 3, n. 1. 43. Sacerdoti persiani, addetti al culto del Sole, e particolarmente esperti nell’arte della divinazione e della predizione dei sogni. 44. Aurelio Zotico, un atleta originario di Smirne, fatto venire a Roma da Elagabalo (cfr. CASSIO DIONE, LXXIX, 16). 45. Il termine princeps officiorum è equivalente nella HA a quello di magister officiorum (per cui cfr. Pesc. Nig., 12, 7; Heliog., 20, 2; Al. Sev., 32, 1; Gall., 17, 8). 46. La pronuba era la matrona che assisteva e accompagnava la sposa alle nozze. 47. Magirus era un soprannome scherzoso di Zotico in riferimento al fatto che suo padre era un cuoco (in greco: Mάγειρος). 48. Sugli amici principis, cfr. Hadr., 7, 10, n. 6. 49. Si tratta di una citazione da TERENZIO, Adelph., 643. 50. Gioco di parole basato sul fatto che Liber era anche il nome dell’antica divinità italica che fu in seguito identificata col greco Bacco. 51. Si tratta probabilmente di P. Valerius Comazon, che fu console nel 220 d. C. assieme ad Elagabalo, e prefetto del pretorio in tre distinte occasioni; cfr. CASSIO DIONE, LXXVIII, 31, 1; LXXIX, 4, 12; ERODIANO, V, 7, 6. 52. I vigiles erano una sorta di guardie notturne (addette anche alla vigilanza sugli incendi), suddivise da Augusto in sette cohortes comandate da praefecti. 53. Cfr. 6, 3, n. 1. 54. Cfr. M. Ant., 11, 8, n. 2. 55. Cfr. Heliog., 4, 2 dove però, come vedemmo, protagonista dell’episodio veniva presentata la madre. 56. Cfr. 3, 4, n. 3. Spes Vetus era il nome dato a un tempio che ricordava la vittoria del console Orazio sugli Etruschi. La zona in cui sorgeva si chiamava appunto ad Spem veterem, e si trovava nei pressi della Porta Prenestina. 57. Del 222 d. C. 58. Al tempio di Giove sul Campidoglio, in occasione dell’inaugurazione ufficiale del loro consolato. 59. Si tratta forse di Fabio Sabino, che più tardi diventerà membro del consilium principis di Alessandro (cfr. Al. Sev., 68, 1). 60. Sappiamo che Ulpiano (per cui cfr. n. 5) scrisse un commentario all’opera di Masurio Sabino, un giurista vissuto nel I secolo d. C., che non ha evidentemente nulla a che fare con il personaggio qui ricordato. L’autore, citando questi libri ad Sabinum non meglio identificati, sembra aver voluto alludere con una specie di motto di spirito a tale opera. 61. Il famoso giurista Domizio Ulpiano, già assistente di Papiniano; cfr. Pesc. Nig., 7, 4. Fu prefetto del pretorio sotto Alessandro, esercitando grande influenza nel governo dello Stato; finì ucciso dai pretoriani

in rivolta (cfr. CASSIO DIONE, LXXX, 2). 62. Nel marzo del 222 d. C. 63. Costruito nel 179 a. C., attraversava il Tevere in corrispondenza del Foro Boario, approssimativamente nella posizione del moderno Ponte Emilio. 64. Cfr. G. ALFÖLDI, Zwei Schimpfnamen des Kaisers Elagabal: Tiberinus und Tractatitius, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 11 segg. 65. L’Anfiteatro Flavio o Colosseo; sappiamo da CASSIO DIONE, LXXVIII, 25, 2-3, che era stato colpito da un fulmine durante il regno di Macrino. 66. Cfr. Carac., 9, 4; 9, 9. 67. Secondo il racconto di CASSIO DIONE (cfr. LXXIX, 20, 2), Elagabalo fu ucciso fra le braccia di lei, e i due corpi sarebbero stati trascinati assieme per le strade. 68. Il famoso dissoluto ghiottone: cfr. Ael., 5, 9, n. 1. 69. Cfr. M. Ant., 17, 4-6 e 21, 9. 70. Mastichatum era detto il vino aromatizzato con la resina del lentisco, chiamata appunto mastix. 71. Puleiatum era detto il vino aromatizzato con puleggio, un tipo di menta. 72. Il passo presenta affinità evidenti con la ricetta degli isicia marina che troviamo nel De re coquinaria (cfr. II, 1, 1 e 3), il manuale di ricette giuntoci sotto il nome di Apicio. Sul problema dei rapporti fra quest’opera (che, così come ci è giunta, si presenta come una redazione tarda che ha utilizzato raccolte precedenti di ricette, in parte risalenti allo stesso Apicio, in parte tratte da altre fonti) e la HA cfr. S. CONDORELLI, Aspetti della vita quotidiana a Roma e tendenze letterarie nella HA, Messina, 1965, pp. 7 segg.; E. ALFÖLDI-ROSENBAUM, Apicius, De re coquinaria and the Vita Heliogabali, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 5 segg.; P. SOVERINI, Note su Ael. Spart., Ael., 5, 9 e sui rapporti tra la HA e Apicio, «St. it. fil. cl.», XLIX, 1977, pp. 244 segg. 73. Tanti, cioè, quante erano le regiones in cui Roma era stata suddivisa da Augusto tra il 12 e il 7 a. C. Cfr. anche Al. Sev., 33, 1. 74. Il nasturzio o crescione, pianta delle crocifere con effetto depurativo. 75. Apamea era una città della Siria, sul fiume Oronte. 76. Il ceraunius era una pietra preziosa. 77. Per simili apparati conviviali cfr. SVETONIO, Nero, 31, 2 e PETRONIO, Sat., 60. 78. Il follis aeris era una moneta di rame contenente anche una piccola percentuale d’argento; tale nome però non risulta essere stato in uso prima di Diocleziano, sicché ci troveremmo di fronte ad un anacronismo: cfr. K. MENADIER, Die Münzen und das Münzwesen bei den ShA, «Zeitschr. f. Numismatik», XXXI, 1914, p. 38. 79. Euripo era propriamente il nome dello stretto canale che divideva la Beozia dall’isola Eubea, impiegato poi per estensione ad indicare ogni canale o fossato in genere. 80. Popolazione dell’Italia centrale stanziata lungo le rive del lago Fucino e nell’alta valle del Liri; erano famosi come maghi e incantatori di serpenti (cfr. ad es. PLINIO, Nat. Hist., VII, 15; XXV, 11). 81. Cfr. lo stesso motivo a Tyr. trig., 30, 24 seg. in riferimento a Zenobia. 82. Il favoloso uccello venerato dagli Egiziani che, secondo la leggenda, viveva sino a cinquecento anni e rinasceva dalle proprie ceneri; fu assunto dai Greci quale simbolo della risurrezione e dell’immortalità. 83. Sulla complessa questione della equiparazione qui presentata di 100.000 sesterzi (sestertium indica infatti la somma di 1.000 sesterzi) a 30 libbre d’argento cfr. MAGIE, II, p. 152, n. 1 nonché, particolarmente per la bibliografia in merito, MENADIER, Münzwesen, cit., pp. 34 segg. 84. Cfr. 18, 4. 85. Per un parallelo fra 24, 3-4 e SVETONIO, Vit., 13, 2-3 cfr. A. CHASTAGNOL, L’HA et les «Douze

Césars» de Suétone, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 116; 122. 86. Issione era il mitico re della popolazione tessalica dei Lapiti che, quale pena per i suoi pretesi amori illeciti con Giunone (aveva generato i Centauri unendosi a una nube che aveva l’aspetto della dea) fu condannato nell’Averno ad essere legato ad una ruota infuocata che girava incessantemente. 87. L’espressione saxa Lacedaemonia denota il serpentino (una varietà di porfido verde): le cave di questo minerale si trovavano infatti nei pressi di Crocea, nel sud della Laconia, la regione della Grecia di cui era appunto capitale Sparta (Lacedaemon). Assieme al porfido rosso egiziano, era importato in grande quantità a Roma. 88. Nell’alto Egitto. 89. Cfr. Ver., 4, 9. 90. Un misto di seta e lino o cotone, laddove la veste holoserica era tutta di pura seta. L’uso di vesti di seta da parte di uomini era indice di un comportamento effemminato ed era perciò evitato e vietato dai buoni imperatori: cfr. Al. Sev., 40, 1; Aurel., 45, 4; Tac., 10, 4. La notizia secondo cui Elagabalo sarebbe stato il primo dei Romani ad usare una veste holoserica è falsa; tra gli imperatori precedenti sappiamo che amavano indossarle per lo meno Caligola (cfr. SVETONIO, Cal., 52) e Tiberio (cfr. TACITO, Ann., II, 33). 91. Cfr. Comm., 8, 8, n. 8. 92. Forse il riferimento è a Q. Fabio Massimo Gurgite, che fu tre volte console nella prima metà del II secolo a. C., ma nulla si sa sull’episodio qui ricordato, né è possibile identificare con certezza lo Scipione cui si allude subito dopo. Si noti che la dalmatica non risulta essere stata in uso in epoca repubblicana. 93. Cfr. Sev., 8, 5. Su questo passo cfr. A. CHASTAGNOL, Zosime II, 38 et l’HA, in BHAC, 1964-65, Bonn, 1966, pp. 45 seg.; H. P. KOHNS, Wirtschaftgeschichtliche Probleme in der HA, ibid., p. 105. 94. Di una muta costituita da quattro cervi si parla anche in Aurel., 33, 3. Cfr. A. ALFÖLDI, Zwei Bemerkungen zur HA. Das Hirschgespann, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 4 segg. 95. Cfr. Carac., 6, 6, n. 7. Il corteo al seguito della dea comprendeva anche carri trainati da leoni. 96. Cfr. 11, 5, n. 3. Al seguito del dio c’erano in effetti tigri e pantere. 97. Sembra si alluda qui al serpentello del dio Knuphis, che si trova spesso rappresentato su gemme e amuleti, a volte con la testa di leone, e considerato come una specie di genio benefico; cfr. MAGIE, II, p. 160, n. 2. 98. In realtà la carne di struzzo era considerata impura dai Giudei; sulla notizia cfr. OPTENDRENK, Die Religionspolitik, cit., pp. 73 segg.; R. SYME, Ammianus and the HA, Oxford, 1968, p. 113; E. ALFÖLDIROSENBAUM, Notes on some Birds and Fishes of Luxury in the HA, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 13 seg. 99. Doveva trattarsi di un condimento costituito da garum (una specie di salsa preparata con pesci marinati) diluito in acqua. 100. Si intende qui l’Agger Tarquini Superbi, detto comunemente agger (= «il bastione»), cioè quella parte delle mura costruite da Servio Tullio che si estendeva a levante, dalla Porta Collina all’Esquilina, e che era stata successivamente rinforzata da Tarquinio il Superbo. Cfr. PLINIO, Nat. Hist., III, 67. 101. Sibari, colonia greca della Lucania, era nota per il lusso e le mollezze dei suoi abitanti. 102. La città fu distrutta nel 510 a. C. dai Crotoniati. 103. SVETONIO (Nero, 30, 3) narra che Nerone non si metteva mai in viaggio con meno di mille carrozze. 104. Per una situazione simile cfr. SVETONIO, Domit., 22. 105. Per usi del genere da parte di Caligola e Nerone cfr. SVETONIO, Cal., 18 e PLINIO, Nat. Hist., XXXIII, 90. 106. SVETONIO, Claud., 20, 3 parla dell’affondamento di una nave nel porto di Ostia da parte di Claudio.

107. Cfr. Pert., 12, 6; Al. Sev., 37, 6; Tac., 11, 5. 108. L’imperatore Eilippo l’Arabo (244-249 d. C.), la cui vita della HA, come si sa, è perduta (cfr. Introduzione); il suo decreto è comunque ricordato anche in Al. Sev., 24, 4 (cfr. anche AURELIO VITTORE, Caes., 28, 6; su questo argomento, in relazione al problema dei rapporti fra la HA e VITTORE, cfr. A. CHASTAGNOL, Zosime II, 38 et l’HA, cit., pp. 54 segg.; ID., L’HA et Aurèle Victor, «Rev. de Philol.», XLI, 1967, pp. 95 segg.). 109. La pandura era una specie di liuto a tre corde. 110. Un esame del passo e ricerche sulla torre in questione in J. M. LASSÈRE, La tour d’Elagabal, «Rev. Ét. Anc.», LXXVII, 1975, pp. 131 segg. 111. Nel caso di Nerone, però, si era trattato di un suicidio (cfr. SVETONIO, Nero, 49). 112. Sulla pretesa discendenza di Costantino da Claudio il Gotico cfr. anche Claud., 9, 9. 113. Imperatore dal 284 al 305 d. C. 114. Collega di Diocleziano nella tetrarchia (era l’Augusto d’Occidente); l’espressione parens saeculi ferrei sembra costituire un’allusione alla sua indole di rude soldato. 115. L’avversario di Costantino da lui sconfitto nel 324 d. C. nei pressi di Calcedone in Bitinia. 116. Flavio Severo, prima Cesare di Costanzo Cloro e più tardi Augusto. 117. L. Domizio Alessandro, usurpatore in Africa (308-311 d. C). 118. L’avversario di Costantino da lui sconfìtto nel 312 d. C. nella battaglia del Ponte Milvio. 119. Per questo concetto cfr. anche Pesc. Nig., 12, 8 e, fuori dell’opera, TACITO, Ann., XII, 36, che potrebbe aver influenzato il nostro autore.

XVIII. ALEXANDER SEVERUS AELI LAMPRIDII

ALESSANDRO SEVERO di ELIO LAMPRIDIO

[1, 1] Interfecto Vario Heliogabalo (sic enim malumus dicere quam Antoninus, quia et nihil Antoninorum pestis illa ostendit [2] et hoc nomen ex annalibus senatus auctoritate erasum est) ad remedium generis humani Aurelius Alexander1, urbe Arcena genitus2, Varii filius, Variae3 nepos et consobrinus ipsius Gabali4, accepit imperium, cum ante Caesar a senatu esset appellatus, mortuo scilicet Macrino5, [3] Augustumque nomen idem recepit addito eo, ut et patris patriae nomen et ius proconsulare et tribuniciam potestatem6 et ius quintae relationis deferente senatu uno die adsumeret. [4] Et ne praeceps ista honorum continuatio videatur, exponam causas, quibus id et senatus coactus est facere et ille perpeti. [5] Non enim aut gravitati senatus congruebat omnia simul deferre aut bono principi raptum ire tot simul dignitates. [6] Milites iam insueverant sibi imperatores et tumultuario iudicio facere et item facile mutare, adserentes nonnumquam ad defensionem se idcirco fecisse, quod nescissent senatum principem appellasse. [7] Nam et Pescennium Nigrum et Clodium [Nigrum] Albinum et Avidium Cassium et antea Lucium Vindicem. et L. Antonium7 et ipsum Severum, cum senatus iam lulianum dixisset principem8, imperatores fecerant, atque ista res bella civilia severat, quibus necesse fuit militem contra hostem paratum parricidaliter perire. [2, 1] Hac igitur causa festinatum est, ut omnia simul Alexander quasi iam vetus imp(erator) acciperet. [2] Huc accessit nimia et senatus et populi inclinatio post illam cladem, quae non solum Antoninorum nomen decoloravit, sed etiam Romanum dehonestavit imperium. [3] Certatim denique omnia decreta sunt et nominum genera et potestatum. [4] Primus denique et omnium cuncta insignia et honorifìcentiae genera simul recepit suffragante sibimet Caesaris nomine, quod iam ante aliquot annos meruerat, et magis suffragante vita et moribus, cum illi magnum conciliasset favorem, quod Heliogabalus occidere conatus est nec potuit et militibus repugnantibus et senatu refragante. [5] Atque haec parva sunt, nisi quod dignum se exhibuit, quem senatus servaret, quem salvum milites cuperent, quem omnium bonorum sententia principem diceret. [3, 1] Alexander igitur, cui Mamaea mater fuit – nam et ita dicitur a plerisque9 – a prima pueritia artibus bonis inbutus tam civilibus quam militaribus ne unum quidem diem sponte sua transire passus est, quo se non et ad litteras et ad militiam exerceret. [2] Nam in prima pueritia litteratores10

habuit Valerium Cordum et Titum Veturium et Aurelium Philippum libertum patris, qui vitam eius postea in litteras misit, [3] grammaticum in patria Graecum Nehonem, rhetorem Serapionem, filosophum Stilionem, Romae grammaticos Scaurinum Scaurini filium, doctorem celeberrimum, rhetores Iulium Frontinum et Baebium Macrianum et Iulium Granianum, cuius hodieque declamatae feruntur. [4] Sed in Latinis non multum profecit, ut ex eiusdem orationibus apparet, quas 〈in〉 senatu habuit, vel contionibus, quas apud milites vel apud populum. Nec valde amavit Latinam facundiam, sed amavit litteratos homines vehementer, eos etiam reformidans, ne quid de se asperum scriberent. [5] Denique eos, 〈quos〉 dignos [ad desce] videbat, singula quaeque, quae publice privatim agebat, se ipso docente volebat addiscere, si forte ipsi non adfuissent, eaque petebat ut, si vera essent, in litteras mitterent. [4, 1] Dominum11 se appellari vetuit. Epistolas ad se quasi ad privatum scribi iussit servato tantum nomine imperatoris. [2] Gemmas de calciamentis et vestibus tulit, quibus usus fuerat Heliogabalus. Veste, ut et pingitur, alba usus est nec aurata, paenulis togisque communibus12. [3] Cum amicis tam familiariter vixit, ut communis esset ei saepe consessus, iret ad convivia eorum, aliquos autem haberet cotidianos etiam non vocatos, salutaretur vero quasi unus e senatoribus patente velo admissionalibus remotis aut solis his, qui ministri ad fores fuerant, 〈furibus autem〉 salutare principem non liceret, quod eos videre non poterat. [4] Et erat eius corporis, ut praeter venustatem ac cultum, quem hodieque et in pictura et in statuis videmus, decor ei inesset staturae militaris, robur militis, valitudo eius, qui vim sui corporis sciret ac semper curaret. [5] Erat praeterea cunctis hominibus amabilis et ab aliis pius appellabatur, ab omnibus certe sanctus et utilis rei p. [6] Huic sors in templo Praenestinae13 talis extitit, cum illi Heliogabalus insidiaretur: «Si qua fata aspera rumpas, tu Marcellus eris»14.

[5, 1] Alexandri nomen accepit, quod in templo dicato apud Arcenam urbem Alexandro Magno natus esset15, cum casu illuc die festo Alexandri cum uxore pater isset sollemnitatis implendae causa. [2] Cui rei argumentum est, quod eadem die natalem habet hic Mammaeae Alexander, qua ille Magnus excessit e vita. [3] Delatum sibi Antonini nomen a senatu recusavit, 〈cum〉 hic magis adfinitate Caracalli iungeretur quam ille subditivus16, [4] si quidem, ut Marius Maximus dixit in vita Severi, nobilem orientis mulierem Severus, cuius

hanc genituram esse conpererat, ut uxor imperatoris esset17, adhuc privatus et non magni satis loci duxit uxorem, ex qua adfinitate hic Alexander fuit, cui vere per matrem suam consobrinus Varius Heliogabalus fuit. [5] Recusavit et Magni nomen, 〈quod〉 ei quasi Alexandro est oblatum senatus iudicio. [6, 1] Interest relegere orationem, qua nomen Antonini et Magni delatum sibi a senatu recusavit. Quam priusquam prae〈beam pro〉feram etiam adclamationes senatus, quibus id decretum est. [2] Ex actis urbis18: a. d. pridie nonas Martias19 cum senatus frequens in curiam (hoc est in aedem Concordiae20 templumque inauguratum) convenisset rogatusque esset Aurelius Alexander Caesar Augustus, ut consideret, ac primo recusasset, quod sciret de honoribus suis agendum, deinde postea venisset, adclamatum: [3] «Auguste innocens, di te servent. Alexander imperator, di te servent. Di te nobis dederunt, di conservent. Di te ex manibus impuri eripuerunt, di te perpetuent. [4] Impurum tyrannum et tu perpessus es, impurum et opscaenum et tu vivere doluisti. Di illum eradicarunt, di te servarunt. Infamis imperator rite damnatus. [5] Felices nos imperio tuo, felicem rem p. Infamis 〈imperator〉 unco tractus est ad exemplum timoris, luxuriosus imperator iure punitus est, contaminator bonorum iure punitus est. Di inmortales Alexandro vitam. Iudicia deorum hinc apparent». [7, 1] Et cum egisset gratias Alexander, adclamatum est: «Antonine Alexander, di te servent. Antonine Aureli, di te servent. Antonine Pie, di te servent. Antonini nomen suscipias rogamus. [2] Praesta bonis imperatoribus, ut Antoninus dicaris. Nomen Antoninorum tu purifica. Quod ille infamavit, tu purifica. Redde in integrum nomen Antoninorum. [3] Sanguis Antoninorum se cognoscat. Iniuriam Marci tu vindica. Iniuriam Veri tu vindica. Iniuriam Bassiani21 tu vindica. [4] Peior Commodo solus Heliogabalus, nec im(perator) nec Antoninus nec civis nec senator nec nobilis nec Romanus. [5] In te salus, in te vita. Ut vivere delectet, Antoninorum Alexandro vitam. Ut vivere delectet, et Antoninus vocetur. Antoninorum templa Antoninus dedicet. [6] Parthos et Persas Antoninus vincat. Sacrum nomen sacratus accipiat. Sacrum nomen castus accipiat. Antonini nomen di cognoscant, Antoninorum honorem di conservent. In te omnia, per te omnia. Antonine, haveas». [8, 1] Et post adclamationes Aurelius Alexander Caesar Augustus: «Gratias vobis, p. c., non nunc primum sed et de Caesareano nomine et de vita servata et Augusti nomine addito et de pontificatu maximo et de tribunicia potestate et proconsulari imperio, quae omnia novo exemplo uno die in me contulistis». [2] Et cum diceret, adclamatum: «Haec suscepisti, Antonini

nomen suscipe. Mereatur senatus, Antonini mereantur. [3] Antonine Auguste, di te servent, di te Antoninum conservent. Monetae nomen Antonini reddatur. Templa Antoninorum Antoninus consecret». [4] Aurelius Alexander Augustus: «Ne, quaeso, p. c., ne me ad hanc certaminis necessitatem vocetis, ut ego cogar tanto nomini satis facere, cum etiam hoc ipsum nomen, licet peregrinum, tamen gravare videatur. Haec enim nomina insignia onerosa sunt. [5] Quis enim Ciceronem dicat mutum? Quis indoctum Varronem? Quis impium Metellum?22 Et, ut hoc di avertant, quis non aequantem nomina ferat, degenerantem in clarissima specie dignitatum?». Item adclamata, quae supra. [9, 1] Item imp(erator) dixit: «Antoninorum 〈nomen〉 vel iam numeri potius quantum fuerit, meminit vestra clementia: si pietatem, quid Pio sanctius? Si doctrinam, quid Marco prudentius? Si innocentiam, quid Vero simplicius? Si fortitudinem, quid Bassiano fortius? [2] Nam Commodi meminisse nolo, si hoc ipso deterior [si] fuit, quod cum illis moribus Antonini nomen obtinuit. [3] Diadumenus autem nec tempus habuit nec aetatem et arte patris hoc nomen incurrit». Item adclamatum ut supra. [4] Item imp(erator) dixit: «Nuper certe, p. c., meministis, cum ille omnium non solum bipedum sed etiam quadrupedum spurcissimus Antonini nomen praeferret et in turpitudine atque luxurie Nerones, Vitellios, Commodos vinceret, qui gemitus omnium fuerit, cum per populi et honestorum coronas una vox esset hunc iniuste Antoninum dici, per hanc pestem tantum violari nomen». [5] Et cum diceret, adclamatum est: «Di mala prohibeant. Haec te imperante non timemus. De his te duce securi sumus. Vicisti vitia, vicisti crimina, 〈vicisti〉 dedecora. [6] Antonini nomen ornabis. Tibi certe sumimus, bene praesumimus. Nos te et a pueritia probavimus et nunc probamus». [7] Item imp(erator): «Neque ego, p. c., ideirco timeo istud venerabile omnibus nomen accipere, quod verear, ‹ne› in haec vitia delabatur vita, aut nos nominis pudeat, sed primum displicet alienae familiae nomen adsumere, deinde quod gravari me credo». [10, 1] Et cum diceret, adclamatum est ut supra. Item dixit: [2] «Si enim Antonini nomen accipio, possum et Traiani, possum et Titi, possum et Vespasiani». [3] Et cum diceret, adclamatum est: «Quomodo Augustus, sic et Antoninus». Et imp(erator): «Video, patres conscripti, quid vos 〈adducat〉 ad hoc nobis nomen addendum. [4] Augustus primus primus est huius auctor imperii, et in eius {nomen} omnes velut quadam adoptione aut iure hereditario23 succedimus; Antonini ipsi Augusti sunt dicti [sunt]. [5] Antoninus item 〈de〉 se Pius Marcum et item Verum iure adoptionis vocavit,

Commodo autem hereditarium fuit, susceptum Diadumeno, adfectatum in Bassiano, ridiculum in Aurelio24». [6] Et cum diceret, adclamatum est: «Alexander Auguste, di te servent. Di 〈faveant〉 verecundiae tuae, prudentiae tuae, innocentiae tuae, castitati tuae. Hinc intellegimus, qualis futurus sis, hinc probamus. [7] Tu facies, ut senatus bene principes eligat. Tu facies optimum esse iudicium senatus. Alexander Auguste, di te servent. Templa Antoninorum Alexander Augustus dedicet. [8] Caesar noster, Augustus noster, imperator noster, di te servent. Vivas, valeas, multis annis imperes». [11, 1] Alexander imp(erator) dixit: «Intellego, p. c., me optinuisse, quod volui, et in acceptum refero, plurimas 〈gratia〉s et agens et habens enisurus, ut et hoc nomen, quod in imperium detulimus, tale sit, ut et ab aliis desideretur et bonis vestrae pietatis iudiciis offeratur». [2] Post haec adclamatum est: «Magne Alexander, di te servent. Si Antonini nomen repudiasti, Magni praenomen suscipe. Magne Alexander, di te servent». [3] Et cum saepius dicerent, Alexander Augustus: «Facilius fuit, p. c., ut Antoninorum nomen acciperem, aliquid enim vel adfinitati deferrem vel consortioni nominis imperialis. [4] Magni vero nomen cur accipiam? Quid enim iam magnum feci? Cum id Alexander post magna gesta, Pompeius vero {post} magnos triumphos acceperit25. Quiescite igitur, venerandi patres, et vos ipsi magnifici unum me de vobis esse censete, quam Magni nomen ingerite». [12, 1] Post haec adclamatum est: «Aureli Alexander Auguste, di te servent». Et reliqua ex more. [2] Dimisso senatu, cum et alia multa eo die essent acta, quasi triumphans domum se recepit. [3] Multo clarior visus est alienis nominibus non receptis quam si recepisset; atque ex eo constantiae ac plenae gravitatis famam obtinuit, si quidem uni 〈iuveni〉 vel adulescenti potius senatus totus persuadere non potuit. [4] Sed quamvis senatu rogante non potuerit persuaderi, ut vel Antonini vel Magni nomina susciperet, tamen ob ingentem vigorem animi et mirandam singularemque constantiam contra militum insolentiam Severi nomen a militibus eidem inditum est26. [5] Quod illi ingentem in praesentia reverentiam, magnam apud posteros gloriam peperit, cum eo accessisset, ut de animi virtute nomen acceperit, si quidem solus27 inventus sit, qui tumultuantes legiones exauctoraverit, ut suo loco ostendetur, in milites autem gravissime animadverterit, qui forte incurrerunt aliquid, 〈quod〉 videretur iniustum, ut et ipsum locis suis declarabimus28. [13, 1] Omina imperii haec habuit: primum quod ea die natus est, qua defunctus vita Magnus Alexander dicitur, deinde quod in templo eius mater

enixa est, tertio quod ipsius nomen accepit, tum praeterea quod ovum purpurei coloris eadem die natum, qua ille natus est, palumbinum anicula quaedam matri eius obtulit; [2] ex quo quidem haruspices dixerunt imperatorem quidem illum, sed non diu futurum et cito ad imperium perventurum. Tum praeterea, quod tabula Traiani imperatoris, quae geniali lecto patris imminebat, dum illa in templo pareret, in lectum eius decidit. [3] His accessit [quo] quod nutrix ei Olympias data est, quo nomine mater Alexandri appellata est. [4] Nutritor Philippus provenit casu unus ex rusticis, quod nomen patri Alexandri Magni fuit. [5] Fertur die prima natalis toto die apud Arcam Caesaream29 stella primae magnitudinis visa et sol circa domum patris eius fulgido ambitu coronatus. [6] Cum eius natalem aruspices commendarent, dixerunt eum summam rerum tenturum, idcirco quod hostiae de ea villa, quae esset Severi imperatoris, adductae essent et quas in illius honorem coloni parassent. [7] Nata in domo laurus iuxta persici30 arborem intra unum annum persici arborem vicit. Unde etiam coniectores dixerunt Persas ab eo esse vincendos. [14, 1] Mater eius pridie quam pareret somniavit se purpureum dracunculum parere. [2] Pater eadem nocte in somnis vidit alis se Romanae Victoriae, quae in senatu31, ad caelum vehi. [3] Ipse cum vatem consuleret de futuris, hos accepisse dicitur versus adhuc parvulus et primum quidem sortibus: [4] «Te manet imperium caeli terraeque» intellectum est, quod inter divos etiam referetur. «Te manet imperium, quod tenet imperium», ex quo intellectum est Romani illum imperii principem futurum; nam ubi est imperium nisi apud Romanos, quod tenet imperium? Et haec quidem de Graecis versibus sunt prodita32. [5] Ipse autem, cum parentis hortatu animum a filosophia et musicaque 〈ad〉 alias artes traduceret, Vergilii sortibus huius modi inlustratus est: «Excudent alii spirantia mollius aera, credo equidem, et vivos ducent de marmore vultus, orabunt causas melius caelique meatus describent radio et surgentia sidera dicent: tu regere imperio populos, Romane, memento. Hae tibi erunt artes pacique inponere morem, parcere subiectis et debellare superbos»33.

[6] Fuerunt multa alia signa, quibus principem humani generis esse constaret. Nimius ardor oculorum et diutius intuentibus gravis, divinatio mentis frequentissima, rerum memoria singularis quam mnemonico Acholius34

ferebat adiutam. [7] Et cum puer35 ad imperium pervenisset, fecit cuncta cum matre, ut et illa videretur pariter imperare, mulier sancta sed avara et auri atque argenti cupida. [15, 1] Ubi ergo Augustum agere coepit, primum removit omnes iudices a re p. et a ministeriis atque muneribus, quos inpurus ille ex genere hominum turpissimo provexerat; deinde senatum et equestrem ordinem purgavit. [2] Ipsas deinde tribus36 et eos, qui militaribus nituntur praerogativis, purgavit et Palatium suum comitatumque omnem abiectis ex aulico ministerio cunctis obscenis et infamibus nec quemquam passus est esse in Palatinis {non} necessarium hominem. [3] Iure iurando deinde se constrinxit, ne quem adscriptum, id est vacantivum, haberet, ne annonis rem p. gravaret, dicens malum publicum esse imperatorem, qui ex visceribus provincialium homines non necessarios nec rei p. utiles pasceret. [4] Fures iudicare iussit in civitatibus ullis numquam videri et, si essent visi, deportari per rectores provinciarum. [5] Annonam militum diligenter inspexit. Tribunos, qui 〈per〉 stellaturas militibus aliquid tulissent, capitali poena adfecit. [6] Negotia et causas prius a scriniorum principibus37 et doctissimis iuris peritis et sibi fidelibus, quorum primus tunc Ulpianus fuit, tractari ordinarique atque ita referri ad se praecepit. [16, 1] Leges de iure populi et fìsci moderatas et infinitas sanxit neque ullam constitutionem sacravit sine viginti iuris peritis et doctissimis ac sapientibus viris isdemque disertissimis non minus quinquaginta, ut non minus in consilio essent sententiae, quam senatus consultum conficerent, [2] et id quidem ita ut iretur per sententias singulorum ac scriberetur, quid quisque dixisset, dato tamen spatio ad disquirendum cogitandum, priusquam dicerent, ne incogitati dicere cogerentur de rebus ingentibus. [3] Fuit praeterea illi consuetudo, ut, si de iure aut de negotiis tractaret, solos doctos et disertos adhiberet, si vero de re militari, militares veteres et senes bene meritos et locorum peritos ac bellorum et castrorum et omnes litteratos et maxime eos, qui historiam norant, requirens, quid in talibus causis, quales in disceptatione versabantur, veteres imperatores vel Romani vel exterarum gentium fecissent. [17, 1] Referebat Encolpius38, quo ille familiarissimo usus est, illum, si umquam furem iudicem vidisset, paratum habuisse digitum, ut illi oculum erueret: tantum odium eum tenebat eorum, de quibus apud se probatum, quod fures fuissent. [2] Addit Septiminus39, qui vitam eius non mediocriter exsequutus est, tanti stomachi fuisse Alexandrum in eos iudices, qui furtorum fama laborassent, etiamsi damnati non essent, ut, si eos casu aliquo videret,

commotione animi stomachi choleram evomeret toto vultu inardescente, ita ut nihil loqui posset. [3] Nam cum quidam Septimius Arabianus, famosus crimine furtorum et sub Heliogabalo iam liberatus, inter senatores principem salutatum venisset, exclamavit: [4] «O Marna40, o Iuppiter, {o} di inmortales, Arabianus non solum vivit, verum etiam in senatum venit41, fortassis etiam de me sperat: tam fatuum, tam stultum esse me iudicat». Salutabatur autem nomine, hoc est «have, Alexander». [18, 1] Si quis caput flexisset aut blandius aliquid dixisset, ut adulator vel abiciebatur, si loci eius qualitas pateretur, vel ridebatur ingenti cachinno, si eius dignitas graviori subiacere non posset iniuriae. [2] Salutatus consessum obtulit omnibus senatoribus42 atque adeo nisi honestos et bonae famae homines ad salutationem non admisit iussitque (quem ad modum in Eleusinis sacris dicitur, ut nemo ingrediatur, nisi qui se innocentem novit) per praeconem edici, ut nemo salutaret principem, qui se furem esse nosset, 〈ne〉 aliquando detectus capitali supplicio subderetur. [3] Idem adorari se vetuit, cum iam coepisset Heliogabalus adorari regum more Persarum43. [4] Erat praeterea haec illius sententia solos fures de paupertate conqueri, dum volunt scelera vitae suae tegere. [5] Idem addebat sententiam de furibus notam et Graece quidem, quae Latine hoc significat: «Qui multa rapuerit, pauca suffragatoribus dederit, salvus erit», quae Graeco talis est: Ὁ πολλὰ χλέψας ὀλίγα δοὺς ἐχφεύξεται. praet. sibi ex senatus auctoritate44 constituit.

[19, 1] Praef. Praef. urbi a senatu accepit. Alterum praef. praet. fecit qui ne fìeret, etiam fugerat, dicens invitos, non ambientes in re p. conlocandos. [2] Senatorem numquam sine omnium senatorum, qui aderant, Consilio fecit, ita ut per sententias omnium crearetur, testimonia dicerent summi viri ac, si fefellissent vel testes vel hi, 〈qui〉 sententias dicebant, postea in ultimum reicerentur locum civium [in] condemnatione adhibita, quasi falsi rei adprobati sine ullius indulgentiae proposito. [3] Idem senatores non nisi ad summorum in Palatio virorum suffragium fecit, dicens magnum virum esse oportere, qui faceret senatorem. [4] Idem libertinos numquam in equestrem locum redegit adserens seminarium senatorum equestrem locum esse. [20, 1] Moderationis tantae fuit, ut nemo umquam ab eius latere summoveretur, ut omnibus se blandum adfabilemque praeberet ut amicos non solum primi aut secundi loci45 sed etiam inferiores aegrotantes viseret, ut sibi ab omnibus libere, quod sentiebant, dici cuperet et, cum dictum esset, audiret et, cum audisset, ita ut res poscebat, emendaret atque corrigeret, [2] sin minus

bene factum esset aliquid, etiam ipse convinceret, idque sine fastu et sine amaritudine pectoris, consessum omnibus semper offerret praeter eos, quos furtorum densior fama perstrinxerat, de absentibus semper requireret. [3] Denique cum ei {ob} nimiam civilitatem et Mammaea mater et uxor Memmia46, Sulpicii consularis viri filia, Catuli neptis, saepe diceret: «Molliorem tibi potestatem et contemptibiliorem imperii fecisti», ille respondit: «Sed securiorem atque diuturniorem». [4] Dies denique numquam transiit, quando non aliquid mansuetum, civile, pium fecit, sed ita ut aerarium non everteret. [21, 1] Condemnationes et raras esse iussit et, quae factae fuerant, non indulsit. Vectigalia civitatibus ad proprias fabricas deputavit. [2] Fenus publicum trientarium47 exercuit, ita ut pauperibus plerisque sine usuris pecunias dederit ad agros emendos, reddendas de fructibus. [3] Praef. praetorii suis senatoriam addidit dignitatem48, ut viri clarissimi49 et essent et dicerentur; [4] quod antea vel raro fuerat vel omnino [non] diu non fuerat, eo usque ut, si quis imperatorum successorem praef. praet. dare vellet, laticlaviam50 eidem per libertum summitteret, ut in multorum vita Marius Maximus dixit. [5] Alexander autem idcirco senatores esse voluit praef. praet., ne quis non senator de Romano senatore iudicaret. [6] Milites suos sic ubique scivit, ut in cubiculo haberet breves et numerum et tempora militantum semperque, cum solus esset, et rationes eorum et numerum et dignitates51 et stipendia recenseret, ut esset ad omnia instructissimus. [7] Denique 〈cum〉 inter militares aliquid ageretur, multorum dicebat et nomina. [8] De provehendis etiam sibi adnotabat et perlegebat cuncta pittacia et sic faciebat diebus etiam pariter adnotatis et quis quo esset insinuante promotus. [9] Commeatum52 populi Romani sic adiuvit, ut, cum frumenta Heliogabalus evertisset, hic empta de propria pecunia loco suo reponeret. [22, 1] Negotiatoribus, ut Romam volentes concurrerent, maximam inmunitatem dedit. [2] Oleum, quod Severus populo dederat quodque Heliogabalus inminuerat turpissimis hominibus praefecturam annonae tribuendo, integrum restituit. [3] Ius confarreationis53, quod inpurus ille sustulerat, hic omnibus reddidit. [4] Mechanica opera Romae plurima instituit. Iudaeis privilegia reservavit. Christianos esse passus est54. [5] Pontificibus tantum detulit et quindecim viris55 atque auguribus56, ut quasdam causas sacrorum a se finitas iterari et aliter discingi pateretur. [6] Praesides provinciarum, quos vere, non factionibus laudari comperit, et itineribus secum

semper in vehiculo habuit et muneribus adiuvit, dicens et fures a re publica pellendos ac pauperandos et integros esse retinendos atque ditandos. [7] Cum vilitatem populus Romanus ab eo peteret, interrogavit per curionem, quam speciem caram putarent. Illi continuo exclamaverunt carnem bubulam atque porcinam. [8] Tunc ille non quidem vilitatem proposuit, sed iussit, ne quis suminatam occideret, ne quis lactantem, ne quis vaccam, ne quis damalionem57, tantumque intra biennium vel prope annum porcinae carnis fuit et bubulae, ut, cum fuisset octominutalis libra58, ad duos unumque utriusque carnis libra redigeretur. [23, 1] Causas militum contra tribunos sic audivit, ut, si aliquem repperisset tribunorum in crimine, pro facti qualitate sine indulgentiae proposito puniret. [2] De omnibus hominibus per fideles homines suos semper quaesivit et per eos, quos nemo nosset hoc agere, cum diceret omnes praeda corrumpi posse. [3] Servos suos semper cum servili veste habuit, libertos cum ingenuorum. [4] Eunuchos59 de ministerio suo abiecit et uxori ut servos servire iussit. [5] Et cum Heliogabalus mancipium eunuchorum fuisset, ad certum numerum eos redegit nec quicquam in Palatio curare fecit nisi balneas feminarum. [6] Cum plerosque eunuchos rationibus et procurationibus praeposuisset Heliogabalus, hic illis et veteres sustulit dignitates. [7] Idem tertium genus hominum eunuchos esse dicebat nec videndum nec in usu habendum a viris, sed vix a feminis nobilibus. [8] Qui de eo fumos vendiderat et a quodam militari centum aureos acceperat, in crucem tolli iussit per eam viam, qua esset servis suis ad suburbana imperatoria iter frequentissimum. [24, 1] Provincias60 legatorias praesidales61 plurimas fecit, proconsulares ex senatus voluntate ordinavit. [2] Balnea mixta Romae exhiberi prohibuit, quod quidem iam ante prohibitum Heliogabalus fieri permiserat. [3] Lenonum vectigal et meretricum et exsoletorum in sacrum aerarium inferri vetuit, sed sumptibus publicis ad instaurationem theatri62, circi63, amphitheatri64, stadii65 deputavit. [4] Habuit in animo, ut exsoletos vetaret, quod postea Filippus66 fecit, sed veritus est, ne prohibens publicum dedecus in privatas cupiditates converteret, cum homines inlicita magis prohibita poscant furore iactante. [5] Bracariorum, linteonum, vitrariorum, pellionum, claustrariorum, argentariorum, aurificum et ceterarum artium vectigal pulcherrimum instituit ex eoque iussit thermas et quas ipse fundaverat et superiores populi usibus exhiberi; silvas etiam thermis publicis deputavit. [6] Addidit et oleum luminibus thermarum, cum antea et

ad nonam paterent et ante solis occasum clauderentur67. [25, 1] Huius imperium incruentum quidam litteris tradiderunt, quod contra est. [2] Nam et Severus est appellatus a militibus ob austeritatem68 et in animadversibus asperior in quibusdam fuit. [3] Opera veterum principum instauravit, ipse nova multa constituit, in his thermas nominis sui iuxta eas, quae Neronianae fuerunt69, aqua inducta, quae Alexandriana nunc dicitur70. [4] Nemus thermis suis de privatis aedibus suis, quas emerat, dirutis aedificiis fecit. [5] Oceani solium primus imperator appellavit, cum Traianus id non fecisset, sed diebus solia deputasset. [6] Antonini Caracalli thermas additis porticibus perfecit et ornavit. [7] Alexandrinum opus marmoris de duobus marmoribus, hoc est porfyretico et Lacedaemonio71, primus instituit in Palatio 〈plateis〉 exornatis hoc genere marmorandi. [8] Statuas colossas in urbe multas locavit artificibus undique conquisitis. [9] Alexandri habitu72 nummos plurimos figuravit, et quidem electros73 aliquantos, sed plurimos tamen aureos. [10] A mulieribus famosis matrem et uxorem suam salutari vetuit. [11] Contiones in urbe multas habuit more veterum tribunorum et consulum. [26, 1] Congiarium populo ter dedit, donativum {militibus} ter, carnem populo addidit. [2] Usuras feneratorum contraxit ad trientes pensiones, etiam pauperibus consulens. [3] Senatores, si fenerarentur, usuras accipere primo vetuit, nisi aliquid muneris causa acciperent; postea tamen iussit, ut semisses acciperent, donum munus tamen sustulit74. [4] Statuas summorum virorum in foro Traiani conlocavit undique translatas. [5] Paulum et Ulpianum75 in magno honore habuit, quos praefectos ab Heliogabalo alii dicunt factos, alii ab ipso [6] – nam et consiliarius Alexandri et magister scrinii76 Ulpianus fuisse perhibetur –, qui tamen ambo assessores77 Papiniani fuisse dicuntur. [7] Basilicam Alexandrinam78 instituerat inter campum Martium et saepta Agrippiana79 in lato pedum80 centum in longo pedum mille, ita ut tota columnis penderet. Quam efficere non potuit morte praeventus. [8] Isium et Serapium81 decenter ornavit additis signis et Deliacis82 et omnibus mysticis. [9] In matrem Mammaeam unice pius fuit, ita ut Romae in Palatio faceret diaetas nominis Mammaeae, quas inperitum vulgus hodie «ad Mammam» vocat, et in Baiano palatium cum stagno, quod Mammaeae nomine hodieque censetur. [10] Fecit et alia in Baiano opera magnifica in honorem adfinium suorum et stagna stupenda admisso mari. [11] Pontes, quos Traianus fecerat, instauravit paene in omnibus locis, aliquos etiam novos fecit, sed instauratis

nomen Traiani reservavit. [27, 1] In animo habuit omnibus officiis genus vestium proprium dare et omnibus dignitatibus, ut a vestitu dinoscerentur, et omnibus servis, ut in populo possent agnosci, ne quis seditiosus esset, simul ne servi ingenuis miscerentur. [2] Sed hoc Ulpiano Pauloque displicuit dicentibus plurimum rixarum fore, si faciles essent homines ad iniurias. [3] Tum satis esse constituit, ut equites Romani a senatoribus clavi qualitate83 discernerentur. [4] Paenulis84 intra urbem frigoris causa ut senes uterentur, permisit, cum id vestimenti genus semper itinerarium aut pluviale fuisset85. Matronas tamen intra urbem paenulis uti vetuit, itinere permisit. [5] Facundiae Graecae magis quam Latinae nec versu invenustus et ad musicam pronus, matheseos peritus, et ita quidem ut ex eius iussu mathematici publice proposuerint Romae ac sint professi, ut docerent86. [6] Haruspicinae quoque peritissimus fuit, orneoscopos magnus, ut et Vascones87 Hispanorum et Pannoniorum augures88 vicerit. [7] Geometriam fecit. Pinxit mire, cantavit nobiliter, sed numquam alio conscio nisi pueris suis testibus. [8] Vitas principum bonorum versibus scripsit. [9] Lyra, tibia, organo cecinit, tuba etiam, quod quidem imperator numquam ostendit. Palaestes primus fuit. [10] In armis magnus, adeo ut multa bella et gloriose gesserit. [28, 1] Consulatum ter iniit tantum ordinarium ac primo nundinio89 sibi alios semper suffecit. [2] Severissimus90 iudex contra fures appellans eosdem cottidianorum scelerum reos et damnans acerrime ac solos hostes inimicosque rei p. vocans. [3] Eum notarium, qui falsum causae brevem in consilio imperatorio rettulisset, incisis digitorum nervis, ita ut numquam posset scribere, deportavit. [4] Cum quidam ex honoratis91 vitae sordidae et aliquando furtorum reus per ambitionem nimiam ad militiam adspirasset, idcirco quod per reges amicos ambierat, admissus statim in furto praesentibus patronis detectus est iussusque a regibus audiri damnatus est re probata. [5] Et cum quaereretur a regibus, quid apud eos paterentur fures, illi responderunt: «Crucem». Ad eorum responsum in crucem sublatus est92. Ita et patronis auctoribus damnatus ambitor est et Alexandri, quam praecipue tuebatur, servata clementia est. [6] Statuas93 colossas vel pedestres nudas vel equestres divis imperatoribus in foro divi Nervae, quod Transitorium94 dicitur, locavit omnibus cum titulis et columnis aereis, quae gestorum ordinem continerent, exemplo Augusti, qui summorum virorum statuas in foro suo e marmore collocavit additis gestis.

[7] Volebat videri originem de Romanorum gente trahere, quia eum pudebat Syrum dici, maxime quod quodam tempore frustra, solent Antiochenses, Aegyptii, Alexandrini, lacessitus erat conviciolis, et Syrum archisynagogum eum vocantes 〈et〉 archiereum95. [29, 1] Antequam de bellis eius et expeditionibus et victoriis loquar, de vita cottidiana et domestica pauca disseram. [2] Usus vivendi eidem hic fuit: primum ut, si facultas esset, id est si non cum uxore cubuisset96, matutinis horis in larario suo97, in quo et divos principes sed optimos electos et animas sanctiores, in quis Apollonium98 et, quantum scriptor suorum temporum dicit, Christum, Abraham et Orfeum et huiusmodi ceteros habebat ac maiorum effigies99, rem divinam faciebat. [3] Si id non poterat, pro loci qualitate vel vectabatur vel piscabatur vel deambulabat vel venabatur. [4] Dehinc si hora permitteret, actibus publicis post multa[m] operam dabat, idcirco quod et res bellicae et res civiles, ut superius dictum est, per amicos tractabantur, sed sanctos et fìdelis et numquam venales, et tractatae fìrmabantur, nisi quid novi etiam ipsi placeret. [5] Sane si necessitas cogeret, ante lucem actibus operam dabat et in longam horam producebat neque unquam taediavit aut morosus aut iratus resedit, fronte semper pari et laetus ad omnia. [6] Erat enim ingentis prudentiae et cui nemo posset inponere et quem si aliquis urbane temptare voluit, intellectus tulit poenas. [30, 1] Post actus publicos seu bellicos seu civiles lectioni Graecae operam maiorem dabat de re p(ublica) libros Platonis legens. [2] Latina cum legeret, non alia magis legebat quam de officiis Ciceronis et de re p(ublica), nonnumquam et orationes et poetas, in quis Serenum Sammonicum100, quem ipse noverat et dilexerat, et Horatium. [3] Legit et vitam Alexandri, quem praecipue imitatus est, etsi in eo condemnabat ebrietatem et crudelitatem in amicos, quamvis utrum defendatur a bonis scriptoribus, quibus saepius ille credebat. [4] Post lectionem operam palaestrae aut sfaeristerio aut cursui aut luctaminibus mollioribus dabat atque inde unctus lavabatur, ita ut caldaria vel numquam vel raro, piscina semper uteretur in eaque una hora prope maneret, biberet etiam frigidam Claudiam101 ieiunus ad unum prope sextarium102. [5] Egressus balneas multum lactis et panis sumebat, ova, deinde mulsum atque his refectus aliquando prandium inibat, aliquando cibum usque ad cenam differebat, prandit tamen saepius. [6] Ususque est Hadriani tetrafarmaco103 frequenter, de quo in libris suis Marius Maximus loquitur, cum Hadriani disserit vitam.

[31, 1] Postmeridianas horas subscriptioni et lectioni epistularum semper dedit, ita ut ab epistolis104, 〈a〉 libellis105 et a memoria106 semper adsisterent, nonnumquam etiam si stare per valetudinem non possent, sederent relegentibus cuncta librariis et his, qui scrinium107 gerebant, ita ut Alexander sua manu adderet, si quid esset addendum, sed ex eius sententia, qui disertior habebatur. [2] Post epistolas omnes amicos simul admisit, cum omnibus pariter est locutus neque numquam solum quemquam nisi praefectum suum vidit, et quidem Ulpianum, ex assessore semper suo, causa iustitiae singularis. [3] Cum autem alterum adhibuit, et Ulpianum rogari iussit. [4] Vergilium autem Platonem poetarum vocabat eiusque imaginem cum Ciceronis simulacro in secundo larario habuit, ubi et Achillis et magnorum virorum. [5] Alexandrum vero Magnum inter optimos et divos in larario maiore consecravit. [32, 1] Iniuriam nulli umquam amicorum comitumve fecit nec magistris quidem aut principibus officiorum. [2] Praefectis autem semper detulit adserens eum, qui mereatur iniuriam pati ab imperatore, damnandum esse, non dimittendum. [3] Si umquam alicui praesentium successorem dedit, semper iilud addidit: «Gratias tibi agit res p.»; eumque muneratus est, ita ut privatus pro loco suo posset honeste vivere, his quidem muneribus: agris, bubus, equis, frumento, ferro, inpendiis ad faciendam domum, marmoribus ad ornandam et operis, quas ratio fabricae requirebat. [4] Aurum et argentum raro cuiquam nisi militi divisit, nefas esse dicens, ut dispensator publicus in delectationes suas et suorum converteret id, quod provinciales dedissent. [5] Aurum negotiatorium et coronarium108 Romae remisit. [33, 1] Fecit Romae curatores urbis quattuordecim109, sed ex consulibus viros, quos audire negotia urbana cum praefecto urbis iussit, ita ut omnes aut magna pars adessent, cum acta fierent. [2] Corpora omnium constituit vinariorum, lupinariorum, caligariorum et omnino omnium artium hisque ex sese defensores dedit et iussit, qui ad quos iudices pertinerent. [3] Scenicis numquam aurum, numquam argentum, vix pecuniam donavit. Pretiosas vestes, quas Heliogabalus dederat, [et] sustulit 〈et〉 milites, quos ostensionales110 vocant, non pretiosis sed speciosis claris vestibus ornabat nec multurn in signa aut ad apparatum regium auri et serici deputabat dicens imperium in virtute esse, non in decore. [4] Clamides hirtas Severi111 et tunicas asemas vel macrocheras et purpureaque non magna ad usum revocavit suum. [34, 1] In convivio aurum nescivit, pocula mediocria sed nitida semper

habuit. Ducentarum librarum argenti pondus ministerium eius numquam transit. [2] Nanos et nanas et moriones et vocales exsoletos et omnia acroamata et pantomimos populo donavit; qui autem usui non erant, singulis civitatibus putavit alendos singulos, ne gravarentur specie mendicorum. [3] Eunuchos, quos Heliogabalus et in consiliis turpibus habebat et promovebat, donavit amicis addito elogio, ut, si non redissent ad bonos mores, eosdem liceret occidi sine auctoritate iudicii. [4] Mulieres infames, quarum infinitum numerum deprehenderat, publicari iussit, exsoletis omnibus deportatis, aliquibus etiam naufragio mersis, cum quibus illa clades consuetudinem habuerat funestissimam. [5] Auratam vestem ministrorum vel in publico convivio nullus habuit. [6] Cum inter suos convivaretur, aut Ulpianum aut doctos homines adhibebat, ut haberet fabulas litteratas, quibus se recreari dicebat et pasci. [7] Habebat, cum privatim convivaretur, et librum in mensa et legebat, sed Graece magis. Latinos autem poetas lectitabat. [8] Publica convivia ea simplicitate egit, qua privata, nisi quod numerus accubitionum crescebat et multitudo convivarum, qua ille offendebatur, dicens se in theatro et circo manducare. [35, 1] Oratores et poetas non sibi panegyricos dicentes, quod exemplo Nigri Pescennii112 stultum ducebat, sed aut orationes recitantes aut facta veterum canentes libenter audivit, libentius tamen, si quis ei recitavit Alexandri Magni laudes aut item bonorum retro principum aut magnorum urbis Romae virorum. [2] Ad Athenaeum113 audiendorum et Graecorum et Latinorum rhetorum vel poetarum causa frequenter processit. [3] Audivit autem etiam forenses oratores causas recitantes, quas vel apud ipsum vel apud praefectos urbis egerant. [4] Agoni114 praesedit et maxime Herculeo in honorem Magni Alexandri. [5] Solos post meridiem vel matutinis horis idcirco numquam aliquos videbat, quod ementitos de se multa cognoverat, speciatim Verconium Turinum. [6] Quem cum familiarem habuisset, ille omnia vel fingendo sic vendiderat, ut Alexandri, quasi stulti hominis et quem ille in potestate haberet et cui multa persuaderet, infamaret imperium; sicque omnibus persuaserat, quod ad nutum suum omnia faceret. [36, 1] Denique hac illum arte deprehendit, ut quendam inmitteret, qui a se quiddam publice peteret, ab illo autem occulte quasi praesidium postularet, ut pro eo Alexandro secreto suggereret; [2] quod cum factum esset, ac Turinus suffragium promisisset dixissetque se quaedam imperatori dixisse, cum nihil dixisset, sed in eo pendere, ut adhuc inpetraret, eventum vendens, cumque iterum iussisset Alexander interpellari et Turinus quasi aliud agens nutibus

adnuisset neque tamen intus quicquam dixisset, impetratum autem esset, quod petebatur, Turinusque ab illo, qui meruerat, fumis venditis ingentia praemia percepisset; accusari eum Alexander iussit probatisque per testes omnibus, et quibus praesentibus quid accepisset et quibus audientibus quid promisisset, in foro Transitorio115 ad stipitem illum adligari praecepit et fumo adposito, quem ex stipulis atque umidis lignis fieri iusserat, necavit praecone dicente: «Fumo punitur, qui vendidit fumum». [3] Ac ne in una tantum causa videretur crudelior fuisse, quaesivit diligentissime, antequam eum damnaret, et invenit Turinum saepe et in causis ab utraque parte accepisse, cum eventus venderet, et ab omnibus, qui aut praeposituras aut provincias acceperant. [37, 1] Spectacula frequentavit cum summa donandi parsimonia, dicens et scenicos et venatores et aurigas sic alendos quasi servos nostros aut venatores aut muliones aut voluptarios. [2] Convivium neque opiparum neque nimis parcum sed nitoris summi fuit, ita tamen, ut pura mantelia mitterentur, saepius cocco clavata, aurata vero numquam, cum haec habere Heliogabalus iam coepisset, et ante, ut quidam praedicant, Hadrianus habuisset. [3] Usus convivii diurnus hic fuit: vini ad totum diem sextarii triginta, panis mundi pondo triginta, panis sequentis116 ad donandum pondo quinquaginta. [4] Nam semper de manu sua ministris convivii et panem et partes aut holerum aut carnis aut leguminum dabat, senili prorsus maturitate patrem familias agens. [5] Erant decreta et carnis diversae pondo triginta, erant et gallinaci duo. [6] Adhibebatur anser diebus festis, kalendis autem Ianuariis et Hilariis matris deum117 et ludis Apollinaribus118 et Iovis epulo119 et Saturnalibus120 et huius modi festis diebus fasianus, ita ut aliquando et duo ponerentur additis gallinaciis duobus. [7] Leporem cottidie habuit, venationem frequentem, sed eam cum amicis dividebat et his maxime, quos sciebat per se non habere. [8] Nec divitibus quicquam talium munerum misit, sed ab his semper accepit. [9] Habuit cottidie et mulsi sine pipere sextarios quattuor, cum pipere duo, et, ne longum sit omnia inserere, quae Gargilius121 eius temporis scriptor singillatim persecutus est, omnia et ad modum et ad rationem illi sunt praebita. [10] Pomis vehementer indulsit, ita ut secunda mensa illi saepius ponerentur. Unde etiam iocus extitit non secundam mensam Alexandrum habere sed fecundam. [11] Ipse cibo plurimo referciebatur, vino neque parce neque copiose, adfatim tamen. [12] Frigida semper pura usus, et aestate cum vino rosa condito; quod quidem solum ex diverso genere condito Heliogabali122 tenuerat. [38, 1] Et quoniam de lepusculis facta est mentio, quod ille leporem cottidie haberet, iocus poeticus emersit, idcirco quod multi septem diebus

pulchros esse dicunt eos, qui leporem comederint, ut Martialis etiam epigramma123 signifìcat, quod contra quandam Gelliam scripsit huius modi: [2] «Cum leporem mittis, semper mihi, Gellia, mandas: ‘ septem formosus, Marce, diebus eris’ Si verum dicis, si verum, Gellia, mandas, edisti numquam, Gellia, tu leporem».

[3] Sed hos versus Martialis in eam, quae deformis esset, composuit, poeta vero temporum Alexandri haec in eum dixit: [4] «Pulchrum quod vides esse nostrum regem, quem Syrum tetulit propago,… venatus facit et lepus comesus, de quo continuum capit leporem».

[5] Hos versus cum ad eum quidam ex amicis detulisset, respondisse ille dicitur Graecis versibus in hanc sententiam: [6] «Pulchrum quod putas esse 〈vestrum〉 regem vulgari, miserande, de fabella, si verum putas esse, non irascor. Tantum 〈tu〉 comedas velim lepusclos, ut fias animi malis repulsis pulchri, ne invideas livore mentis».

[39, 1] Cum amicos militares habuisset, ut usum Traiani124, quem ille post secundam mensam potandi, usque ad quinque pocula, instituerat, reservaret, unum tantum poculum amicis exhibebat in honorem Alexandri Magni, id dans brevius, nisi si quis, quod licebat, maius libere postulasset. [2] Usus Veneris in eo moderatus fuit, exsoletorum ita expers, ut, quemadmodum supra diximus125, legem de his auferendis ferre voluerit. [3] Horrea in omnibus regionibus publica fecit, ad quae conferrent bona hi, qui privatas custodias non haberent. [4] Balnea omnibus regionibus addidit, quae forte non habebant. Nam hodieque multa dicuntur Alexandri. [5] Fecit et domos pulcherrimas easdemque amicis suis maxime integris viris donavit. [6] Vectigalia publica in id contraxit, ut qui decem aureos sub Heliogabalo praestiterant, tertiam partem aurei praestarent, hoc est tricensimam partem. [7] Tuncque primum126 semisses aureorum formati sunt, tunc etiam, cum ad tertiam aurei partem vectigal desidisset, tremisses127, dicente Alexandro etiam quartarios futuros, quod minus non posset. [8] Quos quidem iam formatos in moneta detinuit expectans, ut, si vectigal contrahere potuisset, et eosdem ederet, sed cum non potuisset per publicas necessitates, conflari eos iussit et tremisses tantum solidosque128 formari. [9] Formas binarias, ternarias et quaternarias et denarias etiam atque amplius usque ad libriles129 quoque et centenarias, quas Heliogabalus invenerat, resolvi

praecepit neque in usu cuiusquam versari; [10] atque ex eo his materiae nomen inditum est, cum diceret plus largiendi hanc esse imperatori causam, si, cum multos solidos minores dare possit, dans decem vel amplius una forma, triginta et quinquaginta et centum dare cogeretur. [40, 1] Vestes sericas ipse raras habuit; olosericam numquam induit, subsericam130 numquam donavit. [2] Divitiis nullius invidit. Pauperes iuvit. Honoratos, quos pauperes vere, non per luxuriam aut simulationem vidit, semper multis commodis auxit, agris, servis, animalibus, gregibus, ferramentis rusticis. [3] In thesauris131 vestem numquam nisi annum esse passus est eamque statim expendi iussit. Omnem vestem, quam donavit, ipse perspexit. [4] Omne aurum, omne argentum idque frequenter adpendit. [5] Donavit et ocreas et bracas et calciamenta inter vestimenta militaria. [6] Purpurae clarissimae non ad usum suum sed ad matronarum, si quae aut possent aut vellent, certe ad vendendum gravissimus exactor fuit, ita ut Alexandriana purpura hodieque dicatur, quae vulgo Probiana dicitur, idcirco quod Aurelius Probus bafìis132 praepositus id genus muricis repperisset. Usus est ipse clamide133 saepe coccinea. [7] In urbe tamen semper togatus134 fuit et in Italiae urbibus. [8] Praetextam et pictam togam135 numquam nisi consul accepit, et eam quidem, quam de Iovis templo sumptam alii quoque accipiebant aut praetores aut consules. [9] Accepit praetextam etiam, cum sacra faceret, sed loco pontifìcis maximi, non imperatoris. [10] Boni linteaminis adpetitor fuit, et quidem puri, dicens: «Si lineae idcirco sunt, 〈ut〉 nihil asperum habeant, quid opus est purpura in linea?». [11] Aurum autem immitti et dementiam iudicabat, cum 〈ad〉 asperitatem adderetur rigor. Fasceis136 semper usus est. Bracas albas137 habuit, non coccineas, ut prius solebant. [41, 1] Gemmarum quod fuit, vendidit et aurum in aerarium contulit dicens gemmas viris usui non esse, matronas autem regias contentas esse debere uno reticulo atque inauribus et bacato monili et corona, cum qua sacrificium facerent, et tunicopallio138 auro sparso et cyclade139, quae sex uncias auri plus non haberet. [2] Prorsus censuram suis temporibus de propriis moribus gessit. Imitati sunt eum magni viri et uxorem eius matronae pernobiles. [3] Aulicum ministerium in id contraxit, ut essent tot homines in singulis officiis, quot necessitas postularet, ita ut annonas, non dignitatem acciperent fullones et vestitores et pistores et pincernae 〈et〉 omnes castrenses ministri, quemammodum pestis illa instituerat, sed annonas singulas, vix binas. [4] Et cum argentum in ministerio plus ducentis libris non haberet nec

plures ministros, argentum et ministros {et} mantelia quando pascebat, accipiebat ab amicis; quod hodieque fìt, si pascatur a praefectis absente imperatore. [5] Voluptates scaenicas in convivio numquam habuit, sed summa illi oblectatio fuit, 〈ut〉 aut catuli cum porcellulis luderent aut perdices inter se pugnarent aut graculae parvolae sursum et deorsum volitarent. [6] Habuit sane in Palatio unum genus voluptatis, quo maxime delectatus est et quo sollicitudines publicas sublevabat. [7] Nam aviaria instituerat pavonum, fasianorum, gallinaceorum, anatum, perdicum etiam, hisque vehementer oblectabatur, maxime palumborum, quos habuisse usque ad XX milia dicitur, et ne eorum pastus gravaret annonam, servos habuit vectigales, qui eos ex ovis ac pullicenis ac pipionibus alerent. [42, 1] Thermis et suis et veterum frequenter cum populo usus est et aestate maxime, balneari veste ad Palatium revertens, hoc solum imperatorium habens, quod lacernam cocceam140 accipiebat. [2] Cursorem141 numquam nisi servum suum, dicens ingenuum currere nisi in sacro certamine142 non debere, cocos, pistores, fullones et balneatores non nisi servos suos habuit, ita ut, si quis deesset, emeret. [3] Medicus sub eo unus paiatinus salarium accepit, ceterique omnes, 〈qui〉 usque ad sex fuerunt, [qui] annonas binas aut ternas accipiebant, ita ut mundas singulas consequerentur, alias aliter. [4] ludices cum promoveret, exemplo veterum, ut et Cicero docet143, et argento et necessariis instruebat, ita ut praesides provinciarum acciperent argenti pondo vicena, mulas senas, mulos binos, equos binos, vestes forenses binas, domesticas binas, balneares singulas, aureos centenos, cocos singulos, muliones singulos et, si uxores non haberent, singulas concubinas, quod sine his esse non possent, reddituri deposita administratione mulas, mulos, equos, muliones et cocos, cetera sibi habituri, si bene egissent, in quadruplum reddituri, si male, practer condemnationem aut peculatus aut repetundarum. [43, 1] Leges innumeras sanxit. Carrucas Romae et redas senatoribus omnibus ut argentatas haberent, permisit144, interesse Romanae dignitatis putans, ut his tantae urbis senatores uterentur. [2] Consules quoscumque vel ordinarios vel suffectos creavit, ex senatus sententia nominavit, sumptum eorum contrahens, et nundinia145 vetere ex ordine instituit [vel dies vel tempora]. [3] Quaestores candidatos146 ex sua pecunia iussit munera populo dare, sed ita ut post quaesturam praeturas acciperent et deinde provincias regerent. [4] Arcarios vero instituit, qui de arca fisci ederent munera eademque parciora. Habuit in animo, ut munera per totum annum dispergeret,

ut per XXX dies munus populo daretur, sed cur id non fecerit in occulto habetur. [5] Capitolium septimo quoque die, cum in urbe esset, ascendit, templa frequentavit. [6] Christo templum facere voluit eumque inter deos recipere147. Quod et Hadrianus cogitasse fertur, qui templa in omnibus civitatibus sine simulacris iusserat fieri, quae hodieque idcirco, quia non habent numina, dicuntur Hadriani148, quae ille ad hoc parasse dicebatur; [7] sed prohibitus est ab his, qui consulentes sacra reppererant omnes Christianos futuros, si id fecisset, et templa reliqua deserenda. [44, 1] In iocis dulcissimus fuit, in fabulis amabilis, in conviviis comis, ita ut quisque posceret quod vellet. [2] Ad aurum colligendum attentus, ad servandum cautus, ad inveniendum sollicitus, sed sine cuiusquam excidio. [3] Syrum se dici nolebat, sed a maioribus Romanum et stemma generis depinxerat, quo ostendebatur genus eius a Metellis descendere. [4] Rhetoribus, grammaticis, medicis, haruspicibus, mathematicis149, mechanicis, architectis salaria instituit et auditoria decrevit et discipulos cum annonis pauperum filios modo ingenuos dari iussit. [5] Etiam in provinciis oratoribus forensibus multum detulit, plerisque etiam annonas dedit, quos constitisset gratis agere. [6] Leges agonis firmavit easque etiam ipse diligentissime servavit. [7] Theatralia spectacula saepe obiit. Theatrum Marcelli150 reficere voluit. [8] Multis civitatibus, quae post terrae motus deformes erant, sumptus ad instaurationem operum et publicorum et privatorum [pecuniam] ex vectigalibus dedit. [9] In templis sane numquam praeter quattuor aut quinque argenti libras, auri ne guttulam quidem aut bratteolam posuit, susurrans versum Flacci Persi151: «In sanctis quid facit aurum?»152. [45, 1] Expeditiones bellicas habuit, de quibus ordine suo edisseram. Primum tamen eius consuetudinem dicam de rebus vel tacendis vel prodendis. [2] Tacebantur secreta bellorum, itinerum autem dies publice proponebantur, ita ut edictum penderet ante menses duos, in quo scriptum esset: «Illa die, illa hora ab urbe sum exiturus et, si di voluerint, in prima mansione mansurus», deinde per ordinem mansiones, deinde stativae, deinde ubi annona esset accipienda, et id quidem eo usque quamdiu ad fìnes barbaricos veniretur. [3] Iam enim inde tacebatur, et omnes 〈nescii〉 ambulabant, ne dispositionem Romanam barbari scirent. [4] Certum est autem eum numquam id, quod proposuerat, fefellisse, cum diceret nolle ab aulicis suas vendi dispositiones, quod factum fuerat sub Heliogabalo, cum ab eunuchis omnia venderentur. [5] Quod genus hominum idcirco secreta omnia in aula esse cupiunt, ut soli

aliquid scire videantur et habeant, unde vel gratiam vel pecuniam requirant. [6] Et quia de publicandis dispositionibus mentio contigit: ubi aliquos voluisset vel rectores provinciis dare vel praepositos facere vel procuratores, id est rationales153, ordinare, nomina eorum proponebat hortans populum, ut si quis quid haberet criminis, probaret manifestis rebus, si non probasset, subiret poenam capitis; [7] dicebatque grave esse, cum id Christiani et Iudaei facerent in praedicandis sacerdotibus, qui ordinandi sunt154, non fieri in provinciarum rectoribus, quibus et fortunae hominum committerentur et capita. [46, 1] Adsessoribus salaria instituit, quamvis saepe dixerit eos esse promovendos, qui per se rem p. gerere possent, non per assessores, addens militares habere suas administrationes, habere litteratos, et ideo unumquemque hoc agere debere, quod nosset. [2] Thesauros reppertos155 his, qui reppererant, donavit et, si multi essent, addidit his eos [in suis], quos in suis habebat officiis. [3] Cogitabat secum et descriptum habebat, cui quid praestitisset, et si quos sciret vel nihil petisse vel non multum, unde sumptus suos augerent, vocabat eos et dicebat: «Quid est, cur nihil petis? An me tibi vis fieri debitorem? Pete, ne privatus de me queraris». [4] Dabat autem haec in beneficiis, quae famam eius non laederent, bona punitorum, sed numquam cum auro, argento vel gemmis – nam id omne in aerarium reponebat –, dabat praeposituras locorum civilium, non militum, dabat eas administrationes, quae ad procurationes pertinerent. [5] Rationales cito mutabat, ita ut nemo nisi annum conplerent, eosque, 〈etiam〉si boni essent, oderat, malum necessarium vocans. Praesides vero proconsules et legatos numquam fecit ad beneficium, sed ad iudicium vel suum vel senatus. [47, 1] Milites expeditionis tempore sic disposuit, ut in mansionibus annonas acciperent nec portarent cibaria decem et septem, ut solent, dierum156 nisi in barbarico, quamvis et illic mulis eosdem atque camelis adiuverit dicens milites se magis servare quam se ipsum, quod salus publica in his esset. [2] Aegrotantes ipse visitavit per tentoria milites etiam ultimos et carpentis vexit {et} omnibus necessariis adiuvit. [3] Et si forte gravius laborarent, per civitates et agros patribus familias honestioribus et sanctioribus matronis eos distribuebat reddens inpendia quae fecissent, sive convaluissent illi seu perissent. [48, 1] Cum quidam Ovinius Camillus157 senator antiquae familiae delicatissimus rebellare voluisset tyrannidem adfectans eique nuntiatum esset ac statim probatum, ad Palatium eum rogavit eique gratias egit, quod curam rei p., quae recusantibus bonis inponeretur, sponte reciperet; [2] deinde ad

senatum processit et timentem ac tantae conscientiae tabe confectum participem imperii appellavit, in Palatium recepit, convivio adhibuit, ornamentis imperialibus et melioribus, quam ipse utebatur, adfecit. [3] Et cum expeditio barbarica esset nuntiata, vel ipsum, si vellet, ire vel ut secum proficisceretur, hortatus est. [4] Et cum ipse pedes iter faceret, illum invitavit ad laborem; quem post quinque milia cunctantem equo sedere iussit, cumque post duas mansiones equo etiam fatigatus esset, carpento inposuit. [5] Hoc quoque seu timore seu vere respuentem, abdicantem quin etiam imperium et mori paratum dimisit commendatumque militibus, a quibus Alexander unice amabatur, tutum ad villas suas ire praecepit, in quibus diu vixit. [6] Sed post iussu imperatoris occisus est …, quod et ille militaris esset et a militibus occisus esset. Scio vulgum hanc rem, quam contexui, Traiani putare, sed neque in vita eius id Marius Maximus ita exposuit neque Fabius Marcellinus158 neque Aurelius Verus neque Statius Valens159, qui omnem eius vitam in litteras miserunt. [7] Contra autem et Septiminus et Acholius et Encolpius160 vitae scriptores ceterique de hoc talia praedicarunt. [8] Quod ideo addidi, ne quis vulgi magis famam sequeretur quam historiam, quae rumore utique vulgi verior repperitur. [49, 1] Honores iuris gladii161 numquam vendi passus est dicens: «Necesse est, ut qui emit et vendat. Ego non patior mercatores potestatum et eos, quos, si pariant, damnare non possim. Erubesco enim punire illum hominem, qui emit et vendidit». [2] Pontificatus et quindecimviratus et auguratus codicillares fecit, ita ut in senatu allegarentur. [3] Dexippus162 dixit uxorem eum cuiusdam Macriani163 filiam duxisse eundemque ab eo Caesarem nuncupatum. [4] Verum cum vellet insidiis occidere Alexandrum Macrianus, detecta factione et ipsum interemptum et uxorem abiectam. [5] Idem dicit patruum fuisse Antoninum Heliogabalum Alexandri, non [uxoris] sororis eiusdem 〈matris〉 fìlium. [6] Cum Christiani quendam locum, {qui} publicus fuerat, occupassent, contra popinarii dicerent sibi eum deberi, rescripsit melius esse, ut quemammodumcumque illic deus colatur, quam popinariis dedatur. [50, 1] Cum igitur tantus ac talis imperator domi ac foris esset, iniit Parthicam164 expeditionem, quam tanta disciplina, tanta reverentia sui egit, ut non milites sed senatores transire diceres. [2] Quacumque iter legiones faciebant, tribuni taciti, centuriones verecundi, milites amabiles erant, ipsum vero ob haec tot et tanta bona provinciales ut deum suspiciebant. [3] Iam vero ipsi milites iuvenem imperatorem sic amabant ut fratrem ut fìlium ut

parentem, vestiti honeste, calciati etiam ad decorem, armati nobiliter, equis etiam instructi et efippiis ac frenis decentibus, prorsus ut Romanam rem p. intellegerent, quicumque Alexandri vidisset exercitum. [4] Elaborabat denique, ut dignus illo nomine videretur, immo ut Macedonem illum vinceret, dicebatque inter Romanum Alexandrum et Macedonem multum interesse debere. [5] Fecerat denique sibi argyroaspidas et chrysoaspidas165, fecerat et falangem triginta milium hominum, quos falangarios vocari iusserat et cum quibus multum fecit in terra Perside; quae quidem erat ex sex legionibus similium armorum, stipendiorum vero post bellum Persicum maiorum. [51, 1] Dona regia in templis posuit; gemmas sibi oblatas vendidit muliebre esse aestimans gemmas possidere, quae neque militi dari possint neque a viro haberi. [2] Cum quidam legatus uniones duos uxori eius per ipsum obtulisset magni ponderis et inusitatae mensurae, vendi eos iussit. [3] Cum pretium non invenirent, ne exemplum malum a regina nasceretur, si eo uteretur, quod emi non posset, inauribus Veneris eos dicavit. [4] Ulpianum pro tutore habuit, primum repugnante matre, deinde gratias agente, quem saepe a militum ira obiectu purpurae suae defendit166, atque ideo summus imperator fuit, quod eius praecipue consiliis rem p. rexit. [5] In procinctu atque in expeditionibus apertis papilionibus prandit atque cenavit, cum militarem cibum cunctis videntibus atque gaudentibus sumeret, circumiret prope tota tentoria, a signis abesse neminem pateretur. [6] Si quis de via in alicuius possessionem deflexisset, pro qualitate loci aut fustibus subiciebatur in conspectu eius aut virgis aut condemnationi aut, si haec omnia transiret dignitas hominis, gravissimis contumeliis, cum diceret: «Visne hoc in agro tuo fieri quod tu alteri facis?». [7] Clamabatque saepius, quod a quibusdam sive Iudaeis sive Christianis audierat et tenebat, idque per praeconem, cum aliquem emendaret, dici iubebat: [8] «Quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris»167. Quam sententiam usque adeo dilexit, ut et in Palatio et in publicis operibus perscribi iuberet. [52, 1] Idem cum quandam aniculam adfectam iniuriis a milite audisset, exauctoratum eum militia servum ei dedit, quod artifex carpentarius esset, ut eam pasceret; et cum dolerent hoc milites factum, persuasit omnibus, ut modeste ferrent, et eos terruit. [2] Ἀναίματον imperium eius, cum fuerit durus et tetricus, idcirco vocatum est, quod senatorem nullum occiderit, ut Herodianus Graecus scriptor refert in libris temporum suorum168. [3] Severitatis autem tantae fuit in milites, ut saepe legiones integras exauctoraverit169 ex militibus Quirites appellans170 nec exercitum umquam

timuerit, idcirco quod in vitam suam dici nihil posset, quod umquam tribuni vel duces de stipendiis militum quicquam accepissent, dicens: «Miles non timetur, si vestitus, armatus, calciatus et satur et habens aliquid in zonula», idcirco quod mendicitas militaris ad omnem desperationem vocaret armatum. [4] Apparitores denique nullos esse passus est tribunis aut ducibus 〈nisi〉 milites iussitque, ut ante tribunum quattuor milites ambularent, ante ducem sex, ante legatum decem, hique ad domos suos reciperent. [53, 1] Et ut severitas eius agnosci posset, unam contionem militarem indendam putavi171, quae illius in rem militarem mores ostenderet. [2] Nam cum Antiochiam venisset ac milites lavacris, mulieribus et deliciis vacarent eique nuntiatum esset, omnes eos conprehendi iussit et in vincla conici. [3] Quod ubi conpertum est, mota seditio est a legione, cuius socii erant in vincla coniecti. [4] Tum ille tribunal ascendit vinctisque omnibus ad tribunal adductis, circumstantibus etiam militibus et quidem armatis ita coepit: [5] «Commilitones, si tamen ista vobis, quae a vestris facta sunt, displicent, disciplina maiorum rem p. tenet; quae si dilabitur, et nomen Romanum et imperium amittemus; [6] neque enim sub nobis ista facienda sunt, quae sub inpura illa bestia172 nuper facta sunt. [7] Milites Romani, vestri socii, mei contubernales et commilitones amant, potant, lavant 〈ad〉 Graecorum morem, et quidem se instituunt. Hoc ego diutius feram? Et non eos capitali dedam supplicio?». [8] Tumultus post hoc ortus est. Atque iterum: «Quin continuistis vocem, in bello contra hostem, non contra imperatorem vestrum necessariam? [9] Certe campidoctores173 vestri hanc vos docuerunt contra Sarmatas et Germanos ac Persas emittere, non contra eum, qui acceptam a provincialibus annonam, qui vestem, qui stipendia vobis adtribuit. [10] Continete igitur vocem truculentam et campo ac bellis necessariam, ne vos hodie omnes uno ore atque una voce Quirites dimittam, et incertum an Quirites. [11] Non enim digni estis, qui vel Romanae plebis sitis, si ius Romanum non agnoscitis». [54, 1] Et cum vehementius fremerent ac ferro quoque minarentur: «Deponite», inquit, «dexteras contra hostem erigendas, si fortes sitis, me enim ista non terrent. [2] Si enim unum hominem occideritis, non vobis deerit res p., non senatus, non p. R., qui me de vobis vindicet». [3] Cum nihilo minus post ista fremerent, exclamavit: «Quirites, discedite atque arma deponite». [4] Mirando exemplo depositis armis, depositis etiam sagulis militaribus omnes non ad castra, sed ad devorsoria varia recesserunt. [5] Tuncque primum intellectum est, quantum eius severitas posset. [6] Denique etiam signa stipatores et hi, qui imperatorem circumdederant in castra rettulerunt, arma

collecta populus ad Palatium174 tulit. [7] Eam tamen legionem, quam exauctoravit, rogatus post dies XXX, priusquam ad expeditionem Persicam proficisceretur, loco suo restituit eaque pugnante maxime vicit, cum tamen tribunos eius capitali adfecit supplicio, quod per neglegentiam illorum milites apud Dafnem luxuriati essent vel per coniventiam seditionem fecisset exercitus. [55, 1] Magno igitur apparatu inde {in} Persas profectus Artaxerxen175 regem potentissimum vicit, cum ipse cornua obiret, milites admoneret, sub iactu teli versaretur, manu plurimum faceret, singulos quosque milites ad laudem verbis adduceret. [2] Fuso denique fugatoque tanto rege, qui cum septingentis elefantis falcatisque mille et octingentis curribus ad bellum venerat, equitum multis milibus, statim Antiochiam redit et de praeda, quam Persis diripuit, suum ditavit exercitum, cum et tribunos ea, quae per vicos diripuerant, et duces et ipsos milites habere iussisset. [3] Tuncque primum servi Persae apud Romanos fuerunt, quos quidem, quia indigne ferunt Persarum reges quempiam suorum alicubi servire, acceptis pretiis reddidit pretiumque vel his, qui manu ceperant servos, dedit vel in aerarium contulit. [56, 1] Post hoc Romam venit triumphoque pulcherrimo acto apud senatum primum haec verba habuit. [2] Ex actis senatus die VII. Kl. Octob.176: «Persas, p. c., vicimus. Longae eloquentiae opus non est, tantum scire debetis, quae illorum arma fuerint, qui apparatus. [3] Iam primum elefanti septingenti idemque turriti cum sagittariis et onere sagittarum. Ex his triginta cepimus, ducenti interfecti iacent, decem et octo perduximus. [4] Falcati currus mille DC〈CC〉. Adducere interfectorum animalium currus ducentos potuimus, sed id, quia et fingi poterat, facere supersedimus. [5] Centum et viginti milia equitum eorum fudimus, catafractarios177, quos illi clibanarios178 vocant, decem milia in bello interemimus, eorum armis nostros armavimus. Multos Persarum cepimus eosdemque vendidimus. [6] Terras interamnanas [Mesopotamiae scilicet] neclectas ab inpura illa belua179 recepimus. [7] Artaxerxen, potentissimum regem tam iure quam nomine, fusum fugavimus, ita ut eum terra Persarum fugientem videret, et qua ducta fuerant quondam signa nostrorum180, ea rex ipse signis effugit relictis. [8] Haec sunt, p. c., gesta. Eloquentia opus non est: milites divites redeunt, laborem in Victoria nemo sentit. [9] Vestrum est supplicationem decernere, ne dis videamur ingrati». Adclamatio senatus: «Alexander Auguste, di te servent. Persice maxime, di te servent. Vere

Parthicus, vere Persicus181. Trophaea tua et nos videmus, victorias et nos videmus. [10] Iuveni imperatori, patri patriae, pontifici maximo. Per te victoriam {de Germanis speramus. Per te victoriam} undique praesumimus. Ille vincit, qui militem regit. Dives senatus, dives miles, dives p. R.». [57, 1] Dimisso senatu Capitolium ascendit atque inde re divina facta et tunicis Persicis in templo locatis contionem huius modi habuit: «Quirites, vicimus Persas. Milites divites reduximus. Vobis congiarium pollicemur, cras ludos circenses Persicos dabimus». [2] Haec nos et in annalibus et apud multos repperimus. Sed quidam dicunt a servo suo eum proditum non vicisse regem, sed, ne vinceretur, fugisse. [3] Quod contra multorum opinionem dici non dubium est his, qui plurimos legerint. Nam et amisisse illum exercitum dicunt fame, frigore ac morbo, ut Herodianus auctor est182 contra multorum opinionem. [4] Post hoc cum ingenti gloria comitante senatu equestri ordine atque omni populo circumfusisque undique mulieribus et infantibus, maxime militum coniugibus, pedes Palatium conscendit, cum retro currus triumphalis a quattuor elefantis183 traheretur. [5] Levabatur manibus hominum Alexander, vixque illi per horas quattuor ambulare permissum est, undique omnibus clamantibus: «Salva Roma, {salva res p.}, quia salvus est Alexander». [6] Alia die actis circensibus et item ludis scenicis deinceps congiarium populo Romano dedit. [7] Puellas et pueros, quemammodum Antoninus Faustinianas instituerat184, Mammaeanas et Mammaeanos instituit. [58, 1] Actae sunt res feliciter et in Mauretania Tingitana185 per Furium Celsum et in Illyrico per Varium Macrinum adfinem eius et in Armenia per Iunium Palmatum186, atque ex omnibus locis ei tabellae laureatae187 sunt delatae. Quibus in senatu et apud populum lectis vario tempore, cum etiam de Isauria188 optatae venissent, omnibus nominibus est ornatus. [2] His vero, qui rem p. bene gesserant, consularia ornamenta189 decreta sunt, additis etiam sacerdotiis et agrorum possessionibus his, qui erant pauperes et aevo iam graves. [3] Captivos diversarum nationum amicis donavit, si aetas puerilis aut iuvenalis permisit, si qui tamen regii aut nobiliores fuerunt, eos militiae, non tamen magnae deputavit. [4] Sola, quae de hostibus capta sunt, limitaneis ducibus et militibus donavit190, ita ut eorum essent, [militarent] si heredes eorum militarent, nec umquam ad privatos pertinerent, dicens attentius eos militaturos, si etiam sua rura defenderent. [5] Addidit sane his et animalia et servos, ut possent colere, quod acceperant, ne per inopiam hominum vel per senectutem possidentium desererentur rura vicina barbariae, quod

turpissimum ille ducebat. [59, 1] Post haec cum ingenti amore apud populum et senatum viveret, et sperantibus victoriam cunctis et invitis eum dimittentibus ad Germanicum bellum profectus est191, deducentibus cunctis per centum et centum quinquaginta milia. [2] Erat autem gravissimum rei p. atque ipsi, quod Germanorum vastationibus Gallia diripiebatur. [3] Pudoremque augebat, quod victis iam Parthis ea natio inminebat rei publicae cervicibus, quae semper etiam minusculis imperatoribus subiecta videbatur. [4] Magnis igitur itineribus, laetis militibus contendit. Sed cum ibi quoque seditiosas legiones conperisset, abici eas praecepit. [5] Verum Gallicanae mentes, ut sese habent durae ac retoreridae et saepe imperatoribus graves, severitatem hominis nimiam192, et longe maiorem post Heliogabalum non tulerunt. [6] Denique agentem eum cum paucis in Brittannia, ut alii volunt in Gallia, in vico cui Sicilia nomen est193, non ex omnium sententia, sed latrocinantium modo quidam milites et hi praecipue, qui Heliogabali praemiis effloruerunt, cum severum principem pati non possent, occiderunt. [7] Multi dicunt a Maximino194 inmissos tirones, qui ei ad exercendum dati fuerant, eum occidisse, multi aliter; [8] a militibus tamen constat, cum iniuriose quasi in puerum eundem et matrem eius avaram et cupidam multa dixissent. [60, 1] Imperavit annis XIII diebus VIIII. Vixit annis XXVIIII mensibus III diebus VII195. [2] Egit omnia ex consilio matris, cum qua occisus est. [3] Omina mortis haec fuerunt: cum natalem diem commendaret, hostia cruenta effugit et, ut se civiliter gerebat ac permixtus populo erat, albam eius vestem, cum qua constiterat, cruentavit. [4] Laurus in palatio eius civitatis, a qua proficiscebatur ad bellum, ingens et antiqua tota subito decidit. [5] Arbores fici tres quae ficus eas ferrent, quibus Alexandrianarum196 nomen est, subito ante illius tentorium deciderunt, cum tentoria imperatoria his adnexa essent. [6] Mulier Dryas197 eunti exclamavit Gallico sermone: «Vadas nec victoriam speres nec te militi tuo credas». [7] 〈Cum〉 tribunal ascendit, 〈ut〉 contionaretur et faustum aliquid diceret, ita coepit: «Occiso imperatore Heliogabalo». [8] Hoc tamen omini fuit, quod iturus ad bellum milites adloqui minus fausta oratione coeptaverat. [61, 1] Sed haec omnia vehementissime contempsit profectusque ad bellum in loco supra dicto ita occisus est: [2] pranderat forte publico, ut solebat, convivio, id est apertis papilionibus cibo militari accepto, neque enim aliud a discutientibus militibus in tentoriis est repertum. [3] Et cum quiesceret

post convivium, hora diei ferme septima unus ex Germanis, qui scurrarum officium sustinebat, ingressus dormientibus cunctis, solo tamen imperatore intervigilante visus est; [4] cui Alexander «Quid est [hic]», inquit, «contubernalis? Num aliquid de hostibus nuntias?». [5] At ille metu perterritus et sperans non posse se evadere, quod in tentorium principis inruisset, ad contubernales suos venit eosque ad durum principem interimendum cohortatus est. [6] Qui subito plures armatique ingressi inermes et obsistentes contruncarunt, ipsum plurimis ictibus confoderunt. [7] Aliqui dicunt omnino nihil dictum, sed tantum a militibus clamatum «Exi, recede»; atque ita obtruncatum iuvenem optimum…..[8] sed omnis apparatus militaris, qui postea est ductus in Germaniam a Maximino, Alexandri fuit et potentissimus quidem per Armenios et Osdroenos198 et Parthos et omnis generis hominum. [62, 1] Contempsisse Alexandrum mortem cum ferocitas mentis, qua militem semper adtrivit, tum etiam illa declarant: [2] Thrasybulus mathematicus199 illi amicissimus fuit; qui cum ei dixisset necessitatem esse, ut gladio barbarico periret, primo laetatus est, quod sibi mortem bellicam et imperatoriam crederet inminere; [3] deinde disputavit ostenditque optimos quosque violenta morte consumptos, cum diceret ipsum Alexandrum, cuius nomen teneret, Pompeium, Caesarem, Demosthenem, Tullium et ceteros insignes viros, qui non quieta morte oppetissent; [4] tantumque animi habuit, ut putaret se diis conparandum, si in bello periret. [5] Sed res eum fefellit: nam et gladio barbarico et scurrae barbari manu, verum non in bello sed belli tempore, perit. [63, 1] Mortem eius milites et qui exauctorati ab eo quondam fuerant, gravissime tulerunt atque auctores caedis trucidarunt. [2] Populus vero Romanus senatusque omnis cum provincialibus cunctis neque tristius umquam neque asperius acceperunt, simul quod successoris asperitas atque rusticitas Maximini, utpote hominis militaris, cui cum fìlio post eum imperium delatum est, graviorem fati necessitatem videbatur ostendere. [3] Senatus eum in deos rettulit200. Cenotafium in Gallia, Romae sepulchrum amplissimum meruit201. [4] Dati sunt et sodales, qui Alexandriani appellati sunt; addita et festivitas matris nomine atque ipsius, quae hodieque Romae religiosissime celebratur natali eius die. [5] Causa occidendi eius ab aliis haec fuisse perhibetur, quod mater eius relicto bello Germanico orientem ad iactantiam sui vellet redire atque ob hoc esset iratus exercitus. [6] Sed haec ab amatoribus Maximini fìcta sunt, qui

videri noluerunt imperatorem optimum ab amico suo interfectum contra iura humana atque divina. [64, 1] Hactenus imperium p. R. eum principem habuit, qui diutius imperaret, post eum certatim inruentibus et aliis semenstribus, 〈aliis〉 annuis, plerisque per biennium, ad summum per triennium imperantibus usque ad eos principes, qui latius imperium tetenderunt, Aurelianum dico et deinceps. [2] De quibus, si vita subpeditaverit, ea, quae conperta fuerint, publicabimus202. [3] Reprehensa sunt in Alexandro haec: quod Syrus esse nolebat, quod aurum amabat, quod suspiciosissimus erat, quod vectigalia multa inveniebat, quod se Magnum Alexandrum videri volebat, quod nimis severus in milites erat, quod curas 〈de〉 privatis agebat. Quae omnia in re p. instituerat. [4] Scio sane plerosque negare hunc a senatu Caesarem appellatum esse, sed a militibus – qui verum prorsus ignorant –, dicere praeterea non hunc fuisse consobrinum Heliogabali. [5] Qui, ut nos sequantur, historicos eius temporis legant et maxime Acholium203, qui et itinera huius principis scripsit. [65, 1] Soles quaerere, Constantine maxime, quid sit, quod hominem Syrum et alienigenam talem principem fecerit, cum tot Romani generis, tot aliarum provinciarum repperiantur improbi, impuri, crudeles, abiecti, iniusti, libidinosi. [2] Iam primum possum de bonorum virorum respondere sententia potuisse natura, quae ubique una mater est, bonum principem nasci, deinde timore, quod pessimus esset occisus204, hunc optimum factum. [3] Sed quia verum est suggerendum clementiae ac pietati tuae, lecta reserabo. [4] Notum est illud pietati tuae, quod in Mario Maximo legisti, meliorem esse rem p. et prope tutiorem, in qua princeps malus est, ea, in qua sunt amici principis mali, si quidem unus malus potest a plurimis bonis corrigi, multi autem mali non possunt ab uno quamvis bono ulla ratione superari. [5] Et id quidem ab Homullo205 ipsi Traiano dictum est, cum ille diceret Domitianum pessimum fuisse, amicos autem bonos habuisse, atque ideo illum magis odio fuisse, quam rem p. temporis sui, et ille: «Quia melius est unum malum pati quam multos». [66, 1] Et ut ad rem redeam, Alexander quidem et ipse optimus fuit … – nam hoc nemo vult nisi bonus – et optimae matris consiliis usus est. [2] At tamen amicos sanctos et venerabiles habuit, non malitiosos, non furaces, {non} factiosos, non callidos, non ad malum consentientes, non bonorum inimicos, non libidinosos, {non} crudeles, non circumventores sui, non inrisores, non qui [si] illum quasi fatuum circumducerent, sed sanctos, venerabiles, continentes, religiosos, amantes principis sui et qui de illo nec [in] ipsi riderent nec risui esse vellent, qui nihil venderent, nihil mentirentur, nihil fìngerent, numquam

deciperent existimationem principis sui, sed amarent. [3] Huc accedit quod eunuchos nec in consiliis nec in ministeriis habuit, qui soli principes perdunt, dum eos more gentium aut regum Persarum volunt vivere, qui eos a populo et amicis summovent; qui internuntii sunt aliud quam respondetur saepe referentes, claudentes principem suum206 et agentes ante omnia, ne quid sciat. Qui cum empti sint et semper servi fuerint, quid tandem possunt boni sapere? [4] Erat denique eius ipsius sententia: «Ego de praefectorum et consulum et senatorum capitibus mancipia aere empta iudicare non patior». [67, 1] Scio, imperator, quo periculo ista dicantur apud imperatorem, qui talibus serviit207, sed salva re p. posteaquam intellegisti, quid mali clades istae habeant et quemammodum principes circumveniant, et tu eos eo loci habes, ut nec clamide208 uti iusseris, sed de necessitatibus domesticis delegaris. [2] Iam illud insigne, quod solum intra Palatium praeter praefectum, et Ulpianum quidem, neminem vidit nec dedit alicui facultatem vel fumorum vendendorum de se vel sibi de aliis male loquendi maxime occiso Turino, qui illum quasi fatuum et vecordem saepe vendiderat. [3] His accessit, quod amicos et parentes Alexander si malos repperit, aut punivit aut, si vetus vel amicitia vel necessitudo non sivit puniri, dimisit a se dicens: «His carior est mihi tota res p.». [68, 1] Et ut scias, qui viri in eius consilio fuerint: Fabius Sabinus209, Sabini insignis viri filius, Cato temporis sui, Domitius Ulpianus, iuris peritissimus, Aelius210 Gordianus, Gordiani imperatoris … ipsa res, vir insignis; Iulius Paulus, iuris peritissimus; Claudius Venacus, orator amplissimus; Catilius Severus, cognatus eius, vir omnium doctissimus; Aelius Serenianus, omnium vir sanctissimus; Quintilius Marcellus, quo meliorem ne historiae quidem continent. [2] His tot atque aliis talibus viris quid mali potuit cogitari vel fieri, cum ad bonum consentirent? [3] Et hos quidem malorum cohors depulerat, quae circumvenerat Alexandrum primis diebus, sed prudentia iuvenis occisis atque depulsis et amicitia ista sancta convaluit. [4] Hi sunt, qui bonum principem Surum fecerunt, et item amici mali, qui Romanos pessimos etiam posteris tradiderunt suis vitiis laborantes.

[1, 1] Dopo l’uccisione di Vario Eliogabalo (così infatti preferiamo chiamarlo piuttosto che «Antonino», dal momento che quella peste non mostrò alcuna delle qualità proprie degli Antonini, [2] e questo nome gli fu cancellato, per volere del senato, dagli Annali), salì al trono, per la salvezza del genere umano, Aurelio Alessandro1, nato ad Arca Cesarea2, figlio di Vario, nipote di Varia3 e cugino dello stesso Gabalo4, il quale già in precedenza – cioè dopo la morte di Macrino – aveva ricevuto dal senato il titolo di Cesare5; [3] ricevette dunque l’appellativo di Augusto, e, in aggiunta, gli fu concesso da parte del senato di assumere in un solo giorno il titolo di padre della patria, l’autorità proconsolare e la potestà tribunizia6, nonché il privilegio di proporre in senato all’ordine del giorno fino a cinque argomenti. [4] E perché questa rapida successione di onori non appaia essere stata avventata, esporrò le ragioni per le quali da una parte il senato fu costretto a concederli, e lui, dal canto suo, ad accettarli; [5] non si addiceva infatti alla dignità del senato conferire insieme tutte quelle prerogative, né ad un buon principe accaparrarsene tante in una volta. [6] Ma il fatto è che i soldati avevano ormai preso l’abitudine di crearsi gli imperatori in modo sommario e sbrigativo, e di mutarli con la stessa facilità, affermando talvolta, a propria giustificazione, che avevano agito così perché non sapevano che il senato avesse eletto un sovrano. [7] Così avevano fatto imperatori Pescennio Nigro, Clodio Albino e Avidio Cassio, e in tempi precedenti Lucio Vindice, Lucio Antonio7, e inoltre lo stesso Severo, dopo che il senato aveva già nominato imperatore Giuliano8; e questo stato di cose era stato seme di guerre civili, a causa delle quali i soldati, che avevano il compito di combattere i nemici, si trovavano a dover perire in lotte fratricide. [2, 1] Fu per questo motivo, dunque, che ci si affrettò a far sì che Alessandro assumesse tutte insieme queste prerogative, come se egli fosse già da molto tempo al potere. [2] A ciò si aggiunse la grande simpatia sia del senato sia del popolo nei suoi confronti, dopo quel flagello che non solo aveva infangato il nome degli Antonini, ma aveva pure gettato l’infamia sull’impero romano. [3] Insomma, si fece a gara per conferirgli ogni genere di titolo e autorità. [4] Ed egli fu il primo a ricevere tutte insieme in una sola volta ogni tipo di insegna e ogni genere di onorificenza, guadagnategli sia dal titolo di Cesare, che aveva già meritato alcuni anni prima, sia soprattutto dalla sua vita e dai suoi costumi; gli aveva inoltre procurato grande simpatia il fatto che

Eliogabalo aveva tentato di sopprimerlo, senza peraltro riuscirvi sia per la reazione dei soldati sia per l’opposizione del senato. [5] Tutto questo, comunque, avrebbe poco peso, se non fosse che egli si mostrò degno che il senato intervenisse in suo favore, che i soldati volessero la sua salvezza, che la considerazione di tutti i migliori cittadini lo proclamasse sovrano. [3, 1] Alessandro, dunque, figlio di Mamea – così pure infatti molti lo chiamano9 – ricevette fin dall’infanzia un’ottima educazione sia nelle arti civili che militari, e, di sua volontà, non lasciò mai passare un solo giorno in cui non si esercitasse nello studio delle lettere e nella pratica militare. [2] Infatti nella prima fanciullezza ebbe come maestri10 Valerio Cordo, Tito Veturio e Aurelio Filippo, un liberto di suo padre, il quale in seguito scrisse una sua biografia; [3] nella sua patria il grammatico greco Neone, il retore Serapione, il filosofo Stilione; a Roma i grammatici Scaurino, figlio di Scaurino, maestro di chiara fama, i retori Giulio Frontino, Bebio Macriano e Giulio Graniano, le cui declamazioni si tramandano ancor oggi. [4] Nel campo latino, peraltro, non raggiunse alti livelli, come appare dalle orazioni che tenne in senato, o dai discorsi indirizzati ai soldati o al popolo. Non ebbe una particolare propensione per l’eloquenza latina, ma teneva in gran conto gli uomini di lettere, anche per il timore che potessero scrivere male di lui. [5] E quelli che ne riteneva degni, voleva che fossero a conoscenza di ogni suo singolo atto pubblico o privato, provvedendo lui stesso a informarli, se mai non avessero potuto essere presenti di persona, e chiedendo che, se si trattava della verità, ne rendessero testimonianza nei loro scritti. [4, 1] Vietò che lo si chiamasse «signore»11. Ordinò che gli si scrivesse allo stesso modo che ad un privato, mantenendo solo l’appellativo di imperatore. [2] Abolì dalle calzature e dalle vesti le gemme di cui aveva fatto uso Eliogabalo. Indossava, così come viene raffigurato, una veste bianca senz’oro, e mantelli e toghe comuni12. [3] Con gli amici viveva in un tale rapporto di familiarità, che spesso si fermava a sedere con loro, andava ai loro pranzi e alcuni, poi, li riceveva a casa sua ogni giorno, anche senza invito; riceveva le visite di saluto come uno qualsiasi dei senatori, a tende aperte e senza personale di cerimonia o solo alla presenza di quello che faceva servizio alle porte; ai ladri, però, non era concesso di salutare il principe, giacché non ne sopportava la vista. [4] Il suo aspetto fisico era tale che, oltre alla finezza e all’eleganza che ancor oggi si può vedere nei quadri e nelle statue, si trovava in lui la prestanza di una statura adatta alla vita militare, il vigore proprio di un soldato, la salute

di uno che conosceva le energie del suo corpo e le conservava con ogni cura. [5] Sapeva inoltre ispirare affetto a tutti: da taluni veniva detto pio, da tutti senza alcun dubbio santo e provvidenziale per lo Stato. [6] Al tempo in cui Eliogabalo tramava contro di lui, ricevette questo responso nel tempio della dea Prenestina13: «Se mai riuscirai a spezzare il crudele destino, tu sarai Marcello»14.

[5, 1] Ebbe il nome di Alessandro, perché era nato nel tempio dedicato ad Alessandro Magno nella città di Arca15, dove per avventura suo padre si era recato con la moglie,nel giorno della festa di Alessandro, per celebrare la solennità. [2] E prova di ciò è il fatto che il nostro Alessandro, figlio di Mamea, celebra il suo genetliaco nello stesso giorno in cui il Grande morì. [3] Rifiutò il nome di Antonino, offertogli dal senato, sebbene i suoi legami di parentela con Caracalla fossero più stretti di quelli che aveva potuto vantare quell’impostore16, [4] dato che, come scrisse Mario Massimo nella vita di Severo, quest’ultimo, quando era ancora un privato e senza una grande posizione, sposò una donna nobile d’Oriente, il cui oroscopo – come egli aveva saputo – le prediceva che sarebbe stata la moglie di un imperatore17; il nostro Alessandro discendeva appunto da questa parentela, e Vario Eliogabalo era suo vero cugino per parte di madre. [5] Rifiutò anche l’appellativo di Magno, che il senato aveva ritenuto di offrirgli a sottolineare la somiglianza con il Macedone. [6, 1] Può risultare interessante rileggere l’orazione con la quale rifiutò il nome di Antonino e di Magno offertigli dal senato. Ma prima di riportarla, riferirò anche le acclamazioni del senato, con le quali ciò era stato decretato. [2] Dagli Atti dell’Urbe18: il 6 marzo19, essendosi il senato riunito in sessione plenaria nella Curia (cioè nel tempio della Concordia20, un tempio formalmente consacrato), ed essendo stato invitato Aurelio Alessandro Cesare Augusto a prendere posto, e avendo egli dapprima rifiutato, perché sapeva che la discussione verteva sulle onoranze alla sua persona, e successivamente essendosi egli presentato, vi furono le seguenti acclamazioni: [3] «Augusto integerrimo, gli dèi ti salvino. Alessandro imperatore, gli dèi ti salvino. Gli dèi ti hanno dato a noi, gli dèi ti conservino. Gli dèi ti strapparono dalle mani di quel sozzo individuo, gli dèi ti preservino per sempre. [4] Quel sozzo tiranno anche tu l’hai sofferto, quel sozzo e sordido individuo anche tu hai lamentato vivesse. Gli dèi l’hanno sradicato, gli dèi ti hanno salvato. Quell’infame imperatore è stato giustamente condannato. [5] Fortunati noi per il tuo

impero, fortunato lo Stato. Quell’infame imperatore è stato trascinato con l’uncino, quale esempio ammonitore, quel depravato imperatore è stato giustamente punito, quel profanatore di dignità è stato giustamente punito. Dèi immortali, concedete lunga vita ad Alessandro. Qui si manifestano i giudizi degli dèi». [7, 1] E, avendo Alessandro ringraziato, si ebbero le seguenti acclamazioni: «Antonino Alessandro, gli dèi ti salvino. Antonino Aurelio, gli dèi ti salvino. Antonino Pio, gli dèi ti salvino. Ti chiediamo di assumere il nome di Antonino. [2] Non negare ai buoni imperatori l’onore che tu sia chiamato Antonino. Purifica tu il nome degli Antonini. Ciò che quello ha infamato, tu purificalo. Rendi il suo prestigio al nome degli Antonini. [3] Il sangue degli Antonini ritrovi se stesso. Vendica tu l’offesa fatta a Marco. Vendica tu l’offesa fatta a Vero. Vendica tu l’offesa fatta a Bassiano21. [4] Peggiore di Commodo vi fu solo Eliogabalo, né imperatore, né Antonino, né cittadino, né senatore, né nobile, né Romano. [5] In te salvezza, in te vita. Perché vivere possa piacere, lunga vita ad Alessandro, discendente degli Antonini. Perché vivere possa piacere, abbia anche il nome di Antonino. I templi degli Antonini siano consacrati da un Antonino. [6] I Parti e i Persiani li vinca un Antonino. Il sacro nome, un uomo consacrato lo riceva. Il sacro nome, un uomo puro lo riceva. Gli dèi conoscano il nome di Antonino, gli dèi conservino l’onore degli Antonini. In te tutto, da te tutto. Salute, Antonino!» [8, 1] E, dopo queste acclamazioni, Aurelio Alessandro Cesare Augusto disse: «Vi ringrazio, senatori, e non solo in vista della presente circostanza, ma sia per avermi a suo tempo conferito il titolo di Cesare e per avermi salvata la vita, sia per avermi adesso attribuito il nome di Augusto, il pontificato massimo, la potestà tribunizia e il comando proconsolare, prerogative che, con una prassi senza precedenti, mi avete concesso tutte insieme in un sol giorno». [2] E mentre ancora parlava, si levarono queste acclamazioni: «Le hai accettate, ora accetta anche il nome di Antonino. Concedilo al senato, concedilo agli Antonini. [3] Antonino Augusto, gli dèi ti salvino, gli dèi ti preservino quale Antonino. Torni il nome di Antonino sulle monete. I templi degli Antonini, sia un Antonino a consacrarli». [4] E Aurelio Alessandro Augusto: «Vi prego, senatori, non imponetemi un’impresa così gravosa, costringendomi ad impegnarmi per non risultare indegno di un nome così grande, quando questo stesso che ho, sebbene straniero, mi sembra pur così diffìcile da portare. Giacché questi nomi gloriosi sono carichi di responsabilità. [5] Chi infatti chiamerebbe Cicerone un muto? Chi Varrone un ignorante? Chi

Metello22 un empio? E – che gli dèi ci scampino – chi potrebbe tollerare uno che, nella più prestigiosa delle dignità, non sia all’altezza dei nomi che porta e degeneri anzi da essi?». Seguirono acclamazioni come sopra. [9, 1] Di nuovo l’imperatore prese la parola: «Le Vostre Grazie ricordano quanto grande sia stato il nome, o meglio il nume, degli Antonini: se guardiamo alla pietà, chi più santo di Pio? Se alla sapienza, chi più saggio di Marco? Se all’innocenza, chi più schietto di Vero? Se alla fortezza, chi più forte di Bassiano? [2] Ché di Commodo non voglio far menzione, visto che risultò anche peggiore di quel che era proprio per il fatto stesso di aver portato, lui con quella condotta di vita, il nome di Antonino. [3] Diadumeno poi non ebbe né tempo né età sufficiente, e fu solo per gli intrighi di suo padre che si trovò addosso questo nome». Ancora acclamazioni come sopra. [4] L’imperatore riprese la parola: «Voi certamente ricordate, o senatori, quando fino a poco fa quell’essere che era la più sozza tra le creature non solo a due, ma anche a quattro gambe, si fregiava del nome di Antonino e superava in turpitudine e depravazione i Neroni, i Vitelli, i Commodi, ricordate, dico, quali lamenti si levavano da ogni parte, ché, tanto negli ambienti popolari quanto in quelli elevati, tutti affermavano ad una voce che ingiustamente costui veniva chiamato Antonino, e che da una peste del genere un nome così grande veniva profanato». [5] E, mentre ancora parlava, si levarono queste acclamazioni: «Gli dèi scongiurino questi mali. Sotto il tuo regno non temiamo questi mali. Sotto la tua guida siamo al riparo da questi mali. Tu hai vinto i vizi, hai vinto i delitti, hai vinto l’infamia. [6] Tu darai lustro al nome degli Antonini. Lo prevediamo per te con certezza, la nostra previsione non sbaglia. Ti abbiamo stimato sin dalla giovinezza, anche adesso ti stimiamo». [7] Di nuovo l’imperatore: «Io non temo, o senatori, di prendere codesto nome, oggetto di generale venerazione, perché abbia paura che la mia vita si macchi di colpe di tal genere, o perché mi vergogni di portarlo; ma, in primo luogo, perché non mi piace assumere un nome che appartiene a una famiglia estranea alla mia, e, inoltre, perché credo che mi risulterebbe un peso troppo grande da portare». [10, 1] E mentre parlava si levarono acclamazioni come sopra. Di nuovo prese la parola: [2] «Se infatti prendessi il nome di Antonino, potrei accettare anche quelli di Traiano, di Tito, di Vespasiano». [3] E mentre ancora parlava, si levarono le seguenti acclamazioni: «Come Augusto, così anche Antonino». E l’imperatore: «Vedo, o senatori, che cosa vi spinge a conferirmi in più questo nome. [4] Il primo Augusto è il primo fondatore di questo impero, e nel suo nome tutti noi imperatori succediamo al trono come per una sorta di adozione

o diritto ereditario23; gli Antonini stessi ricevettero il nome di Augusti. [5] Parimenti il nome di ‘ Antonino ‘ – che era il suo – Pio lo diede a Marco e Vero per diritto di adozione, mentre nel caso di Commodo fu ereditato, in quello di Diadumeno fu assunto per conferimento, in quello di Bassiano venne usurpato, e in quello di Aurelio24 divenne oggetto di riso». [6] E mentre ancora parlava, si levarono queste acclamazioni: «Alessandro Augusto, gli dèi ti salvino. Gli dèi ricompensino la tua modestia, la tua saggezza, la tua integrità, la tua purezza. Da questo noi capiamo come sarai, da questo ti stimiamo. [7] Tu farai vedere che il senato sa scegliere bene gli imperatori. Tu farai sì che il giudizio del senato risulti ottimo. Alessandro Augusto, gli dèi ti salvino. Alessandro Augusto consacri i templi degli Antonini. [8] Cesare nostro, Augusto nostro, imperatore nostro, gli dèi ti salvino. A te vita, a te salute, a te molti anni di regno». [11, 1] Alessandro imperatore rispose: «Comprendo, senatori, di aver ottenuto ciò che desideravo, e me ne sento a voi debitore, per cui vi esprimo la mia più profonda riconoscenza, con il proposito di fare il possibile perché anche questo mio nome, che ho portato con me al soglio imperiale, abbia ad apparire tale che altri pure desiderino portarlo, e venga conferito secondo i giusti giudizi delle Grazie Vostre». [2] Dopo di ciò si ebbero le seguenti acclamazioni: «Alessandro Magno, gli dèi ti salvino. Se hai rifiutato il nome di Antonino, accetta il titolo di Magno. Alessandro Magno, gli dèi ti salvino. [3] E, ripetendosi tali acclamazioni, Alessandro Augusto disse: «Sarebbe stato più facile, o senatori, prendere il nome di Antonino, ché avrei potuto in qualche misura tener conto sia di un certo legame di parentela, sia della comune dignità imperiale. [4] Ma il nome di Magno perché dovrei accettarlo? Che cosa infatti di grande ho fatto sinora? Ché Alessandro l’ha ricevuto dopo aver compiuto grandi imprese, e Pompeo dopo aver celebrato grandi trionfi25. Siate dunque contenti così, o venerandi padri, e, piuttosto che darmi il titolo di Magno, decretate che anch’io entri a far parte del vostro eccelso consesso. [12, 1] Dopo di ciò si levò questa acclamazione: «Aurelio Alessandro Augusto, gli dèi ti salvino». E così via, secondo l’uso. [2] Sciolta la seduta del senato, dopo che in quel giorno ci si fu occupati di molte altre incombenze, ritornò a casa sua come in trionfo. [3] Il fatto di aver rifiutato quei nomi non suoi lo fece apparire in una luce molto migliore che se li avesse accolti; e in effetti si guadagnò da ciò fama di fermezza e grande serietà, dal momento che un solo giovane, o meglio un adolescente, non si era lasciato persuadere dalle insistenze di tutto il senato. [4] Ma sebbene le

preghiere dei senatori non avessero potuto convincerlo ad assumere i nomi di Antonino o Magno, tuttavia dai soldati gli venne conferito il nome di Severo, per la sua grande forza d’animo e per la mirabile e singolare fermezza dimostrata contro la prepotenza dell’esercito26. [5] E questo gli procurò profondo rispetto tra i contemporanei e gloria grande presso i posteri, essendo giunto a meritare che gli si desse un nome ispirato alle sue qualità di carattere: egli infatti fu il solo27, a quanto si sappia, ad aver saputo domare le rivolte delle legioni – come si dirà a suo tempo –, e ad aver preso provvedimenti severissimi nei confronti dei soldati che fossero eventualmente incorsi in qualche azione che apparisse illegittima – come pure narreremo al momento opportuno28. [13, 1] Ebbe i seguenti presagi della sua ascesa al trono: primo, il fatto che nacque nello stesso giorno in cui si dice sia morto Alessandro Magno; secondo, il fatto che sua madre partorì nel tempio a lui dedicato; terzo, che ricevette il nome di lui; il fatto, inoltre, che una vecchietta offrì a sua madre un uovo di colomba di colore purpureo venuto alla luce nello stesso giorno in cui era nato lui: [2] da ciò gli aruspici predissero che sarebbe divenuto imperatore, ma non lo sarebbe stato a lungo, e che all’impero sarebbe giunto presto. E ancora il fatto che un quadro dell’imperatore Traiano, che era appeso sopra il letto coniugale di suo padre, cadde sul letto stesso proprio nel momento in cui la madre stava partorendo nel tempio. [3] A tutto ciò si aggiunse la circostanza che gli fu data come nutrice una donna chiamata Olimpia, che era il nome della madre di Alessandro, [4] e che per avventura fu allevato da un contadino che aveva nome Filippo, come il padre di Alessandro Magno. [5] Si racconta che nel suo primo giorno di vita si vide per tutta la giornata ad Arca Cesarea29 una stella di prima grandezza, e, nelle vicinanze della casa paterna, il sole apparve coronato da un cerchio fulgente. [6] Facendo voti per la sua nascita, gli aruspici dissero che egli avrebbe tenuto il sommo potere, giacché le vittime sacrificali venivano dal podere di proprietà dell’imperatore Severo, e i coloni le avevano approntate proprio in suo onore. [7] Un lauro, nato a casa sua vicino a un albero di pesco30, nel giro di un solo anno lo superò in altezza, dal che gli indovini predissero anche che egli avrebbe vinto i Persiani. [14, 1] Sua madre, prima di darlo alla luce, sognò di partorire un piccolo drago color porpora. [2] Nella stessa notte il padre si vide trasportato in sogno verso il cielo sulle ali della Vittoria Romana che sta in senato31. [3] Egli stesso consultando, ancora bambino, un indovino in merito al proprio futuro, si dice

abbia avuto come responso questi versi: [4] in primo luogo dall’oracolo «Ti attende l’impero del cielo e della terra» si comprese che sarebbe stato annoverato tra gli dèi. Da «Ti attende l’impero che impera» si capì che egli sarebbe stato a capo dell’impero romano; ché dove, se non presso i Romani, esiste un potere imperiale che domina un impero? Queste profezie furono rese anche in versi greci32. [5] Quando poi, seguendo le esortazioni della madre, abbandonò lo studio della filosofia e della musica per dedicarsi ad altre arti, consultando le sorti virgiliane ebbe, riferito a sé, un responso oracolare di questo tenore: «Forgeranno altri con più bell’arte spiranti bronzi, lo ammetto, e vivi trarranno dal marmo i volti, meglio patrocineranno le cause, e il corso del cielo segneranno con la verga, e indicheranno il sorger degli astri: ma tu ricorda, o Romano, di governare le genti. Questa sarà l’arte tua, e dettar costumanze di pace, risparmiare i vinti e debellare i superbi»33.

[6] Vi furono molti altri presagi da cui appariva chiaro che sarebbe stato sovrano del genere umano. Il suo sguardo aveva una luce particolarmente penetrante ed era difficile a sostenersi molto a lungo; spesso dava prova della sua capacità di prevedere il futuro; eccezionale era la sua memoria, che Acolio34 diceva favorita dall’esercizio. [7] Ed essendo giunto al potere ancora giovinetto35, in ogni suo atto si giovava della collaborazione della madre, così che anche lei appariva governare con pari autorità: era una donna di costumi irreprensibili, ma avara e avida d’oro e d’argento. [15, 1] Non appena dunque cominciò a esercitare il ruolo di imperatore, per prima cosa allontanò da ogni carica pubblica e da ogni impiego ed ufficio tutti i funzionari cui quel sozzo individuo aveva fatto fare carriera prendendoli tra gli uomini della peggior risma; successivamente procedette a un’epurazione nel senato e nell’ordine equestre. [2] Operò poi epurazioni anche nelle stesse tribù36, e tra coloro che fondavano la loro posizione su privilegi militari; fece un’epurazione anche a Palazzo e in tutto il seguito, cacciando dagli impieghi di corte tutti i personaggi depravati e di pessima reputazione, e non tollerò che negli uffici palatini rimanessero se non coloro di cui vi era effettivo bisogno. [3] Inoltre si impegnò con un giuramento a non tenere personale aggiunto, cioè soprannumerario, per non gravare lo Stato delle relative spese, dichiarando essere una pubblica calamità un imperatore che ingrassa uomini non necessari né utili allo Stato spolpando fino all’osso i

cittadini delle province. [4] Ordinò che mai in alcuna città avessero a vedersi dei ladri amministrare la giustizia e che, se fossero stati visti, i governatori delle province provvedessero a deportarli. [5] Ispezionò scrupolosamente gli approvvigionamenti militari e condannò a morte i tribuni che, procurandosi profitti illeciti, avessero defraudato di qualcosa i soldati. [6] Diede disposizioni perché le vertenze e le cause giudiziarie fossero preventivamente esaminate dai capi delle cancellerie37 e da giuristi dottissimi e a lui fedeli, il primo dei quali era allora Ulpiano, e, istruite che fossero, venissero in tal modo rimesse al suo giudizio. [16, 1] Promulgò un gran numero di leggi in materia di rapporti fra cittadini e fisco, ispirate a moderazione, e non sancì alcun provvedimento senza consultare venti giureconsulti e non meno di cinquanta uomini dei più dotti e saggi, nonché dotati di grandissima eloquenza, sì che nel suo consiglio vi fosse un numero di voti non inferiore a quello necessario per l’approvazione di un decreto del senato, [2] e ciò avveniva in modo che a ciascuno venisse richiesto il proprio parere e venisse registrato quanto ognuno aveva detto, lasciando peraltro spazio, prima delle dichiarazioni di voto, per l’approfondimento e la riflessione, perché non fossero costretti ad esprimersi su argomenti importanti in modo improvvisato. [3] Era inoltre sua consuetudine che, se doveva occuparsi di questioni giuridiche o di affari pubblici, si valeva della collaborazione unicamente di uomini esperti e abili nel parlare; se invece si trattava di problemi militari, consultava dei veterani e dei vecchi che si fossero in passato distinti per il loro valore, e fossero esperti dei luoghi e della condotta della guerra, nonché della vita militare, e inoltre tutti gli uomini di cultura, soprattutto quelli che avevano conoscenza della storia, cercando di sapere come si fossero comportati, in circostanze analoghe a quelle in discussione, i condottieri del passato, sia romani che degli altri popoli. [17, 1] Encolpio38, con il quale egli era in rapporti molto intimi, riferiva che, se mai vedeva qualche giudice ladro, aveva già pronto il dito per cavargli un occhio: tanto grande era l’odio da cui era pervaso contro coloro dei quali aveva la prova che erano stati ladri. [2] Settimino39, autore di una pregevole biografìa di lui, aggiunge che Alessandro provava un tale senso di disgusto nei confronti di quei giudici che, anche se non erano stati ufficialmente condannati, avevano tuttavia la fama di essere autori di malversazioni, che, se per avventura gli capitava di vederli, per il gran turbamento che ne provava giungeva a vomitar bile tutto infiammato in volto, così da non riuscire ad

articolar parola. [3] Così, una volta che un certo Settimio Arabiano, tristemente famoso per i suoi furti e già prosciolto sotto Eliogabalo, si presentò in mezzo ad alcuni senatori a porgere il saluto all’imperatore, egli esclamò: [4] «O Marna40, o Giove, o dèi immortali, Arabiano non solo vive, ma viene anche in senato41, forse anzi spera di ottenere qualcosa da me: tanto sciocco e stolto crede che io sia!». Si faceva salutare per nome, cioè così: «Salute, Alessandro». [18, 1] Se uno piegava il capo o gli indirizzava qualche espressione troppo ossequiosa, era considerato un adulatore e, se la sua condizione sociale era tale da consentirlo, veniva cacciato via; se invece la dignità del suo rango non poteva essere sottoposta a un affronto troppo grave, veniva messo in ridicolo con una grassa risata. [2] Quando riceveva le visite di saluto, invitava tutti i senatori ad accomodarsi con lui42, e non ammetteva assolutamente al saluto se non uomini onesti e di buona reputazione, facendo proclamare da un araldo (al modo che, quando si celebrano i misteri Eleusini, viene intimato che nessuno entri se non chi sa, in coscienza, di essere puro da colpe) che nessuno che sapesse di essere un ladro venisse a salutare il sovrano, se ci teneva a non essere messo a morte quando, prima o poi, sarebbe stato scoperto. [3] Vietò che lo si adorasse, a differenza di Eliogabalo, che aveva già cominciato a farsi adorare alla maniera dei Persiani43. [4] Inoltre risale a lui quel detto secondo cui solo i ladri si lamentano di essere poveri, quando vogliono nascondere le malefatte della loro vita. [5] Aggiungeva poi quel famoso proverbio sui ladri citandolo in greco, mentre in latino suona così: «Chi avrà rubato molto, se darà qualcosa ad amici che lo possano aiutare, se la caverà». In greco è invece così: «Chi molto ha rubato, dando un poco se la caverà». [19, 1] Con l’autorizzazione del senato44, provvide alla scelta del prefetto del pretorio. Per il prefetto di Roma accettò la scelta del senato. Nominò come secondo prefetto del pretorio uno che, per non diventarlo, era persino fuggito, affermando che nelle cariche dello Stato bisogna mettere chi non vi aspira, e non coloro che brigano per averle. [2] Non creò mai un senatore senza aver prima consultato tutti i senatori in carica, in modo che fosse eletto per voto di tutti, e uomini di prim’ordine testimoniassero in suo favore: ma se, o nel testimoniare o neiresprimere il proprio parere avessero mentito, in seguito sarebbero stati condannati e relegati all’ultimo posto nella scala sociale, come colpevoli di falso, senza alcuna prospettiva di perdono. [3] Non creò senatori se non col parere favorevole di uomini che godevano di un altissimo prestigio a Palazzo, dicendo che ad eleggere un senatore dovevano essere uomini di

grande valore. [4] Non fece mai entrare liberti nell’ordine equestre, affermando che questo ordine è vivaio di senatori. [20, 1] Aveva una grande padronanza di sé: infatti non allontanava mai nessuno dalla sua presenza, si mostrava con tutti mite e affabile, andava a visitare, quando erano malati, gli amici non solo del primo o del secondo rango45, ma anche quelli appartenenti alle classi inferiori; voleva che ciascuno gli esprimesse liberamente il suo parere, ne ascoltava l’esposizione, e dopo aver ascoltato, provvedeva a sistemare le cose con gli interventi che la situazione richiedeva; [2] se invece v’era qualcosa che non era stato fatto a dovere, lo faceva notare di persona, e ciò senza alterigia né acredine; invitava sempre tutti a sedersi con lui, eccetto coloro che si portavano addosso la persistente nomea di essere dei ladri; si informava sempre degli assenti. [3] In breve, poiché sua madre Mammea e la moglie Memmia46, figlia del consolare Sulpicio e nipote di Catulo, rimproverandolo per il suo modo di fare troppo informale, gli dicevano spesso: «Hai reso più debole e meno prestigiosa la tua autorità imperiale», egli rispondeva: «Ma più sicura e durevole». [4] Insomma, non lasciò mai passar giorno senza compiere qualche atto di bontà, di cortesia, di pietà, ma in modo tale da non danneggiare l’erario. [21, 1] Ordinò che le condanne fossero rare, ma una volta pronunciate non le revocava. Destinò alle amministrazioni municipali per le opere pubbliche locali i proventi delle imposte. [2] Concesse prestiti di pubblico denaro all’interesse annuo del quattro per cento47, e a molte persone prive di mezzi fornì senza interesse il denaro necessario per acquistare dei poderi, con i proventi dei quali sarebbe poi stato estinto il debito. [3] Ai suoi prefetti del pretorio conferì in aggiunta la dignità senatoria48, affinché entrassero nel rango delle «Eccellenze»49, e ne ricevessero l’epiteto; [4] ciò che in passato o era avvenuto raramente o non era avvenuto comunque per lungo tempo, di modo che, come racconta Mario Massimo in molte biografìe, se un imperatore voleva sostituire un prefetto del pretorio, gli faceva avere, per mezzo di un liberto, il laticlavio50. [5] Alessandro, invece, volle che i prefetti del pretorio avessero la dignità senatoria al fine che nessuno che non fosse senatore lui stesso avesse a giudicare un senatore romano. [6] Conosceva così nei particolari i suoi soldati che teneva nella sua stanza le liste col numero complessivo di quelli che erano sotto le armi e il periodo di servizio svolto, e sempre, quando era solo, passava in rassegna i dati statistici sulla loro consistenza numerica, i gradi51, le campagne fatte, per essere perfettamente

aggiornato su ogni cosa. [7] In breve, quando si trovava per qualche incombenza alla presenza dei soldati, sapeva persino chiamare molti per nome. [8] Inoltre si prendeva nota dei meritevoli di promozione, leggeva da cima a fondo tutti i registri, e annotava anche parimente la data della promozione e il nome di chi l’aveva proposta. [9] Si adoperò per l’approvvigionamento alimentare52 del popolo romano a tal punto che, dopo che Eliogabalo aveva dato fondo alle riserve di grano, egli provvide a reintegrarle a proprie spese. [22, 1] Accordò ai mercanti le più ampie franchigie per incoraggiare il loro afflusso a Roma. [2] Riuscì a reintegrare anche la disponibilità di olio, che vi era al tempo delle distribuzioni al popolo operate da Severo, dopo che Eliogabalo ne aveva provocato la riduzione col conferire la prefettura dell’annona a gente della peggior risma. [3] Restituì a tutti i cittadini il diritto di contrarre matrimonio «confarreato»53, che quell’empio aveva abolito. [4] Fece costruire a Roma moltissime opere di ingegneria. Rispettò i privilegi dei Giudei. Tollerò l’esistenza dei Cristiani54. [5] Ebbe tanta deferenza verso i pontefici, i quindecemviri55 e gli auguri56 che permise che certe questioni in materia religiosa già da lui definite venissero riviste e modificate. [6] I governatori provinciali che sapeva riscuotere favore sincero, e non frutto di intrighi, li portava sempre con sé nella sua carrozza durante i viaggi che faceva, e li gratificava di doni, affermando che mentre i ladri debbono essere allontanati dai pubblici uffici e privati dei loro beni, gli onesti bisogna tenerseli cari e premiarli. [7] Una volta che il popolo romano gli richiese di abbassare i prezzi, lo interrogò, tramite un banditore, per sapere quale genere alimentare giudicassero troppo caro. La gente subito gridò che era la carne bovina e di maiale. [8] Allora lui, invece di disporre che i prezzi fossero abbassati, ordinò che nessuno uccidesse né scrofe e porcellini, né vacche e vitelli57: e, nel giro di due anni, anzi di poco più di uno, vi fu tale abbondanza di carne di porco e di bue che, mentre prima era costata otto soldi la libbra58, il prezzo scese a due e uno la libbra per entrambi i tipi di carne. [23, 1] Prestava ascolto alle lagnanze dei soldati nei confronti dei loro ufficiali, a tal punto che, se trovava uno di questi ultimi veramente colpevole, lo puniva in relazione alla gravità del fatto, senza lasciar spazio ad alcuna indulgenza. [2] Si procurava informazioni su di ogni persona servendosi di uomini a lui fedeli, e di cui nessuno fosse al corrente che svolgevano tale attività, affermando che tutti sono suscettibili di essere corrotti a prezzo. [3] Faceva sempre indossare ai suoi schiavi la veste servile, ai liberti quella

propria degli uomini liberi. [4] Allontanò gli eunuchi59 dal proprio servizio e li mise come servi alle dipendenze di sua moglie. [5] E mentre Eliogabalo era stato schiavo degli eunuchi, egli, li ridusse a un numero fisso e non diede loro alcuna responsabilità a Palazzo se non quella inerente ai bagni delle donne. [6] Eliogabalo poi aveva dato a molti eunuchi incarichi direttivi nelle amministrazioni e nelle procure: egli invece tolse loro anche le dignità rivestite in precedenza. [7] Diceva inoltre che gli eunuchi costituivano un terzo sesso, che i maschi non dovevano avere sotto gli occhi e con cui non dovevano intrattenere alcun tipo di rapporto, tutt’al più potevano averli in servizio le donne della nobiltà. [8] Uno che, vantando i suoi rapporti con lui, aveva raggirato un militare facendosi dare cento monete d’oro, ordinò fosse messo in croce lungo la strada che i servi percorrevano in gran numero per recarsi alla tenuta imperatoria fuori città. [24, 1] Molte province60 amministrate da legati furono da lui affidate a governatori di rango equestre61, mentre, in ordine a quelle proconsolari, si attenne alle deliberazioni del senato. [2] Vietò che si allestissero a Roma bagni promiscui, una usanza che, invero, era già stata in precedenza proibita, ma che Eliogabalo aveva permesso di attuare. [3] Non consentì che i proventi delle tasse imposte a lenoni, prostitute, omosessuali fossero versati nell’erario sacro, ma li destinò a spese di pubblica utilità, per il restauro del Teatro62, del Circo63, dell’Anfiteatro64, dello Stadio65. [4] Ebbe in animo di vietare la prostituzione maschile, come fece in seguito Filippo66, ma ne fu trattenuto dal timore che, vietando che quello sconcio si manifestasse pubblicamente, non avesse peraltro a convertirlo nell’esercizio di perversioni private, dato che gli uomini, quando li spinge la passione, sono maggiormente attratti dalle cose illecite ove queste siano ufficialmente proibite. [5] Impose una fortissima imposta ai sarti, ai tessitori di lino, ai vetrai, ai pellicciai, ai magnani, ai banchieri, agli orefici, e a tutti gli altri artigiani, e ordinò che i proventi servissero al funzionamento, ad uso del popolo, delle terme, e non solo di quelle da lui costruite, ma anche di quelle già esistenti: stabilì anche di dotare le terme pubbliche di parchi alberati. [6] Aumentò le dotazioni di olio per l’illuminazione delle terme stesse, mentre in passato esse si aprivano verso l’ora nona e dovevano chiudersi prima del tramonto67. [25, 1] Certuni hanno scritto che il governo di Alessandro non fu cruento, ma ciò non è esatto: [2] ché egli ebbe dai soldati l’appellativo di Severo a

motivo della sua rigidezza68, e nelle punizioni fu in certi casi molto duro. [3] Restaurò le opere dei precedenti imperatori e ne costruì egli stesso di nuove, tra le quali le terme intitolate al suo nome, site accanto alle antiche Terme Neroniane69, e alimentate dall’acquedotto che porta ancora il nome di Alessandrino70. [4] Creò per le sue terme un vasto parco sul terreno dove sorgevano alcuni edifici privati che lui stesso aveva comprato per poi farli demolire. [5] Fu il primo imperatore a dare a una vasca il nome di Oceano, mentre Traiano, seguendo un altro criterio, aveva dedicato le vasche ai singoli giorni. [6] Completò e abbellì, aggiungendovi dei portici, le terme di Antonino Caracalla. [7] Fu il primo ad usare un tipo di lavorazione marmorea detta Alessandrina, ottenuta con due diverse varietà di marmo, cioè il porfido e lo spartano71, impiegando tale genere di rivestimento marmoreo per lastricare i cortili del Palazzo. [8] Fece erigere in città molte statue di gigantesche proporzioni, servendosi dell’opera di artisti chiamati da ogni parte. [9] Fece raffigurare l’immagine di Alessandro Magno72 su moltissime monete, alcune in elettro73, ma la maggior parte d’oro, [10] Proibì alle donne di cattiva reputazione di rivolgere il saluto a sua madre e a sua moglie. [11] Tenne in Roma molti discorsi pubblici, alla maniera dei tribuni e dei consoli di un tempo. [26, 1] Per tre volte elargì al popolo un congiario, e donativi ai soldati; distribuì razioni di carne al popolo. [2] Ridusse al quattro per cento l’interesse annuo degli usurai, in questo venendo anche incontro ai bisogni delle persone prive di mezzi. [3] Quanto ai senatori, in un primo tempo vietò che, se davano a prestito del denaro, riscuotessero alcun interesse, salvo il ricevere qualcosa a puro titolo di regalo; successivamente tuttavia ordinò che riscuotessero un interesse annuo pari al sei per cento, togliendo loro, peraltro, il diritto al dono74. [4] Riunì nel Foro di Traiano statue di uomini illustri facendole trasferire lì da ogni parte. [5] Tenne in grande considerazione Paolo e Ulpiano75, che alcuni dicono esser stati creati prefetti da Eliogabalo, altri proprio da lui [6] – infatti si dice che Ulpiano fosse membro del consiglio di Alessandro e capo della cancelleria76–: entrambi, comunque, a quel che si dice, furono assistenti77 di Papiniano. [7] Intraprese la costruzione della Basilica Alessandrina78, sita tra il Campo Marzio e i Recinti di Agrippa79, su di un’area larga cento piedi80 e lunga mille, ed eretta in modo da gravitare con tutta la sua mole su colonne; ma non poté portarla a compimento, perché lo colse prima la morte. [8] Provvide ad ornare degnamente i templi di Iside e

Serapide81, ponendo in essi statue e vasi di Delo82, e fornendoli di tutto l’apparato in uso nella celebrazione dei misteri. [9] Nei riguardi della madre Mamea nutrì una singolare devozione, tanto che giunse a fare costruire nel Palazzo a Roma degli appartamenti intitolati al nome di lei, quelli che il popolino ignorante chiama oggi «alla Mamma», e nei pressi di Baia un palazzo con un laghetto artificiale che ancor oggi porta il nome di Mamea. [10] Sempre nel territorio di Baia creò altre magnifiche opere in onore dei suoi congiunti e bellissimi laghetti di acqua di mare. [11] Restaurò quasi dappertutto i ponti costruiti da Traiano e ne fece pure costruire alcuni di nuovi: a quelli restaurati, peraltro, conservò il nome di Traiano. [27, 1] Era sua intenzione assegnare a tutti coloro che ricoprivano uffici e cariche un tipo di veste particolare, in modo che si riconoscessero dalla loro divisa, e ugualmente a tutti i servi, perché si potessero distinguere in mezzo al popolo, così che qualcuno di essi non avesse a partecipare a sommosse, e ad un tempo non si verificassero indebite promiscuità fra servi e uomini liberi. [2] Questo provvedimento, però, non piacque a Ulpiano e Paolo, in quanto dicevano che ne sarebbe derivata un’infinità di contese, data la facilità con cui gli uomini sono portati ad offendersi. [3] Allora si accontentò di stabilire che i cavalieri romani si distinguessero dai senatori per la dimensione della striscia di porpora83. [4] Permise che i vecchi facessero uso in città, per ripararsi dal freddo, del mantello a ruota84, un tipo di vestiario che prima era stato impiegato solo come abito da viaggio o da pioggia85. Alle matrone, tuttavia, non consentì di portare tali mantelli entro la città, ma solo in viaggio. [5] Era più versato nell’eloquenza greca che in quella latina, sapeva scrivere versi non privi di grazia, aveva inclinazione per la musica; era esperto nell’astrologia, così che fu per suo ordine che gli astrologi poterono divulgare e professare a Roma la loro arte, per poi insegnarla86. [6] Fu anche espertissimo nell’aruspicina, ed egli stesso un grande augure, tanto da superare i Vasconi87 di Spagna e gli auguri88 della Pannonia. [7] Si occupò di geometria. Dipingeva mirabilmente, cantava magistralmente, ma senza che alcun altro fosse al corrente delle sue doti eccetto i suoi schiavetti, che ne erano gli unici testimoni. [8] Scrisse in versi le biografie dei principi buoni. [9] Sapeva suonare la lira, il flauto, l’organo e persino la tromba; da imperatore, peraltro, non fece mai conoscere queste sue capacità. Fu un atleta di prim’ordine negli esercizi ginnici. [10] Era un combattente di gran valore, e condusse con onore molte campagne belliche. [28, 1] Rivestì il consolato ordinario solo tre volte e, dopo il primo periodo

di carica89, chiamò sempre altri a sostituirlo. [2] Era giudice severissimo90 verso i ladri, che chiamava rei di delitti giornalieri e condannava con grande durezza, dicendo che erano i veri nemici e avversari dello Stato. [3] Un notaio che, in una riunione del consiglio imperiale, aveva prodotto un documento falso in relazione ad una causa, lo mandò in esilio non senza avergli fatto prima recidere i nervi delle dita, in modo che non potesse mai più scrivere. [4] Una volta un uomo di alto rango91, ma di vita indegna e che in alcune occasioni era stato accusato di furti, aveva rivolto le sue mire ad un comando militare intrallazzando senza ritegno, e contava sul fatto che aveva potuto giovarsi, per i suoi intrighi, dell’appoggio di certi re suoi amici; ma non appena introdotto, venne subito smascherato come ladro alla presenza dei suoi stessi patrocinatori e, costretto a subire l’interrogatorio di quei re, il suo crimine risultò provato ed egli fu quindi condannato. [5] Fu allora chiesto ai re quale fosse nei loro paesi la pena riservata ai ladri, ed essi risposero: «La croce». Conformemente a questa risposta, anch’egli venne appeso a una croce92. Così quell’intrigante ebbe la condanna sentenziata da quelli stessi che lo avevano raccomandato, e la linea politica di clemenza di Alessandro, cui egli teneva in modo particolare, fu salvaguardata. [6] Fece collocare nel Foro del divo Nerva, detto Foro Transitorio93, delle statue94 colossali dedicate agli imperatori divinizzati, raffigurati o a piedi e nudi, o a cavallo, provviste tutte di iscrizioni dedicatorie e poggianti su colonne di bronzo che portavano inciso l’elenco delle loro imprese, sull’esempio di Augusto, che aveva fatto collocare nel suo foro statue di marmo di uomini illustri con l’indicazione delle loro gesta. [7] Voleva essere considerato d’origine romana, poiché si vergognava di essere chiamato siro, soprattutto dacché un giorno era stato schernito senza motivo, come sogliono fare gli Antiochesi, gli Egiziani e gli Alessandrini, col dargli il soprannome e di archisinagogo siro e di sommo sacerdote95. [29, 1] Prima di parlare delle guerre e delle spedizioni da lui condotte e delle sue vittorie, mi soffermerò brevemente sugli aspetti quotidiani della sua vita privata. [2] Queste erano le sue abitudini di vita: per prima cosa, se gli era possibile – cioè se non aveva dormito con la moglie96–, nelle ore del primo mattino celebrava un sacrificio nel tempietto dei suoi Lari97, in cui teneva le immagini degli imperatori divinizzati – ma aveva scelto solo i migliori tra essi –, e delle anime più sante, tra cui Apollonio98 e, stando a quanto riferisce uno scrittore contemporaneo, Cristo, Abramo, Orfeo, e gli altri di questo genere,

nonché i ritratti degli antenati99. [3] Se questo non gli era possibile, a seconda del tipo di luogo in cui si trovava, compiva giri in carrozza, pescava, faceva passeggiate o si dedicava alla caccia. [4] Poi, se gli restava tempo, si occupava dell’amministrazione degli affari pubblici, dopo aver già svolto molte attività, proprio perché gli affari militari e civili, come si è detto sopra, venivano trattati dagli amici – peraltro uomini integerrimi, fedeli e in nessun caso sospettabili di corruzione –: le loro risoluzioni in ordine ad essi venivano poi da lui ratificate, a meno che non ritenesse opportuno apportarvi ancora qualche modifica. [5] Naturalmente, quando si rendeva necessario, si dedicava agli affari pubblici ponendosi al lavoro già prima dell’alba e continuando sino a tarda ora, né mai dava segno di tedio, o rimaneva lì con insofferenza o irritazione, ma sempre disteso e sereno in ogni evenienza. [6] Era infatti un uomo dotato di grande saggezza, e che non si lasciava ingannare da nessuno: se qualcuno si provava ad irretirlo con le belle maniere, veniva smascherato e punito. [30, 1] Dopo essersi occupato degli affari pubblici, militari o civili, si dedicava con particolare impegno alla lettura di opere greche, in specie la Repubblica di Platone. [2] Quando leggeva opere latine le sue preferenze andavano ai Doveri e alla Repubblica di Cicerone; talvolta leggeva anche oratori e poeti, tra i quali Sereno Sammonico100, che aveva conosciuto di persona e amato, e Orazio. [3] Leggeva anche la vita di Alessandro Magno, che fu il suo modello prediletto, pur condannando in lui l’ubbriachezza e la crudeltà verso gli amici, e ciò nonostante che alcuni buoni storici, cui egli in molti casi prestava fede, tendessero a scagionare il Macedone da entrambe quelle accuse. [4] Dopo la lettura si esercitava nella lotta, o nel gioco della palla, o nella corsa, o in altri esercizi meno faticosi e poi, frizionatosi il corpo con l’olio, faceva il bagno, non usando mai, o soltanto raramente, acqua calda, ma immergendosi sempre in una piscina e rimanendo in essa quasi un’ora, e intanto bevendo, così a digiuno, fino a quasi un sestario101 di fresca acqua Claudia102. [5] Uscito dai bagni, consumava molto latte e pane, uova, e inoltre vino melato, e una volta così rifocillato, talora andava poi a pranzo, ma in qualche caso rimaneva senza più toccar cibo fino a sera: il più delle volte, tuttavia, pranzava. [6] Si faceva servire di frequente il tetrafarmaco103 di Adriano, di cui parla nella sua opera Mario Massimo narrando la vita di quell’imperatore. [31, 1] Le ore pomeridiane le dedicava sempre alla firma e alla lettura

della corrispondenza, assistito sempre dal suo segretario particolare104, dal funzionario addetto alle petizioni105 e da quello addetto alla registrazione degli atti106, che talvolta ricevevano anche il permesso di sedersi, se la salute non consentiva loro di stare in piedi; gli scrivani e gli archivisti107 gli rileggevano ogni documento, così che Alessandro potesse fare di sua mano, se ne era il caso, le opportune aggiunte, ma seguendo i suggerimenti di quello che considerava più esperto in fatto di bello stile. [2] Dopo essersi occupato della corrispondenza, faceva entrare tutti insieme gli amici, intrattenendosi allo stesso modo con tutti, né mai riceveva qualcuno isolatamente eccetto il suo prefetto, cioè Ulpiano, dal quale, a motivo del suo grande senso di giustizia, si era sempre fatto assistere. [3] Quando aveva un colloquio riservato con l’altro prefetto, mandava a chiamare anche Ulpiano. [4] Chiamava Virgilio il Platone dei poeti e teneva la sua immagine assieme alla statua di Cicerone nel secondo larario, dove aveva anche quelle di Achille e di altri uomini illustri. [5] Nel larario maggiore consacrò un’immagine di Alessandro Magno tra quelle degli uomini più virtuosi e degli imperatori divinizzati. [32, 1] Non rivolse mai rimproveri ingiuriosi ad alcuno degli amici o dei cortigiani, né ai sovrintendenti e ai capi dei vari uffici. [2] Rimetteva invece ogni cosa ai prefetti, affermando che chi merita di essere trattato male dall’imperatore deve essere poi condannato, non lasciato andare impunito. [3] Se talvolta sostituiva qualche funzionario che si trovava presente, sempre aggiungeva la formula: «Lo Stato ti ringrazia»; e affinché, una volta tornato privato, potesse condurre una vita decorosa e degna del suo rango, lo provvedeva di questi donativi: terreni, buoi, cavalli, grano, attrezzi di ferro, sovvenzioni per costruirsi una casa, marmi per decorarla, e la mano d’opera richiesta per realizzare il progetto. [4] Se si eccettuano i soldati, distribuì raramente oro e argento a chicchessia, sostenendo essere immorale che un pubblico amministratore impiegasse per soddisfare i capricci suoi e degli amici quanto era stato versato dai cittadini delle province. [5] Abolì in Roma la tassa sul commercio e quella coronaria108 [33, 1] Creò a Roma quattordici procuratori dell’Urbe109, scelti fra gli uomini di rango consolare, cui diede il compito di occuparsi, insieme al prefetto dell’Urbe, degli affari civici, con l’obbligo di presenziare – tutti o in gran parte – alle deliberazioni che venivano prese. [2] Istituì corporazioni di tutti i commercianti di vino, i venditori di legumi, i calzolai e, in breve, di tutti gli artigiani, chiamando a patrocinarle persone appartenenti ad esse e stabilendo su ciascuna la competenza di determinati giudici.

[3] Agli attori di teatro non diede mai né oro né argento, tutt’al più una modesta somma di denaro. Soppresse le donazioni di vesti preziose, che Eliogabalo era stato uso fare; faceva indossare ai soldati cosiddetti «di parata»110, vesti appariscenti e fini ma non preziose, e destinava solo quantità limitate d’oro e di seta per le insegne e l’apparato di corte, dicendo che l’impero si fonda sulla virtù, non sullo sfarzo. [4] Reintrodusse per il suo uso personale i mantelli di stoffa ruvida che indossava Severo111, le tuniche senza orlo di porpora e con le maniche lunghe, e altro vestiario minuto color porpora. [34, 1] A pranzo non usava mai oggetti d’oro e in tavola aveva sempre vasellame modesto ma pulito. Il suo servizio da mensa non oltrepassò mai il peso di duecento libbre d’argento. [2] Regalò al popolo nani e nane, buffoni, cantori evirati e ogni genere di suonatori e pantomimi; quelli però che non erano più buoni a nulla, li destinò ciascuno ad una città perché li mantenessero, così che non dovessero subire la pesante umiliazione dell’accattonaggio. [3] Gli eunuchi, di cui Eliogabalo si serviva quali consiglieri di perversioni e che elevava a posizioni di prestigio, li regalò agli amici con l’accordo che, se non fossero tornati a una sana condotta di vita, avrebbero potuto ucciderli, anche senza autorizzazione giudiziaria. [4] Quanto alle donne di cattiva fama, che aveva fatto arrestare in gran numero, ordinò che fossero pubblicamente prostituite, mentre i pervertiti, con cui quello sciagurato aveva nutrito relazioni quanto mai perniciose, li fece tutti deportare – e taluni anche finirono affogati in un naufragio. [5] Nessuno dei suoi servi indossò mai vesti dorate, nemmeno in occasione di banchetti ufficiali. [6] Quando pranzava con le persone del suo seguito voleva presso di sé o Ulpiano o altri uomini di cultura, per poter condurre una conversazione su temi letterari, dalla quale egli diceva di sentirsi ricreato e nutrito. [7] Quando poi pranzava da solo, teneva sulla tavola un libro e leggeva: si trattava in prevalenza di autori greci; leggeva spesso, però, anche i poeti latini. [8] Improntava i banchetti ufficiali alla stessa semplicità di quelli privati, a prescindere dal fatto che aumentava il numero dei letti tricliniari e la massa dei convitati: quest’ultima gli riusciva fastidiosa perché – diceva – quello era come mangiare nel teatro o nel circo. [35, 1] Ascoltava volentieri oratori e poeti, non però quando recitavano panegirici in suo onore – ciò che, seguendo l’esempio di Pescennio Nigro112, considerava una cosa da stolti –, ma bensì quando declamavano orazioni o cantavano le gesta degli antichi eroi, e con particolare piacere se qualcuno gli

recitava le gesta gloriose di Alessandro Magno, o anche dei buoni imperatori che l’avevano preceduto, o degli uomini illustri della città di Roma. [2] Si recava spesso all’Ateneo113 per ascoltare i retori e poeti greci e latini. [3] Ascoltava anche gli oratori del Foro che declamavano le arringhe che già avevano pronunciate davanti a lui o ai prefetti dell’Urbe. [4] Presiedeva agli agoni114, e soprattutto a quelli di Ercole, che venivano celebrati in onore di Alessandro Magno. [5] Nel pomeriggio e nelle prime ore del mattino non riceveva mai isolatamente alcune persone che sapeva aver detto cose calunniose sul suo conto, in special modo Verconio Turino. [6] Questi, sfruttando il rapporto di familiarità che l’imperatore gli aveva concesso, aveva fatto mercato di ogni sua confidenza, persino inventando storie non vere, così da gettare discredito sul governo di Alessandro, facendolo passare per uno sciocco che lui teneva ormai in suo potere e che poteva convincere a fare molte cose: e in questo modo aveva fatto credere a tutti che l’imperatore eseguiva, al suo cenno, ogni suo ordine. [36, 1] Alla fine riuscì a smascherarlo con questo stratagemma: incaricò un tale di presentare pubblicamente una petizione all’imperatore, ma di chiedere segretamente a Turino di appoggiarlo insinuando con discrezione all’orecchio di Alessandro qualche buona parola in suo favore; [2] il piano fu eseguito e Turino promise il suo appoggio e disse di aver sussurrato certe cose all’imperatore – mentre in realtà non gli aveva detto nulla –, ma che era in dubbio se finora avesse conseguito lo scopo, mercanteggiando così l’esito positivo della faccenda; Alessandro ordinò di presentargli nuovamente la petizione, e Turino, dandosi l’aria di essere occupato in altri affari, indirizzò al richiedente dei cenni di assenso, senza peraltro dire nulla una volta a colloquio con l’imperatore; la richiesta comunque fu accolta, e Turino si fece pagare a caro prezzo dal postulante esaudito tutto il fumo che gli aveva venduto; fu allora che Alessandro lo fece accusare, e, una volta comprovate tutte le imputazioni chiamando a testimoniare sia quelli che, essendo presenti, avevano visto quanto denaro aveva percepito, sia quelli che avevano sentito quali erano state le sue promesse, ordinò che fosse legato ad un palo nel Foro Transitorio115, e, fatto accendere ai suoi piedi un fuoco alimentato – secondo le sue disposizioni – da paglia e legname umido, lo fece morire soffocato dal fumo, mentre un banditore andava ripetendo: «Col fumo è punito chi fumo ha venduto». [3] E perché non sembrasse che egli fosse stato troppo crudele nella punizione di una sola colpa, fece compiere, prima di condannarlo, scrupolose ricerche da cui venne ad apprendere che già più volte Turino aveva percepito

ricompense sia da entrambi gli avversari di una causa, mercanteggiando con l’uno e con l’altro il buon esito della vicenda, sia da tutti coloro che avevano ottenuto comandi militari o governi di province. [37, 1] Era assiduo agli spettacoli, ma assai parco nelle ricompense, dicendo che gli attori, i gladiatori e gli aurighi devono avere la stessa remunerazione dei nostri servi che fanno i gladiatori, i cocchieri, i buffoni. [2] I suoi banchetti non furono mai né sontuosi né troppo modesti, ma all’insegna di una squisita finezza; tovaglie e tovaglioli erano candidi, piuttosto spesso ornati di una striscia purpurea, ma mai d’oro, come aveva già cominciato ad averli Eliogabalo, e come in precedenza – a quanto dicono alcuni – li avrebbe avuti anche Adriano. [3] La razione giornaliera per la sua mensa era di trenta sestari di vino per l’intera giornata, trenta libbre di pane di prima qualità e cinquanta libbre di pane di qualità più scadente116 da distribuire. [4] Infatti sempre egli distribuiva di sua mano ai camerieri pane e porzioni di verdure o carni o legumi, prendendo il ruolo di un padre di famiglia, in atteggiamento – come è proprio degli anziani – grave e composto. [5] Erano previste anche trenta libbre di carne di vario tipo e due polli. [6] Nei giorni di festa si mangiava l’oca, mentre il primo gennaio, nella ricorrenza delle feste della Gran Madre117, nei giorni in cui si celebravano i Ludi Apollinari118, il convito sacro di Giove119, i Saturnali120 e altre solennità di questo genere, veniva consumato il fagiano, e certe volte ne venivano serviti due, assieme a due polli. [7] Aveva quotidianamente alla sua mensa carne di lepre e spesso v’era altra selvaggina che divideva con gli amici, specialmente quelli che sapeva non avere i mezzi per procurarsi tali cibi. [8] Né mandò mai alcun dono di tal genere a quelli ricchi, ma fu sempre lui a riceverne da loro. [9] Beveva ogni giorno quattro sestari di vino melato senza pepe, due col pepe e, perché non diventi troppo lungo riportare tutti i particolari che Gargilio121, scrittore suo contemporaneo, ha trattato minutamente, dirò che si fece sempre servire ogni vivanda in misura ragionevole. [10] Aveva un vero debole per la frutta, tanto che piuttosto spesso se la faceva portare in tavola come seconda portata: dal che nacque la battuta che per Alessandro si trattava non della seconda, ma della feconda portata. [11] Prendeva cibo in grande abbondanza, vino in misura né troppo scarsa né troppo abbondante, e nondimeno sempre a sufficienza. [12] Usava sempre acqua fresca e pura, e d’estate mescolata con vino alla rosa; ché questo era il solo, tra i diversi tipi di vini aromatizzati usati da Eliogabalo122, che egli aveva conservato.

[38, 1] E giacché si è fatto cenno alle lepri – in relazione all’uso quotidiano che egli faceva di tali carni – ricorderò la scherzosa contesa in versi che ne nacque: molti infatti dicono che chi mangia carne di lepre si mantiene bello per sette giorni, secondo quanto dice anche Marziale in un suo epigramma123 scritto contro una certa Gellia, che suona così: [2] «Quando mi mandi una lepre, sempre, Gellia mia, mi annunci: ‘ Per sette giorni bello, Marco, sarai ‘. Se dici il vero, se vero, Gellia, è il tuo augurio, tu, Gellia, carne di lepre mai ne hai mangiata».

[3] Questi versi, peraltro, Marziale li scrisse all’indirizzo di una donna, nota per la sua bruttezza; invece un poeta contemporaneo di Alessandro scrisse i seguenti versi proprio contro di lui: [4] «Bello è, tu vedi, il nostro imperatore, pur generato da una stirpe sira… Va a caccia e mangia lepre: ed è per questo che sempre nuovo a lui splendor s’aggiunge».

[5] Un amico riferì ad Alessandro questi versi e si dice che egli rispose con versi greci di questo tenore: [6] «Se tu pensi che il vostro imperatore sia bello, o miserabile, per le ragioni a cui crede la gente, se davvero lo credi, non mi adiro. Solo vorrei mangiassi tu pure carne di lepre, perché, deposto il malanimo, tu divenga bello almeno di dentro, e più non abbia, col tuo livore, ad invidiarmi».

[39, 1] Quando aveva a pranzo amici di rango militare, osservava l’usanza introdotta da Traiano124 di brindare dopo il dessert fino a cinque brindisi–: egli si limitava ad offrirne agli amici uno solo, in onore di Alessandro Magno, e piuttosto parco, a meno che qualcuno – ciò che era permesso – non avesse chiesto senza complimenti una bevuta più abbondante. [2] Era moderato nei piaceri sessuali, e così alieno da rapporti con omosessuali che, come già detto125, ebbe l’intenzione di proporre una legge per abolire la prostituzione maschile. [3] Fece costruire in tutti i quartieri della città granai pubblici, nei quali potessero depositare i loro beni coloro che non disponevano di magazzini privati. [4] Provvide tutti i quartieri che se ne trovassero sprovvisti di stabilimenti termali. Ancor oggi infatti molti portano il nome di Alessandro. [5] Costruì anche splendidi palazzi, regalandoli ai suoi amici, specialmente a quelli di specchiata onestà. [6] Operò riduzioni alle imposte pubbliche, di modo che chi sotto Eliogabalo aveva dovuto versare dieci aurei, ora doveva pagare solo un terzo di aureo, cioè la trentesima parte della vecchia tassa. [7]

Fu in quell’occasione che per la prima volta126 vennero coniati i mezzi aurei e, poiché l’imposta era scesa fino all’importo corrispondente alla terza parte di un aureo, anche le monete da un terzo di aureo127; Alessandro diceva che in futuro vi sarebbero state anche le monete da un quarto, ché meno di così non era possibile. [8] Di queste peraltro, seppure già coniate, bloccò l’immissione in corso legale attendendo, per metterle in circolazione, che gli fosse possibile diminuire ulteriormente l’imposta; ma, poiché le esigenze della spesa pubblica non glielo permisero, ordinò che fossero rifuse, e che venissero coniati solo terzi di aureo e aurei interi128. [9] Diede disposizioni perché venissero fusi e così ritirati dalla circolazione i pezzi da due, tre, quattro e fin dieci aurei, e quelli maggiori, fino a quelli stessi da una libbra129 e da cento aurei, che erano stati introdotti da Eliogabalo; [10] di conseguenza i pezzi furono designati dal nome del metallo, giacché egli sottolineava che risulterebbe per il sovrano un dannoso incentivo a elargizioni più abbondanti se, pur potendo distribuire molte monete di taglio minore, fosse costretto a dare trenta, cinquanta o cento monete, elargendo in un solo pezzo di esse il valore di dieci o più delle altre. [40, 1] Aveva poche vesti di seta; non ne indossava mai di seta pura, e non ne regalava mai neanche di mezza seta130. [2] Non invidiava le ricchezze di alcuno. Aiutava i poveri. Personaggi di alto rango che sapeva trovarsi in ristrettezze reali, non per aver dissipato le proprie sostanze o per pura simulazione, li aiutò sempre con molte provvidenze, quali campi, schiavi, animali, greggi, utensili da campagna. [3] Non voleva mai che un suo vestito rimanesse nel guardaroba imperiale131 per più di un anno, passato il quale ordinava che fosse subito dato in dono. Egli stesso ispezionava minutamente ogni veste che regalava. [4] Controllava il peso di tutto l’oro e l’argento che versava, e lo faceva spesso. [5] Regalava anche capi di vestiario militare, e tra essi schinieri, brache e calzari. [6] Sovrintendeva con grande rigore alla confezione di una pregiata qualità di porpora fatta tessere non ad uso proprio, ma per le matrone che potessero o volessero permettersi tale lusso – in ogni caso a scopo di vendita, così che ancor oggi essa viene detta porpora «alessandriana», comunemente nota, però, col nome di «probiana», in relazione al fatto che era stato Aurelio Probo, sovrintendente ai lavori di tintura132, a mettere a punto questo tipo di colorazione. Portava spesso una clamide133 scarlatta. [7] In Roma però e nelle città dell’Italia indossava sempre la toga134. [8] Soltanto quando esercitava funzioni in qualità di console indossava la pretesta e la toga ricamata135, quella, precisamente, che veniva

presa dal tempio di Giove e assunta anche dagli altri pretori e consoli. [9] Indossava la pretesta anche quando celebrava i sacrifici, ma in qualità di pontefice massimo, non come imperatore. [10] Era un amante della delicata biancheria di lino, e che fosse lino puro, giacché diceva: «Se si fanno gli indumenti di lino proprio perché non abbiano alcuna ruvidezza, a che scopo aggiungere al lino della porpora?». [11] Quanto poi all’aggiunta dell’oro, giudicava pure essa una sciocchezza, dato che alla ruvidezza si aggiungeva così al tessuto anche la rigidezza. Usava sempre fasce per le gambe136. Portava brache bianche137, non scarlatte, come si usavano prima. [41, 1] Pose in vendita tutte le gemme di cui disponeva, e versò l’oro ricavatone nell’erario, dicendo che agli uomini le gemme non servono, e alle matrone imperiali devono bastare una cuffia, degli orecchini, una collana di perle, una corona per i sacrifici, un tunicopallio138 ricamato d’oro e un abito di gala139 ornato da non più di sei once d’oro. [2] Con la sua condotta di vita esercitò realmente il ruolo di censore per i suoi tempi. Uomini illustri fecero di lui il proprio modello e matrone dell’alta nobiltà presero sua moglie ad esempio di comportamento. [3] Ridusse il personale di servizio a corte in modo tale che in ciascun ufficio venissero impiegati tanti uomini quanti richiedevano le reali esigenze di esso, e che i lavandai, sarti, panettieri, coppieri, e tutti i servi di palazzo, ricevessero razioni di pane, non più onorificenze alla maniera instaurata da quel pestilenziale individuo – ma solo una o al massimo due razioni a testa. [4] E poiché per il servizio di tavola non aveva più di duecento libbre d’argenteria e un numero limitato di domestici, quando dava un banchetto ufficiale si faceva prestare dagli amici argenterie, servi e biancheria da tavola; ciò che avviene a tutt’oggi, quando sono i prefetti a offrire pranzi ufficiali in assenza dell’imperatore. [5] Non fece mai dare rappresentazioni sceniche nel corso del convito, ma si divertiva moltissimo nel veder giocare cagnolini con porcellini, o lottare fra loro le pernici, o svolazzare su e giù degli uccellini. [6] E in realtà aveva a Palazzo un genere di divertimento che lo rallegrava immensamente e lo sollevava dalle preoccupazioni per gli affari di governo: [7] si era fatto costruire delle voliere per pavoni, fagiani, galli, anatre, e anche pernici, animali che gli piacevano moltissimo, e soprattutto per colombi, dei quali si dice avesse fino a ventimila esemplari; e perché il loro mantenimento non gravasse sulla spesa pubblica, aveva dei servi incaricati di provvedere le necessarie entrate, che procuravano il mangime loro necessario con i proventi della vendita di uova, pulcini e piccioni.

[42, 1] Frequentava spesso le terme costruite da lui e dai predecessori mescolandosi al popolo, e specialmente d’estate, ritornando a Palazzo in veste da bagno, e mantenendo quale unico distintivo imperiale la sopravveste purpurea140. [2] Non ebbe mai come corriere141 altri che non fosse un suo servo, dicendo che un uomo libero non deve correre se non nelle gare sacre142, e così quali cuochi, fornai, lavandai e bagnini impiegava solo suoi servi e, se gliene mancava qualcuno, lo comprava. [3] Sotto di lui v’era un solo medico di corte stipendiato, e tutti gli altri, che raggiunsero anche il numero di sei, ricevevano due o tre razioni di pane a testa, una di pane bianco, le altre di diversa qualità. [4] Quando nominava un magistrato lo provvedeva, seguendo l’esempio degli antichi, ricordato anche da Cicerone143, di argenteria e di quanto potesse riuscirgli necessario, di modo che, ad esempio, i governatori delle province ricevevano a testa venti libbre d’argento, sei mule, due muli, due cavalli, due vesti da cerimonia e due da casa, una tenuta da bagno, cento aurei, un cuoco, un cocchiere e, se non avevano moglie, una concubina, giacché non potevano vivere senza donne, il tutto col patto che, una volta terminato il governatorato, se la loro amministrazione era stata lodevole, avrebbero restituito le mule, i muli, i cavalli, i cocchieri e i cuochi, ma avrebbero tenuto per sé tutto il resto, e che se invece avevano governato male, avrebbero dovuto restituire ogni cosa nella misura del quadruplo, oltre a subire una condanna per peculato o concussione. [43, 1] Promulgò un’infinità di leggi. Permise a tutti i senatori di usare carrozze e cocchi con fregi d’argento144, ritenendo che andasse a vantaggio del prestigio di Roma che i senatori di una città così importante ne facessero uso. [2] Nel creare i consoli, tanto ordinari che sostituti, si attenne al parere espresso dal senato, e pose un freno alle loro spese; richiamò inoltre in vigore le norme precedenti sul consolato di durata inferiore a un anno145. [3] Stabilì che i candidati alla questura146 offrissero popolo spettacoli a loro spese, ma con la garanzia che dopo la questura avrebbero ricevuto la pretura, e successivamente avrebbero avuto il governo di una provincia. [4] Istituì dei tesorieri addetti alla organizzazione di spettacoli a spese del fisco, che non fossero però troppo dispendiosi. Aveva in mente di distribuire gli spettacoli lungo tutto il corso dell’anno, in modo che il popolo potesse avere uno spettacolo ogni trenta giorni: sono però ignote le ragioni per le quali non mise in atto il proposito. [5] Quando si trovava a Roma saliva al Campidoglio ogni sei giorni, e visitava assiduamente i templi. [6] Ebbe in animo di costruire un

tempio in onore di Cristo e di accoglierlo fra gli dèi147 Questo si narra lo avesse già pensato Adriano, che aveva ordinato di costruire in tutte le città dei templi senza simulacri, che ancor oggi, poiché non v’è una divinità a cui siano dedicati, sono chiamati «di Adriano»148, templi che egli – a quanto si diceva – aveva fatto allestire a tale scopo; [7] ma ne fu impedito da coloro che, consultando gli oracoli, avevano avuto quale responso che, se egli avesse fatto ciò, tutti sarebbero diventati Cristiani, e gli altri templi sarebbero caduti in abbandono. [44, 1] Era amabilissimo negli scherzi, garbato nella conversazione, affabile a tavola, così che ciascuno poteva chiedergli ciò che voleva. [2] Attivo nell’accumulare nuove ricchezze, prudente nell’amministrarle, sollecito nel trovarne, peraltro senza danneggiare nessuno. [3] Non voleva essere chiamato siro, ma romano di antica discendenza, e si era fatto dipingere un albero genealogico in cui si mostrava che la sua famiglia discendeva dai Metelli. [4] Fissò uno stipendio ai retori, ai grammatici, ai medici, agli aruspici, agli astrologi149, agli ingegneri, agli architetti e assegnò ad essi delle sale d’ascolto per le loro lezioni, ordinando che avessero a seguirle i figli dei poveri, purché di nascita libera, e provvedendo al loro mantenimento. [5] Anche nelle province concesse molte sovvenzioni agli avvocati, e a molti che si sapeva prestare gratuitamente la loro opera, concesse anche il mantenimento a spese dello Stato. [6] Diede maggiore rigore alle leggi sugli agoni, e vi si attenne egli stesso con grande scrupolo. [7] Assisteva spesso agli spettacoli teatrali. Progettò di restaurare il teatro di Marcello150. [8] A molte città devastate dai terremoti concesse sovvenzioni per il restauro di edifici pubblici e privati, traendole dai proventi delle imposte. [9] Per i templi non destinò mai più di quattro o cinque libbre d’argento, e neppure una goccia o una laminetta d’oro, ripetendo a bassa voce il verso di Persio Flacco151: «Nei sacri riti a che serve l’oro?»152. [45, 1] Condusse spedizioni belliche, di cui tratterò a suo tempo. Ma prima di tutto dirò di come era solito regolarsi quando si trattava di tener nascoste o divulgare notizie. [2] I piani segreti delle guerre erano coperti da assoluto riserbo, mentre venivano divulgate le notizie inerenti ai giorni in cui si svolgevano le marce di trasferimento, così che con due mesi di anticipo veniva emanato un editto in cui era scritto: «Nel tale giorno, nella tal ora uscirò da Roma e, se gli dèi vorranno, mi fermerò nel luogo stabilito per la prima sosta»; seguiva l’elenco per ordine dei luoghi di sosta, di permanenza, e poi l’indicazione dei posti di rifornimento, e tutto questo sino al momento in cui si

giungeva ai confini del territorio dei barbari. [3] Da qui in poi infatti nulla più veniva comunicato, e tutti marciavano essendo all’oscuro di ogni cosa, perché non fosse possibile ai barbari venire a conoscenza dei programmi romani. [4] È certo comunque che egli non venne mai meno a quanto preventivamente annunciato, dichiarando che non voleva che i cortigiani facessero commercio delle sue disposizioni, come era avvenuto sotto Eliogabalo, quando gli eunuchi vendevano indiscrezioni su ogni cosa. [5] Questa genìa di uomini infatti vorrebbe che a corte ogni affare fosse trattato in segreto, per apparire di essere loro soli a saperne qualcosa, e avere così di che chiedere in cambio favori e denaro. [6] E giacché si è fatto cenno alla questione della divulgazione delle sue disposizioni, ricorderò anche che quando voleva creare i governatori delle province, o nominare i prefetti, o i procuratori, cioè gli ufficiali amministrativi153, rendeva pubblici i loro nomi esortando il popolo a che, se qualcuno aveva da muovere qualche accusa, si facesse avanti a mostrarne la fondatezza con prove manifeste, ché, se non fosse riuscito a confermare in tal modo quanto diceva, sarebbe stato condannato a morte; [7] e diceva che sarebbe stato grave che quella procedura che i Cristiani e i Giudei seguono, quando rendono noti i nomi dei sacerdoti da ordinare154, non la si adottasse per i governatori delle province, alla cui responsabilità venivano affidati i beni e le vite di tanti uomini. [46, 1] Fissò un regolare stipendio per gli assistenti dei governatori, sebbene spesso dicesse che dovevano far carriera soltanto coloro che erano in grado di condurre l’amministrazione dello Stato unicamente con le loro capacità, e non servendosi di assistenti, aggiungendo che come, ad esempio, i militari hanno la loro sfera di competenza, così i letterati hanno la loro, e perciò ciascuno deve dedicarsi a ciò di cui ha vera conoscenza. [2] A chi trovava dei tesori155, li lasciava in dono e, se erano in numero notevole, includeva nella spartizione anche quelli che lavoravano al suo servizio. [3] Teneva a mente fra sé e prendeva nota per iscritto dei favori che concedeva e dei loro destinatari, e se sapeva che qualcuno o non aveva chiesto nulla, o comunque troppo poco, per migliorare il proprio tenore di vita, lo faceva chiamare e diceva: «Come mai non mi chiedi nulla? O forse vuoi che sia io a doverti qualcosa? Chiedi dunque affinché non avvenga che tu, privato cittadino qual sei, abbia a lamentarti di me». [4] Offriva in dono quelle cose che non avessero a screditare il suo buon nome: così i beni dei condannati, ma mai con l’oro, l’argento o le pietre preziose – ché tutto questo lo versava

nell’erario –; elargiva cariche di comando in ambito civile, non militare, e concedeva incarichi amministrativi relativi alle procurature. [5] Avvicendava con frequenza gli esattori, così che nessuno di essi rimaneva in carica per più di un anno, e non li vedeva di buon occhio, anche se erano onesti, ma diceva che erano un male necessario. Non creò mai governatori, proconsoli e legati per favore personale, ma in base al giudizio suo o del senato. [47, 1] Dispose che i soldati, durante le spedizioni, ricevessero il rifornimento di viveri ad ogni tappa, e non avessero a portare in spalla – come avviene di solito – le provviste per 17 giorni156 se non quando si trovavano in territorio barbarico, per quanto anche lì egli si preoccupasse di alleviare la loro fatica con l’uso di muli e cammelli, affermando che egli curava la salute dei soldati più della sua, poiché in essi era riposta la salvezza dello Stato. [2] Andava di persona a visitare nelle loro tende i soldati malati, anche quelli di grado più basso, li faceva trasportare su carrozze e li provvedeva di tutto ciò di cui avevano bisogno. [3] E se le condizioni di qualcuno di essi peggioravano, li affidava, passando per città e campagne, chi a padri di famiglia di particolare rettitudine, chi a matrone di specchiata virtù, rimborsando poi le spese che avevano dovuto sostenere, tanto nel caso che i soldati fossero guariti come in caso di morte. [48, 1] Avvenne una volta che un certo Ovinio Camillo157, senatore appartenente a famiglia d’antico lignaggio e uomo quanto mai effemminato, tramò una ribellione per impadronirsi del potere assoluto: essendo stata la cosa riferita ad Alessandro e subito provata vera, egli lo chiamò a Palazzo e lo ringraziò di voler assumere spontaneamente la responsabilità del governo dello Stato, che invece di solito si deve imporre a forza ai migliori cittadini che vorrebbero rifiutarla; [2] poi si recò in senato e, mentre quello era pieno di paura, annientato dal peso schiacciante della consapevolezza di una colpa così grave, lo proclamò suo collega nell’impero, lo accolse a Palazzo, lo invitò a pranzo, lo rivestì degli ornamenti imperiali, e per giunta più appariscenti di quelli che portava egli stesso. [3] E quando fu annunziata una spedizione contro i barbari, lo esortò ad andarvi, se voleva, da solo, oppure a partire con lui. [4] Nel corso della marcia Alessandro, che procedeva a piedi, invitò Ovinio ad affrontare la stessa fatica; ma dopo cinque miglia, visto che non si reggeva più in piedi, lo fece montare a cavallo, e poiché dopo due tappe non ce la faceva più neppure a cavalcare, lo mise su di una carrozza. [5] Ma lui, fosse la paura o la reale prostrazione in cui si trovava, non si sentì di continuare neanche su quella, e rinunciò anzi all’impero stesso, ormai rassegnato a

morire: Alessandro allora lo lasciò andare, e postolo sotto la scorta di soldati a lui fedelissimi, dispose che potesse raggiungere incolume i suoi possedimenti, laddove visse poi ancora a lungo. [6] Ma in seguito fu ucciso per ordine dell’imperatore […], poiché egli era un uomo d’armi, ed era stato ucciso da soldati. So che la gente pensa che il fatto che ho narrato si riferisca a Traiano, ma né Mario Massimo parla di questo episodio nella biografìa di tale imperatore, e neppure Fabio Marcellino158, Aurelio Vero o Stazio Valente159, che pure ci hanno dato il resoconto di tutta la sua vita. [7] Al contrario Settimino, Acolio ed Encolpio160, nonché tutti gli altri biografi hanno attribuito la vicenda al nostro imperatore. [8] E io l’ho qui riportata perché nessuno abbia a dare maggior credito alle voci del volgo che alla storia, la quale si rivela in qualsiasi caso più verace delle chiacchiere del popolino. [49, 1] Non permise mai che si facesse mercato delle cariche comportanti il diritto di vita o di morte161, dicendo: «È inevitabile che chi ha comprato, anche, a sua volta, venda. Io non tollero i mercanti di cariche e la gente che, dal momento che svolge dei traffici, non sarei in grado di condannare: arrossisco infatti a punire un uomo che ha comprato e venduto». [2] Dispose che le nomine a pontefice, quindecemviro, augure fossero disposte mediante un rescritto imperiale e presentate in senato per la ratifica. [3] Dexippo162 dice che egli sposò la figlia di un certo Macriano163, e che questi ebbe da lui il titolo di Cesare. [4] Ma avendo Macriano progettato di attentare alla vita di Alessandro, una volta scoperto il complotto lui stesso fu fatto giustiziare dall’imperatore, che ripudiò inoltre la moglie. [5] Il medesimo storico afferma che Antonino Eliogabalo era zio paterno di Alessandro, e non cugino per parte di madre. [6] Una volta dei Cristiani avevano occupato un certo luogo, che in precedenza era stato pubblico, mentre v’erano alcuni osti che invece lo rivendicavano a sé: egli sentenziò che era meglio che lì si venerasse, in qualunque modo fosse, una divinità, piuttosto che il posto venisse lasciato in mano a dei bettolieri. [50, 1] Era dunque un sovrano eccellente e di così alte qualità, sia in patria che fuori: sua iniziativa fu una spedizione contro i Parti164, che condusse imponendo una così grande disciplina e un tale rispetto nei suoi confronti che, a vederli passare, si sarebbe detto che si trattasse non di soldati, ma di senatori. [2] Dovunque le legioni si trovavano a marciare i tribuni mantenevano un composto silenzio, i centurioni erano rispettosi, i soldati cortesi; e lui, in grazia di benefici così numerosi e grandi, era riguardato come un dio dagli abitanti delle province. [3] Gli stessi soldati, poi, amavano il

giovane imperatore come un fratello, un figlio o un padre, vestiti com’erano decorosamente, dotati di belle calzature, armati splendidamente, provvisti anche di cavalli con selle e briglie di buona fattura, di modo che chi vedeva l’esercito di Alessandro poteva farsi un’idea della grandezza di Roma. [4] Si sforzava insomma di risultare degno di quel suo nome, anzi di superare il famoso Macedone, dicendo che tra l’Alessandro romano e quello macedone doveva esserci molta differenza. [5] Si provvide di soldati dotati di scudi rivestiti d’argento e d’oro165 e costituì una falange di trentamila uomini, che fece chiamare «falangari» e con i quali compì molte imprese in terra di Persia; essa era composta di sei legioni dotate di armamento ordinario, ma pagate – dopo la guerra persiana – ad un soldo più alto. [51, 1] Destinò ai templi i doni fattigli dai re; le pietre preziose che gli venivano donate le vendeva, considerando una vanità donnesca il possedere delle gemme, roba che né deve venir offerta ad un soldato, né posseduta da un vero uomo. [2] E quando un legato offrì in dono a sua moglie, per tramite di lui stesso, due perle di gran peso e di eccezionale dimensione, ordinò che fossero vendute. [3] Ma poiché non si trovava chi fosse in grado di pagare un prezzo adeguato, preoccupato che la regina non avesse a dare il cattivo esempio, facendo uso di oggetti che nessuno era stato in grado di comprare, le destinò per gli orecchini di una statua di Venere. [4] Teneva in conto di tutore Ulpiano – ciò che dapprima suscitò l’opposizione della madre, la quale, però, ebbe successivamente motivo di esprimere la sua gratitudine – e più volte lo difese dall’ira dei soldati, opponendo loro per proteggerlo il suo stesso mantello di porpora166; e in effetti, se egli risultò un grandissimo imperatore, fu proprio perché governò lo Stato informando principalmente la sua azione ai consigli di lui. [5] Durante le campagne e le spedizioni militari, pranzava e cenava sotto padiglioni aperti, consumando il rancio dei soldati sotto lo sguardo compiaciuto di tutti, e faceva giri di ispezione per quasi tutte le tende, non tollerando che alcuno si assentasse dal proprio reparto. [6] Se qualcuno durante la marcia si staccava dalle file per introdursi in una proprietà privata, lo faceva punire in sua presenza – a seconda del grado – col bastone, o con le verghe, o infliggendogli una multa, oppure, se il suo rango non consentiva pene di questo genere, lo investiva con aspri rimproveri, dicendo: «Vorresti che nel tuo campo si facesse ciò che tu fai in quello altrui?». [7] E citava spesso ad alta voce la massima che aveva udito da certuni – non so se Giudei o Cristiani – e che teneva sempre presente, ordinando che, allorquando infliggeva a qualcuno una punizione disciplinare, un banditore la proclamasse

ad alta voce: [8] «Non fare ad altri ciò che non vuoi sia fatto a te»167. Questa massima, in effetti, gli fu tanto cara, che la fece incidere nel Palazzo imperiale e negli edifici pubblici. [52, 1] Una volta, venuto a sapere che un soldato aveva maltrattato una povera vecchia, lo allontanò dal servizio e lo diede a quella come servo, perché la mantenesse col suo lavoro di carpentiere; e poiché i soldati si lagnavano di tale provvedimento, li indusse tutti a miti consigli, incutendo loro grande timore. [2] Il suo regno, che pure fu duro e severo, fu detto – come riferisce Erodiano nella storia del suo tempo168 – «incruento», a motivo del fatto che egli non mise a morte alcun senatore. [3] Era tale la sua severità nei confronti dei soldati, che spesso giunse a sciogliere intere legioni169, rivolgendo agli uomini l’appellativo di «Quiriti»170 anziché di «soldati», e non ebbe mai timore dell’esercito, poiché nessuna critica poteva essere mossa alla sua vita e inoltre non era mai avvenuto che i tribuni o i comandanti si appropriassero di alcunché sottratto agli stipendi dei soldati; e affermava: «Non v’è di che temere i soldati se sono ben vestiti, ben armati, ben calzati, a pancia piena e con qualche soldo in tasca», giacché era l’indigenza nella vita militare che poteva spingere i soldati anche agli atti più inconsulti. [4] Non permise infine che i tribuni e i generali avessero quali guardie d’onore altri che semplici soldati, ordinando che a precedere il tribuno fossero quattro soldati, sei il generale, dieci il legato, con l’obbligo di dare loro alloggio nella propria residenza, ciascuno ai suoi. [53, 1] E per offrire un’idea della sua durezza, ho ritenuto di inserire qui un suo discorso ai soldati171, che fosse indicativo del suo modo di agire nelle questioni riguardanti la vita militare. [2] Arrivato ad Antiochia gli fu riferito che dei soldati si disperdevano tra bagni, donne e divertimenti: ordinò allora che tutti fossero arrestati e gettati in carcere. [3] Quando la notizia si diffuse vi fu una sollevazione da parte della legione, i cui commilitoni erano stati imprigionati. [4] Allora egli salì sulla tribuna e, fatti condurre ad essa tutti i prigionieri in catene, e alla presenza pure delle truppe stesse in armi, così cominciò: [5] «Commilitoni, se malgrado tutto voi disapprovate ciò che hanno fatto i vostri compagni, allora la disciplina che fu già dei nostri padri regge ancora lo Stato; ché se quella vien meno, perderemo sia il nome che l’impero di Roma; [6] non debbono infatti succedere, sotto il mio regno, le cose indegne che, fino a poco tempo fa, avvenivano sotto quella bestia immonda172. [7] Dei soldati romani, vostri colleghi, miei compagni e commilitoni, si dànno agli amori, al bere, ai bagni alla maniera dei Greci, alla quale in tutto si

conformano. E io dovrei tollerare questo più oltre, e non infliggere loro la pena capitale?». [8] A questo punto si levarono grida ostili. E lui proseguendo: «Perché non risparmiate la voce, che vi deve servire in battaglia contro il nemico, non per gridare contro il vostro comandante? [9] Certamente quelli che vi addestrarono173 vi dissero di metterla fuori contro i Sarmati, i Germani e i Persiani, e non contro colui che vi distribuisce i viveri avuti dai provinciali, che vi provvede di che vestirvi, che vi paga il soldo. [10] Tenete dunque a freno questa voce minacciosa, e che vi servirà piuttosto sul campo di battaglia, perché io non abbia oggi stesso, pronunziando una sola parola, a licenziarvi quali “ Quiriti”, e non so se neppure come tali. [11] Non siete infatti degni di appartenere neppure alla plebe romana, se non osservate la legge di Roma». [54, 1] E poiché continuavano ad esprimere il loro malcontento in modo ancor più turbolento, e già mettevano minacciosamente mano alle armi, egli gridò: «Abbassate la destra, ché contro il nemico la dovete alzare, se siete valorosi: a me le vostre minacce non fanno paura. [2] Se infatti uccidete me, che pure sono un sol uomo, non sfuggirete alla vendetta che di me trarranno su di voi lo Stato, il senato, il popolo romano». [3] Poiché anche dopo queste parole continuavano nondimeno a tumultuare, esclamò: «Quiriti, andatevene e deponete le armi». [4] Come per miracolo essi, deposte le armi, deposti pure i mantelli militari, si ritirarono tutti non nell’accampamento, ma in vari alberghi del posto. [5] Fu allora che per la prima volta si comprese quanto potesse la sua severità. [6] Infine le guardie del corpo e quelli che stavano intorno all’imperatore riportarono le insegne al campo, e il popolo raccolse le armi e le portò al Palazzo174. [7] Dopo trenta giorni, tuttavia, prima di partire per la campagna di Persia, cedendo alle preghiere, reintegrò in servizio la legione che aveva sciolto – e il contributo di essa risultò determinante per le vittorie di Alessandro –, mentre inflisse la pena capitale ai tribuni di quella legione, poiché era a causa della loro negligenza che i soldati a Dafne avevano potuto abbandonarsi a quella vita dissoluta, o grazie alla loro connivenza che l’esercito era giunto alla ribellione.

L’esordio della vita di Alessandro Severo di Elio Lampridio in un codice del secolo XV (Parigi, Bibliothèque Nationale, cod. Par. Lat. 5807, fol. 188r).

