Scritti su Serpetro

Composta in prossimità del 1632 e pubblicata nel 1644 dal Quevedo, subito dopo la liberazione dal carcere, la "Vida

641 88 2MB

Italian Pages 195 Year 2015

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Scritti su Serpetro

Citation preview

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

1

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

2

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

La copertina della prima edizione del libro di Nicolò Serpetro “Il Mercato delle Maraviglie della natura overo Istoria Naturale” pubblicato in anastatica dall’editore Pellegrini nel 2009.

3 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

4

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Alla città di Raccuja: terra dove affondano le radici di colui che ha narrato le “divine meraviglie” della natura. (Santi Lo Giudice - 2009)

5 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

6

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

La seconda edizione de “Il Mercato delle Maraviglie” edito nel 2011 da Pellegrini Editore.

7 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

8

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

La decadenza politica comporta quella economica e questo vale soprattutto per l’Italia…

(Santi Lo Giudice - 2011)

9 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

10

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

“Osservazioni Politiche e Morali sopra la vita di Marco Bruto” scritto da Quevedo in spagnolo e tradotto da Serpetro. Edito nel 2014 da Pellegrini Editore.

11 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

12

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Alla città di Raccuja, al sindaco prof. Cono Salpietro Damiano e ai componenti l’“Associazione Amici di Nicolò Serpetro” i più sentiti ringraziamenti per essersi generosamente impegnati ai fini della ristampa della presente opera. (Santi Lo Giudice – 2014)

13 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

14

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Santi Lo Giudice Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Scritti su Nicolò Serpetro

A cura di Franco Capelvenere

15 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy Stampato in Italia nel mese di ottobre 2015 da Pellegrini Editore Via De Rada, 67/C - 87100 Cosenza Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.com www.pellegrinilibri.it E-mail: [email protected] I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. In sovraccoperta un’immagine di Nicolò Serpetro tratta da Internet In quarta di sovraccoperta un’immagine del Professor Santi Lo Giudice Il dottor Franco Capelvenere ringrazia la sua assistente Flavia Fabi per la collaborazione prestata.

16 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

chiedo perdono a tutti, perdono tutti, incluso me stesso

Santi Lo Giudice 2014

17 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

18

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Genesi del libro

Il giallo della morte di Nicolò Serpetro Questo libro, Scritti su Serpetro, nasce dalla precisa volontà del professor Santi Lo Giudice di volere riunire in un unico volume le due introduzioni, con relative note, ai libri Il Mercato delle Maraviglie e della Natura overo Istoria Naturale del cavalier Nicolò Serpetro pubblicato nel luglio del 2011 e Osservazioni politiche e morali sopra la vita di Marco Bruto, trasportato dallo spagnolo dallo stesso Serpetro e pubblicato nel febbraio del 2014. Entrambi i libri sono stati pubblicati dall’editore Luigi Pellegrini di Cosenza. L’edizione in anastatica de Il Mercato delle Maraviglie è stata la prima in ordine di tempo pubblicata con la dotta introduzione di Lo Giudice, che spiega il personaggio e le sue traversie nel corso dei suoi anni fino alla morte, che ha costituito un vero e proprio giallo tra coloro che sostenevano che fosse stato avvelenato e coloro che, invece, sostenevano che fosse morto naturalmente. Quale che sia stata la versione definitiva lasciamo all’appendice di Lo Giudice che troverete più avanti e nella quale si argomenta in proposito. Il professor Lo Giudice ha voluto corredare le due introduzioni, complete di note a piè di pagina, con appendici che servivano per meglio inquadrare, non solo la vita stessa del Serpetro, ma anche la sua attività di sacerdote, la ostinata persecuzione della Santa Inquisizione di Palermo e, infine, il lavoro svolto come arciprete nella Chiesa Madre di Ravanusa e svelare il giallo della sua morte. C’è, infatti, una contraddizione che Lo Giudice ha dipanato ed è quella che riguarda la sua morte nel letto di arciprete con la sua condanna emanata dai giudici dell’Inquisizione. Vale a dire, com’era possibile che un condannato dall’Inquisizione potesse continuare a svolgere le funzioni di arciprete senza dir messa? Questa dicotomia aveva avallato il giallo maturato a Palermo secondo cui Nicolò Serpetro sarebbe morto avvelenato nel palazzo dei principi Branciforti, originari anch’essi di Raccuja, dov’era stato a lungo ospite. Lo Giudice, argomentandola con la sua nota verve e con approfonditi studi, optò per la prima ipotesi che è ragionevolmente la più veritiera. A questo punto mi corre l’obbligo di ricordare l’opera concreta e fattiva dei cugini professori Antonino e Carmelo La Mancusa, autori di puntuali postfazioni ai tre volumi del Serpetro. Anche qui non entriamo nel merito di quanto i professori La Mancusa hanno sostenuto, anche se devo ammettere che il loro lavoro scientifico rappresenta, senza dubbio, il completamento naturale degli 19 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

scritti firmati da Lo Giudice. Insomma, non poteva esserci introduzione di Lo Giudice senza le postfazioni dei La Mancusa. Ai primi di agosto del 2014, quando ancora tenevamo un filo sottile di dialogo, sia pure telefonico, l’amico Santi mi confidò che avrebbe voluto riunire le due introduzioni su Serpetro con le relative appendici esplicative, assieme alla bibliografia e all’indice dei nomi. Lo Giudice aveva anche dettato il titolo Scritti su Serpetro e diceva che il libro, una volta editato dall’amico Pellegrini, era dedicato a tutti gli amici e a tutti coloro che, pur frequentandolo, non erano meritevoli di essere chiamati tali. Quest’opera postuma, idealmente, è dedicata non solo a tutti coloro che lo conobbero e lo stimarono, pur talora dissentendo da alcune sue teorie, in un franco e lecito dibattito, ma anche a tutti i suoi allievi ed ex allievi che, con il passare degli anni, transitarono con libretto universitario aperto davanti alla sua cattedra di esaminatore esigente ma generoso. Personalmente mi sono sentito investito dell’onere di curare questo libro pur con i miei riconosciuti limiti che non sono di accademico ma di semplice studioso. E verificando con la famiglia che l’unico disponibile a farlo ero io, per l’affetto che mi legava a lui, mi sono messo subito al lavoro. Mi sia consentita l’ultima nota. Pur piangendo l’amico scomparso, ho avuto durante questo lavoro il privilegio di continuare a collaborare con Santino facendo ricorso alla mia memoria e al suo sapere trasferito nei libri delle sue collane, da me più volte consultati.

20 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Prefazione

“O capitano! O mio capitano! Risorgi, odi le campane…” Questa frase è tratta dall’omonima poesia dello scrittore Walt Whitman, scritta nel 1865 dopo l’uccisione di Abramo Lincoln, ritenuto non solo il condottiero ma anche il leader assoluto della nascente nazione degli Stati Uniti d’America. Ecco, è la mancanza improvvisa del leader, riconosciuto tale, che si trasforma in una voragine sentimentale che è difficile da colmare, specialmente quando il personaggio in oggetto è di valore assoluto. Questa strofa di Whitman è anche riportata felicemente nel film L’attimo fuggente, una pellicola del 1989, diretta da Peter Weir, interpretata da Robin Williams nel ruolo di professore-leader di lettere in un’accademia del Vermont. Il film, a suo tempo, fece incetta di premi tra cui un Oscar alla Sceneggiatura. Perché abbiamo scomodato la poesia di Whitman con la figura di Santi Lo Giudice? Perché anche Lo Giudice, presso i suoi allievi, a Messina, era considerato non solo un professore ma anche un leader. Ed era anche un leader presso gli ex allievi, che nel frattempo si erano laureati, e anche tra gli amici che seguivano passo passo le sue scorribande letterarie e filosofiche. I suoi libri sono stati, anche per noi di pari età, un nutrimento per l’anima e per la mente. Non nascondo che era un leader anche per me. Guai se ti viene a mancare un leader. Ti vengono a mancare punti di riferimento vitali senza i quali, un individuo allenato al suo pensiero, si sente impossibilitato a procedere da solo e quindi orfano di una guida sicura. La saggezza di Lo Giudice era ben nota tra gli allievi e tra gli amici. È per questo motivo che personalmente ho voluto accostarlo alla figura del professor John Keating, che non esitava a salire sui banchi per insegnare la letteratura di Whitman. E questa irruenza didattica affascinava tanto gli allievi, quanto l’irruenza verbale di Santi Lo Giudice affascinava i suoi allievi quando spiegava loro Nietzsche, non saltando sui banchi, ma dalla cattedra. Lo stesso accadeva a me ogni qual volta ci frequentavamo in occasione di commenti di fatti e personaggi della contemporaneità ma anche della storia. Nell’estate del 2014 le occasioni di sentirci al telefono col professor Santi Lo Giudice erano quasi quotidiane. Lui era stato assai malato e aveva vissuto, nei mesi di giugno e luglio, in uno stato che alternava momenti di lucidità a momenti di assoluta stanchezza fisica che gli rendevano difficile esprimere qualsiasi concetto. In verità Santino non ha mai perso lucidità fino al momento della morte ma, nonostante la sua lucidità lo accompagnasse fino all’ulti21 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

mo, spesso non aveva le forze per venire al telefono e, quelle poche volte che lo faceva, il suo tono era flebile tanto che le nostre conversazioni venivano interrotte all’improvviso con mio intimo rammarico, perché non volevo rassegnarmi al fatto che lui faticasse tanto a rispondere alle mie sollecitazioni. La stessa ansia lo prendeva quando io non mi facevo vivo con lui per alcuni giorni. Allorché mi risentiva al telefono, lui mi gridava “Sei stato male? Perché non hai risposto alle mie telefonate?” Questo era l’amico Santino, il professore di filosofia con un cuore grande così, che tutti abbiamo ammirato per l’acutezza delle sue analisi e che, in quel momento, metteva a nudo la sua piena generosità nei confronti di un amico che si ostinava a chiamare ‘fratello’. Anche per me lui era un ‘fratello’. Conoscevamo tutto di ognuno di noi. L’iter delle nostre patologie, i percorsi e i successi che nei rispettivi campi avevano contrassegnato i percorsi formativi. Santi ricordava sempre, con grande senso di riconoscenza, quando mi fu presentato al Corriere del Mezzogiorno di Messina, che io dirigevo, come una delle migliori menti nel territorio e che non sempre questa sua peculiarità dottrinaria gli veniva riconosciuta dal giornale concorrente al mio, dove lui per anni aveva collaborato. Con me si lamentava che i suoi articoli venivano tagliati per motivi di spazio e giudicava, questo, un affronto non tanto a lui medesimo quanto alla materia che insegnava, la filosofia teoretica. Un pensatore come Nietzsche, mi diceva, non può essere ingabbiato in settanta righe e io, condividendo le sue lamentele, gli garantii una pagina intera del mio giornale con l’inizio addirittura dalla prima pagina sotto la rubrica ‘Questioni di etica’. Da allora la nostra amicizia si sviluppò su binari paralleli che spesso si intersecavano essendo i nostri interessi intellettuali obiettivamente simili. La prova di tutto ciò la ebbi una sera dell’estate 2003 quando, nella piazza di Letojanni, ospiti del sindaco di allora, presentò il mio libro ‘Meucci, l’uomo che ha inventato il telefono’ (edito da Vallecchi) con parole assai immeritate verso la mia persona e, naturalmente, verso la mia opera. Con lui erano presenti i professori Rosario Battaglia e Cosimo Inferrera, entrambi docenti presso l’università di Messina. Non solo, ma mesi più tardi, a mia insaputa, mi arrivò un suo libro, edito da Pellegrini, col titolo ‘Profili della contemporaneità’ nel quale un capitolo era dedicato al mio libro e che riproduceva, parola per parola, la sua dotta presentazione. Il mio imbarazzo fu notevole perché se è vero che verba volant, cioè le parole volano come il vento, quelle scripta manent rimangono e hanno lunga vita perché veicolate da un libro di sicuro successo come quasi tutti i libri di Santi Lo Giudice. Col passare degli anni il nostro sodalizio amicale si rafforzò a mano a mano che le nostre patologie, quasi, andavano di pari passo. Lui dava consigli a me sul comportamento da tenere e io davo consigli a lui su come affrontare i dolori, spesso, lancinanti che lo costringevano a periodici controlli medici lontani da Messina. Egli ripeteva spesso “Noi due, amico mio, siamo 22 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

sfortunati ma sappiamo reagire con lucida perseveranza ai venti contrari che il destino ci riserva. Noi abbiamo una tempra forte, caro Franco, e questa è la nostra salvezza…”. Le nostre quotidiane telefonate alle cinque del pomeriggio partivano da una notizia pubblicata dai giornali, continuavano sul filo della memoria raccontandoci aneddoti della nostra gioventù che lui trascorse nella sua adorata Taormina negli anni ’70, mentre io gli raccontavo le esperienze di gioventù trascorse con i grandi maestri del giornalismo, come furono Indro Montanelli, Alessandro Minardi e, soprattutto, la stagione trascorsa a Firenze con la frequentazione di Geno Pampaloni, di Mario Luzi, dell’editore Franco Cesati, dello scrittore Giorgio Saviane e l’allegra combriccola che gravitava attorno al Premio Latini che, ogni anno, con un prosciutto premiava lo scrittore dell’anno. Ecco, il periodo trascorso alla Nazione di Firenze fu assai fecondo e lui questo me lo riconobbe sempre, fin da quando esordii con la plachette ‘Manzoni a Firenze e la risciacquatura in acqua d’Arno’ con cui partecipai, come opera prima, al Premio Viareggio. Saviane, che di quella giuria faceva parte, mi rimproverava spesso di avere scritto poco perché lui avrebbe voluto un saggio di grande respiro. In questo Santi Lo Giudice, da buon professore, concordava pienamente con Saviane, perché mi riconosceva una capacità di scrittura limpida come l’acqua che si beve alla fonte. Bontà sua, oggi dico. Tanti meriti per un onesto professionista della penna. E torniamo all’estate del 2014 quando, ai primi di agosto, lui mi comunicò con voce flebile che aveva in animo di pubblicare un libro ‘dedicato agli amici’ in cui avrebbe voluto riunire le introduzioni dei due volumi pubblicati su Nicolò Serpetro di Raccuja e un apparato che comprendesse, non solo le note che all’origine c’erano già, ma anche la bibliografia e l’indice dei nomi. Mi diceva che sarebbe stato l’ultimo libro che avrebbe voluto pubblicare con l’editore Pellegrini di Cosenza, presso il quale già dirigeva collane di successo come ‘Filosofia Teoretica’ e ‘Interstizi’. Questa è dunque la genesi del libro che qui presentiamo dopo aver eseguito, punto per punto, le istruzioni del Professore. A questo proposito devo ricordare che in una minuta, fattami avere dal figlio Antonino e dal suo collaboratore Giovanni Coglitore, egli aveva previsto, oltre alle due introduzioni con relative note, quella del primo libro di Serpetro ‘Il Mercato delle Maraviglie della Natura, overo Istoria Naturale’, seguito dall’introduzione al secondo libro ‘Osservazioni politiche e morali sopra la vita di Marco Bruto’, le appendici dal titolo ‘Sulla nuova versione della morte di don Nicolò Serpetro’ e ‘Serpetro tra condanna e promozione. Sulle ragioni della mancata applicazione della sua condanna e sulla ragione della sua promozione a arciprete della Chiesa madre di Ravanusa’. Dobbiamo ricordare che Serpetro componendo ‘Il Mercato delle Maraviglie della Natura, overo Istoria Naturale’ si attirò le malevoli attenzioni della Santa Inquisizione di Palermo che lo accusò di eresia e pratiche di magia occulta e lo condannò 23 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

al carcere. Tradusse poi dallo spagnolo il libro ‘Osservazioni politiche e morali sopra la vita di Marco Bruto’ scritto in originale dallo spagnolo Francisco de Quevedo. Il professore Lo Giudice in entrambi i lavori del Serpetro sollevò due questioni assai importanti. La prima riguardava la stessa morte del Serpetro e cioè se fosse stato avvelenato a Palermo nel palazzo del principe Branciforti oppure fosse morto per cause naturali nel suo letto di arciprete a Ravanusa. E sollevava, il Lo Giudice, un serio interrogativo: come era stato possibile che un prete cui era stato fatto divieto di dir messa, fosse stato promosso ad arciprete e lasciato morire per cause naturali? A conclusione di un’indagine, che dimostra le qualità di ricercatore dell’amico Lo Giudice, egli stabilì che Serpetro morì di cause naturali a Ravanusa. Le motivazioni di questo suo convincimento si possono leggere nelle appendici sopra citate. La seconda questione riguardava un ragionevole dubbio, e cioè: com’era possibile condannare un prete di eresia e contemporaneamente promuoverlo ad arciprete? Anche in questo caso l’abilità del professor Lo Giudice è stata nell’avere saputo collocare, come in un puzzle, le varie pedine secondo un filo di ragionevolezza irrazionale. Anche per questa seconda ipotesi si rimanda alla lettura delle due appendici, dove le conclusioni del Lo Giudice dimostrano importanti fondamenti di presumibile verità. Ho ritenuto opportuno, infine, di dovere pubblicare anche in questo volume l’elenco degli ‘Amici di Nicolò Serpetro’ assieme ai componenti del Comitato d’Onore, del Comitato Scientifico. Questo libro egli voleva dedicarlo agli amici di una vita, ai colleghi, agli allievi, insomma, a tutti coloro che gli hanno voluto bene. Un particolare ringraziamento voglio dedicarlo alla moglie del Professore, professoressa Antonella, che mi ha incoraggiato assieme ai figli Ludovica e Antonino. “…per te squillano le trombe, per te fiori e ghirlande ornate di nastri, per te le coste affollate… ecco Capitano! O amato padre!” (versi tratti dalla poesia di Walt Whitman ‘O capitano! Mio Capitano’ – 1865) Franco Capelvenere

24 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

INTRODUZIONE a “Il Mercato delle Maraviglie della Natura overo Istoria Naturale” del Cavalier Nicolò Serpetro