[55, 1] Partito dunque di là con grande spiegamento di forze per la campagna contro i Persiani, sconfisse il potentissimo re Artaserse175, in un combattimento in cui passava da un capo all’altro dello schieramento esortando i soldati, si esponeva continuamente al tiro delle frecce nemiche, compiendo personalmente atti di grande valore, trascinando ciascuno dei soldati col suo incitamento a impegnarsi a sua volta in azioni gloriose. [2] Infine, sbaragliato e volto in fuga quel re così potente, che era entrato in guerra con settecento elefanti e milleottocento carri falcati e molte migliaia di cavalieri, subito ritornò ad Antiochia, e distribuì all’esercito il bottino che aveva strappato ai Persiani, disponendo inoltre che i tribuni, i comandanti e gli stessi soldati potessero tenersi tutto ciò di cui avevano fatto preda passando per i villaggi. [3] Allora per la prima volta i Romani ebbero degli schiavi persiani; ma poiché i sovrani di Persia considerano un disonore che qualcuno

dei loro sudditi abbia ad essere schiavo in qualche parte del mondo, Alessandro li restituì loro a prezzo di un riscatto, e destinò quest’ultimo a coloro che avevano presi prigionieri gli schiavi, oppure lo versò nell’erario. [56, 1] Dopo ciò venne a Roma e, dopo aver celebrato uno splendido trionfo, tenne prima di tutto un discorso in senato, che ora riporteremo. [2] Dagli atti del senato del 25 settembre176: «Abbiamo vinto, o senatori, i Persiani. Non c’è bisogno di molte parole: vi basti sapere quale era il loro armamento, quale il loro apparato bellico. [3] In primo luogo avevano settecento elefanti, per di più equipaggiati con torri ed arcieri, e con grandi riserve di frecce: ne abbiamo catturati trenta, duecento ne abbiamo lasciati uccisi sul campo, e diciotto li abbiamo condotti per il trionfo. [4] Disponevano inoltre di milleottocento carri falcati: avremmo potuto condurre qui i duecento carri dei quali avevamo ucciso i cavalli ma, poiché si tratta di un bottino che si presta anche a falsificazioni, abbiamo rinunciato a farlo. [5] Abbiamo sbaragliato centoventimila loro cavalieri, abbiamo ucciso sul campo diecimila di quei cavalieri equipaggiati di armatura177 che i Persiani chiamano clibanari178, e abbiamo attrezzato delle loro armi i nostri soldati. Abbiamo catturato molti Persiani, vendendoli poi come schiavi. [6] Abbiamo riconquistato il territorio fra i due fiumi, che quella belva immonda179 aveva abbandonato. [7] Abbiamo sbaragliato e volto in fuga Artaserse, un re potentissimo non solo per fama ma anche per effettiva autorità, così che la terra di Persia lo ha visto fuggiasco, e per quelle stesse contrade dove un tempo le nostre insegne erano state trascinate come preda180, il re in persona è dovuto scappare abbandonando le proprie. [8] Questo, senatori, è quanto abbiamo fatto. Non c’è bisogno di spendere molte parole: i soldati ritornano ricchi, nessuno, nella gioia della vittoria, sente più la fatica. [9] Sta ora a voi decretare una solenne cerimonia di ringraziamento, perché gli dèi non abbiano a giudicarci ingrati». Questa fu l’acclamazione del senato: «Alessandro Augusto, gli dèi ti salvino. Persico Massimo, gli dèi ti salvino. Davvero Partico, davvero Persico181. I tuoi trofei noi pure li vediamo, le tue vittorie noi pure le vediamo. [10] Salute al giovane imperatore, al padre della patria, al pontefice massimo. Da te la vittoria sui Germani attendiamo. Da te la vittoria ovunque ci aspettiamo. Quegli vince, che sa reggere l’esercito. Ricco è il senato, ricco l’esercito, ricco il popolo romano». [57, 1] Sciolta la seduta del senato, salì in Campidoglio e poi, dopo aver celebrato un sacrificio e deposte nel tempio tuniche persiane, tenne un discorso di questo tenore: «Abbiamo vinto, o Quiriti, i Persiani. Abbiamo

ricondotto i soldati ricchi. A voi promettiamo una elargizione, e domani allestiremo nel Circo dei giochi per celebrare la vittoria sui Persiani». [2] Tutto questo lo abbiamo ricavato dagli Annali e da molte altre fonti. Ma vi sono certuni che dicono che Alessandro, tradito da un suo servo, non ottenne la vittoria sul re, ma anzi dovette fuggire per non esserne sconfitto. [3] A chi, però, abbia potuto consultare molte fonti, appare evidente che una tale versione va contro l’opinione comune. E così pure è contraria all’opinione più diffusa la notizia, che risale a Erodiano182, secondo cui egli avrebbe perduto l’esercito per fame, freddo e malattie. [4] Dopo ciò, accompagnato, tra le più grande acclamazioni, dal senato, dall’ordine equestre e da tutto il popolo – in mezzo a cui erano sparse da ogni parte donne con bambini, soprattutto mogli di soldati –, si avviò a piedi al Palazzo imperiale, seguito dal carro trionfale trainato da quattro elefanti183. [5] Alessandro era innalzato a spalla dagli uomini, e per quattro ore non gli fu quasi consentito posar piede a terra, mentre da ogni parte tutti gridavano: «Salva è Roma, salvo lo Stato, giacché è salvo Alessandro». [6] Il giorno seguente, dopo lo svolgimento dei giochi nel Circo, e parimente degli spettacoli teatrali, concesse un’elargizione al popolo romano. [7] Poi, sull’esempio di Antonino, che aveva costituito il sodalizio delle fanciulle Faustiniane184, creò sodalizi di fanciulle Mameane e di fanciulli Mameani. [58, 1] Campagne militari furono condotte con successo da Furio Celso nella Mauritania Tingitana185, da Vario Macrino, parente di Alessandro, nell’Illirico, da Giunio Palmato in Armenia186, e da tutte queste regioni gli furono inviati dei bollettini di vittoria ornati di alloro187: e di mano in mano che questi, secondo i vari momenti del loro arrivo, venivano letti in senato senato e davanti al popolo – giunsero anche, particolarmente desiderati, dall’Isauria188 –, egli veniva insignito di tutti i relativi appellativi. [2] A coloro poi che avevano operato con successo nel servizio dello Stato, furono decretate le insegne consolari189, con l’aggiunta ulteriore di dignità sacerdotali e di possedimenti terrieri per coloro che si trovavano in precarie condizioni economiche e già avanti nell’età. [3] I prigionieri dei diversi popoli li regalava, se l’età puerile o giovanile lo consentiva, ai suoi amici; tuttavia, se qualcuno di essi era di stirpe regale o di alto rango, lo destinava alla milizia, non però ai gradi importanti. [4] I territori conquistati al nemico, li assegnava ai comandanti e ai soldati delle truppe di confine190, con la condizione che sarebbero diventati di loro proprietà, se gli eredi avessero seguito la carriera

militare, in modo che non venissero mai in possesso di privati, affermando che essi avrebbero compiuto il loro servizio con maggiore dedizione, se avessero avuto da difendere anche i propri possedimenti. [5] Fornì inoltre ad essi animali e schiavi, affinché potessero coltivare ciò che avevano ricevuto, onde non avvenisse che per mancanza di braccia o per la vecchiezza dei possidenti fossero abbandonate delle terre confinanti con quelle dei barbari, cosa che egli riteneva assolutamente vergognosa. [59, 1] Oramai era entrato profondamente nell’affetto del popolo e del senato, e quando partì per la guerra contro i Germani191 tutti, sebbene confidassero nella vittoria, erano dispiaciuti di lasciarlo andar via, e lo accompagnarono in massa per 100 o 150 miglia fuori Roma. [2] Ma costituiva un fatto intollerabile per lo Stato e lui stesso, che la Gallia fosse devastata dalle scorrerie dei Germani. [3] L’onta che ne derivava era accresciuta dal pensiero che, dopo la vittoria sui Parti, si era levata sullo Stato la minaccia di un popolo che appariva essere stato sempre tenuto in soggezione anche dagli imperatori più insignificanti. [4] Avanzava dunque a grandi tappe, tra l’entusiasmo dei soldati. Ma poiché anche là venne a sapere che le legioni erano insofferenti della disciplina, ne ordinò lo scioglimento. [5] Ma l’indole dei Galli, ostinata e riottosa qual è, e spesse volte fonte di pericoli per gli imperatori, non poté sopportare l’eccezionale severità da lui mostrata192, che appariva tanto maggiore dopo l’esperienza di uno come Eliogabalo. [6] Fu così che, mentre era impegnato con pochi uomini in Britannia, o, come altri vorrebbero, in Gallia, in un villaggio chiamato Sicilia193, alcuni soldati, non certo in conformità ad un sentimento generale, ma con un’azione puramente brigantesca, lo uccisero: ed erano principalmente quelli che si erano arricchiti con i premi avuti da Eliogabalo e non potevano soffrire un imperatore così rigido. [7] Molti dicono che ad ucciderlo furono delle reclute mandate da Massimino194, che erano state affidate a quest’ultimo per l’addestramento; e molti ancora sostengono altre versioni; [8] è certo comunque che furono dei soldati, i quali non si astennero neppure dagli insulti, chiamando lui «bambino», e rinfacciando a sua madre l’avarizia e l’avidità di potere. [60, 1] Regnò per tredici anni e nove giorni. Visse 29 anni, tre mesi e sette giorni195. [2] Operò sempre seguendo i consigli della madre, e insieme con lei fu ucciso. [3] I presagi della sua morte furono i seguenti: mentre celebrava un rito per il suo genetliaco, la vittima grondante di sangue gli sfuggì e, alla vista del popolo, in mezzo al quale si trovava secondo il suo consueto modo d’agire

improntato a semplicità, gli macchiò la veste bianca che aveva indossata per quell’occasione. [4] Nel Palazzo della città dalla quale si accingeva a partire per la guerra un’imponente e annosa pianta di lauro precipitò a terra in tutta la sua mole. [5] Tre alberi di fico che producevano la varietà detta «alessandriana»196, caddero all’improvviso davanti alla sua tenda, ché i padiglioni imperiali erano agganciati ad essi. [6] Una profetessa druida197, mentre Alessandro si accingeva alla partenza, gli gridò in lingua gallica: «Va’, ma non sperare nella vittoria e non ti fidare dei tuoi soldati». [7] Allorché salì sulla tribuna per tenere un discorso e rivolgere parole di buon augurio, esordì con «Ucciso l’imperatore Eliogabalo…»; [8] ma l’aver iniziato la sua allocuzione ai soldati al momento di partire per la guerra con parole malaugurali fu interpretato come un presagio di sventura. [61, 1] Ma per tutti questi presagi egli mostrò il più profondo disprezzo, e partito egualmente per la guerra, fu ucciso nel luogo che abbiamo detto, in queste circostanze: [2] nell’occasione aveva pranzato, come era suo solito, pubblicamente, cioè a tenda aperta, mangiando lo stesso cibo dei soldati; né infatti altro ne poterono trovare all’interno della sua tenda i soldati quando la ridussero a brandelli. [3] Stava dunque riposando dopo il pranzo quando, verso l’ora settima, un Germano, che esercitava l’ufficio di guardia del corpo, introdottosi mentre tutti dormivano – tranne l’imperatore, che era appena assopito – fu visto da Alessandro, [4] che gli disse: «Che c’è, camerata? Forse hai qualche notizia del nemico?»; [5] ma quello, terrorizzato e aspettandosi di non poterla scampare, per essersi introdotto così nella tenda dell’imperatore, corse dai suoi compagni, e li incitò a sopprimere quel principe spietato. [6] Subito quelli, in buon numero e armati, entrarono nel padiglione e, uccisi quanti, sebbene inermi, cercavano di opporre resistenza, venuti a lui lo trafissero con un gran numero di colpi. [7] Alcuni dicono che tutto si svolse senza una parola: solo gli sarebbe stato gridato dai soldati: «Esci, fuori!»; e in questo modo venne ucciso quell’ottimo giovane […] [8] ma tutto l’apparato militare che successivamente fu condotto in Germania da Massimino era opera di Alessandro, ed era per giunta potentissimo grazie agli arruolamenti di Armeni, Osroeni198 e Parti, nonché di soldati appartenenti ad ogni razza umana. [62, 1] Che Alessandro avesse sprezzato la morte appare chiaro non solo dalla sua fierezza d’animo, che gli permise sempre di tenere a freno i soldati, ma anche da altre circostanze: [2] quando l’astrologo Trasibulo199, suo carissimo amico, gli rivelò che egli era destinato a morire di spada barbarica,

dapprima se ne rallegrò, pensando che lo attendesse una morte in battaglia e del tutto degna di un imperatore; [3] poi cominciò a discorrere sull’argomento, osservando come tutti gli uomini migliori erano periti di morte violenta, e ricordava lo stesso Alessandro, di cui portava il nome, Pompeo, Cesare, Demostene, Tullio e tutti gli altri uomini illustri che non erano morti nel proprio letto; [4] ed era tale il suo coraggio, da fargli ritenere un bene divino l’eventuale morte in battaglia. [5] Ma le sue aspettative furono deluse dalla realtà dei fatti: ché egli cadde, sì, trafìtto da spada barbarica e per mano di una guardia del corpo barbara, ma non in battaglia, seppure in tempo di guerra. [63, 1] I soldati, anche quelli che un tempo erano stati da lui allontanati, rimasero costernati per la sua morte, e massacrarono gli assassini. [2] Il popolo romano, poi, e tutto il senato, come pure tutti quanti gli abitanti delle province, non ricevettero mai una notizia più triste e più amara, anche perché l’asprezza e la rozzezza del successore Massimino, propria di un uomo avvezzo ai costumi militari, al quale dopo di lui fu conferito il potere imperiale assieme al figlio, sembrava annunciare ineluttabilmente più duri destini. [3] Il senato lo elevò nel novero degli dèi200. Ebbe un cenotafìo in Gallia e un grandioso sepolcro a Roma201. [4] Fu creato in suo onore un sodalizio religioso i cui componenti presero il nome di Alessandriani; e fu inoltre istituita una festa intitolata a sua madre e a lui stesso, che ancor oggi viene celebrata a Roma con grande devozione nella ricorrenza della sua nascita. [5] Secondo altri la causa della sua uccisione andrebbe ricercata nel fatto che sua madre voleva abbandonare la guerra in Germania e ritornare in oriente a far sfoggio della sua grandezza, ciò che avrebbe suscitato le ire dell’esercito. [6] Ma questa versione è un’invenzione dei partigiani di Massimino, che non volevano apparisse che quell’ottimo imperatore era stato fatto assassinare da un amico, in dispregio di ogni legge umana e divina. [64, 1] Fino a questo momento l’impero romano era stato governato da principi che ebbero regni di notevole lunghezza, mentre dopo Alessandro l’impero fu in balìa di vari imperatori che se ne impadronivano lottando fra loro, e regnando chi per un solo semestre, chi per un anno, molti anche un paio d’anni, in ogni caso non più di tre, fino a giungere a quegli imperatori che allargarono con le loro conquiste i confini dell’impero, voglio dire Aureliano e i suoi successori, [2] sulle vite dei quali, se avrò vita, pubblicherò quanto ho potuto apprendere202. [3] Questi furono i difetti che gli vennero imputati: che non voleva esser considerato siro, che amava l’oro, che era sospettosissimo, che escogitava

molte nuove tasse, che voleva sembrare Alessandro Magno, che era troppo severo nei confronti dei soldati, che si interessava degli affari dei privati cittadini: tutti atteggiamenti, questi, che egli aveva preso nel governo dello Stato. [4] So per verità che molti sostengono che Alessandro abbia ricevuto il titolo di Cesare non dal senato, ma dai soldati – ma si tratta di gente che ignora completamente la realtà dei fatti –, e dicono inoltre che egli non era cugino di Eliogabalo. [5] Ma costoro vadano a leggere gli storici del tempo, e specialmente Acolio203, che ha scritto anche sui viaggi compiuti da Alessandro: e finiranno col darmi ragione. [65, 1] Sei solito chiedere, o sommo Costantino, che cosa mai abbia potuto fare di un uomo straniero, di un siro, un imperatore tanto grande, laddove tanti uomini di stirpe romana, tanti venuti dalle altre province si dimostrarono malvagi, impuri, crudeli, abietti, ingiusti, libidinosi. [2] Già in primo luogo potrei rispondere, seguendo l’opinione delle persone migliori, che è per opera della natura, la quale è unica madre di tutti in qualsiasi luogo, che poté nascere un buon principe; e in secondo luogo, che fu per il timore al pensiero che quel pessimo principe204 era finito ucciso, che questo divenne un imperatore così virtuoso. [3] Ma poiché alla Tua Benigna Grazia è d’obbligo rivelare la verità, esporrò i frutti delle mie ricerche a tale proposito. [4] È ben nota a Tua Grazia la massima, che hai letto in Mario Massimo, secondo cui è migliore e in certo modo più sicuro quello Stato in cui vi è un sovrano malvagio di quello in cui sono malvagi gli amici del sovrano stesso, dal momento che un solo malvagio può subire l’influenza positiva esercitata su di lui da molti buoni, mentre non è in alcun modo possibile che molti malvagi vengano tenuti in soggezione da una sola persona, per buona che sia. [5] E questo è proprio quanto fu detto da Omullo205 allo stesso Traiano, quando quest’ultimo affermava che Domiziano era stato pessimo, ma aveva avuto dei buoni amici, e perciò era stato odiato più lui che non lo Stato dei suoi tempi, ed egli rispose: «Perché è meglio avere a sopportare un solo malvagio che molti!». [66, 1] E, per tornare all’argomento, Alessandro fu lui stesso pieno di ottime doti […] – ché nessuno vuole queste cose se non è realmente buono, e si valse dei consigli di una persona virtuosa come la madre. [2] Ebbe comunque amici integerrimi e degni del massimo rispetto, non maliziosi, non rapaci, non faziosi, non calcolatori, non conniventi verso l’iniquità, non nemici dei buoni, non libidinosi, non crudeli, non tali da ingannarlo o farsi

gioco di lui, e raggirarlo come se fosse uno sciocco, ma al contrario virtuosi, rispettabili, continenti, religiosi, affezionati al loro sovrano: non si permettevano di deriderlo essi stessi, ma non volevano che egli fosse oggetto di riso per altri, non facevano mercato di alcuna notizia, non mentivano né fingevano in alcuna cosa, non deludevano mai la stima del loro principe, ma gli erano amorevolmente devoti. [3] A ciò si aggiunge il fatto che non tenne mai, né nei suoi consigli, né nei vari ministeri di corte, degli eunuchi, gente che più d’ogni altra porta alla rovina gli imperatori, in quel suo adoperarsi per farli vivere alla maniera dei popoli e dei monarchi di Persia: sono loro che alienano ad essi l’affetto del popolo e degli amici, che fanno da intermediari riferendo sempre cose diverse dai reali responsi del principe, isolando il loro sovrano206 e procurando innanzitutto che sia tenuto all’oscuro di tutto. Ma quale senso del bene possono, alla fin fine, avere costoro, gente comprata, e che hanno sempre vissuto in condizione di schiavi? [4] Egli soleva dire in proposito: «Io non tollero che degli schiavi comprati con denaro possano disporre delle vite di prefetti, consoli, senatori». [67, 1] So bene, o imperatore, quale pericolo si corra a dire queste cose a un principe che un tempo fu soggetto all’influenza di individui di tal genere207, ma ora che lo Stato è salvo avendo tu compreso quanto dannosi siano codesti flagelli e come raggirino subdolamente i loro sovrani, anche tu li hai relegati al rango che meritano, non permettendo che indossino la clamide208, e assegnandoli al disbrigo delle faccende domestiche. [2] È inoltre degno di rilievo il fatto che entro il Palazzo non ricevette mai alcuno da solo se non il prefetto, che era, tra l’altro, Ulpiano, né lasciò ad alcuno la possibilità di vendere fumo sfruttando il suo nome o di parlar male di altri alla sua presenza, soprattutto dopo la condanna a morte di Turino, che aveva spesso fatto mercato delle sue parole e dei suoi atti facendolo passare per uno sciocco e un inetto. [3] Per di più, se scopriva che amici o parenti suoi si comportavano male, Alessandro o li puniva o, se l’antica amicizia o rapporto di parentela non consentiva una punizione, li allontanava da sé dicendo: «Lo Stato intero mi è ben più caro di queste singole persone». [68, 1] Ed ecco, per tua conoscenza, un elenco delle persone che fecero parte del suo consiglio: Fabio Sabino209, figlio dell’insigne Sabino, il Catone del suo tempo; Domizio Ulpiano, il grande giurista; Elio210 Gordiano […] dell’imperatore Gordiano […] uomo insigne; il grande giurista Giulio Paolo; Claudio Venaco, oratore di fama; Catilio Severo, suo cognato, uomo di eccezionale sapienza; Elio Sereniano, tra tutti il più irreprensibile; Quintilio

Marcello, di cui non si ritrova nella storia una persona migliore. [2] Con tutti questi uomini, nonché altri di tale valore, volti concordemente al bene, che cosa si sarebbe mai potuto pensare o fare di male? [3] E in effetti una schiera di persone malvage, che nei primi giorni di regno aveva circuito Alessandro, li aveva messi da parte, ma una volta eliminati o allontanati costoro dal saggio agire del giovane principe, si rinsaldò questa santa amicizia. [4] Sono stati proprio costoro a fare di un siro un buon sovrano, così come sono stati gli amici malvagi che hanno procurato una pessima fama anche presso i posteri a quegli imperatori, pur di origine romana, che sono stati gravati dal peso delle loro iniquità.

1. Il suo nome originario era, secondo ERODIANO (V, 3, 3), Alexianos o, secondo CASSIO DIONE (LXXVIII, 30, 3), Bassiano. Dopo l’adozione da parte di Elagabalo, fu comunemente chiamato Marco Aurelio Alessandro, finché, quando salì al trono, prese il nome di M. Aurelio Severo Alessandro. 2. Nacque nel 208 d. C. ad Arca Cesarea in Siria (vicino all’odierna Tripoli). 3. Giulia Mesa, madre di Giulia Soemia e Giulia Mamea, di cui erano figli rispettivamente Elagabalo e Alessandro. 4. Con questo termine spregiativo (per cui cfr. Op. Macr., 11, 6, n. 2) si allude naturalmente a Elagabalo. 5. La solita inesattezza sulla data e le modalità dell’attribuzione del nome di Cesare ad Alessandro; cfr. Op. Macr., 4, 1, n. 3; Heliog., 5, 1, n. 4. 6. Cfr. Ant. Pius, 4, 7, n. 1. 7. Su Vindice e Antonio cfr. Pesc. Nig., 9, 2, note 4, 1. 8. Cfr. Sev., 5, 1. 9. Nella stessa HA egli è chiamato Alexander Mamaeae in questa Vita a 5, 2 e inoltre in Aurel., 42, 4 e Car., 3, 4; si tratta di una denominazione contenente una chiara allusione alla sua dipendenza dalla madre (cfr. 14, 7). 10. Nulla sappiamo dei maestri di Alessandro elencati qui di seguito, i cui nomi potrebbero anche essere invenzioni del biografo. Cfr. J. STRAUB, Severus Alexander und die mathematici, in BHAC, 196869, Bonn, 1970, pp. 247 seg. 11. L’impiego del titolo di dominus nel rivolgersi all’imperatore, nonostante i tentativi di Augusto e Tiberio di scoraggiarlo (per cui cfr. SVETONIO, Aug., 53 e Tib., 27), divenne normale a partire da Domiziano. Nei monumenti compare per la prima volta sotto Settimio Severo; con Costantino e Licinio diviene parte integrante della titolatura imperiale. 12. Particolare importanza riveste, nella HA, il modo di vestire dell’imperatore in relazione al suo carattere e alla sua condotta, e quindi al giudizio complessivo da pronunziare su di esso; cfr. anche, in questo senso, Hadr., 22, 2-3; M. Ant., 27, 3; Al. Sev., 40, 7 segg.; Gall., 16, 4. 13. Il tempio della Fortuna Primigenia a Preneste (l’odierna Palestrina) famoso per i responsi del suo oracolo, che venivano scritti su pezzetti di legno. 14. Sono i versi di VIRGILIO, Aen., VI, 882-3 indirizzati a Marcello, il nipote di Augusto prematuramente morto. Sulle sortes Vergilianae cfr. Hadr., 2, 8, n. 8. 15. Si tratta chiaramente di un’invenzione collegata all’identità del nome, (che in realtà egli assunse solo con la sua nomina a Cesare), così come tale è pure il particolare della coincidenza fra la data della sua nascita e quella della morte di Alessandro Magno (stando al cosiddetto Calendario di Filocalo, per cui cfr. CIL, I2, p. 274, Alessandro Severo nacque il 1° ottobre, mentre Alessandro Magno morì il 13 giugno, rispettivamente del 208 d. C. e del 323 a. C.). Cfr. J. STRAUB, Heidnische Geschichtsapologetik in der christlichen Spätantike. Untersuchungen über Zeit und Tendenz der HA, Bonn, 1963, pp. 126 segg. 16. L’affermazione è ingiustificata, in quanto entrambe le loro madri erano prime cugine di Caracalla. 17. Giulia Domna; cfr. Sev., 3, 9. 18. Cfr. Comm., 15, 4, n. 2. 19. Del 222 d. C. 20. Oltre che nella Curia Iulia le sedute del senato potevano a volte aver luogo in alcuni templi, fra cui quello della Concordia (cfr. anche Pert., 4, 9; Max. Balb., 1, 1; Prob., 11, 5). 21. L’originario nome di Caracalla; cfr. Carac., 1, 1, n. 2. 22. Alessandro ricorda tre nomi particolarmente emblematici: quello di Cicerone, sommo oratore, di M. Terenzio Varrone, il grande erudito e antiquario suo contemporaneo (116-27 a. C.), e quello di Q.

Cecilio Metello, detto Pio per l’impegno con cui si prodigò per il ritorno del padre Q. Cecilio Metello Numidico, avversario di Mario ed esiliato nel 100 a. C. (la sua pietas era divenuta famosa e quasi proverbiale). 23. In realtà il nome di Augusto non era ereditario, ma veniva assunto dal principe allorché diventava imperatore, o anche successivamente (unico caso di ereditarietà di tale nome appare il conferimento del nome di Augusta a Livia operato per testamento da Augusto: cfr. TACITO, Ann., 1, 8). 24. Si intende Elagabalo: cfr. Nota critica, ad loc. 25. In realtà Alessandro non ebbe mai a portare tale soprannome nel corso della sua vita. Quanto a Pompeo, contrariamente a quanto apparirebbe dalle parole del biografo, egli lo assunse molto presto, durante la guerra da lui condotta in Africa nell’81 a. C. contro gli oppositori di Silla. 26. Nessun fondamento può essere attribuito a questa spiegazione dell’attribuzione del nome di Severo ad Alessandro (per cui cfr. anche a 25, 2), che fu probabilmente assunto da lui stesso per sottolineare i suoi legami di parentela con Settimio Severo. 27. Si tratta di un’evidente esagerazione: già Cesare, ad esempio, aveva congedato le legioni ammutinatesi a Roma nell’ottobre del 47 a. C. (cfr. SVETONIO, Iul., 70, e infra, n. 4 a 52, 3). 28. Il tema della rigidezza di Alessandro nell’ambito della disciplina militare appare uno dei temi favoriti del biografo e si ricollega all’esaltazione delle virtù del personaggio (cfr. 25, 2; 50, 1; 51, 6; 52-54; 59, 5; 64, 3). Tuttavia il succedersi frequente di ribellioni da parte delle truppe (cfr. 52, 3; 53, 3; 59, 4; CASSIO DIONE, LXXX, 4) sembra indicare invece una scarsa capacità di questo imperatore a tenere saldamente sotto controllo l’elemento militare. Sul tema della «severità» di Alessandro cfr. B. MOUCUOVÁ, Crudelitas principis optimi, BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 183 segg. 29. La città in cui Alessandro era nato; cfr. 1, 2. 30. Originario della Cina, e successivamente giunto in Persia, il pesco giunse da quest’ultimo paese in Italia nel I secolo d. C., ed era denominato espressamente malus Persica (o semplicemente Persica). 31. L’altare della Vittoria fu consacrato da Augusto nella Curia Iulia al suo ritorno dall’Egitto dopo la vittoria su Antonio e Cleopatra. 32. Cfr. Op. Macr., II, 3, n. 1. 33. VIRGILIO, Aen., VI, 848-854. 34. Ricordato ancora a 48, 7 e 64, 5; nella Vita Aureliani (12, 4) è citato nuovamente quale fonte un Acholius, che sarebbe stato magister admissionum (una specie di maestro delle cerimonie: cfr. 4, 3) di Valeriano: a parere di R. SYME, Emperors and Biography, Oxford, 1971, pp. 277 seg., i due personaggi sarebbero in realtà da distinguere. 35. A 13 anni. 36. Le 35 tribù in cui erano suddivisi i cittadini romani; in concreto con questo termine vengono qui indicati tutti i cittadini a pieno diritto non appartenenti agli ordini senatorio ed equestre (già citati al § prec.: senatum et equestrem ordinem; per un modo di esprimersi analogo cfr. STAZIO, Silv., IV, 1, 25-6). 37. Cfr. Ael., 4, 7, n. 1. 38. Il personaggio, ricordato anche a 48, 7, non ci è altrimenti conosciuto. 39. Altrimenti sconosciuto. 40. Il dio-patrono di Gaza in Palestina, successivamente identificato con Zeus. Su questo passo cfr. J. STRAUB, Marnas, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 165 segg. 41. Una reminiscenza ciceroniana (cfr. Cat., 1, 2 vivit? immo vero etiam in senatum venit). 42. In epoca repubblicana i senatori godevano del privilegio di poter sedere alla presenza dei magistrati, a differenza degli altri cittadini che invece dovevano rimanere in piedi. Tale prerogativa, rispettata in qualche misura da imperatori come Augusto, Tiberio, Traiano, andò in prosieguo di tempo perduta: al tempo di Diocleziano gli stessi membri del consilium principis trattavano con l’imperatore restando in piedi. Sul diritto dei senatori di sedersi dinanzi all’imperatore cfr. A. ALFÖLDI, Die

Ausgestaltung des monarchischen Zeremoniells am römischen Kaiserhofe, «Mitteil. des Deutsch. Archäolog. Inst.» (Röm. Abt.), XLIX, 1934, pp. 42 segg. 43. Anche prima di Elagabalo, tentativi di introdurre forme di culto imperiale di stampo orientale erano stati fatti da imperatori come Caligola, Nerone, Domiziano; sotto Commodo e i Severi era già divenuto usuale l’omaggio reso in ginocchio. Cfr. ALFÖLDI, Die Ausgestaltung des monarchisches Zeremoniells cit., pp. 54 segg. 44. La politica di Alessandro fu sempre volta a lasciare al senato la più ampia autonomia nell’amministrazione statale e ad aumentarne l’autorità e il prestigio (cfr. per queste caratteristiche del suo impero anche ERODIANO, VI, 1, 2). Nondimeno notizie come questa e la successiva – che non trovano conferma in altre fonti – devono essere prese con una certa cautela, tenendo conto che la tendenza filosenatoria che caratterizza l’opera tende a fare di Alessandro una sorta di imperatore ideale e ad accentuare al massimo l’influsso del senato nei suoi confronti e la deferenza da lui mostrata nei confronti di tale organo; su quest’ultimo aspetto cfr. tra l’altro K. HÖNN, Quellenuntersuchungen zu den Viten des Heliogabalus und des Severus Alexander im Corpus der ShA, Leipzig-Berlin, 1911, p. 124, n. 251. 45. Ci si riferisce alla distinzione fra amici primae e secundae admissionis. Sugli amici principis cfr. Hadr., 7, 10, n. 6. 46. Non è menzionata altrove. A noi è noto unicamente il matrimonio di Alessandro Severo con Sallustia Barbia Orbiana (per gli anni 225-227 d. C.). Secondo E. GROAG in PAULY-WISSOWA, III, 1796, 63 segg. s. v. Catulus, tanto Memmia che la sua pretesa discendenza sarebbero modellate su SVETONIO, Galba, 3, 4. 47. Si trattava di un interesse molto basso; cfr. Ant. Pius, 2, 8. 48. I prefetti del pretorio erano di regola di estrazione equestre; in precedenza la loro ammissione all’ordine senatorio poteva venire concessa soltanto allo scadere dell’ufficio. Sulla notizia cfr. da ultimo A. CHASTAGNOL, Recherches sur l’HA, Bonn, 1970, pp. 39 segg.; G. CLEMENTE, Storia amministrativa e falsificazione nella HA, «Riv. fil. istr. cl.», C, 1972, pp. 117 segg. 49. Per questo titolo cfr. Av. Cass., 1, 1, n. 1. 50. La toga listata di porpora che portavano i senatori, detta laticlavia ad indicare la maggiore larghezza della striscia, che la differenziava da quella angusticlavia – in cui la striscia di porpora era appunto più stretta – propria invece degli appartenenti all’ordine equestre. 51. Su questo passo cfr. G. CLEMENTE, La «Notitia Dignitatum», Cagliari, 1968, p. 370. A proposito del termine dignitates qui impiegato si potrebbe pensare ad una specie di prontuario sul tipo di quello a noi giunto nella Notitia Dignitatum (V secolo d. C.), in cui vengono elencate tutte le cariche civili e militari del tardo impero, geograficamente distribuite. 52. Sulle notizie di carattere «economico» fornite qui e successivamente cfr. H. P. KOHNS, Wirtschaftsgeschichtliche Probleme in der HA (zu AS 21 f.), in BHAC, 1964-65, Bonn, 1966, pp. 99 segg. 53. Il testo è qui gravemente corrotto (P ha ius conferre rationes); abbiamo accolto, come fa del resto anche HOHL, l’emendamento del MADVIG ius confarreationis, da intendere nel senso di «diritto di contrarre matrimonio» (la confarreatio era una cerimonia religiosa che prendeva il nome da una focaccia di farro che veniva divisa fra gli sposi quale simbolo della vita comune che iniziava allora tra loro; sui caratteri di questo tipo di matrimonio «confarreato», di tradizione assai antica, e il significato che poteva assumere, nel quadro della politica di Alessandro, il rimetterlo in auge in epoca imperiale cfr. C. VENTURI, Note al testo degli ShA, «Boll. St. lat.», III, 1973, pp. 46 seg.). 54. Anche altrove nel corso della Vita è sottolineato l’atteggiamento di tolleranza di Alessandro nei confronti dei Cristiani (cfr. 29, 2; 43, 6; 45, 7; 49, 6; 51, 7). Sulle questioni inerenti ai riferimenti «cristiani» nella HA in relazione al problema della tendenza e della datazione dell’opera cfr. Introduzione, pp. 50

seg. Per i Giudei cfr. T. LIEBMANN-FRANKFORT, Les Juifs dans l’HA, «Latomus», XXXIII, 1974, pp. 579 segg. 55. Il collegio sacerdotale dei quindecimviri sacris faciundis era investito dell’incarico di custodire i libri Sibillini (per cui cfr. Hadr., 2, 8, n. 1) e di consultarli su richiesta del Senato nei momenti di grave pericolo per lo Stato. Competeva inoltre ad esso la sorveglianza sui culti stranieri introdotti a Roma. 56. Il collegio degli Auguri, originariamente composto da tre membri, che via via aumentarono nel corso dell’epoca repubblicana sino ad arrivare, con Giulio Cesare, a sedici, aveva il compito di predire il futuro dall’esame del volo, del modo di cibarsi e del grido degli uccelli, come pure di altri fenomeni. 57. Inverosimile appare questa notizia a KOHNS, Wirtschaftgeschichtliche Probleme cit., pp. 103 seg. 58. Sul passo cfr. K. MENADIER, Die Münzen und das Münzwesen bei den ShA, «Zeitschr. f. Numismatik», XXXI, 1914, pp. 52 segg. Il riferimento è qui all’argenteus minutulus, piccola moneta corrente nel III secolo d. C. 59. Sui provvedimenti presi da Severo nei confronti degli eunuchi cfr. anche a 34, 3; 45, 4; 66, 3. Sulla presenza di questi personaggi nell’opera cfr. A. D. E. CAMERON, Eunuchs in the «HA», «Latomus», XXIV, 1965, pp. 155 segg. 60. L’amministrazione delle province nel corso del principato era divisa fra l’imperatore e il senato. A quest’ultimo vennero lasciate quelle province che, non essendo direttamente minacciate da eventuali attacchi nemici, non necessitavano di una guarnigione militare particolarmente consistente. Le province in cui, per esigenze di sicurezza, era invece necessario mantenere un esercito, erano assunte in propria amministrazione dall’imperatore in forza dell’imperium. Le prime erano governate da ex pretori o ex consoli – con il titolo di proconsules – in carica un anno; le seconde (in numero di quasi il doppio) da legati Augusti di rango senatorio, nominati dall’imperatore a tempo indeterminato. 61. Stabilito che si parla qui di province imperatorie (denominate legatorias in opposizione a quelle proconsulares senatorie citate subito dopo), rimane di non facile interpretazione il termine praesidales, anche in rapporto ai vari significati, generici o più specifici, che il sostantivo praeses era in grado di assumere; un’ipotesi verosimile è che l’impiego di praeses sia qui riferito a un procurator di rango equestre incaricato del governo di una provincia imperiale minore, in contrapposizione alla figura del legatus senatoriale (cfr. MAGIE, II, pp. 222 seg., n. 2 e O. HIRSCHFELD, Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Diocletian, Berlin, 19052, pp. 385 seg.). 62. Il teatro di Marcello, iniziato da Cesare e terminato nell’11 a. C. da Augusto, che lo dedicò alla memoria del nipote. 63. Il Circo Massimo, eretto in forma stabile da Cesare, ricostruito da Augusto dopo un incendio, e successivamente più volte ampliato. 64. L’Anfiteatro Flavio, cioè il Colosseo. 65. Lo Stadio di Domiziano, costruito dall’imperatore omonimo nel Campo Marzio. 66. Cfr. Heliog., 32, 6, n. 4. 67. La chiusura notturna verrà successivamente ripristinata dall’imperatore Tacito (cfr. Tac., 10, 2). Sulla questione dell’orario di apertura delle terme a Roma cfr. S. CONDORELLI, Aspetti della vita quotidiana a Roma e tendenze letterarie nella HA, Messina, 1965, pp. 74 segg. 68. Cfr. 12, 4, n. 2. 69. Si tratta di una riedificazione ed ampliamento delle Terme Neroniane nel Campo Marzio, che probabilmente presero il nome di Alexandrianae. Cfr. H. W. BENARIO, Severan Rome and the HA, «Latomus», XX, 1961, p. 289. 70. Questo acquedotto convogliava alle terme l’acqua delle sorgenti che sgorgavano nella zona nord del Monte Albano, presso Gabi, a una ventina di km. da Roma. 71. Si trattava di un pavimento in cui il rivestimento era ottenuto dalla combinazione di porfido

rosso e marmo verde della Laconia (per cui cfr. Heliog., 24, 6, n. 5). Cfr. BENARIO, Severan Rome, cit., p. 286. 72. Non è ben chiaro se si faccia qui riferimento a monete in cui Alessandro Severo appariva raffigurato alla maniera di Alessandro il Grande, o in cui era direttamente rappresentato quest’ultimo. Cfr. MENADIER, Die Münzen, cit., pp. 23 seg., che propende per quest’ultima interpretazione; diversamente invece il MAGIE (II, p. 226, n. 4) pensa si alluda a monete – di cui possediamo vari esemplari – in cui l’imperatore compare armato di tutto punto. 73. Il sostantivo electrum indica per lo più una lega costituita da oro e argento. Monete siffatte, frequentemente coniate nelle città della Grecia e dell’Asia Minore, non sono peraltro testimoniate di provenienza romana. 74. I sostenitori della datazione tarda della HA vedono qui rispecchiata una legge di Arcadio dell’anno 405 d. C. Cfr. J. STRAUB, Heidnische Geschichtsapologetik, cit., pp. 18 segg.; su questo passo cfr. anche, dello stesso studioso, Le leggi di Severo Alessandro in materia di usura (Sev. Alex., XXVI, 3), in Atti del Colloquio Patavino sulla HA, Roma, 1963, pp. 5 segg. 75. I due famosi giuristi discepoli di Papiniano; cfr. Pesc. Nig., 7, 4, n. 4. Come nota il MAGIE (II, pp. 226 seg., n. 9), la loro nomina a prefetti del pretorio riveste una significativa importanza, segnando un passo fondamentale verso la trasformazione di questa carica da militare a giuridica. 76. Cfr. Ael., 4, 7, n. 1. 77. Cfr. Pesc. Nig., 7, 3, n. 3. 78. Questo edificio non ci è altrimenti noto. 79. I Saepta Iulia o, semplicemente, Saepta (cfr. Hadr., 19, 10, n. 5); la denominazione Agrippiana (dal nome del fondatore Agrippa) appare solo in questo luogo. 80. Un piede era pari a m. 0,296. I Saepta erano lunghi circa 300 metri e larghi circa 95. 81. Si trovava nel Campo Marzio, fra il Pantheon e i Saepta. Cfr. BENARIO, Severan Rome, cit., p. 287. 82. Secondo F. DUNAND, Les Deliaca de l’HA, «Bull. Fac. Lettr. Strasbourg», XLVII, 1968, pp. 151 segg., il termine Deliacus, posto qui in rapporto con il culto egiziano, dovrebbe designare oggetti in bronzo di Delo o comunque del tipo deliaco usati quali accessori del santuario (non veri e propri oggetti di culto). L’impiego del vocabolo, piuttosto raro, sarebbe improntato al vocabolario ciceroniano (cfr. 5. Rose, 133; II Verr., II, 83 e 176). 83. I senatori portavano sulla tunica una striscia di porpora più ampia di quella dei cavalieri. Cfr. 21, 4, n. 4. 84. Cfr. Hadr., 3, 5, n. 13. 85. L’affermazione non appare fondata, in quanto per lo meno già a partire dal I secolo d. C. l’impiego della paenula si era andato vieppiù generalizzando divenendo in tutto normale; cfr. F. KOLB, Die paenula in der HA, in BHAC, 1971, Bonn, 1974, pp. 84 segg. 86. Cfr. J. STRAUB, Severus Alexander und die mathematici, cit., pp. 247 segg., a parere del quale la notizia qui riportata non risulta fondata e degna di fede. 87. Gli antenati degli attuali Baschi, stanziati anticamente nella zona compresa tra i Pirenei, il corso superiore dell’Ebro e l’Oceano Atlantico. Di loro particolari virtù divinatorie non siamo altrimenti informati. 88. Cfr. Sev., 10, 7. 89. Il termine nundinium (o nundinae) indicava originariamente il giorno del mercato (che cadeva ogni otto giorni); di lì passò poi a designare una porzione dell’anno (di tre, quattro o sei mesi) in cui i consoli (ordinarii o suffecti: cfr. Carac., 4, 8, n. 4) restavano in carica (in epoca imperiale si avvicendavano infatti nel corso dell’anno più coppie di consoli). Forse l’uso della parola è legato al fatto che in antico il passaggio dei fasces (simbolo del potere proprio della magistratura) avveniva proprio in

occasione di un nundinium. 90. Sul tema della «severità» di Alessandro Severo cfr. 12, 4-5, n. 4. 91. Il termine honorati indicava, nel tardo impero, gli appartenenti alle tre classi equestri dei viri eminentissimi, perfectissimi ed egregii. 92. La comminazione del supplizio della croce (riservato in genere agli schiavi o alle persone libere di basso rango) a un honoratus era un fatto del tutto inusuale, tanto più che il reato di ambitio (corruzione di funzionari) non comportava la pena capitale. 93. Si trovava fra il Foro di Augusto e quello di Vespasiano; iniziato da Domiziano e terminato da Nerva nel 97 d. C., era detto «Transitorio» in quanto costruito per servire di passaggio tra essi. 94. Cfr. TH. PEKÁRY, Statuen in der HA, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 151 segg. 95. È evidente l’allusione alla carica di sommo sacerdote del dio Elagabalo, che era ereditaria nel ramo materno della famiglia di Alessandro. Sulla fondatezza della notizia cfr. A. MOMIGLIANO, Severo Alessandro archisynagogus. Una conferma alla HA, «Athenaeum», XII, 1934, pp. 151 segg.; scettico invece T. D. BARNES, The lost Kaisergeschichte and the latin historical tradition, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, p. 33. 96. L’astinenza sessuale era condizione preliminare per poter celebrare il culto con la dovuta purezza. 97. Il luogo della casa in cui veniva celebrato il culto delle divinità domestiche (Lari, Penati, Genio). 98. Apollonio di Tiana (nell’Asia Minore), filosofo pitagorico, che nel I secolo d. C. divenne famoso per i suoi miracoli, acquistandosi un’aureola di soprannaturalità e santità. Cfr. Aurel., 24, 8. 99. A parere di S. SETTIS, Severo Alessandro e i suoi Lari (S.H.A., S.A., 29, 2-3), «Athenaeum», L, 1972, pp. 237 segg., la presenza – in questo larario – di Cristo e Abramo, assieme a Orfeo e Apollonio di Tiana, costituisce, più che un segno di sincretismo religioso, un campionario di esempi morali scelti dall’imperatore, che può in qualche modo accostare questa serie di ritratti a quelle che si trovavano nelle biblioteche ellenistiche e romane. Sul significato di questo passo in rapporto all’ipotizzata tendenza filopagana dell’opera cfr. STRAUB, Heidnische Geschichtsapologetik, cit., pp. 166 segg. 100. Il figlio dell’omonimo antiquario citato a Carac., 4, 4: cfr. Gord., 18, 2. 101. Il sestario era pari a circa mezzo litro. 102. Si fa riferimento all’acquedotto detto Aqua Claudia, iniziato da Caligola nel 38 d. C. e terminato da Claudio nel 52; la fonte di esso sgorgava a 50 km. a est di Roma dai monti della Sabina, nel territorio di Subiaco. 103. Cfr. Hadr., 21, 4, n. 4 e Ael., 5, 4-5. 104. Cfr. Hadr., 11, 3, n. 4. 105. Cfr. Hadr., 22, 8, n. 5. 106. Cfr. Pesc. Nig., 7, 4, n. 5 (in questo passo si ha la denominazione ad memoriam). 107. Cfr. Ael., 4, 7, n. 1. 108. Cfr. Hadr., 6, 5, n. 2. 109. Cfr. Heliog., 20, 3, n. 2. 110. Il termine è probabilmente tecnico: non ne abbiamo però altre attestazioni. 111. Cfr. Sev., 19, 7. Sul passo si veda F. KOLB, Kleidungsstücke in der HA. Textkonjekturen und emendationen zu AS 33, 4. 41, 1. A 45, 5, mit einem Exkurs über die dalmatica, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 153 segg. 112. Cfr. Pesc. Nig., 11, 5. 113. Cfr. Pert., 11, 3, n. 2. 114. Il termine agones indicava gare condotte alla maniera greca (donde la denominazione, appunto, greca, in contrapposizione ai ludi romani), in voga a Roma sin dal II secolo a. C. Originariamente di carattere atletico, estesero poi il loro campo sino ad includere anche competizioni di carattere musicale e

poetico. Tra i più famosi v’erano l’Agon Neroneus e l’Agon Capitolinus; di un Agon Herculeus non abbiamo altre attestazioni, mentre siamo informati di ludi circenses in onore di Ercole. 115. Cfr. 28, 6, n. 5. 116. Questi diversi tipi di pane si distinguevano dal grado di finezza della farina impiegata. 117. Gli Hilaria, celebrati il 25 marzo con un giorno dedicato a manifestazioni di allegria, facevano parte del ciclo delle feste primaverili che avevano luogo dal 15 al 27 marzo in onore della dea Mater Cibele. Cfr. Aurel., 1, 1, n. 1. 118. I ludi in onore di Apollo, che si celebravano sin dal 208 a. C., si svolgevano dal 6 al 13 luglio, ed erano dedicati a rappresentazioni teatrali, meno che nell’ultimo giorno, in cui si disputavano gare nel circo. 119. Uno dei due banchetti pubblici che venivano tenuti in onore di Giove (epula Iovis), probabilmente quello del 13 settembre, celebrato quale anniversario della fondazione del tempio di Giove Capitolino. Era una forma di culto che si ricollegava al rito dei lectisternia (per cui cfr. M. Aut., 13, 2, n. 7). 120. Cfr. Hadr., 17, 3, n. 2. 121. Ricordato anche in Prob., 2, 7 come Gargilio Marziale. Potrebbe identificarsi con un Q. Gargilio Marziale autore di un trattato di agricoltura (Medicinae ex oleribus et pomis) parzialmente giuntoci, e morto nel 260 d. C. combattendo contro i Mauri. 122. Cfr. Heliog., 19, 5; 21, 6; 24, 1. 123. Cfr. MARZIALE, V, 29: l’epigramma è riportato con numerose variazioni. Sulla credenza in questione cfr. PLINIO, Nat. Hist., XXVIII, 260. 124. Traiano aveva la fama di essere un forte bevitore. Cfr. Hadr., 3, 3; CASSIO DIONE, LXVIII, 7, 4; AURELIO VITTORE, Caes., 13, 10. 125. Cfr. 24, 4. 126. La notizia non è esatta, in quanto ci sono conservati esemplari di questa moneta coniati da quasi tutti gli imperatori. Cfr. MENADIER, Die Münzen, cit., pp. 18 seg. 127. L’esistenza di monete di questo tipo per l’epoca di Alessandro Severo non ci è altrimenti attestata. S. MAZZARINO (Aspetti sociali del IV secolo, Roma, 1951, pp. 354 seg.) notando come monete chiamate appunto tremisses e corrispondenti alla terza parte di un solidus (= l’aureus intero) furono coniate all’epoca di Teodosio, vede qui la presenza di un anacronismo, e quindi di un argomento a favore della datazione tarda dell’opera. 128. Il nome solidus venne applicato all’aureus (intero) solo a partire dall’età di Costantino. Cfr. MENADIER, Die Münzen, cit., pp. 8 seg., n. 40. 129. Pari a 50 aurei. 130. Cfr. Heliog., 26, 1, n. 2. 131. Nelle tesorerie imperiali tra i vari oggetti preziosi erano conservate anche le vesti di pregio dei principi. 132. Il pvocurator bafii si ritrova menzionato nel Codex Iustinianus e in altri documenti di età tardoimperiale. Lo HIRSCHFELD (Verwaltungsbeamten, cit., p. 308, n. 3), pensa si trattasse di un liberto imperiale. 133. Il largo mantello rotondo di lana, di origine greca (cfr. Pert., 8, 2; Sev., 19, 7); la clamis coccinea era prerogativa dell’imperatore. 134. Cfr. anche Hadr., 22, 3 e M. Ant., 27, 3 ove è similmente detto che Adriano e Marco Aurelio si mostravano, in Italia, sempre togati. Si trattava di uno scrupolo «costituzionale» nei confronti degli antichi ordinamenti repubblicani secondo i quali, nello svolgimento di un ufficio nell’ambito di Roma e dell’Italia, ogni insegna di carattere militare doveva essere bandita: di qui la rinuncia alla clamide, che

poteva in certa misura considerarsi tale (era il tipico mantello militare greco), e l’assunzione costante della toga, la veste, cioè, propria del cittadino. 135. La toga trionfale, ricamata in oro e ornata di porpora, che veniva conservata nel templo di Giove Capitolino. 136. In lana o lino, a protezione del freddo. 137. Abbigliamento tipico delle popolazioni barbariche del nord, e definito da TACITO (Hist., II, 20) barbarum tegmen; da questo passo però sembrerebbe che il loro uso fosse andato diffondendosi nel corso dell’età imperiale. Sappiamo peraltro dal Codex Theodosianus (XIV, 10, 2) che Arcadio e Onorio ne proibirono l’impiego nell’ambito della residenza imperiale. 138. Un tipo di veste che riuniva in sé le caratteristiche della tunica e del pallio. Cfr. Nota critica ad loc. e KOLB, Kleidungsstücke, cit., pp. 169 segg. 139. Veste di lusso, che scendeva, riccamente decorata, fino alla caviglia; nel tardo impero era riservata specialmente alle donne appartenenti alla famiglia imperiale. Cfr. U. SÜSSENBACH, Cyclas, in BHAC, 1971, Bonn, 1974, pp. 185 segg., partic. pp. 225 segg. 140. Mantello lungo fino alle ginocchia, fermato intorno al collo o sulle spalle con una fibbia; era portato da cittadini di tutti i ceti, di preferenza sopra la toga. Anche in questo caso il colore scarlatto lo rendeva privilegio dell’imperatore. 141. Cfr. Ael., 5, 10. In questo caso il termine indica la funzione di «corriere», «postino». 142. Gare di corsa avevano luogo nel corso di varie feste a carattere religioso (cfr. ad es. i Ludi Capitolini e Saeculares). 143. Cfr. CICERONE, II Verr., IV, 9. 144. La presente notizia è stata messa fortemente in dubbio, in quanto il privilegio di far uso di cocchi entro la città di Roma sembra essere stato concesso ai senatori e agli alti magistrati solo nella seconda metà del IV secolo d. C.; quanto qui riportato rispecchierebbe dunque una situazione posteriore. Cfr. in partic. A. ALFÖLDI, Die Ausgestaltung des monarchisehen Zeremoniells, cit., pp. 103, 106 segg.; W. ENSSLIN, Carpentum oder Carruca?, Bemerkungen zum Fahrrecht und Amtswagen im spätrömischen Reich und zum Versuch einer Datierung der HA, «Klio», XXXII, 1939, pp. 89 segg., in partic. 103 segg.; A. CHASTAGNOL, Recherches sur l’HA, cit., pp. 27 seg. 145. Cfr. 28, 1, n. 1. 146. Erano detti quaestores candidati (principis) quelli nominati direttamente dall’imperatore. 147. Sulla notizia cfr. W. SCHMID, Bilderlose Kult und christliche Intoleranz. Wesen und Herkunft zweier Nachrichten bei Aelius Lampridius (Alex., 43, 6 seg.) in Mullus. Festschrift Theodor Klauser = «Jahrb. f. Ant. & Christ.», Erg. Bd. I, 1964, pp. 298 segg. (rist. in Regenevatio imperii, Darmstadt, 1972, pp. 369 segg.); R. J. S. PENNELLA, H. A., Alex. Severus, 43, 6-7; two emperors and Christ, «Vigiliae Christianae», XXXI, 1977, pp. 229 seg. 148. Cfr. Hadr., 13, 6, n. 1. 149. Cfr. STRAUB, Sev. Alex, und die mathematici, cit., pp. 254 seg. 150. Cfr. 24, 3, n. 4. 151. Il poeta satirico vissuto fra il 34 e il 62 d. C. 152. Cfr. PERSIO, II, 69. Nei codici di Persio si legge sancto. 153. Il termine rationalis (letteralmente corrispondente al nostro «ragioniere», «cassiere») designava in origine un funzionario addetto all’amministrazione delle casse imperiali. Successivamente (III-IV secolo d. C.) si generalizzò ad indicare qualsiasi procuratore provinciale (cfr. Maxim., 14, 1; Gord., 7, 2), anche se peraltro non assunse il carattere di titolatura ufficiale prima di Diocleziano. Cfr. HIRSCHFELD, Verwaltungsbeamten cit., pp. 35 segg.; A. REINTJES, Untersuchungen zu den Beamten bei den ShA, Düsseldorf, 1961, pp. 80 segg.

154. Cfr. J. STRAUB, Zur Gvdination von Bischöfen und Beamten in der christlichen Spätantike (Ein Reformvorschlag der HA?), in Regeneratio imperii, Darmstadt, 1972, pp. 369 segg. A parere dello studioso l’autore intenderebbe qui raccomandare indirettamente agli imperatori cristiani del suo tempo di seguire il modello di tolleranza o di spirito «democratico» del grande principe pagano. 155. Sulla legislazione inerente al ritrovamento di tesori cfr. Hadr., 18, 6. 156. Cfr. anche CICERONE, TUSC., II, 37 e AMMIANO MARCELLINO, XVII, 9, 2. Non può trattarsi – per ragioni stesse di peso – del vettovagliamento completo, ma verosimilmente di una quantità di galletta corrispondente alla dotazione assegnata complessivamente ad un soldato per un periodo di 17 giorni (pesava circa 2 kg. e poteva sopperire al fabbisogno del soldato per circa due giorni). Cfr. J. KROMAYER-G. VEITH, Heerwesen und Kriegführung der Griechien und Römer, München, 1928 (=1963), pp. 423 segg., in partic. p. 425. 157. Altrimenti sconosciuto. 158. Citato anche in Prob., 2, 7 ma altrimenti sconosciuto (un Valerio Marcellino, pur egli storico e non altrimenti noto, è citato in Max. Balb., 4, 5). 159. Entrambi non altrimenti conosciuti. Su questi e altri nomi di autori ricorrenti nella HA, che sono con tutta verisimiglianza invenzione dei biografi, cfr. specialmente R. SYME, Bogus authors, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976 pp. 311 segg. 160. Cfr. rispett. 17, 2, n. 3; 14, 6, n. 2; 17, 1, n. 2. 161. Nel corso del III secolo d. C. il diritto di infliggere la pena capitale (denominato appunto ius o potestas gladii), in teoria riservato al senato e all’imperatore, era in realtà esercitato da quest’ultimo attraverso una delega a tutti i governatori delle province. 162. P. Erennio Dexippo, storico ateniese vissuto all’incirca fra il 210 e il 275 d. C., autore fra l’altro di una Xρουιχὴ ἱστορία dalle origini sino al regno di Claudio il Gotico, di cui rimangono solo frammenti. Nella HA è citato varie volte, specialmente nel corso delle vite dei Maximini duo, dei Gordiani tres, e di Maximus et Balbinus per le quali costituisce un’importante fonte. 163. ERODIANO (VI, 1, 910) parla – senza farne il nome – di una moglie di Alessandro il cui padre sarebbe stato fatto uccidere da Mamea sotto l’accusa di cospirazione. Essa è forse identificabile con la Memmia di cui si parla a 20, 3, ma nulla di certo si può affermare circa un’identificazione del padre Sulpicio là nominato col Macriano ricordato in questo punto. La questione è assai complessa, tanto più che fonti epigrafiche e papirologiche ci fanno conoscere un altro personaggio riconosciuto in genere dagli studiosi come suocero di Alessandro: si tratta di un Lucius Seius Caesar, in cui si tende a identificare il padre di Sallustia Barbia Orbiana, l’unica moglie di Alessandro di cui abbiamo sicura attestazione (cfr. 20, 3, n. 3). 164. Si tratta qui dei Persiani (cfr. 55, 1), e precisamente della campagna condotta da Alessandro Severo nel 232 d. C. contro Ardashir I, il fondatore del nuovo impero persiano e della dinastia Sassanide che, dopo aver conquistato la Mesopotamia, minacciava ora Siria e Cappadocia. Sulla descrizione che la HA dà di questa guerra cfr. A. ROESGER, Die Darstellung des Perserfeldzugs des Severus Alexander in der HA, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 167 segg. 165. Corpi di fanteria armati di scudi d’argento e d’oro (da cui prendevano, in greco, il nome) erano stati impiegati da Alessandro Magno nella sua spedizione in India. 166. Ulpiano finì poi ucciso nel corso di una rivolta di pretoriani nel 223 d. C. (cfr. CASSIO DIONE, LXXX, 2, 2). Sulla data della sua morte cfr. J. MODREWZEWSKI-T. ZAWADZKI, La date de la mori d’Ulpien et la préfecture du prétoire au début du règne d’Alexandre Sevère, «Rev. Hist. de Droit fr. et étr.», XLV, 1967, pp. 565 segg.; R. SYME, Three jurists, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, p. 318. 167. È la cosiddetta «regola d’oro» della tradizione biblica ed evangelica (cfr. Tob., 4, 15; Mt., 7, 12; Lc., 6, 31). Cfr. J. STRAUB, Il precetto aureo (Sev. Alex., LI, 7 sq.), in Atti del Colloquio Patavino sulla HA, Roma, 1963, pp. 21 segg.

168. Cfr. EROOIANO, VI, 1, 7; VI, 9, 8. 169. AURELIO VITTORE, Caes., 24, 3-4 attribuisce ad Alessandro un provvedimento del genere in occasione della guerra contro i Germani del 234-235 d. C. 170. Quirites era il termine originariamente usato a designare il cittadino romano, conservatosi solo in certe espressioni formulari. Rivolto ai soldati da parte del loro comandante, che solitamente li chiamava invece milites o commilitones, indicava che egli non li considerava più come tali, e costituiva quindi per essi un’umiliante offesa. Un’analogo modo di procedere nei confronti delle truppe ribelli è narrato in precedenza solo di Cesare (cfr. SVETONIO, lul., 70; PLUTARCO, Caes., 51; APPIANO, Bell., civ., II, 93; LUCANO, V, 357; TACITO, Ann., I, 42), e la reminiscenza di questo episodio – che l’autore avrà evidentemente recepito nella versione svetoniana – può avere avuto una sua parte nella composizione del passo. 171. Sul motivo della severità di Alessandro cfr. 12, 5, n. 4. Il discorso appare evidentemente – come al solito – un’invenzione dell’autore. 172. Allude a Elagabalo. 173. I campidoctores costituivano, nell’esercito del tardo impero, i sottufficiali di grado più elevato, e svolgevano quelle funzioni di istruttori militari che un tempo erano affidate ai centurioni. 174. Cfr. Sev., 22, 7, n. 2. 175. Il nome esatto del re era Ardashir I (cfr. 50, 1, n. 6). Mentre nella HA, così come in AURELIO VITTORE (Caes., 24, 2) e EUTROPIO (VIII, 23), la campagna è descritta come un successo pieno, dal racconto di ERODIANO (VI, 56) si ricava l’impressione che la spedizione si sia conclusa con uno scacco, almeno parziale (una divisione romana annientata, le altre due costrette a ritirarsi; anche i Persiani, però, dovettero subire perdite notevoli). Molto probabilmente la HA, Aurelio Vittore e Eutropio riproducono documenti ispirati dalla propaganda ufficiale del tempo di Alessandro Severo, che presentò la guerra come un successo (e l’imperatore ebbe a ricevere il titolo di Parthicus o Persicus Maximus). In ogni caso, la campagna si interruppe nel 233 d. C. senza che fosse stata conclusa una pace. Cfr. ROESGER, Die Darstellung des Pevserfeldzugs, cit. 176. Del 233 d. c. 177. Nell’esercito persiano costituivano truppe speciali di cavalleria indigena, in cui cavallo e cavaliere erano protetti da corazza; a partire da Adriano comparvero anche nell’esercito romano. Sulle loro caratteristiche cfr. AMMIANO MARCELLINO, XVI, 10, 8; XXV, 1, 12. 178. Non è sicuro se questo termine sia di origine persiana o se invece sia da ricollegarsi al greco ϰλίβανος, indicante una specie di forno metallico. 179. Si allude a Elagabalo. 180. Le insegne strappate a Crasso dai Parti nel 53 a. C., dopo la sconfitta di Carre. 181. A proposito di questi titoli cfr. P. KNEISSL, Die Siegestitulatur der römischen Kaiser. Untersuchungen zu den Siegerbeinamen des ersten und zweiten Jahrhunderts, Göttingen, 1969, pp. 167 seg., ove si nega che essi siano mai stati portati da Alessandro Severo. 182. Cfr. ERODIANO, VI, 6, 3. Sulla versione poco favorevole di Erodiano cfr. 55, 1, n. 2. 183. Un carro trionfale trainato da quattro elefanti ci è attestato con sicurezza per la prima volta sotto Diocleziano (v. LATTANZIO, De mort. pers., 16, 6). Cfr. E. W. MERTEN, Zwei Herrscherfeste in der HA. Untersuchungen zu den pompae der Kaiser Gallienus und Aurelianus, Bonn, 1968, pp. 26 seg., 112 seg., 118. 184. Cfr. Ant. Pius, 8, 1, n. 4. 185. La Mauritania si estendeva lungo la costa africana del Mediterraneo, fra l’Atlante e la Numidia. La parte di essa che si apriva sull’Atlantico era detta Tingitana (dalla città di Tinge, l’odierna Tangeri). 186. Nessuno di questi tre generali di Alessandro è altrimenti conosciuto. 187. Era d’uso unire una corona d’alloro ai messaggi che annunziavano qualche importante vittoria.

188. Regione dell’Asia Minore compresa tra Pisidia, Licaonia, Cilicia e Pamfilia. 189. Con il conferimento dei consularia ornamenta venivano attribuiti i diritti onorari propri di chi aveva ricoperto il consolato, con esclusione però di quelli politici come, in particolare, quello di essere ammesso in senato per chi non appartenesse a tale ordine. 190. Per un provvedimento simile cfr. Prob., 16, 6. Questa politica permetteva di creare, trasformando i soldati in agricoltori legati con i loro interessi alle terre di confine, una difesa in più per le frontiere maggiormente esposte alle incursioni dei barbari; testimonianze sicure di essa appaiono peraltro in riferimento al IV e V secolo d. C. Cfr. in proposito R. SYME, Ammianus and the HA, Oxford, 1968, pp. 46 seg. 191. Probabilmente nel 234 d. C. Alessandro, passato il Reno, tentò di fare la pace coi Germani, promettendo di accogliere le loro condizioni e offrendo grandi somme di denaro; questo atteggiamento rese insofferenti i soldati, che si ribellarono sotto la guida di Massimino (cfr. ERODIANO, VI, 8-9; Maxim.,7,4) 192. Sul tema della presunta rigidezza di Alessandro cfr. 12, 5, n. 4. Stando al racconto di ERODIANO (cfr. loc. cit. alla n. prec.) egli non sarebbe stato vittima della sua severità ma, al contrario, della sua debolezza. Trovandosi di fronte alla ribellione dei soldati, che gli rimproveravano di patteggiare col nemico anziché marciare decisamente contro di esso, non avrebbe saputo reagire con la dovuta energia, ma anzi si sarebbe gettato ai loro piedi implorando di aver salva la vita, alla fine venendo ucciso per ordine di Massimino. Secondo ZOSIMO, I, 13 Alessandro, non riuscendo a placare gli insorti, si sarebbe tolta la vita da se stesso. Non è inverosimile che la tradizione sulla sua presunta rigidezza (ricollegata anche al suo cognomen) sia sorta per mascherare appunto l’indegnità della sua fine. Sul rapporto HA Erodiano a proposito della morte di Alessandro cfr. F. KOLB, Herodianus in der HA, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 148 segg. 193. AURELIO VITTORE, Caes., 24, 4 riferisce che Alessandro fu ucciso vico Britanniae, cui vocabulum Sicilia. Siamo in entrambi i casi di fronte a una confusione: Severo fu ucciso con molta probabilità nei pressi di Magonza (cfr. PAOLO OROSIO, VII, 18, 8 apud Mogontiacum) nell’odierna Bretzenheim, che in documenti d’età carolingia troviamo chiamata Villa Britannorum (il nome si ricollegava al fatto che, come attestato in alcune iscrizioni, vi era stanziata una guarnigione di Britanni, appartenenti all’esercito del Reno): di qui l’errata assunzione della Britannia come paese in cui Alessandro sarebbe stato ucciso. Meno verosimile l’identificazione, pur essa proposta, di Sicilia con Stitillia, una borgata nella Gallia Lugdunese sulla strada fra Orléans e Lione. 194. Massimino Trace, il suo successore. Cfr. Maxim., 7, 16. 195. Questo dato non concorda con quelli offerti da Epitome de Caesaribus 24, 4 e da ERODIANO, V, 3, 3 e V, 7, 4, secondo i quali Alessandro sarebbe nato nel 209 o 210 d. C. e quindi non avrebbe potuto avere, al momento della sua morte (235 d. C.), i ventinove anni indicati dalla HA. 196. Cfr. PLINIO, Nat. Hist., XV, 70. 197. I Druidi erano l’antica casta sacerdotale dei Galli, comune probabilmente a tutti i popoli celti; la HA ci parla anche di donne «druidesse» con capacità divinatorie (cfr. anche Aurel., 44, 45 e Car., 14, 2-15, 5), che nulla avevano in comune con quelli, ma erano verosimilmente personaggi simili alle nostre cartomanti, che sfruttavano l’alone sacrale di quel nome famoso. 198. L’Osroene era situata nella parte nord-occidentale della Mesopotamia; aveva per capitale Edessa. 199. Un astrologo di questo nome è citato da SIDONIO APOLLINARE, Epist., VIII, 11, 10. 200. In realtà in un primo tempo Alessandro ebbe a subire, per volontà di Massimino, una damnatio memoriae; la sua consacrazione dovette avvenire subito dopo l’eliminazione di costui. Cfr. A. LIPPOLD, Der Kaiser Maximinus Thrax und der römische Senat (Interpretationen zur vita der Maximini Duo), in BHAC, 1966-67, Bonn, 1968, p. 82; J. STRAUB, Divus Alexander Divus Christus, in Kyriakon. Festschrift J.

Quasten, I, Münster, 1970, pp. 461 seg. (= Regeneratio imperii, Darmstadt, 1972, pp. 179 seg.). 201. Nessuno di questi due sepolcri ci è altrimenti conosciuto. 202. Le biografie di Aureliano e dei suoi successori ci sono però giunte sotto il nome di Flavio Vopisco. Sulle incongruenze nell’attribuzione delle varie Vitae cfr. Introduzione, pp. 11 segg. 203. Cfr. 14, 6, n. 2. 204. Si allude naturalmente a Elagabalo. 205. Un Valerius Homullus (probabilmente identificabile con M. Valerius Homullus, console nel 152 d. C.) è ricordato in Ant. Pius, 11, 8 e M. Ant., 6, 9 come autore (alla stregua del personaggio che qui compare) di battute mordaci, in quel caso indirizzate ad Antonino Pio. Poiché pare da escludersi che possa trattarsi della stessa persona, si potrebbe ipotizzare verosimilmente che quello qui ricordato sia il padre del suddetto. Cfr. S. D’ELIA, Appunti sul testo degli ShA, «Rend. Acc. Arch. Lett. B. Arti Napoli», XXV, 1960, pp. 76 seg.; R. SYME, Emperors and Biography, cit., p. 97. 206. Su questo tema cfr. K. F. STROHEKER, Princeps clausus. Zu einigen Beruhrüngen der Literatur des fünften Jahrhunderts mit der HA, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 273 segg. e in partic. 276 (su questo passo). 207. A parere di taluni studiosi, una critica di questo genere nei confronti di Costantino, l’imperatore regnante cui figura dedicata la biografia, sarebbe inverosimile e costituirebbe indizio di falsificazione per tutto il brano. Su di esso cfr. J. STRAUB, Studien zur HA, Bern, 1952, pp. 134 segg. 208. Cfr. 40, 6, n. 4. La clamide era un tempo il mantello tipico dei soldati, ma fungeva anche da mantello da viaggio per le persone ragguardevoli. 209. Forse lo stesso Sabino ricordato a Heliog., 16, 2. A parte i due famosi giuristi Ulpiano e Paolo (per cui cfr. Pesc. Nig., 7, 4, n. 4), dei vari personaggi qui citati quali appartenenti al consilium prineipis di Alessandro l’unico identificabile potrebbe risultare Catilio Severo, dato che un personaggio di tal nome è ricordato negli Atti degli Avvali del 213 e 218 d. C. (cfr. PIR II2 C 557). Del tutto scettico sulla possibilità di riconoscere in questi nomi persone reali appare R. SYME, Thvee Juvists, cit., p. 323. 210. Quale che fosse in questo punto il testo originario, va osservato che il gentilizio dell’imperatore Gordiano non era Aelius, ma Antonius; perciò il personaggio qui citato come Aelius Gordianus non può essere parente dell’imperatore, come il testo conservato sembrerebbe suggerire e come risulta da varie emendazioni proposte.

XIX. MAXIMINI DUO IULI CAPITOLINI

I DUE MASSIMINI di GIULIO CAPITOLINO

[1, 1] Ne fastidiosum esset clementiae tuae, Constantine maxime, singulos quosque principes vel principum liberos per libros singulos legere, adhibui moderationem, qua in unum volumen duos Maximinos, patrem filiumque, congererem; [2] servavi deinceps hunc ordinem, quem pietas tua etiam ab Tatio Cyrillo1, clarissimo viro2, qui Graeca in Latinum vertit, servari voluit. [3] Quod quidem non in uno tantum libro sed etiam in plurimis deinceps reservabo, exceptis magnis imperatoribus, quorum res gestae plures atque clariores longiorem desiderant textum. [4] Maximinus senior3 sub Alexandro imperatore enituit. Militare autem sub Severo coepit. [5] Hic de vico Threiciae vicino barbaris, barbaro etiam patre et matre genitus, quorum alter e Gothia, alter ex Alanis4 genitus5 esse perhibetur. [6] Et patri quidem nomen Micca, matri Hababa6 fuisse dicitur. [7] Sed haec nomina Maximinus primis temporibus ipse prodidit, postea vero, ubi ad imperium venit, occuli praecepit, ne utroque parente barbaro genitus imperator esse videretur. [2, 1] Et in prima quidem pueritia fuit pastor, nonnum〈quam〉 etiam procer et qui latronibus insidiaretur et suos ab incursionibus vindicaret7 [2] Prima stipendia equestria8 huic fuere. Erat enim magnitudine corporis conspicuus, virtute inter omnes milites clarus, forma virili decorus, ferus moribus, asper, superbus, contemptor, saepe tamen iustus. [3] Innote-scendi sub Severo imperatore prima haec fuit causa9: [4] natali Getae, filii minoris, Severus militares dabat ludos propositis praemiis argenteis, id est armillis, torquibus et balteolis. [5] Hic adulescens et semibarbarus et vix adhuc Latinae linguae, prope Thraecica imperatorem publice petit, ut sibi daret licentiam contendendi cum his, qui iam non mediocri loco militarent. [6] Magnitudinem corporis Severus miratus primum eum cum lixis conposuit, sed fortissimis quibus, ne disciplinam militarem conrumperet. [7] Tunc Maximinus sedecim lixas uno sudore devicit sedecim acceptis praemiis minusculis non militaribus iussusque militare. [3, 1] Tertia forte die cum processisset Severus ad campum, in turba exultantem more barbarico Maximinum vidit iussitque statim tribuno, ut eum coherceret 〈et〉 ad Romanam disciplinam inbueret. [2] Tunc ille, ubi de se intellexit imperatorem locutum, suspicatus barbarus et notum se esse principi et inter multos conspicuum, ad pedes imperatoris equitantis accessit. [3] Tum volens Severus explorare, quantus in currendo esset, equum admisit multis

circumitionibus, et cum senex imperator laborasset neque ille a currendo per multa spatia desisset, ait ei: «Quid vis Thracisce? num quid delectat luctari post cursum?». Tum «Quantum libet», inquit, «imperator». [4] Post hoc ex equo Severus descendit et recentissimos quosque ac fortissimos milites ei conparari iussit. [5] Tum ille more solito septem fortissimos uno sudore vicit solusque omnium a Severo post argentea praemia torque aureo donatus est iussusque inter stipatores corporis semper in aula consistere. [6] Hinc igitur factus conspicuus, inter milites clarus, amari a tribunis, a conmilitonibus suspici, impetrare ab imperatore quod vellet, locis etiam militiae a Severo adiutus, cum esset peradulescens, longitudine autem corporis et vastitate et forma atque oculorum magnitudine et candore inter omnes excelleret. [4, 1] Bibisse autem illum saepe in die vini Capitolinam amforam10 constat, comedisse et quadraginta libras carnis, ut autem Cordus11 dicit, etiam sexaginta. [2] Quod satis constat, holeribus semper abstinuit, a frigidis prope semper, nisi cum illi potandi necessitas. [3] Sudores saepe suos excipiebat et in calices vel in vasculum mittebat, ita ut duos vel tres sextarios sui sudoris ostenderet. [4] Hic diu sub Antonino Caracallo ordines duxit centu-riatos et ceteras militares dignitates saepe tractavit. Sub Macrino, quod eum, qui imperatoris sui filium occiderat, vehementer odisset, a militia desiit et in Thracia in vico, ubi genitus fuerat, possessiones conparavit ac semper cum Gothis commercia exercuit. Amatus est autem unice a Getis quasi eorum civis. [5] Halani quicumque ad ripam12 venerunt, amicum eum donis vicissim recurrentibus adprobabant. [6] Sed occiso Macrino cum filio suo, ubi Heliogabalum quasi Antonini filium imperatorem conperit, iam maturae aetatis ad eum venit petitque, ut quod avus eius Severus iudicii circa se habuerat, et ipse haberet. 〈Sed〉 apud inpurum hominem valere nihil potuit; [7] nam dicitur cum eo iocatus esse Heliogabalus turpissime: «Diceris, Maximine, sedecim et viginti et triginta milites aliquando lassasse: potes tricies cum muliere perfìcere?». [8] Tum ille ubi vidit infamem principem sic exorsum, a militia discessit. [9] Et tamen retentus est per amicos Heliogabali, ne hoc quoque illius famae accederet, quod virum temporis sui fortissimum et quem alii Herculem, alii Achillem, {alii Hectorem}, Aiacem alii vocabant, a suo exercitu dimoveret. [5, 1] Fuit igitur sub homine inpurissimo tantum honore tribunatus, sed numquam ad manum eius accessit, numquam illum salutavit, per totum triennium huc atque illuc discurrens; [2] modo agris, modo otio, modo fictis languoribus occupatus est. [3] Occiso Heliogabalo ubi primum comperit

Alexandrum principem nominatum, Romam contendit. [4] Quem Alexander miro cum gaudio, mira cum gratulatione suscepit, ita ut in senatu verba faceret talia: «Maximinus, p. c., tribunus, cui ego latum clavum13 addidi, ad me confugit, qui sub inpura illa belua militare non potuit, qui apud divum parentem meum Severum tantus fuit, quantum illum fama conperitis». [5] Statim14 denique illum tribunum legionis quartae15, {quam} ex tironibus ipse conposuerat, dedit 〈et〉 eum in haec verba provexit: [6] «Veteres milites tibi, Maximine mi carissime atque amantissime, idcirco non credidi, quod veritus sum, ne vitia eorum sub aliis inolescentia emendare non posses. [7] Habes tirones: ad tuos mores, ad tuam virtutem, ad tuum laborem eos fac militiam condiscere, ut mihi multos Maximinos rei p. optabiles solus efficias». [6, 1] Accepta igitur legione statim eam exercere coepit. [2] Quinta quaque die iubebat milites decurrere, inter se simulacra bellorum agere. Gladios, {lanceas}, loricas, galeas, scuta, tunicas et omnia arma illorum cotidie circumspicere; [3] calciamenta quin etiam ipse prospiciebat, prorsus ut autem patrem militibus praeberet. [4] Sed cum eum quidam tribuni reprehenderent dicentes: «Quid tantum laboras, cum eius loci iam sis, ut ducatum possis accipere?», ille dixisse fertur: [5] «Ego vero, quo maior fuero, tanto plus laborabo». Exercebat cum militibus ipse luctamina, quinos, senos et septenos iam grandaevus ad terram prosternens. [6] Denique invidentibus cunctis, cum quidam tribunus superbior, magni corporis, virtutis notae atque ideo ferocior, ei dixisset: «Non magnam rem facis, si tribunus tuos milites vincis», ille ait: «Visne congrediamur?»; [7] cumque adversarius adnuisset, venientem contra se palma in pectus percussum supinum reiecit et continuo dixit: «Date alium, sed tribunum». [8] Erat praeterea, ut refert Cordus, magnitudine tanta, ut octo pedes digito videretur egressus16, pollice ita vasto, ut uxoris dextrocherio uteretur pro anulo. [9] Iam illa prope in vulgi ore sunt posita, quod amaxas manibus adtraheret, raedam onustam solus moveret, equo si pugnum dedisset, dentes solveret, si calcem, crura frangeret, lapides toficios friaret, arbores teneriores scinderet, alii denique eum Crotoniaten Milonem17, alii Herculem, Antaeum18 alii vocarent. [7, 1] His rebus conspicuum virum Alexander, magnorum meritorum iudex, in suam perniciem omni exercitui19 praefecit, gaudentibus cunctis ubique tribunis, ducibus et militibus. [2] Denique totum eius exercitum, qui sub Heliogabalo magna ex parte torpuerat, ad suam militarem disciplinam retraxit. [3] Quod Alexandro, ut diximus, optimo quidem imperatori, sed tamen

cuius aetas ab initio contemni potuerit, gravissimum fuit. [4] Nam cum in Gallia esset et non longe ab urbe quadam20 castra posuisset, subito inmissis militibus, ut quidam dicunt, ab ipso, ut alii, tribunis barbaris, Alexander ad matrem fugiens interemptus est Maximino iam imperatore appellato. [5] Et causam quidem Alexandri interimendi alii aliam fuisse dicunt. Quidam enim Mammaeam dicunt auctorem fuisse, ut filius deserto bello Germanico orientem peteret, atque ideo milites in seditionem prorupisse; [6] quidam, quod ille nimis severus esset et voluisset ita in Gallia legiones exauctorare, ut exauctoraverat in oriente. [8, 1] Sed occiso Alexandro Maximinus primum e corpore militari et nondum senator sine decreto senatus Augustus ab exercitu appellatus est filio sibimet in participatum dato; de quo pauca, quae nobis sunt cognita, mox dicemus. [2] Maximinus autem ea fuit semper astutia, ut milites non virtute regeret, sed etiam praemiis et lucris sui amantissimos redderet. [3] Numquam ille annonam cuiuspiam tulit. [4] Numquam sivit, 〈ut〉 quis in exercitu miles faber aut alterius rei, ut plerique sunt, artifex esset, solis venationibus legiones frequenter exercens. [5] Sed inter has virtutes tam crudelis fuit, ut illum alii Cyclopem, alii Busirem21, alii Scironam22, nonnulli Falarem23, multi Tyfona24 vel Giganta vocarent. [6] Senatus eum tantum timuit25, ut vota in templis publice privatimque, mulieres etiam cum suis liberis facerent, ne ille umquam urbem Romam videret. [7] Audiebant enim alios in crucem sublatos, alios animalibus nuper occisis inclusos, alios feris obiectos, alios fustibus elisos, atque omnia haec sine dilectu dignitatis, cum videretur disciplinam velle regere militarem. Cuius exemplo civilia etiam corrigere voluit, [8] quod non convenit principi, qui velit diligi. Erat enim ei persuasum nisi crudelitate imperium non teneri; [9] simul et verebatur, ne propter humilitatem generis barbarici a nobilitate contemneretur; [10] meminerat praeterea se Romae etiam a servis nobilium contemptum esse, ita ut ne a procuratoribus quidem eorum videretur; [11] et, ut se habent stultae opiniones, tales eos contra {se} sperabat futuros, cum iam imperator esset. Tantum valet conscientia degeneris animi. [9, 1] Nam ignobilitatis tegendae causa omnes conscios generis sui interemit, nonnullos etiam amicos, qui ei saepe misericordiae paupertatis causa pleraque donaverant. [2] Neque enim fuit crudelius animal in terris omnia sic in viribus suis ponens, quasi non posset occidi. [3] Denique cum inmortalem se prope crederet ob magnitudinem corporis virtutisque, mimus quidam in theatro praesente illo dicitur versus Graecos dixisse, quorum haec

erat Latina sententia: [4] «Et qui ab uno non potest occidi, a multis occiditur. Elefans grandis est et occiditur, leo fortis est et occiditur, tigris fortis est et occiditur: cave multos, si singulos non times». Et haec imperatore ipso praesente iam dicta sunt. [5] Sed cum interrogaret amicos, quid mimicus scurra dixisset, dictum est ei, quod antiquos versus cantaret contra homines asperos scriptos, et ille, ut erat Thrax et barbarus, credidit. [6] Nobilem circa se neminem passus est, prorsus ut Spartaci aut Athenionis exemplo26 imperabat. [7] Praeterea omnes Alexandri ministros variis modis interemit. [8] Dispositionibus eius invidit. Et dum suspectos habet amicos ac ministros eius, crudelior factus est. [10, 1] Cum esset ita moratus, ut ferarum more viveret, tristior et inmanior factus est factione Magni27 cuiusdam consularis viri contra se parata, qui cum multis militibus et centurionibus ad eum confodiendum consilium inierant, cum in se imperium transferre cuperet. [2] Et genus factionis fuit tale: cum ponte iuncto in Germanos transire Maximinus vellet, placuerat, ut contrarii cum eo transirent, pons postea solveretur, ille in barbarico circumventus occideretur, imperium Magnus arriperet. [3] Nam omnia bella coeperat agere, et quidem fortissime, statim ut factus est imperator, peritus utpote rei militaris, volens existimationem de se habitam tenere et ante omnes Alexandri gloriam, quem ipse occiderat, vincere. [4] Quare imperator etiam in exercitio cottidie milites detinebat eratque in armis ipse, manu exercitui et corpore multa semper ostendens. [5] Et istam quidem factionem Maximinus ipse finxisse28 perhibetur, ut materiam crudelitatis augeret. [6] Denique sine iudicio, sine accusatione, sine delatore, sine defensore omnes interemit, omnium bona sustulit et plus quattuor milibus hominum occisis se satiare non potuit. [11, 1] Fuit etiam sub eodem factio desciscentibus sagittariis Osdroenis29 ab eodem ob amorem Alexandri et desiderium, quem Maximino apud eos occisum esse constabat, nec aliud persuaderi potuerat. [2] Denique etiam ipsi Titum30, unum ex suis, sibi ducem atque imperatorem fecerunt, quem Maximinus privatum iam dimiserat. [3] Quem quidem et purpura circumdederunt, regio apparatu ornarunt et quasi sui milites obsaepierunt, et invitum quidem. [4] Sed hic dormiens domi suae ab uno ex amicis suis interfectus est, qui sibi doluit illum esse praepositum, Macedonio nomine, qui eum Maximino prodidit quique caput eius ad imperatorem detulit. [5] Sed Maximinus primo ei gratias egit, postea tamen ut proditorem odio habuit et occidit. [6] His rebus in dies inmanior fiebat, ferarum more, quae vulneratae

magis exulcerantur. [7] Post haec transiit in Germaniam cum omni exercitu et Mauris et Osdroenis et Parthis et omnibus, quos secum Alexander ducebat ad bellum. [8] Et ob hoc maxime orientalia secum trahebat auxilia, quod nulli magis contra Germanos quam expediti sagittarii valent. [9] Mirandum autem adparatum belli Alexander habuit, cui Maximinus multa dicitur addidisse. [12, 1] Ingressus igitur Germaniam Transrenanam31 per triginta vel quadraginta milia barbarici soli vicos 〈incendit〉, greges abegit, praedas sustulit, barbarorum plurimos interemit, militem divitem reduxit, cepit innumeros, et nisi Germani omnes ad paludes et silvas confugissent, omnem Germaniam in Romanam ditionem redegisset. [2] Ipse praeterea manu sua multa faciebat, cum etiam paludem ingressus circumventus esset a Germanis, nisi cum suo equo inhaerentem liberassent. [3] Habuit enim hoc barbaricae temeritatis, ut putaret imperatorem manu etiam sua semper 〈uti〉 debere. [4] Denique quasi navale quoddam proelium in palude fecit plurimosque illic interemit. [5] Victa igitur Germania litteras Romam ad senatum et populum misit se dictante conscriptas, quarum sententia haec fuit: [6] «Non possumus tantum, p. c., loqui, quantum fecimus. Per quadraginta quinquaginta milia Germanorum vicos incendimus, greges abduximus, captivos abstraximus, armatos occidimus, in palude pugnavimus. Pervenissemus ad silvas, nisi altitudo paludium nos transire non permisisset». [7] Aelius Cordus dicit hanc omnino ipsius orationem fuisse. [8] Credibile est; quid enim in hac est, quod non posset barbarus miles? [9] Qui pari sententia et ad populum scripsit sed maiore reverentia, idcirco quod senatum oderat, a quo se contemni multum credebat32. [10] Iussit praeterea tabulas pingi ita, ut erat bellum ipsum gestum, et ante curiam proponi, ut facta eius pictura loqueretur. [11] Quas quidem tabulas post mortem eius senatus et deponi iussit et exuri. [13, 1] Fuerunt et alia sub eo bella plurima, proelia, ex quibus semper primus victor revertit et cum ingentibus spoliis atque captivis. [2] Extat oratio eiusdem missa ad senatum, cuius hoc exemplum est: «Brevi tempore, p. c., tot bella gessi quot nemo veterum. Tantum praedae in Romanum solum attuli, quantum sperari non potuit. Tantum captivorum adduxi, ut vix sola Romana sufficiant». Reliqua orationis ad hanc rem 〈non〉 necessaria. [3] Pacata Germania Sirmium33 venit, Sarmatis inferre bellum parans atque animo concipiens usque ad Oceanum septentrionales partes in Romanam ditionem redigere; [4] quod fecisset, si vixisset, ut Herodianus dicit34, Graecus scriptor, qui ei, quantum videmus, in odium Alexandri plurimum favit35.

[5] Sed cum Romani eius crudelitatem ferre non possent, quod delatores evocaret, accusatores inmitteret, crimina fingeret, innocentes occideret, damnaret omnes, quicumque in iudicium venissent, ex ditissimis hominibus pauperrimos faceret nec aliunde nisi malo alieno pecuniam quaereret, deinde sine delicto consulares viros et duces multos interimeret, alios siccos vehiculis exhiberet, alios in custodia detineret, nihil denique praetermitteret, quod ad crudelitatem videretur operari, contra eum defectionem pararunt. [6] Nec solum Romani sed, quia et in milites saeviebat, exercitus, qui in Africa erat, subita et ingenti seditione Gordianum senem36, virum gravissimum, qui erat pro consule, imperatorem fecerunt. Cuius factionis hic ordo fuit. [14, 1] Erat fisci procurator in Libya, qui omnes Maximini studio spoliaverat; hic per rusticanam plebem, deinde et quosdam milites interemptus est pel〈lentes〉 eos, qui rationalem37 in honorem Maximini defendebant. [2] Sed cum viderent auctores caedis eius acrioribus remediis sibi subveniendum esse, Gordianum proconsulem, virum, ut diximus, venerabilem, natu grandiorem, omni virtutum genere florentem, ab Alexandro ex senatus consulto in Africam missum, reclamantem et se terrae adfligentem, opertum purpura imperare coegerunt, instantes cum gladiis et cum omni genere telorum. [3] Et primo quidem invitus Gordianus purpuram sumpserat, postea vero, cum vidit neque filio38 neque familiae suae tutum id esse, volens suscepit imperium et appellatus est omnibus Afris Augustus cum filio apud oppidum Tysdrum39. [4] Inde per 〈Africam〉 Carthaginem venit cum pompa regali et protectoribus et fascibus laureatis, unde Romam ad senatum litteras misit, quae occiso Vitaliano40, duce militum praetorianorum, in odium Maximini gratanter acceptae sunt. [5] Appellati etiam Gordianus senex et Gordianus iuvenis a senatu Augustus. [15, 1] Interfecti deinde omnes delatores, omnes accusatores, omnes amici Maximini. Interfectus est Sabinus praefectus urbis percussus in populo. [2] Ubi haec gesta sunt, senatus magis timens Maximinum aperte ac libere hostes appellat Maximinum et eius filium. [3] Litteras deinde mittit ad omnes provincias, ut communi saluti libertatique subveniant; quae auditae sunt ab omnibus. [4] Denique ubique amici et administratores et duces tribuni et milites Maximini interfecti sunt; [5] paucae civitates fìdem hosti publico servaverunt, quae proditis his, qui missi ad eos fuerant, ad Maximinum cito per indices detulerunt. [6] Litterarum senatus exemplum hoc fuit: «Senatus populusque Romanus per Gordianos principes a tristissima belua liberari coeptus proconsulibus,

praesidibus, legatis, ducibus, tribunis, magistratibus ac singulis civitatibus et municipiis et oppidis et vicis et castellis salutem, quam nunc primum recipere coepit, dicit. [7] Dis faventibus Gordianum proconsularem, virum sanctissimum et gravissimum senatorem, principem meruimus, Augustum appellavimus, nec solum illum, sed etiam in subsidium rei p. filium eius Gordianum, nobilem iuvenem. [8] Vestrum nunc est consentire ad salutem rei p. optinendam et ad scelera defendenda et ad illam beluam atque illius amicos, ubicumque fuerint, persequendos. [9] A nobis etiam Maximinus cum filio suo hostis est iudicatus». [16, 1] Senatus consulti autem hoc fuit {exemplum}: «Cum ventum esset in aedem Castorum41 die VI. kl. Iuliarum42, acceptas litteras Iunius Silanus consul ex Africa Gordiani imperatoris, patris patriae, proconsulis recitavit: [2] ‘invitum me, p. c., iuvenes, quibus Africa tuenda commissa est, ad imperium vocarunt. Sed intuitu vestri necessitatem libens sustineo. Vestrum est aestimare, quid velitis. Nam ego usque ad senatus iudicium incertus et varius fluctuabo’. [3] Lectis litteris statim senatus adclamavit: ‘Gordiane Auguste, di te servent. Felix imperes. Salvus imperes. Tu nos liberasti. Per te salva res p.; omnes tibi gratias agimus’. [4] Item consul rettulit: ‘p. c., de Maximinis quid placet?’ Responsum est: ‘hostes, hostes. Qui eos occiderit, praemium merebitur’. [5] Item consul dixit: ‘de amicis Maximini quid videtur?’. Adclamatum est: ‘hostes, hostes. Qui eos occiderit, praemium merebitur’. [6] Item adclamatum est: ‘inimicus senatus in crucem tollatur. Hostis senatus ubicumque feriatur. Inimici senatus vivi exurantur. Gordiani Augusti, di vos servent. Ambo feliciter agatis, ambo feliciter imperetis. [7] Nepoti Gordiani praeturam decernimus, nepoti Gordiani consulatum spondemus. Nepos Gordiani Caesar appelletur. Tertius Gordianus praeturam accipiat’». [17, 1] Ubi hoc senatus consultum Maximinus accepit, homo natura ferus sic exarsit, ut non hominem sed beluam putares. [2] Iaciebat se in parietes, nonnumquam terrae se prosternebat, exclamabat incondite, arripiebat gladium, quasi senatum posset occidere, conscindebat vestem regiam, aulicos verberibus adficiebat, et nisi de medio recessisset, ut quidam sunt auctores, oculos filio adulescentulo sustulisset. [3] Causa autem iracundiae contra filium haec fuit, quod eum Romam ire iusserat, cum primum imperator factus est, et ille patris nimio amore neglexcrat; putabat autem, quod, si ille Romae fuisset, [et] nihil ausurus esset {senatus}. [4] Ardentem igitur iracundia amici intra cubiculum receperunt. [5] Sed cum furorem suum tenere non posset, ut oblivionem cogitationis acciperet, vino se primo die obruisse dicitur, eo usque

ut, quid actum esset, ignoraret. [6] Alia {sane} die admissis amicis, qui eum videre non poterant sed tacebant et qui factum senatus tacite laudabant, consilium habuit, quid facto opus esset. [7] De consilio ad contionem processit, in qua contione multa in Afros, multa in Gordianum, plura in senatum dixit cohortatusque milites ad communes iniurias vindicandas. [18, 1] Contio denique omnis militaris fuit, cuius hoc exemplum est: «Conmilitones, rem vobis notam proferimus: Afri fidem fregerunt. Nam quando tenuerunt?43 Gordianus senex debilis et morti vicinus sumpsit imperium. [2] Sanctissimi autem p. c. illi, qui et Romulum44 et Caesarem occiderunt, me hostem iudicaverunt, cum pro his pugnarem et ipsis vincerem, nec solum me sed etiam vos et omnes, qui mecum sentiunt, et Gordianos, patrem ac filium, Augustos vocarunt. [3] Ergo si viri estis, si vires habetis, eamus contra senatum et Afros, quorum omnium bona vos habebitis». [4] Dato igitur stipendio, et quidem ingenti, Romam versus cum exercitu proficisci coepit. [19, 1] Sed Gordianus in Africa primum a Capeliano quodam agitari coepit, cui Mauros regenti successorem dederat. [2] Contra quem filium iuvenem cum misisset, acerrima pugna interfecto filio ipse laqueo vitam finiit, sciens et in Maximino multum esse roboris et in Afris nihil virium, multum quin immo perfidiae. [3] Tunc Capelianus victor pro Maximino omnes Gordiani [metu] partium in Africa interemit atque proscripsit nec cuiquam pepercit, prorsus ut ex animo Maximini videretur haec facere. [4] Civitates denique subvertit, fana diripuit, donaria militibus divisit, plebem et principes civitatum concidit. [5] Ipse praeterea militum animos sibi conciliabat, proludens ad imperium, si Maximinus perisset. [20, 1] Haec ubi Romam nuntiata sunt, senatus Maximini et naturalem et iam necessariam crudelitatem timens mortuis duobus Gordianis Maximum45 ex praefecto urbi et qui plurimas dignitates praecipue gessisset, ignobilem genere sed virtutibus clarum 〈et Balbinum〉46, moribus delicatiorem, imperatores creavit. [2] Quibus a populo Augustis appellatis per milites et eundem populum etiam parvulus nepos Gordiani47 Caesar est dictus. [3] Tribus igitur imperatoribus contra Maximinum fulta res p. est. [4] Horum tamen Maximus vita severior, prudentia gravior, virtute constantior. [5] Denique ipsi contra Maximinum et senatus et Balbinus bellum crediderunt. [6] Profecto igitur ad bellum Maximo contra Maximinum Balbinus Romae bellis intestinis et domesticis seditionibus urguebatur occisis praecipue… per populum 〈auctoribus〉 Gallicano et Maecenate. Qui quidem populus a

praetorianis laniatus est, cum Balbinus resistere seditionibus non satis posset. Denique magna pars urbis incensa est48. [7] Et recreatus quidem imperator fuerat Maximinus audita morte Gordiani atque eius filii Capeliani victoria; [8] verum ubi aliud senatus consultum accepit, quo Maximus et Balbinus et Gordianus imperatores appellati sunt, intellexit senatus odia esse perpetua et se vere hostem omnium iudicio haberi. [21, 1] Acrior denique Italiam ingressus est. Ubi cum conperisset Maximum contra se missum, vehementius saeviens quadrato agmine Hemonam49 venit. [2] Sed provincialium omnium consilium hoc fuit, ut sublatis omnibus, quae victum praebere possent, intra civitates se reciperent, ut Maximinus cum exercitu fame urgueretur. [3] Denique ubi primum castra in campo posuit neque quicquam commeatuum repperit, incensus contra eum exercitus suus, quod fame in Italia laboraret, in qua post Alpes recreari se posse credebat, murmurare primum coepit, deinde etiam aliqua libere dicere. [4] Haec cum vellet vindicare, multum exarsit exercitus. Et odium tacitum in tempus distulit, quod loco suo statim prodidit. [5] Plerique sane dicunt50 ipsam Hemonam vacuam et desertam inventam esse a Maximino, stulte laetante, quod quasi sibi civitas tota cessisset. [6] Post hoc Aquileiam venit, quae contra eum armatis circa muros dispositis portas clausit, nec propugnatio defuit Menofìlo et Crispino consularibus viris51 auctoribus. [22, 1] Cum igitur frustra obsideret Aquileiam, Maximinus legatos in eandem urbem misit. Quibus populus paene consenerat, {ni} Menofilus cum collega restitisset, dicens etiam deum Belenum52 per haruspices respondisse Maximinum esse vincendum. [2] Unde etiam postea Maximiniani milites iactasse dicuntur Apollinem contra se pugnasse [debere], nec illam Maximi aut senatus sed deorum fuisse victoriam. [3] Quod quidam idcirco ab his fictum esse dicunt, quod erubescebant armati sic paene ab inermibus victi. [4] Ponte itaque cupis facto Maximinus fluvium53 transivit et de proximo Aquileiam opsidere coepit. [5] Ingens autem oppugnatio et discrimen tunc fuit, cum se cives sulfure et flammis ceterisque huius modi propugnaculis a militibus defenderent; quorum alii nudabantur armis, aliorum vestes incendebantur, aliorum oculi extinguebantur, diruebantur etiam machinamenta. [6] Inter haec Maximinus cum filio adulescente, quem Caesarem appellaverat, circumire muros, quantum a teli iactu satis tutus esse posset, nunc suos verbis, nunc oppidanos rogare. [7] Verum nihil profecit.

Nam multa et in eum crudelitatis causa et in filium, qui speciosissimus erat, probra congesta sunt. [23, 1] Quare Maximinus sperans suorum ignavia bellum trahi duces suos interemit, eo tempore quo minime oportebat. Unde sibi milites etiam iratiores reddidit. [2] Huc accedebat, quod defìciebatur commeatibus, quia senatus ad omnes provincias et portuum custodes litteras dederat, ne aliquid commeatuum in Maximini potestatem veniret. [3] Miserat praeterea per omnes civitates praetorios et quaestorios viros, qui ubique custodias agerent et omnia contra Maximinum defenderent. [4] Effectum denique est, ut opsessi angustias obsidens ipse pateretur. [5] Nuntiabatur inter haec orbem terrarum consensisse in odium Maximini. [6] Quare timentes milites, quorum adfectus in Albano54 monte erant, medio forte die, cum a proelio quiesceretur, et Maximinum et filium eius in tentorio positos occiderunt55 eorumque capita praefixa contis Aquileiensibus demonstrarunt. [7] In oppido igitur vicino statim Maximini statuae atque imagines depositae sunt, et eius praef. praet. occisus est cum amicis clarioribus. Missa etiam Romam capita sunt eorum. [24, 1] Hic finis Maximinorum fuit, dignus crudelitate patris, indignus bonitate filii. Quibus mortuis ingens laetitia provincialium, dolor gravissimus barbarorum56. [2] Sed milites interfectis publicis hostibus recepti sunt ab oppidanis rogantes, et primum ita ut ante imagines Maximi et Balbini et Gordiani adorarent, cum omnes dicerent priores Gordianos in deos relatos. [3] Post hoc ingens ex Aquileia commeatus in castra, quae laborabant fame, praetio traductus refectisque militibus alia die ad contionem ventum est, et omnes in Maximi et Balbini verba iurarunt, Gordianos priores divos appellantes. [4] Dici vix potest, quanta laetitia fuerit, cum Romam per Italiam caput Maximini fertur, occurrentibus cunctis ad gaudium publicum. [5] Et Maximus quidem, quem multi Puppienum putant, apud Ravennam bellum parabat per Germanorum auxilia; qui ubi conperit consensisse exercitum sibi et collegis suis, occisos autem esse Maximinos, [6] quare57 statim dimissis Germanorum auxiliis58, quae sibi contra hostem paraverat, Romam laureatas litteras misit, quae in urbem ingentem laetitiam fecerunt, ita ut omnes per aras et templa et sacella et loca religiosa gratias agerent. [7] Balbinus autem, homo timidior natura et qui, cum Maximini nomen audiret, etiam tremeret, hecatomben59 fecit iussitque per omnes civitates pari sacrificio supplicari. [8] Dein Maximus Romam venit senatumque ingressus actis sibi gratiis contionem habuit, atque inde in Palatium cum Balbino et Gordiano victores se receperunt.

[25, 1] Interest scire, quale senatus consultum fuerit vel qui dies urbis, cum est nuntiatus interemptus Maximinus: [2] iam primum is, qui ex Aquileiensi Romam missus fuerat, tanto impetu mutatis animalibus cucurrit, ut quarta die Romam veniret, cum apud Ravennam Maximum reliquisset. [3] Et forte dies ludorum erat, cum subito sedente Balbino et Gordiano theatrum nuntius ingressus est, atque, antequam aliquid indicaretur, omnis populus exclamavit: «Maximinus occisus est». [4] Ita et nuntius praeventus, et imperatores, qui aderant, gaudium publicum nutu et consensu indicaverunt. [5] Soluto igitur spectaculo omnes statim ad suas religiones convolarunt, atque inde ad senatum principes, populus ad contionem cucurrerunt. [26, 1] Senatus consultum hoc fuit: recitatis in senatu per Balbinum Augustum litteris adclamavit 〈senatus〉: [2] «Senatus hostes, populi R. hostes dii persecuntur. Iuppiter optime, tibi gratias. Apollo venerabilis, tibi gratias, Maxime Auguste, tibi gratias. Balbine Auguste, tibi gratias. Divis Gordianis templa decernimus. [3] Maximini nomen olim erasum nunc animis eradendum. Hostis publici caput in profluentem abiciatur. Corpus eius nemo sepeliat. Qui senatui mortem minatus est, ut merebatur, occisus est. Qui senatui vincla minatus est, ut debebat, interemptus est. [4] Sanctissimi imperatores, gratias vobis agimus. Maxime, Balbine, Gordiane, di vos servent. Victores hostium omnes desideramus. Praesentiam Maximi omnes desideramus. Balbine Auguste, dii te servent. Praesentem annum consules vos ornetis. In loco Maximini Gordianus sufficiatur». [5] Post rogatus sententiam Cuspidius Celerinus60 haec verba habuit: «P. c., eraso nomine Maximinorum appellatisque divis Gordianis victoriae causa principibus nostris Maximo, Balbino et Gordiano statuas cum elephantis decernimus, currus triumfales decernimus, statuas equestres decernimus, trophaea decernimus». [6] Post haec misso senatu supplicationes per totam urbem decretae. [7] Victores principes in Palatium se receperunt, de quorum vita in alio libro deinceps dicemus. 〈MAXIMINUS61 IUNIOR〉 [27, 1] 〈De〉 huius genere superius dictum est, ipse autem pulchritudinis fuit tantae, ut passim amatus sit a procacioribus feminis, nonnullae etiam optaverint de eo concipere. [2] Proceritatis videbatur posse illius esse, ut ad paternam staturam perveniret, si quidem anno vicesimo et primo perit, in ipso flore iuventutis, ut aliqui autem dicunt, octavo decimo, litteris et Graecis et

Latinis inbutus ad primam disciplinam. [3] Nam usus est magistro Graeco litteratore Fabillo62, cuius epigrammata Graeca multa et extant, maxime in imaginibus ipsius pueri. [4] Qui versus Graecos fecit ex illis Latinis Vergilii, cum ipsum puerum describeret: «Qualis ubi Oceani perfusus Lucifer unda extulit os sacrum caelo tenebrasque resolvit63, talis erat iuvenis patrio sub nomine clarus».

[5] Grammatico Latino usus est Filemone64, iuris perito Modestino65, oratore Titiano66, filio Titiani senioris67, qui provinciarum libros pulcherrimos scripsit et qui dictus est simia temporis sui68, quod cuncta esset imitatus. Habuit et Graecum rhetorem Eugamium sui temporis clarum. [6] Desponsa illi erat Iunia Fadilla69, proneptis Antonini, quam postea accepit Toxotius, eiusdem familiae senator, qui perit post praeturam, cuius etiam poemata exstant. [7] Manserunt autem apud eam arrae regiae, quae tales, ut Iunius Cordus loquitur, (harum rerum persecutor est) fuisse dicuntur: [8] monolinum de albis novem, reticulum {cum} prasinis undecim, dextrocherium cum costula de hyacinthis quattuor praeter vestes, auratas et omnes regias, ceteraque insignia sponsaliorum. [28, 1] Adulescens autem ipse Maximinus superbiae fuit insolentissimae, ita ut etiam, cum pater suus, homo crudelissimus, plerisque honoratis adsurgeret, ille resideret, [2] vitae laetioris, vini parcissimus, cibi avidus, maxime silvestris, ita ut nonnisi aprunam, anates, grues et omnia captiva ederet. [3] Infamabant eum ob nimiam pulchritudinem amici Maximi et Balbini et Gordiani et maxime senatores, qui speciem illam velut divinitus lapsam incorruptam esse noluerunt. [4] Denique illo tempore, quo circum Aquileiam muros circumiens cum patre deditionem urbis petebat, nihil aliud ei quam spurcities obiecta est, quae longe ab illius fuit vita. [5] Vestibus tam adcuratus fuit, ut nulla mulier nitidior esset in mundo. [6] Amicis paternis inmane quantum obsecutus est, sed ut donaret ac largiretur. [7] Nam in salutationibus superbissimus erat et manum porrigebat et genua sibi osculari patiebatur, nonnumquam etiam pedes; quod numquam passus est senior Maximinus, qui dicebat: «Dii prohibeant, ut quisquam ingenuorum pedibus meis osculum figat». [8] Et quoniam ad Maximinum s〈eniorem〉 revertimur, res iucunda praetereunda non est. Nam cum esset Maximinus pedum, ut diximus70, octo et prope semis, calciamentum eius, id est campagum regium, quidam in luco, qui est {inter} Aquileiam et Arciam71, posuerunt, quod constitit pede maius fuisse

hominis vestigio mensura. [9] Unde etiam vulgo tractum est, cum de longis et ineptis hominibus diceretur «caliga Maximini». [10] Quod idcirco indidi, ne, quis Cordum legeret, me praetermisisse crederet aliquid, quod ad rem pertineret. Sed redeam ad filium. [29, 1] De hoc adulescente Alexander Aurelius72 ad matrem suam scribit Mamaeam, cupiens ei sororem suam Theocliam73 dare, in haec verba: [2] «Mi mater, si Maximinus senior dux noster et quidem optimus non aliquid in se barbarum contineret, iam ego Maximino iuniori Theocliam tuam dedissem. [3] Sed timeo, ne soror mea Graecis munditiis erudita barbarum socerum ferre non possit, quamvis ipse adulescens et pulcher et scolasticus et ad Graecas munditias eruditus esse videatur. [4] Haec quidem cogito, sed te tamen consulo, utrum Maximinum, Maximini fìlium, generum velis an Messalam ex familia nobili, oratorem potentissimum eundemque doctissimum et, nisi fallor, in rebus bellicis, si adplicetur, fortem futurum». [5] Haec Alexander de Maximino. De quo nos nihil amplius habemus quod dicere. [6] Sane ne quid praetermissum esse videatur, etiam epistolam indidi patris Maximini, imperatoris iam facti, qui dicit idcirco se etiam filium suum appellasse imperatorem, ut videret urbs in pictura vel in veritate, qualis esset iunior Maximinus in purpura. [7] Fuit autem talis epistola: «Ego cum propter adfectum, quem pater filio debet, Maximinum meum imperatorem appellari permisi, tum etiam, ut populus Romanus et senatus ille antiquus iuraret se numquam pulchriorem imperatorem habuisse». [8] Usus autem est idem adulescens et aurea lorica exemplo Ptolomaeorum, usus est et argentea, usus et clypeo gemmato inaurato et hasta inaurata. [9] Fecit et spatas argenteas, fecit etiam aureas et omnino quicquid eius pulchritudinem posset iuvare, fecit et galeas gemmatas, fecit et bucculas. [10] Haec sunt quae de puero sciri et dici decuit. Reliqua qui volet nosse de rebus Veneriis et amatoriis, quibus eum Cordus aspergit, eundem legat; nos enim hoc loco finem libri faciemus, ad alia, ut iubetur velut publico iure, properantes. [30, 1] Omina sane imperii haec fuerunt: serpens dormienti caput circumdedit. Posita ab eodem vitis intra annum ingentes uvas purpureas attulit et mirae magnitudinis facta est. [2] Scutum eius sub sole arsit. Lanceola sic fissa est fulmine, ut tota etiam per ferrum finderetur et duas partes faceret. Quando dixerunt haruspices duos imperatores non diuturnos ex una domo isdem nominibus futuros. [3] Lorica patris eius non, ut solet, ferrugine sed tota purpureo colore infecta a plurimis visa est. [4] Filio autem haec fuerunt: cum

grammatico daretur, quaedam parens sua libros Homericos omnes purpureos dedit aureis litteris scriptos. [5] Ipse puerulus cum ad cenam ab Alexandro esset rogatus in patris honorem, quod ei deesset vestis cenatoria, ipsius Alexandri accepit. [6] Cum infans esset, subito per publicum veniente vehiculo Antonini Caracalli, quod vacuum erat, conscendit et sedit et vix aegreque a mulionibus carrucariis deturbatus est. [7] Nec defuerunt, qui cavendum infantem dicerent Caracallo. Tum ille dixit: «Longe est, ut mihi iste succedat». Erat enim illo tempore inter ignobiles et nimis parvus. [31, 1] Mortis omina74 haec fuerunt: venienti contra Maximum et Balbinum Maximino cum filio mulier quaedam passis crinibus occurrit lugubri habitu et exclamavit: «Maximini, Maximini, Maximini», neque quicquam amplius dixit et mortua est; videbatur enim dicere voluisse: «Succurrite». [2] Canes circa tentorium eius in secunda mansione ultra duodecim ulularunt et ammam quasi flendo posuerunt ac prima luce mortui sunt deprehensi. [3] Lupi urbem quingenti simul ingressi sunt [in eam urbem], in quam se Maximinus contulerat; plerique dicunt Hemonam, alii Archimeam75, certe quae deserta a civibus venienti Maximino patuit. [4] Longum est omnia persequi, quae qui scire desiderat, is velim, ut saepe dixi, legat Cordum, qui haec omnia usque ad fabellam scripsit. [5] Sepulchra eorum nulla extant. In profluentem enim cadavera eorum missa sunt, et capita eorum in campo Martio insultante populo exusta. [32, 1] Scribit Aelius Sabinus76, quod praetermittendum non fuit, tantam pulchritudinem oris fuisse in filio, ut etiam caput eius mortui iam nigrum, iam sordens, iam maceratum, diffluente tabo, velut umbra pulchri oris videretur. [2] Denique cum ingens gaudium esset, quod caput Maximini videretur, prope par maeror erat, quod et filii pariter portaretur. [3] Addidit Dexippus tantum odium fuisse Maximini, ut interfectis Gordianis viginti viros77 senatus creaverit, quos opponeret Maximino78. In quibus fuerunt Balbinus et Maximus, quos contra eum imperatores fecerunt. [4] Idem addidit in conspectu Maximini iam deserti a militibus et praefectum praetorio ipsius et filium eius occisum. [5] Nec desunt historici, qui dicant ipsum Maximinum, ubi desertus est et ubi filium interemptum ante oculos suos vidit, manu sua se interferisse, ne quid ei muliebre contingeret. [33, 1] Praetereundum ne illud quidem est, quod tanta fide Aquileienses contra Maximinum pro senatu fuerunt, ut funes de capillis muliebribus facerent, cum deessent nervi ad sagittas emittendas. [2] Quod aliquando Romae dicitur factum, unde in honorem matronarum templum Veneri

Calvae79 senatus dicavit. [3] Sane quod nullo in loco tacendum est: cum et Dexippus et Arrianus80 et multi alii Graeci scripserint Maximum et Balbinum imperatores contra Maximinum factos, Maximum autem cum exercitu missum et apud Ravennam bellum parasse, Aquileiam autem nisi victorem non vidisse81, Latini scriptores non Maximum sed Puppienum contra Maximinum apud Aquileiam pugnasse dixerunt eundemque vicisse. [4] Qui error unde natus sit, scire non possum, nisi forte idem est Puppienus qui Maximus82. [5] Quod ideo testatum posui, ne quis me hoc nescisse crederet, quod re vera magnum stuporem ac miraculum creat.

[1, 1] Perché non riuscisse fastidioso a Tua Grazia, o sommo Costantino, il dover leggere le vite di ciascun principe o figlio di principe in libri distinti, ho adottato il criterio di restringere in un solo volume le vite dei due Massimini, padre e figlio; [2] e da qui in poi ho osservato quell’ordinamento che Tua Grazia ha voluto fosse seguito già dall’illustrissimo1 Tazio Cirillo2, nella sua traduzione dal greco in latino. [3] E lo manterrò non in un solo libro, ma anche nei molti successivi, fatta eccezione per il caso dei grandi imperatori, le cui imprese, essendo più numerose e famose, richiedono una narrazione più ampia. [4] Massimino il Vecchio3 acquistò fama sotto l’impero di Alessandro; ma aveva iniziato la sua carriera militare sotto Severo. [5] Si narra che fosse nato4 in un villaggio della Tracia confinante col territorio dei barbari, figlio inoltre di padre e madre barbara, l’uno Goto di origine, l’altra Alana5. [6] Si dice che il padre si chiamasse Micca, e la madre Ababa6. [7] Questi nomi Massimino nei primi tempi li palesava liberamente, ma in seguito, quando giunse al potere, volle che fossero tenuti nascosti, perché non apparisse che l’imperatore era nato da genitori entrambi di stirpe barbarica. [2, 1] Nella sua prima fanciullezza fece il pastore, talvolta anche capeggiando i compagni nell’affrontare i briganti e nel difendere i suoi dalle loro incursioni7. [2] Compì il suo primo servizio militare nella cavalleria8. Era infatti imponente per la sua prestanza fisica, famoso per il suo valore fra tutti i soldati, bello nel suo aspetto virile, duro nel suo comportamento, rude, superbo, sprezzante, spesso nondimeno capace di senso di giustizia. [3] La prima occasione in cui fece parlare di sé sotto l’impero di Severo fu questa9: [4] nel giorno natale del figlio minore Geta, Severo indisse dei giochi militari mettendo in palio come premi oggetti d’argento, quali bracciali, collane e pendagli da spada. [5] Costui, giovinetto e semibarbaro qual era, nonché ancora inesperto nella lingua latina, chiese pubblicamente all’imperatore – parlando praticamente in dialetto tracico – di concedergli il permesso di misurarsi con uomini che occupavano gradi militari già elevati. [6] Severo, colpito dall’imponenza del suo fisico, lo fece cimentare dapprima con i vivandieri – ma con i più forti fra essi –, non volendo andar contro alle regole militari. [7] Allora Massimino abbatté di seguito sedici di loro, guadagnando sedici dei premi minori riservati ai non appartenenti all’esercito, e fu arruolato.

[3, 1] Due giorni dopo Severo, recatosi per caso nell’accampamento, vide Massimino che si abbandonava a schiamazzi in mezzo a un gruppo di soldati, come sono soliti fare i barbari, e subito ordinò al tribuno di punirlo e di insegnargli la disciplina romana. [2] Quando egli comprese che l’imperatore aveva parlato di lui – giacché il barbaro supponeva di essere noto al principe e ben riconoscibile tra molti – si accostò all’imperatore che stava a cavallo. [3] Allora Severo, volendo provare quanto valesse nella corsa, lanciò il cavallo a briglia sciolta in numerose sgroppate all’intorno, finché il vecchio imperatore, ormai stanco e vedendo che Massimino non cessava di seguirlo a corsa per tanto spazio, gli disse: «Che dici, trace? Dopo la corsa, ti andrebbe di cimentarti nella lotta?». Ed egli rispose: «Quanto tu vuoi, imperatore!». [4] Dopo ciò Severo discese dal cavallo e ordinò che tutti gli elementi più freschi e forti dell’esercito si misurassero con lui. [5] Allora egli, come al solito, abbatté sette dei più forti uno dietro l’altro, e unico fra tutti ricevette da Severo, oltre ai premi in argento, una collana d’oro, e venne arruolato tra le guardie del corpo che stazionavano in permanenza nella reggia. [6] Fu in questo modo dunque che egli divenne un personaggio importante, famoso tra i soldati, benvoluto fra i tribuni, guardato con rispetto dai commilitoni, in grado di ottenere dall’imperatore tutto quello che voleva; ebbe inoltre l’appoggio di Severo nel raggiungimento dei vari gradi della carriera militare, essendo egli sì molto giovane, ma distinguendosi fra tutti per l’altezza e la poderosità, nonché per l’armoniosa prestanza della sua persona e altresì per la grandezza degli occhi e il candore della carnagione. [4, 1] Risulta che spesso egli bevesse in un giorno un’anfora capitolina10 di vino, che mangiasse fino a quaranta libbre di carne o, come sostiene Cordo11, addirittura sessanta. [2] Come si sa per certo, egli non assaggiò mai legumi e quasi mai bevande fredde se non per necessità di bere. [3] Spesso raccoglieva le gocce del suo sudore collocandole in calici o in un vasetto, e così poteva mostrarne due o tre sestari. [4] Sotto Antonino Caracalla ricoprì a lungo il grado di centurione e più volte ebbe ad occupare tutte le altre cariche militari. Sotto Macrino, per il profondo odio che nutriva contro l’uomo che aveva ucciso il figlio del suo imperatore, abbandonò la milizia e si acquistò in Tracia, nel villaggio dove era nato, dei possedimenti ed esercitò sempre il commercio con i Goti. Era straordinariamente benvoluto dai Goti, come se fosse un loro concittadino. [5] Tutti gli Alani che si spingevano sino alla riva del fiume12, lo trattavano come un amico, scambiando vicendevolmente dei doni. [6] Ma quando Macrino fu

ucciso assieme a suo figlio, non appena apprese che era divenuto imperatore Eliogabalo, quale figlio di Antonino, egli, che era ormai un uomo maturo, si recò da lui e gli chiese che egli pure avesse a tenerlo nella stessa considerazione che aveva avuto nei suoi riguardi il nonno di lui Severo. Ma nulla poté ottenere con quel sozzo individuo; [7] si dice infatti che Eliogabalo gli rispose con una battuta sconcia: «Dicono, o Massimino, che tu una volta abbia lottato vittoriosamente con sedici, venti e trenta soldati: potresti farcela per trenta volte con una donna?». [8] Allora egli, al sentire quel principe infame esordire in tal modo, decise di ritirarsi dall’esercito. [9] E nondimeno ne fu trattenuto dagli amici di Eliogabalo, perché alla pessima fama di questo non avesse ad aggiungersi anche la vergogna di far allontanare dal suo esercito l’uomo più forte del suo tempo, chiamato da alcuni Ercole, da altri Achille, da altri Ettore, da altri Aiace. [5, 1] Sotto l’impero di quell’infame individuo ebbe soltanto il grado di tribuno, ma non si recò mai ad ossequiarlo né a salutarlo, trasferendosi in un luogo o in un altro lungo tutti i tre anni del suo regno; [2] si teneva sempre impegnato, ora per via delle attività dei campi, ora di quelle legate al tempo libero, ora accusando false malattie. [3] Quando Eliogabalo fu ucciso, non appena venne a sapere che era stato eletto imperatore Alessandro, si diresse alla volta di Roma. [4] Alessandro lo accolse con grande gioia e vivissime manifestazioni di affetto, tanto da dire in senato: «Ha chiesto la mia protezione, o senatori – e io gli ho concesso il laticlavio13 – il tribuno Massimino, che sotto quella belva immonda non ha potuto militare nell’esercito, e che era stato tenuto dal mio parente, il divo Severo, nella grande considerazione che avete appreso per fama». [5] Infine, lo nominò immediatamente14 tribuno della Quarta Legione15, che aveva costituito egli stesso utilizzando le reclute, e gli conferì il comando con queste parole: [6] «Non ti ho affidato, o Massimino mio carissimo e affezionatissimo, il comando di soldati veterani, perché ho temuto che tu non potessi ormai più correggere i loro vizi, già sviluppatisi sotto il comando di altri. [7] Hai nelle tue mani delle reclute: fa loro apprendere la vita militare secondo il modello dei tuoi costumi, del tuo valore, del tuo impegno, perché tu abbia a procurarmi in sommo grado molti Massimini, così auspicabili per il bene dello Stato». [6, 1] Ricevuto dunque il comando della legione, cominciò immediatamente ad addestrarla. [2] Ogni quattro giorni ordinava delle manovre in armi, in cui i soldati conducevano tra loro combattimenti simulati. Ogni giorno ispezionava le spade, le lance, le corazze, gli elmi, gli scudi, le

tuniche e tutte le loro armi; [3] provvedeva personalmente financo alle loro calzature, proprio in modo tale da presentarsi ai soldati come un padre. [4] A certi tribuni, poi, che lo rimproveravano dicendogli: «Perché ti affatichi tanto, visto che ormai hai un grado tale da permetterti di raggiungere il comando in capo?», si dice rispondesse: [5] «Ma io, quanto più sarò in alto, tanto più mi darò da fare». Egli stesso si cimentava nella lotta con i soldati, abbattendone, sebbene già avanti negli anni, cinque, sei o sette. [6] Così tutti quanti lo invidiavano, e ci fu un tribuno particolarmente arrogante, di grande corporatura e provato valore – e perciò tanto più tracotante – che gli disse: «Non è poi una gran cosa quella che fai, tu, tribuno, a vincere i tuoi soldati»; al che egli rispose: «Vuoi che ci battiamo?»; [7] e avendo l’avversario accettato, lo mandò steso a terra colpendolo con il palmo della mano in pieno petto, mentre quello gli si stava gettando contro, e immediatamente esclamò: «Avanti un altro, ma che sia un tribuno!». [8] Era, come riferisce Cordo, un uomo di tali proporzioni che superava di un dito gli otto piedi di altezza16, e aveva un pollice così grosso che poteva usare come anello il braccialetto di sua moglie. [9] Sono ormai praticamente di dominio pubblico certi aneddoti, come il fatto che era in grado di trascinare un carro a quattro ruote a forza di braccia, di muovere da solo una carrozza carica di gente, di buttar giù i denti a un cavallo tirandogli un pugno, o di spezzargli i garretti sferrandogli un calcio, di frantumare pietre di tufo, di spaccare in due piante non troppo annose, e che, insomma, era chiamato da taluni Milone di Crotone17, da altri Ercole, da altri Anteo18. [7, 1] Alessandro, che pure sapeva giudicare i veri meriti delle persone, impressionato da un uomo che si segnalava per tali imprese, gli conferì – per sua propria disgrazia – il comando di tutto l’esercito19, tra la soddisfazione diffusa di tutti i tribuni, i generali, i soldati. [2] Fu così che Massimino ricondusse l’esercito, che si era in gran parte infiacchito sotto Eliogabalo, al regime di vita militare da lui instaurato. [3] Ma tutto questo per Alessandro – che era un ottimo principe ma tuttavia, per la sua giovane età, poteva inizialmente non godere della necessaria autorità – risultò, come abbiamo detto, veramente fatale. [4] Mentre infatti si trovava in Gallia e aveva posto l’accampamento non lontano da una città20, Alessandro venne ucciso da alcuni soldati – inviati repentinamente, come dicono certuni, da Massimino stesso, o, secondo altri, da ufficiali delle truppe barbare – mentre cercava scampo presso la madre, dopo che Massimino era già stato proclamato imperatore. [5] Quanto al motivo dell’uccisione di Alessandro, vengono

riferite varie versioni. Certuni infatti affermano che Mammea avrebbe spinto il figlio ad abbandonare la guerra germanica per recarsi in oriente, e questa sarebbe stata la causa della sedizione dei soldati; [6] altri, che egli era troppo severo, e avrebbe voluto sciogliere le legioni in Gallia come aveva fatto in oriente. [8, 1] Comunque, dopo l’uccisione di Alessandro, Massimino fu acclamato Augusto dall’esercito – ed era la prima volta che si verificava per un militare, non ancora senatore, e in mancanza di un decreto del senato –, e gli fu dato quale collega nell’impero il figlio; del quale diremo fra breve le poche cose di cui siamo a conoscenza. [2] Massimino poi ebbe sempre l’accortezza di governare i soldati non solo con la forza, ma anche guadagnandosene l’affetto con premi e ricompense. [3] Non tolse mai ad alcuno la sua razione di viveri. [4] Non permise mai che alcun soldato lavorasse nell’esercito come fabbro o in altri tipi di artigianato, come sogliono fare i più, impegnando le legioni unicamente in frequenti battute di caccia. [5] Ma accanto a queste doti, era di una crudeltà tale che alcuni lo soprannominavano Ciclope, altri Busiride21, altri Scirone22, altri Falaride23, molti Tifone24 o Gigante. [6] Il senato lo temeva a tal punto25, che nei templi si facevano voti, in forma sia privata sia pubblica, persino dalle donne e dai bambini, perché egli non avesse mai a venire a Roma. [7] Si sentiva raccontare infatti di gente messa da lui in croce, di altri rinchiusi vivi nelle carogne di animali appena uccisi, di altri gettati in pasto alle belve, di altri massacrati a forza di bastonate, e tutto ciò senza distinzione di grado sociale, apparendo chiaro che egli voleva amministrare rigidamente la disciplina militare. E sul modello di questa voleva governare anche le cose civili, [8] ciò che non conviene ad un sovrano che voglia farsi amare. Egli era infatti persuaso che un impero non si può mantenere se non usando la crudeltà; [9] nello stesso tempo aveva anche timore di venire trattato con disprezzo dalla nobiltà a motivo delle sue umili origini barbariche; [10] si ricordava tra l’altro di essere stato a Roma snobbato persino dai servi dei nobili, tanto che neppure i loro procuratori lo avevano ammesso alla loro presenza; [11] e – come accade quando ci si fanno idee irragionevoli – si aspettava che, anche quando ormai fosse divenuto imperatore, essi avrebbero mantenuto il medesimo atteggiamento nei suoi confronti. Tanto può il complesso della propria inferiorità in uno spirito meschino. [9, 1] Infatti, per nascondere le sue basse origini, fece uccidere tutti coloro che ne erano a conoscenza, molti anche tra i suoi amici, che spesso in passato, mossi a pietà della sua povertà, gli avevano fatto generosi doni. [2] In effetti

non vi fu mai al mondo un essere così crudele, che riponeva ogni sua fiducia nella propria forza fìsica, come ritenesse di non poter essere ucciso. [3] Fu così che, mentre lui si credeva praticamente immortale a motivo della sua prestanza fisica e della sua grande forza, un attore di mimi – a quanto raccontano – recitò a teatro in sua presenza dei versi greci che in latino suonavano così: [4] «Anche chi non può essere ucciso da uno solo, da molti può essere ucciso. L’elefante è grande, e viene ucciso, il leone è forte, e viene ucciso, la tigre è forte, e viene uccisa: guàrdati dai molti, se non temi i singoli». E questi versi furono recitati alla presenza stessa dell’imperatore. [5] Ma quando egli chiese agli amici che cosa significava quanto aveva recitato l’attore, gli fu risposto che quello cantilenava antichi versi scritti contro uomini violenti, e lui, da quel barbaro Trace che era, ci credette. [6] Non voleva aver vicino alcun nobile, governava né più né meno che al modo di Spartaco o Atenione26. [7] Inoltre mise a morte in vari modi tutti i funzionari di Alessandro. [8] Cercò di sopprimere le disposizioni che costui aveva emanate. E nel suo sospettarne gli amici e i collaboratori, divenne ancor più crudele. [10, 1] Già per indole portato a conformarsi al modo di agire di una belva, fu reso ancora più duro e sanguinario dalla congiura ordita contro di lui da un certo Magno27, un ex console, il quale, assieme a molti soldati e centurioni, aveva tramato per assassinarlo, mirando ad impadronirsi del potere. [2] E le modalità del complotto erano queste: dato che Massimino voleva passare nel territorio dei Germani gettando un ponte, si era stabilito che i congiurati lo attraversassero con lui, dopo di che il ponte venisse abbattuto ed egli, trovandosi ormai alla loro mercé in territorio barbarico, fosse così ucciso, mentre Magno avrebbe assunto il potere. [3] C’è infatti da ricordare che Massimino, non appena divenuto imperatore, aveva intrapreso ogni sorta di campagne militari, conducendole con grande energia e sfruttando la sua perizia nell’arte bellica, volendo salvaguardare la reputazione che si era guadagnato, e superare agli occhi di tutti la fama di Alessandro, che lui aveva ucciso. [4] Perciò anche da imperatore, teneva ogni giorno in esercizio i suoi soldati, e lui stesso era sempre in armi, offrendo continuamente all’esercito dimostrazioni di ciò che sapeva fare con la forza del suo braccio e con la sua resistenza fisica. [5] E quanto a codesta congiura si insinua pure che sia stato Massimino stesso a simularla28, onde aumentare i pretesti per esercitare la sua crudeltà. [6] Sta di fatto che egli mise a morte tutti i congiurati senza processo, senza accusa, senza delatore, senza difesa, proscrisse i beni di tutti, né

bastarono a saziarlo più di quattromila vittime. [11, 1] Vi fu inoltre, sempre sotto il suo regno, una sollevazione ad opera degli arcieri osroeni29, che si ribellarono a lui per l’affetto che li legava ad Alessandro e il rimpianto per la sua morte, della quale ritenevano fosse stato responsabile Massimino, senza che fosse possibile convincerli in altro senso. [2] In breve, si diedero anch’essi un capo e imperatore nella persona di Tito30, uno dei loro, che Massimino aveva in precedenza già congedato. [3] Gli misero indosso la porpora, lo adornarono delle insegne regali, sbarrarono l’accesso alla sua persona, come sua milizia personale – e tutto questo, per il vero, contro la sua volontà. [4] Ma costui fu ucciso nel sonno a casa sua da uno dei suoi amici – rimasto amareggiato che quello gli fosse stato preferito –, di nome Macedonio, che lo tradì a favore di Massimino e offrì all’imperatore la sua testa. [5] Ma Massimino, se in un primo tempo gli manifestò riconoscenza, in seguito però prese ad odiarlo come traditore, e lo fece uccidere. [6] Queste cose contribuivano ad inasprirlo ogni giorno di più, al modo delle belve che, una volta ferite, diventano ancor più feroci. [7] Successivamente passò in Germania con tutto l’esercito e le truppe Maure, Osroene e Partiche, nonché tutte le altre forze che Alessandro conduceva con sé nelle campagne militari. [8] E la ragione più importante per la quale portava con sé truppe ausiliarie orientali era che nessuno è più efficace nel combattimento contro i Germani degli arcieri armati alla leggera. [9] Alessandro aveva poi uno straordinario apparato bellico, che Massimino – a quanto si dice – perfezionò in molti modi. [12, 1] Entrato dunque nella Germania Transrenana31. per trenta o quaranta miglia del territorio barbarico incendiò villaggi, fece razzie di bestiame, operò saccheggi, uccise un gran numero di barbari, arricchì di bottino i soldati, prese innumerevoli prigionieri, e se i Germani non si fossero rifugiati in massa nelle paludi e nelle selve, avrebbe assoggettato a Roma tutta la Germania. [2] Egli stesso inoltre si rendeva direttamente protagonista di molte azioni, come anche quando, addentratosi in una palude, si sarebbe trovato circondato dai Germani, se non fossero venuti a liberarlo, quando ormai era rimasto impantanato in essa col suo cavallo. [3] Aveva infatti la convinzione, tipica della spavalderia dei barbari, che l’imperatore dovesse sempre agire anche di persona. [4] Condusse così nella palude come una specie di battaglia navale, e vi uccise un gran numero di nemici. [5] Vinta dunque la Germania, inviò a Roma, sia al senato sia al popolo, una lettera da lui personalmente dettata, che suonava così: [6] «Non possiamo, o senatori,

descrivere a parole tutto ciò che è stato da noi compiuto. Per uno spazio di quarantacinquanta miglia abbiamo incendiato i villaggi dei Germani, abbiamo portato via il loro bestiame, abbiamo catturato prigionieri, abbiamo ucciso soldati, abbiamo combattuto in palude. Saremmo arrivati alle selve, se la profondità delle paludi non ci avesse impedito il passaggio». [7] Elio Cordo afferma che questa formulazione è dovuta interamente a lui. [8] Il che è verosimile: che cosa infatti vi è in essa che non potesse essere concepito da un soldato barbaro? [9] Egli scrisse anche al popolo una lettera di eguale tenore, ma usando un tono più rispettoso, dato che verso il senato nutriva odio, ritenendosi da esso fortemente disprezzato32. [10] Inoltre ordinò che fossero dipinti dei quadri raffiguranti le fasi in cui era stata condotta la guerra stessa, e che venissero esposti dinanzi alla curia, perché fosse la pittura a narrare le sue gesta, [11] Peraltro, dopo la sua morte, il senato dispose che tali quadri fossero rimossi e bruciati. [13, 1] Vi furono sotto il suo regno numerose altre campagne e battaglie, dalle quali fu sempre primo ad uscire vincitore, ritornando con una gran quantità di bottino e di prigionieri. [2] Abbiamo un suo discorso indirizzato al senato, di cui riportiamo uno stralcio: «Nel giro di breve tempo, o senatori, ho combattuto tante guerre quanto nessuno dei predecessori. Ho portato in terra romana tanto bottino, quanto non ci si sarebbe potuto aspettare. Ho condotto tanti prigionieri, che il suolo di Roma fatica a contenerli». Il resto del discorso non è necessario ai fini della nostra trattazione. [3] Pacificata la Germania si recò a Sirmio33, preparando una spedizione contro i Sarmati, e formulando il progetto di assoggettare a Roma le regioni settentrionali fino all’Oceano; [4] ciò che avrebbe realizzato, se fosse rimasto in vita, come dice lo scrittore greco Erodiano34 che, a quanto ci è dato di vedere, si mostrò – in odio ad Alessandro – molto a lui favorevole35. [5] Ma poiché i Romani non potevano più sopportare la sua crudeltà, dal momento che egli si serviva di spie, istigava accusatori, inventava delitti inesistenti, mandava a morte innocenti, condannava tutti quelli che si trovavano a venire in giudizio, riduceva uomini facoltosi nella più totale indigenza, e non aveva altra fonte di guadagno se non quello che ricavava dalla disgrazia altrui, e inoltre metteva a morte molti uomini di rango consolare e generali non rei di alcuna colpa, altri poi facendoli esporre su carri a patire la sete, altri tenendoli in prigione, e insomma nulla tralasciava che sembrasse offrirgli occasione di esercitare la sua crudeltà, organizzarono una congiura contro di lui. [6] Né soltanto i Romani, ma poiché egli infieriva

anche contro i soldati, le truppe che erano di stanza in Africa con una improvvisa e violenta rivolta acclamarono imperatore il vecchio Gordiano36, uomo di grande prestigio morale, che era proconsole. Ma ecco per ordine come ebbe a svolgersi la congiura. [14, 1] C’era in Libia un procuratore del fisco che, per mostrare zelo nei confronti di Massimino, aveva spogliato tutta la popolazione; costui venne ucciso dagli abitanti del contado con l’appoggio di alcuni soldati, che riuscirono a ricacciare quanti, rimasti fedeli a Massimino, difendevano il funzionario37. [2] Ma poiché gli autori dell’uccisione si rendevano conto di dover ricorrere a più radicali rimedi, costrinsero il proconsole Gordiano, uomo – come abbiamo detto – degno del massimo rispetto, di età avanzata, ricco di ogni buona qualità, che era stato mandato in Africa da Alessandro in seguito a un decreto senatorio, ad assumere il potere, facendogli indossare la porpora, nonostante che egli protestasse e si gettasse a terra, e minacciandolo con le spade e ogni tipo di armi. [3] E se in un primo tempo Gordiano aveva assunto la porpora controvoglia, successivamente invece, quando si rese conto che la situazione creatasi era ormai compromessa sia per lui sia per il figlio38 e la sua famiglia, accettò convinto l’impero, e ricevette da tutti gli Africani il titolo di Augusto assieme al figlio nella città di Tisdro39. [4] Di lì, attraversando la provincia d’Africa, giunse a Cartagine in pompa regale e accompagnato da guardie del corpo e da fasci ornati di alloro; di là inviò a Roma una lettera al senato la quale, essendo oramai stato ucciso il capo delle truppe pretoriane Vitaliano40, fu – in odio a Massimino – accolta con favore. [5] Inoltre tanto Gordiano padre che Gordiano figlio ebbero dal senato il titolo di «Augusto». [15, 1] Furono poi messi a morte tutti i delatori, tutti gli accusatori, tutti gli amici di Massimino. Fu ucciso, colpito in mezzo alla folla, il prefetto dell’urbe Sabino. [2] Dopo tali fatti il senato, ancor più temendo la vendetta di Massimino, pubblicamente e senza ritegni proclama nemici pubblici Massimino e suo figlio. [3] Poi manda un messaggio a tutte le province, perché combattano per la comune salvezza e libertà; e tutte vi prestarono ascolto. [4] E così da ogni parte furono messi a morte gli amici e gli amministratori, nonché i generali, gli ufficiali e i soldati di Massimino; [5] poche città si mantennero fedeli al nemico pubblico, le quali, scoperta l’identità di coloro che erano stati inviati loro quali messaggeri, li denunziarono prontamente, attraverso delle spie, a Massimino. [6] Questo fu il testo della lettera del senato: «Il senato e il popolo romano, nel momento in cui, grazie ai principi Gordiani, hanno intrapreso a liberarsi

da quella ferocissima belva, augurano ai proconsoli, ai governatori, ai legati, ai generali, agli ufficiali, ai magistrati nonché alle singole città, municipii, piazzeforti, villaggi e castelli quella prosperità che solo ora hanno ricominciato a godere. [7] Grazie al favore degli dèi abbiamo avuto in sorte quale imperatore il proconsolare Gordiano, uomo integerrimo e senatore di grande prestigio, cui abbiamo conferito il titolo di Augusto, né a lui soltanto, ma anche, ad ulteriore salvaguardia dello Stato, a suo figlio, il nobile giovane Gordiano. [8] Ora sta a voi dare il vostro assenso alla lotta per raggiungere la salvezza dello Stato, per impedire ogni misfatto e per non dar tregua a quella belva e ai suoi amici, dovunque si troveranno. [9] Noi anzi abbiamo dichiarato Massimino e suo figlio nemici pubblici». [16, 1] Ed ecco il testo del decreto senatorio: «Venuti che si fu al templo dei Castori41 il giorno 26 giugno42, il console Giulio Silano diede lettura della lettera giunta dall’Africa dell’imperatore Gordiano, padre della patria, proconsole: [2] ‘Contro la mia volontà, o senatori, i giovani cui fu affidato il compito di difendere l’Africa, mi hanno chiamato all’impero. Ma, per riguardo a voi, volentieri sono disposto ad assumermi questo pesante impegno. Spetta a voi prendere una ponderata decisione. Io infatti resterò incerto e dubbioso fino a che il senato non abbia deliberato ‘. [3] Appena la lettura del messaggio fu terminata, subito il senato acclamò: ‘Gordiano Augusto, gli dèi ti salvino. Possa tu regnare felice. Possa tu regnare sicuro. Tu ci hai liberato. Grazie a te lo Stato è salvo; tutti ti ringraziamo’. [4] Quindi il console formulò la domanda: ‘O senatori, qual è la vostra decisione riguardo ai Massimini?’. Fu risposto: ‘Sono nemici, sono nemici. Chi li ucciderà, meriterà un premio’. [5] Parimente il console chiese: ‘Degli amici di Massimino che vi sembra giusto fare?’. Si acclamò: ‘Sono nemici, sono nemici. Chi li ucciderà, meriterà un premio’. [6] Vi furono quindi le seguenti acclamazioni: ‘Il nemico del senato sia messo in croce. Il nemico del senato sia colpito ovunque. I nemici del senato siano bruciati vivi. Gordiani Augusti, gli dèi vi salvino. Possiate entrambi felicemente operare, entrambi felicemente regnare. [7] Al nipote di Gordiano decretiamo la pretura, al nipote di Gordiano promettiamo il consolato. Il nipote di Gordiano abbia il titolo di Cesare. Il terzo Gordiano assuma la pretura’». [17, 1] Quando Massimino venne a conoscenza di questo decreto senatorio, uomo feroce di sua natura qual era, arse d’ira a tal punto che lo si sarebbe creduto non un uomo, ma una belva. [2] Si scagliava contro le pareti, talora si buttava a terra, lanciava urla inconsulte, dava di piglio alla spada,

quasi che con quella potesse uccidere il senato, si strappava la veste regale, percuoteva i servi di corte, sì che, se non si fosse tolto di mezzo, avrebbe addirittura – come riferiscono certuni – cavato gli occhi al proprio figlio giovinetto. [3] Il motivo della sua collera nei confronti del figlio era che egli, non appena proclamato imperatore, gli aveva ordinato di andare a Roma, e quello invece, per il suo eccessivo attaccamento al padre, non lo aveva fatto; ora, lui era convinto che se il figlio si fosse trovato a Roma, il senato non avrebbe osato prendere alcuna iniziativa. [4] Alla fine gli amici riuscirono a trascinarlo, furioso com’era, nella sua stanza. [5] Ma, incapace di dominare il suo furore, si dice che, per dimenticare quel pensiero, il primo giorno si riempì di vino a tal punto da non ricordare più che cosa fosse accaduto. [6] Il giorno seguente, fatti entrare gli amici – che non lo potevano vedere, ma tacevano e approvavano in cuor loro l’operato del senato –, tenne consiglio sul da farsi. [7] Dal consiglio ristretto passò poi a tenere un’allocuzione ai soldati, nel corso della quale parlò a lungo contro gli Africani, contro Gordiano, e ancor più contro il senato, ed esortò i soldati a far vendetta delle comuni offese. [18, 1] Il suo discorso fu dunque di carattere prettamente militare; eccone uno stralcio: «Vi riferiamo, o commilitoni, una cosa che già sapete: gli Africani hanno rotto i patti. Del resto, quando mai li hanno rispettati?43 Gordiano, un vecchio debole e oramai prossimo a morire, ha assunto l’impero. [2] Quei santissimi senatori che hanno ammazzato Romolo44 e Cesare, mi hanno dichiarato nemico pubblico – mentre combattevo per loro e per loro stessi vincevo – né soltanto me, ma anche voi e tutti coloro che mi sono favorevoli, e hanno conferito il titolo di Augusti ai due Gordiani, padre e figlio. [3] Dunque, se siete uomini, se avete energie da uomini, muoviamo contro il senato e gli Africani, e le ricchezze di tutti costoro saranno vostre». [4] Distribuito quindi un compenso in denaro – invero di forte entità –, si mise in marcia con l’esercito alla volta di Roma. [19, 1] Ma Gordiano in Africa si trovò fin dall’inizio a dover fronteggiare l’opposizione di un certo Capeliano, che aveva deposto dal governo della Mauritania. [2] Mandò allora contro di lui il suo giovane figlio, ma, essendo rimasto questi ucciso nel corso di una sanguinosissima battaglia, egli stesso si tolse la vita impiccandosi, conscio che Massimino era molto potente, mentre gli Africani, oltre a non disporre di forze valide, erano per giunta al contrario assai poco fidati. [3] Allora Capeliano, risultato vincitore in nome di Massimino, mise a morte e proscrisse tutti i fautori di Gordiano in Africa, senza risparmiare alcuno, proprio come se operasse all’evidenza queste cose

eseguendo la volontà di Massimino. [4] Distrusse inoltre città, saccheggiò templi, distribuì tra i soldati i doni votivi, fece strage fra la plebe e i maggiorenti delle città. [5] Egli stesso cercava poi di conciliarsi il favore dei soldati, predisponendosi ad assumere il potere, nel caso che Massimino fosse morto. [20, 1] Non appena queste notizie giunsero a Roma il senato, temendo la naturale – e ormai inevitabile – crudele reazione di Massimino, in luogo dei due morti Gordiani nominò imperatori Massimo45, ex prefetto dell’urbe, che aveva già ricoperto distinguendosi moltissime cariche, di umili natali ma insigne per le sue virtù, e Balbino46, uomo di costumi alquanto raffinati. [2] Conferito che fu ad essi dal popolo il titolo di Augusti, i soldati e il popolo stesso nominarono inoltre Cesare il piccolo nipote di Gordiano47. [3] Pertanto lo Stato si avvalse di tre imperatori contro Massimino. [4] Di essi tuttavia Massimo era quello più austero nella condotta di vita, più ponderato nelle sue sagge decisioni, più costante nell’esercitare le sue virtù. [5] Fu così che proprio a lui il senato e Balbino affidarono la conduzione della guerra contro Massimino. [6] Partito dunque Massimo per la guerra contro Massimino, Balbino a Roma era continuamente premuto da guerre intestine e tumulti domestici, che culminarono quando vennero uccisi […] ad opera del popolo, istigato da Gallicano e Mecenate. Ma tra lo stesso popolo menarono a loro volta strage i pretoriani, non essendo ormai più in grado Balbino di fronteggiare le sedizioni. E alla fine una gran parte della città fu messa a fuoco48. [7] L’imperatore Massimino aveva accolto con sollievo la notizia della morte di Gordiano e di suo figlio, a seguito della vittoria di Capeliano; [8] ma quando apprese dell’altro decreto senatorio, con il quale Massimo, Balbino e Gordiano erano stati proclamati imperatori, si rese conto che l’odio del senato nei suoi confronti non avrebbe avuto più fine, e che ormai era davvero considerato da tutti come un nemico. [21, 1] Scese così in Italia più furibondo che mai. Avendo qui saputo che gli era stato mandato contro Massimo, ancor più violentemente inferocito mosse in ordine di battaglia alla volta di Emona49. [2] Ma il piano concordato da tutti gli abitanti della regione era di ritirarsi entro le città, portando via tutto quanto potesse costituire fonte di vettovagliamento, di modo che Massimino ed il suo esercito si trovassero ridotti alla fame. [3] Fu così che, non appena si fu accampato nella pianura, senza peraltro trovarvi alcuna possibilità di rifornimento, il suo esercito si accese di risentimento nei suoi

confronti, in quanto si trovava a soffrire la fame proprio in Italia, laddove pensava invece di potersi rifocillare dopo il passaggio delle Alpi, e dapprima cominciò a mormorare, poi a manifestare apertamente le proprie rimostranze. [4] E volendo egli prendere provvedimenti punitivi in relazione a ciò, crebbe il malcontento dell’esercito, che seppe contenere in silenzio il suo odio nel corso del tempo, per poi lasciarlo esplodere d’un colpo al momento opportuno. [5] Molti affermano50 che Massimino trovò Emona stessa vuota e abbandonata, e stoltamente se ne rallegrò credendo che l’intera popolazione se ne fosse fuggita di fronte al suo arrivo. [6] Dopo di ciò arrivò ad Aquileia, che si dispose a fronteggiarlo chiudendo le porte e schierando uomini armati attorno alle mura; né mancò di organizzare una difesa sotto la guida dei consolari Menofìlo e Crispino51. [22, 1] Poiché dunque l’assedio di Aquileia si protraeva senza risultato, Massimino mandò nella città degli ambasciatori. E la popolazione stava quasi per consentire alle loro proposte, se Menofìlo e il suo collega non si fossero opposti, affermando che anche il dio Beleno52 aveva dato, tramite gli aruspici, il responso che Massimino sarebbe stato vinto. [2] In relazione a ciò anche in seguito i soldati di Massimino – a quanto si dice – andavano sostenendo che Apollo aveva combattuto contro di loro, e che quella non era stata una vittoria di Massimo o del senato, ma degli dèi. [3] Ma certuni affermano che questo particolare fu da essi inventato in quanto si vergognavano – loro, armati di tutto punto – di essere stati sconfìtti a quel modo da gente praticamente inerme. [4] Massimino allora, messo insieme un ponte servendosi di botti, attraversò il fiume53 e prese ad assediare Aquileia dalle immediate vicinanze. [5] Si ebbe allora un violento assalto e la situazione era critica, in quanto i cittadini si difendevano dagli attacchi dei soldati scagliando zolfo, oggetti infuocati e con ogni altro consimile mezzo di difesa; e di quelli alcuni si vedevano privati delle armi, altri si ritrovavano con le vesti incendiate, altri erano accecati dal fumo, mentre le stesse macchine da guerra venivano distrutte. [6] Nello stesso tempo Massimino, assieme al figlio giovinetto, cui aveva conferito il titolo di Cesare, girava attorno alle mura, tenendosi a distanza di sicurezza dal tiro avversario, e indirizzava moniti ora ai suoi ora a quelli che stavano in città. [7] Ma non approdò a nulla. E molte furono le ingiurie lanciate contro di lui rinfacciandogli la sua crudeltà, nonché nei riguardi del figlio, alludendo alla sua vistosa bellezza. [23, 1] Allora Massimino, presumendo che la guerra andasse per le lunghe per via dell’inerzia dei suoi, mise a morte, proprio nel momento che sarebbe

stato meno opportuno, i suoi generali. Con il che accrebbe vieppiù il risentimento dei soldati contro di lui. [2] A ciò si aggiungeva il fatto che si trovava a corto di vettovagliamenti, giacché il senato aveva mandato a tutte le province e ai custodi dei magazzini un dispaccio con l’ordine che nessun tipo di rifornimento cadesse nelle mani di Massimino. [3] Aveva inoltre inviato per tutte le città elementi che erano stati in passato pretori e questori, con l’incarico di predisporre in ogni luogo misure di sicurezza, e di difendere ogni cosa dagli attacchi di Massimino. [4] E così si ebbe che l’assediante stesso venne a trovarsi nelle critiche condizioni di un assediato. [5] Frattanto si spargeva la notizia che il mondo intero si era dichiarato concordemente ostile a Massimino. [6] Perciò i soldati che avevano i loro cari sul monte Albano54, presi da timore, verso mezzogiorno, in un momento di pausa del combattimento, uccisero Massimino e suo figlio, mentre erano coricati sotto la tenda55, e, infilate le loro teste in cima a due picche, ne fecero mostra agli Aquileiesi. [7] Allora nella vicina città vennero immediatamente abbattute le statue e i busti di Massimino, e il suo prefetto del pretorio fu ucciso assieme ai suoi amici più in vista. Le loro teste, inoltre, furono inviate a Roma. [24, 1] Questa fu la fine dei Massimini, degna della crudeltà del padre, ma ingiusta nei confronti della bontà del figlio. La loro morte suscitò grande entusiasmo tra i provinciali, e profonda costernazione fra i barbari56. [2] Ma i soldati, dopo l’uccisione dei nemici pubblici, furono – su loro richiesta – accolti in città dagli abitanti, e innanzitutto alla condizione che facessero prima atto di adorazione dinanzi alle immagini di Massimo, Balbino e Gordiano, mentre tutti proclamavano che i primi due Gordiani erano stati assunti fra gli dèi. [3] Dopo di ciò fu trasportata, dietro pagamento, da Aquileia, una grande quantità di viveri negli accampamenti, dove si soffriva la fame, e, una volta rifocillati i soldati, il giorno seguente fu convocata un’adunata generale, e tutti prestarono giuramento di fedeltà a Massimo e Balbino, riconoscendo come dèi i due primi Gordiani. [4] È difficile descrivere quali furono le manifestazioni di esultanza allorché la testa di Massimino fu portata a Roma passando attraverso l’Italia, con la gente che accorreva in massa per godersi quella pubblica festa. [5] Frattanto Massimo, che molti identificano come Pupieno, era occupato, nei pressi di Ravenna, nei preparativi della campagna bellica, valendosi del contributo delle truppe ausiliarie germaniche; ma non appena venne a sapere che l’esercito si era espresso in favore di lui e dei suoi colleghi, e che i Massimini erano stati uccisi, [6] congedati di conseguenza57 immediatamente i

corpi ausiliari germanici58, che aveva costituito per affrontare il nemico, inviò a Roma una lettera fregiata d’alloro, che suscitò grande esultanza in città, sicché tutti rendevano grazie dinanzi agli altari, nei templi, nei sacelli, e in ogni luogo sacro. [7] Dal canto suo Balbino, uomo piuttosto timoroso per natura, e che tremava al solo udire il nome di Massimino, offrì un’ecatombe59, e ordinò che in tutte le città si effettuassero celebrazioni con analoghi sacrifici. [8] Poi Massimo si recò a Roma, ed entrato in senato, dopo aver ricevuto i ringraziamenti ufficiali, vi tenne un discorso, e di lì egli, Balbino e Gordiano, quali vincitori, si ritirarono nel Palazzo imperiale. [25, 1] È utile sapere quale fu il senatoconsulto e che giorno era in città quello in cui fu annunciata la notizia dell’uccisione di Massimino: [2] innanzitutto, il messaggero inviato da Aquileia a Roma compì il percorso con tale foga – cambiando più volte cavalcatura –, che il quarto giorno arrivò a Roma, essendosi lasciato dietro Massimo nei pressi di Ravenna. [3] E per avventura in quel giorno si stavano svolgendo degli spettacoli, nel mezzo dei quali, alla presenza di Balbino e Gordiano, il messaggero piombò all’improvviso nel teatro e, prima che potesse annunziare alcunché, tutto il popolo proruppe in un grido: «Massimino è stato ucciso!». [4] Così il messaggero fu anticipato e gli imperatori, che erano presenti, confermarono con cenni di assenso la notizia per tutti lieta. [5] Sospeso dunque lo spettacolo tutti corsero immediatamente a celebrare i propri riti di ringraziamento, e di lì i maggiorenti si affrettarono a recarsi in senato, mentre il popolo accorse a radunarsi in assemblea. [26, 1] Questo fu il senatoconsulto: dopo che Balbino Augusto ebbe dato lettura del messaggio, il senato acclamò: [2] «I nemici del senato, i nemici del popolo romano, gli dèi li perseguitano. O Giove Ottimo, ti ringraziamo. O Apollo venerabile, ti ringraziamo. Massimo Augusto, ti ringraziamo. Balbino Augusto, ti ringraziamo. Ai divi Gordiani decretiamo templi. [3] Il nome di Massimino, già una volta cancellato, deve ora essere cancellato dagli animi. La testa del nemico pubblico sia gettata nel fiume. Il suo corpo nessuno lo seppellisca. Colui che aveva minacciato morte al senato, è stato ucciso, come si meritava. Colui che aveva minacciato di mettere in catene il senato, è stato ucciso, come doveva essere. [4] Santissimi imperatori, vi ringraziamo. Massimo, Balbino, Gordiano, gli dèi vi salvino. Tutti vogliamo con noi i vincitori dei nemici. Tutti desideriamo che Massimo sia con noi. Balbino Augusto, gli dèi ti salvino. Onorate quali consoli l’anno corrente. In luogo di Massimino sia nominato Gordiano». [5] Successivamente, richiesto del suo

parere, Cuspidio Celerino60 così parlò: «O senatori, dopo aver cancellato il nome dei Massimini e proclamati dèi i Gordiani, ora, per celebrare la vittoria, ai nostri imperatori Massimo, Balbino e Gordiano decretiamo statue con elefanti, decretiamo carri trionfali, decretiamo statue equestri, decretiamo trofei». [6] Dopo ciò, sciolta l’adunanza del senato, furono indette per tutta la città delle celebrazioni di ringraziamento. [7] I principi vittoriosi si ritirarono nel Palazzo: le loro biografie saranno da noi narrate in un prossimo libro. MASSIMINO61 IL GIOVANE [27, 1] Della sua stirpe si è detto sopra; dal canto suo, egli era di tale bellezza che dappertutto le donne particolarmente lascive si innamoravano di lui, e alcune anzi bramarono avere da lui un figlio. [2] Pareva in grado di raggiungere un tale sviluppo fisico, da eguagliare la statura paterna, senonché morì a vent’anni, proprio nel fiore della gioventù, o, come sostengono alcuni, a diciassette, istruito nelle lettere greche e latine quanto basta per una formazione di base. [3] Ebbe infatti come maestro di lettere greche Fabillo62, di cui ancora restano molti epigrammi greci, per lo più apposti alle statue del fanciullo stesso. [4] Una volta egli, descrivendo proprio il fanciullo, trasse versi greci da quei famosi versi latini di Virgilio: «Quale, allorché stillante dell’onda di Oceano, Lucifero leva il sacro volto al cielo e le tenebre dissolve63, tale era il giovane, nel nome paterno glorioso».

[5] Come maestro di grammatica latina ebbe Filemone64, di diritto Modestino65, di oratoria Tiziano66, figlio di Tiziano il vecchio67, autore di un’ottima opera sulle province, e soprannominato la scimmia del suo tempo68, per aver imitato di tutto. Fu inoltre alla scuola del retore greco Eugamio, famoso ai suoi tempi. [6] Gli era stata promessa in sposa Giunia Fadilla69, pronipote di Antonino, la quale successivamente andò in sposa a Toxozio, un senatore della medesima famiglia, che morì dopo aver esercitato la pretura, e del quale ci sono rimasti dei componimenti poetici. [7] Rimasero però presso di lei i pegni regali che, come riferisce Giunio Cordo (costui si sofferma sempre minutamente su questi particolari), furono di tal fatta: [8] una collana di nove perle bianche, una cuffietta con undici smeraldi, un braccialetto con un fermaglio costituito da quattro ametiste, oltre alle vesti, ricamate in oro e tutte di foggia regale, e a tutti gli altri ornamenti nuziali. [28, 1] Il giovane Massimino era dal canto suo di una superbia

estremamente insolente, al punto che, mentre suo padre, pur nella sua brutalità, si alzava in segno di deferenza di fronte a molti personaggi di un certo rango, lui se ne restava seduto; [2] amava molto la vita spensierata, era assai sobrio nel bere vino, avido di cibo e specialmente di selvaggina, tanto che non mangiava altro che cinghiale, anatre, gru e ogni specie di cacciagione. [3] Gli amici di Massimo, Balbino e Gordiano, e soprattutto i senatori, insinuavano voci infamanti su di lui in relazione alla sua eccezionale bellezza, non volendo credere che quella sembianza, che sembrava come discesa dal cielo, fosse rimasta incorrotta. [4] E così, allorché girava assieme al padre intorno alle mura di Aquileia chiedendo la resa della città, era tutto un rinfacciargli la sua scostumatezza, cosa che invece era ben lontana dal suo tipo di vita. [5] Poneva tale cura nel vestire, che nessuna donna al mondo era più elegante di lui. [6] È straordinario quanto fosse condiscendente verso gli amici del padre, ma al fine di poter concedere doni ed elargizioni. [7] Infatti quando riceveva il saluto si comportava con grande alterigia, porgendo la mano e lasciandosi baciare le ginocchia, talvolta persino i piedi; ciò che invece Massimino il vecchio mai tollerò, esclamando: «Gli dèi non permettano che alcun uomo libero imprima un bacio ai miei piedi!». [8] E dal momento che torniamo a parlare di Massimino il vecchio, c’è un episodio gustoso che val la pena di non tralasciare. Massimino era alto – come dicemmo70 – quasi otto piedi e mezzo: certuni deposero nel bosco sacro che si stende fra Aquileia e Arcia71 un suo calzare, un sandalo reale, che risultava in misura superare di un piede l’orma di un uomo. [9] Di lì nacque anche quel detto popolare per cui, parlando di persone alte e stupide, si dice: «un calzare di Massimino». [10] Ho aggiunto questo aneddoto perché, chi avesse a leggere Cordo, non creda che io abbia tralasciato qualche particolare inerente l’argomento. Ma torniamo al figlio. [29, 1] Su questo giovane Alessandro Aurelio72, allorché pensava di dargli in moglie la sorella Teoclia73, così scriveva a sua madre Mamea: [2] «Madre mia, se Massimino il vecchio, nostro generale – e tra i migliori –, non portasse in sé quel qualcosa di barbaro, io avrei già dato a Massimino il giovane la tua Teoclia. [3] Ma temo che mia sorella, educata alle raffinatezze greche, non sappia tollerare un suocero barbaro, quantunque paia che il giovane, dal canto suo, sia bello, colto ed educato alle raffinatezze greche. [4] Io la penso in questo modo, ma desidero tuttavia sentire il tuo parere, se preferisci come genero Massimino figlio di Massimino, oppure Messalla, di famiglia nobile, oratore di grande efficacia e ad un tempo coltissimo, e che, se il mio intuito

non sbaglia, diventerà valente, solo che vi si applichi, anche nella pratica militare». [5] Così scriveva Alessandro di Massimino. E su di lui, da parte nostra, non abbiamo nient’altro da dire. [6] Ma per non lasciare l’impressione di aver tralasciato qualcosa, ho inserito anche una lettera del padre di Massimino, quando era già divenuto imperatore, il quale afferma di aver nominato imperatore anche suo figlio perché Roma avesse a vedere, nei dipinti o nella realtà, come stava Massimino il giovane con la porpora indosso. [7] Questo era il testo della lettera: «Io ho permesso che il mio Massimino avesse il titolo di imperatore non solo per l’affetto dovuto da un padre al proprio figlio, ma anche perché il popolo romano e quel famoso antico senato potessero giurare di non aver mai avuto un imperatore più bello». [8] Il giovinetto, fra l’altro, indossava, sull’esempio dei Tolomei, una corazza d’oro, oppure d’argento, e usava uno scudo tempestato di gemme e indorato, e un’asta pure dorata. [9] Si fece fare anche spade d’argento e persino d’oro, e in genere tutto quello che potesse far risaltare la sua bellezza; si fece fare pure elmi pieni di gemme, e visiere. [10] Questo è quanto era opportuno far sapere e narrare a proposito del giovinetto. Chi vorrà conoscere il resto, in relazione ai particolari della sua vita sessuale e amatoria, con i quali Cordo lo ricopre d’infamia, vada a leggersi quest’ultimo; noi infatti concluderemo il libro a questo punto, affrettandoci a passare ad altri argomenti, come ci è imposto, per così dire, da un diritto del pubblico. [30, 1] I presagi dell’impero furono i seguenti: un serpente gli si arrotolò intorno al capo mentre dormiva. Una vite, da lui piantata, produsse nel giro di un anno enormi grappoli di uva purpurea ed ebbe una crescita straordinaria. [2] Il suo scudo prese fuoco ai raggi del sole. Una piccola asta fu colpita da un fulmine in modo tale che si spezzò in tutta la sua lunghezza – anche nella parte del ferro –, dividendosi in due parti uguali. In quell’occasione gli aruspici profetizzarono che vi sarebbero stati due imperatori dal regno non lungo, della stessa famiglia, con gli stessi nomi. [3] La corazza di suo padre apparve a moltissimi non, come avviene di solito, macchiata di ruggine, ma tutta colorata di porpora. [4] Per il figlio invece furono questi: al momento di essere affidato al maestro di grammatica, una sua parente gli donò un’edizione completa di Omero in porpora, scritta a lettere d’oro. [5] Il giovinetto stesso, essendo stato invitato a cena da Alessandro in omaggio al padre, poiché non aveva l’abito da tavola, ricevette quello dello stesso Alessandro. [6] Quando era fanciullo, vedendo arrivare all’improvviso per strada il cocchio di

Antonino Caracalla, che era vuoto, vi salì sopra e si mise a sedere, e solo con gran fatica i cocchieri riuscirono a smuoverlo di lì. [7] Né mancò chi affermò che Caracalla avrebbe dovuto guardarsi da quel bambino. Ma quello rispose: «Ce ne vuole di tempo, perché questo mi succeda!». A quell’epoca era infatti uno sconosciuto, e troppo piccolo. [31, 1] Questi furono i presagi della sua morte74: mentre Massimino muoveva assieme al figlio contro Massimo e Balbino, si fece loro incontro una donna coi capelli sciolti e vestita a lutto, esclamando: «Massimini, Massimini, Massimini», e, senza riuscire a dire di più, cadde morta; si capiva bene che avrebbe voluto dire: «Aiuto!». [2] Durante la seconda sosta, dei cani, in numero di più di dodici, si misero ad ululare attorno alla sua tenda, e spirarono con una sorta di gemito: alle prime luci dell’alba furono trovati morti. [3] Cinquecento lupi entrarono in branco in una città in cui si era rifugiato Massimino; molti dicono Emona, altri Archimea75, certamente una di quelle che, abbandonate dai loro abitanti, rimasero, all’arrivo di Massimino, alla sua mercé. [4] Sarebbe troppo lungo soffermarsi su tutti i particolari: chi desidera conoscerli, vada – come ho detto più volte – a leggersi Cordo, che ha trascritto tutte queste cose sino a favoleggiarvi sopra. [5] Non esistono loro sepolcri. Infatti i loro cadaveri vennero gettati nelle acque di un fiume, e le loro teste furono bruciate nel Campo Marzio fra gli insulti della folla. [32, 1] Scrive Elio Sabino76 – e la cosa non andava tralasciata – che tanta bellezza v’era nel volto del figlio che, anche dopo morto, il suo capo, ormai annerito, sporco, macerato, in stato di putrefazione, lasciava intravedere come la parvenza di un bel viso. [2] E così, mentre v’era grande esultanza alla vista della testa di Massimino, quasi altrettanto vivo era il dolore perché accanto veniva portata in mostra anche quella del figlio. [3] Dexippo aggiungeva che tanto grande era stato l’odio nei confronti di Massimino che, quando furono uccisi i due Gordiani, il senato creò un collegio di venti uomini77 da contrapporgli78. Fra essi c’erano Balbino e Massimo, che vennero eletti imperatori in opposizione a lui. [4] Il medesimo autore diceva inoltre che furono uccisi alla presenza di Massimino, ormai abbandonato dai soldati, il suo prefetto del pretorio e suo figlio. [5] Né mancano gli storici che sostengono come lo stesso Massimino, quando si trovò abbandonato e si vide uccidere il figlio sotto gli occhi, si diede di propria mano la morte, perché non avesse a toccargli una sorte indegna di un uomo. [33, 1] Non bisogna neppure mancare di ricordare che tanto grande fu la

fedeltà degli Aquileiesi verso il senato nella lotta contro Massimino, che, venendo a mancare i nervi degli archi per tirare le frecce, fecero delle corde utilizzando i capelli delle donne. [2] Questo si dice si fosse verificato una volta anche a Roma, e perciò il senato aveva consacrato, in onore delle matrone, un templo a Venere Calva79. [3] Una questione, infine, che non deve in nessun caso passare sotto silenzio: mentre Dexippo, Arriano80 e molti altri autori greci hanno scritto che Massimo e Balbino furono eletti imperatori per la lotta contro Massimino, ma che fu Massimo ad essere inviato con l’esercito e a condurre i preparativi della guerra nei pressi di Ravenna, e che questi non vide Aquileia se non quando la vittoria era ormai stata raggiunta81, gli autori latini sostengono che non Massimo, ma Pupieno combatté presso Aquileia contro Massimino e lo vinse. [4] Io non sono in grado di sapere donde sia nata questa confusione, a meno che Pupieno e Massimo non siano la stessa persona82. [5] Di questo ho voluto parlare esplicitamente, perché qualcuno non avesse a pensare che io ignori la cosa, che, per il vero, sorprende non poco per la sua stranezza.

1. Vir clarissimus era titolo attribuito ai personaggi più elevati dello Stato, e in particolare, nel corso del tardo impero, ordinariamente portato dai senatori. Cfr. Av. Cass., 1, 1, n. 1. 2. Personaggio non altrimenti conosciuto. 3. C. Giulio Vero Massimino, detto il Trace. La sua biografia (unita a quella del figlio), così come le successive dei due Gordiani e di Massimo e Balbino, sono in gran parte derivate da ERODIANO, lo storico greco contemporaneo di Massimino e a lui sfavorevole. 4. Stando alla notizia fornitaci dall’erudito bizantino ZONARA (XII, 16), secondo la quale al momento della sua morte aveva 65 anni, Massimino sarebbe nato nel 173 d. C. 5. Sugli Alani cfr. la n. 6 ad Ant. Pius, 5, 5. 6. Il problema dell’origine dell’imperatore Massimino è stato molto discusso in questi ultimi decenni. Certamente egli era originario della Tracia, come è attestato, oltre che dalla nostra Vita (I, 5), anche da ERODIANO (VI, 8, 1) e dall’Epitome de Caesaribus (25, 1). Il nostro biografo, però, parla anche di una nascita avvenuta da padre goto e madre alana, di cui vengono espressamente citati i nomi (tradizione, questa, ripresa poi dallo storico del VI secolo GIORDANE: cfr. Get., XV, 83); per la verità in ERODIANO compare l’aggettivo μιξοβάρβαρος che, alla lettera, potrebbe alludere a mescolanza di stirpi, e aver dato così origine alla notizia della Vita, collegata a una tradizione forse presente anche nell’altra fonte greca rappresentata da DEXIPPO (per noi perduta). Ma è pure possibile che il biografo abbia qui ampliato il valore del termine greco – il cui esatto significato è pure dibattutto – che potrebbe anche semplicemente equivalere a «mezzo barbaro» in relazione al luogo d’origine (cfr. 2, 5 semibarbarus; sulla complessa questione cfr. A. BELLEZZA, Massimino il Trace, Genova, 1964, pp. 7-35, cui rimandiamo anche per l’ampia bibliografia sull’argomento). Del resto la HA tende chiaramente a rappresentare Massimino come la figura tipica del barbaro che, grazie a circostanze favorevoli e alla sua carriera militare, è assurto alla dignità imperiale; per un’analisi del ritratto che la Vita offre del personaggio in questa ottica particolare cfr. J. BURIAN, Der Gegensatz zwischen Rom und den Barbaren in der HA, «Eirene», XV, 1977, pp. 60 segg. 7. A parere di Y. DE KISCH, Sur quelques omina imperii dans l’HA, «Rev. ét. lat.», LI, 1973, pp. 194 seg., questo aneddoto sulla giovinezza di Massimino troverebbe la sua fonte in un episodio di stampo analogo narrato da LIVIO (I, 4, 9) a proposito del giovane Romolo e potrebbe così costituire un singolare omen imperii. 8. Come soldato privato, secondo quanto ci attesta anche ERODIANO (VI, 8, 1). 9. L’aneddoto attinente alle prodezze compiute dal giovane Massimino al cospetto di Settimio Severo, ci è riportato anche da GIORDANE nel suo De rebus Geticis (XV, 83), citando come propria fonte Aurelio Memmio Simmaco, il quale, con tutta probabilità, attingeva a questa Vita. 10. Unità di misura per i liquidi, corrispondente a poco più di 20 litri. L’esemplare che fungeva da modello si conservava sul Campidoglio. 11. Cfr. Cl. Alb., 5, 10, n. 2. 12. Il fiume cui qui si allude è il Danubio. 13. La striscia larga di porpora sulla tunica, segno distintivo dei senatori (cfr. Al. Sev., 21, 4, n. 4). La notizia qui riportata è inesatta, in quanto da 8, 1 e EUTROPIO, IX, 1 risulta che Massimino, quando salì al potere, non era ancora senatore. Per un homo novus due erano le possibili procedure attraverso le quali poteva essere ammesso nel senato; prima dei ventinove anni quella comune era il conferimento, da parte dell’imperatore, del latus clavus, che faceva entrare il personaggio nell’ordine senatorio ancora all’inizio della sua carriera (e costui poteva – a seconda dell’età – o esercitare le cariche preliminari dell’ordine senatorio, cioè il vigintivirato e il tribunato laticlavio in una legione, oppure direttamente farsi eleggere alla questura, magistratura che lo introduceva nell’assemblea stessa). Se entro i ventinove anni questa

opportunità non era stata colta, rimaneva la possibilità di usufruire più tardi – ma questo specialmente per i cavalieri, quando la loro carriera nell’ordine d’origine era già a un grado assai avanzato – dell’altro procedimento, quello dell’adlectio, che permetteva di accedere d’un sol colpo al senato ad un rango corrispondente a quello di ex questore o ex tribuno o ex pretore. Su queste questioni e sul modo in cui si configurano di volta in volta nel corso dell’opera cfr. A. CHASTAGNOL, Latus clavus et adlectio dans l’HA, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 107 segg. 14. Nel 234 d. C. 15. L’identificazione di questa «quarta legione» è problematica. Secondo il MAGIE (II, p. 323, n. 1) si tratterebbe della legio IV Flavia, stanziata nella Mesia Superiore, ma è difficile ammettere che essa fosse formata di sole reclute. 16. La notizia è da confrontare con 28, 8, dove l’altezza di Massimino è valutata pedum octo et prope semis (il digitus era pari a 1/16 del piede). In ogni caso siamo sempre su una misura che oscillerebbe all’incirca tra i m. 2,40 e i 2,50 (un piede equivale a m. 0,296). 17. Era un atleta famoso per la sua forza eccezionale. 18. Il mitico gigante, figlio di Nettuno e della Terra, che fu ucciso da Ercole. 19. Questo appare inesatto: Massimino ebbe infatti soltanto il comando delle reclute dell’esercito di stanza sul Reno (cfr. Al. Sev., 59, 7 e ERODIANO, VI, 8, 2). 20. Probabilmente Magonza; cfr. Al. Sev., 59, 6, n. 2. 21. Mitico re d’Egitto che immolava gli stranieri che capitavano nel suo regno. 22. Famoso predone che viveva sugli scogli tra la Megaride e l’Attica; finì ucciso da Teseo. 23. Tiranno di Agrigento, che faceva morire i suoi nemici bruciati dentro un grande toro di bronzo. 24. Detto anche Tifeo: un gigante ucciso da Zeus con un fulmine mentre tentava di dare la scalata al cielo, e sepolto sotto l’Etna. 25. Sui rapporti tra Massimino e il senato cfr. A. LIPPOLD, Der Kaiser Maximinus Thrax und der römische Senat (Interpretationen zur vita der Maximini duo), in BHAC, 1966-67, Bonn, 1968, pp. 73 segg. 26. Spartaco era il gladiatore trace protagonista del bellum servile, la rivolta dei gladiatori contro Roma nel 73 a. C.; Atenione era un pastore cilicio che, nella seconda guerra servile di Sicilia (102 a. C.), si pose alla testa degli schiavi sollevati; il richiamo e l’accostamento dei due nomi doveva essere quasi d’uso: cfr. CICERONE, De har. resp. 26: Athenionis aut Spartaci exemplo. L’autore sembra quasi compiacersi di sottolineare come nel governo del «barbaro» Massimino si concentrassero le caratteristiche di rozzezza e crudeltà proprie di altri personaggi della stessa origine. A parere di J. BURIAN, Der Gegensatz cit., p. 96, i barbari costituiscono per la HA soprattutto un problema di politica interna, per il pericolo che comporta la loro utilizzazione nell’esercito e particolarmente per l’influenza nefasta che personalità forti di origine barbara potrebbero esercitare nell’amministrazione militare e politica. 27. Si tratta forse del C. Petronius Magnus patronus e clarissimus vir dell’Albo di Canusio del 223 d. C. (cfr. CIL, IX, 338, 1, 15; l’identificazione è del MOMMSEN). 28. Anche ERODIANO, che dà un racconto molto simile della congiura (cfr. VII, 1, 48), avanza il dubbio che questa possa in realtà essere stata un’invenzione di Massimino. 29. Cfr. Al. Sev., 61, 8, n. 1. 30. Si veda la biografia di questo personaggio in Tyr. trig., 32. Stando al racconto di ERODIANO (VII, 1, 9-10), il capo della congiura era invece un ex console di nome Quartino. È da ritenere che si tratti in realtà del medesimo personaggio, di cui la HA ricorderebbe il praenomen, lo storico greco invece il nomen. 31. L’esercito romano sembra aver percorso un itinerario a nord di Magonza; lo scontro finale sarebbe avvenuto nel Württenberg o, secondo altri, in Vestfalia (sui problemi relativi all’itinerario seguito da Massimino cfr. BELLEZZA, Massimino cit., pp. 102 segg.).

32. Anche ERODIANO riferisce che Massimino diede comunicazione delle sue vittorie sui Germani al senato e al popolo, ma la sottolineatura del § 9 è opera del biografo. Cfr. sul passo A. LIPPOLD, Der Kaiser Maximinus cit., p. 81. 33. Città della Pannonia inferiore, nei pressi dell’odierna Mitrowitz (Jugoslavia). 34. Cfr. ERODIANO, VII, 2, 9. 35. L‘affermazione del biografo sulla parzialità di ERODIANO a favore di Massimino non pare in alcun modo fondata. 36. Gordiano I. Il racconto della rivolta africana ritorna molto simile nella Vita dei Gordiani tres a 710, dove però è meno dettagliato; entrambi derivano evidentemente da ERODIANO (cfr. VII, 4-7). 37. Sul valore del termine rationalis cfr. Al. Sev., 45, 6, n. 3. 38. Gordiano 11. 39. Città a circa 175 km. a sud-est di Cartagine (l’odierna El Djem in Tunisia). 40. Vitaliano era stato ucciso dal questore e dai soldati che Gordiano aveva mandato a Roma con il suo messaggio per il senato: cfr. Gord., 10, 5-8 e ERODIANO, VII, 6, 5-9. 41. Così venivano anche chiamati i Dioscuri (Castore e Polluce): cfr. SERVIO, ad Verg. Georg. III, 89 ambo licenter et Polluces et Castores vocantur. Il loro tempio, costruito nel 484 a. C. e più volte rifatto, sorgeva nella parte meridionale del Foro. 42. Dell’anno 238 d. C. Sulla data cfr. Max. Balb., 1, 1, n. 2. 43. Allusione alla proverbiale slealtà (perfidia) dei Cartaginesi: cfr. LIVIO, XXI, 4, 9. 44. Secondo una versione più tarda del mito, accreditata dal partito dei populares, Romolo sarebbe stato un re straniero, assassinato dai senatori intolleranti del suo governo assoluto (cfr. LIVIO, I, 16, 4; DIONIGI DI ALIC, Ant. Rom., II, 56; APPIANO, Bell, civ., II, 114; PLUTARCO, Rom., 27). Nel corso della HA compare anche l’altra e più comune versione, che vede in Romolo il fondatore di Roma (cfr. Car., 2, 2). Cfr. sull’argomento H. SZELEST, Die HA und die frühere Römische Geschichte, «Eos», LXV, 1977, p. 144. 45. M. Clodio Pupieno Massimo; se ne veda la biografia in Max. Balb., 5-6. 46. D. Celio Calvino Balbino; se ne veda la biografia in Max. Balb., 7. 47. Il futuro Gordiano III. 48. Nel racconto di ERODIANO (VII, 10,5 – 12,4) vengono ben definiti due distinti tumulti: il primo che portò all’attribuzione del titolo di Cesare al giovinetto Gordiano, il secondo (dopo la partenza di Massimo) che fu il risultato dell’azione dei due senatori Gallicano e Mecenate, che incitarono la popolazione ad attaccare i pretoriani. Sul modo confuso e poco coerente con cui dalla HA (in questa e nelle Vitae dei Gordiani tres e di Maximus et Balbinus) vengono utilizzati i dati offerti dalla fonte principale – che, come è noto, è qui appunto lo storico greco – cfr. F. KOLB, Literarische Beziehungen zwischen Cassius Dio, Herodian und der HA, Bonn, 1972, pp. 8-24, e la bibliografia ivi citata. 49. L’odierna Lubiana. 50. Questa seconda versione è attestata in ERODIANO, VIII, 1, 4. 51. Menofìlo e Crispino erano stati inviati dal senato ad Aquileia per organizzare la difesa della città; cfr. Max. et Balb., 12, 2 e ERODIANO, VIII, 2,5. 52. Una divinità venerata nella Carnia e nell’Istria; come appare subito dopo (cfr. anche ERODIANO, VIII, 3, 8), essa doveva essere spesso assimilata ad Apollo. 53. L’Isonzo. 54. Il particolare è ricordato anche da ERODIANO, VIII, 5, 8; l’allusione appare essere senz’altro ai soldati della II legione Partitica i quali, trovandosi ordinariamente di stanza ad Albano, avevano anche i loro famigliari in Italia (cfr. BELLEZZA, Massimino cit., p. 193). Per il collegamento tra la legio II Partitica e Albano cfr. Carac., 2, 7, n. 4. 55. Un’altra versione dell’assassinio è a 32, 5.

56. Il riferimento va specialmente ai soldati della Tracia e della Pannonia, che lo avevano proclamato imperatore (cfr. ERODIANO, VII, 6, 1). 57. Si noti l’anacoluto; cfr. M. HALLÉN, In ShA studia, Uppsala 1941, p. 51. 58. In realtà queste truppe lo accompagnarono a Roma: cfr. Max. Balb., 13, 5. 59. L’ecatombe era propriamente il sacrificio di cento buoi, ma le vittime potevano essere anche altri animali; cfr. Max. Balb., 11, 5 segg. 60. Altrimenti sconosciuto. 61. Il suo nome esatto, quale risulta dalle monete e iscrizioni in cui compare, era C. Iulius Verus Maximus. L’errata forma Maximinus è presente anche in AURELIO VITTORE, Caes., 25, 2. 62. Altrimenti sconosciuto. 63. VIRGILIO, Aen., VIII, 589, 591 (i versi si riferiscono a Pallante, figlio di Evandro). Il verso successivo non appartiene all’Eneide. 64. Altrimenti sconosciuto, come l’Eugamio ricordato più sotto. 65. Forse il giurista Erennio Modestino. 66. Citato da AUSONIO, Grat. actio, VII, 31 nel corso di una lista di tutori imperiali. 67. Probabilmente Giulio Tiziano; i provinciarum libri qui citati corrispondono forse alla Chorographia attribuitagli da SERVIO, ad Aen., IV, 42. 68. Cfr. SIDONIO APOLLINARE, Epist., 1, 1, 2, ove Tiziano è definito ora-torum simia. 69. Altrimenti sconosciuta. 70. Cfr. 6, 8, n. 1. 71. Località a noi sconosciuta. 72. Cioè Alessandro Severo. 73. Anche dell’esistenza di costei non abbiamo altre attestazioni. 74. Cfr. B. MOUCHOVÁ, Omina mortis in der HA, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 144 segg. 75. Località a noi sconosciuta. Forse una città nei pressi di Aquileia, a meno che il nome in questione non derivi – come suggerisce R. SYME, Ammianus and the HA, Oxford, 1968, p. 174, n. 8 – da un fraintendimento o distorsione del nome di Emona (cfr. 21, 1, n. 2) quale appare in ERODIANO, VIII, 1, 4 (Ἡμᾶν). 76. Altrimenti sconosciuto. 77. La storicità della Commissione dei XX viri è confermata innanzitutto dalle testimonianze epigrafiche (cfr. CIL, XIV, 3902; XIII, 6763), nonché dal racconto di ZOSIMO (I, 14, 2); ad essa sembra alludere anche AURELIO VITTORE (Caes., 26, 7), mentre ERODIANO non ne fa cenno alcuno; cfr. sull’argomento BELLEZZA, Massimino cit., pp. 160 segg. 78. In realtà la costituzione della Commissione dei XX viri risaliva già al momento della deposizione di Massimino e del riconoscimento dei due Gordiani. Cfr. Gord., 10, 1-2; 22, 1. 79. Il templo di Venere Calva è ricordato da LATTANZIO, Inst., I, 20, 27. L’origine del nome non è però affatto sicura, anche se tra le varie leggende ricordate da SERVIO, ad Verg. Aen., I, 720 a questo proposito, una coincide con la circostanza qui riferita (il fatto in questione sarebbe avvenuto al tempo dell’assedio del Campidoglio da parte dei Galli nel 382 a. C). 80. Si tratta di un errore per «Erodiano» (ARRIANO era pur egli uno storico greco, ma, in quanto morto nel 175 d. C., non poteva aver narrato gli avvenimenti qui ricordati) che ricorre anche a Gord., 2, 1 e Max. Balb., 1, 2. 81. Cfr. Max. Balb., 12, 3. 82. Si tratta realmente della stessa persona. In AURELIO VITTORE ed EUTROPIO il personaggio è sempre chiamato Pupienus (cfr. rispettivamente Caes., 26-27 e IX, 2). Nella HA, nel corso della vita di Massimo e Balbino, ricorrono entrambi i nomi; il biografo vi appare a volte convinto della identificazione, a volte in

qualche misura dubbioso. Sotto la denominazione Latini scriptores si nasconde verosimilmente la fonte comune alla HA e agli altri due storici del IV secolo (sulla Kaisergeschichte ipotizzata dallo Enmann cfr. Introduzione, pp. 31 seg.).