Scienza e Magia alle origini della modernità Nell’era, indicata dai tedeschi, della Riforma e chiamata dai francesi Renaissance, che corrisponde al nostro Cinquecento, la ricerca scientifica moderna è, tra le attività speculative, la sola che ha raggiunto uno sviluppo sistematico. A quell’epoca si presentò un nuovo volto dell’antica Grecia, un volto dimenticato dall’Occidente cristiano per i dieci lunghissimi secoli medievali. Di fronte alle radiazioni luminose di quel volto si dileguarono le caligini che avevano soffocato l’anima e la mente degli uomini di quel tempo. I limiti dell’antico orbis terrarum vennero meno al cospetto delle scoperte di nuove terre, furono predisposte le basi per i futuri commerci mondiali e per i passaggi dall’artigianato alla manifattura, che portano in nuce tutti gli elementi che apriranno all’industria moderna. La Chiesa cattolica perde, sul piano etico, consenso a seguito delle nuove esperienze religiose dei popoli anglosassoni e germanici, mentre i popoli latini inauguravano il Rinascimento all’insegna della libertà di pensiero. Ma è il piano dottrinario a mutare prospettiva, causativa di una nuova visione di vita, che si fonda sul regnum hominis e che intende assicurare a questo regno un effettivo potere. Il pensiero umanistico-rinascimentale non considera più la Natura come un riflesso opaco del platonico «mondo delle idee» oppure come luogo di peccato, di redenzione, di espiazione (ora nell’accezione veterotestamentaria ora in quella cristiano-cattolica), ma come l’ambiente dell’uomo, come il luogo e il corpo di Dio. La natura più che un tuttuno è composta dalle molteplici parti di un Tuttuno. Emergerà un nuovo interesse per le articolazioni strutturali della natura, e si costituirà la tendenza a spiegarle con il solo ausilio delle forze e delle cause naturali. Questo comporta che l’immissione speculativa sul terreno naturale troverà maggiore possibilità di attecchimento quanto più la conoscenza sperimentale dei fenomeni fisici avrà sortito conoscenze naturali. Più ci si immerge sulle strutture dinamiche della fisicità naturale e più si allontanano le strutture statiche di matrice teologica. Quanto più l’uomo moderno avrà perfezionato i suoi strumenti metodologici positivi per le sue indagini naturali, quanto più gli ambienti sperimentati avranno trovato sistemazione nella conoscenza scientifica dell’universo fisico, tanto più il naturalismo si configurerà come una filosofia concreta e razionale. 25 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

In vero la prima tendenza dell’umanesimo è stata quella di individuare nella natura e nelle sue molteplici espressioni la rivelazione della sapienza divina. Ne viene fuori una concezione animistica che fa della terra un contenitore di geni e di demoni, e che l’uomo ritiene di addomesticare attraverso le scienze occulte. Siamo al cospetto della visione dominante del panteismo cinquecentesco, che lesse la natura come il corpo di Dio. Si comprende il perché la magia abbia acquistato una spropositata importanza, ed è facile rintracciare la presenza di molti maghi che coniugavano con la medesima attenzione arti occulte e ricerche sperimentali. Una linea di demarcazione di queste inconciliabili tendenze è, però, presente già nel Cinquecento, nelle opere di Gerolamo Cardano (1501-1571) e di Giambattista Della Porta (1540-1615). Entrambi, infatti, colgono una distinzione tra «magia naturale» e «magia superstiziosa o soprannaturale». La prima esprime un approccio conoscitivo al modo di esplicarsi delle forze, che determinano il corso ordinario e normale dei fenomeni, presenti nella natura; la seconda è la conoscenza dell’azione occulta esercitata sulla natura e sulle sue manifestazioni da forze divine o demoniache. Distinzione che è da ritenersi il primo tentativo, filosoficamente fondato, finalizzato a operare la costruzione di un’autentica scienza sperimentale; costruzione che segna il transito dalla magia alla scienza galileianamente concepita. Credere che la magia costituisca un limite in senso assoluto per l’indagine naturale e per lo sviluppo della scienza sperimentale è un credere non del tutto corretto. Piuttosto, riteniamo, che la magia rappresenti il primo passo dell’attività di ricerca che non si è ancora impossessato del tutto degli strumenti appropriati e indispensabili per una corretta indagine. Ai dotti rinascimentali risultava difficile concepire l’autosufficienza delle leggi della natura, ammenoché il mondo non venisse immaginato come un immenso organismo animato, partendo dall’identificazione di vita e spirito e di vita e movimento. L’aspetto positivo, per lo sviluppo della storia della scienza, è che questa identificazione non distoglieva i ricercatori dallo studio diretto del movimento dei corpi e dalla fede nell’esistenza di leggi regolatrici di questo movimento. Anche se ritenevano che quelle leggi non regolassero direttamente i corpi ma le anime che animavano i movimenti dei corpi. Nell’era rinascimentale la magia e l’astrologia erano intrinsecamente sorrette da carattere operativo. Erano ritenute strumenti d’indagine al fine concreto di dare all’uomo il dominio sulla realtà fisica. Sebbene magia e astrologia si fondano su ideazioni non razionali della realtà, è sul concetto di magia ben predisposta all’ascolto del linguaggio della natura, tanto da trasformarla da dominante in dominata, che si soffermano quanti ebbero a riflettere sul significato e sulle funzioni della magia medesima. Per il Della Porta, ad esempio, nei venti libri che costituiscono il grande trattato Magia naturalis, le ope26 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

razioni magiche hanno del miracoloso perché le cause sono note all’operatore e ignote allo spettatore, ma in nessun caso la magia consente di oltrepassare i limiti del naturale. Sulle funzioni della magia, che «imita la natura aiutandola con l’arte», si soffermerà Tommaso Campanella, la cui idea di magia appare dominatrice delle scienze proprio in quanto attività pratica, in quanto interprete e guida della natura. Sul carattere operativo della magia è doveroso rapportarci a Teofrasto Paracelso (1493-1541), studioso di magia, di medicina, mineralogia, arti meccaniche e fondatore della nuova scuola di medicina chimica (iatro-chimica). Questi ritiene l’impegno dell’alchimista finalizzato a migliorare la natura, non allo scopo di trasformarla e di modificarla, ma di svolgere quelle funzioni di cui nella natura sono presenti le premesse. Bruciati i libri di Galeno e di Avicenna sulla piazza del mercato di Basilea, lo spirito del protestantesimo proclamò la supremazia dell’esperienza personale su ogni altra forma di autorità. Pur formatosi alle tradizioni alchemiche arabe e alle opere di Lullo, ha saputo dare all’alchimia una nuova prospettiva. Allo zolfo e al mercurio, vecchi elementi in opposizione, aggiunse sale neutro, creando in tal modo, in netta opposizione ai quattro elementi aristotelici, i tria, ponendoli alla base della sua chimica, la cui finalità non è più la ricerca dell’oro, ma, si badi, la ricerca del benessere del corpo umano1. Certo, le teorie di Paracelso hanno radici animistiche, come d’altronde quelle di Galeno che ha tanto combattuto, pertanto non deve apparire strano come per lui tutte le funzioni del corpo vengono svolte da spiriti diversi che danno vitalità agli organi interni. Tale atteggiamento animistico e intuitivo, a causa dell’intrinseca complessità della ricerca chimica, prenderà la supremazia su quello razionale e meccanico e governerà i progressi della chimica fino al XVII secolo. A seguire Benedetto Varchi (1503-1565) nella sua Questione sull’alchimia (1544) «non è l’arte o l’alchimista che genera o produce l’oro, ma la natura disposta ed aiutata dall’alchimista e dalla arte». Qui siamo un passo più avanti di Paracelso e più prossimi al Novum Organon di Francesco Bacone, che comincia a ritenere l’uomo «ministro e interprete della natura». Bacone, con Varchi, fa suo della tradizione magica rinascimentale proprio il concetto di «sapere come potere» e di una scienza che governa la natura per accrescerne l’opera e convertirla ai bisogni dell’uomo2. Certo molti sono nel Rinascimento gli elementi mistici e mitologici, pre-

1 

Cfr., M.L. Bianchi, Introduzione a Paracelso, Laterza, Roma-Bari, 1995.

Cfr., B. Farrington, Francesco Bacone filosofo dell’età industriale, trad. it. Einaudi, Torino 1952; P. Rossi, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, Laterza, Bari, 1957; M. White, Newton. L’ultimo mago, trad. it. Mondadorilibri, Milano, 2001. 2 

27 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

senti nelle varie filosofie della natura, che costituiscono un impedimento allo sviluppo dell’indagine sperimentale e alla trasformazione della magia in scienza. In vero la realtà naturale è letta dai filosofi e dagli scienziati rinascimentali ex analogia hominis e non ex analogia mundi. Come ben compreso da Charles Singer l’esigenza, rivendicata con determinazione da Bacone in netta antitesi col sapere magico del Rinascimento, mira ad affermare una conoscenza della natura che promuova il superamento degli elementi antropomorfici, di cui quel sapere ancora si fa carico e che rappresenta l’affrancamento definitivo da quegli elementi idealizzati tipici della tradizione neoplatonica3. Di fatto le tipologie di sapere e gli scenari culturali del nostro Cinquecento risultavano altamente elitarie. Il sopraggiungere della crisi politica, sociale e religiosa, che accompagna la storia italiana del tempo, ha provocato nelle figure eccezionali una sorta di chiusura nei confronti delle altre classi sociali, mentre Bacone, sul piano delle ideazioni e della ricerca scientifica e tecnica, dà voce a una nuova classe sociale, la borghesia, che in Inghilterra tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento gioca un ruolo di primo piano. Bacone, abbandonata alle ortiche ogni incontrollata genialità individuale, ogni criterio di ricerca arbitrario e casuale, ogni conclusione affrettata, esprime l’esigenza che la scienza proceda su una spinta metodologica sperimentale. Il Rinascimento riconduce la scienza nell’ambito ermetico: procedimenti, metodi e conoscenza debbono restare segreti, patrimonio di una élite di iniziati. La scienza è un’invenzione geniale, di una singola persona, di un «illuminato», di un «mago», cui la Natura concede sovrumani poteri. In possesso di tale prerogativa, al pensatore rinascimentale sfugge il valore, ben evidenziato poi da Bacone, delle «arti meccaniche», che testimoniano dell’imprescindibile connubio di scienza e tecnica che solo traduce l’esigenza di un sapere pratico-operativo, di un sapere finalizzato a migliorare le condizioni di precarietà in cui versa l’uomo. Il sapere rinascimentale, a differenza di quello promosso da Bacone, non è da considerarsi un accadimento sociale. È un sapere che non si pone di fronte alla natura al fine di addomesticarla e appropriarsene, non esprime esigenze organizzative che provengono dal sociale, ma testimonia, invece, il punto di vista del singolo, dell’individuo elitario che non si sente parte integrante di un tutto concreto, di una realtà storico-sociale. Proprio questa mancanza di coscienza del fine sociale dei saperi impedisce la sintonizzazione della scienza con la tecnica e non consente all’indagine sperimentale di maturare un progetto che configuri l’esigenza della collettività. Non si è ancora pronti al passaggio che conduce dalle intuizioni geniali al metodo d’indagine razionale, che induce la figura del mago a lasciare il posto 3 

Cfr., Ch. Singer, Breve storia del pensiero scientifico, trad. it. Einaudi, Torino, 1963, p. 32.

28 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

a quella del ricercatore. Tutto il naturalismo rinascimentale testimonia questa condizione. L’avvertita esigenza di formulare una visione della realtà naturale iuxta propria principia, cioè di rintracciare i principi e le cause che dettano gli accadimenti fenomenici nella natura, è sempre contaminata da problematizzazioni della realtà naturale che sanno di prospettiva metafisica. Testimonia ciò la commistione nei procedimenti ideativi di elementi mitici e teologici con originali intuizioni scientifiche. Da Paracelso a Agrippa di Nettesheim (14861535) ma anche a Cusano, a Campanella e allo stesso Bruno esiste una legame, più o meno appariscente, che riconduce la loro impostazione di metodo a un individualismo dagli accenti marcatamente metafisici. Per Paracelso, molto succintamente, se «la luce della natura» è legge della realtà oggettiva, la medesima natura è permeata da spirito divino, tanto che l’indagatore, per raggiungere chiarezza interna e libertà d’indagine, deve elevarsi spiritualmente. Non ci è dato impossessarsi della luce della natura se non avessimo in noi medesimi la fonte e l’origine. Non diversamente la pensano i pensatori e gli scienziati del tempo, compreso Agrippa di Nettesheim (14861535). Questi nel De incertitudine et veritate scientiarum (1526) sosteneva che l’autentica conoscenza è quella che si coglie in prossimità dell’intuizione di Dio e che la scienza, vista come mera indagine naturale, è da ritenersi come la «peggiore disgrazia dell’uomo». I problemi legati all’esperire umano, i problemi legati all’integrazione dell’uomo con il suo ambiente naturale, si colorano sempre, nei pensatori del tempo, di affreschi mistici, la cui identità non si dissocia mai dall’anima universale, riflesso immediato del sovrasensibile. Per Nicola Cusano (1401-1464), come per Giordano Bruno (1548-1600), Dio è ancora coincidentia oppositorum, e l’atomismo democriteo, per la sua peculiarità meccanicistica, viene accolto, tramite l’influsso dei motivi neopitagorici, nella sua visione immanentistico-neoplatonica4. Anche per Bruno, come per Cusano, l’unità del mondo è l’unità dell’energia che anima l’infinità degli atomi. Energia che è Dio: «monade delle monadi» nell’accezione semantica bruniana. Senza dimenticare che lo stesso Bruno fa appello, per dimostrare la derivazione delle infinite monadi dalla monade divina, a una tipologia di matematica di matrice magico-simbolica. E poi, l’esaltazione entusiastica delle scoperte di Galilei e l’accoglienza dei principi della fisica telesiana, di evidente matrice naturalistica, non impediscono a Campanella (1568-1639) di accettare con

4  Cfr., S. Caramella, Unità ideale e coincidenza reale degli opposti nel pensiero di Nicolò Cusano, in Nicolò da Cusa, Sansoni, Firenze, 1962; cfr., dello stesso Caramella, Il problema di una logica trascendente nell’ultima fase del pensiero di Nicola Cusano, in Nicolò Cusano agli inizi del mondo moderno, Atti del Convegno Cusaniano di Bressanone (1969), Sansoni, Firenze, 1970, pp. 367-373.

29 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

convinzione l’animismo universale e di tutelare, da qualsiasi forma di critica, l’incidenza del valore della magia e delle concezioni magico-simboliche5. Il superamento di questa visione della natura e della scienza, dentro cui si immergerà e formerà don Nicolò Serpetro, si rintraccia soltanto con Galilei (1564-1642). Questi ha il merito di aver preso definitivamente le distanze dalle spiegazioni magico-animistiche del fenomenico e di avere rifondato su basi nuove il metodo d’indagine scientifica: ora separando la fisica dalla metafisica, ora sciogliendo la scienza da ogni vincolo d’ordine dommatico e teologico, ora mostrando l’autonomia di procedura della scienza stessa, ora dandosi una visione del mondo a somiglianza del mondo e non del singolo uomo, ora visualizzando al massimo l’impossibilità della scienza di accreditare al suo interno alcunché di magico6. 1. L’Italia al tempo di Nicolò Serpetro Nicolò Serpetro visse tra il 16067 e il 1664, in un tempo tormentato della sto5  Cfr., E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, trad. it. La Nuova Italia, Firenze, 1935, pp. 46-48.

6  Cfr., R. Mondolfo, Giordano Bruno, in Figure e idee della filosofia del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze, 1963; F.A. Yates, Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, trad.it. Laterza, Bari, 1988; M. Ciliberto, Giordano Bruno, Laterza, Bari, 1990; M. Frigerio, Invito al pensiero di Bruno, Mursia, Milano, 1991.

Nicolò Serpetro nacque a Raccuja nel 1606 e, come si evince da un «rivelo» di questa terra, datato 1607, si apprende che egli (nel “rivelo” Nicola Giovanni) era il più piccolo dei quattro figli del raccujese Francesco e di Domenica Pagano di Montalbano Elicona. Da quanto si desume dal racconto La memoria e l’offesa, presente nel volume Sabir (Sellerio, Palermo, 1999) di Giuseppe Quatriglio, don Nicolò doveva essere di bassa statura. Certo era molto considerato della nobile comunità accademica dei Riaccesi. Quatriglio fa presente che don Nicolò Serpetro il giorno del suo arresto, un pomeriggio del settembre 1662, «lo aveva trascorso nella chiesetta trecentesca di San Nicolò Lo Reale», dove «si era svolta una lunga seduta dell’accademia di nobile origine dei Riaccesi particolarmente piacevole perché vi avevano preso parte eminenti rappresentanti dell’erudizione siciliana», tra cui il Serpetro, che «anche quella volta, aveva dato chiara dimostrazione delle sue eccezionali doti mnemoniche recitando, ritto su una pedana che lo faceva sembrare di statura normale» (p. 13). Nelle brevi notizie biografiche, che emergono dalla scrittura più nota, Il Mercato delle Maraviglie, Nicolò offre elementi (come l’abbondanza di cibo e la presenza di una nutrita servitù) relativi alla condizione agiata in cui versava la sua famiglia. Agio, come si apprende, proveniente da terre ben coltivate, a vigneti, ad alberi da frutto, ma soprattutto ad alberi di gelso, il cui fogliame era il nutrimento del baco da seta. Quest’ultima notizia ci fa supporre che il benessere della famiglia Serpetro fosse legato alla sensibile produzione e conseguente commercio della seta e dei suoi derivati (cfr., Tribunale del Real Patriminio, Riveli, Raccuja 1607, v. 1575, ff. 362r-363r dell’“Archivio di Stato di Palermo”). Fanno presente Carmelo La Mancusa e Francesco La Mancusa, alla luce di quanto riferito da Timothi Davies in Famiglie feudali siciliane. Patrimoni, 7 

30 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

ria d’Italia8 e, più in generale, del mondo9. Sono gli anni in cui l’Italia è divisa

redditi, investimenti tra ’500 e ’600, (Palermo 1985, pp. 149-175), «che allora l’attività economica prevalente di Raccuja era la produzione della seta, che tra il 1600 e il 1653 (…) era mediamente di 6.500 libbre annue, di cui 5.800 vendute sul mercato esterno di Messina e Palermo e 700 destinate al consumo interno» (C. La Mancusa-F. La Mancusa, Nicolò Serpetro: filosofo raccujese vittima del tribunale dell’inquisizione, in “Messenion D’Oro”, N.S. n. 4-aprile giugno 2005, p. 33). Non è un caso che la Sicilia, ricca di grano e prospera di lanifici, nel XVI secolo, vivesse nel XVII secolo una vistosa decadenza, più di Milano e di Napoli; soltanto la manifattura della seta, con centro nel messinese, fece da traino all’economia siciliana in tutto il XVII secolo. Al riguardo di quest’ultima considerazione si rinvia ai seguenti studi: G. La Corte Cailler, Documenti sul consolato dell’Arte delle Sete, in “Archivio Storico Messinese”, X-XII (1909-1912), pp. 329-330; G. Platania, Sulla vicenda della sericoltura, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, XX (1924), pp. 242-275; L. Brenni, La tessitura serica attraverso i secoli, Como, 1925; A. Mauceri, I capitoli del Consolato dell’Arte della Seta a Messina, in “Archivio storico Siciliano”, N.S., XLII (1932), pp. 251-264; D. Puzzolo Sigillo, Il mercato della seta nell’antica Fiera generale di Messina, in “VI Fiere. Attività economiche siciliane, Messina, 1939; C. Trasselli, Ricerche sulla seta siciliana (secoli XIV-XVII), in “Economia e Storia”, II, 1965, pp. 213-218; G. Motta, Qualche considerazione sulla attività serica in Messina nei secoli XII-XVII, in “Annali della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Messina”, IV (1966), n° 1, pp. 191-215; M.P. Pavone, Note sulla produzione della seta grezza nel messinese tra Sei e Settecento, in “Lusso e devozione. Tessuti serici a Messina nella prima metà del ’700”, a cura di C. Ciolino, Messina 1984, pp. 47-61. Rimasto orfano della madre all’età di otto anni, Nicolò viene avviato dal padre, proprietario terriero e piccolo commerciante di seta, agli studi, presso l’istituto messinese dei padri gesuiti. A diciotto anni, insofferente dei rigori della Ratio studiorum, accetta un passaggio per nave da Messina a Palermo al seguito di missionari diretti in Terrasanta. Palermo era piegata dalla peste e Nicolò vi soggiorna a quarantena finita, al fine di soccorrere quanti erano sopravvissuti al contagio. Intorno al 1625-1626 Nicolò si iscrive all’Università di Padova e si ha notizia certa che il 7 maggio del 1630 – non prima di aver dichiarato, presso il notaio della Curia Vescovile, la professione di fede cattolica, come contemplato dalla Bolla di papa Pio IV – consegue la laurea in “utruque iure”, “nemine penitus dissentiente”. Dopo una breve sosta in Sicilia si stabilisce a Roma, dove viene ordinato sacerdote e subito dopo, esattamente il 20 dicembre 1634 – come si evince dall’Archivio di Stato di Roma, “Relazione dei barbieri e dei medici”, b. 61 dal 9 agosto 1634 al 4 marzo 1635 – fu ferito in maniera accidentale da due colpi di spada alle tempie inferti dal messinese Carlo Castelli che gli procurarono rilevanti danni, come egli medesimo ricorda ne Il Mercato delle Maraviglie. A Roma visse dei favori di Pietro Della Valle (a cui dedicò l’idillio La Fama), ricco patrizio e animatore della vita intellettuale capitolina, che fu ben lieto di invitare Nicolò alle sedute dell’Accademia Capranica. Qui di certo fece la conoscenza di Tommaso Campanella, che apprezzò al punto da ritenersi suo allievo. A seguire quanto si legge nel preziosissimo scritto Biblioteca sicula sive de scriptoribus siculis qui tum recentiora specula illustrarunt. Notiae locuplentissimae (Palermo, 1714, II, p. 96) di Antonio Mongitore si apprende che non è da escludere che la morte di «Nicolaus Serpetrus» sia sopraggiunta «non sine veneni suspicione». Carmelo La Mancusa e Francesco La Mancusa ritengono attendibile la tesi del Mongitore, tanto da supporre che la causa del presunto avvelenamento vada ricondotta a una volontà «che non tollerava più la presenza di don Nicolò nella società e nel convento» (C. La Mancusa-F. La Mancusa, La vita, “La fama” e “Il simolacro della virtù” di Nicolò Serpetro, Armenio Editore, Brolo, 2006, p. 30). 8 

9 

La prima metà del XVII secolo ha sancito il nuovo destino del mondo, dando alle nazioni

31 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

in tanti statarelli, con in testa lo Stato Pontificio, che, in nome e per conto della figura della «Roma dei papi», impone il suo verbo politico-religioso dentro e fuori i confini della penisola. Gran parte del territorio italico è alle dipendenze della Spagna. E siccome al tempo la Spagna versava in grave decadenza, questa condizione non poteva non ripercuotersi sulle province italiane a lei soggette. Il malcontento serpeggia su tutta la penisola. La gente si sente oppressa là dove governa direttamente la Spagna e là dove è forte l’influenza francese10, come nel Piemonte e nella Toscana. Anche gli Stati indipendenti mostrano i segni di affaticamento e di logorio, tutt’altro che provvisori e superficiali, e che si palesano sempre più marcati man mano che avanza il XVII secolo. La decadenza politica comporta quella economica. E questo vale soprattutto per l’Italia, rimasta frammentata e incapace di costituirsi popolo, unità etnica, paese, Nazione. Tra il XVI e i primi due decenni del XVII l’attività economica è notevole e dal Sud al Nord d’Italia si vive in stato di benessere. Ma nei decenni successivi il ritmo della vita economica si appesantisce, la ricchezza acquista staticità e chi ha non progredisce e solo a stento riesce a conservare. Nei decenni di maturazione e produzione intellettuale di Serpetro, il carattere della lentezza e del conservativismo fa da padrone nella vita individuale e sociale e testimonia del disagio e della decadenza della società italiana. E tutto ciò si appalesa maggiormente al cospetto dell’attivismo e dell’intraprendenza che caratterizzano le società nel momento del loro apogeo, come la Francia, l’Inghilterra e le Province Unite. Nel conservativismo (regresso) e nell’attivismo (progresso) è implicita una occidentali il dominio degli oceani e dell’America. È da tutti riconosciuto che fino al XII secolo il centro della civiltà era l’Oriente. Le conquiste mongole avevano però soppresso il senso creativo della civiltà asiatica e i Turchi, soggiogando i paesi del centro e dell’Ovest dell’Asia a regimi prevalentemente militari, li avevano ridotti, dopo il XIV secolo, in definitivo stato di decadenza. L’attività poetica e letteraria dal XV secolo in poi non aveva dato più alcun segno di vitalità; l’attività scientifica del mondo musulmano è oramai esaurita e l’impero ottomano, costruito sulle rovine delle piraterie turche, è allo sbando politicamente ed eticamente. Non è né uno Stato né una Nazione, ma solo un esercito. L’intensa vita spirituale dell’Islam è dominata da una casta clericale rozza e fanatica. In India ha soffocato lo spirito filosofico, ha sostituito all’induismo una cultura persiana dall’impostazione brillante ma alquanto superficiale, priva di legame con il popolo. La stessa Cina ha smarrito, sotto il governo degli imperatori mongoli, le sue capacità inventive e, sul piano della reazione, non è andata al di là di uno sterile nazionalismo e di una ottusa xenofobia. In Cina si pubblica, ma solo cose dozzinali, come dizionari ed enciclopedie. In altri termini l’Europa non ha più nulla da imparare dall’Asia.

10  I metodi di gestione del governo spagnolo non sono diversi di quelli del governo francese. Sul piano fiscale, che è poi quello che conta per la maggior parte della popolazione, nessuna differenza si registra al di là e al di qua dei Pirenei: i metodi di estorsione, la vendita e rivendita degli uffici, la creazione e vendita dei titoli nobiliari, la corruzione di esattori, gabellieri, etc., destano malcontento in Francia, in Spagna e presso quanti queste nazioni esercitano la loro influenza, diretta o indiretta.

32 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

visione della vita. Ma alla formulazione di tale visione, per quanto riguarda la nostra penisola, hanno contribuito sensibilmente circostanze di natura politica ed economica, che si sono rivelate irrimediabilmente dannose per il presente e per il futuro. L’Italia doveva piegarsi al duro peso di quei fatti politici ed economici, emersi al principio del secolo XVI, e contro le cui letali conseguenze essa aveva acremente lottato per tutto il secolo: il suo frazionamento politico e geografico e la scoperta delle nuove vie oceaniche. Mentre i principati stranieri si erano fortificati e ingranditi sulla base di un principio unitario nazionalistico, i principati italiani erano rimasti piccoli e deboli sulla base di unità regionali. La diffidenza tra i prìncipi aveva fatto da padrone. Il tentativo di costituire un organismo politicamente e militarmente vitale e duraturo, ora da solo ora con l’appoggio della Francia, era miserevolmente naufragato. Affermare che il XVII secolo segna la presa d’atto dello svuotamento politico e militare dell’Italia, come nazione e come principati, è pertanto lecito. Come è lecito affermare che lo svuotamento politico e militare ha comportato anche quello economico. Le nuove vie oceaniche spostano l’asse economico dal Mediterraneo all’Atlantico. Alla fine del XVII secolo la decadenza del Mediterraneo è un fatto irrimediabile, come è irrimediabile insieme alla decadenza commerciale anche quella economica. E c’è di più: la Guerra dei Trent’anni, impoverendo e immiserendo la Germania, tolse a Venezia anche l’ultimo grande legame di sostentamento economico. Il declino dell’economia italiana è rilevante, ma risulta ancor più al confronto del contemporaneo grande sviluppo delle economie di paesi come Francia, Inghilterra, Provincie Unite, alle quali si rivelarono favorevoli quelle medesime circostanze che all’Italia (come anche alla Spagna, alla Turchia e, per molti versi, alla Germania) risultarono invece sfavorevoli. Quello che più conta è che i trattati di Vestfalia (1648), conseguenza della devastante Guerra dei Trent’anni, segnarono la rovina dell’assolutismo autoritario di diritto divino degli Asburgo. Al tempo della conclusione della Guerra, l’Europa entra così in una nuova era della sua storia, in quanto la fine dell’egemonia spagnola segna il definitivo tramonto della politica autoritaria. Si tratta solo di comprendere le ragioni della decadenza dell’impero di Spagna: sul piano economico, dove il capitalismo privato degli affaristi olandesi e inglesi ha sopraffatto irrimediabilmente l’economia statalista della Spagna e si è impossessato del commercio internazionale, sul piano politico, dove l’orgogliosa monarchia autoritaria tendeva alla sovranità universale e si riteneva custode dell’ortodossia cattolica, tramonta definitivamente, sconfitta sul mare dalla repubblica olandese e sulla terra dall’esercito della monarchia francese, la cui forza si è costituita sulla base della tolleranza religiosa e sull’attivismo industriale. All’ideologia autoritaria fa seguito uno sviluppo liberale e repubblicano. La stessa idea monarchica non è più rappresentata dall’autoritarismo 33 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

imperialista e statalista degli Asburgo, bensì dall’assolutismo della Francia, tollerante, nazionale, e che, grazie alla sua politica mercantilistica, è rigorosamente nazionalista. C’è da rilevare: se all’egemonia spagnola successe l’egemonia francese, la vittoria della Francia non sostituì al vinto imperialismo asburgico un imperialismo nuovo: alla tesi di un’Europa dominata dall’egemonia, la Francia contrappose la tesi dell’indipendenza degli Stati, garantita dalla solidarietà nazionale, delineatasi nei trattati di Vestfalia. La geografia politica italiana al tempo dell’evoluzione culturale di Serpetro si articolava così: i domini spagnoli comprendevano il ducato di Milano, retto da un governatore, il Regno di Napoli con lo Stato dei presidi, di Sicilia e di Sardegna con a capo ciascuno un vicerè. A Napoli e in Sicilia c’era povertà e tanta irrequietezza nei confronti dei governi. Condizioni che furono la causa delle sommosse di Napoli del 1647 e di Messina del 1674. Sommosse che sortirono repressioni e delusioni, insieme alla riconferma dell’immaturità politica degli italiani, che non hanno ancora una volta compreso che la libertà passa dall’interno e non dall’esterno di un popolo. La Repubblica di Genova agli inizi del XVII secolo continua a ruotare intorno all’orbita della Spagna e a godere di una certa opulenza. Si tratta degli ultimi splendori: il declino economico della Spagna comporta anche il declino di Genova. Seppur notevole il commercio finanziario, la sua industria della seta ha dovuto cedere alla concorrenza di Lione e il traffico del suo porto alla concorrenza di Livorno e di Marsiglia. La vecchia repubblica vive una situazione di instabilità economica e politica. Per quanto riguarda quest’ultima si ricorda il vano tentativo, operato da Giulio Cesare Vachero nel 1628 con l’appoggio di Carlo Emanuele I, di rovesciare il governo; oppure si ricorda la prepotenza francese, che soggiogò l’inerme Genova con uno spietato bombardamento. Luigi XIV volle umiliare la vecchia repubblica e si permise addirittura di ricevere in gran pompa, nel castello di Versaglia, la delegazione genovese, in segno di sottomissione. Anche il ducato sabaudo versa, in questo periodo, in piena crisi politica ed economica. Si trattò di una crisi transitoria, delimitata tra il «trattato di Cherasco» (1631) e la partecipazione alla «Lega di Augusta» (1690). Il Piemonte, per volontà di Maria Cristina, legittimata a governare al posto dell’erede ancora bambino, è legato alla Francia e in balia alla strapotenza francese. Se la decadenza del ducato sabaudo fu temporanea, la decadenza del granducato mediceo fu, invece, definitiva. A parte alcune promozioni in ambito culturale – di cui ci occuperemo più avanti – come la protezione dell’Università di Pisa, gli studi scientifici e la fondazione dell’«Accademia del Cimento» per volontà del cardinale Leopoldo, il granducato lentamente si spegne politicamente ed economicamente fino all’estinzione della casa medicea, avvenuta nel 1737 con la fine del granduca Gian Gastone. Politica ed economica è la decadenza della repubblica veneta. Venezia 34 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

già agli inizi del XVII secolo è in fase di declino, per quanto intervallato da spinte vivaci e da audaci riprese. Le cause, che hanno dettato in generale il declino d’Italia, sono le stesse che piegano Venezia. Le cause politico-militari, che risalgono prioritariamente ai Turchi, e le cause economiche, come l’apertura delle vie atlantiche, s’intrecciano con una politica interna conservatrice, dettata da governi che sono espressione di una consorteria di classe, i cui interessi e personalismi prevalgono quasi sempre sugli interessi della collettività. Mentre a diversi livelli l’Italia del XVII secolo vive una decadenza che per lo più si rivela irreversibile, questo non vale per lo Stato Pontificio, che proprio a quel tempo raggiunge l’unificazione territoriale con l’annessione di Ferrara e di Urbino. Sebbene il suo interno fosse governato da nepotismo e banditismo11, tante sono state le controversie di carattere giurisdizionale o politico con gli stati cattolici d’Italia e d’Europa che la Chiesa, in seguito al concilio tridentino, aveva risolto a proprio vantaggio. La Chiesa, grazie all’abilità di gestire il Concilio, rafforza la difesa delle posizioni e dei privilegi storicamente acquisiti; - e questo mentre lo Stato moderno, nato per combattere e per eliminare i privilegi storici, ecclesiastici e nobiliari, si trasformava in stato assoluto, attrezzandosi di una teoria della sovranità che dei privilegi, fossero pure ecclesiastici, era sempre meno tollerante. 2. Autoritarismo e libertà di pensiero al tempo di Serpetro L’autoritarismo che si appalesa sul piano economico con lo statalismo, sul piano monarchico con l’assolutismo di diritto divino, sul piano dell’organizzazione internazionale con l’egemonia dinastica, s’afferma anche nel campo intellettuale con la Riforma, con la Controriforma, con l’anglicanesimo e pure con l’ortodossia calvinista. La Controriforma pretese d’imporre la sua autorità su ogni attività intellettuale. Essa, attanagliata dalla paura del ritorno di nuove eresie, si avventò contro l’Umanesimo e il Rinascimento, e promosse una mirata offensiva dell’ortodossia, fondata sulla sanzione della morte, che assunse aspetti austeri e financo mistici. E non solo: diresse i suoi strali contro il liberalismo umanistico e, quel che è più grave, si avventò contro le belle forme del corpo umano che l’arte aveva celebrato all’insegna dell’influenza classica. Tutto ciò che è piacere è frutto del peccato e, dunque, va bandito dal costume, compreso, come causticamente nota Heinrich Heine, il melodioso

11 

Cfr., C. Rendina, Cardinali e cortigiane, Newton Compton, Roma, 2007, pp. 136-189.

35 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

canto dell’usignolo12. L’Escoriale è l’esempio più significativo di questa tendenza mistica che prende il sopravvento al tempo in cui si accendono i roghi dell’Inquisizione e in cui il re di Spagna si propone come rappresentante di Dio in terra. In Italia il pensiero viene soffocato dal rogo riservato a Giordano Bruno che, reo per aver professato l’eliocentrismo copernicano, fu ritenuto panteista e, dunque, eretico; e il sorprendente vigore intellettuale dei Rinascimento finì nelle raffinate eleganze della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, opera che fu tanto apprezzata alla fine del XVII secolo. In Spagna, che Erasmo riteneva il centro più splendente dell’Umanesimo, dove il dinamismo della civiltà dava vita a opere piene di vigore e sensibilità, come quelle di Miquel de Cervantes, di Lope de Vega e di Guglielmo de Castro, la mistica introduce, con Santa Teresa e San Giovanni della Croce, una nuova forma di ascetismo, che rifiuta ogni legame con la mondità e nella rinuncia alla liberalità di pensiero intravede la strada per impossessarsi di Dio. Stranezza del destino: nel momento in cui l’autoritarismo spirituale e politico confinava il pensiero in un rigoroso e sterile conformismo, il misticismo evitò al genio spagnolo di inaridirsi. Se è vero che qualsiasi ideazione si regge sulla ricerca della verità allora sarà vero che ogni verità codificata esprime decadenza. Il misticismo spagnolo, che fu anche per gli spiriti più accesi di fede una ricerca appassionata di Dio, impedì all’idea religiosa di svuotarsi di significato. Le raffigurazioni del Greco e di Zurbaran, le rappresentazioni teatrali di Tirso de Molina e di Calderón furono certamente il meglio del misticismo ascetico. In opposizione al misticismo popolare del Medioevo che, teso a guidare la società secondo i principi evangelici, è da considerarsi una lievitazione eccezionale di emancipazione individuale, il misticismo spagnolo nato dalla Controriforma, cercando Dio nell’annientamento, nella sottomissione, nella negazione del proprio se ipsum, ispirava individualità straordinarie, capaci di spegnere, nelle rinuncia del pensiero, ogni libera attività intellettuale. Non è un caso che dopo Calderón la letteratura spagnola si spenga e lasci il posto a espressioni di pura forma, di sterile eleganza come si registra nelle opere del Górgona (in Italia quelle di Giambattista Marino). La stessa Chiesa trova poco edificante questa spasmodica ricerca del formale, dell’eleganza espressiva tout court. Non appena si sente vittoriosa sullo spirito rinascimentale, la Chiesa si affranca dallo spirito ascetico che, con il carattere versato a un radicale devozionismo, le fa paura almeno per due valide ragioni: la prima perché s’è convinta che sull’«ascetismo» non si co12  H. Heine, Per la storia della religione e della filosofia in Germania, in H. Heine, La Germania, trad. it., Bulzoni, Milano, 1979, p. 188.