XX. GORDIANI TRES 〈IULI CAPITOLINI〉

I TRE GORDIANI di GIULIO CAPITOLINO

[1, 1] Fuerat quidem consilium, venerabilis Auguste, ut singulos quosque imperatores exemplo multorum libris singulis ad tuam clementiam destinarem. [2] Nam id multos fecisse vel ipse videram vel lectione conceperam. [3] Sed inprobum visum est vel pietatem tuam multitudine distinere librorum vel meum laborem plurimis voluminibus occupare. [4] Quare tres Gordianos hoc libro conexui, consulens et meo labori et lectioni tuae, ne cogereris plurimos codices volvendo unam tamen paene historiam lectitare. [5] Sed ne ego, qui longitudinem librorum fugi multitudinemque verborum, in eam incurrisse videar, quam me urbane declinare confìngo, iam rem adgrediar1. [2, 1] Gordiani non, ut quidam inperiti scriptores locuntur, duo sed tres2 fuerunt, idque docente Arriano3, scriptore Graecae historiae, docente item Dexippo4, Graeco auctore, potuerunt addiscere, qui etiamsi breviter, ad fidem tamen omnia persecuti sunt. [2] Horum Gordianus senior5, id est primus, natus est patre Maecio Marullo, matre Ulpia Gordiana, originem paternam ex Gracchorum6 genere habuit, maternam ex Traiani imperatoris, patre, avo, proavo consulibus, socero, prosocero et item alio prosocero et duobus absoceris consulibus, [3] ipse consul ditissimus ac potentissimus, Romae Pompeianam domum7 possidens, in provinciis tantum terrarum habens quantum nemo privatus. [4] Is post consulatum, quem egerat cum Alexandro8, ad proconsulatum Africae missus est ex senatus consulto. [3, 1] Sed priusquam de imperio eius loquar, dicam pauca de moribus: [2] adulescens cum esset Gordianus, de quo sermo est, poemata scripsit, quae omnia extant, et quidem cuncta illa quae Cicero, et de Mario et Arathum et Halcyonas et Uxorium et Nilum9. Quae quidem ad hoc scripsit, ut Ciceronis poemata nimis antiqua viderentur. [3] Scripsit praeterea, quemadmodum Vergilius Aeneidos et Statius10 Achilleidos et multi alii Alexandridos, ita etiam ille Antoniniados, hoc est Antoninum Pium et Antoninum Marcum, versibus disertissimis libris triginta vitam illorum et bella et publice privatimque gesta perscribens. [4] Et haec quidem puerulus. Postea vero ubi adolevit, in Athenaeo11 controversias declamavit, audientibus etiam imperatoribus suis. [5] Quaesturam magnificentissimam gessit. Aedilitatis suae tempore duodecim populi Romani munera, id est per singulos menses singula de suo exhibuit, ita ut gladiatorum nonnumquam quingena paria exhiberet, numquam minus centenis quinquagenis. [6] Feras Libycas12 una die centum

exhibuit, ursos una die mille. Extat silva eius memorabilis, quae picta est in domo rostrata Cn. Pompei, quae ipsius et patris eius et proavi fuit, quam Philippi13 temporibus vester fiscus invasit. [7] In qua pictura etiam nunc continentur cervi palmati ducenti mixtis Brittannis, equi feri triginta, oves ferae centum, alces decem, tauri Cypriaci centum, strutiones Mauri miniati trecenti, onagri14 triginta, apri centum quinquaginta, ibices ducenti, dammae ducenti. [8] Haec autem omnia populo rapienda concessit die muneris, quod sextum edebat. [4, 1] Praeturam nobilem gessit. Post iuris dictionem consulatum primum iniit cum Antonino Caracallo, secundum cum Alexandro15. [2] Filios duos habuit, illum consularem, qui cum ipso Augustus appellatus est, qui iuxta Carthaginem in Africa bello absumptus est, et filiam Maeciam Faustinam, quae nupta est Iunio Balbo, consulari viro. [3] In consulatibus clarior fuit sui temporis consulibus, ita ut ei Antoninus invideret, modo praetextas16 eius, modo latum {clavum}17, modo circenses ultra imperatorium mirans modum. [4] Palmatam tunicam18 et togam pictam19 primus Romanorum privatus suam propriam habuit, cum ante imperatores etiam vel de Capitolio acciperent vel de Palatio. [5] Equos Siculos centum, Cappadoces centum permittentibus imperatoribus factionibus divisit, et per haec populo satis carus, qui semper talibus commovetur. [6] Cordus dicit in omnibus civitatibus Campaniae, Etruriae et Umbriae, Flaminiae20, Piceni21 de proprio illum per quadriduum ludos scaenicos et iuvenalia22 edidisse. [7] Scripsit et laudes soluta oratione omnium Antoninorum, qui ante eum fuerunt. Tantum autem Antoninos dilexit, ut sibi quoque, ut multi dicunt, Antonini, ut plerique autem adserunt, Antonii nomen adscripserit. [8] Iam illud satis constat, quod filium, Gordianum nomine, Antonini signo inlustraverit, cum apud praefectum aerarii more Romano professus filium publicis actis eius nomen insereret23. [5, 1] Post consulatum proconsul Africae factus est adnitentibus cunctis, qui Alexandri imperium etiam in Africa clarum per proconsulis dignitatem haberi atque esse voluerunt. [2] Extat epistola ipsius Alexandri, qua senatui gratias agit, quod Gordianum ad Africam proconsulem destinaverit. [3] Cuius hoc exemplum est: «Neque gratius mihi quicquam, p. c., neque dulcius potuistis efficere, quam ut Antoninum24 Gordianum proconsulem ad Africam mitteretis, virum nobilem, magnanimum, disertum, iustum, continentem, bonum» et reliqua. [4] Ex quo apparet, quantus vir eo tempore Gordianus fuerit. [5] Amatus est ab Afris ita, ut nemo antea proconsulum, ita ut eum alii

Scipionem, Catonem alii, multi Mucium25 ac Rutilium26 aut Laelium27 dicerent. [6] Extat eorum adclamatio, quae a Iunio28 in letteris relata est. [7] Nam cum quadam die factum imperatorium legeret atque a proconsulibus Scipionibus coepisset, adclamatum est: «Novo Scipioni, vero Scipioni, Gordiano proconsuli». Haec et alia frequenter audivit. [6, 1] Et erat quidem29 longitudine Romana, canitie decora et pompali vultu, ruber magis quam candidus, facie bene lata, oculis, ore, fronte verendus, corporis qualitate subcrassulus, [2] moribus ita moderatus, ut nihil possis dicere, quod ille aut cupide aut inmodeste aut nimie fecerit. [3] Affectus suos unice dilexit, filium et nepotem ultra morem, filiam et neptem religiose. [4] Socero suo Annio Severo30 tantum detulit, ut in familiam eius quasi filium migrasse se crederet, numquam cum eo laverit, numquam illo praesente sederit ante praeturam. [5] Consul cum esset, aut in domo eius semper mansit aut, si in Pompeiana domo, ad illum vel mane vel sero processit. [6] Vini parcus, cibi parcissimus, vestitu nitidus, lavandi cupidus, ita ut et quarto et quinto in die lavaret aestate, hieme secundo. [7] Somni plurimi, ita ut in tricliniis, si forte apud amicos ederet, etiam sine pudore dormiret. Quod videbatur facere per naturam, non per ebrietatem atque luxuriem. [7, 1] Sed boni mores nihil ei profuerunt. Hac enim vita venerabilis, cum Platone semper, cum Aristotele, cum Tullio, cum Vergilio ceterisque veteribus agens alium quam merebatur exitum passus est. [2] Nam cum temporibus Maximini, hominis saevi atque truculenti, pro consule Africam regeret, iam ex consulibus {filio} sibimet legato a senatu dato, cumque quidam rationalis31 acrius contra plurimos Afrorum saeviret quam Maximinus ipse pateretur, proscribens plurimos, interficiens multos et sibi ultra procuratorem omnia vindicans, retunsus deinde a proconsule atque legato nobilibus et consularibus viris ipsis minaretur excidium, Afri tam insolentes iniurias ferre nequiverunt et primum ipsum rationalem adiunctis sibi plerisque militibus occiderunt. [3] Occiso deinde eo, cum iam orbis terrarum odio contra Maximinum arderet, coeperunt cogitare, quemadmodum seditio inter Maximinianos et rusticos vel Afros orta placaretur. [4] Tunc quidam Mauricius nomine, potens apud Afros decurio32, iuxta Tysdrum33 nobilissima posthac oratione apud plebem vel urbanam vel rusticanam in agro suo velut contionabundus est locutus34: [8, 1] «Gratias diis inmortalibus, cives, quod occasionem dederunt, et quidem necessariam, providendi nobis contra hominem furiosissimum Maximinum. [2] Nos enim, qui procuratorem eius moribus et vitae

consimilem occidimus, nisi facto imperatore salvi esse non possumus. [3] Quocirca, si placet, quoniam non longe est nobilissimus vir pro consule cum filio, consulari legato, quorum utrique mortem pestis illa est minata, sublata de vexillis purpura imperatores eos dicemus adhibitisque insignibus Romano iure fìrmabimus». [4] Tunc adclamatum est: «Aequurn est, iustum est. Gordiane Auguste, di te servent. Feliciter imperator es, cum filio imperes». [5] His actis propere ventum est ad oppidum Tysdrum, inventusque senex venerabilis post iuris dictionem iacens in lectulo, qui circumfusus purpura humi se abiecit ac retrectans elevatus est. [6] Et cum aliud facere nihil posset, evitandi periculi gratia, quod Maximinianis necessario, fautoribus dubie imminebat, imperatorem se appellari senex passus est. [9, 1] Erat autem iam octogenarius et plurimis provinciis, ut diximus, ante praefuerat; populo Romano ita commendatus suis actibus erat, ut toto dignus videretur imperio. [2] 〈De ration〉ali quidem occiso Gordianus ante nescierat. Sed ubi rem conperit, iam mortis vicinus et filio magis timens, maluit honestas causas habere moriendi quam dedi vinculis et carceri Maximini. [3] Appellato igitur Gordiano imperatore iuvenes, qui auctores huius facinoris erant, statuas Maximini deiecerunt, imagines perfregerunt, nomen publicitus eraserunt, ipsum etiam Gordianum Africanum appellaverunt. [4] Addunt quidam Africani cognomentum Gordiano idcirco inditum, non quod in Africa imperare coepisset, sed quod de Scipionum35 familia originem traheret. [5] In plurimis autem libris invenio et hunc Gordianum et filium eius pariter imperatores appellatos et Antoninos cognominatos, alii vero Antonios. [6] Post hoc Carthaginem ventum cum pompa regali et fascibus laureatis, filiusque legatus patris, exemplo Scipionum36, ut Dexippus Graecae historiae 〈scriptor〉 auctor est, pari potestate succinctus est. [7] Missa deinceps legatio Romam est cum litteris Gordianorum haec, quae gesta fuerant in Africa, indicans, quae per Valerianum, principem senatus, qui postea imperavit, gratanter accepta est. [8] Missae sunt et ad amicos nobiles litterae, ut homines potentes et rem probarent et amiciores fierent ex amicis. [10, 1] Sed tanta gratulatione factos contra Maximinum imperatores senatus accepit, ut non solum gesta haec probarent sed etiam viginti viros37 eligerent, inter quos erat Maximus sive Puppienus38 et Clodius Balbinus39. Qui ambo imperatores sunt creati, posteaquam Gordiani duo in Africa interempti sunt. [2] Illos sane viginti senatus ad hoc creaverat, ut divideret his Italicas regiones contra Maximinum pro Gordianis tuendas. [3] Tunc legationes a Maximino Romam venerunt abolitionem praeteritorum spondentes. [4] Sed

vicit Gordianorum legatio, quae bona omnia pollicebatur, ita ut eidem crederetur et ingens militibus stipendium et populo agros atque congiaria promittenti. [5] Usque adeo autem magis Gordianis quam[quam] Maximinis est creditum, ut Vitalianus quidam, qui praetorianis militibus praeerat, per audacissimos quaestorem et milites iussu senatus occideretur, quod se antea crudeliter egerat, et tunc eius magis inmanitas timebatur, amica et familiaris moribus Maximini. [6] De cuius morte haec tabella fertur. Fictae sunt litterae Maximini, signatae quasi eiusdem anulo, et missi cum quaestore milites, qui eas ferrent, addentes quaedam praeter litteras secreto esse dicenda. [7] Longam igitur porticum petiverunt, et cum ille ea, quae sibi erant secreto dicenda, perquireret, hortantibus, ut prius signum inspiceret epistolae, dum considerat, interemptus est. [8] Persuasimi deinde est militibus iussu Maximini Vitalianum interemptum. Peractisque rebus in castris Gordianorum et litterae et vultus sunt propositi. [11, 1] Interest, ut senatus consultum40, {quo} Gordiani imperatores appellati sunt et Maximinus hostis, litteris propagetur : [2] non legitimo sed indicto senatus die consul iam domi conventus cum praetoribus, aedilibus et tribunis plebis venit in curiam. [3] Praefectus urbi, cui nescio quid redoluerat et qui publicas litteras non acceperat, a conventu se abstinuit. Sed profuit, nam consul ante solitas adclamationes, priusquam aliquid in Maximinum feliciter diceretur, ait: [4] «P. c., Gordiani duo, pater et fìlius, ambo ex consulibus, unus vester pro consule, alter vester legatus, magno Afrorum consilio imperatores sunt appellati. [5] Gratias igitur agamus Tysdritanae iuventuti, gratias Carthaginensi populo semper devoto: ab inmani nos belua, ab illa fera vindicaverunt. [6] Quid timide auditis? Quid circumspicitis? Quid cunctamini? Hoc est quod semper optastis. [7] Hostis est Maximinus: dii facient, ut esse iam desinat, et Gordiani senis felicitatem atque prudentiam, iuvenis virtutem atque constantiam laeti experiamur». [8] Post haec litteras legit Gordianorum ad senatum et ad se missas. [9] Tunc adclamavit senatus: «Dii vobis gratias. Liberati ab hostibus sumus: sic penitus liberemur. Maximinum hostem omnes iudicamus. Maximinum cum filio dis inferis devovemus. [10] Gordianos Augustos appellamus. Gordianos principes agnoscimus. Imperatores de senatu dii conservent, imperatores nobiles victores videamus, imperatores nostros Roma videat. Hostes publicos qui occiderit, praemium meretur». [12, 1] Dicit Iunius Cordus istud senatus consultum {tacitum} fuisse41. Quod quale sit aut quare sic appellatum, brevi exponam: [2] omnino

exemplum senatus consulti taciti non aliud est hodie, quam quo vestra clementia convocatis ad interiora maioribus ea disponit, quae non sunt omnibus publicanda; de quibus adiurare etiam soletis, ne quis ante rem conpletam quicquam vel audiat vel intellegat. [3] Hunc autem morem apud veteres necessitates publicae reppererunt, ut, si forte aliqua vis ab hostibus inmineret, quae cogeret vel humilia captare consilia vel aliqua constituere, quae non prius oporteret dici quam effici, vel si nollent ad amicos aliqua permanare, senatus consultum tacitum fìeret, ita ut non scribae, non servi publici, non censuales42 illis actibus interessent, senatores exciperent, senatores omnium officia censualium scribarumque conplerent, ne quid forte proderetur. [4] Factum est ergo senatus consultum tacitum, ne res ad Maximinum perveniret. [13, 1] Sed statim ille, ut se habent hominum mentes, eorum dumtaxat qui erubescunt per se ea non agnosci, quae sciunt, et qui humiles se putant, si commissa non prodant, omnia comperit Maximinus, ita ut exemplum senatus consulti taciti acciperet, quod numquam antea fuerat factitatum. [2] Extat denique eius epistola ad praefectum urbi talis: «Senatus consultum tacitum nostrorum illorum principum legi, quod tu, praefectus urbi, factum esse fortasse non nosti, nam nec interfuisti. Cuius exemplum ad te misi, ut scires, quomodo Romanam rem p. regeres». [3] Enarrari autem non potest, quae commotio fuerit Maximini, cum audivit contra se Africam descivisse. [4] Nam senatus auctoritate percepta incurrere in parietes, vestem scindere, gladium arripere, quasi omnes posset occidere, prorsus furere videbatur. [5] Praefectus urbi acceptis litteris acrioribus populum et milites adlocutus est, dicens Maximinum iam occisum. [6] Ex quo gaudium maius fuit, statimque deiectae sunt statuae atque imagines eius, qui hostis fuerat iudicatus. [7] Usus est sane senatus pendente bello potestate, qua debuit. Nam delatores, calumniatores, procuratores et omnem illam faecem Maximinianae tyrannidis occidi iussit. [8] Atque parum fuit quod senatus iudicaverat, illud populi iudicium fuit, quod occisi tracti sunt et in cloacam missi. [9] Tunc et praefectus urbi Sabinus, consularis iam vir, fuste percussus occisus et in publico derelictus est. [14, 1] Haec ubi comperit Maximinus, statim cohortatus est milites hoc genere contionis43: «Sacrati conmilitones, immo etiam mi consecranei et quorum mecum plerique vere militatis, dum nos a Germania Romanam defendimus maiestatem, dum nos Illyricum a barbaris vindicamus, Afri fidem Punicam44 praestiterunt. [2] Nam duos nobis Gordianos, quorum alter senio ita fractus est, ut non possit adsurgere, alter ita luxurie perditus, ut debilitatem

habeat pro senectute, imperatores fecerunt. [3] Et ne hoc parum esset, factum Afrorum nobilis ille senatus agnovit, et pro quorum liberis arma portamus, hi contra nos viginti viros statuerunt et omnes velut contra hostes sententias protulerunt. [4] Quin immo agite, ut viros decet: properandum est ad urbem. Nam et viginti viri consulares contra nos lecti sunt, quibusque resistendum est nobis fortiter agentibus, vobis feliciter dimicantibus». [5] Lentas militum mentes et non alacres animos hac contione et Maximinus ipse cognovit. [6] Denique statim ad filium scripsit, qui longe post sequebatur, ut adceleraret, ne quid contra eum se absente milites cogitarent. [7] Litterarum exemplum tale Iunius Cordus edidit: «Refert ad te stipator meus Tynchanius, quae gesta cognovi vel in Africa vel Romae, refert, quae sint militum mentes. [8] Quaeso, quantum potes, properes, ne quid, ut solet, militaris turba plus faciat. Quid verear, ex eo audies, quem ad te misi». [15, 1] Dum haec aguntur, in Africa contra duos Gordianos Capelianus45 quidam, Gordiano et in privata vita semper adversus et ab ipso imperatore iam, cum Mauros Maximini iussu regeret veteranus, dimissus, conlectis Mauris et tumultuaria manu accepto a Gordiano successore Carthaginem petit, ad quem omnis fide Punica Carthaginiensium populus inclinavit. [2] Gordianus tamen fortunam belli experiri cupiens filium suum iam natu grandiorem, quadraginta et sex annos agentem, quem tunc legati loco, ut diximus, habuerat, contra Capelianum et Maximinianos misit, virum de cuius moribus suo loco dicemus46. [3] Sed cum in re militari et Capelianus esset audacior et Gordianus iunior non tam exercitatus, quippe qui nobilitatis deliciis tardaretur, pugna commissa vincitur et in eodem bello interfìcitur. [16, 1] Fertur autem tanta multitudo Gordiani partium in bello cecidisse, ut, cum diu quaesitum sit corpus Gordiani iunioris, non potuerit inveniri. [2] Fuit praeterea ingens, quae raro in Africa est, tempestas, quae Gordiani exercitum ante bellum ita dissipavit, ut minus idonei milites proelio fierent, atque ita facilis esset Capeliani victoria. [3] Haec ubi comperit senior Gordianus, cum in Africa nihil praesidii et a Maximino multum timoris et fides Punica perurgueret, et acerrime Capelianus instaret, luctus deinde mentem atque animum fatigaret, laqueo vitam finivit. [4] Hic exitus duorum Gordianorum fuit47, quos ambos senatus Augustos appellavit et postea inter divos rettulit. GORDIANUS IUNIOR

[17, 1] Hic Gordiani senis, proconsulis Africae, filius, qui cum patre et ab Afris et a senatu Augustus appellatus est, litteris et moribus clarus fuit praeter nobilitatem, 〈quam〉, ut nonnulli, ab Antoninis, ut plurimi, ab Antoniis duxit. [2] Si quidem argumento ad probandam generis qualitatem alii hoc esse edisserant, quod Africanus Gordianus senior appellatus est cognomine Scipionum48, quod domum Pompeianam49 in urbe habuit, quod Antoninorum cognomine semper est nuncupatus, quod Antonium filium suum ipse significari voluit in senatu: quae singulas videntur familias designare. [3] Sed ego Iunium Cordum sequor, qui dicit ex omnibus his familiis Gordianorum coaluisse nobilitatem. [4] Idem igitur natus patri primus ex Fabia Orestilla50, Antonini pronepte, unde Caesarum quoque familiam contingere videbatur. [5] Et primis diebus sui natalis Antoninus est appellatus, mox in senatu Antonii nomen est editum, vulgo deinde Gordianus haberi coeptus. [18, 1] In studiis gravissimae opinionis fuit, forma conspicuus, memoriae singularis, bonitatis insignis, adeo ut semper in scolis, si qui puerorum verberaretur, ille lacrimas non teneret. [2] Sereno Sammonico51, qui patris eius amicissimus, sibi autem praeceptor fuit, nimis acceptus et carus, usque adeo ut omnes libros Sereni Sammonici patris sui52, qui censebantur ad sexaginta et duo milia, [qui] Gordiano minori moriens ille relinqueret. [3] Quod eum ad caelum tulit, si quidem tantae bibliothecae [et] copia 〈et〉 splendore donatus in famam hominum litterarum decore pervenit. [4] Quaesturam Heliogabalo auctore promeruit, idcirco quod luxurioso imperatori lascivia iuvenis, non tamen luxuriosa neque infamis, praedicata est. [5] Praeturam Alexandro auctore urbanam tenuit, in qua tantus iuris dictionis gratia fuit, ut statim consulatum, quem pater sero acceperat, mereretur. [6] Maximini seu eiusdem Alexandri temporibus ad proconsulatum patris missus legatus est obsecutus atque illic ea, quae superius dicta sunt, contigerunt. [19, 1] Fuit vini cupidior, semper tamen undecumque conditi, nunc rosa, nunc mastice, nunc absentio ceterisque rebus53) quibus gula maxime delectatur. [2] Cibi parcus, ita ut intra punctum temporis vel prandium, si pranderet, vel cenam fìniret. [3] Mulierum cupidissimus; habuisse enim decretas sibi concubinas viginti et duas fertur, ex quibus omnibus ternos et quaternos filios dereliquit. [4] Appellatusque est sui temporis Priamus54, quem vulgo iocantes, quod esset natura propensior, Priapum55, non Priamum, saepe vocitarunt. [5] Vixit in deliciis, in hortis, in balneis, in amoenissimis nemoribus, nec pater aspernatus est, saepissime dicens illum quandocumque

in summa claritate cito esse moriturum. [6] [vita sua] Nec tamen 〈in vita sua〉 fortitudine bonis umquam degeneravit, semperque inter inlustrissimos fuit cives nec rei p. ad consultationem defuit. [7] Denique etiam senatus libentissime illum Augustum appellavit atque in eo spem publicam posuit. Vestitu cultissimus, servis et omnibus suis carus. [8] Cordus dicit uxorem eum numquam habere voluisse. [9] Contra Dexippus putat eius filium esse Gordianum tertium, qui post hoc cum Balbino et Puppieno sive Maximo puerulus est adeptus imperium. [20, 1] Cum senior Gordianus mathematicum aliquando consuleret de genitura huius, respondisse ille dicitur hunc et filium imperatoris et patrem 〈et〉 ipsum imperatorem futurum. [2] Et cum senior Gordianus rideret, ostendisse constellationem mathematicum ferunt et de libris veteribus dictasse, ita ut probaret se vera dixisse. [3] Qui quidem et seni et iuveni et diem et genus mortis et loca, quibus essent perituri, opstinata constantia e veritate praedixit. [4] Quae omnia postea Gordianus senior in Africa, iam imperator et quando nihil timebat, narrasse perhibetur, de morte quin etiam sua filiique et de genere mortis dixisse. [5] Cantabat praeterea versus senex, cum Gordianum filium vidisset, hos saepissime: «Ostendent terris 〈hunc〉 tantum [hunc] fata neque ultra esse sinent. Nimium vobis Romana propago visa potens, superi, propria haec si dona fuissent»56.

[6] Extant dicta et soluta oratione et versibus Gordiani iunioris, quae hodie ab eius adfinibus frequentantur, non magna, non minima sed media et quae appareat hominis esse ingeniosi sed luxuriantis et suum deserentis ingenium. [21, 1] Pomorum et olerum avidissimus fuit, in reliquo ciborum genere parcissimus, 〈ut〉 semper pomorum aliquid recentium devoraret. [2] Frigidarum percupidus nec facile per aestatem nisi frigidas et quam plurimas bibit. Et erat corporis vasti, quare magis ad frigidas urguebatur. [3] Haec de Gordiano iuniore digna memoratu comperimus: non enim nobis talia dicenda sunt, quae Iunius Cordus ridicule ac stulte composuit de voluptatibus domesticis ceterisque infimis rebus57. [4] Quae qui velit scire, ipsum legat Cordum, qui dicit, et quos servos habuerit unusquisque principum et quos amicos et quot paenulas quotve clamydes, quorum etiam scientia nulli rei prodest, si quidem ea debeant in historia poni ab historiografis, quae aut fugienda sint aut sequenda58. [5] Sane quod praetermittendum esse non censui, quia mirabile visum est,

lectum apud Vulcatium Terentianum59, qui et ipse historiam sui temporis scripsit, in litteras misi Gordianum seniorem Augusti vultum sic repraesentasse, ut et vocem et morem et staturam eiusdem ostentare videretur, filium vero Pompeio simillimum visum, quamvis Pompeius obesi corporis fuisse denegetur, nepotem autem, cuius etiam nunc imagines videmus, Scipionis Asiatici faciem rettulisse60. Quod pro sui admiratione tacendum esse non credidi. GORDIANUS TERTIUS [22, 1] Post mortem duorum Gordianorum senatus trepidus et Maximinum vehementius timens ex viginti viris, quos ad rem p. tuendam delegerat, Puppienum sive Maximum et Clodium Balbinum Augustos appellavit, ambos ex consulibus. [2] Tunc populus et milites Gordianum parvulum, annos agentem, ut plerique adserunt, undecim, ut nonnulli, tredecim61, ut Iunius Cordus dicit, sedecim, (nam vicesimo et secundo anno eum perisse adserit) petiverunt, ut Caesar appellaretur; [3] raptusque ad senatum atque inde in contione positus indumento imperatorio tectus Caesar est nuncupatus. [4] Hic natus est, ut plures adserunt, ex fìlia Gordiani62, ut unus aut duo (nam amplius invenire non potui), ex filio, qui in Africa perit. [5] Gordianus scilicet Caesar factus apud matrem educatus est et, cum extinctis Maximinis Maximus etiam et Balbinus militari seditione interempti essent, qui biennio63 imperaverant, Gordianus adulescens, qui Caesar eatenus fuerat, et a militibus et populo et a senatu et ab omnibus gentibus ingenti amore, ingenti studio et gratia Augustus est appellatus64. [6] Amabatur autem merito avi et avunculi sive patris, qui ambo pro senatu et pro p. R. contra Maximinum arma sumpserunt et militari vel morte vel necessitate perierunt. [7] Post hoc veterani ad curiam venerunt, ut discerent, quid actum esset. [8] Ex quibus duo ingressi Capitolium, cum illic senatus ageretur, ante ipsam aram a Gallicano ex consulibus et Maecena65 ex ducibus interempti sunt, [9] atque bellum intestinum ortum est, cum essent armati etiam senatores, ignorantibus veteranis, quod Gordianus adulescens solus teneret imperium. [23, 1] Dexippus quidem adseverat ex filio Gordiani tertium Gordianum esse natum. Et posteaquam constitit apud veteranos quoque solum Gordianum imperare, inter populum et milites ac veteranos pax roborata est, et hic finis belli intestini fuit, cum esset delatus Gordiano puero consulatus. [2] Sed indicium non diu imperaturi Gordiani hoc fuit, quod eclipsis solis66 facta est,

ut nox crederetur neque sine luminibus accensis quicquam agi posset. [3] Post haec tamen voluptatibus et deliciis populus Romanus vacavit, ut ea, quae fuerant aspere gesta, mitigaret. [4] Venusto et Sabino conss.67 inita est factio in Africa contra Gordianum tertium duce Sabiniano68; quem Gordianus per praesidem Mauretaniae obsessis [a] coniuratis ita oppressit, ut ad eum tradendum Carthaginem omnes venirent et crimina confitentes et veniam sceleribus postulantes. [5] Finita igitur sollicitudine in Africa Gordiano iam iterum et Pompeiano conss.69 bellum Persicum natum est70. [6] Quando et adulescens Gordianus, priusquam ad bellum proficisceretur, [et] duxit uxorem filiam Misithei71, doctissimi viri, quem causa eloquentiae dignum parentela sua putavit et praefectum statim fecit. [7] Post quod non puerile iam et contemptibile videbatur imperium, si quidem et optimi soceri consiliis adiuvaretur et ipse pro pietate aliquantulum saperet nec per spadones ac ministros aulicos matris vel ignorantia 〈vel〉 coniventia venderetur. [24, 1] Extat denique et soceri eius ad eum epistola et ipsius Gordiani ad socerum, qua intellegitur eius saeculum emendatius ac diligentius socero adiuvante perfectum. [2] Quarum exemplum hoc est: «Domino filio et Augusto Misitheus socer et praefectus. Evasisse nos gravem temporum maculam, qua per spadones et per illos, qui amici tibi videbantur (erant autem vehementes inimici), omnia vendebantur, voluptati est eo magis, quo tibi gratior emendatio est, ut, si qua vitia fuerunt, tua non fuisse satis constet, mi fili venerabilis. [3] Neque enim quisquam ferre potuit datas eunuchis72 suffragantibus militum praeposituras, negatum laboribus praemium, aut interemptos aut liberatos pro libidine atque mercede, quos non decebat, vacuatum aerarium, per eos, qui cottidie 〈te〉 insidiosissime frequentabant, initas factiones, ut tu decipereris, cum inter se de bonis pessimi quique haberent ante consilia tibimet suggerenda, bonos pellerent, detestandos insinuarent, omnes postremo tuas fabulas venderent. [4] Diis igitur gratias, quod volente [inte] ipso emendata res {p.} est. [5] Delectat sane boni esse principis socerum et eius, qui omnia requirat et omnia velit scire et qui pepulerit homines, per quos antea velut in auctione positus nundinatus est». [25, 1] Item Gordiani ad ipsum: «Imperator Gordianus Augustus Misitheo patri et praefecto. Nisi dii omnipotentes Romanum tuerentur imperium, etiam nunc per emptos spadones velut in hasta positi venderemur. [2] Denique nunc demum intellego neque Feliciones73 praetorianis cohortibus praeponi debuisse,

neque Serapammoni quartam legionem credendam fuisse, et, ut omnia dinumerare m〈ittam〉, multa non esse facienda quae feci; sed diis gratias, quod te insinuante, qui nihil vendis, didici ea, quae inclusus scire non poteram. [3] Quid enim facerem, quod † ad mauros venderet et consilio cum Gaudiano et Reverendo et Montano habito vel laudaret aliquos vel vituperaret, et illorum consensu quasi testium, quod dixerat, adprobarem? [4] Mi pater, verum audias velim: miser est imperator, apud quem vera reticentur, qui cum ipse publice ambulare non possit, necesse est, ut audiat et vel audita vel a plurimis roborata confirmet». [5] His epistolis intellectum est adulescentem soceri consiliis emendatum atque correctum. [6] Et Misithei quidem epistolam Graecam quidam fuisse dicunt, sed in hanc sententiam. [7] Tantum autem valuit eius gravitas et sanctimonia, ut ex obscurissimo praeter nobilitatem gestis etiam Gordianum clarum principem fecerit. [26, 1] Fuit terrae motus eo usque gravis imperante Gordiano, ut civitates etiam terrae hiatu cum populis deperirent. Ob quae sacrificia per totam urbem totumque orbem terrarum ingentia celebrata sunt. [2] Et Cordus quidem dicit inspectis libris Sibyllinis74 celebratisque omnibus, quae illic iussa videbantur, mundanum malum esse sedatum. [3] Sedato terrae motu Praetextato et Attico conss.75 Gordianus aperto Iano gemino76, quod signum erat indicti belli, profectus est contra Persas77 cum exercitu ingenti et tanto auro, ut vel auxiliis vel militibus facile Persas evinceret. [4] Fecit iter 〈in〉 Moesiam atque in ipso procinctu, quidquid hostium in Thraciis fuit, delevit, fugavit, expulit atque summovit. [5] Inde per Syriam Antiochiam venit, quae a Persis iam tenebatur. Illic frequentibus proeliis pugnavit et vicit [6] ac Sapore Persarum rege 〈post Artaxerxen〉 summoto [et post Artaxansen], et Antiochiam recepit et Carras et Nisibin78, quae omnia sub Persarum imperio erant. [27, 1] Rex sane Persarum tantum Gordianum principem timuit, ut, cum instructus esset et suis copiis et nostris, tamen civitatibus ipse praesidia sponte deduceret easque integras suis civibus redderet, ita ut nihil, quod ad eorum fortunas pertineret, adtaminaret. [2] Sed haec omnia per Misitheum, socerum Gordiani eundemque praefectum, gesta sunt. [3] Effectum denique est, ut Persae, qui iam in Italia timebantur, in regnum suum pugnante Gordiano redirent totumque orientem Romana res p. detineret. [4] Extat oratio Gordiani ad senatum, qua de rebus gestis suis scribens Misitheo praefecto suo et socero ingentes gratias agit. Cuius partem indidi, ut ex eo vera cognosceres: [5] «Post haec, p. c., quae, dum iter agimus, gesta sunt

quaeque ubique singulis triumphis digna sunt actitata, etiam Persas, ut brevi multa conectam, ab Antiochensium cervicibus, quas iam nexas Persico ferro gerebant, et reges Persarum et leges amovimus. [6] Carras deinde ceterasque urbes imperio Romano reddidimus. Nisibin usque pervenimus et, si dii faverint, Ctesifonta79 usque veniemus. [7] Valeat tantum Misitheus praefectus et parens noster, cuius ductu et dispositione et haec transegimus et reliqua transigemus. [8] Vestrum est igitur supplicationes decernere, nos diis commendare, Misitheo gratias agere». [9] His in senatu lectis quadrigae elefantorum Gordiano decretae sunt, utpote qui Persas vicisset, ut triumpho Persico triumpharet, Misitheo autem quadrigae sex equorum et triumphalis currus et titulus huiusmodi: [10] «Misitheo eminenti viro, parenti principum, prae〈torri praefec〉to, totius orbis tutori[s], rei p. senatus populusque Romanus vicem reddidit». [28, 1] Sed ista felicitas longior esse non potuit. Nam Misitheus, quantum plerique dicunt, artibus Philippi80, qui post eum praefectus praetorii est factus, ut alii, morbo extinctus est herede Romana re p., ut quicquid eius fuerat, vectigalibus urbis accederet. [2] Cuius viri tanta in re p. dispositio fuit, ut nulla esset umquam civitas limitanea potior et quae posset exercitum p. R. ac principem ferre, quae totius anni in aceto, frumento et larido atque hordeo et paleis condita non haberet, minores vero urbes aliae triginta dierum, aliae quadraginta, nonnullae duum mensium, quae minimum, quindecim dierum. [3] Idem cum esset praefectus, arma militum semper inspexit. Nullum senem militare passus est, nullum puerum annonas accipere. Castra omnia et fossatorum circumibat, noctibus etiam plerumque vigilias frequentabat. [4] Amabaturque ab omnibus, quod sic et rem p. amaret et principem. Tribuni eum et duces usque adeo timuerunt et amarunt, ut neque vellent peccare neque ulla ex parte peccarent. [5] Philippus eum propter pleraque vehementer timuisse fertur atque ob hoc per medicos insidias eius vitae parasse, et quidem hoc genere; [6] nam cum effusione alvi Misitheus laboraret atque a medicis sistendi ventris gratia poculorum iuberetur accipere, mutatis, quae fuerant parata, id fertur datum, quo magis solveretur. Atque ita exanimatus est. [29, 1] Quo mortuo Arriano et Papo conss.81 in eius locum praefectus praetorii factus est Philippus Arabs, humili genere natus, {sed} superbus, qui se in novitate atque enormitate fortunae non tenuit, ita ut statim Gordiano, qui eum in locum parentis adsciverat, insidias per milites faceret, quae tales fuerunt: [2] Misitheus tantum ubique, quantum diximus, habuerat conditorum, ut vacillare dispositio Romana non posset; verum artibus Philippi

primum naves frumentariae sunt aversae, deinde in ea loca deducti sunt milites, in quibus annonari non posset. [3] Hinc Gordiano infestos milites statim reddidit, non intellegentes artibus Philippi iuvenem esse deceptum. [4] Sed Philippus etiam hoc addidit, ut rumorem per milites spargeret adulescentem esse Gordianum, imperium non posse regere, melius esse illum imperare, qui militem gubernaret, qui rem publicam sciret. [5] Corrupit praeterea etiam principes, effectumque, ut palam Philippus ad imperium posceretur. [6] Amici Gordiani primo vehementissime resistebant, sed cum milites fame vincerentur, imperium Philippo mandatum est, iussumque a militibus, ut quasi tutor eius Philippus cum eodem Gordiano pariter imperaret. [30, 1] Suscepto igitur imperio, cum et Philippus se contra Gordianum superbissime ageret et ille se imperatorem atque imperatorum prolem et virum nobilissimae familiae recognosceret nec ferre posset inprobitatem hominis ignobilis, apud duces et milites adstante praefecto Maecio Gordiano82, adfini suo, in tribunali conquestus est, sperans posse imperium Philippo abrogari. [2] Sed hac conquestione nihil egit, cum illum incusasset, quod immemor beneficiorum eius sibi minus gratus exsisteret. [3] Et cum milites rogasset, cum aperte duces ambisset, factione Philippi minor apud omnes fuit. [4] Denique cum se videret minorem haberi, petit, ut aequale saltem inter eos esset imperium, nec impetravit. [5] Dehinc petit, ut loco Caesaris haberetur, neque id optinuit. [6] Petit etiam, ut praefecti loco esset Philippo, quod et ipsum negatum est. [7] Ultimae preces fuerunt, ut eum Philippus pro duce haberet et pateretur vivere. Ad quod quidem paene consenserat Philippus, ipse tacitus sed omnia per amicos agens nutibus atque consiliis. [8] Verum cum secum ipse cogitaret amore populi R. et senatus circa Gordianum et totius Africae ac Syriae totiusque orbis Romani, cum et nobilis esset et nepos ac filius imperatorum et bellis gravibus totam rem {p.} liberasset, posse fieri, ut ficta quandocumque militum voluntate Gordiano redderetur imperium, re recenti cum in Gordianum irae militum famis causa vehementes essent, clamantem e conspectu duci iussit ac dispoliari et occidi. [9] Quod cum primo dilatum esset, post, ut iussit, impletum est83. Ita Philippus impie, non iure optinuit imperium. [31, 1] Imperavit Gordianus annis sex. Asiae dum haec agerentur, Argunt84 Scytharum rex finitimorum regna vastabat, maxime quod conpererat Misitheum perisse, cuius consilio res p. fuerat gubernata. [2] Philippus autem, ne a crudelitate nancisci videretur imperium, Romam litteras misit, quibus scripsit Gordianum morbo perisse seque a cunctis militibus electum. Nec

defuit, ut senatus de his rebus, quas non noverat, falleretur. [3] Appellato igitur principe Philippo et Augusto nuncupato Gordianum adulescentem inter deos rettulit85. [4] Fuit iuvenis laetus, pulcher, amabilis, gratus omnibus, in vita iocundus, in litteris nobilis, prorsus ut nihil praeter aetatem deesset imperio. [5] Amatus est a populo et senatu et militibus ante Philippi factionem ita ut nemo principum. [6] Cordus dicit omnes milites eum filium appellasse, ab omni senatu filium dictum, omnem populum delicias suas Gordianum dixisse. [7] Denique Philippus, cum eum interfecisset, neque imagines eius tollere neque statuas deponere neque nomen abradere, sed divum semper appellans etiam apud ipsos milites, cum quibus factionem fecerat, serio animo et peregrina calliditate veneratus est. [32, 1] Domus Gordianorum86 etiam nunc extat, quam iste Gordianus pulcherrime exornavit. [2] Est villa eorum via Praenestina87 ducentas columnas in tetrastylo habens, quarum quinquaginta Carysteae88, 〈quinquaginta〉 Claudianae89, quinquaginta Synnades90, quinquaginta Numidicae91 pari mensura sunt. [3] In qua basilicae centenariae tres, cetera huic operi convenientia et thermae, quales praeter urbem, ut tunc, nusquam in orbe terrarum. [4] Familiae Gordiani hoc senatus decrevit, ut a tutelis atque a legationibus et a publicis necessitatibus, nisi si vellent, posteri eius semper vacarent. [5] Opera Gordiani Romae nulla extant, praeter quaedam nymfia et balneas. Sed balneae privatis hominibus fuerunt et ab eo in usum privatum exornatae sunt. [6] Instituerat porticum in campo Martio sub colle92 pedum mille, ita ut ab altera parte aeque mille pedum porticus fieret atque inter eas pateret spatium pedum quingentorum; cuius spatii hinc atque inde virdiaria essent, lauro, myrto et buxo frequentata, medium vero lithostrotum brevibus columnis altrinsecus positis et sigillis per pedes mille, quod esset deambulatorium, ita ut in capite basilica esset pedum quingentorum. [7] Cogitaverat praeterea cum Misitheo, ut post basilicam thermas aestivas93 sui nominis faceret, ita ut hiemales in principio porticuum poneret, 〈ne〉 sine usu essent vel virdiaria vel porticus. [8] Sed haec omnia nunc privatorum et possessionibus et hortis et aedificiis occupata sunt. [33, 1] Fuerunt sub Gordiano Romae elefanti triginta et duo, quorum ipse duodecim miserat, Alexander decem, alces decem, tigres decem, leones

mansueti sexaginta, leopardi mansueti triginta, belbi, id est yaenae, decem, gladiatorum fìscalium paria mille, hippopotami sex, rinoceros unus, arcoleontes decem, camelopardali decem, onagri viginti, equi feri quadraginta et cetera huius modi animalia innumera et diversa, quae omnia Philippus ludis saecularibus94 vel dedit vel occidit; [2] has autem omnes feras mansuetas et praeterea efferatas parabat ad triumphum Persicum. [3] Quod votum publicum nihil valuit. Nam omnia haec Philippus exhibuit saecularibus ludis et muneribus atque circensibus, cum millesimum annum {a condita urbe} in consulatu suo et filii sui celebravit95. [4] Quod de C. Caesare memoriae traditum est96, hoc etiam de Gordiano Cordus evenisse perscribit; nam omnes, quicumque illum gladio adpetiverunt (qui novem fuisse dicuntur), postea interemptis [a] Philippis 〈se〉 sua manu suisque gladiis et isdem, quibus illum percusserant, interemisse dicuntur. [34, 1] Trium igitur Gordianorum haec fuit vita, qui omnes Augusti appellati sunt, [duobus in Africa interemptis, Persidis finibus]. [2] Gordiano sepulchrum milites apud Circesium97 castrum fecerunt in finibus Persidis, titulum huius modi addentes et Graecis et Latinis et Persicis et Iudaicis et Aegyptiacis litteris, ut ab omnibus legeretur: [3] «Divo Gordiano victori Persarum, victori Gothorum, victori Sarmatarum, depulsori Romanarum seditionum, victori Germanorum, sed non victori Philipporum»98. [4] Quod ideo videbatur additum, quia in campis Philippis99 ab Alanis tumultuario proelio victus abscesserat, simul etiam quod a Philippis videbatur occisus. [5] Quem titulum evertisse Licinius100 dicitur eo tempore, quo est nanctus imperium, cum se vellet videri a Philippis originem trahere. [6] Quae omnia, Constantine maxime, idcirco sum persecutus, ne quid tuae cognitioni deesset, quod dignum scientia videretur.

[1, 1] Era stato nelle mie intenzioni, o venerabile Augusto, di presentare alla Tua Clemenza le vite dei singoli imperatori in libri separati, seguendo l’esempio di molti autori. [2] Che infatti in molti abbiano adottato questo metodo avevo avuto modo di constatarlo di persona o di apprenderlo per averlo letto. [3] Ma mi è parso inopportuno tener occupata Tua Grazia nella lettura di una moltitudine di libri o impegnarmi nella fatica di comporre una quantità di volumi. [4] Perciò ho riunito in questo libro i tre Gordiani, preoccupandomi e per il mio lavoro e per la tua lettura, così che tu non fossi costretto a dover sfogliare molti volumi per leggere più volte una storia che è comunque all’incirca la medesima. [5] Ma perché non appaia che proprio io, che sono sempre rifuggito dai libri lunghi e dai discorsi prolissi, ho finito per incorrere in questo difetto, che pure pretendo di voler evitare per cortesia nei riguardi del lettore, verrò subito all’argomento1. [2, 1] I Gordiani non furono due, come sostengono certi autori male informati, ma tre2, e questo avrebbero potuto apprenderlo dalla testimonianza dello storico greco Arriano3, e parimenti di Dexippo4, altro scrittore greco, i quali – seppur brevemente – hanno trattato in modo attendibile tutta la questione. [2] Di questi tre Gordiano il vecchio5, cioè il primo, nacque da Mezio Marullo e da Ulpia Gordiana; per parte di padre discendeva dalla famiglia dei Gracchi6, per parte di madre da quella dell’imperatore Traiano; il padre, il nonno, il bisnonno erano stati consoli, il suocero, come pure il padre e i due nonni del suocero erano stati anch’essi consoli; [3] egli stesso fu console, ricchissimo e potentissimo: possedeva a Roma la casa di Pompeo7, e nelle province più terre che qualsiasi altro privato. [4] Dopo il consolato, che aveva esercitato assieme ad Alessandro8, fu inviato quale proconsole in Africa, per decreto del senato. [3, 1] Ma prima di parlare del suo impero, mi soffermerò un poco sul suo carattere: [2] Nel corso della sua giovinezza Gordiano – quello di cui stiamo parlando – scrisse delle composizioni poetiche, le quali ci sono tutte pervenute e sono tutte quante inerenti a soggetti trattati anche da Cicerone, come il Mario, l’Arato, le Alcioni, l’Uxorio e il Nilo9. E in effetti egli le scrisse proprio allo scopo di far apparire antiquati gli omonimi componimenti di Cicerone. [3] Inoltre, al modo in cui Virgilio aveva composto un’Eneide, Stazio10 un’Achilleide, e molti altri un’Alessandriade, egli scrisse a sua volta un’Antonineide – cioè un poema su Antonino Pio e Marco Antonino – dove in

trenta libri narrava diffusamente in versi di elegantissima fattura la loro vita, le guerre e le loro imprese pubbliche e private. [4] E questo quando era ancora un giovinetto. Quando poi divenne adulto declamò controversie nell’Ateneo11, anche alla presenza dei suoi imperatori. [5] Esercitò la questura con grande pompa. Nel corso della sua edilità organizzò a sue spese dodici spettacoli per il popolo romano, cioè uno per ogni mese, facendovi talvolta comparire fino a cinquecento coppie di gladiatori, in nessun caso meno di centocinquanta. [6] In un sol giorno presentò cento fiere della Libia12, e in un altro mille orsi. Uno di questi suoi memorabili spettacoli di caccia appare ancor oggi raffigurato in un dipinto nella casa rostrata di Gneo Pompeo, che era stata sua, di suo padre e del suo bisavolo, e che ai tempi di Filippo13 venne incamerata dal vostro fisco. [7] In tale dipinto si possono contare ancor oggi duecento cervi con le corna ramificate in forma di mano assieme a quelli della Britannia, trenta cavalli selvaggi, cento pecore selvatiche, dieci alci, cento tori di Cipro, trecento struzzi di Mauritania tinti di rosso, trenta onagri14, centocinquanta cinghiali, duecento stambecchi, duecento daini. [8] Tutti questi animali li lasciò in preda al popolo il giorno dello spettacolo, il sesto che egli dava. [4, 1] Esercitò con onore la pretura. Dopo l’amministrazione della giustizia ottenne il suo primo consolato assieme ad Antonino Caracalla, il secondo assieme ad Alessandro15. [2] Ebbe due figli: il figlio che, dopo aver esercitato il consolato, ebbe con lui il titolo di Augusto e che fu ucciso in battaglia in Africa nei pressi di Cartagine, e la figlia Mecia Faustina, sposata a Giunio Balbo, un ex console. [3] Nei suoi consolati si distinse fra gli altri consoli dei suoi tempi, tanto che Antonino covava invidia nei suoi confronti, al vedere ora le sue toghe preteste16, ora il suo laticlavio17, ora gli spettacoli da lui allestiti nel circo, superare la stessa pompa imperiale. [4] Fu il primo cittadino privato romano ad avere di sua proprietà la tunica intessuta a rami di palma18 e la toga ricamata19, mentre in precedenza anche gli imperatori ricevevano di quelle conservate nel Campidoglio o nel Palazzo. [5] Con il permesso degli imperatori, distribuì fra le varie fazioni del circo cento cavalli siculi e cento cappadoci, e grazie a ciò si guadagnò grande affetto da parte del popolo, che è sempre sensibile a queste cose. [6] Cordo afferma che in tutte le città della Campania, dell’Etruria e dell’Umbria, della Flaminia20, del Piceno21, egli aveva allestito a sue spese per quattro giorni consecutivi ludi scenici e giovanili22. [7] Scrisse in prosa l’elogio di tutti gli Antonini che lo avevano preceduto. A tal

punto amò gli Antonini, da assumere lui pure, come molti dicono, il nome di Antonino, o, come sostengono i più, quello di Antonio. [8] È poi certo che volle dare lustro a suo figlio, che si chiamava Gordiano, con il nome di Antonino quando, secondo l’uso romano, lo riconobbe alla presenza del prefetto dell’erario e ne iscrisse il nome nei registri pubblici23. [5, 1] Dopo il consolato fu designato proconsole d’Africa col favore di tutti coloro che desideravano che l’impero di Alessandro apparisse, nonché fosse di fatto, glorificato anche in Africa grazie ai meriti del proconsole. [2] Abbiamo una lettera dello stesso Alessandro, in cui egli ringrazia il senato per aver nominato Gordiano proconsole d’Africa. [3] Eccone il testo: «Non avreste potuto, o senatori, farmi cosa più gradita e cara che mandare in Africa come proconsole Antonino24 Gordiano, uomo nobile, generoso, eloquente, equo, temperante, buono» e così via. [4] Dal che appare di quale grande considerazione godesse in quel tempo Gordiano. [5] Dagli Africani fu amato quanto in passato nessun altro proconsole, tanto che alcuni lo chiamavano Scipione, altri Catone, molti Muzio25, Rutilio26 o Lelio27. [6] Abbiamo una loro acclamazione, riportataci da Giunio28. [7] Mentre infatti un giorno egli leggeva un editto imperiale, avendo iniziato rifacendosi al proconsolato degli Scipioni, il popolo acclamò: «Viva il novello Scipione, viva il vero Scipione, viva il proconsole Gordiano». Queste e altre acclamazioni egli ebbe spesso a ricevere. [6, 1] Aveva29 la statura normale di un Romano, bei capelli bianchi, volto maestoso, più rubicondo che chiaro, faccia larga; gli occhi, la bocca e la fronte incutevano rispetto; la sua corporatura tendeva al grasso; [2] il suo comportamento era ispirato a tale sobrietà di costumi, che nulla si potrebbe ricordare da lui compiuto con avidità, intemperanza o senza il senso della misura. [3] Amava con particolare affetto i suoi parenti, il figlio e il nipote al di là dell’ordinario, la figlia e la nipote con una sorta di venerazione. [4] Aveva una tale devozione nei confronti del suocero Annio Severo30, che si sentiva entrato a far parte della famiglia di lui come un figlio, e non si lavò mai con lui, né mai sedette in sua presenza prima di essere diventato pretore. [5] Quando era console, o rimaneva sempre nella casa di lui, oppure, se soggiornava nella casa di Pompeo, non mancava di andarlo a trovare al mattino o alla sera. [6] Era moderato nel bere, e più che mai nel mangiare, elegante nel vestire, bramoso di essere sempre pulito, tanto che in estate si lavava quattro o cinque volte al giorno e in inverno due. [7] Dormiva moltissimo, tanto che anche a pranzo, se si trovava a mangiare con gli amici,

si metteva a dormire senza ritegno. Ma questo appariva farlo non per ubriachezza o mollezza, bensì per necessità naturale. [7, 1] Ma i suoi buoni costumi non gli portarono alcun vantaggio. Quest’uomo, infatti, reso degno di rispetto da una vita di tal genere, passata sempre in compagnia di Platone, Aristotele, Tullio, Virgilio, e tutti gli altri saggi del passato, ebbe una fine diversa da quella che avrebbe meritato. [2] Mentre infatti governava in qualità di proconsole l’Africa al tempo di Massimino, uomo crudele e feroce, assieme al figlio, che gli era stato già dal senato assegnato – fra i consoli – quale luogotenente, un procuratore imperiale31 prese ad agire contro un gran numero di Africani con una ferocia che sarebbe parsa eccessiva allo stesso Massimino, proscrivendo moltissime persone, molte uccidendone, e arrogandosi ogni potere, al di là delle competenze di un funzionario; successivamente richiamato all’ordine dal proconsole e dal legato, giunse a minacciare di morte quegli stessi personaggi, di rango nobiliare e consolare: gli Africani allora non poterono più oltre sopportare così gravi soprusi, e in primo luogo, con l’aiuto di un folto gruppo di soldati unitisi a loro, uccisero il procuratore. [3] Poi, dopo averlo ucciso, dal momento che ormai il mondo intero era infiammato d’odio contro Massimino, cominciarono a pensare in che modo potesse comporsi il conflitto sorto fra i rappresentanti di Massimino da una parte, e i contadini e gli Africani dall’altra. [4] Allora uno di nome Maurizio, un decurione32 che godeva grande influenza presso gli Africani, radunata una specie di assemblea in un suo podere nei pressi di Tisdro33, tenne alla popolazione delle città e delle campagne un discorso, divenuto in seguito assai famoso34. [8, 1] «Ringraziamo gli dèi immortali, o cittadini, di averci offerto l’occasione, davvero necessaria, di difendere noi stessi da quel pazzo furioso di Massimino. [2] Per noi infatti, ora che abbiamo ucciso un procuratore simile a lui nel carattere e nella condotta di vita, non vi può essere salvezza se non eleggendoci un altro imperatore. [3] Perciò, se siete d’accordo, poiché vi è non lontano di qui un nobilissimo personaggio, proconsole assieme al figlio, suo legato consolare, ai quali entrambi quella peste d’uomo ha minacciato la morte, tolta la porpora dagli stendardi, li nomineremo imperatori, e con l’attribuzione delle insegne conferiremo loro la forza del diritto romano». [4] Allora acclamarono: «Va bene, è giusto. Gordiano Augusto, gli dèi ti salvino. È una fortuna che tu sia imperatore: impera assieme a tuo figlio». [5] Dopo questo si recarono in tutta fretta alla città di Tisdro e trovarono il venerando vecchio che stava riposandosi a letto dopo aver amministrato la

giustizia: egli, appena gli ebbero messo addosso la porpora, si gettò a terra e, riluttante com’era, dovettero sollevarlo di peso. [6] E non potendo far altro per sfuggire al pericolo che, mentre per i sostenitori di Massimino si presentava inevitabile, appariva invece solo eventuale per i fautori della ribellione, accettò, nonostante l’età avanzata, di essere eletto imperatore. [9, 1] Era in effetti ormai ottuagenario, e in precedenza – come dicemmo – aveva governato molte province; era stato talmente apprezzato dal popolo romano per i suoi atti, da apparire degno della dignità imperiale. [2] Gordiano non aveva ancora saputo dell’uccisione del procuratore. Ma non appena fu messo al corrente della cosa, sentendosi ormai vicino alla morte, e maggiormente temendo per la sorte del figlio, preferì avere una giusta causa per cui morire che lasciarsi gettare in catene nelle prigioni di Massimino. [3] Proclamato dunque imperatore Gordiano, i giovani che erano stati artefici di quell’impresa, abbatterono le statue di Massimino, ne infransero le effìgi, ne cancellarono il nome dai pubblici monumenti e conferirono inoltre allo stesso Gordiano l’appellativo di Africano. [4] Certuni precisano che tale appellativo fu conferito a Gordiano non per il fatto che era divenuto imperatore in Africa, ma perché era discendente della famiglia degli Scipioni35. [5] In moltissime fonti trovo attestato che questo Gordiano e suo figlio furono entrambi proclamati imperatori e chiamati Antonini; secondo altri, invece, Antonii. [6] Dopo di ciò si trasferirono a Cartagine con tutto l’apparato regale e i fasci ornati di alloro, e là il figlio che, sull’esempio di quanto avvenuto con gli Scipioni36, era già suo legato – come attesta lo storico greco Dexippo –, fu investito di eguale autorità. [7] Fu poi inviata a Roma un’ambascieria con una lettera dei Gordiani, che spiegava quanto era avvenuto in Africa, e che, grazie all’intervento di Valeriano, primo senatore, che poi sarebbe divenuto imperatore, venne accolta favorevolmente. [8] Furono mandate delle lettere anche a dei loro amici della nobiltà, affinché uomini influenti avessero a dare il loro assenso a quanto era avvenuto, e ad unirsi a loro, da amici che erano, con legami ancora più stretti. [10, 1] Ma il senato accolse con tanto compiacimento l’elezione dei due imperatori in contrapposizione a Massimino, che non solo ratificò quanto era stato compiuto, ma elesse inoltre venti commissari37, fra i quali v’erano Massimo (o Pupieno)38 e Clodio Balbino39 – i quali entrambi sarebbero divenuti imperatori dopo l’uccisione, in Africa, dei due Gordiani. [2] Il senato aveva nominato questi venti commissari per affidare a ciascuno di essi la difesa di una regione dell’Italia contro Massimino, a favore dei Gordiani. [3]

In quei giorni giunsero a Roma delle ambascierie da parte di Massimino, con la promessa di un’amnistia per gli avvenimenti passati. [4] Ma ebbe invece successo l’ambascieria dei Gordiani, che prometteva ogni genere di vantaggi, così che fu essa, assicurando un grosso stipendio ai soldati e distribuzioni di terre nonché elargizioni in favore del popolo, a riscuotere la fiducia generale. [5] A tal punto poi si prestò fede più ai Gordiani che ai Massimini, che un certo Vitaliano, comandante delle coorti pretoriane, venne ucciso per ordine del senato per mano di un gruppo di soldati dei più audaci al comando di un questore, a motivo del fatto che in passato aveva compiuto atti di crudeltà, e in quel momento maggiormente si temeva la sua ferocia, che si accordava in tutto ai costumi di Massimino. [6] La sua morte viene riferita in questa versione: fu preparata una falsa lettera di Massimino, sigillandola con un anello quasi identico al suo, e ad un gruppo di soldati al comando di un questore fu affidato il compito di consegnargliela aggiungendo che dovevano comunicargli in segreto certe cose non contenute nella lettera. [7] Si recarono dunque in un lungo porticato, e quando quello volle sapere che cosa avevano da dirgli in segreto, lo invitarono a guardare prima con attenzione il sigillo impresso sulla lettera, e, mentre era intento ad esaminarlo, lo uccisero. [8] Poi si fece credere ai soldati che Vitaliano era stato ucciso per ordine di Massimino. Conclusa l’azione, furono esposte nell’accampamento la lettera e le effigi dei Gordiani. [11, 1] Mette conto di far conoscere il decreto senatorio40 con il quale i Gordiani furono proclamati imperatori e Massimino nemico pubblico: [2] il console, dopo essersi riunito privatamente con i pretori, gli edili e i tribuni della plebe, si recò nella Curia per una seduta del senato convocata non nel giorno legale, ma in via straordinaria. [3] Il prefetto dell’Urbe, che aveva non so quali motivi di risentimento, e che non aveva ricevuto l’invito ufficiale, non partecipò alla riunione. Ma ciò riuscì vantaggioso, giacché il console, prima delle consuete acclamazioni, e prima che fossero formulati voti in favore di Massimino, proclamò: [4] «O senatori, i due Gordiani, padre e figlio, entrambi ex consoli, uno vostro proconsole, l’altro vostro legato, sono stati proclamati imperatori da una grande assemblea di Africani. [5] Ringraziamo dunque i giovani di Tisdro, ringraziamo il popolo cartaginese, sempre a noi devoto: ci hanno liberati da una bestia feroce, da quella belva. [6] Perché ascoltate trepidi? Perché vi guardate attorno? Perché esitate? È questo ciò che avete sempre desiderato. [7] Massimino è un nemico: gli dèi faranno sì che presto finisca di esserlo, e che noi possiamo sperimentare la feconda saggezza di

Gordiano il vecchio, e la ferma virtù del giovane». [8] Dopo ciò diede lettura della lettera inviata dai Gordiani al senato e a lui stesso. [9] Allora il senato acclamò: «Vi ringraziamo, o dèi. Siamo stati liberati dai nemici: che possiamo esserlo pienamente. Tutti dichiariamo Massimino nemico pubblico. Tutti votiamo agli dèi inferi Massimino e suo figlio. [10] Proclamiamo Augusti i due Gordiani. Riconosciamo i Gordiani come principi. Gli dèi proteggano i due imperatori di estrazione senatoria, ci sia concesso di vedere vittoriosi i due imperatori di nobile origine, possa Roma vedere i nostri imperatori. Chi ucciderà i nemici pubblici, si merita un premio». [12, 1] Giunio Cordo dice che questo fu un senatoconsulto «segreto»41. Che cosa questo significhi e perché esso sia stato chiamato così, cercherò di spiegare brevemente: [2] al giorno d’oggi non vi è altro equivalente, in generale, di un senatoconsulto segreto se non quelle riunioni in cui Vostra Grazia, convocati in forma riservata i maggiorenti, prende quelle decisioni che non debbono essere fatte di dominio pubblico; su di esse siete soliti impegnarvi con giuramento, perché nessun altro abbia ad udire o a venire a conoscenza di alcunché prima che la questione risulti conclusa. [3] Al tempo dei predecessori furono le pubbliche necessità ad introdurre questo costume, che cioè, se per avventura incombeva una qualche minaccia da parte dei nemici che imponeva o la decisione di misure poco onorevoli o di predisporre talune azioni da tradurre in pratica prima di parlarne, o talune altre di cui volevano tenere all’oscuro gli amici, si effettuava un senatoconsulto segreto, tale che in esso né gli scribi, né gli inservienti, né i censuali42 verbalizzavano le sedute, ma i senatori stessi si assumevano e svolgevano le mansioni di tutti i censuali e gli scribi, perché nulla avesse eventualmente a trapelare. [4] Si fece dunque un senatoconsulto segreto perché la cosa non venisse a conoscenza di Massimino. [13, 1] Ma ben presto egli – si sa com’è la testa della gente, per lo meno di coloro che si vergognano se non riescono a far sapere le cose che sanno e che si ritengono menomati se non divulgano i segreti loro affidati – Massimino, dico, venne a conoscenza di ogni cosa, tanto che ricevette una copia del senatoconsulto segreto, fatto mai avvenuto in passato. [2] Abbiamo dunque la lettera che egli scrisse al prefetto di Roma, in questi termini: «Ho letto il senatoconsulto segreto di quei nostri caporioni, della cui effettuazione tu, che sei il prefetto dell’Urbe, forse non sei a conoscenza, dato che non vi hai neppure preso parte. Te ne mando una copia perché tu sappia come regolarti nel governo dello Stato romano». [3] Non è possibile d’altronde descrivere

quale fu la reazione di Massimino quando venne a sapere che l’Africa si era ribellata contro di lui. [4] Infatti, dopo che ebbe conoscenza del decreto del senato, prese a lanciarsi contro le pareti, a stracciarsi le vesti, a dar di piglio alla spada, quasi potesse ammazzare tutti: sembrava essere completamente uscito di senno. [5] Il prefetto dell’Urbe, ricevuta che ebbe una lettera di tono più duro, parlò al popolo e ai soldati, dicendo che Massimino era già stato ucciso. [6] Questa notizia suscitò più grande esultanza, e subito furono abbattute le statue e le effigi di colui che era stato dichiarato nemico pubblico. [7] Il senato si avvalse dei poteri che gli competevano in tempo di guerra, facendo uccidere i delatori, i calunniatori, gli agenti personali e tutta quella famigerata feccia su cui Massimino reggeva il suo potere dispotico. [8] E quanto aveva voluto fare il senato apparve ancora poco: il popolo pensò bene che, una volta uccisi, fossero trascinati e gettati nella cloaca. [9] In quell’occasione anche il prefetto dell’Urbe Sabino, personaggio già di rango consolare, fu colpito a randellate e ucciso, nonché abbandonato sulla pubblica via. [14, 1] Massimino, non appena fu informato di questi fatti, subito arringò i soldati tenendo loro un discorso in questi termini43: «O consacrati miei commilitoni, anzi miei compagni nel giuramento, e la maggior parte dei quali condividete con me una vera vita militare: mentre noi difendevamo la potenza di Roma dai Germani, mentre liberavamo l’Illirico dalle invasioni dei barbari, gli Africani sono stati nei nostri confronti di una lealtà punica44. [2] Essi infatti ci hanno eletto come imperatori i due Gordiani, dei quali l’uno è talmente rammollito dalla vecchiaia da non potersi levare in piedi, l’altro è così immerso negli stravizi da trovarsi infiacchito come un vecchio. [3] E per non limitarsi a questo, quel nostro nobile senato ha ratificato quanto compiuto dagli Africani, e coloro per i cui figli noi siamo qui in armi hanno costituito contro di noi un gruppo di venti commissari, e tutti si sono pronunciati contro di noi come nei confronti di nemici. [4] Ma voi piuttosto agite, come si conviene a degli uomini: bisogna marciare in fretta su Roma; ché sono stati eletti venti commissari di rango consolare contro di noi, e ad essi dobbiamo tener testa, noi comportandoci virilmente, voi combattendo con prospera fortuna». [5] Che gli spiriti dei soldati fossero, a questo discorso, rimasti indifferenti e che i loro animi non ne avessero tratto ardore, se ne rese conto lo stesso Massimino. [6] Allora scrisse immediatamente al figlio, che lo seguiva da molto lontano, di raggiungerlo al più presto, onde evitare che i soldati avessero in sua assenza a tramare qualche complotto contro di lui. [7]

Il testo della lettera è riportato da Giunio Cordo in questi termini: «La mia guardia del corpo Tincanio ti riferisce quanto sono venuto a sapere in merito ai fatti avvenuti in Africa e a Roma, e ti riferisce altresì sulla disposizione d’animo delle truppe. [8] Ti prego, per quanto ti è possibile, di affrettarti, perché non succeda che questa marmaglia di soldati abbia ad uscire dai ranghi, come è solita fare. Chi ti ho mandato ti illustrerà quali sono i mei timori». [15, 1] Mentre avvenivano questi fatti, in Africa un certo Capeliano45, che anche nella vita privata era stato sempre avverso a Gordiano, e da questo, appena divenuto imperatore, era stato immediatamente destituito dal governo della Mauritania, che esercitava per ordine di Massimino, in quanto veterano, non appena Gordiano gli nominò un sostituto, raccolse contro i due Gordiani un contingente di Mauri allestito in fretta e furia, puntando su Cartagine; e tutto il popolo cartaginese, con una fedeltà alle alleanze tipicamente punica, passò dalla sua parte. [2] Gordiano tuttavia, volendo tentare la sorte delle armi, mandò contro Capeliano e i partigiani di Massimino suo figlio – il quale non era più un ragazzo, avendo quarantasei anni – che, come già detto, aveva tenuto a quel tempo come suo legato: del suo carattere riferiremo a suo tempo46. [3] Ma poiché in campo militare Capeliano era uomo piuttosto risoluto, mentre Gordiano il giovane non aveva particolare pratica, infiacchito com’era dagli agi della vita dei nobili, una volta venuti a battaglia quest’ultimo fu sconfitto, e nel medesimo combattimento ucciso. [16, 1] Si narra poi che tanto grande fu il numero dei caduti fra le truppe di Gordiano che, sebbene a lungo lo si cercasse, non si riuscì a ritrovare il corpo di Gordiano il giovane. [2] Vi era stata, fra l’altro, una violenta tempesta – fatto raro per l’Africa – che prima della battaglia aveva scompaginato le file dell’esercito di Gordiano così da rendere i soldati meno atti a sostenere il combattimento, facilitando in tal modo la vittoria di Capeliano. [3] Quando Gordiano il vecchio venne a conoscenza dell’accaduto, non avendo più alcun appoggio in Africa e messo in affanno dal terrore per la vendetta di Massimino e dalla mancanza di lealtà dei Cartaginesi – mentre Capeliano incalzava senza tregua –, sopraffatto inoltre nella mente e nel cuore dal dolore, si tolse la vita impiccandosi. [4] Questa fu la fine dei due Gordiani47, che erano stati entrambi proclamati Augusti dal senato e furono poi da esso divinizzati. GORDIANO IL GIOVANE

[17, 1] Questi, figlio di Gordiano il vecchio proconsole d’Africa, che fu proclamato Augusto assieme al padre dagli Africani e dal senato, era famoso per la sua cultura e i suoi costumi, oltre che per la nobiltà di sangue, che gli discendeva, secondo alcuni, dagli Antonini, secondo i più, dagli Antonii. [2] Ché altri vogliono addurre quali argomenti a riprova del rango della sua stirpe, il fatto che Gordiano il vecchio fu chiamato Africano dal soprannome degli Scipioni48, che possedeva a Roma la Casa di Pompeo49, che fu sempre chiamato con il cognome degli Antonini, che egli stesso volle che in senato suo figlio fosse conosciuto con il nome di Antonio: elementi che appaiono configurare dei legami con singole famiglie. [3] Ma io seguo Giunio Cordo, che afferma che la nobiltà di Gordiano derivò insieme da tutte queste famiglie. [4] Egli dunque fu il primogenito del padre, nato da Fabia Orestilla50, pronipote di Antonino, e per questa via appariva anche imparentato con la famiglia dei Cesari. [5] Nei primi giorni dopo la sua nascita fu chiamato Antonino, in seguito in senato ebbe ufficialmente il nome di Antonio, ma poi comunemente si cominciò a conoscerlo come Gordiano. [18, 1] Negli studi professava opinioni molto ponderate; aveva un bell’aspetto, era dotato di una memoria straordinaria, si distingueva per la sua bontà d’animo, tanto che sempre, a scuola, se qualcuno dei compagni veniva punito a vergate, lui non riusciva a trattenere le lacrime. [2] Era tenuto in grande simpatia e affetto da Sereno Sammonico51 – che era stato amico intimo di suo padre e suo precettore – a tal punto che alla morte questi lasciò a Gordiano il giovane tutti i libri appartenuti a Sereno Sammonico suo padre52, che erano stimati in numero di sessantaduemila. [3] La qual cosa lo innalzò ai sette cieli, ché, avuto in dono una biblioteca di tale vastità ed eccellenza raggiunse, grazie al lustro delle lettere, la fama tra gli uomini. [4] Ottenne la questura grazie all’intervento di Eliogabalo, in quanto a quel vizioso imperatore avevano parlato della vita un po’ libera, anche se non dissoluta né scandalosa, che il giovane conduceva. [5] Rivestì la pretura urbana su proposta di Alessandro, e in essa acquistò un tale prestigio in grazia della sua serietà nell’amministrare la giustizia, che ben presto meritò il consolato, che suo padre invece aveva ottenuto in età avanzata. [6] Ai tempi di Massimino o dello stesso Alessandro, inviato come legato a suo padre nell’esercizio del suo proconsolato, restò come tale al suo servizio; e fu là che accaddero gli avvenimenti di cui abbiamo in precedenza parlato. [19, 1] Era piuttosto amante del vino, sempre però aromatizzato in un modo o in un altro, ora con la rosa, ora con il lentischio, ora con l’assenzio e

tutte le altre essenze53 particolarmente gradevoli al palato. [2] Era sobrio nel mangiare, così che nel giro di un attimo terminava il pranzo – se pranzava –, o la cena. [3] Era un grande amatore: si racconta infatti che avesse ventidue concubine a lui assegnate, da ognuna delle quali ebbe tre o quattro figli. [4] Fu così chiamato il Priamo54 del suo tempo, ma fra il popolo, in relazione al fatto che era di natura particolarmente «dotato», erano soliti chiamarlo non «Priamo», ma «Priapo»55. [5] Conduceva una vita raffinata, frequentando giardini, bagni, boschi bellissimi, senza che per questo il padre gliene facesse rimprovero, affermando egli spessissimo che presto, prima o poi, il figlio sarebbe morto nella fama più luminosa. [6] Né del resto, nel corso della sua vita, ebbe mai a degenerare, quanto a prove di valore, dall’esempio dei migliori, e figurò sempre tra i cittadini più illustri, né mai fece mancare il suo consiglio per il bene dello Stato. [7] Alla fine anche il senato fu molto lieto di proclamarlo Augusto, e ripose in lui le speranze dello Stato. Era elegantissimo nel vestire; fu sempre benvoluto dai suoi servi e da tutti i suoi parenti. [8] Cordo afferma che egli non volle mai prender moglie. [9] Dexippo invece ritiene che quel Gordiano terzo, che successivamente ottenne – ancora in tenera età – l’impero con Balbino e Pupieno (o Massimo), fosse proprio suo figlio. [20, 1] Un giorno Gordiano il vecchio consultò un astrologo per conoscere l’oroscopo del figlio: si dice che ne ebbe come risposta che questi sarebbe stato figlio e padre di un imperatore, nonché imperatore lui stesso. [2] E poiché Gordiano il vecchio si era messo a ridere, l’astrologo – a quanto narrano – gli fece constatare la posizione degli astri e gli lesse varie profezie tratte dagli antichi libri, così da provargli che aveva detto la verità. [3] Egli poi con risoluta fermezza predisse, in modo rivelatosi esatto, al padre e al figlio il giorno e il tipo di morte, nonché il luogo in cui sarebbe avvenuta. [4] Tutte queste cose – a quanto dicono – Gordiano il vecchio le riferì più tardi in Africa, quando era ormai diventato imperatore e non aveva nulla da temere, parlando persino della morte sua e del figlio e delle modalità con cui sarebbero avvenute. [5] Spessissimo inoltre il vecchio, quando vedeva il figlio Gordiano, recitava questi versi: «Lo mostreranno al mondo appena, i fati, né più oltre lasceranno vi stia. Troppo a voi la romana stirpe

sarebbe parsa potente, o dèi, se tali doni goduto avesse»56.

[6] Rimangono di Gordiano il giovane dei componimenti in prosa e in versi, che oggi vengono diffusi dai suoi parenti, né ottimi né pessimi, ma di

mediocre valore, che appaiono essere l’opera di un uomo non privo di talento, ma troppo dedito ai piaceri trascurando il proprio ingegno. [21, 1] Era molto goloso di frutta e legumi – anche se quanto mai parco negli altri tipi di cibo –, tanto da trangugiare di continuo della frutta fresca. [2] Aveva una predilezione per le bevande fredde e difficilmente durante l’estate beveva altro che non fossero bibite gelate e in gran quantità. Aveva poi un gran fisico, il che stimolava maggiormente la sua sete di bevande fredde. [3] Questo è quanto abbiamo appreso su Gordiano il giovane, che meriti di essere ricordato: non è infatti nostro compito riportare le storie ridicole e sciocche di Giunio Cordo a proposito dei piaceri che egli si concedeva nella sua vita privata, e di tutti gli altri particolari più futili57. [4] Chi le vuole sapere vada a leggere lo stesso Cordo, che riferisce sia quali servi ebbe ciascun imperatore, sia quali amici, e quanti mantelli o clamidi, cose la cui conoscenza non giova a nulla, dato che il dovere degli storici è di riferire nella loro opera ciò che si deve fuggire o imitare58. [5] Una cosa ho qui inserito – che ho ritenuto non fosse da tralasciare, poiché apparve come un fatto mirabile – letta in Volcacio Terenziano59, autore egli pure di una storia della sua epoca: che cioè Gordiano il vecchio evocava in sé a tal punto l’immagine di Augusto, che pareva presentare anche la voce, i modi, la statura di lui, mentre il figlio sembrava tale e quale Pompeo, anche se – a quanto dicono – Pompeo non era di corporatura grassa, e il nipote, del quale ancor oggi possiamo vedere delle effìgi, ricordava nell’aspetto Scipione l’Asiatico60. Questi particolari, per il loro carattere sorprendente, ho pensato che non fossero da passare sotto silenzio. GORDIANO TERZO [22, 1] Dopo la morte dei due Gordiani il senato, in grande trepidazione e vieppiù temendo Massimino, proclamò Augusti Pupieno (o Massimo) e Clodio Balbino, ambedue ex consoli, scegliendoli fra i venti commissari che aveva nominato per la difesa dello Stato. [2] Allora il popolo e i soldati chiesero che fosse conferito il titolo di Cesare al giovanissimo Gordiano, che aveva a quel tempo undici anni – a quanto affermano i più –, o, come vogliono alcuni, tredici61, o ancora, come sostiene Giunio Cordo, sedici (ché egli asserisce che morì a ventun anni); [3] e questi, trascinato in senato, e di lì poi presentato in una pubblica assemblea, fu rivestito con gli abiti imperiali e proclamato

Cesare. [4] Costui nacque, come afferma la maggior parte delle fonti, da una figlia di Gordiano62, secondo invece uno o due autori (non sono riuscito infatti a trovarne di più), dal figlio, che morì in Africa. [5] Una volta nominato Cesare, Gordiano fu educato presso la madre, e dopo che, morti i Massimini, Massimo e Balbino furono a loro volta uccisi nel corso di una sollevazione militare dopo solo due anni di regno63, il giovinetto Gordiano, che sino a quel momento era stato Cesare, fu proclamato Augusto64 dai soldati e dal popolo, nonché dal senato e da tutti i popoli dell’impero, circondato da grande affetto, entusiasmo e favore. [6] Era così amato in grazia di suo nonno e suo zio o padre che fosse, i quali entrambi avevano preso le armi contro Massimino in difesa del senato e del popolo romano ed avevano perso la vita da soldati, l’uno sul campo, l’altro sopraffatto da una situazione disperata. [7] Dopo ciò arrivarono nella Curia i veterani, per informarsi di quanto fosse avvenuto. [8] Due di essi, entrati nel Campidoglio mentre vi si teneva la seduta del senato, furono uccisi proprio dinanzi all’altare dall’ex console Gallicano e dall’ex generale Mecenate65 [9] e ne nacque una specie di guerra civile – dato che anche i senatori erano armati –, giacché i veterani non sapevano ancora che il giovinetto Gordiano deteneva ora da solo il potere imperiale. [23, 1] Dexippo afferma che Gordiano terzo nacque dal figlio di Gordiano. E quando anche i veterani vennero a sapere che Gordiano era rimasto il solo imperatore, fu ristabilita la pace fra il popolo, i soldati e i veterani, e la fine della lotta civile venne sancita dal conferimento del consolato al giovinetto Gordiano. [2] Si ebbe però un presagio che Gordiano non avrebbe regnato a lungo, il verificarsi, cioè, di un’eclissi di sole66, tale da far sembrare che fosse notte e da non consentire di fare alcunché se non con le lucerne accese. [3] Dopo di ciò nondimeno il popolo romano si abbandonò ai piaceri e ai divertimenti, per allontanare il ricordo degli incresciosi avvenimenti precedenti. [4] Sotto il consolato di Venusto e Sabino67 fu ordita in Africa contro Gordiano terzo una congiura guidata da Sabiniano68; ma Gordiano, posti sotto assedio i congiurati ad opera del governatore della Mauritania, riportò su di lui una tale vittoria che tutti quelli vennero a Cartagine a consegnarlo, confessando le loro colpe e chiedendo il perdono per i loro delitti. [5] Dopo che dunque si era posto fine alle preoccupazioni per la situazione in Africa, sotto il consolato – che era già il secondo –di Gordiano, e quello di Pompeiano69, scoppiò la guerra coi Persiani70. [6] Fu allora che il giovane

Gordiano, prima di partire per la guerra, sposò la figlia di Misiteo71, uomo di grande dottrina che egli, in grazia della sua eloquenza, considerò degno di entrare a far parte della sua famiglia, e nominò subito prefetto. [7] Dopo di che il suo impero non appariva più con l’aspetto di qualcosa di puerile e indegno di stima, giacché poteva contare sui consigli del suo eccellente suocero, mentre egli, dal canto suo, dimostrava, conformemente ai suoi buoni sentimenti, anche un certo grado di buon senso, e non lasciava mettere in vendita se stesso dagli eunuchi e dai servi di corte, che approfittavano vuoi della inesperienza vuoi della connivenza della madre. [24, 1] Abbiamo inoltre una lettera del suocero a lui indirizzata e un’altra dello stesso Gordiano al suocero, dalla quale si comprende come gli anni conclusivi del suo periodo di regno furono portati a compimento in maniera più libera da pecche e con maggiore impegno grazie all’aiuto del suocero. [2] Ecco qui copia di entrambe: «Al suo signore, figlio e Augusto, il suocero Misiteo, prefetto. È motivo di soddisfazione il fatto che siamo riusciti a liberarci di un grave scandalo dei nostri tempi, per il quale da parte degli eunuchi e di quegli individui che ti parevano amici (erano invece i tuoi peggiori nemici) di tutto veniva fatto commercio, e lo è tanto più perché l’eliminazione di questa piaga ti riesce particolarmente gradita, così che, se vi furono delle colpe, è certo appurato che non furono tue, figlio mio venerabile. [3] Né infatti alcuno poteva sopportare che le cariche militari fossero assegnate in grazia delle raccomandazioni degli eunuchi72, che fosse negato il giusto premio alle fatiche, che fossero messe a morte o liberate a capriccio o a pagamento persone che meritavano diversa sorte, che l’erario venisse svuotato, che da individui che, ogni giorno, ti stavano intorno cercando in ogni modo di imbrogliarti, venissero architettate manovre perché tu fossi tratto in inganno, allorquando i peggiori soggetti si consultavano preventivamente fra di loro su quanto suggerirti di fare nei confronti delle persone oneste, allontanavano gli uomini virtuosi, introducevano personaggi spregevoli, sfruttavano infine a scopo di lucro tutte le tue conversazioni. [4] Ringraziamo dunque gli dèi che lo Stato, con la tua approvazione, sia stato liberato da una tale piaga. [5] È davvero un onore essere il suocero di un buon principe, di un principe, in particolare, che chiede informazioni su tutto e desidera sapere tutto, e che ha allontanato gli uomini dai quali prima veniva come messo all’asta e fatto oggetto di mercato». [25, 1] Ed ecco la risposta di Gordiano: «L’imperatore Gordiano Augusto al padre suo e prefetto Misiteo. Se gli dèi onnipotenti non proteggessero

l’impero romano, ancor ora saremmo messi all’asta e si farebbe mercato di noi ad opera di eunuchi comprati a prezzo. [2] Ora finalmente mi rendo conto di come non si sarebbe dovuto mettere a capo delle coorti pretoriane un tipo come Felicione73, né sarebbe stata da affidare a Serapammone la quarta legione e che, anche senza stare ad elencarle tutte, molte cose che ho fatto, non le avrei dovute fare; ma ringrazio gli dèi perché, grazie ai suggerimenti avuti da te, che di nulla approfitti a tuo guadagno, ho appreso quello che, chiuso nel mio isolamento, non potevo sapere. [3] Che cosa infatti potevo fare, dal momento che […] faceva mercato di me e, in combutta con Gaudiano, Reverendo e Montano veniva a parlarmi bene o male di varie persone, così che io, fidando sulla loro conferma quasi a mo’ di testimoni, finivo per approvare ciò che diceva? [4] Padre mio, vorrei dirti il vero: misero è quell’imperatore che viene tenuto all’oscuro della verità, che, non potendo di persona andare tra la gente, deve accontentarsi di ascoltare ciò che gli viene riportato, e dar credito a ciò che sente dire o all’opinione sostenuta dai più». [5] Da queste lettere ci si può rendere conto di come il giovane ebbe a migliorarsi e a correggersi grazie ai consigli del suocero. [6] Certuni affermano che la lettera di Misiteo era scritta in greco, ma sempre di questo tenore. [7] Tale influenza ebbe la sua saggezza e rettitudine, che fece di Gordiano, da personaggio in tutto oscuro tranne che per il suo rango nobiliare, un principe famoso anche per le sue imprese. [26, 1] Durante l’impero di Gordiano vi fu un terremoto di tale violenza, che intere città con i loro abitanti sparirono sprofondando nelle voragini. A motivo di ciò furono celebrati grandiosi sacrifici per tutta la città e in tutto il mondo. [2] Cordo riferisce che, dopo che furono consultati i libri Sibillini74 e vennero celebrati tutti i riti che vi apparivano prescritti, si riuscì a far cessare quel cataclisma universale. [3] Cessato che fu il terremoto, sotto il consolato di Pretestato e Attico75, Gordiano, dopo aver aperto il tempio di Giano bifronte76 – il che indicava che era stata dichiarata una guerra – partì contro i Persiani77 con un grande esercito e una tale quantità d’oro da poter debellare facilmente il nemico o con i suoi soldati o con le truppe ausiliarie. [4] Marciò attraverso la Mesia e, nel corso della spedizione, annientò, mise in fuga, ricacciò e respinse lontano tutti i nemici che si trovavano nella Tracia. [5] Di là, attraversando la Siria, giunse ad Antiochia, ormai occupata dai Persiani. Ivi combatté con essi numerose battaglie, nelle quali risultò vincitore, [6] e, spodestato Sapore – il re di Persia succeduto ad Artaserse –, riconquistò Antiochia, Carre e Nisibi78, che si

trovavano tutte in mano ai Persiani. [27, 1] Tale fu il timore del re dei Persiani nei confronti dell’imperatore Gordiano che, pur essendo forte sia delle proprie truppe che di quelle reclutate nelle nostre regioni, ritirò tuttavia spontaneamente i suoi presidi dalle città, rendendole intatte ai loro abitanti, senza mettere le mani su nulla di quanto facesse parte dei loro beni. [2] Ma tutte queste imprese furono merito di Misiteo, suocero di Gordiano e suo prefetto. [3] Alla fine la campagna di Gordiano ottenne che i Persiani, di cui si cominciava già ad aver timore anche in Italia, si ritirassero nuovamente nel loro regno, e che tutto l’Oriente fosse sotto il dominio di Roma. [4] Possediamo la relazione preparata da Gordiano per il senato, nella quale, scrivendo delle sue imprese, egli esprime la sua profonda gratitudine nei confronti del suo prefetto e suocero Misiteo. Ne ho riportato un brano, a documentazione della realtà dei fatti: [5] «Dopo, o senatori, le imprese realizzate nel corso della nostra marcia, e quelle in più occasioni compiute dovunque – che sarebbero degne ciascuna di un trionfo –, abbiamo anche, per riassumere il tutto in poche parole, allontanato dal collo degli Antiochesi, che già lo portavano incatenato sotto il giogo persiano, i Persiani stessi, i loro re e le loro leggi. [6] Abbiamo poi restituito all’impero romano Carre e tutte le altre città. Siamo arrivati fino a Nisibi e, se gli dèi ci saranno favorevoli, giungeremo sino a Ctesifonte79. [7] Possa solo star bene Misiteo, nostro prefetto e padre, sotto la guida e le direttive del quale abbiamo portato a compimento queste imprese e realizzeremo quelle che restano da compiere. [8] Sta a voi dunque decretare pubbliche azioni di grazie, raccomandare noi agli dèi, esprimere riconoscenza a Misiteo». [9] Dopo che questo fu letto in senato, fu decretata a Gordiano una quadriga trainata da elefanti, affinché egli, come colui che aveva vinto i Persiani, avesse a trionfare alla maniera persiana, mentre per Misiteo si decretò una quadriga a sei cavalli, un carro trionfale, nonché un’iscrizione che suonava così: [10] «A Misiteo, uomo eminente, padre di principi, prefetto del pretorio, protettore del mondo intero e dello Stato, il senato e il popolo romano, in contraccambio». [28, 1] Ma questa situazione favorevole non poté durare più a lungo. Misiteo infatti morì, o, a quanto sostengono i più, per le male arti di Filippo80, suo successore nella carica di prefetto del pretorio, o, come vogliono altri, di malattia, lasciando erede lo Stato romano, nel senso che tutto ciò che gli era appartenuto andasse a far parte delle rendite della città di Roma. [2] Tale fu la sua capacità organizzativa nel governo dello Stato, che non vi fu mai alcuna

città di confine di una certa importanza, e che potesse sostenere il mantenimento di un esercito del popolo romano e del suo imperatore, che non fosse fornita di scorte di aceto, frumento, lardo, orzo e fieno per un anno intero, mentre le città minori avevano rifornimenti talune di trenta giorni, altre di quaranta, parecchie anche di due mesi, e quelle che ne avevano meno, di quindici giorni. [3] Nel periodo in cui fu prefetto, ispezionava sempre le armi dei soldati. Non permise che alcun vecchio fosse sotto le armi, né che venisse distribuita la razione militare a dei fanciulli. Perlustrava tutti gli accampamenti e i fossati di recinzione, controllava ripetutamente anche di notte i posti di guardia. [4] Ed era benvoluto da tutti, per questo suo attaccamento allo Stato e al principe. I tribuni e i generali a tal punto lo temevano e amavano che si sforzavano di non agire in modo sbagliato, e in effetti erano sotto ogni aspetto irreprensibili. [5] Filippo – a quanto dicono – aveva molte ragioni per temerlo fortemente, e perciò avrebbe attentato alla sua vita con la complicità dei medici, in questo modo: [6] giacché Misiteo soffriva di dissenteria e i medici gli prescrivevano di prendere delle pozioni per arrestare la diarrea, si narra che, sostituite quelle che erano state preparate, gliene fu somministrata una che avesse l’effetto di aumentarla vieppiù. E così finì per soccombere. [29, 1] Dopo la sua morte, sotto il consolato di Arriano e Papo81, fu eletto al suo posto quale prefetto del pretorio Filippo l’Arabo, uomo di umili origini ma superbo, che non seppe frenare se stesso nei limiti della improvvisa ed enorme fortuna in cui si era venuto a trovare, così che subito, servendosi dei soldati, si diede a tramare insidie ai danni di Gordiano, che pure lo aveva assunto ad occupare il posto del suocero; egli agì in questo modo: [2] Misiteo aveva predisposto dovunque, come già dicemmo, una tale quantità di scorte, che l’organizzazione di rifornimenti dei Romani non avrebbe potuto manifestare cedimenti; ma per via degli intrighi di Filippo, in primo luogo le navi che portavano i viveri furono sviate, inoltre i soldati furono condotti in luoghi dove non era possibile rifornirsi di vettovaglie. [3] In questo modo ben presto riuscì a rendere i soldati ostili a Gordiano, giacché essi non si rendevano conto che il giovane era stato tratto in inganno dalle macchinazioni di Filippo. [4] Ma Filippo, in aggiunta a ciò, fece spargere la voce nell’esercito che Gordiano era solo un ragazzo, che non era in grado di reggere l’impero, e che sarebbe stato meglio che ad avere il potere fosse uno capace di guidare i soldati ed esperto negli affari di governo. [5] Corruppe inoltre anche i personaggi più influenti, e alla fine ottenne che tutti richiedessero

apertamente lui quale imperatore. [6] Gli amici di Gordiano in un primo tempo si opposero molto tenacemente, ma, quando i soldati presero a soccombere alla fame, fu demandato il potere a Filippo, e i soldati espressero la volontà che Filippo governasse assieme a Gordiano con pari poteri, come una sorta di suo tutore. [30, 1] Una volta dunque assunto il potere, Filippo si comportava con grande arroganza nei confronti di Gordiano, e questi, consapevole di essere imperatore e figlio di imperatori, nonché uomo di nobilissima famiglia, non poteva sopportare l’insolenza di quel plebeo: fu così che egli, alla presenza di generali e soldati, assistito dal prefetto Mecio Gordiano82, suo parente, espresse dall’alto della tribuna le sue lamentele, sperando che si potesse così far revocare a Filippo il potere imperiale. [2] Ma a nulla approdò con queste lagnanze, in cui lo accusò di mostrarsi immemore dei suoi benefici e ingrato nei suoi confronti. [3] E sebbene avesse pregato i soldati e apertamente blandito i comandanti, per via degli intrighi di Filippo non trovò appoggio da parte di alcuno. [4] Alla fine, vedendo che ormai era considerato in sott’ordine, chiese che almeno l’autorità imperiale fosse tra di loro egualmente divisa, ma non lo ottenne. [5] Chiese allora di essere considerato quale Cesare, ma non gli fu concesso. [6] Chiese ancora di poter essere prefetto di Filippo, il che pure gli fu negato. [7] Da ultimo pregò che Filippo lo tenesse come suo generale e gli lasciasse la vita. A questa richiesta Filippo, che se ne stava in silenzio, ma operava ogni cosa attraverso i suoi amici, guidandoli con cenni e suggerimenti, stava quasi per acconsentire. [8] Ma poi, considerando fra sé che per l’affetto che il popolo romano, il senato, nonché tutti i popoli dell’Africa e della Siria e dell’intero impero romano, nutrivano nei confronti di Gordiano – ché egli era di nobile famiglia e nipote e figlio di imperatori, e aveva liberato lo Stato da difficili guerre – sarebbe potuto avvenire che, se un giorno o l’altro l’animo dei soldati fosse stato abilmente manovrato, venisse restituito allo stesso Gordiano l’impero, mentre al momento essi erano fortemente adirati contro di lui a causa della fame, comandò che quel postulante gli venisse tolto d’innanzi, e fosse spogliato e ucciso. [9] Dapprima la cosa fu tirata in lungo, ma poi, quando egli diede espressamente l’ordine, vi si dette esecuzione83. Così Filippo si impadronì del potere non legalmente, ma in maniera empia. [31, 1] Gordiano regnò sei anni. Mentre in Asia si svolgevano questi avvenimenti, Argunt84, re degli Sciti, si era dato a devastare i regni dei popoli confinanti, incoraggiato specialmente dall’aver appreso la notizia della morte

di Misiteo, colui che con le sue sagge direttive aveva guidato lo Stato. [2] Ma Filippo, perché non sembrasse che egli si impadroniva dell’impero con un atto di crudele violenza, mandò a Roma una lettera in cui scriveva che Gordiano era morto di malattia e che lui era stato eletto dai soldati all’unanimità. Naturalmente avvenne che il senato, messo di fronte a cose di cui non aveva conoscenza diretta, finì per essere tratto in inganno. [3] Nominò dunque Filippo imperatore, conferendogli il titolo di Augusto, e divinizzò il giovane Gordiano85. [4] Era un giovane allegro, bello, amabile, caro a tutti, gioviale, e che eccelleva nelle lettere, tanto che veramente non sembrava gli mancasse altro per poter essere un buon imperatore se non l’età. [5] Prima che Filippo ordisse i suoi intrighi, fu amato dal popolo, dal senato e dall’esercito quanto nessun altro principe. [6] Cordo afferma che tutti i soldati parlavano di lui come di un loro figlio, che era chiamato figlio da tutti i senatori, e che il popolo tutto chiamava Gordiano la propria «delizia». [7] Lo stesso Filippo, che pure lo aveva ucciso, non tolse le sue immagini, né abbatté le sue statue, né cancellò il suo nome dai monumenti, ma lo chiamò sempre «divo» e, con una serietà frutto dell’astuzia propria di uno straniero, lo venerò persino alla presenza di quegli stessi soldati con i quali aveva cospirato. [32, 1] Esiste ancor oggi la casa dei Gordiani86, che questo Gordiano abbellì magnificamente. [2] Esiste pure una loro villa sulla via Prenestina87, con un porticato tetrastilo di duecento colonne, di cui cinquanta sono di marmo caristio88, cinquanta di claudiano89, cinquanta di sinnadico90, cinquanta di numidico91, tutte di eguale misura. [3] In essa v’erano tre basiliche della lunghezza di cento piedi ciascuna – e tutto il resto era proporzionato alla grandiosità della costruzione –, e delle terme quali non esistevano – ad eccezione che a Roma, com’era allora – in nessuna parte del mondo. [4] Il senato concesse alla famiglia di Gordiano che i suoi discendenti fossero in perpetuo esentati da tutele, legazioni e pubblici servizi, a meno che non li volessero essi di loro iniziativa. [5] In Roma non rimane alcuna opera pubblica di Gordiano, ad eccezione di alcuni ninfei e bagni. Ma i bagni erano appartenuti a privati, e vennero da lui abbelliti per suo uso personale. [6] Aveva iniziato la costruzione nel Campo Marzio, ai piedi del colle92, di un portico di mille piedi, col progetto che analogamente sorgesse dall’altra parte un altro portico di mille piedi e fra di essi si aprisse uno spazio di cinquecento piedi; da una parte e dall’altra di

questo spazio avrebbero dovuto esservi dei giardini pieni di lauri, mirti e bossi, e in mezzo un pavimento a mosaico dell’estensione di mille piedi, con ai lati piccole colonne e statuette, che doveva servire per il passeggio, e alla fine del quale vi sarebbe stata una basilica lunga cinquecento piedi. [7] Aveva inoltre progettato assieme a Misiteo di costruire dietro la basilica delle terme estive93 intitolate al suo nome, e di situare quelle invernali all’inizio del porticato, così che i giardini e i portici non rimanessero inutilizzati. [8] Ma tutta questa estensione di terreno è al giorno d’oggi occupata da possedimenti, giardini ed edifici di privati. [33, 1] Ai tempi di Gordiano v’erano in Roma trentadue elefanti – di cui dodici mandati da lui stesso e dieci da Alessandro – dieci alci, dieci tigri, sessanta leoni addomesticati, trenta leopardi addomesticati, dieci belbi, cioè iene; mille coppie di gladiatori di proprietà imperiale, sei ippopotami, un rinoceronte, dieci orsi-leone, dieci giraffe, venti onagri, quaranta cavalli selvatici, e tanti altri animali di questo genere, in gran numero e di diverse razze, i quali tutti, in occasione dei Ludi Secolari94, Filippo utilizzò nell’arena o fece uccidere; [2] tutte queste bestie domestiche e anche selvatiche Gordiano le teneva per il suo trionfo persiano. [3] Ma questa aspirazione generale non ebbe a realizzarsi: ché Filippo presentò tutto questo nel corso dei Ludi Secolari, nei giochi gladiatori e nelle corse del circo, quandò celebrò il millenario della fondazione di Roma, che cadeva sotto il consolato suo e di suo figlio95. [4] Cordo scrive che si verificò per Gordiano quello che si narra fosse accaduto dopo la morte di Cesare96; cioè che tutti coloro che avevano alzato il ferro su di lui (dicono che fossero nove), in seguito, dopo che i due Filippi furono uccisi, si diedero di propria mano la morte con le loro spade, quelle stesse con cui avevano colpito lui. [34, 1] Questa fu dunque la vita dei tre Gordiani, che ebbero tutti il titolo di Augusto. [2] A Gordiano terzo i soldati eressero una tomba presso Circesio97, in territorio persiano, con un’iscrizione in lingua greca, latina, persiana, giudaica ed egizia, perché tutti potessero leggerla: [3] «Al divo Gordiano vincitore dei Persiani, vincitore dei Goti, vincitore dei Sarmati, repressore delle rivolte a Roma, vincitore dei Germani, ma non vincitore dei Filippi»98. [4] Queste ultime parole erano state, a quanto pareva, aggiunte, in relazione al fatto che nella piana di Filippi99 egli aveva subito una sconfitta ad opera degli Alani nel corso di un combattimento caotico, e nello stesso tempo anche perché si

sapeva che era stato ucciso dai Filippi. [5] Ma Licinio100, allorché divenne imperatore, fece distruggere – a quanto si dice – questa iscrizione, dato che voleva apparire quale discendente dei Filippi. [6] Tutto questo, o sommo Costantino, ho voluto esporre perché nulla mancasse alla tua conoscenza di quanto appariva degno di essere saputo.

1. Per un’analisi sul valore storico della Vita cfr. J. BURIAN, Zur historischen Glaubwürdigkeit der Gordiani tres in der HA, in «Atti del Colloquio Patavino sulla HA», Roma, 1963, pp. 41 segg., ove si afferma che l’utilizzazione di essa è possibile solo in collegamento con le altre fonti. 2. Gordiano I, proconsole d’Africa, proclamato imperatore nel 238 d. C.; Gordiano II, suo figlio, e Gordiano III suo nipote, imperatore dal 238 al 244 d. C. AURELIO VITTORE (Caes., 27) e EUTROPIO (IX, 2) conoscono solo due Gordiani in quanto riuniscono il secondo e il terzo in un’unica persona. 3. Si tratta di un errore per ERODIANO, analogamente a quanto si riscontra a Maxim., 33, 3. 4. Cfr. Al. Sev., 49, 3, n. 4. 5. Nelle iscrizioni il suo nome completo è M. Antonius Gordianus Sempronianus Romanus Africanus. A proposito del cognomen Africanus cfr. 9, 3-4. 6. A questa pretesa discendenza si ricollega forse il cognomen Sempronianus. 7. La domus Pompeiana, fatta costruire da Pompeo sulle Carinae, il quartiere di Roma presso l’Esquilino. Dopo la morte di Pompeo era appartenuta a M. Antonio e all’imperatore Tiberio. 8. Cfr. 4, 1, n. 1. 9. Nulla sappiamo delle opere qui attribuite a Gordiano. Quanto al riferimento alle opere di CICERONE, questi in effetti compose un poemetto epicostorico dedicato a Mario, nonché gli Aratea, una libera traduzione dei Fenomeni di ARATO di Soli; possediamo inoltre un frammento, conservatoci dal grammatico NONIO, di un’opera in esametri intitolata Alcyones. 10. Il poeta PAPINIO STAZIO (40-96 d. C.), autore dei due poemi epici Tebaide e Achilleide. 11. Cfr. Pert., 11, 3, n. 2. 12. Cioè leoni. 13. L’imperatore Filippo l’Arabo (244-249 d. C.). 14. Asini selvatici. 15. Gordiano I fu console nel 213 d. C. assieme a Caracalla; quanto al consolato con Alessandro Severo, l’autore fa probabilmente confusione con il figlio, che fu effettivamente console durante il regno di quell’imperatore (cfr. 18, 5). 16. Cfr. Hadr., 26, 6, n. 6. 17. Cfr. Comm., 4, 7, n. 2; Al. Sev., 21, 4, n. 4. 18. Era la tunica ricamata a foglie di palma che, in epoca repubblicana, era indossata sotto la toga picta dai generali vittoriosi durante il loro trionfo. 19. Cfr. Al. Sev., 40, 8, n. 6. 20. La regione sull’Adriatico comprendente Rimini e Pesaro, attraversata dalla via omonima. 21. La regione sull’Adriatico a sud del fiume Esino, con capoluogo Ancona. 22. Gli Iuvenalia era in origine giochi scenici istituiti da Nerone per celebrare il ricordo della sua prima rasatura. Domiziano vi incluse successivamente anche gare di caccia. 23. Cfr. M. Ant., 9, 7, note 1, 2 e Aurel., 9, 7, n. 4. 24. L’attribuzione a Gordiano di questo nome è già di per sé indicativa del carattere spurio di questa lettera. 25. Q. Muzio Scevola, famoso giurista e maestro di Cicerone; dopo la sua amministrazione in Asia nel 98 a. C., il suo nome era divenuto proverbiale come quello di un ottimo governatore. 26. P. Rutilio Rufo, amico di Scevola e suo legato in Africa. 27. C. Lelio Sapiente, che fu console nel 140 a. C.; è il famoso amico di Scipione Africano il giovane. 28. Giunio Cordo, il presunto biografo citato più volte nell’opera; cfr. Cl. Alb., 5, 10, n. 2. 29. La figura di Gordiano I è presentata dalla HA in una luce del tutto positiva; di schietta stirpe romana e collegata a grandi personaggi del passato, essa rappresenta la naturale contrapposizione a

quella del «barbaro» Massimino (sulla contrapposizione Roma-Barbari quale si configura nella HA cfr. J. BURIAN, Der Gegensatz zwischen Rom und den Barbaren in der HA, «Eirene», XV, 1977, pp. 72 segg.). 30. A parte l’attestazione sul suo consolato a 2, 2, non sappiamo nulla di questo personaggio. 31. Cfr. Al. Sev., 45, 6, n. 3. 32. Nei municipi e nelle colonie era un membro della curia locale, cioè l’equivalente di un senatore. 33. Cfr. Maxim., 14, 3, n. 4. 34. Per un raffronto fra il discorso di questo Mauricius e quello che è riportato da ERODIANO, attribuito a uno dei giovani a capo della rivolta, cfr. F. KOLB, Zu ShA, Gd., 7,4 - 8,4 und 8,6, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 141 segg. 35. Cfr. 2, 2 ove si parlava di una discendenza di Gordiano dai Gracchi; la madre di questi, Cornelia, era figlia del primo Africano. 36. Ci si riferisce al fatto che Scipione Africano il vecchio era stato luogotenente del fratello Lucio Scipione Asiatico nella campagna contro Antioco III, nel 190 a. C. 37. Cfr. Maxim., 32, 3, n. 3. 38. Cfr. Maxim., 33, 4, n. 4. 39. Cfr. Maxim., 20, 1, n. 2. Clodius è errore per Caelius, che ricorre anche a 22, 1. 40. Il senatusconsultum inerente alla proclamazione dei due Gordiani quali imperatori e di Massimino come hostis, con le corrispondenti acclamazioni, è riportato anche a Maxim., 16, in forma però assai diversa (il che indica chiaramente come abbiamo a che fare anche in questo caso con falsificazioni operate dal biografo). 41. Non abbiamo altre fonti che ci parlino di questo senatusconsultum tacitum, così da poter verificare il fondamento della spiegazione data dal nostro biografo. 42. I censuales erano i funzionari collegati all’ufficio del magister censuum, cui spettava di accertare i beni dei senatori per stabilirne la tassazione. 43. Cfr. Maxim., 18. 44. I Cartaginesi (chiamati Poeni, quali discendenti dai Fenici) avevano da sempre fama di gente furba e sleale; cfr. Maxim., 18, 1, n. 1. 45. Il governatore della Numidia. 46. Cfr. 18-19. 47. Il loro impero durò circa una ventina di giorni, tra il febbraio e il marzo del 238 d. C. 48. Cfr. 9, 4, n. 1. 49. Cfr. 2, 3, n. 1. 50. Altrimenti sconosciuta. 51. Cfr. Al. Sev., 30, 2, n. 1. 52. Cfr. Carac., 4, 4, n. 1. 53. Cfr. Heliog., 19, 4-5. 54. Allusione al fatto che, secondo la tradizione, Priamo aveva cinquanta figli. 55. Il dio della fecondità, che veniva rappresentato con un enorme membro genitale. 56. VIRGILIO, Aen., VI, 869-871. Si parla di Marcello, il giovane nipote di Augusto prematuramente morto. I versi in questione sono parzialmente citati anche in Ael., 4, 1-2. 57. Le stesse critiche vengono rivolte a Cordo anche in Op. Macr., 1, 3-5. 58. Forse un’eco della prefazione di Tito Livio (cfr. LIVIO, praef. 10). 59. Altrimenti sconosciuto, e con tutta probabilità inventato. Cfr. R. SYME, Ammianus and the HA, Oxford, 1968, pp. 121 seg. 60. Sull’inattendibilità di questi tre accostamenti cfr. J. F. GILLIAM, Three passages in the HA: Gord., 21, 5 and 34, 2-6; Tyr. trig., 30, 12, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 99 segg., che considera tutto il passo

un’evidente invenzione del nostro autore. 61. Questa dovrebbe essere la cifra esatta: cfr. Max. Balb., 3, 4; ERODIANO, VIII, 8, 8. Gordiano III era nato probabilmente nel 224 d. C. 62. Cfr. Max. Balb., 3, 4 e ERODIANO, VII, 10, 7. In effetti, nelle iscrizioni (cfr. ad es. CIL, VIII, 848; 4218; 10079), Gordiano III è chiamato Divi Gordiani nepos et Divi Gordiani sororis filius. La donna è la Mecia Faustina ricordata a 4, 2. 63. Sulla durata del loro regno cfr. Max. Balb., 15, 7, n. 3. 64. Probabilmente nel giugno del 238 d. C. 65. Cfr. Maxim., 20, 6. 66. Nel corso del 238 d. C. ebbero luogo due eclissi di sole: il 2 aprile – ed è probabilmente quella qui ricordata – e il 25 settembre. Improbabile appare il riferimento a quella del 12 aprile del 237 d. C., anno in cui qualche studioso intenderebbe collocare la rivolta in Africa. Sulla questione cfr. A. BELLEZZA, Massimino il Trace, Genova, 1964, pp. 168 seg. e n. 35. 67. Nel 240 d. C. 68. Su questo personaggio cfr. E. BIRLEY, Africana in the HA, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 87 seg. 69. Nel 241 d. C. 70. Cfr. 26, 3 segg. 71. La forma corretta del nome di questo personaggio è C. Furius Sabinius Aquila Timesitheus, come ci attesta un’iscrizione di Lione (CIL, XIII, 1807), che ci informa anche sulla sua carriera equestre. Valente generale, ebbe parte di primo piano nella campagna persiana e fu senza dubbio la figura più importante del regno di Gordiano. 72. Sulla nefasta influenza degli eunuchi alla corte degli imperatori cfr. anche Al. Sev., 66, 3-4. Sul carattere di possibili anacronismi, anche tendenziosi, che possono rivestire i riferimenti agli eunuchi che compaiono nel corso dell’opera (senza che peraltro questo debba costituire un indizio per una datazione post-costantiniana) cfr. A. CAMERON, Eunuchs in the HA, «Latomus», XXIV, 1965, pp. 155 segg. 73. Questo, così come i personaggi citati più avanti, non ci sono altrimenti conosciuti. 74. Cfr. Hadr., 2, 8, n. 1. 75. Nel 242 d. C. 76. Il piccolo templo di Giano bifronte, le cui porte rimanevano chiuse in tempo di pace e venivano aperte in tempo di guerra, si trovava sul lato nord-est del Foro, vicino alla Curia. 77. Sotto il comando del nuovo re Shapur I (Sapore), figlio di Ardashir (chiamato nella HA Artaserse: cfr. Al. Sev., 55, 1, n. 2), i Persiani avevano attraversato l’Eufrate e minacciavano Antiochia. 78. Carre (dove Crasso era stato vinto dai Parti nel 53 a. C.) e Nisibi erano città della Mesopotamia settentrionale. 79. Cfr. Sev., 16, 1, n. 2. Sulla presunta «maledizione» che impediva ai Romani di oltrepassare la città cfr. Car., 9, 1. 80. M. Giunio Filippo, detto l’Arabo in quanto originario di Filippopoli nell’Arabia settentrionale, successe a Misiteo quale prefetto del pretorio, e dopo la morte di Gordiano fu imperatore dal 244 al 249 d. C. (la sua biografìa è tra quelle perdute: cfr. Introduzione). La sua pretesa responsabilità nella morte di Misiteo (cfr. anche ai parr. 5-6) non ha alcun reale fondamento storico. 81. Nel 243 d. C. 82. Altrimenti sconosciuto. 83. Nel febbraio o marzo del 244 d. C. 84. Da identificare probabilmente con Argaith, capo di bande gotiche che, stando al racconto di GIORDANE (De reb. Goth., 16), all’epoca di Filippo compivano incursioni e devastazioni nelle province confinanti col basso Danubio. La denominazione di Sciti è qui sicuramente impropria.

85. La notizia, presente anche in EUTROPIO, IX, 2, 3, non trova conferma nelle iscrizioni e monete in nostro possesso (a parte l’iscrizione riportata a 34, 3, con ogni evidenza una falsificazione dell’autore). 86. Cfr. 2, 3, n. 1. 87. La via che univa Roma a Preneste (l’odierna Palestrina). 88. Marmo proveniente da Caristo, nell’isola Eubea: aveva striature bianche e verdi (oggi è chiamato «cipollino»). 89. Si trattava probabilmente del porfido rosso proveniente dal Monte Claudiano in Egitto. 90. Marmo proveniente da Sinnada, in Frigia; è chiamato «pavonazzetto» per via delle sue striature scarlatte. 91. Marmo dal colore giallo-oro, oggi conosciuto come «giallo antico». 92. Probabilmente si allude al Quirinale. 93. A parere di R. J. ROWLAND, Another anachronism in the HA?, «Liverpool Class. Monthly», II, 1977, p. 59, la menzione di thermae aestivae potrebbe costituire qui un anacronismo, in quanto l’esistenza di questo genere di terme non sembra attestata prima del IV secolo d. C. 94. I giochi che si celebravano ordinariamente ogni cento anni. 95. Questi ludi vennero celebrati con grande sfarzo il 21 aprile del 248 d. C. 96. Cfr. SVETONIO, Iul., 89. 97. Alla confluenza del Khabûr con l’Eufrate. Cfr. EUTROPIO, IX, 2, 3; Epitome de Caesaribus, 27, 2-3. 98. Sulla inattendibilità di questa presunta iscrizione, che appare con ogni probabilità invenzione dell’autore, cfr. J. F. GILLIAM, Three passages in the HA cit., pp. 103 segg. 99. La piana di Filippi, in Macedonia. 100. Cfr. Heliog., 35, 6, n. 1.

XXI. MAXIMUS 〈ET BALBINUS〉 〈IULI CAPITOLINI〉

MASSIMO E BALBINO di GIULIO CAPITOLINO

[1, 1] Interemptis in Africa Gordiano seniore cum filio, cum Maximinus ad urbem furens veniret, ut, quod Gordiani Augusti appellati fuerant, vindicaret, senatus praetrepidus in aedem Concordiae1 VII. idus Iunias2 concurrit, ludis Apollinaribus3, remedium contra furorem hominis inprobissimi requirens. [2] Cum igitur duo consulares et eminentes quidem viri, Maximus et Balbinus (quorum Maximus a plerisque in historia reticetur et loco eius Puppieni nomen infertur, cum et Dexippus et Arrianus4 Maximum et Balbinum5 dicant electos contra Maximinum post Gordianos), quorum alter bonitate, virtute alter ac severitate clari habebantur, ingressi essent curiam ac praecipue timorem Maximini adventus fronte ostenderent, referente consule de aliis rebus, qui primam sententiam erat dicturus, sic exorsus est: [3] «Minora vos sollicitant, et prope aniles res ferventissimo tempore tractamus in curia. [4] Quid enim opus de restitutione templorum, de basilicae ornatu, de thermis Titianis6, de exaedificatione amphitheatri agere, cum immineat Maximinus, quem hostem mecum ante dixistis, Gordiani duo, in quibus praesidium fuerat, interempti sint, neque in praesenti ullum sit auxilium, quo respirare possimus? Agite igitur, p. c., principes dicite. Quid moramini? Ne, dum singulatim pertimescitis, in timore potius quam in virtute opprimamini». [2, 1] Post haec tacentibus cunctis, cum Maximus, qui et natu grandior erat et meritis et virtute ac severitate clarior, dicere sententiam coepisset, quae ostenderet duos principes esse faciendos, Vectius Sabinus7 ex familia Ulpiorum rogato consule, ut sibi dicere atque interfari liceret, sic exorsus est: [2] «Scio, p. c., hanc rebus novis inesse oportere constantiam, ut rapienda sint consilia, non quaerenda, verbis quin etiam plurimis abstinendum sit atque sententiis, ubi res perurguent. [3] Cervices suas quisque respiciat, uxorem ac liberos cogitet, avitas patriasque fortunas: quibus omnibus inminet Maximinus, natura furiosus, truculentus, inmanis, causa vero, ut sibi videtur, satis iusta truculentior. [4] Ille quadrato agmine castris ubique positis ad urbem tendit, vos sedendo et consultando diem teritis. [5] Longa oratione opus non est: faciendus est imperator, immo faciendi sunt principes, unus qui res domesticas, alter qui bellicas curet, unus qui in urbe resideat, alter qui obviam cum exercitu latronibus pergat. [6] Ego principes dico, vos firmate, si placet, sin minus, meliores ostendite: [7] Maximum igitur atque Balbinum, quorum unus in re militari tantus est, ut novitatem generis splendore virtutis evexerit, alter ita clarus nobilitate est, ut et morum lenitate rei p. sit necessarius et vitae sanctimonia, quam a prima aetate in studiis semper ac

litteris tenuit. [8] Habetis sententiam, p. c., mihi fortasse periculosiorem quam vobis, sed nec vobis satis tutam, si non aut alios aut hos principes feceritis». [9] Post haec adclamatum est uno consensu: [10] «Aequum est, iustum est. Sententiae Sabini omnes consentimus. Maxime et Balbine Augusti, dii vos servent. Di vos principes fecerunt, di vos conservent. Vos senatum a latronibus vindicate, vobis bellum contra latrones mandamus. [11] Hostis publicus Maximinus cum filio pereat, hostem publicum vos persequimini. Felices vos iudicio senatus, felicem rem p. vestro imperio. [12] Quod vobis senatus detulit, fortiter agite; quod vobis senatus detulit, libenter accipite». [3, 1] His atque aliis adclamationibus imperatores facti sunt Maximus atque Balbinus. [2] Egressi igitur e senatu primum Capitolium escenderunt ac rem divinam fecerunt. [3] Deinde ad rostra8 populum convocarunt. Ubi cum orationem de senatus sententia et de sua electione habuissent, p. R. cum militibus, qui forte convenerant, adclamavit: «Gordianum Caesarem omnes rogamus». [4] Hic nepos erat Gordiani ex filio, qui est in Africa occisus, annum agens aetatis quartum decimum9, ut plerique dicunt. [5] Qui statim raptus est et novo genere senatus consulti, cum eadem die senatus consultum factum esset, inductus in curiam Caesar est appellatus. [4, 1] Prima igitur relatio principum fuit, ut duo Gordiani divi appellarentur. [2] Aliqui autem unum putant appellatum, seniorem videlicet, sed ego libris, quos Iunius Cordus affatim scripsit, legisse memini ambos in deos relatos, [3] si quidem senior laqueo vitam fìnivit, iunior autem in bello consumptus est, qui utique maiorem meretur reverentiam, quod eum bellum rapuit. [4] Post has igitur relationes praefectura urbi in Sabinum conlata est, virum gravem et Maximi moribus congruentem, praetoriana in Pinarium Valentem10. [5] Sed priusquam de actibus eorum loquar, placet aliqua dici de moribus atque genere, non eo modo quo Iunius Cordus est persecutus omnia, sed illo quo Suetonius Tranquillus et Valerius Marcellinus11, quamvis Curius Fortunatianus, qui omnem hanc historiam perscripsit, pauca contigerit, Cordus vero tam multa, ut etiam pleraque {vilia} et minus honesta perscripserit. [5, 1] Maximo pater fuit Maximus, unus e plebe12, ut nonnulli dicunt, faber ferrarius, ut alii, raedarius vehicularius fabricator. [2] Hunc suscepit ex uxore Prima nomine. Cui fratres quattuor pueri fuerunt, quattuor puellae, qui omnes intra pubertatem interierunt. [3] Nato Maximo carnem bubularn et

quidem multam aquila in cella eorum proiecisse fertur, quae angusto patebat inpluvio, eandemque, cum iaceret neque quisquam adtingere auderet religionis timore, iterum sustulisse et in proximum sacellum, quod erat Iovis Praestitis13, detulisse. [4] Id eo tempore nihil visum est ominis habere, sed non sine causa factum probavit imperium. [5] Pueritiam omnem in domo patrui Pinarii fecit, quem statim ad praefecturam praetorii subvexit, ubi factus est imperator. [6] Operam grammatico, rhetori non multum dedit, si quidem semper virtuti militari et severitati studuit. [7] Attamen militaris tribunus fuit et multos egit numeros et postea praeturam, sumptu Pescenniae Marcellinae, 〈quae〉 illum loco filii suscepit et aluit. [8] Inde proconsulatum Bithyniae egit et deinceps Graeciae ac tertio Narbonae. [9] Missus praeterea legatus Sarmatas in Illyrico contudit atque inde translatus ad Renum14 rem contra Germanos satis feliciter gessit. [10] Post haec praefectus urbi prudentissimus, [in] ingeniosissimus et severissimus adprobatus est. [11] Quare velut utili senatus ei, homini, quod non licebat, novae familiae, imperium tamen detulit, confessis omnibus eo tempore in senatu aptiorem non esse, qui deberet principis nomen accipere. [6, 1] Et quoniam etiam minora plerique desiderant, fuit cibi avidus, vini parcissimus, ad rem Veneriam nimis rarus, domi forisque semper severus, ita ut et tristis cognomen acciperet. [2] Vultu gravissimus et retorridus, statura procerus, corporis qualitate sanissimus, moribus aspernabilis ac tamen iustus neque umquam usque ad exitum negotiorum vel inhumanus vel inclemens. [3] Rogatus semper ignovit nec iratus est, nisi ubi eum irasci decuit. [4] Factionibus se numquam praebuit, iudicii tenax fuit neque aliis potius quam sibi credidit. [5] Quare et a senatu multum dilectus est et a populo timori habitus, si quidem sciebat populus eius censoriam praefecturam, quam videbat posse in imperio vehementius convalescere. [7, 1] Balbinus nobilissimus15 et iterum consul16, rector provinciarum infinitarum. [2] Nam et Asiam et Africam et Bithyniam et Galatiam17 et Pontum et Thracias et Gallias civilibus administrationibus rexerat, ducto nonnumquam exercitu, sed rebus bellicis minor fuerat quam in civilibus; attamen bonitate, nimia sanctitate ac verecundia ingentem sibi amorem conlocaverat. [3] Familiae vetustissimae, ut ipse dicebat, a Balbo Cornelio Theofane18 originem ducens, qui per Gnaeum Pompeium civitatem meruerat, cum esset suae patriae nobilissimus idemque historiae scriptor. [4] Statura aeque procerus, corporis qualitate conspicuus, in voluptatibus nimius. Quem quidem adiuvabat divitiarum abundantia, nam erat et a maioribus dives et

multa hereditatibus per se ipse collegerat. [5] Eloquentia clarus, poemate inter sui temporis poetas praecipuus. [6] Vini, cibi, {rei} Veneriae avidus, vestitu cultus, nec quicquam defuit, quod illum populo non commendabilem redderet. Amabilis etiam senatui fuit. [7] Haec de utriusque vita conperimus. Denique nonnulli, quemadmodum Catonem et Caesarem Sallustius comparat19, ita hunc quoque conparandum putarunt, ut alterum severum, clementem alterum, bonum illum, istum constantem, illum nihil largientem, hunc afluentem copiis omnibus dicerent. [8, 1] Haec de moribus atque genere. Decretis ergo omnibus imperatoriis honoribus atque insignibus, percepta tribunicia potestate, iure proconsulari, pontificatu maximo, patris etiam patriae nomine inierunt imperium. [2] Sed dum in Capitolio rem divinam faciunt, populus R. imperio Maximi contradixit. Timebant enim severitatem eius homines vulgares, quam et senatui acceptissimam et sibi adversissimam esse credebant. [3] Quare factum est, ut diximus, ut Gordianum adulescentulum principem peterent, qui statim factus est nec prius permissi sunt ad Palatium stipati armatis ire, quam nepotem Gordiani Caesaris nomine nuncuparunt. [4] His gestis celebratisque sacris, datis ludis scaenicis ludisque circensibus, gladiatorio etiam munere Maximus susceptis votis in Capitolio ad bellum contra Maximinum missus est cum exercitu ingenti, praetorianis Romae manentibus. [5] Unde autem mos tractus sit, ut proficiscentes ad bellum imperatores munus gladiatorium et venatus darent, breviter dicendum est. [6] Multi dicunt apud veteres hanc devotionem contra hostes factam, ut civium sanguine litato specie pugnarum se Nemesis20, id est vis quaedam Fortunae, satiaret. [7] Alii hoc litteris tradunt, quod veri similius credo, ituros ad bellum Romanos debuisse pugnas videre et vulnera et ferrum et nudos inter se coeuntes, ne in bello armatos hostes timerent aut vulnera et sanguinem perhorrescerent. [9, 1] Et Maximo quidem ad bellum profecto Romae praetoriani remanserunt. [2] Inter quos et populum tanta seditio fuit, ut ad bellum intestinum veniretur21, urbis Romae pars maxima incenderetur, templa foedarentur, omnes plateae cruore polluerentur, cum Balbinus, homo lenior, seditionem sedare non posset. [3] Nam et in publicum processit, manus singulis quibusque tetendit et paene ictum lapidis passus est, 〈ut〉 alii dicunt, etiam fuste percussus est. [4] Neque sedasset tumultum, nisi infantem Gordianum purpuratum ad populum longissimi hominis collo superpositum produxisset. Quo viso populus et milites usque adeo placati sunt, ut amore

illius in concordiam redirent. [5] Neque umquam quisquam in illa aetate sic amatus est merito avi et avunculi, qui pro p. R. contra Maximinum in Africa vitam finiverant; tantum apud Romanos memoria bonarum rerum valet. [10, 1] Maximo igitur ad bellum profecto senatus per omnes regiones consulares, praetorios, quaestorios, aedilicios, tribunicios etiam viros misit, ita ut unaquaeque civitas frumentum arma et propugnacula et muros pararet, ut per singulas urbes Maximinus fatigaretur. [2] Iussum tunc tamen, ut omnia ex agris in civitates colligerentur, ne quid hostis publicus inveniret. [3] Scriptum est praeterea ad omnes provincias missis frumentariis22 iussumque, ut, quicumque Maximinum iuvisset, in hostium numero duceretur. [4] Inter haec Romae iterum seditiones inter populum et milites ortae sunt. [5] Et cum mille edicta Balbinus proponeret nec audiretur, veterani se in castra praetoria contulerunt cum ipsis praetorianis, quos coepit populus obsidere. [6] Nec umquam ad amicitiam essent redacti, nisi fistulas aquarias populus incidisset. [7] In urbe autem, priusquam dictum esset milites pacatos venire, et tegulae de tectis iactae sunt et omnia, {quae} in domibus erant, vasa proiecta. [8] Atque ideo maior pars civitatis perit et multorum divitiae. Nam latrones se militibus miscuerunt ad vastanda ea, quae norant ubi repperirent. [11, 1] Cum haec Romae geruntur, Maximus sive Puppienus apud Ravennam bellum parabat ingenti apparatu, timens vehementissime Maximinum, de quo saepissime dicebat se non contra hominem, sed contra Cyclopem bellum gerere. [2] Et Maximinus quidem apud Aquileiam ita victus est, ut a suis occideretur, caputque eius et fìlii perlatum est Ravennam, quod a Maximo Romam transmissum est. [3] Non tacenda hoc loco devotio est Aquileiensium pro Romanis, qui etiam crines mulierum pro nervis ad sagittas emittendas 〈adhibuis〉se dicuntur. [4] Tantum sane laetitiae fuit in Balbino, qui plus timebat, ut hecatomben faceret, statim Maximini caput adlatum est. [5] Hecatombe autem tale sacrificium est: centum arae uno in loco caespiticiae extruuntur, et ad eas centum sues, centum oves mactantur. [6] Iam, si imperatorium sacrificium sit, centum leones, centum aquilae et cetera huius modi animalia centena feriuntur. [7] Quod quidem etiam Graeci quondam fecisse dicuntur, cum pestilentia laborarent, et a multis imperatoribus id celebratum constat23. [12, 1] His igitur peractis Balbinus cum summa gratulatione Maximum redeuntem e Ravennati cum exercitu integro et copiis expectabat, [2] si quidem Maximinus ab oppidanis Aquileiensibus et paucis, qui illic erant, militibus et Crispino ac Menofìlo24 consularibus, qui a senatu missi fuerant,

victus est. [3] Ipse autem Maximus Aquileiam idcirco accesserat, ut omnia tuta et integra usque ad Alpes relinqueret ac, si quae essent barbarorum, qui Maximino faverant, reliquiae, compesceret. [4] Missi sunt denique ad eum legati senatores viginti, quorum nomina sunt apud Cordum, (in his consulares quattuor, praetorii octo, octo quaestorii) cum coronis et senatus consulto, in quo ei statuae auratae equestres decernebantur. [5] Ex quo quidem Balbinus subiratus est, dicens Maximum minus quam se laborasse, cum ipse domi tanta bella compressisset, ille autem otiosus apud Ravennam sedisset. [6] Sed tantum valet velle, ut Maximo, quia profectus est contra Maximinum, etiam victoria decerneretur, quam impletam ille nescivit. [7] Exercitu igitur suscepto Maximini ad urbem cum ingenti pompa et multitudine Maximus venit, maerentibus militibus, quod eum imperatorem, quem ipsi delegerant, perdiderant et eos habebant, quos senatus legerat. [8] Nec dissimulari poterat maeror, qui apparebat in frontibus singulorum; et iam quidem nec verbis abstinebatur, quamvis Maximus et apud milites saepe dixisset oblivionem praeteritorum esse debere et stipendia magna donasset et auxilia in ea loca, quae delegerant, dimisisset. [9] Sed animi militum semel inbuti odio refrenari nequeunt. Denique cum audissent senatus adclamationes, quae milites tangerent, acriores contra Maximum et Balbinum extiterunt, secum cotidie cogitantes, quos imperatores facere deberent. [13, 1] Senatus consulti25 autem, quo moti sunt, haec forma est: cum ingredienti urbem Maximo Balbinus et Gordianus et senatus et populus Romanus obviam processissent, adclamationes primum publicae fuerunt, quae milites contingerent. [2] Inde in senatum itum est, ubi post illa, quae communia solent esse festa, dictum est: «Sapienter electi principes sic agunt, per inperitos electi principes sic pereunt», cum constaret a militibus factum Maximinum, Balbinum autem et Maximum a senatoribus. [3] His auditis milites gravius saevire coeperunt, in senatum praecipue, qui sibi triumphare de militibus videbatur. [4] Et Balbinus quidem cum Maximo urbem cum magna moderatione gaudente senatu et p. R. regebant; senatui plurimum deferebatur; leges optimas condebant, moderate causas audiebant, res bellicas pulcherrime disponebant. [5] Et cum iam paratum esset, ut contra Parthos26 Maximus proficisceretur, Balbinus contra Germanos27, puer autem Gordianus Romae remaneret, milites occasionem quaerentes occidendorum principum, cum primo invenire vix possent, quia Germani28 stipabant Maximum atque Balbinum, cotidie ingravescebant.

[14, 1] Et erant quidem discordiae inter Balbinum et Maximum, sed tacitae et quae intellegerentur potius quam viderentur, cum Balbinus Maximum quasi ignobilem contemneret, Maximus Balbinum quasi debilem calcaret. [2] Qua re occasio militibus data est intellegentibus facile discordes imperatores posse interfici. Ludis denique scaenicis29, cum multi et milites et aulici occupati essent, et in Palatio soli cum Germanis principes remansissent, inpetum in eos fecerunt. [3] Turbantibus igitur militibus, cum primum nuntiatum esset Maximo turbam illam tempestatemque vix evadi posse, nisi ad Germanos mitteretur, et forte in alia parte Palati Germani cum Balbino essent, mittit ad Balbinum Maximus petens, ut ei praesidium mitteret. [4] Sed ille suspicatus, quod contra se eos peteret, quem putabat monarchiam {velle}, primum frustratus est, deinde usque ad litem perventum est. [5] In hac tamen seditione illis contendentibus milites supervenerunt atque ambos eos nudatos vestibus regalibus de Palatio cum iniuris produxerunt et per mediam civitatem ad castra raptare voluerunt magna ex parte laniatos. [6] Sed ubi conpererunt Germanos ad defensionem illorum supervenire, ambos occiderunt et in itinere medio reliquerunt. [7] Inter haec Gordianus Caesar sublatus a militibus imperator est appellatus id est Augustus, quia non erat alius in praesenti, insultantibus militibus senatui et populo, qui se statim in castra receperunt. [8] Germani sane, ne sine causa pugnarent occisis iam imperatoribus suis, extra urbem, ubi suos habebant, se contulerunt. [15, 1] Hunc finem habuerunt boni imperatores, indignum vita et moribus suis: nam neque Maximo sive Puppieno fortius neque Balbino benignius fuit quicquam, quod in re ipsa intellegi potest; neque enim, cum esset potestas, malos senatus eligeret. [2] Huc accedit quod multis honoribus ac potestatibus explorati sunt, cum alter bis consul et praefectus {urbis}, alter 〈bis〉 consul [et praefectus] ad imperium longaevi30 pervenissent, amabiles senatui et populo etiam, qui Maximum iam leviter pertimescebant. [3] Haec sunt, quae de Maximo ex Herodiano, Graeco scriptore, magna ex parte collegimus. [4] Sed multi non a Maximo, verum a Puppieno imperatore victum apud Aquileiam Maximinum esse dixerunt, et ipsum cum Balbino esse occisum, ita ut Maximi nomen praetereant. [5] Tanta est autem historicorum inter se certantium inperitia vel usurpatio, ut multi eundem Maximum quem Puppienum velint dici, cum Herodianus, vitae suae temporum scriptor, Maximum dicat, non Puppienum, cum et Dexippus, Graecorum scriptor, Maximum et Balbinum imperatores dicat factos contra Maximinum post Gordianos duos et a Maximo victum Maximinum, non {per} Puppienum31. [6]

His accedit scriptorum inperitia, quae praef. praet. fuisse Gordianum parvolum dicunt, ignorantibus multis collo saepe vectum, ut militibus ostenderetur. [7] Imperarunt autem Maximus et Balbinus anno uno32, cum Maximinus imperasset cum filio, ut quidam dicunt, per triennium, ut alii per biennium33. [16, 1] Domus Balbini etiam nunc Romae ostenditur in Carinis34, magna et potens et ab eius familia huc usque possessa. [2] Maximus, quem Puppienum plerique putant, summae tenuitatis, sed virtutis amplissimae fuit. [3] Sub his pugnatum est a Carpis35 contra Moesos. Fuit et Scythici36 belli principium, fuit et Histriae excidium37 eo tempore, ut autem Dexippus dicit, Histricae civitatis. [4] Dexippus Balbinum satis laudat et dicit forti animo militibus occurrisse atque interfectum, ut mortem non timeret, quem omnibus disciplinis instructum fuisse dicit; Maximum vero negat eius modi virum fuisse, qualem Graeci plerique dixerunt. [5] Addit praeterea, {tantum} contra Maximinum Aquileiensium odium fuisse, ut de crinibus mulierum suarum arcubus nervos facerent atque ita sagittas emitterent. [6] Dexippus et Herodianus, qui hanc principum historiam persecuti sunt, Maximum et Balbinum fuisse principes dicunt, delectos a senatu contra Maximinum post interitum duorum in Africa Gordianorum, cum quibus etiam puer tertius Gordianus electus est. [7] Sed apud Latinos scriptores plerosque Maximi nomen non invenio et cum Balbino Puppienum imperatorem repperio, usque adeo ut idem Puppienus cum Maximino apud Aquileiam pugnasse dicatur, cum memoratis historicis asserentibus ne Maximus quidem contra Maximinum pugnasse doceatur, sed resedisse apud Ravennam atque illic patratam audisse victoriam; ut mihi videatur idem esse Puppienus qui Maximus dicitur38. [17, 1] Quare etiam gratulatoriam epistolam subdidi, quae scripta est a consule sui temporis de Puppieno et Balbino, in qua laetatur redditam ab his post latrones improbos esse rem p.: [2] «Puppieno et Balbino Augustis Claudius Iulianus39. Cum primum Iovis Op. M. et deorum inmortalium senatusque iudicio et consensu generis humani suscepisse vos rem p. a nefarii latronis scelere servandam regendamque Romanis legibus, domini sanctissimi et invictissimi Augusti, quamquam nondum ex divinis litteris, sed tamen ex s. c., quod ad me v. c.40 Celsus Aelianus collega transmiserat, conperissem: gratulatus sum urbi Romae, cuius ad salutem estis electi, gratulatus senatui, cuius pro iudicio, quod in vos

habuit, reddidistis pristinam dignitatem, gratulatus Italiae, quam cum maxime ab hostium vastatione defendistis, gratulatus provinciis, quas inexplebili avaritia tyrannorum laceratas ad spem salutis {reduxistis}, denique [de] legionibus ipsis et auxiliis, quae ubique terrarum iam vultus vestros adorant, quod deposito dedecore pristino nunc in vestro nomine dignam Romani principatus speciem receperunt. [3] Quocirca nulla vox 〈tam〉 fortis, nulla oratio tam felix, nullum ingenium tam fecundum numquam fuerit, quod possit publicam felicitatem digne exprimere. [4] Quae quanta et cuius modi sit, iam in ipso exordio principatus vestri cognoscere potuimus, qui leges Romanas aequitatemque abolitam et clementiam, quae iam nulla erat, et vitam et mores et libertatem et spem successionum atque heredum reduxistis. [5] Haec enumerare difficile est, nedum prosequi consentanea dicendi dignitate. [6] Nam quod nobis vita per vos reddita est, quam dimissis passim per provincias carnificibus sceleratus latro sic petit, ut se {amplissimo} ordini profiteretur iratum, quomodo dicam aut prosequar? [7] Praesertim cum mediocritas mea non modo publicam felicitatem, sed ne peculiare quidem gaudium animi mei possit exprimere, cum eos Augustos et principes generis humani videam, quorum antehac perpetuo cultu mores et modestiam meam tamquam veteribus censoribus meis cuperem probata, et haec esse 〈cum〉) confìdam in priorum principum testimoniis, vestris tamen ut gravioribus iudiciis gloriarer. [8] Di praestent praestabuntque hanc orbi Romano felicitatem. Nam cum ad vos respicio, nihil aliud optare possum, quam quod apud deos dicitur victor Carthaginis41 precatus, ut scilicet in eo statu rem p. servarent, in quo tunc esset, quod nullus melior inveniretur. [9] Ita ego precor, ut in eo statu vobis rem p. servent, in quo eam vos adhuc nutantem collocaritis». [18, 1] Haec epistola probat Puppienum eundem esse, qui a plerisque Maximus dicitur. [2] Si quidem per haec tempora apud Graecos non facile Puppienus, apud Latinos non facile Maximus inveniatur, et ea, quae gesta sunt contra Maximinum, modo a Puppieno modo a Maximo acta dicantur.

[1, 1] Uccisi che furono in Africa Gordiano il vecchio ed il figlio, mentre Massimino furente marciava alla volta dell’Urbe, per vendicarsi della proclamazione dei Gordiani quali Augusti, il senato, in preda al terrore, si riunì in tutta fretta nel tempio della Concordia1 il 7 di giugno2, durante le feste in onore di Apollo3, alla ricerca di un rimedio contro il furore di quell’uomo scellerato. [2] Essendo entrati nella curia due ex consoli e uomini di grande prestigio, Massimo e Balbino (da parte di molti storici non si fa menzione di Massimo, ma al suo posto viene citato il nome di Pupieno, mentre sia Dexippo che Arriano4 affermano che dopo i Gordiani furono eletti, per opporsi a Massimino, Massimo e Balbino5), l’uno famoso per la sua bontà, e l’altro per la sua virtù e austerità, mostrando particolarmente nell’espressione del volto l’apprensione per l’arrivo di Massimino, quando il console prese ad esporre le altre questioni, colui cui toccava di parlare per primo, cominciò a dire: [3] «Vi preoccupate di roba di poco conto: in un momento esplosivo noi stiamo a trattare nella curia di cose quasi degne di vecchierelle. [4] Che bisogno c’è infatti di discutere del restauro dei templi, dell’addobbo della basilica, delle terme di Tito6, del completamento dell’Anfiteatro, mentre è alle porte quel Massimino che voi assieme a me avete in passato dichiarato nemico pubblico, e i due Gordiani, che avevano costituito la nostra difesa, sono stati uccisi, né al presente possiamo contare su alcun aiuto, che ci permetta almeno di prendere fiato? Orsù dunque, o senatori, nominate degli imperatori. Perché indugiate? Ché non abbiate a soccombere nello spavento piuttosto che in una valorosa resistenza, mentre uno dopo l’altro vi abbandonate al terrore». [2, 1] Un silenzio generale seguì a queste parole; e mentre Massimo, che era di età veneranda ed eminente per i suoi meriti, il suo valore e la sua fermezza, aveva cominciato ad esporre il suo parere, secondo il quale si dovevano nominare due imperatori, Vezzio Sabino7, della famiglia degli Ulpi, chiese al console il permesso di intervenire a parlare, e così esordì: [2] «So, o senatori, che in tempo di rivolgimenti politici occorre vi sia la fermezza di prendere decisioni immediate, non di soffermarsi a studiarle, e anzi bisogna mettere da parte i fiumi di parole e le opinioni personali, quando gli eventi incalzano da vicino. [3] Ciascuno si preoccupi della sua testa, pensi alla moglie e ai figli, ai beni paterni e aviti: su tutto ciò incombe minaccioso Massimino, un uomo di sua natura forsennato, truculento, sanguinario, reso poi ancor più feroce da un motivo, dal suo punto di vista, pienamente giusto. [4] Egli, con le truppe in ordine di battaglia, posti ovunque degli accampamenti, punta sulla

città, mentre voi perdete il giorno fra sedute e consultazioni. [5] Non v’è bisogno di lunghi discorsi: bisogna nominare un imperatore, anzi bisogna nominare due imperatori, uno che si occupi degli affari interni, e un altro della guerra, uno che stia a Roma e l’altro che marci con l’esercito contro quei masnadieri. [6] Io farò il nome di due possibili imperatori, voi approvate, se siete d’accordo; se no, indicatene due migliori: [7] io dico dunque Massimo e Balbino, dei quali l’uno è tanto valente in guerra da avere, con lo splendore del suo valore, riscattato le sue origini non nobili, l’altro è così illustre nella nobiltà della sua stirpe, da risultare prezioso per lo Stato, e per la sua mitezza di costumi e per la sua rettitudine di vita, che ha sempre mantenuto sin dall’infanzia, dedicandosi agli studi e alle lettere. [8] Eccovi dunque la mia proposta, o senatori, forse più pericolosa per me che per voi, anche se neppure voi potete stare del tutto tranquilli, se non eleggerete – questi o altri – degli imperatori». [9] Dopo il suo discorso, fu acclamato a una voce: [10] «È opportuno, è giusto. Tutti siamo d’accordo con la proposta di Sabino. Massimo e Balbino Augusti, gli dèi vi salvino. Gli dèi vi hanno fatti imperatori, gli dèi vi conservino. Difendete il senato da quei briganti, a voi affidiamo la guerra contro quei briganti. [11] Il nemico pubblico Massimino muoia assieme a suo figlio, perseguite il nemico pubblico. Fortunati voi per il giudizio del senato, fortunato lo Stato per il vostro impero. [12] Ciò che il senato vi ha affidato, compitelo valorosamente; ciò che il senato vi ha affidato, accettatelo di buon grado». [3, 1] Con queste e altre acclamazioni Massimo e Balbino furono nominati imperatori. [2] Usciti dunque dal senato, prima di tutto salirono al Campidoglio e celebrarono un sacrificio. [3] Poi convocarono il popolo ai rostri8. Lì, dopo che ebbero tenuto un discorso, comunicando le decisioni del senato e la loro elezione, la gente e i soldati che per avventura erano convenuti, acclamarono: «Chiediamo tutti Gordiano quale Cesare». [4] Questi era il nipote di Gordiano il vecchio, nato dal figlio di lui, che era stato ucciso in Africa, che aveva allora, come affermano i più, tredici anni9. [5] Subito egli fu preso e, con un nuovo genere di decreto senatorio – dato che in quel medesimo giorno era stato promulgato un senatoconsulto –, venne introdotto nella curia e ivi proclamato Cesare. [4, 1] La prima proposta dei due imperatori fu l’attribuzione del titolo di «divi» ai due Gordiani. [2] Alcuni ritengono che tale attribuzione riguardasse solo uno dei due, cioè il vecchio, ma io ricordo di aver letto nei libri scritti in

gran numero da Giunio Cordo che entrambi furono divinizzati; [3] ché il vecchio si tolse la vita impiccandosi, mentre il giovane fu ucciso in guerra; e quest’ultimo merita in ogni caso maggior venerazione, perché fu la guerra a portarlo via. [4] Dopo che dunque furono formulate queste proposte, venne conferita la prefettura dell’Urbe a Sabino, uomo austero e di costumi degni di quelli di Massimo, mentre quella del pretorio venne affidata a Pinario Valente10. [5] Ma prima di parlare del loro operato, intendo riferire qualcosa sul loro carattere e la loro stirpe, non alla maniera con cui Giunio Cordo si è dilungato su ogni particolare, ma al modo di Svetonio Tranquillo e di Valerio Marcellino11, anche se per il vero Curio Fortunaziano, che pure ha trattato per esteso tutta la storia di questo periodo, si è soffermato solo su poche cose – Cordo, invece, su di una tal quantità di dettagli, che finisce per registrare anche un gran numero di particolari insignificanti e sconvenienti. [5, 1] Il padre di Massimo era un plebeo12, di nome Massimo lui pure, secondo alcuni fabbro ferraio, secondo altri fabbricante di carrozze. [2] La moglie, da cui lo ebbe, si chiamava Prima. Massimo ebbe quattro fratelli e quattro sorelle, che morirono tutti in tenera età. [3] Si racconta che quando nacque Massimo, un’aquila gettò nella loro stanza, che dava su un angusto cortile, un pezzo di carne di bue, molto grosso, e poiché questo era rimasto a terra, dato che nessuno osava toccarlo per una sorta di timore superstizioso, essa lo prese di nuovo e lo depose nel vicino tempietto intitolato a Giove Prestite13. [4] Il fatto al momento non parve contenere in sé alcun presagio, ma che non era avvenuto casualmente lo dimostrò l’elevazione di Massimo all’impero. [5] Trascorse tutta la sua fanciullezza in casa dello zio paterno Pinario, che egli, appena diventato imperatore, elevò alla prefettura del pretorio. [6] Non si dedicò molto allo studio della grammatica e della retorica, giacché coltivò sempre le qualità e la severità proprie della vita militare. [7] Fu comunque tribuno militare, e comandò molti distaccamenti; in seguito rivestì la pretura, le cui spese furono sostenute da Pescennia Marcellina, che lo aveva accolto e fatto crescere come un figlio. [8] Poi esercitò il proconsolato di Bitinia, successivamente di Grecia, e, la terza volta, della Gallia Narbonese. [9] Mandato poi in qualità di legato, sconfisse i Sarmati nell’Illirico, e di lì venne trasferito sul Reno14, dove condusse con buon successo una campagna contro i Germani. [10] Dopo ciò, si fece apprezzare come prefetto dell’Urbe pieno di saggezza, ingegno e serietà. [11] Perciò il senato, riconoscendolo come un elemento prezioso, conferì a lui l’impero, sebbene – ciò che non era consentito

– fosse un uomo proveniente da famiglia non titolata, giacché tutti riconoscevano che in quel frangente non c’era nel senato uno che fosse più di lui idoneo a dover ricevere il titolo di imperatore. [6, 1] E poiché molti vogliono conoscere anche i particolari minori, dirò che era avido di cibo, ma molto sobrio nel bere, assai continente nei rapporti sessuali, sempre austero in casa e fuori, tanto da ricevere perfino il soprannome di «triste». [2] Era molto severo e arcigno nell’espressione del volto, alto di statura, godeva di ottima salute fìsica; era di modi piuttosto scostanti, ma nondimeno equo, né mai, fino al termine della sua carriera politica, si comportò in modo scortese o inclemente. [3] Quando veniva pregato, sempre concedeva il perdono, né si adirava, se non quando era proprio il caso di farlo. [4] Non si prestò mai ad intrighi; era fermo nei suoi giudizi né dava mai credito ad altri più che a se stesso. [5] Perciò fu molto amato dal senato e temuto dal popolo, che conosceva la severità censoria della sua prefettura e presumeva che essa potesse – una volta che fosse stato investito dell’autorità imperiale – farsi ancora più rigida. [7, 1] Balbino, che discendeva da una famiglia di antica nobiltà15, era stato due volte console16 e aveva governato un gran numero di province. [2] Aveva infatti amministrato l’Asia, l’Africa, la Bitinia, la Galazia17, il Ponto, la Tracia e le Gallie; talvolta ebbe anche a comandare un esercito, ma nel campo militare si mostrò meno valente che in quello civile; nondimeno, grazie alla sua bontà, alla sua grande rettitudine e modestia, si era conquistato grandi simpatie. [3] Era discendente da una famiglia molto antica, che traeva origine, a quanto egli stesso diceva, da Balbo Cornelio Teofane18, che aveva ottenuto la cittadinanza romana da Gneo Pompeo, essendo egli un personaggio molto nobile nel suo paese d’origine e uno scrittore di storia. [4] Era di statura normale, bello d’aspetto fisico, portato ad eccedere nei piaceri. In questo era incoraggiato dalla grande disponibilità di ricchezze, ché era ricco per i beni aviti e ad un tempo molte sostanze aveva personalmente accumulato grazie ai lasciti a lui intestati. [5] Era oratore di fama e poeta insigne tra quelli del suo tempo. [6] Era molto amante del vino, del cibo, dei piaceri sessuali, elegante nel vestire, e non gli mancava nulla di quanto potesse acquistargli la simpatia del popolo. Era ben voluto anche dal senato. [7] Questo è quanto abbiamo potuto apprendere sulla vita dell’uno e dell’altro. Alcuni, poi, allo stesso modo che Sallustio mette a paragone fra loro Catone e Cesare19, hanno ritenuto che anche in questo caso si dovesse istituire un confronto, definendo l’uno severo e l’altro clemente, l’uno buono e l’altro

di carattere fermo, l’uno per nulla munifico, l’altro sovrabbondante in ogni genere di ricchezze. [8, 1] Questo per quanto riguarda il loro carattere e la loro stirpe. Dopo che furono decretati loro tutti gli onori e le insegne imperiali ed ebbero assunta la potestà tribunizia, il comando proconsolare, il pontificato massimo e il titolo di padri della patria, entrarono in carica come imperatori. [2] Ma, mentre celebravano il sacrificio sul Campidoglio, il popolo romano si oppose alla nomina ad imperatore di Massimo. La gente del volgo, infatti, temeva la sua severità, che riteneva molto ben accetta al senato, ma del tutto contraria ai propri interessi. [3] Perciò accadde, come già abbiamo narrato, che essi richiesero quale principe il giovinetto Gordiano, che subito fu proclamato tale, né i due imperatori furono lasciati entrare con la loro guardia armata nel Palazzo, prima che avessero conferito al nipote Gordiano il nome di Cesare. [4] Dopo tutto questo, furono celebrati i sacri riti, e allestiti gli spettacoli scenici e i ludi circensi, nonché uno spettacolo gladiatorio: quindi, compiuti in Campidoglio i voti agli dèi, Massimo partì con un grande esercito, con l’incarico di condurre la guerra contro Massimino, mentre i pretoriani rimasero a Roma. [5] È bene a questo punto spiegare brevemente donde sia nata l’usanza per cui gli imperatori in procinto di partire per la guerra davano uno spettacolo gladiatorio e di caccia alle fiere. [6] Molti affermano che fra gli antichi veniva celebrato un rito propiziatorio contro i nemici allo scopo che, sparso in sacrificio il sangue dei cittadini sotto la forma di questi combattimenti, ne risultasse saziata Nemesi20, cioè, per così dire, la forza del destino. [7] Altri scrivono – e lo ritengo più verisimile – che i Romani in partenza per la guerra dovevano vedere combattimenti, ferite, armi e uomini nudi in lotta fra loro, così che in guerra non avessero a spaventarsi di fronte ai nemici armati e fossero in grado di sostenere la vista delle ferite e del sangue. [9, 1] Partito Massimo per la guerra, a Roma rimasero i pretoriani. [2] Fra essi e il popolo scoppiò un dissidio così violento, che si arrivò alla guerra civile21, una grandissima parte di Roma venne incendiata, i templi profanati, tutte le piazze insozzate di sangue, giacché Balbino, uomo troppo mite, non era in grado di sedare i tumulti. [3] Egli si presentò infatti in pubblico, tendendo la mano a tutti uno per uno, e per poco non si prese delle sassate, anzi, come sostengono altri, fu colpito a bastonate. [4] E non sarebbe riuscito a sedare il tumulto, se non avesse presentato alla folla il piccolo Gordiano, vestito della porpora, issato sul collo di un uomo di gigantesca statura. Alla vista di lui il popolo e i soldati si calmarono, sino al punto da riconciliarsi fra

loro per l’amore che nutrivano nei suoi confronti. [5] Né mai alcuno in quel tempo fu amato tanto, grazie ai meriti del nonno e dello zio, che avevano perso la vita in Africa combattendo contro Massimino per la salvezza del popolo romano; tanto vale presso i Romani il ricordo delle nobili imprese. [10, 1] Una volta dunque partito Massimo per la guerra, il senato inviò in tutte le regioni dell’impero ex consoli, ex pretori, ex questori, ex edili, ed anche ex tribuni, per far sì che ciascuna popolazione preparasse frumento, armi, opere di difesa e mura, onde Massimino avesse a trovare resistenza per ogni città. [2] Venne poi in quel tempo ordinato che tutti i raccolti fossero, dai campi, ammassati nelle città, di modo che il nemico pubblico non avesse a trovare più nulla. [3] Furono inoltre inviati attraverso dei corrieri22 messaggi a tutte le province, con l’ordine che, chiunque avesse dato aiuto a Massimino, fosse tenuto nel novero dei nemici. [4] Frattanto a Roma scoppiarono di nuovo dissidi fra il popolo e i soldati. [5] E mentre Balbino emanava migliaia di editti senza essere ascoltato, i veterani si asserragliarono nel Castro Pretorio assieme ai pretoriani, dove il popolo cominciò ad assediarli. [6] Né mai si sarebbero assoggettati ad accettare una riconciliazione, se il popolo non avesse tagliato le tubazioni dell’acqua. [7] In città poi, quando ancora non era stato annunciato che i soldati stavano arrivando con intenzioni pacifiche, furono lanciate giù dai tetti delle tegole e scagliati contro di loro tutti i vasi che v’erano nelle case. [8] E fu così che la maggior parte della città subì gravi danni e andarono perduti i beni di molte persone. Ché ai soldati si mescolarono dei briganti che ben sapevano dove trovare ciò di cui volevano far bottino. [11, 1] Mentre a Roma si svolgevano questi avvenimenti, Massimo (o Pupieno) stava compiendo nei pressi di Ravenna, con grande dispiegamento di mezzi, i preparativi per la guerra, pieno di timore com’era nei confronti di Massimino, riferendosi al quale non faceva che dire che gli toccava combattere non contro un uomo, ma contro un Ciclope. [2] Massimino comunque subì ad Aquileia una così grave sconfìtta, che finì ucciso dai suoi stessi uomini, e il suo capo fu portato a Ravenna assieme a quello del figlio; Massimo poi lo inviò a sua volta a Roma. [3] A questo punto non bisogna passare sotto silenzio la fedeltà mostrata dagli Aquileiesi verso i Romani: si dice che essi abbiano impiegato come corde per scagliare le frecce persino i capelli delle loro donne. [4] Tale fu l’esultanza di Balbino – che era ancor più in ansia – che, non appena la testa di Massimino fu portata a Roma, ordinò immediatamente un’ecatombe. [5] L’ecatombe è un sacrificio celebrato in questo modo: vengono innalzati in un unico luogo cento altari fatti di zolle

erbose, e davanti ad essi si immolano cento porci e cento pecore. [6] Se poi si tratta di un sacrificio offerto da un imperatore, vengono uccisi cento leoni, cento aquile e altri animali del genere, tutti in numero di cento. [7] Anche i Greci, a quanto si dice, celebrarono una volta un sacrificio siffatto, allorché furono colpiti da una pestilenza, e risulta che molti imperatori ricorsero a tale rito23. [12, 1] Celebrato dunque questo sacrifìcio, Balbino attendeva con grandi manifestazioni di gratitudine il ritorno di Massimo dal Ravennate, con l’esercito e le salmerie intatti, [2] dato che Massimino era stato sconfitto dagli abitanti di Aquileia, assieme a un esiguo numero di soldati che si trovavano di stanza sul posto, con gli ex consoli Crispino e Menofìlo24, che erano stati inviati dal senato. [3] Massimo dal canto suo si era recato ad Aquileia per lasciare tutta la regione fino alle Alpi nella sicurezza e nelle migliori condizioni, e soffocare la resistenza di eventuali sacche di truppe barbariche favorevoli a Massimino. [4] Gli venne infine inviata una delegazione di venti senatori, i cui nomi sono riportati da Cordo (tra essi v’erano quattro ex consoli, otto ex pretori, otto ex questori), con corone e con il testo del senatoconsulto con il quale venivano decretate in suo onore delle statue equestri dorate. [5] La cosa fece alquanto irritare Balbino, che andava dicendo che Massimo aveva avuto da penare meno di lui, che aveva dovuto sedare in patria contrasti tanto violenti, mentre quello se ne era rimasto a Ravenna senza far nulla. [6] Ma tanto vale anche la sola intenzione, che a Massimo, per il fatto di essere partito per combattere Massimino, venne ascritto anche il merito di una vittoria, di cui egli ignorò persino il conseguimento. [7] Preso dunque sotto il proprio comando l’esercito di Massimino, Massimo si diresse alla volta di Roma con grande apparato e larghissimo seguito, mentre però i soldati si dolevano di aver perduto l’imperatore che essi stessi si erano scelti e di trovarsi ora agli ordini di quelli che aveva nominato il senato. [8] Né poteva essere dissimulato il loro scontento, che appariva nei volti di ciascuno; e ormai non mancava di esprimersi anche a parole, per quanto Massimo avesse spesso ripetuto ai soldati che si doveva dimenticare il passato e avesse concesso loro grossi stipendi e congedato le truppe ausiliarie destinandole ai luoghi da loro scelti. [9] Ma gli animi dei soldati, una volta pervasi dall’odio, non si possono più tenere a freno. Fu così che quando essi udirono certe acclamazioni del senato che andavano a colpire l’esercito, divennero ancor più ostili nei confronti di Massimo e Balbino e andavano pensando fra sé ogni giorno chi avrebbero dovuto eleggere come imperatori.

[13, 1] Ecco in che forma si ebbe il pronunciamento del senato25 che provocò il loro risentimento: all’arrivo di Massimo in città, Balbino, Gordiano e il senato ed il popolo romano gli erano andati incontro, e qui si ebbero una prima volta delle acclamazioni pubbliche che andavano a colpire i soldati. [2] Successivamente si passò in senato dove, dopo le acclamazioni solenni che si sogliono fare ordinariamente in queste circostanze, si esclamò: «Così agiscono gli imperatori eletti con saggezza, così periscono gli imperatori eletti dagli ignoranti» – e tutti sapevano che Massimino era stato eletto dai soldati, mentre Balbino e Massimo dai senatori. [3] All’udire ciò l’odio dei soldati prese a farsi ancora più aspro, specialmente nei confronti del senato, che pareva vantare il suo trionfo sull’esercito. [4] Balbino e Massimo, dal canto loro, governavano la città con grande moderazione, fra la soddisfazione del senato e del popolo; mostravano grande deferenza nei confronti del senato; promulgavano ottime leggi, amministravano la giustizia con equilibrio, studiavano eccellenti piani strategici. [5] Ed essendo già stato disposto che Massimo partisse per una campagna contro i Parti26 e Balbino contro i Germani27, mentre il giovinetto Gordiano avrebbe dovuto rimanere a Roma, i soldati, che andavano cercando l’occasione per uccidere i due principi, non riuscendo in un primo tempo a trovarla, giacché Massimo e Balbino erano protetti da un corpo di guardie germaniche28, divenivano ogni giorno più minacciosi. [14, 1] C’erano in verità degli attriti fra Balbino e Massimo – ma covati in silenzio, e che si potevano più intuire che notare apertamente –, giacché Balbino disprezzava Massimo come uomo di basse origini, e Massimo a sua volta scherniva Balbino per la sua debolezza. [2] Ciò finì per offrire ai soldati l’occasione buona, ché essi si resero conto di come si sarebbero potuti sopprimere facilmente i due imperatori in discordia fra loro. Fu così che, in occasione della rappresentazione di alcuni spettacoli teatrali29, approfittando del fatto che gran parte dei militari e del personale di corte erano impegnati e gli imperatori erano rimasti soli a Palazzo con le guardie germaniche, li attaccarono. [3] Nel mezzo dell’assalto dei soldati, non appena fu comunicato a Massimo che non c’era speranza di scampare ai pericoli di quel tumulto se non si mandava a chiedere l’aiuto dei Germani – e quelli, per avventura, si trovavano in un’altra parte del Palazzo assieme a Balbino –, egli inviò un messaggio a Balbino chiedendogli di mandargli in soccorso dei rinforzi. [4] Ma quello, sospettando che li chiedesse per poi servirsene contro di lui, dato che era convinto che aspirasse a detenere lui solo il potere, dapprima

tergiversò, poi venne ad aperta lite con lui. [5] Mentre essi erano impegnati in questo alterco, sopraggiunsero i soldati, e, spogliatili entrambi delle loro vesti regali, li condussero fuori del Palazzo coprendoli di insulti; e, dopo averli riempiti di ferite, avrebbero voluto trascinarli attraverso la città sino all’accampamento. [6] Ma quando seppero che i Germani stavano sopraggiungendo in loro difesa, li uccisero entrambi e li lasciarono in mezzo alla strada. [7] Frattanto Gordiano Cesare fu sollevato in trionfo dalle truppe e proclamato imperatore, cioè Augusto – giacché non v’era al momento alcun altro da poter scegliere –: e, lanciando insulti all’indirizzo del senato e del popolo, i soldati si ritirarono immediatamente negli accampamenti. [8] I Germani dal canto loro, per non dover combattere ormai senza motivo, una volta che i loro imperatori erano stati uccisi, ripararono fuori della città, dove avevano i loro compagni. [15, 1] Questa fu la fine che toccò a due valenti imperatori, indegna della loro vita e della loro condotta: ché non vi fu mai nessuno più forte di Massimo (o Pupieno), né più umano di Balbino, come si può dedurre dai fatti stessi; né infatti, avendo la facoltà di scegliere, il senato eleggerebbe mai degli uomini indegni. [2] A ciò si aggiunge che essi avevano già dato prova di sé rivestendo molte cariche e poteri, dato che erano giunti all’impero in età avanzata30, l’uno dopo essere stato due volte console e prefetto dell’Urbe, l’altro due volte console, benvoluti dal senato e anche dal popolo, che pure nutriva un po’ di timore nei confronti di Massimo. [3] Questo è quanto abbiamo potuto raccogliere sul conto di Massimo, attingendo in gran parte allo scrittore greco Erodiano. [4] Molti però sostengono che Massimino fu sconfìtto ad Aquileia non da Massimo, ma dall’imperatore Pupieno, e che quest’ultimo venne ucciso assieme a Balbino: e così non fanno menzione del nome di Massimo. [5] Tale è poi l’ignoranza e l’improntitudine degli storici che disputano fra di loro, che molti pretendono che si parli di Massimo e di Pupieno come della stessa persona, mentre Erodiano, che scrive di eventi a lui contemporanei, parla sempre di Massimo, non Pupieno, e lo storico greco Dexippo afferma che dopo la morte dei due Gordiani furono creati imperatori contro Massimino Massimo e Balbino, e che Massimino fu vinto da Massimo, non da Pupieno31. [6] A ciò si aggiunge l’ignoranza degli scrittori che sostengono che il piccolo Gordiano fu prefetto del pretorio, mostrando in molti di non sapere che questi fu portato più volte a spalla per poterlo mostrare ai soldati. [7] Massimo e Balbino restarono al potere per un anno32, mentre

Massimino aveva regnato assieme al figlio per tre anni, secondo la versione di certuni, per due secondo altri33. [16, 1] La casa di Balbino è visibile ancor oggi a Roma nel quartiere delle Carine34, grande e possente, e ancora di proprietà della sua famiglia. [2] Massimo, che molti identificano con Pupieno, era uomo assai povero, ma valorosissimo. [3] Durante il loro impero si ebbe una guerra fra i Carpi35 e i Mesi. Vi fu anche l’inizio della guerra scitica36, e, sempre in quel periodo, lo sterminio di Istria37 o, come dice Dexippo, della popolazione istriana. [4] Dexippo loda molto Balbino, affermando che si fece incontro impavido ai soldati e ricevette la morte mostrando di non temerla; dice inoltre che era uomo istruito in tutte le scienze; nega invece che Massimo fosse quell’uomo che la maggior parte degli autori greci ha descritto. [5] Aggiunge inoltre che tanto grande fu l’odio degli Aquileiesi contro Massimino, che arrivarono a utilizzare i capelli delle loro donne per fare i nervi degli archi, e a lanciare in quel modo le frecce. [6] Dexippo ed Erodiano, che hanno trattato la storia di questi imperatori, affermano che Massimo e Balbino furono gli imperatori eletti dal senato per opporsi a Massimino dopo la morte dei due Gordiani in Africa, assieme ai quali venne eletto anche il giovinetto Gordiano terzo. [7] Invece nella maggior parte degli autori latini non trovo il nome di Massimo, e quale collega di Balbino nell’impero vedo menzionato Pupieno, al punto che si afferma che lo stesso Pupieno combatté contro Massimino ad Aquileia – mentre, stando alle asserzioni degli storici sopra ricordati, Massimo non è indicato aver mai combattuto contro Massimino, ma se ne sarebbe rimasto a Ravenna, e lì avrebbe ricevuto la notizia che si era ottenuta la vittoria –; in relazione a tutto ciò sono portato a ritenere che Pupieno sia la stessa persona che viene chiamata anche Massimo38. [17, 1] In proposito ho qui riportato anche una lettera di congratulazioni nei confronti di Pupieno e Balbino, scritta da uno dei consoli dell’anno, nella quale egli si rallegra che lo Stato sia stato da essi liberato dopo essere stato in preda a briganti scellerati: [2] «Claudio Giuliano39 agli Augusti Pupieno e Balbino. Non appena ho appreso – se pure non ancora dal vostro sacro proclama, ma dal decreto senatorio che mi è stato trasmesso dall’illustrissimo40 mio collega Celso Eliano – che per volontà di Giove Ottimo Massimo, degli dèi immortali e del senato, nonché col consenso di tutto il genere umano, voi avevate assunto il governo

dello Stato, per salvarlo dalle scelleratezze di un infame brigante e governarlo secondo le leggi romane, signori venerabilissimi e invittissimi Augusti, mi sono rallegrato con la città di Roma, per la salvezza della quale voi siete stati eletti, mi sono rallegrato con il senato, cui avete restituito l’antica dignità, ripagandolo del giudizio che aveva espresso nei vostri confronti, mi sono rallegrato con l’Italia, che voi avete difeso più che mai dalle devastazioni dei nemici, mi sono rallegrato con le province, che, dilaniate dall’insaziabile avidità dei tiranni, avete ricondotto alla speranza della salvezza, e infine con le stesse legioni e con le truppe ausiliarie, che in tutto il mondo già venerano le vostre immagini, poiché, cancellato il disonore dei tempi passati, hanno ora ricevuto nella vostra persona una degna immagine dell’impero romano. [3] Di conseguenza non vi sarà mai nessuna voce tanto forte, nessun discorso tanto brillante, nessun ingegno tanto fecondo, da poter esprimere degnamente la fortuna occorsa allo Stato. [4] Quanto grande e di qual sorte essa sia, già abbiamo potuto conoscere nell’inizio stesso del vostro principato: voi avete ripristinato le leggi romane e la giustizia che era stata fatta sparire, e la clemenza che oramai non esisteva più, nonché la vita, la moralità, la libertà e la speranza di successione nei vostri eredi. [5] Sarebbe difficile enumerare tutti questi vostri meriti, ed ancor più celebrarli con parole appropriate e degne. [6] Come potrei infatti dire o descrivere come per merito vostro ci è stata ridata quella vita cui lo scellerato brigante attentava di continuo, sguinzagliando da ogni parte per le province i suoi sicari, sì da manifestare apertamente il suo livore nei confronti dell’illustrissimo ordine? [7] Specialmente tenendo conto del fatto che la mia mediocrità non è in grado di esprimere non solo l’esultanza generale, ma neppure la gioia personale del mio cuore al vedere nominati Augusti e principi del genere umano coloro dalla cui assidua attenzione io fino ad oggi avrei desiderato fossero approvate – come da parte di miei vecchi censori – la mia condotta e la mia discrezione; e, sebbene confidi che già lo siano state nelle attestazioni avute dai precedenti imperatori, tuttavia di un giudizio venuto da voi mi glorierei quale più autorevole. [8] Gli dèi mantengano al mondo romano questa fortuna – e certo la manterranno. Quando infatti guardo a voi, non posso augurarmi altro che quello che si dice abbia chiesto agli dèi il vincitore di Cartagine41, che cioè essi conservassero lo Stato proprio nella condizione in cui era allora, giacché non se ne poteva trovare una migliore. [9] Così io prego che essi vi conservino lo Stato – che è stato fino ad ora barcollante – in quella condizione in cui voi lo avrete stabilito».

[18, 1] Questa lettera prova che Pupieno è il medesimo personaggio che dalla maggior parte degli autori è chiamato Massimo. [2] Sta di fatto che, tra le fonti per questo periodo, non è facile trovare citato negli autori greci il nome di Pupieno e in quelli latini il nome Massimo e la conduzione della campagna contro Massimino viene attribuita ora a Pupieno ora a Massimo.

1. Cfr. Pert., 4, 9, n. 4. 2. Il 7 giugno del 238 d. C. La data è però in contrasto con Maxim., 16, 1 ove si parla di un’altra seduta del senato, che sarebbe avvenuta il 26 giugno per concedere il riconoscimento ai due Gordiani. Si tratta quindi o di riconoscere l’errore da parte del biografo, oppure di tentare un’emendazione del testo tràdito, come in genere si fa a partire dal PETER, che corresse Iunias in Iulias. Va però detto che le ricostruzioni degli avvenimenti aventi come base la data così ottenuta, cioè il 9 luglio, non mancano di presentare comunque difficoltà e incertezze di vario genere (sulla complessa questione cfr., anche per i riferimenti bibliografici, A. BELLEZZA, Massimino il Trace, Genova, 1964, pp. 174 seg.). Nel complesso la cronologia dell’anno 238 d. C. – che è oggetto di approfondite discussioni fra gli studiosi – appare, per l’incertezza e le contraddizioni delle notizie ricavabili dalle fonti, tutt’altro che chiara. 3. I ludi Apollinares si celebravano fra il 6 e il 13 luglio. 4. Il solito errore per ERODIANO: cfr. Maxim., 33, 3, n. 2. 5. Cfr. Maxim., 20, 1, note 1-2. 6. Si trovavano alle pendici dell’Esquilino, occupando parte della zona su cui sorgeva la Domus Aurea di Nerone. 7. Il futuro prefetto dell’Urbe: cfr. 4, 4. 8. Erano così chiamate le tribune degli oratori nel Foro, in quanto ornate dei rostri delle navi catturate agli Anziati nel 338 a. C. 9. Cfr. Gord., 22, 2, n. 2. 10. Un parente di Balbino: cfr. 5, 5. 11. Nulla ci è noto su questo autore (cfr. Al. Sev., 48, 6, n. 2 e Prob., 2, 7), così come su CURIO FORTUNAZIANO, nominato subito dopo. 12. ERODIANO invece parla sia di Massimo sia di Balbino come di due patrizi (εὐπατρίδαι): cfr. VII, 8, 1 e 4. 13. Sappiamo dalle iscrizioni dell’esistenza di un culto di Iuppiter Praestes (= «Protettore») a Tivoli, ma non abbiamo attestazioni dell’esistenza di un suo tempio a Roma. 14. Cfr. ERODIANO, VIII, 6, 6; 7, 8, ove si fa riferimento al suo governo in Germania. 15. Mentre ERODIANO, come abbiamo visto (cfr. 5, 1, n. 1), conferma la nobiltà d’origini di Balbino, EUTROPIO (IX, 2, 1) si esprime in senso opposto; l’errore appare evidentemente di quest’ultimo. 16. Rivestì il secondo consolato nel 213 d. C. Incerto è l’anno del primo. 17. Regione centrale dell’Asia Minore dove nel III secolo a. C. emigrò la popolazione celtica dei Galati. 18. Come nota il MAGIE (II, p. 460, n. 2), si ha qui probabilmente una confusione tra L. Cornelio Balbo (console nel 40 a. C.; difeso da CICERONE nella Pro Balbo) e TEOFANE DI MITILENE, figlio adottivo di Balbo e autore di una storia della guerra mitridatica. 19. Cfr. SALLUSTIO, Cat., 54. 20. Dea della giustizia, che puniva la superbia e la tracotanza. Qui però, come nota il MAGIE (II, pp. 464 seg., n. 1), il biografo ha confuso gli spettacoli gladiatori con la devotio, la cerimonia attraverso la quale un generale sacrificava se stesso o qualcuno dei suoi uomini alle divinità infernali al fine di propiziare la vittoria. 21. Il racconto di questa sommossa appare fuori posto: essa dovrebbe in realtà coincidere con quella che, secondo quanto riferito da ERODIANO (VII, 10, 5-9) portò all’elezione a Cesare del giovane Gordiano (cfr. Maxim., 20, 6, n. 1 e F. KOLB, Literarische Beziehungen zwischen Cassius Dio, Herodian und der HA, Bonn, 1972, pp. 13 segg.). 22. Cfr. Hadr., 11, 4, n. 1. 23. Questa discussione pseudo-erudita sulle modalità del sacrificio dell’ecatombe (cfr. Maxim., 24, 7,

n. 1) appare destituita di ogni reale fondamento storico e frutto della fantasia dell’autore. 24. Cfr. Maxim., 21, 6. 25. In realtà la serie di acclamazioni di cui qui si parla non poteva di per sé costituire in senso proprio un senatusconsultum (cfr. lo stesso uso improprio del termine a Maxim., 26, 1). 26. Si intendono qui i Persiani. Cfr. Gord., 26, 3, n. 5. 27. Cioè i Goti; cfr. 16, 3. 28. Stando al racconto di ERODIANO, si sarebbe trattato di un corpo di volontari che aveva accompagnato Massimo a Roma (contrariamente a quanto affermato erroneamente in Maxim., 24, 6, ove si parla di uno scioglimento dei corpi ausiliari germanici a Ravenna); sempre secondo lo storico greco proprio la presenza di questi soldati germanici contribuì ad accrescere il malcontento dei soldati e a provocarne la ribellione. Cfr. ERODIANO, VIII, 7, 8; VIII, 8, 2. 29. ERODIANO (VIII, 8, 3), che il biografo segue qui assai da vicino, ci informa che si trattava dell’agon Capitolinus (sugli agones cfr. Al. Sev., 35, 4, n. 1). 30. Il dato è confermato da ZONARA, XII, 17 secondo cui Balbino avrebbe avuto sessant’anni e Massimo settantaquattro. 31. Su questa questione, ripresa anche successivamente, cfr. Maxim., 33, 3-4 e n. 4. 32. In realtà il loro impero ebbe a durare solo pochi mesi, anche se risulta estremamente problematico fissare quali, per via delle contraddizioni di ordine cronologico riscontrabili negli accenni della HA (cfr. 1, 1, n. 2) e non chiarite neppure dalle altre fonti. 33. Si trattò certamente del triennio 235-238 d. C., anche se non sono fissabili con certezza i mesi di inizio e fine del regno. 34. Quartiere di Roma presso l’Esquilino. 35. Tribù della Dacia. 36. Ci si riferisce anche qui (come nel caso dei Germani citati a 13, 5) ai Goti. 37. Antica città della Dobrugia, comunemente chiamata Istros. La collocazione della sua distruzione nel 238 d. C., che si ricava da questo passo, non appare storicamente fondata. Secondo E. DORUTIUBOILĂ, Excidium Histriae (H.A., Vita Maximi et Balbini 16, 3), in Actes XIIe conf. «Eirene» Bucarest, Amsterdam, 1975, pp. 635 segg., una grande parte della città fu devastata fra il 258 e il 269 d. C. in seguito alle incursioni operate da pirati che avevano il loro punto d’appoggio nel nord del Mar Nero, e successivamente abbandonata per costruire delle fortificazioni con i materiali recuperati sul posto. Il dato della HA pare infirmato inoltre da un’iscrizione del 240 d. C. (cfr. in questo senso D. M. PIPPIDI, Cinquante ans de fouilles à Istros. La tradition littéraire et les données archéologiques et épigraphiques, «Klio», LII, 1970, pp. 355 segg.). 38. Sulla questione cfr. Maxim., 33, 3-4, n. 4 e Max. Balb., 15, 4-5. Il pensiero dell’autore si svolge peraltro, nel lungo periodo, in maniera contorta. 39. Altrimenti sconosciuto, come il successivamente nominato Celso Eliano. 40. Sull’appellativo di vir clarissimus cfr. Av. Cass., 1, 1, n. 1. 41. Scipione Africano il giovane: per l’episodio cui si fa qui riferimento cfr. VALERIO MASSIMO, IV, 1, 10.

XXII. VALERIANI DUO 〈TREBELLI POLLIONIS〉

I DUE VALERIANI di TREBELLIO POLLIONIE

[. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .]1 [1, 1] […] Sapori rex regum Velsolus2: «Si scirem posse aliquando Romanos penitus vinci, gauderem tibi de victoria, quam praefers. [2] Sed quia vel fato vel virtute gens illa plurimum potest, vide, ne, quod senem imperatorem cepisti, et id quidem fraude, male tibi cedat, posteris tuis. [3] Cogita, quantas gentes Romani ex hostibus suas fecerint, a quibus saepe victi sunt. [4] Audivimus certe, quod Galli eos vicerint et ingentem illam civitatem incenderint3: certe Romanis serviunt. Quid Afri?4 Eos non vicerunt? Certe serviunt Romanis. [5] De longioribus exemplis et fortasse interioribus nihil dico. Mithridates Ponticus5 totam Asiam tenuit: certe victus est, certe Asia Romanorum est. [6] Si meum consilium requiris, utere occasione pacis et Valerianum suis redde. Ego gratulor felicitati tuae, si tamen illa uti tu scias». [2, 1] Velenus rex Cadusiorum6 sic scripsit: «Remissa mihi auxilia integra et incolumia gratanter accepi. At captum Valerianum principem principum non satis gratulor, magis gratularer, si redderetur. Romani enim graviores tunc sunt, quando vincuntur. [2] Age igitur ut prudentem decet, nec fortuna te inflammet, quae multos decepit. Valerianus et filium imperatorem7 habet et nepotem Caesarem8, et quid ad omnem orbem illum Romanum, qui contra te totus insurget? [3] Redde igitur Valerianum et fac cum Romanis pacem, nobis etiam ob gentes Ponticas profuturam». [3, 1] Artabasdes9 rex Armeniorum talem ad Saporem epistolam misit: «In partem gloriae venio, sed vereor, ne non tam viceris quam bella severis. [2] Valerianum et filius repetit et nepos et duces Romani et omnis Gallia et omnis Africa et omnis Hispania et omnis Italia et omnes gentes, quae sunt in Illyrico atque in oriente et in Ponto, quae cum Romanis consentiunt aut Romanorum sunt10. [3] Unum ergo senem cepisti, sed omnes gentes orbis terrarum infestissimas tibi fecisti, fortassis et nobis, qui auxilia misimus, qui vicini sumus, qui semper vobis inter vos pugnantibus laboramus». [4, 1] Bactrani et Hiberi et Albani et Tauroscythae11 Saporis litteras non receperunt, sed ad Romanos duces scripserunt auxilia pollicentes ad Valerianum de captivitate liberandum. [2] Sed Valeriano apud Persas consenescente Odenatus12 Palmyrenus13 collecto exercitu rem Romanam prope in pristinum statuiti reddidit. [3] Cepit regis thesauros, cepit etiam, quas thesauris cariores habent reges Parthici, concubinas. [4] Quare magis reformidans Romanos duces Sapor timore

Ballistae14 atque Odenati in regnum suum ocius se recepit. Atque hic interim finis belli fuit Persici. [5, 1] Haec sunt digna cognitu de Valeriano, cuius per annos septuaginta vita laudabilis in eam conscenderat gloriam, ut post omnes honores et magistratus insigniter gestos imperator fieret, non, ut solet, tumultuario populi concursu, non militum strepitu, sed iure meritorum et quasi ex totius orbis una sententia. [2] Denique si data esset omnibus potestas promendi arbitrii, quem imperatorem vellent, alter non esset electus. [3] Et ut scias, quanta vis in Valeriano meritorum fuerit publicorum, ponam senatus consulta, quibus animadvertant omnes, quid de illo semper amplissimus ordo iudicaverit. [4] Duobus Deciis conss.15 sexto kal. Novembrium die, cum ob imperatorias litteras in aede Castorum16 senatus haberetur ireturque per sententias singulorum, cui deberet censura17 deferri (nam id Decii posuerant in senatus amplissimi potestate), ubi primum praetor edixit: «Quid vobis videtur, p. c., de censore deligendo?» atque eum, qui erat princeps tunc senatus18, sententiam rogasset absente Valeriano (nam ille in procinctu cum Decio tunc agebat), omnes una voce dixerunt interrupto more dicendae sententiae: «Valeriani vita censura est. [5] Ille de omnibus iudicet, qui est omnibus melior. Ille de senatu iudicet, qui nullum habet crimen. Ille de vita nostra sententiam ferat, cui nihil potest obici. [6] Valerianus a prima pueritia fuit censor. Valerianus in tota vita sua fuit censor. Prudens senator, modestus senator, gravis senator. Amicus bonorum, inimicus tyrannorum, hostis criminum, hostis vitiorum. [7] Hunc censorem omnes accipimus, hunc imitari omnes volumus. Primus genere, nobilis sanguine, emendatus vita, doctrina clarus, moribus singularis exemplo antiquitatis». [8] Quae cum essent saepius dieta, addiderunt: «omnes», atque ita discessum est. [6, 1] Hoc senatus consultum ubi Decius accepit, omnes aulicos convocavit, ipsum etiam Valerianum praecepit rogari atque in conventu summorum virorum recitato senatus consulto: [2] «Felicem te», inquit, «Valerianum, totius senatus sententia, immo animis atque pectoribus totius orbis humani. Suscipe censuram, quam tibi detulit Romana res publica, quam solus mereris, iudicaturus de moribus omnium, iudicaturus de moribus nostris. [3] Tu aestimabis, qui manere in curia debeant, tu equestrem ordinem in antiquum statum rediges, tu censibus modum pones, tu vectigalia fìrmabis, divides, statu〈es, tu〉 res publicas recensebis; [4] tibi legum scribendarum auctoritas dabitur, tibi de ordinibus militum iudicandum est; [5] tu arma

respicies, [6] tu de nostro Palatio, tu de iudicibus, tu de praefectis eminentissimis iudicabis, excepto denique praefecto urbis Romae, exceptis consulibus ordinariis19 et sacrorum rege ac maxima virgine Vestalium20 – si tamen incorrupta permanebit –, de omnibus sententias feres, laborabunt autem etiam illi, ut tibi placeant, de quibus non potes iudicare». Haec Decius. [7] Sed Valeriano sententia huiusmodi fuit: «Ne, quaeso, sanctissime imperator, ad hanc me necessitatem alliges, ut ego iudicem de populo, de militibus, de senatu, de omni penitus orbe iudicibus et tribunis ac ducibus. [8] Haec sunt, 〈propter〉 quae Augustum nomen tenetis; apud vos censura desedit, non potest hoc implere privatus. [9] Veniam igitur eius honoris peto, cui vita inpar est, inpar est confidentia, cui tempora sic repugnant, ut censuram hominum natura non quaerat». [7, 1] Poteram multa alia et senatus consulta et iudicia principum de Valeriano proferre, nisi et vobis pleraque nota essent, et puderet altius virum extollere, qui fatali quadam necessitate superatus est. Nunc ad Valerianum minorem revertar. [8, 1] Valerianus iunior21, alia quam Gallienus matre genitus, forma conspicuus, verecundia probabilis, eruditione pro aetate clarus, moribus periucundus atque a fratris dissolutione seiunctus, a patre absente Caesar est appellatus, a fratre, ut Caelestinus22 dicit, Augustus. [2] Nihil habet praedicabile in vita, nisi quod est nobiliter natus, educatus optime et miserabiliter interemptus. [3] Et quoniam scio errare plerosque, qui Valeriani imperatoris titulum in sepulchro legentes illius Valeriani redditum putant corpus, qui a Persis est captus, ne ullus error obrepat, mittendum in litteras censui hunc Valerianum circa Mediolanium sepultum addito titillo Claudii23 iussu: «Valerianus imperator». [4] Non puto plus aliquid vel de maiore Valeriano vel de iuniore requirendum. [5] Et quoniam vereor, ne modum voluminis transeam, si24 Gallienum, Valeriani filium, de quo iam mul〈tus〉 […] nobis fuit se 〈rmo〉 […] {vel} Saloninum fi〈lium〉 {etiam}[…] Gallieni, qui e〈t […] Gal〉lienus est dic〈tus〉 […] libro adiunc〈to〉 […] ad aliud volumen transeam […] semper enim me vobis dedidi […] et famae, cui negare nihil possum25.

[. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .]1 [1, 1] […] a Sapore il re dei re Velsolo2: «Se io sapessi che i Romani, un giorno o l’altro, potessero essere completamente sopraffatti, mi rallegrerei con te della vittoria che mi annunzi. [2] Ma poiché quel popolo, o per volere del fato o per i suoi propri meriti, è potentissimo, bada che l’aver preso prigioniero un vecchio imperatore, e per di più con l’inganno, non torni a danno tuo e dei tuoi discendenti. [3] Pensa quante genti i Romani da nemiche abbiano reso loro soggette, dopo che pure erano stati più volte da esse vinti. [4] Abbiamo appreso per certo che i Galli li sconfissero e incendiarono quella grande città3: ma è altrettanto certo che ora sono sudditi dei Romani. E gli Africani?4 Non li hanno forse vinti? Eppure sono sudditi dei Romani. [5] Taccio di altri esempi più diffusi e forse più a noi vicini. Mitridate Pontico5 occupò tutta l’Asia: eppure fu vinto, eppure l’Asia è sotto il dominio romano. [6] Se vuoi il mio consiglio, sfrutta l’occasione di pace che ti si presenta e restituisci Valeriano ai suoi. Io mi congratulo con te per la fortuna che hai avuto, purché tu sappia farne buon uso». [2, 1] Veleno, re dei Cadusii6, così scrisse: «Ho ricevuto con soddisfazione le truppe ausiliarie che mi hai rimandato indietro integre ed incolumi. Ma per la cattura di Valeriano, principe dei principi, non mi rallegro molto: mi rallegrerei di più se fosse restituito. I Romani infatti sono più terribili proprio quando vengono sconfitti. [2] Agisci dunque come si conviene ad un uomo saggio, né ti infiammi la sorte favorevole, che ha già ingannato molti. Valeriano ha un figlio imperatore7 e un nipote Cesare8; e che dire di tutto il mondo romano, che insorgerà intero contro di te? [3] Restituisci dunque Valeriano e fa’ con i Romani una pace che gioverà anche a noi, per via delle genti del Ponto». [3, 1] Artabasde9, re degli Armeni, inviò a Sapore una lettera di questo tenore: «Prendo parte al tuo trionfo, ma temo che tu, più che vincere, abbia seminato nuove guerre. [2] Richiedono Valeriano il figlio e il nipote, i generali romani, tutta la Gallia, tutta l’Africa, tutta la Spagna, tutta l’Italia e tutte le genti che sono nell’Illirico, nell’Oriente e nel Ponto, che sono alleate dei Romani o loro soggette10. [3] Tu dunque hai catturato solo un vecchio, ma hai reso tutti i popoli del mondo estremamente ostili a te e forse anche a noi, che ti abbiamo mandato truppe ausiliarie, che ti siamo confinanti e che sempre ci troviamo ad essere coinvolti con nostro danno nelle vostre guerre».

[4, 1] I Battriani, gli Iberi, gli Albani, i Taurosciti11 respinsero le lettere di Sapore e scrissero a loro volta ai generali romani promettendo loro aiuti per liberare Valeriano dalla prigionia. [2] Ma, mentre Valeriano invecchiava presso i Persiani, Odenato12 di Palmira13 raccolse un esercito e riportò le sorti di Roma quasi alla situazione precedente. [3] Si impossessò dei tesori del re, si impossessò anche delle concubine che i re partici hanno più care dei tesori. [4] Perciò Sapore, vieppiù temendo i generali romani, per timore appunto di Ballista14 e di Odenato si ritirò in tutta fretta nel proprio regno. E qui per il momento ebbe fine la guerra persiana. [5, 1] Queste sono le cose degne di essere conosciute a proposito di Valeriano, la cui vita, svoltasi ammirevole nel corso di settant’anni, aveva raggiunto una gloria tale che egli, dopo aver ricoperto con onore tutte le cariche e le magistrature, fu eletto imperatore, non – come avviene di solito – per un tumultuoso concorso di popolo, non per le acclamazioni disordinate dei soldati, ma per il diritto acquisito con i suoi meriti e come per voto unanime di tutto il mondo. [2] Insomma, se fosse stata concessa a tutti la facoltà di esprimere il loro parere su quale imperatore preferissero, non altri sarebbe stato eletto. [3] E affinché tu sappia quanto grande sia stato nel caso di Valeriano il valore assunto dai suoi meriti pubblici, riporterò alcuni senatoconsulti, dai quali tutti possano rendersi conto del giudizio che sempre ebbe su di lui l’illustrissimo ordine. [4] Il 27 ottobre dell’anno del consolato dei due Deci15, nel corso di una seduta del senato tenuta nel tempio dei Castori16 su convocazione scritta dell’imperatore, in cui si procedeva al voto dei singoli in merito al conferimento della censura17 (infatti i Deci avevano rimesso tale scelta alla discrezione dell’illustrissimo consesso), non appena il pretore ebbe pronunciato la formula: «Qual è il vostro parere, o senatori, circa la scelta del censore?», e invitò ad esprimersi colui che, in assenza di Valeriano (questi era infatti impegnato in armi assieme a Decio), fungeva allora da primo senatore18, tutti, interrompendo la normale procedura delle dichiarazioni di voto, gridarono ad una voce: «La vita stessa di Valeriano costituisce una censura. [5] Giudichi di tutti, colui che di tutti è il migliore. Giudichi il senato, colui che non si è macchiato di alcuna colpa. Giudichi la nostra vita colui cui nulla può essere rimproverato. [6] Valeriano è stato censore sin dalla prima

infanzia. Valeriano è stato censore in tutta la sua vita. Senatore prudente, senatore moderato, senatore serio. Amico dei buoni, avversario dei tiranni, nemico dei delitti, nemico dei vizi. [7] Tutti accettiamo lui come censore, tutti lo vogliamo imitare. Primo per nascita, nobile di sangue, irreprensibile nella vita, illustre per la dottrina, unico per qualità morali, sull’esempio degli antichi». [8] Dopo aver ripetuto più volte queste espressioni, aggiunsero: «tutti», e così la seduta fu tolta. [6, 1] Quando Decio venne a conoscenza di questo pronunciamento del senato, convocò tutti i funzionari di corte e fece invitare lo stesso Valeriano, e, nell’adunanza di tali illustri personaggi, diede lettura del decreto senatorio, aggiungendo: [2] «Felice te, Valeriano, per il voto espresso da tutto il senato, anzi per i sentimenti che nei tuoi confronti albergano nei cuori di tutti gli uomini del mondo. Assumi la censura, che lo Stato romano ti ha conferito, che tu meriti in massimo grado, per giudicare i costumi di tutti, per giudicare i nostri costumi. [3] Tu stabilirai chi debba rimanere nella Curia, tu riporterai l’ordine equestre alla sua primitiva dignità, tu regolerai l’ammontare dei censi, tu confermerai, ripartirai, fisserai le imposte, tu farai il censimento dei beni pubblici; [4] a te sarà data l’autorità di redigere le leggi, tu dovrai giudicare dei vari ordini militari; [5] tu ispezionerai le armi, [6] tu giudicherai in merito alla nostra corte, ai giudici, agli eminentissimi prefetti: ad eccezione, insomma, del prefetto di Roma, dei consoli ordinari19, del sacerdote sovrintendente ai sacrifìci e della Vestale massima20 – purché tuttavia rimanga incorrotta –, potrai pronunziare giudizi su tutti. E anche coloro che non hai facoltà di giudicare, si sforzeranno di avere la tua approvazione». Così Decio. [7] Ma la risposta di Valeriano fu di questo tenore: «Ti prego, o santissimo imperatore, non vincolarmi all’obbligo di giudicare del popolo, dei soldati, del senato, dei giudici, dei tribuni, dei generali nel mondo intero. [8] Queste sono le prerogative per le quali avete il nome di Augusto: la censura è un compito che spetta a voi e che un privato non può assolvere. [9] Chiedo dunque di essere dispensato da un ufficio di fronte al quale la mia vita è inadeguata e io non mi sento abbastanza coraggio e per il quale i tempi sono tanto sfavorevoli che la stessa natura umana non sente più il bisogno di un controllo». [7, 1] Avrei potuto citare molti altri senatoconsulti e giudizi di imperatori su Valeriano, se non fossero già in massima parte a voi noti, e non sentissi ritegno ad esaltare troppo un uomo che fu vinto – per così dire – da un ineluttabile disegno del fato. Ma ora verrò a parlare di Valeriano il giovane. [8, 1] Valeriano il giovane21, che non era figlio della stessa madre di

Gallieno, era bello d’aspetto, ammirevole per la sua modestia, si distingueva per la cultura che possedeva in rapporto all’età, aveva carattere molto gioviale, ed era ben lontano dalla dissolutezza del fratello: dal padre, che era lontano, ebbe il titolo di Cesare, dal fratello – come afferma Celestino22 – quello di Augusto. [2] Nella sua vita non v’è alcunché degno di nota, se non il fatto che nacque da nobile famiglia, ebbe un’eccellente educazione e fu miserevolmente ucciso. [3] E poiché so che molti sono tratti in errore, in quanto, leggendo su di un sepolcro l’iscrizione col nome di Valeriano imperatore, credono che sia stato restituito il corpo di quel Valeriano che era stato catturato dai Persiani, affinché non abbia ad insinuarsi alcuna confusione, ho ritenuto di dover precisare che fu questo Valeriano ad essere sepolto nei pressi di Milano, con l’aggiunta di un’iscrizione voluta da Claudio23: «Valeriano imperatore». [4] Non credo che vi sia da indagare di più riguardo a Valeriano maggiore e minore. [5] E poiché temo di oltrepassare la misura di un volume se24 […] passerò ad un altro volume […] sempre infatti vi sono stato devoto […] e alla fama, cui non posso negare nulla25.

1. La tradizione manoscritta della HA presenta, dopo la biografia di Massimo e Balbino, una lacuna corrispondente alle vite di Filippo l’Arabo (244-249 d. C.), Decio (249-251 d. C.), Treboniano Gallo (251253 d. C.), Emiliano (253 d. C.), e forse anche di Ostiliano e Volusiano (sull’argomento cfr. A. R. BIRLEY, The lacuna in the HA, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 55 segg.). Perduta è andata pure la maggior parte della Vita di P. Licinio Valeriano, eletto imperatore nel 253 d. C., che fu sconfitto e fatto prigioniero da Sapore I, il re Sassanide dei Persiani, intorno al 259-260 d. C. Relativa appunto alla sua prigionia è la parte della Vita a noi rimasta, che comincia con una serie di presunte lettere (evidentemente invenzioni del biografo) scritte da vari re orientali a Sapore per consigliargli di restituire l’imperatore romano catturato. 2. Personaggio non meglio identificato (il nome proprio è del resto congetturale, avendo il codice Palatinus vel solus). Il MAGIE (III, p. 3, n. 2) nota come il titolo di «re dei re» sia attestato, in monete e iscrizioni, in riferimento a Sapore: ma nel nostro testo tale circostanza comporta un’emendazione non lieve (regi regum vel soli già adottata dal SALMASIO e accolta appunto dal MAGIE) che può lasciare giustificatamente perplessi. 3. Si fa qui riferimento alla presa e all’incendio di Roma da parte dei Galli capeggiati da Brenno (390 d. C.). Sui richiami alla storia di Roma arcaica cfr. H. SZELEST, Die HA und die frühere römische Geschichte, «Eos», LXV, 1977, pp. 139 segg. 4. L’autore della lettera allude qui alle vittorie dei Cartaginesi sui Romani. 5. Si tratta di Mitridate VI Eupatore, re del Ponto, che combatté a lungo con i Romani, finché venne definitivamente sconfitto da Pompeo nel 66 a. C. 6. Cfr. Carac., 6, 4, n. 8; v. inoltre E. MANNI, Treb. Pollione, Le Vite di Valeriano e di Gallieno, Palermo, 19692, pp. 93 segg.

7. Gallieno. 8. Due figli di Gallieno ebbero il titolo di Cesare: Valeriano, morto nel 258 d. C., e Salonino, morto nel 260 o 261 d. C. Poiché la cattura di Valeriano avvenne intorno al 259-60 d. C., il riferimento appare qui riguardare il secondo (di costui troveremo in seguito la biografia, unita a quella del padre). 9. Di un Artabasdes rex Armeniorum vissuto nel III secolo d. C. non abbiamo altre attestazioni; tale nome, peraltro, era molto usato per i re di questa regione e fu portato da due re armeni molto famosi vissuti nel I e II secolo d. C.: può darsi, di conseguenza, che ci troviamo qui di fronte a un nome ripreso fittiziamente dal biografo stesso, ma non è neppure possibile escludere in modo assoluto che esso sia stato effettivamente portato da un principe di quelle parti vissuto nel III secolo d. C. 10. A parere di A. ALFÖLDI, Zwei Bemerkungen zur HA, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 1 segg., l’affermazione che la riconsegna di Valeriano fu richiesta dal figlio, dal nipote ecc. costituirebbe la risposta voluta e polemica dell’autore al cristiano LATTANZIO che, nel De mortibus persecutorum (cfr. V, 5), aveva sostenuto con accenti trionfalistici che l’imperatore pagano, persecutore dei Cristiani, era stato completamente abbandonato sia dal suo Fato che dagli uomini, nec omnino repetitus est. 11. I Battriani erano stanziati nella parte orientale dell’impero persiano; gli Iberi e gli Albani lungo la catena del Caucaso; i Taurosciti nella Crimea (cfr. Ant. Pius, 9, 9, n. 10). 12. Personaggio di notevole rilievo, dapprima generale di Gallieno, e poi egli stesso signore della parte orientale dell’impero. Lo incontreremo più volte nel corso di questa Vita. La sua biografia è comunque specificamente narrata nella Vita dei Tyranni triginta al cap. 15 (ricordiamo che nella HA sono detti tyranni gli usurpatori sorti in varie parti dell’impero specialmente nel corso del regno di Gallieno; cfr. Tyr. trig., n. 1). 13. Palmira era un’antichissima città situata in un’oasi del deserto fra Siria e Babilonia. Raggiunse, nel corso dei secoli, momenti di grande splendore (in particolare sotto Augusto, Adriano e Settimio

Severo), l’ultimo dei quali coincise proprio con la disfatta di Valeriano ad opera di Sapore. Fu distrutta nel 744 dagli Arabi: ne rimangono splendide rovine, a 140 km. dall’odierna Homs. Un’analisi degli avvenimenti legati a Palmira alla luce di queste vite e delle altre fonti è data da J. SCHWARTZ, L’HA et Palmyre, in BHAC, 1964-65, Bonn, 1966, pp. 185 segg. 14. Un altro dei cosiddetti tyranni sorti sotto l’impero di Gallieno; cfr. la sua biografìa in Tyr. trig., 18. 15. Nel 251 d. C. Il senatusconsultum che viene riportato ai parr. successivi è sicuramente – come la maggior parte dei pretesi «documenti» inseriti nel corso della HA – un falso creato dall’autore: ciò appare confermato dal fatto che poco dopo si dice che Decio era in quel momento impegnato in armi (nam ille in procinctu cum Decio tunc agebat), mentre si sa che egli era morto fin dal luglio di quello stesso anno nel corso della battaglia di Abritto, combattendo contro i Goti. 16. Cfr. Maxim., 16, 1, n. 1. 17. La questione della censura di Valeriano è stata assai dibattuta. Probabilmente si tratta di una notizia creata artificiosamente per sottolineare l’influenza del senato, anche se non bisogna dimenticare che, durante la guerra gotica, Valeriano ebbe a ricoprire – a quanto ci attesta ZONARA, XII, 20 – una posizione eminente, in quanto Decio lo avrebbe in qualche modo associato al governo dello Stato. Cfr. in proposito L. DE REGIBUS, Sulla censura di Valeriano, «Atti Acc. Ligure Sc. Lett.», V, 1, 1948. 18. Il princeps senatus era il primo nella lista dei senatori, colui al quale spettava il privilegio di parlare per primo nell’assemblea (tale prerogativa era propria del più anziano fra gli ex censori patrizi). Stando a quanto riferito in Gord., 9, 7, Valeriano avrebbe rivestito questo ufficio sin dal 238 d. C. 19. Cfr. Carac., 4, 8, n. 4. 20. Cfr. Heliog., 6, 8. 21. Le uniche testimonianze letterarie concernenti questo personaggio sono costituite dal presente capitolo e da due passi della susseguente vita dei Gallieni duo, 12, 1 e 14, 9-11, dal primo dei quali siamo informati che egli ebbe a ricoprire il consolato nel 265 d. C. (cfr. anche un’altra citazione del suo consolato assieme a Gallieno in Aurel., 11, 8). Mancano attestazioni epigrafiche che possano confermare i titoli di Augustus e imperator, nonché quello stesso di Caesar a lui attribuiti nel corso della presente Vita. 22. Questo scrittore non ci è altrimenti noto. 23. Claudio II il Gotico, che fu imperatore dal 268 al 270 d. C. e la cui biografìa sarà narrata più avanti. 24. Qui, come pure in vari punti della successiva vita dei Gallieni duo, il testo tràdito si presenta gravemente corrotto e lacunoso. Seguendo l’esempio di HOHL, abbiamo sempre riportato in questi casi l’indicazione di tutte le lacune presenti in P, col solo inserimento di qualche isolata integrazione tratta dal testo – più completo, ma in parte ‘aggiustato’ – offerto da Σ, e senza interventi che non fossero quelli più ovvii, evitando di introdurre supplementi necessariamente privi di ogni fondamento paleografico. Di conseguenza anche la traduzione italiana appare a più riprese «mutilata», in corrispondenza delle numerose sezioni lacunose del testo latino (a questo proposito avvertiamo che qui come negli altri casi consimili della Vita successiva non abbiamo dato traduzione di quelle parti del testo latino guastate da corruttele e lacune molto rilevanti, limitandoci a far riferimento ad esse con un unico segno di lacuna e a presentare in nota, ove ricavabile, il senso complessivo del passo). 25. In questo caso il senso generale del discorso risulta abbastanza chiaramente ricostruibile: l’autore afferma di non voler oltrepassare la giusta misura del volumen parlando in questa stessa sede anche di Gallieno, figlio di Valeriano, e di Salonino, figlio di Gallieno (pur egli chiamato Gallieno); perciò aggiungerà un altro libro in cui tratterà delle loro vite.

XXIII. GALLIENI DUO 〈TREBELLI POLLIONIS〉

I DUE GALLIENI di TREBELLIO POLLIONE

[1, 1] Capto Valeriano, (enimvero unde incipienda est Gallieni1 vita, nisi ab eo praecipue malo, quo eius vita depressa est?) nutante re p., cum Odenatus iam orientis cepisset imperium, Gallienus comperta patris captivitate gauderet, vagabantur exercitus2, mur〈murabant〉 […] duces, erat {omnium}, […] maeror, {quod} […] imperator […] Roman〈us〉 i〈n〉 Persida ser〈viliter〉 tene〈re〉tur […] ior omnium […] quod Gallienus na […] pater facto sic […] moribus re p. […] perdiderat. [2] Gallieno igitur et Volusiano conss.3 Macrianus et Ballista4 in unum coeunt, exercitus reliquias5 convocant et, cum Romanum in oriente nutaret imperium, quem facerent imperatorem, requirunt, Gallieno tam neglegenter se agente, ut eius ne mentio quidem apud exercitum fieret. [3] Placuit denique, ut Macrianum cum filiis suis6 imperatores dicerent ac rem p. de{fensandam} capesserent7 […] sic igitur […] {delatum est} […] imperium […] Macri〈ano〈 […] [4] causae Macri〈ano〉 […] imperandi cum filiis haec fuerunt: primum, quod nemo eo tempore sapientior ducum habebatur, nemo ad res regendas aptior; deinde ditissimus et qui privatis posset fortunis publica explere dispendia. [5] Huc accedebat quod liberi eius, fortissimi iuvenes, tota mente in bellum ruebant, ut essent legionibus exemplo ad omnia […] 〈milit〉 aria. [2, 1] Ergo Ma〈crianus〉8 […] undique {auxilia} […] petit occupa〈tis〉 {a se} […] partibus, quas {ipse} […] posuerat ita 〈ut〉 […] imperium […] {hoc} bellum inst〈r〉uxit […] {cum par} esset omni〈bus〉 […] quae contra eum poterant cogitari. [2] Idem Macrianus Pisonem9, unum ex nobilibus et principibus senatus, ad Achaiam destinavit ob hoc, ut Valentem10, qui illic proconsulari imperio rem p. gubernabat, opprimeret. [3] Sed Valens comperto, quod Piso contra se veniret, sumpsit imperium. Piso igitur in Thessaliam se recepit. [4] Ubi missis a Valente militibus cum plurimis interfectus est, ipse quoque imperator appellatus cognomento Thessalicus. [5] 〈Post〉 haec Macrianus retento in oriente uno ex filiis11, pacatis iam rebus Asiam primum venit, Illyricum petit. [6] In Illyrico cum Aureoli imperatoris, qui contra Gallienum imperium sumpserat12, duce, Domitiano nomine13, manum conseruit, unum ex filiis secum habens et triginta milia militum ducens. [7] Sed victus est Macrianus cum filio Macriano nomine deditusque omnis exercitus Aureolo imperatori. [3, 1] Turbata interim re p. toto penitus orbe terrarum, ubi Odenatus comperit Macrianum cum filio interemptum, regnare Aureolum, Gallienum

remissius rem gerere, festinavit ad alterum filium Macriani cum exercitu, si hoc daret fortuna, capiendum. [2] Sed hi, qui erant cum filio Macriani, Quieto nomine, consentientis Odenato auctore praefecto Macriani Ballista iuvenem occiderunt missoque per murum corpore Odenato se omnes statim dediderunt. [3] Totius prope igitur orientis factus est Odenatus imperator, cum Illyricum teneret Aureolus,Romam Gallienus. [4] Idem Ballista multos Emisenos14, ad quos confugerant Macriani milites, cum Quieto et thesaurorum custode interfecit, ita ut civitas paene deleretur. [5] Odenatus inter haec, quasi Gallieni partes ageret, cuncta eidem nuntiari ex veritate faciebat. [6] Sed Gallienus cognito, quod Macrianus cum suis liberis esset occisus, quasi securus rerum ac patre iam recepto, libidini et voluptati se dedidit15. [7] Ludos circenses ludosque scaenicos, ludos gymnicos, ludiariam etiam venationem et ludos gladiatorios dedit populumque quasi victorialibus diebus ad festivitatem ac plausum vocavit. [8] Et cum plerique patris eius captivitatem maererent, ille specie decoris, quod pater eius virtutis studio deceptus videretur, supra modum laetatus est. [9] Constabat autem, censuram parentis eum ferre non potuisse, votivum illi fuisse, quod inminentem cervicibus suis gravitatem patriam non haberet. [4, 1] Per idem tempus Aemilianus16 apud Aegyptum sumpsit imperium occupatisque horreis multa oppida malo famis pressit. [2] Sed hunc dux Gallieni Theodotus conflictu habito cepit atque17 imperatori […] u vivum transmisit. Aegypt〈us〉 {enim} […] data est […] 〈A〉{emiliano} […] a […] strangolato) […] milites […] vitum est […] ribus. [3] Cum Gallienus in luxuria et inprobitate persisteret cumque ludibriis et helluationi vacaret neque aliter rem p. gereret, quam cum pueri fingunt per ludibria potestates, Galli, quibus insitum est leves ac degenerantes a virtute Romana et luxuriosos principes ferre non posse18, Postumum ad imperium vocarunt19, exercitibus quoque consentientibus, quod occupatum imperatorem libidinibus querebantur. [4] Contra hunc20〈Gallienus〉 […] exercitum {duxit cum} que urbem, {in qua〈m〉 iverat} […] Postumus, {obsidere} […] [re] coepisset, […] 〈defen〉 dentibus Gallis, Gallienus muros circumiens sagitta ictus est. [5] Nam per annos septem21 Postumus imperavit et Gallias ab omnibus circumfluentibus barbaris validissime vindicavit. [6] His coactus malis Gallienus pacem cum Aureolo22 facit oppugnandi Postumi studio longoque bello tracto per diversas obsidiones ac proelia rem modo feliciter modo infeliciter gerit. [7] Accesserat praeterea his malis, quod Scythae23

Bithyniam24 invaserant civitatesque deleverant. [8] Denique 〈Asta〉con tum, quae Nicomedia25 postea dicta est, incensam graviter vastaverunt. [9] Denique quasi coniuratione totius mundi concussis orbis partibus etiam in Sicilia quasi quoddam servile bellum extitit latronibus evagantibus, qui vix oppressi sunt. [5, 1] Et haec omnia Gallieni contemptu fiebant; neque enim quicquam est ad audaciam malis, ad spem honorum bonis promtius quam cum vel malus timetur {vel} dissolutus contemnitur imperator. [2] Gallieno et Fausiano26 conss. inter tot bellicas clades etiam terrae motus gravissimus fuit et tenebrae per multos 〈dies〉, [3] auditum praeterea tonitruum terra mugiente, non love tonante, quo motu ipsae multae fabricae devoratae sunt cum habitatoribus, multi terrore emortui; quod quidem malum tristius in Asiae urbibus fuit. [4] Mota est et Roma, mota Libya. Hiatus terrae plurimis in locis fuerunt, cum aqua salsa in fossis appareret. Maria etiam multas urbes occuparunt. [5] Pax igitur deum quaesita inspectis Sibyllae libris factumque Iovi Salutari27, ut pracceptum fuerat, sacrificium. Nam et pestilentia28 tanta extiterat vel Romae vel in Achaicis urbibus, ut uno die quinque milia hominum pari morbo perirent. [6] Saeviente fortuna, cum hinc terrae motus, inde hiatus soli, ex diversis partibus pestilentia orbem Romanum vastaret, capto Valeriano, Gallis parte maxima opsessis, cum bellum Odenatus inferret, cum Aureolus perurgeret […] cum Aemilianus Aegyptum occupasset, Gothoru〈m pars〉 […] a quo dictum est superius, Gothis inditum est, occupatis Thraciis Macedoniam vastaverunt, Thessalonicam obsederunt29, neque usquam quies mediocriter saltem ostentata est. [7] Quae omnia contemptu, ut saepius diximus, Gallieni fiebant, hominis luxuriosissimi et, si esset securus, ad omne dedecus paratissimi. [6, 1] Pugnatum est in Achaia Marciano duce30 contra eosdem Gothos, unde victi per Achaeos recesserunt. [2] Scythae autem, hoc est pars Gothorum, Asiam vastabant31. Etiam templum Lunae Ephesiae32 dispoliatum et incensum est, cuius operis fama satis nota 〈per〉 populos. [3] Pudet prodere, inter haec tempora, cum ista gererentur, quae saepe Gallienus malo generis humani quasi per iocum dixerit. [4] Nam cum ei nuntiatum esset Aegyptum descivisse, dixisse fertur: «Quid? Sine lino Aegyptio esse non possumus?». [5] Cum autem vastatam Asiam et elementorum concussionibus et Scytharum incursionibus comperisset: «Quid», inquit, «sine afronitris esse non possum?». [6] Perdita Gallia risisse ac dixisse perhibetur: «Num Atrabaticis33 sagis tuta res p. est?». [7] Sic denique de nibus partibus mundi, cum eas amitteret, quasi

detrimentis vilium ministeriorum videretur affici, iocabatur. [8] Ac ne quid mali deesset Gallieni temporibus, Byzantiorum civitas, clara navalibus bellis, claustrum Ponticum, per eiusdem Gallieni milites ita omnis vastata est, ut prorsus nemo superesset34. [9] Denique nulla vetus familia apud Byzantios invenitur, nisi si aliquis peregrinatione vel militia occupatus evasit, qui antiquitatem generis nobilitatemque repraesentet. [7, 1] Contra Postumum igitur Gallienus cum Aureolo et Claudio duce, qui postea imperium optinuit, principe generis Constanti Caesaris nostri35, bellum iniit, et cum multis auxiliis Postumus iuvaretur Celticis atque Francicis, in bellum cum Victorino36 processit, cum quo imperium participaverat. Victrix Gallieni pars fuit pluribus proeliis eventuum variatione decursis. [2] Erat in Gallieno subitae virtutis audacia, nam aliquando iniuriis graviter movebatur. Denique ad vindictam Byzantiorum processit et, cum non putaret recipi se posse muris, receptus alia die omnes milites inermes armatorum corona circumdatos interemit fracto foedere, quod promiserat. [3] Per eadem tempora etiam Scythae in Asia Romanorum ducum virtute ac ductu vastati ad propria recesserunt. [4] Interfectis sane militibus apud Byzantium Gallienus, quasi magnum aliquid gessisset, Romam cursu rapido convolavit convocatisque patribus decennia37 celebravit novo genere ludorum, nova specie pomparum38, exquisito genere voluptatum. [8, 1] Iam primum inter togatos patres et equestrem ordinem albato milite et omni populo praeeunte, servis etiam prope omnium et mulieribus cum cereis facibus et lampadis praecedentibus Capitolium petit. [2] Praecesserunt etiam altrinsecus centeni albi boves cornuis auro iugatis et dorsualibus sericis discoloribus praefulgentes; [3] agnae candentes ab utraque parte ducentae praecesserunt et decem elefanti, qui tunc erant Romae, mille ducenti gladiatores pompabiliter ornati cum auratis vestibus matronarum, mansuetae ferae diversi generis ducentae ornatu quam maximo affectae, carpenta cum mimis et omni genere histrionum, pugilles flocculis39, non veritate pugillantes. Cyclopea40 etiam luserunt omnes apenarii41, ita ut miranda quaedam et stupenda monstrarent. [4] Omnes viae ludis strepituque et plausibus personabant. [5] Ipse medius cum picta toga et tunica palmata42 inter patres, ut diximus, omnibus sacerdotibus praetextatis Capitolium petit. [6] Hastae auratae altrinsecus quingenae, vexilla centena praeter ea, quae collegiorum erant, dracones et signa templorum43 omniumque legionum ibant. [7] Ibant

praeterea gentes simulatae, ut Gothi, Sarmatae, Franci, Persae, ita ut non minus quam duceni globis singulis ducerentur. [9, 1] Hac pompa homo ineptus eludere se credidit populum Romanum, sed, ut sunt Romanorum facetiae, alius Postumo favebat, alius Regiliano44, alius Aureolo aut Aemiliano, alius Saturnino45, nam et ipse iam imperare dicebatur. [2] Inter haec ingens querella de patre, quem inultum filius liquerat, et quem externi46 utcumque vindicaverant. [3] Nec tamen Gallienus ad talia movebatur obstupefacto voluptatibus corde, sed ab his, qui circum eum erant, requirebat: «Ecquid habemus in prandio? Ecquae voluptates paratae sunt? Et qualis cras erit scaena qualesque circenses?». [4] Sic confecto itinere celebratisque hecatombiis ad domum regiam redit conviviisque et epulis decursis alios dies voluptatibus publicis deputabat. [5] Praetereundum non est haud ignobile facetiarum genus. Nam cum grex Persarum quasi captivorum per pompam (rem ridiculam) duceretur, quidam scurrae miscuerunt se Persis, diligentissime scrutantes omnia atque unius cuiusque vultum mira inhiatione rimantes. [6] A quibus cum quaereretur, quidnam ageret illa solertia, illi responderunt: «Patrem principis quaerimus». [7] Quod cum ad Gallienum pervenisset, non pudore, non maerore, non pietate commotus est scurrasque iussit vivos exuri. [8] Quod populus factum tristius, quam quisquam aestimat, tulit, milites vero ita doluerunt, ut non multo post vicem redderent. [10, 1] Gallieno et Saturnino conss.47 Odenatus rex Palmyrenorum optinuit totius orientis imperium48, idcirco praecipue, quod se fortibus factis dignum tantae maiestatis infulis declaravit, Gallieno aut nullas aut luxuriosas aut ineptas et ridiculas res agente. [2] Denique statim bellum Persis in vindictam Valeriani, quam eius filius neglegebat, indixit. [3] Nisibin et Carras statim occupat tradentibus sese Nisibenis atque Carrenis et increpantibus Gallienum. [4] Nec defuit tamen reverentia Odenati circa Gallienum49; nam captos satrapas insultandi prope gratia et ostentandi sui ad eum misit. [5] Qui cum Romam deducti essent, vincente Odenato triumphavit Gallienus50 nulla mentione patris facta, quem ne inter deos quidem nisi coactus rettulit51, cum mortuum audisset, sed adhuc viventem, nam de illius morte falso compererat. [6] Odenatus autem ad Ctesifontem Parthorum multitudinem obsedit vastatisque circum omnibus locis innumeros homines interemit. [7] Sed cum satrapae omnes ex omnibus regionibus illuc defensionis communis gratia convolassent, fuerunt longa et varia proelia, longior tamen Romana victoria. [8] Et cum nihil aliud ageret nisi ut Valerianum Odenatus liberaret, instabat

cottidie, ac locorum difficultatibus in alieno solo imperator optimus laborabat. [11, 1] Dum haec apud Persas geruntur, Scythae in Cappadociam pervaserunt52. Illic captis civitatibus bello etiam vario diu acto se ad Bithyniam contulerunt. [2] Quare milites iterum de novo imperatore faciendo cogitarunt. Quos omnes Gallienus more suo, cum placare atque ad gratiam suam reducere non posset, occidit. [3] Cum tamen sibi milites dignum principem quaererent, Gallienus apud Athenas archon erat, id est summus magistratus, vanitate illa, qua et civis adscribi desiderabat et sacris omnibus interesse53. [4] Quod neque Hadrianus in summa felicitate neque Antoninus54 in adulta fecerat55 pace, cum tanto studio Graecarum ducti sint litterarum, ut raro aliquibus doctissimis magnorum arbitrio cesserint virorum. [5] Areopagitarum56 praeterea cupiebat ingeri numero contempta prope re p. [6] Fuit enim Gallienus, quod negari non potest, oratione, poemate atque omnibus artibus clarus. [7] Huius illud est epitalamion, quod inter centum poetas praecipuum fuit. Nam cum fratrum suorum filios iungeret 〈et〉 omnes poetae Graeci Latinique epithalamia dixissent, idque per dies plurimos, ille, cum manus sponsorum teneret, ut quidam dicunt, saepius ita dixisse fertur: [8] «Ite, agite, o pueri, pariter sudate medullis omnibus inter vos, non murmura vestra columbae, brachia non hederae, non vincant oscula conchae»57.

[9] Longum est eius versus orationesque conectere, quibus suo tempore tam inter poetas quam inter rhetores emicuit. Sed aliud in imperatore quaeritur, aliud in oratore vel poeta flagitatur. [12, 1] Laudatur sane eius optimum factum; nam consulatu Valeriani fratris sui et Lucilli58 propinqui ubi comperit ab Odenato Persas vastatos, redactam Nisibin et Carras in potestatem Romanam, omnem Mesopotamiam nostram, denique Ctesifontem esse perventum, fugisse regem, captos satrapas, plurimos Persarum occisos, Odenatum participato imperio Augustum59 vocavit eiusque monetam, qua Persas captos traheret, cudi iussit. Quod et senatus et urbs et omnis aetas gratanter accepit. [2] Fuit praeterea idem ingeniosissimus, cuius ostendendi acuminis scilicet pauca libet ponere: [3] nam cum taurum ingentem in harenam misisset exissetque ad eum feriendum venator neque productum decies potuisset occidere, coronam venatori misit, [4] mussantibusque cunctis, quid rei esset, quod homo ineptissimus coronaretur, ille per curionem dici iussit: [5] «Taurum totiens non ferire difficile est». Idem, cum quidam gemmas

vitreas pro veris vendidisset eius uxori atque illa re prodita vindicari vellet, subripi quasi ad leonem venditorem iussit, deinde e cavea caponem emitti, mirantibusque cunctis rem tam ridiculam per curionem dici iussit: «Inposturam fecit et passus est». Deinde negotiatorem dimisit. [6] Occupato tamen Odenato bello Persico, Gallieno rebus ineptissimis, ut solebat, incubante Scythae60 navibus factis Heracleam61 pervenerunt atque inde cum praeda in solum proprium reverterunt, quamvis multi naufragio perierint navali bello superati [sint]. [13, 1] Per idem tempus Odenatus insidiis consobrini sui62 interemptus est cum filio Herode63, quem et ipsum imperatorem appellaverat. [2] Cum Zenobia64, uxor eius, quod parvuli essent filii eius, qui supererant, Herennianus et Timolaus65, ipsa suscepit imperium diuque rexit, non muliebriter neque more femineo, [3] sed non solum Gallieno, quo quae virgo melius imperare potuisset, verum etiam multis imperatoribus fortius atque solertius. [4] Gallienus sane, ubi ei nuntiatum Odenatum interemptum, bellum Persis ad seram nimis vindictam patris paravit collectisque per Heraclianum ducem militibus sollertis principis rem gerebat. [5] Qui tamen Heraclianus, cum contra Persas profectus esset, a Palmyrenis victus66 omnes, quos paraverat, milites perdidit, Zenobia Palmyrenis et orientalibus plerisque viriliter imperante. [6] Inter haec Scythae per Euxinum navigantes Histrum ingressi multa gravia in solo Romano fecerunt67. Quibus compertis Gallienus Cleodamum et Athenaeum Byzantios instaurandis urbibus muniendisque praefecit, pugnatumque est circa Pontum, et a Byzantiis ducibus victi sunt barbari. [7] Veneriano item duce navali bello Gothi superati sunt, cum ipse Venerianus militari perit morte. [8] Atque inde Cyzicum et Asiam, deinceps Achaiam omnem vastarunt et ab Atheniensibus duce Dexippo, scriptore horum temporum68, victi sunt. Unde pulsi per Epirum, Macedoniam, Moesiam pervagati sunt. [9] Gallienus interea vix excitatus publicis malis Gothis vagantibus per Illyricum occurrit et fortuito plurimos interemit. Quo comperto Scythae facta carragine per montem Gessacem69 fugere sunt conati. [10] Omnes inde Scythas Marcianus70 varia bellorum fortuna […]71 quae omnes Scythas ad rebellionem excitarunt. [14, 1] Et haec quidem Heracliani ducis erga rem {p.} devotio fuit. Verum cum Gallieni tantam improbitatem ferre non possent, consilium inierunt Marcianus et Heraclianus, ut alter eorum imperium caperet […]72 [2] et Claudius quidem, ut suo dicemus loco, vir omnium optimus, electus est, qui

consilio non adfuerat73, eaque apud cunctos reverentia, ut iuste dignus videretur imperio, quemadmodum postea conprobatum est. [3] Is enim est Claudius, {a quo} Constantius, vigilissimus Caesar, originem ducit74. [4] Fuit isdem socius in appetendo imperio quidam Ceronius sive Cecropius, dux Dalmatarum, qui eos et urbanissime et prudentissime adiuvit. [5] Sed cum imperium capere vivo Gallieno non possent, huius modi eum insidiis adpetendum esse duxerunt, ut labem inprobissimam malis fessa re p. a gubernaculis humani generis dimoverent, ne diutius theatro et circo addicta res p. per voluptatum deperiret inlecebras. [6] Insidiarum genus fuit tale: Gallienus ab Aureolo, qui principatum invaserat, dissidebat75, sperans cottidie gravem et intolerabilem tumultuarii imperatoris adventum. [7] Hoc scientes Marcianus et Cecropius subito Gallieno iusserant nuntiari Aureolum iam venire. [8] Ille igitur militibus cogitatis quasi certum processit ad proelium atque ita missis percussoribus interemptus est76. [9] Et quidem Cecropii Dalmatarum ducis 〈gladio〉 Gallienus dicitur esse percussus, ut quidam ferunt, circa Mediolanium, ubi continuo et frater eius Valerianus est interemptus, quem multi Augustum, multi Caesarem, multi neutrum fuisse dicunt77. [10] Quod veri simile non est, si quidem capto iam Valeriano scriptum invenimus in fastis78: «Valeriano imperatore consule». Quis igitur alius potuit esse Valerianus nisi Gallieni frater? [11] Constat de genere, non satis tamen constat de dignitate vel, ut coeperunt alii loqui, de maiestate. [15, 1] Occiso igitur Gallieno seditio ingens militum fuit, cum spe praedae ac publicae vastationis imperatorem sibi utilem necessarium, fortem, efficacem ad invidiam faciendam dicerent raptum. [2] Quare consilium principum fuit, ut milites eius quo solent placari genere sedarentur. Promissis itaque per Marcianum aureis vicenis et acceptis (nam praesto erat thesaurorum copia) Gallienum tyrannum militari iudicio in fastos publicos rettulerunt79. [3] Sic militibus sedatis Claudius, vir sanctus ac iure venerabilis et bonis omnibus carus, amicus patriae, amicus legibus, acceptus senatui, populo bene cognitus accepit imperium80. [16, 1] Haec vita Gallieni fuit, breviter a me litteris intimata, qui natus abdomini et voluptatibus dies ac noctes vino et stupris perdidit, orbem terrarum viginti81 prope 〈per〉 tyrannos vastari fecit, ita ut etiam mulieres illo melius imperarent. [2] Ac ne eius praetereatur miseranda solertia, veris tempore cubicula de rosis fecit, de pomis castella composuit. Uvas triennio serva vit. Hieme summa melones exhibuit. Mustum quem ad modum toto

anno haberetur, docuit. Ficos virides et poma ex arboribus recentia semper alienis mensibus praebuit. [3] Mantelibus aureis semper stravit. Gemmata vasa fecit eademque aurea. [4] Crinibus suis auri scobem aspersit. Radiatus82 saepe processit. Cum clamyde purpurea gemmatisque fibulis et aureis Romae visus est, ubi semper togati principes videbantur. Purpuream tunicam auratamque virilem eandemque manicatam habuit. Gemmato balteo usus est. Corrigias gemmeas adnexuit, cum campagos reticulos83 appellaret. [5] Convivatus in publico est. [6] Congiariis populum mollivit. Senatui sportulam sedens erogavit. Matronas ad consilium suum rogavit isdemque manum sibi osculantibus quaternos aureos sui nominis dedit. [17, 1] Ubi de Valeriano patre comperit quod captus esset, id quod philosophorum optimus84 de filio amisso, dixisse fertur: «Sciebam me genuisse mortalem»85. [Nec defuit an ille sic dixit: «Sciebam patrem meum esse mortalem».] [2] Nec defuit Annius Cornicula86, qui eum quasi constantem principem falsus sua voce laudaret. [Peior tamen ille qui credidit.] [3] Saepe ad tibicinem processit, ad organum se recepit, cum processui et recessui cani iuberet. [4] Lavit ad diem septimo aestate vel sexto, hieme secundo vel tertio. [5] Bibit in aureis semper poculis aspernatus vitrum, {ita ut} diceret nil esse communius. [6] Semper vina variavit neque umquam in uno convivio ex uno vino duo pocula bibit. [7] Concubinae in eius tricliniis saepe accubuerunt. Mensam secundam scurrarum et mimorum semper prope habuit. [8] Cum iret ad hortos nominis sui, omnia palatina officia sequebantur. Ibant et praefecti et magistri officiorum omnium adhibebanturque conviviis et natationibus lavabant simul cum principe. [9] Admittebantur saepe etiam mulieres, cum ipso pulchrae puellae, cum illis anus deformes. Et iocari se dicebat, cum orbem terrarum undique perdidisset.

L’esordio della Storia Augusta in un codice del secolo XV (Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Chigiano H.VII 239, fol. 2r).

[18, 1] Fuit tamen nimiae crudelitatis87 in milites, nam et terna milia et quaterna militum singulis diebus occidit. [2] Statuam sibi maiorem colosso88 fieri praecepit Solis habitu, sed ea inperfecta perit. Tarn magna denique coeperat fieri, ut duplex ad colossum videretur. [3] Poni autem illam voluerat in summo Esquiliarum monte, ita ut hastam teneret, per cuius scapum infans ad summum posset ascendere. [4] Sed et Claudio et Aureliano deinceps stulta res visa est, si quidem etiam equos et currum fieri iusserat pro qualitate statuae atque in altissima base poni. [5] Porticum Flaminiam usque ad pontem Molvium et ipse paraverat ducere, ita ut tetrastichae fierent, ut autem alii dicunt, pentastichae, ita ut primus ordo pilas haberet et ante se columnas cum statuis, secundus et tertius et deinceps διὰ τεσσάρων columnas. [6] Longum {est} eius cuncta in litteras mittere, quae qui volet scire, legat Palfurium Suram89, qui ephemeridas eius vitae composuit. Nos ad Saloninum

revertamur. SALONINUS GALLIENUS [19, 1] Hic Gallieni filius fuit, nepos Valeriani90, de quo quidem prope nihil est [quod] dignum 〈quod〉 in litteras mittatur, nisi quod nobiliter natus, educatus regie, occisus deinde non sua sed patris causa. [2] De huius nomine magna est ambiguitas91. Nam multi eum Gallienum, multi Saloninum historiae prodiderunt. [3] Et qui Saloninum, idcirco quod apud Salonas92 natus esset, cognominatum ferunt, qui autem Gallienum, patris nomine cognominatum et avi Gallieni, summi quondam in re p. viri. [4] Fuit denique hactenus statua in pede montis Romulei93, hoc est ante sacram viam94, inter templum Faustinae95 ac Vestam96 ad arcum Fabianum97, quae haberet inscriptum «Gallieno iuniori», «Salonino» additum; ex quo eius nomen intellegi poterit98. [5] Transisse decennium imperii Gallienum satis clarum est. Quod idcirco addidi, quia multi eum imperii sui anno 〈nono〉 perisse dixerunt99. [6] Fuisse autem et alios rebelliones sub eodem proprio dicemus loco, si quidem placuit vigiliti100 tyrannos uno volumine includere, idcirco quod nec multa de his dici possunt et in Gallieni vita pleraque iam dicta sunt. [7] Et haec quidem de Gallieno hoc interim libro dixisse sufficiet. Nam et multa iam in Valeriani vita, 〈multa〉 in libro, qui de triginta tyrannis inscribendus est, iam loquemur, quae iterari ac saepius dici minus utile videbatur. [8] Huc accedit quod quaedam etiam studiose praetermisi, ne eius posteri multis rebus editis laederentur. [20, 1] Scis enim ipse, quales homines cum his, qui aliqua de maioribus eorum scripserint, quantum gerant bellum, nec ignota esse arbitror, quae dixit Marcus Tullius in Hortensio101, quem ad exemplum protreptici102 scripsit. [2] Unum tamen ponam, quod iucunditatem quandam sed vulgarem habuit, morem tamen novum fecit. [3] Nam cum cingula sua plerique militantium, qui ad convivium venerant, ponerent hora convivii, Saloninus puer sive Gallienus his auratos costilatosque balteos rapuisse perhibetur, et, cum esset difficile in aula Palatina requirere quod perisset ac tacitis vultibus viri detrimenta pertulissent, postea rogati ad convivium cincti adeubuerunt. [4] Cumque ab his quaereretur, cur non solverent cingulum, respondisse dicuntur: «Salonino deferimus», atque hinc tractum morem, ut deinceps cum imperatore

cincti discumberent. [5] Negare non possum aliunde plerisque videri huius rei ortum esse morem: dicunt militare prandium103, quod dictum est parandium ab eo, quod ad bellum milites paret, a cinctis initum; cui rei argumentum est, quod a discinctis etiam cum imperatore cenatur. Quae idcirco posui, quia digna et memoratu videbantur et cognitu. [21, 1] Nunc transeamus ad viginti tyrannos, {qui} Gallieni temporibus contemptu mali principis extiterunt. De quibus breviter et pauca dicenda sunt; [2] neque enim digni sunt eorum plerique, ut volumen talium hominum saltim nominibus occuparetur, quamvis aliqui non parum in se virtutis habuisse videantur, multum etiam rei p. profuisse. [3] Tam variae item opiniones sunt de Salonini nomine, ut, qui se verius putet dicere, a matre sua Salonina appellatum esse104 […] quamvis perdite dilexit, Piparam105 nomine, barbaram regis106 filiam […] [4] Gallienus cum suis semper flavo crinem condit. [5] De annis autem Gallieni et Valeriani ad imperium pertinentibus adeo incerta traduntur, ut, cum quindecim annos107 eosdem imperasse constet, id est Gallienus usque ad quintum decimum pervenisset, Valerianus vero sexto108 sit captus, alii novem annis, vix decem alii etiam Gallienum imperasse in litteras mittant, cum constet et decennalia Romae ab eodem celebrata109, et post decennalia Gothos ab eo victos, cum Odenato pacem factam, cum Aureolo initam esse concordiam, pugnatum contra Postumum, contra Lollianum110, multa etiam ab eo gesta, quae ad virtutem, plura tamen, quae ad dedecus pertinebant; [6] nam et semper noctibus popinas dicitur frequentasse et cum lenonibus, mimis scurrisque vixisse.

[1, 1] Quando Valeriano fu catturato (e invero da dove si dovrebbe cominciare la biografia di Gallieno1, se non da quel disgraziato evento, dal quale la sua vita fu negativamente condizionata?), mentre lo Stato era in grave crisi, e Odenato si era ormai impadronito dell’Oriente, e Gallieno si rallegrava alla notizia della prigionia del padre, gli eserciti vagavano senza mèta2, […]. [2] Sotto il consolato, dunque, di Gallieno e di Volusiano3, Macriano e Ballista4 si uniscono fra loro, radunano i resti5 dell’esercito e, poiché l’impero romano versava in grave crisi nei suoi territori orientali, si dànno a cercare chi poter eleggere quale imperatore, giacché il comportamento di Gallieno era improntato a tale inettitudine, che di lui nell’esercito non si faceva neppure menzione. [3] Decisero infine di proclamare imperatore Macriano assieme ai suoi figli6, e di assumere la difesa dello Stato7 […] [4] i motivi per cui Macriano venne creato imperatore assieme ai figli furono questi: in primo luogo il fatto che nessun generale a quel tempo era considerato più saggio di lui né più idoneo a reggere lo Stato; inoltre era ricchissimo e in grado di sostenere le spese pubbliche con il suo patrimonio privato. [5] A ciò si aggiungeva che i suoi figli, giovani molto valorosi, si buttavano nella guerra con tutto il loro entusiasmo, sì da risultare un esempio per le legioni […]. [2, 1] Dunque Macriano8 […] ciò che poteva essere tramato contro di lui. [2] Inoltre Macriano affidò l’Acaia a Pisone9, uno dei nobili e degli uomini più influenti del senato, perché avesse ad eliminare Valente10, che teneva il governo di quella regione con autorità proconsolare. [3] Ma Valente, appreso che Pisone stava arrivando con intenzioni a lui ostili, assunse l’impero. Pisone allora riparò in Tessaglia. [4] Ma là venne ucciso assieme a moltissimi seguaci da soldati mandati da Valente, dopo che egli stesso era stato a sua volta proclamato imperatore assumendo il soprannome di Tessalico. [5] Dopo ciò Macriano, ristabilita ormai la pace, lasciato in Oriente uno dei figli11, si recò dapprima in Asia, quindi mosse alla volta dell’Illirico. [6] Nell’Illirico ebbe a scontrarsi con un generale di Aureolo – l’imperatore che aveva assunto il potere in opposizione a Gallieno12 – di nome Domiziano13, guidando, assieme a uno dei figli, un’esercito di trentamila uomini. [7] Ma Macriano fu sconfitto assieme al figlio, che si chiamava lui pure Macriano, e tutto l’esercito si arrese all’imperatore Aureolo. [3, 1] Mentre frattanto lo Stato era in ogni parte del mondo sconvolto, non appena Odenato apprese che Macriano, assieme al figlio, era stato ucciso, che

Aureolo regnava, e che Gallieno conduceva una politica troppo arrendevole, mosse in fretta con l’esercito contro l’altro figlio di Macriano, per tentare – se la fortuna glielo avesse concesso – di catturarlo. [2] Ma quelli che stavano assieme al figlio di Macriano, che aveva nome Quieto, accordatisi con Odenato per istigazione del prefetto di Macriano Ballista, uccisero il giovane e, buttato il cadavere oltre le mura, si arresero senza indugio ad Odenato. [3] Odenato divenne dunque imperatore di quasi tutto l’Oriente, mentre Aureolo aveva in potere l’Illirico e Gallieno Roma. [4] Lo stesso Ballista uccise, oltre a Quieto e al custode dei tesori, molti Emiseni14, presso i quali si erano rifugiati i soldati di Macriano, così che la popolazione venne quasi completamente annientata. [5] Frattanto Odenato, come tenendo le parti di Gallieno, gli faceva riferire esattamente tutto quanto accadeva. [6] Dal canto suo Gallieno, appresa la notizia che Macriano e i suoi figli erano stati uccisi, come se avesse avuto tranquillamente in mano la situazione, e avesse già ottenuto la liberazione del padre, si abbandonò ai piaceri e ai divertimenti15. [7] Diede giochi circensi e spettacoli scenici, allestì spettacoli ginnici, e anche di caccia e gladiatorii, e chiamò il popolo a festeggiarlo ed applaudirlo come se fossero i giorni di una vittoria. [8] E mentre i più manifestavano il loro dolore per la prigionia di suo padre, egli si mostrava oltremodo lieto, col pretesto che si sentiva onorato che suo padre apparisse essere stato vittima del suo amore per le gesta valorose. [9] Ma tutti ben sapevano che egli non aveva mai potuto sopportare il severo controllo di suo padre e si era sempre augurato di non dover continuare a sentire incombere sul capo la pesante autorità paterna. [4, 1] Nello stesso tempo Emiliano16 assunse il potere in Egitto e, impadronitosi dei depositi granari, strinse molte città nella morsa della fame. [2] Ma Teodoto, generale di Gallieno, dopo uno scontro, riuscì a catturarlo e17 […]. [3] Mentre Gallieno persisteva nella sua condotta dissipata e immorale, dandosi ad orge e gozzoviglie, e amministrava lo Stato non diversamente da come fanno i bambini quando giocano a fare il re, i Galli, che hanno insita nel loro carattere l’incapacità di sopportare gli imperatori frivoli e degeneranti dalla tradizionale virtù romana, nonché dissoluti18, chiamarono al potere Postumo19, col consenso anche delle truppe, disgustate da un imperatore immerso nei vizi. [4] Contro di lui20 […] Gallieno, mentre ispezionava all’intorno le mura, fu colpito da una freccia. [5] Postumo tenne il potere per

sette anni21, difendendo con grande energia le regioni della Gallia da tutte le popolazioni barbare che si riversavano ai suoi confini. [6] Messo alle strette da questi insuccessi, Gallieno fece pace con Aureolo22 con l’intenzione di attaccare Postumo, e, trascinando a lungo la guerra fra vari assedi e battaglie, condusse le operazioni ora con esito favorevole, ora sfavorevole. [7] A queste traversie si era inoltre aggiunto che gli Sciti23 avevano invaso la Bitinia24, e avevano distrutto varie città. [8] Alla fine incendiarono e devastarono allora tremendamente Astaco, che fu poi detta Nicomedia25. [9] Inoltre, quasi che tutte le parti del globo fossero sconvolte da una congiura universale, sorse anche in Sicilia qualcosa come una guerra servile, per via delle scorrerie operate da bande di briganti che furono debellate a fatica. [5, 1] E tutto questo avveniva per il disprezzo che circondava Gallieno; non vi è infatti nulla che stimoli maggiormente i malvagi all’audacia e i buoni alla speranza di posizioni preminenti, quanto la paura di un imperatore crudele o il disprezzo verso un imperatore dissoluto. [2] Sotto il consolato di Gallieno e Fausiano26, fra tanti disastri bellici vi fu anche un terribile terremoto: vi fu buio per molti giorni [3] e si udì inoltre un boato emesso a mo’ di muggito dalla terra, anziché provocato dal tuono di Giove; da questo terremoto furono inghiottiti molti edifici con i loro abitanti e molte persone morirono di paura; questo cataclisma sconvolse in modo particolarmente grave le città dell’Asia. [4] Ma anche Roma e la Libia ne furono colpite. In molti luoghi la terra si aprì, e nelle fenditure sgorgava acqua salmastra. Anche i mari ricoprirono molte città. [5] Si cercò allora di ottenere il favore degli dèi consultando i libri Sibillini, e fu celebrato un sacrificio a Giove Salutare27, secondo quanto era stato prescritto. Era infatti anche scoppiata a Roma e nelle città dell’Acaia una pestilenza28 così violenta, che in un sol giorno morivano della stessa malattia cinquemila uomini. [6] La mala sorte imperversava: da una parte i terremoti, dall’altra le voragini che si aprivano nella terra, in diverse regioni la pestilenza sconvolgevano l’impero romano; Valeriano era prigioniero, la Gallia si trovava per la più gran parte cinta d’assedio, mentre Odenato era sul piede di guerra, incombeva la minaccia di Aureolo […] Emiliano aveva occupato l’Egitto […], invasa la Tracia, devastarono la Macedonia, assediarono Tessalonica29, e da nessuna parte apparivano seppur modesti segni che la situazione si calmasse. [7] Tutto ciò avveniva, come più volte abbiamo ripetuto, in spregio a Gallieno, uomo quanto mai dissoluto e dispostissimo ad accettare qualsiasi situazione

disonorevole pur di starsene tranquillo. [6, 1] Si combatté in Acaia, sotto il comando di Marciano30, contro gli stessi Goti che, sconfitti dagli Achei, si ritirarono di là. [2] Ma gli Sciti – cioè un gruppo etnico dei Goti – devastavano l’Asia31. Fu spogliato e incendiato anche il tempio della Luna Efesia32, un’opera la cui fama era diffusa in tutto il mondo. [3] Sento vergogna a riferire quanto Gallieno diceva in questo periodo, nel corso di questi avvenimenti – per sventura del genere umano – come se trovasse da scherzarci sopra. [4] Quando infatti gli fu annunziata la secessione dell’Egitto, si racconta abbia detto: «E allora? Non possiamo stare senza il lino egizio?». [5] Allorché poi apprese che l’Asia era stata devastata dai cataclismi naturali e dalle scorrerie degli Sciti, esclamò: «E che mai? Non posso fare a meno della schiuma di salnitro?». [6] Perduta la Gallia, dicono si sia messo a ridere esclamando: «Forse che la sicurezza dello Stato sta nei mantelli atrabatici?»33. [7] E così, via via che perdeva tutte le parti del mondo, quasi gli sembrasse di aver subito un danno inerente a servizi di poco conto, ci scherzava sopra. [8] E perché ai tempi di Gallieno non mancasse proprio alcun disastro, la città di Bisanzio, famosa per le sue battaglie navali, punto chiave del Ponto, fu distrutta da cima a fondo dai soldati dello stesso Gallieno, così che non un solo abitante poté salvarsi34. [9] E così oggi non si trova più a Bisanzio alcuna famiglia di antica discendenza, ad eccezione del caso di qualcuno che poté sfuggire in quanto si trovava impegnato in viaggio o sotto le armi, sì che ora rappresenta l’antichità e la nobiltà della sua famiglia. [7, 1] Gallieno dunque, con l’appoggio di Aureolo e affidato il comando a Claudio, il futuro imperatore, capostipite della famiglia del nostro Costanzo Cesare35, mosse guerra a Postumo, e questi, valendosi di molti aiuti da parte dei Celti e dei Franchi, entrò a sua volta in guerra assieme a Vittorino36, con il quale aveva diviso il potere. Dopo molte battaglie combattute con vario esito, ne uscì vittorioso Gallieno. [2] V’era in Gallieno l’audacia ispirata da un coraggio sorto all’improvviso, ché di quando in quando gli affronti subiti riuscivano a scuoterlo profondamente. Mosse infine per vendicare i Bizantini e, sebbene non si aspettasse di poter essere accolto entro le mura, vi fu ricevuto il giorno successivo, e, venendo meno ai patti che si era impegnato a rispettare, fece circondare tutti i soldati inermi da un cordone di armati, ordinando che fossero uccisi. [3] Nel medesimo periodo anche gli Sciti, sconfitti gravemente in Asia dai valorosi e abili generali romani, si ritirarono nei propri territori.

[4] Dopo la strage dei soldati a Bisanzio Gallieno, come se avesse compiuto una qualche grande impresa, si precipitò di gran carriera a Roma e, convocato il senato, celebrò il suo decennale37, con spettacoli di nuovo tipo, con processioni di inusitato sfarzo38, con i divertimenti di genere più raffinato. [8, 1] Innanzitutto salì al Campidoglio fra i senatori in toga e l’ordine equestre, preceduto dai soldati vestiti di bianco e da tutto il popolo, mentre procedevano innanzi anche i servi di quasi tutti i cittadini, nonché donne che portavano ceri e fiaccole. [2] Aprivano inoltre il corteo da una parte e dall’altra cento buoi bianchi splendenti nei finimenti dorati che legavano le corna e nei dorsali di seta variopinta; [3] venivano poi in testa da ambo le parti duecento agnelle candide e i dieci elefanti che a quel tempo si trovavano a Roma, milleduecento gladiatori sontuosamente abbigliati con vesti femminili ricamate d’oro, duecento fiere addomesticate di varie razze, bardate dei più fastosi ornamenti, carri con mimi e ogni genere di attori, pugili che combattevano non sul serio, ma con guanti imbottiti di lana39. Tutti i buffoni40, inoltre, rappresentarono le gesta dei Ciclopi41, mostrando cose degne della più grande meraviglia. [4] Tutte le strade risuonavano di scherzi, di schiamazzi e applausi. [5] Egli stesso, con la toga ricamata e la tunica palmata42, saliva al Campidoglio in mezzo ai senatori – come abbiamo detto –, mentre tutti i sacerdoti indossavano la pretesta. [6] Da una parte e dall’altra muovevano cinquecento aste dorate e cento bandiere, oltre a quelle proprie delle corporazioni, gli stendardi militari e le insegne dei templi43 e di tutte le legioni. [7] Procedevano inoltre gruppi che figuravano rappresentare vari popoli, come Goti, Sarmati, Franchi, Persiani, e in ognuno di essi sfilavano non meno di duecento uomini. [9, 1] Con questo fastoso apparato quell’uomo inetto si illudeva di ingannare il popolo romano ma, come è tipico del gusto dei Romani per i motteggi, uno acclamava Postumo, un altro Regiliano44, un altro Aureolo o Emiliano, un altro Saturnino45 – costui pure infatti veniva ormai definito un peratore. [2] Frattanto era sempre grande il rammarico per il padre, che il figlio aveva lasciato invendicato e che erano stati degli stranieri46 in un modo o nell’altro a vendicare. [3] Né tuttavia Gallieno, istupidito com’era dagli stravizi, si preoccupava di tali cose, ma andava chiedendo a quelli che gli stavano intorno: «Che cosa abbiamo a pranzo? Che c’è oggi da divertirsi? E cosa si rappresenta domani a teatro, e al circo quali giochi?». [4] Così, terminata la processione e offerte le ecatombi, tornò alla reggia, e terminati i

conviti e i pranzi, destinava altri giorni ai pubblici divertimenti. [5] Non è da passare sotto silenzio un esempio significativo dei motteggi nei suoi confronti: mentre il gruppo dei finti prigionieri persiani sfilava (spettacolo ridicolo) nel corteo, alcuni burloni si mescolarono a costoro mettendosi a scrutare con grande attenzione ogni cosa, e ad esaminare, in atto di grande stupore, il viso di ciascuno. [6] A chi domandava loro che cosa significasse quel loro solerte indagare, rispondevano: «Cerchiamo il padre dell’imperatore». [7] Quando la cosa giunse alle orecchie di Gallieno, questi non fu toccato da sentimenti di vergogna, di dolore o di pietà, ma ordinò che quelli fossero bruciati vivi. [8] Il popolo si indignò per questo fatto più profondamente di quanto non si immagini e i soldati poi se ne rammaricarono a tal punto che non molto tempo dopo gliela fecero pagare. [10, 1] Sotto il consolato di Gallieno e Saturnino47, Odenato, re di Palmira, ottenne il dominio di tutto l’Oriente48, soprattutto in grazia del fatto che con le sue valorose imprese si era mostrato degno delle insegne di una così grande maestà, mentre Gallieno o rimaneva del tutto inattivo, o era dedito unicamente ad una condotta dissoluta, inetta e ridicola. [2] Fu così che ben presto egli dichiarò guerra ai Persiani per vendicare – mentre il figlio non si preoccupava di farlo – Valeriano. [3] Occupò immediatamente Nisibi e Carre, i cui abitanti si consegnarono spontaneamente, lanciando invettive contro Gallieno. [4] Né tuttavia Odenato mancò di mostrarsi rispettoso nei confronti di Gallieno49: gli mandò infatti i satrapi che aveva catturato, quasi per dargli modo di insultarli ed esaltare se stesso. [5] Quando questi furono portati a Roma, Gallieno celebrò il trionfo50 per la vittoria di Odenato senza fare alcun ricordo del padre, del quale non si decise a proclamare la divinizzazione51 se non in quanto lo costrinsero a farlo, dopo che ebbe appresa la notizia della sua morte – ma Valeriano era ancora vivo: infatti la notizia giuntagli circa la sua morte era falsa. [6] Odenato dal canto suo assediò a Ctesifonte un gran numero di Parti e, dopo aver devastato tutti i luoghi all’intorno, fece strage di innumerevoli uomini. [7] Ma essendosi raccolti là tutti i satrapi di ogni regione per la difesa comune, vi furono combattimenti lunghi e con vario esito, ma più lunga da venire era la vittoria romana. [8] E Odenato, la cui azione non tendeva ad altro se non alla liberazione di Valeriano, vi poneva i suoi sforzi ogni giorno, e così quell’ottimo generale veniva a trovarsi in una situazione critica per le difficoltà insite in quei luoghi, in un territorio straniero. [11, 1] Mentre questi fatti si svolgevano in Persia, gli Sciti invasero la

Cappadocia52. Qui, occupate alcune città, dopo una guerra condotta a lungo con esito anche vario, si volsero verso la Bitinia. [2] Perciò i soldati ripresero a pensare all’elezione di un nuovo imperatore. Ma Gallieno, secondo il suo costume, visto che non poteva placarli o tirarli dalla sua parte, li fece tutti uccidere. [3] Mentre i soldati erano alla ricerca di un principe degno, Gallieno assumeva ad Atene la carica di arconte – cioè di magistrato supremo –, con quella vanità per la quale pretendeva di essere ascritto nel novero dei cittadini e di partecipare a tutti i riti sacri53. [4] Ciò che non avevano fatto54 né Adriano, allorché era al culmine della sua fortuna, né Antonino55, dopo un lungo periodo di pace, sebbene fossero animati da una tale passione per la cultura greca, da non risultare inferiori – a giudizio di illustri personaggi – che a ben pochi degli uomini più dotti. [5] Aspirava inoltre ad essere iscritto fra i membri dell’Areopago56, quasi ostentando disprezzo per lo Stato romano. [6] In verità Gallieno – non lo si può negare – si segnalava nell’oratoria, nella poesia ed in tutte le arti. [7] Suo è quel celebre epitalamio che risultò il migliore fra quelli di cento poeti. In occasione infatti del matrimonio dei figli dei suoi fratelli, dopo che tutti i poeti greci e latini avevano declamato i loro epitalami, e questo per molti giorni, si racconta che egli, tenendo le mani degli sposi – secondo quanto affermano certuni –, abbia recitato più volte: [8] «Orsù andate, ragazzi, datevi parimenti da fare con le fibre tutte, fra voi; non le colombe i vostri sussurri,

né l’edera i vostri abbracci, né vincano le conchiglie i vostri baci»57.

[9] Sarebbe troppo lungo raccogliere le sue composizioni poetiche e le sue orazioni, per le quali si distinse sia tra i poeti sia fra i retori del suo tempo. Ma altro è quanto si pretende in un imperatore, e altro ciò che viene richiesto ad un oratore o ad un poeta. [12, 1] C’è per il vero un suo nobile atto che viene elogiato: al tempo del consolato di suo fratello Valeriano e del suo parente Lucillo58, allorché apprese che Odenato aveva sbaragliato i Persiani, che aveva assoggettato Nisibi e Carre al dominio romano, che tutta la Mesopotamia era in nostro potere, e che infine si era giunti a Ctesifonte e il re era fuggito, i satrapi catturati, un gran numero di nemici uccisi, associò lo stesso Odenato all’impero, conferendogli il titolo di Augusto59, e fece coniare una moneta a lui dedicata che lo raffigurava nell’atto di trascinare prigionieri i Persiani. Tale provvedimento fu accolto con favore dal senato, dalla città, da gente d’ogni età. [2] Era inoltre davvero uno spirito assai acuto, e a dimostrazione della sua arguzia vorrei riferire qualche

episodio: [3] una volta aveva fatto introdurre nell’arena un toro di grandi proporzioni, e il gladiatore, che era uscito per colpirlo, non era riuscito ad ucciderlo, sebbene glielo avessero messo di fronte per dieci volte; nondimeno Gallieno mandò al gladiatore una corona, [4] e poiché tutti quanti andavano mormorando chiedendosi che razza di sistema fosse mai quello, che un uomo dimostratosi del tutto incapace venisse premiato con una corona, egli fece dichiarare dall’araldo: [5] «È impresa difficile non abbattere un toro con tanti colpi!». Un’altra volta un tale aveva venduto a sua moglie per autentici dei gioielli di vetro, ed essa, essendosi scoperto l’imbroglio, pretendeva di essere vendicata: egli allora ordinò che il venditore venisse arrestato come per essere gettato in pasto ad un leone, ma poi dalla gabbia fece uscire un cappone, e, visto che tutti rimanevano stupefatti di fronte ad una cosa tanto ridicola, fece dire all’araldo: «Ha compiuto un inganno, e un inganno ha subito!». Poi lo lasciò andare. [6] Mentre Odenato era impegnato nella guerra persiana e Gallieno, come suo solito, si dedicava alle occupazioni più insulse, gli Sciti60, costruita una flotta, giunsero ad Eraclea61, e di lì ritornarono alla loro terra con il bottino; molti, peraltro, sconfitti in una battaglia navale, perirono in naufragio. [13, 1] In quel medesimo periodo Odenato, in seguito ad un complotto del cugino62, fu ucciso assieme al figlio Erode63, al quale pure aveva conferito il titolo imperiale. [2] Fu allora che Zenobia64, sua moglie, giacché i figli di lui rimasti, Erenniano e Timolao65, erano ancora fanciulli, assunse essa stessa l’impero e lo resse a lungo, non come una donna né con impronta femminile, [3] ma superando in fermezza e sagacia non solo Gallieno – meglio del quale avrebbe potuto governare qualunque ragazzetta –, ma anche molti veri imperatori. [4] Per vero Gallieno, quando gli fu recata la notizia dell’uccisione di Odenato, si accinse a muovere guerra ai Persiani per una ormai troppo tardiva vendetta di suo padre e, raccolto un esercito grazie all’opera del generale Eracliano, recitava la parte del principe solerte. [5] Ma questo Eracliano, partito per la spedizione contro i Persiani, fu sconfitto dai Palmireni66 e perse tutte le truppe che aveva raccolto, trovandosi di fronte Zenobia che reggeva con piglio virile i Palmireni e la maggior parte dei popoli orientali. [6] Nel frattempo gli Sciti, navigando attraverso il Ponto Eusino, penetrarono nel Danubio, e inflissero molte gravi devastazioni ai territori romani67. Venuto a conoscenza di ciò Gallieno diede ai Bizantini Cleodamo e Ateneo l’incarico di ricostruire e fortificare le città, e quando si venne a

battaglia presso il Ponto i barbari furono sconfitti dai generali bizantini. [7] Anche i Goti furono vinti in battaglia navale dal generale Veneriano, che però morì egli stesso in combattimento. [8] In seguito essi devastarono Cizico e l’Asia, e poi tutta l’Acaia, finché vennero sconfitti dagli Ateniesi sotto il comando di Dexippo, storico di quei tempi68. Si dispersero allora per l’Epiro, la Macedonia, la Mesia. [9] Frattanto Gallieno, appena superficialmente toccato dalle pubbliche calamità, mosse contro i Goti che operavano scorrerie per l’Illirico, e per puro caso riuscì ad ucciderne un gran numero. A tale notizia gli Sciti, formato un convoglio di carri, tentarono di fuggire attraverso il monte Gessace69. [10] Ma poi tutti gli Sciti Marciano70, con varia fortuna militare […]71 che spinsero tutti gli Sciti alla ribellione. [14, 1] Tale era dunque la lealtà del generale Eracliano nei confronti dello Stato. Ma poiché sia Marciano sia Eracliano non potevano sopportare una condotta talmente dissoluta da parte di Gallieno, si accordarono su un piano per il quale uno di loro due avrebbe assunto l’impero […]72 [2] e di fatto venne scelto Claudio, come diremo a suo luogo, uomo eccellente fra tutti, che non aveva partecipato alla riunione73, e che godeva di tale rispetto presso tutti quanti da apparire a buon diritto degno dell’impero, come in seguito si poté avere conferma. [3] Questi è infatti quel Claudio dal quale trae la sua origine Costanzo, il sempre sollecito Cesare nostro74. [4] Fu loro complice nel piano per impadronirsi del potere un certo Ceronio o Cecropio, capo dei Dalmati, che collaborò con loro con molto tatto e avvedutezza. [5] Ma poiché non potevano prendere il potere finché Gallieno era vivo, decisero che bisognava tendergli un complotto – del tipo che diremo –, per allontanare quella peste immonda dal dominio sul genere umano, essendo ormai lo Stato reso esausto dalle calamità, affinché lo Stato stesso, troppo a lungo asservito ai divertimenti del teatro e del circo, non avesse a cadere in rovina in preda alle lusinghe dei piaceri. [6] La congiura si svolse in questo modo: Gallieno si trovava in contrasto con Aureolo, che aveva usurpato il potere75, e si attendeva ogni giorno l’ arrivo, per lui penoso e insopportabile, di quell’imperatore eletto nella confusione. [7] Marciano e Cecropio, che erano a conoscenza di ciò, fecero annunziare all’improvviso a Gallieno che Aureolo stava ormai arrivando. [8] Questi dunque, raccolte delle truppe, mosse come per affrontare un sicuro scontro e così venne ucciso da sicari inviati allo scopo76. [9] Si dice in particolare che Gallieno sia stato trafitto da Cecropio, il capo dei Dalmati, secondo quanto riferiscono alcuni, nei pressi di Milano, dove subito dopo fu

assassinato anche il fratello Valeriano, che molti affermano essere stato Augusto, molti invece Cesare, e molti ancora né l’uno né l’altro77; [10] ma questo non è verisimile, dal momento che, dopo che Valeriano era già stato catturato, troviamo scritto nei fasti78: «sotto il consolato di Valeriano imperatore». Chi altri dunque avrebbe potuto essere Valeriano, se non il fratello di Gallieno? [11] Si sa con certezza della sua famiglia, ma non si è abbastanza al corrente della dignità che ebbe a rivestire o, come altri hanno cominciato a dire, della sua «maestà». [15, 1] Ucciso dunque Gallieno, scoppiò una violenta rivolta dei soldati, che, nella speranza di far bottino e mettere a sacco lo Stato, affermavano che era stato loro tolto un imperatore prezioso, indispensabile, valente, capace, tanto da suscitare invidia. [2] Perciò i capi decisero di placare i suoi soldati nel modo solitamente usato per rabbonirli. Così, dopo che Marciano ebbe promesso venti aurei a testa, e che i soldati li ebbero ricevuti (v’era infatti un’ampia disponibilità di denaro dell’erario), in seguito a un pronunciamento militare fecero iscrivere Gallieno nei fasti pubblici con la denominazione di tiranno79. [3] Così, placati i soldati, Claudio, uomo virtuoso e giustamente degno di venerazione, amato da tutti i buoni, amico della patria, amico delle leggi, caro al senato e felicemente noto al popolo, assunse l’impero80. [16, 1] Questa fu la vita – da me esposta qui in breve –di Gallieno, il quale, nato per l’ingordigia e la sensualità, dissipò i suoi giorni e le sue notti nel vino e negli stupri, e fece sì che il mondo fosse alla mercé di circa venti81 tiranni, tanto che anche delle donne avrebbero governato meglio di lui. [2] E, per non passare sotto silenzio la sua miserabile ricercatezza, ricorderemo che in primavera si faceva preparare giacigli di rose, che costruiva castelli di frutta, che conservava l’uva per tre anni, che in pieno inverno imbandiva dei meloni. Insegnò la maniera di conservare il mosto per tutto l’anno, e offriva sempre, fuori stagione, fichi verdi e frutta appena colta dagli alberi. [3] Faceva sempre apparecchiare le tavole con tovaglie ricamate in oro; si faceva preparare vasellame ornato di gemme e anche d’oro. [4] Si cospargeva i capelli di polvere d’oro; spesso procedeva in pubblico con una corona a raggi82; lo si vide a Roma – dove i sovrani apparivano sempre in toga – vestito di una clamide purpurea e di fibbie gemmate e d’oro; aveva la tunica virile ornata di porpora e d’oro, e con le maniche; usava una cintura tempestata di gemme; usava per legare i calzari corregge ornate di gemme, mentre chiamava gli stivaletti a stringhe «reticelle»83. [5] Banchettava in pubblico. [6] Teneva

buono il popolo mediante elargizioni; e al senato, sedendo in assemblea, fece distribuire ricchi doni. Invitò nel proprio consiglio delle matrone e, al momento in cui gli baciavano la mano, donò a ciascuna quattro aurei col suo nome. [17, 1] Non appena apprese della cattura del padre Valeriano, si narra che ripetesse la frase pronunziata da un grandissimo filosofo84 in occasione della perdita del figlio: «Sapevo che mi aveva generato un uomo mortale»85. [2] Né mancò un Annio Cornicola86 che, tratto in inganno, levò la sua voce a lodarlo come principe d’animo incrollabile. [3] Spesso usciva in pubblico accompagnato dal suono del flauto e rientrava con quello dell’organo, ordinando appunto che si suonasse per la sua uscita ed il suo rientro. [4] Si lavava, d’estate, sei o sette volte al giorno, d’inverno due o tre. [5] Beveva sempre in coppe d’oro, disprezzando il vetro, e affermando che nessun materiale era più ordinario. [6] Cambiava sempre qualità di vino e nel corso di uno stesso banchetto non beveva mai due coppe della stessa qualità. [7] Le sue concubine sedevano spesso nei suoi triclinii. La seconda portata era caratterizzata quasi sempre dalla presenza di buffoni e di mimi. [8] Quando si recava ai giardini che erano intitolati al suo nome, lo seguivano tutti gli ufficiali di palazzo. Andavano con lui i prefetti e i capi di tutti i servizi di corte, ed erano ammessi a partecipare ai banchetti, e prendevano il bagno nelle piscine assieme al principe. [9] Venivano spesso invitate anche delle donne, delle belle ragazze per stare con lui, delle orribili vecchie per far compagnia a quelli. E andava dicendo che voleva solo divertirsi, mentre aveva portato alla rovina tutto il mondo. [18, 1] Era tuttavia di un’estrema crudeltà87 nei confronti dei soldati: era capace infatti di metterne a morte tre o quattromila in un giorno. [2] Si fece erigere una statua più grande del Colosso88 che lo raffigurasse come dio Sole, ma morì prima che fosse compiuta. Si era cominciato a realizzarla di tali proporzioni da farla apparire il doppio in rapporto al Colosso. [3] Avrebbe voluto che fosse collocata sulla sommità dell’Esquilino, con in mano una lancia cosiffatta che attraverso la cavità di essa un fanciullo potesse salire fino alla cima. [4] Ma sia a Claudio sia poi ad Aureliano la cosa apparve insensata, tanto più che aveva ordinato di costruire anche dei cavalli e un carro proporzionati alle dimensioni della statua e di porli su di un altissimo mento. [5] Aveva inoltre progettato di costruire un portico lungo la via Flaminia, sino al ponte Milvio, che presentasse quattro o – come sostengono altri – cinque ordini di colonne, di modo che il primo ordine

avesse pilastri e, sul davanti, delle colonne con statue, mentre il secondo, il terzo e quelli successivi avessero colonne disposte a quattro a quattro. [6] Sarebbe troppo lungo mettere per iscritto tutte le vicende della sua vita: chi le vuole conoscere, legga Palfurio Sura89, che scrisse una cronaca della sua vita, giorno per giorno. Noi volgiamoci ora a parlare di Salonino. SALONINO GALLIENO [19, 1] Costui era figlio di Gallieno e nipote di Valeriano90: su di lui non v’è quasi nulla degno di essere narrato, se non che era di nobile nascita, che era stato educato in modo degno di un principe, e infine che fu ucciso non per colpa sua, ma del padre. [2] Riguardo al suo nome sussistono molte incertezze91. Molti infatti lo hanno ricordato come Gallieno, molti come Salonino. [3] Quelli poi che gli attribuiscono il nome di Salonino, dicono che si chiamava così perché era nato a Salona92; quelli invece che gli attribuiscono il nome di Gallieno, dicono che si chiamava così dal nome del padre e del nonno di Gallieno, che un tempo era stato uomo di grande prestigio nello Stato. [4] È rimasta fra l’altro sino ai nostri giorni ai piedi del colle di Romolo93, cioè di fronte alla via Sacra94, fra il tempio di Faustina95 e quello di Vesta96 vicino all’arco Fabiano97, una statua che portava l’iscrizione: «A Gallieno il giovane», con l’aggiunta: «A Salonino»; dal che si potrà dedurre quale fosse il suo nome98. [5] È sufficientemente acclarato che l’impero di Gallieno oltrepassò i dieci anni. E ho aggiunto questa puntualizzazione perché molti hanno sostenuto che egli morì nel nono anno99 del suo impero. [6] Diremo a suo tempo come vi furono sotto di lui anche altri ribelli, poiché ho deciso di riunire in un unico volume le biografie di venti100 tiranni, dal momento che non vi è molto che si possa dire su di essi e il più è già stato narrato nel corso della vita di Gallieno. [7] E quanto a Gallieno basterà intanto aver ricordato questi fatti nel corso del presente libro. Molte cose infatti sono state già narrate nella vita di Valeriano, e molte lo saranno ormai nel libro che si intitolerà dei Trenta tiranni: appariva inutile ripeterle narrandole più volte. [8] A ciò si aggiunge che certe cose le ho omesse di proposito, perché i suoi discendenti non si sentissero offesi dalla divulgazione di molti dettagli. [20, 1] Sai infatti tu stesso come si comportino gli uomini nei confronti di

coloro che abbiano scritto qualcosa sul conto dei loro antenati, quale ostilità manifestino loro, né credo ti sia ignoto quanto disse Marco Tullio nell’Ortensio101, che egli scrisse a mo’ di protrettico102. [2] Ricorderò qui tuttavia un solo fatto, che rivestiva un certo carattere scherzoso – peraltro banale –, ma che però ebbe a creare un nuovo costume. [3] Una volta la maggior parte di un gruppo di soldati che erano convenuti ad un banchetto, si tolsero, all’ora di andare a tavola, la cinture: il fanciullo Salonino (o Gallieno) sottrasse loro – a quanto si racconta – queste cinture dorate e guarnite di perle, e poiché risultava difficile mettersi alla ricerca di quanto era sparito nelle sale del Palazzo, gli uomini avevano sopportato in silenzio il danno ricevuto; quando però in seguito vennero ancora invitati a banchetto, si sedettero a tavola tenendo addosso le cinture. [4] E a chi chiedeva loro il perché non si sciogliessero la cintura, si dice rispondessero: «Lasciamo la risposta a Salonino!», e di qui sarebbe nato l’uso per cui da allora in poi, in presenza dell’imperatore, pranzavano con le cinture addosso. [5] Non posso negare che i più ritengono che questa usanza abbia avuto un’altra origine: dicono che ad un pranzo103 militare – detto anche parandium in relazione al fatto che «prepara» i soldati alla guerra si andava indossando le cinture; a favore di questa tesi sta il fatto che a cena si va senza cinture anche se è presente l’imperatore. Ho voluto esporre qui questa questione, perché mi sembrava degna di essere riferita e conosciuta. [21, 1] Passiamo ora ai venti tiranni che sorsero ai tempi di Gallieno per il disprezzo che attirava su di sé quel cattivo imperatore. Su di loro non vi sono da dire che poche cose in breve; [2] la maggior parte di costoro, infatti, non merita che neppure i nomi di personaggi della loro levatura avessero ad occupare spazio in un libro, anche se alcuni paiono essere stati non poco valorosi e aver reso inoltre grandi servigi allo Stato. [3] Riguardo poi al nome di Salonino le opinioni sono tanto varie che chi crede di essere più vicino alla verità […] che fu chiamato così dal nome di sua madre Salonina104 […] amò perdutamente una donna barbara di nome Pipara105, figlia del re106 […] [4] Gallieno e i suoi si tingevano sempre i capelli di biondo. [5] Quanto poi agli anni pertinenti all’impero di Gallieno e di Valeriano, le notizie tramandate sono così incerte che, mentre si sa che essi regnarono per quindici anni107, cioè Gallieno giunse fino al quindicesimo anno di impero, e Valeriano invece fu catturato quando era al suo sesto108, alcuni scrivono anche

che Gallieno regnò per nove anni, altri al massimo per dieci, per quanto si sappia che egli ebbe a celebrare in Roma il suo decennale di regno109 e dopo tale celebrazione fece in tempo a sconfiggere i Goti, a concludere la pace con Odenato, a stringere alleanza con Aureolo, a combattere contro Postumo, contro Lolliano110, a compiere ancora molte imprese, a volte valorose, ma per la maggior parte disonorevoli; [6] ché, a quanto si dice, di notte frequentava sempre le bettole, e passava la vita in compagnia di lenoni, mimi e buffoni.

1. P. Licinius Egnatius Gallienus Augustus fu imperatore assieme al padre Valeriano dal 253 al 260 d. C., e poi da solo fino al 268. La biografia della HA risente della forte ostilità senatoria nei suoi confronti, ricollegabile sia alla sua politica (ad es., escluse i senatori dai comandi militari), sia soprattutto al desiderio di contrapporgli il successore Claudio II il Gotico (considerato l’antenato di Costanzo Cloro e quindi esaltato a dismisura nel corso di questo gruppo di biografie), facendo risaltare maggiormente le qualità e la gloria di quest’ultimo col delineare a fosche tinte la figura di Gallieno. La storiografia moderna, peraltro, anche fondandosi sulla tradizione antica a lui favorevole risalente a DEXIPPO e confluita nei compendi bizantini – a noi giunti – di ZOSIMO e ZONARA, ha pienamente rivalutato la figura e l’opera di questo imperatore. 2. Cfr. quanto precisato nella n. 4 a Valer., 8, 5. Il pensiero svolto nelle successive righe lacunose è abbastanza verosimilmente ricostruibile in questi termini: …i generali manifestavano il loro malcontento, e tutti erano addolorati al pensiero che un imperatore romano fosse tenuto schiavo in Persia, e lo erano vieppiù perché Gallieno con la sua condotta aveva recato allo Stato un danno analogo a quello prodotto involontariamente dal padre per via del tragico destino che lo aveva colpito (per l’ultima frase, fondamentale è il confronto con Tyr. trig., 12, 8). 3. Nel 261 d. C. La data non è esatta, in quanto dai papiri risulta che Macriano e Quieto furono proclamati imperatori in Egitto nel settembre del 260 d. C. 4. Due dei triginta tyranni: cfr. le loro biografie in Tyr. trig., 12 e 18. 5. Si intende dopo la sconfitta subita da Valeriano. 6. Si trattava di Macriano il giovane e di Quieto (cfr. le loro biografie in Tyr. trig., 13 e 14). 7. Il testo latino frammentario qui di seguito riportato è, come al solito, quello di P, parzialmente integrato da Σ: il biografo ribadiva la notizia del conferimento dell’impero a Macriano. 8. Le lacune presenti nei codici a partire da questo punto sono tali da rendere particolarmente difficile un tentativo di ricostruzione del discorso originario: si deduce comunque che Macriano raccolse aiuti da ogni parte, e che era in grado di far fronte (cfr. par esset) a tutto quanto potesse essere tramato contro di lui. 9. Un altro dei tyranni, la cui biografia sarà narrata in seguito (cfr. Tyr. trig., 21). 10. Un altro usurpatore: cfr. Tyr. trig., 19. 11. Si trattava di Quieto, di cui si parlerà al cap. successivo. 12. Notizia inesatta: in questo periodo (intorno al 260 d. C.) Aureolo era un generale di Gallieno; fu solo nel 268 d. C. che egli si proclamò imperatore (cfr. la sua biografia in Tyr. trig., 11). 13. Di questo personaggio si parla anche, sottolineandone il valore, a Tyr. trig., 12, 14. 14. Gli abitanti di Emesa, in Siria (l’odierna Homs). 15. La notizia appare tendenziosa: sembra invece che Gallieno, dopo aver represso la rivolta di Ingenuo (cfr. Tyr. trig., 9) in Pannonia nel 258 o 259 d. C., sia poi ritornato in Gallia per combattere contro Postumo, come pare potersi ricavare più avanti da 4, 4, pur nell’ambito di un testo assai lacunoso. 16. Un altro usurpatore: cfr. Tyr. trig., 22. 17. Segue un altro punto in cui il testo è molto lacunoso e di impossibile ricostruzione; di solito, accogliendo i supplementi congetturati dall’OBRECHT, se ne ricava che l’Egitto fu affidato a Teodoto, che Emiliano fu strangolato in carcere, che le truppe di stanza a Tebe furono punite con una dura repressione. 18. Questa notazione potrebbe considerarsi un indiretto elogio nei confronti di Costanzo Cloro, il Cesare che nell’ordinamento dioclezianeo governava, oltre alla Britannia, appunto la Gallia: cfr. in questo senso E. MANNI, Treb. Pollione, Le Vite di Valeriano e di Gallieno, Palermo, 19692, p. 97. 19. Sulla ribellione di Postumo e, in particolare, sulla questione della data in cui assunse il potere imperiale, cfr. Tyr. trig., 3 e note.

20. Segue un testo ancora lacunoso. Se ne può ricavare comunque che Gallieno mosse con l’esercito contro Postumo e prese d’assedio una città in cui questi si era rifugiato, difesa dai Galli. 21. Notizia inesatta, che ritroviamo a Tyr. trig., 3, 4: Postumo governò infatti la Gallia per dieci anni, come attestato da EUTROPIO, IX, 9 e confermato dalle monete. 22. La narrazione della HA risulta confusa; in realtà Aureolo era un generale di Gallieno, comandante di un corpo speciale di cavalleria; a lui era stata ad un certo punto affidata la condotta della guerra contro Postumo: la sua azione era risultata però troppo debole, tanto che Postumo era potuto fuggire, andando a rifugiarsi in una città gallica, dove fu assediato dallo stesso Gallieno; quest’ultimo ebbe a ricevere in questa occasione una ferita abbastanza grave, che lo costrinse ad abbandonare le operazioni. 23. Con questo appellativo potevano venir designate genericamente tutte le tribù nomadi stanziate nella regione a nord del Mar Nero e del Caspio, così come anche un popolo in particolare. Qui il termine indica una tribù dei Goti (cfr. 6, 2). 24. Regione dell’Asia Minore tra il Mar di Marmara e il Mar Nero. 25. Città della Bitinia. 26. Nel 262 d. C. 27. Questo appellativo di Giove è ricordato anche da CICERONE, De fin., III, 66, ed è inoltre attestato in varie iscrizioni dedicatorie. 28. La pestilenza era scoppiata nelle regioni orientali, provocando gravi perdite fra le truppe di Valeriano. 29. Dalla parte frammentaria del testo si ricava che soggetto del periodo sono i Goti o una loro tribù. La notizia presenta difficoltà d’ordine cronologico. Stando a ZOSIMO (I, 29, 2), i Goti avrebbero invaso la Macedonia e assediato Tessalonica sotto Valeriano, nel 253 o 254 d. C. Ma qui si fa riferimento alla vittoria ottenuta su di essi da Marciano, un generale di Gallieno, sicché siamo obbligati a presupporre un’ulteriore successiva incursione (262 d. C)., Va precisato anche che in questa stessa Vita si parla più oltre (13, 6 segg.) di un’altra invasione gotica (nel 267 d. C.), e non si può escludere che il riferimento qui fatto sia da ricollegare ad essa, dato che anche in quel caso sono ad un certo punto richiamate, in un passo purtroppo molto mutilo, operazioni belliche di Marciano contro di loro (di quest’ultimo episodio siamo informati anche da ZOSIMO, I, 40, 1). Quello delle varie invasioni scitico-gotiche è comunque un problema assai complesso: cfr. le posizioni contrastanti di A. ALFÖLDI in Cambridge Ancient History, Milano, 1970, XII, 2, pp. 901 segg. e di E. MANNI, L’impero di Gallieno, Roma, 1949, pp. 99 segg. 30. Come già notato, o queste operazioni condotte da Marciano si riferiscono al 262 d. C., e quella del 267 è una campagna successiva e distinta, oppure ci troviamo di fronte a una non certo impossibile confusione da parte dell’autore, che potrebbe aver inserito disorganicamente in vari punti della Vita il riferimento a una stessa campagna. 31. Questa invasione (ricordata anche più avanti, a 7, 3) ebbe luogo nel 263 d. C. 32. Si trattava del famoso tempio di Artemide. 33. Gli Atrabates (O Atrebates) erano una popolazione della Gallia Belgica; famose erano le loro stoffe di lana. 34. I motivi che fecero scoppiare questa rivolta militare, successivamente punita con rigore dallo stesso Gallieno (cfr. 7, 2), ci sono ignoti. 35. Il tema della discendenza di Costanzo Cloro da Claudio il Gotico è ripreso nella vita di questo imperatore (cfr. 13, 2), dove sono espressamente chiariti i rapporti di parentela fra i due personaggi; ma numerosi sono i passi della raccolta in cui tale discendenza viene ricordata (cfr. ad es., la celebrazione che ne viene fatta a Aurel., 44, 5). 36. Un altro degli usurpatori sorti sotto l’impero di Gallieno: cfr. la sua biografia a Tyr. trig., 6. 37. I Decennalia, cioè i giochi celebrati per solennizzare il decimo anniversario della sua salita al potere, ebbero luogo nell’autunno del 262 d. C., e furono ricordati anche da apposite emissioni di

monete. 38. Il problema dell’autenticità e dell’interpretazione del racconto della cerimonia del trionfo di Gallieno è stato da ultimo ripreso e approfondito da E. W. MERTEN, Zwei Herrscherfeste in der HA. Untersuchungen zu den pompae der Kaiser Gallienus und Aurelianus, Bonn, 1968; attraverso uno studio critico delle circostanze storiche che circondarono la celebrazione dei Decennalia di Gallieno e un esame analitico di tutti i simboli che avrebbero accompagnato la cerimonia (il motivo del fuoco, i signa templorum omniumque legionum, i vexilla collegiorum, le gentes simulatae, ecc.), la studiosa giunge a conclusioni fondamentalmente scettiche nei riguardi della storicità dei fatti riferiti qui dalla HA: l’autore della Vita Gallieni avrebbe improntato gli elementi del suo colorito e pittoresco racconto a quelli propri di altre feste, processioni e giochi totalmente estranei alla celebrazione dei Decennalia. Peraltro, il valore documentario del passo, per ciò che riferisce dei vari dettagli della celebrazione, non deve essere rigettato a priori. 39. Abbiamo qui accolto l’emendazione dell’ELLIS flocculis in luogo del tràdito flacculis, che ha trovato conferma in un raffronto – segnalato da E. K. BORTHWICK, A note on boxing-gloves, «Class. Rev.», N. S. XIV, 1964, p. 142 – con un passo di FILOSTRATO (Her., 6 = II, 147, 4 Kay er) dove il termine ϰῴδια ( = «velli di pecora») è impiegato in riferimento a guanti lanati (e floccus vale appunto «fiocco di lana»), impiegati da un pugilatore. Si sarebbe dunque trattato di guanti lavorati in modo da attutire il colpo, anziché renderlo più doloroso come avveniva con il tipo chiamato dai Romani caestus (cfr. l’opposizione flocculis/veritate). 40. Il sostantivo apenarii è probabilmente da ricollegare ad Apina, favolosa città dell’Apulia, il cui nome probabilmente era impiegato al plurale ad indicare «sciocchezze», «frivolezze» (cfr. MARZIALE, I, 113, 2 dove è applicato ad opere letterarie di intonazione leggera). Il termine derivato apinarius – o, come qui, apenarius – doveva quindi significare qualcosa di simile al nostro «buffone». 41. Il sostantivo Cyclopea (neutro plurale) indicava il mito di Polifemo – il Ciclope per eccellenza – rappresentato nel pantomimo Cyclops, dove egli era descritto nel suo amore per la ninfa Galatea. 42. La toga picta (cfr. Al. Sev., 40, 8, n. 6) e la tunica palmata (cfr. Gord., 4, 4, n. 4) erano insegna dei trionfatori. 43. Non è ben chiaro che cosa siano questi signa templorum: potrebbe trattarsi – come ritiene il MAGIE, III, p. 33, n. 4 – delle «statue» che si trovavano nei santuari degli accampamenti, ma anche – dato il doppio valore di signum – di «stendardi» (per questa interpretazione propende maggiormente la MERTEN, Zwei Herrscherfeste, cit., p. 91, notando come questi signa siano condotti assieme ad altri vessilli). 44. Un altro dei trenta usurpatori: cfr. Tyr. trig., 10. 45. La sua biografia è narrata in Tyr. trig., 22. 46. Si allude principalmente a Odenato, che, come sarà detto più avanti (10, 2-3), fece guerra ai Persiani in vindictam Valeriani, ottenendo vari successi. 47. Nel 264 d. C. 48. Cfr. 12, 1, dove è detto tra l’altro che, in seguito ai suoi successi sui Persiani, fu lo stesso Gallieno a spartire con Odenato l’impero. 49. In effetti Odenato agiva ancora in qualità di generale di Gallieno. A nostro parere, reverentia è qui usato senza sottintesi ironici: questa interpretazione è possibile intendendo la successiva espressione insultandi prope gratia et ostentandi sui avente quale soggetto Gallieno e come oggetto i satrapi prigionieri (in questo senso sono le traduzioni di AGNES e RONCORONI); linguisticamente più facile ma meno congruente al contesto appare l’interpretazione di chi, come il MAGIE, intende Odenato quale soggetto dei due gerundivi e Gallieno come oggetto di insultandi.

50. Tale trionfo, come attestato dalle monete, fu celebrato nel 264 d. C. 51. Questa presunta consacrazione di Valeriano non ci è attestata da alcun’altra fonte. 52. Anche nel caso di questa ennesima invasione scitica (= gotica) ci troviamo di fronte – come già in precedenza (cfr. n. 2 a 5, 6) – a notevoli problemi cronologici. ZOSIMO (I, 28, 1) cita, sì, un’invasione della Cappadocia, ma risalente al 252-253 d. C., mentre qui ci si riferisce ad un periodo successivo, che, seguendo la narrazione della HA, dovrebbe corrispondere al 264 d. C. (cfr. MAGIE, III, p. 38, n. 1). In alternativa rimane sempre l’ipotesi che si abbia anche qui a che fare con una confusione, operata dal biografo, con l’invasione del 267 d. C. menzionata a 13, 6-7. 53. Le notizie qui riportate sono verisimili: Gallieno ebbe a rivestire la carica di arconte anche a Traiana Augusta (Traianopoli, oggi Orikhora, una città della Rumelia), e pare attestata dalla numismatica la sua partecipazione ai misteri Eleusini (cfr. MANNI, Le Vite, cit., p. 101). 54. Per la verità Adriano era stato pur egli arconte di Atene, ma prima di essere eletto imperatore (cfr. Hadr., 19, 1); tanto lui che Marco Aurelio, poi, furono iniziati ai misteri Eleusini (cfr. Hadr., 13, 1 e M. Ant., 27, 1). 55. Si allude qui a Marco Aurelio. 56. L’Areopago era il tribunale supremo di Atene, così chiamato dall’omonima collina (la collina di Ares) sulla quale esso teneva, in un modesto edificio, le sue sedute. 57. Questo «epitalamio» (= «canto di nozze» intonato in coro dinanzi alla camera nuziale) fu trovato anche in un codice Bellovacensis ora perduto, con l’aggiunta di due versi: Ludite: sed vigiles nolite extinguere lychnos. / Omnia nocte vident, nil cras meminere lucernae (= «Divertitevi: ma non spegnete le vigili lampade. / Le lucerne tutto di notte vedono, nulla il domani ricordano»); cfr. RIESE, Anth. lat., I, 2, p. 176, 711 = BAEHRENS, Poetae lat. minores, IV, pp. 103 seg. 58. Nel 265 d. C. 59. Non ci sono in realtà prove che Odenato abbia mai ricevuto tale titolo. 60. Si tratta dell’invasione del 266-267 d. C., già ricordata in altre occasioni (cfr. note 2 a 5, 6 e 3 a 11, 1), in quanto ad essa potrebbero riferirsi le notizie relative a talune invasioni precedentemente ricordate nel corso della biografia. 61. Città della Bitinia, sul Mar Nero (detta quindi Pontica). 62. Si tratta di Meonio, uno dei trenta tyranni (cfr. Tyr. trig., 17; 15, 5). 63. Cfr. Tyr. trig., 16. 64. Anche Zenobia (come pure un’altra donna, Vittoria) è compresa nel novero dei tyranni triginta (cfr. Tyr. trig., 30). 65. Cfr. Tyr. trig., 27-28. 66. La notizia lascia perplessi: Odenato era morto attorno al 266-267 d. C., e ad una aperta rottura coi Palmireni si dovette giungere solo più tardi. Tra l’altro le invasioni dei Goti (267 d. C.) e degli Eruli (268 d. C.) impedirono comunque a Gallieno di concentrare per il momento il proprio impegno militare in Oriente (lo stesso Eracliano qui citato nell’estate del 268 d. C. si trovava a Milano assieme a Gallieno: cfr. 14, 1). Si tratta dunque probabilmente di un’esagerazione da parte del biografo. 67. È la grande invasione del 267 d. C., nel corso della quale un grande esercito costituito essenzialmente da bande di Goti, ma anche di Bastarni e altri piccoli gruppi di popoli, su di una flotta di almeno cinquecento navi fornite per la maggior parte dal popolo marinaro degli Eruli, navigò nel Mar Nero alla volta del Danubio, gettandosi sulla Tracia, e saccheggiando Bisanzio e Chrysopolis; gli invasori passarono poi in Grecia, dove sia Sparta sia Atene caddero nelle loro mani. A questo punto però furono assaliti per mare dall’ammiraglio imperiale Cleodemo, mentre gruppi di volontari ateniesi al comando dello storico Dexippo inflissero loro gravi perdite, costringendoli a ritirarsi verso la Mesia. Frattanto Gallieno, dapprima impegnato nella guerra contro Postumo, mosse in forze contro di loro: lo scontro si ebbe a Naissus e la vittoria finì per andare ai Romani, che uccisero cinquantamila nemici (tra l’altro il capo erulo, Naulobato, era passato dalla parte di Gallieno). La vittoria non poté comunque essere

pienamente sfruttata, in quanto Gallieno dovette ritirare il grosso dell’esercito per far fronte alla rivolta del suo ex-generale Aureolo. 68. Cfr. Al. Sev., 49, 3, n. 4. 69. Monte di difficile identificazione. Il MAGIE (III, p. 45 n. 4) suggerisce la possibilità che si tratti dell’odierno Monte Rodope, in Tracia. 70. Cfr. n. 2 a 5, 6. 71. Il testo presenta una lacuna. Probabilmente si accennava qui a misure particolari prese da Marciano, che spinsero gli Sciti alla ribellione. 72. Altra grave lacuna nel testo. I veri anelli della congiura dovettero essere Eracliano, M. Aurelio Claudio e L. Domizio Aureliano. Come si ricava dalle altre fonti e dallo stesso racconto della Vita, il complotto avvenne mentre era in corso la guerra contro Aureolo. 73. È evidente il desiderio di scagionare Claudio da ogni responsabilità sull’assassinio. Nella narrazione di AURELIO VITTORE (Caes., 33, 28) e dell’Epitome de Caesaribus, 34, 2, è riportata addirittura una versione secondo cui Gallieno, in punto di morte, avrebbe conferito a Claudio le insegne imperiali. 74. Cfr. 7, 1, n. 2. 75. Aureolo, già comandante della nuova cavalleria dell’esercito imperiale (cfr. n. 2 a 4, 6), al quale ora era stato affidato l’esercito della Rezia e di altre regioni subalpine, per difendere l’Italia da un’eventuale invasione da parte di Postumo, si era ribellato a Gallieno, schierandosi proprio a fianco di quello. Gallieno, lasciato a Marciano l’incarico di continuare la guerra gotica, raggiunse immediatamente la pianura padana, dove sconfisse Aureolo nei pressi di Milano, assediandolo poi nella stessa città. Su questi avvenimenti cfr. particolarm. ZOSIMO, I, 40 e ZONARA, XII, 25. 76. L’uccisione di Gallieno avvenne nel luglio o agosto del 268 d. C.; non furono risparmiati neppure i suoi parenti e amici: in particolare furono messi a morte il fratello Valeriano – come è detto subito dopo – e il giovane figlio (Mariniano; o forse lo stesso Salonino di cui è narrata successivamente la biografia: cfr. n. 2 a 19, 1). 77. Su Valeriano il giovane cfr. Valer., 8. 78. I fasti consulares costituivano l’elenco perpetuo in cui venivano registrati i nomi dei più alti magistrati annuali (consoli, dittatori, magistri equitum, censori). 79. Questa notizia è probabilmente un’aggiunta ispirata dall’ostilità manifesta del biografo nei confronti di Gallieno. Una damnatio memoriae poteva infatti rivestire valore giuridico solo se pronunciata dal senato. 80. Sulla presentazione – piena di ammirazione e venerazione – di Claudio da parte della HA cfr. n. 1 a 1, 1. 81. Qui, così come a 19, 6 e 21, 1, si parla di venti anziché trenta tyranni. Si può pensare, col MAGIE (III, p. 50, n. 1) che il piano originario dell’autore fosse più ristretto rispetto allo sviluppo successivo da lui dato alla trattazione; diversamente il MANNI, Le Vite, cit., pp. 109 segg., attraverso un esame analitico di tale gruppo di biografie, giunge alla conclusione che una parte di esse siano da attribuire a un compilatore di epoca posteriore. 82. Come testimoniano le monete, l’uso della corona circondata dai raggi era caratteristico degli imperatori del III secolo d. C. Questa della HA è l’unica testimonianza letteraria che possediamo su questo ornamento accanto a quella di FILONE, Leg. ad Gai., XIII, 95 a proposito di Caligola. 83. Con reticulus si indicava, tra i vari significati possibili, un tipo di reticella o cuffietta per capelli portata dalle donne o da uomini effemminati e viziosi (così ad es., è in Heliog., 11, 7 qui caput reticulo componerent, detto di personaggi appartenenti alla cerchia di quel corrotto imperatore). Nell’intenzione di Gallieno una tale denominazione attribuita ai campagi (cioè i normali stivaletti con semplici stringhe) voleva dunque rivestire un valore ironico-spregiativo. 84. La frase in questione, che Gallieno stravolge a proprio uso, non è di sicura attribuzione. Infatti

CICERONE, Tusc., III, 30 e 58, VALERIO MASSIMO, V, 10 Ext., 3, e PLUTARCO, De cohib. ira, 16 e De tranq. an., 16 la attribuiscono ad Anassagora, mentre DIOGENE LAERZIO, II, 6, 55 a Senofonte. La massima fu riecheggiata inoltre – anche se senza riferimenti all’autore – da ENNIO (cfr. Telamo, fr. 312 Vahlen) e SENECA, Cons. ad Pol., 11, 2. 85. Non è possibile conservare in italiano l’ambiguità dell’espressione latina, che può significare sia «sapevo di aver generato un uomo mortale» (congruentemente alla situazione in cui fu pronunziata dal filosofo: e in questo senso era stata ripresa e riecheggiata dagli autori citati alla n. prec.), sia «sapevo che mi aveva generato un uomo mortale», cioè «che mio padre era un uomo mortale», nel senso ad essa dato evidentemente da Gallieno, che giocava appunto su questo doppio possibile valore. Le parole ille sic dixit: «sciebam patrem meum esse mortalem» sono probabilmente da considerarsi una glossa, inseritasi accidentalmente nel testo, avente lo scopo di spiegare il senso dell’espressione in riferimento a Gallieno (si noti come il copista avesse già iniziato a scrivere, subito dopo la prima citazione, quanto seguiva effettivamente nel testo originario: nec defuit an〈nius〉…). 86. Personaggio non altrimenti conosciuto. 87. Il tema della crudeltà di Gallieno torna ancora più volte nel corso della biografia dei Tyranni triginta (dove si parla spesso della sua crudelitas e della sua saevitia: cfr. ad es., 9, 3; 26, 1 ecc.). Anche qui dobbiamo certamente vedere l’espressione della profonda ostilità del nostro autore filosenatorio nei confronti di questo imperatore (cfr. n. 1 a 1, 1). Altre fonti appaiono più obiettive, come AMMIANO MARCELLINO che, a XXI, 16, 10, fa cenno ad atti di clemenza compiuti da Gallieno. 88. La monumentale statua di Nerone eretta presso l’Anfiteatro Flavio; cfr. Hadr., 19, 12, n. 12. 89. Storico non altrimenti conosciuto. 90. Salonino fu nominato Cesare nel 258 d. C., dopo la morte del fratello Valeriano. Si ritiene in genere che sia morto intorno al 260-261 d. C., ma è anche possibile che sia da identificare col figlio di Gallieno ucciso dal senato dopo la sua morte (per cui cfr. ZONARA, XII, 26). 91. Dalle iscrizioni e dalle monete il nome esatto appare essere P. Licinius Cornelius Saloninus Valerianus. 92. Città sulla costa dalmata. Questa derivazione è peraltro contraddetta successivamente, a 21, 3, ove si ricollega – certo più fondatamente – il nome di Salonino a quello della madre. 93. Il Palatino. 94. La Via Sacra cominciava presso il sacellum Streniae, attraversava il Foro da ovest a est, e terminava al Campidoglio; era chiamata così perché costeggiata da molti templi e percorsa spesso da processioni sacre. 95. Dedicato ad Annia Galeria Faustina, moglie di Antonino Pio. 96. Il tempio di forma rotonda in cui ardeva perennemente il fuoco sacro alla dea del focolare e della vita domestica. 97. L’arco trionfale di Q. Fabio Massimo (nipote di Scipione Emiliano) costruito in occasione del suo trionfo sugli Allobrogi (120 a. C.). 98. Non risulta che Salonino abbia portato mai il nome di Gallieno: evidentemente anche questa iscrizione, alla stregua di tanti altri «documenti» citati nell’opera, è una creazione del biografo. 99. Così anche in AURELIO VITTORE, Caes., 33, 35 e EUTROPIO, IX, 11. 100. Cfr. 16, 1, n. 2. 101. Opera perduta di CICERONE, scritta nel 45 a. C., famosa nell’antichità (la lettura di essa stimolerà Agostino alla vita contemplativa): era una specie di introduzione ed esortazione alla filosofia. 102. Parola di origine greca che significa «esortazione». Famosa fu l’operetta di ARISTOTELE con questo nome, che esortava appunto allo studio della filosofia (il MAGIE e il RONCORONI fanno, nella traduzione, diretto riferimento ad essa, usando la maiuscola). 103. Conserviamo nella traduzione il corrispondente letterale del termine latino, necessario ai fini della presunta spiegazione etimologica, ricordando peraltro che il pasto principale – il vero ‘pranzo’ –

per i Romani era la cena. 104. Cfr. 19, 3, n. 4. Il nome della madre era Cornelia Salonina Augusta. Il testo si fa nuovamente lacunoso; anche in questo caso rinunciamo a implausibili tentativi di integrazione. 105. Ricordata anche da AURELIO VITTORE, Caes., 33, 6 e Epitome de Caesaribus, 33, 1 col nome di Pipa. Cfr. anche Tyr. trig., 3, 4 cum Gallienus… amore barbarae mulieris consenesceret… 106. Sempre da quanto si ricava da AURELIO VITTORE e da Epitome de Caesaribus, si tratterebbe del re dei Marcomanni, di nome Attalo; con lui Gallieno aveva stretto un trattato cedendogli parte della Pannonia. 107. Dal 253 al 268 d. C. 108. Valeriano cessò di regnare nel 260 d. C. 109. Forse alla celebrazione di questo Decennale (262 d. C.) è da ricollegare l’origine dell’errata versione sui «nove o al massimo dieci anni» di regno di Gallieno (cfr. MAGIE, III, p. 61, n. 4). 110. Un altro dei cosiddetti tyranni: cfr. la sua biografia in Tyr. trig., 5.

XXIV. TYRANNI TRIGINTA1 〈TREBELLI POLLIONIS〉

I TRENTA TIRANNI1 di TREBELLIO POLLIONE

[1, 1] Scriptis iam pluribus libris non historico nec diserto sed pedestri adloquio, ad eam temporum venimus seriem, in qua per annos, quibus Gallienus et Valerianus rem p. tenuerunt, triginta tyranni occupato Valeriano magnis belli Persici necessitatibus extiterunt, cum Gallienum non solum viri sed etiam mulieres contemptui haberent, ut suis locis probabitur. [2] Sed quoniam tanta obscuritas eorum hominum fuit, qui ex diversis orbis partibus ad imperium convolabant, ut non multa de his vel dici possint a doctioribus vel requiri, deinde ab omnibus historicis, qui Graece ac Latine scripserunt, ita nonnulli praetereantur, uti eorum 〈nec〉 nomina frequententur, postremo cum tam varie a plerisque super his nonnulla sint prodita: in unum eos libellum contuli2 {et} quidem brevem, maxime cum vel in Valeriani vel in Gallieni vita pleraque de his dicta nec repetenda tamen satis constet. CYRIADES3 [2, 1] Hic patrem Cyriadem fugiens, dives et nobilis, cum luxuria sua et moribus perditis sanctum senem gravaret, direpta magna parte auri, argenti etiam infinito pondere Persas petit. [2] Atque inde Sapori regi coniunctus atque sociatus, cum hortator belli Romanis inferendi fuisset, Odomastem4 primum, deinde Saporem ad Romanum solum traxit; Antiochia etiam capta et Caesarea5 Caesareanum nomen meruit. [3] Atque inde vocatus Augustus6, cum omnem orientem vel virium vel audaciae terrore quateret, patrem vero interemisset (quod alii historici negant factum), ipse per insidias suorum, cum Valerianus iam ad bellum Persicum veniret, occisus est. [4] Neque plus de hoc historiae quicquam mandatum est, quod dignum memoratu esse videatur, quem clarum perfugium et parricidium et aspera tyrannis et summa luxuria litteris dederunt. POSTUMUS7 [3, 1] Hic vir in bello fortissimus, in pace constantissimus, in omni vita gravis, usque adeo ut Saloninum fìlium suum eidem Gallienus in Gallia positum crederet quasi custodi vitae et morum et actuum imperialium institutori8. [2] Sed, quantum plerique adserunt (quod eius non convenit moribus), postea fìdem fregit et occiso Salonino sumpsit imperium. [3] Ut autem verius plerique tradiderunt, cum Galli vehementissime Gallienum

odissent, puerum autem apud se [ferre] imperare 〈ferre〉 non possent, eum, qui commissum regebat imperium, imperatorem appellarunt missisque militibus adulescentem interfecerunt. [4] Quo interfecto ab omni exercitu et ab omnibus Gallis Postumus gratanter acceptus talem se praebuit per annos septem9, ut Gallias instauraverit, cum Gallienus luxuriae et popinis vacaret et amore barbarae mulieris10 consenesceret. [5] Gestum est tamen a Gallieno contra hunc bellum tunc, cum sagitta Gallienus est vulneratus11; [6] si quidem nimius amor erga Postumum omnium erat in Gallicanorum mente populorum, quod summotis omnibus Germanicis gentibus Romanum in pristinam securitatem revocasset imperium. [7] Sed cum se gravissime gereret, more ilio, quo Galli novarum rerum semper sunt cupidi12, Lolliano agente interemptus est13. [8] Si quis sane Postumi meritum requirit, iudicium de eo Valeriani ex hac epistula, quam ille ad Gallos misit, intelleget: [9] «Transrenani limitis ducem et Galliae praesidem Postumum fecimus, virum dignissimum severitate Gallorum, praesente {quo} non miles in castris, non iura in foro, non in tribunalibus lites, non in curia dignitas pereat, qui unicuique proprium et suum servet, virum quem ego prae ceteris stupeo, et qui locum principis mereatur iure, de quo spero quod mihi gratias agetis. [10] Quod si me fefellerit opinio, quam de illo habeo, sciatis nusquam gentium repperiri, qui possit penitus adprobari. [11] Huius filio Postumo nomine tribunatum Vocontiorum14 dedi, adulescenti, qui se dignum patris moribus reddet». POSTUMUS IUNIOR15 [4, 1] De hoc prope nihil est quod dicatur, nisi quod a patre appellatus Caesar ac deinceps in eius honore Augustus cum patre dicitur interemptus, cum Lollianus in locum Postumi subrogatus delatum sibi a Gallis sumpsisset imperium. [2] Fuit autem (quod solum memoratu dignum est) ita in declamationibus disertus, ut eius controversiae16 Quintiliano17 dicantur insertae, quem declamatorem Romani generis acutissimum vel unius capitis lectio prima statim fronte18 demonstrat. LOLLIANUS19 [5, 1] Huius rebellione in Gallia Postumus, vir omnium fortissimus, interemptus est20, cum iam nutante Galli 〈a Galli〉eni luxuria in veterem

statum Romanum formasset imperium. [2] Fuit quidem etiam iste fortissimus, sed rebellionis intuitu minorem apud Gallos auctoritatem de suis viribus tenuit. [3] Interemptus autem est a Victorino, Vitruviae filio vel Victoriae21, quae postea mater castrorum appellata est et Augustae nomine affecta, cum ipsa per se fugiens tanti ponderis molem primum in Marium, deinde in Tetricum atque eius fìlium22 contulisset imperia. [4] Et Lollianus quidem nonnihilum rei p. profuit. Nam plerasque Galliae civitates, nonnulla etiam castra, {quae} Postumus per septem annos23 in solo barbarico aedificaverat, quaeque interfecto Postumo subita inruptione Germanorum et direpta fuerant et incensa, {in} statum veterem reformavit. Deinde a suis militibus24, quod in labore nimius esset, occisus est. [5] Ita Gallieno perdente rem p. in Gallia primum Postumus, deinde Lollianus, Victorinus deinceps, postremo Tetricus, 〈nam de Mario nihil dicimus〉 adsertores Romani nominis extiterunt. [6] Quos omnes datos divinitus credo, ne, cum illa pestis inauditae luxuriae impediretur malis, possidendi Romanum solum Germanis daretur facultas. [7] Qui si eo genere tunc evasissent, quo Gothi et Persae, consentientibus in Romano solo gentibus venerabile hoc Romani nominis finitum esset imperium. [8] Lolliani autem vita in multis obscura est, ut et ipsius Postumi, sed privata: virtute enim clari, non nobilitatis pondere vixerunt. VICTORINUS25 [6, 1] Postumus senior cum videret multis se Gallieni viribus peti atque auxilium non solum militum verum etiam alterius principis necessarium, Victorinum, militaris industriae virum, in participatum vocavit imperii et cum eodem contra Gallienum conflixit. [2] Cumque adhibitis ingentibus Germanorum auxiliis diu bella traxissent, victi sunt26. [3] Tunc interfecto etiam Lolliano solus Victorinus in imperio remansit, qui et ipse, quod matrimoniis militum et militarium corrumpendis operam daret, a quodam actuario27, cuius uxorem stupraverat, composita factione Agrippinae28 percussus, Victorino filio Caesare a matre Vitruvia sive Victoria, quae mater castrorum dicta est, appellato, qui et ipse puerulus statim est interemptus, cum apud Agrippinam pater eius esset occisus. [4] De hoc, quod fortissimus fuerit et praeter libidinem optimus imperator, a multa sunt dicta. [5] Sed satis credimus Iuli Atheriani29 partem libri cuiusdam ponere, in quo de Victorino sic loquitur: [6] «Victorino, qui Gallias post Iulium30 Postumum rexit,

neminem aestimo praeferendum, non in virtute Traianum, non Antoninum in clementia, non {in} gravitate Nervam, non in gubernando aerario Vespasianum, non in censura totius vitae ac severitate militari Pertinacem vel Severum31. [7] Sed omnia haec libido et cupiditas mulierariae voluptatis sic perdidit, ut nemo audeat virtutes eius in litteras mittere, quem constat omnium iudicio meruisse puniri». [8] Ergo cum id iudicii de Victorino scriptores habuerint, satis mihi videor eius dixisse de moribus. VICTORINUS IUNIOR32 [7, 1] De hoc nihil amplius in litteras est relatum quam quod nepos Victoriae Victorini filius fuit et a matre vel ab avia sub eadem hora, qua Victorinus interemptus, Caesar est nuncupatus ac statim a militibus ira occisus. [2] Extant denique sepulchra circa Agrippinam brevi marmore inpressa humilia, in quibus unus 〈titulus〉 est inscriptus: «Hic duo Victorini tyranni siti sunt». MARIUS33 [8, 1] Victorino34 et Lolliano, Postumo interemptis Marius ex fabro, ut dicitur, ferrarlo triduo tantum imperavit. [2] De hoc quid amplius requiratur, ignoro, nisi quod eum insigniorem brevissimum fecit imperium. Nam ut ille consul35, qui sex meridianis horis consulatum suffectum tenuit, a Marco Tullio tali aspersus est ioco: «Consulem habuimus tam severum tamque censorium, ut in eius magistratu nemo pranderit, nemo cenaverit, nemo dormiverit», de hoc etiam dici posse videatur, qui una die factus est imperator, alia die visus est imperare, tertia interemptus est. [3] Et vir quidem strenuus ac militaribus usque ad imperium gradibus evectus, quem plerique Mamurium, nonnulli Veturium36, opificem utpote ferrarium, nuncuparunt. [4] Sed de hoc nimis multa, de quo illud addidisse satis est nullius manus vel ad feriendum vel ad impellendum fortiores fuisse, cum in digitis nervos videretur habuisse non venas. [5] Nam et carra venientia digito salutari reppulisse dicitur et fortissimos quosque uno digito sic adflixisse, ut quasi ligni vel ferri obtunsioris ictu percussi dolerent. Multa duorum digitorum allisione contrivit. [6] Occisus est a quodam milite, qui, cum eius quondam in fabrili officina fuisset, contemptus est ab eodem, vel cum dux esset vel cum imperium cepisset. Addidisse vero dicitur interemptor: [7] «Hic est gladius quem ipse fecisti».

Huius contio prima talis fuisse dicitur: [8] «Scio, conmilitones, posse mihi obici artem pristinam, cuius mihi omnes testes estis. [9] Sed dicat quisque quod vult. Utinam ferrum semper exerceam, non vino, non fìoribus, non mulierculis, non popinis, ut facit Gallienus, indignus patre suo et sui generis nobilitate, depeream. [10] Ars mihi obiciatur ferraria, dum me et exterae gentes ferrum tractasse suis cladibus recognoscant. [11] Enitar denique, ut omnis Alamannia37 omnisque Germania cum ceteris, quae adiacent, gentibus Romanum populum ferratam putent gentem, ut specialiter in nobis ferrum timeant. [12] Vos tamen cogitetis velim fecisse vos principerà, qui numquam quicquam scierit tractare nisi ferrum. [13] Quod idcirco dico, quia scio mihi a luxuriosissima illa peste nihil opponi posse nisi hoc, quod gladiorum atque armorum artifex fuerim». INGENUUS38 [9, 1] Tusco et Basso conss.39 cum Gallienus vino et popinis vacaret cumque se lenonibus, mimis et meretricibus dederet ac bona naturae luxuriae continuatione deperderet, Ingenuus, qui Pannonias tunc regebat, a Moesiacis legionibus imperator est dictus, ceteris Pannoniarum volentibus, neque in quoquam melius consultum rei p. a militibus videbatur quam quod instantibus Sarmatis40 creatus est imperator, qui fessis rebus mederi sua virtute potuisset. [2] Causa autem ipsi arripiendi tunc imperii fuit, ne suspectus esset imperatoribus, quod erat fortissimus ac rei p. necessarius et militibus, quod imperantes vehementer movet, acceptissimus. [3] Sed Gallienus, ut erat nequam perditus, ita etiam, ubi necessitas coegisset, velox, fortis, vehemens, crudelis, denique Ingenuum conflictu habito vicit41 eoque occiso in omnes Moesiacos tam milites 〈quam〉 cives asperrime saevit. Nec quemquam suae crudelitatis exortem reliquit, usque adeo asper et truculentus42, ut plerasque civialle tates vacuas a virili sexu relinqueret. [4] Fertur sane idem Ingenuus civitate capta in aquam se {mersisse} atque ita vitam finisse43, ne in tyranni crudelis potestatem veniret. [5] Extat sane epistola Gallieni, quam ad Celerem Verianum44 scripsit, qua eius nimietas crudelitatis ostenditur. Quam ego idcirco interposui, ut omnes intellegerent hominem luxuriosum crudelissimum esse, si necessitas postulet: [6] «Gallienus Veriano. Non mihi satisfacies, si tantum armatos occideris, quos et fors in bellis interimere potuisset. [7] Perimendus est omnis sexus virilis, si et senes atque inpuberes sine

reprehensione nostra occidi possent. [8] Occidendus est quicumque male voluit, occidendus est quicumque male dixit contra me, contra Valeriani nlium, contra tot principum patrem fratrem. [9] Ingenuus factus est imperator. Lacera, occide, concide, animum meum intellege, mea mente irascere, qui haec manu mea scripsi». REGILIANUS45 [10, 1] Fati publici fuit, ut Gallieni tempore quicumque potuit ad imperium prosiliret. Regilianus denique in Illyrico ducatum gerens imperator est factus auctoribus imperii Moesis, qui cum Ingenuo fuerant ante superati, in quorum parentes graviter Gallienus saevierat. [2] Hic tamen multa fortiter contra Sarmatas gessit, sed auctoribus Roxolanis46 consentientibusque militibus et timore provincialium, ne iterum Gallienus graviora faceret, interemptus est. [3] Mirabile fortasse videatur, si, quae origo imperii eius fuerit, declaretur. Capitali enim ioco regna promeruit. [4] Nam cum milites cum eo quidam cenarent, extitit vicarius tribuni qui diceret: «Regiliani nomen unde credimus dictum?». Alius continuo: «Credimus quod a regno». [5] Tum is qui aderat scolasticus, coepit quasi grammaticaliter declinare et dicere: «rex regis regi Regilianus». [6] Milites, ut est hominum genus pronum ad ea, quae cogitanti «Ergo potest rex esse?». Item alius: «Ergo potest nos regere?». Item alius: «Deus tibi regis nomen inposuit». [7] Quid multa? His dictis cum alia die mane processisset, a principiis imperator est salutatus. Ita quod aliis vel audacia vel iudicium, huic detulit iocularis astutia. [8] Fuit, quod negari non potest, vir in 〈re〉 militari semper probatus et Gallieno iam ante suspectus, quod dignus videretur imperio, gentis Daciae, Decibali47 ipsius, ut fertur, adfìnis. [9] Extat epistola divi Claudii adhuc privati, qua Regiliano, Illyrici duci, gratias agit ob redditum Illyricum, cum omnia Gallieni segnitia deperirent. Quam ego repertam in authenticis inserendam putavi, fuit enim publica. [10] «Claudius Regiliano multam salutem. Felicem rem p., quae te talem virum habere in castris bellicis meruit, felicem Gallienum, etiamsi ei vera nemo nec de bonis nec de malis nuntiat. [11] Pertulerunt ad me Bonitus et Celsus, stipatores principis nostri, qualis apud Scupos48 in pugnando fueris, quot uno die proelia et qua celeritate confeceris. Dignus eras triumpho, si antiqua tempora exstarent. [12] Sed quid multa? Memor cuiusdam hominis cautius velim vincas. Arcus Sarmaticos et

duo saga ad me velim mittas, sed fiblatoria, cum ipse misi de nostris». [13] Hac epistola ostenditur, quid de Regiliano senserit Claudius, cuius gravissimum iudicium suis temporibus fuisse non dubium est. [14] Nec a Gallieno quidem vir iste promotus est, sed a patre eius Valeriano, ut et Claudius et Macrianus et Ingenuus et Postumus et Aureolus, qui omnes in imperio interempti sunt, cum mererentur imperium. [15] Mirabile autem hoc fuit in Valeriano principe, quod omnes, quoscumque duces fecit, postea militum testimonio ad imperium pervenerunt, ut appareat senem imperatorem in diligendis rei p. ducibus talem fuisse, qualem Romana felicitas, si continuari fataliter potuisset sub bono principe, requirebat. [16] Et utinam vel illi, qui arripuerant imperia, regnare potuissent, vel eius filius in imperio diutius non fuisset, utlibet se in suo statu res p. nostra tenuisset. [17] Sed nimis sibi Fortuna indulgendum putavit, quae et cum Valeriano bonos principes tulit et Gallienum diutius quam oportebat rei p. reservavit. AUREOLUS49 [11, 1] Hic quoque [in] Illyricianos exercitus regens in contemptu Gallieni, ut omnes eo tempore, coactus a militibus sumpsit imperium. [2] Et cum Macrianus cum filio suo Macriano contra Gallienum veniret cum plurimis, exercitus eius cepit, aliquos corruptos fidei suae addixit. [3] Et cum factus esset hinc validus imperator cumque Gallienus expugnare virum fortem frustra temptasset, pacem cum 〈Aur〉eo〈lo〉 {fecit} contra Postumum pugnaturus50. Quorum pleraque et dicta sunt et dicenda. [4] Hunc eundem Aureolum Claudius interfecto iam Gallieno conflictu habito apud eum pontem interemit, qui nunc pons Aureoli nuncupatur51, atque illic ut tyrannum sepulchro humiliore donavit. [5] Extat etiam nunc epigramma Graecum in hanc formam: «Dono sepulchrorum victor post multa tyranni proelia iam felix Claudius Aureolum munere prosequitur mortali et iure superstes, vivere quem vellet, si pateretur amor militis egregii, vitam qui iure negavit omnibus indignis et magis Aureolo. Ille tamen clemens, qui corporis ultima servans et pontem Aureoli dedicat et tumulum».

[6] Hos ego versus a quodam grammatico translatos ita posui, ut fidem servarem, non quo 〈non〉 melius potuerint transferri, sed ut fìdelitas historica servaretur, quam ego prae ceteris custodiendam putavi, qui quod ad

eloquentiam pertinet nihil curo. [7] Rem enim vobis proposui deferre, non verba, maxime tanta rerum copia ut in triginta tyrannorum simul vitis. MACRIANUS52 [12, 1] Capto Valeriano, diu clarissimo principe civitatis, fortissimo deinde imperatore, ad postremum omnium infelicissimo, vel quod senex apud Persas consenuit vel quod indignos se posteros dereliquit, cum Gallienum contemnendum Ballista53 praefectus Valeriani et Macrianus primus ducum54 intellegerent, quaerentibus etiam militibus principem unum in locum concesserunt quaerentes, quid faciendum esset. [2] Tuncque constiti Gallieno longe posito, Aureolo usurpante imperium55 debere aliquem principem fieri, et quidem optimum, ne quispiam tyrannus existeret. [3] Verba igitur Ballistae (quantum Maeonius Astyanax56, qui consilio interfuit, adserit) haec fuerunt: [4] «Mea et aetas et professio et voluntas longe ab imperio absunt, et ego, quod negare non possum, bonum principem quaero. [5] Sed quis tandem est, qui Valeriani locum possit implere, nisi talis qualis tu es, fortis, constans, integer, probatus in re p. et, quod maxime ad imperium pertinet, dives? [6] Arripe igitur locum meritis tuis debitum. Me praefecto, quamdiu voles, uteris. Tu cum re p. tantum bene agas, ut te Romanus orbis factum principem gaudeat». [7] Ad haec Macrianus: «Fateor, Ballista, imperium prudenti non frustra est. Volo enim rei p. subvenire atque illam pestem a legum gubernaculis dimovere, sed non hoc in me aetatis est: senex sum, ad exemplum equitare non possum, lavandum mihi est frequentius, edendum delicatius, divitiae me iam dudum ab usu militiae retraxerunt. [8] Iuvenes aliqui sunt quaerendi, nec unus sed duo vel tres fortissimi, qui ex diversis partibus orbis humani rem p. restituant, quam Valerianus fato, Gallienus vitae suae genere perdiderunt». [9] Post haec intellexit eum Ballista sic agere, ut de filiis suis videretur cogitare, atque adeo sic adgressus est: [10] «Prudentiae tuae rem p. tradimus. Da igitur liberos tuos Macrianum et Quietum57, fortissimos iuvenes, ohm tribunos a Valeriano factos, quia Gallieno imperante, quod boni sunt, salvi esse non possunt». [11] Tunc ille ubi intellectum se esse comperit: «Do», inquit, «manus de meo stipendium militi duplex daturus. Tu tantum praefecti mihi studium et annonam in necessariis locis praebe. Iam ego faxim, ut Gallienus, sordidissimus feminarum omnium, duces sui parentis intellegat». [12] Factus est igitur cum Macriano et Quieto duobus filiis cunctis militibus volentibus imperator58 ac statim contra Gallienum venire coepit

utcumque rebus in oriente derelictis. [13] Sed cum quadraginta quinque milia militum secum duceret, in Illyrico vel in Thraciarum extimis congressus cum Aureolo victus et cum filio interemptus est. [14] Triginta denique milia militum in Aureoli potestatem concessere. Domitianus59 autem eundem vicit, dux Aureoli fortissimus et vehementissimus, qui se originem diceret a Domitiano trahere atque a Domitilla60. [15] De Macriano autem nefas mihi videtur iudicium Valeriani praeterire, quod ille in oratione sua, quam ad senatum e Persidis finibus miserat, posuit. Inter cetera ex oratione divi Valeriani: [16] «Ego, p. c., bellum Persicum gerens Macriano totam rem p. credidi 〈et〉 quidem a parte militari. Ille vobis fidelis, ille mihi devotus, illum et amat et timet miles, ille utcumque res exegerit, cum exercitibus agit. [17] Nec, p. c., nova vel inopina nobis sunt: pueri eius virtus in Italia, adulescentis in Gallia, iuvenis in Thracia, in Africa iam provecti, senescentis denique {in} Illyrico et Dalmatia conprobata est, cum in diversis proeliis ad exemplum fortiter faceret. [18] Huc accedit quod habet iuvenes filios Romano dignus collegio, nostra dignus amicitia» et reliqua. MACRIANUS IUNIOR61 [13, 1] Multa de hoc in patris imperio praelibata sunt, qui numquam imperator factus esset, nisi prudentiae patris eius creditum videretur. [2] De hoc plane multa miranda dicuntur, quae ad fortitudinem pertineant iuvenalis aetatis. Sed ad facta aut quantum in bellis unius valet fortitudo? [3] Hic enim vehemens cum prudentissimo patre, cuius merito imperare coeperat, a Domitiano victus triginta, 〈ut〉 dixi superius, milibus militum spoliatus est, matre nobilis, patre tantum forte et ad bellum parato atque ab ultima militia in summum perveniente ducatus splendore sublimi. QUIETUS62 [14, 1] Hic, ut diximus, Macriani filius fuit. Cum patre et fratre Ballistae iudicio imperator est factus. Sed ubi comperit Odenatus, qui olim iam orientem tenebat, ab Aureolo Macrianum, patrem Quieti, cum eius fratre Macriano victos, milites in eius potestatem concessisse, quasi Gallieni partes vindicaret, adulescentem cum Ballista praefecto dudum63 interemit. [2] Idem quoque adulescens dignissimus Romano imperio fuit, ut vere Macriani filius, Macriani etiam frater, qui duo adflictis rebus potuerunt rem p. gerere,

videretur. [3] Non mihi praetereundum videtur de Macrianorum familia, quae hodieque fìoret64, id dicere, quod speciale semper habuerunt. [4] Alexandrum Magnum Macedonem viri in anulis et argento, mulieres et in reticulis et dextrocheriis et in anulis et in omni ornamentorum genere exculptum semper habuerunt, eo usque ut tunicae et limbi et paenulae matronales in familia eius hodieque sint, quae Alexandri effigiem de liciis variantibus monstrent. [5] Vidimus proxime Cornelium Macrum ex eadem familia virum cum caenam in templo Herculis65 daret, pateram electrinam66, quae in medio vultum Alexandri haberet et in circuitu omnem historiam contineret signis brevibus et minutulis, pontifici propinare, quam quidem circumferri ad omnes tanti illius viri cupidissimos iussit. [6] Quod idcirco posui, quia dicuntur iuvari in omni actu suo, qui Alexandrum expressum vel auro gestitant vel argento. ODENATUS67 [15, 1] Nisi Odenatus, princeps Palmyrenorum, capto Valeriano, fessis Romanae rei p. viribus sumpsisset imperium, in oriente perditae res essent. [2] Quare adsumpto nomine primum regali cum uxore Zenobia68 et filio maiore, cui erat nomen Herodes69, minoribus Herenniano et [a] Timolao70 collecto exercitu contra Persas profectus est. [3] Nisibin primum et orientis pleraque cum omni Mesopotamia in potestatem recepit, deinde ipsum regem victum fugere coegit71. [4] Postremo Ctesifonta usque Saporem et eius liberos persecutus72 captis concubinis, capta etiam magna praeda ad orientem vertit, sperans, quod Macrianum, qui imperare contra Gallienum coeperat, posset opprimere, sed illo iam profecto contra Aureolum et contra Gallienum, eo interempto filium 〈eius〉 Quietum interfecit, Ballista, ut plerique adserunt, regnum usurpante73, ne et ipse posset occidi. [5] Composito igitur magna ex parte orientis statu a consobrino suo Maeonio74, qui et ipse imperium sumpserat75, interemptus est cum filio suo Herode, qui et ipse post reditum de Perside cum patre imperator est appellatus. [6] Iratos fuisse rei p. deos credo, qui interfecto Valeriano noluerint Odenatum reservare. [7] Ille plane cum uxore Zenobia non solum orientem, quem iam in pristinum reformaverat statum, sed et omnes omnino totius orbis partes reformasset, vir acer in bellis et, quantum plerique scriptores loquuntur, venatu memorabili semper inclitus, qui a prima aetate capiendis leonibus et pardis, ursis ceterisque silvestribus

animalibus sudorem offìcii virilis inpendit quique semper in silvis ac montibus vixit, perferens calorem, pluvias et omnia mala, quae in se continent venatoriae voluptates. [8] Quibus duratus solem ac pulverem in bellis Persicis tulit, non aliter etiam coniuge adsueta, quae multorum sententia fortior marito fuisse perhibetur, mulier omnium nobilissima orientalium feminarum et, ut Cornelius Capitolinus76 adserit, speciosissima. HERODES77 [16, 1] Non Zenobia matre sed priore uxore genitus Herodes cum patre accepit imperium, homo omnium delicatissimus et prorsus orientalis et Graecae luxuriae, cui erant sigillata tentoria et aurati papiliones et omnia Persica. [2] Denique ingenio eius usus Odenatus quicquid concubinarum regalium, quicquid divitiarum gemmarumque cepit, eidem tradidit paternae indulgentiae adfectione permotus. [3] Et erat circa illum Zenobia novercali animo, qua re commendabiliorem patri eum fecerat. Neque plura sunt quae de Herode dicantur. MAEONIUS78 [17, 1] Hic consobrinus Odenati fuit nec ulla re alia ductus nisi damnabili invidia imperatorem optimum interemit, cum ei nihil aliud obiceret praeter filii Hero〈dis sor〉des. [2] Dicitur autem primum cum Zenobia consensisse, quae ferre non poterat, ut privignus eius Herodes priore loco quam filii eius, Herennianus et Timolaus, principes dicerentur. Sed hic quoque spurcissimus fuit. [3] Quare imperator appellatus per errorem brevi a militibus pro suae luxuriae meritis interemptus est. BALLISTA79 [18, 1] De hoc, utrum imperaverit, scriptores inter se ambigunt. Multi enim dicunt Quieto per Odenatum occiso Ballistae veniam datam et tamen eum imperasse, quod nec [a] Gallieno nec Aureolo nec Odenato se crederet. [2] Alii adserunt privatum eum in agro suo, quem apud Dafnidem80 sibi compararat, interemptum. [3] Multi et sumpsisse illum purpuram, ut more Romano imperaret, 〈et〉 exercitum duxisse et de se plura promisisse dixerunt, occisum autem per eos, quos Aureolus miserat ad conprehendendum

Quietum, Macriani filium, quem praedam suam esse dicebat. [4] Fuit vir insignis, eruditus ad gerendam rem p., in consiliis vehemens, in expeditionibus clarus, in provisione annonaria singularis, Valeriano sic acceptus, ut eum quibusdam litteris hoc testimonio prosecutus sit: [5] «Valerianus Ragonio Claro81 praefecto Illyrici et Galliarum. Si quid in te bonae frugis est, quam esse scio, parens Clare, dispositiones tu Ballistae persequere. [6] His rem p. informa. Videsne ut ille provinciales non gravet, ut illic equos contineat, ubi sunt pabula, illic annonas militum mandet, ubi sunt frumenta, non provincialem, non possessorem cogat illic frumenta, ubi non habet, dare, illic equum, ubi non potest, pascere? [7] Nec est ulla alia provisio melior quam ut in locis suis erogentur quae nascuntur, ne aut vehiculis aut sumptibus rem p. gravent. [8] Galatia frumentis abundat, referta est Thracia, plenum est Illyricum: illic pedites conlocentur, quamquam in Thracia etiam equites sine noxa provincialium hiemare possint. Multum enim ex campis feni colligitur. [9] Iam vinum, laridum, iam ceterae species in his dandae sunt locis, in quibus adfatim redundant. [10] Quae omnia sunt Ballistae consilia, qui ex quadam provincia unam tantum speciem praeberi iussit, quod ea redundaret, atque ab ea milites submoveri. Id quod publicitus est decretum». [11] Est et alia eius epistola, qua gratias Ballistae agit, in qua docet sibi praecepta gubernandae rei p. ab eodem data, gaudens, quod eius consilio nullum adscripticium – id est vacantem – haberet [et] tribunum, nullum stipatorem, qui non vere aliquid ageret, nullum militem, qui non vere pugnaret. [12] Hic igitur vir in tentorio suo cubans a quodam gregario milite in Odenati et Gallieni gratiam dicitur interemptus. [13] De quo ipse vera non satis comperi, idcirco quod scriptores temporum de huius praefectura multa, de imperio pauca dixerunt. VALENS82 [19, 1] Hic vir militaris, simul etiam civilium virtutum gloria pollens proconsulatum Achaiae dato a Gallieno tunc honore gubernabat. [2] Quem Macrianus vehementer reformidans, simul quod in omni genere vitae satis clarum norat, simul quod inimicum sibi esse invidia virtutum sciebat, misso Pisone83, nobilissimae tunc et consularis familiae viro, interfici praecepit. [3] Valens diligentissime cavens et providens neque aliter sibi posse subveniri aestimans sumpsit imperium et brevi a militibus interemptus est.

VALENS SUPERIOR84 [20, 1] Et bene venit in mentem, ut, cum de hoc Valente loquimur, etiam de illo Valente, qui superiorum principum temporibus interemptus est, aliquid diceremus. [2] Nam huius Valentis, qui sub Gallieno imperavit, avunculus magnus fuisse perhibetur; alii tantum avunculum dicunt. [3] Sed par in ambobus fuit fortuna. Nam et ille, 〈cum〉 paucis diebus Illyrico imperasset, occisus est. PISO85 [21, 1] Hic a Macriano ad interficiendum Valentem missus, ubi eum providum futurorum imperare cognovit, Thessaliam concessit atque illic paucis sibi consentientibus sumpsit imperium Thessalicusque86 appellatus [vi] interemptus est, vir summae sanctitatis et temporibus suis Frugi87 dictus et qui ex illa Pisonum familia ducere originem diceretur, cui se Cicero nobilitandi causa sociaverat88. [2] Hic omnibus principibus acceptissimus fuit. Ipse denique Valens, qui ad eum percussores misisse perhibetur, dixisse dicitur non sibi apud deos inferos constare rationem, quod quamvis hostem suum Pisonem tamen iussisset occidi, virum cuius similem Romana res p. non haberet. [3] Senatus consultum de Pisone factum ad noscendam eius maiestatem libenter inserui: die septimo kal. Iuliarum cum esset nuntiatum Pisonem a Valente interemptum, ipsum Valentem a suis occisum, Arellius Fuscus89, consularis primae sententiae, qui in locum Valeriani successerat, ait: «Consul, consule». [4] Cumque consultus esset «Divinos» inquit «honores Pisoni decerno, p. c., Gallienum et Valerianum et Saloninum imperatores nostros id probaturos esse confido. Neque enim melior vir quisquam fuit neque constantior». [5] Post quem ceteri consulti statuam inter triumphales et currus quadriiugos Pisoni decreverunt. [6] Sed statua eius videtur, quadrigae autem, quae decretae fuerant, quasi transferendae ad alium positae sunt nec adhuc redditae. [7] Nam in his locis fuerunt, in quibus thermae Diocletianae sunt exaedificatae90, tam aeterni nominis quam sacrati. AEMILIANUS91 [22, 1] Est hoc familiare populi Aegyptiorum, ut velut furiosi ac dementes

de levissimis quibus usque ad summa rei p. pericula perducantur92: [2] saepe illi ob neglectas salutationes, locum in balneis non concessum, carnem et olera sequestrata, calciamenta servilia et cetera talia usque ad summum rei p. periculum 〈in〉 seditiones, ita ut armarentur contra eos exercitus, pervenerunt. [3] Familiari ergo sibi furore, cum quadam die cuiusdam servus curatoris93, qui Alexandriam tunc regebat, militari ob hoc caesus esset, quod crepidas suas meliores esse quam militis diceret, collecta multitudo ad domum Aemiliani ducis venit atque eum omni seditionum instrumento et furore persecuta est: ictus est lapidibus, petitus est ferro, nec defuit ullum seditionis telum. [4] Qua re coactus Aemilianus sumpsit imperium, cum sciret sibi undecumque pereundum. [5] Consenserunt ei Aegyptiacus exercitus, maxime in Gallieni odium. [6] Nec eius ad regendam rem p. vigor defuit, nam Thebaidem94 totamque Aegyptum peragravit et, quatenus potuit, barbarorum gentes forti auctoritate summovit. [7] Alexander denique vel Alexandrinus – nam incertum id quoque habetur – virtutum merito vocatus est. [8] Et cum contra Indos pararet expeditionem, misso Theodoto duce Gallieno iubente dedit poenas, si quidem strangulatus in carcere captivorum veterum more95 perhibetur. [9] Tacendum esse non credo, quod, cum {de} Aegypto loquor, vetus suggessit historia, simul etiam Gallieni factum. [10] Qui cum [e] Theodoto vellet imperium proconsulare decernere, a sacerdotibus est prohibitus, qui dixerunt fasces consulares ingredi Alexandriam non licere; [11] cuius rei etiam Ciceronem, cum contra Gabinium loquitur96, meminisse satis novimus. Denique nunc extat memoria rei frequentatae. [12] Quare scire oportet Herennium Celsum, vestrum97 parentem, (consulatum cupit) hoc quod desiderat non licere. [13] Fertur enim apud Memfim in aurea columna Aegyptiis esse litteris scriptum tunc demum Aegyptum liberam fore, cum in eam venissent Romani fasces et praetexta Romanorum. [14] Quod apud Proculum grammaticum98, doctissimum sui temporis virum, cum de peregrinis regionibus loquitur, invenitur. SATURNINUS99 [23, 1] Optimus ducum Gallieni temporis, sed Valeriano dilectus Saturninus fuit. [2] Hic quoque, cum dissolutionem Gallieni, pernoctantis in publico, ferre non posset et milites non exemplo imperatoris sui, sed suo

regeret, ab exercitibus sumpsit imperium, vir prudentiae singularis, gravitatis insignis, vitae amabilis, victoriarum barbaris etiam ubique notarum. [3] Hic ea die, qua est amictus a militibus peplo imperatorio, contione adhibita dixisse fertur: «Commilitones, bonum ducem perdidistis et malum principem fecistis». [4] Denique cum multa strenue in imperio fecisset, quod esset severior et gravior militibus, ab isdem ipsis, a quibus factus fuerat, interemptus est. [5] Huius insigne est quod convivio discumbere milites, ne inferiora nudarentur, cum sagis iussit, hieme gravibus, aestate perlucidis. TETRICUS SENIOR100 [24, 1] Interfecto Victorino et eius filio101 mater eius Victoria sive Vitruvia Tetricum senatorem p. R. praesidatum in Gallia102 regentem ad imperium hortata, quod eius erat, ut plerique loquuntur, adfinis, Augustum appellari fecit103 filiumque eius Caesarem nuncupavit. [2] Et cum multa Tetricus feliciterque gessisset et diuque imperasset, ab Aureliano victus104, cum militum suorum inpudentiam et procacitatem ferre non posset, volens se gravissimo principi et severissimo dedit. [3] Versus denique illius fertur, quem statim ad Aurelianum scripserat: «Eripe me his, invicte, malis»105. [4] Quare cum Aurelianus nihil simplex neque mite aut tranquillum facile cogitaret, senatorem p. R. eundemque consularem, qui iure praesidali omnes Gallias rexerat, per triumphum106 duxit, eodem tempore quo et Zenobiam Odenati uxorem cum filiis minoribus Odenati, Herenniano et Timolao107. [5] Pudore tamen victus vir nimium severus eum, quem triumphaverat, conrectorem totius Italiae108 fecit, id est Campaniae, Samni, Lucaniae Brittiorum, Apuliae Calabriae, Etruriae atque Umbriae, Piceni et Flaminiae109 omnisque annonariae regionis110, ac Tetricum non solum vivere, sed etiam in summa dignitate manere passus est, cum illum saepe collegam, nonnumquam commilitonem, aliquando etiam imperatorem appellaret. TETRICUS IUNIOR111 [25, 1] Hic puerulus a Victoria Caesar est appellatus, cum illa mater castrorum ab exercitu nuncupata esset. [2] Qui et ipse cum patre per triumphum ductus postea omnibus senatoriis honoribus functus est inlibato patrimonio, quod quidem ad suos posteros misit, ut Arellius Fuscus112 dicit,

semper insignis. [3] Narrabat avus meus113 hunc sibi familiarem fuisse neque quemquam [quam] illi ab Aureliano aut postea ab aliis principibus esse praelatum. [4] Tetricorum domus hodieque extat in monte Caelio inter duos lucos contra Isium Metellinum114 pulcherrima, in qua Aurelianus pictus est utrique praetextam tribuens et senatoriam dignitatem, accipiens ab his sceptrum, coronam, cycladem – pictura est de museo –; quam cum dedicassent, Aurelianum ipsum dicuntur duo Tetrici adhibuisse convivio. TREBELLIANUS115 [26, 1] Pudet iam persequi, quanti sub Gallieno fuerint tyranni vitio pestis illius, si quidem erat in eo ea luxuria, ut rebelles plurimos mereretur, et ea crudelitas, ut iure timeretur. [2] Quare et in Trebellianum 〈bellatum〉, factum in Isauria116 principem ipsis Isauris sibi ducem quaerentibus. Quem cum alii archipiratam vocassent, ipse se imperatorem appellavit. Monetam etiam cudi iussit117. [3] Palatium in arce Isauriae constituit. Qui quidem cum se in intima et tuta Isaurorum loca munitus difficultatibus locorum et montibus contulisset, aliquamdiu apud Cilicas imperavit. [4] Sed per Gallieni ducem Camsisoleum118, natione Aegyptium, fratrem Theodoti qui Aemilianum ceperat119, ad campum deductus victus est et occisus. [5] Neque tamen postea Isauri timore, ne in eos Gallienus saeviret, ad aequalitatem perduci quavis principum humanitate potuerunt. [6] Denique post Trebellianum pro barbaris habentur; et cum in medio Romani nominis solo regio eorum, novo genere custodiarum quasi limes includitur, locis defensa, non hominibus; [7] nam sunt non statura decori, non virtute graves, non instructi armis, non consiliis prudentes, sed hoc solo securi, quod in editis positi adiri nequeunt. Quos quidem divus Claudius paene ad hoc perduxerat, ut a suis semotos locis in Cilicia conlocaret, daturus uni ex amicissimis omnem Isaurorum possessionem, ne quid ex ea postea rebellionis oreretur120. HERENNIANUS [27, 1] Odenatus moriens duos parvulos reliquit, Herennianum et fratrem eius Timolaum121, quorum nomine Zenobia usurpato sibi imperio diutius quam feminam decuit rem p. obtinuit, parvulos Romani imperatoris habitu praeferens purper puratos eosdemque adhibens contionibus, quas illa viriliter

frequentavit, Didonem et Samiramidem et Cleopatram122 sui generis principem inter cetera praedicans. Sed 〈de〉 horum exitu incertum est; [2] multi enim dicunt eos ab Aureliano interemptos, multi morte sua esse consumptos, si quidem Zenobiae posteri etiam nunc Romae inter nobiles manent. TIMOLAUS123 [28, 1] De hoc ea putamus digna notione, quae de fratre sunt dicta. [2] Unum tamen est quod eum a fratre separat, quod tanti fuit ardoris ad studia Romana, ut brevi consecutus, quae insinuaverat grammaticus, esse dicatur, potuisse quin etiam summum Latinorum rhetorem facere. CELSUS124 [29, 1] Occupatis partibus Gallicanis, orientalibus, quin etiam Ponti, Thraciarum et Illyrici, dum Gallienus popinatur et balneis ac lenonibus deputat vitam, Afri quoque auctore Vibio Passieno125, proconsule Africae, et Fabio Pomponiano126, duce limitis Libyci, Celsum imperatorem appellaverunt peplo deae Caelestis127 ornatum. [2] Hic privatus ex tribunis in Africa positus in agris suis vivebat, sed ea iustitia et corporis magnitudine, ut dignus videretur imperio. [3] Quare creatus per quandam mulierem, Gallienam nomine, consobrinam Gallieni, septimo imperii die interemptus est atque adeo etiam inter obscuros principes vix relatus est. [4] Corpus eius a canibus consumptum est Siccensibus128, qui Gallieno fìdem servaverant, perurgentibus, et novo iniuriae genere imago in crucem sublata persultante vulgo, quasi patibulo ipse Celsus videretur adfixus. ZENOBIA129 [30, 1] Omnis iam consumptus est pudor, si quidem fatigata re p. eo usque perventum est, ut Gallieno nequissime agente optime etiam mulieres imperarent, et quidem peregrinae. [2] 〈Peregrina〉 enim, nomine Zenobia, de qua multa iam dicta sunt, quae se de Cleopatrarum Ptolemaeorumque gente iactaret130, post Odenatum maritum imperiali sagulo perfuso per umeros, habitu Didonis ornata, diademate etiam accepto, nomine fìliorum Herenniani

et Timolai131 diutius, quam femineus sexus patiebatur, imperavit. [3] Si quidem Gallieno adhuc regente rem p. regale mulier superba munus obtinuit et Claudio bellis Gothicis132 occupato vix denique ab Aureliano victa et triumphata133 concessit in iura Romana. [4] Extat epistola Aureliani, quae captivae mulieri testimonium fert. Nam cum a quibusdam reprehenderetur, quod mulierem veluti ducem aliquem vir fortissimus triumphasset, missis ad senatum populumque Romanum litteris hac se adtestatione defendit: [5] «Audio, p. c., mihi obici, quod non virile munus impleverim Zenobiam triumphando. Ne illi, qui me reprehendunt, satis laudarent, si scirent quae illa sit mulier, quam prudens in consiliis, quam constans in dispositionibus, quam erga milites gravis, quam larga, cum necessitas postulet, quam tristis, cum severitas poscat. [6] Possum dicere illius esse, quod Odenatus Persas vicit ac fugato Sapore Ctesifonta usque pervenit134. [7] Possum adserere tanto apud orientales et Aegyptiorum populos timori mulierem fuisse ut se non Arabes, non Saraceni, non Armenii commoverent. [8] Nec ego illi vitam conservassem, nisi eam scissem multum Romanae rei publicae profuisse, cum sibi vel liberis suis orientis servaret imperium. [9] Sibi ergo habeant propriarum venena linguarum hi, quibus nihil placet. [10] Nam si vicisse ac triumphasse feminam non est decorum, quid de Gallieno loquuntur, in cuius contemptu haec bene rexit imperium? [11] Quid de divo Claudio, sancto ac venerabili duce, qui eam, quod ipse Gothicis esset expeditionibus occupatus, passus esse dicitur imperare? Idque consulte ac prudenter, ut illa servante orientalis finis imperii ipse securius, quae instituerat, perpetraret». [12] Haec oratio indicat, quid iudicii Aurelianus habuerit de Zenobia. Cuius ea castitas135 fuisse dicitur, ut ne virum suum quidem scierit nisi temptandis conceptionibus. Nam cum semel concubuisset, exspectatis menstruis continebat se, si praegnans esset, sin minus, iterum potestatem quaerendis liberis dabat. [13] Vixit regali pompa. More magis Persico adorata est. [14] Regum more Persarum convivata est. Imperatorum more Romanorum ad contiones galeata processit cum limbo purpureo gemmis dependentibus per ultimam fimbriam, media etiam coclide136 veluti fìbula muliebri adstricta137, brachio saepe nudo. [15] Fuit vultu subaquilo, fusci coloris, oculis supra modum vigentibus nigris, spiritus divini, venustatis incredibilis. Tantus candor in dentibus, ut margaritas eam plerique putarent habere, non dentes. [16] Vox clara et virilis. Severitas, ubi necessitas postulabat, tyrannorum, bonorum principum clementia, ubi pietas requirebat. Larga prudenter, conservatrix

thensaurorum ultra femineum modum, [17] usa vehiculo carpentario, raro pilento, equo saepius. Fertur autem vel tria vel quattuor milia frequenter cum peditibus ambulasse. [18] Venata est Hispanorum cupiditate. Bibit saepe cum ducibus, cum esset alias sobria; bibit et cum Persis atque Armeniis, ut eos vincerei [19] Usa est vasis aureis gemmatis ad convivia, usa Cleopatranis. In ministerio eunuchos gravioris aetatis habuit, puellas nimis raras. [20] Filios Latine loqui iusserat, ita ut Graece vel diffìcile vel raro loquerentur. [21] Ipsa Latini sermonis non usque quaque gnara, sed ut loqueretur pudore cohibita; loquebatur et Aegyptiace ad perfectum modum. [22] Historiae Alexandrinae atque orientalis ita perita, ut eam epitomasse dicatur; Latinam autem Graece legerat. [23] Cum illam Aurelianus cepisset atque in conspectum suum adductam sic appellasset: «Quid est, Zenobia? Ausa es insultare Romanis imperatoribus?», illa dixisse fertur: «Imperatorem te esse cognosco, qui vincis, Gallienum et Aureolum et ceteros principes non putavi. Victoriam138 mei similem credens in consortium regni venire, si facultas locorum pateretur, optavi». [24] Ducta est igitur per triumphum ea specie, ut nihil pompabilius p. R. videretur, iam primum ornata gemmis ingentibus, ita ut ornamentorum onere laboraret. [25] Fertur enim mulier fortissima saepissime restitisse, cum diceret se gemmarum onera ferre non posse. [26] Vincti erant praeterea pedes auro, manus etiam catenis aureis, nec collo aureum vinculum deerat, quod scurra Persicus praeferebat. [27] Huic 〈vita〉 ab Aureliano concessa est139, ferturque vixisse cum liberis matronae iam more Romanae data sibi possessione in Tiburti, quae hodieque Zenobia dicitur, non longe ab Hadriani palatio140 atque ab eo loco, cui nomen est Concae141. VICTORIA142 [31, 1] Non tam digna res erat, ut etiam Vitruvia sive Victoria in litteras mitteretur, nisi Gallieni mores hoc facerent, ut memoria dignae etiam mulieres censerentur. [2] Victoria enim, ubi filium ac nepotem a militibus vidit occisos, Postumum, deinde Lollianum, Marium143 etiam, quem principem milites nuncupaverant, interemptos, Tetricum, de quo superius dictum est144, ad imperium hortata est, ut virile semper facinus auderet. Insignita est praeterea hoc titulo, ut castrorum se diceret matrem145. [3] Cusi sunt eius nummi aerei, aurei et argentei146, quorum hodieque forma extat apud Treviros. [4] Quae quidem non diutius vixit. Nam Tetrico imperante, ut

plerique loquuntur, occisa, ut alii adserunt, fatali necessitate consumpta. [5] Haec sunt quae de triginta tyrannis dicenda videbantur. Quos ego in unum volumen idcirco contuli, ne, de singulis 〈si〉 singula quaeque narrarem, nascerentur indigna fastidia et ea, quae ferre lector non posset. [6] Nunc ad Claudium principem redeo. De quo speciale mihi volumen quamvis breve merito vitae illius videtur edendum addito fratre singulari viro147, ita ut de familia tam sancta et tam nobili saltim pauca referantur. [7] Studiose in medio feminas posui ad ludibrium Gallieni, quo nihil prodigiosius passa est Romana res p., duos etiam nunc tyrannos quasi extra numerum, quod alieni essent temporis, additurus, unum qui fuit Maximini temporibus, alterum qui Claudii, ut tyrannorum triginta viri hoc volumine tenerentur. [8] Quaeso, qui expletum iam librum acceperas, boni consulas atque hos volumini tuo volens addas, quos ego, quem ad modum Valentem superiorem148 huic volumini, sic post Claudium et Aurelianum his, qui inter Tacitum et Diocletianum fuerunt, addere destinaveram. [9] Sed errorem meum memor historiae diligentia tuae eruditionis avertit. [10] Habeo igitur gratiam, quod titulum meum prudentiae tuae benignitas inplevit. Nemo in templo Pacis149 dicturus est me feminas inter tyrannos [cum risu et ioco], tyrannas videlicet vel tyrannides, ut ipsi de me solent 〈cum risu et ioco〉 iactitare, posuisse. [11] Habent integrum numerum ex arcanis historiae in meas litteras datum. [12] Titus enim et Censorinus 〈inseruntur〉, quorum unus, ut dixi, sub Maximino, alter sub Claudio fuit, qui ambo ab isdem militibus, a quibus purpura velati fuerant, interempti sunt. TITUS150 [32, 1] Docet Dexippus nec Herodianus tacet omnesque, qui talia legenda posteris tradiderunt, Titum, tribunum Maurorum, qui a Maximino inter privatos relictus fuerat, timore violentae mortis, ut alii dicunt, invitum vero et a militibus coactum, ut plerique adserunt, imperasse atque hunc intra paucos dies post vindicatam defectionem, quam consularis vir Magnus151 Maximino paraverat, a suis militibus interemptum; imperasse autem {dicitur} mensibus sex. [2] Fuit hic vir de primis erga rem p. domi forisque laudabilis, sed in imperio parum felix. [3] Alii dicunt ab Armeniis sagittariis152, quos Maximinus ut Alexandrinos153 et oderat et offenderat, principem factum. [4]

Nec mireris tantam esse varietatem de homine, cuius vix nomen agnoscitur. [5] Huius uxor Calpurnia fuit, sancta et venerabilis femina de genere Caesoninorum, id est Pisonum154, quam maiores nostri univiriam155 sacerdotem inter sacratissimas feminas adorarunt, cuius statuam in templo Veneris adhuc vidimus acrolitham sed auratam. [6] Haec uniones Cleopatranos habuisse perhibetur, haec lancem centum librarum argenti, cuius plerique poetae meminerunt, in qua maiorum eius expressa ostenderetur historia. [7] Longius mihi videor processisse quam res postulabat. Sed quid faciam? Scientia naturae facilitate verbosa est. [8] Quare ad Censorinum revertar, hominem nobilem sed qui non tam bono quam malo rei p. septem diebus dicitur imperasse. CENSORINUS156 [33, 1] Vir plane militaris et antiquae in curia dignitatis, bis consul, bis praefectus praetorii, ter praefectus urbi, quarto pro consule, tertio consularis, legatus praetorius secundo, quarto aedilicius, tertio quaestorius, extra ordinem quoque legatione Persica functus, etiam Sarmatica. [2] Post omnes tamen honores cum in agro suo degeret senex atque uno pede claudicans vulnere, quod bello Persico Valeriani temporibus acceperat, factus est {imperator et} scurrarum ioco Claudius157 appellatus est. [3] Cumque se gravissime gereret neque a militibus ob disciplinam censoriam ferri posset, ab his ipsis, a quibus factus fuerat, interemptus est. [4] Extat eius sepulchrum 〈circa Bononiam〉, in quo grandibus litteris [circa Bononiam] incisi sunt omnes eius honores; ultimo tamen versu adscriptum est: [5] «felix omnia, infelicissimus imperator». Extat eius familia Censorinorum nomine frequentata158, cuius pars Thracias odio rerum Romanarum, pars Bithyniam petit; [6] extat etiam domus pulcherrima adiuncta gentibus Flaviis159, quae quondam Titi principis fuisse perhibetur. [7] Habes integrum triginta numerum tyrannorum, qui cum malevolis quidem sed bono animo causabaris. [8] Da nunc cuivis libellum non tam diserte quam fideliter scriptum. Neque ego eloquentiam mihi videor pollicitus esse, sed rem, qui hos libellos, quos de vita principum edidi, non scribo sed dicto160, et dicto cum ea festinatione, quam, si quid vel ipse promisero vel tu petieris, sic perurgues, ut respirandi non habeam facultatem.

[1, 1] Dopo aver scritto ormai numerosi libri in uno stile non storicamente elevato ed elegante, ma più terra terra, siamo giunti a quel periodo di tempo in cui, nel corso degli anni in cui Gallieno e Valeriano governarono lo Stato, sorsero, approfittando del fatto che Valeriano era impegnato nelle gravi vicende della guerra persiana, trenta tiranni, ché Gallieno era tenuto in disprezzo non solo dagli uomini, ma anche dalle donne, come si mostrerà a suo tempo. [2] Ma poiché l’oscurità che avvolgeva le figure di questi uomini, che da diverse parti del mondo tentavano la scalata all’impero, era tale che non v’è possibilità di raccontare o ricercare molte notizie su di loro, anche da parte dei più eruditi, e inoltre da tutti gli storici di lingua greca e latina alcuni di loro sono a tal punto ignorati, da non venirne citati neppure i nomi, e infine poiché tanto varie sono le diverse notizie tramandate da molti su di loro, ho voluto raccogliere le biografie di costoro in un unico libretto2, neppure lungo, soprattutto tenendo conto che evidentemente molte notizie su di loro sono già state narrate sia nella vita di Valeriano sia in quella di Gallieno e non è comunque il caso di ripeterle. CIRIADE3 [2, 1] Costui, uomo ricco e nobile, fuggendo dalla casa del padre Ciriade, dopo aver angosciato quel vecchio virtuoso con la sua dissolutezza e i suoi costumi depravati, dilapidata una gran parte del patrimonio in oro, e anche un’immensa quantità di argento, riparò presso i Persiani. [2] E legatosi in alleanza col re Sapore, divenuto fautore della guerra contro i Romani, spinse prima Odomaste4 e successivamente Sapore ad invadere il territorio romano; quando poi furono anche prese Antiochia e Cesarea5, ottenne il titolo di Cesare. [3] Ricevuto in seguito il titolo di Augusto6, dopo aver fatto tremare tutto l’oriente col terrore dei suoi eserciti e della sua audacia e aver ucciso il padre (questa circostanza è però negata da altri storici), fu a sua volta eliminato da un complotto dei suoi partigiani, quando ormai Valeriano si apprestava a muovere guerra in Persia. [4] Nulla di più è stato tramandato di costui che appaia degno di menzione: hanno fatto scrivere di lui solo la sua clamorosa fuga, il suo parricidio, la sua crudele tirannide e la sua sfrenata lussuria.

POSTUMO7 [3, 1] Costui era uomo molto valoroso in guerra, di grande fermezza in tempo di pace, serio in ogni circostanza della vita, tanto che Gallieno, quando destinò in Gallia suo figlio Saturnino, lo affidò proprio a lui, come custode della sua vita e suo istitutore nella condotta e negli atti propri di un imperatore8. [2] Ma, secondo ciò che asseriscono molti (che però non corrisponde al suo carattere), in seguito venne meno alla parola data e, dopo aver ucciso Salonino, assunse l’impero. [3] Secondo quanto invece, più conforme a verità, hanno tramandato molti altri, i Galli, poiché nutrivano un odio fortissimo nei confronti di Gallieno, e non potevano tollerare che un ragazzo regnasse su di loro, proclamarono imperatore colui che teneva il potere come reggente e mandarono dei soldati ad uccidere il ragazzo. [4] Dopo l’uccisione di questo, Postumo, accolto con favore da tutto l’esercito e da tutti i Galli, per sette anni9 si prodigò in modo tale da risollevare le condizioni delle Gallie, mentre Gallieno passava il suo tempo nei bagordi e nelle osterie, e si infiacchiva nella passione per una donna barbara10. [5] Nondimeno Gallieno condusse una guerra contro di lui, e in quell’occasione fu ferito da una freccia11; [6] tanto grande era l’affetto nutrito da tutte le popolazioni galliche nei confronti di Postumo perché, ricacciate tutte le genti germaniche, aveva ripristinato nell’impero la sicurezza di un tempo. [7] Ma, poiché agiva con grandissima severità, venne ucciso per le mene di Lolliano12, che sfruttò quel carattere proprio dell’indole dei Galli, che li rende sempre bramosi di rivolgimenti politici13. [8] Se qualcuno poi vuole conoscere i meriti di Postumo, potrà rendersi conto della considerazione in cui lo teneva Valeriano da questa lettera, inviata da quest’ultimo ai Galli: [9] «Abbiamo nominato comandante per il confine transrenano e governatore della Gallia Postumo, uomo in tutto degno della serietà dei Galli, tale che grazie alla sua presenza non abbiano a venir meno i soldati negli accampamenti, né le leggi nel foro, né i processi nei tribunali, né la dignità nella Curia, e che abbia a salvaguardare a ciascuno i propri beni: un uomo di cui sono ammirato più che di qualunque altro e che meriterebbe a buon diritto un posto di preminenza, e a motivo del quale confido che mi ringrazierete. [10] Ché se poi l’opinione che ho di lui si rivelerà errata, sappiate che non si trova in nessuna parte della terra un uomo che possa essere riconosciuto perfetto fino in fondo, [11] A suo figlio, che si chiama pur egli Postumo, ho conferito il tribunato dei Voconzi14: un giovane che si

mostrerà degno dei costumi paterni». POSTUMO IL GIOVANE15 [4, 1] Di lui non v’è quasi nulla da dire, se non che, nominato Cesare dal padre e successivamente, in onore di questo, Augusto, fu ucciso, a quanto si dice, assieme al padre stesso, allorché Lolliano, eletto a sostituire Postumo, assunse l’impero offertogli dai Galli. [2] Era peraltro (questa è l’unica nota degna di ricordo) così elegante nelle declamazioni, che si dice che le sue controversie16 siano state inserite fra quelle di Quintiliano17 che, come mostra subito a colpo d’occhio18 la lettura anche di un solo capitolo, è il più fine declamatore romano. LOLLIANO19 [5, 1] Fu in conseguenza della ribellione di costui in Gallia che venne ucciso Postumo20, uomo valorosissimo fra tutti, che quando ormai la Gallia era vicina al crollo a causa della condotta dissoluta di Gallieno, aveva riportato l’impero romano alla sua antica condizione. [2] Anche costui era uomo di grande valore, ma l’autorità che poté far valere con le sue forze presso i Galli risultò diminuita per via del suo tradimento. [3] Fu ucciso da Vittorino, figlio di Vitruvia (o Vittoria)21, che in seguito fu chiamata «madre degli accampamenti», e insignita del titolo di Augusta, anche se costei, dal canto suo, rifuggendo dal peso di una responsabilità così gravosa, conferì il potere prima a Mario, poi a Tetrico e a suo figlio22. [4] Di fatto Lolliano ebbe a prodigarsi non poco per il bene dello Stato. Infatti molte città della Gallia, e anche molte fortezze che Postumo aveva costruito in territorio barbarico nel corso di sette anni23, e che, dopo la sua morte, erano state distrutte e incendiate nel corso di un’improvvisa incursione dei Germani, le ricostruì riportandole alla loro precedente condizione. Successivamente fu ucciso dai suoi soldati24, poiché imponeva loro lavori troppo pesanti. [5] Così, mentre Gallieno mandava in rovina lo Stato, in Gallia sorsero quali difensori dell’onore romano dapprima Postumo, poi Lolliano, successivamente Vittorino e infine Tetrico (quanto a Mario, preferiamo non parlarne). [6] Tutti costoro io credo siano stati mandati dal cielo affinché, dal momento che quel mostro pestifero era schiavo della sua smisurata lussuria, non fosse lasciata ai Germani la possibilità di impadronirsi del territorio

romano. [7] Ché se essi avessero allora fatto irruzione al di qua dei confini allo stesso modo dei Goti e dei Persiani, una volta coalizzatisi i loro popoli entro il territorio romano, questo venerando impero che porta il nome di Roma avrebbe visto la fine. [8] Quanto alla vita di Lolliano, essa è in molti punti oscura, come anche quella dello stesso Postumo, ma egli non ebbe peraltro a rivestire cariche pubbliche: la fama che essi si acquistarono in vita fu infatti dovuta alle loro personali qualità, non all’importanza del loro rango. VITTORINO25 [6, 1] Postumo il vecchio, vedendo che Gallieno muoveva contro di lui con grandi forze e che gli era necessario non solo il sostegno dell’esercito, ma anche quello di un altro principe, assunse a condividere il potere con lui Vittorino, un uomo assai valente in campo militare e, alleato con lui, combatté contro Gallieno. [2] E, dopo essere riusciti, impiegando forti contingenti di truppe ausiliarie germaniche, a tirare in lungo la guerra, finirono per essere sconfìtti26. [3] Allora, dopo che fu ucciso anche Lolliano, rimase al potere il solo Vittorino, il quale pure, a sua volta, poiché si dava da fare ad insidiare le mogli dei soldati e degli ufficiali, fu ucciso ad Agrippina27 in seguito ad una congiura ordita da un funzionario28 di cui aveva violentato la moglie; in precedenza sua madre Vitruvia (o Vittoria), quella soprannominata «madre degli accampamenti», aveva dato il titolo di Cesare al figlio Vittorino: ma anche il fanciullo stesso, dopo l’uccisione del padre ad Agrippina, venne immediatamente soppresso. [4] Su questo imperatore, poiché fu uomo di grande valore e, a prescindere dalle sue intemperanze erotiche, un ottimo sovrano, conosciamo molte notizie da molte fonti. [5] Ma riteniamo sufficiente citare un brano di un libro di Giulio Ateriano29, in cui parla di Vittorino in questi termini: [6] «Ritengo che nessuno sia da anteporre a quel Vittorino che governò la Gallia succedendo a Giulio30 Postumo, non Traiano per la virtù, non Antonino per la clemenza, non Nerva per la serietà, non Vespasiano per l’amministrazione dell’erario, non Pertinace o Severo31 per l’integrità di tutta la vita e la severità militare. [7] Ma tutti questi meriti risultarono offuscati dalla sua sensualità e dalla sua intemperanza nei piaceri sessuali, al punto che nessuno ora oserebbe più scrivere sulle qualità di uno di cui si sa che agli occhi dell’opinione pubblica ha meritato quella punizione». [8] Poiché dunque gli scrittori hanno avuto di Vittorino questa opinione, mi sembra di aver già

parlato a sufficienza della sua condotta di vita. VITTORINO IL GIOVANE32 [7, 1] A proposito di costui non è stato riportato nulla più se non il fatto che fu nipote di Vittoria e figlio di Vittorino, e fu nominato Cesare dalla madre o dalla nonna nel medesimo momento in cui Vittorino venne ucciso e fu a sua volta immediatamente ucciso dai soldati inferociti. [2] Rimangono tuttora visibili nei pressi di Agrippina i modesti sepolcri, ricoperti di una sottile lastra di marmo, sui quali sta incisa un’unica iscrizione: «Qui giacciono i due tiranni Vittorini». MARIO33 [8, 1] Dopo che Vittorino34, Lolliano e Postumo furono uccisi, per soli tre giorni ebbe l’impero Mario, che era stato a quel che si dice – un fabbro ferraio. [2] Non so che cosa si possa ulteriormente indagare sul suo conto, al di là della circostanza che la straordinaria brevità del suo impero lo rese più famoso. Infatti, come quel console35 che rivestì l’ufficio di «supplente» per sei ore pomeridiane fu messo alla berlina da Marco Tullio con questa battuta: «Abbiamo avuto un console tanto severo e rigoroso che nel corso della sua magistratura nessuno ha pranzato, nessuno ha cenato, nessuno ha dormito», anche di costui sembrerebbe che si possa dire che un giorno fu fatto imperatore, l’altro lo si vide regnare e il terzo fu ucciso. [3] Era comunque un uomo valoroso, salito all’impero attraverso i gradi della carriera militare, che molti chiamavano Mamurio, alcuni Veturio36, come se si fosse trattato ancora di un fabbro ferraio. [4] Ma su di lui mi sono già soffermato troppo: basti aggiungere che nessuno aveva mani più forti delle sue quando si trattava di colpire o di spingere, giacché egli sembrava avere nelle dita delle corde d’arco, non delle vene. [5] Si dice infatti che respingesse col dito indice dei carri in movimento, e che con un solo dito fosse in grado di ridurre a mal partito gli uomini più robusti, come se avessero a soffrire le conseguenze di una randellata o di una mazzata. Con la pressione di due dita era capace di sbriciolare molti oggetti. [6] Fu ucciso da un soldato che un tempo aveva lavorato nella sua officina artigianale, e che era poi stato da lui trattato con sprezzo sia quando era al comando delle truppe sia quando aveva assunto l’impero. Si narra che l’uccisore abbia inoltre esclamato: [7] «Questa è la

spada che tu stesso hai forgiato!». Questa si racconta sia stata la sua prima allocuzione: [8] «So, o commilitoni, che mi si potrebbe rinfacciare la mia vecchia professione, che tutti voi aveste modo di conoscere con i vostri occhi. [9] Ma ognuno dica pure ciò che vuole. Magari possa io sempre maneggiare il ferro, e non perdermi in mezzo al vino, ai fiori, alle donnine, alle bettole come fa Gallieno, rendendosi indegno di suo padre e della nobiltà della sua stirpe. [10] Mi si rinfacci pure il mio mestiere di fabbro, purché anche i popoli stranieri abbiano a conoscere a prezzo delle loro disfatte che io ho imparato ad usare il ferro a dovere. [11] Mi adopererò inoltre perché tutti gli Alamanni37 e tutti i Germani, assieme altre popolazioni adiacenti, abbiano a considerare il popolo romano una razza di ferro e perché proprio il ferro essi abbiano in particolar modo a temere in noi. [12] Vorrei comunque che voi teneste presente di avere eletto un imperatore che non ha mai saputo maneggiare altro che il ferro. [13] Questo lo dico perché so che da parte di quell’essere pestifero immerso in ogni depravazione non mi si può rinfacciare altro se non che vengo dal mestiere di costruttore di spade e armi». INGENUO38 [9, 1] Sotto il consolato di Tusco e Basso39, mentre Gallieno spendeva il suo tempo a bere nelle bettole e si abbandonava all’amicizia di lenoni, mimi e meretrici, disperdendo le sue doti naturali in una vita che trascorreva continuamente nel vizio, Ingenuo, che era a quel tempo governatore della Pannonia, fu proclamato imperatore dalle legioni della Mesia, con il consenso di tutte le altre truppe stanziate in Pannonia: e, a quanto appariva, in nessun caso la decisione dei soldati era stata più proficua per il bene dello Stato di quando appunto – con i Sarmati40 ormai incombenti – crearono imperatore uno che, con il suo valore, avrebbe potuto porre riparo alla critica situazione. [2] Il motivo che lo spinse ad assumersi allora l’impero fu il timore di cadere in sospetto agli imperatori, per via del fatto che era valorosissimo e necessario allo Stato, nonché – cosa che preoccupa vivamente chi detiene il potere – molto caro ai soldati. [3] Ma Gallieno che, come era inetto e dissoluto, così anche, quando la necessità lo metteva alle strette, sapeva essere rapido, forte, impetuoso, crudele, alla fine, venuto a battaglia con Ingenuo, lo vinse41 e, dopo averlo ucciso, infierì con grande ferocia contro tutti i Mesii, tanto sui soldati quanto sui cittadini. E nella sua crudeltà non risparmiò nessuno, mostrandosi a tal punto feroce e sanguinario42 da lasciare molte città vuotate

della loro popolazione maschile. [4] Dello stesso Ingenuo si racconta che, una volta che la città fu presa, si lasciò annegare nell’acqua, togliendosi in tal modo la vita43, per non cadere nelle mani di quel crudele tiranno. [5] Possediamo una lettera di Gallieno indirizzata a Celere Veriano44, nella quale si rivela la sua sfrenata crudeltà. L’ho qui riportata perché tutti potessero rendersi conto di come un uomo vizioso possa diventare crudelissimo, ove sia incalzato da uno stato di necessità: [6] «Gallieno a Veriano. Non mi soddisferai se ucciderai soltanto dei soldati, che avrebbero potuto anche trovare la morte in battaglia. [7] Bisogna sterminare tutta la popolazione di sesso maschile, anche i vecchi e i bambini, se fosse possibile eliminarli senza farne cadere il biasimo su di noi. [8] Bisogna uccidere tutti quelli che mi hanno voluto male, bisogna uccidere tutti quelli che hanno parlato contro di me, contro il figlio di Valeriano, contro il padre e fratello di tanti principi. [9] Hanno fatto imperatore Ingenuo. Tu strazia, ammazza, distruggi, immedesimati nel mio stato d’animo, adirati con lo stesso spirito che c’è in me, che ti scrivo di mio pugno queste cose». REGILIANO45 [10, 1] Al tempo di Gallieno il destino dello Stato era che chiunque ne aveva l’opportunità dava la scalata all’impero. Fu così che Regiliano, governatore dell’Illiria, divenne imperatore, a ciò eletto dai Mesii, che in precedenza erano stati sconfitti assieme ad Ingenuo, e sui parenti dei quali Gallieno aveva infierito con ferocia. [2] Costui comunque condusse valorosamente molte operazioni contro i Sarmati, ma, su istigazione dei Rossolani46 e con il consenso dei soldati e dei provinciali che temevano nuove e più gravi ritorsioni da parte di Gallieno, venne ucciso. [3] A rivelarla, l’origine del suo impero potrà apparire forse singolare. Ottenne infatti il regno attraverso un gioco di parole molto ingegnoso. [4] Una volta che erano a cena con lui alcuni soldati, un vicetribuno se ne uscì con questa domanda: «Da dove crediamo che venga il nome di Regiliano?». E un altro subito: «Pensiamo che sia da ‘regno’». [5] Allora uno tra i presenti che era istruito cominciò a declinare, al modo dei grammatici, dicendo: «rex, regis, regi, Regilianus». [6] I soldati, portati – per il tipo di gente che sono – ad entusiasmarsi per le idee che spuntano loro in mente, esclamarono: «Dunque può esser re?». Parimenti un altro: «Dunque ci può governare?». E un altro

ancora: «Un dio ti ha imposto il nome di re». [7] Perché dilungarsi? Dopo questi discorsi, quando il mattino del giorno successivo si presentò in pubblico, fu salutato imperatore dai più alti ufficiali. Così, ciò che ad altri aveva procurato l’audacia o l’intelligenza, a costui lo offrì una battuta astuta. [8] Fu, non lo si può negare, un uomo sempre apprezzato in campo militare, e già da tempo sospetto agli occhi di Gallieno, perché appariva con le carte in regola per avere l’impero; era di stirpe dacia e imparentato, a quanto si dice, con lo stesso Decebalo47. [9] Possediamo una lettera del divo Claudio, a quel tempo ancora un privato cittadino, nella quale ringrazia Regiliano, comandante militare dell’Illirico, per la riconquista di quella regione, proprio mentre la situazione volgeva da ogni parte al peggio a causa dell’inerzia di Gallieno. Avendola trovata nella sua copia originale, ho pensato di riportarla – era infatti tra i documenti ufficiali. [10] «Claudio saluta vivamente Regiliano. Fortunato lo Stato, cui è toccato in sorte di avere un uomo come te al suo servizio nelle operazioni di guerra, fortunato Gallieno, anche se nessuno gli dice la verità né nel bene né nel male. [11] Bonito e Celso, guardie del corpo del nostro principe, mi hanno riferito come ti sei portato nella battaglia di Scupi48 e quanti scontri e con quale rapidità hai condotto nell’arco di una sola giornata. Saresti stato degno del trionfo, se fossimo ancora ai tempi antichi. [12] Ma che dire ancora? Vorrei che, tenendo a mente una certa persona, tu sapessi mantenerti alquanto cauto anche nella vittoria. Gradirei che mi mandassi degli archi sarmatici e due mantelli militari, ma di quelli con la fibbia: io, a mia volta, te ne ho spediti dei nostri». [13] In questa lettera appare chiaramente la considerazione che aveva Claudio per Regiliano, e non v’è dubbio che il suo giudizio fosse ai suoi tempi di grandissimo peso. [14] Non fu Gallieno a far avanzare quest’uomo nella carriera, ma suo padre Valeriano, come era avvenuto anche per Claudio, Macriano, Ingenuo, Postumo e Aureolo, tutti personaggi che furono uccisi mentre detenevano il potere imperiale, sebbene ne fossero meritevoli. [15] L’imperatore Valeriano ebbe questa prerogativa singolare, che tutti quelli che egli nominò generali, in seguito per volontà dei soldati giunsero all’impero, sì che appare chiaro come quel vecchio principe nella scelta degli uomini da mettere ai posti di comando nello Stato era dotato di quel discernimento che il bene di Roma – se il destino avesse permesso che si prolungasse sotto la guida di quell’ottimo sovrano – richiedeva. [16] E magari quelli che si erano impadroniti del potere avessero potuto regnare, o suo figlio non fosse durato troppo a lungo sul trono, sì che il

nostro Stato avesse potuto in un modo o nell’altro mantenersi nella condizione che gli era propria. [17] Ma la Fortuna decise di seguire troppo il proprio capriccio, portandoci via assieme a Valeriano degli ottimi principi e conservando allo Stato Gallieno più a lungo del necessario. AUREOLO49 [11, 1] Anche costui, comandante degli eserciti dell’Illirico, assunse il potere, come tutti a quel tempo, sotto la spinta dei militari, che avevano in spregio Gallieno. [2] E quando Macriano assieme al figlio omonimo mosse contro Gallieno con un grande esercito, ottenne la resa delle sue truppe e una parte le trasse dalla sua con la corruzione. [3] Diventò così un valente generale e Gallieno, dopo aver tentato invano di aver ragione di quel valoroso, si accordò con lui, onde passare poi a combattere contro Postumo50. Di molte di queste cose si è già parlato e si dovrà ancora parlare. [4] Fu Claudio che, quando ormai Gallieno era stato eliminato, uccise questo stesso Aureolo in uno scontro presso il ponte che ancor oggi si chiama ponte di Aureolo51, concedendo che gli fosse eretto in quel luogo un sepolcro, ma di aspetto piuttosto modesto trattandosi di un usurpatore. [5] Vi è ancor oggi visibile un’epigrafe in greco, che tradotta suona così: «Del dono di una tomba, dopo tante battaglie ormai fortunato vincitore del tiranno e a diritto superstite, Claudio Aureolo onora con umano [tributo; vivo l’avrebbe lasciato, se l’avesse permesso il senso d’onore di un nobile soldato, che giustamente negò la salvezza a tutti gli indegni e soprattutto ad Aureolo. Egli tuttavia, nella sua clemenza, raccolse i resti mortali, dedicando ad Aureolo il ponte ed una tomba».