36 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

struisce molto per sé e per il sociale, la seconda perché allontana le masse, bisognose di pane e di piaceri carnali, e i potenti, bisognosi di piaceri e della devozione delle masse. Seppur ferma nella custodia dell’ortodossia (guai a lambire i «principi»), essa promosse al suo interno due tendenze: la prima tesa a devozione ardente, la seconda ad assecondare una pietà più formale che sostanziale. Esempio del connubio di queste due tendenze è l’Introduzione alla vita devota di Francesco di Sales, predisposta a ben coniugare vita sacra e vita profana. Fondamentale, in questa forma di devozione guidata, è di obbedire alle regole sancite dall’autorità: la sottomissione occupa lo spazio della coscienza. Gli stessi istinti, ammenoché non superino i limiti, vengono tollerati. La stessa arte si dispone remissiva al servizio di questa visione formalistica della vita. Tutto si predispone a essere recuperato dalla fede radicale dello spirito romantico, dalla fede militante ed esultante dello spirito gotico, delle dorature e della ricerca del movimento teatrale dello stile barocco che s’impadronisce dell’arte religiosa in Italia e in Spagna, e che si traduce nelle grandi composizioni religiose, ricche di colori e di vita ma povere di fede, di Rubens. Fatta eccezione dei mistici, in particolare di matrice gesuita, la fede si fa regola di vita; per questa ragione essa cessa di essere una fonte di ispirazione e, quando si fa tutt’uno con le passioni umane, non opera più recuperi coscienziali ma, paradossalmente, istintuali. Si comprende il dilagare, da parte degli organi governativi, della lotta contro le streghe, accusate d’intimità col diavolo; si comprende la passione tramite la quale il popolo spagnolo condivise le persecuzioni mirate di Filippo III13. Le più bestiali che il mondo abbia conosciuto prima di quelle consumate nel XX secolo. Laddove si associarono l’autoritarismo del re di Spagna e quello della Controriforma in Spagna, in Italia, in Belgio, la civiltà, che aveva raggiunto la sua cuspide con l’Umanesimo e il Rinascimento, si spense. Alla fine del secolo XVII, l’autoritarismo, oramai impostosi, affidò alla Spagna il ruolo di paladino del rigorismo cattolico. Essa, seppur ridimensionata dalla sua impresa autoritaria, esercitò a quel tempo, sul piano politico e culturale, un’influenza determinante e devastante. E questo mentre in Francia, in piena guerra di religione, La Boètie attaccava nel Conto uno la tirannia, il Des Périers, nel Cymbalum mundi, rivendicava i diritti del libero pensiero, e la borghesia Cfr., B. Bennassar, Storia dell’Inquisizione spagnola. Fatti e misfatti della “Suprema” dal XV al XIX secolo, trad. it. Rizzoli, Milano, 1994; cfr., in particolare, il cap. V: L’unificazione religiosa e sociale: la repressione delle minoranze, pp. 127-172. Cfr., inoltre, il recente ben documentato e ben costruito volume di S. Ricci, Inquisitori, censori, filosofi, sullo scenario della Controriforma, Salerno Editrice, Roma, 2008; cfr., particolarmente il cap. V: La congregazione dell’Indice e i filosofi. Da Sisto V a Clemente VIII, pp. 259-389. 13 

37 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

intellettuale parigina, nella Satira Menippea ridicolizzava il re, la Lega, la Spagna e le esagerazioni del fanatismo religioso. L’Inghilterra viveva il suo umanesimo con una molteplice fioritura di poeti e di drammaturghi e raggiungeva il massimo dell’ironia e della causticità nella libera produzione di uno Shakespeare. In altri termini mentre Filippo IV sviluppa una propaganda nazionalistica, che ha contribuito a chiudere la Spagna in se stessa, il pensiero francese, sulle orme della tradizione universale del Rinascimento, si prepara a conquistare il mondo. La stessa tendenza si registra in Inghilterra. Tendenza orientata a guardare il mondo attraverso il carattere eterno dei grandi problemi dell’umanità, e a trovare soluzioni fuori dagli schemi nazionalistici e dalle diversità etno-antropologiche. Entrambi i Paesi, ispirati dal più nobile pensiero classico, dislocarono il problema morale fuori del piano religioso: in Inghilterra con i Saggi di Francesco Bacone, in Francia con il Trattato delle passioni di Cartesio. La Controriforma, nella sua assurda pretesa di trasmettere alle masse la dommatica dei suoi principi, consentì che germogliasse una filosofia estranea all’idea religiosa. Gli steccati, alzati dall’autoritarismo contro la libertà di pensiero, erano infranti. Dopo più di XV secoli la scienza intraprendeva nuovi percorsi speculativi. L’astronomia con Galilei, la fisica con Simone Stevin, la matematica con Cavalieri, Cartesio e Desargues si incamminavano su nuovi sentieri. Il citato Bacone, nel Novum Organon, coglieva la linea di demarcazione dentro cui, da una parte, si sarebbero sviluppale le scienze teologiche e religiose e, dall’altra, quelle filosofiche e scientifiche14. La Chiesa non intendeva abbandonare la lotta contro le idee moderniste; lo stesso Galilei ha potuto sfuggire alla condanna da parte del Tribunale dell’Inquisizione solo abiurando i sui convincimenti scientifici fondati sull’accettazione della tesi copernicana. Ma la Chiesa si rendeva conto dell’impossibilità di sottomettere la scienza al dogma, secondo l’impostazione della scolastica. Aveva compreso, nelle sue espressioni più vivaci, che non era più possibile limitare la ragione e i nuovi orizzonti che ad essa si aprivano. Dalla condanna di Galilei in poi è inevitabile lo scoppio del conflitto tra l’autorità e la libertà di pensiero, e la reazione di quest’ultima sarà tanto più decisa quanto più la Chiesa, per abbatterla, si rifiuterà di desistere dal ricorso alle sopraffazioni e alle aberranti violenze. La scienza, oramai consapevole delle proprie potenzialità, cessava di costituire un pericolo per la Fede e la Chiesa. Dopo la condanna di Galilei, abban-

Per un quadro compiuto relativo all’apertura di questo nuovo universo ideativo si rinvia ai citati saggi di B. Farrington, Francesco Bacone. Filosofo dell’età industriale e di P. Rossi, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza. 14 

38 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

donato l’atteggiamento autoritario che aveva caratterizzato il papato di Paolo IV, la Chiesa fu più accondiscendente nei suoi interventi in ambito scientifico. In analogia a quanto accaduto in ambito misterico nell’era ellenistica, la Chiesa del tempo si chiuse nell’ambito morale e religioso, lasciando alla filosofia i problemi metafisici e alla scienza l’ordine delle leggi dell’universo. Non è un caso che solo dopo alcuni anni della ritrattazione di Galilei, Cartesio dà alle stampe in Olanda Il discorso sul metodo (1637) e le Meditazioni metafisiche (1641). Con Galilei e Cartesio il metodo scientifico si può dire fondato. In opposizione alla scolastica che contemplava i dati di ricerca sugli impianti delle verità rivelate, essi rifiutano di accettare, prima di esperire fatti ed eventi, la verità di qualsivoglia idea, all’insegna di un’impostazione di metodo che contempli a un tempo la procedura induttiva e quella deduttiva, al fine di formulare concetti veri perché suffragati dall’esperienza. Su questa metodologia, in comunanza con le scoperte scientifiche, la filosofia riprende il problema della conoscenza di Dio senza farsi contagiare dai criteri della teologia e della dialettica di matrice scolastica. Cartesio, addirittura, addiviene alla conclusione che Dio è la sostanza infinita da cui tutto dipende e che non dipende da nulla. Il panteismo classico emerge nella sua pienezza. Sul piano scientifico, però, le scoperte oltrepassano l’orizzonte della scienza greca: Galilei stabilisce le leggi della caduta dei gravi; Cartesio scopre la legge della rifrazione; Viète reintroduce l’algebra e Cartesio, applicandola ai volumi, fonda la geometria analitica; Pascal crea l’idrostatica e Harvey offre l’impianto della circolazione nei corpi viventi. Alla luce di queste conquiste si può affermare che la scienza, grazie all’unità che la caratterizza, si riappropria dell’universalità che era la cifra dell’era ellenistica. E paradossalmente si può affermare: se l’unità cristiana era stata messa in crisi dalla Riforma, si riafferma, con maggiori credenziali, grazie al libero slancio del pensiero. Si riafferma il concetto che la civiltà, al di la di ogni nazionalismo e statalismo e di ogni confessione religiosa, è una sola e forma un sistema organico che unisce i contemporanei e connette il pensiero moderno con le più remote civiltà. 3. Cultura e Civiltà nell’Italia del XVII secolo Una succinta disamina delle condizioni della cultura e della scienza nel XVII secolo, sia per ciò che riguarda il passaggio che in quest’epoca si opera dalla magia all’indagine sperimentale, sia per gli esiti che questo passaggio comporta nel rinnovamento degli strumenti logici capaci di dare all’uomo moderno la possibilità di quell’indagine, ci permetterà di porre l’accento sui punti nodali che hanno aperto alla modernità e, successivamente, di valutare 39 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

la posizione del Serpetro di fronte alla fondazione della nuova concezione del sapere, la cui validità supera il suo tempo e si inserisce nella dialettica di quelle idee che accompagnano lo sviluppo fondativo e civile del mondo moderno. È vero che nel Seicento l’Italia, sul piano economico e politico, versa in stato di decadenza, ma è tutt’altro che vero che tale stato si ripercuota in ambito culturale e civile. L’Italia contribuisce ancora egregiamente al progresso culturale e civile dell’Europa. Certo una qualche differenza si registra, ma tutto sommato si consuma a favore dell’italico genio. L’Italia, infatti, non è più il solo faro di luce in mezzo a un mondo di tetra fuliggine. La sua presenza è meno imponente, perché manca di un centro nazionale di raccolta e di promozione, come, ad esempio, la Francia nella corte del re Sole. I grandi spesso oltrepassano i confini, e trovano nei nuovi Stati le condizioni propizie per dare alle loro attività contenuti di più ampio respiro. Nell’universo filosofico nuovi percorsi furono sperimentati da Giordano Bruno e Tommaso Campanella. E poi basta riflettere: l’Italia del Seicento ha dato al mondo una nuova forma di arte, il Barocco15; una nuova forma di musica, la Polifonia, prima, il Melodramma dopo16; e poi, come sopra accennato, ha contribuito notevolmente, con Galilei, alla nascita della Scienza moderna17. Certo non è dato ignorare quanto accaduto tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento: conobbero l’indice la Nova Philosophia di Patrizi, il De rerum natura di Telesio, l’opera omnia di Campanella e di Bruno, furono compiute inchieste contro Della Porta, Stigliola, Cremonini, fu condannato a morte Francesco Pucci, messo in carcere il Campanella, arso vivo il Bruno. La repressione è capillare e potente e, per poter dire quel che si pensa, si mette a repentaglio la tranquillità, la professione, la vita. Tanti, tantissimi, per poter salvare quel poco che hanno, si autocensurano, Il Barocco, nato a Roma come lo stile dell’intraprendente Chiesa tridentina, si è diffuso, con sfaccettature diverse, nell’Europa cattolica. Il Bernini esprime il meglio nelle sue multiforme creazioni. Nella pittura bastano i Carracci a ripristinare la formula di un’arte che il manierismo minacciava di impoverire, mentre il Caravaggio apre a universi nuovi e arditi, percorsi da generazioni di pittori. 15 

16  La Polifonia diventa nei Seicento la forma della musica chiesastica, mentre il Melodramma la forma della musica profana. Entrambe le espressioni conobbero una fortuna rapida e vasta. E per quanto riguarda il Melodramma fu catturato dall’intera Europa: cantanti e musici italiani vennero richiesti dalle corti più blasonate e dai teatri più rinomati. Si apre così il cammino trionfale della musica italiana che vedrà il suo apogeo con l’opera lirica nell’Ottocento.

17  In ambito scientifico Galilei con il Dialogo delle nuove scienze apriva alla scienza in senso moderno e ne definiva con rigore la natura e il metodo. Non va dimenticato che il mondo moderno si distingue da quello medievale proprio grazie a nuovo approccio in ambito scientifico. Con Galilei, e poi con Cartesio e Newton, la scienza riceverà tale sviluppo che l’orizzonte culturale, alla fine del XVII secolo, sarà radicalmente trasformato.

40 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

altri, come di recente mette in evidenza in un bello e mirato studio Gianni Paganini, pubblicano clandestinamente oppure fanno circolare di nascosto, finanche copiati e diffusi di mano in mano, manoscritti al fine di sconvolgere gli uomini d’apparato e smuovere dal torpore le coscienze. In quei decenni furono composti circa duecentoquaranta manoscritti, equipollenti a circa duemila copie presenti nelle biblioteche pubbliche e private dell’Europa del tempo. Come opportunamente fa presente il Paganini si tratta di scritti che contengono, insieme alla critica «razionalistica» della filosofia e religione, una serie di critiche mirate a smascherare le falsità e gli inganni presenti nei testi della cultura ufficiale18. Il Mercato delle Maraviglie della Natura non fa parte degli scritti di riferimento di cui si occupa il Paganini. Il sottotitolo dell’opera «Istoria Naturale» non deve trarre in inganno. Corrado Dollo, addirittura, ci ammonisce dal prestare attenzione al sottotitolo, perché l’opera «è molto lontana dal concetto che oggi attribuiamo al termine», che «è solo un repertorio o un emporio di curiosità, senza nessi organici immanenti»19. Il Dollo misura con il metro della scienza galileiana: metro, a suo dire, che Serpetro ignorava oppure che non riteneva attendibile, visto che nelle opere del raccujese risultano del tutto «assenti» i nomi di Galilei e dei tanti discepoli20. Certo la mancata menzione dello studioso che aveva aperto nuovi orizzonti alla scienza è cosa grave. Gravità che si affievolisce di molto se si pensa che il Serpetro è il traduttore e non l’autore dell’opera. Serpetro gioca col testo originario a suo compiacimento. Si ha la sensazione che i tagli e le aggiunte al testo originario siano tanti e tali che potrebbe apparire lecito ricondurre l’opera al genio di Serpetro. Ma su questo torneremo più avanti.

Cfr., G. Paganini, Introduzione alle filosofie clandestine, Laterza, Roma-Bari, 2009. L’Autore, piace puntualizzare, va, nello scritto in oggetto, ben oltre l’esposizione delle tesi fondamentali presenti negli scritti clandestini. Mette, infatti, a suo agio il lettore a orientarsi entro l’ingarbugliata matassa delle più disparate interpretazioni e a prendere coscienza del carattere allusivo di un genere letterario improntato alla dissimulazione e che è misura di autori i quali ritengono auspicabile che i loro pensamenti eversivi si propaghino entro l’elites intellettuale del tempo. Questa prospettiva di lettura, sottolinea Paganini a conclusione della Premessa, «ci ha permesso di mettere in evidenza l’influsso della letteratura clandestina sulla genesi dei Lumi, a partire da opere che comprendono tanto i testi libertini quanto le filosofie razionalistiche del Grand Siècle». 18 

19 

n. 2.

C. Dollo, Modelli scientifici e filosofici nella Sicilia spagnola, Guida, Napoli 1984, p. 132,

Ibidem, p. 134. In vero Serpetro cita marginalmente il Galilei a pagina 177 de Il Mercato: e pertanto il Dollo ben considera la scarsa attenzione che il raccujese riserva all’autore del Dialogo dei Massimi Sistemi. 20 

41 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

L’opera21, da ritenersi il frutto più significativo della speculazione di Serpetro, appare, come si legge dalla prima di copertina, «in Venetia, per Tomasini, MDCLIII», pubblicamente, senza alcuna forma d’impedimento da parte delle autorità politiche e religiose. Ma dalle ragioni di scelta del titolo offerte dal Serpetro nell’Introduzione («Come in un famoso Mercato concorrono da diuersi Paesi i Mercanti più ricchi à portarui le gemme, e le cose più pretiose, e più ammirabili, che si trouano in varie Prouincie del Mondo: così in quest’Opera hò procurato di trasportare da gli Autori più celebri le marauiglie più rare, e diletteuoli, che produsse l’Autore della Natura. Dico Maraviglie

A seguire Carmelo La Mancusa e Francesco La Mancusa, appassionati studiosi del Serpetro, apprendiamo che l’autore de Il Mercato delle Maraviglie ha portato a compimento altre due brevi opere. La prima, La Fama, che fu data alle stampe, «con licenza de’ Superiori» a Ronciglione nel 1632 per i tipi di Ludovico Grignani e che diede al Serpetro le credenziali per ben figurare nella Roma dotta di papa Urbano VII, fu dedicata a Pietro Della Valle, personaggio noto per le sue attività culturali e ben considerato dagli accademici del tempo. Si tratta di un “Idillio”, il cui genere era d’appartenenza della poesia aulica e a cui avevano fatto ricorso personaggi dello spessore di un Teocrito, di un Virgilio, di un Sannazzaro, di un Poliziano, di un Castiglione, di un Tasso. Certo lo stile di Serpetro è lontano dagli autori citati e dai canoni classici cari al Petrarca, ma è molto vicino ai canoni di Giambattista Marino che era stato portatore di nuove espressività poetiche e di nuove prospettive estetiche. Molto opportunamente i La Mancusa sostengono che «tranne il sonetto iniziale e la parte finale che hanno un preciso intento adulatorio verso Piero Della Valle, il corpo dell’idillio s’inquadra proprio in quel filone del marinismo, la cui tecnica si concretizza nel meraviglioso, nell’esagerazione, nello stupefacente, in una parola, nella concezione edonistica dell’arte» (C. La Mancusa-F. La Mancusa, La vita, “La Fama” e “Il simolacro della virtù di Nicolò Serpetro, cit. pp. 35-36). Il Serpetro fu un profondo conoscitore della lingua greca e latina, dell’ebraico, ma anche del francese, dell’inglese e dello spagnolo. Dalla lingua spagnola, a seguire i La Mancusa nel citato articolo Nicolò Serpetro: filosofo raccujese vittima del Tribunale dell’Inquisizione (pubblicato in “Messenion D’Oro”, aprile-giugno 2005, pp. 33-42), tradusse un’opera dal titolo Osservazioni politiche e morali sulla vita di Marco Bruto. Dall’articolo si apprende anche che Serpetro fu poeta e che pubblicò a Napoli, presso la tipografia di Egidio Longo, una raccolta di poesia, e che fu autore di un trattato di Geografia, di cui dà notizia Serpetro stesso a pagina 127 de Il Mercato delle Maraviglie. Gli autori dicono, inoltre, che Serpetro fece parte dell’“Accademia dei Riaccesi” di Palermo e dell’“Officina” di Messina, e danno per certa la presenza di inediti che, a loro dire, «non furono pubblicati dopo la sua morte per mancanza di interessamento o perché come individuo colpito da sentenza inquisitoria del Santo Uffizio era meglio non parlarne più» (p. 34). 21 

Il Simolacro della virtù è stato scritto dopo il 1653, allorquando il Serpetro si rende conto di non essere più ben accetto dalla famiglia Branciforti e cerca di procacciarsi una vita agiata sotto un nuovo protettore. Si tratta di un “Panegerico”, dedicato a Mons. Vincenzo Vicentini, vescovo di Geraci Calabro, che non fu mai pubblicato e che ora vede la luce nell’Appendice al citato volume dei La Mancusa (pp. 79-94). La mancata pubblicazione la si deve, come ben si comprende, all’accoglienza fredda riservatagli dal destinatario e al venir meno delle aspettative dell’Autore. Avvinto dal bisogno Serpetro accettò a Palermo di svolgere mansioni di segretario presso Pietro Bonanno Balsamo, duca di Montalbano e principe di Roccafiorita. Per un quadro organico dell’universo poetico e concettuale dell’opera in oggetto si rinvia alla pagine 71-78 della citata opera dei La Mancusa.