[6] Questi versi li ho riportati nella traduzione di un grammatico, perché fossero resi fedelmente, non perché non si potessero tradurre meglio, ma affinché fosse salvaguardata la fedeltà storica, che io ho ritenuto sopra tutte le altre cose di dover custodire, io che non mi dò certo pensiero per quel che concerne l’eleganza dello stile. [7] Mi sono infatti proposto di presentare a voi fatti concreti, non vuote parole, soprattutto di fronte ad una così grande abbondanza di materiale, trattandosi di narrare simultaneamente le vite di trenta tiranni. MACRIANO52

[12, 1] Dopo la cattura di Valeriano – che era stato per lungo tempo uno dei cittadini più in vista e successivamente un valentissimo imperatore, ma alla fine il più sfortunato di tutti, sia perché consumò la sua vecchiaia fra i Persiani, sia perché lasciò successori indegni di lui – Ballista53, prefetto del pretorio di Valeriano, e Macriano, suo primo generale54, rendendosi conto che su Gallieno non si doveva più fare alcun affidamento, mentre anche i soldati chiedevano un imperatore, si diedero convegno per tenere consiglio sul da farsi. [2] Apparve allora chiaro che, visto che Gallieno era lontano e Aureolo si stava ormai impadronendo del potere55, si doveva eleggere un imperatore, e di grandi doti, onde non avesse a sorgere qualche usurpatore. [3] Dunque le parole di Ballista (a quanto asserisce Meonio Astianatte56, che partecipò alla riunione) furono queste: [4] «La mia età, la mia posizione e la mia volontà sono ben lontane dall’essere orientate all’impero, e io, non lo posso negare, sento il bisogno di un principe capace. [5] Ma chi vi è alla fin fine che potrebbe occupare degnamente il posto lasciato da Valeriano, se non un uomo delle tue qualità, valoroso, fermo, irreprensibile, che ha già dato prova di sé al servizio dello Stato e, ciò che è di grandissima importanza per poter aspirare all’impero, possiede molte ricchezze? [6] Prenditi dunque il posto dovuto ai tuoi meriti. Potrai avermi tuo prefetto fin quanto lo vorrai. Per parte tua, pensa solo ad agire per il bene dello Stato, affinché il mondo romano possa gioire della tua elezione». [7] Rispose Macriano: «Debbo dire, Ballista, che per una persona assennata l’impero non è cosa di poco conto. Io vorrei infatti portare aiuto allo Stato e allontanare quella peste dal governo, ma la mia età non me lo consente: sono vecchio, non sono più in grado di cavalcare in maniera esemplare, debbo lavarmi molto spesso, stare a dieta e le ricchezze mi hanno già da un pezzo reso disavvezzo alla pratica militare. [8] Bisogna cercare qualche giovane, e non uno solo, ma due o tre fra i più valorosi, che, nelle diverse parti del mondo, ristabiliscano l’autorità dello Stato, che Valeriano per un triste destino e Gallieno per la sua condotta di vita hanno fatto precipitare così in basso». [9] A questo punto Ballista comprese che egli parlava a quel modo come se sembrasse avere in mente i suoi figli, e così appunto gli rispose: [10] «Affidiamo lo Stato al tuo discernimento. Dacci dunque i tuoi figli Macriano e Quieto57, giovani valorosissimi che a suo tempo furono nominati tribuni da Valeriano, giacché sotto Gallieno, proprio perché sono onesti, non potrebbero avere via di scampo». [11] Allora quello, quando si rese conto di essere stato inteso, disse: «Mi arrendo ai vostri desideri, e distribuirò ai soldati di tasca mia uno stipendio raddoppiato. Tu bada solo ad

assistermi nella tua opera di prefetto e a fornirmi gli approvvigionamenti nei luoghi opportuni. È giunto il momento in cui farò vedere a quella lurida donnaccia di Gallieno il valore dei generali di suo padre». [12] Fu eletto dunque imperatore58 assieme ai due figli Macriano e Quieto con il consenso di tutti i soldati e subito cominciò a marciare contro Gallieno, dopo aver lasciato sistemati in qualche modo gli affari orientali. [13] Ma messosi in marcia alla testa di quarantacinquemila uomini, si scontrò con Aureolo nell’Illirico o alle frontiere della Tracia e fu vinto e ucciso assieme al figlio. [14] Alla fine caddero prigionieri di Aureolo trentamila soldati. A sconfiggerlo fu Domiziano59, generale di Aureolo molto valoroso e coraggioso, che asseriva di discendere da Domiziano e Domitilla60. [15] Parlando di Macriano mi sembrerebbe ingiusto non riportare il giudizio che Valeriano diede di lui in una relazione che mandò al senato dalla Persia. Nella relazione del divo Valeriano troviamo scritto fra l’altro: [16] «Io, o senatori, mentre sono impegnato nella guerra contro i Persiani, ho affidato totalmente a Macriano il governo dello Stato, anche per gli affari militari. Egli è leale verso di voi e a me devoto, è amato e rispettato dai soldati, egli sa comportarsi con le truppe secondo ogni esigenza imposta dalla situazione. [17] Né, o senatori, si tratta per noi di cose nuove o inattese: egli ha avuto modo di farsi apprezzare per il suo valore ancora fanciullo in Italia, da adolescente in Gallia, da giovane in Tracia, ormai come uomo maturo in Africa, e infine, quando era ormai avanti negli anni, nell’Illirico e in Dalmazia, combattendo da prode in diverse battaglie sì da riuscire di esempio a tutti. [18] C’è poi da tener conto che quest’uomo, degno di essere associato a noi Romani, degno della nostra amicizia, è padre di figli ancor giovani» e così via. MACRIANO IL GIOVANE61 [13, 1] Di costui, che non sarebbe mai diventato imperatore, se non fosse stato dato credito – a quanto sembra – all’avvedutezza del padre, molte cose sono già state anticipate parlando dell’impero di quest’ultimo. [2] Su di lui si narrano numerosissimi episodi mirabili inerenti alla forza che egli dimostrava nei suoi giovani anni. Ma quanto può valere per delle imprese o in guerra la forza di una sola persona? [3] Questi infatti, con tutta la sua forza e unito a quell’uomo accortissimo che era il padre, ai cui meriti doveva l’impero, fu sconfitto da Domiziano – come ho detto in precedenza – e privato di trentamila soldati; sua madre era nobile, il padre era soltanto un uomo

valoroso ed esperto nella guerra, e dai ranghi più bassi della carriera militare era salito ai più alti e prestigiosi gradi di comando. QUIETO62 [14, 1] Costui, come dicemmo, era figlio di Macriano. Fu eletto imperatore assieme al padre e al fratello dietro il suggerimento di Ballista. Ma Odenato, che a quel tempo era già padrone dell’oriente, quando apprese che Macriano, padre di Quieto, e il fratello di questo Macriano erano stati sconfitti da Aureolo e le loro truppe erano cadute nelle mani di quest’ultimo, come atteggiandosi a fautore di Gallieno, fece uccidere il giovane assieme a Ballista, da lungo tempo prefetto63. [2] Anche questo giovane era in tutto degno del titolo di imperatore romano, sì da apparire davvero figlio di Macriano e fratello dell’altro omonimo figlio, che insieme sarebbero stati in grado di governare lo Stato in una situazione tanto critica. [3] Mi sembra che, parlando della famiglia dei Macriani, che ancor oggi è fiorente64, non si debba fare a meno di ricordare una caratteristica che ebbero sempre propria. [4] Gli uomini hanno sempre portato l’immagine di Alessandro Magno il Macedone riprodotta sugli anelli e sugli altri oggetti d’argento, le donne sulle cuffie, sui bracciali, sugli anelli e su ogni altro tipo di ornamento, tanto che ancor oggi nella sua famiglia esistono tuniche, manti e mantelline da donna che mostrano l’immagine di Alessandro intessuta con fili di vario colore. [5] Abbiamo visto di recente Cornelio Macro, un membro della medesima famiglia, nel corso di una cena da lui offerta nel tempio di Ercole65, offrire al pontefice una coppa di elettro66 che recava inciso nel centro il volto di Alessandro e portava all’intorno la raffigurazione di tutta la sua storia su piccoli e minutissimi rilievi: egli la fece poi circolare fra tutti i convitati, interessatissimi alle gesta di quel personaggio tanto famoso. [6] Ho riportato questo, perché si dice che coloro che portano con sé l’immagine di Alessandro riprodotta in oro o in argento, abbiano fortuna in tutto ciò che fanno. ODENATO67 [15, 1] Se, dopo la cattura di Valeriano, quando ormai lo Stato romano era allo stremo delle forze, Odenato, principe di Palmira, non avesse preso il potere, in Oriente tutto era ormai perduto. [2] Assunto dunque innanzitutto il

titolo di re, con la moglie Zenobia68 e il figlio maggiore, che aveva nome Erode69, e i figli minori Erenniano e Timolao70, raccolto un esercito, mosse contro i Persiani. [3] In primo luogo occupò Nisibi e gran parte dell’oriente con tutta la Mesopotamia, poi costrinse il re stesso, sconfìtto, alla fuga71. [4] Infine, dopo aver inseguito fino a Ctesifonte Sapore e i suoi figli72, ed essersi impadronito delle sue concubine e aver fatto inoltre un grande bottino, si volse verso oriente, sperando di poter abbattere Macriano, che aveva cominciato ad attribuirsi le funzioni di imperatore in opposizione a Gallieno, ma, essendo quello già partito per affrontare Aureolo e Gallieno, ed avendo trovato la morte, egli uccise a sua volta il figlio di lui Quieto, mentre Ballista, secondo quanto affermano i più, si sarebbe attribuito il titolo imperiale73 onde poter evitare di essere pure lui messo a morte. [5] Dopo che dunque aveva per gran parte riportato alla stabilità la situazione orientale, fu ucciso dal cugino Meonio74 – il quale pure aveva preso il potere75 – assieme a suo figlio Erode (anche costui, dopo il ritorno dalla Persia, era stato proclamato imperatore col padre). [6] Credo che gli dèi fossero adirati nei confronti del nostro Stato, visto che, dopo che Valeriano era stato ucciso, non vollero conservarci neppure Odenato. [7] Egli certo, assieme a sua moglie Zenobia, avrebbe risollevato non solo l’oriente, che già aveva riportato alla condizione di un tempo, ma anche ogni altra parte del mondo intero, da uomo prode qual era e, a quanto asseriscono molti autori, sempre famoso per memorabili cacce, lui che fin dalla giovinezza impegnò le sue energie in quella virile occupazione, catturando leoni e leopardi, orsi e altri animali feroci, e che visse sempre nelle selve e sui monti, sopportando il caldo, le piogge e tutti i disagi che comporta la pratica appassionante della caccia. [8] Indurito da queste esperienze, poté poi sopportare il sole e la polvere durante le guerre contro i Persiani; e sua moglie non era meno avvezza di lui alle fatiche, lei che, a quanto viene riferito seguendo il parere di molti, era anche più forte del marito, donna la più nobile fra tutte le donne d’oriente e, a quanto asserisce Cornelio Capitolino76, la più bella. ERODE77 [16, 1] Erode, che era nato non da Zenobia, ma da una precedente moglie di Odenato, assunse l’impero assieme al padre; era uomo dei più effemminati, dedito a un lusso in tutto orientale e greco: aveva tende adorne di figure,

padiglioni ricamati in oro e ogni cosa alla maniera dei Persiani. [2] Inoltre Odenato, mosso dalla sua affettuosa indulgenza di padre, assecondava le sue inclinazioni, e tutte le concubine regie, nonché tutte le ricchezze e le gemme di cui faceva bottino, le lasciava a lui. [3] Zenobia, dal canto suo, lo trattava con la disposizione d’animo di una matrigna, ma con ciò lo aveva reso più caro a suo padre. Né di Erode rimane altro in più da dire. MEONIO78 [17, 1] Costui era cugino di Odenato e da null’altro spinto che da uno spregevole sentimento di invidia assassinò un eccellente imperatore, nient’altro potendogli rinfacciare se non i costumi riprovevoli del figlio Erode. [2] Si dice che in un primo tempo egli fosse d’accordo con Zenobia, la quale non poteva tollerare che il figliastro Erode risultasse un principe di più alto rango dei suoi figli Erenniano e Timolao. Ma anche lui era uomo quanto mai abietto: [3] sì che, eletto imperatore in seguito ad una decisione precipitosa, ben presto fu ucciso dai soldati, come meritava la sua condotta dissoluta. BALLISTA79 [18, 1] Non vi è accordo fra gli autori se costui sia stato effettivamente imperatore. Molti infatti sostengono che, quando Quieto fu ucciso da Odenato, a Ballista venne concesso il perdono, ma nondimeno egli assunse il titolo imperiale, per non doversi mettere nelle mani né di Gallieno né di Aureolo né di Odenato. [2] Altri asseriscono che egli fu ucciso – nella condizione di privato cittadino – in un podere che aveva acquistato nei pressi di Dafne80. [3] Molti hanno sostenuto che egli prese la porpora per governare secondo l’uso romano, che guidò l’esercito e che promise che avrebbe fatto molte cose, ma fu ucciso dai soldati che Aureolo aveva mandato a catturare Quieto, figlio di Macriano, che egli affermava essere sua preda personale. [4] Era un personaggio insigne, dotato di esperienza nel governo dello Stato, molto pronto nelle decisioni; si segnalava sempre nelle campagne militari, aveva una capacità unica nel curare gli approvvigionamenti annonari, ed era tanto ben visto da Valeriano che questi ebbe ad esprimere su di lui in una lettera le attestazioni di stima che qui riportiamo: [5] «Valeriano a Ragonio Claro81, prefetto dell’Illirico e delle Gallie. Se hai del buon senso – e io so che tu l’hai –, o padre mio Claro, imita le direttive di Ballista, [6] informa ad esse il tuo

governo. Lo vedi come evita di gravare sui provinciali, come sa provvedere allo stanziamento dei cavalli nelle zone in cui vi sono pascoli, come richiede i rifornimenti per l’esercito là dove vi è grano, e non costringe i provinciali e i proprietari a fornire grano là dove non ne hanno, né a dar pascolo ai cavalli là dove non sono in grado di farlo? [7] Non vi è miglior modo di approvvigionarsi che quello di ricavare da ogni luogo quanto la natura vi produce, così da non far gravare sullo Stato il trasporto o le spese. [8] La Galazia abbonda di frumento, la Tracia ne è ricolma, l’Illirico ne è pieno: qui si faccia acquartierare la fanteria, per quanto in Tracia anche la cavalleria potrebbe svernare senza danno per i provinciali: infatti nei campi si raccoglie molto fieno. [9] Quanto al vino, al lardo, e a tutti gli altri generi alimentari, questi debbono essere forniti nei luoghi in cui ve ne è grande abbondanza. [10] Tutti questi sono i criteri seguiti da Ballista, che ha dato disposizione che da una determinata provincia venga fornito un singolo genere di approvvigionamento, che essa produca in grande abbondanza, e che poi da essa vengano fatti partire i soldati. E questo è stato decretato ufficialmente». [11] Esiste anche un’altra sua lettera, con la quale egli ringrazia Ballista: in essa dichiara di aver appreso da lui le direttive per il governo dello Stato, rallegrandosi che, grazie ai suoi consigli, non aveva più alcun tribuno soprannumerario – cioè privo di incarico –, nessun uomo al seguito senza funzioni effettive, nessun soldato che non combattesse sul serio. [12] Quest’uomo, dunque, fu ucciso, a quanto dicono, mentre riposava nella sua tenda, da un soldato semplice, per compiacere Odenato e Gallieno. [13] Per parte mia, non ho potuto appurare con sufficiente certezza la verità su ciò che lo riguarda, dal momento che gli scrittori del tempo hanno riferito molte notizie in merito alla sua prefettura, ma poche per quel che riguarda il suo impero. VALENTE82 [19, 1] Quest’uomo d’armi, famoso ad un tempo anche per i suoi meriti civili, esercitava il proconsolato d’Acaia, una carica assegnatagli a quel tempo da Gallieno. [2] Macriano, che aveva molto timore di lui, sia perché lo conosceva come uomo di ottima fama in ogni aspetto della sua vita, sia perché, avendo in odio le sue qualità, sentiva che non poteva essergli che nemico, inviò Pisone83, personaggio di famiglia allora nobilissima e di rango consolare, con l’ordine di ucciderlo. [3] Valente, che stava costantemente in

guardia, prendendo ogni precauzione, giudicando che non gli restasse altra via di scampo, assunse il potere imperiale e dopo breve tempo finì ucciso dai soldati. VALENTE IL VECCHIO84 [20, 1] E parlando di questo Valente, mi è venuto giusto a proposito in mente di dire anche qualcosa di quell’altro Valente, che fu ucciso al tempo dei precedenti imperatori. [2] Si dice infatti che fosse prozio di quel Valente che usurpò l’impero sotto Gallieno; altri sostengono che ne fosse solo lo zio. [3] Comunque eguale fu per entrambi la sorte. Anche lui, infatti, dopo aver regnato per pochi giorni nell’Illirico, fu eliminato. PISONE85 [21, 1] Costui, mandato da Macriano ad uccidere Valente, quando venne a sapere che questi, subodorando quanto stava per avvenire, si era proclamato imperatore, riparò in Tessaglia e lì, con l’appoggio di pochi seguaci, assunse l’impero e ricevette l’appellativo di Tessalico86: ma di lì a poco venne ucciso. Era uomo di grandissima probità e ai suoi tempi ebbe il soprannome di Frugi87: affermava di discendere da quella famiglia dei Pisoni con la quale si era imparentato Cicerone, al fine di acquistare nobiltà di rango88. [2] Ebbe a godere della più grande stima presso tutti i principi. Anche lo stesso Valente, che pure si dice abbia mandato dei sicari per assassinarlo, ebbe ad affermare – a quanto riferiscono – di non avere scusanti per rendere conto agli dèi degli inferi di aver fatto uccidere, anche se era un suo nemico, Pisone, un uomo che non aveva eguali nello Stato romano. [3] Ho inserito volentieri il testo di un decreto del senato concernente Pisone, onde dare un’idea del grande rispetto di cui era circondato: il 25 giugno, essendo stato annunziato che Pisone era stato ucciso da Valente, e che Valente a sua volta era stato ucciso dai suoi, Arellio Fusco89, l’ex console che aveva diritto ad esprimere per primo il suo parere – aveva preso il posto di Valeriano –, esclamò: «Console, consultaci!». [4] E dopo essere stato formalmente richiesto della sua opinione, disse: «Propongo, o senatori, onori divini per Pisone, e confido che i nostri imperatori Gallieno, Valeriano e Salonino daranno la loro approvazione. Non vi fu mai infatti alcun uomo migliore e più coerente di lui». [5] Dopo di lui vennero interpellati tutti gli

altri senatori, che decretarono a Pisone una statua trionfale e una quadriga. [6] Ma la sua statua è ancor oggi visibile, mentre la quadriga che era stata decretata, col pretesto che doveva essere trasferita, fu dedicata ad un altro, e non è stata ancora ricollocata. [7] Si trovava infatti nel luogo dove sono state costruite le terme di Diocleziano90, nome tanto imperituro quanto venerando. EMILIANO91 [22, 1] È una caratteristica tipica del popolo egiziano che, come forsennati e pazzi, si lascino portare, per ogni più futile motivo, a procurare i più gravi pericoli per lo Stato92: [2] più volte essi, per via di un mancato saluto, per un posto non concesso ai bagni, per un sequestro di carne e ortaggi, o per una disputa attinente a un paio di calzari da schiavo, e per altre banalità di questo genere, sono arrivati a provocare rivolte tali da mettere lo Stato in gravissimo pericolo, così da richiedere l’intervento dell’esercito contro di loro. [3] Dunque, con questa per loro abituale disposizione alle reazioni inconsulte, quando avvenne un giorno che un servo del procuratore93, che a quel tempo governava Alessandria, fu ucciso da un soldato, perché sosteneva che i suoi calzari erano più belli di quelli di lui, subito si raccolse una gran folla che si recò alla casa del generale Emiliano e lo assalì inferocita con tutti i mezzi cui si fa ricorso nelle sommosse: egli fu preso a sassate, fu attaccato spada alla mano, né si mancò di far uso di alcuna delle armi tipiche delle sedizioni. [4] Messo alle strette da questa situazione Emiliano, vedendosi comunque perduto, assunse l’impero. [5] Gli diedero appoggio le truppe di stanza in Egitto, soprattutto per odio nei confronti di Gallieno. [6] Né mancò a lui l’energia necessaria per reggere lo Stato: percorse infatti in lungo e in largo la Tebaide94 e l’intero Egitto, e facendo valere la sua forza e autorità, ricacciò fin dove potè i popoli barbari. [7] Fu così che, per i meriti acquistatisi con il suo valore, ricevette l’appellativo di Alessandro o Alessandrino – anche questo infatti risulta incerto. [8] E mentre stava organizzando una spedizione contro gli Indi, fu inviato per ordine di Gallieno il generale Teodoto, il quale gliela fece pagare: ché in effetti – a quanto raccontano – egli venne strangolato in carcere, come si usava un tempo95 con i prigionieii. [9] Parlando dell’Egitto, credo di non dover passare sotto silenzio un fatto che si ricollega ad un’antica tradizione, e che costituisce ad un tempo anche un episodio della vita di Gallieno. [10] Quest’ultimo avrebbe voluto decretare a Teodoto il potere proconsolare, ma ne fu impedito dai sacerdoti, che

affermarono non essere lecito che i fasci consolari entrassero in Alessandria; [11] e sappiamo bene che anche Cicerone, nell’orazione contro Gabinio96, si ricordò di questo particolare. E così ancor oggi è vivo il ricordo di una pratica più volte attuata. [12] Perciò è bene che il vostro97 parente Erennio Celso – lui che aspira al consolato – sappia che ciò a cui mira non è consentito. [13] Si racconta infatti che su di una colonna d’oro nei pressi di Menfì sta scritto in caratteri egiziani che l’Egitto riacquisterà finalmente la libertà una volta che in esso saranno entrati i fasci e le preteste dei Romani. [14] Testimonianza di questo si trova nel grammatico Proculo98, uomo tra i più dotti del suo tempo, là dove parla dei paesi stranieri. SATURNINO99 [23, 1] Saturnino fu il miglior generale dell’epoca di Gallieno – ma era stato scelto da Valeriano. [2] Anch’egli, che non poteva sopportare la condotta dissoluta di quel nottambulo di Gallieno, e informava il proprio modo di governare le truppe non all’esempio del suo imperatore, ma a quello che lui stesso dava, dagli eserciti stessi ebbe a ricevere l’impero. Era uomo di eccezionale saggezza, che si segnalava per la sua serietà e si faceva amare per la sua condotta di vita, ed era inoltre famoso dovunque per le vittorie riportate sui barbari. [3] Raccontano che il giorno in cui i soldati gli posero indosso il manto imperiale, nell’arringarli ebbe ad esclamare: «O commilitoni, avete perduto un buon comandante, e avete creato un cattivo imperatore!». [4] Infine, dopo aver compiuto nel corso del suo impero molte imprese valorose, per la sua eccessiva severità e durezza nei confronti dei soldati, fu ucciso da quegli stessi dai quali era stato eletto. [5] È degno di ricordo quel suo provvedimento con il quale dispose che i soldati sedessero a tavola indossando, per non lasciare nude le gambe, dei mantelli pesanti in inverno, e leggerissimi in estate. TETRICO IL VECCHIO100 [24, 1] Dopo l’uccisione di Vittorino e di suo figlio101, la madre Vittoria (o Vitruvia) indusse il senatore Tetrico, che esercitava il governatorato in Gallia102, ad assumere l’impero – giacché era, come asseriscono i più, suo

parente –, e lo fece proclamare Augusto103, conferendo al figlio il titolo di Cesare. [2] Tetrico, dopo aver condotto con successo numerose imprese e aver regnato per lungo tempo, fu sconfitto da Aureliano104 e, non potendo più sopportare l’arroganza e l’insolenza dei suoi soldati, si consegnò spontaneamente a quel principe tanto austero e serio. [3] Si racconta poi che avrebbe subito scritto ad Aureliano questo verso: «Liberami, o invitto, da questi mali»105. [4] Ma Aureliano, che non si lasciava andare facilmente a sentimenti di lealtà, compassione o clemenza, fece sfilare alla pari di Zenobia, moglie di Odenato, e dei figli minori di costui, Erenniano e Timolao106, nel corso del suo trionfo107, questo senatore del popolo romano, nonché ex console, che aveva retto tutte le Gallie in qualità di governatore. [5] Tuttavia poi, sopraffatto dal rimorso, quell’uomo fin troppo severo nominò colui che aveva umiliato nel suo trionfo governatore di tutta l’Italia108, cioè di Campania, Sannio, Lucania – Bruzio, Apulia Calabria, Etruria e Umbria, Piceno e Flaminia109 e dell’intera regione annonaria110, e lasciò che Tetrico non solo rimanesse in vita, ma anche continuasse ad occupare una posizione di grande prestigio, chiamandolo spesso collega, talvolta commilitone, a volte persino imperatore. TETRICO IL GIOVANE111 [25, 1] Costui, ancora bambino, ebbe il titolo di Cesare da Vittoria, la quale a sua volta era stata chiamata dalle truppe «madre degli accampamenti». [2] Anch’egli era stato fatto sfilare nel corso del trionfo assieme al padre, ma successivamente ebbe a godere di tutti i privilegi del rango senatorio, senza che il suo patrimonio famigliare venisse toccato: anzi egli poté trasmetterlo ai suoi discendenti, come riferisce il sempre rinomato scrittore Arellio Fusco112. [3] Mio nonno raccontava113 che costui era suo intimo amico e che Aureliano e gli altri imperatori che gli succedettero lo tenevano in maggiore considerazione che chiunque. [4] La casa dei Tetrici esiste ancora oggi, bellissima, sul monte Celio, fra due boschi sacri, di fronte al tempio di Iside eretto dai Metelli114: in essa si trova una raffigurazione di Aureliano nell’atto di conferire ad entrambi la pretesta e la dignità senatoria, e di ricevere da essi uno scettro, una corona, e una veste listata d’oro – si tratta di un mosaico –; nell’occasione della presentazione ufficiale, si racconta che i due Tetrici invitarono ad una banchetto lo stesso Aureliano.

TREBELLIANO115 [26, 1] Fa vergogna ormai continuare l’elenco degli usurpatori che vi furono sotto Gallieno, e di cui fu responsabile quell’uomo pestifero: ché in effetti tale era la depravazione nella sua condotta, da fargli meritare che molti gli si ribellassero contro, e tale la sua crudeltà, che a buon motivo egli incuteva tanto terrore. [2] Di conseguenza vi fu una guerra anche contro Trebelliano, che era stato creato imperatore in Isauria116 per volontà degli Isauri stessi, che chiedevano di avere un capo. Costui di sua iniziativa, mentre gli altri lo avevano nominato archipirata, si attribuì il titolo di imperatore. Fece anche coniare delle monete117. [3] Si fece costruire un palazzo su di una località elevata dell’Isauria. E avendo portato la sua residenza nella parte più interna e sicura dell’Isauria, ben protetto dalle asperità naturali e dai monti, regnò per un certo tempo sui Cilici. [4] Ma l’egiziano Camsisoleo118, generale di Gallieno e fratello di quel Teodoto che aveva fatto prigioniero Emiliano119, riuscì a farlo uscire in campo aperto, dove lo sconfisse e uccise. [5] Né comunque da allora in poi gli Isauri, nel timore che Gallieno avesse ad infierire contro di loro, si lasciarono indurre a scendere al piano, quali che fossero le offerte di benevolenza avanzate dai vari principi nei loro confronti. [6] E così dopo Trebelliano essi vengono annoverati fra i barbari; e, per quanto la loro regione si trovi nel mezzo del territorio romano, è cinta da difese di tipo inusitato, come se si trattasse di una frontiera fortificata, e risulta protetta non dagli uomini, ma dalla natura dei luoghi: [7] essi infatti non hanno statura elevata, non sono particolarmente valorosi, né versati nel combattimento, non sono avveduti nelle decisioni, ma la loro unica sicurezza sta in questo, che, abitando luoghi elevati, sono inattaccabili. Nondimeno il divo Claudio era riuscito quasi a farli sloggiare dalle loro regioni e a trasferirli in Cilicia, con l’intenzione di affidare a uno tra i suoi più intimi amici tutti i possedimenti isaurici, perché non avessero più a sorgere di là ulteriori ribellioni120. ERENNIANO [27, 1] Odenato, morendo, lasciò due figli, ancora fanciulli, Erenniano e il fratello Timolao121, in nome dei quali Zenobia assunse il potere imperiale, mantenendo il governo dello Stato più a lungo di quanto fosse conveniente nel caso di una donna; presentava i fanciulli negli abiti porporati propri degli

imperatori romani, e li faceva intervenire alle adunanze militari, cui ella presenziava con piglio degno di un uomo, esaltando fra l’altro Didone, Semiramide e Cleopatra122, capostipite della sua famiglia. Ma sulla loro fine non si hanno notizie certe; [2] molti infatti asseriscono che essi furono uccisi da Aureliano, molti invece che morirono di morte naturale, dato che ancor oggi a Roma tra la nobiltà rimangono dei discendenti di Zenobia. TIMOLAO123 [28, 1] A proposito di costui riteniamo non valga la pena sapere più di quanto è stato detto intorno al fratello. [2] C’è tuttavia un tratto peculiare che lo distingue dal fratello, e cioè che ebbe una tale passione per gli studi latini, che – a quanto raccontano – si impadroniva in breve tempo di quanto il maestro gli veniva insegnando, e avrebbe potuto persino diventare il più grande retore latino. CELSO124 [29, 1] Dopo che erano state invase le regioni galliche, quelle orientali, e persino il Ponto, le Tracie e l’Illirico, mentre Gallieno gozzovigliava e divideva la sua vita fra i divertimenti delle terme e la compagnia dei ruffiani, anche gli Africani, istigati dal proconsole d’Africa Vibio Passieno125 e dal comandante delle truppe di stanza sul confine libico Fabio Pomponiano126, acclamarono imperatore Celso, dopo averlo insignito del manto della dea Celeste127. [2] Questi era un ex tribuno che se ne stava in Africa vivendo come privato cittadino in un suo podere, ma il suo senso di giustizia e la sua prestanza fisica erano tali da farlo apparire degno dell’impero. [3] Fu così eletto imperatore, ma dopo soli sei giorni venne ucciso da una donna di nome Galliena, cugina di Gallieno, e così a mala pena egli ha potuto trovare menzione fra gli stessi principi di oscura fama. [4] Il suo corpo fu sbranato dai cani per le insistenze dei Siccensi128, che erano rimasti fedeli a Gallieno, e, con un inusitato genere di oltraggio, una sua immagine fu appesa a una croce, mentre il volgo si abbandonava a schiamazzi, come se Celso in persona apparisse confitto sul patibolo. ZENOBIA129

[30, 1] Siamo veramente al fondo della vergogna, visto che nella crisi che travagliava lo Stato si giunse fino al punto che, a fronte del vergognoso comportamento di Gallieno, persino le donne governavano ottimamente, e per di più quelle straniere. [2] Una straniera, infatti, di nome Zenobia, a proposito della quale molte cose sono già state narrate, la quale vantava di discendere dalla stirpe delle Cleopatre e dei Tolemei130, dopo la morte del marito Odenato, presasi sulle spalle il manto imperiale, agghindatasi alla maniera di Didone, e postasi inoltre in capo un diadema, resse il potere in nome dei figli Erenniano e Timolao131 più a lungo di quanto sarebbe stato compatibile col suo essere donna. [3] Giacché quella donna superba tenne il potere regale quando ancora a capo dello Stato era Gallieno, e poi mentre Claudio era impegnato nelle guerre contro i Goti132, sinché alla fine, a fatica sopraffatta da Aureliano e fatta sfilare nel corso del trionfo133, dovette sottomettersi all’autorità di Roma. [4] Possediamo una lettera di Aureliano che parla di questa donna, quando già essa era prigioniera. Poiché infatti gli veniva rimproverato da certuni il fatto che un uomo valorosissimo come lui avesse celebrato il trionfo su di una donna, come se si fosse trattato di un qualche generale, inviò una lettera al senato e al popolo romano, in cui si giustificò in questi termini: [5] «Sento dire, o senatori, che mi si rinfaccia che non mi sarei comportato da uomo trionfando su Zenobia. Ma certo quelli stessi che mi criticano mi loderebbero molto se sapessero che tipo di donna sia quella, quanto avveduta nel prendere decisioni, quanto ferma nei suoi piani, quanto severa nei confronti dei soldati, quanto generosa, ove la necessità lo richieda, quanto dura, qualora la disciplina lo imponga. [6] Posso ben dire che fu merito suo se Odenato vinse i Persiani e, messo in fuga Sapore, giunse fino a Ctesifonte134. [7] Posso affermare che questa donna era così temuta dai popoli orientali e dagli Egiziani, che né gli Arabi, né i Saraceni, né gli Armeni ebbero più a sollevarsi. [8] Né io le avrei salvato la vita, se non fossi stato consapevole che essa, conservando integro l’impero per sé e per i suoi figli, aveva recato grandi vantaggi allo Stato romano. [9] Tengano dunque per sé il veleno delle loro lingue quelli che hanno da criticare su tutto. [10] Ché se non è motivo di gloria l’aver vinto e celebrato il trionfo su di una donna, che cosa dicono allora di Gallieno, in spregio del quale costei ha governato validamente l’impero? [11] Che cosa dicono del divo Claudio, condottiero probo e degno di ogni rispetto, il quale, impegnato com’era nella campagna contro i Goti, si dice le abbia lasciato tenere il potere? E ciò con riflessione e discernimento, di

modo che, mentre essa difendeva i confini orientali dell’impero, lui avrebbe potuto dal canto suo portare a compimento con maggiore sicurezza i propri piani». [12] Queste parole mostrano quale considerazione avesse Aureliano di Zenobia. Si dice fosse una donna di tale continenza135 da non unirsi neppure a suo marito se non ai fini del concepimento. Infatti, dopo aver giaciuto con lui una volta, si asteneva da altri rapporti attendendo il periodo delle mestruazioni per vedere se era incinta: se non lo era, permetteva nuovamente al marito di tentare la procreazione. [13] Visse in uno sfarzo regale. Veniva adorata in forme tipicamente persiane. [14] Teneva banchetti alla maniera dei re persiani. Si presentava alle adunanze militari seguendo l’uso degli imperatori romani, portando l’elmo e indossando un manto purpureo ornato di gemme pendenti lungo l’estremità delle frange – e ancora una gemma a forma di chiocciola136, posta nel mezzo a mo’ di fibbia muliebre, essa impiegava per fermarselo137 –, e spesso lasciando le braccia nude. [15] Aveva un viso tendente al bruno, di colorito scuro, occhi neri ed oltremodo vivaci, la fierezza di una dea, una bellezza straordinaria. Tanto candida era la sua dentatura, che molti credevano avesse delle perle, non dei denti. [16] La voce era chiara e con timbro virile. Quando si rendeva necessario, aveva la severità propria dei tiranni, e quando il suo senso di indulgenza lo richiedeva, la clemenza propria dei buoni sovrani. Era generosa, ma con avvedutezza, amministrava i beni con una parsimonia che andava al di là di quanto ci si potrebbe attendere da una donna. [17] Si serviva di una carrozza a due ruote, raramente a quattro ruote, più spesso andava a cavallo. Si racconta poi che di frequente marciasse assieme ai fanti per tre o quattro miglia. [18] Si dedicava alla caccia con la passione tipica degli Spagnoli. Beveva spesso con i generali, mentre nelle altre occasioni non toccava vino; beveva anche con i Persiani e gli Armeni, per renderli più malleabili. [19] Per i suoi banchetti faceva uso di vasi d’oro tempestati di gemme, e del tipo di quelli usati da Cleopatra. Teneva al suo servizio degli eunuchi di età avanzata, e fanciulle in numero assai limitato. [20] Aveva disposto che i figli parlassero in latino, così che usavano il greco con difficoltà e di rado. [21] Essa dal canto suo non era del tutto padrona della lingua latina, ma arrivava a parlarla, con un certo impaccio dovuto alla vergogna; parlava inoltre perfettamente l’Egiziano. [22] Era tanto esperta di storia alessandrina e orientale, che si diceva ne avesse composto un’epitome; quella latina, poi, la leggeva su testi greci. [23] Aureliano, dopo averla catturata e fatta condurre alla sua presenza, la

apostrofò in questi termini: «Come mai, Zenobia, hai osato insultare gli imperatori romani?»; al che dicono che ella abbia risposto: «Riconosco in te, che vinci, un imperatore, ma Gallieno, Aureolo, e tutti gli altri principi non li ho considerati tali. Con Vittoria138, una donna che credo sia del mio stesso stampo, avrei desiderato dividere l’impero, se la distanza dei luoghi ce lo avesse permesso». [24] Fu dunque fatta sfilare nel trionfo con uno sfarzo tale che il popolo romano non aveva mai visto nulla di più sontuoso: in primo luogo era ornata di gemme così grosse, che il peso dei gioielli la faceva venir meno. [25] Si racconta infatti che quella donna pur tanto forte ebbe molto spesso a fermarsi, dicendo di non riuscire a sostenere il peso delle gemme. [26] Inoltre i suoi piedi erano avvinti in ceppi d’oro, e in catene auree anche le mani, e un collare d’oro lo aveva pure intorno al collo, sorretto da un paggio persiano. [27] Aureliano le risparmiò la vita139, e si narra che ella abbia vissuto insieme con i figli, ormai alla maniera di una matrona romana, in un podere che le era stato assegnato nei pressi di Tivoli, che ancor oggi è chiamato Zenobia, non lontano dal palazzo di Adriano140 e dal luogo che ha nome Conca141. VITTORIA142 [31, 1] Non sarebbe stato il caso di dare spazio anche al racconto delle vicende di Vitruvia (o Vittoria), se la condotta di Gallieno non avesse fatto sì che anche le donne venissero considerate degne di menzione. [2] Vittoria dunque, quando si vide uccisi dai soldati il figlio e il nipote, e messi a morte pure Postumo, Lolliano e lo stesso Mario143, che proprio i soldati avevano eletto imperatore, indusse ad assumere l’impero Tetrico – del quale si è già parlato sopra144, così da mostrare in ogni occasione un’audacia degna di un uomo. Le fu così conferito l’onore di fregiarsi del titolo di «madre dell’accampamento»145. [3] Furono inoltre coniate a suo nome monete di bronzo, d’oro e d’argento146, la cui matrice si conserva ancor oggi a Treviri. [4] Essa però non ebbe vita molto lunga. Infatti o, come sostengono i più, venne uccisa durante il governo di Tetrico o, come asseriscono altri, morì di morte naturale. [5] Questo è quanto mi pareva fosse da dire a proposito dei trenta tiranni. Io li ho riuniti in un unico volume per evitare che, se mi fossi fermato a narrare minutamente la biografia di ciascuno, la cosa avesse ad ingenerare un

senso di fastidio sgradevole e tale da risultare insopportabile al lettore. [6] Ora posso tornare a parlare dell’imperatore Claudio. La sua vita mi sembra meriti che le si dedichi un volume a parte, per breve che sia, che contenga anche quella di suo fratello, uomo di rara virtù147, così che di una famiglia tanto veneranda e nobile vengano fornite almeno alcune notizie, per poche che siano. [7] Ho volutamente inserito nella serie delle donne, per svergognare Gallieno, l’essere più mostruoso che lo Stato romano abbia dovuto sopportare, con l’intenzione di aggiungere ancora due usurpatori come in soprannumero, in quanto appartenenti ad epoche diverse, l’uno che fu al tempo di Massimino, l’altro al tempo di Claudio, in modo che questo libro avesse realmente a contenere, della serie degli usurpatori, trenta uomini. [8] Ti prego dunque, se pure avevi ricevuto questo libro come già completo, abbi pazienza e allega di buon grado al tuo volume le vite di questi due, che io mi ero proposto di aggiungere dopo Claudio e Aureliano a quelle degli usurpatori che vi furono fra Tacito e Diocleziano, allo stesso modo in cui avevo inserito Valente il vecchio148 in questo volume. [9] Ma la profondità della tua erudizione storica mi ha consentito di riparare all’errore commesso. [10] Sono dunque grato alla tua benevolenza e al tuo discernimento, che mi hanno permesso di realizzare quanto è nel titolo. Nessuno, nel tempio della Pace149, avrà più a dire che ho inserito fra i tiranni delle donne, cioè delle tiranne o tirannesse – come sogliono divertirsi a ripetere per scherno alle mie spalle, [11] Ora hanno il numero completo, assegnato al mio libro dagli arcani decreti della storia. [12] Ecco infatti inseriti Tito e Censorino, dei quali uno, come ho detto, visse sotto Massimino, l’altro sotto Claudio, che vennero entrambi uccisi da quegli stessi soldati dai quali erano stati rivestiti della porpora. TITO150 [32, 1] Dexippo racconta, e la cosa è riportata anche da Erodiano e da tutti coloro che hanno tramandato questi avvenimenti alla lettura dei posteri, che Tito, tribuno dei Mauri, che da Massimino era stato lasciato nella condizione di privato, assunse il potere – a quanto sostiene una parte, per timore di essere tolto di mezzo con la violenza, o, come vogliono i più, riluttante e costrettovi dai soldati – e che nel giro di pochi giorni dopo la repressione della rivolta organizzata contro Massimino dall’ex console Magno151, fu ucciso dai suoi

soldati; si dice che abbia regnato per sei mesi. [2] Costui era un uomo tra i più meritevoli di elogio per i servigi resi allo Stato tanto in patria che fuori, ma nel suo regno fu poco fortunato. [3] Altri asseriscono che fu creato imperatore dagli arcieri armeni152, che Massimino odiava e ingiuriava in quanto «Alessandrini»153. [4] E non ti meravigli che vi sia una tale varietà di tradizioni su di un uomo del quale si conosce a malapena il nome. [5] Sua moglie era Calpurnia, una donna virtuosa e degna di ogni rispetto, della stirpe dei Cesonini, cioè dei Pisoni154, che i nostri antenati venerarono quale sacerdotessa univiria155 tra le donne più sante, e la cui statua – che ha le estremità in marmo e il resto dorato – è ancor oggi visibile nel tempio di Venere. [6] Si racconta che essa possedesse perle degne di quelle di Cleopatra e un piatto d’argento del peso di cento libbre, ricordato da numerosi poeti, sul quale era incisa la storia dei suoi antenati. [7] Mi pare di essere andato più in là di quanto l’argomento richiedesse. Ma che fare? Il sapere porta, per la nostra inclinazione naturale, ad essere prolissi. [8] Perciò passerò a parlare di Censorino, uomo nobile, ma che regnò per sette giorni – a quanto dicono – più per danno che per vantaggio dello Stato. CENSORINO156 [33, 1] Uomo d’armi e membro del senato di antica data, fu due volte console, due volte prefetto del pretorio, tre volte prefetto dell’urbe, quattro volte proconsole, tre volte governatore di rango consolare, due volte legato di rango pretorio, quattro volte di rango edilizio, tre volte di rango questorio, e, in via straordinaria, svolse missioni speciali in Persia e anche in Sarmazia. [2] Dopo aver percorso tutta questa carriera, mentre viveva in un suo podere, ormai vecchio e zoppicante da un piede per via di una ferita che aveva ricevuta nella guerra contro i Persiani, al tempo di Valeriano, fu eletto imperatore, e chiamato per burla dai buffoni «Claudio»157. [3] Ma poiché agiva con molta severità, e i soldati non potevano ormai più sopportarlo per via della sua ferrea disciplina, fu ucciso da quelli stessi che lo avevano eletto. [4] È visibile ancor oggi nei pressi di Bologna il suo sepolcro, sul quale sono incise a grandi lettere tutte le cariche da lui rivestite; nell’ultima riga viene però aggiunto: [5] «fortunato in tutto, sfortunatissimo come imperatore». Esiste ancora la sua famiglia, resa popolare dal nome dei Censorini158, ma,

avendo in odio Roma, parte se ne è andata in Tracia, e parte in Bitinia; [6] è ancora in piedi anche la sua bellissima casa, unita al palazzo dei Flavi159, che si narra sia appartenuta un tempo al principe Tito. [7] Ora hai il numero completo di trenta tiranni, tu che insieme con i malevoli, anche se con buone intenzioni, muovevi delle critiche. [8] Dona pure a chi vuoi il libretto scritto non tanto mirando all’eleganza dello stile, quanto alla fedeltà storica. Né mi pare di aver promesso sfoggi di eloquenza, ma fatti, io che questi libretti che ho composto sulla vita degli imperatori, non li scrivo ma li detto160, e li detto per di più con quella fretta con cui, o che sia io a prometterti qualcosa, o che sia tu a chiedermela, tu mi incalzi a scrivere, così che non ho più neppure il tempo di respirare.

1. Sotto questo titolo sono riunite le biografìe, per lo più assai brevi, di una sequela di personaggi che, a detta dell’autore, si sarebbero ribellati all’inetto e dissoluto Gallieno assumendo, a volte anche solo per pochissimo tempo, la porpora. Il nome di tyranni corrisponde dunque qui al significato di «usurpatori», «antiimperatori» ed è evidente l’intento diffamatorio che questa lunga elencazione riveste nei confronti di Gallieno, chiamato più volte in causa come colui che, con la sua scioperata e depravata condotta, fu responsabile del sorgere di tante ribellioni (naturalmente la demolizione di Gallieno è sempre in funzione – come già avemmo modo di osservare: cfr. n. 1 a Gall., 1, 1 – della maggiore esaltazione di Claudio il Gotico). Cfr., in generale, A. ROESGER, Usurpatorenviten in der HA, in Festgabe J. Straub, hrsg. von A. Lippold & N. Himmelmann, Bonn 1977, pp. 359 segg. 2. Come si ricava da alcuni passi della Vita dei Gallieni duo (16, 1; 19, 6, 21, 1; cfr. anche n. 2 a 16, 1), il piano originario dell’opera doveva comprendere venti biografìe, che poi furono portate a trenta, evidentemente per ottenere un’analogia con la serie dei trenta tiranni di Atene (in realtà le biografìe risultano complessivamente trentadue, in quanto l’autore aggiunge in appendice le vite di altri due personaggi, quasi per «compensare» il fatto di aver compreso nella serie anche due donne, Zenobia e Vittoria). Va comunque notato che di veri e propri usurpatori, che assunsero la porpora nel corso del regno di Gallieno, non se ne possono riconoscere più che nove (Postumo, Lolliano, Mario, Ingenuo, Regiliano, Aureolo, Macriano e i suoi due figli Macriano e Quieto); gli altri, quando non si tratta di personaggi fittizi, evidenti creazioni dell’autore, o non ebbero mai a rivestire la porpora, o furono, sì, veri usurpatori, ma non sotto Gallieno (sta un po’ a sé il caso di Zenobia, che assunse realmente il titolo di Augusta, ma governò in nome del figlio Vaballato). Preciseremo di volta in volta come debba essere considerato ciascun personaggio. 3. È da identificare con tutta probabilità con un disertore romano di Antiochia, conosciuto generalmente col nome siriano di Mareades, di cui abbiamo notizie anche da AMMIANO MARCELLINO, XXIII, 5, 3 e altri scrittori più tardi. Cacciato dalla sua città natale per avere trafugato denaro pubblico, passò con i Persiani, guidando Sapore contro la stessa Antiochia. In seguito però ebbe a cadere in disgrazia presso il sovrano persiano e finì sul rogo. Non è affatto sicuro che questo personaggio abbia rivestito la porpora imperiale. 4. Questo personaggio è forse da identificare con Oromastes, cioè Hormidz I, figlio e successore di Sapore. 5. L’antica Mazaca, capitale della Cappadocia, ai piedi del Monte Argeo; fu assalita dai Persiani, dopo la cattura di Valeriano, e cadde per tradimento, dopo un’eroica resistenza. 6. Né il titolo di Cesare né quello di Augusto appaiono attestati da alcun’altra fonte. 7. M. Cassianus Latinius Postumus Augustus, uno dei veri e propri usurpatori del periodo di Gallieno. Proclamatosi, dopo varie vicende, imperatore intorno al 260 d. C. (ma la data non è sicura), rimase fino alla morte (268 o 269 d. C.) il vero e incontrastato signore della Gallia. 8. Dal racconto di ZOSIMO, I, 38, 2 e ZONARA, XII, 24 sappiamo che la vicenda ebbe a svilupparsi in modo più complesso. In realtà il figlio di Gallieno non era stato affidato a Postumo, bensì ad un altro funzionario di Gallieno, di nome Silvano, che si trovava a Colonia per curare gli affari di governo in nome del troppo giovane Cesare. Ad un certo punto sorse un contrasto fra Postumo e Silvano a proposito della destinazione del bottino preso ai Germani; il dissidio sfociò presto in aperto conflitto, tanto che Postumo mosse all’assedio di Colonia, finché la stessa guarnigione della città decise di consegnargli il giovane principe, assieme al suo tutore: entrambi furono da Postumo messi a morte. C’è da osservare che mentre ZOSIMO, I, 38, 2 identifica, come il nostro biografo, in Salonino il figlio di Gallieno inviato in Gallia, secondo l’Epitome de Caesaribus, 32, 3 e 33, 1 il figlio morto a Colonia sarebbe Valeriano. La questione è strettamente collegata con quella della data dell’assunzione del potere da parte di Postumo, in quanto, nella seconda ipotesi, scenderemmo dal 260-261 d. C. al 258 (anno in cui sappiamo essere morto Valeriano, e al quale andrebbe dunque ascritta l’usurpazione). 9. Postumo regnò in realtà per dieci anni: lo stesso errore è in Gall., 4, 5 (cfr. ivi, n. 1); cfr. anche

infra, 5, 4. 10. Si tratta di quella Pipara che è ricordata in Gall., 21, 3. 11. Cfr. Gall., 4, 4. 12. Anche qui il racconto del nostro biografo appare, oltre che estremamente semplificato, anche inesatto: se è vero infatti che Lolliano ebbe a ribellarsi contro Postumo, quest’ultimo finì però per aver ragione del rivale, assediandolo in Magonza, dove questi trovò la morte. Ciò che costò realmente la vita a Postumo fu l’aver rifiutato alle sue truppe barbare il permesso di saccheggiare la città una volta presa. Questo dovette avvenire verso l’inizio del 269 d. C. 13. A proposito della smania di mutamenti politici quale caratteristica tipica dell’indole dei Galli cfr. Quadr. tyr., 7, 1. 14. Popolazione gallica stanziata fra il Rodano e le Alpi. 15. Si tratta di uno dei personaggi inseriti dall’autore per «far numero», con tutta probabilità inventato. Si noti che, al di là della scontata notizia della sua nomina a Cesare e ad Augusto, l’unico dato offerto su di lui dalla biografìa concerne la sua abilità retorica: e quello riguardante le doti poetiche, letterarie, artistiche è un luogo comune tipico di quei casi in cui il biografo non dispone di concreto materiale storico inerente al personaggio in questione. 16. Con questo nome si indicavano dispute fittizie su casi giuridici immaginari, che venivano tenute a scopo di esercitazione nelle scuole di retorica. 17. Probabilmente si fa qui riferimento alle due raccolte di declamationes (in questo termine più generico potevano rientrare anche le controversiae), maiores e minores, giunteci sotto il nome di QUINTILIANO. 18. L’espressione prima statim fronte si ritrova esattamente – e non si tratta evidentemente di un caso – proprio in QUINTILIANO (cfr. Inst. orat., XII, 7, 8). 19. Da quanto appare sulle monete la forma esatta del nome è C. Ulpius Cornelius Laelianus Augustus: è uno dei veri e propri usurpatori dell’età di Gallieno. Sulla questione delle varianti al suo nome, che si ritrovano anche nella tradizione manoscritta e nelle traduzioni greche di EUTROPIO, cfr. W. SCHMID, Eutropspuren in der HA. Ein Beitrag zum Problem der Datierung der HA, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, pp. 132 seg. 20. Come già in precedenza (cfr. 3, 7) si tende a mettere in diretta relazione la morte di Postumo con la ribellione di Lolliano. Solo AURELIO VITTORE (Caes., 33, 8) mette esplicitamente in rilievo che la morte di Postumo ad opera delle sue truppe rivoltateglisi contro (cfr. n. 4 a 3, 7) avvenne successivamente alla disfatta di Lolliano (quo… feliciter fuso). 21. Cfr. la sua biografia al cap. 31. 22. Cfr. le loro biografie ai capp. 24-25. 23. Cfr. 3, 4, n. 1. 24. Si noti la contraddizione con quanto affermato al par. prec. (interemptus autem est a Victorino). 25. M. Piavonius Victorinus Augustus. Fu generale di Postumo e collega con lui nel consolato: quest’ultima circostanza ha indotto il nostro biografo a ritenere erroneamente che Vittorino fosse stato per un certo periodo correggente insieme a Postumo (la stessa inesattezza è a Gall., 7, 1). In realtà, da quanto risulta in AURELIO VITTORE, Caes., 33, 9-12 e EUTROPIO, IX, 9, egli sembra aver assunto il potere successivamente alla morte di Postumo, dopo il breve impero di Mario (cap. 8), e averlo tenuto per circa due anni – probabilmente il 270 e 271 d. C. – sotto il regno di Claudio. Può quindi essere considerato a ragione un usurpatore: non però competente all’età di Gallieno. 26. La vittoria riportata da Gallieno, dopo un primo scontro a lui sfavorevole, dovette avvenire nel 263 d. C. 27. Si tratta dell’attuale Colonia, chiamata allora Colonia Claudia Augusta Agrippinensium (o, semplicemente, Agrippina), capitale della Germania Inferiore.

28. Incarico a metà tra militare e civile, l’ufficio di actuarius comportava la responsabilità del vettovagliamento per l’esercito romano. Cfr. A. REINTJES, Untersuchungen zu den Beamten bei den ShA, Düsseldorf, 1961, pp. 9 seg. 29. Non altrimenti conosciuto, questo preteso storico è verosimilmente un’invenzione del biografo; cfr. R. SYME, Bogus Authors, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, p. 314. 30. Il nome Iulius è errato. 31. Questa esaltazione eccezionale delle presunte virtù di Vittorino, elevato all’altezza degli imperatori tradizionalmente eccellenti, non si riscontra nelle altre fonti, che si limitano a sottolineare la sua valentia in campo militare. 32. Un altro dei figli di usurpatori (cfr. Postumo il giovane al cap. 4) inseriti per aumentare il numero dei tyranni. Forse non si tratta di un personaggio di pura invenzione in quanto – come annota il MAGIE, III, p. 78 – in una moneta del padre Vittorino compare la testa di un figlio. Da nulla comunque risulta che egli sia stato imperatore; anche l’epitaffio finale è sicuramente falso. 33. M. Aurelius Marius Augustus. È anch’egli, come Vittorino, un vero usurpatore, ma già appartenente all’età di Claudio; tra l’altro la HA, contrariamente alle altre fonti (cfr. AURELIO VITTORE, Caes., 33, 9 e EUTROPIO, IX, 9), fa apparire Mario dopo Vittorino, anziché immediatamente prima, senza la minima preoccupazione di carattere cronologico. Concorda invece con esse per quanto riguarda l’eccezionale brevità del suo regno, che per Vittore ed Eutropio sarebbe stato addirittura di due giorni. Questo dato appare sicuramente inaccettabile, se non altro per il gran numero di monete coniate con la sua effigie (cfr. MAGIE, III, pp. 78 seg.). Su questa biografìa cfr. da ultimo A. CHASTAGNOL, L’empereur gaulois Marius dans l’HA, in BHAC, 1971, Bonn, 1974, pp. 51 segg. 34. Ma cfr. la n. prec. 35. C. Caninio Rebilo, che entrò in carica il 31 dicembre del 45 a. C.; CICERONE parla effettivamente di lui in Ep. ad fam., VII, 30, 1, ma non abbiamo qui una citazione esatta (nel testo originario si ha infatti: scito neminem prandisse; nihil tamen eo consule mali factum est: fuit enim mirifica vigilantia, qui toto suo consulatu somnum non viderit). 36. Mamurio Veturio era il leggendario fabbro alla cui opera si dovevano gli ancilia, cioè i famosi scudi dei sacerdoti Salii (cfr. OVIDIO, Fast., III, 389 segg.). 37. Gli Alamanni erano la popolazione germanica che già vedemmo duramente sconfitta da Caracalla nel 213 d. C. (cfr. Carac., 10, 6, n. 4). Successivamente ebbero ancora a farsi pericolosi, sotto Alessandro Severo, Massimino, e soprattutto nell’età di Valeriano e Gallieno: verso il 258-259 d. C. si ebbe una loro terribile invasione in Gallia, da dove si spinsero, attraverso la Svizzera, fino in Italia, sinché furono sconfitti da Gallieno presso Milano. 38. È uno degli autentici usurpatori del periodo di Gallieno. Governatore della Pannonia, si ribellò all’imperatore trascinando nella rivolta la Mesia, e stabilendo la sua residenza a Sirmio, nella stessa Pannonia; non lontano di qui, a Mursa, le sue truppe si scontrarono con Gallieno, venendo duramente sconfitte (parte importante nella vittoria imperiale ebbe il nuovo corpo di cavalleria comandato da Aureolo). Ingenuo fu catturato mentre tentava la fuga e ucciso. 39. Nel 258 d. C. La data non è sicura (del resto, tutta la cronologia attinente a quest’epoca appare alquanto incerta). Stando, infatti, alla narrazione di AURELIO VITTORE, Caes., 33, 2, la rivolta di Ingenuo sarebbe avvenuta dopo la sconfitta di Valeriano (comperici Valeriani clade; così anche ZONARA, XII, 24), cioè dopo il 260 d. C. (o, al limite – poiché anche questa data è discussa –, il 259 d. C.): e proprio quest’ultima è la datazione più correntemente ammessa tra gli studiosi. In ogni caso, la cronologia della rivolta di Ingenuo appare collegata con quella, pure dibattuta, dell’assunzione del potere da parte di Postumo (cfr. note al cap. 3), in quanto sembra che quest’ultimo si sia ribellato a Gallieno poco dopo Ingenuo, mentre l’imperatore era impegnato appunto contro costui. Sugli intricati problemi cronologici legati a questi avvenimenti cfr. T. D. BARNES, Some Persons in the HA, «Phoenix», XXVI, 1972, pp. 160

seg. e J. FITZ, Ingenuus et Regalien, Bruxelles, 1966. 40. Cfr. Hadr., 5, 2, n. 4. 41. A Mursa (odierna Eszek); cfr. AURELIO VITTORE, Caes., 33, 2; EUTROPIO, IX, 8, 1. 42. Già abbiamo avuto modo di notare (cfr. Gall., 18, 1, n. 3) come si abbia nella HA un’accentuazione sul tema della presunta ferocia e crudeltà di Gallieno – collegata all’evidente ostilità nei suoi confronti –, laddove altre fonti parlano addirittura della sua clemenza. 43. Secondo ZONARA, XII, 24, egli fu ucciso dalle sue guardie del corpo nel corso della fuga. 44. Personaggio altrimenti sconosciuto. 45. Nelle monete troviamo la forma Regeilianus (del praenomen e del nomen si hanno solo le iniziali P e C), mentre come Regilianus è ricordato solo dalla HA, probabilmente in relazione al gioco di parole che viene riportato più avanti (cfr. § 5, anche se proprio in quel caso il codice Palatinus ha la lezione Regalianus, che però, sulla base del confronto con gli altri passi in cui il nome è citato, andrà opportunamente emendata). Si tratta di un altro autentico tyrannus del tempo di Gallieno (sulle monete ha il titolo di Augustus); proclamato imperatore dalle truppe germaniche dopo la morte di Ingenuo, raccolse i resti dell’esercito di quest’ultimo, continuando a combattere Gallieno: ma il suo regno durò solo poche settimane, il tempo perché l’imperatore tornasse di fretta in Pannonia, mettendo definitivamente fine alla rivolta. 46. Cfr. Hadr., 6, 6, n. 3. 47. Si tratta del valoroso re dei Daci, che fu sconfitto da Traiano dopo due lunghe e dure guerre nel 107 d. C. 48. Città da identificare forse con l’odierna Skoplije in Jugoslavia. 49. Le notizie fornite dalla HA su questo importante personaggio sono poche e imprecise: per una ricostruzione fondata della sua vita dobbiamo essenzialmente basarci sui dati fornitici da ZONARA, XII, 24. Aureolo era un generale di Gallieno, comandante di uno speciale corpo di cavalleria di nuova istituzione; come tale egli diede un contributo decisivo alla vittoria contro Ingenuo, ma successivamente, in occasione della guerra contro Postumo, la sua azione risultò poco energica ed efficace, tanto che fu per sua responsabilità se la vittoria riportata da Gallieno (263 d. C.) non fu pienamente sfruttata: probabilmente già meditando il tradimento, egli consentì che Postumo riuscisse a fuggire, anche se poi ebbe a giustificarsi del suo comportamento con Gallieno, il quale, pur contro le apparenze, gli prestò fede. Mandato in Tracia per combattere la rivolta di Macriano, riuscì ad ottenere senza combattere la resa delle truppe nemiche. Nel 268 d. C. si ribellò a sua volta a Gallieno e fu proclamato imperatore – si tratta quindi di un vero e proprio usurpatore – forse in Milano; a Milano comunque fu da Gallieno assediato. Morto quest’ultimo in seguito a una congiura (cfr. Gall., 14, 6-9), Aureolo si arrese a Claudio, ma non ne ebbe salva la vita. Secondo quanto si legge nella biografìa di Claudio il Gotico, Aureolo sarebbe invece stato ucciso dai suoi stessi soldati (cfr. Claud., 5, 1-3). 50. Cfr. Gall., 4, 6, n. 2. 51. Lo scontro avvenne a Pontirolo sull’Adda, a poco più di 30 km in linea d’aria a nord-est di Milano. Secondo il racconto di AURELIO VITTORE questa battaglia si riferirebbe invece alle ostilità fra Aureolo e Gallieno: sarebbe stato infatti lo scontro che avrebbe costretto Aureolo, uscito sconfìtto, a ritirarsi in Milano (cfr. Caes., 33, 18, eum Gallienus apud pontem, cui ex eo Aureoli nomen est, fusum acie, Mediolanum coegit; cfr. anche l’Epitome de Caesaribus, 33, 2). 52. M. Fulvius Macrianus Augustus, secondo l’indicazione delle monete: la forma Macrinus che si legge in luogo di Macrianus varie volte nei manoscritti della HA, anche in riferimento al figlio, non risulta dunque corretta. Aveva ricoperto sotto Valeriano, al tempo della guerra con i Persiani, importanti uffici in campo amministrativo e logistico. Dopo la sconfitta e la cattura dell’imperatore, aveva provveduto alla riorganizzazione dell’esercito e, con la collaborazione di Callisto (soprannominato Ballista: cfr. cap. 18), poté contrattaccare con successo il nemico, costringendo infine Sapore a ritirarsi.

Nel settembre del 260 d. C. Macriano e Ballista si ribellarono a Gallieno, proclamando Augusti i due figli di Macriano, Macriano il Giovane e Quieto (cfr. capp. 13 e 14), a Emesa. Nella primavera del 261 d. C. Macriano mosse col figlio maggiore suo omonimo per conquistare l’Occidente, raggiungendo le province danubiane, dove trovò però ad affrontarlo Aureolo. Le truppe orientali di Macriano, poco propense a combattere una guerra civile, si arresero ad Aureolo; padre e figlio furono uccisi (cfr. anche il racconto di Gall., 1-2, nonché ZONARA, XII, 24). Non è sicuro che Macriano possa considerarsi un autentico usurpatore, in quanto è dubbio se abbia rivestito la porpora: sembra infatti che fosse zoppo, e quindi inadatto a ricoprire la dignità imperiale, e proprio per questo avrebbe conferito ai figli il titolo di Augusti. 53. Cfr. la n. prec. e la sua biografia al cap. 18. 54. Il primus ducum era una specie di capo di stato maggiore dell’esercito. 55. In realtà Aureolo era in questo momento ancora un generale di Gallieno; cfr. la stessa inesattezza in Gall., 2, 6. 56. Non altrimenti conosciuto. Cfr. SYME, Bogus Authors cit., p. 318. 57. Cfr. capp. 13-14. 58. Come abbiamo già detto, appare più probabile che Macriano non abbia assunto direttamente il titolo di imperatore, pur esercitando, durante l’impero nominale dei figli, l’effettivo potere. 59. Questo personaggio è forse da identificare con l’usurpatore di questo nome ribellatosi ad Aureliano nel 270 d. C., di cui ci parla ZOSIMO (I, 49, 2); cfr. MAGIE, III, p. 98, n. 1. 60. Chiaramente un’invenzione del biografo. Da notare che Domitilla era la nipote, non la moglie (che si chiamava invece Domizia Longina) dell’imperatore. 61. T. Flavius lunius Macrianus Augustus. È uno degli autentici usurpatori, anche se l’unica reale notizia fornitaci nel corso della sua breve biografia (la perdita dei trentamila soldati passati a Domiziano) è ripresa dalla precedente biografia del padre. 62. T. Fulvius lunius Quietus Augustus. Anche in questo caso possiamo parlare di un vero e proprio usurpatore. Dopo essere stato, come già visto al cap. 12, proclamato imperatore assieme al fratello (260 d. C.), era rimasto in Oriente con Ballista, mentre il padre e il fratello avevano intrapreso la sfortunata spedizione occidentale. Alla notizia dell’uccisione dei due Macriani, Ballista non poté più reggersi, molte città si ribellarono, e in particolare il principe di Palmira, Odenato, lo attaccò in forze ad Emesa. Quieto fu ucciso dagli abitanti stessi della città, esasperati dalla critica situazione (novembre 261 d. C)., Sulla sua morte cfr. anche Gall., 3, 2 (dove Ballista risulterebbe essere stato istigatore dell’uccisione del giovane) e infra, 15, 4; ZONARA, XII, 24. 63. Cioè già dai tempi di Valeriano. 64. Come nota il MAGIE (III, p. 102, n. 1), i nostri biografi amano spesso presentare i discendenti degli imperatori, o comunque dei vari aspiranti al potere, come viventi ai loro tempi: così in questa stessa Vita a 33, 5; a Gord., 20, 6; a Max. Balb., 16, 1; a Aurel., 1, 3 e 42, 1; a Prob., 24, 1; a Quadr. tyr., 13, 5. Sul problema delle cosiddette «nunc-Formeln», cioè dei pretesi riferimenti che il biografo fa ai suoi tempi, cfr. W. HARTKE, Römische Kinderkaiser, Berlin, 1951, pp. 9 segg., 27 segg. (ved. anche E. MANNI, Recenti studi sulla HA, «La parola del Passato», VIII, 1953, p. 74). 65. Vari erano i templi di Ercole in Roma: forse si tratta dell’antico templo costruito da Pompeo. 66. L’electrum era una lega d’oro e argento simile nel colore all’ambra. 67. Settimio Odenato. Di nobile famiglia palmirena, dopo la sconfitta e la cattura di Valeriano si pose alla testa di truppe locali e inflisse gravi sconfitte a Sapore (260 d. C.)., Gallieno gli conferì, dal canto suo, importanti titoli (come, a quanto sembra, quello di dux e corrector totius orientis), e, al suo servizio, Odenato represse le ribellioni di Macriano, Quieto e Ballista (261 d. C.)., Dal 262 al 267 d. C. comandò le truppe romane d’Oriente e condusse con successo varie operazioni contro i Persiani, riconquistando la Mesopotamia, anche se non riuscì a prendere Ctesifonte. Ad un certo punto si trovò a capo di un dominio vastissimo che si estendeva a nord sino alla catena del Tauro, e a sud fino al golfo Arabico,

comprendendo anche la Cilicia, la Siria, la Mesopotamia e l’Arabia. Dopo che gli era stato conferito da Gallieno stesso il titolo di imperator (266 d. C.) e che, dal canto suo, si era proclamato «re dei re», Odenato era giunto ad una posizione di poco inferiore a quella dell’imperatore. Probabilmente non è da accogliere la notizia di Gall., 12, 1, secondo la quale Gallieno gli avrebbe assegnato il titolo di Augusto, né si sa che l’abbia assunto egli di sua iniziativa; non risulta neppure che si sia mai formalmente ribellato a Roma – nei confronti della quale mantenne anzi un atteggiamento di sostanziale lealtà – anche se, evidentemente, la sua posizione era di fatto quella di un principe assolutamente indipendente ed autonomo; non sarebbe quindi da annoverare, a stretto rigore, fra gli usurpatori. Morì assassinato mentre era impegnato contro i Goti nel corso dell’invasione del 267 d. C. 68. Cfr. cap. 30. 69. Cfr. cap. 16. 70. Cfr. capp. 27-28. 71. Nel 262 d. C. 72. Questa successiva campagna, cui partecipò anche il figlio Erode, ebbe luogo agli inizi del 267 d. C. 73. Cfr. 18, 1. 74. Cfr. 17, 1. L’uccisione di Odenato è attribuita al cugino anche in Gall., 13, 1, ma sull’identità dell’assassino le fonti non sono concordi. Stando a ZOSIMO, I, 39, 2 il fatto sarebbe avvenuto a Emesa, nel 267 d. C. 75. Cfr. cap. 17. 76. Altrimenti sconosciuto. 77. Di un figlio di Odenato con questo nome si parla soltanto nella HA (ZONARA, XII, 24, ci parla dell’uccisione del figlio maggiore di Odenato assieme al padre, ma non ne specifica il nome). Non si può affermare che si tratti di un personaggio inventato, ma certo non v’è alcun elemento per poter affermare che sia stato effettivamente un usurpatore. 78. Il suo rapporto di parentela con Odenato non è sicuro (secondo ZONARA, XII, 24, si tratterebbe, anziché di un cugino, di un nipote di Odenato). Anche il nome non è univocamente attestato: mentre ZONARA, loc. cit., evita di indicarlo, altre fonti tarde dànno quello di Rufino o Odenato. Anche in questo caso, l’affermazione che egli sarebbe stato proclamato imperatore appare un’invenzione del biografo. 79. Ballista è probabilmente un soprannome di origine militare (così si chiamava una macchina bellica del genere delle catapulte); questo personaggio è comunque chiamato così anche in ZONARA, XII, 23, pur se poco dopo (XII, 24) la stessa fonte gli attribuisce il nome di Callisto. Costui aveva combattuto contro Sapore accanto a Odenato dopo la cattura di Valeriano (cfr. Valer., 4, 4; ZONARA, XII, 23); successivamente si era accordato con Macriano e i suoi figli nella ribellione contro Gallieno (cfr. 12, 1-3; 14, 1; 15, 4; Gall., 1, 2-4; 3, 2). Si tratta certamente di un personaggio reale, ma che non ebbe mai a rivestire la porpora (del resto questa circostanza non è presentata come sicura neppure dalla biografia: cfr. par. 3); quindi non è un vero usurpatore. 80. Da identificare presumibilmente con un villaggio di questo nome nei sobborghi di Antiochia. 81. Personaggio non altrimenti conosciuto, con tutta probabilità inventato, al pari della pretesa lettera a lui indirizzata. 82. Di lui si parla anche a 21, 1-2 e Gall., 2, 2-4; è citato inoltre da AMMIANO MARCELLINO (XXI, 16, 10) assieme a Aureolo, Postumo e Ingenuo, fra gli oppositori di Gallieno; sempre secondo AMMIANO, loc. cit., egli avrebbe avuto il soprannome di Thessalonicus. Si tratta dunque di un vero ribelle del periodo in questione, ma non è certo che abbia mai realmente assunto il potere imperiale: di contro all’attestazione dell’Epitome de Caesaribus 32, 4 secondo cui egli sarebbe stato imperatore in Macedonia, sta la mancanza di monete coniate in suo nome. 83. Cfr. 21, 1. 84. Il biografo inserisce qui fra i «trenta tiranni» un personaggio che egli stesso riconosce (cfr. anche 31, 8) non pertinente al periodo di Gallieno. Probabilmente si allude a un usurpatore del tempo di Decio, che ebbe a proclamarsi imperatore a Roma verso il 250-251 d. C., mentre il sovrano era impegnato nella

guerra contro i Goti: cfr. AURELIO VITTORE, Caes., 29, 3; Epitome de Caesaribus, 29, 5. 85. È un personaggio di cui ci parla solo la HA, che lo menziona anche a 19, 2 e Gall., 2, 2-4. Non v’è motivo di dubitare della sua esistenza e di quanto detto di lui come generale di Gallieno, che fu inviato da Macriano in Acaia con l’incarico di sopprimere Valente. Ma appare evidente invenzione del biografo la sua pretesa discendenza dai Pisoni di età repubblicana, nonché la sua presa del potere e il senatoconsulto che, sotto il regno di Gallieno, avrebbe decretato onori divini e statue ad un usurpatore. Cfr. BARNES, Some Persons cit., p. 166. 86. Come già ricordato (cfr. n. 1), AMMIANO MARCELLINO riporta l’assunzione da parte di Valente del titolo di Thessalonicus; è possibile che quella conservata dalla HA sia realmente la forma corretta, ma che l’autore abbia trasferito – per errore o deliberatamente – il titolo da tale personaggio a Pisone: cfr. BARNES, Some Persons cit., p. 175. 87. Frugi (aggettivo indeclinabile) significa «onesto», «buono», «probo». 88. Infatti la figlia di Cicerone Tullia andò in sposa a C. Calpurnio Pisone Frugi. 89. Un personaggio con questo nome è citato altre due volte: a 25, 2 si tratta di uno scrittore non altrimenti noto; in Aurel., 40, 4 è un proconsole d’Asia negli anni 274-275 d. C. 90. Le splendide Terme di Diocleziano in Roma, inaugurate nel 305 d. C; oggi vi sorge il Museo Nazionale delle Terme. 91. L. Mussius Aemilianus. Anche da Gall., 4, 1 e Epitome de Caesaribus, 32, 4 risulta aver assunto il potere imperiale e, tutto sommato, anche se non poté coniare monete a proprio nome, è probabile che si tratti effettivamente di un vero usurpatore. Prefetto d’Egitto nel 258-259 d. C., si sarebbe dapprima schierato coi Macriani poi, alla loro caduta, si sarebbe lui stesso ribellato; la minaccia per Roma era assai grave, soprattutto per via del blocco delle navi frumentarie che, provenienti dall’Egitto, provvedevano all’indispensabile approvvigionamento di cereali per tutta l’Italia. Gallieno riuscì a liberarsi del ribelle forse con una spedizione navale: fu il suo generale Aurelio Teodoto che riuscì ad imprigionarlo facendolo poi eliminare (cfr. A. ALFÖLDI, in Storia Antica dell’Università di Cambridge, Milano, 1970, XII, 1, p. 212). 92. Il tema del pessimo carattere degli Egiziani è ripreso a Quadr. tyr., 7, 4. 93. La carica qui indicata è quella di curator rei publicae. Si trattava di inviati del principe cui era affidata la sorveglianza generale degli affari di una o più città. La loro influenza, così come il loro numero – dapprima limitati – ebbero a crescere notevolmente soprattutto nel corso del III sec. d. C. 94. Con questo nome si indicava la parte superiore dell’Egitto. 95. Così ad esempio era avvenuto per Lentulo e gli altri complici di Catilina strangolati nel Tullianum (il sotterraneo delle carceri di Roma): cfr. SALLUSTIO, Cat., 55. 96. L’orazione contro Gabinio, oggi perduta, fu pronunziata da CICERONE nel 54 a. C.; il personaggio in questione era Aulo Gabinio, governatore di Siria, che aveva ricollocato sul trono d’Egitto Tolomeo Aulete senza l’autorizzazione del senato. Cfr. CASSIO DIONE, XXXIX, 62, 2. 97. Da questo passo si deduce l’esistenza di un dedicatario delle biografie scritte da Trebellio Pollione, che sarebbe appunto parente del non meglio conosciuto Erennio Celso qui nominato; il suo nome era forse contenuto nel proemio della perduta vita dei due Filippi, che da Aurel., 2, 1 risulterebbe essere stata la prima di questa serie. 98. Un grammatico latino Eutichio Proculo di Sicca è ricordato fra i maestri di M. Aurelio (cfr. M. Ant., 2, 3); ma considerando che l’autore viene qui chiamato in causa quale fonte per una notizia – quella sulla pretesa iscrizione di Menfi – che è con ogni probabilità del tutto infondata e frutto della fantasia del biografo, appare del tutto verisimile che anche il personaggio in questione costituisca un’invenzione; cfr. in questo senso MAGIE, III, p. 121, n. 5. 99. È ricordato pure in Gall., 9, 1 e Quadr. tyr., 11, 1; in quest’ultimo passo è stabilita una precisa distinzione fra il Salonino usurpatore ai tempi dell’impero di Probo e quest’altro presunto ribelle dell’epoca di Gallieno, che non ci risulta altrimenti noto. Anche in questo caso ci troviamo

probabilmente di fronte a un personaggio fittizio. 100. Dalle monete e dalle iscrizioni il suo nome risulta essere stato C. Pius Esuvius Tetricus Augustus. Si tratta di un vero usurpatore, ma non appartenente all’epoca di Gallieno, bensì a quella di Aureliano. Divenuto governatore dell’Aquitania sotto Postumo, alla morte di Vittorino (270 d. C.) assunse egli stesso il potere imperiale, controllando un territorio che comprendeva, oltre alle Gallie, la Britannia e la Germania. Sovrano piuttosto mite e pacifico, fu peraltro continuamente angustiato dalle invasioni dei barbari nonché dalle insubordinazioni delle sue truppe e dalle macchinazioni dei suoi governatori. Il racconto della HA appare in questo caso abbastanza fondato: esso del resto corrisponde sostanzialmente a quelli di AURELIO VITTORE, Caes., 33, 14 e di EUTROPIO, IX, 10 e 13; cfr. in questa stessa vita 5, 3 e 31, 2. 101. Cfr. 6-7. 102. Per l’esattezza si trattava del governatorato dell’Aquitania, come riferito da AURELIO VITTORE, Caes., 33, 14 e EUTROPIO, IX, 10. 103. Stando a EUTROPIO, IX, 10, Tetrico assunse la porpora apud Burdigalam (Bordeaux). 104. Ai Campi Catalauni, nei pressi di Châlons-sur-Marne (cfr. EUTROPIO, IX, 13, 1), probabilmente all’inizio del 274 d. C. 105. L’espressione è tratta da un verso virgiliano (Aen., VI, 365). 106. Cfr. le loro biografìe ai capp. 27-28. 107. Su questo trionfo, celebrato da Aureliano nel 274 d. C., cfr. anche 30, 24-26 e Aurel., 32, 4 e 34, 23. 108. In Aurel., 39, 1, così come in AURELIO VITTORE, Caes., 35, 5, Epitome de Caesaribus, 35, 7 e EUTROPIO, IX, 13, 2, si parla invece soltanto di corrector Lucaniae. Sulla complessa e controversa questione cfr. la discussione e messa a punto di G. CLEMENTE, Storia amministrativa e falsificazione nella Historia Augusta, «Riv. fil. istr. ci.» C., 1972, pp. 110 segg. (e la bibliogr. ivi citata). 109. Cfr. Gord., 4, 6, note 7; 6. 110. «Regione annonaria» era detta l’Italia settentrionale, in quanto era essa a fornire le derrate alimentari. 111. C. Pius Esuvius Tetricus Caesar, come appare da monete e iscrizioni. Anche da Aurel., 34, 2 risulterebbe che gli sia stato conferito il titolo imperiale, e non mancano neppure alcune monete in cui gli è attribuito il titolo di Augusto. Si tratta comunque, anche nel suo caso, di una presenza indebita nella serie degli usurpatori dell’epoca di Gallieno. 112. Cfr. 21, 3, n. 3. Arellius è però lezione congetturale in luogo del Dagellius di P; cfr. R. SYME, Bogus Authors cit., p. 314. 113. Anche in altri casi, nel corso dell’opera, gli autori si rifanno a presunte informazioni ricevute dal padre (cfr. Aurel., 43, 2) o dal nonno (Quadr. tyr., 9, 4 e 15, 4; Car., 13, 3; 14, 1; 15, 1). Come nota il MAGIE, III, pp. 126 seg. n. 3, si tratta di un espediente probabilmente mutuato da SVETONIO, nel quale pure ritroviamo simili citazioni (cfr. Otho., 10, 1; Cal., 19, 3). Cfr. Quadr. tyr., 9, 4, n. 1. 114. Effettivamente un tempio in onore di Iside sorgeva sulle pendici settentrionali del Celio: non siamo però informati di alcuna relazione fra esso e la famiglia dei Metelli. 115. Non abbiamo altre fonti che ci parlino con sicurezza di questo personaggio. In EUTROPIO, IX, 8, 1 troviamo sì una lezione Trebelliano (Gallienus… iuvenis in Gallia et Illyrico multa strenue fecit, occiso apud Mursam Ingenuo, qui purpuram sumpserat, et Trebelliano), ma essa ha sempre sollevato forti sospetti fra gli studiosi, anche se non v’è accordo fra essi in merito alla genesi della probabile corruttela: v’è infatti chi pensa si abbia qui il caso di un’interpolazione ispirata dalla stessa HA (cfr. E. HOHL, Kennt Eutrop einen Usurpator Trebellianus?, «Klio» XIV, 1915, pp. 380 segg.; J. ROUGÉ, L’HA et l’Isaurie au IVe siècle, «Rev. èt. anc.» LXVIII, 1966, pp. 288 seg.), e chi ritiene invece che Trebelliano sia da considerare

un errore della tradizione manoscritta per Regaliano (cfr. da ultimo W. SCHMID, Eutropspuren in der HA cit., pp. 126 segg. che è tra l’altro propenso a credere che l’errore testuale, che sarebbe già stato presente nella copia dell’opera di EUTROPIO utilizzata dal nostro biografo, abbia potuto suggerire a quest’ultimo l’idea per un nuovo usurpatore da aggiungere – inventandone le vicende – alla serie). Non tutti, peraltro, sono propensi a considerare Trebelliano come pura invenzione della HA (cfr. da ultimo E. MANNI, Treb. Poli., Le vite di Valeriano e di Gallieno, Palermo 19692, pp. 126 segg. e n. 32). Ciò che, in ogni caso, appare certo, è che, anche nel caso sia realmente esistito, questo personaggio non potrebbe considerarsi un vero usurpatore. 116. Regione montuosa sita nella zona meridionale dell’Asia Minore; era nota come covo di predoni. V. ROUGÉ, L’HA et l’Isaurie cit., pp. 282 segg. 117. Non conosciamo in realtà alcuna moneta di Trebelliano. Anche successivamente, a proposito di Vittoria, il biografo cita la coniazione di monete (anche in quel caso a noi sconosciute): in tal modo egli mira a sottolineare l’importanza politica dei personaggi in questione, nonché a dare alle loro figure una patina di maggiore attendibilità storica. 118. Altrimenti sconosciuto. 119. Cfr. 22, 8. 120. Questa notizia non trova conferma nella vita di Claudio. Dell’Isauria si riparla invece nel corso della vita di Probo a proposito della liberazione del paese dai briganti capeggiati da Palfuerio (cfr. 16, 4), attribuita appunto a quest’ultimo imperatore. 121. Qui come in altri luoghi della Vita si indicano Erenniano e Timolao come i figli di Odenato e Zenobia, in nome dei quali la madre avrebbe esercitato il potere imperiale. Peraltro questi due personaggi non ci sono altrimenti conosciuti e comunque, anche se sono veramente esistiti, non ebbero mai a rivestire il titolo imperiale. Del resto, nell’ambito della stessa HA tale tradizione è smentita in Aurel., 38, 1, dove si afferma che il figlio succeduto a Odenato nel 266-267 d. C. insieme con la madre fu Vaballato, e gli altri due vengono esplicitamente esclusi. Per quanto riguarda, in particolare, Erenniano, v’è da dire che viene identificato da taluno con un Settimio Erodiano attestato a Palmira come «re dei re» (cfr. BARNES, Some Persons, cit., p. 160). 122. Le tre famose regine rispettivamente di Cartagine, d’Assiria e d’Egitto. Sulla pretesa discendenza da Cleopatra cfr. anche 30, 2. 123. Cfr. 27, 1, n. 5. Taluno studioso ritiene possibile una sua identificazione con Vaballato (cfr. BARNES, Some Persons cit., p. 175). 124. É ricordato, oltre che qui, unicamente in Claud., 7, 4, nel corso di un elenco di usurpatori menzionati in una lettera evidentemente spuria; si tratta quindi con ogni probabilità di un ennesimo personaggio inventato. Sul meccanismo della costruzione – da parte del biografo – della sua storia, cfr. J. SCHWARTZ, L’HA et la fable de l’usurpateur Celsus, «Ant. Class.» XXXIII, 1964, pp. 419 segg. 125. Altrimenti sconosciuto. 126. Altrimenti sconosciuto. 127. La dea africana ricordata anche a Pert., 4, 2 e Op. Macr., 3, 1; cfr. T. D. BARNES, The goddes Caelestis in the HA, «Journ. Theol. Stud.», XXI, 1970, pp. 96 segg. 128. Gli abitanti di Sicca Veneria, in Numidia. 129. Settimia Zenobia, seconda moglie di Odenato, alla morte del marito tenne il potere in nome del figlio Vaballato (cfr. 27, 1, n. 5). Donna ambiziosa e di grandi capacità, perseguì tenacemente lo scopo di fare di Palmira la città-guida dell’Oriente, nella convinzione – rafforzatasi nei Palmireni dopo le conquiste di Odenato – che essa fosse investita di una specie di missione per governare quei popoli. Già prima ancora della morte di Claudio II, i Palmireni avevano iniziato a mettere in pericolo l’autorità di Roma sull’Oriente, estendendo la loro influenza sull’Egitto e in Arabia, e spingendo verso nord la conquista dell’Asia, fino all’Ellesponto. Sembra che Aureliano in un primo momento si accordasse con lei (270 d. C); ma già nel 271 d. C. si ebbe la rottura: nell’estate di quell’anno Aureliano marciò attraverso

i Balcani e riconquistò le province che Zenobia aveva annesse, compreso l’Egitto, obbligando i Palmireni a ritirarsi dall’Ellesponto. Seguirono vari scontri, ma la battaglia decisiva si ebbe a Emesa: Zenobia fu gravemente sconfitta, ma non si diede per vinta, rinchiudendosi in Palmira, dove, fidando nell’aiuto persiano, rifiutò sdegnosamente un’offerta di resa fattale da Aureliano in termini moderati. Fatta prigioniera mentre tentava di raggiungere i Persiani, fu processata e salvò la vita addossando ogni colpa ai suoi consiglieri. Sappiamo che certamente Zenobia ebbe a portare il titolo di Augusta, ma non è sicuro che si possa considerarla una vera e propria usurpatrice, in quanto tale titolo, come osservato dal MOMMSEN, potrebbe costituire semplicemente una designazione onoraria (cfr. MAGIE, III, p. 134, n. 1). 130. Su questa pretesa discendenza cfr. BARNES, Some Persons cit., p. 177. 131. Ma cfr. n. 5 a 27, 1. 132. Cfr. Claud. 6; 11. 133. Sul trionfo di Aureliano cfr. Aurel., 33-34. 134. Cfr. 15, 3-4. 135. Sul significato di queste notizie intorno alla castità di Zenobia, anche in ordine ai rapporti dell’autore con la cultura cristiana, cfr. J. F. GILLIAM, Three passages in the HA, in BHAC 1968-69, Bonn, 1970, pp. 107 segg. 136. Un gioiello lavorato a forma di conchiglia; la pietra veniva dall’Arabia (sulle sue caratteristiche e la sua lavorazione cfr. PLINIO, Nat. Hist. XXXVII, 194). 137. La traduzione del passo è conforme all’interpretazione sintattica da noi proposta per esso in Problemi di critica testuale nella HA, Bologna 1981, pp. 35 segg. 138. Cfr. Tyranni triginta, 31, e, ivi, p. 984 la n. 4, 31. 139. Esiste un’altra tradizione attestataci da ZOSIMO, I, 59, secondo la quale Zenobia sarebbe morta nel corso del viaggio dall’Oriente a Roma, di malattia o, deliberatamente, d’inedia. 140. La famosa villa ricordata anche in Hadr., 26, 5. 141. La presentazione di Zenobia in questa biografia appare, come si è visto, in una luce complessivamente positiva. A parere di I. CAZZANIGA, Psogos ed épainos di Zenobia. Colori retorici in Vopisco e Pollione (H.A.), «La parola del Passato» XXVII, 1972, pp. 156 segg., il racconto di Pollione – a differenza di quello di Vopisco nella Vita Aureliani, ove dominano i canoni dello psogos, cioè del «biasimo», in una coloritura decisamente negativa – appare vicino agli ambienti palmireni o per lo meno filoellenistici, e può essere definito sostanzialmente l’elogio di una regina idealizzata. 142. L’abbiamo già trovata menzionata in varie occasioni (5, 3; 6, 3; 7, 1; 24, 1; 25, 1); talvolta il nome di «Victoria» è citato assieme alla forma alternante – probabilmente meno fondata – «Vitruvia», che però ricorre come unica in Claud., 4, 4. È ricordata anche da AURELIO VITTORE (Caes., 33, 14). Poco si sa di lei se non che, dopo la morte del figlio Vittorino, fu la maggior fautrice di Tetrico, che in effetti divenne imperatore grazie al suo appoggio. Si tratta dunque di un personaggio reale, ma non appare in alcun modo plausibile che si possa parlare di lei come di un’usurpatrice. 143. Cfr. rispettivamente i capp. 3, 5, 8. 144. Cfr. 24. 145. Questo titolo era già stato attribuito a Faustina, figlia di Antonino Pio e moglie di Marco Aurelio (cfr. M. Ant., 26, 8). Successivamente era divenuto un attributo in uso da parte di tutte le imperatrici. 146. In realtà non si conosce nessuna moneta coniata a suo nome. 147. Quintillo; cfr. Claud., 12. 148. Cfr. supra, 20. 149. Il tempio della Pace, costruito da Vespasiano, sorgeva a nord-est del Foro Romano: vi era annessa una Bibliotheca, che doveva costituire una specie di ritrovo di critici e studiosi. 150. Questo personaggio è ricordato anche in Maxim., 11, 2; di lui parla anche ERODIANO (VII, 1, 9-10) chiamandolo però Quartino.

151. Cfr. Maxim. 10. 152. Secondo invece il racconto della vita dei Maximini duo e anche quello di ERODIANO, ad eleggerlo imperatore sarebbero stati gli arcieri osroeni. 153. Cioè partigiani di Alessandro Severo. 154. Questo personaggio è probabilmente un’invenzione dell’autore. È piuttosto improbabile che la famiglia in questione – discendente da L. Calpurnio Pisone Cesonino, console nel 148 d. C. – fosse ancora esistita nel III sec. d. C. 155. Cioè monogama. Sulla questione di possibili rapporti di questo passo con la presentazione che S. Girolamo fa delle vedove cristiane che rinunciano alle seconde nozze, cfr. J. STRAUB, Calpurnia univiria, in BHAC, 1966-67, Bonn, 1968, pp. 101 segg. e A. CHASTAGNOL, Recherches sur l’HA, Bonn, 1970, pp. 13 seg. 156. Questo personaggio non ci è conosciuto da nessun’altra fonte, sicché è lecito nutrire forti dubbi sulla sua realtà e sui particolari – così in special modo la presunta iscrizione sepolcrale nei pressi di Bologna — citati dal biografo. Sulla sua biografia cfr. K. P. JOHNE, Die Biographie des Gegenkaisers Censorinus. Ein Beitrag zur sozialen Herkunft der HA, in BHAC 1972-74, Bonn, 1976, pp. 131 segg. 157. Gioco di parole con l’aggettivo claudus (= «claudicante», «zoppo»). 158. Cfr. 14, 3, n. 4. 159. Si trattava in origine del palazzo privato di Vespasiano, costruito sul Quirinale. Secondo quanto attestatoci da SVETONIO, Dom. 1, 1, esso fu da Domiziano trasformato in un tempio e divenne la tomba di famiglia della casa Flavia. 160. A parere di J. SCHLUMBERGER, Non scribo sed dicto (HA, T 33, 8). Hat der HA mit Stenographen gearbeitet?, in BHAC 1972-74, Bonn, 1976, pp. 221 segg., si potrebbe ricavare da questo passo l’indizio che la HA, in una importante fase della sua redazione, sia stata dettata a una specie di «stenografo»; sarebbero così ipotizzabili varie fasi di lavoro ad opera di un medesimo autore, il che potrebbe spiegare l’impressione della presenza di successive stratificazioni nel corpo della raccolta.

XXV. DIVUS CLAUDIUS 〈TREBELLI POLLIONIS〉

IL DIVO CLAUDIO di TREBELLIO POLLIONE

[1, 1] Ventum est ad principem Claudium1, qui nobis intuitu Constanti Caesaris2 cum cura in litteras digerendus est. De quo ego idcirco recusare non potui, quod alios, tumultuarios videlicet imperatores ac regulos, scripseram eo libro, quem de triginta tyrannis edidi, qui Cleopatranam3 etiam stirpem Victorianamque4 nunc detinet; [2] si quidem eo res processit, ut mulierum etiam vitas scribi Gallieni comparatio effecerit. [3] Neque enim fas erat eum tacere principem, qui tantam generis sui prolem5 〈reliquit〉, qui bellum Gothicum sua virtute confecit, qui manum publicis cladibus victor inposuit, qui Gallienum, prodigiosum imperatorem, etiamsi non auctor consilii fuit6, tamen ipse imperaturus bono generis humani a gubernaculis publicis depulit, qui si diutius in hac esset commoratus re p., Scipiones nobis et Camillos omnesque illos veteres suis viribus, suis consiliis, sua providentia reddidisset. [2, 1] Breve illius, negare non possum, in imperio fuit tempus, sed breve fuisset, etiamsi quantum hominum vita suppetit, tantum vir talis imperare potuisset. [2] Quid enim in illo non mirabile? Quid non conspicuum? Quid non triumphalibus vetustissimis praeferendum? [3] In quo Traiani virtus, Antonini pietas, Augusti moderatio et magnorum principum bona sic fuerunt, ut non ille ab aliis exemplum caperet sed, etiamsi illi non fuissent, hic ceteris reliquisset exemplum. [4] Doctissimi mathematicorum centum viginti annos homini ad vivendum datos iudicant neque amplius cuiquam iactitant esse concessos, etiam illud addentes Mosen solum, dei, ut Iudaeorum libri locuntur, familiarem, centum viginti quinque annos vixisse7; qui cum quereretur quod iuvenis interiret, responsum ei ab incerto ferunt numine neminem plus esse victurum. [5] Quare etiamsi centum et viginti quinque annos Claudius vixisset, ne necessariam quidem mortem eius expectandam fuisse, ut Tullius de Scipione8 sic loquitur [pro Milone], stupenda et mirabilis docet vita. [6] Quid enim magnum vir ille domi forisque non habuit? Amavit parentes. Quid mirum? Amavit et fratres: iam potest dignum esse miraculo. Amavit propinquos: res nostris temporibus comparanda miraculo; invidit nulli, malos persecutus est. Fures iudices palam aperteque damnavit, stultis quasi neglegenter indulsit. [7] Leges optimas dedit. [8] Talis in re p. fuit, ut eius stirpem ad imperium summi principes eligerent, emendatior senatus optaret. [3, 1] In gratiam me quispiam putet Constantii Caesaris loqui, sed testis est et tua conscientia et vita mea me nihil umquam cogitasse, dixisse, fecisse gratiosum. [2] Claudium principem loquor, cuius vita, probitas et omnia, quae

in re p. gessit, tantam posteris famam dedere, ut senatus populusque Romanus novis eum honoribus post mortem adfecerit: [3] illi clypeus9 aureus vel, ut grammatici locuntur, clypeum aureum senatus totius iudicio in Romana curia conlocatum est, ubi etiam nunc videtur expressa thorace vultus eius. [4] Illi, quod nulli antea, populus Romanus sumptu suo in Capitolio ante Iovis Optimi Maximi templum statuam auream decem pedum conlocavit. [5] Illi totius orbis iudicio in rostris posita est columna palmata10 statua superfixa librarum argenti mille quingentarum11. [6] Ille, velut futurorum memor12, gentes Flavias, quae {Vespasiani quoque} et Titi, nolo autem dicere Domitiani fuerant, propagavit. Ille bellum Gothicum brevi tempore inplevit13. [7] Adulator igitur senatus, adulator populus R., adulatrices exterae gentes, adulatrices provinciae, si quidem omnes ordines, omnis aetas, omnis civitas statuis, vexillis, coronis, fanis, arcubus bonum principem [aris ac templis] honoraverit. [4, 1] Interest et eorum, qui bonos imitantur principes, et totius orbis humani cognoscere, quae de illo viro senatus consulta sint condita, ut omnes iudicium publicae mentis adnoscant: [2] nam cum esset nuntiatum VIIII. Kal. Aprilis14 ipso in sacrario Matris15 sanguinis die16 Claudium imperatorem factum neque cogi senatus sacrorum celebrandorum causa posset, sumptis togis itum est ad Apollinis templum17 ac lectis litteris Claudii principis haec in Claudium dicta sunt: [3] «Auguste Claudi, dii te praestent». Dictum sexagies. «Claudi Auguste, 〈te〉 principem aut qualis tu es, semper optavimus». Dictum quadragies. «Claudi Auguste, te res p. requirebat». Dictum quadragies. «Claudi Auguste, tu frater, tu pater, tu amicus, tu bonus senator, tu vere princeps». Dictum octogies. [4] «Claudi Auguste, tu nos ab Aureolo vindica». Dictum quinquies. «Claudi Auguste, tu nos a Palmyrenis vindica». Dictum quinquies. «Claudi Auguste, tu nos a Zenobia et a Vitruvia libera». Dictum septies. «Claudi Auguste, Tetricus nihil fecit». Dictum septies. [5, 1] Qui primum, ut factus est imperator, Aureolum18, qui gravior rei p. fuerat, quod Gallieno multum placebat, conflictu habito a rei p. gubernaculis depulit tyrannumque missis ad populum edictis, datis etiam ad senatum orationibus iudicavit. [2] His accedit quod rogantem Aureolum et foedus petentem imperator gravis et serius non audivit, responso tali repudiatum: «haec a Gallieno petenda fuerant; qui consentiret moribus, poterat et timere». [3] Denique iudicio suorum militum apud Mediolanium Aureolus dignum exitum vita ac moribus suis habuit, et hunc tamen quidam historici laudare

conati sunt, et ridicule quidem. [4] Nam Gallus Antipater19, ancilla honorum et historicorum dehonestamentum20, principium de Aureolo habuit: «venimus ad imperatorem nominis sui». [5] Magna videlicet virtus ab auro nomen accipere21. At ego scio saepius inter gladiatores bonis propugnatoribus hoc nomen adpositum. Habuit proxime tuus libellus munerarius22 hoc nomen in indice ludiorum. [6, 1] Sed redeamus ad Claudium. Nam, ut superius diximus [triginta], illi Gothi, qui evaserant eo tempore, quo illos Marcianus est persecutus23, quosque Claudius emitti non siverat, ne id fieret, quod effectum est, omnes gentes suorum ad Romanas incitaverant praedas24. [2] Denique Scytharum diversi populi, Peuci, Grutungi, Austrogoti, Tervingi, Visi, Gipedes, Celtae etiam et Eruli25, praedae cupiditate in Romanum solum [in rem p.] venerunt atque illic pleraque vastarunt, dum aliis occupatus est Claudius dumque se ad id bellum, quod confecit, imperatorie instruit, ut videantur fata Romana boni principis occupatione lentata, [3] sed credo, ut Claudii gloria adcresceret eiusque fieret gloriosior toto penitus orbe victoria. [4] Armatorum denique gentium trecenta viginti milia tunc fuere26. [5] Dicat nunc, qui nos adulationis accusat, Claudium minus esse amabilem. Armatorum trecenta viginti milia: quis tandem Xerxes27 hoc habuit? Quae fabella istum numerum adfinxit? Quis poeta conposuit? Trecenta viginti milia armatorum fuerunt. [6] Adde servos, adde familias, adde carraginem28 et epotata flumina consumptasque silvas, laborasse denique terram ipsam, quae tantum barbarici tumoris excepit. [7, 1] Extat ipsius epistola missa ad senatum legenda ad populum, qua indicat de numero barbarorum, quae talis est: [2] «senatui populoque Romano Claudius princeps» (hanc autem ipse dictasse perhibetur, ego verba magistri memoriae29 non requiro) [3] «p. c., mirantes audite quod verum est. Trecenta viginti milia barbarorum in Romanum solum armati venerunt: haec si vicero, vos vicem reddite meritis; si non vicero, scitote me post Gallienum velle pugnare. [4] Fatigata est tota res p. Pugnamus post Valerianum, post Ingenuum, post Regilianum, post Lollianum, post Postumum, post Celsum, post mille alios, qui contemptu talis principis a re p. defecerunt. [5] Non scuta, non spathae, non pila iam supersunt. Gallias et Hispanias, vires rei p., Tetricus tenet, et omnes sagittarios, quod pudet dicere, Zenobia possidet. Quicquid fecerimus, satis grande est». [6] Hos igitur Claudius ingenita illa virtute superavit, hos brevi tempore adtrivit, de his vix aliquos ad patrium solum redire permisit. Rogo, quantum

pretium est clypeus in curia tantae victoriae? Quantum una aurea statua? [7] Dicit Ennius de Scipione30: «quantam statuam faciet populus R., quantam columnam, quae res tuas gestas loquatur?». [8] Possumus dicere Flavium31 Claudium, unicum in terris principem, non columnis, non statuis, sed famae viribus adiuvari. [8, 1] Habuerunt praeterea duo milia navium, duplicem scilicet numerum quam illum, quo tota pariter Graecia omnisque Thessalia urbes Asiae quondam expugnare conata est32. Sed illud poeticus stilus fingit, hoc vera continet historia. [2] Claudio igitur scriptores adulamur, qui duo milia navium barbararum et trecenta viginti milia armatorum delevit, oppressit, adtrivit, qui carraginem tantam, quantam numerus hic armatorum sibimet aptare potuit et parare, nunc incendi fecit, nunc cum omnibus familiis Romano servitio deputavit, [3] ut docetur eiusdem epistola, quam ad Iunium Brocchum33 scripsit Illyricum tuentem: [4] «Claudius Broccho. Delevimus trecenta viginti milia Gothorum, duo milia navium mersimus. [5] Tecta sunt flumina scutis, spatis et lanceolis omnia litora operiuntur. Campi ossibus latent tecti, nullum iter purum est, ingens carrago deserta est. [6] Tantum mulierum cepimus, ut binas et ternas mulieres victor sibi miles possit adiungere. [9, 1] Et utinam Gallienum non esset passa res p.! Utinam sescentos34 tyrannos non pertulisset! Salvis militibus, quos varia proelia sustulerunt, salvis legionibus, quas Gallienus male victor35 occidit, quantum esset additum rei p. ! [2] Si quidem nunc reliquias naufragii publici colligit nostra diligentia ad Romanae rei p. 〈restitutionem〉». [3] Pugnatum est enim apud Moesos et multa proelia fuerunt apud Marcianopolim36. [4] Multi naufragio perierunt, plerique capti reges, captae diversarum gentium nobiles feminae, inpletae barbaris servis Scythicisque cultoribus Romanae provinciae. Factus limitis barbari colonus e Gotho37. [5] Nec ulla fuit regio, quae Gothum servum triumphali quodam servitio non haberet. [6] Quid bovum barbarorum nostri videre maiores? Quid ovium? Quid equarum, quas fama nobilitat, Celticarum? Hoc totum ad Claudii gloriam pertinet. Claudius et securitate rem p. et opulentiae nimietate donavit. [7] Pugnatum praeterea est apud Byzantios38, ipsis, qui superfuerant, Byzantinis fortiter facientibus. [8] Pugnatum apud Thessalonicenses39, quos Claudio absente obsederant barbari. [9] Pugnatum in diversis regionibus et ubique auspiciis Claudianis victi sunt Gothi, prorsus ut iam tunc Constantio Caesari nepoti futuro videretur Claudius securam parare rem p.

[10, 1] Et bene venit in mentem: exprimenda est sors, quae Claudio data esse perhibetur Commagenis40, ut intellegant omnes genus Claudii ad felicitatem rei p. divinitus constitutum. [2] Nam cum consuleret factus imperator, quamdiu imperaturus esset, sors talis emersit: [3] «tu, qui nunc patrias gubernas oras et mundum regis, arbiter deorum, tu 〈vinces〉 veteres tuis novellis; regnabunt etenim 〈tui〉 minores et reges facient suos minores».

[4] Item cum in Appennino de se consuleret, responsum huius modi accepit: «tertia dum Latio regnantem viderit aestas»41.

[5] Item cum de posteris suis:

«his ego nec metas rerum nec tempora ponam»42. Item cum de fratre Quintillo43, quem

[6] imperii, responsum est:

consortem habere volebat

«ostendent terris hunc tantum fata»44.

[7] Quae idcirco posui ut sit omnibus clarum Constantium divini generis virum, sanctissimum Caesarem et Augustae ipsum familiae esse et Augustos multos de se daturum, salvis Diocletiano et Maximiano Augustis et eius fratre Galerio45. [11, 1] Sed dum haec a divo Claudio aguntur, Palmyreni ducibus Saba et Timagene contra Aegyptios bellum sumunt46 atque ab his Aegyptia pervicacia et indefessa pugnandi continuatione vincuntur. [2] Dux tamen Aegyptiorum Probatus47 Timagenis insidiis interemptus est. Aegyptii vero omnes se Romano imperatori dederunt in absentis Claudii verba iurantes. [3] Atticiano et Orfito conss.48 auspicia Claudiana favor divinus adiuvit. Nam cum se Haemimontum49 multitudo barbararum gentium, quae superfuerant, contulisset, illic ita fame ac pestilentia laboravit, ut iam Claudius dedignaretur et vincere. [4] Denique finitum est asperrimum bellum terroresque Romani nominis sunt depulsi50. [5] Vera dici fides cogit, simul ut sciant hi, qui adulatores nos aestimari cupiunt51, id, quod historia dici postulat, 〈nos〉 non tacere: [6] eo tempore, quo parta est plena victoria, plerique milites Claudii secundis rebus elati, quae sapientium quoque animos fatigant52, ita in praedam versi sunt, ut non cogitarent a paucissimis se posse fatigari, dum occupati animo atque corporibus avertendis praedis inserviunt. [7] Denique in ipsa victoria prope duo milia militum a paucis barbaris et his, qui fugerant, interempta sunt. [8] Sed ubi hoc comperit Claudius, omnes, qui

rebelles animos extulerant, conducto exercitu rapit atque in vincla Romam etiam mittit ludo publico deputandos. Ita id, quod vel fortuna vel miles egerat, virtute boni principis antiquatum est. Nec sola de hoste victoria, sed etiam vindicta praesumpta est. [9] In quo bello, quod 〈a Claudio〉 gestum est, equitum Dalmatarum ingens extitit virtus, quod originem ex ea provincia Claudius videbatur ostendere, quamvis alii Dardanum et ab Ilo Troianorum 〈auctore〉 atque ab ipso Dardano sanguinem dicerent trahere53. [12, 1] Fuerunt per ea tempora et apud Cretam54 Scythae et Cyprum vastare temptarunt, sed ubique morbo atque 〈fame〉 exercitu laborante superati sunt. [2] Finito sane bello Gothico gravissimus morbus increbruit, tunc cum etiam Claudius adfectus morbo mortalis reliquit55 et familiare virtutibus suis petit caelum. [3] Quo ad deos atque ad sidera demigrante Quintillus56 frater eiusdem, vir sanctus et sui fratris, ut vere dixerim, frater, delatum sibi omnium iudicio suscepit imperium, non hereditarium sed merito virtutum, qui factus esset imperator, etiamsi frater Claudii principis non fuisset. [4] Sub hoc barbari, qui superfuerant, Anchialon57 vastare conati sunt, Nicopolim58 etiam optinere. Sed illi provincialium virtute obtriti sunt. [5] Quintillus autem ob brevitatem temporis nihil dignum imperio gerere potuit, nam septima decima die59, quod se gravem et serium contra milites ostenderat ac verum principem pollicebatur, eo genere, quo Galba, quo Pertinax60 interemptus est. [6] Et Dexippus quidem Claudium61 non dicit occisum, sed tantum mortuum, nec tamen addit morbo, ut dubium sentire videatur. [13, 1] Quoniam res bellicas diximus, de Claudii genere et familia saltim pauca dicenda sunt, ne ea, quae scienda sunt, praeterisse videamur: [2] Claudius, Quintillus et Crispus fratres fuerunt. Crispi filia Claudia; ex ea et Eutropio, nobilissimo gentis Dardanae viro, Constantius Caesar est genitus62. [3] Fuerunt etiam sorores, quarum una, Constantina nomine nupta tribuno Assyriorum, in primis annis defecit. [4] De avis nobis parum cognitum. Varia enim plerique prodiderunt. [5] Ipse Claudius insignis morum gravitate, insignis vita singulari et unica castimonia, vini parcus, ad cibum promptus, statura procerus, oculis ardentibus, lato et pleno vultu, digitis usque adeo fortibus, ut saepe equis et mulis ictu pugni dentes excusserit. [6] Fecerat hoc etiam adulescens in militia, cum ludicro Martiali in campo luctamen inter fortissimos quosque monstraret. [7] Nam iratus ei, qui non balteum sed genitalia sibi contorserat, omnes dentes uno pugno excussit. Quae res

indulgentiam {meruit} pudoris vindictae; [8] si quidem tunc Decius63 imperator, quo praesente fuerat perpetratum, et virtutem et verecundiam Claudii publice praedicavit donatumque armillis et torquibus64 a militum congressu facessere praecepit, ne quid atrocius, quam luctamen exigit, faceret. [9] Ipsi Claudio liberi nulli fuerunt, Quintillus duos reliquit, Crispus, ut diximus, filiam. [14, 1] Nunc ad iudicia principum veniamus, quae 〈de〉 illo a diversis edita sunt, et eatenus quidem ut appareret quandocumque Claudium imperatorem futurum. [2] Epistola Valeriani ad Zosimionem65, procuratorem Syriae: «Claudium, Illyricianae gentis virum, tribunum Martiae quintae legioni66 fortissimae {ac devotissimae} dedimus, virum devotissimis quibusque ac fortissimis veterum praeferendum. [3] Huic salarium67 de nostro privato aerario dabis annuos frumenti modios tria milia, hordei sex milia, laridi libras duo milia, vini veteris sextarios tria milia quingentos, olei boni sextarios centum quinquaginta, olei secundi sextarios sescentos, salis modios viginti, cerae pondo centum quinquaginta, feni, paleae, aceti, holeris, herbarum quantum satis est, pellium tentoriarum decurias triginta, mulos annuos sex, equos annuos tres, camelas annuas decem, mulas annuas novem, argenti in opere annua pondo quinquaginta, Filippeos68 nostri vultus annuos centum quinquaginta et in strenis quadraginta septem et trientes69 centum sexaginta. [4] [Item in cauco scyfo pondo undecim]. Item in cauco et scyfo et zuma pondo undecim. [5] Tunicas russas militares annuas 〈duas〉, sagoclamydes annuas duas, fibulas argenteas inauratas duas, fibulam auream cum acu Cyprea unam. Balteum argenteum inauratum unum, anulum bigemmem unum uncialem, brachialem unam unciarum septem, torquem libralem unum, cassidem inauratam unam, scuta chrysografata duo, loricam unam, quam refundat. [6] Lanceas Herculianas70 duas, aclydes duas, falces duas, falces fenarias quattuor. [7] Cocum, quem refundat, unum, mulionem, quem refundat, unum. [8] Mulieres speciosas ex captivis duas. Albam subsericam71 unam cum purpura Girbitana72, subarmalem unum cum purpura Maura. [9] Notarium, quem refundat, unum, structorem, quem refundat, unum. [10] Accubitalium Cypriorum paria duo, interulas puras duas, {fascias viriles duas}73, togam, quam refundat, unam, latum clavum, quem refundat, unum. [11] Venatores, qui obsequantur, duo, carpentarium unum, curam praetorii74 unum, aquarium unum, piscatorem unum, dulciarium unum. [12] Ligni cotidiani pondo mille, si est copia, sin minus, quantum fuerit et ubi fuerit;

coctilium cotidiana vatilla quattuor. [13] Balneatorem unum et ad balneas ligna, sin minus, lavetur in publico. [14] Iam cetera, quae propter minutias suas scribi nequeunt, pro moderatione praestabis, sed ita ut nihil adaeret, et si alicubi aliquid defuerit, non praestetur nec in nummo exigatur. [15] Haec autem omnia idcirco specialiter non quasi tribuno sed quasi duci detuli, quia vir talis est, ut ei plura etiam deferenda sint». [15, 1] Item ex epistola eiusdem alia inter cetera ad Ablavium Murenam praef. praetori: «desine autem conqueri, quod adhuc Claudius est tribunus nec exercitus ducis loco accipit, unde etiam senatum et populum conqueri iactabas. [2] Dux factus est et dux totius Illyrici. Habet in potestatem Thracios, Moesos, Dalmatas, Pannonios, Dacos exercitus. [3] Vir ille summus nostro quoque iudicio speret consulatum et, si eius animo commodum est, quando voluerit, [accipiat] praetorianam accipiat praefecturam. [4] Sane scias tantum ei a nobis decretum salarii, quantum habet Aegypti praefectura, tantum vestium, quantum proconsulatui Africano detulimus, tantum argenti, quantum accipit curator Illyrici metallarius, tantum ministeriorum, quantum nos ipsi nobis per singulas quasque decernimus civitates, ut intellegant omnes, quae sit nostra de viro tali sententia». [16, 1] Item epistola Decii de eodem Claudio. «Decius Messalae praesidi Achaiae salutem». Inter cetera: «tribunum vero nostrum Claudium, optimum iuvenem, fortissimum militem, constantissimum civem, castris, senatui et rei p. necessarium, in Thermopylas75 ire praecipimus mandata eidem cura Peloponnensium, scientes neminem melius omnia, quae iniungimus, esse curaturum. [2] Huic ex regione Dardanica76 dabis milites ducentos, ex catafractariis77 centum, ex equitibus sexaginta, ex sagittariis Creticis sexaginta, ex tyronibus bene armatos mille. [3] Nam bene illi novi creduntur exercitus; neque enim illo quisquam devotior, fortior, gravior invenitur». [17, 1] Item epistola Gallieni, cum nuntiatum esset per frumentarios78 Claudium irasci, quod ille mollius viveret: [2] «nihil me gravius accepit, quam quod notaria tua intimasti Claudium, parentem amicumque nostrum, insinuatis sibi falsis plerisque graviter irasci. [3] Quaeso igitur, mi Venuste, si mihi fidem exhibes, ut eum facias a Grato et Herenniano79 placari, nescientibus hoc militibus Daciscianis, qui iam saeviunt, ne graviter rem ferant. [4] Ipse ad eum dona misi, quae ut libenter accipiat, tu facies. Curandum praeterea est, ne me hoc scire intellegat ac sibi suscensere iudicet et pro necessitate ultimum consilium capiat. [5] Misi autem ad eum pateras gemmatas trilibres duas, scyphos aureos gemmatos trilibres duos, discum

corymbiatum argenteum librarum viginti, lancem argenteam pampinatam librarum triginta, patenam argenteam hederaciam librarum viginti et trium, boletar alieuticum argenteum librarum viginti, urceos duos auro inclusos, argenteos librarum sex et in vasis minoribus argenti libras viginti quinque, calices Aegyptios operisque diversi decem, [6] clamydes veri luminis limbatas duas, vestes diversas sedecim, albam subsericam, paragaudem80 triuncem unam, zancas de nostris Parthicas paria tria, singiliones Dalmatenses81 decem, clamydem Dardanicam mantuelem unam, paenulam Illyricianam unam, bardocucullum82 unum, cucutia villosa duo, [7] oraria Sarabdena83 quattuor, aureos Valerianos centum quinquaginta, trientes84 Saloninianos trecentos». [18, 1] Habuit et senatus iudicia, priusquam ad imperium perveniret, ingentia. Nam cum esset nuntiatum illum cum Marciano85 fortiter contra gentes in Illyrico dimicasse, adclamavit senatus: [2] «Claudi, dux fortissime, haveas! Virtutibus tuis, devotioni tuae! Claudio statuam omnes dicamus. Claudium consulem omnes cupimus. [3] Qui amat rem p., sic agit, qui amat principes, sic agit, antiqui milites sic egerunt. Felicem te, Claudi, iudicio principum, felicem te virtutibus tuis, consulem te, praefectum te. Vivas Valeri86 et ameris a principe». [4] Longum est tam multa, quam meruit vir ille, perscribere; unum tamen tacere non debeo, quod illum et senatus {et} populus et ante imperium et in imperio et post imperium sic dilexit, ut satis constet neque Traianum neque Antoninos neque quemquam alium principem sic amatum.

[1, 1] Siamo così arrivati a parlare dell’imperatore Claudio1, del quale, per riguardo a Costanzo Cesare2, debbo stendere una biografia accurata. Non avrei del resto potuto esimermi dal trattare di lui, dal momento che nel libro che ho dedicato ai trenta tiranni, avevo scritto di ben altri, come imperatori e reucci venuti fuori alla rinfusa: esso contiene ora persino la discendenza di Cleopatra3, nonché di Vittoria4; [2] ché le cose erano arrivate a tal punto che il confronto con Gallieno portava a far scrivere anche le biografie di donne. [3] Non sarebbe stato in effetti ammissibile passare sotto silenzio un principe che lasciò una discendenza così importante5, che portò a compimento la guerra gotica con il proprio valore, che, una volta ottenuta la vittoria, cercò di porre rimedio alle pubbliche calamità, che – seppure non fu lui a ordire i piani della congiura6 – riuscì comunque a scalzare dal governo dello Stato quell’imperatore mostruoso che era Gallieno, per assumere poi lui stesso il potere a beneficio del genere umano, che se fosse rimasto più a lungo a capo di questo Stato, avrebbe rinnovato per noi, con la sua forza, avvedutezza e prudenza, le gesta degli Scipioni, dei Camilli e di tutti quei famosi uomini di un tempo. [2, 1] Non posso negare che il suo impero ebbe breve durata, ma sarebbe apparso comunque breve, anche se un uomo di quel genere avesse potuto regnare per tutto il tempo che può durare la vita umana. [2] Che cosa infatti v’è in lui che non sia degno di ammirazione? Che cosa, che non abbia a risaltare? Che cosa, che non lo ponga al di sopra dei personaggi che celebrarono il trionfo nei tempi più antichi? [3] In lui erano presenti la virtù di Traiano, la bontà di Antonino, la moderazione di Augusto e le qualità dei grandi sovrani, non nel senso che lui prendesse a modello gli altri, ma che, anche se quelli non fossero esistiti, sarebbe stato lui a lasciare un esempio per tutti i successori. [4] Gli astrologi più eruditi calcolano che sia assegnato all’uomo un massimo di centoventi anni di vita e dichiarano che a nessuno ne è stato concesso un numero maggiore, aggiungendo inoltre che solo Mosè – che era, secondo quanto affermano i Giudei, prediletto da Dio – ebbe a vivere centoventicinque anni7; e poiché si lagnava di morire ancor giovane, gli fu risposto, a quanto si narra, da un dio – non si sa bene quale – che nessuno sarebbe mai vissuto più a lungo. [5] Comunque, anche se Claudio fosse vissuto centoventicinque anni, la sua vita stupenda e mirabile ci fa credere che non ci si sarebbe augurata per lui neppure una morte naturale, come dice

Tullio parlando di Scipione8. [6] In che cosa infatti quell’uomo non si mostrò grande, tanto nella vita privata che pubblica? Amò i genitori. Che cosa c’è di straordinario? Ma amò anche i fratelli: e questo può già avere del prodigioso. Amò i parenti: e ai nostri tempi questo può ben essere visto come un miracolo; non portò invidia a nessuno, perseguitò i malvagi. Condannava pubblicamente e apertamente i giudici che rubavano, agli stolti usava indulgenza, come se non desse loro peso. [7] Promulgò eccellenti leggi. [8] Governò in modo tale che i suoi discendenti furono scelti per assumere l’impero da grandissimi sovrani, secondo quello che era anche il desiderio di un senato particolarmente irreprensibile. [3, 1] Qualcuno potrebbe pensare che io parli così per compiacere Costanzo Cesare; ma mi sono testimoni la conoscenza che tu hai di me e la mia vita che io non ho mai pensato, detto o fatto alcunché per adulazione. [2] Sto parlando dell’imperatore Claudio, che con la sua vita, la sua integrità e tutto quanto ebbe a compiere nel governare lo Stato, si acquistò presso i posteri una tale fama, che il senato ed il popolo romano gli conferirono dopo la morte onori inusitati: [3] in suo onore, per volontà unanime del senato, fu collocato nella Curia romana un clipeus9 – o, come dicono i grammatici, un clipeum d’oro, sul quale ancor oggi si vedono le sue sembianze in un busto a rilievo. [4] A lui – onore mai concesso prima ad alcuno – il popolo romano eresse a sue spese sul Campidoglio dinanzi al tempio di Giove Ottimo Massimo una statua d’oro alta dieci piedi. [5] In suo onore, per volontà del mondo intero, fu innalzata sui rostri una colonna palmata10 in cima alla quale era stata posta una sua statua in argento di millecinquecento libbre11. [6] Egli, come presago del futuro12, accrebbe la gloria della casa Flavia, quella che era stata anche di Vespasiano e di Tito – di Domiziano preferisco non parlare. Egli in breve tempo portò a compimento la guerra contro i Goti13. [7] Adulatore, dunque, sarebbe se mai il senato, sarebbe il popolo romano, adulatrici sarebbero le popolazioni straniere, adulatrici sarebbero le province, visto che ogni ordine sociale, persone di ogni età, e tutte le città onorarono quell’ottimo principe con statue, vessilli, corone, templi, archi. [4, 1] Potrà interessare sia a coloro che prendono a modello i buoni sovrani sia a tutto il genere umano, conoscere i pronunciamenti espressi dal senato nei confronti di quest’uomo, onde tutti possano sapere l’opinione che si aveva su di lui a livello ufficiale: [2] essendo dunque stato annunziato il 24 marzo14, che era giorno dedicato ai sacrifici15, proprio nel santuario della dea

Madre16, che Claudio era stato eletto imperatore, e poiché non era possibile convocare un’adunanza del senato per adempiere alla celebrazione dei sacri riti, indossate le toghe i senatori si recarono al tempio di Apollo17 e dopo la lettura del messaggio dell’imperatore Claudio, furono levate al suo indirizzo queste acclamazioni: [3] «Claudio Augusto, gli dèi ti proteggano» (ripetuto sessanta volte). «Claudio Augusto, abbiamo sempre desiderato come principe te, o uno simile a te» (ripetuto quaranta volte). «Claudio Augusto, lo Stato aveva bisogno di te» (ripetuto quaranta volte). «Claudio Augusto, tu fratello, tu padre, tu amico, tu buon senatore, tu vero principe» (ripetuto ottanta volte). [4] «Claudio Augusto, difendici tu da Aureolo» (ripetuto cinque volte). «Claudio Augusto, difendici tu dai Palmireni» (ripetuto cinque volte). «Claudio Augusto, liberaci tu da Zenobia e da Vitruvia» (ripetuto sette volte). «Claudio Augusto, Tetrico nulla ha potuto» (ripetuto sette volte). [5, 1] Egli, prima di tutto, non appena fu eletto imperatore, ingaggiò battaglia con Aureolo18, che si era rivelato un nemico particolarmente pericoloso per lo Stato, per via del grande favore di cui godeva presso Gallieno, e lo cacciò dal potere, dichiarandolo usurpatore con un editto indirizzato al popolo e un messaggio inviato al senato. [2] Bisogna aggiungere che, quando Aureolo lo pregò di venire a patti con lui, egli, da quell’imperatore fermo e serio che era, non gli prestò udienza, ma lo respinse con questa risposta: «Queste richieste avresti dovuto farle a Gallieno; lui, che era un uomo della tua stessa risma, poteva anche aver paura di te». [3] Alla fine, per decisione dei suoi stessi soldati, Aureolo trovò presso Milano una fine degna della sua vita e dei suoi costumi, e nondimeno certi storici si sono provati a lodarlo, e in maniera davvero ridicola. [4] Infatti Gallo Antipatro19, servo delle alte cariche e disonore degli storici20, inizia a parlare di Aureolo in questi termini: «Veniamo ora a un imperatore degno del suo nome». [5] Grande virtù davvero derivare il nome dall’oro!21 Ma io so che molto spesso, nell’ambiente dei gladiatori, questo nome viene attribuito ai combattenti più validi. Il programma dello spettacolo gladiatorio22 che hai visto l’altro giorno conteneva questo nome nell’elenco dei combattenti. [6, 1] Ma torniamo a Claudio. Infatti, come abbiamo detto più sopra, quei Goti che erano scampati al tempo della campagna condotta contro di loro da Marciano23 e che Claudio non avrebbe voluto lasciar fuggire, perché non avesse a verificarsi ciò che in effetti accadde, avevano incitato tutte le loro popolazioni a compiere scorrerie nei territori romani24. [2] E così le varie tribù

della Scizia, i Peuci, i Grutungi, gli Austrogoti, i Tervingi, i Visi, i Gipedi, i Celti e gli Eruli25, attratti dalla speranza di far preda, giunsero sul suolo romano e lì operarono grandi devastazioni, mentre Claudio era impegnato in altre azioni, e mentre allestiva i preparativi – come si addice a un imperatore – per quella guerra, che ebbe poi a portare felicemente a conclusione, di modo che potrebbe apparire che il compimento dei destini di Roma sia stato ritardato dall’essere stato il valente sovrano occupato in queste cose, [3] ma ciò, credo, affinché la gloria di Claudio ne uscisse accresciuta e la sua vittoria ne ricevesse più luminosa fama per il mondo intero. [4] Vi furono allora in campo trecentoventimila armati delle varie popolazioni26. [5] Dica ora, chi mi accusa di adulazione, che Claudio non è degno di essere ricordato con affetto! Trecentoventimila armati: quale Serse27, alla fin fine, ebbe mai un tale esercito? In quale favola si è mai inventato un numero di questa entità? Quale poeta lo ha mai messo assieme con la sua fantasia? Eppure furono proprio trecentoventimila armati. [6] Si aggiungano i servi, i famigliari, i carriaggi28, e i fiumi che hanno prosciugato, e i boschi che hanno bruciato, e ciò che infine la terra stessa ebbe a soffrire nell’accogliere questo enorme bubbone barbarico. [7, 1] Possediamo una lettera che egli inviò al senato perché fosse letta al popolo, nella quale dà indicazione del numero dei barbari, e che suona così: [2] «Claudio imperatore al senato e al popolo romano» (si dice che l’abbia dettata egli stesso; io non starò comunque a cercare la conferma dal direttore di cancelleria29). [3] «O senatori ascoltate – e sbalordite! – quello che non è altro che la verità. Trecentoventimila barbari sono entrati in armi nel territorio romano: se riuscirò a vincerli, voi ricompensatemi secondo i miei meriti; se non ci riuscirò, sappiate che io mi sforzo di combattere venendo dopo il regno di Gallieno. [4] Lo Stato è completamente stremato. Ci troviamo a combattere dopo Valeriano, dopo Ingenuo, dopo Regiliano, dopo Lolliano, dopo Postumo, dopo Celso, dopo mille altri che, per disprezzo nei confronti di un tale principe, si ribellarono allo Stato. [5] Non rimangono ormai più scudi, né spade, né giavellotti. La Gallia e la Spagna, che sono il nerbo dell’impero, sono nelle mani di Tetrico, e tutti gli arcieri – mi fa vergogna dirlo – sono sotto il controllo di Zenobia. Qualunque cosa riusciremo a fare, sarà già abbastanza grande». [6] Costoro, comunque, Claudio seppe, grazie al suo innato valore, sconfiggerli, e in breve tempo sbaragliarli, e solo alcuni di essi riuscirono a sfuggirgli ritornando in patria. Di fronte ad una tale vittoria, io chiedo, quale ricompensa sono mai un clipeo appeso nella Curia e un’unica statua d’oro? [7]

Dice di Scipione Ennio30: «Quale statua, quale colonna ti potrà erigere il popolo romano, che possa esprimere le tue gesta?». [8] Possiamo ben dire che Flavio31 Claudio fu l’unico principe al mondo a non ricevere lustro da colonne o statue, ma dal fascino esercitato dalla sua fama. [8, 1] Avevano inoltre duemila navi, cioè un numero doppio di quello con cui un tempo l’intera Grecia e tutta la Tessaglia intrapresero assieme la conquista delle città dell’Asia32. Ma quelle sono le invenzioni dello stilo di un poeta, questo invece fa parte della storia reale. [2] E dunque noi scrittori aduliamo Claudio, uno che sbaragliò, sgominò, annientò duemila navi barbare e trecentoventimila soldati, e che l’imponente apparato di carriaggi, che questo numero di armati poté disporre ed allestire per le proprie esigenze, in parte lo diede alle fiamme, in parte lo destinò, assieme a tutte le persone al seguito, al servizio dei Romani, [3] come si apprende da una sua lettera, scritta a Giunio Brocco33, che aveva il comando nell’Illirico: [4] «Claudio a Brocco. Abbiamo sbaragliato trecentoventimila Goti, abbiamo affondato duemila navi. [5] I fiumi sono ricoperti di scudi, tutte le spiagge sono disseminate di spade e lance. I campi neanche più si vedono, nascosti come sono dalle ossa, non esiste più una strada sgombra, una gran quantità di carriaggi è stata abbandonata. [6] Abbiamo catturato tante donne, che i nostri soldati vincitori se ne possono prendere per sé due o tre a testa. [9, 1] Magari lo Stato non avesse dovuto sopportare un Gallieno! Magari non avesse dovuto patire seicento34 usurpatori! Fossero ora salvi i soldati che in varie battaglie sono caduti, salve le legioni che Gallieno, nelle sue malaugurate vittorie35, distrusse, quanto ne avrebbe guadagnato lo Stato! [2] Ché ora la nostra diligenza va raccogliendo i relitti del pubblico naufragio, per la restaurazione dello Stato romano». [3] Si combatté dunque in Mesia e molte battaglie si svolsero nei pressi di Marcianopoli36. [4] Molti trovarono la morte in un naufragio, furono fatti prigionieri molti re, vennero catturate molte nobildonne di varie tribù e le province romane si riempirono di servi barbari e agricoltori Sciti. I Goti furono trasformati in coloni del territorio di frontiera con i barbari37. [5] Né v’era alcuna regione che non possedesse schiavi Goti in una servitù che rappresentava in qualche modo il trionfo celebrato su di essi. [6] Quanti buoi barbari videro i nostri antenati? Quante pecore? Quante cavalle celtiche, che sono così rinomate? Tutto questo va a gloria di Claudio. Claudio procurò allo Stato sicurezza e abbondanti ricchezze. [7] Si combatté inoltre nei pressi di

Bisanzio38, dove i Bizantini superstiti opposero una valorosa resistenza. [8] Si combatté presso Tessalonica39, che durante l’assenza di Claudio era stata presa d’assedio dai barbari. [9] Si combatté in varie regioni, ma dovunque, sotto il comando di Claudio, si giunse a sconfiggere i Goti, proprio come se già da allora Claudio sembrasse preparare per il futuro nipote Costanzo Cesare uno Stato ben saldo. [10, 1] E mi viene in mente proprio a proposito che è opportuno qui ricordare il responso che si narra sia stato dato a Claudio a Comagena40, onde tutti possano comprendere che la stirpe di Claudio è stata destinata per volontà divina al bene dello Stato. [2] Quando infatti, dopo essere stato eletto imperatore, interrogò l’oracolo sulla durata del suo regno, uscì questo responso: [3] «Tu che ora governi le patrie terre e reggi il mondo, arbitro fra gli dèi, tu supererai i predecessori con la tua progenie, ché i tuoi discendenti regneranno e trasmetteranno il regno ai loro discendenti».

[4] Analogamente, una volta che interrogò su di sé un oracolo sull’Appennino, ricevette un responso che suonava così: «Finché regnar sul Lazio ti vedrà la terza estate»41.

[5] E così pure, riguardo ai suoi posteri:

«Ad essi io non porrò limiti di spazio o di tempo»42.

[6] E quando domandò in merito a suo fratello Quintillo43, che egli voleva associarsi nell’impero, si ebbe questo responso: «Questi il fato al mondo sol mostrerà»44.

[7] Ho riportato queste testimonianze perché appaia chiaro a tutti che Costanzo è un uomo di stirpe divina, che è un Cesare degno di ogni venerazione, e che discende da una famiglia di Augusti e sarà a sua volta progenitore di molti Augusti, salva restando la dignità degli Augusti Diocleziano e Massimiano e del fratello di lui Galerio45. [11, 1] Ma mentre il divo Claudio compiva queste imprese, i Palmireni, sotto il comando di Saba e Timagene, mossero guerra agli Egiziani46, venendo però da questi ultimi – per la capacità di resistere e di protrarre a lungo e senza cedimenti le guerre, che è appunto tipicamente egiziana – sconfitti. [2] Peraltro il comandante degli Egiziani Probato47 fu ucciso in un agguato tesogli da Timagene. Tutti gli Egiziani, comunque, fecero atto di sottomissione all’imperatore di Roma, giurando fedeltà a Claudio, seppure in sua assenza. [3] L’anno del consolato di Atticiano e Orfito48 il favore divino cooperò

alla vittoria di Claudio. Infatti, mentre la massa delle tribù barbare superstiti erano confluite nell’Emimonto49, vennero qui a tal punto decimate dalla fame e dalla pestilenza, che Claudio non ritenne neppure più di intervenire a dar loro il colpo di grazia. [4] E così si concluse una guerra terribile, e Roma fu liberata dal terrore50. [5] La fedeltà storica impone che si dica tutta la verità, anche perché quelli che desiderano farci passare per adulatori51 sappiano che, ciò che la storia vuole sia ricordato, noi non manchiamo di dirlo: [6] nel momento in cui fu ottenuta questa grande vittoria, molti dei soldati di Claudio, esaltati dal successo, che finisce per infiacchire anche l’animo dei sapienti52, si abbandonarono a tal punto al saccheggio, da non rendersi conto che, mentre, assorbiti in ciò anima e corpo, si dedicavano unicamente a far razzie, avrebbero potuto essere messi in crisi da pochissimi uomini. [7] E fu così che, proprio nel momento della vittoria, quasi duemila soldati furono uccisi da pochi barbari, quelli stessi che erano già stati volti in fuga. [8] Ma quando Claudio venne a conoscenza di questo, riunì l’esercito e fece arrestare tutti coloro che avevano manifestato atteggiamenti di insubordinazione, inviandoli poi in catene a Roma, per essere destinati ai giochi del circo. Così, quanto avevano provocato vuoi la sorte, vuoi i soldati, grazie alla virtù di quell’ottimo principe fu scongiurato. Né solo si ebbe sui nemici una vittoria, ma anche una vendetta. [9] Nelle vicende di questa guerra condotta da Claudio si misero particolarmente in luce per il loro valore i cavalieri dalmati, giacché Claudio sembrava presentarsi originario di quella provincia, quantunque altri dicessero che era un Dardano e discendente da Ilo, il fondatore di Troia, e dallo stesso Dardano53. [12, 1] In quel tempo gli Sciti si avvicinarono minacciosamente a Creta54 e tentarono di saccheggiare Cipro, ma, venutosi a trovare il loro esercito in condizioni critiche per la pestilenza e la carestia, furono dappertutto sconfitti. [2] Terminata così la guerra gotica, dilagò una gravissima epidemia, nel corso della quale anche Claudio, colpito dal male, lasciò i mortali55 per salire al cielo, dimora naturale per le sue virtù. [3] Mentre dunque egli passava tra gli dei, lassù fra gli astri, suo fratello Quintillo56, uomo di elevate virtù e degno fratello – come potrei davvero dire – di suo fratello, assunse l’impero conferitogli per consenso unanime, non per diritto di eredità, ma per merito delle sue doti: ché egli sarebbe stato eletto imperatore anche se non fosse stato il fratello dell’imperatore Claudio. [4] Sotto il suo regno i barbari superstiti tentarono di mettere a sacco Anchialo57 e di occupare Nicopoli58. Ma furono

annientati dai valorosi provinciali. [5] Quintillo peraltro, per via della brevità del periodo in cui regnò, non poté compiere nulla che fosse degno di un imperatore; infatti, al diciassettesimo giorno di regno59, per essersi mostrato severo e fermo nei confronti dei soldati, facendo presagire che sarebbe stato un vero sovrano, venne ucciso alla stessa maniera di Galba e di Pertinace60. [6] Dexippo, dal canto suo, non dice che Claudio61 fu ucciso, ma solo che morì, senza peraltro aggiungere se di malattia, così che appare lui stesso essere in dubbio. [13, 1] Dal momento che abbiamo parlato delle sue imprese militari, sarà bene ora dire almeno poche cose anche sulla stirpe e la famiglia di Claudio, onde non sembri che abbiamo trascurato notizie che si debbono conoscere: [2] dunque, Claudio, Quintillo e Crispo erano fratelli. Figlia di Crispo era Claudia; da lei e da Eutropio, un nobile di stirpe dardana, fu generato Costanzo Cesare62. [3] Ebbe anche delle sorelle, una delle quali, di nome Costantina, andata in sposa a un tribuno degli Assiri, morì in giovane età. [4] Sui suoi avi non siamo molto informati. Varie sono infatti le notizie che numerose fonti ci hanno tramandate. [5] Dal canto suo, Claudio si distingueva per la serietà dei costumi, per le incomparabili qualità mostrate nella sua vita e per una moralità unica; era sobrio nel bere, buon mangiatore, di statura elevata, con occhi scintillanti, volto largo e pieno, dita a tal punto robuste che spesso scagliando un pugno ebbe a buttar giù i denti a cavalli e muli. [6] Proprio una cosa di questo genere aveva compiuto quando era ancora un giovane soldato, cimentandosi in una gara fra tutti i lottatori più forti, nel corso di uno spettacolo in onore di Marte nel Campo. [7] Infatti, adiratosi contro uno che lo aveva afferrato non per la cintura, ma per i genitali, gli cacciò giù con un sol pugno tutti i denti. Questo atto gli fu però scusato perché dettato dal desiderio di vendicare l’offesa fatta al proprio pudore; [8] tanto è vero che l’imperatore Decio63, che era stato presente al fatto, ebbe allora a lodare pubblicamente il valore e il senso di verecondia di Claudio e, donatigli collane e bracciali64, lo invitò a ritirarsi dalle gare militari, perché non avesse a compiere qualche atto troppo violento per le regole della lotta. [9] Claudio non ebbe figli, Quintillo ne lasciò due, e Crispo, come abbiamo detto, una figlia. [14, 1] Veniamo ora ai giudizi che furono espressi su di lui da vari principi, anche in termini tali da far apparire che prima o poi Claudio sarebbe diventato imperatore. [2] Ecco una lettera di Valeriano a Zosimione65,

procuratore di Siria: «Abbiamo nominato tribuno della valorosissima e fedelissima Quinta Legione66 Marzia Claudio, un illirico che vale più di tutti i più fedeli e valorosi fra i predecessori. [3] A lui corrisponderai, attingendo al mio patrimonio privato, un salario67 annuo di tremila moggi di frumento, seimila moggi di orzo, duemila libbre di lardo, tremilacinquecento sestari di vino invecchiato, centocinquanta sestari di olio di prima qualità, seicento sestari di olio di seconda qualità, venti mogge di sale, centocinquanta libbre di cera, una quantità adeguata di fieno, paglia, aceto, legumi, ortaggi, trenta decine di pelli per tende, sei muli all’anno, e analogamente tre cavalli, dieci cammelle, nove mule, cinquanta libbre all’anno di argento lavorato, e così pure centocinquanta filippi68 con impressa la nostra effigie, e, fra i doni augurali per il nuovo anno, altri quarantasette filippi più centosessanta trienti69. [4] Inoltre anfore, bicchieri e pentole per undici libbre. [5] Due tuniche militari rosse e due mantelli militari ogni anno, e così pure due fibbie d’argento indorate e una fibbia d’oro con puntale cipriota. Una cintura d’argento indorata, un anello di un’oncia con due gemme, un bracciale di sette once, una collana da una libbra, un elmo dorato, due scudi ornati d’oro, una corazza da restituire. [6] Due lance ercoliane70, due giavellotti corti, due falci, quattro falci da fieno. [7] Un cuoco e un cocchiere con l’obbligo di restituirli. [8] Due belle schiave di guerra. Una veste bianca di mezza seta71 ornata di porpora di Gerba72, una tunica adorna di porpora di Mauritania. [9] Un segretario e un domestico, con l’obbligo di restituirli. [10] Due paia di coperte di Cipro, due camicie bianche, un paio di fascie per gambe da uomo73, una toga e un laticlavio da restituire. [11] Due cacciatori per il suo servizio personale, un carpentiere, un sovrintendente al pretorio74, un portatore d’acqua, un pescatore, un pasticcere. [12] Mille libbre di legna ogni giorno, se ve ne è disponibilità, altrimenti quanta sarà possibile averne a seconda dei luoghi; quattro palate di legna secca. [13] Un bagnino e la legna per i bagni, altrimenti si servirà dei bagni pubblici. [14] Gli provvederai poi in giusta misura tutte le altre cose di minor conto che non posso mettermi qui ad elencare, senza però mai farne la commutazione in denaro; anzi, se da qualche parte venisse a mancare qualcosa, non gli venga fornita, né gli venga corrisposto l’equivalente in denaro. [15] Gli ho assegnato tutti questi particolari vantaggi, come se avessi a che fare non con un tribuno, ma con un generale, perché è un uomo di tali qualità che meriterebbe concessioni ancora più ampie».

[15, 1] Analogamente lo stesso Valeriano in una lettera inviata ad Ablavio Murena, prefetto del pretorio, dice tra l’altro: «Smetti poi di lamentarti che Claudio sia ancora un tribuno e non abbia ancora ricevuto un esercito quale generale, cosa della quale non fai che ripetere che anche il senato e il popolo romano sono contrariati. [2] È stato nominato generale, e generale di tutto l’Illirico. Ha al suo comando gli eserciti della Tracia, della Mesia, della Dalmazia, della Pannonia, della Dacia. [3] Quell’uomo eccezionale anche a mio giudizio può aspirare al consolato, e, se risponde alle sue aspirazioni, quando vorrà potrà assumere la prefettura del pretorio. [4] Sappi che gli ho assegnato un salario corrispondente a quello che compete alla prefettura d’Egitto, un corredo di vestiario equivalente a quello da noi concesso al proconsolato d’Africa, tanto argento quanto ne riceve il sovrintendente alle miniere dell’Illiria, un numero di servi pari a quello che destino anche per me in ogni singola città, perché sia chiaro a tutti in quale considerazione io tenga un tal uomo». [16, 1] In termini simili suona una lettera di Decio in merito allo stesso Claudio: «Decio saluta il governatore dell’Acaia Messalla»; scrive tra l’altro: «Abbiamo dato ordine al nostro tribuno Claudio, eccellente giovane, valorosissimo soldato, cittadino fedelissimo, davvero prezioso per l’esercito, il senato e lo Stato, di raggiungere le Termopili75, affidandogli il governo del Peloponneso, ben sapendo che nessuno potrebbe eseguire meglio di lui le nostre disposizioni. [2] Gli darai duecento soldati della Dardania76, cento guerrieri corazzati77, sessanta cavalieri, sessanta arcieri di Creta, mille reclute bene armate. [3] Giacché è una cosa ben fatta affidargli gli eserciti di reclute; non si può infatti trovare nessuno che sia più devoto, valoroso e serio di lui». [17, 1] Di tenore analogo è una lettera scritta da Gallieno, dopo che gli era stato riferito dai suoi informatori78 che Claudio era sdegnato perché egli conduceva una vita piena di mollezze; [2] «Non ho mai ricevuto una comunicazione più dolorosa di questa che tu mi hai recato riferendomi che Claudio nostro parente e amico si è profondamente indignato per via di quelle tante falsità che gli sono state sussurrate sul mio conto. [3] Ti prego dunque, o mio Venusto, se vuoi mostrarmi la tua fedeltà, di far intervenire Grato ed Erenniano79 a placarlo, senza che lo sappiano i soldati di Dacia, che già sono maldisposti, onde non abbiano ad adontarsene. [4] Io stesso gli ho mandato dei doni: vedi di far sì che li accetti di buon grado. Bisogna inoltre aver cura che egli non capisca che io sono al corrente di questo stato di cose e non creda che io sia in collera contro di lui, arrivando a prendere decisioni estreme per

una situazione ritenuta senza scampo. [5] Gli ho mandato due coppe piene di gemme, di tre libbre, due boccali d’oro pure gemmati, di tre libbre, un piatto d’argento con incisi grappoli d’edera, di venti libbre, un vassoio d’argento con pampini in rilievo, di trenta libbre, un piatto d’argento con incisioni a foglie d’edera, di ventitré libbre, un piatto d’argento per servire il pesce, di venti libbre, due orci d’argento rivestiti d’oro, di sei libbre, e altri recipienti più piccoli per complessive venticinque libbre d’argento, dieci calici egiziani e di varia lavorazione; [6] due clamidi con gli orli davvero splendenti, sedici vesti di diversi tipi, una tunica bianca di mezza seta, un abito con bordi ricamati in oro80 di tre once, tre paia di calzari partici tratti dalla nostra fornitura personale, dieci vesti dalmatiche81, una clamide dardanica a foggia di mantello, una cappa illirica, un mantello con cappuccio82, due cappucci di pelo, [7] quattro fazzoletti sarabdeni83, centocinquanta aurei di Valeriano, trecento trienti84 di Salonino». [18, 1] Ebbe a godere di giudizi altamente elogiativi anche da parte del senato, prima ancora di giungere all’impero. Così, quando fu annunziato che aveva combattuto valorosamente assieme a Marciano85 contro le popolazioni barbare nell’Illirico, il senato gli tributò queste acclamazioni: [2] «Salve, Claudio, valorosissimo generale. Onore alle tue virtù, alla tua lealtà! Noi tutti decretiamo una statua a Claudio. Noi tutti vogliamo Claudio come console. [3] Chi ama lo Stato, così agisce; chi ama i principi, così agisce; gli antichi soldati, così agirono. Felice te, o Claudio, stimato dai principi, felice te per le tue virtù; console ti vogliamo, prefetto ti vogliamo. Sia vita a te, Valerio86 e che tu sia amato dal principe!». [4] Sarebbe troppo lungo enumerare per esteso i tanti onori che meritò quell’uomo; solo tuttavia non debbo tacere che egli, prima dell’impero, nel corso dell’impero e dopo l’impero, fu amato dal senato e dal popolo in misura tale che certamente né Traiano, né Antonino, né chiunque altro lo fu altrettanto.

1. M. Aurelius Claudius Augustus (268-270 d. C.). La biografia di questo imperatore, campione della lotta contro i barbari e leale collaboratore del senato, è un vero e proprio panegirico, che si contrappone alla presentazione a tinte fosche e mostruose di Gallieno. Per di più l’esaltazione di Claudio si pone in collegamento con l’intento di celebrare attraverso di lui Costanzo Cloro, presentato come suo discendente (cfr. Gall., 7, 1, n. 2). Da notare però che manca nel corso della Vita la menzione della grande vittoria riportata da Claudio sugli Alamanni presso il lago di Garda nel 268 d. C., e riferita nell’Epitome de Caesaribus, 34, 2. 2. Al tempo dell’ordinamento tetrarchico instaurato da Diocleziano Costanzo I Cloro era il Cesare d’Occidente. Nel 305 d. C. divenne Augusto, morendo però l’anno successivo. Sulla tradizione della presunta discendenza di Costanzo da Claudio cfr. 13, 2, n. 7. 3. Il riferimento è a Zenobia: cfr. Tyr. trig., 27, 1 e 30, 2. 4. Il testo tràdito è dubbio: il PETER emenda in Victoriamque. 5. Naturalmente il riferimento è a Costanzo Cloro. 6. Riappare la preoccupazione di scagionare Claudio da ogni responsabilità nella congiura: cfr. Gall., 14, 1, n. 6. 7. In realtà, in Deuter., 34, 7 si dice che Mosé morì a centoventi anni. 8. CICERONE, infatti, nell’orazione Pro Milone (16) così si esprime a proposito di Scipione Africano il Giovane: eius ne necessariam quidem expectatam esse mortem. 9. Si trattava di un disco a forma di scudo su cui era effigiato in rilievo il busto (thorace, da thorace/es) di Claudio (cfr. Ant. Pius, 5, 2). AGNES e RONCORONI distinguono il clipeus da una «corazza» (thorax) in cui sarebbe stato inciso il volto dell’imperatore; ma il confronto con EUTROPIO, IX, 11, 2 – passo che presenta coincidenze anche letterali col nostro, e in cui si parla solo del clipeus aureus – sembra escludere una tale interpretazione. 10. Questa denominazione non è altrove attestata; a parere di TH. PEKÁRY, Statuen in der HA, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, p. 166 si avrebbe qui una specie di gioco di parole che distorce la comune dizione columna rostrata. L’aggettivo palmata è comunque un chiaro riferimento al trionfo e richiama espressioni come tunica palmata, la veste indossata dai generali vittoriosi nel corso, appunto, del trionfo (cfr. Gord., 4, 4, n. 4; Gall., 8, 5). 11. Sull’inverosimiglianza di questo dato cfr. PEKÁRY, Statuen cit., p. 166. 12. Si allude al fatto che Costanzo Cloro, preteso discendente di Claudio, assunse il prenome di Flavio, e così i suoi successori. 13. Cfr. capp. 6-11. 14. La data, che si riferisce all’anno 268 d. C., non è esatta, in quanto Gallieno fu ucciso probabilmente in luglio o agosto. 15. Nell’ambito delle celebrazioni in onore della dea Cibele – chiamata appunto Magna Mater o, semplicemente, Mater – il 24 marzo costituiva il cosiddetto dies sanguinis (commemorava la castrazione e probabilmente la morte di Attis) dedicato ai riti sacrificali. Sulle feste in onore di Cibele cfr. Al. Sev., 37, 6, n. 2 e Aurel., 1, 1, n. 2. 16. Il tempio di Cibele si trovava sul Palatino: era stato innalzato nel 192 a. C. per contenere la pietra nera sacra alla dea, portata dalla Frigia. 17. Il grande tempio sul Palatino, fatto costruire da Ottaviano Augusto nel 36 a. C. e inaugurato il 9 ottobre del 28. 18. Cfr. Tyr. trig., 11. 19. Altrimenti sconosciuto. 20. L’espressione riprende, pur rielaborandola, quella di SALLUSTIO, Hist. I, fr. 55, 22 Maurenbrecher

ancilla turpis, bonorum omnium dehonestamentum, alla quale si rifà anche AMMIANO MARCELLINO, XXVI, 6, 16 dehonestamentum honorum omnium. 21. Si tratta evidentemente di un gioco di parole tra Aureolus e aurum. 22. Il libellus munerarius costituiva il «programma» dello spettacolo gladiatorio, con l’elenco dei combattenti che si sarebbero succeduti nell’arena. 23. Sul complesso problema delle guerre gotiche e le questioni inerenti al numero effettivo e alla cronologia di esse cfr. le note alla vita di Gallieno (in particolare la n. 2 a 5, 6; la n. 3 a 11, 1; la n. 8 a 13, 6). 24. Viene qui descritta la grande invasione gotica del 269-70 d. C. 25. Non tutti i nomi di questi popoli sono sicuri nella forma qui tramandata. 26. Naturalmente si tratta di un numero del tutto esagerato e «gonfiato» ad arte per aumentare il merito di Claudio. Lo stesso si può dire per la cifra di duemila navi citata a 8, 1. 27. Il re persiano che condusse nel 480 a. C. una grande spedizione contro la Grecia; anche il suo esercito avrebbe avuto proporzioni inusitate: stando infatti a quanto riferisce ERODOTO (VII, 60 e 87) esso sarebbe stato forte di un milione e settecentomila fanti e ottantamila cavalieri (ma anche in questo caso le cifre sono da considerare con tutta probabilità esagerate). 28. Sull’uso di questo termine, in relazione al confronto con un passo di AMMIANO MARCELLINO (XXXI, 7, 6) in cui parimente ricorre, cfr. J. STRAUB, Studien zur HA, Berne, 1952, pp. 19 segg. 29. Magister memoriae è denominazione tarda del funzionario a memoria, che, tra gli altri uffici, curava la stesura delle disposizioni o anche semplicemente – come qui – dei messaggi dell’imperatore. Cfr. Pesc. Nig., 7, 4, n. 5; A. REINTJES, Untersuchungen zu den Beamten bei den ShA, Düsseldorf, 1961, pp. 60 segg. 30. Sappiamo che il poeta ENNIO aveva scritto un poema volto a celebrare le imprese di Scipione (intitolato appunto Scipio): a noi ne rimangono solo frammenti (cfr. J. VAHLEN, Ennianae Poesis reliquiae, Lipsiae, 19282 [= Amsterdam 1967], pp. 212 segg.). La frase qui riportata non rientra in uno schema metrico, per cui è da pensare che il biografo abbia riprodotto semplicemente il senso generale dell’espressione. 31. Il nome Flavio è attribuito a Claudio anche in Aurel., 17, 2, evidentemente allo scopo di sottolineare la sua pretesa parentela con Flavio Valerio Costanzo Cloro. Il rapporto di Claudio con la gens Flavia era già stato presentato dal biografo in precedenza (cfr. 3, 6, n. 3). 32. Al tempo della spedizione contro Troia. 33. Altrimenti sconosciuto. 34. Detto naturalmente in senso iperbolico, secondo un uso corrente del numerale sescenti, già presente nei Comici e in CICERONE. 35. Si allude probabilmente alle numerose vittorie ottenute da Gallieno e dai suoi generali contro i vari pretendenti sorti nel corso del suo regno. 36. Situata nella Mesia meridionale (l’odierna Bulgaria) e capitale di tale provincia. Era stata fondata da Traiano, che le aveva dato tale nome in onore della sorella Ulpia Marciana. 37. Anche ZOSIMO (I, 46, 2) attesta che i Goti superstiti, quando non furono direttamente arruolati fra le truppe romane, ricevettero delle terre, dedicandosi alla coltivazione di esse. 38. Di un combattimento dei Goti-Sciti con i Bizantini si parla anche in Gall. 13, 6. Non è impossibile che si tratti dello stesso avvenimento. 39. Di un assedio di Tessalonica si era parlato in precedenza anche in riferimento al regno di Gallieno (cfr. Gall., 5, 6, n. 2); anche in questo caso non si può escludere la possibilità di confusioni operate dal biografo. 40. Il testo dei codici è in questo punto corrotto, ma è assai probabile che sotto la corrotta lezione di P commagnis si nasconda il nome di un luogo. Accogliendo quest’ultima ipotesi, se non si vuole pensare a

un riferimento alla provincia della Commagene (nel nord-est della Siria), si può ammettere – seguendo l’ipotesi già avanzata dal SALMASIO – che si parli qui della città di Comagena (dovremmo ammettere in questo caso la forma plurale) situata nella Pannonia Superiore, sul Danubio. 41. VIRGILIO, Aen., I, 265. 42. Cfr. VIRGILIO, Aen., I, 278, ove però si ha in fine di verso pono. 43. Cfr. infra, cap. 12. 44. Cfr. VIRGILIO, Aen., VI, 869. Il verso (che si riferisce al giovane Marcello) è citato intero a Ael., 4, 1 e Gord. 20, 5. 45. Nell’ambito dell’ordinamento tetrarchico dioclezianeo Massimiano era l’Augusto d’Occidente e Galerio il Cesare d’Oriente. 46. Più attendibile su questi fatti appare il racconto di ZOSIMO, I, 44. In effetti Settimio Zabda (Zaba), un generale di Zenobia ricordato anche in Aurel., 25, 3, ottenne in un primo tempo – grazie anche all’appoggio dell’egiziano Timagene, che capeggiava il partito antiromano – una grande vittoria contro gli Egiziani e lasciò in Egitto una guarnigione di cinquemila uomini. A questo punto intervenne Probato (o Probo), un generale di Claudio che, con le forze di cui disponeva e l’aiuto di contingenti egiziani, riuscì a cacciare le guarnigioni; ci fu una nuova campagna condotta dai Palmireni, nel corso della quale Probato, caduto in un agguato tesogli da Timagene, ebbe distrutte le sue truppe e, fatto prigioniero, si uccise. L’Egitto restò così, fino all’intervento di Aureliano, in potere di Zenobia. La conclusione secondo cui gli Egiziani si sarebbero sottomessi a Claudio è evidentemente un’aggiunta del biografo in omaggio all’imperatore ed è priva di fondamento. Questi avvenimenti sono probabilmente da riferire al 270 d. C. 47. Questo personaggio ci è noto dalle iscrizioni come Tenagino Probo. Varie imprese attribuite all’imperatore Probo nel corso della biografia che gli è dedicata sono invece probabilmente da ascrivere a lui. Sulla confusione fra i due personaggi cfr. Prob., 9, 1, n. 3. 48. Nel 270 d. C. 49. Si intende qui la regione dell’Emo, la catena dei Balcani fra la Tracia e la Mesia; la denominazione Haemimontum costituisce però un anacronismo, in quanto la divisione della diocesi di Tracia in sei province (una delle quali ebbe appunto questo nome) risale a Diocleziano. 50. Fu per commemorare questa vittoria che, come testimoniato dalle monete, Claudio assunse il titolo di «Gotico». 51. La protesta del biografo contro l’accusa di adulazione nei confronti di Claudio appare quasi un Leitmotiv nel corso della Vita: affermazioni in questo senso abbiamo già incontrato a 3, 1; 6, 5; 8, 2. 52. Si tratta di una citazione sallustiana da Cat., 11, 7 (cfr. anche precedentemente un richiamo a SALLUSTIO a 5, 4; sui riferimenti sallustiani nel corso di tutta l’opera cfr. E. KLEBS, Die Vita des Av. Cass., «Rhein. Mus.», XLIII, 1898, pp. 329 segg. e Die ShA, ibid., XLVII, 1892, pp. 537 segg.; su questo passo v. in partic. R. SYME, Ammianus and the HA, Oxford, 1968, pp. 127 seg.). 53. La fantasiosa tradizione su un’origine «troiana» di Claudio è probabilmente da ascrivere alla confusione fra la Dardania, distretto dell’Illirico (e a 14, 2 Claudio è appunto detto Illiricianae gentis vir) e l’omonima regione dell’Asia Minore nei pressi di Troia, confusione evidentemente alimentata dal desiderio di attribuire a Claudio una stirpe regale. 54. Anche ZOSIMO (I, 46) narra che i barbari ebbero ad incrociare (περιπλεύσαντες) nelle acque di Creta (e di Rodi), senza peraltro compiere azioni degne di rilievo. 55. Morì nel gennaio del 270 d. C. a Sirmio, in Pannonia (l’attuale Mitrovitz, sulla bassa Sava): cfr. ZONARA, XII, 26. In AURELIO VITTORE, Caes., 34, 3-5 e nell’Epitome de Caesaribus, 34, 3, la sua morte è presentata – a scopo evidentemente celebrativo e senza fondamento storico – come dovuta a un volontario sacrificio. Sui rapporti tra la HA e le due fonti latine parallele in merito alla narrazione delle circostanze di essa cfr. J. SCHWARTZ, La mort de Claude le Gothique, «Historia», XXII, 1973, pp. 358 segg. 56. M. Aurelius Quintillus Augustus, come è chiamato nelle monete. Eletto imperatore dal senato,

era probabilmente – nonostante le lodi che ne fece la storiografia di tendenza filosenatoria (cfr. anche EUTROPIO, IX, 12 e OROSIO, VII, 23, 2) – un personaggio assolutamente insignificante: la sua caduta immediata dimostra che non aveva certo la tempra e la capacità per reggere l’impero. Del resto i soldati lo conoscevano appena e certamente i generali non ne avevano sostenuto l’elezione. Era ad Aquileia quando giunse la notizia della proclamazione di Aureliano: abbandonato dai suoi pochi sostenitori, morì – non è certo se suicida o assassinato (cfr. Aurel., 16, 1 e 37, 6). Su di lui cfr. T. D. BARNES, Some Persons in the HA, «Phoenix», XXVI, 1972, pp. 168 segg. 57. La moderna Anchiali, sulla costa occidentale del Mar Nero. 58. Città della Tracia, forse identificabile con la moderna Stari Nikub, nella Bulgaria meridionale. 59. La durata del regno di Quintillo, al pari che le altre circostanze della sua vita, non è tramandata dalle fonti in maniera concorde. Di 17 giorni parlano anche EUTROPIO (IX, 12) e ZONARA (XII, 26); ma già nella Vita Aureliani si accenna a 20 giorni (cfr. 37, 6), mentre il Cronografo dell’anno 354 gli assegna 77 giorni; ZOSIMO parla genericamente di pochi mesi (I, 46). Stando al numero notevole di monete coniate in suo nome, appare ragionevole pensare ad un periodo senz’altro superiore ai 17 giorni, e aggirantesi fra le sei settimane e i due mesi. 60. Sulla morte di Galba cfr. TACITO, Hist., I, 16 seg.; su quella di Pertinace cfr. Pert., 11. Per la verità entrambi questi imperatori furono uccisi dai soldati in rivolta, mentre da Aurel., 37,6, risulta che Quintillo si sarebbe ucciso da se stesso tagliandosi le vene (cfr. anche ZOSIMO, I, 47 e ZONARA, XII, 26). 61. L’autore si riferisce qui a lui come M. Aurelius Claudius Quintillus. 62. Nessuno dei membri della famiglia di Claudio che sono qui citati – ove si eccettui Quintillo – risultano altrimenti noti. Del resto, il rapporto di parentela fra Claudio e Costanzo è riferito diversamente in EUTROPIO, IX, 22 e ZONARA, XII, 26, dove risulta che Costanzo sarebbe figlio della figlia di Claudio stesso, non della figlia di un fratello. Anche queste circostanze, naturalmente, rendono più che legittimo il sospetto che la tradizione della parentela di Claudio e Costanzo costituisca un’invenzione volta a conferire a quest’ultimo il lustro di un nobile lignaggio. 63. Uno degli imperatori la cui biografia della HA è andata perduta. Regnò dal 249 al 251 d. C. 64. I premi, cioè, che venivano solitamente assegnati ai soldati in questo tipo di gare: cfr. anche Maxim., 2, 4; Aurel., 7, 7; Prob., 5, 1. 65. Inizia qui una serie di lettere – ovviamente non autentiche – indirizzate da vari imperatori a personaggi a noi non altrimenti noti e con tutta probabilità inventati. 66. Per la verità non ci è nota una legione V, ma bensì IV Marzia, di stanza in Arabia. 67. A parere di C. E. VAN SICKLE, The «Salarium» of Claudius Gothicus (Claudius, XIV, 2-15) viewed as a historical document, «Ant. Class.», XXIII, 1954, pp. 47 segg., il brano presente costituirebbe un autentico mandato di salario emesso in favore di un dux ducenarius fra il 296 e il 312 d. C. che l’autore avrebbe qui inserito sostituendovi solo il saluto iniziale e la conclusione. Senza rappresentare un elemento significativo nella questione della datazione dell’opera, esso però gioverebbe a meglio illuminare il funzionamento del sistema finanziario di Diocleziano. 68. Propriamente questo nome indicava in origine la moneta d’oro messa in circolazione da Filippo II di Macedonia, ma nell’uso esso era talvolta attribuito allo stesso aureus romano. Come nota il MAGIE, III, p. 181, n. 3, è probabile che l’autore – qui come a Quadr. tyr., 15, 8 – lo usi intendendo il riferimento come inerente all’imperatore Filippo l’Arabo. 69. Monete d’oro pari a un terzo dell’aureus. 70. Questo aggettivo pone qualche problema: verrebbe naturale di riferirlo ad Ercole, ma questa soluzione trova ostacolo sia nella tradizione manoscritta (infatti «di Ercole» si dice Herculaneus), sia nel fatto che l’arma più tipicamente propria di Ercole è la clava, non la lancia. Accogliendo la forma tràdita Herculianus dovremmo pensare ad un riferimento a Massimiano, collega di Diocleziano quale Augusto d’Occidente, che aveva assunto appunto il nome di Herculius, attribuendo in corrispondenza alle sue

legioni e ai suoi soldati i soprannomi di Herculiae ed Herculiani (cfr. AMMIANO MARCELLINO, XXII, 3, 2), e di conseguenza ipotizzare che il biografo sia caduto qui in un anacronismo (del tipo – peraltro – ininfluente sul problema della datazione). 71. Cfr. Heliog., 26, 1, n. 2. 72. Gerba (sull’isola di Mennix, di fronte alla costa meridionale della Tunisia, negli autori tardi identificata coll’isola stessa: cfr. Epitome de Caesaribus, 31, 1) era sede di una fabbrica imperiale per la produzione della porpora. 73. Cfr. Al. Sev., 40, 11, n. 1. 74. Da collegare probabilmente con l’ufficio a curis, rivestito da un militare con compiti di vigilanza su una delle residenze del governatore. 75. Il famoso passo ai confini fra Tessaglia e Locride. 76. Cfr. 11, 9, n. 4. Il distretto illirico della Dardania doveva però essere – come nota il MAGIE, III, p. 186, n. 1 – sotto il controllo del governatore della Mesia, non dell’Acaia. 77. Cfr. Al. Sev., 56, 5, n. 2. 78. Cfr. Hadr., 11, 4, n. 1. 79. Personaggi altrimenti sconosciuti. 80. Cfr. anche Aurel., 15, 4 e 46, 6; Prob., 4, 5. La paragauda era una specie di tunica di origine orientale, con orli di porpora ricamati in oro. 81. Cfr. Comm., 8, 8, n. 8. 82. Cfr. Pert., 8, 3, n, 2. 83. Cioè di Sarepta, in Fenicia, città ricordata nell’antichità per le sue industrie della porpora. 84. Cfr. 14, 3, n. 2. Non si ha peraltro conoscenza di trienti con l’effigie di Salonino, il figlio di Gallieno. 85. Cfr. Gall., 6, 1. 86. Allo stesso modo che quello di Flavio (cfr. 7, 8, n. 2), anche il nome di Valerio è attribuito a Claudio onde sottolineare il suo legame di parentela con Fl. Valerio Costanzo Cloro.

XXVI. DIVUS AURELIANUS1 FLAVI VOPISCI SIRACUSII

IL DIVO AURELIANO1 di FLAVIO VOPISCO DI SIRACUSA

[1, 1] Hilaribus2, quibus omnia festa et fieri debere scimus et dici, impletis sollemnibus vehiculo suo3 me et iudiciali carpento4 praef. urbis, vir inlustris5 ac praefata reverentia nominandus, Iunius Tiberianus6 accepit. [2] Ibi cum animus a causis atque a negotiis publicis solutus ac liber vacaret, sermonem multum a Palatio usque ad hortos Varianos7 instituit et in eo praecipue de vita principum. [3] Cumque ad templum Solis8 venissemus ab Aureliano principe consecratum, quod ipse non nihilum ex eius origine sanguinem duceret, quaesivit a me, quis vitam eius in litteras rettulisset. [4] Cui cum ego respondissem neminem a me Latinorum, Graecorum aliquos lectitatos, dolorem gemitus sui vir sanctus per haec verba profundit: [5] «ergo Thersiten9, Sinonem10 ceteraque illa prodigia vetustatis et nos bene scimus et posteri frequentabunt: divum Aurelianum, clarissimum principem, severissimum imperatorem, per quem totus Romano nomini orbis est restitutus, posteri nescient? Deus avertat hanc amentiam. [6] Et tamen, si bene novi, ephemeridas illius viri scriptas habemus. Etiam bella charactere historico digesta, quae velim accipias et per ordinem scribas, additis quae ad vitam pertinent. [7] Quae omnia ex libris linteis11, in quibus ipse cotidiana sua scribi praeceperat, pro tua sedulitate condisces. Curabo autem, ut tibi ex Ulpia bibliotheca12 et libri lintei proferantur. [8] Tu velim Aurelianum ita ut est, quatenus potes, in litteras mittas». [9] Parui, mi Piniane13, praeceptis, accepi libros Graecos et omnia mihi necessaria in manum sumpsi, ex quibus ea, quae digna erant memoratu, in unum libellum contuli. [10] Tu velim meo muneri boni consulas et, si hoc contentus non fueris, lectites Graecos, linteos etiam libros requiras, quos Ulpia tibi bibliotheca, cum volueris, ministrabit. [2, 1] Et quoniam sermo nobis de Trebellio Pollione, qui a duobus Philippis14 usque ad divum Claudium et eius fratrem Quintillum imperatores tam claros quam obscuros memoriae prodidit, in eodem vehiculo fuit adserente Tiberiano, quod Pollio multa incuriose, multa breviter prodidisset, me contra dicente neminem scriptorum, quantum ad historiam pertinet, non aliquid esse mentitum, prodente quin etiam, in quo Livius, in quo Sallustius, in quo Cornelius Tacitus15, in quo denique Trogus16 manifestis testibus convincerentur, pedibus in sententiam transitum17 faciens ac manum porrigens iocando praeterea: [2] «scribe», inquit, «ut libet. Securus, quod velis, dices, habiturus mendaciorum comites, quos historicae eloquentiae miramur auctores».

[3, 1] Ac ne multa et frivola prooemiis odiosus intexam, divus Aurelianus ortus, ut plures loquuntur, Sirmii18 familia obscuriore, ut nonnulli, Dacia ripensi19. [2] Ego autem legisse me memini auctorem, qui eum Moesia genitum praedicaret. Et evenit quidem, ut de eorum virorum genitali solo nesciatur, qui humiliore loco et ipsi plerumque solum genitale confìngunt, ut dent posteritati de locorum splendore fulgorem. [3] Nec tamen magnorum principum in rebus summa sciendi est, ubi quisque sit genitus, sed qualis in re p. fuerit. [4] An Platonem magis commendat, quod Atheniensis fuerit quam quod unicum sapientiae munus inluxerit? [5] Aut eo minores invenientur Aristoteles Stagirites Eleatesque Zenon20 aut Anacharsis Scytha21, quod in minimis nati sint viculis, cum illos ad caelum omnis philosophiae virtus extulerit? [4, 1] Atque ut ad ordinem redeam, Aurelianus modicis ortus parentibus, a prima aetate ingenio vivacissimus, viribus clarus, nullum umquam diem praetermisit, quamvis festum, quamvis vacantem, quo non se pilo et sagittis ceterisque armorum exerceret offìciis. [2] Matrem quidem eius Callicrates Tyrius22, Graecorum longe doctissimus scriptor, sacerdotem templi Solis23, quod in vico eo, in quo habitabant parentes, fuisse dicit. [3] Habuisse quin etiam non nihilum divinationis, adeo ut aliquando marito suo iurgans ingesserit, cum eius et stultitiam increparet et vilitatem: «en imperatoris patrem». Ex quo constat illam mulierem scisse fatalia. [4] Idem dicit auspicia imperii Aureliano haec fuisse: primum pueri eius pelvem serpentem plerumque cinxisse neque umquam occidi potuisse, postremo ipsam matrem, que hoc viderat, serpentem quasi familiarem occidere noluisse. [5] His accedit quod ex palliolo purpureo, quod Soli sui temporis imperator optulerat, sacerdos mulier crepundia24 filio fecisse perhibetur. [6] Addit etiam illud, quod vinctum fasceola Aurelianum aquila innoxie de cunis levaverit et in aram posuerit, quae iuxta sacellum forte sine ignibus erat. [7] Idem auctor est vitulum matri eius natum mirae magnitudinis, candidum sed purpurantibus maculis, ita ut haberet in latere uno «ave» et in alio coronam. [5, 1] Multa superflua in eodem legisse 〈me〉 memini; quippe qui adseveret etiam rosas in eiusdem mulieris chorte nato Aureliano exisse purpureas, odoris rosei, floris aurei. [2] Fuerunt et postea multa omina iam militanti futuri, ut res monstravit, imperii. [3] Nam ingrediente eo Antiochiam in vehiculo, quod prae vulnere tunc equo sedere non posset, ita pallium purpureum, quod in honore eius pansum fuerat, decidit, ut umeros eius tegeret. [4] Et cum in equum transire vellet, quia invidiosum tunc erat

vehiculis in civitate uti25, equus est ei imperatoris adplicitus, cui per festinationem insedit. Sed ubi comperit, semet ad suum transtulit. [5] Data est ei praeterea, cum legatus ad Persas isset, patera, qualis solet imperatori dari a rege Persarum, in qua insculptus erat Sol eo habitu, quo colebatur ab eo templo in quo mater eius fuerat sacerdos. [6] Donatus eidem etiam elefantus praecipuus, quem ille imperatori optulit, solusque omnium privatus Aurelianus elefanti dominus fuit26. [6, 1] Sed ut haec et talia omittamus, fuit decorus ad gratiam, viriliter speciosus, statura procerior, nervis validissimis, vini et cibi paulo cupidior, libidinis rarae, severitatis inmensae, disciplinae singularis, gladii exserendi cupidus. [2] Nam cum essent in exercitu duo Aureliani tribuni, hic et alius, qui cum Valeriano captus est, huic signum exercitus adposuerat «manu ad ferrum», ut si forte quaereretur, quis Aurelianus aliquid vel fecisset vel gessisset, suggereretur «Aurelianus manu ad ferrum» atque cognosceretur. [3] Privatim huius multa extant egregia facinora. Nam erumpentes Sarmatas in Illyrico cum trecentis praesidiariis solus adtrivit. [4] Refert Theoclius27, Caesareanorum temporum scriptor, Aurelianum manu sua bello Sarmatico una die quadraginta et octo interfecisse, plurimis autem et diversis diebus ultra nongentos quinquaginta, adeo ut etiam ballistia pueri et saltatiunculas 〈in〉 Aurelianum tales {componerent}, quibus diebus festis militariter saltitarent: [5] «mille mille mille decollavimus. Unus homo! mille decollavimus. Mille bibat qui mille occidit. Tantum vini nemo habet, quantum fudit sanguinis».

[6] Haec video esse perfrivola, sed quia supra scriptus auctor ita eadem ut sunt Latina suis scriptis inseruit, tacenda esse non credidi. [7, 1] Idem apud Mogontiacum tribunos legionis sextae Gallicanae Francos inruentes, cum vagarentur per totam Galliam, sic adflixit, ut trecentos ex his captos septingentis interemptis sub corona vendiderit. [2] Unde iterum de eo facta est cantilena: «mille Sarmatas, mille Francos semel et semel occidimus, mille Persas quaerimus».

[3] Hic autem [ut supra] militibus ita timori fuit, ut sub eo, posteaquam semel cum ingenti severitate castrensia peccata correxit, nemo peccaverit. [4] Solus denique omnium militem, qui adulterium cum hospitis uxore commiserat, ita punivit, ut duarum arborum capita inflecteret, ad pedes militis

deligaret easdemque subito dimitteret, ut scissus ille utrimque penderet28, quae res ingentem timorem omnibus fecit. [5] Huius epistola militaris est ad vicarium suum data huius modi: «si vis tribunus esse, immo si vis vivere, manus militum contine. Nemo pullum alienum rapiat, ovem nemo contingat. Uvam nullus auferat, segetem nemo deterat, oleum, salem, lignum nemo exigat, annona sua contentus sit. De praeda hostis, non de lacrimis provincialium habeant. [6] Arma tersa sint, ferramenta samiata, calciamenta fortia. Vestis nova vestem veterem excludat. Stipendium in balteo, non in popina habeat. [7] Torquem, brachialem, anulum adponat. Equum et sagmarium suum defricet, capitum animalis non vendat, mulum centuriatum communiter curent. [8] Alter alteri quasi im〈peratori〉, nemo quasi servus obsequatur, a medicis gratis curentur, haruspicibus nihil dent, in hospitiis caste se agant, qui litem fecerit, vapulet». [8, 1] Inveni nuper in Ulpia bibliotheca29 inter linteos libros30 epistolam divi Valeriani de Aureliano principe scriptam. Ad verbum, ut decebat, inserui. [2] «Valerianus Augustus Antonino Gallo31 consuli. Culpas me familiaribus litteris, quod Postumo filium meum Gallienum32 magis quam Aureliano commiserim, cum utique severiori et puer credendus fuerit et exercitus. Ne tu id iustius iudicabis, si bene scieris, quantae sit Aurelianus severitatis: [3] nimius est, multus est, gravis est et ad nostra iam non facit tempora. [4] Testor autem omnes {deos} me etiam timuisse, ne quid etiam erga filium meum severius, si quid ille fecisset [cum] – ut est natura pronus ad ludicra – levius, cogitaret». [5] Haec epistula indicat, quantae fuerit severitatis, ut illum Valerianus etiam timuisse se dicat. [9, 1] Eiusdem Valeriani alia est epistola, quae laudes illius continet. Quam ego ex scriniis praefecturae urbanae protuli. Nam illi Romam venienti salaria sui ordinis sunt decreta. Exemplum epistulae: [2] «Valerianus Augustus Ceionio Albino33 praefecto urbi. Vellemus quidem singulis quibusque devotissimis rei p. viris multo maiora deferre compendia, quam eorum dignitas postulat, maxime ubi honorem vita commendat – debet enim quid praeter dignitatem pretium esse meritorum –, sed facit rigor publicus, ut accipere de provinciarum inlationibus ultra ordinis sui gradum nemo plus possit. [3] Aurelianum, fortissimum virum, ad inspicienda et ordinanda castra omnia destinavimus, cui tantum a nobis atque ab omni re p. communi totius exercitus confessione debetur, ut digna illo vix aliqua vel nimis magna sint munera. [4] Quid enim in illo non clarum? Quid non Corvinis34 et Scipionibus conferendum? Ille liberator Illyrici, ille Galliarum restitutor, ille dux magni

totis exempli. [5] Et tamen nihil praeterea possum addere tanto viro ad muneris gratiam – 〈non〉 patitur sobrie et bene gerenda res p. [6] Quare sinceritas tua, mi parens35 carissime, supra dicto viro adiciet, quamdiu Romae fuerit, panes militares mundos sedecim, panes militares castrenses quadraginta, vini mensalis sextarios quadraginta, porcellum dimidium, gallinaceos duos, porcinae pondo triginta, bubulae pondo quadraginta, olei sextarium unum et item [olei sextarium unum] liquaminis sextarium unum, salis sextarium unum, herbarum, holerum quantum sat est. [7] Sane quoniam ei aliquid praecipue decernendum est, quamdiu Romae fuerit, pabula extra ordinem decernes, ipsi autem ad sumptus aureos Antoninianos36 diurnos binos, argenteos Philippeos minutulos quinquagenos, aeris37 denarios centum. Reliqua per praefectos aerarii38 praebebuntur». [10, 1] Frivola haec fortassis cuipiam et nimis levia esse videantur, sed curiositas nil recusat. [2] Habuit ergo multos ducatus, plurimos tribunatus, vicarias ducum et tribunorum diversis temporibus prope quadraginta, usque adeo ut etiam Ulpii Criniti39, qui se de Traiani genere referebat, et fortissimi re vera viri et Traiani simillimi, qui pictus est cum eodem Aureliano in templo Solis, quem Valerianus Caesaris loco habere instituerat, vicem sumeret, exercitum duceret, limitem restitueret, praedam militibus daret, Thracias bubus, equis, mancipiis captivis locupletaret, manubias in Palatio conlocaret, quingentos servos, duo milia vaccarum, equas mille, ovium decem milia, caprearum quindecim in privatam villam Valeriani congereret, [3] tunc cum Ulpius Crinitus publice apud Byzantium sedenti Valeriano in thermis egit gratias dicens magnum de se iudicium habitum, quod eidem vicarium Aurelianum dedisset. Quare eum statuit adrogare. [11, 1] Interest epistolas nosse de Aureliano scriptas et ipsam adrogationem. Epistula Valeriani ad Aurelianum: «si esset alius, Aureliane iucundissime, qui Ulpii Criniti vicem posset implere, tecum de eius virtute ac sedulitate conferrem; nunc te cum requirere potuissem, suscipe bellum a parte Nicopolis, ne nobis aegritudo Criniti obsit. [2] Fac, quidquid potes. Multa non dico: in tua erit potestate militiae magisterium. [3] Habes sagittarios Ityraeos40 trecentos, Armenios sescentos, Arabas centum quinquaginta, Saracenos ducentos, Mesopotamenos auxiliares quadringentos; [4] habes legionem tertiam Felicem41 et equites catafractarios42 octingentos. Tecum erit Hariomundus, Haldagates, Hildomundus, Carioviscus. [5] Commeatus a praefectis necessarius in omnibus castris est constitutus. [6] Tuum est pro

virtutibus tuis atque sollertia illic hiemalia et aestiva disponere, ubi tibi nihil deerit, quaerere praeterea, ubi carrago43 sit hostium, et vere scire, quanti qualesque sint, ut non in vanum aut annona consumatur aut tela iaciantur, in quibus res bellica constituta est. [7] Ego de te tantum deo favente spero, quantum de Traiano, si viveret, posset sperare res p.; neque enim minor est, in cuius locum vicemque te legi. [8] Consulatum cum eodem Ulpio Crinito in annum sequentem a die undecimo kal. Iuniarum in locum Gallieni et Valeriani sperare te convenit sumptu publico. [9] Levanda est enim paupertas eorum hominum, qui diu in re p. viventes pauperes sunt, et nullorum magis». [10] His quoque litteris indicatur, quantus fuerit Aurelianus; et re vera, neque enim quisquam aliquando ad summam rerum pervenit, qui non a prima aetate gradibus virtutis ascenderit. [12, 1] Litterae de consulatu: «Valerianus Augustus Aelio Xifidio praefecto aerarii44. Aureliano, cui consulatum detulimus ob paupertatem, qua ille magnus est, ceteris maior, dabis ad editionem circensium aureos Antoninianos trecentos, argenteos Philippeos minutulos tria milia, in aere sestertium quinquagies, tunicas multicias viriles decem, lineas Aegyptias viginti, mantelia Cypria paria duo, tapetia Afra decem, stragula Maura decem, porcos centum, oves centum. [2] Convivium autem publicum edi iubebis senatoribus equitibus Romanis, hostias maiores duas, minores quattuor». [3] Et quoniam etiam de adrogatione aliqua me dixeram positurum, quae ad tantum principem pertinerent, [4] quaeso, ne odiosior verbosiorve in ea re videar, quam fidei causa inserendam credidi ex libris Acholi45, qui magister admissionum46 Valeriani principis fuit, libro actorum eius nono: [13, 1] Cum consedisset Valerianus Augustus in thermis apud Byzantium, praesente exercitu, praesente etiam officio Palatino, adsidentibus Nummio Tusco consule ordinario47, Baebio Macro48 praefecto praet., Quinto Ancario praeside orientis, adsidentibus etiam a parte laeva Avulnio Saturnino Scythici limitis duce et Murrentio Mauricio ad Aegyptum destinato et Iulio Tryphone orientalis limitis duce et Maecio Brundisino praefecto annonae orientis et Ulpio Crinito duce Illyriciani limitis et Thracici et Fulvio Boio duce Raetici limitis Valerianus Augustus dixit: [2] «gratias tibi agit, Aureliane, res p., quod eam a Gothorum potestate liberasti. Abundamus per te praeda, abundamus gloria et his omnibus, quibus Romana felicitas crescit. [3] Cape igitur tibi pro rebus gestis tuis coronas murales49 quattuor, coronas vallares50 quinque, coronas navales51 duas, coronas civicas52 duas, hastas puras53 decem, vexilla

bicolora quattuor, tunicas russas ducales quattuor, pallia proconsularia duo, togam praetextam, tunicam palmatam54, togam pictam, subarmalem55 profundum, sellam eburatam. [4] Nam te consulem hodie designo, scripturus ad senatum, ut tibi deputet scipionem56, deputet etiam fasces; haec enim imperator non solet dare, sed a senatu, quando fìt consul, accipere». [14, 1] Post haec Valeriani dicta Aurelianus surrexit atque ad manus accessit agens gratias militaribus verbis, quae propria et ipsa adponenda decrevi. Aurelianus dixit: [2] «et ego, domine Valeriane, imperator Auguste, ideo cuncta feci, ideo vulnera patienter excepi, ideo et equos et coniuratos meos lassavi, ut mihi gratias ageret res p. et conscientia mea. [3] At tu plus fecisti. Ago ego gratias bonitati tuae et accipio consulatum, quem das. Dii faciant et deus {Sol} certus, ut et senatus de me sic iudicet». [4] Agentibus igitur gratias omnibus circumstantibus Ulpius Crinitus surrexit atque hac oratione usus est: [5] «apud maiores nostros, Valeriane Auguste, quod et familiae meae amicum ac proprium fuit, ab optimis quibusque in filiorum locum fortissimi viri semper electi sunt, ut vel senescentes familias vel fetus matrimoniis iam caducos substitutae fecunditas prolis ornaret. [6] Hoc igitur, quod Cocceius Nerva in Traiano adoptando, quod Ulpius Traianus in Hadriano, quod Hadrianus in Antonino et ceteri deinceps proposita suggestione fecerunt, in adrogando Aureliano, quem mihi vicarium iudicii tui auctoritate fecisti, censui esse referendum. [7] Iube igitur, ut lege agatur, sitque Aurelianus heres sacrorum nominis et bonorum totiusque iuris Ulpio Crinito iam consulari viro, ipse actutum te iudice consularis». [15, 1] Longum est cuncta pertexere. Nam et actae sunt Crinito a Valeriano gratiae, et adoptio, ut solebat, impleta. [2] Memini me in quodam libro Graeco legisse, quod tacendum esse non credidi, mandatum esse Crinito a Valeriano, ut Aurelianus adoptaretur, idcirco praecipue quod pauper esset; sed hoc in medio relinquendum puto. [3] Et quoniam superius epistolam posui, qua sumptus Aureliano ad consulatum delatus est, quare posuerim rem quasi frivolam, eloquendum putavi: [4] vidimus proxime consulatum Furii Placidi57 tanto ambitu in circo editum, ut non praemia dari aurigis sed patrimonia viderentur, cum darentur tunicae subsericae, lineae paragaudae, darentur etiam equi, ingemescentibus frugi hominibus. [5] Factum est enim, ut iam divitiarum sit, non hominum consulatus, quia utique, si virtutibus defertur, editorem spoliare non debet. [6] Perierunt casta illa tempora et magis ambitione populari peritura sunt. Sed nos, ut solemus, hanc quoque rem in medio relinquimus.

[16, 1] His igitur tot ac talibus praeiudiciis muneribusque fultus Claudianis temporibus58 tantus enituit, ut post eum Quintillo quoque eius fratre interempto59 solus teneret imperium Aureolo interfecto, cum quo Gallienus fecerat pacem. [2] Hoc loco tanta est diversitas historicorum, et quidem Graecorum, ut alii dicant invito Claudio ab Aureliano Aureolum interfectum, alii mandante ac volente, alii ab imperatore iam Aureliano eundem occisum, alii vero adhuc a privato60. [3] Sed haec quoque media relinquemus, ab ipsis petenda, per quos in litteras missa sunt. [4] Illud tamen constat omne contra Meotidas61 bellum divum Claudium nulli magis quam Aureliano credidisse. [17, 1] Extat epistula, quam ego, ut soleo, fidei causa, immo ut alios annalium scriptores fecisse video, inserendam putavi: [2] «Flavius62 Claudius [Valeriano] Aureliano suo salutem. Expetit a te munus solitum nostra res p.: adgredere. Quid moraris? Tuo magisterio milites uti volo, tuo ductu tribunos. Gothi oppugnandi sunt, Gothi a Thraciis amovendi. Eorum enim plerique Haemimontum63 Europamque vexant, qui te pugnante fugerunt. [3] Omnes exercitus Thracicos, omnes Illyricianos totumque limitem in tua potestate constituo: solitam en nobis ede virtutem. Tecum erit etiam frater Quintillus, cum occurrerit. [4] Ego aliis rebus occupatus summam belli illius virtutibus tuis credo. Misi sane equos decem, loricas duas et cetera, quibus munire ad bellum euntem necessitas cogit». [5] Secundis igitur proeliis usus auspiciis Claudianis rem p. in integrum reddidit atque ipse statim, ut supra diximus, consensu omnium legionum factus est imperator64. [18, 1] Equites sane omnes ante imperium sub Claudio Aurelianus gubernavit, cum offensam magistri eorum incurrissent, quod temere Claudio non iubente pugnassent. [2] Idem Aurelianus contra Suebos65 et Sarmatas isdem temporibus vehementissime dimicavit ac florentissimam victoriam rettulit66. [3] Accepta est sane clades sub Aureliano a Marcomannis67 per errorem. Nam dum is a fronte non curat occurrere subito erumpentibus, dumque illos a dorso persequi parat, omnia circa Mediolanum graviter evastata sunt. Postea tamen ipsi quoque Marcomanni superati sunt68. [4] In illo autem timore, quo Marcomanni cuncta vastabant, ingentes Romae seditiones motae sunt69 paventibus cunctis, ne eadem, quae sub Gallieno fuerant70, provenirent. [5] Quare etiam libri Sibyllini noti beneficiis publicis inspecti sunt inventumque, ut in certis locis sacrificia fìerent, quae

barbari transire non possent. [6] Facta denique sunt ea, quae praecepta fuerant in diverso caerimoniarum genere, atque ita barbari restiterunt, quos omnes Aurelianus carptim vagantes occidit. [7] Libet ipsius senatus consulti71 formam exponere, quo libros inspici clarissimi or 〈dinis〉 iussit auctoritas: [19, 1] Die tertio iduum Ianuariarum Fulvius Sabinus72 praetor urbanus dixit: «referimus ad vos, p. c., pontificum suggestionem et Aureliani principis litteras, quibus iubetur, ut inspiciantur fatales libri, quibus spes belli terminandi sacrato deorum imperio continetur. [2] Scitis enim ipsi, quotiescumque gravior aliquis extitit motus, eos semper inspectos neque prius mala publica esse finita, quam ex his sacrificiorum processit auctoritas». [3] Tunc surrexit primae sententiae Ulpius Silanus73 atque ita loquutus est: «sero nimis, p. c., de rei p. salute consulimur, sero ad fatalia iussa respicimus more languentium, qui ad summos medicos nisi in summa desperatione non mittunt, proinde quasi peritioribus viris maior facienda sit cura, cum omnibus morbis occurri sit melius. [4] Meministis enim, p. c., me in hoc ordine saepe dixisse, iam tum cum primum nuntiatum est Marcomannos erupisse, consulenda Sibyllae decreta74, utendum Apollinis benefìciis, {inserviendum deorum immortalium praeceptis}, recusasse vero quosdam, et cum ingenti calumnia recusasse, cum adulando dicerent tantam principis Aureliani esse virtutem, ut opus non sit deos consuli, proinde quasi et ipse vir magnus non deos colat, non de dis inmortalibus speret. [5] Quid plura? Audivimus litteras, quibus rogavit opem [dei] {deorum, quae numquam cuiquam turpis est}. [ut] Vir fortissimus adiuvetur. [6] Agite igitur, pontifìces, qua puri, qua mundi, qua sancti, qua vestitu animisque sacris commodi, templum ascendite, subsellia laureata construite, velatis manibus libros evolvite, fata rei p. quae sunt aeterna perquirite. {Patrimis matrimisque pueris75 carmen indicite. Nos sumptum sacris, nos apparatum sacrifìciis, nos aras tumultuarias indicemus»}. [20, 1] Post haec interrogati plerique senatores sententias dixerunt, quas longum est innectere. [2] Deinde aliis manus porrigentibus, aliis pedibus in sententias euntibus, plerisque verbo consentientibus conditum est senatus consultum. [3] Itum deinde ad templum, inspecti libri, proditi versus, lustrata urbs, cantata carmina, amburbium76 celebratum, ambarvalia77 promissa, atque ita sollemnitas, quae iubebatur, expleta est. [4] Epistula Aureliani de libris Sibyllinis. Nam ipsam quoque indidi ad fìdem rerum. [5] «Miror vos, patres sancti, tamdiu de aperiendis Sibyllinis

dubitasse libris, proinde quasi in Christianorum78 ecclesia, non in templo deorum omnium tractaretis. [6] Agite igitur et castimonia pontifìcum caeremoniisque sollemnibus iuvate principem necessitate publica laborantem. [7] Inspiciantur libri; si quae facienda fuerint, celebrentur: quemlibet sumptum, cuiuslibet gentis captos, quaelibet animalia regia non abnuo, sed libens offero, neque enim indecorum est diis iuvantibus vincere. Sic apud maiores nostros multa finita sunt bella, sic coepta. [8] Si quid est sumptuum, datis ad praefectum aerarii litteris decerni iussi. Est praeterea vestrae auctoritatis arca publica, quam magis refertam repperio esse quam cupio». [21, 1] Cum autem Aurelianus vellet omnibus simul facta exercitus sui constipatione concurrere, tanta apud Placentiam clades accepta est, ut Romanum paene solveretur imperium. [2] Et causa quidem huius periculi perfidia et calliditas barbarici fuit motus. [3] Nam cum congredi aperto Marte non possent, in silvas se densissimas contulerunt atque ita nostros vespera incumbente turbarunt. [4] Denique nisi divina ope post inspectionem librorum sacrificiorumque curas monstris quibusdam speciebusque divinis inpliciti essent barbari, Romana victoria non fuisset. [5] Finito proelio Marcomannico Aurelianus, ut erat natura ferocior, plenus irarum Romam petit vindictae cupidus, quam seditionum79 asperitas suggerebat. Incivilius denique usus imperio, vir alias optimus80, seditionum auctoribus interemptis cruentius ea, quae mollius fuerant curanda, compescuit. [6] Interfecti sunt enim nonnulli etiam nobiles senatores, cum his leve quiddam et quod contemni a mitiore principe potuisset vel unus vel levis vel vilis testis obiceret. [7] Quid multa? Magnum illud et quod iam fuerat et quod non frustra speratum est infamiae tristioris ictu contaminavit imperium. [8] Timeri coepit princeps optimus, non amari, cum alii dicerent perodiendum talem principem, non optandum, alii bonum quidem medicum, sed mala ratione curantem. [9] His actis cum videret posse fieri, ut aliquid tale iterum, quale sub Gallieno evenerat, proveniret, adhibito consilio senatus muros urbis Romae dilatavit81. Nec tamen pomerio82 addidit eo tempore, sed postea. [10] Pomerio autem neminem principum licet addere nisi eum, qui agri barbarici aliqua parte Romanam rem p. locupletaverit83. [11] Addidit autem Augustus, addidit Traianus, addidit Nero84, sub quo Pontus Polemoniacus85 et Alpes Cottiae86 Romano nomini sunt tributae. [22, 1] Transactis igitur, quae ad saeptiones atque urbis statum et civilia pertinebant, contra Palmyrenos, id est contra Zenobiam, quae filiorum nomine

orientale tenebat imperium87, iter flexit. [2] Multa in itinere ac magna bellorum genera confecit. Nam in Thraciis et in Illyrico occurrentes barbaros88 vicit, Gothorum quin etiam ducem Cannaban sive Cannabauden cum quinque milibus hominum trans Danuvium interemit. [3] Atque inde per Byzantium in Bithyniam transitum fecit eamque nullo certamine optinuit. [4] Multa eius magna et praeclara tam facta quam dicta sunt, sed omnia libro innectere nec possumus fastidii evitatione nec volumus, sed ad intellegendos mores atque virtutem pauca libanda sunt. [5] Nam cum Tyanam89 venisset eamque obclusam repperisset, iratus dixisse fertur: «canem in hoc oppido non relinquam». [6] Tunc et militibus acrius incumbentibus spe praedae et Heraclammone quodam timore, ne inter ceteros occideretur, patriam suam prodente civitas capta est. [23, 1] Sed Aurelianus duo statim praecipua, quod unum severitatem ostenderet, alterum lenitatem, ex imperatoria mente monstravit. [2] Nam et Heraclammonem proditorem patriae suae sapiens victor occidit et, cum milites iuxta illud dictum, quo canem se relicturum apud Tyanos negarat, eversionem urbis exposcerent, respondit his: «canem», inquit, «negavi in hac urbe me relicturum: canes omnes occidite». [3] Grande principis dictum, grandius militum factum, nam iocatum principis, quo praeda negabatur, civitas servabatur, totus exercitus ita quasi ditaretur, accepit. [4] Epistula de Heraclammone: «Aurelianus Augustus Mallio Chiloni90. Occidi passus sum cuius quasi beneficio Tyanam recepi. Ego vero proditorem amare non potui et libenter tuli, quod eum milites occiderunt, neque enim mihi fìdem servare potuisset, qui patriae non pepercit. [5] Solum denique ex omnibus, qui oppugnabantur, campus accepit. Divitem hominem negare non possum, sed cuius bona eius liberis reddidi, ne quis me causa pecuniae locupletem hominem occidi passum esse criminaretur». [24, 1] Capta autem civitas est miro modo. Nam cum Heraclammon locum ostendisset aggeris naturali specie tumentem, qua posset Aurelianus cultus ascendere, ille conscendit atque elata purpurea clamide intus civibus, foris militibus se ostendit, et ita civitas capta est, quasi totus in muris Aureliani fuisset exercitus. [2] Taceri non debet res, quae ad famam venerabilis viri pertinet. [3] Fertur enim Aurelianum de Tyanae civitatis eversione vere dixisse, vere cogitasse; verum Apollonium Tyanaeum91, celeberrimae famae auctoritatisque sapientem, veterem philosophum, amicum vere deorum, ipsum etiam pro numine frequentandum, recipienti se in tentorium ea forma, qua videtur,

subito adstitisse atque haec Latine, ut homo Pannonius intellegeret, verba dixisse: [4] «Aureliane, si vis vincere, nihil est quod de civium meorum nece cogites. Aureliane, si vis imperare, a cruore innocentium abstine. Aureliane, clementer te age, si vis vivere». [5] Norat vultum philosophi venerabilis Aurelianus atque in multis eius imaginem viderat templis. [6] Denique statim adtonitus et imaginem et statuas et templum eidem promisit atque in meliorem redit mentem. [7] Haec ego et a gravibus viris conperi {et} in Ulpiae bibliothecae libris relegi et pro maiestate Apollonii magis credidi. [8] Quid enim illo viro sanctius, venerabilius, antiquius diviniusque inter homines fuit? Ille mortuis reddidit vitam, ille multa ultra homines et fecit et dixit. Quae qui velit nosse, Graecos legat libros92, qui de eius vita conscripti sunt. [9] Ipse autem, si vita suppetit atque ipsius viri favor visque iuverit, breviter saltem tanti viri facta in litteras mittam, non quo illius viri gesta munere mei sermonis indigeant, sed ut ea, quae miranda sunt, omnium voce praedicentur. [25, 1] Recepta Tyana Antiochiam proposita omnibus inpunitate brevi apud Dafnem93 certamine optinuit atque inde praeceptis, quantum probatur, venerabilis viri Apollonii parens humanior atque clementior fuit. [2] Pugnatum est post haec de summa rerum contra Zenobiam et Zabam eius socium apud Emessam magno certamine. [3] Cumque Aureliani equites fatigati iam paene discederent ac terga darent, subito vi numinis, quod postea est proditum, hortante quadam divina forma per pedites etiam equites restituti sunt. Fugata est Zenobia cum Zaba et pienissime parta victoria. [4] Recepto igitur orientis statu Emesam victor Aurelianus ingressus est ac statim ad templum Heliogabali94 tetendit, quasi communi officio vota soluturus. [5] Verum illic eam formam numinis repperit, quam in bello sibi faventem vidit. [6] Quare et illic templa fundavit donariis ingentibus positis et Romae Soli templum posuit maiore honirificentia consecratum, ut suo dicemus loco95. [26, 1] Post haec Palmyram iter flexit96, ut ea oppugnata laborum terminus fìeret. Sed in itinere a latronibus Syris male accepto frequenter exercitu multa perpessus est et in obsidione usque ad ictum sagittae periclitatus est. [2] Epistula ipsius extat ad Mucaporem97 missa, in qua de huius belli difficultate ultra pudorem imperialem fatetur: [3] «Romani me modo dicunt bellum contra feminam gerere, quasi sola mecum Zenobia et suis viribus pugnet, atque 〈non〉 hostium quantum si vir a me oppugnandus esset, in conscientia et timore longe deteriore. [4] Dici non potest, quantum hic sagittarum est, qui belli apparatus, quantum telorum, quantum lapidum, nulla

pars muri est, quae non binis et ternis ballistis98 occupata sit; ignes etiam tormentis iaciuntur. [5] Quid plura? Timet quasi femina, pugnat quasi 〈vir〉 poenam timens. Sed credo adiuturos Romanam rem p. [vir] deos, qui numquam nostris conatibus defuerunt». [6] Denique fatigatus ac pro malis fessus litteras ad Zenobiam misit deditionem illius petens, vitam promittens, quarum exemplum indidi: [7] «Aurelianus imperator Romani orbis et receptor orientis Zenobiae ceterisque, quos societas tenet bellica. [8] Sponte facere debuistis id, quod meis litteris nunc iubetur. Deditionem enim praecipio inpunitate vitae proposita, ita ut illic, Zenobia, cum tuis agas vitam, ubi te ex senatus amplissimi sententia conlocavero. [9] Gemmas, aurum, argentum, sericum, equos, camelos in Romanum aerarium conferatis. Palmyrenis ius suum servabitur». [27, 1] Hac epistula accepta Zenobia superbius insolentiusque rescripsit quam eius fortuna poscebat, credo ad terrorem. Nam eius quoque epistulae exemplum indidi: [2] «Zenobia regina orientis Aureliano Augusto. Nemo adhuc praeter te hoc, quod poscis, litteris petit. Virtute faciendum est quidquid in rebus bellicis est gerendum. [3] Deditionem meam petis, quasi nescias Cleopatram reginam perire maluisse quam in qualibet vivere dignitate. [4] Nobis Persarum auxilia non desunt, quae iam speramus, pro nobis sunt Saraceni, pro nobis Armenii. [5] Latrones Syri exercitum tuum, Aureliane, vicerunt. Quid? Si igitur illa venerit manus, quae undique speratur, pones profecto supercilium, quo nunc mihi deditionem, quasi omnifariam victor, imperas». [6] Hanc epistulam Nicomachus99 se transtulisse in Graecum ex lingua Syrorum dicit ab ipsa Zenobia dictatam. Nam illa superior Aureliani Graeca missa est. [28, 1] His acceptis litteris Aurelianus non erubuit, sed iratus est statimque collecto exercitu ac ducibus suis undique Palmyram obsedit neque quicquam vir fortis reliquit, quod aut inperfectum videretur aut incuratum. [2] Nam et auxilia, quae a Persis missa fuerant, intercepit et alas Saracenas Armeniasque corrupit atque ad se modo ferociter modo subtiliter transtulit, denique multa vi mulierem potentissimam vicit100.[3] Victa igitur Zenobia cum fugeret camellis, quos dromedas vocitant, atque ad Persas iter tenderet, equitibus missis est capta atque in Aureliani potestatem deducta. [4] Victor itaque Aurelianus totiusque iam orientis possessor, cum in vinculis Zenobiam teneret, cum Persis, Armeniis, Saracenis superbior atque insolentior egit ea, quae ratio temporis postulabat. [5] Tunc illatae vestes, quas in templo Solis

videmus, consertae gemmis, tunc Persici dracones101 et tiarae, tunc genus purpurae, quod postea nec ulla gens detulit nec Romanus orbis vidit. [29, 1] De qua pauca saltem libet dicere. Meministis enim fuisse in templo Iovis Optimi Maximi Capitolini pallium breve purpureum lanestre, ad quod cum matronae atque ipse Aurelianus iungerent purpuras suas, cineris specie decolorari videbantur ceterae divini comparatione fulgoris. [2] Hoc munus rex Persarum ab Indis interioribus sumptum Aureliano dedisse perhibetur, scribens: «Sume purpuram, qualis apud nos est». [3] {Sed hoc falsum fuit}. Nam postea diligentissime et Aurelianus et Probus et proxime Diocletianus missis diligentissimis confectoribus requisiverunt tale genus purpurae nec tamen invenire potuerunt. Dicitur enim sandyx102 Indica talem purpuram facere, si curetur. [30, 1] Sed [sed] ut ad incepta redeamus: ingens tamen strepitus militum fuit omnium Zenobiam ad poenam poscentium. [2] Sed Aurelianus indignum aestimans mulierem interimi, occisis plerisque, quibus auctoribus103 illa bellum moverat, paraverat, gesserat, triumpho mulierem reservavit, ut populi Romani oculis esset ostentui. [3] Grave inter eos, qui caesi sunt, de Longino104 filosofo fuisse perhibetur, quo illa magistro usa esse ad Graecas litteras dicitur. Quem quidem Aurelianus idcirco dicitur occidisse, quod superbior illa epistula ipsius diceretur dictata consilio, quamvis Syro esset sermone contexta. [4] Pacato igitur oriente in Europam Aurelianus redit105 victor atque illic Carporum copias adflixit106 et, cum illum Carpicum senatus absentem vocasset, mandasse ioco fertur: «superest, p. c., ut me etiam Carpisclum vocetis». [5] Carpisclum enim genus calciamenti esse satis notum est. 〈Quod〉 cognomen [quod] deforme videbatur, cum et Gothicus et Sarmaticus et Armenicus et Parthicus et Adiabenicus107 iam ille diceretur. [31, 1] Rarum est ut Syri fidem servent, immo difficile. Nam Palmyreni, qui iam victi atque contusi fuerant, Aureliano rebus Europensibus occupato non mediocriter rebellarunt108. [2] Sandarionem enim, quem in praesidio illic Aurelianus posuerat, cum sescentis sagittariis occiderunt Achilleo109 cuidam parenti Zenobiae parantes imperium. [3] Verum adeo Aurelianus, ut erat paratus, e Rhodopa revertit atque urbem, quia ita merebatur, evertit. [4] Crudelitas denique Aureliani vel, ut quidam dicunt, severitas110 eatenus extitit, ut epistula eius feratur confessionem inmanissimi furoris ostentans. Cuius hoc exemplum est: [5] «Aurelianus Augustus Cerronio Basso111. Non oportet ulterius progredi militum gladios. Iam satis Palmyrenorum caesum

atque concisum est. Mulieribus non pepercimus, infantes occidimus, senes iugulavimus, rusticos interemimus. [6] Cui terras, cui urbem deinceps relinquemus? Parcendum est his, qui remanserunt. Credimus enim tam paucos tam multorum suppliciis esse correctos. [7] Templum sane Solis, quod apud Palmyram aquiliferi legionis tertiae cum vexilliferis et draconario et cornicinibus atque liticinibus diripuerunt, ad eam formam volo, quae fuit, reddi. [8] Habes trecentas auri libras 〈de〉 Zenobiae capsulis, habes argenti mille octingenta pondo de Palmyrenorum bonis, habes gemmas regias. [9] Ex his omnibus fac cohonestari templum: mihi et diis inmortalibus gratissimum feceris. Ego ad senatum scribam petens, ut mittat pontificem qui dedicet templum». [10] Haec litterae, ut videmus, indicant satiatam esse inmanitatem principis duri. [32, 1] Securior denique iterum in Europam redit atque illic omnes, qui vagabantur, hostes nota illa sua virtute contudit. [2] Interim res per Thracias Europamque omnem Aureliano ingentes agente Firmus112 quidam extitit, qui sibi Aegyptum sine insignibus imperii, quasi ut esset civitas libera, vindicavit, [3] ad quem continuo Aurelianus revertit113, nec illic defuit felicitas solita. Nam Aegyptum statim recepit atque, ut erat ferox animi, cogitationem ultus, vehementer irascens, quod adhuc Tetricus114 Gallias optineret, occidentem petit atque ipso Tetrico exercitum suum prodente, quod eius scelera ferre non posset, deditas sibi legiones optinuit. [4] Princeps igitur totius orbis Aurelianus pacatis oriente, Gallis atque undique terris [victo eripe me his invicte malis] Romam iter flexit, 〈ut〉 de Zenobia et Tetrico, hoc est de oriente et de occidente115, triumphum Romanis oculis exhiberet. [33, 1] Non absque re est cognoscere, qui fuerit Aureliani triumphus116; fuit enim speciosissimus. [2] Currus regii tres fuerunt, in his unus Odenati, argento, auro, gemmis operosus atque distinctus, alter, quem rex Persarum Aureliano dono dedit, ipse quoque pari opere fabricatus, tertius, quem sibi Zenobia composuerat sperans se urbem Romam cum eo visuram; quod illam non fefellit, nam cum eo urbem ingressa est victa et triumphata. [3] Fuit alius currus quattuor cervis iunctus, qui fuisse dicitur regis Gothorum117. Quo, ut multi memoriae tradiderunt, Capitolium Aurelianus invectus est, ut illic caederet cervos, quos cum eodem curru captos vovisse Iovi Optimo Maximo ferebatur. [4] Praecesserunt elephanti viginti, ferae mansuetae Libycae, Palaestinae diversae ducentae, quas statim Aurelianus privatis donavit, ne fiscum annonis gravaret; tigrides quattuor, camelopardali, alces, cetera talia per ordinem ducta, gladiatorum paria octingenta – praeter captivos gentium

barbararum – Blemmyes118, Exomitae119, Arabes Eudaemones120, Indi, Bactrani121, Hiberi122, Saraceni123, Persae cum suis quique muneribus, Gothi, Halani124, Roxolani125, Sarmatae, Franci, Suevi126, Vandali, Germani, religatis manibus, captivi utpote. [5] Praecesserunt inter hos etiam Palmyreni, qui superfuerant, principes civitatis et Aegyptii ob rebellionem. [34, 1] Ductae sunt et decem mulieres, quas virili habitu pugnantes inter Gothos ceperat, cum multae essent interemptae, quas de Amazonum genere titulus indicabat: praelati sunt tituli gentium nomina continentes. [2] Inter haec fuit Tetricus clamide coccea, tunica galbina, bracis Gallicis ornatus, adiuncto sibi filio, quem imperatorem in Gallia nuncupaverat127. [3] Incedebat etiam Zenobia, ornata gemmis, catenis aureis, quas alii sustentabant. Praeferebantur coronae omnium civitatum aureae titulis eminentibus proditae. [4] Iam populus ipse Romanus, iam vexilla collegiorum atque castrorum et catafractarii128 milites et opes regiae et omnis exercitus et senatus (etsi aliquantulo tristior, quod senatores129 triumphari videbant) multum pompae addiderant. [5] Denique vix nona hora130 in Capitolium pervenit, sero autem ad Palatium. [6] Sequentibus diebus datae sunt populo voluptates ludorum scaenicorum, ludorum circensium, venationum, gladiatorum, naumachiae. [35, 1] Non praetereundum videtur, quod et populus memoria tenet et fides historica frequentavit, Aurelianum eo tempore, quo profìciscebatur ad orientem, bilibres coronas populo promisisse, si victor rediret, et, cum aureas populus speraret neque Aurelianus aut posset aut vellet, coronas eum fecisse de panibus, qui nunc siliginei131 vocantur, et singulis quibusque donasse, ita ut siligineum suum cotidie toto aevo suo [et] unusquisque et acciperet et posteris suis dimitteret132. [2] Nam idem Aurelianus et porcinam carnem p. R. distribuit, quae hodieque dividitur. [3] Leges plurimas sanxit et quidem salutares133. Sacerdotia composuit, templum Solis134 fundavit et pontifices roboravit; decrevit etiam emolumenta sartis tectis et ministris. [4] His gestis ad Gallias profectus135 Vindelicos136 obsidione barbarica liberavit, deinde ad Illyricum redit paratoque magno potius quam ingenti exercitu Persis, quos eo quoque tempore, quo Zenobiam superavit, gloriosissime iam vicerat137, bellum indixit. [5] Sed cum iter faceret, apud Caenofrurium138 mansionem, quae est inter Heracliam et Byzantium, malitia notarii sui et manu Mucaporis interemptus est139.

[36, 1] Et causa occidendi eius quae fuerit et quemadmodum sit occisus, ne res tanta lateat, brevi edisseram. [2] Aurelianus, quod negari non potest, severus, truculentus, sanguinarius fuit princeps. [3] Hic, cum usque eo severitatem tetendisset, ut et filiam sororis occideret140 non in magna neque in satis idonea causa, iam primum in odium suorum venit. [4] Incidit autem, ut se res fataliter agunt, ut Mnesteum141 quendam, quem pro notario secretorum habuerat, libertum, ut quidam dicunt, suum, infensiorem sibi minando redderet, quod nescio quid de eo suspicatus esset. [5] Mnesteus, qui sciret Aurelianum neque frustra minari solere neque, si minaretur, ignoscere, brevem nominum conscripsit mixtis his, quibus Aurelianus vere irascebatur, cum his, de quibus nihil asperum cogitabat, addito etiam suo nomine, quo magis fidem faceret ingestae sollicitudinis, ac brevem legit singulis, quorum nomina continebat, addens disposuisse Aurelianum eos omnes occidere, illos vero debere suae vitae, si viri sint, subvenire. [6] Hi cum exarsissent, timore, qui merebantur offensam, dolore innocentes, – beneficiis atque officiis Aurelianus videbatur ingratus – in supra dicto loco iter facientem principem subito adorti interemerunt. [37, 1] Hic finis Aureliano fuit, principi necessario magis quam bono. Quo interfecto cum esset res prodita, et sepulchrum ingens et templum illi detulerunt hi, a quibus interemptus est. [2] Sane Mnesteus postea subreptus ad stipitem bestiis obiectus est, quod statuae marmoreae positae in eodem loco utrimque significarli, ubi et in columnis divo Aureliano statuae constitutae sunt. [3] Senatus mortem eius graviter tulit, gravius tamen p. R., qui vulgo dicebat Aurelianum paedagogum esse senatorum. [4] Imperavit annis 〈quinque mensibus〉 sex minus paucis diebus142 ac rebus magnis gestis inter divos relatus est. [5] Quia pertinet ad Aurelianum, id quod in historia relatum est, tacere non debui143. Nam multi ferunt Quintillum, fratrem Claudii, cum in praesidio Italico esset, audita morte Claudii sumpsisse imperium144, [6] verum postea, ubi Aurelianum comperit imperare, a toto exercitu eum derelictum; cumque contra eum contionaretur, nec a militibus audiretur, incisis sibimet venis die vicesimo imperii sui perisse. [7] Quidquid sane scelerum fuit, quidquid malae conscientiae vel artium funestarum, quidquid denique factionum, Aurelianus toto penitus orbe purgavit. [38, 1] Hoc quoque ad rem pertinere arbitror Vabalati filii nomine Zenobiam, non Timolai et Herenniani145, imperium tenuisse quod tenuit. [2] Fuit sub Aureliano etiam monetariorum bellum Felicissimo rationali

auctore146. Quod acerrime severissimeque conpescuit, septem tamen milibus147 suorum militum interemptis, ut epistola docet missa ad Ulpium Crinitum ter consulem, qui eum ante adoptaverat: [3] «Aurelianus Augustus Ulpio patri. Quasi fatale quiddam mihi sit, ut omnia bella, quaecumque gessero, omnes motus ingravescant, ita etiam seditio intramurana bellum mihi gravissimum peperit. Monetarii auctore Felicissimo, ultimo servorum, cui procurationem fisci mandaveram, rebelles spiritus extulerunt. [4] Hi conpressi sunt septem milibus Lembariorum et Riparensium et Castrianorum148 et Daciscorum interemptis. Unde apparet nullam mihi a dis inmortalibus datam sine difficultate victoriam». [39, 1] Tetricum triumphatum correctorem Lucaniae149 fecit, filio eius in senatu manente. [2] Templum Solis magnificentissimum constituit150. Muros urbis Romae sic ampliavit151, ut quinquaginta prope milia murorum eius ambitus teneant. [3] Idem quadruplatores ac delatores ingenti severitate persecutus est. Tabulas publicas ad privatorum securitatem exuri in foro Traiani semel iussit152. [4] Amnestia etiam sub eo delictorum publicorum decreta est [te] exemplo Atheniensium, cuius rei etiam Tullius in Philippicis153 meminit. [5] Fures provinciales repetundarum ac peculatus reos ultra militarem modum est persecutus, ut eos ingentibus suppliciis cruciatibusque puniret. [6] In templo Solis multum auri gemmarumque constituit. [7] Cum vastatum Illyricum ac Moesiam deperditam videret, provinciam Transdanuvinam Daciam a Traiano constitutam sublato exercitu et provincialibus reliquit154, desperans eam posse retineri, abductosque ex ea populos in Moesia conlocavit appellavitque suam Daciam, quae nunc duas Moesias dividit155. [8] Dicitur praeterea huius fuisse crudelitatis, ut plerisque senatoribus simulatam ingereret factionem coniurationis ac tyrannidis, 〈quo〉 facilius eos posset occidere. [9] Addunt nonnulli filium sororis, non filiam156, ab eodem interfectum, plerique autem etiam filium sororis. [40, 1] Quam difficile sit imperatorem in locum boni principis legere, et senatus sanctioris gravitas probat et exercitus prudentis auctoritas: [2] occiso namque severissimo principe de imperatore deligendo exercitus rettulit ad senatum, idcirco quod nullum de his faciendum putabat, qui tam bonum principem occiderant. [3] Verum senatus hanc eandem electionem in exercitum refudit, sciens non libenter iam milites accipere imperatores eos, quos senatus elegerit. [4] Denique id tertio factum est, ita ut per sex menses imperatorem Romanus orbis non habuerit157, omnesque iudices hi

permanerent, quos aut senatus aut Aurelianus elegerat, nisi quod pro consule Asiae Faltonius Probus158 in locum Arelli Fusci159 delegit 〈ur〉. [41, 1] Non iniucundum est ipsas inserere litteras, quas ad senatum exercitus misit: «felices ac fortes exercitus senatui P. Q. R. Aurelianus imperator noster per fraudem unius hominis et per errorem bonorum ac malorum interemptus est. [2] Hunc inter deos referte, sancti et 〈venerabiles〉 domini p. c., et de vobis aliquem, sed dignum vestro iudicio principem mittite. Nos enim de his, qui vel errarunt [qui] vel male fecerunt, imperare nobis neminem patimur». [3] Rescriptum ex senatus consulto. Cum die III. nonarum Februariarum160 senatus amplissimus in curiam Pompilianam161 convenisset, Aurelius Gordianus162 consul dixit: «referimus ad vos, p. c., litteras exercitus felicissimi». [4] Quibus recitatis Aurelius Tacitus, primae sententiae senator, ita loquutus est (hic autem est qui post Aurelianum sententia omnium imperator est appellatus): [5] «recte atque ordine consuluissent dii immortales, p. c., si boni principes ferro inviolabiles extitissent, ut longiorem ducerent vitam neque contra eos aliqua esset potestas his, qui neces infandas tristissima mente concipiunt. [6] Viveret enim princeps Aurelianus, quo 〈neque fortior〉 neque utilior fuit quisquam. [7] Respirare certe post infelicitatem Valeriani, post Gallieni mala imperante Claudio coeperat nostra res p.; at eadem reddita fuerat Aureliano toto penitus orbe vincente. [8] Ille nobis Gallias dedit, ille Italiam liberavit, ille Vindelicis iugum barbaricae servitutis amovit. Illo vincente Illyricum restitutum est, redditae Romanis legibus Thraciae. [9] Ille, pro pudor, orientem femineo pressum iugo in nostra iura restituit, ille Persas, insultantes adhuc Valeriani nece, fudit, fugavit, oppressit. [10] Illum Saraceni, Blemmyes, Exomitae163, Bactrani, Seres164, Hiberi, Albani, Armenii, populi etiam Indorum veluti praesentem paene venerati sunt deum. [11] Illius donis, quae a barbaris gentibus meruit, refertum est Capitolium. Quindecim milia librarum auri ex eius liberalitate unum tenet templum, omnia in urbe fana eius micant donis. [12] Quare, p. c., vel deos ipsos iure convenio, qui talem principem interire passi sunt, nisi forte secum eum esse maluerunt. [13] Decerno igitur divinos honores, idque vos omnes aestimo esse facturos. Nam de imperatore diligendo ad eundem exercitum censeo esse referendum. [14] Etenim in tali genere sententiae nisi fìat quod dicitur, et electi periculum erit et eligentis invidia». [15] Probata sententia est Taciti. Attamen cum iterum atque iterum mitteretur, ex senatus consulto, quod in Taciti vita dicemus, Tacitus factus est imperator. [42, 1] Aurelianus filiam solam reliquit, cuius posteri etiam nunc Romae

sunt165. [2] Aurelianus166 namque pro consule Ciliciae, senator optimus, sui vere iuris vitaeque venerabilis, qui nunc in Sicilia vitam agit, eius est nepos. [3] Quid hoc esse dicam, tam paucos bonos extitisse principes, cum iam tot Caesares fuerint? Nam ab Augusto in Diocletianum Maximianumque principes quae series purpuratorum sit, index publicus tenet. [4] Sed in his optimi ipse Augustus, Fl(avius) Vespasianus, Fl(avius) Titus, Cocceius Nerva, divus Traianus, divus Hadrianus, Pius et Marcus Antonini, Severus Afer, Alexander Mammaeae, divus Claudius et divus Aurelianus. Valerianum, enim, cum optimus fuerit, ab omnibus infelicitas separavit. [5] Vides, quaeso, quam pauci sint principes boni, ut bene dictum sit a quodam mimico scurra Claudii huius temporibus in uno anulo bonos principes posse perscribi atque depingi. [6] At contra quae series malorum? Ut enim omittamus Vitellios, Caligulas et Nerones, quis ferat Maximinos et Filippos atque illam inconditae multitudinis faecem?167 Tametsi Decios excerpere debeam, quorum et vita et mors veteribus comparanda est. [43, 1] Et quaeritur quidem, quae res malos principes faciat: iam primum, mi amice, licentia, deinde rerum copia, amici praeterea inprobi, satellites detestandi, eunuchi avarissimi, aulici vel stulti vel detestabiles et, quod negari non potest, rerum publicarum ignorantia. [2] Sed ego a patre meo168 audivi Diocletianum principem iam privatum dixisse nihil esse difficilius quam bene imperare. [3] Colligunt se quattuor vel quinque atque unum consilium ad decipiendum imperatorem capiunt, dicunt, quid probandum sit. [4] Imperator, qui domi clausus est, vera non novit. Cogitur hoc tantum scire, quod illi loquuntur, facit iudices, quos fieri non oportet, amovet a re p., quos debeat optinere. Quid multa? Ut Diocletianus ipse dicebat, bonus, cautus, optimus venditur imperator. [5] Haec Diocletiani verba sunt, quae idcirco inserui, ut prudentia tua sciret nihil esse difficilius bono principe. [44, 1] Et Aurelianum quidem multi neque inter bonos neque inter malos principes ponunt, idcirco quod ei clementia, imperatorum {dos} prima, defuerit. [2] Verconnius Herennianus169 praefectus praetorii Diocletiani teste Asclepiodoto170 saepe dicebat Diocletianum frequenter dixisse, cum Maximiani asperitatem reprehenderet, Aurelianum magis ducem esse debuisse quam principem. Nam eius nimia ferocitas eidem displicebat. [3] Mirabile fortasse videtur quod conpertum Diocletiano Asclepiodotus Celsino171 consiliario suo dixisse perhibetur, sed de hoc posteri iudicabunt. [4] Dicebat enim quodam tempore Aurelianum Gallicanas consuluisse Dryadas172

sciscitantem, utrum apud eius posteros imperium permaneret, cum illas respondisse dixit nullius clarius in re p. nomen quam Claudii posterorum futurum. [5] Et est quidem iam Constantius imperator, eiusdem vir sanguinis173, cuius puto posteros ad eam gloriam, quae a Dryadibus pronuntiata sit, pervenire. Quod idcirco ego in Aureliani vita constitui, quia haec ipsi Aureliano consulenti responsa sunt. [45, 1] Vectigal ex Aegypto urbi Romae Aurelianus vitri, chartae, lini, stuppae atque anabolicas species174 aeternas constituit. [2] Thermas in Transtiberina regione Aurelianus facere paravit hiemales, quod aquae frigidioris copia illic deesset. Forum nominis sui in Ostiensi ad mare fundare coepit. In quo postea praetorium publicum constitutum est. [3] Amicos suos honeste ditavit et modice, ut miserias paupertatis effugerent et divitiarum invidiam patrimonii moderatione vitarent. [4] Vestem holosericam neque ipse in vestiario suo habuit neque alteri utendam dedit. [5] Et cum ab eo uxor sua peteret, ut tunicopallio175 blatteo serico uteretur, ille respondit: «absit ut auro fila pensentur». Libra enim auri tunc libra serici fuit. [46, 1] Habuit in animo, ut aurum neque in cameras neque in tunicas neque in pelles neque in argentum mitteretur, dicens plus auri esse in rerum natura quam argenti, sed aurum per varios brattearum, fìlorum et liquationum usus perire, argentum autem in suo usu manere. [2] Idem dederat facultatem, ut aureis, qui vellent, et vasis uterentur et poculis. [3] Dedit praeterea potestatem, ut argentatas privati carruchas haberent, cum antea aerata et eburata vehicula fuissent. [4] Idem concessit, ut blatteas matronae tunicas haberent, ceteras vestes, cum antea coloreas habuissent et ut multum oxypaederotinas. [5] Ut fibulas aureas gregarii milites haberent, idem primus concessit, cum antea argenteas habuissent. [6] Paragaudas vestes ipse primus militibus dedit, cum ante non nisi rectis purpureis accepissent, et quidem aliis monolores, aliis dilores, trilores aliis et usque ad pentelores, quales hodie lineae sunt. [47, 1] Panibus urbis Romae unciam de Aegyptio vectigali auxit, ut quadam epistula data ad praefectum annonae urbis etiam ipse gloriatur: [2] «Aurelianus Augustus Fl(avio) Arabiano176 praefecto annonae. Inter cetera, quibus dis faventibus Romanam rem p. iuvimus, nihil mihi est magnifìcentius, quam quod additamento unciae omne[m] annonarum urbicarum genus iuvi. [3] Quod ut esset perpetuum, navicularios Niliacos apud Aegyptum novos et Romae amnicos posui, Tiberinas extruxi ripas, vadum alvei tumentis effodi, diis et Perennitati vota constitui, almam Cererem consecravi. [4] Nunc tuum

est offìcium, Arabiane iucundissime, elaborare, ne meae dispositiones irritum veniant. Neque enim p. R. saturo quicquam potest esse laetius». [48, 1] Statuerat et vinum gratuitum p. R. dare, ut, quem ad modum oleum et panis et porcina gratuita praebentur177, sic etiam vinum daretur, quod perpetuum hac dispositione conceperat. [2] Etruriae per Aureliam178 usque ad Alpes maritimas ingentes agri sunt hique fertiles ac silvosi. Statuerat igitur dominis locorum incultorum, qui tamen vellent, gratiam dare179 atque illic familias captivas constituere, vitibus montes conserere atque ex eo opere vinum dare180, ut nihil redituum fiscus acciperet, sed totum p. R. concederet. Facta erat ratio dogae, cuparum, navium et operum. [3] Sed multi dicunt Aurelianum, ne id faceret, praeventum, alii a praef. praetorii suo prohibitum, qui dixisse fertur: «si et vinum p. R. damus, superest, ut et pullos et anseres demus». [4] Argumento est id vere Aurelianum cogitasse, immo etiam facere disposuisse vel ex aliqua parte fecisse, quod in porticibus templi Solis fiscalia vina ponuntur, non gratuita populo eroganda sed pretio. [5] Sciendum tamen congiaria illum ter dedisse, donasse etiam p. R. tunicas albas manicatas ex diversis provinciis et lineas Afras atque Aegyptias puras, ipsumque primum donasse oraria p. R., quibus uteretur populus ad favorem. [49, 1] Displicebat ei, cum esset Romae, habitare in Palatio, ac magis placebat in hortis Sallusti181 vel in Domitiae182 vivere. [2] Miliarensem denique porticum in hortis Sallusti ornavit, in qua cotidie et equos et se fatigabat, quamvis esset bonae valetudinis. [3] Servos et ministros peccantes coram se caedi iubebat, ut plerique dicunt, causa tenendae severitatis, ut alii, studio crudelitatis. [4] Ancillam suam, quae adulterium cum conservo suo fecerat, capite punivit. [5] Multos servos ex familia propria, qui peccaverant, legibus audiendos iudiciis publicis dedit. [6] Senatum sive senaculum183 matronis reddi voluerat, ita ut primae illic quae sacerdotia senatu auctore meruissent. [7] Calceos mullos et cereos et albos et hederacios viris omnibus tulit, mulieribus reliquit. Cursores eo habitu, quo ipse habebat, senatoribus concessit. [8] Concubinas ingenuas haberi vetuit. Eunuchorum modum pro senatoriis professionibus statuit, idcirco quod ad ingentia pretia pervenissent. [9] Vas argenti eius numquam triginta libras transiit. Convivium de assaturis maxime fuit. Vino russo maxime delectatus est. [50, 1] Medicum ad se, cum aegrotaret, numquam vocavit, sed ipse se inedia praecipue curabat. [2] Uxori et filiae annuum sigillaricium184 quasi privatus instituit. [3] Servis suis vestes easdem imperator quas et privatus

dedit praeter duos senes, quibus quasi libertis plurimum detulit, Antistium et Gillonem, 〈qui〉 post eum ex senatus sententia manu missi sunt. [4] Erat quidem rarus in voluptatibus, sed miro modo mimis delectabatur, vehementissime autem delectatus est fagone, qui usque eo multum comedit, ut uno die ante mensam eius aprum integrum, centum panes, berbicem et porcellum comederet, biberet autem infundibulo adposito plus orca. [5] Habuit tempus praeter seditiones quasdam domesticas fortunatissimum. Populus eum Romanus amavit, senatus et timuit.

[1, 1] In occasione delle feste in omaggio di Cibele2, nel periodo delle quali sappiamo che ogni cosa si deve fare e dire in allegria, il prefetto dell’Urbe Giunio Tiberiano3, uomo illustre4 e degno che lo si nomini premettendo un appellativo di rispetto, mi accolse sul suo cocchio5, che fungeva da carrozza di servizio6. [2] E lì, dato che il pensiero poteva muoversi in libertà, sollevato dalle preoccupazioni per i processi e gli affari pubblici, cominciò con me una lunga conversazione, dal Palazzo sino ai giardini di Vario7, soffermandosi particolarmente, nel corso di essa, sulla vita degli imperatori. [3] Giunti poi che fummo al tempio del Sole8, consacrato dall’imperatore Aureliano, prendendo spunto dal fatto che egli stesso vantava un legame di discendenza non secondario dalla famiglia di lui, mi chiese chi avesse scritto la vita di quell’imperatore. [4] E quando io gli risposi che non avevo letto alcun autore latino che ne avesse trattato, ma solo qualcuno tra i Greci, quell’uomo probo profuse in queste parole l’affanno che lo faceva sospirare: [5] «Dunque un Tersite9, un Sinone10, e tutti quegli altri mo struosi personaggi dell’antichità noi li possiamo conoscere bene, e così pure li avranno famigliari i nostri posteri: e gli stessi posteri non sapranno nulla del divo Aureliano, gloriosissimo principe e autorevolissimo imperatore, per l’opera del quale tutto il mondo è stato restituito alla sovranità di Roma? Che dio scongiuri una tale assurdità. [6] E pur tuttavia, se non mi sbaglio, noi possediamo le cronache scritte inerenti a quel grande personaggio, e anche il resoconto storico delle sue guerre: vorrei che tu riprendessi questo materiale e lo riordinassi in una narrazione scritta, aggiungendo le notizie concernenti la sua vita. [7] Tutti questi dati li potrai ricavare, con la diligenza che ti è propria, dai libri lintei11 sui quali egli stesso aveva disposto che venissero annotati giornalmente tutti i fatti che lo riguardavano. Io poi farò in modo che siano messi a tua disposizione anche i libri lintei che si trovano nella Biblioteca Ulpia12. [8] Vorrei che tu scrivessi di Aureliano con la maggiore fedeltà storica che ti è possibile». [9] Io, o mio Piniano13, ho obbedito a queste esortazioni, ho raccolto i testi greci e ho consultato tutta la documentazione che mi era necessaria, dalla quale ho raccolto in un unico volume quanto era degno di essere ricordato. [10] Vorrei che tu accogliessi benevolmente questo mio lavoro e, se esso non ti parrà abbastanza esauriente, ti consiglio di leggere gli autori greci e di ricorrere anche ai libri lintei, che la Biblioteca Ulpia ti metterà a disposizione quando lo vorrai.

[2, 1] E poiché, sempre sulla carrozza, si venne a parlare di Trebellio Pollione, che narrò le vite degli imperatori, così famosi come oscuri, a partire dai due Filippi14 sino a Claudio e al fratello Quintillo – Tiberiano sosteneva che Pollione aveva riferito molte cose senza un’adeguata cura documentaria e in modo troppo sbrigativo, mentre io affermavo che non v’era scrittore, nell’ambito storico, che non avesse in qualche punto tradito la verità dei fatti, citando anzi anche dei passi in cui Livio, Sallustio, Cornelio Tacito15 nonché Trogo16 potevano essere confutati con prove lampanti – egli, venendo pienamente dalla mia17 e porgendomi la mano, mi disse inoltre scherzando: [2] «Scrivi pure come ti pare. Potrai dire tranquillamente ciò che vuoi, dato che avrai quali compagni di menzogna quelli che noi ammiriamo come i maestri dello stile storico». [3, 1] Per non riempire in modo fastidioso il proemio di lungaggini e cose futili, dirò che il divo Aureliano nacque, come affermano i più, a Sirmio18, da famiglia di assai umile condizione o, come sostengono alcuni, nella Dacia Ripense19. [2] Io poi mi ricordo di aver letto un altro autore, che lo faceva nativo della Mesia. E in effetti accade spesso che non si sia informati sul luogo natale degli uomini che, essendo di assai modesti natali, inventano per lo più da se stessi il proprio luogo di origine, onde dare ai loro discendenti il lustro di una patria rinomata. [3] Né del resto, tra gli avvenimenti della vita dei grandi principi, risulta di grande importanza sapere dove ciascuno di essi sia nato, ma bensì quale importanza abbia rivestito nello Stato. [4] Forse che a Platone dà maggiore lustro il fatto di essere nato ad Atene, che non l’aver brillato quale dono di sapienza senza pari? [5] O forse saranno considerati da meno Aristotele di Stagira, Zenone di Elea20 o Anacarsi lo Scita21, per il fatto di essere nati in villaggi di nessuna importanza, quando le loro qualità di filosofi li hanno innalzati tutti fino al cielo? [4, 1] E – per tornare al filo del racconto – Aureliano, nato da modesta famiglia, sin dalla prima infanzia ebbe un ingegno vivacissimo e una forza eccezionale e non lasciò mai passare giorno, anche se era festivo o libero da impegni, in cui non si esercitasse nel lancio del giavellotto, nel tiro con l’arco, e in tutti gli altri esercizi d’armi. [2] Callicrate Tirio22, di gran lunga il più dotto fra gli scrittori greci, riferisce che sua madre era sacerdotessa del tempio del Sole23, che si trovava nel villaggio in cui abitavano i genitori. [3] Anzi essa sarebbe stata anche dotata di una certa capacità divinatoria, tanto che una volta, mentre nel corso di un litigio rinfacciava al marito la sua stoltezza e

volgarità, ebbe ad apostrofarlo così: «Ecco là il padre di un imperatore!». Dal che appare chiaramente che quella donna conosceva il destino. [4] Lo stesso autore riferisce che Aureliano ebbe questi presagi del futuro impero: in primo luogo, quando era un bambino, un serpente si avvinghiò parecchie volte intorno alla sua bacinella, senza che fosse mai possibile ucciderlo, e da ultimo la madre stessa, che aveva assistito al fatto, non aveva voluto uccidere il serpente, considerandolo come uno di casa. [5] A ciò si aggiunge che la madre sacerdotessa gli aveva fatto, a quanto si dice, delle fasce24, ricavandole da un mantelletto di porpora che l’imperatore del suo tempo aveva offerto al dio Sole. [6] Aggiunge inoltre che un’aquila sollevò dalla culla Aureliano in fasce senza fargli alcun male, e andò a deporlo su di un altare accanto al sacrario, su cui per avventura non ardevano fuochi. [7] Lo stesso autore ci informa che tra il bestiame della madre nacque un vitello di straordinarie dimensioni, candido ma con macchie purpuree, disposte in modo che su di un fianco aveva disegnata la scritta «Ave», e sull’altro una corona. [5, 1] Ricordo di aver letto nel medesimo scrittore molti particolari superflui: ché egli asserisce anche che, dopo la nascita di Aureliano, nel cortile – sempre della madre – sbocciarono rose purpuree, dall’odore di rosa e dal fiore color oro. [2] Anche successivamente, quando già militava nell’esercito, ebbe molti presagi che gli predicevano – come i fatti ebbero a confermare – il futuro impero. [3] Così una volta, mentre entrava in Antiochia su di una carrozza, poiché a causa di una ferita non poteva in quel tempo stare a cavallo, un manto purpureo, che era stato disteso in suo onore, cadde giù andando a coprirgli le spalle. [4] Quando poi volle passare sul cavallo, giacché allora era impopolare andare in carrozza in città25, si trovò a fianco quello dell’imperatore e, nella fretta, vi montò sopra; ma non appena se ne accorse, si trasferì sul proprio. [5] Un’altra volta, essendosi recato quale ambasciatore in Persia, ebbe in dono una coppa del tipo di quelle che i re persiani sogliono offrire all’imperatore, sulla quale era incisa l’immagine del dio Sole nella stessa foggia in cui era venerato nel tempio dove sua madre era stata sacerdotessa. [6] Gli fu donato anche un elefante di grandi proporzioni, che egli a sua volta offrì all’imperatore, e così Aureliano fu l’unico privato che ebbe a possedere un elefante26. [6, 1] Ma, lasciando perdere questi e altri particolari del genere, era di aspetto elegante e fine, di bellezza virile, piuttosto alto di statura, di fortissima muscolatura; eccedeva un poco nel bere vino e nel mangiare, si abbandonava raramente ai piaceri della carne, era molto severo, estremamente rigido in

fatto di disciplina, sempre pronto a por mano alla spada. [2] Difatti, essendovi nell’esercito due tribuni di nome Aureliano – il nostro ed un altro, che fu fatto prigioniero assieme a Valeriano – l’esercito gli aveva affibbiato il soprannome di «mano alla spada», così che, se per caso si voleva sapere quale dei due Aureliani aveva fatto una data cosa o condotta una certa operazione, bastava aggiungere «Aureliano mano alla spada» per capire di chi si trattasse. [3] Si sa di molte gloriose imprese da lui compiute quando non era ancora diventato imperatore. Una volta, con trecento soldati del suo presidio, respinse da solo un’irruzione di Sarmati nell’Illirico. [4] Riferisce Teoclio27, storico dei tempi dei Cesari, che Aureliano uccise di sua mano in un sol giorno, nel corso della guerra sarmatica, quarantotto nemici e nel giro poi di molti e molti giorni successivi oltre novecentocinquanta, al punto anche che i fanciulli componevano su Aureliano canzoncine per i loro balletti come questa, eseguendole poi nei giorni di festa, danzando alla maniera dei soldati: [5] «Mille, mille, mille teste tagliammo. Un sol uomo! Mille ne tagliammo. Mille bicchieri beva chi mille ne ha fatti fuori. Nessuno ha tanto vino, quanto sangue egli versò».

[6] Mi rendo conto che si tratta di cose quanto mai frivole, ma poiché il suddetto autore le ha inserite tali e quali in latino nella sua opera, ho ritenuto che non fosse il caso di tacerne. [7, 1] Un’altra volta egli, che era allora tribuno della Sesta Legione Gallicana, inflisse presso Magonza ai Franchi che, con le loro irruzioni, dilagavano ormai per tutta la Gallia, una così grave sconfitta che, dopo averne uccisi settecento, poté venderne come schiavi altri trecento che aveva preso prigionieri. [2] In riferimento a questo episodio nacque quell’altra cantilena: «Mille Sarmati una volta, mille Franchi un’altra abbiamo ucciso, mille Persiani ora vogliamo».

[3] Costui poi era tanto temuto dai soldati, che, una volta che lui aveva punito con grande severità le mancanze commesse in servizio, nessuno di essi vi incorreva più. [4] Fu inoltre l’unico che punì un soldato reo di aver commesso adulterio con la moglie di un ospite, facendolo legare per i piedi alle cime di due alberi piegate verso terra e che tutto d’un colpo egli fece rilasciare, così che quello rimase squartato in due parti che penzolavano da entrambi i lati28: il che suscitò in tutti grande spavento. [5] C’è una sua lettera di argomento militare, inviata al suo luogotenente, che suona così: «Se vuoi essere tribuno, anzi se ti preme restar vivo, frena la mano dei tuoi soldati. Nessuno porti via i polli o metta le mani sulle pecore altrui. Nessuno rubi uva o danneggi le messi, o si faccia dare olio, sale, legna, ma si accontenti della

propria razione di viveri. Con la preda tolta al nemico, non con le lacrime dei provinciali devono arricchirsi. [6] Le armi siano tirate a lucido, i ferri ben arrotati, i calzari resistenti. Nuove uniformi rimpiazzino quelle vecchie. Tengano la paga nella cintura, anziché spenderla all’osteria. [7] Si mettano pure addosso le loro collane, i loro bracciali, i loro anelli. Provvedano a strigliare il loro cavallo e la bestia da soma, non vendano la razione di foraggio destinata al proprio animale, prendano cura in comune del mulo della centuria. [8] Ciascuno abbia deferenza nei confronti dell’altro come fosse il suo comandante, nessuno però assumendo atteggiamenti servili; siano curati gratuitamente dai medici; non diano nulla agli aruspici; dove ricevono ospitalità si comportino correttamente; chi provocherà delle risse, sia bastonato». [8, 1] Poco tempo fa ho trovato nella Biblioteca Ulpia29, in mezzo ai libri lintei30, una lettera del divo Valeriano in cui si parla dell’imperatore Aureliano. L’ho trascritta – come pareva conveniente – testualmente: [2] «Valeriano Augusto al console Antonino Gallo31. Nella tua amichevole lettera mi rimproveri di aver affidato mio figlio Gallieno32 a Postumo anziché ad Aureliano, mentre secondo te tanto il ragazzo quanto l’esercito sarebbero stati da affidare in ogni caso a una persona più severa. Ma certo tu giudicherai più giusta la mia decisione, quando conoscerai a fondo quanto grande sia la severità di Aureliano: [3] è eccessivo, esagerato, inflessibile e il suo modo di fare non è ormai più adatto ai nostri tempi. [4] Chiamo a testimoni tutti gli dèi che ho anche avuto il timore che egli avesse pure a prendere qualche provvedimento troppo severo nei confronti di mio figlio, nel caso avesse commesso – dato che la sua indole è molto portata ai divertimenti – una qualche leggerezza». [5] Questa lettera mostra chiaramente quanto severo egli fosse, se persino Valeriano dichiarava di temerlo. [9, 1] Sempre di Valeriano esiste un’altra lettera dove si fanno le sue lodi: l’ho tratta dagli archivi della prefettura urbana. Si riferisce a quando, in occasione del suo arrivo a Roma, gli fu decretato lo stipendio che competeva al suo grado. Ecco copia della lettera: [2] «Valeriano Augusto al prefetto dell’Urbe Ceionio Albino33. Vorremmo concedere a tutti i cittadini più devoti allo Stato ricompense molto maggiori di quanto non comporti il loro rango, specialmente quando la loro condotta di vita fa onore alla carica da essi ricoperta – ci deve essere infatti un qualche premio per i meriti che vada oltre la dignità rivestita –, ma il rigore amministrativo impone che nessuno possa ricavare dalle entrate delle province più di quanto gli compete in base al suo

grado. [3] Abbiamo affidato al valorosissimo Aureliano l’incarico di ispezionare e ordinare gli accampamenti tutti; nei suoi confronti, per generale ammissione di tutto l’esercito, tale è il debito così nostro come di tutto lo Stato, che difficilmente vi può essere una qualche ricompensa, anche molto grande, degna di lui. [4] Che cosa infatti v’è in lui che non sia degno di gloria? Che cosa che non permetta di paragonarlo ai Corvini34 e agli Scipioni? Egli è il liberatore dell’Illirico, egli il salvatore delle Gallie, egli il generale che costituisce un grande esempio per tutti. [5] E tuttavia non mi è possibile aggiungere alcunché in più a titolo di premio a un simile uomo – non lo consente l’obbligo di governare lo Stato con moderazione ed efficienza. [6] Perciò, parente35 mio carissimo, nella tua consueta onestà fornirai alla suddetta persona, per tutto il tempo che rimarrà a Roma, sedici pani militari di ottima qualità, quaranta pani militari da campo, quaranta sestari di vino da pasto, mezzo porcellino, due polli, trenta libbre di carne suina, quaranta libbre di carne bovina, un sestario d’olio, e parimente un sestario di salsa e uno di sale, verdure e ortaggi in quantità sufficiente. [7] Poiché poi è doveroso conferirgli qualche riconoscimento speciale, per tutto il tempo che rimarrà a Roma gli farai avere una fornitura straordinaria di foraggio, e per le spese personali due aurei antoniniani36 al giorno, cinquanta filippi piccoli d’argento, cento denari di bronzo37. Il resto verrà provveduto dai prefetti dell’erario»38. [10, 1] A qualcuno queste cose potranno apparire forse futili e troppo banali, ma la curiosità non rifiuta alcunché. [2] Ricoprì dunque molti comandi come generale, moltissimi come tribuno, quasi quaranta quale sostituto, in varie occasioni, di generali e tribuni, tanto che ebbe una volta a fare le veci persino di Ulpio Crinito39, che si vantava essere discendente della famiglia di Traiano, uomo davvero valorosissimo e molto simile a Traiano, che fu raffigurato insieme ad Aureliano nel tempio del Sole e che Valeriano aveva deciso di prendere quale proprio Cesare: in quell’occasione egli comandò l’esercito, ristabilì la sicurezza dei confini, distribuì il bottino ai soldati, arricchì le Tracie di buoi, cavalli, schiavi da lui catturati, collocò le spoglie di guerra nel Palazzo e ammassò nella villa privata di Valeriano cinquecento schiavi, duemila vacche, mille cavalle, diecimila pecore, quindicimila capre; [3] fu allora che Ulpio Crinito ringraziò pubblicamente Valeriano, che si trovava nelle terme a Bisanzio, affermando che egli aveva mostrato grande considerazione nei suoi confronti col dargli quale sostituto Aureliano. E perciò decise di adottarlo. [11, 1] È interessante conoscere le lettere scritte sul conto di Aureliano,

nonché le modalità dell’adozione stessa. Ecco una lettera di Valeriano ad Aureliano: «Se, o mio carissimo Aureliano, ci fosse un altro che potesse degnamente sostituire Ulpio Crinito, mi consulterei con te in merito al suo valore e al suo zelo; ora però, dal momento che potrei comunque aver a sentire la tua mancanza, prendi tu il comando della guerra di Nicopoli, affinché la malattia di Crinito non abbia a procurarci dei danni. [2] Fa’ tutto quanto puoi. In breve: avrai nelle tue mani il comando in capo dell’esercito. [3] Hai a disposizione trecento arcieri iturei40, seicento armeni, centocinquanta arabi, duecento saraceni, quattrocento ausiliari della Mesopotamia; [4] hai la Terza Legione Felice41 e ottocento cavalieri corazzati42. Con te saranno Ariomondo, Aldagate, Ildomondo e Cariovisco. [5] I rifornimenti necessari sono stati predisposti dai prefetti in tutti gli accampamenti. [6] Spetta ora a te, con le tue doti di accortezza e con il tuo impegno, dislocare i quartieri invernali ed estivi nei luoghi in cui non ti verrà a mancare nulla, indagare inoltre dove si trovino i carriaggi43 nemici e individuare con esattezza la consistenza e le caratteristiche delle loro forze, onde non vengano consumati inutilmente viveri né sprecate frecce, elementi essenziali per la condotta della guerra. [7] Io, con l’aiuto degli dèi, mi aspetto da te quanto lo Stato potrebbe aspettarsi da Traiano, se fosse ancora vivo; non è infatti uomo da meno colui che ti ho scelto a sostituire. [8] Inoltre puoi ragionevolmente sperare di ottenere a pubbliche spese, insieme al medesimo Ulpio Crinito, il consolato per l’anno prossimo, a partire dal 22 maggio, subentrando a Gallieno e Valeriano. [9] È doveroso infatti alleviare le condizioni di ristrettezza economica di quegli uomini – di essi più che di qualsiasi altro – i quali, passando gran parte della loro vita al servizio dello Stato, sono rimasti poveri». [10] Anche questa lettera dimostra che grande uomo fosse Aureliano; ed è proprio vero: ché nessuno è mai salito al vertice del potere senza aver salito fin dalla prima età i gradini della scala della virtù. [12, 1] Ecco la lettera relativa al consolato: «Valeriano Augusto al prefetto dell’erario44 Elio Xifìdio. Ad Aureliano, cui ho conferito il consolato, per venire incontro alle sue ristrettezze economiche – dalle quali è afflitto in grande misura, più che tutti gli altri – farai avere, per l’allestimento dei giochi nel Circo, trecento aurei antoniniani, tremila filippi piccoli d’argento, cinque milioni di sesterzi di bronzo, dieci tuniche da uomo di mussola, venti tuniche egizie di lino, due paia di tovaglie di Cipro, dieci tappeti africani, dieci coperte di Mauritania, cento porci, cento pecore. [2] Farai poi dare un banchetto pubblico per i senatori e i cavalieri romani e farai sacrificare due vittime

grosse e quattro piccole». [3] E poiché avevo promesso che anche in merito all’adozione avrei detto qualcosa sul conto di un imperatore così grande, [4] ti prego di non considerarmi troppo noioso e prolisso se ho ritenuto di inserire questo passo tratto dall’opera di Acolio45, che fu maestro di camera46 dell’imperatore Valeriano, al libro nono dei suoi Atti: [13, 1] Una volta Valeriano Augusto, trovandosi alle terme a Bisanzio, alla presenza dell’esercito nonché degli ufficiali di Palazzo, e avendo alla sua destra il console ordinario47 Nummio Tusco, il prefetto del pretorio Bebio Macro48, il governatore dell’Oriente Quinto Ancario, e alla sua sinistra Avulnio Saturnino, comandante delle truppe di stanza sul confine scitico, Murrenzio Mauricio, designato per il governo dell’Egitto, Giulio Trifone, comandante delle truppe di stanza sul confine orientale, Mecio Brindisino, prefetto dell’annona per l’Oriente, Ulpio Crinito, comandante delle truppe di stanza sul confine illirico e tracico e Fulvio Boio, comandante delle truppe di stanza sul confine retico, ebbe a dire: [2] «Lo Stato ti ringrazia, Aureliano, di averlo liberato dallo strapotere dei Goti. Per merito tuo siamo ricchi di bottino, di gloria, e di tutto ciò grazie a cui si accresce la prosperità di Roma. [3] Ricevi dunque, quale ricompensa per le tue imprese, quattro corone murali49, cinque corone vallari50, due corone navali51, due corone civiche52, dieci aste senza cuspide53, quattro vessilli bicolori, quattro tuniche rosse da generale, due mantelli da proconsole, una toga pretesta, una tunica palmata54, una toga variopinta, una subarmale55 lunga, una sella ornata d’avorio. [4] Ché oggi io ti designo console, e scriverò al senato di assegnarti il bastone56, nonché i fasci; giacché queste insegne non è d’uso che le conferisca l’imperatore, ma che il console, quando viene eletto, abbia a riceverle dal senato». [14, 1] Dopo queste parole di Valeriano, Aureliano si alzò e gli prese le mani, ringraziandolo con un discorso di stile militaresco, che ho ritenuto opportuno riferire integralmente e fedelmente. Disse dunque Aureliano: [2] «Io, o Valeriano, mio signore, Augusto imperatore, ho fatto tutto questo, ho sopportato con pazienza le ferite, ho sfiancato così i miei cavalli come i miei soldati, al solo scopo di ottenere la gratitudine dello Stato e l’approvazione della mia coscienza. [3] Ma tu hai fatto di più. Io ringrazio la tua benevolenza e accetto il consolato che tu mi offri. Facciano sì gli dèi – e il dio Sole, che non inganna – che anche il senato abbia nei miei riguardi la stessa considerazione». [4] Mentre tutti i circostanti esprimevano il loro

ringraziamento, si alzò Ulpio Crinito e pronunciò questo discorso: [5] «Presso i nostri antenati, o Valeriano Augusto, secondo un costume che era particolarmente caro anche alla mia famiglia, i personaggi più ragguardevoli adottavano sempre quali figli gli uomini di maggior valore, di modo che la fertilità portata da una figliolanza surrogata potesse ovviare con decoro o all’invecchiamento della stirpe o al venir meno della prole nei matrimoni. [6] Questo costume dunque, che fu seguito da Cocceio Nerva nell’adottare Traiano, da Ulpio Traiano nell’adottare Adriano, da Adriano nell’adottare Antonino, e via via da tutti gli altri, avendo di fronte gli esempi dei predecessori, ho ritenuto opportuno riprenderlo nell’adottare Aureliano, che per tua autorevole decisione mi hai assegnato quale sostituto. [7] Ordina dunque che si proceda per legge, e che Aureliano diventi erede degli oggetti sacri, del nome e dei beni nonché di tutti i diritti legali di Ulpio Crinito, già ex console, lui che or ora entra per tua decisione nel rango consolare». [15, 1] Sarebbe troppo lungo narrare il tutto nei particolari. Valeriano espresse il suo ringraziamento a Crinito e il procedimento di adozione venne espletato secondo le consuetudini. [2] Ricordo di aver letto in un libro greco – e ho ritenuto opportuno farne menzione – che fu Valeriano a ordinare a Crinito di adottare Aureliano, soprattutto a motivo dell’indigenza in cui egli versava; ma credo sia meglio non addentrarsi in questa questione. [3] E poiché in precedenza ho riportato la lettera con la quale veniva assegnato ad Aureliano il denaro necessario alle spese per il consolato, penso sia doveroso chiarire per quale motivo io abbia dato spazio ad un dettaglio quasi banale: [4] abbiamo assistito di recente alla nomina a console di Furio Placido57, celebrata nel Circo con tanto sfarzo, che pareva che agli aurighi venissero assegnati non premi, ma interi patrimoni, dato che venivano loro donate tuniche di mezza seta, vesti di lino con gli orli, nonché cavalli, fra le accorate lagnanze delle persone per bene. [5] Infatti siamo arrivati al punto che il consolato è ormai questione di ricchezze e non di uomini: ché in ogni caso, se esso viene assegnato alle qualità personali, non dovrebbe spogliare dei propri averi chi lo assume. [6] Sono finiti i bei tempi dell’onestà e sono destinati ulteriormente a sparire nei maneggi per ottenere il favore popolare. Ma noi, come nostro solito, evitiamo di addentrarci anche in questo argomento. [16, 1] Forte di tanti e tali riconoscimenti e ricompense, ai tempi di Claudio58 divenne tanto famoso che, dopo che quello fu morto, e anche suo fratello Quintillo venne ucciso59, resse da solo l’impero, essendo stato

eliminato Aureolo, con il quale Gallieno aveva fatto pace. [2] Su questo punto fra gli storici, in particolare quelli greci, si riscontra una grande varietà di opinioni, per cui alcuni sostengono che Aureolo fu ucciso da Aureliano contro la volontà di Claudio, altri per incarico e volere di questo, altri che fu ucciso da Aureliano quando questi era già diventato imperatore, altri invece quando era ancora un privato60. [3] Ma noi eviteremo di entrare anche in queste questioni: su di esse si cerchi informazione negli scrittori che ne hanno trattato. [4] In ogni caso è certo questo, che cioè il divo Claudio affidò ad Aureliano a preferenza che a qualsiasi altro la condotta della guerra contro i Meotidi61. [17, 1] Possediamo una lettera che io, secondo il mio solito, ho ritenuto opportuno riportare per amore di verità storica, come anzi vedo che hanno fatto anche gli altri storici: [2] «Flavio62 Claudio saluta il suo Aureliano. Il nostro Stato ti chiede, come di consueto, di offrirgli la tua opera: accingiti ad essa. Che aspetti? Voglio che i soldati siano sotto il tuo comando, i tribuni sotto la tua guida. Bisogna attaccare i Goti e cacciarli via dalla Tracia. Molti infatti di quelli che tu, quando li hai combattuti, si erano dati alla fuga, ora affliggono l’Emimonto63 e l’Europa. [3] Ti dò potere su tutti gli eserciti di Tracia e di Illiria e sull’intera frontiera: mostraci dunque il consueto valore. Sarà con te anche mio fratello Quintillo, non appena ti raggiungerà. [4] Io, impegnato come sono in altre imprese, affido alle tue doti la conduzione suprema di questa guerra. Ti ho mandato dunque dieci cavalli, due corazze e tutto il restante equipaggiamento di cui è necessario provvedere chi va in guerra». [5] Così Aureliano, grazie a una serie di vittoriose battaglie, sotto gli auspici di Claudio, ripristinò interamente lo Stato nella sua potenza, e subito, come abbiamo detto in precedenza, venne eletto imperatore64 col consenso di tutte le legioni. [18, 1] Prima di assumere l’impero Aureliano aveva avuto sotto Claudio il comando di tutta la cavalleria, in quanto i generali ad essa preposti erano incorsi in una grave mancanza, per aver attaccato battaglia sconsideratamente, senza attendere l’ordine di Claudio. [2] Inoltre Aureliano in quel medesimo periodo sostenne una lotta senza quartiere contro i Suebi65 e i Sarmati, riportando una brillantissima vittoria66. [3] Sotto Aureliano si ebbe invero a subire anche una grave sconfìtta ad opera dei Marcomanni67, dovuta ad un errore tattico: infatti, mentre, nel corso di

una loro improvvisa invasione, egli non si era preoccupato di affrontarli frontalmente, ma si preparava ad investirli da tergo, tutta la zona intorno a Milano venne gravemente devastata. Più tardi comunque anche i Marcomanni furono a loro volta sconfìtti68. [4] Nel clima di panico in mezzo al quale i Marcomanni si abbandonavano a devastazioni d’ogni genere, si ebbero a Roma gravi disordini69 per via del timore generale che avesse a ripetersi quanto già era accaduto al tempo di Gallieno70. [5] Perciò vennero consultati anche i libri Sibillini – già noti per i benefìci arrecati allo Stato – e vi si trovò il consiglio di celebrare dei sacrifici in determinati luoghi, per i quali i barbari non sarebbero potuti passare. [6] E così fu eseguito quanto era stato prescritto in cerimonie di vario genere, ed in tal modo i barbari vennero bloccati, sì che Aureliano poté ucciderli tutti mentre vagavano in piccoli gruppi isolati. [7] Voglio riportare il testo del decreto senatorio71 con cui l’illustre consesso, nella sua autorità, ordinò che fossero consultati i libri: [19, 1] L’11 gennaio il pretore urbano Fulvio Sabino72 disse: «Vi rendiamo edotti, o senatori, del consiglio dei pontefici e della lettera dell’imperatore Aureliano, in cui si ordina che vengano consultati i libri fatali, nei quali risiede la speranza di poter portare a compimento la guerra secondo il sacro comando degli dèi. [2] Voi stessi infatti sapete che, ogni volta che in passato ebbe a scoppiare qualche disordine di particolare gravità, si ricorse sempre alla consultazione di essi e le pubbliche calamità non ebbero termine prima che fosse venuta dalla loro autorità la prescrizione dei sacrifici da celebrare». [3] Allora si alzò Ulpio Silano73, che aveva priorità di parola, e disse: «Troppo tardi, o senatori, ci consultiamo sulla salvezza dello Stato, troppo tardi ci volgiamo ai responsi del Fato, al modo di quei malati che ricorrono ai medici più valenti solo quando si trovano nelle condizioni più disperate, come se gli uomini più esperti dovessero fornire la cura per i casi più gravi, mentre è meglio affrontare subito tutte le malattie. [4] Ricordate infatti, o senatori, che io, in questo consesso, ho avuto ad affermare più volte, già sin dal momento in cui fu annunziata l’invasione dei Marcomanni, che bisognava consultare le profezie della Sibilla74, ricorrere all’aiuto di Apollo e sottomettersi ai comandi degli dèi immortali, ma alcuni si opposero, e si opposero adducendo spudoratamente falsi pretesti, coll’affermare, in tono adulatorio, che tale era il valore dell’imperatore Aureliano che non era necessario consultare gli dèi, quasi che quel grande uomo non venerasse pure lui gli dèi e non confidasse

negli dèi immortali. [5] Che dire di più? Abbiamo ascoltato la lettera con cui ha chiesto l’assistenza degli dèi, che non costituisce mai motivo di vergogna per alcuno. Si porti aiuto a quell’uomo valorosissimo. [6] Orsù dunque, o pontefici, puri, mondi, santi e conformi alle prescrizioni nell’abito e negli animi consacrati, salite al tempio, apprestate i seggi ornati di alloro, svolgete i volumi con le mani velate, indagate quali sono gli eterni destini dello Stato. Istituite un inno sacro per i fanciulli che hanno i genitori vivi75. Noi provvederemo alle spese per i sacri riti e al necessario per i sacrifìci, noi faremo disporre degli altari improvvisati». [20, 1] Dopo di ciò, molti senatori, richiesti del loro parere, espressero opinioni che sarebbe qui troppo lungo riportare. [2] Poi, con il voto favorevole espresso da alcuni per alzata di mano, da altri col portarsi dalla parte del proponente, dalla maggior parte con parole di consenso, il senatoconsulto venne ratificato. [3] Ci si recò poi al tempio, si consultarono i libri, si resero noti i versi, si purificò la città, si cantarono i sacri inni, si compì la processione sacrificale attorno alle mura76, si promise di celebrare le feste Ambarvali77, e in tal modo si diede adempimento a tutte le sacre cerimonie che erano state prescritte. [4] Ecco la lettera di Aureliano circa la consultazione dei libri Sibillini. Ho riportato infatti anche questa, a conferma della veridicità dei fatti. [5] «Mi meraviglio, o venerandi padri, che voi siate rimasti tanto a lungo incerti sull’opportunità di consultare i libri Sibillini, come se fosse una questione di cui doveste occuparvi in una chiesa dei Cristiani78, e non nel tempio degli dèi immortali. [6] Procedete dunque, e con la purezza di costumi dei pontefici e con solenni cerimonie portate aiuto all’imperatore che, per il bene dello Stato, si trova a dover affrontare una critica situazione. [7] Si consultino i libri; se si dovranno celebrare dei riti, sia fatto: io non rifiuto qualsiasi spesa, né prigionieri di qualsivoglia nazione, né qualsiasi animale di proprietà imperiale, ma volentieri li offro: ché non è sconveniente vincere con l’aiuto degli dèi. Così presso i nostri antenati furono portate a compimento o intraprese molte guerre. [8] Se vi sono da sostenere delle spese, ho mandato una lettera al prefetto dell’erario dando disposizione che vi si provveda. Inoltre sono nelle vostre mani le casse dello Stato, che io trovo essere più piene di quanto desidererei». [21, 1] Aureliano intendeva affrontare tutto in una volta l’esercito nemico operando un concentramento delle proprie forze, ma nei pressi di Piacenza ebbe a subire una tale disfatta, che l’impero romano fu lì lì per crollare. [2]

All’origine di questa pericolosa sconfìtta fu una manovra sleale e scaltra operata dai barbari. [3] Non potendo infatti affrontare lo scontro in campo aperto, si rifugiarono in una fittissima selva e sul far della sera piombarono di sorpresa sui nostri. [4] E così se i barbari non fossero stati atterriti da certi prodigi e apparizioni soprannaturali, grazie al soccorso prestatoci dagli dèi dopo la consultazione dei libri e la celebrazione dei sacrifici, i Romani non avrebbero vinto. [5] Portata a termine la guerra marcomannica Aureliano, abbandonandosi alla sua indole particolarmente violenta, venne a Roma pieno d’ira e bramoso di prendersi la vendetta cui offriva pretesto la gravità dei disordini79. E così, facendo un uso assai brutale del suo potere – lui che pure si era mostrato in altre occasioni un uomo di grandi virtù80 –, mise a morte i responsabili dei tumulti, soffocando con una repressione troppo sanguinosa colpe verso le quali si sarebbe dovuto procedere in modo meno drastico. [6] Vennero infatti uccisi numerosi senatori anche nobili, anche se ad accusarli – di colpe, del resto, di lieve entità e tali che un principe più clemente vi sarebbe passato sopra – era o un testimone isolato, o di scarsa attendibilità, o indegno di stima. [7] Che dire di più? Un impero che già era stato grande, e che non senza fondamento ci si attendeva che continuasse ad esserlo, egli ebbe così a macchiarlo, bollato da un marchio d’infamia particolarmente grave. [8] Quell’imperatore pur dotato di eccellenti qualità, cominciò ad essere temuto, non amato: alcuni dicevano che un tale principe era da odiare, e non certo da desiderare, altri che egli era un buon medico, ma usava dei pessimi metodi di cura. [9] Dopo questi fatti, rendendosi conto che poteva avvenire che avesse a ripetersi qualcosa sul genere di quanto si era verificato sotto Gallieno, sentito il parere del senato fece allargare le mura della città di Roma81. Non fu tuttavia in quell’occasione che ebbe ad estendere il pomerio82, ma successivamente. [10] Del resto a nessun imperatore è lecito estendere il pomerio se non a uno che abbia ingrandito l’impero di Roma con una qualche porzione di territorio straniero83. [11] Lo avevano esteso Augusto, Traiano, Nerone84, sotto il quale furono aggregati al dominio di Roma il Ponto Polemoniaco85 e le Alpi Cozie86. [22, 1] Dopo aver dunque provveduto a quanto concerneva le fortificazioni, le condizioni generali della città e l’amministrazione civile, si volse contro i Palmireni, cioè contro Zenobia, che reggeva l’impero d’Oriente in nome dei figli87. [2] Nel corso del viaggio dovette sostenere numerosi e duri

combattimenti. Infatti nella Tracia e nell’Illirico sconfisse i barbari che gli muovevano contro88 e, attraversato il Danubio, uccise persino il capo dei Goti Cannaba o Cannabaude, assieme a cinquemila dei suoi uomini. [3] E di lì, passando per Bisanzio, arrivò nella Bitinia e la occupò senza colpo ferire. [4] Molte sono le imprese non meno che i detti grandi e celebri di Aureliano, ma non possiamo né vogliamo inserirli tutti nel libro, onde evitare che risulti noioso: del resto, per farsi un’idea del suo carattere e delle sue qualità basta accennare a pochi di essi. [5] Una volta era giunto a Tiana89, e l’aveva trovata con le porte sprangate; si racconta che esclamò adirato: «Non lascerò vivo un cane in questa città!». [6] Allora sia per il particolare accanimento profuso dai soldati nella speranza di far bottino, sia grazie al tradimento di un certo Eraclammone, che consegnò la sua patria per paura di essere ucciso assieme a tutti gli altri, la città fu presa. [23, 1] Ma Aureliano, con spirito di vero sovrano, fece vedere immediatamente due azioni degne di nota, l’una che indicava la sua severità, l’altra la sua clemenza. [2] Ché da una parte egli mise a morte, da saggio vincitore, Eraclammone, che aveva tradito la propria patria, dall’altra, quando i soldati reclamarono il saccheggio della città, in adempimento di quella frase in cui egli aveva dichiarato che non avrebbe lasciato vivo un cane a Tiana, rispose loro: «Ho detto che non avrei lasciato vivo un cane in questa città: uccidete dunque tutti i cani!». [3] Nobile la frase dell’imperatore, ancor più nobile il comportamento dei soldati: ché tutto l’esercito accettò di buon grado, quasi se ne sentisse appagato, il gioco di parole del principe, con cui veniva negato il bottino, ma ad un tempo salvata la città. [4] Ecco la lettera concernente Eraclammone: «Aureliano Augusto a Mallio Chilone90. Ho permesso che venisse ucciso colui al quale quasi devo l’aver preso Tiana. Ma non potevo amare un traditore, e così ho accettato di buon grado il fatto che i soldati lo hanno ucciso: né del resto sarebbe potuto restare fedele a me uno che non aveva avuto rispetto per la sua patria. [5] È insomma l’unico fra tutti gli assediati che sia finito sotto terra. Non posso negare che fosse un uomo ricco, ma i suoi beni io li ho restituiti ai figli, onde nessuno avesse ad accusarmi di aver lasciato uccidere un uomo ricco per mettere le mani sul suo denaro». [24, 1] La città poi fu presa in modo davvero insolito. Eraclammone aveva indicato un luogo con un’altura che appariva come un terrapieno naturale, dove Aureliano sarebbe potuto salire in abito regale: egli vi salì e ostentando la clamide purpurea si mostrò agli abitanti della città all’interno e fuori di essa

ai soldati; e in tal modo, sembrando come se tutto l’esercito di Aureliano fosse stato ormai sulle mura, la città venne presa. [2] Non è da tacere un episodio che illustra la fama di un personaggio degno di ogni rispetto. [3] Si dice infatti che Aureliano avesse realmente parlato e realmente avesse avuto intenzione di distruggere la città di Tiana; ma Apollonio di Tiana91, un saggio di grandissima fama e autorevolezza, antico filosofo, davvero amico degli dèi, degno egli stesso di essere onorato come un dio, gli sarebbe apparso all’improvviso dinanzi mentre si ritirava nella sua tenda, nelle stesse fattezze in cui lo vediamo raffigurato, e gli avrebbe detto in latino – di modo che quell’uomo originario della Pannonia potesse intendere – queste parole: [4] «Aureliano, se vuoi vincere, non è assolutamente il caso che tu pensi a far strage dei miei concittadini. Aureliano, se vuoi conservare il potere, astienti dal versare sangue innocente. Aureliano, compòrtati con clemenza, se vuoi vivere». [5] Aureliano conosceva il volto del venerabile filosofo – e infatti aveva visto la sua immagine in molti templi. [6] E così, colpito da quella visione, subito gli promise un ritratto, delle statue e un tempio, e venne a più miti consigli. [7] Questo episodio io l’ho appreso da persone assai autorevoli e ne ho avuto conferma dalla lettura di libri che si trovano nella Biblioteca Ulpia: e tanto più vi ho prestato fede, in considerazione della grandezza di Apollonio. [8] Chi infatti fra gli uomini fu più santo, più degno di venerazione, più illustre e più divino di lui? Egli restituì la vita ai morti e operò e parlò in molte occasioni al di là dei poteri umani. Chi desidera aver conoscenza di queste cose, legga i libri greci92 che sono stati scritti sulla sua vita. [9] Dal canto mio, se la vita non mi verrà meno e il suo favore e la sua forza mi assisteranno, narrerò – almeno brevemente – le gesta di un uomo così grande, non perché esse abbiano bisogno del tributo delle mie parole, ma affinché quei fatti degni di ammirazione siano proclamati dalla voce di tutti. [25, 1] Occupata Tiana, dopo un breve combattimento presso Dafne93 prese anche Antiochia, promettendo a tutti l’incolumità, e da allora in poi – per quanto è dato sapere – conformandosi ai consigli del venerabile Apollonio, si comportò con maggiore umanità e clemenza. [2] Dopo ciò, lo scontro decisivo si ebbe in una grande battaglia presso Emesa contro Zenobia e il suo alleato Zaba. [3] E allorquando la cavalleria di Aureliano, ormai stremata, stava già quasi per ripiegare e darsi alla fuga, all’improvviso, per l’intervento di un dio – come in seguito fu rivelato –, una qualche apparizione divina rianimò i soldati, sì che, ad opera dei fanti, anche i cavalieri poterono

riprendersi. Zenobia fu messa in fuga assieme a Zaba e fu ottenuta completa vittoria. [4] Riconquistato dunque il dominio stabile sull’Oriente, Aureliano entrò vittorioso ad Emesa e subito si diresse al tempio di Eliogabalo94, per sciogliere i voti come in un ringraziamento comune. [5] Ma lì ritrovò quell’immagine divina che aveva visto portargli soccorso in battaglia. [6] Perciò fece erigere in quel luogo dei templi, dotandoli di grandi tesori, e costruì a Roma un tempio in onore del Sole, che consacrò con onori ancor più grandi, come diremo a suo luogo95. [26, 1] Dopo questo, mosse alla volta di Palmira96, onde por fine, una volta espugnata quella città, alle fatiche della guerra. Ma lungo la strada ebbe a subire molte peripezie, in quanto il suo esercito fu ripetutamente assalito dai predoni siriaci e durante l’assedio corse gravi pericoli, sino ad essere colpito da una freccia. [2] Possediamo una sua lettera indirizzata a Mucapore97, nella quale egli parla apertamente, senza i ritegni legati alla sua dignità imperiale, delle difficoltà di questa guerra: [3] «I Romani dicono che io sto conducendo una guerra soltanto contro una donna, come se contro di me combattesse Zenobia da sola e con le proprie forze, e non piuttosto un nemico altrettanto numeroso che se il mio avversario fosse un uomo, essendo però in lei di gran lunga più pericolosa la consapevolezza della sua colpa e il conseguente terrore. [4] Non è possibile descrivere la quantità di frecce, l’apparato bellico, la quantità di giavellotti e di pietre che vi è qui; non vi è alcuna parte delle mura che non sia occupata da due o tre balliste98: ci sono persino apposite macchine per lanciare i proiettili incendiari. [5] Che dire di più? È impaurita come una donna, ma combatte come un uomo che teme la punizione che lo aspetta. Ma credo che gli dèi, che mai hanno fatto mancare il loro soccorso ai nostri sforzi, porteranno aiuto all’impero romano». [6] Alla fine, ormai stremato e fiaccato dagli eventi avversi, mandò a Zenobia una lettera, chiedendone la resa con la promessa di concederle salva la vita; ne riporto qui copia: [7] «Aureliano imperatore di Roma e riconquistatore dell’Oriente, a Zenobia e a tutti gli altri a lei legati da alleanza bellica. [8] Avreste dovuto fare spontaneamente ciò che ora nella mia lettera vi viene comandato. Vi ordino infatti di arrendervi, offrendovi in cambio salva la vita, alla condizione che tu, Zenobia, vada a vivere con i tuoi, là dove io ti manderò secondo il parere dell’illustrissimo senato. [9] Verserete all’erario romano le gemme, l’oro, l’argento, le sete, i cavalli, i cammelli. I Palmireni conserveranno i loro diritti».

[27, 1] Ricevuta questa lettera, Zenobia rispose in tono più superbo e insolente di quanto non consigliasse la sua condizione, credo allo scopo di spaventare il nemico. Anche di questa lettera ho riportato qui copia: [2] «Zenobia regina d’Oriente ad Aureliano Augusto. Finora nessuno al di fuori di te mi aveva fatto in una lettera le richieste che tu avanzi. Con il valore bisogna guadagnarsi tutto ciò che si vuole ottenere in guerra. [3] Tu chiedi la mia resa, come se non sapessi che la regina Cleopatra preferì morire piuttosto che vivere in qualsivoglia onore. [4] Non ci mancano gli aiuti persiani, che ormai attendiamo prossimi, abbiamo dalla nostra parte i Saraceni e gli Armeni. [5] I predoni siriaci hanno già battuto il tuo esercito, Aureliano. Che altro? Se dunque arriveranno quelle forze che attendiamo da ogni parte, dovrai di certo deporre l’arroganza con cui ora mi intimi la resa, come se avessi vinto su tutti i fronti». [6] Nicomaco99 dice che questa lettera fu dettata personalmente da Zenobia e da lui tradotta dalla lingua siriaca in greco. Quella precedente di Aureliano era scritta in greco. [28, 1] Al ricevere questa lettera Aureliano non provò vergogna, ma si infiammò d’ira, e subito, radunato l’esercito e i suoi generali, assediò Palmira da ogni parte e, da quell’uomo valente che era, non lasciò nulla che apparisse incompleto o trascurato. [2] Infatti intercettò i rinforzi inviati dai Persiani, corruppe le milizie ausiliarie saracene e armene e le trasse dalla sua parte un po’ con le maniere forti e un po’ con l’astuzia; alla fine, dopo grandi sforzi, riuscì ad avere ragione di quella donna tanto potente100. [3] Zenobia dunque, dopo la sconfitta, mentre fuggiva sui cammelli – che là chiamano dromedari – e si dirigeva verso la Persia, venne catturata dai cavalieri mandati ad inseguirla e consegnata nelle mani di Aureliano. [4] Così Aureliano, vittorioso e ormai padrone di tutto l’Oriente, avendo ora prigioniera Zenobia, prese nei confronti dei Persiani, degli Armeni e dei Saraceni le misure che la situazione del momento richiedeva, trattandoli con molta superbia e alterigia. [5] Proprio allora vennero introdotte quelle vesti intessute di gemme che vediamo nel tempio del Sole, allora i vessilli persiani101 e le tiare, allora quel genere di porpora che in seguito nessun popolo ebbe più a recarci e che non si vide più in tutto l’impero romano. [29, 1] A proposito di essa desidero dire almeno due parole. Ricordate infatti come nel tempio di Giove Ottimo Massimo, sul Campidoglio, vi era un corto mantello di lana color porpora, tale che quando le matrone e lo stesso Aureliano vi accostavano le loro vesti purpuree, queste altre, al confronto con

il divino splendore di quello, apparivano scolorite come la cenere. [2] Questo dono, a quanto si racconta, il re dei Persiani, che lo aveva avuto dalle popolazioni più interne dell’India, lo offrì ad Aureliano, accompagnandolo con questo messaggio: «Eccoti la porpora quale è presso di noi». [3] Ma questo era falso. Ché in seguito Aureliano, Probo e, in tempi più recenti, Diocleziano, operarono ricerche diligentissime di tale tipo di porpora, inviando agenti assai scrupolosi, senza peraltro riuscire a trovarla. Si dice infatti che tale porpora si ottenga dal sandice102 indiano, appositamente trattato. [30, 1] Ma per tornare in argomento: vi furono grosse agitazioni da parte dei soldati che reclamavano tutti che Zenobia fosse punita. [2] Ma Aureliano, considerando che l’uccisione di una donna fosse un atto disdicevole, mise a morte molti che l’avevano istigata103 a suscitare, preparare e condurre la guerra, e tenne in serbo la donna per il trionfo, per farne mostra dinanzi agli occhi del popolo romano. [3] Tra le condanne a morte viene ricordata come un fatto doloroso quella che colpì il filosofo Longino104, che essa ebbe, a quanto si dice, come maestro di greco. Si racconta che Aureliano lo avrebbe ucciso in quanto correva voce che quella lettera così insolente fosse stata dettata su ispirazione di lui, per quanto in realtà essa fosse stata composta in lingua siriaca. [4] Pacificato dunque l’Oriente, Aureliano tornò vittorioso in Europa105, dove sconfisse le forze dei Carpi106: e poiché il senato gli aveva conferito, in sua assenza, il titolo di Carpico, egli, a quanto dicono, mandò a dire scherzosamente: «Ci manca solo, o senatori, che mi chiamiate anche Carpiscolo!». [5] È ben noto infatti che il carpiscolo è un tipo di calzatura. Questo titolo appariva indecoroso per uno che aveva già gli appellativi di Gotico, Sarmatico, Armenico, Partico e Adiabenico107. [31, 1] È raro, o, piuttosto, difficile, che i Siri tengano fede alla parola data. Infatti i Palmireni, che ormai erano stati vinti e schiacciati, mentre Aureliano era impegnato in Europa, diedero vita ad una rivolta di notevoli proporzioni108. [2] Uccisero infatti Sandarione, che Aureliano aveva lasciato a presidiare quei luoghi, assieme ai suoi seicento arcieri, offrendo il potere ad Achilleo109, un parente di Zenobia. [3] Ma Aureliano, che era sempre all’erta, ritornò dal Rodope e distrusse, poiché così meritava, la città. [4] Insomma, la crudeltà di Aureliano, o – come la chiamano certuni – la sua severità110, si manifestò a tal punto che viene citata una sua lettera dove si ha una ostentata confessione del suo furore disumano. Eccone copia: [5] «Aureliano Augusto a

Cerronio Basso111. Le spade dei soldati non debbono andar oltre. Di Palmireni ne sono già stati uccisi e fatti a pezzi abbastanza. Non abbiamo risparmiato le donne, abbiamo ucciso i bambini, sgozzato i vecchi, ammazzato i contadini. [6] A chi lascieremo poi la città e il suo territorio? Bisogna risparmiare quelli che sono rimasti. Crediamo infatti che un numero così esiguo dalla strage di tanti abbia imparato la lezione. [7] Voglio poi che il tempio del Sole a Palmira, che è stato saccheggiato dagli alfieri della terza legione insieme con i vessilliferi, il portastendardo e i suonatori di corno e di tromba, sia ricostruito quale era prima. [8] Hai a disposizione trecento libbre d’oro tratte dai forzieri di Zenobia, milleottocento libbre d’argento tolte ai patrimoni dei Palmireni, il tesoro regale. [9] Usando di tutto questo vedi di restituire il tempio al suo decoro: farai cosa graditissima a me e agli dèi immortali. Io scriverò al senato chiedendo che mandi un pontefice a consacrare il tempio». [10] Questa lettera, come si vede, mostra che la crudeltà di quell’inflessibile principe era stata saziata. [32, 1] Alla fine, reso così più sicuro, tornò nuovamente in Europa, dove con il suo ben noto valore annientò tutti i nemici che vi si aggiravano. [2] Frattanto, mentre Aureliano era impegnato in grosse imprese in Tracia e in tutta Europa, comparve un certo Firmo112, che rivendicò a sé il governo dell’Egitto, senza le insegne imperiali, quasi fosse uno stato autonomo; [3] immediatamente Aureliano tornò per affrontarlo113 e, come al solito, neppure là mancò di arridergli il successo. Riconquistò infatti in un momento l’Egitto e, dopo aver punito il piano di rivolta con la ferocia che gli era propria, pieno d’ira per il fatto che Tetrico114 fosse ancora padrone delle Gallie, mosse alla volta dell’Occidente, dove Tetrico stesso abbandonò le sue truppe, non potendo più sopportarne le malefatte, così che egli poté impadronirsi delle legioni, che gli si arresero. [4] Padrone dunque di tutto il mondo, Aureliano, dopo aver pacificato l’Oriente, le Gallie e tutta la terra, si diresse alla volta di Roma, per celebrare dinanzi agli occhi dei Romani il suo trionfo su Zenobia e Tetrico, cioè sull’Oriente e l’Occidente115. [33, 1] Non è fuor di luogo qualche notizia in merito al trionfo di Aureliano116; fu infatti quanto mai splendido. [2] Vi erano tre cocchi regali: di questi uno era quello di Odenato, variamente lavorato in argento, oro e gemme; l’altro era quello donato ad Aureliano dal re di Persia, esso pure frutto di un lavoro artistico non inferiore; il terzo era quello che Zenobia si era fatta costruire sperando che con esso avrebbe potuto visitare la città di Roma: né questa speranza andò delusa, ché con esso ella entrò nella città, ma vinta e

oggetto di trionfo. [3] C’era un altro carro aggiogato a quattro cervi, che si dice fosse appartenuto al re di Goti117. Di esso, come molti hanno riferito, Aureliano si servì per salire sul Campidoglio, onde sacrificare lì i cervi che, a quanto si diceva, dopo averli catturati assieme al carro, egli aveva promesso in voto a Giove Ottimo Massimo. [4] Precedevano venti elefanti, fiere addomesticate provenienti dalla Libia e duecento di diverse razze provenienti dalla Palestina, che subito Aureliano donò a dei privati, onde non gravare l’erario delle spese per il loro mantenimento; quattro tigri, giraffe, alci e altri animali del genere, fatti sfilare per ordine; ottocento coppie di gladiatori – oltre ai prigionieri dei popoli barbari: Blemmi118, Essomiti119, Arabi dell’Arabia Felice120, Indi, Battriani121, Iberi122, Saraceni123, Persiani tutti con i loro doni, Goti, Alani124, Rossolani125, Sarmati, Franchi, Svevi126, Vandali, Germani con le mani incatenate, quali prigionieri. [5] Procedevano in questo gruppo anche i Palmireni superstiti, i maggiorenti della città, e gli Egiziani, a motivo della loro ribellione. [34, 1] Furono fatte sfilare anche dieci donne, che egli aveva catturato mentre combattevano, vestite da uomo, in mezzo ai Goti, dopo che molte donne gote erano state uccise: un cartello le indicava come discendenti delle Amazzoni – venivano recati innanzi cartelli contenenti appunto il nome delle popolazioni. [2] In questo corteo vi era anche Tetrico, con indosso una clamide rossa, una tunica verdastra e brache galliche, e con accanto il figlio, che era stato da lui nominato imperatore in Gallia127. [3] Avanzava anche Zenobia, ornata di gemme e di catene d’oro che altri sorreggeva. Venivano portate innanzi corone d’oro che rappresentavano tutte le città, indicate da scritte che le sormontavano. [4] Molto poi accrescevano la pompa della processione lo stesso popolo romano, i vessilli dei collegi e degli accampamenti, i cavalieri corazzati128, i tesori regi, tutto l’esercito e il senato (seppure un po’ rattristato al vedere celebrare il trionfo su dei senatori129). [5] Finalmente si giunse verso l’ora nona130 al Campidoglio e ancor più tardi a Palazzo. [6] Nei giorni seguenti, per far divertire il popolo, furono offerti spettacoli scenici, circensi, cacce, combattimenti gladiatori, naumachie. [35, 1] Non pare opportuno omettere qui un particolare che è vivo nella memoria del popolo ed è entrato ormai nella storia: Aureliano, allorquando si accingeva a partire per l’Oriente, aveva promesso al popolo corone di due libbre, se fosse ritornato vincitore; ma, mentre la gente se le aspettava d’oro, e lui invece tali non poteva o voleva darle, le fece fare di pane, del tipo che oggi

chiamano siligineo131, e le fece distribuire a ciascun cittadino, in modo che ognuno poteva ricevere il proprio pane siligineo tutti i giorni per l’intera sua vita, nonché trasmettere tale diritto ai suoi discendenti132. [2] Inoltre Aureliano fece distribuire al popolo romano anche carne di maiale, come avviene ancora oggi. [3] Emanò un gran numero di leggi, e davvero utili133. Riordinò i collegi sacerdotali, edificò il tempio del Sole134, rafforzò l’autorità dei pontefici; stanziò inoltre dei fondi per le riparazioni necessarie e per i ministri del culto. [4] Dopo aver provveduto a queste cose, partì per le Gallie135 e liberò la Vindelicia136 dall’assedio dei barbari, poi tornò nell’Illirico e, allestito un esercito più forte che numeroso, mosse guerra ai Persiani, che aveva già con grandissima gloria sconfitto anche al tempo in cui aveva vinto Zenobia137. [5] Ma durante il viaggio, a Cenofrurio138 – un luogo di tappa che sta fra Eraclea e Bisanzio – per il tradimento di un suo segretario cadde assassinato per mano di Mucapore139. [36, 1] Mi soffermerò brevemente sia sulle cause del suo assassinio sia sulle modalità in cui esso avvenne, onde non abbia a rimanere oscuro un fatto di tale importanza. [2] Aureliano, non lo si può negare, era un principe severo, crudele, sanguinario. [3] Egli, avendo spinto la sua durezza al punto di uccidere anche la figlia di sua sorella140 senza un motivo grave né sufficientemente giustificato, si era attirato già prima di tutto l’odio dei suoi familiari. [4] Capitò poi – le cose in effetti avvengono per volere del fato – che egli, col minacciarlo in base a non so quali sospetti che aveva su di lui, finisse per suscitare un profondo risentimento nei propri confronti da parte di un certo Mnesteo141, che teneva come suo segretario particolare ed era, secondo alcuni, un suo liberto. [5] Mnesteo, poiché sapeva che Aureliano non era solito minacciare invano né, una volta che minacciasse, perdonare, scrisse un elenco di nomi, mescolandovi quelli di persone nei cui riguardi Aureliano era realmente adirato, con quelli di persone verso i quali egli non nutriva alcun sentimento ostile, aggiungendo anche il suo nome, onde far apparire maggiormente fondata la preoccupazione che instillava in loro, e lesse l’elenco a ciascuno di coloro il cui nome era in esso compreso, soggiungendo che Aureliano aveva stabilito di sopprimerli tutti, ma loro, se erano veri uomini, dovevano difendere la propria vita. [6] Essi si eccitarono, per la paura quelli che sapevano di meritare il risentimento dell’imperatore, per lo sdegno quelli che erano innocenti – Aureliano appariva ingrato nei confronti dei benefici e

dei servigi che gli avevano reso – e assalito di sorpresa l’imperatore mentre era in viaggio, lo uccisero nel luogo che abbiamo detto sopra. [37, 1] Questa fu la fine di Aureliano, un imperatore più prezioso per lo Stato che non buono. Dopo la sua uccisione, essendo venuti alla luce i fatti, quelli stessi che l’avevano ucciso gli dedicarono un grande sepolcro e un tempio. [2] Quanto a Mnesteo, venne in seguito portato via legato ad un palo e gettato in pasto alle belve, come ricordano le statue di marmo collocate da una parte e dall’altra in quel medesimo luogo, dove furono erette anche su colonne delle statue in onore del divo Aureliano. [3] Il senato rimase profondamente addolorato per la sua morte, ma ancor di più lo fu il popolo romano, che usava dire comunemente che Aureliano era il pedagogo dei senatori. [4] Regnò per cinque anni e sei mesi meno qualche giorno142 e per le sue grandi imprese venne annoverato fra gli dèi. [5] In quanto hanno a che fare con Aureliano, non ho potuto esimermi dal precisare certi particolari riferiti dalle fonti storiche143. Molti, ad esempio, narrano che il fratello di Claudio Quintillo, trovandosi preposto alla difesa dell’Italia, quando sentì della morte di Claudio, assunse l’impero144, [6] ma poi, allorché gli giunse la notizia che Aureliano era stato eletto imperatore, fu abbandonato da tutto l’esercito; e visto che, tenuto un discorso contro quello, non ottenne ascolto da parte dei soldati, si incise le vene e morì al suo ventesimo giorno di regno. [7] Nel mondo intero Aureliano fece piazza pulita di tutte le complicità criminose e gli intrighi, nonché di tutte le fazioni. [38, 1] Ritengo non sia fuori argomento anche questa precisazione, che cioè Zenobia l’impero che ebbe lo resse in nome del figlio Vabaliato, e non di Timolao e di Erenniano145. [2] Sotto Aureliano si ebbe anche una rivolta scatenata dagli addetti alla zecca, capeggiata dal cassiere Felicissimo146. Egli la represse con grande violenza e durezza, a prezzo tuttavia della perdita di settemila147 dei suoi soldati, come ci informa una lettera indirizzata al tre volte console Ulpio Crinito, dal quale in precedenza era stato adottato: [3] «Aureliano Augusto al padre Ulpio. Quasi che fosse per me destino che ogni guerra, quale che sia da me intrapresa e ogni sollevazione assuma conseguenze sempre più gravi, così anche la rivolta cittadina mi ha generato una guerra durissima. Gli addetti alla zecca, istigati da Felicissimo, l’ultimo dei servi, cui avevo affidato la carica di procuratore del fisco, si sono ribellati. [4] Sono stati schiacciati a prezzo della perdita di settemila uomini, tra Lembari, Riparensi, Castriani148 e Dacisci. Da ciò appare chiaro che gli dèi

immortali non mi hanno concesso alcuna vittoria priva di difficoltà». [39, 1] Dopo aver celebrato il trionfo su di lui, nominò Tetrico governatore della Lucania149, lasciando che il figlio conservasse il suo posto in senato. [2] Costruì uno splendido tempio in onore del Sole150. Ampliò le mura della città di Roma151, di modo che il perimetro di esse raggiungesse quasi le cinquanta miglia. [3] Perseguì spie e delatori con grande severità. Onde accrescere il senso di sicurezza dei privati cittadini, diede ordine che fossero bruciati nel Foro di Traiano una volta per tutte i registri dei debiti dovuti allo Stato152. [4] Sotto di lui inoltre fu decretata un’amnistia per i delitti contro lo Stato, sull’esempio degli Ateniesi, ricordato anche da Tullio nelle Filippiche153. [5] I funzionari disonesti, che nelle provincie si fossero resi colpevoli di concussione e peculato, li puniva con severità maggiore di quella delle leggi marziali, sottoponendoli ad atroci supplizi e torture. [6] Raccolse nel tempio del Sole una gran quantità d’oro e di gemme. [7] Vedendo che ormai l’Illirico era devastato e la Mesia ridotta in uno stato rovinoso, abbandonò la provincia transdanubiana fondata da Traiano, la Dacia, facendone evacuare l’esercito e i provinciali154, considerando che non fosse ormai più possibile continuare a tenerla; la popolazione fatta evacuare da essa venne da lui stanziata in Mesia, nella regione che egli chiamò la sua Dacia, quella che ora divide le due provincie di Mesia155. [8] Si racconta inoltre che nella sua crudeltà arrivò al punto di addossare a molti senatori la responsabilità di congiure e tentativi di usurpazione inventati, onde poter avere più facilmente il pretesto per metterli a morte. [9] Alcuni aggiungono che egli avrebbe fatto uccidere il figlio, non la figlia della sorella156, ma i più sostengono che eliminò il figlio oltre alla figlia. [40, 1] Quanto risulti difficile eleggere un imperatore quale successore di un buon principe, lo provano tanto l’azione ponderata di un senato particolarmente onesto, quanto il potere esercitato da un esercito capace di decisioni avvedute: [2] dopo che infatti fu ucciso quel severissimo principe, l’esercito deferì al senato la scelta del nuovo imperatore, dal momento che non riteneva fosse da eleggere alcuno di quelli che avevano assassinato un imperatore così valido. [3] Ma il senato rimise a sua volta l’elezione nelle mani dell’esercito, ben sapendo che i soldati non accettavano più di buon grado gli imperatori eletti dal senato. [4] Insomma ciò ebbe a ripetersi per tre volte, di modo che per sei mesi il mondo romano non ebbe imperatore157, e rimasero in carica i funzionari che erano stati eletti dal senato o da Aureliano, se si eccettua il caso di Faltonio Probo158, che fu scelto per sostituire Arellio

Fusco159 quale proconsole d’Asia. [41, 1] Non è privo di interesse riportare la lettera stessa inviata dall’esercito al senato: «I fortunati e valorosi eserciti al senato e al popolo romano. Il nostro imperatore Aureliano, per il tradimento di un sol uomo e l’errore tanto di uomini buoni che malvagi, è stato ucciso. [2] Annoveratelo fra gli dèi, o santi e venerabili signori senatori, e mandateci un principe scelto tra voi, ma degno della vostra stima. Ché noi non siamo disposti ad accettare quale nostro imperatore nessuno di costoro che o hanno sbagliato o hanno agito con malvagità». [3] La risposta fu costituita da un senatoconsulto. Essendosi l’illustrissimo senato riunito il giorno 3 febbraio160 nella Curia Pompiliana161, il console Aurelio Gordiano162 disse: «Vi diamo lettura, o senatori, della lettera del fortunatissimo nostro esercito». [4] Dopo la lettura di essa, Aurelio Tacito, senatore che aveva priorità di parola, così si espresse (si tratta di colui che poi sarebbe stato eletto all’unanimità a succedere quale imperatore ad Aureliano): [5] «Gli dèi immortali, o senatori, avrebbero operato giustamente e convenientemente se avessero fatto sì che i buoni principi fossero stati invulnerabili al ferro, in modo che godessero di una vita più lunga e non avessero contro di loro potere quelli che con perfide trame ordiscono nefandi assassinii. [6] Così infatti l’imperatore Aureliano, del quale nessuno fu più valoroso e prezioso per lo Stato, sarebbe ancora in vita. [7] In effetti, dopo la disgraziata vicenda di Valeriano, dopo il malgoverno di Gallieno, il nostro Stato, sotto l’impero di Claudio, aveva ripreso a respirare; ma era stato Aureliano, con le sue vittorie in ogni parte del mondo intero, a ricondurlo all’antico splendore. [8] Lui ci ha ridato la Gallia, lui ha liberato l’Italia, lui ha allontanato dalla Vindelicia il giogo della schiavitù ai barbari. Grazie alle sue vittorie l’Illirico è stato riconquistato, la Tracia è stata restituita alla giurisdizione romana. [9] Lui l’Oriente – oh vergogna! – oppresso dal giogo di una donna, restituì alla nostra sovranità, lui i Persiani, che ancora menavano oltraggiosamente vanto della uccisione di Valeriano, sbaragliò, mise in fuga, schiacciò. [10] Lui i Saraceni, i Blemmi, gli Essomiti163, i Battriani, i Seri164, gli Iberi, gli Albani, gli Armeni e persino popolazioni dell’India, come se fosse presente di persona, hanno quasi venerato come un dio. [11] Il Campidoglio è stato ricolmato di doni che egli ha ricevuto dalle popolazioni barbariche. Un solo templo conserva quindicimila libbre d’oro, dono della sua liberalità, tutti i santuari della città risplendono dei suoi doni. [12] Perciò, o senatori, giustamente io chiamo in causa persino gli stessi dèi, che hanno permesso che un tale sovrano morisse, a meno che non sia che essi

abbiano preferito averlo con sé. [13] Propongo dunque per lui onori divini e credo che voi tutti farete lo stesso. Quanto poi alla nomina del nuovo imperatore, ritengo sia opportuno rimetterla allo stesso esercito. [14] Quando infatti ci si esprime su di una questione di tal genere, se quanto detto non si realizza, ne consegue un grave rischio per chi è stato oggetto della scelta, e impopolarità per chi l’ha compiuta». [15] La proposta di Tacito fu approvata. Nondimeno, dopo un ripetuto palleggiarsi di responsabilità, con un senatoconsulto, di cui riferiremo nel corso della vita di Tacito, venne eletto imperatore Tacito stesso. [42, 1] Aureliano lasciò soltanto una figlia, i cui discendenti vivono ancor oggi a Roma165. [2] Nipote di lei è infatti quell’Aureliano166 proconsole di Cilicia, ottimo senatore, uomo davvero indipendente e di vita degna di ogni rispetto, che ora vive in Sicilia. [3] Che dire del fatto che, mentre si sono avvicendati già tanti Cesari, si siano avuti così pochi sovrani di valore? Il registro pubblico porta la serie di coloro che indossarono la porpora, a partire da Augusto fino agli imperatori Diocleziano e Massimiano: [4] ma fra questi furono eccellenti solo lo stesso Augusto, Flavio Vespasiano, Flavio Tito, Cocceio Nerva, il divo Traiano, il divo Adriano, gli Antonini Pio e Marco, Severo Afro, Alessandro figlio di Mamea, il divo Claudio e il divo Aureliano. Valeriano, pur essendo stato un ottimo principe, non ha potuto essere accomunato a tutti questi per via delle sue sfortunate vicende. [5] Tu vedi, di grazia, quanto esiguo sia il numero dei buoni prìncipi, così che disse bene un buffone del tempo di questo Claudio, che sarebbe possibile scrivere nello spazio di un solo anello i nomi dei buoni sovrani ed effigiarveli sopra. [6] Ma di contro, quale la schiera di cattivi prìncipi!? Per non parlare infatti dei Vitellii, dei Caligola, dei Neroni, chi potrebbe sopportare i Massimini e i Filippi, nonché la feccia di quella moltitudine di imperatori improvvisati?167 È pur vero che dovrei fare eccezione per i Decii, la cui vita e morte sono paragonabili a quelle degli antichi. [43, 1] Ci si domanda invero che cosa sia a rendere i prìncipi malvagi: prima di tutto, amico mio, il loro potere illimitato, poi la grande disponibilità di mezzi, e inoltre gli amici disonesti, il loro seguito di individui detestabili, gli avidissimi eunuchi, i cortigiani o stupidi o spregevoli e, ciò che non si può negare, l’ignoranza delle cose di Stato. [2] Ma io ho udito narrare da mio padre168 che l’imperatore Diocleziano, quando era già ritornato un privato, affermò che nulla è più diffìcile che governare bene. [3] Si mettono assieme in

quattro o cinque e si accordano su un piano per trarre in inganno l’imperatore e vanno a dirgli a che cosa deve dare il suo assenso. [4] L’imperatore, che rimane chiuso nel suo Palazzo, non conosce la verità. Egli è posto in condizione di non sapere altro se non quanto gli dicono quelli, e in tal modo finisce per creare dei funzionari che non meriterebbero di essere eletti, e per allontanare dalle cariche dello Stato persone che dovrebbe invece mantenervi. Che dire di più? Come affermava lo stesso Diocleziano, anche un sovrano buono, accorto, integerrimo finisce per essere fatto oggetto di mercato. [5] Queste sono parole di Diocleziano: le ho riportate affinché, nella tua saggezza, tu possa renderti conto che non vi è nulla di più difficile che essere un buon principe. [44, 1] Molti invero non annoverano Aureliano né fra i buoni né fra i cattivi sovrani, per il fatto che gli mancò la clemenza, prima dote di un imperatore. [2] Verconnio Erenniano169, prefetto del pretorio di Diocleziano, ricordava spesso – stando alla testimonianza di Asclepiodoto170 – che Diocleziano era solito affermare, biasimando l’asprezza di Massimiano, che Aureliano avrebbe dovuto essere un generale, piuttosto che un imperatore. Non approvava infatti la sua eccessiva durezza. [3] Può forse apparire strano un fatto di cui era venuto a conoscenza Diocleziano e che si narra sia stato riferito da Asclepiodoto al suo consigliere Celsino171 – ma su questo lascio il giudizio ai posteri. [4] Diceva infatti che una volta Aureliano aveva consultato le Druidi di Gallia172, chiedendo se l’impero sarebbe rimasto ai suoi discendenti, ma – stando a quanto da lui riferito – esse risposero che nessun nome sarebbe stato più famoso nello Stato di quello dei discendenti di Claudio. [5] E in effetti è ora imperatore Costanzo, che discende da quella stessa famiglia173 e i cui discendenti giungeranno, io credo, a quella gloria profetizzata dalle Druidi. Questo particolare ho ritenuto di inserirlo nella vita di Aureliano, in quanto il responso in questione venne dato su richiesta di quest’ultimo. [45, 1] Aureliano assegnò alla città di Roma le entrate provenienti dall’Egitto per le tasse sul vetro, sulla carta, sul lino, sulla stoppa, nonché le merci soggette in perpetuo sll’anabolicum174. [2] Fece inoltre apprestare delle terme invernali in Trastevere, dato che in quella zona era scarsa l’acqua veramente fredda. Intraprese la costruzione di un foro intitolato al suo nome ad Ostia, sul mare. In esso in seguito sorse la sede dei magistrati pubblici. [3] Aiutava economicamente i suoi amici in maniera decorosa e discreta, di modo

che potessero sfuggire ai guai della povertà, ma ad un tempo non incorrere, grazie alla moderata consistenza del loro patrimonio, nell’invidia che avrebbero potuto suscitare le ricchezze. [4] Non ebbe mai nel suo guardaroba un abito di seta pura e neppure ne fece mai dono ad altri perché lo usasse. [5] E a sua moglie, che gli chiedeva di poter avere un tunicopallio175 di seta color porpora, rispose: «Guardiamoci dal comprare dei fili a peso d’oro». A quel tempo infatti una libbra di seta valeva quanto una libbra d’oro. [46, 1] Aveva in animo di proibire che venisse usato l’oro per ornare i soffitti, le tuniche, le pelli e gli oggetti d’argento, affermando che in natura v’era sì più oro che argento, ma l’oro andava perduto nei vari processi di laminatura, filatura e fusione, mentre l’argento nei suoi impieghi si conservava tale. [2] Aveva comunque concesso a chi lo volesse la facoltà di usare vasi e coppe d’oro. [3] Diede inoltre ai privati il permesso di possedere cocchi con finiture in argento, mentre in precedenza i veicoli venivano rifiniti in bronzo e avorio. [4] Concesse poi alle matrone di possedere tuniche e altre vesti di porpora, mentre in precedenza le avevano avute a vari colori e, al più, in rosa chiaro. [5] Egli fu inoltre il primo a permettere che i soldati semplici portassero delle fibbie d’oro, mentre in precedenza le avevano in argento. [6] Fu anche il primo a distribuire ai soldati vesti orlate di seta – mentre prima non avevano ricevuto se non quelle di porpora tessute verticalmente – ad alcuni con una striscia, ad altri con due, tre e fino a cinque striscie, come sono al giorno d’oggi le tuniche di lino. [47, 1] Utilizzando le entrate fiscali provenienti dall’Egitto, egli aumentò di un’oncia il peso dei pani distribuiti a Roma, come anche egli stesso afferma con compiacimento in una lettera indirizzata al prefetto dell’annona urbana: [2] «Aureliano Augusto al prefetto dell’annona Flavio Arabiano176. Tra gli altri benefìci che, con il favore degli dèi, abbiamo arrecato allo Stato romano, nessuno è per me più grande dell’aver aumentato di un’oncia il peso di tutte le razioni di pane destinate alla città. [3] E perché questo beneficio possa continuare nel tempo, ho assoldato nuovi barcaioli in Egitto per i trasporti sul Nilo e a Roma per la navigazione lungo il Tevere, ho rafforzato gli argini del Tevere stesso, ho scavato il fondo del fiume dove il letto si innalza, ho fatto voti agli dèi e alla dea della Perennità, ho consacrato il culto di Cerere nutrice. [4] Ora è tuo compito, mio carissimo Arabiano, fare in modo che le mie dispoinsizioni non risultino vane. Nulla infatti può esservi di più lieto che vedere sazio il popolo romano». [48, 1] Aveva progettato di distribuire gratuitamente al popolo romano

anche il vino, di modo che, come vengono elargiti gratuitamente olio, pane e carne suina177, così venisse donato anche il vino, e questo provvedimento, nei suoi disegni, avrebbe dovuto avere una durata illimitata grazie alla seguente disposizione. [2] Vi sono in Etruria, lungo l’Aurelia178, sino alle Alpi Marittime, grandi appezzamenti di terreno fertili e boscosi. Aveva stabilito dunque di dare ai proprietari – limitatamente a quanti lo chiedessero – la remissione degli obblighi sui terreni incolti179, e di destinare lì le famiglie dei prigionieri di guerra, di far piantare viti sulle zone montagnose, e da tale attività produrre vino180, in modo però che l’erario non ne ricavasse alcuna entrata, ma lo distribuisse interamente al popolo romano. Era già stato fatto il calcolo dei recipienti, delle botti, delle navi e dei lavori necessari. [3] Ma molti affermano che Aureliano fu messo preventivamente nell’impossibilità di attuare il suo piano, altri che incontrò l’opposizione del suo prefetto del pretorio che, a quanto dicono, avrebbe esclamato: «Se diamo al popolo romano anche il vino, ci manca solo che gli regaliamo anche polli e oche!». [4] A riprova che davvero Aureliano ebbe in mente tale progetto, e che anzi avesse disposto pure di attuarlo, o in qualche parte l’avesse già attuato, sta il fatto che nei portici del tempio del Sole c’è un deposito di vini di proprietà dell’erario destinati ad essere distribuiti al popolo, non però gratuitamente, ma a pagamento. [5] Bisogna comunque sapere che egli elargì tre volte un donativo e che distribuì al popolo romano anche tuniche bianche con maniche lunghe, provenienti da varie province, nonché di puro lino provenienti dall’Africa e dall’Egitto, e che fu lui il primo a regalare al popolo romano dei fazzoletti da sventolare in segno di plauso. [49, 1] Quando si trovava a Roma, non amava abitare nel Palazzo, e preferiva vivere nei giardini di Sallustio181 o in quelli di Domizia182. [2] Proprio nei giardini di Sallustio costruì un portico lungo un miglio, dove ogni giorno esercitava i cavallinon e se stesso, sebbene non godesse buona salute. [3] Gli schiavi e i servitori colpevoli di qualche cosa li faceva giustiziare sotto i suoi occhi o, come affermano i più, allo scopo di mantenere una disciplina severa, o, come sostengono altri, per il gusto di essere crudele. [4] Condannò a morte una sua ancella che aveva commesso adulterio con un altro servo. [5] Deferì ai tribunali pubblici per essere interrogati secondo le leggi molti servi della sua casa che si erano macchiati di qualche colpa. [6] Aveva avuto in animo di ripristinare per le matrone il loro senato o «senatino»183, nel quale avrebbero dovuto rivestire un ruolo preminente quelle che avevano esercitato per designazione del senato cariche sacerdotali. [7] Proibì a tutti gli uomini di

usare calzari rossi, gialli, bianchi e verdi, lasciandoli invece alle donne. Consentì ai senatori di avere corrieri con la stessa divisa dei suoi. [8] Vietò il concubinaggio con le donne di condizione libera. Stabilì il numero degli eunuchi in relazione alle esigenze dei senatori nel loro ufficio, dal momento che avevano raggiunto prezzi esorbitanti. [9] I suoi vasi d’argento non oltrepassavano mai le trenta libbre. I suoi banchetti erano costituiti soprattutto di carni arrostite. Gli piaceva moltissimo il vino rosso. [50, 1] Quando era ammalato non chiamava mai il medico, ma si curava da solo, soprattutto col digiuno. [2] Come un privato celebrava annualmente la festa delle statuette184 con un regalo alla moglie e alla figlia. [3] Divenuto imperatore, assegnò ai suoi servi le medesime vesti che aveva fatto indossare loro da privato, ad eccezione di due vecchi, Antistio e Gillone, ai quali concesse grandi privilegi, come se fossero liberti, e che dopo la sua morte vennero liberati per decreto del senato. [4] Raramente si concedeva dei divertimenti, ma aveva tuttavia una singolare passione per i mimi: quello che gli piaceva di più era un mangione, capace di ingozzarsi a tal punto che in un sol giorno, alla sua mensa, ebbe a divorare un intero cinghiale, cento pani, un castrone e un porcellino, bevendoci dietro, tenendo in bocca un imbuto, più di un barile. [5] Se si eccettuano certe ribellioni interne, il periodo del suo regno fu felicissimo. Il popolo romano lo amò, il senato anche lo temette.

1. L. Domitius Aurelianus Augustus. Sui problemi inerenti la validità dell’informazione storica offerta dalle fonti per il regno di Aureliano cfr. J. SCARBOROUGH, Aurelian. Questions and problems, «Class. Journ.», LXVIII, 1973, pp. 334 segg.; nella Vita della HA lo studioso è propenso a riconoscere l’esistenza di numerosi elementi attendibili, oscurati però spesso all’interno di lettere fittizie e nomi inventati. 2. Cfr. Al. Sev., 37, 6, n. 2. Il ciclo delle feste primaverili in onore di Cibele iniziava il 15 marzo e si protraeva per vari giorni: come già vedemmo, il 24 era il cosiddetto dies sanguinis (cfr. Claud., 4, 2, n. 6); il 25 si celebravano invece gli Hilaria, con una giornata dedicata interamente all’allegria e ai banchetti. 3. Noi conosciamo un Iunius Tiberianus prefetto dell’Urbe dal 18 febbraio del 291 al 3 agosto del 292 d. C.; un altro personaggio dello stesso nome, quasi certamente suo figlio, rivestì la stessa carica dal 12 settembre del 303 d. C. al 4 gennaio del 304 d. C.: dal confronto con altre indicazioni cronologiche della Vita, il riferimento più probabile apparirebbe a quest’ultimo, ma il periodo della sua prefettura non si concilia con la menzione qui fatta degli Hilaria. Sulla questione cfr. E. HOHL, Ueber das Problem der HA, «Wien. Stud.», LXXI, 1958, pp. 139-141; A. CHASTAGNOL, Les Fastes de la Préfecture de Rome au BasEmpire, Paris, 1962, pp. 17-20 e 40-41. 4. Secondo A. CHASTAGNOL, Le problème de l’HA: État de la question, in BHAC, 1963, Bonn, 1964, p. 60, la denominazione vir inlustris costituirebbe un anacronismo, in quanto tale qualifica per un praefectus urbis non potrebbe risultare anteriore al 368-369 d. C. 5. A parere di F. PASCHOUD, Le Diacre Philippe, l’Eunuque de la reine Candace et l’Auteur de la vita Aureliani, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 147 segg., in questa scena potrebbe esservi allusione al cap. 8 degli Atti degli Apostoli, ove si narra l’episodio del diacono Filippo che viene fatto salire sulla propria carrozza dall’Eunuco della regina d’Etiopia Candace e, nel corso del viaggio, lo converte, portandolo al Battesimo. Il tutto in funzione polemica anticristiana. 6. Secondo taluni studiosi, la menzione del iudiciale carpentum del prefetto dell’Urbe risulterebbe un altro anacronismo, da datarsi posteriormente al 382 d. C.; la questione è però controversa (cfr. particolarmente A. CHASTAGNOL, La préfecture urbaine à Rome sous le Bas-Empire, Paris, 1960, pp. 203 segg.; A. MOMIGLIANO, Per la interpretazione di Simmaco Relatio 4, «Rend. Acc. Naz. Linc.», Sc. Mor., XIX, 1964, pp. 225 segg. 7. Non sappiamo a quale personaggio si faccia riferimento con questo nome. 8. Cfr. 35, 3, n. 7. 9. Ricordato nell’Iliade (II, 212 segg.) fra i Greci che parteciparono alla guerra di Troia, era famoso per la sua bruttezza fisica, nonché per la sua maldicenza. 10. Ricordato nell’Eneide (II, 77 segg.) come il greco che riuscì a convincere con l’inganno i Troiani a portare entro la città il cavallo di legno. 11. La reale esistenza di questi libri lintei (nome originariamente riferito alle antiche cronache del popolo romano redatte appunto su tela di lino e conservate nel tempio di Giunone Moneta) fatti compilare da Aureliano appare per lo meno sospetta. 12. Si trovava nel Foro di Traiano (su cui v. Hadr., 7, 6, n. 2). Come nota il MAGIE (III, p. 195 n. 4) è una delle fonti favorite per gli sfoggi di erudizione di FLAVIO VOPISCO, anche nel corso delle altre biografìe a lui attribuite (cfr. Tac., 8, 1; Prob., 2, 1; Car., 11, 3). 13. Il testo dei codici è in questo punto corrotto (P dà Parrumipiane) e non consente di ricavare con sicurezza il nome del personaggio in vocativo cui VOPISCO si rivolge. Fra i vari nomi proposti accogliamo – con Hohl – Pinianus, non senza sottolineare che una soluzione sicura del problema resta comunque impossibile, anche tenendo conto che gli altri personaggi cui VOPISCO dedica le sue biografie (cfr. Prob.,

1, 3 e Quadr., 2, 1) portano nomi a noi sconosciuti. Cfr. T. D. BARNES, Some persons in the HA, «Phoenix», XXVI, 1972, p. 165. 14. Testimonianza importante sull’esistenza originaria delle biografie che ora nella raccolta risultano perdute, e che erano attribuite in blocco a TREBELLIO POLLIONE. 15. A parere di J. BURIAN, Tacitus, mendaciorum comes, «Graecolat. et Orient.», V, 1973, pp. 49 segg., l’animosità che trapela qui e negli altri due passi in cui la HA menziona Tacito, si spiegherebbe con l’atteggiamento critico dello storico nei confronti del senato, in evidente contrasto con la tendenza propria dell’opera a idealizzare il ruolo di tale istituzione. 16. Storico di origine gallica, vissuto al tempo di Augusto, autore di una opera in quarantaquattro libri intitolata Historiae Philippicae, a noi nota attraverso il compendio di GIUSTINO (II-III sec. d. C). 17. L’espressione pedibus in sententiam transitum facere appartiene al linguaggio proprio delle procedure di voto senatorie; indica la votazione per divisione: per esprimere la propria adesione ad una certa proposta, ci si spostava fisicamente, portandosi in un determinato lato dell’assemblea. 18. Sirmium (l’odierna Mitrovitz) era la capitale della Pannonia Inferiore. Anche Aureliano, come Claudio, Probo, Caro e Diocleziano, era quindi di origine illirica. 19. La Dacia Ripensis era la nuova provincia istituita dallo stesso Aureliano (cfr. 39, 7) sulle rive del Danubio; probabilmente è da ricollegare a questa circostanza la versione che egli fosse nativo del luogo. 20. Discepolo di Parmenide e nato, come il maestro, ad Elea, città dell’Italia meridionale (la latina Velia). Fu attivo ad Atene verso la metà del V sec. a. C. 21. Il principe scita che avrebbe soggiornato ad Atene agli inizi del VI sec. a. C., stringendo amicizia con Solone. Per la sua moralità e sapienza fu annoverato fra i sette savi della Grecia. 22. Questo presunto autore non ci è altrimenti conosciuto, ed è verosimilmente inventato. Cfr. R. SYME, Bogus Authors, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 320 seg. 23. Questa notizia sul sacerdozio della madre di Aureliano è probabilmente da ricollegare al fatto che, secondo quanto ricordato più avanti (cfr. 35, 3), questo imperatore favorì il diffondersi a Roma del culto del dio Sole, facendogli erigere anche un tempio. 24. Crepundia ha qui la particolare accezione di «fasce», «pannolini per neonato» (cfr. PLINIO, Nat. hist., XI, 270). Un presagio imperiale dello stesso tipo è in CI. Alb., 5, 9. 25. In seguito a una proibizione che risaliva a Marco Aurelio: cfr. M. Ant., 23, 8. 26. L’aneddoto sull’elefante di Aureliano è stato forse ispirato da un passo di GIOVENALE (XII, 106107, dove l’elefante è detto Caesaris armentum, nulli servire paratum / privato): sulla questione – così come, in generale, sui possibili echi giovenaliani riconoscibili nel corso dell’opera – cfr. A. D. E. CAMERON, Literary allusions in the HA, «Hermes», XCII, 1964, pp. 363 segg. (in partic. 363) e J. SCHWARTZ , Arguments philologiques pour dater l’HA, «Historia», XV, 1966, pp. 454 segg. (in partic. p. 456). 27. Non altrimenti conosciuto. 28. PLUTARCO (Alex., XLIII, 3) racconta di un supplizio simile comminato da Alessandro. 29. Cfr. 1, 7, n. 2. 30. Cfr. 1, 7, n. 1. 31. Non altrimenti conosciuto. 32. L’autore ha qui probabilmente fatto confusione, in quanto fu Gallieno ad affidare un figlio a un suo generale (sulla questione inerente all’identità di questi due personaggi cfr. Tyr. trig., 3, 1, n. 5). 33. Personaggio di difficile identificazione: cfr. in proposito BARNES, Some persons, cit., p. 146. 34. Il riferimento è innanzitutto a M. Valerio Corvo (o Corvino), che fu sei volte console, fra il 348 e il 299 a. C., e combatté vittoriosamente contro i Volsci e i Sanniti; tra i discendenti spiccava M. Valerio Messalla Corvino, famoso generale al tempo di Ottaviano e fondatore di un circolo letterario del quale fece parte anche il poeta Tibullo.

35. L’appellativo parens indirizzato a un praefectus urbis è stato considerato da taluno studioso (così W. HARTKE, Römische Kinderkaiser, Berlin, 1951, p. 184) un anacronismo; contro questa posizione cfr. da ultimo A. D. E. CAMERON, Three notes on the HA, «Class. Rev.», XVIII, 1968, pp. 18 segg., che cita una legge di Alessandro Severo (cfr. Cod. Iust., IV, 65, 4) in cui un prefetto è chiamato dall’imperatore appunto parens. 36. I termini Antoninianus e Philippeus riferiti qui rispettivamente a monete d’oro e d’argento, appaiono storicamente poco attendibili (cfr. MAGIE, III, pp. 210 seg., n. 1), ma è probabile che qui il nostro autore li abbia usati solo per indicare in modo generico delle monete. 37. Altra inesattezza numismatica, in quanto i denarii non erano coniati in bronzo, ma erano fatti di metallo con un rivestimento d’argento. 38. Il prefetto dell’erario è ricordato anche a 12, 1 e 20, 8. Fu Nerone a porre definitivamente l’aerarium (cioè il tesoro di Stato) sotto la responsabilità di due praefecti (56 d. C.); le ultime attestazioni di cui disponiamo relativamente a questi ufficiali risalgono alla metà del IV sec. d. C. Cfr. M. Ant., 9, 7, n. 1. 39. Questo personaggio, più volte nominato (cfr. 11, 8; 13, 1; 14, 4; 38, 2), non ci è altrimenti noto. Del resto, le notizie relative all’adozione da parte sua di Aureliano e al consolato esercitato assieme hanno tutta l’aria di essere un’invenzione del biografo. 40. Popolazione siriaca che abitava la regione nordorientale della Palestina, noti come valenti arcieri e temibili predoni. 41. Tale legione è ricordata ancora in Prob., 5, 6: una legio tertia con questa denominazione non ci è peraltro altrimenti conosciuta. 42. Cfr. Al. Sev., 56, 5, n. 2. 43. Come osserva l’AGNES (p. 478, n. 2), «nella lotta contro le nomadi popolazioni barbariche, una delle difficoltà principali stava appunto nell’individuare di volta in volta il luogo dove venivano nascoste le donne, i bambini, i bagagli e gli armenti, luogo che era come la mobile capitale della tribù in marcia, dalla quale le schiere di armati si irradiavano all’intorno a far preda». Sulle questioni inerenti all’uso del termine carrago, cfr. Claud., 6, 6, n. 3. 44. Il personaggio non ci è altrimenti conosciuto; quanto al titolo cfr. 9, 7, n. 4. 45. Cfr. Al. Sev., 14, 6, n. 2. 46. Il titolo di magister admissionum, quale funzionario ufficiale, è di età bizantina, e questa risulterebbe l’unica attestazione di un uso di esso nel III sec. d. C. Cfr. in proposito A. REINTJES, Untersuchungen zu den Beamten bei den ShA, Dusseldorf, 1961, p. 11. 47. Nummio Tusco è congettura di Hohl (il cod. P dà nemmio fusco, corretto dagli editori precedenti in Memmio Fusco), che trova conferma nei Fasti consulares, che indicano appunto questo personaggio come console per l’anno 258 d. C. 48. Personaggio altrimenti sconosciuto, come pure quelli citati successivamente. 49. Veniva concessa a colui che per primo aveva scalato le mura della città nemica; era in oro, con decorazione a forma di parapetto merlato. 50. Decorata a forma di vallo, veniva assegnata a chi per primo riusciva ad aprirsi la strada entro le linee nemiche; pur essa in oro. 51. Spettava a colui che per primo metteva piede su di una nave nemica; era in oro, con decorazione a forma di rostri di nave. 52. Cfr. M. Ant., 12, 8, n. 2. 53. Era il dono riservato ai vincitori in guerra. 54. Cfr. Gord., 4, 4, n. 4. 55. Una tunica priva di maniche, di foggia imprecisata. 56. Il bastone eburneo portato originariamente dai generali che celebravano il trionfo. Nel corso

dell’impero (a partire dal II sec. d. C.) fu concesso anche ai consoli (che lo portavano nel corso della loro solenne processione al Campidoglio). 57. Nessun console con questo nome ci è conosciuto per il periodo dioclezianeo-costantiniano; vari studiosi – sostenitori della datazione tarda dell’opera – hanno sostenuto l’identificazione con Mecio Memmio Furio Baburio Ceciliano Placido, che fu console nel 343 d. C. Cfr., anche per la bibliografia in proposito, CHASTAGNOL, Le problème de l’H A, cit., pp. 58 seg. 58. Mancano nella biografia le notizie circa la partecipazione di Aureliano alla campagna di Gallieno contro Aureolo (che ci è testimoniata invece da AURELIO VITTORE, Caes., 33, 21 e ZONARA, XII, 25). 59. Cfr. Claud., 12, 2-6. 60. Dalla narrazione della morte di Aureolo nella vita di Claudio (cfr. 5, 1-3) non appare che Aureliano abbia avuto nulla a che fare con tale episodio. 61. Gli Eruli, stanziati nella regione attigua alla palude Meotide (l’odierno Mar d’Azov). 62. Per il nome Flavio cfr. Claud., 7, 8, n. 2. 63. Cfr. Claud., 11, 3, n. 9. 64. Come annota il MAGIE (III, p. 226, n. 1), l’elezione di Aureliano dovette avvenire prima del 25 maggio del 270 d. C., giorno in cui appare nominato in un papiro quale imperatore. 65. Per l’esattezza si trattava degli Iutungi, che abitavano a nord del corso superiore del Danubio e che nel 270 d. C. avevano invaso la Rezia, e, a quanto sembra, erano penetrati anche nell’Italia settentrionale. 66. Nella tarda estate del 270 d. C. Aureliano compì un viaggio a Roma, dove ricevette il riconoscimento ufficiale da parte del senato. Ben presto però dovette tornare precipitosamente in Pannonia, per fronteggiare un’invasione di Vandali. Cfr. su questi avvenimenti ZOSIMO, I, 48 seg. 67. Si tratta per l’esattezza dell’invasione degli Alamanni e degli Iutungi, avvenuta nell’inverno 270271 d. C., mentre Aureliano era impegnato in Pannonia. Dopo aver subito in un’imboscata una grave sconfitta presso Piacenza (cfr. 21, 1), Aureliano avrebbe avuto modo di riorganizzarsi ottenendo brillanti vittorie sul Metauro e nei pressi del Ticino (cfr. l’Epitome de Caesaribus, 35, 2, ove però lo scontro stesso di Piacenza è presentato come una vittoria). 68. A parere di G. ALFÖLDI, Barbareneinfîlle und religiose Krisen in Italien, in BHAC, 1964-65, Bonn, 1966, pp. 1 segg., il racconto dell’invasione marcomannica (cc. 18-21) riflette tutti i momenti più importanti dell’invasione di Radagaiso del 405-406 d. C., tanto che se ne potrebbe vedere in esso quasi una rappresentazione e ricavare da ciò un argomento per indicare nella data suddetta un terminus post quem per la composizione della HA. Obiezioni a questa tesi sono mosse da A. LIPPOLD, Der Einfall des Radagais im Jahre 405/06 und die Vita Aureliani der HA, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 149 segg. 69. Cfr. 21, 5-6. 70. Di questa invasione degli Alamanni avvenuta sotto Gallieno la vita di questo imperatore non fa cenno; ne siamo invece informati da ZONARA, XII, 24. 71. Si tratta naturalmente, anche in questo caso, di un ennesimo falso. 72. Altrimenti sconosciuto. 73. Altrimenti sconosciuto. 74. Cfr. Hadr., 2, 8, n. 1. 75. Cfr. Heliog., 8, 1, n. 1. 76. L’amburbium era un sacrifìcio solenne nel quale le vittime venivano portate in processione attorno ai confini della città (come nelle feste Ambarvali: cfr. n. seg.); esso veniva celebrato, a quanto sembra, il 2 febbraio. 77. Antica cerimonia di purificazione delle messi, che veniva celebrata alla fine di maggio: nel corso di essa un porco, una pecora e un toro (donde la denominazione suovetaurilia data al sacrificio) venivano condotti in processione attorno al territorio di Roma, per essere poi sacrificati a Marte. 78. Sugli accenni ai Cristiani nel corso dell’opera e sulle interpretazioni ad essi date, cfr. in generale

quanto detto nel corso dell’ Introduzione. 79. Secondo ZOSIMO (I, 49, 2) una parte in questa rivolta avrebbero avuto anche alcuni senatori, che speravano di liberarsi di un imperatore creato dall’esercito. 80. Sul problema dei criteri di giudizio riguardo ad Aureliano, il quale, nonostante la sua crudeltà, viene annoverato fra i buoni imperatori, cfr. B. MOUCHOVÀ, Crudelitas principis optimi, in BHAC, 1970, Bonn, 1972, pp. 167 segg. Nel giudizio su di lui la HA si ricollega alle narrazioni degli autori pagani, distanziandosi chiaramente dalla tradizione cristiana che lo bolla come crudele persecutore (cfr. in special modo LATTANZIO). 81. L’opera fu intrapresa nel 271 d. C. e portata a termine al tempo di Probo (cfr. ZOSIMO, I, 49). Le mura Aureliane erano lunghe 19 km., larghe 3 metri e mezzo, e avevano un’altezza media di 6 metri. Vi erano diciotto porte, a una o due fornici, numerose porte minori e varie torri per le catapulte. Parte di queste mura, pur attraverso i numerosi restauri e accrescimenti subiti, è tuttora riconoscibile. 82. Il pomerium era lo spazio di terreno lungo le mura della città – all’interno e all’esterno – considerato sacro, e nel quale non era lecito né fabbricare, né abitare, né arare. Definito da pietre terminali, era originariamente limitato al Palatino, e fu poi esteso sino ad includere i sette colli e in seguito anche le quattro regiones della città. 83. Cfr. GELLIO, XIII, 14, 3-4. 84. Di ampliamenti operati da Traiano e Nerone non siamo informati, mentre più fondata appare la notizia relativa ad Augusto. In linea generale sappiamo che ebbero ancora ad operarne Silla, forse Cesare, e di certo Claudio e Vespasiano. Sulla presenza di queste informazioni inerenti il pomerium nella HA, cfr. R. SYME, The Pomerium in the HA, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 217 segg. 85. Così detto dall’antico re Polemone I, era situato lungo la costa meridionale del Mar Nero: fu annesso all’impero nel 63 d. C. 86. Il territorio delle Alpes Cottiae (così dette dal re Cozio, che lo governava al tempo di Augusto) si estendeva da Erubudunum (oggi Embrun) a Segusium (oggi Susa). 87. Cfr. Tyr. trig., 30, 1, n. 2. La spedizione di Aureliano ebbe inizio nell’estate del 271 d. C. 88. Si tratta dei Goti, per commemorare la vittoria sui quali Aureliano prese il titolo di Gothicus Maximus. 89. L’odierna Kizli-Hissar in Cappadocia, ai piedi del monte Tauro. 90. Altrimenti sconosciuto. 91. Cfr. Al. Sev., 29, 2, n. 4. 92. A noi è pervenuta soltanto una biografia composta da FLAVIO FILOSTRATO agli inizi del III sec. d. C., che sappiamo essere stata tradotta in latino da NICOMACO FLAVIANO (morto nel 394 d. C.). Questo passo, con quanto segue, ha suscitato discussioni fra gli studiosi, in quanto vi è chi propende a vedervi un’allusione alla suddetta traduzione, e, conseguentemente, un indizio a favore della datazione tarda della HA; cfr. CHASTAGNOL, Le problème de l’HA, cit., pp. 55 seg. e la bibliografia ivi citata. 93. Secondo ZOSIMO (I, 50-56), che costituisce la nostra fonte migliore per la campagna di Aureliano contro Zenobia, la prima battaglia vittoriosa di Aureliano sarebbe avvenuta sul fiume Oronte (presenti il comandante in capo dei Palmireni Settimio Zabdas o Zaba e la stessa Zenobia), mentre lo scontro di Dafne, di assai minore entità, sarebbe avvenuto successivamente, durante la ritirata dei Palmireni. Su Dafne cfr. M. Ant., 8, 12, n. 1. 94. Cfr. Heliog., 1, 5, n. 3. 95. Cfr. 35, 3. 96. Agli inizi del 272 d. C. 97. Mucapore sarà poi l’assassino di Aureliano: cfr. infra, 35, 5. 98. La ballista era una grande macchina da guerra a forma di arco, tesa con funi e nervi, con cui si potevano scagliare contro il nemico pietre e altri proiettili.

99. Questo presunto autore non ci è altrimenti conosciuto. 100. Notizie più dettagliate circa la caduta di Palmira ci sono fornite da ZOSIMO, 1, 55-56. Mentre Zenobia si era recata personalmente a chiedere aiuto ai Persiani, il partito favorevole alla pace, che aveva preso il sopravvento, aprì le porte della città: Aureliano le risparmiò il saccheggio, imponendole solo una guarnigione di seicento arcieri al comando di Sandarione (cfr. 31, 2), e lasciando sul posto un suo ufficiale, Marcellino, in qualità di prefetto della Mesopotamia e governatore totius orientis. 101. I dracones erano vessilli che portavano raffigurato appunto un drago; originariamente venivano usati dai popoli orientali, ma successivamente furono adottati anche dai Romani, e draconarius si chiamò il soldato che li portava (cfr. 31, 7). 102. Il termine potrebbe indicare qui il nome di una pianta, come in VIRGILIO, Ecl., IV, 45; oppure potrebbe trattarsi del minio, chiamato pur esso sandyx. 103. Zenobia, per salvare la propria vita, addossò tutta la colpa della ribellione ai suoi consiglieri, che vennero da Aureliano condannati a morte. 104. Filosofo neoplatonico, retore e filologo di fama, dopo aver insegnato ad Atene, si era trasferito, verso il 267 d. C., a Palmira, invitatovi da Zenobia. 105. Dai cenni che si ricavano a 35, 4 e 41, 9, sembra che Aureliano abbia compiuto anche una puntata in Persia, come una sorta di spedizione punitiva. 106. La popolazione dacia già ricordata in Max. Balb., 16, 3: lo scontro avvenne nel 272 d. C. nei pressi del Danubio. 107. Di questi titoli, solo quelli di Gotico, Partico, Carpico (e in più quello di Germanico) trovano conferma nelle iscrizioni. 108. Secondo il racconto di ZOSIMO (I, 60-61), Palmira si era ribellata sotto la guida di un certo Apseo; dapprima gli abitanti tentarono di indurre Marcellino, il governatore lasciato ivi da Aureliano, a prendere parte alla rivolta: tergiversava, onde potere avvertire l’imperatore di quanto si stava tramando, i Palmireni elessero re di propria iniziativa un certo Antioco, parente di Zenobia (quello che nella nostra Vita è chiamato Achilleo). 109. A proposito di questo personaggio e della possibilità di identificarlo cfr. BARNES, Some persons, cit., pp. 145 seg. 110. Cfr. 21, 5, n. 3. 111. Altrimenti sconosciuto. 112. Cfr. la sua biografia in Quadr. tyr., 3-5. 113. A quanto racconta ZOSIMO (I, 61), Aureliano marciò direttamente da Palmira su Alessandria. 114. Cfr. Tyr. trig., 24, 1-2. 115. In effetti Aureliano aveva ottenuto la riunione, sotto il suo potere, di tutto l’impero che, dopo che Postumo, nel 258 d. C., si era impadronito delle Gallie creandovi un dominio indipendente, era praticamente rimasto diviso in due. 116. Il trionfo di Aureliano fu celebrato nel 274 d. C. Il racconto che ne fa la HA si ricollega, per stile e contenuto, al genere panegirico e apologetico e presenta significative analogie con descrizioni analoghe in Appiano, Plutarco, Flavio Giuseppe e Cassio Dione; cfr. a questo proposito E. W. MERTEN, Zwei Herrscherfeste in der HA. Untersuchungen zu den pompae der Kaiser Gallienus und Aurelianus, Bonn, 1968, pp. 101 segg., ove, se da una parte si nega un reale valore storico a questa così come alla narrazione della pompa Gallieni (cfr. Gall., 7, 4, n. 5), dall’altra si riconosce il valore documentario che possono rivestire entrambi i passi in relazione ai singoli dettagli delle cerimonie descritte. Da un punto di vista generale queste rappresentazioni illuminano un aspetto che diviene tipico della ideologia imperiale nel corso del Basso Impero, quello della celebrazione del trionfo quale espressione concreta ed esclusiva del potere assoluto del sovrano. 117. Cfr. 22, 2, n. 8. 118. Popolazione nomade della bassa Nubia.

119. Si tratta in realtà degli Axomiti, che abitavano la parte settentrionale dell’Abissinia. Sui loro rapporti con Aureliano cfr. J. STRAUB, Aurelian und die Axumiten, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 269 segg.; la forma Exomitae è forse derivata da una fonte greca (cfr. ivi, pp. 285 seg.). 120. Probabilmente gli abitanti dell’Arabia Felix (ή εὐδαὶμων’ Aραβὶα) corrispondente all’attuale Yemen. 121. Cfr. Hadr., 21, 14, n. 1. 122. Cfr. Hadr., 21, 13, n. 7. 123. Cfr. Peso. Nigr., 7, 8, n. 8. 124. Cfr. Ant. Pius, 5, 5, n. 6. 125. Cfr. Hadr., 6, 6, n. 3. 126. Anche qui, come a 18, 2-3, ci si riferisce con questo nome a Iutungi e Alamanni (cfr. ivi, n. 5). 127. Cfr. Tyr. trig., 25, 1, n. 1. 128. Cfr. Al. Sev., 56, 5, n. 2. 129. Si allude a Tetrico. 130. Corrispondente per noi alle 15. 131. Siligo era detta una varietà di frumento bianco. 132. Su queste distribuzioni di pane cfr. ZOSIMO, I, 63, 3. Esse, così come quelle – citate subito dopo – di carne suina, e quelle di sale e olio (cfr. infra, 48, 1) sembrano rispondere all’effettiva esigenza di venire incontro alle gravi necessità alimentari di Roma, impoverita dal declino economico dell’Italia, e sempre più minacciata dalla miseria e dalla fame (cfr. MAGIE, III, pp. 262 seg., n. 1). 133. Tra queste leggi dovute ad Aureliano vi era forse anche un’importante riforma monetaria, di cui ci parla ZOSIMO (I, 61, 3). 134. La localizzazione di questo templo – fondato nel 274 d. C. – non è sicura (cfr. MAGIE, III, p. 264, n. 1). La sua sontuosità è ricordata anche da AURELIO VITTORE, Caes., 35, 8 e EUTROPIO, IX, 15, 1; ZOSIMO (I, 61, 2) attesta che in esso furono trasferite le spoglie di Palmira. Del resto la divinità era identificabile con l’Elagabalo di Emesa che era venuto in soccorso di Aureliano nel corso della grande battaglia (cfr. 25, 3-4). Il culto del Sole doveva essere, nella politica religiosa di Aureliano, il centro del rinato paganesimo e, in qualche modo, il fondamento del potere imperiale, secondo una concezione per cui esso veniva assegnato dal dio stesso, non dalle legioni. 135. Tra il 274 e il 275 d. C. 136. La Vindelicia era compresa fra la Rezia e il corso del Danubio. 137. Cfr. 30, 4, n. 2. 138. A circa 50 miglia a ovest di Costantinopoli. 139. Probabilmente nell’ottobre o novembre del 275 d. C. 140. Cfr. 39, 9. 141. Da notare che ZOSIMO (I, 62, 1) e ZONARA (XII, 27) danno per questo personaggio il nome di Eros. Secondo AURELIO VITTORE (Caes., 35, 7-8) alla base della congiura sarebbe stata la severità e la durezza con la quale Aureliano puniva le estorsioni che i suoi ufficiali operavano nelle province. 142. Cinque anni e sei mesi secondo l’Epitome de Caesaribus, 35, 1; cinque anni, quattro mesi e venti giorni secondo il Cronografo dell’anno 354. 143. La sezione della Vita che segue (37, 5-61, 15) appare una sorta di appendice, con la ripresa di fatti già in precedenza narrati, e mostra in misura notevole una somiglianza con AURELIO VITTORE e EUTROPIO, che può far pensare o a una dipendenza di questo brano dagli altri due autori o ad una eventuale fonte comune. 144. Cfr. 17, 5 e Claud., 12, 3-5. 145. Cfr. 22, 2 e Tyr. trig., 27, 1 e 30, 2. 146. La rivolta è descritta anche da AURELIO VITTORE, Caes., 35, 6, Epitome de Caesaribus, 35, 2 e

EUTROPIO, IX, 14; due sono le ipotesi che si possono formulare quanto alla sua collocazione temporale: potrebbe essersi verificata o nel 270-271 d. C., al tempo dell’invasione germanica, al ritorno dalla quale Aureliano, a quanto detto supra, 21, 5, ebbe a reprimere delle seditiones, oppure nel 274 d. C., al tempo della riforma monetaria attuata dall’imperatore (cfr. n. 6 a 35, 3). I funzionari della zecca si sarebbero impadroniti di una parte del metallo prezioso destinato alla coniazione delle monete e si sarebbero poi ribellati una volta venuta in luce la cosa, per timore della punizione. A parere di R. TURCAN, Le délit des monétaires rebellés contre Aurelien, «Latomus», XXVIII, 1969, pp. 948 segg., i monetarii non sarebbero stati soltanto colpevoli di furto, ma anche di sacrilegio nei confronti del carattere sacro dell’immagine imperiale incisa sulle monete (Aureliano si considerava come una sorta di emanazione della divinità). 147. La cifra pare senz’altro un’esagerazione, ma è probabile che Aureliano abbia effettivamente trovato una resistenza molto accanita, forse per la partecipazione di altre categorie di persone alla rivolta. 148. I Lembarii (da lembus, un tipo di battello basso e veloce) erano i soldati arruolati fra i barcaioli del Danubio; Riparenses erano detti invece quelli di stanza sulle rive dello stesso fiume; Castriani, infine, quelli che costituivano la guarnigione permanente nei castra di frontiera e, particolarmente, lungo le rive del Danubio. 149. Cfr. Tyr. trig., 24, 5. 150. Cfr. 35, 3. 151. Cfr. 21, 9, n. 1. 152. Ricordiamo che un analogo provvedimento era stato preso da Adriano (cfr. Hadr., 7, 6). 153. Il riferimento è a CICERONE, Phil., 1, 1, dove l’oratore parlava del decreto del 17 marzo del 44 a. C. che concedeva l’amnistia a quanti erano implicati nell’assassinio di Cesare. 154. L’evacuazione dovette avvenire nel 271 d. C. 155. La nuova provincia ebbe il nome di Dacia Ripensis, ed era costituita di porzioni delle due Mesie, della Tracia e della Dardania; la capitale era a Serdica (l’odierna Sofia). 156. Il figlio secondo EUTROPIO, IX, 14 e l’Epitome de Caesaribus, 35, 9. 157. Lo studio delle monete ha confermato l’esistenza di un lungo interregno e di una specie di reggenza dell’imperatrice Severina, tra il mese di aprile e il mese di settembre del 275 d. C, data dell’avvento al trono di Tacito secondo la HA (cfr. H. MATTINGLY, in Storia Antica dell’Università di Cambridge, Milano, 1970, XII, 1, p. 356). 158. Altrimenti sconosciuto. 159. Forse identificabile col consularis di questo nome citato a Tyr. trig., 21, 3. 160. La data pare errata, anche se non vi è accordo fra gli studiosi circa il mese esatto della morte di Aureliano (secondo il MAGIE, III, p. 274, n. 4, l’ottobre o il novembre, secondo il MATTINGLY, loc. cit., l’aprile del 275 d. C). 161. Si tratta della Curia Giulia, chiamata Pompiliana qui e in Tac, 3, 2. E possibile che tale nome sia un’invenzione dell’autore. 162. Altrimenti sconosciuto. 163. Cfr. 33, 4, n. 3. 164. Popolazione dell’Asia orientale. Numerosi dei popoli qui citati erano già stati ricordati a 33, 4 (cfr. le note corrispondenti). 165. Cfr. Tyr. trig., 14, 3, n. 4. 166. Altrimenti sconosciuto. Nel corso dei primi tre secoli dell’impero la Cilicia era governata da un legatus imperiale, e, dopo Diocleziano, da un proconsularis. La carica di proconsul Ciliciae (cfr. anche Car., 4, 6) non esisteva più fin dai tempi della repubblica. 167. Il riferimento pare a Gallieno e ai tyranni del suo tempo. 168. Cfr. Tyr. trig., 25, 3, n. 3.

169. Nominato ancora a Prob., 22, 3 (cfr. n. seg.). 170. Un Asclepiodoto è nominato anche a Prob., 22, 3, in un elenco di generali cresciuti alla scuola di Probo. Sul presunto storico qui ricordato – del quale naturalmente non ci è nota alcuna opera – cfr. R. SYME, Bogus Aidhors, cit., p. 313. 171. Altrimenti sconosciuto. 172. Cfr. AL Sev., 60, 6, n. 6. 173. Cfr. Claud., 13, 2, n. 7. 174. L’interpretazione dell’espressione anabolicae species non è del tutto chiara, ma è probabile che l’anabolicum fosse una tassa in natura inerente a prodotti sulla cui produzione e manifatturazione lo Stato aveva posto il suo monopolio. A parere di R. MAC MULLEN, The anabolicae species, «Aegyptus», XXXVIII, 1958, pp. 184 segg., l’anabolicum era verosimilmente limitato ai prodotti tessili d’uso militare e veniva riscosso sotto forma di materia prima o di uniformi già confezionate. 175. Cfr. AL Sev., 41, 1, n. 3. 176. A parere di G. UGGERI, Sul sarcofago di Flavio Arabiano prefetto dell’annona, «Rend. Pontif. Acc. Archeol.», XL, 1967-68, pp. 113 segg., la scena rappresentata sul celebre sarcofago del Museo delle Terme è da mettere in rapporto con il presente passo, che riferisce dell’aumento della razione di pane eseguito, per comando di Aureliano, dal prefetto dell’annona Flavio Arabiano. Costui avrà probabilmente voluto conservare la memoria dell’attività che maggiormente avrebbe potuto dargli gloria e lustro agli occhi del popolo romano. 177. Cfr. 35, 1, n. 5. 178. Cfr. Ant. Pius, 1, 8, n. 6. 179. Passo assai controverso, che presenta incertezze dal punto di vista testuale ed esegetico. Ritengo che il testo di P possa essere conservato con la sola leggera emendazione di gratia im gratiam, nel senso proposto da W. HARTKE, Römische Kinderkaiser, cit., p. 282: ai proprietari che disponevano di terreni incolti ma utilizzabili, doveva essere accordata la remissione (cioè l’abbuono, lo sgravio) del loro impegno (su di essi); in altre parole essi potevano riconsegnarli e lo Stato collocava in essi famiglie barbare, come se fossero state terre prive di proprietario o liberi territori demaniali. 180. Il tentativo di ridare impulso alla viticoltura sarà, come vedremo, ripreso e allargato alle province da Probo (cfr. Prob., 18, 8). 181. Gli horti Sallustiani: si estendevano lungo il pendio settentrionale del Quirinale. Cosiddetti in quanto appartenenti allo storico Sallustio, erano successivamente divenuti proprietà imperiale, probabilmente sotto Tiberio. 182. Sulla riva destra del Tevere, dove Antonino Pio fece erigere il Mausoleo di Adriano (oggi Castel S. Angelo); cfr. Ant. Pius, 5, 1. 183. Cfr. Heliog., 4, 3, n. 11. 184. Cfr. Hadr., 17, 3, n. 3.

XXVII. TACITUS 〈FLAVI VOPISCI SYRACUSII〉

TACITO di FLAVIO VOPISCO DI SIRACUSA

[1, 1] Quod post excessum Romuli1 novello adhuc Romanae urbis imperio factum pontifìces, penes quos scribendae historiae potestas fuit2, in litteras rettulerunt, ut interregnum3, dum post bonum principem bonus alius quaeritur, iniretur, hoc post Aurelianum4 habito inter senatum exercitumque Romanum non invido non tristi sed grato religiosoque certamine sex totis mensibus factum est. [2] Multis tamen modis haec ab illo negotio causa separata est. Iam primum enim, cum interregnum initum est post Romulum, interreges tamen facti sunt totusque ille annus per quinos et quaternos dies sive ternos5 centum senatoribus deputatus est, ita ut, qui valerent, interreges essent singuli dumtaxat. [3] Qua re factum est, ut et plus anno interregnum iniretur, ne aliquis sub aequabili dignitate Romani expers remaneret imperii. [4] Huc accedit quod etiam sub consulibus tribunisque militaribus praeditis imperio consulari6, si quando interregnum initum est, interreges fuerunt, nec umquam ita vacua fuit hoc nomine Romana res p., ut nullus interrex biduo saltim triduove crearetur. [5] Video mihi posse obici curules magistratus7 apud maiores nostros quadriennium8 in re p. non fuisse, sed erant tribuni plebis cum tribunicia potestate, quae pars maxima regalis imperii est9. [6] Tamen non est proditum interreges eo tempore non fuisse, quin etiam verioribus historicis referentibus declaratum est consules10 ab interregibus post creatos, qui haberent reliquorum comitia magistratuum. [2, 1] Ergo, quod rarum et difficile fuit, senatus populusque {Romanus} perpessus est, ut imperatorem per sex menses, dum bonus quaeritur, res p. non haberet. [2] Quae illa concordia militum? Quanta populo quies? Quam gravis senatus auctoritas fuit? Nullus usquam tyrannus emersit, sub iudicio senatus et militum populique Romani totus orbis est temperatus; non illi principem quemquam, ut recte facerent, non tribuniciam potestatem formidabant, sed – quod est in vita optimum – se timebant. [3] Dicenda est tamen causa tam felicium morarum et speciatim in monumentis publicis inserenda eadem posteris humani generis stupenda moderatio, ut discant, qui regna cupiunt, non raptum ire imperia sed mereri: [4] interfecto fraude Aureliano, ut superiore libro scriptum est11, calliditate servi nequissimi, errore militarium, (ut apud quos quaelibet commenta plurimum valent, dum modo irati audiunt, plerumque temulenti, certe consiliorum prope semper expertis) reversis ad bonam mentem omnibus eisdemque ab exercitu graviter confutatis, coeptum est quaeri, ecquis fieri

deberet ex omnibus princeps. [5] Tunc odio praesentium exercitus, qui creare imperatorem raptim solebat, ad senatum litteras misit, de quibus priore libro iam dictum est12, petens, ut ex ordine suo principem legerent. [6] Verum senatus, sciens lectos a se principes militibus non placere, rem ad milites rettulit, dumque id saepius fìt, sextus peractus est mensis. [3, 1] Interest tamen, ut sciatur, quemadmodum Tacitus13 imperator sit creatus: [2] Die VII. kal. Oct〈o〉b.14 cum in curiam Pompilianam15 ordo amplissimus consedisset, Velius Cornificius Gordianus16 consul dixit: [3] «referemus ad vos, p. c., quod saepe rettulimus: imperator est deligendus, 〈cum〉 exercitus sine principe recte diutius stare non possit, simul quia cogit necessitas. [4] Nam limitem Transrenanum Germani rupisse dicuntur, occupasse urbes validas, nobiles, divites et potentes. [5] Iam si nihil de Persicis motibus nuntiatur, cogitate tam leves esse mentes Syrorum, ut regnare vel feminas cupiant potius quam nostram perpeti sanctimoniam. [6] Quid Africam? Quid Illyricum? Quid Aegyptum earumque omnium partium exercitus? Quo usque sine principe credimus posse consistere? [7] Quare agite, p. c., et principem dicite. Aut accipiet enim exercitus, quem elegeritis, aut, si refutaverit, alterum faciet». [4, 1] Post haec cum Tacitus, qui erat primae sententiae consularis, sententiam incertum quam vellet dicere, omnis senatus adclamavit: [2] «Tacite Auguste, di te servent. Te diligimus, te principem facimus, tibi curam rei p. orbisque mandamus. [3] Suscipe imperium ex senatus auctoritate, tui loci, tuae vitae, tuae mentis est, quod mereris. Princeps senatus recte Augustus creatur, primae sententiae vir recte imperator creatur. [4] Ecquis melius quam gravis imperat? Ecquis melius quam litteratus imperat? Quod bonum faustum salutareque sit, diu privatus fuisti: scis, quem ad modum debeas imperare, qui alios principes pertulisti; scis, quem ad modum debeas imperare, qui de aliis principibus iudicasti». [5] At ille: «miror, p. c., vos in locum Aureliani, fortissimi imperatoris, senem17 velle principem facere. [6] En membra, quae iaculari valeant, quae hastile torquere, quae clipeis intonare, quae ad exemplum docendi militis frequenter equitare. Vix munia senatus implemus, vix sententias, ad quas nos locus artat, edicimus. [7] Videte diligentius, quam aetatem de cubiculo atque umbra in pruinas aestusque mittatis. Ac probaturos senem imperatorem milites creditis? [8] Videte, ne et rei p. non eum, quem velitis, principem detis, et mihi hoc solum obesse incipiat, quod me unanimiter delegistis».

[5, 1] Post haec adclamationes senatus haec fuerunt: «et Traianus ad imperium senex venit». Dixerunt decies. «Et Hadrianus ad imperium senex venit». Dixerunt decies. «Et Antoninus ad imperium senex venit». Dixerunt decies. «Et tu legisti: incanaque menta regis Romani18». Dixerunt decies. «Ecquis melius quam senex imperat?». Dixerunt decies. «Imperatorem te, non militem facimus». Dixerunt vicies. [2] «Tu iube, milites pugnent». Dixerunt tricies. «Habes prudentiam et bonum fratrem19». Dixerunt decies. «Severus dixit caput imperare, non pedes»20. Dixerunt tricies. «Animum tuum, non corpus eligimus». Dixerunt vicies. «Tacite Auguste, di te serventi». Deinde «omnes, {omnes, omnes}». [3] Interrogatus praeterea, qui post Tacitum sedebat senator consularis, Maecius Faltonius Nicomachus21 in haec verba disseruit: [6, 1] «Semper quidem, p. c., recte atque prudenter rei p. magnifìcus hic ordo consuluit, neque a quoquam orbis terrae populo solidior umquam expectata sapientia est, attamen nulla umquam neque gravior neque prudentior in hoc sacrario dicta sententia est. [2] Seniorem principem fecimus et virum, qui omnibus quasi pater consulat. Nihil ab hoc inmaturum, nihil praeproperum, nihil asperum formidandum est. Omnia seria, cuncta gravia et quasi ipsa res p. iubeat, auguranda sunt. [3] Scit enim, qualem sibi principem semper optaverit, nec potest aliud nobis exhibere quam ipse desideravit et voluit. [4] Enimvero si recolere velitis vetusta illa prodigia, Nerones dico et Heliogabalos et Commodos seu potius semper Incommodos, certe non hominum magis vitia illa quam aetatum fuerunt. [5] Dii avertant principes pueros et patres patriae dici inpuberes et quibus ad suscribendum magistri litterari manus teneant, quos ad consulatus dandos dulcia et circuli et quaecumque voluptas puerilis invitet. [6] Quae (malum) ratio est habere imperatorem, qui famam curare non noverit, qui, quid sit res p., nesciat, nutritorem timeat, respiciat ad nutricem, virgarum magistralium ictibus terrorique subiaceat, faciat eos consules, duces, iudices, quorum vitam, merita, aetates, familias, gesta non norit. [7] Sed quid diutius, p. c., protrahor? Magis gratulemur, quod habemus principem senem, quam illa iteremus, quae plus quam lacrimanda tolerantibus extiterunt. [8] Gratias igitur diis inmortalibus ago atque habeo, et quidem pro universa re p., teque, Tacite Auguste, convenio petens, obsecrans ac libere pro communi patria legibus deposcens, ne parvulos tuos, si te citius fata praevenerint, facias Romani heredes imperii, ne sic rem p. patresque conscriptos populumque Romanum ut villulam tuam, ut colonos tuos, ut servos tuos relinquas. [9] Quare circumspice, imitare Nervas,

Traianos, Hadrianos22. Ingens est gloria morientis principis rem p. magis amare quam filios». [7, 1] Hac oratione et Tacitus ipse vehementer est motus et totus senatorius ordo concussus, statimque adclamatum est: «omnes, omnes». [2] Inde itum ad campum Martium. Ibi comitiale tribunal ascendit, ubi praef. urbis Aelius Cesettianus23 sic loquutus est: [3] «vos sanctissimi milites et sacratissimi vos Quirites, habetis principem, quem de sententia omnium exercituum senatus elegit: Tacitum dico, augustissimum virum, ut qui hactenus sententiis suis24 rem p., nunc adiuvet iussis atque consultis». Adclamatum est a populo: [4] «felicissime Tacite Auguste, dii te servent», et reliqua quae solent dici. [5] Hoc loco tacendum non est plerosque 〈in〉 litteras rettulisse Tacitum absentem et in Campania positum principem nuncupatum25: verum est nec dissimulare possum. [6] Nam cum rumor emersisset illum imperatorem esse faciendum, discessit atque in Baiano duobus mensibus fuit. [7] Sed inde deductus huic senatus consulto interfuit, quasi vere privatus et qui vere recusaret imperium. [8, 1] Ac ne quis me temere Graecorum alicui Latinorumve aestimet credidisse, habet in bibliotheca Ulpia26 in armario sexto librum elephantinum27, in quo hoc senatus consultum perscriptum est, cui Tacitus ipse manu sua subscripsit. [2] Nam diu haec senatus consulta, quae ad principes pertinebant, in libris elephantinis scribebantur. [3] Inde ad exercitus profectus. Ibi quoque, cum primum tribunal ascendit, Moesius Gallicanus28 praefectus praetori in haec verba disseruit: [4] «dedit, sanctissimi commilitones, senatus principem, quem petistis; paruit praeceptis et voluntati castrensium ordo ille nobilissimus. Plura mihi apud vos praesente iam imperatore non licet loqui. Ipsum igitur, qui tueri nos debet, loquentem dignanter audite». [5] Post hoc Tacitus Augustus dixit: «et Traianus ad imperium senex venit, sed ille ab uno29 delectus est, at me, sanctissimi commilitones, primum vos, qui scitis principes adprobare, deinde amplissimus senatus dignum hoc nomine iudicavit: curabo, enitar, efficiam, ne vobis desint, si non fortia facta, at saltem vobis atque imperatore digna consilia». [9, 1] Post hoc stipendium et donativum ex more promisit et primam orationem ad senatum talem dedit: «ita mihi liceat, p. c., sic imperium regere, ut a vobis me constet electum, ut ego cuncta ex vestra facere sententia et potestate decrevi. Vestrum est igitur ea iubere atque sancire, quae digna vobis,

digna modesto exercitu, digna populo Romano esse videantur». [2] In eadem oratione Aureliano statuam auream ponendam in Capitolio decrevit, item statuam argenteam in curia, item in templo Solis, item in foro divi Traiani. Sed aurea non est posita, dedicatae autem sunt solae argenteae. [3] In eadem oratione cavit, ut, si quis argento publice privatimque aes miscuisset, si quis auro argentum, si quis aeri plumbum, capital esset cum bonorum proscriptione. [4] In eadem oratione cavit, ut servi in dominorum capita non interrogarentur30, ne in causa maiestatis quidem31. [5] Addidit, ut Aurelianum omnes pictum haberent. Divorum templum32 fieri iussit, in quo essent statuae principum bonorum, ita ut isdem natalibus suis et Parilibus33 et kalendis Ianuariis et Votis34 libamina ponerentur. [6] In eadem oratione fratri suo Floriano consulatum petit et non impetravit, idcirco quod iam senatus omnia nundinia suffectorum consulum35 clauserat. Dicitur autem multum laetatus senatus libertate, quod ei negatus est consulatus, quem fratri petierat. Fertur denique dixisse: «scit senatus quem principem fecerit». [10, 1] Patrimonium suum publicavit, quod habuit in reditibus, sestertium bis milies octingenties. Pecuniam, quam domi collegerat, in stipendium militum vertit. Togis et tunicis isdem est usus quibus privatus. [2] Meritoria intra urbem stare vetuit, quod quidem diu tenere non potuit. Thermas omnes ante lucernam claudi iussit36, ne quid per noctem seditionis oriretur. [3] Cornelium Tacitum, scriptorem historiae Augustae37, quod parentem suum eundem diceret38, in omnibus bibliothecis conlocari iussit. Ne lectorum incuria deperiret, librum per annos singulos decies scribi publicitus in † evicos archiis39 iussit et in bybliothecis poni. [4] Holosericam vestem viris omnibus interdixit. Domum suam destrui praecepit atque in eo loco thermas publicas fieri privato sumptu iussit. [5] Columnas centum Numidicas40 pedum vicenum ternum Ostiensibus donavit de proprio. Possessiones, quas in Mauritania habuit, sartis tectis Capitolii deputavit. [6] Argentum mensale, quod privatus habuerat, ministeriis conviviorum, quae in templis fìerent, dedicavit. [7] Servos urbanos omnes manu misit utriusque sexus, intra centum tamen ne Caniniam41 transire videretur. [11, 1] Ipse fuit vitae parcissimae, ita ut sextarium vini tota die numquam potaverit, saepe intra heminam. [2] Convivium vero unius gallinacei, ita ut sinciput adderet et ova. Prae omnibus holeribus adfatim ministratis lactucis inpatienter indulsit, somnum enim se mercari illa sumptus effusione dicebat. Amariores cibos adpetivit. [3] Balneis raro usus est atque adeo validior fuit in

senectute. Vitreorum diversitate atque operositate vehementer est delectatus. Panem nisi siccum numquam comedit eundemque sale atque aliis rebus conditum. [4] Fabricarum peritissimus fuit, marmorum cupidus, nitoris senatorii, venationum studiosus. [5] Mensam denique suam numquam nisi agrestibus opimavit. Fasianam avem nisi suo et suorum natali et diebus festissimis non posuit. Hostias suas semper domum revocavit isdemque suos vesci iussit. [6] Uxorem gemmis uti non est passus. Auro clavatis vestibus idem interdixit. Nam et ipse auctor Aureliano fuisse perhibetur, ut aurum a vestibus et cameris et pellibus summoveret42. [7] Multa huius feruntur, sed longum est ea in litteras mittere. Quodsi quis omnia de hoc viro cupit scire, legat Suetonium Optatianum43, qui eius vitam adfatim scripsit. [8] Legit sane senex minutulas litteras ad stuporem nec umquam noctem intermisit, qua non aliquid vel scriberet ille vel legeret praeter posterum kalendarum diem. [12, 1] Nec tacendum est et frequenter intimandum tantam senatus laetitiam fuisse44, quod eligendi principis cura ad ordinem amplissimum revertisset, ut et supplicationes decernerentur, et hecatombe45 promitteretur, singuli denique senatores ad suos scriberent, nec ad suos tantum sed etiam ad externos, mitterentur praeterea litterae ad provincias: scirent omnes socii omnesque nationes in antiquum statum redisse rem p. ac senatum principes legere, immo ipsum senatum principem factum, leges a senatu petendas, reges barbaros senatui supplicaturos, pacem ac bella senatu auctore tractanda. [2] Ne quid denique deesset cognitioni, plerasque huius modi epistulas in fine libri46 posui, et cum cupiditate et sine fastidio, ut aestimo, perlegendas. [13, 1] Et prima quidem illi cura imperatoris facti haec fuit, ut omnes, qui Aurelianum occiderant, interimeret, bonos malosve, cum iam ille vindicatus esset47. [2] Et quoniam a Maeotide48 multi barbari49 eruperant, hos eosdem consilio atque virtute conpressit. [3] Ipsi autem Maeotidae ita se gregabant, quasi accitu Aureliani ad bellum Persicum50 convenissent auxilium daturi nostris, si necessitas postularet. [4] M. Tullius dicit51 magnificentius esse dicere, quemadmodum 〈gesserit quam quemadmodum〉 ceperit consulatum: at in isto viro magnificum fuit quod tanta gloria cepit imperium; gessit autem propter brevitatem temporum nihil magnum. [5] Interemptus est enim insidiis militaribus, ut alii dicunt, sexto mense, ut alii, morbo interiit52. Tamen constat factionibus eum oppressum mente atque animo defecisse. [6] Hic idem mensem Septembrem Tacitum appellari iussit, idcirco quod eo mense et natus et factus est imperator.

Huic frater Florianus53 〈in〉 imperio successit, de quo pauca ponenda sunt. [14, 1] Hic frater Taciti germanus54 fuit, qui post fratrem arripuit imperium, non senatus auctoritate sed suo motu, quasi hereditarium esset imperium55, cum sciret adiuratum esse in senatu Tacitum, ut, cum mori coepisset, non liberos suos sed optimum aliquem principem faceret. [2] Denique vix duobus mensibus56 imperium tenuit et occisus est Tarsi a militibus, qui Probum audierant imperare57, quem omnis exercitus legerat; [3] tantus autem Probus fuit in re militari, ut illum senatus optaret, miles eligeret, ipse p. R. adclamationibus peteret. [4] Fuit etiam Florianus morum fratris imitator, nec tamen usquequaque. Nam effusionem in eo frater frugi reprehendit, et haec ipsa imperandi cupiditas aliis eum moribus ostendit fuisse quam fratrem. [5] Duo igitur principes una extiterunt domo, quorum alter sex mensibus, alter vix duobus imperaverunt, quasi quidam interreges inter Aurelianum et Probum [post interregnum principes nuncupati]. [15, 1] Horum statuae fuerunt Interamnae58 duae pedum tricenum e marmore, quod illic eorum cenotafia constituta sunt in solo proprio; sed deiectae fulmine ita contritae sunt, ut membratim iaceant dissipatae. [2] Quo tempore responsum est ab haruspicibus quandocumque ex eorum familia imperatorem Romanum futurum seu per feminam seu per virum, qui det iudices Parthis ac Persis, qui Francos et Alamannos sub Romanis legibus habeat, qui per omnem Africam barbarum non relinquat, qui Taprobanis59 praesidem inponat, qui ad Iuvernam60 insulam proconsulem mittat, qui Sarmatis omnibus iudicet, qui terram omnem, qua Oceano ambitur, captis omnibus gentibus suam faciat, postea tamen senatui reddat imperium et antiquis legibus vivat, ipse victurus annis centum viginti61 et sine herede moriturus. [3] Futurum autem eum dixerunt a die fulminis praecipitati statuisque confractis post annos mille. [4] Non magna haec urbanitas haruspicum fuit, qui principem talem post mille annos futurum esse dixerunt, quia, si post centum annos62 praedicerent, forte possent eorum deprehendi mendacia… pollicentes, cum vix remanere talis possit historia. [5] Ego tamen haec idcirco inserenda volumini credidi, ne quis me legens legisse non crederet. [16, 1] Tacitus congiarium p. R. intra sex menses vix dedit. [2] Imago eius posita est in Quintiliorum63 in una tabula quinquiplex, in qua semel togatus, semel clamydatus, semel armatus, semel palliatus, semel venatorio habitu. [3]

De qua quidam epigrammatarius ita allusit, ut diceret: «non agnosco senem armatum, non clamydatum» inter cetera, «sed agnosco togatum». [4] Et Floriani liberi et Taciti multi extiterunt, quorum sunt posteri, credo, millesimum annum expectantes. In quos multa epigrammata {scripta sunt}, quibus iocati sunt aruspices imperium pollicentes. [5] Haec sunt, quae de vita Taciti atque Floriani digna memoratu comperisse 〈me〉 memini. [6] Nunc nobis adgrediendus est Probus, vir domi forisque conspicuus, vir Aureliano, Traiano, Hadriano, Antoninis, Alexandro, Claudioque praeferendus, nisi quia in illis varia, in hoc omnia praecipua iuncta fuere, qui post Tacitum omnium iudicio bonorum imperator est factus orbemque terrarum pacatissimum gubernavit, deletis barbaris gentibus, deletis etiam plurimis tyrannorum, qui eius temporibus extiterunt, de quo dictum est 〈dignum esse〉, ut Probus diceretur, etiamsi Probus nomine non fuisset. Quem quidem multi ferunt etiam Sibyllinis libris promissum, qui si diutius fuisset, orbis terrae barbaros non haberet. [7] Haec ego in aliorum vita de Probo credidi praelibanda, ne dies, hora, momentum aliquid sibi vindicaret in me necessitate fatali ac Probo indicto deperirem. [8] Nunc quoniam interim meo studio {satisfeci, claudam istud volumen} satis factum arbitrans studio et cupiditati meae. [17, 1] Omina imperii Tacito haec fuerunt: fanaticus quidam in templo Silvani64 tensis membris exclamavit: «tacita purpura, tacita purpura», idque septimo. Quod quidem postea omini deputatum est. [2] Vinum, quo libaturus Tacitus fuerat in templo Herculis Fundani65, subito purpureum factum est. [3] Vitis, quae uvas Aminnias66 albas ferebat, eo anno, quo ille imperium meruit, purpurascere…67 plurima purpurea facta sunt. [4] Mortis omina haec fuerunt: patris sepulchrum {subito} disruptis ianuis se aperuit. Matris umbra se per diem et Tacito et Floriano velut viventis optulit, nam diversis patribus nati ferebantur. In larario68 dii omnes seu terrae motu seu casu aliquo conciderunt. [5] Imago Apollinis, quae ab his colebatur, ex summo fastigio in lectulo posita sine hominis cuiuspiam manu deprehensa est. Sed quousque ultra progredimur? Sunt a quibus ista dicantur. Nos ad Probum et ad Probi gesta insignia reservemus. [18, 1] Et quoniam me promisi69 aliquas epistulas esse positurum, quae creato Tacito principe gaudia senatus ostenderent, his additis fìnem scribendi faciam. Epistulae publicae: [2] «senatus amplissimus curiae Carthaginensi salutem dicit. Quod bonum, faustum, felix salutareque sit rei p. orbique Romano, dandi ius imperii, appellandi principis, nuncupandi Augusti ad nos

revertit. [3] Ad nos igitur referte, quae magna sunt. Omnis provocatio praefecti urbis70 erit, quae tamen a proconsulibus et ab ordinariis iudicibus emerserit. [4] In quo quidem etiam vestram in antiquum statum redisse credimus dignitatem, si quidem primus hic ordo est, qui recipiendo vim suam ius suum ceteris servat». [5] Alia epistula: «senatus amplissimus curiae Trevirorum. Ut estis liberi et semper fuistis, laetari vos credimus. Creandi principis iudicium ad senatum redit, simul etiam praefecturae urbanae appellatio universa decreta est». [6] Eodem modo scriptum est Antiochensibus, Aquileiensibus, Mediolanensibus, Alexandrinis, Thessalonicensibus, Corinthiis et Atheniensibus. [19, 1] Privatae autem epistulae haec fuerunt: «Autronio Iusto patri Autronius Tiberianus71 salutem. Nunc te, pater sancte, interesse decuit senatui amplissimo, nunc sententiam dicere, cum tantum auctoritas amplissimi ordinis creverit, ut reversae in antiquum statum rei p. nos principes demus, nos faciamus imperatores, nos denique nuncupemus Augustos. [2] Fac igitur ut convalescas, curiae interfuturus antiquae. Nos recepimus ius proconsulare, redierunt ad praefectum urbi appellationes omnium potestatum et omnium dignitatum». [3] Item alia: «Claudius Sapilianus Cereio Maeciano patruo salutem. Optinuimus, pater sancte, quod semper optavimus: in antiquum statum senatus revertit. Nos principes facimus, nostri ordinis sunt potestates. [4] Gratias exercitui Romano et vere Romano: reddidit nobis, quam semper habuimus, potestatem. [5] Abice Baianos Puteolanosque secessus, da te urbi, da {te} curiae. Floret Roma, floret tota res p.; imperatores damus, principes facimus; possumus et prohibere, qui coepimus facere. Dictum sapienti sat est». [6] Longum est omnes epistulas conectere, quas repperi, quas legi. Tantum illud dico senatores omnes ea esse laetitia elatos, ut in domibus suis omnes albas hostias caederent, imagines frequenter aperirent, albati sederent, convivia sumptuosiora praeberent, antiquitatem sibi redditam crederent.

[1, 1] Ciò che i pontefici, cui competeva l’autorità di tramandare le notizie storiche1, hanno riferito come avvenuto dopo la morte di Romolo2, agli albori della potenza romana, che cioè ebbe inizio un interregno3 nel corso del quale, dopo quell’ottimo sovrano, se ne ricercava un altro che fosse altrettanto buono, ebbe a verificarsi anche dopo la morte di Aureliano4 per sei interi mesi, allorché fra il senato e l’esercito romano si aprì una gara, non caratterizzata da squallide invidie, ma da un’ammirevole correttezza. [2] Nondimeno la situazione in questione si differenzia per molti versi da quanto avvenne allora. In primo luogo, infatti, quando si ebbe l’interregno dopo la morte di Romolo, vennero creati degli interré e quell’intero anno fu diviso fra i cento senatori, in periodi di cinque, quattro o tre giorni5, di modo che le persone che ne avevano le doti potessero rivestire tale carica almeno una volta per ciascuno. [3] Per la qual cosa avvenne che l’interregno ebbe a protrarsi anche per più di un anno, onde nessuno tra quei personaggi di pari dignità restasse privo dell’opportunità di governare lo Stato romano. [4] A questo si aggiunge che anche al tempo dei consoli e dei tribuni militari investiti di potestà consolare6, se mai si verificava qualche periodo di interregno, venivano creati degli interré, né mai allo Stato romano questa carica rimase tanto estranea che di tanto in tanto, anche solo per lo spazio di due o tre giorni, non venisse creato un qualche interré. [5] Comprendo bene che mi si può obiettare che presso i nostri antenati lo Stato restò per un quadriennio7 senza magistrati curuli8: ma vi erano i tribuni della plebe dotati della potestà tribunizia, che costituisce la parte più importante del potere sovrano9. [6] In ogni caso non è detto esplicitamente che a quel tempo non vi siano stati degli interré, anzi gli storici più attendibili affermano che furono gli interré a nominare successivamente i consoli10 che dovevano indire i comizi per il conferimento delle altre magistrature. [2, 1] Dunque – cosa rara e difficile – il senato e il popolo romano sopportarono che lo Stato rimanesse per sei mesi senza imperatore, mentre se ne cercava uno degno. [2] Quale armonia regnava allora nell’esercito! Quanta pace nel popolo! Quale peso aveva l’autorità del senato! Da nessuna parte ebbero a comparire usurpatori, e il mondo intero fu governato dalla volontà concorde del senato, dell’esercito e del popolo romano; non era il timore di alcun sovrano che li faceva operare rettamente, né la potestà tribunizia, ma – quella che nella vita è la migliore norma – il rispetto di se stessi.

[3] Bisogna tuttavia ricordare la causa di questa pausa tanto fortunata e, in particolare, si deve eternare sui pubblici monumenti quella moderazione, degna di essere oggetto di ammirazione per i nostri posteri, affinché coloro che aspirano al trono imparino a non andare all’assalto del potere, bensì a meritarlo: [4] dopo che dunque Aureliano era stato ucciso – come si è detto nel libro precedente11 – per l’astuto tradimento di un perfido servo e per un errore dei soldati (ché essi dànno grande credito a qualunque tipo di diceria, solo che abbiano ad ascoltarla mentre sono in preda all’ira, per lo più ubriachi, e comunque quasi sempre incapaci di una riflessione propria), una volta che tutti i colpevoli furono ritornati in sé e che l’esercito li ebbe sconfessati con sdegno, si cominciò a cercare se mai qualcuno sarebbe dovuto diventare fra tutti il nuovo imperatore. [5] Allora l’esercito, che pure era solito creare gli imperatori sul momento, avendo in odio quanti erano lì presenti, mandò al senato la lettera di cui si è già detto al libro precedente12, chiedendo che eleggesse un imperatore scelto dal proprio ordine. [6] Ma il senato, sapendo che i soldati non vedevano di buon occhio gli imperatori da esso scelti, rimise la nomina nelle mani dell’esercito, e col ripetersi più volte di questa procedura, passarono sei mesi. [3, 1] È comunque interessante sapere in qual modo si giunse all’elezione di Tacito13 ad imperatore: [2] Il 25 settembre14, essendosi riunito l’illustrissimo ordine nella Curia Pompiliana15, il console Velio Cornificio Gordiano16 disse: [3] «Ritorno, o senatori, sulla proposta che già più volte ho avanzato: bisogna procedere alla scelta di un imperatore, perché l’esercito non può mantenersi efficiente molto a lungo senza un comandante e perché nello stesso tempo la situazione di necessità lo esige. [4] Ché, a quanto si dice, i Germani avrebbero fatto irruzione attraverso il confine transrenano, occupando città forti, famose, ricche e potenti. [5] E anche se non si annunciano ancora movimenti sul fronte persiano, tenete a mente che i Siri hanno un carattere così volubile da preferire persino il regno di una donna piuttosto che sottomettersi al nostro governo integerrimo. [6] Che dire dell’Africa? Che dire dell’Illirico? Che dire dell’Egitto e degli eserciti di tutte quelle regioni? Fino a quando pensiamo che si possa resistere saldamente senza un principe? [7] Perciò decidetevi, o senatori, e nominate un imperatore. Infatti o l’esercito accetterà quello che avrete scelto, o, se lo rifiuterà, sarà esso a nominarne un altro». [4, 1] Dopo di ciò, mentre Tacito, che era l’ex console con priorità di parola, aveva intenzione di esprimere un suo parere – non è ben certo quale –,

tutto il senato acclamò: [2] «Tacito Augusto, gli dèi ti salvino! Te scegliamo, te eleggiamo nostro principe, a te affidiamo la cura dello Stato e del mondo. [3] Accetta l’impero dall’autorità del senato: è dovuto al tuo rango, alla tua condotta di vita, ai tuoi nobili sentimenti ciò che hai meritato. È giusto che sia nominato Augusto il primo del senato, è giusto che sia nominato imperatore l’uomo che ha diritto di parlare prima degli altri. [4] Chi mai può governare meglio di un uomo di autorità? Chi mai può governare meglio di un uomo colto? E – possa essere vantaggioso, di buon auspicio e proficuo – tu sei stato a lungo un privato cittadino: tu che hai dovuto stare sottomesso ad altri imperatori, sai in qual modo devi governare; tu, che hai avuto modo di giudicare di altri imperatori, sai in qual modo devi governare». [5] Ma egli rispose: «Mi meraviglio, o senatori, che voi vogliate eleggere imperatore, al posto di un valorosissimo imperatore come Aureliano, un vecchio17. [6] Ecco qua le membra che dovrebbero essere in grado di scagliare frecce, lanciare aste, far rimbombare gli scudi, andare spesso a cavallo per dare l’esempio e istruire i soldati! A stento riesco ad adempiere ai miei impegni di senatore, faccio fatica ad esprimere a voce, come la carica esige, le mie opinioni. [7] Considerate con più attenzione quale età ha l’uomo che dall’oscurità della sua stanza volete mandare allo sbaraglio fra geli e calure. E credete poi che i soldati accetteranno un imperatore vecchio? [8] Badate di non dare allo Stato un imperatore diverso da quello che realmente desiderate, e che questa vostra elezione unanime non cominci ad arrecarmi soltanto danno». [5, 1] Dopo di ciò, il senato levò le seguenti acclamazioni: «Anche Traiano arrivò vecchio all’impero!» (ripetuto dieci volte). «Anche Adriano arrivò vecchio all’impero!» (ripetuto dieci volte). «Anche Antonino arrivò vecchio all’impero!» (ripetuto dieci volte). «Anche tu hai letto: ‘… la bianca barba del re di Roma’18» (ripetuto dieci volte). «Chi mai meglio di un vecchio può governare ?» (ripetuto dieci volte). «Noi ti nominiamo imperatore, non soldato» (ripetuto venti volte). [2] «Tu comanda, e i soldati combattano!» (ripetuto trenta volte). «Tu hai saggezza e un ottimo fratello19» (ripetuto dieci volte). «Severo disse che è la testa a comandare, non i piedi»20 (ripetuto trenta volte). «È la tua mente che eleggiamo, non il tuo corpo» (ripetuto venti volte). «Tacito Augusto, gli dèi ti salvino!», e poi: «Tutti, tutti, tutti lo vogliamo». [3] Quando poi fu richiesto del suo parere Mecio Faltonio Nicomaco21, che veniva nell’ordine subito dopo Tacito quale senatore di rango consolare, egli parlò in questi termini: [6, 1] «O senatori, questo nostro magnifico consesso ha sempre

provveduto alle esigenze dello Stato in maniera appropriata e saggia, né da alcun popolo della terra ci si è mai attesi una sapienza più profonda, e tuttavia mai in questo santo luogo è stata fatta una proposta più ponderata e assennata. [2] Abbiamo eletto un imperatore in età ormai avanzata, un uomo in grado di provvedere alle necessità di tutti come un padre. Da lui non abbiamo a temere alcun atto intempestivo, precipitoso, crudele. Ci dobbiamo invece attendere azioni improntate tutte a serietà, ponderazione, e tali che sembri essere lo Stato stesso a dettar legge. [3] Egli sa infatti quale tipo di sovrano ha sempre sperato di avere, e non può quindi impersonarne per noi uno diverso da quello che lui stesso avrebbe desiderato e voluto. [4] E invero, se voleste ripensare a quei mostri di un tempo, voglio dire un Nerone, un Eliogabalo, un Commodo – o meglio sempre Incommodo –, appare certo che quelle colpe erano legate, non meno che agli uomini in se stessi, alla loro età. [5] Gli dèi impediscano che vengano proclamati principi dei bambini e padri della patria dei fanciulli imberbi, ai quali i maestri elementari debbono guidare la mano perché mettano la loro firma, e che possono essere indotti a concedere consolati in cambio di dolci, ciambelle, o qualunque cosa piaccia ai bambini. [6] Che senso ha (una iattura!) avere un imperatore che non sa badare alla propria reputazione, che non ha una pallida idea di quel che è lo Stato, che ha paura del suo istitutore, pende dalle labbra della nutrice, soggiace al timore delle frustate dei maestri, che nomina consoli, generali, giudici persone di cui ignora la vita, i meriti, l’età, la famiglia, le azioni passate? [7] Ma perché, senatori, troppo mi dilungo? Rallegriamoci di avere un imperatore anziano, piuttosto che richiamare ancora quelle situazioni che risultarono estremamente dolorose per chi le dovette vivere. [8] Io dunque esprimo e dichiaro il mio ringraziamento agli dèi immortali, anche a nome dello Stato tutto, e faccio appello a te, Tacito Augusto, pregandoti, supplicandoti, e apertamente chiedendoti in nome della nostra patria e delle comuni leggi, di non nominare eredi dell’impero romano, nel caso che il tuo destino si compia prematuramente, i tuoi figli ancora fanciulli, onde tu non abbia a lasciare in eredità lo Stato, i senatori e il popolo romano come se si trattasse di una tua villetta, di tuoi coloni e tuoi servi. [9] Perciò guàrdati intorno, imita un Nerva, un Traiano, un Adriano22. Grande gloria è per un principe che muore amare lo Stato più che i propri figli». [7, 1] Questo discorso toccò profondamente l’animo di Tacito, e tutto l’ordine senatorio ne fu commosso, così che immediatamente esclamarono: «Tutti, tutti, ci associamo!».