42 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

perché mi sono ingegnato di non registrar cosa, che non sia marauigliosa»), sono presenti tutti gli elementi di disubbidienza alle autorità politiche e religiose rintracciabili nei testi pubblicati clandestinamente. Serpetro ha coscienza del suo tempo e, come Descartes in Francia, si fa latore di un linguaggio non suo, ma dell’Autore della natura oppure degli strumenti intellettuali di cui l’Autore della natura si serve per ben guidare gli uomini al meglio. Invece di esporsi, espone; ed espone i segni della volontà di Dio, in sintonia con le procedure di metodo che aveva ben assimilato all’interno, grazie ai percorsi tracciati da Paolo di Tarso e Agostino d’Ippona, di Santa Madre Chiesa. Si agisce per volontà di Dio, si parla per volontà di Dio, dunque si scrive per volontà di Dio. Quello che Serpetro dimentica, al tempo della traduzione-riscrittura de Il Mercato ma non al tempo della causa promossa contro di lui dal Santo Tribunale d’Inquisizione, è il fatto che all’interno della Chiesa c’è una diversificata intellezione della volontà di Dio, che stabilisce, a seconda dei gradi di potere, chi meglio la esprime. E Serpetro, per quanto ermetico nelle sue espressioni parodiche della volontà divina, non apparve del tutto credibile al santo tribunale e, per questo condannato a cinque anni di segregazione per avere «palesemente percorso le strade della magia occulta» e, successivamente, fatto fuori, come già ricordato in nota, «non sine veneni suspicione». Procediamo con ordine. Conoscitore minuzioso degli idiomi classici (ebraico, greco e latino) e di quelli moderni (spagnolo, francese, inglese), in possesso di una memoria pari a quella di Pico della Mirandola, profondo conoscitore dei passaggi culturali lasciati dallo spirito dell’uomo allo spirito del tempo, Serpetro esprime appieno la figura del pensatore del XVII secolo. Il fatto che il suo palcoscenico fosse meno ampio di quello dei letterati più accreditati del tempo non si deve a un suo mancato ingegno ma, di certo, alle sue origini e alla impossibilità di trovare un adeguato supporto politico-culturale che gli consenta di far meglio fruttare le sue notevoli qualità. La protezione di Pietro Della Valle a Roma, la permanenza presso il nunzio Francesco Vitelli a Venezia, la dimora nel palazzo dell’aristocratico Nicolò Placido Branciforti a Palermo, dicono di certo tanto dello spessore intellettuale di don Nicolò, come dicono tanto i ruoli di segretario, di accademico e di traduttore di opere note al vasto pubblico. Ruoli di certo significativi ma non da fare di Serpetro una stella di primissima grandezza al pari di Paracelso oppure del suo maestro Campanella. Le traduzioni: Vida de Marco Bruto e Thaumatographia naturalis Per quanto riguarda il ruolo di traduttore non erano sufficienti le amicizie, ma bisognava essere tanto bravi e tanto considerati per assolverlo al meglio. 43 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Cristoforo Tomasini, stampatore veneziano, non a caso affidò al Serpetro la traduzione di due importanti e note opere: la Vida de Marco Bruto di Francisco de Quevedo e la Thaumatographia naturalis di Jan Jonston. La prima apparteneva a un genere letterario da tempo in declino ma che ancora riscuoteva interesse in una rilevante fascia di lettori. «Quevedo – a seguire la ben documentata scrittura di Melita Leonardi – si collocava sulla scia dei grandi successi editoriali di Pierre Matieu, di Virgilio Malvezzi e di molti altri. Questo genere letterario era in via di esaurimento, ma suscitava ancora gli apprezzamenti di un pubblico vastissimo. Senza dimenticare il probabile interesse (…) dell’ancora attivo partito antiolivaresiano siciliano verso quest’opera»22. Scrittura, come si evince, che mette in evidenza l’accortezza del Tomasini nel riproporre la traduzione di un’opera che suscitava «apprezzamenti» in una vasta fascia di lettori e un «probabile interesse», sul piano politico e sociale, nei riguardi di questo genere di opere da parte del «partito antiolivaresiano siciliano». Partito che aveva in Nicolò Placido Branciforti, gran protettore del Serpetro, l’esponente più attivo sulla scena siciliana della corrente antiolivaresiana; e che, pertanto, riteniamo che la Leonardi, nell’utilizzare il termine «probabile», abbia proceduto con molta cautela di giudizio, in quanto si può ipotizzare, con buona attendibilità, che sia stato proprio il Branciforti a spingere il Serpetro a tradurre l’opera del Quevedo. La crisi finanziaria, legata al ventennio di Olivares, ha deciso della fine economica e politica dell’antico baronaggio nazionale e, di certo, anche la famiglia Branciforti è stata risucchiata dalle ragioni politiche di questa crisi. Crisi irreversibile, che testimonia la dissennatezza della gestione politica siciliana di Olivares, riflesso della gestione più generale del governo centrale. Nella periferia siciliana, nella Deputazione del Regno di Sicilia e nella stessa sede madrilena si paga lo scotto di una gestione politica tra le meno accorte. E per quanto riguarda Olivares a nulla sono valsi i rimedi apportati nella sua lunga permanenza in Sicilia. Anzi, a seguire il partito antiolivaresiano, le cose si sono ancor più aggrovigliate, vista l’ambiguità di alcune direttive di fondo, che non di certo sono state d’aiuto a risolvere parzialmente l’intrigata conduzione politica. La traduzione del Marco Bruto di Quevedo mirava a dimostrare quanto affinità ci fosse tra l’uccisione di Giulio Cesare da parte dell’ala tradizionale del Senato Romano e l’uccisione della vecchia aristocrazia siciliana (e non soltanto siciliana) da parte di un potere centrale, che aveva accolto nei

M. Leonardi, Nicolò Serpetro. Ermetismo e Magia nella Sicilia spagnola, in “Quaderni Storici” 115/a XXXIX, n. 1, aprile 2004, p. 218; l’articolo è ora riproposto in M. Leonardi, Governo, istituzione, inquisizione nella Sicilia spagnola. I processi per magia e superstizione, A&B Editrice, Acireale-Roma, 2005, pp. 153-181. 22 

44 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

vecchi ranghi aristocratici esponenti di quella borghesia commerciale che, in Europa, presero il sopravvento politico soltanto dopo la Rivoluzione Francese del 1789. La traduzione italiana del Serpetro dell’opera del Quevedo, voluta dal dotto e dall’accorto Branciforti, testimonia della condizione del degrado morale e della conseguente crisi politica in cui versava la Sicilia e il governo siciliano prima del ventennio di Olivares e soprattutto in seguito ai rimedi dissennati del governo di quest’ultimo che si sono rivelati del tutto inefficienti nel tentativo di ricomporre la vestigia dell’antico parlamento siciliano. Il rapido passaggio del potere, tramite la svendita dei titoli nobiliari, dalla vecchia nobiltà alla nuova nobiltà, sta a testimoniare della presa di possesso di un modo di governare all’insegna della rozzezza e della spregiudicatezza, che si è rivelato irreversibile anche di fronte alle blande riforme volute da Olivares nel tentativo di attenuare le spinte propulsive e dirompenti di quanti s’erano impossessati del governo della cosa pubblica. Non a caso Giuseppe Giarrizzo scrive con molta acutezza: «La crisi finanziaria del ventennio di Olivares ha deciso della fine economica e politica dell’antico baronaggio “nazionale”. La svendita dei titoli di nobiltà ha permesso di mascherare la rapidità del processo con cui la nuova nobiltà (quella degli uffici e della finanza) ha assunto il ruolo di interlocutore rozzo, spregiudicato, persino sgradevole, ma inevitabile del potere centrale: ché ora il parlamento di Sicilia è solo luogo di ratifica di operazioni finanziario-speculative, in fatto di prestiti a breve (cui persino i donativi vengono, per vim contractus) e di consolidato, delle quali la Deputazione del Regno diventa insieme strumento tecnico e garante politico. Perciò fin da ora l’asse “Deputazione del Regnosenato di Palermo” (controllato anche questo dalla nuova nobiltà) sostituisce il parlamento nel rapporto politico col viceré, che tenta invano (anche se non sempre con la necessaria tenacia e determinazione) di restituirgli importanza».

Considera poco più oltre Giarrizzo: «Si sconta qui anzi una delle contraddizioni più vistose della politica di Olivares: puntare sulla rifondazione della vecchia nobiltà, non corrotta dagli affari, come su una classe di governo dotata di senso dello stato – nel momento stesso in cui questa viene sollecitata a perdere quei connotati “nazionali” che pur ne avevano fatto per più di un secolo la tradizionale classe di governo. In Sicilia, e forse non solo in Sicilia, la crisi dell’antico baronaggio si identifica con la crisi del Parlamento, di 45 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Palermo capitale, della tradizione politica della “nazione”. La nuova nobiltà non ha, né si pone, l’obiettivo di conquistare il prestigio politico e il ruolo della classe che pure è chiamata a sostituire. La continuità della tradizione politica siciliana si arresta, risultato della disarticolazione di un apparato “nazionale” di potere; al suo posto non subentra un’alternativa culturale capace di rispondere in positivo alla domanda politica di un paese oppresso. Non resta che registrare lo scompaginamento, la destrutturazione del sistema politico»23.

Branciforti è di certo il capo della corrente olivaresiana nella Sicilia del tempo. Egli, a nostro modo di vedere, avversa, più che la politica di Olivares, i gruppi dirigenti siciliani degli inizi del Seicento, che sono stati la causa dell’impoverimento sociale e culturale in cui versava la realtà siciliana negli ultimi due decenni del secolo precedente. Causa da rintracciarsi nello stile della corte e delle direttive politiche spagnole che, a seguire Giarrizzo, «attrae a Madrid gli esponenti più in vista della classe politica, la tradizionale e la nuova, dei vari regni», tanto, continua Giarrizzo, da ritenersi «impressionante il numero di aristocratici siciliani, di ufficiali e di “ambasciatori”, di letterati e di avventurieri che dall’isola passano nella capitale spagnola, e vi dimorano per lunghi periodi, coinvolti, attraverso vie e mediazioni diverse, nella concitata e non sempre rigorosa e continua discussione o riflessione sul presente e sul futuro imminente della immensa monarchia»24. Branciforti non ha apprezzato l’impoverimento culturale della terra di Sicilia, che è stata anche la causa dell’impoverimento morale ed economico di questa terra. E pertanto si può azzardare il seguente giudizio: nel suo intimo Branciforti, la cui famiglia fece parte, per dirla con Tomasi di Lampedusa, della stirpe dei «Gattopardi», avversa la politica olivaresiana ma fondamentalmente avversava la politica della corte di Spagna. La traduzione di Serpetro della Vida de Marco Bruto di Quevedo, avvenuta a Venezia nel 1653 per conto dello stampatore Cristoforo Tomasini, con il titolo Osservazioni politiche e morali sopra la vita di Marco Bruto, dedicata dallo stampatore ad Alessandro Cybo, figlio di Alberico II Cybo e Fulvia Pico, marchesi di Carrara, è opera politicamente ed eticamente eseguita, perché opera politicamente ed eticamente ispirata. Genere d’opera storico-precettistica, presente e apprezzata nel Seicento. Leggere i tempi presenti attraverso gli exempla che giungevano dal passato era ritenuto un’ottima guida all’intelV. D’Alessandro-G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, in Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, UTET, Torino, 1989, vol. XVI, pp. 289-290. 23 

24 

Ibidem, p. 263.

46 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

lezione e alla formazione del carattere di quanti erano destinati a governare e di quanti a obbedire. Ben interpreta la Leonardi l’inclinazione pedagogica e letteraria del tempo, ma, rapportandosi all’opera in oggetto, mostra, sui percorsi spregiudicati di filosofia politica espressi da W. Ghia nell’interessante saggio Il pensiero politico di Francisco de Quevedo25, compiutezza di vedute, che ci sentiamo di condividere: «Questo trattato, pur nel suo chiaro fine di ammaestramento morale, si distacca da questo indirizzo per la critica radicale ed eversiva mossa allo stesso concetto di potere. Non esiste un potere “legittimo” per Quevedo. L’ascesa al trono nasconde sempre un’ingiustizia originaria che i sovrani devono occultare e non divulgare. Folli sono quei re o quei ministri (leggi Olivares) fiduciosi nella possibilità di mutare la ratio di un regno stabilito da secoli, per crearne uno più rispondente a criteri di giustizia. Le novità introdotte metteranno in luce l’arbitrarietà dell’uno e dell’altro, creando solo uno spaventoso disordine nella nazione»26.

Considera opportunamente ancora la Leonardi: «Piuttosto che all’ambito del pensiero conservatore, l’analisi di Quevedo è da ricondurre a quello di una filosofia della tradizione. Solo l’antiquitas di una dinastia permette di collocare nella notte dei tempi l’illegalità originaria e di occultarla sotto il peso degli anni. I principi saggi, tra i quali il Quevedo annovera lo stesso Cesare, hanno operato in questo modo. Paradossalmente, ma non troppo, lo spagnolo vede nella volontaria scelta di morte da parte di Cesare, la consapevolezza della necessità del suo sacrificio per l’instaurazione dell’impero. Solo la sua morte avrebbe nascosto, per sempre, il vulnus inflitto alla repubblica e alla libertà romana, impedendo a chiunque di dubitare dell’origine legale del principio»27.

Alla luce di quanto sopra, che dietro la traduzione di Serpetro dell’opera di Quevedo ci fosse la volontà del Branciforti, e ciò che rappresentava eticamente e politicamente nella Sicilia del tempo, appare un’ipotesi molto verosimile. Conclude la Leonardi: «La fronda contro il conte-duca di Olivares – una delle più importanti variabili dei Seicento siciliano, opposizione capace di aggrega25  26  27 

Cfr. W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, ETS, Pisa, 1994. M. Leonardi, cit. p. 232.

Ibidem.

47 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

re, in un’alleanza trasversale, settori dell’aristocrazia, membri dell’alto clero, alcuni ordini religiosi e parte del ceto togato – potrebbe aver fatto da sfondo alla traduzione della Vida de Marco Bruto realizzata da Serpetro»28. E il passaggio dal verosimile al vero si coglie in un passo profetico del pensiero del Quevedo che ben rispecchia la realtà etico-politica del tempo, e che Serpetro così traduce: «Si fa solamente mentione di coloro che uccisero Cesare, perché si viddero le ferite de’ pugnali, ma non di quei che uccidono i Regni, perché non vedono le ferite de’ consigli. La differenza è grande, ma non buona. Perché con le stoccate ne muore uno, ma co’ mali consigli muoiono i più, se non tutti»29. La traduzione della Thaumatographia naturalis di Jan Jonston La Thaumatographia naturalis di Jan Jonston, molto nota nell’universo protestante tanto da conoscere tre ristampe (1633, 1661, 1665) in poco più di un trentennio, era all’Indice dei libri proibiti e, pertanto, nei Paesi cattolici era rigorosamente vietata la lettura e la traduzione. La traduzione e la successiva ristampa sul suolo italico, culla del cattolicesimo, appare un’operazione culturale che sa di spregiudicatezza da parte dello stampatore e ancor più da parte del traduttore. Entrambi rischiano, ma maggiormente rischia il Serpetro che avendo stipulato un contratto legale con la fede cattolica prima e, successivamente, a motivo della consacrazione sacerdotale, conosceva fin troppo bene i rischi cui andava incontro. Eppure l’opera fu tradotta in volgare, stampata

28 

Ibidem, pp. 232-233.