[2] Ci si recò poi al Campo di Marte. Lì Tacito salì sulla tribuna dei comizi, dove il prefetto dell’Urbe Elio Cesettiano23 così parlò: [3] «Voi, o nobilissimi soldati e veneratissimi Quiriti, avete un principe eletto dal senato per volontà di tutti gli eserciti: parlo dell’Augustissimo Tacito, come di colui che, se fino a questo momento ha offerto allo Stato il prezioso contributo del suo pensiero24, ora potrà aiutarlo con i suoi ordini e decreti». Il popolo acclamò: [4] «Felicissimo Tacito Augusto, gli dèi ti salvino», con le altre consuete acclamazioni. [5] A questo punto non posso tacere del fatto che molti scrittori hanno riferito che Tacito fu nominato imperatore mentre si trovava lontano, in Campania25: in questo c’è del vero, non lo posso negare, [6] nel senso che, quando cominciò a girare la voce che sarebbe stato eletto imperatore, egli partì e se ne stette due mesi a Baia; [7] ma di là fu fatto tornare in tempo per partecipare alla seduta del senato che abbiamo descritto, come se fosse stato di fatto un privato, sinceramente riluttante ad accettare la carica imperiale. [8, 1] E affinché nessuno pensi che io mi sia fidato ciecamente di qualche scrittore greco o latino, vi è nella Biblioteca Ulpia26, nel sesto scaffale, un libro d’avorio27 in cui è trascritto per esteso questo senatoconsulto, al quale Tacito stesso appose di sua mano la propria firma. [2] Infatti per lungo tempo questi decreti senatori, riguardanti gli imperatori, vennero trascritti su libri d’avorio. [3] Successivamente si recò dalle truppe. Anche qui, non appena fu salito sulla tribuna, il prefetto del pretorio Mesio Gallicano28 parlò in questi termini: [4] «Nobilissimi commilitoni, il senato vi ha dato il principe che avevate richiesto; quell’illustrissimo ordine ha accondisceso alle sollecitazioni e ai voleri dei militari. Ma non è il caso che io vi dica di più, dato che abbiamo già qui presente l’imperatore. Lui dunque, che ha il compito di difenderci, ascoltate ora con il dovuto rispetto». [5] Dopo di che prese la parola Tacito Augusto: «Anche Traiano arrivò all’impero da vecchio, ma egli fu scelto da uno solo29, mentre io, o nobilissimi commilitoni, sono stato giudicato degno di questo titolo in primo luogo da voi, che sapete ben giudicare gli imperatori e poi dall’illustrissimo senato: da parte mia, mi impegnerò con ogni sforzo per far sì che non abbiano a mancarvi, se non delle imprese eroiche, almeno dei provvedimenti degni di voi e di un vero imperatore». [9, 1] Dopo ciò promise loro lo stipendio e il donativo di prammatica, e indirizzò al senato questo primo messaggio: «Così mi sia consentito, o senatori, di governare l’impero in modo tale che appaia chiaro che sono stato

eletto da voi, come io sono risoluto a ispirare tutto il mio operato al vostro giudizio e alla vostra autorità. Spetta dunque a voi ordinare e sancire quanto vi sembri degno di voi, del nostro disciplinato esercito, del popolo romano». [2] Nel medesimo messaggio egli decretava una statua d’oro ad Aureliano da porsi sul Campidoglio, e parimenti una statua d’argento nella Curia, una nel tempio del Sole, una nel Foro del divo Traiano. Ma quella d’oro non venne innalzata e così furono erette solo quelle d’argento. [3] In quello stesso documento dispose che se qualcuno, sia in qualità di pubblico funzionario sia privatamente, avesse prodotto leghe di argento e rame, di oro e argento, di rame e piombo, costui fosse passibile della pena di morte e della confisca dei beni. [4] Sempre in tale documento vietò che i servi fossero chiamati a testimoniare sul conto dei loro padroni30, anche nei processi di lesa maestà31. [5] Dispose inoltre che tutti tenessero in casa un ritratto di Aureliano. Ordinò che fosse eretto un tempio in onore degli imperatori divinizzati32, dove venissero conservate le statue dei buoni sovrani, che dovevano essere onorate con libagioni nell’anniversario della nascita, in occasione delle feste di Pale33, il primo gennaio e il giorno dei Voti34. [6] Nello stesso messaggio chiese il consolato per suo fratello Floriano, ma non l’ottenne, in quanto il senato aveva già dichiarato scaduti tutti i termini per l’elezione dei consoli supplenti35. Dicono che egli si compiacque dell’autonomia mostrata dal senato nel negargli il consolato che aveva chiesto per il fratello. Si narra anzi che ebbe ad esclamare: «Il senato sa bene che tipo di imperatore si è scelto». [10, 1] Fece dono allo Stato del suo patrimonio, costituito dalle sue rendite, ammontante a duecentoottanta milioni di sesterzi. Il denaro accumulato in casa lo destinò quale stipendio per i soldati. Continuò ad indossare le medesime toghe e tuniche che portava da privato. [2] Proibì che entro la città fossero tenuti aperti dei bordelli, ma questo provvedimento non poté mantenerlo a lungo. Diede disposizione che tutte le terme venissero chiuse prima di sera36, perché durante la notte non avessero ad accendersi dei disordini. [3] Fece collocare in tutte le biblioteche le opere di Cornelio Tacito, storico dell’età imperiale37, vantando una parentela con lui38; e affinché, per via dell’incuria dei lettori, non andassero perdute, ne fece fare ogni anno nei […]39 dieci copie a cura dello Stato, da porre nelle biblioteche. [4] Vietò a tutti gli uomini l’uso di vesti di seta pura. Dispose che la sua abitazione fosse demolita e sul luogo fece costruire a proprie spese dei bagni pubblici. [5] Regalò di suo agli abitanti di Ostia cento colonne di marmo numidico40 di

ventitré piedi ciascuna. Destinò al restauro degli edifìci del Campidoglio i beni che aveva in Mauritania. [6] L’argenteria da tavola che aveva usato da privato la offrì per il servizio dei banchetti che si tenevano nei templi. [7] Mise in libertà tutti gli schiavi urbani di entrambi i sessi, peraltro a gruppi di non più di cento per volta, onde non apparisse trasgredire la legge Caninia41. [11, 1] Il suo tenore di vita era molto frugale, a tal punto che in un intero giorno non beveva mai neppure un sestario di vino e spesso gliene bastava una metà. [2] Il suo pasto si riduceva a un pollo, con l’aggiunta di cervella e uova. Fra tutti gli ortaggi, quello di cui faceva scorpacciate senza ritegno, facendosene servire in abbondanza, erano le lattughe, affermando infatti che con questa spesa smodata si comprava il sonno. Era amante dei cibi piuttosto amari. [3] Faceva il bagno di rado, e così, anche in vecchiaia, era sempre in ottima forma. Aveva una grande passione per gli oggetti di cristallo variamente lavorati. Non mangiava mai pane se non secco, con sale e altri condimenti. [4] Aveva grande esperienza nel campo dell’edilizia, gli piacevano i marmi, vestiva con l’eleganza degna di un senatore, era appassionato della caccia. [5] Sulla sua mensa non faceva mai servire in abbondanza se non cibi campestri. Il fagiano lo riservava unicamente al giorno del suo compleanno o di quello dei suoi famigliari, nonché ai giorni di grande festa. Riportava sempre a casa le carni delle vittime da lui fatte sacrificare, facendole consumare ai suoi famigliari. [6] Non permetteva a sua moglie di portare gioielli. Proibì inoltre l’uso di vesti orlate d’oro. Si dice anzi che fosse stato proprio lui a suggerire ad Aureliano di vietare l’uso dell’oro negli abiti, nei soffitti e nelle vesti di cuoio42. [7] Molti particolari si narrano di lui, ma sarebbe troppo lungo riportarli qui. Ché se poi qualcuno desidera sapere tutto di quest’uomo, si legga Svetonio Optaziano43, che ha scritto la sua biografìa con dovizia di dettagli. [8] Pur vecchio, egli riusciva a leggere, fra lo stupore generale, testi scritti in caratteri minutissimi e non lasciava passare mai notte senza scrivere o leggere qualcosa, ad eccezione del giorno successivo al primo del mese. [12, 1] E non bisogna tacere, anzi occorre dare larga risonanza al fatto che il senato fu tanto lieto44 che l’elezione dell’imperatore fosse stata nuovamente affidata all’illustrissimo ordine, che decretò cerimonie di ringraziamento, promise una ecatombe45, e inoltre ciascun senatore informò per iscritto i suoi parenti, né soltanto questi, ma anche i conoscenti di fuori, e vennero anche inviati messaggi alle province: tutti gli alleati e tutti i popoli dovevano sapere che lo Stato era tornato alla sua antica costituzione, e che ora era il senato ad

eleggere gli imperatori, anzi il senato stesso era diventato il vero sovrano, e ad esso bisognava rivolgersi per avere nuove leggi, ad esso avrebbero indirizzato le loro suppliche i re barbari, e pace e guerre sarebbero dipese dalla sua iniziativa. [2] Inoltre, per completezza di informazione, ho riportato alla fine del libro46 numerose lettere di questo tipo, che saranno lette, credo, con interesse, senza provocare noia. [13, 1] Prima sua preoccupazione non appena eletto imperatore fu di mettere a morte tutti coloro che avevano partecipato all’uccisione di Aureliano, buoni o malvagi che fossero, sebbene egli fosse già stato vendicato47.[2] E poiché molti barbari48 avevano fatto irruzione dal territorio della Meotide49, con la diplomazia non meno che con il suo valore li costrinse a ritirarsi. [3] I Meotidi si andavano radunando col pretesto di essere stati convocati da Aureliano per la campagna di Persia50, allo scopo di fornire aiuto ai nostri, se si fosse reso necessario. [4] M. Tullio afferma51 che dà più lustro raccontare come uno ha esercitato il suo consolato, che non come lo ha ottenuto: ma nel caso di quest’uomo fu grande proprio il fatto che ottenne l’impero in modo tanto glorioso; nessuna grande impresa poté invece compiere, per via della brevità del suo impero. [5] Infatti al suo sesto mese di regno fu ucciso, stando a quanto sostengono alcuni, per un attentato ordito contro di lui dai soldati, mentre secondo altri morì di malattia52. È certo tuttavia che sotto l’incalzare degli intrighi di parte le sue facoltà di mente e d’animo vennero meno. [6] Dispose che il mese di settembre venisse chiamato Tacito, poiché in quel mese egli era nato ed era stato fatto imperatore. Gli succedette nell’impero il fratello Floriano53, di cui occorre dire poche cose. [14, 1] Costui era fratello germano54 di Tacito e si impadronì dell’impero dopo il fratello, non con l’autorizzazione del senato, ma di sua propria iniziativa, quasi che l’impero fosse ereditario55, pur sapendo che Tacito aveva giurato in senato che, quando fosse arrivato in punto di morte, avrebbe lasciato l’impero non ai suoi figli, ma ad un qualche personaggio di valore. [2] Tenne dunque l’impero per meno di due mesi56 e fu ucciso a Tarso dai soldati che avevano sentito la notizia dell’elezione a imperatore di Probo57 da parte di tutto l’esercito; [3] dal canto suo Probo era tanto valente in campo militare, che il senato lo volle, i soldati lo elessero, e il popolo romano lo richiese a gran voce. [4] Floriano cercò anche di imitare i costumi del fratello, non tuttavia sotto ogni aspetto. Ché il suo economo fratello gli rimproverava la prodigalità,

e questa sua stessa brama di potere dimostra che egli era di ben diverso stampo da lui. [5] Da una stessa famiglia, dunque, uscirono due principi, dei quali l’uno regnò sei mesi, l’altro appena due, come, in un certo modo, due interré fra Aureliano e Probo. [15, 1] A Interamna58 c’erano due loro statue di marmo alte trenta piedi, ché là appunto, su un terreno di loro proprietà, erano stati costruiti i loro cenotafi; ma furono colpite dal fulmine e frantumate in modo tale che ora giacciono disperse in mille pezzi. [2] In quell’occasione gli aruspici diedero come responso che prima o poi dalla loro famiglia, per parte di madre o di padre, sarebbe nato un imperatore romano che avrebbe dettato legge ai Parti e ai Persiani, che avrebbe assoggettati a Roma i Franchi e gli Alamanni, che non avrebbe lasciato un solo barbaro in tutta l’Africa, avrebbe imposto un governatore ai Taprobani59, avrebbe mandato un proconsole nell’isola di Iuverna60, avrebbe esteso la propria autorità su tutti i Sarmati, che avrebbe posto sotto di sé tutta la terra bagnata dall’Oceano, dopo aver asservito tutti i popoli, ma poi avrebbe restituito il potere al senato e sarebbe vissuto osservando le antiche leggi, destinato ad arrivare a centoventi anni61 e a morire senza eredi. [3] Dissero poi che egli sarebbe apparso dopo mille anni a partire dal giorno in cui il fulmine era caduto frantumando le statue. [4] Non si sprecarono certo gran che gli aruspici a predire che un tale principe sarebbe arrivato a mille anni di distanza, ché se avessero preannunziato la sua venuta dopo cento anni62, si sarebbero potute eventualmente smascherare le loro menzogne, […] nel loro promettere, dato che difficilmente potrà sopravvivere il ricordo di questa storia. [5] Io comunque ho ritenuto di dover riportare nel libro anche questo particolare, perché nessun mio lettore abbia a pensare che non mi sono documentato. [16, 1] Tacito, nello spazio di sei mesi, concesse appena un donativo al popolo romano. [2] Il suo ritratto fu collocato nel palazzo dei Quintilii63, su di una tavola a cinque facce, in una delle quali era in toga, in un’altra con la clamide, in un’altra con le armi, in un’altra con il pallio, in un’altra in abito da caccia. [3] A proposito di esso uno scrittore di epigrammi compose una battuta scherzosa che diceva: «Non riconosco il vecchio con la clamide, né quello con le armi» e così via, «ma quello con la toga sì!». [4] Floriano e Tacito ebbero molti figli, i cui discendenti, mi immagino, staranno ancora aspettando il millesimo anno. Su di loro sono stati scritti molti epigrammi, in cui ci si prende gioco degli aruspici con le loro promesse di impero.

[5] Questo è quanto ricordo di aver appreso sulla vita di Tacito e Floriano, che fosse degno di essere ricordato. [6] Ora dobbiamo prendere in esame Probo, uomo insigne tanto in patria che fuori, da anteporre ad Aureliano, Traiano, Adriano, gli Antonini, Alessandro, Claudio, con la differenza che tutte quelle doti eccezionali che in quelli erano presenti variamente distribuite, in lui si trovavano riunite insieme; un uomo che dopo la morte di Tacito fu eletto imperatore per giudizio unanime di tutti i migliori e governò un mondo che egli aveva portato a perfetta pace annientando le genti barbare ed eliminando anche molti usurpatori sorti ai suoi tempi; un uomo del quale si disse che era degno di essere detto «Probo», anche se non si fosse chiamato con quel nome. Molti dicono che anche nei libri Sibillini era preannunziato questo imperatore; e, se fosse vissuto più a lungo, non vi sarebbero più stati barbari sulla faccia della terra. [7] Ho ritenuto opportuno di anticipare nella vita di altri principi questi accenni sul conto di Probo, perché il giorno, l’ora e il momento fatali non avessero inesorabilmente a cogliermi, così da morire senza aver parlato di lui. [8] Ora, dal momento che per intanto ho soddisfatto il mio zelo, posso chiudere questo volume, ritenendo di aver dato soddisfacente espressione alla mia devozione e al mio desiderio. [17, 1] I presagi che preannunziarono a Tacito il futuro impero furono i seguenti: un giorno, nel tempio di Silvano64, un invasato, con le membra in preda a contrazioni, esclamò: «Tacita porpora, tacita porpora», e questo per sette volte. E in seguito ciò fu interpretato come un presagio. [2] Il vino che Tacito stava per offrire nel tempio di Ercole a Fondi65, prese d’improvviso il colore della porpora. [3] Una vite, che dava uva bianca di Aminea66, l’anno in cui egli ottenne l’impero […]67 moltissime cose assunsero color porpora. [4] I presagi della sua morte furono i seguenti: la tomba di suo padre si spalancò all’improvviso con le porte squarciate. Il fantasma della madre apparve a Tacito e Floriano nel corso del giorno, quasi fosse una persona viva – i padri si diceva fossero diversi. Nel tempietto dei Lari68, per via di una scossa di terremoto o per qualche altro caso, caddero tutte le immagini degli dèi. [5] Una statua di Apollo, da essi venerata, senza che mano d’uomo la toccasse si spostò dall’alto del suo piedistallo e venne trovata deposta nel letto di Tacito. Ma fin dove vogliamo tirarla in lungo più oltre? Ci sono altri per riferire queste cose. Noi dedichiamoci a Probo e alle sue gesta insigni. [18, 1] E poiché ho promesso69 che avrei riportato alcune lettere che attestano l’esultanza del senato per l’elezione di Tacito ad imperatore, concluderò proprio con queste. Ecco le lettere pubbliche: [2] «L’illustrissimo

senato saluta la Curia di Cartagine. È ritornato a noi – e questo possa risultare fonte di bene, felicità, prosperità e benessere per lo Stato e per il mondo romano – il diritto di conferire il potere imperiale, di proclamare l’imperatore e nominarlo Augusto. [3] Riferite perciò a noi le cose di importanza. Ogni pratica di appello sarà di competenza del prefetto urbano70, limitatamente a quelle contro le sentenze dei proconsoli e dei giudici ordinari. [4] E in tutto ciò riteniamo che anche la vostra autorità sia stata reintegrata nella sua antica condizione, dal momento che questo è il supremo ordine, che, riacquistando il proprio potere, garantisce a tutti gli altri i loro diritti». [5] E in un’altra lettera: «L’illustrissimo senato alla Curia di Treviri. Poiché siete liberi – come siete sempre stati –, crediamo abbiate a rallegrarvi. La facoltà di eleggere l’imperatore è tornata nelle mani del senato, e contemporaneamente alla prefettura urbana è stata attribuita la competenza su tutte le cause d’appello». [6] Messaggi analoghi vennero inviati agli Antiochesi, agli Aquileiesi, ai Milanesi, agli Alessandrini, ai Tessalonicesi, ai Corinti e agli Ateniesi. [19, 1] Ecco invece le lettere private: «Autronio Tiberiano71 saluta il padre Autronio Giusto. Ora sì, venerabile padre mio, ti si addice partecipare alle sedute dell’illustrissimo senato ed esprimervi il tuo parere, giacché l’autorità dell’illustrissimo ordine è cresciuta a tal punto che siamo noi ora a dare i sovrani ad uno Stato ritornato alla sua antica condizione, siamo noi ad eleggere gli imperatori, noi a conferire il titolo di Augusto. [2] Vedi dunque di guarire, onde poter partecipare alle riunioni di questo senato tornato all’antico. Abbiamo riottenuto il diritto proconsolare e sono ritornati di competenza del prefetto urbano i ricorsi in appello di ogni autorità e grado». [3] E in un’altra: «Claudio Sapiliano saluta lo zio Cereio Meciano. Abbiamo ottenuto, padre venerabile, quello che sempre abbiamo desiderato; il senato è ritornato alla sua antica posizione. Siamo noi ad eleggere gli imperatori, il potere è nelle mani del nostro ordine. [4] Siano rese grazie all’esercito romano, che si è dimostrato veramente romano: ci ha restituito il potere che abbiamo sempre avuto. [5] Abbandona il ritiro di Baia e Pozzuoli, presèntati alla città, alla Curia. Rifiorisce Roma, rifiorisce tutto lo Stato; designamo imperatori, creiamo principi; ora che abbiamo cominciato a fare, possiamo anche impedire. A buon intenditor poche parole!». [6] Sarebbe troppo lungo includere tutte le lettere che ho trovato e letto. Dirò soltanto che i senatori tutti furono presi da una tale gioia, che ciascuno di essi sacrificava in casa sua bianche vittime, esponeva a più riprese le immagini degli avi, sedeva indossando bianche vesti, imbandiva banchetti

particolarmente sontuosi, nella convinzione che fossero ritornati per loro i tempi antichi.

1. Negli Annales Pontificum o Annales Maximi, in cui venivano registrati annualmente i nomi dei consoli e degli altri magistrati, nonché i fatti maggiormente degni di memoria. 2. Secondo la versione ufficiale, Romolo sarebbe scomparso nel corso di una tempesta o di un’ecclissi. La versione del suo assassinio è invece ricordata in Maxim., 18, 2; cfr. H. SZELEST, Die HA und die frühere Römische Geschichte, «Eos», LXV, 1977, p. 144. 3. Nel periodo repubblicano l’interregno veniva normalmente proclamato allorquando accadeva che entrambi i consoli morissero prima del termine del loro anno, o che questo termine venisse a scadere senza che fossero stati ancora designati i loro successori. LIVIO (I, 17) attesta che questa pratica era in vigore anche al tempo dei re, presentandocene l’istituzione in collegamento con la scelta di Numa Pompilio quale successore di Romolo. 4. Cfr. Aurel., 40, 4, n. 1. 5. LIVIO, loc. cit., parla solo di cinque giorni. 6. Eletti più volte in luogo dei consoli nei primi tempi della repubblica (in numero di tre e poi di sei), godevano dei medesimi poteri di quelli, ad eccezione della censura. 7. Il periodo cui qui si fa cenno sarebbe durato cinque anni secondo LIVIO (VI, 35, 10), quattro anni secondo EUTROPIO (II, 3), un solo anno secondo DIODORO (XV, 75), ma gli storici sono in generale piuttosto scettici nell’ammettere che questo periodo di anarchia possa essersi realmente verificato. 8. Così detti dalla sella curulis, la sedia intarsiata d’avorio che occupavano il console, il pretore e gli edili curuli nell’esercizio del loro ufficio. 9. Essi godevano del diritto di veto (ius intercessionis), che permetteva loro di intervenire, opponendosi agli atti di governo che giudicassero lesivi degli interessi della plebe. 10. Per l’esattezza LIVIO parla di tribuni consulares (cfr. VI, 36, 3). 11. Cfr. Aurel., 36. 12. Cfr. Aurel., 41, 1-2. 13. M. Claudius Tacitus Augustus (275-276 d. C). Nulla ci autorizza a ritenere autentico il nome Aurelio, attribuitogli in Aurel., 41, 4. 14. Del 275 d. C. Cfr. Aurel., 40, 4, n. 1. 15. Cfr. Aurel., 41, 3, n. 5. 16. Il nome del console citato nel passo corrispondente della vita di Aureliano (41, 3) era Aurelio Gordiano, e potrebbe perciò congetturarsi una corruttela di Velius in Aurelius. Il problema non risulta peraltro di particolare rilievo, dato che questo personaggio – non altrimenti a noi conosciuto – è con tutta probabilità da considerare inventato; cfr. T. D. BARNES, Some persons in the HA, «Phoenix», XXVI, 1972, p. 159. 17. Stando a ZONARA, XII, 28, Tacito, al momento dell’elezione, avrebbe avuto settantacinque anni. 18. Da VIRGILIO, Aen., VI, 809-810; i due versi compaiono interi – nell’ambito di una citazione più ampia – a Hadr., 2, 8. 19. Floriano che, come vedremo (cfr. 13-14), gli succederà. 20. Cfr. Sev., 18, 10. 21. Altrimenti sconosciuto. 22. Tutti e tre imperatori che preferirono, per la loro successione, ricorrere all’adozione. 23. Altrimenti sconosciuto. 24. Intervenendo come senatore ad esporre il suo parere (sententia) sui vari problemi discussi e sulle proposte da votare. 25. Per questa versione cfr. ZONARA, XII, 28. 26. Cfr. Aurel., 1, 7, n. 2.

27. Al pari dei libri lintei, anche questo liber elephantinus appare un’invenzione del biografo. 28. Altrimenti sconosciuto. 29. Dal suo predecessore Nerva. 30. Per questo divieto cfr. TACITO, Ann., II, 30, 3. 31. Ai tempi di Cicerone era stata stabilita un’eccezione alla norma, nel caso di due processi de incestu e de coniuratione (cfr. CICERONE, Part. or., 118). 32. In precedenza era conosciuto come Templum Divorum un complesso costruito da Domiziano, che comprendeva i due templi di Vespasiano e Tito e, all’interno, la cosiddetta Porticus Divorum. 33. Originariamente una festa campestre di purificazione, celebrata in onore di Pale, antica divinità pastorale, il 21 aprile; più tardi fu celebrata, in città, come anniversario della fondazione di Roma. 34. La Votorum nuncupatio veniva celebrata il 3 gennaio di ogni anno: nel corso di questa cerimonia i pubblici funzionari e i sacerdoti formulavano voti per la salute dell’imperatore. 35. Cfr. Carac., 4, 8, n. 4. 36. Con questo Tacito ritornò alla consuetudine antica, dopo che – come vedemmo (cfr. Al. Sev., 24, 6, n. 1.) – Alessandro Severo aveva disposto l’apertura delle terme anche di notte. Cfr. S. CONDORELLI, Aspetti della vita quotidiana a Roma e tendenze letterarie nella HA, Messina, 1965, pp. 74 segg. 37. Da questa espressione il CASAUBON ricavò il titolo poi comunemente invalso per la raccolta. 38. Ciò, data la differenza dei nomi delle loro rispettive gentes, non era affatto possibile. 39. Il testo è irrimediabilmente corrotto; sotto la lezione euicos archis di P si nasconde forse un sostantivo indicante l’officina scrittoria in cui venivano confezionate le copie dell’opera di Tacito. 40. Cfr. Gord., 32, 2, n. 6. 41. Si allude qui alla Lex Fufia Caninia de manumissionibus del 2 a. C.: essa fissava a cento il numero degli schiavi che potevano essere liberati in una volta; verrà poi abrogata ai tempi di Giustiniano. Cfr. J. STRAUB, Juristische Notizen in der HA, in Actes XIIe Conf. Eirene 1972, Bucaresti & Amsterdam, 1975, pp. 394 segg. 42. Cfr. Aurel., 46, 1. 43. Altrimenti sconosciuto e, con ogni probabilità, un altro autore fittizio; cfr. R. SYME, Bogus Authors, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, p. 319. 44. Nel corso della Vita il nostro biografo indugia volentieri, facendosene quasi interprete, sull’entusiasmo dei patres per la reintegrazione del ruolo preminente del senato e il recupero di prerogative per loro importanti, come la possibilità di esercitare comandi militari (cfr. AURELIO VITTORE, Caes., 37, 6). 45. Sacrificio di cento buoi in onore di qualche divinità. 46. Vd. capp. 18-19. 47. Cfr. Aurel., 37, 2. 48. Si tratta probabilmente di Goti ed Eruli, che, entrati in Asia Minore nel 275-276 d. C., avevano invaso Ponto, Galazia, Cappadocia e Cilicia prima di essere sconfìtti da Tacito. 49. L’odierno Mar d’Azov, una specie di golfo del Mar Nero. 50. Cfr. Aurel., 35, 4. 51. Nell’orazione In Pisonem, 3. 52. ZOSIMO (I, 63, 2) parla senz’altro di assassinio, descrivendone anche le circostanze (Tacito aveva affidato il governo della Siria a un suo parente, Massimino, ma questi si sarebbe attirato l’odio dei notabili del paese; si formò così un complotto, con la partecipazione anche degli assassini di Aureliano, che portò all’uccisione di Massimino e dello stesso Tacito). La versione della morte per malattia sembra comparire anche in Prob., 10, 1 e Car., 3, 7, nonché in Epitome de Caesaribus, 36, 1. Da AURELIO VITTORE,

Caes., 36, 2, sappiamo che il luogo della morte fu Tiana, in Cappadocia. La cronologia relativa è incerta (gli studiosi oscillano fra la metà d’aprile e il giugno del 276 d. C.). 53. M. Annius Florianus Augustus. 54. In realtà Floriano non era fratello «germano» di Tacito (germanus era detto di fratelli aventi gli stessi genitori, o per lo meno lo stesso padre), in quanto era nato da un secondo matrimonio della madre di quello (cfr. 17, 4, diversis patribus nati). 55. Diversamente ZONARA (XII, 28) afferma che Floriano venne riconosciuto dal senato. Secondo ZOSIMO (I, 64), Floriano fu designato imperatore a Roma mentre Probo lo era in Oriente. 56. EUTROPIO (IX, 16) parla di ottanta giorni. 57. Secondo quanto narrato da ZOSIMO (I, 64, 2), che offre qui il racconto più preciso, dopo l’usurpazione di Floriano gli eserciti di Siria ed Egitto proclamarono imperatore il loro candidato Probo. Floriano gli marciò contro, ma, dopo un primo scontro di poca importanza, furono i suoi stessi soldati che, per istigazione degli emissari di Probo, lo uccisero. Stando a Epitome de Caesaribus, 36, 2, sarebbe stato lo stesso Floriano, dopo il pronunciamento dei soldati a favore di Probo, ad uccidersi tagliandosi le vene. 58. Oggi Terni. Cfr. Sev., 6, 2, n. 1. 59. Gli abitanti di Taprobane, l’odierna isola di Ceylon. 60. L’attuale Irlanda (se è giusta la congettura del PURSER, qui accolta da HOHL, per il romanam dei codici). 61. Per la cifra cfr. Claud., 2, 4. Sul contenuto politico di tutta questa profezia cfr. G. KERLER, Die Aussenpolitik in der HA, Bonn, 1970, pp. 283 seg. 62. Taluni studiosi hanno ritenuto che il testo suggerisca qui che l’autore della Vita scriva più di cento anni dopo il regno di Tacito: cfr. W. HARTKE, Römische Kinderkaiser, Berlin, 1951, pp. 275 segg.; J. STRAUB, Studien zur HA, Berne, 1952, p. 111; H. STERN, Date et destinataire de l’HA, Paris, 1953, p. 94, n. 5. 63. Questa casa dei Quintilii non ci è altrimenti conosciuta. 64. Per la verità, mentre è attestata dalle iscrizioni la presenza di un culto privato al dio Silvano (protettore delle selve e dei campi), non siamo informati dell’esistenza di un culto ufficiale di questa divinità né di templi a lui dedicati. 65. Città marittima del Lazio, fra Terracina e Formia, celebre, come del resto tutti i suoi dintorni, per il suo ottimo vino. 66. Aminea, una località del Piceno, era celebre per i suoi vigneti (cfr. VIRGILIO, Georg., II, 97; PLINIO, Nat. hist., XIV, 21-22). 67. Il testo è qui irrimediabilmente corrotto e lacunoso, ma il senso doveva senz’altro alludere al colore purpureo assunto dall’uva in questione, nonché da molte altre cose. 68. Sul lararium cfr. M. Ant., 3, 5, n. 1. Per un’analisi sulle possibili fonti degli omina narrati a 17, 4, si veda TH. PEKÁRI, Statuen in der HA, in BHAC, 1968-69, Bonn, 1970, pp. 158 seg. 69. Cfr. 12, 2. 70. Quale rappresentante del senato. 71. Nessuno dei personaggi citati in questa e nella successiva lettera sono altrimenti conosciuti e sono da considerarsi al pari di esse, con ogni probabilità, inventati.

XXVIII. PROBUS 〈FLAVI VOPISCI SYRACUSII〉

PROBO di FLAVIO VOPISCO DI SIRACUSA

[1, 1] Certum est, quod Sallustius Crispus quodque Marcus Cato et Gellius historici1 sententiae modo in litteras rettulerunt, omnes omnium virtutes tantas esse, quantas videri eas voluerint eorum ingenia, qui unius cuius facta descripserint. [2] Inde est quod Alexander Magnus Macedo, cum ad Achillis sepulchrum venisset, graviter ingemescens «felicem te», inquit, «iuvenis, qui talem praeconem tuarum virtutum repperisti»2, Homerum intellegi volens, qui Achillem tantum in virtutum studio fecit, quantum ipse valebat ingenio. [3] Quorsum haec pertineant, mi Celsine3, fortassis requiris. Probum principem4, cuius imperio oriens, occidens, meridies, septentrio omnesque orbis partes in totam securitatem redactae sunt, scriptorum inopia iam paene nescimus. [4] Occidit, pro pudor, tanti viri et talis historia, qualem non habent bella Punica, non terror Gallicus, non motus Pontici, non Hispaniensis astutia. [5] Sed non patiar ego ille, a quo dudum solus Aurelianus est expetitus, cuius vitam quantum potui persecutus, Tacito Florianoque iam scriptis non me ad Probi facta conscendere, si vita suppetet, omnes, qui supersunt usque ad Maximianum Diocletianumque, dicturus. [6] Neque ego nunc facultatem eloquentiamque polliceor sed res gestas, quas perire non patior5. [2, 1] Usus autem sum, ne in aliquo fallam carissimam mihi familiaritatem tuam, praecipue libris ex bibliotheca Ulpia6, aetate mea thermis Diocletianis, et item ex domo Tiberiana7, usus etiam [ex] regestis scribarum porticus porprhyreticae8, actis etiam senatus ac populi. [2] Et quoniam me ad colligenda talis viri gesta ephemeris9 Turduli Gallicani10 plurimum iuvit, viri honestissimi ac sincerissimi, beneficium amici senis tacere non debui. [3] Cn. Pompeium, tribus fulgentem triumphis belli piratici, belli Sertoriani, belli Mithridatici multarumque rerum gestarum maiestate sublimem, quis tandem nosset, nisi eum Marcus Tullius et Titus Livius in litteras rettulissent? [4] Publium Scipionem Africanum, immo Scipiones omnes, seu Lucios11 seu Nasicas12, nonne tenebrae possiderent ac tegerent, nisi commendatores eorum historici nobiles atque ignobiles extitissent? [5] Longum est omnia persequi, quae ad exemplum huiusce modi etiam nobis tacentibus usurpanda sunt. [6] Illud tantum contestatum volo me et rem scripsisse, quam, si quis voluerit, honestius eloquio celsiore demonstret, [7] et mihi quidem id animi fuit, 〈ut〉 non Sallustios, Livios, Tacitos, Trogos13 atque omnes disertissimos imitarer viros in vita principum et temporibus disserendis, sed Marium Maximum, Suetonium Tranquillum, Fabium

Marcellinum14, Gargilium Martialem15, Iulium Capitolinum, Aelium Lampridium ceterosque, qui haec et talia non tam diserte quam vere memoriae tradiderunt. [8] Sum enim unus ex curiosis, quod infìtias ire non possum, incendentibus vobis, qui, cum multa sciatis, scire multo plura cupitis. [9] Et ne diutius ea, quae ad meum consilium pertinent, loquar, magnum et praeclarum principem et qualem historia nostra non novit, arripiam. [3, 1] Probus oriundus e Pannonia, civitate Sirmiensi16, nobiliore matre quam patre, patrimonio moderato, adfinitate non magna, tam privatus quam imperator nobilissimus virtutibus claruit. [2] Probo, ut quidam in litteras rettulerunt, pater nomine Maximus fuit, qui, cum ordines honestissime duxisset, tribunatum adeptus apud Aegyptum vita functus est uxore ac filio et fìlia derelictis. [3] Multi dicunt Probum Claudi propinquum fuisse17, optimi et sanctissimi principis, quod, quia per unum tantum Graecorum relatum est, nos in medio relinquemus. [4] Unum tamen dico, quod in ephemeride legisse me memini, a Claudia sorore Probum sepultum. [5] Adulescens Probus corporis viribus tam clarus est factus, ut Valeriani iudicio tribunatum prope inberbis acciperet. [6] Extat epistula Valeriani ad Gallienum, qua Probum laudat adhuc adulescentem et imitationi omnium proponit. [7] Ex quo apparet neminem umquam pervenisse ad virtutum summam iam maturum, nisi qui puer seminario virtutum generosiore concretus aliquid inclitum designasset. [4, 1] Epistula Valeriani: «Valerianus pater Gallieno filio, Augustus Augusto. Et meum secutus iudicium, quod semper de Probo adulescente primo habui, et omnium bonorum, qui eundem sui nominis virum dicunt, tribunatum in eum contuli datis sex cohortibus Saracenis, creditis etiam auxiliaribus Gallis cum ea Persarum manu, quam nobis Artabassis18 Syrus mancipavit. [2] Te quaeso, fili carissime, ut eum iuvenem, quem imitari pueris omnibus volo, in tanto habeas honore, quantum virtutes eius et merita pro debito mentis splendore desiderant. [3] Alia epistula de eodem ad praef. praet. cum salario: «Valerianus Augustus Mulvio Gallicano19 praef. praet. Mireris fortassis, quod ego inberbem tribunum fecerim contra sententiam divi Hadriani20, sed non multum miraberis, si Probum cogitas: [4] est adulescens vere probus; numquam enim aliud mihi, cum eum cogito, nisi eius nomen occurrit, quod nisi nomen haberet, potuit habere cognomen. [5] Huic igitur dari iubebis, quoniam mediocris fortunae est, ut eius dignitas incrementis iuvetur, tunicas russulas duas, pallia Gallica duo fibulata, interulas paragaudias duas, patinam argenteam librarum decem specellatam, aureos

Antoninianos21 centum, argenteos Aurelianos mille, aereos Philippeos decem milia; [6] item in salario diurno bubulae pondo 〈duo〉, porcinae pondo sex, caprinae pondo decem, gallinaceum per biduum, olei per biduum sextarium unum, vini veteris diurnos sextarios decem cum larido, bucellati, salis, olerum, lignorum quantum sat est. [7] Hospitia praeterea eidem ut tribunis legionum praeberi iubebis». [5, 1] Et haec quidem epistulis declarantur. Nunc quantum ex ephemeride colligi potuit: cum bello Sarmatico iam tribunus tramisso Danubio multa fortiter fecisset, publice in contione donatus est hastis puris22 quattuor, coronis vallaribus23 duabus, corona civica24 una, vexillis puris quattuor, armillis aureis duabus, torque aureo uno, patera sacrificali quinquelibri una. [2] Quo quidem tempore Valerium Flaccinum25, adulescentem nobilem, parentem Valeriani, e Quadorum liberavit manu. Unde illi Valerianus coronam civicam detulit. [3] Verba Valeriani pro contione habita: «suscipe, Probe, praemia pro re p., suscipe coronam civicam pro parente». [4] Quo quidem tempore legionem tertiam eidem addidit, sub testimonio huius modi. [5] Epistula de legione tertia: «res gestae tuae, Probe carissime, faciunt, ut et serius tradere maiores tibi exercitus videar et cito tamen tradam. [6] Recipe in fidem tuam legionem tertiam Felicem26, quam ego adhuc nulli nisi provecto iam credidi; mihi autem eo tempore eredita est, quo et me canosum, qui credebat cum gratulatione, vidit. [7] Sed ego in te non expecto aetatem, cum et virtutibus fulgeas et moribus polleas. [8] Vestes tibi triplices dari iussi, salarium duplex feci, vexillarium deputavi». [6, 1] Longum est, si per res gestas tanti percurram viri, quae ille sub Valeriano, quae sub Gallieno, quae sub Aureliano et Claudio privatus fecerit, quoties murum conscenderit, vallum diripuerit, hostem comminus interemerit, dona principum emeruerit, rem p. in antiquum statum sua virtute reddiderit. [2] Docet Gallieni epistula ad tribunos data, qui fuerit Probus: «Gallienus Augustus tribunis exercituum Illyricianorum. Etiamsi patrem meum fatalis belli Persici necessitas tenuit, habeo tamen parentem Aurelium Probum, quo laborante possim esse securus. Qui si adfuisset, numquam ille ne nominandus quidem tyrannus27 sibi usurpasset imperium. [3] Quare omnes vos consiliis eius cupio parere, qui et patris iudicio probatus est et senatus». [4] Non magnum fortassis iudicium Gallieni esse videatur, principis mollioris, sed, quod negari non potest, ne dissolutus quidem quispiam se nisi in eius fidem tradit, cuius sibi virtutes aestimat profuturas. [5] Sed esto, Gallieni epistula sequestretur, quid Aureliani iudicium? Qui Probo decimanos,

fortissimos exercitus sui et cum quibus ipse ingentia gesserat, tradidit sub huius modi testimonio: [6] «Aurelianus Augustus Probo salutem dicit. Ut scias, quanti te faciam, decimanos meos sume, quos Claudius mihi credidit. Isti enim sunt, qui quadam felicitatis praerogativa praesules nisi futuros principes habere non norunt». [7] Ex quo intellectum est Aurelianum in animo hoc habuisse, ut, si quid sibi scienti prudentique eveniret, Probum principem faceret. [7, 1] Iam Claudii, iam Taciti iudicia de Probo longum est innectere, quamvis feratur in senatu Tacitus dixisse, cum eidem offerretur imperium, debere Probum principem fieri. Sed ego senatus consultum ipsum non inveni. [2] Ipse autem Tacitus imperator primam talem ad Probum epistulam dedit: [3] «Tacitus Augustus Probo. Me quidem senatus principem fecit de prudentis exercitus voluntate. Attamen sciendum tibi est tuis nunc umeris magis incubuisse rem p., qui et quantus sis, omnes novimus, scit senatus. Adesto igitur nostris necessitatibus, tuae familiae adsere, ut soles, rem p(ublicam). [4] Nos tibi decreto totius orientis ducatu salarium quinquiplex fecimus, ornamenta militaria geminavimus, consulatum in annum proximum28 nobiscum decrevimus; te enim manet pro virtutibus tuis Capitolina palmata». [5] Ferunt quidam Probo id pro imperii omine fuisse, quod Tacitus scripsit: «te manet Capitolina palmata»29. Sed in hanc sententiam omnibus semper consulibus scribebatur. [8, 1] Amor militum erga Probum ingens semper fuit, neque enim umquam ille passus est peccare militem. Ille quin etiam Aurelianum saepe a gravi crudelitate deduxit. [2] Ille singulos manipularios adiit, vestes et calciamenta perspexit, si quid praedae fuit, ita divisit, ut sibi nihil praeter tela et arma servaret. [3] Quin etiam cum de praedato, sive ex Alanis30 sive ex aliqua alia gente incertum est, reppertus esset equus non decorus neque ingens, qui, quantum captivi loquebantur, centum ad diem milia currere diceretur, ita ut per dies octo vel decem continuaret, et omnes crederent Probum tale animal sibimet servaturum, iam primum dixit: «fugitivo militi potius quam forti hic equus convenit». [4] Deinde in urnam 〈nomina〉 milites iussit mittere, ut aliqui eum sorte ductus acciperet. [5] Et cum essent in exercitu quidam nomine Probi alii quattuor milites, casu evenit, ut [qui] primum Probi nomen existeret, cum ipsius Probi ducis nomen missum non esset. [6] Sed cum quattuor illi milites inter se contenderent ac sortem sibi quisque defenderet, iussit iterum agitari urnam, sed et iterum Probi nomen

emersit; cumque tertio et quarto fecisset, quarto Probi nomen effusum est. [7] Tunc omnis exercitus equum illum Probo duci dicavit, ipsis etiam militibus, quorum nomina exierant, id volentibus. [9, 1] Pugnavit et contra Marmaridas31 in Africa fortissime eosdemque vicit atque ex Libya Carthaginem transiit eandemque a rebellionibus vindicavit. [2] Pugnavit et singulari certamine contra quendam Aradionem32 in Africa eundemque prostravit et, quia fortissimum ac pertinacissimum virum viderat, sepulchro ingenti honoravit, quod adhuc extat tumulo usque ad ducentos pedes terra elatum per milites, quos otiosos esse numquam est passus. [3] Extant apud Aegyptum33 eius opera, quae per milites struxit, in plurimis civitatibus. In Nilo autem tam multa fecit, ut vectigal frumentarium solus adiuverit. [4] Pontes, templa, porticus, basilicas labore militum struxit, ora fluminum multa patefecit, paludes plerasque siccavit atque in his segetes agrosque constituit. [5] Pugnavit etiam contra Palmyrenos Odenati et Cleopatrae partibus Aegyptum defendentes34, primo feliciter, postea temere, ut paene caperetur, sed postea refectis viribus Aegyptum et orientis maximam partem in Aureliani potestatem redegit. [10, 1] Cum igitur his tot tantis virtutibus eniteret, Tacito absumpto fataliter ac Floriano imperium arripiente omnis orientalis exercitus eundem imperatorem fecerunt35. [2] Non inepta neque inelegans fabula est scire, quem ad modum imperium Probus sumpserit: [3] cum ad exercitus nuntius venisset, tum primum animus militibus fuit praevenire Italicos exercitus, ne iterum senatus principem daret. [4] Sed cum inter milites sermo esset, quis fieri deberet, et manipulatim in campo tribuni eos adloquerentur dicentes requirendum esse principem aliquem fortem, sanctum, verecundum, clementem, probum idque per multos circulos, ut fieri adsolet, diceretur, quasi divino nutu undique ab omnibus adclamatum est: «Probe Auguste, {dii te} servent!». [5] Deinde concursus et caespiticium tribunal, appellatusque imperator, ornatus etiam pallio purpureo, quod de statua templi oblatum est, atque inde ad Palatium36 reductus, invitus et retractans et saepe dicens: «non vobis expedit, milites, non mecum bene agetis. Ego enim vobis blandiri non possum». [6] Prima eius epistula data ad Capitonem37 praef. praet. talis fuit: «imperium numquam optavi et invitus accepi. Depocon mihi rem invidiosissimam non licet. [7] Agenda est persona, quam mihi miles inposuit. Te quaeso, Capito, ita mecum salva re p. perfruaris, annonam et commeatus

et, quicquid necessarium est ubique, militi pares. Ego, quantum in me est, si recte omnia gubernaveris, praefectum alterum non habebo». [8] Cognito itaque, quod imperaret Probus, milites Florianum, qui quasi hereditarium {arripuerat imperium}, interemerunt38, scientes neminem dignius posse imperare quam Probum. [9] Ita ei sine ulla molestia totius orbis imperium et militum et senatus iudicio delatum est. [11, 1] Et quoniam mentionem senatus fecimus, sciendum est, quid ipse ad senatum scripserit, quid item ad eum amplissimus ordo rescripserit: [2] oratio Probi prima ad senatum: «recte atque ordine, p. c., proximo superiore anno factum est, ut vestra clementia orbi terrarum principem39 daret, et quidem de vobis, qui et estis mundi principes et semper fuistis et in vestris posteris eritis. [3] Atque utinam id etiam Florianus expectare voluisset nec velut hereditarium sibi vendicasset imperium, vel illum vel alium quempiam maiestas vestra fecisset. [4] Nunc quoniam ille imperium arripuit, nobis a militibus delatum est nomen Augustum, vindicatum quin etiam in illum a prudentioribus militibus, quod fuerat usurpatum. Quaeso, ut de meis meri〈tis iudice〉tis, facturus quicquid iusserit vestra clementia». [5] Item senatus consultum die III. nonas Feb.40 in aede Concordiae41. Inter cetera: Aelius Scorpianus42 consul dixit: «audistis, p. c., litteras Aurelii Valerii Probi: de his quid videtur?». [6] Tum adclamatum est: «Probe Auguste, dii te servent. Olim dignus et fortis et iustus bonus ductor, bonus imperator; exemplum militiae, exemplum imperii. Dii te servent. [7] Adsertor rei p. felix imperes, magister militiae felix imperes, te cum tuis dii custodiant. Et senatus antea te delegit. Aetate Tacito posterior, ceteris prior. [8] Quod imperium suscepisti, gratias agimus. Tuere nos, tuere rem p.; bene tibi committimus, quos ante servasti. [9] Tu Francicus, tu Gothicus, tu Sarmaticus, tu Parthicus43, tu omnia. Et prius fuisti semper dignus imperio, dignus triumphis. Felix agas, feliciter imperes». [12, 1] Post haec Manlius Statianus44, qui primae sententiae tunc erat, ita locutus est: «dis inmortalibus gratias et prae ceteris, patres conscripti, Iovi Optimo, qui nobis principem talem, qualem semper optabamus, dederunt. [2] Si recte cogitemus, non nobis Aurelianus, non Alexander, non Antonini, non Traianus aut Claudius requirendi sunt. Omnia in uno principe constituta sunt, rei militaris scientia, animus clemens, vita venerabilis, exemplar agendae rei p. atque omnium praerogativa virtutum. [3] Enimvero quae mundi pars est, quam ille non vincendo didicerit? Testes sunt Marmaridae, in Africae solo victi, testes Franci, 〈in〉 inviis strati paludibus, testes Germani et Alamanni, longe a Rheni summoti litoribus. [4] Iam vero quid Sarmatas loquor, quid

Gothos, quid Parthos ac Persas atque omnem Ponticum tractum? Ubique vigent Probi virtutis insignia. [5] Longum est dicere, quot reges magnarum gentium fugarit, quot duces manu sua occiderit, quantum armorum sit, quae ipse cepit privatus. [6] Superiores principes quas illi gratias egerint, testes sunt litterae publicis insertae monumentis. Dii boni, quoties ille donis militaribus est donatus! Quas militum laudes emeruit! Adulescens tribunatus, non longe post adulescentiam regendas legiones accepit. [7] Iuppiter Optime Maxime, luno regina tuque virtutum praesul Minerva, tu orbis Concordia et tu Romana Victoria, date hoc senatui populoque Romano, date militibus, date sociis atque exteris nationibus: imperet quemammodum militavit! [8] Decerno igitur, p. c., votis omnium concinentibus nomen imperatorium, nomen Caesareanum nomen Augustum, addo proconsulare imperium, patris patriae reverentiam, pontificatum maximum, ius tertiae relationis45, tribuniciam potestatem». Post haec adclamatum est: «omnes, omnes». [13, 1] Accepto igitur hoc s. c. secunda oratione permisit patribus, ut ex magnorum iudicum appellationibus ipsi cognoscerent, proconsules crearent, legatos 〈ex〉 consulibus darent, ius praetorium46 praesidibus darent, leges, quas Probus ederet, senatus consultis propriis consecrarent. [2] Statim deinde, si quidam ex interfectoribus Aureliani superfuerant, vario genere vindicavit47, mollius tamen moderatiusque quam prius exercitus et postea Tacitus vindicaverant. [3] Deinde animadvertit etiam in eos, qui Tacito insidias fecerant. Floriani sociis pepercit, quod non tyrannum aliquem videbantur secuti, sed sui principis fratrem. [4] Recepit deinde omnes Europenses exercitus, qui Florianum et imperatorem fecerant et occiderant. [5] His gestis cum ingenti exercitu Gallias petit48, quae omnes occiso Postumo turbatae fuerant, interfecto Aureliano a Germanis49 possessae. [6] Tanta autem illic proelia et tam feliciter gessit, ut a barbaris sexaginta per Gallias nobilissimas reciperet civitates, praedam deinde omnem, qua illi praeter divitias etiam efferebantur ad gloriam. [7] Et cum iam in nostra ripa, immo per omnes Gallias securi vagarentur, caesis prope quadringentis milibus, qui Romanum occupaverant solum, reliquos ultra Nigrum fìuvium et Albam50 removit. [8] Tantum his praedae barbaricae tulit, quantum ipsi Romanis abstulerant51, Contra urbes Romanas castra in solo barbarico52 posuit atque illic milites collocavit. [14, 1] Agros et horrea et domos et annonam Transrhenanis omnibus fecit, his videlicet quos in excubiis conlocavit. [2] Nec cessatum est umquam

pugnari, cum cotidie ad eum barbarorum capita deferrentur, iam ad singulos aureos singula, quamdiu reguli novem ex diversis gentibus venirent atque ad pedes Probi iacerent. [3] Quibus ille primum obsides imperavit, qui statim dati sunt, deinde frumentum, postremo etiam vaccas atque oves. [4] Dicitur iussisse his acrius, ut gladiis non uterentur, Romanam expectaturi defensionem, si essent ab aliquibus vindicandi. [5] Sed visum est id non posse fieri, nisi si limes Romanus extenderetur et fieret Germania tota provincia. [6] Maxime tamen ipsis regibus consentientibus in eos vindicatum est, qui praedam fìdeliter non reddiderunt. [7] Accepit praeterea sedecim milia tyronum, quos omnes per diversas provincias sparsit, ita ut numeris vel limitaneis militibus quinquagenos et sexagenos intersereret dicens sentiendum esse non videndum, cum auxiliaribus barbaris Romanus iuvatur53. [15, 1] Compositis igitur rebus in Gallia tales ad senatum litteras dedit: «ago diis inmortalibus gratias, p. c., quia vestra in me iudicia conprobarunt. [2] Subacta est omnis qua tenditur late Germania, novem reges gentium diversarum ad meos pedes, immo ad vestros, supplices stratique iacuerunt. Omnes iam barbari vobis arant, vobis iam serviunt et contra interiores54 gentes militant. [3] Supplicationes igitur vestro more decernite. Nam et quadringenta milia hostium caesa sunt, et sedecim milia armatorum nobis oblata, et septuaginta urbes nobilissimae captivitate hostium vindicatae et omnes penitus Galliae liberatae. [4] Coronas, quas mihi optulerunt omnes Galliae civitates aureas, vestrae, p. c., clementiae dedicavi. Eas Iovi Optimo Maximo ceterisque diis deabusque inmortalibus vestris manibus consecrate. [5] Praeda omnis recepta est, capta etiam alia, et quidem maior, quam fuerat ante direpta. [6] Arantur Gallicana rura barbaris bubus et iuga Germanica captiva praebent nostris colla cultoribus, pascuntur ad nostrorum alimoniam gentium pecora diversarum, equinum pecus nostro iam fecundatur equitatui, frumento barbarico plena sunt horrea. Quid plura? Illis sola relinquimus sola, nos eorum omnia possidemus. [7] Volueramus, p. c., Germaniae novum praesidem facere, sed hoc ad pleniora vota distulimus. Quod quidem credimus conferre, cum divina providentia nostros uberius secundarit exercitus».

Frontespizio della Storia Augusta nell’edizione curata da Claude Saumaise (Parigi, 1620).

[16, 1] Post haec Illyricum petit55. Priusquam veniret, Raetias sic pacatas reliquit, ut illic ne suspicionem quidem ullius terroris relinqueret. [2] In Illyrico Sarmatas ceterasque gentes ita contudit, ut prope sine bello cuncta

reciperet, quae illi diripuerant. [3] Tetendit deinde iter per Thracias atque omnes Geticos populos fama rerum territos et antiqui nominis potentia pressos aut in deditionem aut in amicitiam recepit. [4] His gestis orientem petit atque {in} itinere potentissimo quodam latrone Palfuerio56 capto et interfecto omnem Isauriam liberavit populis atque urbibus Romanis legibus restitutis. [5] Barbarorum, qui apud Isauros sunt, vel per terrorem vel urbanitatem loca ingressus est. Quae cum peragrasset, hoc dixit: «facilius est ab istis locis latrones arceri quam tolli». [6] Veteranis omnia illa, quae anguste adeuntur, loca privata donavit addens, ut eorum filii ab anno octavo decimo, mares dumtaxat, ad militiam mitterentur, ne latrocinare umquam discerent. [17, 1] Pacatis denique omnibus Pamphyliae partibus ceterarumque provinciarum, quae sunt Isauriae vicinae, ad orientem iter flexit. [2] Blemmyas57 etiam subegit, quorum captivos Romam transmisit, qui mirabilem. sui visum stupente p. R. praebuerunt. [3] Copten praeterea et Ptolomaidem58 urbis ereptas barbarico servitio Romano reddidit iuri. [4] Ex quo tantum profecit, ut Parthi59 legatos ad eum mitterent confitentes timorem pacemque poscentes, quos ille superbius acceptos magis timentes domum remisit. [5] Fertur etiam epistula illius repudiatis donis, quae rex miserat, ad Narseum60 talis fuisse: «miror te de omnibus, quae nostra futura sunt, tam pauca misisse. Habeto interim omnia illa, quibus gaudes. Quae si nos habere cupiamus, scimus, quem ad modum possidere debeamus». [6] His acceptis litteris Narseus maxime territus, et eo praecipue quod Copten et Ptolomaidem conperit a Blemmyis, qui eas tenuerant, vindicatas caesosque ad internicionem eos, qui gentibus fuerant ante terrori. [18, 1] Facta igitur pace cum Persis ad Thracias redit et centum milia Basternarum61 in solo Romano constituit, qui omnes fidem servarunt. [2] Sed cum et ex aliis gentibus plerosque pariter transtulisset62, id est ex Gipedis, Grauthungis63 et Vandulis, illi omnes fidem fregerunt et occupato bellis tyrannicis Probo per totum paene orbem pedibus et navigando vagati sunt nec parum molestiae Romanae gloriae intulerunt64. [3] Quos quidem ille diversis vicibus variisque victoriis oppressiti paucis domum cum gloria redeuntibus, quod Probi evasissent manus. Haec Probus cum barbaris gessit. [4] Sed habuit etiam non leves tyrannicos motus. Nam et Saturninum65, qui orientis imperium arripuerat, variis proeliorum generibus et nota virtute superavit. Quo victo tanta in oriente quies fuit, ut, quem ad modum vulgo loquebantur, mures rebelles nullus audiret. [5] Deinde cum Proculus66 et

Bonosus67 apud Agrippinam68 in Gallia imperium arripuissent omnesque sibi iam Brittannias69, Hispanias et bracatae Galliae70 provincias vindicarent, barbaris semet iuvantibus vicit. [6] Ac ne requiras plura vel de Saturnino vel de Proculo vel de Bonoso, suo eosdem inseram libro, pauca de isdem, 〈ut〉 decet, immo ut poscit necessitas, locuturus. [7] Unum sane sciendum est, quod Germani omnes cum ad auxilium essent rogati a Proculo, Probo servire maluerunt quam cum Bonoso et Proculo 〈perire〉. [8] Gallis omnibus et Hispanis ac Brittannis hinc permisit, ut vites haberent vinumque conficerent71. Ipse Almam72 montem in Illyrico circa Sirmium militari manu fossum lecta vite conseruit. [19, 1] Dedit Romanis etiam voluptates, et quidem insignes, delatis etiam congiariis. [2] Triumphavit de Germanis et Blemmyis, omnium gentium drungos usque ad quinquagenos homines ante triumphum duxit73. Venationem in circo amplissimam dedit, ita ut populus cuncta diriperet. [3] Genus autem spectaculi fuit tale: arbores validae per milites radicitus vulsae conexis late longeque trabibus adfixae sunt, terra deinde super-iecta totusque circus ad silvae consitus speciem gratia novi viroris effronduit. [4] Missi deinde per omnes aditus strutiones mille, mille cervi, mille apri; iam damae, ibices, oves ferae et cetera herbatica animalia, quanta vel ali potuerunt vel inveniri. Inmissi deinde populares, rapuit quisque quod voluit. [5] Edidit alia die in amphitheatro una missione centum iubatos leones, qui rugitibus suis tonitrus excitabant. [6] Qui omnes 〈e〉 posticis interempti sunt non magnum praebentes spectaculum, quo occi-debantur; neque enim erat bestiarum impetus ille, qui esse e caveis egredientibus solet; occisi sunt praeterea multi, qui dirigere nolebant, sagittis. [7] Editi deinde centum leopardi Libyci, centum deinde Syri; editae centum leaenae et ursi simul trecenti; quarum omnium ferarum magnum magis constat spectaculum fuisse quam gratum. [8] Edita praeterea gla-diatorum paria trecenta [a] Blemmyis plerisque pugnantibus, qui per triumphum erant ducti, plerisque Germanis et Sarmatis, nonnullis etiam latronibus Isauris. [20, 1] Quibus peractis bellum Persicum74 parans, cum per Illyricum iter faceret, a militibus suis per insidias interemptus est75. [2] Causae occidendi eius haec fuerunt: primum quod numquam militem otiosum esse perpessus est, si quidem multa opera militari manu perfecit, dicens annonam gratuitam militem comedere non debere. [3] His addidit dictum eis grave, si umquam eveniat, salutare rei p., brevi milites necessarios non futuros. [4] Quid ille

conceperat animo qui hoc dicebat? Nonne omnes barbaras gentes subiecerat pedibus 〈penitus〉que totum mundum fecerat iam Romanum? [5] «Brevi, inquit, milites necessarios non habebimus». Quid est aliud dicere: Romanus iam miles erit nullus? Ubique regnabit, omnia pos-sidebit mox secura res p., [6] orbis terrarum non arma fabricabitur, non annonam preabebit, boves habebuntur aratro, equus nascetur ad pacem, nulla erunt bella, nulla captivitas, ubique pax, ubique Romanae leges, ubique iudices nostri. [21, 1] Longius amore imperatoris optimi progredior quam pedestris sermo desiderat. Quare addam illud, quod praecipue tanto viro fatalem properavit necessitatem. [2] Nam cum Sirmium venisset ac solum patrium effecundari cuperet, dilatari, ad siccandam quandam paludem multa simul milia militum posuit ingentem parans fossam, qua deiectis in Savum76 naribus loca Sirmiensibus profutura siccaret. [3] Hoc permoti milites confugientem eum in turrem ferratam, [tam] quam ipse speculae causa elatissimam exaedificaverat, interemerunt77 anno imperii sui quinto78. [4] Postea tamen ingens ei sepulchrum elatis aggeribus omnes pariter milites fecerunt cum titulo huius modi inciso marmori: «hic Probus imperator et vere probus situs est, victor omnium gentium barbararum, victor etiam tyrannorum». [22, 1] Conferenti mihi cum aliis imperatoribus principem Probum, omnibus prope Romanis ducibus, qua fortes clementes, qua prudentes, qua mirabiles extiterunt, intellego hunc virum aut parem fuisse aut, si non repugnat invidia furiosa, meliorem. [2] Quinquennio enim imperii sui per totum orbem terrarum tot bella gessit, et quidem per se, ut mirabile sit, quem ad modum omnibus occurrerit proeliis. [3] Multa manu sua fecit, duces praeclarissimos instituit. Nam ex eius disciplina Carus, Diocletianus, Constantius, Asclepiodotus79, Annibalianus80, Leonides, Cecropius, Pisonianus, Herennianus, Gaudiosus, Ursinianus81 et ceteri, quos patres nostri mirati sunt et de quibus nonnulli boni principes extiterunt. [4] Conferat nunc, cui placet, viginti Traiani Hadrianique annos, conferat prope totidem Antoninorum. Nam quid de Augusto loquar, cuius imperii annis82 vix potest advivi? Malos autem principes taceo. Ipsa vox Probi clarissima indicat, quid se facere potuisse speraret, qui dixit brevi necessarios milites non futuros. [23, 1] Ille vero conscius sui non barbaros timuit, non tyrannos. [2] Quae deinde felicitas emicuisset, si sub illo principe milites non fuissent? Annonam provincialis daret nullus, stipendia de largitionibus nulla erogarentur, aeternos thesauros haberet Romana res p., nihil expenderetur a principe, nihil a possessore redderetur: aureum83 profecto saeculum promittebat. [3] Nulla

futura erant castra, nusquam lituus audiendus, arma non erant fabricanda, populus iste militantium, qui nunc bellis civilibus rem p. vexat, araret, studiis incumberet, erudiretur artibus, navigaret. Adde quod nullus occideretur in bello. [4] Dii boni, quid tantum vos offendit Romana res p., cui talem principem sustulistis? [5] Eant nunc, qui ad civilia bella milites parant, in germanorum necem arment dexteras fratrum, hortentur in patrum vulnera liberos et divinitatem Probo derogent, quam imperatores nostri prudenter et consecrandam vultibus et ornandam templis {et} celebrandam ludis circensibus iudicarunt84. [24, 1] Posteri Probi85 vel odio 〈vel〉 invidiae [vel] timore Romanam rem fugerunt et in Italia circa Veronam ac Benacum et Larium atque in his regionibus larem locaverunt. [2] Sane quod praeterire non potui, cum imago Probi in Veronensi sita fulmine icta esset, ita ut eius praetexta colores mutaret, aruammirare spices responderunt huius familiae posteros tantae in senatu claritudinis fore, ut omnes summis honoribus fungerentur. [3] Sed adhuc neminem vidimus, posteri autem aeternitatem videntur habere, non modum86. [4] Senatus mortem Probi gravissime accepit, aeque populus. Et cum esset nuntiatum Carum imperare, virum bonum quidem sed longe a moribus Probi, Carini causa filii eius, qui semper pessime vixerat, tam senatus quam populus inhorruit; [5] metuebant enim unusquisque tristiorem principem, sed magis improbum metuebant heredem. [6] Haec sunt, quae de Probi {vita} cognovimus vel quae digna memoratui aestimavimus. [7] Nunc in alio libro, et quidem brevi, de Firmo et Saturnino et Bonoso et Proculo dicemus. [8] Non enim dignum fuit, ut quadrigae tyrannorum bono principi miscerentur. Post deinde si vita suppetit, Carum incipiemus propagare cum liberis.

[1, 1] È certo vero quanto scrivono nelle loro opere a mo’ di sentenza gli storici Sallustio Crispo, Marco Catone e Gellio1, che cioè tutte le virtù di tutti gli uomini sono tanto grandi quanto hanno voluto farle apparire coloro che, con il loro ingegno, hanno narrato le imprese compiute da ciascuno di essi. [2] È in riferimento a questo che Alessandro Magno Macedone, venuto al sepolcro di Achille, esclamò con un profondo sospiro: «Felice te, o giovane, che hai trovato un tale cantore delle tue virtù»2, intendendo alludere ad Omero, che innalzò a tal punto Achille nella sua brama di virtù, in proporzione a quanto egli eccelleva nel suo genio poetico. [3] Forse, mio Celsino3, ti domandi, dove vadano a parare queste mie riflessioni. L’imperatore Probo4, che con il suo governo ristabilì un dominio assolutamente sicuro sull’Oriente, l’Occidente, il Mezzogiorno, il Settentrione e in tutte le parti del mondo, quasi non lo conosciamo neppure, per la mancanza di storici che ne abbiano parlato. [4] Si è perduto così – ed è veramente una vergogna! – il ricordo delle imprese di un uomo tanto grande e che non ebbe eguale né nelle guerre puniche, né nelle invasioni galliche, né nelle sommosse del Ponto, né nelle vicende piene di intrighi della Spagna. [5] Ma io che poco fa ho espresso il mio rimpianto solo per Aureliano, tracciando la sua biografìa come meglio potevo, dopo aver già scritto di Tacito e Floriano, non posso fare a meno di soffermarmi a trattare – se la vita mi basterà – le imprese di Probo, per poi dire di tutti coloro che ancora restano, fino a Massimiano e Diocleziano. [6] Né io prometto ora sfoggi di bello stile, ma il puro racconto di fatti, che non posso permettere cadano nell’oblio5. [2, 1] Per non avere ad ingannare in alcunché la tua amicizia a me tanto cara, ti dirò che mi sono servito soprattutto dei libri della Biblioteca Ulpia6 – ai miei tempi trasferiti alle Terme di Diocleziano – e anche di quelli del Palazzo di Tiberio7; ho consultato anche i registri degli scrivani del portico Porfìretico8, nonché gli Atti del senato e quelli del popolo. [2] E poiché, per la raccolta delle imprese di un tale personaggio, mi è risultata di grandissimo aiuto l’effemeride9 di Turdulo Gallicano10, uomo di grande onestà e sincerità, non dovevo mancare di menzionare il prezioso contributo avuto dal mio vecchio amico. [3] Un Gneo Pompeo, con i suoi tre splendidi trionfi per la guerra contro i pirati, quella contro Sertorio e contro Mitridate, e con l’eccezionale grandezza delle tante sue imprese, chi alla fin fine lo conoscerebbe, se Marco Tullio e

Tito Livio non avessero scritto di lui? [4] Un Publio Scipione Africano, anzi tutti gli Scipioni, Lucii11 o Nasica12, non sarebbero avvolti dalle più spesse tenebre, se non vi fossero stati storici più o meno illustri a celebrarli? [5] Sarebbe troppo lungo soffermarsi su tutti i casi che, anche senza che io stia qui a ricordarli, potrebbero essere citati quali esempi di questo tipo. [6] Questo solo mi preme di sottolineare, che cioè io ho scritto su di una materia che, se uno volesse, potrebbe trattare più acconciamente in uno stile più elevato, [7] e, del resto, nel narrare le vite dei vari imperatori e i loro tempi il mio scopo non è stato quello di imitare i Sallustii, i Livii, i Taciti, i Trogi13, e tutti gli scrittori dallo stile più elegante, ma bensì Mario Massimo, Svetonio Tranquillo, Fabio Marcellino14, Gargilio Marziale15, Giulio Capitolino, Elio Lampridio e tutti gli altri che tramandarono questi e simili argomenti non tanto badando all’eleganza formale quanto alla verità dei fatti. [8] Io sono infatti uno di quelli sempre avidi di sapere, non lo posso negare, e a ciò mi pungolate proprio voi che, pur avendo già una vasta cultura, siete sempre bramosi di ampliare le vostre conoscenze. [9] Ma per non dilungarmi troppo a lungo su cose che riguardano il mio personale modo di vedere, prenderò ad illustrare la vita di un principe grande e quanto mai illustre, che non trova l’eguale nel corso della nostra storia. [3, 1] Probo era nato in Pannonia, nella città di Sirmio16; era nobile più per parte di madre che di padre; aveva un patrimonio modesto, una parentela non molto estesa e tanto da privato che da imperatore ebbe a rifulgere per la grande fama delle sue virtù. [2] Secondo quanto riferito da alcuni, il padre di Probo si chiamava Massimo: questi, dopo aver ricoperto con pieno merito l’ufficio di centurione e aver ottenuto il tribunato, morì in Egitto lasciando la moglie, un figlio e una figlia. [3] Molti affermano che Probo era parente dell’ottimo e veneratissimo imperatore Claudio17, ma questa questione – giacché la notizia è riferita unicamente da un autore greco – noi la lascieremo in sospeso. [4] Un particolare tuttavia voglio qui riportare, che ricordo di aver letto in una effemeride, e cioè che Probo venne sepolto dalla sorella Claudia. [5] Ancora ragazzo Probo divenne così famoso per la sua forza fìsica, che era quasi imberbe quando per decisione di Valeriano ricevette il tribunato. [6] Possediamo una lettera di Valeriano a Gallieno, nella quale egli fa le lodi dell’ancor giovane Probo, proponendolo all’ammirazione di tutti. [7] Dal che appare che nessuno è mai giunto al sommo delle virtù già in età matura, se non uno che, allevato da ragazzo nel nobile vivaio delle virtù, abbia dato già allora qualche segno di distinzione.

[4, 1] Ecco la lettera di Valeriano: «Il padre Valeriano al figlio Gallieno, un Augusto all’altro Augusto. Seguendo la mia opinione, che ho sempre avuto fin dal primo momento sul conto di Probo anche negli anni della sua giovinezza, nonché quella di tutti i migliori, che lo proclamano un uomo degno del nome che porta, gli ho conferito il tribunato, affidandogli il comando di sei coorti di Saraceni e quello degli ausiliari gallici, assieme a quel reparto di Persiani che ci è stato ceduto dal siro Artabassis18. [2] Ti prego, figlio mio carissimo, di trattare questo giovane, che vorrei servisse di modello a tutti i ragazzi, con tutto il riguardo richiesto dalle sue virtù e dai suoi meriti, conformemente al dovuto prestigio di cui gode il suo ingegno. [3] Ecco un’altra lettera su di lui, inviata al prefetto del pretorio unitamente all’indicazione del salario: «Valeriano Augusto al prefetto del pretorio Mulvio Gallicano19. Forse ti meravigli che io abbia nominato tribuno un ragazzino ancora imberbe, contrariamente alle direttive del divo Adriano20, ma non ti meraviglierai più di tanto ove tu abbia a considerare chi è questo Probo: [4] è un giovane ‘ probo ’ di fatto; quando infatti penso a lui, non mi viene alla mente nient’altro che il suo nome, ché, se non lo portasse già come tale, avrebbe potuto riceverlo come soprannome. [5] A lui dunque, giacché ha un patrimonio piuttosto modesto, farai avere, così che grazie a queste sovvenzioni possa mantenere un tenore di vita confacente alla sua dignità, due tuniche rossicce, due mantelli gallici con fìbbie, due camicie orlate di seta, un piatto d’argento sfaccettato del peso di dieci libbre, cento aurei antoniniani21, mille argentei aureliani, diecimila filippi di rame; [6] inoltre, quale salario giornaliero, due libbre di carne bovina, sei di carne suina, dieci di carne caprina, un pollo e un sestario d’olio ogni due giorni, dieci sestari al giorno di vino vecchio, con lardo, e quanto gli occorre in gallette, sale, ortaggi, legna. [7] Gli farai assegnare inoltre un alloggio, come si fa per i tribuni delle legioni». [5, 1] E questo è quanto risulta dalle lettere. Ecco ora quello che ho potuto ricavare dall’effemeride: nel corso della guerra contro i Sarmati, quando era già tribuno, spintosi oltre il Danubio aveva compiuto molti atti di valore, e perciò, dinanzi all’esercito adunato, gli furono pubblicamente donate quattro aste senza cuspide22, due corone vallari23, una corona civica24, quattro vessilli senza fregi, due braccialetti d’oro, una collana d’oro e una coppa sacrificale di cinque libbre. [2] In quello stesso periodo liberò dalle mani dei Quadi il giovane nobile Valerio Flaccino25, imparentato con Valeriano. In grazia di ciò Valeriano gli conferì la corona civica. [3] Ecco le parole pronunciate da Valeriano dinanzi all’assemblea dell’esercito: «Accogli, o Probo, la ricompensa

per i tuoi meriti verso lo Stato e la corona civica per quelli nei riguardi del mio congiunto». [4] In quel medesimo periodo gli affidò anche il comando della Terza Legione, con il seguente attestato onorifico. [5] Ecco la lettera concernente la Terza Legione: «Le tue imprese, o carissimo Probo, fanno sì che da una parte mi sembra di tardare troppo ad affidarti eserciti di maggior mole e dall’altra però te li affidi tanto presto! [6] Prendi alle tue dipendenze la Terza Legione Felice26, che finora io non ho affidato se non a uomini di provata esperienza; a me essa fu affidata allorquando chi me ne offriva, congratulandosi con me, il comando, vedeva anche i miei capelli ormai bianchi. [7] Ma io in te non guardo all’età, dal momento che le tue virtù rifulgono e i tuoi costumi sono da tutti apprezzati. [8] Ho dato ordine che ti siano assegnate tre vesti, ti ho fatto dare un doppio salario e ti ho destinato un alfiere». [6, 1] Sarebbe troppo lungo se volessi elencare minutamente tutte le imprese di un così grande personaggio, da lui compiute, ancor prima di salire al potere, sotto Valeriano, sotto Gallieno, sotto Aureliano e Claudio: quante volte, cioè, scalò le mura nemiche, abbatté le trincee, uccise i nemici lottando a corpo a corpo, meritò i doni degli imperatori, restituendo con il suo valore lo Stato alla sua antica condizione. [2] Una lettera di Gallieno indirizzata ai tribuni mostra che tempra d’uomo fosse Probo: «Gallieno Augusto ai tribuni dell’esercito di Illiria. Anche se il destino ineluttabile della guerra contro la Persia tiene prigioniero mio padre, ho tuttavia un altro genitore in Aurelio Probo, grazie alla cui collaborazione posso sentirmi sicuro. Ché se egli fosse stato presente, mai quel famigerato tiranno27 di cui non voglio nemmeno fare il nome avrebbe usurpato il potere. [3] Perciò desidero che voi tutti vi atteniate alle deliberazioni di quest’uomo, che ha meritato il consenso sia di mio padre sia del senato». [4] Forse il giudizio di un imperatore inetto come Gallieno potrà apparire di scarso peso ma, non lo si può negare, neppure un uomo dissoluto si fida se non di chi possiede le qualità che ritiene gli potranno risultare utili. [5] Ma sia, lasciamo pur stare la lettera di Gallieno; che dire allora del giudizio di Aureliano? Lui che affidò a Probo i soldati della Decima Legione, i più forti del suo esercito, con i quali egli stesso aveva compiuto grandi imprese, con un’attestazione onorifica di questo tenore: [6] «Aureliano Augusto saluta Probo. Onde tu sappia quanto ti stimo, prendi il comando della mia diletta Decima, che mi fu affidata da Claudio. Costoro infatti sono quei soldati che, per una sorta di fausto presagio, sono avvezzi ad avere per comandanti solo

uomini che diverranno in seguito imperatori». [7] Da ciò si capì che Aureliano aveva intenzione, nel caso in cui gli fosse capitato qualcosa di grave in piena coscienza e nel possesso delle sue facoltà mentali, di nominare imperatore Probo. [7, 1] Oramai sarebbe troppo lungo riportare i vari giudizi su Probo espressi da Claudio, da Tacito; va però detto che Tacito – stando a quanto riferiscono – avrebbe detto in senato, allorché gli veniva offerto l’impero, che si doveva eleggere imperatore Probo. Io però non ho avuto modo di trovare copia del decreto senatorio in questione. [2] Lo stesso Tacito, d’altra parte, una volta nominato imperatore, mandò a Probo la sua prima lettera, in questi termini: [3] «Tacito Augusto a Probo. Il senato, accondiscendendo alla volontà manifestata dal nostro accorto esercito, mi ha nominato imperatore. Devi sapere tuttavia che ora maggiormente grava sulle tue spalle il peso dello Stato: chi sei e quanto vali lo sappiamo tutti, nonché il senato. Vieni dunque in soccorso alle nostre necessità e, come tuo solito, considera lo Stato come una tua seconda famiglia. [4] Noi, assegnandoti il comando militare di tutto l’Oriente, ti abbiamo conferito uno stipendio quintuplicato, ti abbiamo raddoppiato le insegne militari, ti abbiamo designato console per l’anno prossimo28 quale nostro collega; quale ricompensa per il tuo valore ti attende la toga palmata capitolina». [5] Alcuni dicono che la frase scritta da Tacito: «Ti attende la toga palmata capitolina»29 avrebbe costituito un presagio dell’impero per Probo. Ma in realtà era d’uso esprimersi in questo modo quando si scriveva ai consoli. [8, 1] Grande fu sempre l’affetto dei soldati nei confronti di Probo, né egli tollerò mai alcuna insubordinazione da parte loro. Egli riuscì anche spesso a distogliere Aureliano dal prendere provvedimenti severi e crudeli. [2] Egli passava in rassegna uno per uno i soldati semplici, ispezionava le vesti e le calzature, e se c’era del bottino lo divideva in modo da non tenere per sé null’altro che dardi e armi. [3] Inoltre, una volta, in mezzo al bottino strappato agli Alani30 o a qualche altro popolo – questo non si sa bene – fu trovato un cavallo non particolarmente bello né grande ma che, a detta dei prigionieri, aveva fama di poter correre cento miglia al giorno, continuando ininterrottamente per otto o dieci giorni: tutti si aspettavano che Probo avrebbe riservato per sé l’animale, ma egli prima di tutto esclamò: «Questo cavallo si addice di più ad un soldato avvezzo a fuggire che non ad uno valoroso». [4] Poi ordinò ai soldati di introdurre in un’urna i loro nomi, onde uno di essi, estratto a sorte, avesse a riceverlo. [5] Ed essendovi nell’esercito

altri quattro soldati di nome Probo, il caso volle che uscisse come primo il nome di Probo, sebbene il nome del generale Probo non fosse stato introdotto. [6] Ma poiché quei quattro soldati litigavano fra di loro, ciascuno rivendicando a suo favore il risultato del sorteggio, egli fece di nuovo agitare l’urna, ma ne uscì per la seconda volta il nome di Probo; e riprovando una terza e quarta volta, anche alla quarta venne estratto il nome di Probo. [7] Allora tutto l’esercito – d’accordo anche quegli stessi soldati i cui nomi erano stati estratti – volle riservare quel cavallo al generale Probo. [9, 1] Combatté anche con grande valore in Africa contro i Marmaridi31 e li vinse, poi passò dalla Libia a Cartagine e la liberò dai ribelli. [2] In Africa ebbe anche a combattere in duello contro un certo Aradione32 e lo abbatté: e poiché aveva trovato in lui un nemico fortissimo e irriducibile, gli rese onore un grande sepolcro, ancor oggi visibile, elevato su di un tumulo alto fino a duecento piedi ad opera dei soldati, che non voleva rimanessero mai inattivi. [3] Rimangono tuttora in molte città d’Egitto33 varie sue opere, che egli fece erigere dai soldati. Nella regione del Nilo, poi, fece compiere tanti lavori, da dare un eccezionale incremento alle rendite frumentarie. [4] Utilizzando il lavoro dei soldati costruì ponti, templi, portici, basiliche, rese navigabili le foci di molti fiumi, bonificò molti territori paludosi e li trasformò in campi adatti alla coltivazione. [5] Combatté anche contro i Palmireni, che presidiavano l’Egitto quali fautori di Odenato e Cleopatra34, dapprima con successo, poi in modo temerario, sì che per poco non venne catturato, ma successivamente, riorganizzate le sue forze, ridusse sotto la sovranità di Aureliano l’Egitto e la maggior parte dell’Oriente. [10, 1] Mentre dunque si era reso famoso per tanti e tali meriti, allorché Tacito compì il suo destino e Floriano si impadronì del potere, tutti gli eserciti d’Oriente lo elessero imperatore35. [2] Può costituire un aneddoto non banale e piacevole da conoscere, il modo in cui Probo assunse l’impero: [3] appena giunse agli eserciti la notizia, il primo pensiero dei soldati fu di prevenire l’esercito d’Italia, onde non fosse nuovamente il senato a scegliere l’imperatore. [4] Si cominciò a discutere fra i soldati su chi dovesse essere eletto, e girando per il campo di reparto in reparto i tribuni si rivolgevano ad essi raccomandando che bisognava nominare un principe valoroso, onesto, morigerato, clemente e probo, e questi discorsi si facevano in molti crocchi, come sempre accade; ma ad un certo punto, quasi per un cenno divino, da ogni parte si levò un’acclamazione generale: «Probo Augusto, gli dèi ti salvino!». [5] Subito dopo ci fu un accorrere da ogni parte e venne innalzato

un palco di zolle erbose: egli fu proclamato imperatore e rivestito di un manto purpureo tolto ad una statua del tempio, e di lì ricondotto al Palazzo36, sebbene manifestasse la sua disapprovazione e si schermisse, ripetendo più volte: «Non vi conviene, o soldati, non potrà andarvi bene con me. Io non sono capace di blandirvi». [6] La sua prima lettera, inviata al prefetto del pretorio Capitone37, fu in questi termini: «Non ho mai desiderato l’imnere pero e l’ho accolto contro voglia. Non mi è consentito di disfarmi di questa odiosissima responsabilità. [7] Debbo recitare la parte che i soldati mi hanno imposto. Ti prego, Capitone – così possa tu con me godere del bene dello Stato – provvedi ai soldati viveri, provviste e tutto quanto è necessario in ogni località. Per quanto sta in me, se regolerai bene ogni cosa, non vorrò mai avere un altro prefetto». [8] I soldati di Floriano, appresa la notizia dell’elezione di Probo, uccisero costui38, che aveva arraffato l’impero quasi si fosse trattato di una successione ereditaria, ben sapendo che nessuno più degnamente di Probo poteva rivestire il potere. [9] Così, senza noie di sorta, gli fu conferito l’impero di tutto il mondo per giudizio unanime dell’esercito e del senato. [11, 1] E poiché abbiamo fatto cenno al senato, è opportuno conoscere che cosa egli abbia scritto al senato stesso e che cosa a sua volta l’illustrissimo ordine gli abbia risposto: [2] primo messaggio di Probo al senato: «Secondo ragione e giustizia, o senatori, lo scorso anno è avvenuto che le Clemenze Vostre diedero al mondo un imperatore39, e proprio uno del vostro ordine: ché voi siete i principi del mondo e sempre lo siete stati e lo sarete nei vostri discendenti. [3] E magari anche Floriano avesse voluto attendere ciò e non si fosse arrogato l’impero come si trattasse di un’eredità, così che fosse stata la vostra suprema autorità ad eleggere lui o qualcun altro. [4] Ma ora, poiché egli ha arraffato il potere, ci è stato conferito dai soldati il titolo di Augusto e inoltre da parte dei nostri accorti soldati egli ha ricevuto la punizione per l’usurpazione compiuta. Vi prego di valutare i miei meriti, mentre, da parte mia, sono pronto a compiere quanto le Clemenze Vostre mi ordineranno». [5] Ecco ora il senatoconsulto del 2 febbraio40, nel Tempio della Concordia41. Fra gli altri interventi: il console Elio Scorpiano42 disse: «Avete udito, o senatori, il messaggio di Aurelio Valerio Probo: che ve ne pare?». [6] Si ebbero allora queste acclamazioni: «Probo Augusto, gli dèi ti salvino. In passato degno, forte, giusto e valente generale, ora ottimo imperatore; condottiero esemplare, sovrano esemplare. Gli dèi ti salvino. [7] Difensore dello Stato, possa tu felicemente governare; maestro nell’arte militare, possa tu felicemente

governare; gli dèi ti custodiscano assieme ai tuoi. Anche il senato aveva già scelto te. Vieni dopo Tacito per età, ma in tutto il resto gli sei superiore. [8] Ti ringraziamo di aver assunto l’impero. Difendi noi, difendi lo Stato; opportunamente affidiamo a te chi tu già in passato hai salvato. [9] Tu sei il Francico, il Gotico, il Sarmatico, il Partico43, tu sei tutto. Anche prima d’ora sei sempre stato degno dell’impero, degno dei trionfi. Sii felice, governa felicemente!». [12, 1] Dopo ciò Manlio Staziano44, cui toccava allora prender la parola per primo, così si espresse: «Siano rese grazie, o senatori, agli dèi immortali, e, sopra tutti gli altri, a Giove Ottimo Massimo, che ci hanno dato un principe tale quale da sempre desideravamo. [2] Se riflettiamo bene, non dobbiamo più rimpiangere Aureliano, né Alessandro, né gli Antonini, né Traiano, né Claudio. In un solo principe sono state riunite tutte le virtù, la perizia in campo militare, la clemenza d’animo, una condotta di vita degna d’ogni rispetto, l’esemplarità nel governo dello Stato e l’eccellenza in ogni virtù. [3] E invero, qual è la parte del mondo che egli non abbia conosciuto vincendo? Sono buoni testimoni i Marmaridi, vinti sul suolo d’Africa, i Franchi, abbattuti nelle loro impraticabili paludi, i Germani e gli Alamanni, cacciati lontani dalle rive del Reno. [4] Che dire poi dei Sarmati, dei Goti, dei Parti, dei Persiani e di tutta la regione del Ponto? In ogni luogo rifulgono i segni del valore di Probo. [5] Sarebbe troppo lungo ricordare quanti re di grandi popoli ha posto in fuga, quanti condottieri ha ucciso di sua mano, di quante armi si è impadronito, quando era ancora un semplice privato. [6] Dei ringraziamenti tributatigli dagli imperatori precedenti sono prova le lettere inserite nei documenti ufficiali. Buoni dèi, quante volte egli fu decorato con onorificenze militari! Quali lodi si meritò da parte dei soldati! Ancora ragazzo ricevette il tribunato, e non aveva superato da molto l’adolescenza che gli fu affidato il comando di legioni. [7] Giove Ottimo Massimo, Giunone regina, e tu Minerva, sovrana di tutte le virtù, tu Concordia universale, e tu romana Vittoria, questo soltanto concedete al senato e al popolo romano, all’esercito, agli alleati e alle genti straniere: che egli abbia a governare così come ha militato! [8] Propongo dunque per lui, o senatori, interpretando i vostri voti concordi, il titolo di imperatore, l’appellativo di Cesare e quello di Augusto, e in aggiunta il potere proconsolare, il venerabile titolo di padre della patria, il pontificato massimo, il diritto di porre all’ordine del giorno fino a tre proposte45, la potestà tribunizia». Subito dopo si levò l’acclamazione: «Tutti ci associamo, tutti!». [13, 1] Appreso dunque questo senatoconsulto, egli, in un secondo

messaggio, concesse ai senatori la prerogativa di giudicare i ricorsi in appello contro le sentenze dei giudici maggiori, di nominare i proconsoli, di designare i funzionari dal novero degli ex consoli, di conferire ai governatori il diritto di amministrare la giustizia46, di ratificare, con decreti senatori proprii, le leggi che Probo emanava. [2] Fece poi subito punire in vario modo gli eventuali superstiti fra gli uccisori di Aureliano47, tuttavia con più mitezza e moderazione di quanto non avessero fatto prima l’esercito, e in seguito Tacito. [3] Successivamente punì anche coloro che avevano attentato alla vita di Tacito. Risparmiò i fautori di Floriano, giacché sembravano aver inteso seguire non un qualche tiranno, ma il fratello del loro principe. [4] Prese poi sotto il suo comando tutti gli eserciti di Europa, che avevano proclamato Floriano imperatore, per poi ucciderlo. [5] Presi questi provvedimenti, partì con un forte esercito alla volta delle Gallie48, le quali tutte, dopo l’uccisione di Postumo, erano state travagliate da varie sommosse, e alla morte di Aureliano erano cadute in potere dei Germani49. [6] Lì ebbe a combattere così grandi battaglie e con tale successo, che finì per ricuperare sessanta delle più rinomate città delle Gallie, strappandole ai barbari, e inoltre tutto il bottino del quale essi, al di là del valore materiale, andavano anche superbamente orgogliosi. [7] E mentre ormai essi si aggiravano sicuri lungo la nostra riva del Reno, anzi per tutte le Gallie, egli ne uccise circa quattrocentomila che avevano occupato il territorio romano, ricacciando gli altri al di là del fiume Nigro e dell’Alba50. [8] E strappò loro una quantità di bottino pari a quella che essi avevano sottratto ai Romani51. Di fronte alle città romane fece stanziare, in territorio barbarico52, avamposti con guarnigioni militari. [14, 1] Assegnò campi, granai, case e provviste a tutti questi uomini che aveva posto al di là del Reno, a quelli cioè che aveva dislocato a guardia del confine. [2] Né si cessò mai di combattere, ché ogni giorno gli venivano recate teste di barbari, ciascuna ricompensata con una moneta d’oro, finché nove re di diverse genti non vennero a prostrarsi ai piedi di Probo. [3] Ad essi egli impose in primo luogo la consegna di ostaggi – che furono subito dati –, poi di frumento, e infine anche di vacche e pecore. [4] Si dice che ordinasse loro piuttosto perentoriamente di non mettere più mano alle spade e di attendere, se avessero dovuto difendersi da qualcuno, i soccorsi romani. [5] Ma apparve chiaro che ciò non poteva avvenire se non si fosse esteso il confine romano e la Germania tutta non fosse diventata una provincia. [6] Furono poi presi provvedimenti severissimi – con l’approvazione degli stessi re barbari – nei

confronti di coloro che non avevano restituito lealmente il bottino. [7] Arruolò inoltre sedicimila reclute, che distribuì tutte per le varie province, dislocandole a gruppi di cinquanta o sessanta fra i vari reparti e i presidi di confine, affermando che, quando Roma si giova dell’apporto di ausiliari barbari, di questo si deve sentire l’effetto, ma non bisogna che si veda53. [15, 1] Sistemate dunque le cose in Gallia, inviò al senato questa lettera: «Ringrazio, o senatori, gli dèi immortali, poiché hanno confermato il vostro giudizio nei miei confronti. [2] La Germania è stata sottomessa in tutta la sua estensione, nove re di diversi popoli si sono prostrati supplici ai miei, anzi ai vostri piedi. Ormai tutti i barbari arano per voi, vi fanno da schiavi, e combattono contro le genti dell’interno54. [3] Decretate dunque, secondo la vostra tradizione, solenni funzioni di ringraziamento. Abbiamo infatti ucciso quattrocentomila nemici, sono stati messi a nostra disposizione sedicimila armati, settanta delle città più illustri sono state affrancate dalla schiavitù nemica e tutta la Gallia è stata completamente liberata. [4] Le corone d’oro che mi sono state offerte da tutte le città della Gallia, le ho dedicate, o senatori, alle Clemenze Vostre. Consacratele con le vostre mani a Giove Ottimo Massimo e a tutti gli altri dèi e dee immortali. [5] Il bottino è stato tutto ricuperato, e ne è stato fatto anche dell’altro, e più abbondante di quello che era stato in precedenza carpito. [6] Le terre di Gallia vengono arate dai buoi dei barbari e le pariglie germaniche offrono prigioniere il collo ai nostri agricoltori, i greggi di varie popolazioni pascolano per il nutrimento della nostra gente, i loro cavalli ormai vengono fatti riprodurre per rifornire la nostra cavalleria, i granai sono pieni di frumento barbarico. Che cosa si può chiedere di più? Lasciamo loro soltanto il suolo, tutti i loro beni sono nelle nostre mani. [7] Avremmo voluto, o senatori, nominare un nuovo governatore della Germania, ma abbiamo rimandato la cosa a quando la situazione sarà più conforme alle nostre attese. Riteniamo che ciò possa risultare utile allorché la provvidenza degli dèi avrà favorito ancora di più i nostri eserciti». [16, 1] Dopo ciò si diresse alla volta dell’Illirico55. Prima di giungervi sedò ogni moto nella Rezia, così da non lasciarvi neppure il sospetto di una qualsiasi minaccia. [2] Nell’Illirico assestò colpi tali ai Sarmati e a tutti gli altri popoli, che poté ricuperare quasi senza più colpo ferire tutti quanti i territori da essi predati. [3] Continuò poi il suo cammino passando per la Tracia, dove ricevette atti di sottomissione o amicizia da parte di tutte le popolazioni gotiche, atterrite dalla fama delle sue imprese e impressionate dall’aureola di potenza che circondava l’antico nome di Roma. [4] Ciò fatto, mosse alla volta

dell’Oriente, e nel corso del viaggio catturò e uccise Palfuerio56, un potentissimo brigante, liberando tutta l’Isauria e ristabilendo su quei popoli e quelle città l’autorità di Roma. [5] Riuscì a penetrare, facendo leva o sul terrore o sulla generosità, nei territori di quelle genti barbare che vivono presso gli Isauri. Dopo aver percorso appunto quei luoghi, ebbe ad osservare: «Da questi luoghi è più facile tener lontano i briganti che snidarli». [6] Donò ai veterani come loro possedimenti privati tutti i luoghi di diffìcile accesso, aggiungendo però la condizione che i loro figli, si intende quelli maschi, a partire dal diciottesimo anno d’età fossero arruolati nell’esercito, onde non apprendessero mai ad esercitare il brigantaggio. [17, 1] Pacificate così in ogni parte la Pamfilia e tutte le altre province adiacenti all’Isauria, piegò verso oriente. [2] Sottomise anche i Blemmi57 inviando a Roma prigionieri di quella popolazione, che con il loro aspetto sconcertante fecero grande impressione sul popolo. [3] Restituì inoltre all’autorità di Roma, dopo averle strappate alla schiavitù dei barbari, le città di Copte e Tolemaide58. [4] Dal che gli venne tanto prestigio che i Parti59 gli mandarono ambasciatori a riconoscere il loro timore e a chiedere la pace; ma egli, accoltili con atteggiamento alquanto sprezzante, li rimandò in patria più terrorizzati di prima. [5] Questa fu – a quanto viene riferito – la lettera da lui inviata al re Narseo60 nel respingere i doni che gli aveva mandato: «Mi meraviglio che tu mi abbia mandato una così piccola parte di tutto ciò che fra poco sarà mio. Tienti pure nel frattempo tutte le cose che ti stai godendo; ché, se voglio averle io, so come devo fare per venirne in possesso». [6] Ricevuta questa lettera Narseo cadde in preda al più grande terrore, tanto più avendo saputo che Copte e Tolemaide erano state liberate dai Blemmi, che le avevano sino ad allora occupate, e che coloro che in precedenza erano il terrore dei popoli erano stati completamente sterminati. [18, 1] Conclusa una pace coi Persiani tornò in Tracia e sistemò in territorio romano centomila Bastarni61, che si mantennero tutti fedeli ai patti. [2] Parimente egli aveva trasferito molti uomini anche di altre popolazioni62, cioè Gipedi, Grautungi63 e Vanduli, ma costoro vennero tutti meno alla parola data, e mentre Probo era impegnato a combattere gli usurpatori, presero a vagare per terra e per mare in quasi tutto il mondo, recando non poco danno al prestigio romano64. [3] Ma egli riportando, in diverse riprese, varie vittorie, riuscì a sopraffarli, così che pochi poterono tornare alle loro case, menando vanto di essere sfuggiti alle mani di Probo. Queste le campagne condotte da

Probo contro i barbari. [4] Ma ebbe a sostenere anche rivolte di usurpatori, di non lieve entità. Così, dopo battaglie di vario genere, con il suo ben noto valore, sconfìsse Saturnino65, che si era impossessato dell’impero d’Oriente. Una volta vinto costui, in Oriente si ebbe una tale tranquillità che, come si diceva tra il popolo, non si sentivano più neppure i topi ribelli. [5] In seguito, quando Proculo66 e Bonoso67 si arrogarono il potere ad Agrippina68 in Gallia, rivendicando ormai al proprio dominio tutta la Britannia69, la Spagna e le province della Gallia Bracata70, li sconfìsse, valendosi dell’aiuto delle genti barbare. [6] Ma perché tu non senta la mancanza di maggiori informazioni sul conto o di Saturnino o di Proculo o di Bonoso, ne inserirò le vite in un libro dedicato espressamente ad essi, riservandomi di dire su di loro poche cose, secondo l’opportunità, o meglio conforme a quanto richiesto dalle esigenze della narrazione. [7] Una cosa, dunque, bisogna sapere, che cioè i Germani tutti, allorquando Proculo chiese il loro aiuto, preferirono essere soggetti a Probo piuttosto che perire assieme a Bonoso e Proculo. [8] In grazia di ciò egli permise a tutti i Galli, gli Ispani e i Britanni di coltivare viti e produrre vino71. Egli stesso piantò viti di qualità scelta sul monte Alma72 presso Sirmio, nell’Illirico, dopo averne fatto dissodare il terreno dai soldati. [19, 1] Fece allestire per i Romani degli spettacoli, anche ragguardevoli, distribuendo inoltre dei donativi. [2] Celebrò il trionfo73 sui Germani e sui Blemmi facendo sfilare davanti schiere di tutte le popolazioni che contavano fino a cinquanta uomini ciascuna. Organizzò nel Circo una caccia di grandi proporzioni, nella quale tutte le prede dovevano essere appannaggio del popolo. [3] Lo spettacolo era articolato in questo modo: alberi robusti, divelti alle radici dai soldati, furono infissi in un’intelaiatura di travi unite insieme, distesa per ogni dove, su cui poi furono gettate zolle di terra, così che tutto il Circo, disseminato di piante come un bosco, si coprì di foglie, grazie a quell’insolita verzura. [4] Furono poi introdotti per ogni porta mille struzzi, mille cervi, mille cinghiali; poi daini, stambecchi, pecore selvatiche e quanti altri animali erbivori si erano potuti allevare o catturare. Infine fu dato libero accesso al popolo e ciascuno si portò via ciò che volle. [5] Un altro giorno, nell’Anfiteatro, presentò in una sola volta cento leoni criniti, che con i loro ruggiti levavano un fragore di tuono. [6] Ma tutti questi vennero abbattuti da tergo non offrendo certo, con la loro uccisione, un grande spettacolo; non c’era infatti in essi quell’impeto che solitamente è proprio delle belve allorché

escono fuori dalle gabbie; ne furono anzi uccisi a colpi di frecce molti che non volevano farsi sotto. [7] Vennero poi introdotti cento leopardi della Libia e successivamente cento della Siria; inoltre cento leonesse e trecento orsi insieme; ma lo spettacolo costituito da queste belve fu certamente più grandioso che appassionante. [8] Da ultimo vennero presentate trecento coppie di gladiatori, tra le quali combattevano molti Blemmi, che erano stati fatti sfilare nel trionfo, molti Germani e Sarmati, nonché alcuni predoni isaurici. [20, 1] Concluso ciò, mentre attraversava l’Illirico apprestandosi alla guerra contro la Persia74, fu ucciso a tradimento dai suoi soldati75. [2] Le cause che portarono alla sua uccisione furono queste: in primo luogo il fatto che non lasciava mai riposare i soldati, dato che realizzò molte opere valendosi del loro lavoro, affermando che il soldato deve guadagnarsi il pane che mangia. [3] A ciò aggiungeva un’affermazione dura per essi, se mai si avverasse – anche se sarebbe di beneficio allo Stato –, che cioè nel giro di breve tempo non vi sarebbe stato più bisogno di soldati. [4] Che cosa aveva in mente colui che diceva questo? Non aveva forse posto sotto i suoi piedi tutte le genti barbare e reso ormai romano tutto il mondo quanto è grande? [5] «Tra breve», disse, «non avremo più bisogno di soldati». Che altro è dire: ormai non vi sarà più alcun soldato romano? Fra poco lo Stato eserciterà sicuro la sua sovranità ovunque e sarà padrone di tutto, [6] il mondo non fabbricherà più armi, né provvederà ai rifornimenti militari, i buoi saranno posseduti solo per arare, i cavalli nasceranno per servire ad opere di pace, non vi saranno più guerre né prigionie, ma dappertutto la pace, le leggi romane, i nostri magistrati. [21, 1] Ma nel mio amore per questo eccellente imperatore mi sto lasciando trascinare più oltre di quanto non richieda il mio stile terra terra. Perciò aggiungerò solo la circostanza che più d’ogni altra ebbe ad affrettare il tragico destino di un tale uomo. [2] Essendo dunque arrivato a Sirmio e avendo intenzione di bonificare ed ampliare il territorio della sua città natale, mise al lavoro contemporaneamente molte migliaia di soldati al prosciugamento di una palude, onde creare un grande canale sfociante nella Sava76, grazie al quale avrebbe prosciugato dei terreni che avrebbero costituito una fonte di ricchezza per i Sirmiesi. [3] Esasperati da ciò i soldati, raggiuntolo mentre cercava rifugio in una torre ferrata che aveva fatto innalzare a grande altezza quale posto di vedetta, lo uccisero77, nel quinto anno78 del suo regno. [4] In seguito però tutti i soldati insieme gli eressero un grande sepolcro, innalzato su di un tumulo di terra, con un epitafìo inciso nel marmo che

suonava così: «Qui giace l’imperatore Probo, e probo davvero, vincitore di tutti i popoli barbari, vincitore anche degli usurpatori». [22, 1] Confrontando l’imperatore Probo con gli altri imperatori e con quasi tutti i condottieri romani, in ciò per cui risultarono forti, clementi, saggi, ammirevoli, mi rendo conto che quest’uomo o fu pari a loro o, se non ci si lascia fuorviare da un’invidia insensata, migliore. [2] Infatti, nei cinque anni del suo impero, condusse per tutto il mondo tante guerre, e per giunta personalmente, che suscita meraviglia come abbia potuto affrontare tutte quelle battaglie. [3] Compì di propria mano molte imprese, forgiò insigni generali. Dalla sua scuola infatti uscirono Caro, Diocleziano, Costanzo, Asclepiodoto79, Annibaliano80, Leonide, Cecropio, Pisoniano, Erenniano, Gaudioso, Ursiniano81 e tutti gli altri che i nostri padri ebbero ad e dei quali alcuni diventarono ottimi imperatori. [4] Confronti pure ora, chi vuole, i venti anni di Traiano e Adriano, confronti i quasi altrettanti anni del periodo degli Antonini. E che dovrei dire del regno di Augusto, la durata del cui impero82 diffìcilmente può essere raggiunta dalla vita di un uomo? Dei cattivi imperatori non voglio neppure parlare. Le parole stesse di Probo indicano chiarissimamente che cosa egli sperava di poter realizzare, quando disse che presto non ci sarebbe stato più bisogno di soldati. [23, 1] Egli poi, consapevole della propria forza, non temeva né i barbari né gli usurpatori. [2] E quale condizione felice si sarebbe avuta, se sotto quel sovrano non fossero più esistiti eserciti! Nessun abitante delle province avrebbe dovuto più pagare contributi in vettovaglie, non si sarebbero più erogati stipendi militari a danno dei fondi per le pubbliche elargizioni, lo Stato romano avrebbe posseduto ricchezze inesauribili, nulla più avrebbe dovuto spendere il principe, nessuna tassa avrebbe più avuto da pagare il possidente: davvero egli prometteva l’età dell’oro83. [3] Non vi sarebbero più stati accampamenti, in nessun luogo si sarebbe più dovuto udire il suono delle trombe, non vi sarebbe più stata necessità di fabbricare armi, tutta questa turba di combattenti che ora travaglia lo Stato con guerre civili sarebbe occupata ad arare, a studiare, ad apprendere le arti, a navigare. E aggiungi che nessuno più sarebbe stato ucciso in guerra. [4] O buoni dèi, in che lo Stato romano vi ha tanto offeso da togliergli un simile principe? [5] Procedano dunque ora coloro che preparano i soldati alle guerre civili, armino pure la mano dei fratelli ad uccidere i fratelli, esortino pure i figli a colpire i loro padri e neghino a Probo quella divinità che i nostri imperatori, nella loro saggezza, hanno voluto fosse immortalata nelle effigi, onorata nei templi e celebrata nei

giochi del Circo84. [24, 1] I discendenti di Probo85, o per disgusto o per timore di risentimenti nei loro confronti, fuggirono Roma e si stabilirono in Italia presso Verona e le zone del Benaco e del Lario. [2] Non posso comunque passare sotto silenzio il fatto che, allorché un ritratto di Probo fu colpito da un fulmine nella zona di Verona, di modo che ne risultò alterato il colore della sua pretesta, gli aruspici predissero che i discendenti di questa famiglia avrebbero goduto di tale rinomanza in senato, da arrivare a rivestire tutti le più alte cariche. [3] Sino a questo momento però non ne abbiamo visto nessuno: ma è chiaro che i posteri hanno dinanzi a sé l’eternità, e non un limite definito86. [4] Il senato accolse con grande dolore la morte di Probo e così pure il popolo. E quando fu annunziato che il nuovo imperatore era Caro, un uomo di valore, ma ben lontano dal possedere le virtù di Probo, tanto il senato che il popolo inorridirono pensando a suo figlio Carino, che aveva sempre condotto una vita dissipata; [5] tutti infatti guardavano con apprensione più che alle minori qualità del nuovo imperatore al suo pessimo erede. [6] Questo è quanto abbiamo potuto sapere sulla vita di Probo e che abbiamo ritenuto degno di ricordo [7] Ora in un altro breve libro parleremo di Firmo, Saturnino, Bonoso e Proculo. [8] Non sarebbe infatti stato bello mescolare una quadriga di usurpatori con un ottimo principe. In seguito, se vivo abbastanza, mi dedicherò a narrare le vite di Caro e dei suoi figli.

1. Cfr. SALLUSTIO, Cat., 8, 4 e GELLIO, III, 7, 19, è ove riportato un passo delle Origines di CATONE inerente al concetto qui espresso dal biografo. A parere di B. SCHMEIDLER, Die ShA und der heilige Hieronymus, «Philol. Wochenschr.», XLVII, 1927, col. 955-960 (l’argomento è stato più di recente ripreso e approfondito da J. STRAUB, Heidnische Geschichtsapologetik in der christlichen Spätantike. Untersuchungen über Zeit und Tendenz der HA, Bonn, 1963, pp. 81 segg.), vi sarebbe uno stretto rapporto fra il prologo della presente vita e quello della Vita sancti Hilarionis di S. GIROLAMO (risalente al 390 d. C.: si tratterebbe quindi di un argomento a favore della datazione tarda), dove pure si ha l’utilizzazione del passo di SALLUSTIO citato nonché il richiamo all’aneddoto sulla visita di Alessandro Magno alla tomba di Achille. 2. Per questo aneddoto cfr. CICERONE, Arch., 24; PLUTARCO, Alex., 15, 4; ARRIANO, Anab. Alex., I, 12, 1. 3. Anche questo, così come tutti i personaggi cui figurano dedicate le biografie attribuite a VOPISCO, ci è sconosciuto, a meno che non si tratti del Celsino che abbiamo visto nominato in Aurel., 44, 3. 4. M. Aurelius Probus Augustus (276-282 d. C.). A 11, 5, gli è attribuito inesattamente il nome di Valerius. Come già abbiamo avuto modo di vedere da quanto risulta anticipato nella biografia precedente di Tacito (cfr. 16, 6-8), Probo è l’imperatore «prediletto» dal biografo tra quelli di questo gruppo e la sua vita appare in tutto un vero e proprio panegirico; nel corso del suo regno avrebbe tra l’altro trovato conferma la «restaurazione senatoria» avviata col regno di Tacito. Peraltro, il carattere filosenatorio dell’impero di Probo attestato nella HA è stato negato dagli studiosi (cfr. in partic. G. VITUCCI, L’imperatore Probo, Roma, 1952, pp. 85-102); a parere di L. POLVERINI, La HA e la «restaurazione senatoria» di Probo, «Riv. fil. istr. cl.», CVI, 1978, pp. 414 segg., furono ragioni di «coerenza letteraria» ad imporre all’autore della HA, una volta elaborata ed esaltata la «restaurazione senatoria» di Tacito, di attribuire una conferma della stessa al successore – che si intendeva presentare in ottima luce –, tanto da giungere ad inventare per Probo una serie di misure filosenatorie. 5. A parere di T. D. BARNES, Three notes on the Vita Probi, «Class. Quarterly», XX, 1970, pp. 198 seg., in questo punto la HA mostrerebbe conoscenza del Breviarium di Rufio Festo (seconda metà del IV sec. d. C.) in cui, nella dedica all’imperatore Valente, viene espressa con altrettanta chiarezza l’antitesi fra eloquentia e res, verbosità e fedeltà ai fatti (per questo concetto nella HA cfr. anche Tyr. trig., 11, 6-7 e 33, 7-8). 6. Cfr. Aurel., 1, 7, n. 2; il trasferimento della Biblioteca Ulpia alle Terme di Diocleziano non ci è testimoniato da altre fonti. 7. La Domus Tiberiana (ricordata anche a Ant. Pius, 10, 4) sorgeva sulle pendici settentrionali del Palatino; la sua biblioteca è menzionata anche da GELLIO, XIII, 20, 1 e FRONTONE, Ep. ad M. Caes., IV, 5. 8. Probabilmente faceva parte del Foro di Traiano. 9. L’ephemeris corrispondeva al nostro giornale o diario: era cioè il libro sul quale si annotavano gli avvenimenti di ogni singolo giorno. 10. Altrimenti sconosciuto e verosimilmente inventato; cfr. R. SYME, Bogus Authors, in BHAC, 197274, Bonn, 1976, p. 318. 11. Si allude certamente a Lucio Cornelio Scipione Asiageno, fratello dell’Africano; era il generale a capo dell’esercito romano alla battaglia di Magnesia del 190 a. C. 12. Diffìcile stabilire a quale o a quali dei numerosi personaggi chiamati Publio Cornelio Scipione Nasica ci si riferisca qui in particolare; forse al console del 191 a. C., che venne dichiarato dal senato il miglior uomo in Roma, e al figlio, che fu console una trentina d’anni più tardi, e conquistò la Dalmazia. 13. Cfr. Aurel., 2, 1, n. 2. 14. Cfr. Al. Sev., 48, 6, n. 2.

15. Cfr. Al. Sev., 37, 9, n. 6. 16. Cfr. Aurel., 3, 1, n. 4. 17. A parere di A. GIARDINA, Claudii e Probi, «Helikon», XV-XVII, 1975-76, pp. 308 segg., il fatto che la HA presenti la notizia della pretesa parentela fra Claudio e Probo come dubbia (cfr. nos in medio relinquemus) potrebbe costituire un elemento polemico nei confronti della famiglia dei Probi e del suo più illustre rappresentante Sesto Petronio Probo (console nel 371 d. C.; cfr. 24, 1-3) il quale, come rivelato dal gentilizio Claudius attestato in una nuova iscrizione capuana, teneva particolarmente a sottolineare la sua discendenza anche dall’imperatore da cui avrebbe avuto origine la casa costantiniana. 18. Altrimenti sconosciuto; si tratta forse di una forma distorta del nome armeno Artabasdes; cfr. Val., 3, 1. 19. Altrimenti sconosciuto. 20. Cfr. Hadr., 10, 6. 21. Cfr. Aurel., 9, 7, n. 2. 22. Cfr. Aurel., 13, 3, n. 5. 23. Cfr. Aurel., 13, 3, n. 2. 24. Cfr. Aurel., 13, 3 e M. Ant., 12, 8, n. 2. 25. Altrimenti sconosciuto. 26. Cfr. Aurel., 11, 4, n. 2. 27. Il riferimento è forse a Postumo o Aureolo. 28. Da quanto ci risulta, mentre Tacito rivestì il consolato nel 273 e nel 276 d. C., Probo non ebbe a ricoprire tale carica fino al 277. 29. Cioè a dire il trionfo, dato che – come già vedemmo (cfr. Gord., 4, 4, n. 4) – la toga palmata veniva fatta indossare ai generali che lo celebravano. 30. Cfr. Ant. Pius, 5, 5, n. 6. 31. Gli abitanti della Marmarica (la regione situata fra Egitto e Cirenaica). Dopo che A. STEIN, Tenagino Probus, «Klio», XXIX, 1936, pp. 237 segg., n. 1, ha dimostrato che la campagna contro i Marmaridi fu condotta da un altro Probo, il cui nome esatto doveva essere Tenagino Probus o Probatus, morto al tempo di Claudio II in Egitto, risultava evidentemente infirmata l’attendibilità delle notizie che si riferiscono a presunte imprese di Probo prima della sua ascesa al trono. Cfr. anche Claud., 11, 1-2, n. 7. 32. Altrimenti sconosciuto; cfr. R. SYME, Emperors and Biography, Oxford, 1971, pp. 9, 140. 33. Cfr. J. SCHWARTZ, L’empereur Probus et l’Égypte, «Chronique d’Égypte», XLV, 1970, pp. 381 segg. 34. Probabilmente si accenna qui ai fatti del 271 d. C., cioè alla campagna di Aureliano contro Palmira. Invece di Odenato e Cleopatra bisognerà intendere Vaballato e Zenobia. 35. Ciò avvenne nella tarda primavera o nell’estate del 276 d. C. 36. Cfr. Sev., 22, 7, n. 2. 37. Altrimenti sconosciuto. 38. Cfr. Tac, 14, 2, n. 11. 39. Tacito. 40. La data è chiaramente errata, dato che Probo fu proclamato imperatore dai soldati nell’estate del 276 d. C. Si noti, del resto, che questa data era stata ancora citata – altrettanto erroneamente – anche in precedenza (cfr. Aurel., 41, 3), come quella della seduta senatoria in cui fu annunziata la morte di Aureliano. 41. Cfr. Pert., 4, 9, n. 4. 42. Non ci è attestato un console con questo nome per l’anno 276 d. C. 43. Di tutti questi nomi Probo risulta aver realmente portato solo quello di Gotico, probabilmente in relazione ad una campagna condotta verso l’autunno del 276 d. C., portando a termine quella iniziata da

Tacito e Floriano contro i Goti d’Asia Minore. 44. Altrimenti sconosciuto. 45. Cfr. M. Ant., 6, 6, n. 1. 46. In realtà i governatori provinciali possedevano da sempre anche la funzione di giudici. 47. ZOSIMO (I, 65) racconta che Probo invitò quelli che erano ancora vivi ad un banchetto, dove li fece uccidere. 48. Nel 277 d. C. 49. Franchi al nord, Lugi e Alamanni al sud. 50. Rispettivamente l’odierno fiume Neckar e la regione montagnosa della Germania meridionale chiamata Alb; sull’identificazione cfr. W. ENSSLIN, Niger und Alba in ShA Vita Probi, 13, 7, «Wiss. Zeitschr. der Karl-Marx-Univ. Leipzig», III, 1953-54, Gesellschafts- & Sprachwiss. Reihe 2-3, pp. 259 segg. 51. ZOSIMO (I, 67-68) ricorda anche una campagna contro Burgundi e Vandali, omessa nella nostra Vita; peraltro questa potrebbe essere avvenuta quando Probo era già passato ad occuparsi dei problemi della Rezia: l’ordine degli avvenimenti, infatti, non è determinabile con sicurezza. 52. Sulla riva destra del Reno: lì avrebbe dovuto essere la nuova linea di confine. 53. Sui problemi dei barbari e delle loro relazioni con l’impero, cfr. J. BURIAN, Der Gegensatz zwischen Rom und den Barbaren in der HA, «Eirene», XV, 1977, pp. 55 segg. (in partic. 86 segg.). 54. Popoli «interni» in relazione al territorio germanico, cioè più lontani dal confine con quello romano. 55. Nel 278 o 279 d. C. 56. Probabilmente da identificare con il brigante isaurico Lidio di cui ci parla ZOSIMO (I, 69-70), il quale, impadronitosi di Cremna (nella Pisidia, in Asia Minore), la tenne sino alla morte, avvenuta – dopo una lunga e disperata resistenza all’assedio dei Romani – ad opera di un suo soldato. 57. La popolazione nubica già sconfitta da Aureliano (cfr. Aurel., 33, 4); dopo la sua morte si erano nuovamente sollevati invadendo l’Alto Egitto, e furono sconfitti dai generali di Probo (cfr. ZOSIMO, I, 71, 1). Rimane incerto se Probo abbia partecipato personalmente a tale campagna. 58. Entrambe nell’Alto Egitto (oggi Coft e Menschiye). 59. Cioè i Persiani. 60. In realtà a quel tempo il sovrano persiano era Wahram II (276-293 d. C.), mentre un Narses regnò dal 293 al 302 d. C. Questo Narseus potrebbe essere un personaggio inventato cui l’autore avrebbe attribuito il nome di un re persiano sconfitto da Galerio: cfr. T. D. BARNES, Some Persons in the HA, «Phoenix», XXVI, 1972, p. 164. 61. Popolazione probabilmente germanica stanziata originariamente dalle sorgenti della Vistola sino alle regioni poste a sud della foce del Danubio. Essi furono da Probo trasferiti a nord della foce del fiume. 62. A parere di M. SALAMON, La politique d’établissement des peuples barbares dans les provinces romaines au temps de l’empereur Probus (276-282 d.C.), Prace Nauk. Uniw. Slaskiego N° 18, Prace hist. II, Katowice, 1971 [in polacco con riass. in francese], pp. 95 segg., dal confronto con le altre fonti si può dedurre che la notizia qui riportata relativa ai trasferimenti in Tracia è da ricollegare a una politica generale di stabilimento dei barbari ai confini dell’impero, mirante fondamentalmente ad allontanare il più possibile queste popolazioni dai loro paesi d’origine. 63. Due tribù gotiche, come forse i Vanduli citati subito dopo (ma la lezione è incerta). 64. Forse il biografo ha qui generalizzato un episodio di cui ci parla ZOSIMO (I, 71, 2) a proposito di una colonia di Franchi, stanziata da Probo alla foce del Danubio, i quali, costruite delle navi, saccheggiarono le coste della Grecia nonché la Sicilia e l’Africa settentrionale (cfr. MAGIE, III, p. 372, n. 2). 65. Cfr. Quadr. tyr., 7-11. 66. Cfr. Quadr. tyr., 12-13.

67. Cfr. Quadr. tyr., 14-15. 68. L’attuale Colonia; cfr. Tyr. trig., 6, 3, n. 3. 69. La rivolta in Britannia, però, non aveva connessione con quella di Proculo né di Bonoso, ma era stato il gesto isolato di un governatore locale (cfr. ZONARA, XII, 29). 70. Denominazione della Gallia Narbonese, collegata al fatto che quelle popolazioni indossavano una specie di larghe brache o calzoni; cfr. PLINIO, Nat. hist., III, 31. 71. La medesima notizia è riportata anche da AURELIO VITTORE, Caes., 37, 3, EUTROPIO, IX, 17, 2 e GEROLAMO, Chron. a. D. 280. A Parere di T. D. BARNES, Three notes, cit., pp. 202 seg., la HA dipenderebbe qui da una fonte storica perduta usata anche sia da AURELIO VITTORE che EUTROPIO, dalla quale avrebbe tratto la menzione della Spagna e della Britannia – quali regioni oggetto delle misure in questione – mancante negli altri autori. Come vedemmo (cfr. Aurel., 48, 2), un tentativo di promuovere la coltivazione della vite – limitatamente all’Italia – era già stato fatto da Aureliano. 72. Si tratta forse dell’odierna catena del Fruška-Gora, a nord della Sava, nelle vicinanze di Mitrovitz (che è appunto l’antica Sirmio). 73. Verso la fine del 281 d. C. 74. Evidentemente la pace di cui si parlava a 18, 1, era una misura temporanea, probabilmente una tacita tregua, a meno che non si tratti di un’invenzione del biografo (nel parallelo racconto di ZOSIMO, I, 71, 1, infatti, non se ne fa menzione). 75. Nell’autunno del 282 d. C. a Sirmio. 76. Un affluente del Danubio. 77. Così anche AURELIO VITTORE (Caes., 37, 4) e EUTROPIO (IX, 17, 2). Diversa invece la versione della morte di Probo data da ZOSIMO (I, 71, 4-5) e ZONARA (XII, 29), secondo la quale vi sarebbe stato un sollevamento militare nel Norico che avrebbe portato alla proclamazione quale imperatore di Caro. Le truppe inviate da Probo a soffocare la rivolta si sarebbero a loro volta ribellate – seguite poi anche dal resto dell’esercito –, sicché l’imperatore, rimasto senza difesa, sarebbe caduto in mano dei soldati ammutinatisi e da essi ucciso. Questa versione, priva com’è di qualsiasi intento celebrativo, appare sostanzialmente più credibile, ma forse le due tradizioni non sono da considerarsi inconciliabili, in quanto non si può escludere l’eventualità che si siano avuti nel medesimo tempo due sollevamenti in luoghi diversi, l’uno a Sirmio, l’altro nel Norico. 78. ZOSIMO (I, 71, 5) parla di sei anni e quattro mesi, il che appare più vicino alla verità, considerando che il suo regno era iniziato tra primavera ed estate del 276 d. C. 79. Cfr. Aurel., 44, 2. 80. Afranio Annibaliano fu console, assieme ad Asclepiodoto, nel 292 d. C., e prefetto del pretorio nel 296 d. C. 81. A parte Erenniano, forse identificabile col Verconnio Erenniano prefetto di Diocleziano (cfr. Aurel., 44, 2), questi personaggi non ci sono altrimenti conosciuti. 82. Quarantaquattro anni (30 a. C. - 14 d. C). 83. Cfr. I. HAHN, Das «goldene Jahrhundert» des Aurelius Probus, «Klio», LIX, 1977, pp. 323 segg., a parere del quale la rappresentazione, qui configurata dall’autore, del «secolo d’oro» che avrebbe potuto trovare espressione nel regno di Probo, è da lui sentita come qualcosa di razionale, immanente e realizzabile, e corrispondeva alle concrete aspirazioni dell’aristocrazia romana della fine del IV sec. d. C. 84. Nel Panegirico di Costanzo Probo è chiamato divus (cfr. Paneg., VIII, 18, 3). 85. Cfr. Tyr. trig., 14, 3, n. 4. 86. Vari studiosi hanno visto qui un’allusione a Sesto Petronio Probo, console nel 371 d. C., traendone un argomento a favore della datazione tarda dell’opera; cfr. supra, n. 5 a 3, 3.

XXIX. FIRMUS SATURNINUS PROCULUS ET BONOSUS 〈i. e. QUADRIGAE TYRANNORUM〉 〈FLAVI VOPISCI SYRACUSII〉

FIRMO, SATURNINO, PROCULO E BONOSO ovvero: LA QUADRIGA DEI TIRANNI di FLAVIO VOPISCO DI SIRACUSA

[1, 1] Minusculos tyrannos scio plerosque tacuisse aut breviter praeterisse1. Nam et Suetonius Tranquillus, emendatissimus et candidissimus scriptor, Antonium, Vindicem2 tacuit, contentus eo quod eos cursim perstrinxerat, et Marius Maximus, qui Avidium Marci temporibus, Albinum et Nigrum Severi non suis propriis libris sed alienis innexuit. [2] Et de Suetonio non miramur, cui familiare fuit amare brevitatem. Quid Marius Maximus, homo omnium verbosissimus, qui et mythistoricis se voluminibus inplicavit, num ad istam descriptionem curamque descendit? [3] Atque contra Trebellius Pollio ea fuit diligentia, ea cura in edendis bonis malisque principibus, ut etiam triginta tyrannos uno breviter libro concluderet, qui Valeriani et Gallieni nec multo superiorum aut inferiorum principum fuere temporibus. [4] Quare [etiam] 〈nobis〉 quoque etiamsi 〈non tanta〉, non tamen minima fuerit cura, ut dictis Aureliano, Tacito et Floriano, Probo etiam, magno ac singulari principe, cum dicendi essent Carus, Carinus et Numerianus, de Saturnino, Bonoso et Proculo et Firmo, qui sub Aureliano fuerant3, non taceremus. [2, 1] Scis enim, mi Basse4, quanta nobis contentio proxime fuerit cum amatore historiarum Marco Fonteio5, cum ille diceret Firmum, qui Aureliani temporibus Aegyptum occupaverat, latrunculum fuisse, non principem, contra ego mecumque Rufius Celsus et Ceionius Iulianus et Fabius Sossianus contenderent dicentes illum et purpura usum et percussa moneta6 Augustum esse vocitatum, cum etiam nummos eius Severus Archontius protulit, de Graecis autem Aegyptiisque libris convicit illum αὐτoϰράτoρα in edictis suis esse vocatum. [2] Et illi quidem adversum nos contendenti haec sola ratio fuit, quod dicebat Aurelianum in edicto suo non scripsisse, quod tyrannum occidisset, sed quod latrunculum quendam a re p. removisset; proinde quasi digne tanti princeps nominis debuerit tyrannum appellare hominem tenebrarium aut non semper latrones vocitaverint magni principes eos, quos invadentes purpuras necaverunt. [3] Ipse ego in Aureliani vita7, priusquam de Firmo cuncta cognoscerem, Firmum non inter purpuratos habui, sed quasi quendam latronem; quod idcirco dixi, ne quis me oblitum aestimaret mei. [4] Sed ne volumini, quod brevissimum promisi, multa conectam, veniamus ad Firmum. [3, 1] Firmo8 patria Seleucia9 fuit, tametsi plerique Graecorum alteram tradunt, ignari eo tempore ipso tres fuisse Firmos, quorum unus praefectus Aegypti, alter dux limitis Africani10 idemque pro consule, tertius iste Zenobiae

amicus ac socius, qui Alexandriam Aegyptiorum incitatus furore pervasit et quem Aurelianus solita virtutum suarum felicitate contrivit. [2] De huius divitiis multa dicuntur. Nam et vitreis quadra-turis bitumine aliisque medicamentis insertis domum instruxisse perhibetur et tantum habuisse de chartis, ut publice saepe diceret exercitum se alere posse papyro et glutine. [3] Idem et cum Blemmyis societatem maximam tenuit et cum Saracenis. Naves quoque ad Indos negotiatorias saepe misit. [4] Ipse quoque [ipse perhibetur] dicitur habuisse duos dentes elephanti pedum denum, e quibus Aurelianus sellam constituerat facere additis aliis duobus, in qua Iuppiter aureus et gemmatus sederet cum specie praetextae ponendus in templo Solis11, Appenninis sortibus12 aditis, quem appellari voluerat Iovem Consulem vel Consulentem13. [5] Sed eosdem dentes postea Carinus mulieri cuidam dono dedit, quae lectum ex his fecisse narratur. 〈Quam〉, quia et nunc scitur et sciri apud posteros nihil proderit, taceo. [6] Ita donum Indicum, Iovi Optimo Maximo consecratum, per deterrimum principem et ministerium libidinis factum videtur 〈et〉 pretium. [4, 1] Fuit tamen Firmus statura ingenti, oculis foris eminentibus, capillo crispo, fronte vulnerata, vultu nigriore, reliqua parte corporis candidus sed pilosus atque hispidus, ita ut eum plerique Cyclopem vocarent. [2] Carne multa vescebatur, struthionem ad diem comedisse fertur. Vini non multum bibit, aquae plurimum, mente firmissimus, nervis robustissimus, ita ut Tritanum14 vinceret, cuius Varro meminit. [3] Nam et incudem superpositam pectori constanter aliis tundentibus pertulit, cum ipse reclinis ac resupinus et curvatus in manus penderet potius quam iaceret. Fuit tamen ei contentio cum Aureliani ducibus ad bibendum, si quando eum temptare voluissent. [4] Nam quidam Burburus nomine de numero vexillariorum, notissimus potator, cum ad bibendum eundem provocasset, situlas duas plenas mero duxit et toto postea convivio sobrius fuit; et cum ei Burburus diceret: «quare non faeces bibisti?», respondit ille: «stulte, terra non bibitur». Levia persequimur, cum maiora dicenda sint. [5, 1] Hic ergo contra Aurelianum sumpsit imperium15 ad defendendas partes, quae supererant, Zenobiae. Sed Aureliano de Thraciis redeunte superatus est. [2] Multi dicunt laqueo eum vitam finisse: aliud edictis suis ostendit 〈Aurelianus〉. Namque cum eum vicisset, tale edictum Romae proponi iussit: [3] «amantissimo sui populo Romano Aurelianus Augustus salutem dicit. Pacato undique gentium toto, qua late patet, orbe terrarum Firmum etiam latronem Aegyptium, barbaricis motibus aestuantem et feminei

propudii reliquias colligentem, ne plurimum loquar, fugavimus, obsedimus, cruciavimus et occidimus. [4] Nihil est, Romulei Quirites, quod timere possitis. Canon Aegypti, qui suspensus per latronem inprobum fuerat, integer veniet. [5] Sit vobis cum senatu concordia, cum equestri ordine amicitia, cum praetorianis adfectio. Ego efficiam, ne sit aliqua sollicitudo Romana. [6] Vacate ludis, vacate circensibus. Nos publicae necessitates teneant, vos occupent voluptates. Quare sanctissimi Quirites» et reliqua. [6, 1] Haec nos de Firmo cognovisse scire debuisti, sed digna memoratu. [2] Nam ea, quae de illo Aurelius Festivus16, libertus Aureliani, singillatim rettulit, si vis cognoscere, eundem oportet legas, maxime cum dicat Firmum eundem inter crocodillos, unctum crocodillorum adipibus, natasse et elephantum rexisse et hippopotamo sedisse et sedentem ingentibus strutionibus vectum esse et quasi volitasse. [3] Sed haec scire quid prodest? Cum et Livius et Sallustius taceant res leves de his, quorum vitas arripuerunt. [4] Non enim scimus, quales mulos Clodius17 habuerit aut mulas Titus Annius Milo18, aut utrum Tusco equo sederit Catilina19 an Sardo, vel quali clamide Pompeius usus fuerit, purpura. [5] Quare finem de Firmo faciemus venientes ad Saturninum, qui contra Probum imperium sibimet in orientis partibus vindicavit. [7, 1] Saturninus20 oriundo fuit Gallus, ex gente hominum inquietissima et avida semper vel faciendi principis vel imperii21. [2] Huic inter ceteros duces, quod vere summus vir esset, certe videretur, Aurelianus limitis orientalis ducatum dedit, sapienter praecipiens, ne umquam Aegyptum videret. [3] Cogitabat enim, quantum videmus, vir prudentissimus Gallorum naturam et verebatur, ne, si praeturbidam civitatem vidisset, quo eum natura ducebat, eo societate quoque hominum duceretur. [4] Sunt enim Aegyptii22, ut satis nosti, vani, ventosi, furibundi, iactantes, iniuriosi atque adeo varii, liberi, novarum rerum usque ad cantilenas publicas cupientes, versificatores, epigrammatarii, mathematici, haruspices, medici. [5] Nam 〈in〉 eis Christiani, Samaritae et quibus praesentia semper tempora cum enormi libertate displiceant. [6] Ac ne quis mihi Aegyptiorum irascatur et meum esse credat, quod in litteras rettuli, Hadriani epistolam23 promam ex libris Flegontis24 liberti eius proditam, ex qua penitus Aegyptiorum vita detegitur. [8, 1] «Hadrianus Augustus Serviano25 consuli salutem. Aegyptum, quam mihi laudabas, Serviane carissime, totam didici levem, pendulam et ad omnia famae momenta volitantem. [2] Illic qui Serapem26 colunt, Christiani sunt et

devoti sunt Serapi, qui se Christi episcopos dicunt, [3] nemo illic archisynagogus Iudaeorum, nemo Samarites, nemo Christianorum presbyter non mathematicus, non haruspex, non aliptes. [4] Ipse ille patriarcha cum Aegyptum venerit, ab aliis Serapidem adorare, ab aliis cogitur Christum. [5] Genus hominum seditiosissimum, vanissimum, iniuriosissimum, civitas opulenta, dives, fecunda, in qua nemo vivat otiosus. [6] Alii vitrum conflant, aliis chartha confìcitur, omnes certe 〈peritiores〉 [linifiones] cuiuscumque artis et 〈linifìones〉 videntur; et habent podagrosi, quod agant, habent praecisi, quod agant, habent caeci, quod faciant, ne chiragrici quidem apud eos otiosi vivunt. [7] Unus illis deus nummus est. Hunc Christiani, hunc Iudaei, hunc omnes venerantur et gentes. Et utinam melius esset morata civitas, digna profecto, quae pro sui fecunditate, quae pro sui magnitudine totius Aegypti teneat principatum. [8] Huic ego cuncta concessi, vetera privilegia reddidi, nova sic addidi, ut praesenti gratias agerent. Denique ut primum inde discessi, et in filium meum Verum27 multa dixerunt, et de Antinoo28 quae dixerint, comperisse te credo. [9] Nihil illis opto, nisi ut suis pullis alantur, quos quem ad modum fecundant, pudet dicere29. [10] Calices tibi allassontes versicoloris transmisi, quos mihi sacerdos templi obtulit, tibi et sorori meae specialiter dedicatos, quos tu velim festis diebus conviviis adhibeas. Caveas tamen, ne his Africanus30 noster indulgenter utatur»31. [9, 1] Haec ergo cogitans de Aegyptiis Aurelianus iusserat, ne Saturninus Aegyptum videret, et mente quidem divina. Nam ut primum Aegyptii magnam potestatem ad se venisse viderunt, statim clamarunt: «Saturnine Auguste, dii te servent!». [2] Et ille quidem, quod negari non potest, vir sapiens de Alexandrina civitate mox fugit atque ad Palaestinam rediit. [3] Ibi tamen cum cogitare coepisset tutum sibi non esse, si privatus viveret, deposita purpura ex simulacro Veneris cyclade uxoria militibus circumstantibus amictus et adoratus est. [4] Avum meum32 saepe dicentem audivi se interfuisse, cum ille adoraretur. [5] «Flebat», inquit, «et dicebat: ‘necessarium, si non adroganter dicam, res p. virum perdidit. Ego certe instauravi Gallias, ego a Mauris possessam Africam reddidi, ego Hispanias pacavi. Sed quid prodest? Omnia haec adfectato semel honore perierunt’». [10, 1] Et cum eum animarent vel ad vitam vel ad imperium, qui amicuerunt purpuram, in haec verba disseruit: [2] «nescitis, amici, quid mali sit imperare. Gladii saeta pendentes cervicibus inminent, hastae undique, undique spicula. Ipsi custodes timentur, ipsi comites formidantur. Non cibus pro voluptate, non iter pro auctoritate, non bella pro iudicio, non arma pro

studio. [3] Adde, quod omnis aetas in imperio reprehenditur: senex est quispiam: inhabilis videtur; alius iuvenis: ardet furore. Iam quid amabilem omnibus Probum dico? Cui 〈cum〉 me aemulum esse cupitis, cui libens cedo et cuius esse dux cupio, in necessitatem mortis me trahitis. Habeo solacium mortis: solus perire non potero». [4] Marcus Salvidienus33 hanc ipsius orationem vere fuisse dicit, et fuit re vera non parum litteratus. Nam et in Africa rhetori operam dederat, Romae frequentaverat pergulas magistrales. [11, 1] Et ne longius progrediar, dicendum est, quod praecipue ad hunc pertinet, errare quosdam et putare hunc esse Saturninum, qui Gallieni temporibus imperium occupavit34, cum is longe alius sit et [a] Probo paene nolente sit occisus. [2] Fertur autem Probus et clementes ad eum litteras saepe misisse et veniam esse pollicitum, sed milites, qui cum eo fuerant, non credidisse. [3] Obsessum denique in castro quodam ab his, quos Probus miserat, invito Probo esse iugulatum.35 [4] Longum est frivola quaeque conectere, odiosum dicere, quali statura fuerit, quo corpore, quo decore, quid biberit, quid comederit, ab aliis ista dicantur, quae prope ad exemplum nihil prosunt. Nos ad ea, quae sunt dicenda, redeamus. [12, 1] Proculo36 patria Albingauni fuere, positi in Alpibus maritimis. Domi nobilis sed maioribus latrocinantibus atque adeo pecore ac servis et his rebus, quas abduxerat, satis dives. [2] Fertur denique eo tempore, quo sumpsit imperium, duo milia servorum suorum armasse. [3] Huic uxor virago, quae illum in hanc praecipitavit dementiam, nomine Samso, quod ei postea inditum est, nam antea Vituriga nominata est. [4] Filius Herennianus, quem et ipsum, si quinquennium implesset, ita enim loquebatur, ditasset imperio. [5] Homo, quod negari non potest… e idemque fortissimus, ipse quoque latrociniis adsuetus, qui tamen armatam semper egerit vitam. Nam et multis legionibus tribunus praefuit et fortia edidit facta. [6] Et quoniam minima quaeque iocunda sunt atque habent aliquid gratiae cum leguntur, tacendum non est, quod et ipse gloriatur in quadam sua epistola, quam ipsam melius est ponere quam de ea plurimum dicere: [7] «Proculus Maeciano37 adfini salutem dicit. Centum ex Sarmatia virgines cepi. Ex his una nocte decem inivi; omnes tamen, quod in me erat, mulieres intra dies quindecim reddidi». [8] Gloriatur, ut vides, rem ineptam et satis libidinosam atque inter fortes se haberi credit, si criminum densitate coalescat. [13, 1] Hic tamen cum etiam post honores militares [cum] se inprobe libidinose, tamen fortiter gereret, hortantibus Lugdunensibus, qui et ab

Aureliano38 graviter contusi videbantur et Probum vehementissime pertimescebant, in imperium vocitatus est, ludo paene ac ioco, ut Onesimus39 dicit, quod quidem apud nullum alium repperisse me scio. [2] Nam cum in quodam convivio ad latrunculos40 luderetur atque ipse decies imperator exisset, quidam non ignobilis scurra «ave» inquit, «Auguste» adlataque lana purpurea umeros eius vinxit eumque adoravit; timor inde consciorum atque inde iam exercitus temptatio et imperii. [3] Non nihilum tamen Gallis profuit. Nam Alamannos, qui tunc adhuc Germani dicebantur, non sine gloriae splendore contrivit, numquam aliter quam latrocinandi pugnans modo. [4] Hunc tamen Probus fugatum usque ad ultimas terras et cupientem in Francorum auxilium venire, a quibus originem se trahere ipse dicebat, ipsis prodentibus Francis, quibus familiare est ridendo fidem frangere, vicit et interemit. [5] Posteri eius etiam nunc apud Albingaunos agunt, qui ioco solent dicere sibi non placere esse vel principes vel latrones. [6] Haec digna memoratu de Proculo didicisse me memini. Veniamus ad Bonosum, de quo multo minora condidi. [14, 1] Bonosus41 domo Hispaniensi fuit, origine Brittannus, Galla tamen matre, ut ipse dicebat, rhetoris filius, ut ab aliis comperi, paedagogi litterarii. Parvulus patrem amisit atque a matre fortissima educatus litterarum nihil didicit. [2] Militavit primum inter ordinarios, deinde inter equites; duxit ordines, tribunatus egit, dux limitis Raetici fuit, bibit, quantum hominum nemo. [3] De hoc Aurelianus saepe dicebat: «non ut vivat, natus est, sed ut bibat». Quem quidem diu in honore habuit causa militiae. [4] Nam si quando legati barbarorum undecumque gentium venissent, ipsi propinabantur, ut eos inebriaret atque ab his per vinum cuncta cognosceret. Ipse quantumlibet bibisset, semper securus et sobrius42 et, ut Onesimus dicit43 scriptor vitae Probi, adhuc in vino prudentior. [5] Habuit praeterea rem mirabilem, ut quantum bibisset, tantum mingeret, neque umquam eius aut pectus aut venter aut vesica gravaretur. [15, 1] Hic idem, cum quodam tempore in Reno Romanas lusorias Germani incendissent, timore ne poenas daret, sumpsit imperium idque diutius tenuit quam merebatur. [2] Nam longo gravique certamine a Probo superatus laqueo vitam finivit, cum quidem iocus exstitit amphoram pendere, non hominem. [3] Filios duos reliquit, quibus ambobus Probus pepercit, uxore quoque eius in honore habita et usque ad mortem salario praestito. [4] Fuisse enim dicitur, ut et avus meus44 dicebat, femina singularis exempli et familiae

nobilis, gentis tamen Gothicae; quam illi Aurelianus uxorem idcirco dederat, ut per eum a Gothis cuncta cognosceret. [5] Erat enim illa virgo regalis. Exstant litterae ad legatum Thraciarum scriptae de his nuptiis et donis, quae Aurelianus Bonoso duci nuptiarum causa {dari} iussit, quas ego inserui: [6] «Aurelianus Augustus Gallonio Avito salutem. Superioribus litteris scripseram, ut optimates Gothicas aput Perinthum45 conlocares, decretis salariis, non ut singulae acciperent, sed ut septem simul unum convivium haberent. Cum enim divisae accipiunt, et illae parum sumunt, et res p. plurimum perdit. [7] Nunc tamen, quoniam placuit Bonoso Hunilam dari, dabis ei iuxta brevem infra scriptum omnia, quae praecipimus; sumptu etiam publico nuptias celebrabis». [8] Brevis munerum fuit: «tunicas palliolatas ianthinas subsericas, tunicam auro clavatam subsericam librilem unam, interulas dilores duas et reliqua, quae matronae conveniunt. Ipsi dabis aureos Philippeos centum, argenteos Antoninianos mille, aeris sestertium decies». [9] Haec me legisse teneo de Bonoso. Et potui quidem horum vitam praeterire, quos nemo quaerebat, attamen, ne quid fìdei deesset, etiam de his, quae didiceram, intimanda curavi. [10] Supersunt mihi Carus, Carinus et Numerianus, nam Diocletianus et qui secuntur stilo maiore dicendi sunt.

[1, 1] So che sugli usurpatori di minore rilievo la maggior parte degli storici o hanno sorvolato o si sono limitati a un fuggevole accenno1. Così Svetonio Tranquillo, che pure è scrittore molto accurato e veritiero, non si soffermò su Antonio e Vindice2, accontentandosi di aver fatto su di essi un rapido cenno, e come lui fece Mario Massimo, che non riservò alla biografia di Avidio – dei tempi di Marco –, né a quelle di Albino e Nigro – dei tempi di Severo – delle trattazioni a parte, inserendole invece in quelle dedicate ad altri imperatori. [2] Di Svetonio non ci stupiamo, dato che egli era per sua natura amante della brevità. Ma che dire di Mario Massino, uno scrittore prolisso più di chiunque altro, che si è perso in opere miste di storia e favola: forse che è sceso ad una tale precisione di dettagli? [3] Al contrario Trebellio Pollione è stato di una tale diligenza, di una tale accuratezza nel trattare dei principi buoni e malvagi, da raccogliere brevemente in un unico libro anche le vite dei trenta usurpatori che vissero al tempo di Valeriano e Gallieno e di imperatori di poco precedenti o susseguenti. [4] Perciò anche da parte nostra, seppure non altrettanto grande, non mancherà tuttavia l’impegno acciocché, dopo aver parlato di Aureliano, Tacito e Floriano, nonché di Probo, principe grande e ineguagliabile, e dovendo trattare ancora di Caro, Carino e Numeriano, non risulti che abbiamo taciuto di Saturnino, Bonoso, Proculo e Firmo, che furono ai tempi di Aureliano3. [2, 1] Tu sai infatti, o mio caro Basso4, quale grossa disputa vi è stata di recente fra me e il cultore di storia Marco Fonteio5, affermando egli che Firmo, che si era impadronito dell’Egitto ai tempi di Aureliano, era stato non un principe, ma un predone, mentre io – e con me Rufio Celso, Ceionio Giuliano e Fabio Sossiano – sostenevo per contro che egli aveva indossato la porpora e che nelle monete da lui fatte coniare6 portava comunemente il titolo di Augusto: anzi Severo Arconzio produsse varie sue monete e sulla base di fonti greche ed egiziane provò che quello nei suoi editti aveva il titolo di imperatore. [2] L’unico argomento che il mio contraddittore aveva da oppormi era il sostenere che Aureliano in un suo editto non aveva scritto di aver ucciso un usurpatore, ma di aver liberato lo Stato da un predone; come se un imperatore di tale prestigio fosse stato propriamente tenuto a chiamare usurpatore un uomo così oscuro, o se i grandi principi non avessero sempre definito briganti gli individui che essi avevano ucciso mentre tentavano di impadronirsi del potere. [3] Io stesso nel corso della vita di Aureliano7, prima

di conoscere a fondo la storia di Firmo, ebbi a considerarlo non nel novero degli imperatori, ma alla stregua, in certo modo, di un predone; e questo l’ho detto perché nessuno avesse a credere che mi ero dimenticato di quanto affermato in precedenza. [4] Ma, per non caricare di troppe cose il libro, che ho promesso brevissimo, veniamo a parlare di Firmo. [3, 1] Firmo8 era nativo di Seleucia9, sebbene la maggior parte degli scrittori greci riferiscano diversamente, ignorando che in quel medesimo periodo si ebbero tre personaggi di nome Firmo, dei quali uno prefetto d’Egitto, un altro comandante delle truppe stanziate sulla frontiera africana10, nonché proconsole, e il terzo proprio questo amico e alleato di Zenobia, che, spinto da folle ambizione, si impadronì di Alessandria d’Egitto e che Aureliano annientò con il consueto successo che accompagnava il suo valore. [2] Molto si racconta a proposito delle sue ricchezze. Dicono infatti che avesse rivestito le pareti di casa sua con tessere di vetro fissate con bitume e altre sostanze del genere e che possedesse tanti libri da affermare spesso in pubblico che era in grado di sfamare con i papiri e la colla un intero esercito. [3] Aveva strettissime relazioni con i Blemmi e i Saraceni. Inviava inoltre spesso in India delle navi mercantili. [4] Si dice anche che egli possedesse due zanne di elefante di dieci piedi ciascuna, dalle quali Aureliano aveva progettato di ricavare, aggiungendone altre due, un trono sul quale avrebbe dovuto stare una statua in oro e gemme di Giove con la pretesta, da porre nel tempio del Sole11, secondo i responsi dell’oracolo degli Appennini12, e a cui intendeva dare il nome di Giove Console o Consulente13. [5] Ma in seguito Carino diede in dono quelle medesime zanne a una donna, che si racconta le abbia utilizzate per costruire un letto – il suo nome, giacché è ancor oggi conosciuto, né i posteri avranno alcun vantaggio dal saperlo, preferisco non farlo. [6] E così quel dono venuto dall’India e consacrato a Giove Ottimo Massimo, ad opera di un pessimo principe appare essere divenuto strumento e prezzo di lussuria. [4, 1] Firmo aveva alta statura, occhi sporgenti, capelli crespi, fronte solcata da cicatrici, volto piuttosto scuro e il resto del corpo di carnagione molto chiara, ma peloso e ispido, tanto che molti lo chiamavano Ciclope. [2] Consumava molta carne e si racconta che divorasse uno struzzo al giorno. Non beveva molto vino, ma acqua in abbondanza; era molto valido di mente e fisicamente robustissimo, così da superare quel Tritano14 di cui fa menzione Varrone. [3] Ad esempio, riusciva a sostenere senza cedimenti persino un’incudine collocatagli sopra il petto e su cui altri battevano, mentre lui,

piegato all’indietro in posizione supina e inarcata, poggiando sulle mani, più che sdraiato a terra stava come sospeso. Ebbe poi a gareggiare nel bere con i generali di Aureliano, ogniqualvolta lo volevano sfidare. [4] Una volta, per esempio, che un alfiere di nome Burburo, famoso bevitore, lo aveva sfidato a bere, tracannò due secchi pieni di vino, e rimase poi sobrio per tutto il convito; e a Burburo che gli diceva: «Perché non hai bevuto la feccia?», egli rispose: «Stolto, la terra non si beve». Ma ci stiamo soffermando su delle sciocchezze, mentre dobbiamo occuparci di cose di maggiore importanza. [5, 1] Costui dunque assunse l’impero contro Aureliano15, per difendere quanto rimaneva del partito di Zenobia. Ma venne sconfitto da Aureliano al suo ritorno dalla Tracia. [2] Molti sostengono che egli si tolse la vita impiccandosi: diversa appare la versione data da Aureliano nei suoi editti. Infatti, dopo averlo vinto, ordinò di esporre a Roma un editto in questi termini: [3] «Aureliano Augusto saluta il devotissimo popolo romano. Dopo aver pacificato tutti i popoli nel mondo intero per quanto si estende, anche Firmo, il predone egiziano, tutto in fermento per i moti dei barbari e intento a raccogliere i resti dei sostenitori di quella donna infame, lo abbiamo – per dirla in breve – messo in fuga, assediato, torturato e ucciso. [4] Non vi è più nulla di cui possiate aver timore, o romulei Quiriti. I rifornimenti provenienti dall’Egitto, che erano stati sospesi da quello scellerato brigante, riprenderanno ad arrivare tutti interi. [5] Mantenetevi concordi con il senato, in relazioni di amicizia con l’ordine equestre, in stretti rapporti con i pretoriani. Io farò in modo che i Romani non debbano angustiarsi di alcunché. [6] Datevi pure agli spettacoli e ai giochi del circo. A noi vada il pensiero per le pubbliche necessità, a voi siano riservati i divertimenti. Perciò, o venerabilissimi Quiriti…», ecc. ecc. [6, 1] Questo è quanto era bene che tu sapessi delle cose che abbiamo appreso a proposito di Firmo, limitatamente a quelle degne di ricordo. [2] Ché se poi desideri conoscere quanto ha riferito su di lui minutamente Aurelio Festivo16, il liberto di Aureliano, bisogna che tu ne legga direttamente le opere, specialmente quando racconta che Firmo nuotava in mezzo ai coccodrilli unto di grasso di coccodrillo e che guidava un elefante, cavalcava un ippopotamo e andava quasi volando stando in groppa a grandi struzzi. [3] Ma che giova sapere queste cose? Ché tanto Livio quanto Sallustio tralasciano i particolari insignificanti nel narrare le vite dei loro personaggi. [4] Non sappiamo infatti di quale razza fossero i muli posseduti da Clodio17 o le mule di Tito Annio Milone18, o se Catilina19 abbia cavalcato su di un cavallo toscano o sardo, o

quale tipo di clamide o di veste di porpora indossasse Pompeo. [5] Perciò chiuderemo il discorso su Firmo, per passare a parlare di Saturnino, il quale, contrapponendosi a Probo, si impadronì dell’impero nelle regioni orientali. [7, 1] Saturnino20 era oriundo della Gallia, terra di gente della più irrequieta e sempre bramosa di crearsi un capo e un governo proprio21. [2] A costui Aureliano, preferendolo agli altri generali – giacché era un uomo davvero di grandi qualità, o almeno pareva tale –, affidò il comando della frontiera orientale, ordinandogli saggiamente di non recarsi mai in Egitto. [3] Quell’uomo così accorto teneva evidentemente in considerazione la particolare indole dei Galli, e temeva che, se Saturnino fosse venuto in contatto con una popolazione molto turbolenta, sarebbe stato trascinato, anche dal fatto di trovarsi in mezzo a quella gente, verso ciò cui già lo portava la sua natura. [4] Gli Egiziani22 infatti, come ben sai, sono millantatori, vanagloriosi, facili all’ira, superbi, insolenti e, di più, mutevoli, privi di scrupoli e animati da un desiderio di rivolgimenti politici che si esprime persino nei loro canti popolari; capaci di metter sù dei versi o di comporre un epigramma, versati nell’astrologia, nell’aruspicina e nella medicina. [5] Tra essi infatti vi sono Cristiani, Samaritani e altri che manifestano sempre con grande spirito di indipendenza la loro insoddisfazione per i tempi presenti. [6] E perché nessun Egiziano abbia a risentirsi e a credere che ciò che ho riferito sia un mio parere personale, citerò una lettera di Adriano23 tratta dall’opera del suo liberto Flegonte24, dalla quale si rivela in modo compiuto il tipo di vita che conducono gli Egiziani. [8, 1] «Adriano Augusto saluta il console Serviano25. Quell’Egitto che tu mi lodavi, o carissimo Serviano, mi si è rivelato un paese di gente leggera, incostante e pronta a lasciarsi trasportare da ogni impulso legato alle voci che circolano. [2] Laggiù gli adoratori di Serapide26 sono Cristiani, e quelli che si dicono vescovi di Cristo sono devoti di Serapide; [3] non vi è capo di sinagoga giudea, né Samaritano, né sacerdote cristiano che non sia astrologo, aruspice o praticone. [4] Anche quello stesso famoso patriarca che è giunto in Egitto è costretto da alcuni ad adorare Serapide, da altri Cristo. [5] È una razza di gente quanto mai turbolenta, falsa, insolente, anche se l’ambiente cittadino è opulento, ricco, produttivo e dà lavoro a tutti. [6] Alcuni soffiano il vetro, altri fabbricano la carta, tutti certamente si possono considerare dotati di larga pratica in ciascun mestiere, e tessitori di lino; perfino i podagrosi hanno di che occuparsi, e così i mutilati e i ciechi: neppure coloro che soffrono di gotta alle

mani da loro rimangono inattivi. [7] L’unico loro dio è il denaro. Questo adorano i Cristiani, i Giudei e ogni altra gente. E magari questa città avesse migliori costumi, degna com’è certamente, per la sua produttività e grandezza, di essere la capitale di tutto l’Egitto. [8] Io le ho concesso tutto, le ho restituito gli antichi privilegi, gliene ho conferiti in aggiunta dei nuovi, sì che quando sono stato là mi hanno ringraziato. Ma poi, non appena me ne sono andato, si sono messi a sparlare di mio figlio Vero27 e di quanto hanno detto sul conto di Antinoo28, credo che tu sia già venuto al corrente. [9] Ad essi auguro solo di sfamarsi con i loro polli, che fanno nascere in quel modo che fa vergogna ripetere29. [10] Ti ho mandato delle coppe di colore cangiante e variegate che mi ha regalato un sacerdote del tempio e che io ho inteso dedicare in modo speciale a te e a mia sorella; vorrei che tu le usassi nei banchetti dei giorni di festa. Fa’ attenzione però che il nostro Africano30 non ne faccia un uso smodato»31. [9, 1] Tenendo dunque presenti questi caratteri del popolo egiziano, Aureliano aveva ordinato a Saturnino di non visitare l’Egitto, dimostrando invero una preveggenza degna di un dio. Infatti non appena gli Egiziani videro che era giunta presso di loro un’alta autorità, subito presero ad acclamare: «Saturnino Augusto, gli dèi ti salvino!». [2] E in verità egli, non lo si può negare, da uomo di buon senso se ne andò subito dalla città di Alessandria e ritornò in Palestina. [3] Ma qui, avendo cominciato a pensare che non era sicuro per lui rimanere nella condizione di privato, si lasciò rivestire dai soldati che stavano con lui di una veste di porpora di foggia femminile tolta da una statua di Venere, ricevendo i loro atti di sottomissione. [4] Ho udito spesso mio nonno32 raccontare di essere stato presente a quella cerimonia di ossequio. [5] «Egli piangeva», diceva, «esclamando: ‘ Lo Stato ha perduto, se posso parlare senza presunzione, un uomo prezioso. Io ho senza dubbio ristabilito l’ordine nelle Gallie, ho riconquistato l’Africa caduta in potere dei Mauri, ho pacificato le Spagne. Ma a che giova? Tutto questo, una volta che mi sono arrogato la dignità imperiale, è stato cancellato’». [10, 1] E poiché quelli che lo avevano rivestito della porpora lo incoraggiavano a godere della vita e dell’impero, egli replicò con queste parole: [2] «Voi non sapete, amici, quale male sia il potere. Pendono sul capo spade appese a un capello, da ogni parte vi sono lance, da ogni parte frecce. Si finisce per temere le stesse guardie del corpo, per essere atterriti dai collaboratori più stretti. Non si può più prender cibo secondo i propri gusti, né andare in giro come consentirebbe il proprio grado, né far guerra secondo i

propri piani, né combattere secondo la propria inclinazione. [3] Aggiungi poi che in un imperatore qualsiasi età viene criticata: uno è vecchio: viene considerato un incapace; un altro è giovane: è acceso da una frenesia insana. Che vale ormai dire che Probo è degno dell’amore di tutti? Quando volete fare di me un rivale di lui, di fronte al quale io volentieri mi ritirerei, desiderando di tornare ad essere un suo generale, voi mi trascinate ineluttabilmente alla morte. Ho un’unica consolazione in essa: non potrò morire da solo». [4] Marco Salvidieno33 afferma che questo fu veramente il discorso da lui pronunziato: e di fatto Saturnino era uomo di buona cultura. Infatti aveva atteso alla retorica in Africa e a Roma aveva frequentato alcuni circoli culturali. [11, 1] Ma per non dilungarmi troppo, debbo puntualizzare una questione che riguarda in modo specifico questo personaggio, e cioè che certuni sono in errore ritenendo che costui sia il Saturnino che usurpò l’impero ai tempi di Gallieno34, poiché si tratta di tutt’altra persona: il nostro fu ucciso sotto Probo, quasi contro la volontà di quest’ultimo. [2] Si racconta che Probo gli mandò più volte lettere ispirate a clemenza e che gli promise il perdono, ma i soldati che erano con lui non si fidarono. [3] Assediato infine in una fortezza dai soldati inviati da Probo, contro la volontà di quest’ultimo venne strangolato35. [4] Sarebbe troppo lungo includere ogni più insignificante particolare, e fastidioso ricordare quale fu la sua statura, il suo fisico, il suo aspetto, quali i suoi gusti nel bere e nel mangiare. Pensino altri a riportare queste cose, che non aggiungono quasi nulla a quanto ci interessa mostrare. Da parte nostra, ritorniamo a quanto è veramente degno di essere riferito. [12, 1] Proculo36 era originario di Albenga, nelle Alpi Marittime. Discendeva da famiglia nobile, ma i suoi antenati avevano esercitato il brigantaggio e, di più, egli possedeva un ricco patrimonio costituito da bestiame, servi e da quanto aveva arraffato. [2] Si racconta inoltre che allorché prese il potere, armò di suo duemila schiavi. [3] Sua moglie, che lo aveva precipitato in questa folle avventura, era una virago che veniva chiamata Sansone – un nome datole in un secondo tempo, giacché quello originale era Vituriga. [4] Aveva un figlio, Erenniano, al quale pure – così egli diceva –, appena avesse compiuto i cinque anni, avrebbe conferito il potere imperiale. [5] Un uomo, non lo si può negare, […] e ad un tempo fortissimo, avvezzo pur egli a rubare, e che visse sempre con le armi in pugno. Comandò infatti molte legioni in qualità di tribuno e compì molte imprese valorose. [6] E poiché anche i particolari più minuti offrono un qualche gusto al lettore, non è da tacere un episodio di cui egli stesso si vanta in una sua lettera, che è meglio

riportare direttamente piuttosto che dilungarsi a parlarne: [7] «Proculo saluta il suo parente Meciano37. Ho catturato cento vergini Sarmate. Dieci di esse me le sono fatte in una notte; e comunque, nel giro di quindici giorni, per quanto stava in me le ho fatte diventare donne tutte quante». [8] Si vanta, come vedi, di una cosa stupida e assai licenziosa, e crede di essere annoverato tra gli uomini di valore, per avere raggiunto una posizione di forza attraverso il gran numero di delitti. [13, 1] Costui tuttavia che, anche dopo aver rivestito vari gradi nell’esercito, teneva una condotta di vita immorale e dissoluta, ma nondimeno sapeva mostrarsi valoroso, tra gli incitamenti degli abitanti di Lione, ai quali pareva di essere stati duramente colpiti da Aureliano38 e ora erano quanto mai timorosi di Probo, si trovò chiamato all’impero quasi per gioco o per burla – come racconta Onesimo39: io so peraltro di non aver trovato in nessun’altra fonte l’episodio in questione. [2] Una volta dunque, nel corso di un banchetto, si giocava «ai ladroni»40, ed egli era uscito «imperatore» per dieci volte: allora un tipo ben noto per le sue arguzie esclamò: «Salute a te, Augusto!», e portato un manto di lana purpurea glielo mise sulle spalle e lo adorò; di lì il timore di quanti avevano assistito alla scena e il suo tentativo di impadronirsi ormai dell’esercito e dell’impero. [3] Egli seppe comunque apportare notevoli benefici ai Galli. Riuscì infatti, non senza ricavarne gloria e lustro, ad infliggere un grave colpo agli Alamanni, che allora si chiamavano ancora Germani, non adottando mai altra tattica di combattimento che quella propria dei briganti. [4] Ma Probo lo costrinse a fuggire in paesi lontani, e poi, mentre cercava di portare aiuto ai Franchi, dai quali affermava di discendere, lo vinse e lo uccise, grazie al tradimento degli stessi Franchi, abituati come sono a rompere i patti con il sorriso sulle labbra. [5] I suoi discendenti vivono ancora ad Albenga e sono soliti dire scherzando che non desiderano essere né principi né briganti. [6] Queste sono le cose degne di menzione che ricordo di aver appreso sul conto di Proculo. Ora passiamo a Bonoso, sul quale ho raccolto assai meno notizie. [14, 1] Bonoso41 era di famiglia spagnola ma Britanno d’origine e di madre gallica; era figlio, come egli stesso diceva, di un retore, o, come ho appreso da altre fonti, di un maestro di lettere. Perdette il padre che era ancora un bambino, sicché, allevato dalla madre, una donna tutta forza fisica, gli venne completamente a mancare l’istruzione. [2] Militò dapprima come soldato semplice, successivamente in cavalleria; fu centurione, tribuno, comandante

delle truppe di stanza sulla frontiera della Rezia. Beveva come nessun altro. [3] Di lui Aureliano diceva spesso: «Non è nato per vivere, ma per bere». Nondimeno lo tenne per lungo tempo in grande considerazione, per le sue doti in campo militare. [4] Così, ogni volta che giungevano ambasciatori di una qualsiasi nazione barbara, li faceva bere, per ubriacarli e apprendere così da essi, mentre erano in preda ai fumi del vino, tutti i loro segreti. Dal canto suo egli, per quanto abbondantemente bevesse, si manteneva sempre sicuro e lucido42 e, come afferma Onesimo43, che scrisse la vita di Probo, quando aveva bevuto mostrava ancor più accortezza. [5] Aveva inoltre una qualità stupefacente, quella cioè di riuscire ad evacuare tutto quanto aveva bevuto, di modo che lo stomaco, il ventre o la vescica non ne venivano appesantiti. [15, 1] Costui, una volta che i Germani incendiarono alcune navi leggere romane lungo il Reno, per timore di venire punito assunse il potere e lo tenne più a lungo di quanto non meritasse. [2] Ché, vinto da Probo dopo un conflitto lungo e duro, pose fine alla sua vita impiccandosi, dal che nacque la battuta che dalla corda pendeva non un uomo, ma un’anfora. [3] Lasciò due figli, che furono entrambi risparmiati da Probo, il quale trattò con riguardo anche la moglie di lui, concedendole una pensione vitalizia. [4] Si dice infatti – così affermava anche mio nonno44 – che fosse una donna di qualità eccezionali e di famiglia nobile, anche se di razza gotica; Aureliano l’aveva data in moglie a costui, onde poter conoscere tramite lui tutti i segreti dei Goti. [5] Era infatti una giovane di stirpe reale. Possediamo una lettera scritta al governatore della Tracia in merito a queste nozze e ai doni che Aureliano dispose fossero dati al generale Bonoso in quell’occasione; l’ho qui riportata: [6] «Aureliano Augusto saluta Gallonio Avito. Ti avevo scritto nella precedente lettera di far stabilire a Perinto45 le nobildonne gotiche, assegnando loro un sussidio, da non riscuotersi singolarmente, ma in modo tale che sette in una volta partecipassero ad un unico banchetto. Quando infatti lo ricevono divise, avviene ad un tempo che loro prendono poco, e lo Stato ci perde moltissimo. [7] Ora tuttavia, dal momente che ho deciso che Unila vada in sposa a Bonoso, le farai avere tutto quello che ho disposto nella lista che allego qui sotto; inoltre farai celebrare le nozze a spese pubbliche». [8] La lista dei doni era la seguente: «Tuniche violette con cappuccio di mezza seta, una tunica di mezza seta del peso di una libbra listata d’oro, due camice a doppia striscia e gli altri ornamenti che si addicono ad una matrona. A lui darai cento filippi d’oro, mille antoniniani d’argento e un milione di

sesterzi di rame». [9] Questo è quanto ricordo di aver letto di Bonoso. A dire il vero avrei potuto tralasciare le vite di costoro, di cui nessuno si interessava; tuttavia, onde non mancare in nulla alla fedeltà storica, ho avuto cura di riferire quel che avevo appreso anche sul conto di essi. [10] Mi rimangono ora Caro, Carino e Numeriano, ché Diocleziano e i successori debbono essere trattati in uno stile più elevato.

1. A parere di A. CHASTAGNOL, Sources, thèmes et procédés de composition dans le «Quadrigae tyrannorum», in Recherches sur VHA, Bonn, 1970, pp. 68 segg., l’autore, delineando la vita romanzata di questi quattro usurpatori, avrebbe utilizzato fonti di vario genere che non avevano niente a che vedere coi personaggi in questione, ma di cui egli si è servito adattandole ai propriscopi. In particolare, i temi principali delle Quadrigae tyrannorum proverrebbero da lettere di S. Girolamo (la 3 a Rufino e la 22 a Eustochio), mentre per vari episodi si avrebbero collegamenti col libro XV di AMMIANO MARCELLINO. Per una discussione in merito cfr. G. CLEMENTE, Storia amministrativa e falsificazione nella HA, «Riv. fil. istr. ci.», C., 1972, pp. 121 segg. 2. Cfr. Pesc. Nig., 9, 2, note 4, 1. 3. Cfr. Aurei., 32, 2-3. 4. Per noi non identificabile; forse è proprio lui l’amicus cui è rivolta la dedica della susseguente biografia (cfr. Car., 21, 2); cfr. T. D. BARNES, Some persons in the HA, «Phoenix», XXVI, 1972, p. 150. 5. Anche questo, così come i successivi personaggi nominati dal biografo, ci sono altrimenti sconosciuti. 6. Non ci sono note monete di Firmo. 7. Cfr. Aurei., 32, 2. 8. La rivolta di Firmo è narrata anche da ZOSIMO (I, 61, 1), che però non fa espressamente il suo nome. Anche in Aurei., 32, 2-3, se ne era dato un breve cenno. 9. Non si può dire a quale città si riferisca qui di preciso l’autore, dato che si trattava di un nome molto diffuso. 10. Su questa carica cfr. A. REINTJES, Untersuchungen zu den Beamten bei den ShA, Düsseldorf, 1961, pp. 44 segg. 11. Cfr. Aurei., 35, 3, n. 7. 12. Per questo oracolo cfr. Claud., 10, 4. 13. Questi appellativi di Giove non ci sono altrimenti noti. Secondo K. WINKLER, Iuppiter consul vel consulens (zu Hist. Aug. quadr. tyr. III, 4-6), «Philologus», CII, 1958, pp. 117 segg., la denominazione in questione costituirebbe la traduzione di Ζεὐς ὕπατος ο ὕψιστος il dio che, nell’ambito del culto solare instaurato da Aureliano, aveva il suo posto accanto al Sole. 14. Tritano era il nome di due uomini famosi per la loro forza eccezionale – padre e figlio –, l’uno gladiatore e l’altro soldato di Pompeo (cfr. PLINIO, Nat. Hist., VII, 81). 15. Non sembra in realtà che Firmo abbia mai assunto il potere imperiale: la sua aspirazione si limitava probabilmente a ristabilire ad Alessandria la supremazia dei Palmireni. 16. Altrimenti sconosciuto. 17. P. Clodio Pulcro, il tribuno della plebe partigiano di Cesare e acerrimo nemico di Cicerone. 18. L’uccisore di Clodio, per difendere il quale Cicerone scrisse l’orazione Pro Milone. 19. Sul topos catilinario nella HA cfr. N. CRINITI, L’uso propagandistico del topos catilinario nella HA, in Contrib. Ist. St. Ant. (Un. catt. S. C. Mi.), II, Milano, 1974, pp. 97 segg. 20. Iulius Saturninus Augustus. Secondo ZOSIMO (I, 66, 1) era un mauro, designato da Probo a governare la Siria. La sua ribellione dovette avvenire intorno al 280 d. C., all’epoca in cui Probo era in Oriente. 21. Cfr. Tyr. trig., 3, 7. 22. Sugli aspetti negativi dell’indole degli Egiziani cfr. anche Tyr. trig., 22, 1-2. Sul passo in questione cfr. I. CAZZANIGA, Psogos ed épainos di Zenobia. Colori retorici in Vopisco e Pollione (H. A.), «La parola del Passato», XXVII, 1972, pp. 169 segg. (Addendum I: «Lo ‘ psogos ’ contro gli Egizi in Vopisco»). 23. Sulla sua completa inautenticità cfr. W. SCHMID, Die Koexistenz von Sarapiskult und Christentum

im Hadrianbrief bei Vopiscus, in BHAC, 1964-65, Bonn 1966, pagg. 153 segg., che vede fra l’altro nel patriarcha citato al § 4 un’allusione al patriarca giudeo Gamaliele (fine del IV sec. d. C.; cfr. anche R. SYME, Emperors and Biography, Oxford 1971, pagg. 17 segg.). 24. Cfr. Hadr., 16, 1; Sev., 20, 1. 25. Il cognato; cfr. Hadr., 1, 2; 15, 8; 23, 8. 26. Cfr. M. Ant., 23, 8, n. 2. 27. L. Elio Cesare, adottato nel 136 d. C. Se consideriamo che Adriano fu ad Alessandria nel 130 d. C., e che pure in quell’anno morì sua sorella Paolina, citata invece alla fine della lettera come viva, appare evidente che ci troviamo di fronte ad un falso. 28. Il favorito di Adriano: cfr. Hadr., 14, 5-6, n. 7. 29. ARISTOTELE (Hist. Anim., 6, 2) riferisce che essi deponevano le loro uova sotto mucchi di sterco finché non si dischiudessero. 30. Potrebbe trattarsi di T. Sestio Africano, collega di Traiano nel consolato del 112 d. C., e che quindi può essere stato senz’altro contemporaneo di Adriano. R. SYME, Ammianus and the HA, Oxford, 1968, pp. 66 segg., ritiene invece che qui l’autore della HA alluda a un Africanus governatore della Pannonia Seconda di cui parla AMMIANO MARCELLINO (XV, 3 segg.), il quale, nel 355 d. C., rimase vittima dei discorsi politicamente troppo audaci a cui, nel corso di un banchetto da lui dato, si erano lasciati andare i suoi ospiti, dopo aver alzato troppo il gomito. 31. Sullo stile e i topoi che caratterizzano questa apocrifa lettera di Adriano cfr. CAZZANIGA, Psogos ed épainos di Zenobia, cit., pp. 174 segg. (Addendum II: «Note stilistiche e ‘topoi’ retorici specifici in alcuni luoghi della lettera apocrifa di Adriano»). 32. Sui richiami al padre e al nonno dell’autore stesso quali fonti per determinate notizie nel corso dell’opera cfr. E. BIRLEY, Tales of my Grandfather, in BHAC, 1975-76, Bonn, 1978, pp. 91 segg.: nel caso specifico il richiamo sembrerebbe giustificarsi con la necessità di produrre come fonte un diretto testimone di quei fatti, dato che nessuno scrittore contemporaneo avrebbe potuto parlare in maniera così favorevole di un usurpatore eliminato da Probo. Cfr. anche Tyr. trig., 25, 3, n. 3. 33. Altrimenti sconosciuto. 34. Cfr. Tyr. trig., 23 e, ivi, la n. 3. 35. Secondo la versione di ZOSIMO, I, 66, 1, Saturnino fu ucciso ad Apamea dai propri soldati. 36. La rivolta di Proculo è ricordata anche, oltre che nella vita di Probo (cfr. 18, 5), da EUTROPIO (IX, 17, 1) e Epitome de Caesaribus, 37, 2; da queste ultime fonti apparirebbe che essa fosse scoppiata ad Agrippina (Colonia), mentre dalla nostra Vita (cfr. 13, 1) il luogo in questione risulterebbe Lione. La data probabile è, anche in questo caso, il 280 d. C. 37. Altrimenti sconosciuto. 38. Forse al tempo della sua permanenza in Gallia nel 274-275 d. C. 39. Forse identificabile, secondo vari studiosi, con un Onasimos di Cipro o di Sparta, ricordato dal Lessico Suda (una specie di enciclopedia letteraria di età bizantina) come scrittore di economia nonché come storico vissuto sotto Costantino. Personaggio fittizio è invece senz’altro secondo R. SYME, Bogus Authors, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, p. 315 (cfr. anche BARNES, Some persons, cit., p. 165). Si veda anche la n. 2 a 14, 4. 40. Si trattava di un gioco simile ai nostri scacchi, dove le pedine erano dette appunto latrunculi. Chi vinceva un giro veniva chiamato «imperatore». 41. Brevi cenni sulla sua rivolta, localizzabile probabilmente al 280 d. C., si trovano, oltre che in Prob., 18, 5, anche in AURELIO VITTORE, Caes., 37, 3, Epitome de Caesaribus, 37, 2, EUTROPIO, IX, 17, 1, OROSIO, VII, 24, 3; ci sono inoltre note monete da lui coniate. 42. Secondo A. CHASTAGNOL, Autour de la «sobre ivresse» de Bonosus, in BHAC, 1972-74, Bonn,

1976, pp. 91 segg., nelle notazioni sulla capacità di Bonoso di bere abbondantissimamente senza patirne le conseguenze, sarebbe da scorgere la parodia di un tema – quello della sobria ebrietas – molto diffuso in certi ambienti cristiani del IV-V sec. d. C., ad indicare lo stato di estasi mistica di coloro che, pur essendo sobri di vino, hanno non meno l’apparenza di ubriachi allorché sono tutti presi dal loro fervore religioso. 43. Cfr. 13, 1, n. 2. Secondo A. CHASTAGNOL, Recherches sur l’HA, cit., pp. 72 segg., l’autore, mentre redigeva la biografia di Bonoso, aveva sotto gli occhi la Lettura 3 di S. GEROLAMO, ove è ricordato un monaco con quello stesso nome (che avrebbe costituito la fonte ispiratrice per la vita di un omonimo usurpatore); ciò porterebbe conferma alla tesi di chi nega che un biografo Onesimo sia mai esistito. 44. Cfr. 9, 4, n. 1. 45. Città della Tracia sulla riva settentrionale del Mar di Marmara; nel IV sec. d. C. mutò il nome in quello di Eraclea (l’odierna Eregli).

XXX. CARUS ET CARINUS ET NUMERIANUS 〈FLAVI VOPISCI SYRACUSII〉

CARO, CARINO E NUMERIANO di FLAVIO VOPISCO DI SIRACUSA

[1, 1] Fato rem p. regi eamque nunc ad summum evehi, nunc ad minima retrahi Probi mors satis prodidit. [2] Nam cum ducta per tempora variis vel erecta motibus vel adflicta, nunc tempestate aliqua nunc felicitate variata omnia prope passa esset, quae patitur in homine uno mortalitas, videbatur post diversitatem malorum iam secura continuata felicitate mansura post Aurelianum vehementem principem Probo ex sententia 〈senatus ac populi〉 leges et gubernacula [senatus ac populo] temperante. [3] Sed ruina ingens vel naufragii modo vel incendii accensis fataliter militibus sublato {e} medio tali principe in eam desperationem votum publicum redegit, ut timerent omnes Domitianos, Vitellios et Nerones. [4] Plus enim timetur de incertis moribus principis quam speratur, maxime in ea re p., quae recentibus confossa vulneribus Valeriani captivitatem, Gallieni luxuriam, triginta etiam prope tyrannorum caesa civilium membra sibimet vindicantium 〈avaritiam〉 perpessa maeruerit. [2, 1] Nam si velimus ab ortu urbis repetere1, quas varietates sit passa Romana res p., inveniemus nullam magis vel bonis floruisse vel malis laborasse. [2] Et, ut a Romulo incipiam, vero patre ac parente rei p., quae illius felicitas fuit, qui fundavit, constituit roboravitque rem p. atque unus omnium conditorum perfectam urbem reliquit! [3] Quid deinde Numam loquar, qui frementem bellis et gravidam triumphis civitatem religione munivit? [4] Viguit igitur usque ad Tarquinii Superbi tempora nostra res p., sed passa tempestatem de moribus regiis non sine gravi exitio semet ulta est. [5] Adolevit deinde usque ad tempora Gallicani belli, sed quasi quodam mersa naufragio capta praeter arcem urbe plus prope mali sensit quam tum habebat boni. [6] Reddidit se deinde in integrum, sed eo usque gravata est Punicis bellis ac terrore Pyrrhi, ut mortalitatis mala praecordiorum timore sentiret. [3, 1] Crevit deinde victa Carthagine trans maria missis imperiis, sed socialibus adfecta discordiis extenuato felicitatis sensu usque ad Augustum bellis civilibus adfecta consenuit. Per Augustum deinde reparata, si reparata dici potest libertate deposita. [2] Tamen utcumque, etiamsi domi tristis fuit, apud exteras gentes effloruit; passa deinceps tot Nerones, per Vespasianum extulit caput. [3] Nec omni Titi felicitate laetata, Domitiani vulnerata inmanitate per Nervam atque Traianum usque ad Marcum solito melior, Commodi vecordia et crudelitate lacerata est. [4] Nihil post haec praeter Severi diligentiam usque {ad} Alexandrum Mamaeae sensit bonum. [5] Longum est, quae secuntur, universa conectere: uti enim principe Valeriano

non potuit et Gallienum per annos quindecim passa est. [6] Invidit Claudio longinquitatem imperii amans varietatum 〈et〉 prope [et] semper inimica fortuna iustitiae. [7] Sic enim Aurelianus occisus est, sic Tacitus absumptus, sic Probus caesus, ut appareat nihil tam gratum esse fortunae, quam ut ea, quae sunt in publicis actibus, eventuum varietate mutentur. [8] Sed quorsum talibus querellis et temporum casibus detinemur? Veniamus ad Carum, medium, ut ita dixerim, virum et inter bonos magis quam inter malos principes conlocandum et longe meliorem, si Carinum non reliquisset heredem. [4, 1] Cari2 patria sic ambigue a plerisque proditur, ut prae summa varietate dicere nequeam, quae illa vera sit. [2] Onesimus3 enim, qui diligentissime vitam Probi scripsit, Romae illum et natum et eruditum, sed Illyricianis parentibus fuisse contendit. [3] Sed Fabius Ceryllianus4, qui tempora Cari, Carini et Numeriani solertissime persecutus est, neque Romae sed in Illyrico genitum, neque Pannoniis sed Poenis parentibus adserit natum. [4] In ephemeride quadam legisse 〈me〉 memini Carum Mediolanensem fuisse, sed albo curiae Aquileiensis civitatis insertum5. [5] Ipse se, quod negari non potest, ut epistula eius indicat, quam pro consule ad legatum suum scripsit, cum eum ad bona hortaretur officia, Romanus vult videri. [6] Epistula Cari: «Marcus Aurelius 〈Carus〉 pro consule Ciliciae6 Iunio legato suo. Maiores nostri, Romani illi principes, in legatis creandis hac usi sunt consuetudine, ut morum suorum specimen per eos ostenderent, quibus rem publicam delegabant. [7] Ego vero, si ita non esset, aliter non fecissem: 〈nec〉 feci aliter, si te iuvante non fallar; fac igitur, ut maioribus nostris, id est Romanis non discrepemus viris». [8] Vides tota epistula maiores suos Romanos illum velle intellegi. [5, 1] Indicat et oratio eius ad senatum data istam generis praerogativam. Nam cum primum imperator esset creatus, sic ad senatorium ordinem scripsit. Inter cetera: [2] «gaudendum est itaque, p. c., quod unus ex vestro ordine, vestri etiam generis imperator est factus. Quare adnitemur, ne meliores peregrini quam vestri esse videantur». [3] Hoc quoque loco satis clarum est illum voluisse intellegi se esse Romanum, id est Roma oriundum. [4] Hic igitur per civiles 〈et〉 militares gradus, ut tituli statuarum eius indicant7, praef. praet. a Probo factus tantum sibi aput milites amoris locavit, ut interfecto Probo tanto principe solus dignissimus videretur imperio. [6, 1] Non me praeteriit suspicatos esse plerosque et eos in fastos rettulisse Cari factione interemptum Probum, sed neque meritum Probi erga Carum

neque Cari mores id credi patiuntur, simul quia Probi mortem et acerrime et constantissime vindicavit. [2] Quid autem de eo Probus senserit, indicant litterae de eius honoribus ad senatum datae: «Probus Augustus amantissimo senatui suo salutem dicit». Inter cetera: «felix autem esset nostra res p., si, qualis Carus est aut plerique vestrum, plures haberem in actibus conlocatos. [3] Quare equestrem statuam viro morum veterum, si vobis placeat, decernendam censeo, addito eo ut publico sumptu [vel] eidem exaedifìcetur domus marmoribus a me delatis. Decet enim nos talis integritatem remunerari viri» et reliqua. [7, 1] Ac ne minima quaeque conectam et ea, quae apud alios poterunt inveniri, ubi primum accepit imperium consensu omnium militum, bellum Persicum, quod Probus parabat8, adgressus est liberis Caesaribus nuncupatis, et ita quidem ut Carinum ad Gallias tuendas cum viris lectissimis destinaret, secum vero Numerianum, adulescentem cum lectissimum tum etiam disertissimum, duceret. [2] Et dicitur quidem saepe dixisse se miserum, quod Carinum ad Gallias principem mitteret, neque illa aetas esset Numeriani, ut illi Gallicanum, quod maxime constantem principem quaerit, crederetur imperium. Sed haec alias. [3] Nam exstant etiam litterae Cari, quibus aput praefectum suum de Carini moribus queratur, ut appareat verum esse, quod Onesimus dicit, habuisse in animo Carum, ut Carino Caesareanum abrogaret imperium. [4] Sed haec, ut diximus, alias in ipsius Carini vita dicenda sunt9. Nunc ad ordinem revertemur. [8, 1] Ingenti apparatu et totis viribus Probi profligato magna ex parte bello Sarmatico10, quod gerebat, contra Persas profectus11 nullo sibi occurrente Mesopotamiam Carus cepit et Ctesifontem usque pervenit occupatisque Persis domestica seditione12 imperatoris Persici nomen13 emeruit. [2] Verum cum avidus gloriae, praefecto suo14 maxime urgente, qui et ipsi et filii eius quaerebat exitium cupiens imperare, longius progressus esset, ut alii dicunt morbo, ut plures fulmine interemptus est15. [3] Negari non potest eo tempore, quo perit, tantum fuisse subito tonitruum, ut multi terrore ipso exanimati esse dicantur. Cum igitur aegrotaret atque in tentorio iaceret, ingenti exorta tempestate inmani coruscatione, inmaniore, ut diximus, tonitru exanimatus est. [4] Iulius Calpurnius, qui ad memoriam16 dictabat, talem ad praefectum urbis super morte Cari epistulam dedit. Inter cetera: [5] «cum», inquit, «Carus, princeps noster vere carus, aegrotaret, [et] tanti turbinis subito exorta tempestas est, ut caligarent omnia neque alterutrum nosceret; coruscationum

deinde ac tonitruum in modum fulgurum igniti sideris continuata vibratio omnibus nobis veritatis scientiam sustulit. [6] Subito enim conclamatum est imperatorem mortuum, et post illud praecipue tonitruum, quod cuncta terruerat. [7] His accessit quod cubiculari dolentes principis mortem incenderunt tentorium. Unde subito fama emersit fulmine interemptum eum, quem, quantum scire possumus, aegritudine constat absumptum». [9, 1] Hanc ego epistulam idcirco indidi, quod plerique dicunt vim fati quandam esse, ut Romanus princeps Ctesifontem transire non possit, ideoque Carum fulmine absumptum, quod eos fines transgredi cuperet, qui fataliter constitui sunt17. [2] Sed sibi habeat artes suas timiditas, calcanda virtutibus. [3] Licet plane ac licebit (per sacratissimum Caesarem Maximianum18 constitit) Persas vincere atque ultra eos progredì, et futurum reor, si a nostris non deseratur promissus numinum favor19. [4] Bonum principem Carum fuisse cum multa indicant tum illud etiam, quod, statim est adeptus imperium, Sarmatas adeo morte Probi feroces, ut invasuros se non solum Illyricum sed Thracias quoque Italiamque minarentur, ita scienter bella partiendo contudit, ut paucissimis diebus Pannonias securitate donaverit occisis Sarmatarum sedecim milibus, captis diversi sexus viginti milibus. [10, 1] Haec de Caro satis esse credo. Veniamus ad Numerianum. Huius et iunctior patri et admirabilior per socerum suum facta videtur historia. Et quamvis Carinus maior aetate fuerit, prior etiam Caesar quam 〈Numerianus〉 sit nuncupatus, tamen necesse est, ut prius de Numeriano loquamur, qui patris secutus est mortem, post de Carino, quem vir rei p. necessarius Augustus Diocletianus habitis conflictibus interemit. [11, 1] Numerianus20, Cari filius moratus egregie et vere dignus imperio, eloquentia etiam praepollens, adeo ut puer publice declamaverit feranturque illius scripta nobilia, declamationi tamen magis quam Tulliano adcommodiora stilo. [2] Versu autem talis fuisse praedicatur, ut omnes poetas sui temporis vicerit. Nam et cum Olympio Nemesiano21 contendit, qui ἁλιευτιϰὰ ϰυνηγετιϰὰ et ναυτιϰὰ scripsit quique omnibus coloribus inlustratus emicuit, et Aurelium Apollinarem22 iamborum scriptorem, qui patris eius gesta in litteras rettulit, isdem, quae recitaverat, editis veluti radio solis obtexit. [3] Huius oratio fertur ad senatum missa tantum habuisse eloquentiae, ut illi statua non quasi Caesari sed quasi rhetori decerneretur, ponenda in bibliotheca Ulpia, cui suscriptum est: «Numeriano Caesari, oratori temporibus suis potentissimo».