Francisco de Quevedo, Vida de Marco Bruto, in F. Buendia (a cura di), Obras completas, Madrid, 1958, I; trad it. N. Serpetro, Osservazioni politiche e morali sopra la vita di Marco Bruto trasportate dallo spagnolo dal cavalier Nicolò Serpetro, Venezia, 1653, p. 105. Dai repertori bibliografici italiani si coglie – a seguire Melita Leonardi – una grossolana dimenticanza: viene messa in bella evidenza il nome del traduttore e si ignora quello dell’autore. La ragione di questa dimenticanza resta inspiegabile, perché come spesso accade, anche ai nostri giorni, la dimenticanza riguarda quasi sempre il traduttore e mai l’autore. Osservazioni politiche e morali sopra la vita di Marco Bruto trasportate dallo spagnolo dal cavalier Nicolò Serpetro, Venezia 1965, cfr., S. Piantanida, L. Diotallevi, G. Livraghi (a cura di), Autori italiani del ’600, Milano 1948. L’opera omnia in lingua spagnola del Quevedo indica, tra le edizioni della Vida di Marco Bruto, quella in lingua italiana del Serpetro, ma cita, come puntualizza Melita Leonardi, «in maniera imprecisa il nome del traduttore» (M. Leonardi, Nicolò Serpetro. Ermetismo e magia nella Sicilia spagnola, cit., p. 231). Di rilevante, a seguire gli studi filologici al riguardo, c’è che dell’opera in oggetto si registrano in Europa poche traduzioni (una latina pubblicata due volte, Hagae Comitum 1660 e Amsterdam 1669, una olandese pubblicata ad Amsterdam nel 1700 e una in inglese pubblicata a London 1710) fino al XIX secolo, e che di certo la prima traduzione italiana è quella di Serpetro, avvenuta a Venezia 1653. 29 

48 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

e messa sul mercato, a testimoniare che imprese di tal fatta erano praticabili in Italia nella prima metà del XVII secolo30. E che lo stampatore non temesse ritorsione alcuna si evince dal fatto che, pur di rendere appetibile le tematiche in oggetto del volume, mette in bella evidenza nelle prime pagine un indice riassuntivo, con dovizia di particolari in lingua volgare, riguardante le piante e i minerali per ben curare i malanni. Si tratta di un autentico escamotage pubblicitario all’insegna della diffusione di una farmacopea tradizionale, imbevuta di virtù magiche e terapeutiche di matrice vegetale e di minerali preziosi. Non meno temerario è da ritenersi l’operato del Serpetro che si presta al progetto commerciale del Tomasini. Questi della pubblicazione ha di mira il guadagno che ne può ricavare dalla vendita del volume, mentre il Serpetro ha di mira la fama legata alla cura della traduzione. Melita Leonardi, di cui non ci sentiamo di seguire per intero il suo argomentare, scrive: «Si potrebbe, nello stesso tempo, supporre (un’ipotesi non esclude l’altra) che la traduzione dell’opera di Jonston sia il frutto di una scelta volontaria di Serpetro, logica conseguenza della sua inclinazione per l’ermetismo, la magia e le scienze occulte, materie nelle quali, nel suo processo inquisitoriale, si proclamava tanto dotto da poterle, senza timore di millanteria, leggere in cattedra»31. La Leonardi ben dice al riguardo delle simpatie culturali del Serpetro, ma riteniamo molto improbabile che tali simpatie, di per sé, fossero sufficienti a indurre il Tomasini a farsi carico di un’iniziativa, rischiosa per i risvolti etico-politici, da cui non avrebbe ricavato alcunché. Jan Jonston (1603-1675), medico e naturalista, di religione calvinista, collaborò con Amos Comenio, il primo grande pedagogista dell’era moderna che in seguito all’invasione della sua città da parte degli eserciti cattolici si stabilì a Lezno, da dove mantenne una fitta corrispondenza con Samuel Hartlib, nota figura di studioso di storia della scienza. La collaborazione con Comenio e l’affinità scientifica con Hartlib indussero Jonston a concepire una storia naturale di semplice esposizione e di piacevole lettura destinata a studenti e in-

30  Gianni Paganini, nel paragrafo 2 del I capitolo (Il «Theophrastus redivivus» e il paradigma della saggezza clandestina: «sapienza» contro «filosofia»), dell’Introduzione alle filosofie clandestine, ritiene che non fosse cosa agevole pubblicare un testo o la traduzione di un testo messo all’Indice. Scrive che la circolazione del Theophrastus redivivus «fu presente come un “mito” nella sfera clandestina». Argomenta Paganini: «La situazione descritta dai libertini eruditi (…) è quella che spiega la nascita di un fenomeno, di cui vi sono ben scarsi precedenti prima del Seicento: ci si riferisce alla circolazione dei manoscritti clandestini, tra i quali, intorno alla metà del secolo, il Theophrastus redivivus (datato 1659) è senz’altro la testimonianza più cospicua per mole, la più autorevole per l’uso di fonti e argomenti filosofici colti, la più radicale per i contenuti apertamente ateistici e naturalistici» (p. 8). 31 

M. Leonardi, Nicolò Serpetro, cit., p. 218.

49 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

segnanti. Jonston sapeva della scarsa considerazione in cui le scienze naturali venivano tenute per lo più nelle scuole, ma sapeva altresì quanto utili fossero al progresso fisico e morale dell’uomo. E inoltre, in sintonia con le opere dello scienziato e teologo Johannes Valentin Andreä, sapeva dello scrigno divino che le scienze portavano in grembo. Certo la scrittura di Jonston risente tanto dell’impostazione comeniana, non del tutto in sintonia con le acquisizioni copernicane e galileiane. In virtù della sua formazione medica Jonston prestò molta attenzione all’uso terapeutico di erbe, piante e minerali in prospettiva di una medicina empirica di matrice paracelsiana. Il recupero delle istanze paracelsiane ha di certo favorito la traduzione inglese della Thaumatographia Naturalis di Jonston, pubblicata a Londra nel 1657. Testimonianza del dibattito tra i sostenitori della medicina galenica e la medicina paracelsiana è il volume di C. Webster, La grande instaurazione. Scienza e riforma sociale nella Rivoluzione puritana32. Prospettiva dal netto rifiuto dell’impostazione metodologica copernicana e galileiana, protesa a disintegrare: a) l’unità tra macrocosmo e microcosmo, tra uomo e cosmo, b) l’insieme della natura come cosmo armonico (armonia schiusa alle dottrine ermetiche e neoplatoniche e al naturalismo estetico rinascimentale), c) il potere immaginifico col suo ruolo mediatore tra l’ordine sensibile e l’ordine intelligibile. La traduzione del Serpetro mantenne in piedi l’impianto contenutistico e finalistico dell’opera di Jonston, seppure con rilevanti integrazioni e ancor più rilevanti omissioni. La matrice neoplatonica ed ermetica, ad esempio, acquista maggiore visibilità. Ma quello che maggiormente interessa Serpetro è l’uomo: l’uomo come centro del mondo, punto di partenza e d’arrivo dell’intero universo sensibile. Non a caso Serpetro ha spostato l’ordine della sezione dell’opera che riguardava l’uomo: invece di porla alla fine della trattazione, come voluto da Jonston, la pone all’inizio. Pur considerando che si tratta dell’ultima delle creazioni del divino, pone l’uomo all’inizio perché delle creazioni è la più elevata, quella che dà senso, seppur nei limiti della sua condizione creaturale, alle restanti creazioni divine. Serpetro elegge l’uomo al ruolo eccellente tra tutto il resto del creato, e lo magnifica con metafore idilliache, assenti del tutto in Jonston. Così apre il Primo Portico della trattazione Delle marauiglie dell’huomo: «L’Huomo è la maggiore delle Maraviglie. Perché hauendo scolpita nell’anima sua l’imagine di Dio, e rappresentando nel suo corpo il modello dell’Uniuerso, può in uno istante trasformarsi in tutto, come Pro-

32  C. Webster, La grande instaurazione. Scienza e riforma sociale nella Rivoluzione puritana, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1980.

50 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

teo, e riceuere in un momento, quasi Camaleonte, tutte le impressioni. Fauorino, niente riconosce nella Terra più grande dell’huomo. I Sauij d’Egitto l’honorarono col titolo di Dio immortale. Mercurio Trismegisto lo chiamò Animale pieno di Divinità, Messagiero de gli Dei, Signore delle cose inferiori, e familiare delle superiori. Zoroastro l’ammirò per isforzo, e Miracolo della Natura. Platone lo definì Marauiglia della Marauiglie. Pitagora Misura di tutte le cose. Aristotele lo descrisse: Animal Politico pieno di ragione, e di consiglio, che è tutto, hauendo ogni cosa per potenza, non materialmente, come voleua Empedocle, ma per recettione della specie. Plinio lo battezò: Giuoco della Natura, Pitagora dell’Uniuerso, compendio del mondo maggiore. Molti Teologi l’hanno chiamato compendio di tutte le creature: perché ha communicatione con tutto quello, ch’è stato creato. Ha l’essere con le Pietre; la vita con le Piante; il sentimento con le Bestie; e l’intelletto con gli Angeli. Gli altri l’hanno adornato d’uno speciosissimo titolo di Gouernador Generale, che tiene tutte le creature sotto il suo impero, al quale ogni cosa ubbidisce, e per cui l’uniuerso è stato creato. L’Huomo è in somma la più perfetta opera di Dio, ed il più nobile di tutti gli Animali»33.

Per rendere ancora maggiormente visibile la centralità dell’uomo rispetto al resto del creaturale Serpetro scrive nell’Officina Prima della Loggia Prima del Portico Secondo Della Creazione del Mondo sostituendo un indicativo brano del Genesi con un brano di Ermete Trismegisto che, «con più verità, e leggiadria», è riuscito, a suo dire, a meglio riferire intorno alla creazione divina. Questo l’affresco di Trimegisto scelto da Serpetro: «Dio essendo, dice egli, nel principio appresso se medesimo, conuertì ogni essenza per l’aria in Acqua. E si come nel parto si contiene il seme, così Dio, il quale è la cagione seminale del mondo lasciò tal seme nell’humido, il quale daua una materia atta, e facile all’opera ed alla generatione delle cose. E doppo hauer prima generato li quattro elementi, Fuoco, Acqua, Aria, Terra, etc.. ma con più verità, e leggiadria Trismegisto. Erano, dice, infinite tenebre nell’abisso, e nell’acqua, ed uno spirito tenue, intelligibile per virtù diuina, nel Cao. Fù dunque solleuata la santa luce, e congelati; e fermati gli elementi, e fatta l’humida sostanza, abbracciando la natura seminale. Tutte le cose prima incomposte, furono prima separate: le leggiere in alto, le graui al basso, l’humida

33  N. Serpetro, Il Mercato delle Maraviglie della natura overo Istoria Naturale, in Venetia, per Tomasini, MDCLIII, con Licenza de’ Superiori et Privilegio, p. 1.

51 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

nell’arene, diuise tutte per il fuoco, e portate dallo spirito. Apparue il Cielo in sette circoli, e gli Dij apparendo ne gli aspetti delle Stelle con tutti i loro segni, fu distinto, e circoscritto il circuito con gli Dij, che sono in esso portati dall’aria circolare dal vagante spirito Diuino. E manifestò Dio la propria virtù. Comandò, e nacquero gli animali quadrupedi, raptili, aquatili, e volatili: seminato ogni seme, ed il fieno, ed i fiori, ed ogni altra herba, contennero in se medesimi i semi della regeneratione, e la generatione degli uomini, alla cognitione dell’opera Diuina»34.

∞ ritenne le argomentazioni di Jonston sulle qualità magiche degli anni climaterici del tutto insufficienti e offrì, a giusto titolo, una trattazione più articolata e più vasta. E in questo ha anticipato i tempi, dando una lezione di fisiologia di cui solo ai tempi nostri è dato cogliere l’importanza. Il complesso dei fenomeni che precedono, si accompagnano e seguono la cessazione delle ghiandole genitali, più evidente nel sesso femminile per la cessazione dei cicli mestruali, hanno evidenziato una sensibile metamorfosi nel comportamento umano e, ancor di più, nella vita di relazione della coppia, esplicitata nella connessione delle reti neuronali. La più complessa e articolata trattazione intorno agli anni climaterici e alle metamorfosi che dentro tale tempo si registrano nella donna e nell’uomo testimoniano, visti soprattutto i tempi, di quanto profonde fossero le conoscenze di Serpetro sulla natura umana, comprese le sue scansioni più intime, anche se non mancano recuperi di gretta superstizione tuttora in uso in tante parti del mondo35. Nel paragrafo De’ Sogni Serpetro inserisce, dopo aver fatto sua, la catalogazione in cinque specie operata da Macrobio: Sogno («è quãdo la verità appare coperta sotto qualche figura: come fù quello di Faraone delle Vacche, e delle spiche»), Visione («fù quello di Vespasiano, il quale vedendo nel sonno il dente cauato à Nerone, la mattina incòntrò il medico, che gli l’haueua cauato»), Oracolo («è quando da Padre, Sacerdote ò Deità siamo nel sonno ammoniti di qualche cosa»), Fantasmi naturali («son quelli per li quali si giudica da’ filosofi»), Fantasmi Animali («sono quelli, che provengono dalle passioni dell’animo, che si occupano il giorno»)36. Considerata la sua avversione nei confronti della donna Serpetro offre nella Loggia Quarta del Primo Portico una traduzione pedissequa del testo di Jonston: 34  35  36 

Ibidem, pp. 60-61. Ibidem, p. 25.

Ibidem, pp. 45-46.

52 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

«Ciascuno sa, che de’due sessi, il maschile è più nobile, ed il femminile più vile. Perché Dio ordinò à questo la soggettione, ed a quella consesse l’Imperio. E se guardamo a’ corpi, questo hà, onde mostri il grado inferiore della sua sorte, e particolarmente se si considera la ragione del temperamento, e degli escrementi. Questo della femmina per esclusione del mestruo diffonde tristi aliti; infetta la noce moscata ed il corallo di color nero. Doue per il contrario, portandoli il maschio, quella diuien più grassa e questo più rubicondo. Nelle Donne è facile l’ira. Perché bollendo la bile, subito si accende. Per il mancamento del calore, sono meno ingegnose. Quanto alla libidine, è comune opinione, che più accende la femmina, che il maschio. Ma che in quel sesso si conceda il grado, nissuno lo nega. E perché nelle pallide e macilenti le parti genitali sono piene di succo mordace, congettura il Lemnio, che siano più lussuriose delle grasse e rubiconde. La Ruta estingue ne gli huomini la libidine, e nelle Donne l’accende. Secondo Filosofo, essendosi persuaso che ogni Donna era fornicatrice, e fattane l’esperienza nella madre, conobbe esser la verità, non che n’hauesse confumato l’atto, ma che saria stata per ammetterlo, s’egli l’hauesse voluto concedere. Interrogato Adriano che cosa fosse Donna rispose: Confusione dell’huomo: continua sollecitudine de’ maschi: incessante pugna del marito: naufragio dell’incontinente è schiauo humano. E Simonide la chiama Naufragio dell’huomo. Tempesta della casa. Impedimento della quiete. Cattiuità della Vita. Pena quotidiana. Battaglia sontuosa. Bestia contubernale. Cane adornato e male necessario. Ma sia come si voglia»37.

«Ma sia come si voglia», tuttavia, Serpetro non omette, come spesso gli accade di fare, alcuna parte allorquando Jonston si sofferma, con dovizia di particolari, su personaggi e accadimenti che nobilitano la natura femminile: «Non è questo sesso tanto abietto, che non ne abbi prodotte alcune, sopra la sua condizione. Nell’assedio di Brunsuich, una faceua il soldato. L’istesso faceua un’altra nell’esercito di Cesare. D’un’altra più valorosa, che seruiua in Fiandra, fa mentione il Gualdo. Son note le Istorie delle Amazoni. Eudosia, moglie di Theodosio Giouane, scrisse alcuni Poemi e si vede di lei un Censore Omerico, sopra il Salvatore. L’istes so fece Proba Falconia de’ versi di Virgilio. Giovanna Graia seppe la lingua Ebrea, Greca e Latina. Olimpia Fuluia Morata seppe comporre versi Greci e Latini e fattasi Cattolica si diede tutta alla Theologia. Son

37 

Ibidem, p. 25.

53 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

celebri appresso l’Istorie Saffo, Erininia, Damofila, Corinna, Areta, Leontia, Pola, Cornificia, Sulpitia e molt’altre. E nel secolo più moderno, Rosuica Sassona scrisse molti Poemi Latini e Lirici, sei Comedie ed un Poema Eroico sopra i fatti d’Ottone, un altro de’ Cesari; e le Vite delle Vergini, in verso Eroico. Ildegarda Tedesca, inuitata da Eugenio III, Alessandro III e Adriano IV, fece sopra i Riti di S. Benedetto 300 questioni Theoplogiche: compose le Vite de’ Santi, scrisse del Sacramento dell’altare, con 50. Omelie sopra gli Evangeli; Diversi libri di medicina, di semplici, e molti volumi di lettere, e Poemi. Isotta Neuarola scrisse diverse opere à Nicolò V, e Pio II, trà le quali una: Se peccò prima Eua ò Adamo. Cassandra fidele, peritissima in più lingue, non solo scrisse molte opere in verso Lirico, ed un volume dell’ordine delle scienze, ma ancora lesse in filosofia, ed altre scienze nella prima Cathedra di Padoua più di anni 40. L’opera di Vittoria Colonna, di Tullia d’Aragona, Isabella Andreini, Isabella Cortese, ed altre vanno per tutto. Io conobbi in Venetia Lucretia Marinella, perita in tutte le scienze, che haueua dato alle stampe più di 20. Volumi in varie materie»38.

Le modifiche e gli aggiustamenti apportati da Serpetro sono di diversa natura. Su due intendiamo prestare attenzione, perché condizionano il percorso narrativo. La prima è di metodo, dunque, filosofica, l’altra di sostanza narrativa, dunque pedagogica. L’opera di Jonston offre una versione delle tematiche in dieci classi, divise, a loro volta, in articoli. La traduzione di Serpetro fa filtrare il tutto attraverso un’architettura delle parti dalle sensibili ascendenze barocche, che così esplicita nell’Introduzione: «Come in un famoso Mercato concorrono da diuersi Paesi i Mercadanti più ricchi à portuarui le gemme, e le cose più preziose, e più ammirabili, che si trouano in varie Prouincie del Mondo: così, in quest’Opera hò procurato di trasportare da gli Autori più celebri le meraviglie più rare, e più dilettevoli, che produsse l’Autore della Natura. Dico Maraviglie perché mi sono ingegnato di non registrar cosa, che non sia marauigliosa (…) Hò poi diviso il Mercato in Portici, i Portici in Logge, e le Logge in Officine separatamente trà loro disposte, per camminare con facilità»39. E poi, mentre l’opera di Jonston resta quella di un naturalista, la traduzione di Serpetro viene collocata in prospettiva filosofica. Serpetro si rivolge a chi legge («Per chi legge»), sin dalla primissima battuta, per ben guidarlo filosoficamente alla comprensione dell’opera dell’Autore di tutte le cose. «Delle 38  39 

Ibidem, pp. 25-26.

Ibidem, Introduzione per chi legge, s.p.

54 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

parti della Filosofia quella ho stimato sempre più degna, e più riguardevole, che appartiene all’Istoria Naturale, in cui, come sole nell’Acqua, s’ammirano trasparire l’Opera del Supremo Fattore»40. Serpetro guarda l’uomo; e il suo sguardo è filosoficamente fondato. A condizione che la «Teoretica» non si disperda «in tanti prolissi discorsi» che rendono l’azione operativa di Dio intrigata e difficoltosa a comprendersi. Scrive, non a caso, rivolgendosi ai tanti che hanno argomentato sugli infiniti aspetti creaturali con esiti scarsamente costruttivi per la crescita umana: «E coloro che n’hanno trattato in parte, hanno involto la Teoretica in tanti prolissi discorsi, ed in volumi così immensi e dispendiosi, che non solo straccano l’intelletto; ma à pena basta la breue età dell’huomo per loro soli. Ed hanno lasciata l’Operatiua intrigata in tante difficoltà, che sembrano laberinti»41. Sorprendente ci appare il fatto di avere offerto testimonianze «maravigliose» riconducibile alla «mente de’ più sensati» e, soprattutto, di averle selezionate soltanto dopo avere argomentato sulle ragioni della scelta («delle quali hò assegnate le ragioni»). Troviamo infatti di rilevante importanza, perché anticipa i tempi, la strettissima connessione tra la componente materiale e quella spirituale dell’uomo. Far filtrare il sapere fenomenologico (per usare un termine a noi più consono) agli «humori del corpo» e leggere questi «humori» come parte della condizione effettiva del mistero di Dio, fa di Serpetro un antesignano di quella mentalità fisiologica aperta al mondo del pensiero da un filosofo come Friedrich Nietzsche. Che gli «humori del corpo» non siano da ritenersi scarti d’umanità ma il fondamento della storia e della cultura è un’ideazione che troverà sufficiente argomentazione in tutte le pagine dell’autore di Zarathustra42. Questo prospettivismo serpetriano, da solo, giustifica il perché il «traduttore» si sente «autore» e parla e opera all’interno della scrittura di Jonston come se l’opera gli appartenesse del tutto. Certo la traduzione è spesso lontana dal testo originale. E non solo per l’impianto architettonico che Serpetro ha dato all’opera di Jonston, ma anche per la prospettiva che ben coniuga l’aspetto scientifico-enciclopedico con quello etico-pedagogico. Serpetro, a differenza di Jonston che si rapporta ai fatti e agli accadimenti come destinatari finali esterni all’io narrante, opera invece una «conversione» a tutto campo che tutto riconduce a quella parte di luogo della sua anima che ha nome «memoria». I destinatari finali (o eventi o cose di cui occuparsi) sono dentro l’Io, da cui all’uomo non è dato uscire. 40  41 

Ibidem. Ibidem.

Per un’organica trattazione della valenza fondativa della fisiologia nel pensiero di F. Nietzsche si rinvia al mio saggio Nietzsche e gli echi del corpo, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2007. 42 

55 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Serpetro ha compreso che le cose o eventi si possono dare all’Io soltanto se l’Io più le cose hanno una ragione d’esistere dentro la memoria, se, dunque, sono calamitate dalla memoria. Certo i luoghi frequentati hanno inciso molto nell’impianto che ha dato alla sua traduzione. Venezia, per la sua conformazione fisico-architettonica, è stata, di certo, una fonte attendibile di ispirazione, come lo sono state le sue atmosfere che hanno spinto il Serpetro nelle magie del tempo, attraverso i recuperi cabalistici ed ermetici dell’arte lulliana, che, attraverso l’arte della memoria, come finalità suprema aveva quella di raggiungere un principium individuationis fondativo e rappresentativo di ogni conoscenza. Come di certo ha inciso Raccuja, che gli ha dato i natali e le cure per la sua crescita; Messina, che ha provveduto alla sua formazione culturale e spirituale; la Sicilia, da tempo macrocosmo geo-politico, che lo ha dislocato dentro una visione cosmica del tempo e dello spazio. Terra, come Serpetro stesso tiene a ricordare in un passo del Mercato43, da cui ha assorbito i primi elementi di mnemotecnica, che saranno più avanti oggetto di studi più approfonditi, lasciati in terra sicula da Federico II, personaggio che s’iscrive nella tradizione più nobile della cultura siciliana44. Dalla sua terra, dal vissuto della sua terra Serpetro parte per meglio arricchirsi culturalmente e spiritualmente e, per meglio testimoniare, le grazie ricevute dal divino. In questo da maestro ha fatto la scrittura di Agostino d’Ippona che nelle Confessioni, ma anche, tra l’altro, nei Discorsi Nuovi, non esita a denunciare le «turpitudini» consumate nei suoi anni adolescenziali per meglio mostrare i termini della sua conversione e del risarcimento concessogli da Dio nel renderlo degno della «Grazia» della fede45. Serpetro non converte il

43  «Nella mia adolescenza andauo a sentir le prediche, e tornato a casa le recitauo, e spesso anco le scriueuo in modo che vedendole il medesimo Predicatore confessaua, ch’io non haueuo tralasciata cosa alcuna di quanto egli haueua detto. Li libri che ho letto, non li ho mai riletti più di una volta, che mi sono rimasti in memoria. Non mi sia quanto ho detto à Iattanza, perché è la verità, ed io farei torto alla gratia datami da Dio, se non palesassi al mondo questi fauori diuini, per lodarne l’eterna Prouidenza» (N. Serpetro, Il Mercato, Portico Primo, Loggia Settima, Officina Seconda, pp. 55-56).

44  Cfr., A. Thiery, Federico II e le scienze. Problemi di metodo per la lettura dell’arte federiciana, in Federico II e l’arte del Duecento italiano, Editrice Salentina, Galatina, 1980, p. 288; cfr., anche Frances A. Yates, L’arte della mnemotecnica, Einaudi, Torino, 2007.

Così Agostino ricorda i suoi trascorsi libertini nella Cartagine del tempo: «Ebbi persino l’audacia di lasciarmi prendere da disonesti desideri tra le pareti della tua chiesa, di far di tutto per guadagnarmi ivi frutti di morte» (Confessioni, trad. it. Rizzoli, Milano, 1958, p. 94); e ancora nei Discorsi nuovi con maggiore puntualizzazione: «Qui tempo addietro c’era disordine e confusione tra uomini e donne. Lo sappiamo tutti, perché anche noi negli anni passati fummo partecipi di questa indecenza (…). Da giovane, quando ero studente in questa città, partecipando alle veglie, vedevo come le donne, non separate dall’improntitudine degli uomini, fornissero a volte l’occasione 45 

56 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

capo al tempo andato per gli stessi fatti consumati da Agostino, ma per le medesime ragioni: mostrare quanto la loro condizione fosse dettata dalla volontà divina e quanto questa dovesse essere presa a esempio. Censurare la versione di Jonston e arricchirla di fatti personali, spostare l’asse storico-temporale da una terra e una cultura versata al protestantesimo a una terra e a una cultura versata al cattolicesimo romano, è da considerarsi opera altamente meritoria, dai risvolti etico-pedagogici in sintonia con i crediti iscritti nella coscienza degli uomini dall’ufficialità della chiesa di Pietro e Paolo. Su altri scritti certi a) La Fama Dopo aver conseguito la laurea (1630) in «Diritto canonico e civile» (in utroque iure) con il massimo dei voti (nemine penitus dissentiente) presso l’Università di Padova e, dopo aver pronunciato dinanzi al notaio vescovile e dietro pagamento della somma di 18,12 ducati la professione di fede cattolica46, venne consacrato sacerdote il 20 dicembre 1634 e poco dopo accolto, dietro debita presentazione, da Pietro Della Valle, patrizio romano e personaggio tanto considerato nella Roma del tempo. Accademico degli «Umoristi» e della «Capranica»47a Roma e degli «Oziosi» a Napoli, Della Valle, anticipando la per cui la stessa castità veniva tentata» (Discorsi nuovi, trad. it. Città Nuova, Roma, 2001, p. 11). Agostino rende conto di ciò che è stato per meglio riferire di ciò che è. Ritornare sui sentieri della sua vita passata vuole essere la testimonianza del programma della sua vita futura, vita teocentrica: di come è entrato al servizio di Dio nel senso più proprio e più compiuto della sua parola. Di questa impostazione si appropria Serpetro. Questi non entra nel dettaglio del suo vissuto intimistico ma i tanti riferimenti ai suoi trascorsi, come ben si coglie ne Il Mercato, sono finalizzati a mostrare l’incidenza della presenza di Dio in lui e in tutte le espressioni creaturali. Serpetro della scrittura di Agostino prende il metodo e la finalità, anche se siamo molto lontani dallo stile e dal pathos che accompagnata il percorso speculativo dell’Ipponate.

46  Il 4 maggio 1630, dopo aver indicato nei professori Albertino Migliari, Camillo Pancetta, Carbonchio Carbonchi e Pietro Brusoni i relatori del suo esame di laurea (cfr., S. De Bernardin, La politica culturale della Repubblica di Venetia e l’Università di Padova nel XVII secolo, in “Studi Veneziani”, XVI, 1974, p. 471) Serpetro pronuncia dinanzi al notaio Gaspare Graziano, come contemplato dalla Bolla di papa Pio IV, l’adesione alla fede cattolica (cfr., Archivio della Curia Vescovile di Padova, Diversorum, I, vol. 68-69, f.61r e ora cfr. C. La Mancusa-F. La Mancusa in La vita, “La Fama” e “Il simolacro della virtù di Nicolò Serpetro, cit., p. 12).

È certo, come fanno presente i La Mancusa, che Serpetro in una seduta dell’Accademia Capranica abbia fatto conoscenza di Tommaso Campanella e che, dopo averlo sentito argomentare sul tema De conflagratione Vesuvii, sia divenuto amico e discepolo. Dell’intensità della relazione abbiamo due testimonianze, legate a un fatto increscioso e, per molti versi, misterioso. Il 20 dicem47 

57 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

tendenza di dotti e curiosi d’oltralpe del XVIII secolo, viaggiò tanto e mostrò grande attenzione alle istanze culturali ed esistenziali degli altri Paesi. È ragionevole supporre che il Serpetro si accompagnasse a Della Valle nei salotti romani e dentro le mura vaticane. Luoghi dove il Della Valle era ben accolto e ben apprezzato. Luoghi mondani e luoghi sacri, luoghi dove l’apparire camminava di pari passo col potere. In questo ambiente si temprò il Serpetro e in questo ambiente ritenne che fosse giunto il momento di fornire i segni della sua genialità. Pubblicò a Castiglione nel 1632 per i tipi di Ludovico Grignani, seguendo la più nobile tradizione classica (da Teocrito a Virgilio), umanistico-rinascimentale (da Sannazzaro a Poliziano a Castiglione al Tasso), l’idillio La Fama, dedicato a Pietro Della Valle. Idillio che del mondo classico e umanistico-rinascimentale non conservava alcunché fatta accezione dell’impianto tecnico. La Fama ha finalità apologetica. Serpetro lo compose a 26 anni. Contemplate però le procedure tecniche di descrizione, appare opera di una mano esperta. Egli sa che le tematiche cui fanno ricorso i classici e gli umanistirinascimentali spesso si disperdono in generiche descrizioni naturalistiche e in melanconiche considerazioni esistenziali. Serpetro ha finalità precise da raggiungere, e la letteratura è un mezzo per raggiungerle al più presto e nel più breve tempo possibile. Egli vuole entrare nell’anima del Della Valle e bre del 1634 Serpetro «fu ferito accidentalmente da due colpi di spada alla tempia dal messinese Carlo Castelli». Questo è quanto riportato dai La Mancusa a pagina 14 del loro sopra citato volume e questo e quanto si legge in un documento che giace presso l’Archivio di Stato di Roma, Relazione dei barbieri e dei medici, b.61 - 9 agosto 1634/4 marzo 1635 -: «Die mercuris 20 dicembris 1634, Carolujani d’Oliveris barbitonsoris prope platiam Columnae relatione: Presbiterum Nicolaum Serpetrum siculum vulneratum duabus vulneribus in capite supra musculum temporale incidenter factis de ense a Carlo Castello messinense. Habita alla locanda della Stella, vicino alli Pazzarelli». Sull’accaduto, sulla ritrovata memoria in seguito alle cure prestate dal Campanella e sull’amicizia che lo legava al filosofo di Stilo, Serpetro ritorna nel Portico Primo, Loggia Settima, Officina Seconda, “Dell’Anima rationale, et della Memoria” del Mercato: «Io prima che giungessi à 26 anni haueuo in memoria integramente. Il Tasso, l’Ariosto, il Petrarca, il Sannanzaro, il Pastor Fido, il Caporali, l’Anguillara, Virgilio, Cleudiano, Ouidio, Oratio, Omero, Lucano, e più di 20 altri volumi non integri. Ed ho ancora in questa età, che sono d’anni 44 mentre scriuo, la memoria così fresca, che in una notte mando à mente 200 versi e più. Ancorché mi sia molto scemata per l’accidente successomi in Roma di due ferite in capo, l’anno 1634 che mi ha toccato le parti della memoria, le quali par essero state malamente curate per negligenza de’ Chirurghi, non solo mi scordai tutte le cose, ma diedi in una furiosa frenesia, dalla quale fui poi liberato per la prudenza del P. Frà Thomaso Campanella mio Maestro, che accortosi della cagione, fece di nuouo aprirmi le ferite. Onde guarito, mi ritornaro à memoria le medesime cose, ma non però con quella fedeltà di prima. Soglio nondimeno hora dettare nel medesimo tempo, scrivere, e dettare à quattro cose diuerse, e scriuendo una volta una materia, mi resta in modo affissa nella memoria, che non bisogni più leggerla per raccordarmene». Per quanto riguarda le conoscenze farmacologiche del Campanella, soprattutto quelle che riguardano le ferite da armi o da ferro, sul modo di pulirle e opportunamente saturarle si rinvia al suo Medicinalium libri VII (1635).

58 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

nel tempo che gli appartiene, per meglio impossessarsi dell’una e dell’altro. Sempre nel rispetto delle regole, Serpetro mantiene accesi i termini che gli giungono dalla tradizione, che piega con efficacia con quanto di nuovo il suo tempo dispone. E il nuovo è rappresentato, a seguire il De Sanctis, dal «re del secolo»48 Giambattista Marino, portatore della dottrinaria poiesi sintetizzata nei suoi tre celebri versi: «È del poeta il fin la maraviglia:/parlo dell’eccellente e non del goffo;/ chi non sa far stupir, vada alla striglia»49. b) Il simolacro della virtù De Il simolacro della virtù – manoscritto rimasto inedito e custodito presso la «Biblioteca Valentiniana di Camerino»50, appare oggi per volontà di Carmelo La Mancusa e Francesco La Mancusa51 – sappiamo molto di più. Si tratta di un panegirico in versi, dedicato a mons. Vincenzo Vicentini, vescovo di Geraci Calabro. L’operetta fu composta di certo dopo il 1650, per due ragioni: la prima perché il 1653 conobbe l’allontanamento del Serpetro dalla famiglia Branciforti, la seconda vede l’anno in oggetto legato alla nomina del Vicentini, per volontà di Innocenzo X, a vescovo di Geraci. In prospettiva personale, il panegirico non sortì gli esiti desiderati. Monsignor Vicentini, presentato come mecenate-protettore, non concede quell’agiatezza e quel prestigio cui anelava Serpetro, tanto che il raccujese è avvinto da necessità tali da riallacciare gli antichi legami con la famiglia Bonanno, già duchi di Montalbano52 e al tempo principi di Roccafiorita. La positività

«Il re del secolo, il grande maestro della parola, fu il cavalier Marino, onorato, festeggiato, pensionato, tenuto principe dei poeti antichi e moderni, e non da plebe, ma da’ più chiari uomini di quel tempo. Dicesi che fu il corruttore del suo secolo. Piuttosto è lecito di dire che il secolo corruppe lui, o, per dir con più esattezza, non ci fu corrotti, né corruttori. Il secolo era quello, e non potea esser altro, era una conseguenza necessaria di non meno necessarie premesse. E Marino fu l’ingegno del secolo, il secolo stesso nella maggior forza e chiarezza della sua espressione» (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Feltrinelli, Milano, 19643, vol. II, pp. 639-640). 48 

49 

G. Marino, Murtoleide, fischiata XXXIII.

C. La Mancusa-F. La Mancusa, Il simolacro della virtù, in Appendice a La vita, “La Fama” e “Il simolacro della virtù” di Nicolò Serpetro, Armenio Editore, Brolo, 2006, pp. 79-94. 50 

51 

Cfr., C. La Mancusa-F. La Mancusa, cit., p. 71.