[12, 1] Hic patri comes fuit bello Persico. Quo mortuo, cum oculos dolere coepisset, quod illud aegritudinis genus nimia utpote 〈vigilia〉 confecto familiarissimum fuit, ac lectica portaretur, factione Apri soceri sui, qui invadere conabatur imperium, occisus est23. [2] Sed cum per plurimos dies de imperatoris salute quaereretur a milite, contionareturque Aper idcirco illum videri non posse, quod oculos invalidos a vento ac sole subtraheret, foetore tamen cadaveris res esset prodita24, omnes invaserunt Aprum, cuius factio latere non potuit, eumque ante signa et principia protraxere. Tunc habita est ingens contio, factum etiam tribunal. [13, 1] Et cum quaereretur, quis vindex Numeriani iustissimus fieret, quis daretur rei p. bonus princeps, Diocletianum25 omnes divino consensu, cui multa iam signa facta dicebantur imperii, Augustum appellaverunt, domesticos tunc regentem, virum insignem, callidum, amantem rei p., amantem suorum et ad omnia, quae tempus quaesiverat, temperatum, consilii semper alti, nonnumquam tamen 〈ferae〉 frontis, sed prudentiae nimia pervicacia motus inquieti pectoris conprimentis. [2] Hic cum tribunal conscendisset atque Augustus esset appellatus et quaereretur, quem ad modum Numerianus esset occisus, educto gladio Aprum praefectum praetori ostentans percussit, addens verbis suis: «hic est auctor necis Numeriani». Sic Aper foeda vita et deformibus consiliis agens dignum moribus suis exitum dedit. [3] Avus meus26 rettulit interfuisse contioni cum Diocletiani manu esset Aper occisus; dixisse autem dicebat Diocletianum, 〈cum Aprum〉 percussisset: «gloriare, Aper, ‘ Aeneae magni dextra cadis ’27».

[4] Quod ego miror de homine militari, quamvis plurimos plane sciam militares vel Graece vel Latine vel comicorum usurpare dicta vel talium poetarum. [5] Ipsi denique comici plerumque sic milites inducunt, ut eos faciant vetera dicta usurpare. Nam et «lepus tute es: pulpamentum quaeris»28 Livii Andronici29 dictum est, 〈et〉 multa alia, quae Plautus Caeciliusque posuerunt. [14, 1] Curiosum non puto neque satis vulgare fabellam de Diocletiano Augusto ponere hoc convenientem loco, quae illi data est ad omen imperii – avus meus mihi rettulit ab ipso Diocletiano compertum –. [2] «Cum», inquit, «Diocletianus apud Tungros in Gallia in quadam caupona moraretur in minoribus adhuc locis militans et cum Dryade quadam muliere rationem convictus sui cotidiani faceret atque illa diceret: «Diocletiane, nimium avarus, nimium parcus es», ioco non serio Diocletianus respondisse fertur: «tunc ero

largus, cum fuero imperator». [3] Post quod verbum Dryas dixisse fertur: «Diocletiane, iocari noli, nam eris imperator, cum Aprum occideris». [15, 1] Semper in animo Diocletianus habuit imperii cupiditatem, idque Maximiano30 conscio atque avo meo, cui hoc dictum a Dryade ipse rettulerat. Denique, ut erat altus, risit et tacuit. [2] Apros tamen in venatibus, ubi fuit facultas, manu sua semper occidit. [3] Denique cum Aurelianus imperium accepisset, cum Probus, cum Tacitus, cum ipse Carus, Diocletianus dixit: «ego semper apros occido, sed alter utitur pulpamento». [4] Iam illud notum est atque vulgatum, quod, cum occidisset Aprum praefectum praet., dixisse fertur: «tandem occidi Aprum31 fatalem». [5] Ipsum Diocletianum idem avus meus dixisse dicebat nullam aliam sibi causam occidendi manu sua fuisse, nisi ut impleret Dryadis dictum et suum firmaret imperium. [6] Non enim tam crudelem se innotescere cuperet, primis maxime diebus imperii, nisi illum necessitas ad hanc atrocitatem occisionis adtraheret. [7] Dictum est de Caro, dictum etiam de Numeriano. [16, 1] Superest nobis Carinus32, homo omnium contaminatissimus, adulter, frequens corruptor iuventutis (pudet dicere, quod in litteras Onesimus rettulit), ipse quoque male usus genio sexus sui33. [2] Hic cum Caesar decretis sibi Galliis atque Italia, Illyrico, Hispaniis ac Brittanniis et Africa relictus a patre Caesareanum teneret imperium, sed ea lege, ut omnia faceret, quae Augusti faciunt34, inormibus se vitiis et ingenti foeditate maculavit, [3] amicos optimos quosque relegavit, pessimum quemque elegit aut tenuit, praef. urbi unum ex cancellariis35 suis fecit, quo foedius nec cogitari potuit aliquando nec dici. [4] Praef. praetorii, quem habebat, occidit; [5] in eius locum Matronianum, veterem conciliatorem, fecit, unum ex his notariis, quem stuprorum et libidinum conscium semper atque adiutorem habuerat. [6] Invito patre consul processit36. Superbas ad senatum litteras dedit. Vulgo urbis Romae, quasi populo Romano, bona senatus promisit. [7] Uxores ducendo ac reiciendo novem duxit pulsis plerisque praegnatibus. Mimis, meretricibus, pantomimis, cantoribus atque lenonibus Palatium replevit. [8] Fastidium suscribendi tantum habuit, ut inpurum quendam, cum quo semper meridie iocabatur, ad suscribendum poneret, quem obiurgabat plerumque, quod bene suam imitaretur manum. [17, 1] Habuit gemmas in calceis37; nisi gemmata fibula usus non est, balteum etiam saepe gemmatum. Regem denique illum Illyrici plerique vocitarunt. [2] Praef(ectis) numquam, consulibus obviam processit. Hominibus

inprobis plurimum detulit eosque ad convivium semper vocavit. [3] Centum libras avium, centum piscium, mille diversae carnis in convivio suo frequenter exhibuit. Vini plurimum effudit. Inter poma et melones natavit. Rosis Mediolanensibus et triclinia et cubicula stravit. [4] Balneis ita frigidis usus est, ut solent esse cellae suppositoriae, frigidariis semper nivalibus. [5] Cum hiemis tempore ad quendam locum venisset, in quo fontana esset pertepida, ut adsolet per hiemem naturaliter, eaque in piscina usus esset, dixisse balneatoribus fertur: «aquam mihi muliebrem praeparastis». Atque hoc eius clarissimum dictum effertur. [6] Audiebat pater eius, quae ille faceret, et clamabat: «non est meus». Statuerat denique Constantium38, qui postea Caesar est factus, tunc autem praesidatum Dalmatiae administrabat, in locum eius subrogare, quod nemo tunc vir melior videbatur, illum vero, ut Onesimus dicit, occidere. [7] Longum est, si de eius luxuria plura velim dicere. Quicumque ostiatim cupit noscere, legat etiam Fulvium Asprianum39 usque ad taedium gestorum eius universa dicentem. [18, 1] Hic ubi patrem fulmine absumptum, fratrem a socero interemptum, Diocletianum Augustum appellatum comperit, maiora vitia et scelera edidit, quasi iam liber a frenis domesticae pietatis suorum mortibus, absolutus. [2] Nec ei tamen defuit ad vindicandum sibimet imperium vigor mentis. Nam contra Diocletianum multis proeliis conflixit, sed ultima pugna apud Margum commissa victus occubuit40. [3] Hic trium principum fuit finis, Cari, Numeriani et Carini. Post quos Diocletianum et Maximianum principes 〈dii〉 dederunt, iungentes talibus viris Galerium atque Constantium, quorum alter natus est, qui acceptam ignominiam Valeriani captivitate deleret41, alter, qui Gallias Romanis legibus redderet42. [4] Quattuor sane principes mundi fortes, sapientes, benigni et admodum liberales, unum in rem p. sentientes, s〈em〉per reverent〈es〉 Romani senatus, moderati, populi amici, 〈sem〉pe〈r〉 s〈an〉c〈tit〉ate graves, religiosi et quales principes semper oravimus. [5] Quorum vitam singulis libris Claudius Eusthenius43, qui Diocletiano ab epistulis fuit, scripsit, quod idcirco dixi, ne quis a me rem tantam requireret, maxime cum vel vivorum principum vita non sine reprehensione dicatur. [19, 1] Memorabile maxime Cari et Carini et Numeriani hoc habuit imperium, quod ludos populo R. novis ornatos spectaculis44 dederunt, quos in Palatio circa porticum stabuli pictos vidimus. [2] Nam et neurobaten, qui velut in ventis cothurnatus ferretur, exhibuit et toechobaten, qui per parietem urso

eluso cucurrit, et ursos mimum agentes et item centum salpistas uno crepitu concinentes et centum cerataulas, choraulas centum, etiam pythaulas centum, pantomimos et gymnicos mille, pegma45 praeterea, cuius flammis scaena conflagravit, quam Diocletianus postea magnifìcentiorem reddidit. [3] Mimos praeterea undique advocavit. Exhibuit et ludum Sarmaticum46, quo dulcius nihil est. Exhibuit Cyclopea. Donatum est Graecis artifìcibus et gymnicis et histrionibus et musicis aurum et argentum, donata et vestis serica. [20, 1] Sed haec omnia nescio quantum apud populum gratiae habeant, nullius sunt momenti apud principes bonos. [2] Diocletiani denique dictum fertur, cum ei quidam largitionalis suus editionem Cari laudaret dicens multum placuisse principes illos causa ludorum theatralium ludorumque circensium: «ergo», inquit, «bene risus est in imperio suo Carus». [3] Denique cum omnibus gentibus advocatis Diocletianus daret ludos, parcissime usus {est} libertate, dicens castiores esse oportere ludos spectante censore. [4] Legat hunc locum lunius Messala47, quem ego libere culpare audeo. Ille enim patrimonium suum scaenicis dedit, heredibus abnegavit, matris tunicam dedit mimae, lacernam patris mimo, et recte, si aviae pallio aurato atque purpureo pro syrmate tragoedus uteretur. [5] Inscriptum est adhuc in choraulae pallio tyrianthino, quo ille velut spolio nobilitatis exultat, Messalae nomen uxoris. Iam quid lineas petitas Aegypto loquar? Quid Tyro et Sidone tenuitate perlucidas, micantes purpura, plumandi difficultate pernobiles? [6] Donati sunt 〈ab〉 Atrabatis48 birri petiti, donati birri Canusini49, Africani, opes in scaena non prius visae. [21, 1] Et haec quidem idcirco ego in litteras rettuli, quod futuros editores pudor tangeret, ne patrimonia sua proscriptis legitimis heredibus mimis et balatronibus deputarent. [2] Habe, mi amice, meum munus, quod ego, ut saepe dixi, non eloquentiae causa sed curiositatis in lumen edidi, id praecipue agens, ut, si quis eloquens vellet facta principum reserare, materiam non requireret, habiturus meos libellos ministros eloquii. [3] Te quaeso, sis contentus nosque sic voluisse scribere melius quam potuisse contendas.

[1, 1] La morte di Probo fu una chiara dimostrazione che lo Stato è in balìa del fato, che ora lo solleva alle massime altezze, ora lo riprecipita al fondo. [2] Infatti esso, dopo che, nel suo procedere attraverso i tempi fra gli alti e bassi prodotti in esso da varie vicissitudini, soggetto mutevolmente ora ad una qualche tempesta, ora a qualche evento fortunato, aveva ormai passato quasi tutto quello che la fragilità umana viene a subire nel corso della vita di un singolo, pareva in procinto, dopo tante svariate disavventure, di potere oramai rimanere senza più affanni in una condizione di duratura prosperità, una volta che a un principe violento come Aureliano era succeduto, per volontà del senato e del popolo, il governo di Probo. [3] Ma una terribile sciagura, abbattutasi come un naufragio o un incendio, per volere del fato fece sì che i soldati fossero presi da insano furore e, facendo sparire un tal sovrano, ridusse a uno stato di tale disperazione l’animo dei cittadini, da far temere a tutti il ritorno di un Domiziano, un Vitellio o un Nerone. [4] Infatti nei confronti di un principe di cui non si conosce il carattere è maggiore il timore che la speranza, particolarmente in uno Stato che, lacerato da ferite recenti, dopo aver sofferto la prigionia di Valeriano, la dissolutezza di Gallieno ed inoltre l’avidità di quasi trenta usurpatori che si contendevano le membra straziate dell’organismo civile, era rimasto prostrato dal dolore. [2, 1] Se infatti vogliamo ripercorrere1 partendo dalla fondazione della città, le vicissitudini cui è stato soggetto lo Stato romano, troveremo che nessun altro ha alternato maggiormente momenti di splendore e di declino. [2] E, per cominciare da Romolo, vero padre e progenitore del nostro Stato, quale felice condizione fu quella di lui, che fondò, stabilì e rafforzò lo Stato, e, unico fra tutti i fondatori di città, lasciò la sua come un organismo ormai perfettamente compiuto! [3] Che dire poi di Numa, che ad una città agitata da fremiti di guerra e carica di trionfi diede il saldo baluardo della religione? [4] La nostra città prosperò dunque sino al tempo di Tarquinio il Superbo, ma, sconvolta dalla tempesta scatenata dal malgoverno di quel sovrano, riuscì a liberarsene a prezzo di gravi danni. [5] Crebbe successivamente fino all’epoca della guerra gallica, ma come sommersa, per così dire, da un naufragio, dopo che la città era stata occupata ad eccezione della rocca, dovette soffrire un danno che ebbe quasi ad annullare il benessere che aveva a quel tempo raggiunto. [6] Riuscì in seguito a risollevarsi, ma venne schiacciata dal peso delle guerre puniche e del terrore suscitato da Pirro, fino al punto che nell’angoscia più profonda ebbe a provare i travagli propri della fragile

condizione umana. [3, 1] Poi, dopo la vittoria su Cartagine, crebbe in potenza, estendendo il suo dominio al di là dei mari, ma, in preda a discordie sociali, ormai scemata ogni sensazione di prosperità, andò invecchiando sino ad Augusto, logorandosi nelle guerre civili. Fu poi richiamata a nuova vita da Augusto, se è lecito usare questa espressione, dato che ciò comportò la perdita della libertà. [2] Comunque, anche se all’interno non era in una condizione felice, presso i popoli stranieri godeva però di grande prestigio; e in seguito, dopo aver sofferto tanti Neroni, rialzò il capo grazie a Vespasiano. [3] E senza aver potuto godere di tutta la prosperità del regno di Tito, fu lacerata dalla ferocia di Domiziano; si trovò poi in una condizione migliore di quella consueta grazie a Nerva e Traiano, fino a Marco, ma fu straziata dalla furia crudele di Commodo. [4] Dopo ciò, se si fa eccezione per il governo scrupoloso di Severo, non ebbe più a godere di alcun benessere fino al regno di Alessandro figlio di Mamea. [5] Sarebbe troppo lungo riportare qui insieme tutti quanti gli eventi successivi: in effetti non ebbe la possibilità di fruire del regno di Valeriano, e per quindici anni dovette sopportare quello di Gallieno. [6] La fortuna, amante della varietà e quasi sempre nemica della giustizia, negò a Claudio un impero durevole. [7] E in effetti tale è il modo in cui fu ucciso Aureliano, in cui sparì Tacito, in cui fu assassinato Probo, che appare chiaro che nulla è tanto caro alla fortuna quanto il mutare continuo di ciò che attiene alla vita politica, provosunt cato dal succedersi sempre vario degli eventi. [8] Ma a che scopo indugiamo in queste lamentele sulle vicende dei tempi? Veniamo a Caro, un uomo, per così dire, di media levatura e da annoverare piuttosto tra i buoni che i cattivi principi, nonché meritevole di un ricordo assai migliore se non avesse lasciato un erede come Carino. [4, 1] Sulla patria di Caro2 le versioni offerte dalla maggioranza delle fonti sono così dubbie, che, per via di questa grande varietà di informazioni, non mi è possibile dire quale sia la vera. [2] Onesimo3 ad esempio, che scrisse una documentatissima biografìa di Probo, sostiene che egli nacque e fu allevato a Roma, mentre i suoi genitori sarebbero stati illirici. [3] Invece Fabio Cerilliano4, che trattò con grande acume i tempi di Caro, Carino e Numeriano, asserisce che egli nacque non a Roma ma nell’Illirico, e da genitori originari non della Pannonia, ma bensì di Cartagine. [4] Ricordo di aver letto in un’effemeride che Caro era di Milano, ma era stato iscritto all’anagrafe di Aquileia5. [5] Dal canto suo egli – questo non lo si può negare –, come prova una lettera da lui scritta in qualità di proconsole al suo legato esortandolo a

compiere bene il proprio ufficio, desiderava essere considerato romano. [6] Ecco la lettera di Caro: «Marco Aurelio Caro, proconsole della Cilicia6, al suo luogotenente Giunio. I nostri antenati, quei famosi capi di Roma, allorché nominavano i loro funzionari, si attenevano al principio di dare, attraverso la scelta di coloro cui affidavano gli affari dello Stato, un saggio del loro carattere. [7] Per quel che mi riguarda, anche se così non fosse, non mi comporterei diversamente: né altrimenti ho agito se, grazie a te, non rimarrò deluso; fa’ dunque sì che non abbiamo a discostarci dall’esempio dei nostri antenati, vale a dire i Romani». [8] Vedi bene come in tutta la lettera egli vuole che si intendano come suoi antenati i Romani. [5, 1] Questa affermazione preferenziale riguardo alla sua origine appare anche da un suo messaggio indirizzato al senato. Non appena infatti fu eletto imperatore, così scrisse – tra l’altro – all’ordine senatorio: [2] «Bisogna dunque rallegrarsi, o senatori, che sia stato eletto imperatore uno del vostro ordine, nonché della vostra razza. Perciò io porrò ogni sforzo a che non abbiano ad apparire migliori gli stranieri che i vostri concittadini». [3] Anche da questo passo risulta ben chiaro che egli voleva che si pensasse a lui come ad un Romano, cioè uno nato a Roma. [4] Costui dunque, passato attraverso i gradi della carriera civile e militare – come indicano le iscrizioni delle statue a lui dedicate7 –, fu nominato prefetto del pretorio da Probo e si conquistò tanto affetto presso i soldati che, dopo l’uccisione di un principe così grande quale Probo, apparve in assoluto il più degno di ricevere l’impero. [6, 1] Non ignoro che molti hanno avuto il sospetto, e di fatto l’hanno espresso nei loro resoconti, che Probo fosse ucciso in seguito a un complotto ordito da Caro, ma né i meriti di Probo nei confronti di Caro, né il carattere di quest’ultimo lasciano credere ad una tale ipotesi, anche tenendo conto che Caro vendicò la morte di Probo con grande severità e fermezza. [2] Quanto poi alla considerazione in cui Probo teneva Caro, essa appare da una lettera indirizzata al senato in merito alle cariche a lui conferite: «Probo Augusto saluta il suo devotissimo senato». Si legge fra l’altro: «Il nostro Stato sarebbe fortunato se io avessi un maggior numero di uomini come Caro, o come i più fra di voi, destinati ai vari uffici. [3] Perciò, se siete d’accordo, io propongo di decretare a quest’uomo di antico stampo una statua equestre, e, in aggiunta, di fargli costruire a pubbliche spese una casa, con marmi da me forniti. Conviene infatti che noi abbiamo a ricompensare

l’onestà di un tal uomo». E così via. [7, 1] Ma per non aggiungere i particolari più insignificanti e quelli che si potranno trovare in altri autori, dirò che non appena ricevette il potere imperiale con il consenso di tutti i soldati, intraprese la guerra contro i Persiani che Probo stava preparando8, dopo aver conferito ai figli il titolo di Cesari, stabilendo di destinare Carino alla difesa delle Gallie con un contingente di truppe sceltissime, e di condurre con sé Numeriano, un giovane eccellente e, in particolare, dotato anche di ottime qualità oratorie. [2] Si dice che più volte egli abbia manifestato il suo rincrescimento per il fatto che doveva mandare a reggere le Gallie Carino, e che l’età di Numeriano non era tale da consentire di affidargli il governo della Gallia, che richiede in massimo grado un uomo che sappia esercitare il comando con estrema fermezza. Ma di ciò parleremo altrove. [3] In effetti possediamo anche una lettera di Caro in cui egli si lamenta con il suo prefetto dei costumi di Carino, sì che appare come risponda al vero quanto riferisce Onesimo, che cioè Caro aveva in animo di togliere a Carino il comando legato al titolo di Cesare. [4] Ma di questo argomento, come abbiamo detto, bisognerà parlare in altra sede, nella stessa biografia di Carino9. Ora torneremo a seguire l’ordine degli avvenimenti. [8, 1] Con il grande apparato bellico e con tutte le forze apprestate da Probo, Caro, dopo avere per gran parte portata a conclusione la guerra contro i Sarmati10 che aveva in corso, mosse contro i Persiani11 e, senza incontrare alcuna resistenza, occupò la Mesopotamia arrivando sino a Ctesifonte; e, approfittando delle lotte intestine dei Persiani12, poté guadagnarsi il titolo di «Persico»13. [2] Ma proprio quando egli – spinto dalla sua brama di gloria e dalle insistenti sollecitazioni del suo prefetto14, che mirava alla rovina di lui e di suo figlio, aspirando ad avere il potere – si era addentrato assai profondamente nel territorio nemico, trovò la morte, secondo alcuni per una malattia, secondo i più colpito da un fulmine15. [3] Non si può negare che al momento della sua morte si udì all’improvviso un tuono così fragoroso che molti – a quanto si dice – morirono per la paura stessa. Egli dunque, che giaceva ammalato nella sua tenda, allo scoppio di quel tremendo temporale, con lo spaventoso balenare dei lampi e, ancor più spaventoso, come abbiamo detto, il tuono, venne meno. [4] Giulio Calpurnio, il suo segretario16, inviò al prefetto dell’Urbe una lettera in merito alla morte di Caro in cui si legge fra l’altro: [5] «Mentre il nostro principe Caro, veramente ‘ caro ’, giaceva

ammalato, scoppiò all’improvviso una tempesta di tale violenza che ogni cosa era avvolta dal buio, e non potevamo distinguerci l’un l’altro; poi il prolungato guizzare dei lampi e rimbombare dei tuoni, alla maniera di folgori in un cielo infuocato, ci rese tutti incapaci di connettere. [6] E all’improvviso si sentì gridare che l’imperatore era morto, proprio dopo quel tuono che aveva seminato dappertutto il terrore. [7] Per giunta, i servitori, in segno di dolore per la morte dell’imperatore, diedero fuoco alla tenda. Dal che ebbe origine subitamente la fama che egli fosse stato ucciso da un fulmine, mentre – per quanto ne possiamo sapere – risulta che morì di malattia». [9, 1] Ho riportato questa lettera perché molti sostengono che vi sia una forza misteriosa del fato per la quale un imperatore romano non potrebbe oltrepassare Ctesifonte, e che Caro sia stato ucciso dal fulmine per aver voluto andar oltre quei confini che erano stati stabiliti dal fato stesso17. [2] Ma si tenga i suoi espedienti la vigliaccheria, che deve rimanere schiacciata dalle virtù. [3] È del tutto lecito, e sempre lo sarà (è stato dimostrato dall’esempio del venerabile Cesare Massimiano18), vincere i Persiani e spingersi anche oltre le loro terre, e ritengo che così sarà in futuro, a meno che i nostri non operino in modo da perdere il promesso favore degli dèi19. [4] Che Caro fosse un buon sovrano lo indicano molte cose, e particolarmente anche il fatto che, non appena ottenne l’impero, riuscì, con un’abile tattica volta a suddividere i vari scontri, ad infliggere un tale colpo ai Sarmati – che avevano preso a tal punto baldanza in seguito alla morte di Probo da minacciare di invadere non solo l’Illirico, ma anche la Tracia e l’Italia –, che in pochissimi giorni poté ridare sicurezza alla Pannonia uccidendo sedicimila Sarmati e catturandone ventimila di ambo i sessi. [10, 1] Credo che sul conto di Caro questo possa bastare. Passiamo a Numeriano. La sua storia appare strettamente connessa con quella del padre, e resa più interessante dal ruolo che vi ebbe il suocero. E benché Carino fosse più anziano e inoltre avesse ricevuto il titolo di Cesare prima di Numeriano, è nondimeno necessario che parliamo prima di quest’ultimo, che seguì da vicino il padre nella morte, e successivamente di Carino, che fu ucciso da Diocleziano Augusto, un uomo prezioso per lo Stato, dopo essere venuto a conflitto con lui. [11, 1] Numeriano20, figlio di Caro, era di ottimi costumi e veramente degno dell’impero; eccelleva inoltre nell’oratoria, tanto che ancora giovinetto tenne pubbliche declamazioni e sono tramandati alcuni suoi scritti famosi, peraltro più rispondenti ai caratteri di una declamazione che non allo stile

ciceroniano. [2] Quanto al comporre versi, si dice che il suo valore fosse tale da superare tutti i poeti del suo tempo. Gareggiò infatti con Olimpio Nemesiano21, l’autore degli Alieutica, dei Cynegetica e dei Nautica, che rifulse per la fama acquistata in ogni genere di stile, e, quando pubblicò i versi che andava via via recitando, offuscò – alla maniera di un raggio di sole – la fama del giambografo Aurelio Apollinare22, che aveva celebrato le gesta di suo padre. [3] Si dice che il suo discorso indirizzato al senato fosse così ricco di arte oratoria da fargli decretare una statua non come Cesare ma come oratore: essa avrebbe dovuto essere collocata nella Biblioteca Ulpia, con alla base l’iscrizione: «A Numeriano Cesare, il più efficace oratore del suo tempo». [12, 1] Egli accompagnò il padre nel corso della guerra di Persia. Dopo la sua morte, mentre aveva cominciato a soffrire agli occhi – un genere di disturbo che, sfinito com’era dalle eccessive veglie, gli era quanto mai abituale –, e veniva portato in lettiga, fu assassinato23 da una congiura ordita dal suocero Apro, che tramava per impadronirsi del potere. [2] Per molti giorni i soldati chiesero notizie sulla salute dell’imperatore, ma Apro diceva loro che non era possibile vederlo, in quanto egli doveva tenere lontani dal vento e dal sole i suoi occhi gravemente indeboliti: quando però il fetore mandato dal cadavere svelò il delitto24, tutti si gettarono su Apro, il cui complotto non poteva più rimanere nascosto e lo trascinarono davanti alle insegne e al quartier generale. Si tenne allora una grande assemblea e fu allestito anche un palco. [13, 1] E quando fu posta la questione di chi dovesse diventare, a preferenza d’altri, il giusto vendicatore di Numeriano e di chi si doveva dare allo Stato quale buon sovrano, tutti, in una unanimità che ha del divino, proclamarono Augusto Diocleziano25, che – a quanto si diceva – aveva già ricevuto molti presagi del futuro impero e che a quel tempo comandava la guardia personale dell’imperatore: un uomo insigne, accorto, amante dello Stato, amante della sua famiglia, e preparato a far fronte a tutte le esigenze del momento; capace sempre di concepire alti disegni, talvolta peraltro duro nei suoi atteggiamenti, ma dotato di una saggezza in grado di dominare con grande caparbietà i moti del suo animo inquieto. [2] Dopo che, salito sulla tribuna, fu proclamato Augusto, mentre ci si chiedeva in che modo Numeriano fosse stato ucciso, egli, sguainata la spada, additò il prefetto del pretorio Apro e lo colpì esclamando: «Questo è l’assassino di Numeriano». Così Apro, che aveva vissuto una sporca vita improntata a perfidi disegni,

trovò una fine degna dei suoi costumi. [3] Mio nonno26 riferiva di essere stato presente all’assemblea in cui Apro era stato ucciso per mano di Diocleziano; egli diceva che Diocleziano, nell’atto di colpire Apro, ebbe ad esclamare: «Sii orgoglioso, Apro, ‘ per mano del grande Enea tu cadi ’27».

[4] Mi stupisco di trovare questa citazione sulla bocca di un uomo d’armi, per quanto sappia bene che molti militari ricorrono spesso ad espressioni in greco e in latino tratte dai comici o da altri poeti del genere. [5] Sono poi gli stessi comici che spesso rappresentano i loro soldati facendo loro adoperare detti antichi. Ad esempio, infatti, «Tu sei una lepre, e cerchi della carne»28 è una citazione di Livio Andronico29, e così vi sono molti altri motti che risalgono a Plauto e Cecilio. [14, 1] Non credo risulti ozioso né banale riportare un aneddoto su Diocleziano Augusto che viene qui a proposito, in quanto l’episodio fu interpretato come un presagio del suo futuro impero – mio nonno mi disse di averlo appreso direttamente da Diocleziano. [2] Una volta, come egli raccontava, Diocleziano, che allora militava ancora nei ranghi inferiori e si trovava di stanza in Gallia, nel paese dei Tungri, alloggiato in una locanda, stava facendo i conti del suo vitto giornaliero con una donna che era una druidessa; a un certo punto quest’ultima gli disse: «Diocleziano, tu sei troppo avido e spilorcio!», al che egli replicò in tono scherzoso: «Quando sarò imperatore, allora sì che darò con larghezza!». [3] La risposta della druidessa, a quanto si dice, fu: «Diocleziano, non scherzare, ché tu sarai davvero imperatore, dopo che avrai ucciso un Cinghiale». [15, 1] Diocleziano nutrì sempre in sé l’ambizione di diventare imperatore, e senza farne mistero né con Massimiano30 né con mio nonno, al quale aveva riferito egli stesso queste parole della druidessa. In conclusione, da persona superiore, rise e non ne parlò più. [2] Nondimeno, durante le cacce, allorché ne aveva l’opportunità, uccideva sempre di sua mano dei cinghiali. [3] E quando salì al potere Aureliano, e dopo di lui Probo, Tacito, e lo stesso Caro, Diocleziano diceva: «Io non faccio che ammazzare cinghiali, ma la carne se la mangiano altri». [4] È poi noto e risaputo che, dopo aver ucciso il prefetto del pretorio Apro, egli – come raccontano – ebbe ad esclamare: «Finalmente ho ucciso il Cinghiale31 fatidico!». [5] Sempre mio nonno diceva che Diocleziano stesso affermò che l’unico scopo per cui aveva ucciso di sua mano Apro era stato quello di portare a realizzazione la profezia della druidessa e di rendere saldo il proprio potere. [6] Non avrebbe infatti desiderato farsi conoscere come

tanto crudele, particolarmente nei primi giorni del suo impero, se la necessità non lo avesse tratto a compiere questa spietata uccisione. [7] Abbiamo dunque parlato di Caro, e così pure di Numeriano. [16, 1] Rimane ancora da trattare Carino32, uomo sconcio quant’altri mai, adultero, abituale corruttore di giovani (mi vergogno a riferire quanto narra in proposito Onesimo) ed egli pure incline ad un uso pervertito del suo sesso33. [2] Costui, lasciato dal padre quale Cesare a governare le Gallie, l’Italia, l’Illirico, la Spagna, la Britannia e l’Africa, disponeva del potere proprio di un Cesare, ma con la facoltà di agire in tutto allo stesso modo degli Augusti34, e ne approfittò per macchiarsi di vizi spropositati e di ripugnanti sconcezze, [3] per mandare in esilio tutti i migliori fra i suoi amici, per nominare o conservare nelle cariche tutti i peggiori individui, per creare prefetto dell’Urbe uno dei suoi uscieri35, cosa che più vergognosa non avrebbe mai potuto pensarsi né dirsi. [4] Uccise il prefetto del pretorio che aveva, [5] e in luogo di esso nominò Matroniano, un vecchio lenone, uno dei suoi segretari, che aveva sempre avuto quale testimone e complice dei suoi stupri e dei suoi atti di lussuria. [6] Si presentò in pubblico come console contro il volere del padre36. Inviò al senato lettere arroganti. Promise alla plebaglia di Roma, quasi costituisse il vero popolo romano, i beni dei senatori. [7] A forza di matrimoni e ripudi, arrivò a prendere ben nove mogli, scacciando le più quando erano incinte. Riempì il Palazzo di mimi, meretrici, pantomimi, cantori e ruffiani. [8] Lo infastidiva a tal punto il dover firmare documenti, che destinò a quell’incarico uno sporcaccione, assieme al quale se la spassava sempre verso mezzogiorno, e che ammoniva continuamente ad imitare bene la sua scrittura. [17, 1] Portava gemme nei calzari37; usava solo fìbbie gemmate, e anche la cintura era spesso ornata di gemme. Molti Illirici gli davano addirittura il titolo di re. [2] Non si mosse mai per andare incontro ai prefetti e ai consoli. Ricolmò di onori individui abietti, invitandoli sempre alla sua tavola. [3] Nei suoi banchetti faceva imbandire di frequente cento libbre di carne di uccello, cento di carne di pesce, mille di carne di animali vari. Faceva scorrere fiumi di vino, e nuotava tra la frutta e i meloni. Faceva cospargere i triclini e le stanze di rose di Milano. [4] Faceva il bagno in acqua tanto fredda, quale è di solito la temperatura delle celle poste sotto le ghiacciaie, le quali sono sempre mantenute nel gelo. [5] Una volta che, in inverno, era giunto in una località dove vi era una fonte di acqua piuttosto tiepida – come solitamente sgorga di sua natura durante la stagione invernale – e aveva fatto il bagno con essa in una vasca, ebbe a dire – a quanto raccontano – agli inservienti: «Mi avete

preparato dell’acqua adatta a una donna!». E questa viene ricordata come la sua frase più famosa. [6] Suo padre, all’udire quello che faceva, esclamava: «Non è mio figlio!». E alla fine aveva deciso di sostituirlo con Costanzo38 – che in seguito sarebbe diventato Cesare, ma che allora governava la Dalmazia –, giacché nessuno appariva a quel tempo migliore di quell’uomo, e, come riferisce Onesimo, di sopprimerlo. [7] Sarebbe troppo lungo se volessi fermarmi a parlare ulteriormente della sua dissolutezza. Chiunque desidera conoscerne i particolari, si legga anche Fulvio Aspriano39, che si sofferma fino alla noia su ogni atto da lui compiuto. [18, 1] Costui, quando apprese che suo padre era stato ucciso da un fulmine, che il fratello era stato assassinato dal suocero e che Diocleziano era stato proclamato Augusto, si lasciò andare a vizi e delitti ancor più gravi, come se oramai la morte dei suoi congiunti lo avesse reso libero e sciolto dai vincoli di rispetto nei confronti della famiglia. [2] Non gli mancò peraltro forza d’animo nel difendere il proprio potere. Combatté infatti molte battaglie contro Diocleziano, ma nel corso dell’ultima, ingaggiata nei pressi di Margo, venne sconfìtto e ucciso40. [3] Questa fu la fine dei tre principi Caro, Numeriano e Carino. Dopo di loro gli dèi ci hanno dato quali imperatori Diocleziano e Massimiano, aggiungendo a questi uomini di tal valore Galerio e Costanzo, dei quali l’uno nacque per cancellare l’onta ricevuta con la prigionia di Valeriano41, l’altro per restituire le Gallie alla sovranità romana42. [4] Davvero quattro principi dell’umanità forti, saggi, benigni e molto generosi, concordi nel governo dello Stato, sempre rispettosi nei confronti del senato Romano, moderati, amici del popolo, sempre autorevoli nella loro probità, religiosi, e proprio tali quali abbiamo sempre chiesto che fossero i principi. [5] Le loro biografie sono state narrate, ciascuna in un libro a parte, da Claudio Eustenio43, che fu segretario imperiale di Diocleziano: e questo l’ho detto perché nessuno abbia a richiedere a me un’opera di tale impegno, soprattutto tenendo conto che neppure dei principi viventi è possibile narrare la biografia senza incorrere in qualche critica. [19, 1] L’evento più memorabile dell’impero di Caro, Carino e Numeriano fu costituito dai giochi allestiti con spettacoli di nuovo tipo44 che essi offrirono al popolo romano e che vediamo dipinti lungo il portico delle scuderie nel Palazzo. [2] Venne infatti presentato un acrobata che, pur calzando coturni, pareva quasi avanzare portato dal vento, un saltimbanco che correva su per

una parete sfuggendo ad un orso, orsi che rappresentavano una pantomima, e ancora cento trombettieri che suonavano all’unisono, cento suonatori di pifferi, cento flautisti da coro, e ancora cento flautisti da monologo, mille pantomimi e ginnasti, e inoltre una macchina teatrale45 che, incendiatasi, fece bruciare la scena, la quale in seguito fu ricostruita più splendida da Diocleziano. [3] Furono fatti venire mimi da ogni parte. Vennero allestiti anche i giochi Sarmatici46, più appassionanti di qualsiasi altro spettacolo, nonché una rappresentazione del mito del Ciclope. Agli artisti, ginnasti, attori e musici greci venne donato oro e argento e anche una veste di seta. [20, 1] Tutto questo non so quanto sia apprezzato dal popolo, ma certo i buoni principi non vi dànno alcuna importanza. [2] Viene anche riportata una battuta di Diocleziano, da lui pronunziata in risposta ad un suo tesoriere che gli tesseva le lodi degli spettacoli dati da Caro, affermando che quegli imperatori avevano riscosso molti consensi in grazia degli spettacoli teatrali e dei giochi circensi: «Dunque», egli disse, «Caro ha fatto molto ridere nel corso del suo impero!». [3] Quando poi fu Diocleziano ad organizzare dei giochi, ai quali erano stati invitati tutti i popoli, fece in modo di largheggiare il meno possibile, affermando che i giochi celebrati alla presenza del censore debbono essere improntati ad una maggiore austerità. [4] Questo passo dovrebbe leggerselo Giunio Messalla47, che io non esito ad accusare apertamente. Egli infatti ha elargito il suo patrimonio agli attori, defraudandone gli eredi, ha regalato a una mima la tunica della madre e il mantello del padre a un mimo, e passi pure se un attore tragico indossasse, in luogo del costume, il mantello d’oro e di porpora di sua nonna: [5] ma sul mantello purpureo di un flautista, del quale questi va tronfio come se si trattasse di una preda strappata alla nobiltà, sta ancora scritto il nome della moglie di Messalla. E che dire delle stoffe di lino importate dall’Egitto? Che dire di quelle importate da Tiro e Sidone, tanto sottili da risultare trasparenti, splendenti di porpora, pregiatissime per la difficoltà di ricamarvi sopra? [6] Regalò mantelli importati dagli Atrabati48 e inoltre mantelli canosini49 e africani: un lusso mai visto prima sulla scena. [21, 1] Tutto questo l’ho riferito perché i futuri organizzatori di giochi abbiano a provare un senso di vergogna, che li trattenga dal dissipare i loro beni – escludendone i legittimi eredi – a vantaggio di mimi e buffoni. [2] Eccoti, amico mio, questo mio lavoro, che io – come ho avuto a dirti in più occasioni – ho pubblicato non quale saggio di bello stile, ma in vista del suo impegno documentario, mirando soprattutto a far sì che, se qualche

scrittore dalla prosa raffinata intendesse scrivere le imprese dei principi, non avesse a trovarsi in mancanza di materiale di informazione, avendo nei miei libretti strumenti al suo dire. [3] Ti prego dunque di accontentarti e di tener conto che la mia intenzione sarebbe stata di scrivere meglio di quanto non sia riuscito a fare.

1. Sui riferimenti della HA alla storia di Roma nei secoli precedenti cfr., da un punto di vista generale, H. SZELEST, Die «Historia Augusta» und die frühere römiche Geschichte, «Eos», LXV, 1977, pp. 139 segg. 2. M. Aurelius Carus Augustus (282-283 d. C). 3. Cfr. Quadr. tyr., 13, 1, n. 2. 4. Altrimenti sconosciuto. Cfr. R. SYME, Bogus Authors, in BHAC, 1972-74, Bonn 1976, p. 318. 5. Secondo AURELIO VITTORE (Caes., 39, 2), Caro sarebbe nato a Narona o Narbona nell’Illirico (da non confondere con la Narbona gallica, indicata invece da EUTROPIO, IX, 18, 1): forse l’ipotesi più probabile è proprio che anch’egli, come già Aureliano, Claudio, Probo – e come poi Diocleziano –, fosse originario di quella regione. 6. Cfr. Aurel., 42, 2, n. 4. 7. Nessuna di queste presunte iscrizioni ci è conosciuta. 8. Cfr. Prob., 20, 1. 9. Cfr. 17, 6. 10. Cfr. 9, 4. 11. All’inizio del 283 d. C. 12. Era infatti in corso una lotta fra il re Wahram II e suo fratello Hormizd. 13. Il titolo è confermato da iscrizioni e monete. 14. Apro; cfr. il cap. 12. 15. Le altre fonti, cioè AURELIO VITTORE (Caes., 38, 3), l’Epitome de Caesaribus (38, 3), EUTROPIO (IX, 18, 1), nonché lo stesso ZONARA (XII, 30), che pure dà un’altra versione degli ultimi avvenimenti della vita di Caro, concordano nell’attribuire alla caduta di un fulmine la morte dell’imperatore. Solo nel nostro autore appare il tentativo di far posto a una spiegazione razionale dell’evento. In ogni caso la sua morte dovette avvenire verso la fine dell’estate del 283 d. C., dopo poco più di dieci mesi di regno. 16. Cfr. Pesc. Nig., 7, 4, n. 5. Il personaggio non ci è altrimenti conosciuto. Secondo A. CHASTAGNOL, Trois études sur la Vita Cari, in BHAC, 1972-74, Bonn, 1976, pp. 81 segg., si avrebbe qui – camuffata – un’allusione al poeta bucolico Calpurnio Siculo, del quale sarebbero riconoscibili impronte in questa e nella vita di Probo. 17. Cfr. AURELIO VITTORE, Caes., 38, 4. 18. Galerio Massimiano riuscì ad ottenere, nel 296-297 d. C., vari successi sul re persiano Narsete. 19. Il cosiddetto «oracolo di Ctesifonte» costituisce uno degli argomenti tradizionali per la datazione tarda dell’opera, in quanto vari studiosi hanno voluto vedere in questo passo allusioni specifiche a imprese contro i Persiani, condotte da imperatori della seconda metà del IV sec. d. C. 20. M. Aurelius Numerius Numerianus Augustus; dalle monete non pare che egli abbia avuto il titolo di Augusto prima della morte del padre, allorché lo assunse in unione al fratello Carino. 21. Poeta bucolico del III sec. d. C.; delle sue opere qui citate a noi rimangono solo i primi 325 esametri dei Cynegetica, un poemetto sulla caccia. Sulla menzione di NEMESIANO cfr. CHASTAGNOL, Trois études, cit., pp. 81 segg. 22. Altrimenti sconosciuto. 23. La sua morte avvenne nel corso della marcia di ritorno dalla campagna persiana, attraverso l’Asia Minore, verso la fine dell’estate del 284 d. C. 24. La sua morte sembra essere stata scoperta solo quando l’esercito giunse sul Bosforo, nei pressi di Nicomedia. 25. C. Aurelius Valerius Diocletianus Augustus (284-305 d. C). 26. Cfr. Quadr. tyr., n. 1 a 9, 4. 27. VIRGILIO, Aen., X, 830: sono parole pronunciate da Enea mentre uccide Lauso.

28. Il senso sembra essere: parrebbe che tu fossi un tipo timido e destinato a essere preda degli altri (come appunto una lepre), mentre in realtà sai essere inopinatamente aggressivo (come un carnivoro); in breve: «la lepre si fa cacciatore». Ma la spiegazione esatta dell’espressione, anche in relazione alle implicazioni collegate al contesto in cui si trova, rimane problematica. 29. Si tratta per la verità di un verso che conosciamo da TERENZIO (Eunuchus, 426) ma, essendo ricordato qui tra i vetera dieta, potrebbe essere in effetti derivato da qualche commedia di LIVIO ANDRONICO. 30. Colui che diventerà, nell’ambito dell’ordinamento tetrarchico dioclezianeo, l’Augusto d’Occidente. 31. È evidente il gioco di parole, intraducibile in italiano, fra Aper nome proprio e aper nome dell’animale. 32. M. Aurelius Carinus Augustus. Tutte le fonti dànno di lui un giudizio fortemente negativo, insistendo sulla sua corruzione e crudeltà (ciò si può ricollegare in gran parte all’intenzione di esaltare per contro i suoi successori); per quanto riguarda in particolare l’aspetto della depravazione sessuale cfr. la n. seg. 33. A parere dello CHASTAGNOL, Trois études, cit., pp. 84 segg., il ritratto di Carino nella HA sembrerebbe aver registrato l’eco delle misure prese da Teodosio nel 390 d. C. contro l’omosessualità, ciò che confermerebbe la datazione dopo il 399 d. C. della Vita Cari (in ordine alla quale cfr. n. 5 a 19, 1); nella descrizione, condotta con toni evidentemente accentuati, dei vizi sessuali di Carino (cfr. sopratt. 16, 1-5), la HA sarebbe infatti stata influenzata, almeno sotto forma di reminiscenza, dai termini stessi della costituzione repressiva teodosiana in materia. 34. Nelle iscrizioni e nelle monete appare che Carino assunse ufficialmente il titolo di Augusto quando il padre era ancora in vita. Questa, che era in pratica una divisione dell’impero, ricorda quella tra Valeriano e Gallieno e probabilmente non mancò di influenzare anche quella successiva fra Diocleziano e Massimiano (cfr. MAGIE, III, p. 440, n. 2). 35. Il termine indicava genericamente colui che, addetto appunto ai «cancelli» del tribunale, regolava l’afflusso del pubblico secondo le disposizioni del giudice. Solo dalla metà del IV sec. d. C. troviamo attestato in leggi e iscrizioni il titolo di cancellarius, corrispondente a un ufficio subalterno. Nel nostro caso però il termine non riveste probabilmente tale valore ufficiale, ma pare equivalente al nostro «portinaio», in un contesto in cui si tende a stigmatizzare il modo di agire foedum di Carino, che aveva rivestito di una delle più alte prefetture un personaggio di basso rango. Cfr. A. REINTJES, Untersuchungen zu den Beamten bei den ShA, Düsseldorf, 1961, p. 17. 36. Il particolare lascia alquanto perplessi, dato che Carino fu consul ordinarius assieme a Caro nel 283 d. C. 37. Si trattava di una cosa considerata infamante, non a caso ricordata anche a proposito del dissoluto Elagabalo (cfr. Heliog., 23, 4; Al. Sev., 4, 2). 38. Costanzo I Cloro. 39. Altrimenti sconosciuto. Cfr. R. SYME, Bogus Authors, cit., p. 318. 40. La località di Margus qui ricordata per la sua morte era situata nei pressi del fiume omonimo (l’odierna Morava). La battaglia dovette aver luogo nei primi mesi del 285 d. C.; secondo EUTROPIO (IX, 20), egli sarebbe stato tradito o abbandonato dai suoi soldati, mentre stando al racconto dell’Epitome de Caesaribus, 38, 8 e di ZOSIMO, I, 73, ad ucciderlo sarebbe stato un tribuno al quale egli aveva sedotto la moglie. ZOSIMO inoltre colloca l’episodio nel corso della battaglia in cui Carino dovette fronteggiare l’usurpatore Giuliano (non ricordato nella HA, ma su cui cfr. AURELIO VITTORE, Caes., 39, 10; Epitome de Caesaribus, 38, 6), anziché nell’ambito dello scontro contro Diocleziano. 41. Con le sue vittorie sui Persiani: cfr. 9, 3, n. 2. 42. Con le vittorie su Franchi, Alamanni e altre popolazioni germaniche.

43. Altrimenti sconosciuto. 44. A. CHASTAGNOL, Trois études, cit., pp. 75 segg., vede in questo passo l’impronta della descrizione che il poeta CLAUDIANO (IV-V sec. d. C.) presenta dei giochi dati nell’Anfiteatro dal console del 399 d. C. Manlio Teodoro (cfr. Paneg. dict. Manl. Theod., 285 segg.). 45. Si trattava di una impalcatura preparata ad arte nel teatro o nell’anfiteatro che si poteva far salire, discendere o scomporre rapidamente, e sulla quale venivano fatti comparire gladiatori o artisti. 46. Forse erano celebrati a ricordo della vittoria di Caro sui Sarmati (cfr. 8-9), ma l’autore potrebbe qui pensare ai ludi Sarmatici che avevano luogo fra il 25 novembre e il 1° dicembre (in ricordo delle vittorie di Costantino I nella campagna condotta nel 333 d. C)., Sull’argomento cfr. anche G. ALFÖLDY, Ein bellum Sarmaticum und ein ludus Sarmaticus in der HA, in BHAC, 1964-65, Bonn, 1966, pp. 29 segg. che, ipotizzando che l’autore abbia personalmente assistito a un tale ludus, ritiene che difficilmente ciò sia potuto avvenire dopo il 384 d. C., allorché si ebbe l’ultima campagna di un certo rilievo contro quelle popolazioni e, nel corso del trionfo, furono fatti combattere nell’arena prigionieri Sarmati. 47. Altrimenti sconosciuto. 48. Cfr. Gall., 6, 6, n. 6. 49. Provenienti da Canusium (oggi Canosa), citta dell’Apulia la cui lana era particolarmente pregiata e famosa.

INDICI

INDICE DEI NOMI*

Abgarus: Ant. Pius, Sev. Ablavius Murena: Claud. Abraham: Al. Sev. Academia: Hadr. Achaei: Gall. Achaia: Hadr., Ant. Pius, Comm., Gall., Tyr. trig., Claud. Achaicae urbes: Gall. Achilleis: Gord. Achilles: Al. Sev., Maxim., Prob., (bis). Achilleus: Aurel. Acholius: Al. Sev., Aurel. (Acilius) Attianus: v. Attianus. Adiabeni: Sev. Adiabenicus: Sev., (Severus); Aurel., (Aurelianus). Adiutrix legio: Hadr. Adrumetina colonia: Did. Iul. Adrumetinus (cfr. Hadrumetinus): Sev. Aebutianus: Comm. Aegyptiaca praefectura: Hadr. Aegyptiacae litterae: Gord. Aegyptiace: Tyr. trig. Aegyptiacus exercitus: Tyr. trig. Aegyptiacus miles: Pesc. Nig. Aegyptia, omnia (scil. animalia): Heliog. Aegyptia pervicacia: Claud. Aegyptiae, lineae: Aurel. Aegyptiae litterae: Tyr. trig.

Aegyptii: M. Ant., Carac., Al. Sev., Tyr. trig., Claud., (bis); Aurel., Quadr. tyr., (bis). Aegyptii, calices: Claud. Aegyptii dracunculi: Heliog. Aegyptii libri: Quadr. tyr. Aegyptium, linum: Gall. Aegyptium vectigal: Aurel. Aegyptius (Camsisoleus): Tyr. trig. Aegyptius, latro (Firmus): Quadr. tyr. Aegyptus: Hadr., Ant. Pius, M. Ant., Av. Cass., Comm., Sev., Pesc. Nig., Gall., Tyr. trig., Claud., Aurel., Tac, Prob., (bis); Quadr. tyr., Car. Aelia, familia: Ver. Aeliae, kalendae: Comm. Aelianus, Celsus: v. Celsus. AELIUS (L. Aelius Caesar = L. Ceionius Commodus): Ael. (vita). - Hadr., (bis); Ant. Pius, M. Ant., Ver., Pert., Cl. Alb., Quadr. tyr., Saepe Verus falso appellatur. Aelius (appellatur Verus): Ver. Aelius Bassianus: Cl. Alb. Aelius Celsus: Sev. Aelius Cesettianus: Tac. Aelius Corduenus: Pesc. Nig. Aelius Cordus: v. Cordus. Aelius Gordianus: Al. Sev. Aelius Hadrianus Afer, Hadriani pater: Hadr. Aelius Hadrianus, Hadriani patruus magnus: Hadr. Aelius Lampridius: v. Lampridius. Aelius Maurus: Sev. Aelius Sabinus: Maxim. Aelius Scorpianus: Prob. Aelius Serenianus: Al. Sev. Aelius Spartianus: v. Spartianus. Aelius Stilo: v. Stilo. Aelius Verus Caesar: v. AELIUS. Aelius Xifidius: Aurel. Aemilia, via: Pert. Aemilia, Clara: v. Clara. Aemilianus (Asellius Aemilianus): Sev., Pesc. Nig., (bis). Aemilianus, Casperius: v. Casperius. AEMILIANUS, tyrannus: Tyr. trig., (vita). - Gall., Tyr. trig. Aemilius, pons: Heliog. Aemilius Iuncus: Comm. Q. Aemilius Laetus: Comm., Pert., (bis); Did. Iul., Sev. Aemilius Parthenianus: Av. Cass. Aeneas: Car.

Aeneis: Gord. Aethiopes aniculae: Heliog. Aethiops: Sev. Aetius: Sev. Aetna mons: Hadr. Afer, cognomen Aelii Hadrian: Hadr. Afer, Caracalli patruelis: Carac. Afer, de Septimio Severo: Pesc. Nig., Cl. Alb., Op. Macr., Aurel. Afer homo: Cl. Alb. Afer rhetor: Diad. Afra, tapetia: Aurel. Afrae, lineae: Aurel. Afri: Sev., Cl. Alb., Geta, Maxim., Gord., (bis); Val., Tyr. trig. Africa: Hadr., Comm., Pert., Did. Jul., Sev., Pesc. Nig., Cl. Alb., Op. Macr., Maxim., Gord., (bis); Max. Balb., Val., Tyr. trig., Tac., Prob., Quadr. tyr., Car. Africana, civitas: Sev. Africana, classis: Comm. Africanae, provinciae: Hadr. Africani: Hadr. Africani (scil. birri): Car. Africanus: Quadr. tyr. Africanus (Gordianus I): Gord. Africanus, cognomen Scipionum: Gord. Africanus, limes: Quadr. tyr. Africanus, proconsulatus: Claud. Agaclytus: M. Ant., Ver., Ver. Agricola: v Calpurnius Agricola. Agrippa (M. Vipsanius): Hadr., Ant. Pius. Agrippa, Marcius: v. Marcius Agrippa. Agrippiana, saepta: Hadr. Agrippina (Colonia Agrippinensis): Tyr. trig., (bis); Prob. Agrippinus, Casperius: v. Casperius Agrippinus. Agrippus histrio: Ver., cfr. Apolaustus et Memfius. Aiax: Maxim. Alamanni: Carac., Tac., Prob., Quadr. tyr. Alamannia: Tyr. trig. Alamannicus (Caracalla): Carac. Alani (vel Halani): Ant. Pius, M. Ant., Maxim., Gord., Aurel., Prob. Alba fluvius: Did. Iul. Alba (urbs): Carac. Alba (regio Germanica): Prob. Albani: Hadr., Val., Aurel. Albanum: Av. Cass.

Albanus mons: Maxim. Albingauni: Quadr. tyr. Albini: Cl. Alb. Albiniana defectio: Sev. Albiniani: Sev. Albinus, Ceionius: v. Ceionius Albinus. Albinus, Clodius: v. CLODIUS ALBINUS. Albinus, Nummius: v. Nummius Albinus. Albinus, Pescennius: v. Pescennius Albinus. Albus (Clodius Albinus): Pesc. Nig., Cl. Alb. Albinus, Pescennius: v. Pescennius. Alexander (Iulius?): Comm. Alexander Aemilianus cognominatus: Tyr. trig. Alexander Cotiaensis: M. Ant. Alexander (Imp. Caesar L. Domitius Alexander Aug.): Heliog. Alexander Magnus Macedo: Hadr., M. Ant., Carac., Al. Sev., (ter); (bis); Tyr. trig., (bis); Prob. ALEXANDER SEVERUS (Imp. Caesar M. Aurelius Severus Alexander Aug.): Al. Sev., (vita). Sev., Op. Macr., Heliog., Maxim., (bis); Gord., Aurel., Tac, Prob., Car., Appellatur: Aurelius Alexander Caesar Augustus; Aurelius Alexander Augustus; Aurelius Alexander; Alexander; Alexander Aurelius; Alexander Mamaeae; Antoninus Alexander; Antoninus Aurelius; Antoninus Pius (in acclamatione: Al. Sev.); Antoninus. Alexandrea (urbs): v. Alexandria (ad Aegyptum). Alexandria, filia Avidii Cassii: M. Ant., Av. Cass. Alexandria (ad Aegyptum): Hadr., M. Ant., Ver., Av. Cass., Sev., Carac., Tyr. trig., Quadr. tyr. Alexandria Commodiana togata (Carthago) Comm. Alexandriana, aqua: Al. Sev. Alexandriana purpura: Al. Sev. Alexandrianae, ficus: Al. Sev. Alexandriani, sodales: Al. Sev. Alexandrina, basilica: Al. Sev. Alexandrina civitas: Quadr. tyr. Alexandrina frumenta: Comm. Alexandrina, historia (i. e. historia Alexandri Magni): Tyr. trig. Alexandrina seditio: Hadr. Alexandrini (i. e. Alexandro Severo dediti): Tyr. trig. Alexandrini (Alexandriae cives): M. Ant., Sev., Al. Sev., Tac. Alexandrini, calices: Ver. Alexandrinum opus: Al. Sev. Alexandrinus Aemilianus cognominatus: Tyr. trig. Alexandris (poema): Gord. ἁλιευτϰά, poema Olympii Nemesiani: Car. Allius Fuscus: Comm. Alma mons: Prob.

Alpes: M. Ant., Ver., Maxim., Max. Balb. Alpes Cottiae: Aurel. Alpes maritimae: Aurel., Quadr. tyr. Alpinus caseus: Ant. Pius. Altinum: Ver., (ter). Amazon: Comm. Amazones: Aurel. Amazonicus habitus: Comm. Amazonium, signum Cl. Alb. Amazonius (Commodus): Comm. Amazonius (mensis): Comm. Aminniae, uvae: Tac. Anacharsis Scytha: Aurel. Q. Ancarius: Aurel. Anchialos: Claud. Andro: M. Ant. Aninius Macer: M. Ant. Annia Cornificia (Annia Cornificia Faustina), soror Marci Antonini: M. Ant. Annia Faustina (Annia Galeria Faustina maior), uxor Antonini Pii: Ant. Pius, M. Ant., Av. Cass., Gall. Annia Faustina (Annia Galeria Faustina minor), filia Antonini Pii, uxor Marci Antonini: Ant. Pius, M. Ant., Ver., (bis); Av. Cass., Comm., Carac. Annibal: Pesc. Nig. Annibalianus: Prob. Annius, pater Aelii: Ael., V. (L.) Ceionius Commodus. Annius (Marcus Antoninus): M. Ant. (L. Annius) Arrianus: v. Arrianus. Annius Cornicola: Gall. Annius Fuscus, pater Pescennii Nigri: Pesc. Nig. (M.) Annius Libo, patruus Marci Antonini: M. Ant. T. Annius Milo: Quadr. tyr. Annius Severus: Gord. (Annius) Verissimus (Marcus Antoninus): M. Ant. Annius Verus (Marcus Antoninus): M. Ant. Annius Verus falso appellatur Verus: Hadr., Ant. Pius. Annius Verus, proavus paternus Marci Antonini: M. Ant. (M.) Annius Verus, socer Antonini Pii, avus Marci Antonini: Ant. Pius., Cfr. Verus, cons. a. Annius Verus, pater Marci Antonini: M. Ant. (M. Annius) Verus Caesar, filius Marci Antonini: M. Ant., Comm. Antaeus: Maxim. Antiates: Ant. Pius. Antimachus: Hadr. Antinous: Hadr., Quadr. tyr.

Antiochense, genus: M. Ant. Antiochense oppidum: Ant. Pius. Antiochenses: Hadr., M. Ant., Av. Cass., Sev., Carac., Al. Sev., Gord., Tac. Antiochia: Hadr., M. Ant., Ver., Pert., Sev., Op. Macr., Diad., Al. Sev., Gord., Tyr. trig., Aurel. Antiochianus: Heliog. Antiochianus cons.: v. Atticianus. Antipater, Gallus: v. Gallus Antipater. Antistius: Aurel. (L.) Antistius Burrus vel Byrrus: Comm., Pert. Antistius, Capella: v. Capella. Antius Lupus (M. Antonius Antius Lupus): Comm. Antonii (Gordiani): Op. Macr., Heliog., Gord. Antonini, adnumerantur: Op. Macr. Antonini: Ael., M. Ant., Sev., Pesc. Nig., Cl. Alb., Carac., Geta, Op. Macr., (bis); (bis); Diad., Heliog., (ter); (bis); Al. Sev., Gord., (ter); Claud., Tac, Prob. Antonini nomen: M. Ant., Sev., Pesc. Nig., Geta, Op. Macr., Diad., (bis); Heliog., Al. Sev., Gord. Antonini praenomen: Diad. Antonini signum: Gord. Antoniniana, nex: Op. Macr. Antoniniana (signa et vexilla): Diad. Antoninianae caracallae: Carac., Diad. Antoninianae (paenulae): Diad. Antoninianae (plateae): Heliog. Antoninianae, puellae: Diad. Antoninianae, thermae: Carac. Antoniniani, argentei: Quadr., tyr. Antoniniani, aurei: Aurel., Prob. Antoniniani flammes: M. Ant. Antoniniani, pueri: Diad. Antoniniani, sacerdotes: M. Ant. Antoniniani sodales: Ant. Pius, M. Ant., Carac. Antoninianum, edictum: Diad. Antoninianum nomen: Diad. Antoninias (poema Gordiani I): Gord. Antoninorum cognomen: Gord. Antoninorum nomen (nomen Antoninorum): Carac., Op. Macr., Diad., Heliog., Al. Sev., (bis). Antoninorum nomen vel iam numen: Al. Sev. Antoninorum praenomen: Op. Macr., Diad. Antoninorum sepulchrum: Sev., Carac. Antoninorum templa: Al. Sev. Antoninum, nomen: Heliog. Antoninus (mensis): Ant. Pius. Antoninus, Commodi frater geminus: Comm.

Antoninus, filius Mamertini: v. (Petronius) Antoninus. Antoninus, plebeius homo: Geta. Antoninus, popa: Geta. Antoninus (Pertinax): Op. Macr., Diad. Antoninus (Didius Iulianus): Op. Macr., Diad. Antoninus (Severus): Op. Macr., Diad. Antoninus (Opilius Macrinus): Op. Macr., Diad. Antoninus (Alexander Severus): v. ALEXANDER SEVERUS. Antoninus, Arrius: v. Arrius Antoninus. Antoninus Balbus: v. Antonius Balbus. Antoninus Caracallus: v. CARACALLUS. Antoninus Commodus: v. COMMODUS. Antoninus Diadumenus: v. DIADUMENUS. Antoninus Gallus: Aurel. Antoninus Geta: v. GETA. Antoninus Gordianus (Gordianus I): Gord. Antoninus Gordianus (Gordianus II): Gord. Antoninus Heliogabalus: v. HELIOGABALUS. Antoninus, Marcus: v. MARCUS ANTONINUS PHILOSOPHUS. Antoninus, (Petronius): v. (Petronius) Antoninus. ANTONINUS PIUS (Imp. Caesar T. Aelius Hadrianus Antoninus Augustus Pius): Ant. Pius, (vita). Hadr., (bis), Ael., (bis); M. Ant., (bis); Ver., (bis); (bis); Av. Cass., Pert., Sev., Pesc. Nig., Carac., Geta, Op. Macr., Diad., (bis); (bis); Heliog., Al. Sev., Maxim., Gord., Gall., Tyr. trig., Claud., Aurel., Tac., Appellatur: Arrius Antoninus; T. Aurelius Fulvus Boionius Pius (Ant. Pius); Antoninus Pius; Antoninus; Pius; Titus Aurelius imp.; Aurelius; divus Pius. Antonius (Gordianus I): Gord. Antonius (Gordianus II): Gord., (L.) Antonius (Saturninus): Pesc. Nig., Al. Sev., Quadr. tyr. Antonius Balbus: Sev. Anubis: Comm., Pesc. Nig., Carac. Apamenae, uvae: Heliog. Apenninae: v. Appenninae. Apenninus: v. Appenninus. Aper (M. Flavius Aper) cons. a. Comm. Aper (Septimius Aper): Sev. Aper, socer Numeriani: Car., (ter), (bis), (ter), (bis). Aper, Trosius: v. Trosius. Aper, Vectius: v. Vectius. Apicius: Ael., Heliog. Apis: Hadr. Apolaustus: cfr. Agrippus et Memfius; Ver., Comm. Apollinaris (Aurelius Apollinaris): Carac. Apollinaris, Aurelius: v. Aurelius.

Apollinaris, Sulpicius: v. Sulpicius. Apollinares, ludi: Al. Sev., Max. Balb. Apollinis, imago: Tac. Apollinis, simulacrum: M. Ant. Apollinis templum: Ver., Claud. Apollo: Maxim., Aurel. Apollo Cumanus: Cl. Alb. Apollo, Delficus: Pesc. Nig. Apollodorus: Hadr. Apollonius (rhetor): ver. Apollonius Chalcedonius (stoicus philosophus): Ant. Pius. (bis); M. Ant., Ver. Apollonius Syrus Platonicus: Hadr. Apollonius (Tyanaeus): Al. Sev., Aurel. Appenninae sortes: Quadr. tyr. Appenninus: Pert., Claud. Appia via: Geta. Apuleius (Madaurensis): Cl. Alb. Apuleius Rufinus: Sev. Apulia: Ver., Tyr. trig. Aquileia: M. Ant., Ver., Maxim., Max. Balb. Aquileienses: Maxim., Max. Balb., Tac. Aquileienses, oppidani: Max. Balb. Aquileiensis (scil. ager): Maxim. Aquileiensis civitas: Car. Aquilius: Did. Iul., Pesc. Nig. Aquilo: Ael. Aquinum: Pesc. Nig. Arabes: Sev., Tyr. trig., Aurel. Arabes Eudaemones: Op. Macr., Aurel. Arabia: Hadr., Ant. Pius, (bis); Av. Cass., Sev., Diad. Arabianus: Diad. Arabianus: v. Claudius. Arabianus: v. Flavius. Arabianus: v. Septimius. Arabica, legio: Sev. Arabicus (Severus): Sev. Arabicus (Caracalla): Carac. Arabs, Philippus: v. Philippus. Aradio: Prob. Aratus (poema Ciceronis et Gordiani I): Gord. Arca Caesarea (cfr. Arcena): Al. Sev. Arcena urbs (cfr. Arca): Al. Sev. Archimea: Maxim.

Archontius, Severus: Quadr. tyr. Arcia: Maxim. Arellius Fuscus consularis: Tyr. trig. Arellius Fuscus proconsul: Aurel., Tyr. trig. Areopagitae: Gall. Argunt (Argaithus?): Gord. Aristomachus: Heliog. Aristoteles: Gord., Aurel. Armenia: M. Ant., Ver., Av. Cass., Diad., Al. Sev. Armeniae, alae: Aurel. Armeniacum bellum: Carac. Armeniacum nomen: M. Ant. Armenici: Pesc. Nig. Armenici, nomen (Vero et Marco Antonino delatum): Ver. Armenicus (Aurelianus): Aurel. Armenii: Hadr. Ant. Pius, Op. Macr., Al. Sev., Valer., Tyr. trig., Aurel., Aurel. Armenii sagittarii: Tyr. trig. Arria Fadilla, mater Antonini Pii: Ant. Pius. (Arria) Fadilla, filia Marci Antonini: Av. Cass. Arrianus (L. Annius Arrianus) cons. a. Gord. Arrianus (i. e. Herodianus): Maxim., Gord., Max. Balb. Arrius Antoninus (Antoninus Pius): Hadr., v. ANTONINUS PIUS. Arrius Antoninus (C. Arrius Antoninus): Comm., Pert. Arrius Antoninus, avus maternus Antonini Pii: Ant. Pius. Arrius Augur: v. Augur. Artabanes: Op. Macr. Artabasdes: Valer. Artabassis: Prob. Artaxata: M. Ant. Artaxerses: Al. Sev., Gord. Articuleius (Q. Articuleius Paetus) cons. a. Hadr. Ascanius: Diad. Asclepiodotus: Aurel., Prob. Asellio, Marcus: v. Marcus (Marcius?) Asellio. Asellius Aemilianus: v. Aemilianus. Asellius Claudianus: Sev. Asia: Hadr., Ant. Pius, Ver., Comm., Carac., Diad., Gord., Valer., Gall., Claud., Aurel. Asiaticus, Scipio: v. Scipio. Asinius Praetextatus: v. Praetextatus. (Asinius) Quadratus: v. Quadratus. Asprianus, Fulvius: v. Fulvius. Assyrii: Claud. Astacon: Gall.

Astyanax, Maeonius: v. Maeonius. Ateius Sanctus: Comm. Atellanae: v. Attellanae. Athenae: Hadr., M. Ant., Ver., Sev., Gall. Athenaeum: Pert., Al. Sev., Gord. Athenaeus: Gall. Athenienses: Hadr., Sev., Gall., Aurel., Tac. Atheniensis (Plato): Aurel. Athenio: Maxim. Atherianus, Iulius: v. Iulius Atherianus. Atidius (Attidius) Cornelianus: M. Ant. Atilius Severus: Comm. Atilius Titianus: Ant. Pius. Atrabatica saga: Gall. Atrabati: Car. Attalus: Comm. Attellanae: Hadr. Attianus, Caelius (potius Acilius Attianus): Hadr., (bis). Atticianus (potius Flavius Antiochianus) cons. a. Claud. Atticus (C. Vettius Atticus Sabinianus) cons. a. Gord. Atticus, Herodes: v. Herodes. Aufidius Victorinus (C. Aufidius Victorinus): M. Ant. Augur (Arrius Augur) cons. a. M. Ant. Augusta, historia: Tac. Augusti, forum: Hadr., cfr. Al. Sev. Augustus (Imp. Caesar Augustus): Hadr., Av. Cass., Sev., Pesc. Nig., Heliog., Al. Sev., Gord., Claud., Aurel., Prob., Car., (bis). Cfr. Octavianus. Aurelia (scil. gens): M. Ant. Aurelia (scil. via): Ant. Pius, Aurel. Aurelia, familia (i. e. Antonini Pii): Ver. Aurelia Messalina: Cl. Alb. Aureliani, argentei: Prob. Aureliani, sodales (Antonini Pii): M. Ant. Aurelianus (Imp. Caesar L. Domitius Aurelianus Aug.): Aurel., (vita). - Heliog. Al. Sev., Gall., Tyr. trig., Tac., Prob., Quadr. tyr., (bis); (bis); Car. Aurelianus (an Aemilianus?): Pesc. Nig. Aurelianus, Aureliani nepos: Aurel. Aurelianus tribunus: Aurel. Aurelianus, Pescennius: Sev. L. Aurelius, Aelii pater perperam appellatus: Ael., V. (L.) Ceionius Commodus. T. Aurelius imp.: v. ANTONINUS PIUS Aurelius Alexander: v. ALEXANDER SEVERUS. M. Aurelius Antoninus: v. M. ANTONINUS PHILOSOPHUS; CARACALLUS; HELIOGABALUS.

Aurelius Apollinaris: Carac. Aurelius Commodus: v. COMMODUS. Aurelius Festivus: Quadr. tyr. Aurelius Fulvus, pater Antonini Pii: Ant. Pius. T. Aurelius Fulvus, avus Antonini Pii: Ant. Pius. T. Aurelius Fulvus Boionius Antoninus Pius: v. ANTONINUS PIUS. Aurelius Gordianus: Aurel., (M. Aurelius) Marius: v. MARIUS. (Aurelius) Nemesianus: v. Nemesianus. Aurelius Philippus: Al. Sev. Aurelius Probus bafiis praepositus: Al. Sev. Aurelius Probus Aug.: v. PROBUS. Aurelius Tacitus: Aurel., V. TACITUS. Aurelius Valerius Probus: v. PROBUS. L. Aurelius Verus: v. VERUS. L. Aurelius Verus falso appellatus Aelius: Ael. Aurelius Verus: Al. Sev. Aurelius Victor, cui Pinio cognomen erat: Op. Macr. (Aurelius) Zoticus: v. Zoticus. Aureoli, pons: Tyr. trig. AUREOLUS: Tyr. trig., (vita). - Gall., Tyr. trig., (bis); Claud., Aurel. Aurunculeius Cornelianus: Sev. Austrogoti: Claud. Autronius Iustus: Tyr. trig. Autronius Tiberianus: Tyr. trig. AVIDIUS CASSIUS: Av. Cass., (vita). - M. Ant., (bis); (bis); (bis); Ver., Comm., Cl. Alb., Al. Sev., Quadr. tyr. (Avidius) Nigrinus: v. Nigrinus. Avidius Severus (potius C. Avidius Heliodorus), pater Avidii Cassii: Av. Cass. Avitus, Gallonius: Quadr. tyr. Avitus, Lollianus: v. Lollianus. Avulnius Saturninus: Aurel. Babylon: Ver. Babylonia: Ver. Babylonii: Carac. Bactrani: Hadr., Valer., Aurel. Baebius Longus: M. Ant. Baebius Macer praefectus urbis: Hadr. Baebius Macer praefectus praet.: Aurel. Baebius Macrianus: Al. Sev. Baebius Maecianus: Cl. Alb. Baetica: Sev., (bis). Baiae: Hadr., Ant. Pius, M. Ant. Baiani secessus: Tac.

Baianum: Al. Sev. BALBINUS (Imp. Caesar D. Caelius Calvinus Balbinus Aug.): Max. Balb., (vita). - Maxim., (bis); (bis); Gord., perperam appellatur Clodius Balbinus: Gord. Balbus, Antonius: Sev. Balbus, Cornelius: Pesc. Nig. Balbus Cornelius Theofanes: Max. Balb. Balbus, Iunius: Gord. BALLISTA: Tyr. trig., (vita). - Valer., Gall., Tyr. trig., (bis). Bardaici, cuculli: Pert. Bassianus: v. CARACALLUS; HELIOGABALUS. Bassianus, Aelius: Cl. Alb. Bassianus, Valerius: Comm. Bassus (Pomponius Bassus) cons. a. Tyr. trig. Bassus, praefectus urbi: Sev. Bassus, Vopisci amicus: Quadr. tyr. Bassus, Cerronius: v. Cerronius. Basternae: M. Ant., Prob. Belenus, deus: Maxim. Belgica: Did. Iul. Bellona: Comm. Bellonae templum: Sev. Benacus: Prob. Bibulus (potius Ambibulus) cons. a. Pert. Bithynia: Did. Iul., Pesc. Nig., Op. Macr., Max. Balb., Gall., Tyr. trig., Aurel. Bithynici exercitus: Cl. Alb. Blemmyae: Prob., Quadr. tyr. Blemmyes: Aurel. Boionia Procilla, avia materna Antonini Pii: Ant. Pius. Boionius Antoninus Pius: v. ANTONINUS PIUS. Boius, Fulvius: v. Fulvius. Bona Dea: Hadr. Bonitus: Tyr. trig. Bononia: Tyr. trig. BONOSUS: Quadr. tyr., (vita). - Prob., Quadr. tyr. Bonus, Rupilius: v. Rupilius. Bosforanum, regnum: Ant. Pius. Boreas: Ael. Brittanni (vel Brittani vel Britanni): Hadr., Ant. Pius, M. Ant., Comm., Sev., Prob. Brittanni (cervi): Gord. Brittannia (vel Brittania): Hadr., Comm., Pert., Sev., (bis), Al. Sev. Brittanniae (vel Brittaniae); Sev., Cl. Alb., Prob., Car. Britannici exercitus: Did. Iul., Cl. Alb. Brittannicum (Brittanicum) bellum: M. Ant., Comm.

Brittannicus (Commodus): Comm., (Severus): Sev. Brittannus (Bonosus): Quadr. tyr. Brittii: Tyr. trig. Brittonum, vicus: v. Sicilia vicus. Brocchus: v. Iunius Brocchus. Brundisinus, Maecius: v. Maecius. Brundisium: M. Ant., Sev. (C. Bruttius) Praesens, cons. a. Comm. Bruttius Praesens (L. Fulvius C. Bruttius Praesens): M. Ant. Bucolici milites: M. Ant., Av. Cass. Burburus: Quadr. tyr., (bis). Burei: M. Ant. Burrus: v. Antistius Burrus. Busiris: Maxim. Byrrus: v. Antistius Burrus. Byzantii: Carac., Gall., (bis); Claud. Byzantini: Claud. Byzantium: Sev., Gall., Aurel. Cadusii: Carac., Valer. Caecilius, poeta: Car. Caecilius, spado: Av. Cass. (Q. Caecilius) Metellus: v. Metellus. Caelestinus: Valer. Caelestis dea: Pert., Op. Macr., Tyr. trig. Caelianus: Diad. Caelius Attianus: v. Attianus. Caelius Felix: Comm. Caelius mons: M. Ant., Comm., Heliog., Tyr. trig. Caenofrurium: Aurel. Caesar, primus nominis: Ael. Caesar dictator, hoc est divus Iulius: Ael., C. Caesar: Gord., Caesar: Av. Cass., Sev., Cl. Alb., Al. Sev., Max., Max. Balb., Cfr. Iulius. Caesar, (Aelius): v. AELIUS. Caesar Octavianus: v. Octavianus. Caesarea: Tyr. trig. Caesarea, Arca: v. Arca. Caesareana familia: Cl. Alb. Caesareana tempora: Aurel. Caesareanum imperium (cfr. Caesarianum imperium): Car. Caesareanum nomen: Cl. Alb., Al. Sev., Tyr. trig., Prob. Caesarianum imperium (cfr. Ceasareanum imperium): Sev. Caesarum familia: Gord. Caesoninorum, genus: Tyr. trig.

Caesonius Vectilianus: Av. Cass. Caieta: Ant. Pius, M. Ant. Calabria: Tyr. trig. Calchedonius: v. Chalcedonius. Calchis (potius Calchedon): Ant. Pius, (bis). Caldaeus: v. Chaldaeus. Calenus: M. Ant. Caligula (cfr. Gaiana vitia): M. Ant., Av. Cass., Comm., Heliog. Caligulae: Heliog., Aurel. Callicrates Tyrius: Aurel. Calpurnia: Tyr. trig. Calpurnius: Av. Cass. Calpurnius Agricola (Sex. Calpurnius Agricola): M. Ant. Calpurnius, Iulius: v. Iulius. (Calpurnius) Orfitus; v. Orfitus. (Calpurnius) Piso: v. Piso. Calva, Venus: v. Venus. Calvilla, Domitia: v. Domitia. (P.) Calvisius Tullus: M. Ant. Camilli: Claud. Camillus: Sev., Pesc. Nig. Camillus Ovinius: v. Ovinius. Campana, persica: Cl. Alb. Campania: Hadr., Ant. Pius, M. Ant., Gord., Tyr. trig., Tac. Campus Martius: v. Martius. Camsisoleus: Tyr. trig. Candidus (Ti. Iulius Candidus Marius Celsus) cons. a. Hadr. Candidus, Vespronius: v. Vespronius. Caninia (lex): Tac. Caninius Celer: M. Ant., Ver. Cannabas: Aurel. Cannabaudes: Aurel. Canopus: Hadr. Canus, Sulpius: v. Sulpius. Canusini, birri: Car. Canusium: M. Ant., Ver. Capadoces: v. Cappadoces. Capelianus (Mauros regens): Maxim., Gord. Capella Antistius: Comm. Capito: Prob. Capito, Egnatius: v. Egnatius. Capitolina amfora: Maxim. Capitolina palmata: Prob. Capitolinus, Cornelius: v. Cornelius.

Capitolinus, Iulius: v. Iulius. Capitolinus, Iuppiter Optimus Maximus: Aurel. Capitolium: M. Ant., Pert., Did. Iul., Sev., Carac., Heliog., Al. Sev., Gord., Max. Balb., Gall., Claud., Aurel., Tac. Cappadoces (Capadoces): Hadr. Cappadoces, equi: Gord. Cappadocia: Gall. Capreae: Comm. Capua: M. Ant., Ver., Av. Cass., Did. Iul. CARACALLUS (Imp. Caesar M. Aurelius Antoninus Augustus): Carac., (vita). - Sev., (bis); Pesc. Nig., Cl. Alb., Geta, Op. Macr., (bis); (bis), Diad., (bis); Heliog., Al. Sev., Maxim., Gord., Appellatur: (M.) Aurelius Antoninus; Antoninus; Antoninus Bassianus; Antoninus Caracallus; Bassianus; Bassianus Antoninus; Bassianus Caracallus; Caracallus; Caracallus Antoninus; Caracallus Bassianus. Carinae: Max. Balb. CARINUS (Imp. Caesar M. Aurelius Carinus Aug.): Car., (vita). - Prob., Quadr. tyr., Car., (ter), (bis). Carioviscus: Aurel. Carnuntum: Sev. Carpi: Max. Balb., Aurel. Carpicus (Aurelianus): Aurel. Carpisclus: Aurel. Carrae: Carac., Gord., Gall. Carreni: Carac., Gall. Carthaginense forum: Ant. Pius. Carthaginensis, curia: Tac. Carthaginensis populus: Gord. Carthaginiensium populus: Gord. Carthago (Karthago): Hadr., Comm., Op. Macr., Maxim., Gord., Max. Balb., Prob., Car. CARUS (Imp. Caesar M. Aurelius Carus Aug.): Car., (vita). - Prob., Quadr. tyr., Car., (bis). Marcus Aurelius Carus: Car. Carysteae, columnae: Gord. Casius, mons: Hadr. Casperius Aemilianus: Sev. Casperius Agrippinus: Sev. Cassiana, defectio: Av. Cass. Cassiana severitas et disciplina: Av. Cass. Cassiani: Av. Cass. Cassianus motus: Pert. Cassiorum familia: Av. Cass. L. Cassius: Av. Cass. Cassius, Avidius: v. AVIDIUS CASSIUS. Cassius Papirius: Cl. Alb. Castorum, aedes: Maxim., Valer. Castriani: Aurel.

Catacannae, libri ab Hadriano scripti: Hadr. Catilina (cfr. Sergius): Av. Cass., Cl. Alb., Quadr. tyr. (Cn.) Catilius Severus: Al. Sev. (L.) Catilius Severus: Hadr., Ant. Pius, M. Ant. Catilius Severus, prius nomen Marci Antonini: M. Ant. M. (Porcius) Cato Censorius: Hadr., Av. Cass., Al. Sev., Gord., Prob. Cato (M. Porcius Cato Uticensis): Max. Balb. Catones: Sev. Catthi (vel Catti): M. Ant., Did. Iul. Catulinus, Valerius: v. Valerius. Catulus: Al. Sev. Catulus, Cinna: v. Cinna. Cauchi: Did. Iul. Cecropius (sive Ceronius): Gall. Cecropius (dux): Prob. (Ceionia) Fabia: v. Fabia. Ceionii: Cl. Alb. Ceionius Albinus, a Severo occisus: Sev. Ceionius Albinus praefectus urbi: Aurel. (L.) Ceionius Commodus = L. Aelius Caesar: v. AELIUS. (L.) Ceionius Commodus, Aelii pater: Ael. L. Ceionius Commodus (= Imp. Caesar L. Aurelius Verus Aug.): v. VERUS. (M. Ceionius) Civica (Barbatus): v. Civica. Ceionius Iulianus: Quadr. tyr. Ceionius Postumianus: Cl. Alb. Ceionius Postumus: Cl. Alb. Celer Caninius: v. Caninius Celer. Celer Verianus: Tyr. trig. Celerinus, Cuspidius: v. Cuspidius. Celsa, Nonia: v. Nonia. Celsinus amicus Vopisci: Quadr. tyr. Celsinus consiliarius Diocletiani: Aurel. Celsinus, Clodius: v. Clodius. CELSUS tyrannus: Tyr. trig., (vita). - Claud. Celsus (L. Publilius Celsus): Hadr. Celsus (auctor defectionis sub Antonino Pio): Av. Cass. Celsus stipator: Tyr. trig. Celsus Aelianus: Max. Balb. Celsus, Aelius: v. Aelius. Celsus, Furius: v. Furius. Celsus, Herennius: v. Herennius. Celsus, Iuventius: v. Iuventius. Celsus, Rufins: v. Rufius.

Celtae: Claud. Celtica, auxilia: Gall. Celticae, equae: Claud. Censorini: Tyr. trig. CENSORINUS tyrannus: Tyr. trig., (vita) - Tyr. trig. Centumcellae: Comm. Cereius Maecianus: Tac. Cerellius Faustinianus: Sev. Cerellius Iulianus: Sev. Cerellius Macrinus: Sev. Ceres: M. Ant., Aurel. Ceronius (sive Cecropius): Gall. Cerronius Bassus: Aurel. (C. Cervonius) Papus: v. Papus. Ceryllianus, Fabius: v. Fabius. Cesettianus, Aelius: v. Aelius. Chaeronensis, Sextus: M. Ant. Chalcedonius, Apollonius: M. Ant. Chalcis: v. Calchis. Chaldaei: M. Ant., Sev., Heliog. Chaldaeus: Pert. Chatti: v. Catthi. Chilo: v. Fabius Chilo. Chilo, Mallius: v. Mallius. Christiana devotio: Heliog. Christiani: Sev., Al. Sev., Aurel., Quadr. tyr. Christus: Al. Sev., Quadr. tyr. Cicero, M. Tullius: v. Tullius. Ciceroniana, villa: Hadr. Cilices: Tyr. trig. Cilicia: Ver., Tyr. trig., Aurel., Car. Cilo: v. Fabius Chilo; Mallius Chilo. Cincius Severus: Sev. Cingius Severus: Comm. Cinna Catulus: M. Ant. Circesium castrum: Gord. Circius: Ael. Civica (M. Ceionius Civica Barbatus): M. Ant. Clara Aemilia, mater Didii Iuliani: Did. Iul. Clara, Didia: v. Didia. Clarus, Erucius: v. Erucius. Clarus, Ragonius: v. Ragonius. Clarus, Septicius: v. Septicius.

Claudia: Claud. Claudia, soror Probi: Prob. Claudia, frigida: Al. Sev. Claudiana, auspicia: Claud., Aurel. Claudiana tempora: Aurel. Claudianae (columnae): Gord. Claudianus, Asellius: v. Asellius. Claudii: Heliog. Claudius tonsor: Heliog. CLAUDIUS (Imp. Caesar M. Aurelius Claudius Aug.): Claud., (vita). - Heliog., Valer., Gall, Tyr. trig., Aurel., (bis); (bis); Tac, Prob., Car., Appellatur Flavius Claudius: Claud., Aurel., Valerius: Claud. Claudius i. e. Quintillus: v. Quintillus. Claudius (Censorinus ioco appellatus): Tyr. trig. Claudius (Claudius Pompeianus): v. Claudius Pompeianus. Claudius Arabianus: Sev. Claudius Eusthenius: Car. Claudius Iulianus: Max. Balb. (Claudius) Livianus: v. Livianus. Claudius Lucanus: Comm. Claudius Maximus: M. Ant. (Ti.) Claudius Pompeianus: M. Ant., Av. Cass., Pert., Did. Iul., Carac. Claudius Pompeianus (Quintianus): Comm. Claudius, pater Claudii Pompeiani Quintiani: Comm. (Claudius) Pompeianus, Marci Antonini nepos: Carac. Claudius Quintillus: v. Quintillus. Claudius Rufus: Sev. Claudius Sapilianus: Tac. Claudius Severus: M. Ant. (Cn.) Claudius Severus Arabianus: v. Severus. Claudius Sulpicianus: Sev. Claudius Venacus: Al. Sev. Cleander (M. Aurelius Cleander): Comm. Cleodamus: Gall. Cleopatra: Tyr. trig., Aurel. Cleopatra (intellegitur Zenobia): Prob. Cleopatrae: Tyr. trig. Cleopatrana stirps: Claud. Cleopatrana (vasa): Tyr. trig. Cleopatrani, uniones: Tyr. trig. Clodia, via: Ver. Clodiana, factio: Cl. Alb. (P.) Clodius (Pulcher): Quadr. tyr. CLODIUS ALBINUS (Imp. Caesar D. Clodius Septimius Albinus Aug.): Cl. Alb., (vita). - Sev., (bis);

Pesc. Nig., Al. Sev., Quadr. tyr. Clodius Balbinus: v. BALBINUS. Clodius Celsinus: Sev. Clodius Rufinus: Sev. Cocceius Nerva: v. Nerva. Cocceius Verus: Sev. Coedes: Ver. Coelius (Antipater): Hadr. Commagenae: Claud. Commodi: Al. Sev., Tac. Commodiae, nonae: Comm. Commodiana (Roma): Comm. Commodiana Alexandria togata (Carthago): Comm. Commodiana, colonia (Roma): Comm. Commodiana, domus Palatina: Comm. Commodiana Herculea (classis Africana): Comm. Commodiani horti: Pesc. Nig. Commodiani ministri: Pert. Commodianum, saeculum: Comm. Commodianus Herculaneus, flamen: Comm. Commodianus (p. R.): Comm. Commodianus (senatus): Comm. Commodus (Ceionius Commodus = Aelius): M. Ant. L. Commodus: v. Verus. COMMODUS ANTONINUS (L. Aurelius Commodus = Imp. Caesar M. (Aurelius) Commodus Antoninus Aug. vel Imp. Caesar L. Aelius Aurelius Commodus Aug.): Comm., (vita) - M. Ant., Ver., Av. Cass., Pert., (bis); Did. Iul., Sev., Pesc. Nig., (bis); Cl. Alb., (bis); (bis), Carac; Op. Macr., Diad., (bis); Al. Sev., Car., Appellatur Aurelius Commodus: Cl. Alb. Commodus (nomen Veri): Diad., v. VERUS. Commodus, Ceionius (Aelius): v. AELIUS. Commodus, Ceionius, pater Aelii: Ael. Commodus, mensis: Comm., Cfr. Commodianae, nonae. Conca: Tyr. trig. Concordia: Prob. Concordiae, aedes: Al. Sev., Max. Balb., Prob. Concordiae, templum: Pert. Condianus, Quintilius: v. Sextus. Constantii: Heliog. Constantina, soror Claudii: Claud. Constantinus (Augustus): Cl. Alb., Geta, Heliog., Al. Sev., Maxim., Gord. Constantius (Caesar): Ael., Gall., Claud., Aurel., Prob., Car. Consul vel Consulens, Iuppiter: Quadr. tyr. Copte: Prob.

Corduenus: v. Aelius. Cordus, historiae scriptor: Cl. Alb., Op. Macr., Maxim., Gord., Max. Balb., Appellaiur: Aelius Cordus; Iunius Cordus; Iunius; Cordus. Cordus, Valerius: Al. Sev. Corfulenus, Statilius: v. Statilius. Corinthii: Tac. Corinthus: Ver. Coriolanus, Marcius: v. Marcius. Cornelia Salonina: v. Salonina. Cornelianus, Atidius: v. Atidius. Cornelianus, Aurunculeius: v. Aurunculeius. Cornelius, Balbus Theofanes: v. Balbus. Cornelius Capitolinus: Tyr. trig. Cornelius Dolabella (Ser. Cornelius Dolabella Petronianus) cons. a.: Ant. Pius. (M.) Cornelius Fronto: M. Ant., Ver. Cornelius Macer: Tyr. trig. (Cornelius) Palma: v. Palma. Cornelius Repentinus, gener Didii Iuliani: Did. Iul. (Sex. Cornelius) Repentinus: v. Fabius Repentinus. Cornelius (Scipio): Heliog. Cornelius Tacitus: v. Tacitus. Cornelius Victorinus (potius Furius Victorinus): Ant. Pius, Cfr. Furius Victorinus. Comicula, Annius: v. Annius. Cornincia, Annia: v. Annia. Cornincia: Pert. Cornificius, Velius - Gordianus: v. Velius. Corvini: Aurel. Costoboci: M. Ant. Cotiaensis (Alexander): M. Ant. Cottiae, Alpes: v. Alpes. Crassus Frugi: v. Frugi. Crassus, Sulpicius: v. Sulpicius. Creta: Claud. Cretici, sagittarii: Claud. Crinitus, Ulpius: v. Ulpius. Crispinus: Maxim., Max. Balb. Crispinus, Tullius: v. Tullius. Crispus, frater Claudii: Claud. Crispus, Sallustius: v. Sallustius Crispus. Crotoniates: Maxim. Ctesifon: Sev., Gord., Gall., Tyr. trig., Car. Cumanus, Apollo: Cl. Alb. Cupidines: Ael.

Cures: Hadr. Curius Fortunatianus: Max. Balb. Cuspidius Celerinus: Maxim. Cyclopea: Gall., Car. Cyclops: Maxim., Max. Balb., Quadr. tyr. Cyprea, acus: Claud. Cypria, accubitalia: Claud. Cypria, mantelia: Aurel. Cypriaci, tauri: Gord. Cyprus: Claud. CYRIADES tyrannus: Tyr. trig., (vita). Cyriades, tyranni pater: Tyr. trig. Cyrillus, Tatius: v. Tatius. Cyrrus: M. Ant. Cyzicus: Ant. Pius, Sev., Pesc Nig., Gall. Daci: Ant. Pius, Comm. Daci exercitus: Claud. Dacia: Hadr., Comm., Pert., Carac. Dacia Aureliana: Aurel. Dacia Ripensis: Aurel. Dacia Transdanuvina: Aurel. Dacia, gens: Tyr. trig. Dacica, expeditio: Hadr. Dacicum, bellum: Hadr. Dacisci: Aurel. Dacisciani, milites: Claud. Dafne: v. Daphne. Dafnis: v. Daphnis. Dalmatae: Pert., Gall. Dalmatae, equites: Cl. Alb. Dalmatae exercitus: Claud. Dalmatenses, singiliones; Claud. Dalmatia: M. Ant., Did. Iul., Tyr. trig., Car. Danuvius (Danubius): M. Ant., Av. Cass., Pert., Aurel., Prob. Daphne (Dafne): M. Ant., Av. Cass., Al. Sev., Aurel. Daphnis (Dafnis): Av. Cass., Tyr. trig. Dardana, gens: Claud. Dardania: M. Ant. Dardanica, clamys: Claud. Dardanica, regio: Claud. Dardanus (Claudius): Claud. Dardanus (rex): Claud. Dasummius: M. Ant.

Decibalus: Tyr. trig. Decii (Augusti) conss. a.: Valer., (bis); Aurel. Decius (Imp. Caesar C. Messius Quintus Traianus Decius Aug.): Valer., Claud. Decrianus: Hadr. Delficus Apollo: Pesc. Nig. Demosthenes: Sev., Al. Sev. Dexippus (P. Herennius Dexippus): Gall., - citatur: Al. Sev., Maxim., Gord., Max. Balb., Tyr. trig., Claud., cfr. etiam: Al. Sev., Maxim. Dexter, Domitius: v. Domitius. Diadematus: Diad., (bis). DIADUMENUS, ANTONINUS (M. Opellius Diadumenianus): Diad., (vita). - Carac., Op. Macr., Heliog., Al. Sev., Appellatur Antoninus: Op. Macr., (bis); Heliog. Diadumenus, Diadumeni avus maternus: Diad. Diana Laodicia: Heliog. Diabolenus (potius Iavolenus = C. Octavius Tidius Tossianus L. Iavolenus Priscus): Ant. Pius. Didia Clara, Didii Iuliani filia: Did. Iul. DIDIUS IULIANUS (Imp. Caesar M. Didius Severus Iulianus Aug.): Did. Iul., (vita). - Pert., (bis); Sev., Pesc Nig., (bis); Cl. Alb., Op. Macr., Diad., Al. Sev. Didius, Petronius: v. Petronius. Didius Proculus: Did Iul. Dido: Tyr. trig. Diocletianae, thermae: Tyr. trig., Prob. Diocletianus (Augustus): Ael. in dedicatione, M. Ant., Ver., Av. Cass., Sev., Pesc. Nig., Op. Macr., Heliog., Tyr. trig., Claud., Aurel., (bis); Prob., Quadr. tyr., Car., (bis); (bis); (ter). Diogenetus (potius Diognetus): M. Ant. Dolabella, Cornelius: v. Cornelius. Domitia Lucilla, mater Marci Antonini: Did. Iul., Appellatur Lucilla: M. Ant., Domitia Calvilla: M. Ant. Domitia Paulina, mater Hadriani: Hadr. (Domitia) Paulina: v. Paulina. Domitiae, horti: Ant. Pius, Aurel. Domitiani: Cl. Alb., Car. Domitianus (Augustus): Hadr., M. Ant., Av. Cass., Comm., Pesc. Nig., Al. Sev., Tyr. trig., Claud., Car. Fl. Domitianus cons. a.: Ant. Pius. Domitianus, dux Aureoli: Gall., Tyr. trig. Domitilla: Tyr. trig. (C.) Domitius Dexter: Sev. (Domitius) Ulpianus: Pesc. Nig., Heliog., (bis); Al. Sev. Druentianus (Ti. Claudius Dryantianus Antoninus), gener Avidii Cassii: Av. Cass., Appellatur Druncianus: M. Ant. Dryades, Gallicanae: Aurel. Dryas. Dryas, mulier: Al. Sev.

Dulius Silanus: Comm.

Eboracum: Sev. Eclectus: Ver., Comm., Pert. Edessa: Carac. Efesus: v. Ephesus. Egnatius Capito: Comm. Egnatuleius Honoratus: Sev. Eleates (Zenon): Aurel. Eleusinia sacra: Hadr., Al. Sev. Emesa (Emessa): Aurel. Emisena urbs: Op. Macr. Emiseni: Gall. Emona: v. Hemona. Encolpius: Al. Sev. Ennius: Hadr., - citatur: Claud., cfr. etiam Av. Cass. Ephesia, Luna: Gall. Ephesus (Efesus): Ver. Epictetus: Hadr. Epirus: Gall. (Sex.) Erucius Clarus cons. a. 146: Sev. (Erucius) Clarus (C. Iulius Erucius Clarus) cons. a. 193: Pert., Sev. Eruli: Claud. Esquiliarum mons: Gall. (C. Esuvius) Tetricus: v. TETRICUS. Etruria: Hadr., Ael., Ant. Pius, (bis); Ver., Gord., Tyr. trig., Aurel. Eudaemon: Hadr. Eudaemones, Arabes: v. Arabes. Euergetes, Ptolomaeus: v. Ptolomaeus. Euforio: M. Ant. Eufrates: Hadr., Ver. Eugamius: Maxim. Eupator (Ti. Iulius Eupator): Ant. Pius. Euphorio: v. Euforio. Euphrates: v. Eufrates. Europa: Aurel. Europenses exercitus: Prob. Europenses, res: Aurel. Eurupianus, Larcius: v. Larcius. Eusthenius, Claudius: v. Claudius. Eutropius: Claud. Eutychius Proculus: M. Ant. Euxinus: Gall. Exomitae: Aurel. Exsuperatoriae, Kalendae: Comm.

Exsuperatorius (mensis): Comm. Fabia (Ceionia Fabia), Aelii filia, soror Veri: M. Ant., Ver., Pert. Fabia Orestilla: Gord. Fabianus, arcus: Gall. Fabianus, Masticius: v. Masticius. Fabillus: Maxim. Fabius: Heliog., Cfr. Gurges Fabius. Fabius Ceryllianus: Car. Fabius Chilo (Cilo) (L. Fabius Cilo Septiminus Catinius Acilianus Lepidus Fulcinianus): Comm., Carac. Fabius Cilo: v. Fabius Chilo. Fabius, Gurges: v. Fabius et Gurges. Fabius Marcellinus: Al. Sev., Prob. Fabius Paulinus: Sev. Fabius Pomponianus: Tyr. trig. Fabius Repentinus (potius Sex. Cornelius Repentinus): Ant. Pius. Fabius Sabinus: Al. Sev. Fabius Sossianus: Quadr. tyr. Fadilla: v. Arria Fadilla et (Arria) Fadilla. Fadilla, Iulia: v. Iulia. Fadilla, Iunia; v. Iunia. Falaris: v. Phalaris. Falco (Q. Sosius Falco) cons. a. 193: Pert., - Pert. Faltonius, Maecius - Nicomachus: v. Maecius. Faltonius Probus: Aurel. Farasmanes: v. Pharasmanes. Farus: v. Pharus. Faustina: v. Annia Faustina. Faustina Annia (Annia Fundania Faustina): Comm. Faustina, Maecia: v. Maecia. Faustina, Rupilia: v. Rupilia. Faustina, Vitrasia: v. Vitrasia. Faustinianae, puellae: Ant. Pius, M. Ant., Al. Sev. Faustinianus cons. a. 262: Gall. Faustinianus, Cerellius: v. Cerellius. Faustinus, mensis: Ant. Pius. Faustus, Papius: v. Papius. Faventia: Hadr., Ael., Ver. Favorinus: Hadr. Feliciones: Gord. Felicissimus: Aurel. Felix (Commodus): Comm. Felix (Opilius Macrinus): Op. Macr.

Felix, Caelius: v. Caelius. Felix, legio tertia: Aurel., Prob. Festivus, Aurelius: v. Aurelius. Festus: Op. Macr. Festus, Pescennius: v. Pescennius. Filemon: v. Philemon. Filippi: v. Philippi. Firmi, tres: Quadr. tyr. FIRMUS tyrannus: Quadr. tyr., (vita). - Aurel., Prob., Quadr. tyr. Firmus praefectus Aegypti: Quadr. tyr. Firmus dux: Quadr. tyr. Flaccinus, Valerius: v. Valerius. Flaccus Persius (A. Persius Flaccus): Al. Sev. Flaminia: Gord., Tyr. trig. Flaminia, porticus: Gall. Flavia Titiana, uxor Pertinacis: Peri. Flaviae, gentes: Tyr. trig., Claud. (Flavius) Antiochianus: v. Atticianus. (Flavius) Aper: v. Aper. Flavius Arabianus: Aurel. Flavius Claudius (perperam de Claudio): Claud. Flavius Domitianus: v. Domitiatianus. (T.) Flavius Genialis: Did. Iul. Flavius Iuvenalis: Sev., Geta, (bis). (Flavius) Severus: v. Severus. (T.) Flavius Sulpicianus: Pert., Did. Iul. Flavius Titus: v. Titus. Flavius Vespasianus: v. Vespasianus. Flavius Vopiscus: v. Vopiscus. Flegon: v. Phlegon. Floralia sacra: Heliog. FLORIANUS (Imp. Caesar M. Annius Florianus Aug.): Tac., (vita). - Tac., Prob., Quadr. tyr. Florianus, Publicius: Did. Iul. Florus Poeta (P. Annius Florus): Hadr. Foenices: v. Phoenices. M. Fonteius: Quadr. tyr. Formiae: Av. Cass. Formianum: Av. Cass. Fortuna: Tyr. trig. Fortuna aurea: Ant. Pius, M. Ant. Fortuna regia: Sev. Fortunae, vis quaedam (Nemesis): Max. Balb. Fortunatianus, Curius: v. Curius.

Franci: Gall., Aurel., Tac., Quadr. tyr., (bis). Francica, auxilia: Gall. Francicus (Probus): Prob. Frontinus, Iulius: v. Iulius. Fronto, Cornelius: v. Cornelius. Frugi (Piso tyrannus ita dictus): Tyr. trig. Frugi Crassus: Hadr. Frugi Piso: v. Piso. Fucinus lacus: Hadr. Fulvia Pia, mater Severi: Sev. Fulvius (Plautianus): Pesc. Nig., v. Plautianus. Fulvius, L.: v. Bruttius Praesens. Fulvius Asprianus: Car. Fulvius Boius: Aurel. (Fulvius) Macrianus: v. MACRIANUS. (Fulvius) Quietus: v. QUIETUS. Fulvius Pius: Sev. Fulvius Plautianus: v. Plautianus. Fulvius Sabinus: Aurel. Fulvus, Aurelius: v. Aurelius. Fulvus, Aurelius Boionius: v. Antoninus Pius. Fundanus, Hercules: Tac. Furius Celsus: Al. Sev. (C. Furius Timesitheus): v. Misitheus. Furius Placidus: Aurel. Furius Victorinus: v. Cornelius Victorinus. Furius Victorinus: M. Ant. Fuscianus, (Seius) cons. a.: Comm., - M. Ant., Pert. Fuscus (i. e. Pescennius Niger): Pesc. Nig. Fuscus (Pedanius): Hadr. Fuscus, Allius: v. Allius. Fuscus, Annius: v. Annius. Fuscus, Arellius: v. Arellius. Gabalus (i. e. Heliogabalus): Al. Sev. Gabinius (Ciceronis oratio contra Gabinium): Tyr. trig. Gades: Hadr. Gaiana (i. e. Caligulae) vitia: Ver. Galatia: Max. Balb., Tyr. trig. Galba (Augustus): Av. Cass., Claud. Galeria Faustina: v. Annia Faustina. Galerius: Claud., Car., Cfr. Maximianus Caesar. Galla (mater): Quadr. tyr. Galli: Sev., Cl. Alb., Valer., Gall., Tyr. trig., Aurel., Prob., Quadr. tyr.

Galli (Matris deum sacerdotes): Heliog. Galli, auxiliares: Prob. Gallia (cfr. Galliae): Hadr., M. Ant., Sev., Pesc. Nig., Cl. Alb., Carac., Al. Sev., Maxim., Valer., Gall., Tyr. trig., (bis); Aurel., Prob., Car. Gallia, bracata: Prob. Gallia Transalpina: Ant. Pius. Galliae (cfr. Gallia): Hadr., Sev., Pesc. Nig., Max. Balb., Gall., Tyr. trig., Claud., Aurel., Prob., Quadr. tyr., Car. Gallica, pallia: Prob. Gallicae, bracae: Aurel. Gallicana, legio sexta: Aurel. Gallicana rura: Prob. Gallicanae Dryades: Aurel. Gallicanae mentes: Al. Sev. Gallicanae, partes: Tyr. trig. Gallicani (exercitus): Sev. Gallicani populi: Tyr. trig. Gallicanum bellum: Car. Gallicanum imperium: Car. Gallicanus, consularis: Maxim., Gord. Gallicanus, Moesius: v. Moesius. Gallicanus, Mulvius: v. Mulvius. Gallicanus, Turdulus: v. Turdulus. Gallicanus, Vulcacius: v. Vulcacius. Gallicus sermo: Al. Sev. Gallicus, terror: Prob. Galliena: Tyr. trig. GALLIENUS, pater (Imp. Caesar P. Licinius Egnatius Gallienus Aug.): Gall., (vita). - Cl. Alb., Valer., (bis); Tyr. trig., (bis); (bis); (bis); (bis); (bis); Claud., (bis); Aurel., Prob., (bis); Quadr. tyr., Car. GALLIENUS, filius: v. SALONINUS GALLIENUS. Gallienus, avus Salonini Gallieni: Gall. Gallonius Avitus: Quadr. tyr. Gallus: Cl. Alb., (in versu Vergiliano). Gallus, Saturninus oriundo: Quadr. tyr. Gallus (?): Hadr. Gallus Antipater: Claud. Gallus, Antoninus: v. Antoninus. Gargilius Martialis: Prob., Appellatur Gargilius: Al. Sev. Gaudianus: Gord. Gaudiosus: Prob. (M.) Gavius Maximus: Ant. Pius. Gellia (in Martialis epigrammate): Al. Sev., (ter). Gellius: Diad.

Gellius historicus: Prob. Geminus comoedus: M. Ant. Geminus libertus: M. Ant., Ver. Genialis, Flavius: v. Flavius. Gentianus, Lollianus: v. Lollianus. Gentianus, Terentius: v. Terentius. Georgica: Cl. Alb. Germani: Hadr. Ant. Pius, M. Ant., (bis); Carac., Al. Sev., Maxim., Gord., Max. Balb., (bis); (bis); Tyr. trig., Aurel., Tac., Prob., Quadr. tyr. Germania: Hadr., M. Ant., Comm., Pert., Did. Iul., Sev., Al. Sev., Maxim., Gord., Tyr. trig., Prob. Germania inferior: Did. Iul. Germania superior: Hadr. Germania Transrenana: Maxim. Germanica, classis: Pert. Germanica, iuga: Prob. Germanicae gentes: Tyr. trig. Germanicae legiones: Sev. Germanici exercitus: Sev. Germaniciani exercitus: Cl. Alb. Germanicum bellum: M. Ant., Ver., Comm., Al. Sev., Maxim. Germanicus (Marcus Antoninus): M. Ant. Germanicus (Commodus): Comm. Germanicus (Caracolla): Carac. Germanicus, exercitus: Sev. Gessaces, mons: Gall. GETA, ANTONINUS (Imp. Caesar P. Septimius Geta Aug.): Geta (vita). - Sev., Carac., Op. Macr., Diad., Maxim. Geta (P. Septimius Geta) Severi pater: Sev., Geta. Geta (P. Septimius Geta) Severi frater: Sev., Geta. Getae: Carac., Maxim. Getica, nex: Geta. Getici populi: Prob. Geticus (Caracolla): Carac., Geta. Gigas: Maxim. Gillo: Aurel. Gipedae (potius Gepidae): Prob. Gipedes: Claud. Girbitana, purpura: Claud. Gordiana, Ulpia: v. Ulpia. Gordiani; Cl. Alb., Op. Macr., Diad., Heliog., Maxim., Max. Balb. GORDIANUS senior (Imp. Caesar M. Antonius Gordianus Sempronianus Romanus Africanus Aug.): Gord. (vita). - Al. Sev., Maxim., (ter), Max. Balb. GORDIANUS iunior (Imp. Caesar M. Antonius Gordianus Sempronianus Romanus Africanus Aug.):

Gord., (vita). - Maxim. GORDIANUS tertius (Imp. Caesar M. Antonius Gordianus Aug.): Gord., (vita). - Maxim., (bis); Max. Balb. Gordianus, Aelius: Al. Sev. Gordianus, Aurelius: Aurel. Gordianus, Maecius: Gord. Gordianus, Velius Cornificius: v. Velius. Gothi: Carac., Maxim., Gord., Gall., (bis); Tyr. trig., Claud., Aurel., Prob., Quadr. tyr. Gothia: Maxim. Gothica, bella: Tyr. trig. Gothica, gens: Quadr. tyr. Gothicae expeditiones: Tyr. trig. Gothicae, optimates: Quadr. tyr. Gothicum, bellum: Claud. Gothicus: Geta, (Caracalla); Aurel., (Aurelianus); Prob., (Probus). Gothus: Claud. Gothus servus: Claud. Gracchorum genus: Gord. Gracchus, Nonius: v. Nonius. Graecanici milites: Av. Cass. Graecanicae, clamydes: Pert. Graeca: Heliog., Maxim. Graeca, epigrammata: Maxim. Graeca, epistola: Gord. Graeca, facundia: Al. Sev. Graeca historia: Gord. Graeca, lectio: Al. Sev. Graeca luxuria: Tyr. trig. Graeca studia: Hadr. Graecae litterae: Sev., Cl. Alb., Maxim., Gord., Gall., Aurel. Graecae munditiae: Maxim. Graece: Pesc. Nig., Op. Macr., Al. Sev., (bis); Tyr. trig., Car. Graeci: Hadr., Cl. Alb., Carac., Al. Sev., Max. Balb., Aurel. Graeci artifìces: Car. Graeci (scil. grammatici): Ver. Graeci (historici): Aurel. Graeci libri: Aurel., Quadr. tyr. Graeci, oratores: M. Ant. Graeci, poetae: Gall. Graeci rhetores vel poetae: Al. Sev. Graeci scriptores: Clod. Alb. Graeci (scil. scriptores): Heliog., Maxim., Max. Balb., Aurel., Tac., Prob., Quadr. tyr. Graeci versus: Al. Sev., Maxim.

Graecia: Sev., Pesc. Nig., Max. Balb., Claud. Graecostadium: Ant. Pius. Graeculus: Hadr. Graecum: Op. Macr., Aurel. Graecum, epigramma: Pesc. Nig., Tyr. trig. Graecum, fenum: Heliog. Graecus: Diad. Graecus auctor: Gord. Graecus grammaticus: Pert., Al. Sev. Graecus (grammaticus): M. Ant. Graecus, liber: Aurel. Graecus, litterator: Comm. Graecus, magister: Maxim. Graecus poeta: Op. Macr. Graecus rhetor: Maxim. Graecus scriptor: Diad., Maxim., Max. Balb. Graecus versus: Pesc. Nig. Graius poeta: Op. Macr. Graianus, Iulius: v. Iulius. Gratus: Claud. Grauthungi: Prob., Cfr. Grutungi. Grutungi: Claud., Cfr. Grauthungi. Gurges Fabius: Heliog., Cfr. Fabius. Hababa: Maxim. Hadria: Hadr. Hadriani: Tac. Hadrianopolis: Hadr., Cfr. Oresta. Hadrianotherae: Hadr. HADRIANUS (P. Aelius Hadrianus = Imp. Caesar Traianus Hadrianus Aug.): Hadr., (vita). - Ael., (bis); (bis); Ant. Pius, (bis); (bis); (bis); (bis); (bis); (bis); M. Ant., (bis); Ver., Av. Cass., Comm., Sev., Pesc. Nig., Cl. Alb., Geta, Heliog., Al. Sev., (bis); (bis); Gall., Tyr. trig., Aurel., Tac., Prob., Quadr. tyr. Hadrianus, Aelius pater Hadriani: Hadr. Hadrianus, Aelius patruus magnus Hadriani: Hadr. Hadrumetini: Cl. Alb. Hadrumetinus (cfr. Adrumetinus): Cl. Alb. Haemimontum: Claud., Aurel. Halala (colonia Faustinopolis): M. Ant. Halani: v. Alani. Halcyonas opus Ciceronis et Gordiani: Gord. Haldagates: Aurel. Hannibal: v. Annibal. Hariomundus: Aurel. Harpocratio: Ver.

Haterianus, Iulius: v. Iulius Atherianus. Hebrus: Heliog. Hector: Maxim. Hedessa: v. Edessa. Hefaestio: Ver. Heliodorus (C. Avidius?): Hadr. Heliodorus, filius Avidii Cassii: M. Ant. Heliogabali: Tac. Heliogabalus deus: M. Ant., Op. Macr., Diad., Heliog., (bis); Aurel. HELIOGABALUS (Imp. Caesar M. Aurelius Antoninus Aug.): Heliog., (vita). - Carac., Op. Macr., (ter); Diad., Al. Sev., Maxim., Gord., Appellatur: M. Aurelius Antoninus; Marcus Antoninus Heliogabalus; Heliogabalus Antoninus; Antoninus Heliogabalus; Heliogabalus; Antoninus; Heliogabalus Bassianus Varius; Bassianus; Antoninus Varius; Varius Heliogabalus; Varius; Gabalus (Al. Sev.). Helius: v. Aelius. Helviani, sodales: Pert., Sev. Helvius Pertinax: v. PERTINAX. Helvius Pertinax, Pertinacis filius: Carac., Geta, (bis). Helvius Successus, Pertinacis pater: Pert. Hellespontus: Sev. Hemona; Maxim. Hephaestio: v. Hefaestio. Heraclammon: Aurel. Heraclea: Gall. Heraclia: Aurel. Heraclianus: Gall. Heraclitus: Sev., Pesc. Nig. Herculaneae, macerae: Pert. Herculaneus Commodianus, flamen: Comm. Herculea, Commodiana (classis Africana): Comm. Herculeae, idus: Comm. Hercules: Hadr., Comm., (Commodus); (Commodus); Carac., (Commodus); Carac., (Caracolla); Diad., (Commodus); Maxim., (Maximinus); (Maximinus). Hercules (mensis): Comm. Hercules Fundanus: Tac. Hercules, Romanus (Commodus): Comm. Hercules rusticus: Comm. Herculeum nomen: Diad. Herculeus, agon: Al. Sev. Herculianae, lanceae: Claud. Herculis signum: Comm. Herculis, templum: Tyr. trig. HERENNIANUS, tyrannus: Tyr. trig., (vita). - Gall., Tyr. trig. Herennianus: Claud.

Herennianus (dux): Prob. Herennianus, Proculi filius: Quadr. tyr. Herennianus, Verconnius: v. Verconnius. Herennius Celsus: Tyr. trig. (Herennius) Dexippus: v. Dexippus. (Herennius) Modestinus: v. Modestinus. Herennius Nepos: Sev. Hermunduri: M. Ant. HERODES, tyrannus: Tyr. trig. (vita). - Gall., Tyr. trig. Herodes Atticus (Ti. Claudius Atticus Herodes): M. Ant., Ver. Herodianus: Cl. Alb., Diad., Al. Sev., Maxim., Max. Balb., Tyr. trig., Cfr. Arrianus. Hiberi: Hadr., Valer., Aurel. Hierocles: Heliog. Hilaria: Al. Sev., Aurel. Hildomundus: Aurel. Hispani: Hadr., M. Ant., Sev., Al. Sev., Tyr. trig., Prob. Hispania: M. Ant., Sev., Valer. Hispaniae: Hadr., M. Ant., Sev., Cl. Alb., Claud., Prob., Quadr. tyr., Car. Hispanienses: Hadr. Hispaniensis astutia: Prob. Hispaniensis, domus: Quadr. tyr. Hister: Gall. Histria: Max. Balb. Histrica civitas: Max. Balb. Homerici, libri: Maxim. Homerus: Hadr., Sev., Prob. Homullus: v. Valerius Homullus. Honoratus, Egnatuleius: v. Egnatuleius. Horatius: Al. Sev., Citantureius versus: Av. Cass., (carm. I). Hortensius, Ciceronis liber: Gall. Hunila: Quadr. tyr. Ianus geminus: Comm., Gord. Iavolenus: v. Diabolenus. Illyrici, exercitus: Did. Iul. Illyriciana gens: Claud. Illyriciana, paenula: Claud. Illyriciani exercitus: Sev. Tyr. trig., Aurel., Prob. Illyriciani parentes: Car. Illyricianus limes: Aurel. Illyricum: Hadr., M. Ant., Did. Iul., Al. Sev., Gord., Max. Balb., Valer., Gall., Tyr. trig., Claud., Aurel., Tac., Prob., Car. Ilus: Claud. Incommodi: Tac.

Indi: Tyr. trig., Aurel., Quadr. tyr. Indi interiores: Aurel. Indica, sandyx: Aurel. Indici, odores: Heliog. Indicum, donum: Quadr. tyr. INGENUUS, tyrannus: Tyr. trig., (vita). - Tyr. trig., Claud. Inpurus (Heliogabalus): Al. Sev. Insubris: Did. Iul. Interamna: Sev., Tac. Invictae, kalendae: Comm. Invictus (mensis): Comm. Iovis cenatio (locus Palatii): Pert. Iovis, campus: Pesc. Nig. Iovis epulum: Al. Sev. Isauri: Tyr. trig., Prob. Isauri, latrones: Prob. Isauria: Al. Sev., Tyr. trig., Prob. Isiaci: Comm. Isis: Comm., Pesc. Nig., Carac. Isium: Al. Sev. Isium Metellinum: Tyr. trig. Italia: Hadr., Ant. Pius, (bis); M. Ant., Did. Iul., Sev., Diad., Heliog., Al. Sev., Maxim., Gord., Max. Balb., Valer., Tyr. trig., Aurel., Prob., Car. Italica, Hadriani patria: Hadr. Italica allectio: M. Ant. Italicae civitates: M. Ant. Italicae regiones: Gord. Italici (in Hispania): Hadr. Italici: Ant. Pius. Italici exercitus: Prob. Italicum, praesidium: Aurel. Italum aequor: Pesc. Nig. Ityraei, sagittarii: Aurel. Iudaei: Hadr., Ant. Pius, Sev., Heliog., Al. Sev., Claud., Quadr. tyr. Iudaica religio: Carac. Iudaicae litterae: Gord. Iudaicus triumphus: Sev. Iulia (Iulia Domna Augusta): Sev., Cl. Alb., Carac., Geta, Op. Macr. Iulia Fadilla, soror uterina Antonini Pii: Ant. Pius. (Iulia) Maesa: v. Maesa. Iulianus, Ceionius: v. Ceionius. Iulianus, Cerellius: v. Cerellius. Iulianus, Claudius: v. Claudius.

Iulianus, Didius: v. DIDIUS. Iulianus, Pescennius: v. Pescennius. Iulianus (L. Iulius Vehilius Gratus Iulianus): Comm. Iulianus, Salvius: v. Salvius. Iulianus (Ulpius Iulianus): Op. Macr. Iulius, divus: Ael. C. Iulius (Caesar): Av. Cass. Iulius Atherianus: Tyr. trig. Iulius Calpurnius: Car. Iulius Candidus: v. Candidus. Iulius Capitolinus: Prob., Scripsit vitas Antonini Pii, Marci Antonini, Veri, Pertinacis, Clodii Albini, Opilii Macrini, Maximinorum duorum, Gordianorum trium, Maximi et Balbini. Iulius Erucius Clarus: v. Erucius. Iulius Frontinus: Al. Sev. Iulius Granianus: Al. Sev. Iulius Laetus: Did. Iul., Cfr. Laetus. (P.) Iulius Lupus: Ant. Pius. (Iulius) Martialis: v. Martialis. (Iulius) Paulus: Pesc. Nig., Al. Sev. M. Iulius Philippus: v. Philippus. Iulius Postumus: v. POSTUMUS. Iulius Proculus: Comm. (Iulius) Quadratus: v. Quadratus. (Iulius) Rhoemetalces: v. Rhoemetalces. Iulius Rufus: Sev. (Iulius) Servianus: v. Servianus. (Iulius) Titianus: v. Titianus. Iulius Trypho: Aurel. (Iulius) Valens: v. Valens. Iulus: Diad. Iuncus, Aemilius: v. Aemilius. Iunia Fadilla: Maxim. Iunius (Cordus): Gord. Iunius, Cari legatus: Car. Iunius Balbus: Gord. Iunius Brocchus: Claud. Iunius Cordus: v. Cordus. Iunius Messala: Car. Iunius Palmatus: Al. Sev. (Q.) Iunius Rusticus: M. Ant. Iunius Severus: Cl. Alb. Iunius Silanus: Maxim. (C.) Iunius Tiberianus: Aurel.

Iuno, bona: Diad. Iuno regina: Prob. Iuppiter: Sev., Diad., (bis); Heliog., Al. Sev., Gall., Quadr. tyr. Iuppiter Consul vel Consulens: Quadr. tyr. Iuppiter, Niceforius: Hadr. Iuppiter Olympius: Hadr. Iuppiter Optimus: Maxim., Prob. Iuppiter Optimus Maximus: M. Ant., Comm., Diad., Max. Balb., Claud., Aurel., Prob., Quadr. tyr. Iuppiter Optimus Maximus Capitolinus: Aurel. Iuppiter Praestes: Max. Balb. Iuppiter Salutaris: Gall. Iuppiter Syrius: Carac. Iuppiter Ultor: Pert. Iustus, Autronius: v. Autronius. Iuvenalia: Gord. Iuvenalis: v. Flavius Iuvenalis. Iuverna insula: Tac. Iuventius Celsus (P. Iuventius Celsus T. Aufidius Hoenius Severianus): Hadr. Ixionii amici: Heliog. Karthago: v. Carthago. ϰυνηγετιϰά, Olympius Nemesianus scripsit: Car. (M’.) Laberius Maximus: Hadr. Labicana, via: Did. Iul. Labicanae, uvae: Cl. Alb. Lacedaemonia, saxa: Ant. Heliog. Lacedaemonium (marmor): Al. Sev. Lacringes: M. Ant. Ladii: v. Lazi. Laelianus: v. Lollianus. Laelius: Gord. Laetus: v. Q. Aemilius Laetus. Laetus (Iulius Laetus?), Sev., Cfr. Iulius Laetus. Laetus (Maecius Laetus): Carac. Lamia Silanus (potius Silvanus): Ant. Pius. Lampridia: Pesc. Nig. Lampridius, Aelius: Prob., (Scripsit vitas Commodi, Diadumeni, Heliogabali, Alexandri Severi. Lanuviana, templa: Ant. Pius. Lanuvina, villa: Ant. Pius. Lanuvium: Comm. Laodicia: Ver. Laodicia, Diana: Heliog. Larcius Eurupianus: Comm. Larensis, Livius: v. Livius.

Larius: Prob. Lascivius, Triarius Maternus: v. Triarius. Laterani, aedes: M. Ant. Lateranus, Sextius: v. Sextius. Latina: Al. Sev., Aurel. Latina facundia: Al. Sev. Latina (historia): Tyr. trig. Latina lingua: Maxim. Latina oppida: Hadr. Latina sententia: Maxim. Latinae, feriae: M. Ant. Latinae litterae: Sev., Cl. Alb., Maxim., Gord. Latinae (scil. orationes): Hadr., Al. Sev. Latine: Sev., Pesc. Nig., Op. Macr., Al. Sev., Tyr. trig., Aurel., Car. Latini: Op. Macr., Tyr. trig. Latini (grammatici): M. Ant. Latini poetae: Al. Sev., Gall. Latini rhetores vel poetae: Al. Sev. Latini scriptores: Cl. Alb., Maxim., Max. Balb., Latini (scil. scriptores): Heliog., Max. Balb., Aurel., Tac. Latini (scil. versus): Op. Macr., Maxim. Latinum: Op. Macr., Diad., Maxim. Latinus gabalus: Op. Macr. Latinus, grammaticus: Ver., Maxim. Latinus (litterator): Comm. Latinus (orator): M. Ant. Latinus (rhetor): Ver. Latinus sermo: Tyr. trig. Latium: Claud. Latium (scil. ius): Hadr. Lavinium: M. Ant. Lazi: Ant. Pius. Lembarii: Aurel. Leonides: Prob. Leptis: Sev. Leptitana, soror: Sev. Leptitanus: Sev. Liber: Heliog. Libitinensis, porta: Comm. Libo (M. Annius Libo) patruelis Marci Antonini: Ver. Libo, Annius: v. Annius. Libya: Hadr., Sev., Pesc. Nig., Maxim., Gall., Prob. Libycae, ferae: Gord., Aurel.

Libyci leopardi: Prob. Libycus, limes: Tyr. trig. Licinius (Imp. Caesar Valerius Licinianus Licinius Aug.): Heliog., Gord. (L. Licinius) Sura: v. Sura. Liguria: Pert., (bis). Livianus (Ti. Claudius Livianus): Hadr. Livii: Prob. Livius Andronicus: Car. Livius Larensis (P. Livius Larensis): Comm. LOLLIANUS (C. Ulpius Cornelius Laelianus) tyrannus: Tyr. trig., (vita). - Gall., Tyr. trig., Claud. (L.) Lollianus Avitus: Pert. Lollianus Gentianus (Q. Hedius Rufus Lollianus Gentianus): Pert. Lollianus Titianus: Did. Iul. Lollianus Professus: Sev. Lollius Serenus: Cl. Alb. (Q.) Lollius Urbicus: Ant. Pius. Lollius Urbicus: Diad. Longinus (Cassius Longinus): Aurel. Longus, Baebius: v. Baebius. Lopiae (potius Lupiae): M. Ant. Lorium: Ant. Pius. Lucani: Carac. Lucania: Tyr. trig., Aurel. Lucanicus: Carac. Lucanus, Claudius: v. Claudius. Lucceius Torquatus: Comm. Lucifer: Maxim. Lucii (scil. Scipiones): Prob. Lucilianus, versus: Pert. Lucilla (Annia Lucilla) filia Marci Antonini: M. Ant., Ver., Comm., Carac. Lucilla (Domitia L. minor) mater Marci Antonini: v. Domitia Lucilla. Lucillus cons. a.: Gall. Lucius Caesar: v. AELIUS. Lugdunenses: Quadr. tyr. Lugdunensis provincia: Sev., Pesc. Nig. Lugdunum: Cl. Alb. Luna: Hadr., Carac. Luna Ephesia: Gall. Lunus deus: Carac. Lupiae: v. Lopiae. Lupus Antius: v. Antius. Lupus, Iulius: v. Iulius. Lusitania: M. Ant.

Lusius Quietus: Hadr. Lustralis, Sergius: v. Sergius. Lycium: Hadr. Macedo, Alexander: Hadr., Carac., Tyr. trig., Prob., Cfr. Alexander. Macedones: Hadr. Macedonia: Pesc. Nig., Gall. Macedonius: Maxim. Macellinus (Opilius Macrinus): Op. Macr. Macer, avus maternus Severi: Sev. Macer, Aninius: v. Aninius. Macer, Baebius: v. Baebius. Macer, Cornelius: v. Cornelius. Macrianorum familia: Tyr. trig. Macrianus, Baebius: v. Baebius. Macrianus socer Alexandri Severi: Al. Sev. MACRIANUS (M. Fulvius Macrianus): Tyr. trig., (vita). - Gall., (bis); (bis); (bis); Tyr. trig., (bis). MACRIANUS IUNIOR(Imp. Caesar T. Fulvius Iunius Macrianus Aug.): Tyr. trig., (vita). - Gall., Tyr. trig. Macriniana, factio: Diad. Macrinus: v. Opilius Macrinus. Macrinus, Cerellius: v. Cerellius. Macrinus, Varius: v. Varius. Macrinus, Veturius: v. Veturius. Maecenas: Maxim., Gord. Maecia Faustina: Gord. Maecianus (L. Volusius Maecianus?): M. Ant., Av. Cass. Maecianus, Proculi adfinis: Quadr. tyr. Maecianus, Baebius: v. Baebius. Maecianus, Cereius: v. Cereius. Maecianus, Volusius: v. Volusius. Maecius Brundisinus: Aurel. Maecius Faltonius Nicomachus: Tac. Maecius Gordianus: Gord. Maecius Marullus: Gord. MAEONIUS: Tyr. trig., (vita). - Tyr. trig. Maeonius Astyanax: Tyr. trig. Maeotidae (Meotidae): Aurel., Tac. Maeotis: Tac. Maesa (Iulia Maesa), Heliogabali avia: Op. Macr., Cfr. Varia. Magirus (Aurelii Zotici cognomen): Heliog. Magni nomen: Al. Sev. Magnus, consularis: Maxim., Tyr. trig. Magnus, Alexander: v. Alexander.

Magnus, Pactumeius: v. Pactumeius. Magnus, Pompeius: v. Pompeius. Malemnius, Sallentinus rex: M. Ant. Mallia Scantilla: v. Manlia. Mallius Chilo: Aurel. Mamaea (Mammaea) (Iulia Avita Mamaea Augusta): Op. Macr., Al. Sev., (ter); Maxim., Aurel., Car. Mamertinus, Petronius: v. Petronius. Mammaea: v. Mamaea. Mammaeanae (puellae): Al. Sev. Mammaeani (pueri): Al. Sev. Mammam, ad: Al. Sev. Mamurius: Tyr. trig. Manlia (Mallia) Scantilla: Did. Iul. Manlius Statianus: Prob. Marcelli, theatrum: Al. Sev. Marcellina, Pescennia: v. Pescennia. Marcellinus, Fabius: v. Fabius. Marcellinus, Valerius: v. Valerius. Marcellus: Al. Sev. Marcellus (C. Publicius Marcellus): Hadr. Marcellus, Quintilius: v. Quintilius. Marcellus, Ulpius: v. Ulpius. Marcia: Comm., Pert., Did. Iul. Marcia (rectius Paccia Marciana), Severi uxor: Sev. Marciani sodales: Pert., Sev. Marcianopolis: Claud. Marcianus: Gall., Claud. Marcius Agrippa: Carac. (Cn.) Marcius Coriolanus: Pesc. Nig. Marcius Quartus: Comm. Marcius Turbo (Q. Marcius Turbo Fronto Publicius Severus): Hadr.. Marcomanni: M. Ant., Heliog., (bis); Aurel., (bis). Marcomannia: M. Ant. Marcomannicum bellum: M. Ant., (bis); Av. Cass., Heliog. Marcomannicum, proelium: Aurel. Marcus (in Martialis epigrammate): Al. Sev. MARCUS ANTONINUS PHILOSOPHUS (= Imp. Caesar M. Aurelius Antoninus Aug.): M. Ant., (vita). Hadr., Ael., Ant. Pius, Ver., (ter); (bis); (bis); (bis); (bis); (bis); (bis); Av. Cass., (bis); (bis); (bis); (bis); Comm., Pert., (bis); (bis); Did. Iul., Sev., Pesc. Nig., Cl. Alb., Carac., Geta, (bis); Op. Macr., Diad., Heliog., (bis); Al. Sev., Gord., Aurel., Quadr. tyr., Car., Appellatur: Marcus; Marcus Antoninus; Antoninus. Marcus (inversu): Op. Macr.

Marcus (Marcius?) Asellio: Sev. Margum, apud: Car. (C.) Marius: Av. Cass., Pesc. Nig. Marius, poema Ciceronis: Gord. MARIUS (Imp. Caesar M. Aurelius Marius Aug.): Tyr. trig., (vita). - Tyr. trig. Marius Maximus: Av. Cass., Prob., Quadr. tyr., Citatur: Hadr., Ael., Ant. Pius, M. Ant., Av. Cass., Comm., Pert., Sev., Cl. Alb., Geta, Heliog., Al. Sev. Marmaridae: Prob. Marna: Al. Sev. Mars: M. Ant., Aurel. Marsica gens: Heliog. Martia quinta legio: Claud. Martiale, ludicrum: Claud. Martialis (Iulius Martialis): Carac. Martialis poeta: Ael., Al. Sev., Citantur eius versus: Al. Sev., (V). Martialis, Gargilius: v. Gargilius. Martius, campus: Hadr., M. Ant., Al. Sev., Maxim., Gord., Tac. (P. Martius) Verus: Ver., Av. Cass. Marullus: M. Ant. Marullus, Maecius: v. Maecius. Maryllinus: Hadr. Massilia: Sev. Masticius Fabianus: Sev. Mater (deum): Heliog., Al. Sev., Claud. Mater magna: Heliog. Materianus, Pescennius: v. Pescennius. Maternus Lascivius, Triarius: v. Triarius. Matidia, Hadriani socrus: Hadr. Matronianus: Car. Maura, purpura: Claud. Maura, stragula: Aurel. Maurentius: Did. Iul. Mauretania (Mauritania): Hadr., Gord., Tac. Mauretania Tingitana: Al. Sev. Mauri: Hadr., Ael., Ant. Pius, M. Ant., Comm., Sev., Maxim., Gord., (bis); Tyr. trig., Quadr. tyr. Mauri, strutiones: Gord. Mauricius: Gord. Mauricius, Murrentius: v. Murrentius. Mauritania: v. Mauretania. Maurus, Aelius: v. Aelius. Maxentius (Imp. Caesar M. Aurelius Valerius Maxentius Aug.): Heliog. Maximianus (Imp. Caesar M. Aurelius Valerius Maximianus Aug.): Ael., Heliog., Claud., Aurel., Prob., Car. Maximianus, Caesar (= Imp. Caesar C. Galerius Valerius Maximianus Aug.): Car., Cfr. Galerius.

Maximini: Gord., Aurel. MAXIMINUS senior (Imp. Caesar C. Iulius Verus Maximinus Aug.): Maxim., (vita). - Al. Sev., Gord., (bis); (bis); Max. Balb., (bis); (bis); Tyr. trig. MAXIMINUS iunior (C. Iulius Verus Maximus): Maxim., (vita). Maximiniana tyrannis: Gord. Maximiniani: Gord. Maximiniani milites: Maxim. Maximinus (Paris): Ver. MAXIMUS sive PUPPIENUS (Imp. Caesar M. Clodius Puppienus Maximus Aug.): Max. Balb., (vita). Maxim., (bis); (bis); Gord., Cfr. PUPPIENUS. Maximus, pater Maximi Aug.: Max. Balb. Maximus, Claudius: v. Claudius. Maximus, Gavius: v. Gavius. Maximus, Laberius: v. Laberius. Maximus, Marius: v. Marius. Maximus (Quintilius Maximus) cons. a.: Comm. Maximus, Tatius: v. Tatius. Media: Ver. Medicus (Verus): Ver. Mediolanenses: Tac. Mediolanenses, rosae: Car. Mediolanensis: Did. Iul., Car. Mediolanium: Geta, Valer., Gall., Claud. Mediolanum: Aurel. Megalensia: Carac. Memfis: Sev., Tyr. trig. Memfius: Ver., V. Agrippus. Memmia: Al. Sev. Memmius Rufinus: Sev. Memmius Tuscus: v. Nummius Tuscus. Memnon: Sev. Memphis: v. Memfis. Menofilus (Tullius Menophilus): Maxim., Max. Balb. Meotidae: v. Maeotidae. Mesomedes: Ant. Pius. Mesopotameni: Hadr. Mesopotameni auxiliares: Aurel. Mesopotamia: Gall., Tyr. trig., Car. Messala, orator: Maxim. Messala, praeses Achaiae: Claud. Messala, Iunius: v. Iunius. Messalina, Aurelia: v. Aurelia. Metelli: Al. Sev.

Metellinum, Isium; Tyr. trig. Metellus: Hadr. Metellus (Q. Caecilius Metellus Pius): Al. Sev. Mezentius: Op. Macr. Micca: Maxim. Micipsa: Sev. Milesiae (scil. fabulae): Cl. Alb. Milesiae Punicae Apulei: Cl. Alb. Milo, Annius: v. Annius. Milo, Crotoniates: Maxim. Minerva: Prob. Minervia, prima legio: Hadr. Minucia: Comm. Misitheus (C. Furius Sabinius Aquila Timesitheus): Gord. Mithriaca, sacra: Comm. Mithridates Ponticus: Valer. Mithridaticum, bellum: Prob. Mnesteus: Aurel. Moderatus: M. Ant. Modestinus: Maxim. Moesi: Max. Balb., Tyr. trig., Claud. Moesi exercitus: Claud. Moesia: Hadr., Ant. Pius, Pert. Gord., Gall., Aurel., (bis). Moesia utraque: Pert. Moesiacae legiones: Tyr. trig. Moesiaci milites, cives: Tyr. trig. Moesiae, duae: Aurel. Moesius Gallicanus: Tac. Mogontiacum: Aurel. Molvius, pons: Gall. Montanus: Gord. Moses: Claud. Motilenus: Comm. Mucapor: Aurel. Mucius (Scaevola): Gord. Mulvius Gallicanus: Prob. Mummius Quadratus (potius M. Ummidius Quadratus): M. Ant. Mummius Secundinus: Sev. Murcus, Nonius: v. Nonius. Murena, Ablavius: v. Ablavius. Murrentius Mauricius: Aurel. Myrismus: Heliog.

Narbona: Max. Balb. Narbonensis civitas: Ant. Pius. Narbonensis proconsul: Carac. Narcissus: Sev. Narseus: Prob. Nasicae (Scipiones): Prob. ναυτιϰά, poema Olympii Nemesiani: Car. Neapolis: Hadr. Neapolitani Palaestinenses: Sev. Neho: Al. Sev. Nemausense (genus): Ant. Pius. Nemausus: Hadr. Nemesianus (Aurelius Nemesianus): Carac. Nemesianus, Olympius: v. Olympius. Nemesis: Max. Balb. Nepos, Herennius: v. Herennius. Nepos, Platorius: v. Platorius. Neptuni, basilica: Hadr. (L. Neratius) Priscus: Hadr., (bis). Nero: Hadr., M. Ant., Ver., Av. Cass., Comm., Cl. Alb., Heliog., Aurel. Nerones: Cl. Alb., Heliog., Al. Sev., Aurel., Tac., Car. Neroniana, vitia: Ver. Neronianae (thermae): Al. Sev. Nerva (Imp. Caesar Nerva Aug.): Hadr., Ant. Pius, Al. Sev., Tyr. trig., Car., Appellatur Cocceius Nerva: Aurel. Nervae: Tac. Niceforius Iuppiter: Hadr. Nicomachus: Aurel. Nicomachus, Maecius Faltonius: v. Maecius. Nicomedes: Ver. Nicomedia: Heliog., Gall. Nicopolis: Claud., Aurel. Niger fluvius (potius Nicer): Prob. Niger, praef. praet.: Comm. Niger, Pescennius: v. PESCENNIUS NIGER. Nigrinus (C. Avidius Nigrinus): Hadr. Niliaci, navicularii: Aurel. Nilus: Hadr., Pesc. Nig., Prob. Nilus, poema Ciceronis et Gordiani: Gord. Nisibeni: Gall. Nisibis: Gord., Gall., Tyr. trig. Nonia Celsa: Diad. Nonius Gracchus: Sev.

Nonius Murcus: Cl. Alb. Norbana: Comm. Norbanus: Comm. Noricum: Pert. Notus: Ael. (L.) Novius Rufus: Sev. Numa (Pompilius): Ant. Pius, M. Ant., Sev., Car. NUMERIANUS (Imp. Caesar M. Aurelius Numerius Numerianus Aug.): Car., (vita). - Quadr. tyr., Car., (ter). Numidicae, columnae: Gord., Tac. Nummius Albinus: Did. Iul. (M.) Nummius Tuscus, cons. a.: Aurel., Tuscus: Tyr. trig. Oceani solium: Al. Sev. Oceanus: Sev., Maxim., Tac. Octavianus, Augustus: Sev., Cfr. Augustus. Octavianus, Caesar: Hadr., Cfr. Augustus. ODENATUS (Septimius Odaenathus): Tyr. trig., (vita). - Valer., Gall., (bis); (bis); Tyr. trig., (bis); (bis); Aurel., Prob. Odomastes: Tyr. trig. Olbiopolitae: Ant. Pius. Olympias: Al. Sev. Olympius, Iuppiter: Hadr. Olympius Nemesianus (Aurelius Nemesianus Olympius): Car. Onesicrates: Comm. Onesimus: Quadr. tyr., Car. OPILIUS MACRINUS (Imp. Caesar M. Opellius Macrinus Aug.): Op. Macr., (vita). - Carac., Diad., (bis); (bis); Heliog., (bis); (bis); Al. Sev., Maxim. Optatianus, Suetonius: v. Suetonius. Orci, aedes: Heliog. Oresta civitas (Hadrianopolis): Heliog. Oresta urbs (Hadrianopolis): Heliog. Orestes: Heliog. Orestilla, Fabia: v. Fabia Orestilla. Orfeus: Al. Sev. Orfitus praef. urbi: Ant. Pius. Orfitus: M. Ant. Orfitus (Ser. Scipio Orfitus) cons. a.: Comm. Orfitus (Ser. Scipio Orfitus) cons. a.: Comm. Orfitus (Virius Orfitus) cons. a.: Claud. Orpheus: v. Orfeus. Osdroeni: Al. Sev., Maxim. Osdroeni, sagittarii: Maxim. Osdroes (Osrhoes): Hadr.

Ostiense, lavacrum: Ant. Pius. Ostienses: Tac. Ostienses, melones: Cl. Alb. Ostiensis (scil. ager): Aurel. Otho: Av. Cass., Heliog. Ovidius: Ael. Ovinius Camillus: Al. Sev. Pacis, templum: Tyr. trig. Pacorus: Ant. Pius. (T.) Pactumeius Magnus: Comm. Paenularius (Diadumenus): Diad. Paenuleus (Diadumenus): Diad. Palaestina: Hadr., Quadr. tyr. Palaestinae (ferae): Aurel. Palaestinenses, Neapolitani: Sev. Palaestini: Sev., Pesc. Nig. Palatina, aula: Gall. Palatina domus: Pert., Sev. Palatina, domus - Commodiana: Comm. Palatina officia: Heliog. Palatinae aedes: Comm., Sev. Palatini: Heliog., Al. Sev. Palatinum, officium: Aurel. Palatinus mons: Heliog. Palatium: Comm., (bis); Pert., Did. Iul., Sev., Carac., Heliog., Al. Sev., Maxim., Gord., Max. Balb., Valer., Tyr. trig., Aurei., Prob., Car. Palfuerius: Prob. Palfurius Sura: Gall. Palladium: Heliog. Palma (A. Cornelius Palma): Hadr. Palmatus, Iunius: v. Iunius. Palmyra: Aurel. Pamyreni: Gall., (bis); Tyr. trig., Claud., Aurel., Prob. Palmyrenus (Odenatus): Valer. Palus primus secutorum: Comm. Pamphylia: Ver., Prob. Pannonia: Hadr., Ver., Prob. Pannonia inferior: Hadr. Pannoniae: Hadr., Ael., M. Ant., Comm., Sev., Tyr. trig., Car. Pannoniciani augures: Sev. Pannonii: Al. Sev. Pannonii exercitus: Claud. Pannonii parentes: Car.

Pannonius, homo: Aurel. Pantheum: Hadr. Papinianus (Aemilius Papinianus); Sev., Pesc. Nig., Carac., Geta, (bis); Al. Sev. Papirius: v. Cassius. Papius Faustus: Sev. Papus (C. Cervonius Papus) cons. a.: Gord. Papus, Sosius: v. Sosius. Paralius: Comm. Panlia: Tac. Paridis, fabula: Heliog. Paris: Ver., Cfr. Maximinus. Parthamasiris (potius Parthamaspates): Hadr. Parthenianus, Aemilius: v. Aemilius. Parthi: Hadr., (bis); Ant. Pius, M. Ant., Ver., Sev., Cl. Alb., Carac., Op. Macr., Al. Sev., Maxim., Max. Balb., Gall., Tac., Prob. Parthia: Sev. Parthica expeditio: Hadr., Al. Sev. Parthica, legio secunda: Carac. Parthicae, zancae: Claud. Parthici, reges: Valer. Parthicum bellum: M. Ant., Ver., Pert., Sev., Carac., Geta, Op. Macr. Parthicum nomen: Sev. Parthicum, oppidum: Sev. Parthicum, tropaeum: Ver. Parthicus (Marcus Antoninus): M. Ant., Ver. Parthicus (Verus): M. Ant., Ver. Parthicus (Severus): Sev., Sev. Parthicus (Caracalla): Carac., Geta. Parthicus (Alexander Severus): Al. Sev. Parthicus (Aurelianus): Aurel. Parthicus (Probus): Prob. Parthus: Op. Macr. Passienus, Vibius: v. Vibius. Paternus: v. Tarrutenius. Patruinus (Valerius Patruinus): Carac. Paulina, Domitia, Hadriani mater; Hadr. Paulina (Domitia Paulina), Hadriani soror: Hadr. Paulinus, Fabius: v. Fabius. Paulus, Iulius: v. Iulius. (Pedanius) Fuscus: v. Fuscus. Peloponnenses: Claud. Pelusiaca, vulgaritas: M. Ant. Pelusium: Hadr.

Perennis: Comm., Pert., Appellatur Tigidius: Comm. Perennitas: Aurel. Perinthus: Sev., Quadr. tyr. Persae: M. Ant., Sev., Heliog., Al. Sev., (bis); Gord., (bis); (bis); Valer., Gall., (bis); Tyr. trig., Aurel., (bis); Tac., Prob., Car., (bis). Persica: Tyr. trig. Persica, bella: Tyr. trig. Persica, expeditio: Al. Sev. Persica, legatio: Tyr. trig. Persica (tunica): Heliog. Persicae litterae: Gord. Persicae, tunicae: Al. Sev. Persici dracones: Aurel. Persici, ludi circenses: Al. Sev. Persici motus: Tac. Persici, odores: Ael. Persicum, bellum: Al. Sev., Gord., Valer., Gall., Tyr. trig., Tac., Prob., Car. Persicum ferrum: Gord. Persicus (Alexander Severus): Al. Sev., (bis). Persicus (Carus): Car. Persicus, mos; Tyr. trig. Persicus, scurra: Tyr. trig. Persicus, triumphus: Gord. Persis: Al. Sev., Gord., Gall., Tyr. trig. Persius, Flaccus (A. Persius Flaccus): Al. Sev. PERTINAX, HELVIUS (Imp. Caesar P. Helvius Pertinax Aug.): Pert., (vita). - Av. Cass., Comm., Did. Iul., (ter); (bis); (bis); (bis); Sev., Pesc. Nig., Cl. Alb., (bis); Carac., Geta, Op. Macr., Diad., Tyr. trig., Claud. Pertinax, Helvius, filius Pertinacis: v. Helvius. Pertinax (Severus): Pert., Sev. Pertinax (Opilius Macrinus): Op. Macr. Pescennia Marcellina: Max. Balb. Pescenniana, domus: Pesc. Nig. Pescenniana, factio: Cl. Alb. Pescennianae reliquiae: Sev. Pescennius Albinus: Sev. Pescennius Aurelianus: Sev. Pescennius Festus: Sev. Pescennius Iulianus: Sev. Pescennius Materianus: Sev. PESCENNIUS NIGER (Imp. Caesar C. Pescennius Niger Iustus Aug.): Pesc. Nig., (vita). - Did. Iul., Sev., (bis); Cl. Alb., (bis); (bis); Carac., Al. Sev., Quadr. Tyr., Appellatur: P.N.; N.P.; Pescennius; Niger. †Pescennius Princus: Cl. Alb.

Pescennius Veratianus: Sev. Petronius Didius Severus: Did. Iul. Petronius Iunior: Sev. (Petronius) Antoninus: Comm. Petronius Mamertinus (M. Petronius Sura Mamertinus): Comm., (bis). Petronius Sura (M. Petronius Sura Septimianus): Comm. (T. Petronius Taurus) Volusianus: v. Volusianus. Peuci: Claud. Peucini: M. Ant. Phago: v. Fago. Phalaris (Falaris): Maxim. Pharasmanes: Hadr., Ant. Pius. Pharus: Ant. Pius. Philemon (Filemon): Maxim. Philippei (Filippei): Claud. Philippei, aerei: Prob. Philippi, Augusti: Gord., (bis); Aurel. Philippi, campi: Gord. Philippicae (scil. orationes): Aurel. Philippus, nutritor Alexandri Severi: Al. Sev. Philippus (Macedonum rex): Hadr., M. Ant., Al. Sev. Philippus (Arabs) (= Imp. Caesar M. Iulius Philippus Aug.): Heliog., Al. Sev., Gord., (bis); (bis); (bis); Cfr. Philippi. Philippus, Aurelius: v. Aurelius. Phlegon (P. Aelius Phlegon): Hadr., Sev., Quadr. tyr. Phoenice: Hadr. Phoenices: Op. Macr. Pia, Fulvia: v. Fulvia. Piae, nonae: Comm. (M.) Piavonius Victorinus: v. VICTORINUS. Picentes: Hadr. Picenum: Gord., Tyr. trig. Pinarius (Valens): Max. Balb. Pinianus: Aurel. Pinius: Op. Macr., Cfr. Aurelius Victor. Pipara: Gall. Pisitheus: Av. Cass. Piso (L. Calpurnius Piso Frugi Licinianus): Pesc. Nig. Piso (L. Calpurnius Piso) cons. a.: Comm. Piso, tyrannus: Tyr. trig., (vita). - Gall., Tyr. trig. Pisoniana factio: Cl. Alb. Pisonianus: Prob. Pisonum familia: Tyr. trig.

Pisonum (genus): Tyr. trig. Pius (Antoninus Pius): v. ANTONINUS PIUS. Pius (Commodus). Comm. Pius (Opilius Macrinus): Op. Macr., (bis). Pius (Caracalla): Pesc. Nig. Pius (Alexander Severus): Al. Sev. Pius, Fulvius: v. Fulvius. Placentia: Aurel. Placidius, Furius: v. Furius. Plaetoria, lex: M. Ant. Plato: Hadr., M. Ant., Al. Sev., Gord., Aurel. Platonicus: Hadr. (Platorius) Nepos (A. Platorius Nepos Aponius Italicus Manilianus C. Licinius Pollio): Hadr. Plautianus (C. Fulvius Plautianus): Sev., (bis); Carac., Geta, Heliog., Appellatur Fulvius: Pesc. Nig. Plautillus: Cl. Alb. (M.) Plautius Quintilius: Did. Iul. Plautus: Sev., Car. Plotina, uxor Traiani: Hadr. Plutarchus: M. Ant. Poecile: Hadr. Poena urbs: Pesc. Nig. Poeni: Cl. Alb. Poeni parentes: Car. Polaenus: v. Polyaenus. Polemoniacus, Pontus: Aurel. Polensis: M. Ant. Pollio (L. Fufidius Pollio) cons. a.: Comm. Pollio (T. Pomponius Proculus Vitrasius Pollio) cons. a.: Comm. Pollio, Trebellius: v. Trebellius Pollio. Polyaenus: Hadr. Pompeiana domus: Gord. Pompeianus cons. a.: Gord. Pompeianus, Claudius: v. Claudius. Pompeianus (Claudius Pompeianus) nepos Marci Antonini: Carac. Cn. Pompeius (Magnus): Hadr., Al. Sev., Gord., (bis); Max. Balb., Prob., Quadr. tyr. Pompiliana, curia: Aurel., Tac. Pompilius, Numa: v. Nunia. Pomponianus, Fabius: v. Fabius. (Pomponius) Bassus: v. Bassus. Ponticae, gentes: Valer. Pontici, motus: Prob. Ponticum, claustrum: Gall. Ponticus, Mithridates: Valer.

Ponticus tractus: Prob. Pontus: Ant. Pius, Max. Balb., Valer., Gall., Tyr. trig. Pontus Polemoniacus: Aurel. Porfyri nomen: Cl. Alb. Posidippus: M. Ant. Postumianus, Ceionius: Cl. Alb. Postumii: Cl. Alb. Postumius Severus: Sev. POSTUMUS (Imp. Caesar M. Cassianius Latinius Postumus Aug.): Tyr. trig., (vita). - Gall., Tyr. trig., (bis); Claud., Aurel., Prob. Iulius Postumus falso appellatur: Tyr. trig. POSTUMUS IUNIOR: Tyr. trig., (vita). - Tyr. trig. Postumus, Ceionius: Cl. Alb. Praenestina (scil. dea): Al. Sev. Praenestina, via: Gord. Praenestinus, secessus: M. Ant. Praesens, Bruttius: v. Bruttius. Praestes, Iuppiter: Max. Balb. Praetextatus (C. Asinius Lepidus Praetextatus) cons. a.: Gord. Priamus: Gord., (bis). Priapus: Gord. Prima: Max. Balb. Primigenia, legio: Did. Iul. Princus, Pescennius: v. Pescennius. Priscianus: Ant. Pius. Priscus, Neratius: v. Neratius. Priscus, Statius: v. Statius. Probatus: Claud. Probiana (purpura): Al. Sev. Probi nomine quidam milites: Prob. Probi nomen: Prob., (bis). Probus, Severi gener: Sev., (bis). Probus, Aurelius: v. Aurelius Probus. Probus, Faltonius: v. Faltonius. PROBUS (Imp. Caesar M. Aurelius Probus Aug.): Prob., (vita). - Aurel., Tac., (ter); (bis); (bis); Quadr. tyr., (bis); Car., (bis); (ter); (bis); Appellatur Aurelius Probus: Prob., Aurelius Valerius Probus: Prob. Procilla, Boionia: Ant. Pius. PROCULUS: Quadr. tyr., (vita). - Prob. (bis); Quadr. tyr. Proculus grammaticus: Tyr. trig. Proculus, Didius: Did. Iul. Proculus, (Eutychius): M. Ant. Proculus, Iulius: Comm. Professus, Lollius: Sev. Protogenes: Heliog.

Prytanium: Hadr. Pseudoantoninus: Heliog. Pseudophilippus: Heliog. Ptolemaei: Tyr. trig. Ptolomaei: Maxim. Ptolomaeus Euergetes: Carac. Ptolomais: Prob. (C. Publicius) Marcellus: v. Marcellus. Publicius Florianus: Did. Iul. (Publilius) Celsus: v. Celsus. Pudens (Q. Servilius Q. f. Pudens) cons. a.: Comm. Punica bella: Prob., Car. Punica, fides: Gord. Punicae, Milesiae: Cl. Alb. Punicum, bellum: M. Ant. Punicus, Sylla (Severus): Pesc. Nig. PUPPIENUS: Maxim., Gord., Cfr. MAXIMUS. Puteolani secessus: Tac. Puteoli: Hadr. Pyrrhus: Car. Quadi: M. Ant., Prob. Quadratus (A. Iulius A. f. Quadratus) cons. a.: Hadr. Quadratus (Asinius Quadratus): Ver., Av. Cass. Quadratus: Comm. Quadratus, Mummius: v. Mummius. Quadratus, Umidius: v. Umidius et Ummidius. Quartus, Marcius: Comm. QUIETUS (Imp. Caesar T. Fulvius Iunius Quietus Aug.): Tyr. trig., (vita). - Gall., Tyr. trig.. Quietus, Lusius: v. Lusius. (L.) Quinctius (Cincinnatus): Pesc. Nig. Quintilianus: Tyr. trig. Quintiliorum, domus: Comm. Quintiliorum (scil. domus): Tac. Quintilius Marcellus: Al. Sev. Quintillus (M. Aurelius Claudius Quintilius): Claud., Aurel., Appellatur Claudius: Claud. Quintilius, Plautius: v. Plautius. Quirinalis, collis: Heliog. Quirites: Diad., Al. Sev., (bis); Tac., Quadr. tyr. Quirites, Romulei: Quadr. tyr. Raetia: M. Ant., Carac. Raetiae: Pert., Prob. Raeticus limes: Aurel., Quadr. tyr. Ragonius Celsus: Pesc. Nig.

(Ragonius) Clarus: Tyr. trig., (bis). Ravenna: Maxim., Max. Balb. Ravennas (scil. ager): Max. Balb. Ravennas, classis: Did. Iul. Regalianus: v. Regilianus. REGILIANUS (Imp. Caesar P.C. … Regalianus Aug.): Tyr. trig., (vita). - Gall., Claud. Regillus: Comm. Remus: Sev. Renus: v. Rhenus. Repentinus, Cornelius: v. Cornelius. Repentinus, Fabius: v. Fabius. Reverendus: Gord. Rhenus (Renus): Max. Balb., Prob., Quadr. tyr. Rhodanus: Sev. Rhodii: Ant. Pius. Rhodopa: Aurel. Rhoemetalces (Ti. Iulius Rhoemetalces): Ant. Pius. Riparenses: Aurel. Roma: passim. Romana Victoria: Al. Sev., Prob. Romani: passim. Romanus: passim. Romanus (mensis): Comm. Romulei Quirites: Quadr. tyr. Romuleus, mons: Gall. Romulus: Comm., Sev., Sev., Maxim., Tac., Car. Roxalani: v. Roxolani. Roxolani (Roxalani): Hadr., M. Ant., Tyr. trig., Aurel. Rufinus, Apuleius: Sev. Rufinus, Clodius: Sev. Rufinus, Memmius: Sev. Rufius Celsus: Quadr. tyr. Rufus (D. Velius Rufus) cons. a.: Comm., Cfr. Velius Rufus. Rufus, Claudius: Sev. Rufus, Iulius: Sev. Rufus, Novius: Sev. Rufus, Velius: v. Velius. Rupilia Faustina: M. Ant. Rupilius Bonus: M. Ant. Rusticus, Iunius: v. Iunius. Rutilius: Gord. Saba(s) (Septimius Zabdas): Claud., Cfr. Zaba(s). Sabatia, vada: Pert.

Sabina, uxor Hadriani: Hadr. Sabinianus: Gord. Sabinus (Vettius? Sabinus) cons. a.: Gord., Cfr. Vectius Sabinus. Sabinus consularis: Heliog. Sabinus praefectus urbi: Maxim., Gord. Sabinus, pater Fabii Sabini: Al. Sev. Sabinus, Aelius: Maxim. Sabinus, Fabius: Al. Sev. Sabinus, Fulvius: Aurel. Sabinus, Vectius: v. Vectius. Salambo: Heliog. Sallentinus, rex: M. Ant. Sallustii, horti: Aurel. Sallustii: Prob. Sallustius (Salustius) (C. Sallustius Crispus): Hadr., Sev., Max. Balb., Aurel., Quadr. tyr.. Appellatur Crispus: Sev., Sallustius Crispus: Prob. Sallustius Macrianus: v. Macrianus. Salonae: Gall. Salonina (Cornelia Salonina Augusta): Gall. Saloniniani, trientes: Claud. SALONINUS GALLIENUS (P. Licinius Cornelius Valerianus Caesar): Gall., (vita). - Valer., (bis); Gall., Tyr. trig. Salutaris, Iuppiter: Gall. M. Salvidienus: Quadr. tyr. Salvius: v. (P.) Salvius Iulianus. Salvius Iulianus: Hadr., Did. Iul., Sev., (ubi confunditur cum Didio Iuliano). (P.) Salvius Iulianus, cons. a.: Comm., - Comm., (bis); (ter); Did. Iul., Appellatur: Salvius; Iulianus; Salvius Iulianus. Salvius Valens: Ant. Pius. Samaritae: Quadr. tyr. Samaritani: Heliog. Samarites: Quadr. tyr. Samiramis: Tyr. trig. Sammonicus Serenus (Serenus Sammonicus): Carac., Geta, Gord. Sammonicus Serenus, filius: Al. Sev., Gord. Samnitica, vasa: Pert. Samnium: Tyr. trig. Samso: Quadr. tyr., Cfr. Vituriga. Sanctus, Ateius: Comm. Sandario: Aurel. Saoterus: Comm., (bis). Sapilianus, Claudius: Tac. Sapor: Gord., Valer., Tyr. trig.

Sarabdena, oraria: Claud. Saracenae, alae: Aurel. Saracenae, cohortes: Prob. Saraceni: Pesc. Nig., Tyr. trig., Aurel., Quadr. tyr. Sarapis: Sev., Cfr. Serapis. Sardinia: Sev. Sardiniensis, quaestura: Sev. Sardus (equus): Quadr. tyr. Sarmatae: Hadr., M. Ant., Av. Cass., Pesc. Nig., Al. Sev., Maxim., Gord., Max. Balb., Gall., Tyr. trig., Aurel., Tac., Prob., Car., (bis). Sarmatia: M. Ant., Comm., Quadr. tyr. Sarmatica (legatio): Tyr. trig. Sarmatici, arcus: Tyr. trig. Sarmaticum bellum: M. Ant., Aurel., Prob., Car. Sarmaticus (Caracalla): Geta. Sarmaticus (Aurelianus): Aurel. Sarmaticus (Probus): Prob. Sarmaticus, ludus: Car. Saturnalia: Ver., Al. Sev. Saturni, aerarium: M. Ant. SATURNINUS: Tyr. trig., (vita). - Gall., Quadr. tyr. SATURNINUS (Imp. Caesar Iulius Aug.): Quadr. tyr., (vita). - Prob., Quadr. tyr. Saturninus cons. a.: Gall. Saturninus, Avulnius: Aurel. Savus: Prob. Saxa rubra: Sev. Scaevola (Q. Cervidius Scaevola): M. Ant. Scantilla, Manlia: v. Manlia. Scaurinus (Terentius Scaurinus): Ver., Al. Sev. Scaurinus (Terentius Scaurinus), Scaurini filius: Al. Sev. Scaurus (Q. Terentius Scaurus): Ver. Scipio (Aemilianus): Hadr., Ant. Pius, Sev., Heliog., Gord., et (Gordianus); Claud., Appellatur P. Scipio Africanus: Prob. Scipio Asiaticus: Gord. Scipiones: Hadr., Pesc. Nig., Gord., Claud., Aurel., Prob. Sciron: Maxim. Scorpianus, Aelius: Prob. Scupi: Tyr. trig. Scytha, Anacharsis: Aurel. Scythae: Gord., Gall., (bis); Claud. Scythica, legio: Sev. Scythicae pruinae: Hadr. Scythici cultores: Claud.

Scythicum bellum: Max. Balb. Scythicus limes: Aurel. Secundinus, Mummius: Sev. Secundus, Vitruvius: Comm. Seius Fuscianus: v. Fuscianus. Seleuceni: Ver. Seleucia: Ver., Quadr. tyr. Semiramis: v. Samiramis. (C.) Septicius Clarus: Hadr. (Septimia) Zenobia: v. ZENOBIA. Septiminus: Al. Sev. Septimius (Arabianus): Al. Sev. (L. Septimius) Geta: v. GETA ANTONINUS. (P. Septimius) Geta: v. Geta. (Septimius) Odaenathus: v. ODENATUS. Septimius Severus, Severi adfinis: Sev., Cfr. Severus (Septimius), S. i patruus magnus. Septimius Severus Aug.: v. SEVERUS. (Septimius Zabdas): v. Saba(s) et Zaba(s). Septizodium: Sev., Geta. Septizonium: Sev. Sequani: M. Ant. Serapammon: Gord. Serapio: Al. Sev. Serapis: M. Ant., Quadr. tyr., (bis); Cfr. Sarapis. Serapium: Al. Sev. Serenianus, Aelius: Al. Sev. Serenus, Lollius: Cl. Alb. Serenus Sammonicus: v. Sammonicus. Seres: Aurel. Sergius: Av. Cass., Cfr. Catilina. Sergius Lustralis: Sev. Sertorianum, bellum: Prob. Servianus (L. Iulius Ursus Servianus): Hadr., (bis); Quadr. tyr., (bis). (Q. Servilius) Pudens cons. a.: Comm. Servilius Silanus: Comm. Severi nomen, Alexandro Severo inditum: Al. Sev. Severianae, thermae: Sev. Severus (Didius Iulianus): Did. Iul. Severus (Opilius Macrinus): Op. Macr., (bis). Severus (Alexander Severus): Al. Sev. Severus classiarius miles: Did. Iul. Severus (Cn. Claudius Severus Arabianus) cons. a.: Sev. Severus (Imp. Caesar Flavius Valerius Severus): Heliog.

Severus Afer (Severus): Aurel. Severus Alexander: v. ALEXANDER SEVERUS. Severus, Annius: Gord. Severus, Archontius: Quadr. tyr. Severus, Atilius: Comm. Severus, Catilius: v. Catilius. Severus, Cincius: Sev. Severus, Cingius: Comm. Severus, Claudius: M. Ant. Severus, Iunius: Cl. Alb. Severus Pertinax Afer (Severus): Op. Macr. Severus, Petronius Didius: Did. Iul. Severus, Postumius: Sev. Severus, (Septimius): Sev. Severus, Septimius: Sev. SEVERUS, SEPTIMIUS (Imp. Caesar L. Septimius Severus Pertinax Aug.): Sev., (vita). - Comm., Pert., (bis); Did. Iul., (bis); (bis); (bis); (bis); Pesc. Nig., (bis); (bis); (bis); (bis); (bis); (bis); Cl. Alb., (bis); (bis); Carac., Geta, (bis); Op. Macr., Diad., Heliog., Al. Sev., Maxim., Tyr. trig., Aurel., Tac., Quadr. tyr., Car., Appellatur: Severus; Severus Afer; Severus Pertinax Afer; Severus Septimius; Septimius Severus; Septimius; divus Severus. (T.) Sextius Lateranus cons. a.: Ver. Sextus (Chaeronensis): M. Ant., Ver. Sextus Condiani filius (potius Sex. Quintilius Condianus Sex. Quintini Valerii Maximi filius): Comm. Sybillae decreta: Aurel. Sybillae libri: Gall. Sybillini libri: Gord., Aurel., Tac. Sybillini versus: Hadr. Siccenses: Tyr. trig. Siccensis: M. Ant. Sicilia: Hadr., Sev., Gall., Aurel. Sicilia, locus Palatii: Pert. Sicilia vicus (in Brittannia sive in Gallia): Al. Sev. Sicobotes: M. Ant. Siculi, equi: Gord. Sidon: Car. Silanus, Dulius: Comm. Silanus, Iunius: Maxim. Silanus, Lamia: v. Lamia. Silanus, Servilius: Comm. Silanus, Ulpius: Aurel. Silvani, templum: Tac. Silvanus, Lamia: Ant. Pius.

Silvinus: Heliog., (bis). Similis (C. Sulpicius Similis): Hadr. Sinon: Aurel. Sirmienses: Prob. Sirmiensis, civitas: Prob. Sirmium: Maxim., Aurel., Prob. Sol: Hadr., Carac., Heliog., Gall., Aurel. Solis, templum: Aurel., Tac., Quadr. tyr. (Sosius) Falco: v. Falco. Sosius Papus: Hadr. Sosibes: M. Ant. Sossianus, Fabius: Quadr. tyr. Soteridas: Av. Cass. Spartacus: Maxim. Spartianus, Aelius: scripsit vitas Hadriani, Aelii, Didii Iuliani, Severi, Pescennii Nigri, Caracalli, Getae. Spei veteris, horti: Heliog. Speratus: Comm. Stagirites (Aristoteles): Aurel. Statianus, Manlius: Prob. Statilius Corfulenus: Cl. Alb. Statius (Papinius): Gord. Statius Priscus (M. Statius Priscus Licinius Italicus): M. Ant., Ver. Statius Valens: Al. Sev. Stilio: Al. Sev. L. Stilo (Aelius Stilo?): Sev. Suburanus cons.: Hadr. Successus, Helvius: v. Helvius. Suebi (Suevi): M. Ant., Aurel. Suetonius Optatianus: Tac. Suetonius (Tranquillus): Hadr., Max. Balb., Prob., Quadr. tyr., Tranquillus: Comm. Suevi: v. Suebi. Sulla: v. Sylla. Sulpicianus, Claudius: Sev. Sulpicianus, Flavius: v. Flavius. Sulpicius: Al. Sev. Sulpicius, vicus: Heliog. (C.) Sulpicius Apollinaris: Pert. Sulpicius Canus: Sev. Sulpicius Crassus: Comm. (C. Sulpicius) Similis: Hadr. Sura (L. Licinius Sura): Hadr. Sura, Palfurius: Gall.

Sura, Petronius: v. Petronius. Suria: Hadr., Heliog., Cfr. Syria. Surus: Al. Sev., Cfr. Syrus. Sybaritae: Heliog. Sybariticus missus: Heliog. Sylla: Comm., Carac., Sylla Punicus: Pesc. Nig. Symiamira (Iulia Soaemias Bassiana Augusta): Op. Macr., Heliog. Synnades (columnae): Gord. Syracusius (Vopiscus): v. Vopiscus. Syri: Ver., Aurel., Tac. Syri, latrones: Aurel. Syri (leopardi): Prob. Syri, sacerdotes: Heliog. Syria: Hadr., M. Ant., Ver., (bis); Comm., Pert (bis); Did. Iul., Sev., Cl. Alb., Gord., Claud., Cfr. Suria. Syriacae legiones: Av. Cass., Sev. Syriaci exercitus: Did. Iul., Sev., Pesc. Nig. Syriacus cultus: Heliog. Syrius, Iuppiter: Carac. Syrus: Hadr., Al. Sev., Prob., Cfr. Surus. Syrus archisynagogus: Al. Sev. Syrus sermo: Aurel. Taciti: Prob. TACITUS (Imp. Caesar M. Claudius Tacitus Aug.): Tac., (vita). Tyr. trig., Aurel., (ter); Prob., (bis); Prob., Quadr. tyr., Car., Appellatur perperam Aurelius Tacitus: Aurel. Tacitus (mensis): Tac. Tacitus, Cornelius: Aurel., Tac. Taprobani: Tac. Tarquinius Superbus: Car. Tarracenae: Hadr. Tarracinensis (scil. ager): Did. Iul., Cfr. Terracinensis. Tarraco: Hadr. Tarraconense, templum: Sev. (Tarrutenius) Paternus: Comm., (ter). Tarsus: Tac. Tatius Cyrillus: Maxim. Tatius Maximus (C. Tattius Maximus): Ant. Pius. Tauroscythae: Ant. Pius, (bis); Valer. Taurus: M. Ant., Carac. Tausius: Pert. Telephus: Ver. Tempe: Hadr. Terentianus, Vulcatius: Gord. Terentius (P. Terentius Afer): Sev.

(D.) Terentius Gentianus: Hadr. (Terentius) Scaurinus: v. Scaurinus. (Terentius) Scaurus: v. Scaurus. Terracinensis portus: Ant. Pius, Cfr. Tarracinensis. Tertullus: M. Ant. Tervingi: Claud. Tetrici, duo: Tyr. trig. Tetricorum domus: Tyr. trig. TETRICUS SENIOR (Imp. Caesar C. Pius Esuvius Tetricus Aug.): Tyr. trig., (vita). - Tyr. trig., Claud., Aurel., (bis). TETRICUS IUNIOR (C. Pius Esuvius Tetricus Caesar): Tyr. trig., (vita). Thebaeorum, rex: Pesc. Nig. Thebaicum marmor: Pesc. Nig. Thebais: Pesc. Nig., Heliog., Tyr. trig. Theoclia: Maxim. Theoclius: Aurel. Theodotus: Gall., Tyr. trig. Theofanes, Balbus Cornelius: Max. Balb. Thermopylae: Claud. Thersites: Aurel. Thessalia: Gall., Tyr. trig., Claud. Thessalicus (Piso): Gall., Tyr. trig. Thessalonica: Gall. Thessalonicenses: Claud., Tac. Thracia: Sev., Maxim., Tyr. trig., (bis). Thraciae: Pesc. Nig., Carac., Gord., Max. Balb., Gall., Tyr. trig., Aurel., Prob., Quadr. tyr., Car. Thracici, exercitus: Aurel. Thracicus (limes): Aurel. Thracii (exercitus): Claud. Thraciscus (Maximinus): Maxim. Thraecica (scil. lingua): Maxim. Thrasybulus: Al. Sev. Thrax: Maxim. Threicia: Maxim., Cfr. Thracia. Thyana: v. Tyana. Tiberiana (domus): Ant. Pius, M. Ant., Ver., Prob. Tiberianus, Autronius: Tac. Tiberianus, Iunius: v. Iunius. Tiberinae ripae: Aurel. Tiberinus (Heliogabalus): Heliog. Tiberis: Hadr., Ant. Pius, M. Ant., Comm., Heliog. Tiberius (Augustus): Carac., Heliog. Tiburs: Tyr. trig.

Tiburtina villa: Hadr. Tigidius: Comm., Cfr. Perennis. Tigris: Hadr. Timagenes: Claud. Timesitheus: v. Misitheus. TIMOLAUS: Tyr. trig., (vita). - Gall., Tyr. trig., Aurel. Tingitana, Mauretania: Al. Sev. Tinurtium: Sev. Titiana, Flavia: v. Flavia. Titianae, thermae: Max. Balb. Titianus: Hadr. Titianus, Atilius: Ant. Pius. Titianus (Iulius Titianus): Maxim. Titianus senior (Iulius Titianus): Maxim. Titianus, Lollianus: Did. Iul. Titus, (Flavius), Aug., cons. a.: Hadr., - M. Ant., Pesc. Nig., Heliog., Al. Sev., Tyr. trig., Claud., Aurel., Car. TITUS: Tyr. trig., (vita). - Maxim., Tyr. trig. Toxotius: Maxim. Torquatus, Lucceius: Comm. Tractaticius (Heliogabalus): Heliog. Traiani: Tac. Traiani, basilica: Comm. Traiani, forum: Hadr., M. Ant., Al. Sev., Aurel., Tac. Traianus, (Ulpius) (Imp. Caesar Nerva Traianus Aug.): Hadr., (bis); (bis); (bis); (bis); (bis); (bis); (bis); Ael., Ant. Pius, M. Ant., Av. Cass., Comm., Pert., Sev., Pesc. Nig., Cl. Alb., Op. Macr., Heliog., Al. Sev., (bis); Gord., Tyr. trig., Claud., Aurel., (bis); (bis); Tac., Prob., Car. Tralles: Ant. Pius. Tranquillus, Svetonius: v. Svetonius. Transdanuvina Dacia: Aurel. Transitorium, forum: Al. Sev. Transrenana, Germania: Maxim. Transrenanae, gentes: Cl. Alb. Transrenanus limes: Tyr. trig., Tac. Transrhenani: Prob. Transtiberina regio: Sev., Aurel. TREBELLIANUS: Tyr. trig., (vita). Trebellius Pollio: Aurel., (bis); Quadr. tyr., - Scripsit vitas Valerianorum duorum, Gallienorum duorum, Tyrannorum triginta, Divi Claudii. Treviri: Tyr. trig., Tac. Tria flumina: Heliog. Triarius Maternus Lascivius: Pert. Triccianus (Aelius Decius Triccianus): Carac.

Tripolis: Sev. Tritanus: Quadr. tyr. Trogi: Prob. Trogus (Pompeius Trogus): Aurel. Troiani: Claud. Trosius Aper: M. Ant. Trypho, Iulius: Aurel. Tullianus stilus: Car. M. Tullius Cicero: Hadr., Sev., Al. Sev., Gord., (bis); Tyr. trig., Prob., Citatur: Gall., (in Hortensio); Tyr. trig., (Ep. ad Fam. VII); Tyr. trig., (in oratione contra Gabinium); Claud., ([Pro Milone]); Aurel., (in Philippicis); Tac., (In Pisonem). Appellatur: Cicero; M. Tullius; Tullius. (Tullius) Crispinus: Did. Iul. (Tullius) Menopliilus: v. Menofilus. Tullus: M. Ant., (bis). Tullus, Calvisius: v. Calvisius. Tungri: Pert., Car. Turbo: v. Marcius Turbo. Turdulus Gallicanus: Prob. Turinus: v. Verconius Turinus. Tuscus: Diad. Tuscus cons. a.: v. Nummius Tuscus. Tuscus, Nummius: v. Nummius Tuscus. Tuscus equus: Quadr. tyr. Tutilius (L. Tutilius Pontianus Gentianus): M. Ant. Tyana: Aurel. Tyana civitas: Aurel. Tyanaeus, Apollonius: Aurel. Tyani: Aurel. Tyfon: Maxim. Tynchanius: Gord. Tyrius (Callicrates): Aurel. Tyrus: Car. Tysdritana iuventus: Gord. Tysdrus: Maxim., Gord. Uccubitanum municipium: M. Ant. Ulpia bibliotheca: Aurel., Tac., Prob., Car. Ulpia Gordiana: Gord. Ulpianus, Domitius: v. Domitius Ulpianus. Ulpii: Max. Balb. Ulpium, forum: M. Ant. (Ulpius) Crinitus: Aurel., (bis). (Ulpius) Iulianus: v. Iulianus. Ulpius Marcellus: Ant. Pius.

Ulpius Silanus: Aurel. Ulpius Traianus: v. Traianus. Ultor, Iuppiter: Pert. Umbria: Did. Iul., Gord., Tyr. trig. Umidius Quadratus (C. Ummidius Quadratus). Hadr. (M. Ummidius) Quadratus: v. Mummius Quadratus. Urbicus, Lollius: Diad. Urbis, templum: Hadr. Ursinianus: Prob. Uxorius, poema Ciceronis et Gordiani: Gord. Vabalatus (Iulius Aurelius Septimius Vaballathus Athenodorus): Aurel. vada Sabatia: v. Sabatia. VALENS (Iulius Valens): Tyr. trig., (vita). - Gall., Tyr. trig., (bis). VALENS SUPERIOR: Tyr. trig., (vita). - Tyr. trig. Valens, Pinarius: v. Pinarius. Valens, Salvius: Ant. Pius. Valens, Statius: Al. Sev. Valeriani, aurei: Claud. VALERIANUS, pater (Imp. Caesar P. Licinius Valerianus Aug.): Valer., (vita). - Gord., Gall., (bis); Tyr. trig. (bis); (bis); Claud., Aurel., Prob., (bis); (bis); Quadr. tyr., Car. VALERIANUS iunior: Valer., (vita). - Gall., (bis); Tyr. trig., Aurel. Valerianus, grammaticus: Pert. Valerius Bassianus: Comm. Valerius Catulinus (Catullinus): Did. Iul., Sev. Valerius (Claudius): Claud., Cfr. CLAUDIUS. Valerius Cordus: Al. Sev. Valerius Flaccinus: Prob. (M. Valerius) Homullus: Ant. Pius, (ter); M. Ant., Al. Sev. Valerius Marcellinus: Max. Balb. (Valerius) Patruinus: v. Patruinus. Vandali: M. Ant., Aurel. Vanduli: Prob. Varia: Op. Macr., Heliog., Al. Sev., Cfr. Maesa. Variani, horti: Aurel. Varistae: M. Ant. Varius (Heliogabalus): Heliog., (bis); Cfr. HELIOGABALUS. Varius, Alexandri Severi pater: Al. Sev. Varius Macrinus: Al. Sev. Varro (M. Terentius Varro Reatinus): Al. Sev., Quadr. tyr. Vascones: Al. Sev. Vaticanus: Ver., Heliog. Vectilianae (aedes): Comm., Pert. Vectius (Vettius) Aper: Did. Iul.

(Vectius) (Vettius) Sabinus: Max Balb., Cfr. Sabinus cons. a.. Veientanus, fundus: Sev. Velenus: Valer. Velius Cornificius Gordianus: Tac. (D.) Velius Rufus: Comm., Cfr. Rufus cons. Velsolus: Valer. Venacus, Claudius: Al. Sev. Venerianus: Gall., (bis). Veneria, res: Pesc. Nig., Max. Balb. Veneriae, res: Maxim. Venus (venus): Av. Cass., Heliog., Al. Sev., Tyr. trig., Quadr. tyr. Venus, aversa: Cl. Alb. Venus calva: Maxim. Venustus cons. a.: Gord. Venustus: Claud. Veratianus, Pescennius: Sev. (Verconius) Turinus: Al. Sev., (ter). Verconnius Herennianus: Aurel. Vergilianae sortes: Hadr., Cfr. Al. Sev. Vergilius: Hadr., Ael., Sev., Al. Sev., Maxim., Gord., Citatur Aeneis: Hadr., (VI); Ael., (VI); (VI); (VI); Cl. Alb., (II); (VI); Op. Macr., (VI = XII, VII); Diad., (IV, segg.); Al. Sev., (VI); (VI): Maxim., (VIII, et); Gord., (VI); Tyr. trig., (VI); Claud., (I); (I); (VI); Tac., (VI, seg.); Car., (X). Verianus, (Celer): Tyr. trig. Verissimus (Marcus Antoninus): M. Ant., Diad. Veronensis (scil. ager): Prob. Verona: Prob. VERUS (L. Ceionius Commodus = L. Aelius Aurelius Commodus = Imp. Caesar L. Aurelius Verus Aug.): Ver., (vita). - Hadr., Ael., (bis); Ant. Pius, (bis); M, Ant., (bis); (bis); (bis); (bis); Av. Cass., (bis); Pert., Sev., Carac., Op. Macr., Diad., Al. Sev., Appellatur: Lucius Aurelius Ceionius Commodus Verus Antoninus (Ael.); Lucius Ceionius Aelius Commodus Verus Antoninus (Ver.); Verus (Antoninus); Lucius (Verus); Lucius Aurelius Verus Commodus (M. Ant.); falso appellatur Annius Verus: v. Annius. Verus (L. Aelius Caes.): Ael., (bis); v. AELIUS. Verus, cons. a.: Pert., V. (M.) Annius Verus, socer Antonini Pii, avus Marci Antonini. Verus, Aelii pater: Ael., Cfr. (L.) Ceionius Commodus. Verus, Commodi frater: v. (M. Annius) Verus Caesar. Verus, Annius: v. Annius Verus. Verus, Aurelius: Al. Sev. Verus, Ceionius Commodus: v. AELIUS, COMMODUS, VERUS. Verus, Cocceius: Sev. Verus, Martius: v. (P.) Martius Verus. Verus, Vindius: v. (M.) Vindius Verus. Vespasianus, (Flavius) (Imp. Caesar Vespasianus Aug.) cons. a.: Hadr., - M. Ant., Pesc. Nig., Heliog., Al. Sev., Tyr. trig., Claud., Aurel., Car.

(L.) Vesproius Candidus: Did. Iul. Vesta: Heliog., Gall. Vestales, virgines: Did. Iul. Vestalis, virgo: Heliog. Vestalium, maxima virgo: Valer. Vetrasinus: M. Ant. Vettius Aper: v. Vectius Aper. (C. Vettius) Atticus: v. Atticus. Vettius Sabinus: v. Vectius Sabinus. Veturius: Tyr. trig. T. Veturius: Al. Sev. Veturius Macrinus: Did. Iul. Vibius Passienus: Tyr. trig. Victor, Aurelius: v. Aurelius. Victor, Vitalius: Sev. VICTORIA: Tyr. trig., (vita). - Tyr. trig., Cfr. Vitruvia. Victoria, Romana: Al. Sev., Prob. Victoriana (stirps): Claud. Victorini, duo: Tyr. trig. VICTORINUS (Imp. Caesar M. Piavonius Victorinus Aug.): Tyr.trig., (vita). - Gall., Tyr. trig. VICTORINUS IUNIOR (Piavonius Victorinus): Tyr. trig., (vita). - Tyr. trig. Victorinus, Aufidius: v. Aufidius Victorinus. Victorinus, Furius: v. Furius Victorinus. Victoriolae: Sev. Victuali: M. Ant. Viminacium: Sev. Vindelici: Aurel. Vindex (C. Iulius Vindex): Pesc. Nig., Quadr. tyr., Perperam appellatur Lucius Vindex: Al. Sev. (M.) Vindius Verus: Ant. Pius. (Virius) Orfitus: v. Orfitus. Visi: Claud. Vitalianus: Maxim., Gord. Vitalius Victor: Sev. Vitelliana, vitia: Ver. Vitellii: Cl. Alb., Heliog., Al. Sev., Aurel., Car. Vitellius (A. Vitellius Augustus Imp. Germanicus): Av. Cass., Heliog. Vitellius cons. a.: Geta. Vitrasia Faustina: Comm. (Vitrasius) Pollio cons. a.: v. Pollio. Vitruvia: Tyr. trig., Claud., Cfr. VICTORIA. Vitruvius Secundus: Comm. Vituriga: Quadr. tyr., Cfr. Samso. Vocontii: Tyr. trig.

Vologessus: M. Ant. Volucer (equus): Ver. Volusianus (T. Petronius Taurus Volusianus) cons, a.,: Gall. (L.) Volusius Maecianus: Ant. Pius; M. Ant., Cfr. Maecianus. Vopiscus, Flavius: scripsit vitas Aureliani, Taciti, Probi, Firmi Saturnini Proculi et Bonosi, Cari et Carini et Numeriani. Vota (vota): Hadr., Ael., Pert., Tac. Vulcacius Gallicanus, v. c.: scripsit vitam Avidii Cassii. Vulcatius Terentianus: Gord. Xerxes: Claud. Xifidius, Aelius: Aurel. Zaba(s) (Septimius Zabdas): Aurel., Cfr. Saba(s). ZENOBIA (Septimia Zenobia): Tyr. trig., (vita). - Gall., Tyr. trig., Claud., Aurel., Quadr. tyr., Appellatur Cleopatra: Prob. Zenon, Eleates: Aurel. Zosimio: Claud. Zoticus (Aurelius Zoticus): Heliog., Cfr. Magirus.

* Per ciascun nome vengono citati i passi in cui compare direttamente nel testo dell’opera (non si tiene conto, però, dei nomi dei principi ricorrenti nel corso delle Vitae loro dedicate). È stampata in corsivo ogni indicazione che non compaia espressamente nel testo. I nomi dei personaggi cui è dedicata una biografia sono in carattere maiuscoletto. I praenomina e cognomina che non ricorrono in tutti i luoghi in cui i relativi personaggi vengono citati sono posti fra parentesi (e in corsivo se non sono attestati punto nell’opera).

INDICE DELLE TAVOLE

L’esordio della Storia Augusta in un codice del secolo IX L’esordio della vita di Avidio Cassio di Vulcacio Gallicano in un codice del secolo IX Frontespizio della Storia Augusta nell’edizione frobeniana curata da Erasmo da Rotterdam L’esordio della vita di Alessandro Severo di Elio Lampridio in un codice del secolo XV L’esordio della Storia Augusta in un codice del secolo XV Frontespizio della Storia Augusta nell’edizione curata da Claude Saumaise

INDICE DEL VOLUME

Introduzione Nota bibliografica Nota critica Segni diacritici nel testo latino I. II. III. IV. V. VI. VII. VIII. IX. X. XI. XII. XIII. XIV. XV. XVI. XVII. XVIII. XIX.

Vita di Adriano Elio Antonino Pio Vita di Marco Antonino filosofo Vero Avidio Cassio Commodo Antonino Elvio Pertinace Didio Giuliano Severo Pescennio Nigro Vita di Clodio Albino Antonino Caracalla Antonino Geta Opilio Macrino Antonino Diadumeno Antonino Eliogabalo Alessandro Severo I due Massimini

XX. XXI. XXII. XXIII. XXIV. XXV. XXVI. XXVII. XXVIII. XXIX. XXX.

I tre Gordiani Massimo e Balbino I due Valeriani I due Gallieni I trenta tiranni Il divo Claudio Il divo Aureliano Tacito Probo Firmo, Saturnino, Proculo e Bonoso Caro, Carino e Numeriano Indice dei nomi Indice delle tavole