Paese natio della madre del Serpetro, che a quel tempo conservava intatti i retaggi di un’antica dignità di contea e di ducato cui fu un tempo elevata da Federico II d’Aragona, che ne trasformò il castello in residenza reale. Nella qualità di segretario di Pietro Bonanno Balsamo, erede designato in seguito alla morte senza figli dello zio materno Pietro Balsamo, Serpetro, come è noto, trascorse a Palermo gli ultimi anni della sua vita. 52 

59 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

del panegirico investe, come rilevano Carmelo La Mancusa e Francesco La Mancusa, l’aspetto esecutivo della scrittura del Serpetro. Gli Autori ritengono l’operetta non di «grande valore letterario», ma se rapportata al tempo si presenta non priva di qualche spunto apprezzabile come, in contrasto con il rigore scritturale proveniente dall’ambito filosofico e scientifico, il far trasparire, in pieno spirito mariniano «il piacere di abbandonarsi al libero gioco dell’immaginazione, poiché il fine della poesia doveva essere la meraviglia e il lettore doveva rimanere stupito di fronte alle metafore ardite e ai giochi di parole altamente ingegnose»53. Scritti certi ma non reperibili a) Discorso sulla donna Si ha notizia a pagina 162 de Il Mercato del trasferimento di Serpetro da Roma a Venezia nel corso dell’anno 1635. Qui trova occupazione presso Francesco Vitelli, nunzio apostolico, personaggio di grande spessore intellettuale che consente al brillante don Nicolò di ben inserirsi nei casati nobili della città lagunare e di frequentare l’ «Accademia degli Incogniti», dove si ha certezza di un suo Discorso sulla donna. La ragionevole certezza si fonda, più che sulle due citazioni del Loredan presenti nel Mercato, su una lettera, a tutt’oggi consultabile, indirizzata dal Loredan a Serpetro. Lettera in cui l’accademico loda il Serpetro per lo stile con cui ha condotto il suo intervento all’Accademia ma non per i contenuti. Scrive Loredan: «Nel discorso di V.S. ho ammirato l’eloquenza, se bene non lodo la materia. Il dir male delle Donne è negozio più applaudibile, che sicuro; più apparente, che vero». La donna, a differenza del Serpetro che la ritiene il punto minimo della creazione, viene considerata dal Loredan il punto massimo della creazione: «La Donna non è errore della Natura, ma perfetione della Natura. Creata per la generazione aggiunge qualità all’huomo, che per se solo sarebbe niente (…). La donna è il più ammirabile miracolo della mano di Dio. Nel formare l’altre cose ha fatto Dio pompa della sua grandezza, ma nel creare la Donna della sua onnipotenza»54. Si tratta di una scrittura molto indicativa: Loredan esalta la condizione della donna dopo averla vista abbassare dal Serpetro. Spiace che lo scritto del Serpetro non ci sia giunto. Tuttavia dalla lettera del Loredan è attendibile desumere quanto la posizione di Serpetro fosse condizionata dalle conside53  54 

Cfr., C. La Mancusa-F. La Mancusa, cit., p. 73.

G.F. Loredan, Lettere, Venetia 1660-1661, I, pp. 408-409.

60 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

razioni sulla donna di matrice classica55, veterotestamentaria56, ma anche cristiano-cattoliche57, in maldestra antitesi con il messaggio dell’idea della pari dignità di tutti i diversi (donna dunque compresa) di fronte a Dio annunciato 55  Esiodo, le cui opere sono da considerarsi modelli culturali dei Greci, nella Teogonia si raffigura la donna «come arduo inganno, senza rimedio per gli uomini», come una «grande sciagura per i mortali», e soggiunge: «Zeus altisonante ha fatto per gli uomini mortali le donne come malanno, esperte solo di opere malvagie» e quindi «una grande sciagura per i mortali» (Teogonia, in Opere, a cura di A. Colonna, Tea, Milano, 1993, pp. 96-97). E ammonisce: «E non far che una donna dal sedere azzimato ti faccia perder la testa, sussurrando parole allettatrici mentre mira alla tua dispensa; chi presta fiducia a una donna, presta fiducia ai pirati» (Le opere e i giorni, Istituto Editoriale Italiano, Milano, p. 87). Al tempo di Esiodo appartiene il Giambo sulle donne di Semonide di Amorgo, da considerarsi il manifesto poetico antifemminista più noto e di certo il meno clemente sulla natura femminile: «Questa, sozza, empia stirpe, della dònnola, / che in sé niente ha di bello e di proficuo, / niente di caro, niente mai d’amabile, / del giaciglio d’amore insaziabile, / che, se sta con un uomo, infin lo stomaca: / ruba ai vicini, e fa d’ogni erba un fascio, / e divora le offerte innanzi ch’ardano»; e ancora nel carme Chi disse donna disse danno: «Giove creò dei mali il più pestifero / le femmine: anche quando par che giovino, /son, per chi le possiede, una disgrazia. / Ché non trascorre un sol dì pacifico / da mane a sera, chi vive con femmine / né può dal tetto suo la fame espellere, / trista coinquilina, Iddia malefica» (Giambo sulle donne). Così Eschilo considera per bocca di Apollo nelle Eumenidi: «Non è la madre che genera chi è chiamato suo figlio, / ma solo nutrice è del seme gettato in lei» e a sostegno, più avanti, per bocca di Atena: «Io non ebbi madre che mi generasse, / e propendo sempre per l’uomo, tranne che per sposare, / con tutto il mio cuore, perché sono tutta del padre» (vv. 712-714 e vv. 803-806). Dal versante ontologico a quello etico, il passaggio non ha migliore emblema della scrittura di Giovenale come si legge nel Contro le donne, in cui, tra l’altro, è presente il seguente ammonimento: «Se ti prende / il desiderio sciocco di sposarti, / se hai dedicato il cuore a una sola, / china la testa e preparati al gioco. / Nessuna donna risparmia chi l’ama; sia pure innamorata ci godrà, / a straziare il suo amore, a rovinarlo. / Perciò una moglie è poco consigliabile/ all’uomo buono, al perfetto marito» (vv. 206-211)».

56  Così recita il Genesi: «Il Signore (…): Non hai forse mangiato dell’albero che ti avevo proibito di mangiare? Adamo rispose: È stata la donna che mi hai dato per compagna che mi ha presentato del frutto dell’albero ed io ne ho mangiato. Il Signore Iddio domandò alla donna: “Che hai fatto?”. E la donna rispose: “Il serpente mi ha ingannata ed io ho mangiato” » (Gn.3,11-13). Ma c’è molto di più. Ne Le diciotto benedizioni si legge: «Benedetto sia tu, Adonai, che non mi hai creato donna». E il Signore dell’Ecclesiaste addirittura manifestava il suo disprezzo per la donna: «(…) E trovo che amara più della morte è la donna, la quale è un laccio: una rete il suo cuore, catene le sue braccia»; e poco oltre: «Un uomo su mille, l’ho trovato, ma una donna fra tante, non l’ho trovata» (VII, 26-29).

Nella lettera ai Galati, in assoluta sintonia col verbo di Cristo, Paolo dice: «Non c’è più né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né uomo e né donna, perché tutti siete una sola persona in Cristo Gesù» (Gal. III, 28). Nella lettera ai Romani la paura della “carne” e della “impurità” sa di fobia e il matrimonio viene considerato un mero strumento contro la lussuria: «(…) Per evitare la fornicazione, ogni uomo abbia la propria moglie, ed ogni donna il proprio marito (…) La moglie non è padrona del proprio corpo, ma il marito; così pure il marito non è padrone del proprio corpo, ma la moglie. Non rifiutatevi l’uno all’altra, se non di comune accordo (…). E confessa il suo desiderio: «Vorrei che tutti gli uomini fossero come me (cioè restare celibi) … A coloro che non sono sposati e alle vedove, io dico: è bene per loro se rimangono come sono io; ma se essi mancano di continenza, si sposino; è meglio sposarsi che bruciare» (I, Cor. 7 da 2 a 9). 57 

61 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

da Cristo. È noto che per Platone la donna era senz’anima e, dunque, impossibilitata a transitare l’Iperuranio e attingere al mondo della conoscenza58; per Aristotele le donne, è altresì noto, non possiedono l’anima razionale ma quella al pari degli animali59. Non diversamente nella tradizione musulmana, dove per Maometto la donna è portatrice, per volontà di Dio, di una natura diversa e meno nobile da quella dell’uomo e, pertanto, dell’uomo è uno strumento in senso lato60. Eppure Serpetro sapeva di Cristo e della Maddalena, e soprattutto dell’apparizione di Cristo alla Maddalena prima di quant’altri a resurrezione avvenuta. A giustificare la sua avversione nei confronti della donna non resta che la sudditanza psicologica di Serpetro alla Chiesa cattolica, cui faceva comodo continuare a fare della donna un capro espiatorio per assolvere le tante malefatte degli uomini – a cominciare dagli uomini di chiesa che, ben lungi dall’essere uomini di Cristo, esercitavano (e continuano a esercitare) dominio all’insegna di colpa-confessione-penitenza61. 58  Platone nel Timeo dice che la prima generazione degli uomini era asessuata; dice anche che quegli uomini che non seppero vivere secondo virtù la prima vita, nella seconda generazione furono trasformati in donne e, di conseguenza, gli dèi crearono i due sessi e la fenomenologia creativa. Scrive Platone: «Degli uomini che sono nati, quanti sono stati vili e hanno trascorso la vita in maniera ingiusta, secondo un discorso verosimile, nella seconda generazione si sono trasformati in donne. E in quel tempo, gli dèi idearono l’amore della congiunzione, costituendo un essere vivente dotato di anima dentro di noi, e un altro nelle donne» (91a-b).

Nella Politica Aristotele trae le conseguenze del suo modo di leggere la condizione femminile: «Quanto ai sessi, la loro diversità non può essere cancellata; qualsiasi età abbia la donna, l’uomo deve conservare la sua supremazia. La temperanza, la forza, la giustizia non debbono essere (…) le stesse in un uomo e in una donna. La forza di un uomo consiste nell’imporsi, quella di una donna nel conquistare la libertà di obbedire. E altrettanto dicasi per le altre virtù» (I,3). 59 

Maometto lasciò detto: «Gli uomini sono superiori alle donne, per le qualità con cui Dio ha fatto eccellere alcuni di voi sopra altri e per le erogazioni che essi fanno con le loro sostanze, in favore di esse; le donne buone sono ubbidienti e hanno cura delle sostanze del marito e della propria onestà durante l’assenza di quello, perciò che Dio ha avuto cura di esse affidandole al loro marito; e, quanto a quelle di cui temete la disubbidienza, ammonitele, ponetele in letti a parte e battetele» (Il Corano, IV, 38). 60 

Heine, in una delle più acute pagine della letteratura al riguardo, scrive: «(…) Dovrei in coscienza ammettere che il papa Leone X era molto più ragionevole di Lutero e che quest’ultimo non ha compreso i fondamenti più riposti della Chiesa cattolica. Lutero, infatti, non ha capito che l’idea del cristianesimo, l’annullamento dei sensi, era troppo in contrasto con la natura umana per poter essere realizzato integralmente nella vita; egli non aveva capito che il cattolicesimo era – per così dire – un concordato fra Dio e il diavolo, cioè fra lo spirito e la materia, mediante il quale in teoria veniva proclamato il predominio assoluto dello spirito, ma la materia era poi messa in condizioni di esercitare in pratica tutti i suoi diritti cassati. Donde un abile sistema di concessioni fatte dalla Chiesa a vantaggio dei sensi, benché sempre in forme che stigmatizzano ogni atto di sensualità e assicurano allo spirito le sue beffarde usurpazioni. Tu puoi dare ascolto alle tenere inclinazioni del 61 

62 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

b) De horis et virtutibus planetarum Come risulta dagli atti inquisitoriali l’accusa del Tribunale ha trovato ragioni di credibilità nel breve trattato, scritto prima dell’arresto, De horis et virtutibus planetarum, in cui il Serpetro, con spirito di celia, offre agli uomini strategie magiche e infallibili per rendere le donne cedevoli al piacere sessuale. In questo scritto la nota idiosincrasia di Serpetro nei confronti della donna viene meno. Il fatto che la donna, seppur attraverso il ricorso ad arti magiche, possa ben predisporsi alla comunione corporea con l’uomo è di per sé un fatto altamente positivo. Non bisogna mai dimenticare che la magia è lo scrigno della natura che a sua volta è lo scrigno di Dio. Ora che la donna sia scrigno della natura, dunque scrigno di Dio, riteniamo che faccia parte di quel divino (da scoprire) che rappresenta il punto di partenza e il punto d’arrivo di ogni espressione del vitale62. c) Trattato di Geografia e altri scritti Dell’esistenza di un manoscritto dal titolo Trattato di Geografia, in otto libri, si ha notizia alle pagine 167, 310 e 420 de Il Mercato63, come si ha notizia qua e là della medesima opera di uno studio dotto sul baco da seta. Mentre Giuseppe Mira fa riferimento a un altro manoscritto del raccujese, non

tuo cuore e abbracciare una bella fanciulla, ma devi anche ammettere che questo fu un vergognoso peccato e farne penitenza. Che poi tale penitenza potesse concretarsi in denaro, era cosa tanto benefica per l’umanità quanto utile per la Chiesa» (H. Heine, Per la storia della religione e della filosofia in Germania, cit., p. 199).

Sul De horis et virtutibus planetarum, che più che sulla donna è una vera propria dissertazione sulla magia, non abbiamo notizie certe al riguardo. Attendibili le possibili ragioni che lo collocano prima del Discorso sulla donna tenuto all’Accademia degli Incogniti, attendibili altresì le ragioni che lo collocano invece dopo. O prima o dopo, immutabile resta il modo di vedere la donna dal Serpetro. A questi, della donna, interessava la versione ufficiale offerta dalla Chiesa cattolica che, come è noto, a quel tempo risentiva di tutte le negatività che giungevano dalla cultura veterotestamentaria e di quella classica. Cultura, come sopra accennato, che vedeva la donna involuta rispetto all’uomo e, per essenza, malefica e tentatrice della virtù maschili. Dell’esistenza di questa dissertazione dà notizia Melita Leonardi in Nicolò Serpetro…, cit. p. 227 e C. La Mancusa e F. La Mancusa, La vita…, cit., p. 16. 62 

63  Alle pagine 127, 241 e 328 de Il Mercato si rileva che tra il 1643 e il 1653 Serpetro ha dato alle stampe una sorta di enciclopedia in otto libri dal titolo Trattato di geografia; si apprende anche, come riferiscono C. La Mancusa e F. La Mancusa a pagina 19 della sopracitata opera, della pubblicazione di «un’opera erudita sul baco da seta», di cui, purtroppo, non ci è pervenuto neppure il titolo.

63 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

pubblicato e anch’esso smarrito, dal titolo Imperatorum romano-germanorum series, ac rerum gestarum epitome64. Si ha inoltre notizia che Serpetro, al tempo delle frequentazioni messinesi dell’Accademia “La Fucina”, ha pubblicato nella II parte degli Atti dell’Accademia (Napoli 1659), intitolato Poesie volgari degli Accademici della Fucina, delle poesie. Del numero e del contenuto non è dato sapere, perché, a seguire C. La Mancusa e F. La Mancusa, «non è stato possibile rintracciare l’opera»65. Serpetro: i processi, le condanna, la morte «E dall’unito quadro si vedrà quanto sangue si sia sparso nel nome del Dio della misericordia e della pace…» (P. Tamburini, Storia Generale dell’Inquisizione)

Come accertato da più fonti Serpetro nel 1639 viveva a Palermo nel fastoso palazzo di Nicolò Placido Branciforti, conte di Raccuja e principe di Leonforte, ove fungeva da segretario. Professione questa prestigiosa, tanto da essere ambita da persone non aristocratiche ma di elevata cultura (si pensi, per ricordare un nome celebre, al Machiavelli della Repubblica fiorentina). Prestigiosa carica gravida però da incombenze di ogni tipo, che presupponevano una vasta cultura per risolvere problemi inerenti alle relazioni esterne (dimestichezza con le corti) e interne (dimestichezza con la vita di corte) al palazzo; una profonda conoscenza delle lingue classiche e una buona conoscenza delle lingue moderne, per assolvere ai compiti istituzionali con gli altri nobili casati e con la centrale amministrazione di Madrid; una forte personalità per ben custodire le corde segrete del cuore del signore; sobrietà nel portamento e modalità espressive pacate, un incedere e una modalità di dire tali da non urtare la suscettibilità del potere del signore66. Forte delle esperienze consumate a Roma e a Venezia, Serpetro svolgeva al

Di quest’opera storica ci offre notizia Giuseppe Mira nella sua preziosissima Bibliografia siciliana, Palermo 1875-1881, II, p. 361 (cfr. C. La Mancusa-F. La Mancusa, cit., p. 19). 64 

65 

C. La Mancusa-F. La Mancusa, cit. p. 18.

Per quanto riguarda l’importanza della figura del “segretario” nelle piccole e grandi corti si rinvia ai volumi di: cfr., A. Quondam, Varianti di Proteo, l’Accademico, il Segretario, in G. Nocera (a cura di), Il segno barocco. Testo e metafora di una civiltà, Roma, 1983, pp. 163-192; S.S. Nigro, Il segretario: precetti e pratiche dell’epistolografia barocca, in N. Borsellino, W. Pedullà (a cura di), Storia generale della letteratura italiana, Milano, 1999, vol. VI, pp. 507-530. 66 

64 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

meglio il suo magistero, tanto da avere l’incondizionata stima del Branciforti. Ma ciò non bastava. La fattiva personalità di don Nicolò non fu ben accolta da tutti, tanto da far saltare i vecchi equilibri su cui si reggeva la vita del palazzo. A seguire la Leonardi si apprende che nel 1640 si aprirono per Serpetro le porte delle carceri inquisitoriali perché tre zelanti servitori del principe accusarono don Nicolò presso il Tribunale del sant’Offizio di pratiche magiche e di invocazioni del demonio, «in particolare di aver fatto un circolo di legno e di avere invocato i demoni, con un libro, per cinque ore, e di aver loro spiegato come, in ogni ora, invocava il demonio attivo in quel lasso di tempo. Durante una conversazione con due degli accusatori, Serpetro si era vantato di avere tali conoscenze in fatto di magia e di astrologia da poter insegnare quelle materie all’università»67. Annota la Leonardi che nel corso del processo Serpetro raccontò agli inquisitori «di essersi laureato a Padova e di aver letto proprio in quella città alcuni libri di negromanzia, poi confiscati e bruciati a Venezia; da queste letture aveva tratto l’invocazione dei demoni denunziata dai tre servitori. Confessò ai giudici del santo tribunale di aver approfondito queste conoscenze grazie a molti libri proibiti di astrologia, di negromanzia e di altre scienze occulte, studiati a Venezia mentre era al servizio di un presule, nunzio pontificio presso la Serenissima. Per minimizzare le sue colpe, palesò agli inquisitori di aver ricevuto dal vescovo medesimo l’assoluzione per le letture proibite (…), negò, risolutamente, di aver compiuto l’invocazione dei demoni e ammise soltanto di essersi vantato di averla operata per impressionare quanti l’ascoltavano. Egli non sapeva nulla di arti diaboliche, né credeva in esse, né la scienza delle cause naturali lo inducevano a prestarvi fede»68. La posizione del Serpetro si aggravò. Mentre sostava nelle carceri due sacerdoti gli testimoniarono contro. Scrive la Leonardi: «Uno di loro riferì agli inquisitori di aver saputo della pessima reputazione goduta da Serpetro da persone residenti nel palazzo del principe. L’inquisito era, notoriamente, un uomo di mala vita, nonostante fosse sacerdote, non celebrava mai la messa né l’ascoltava. I due religiosi lo accusarono, inoltre, a prova della sua eterodossia, di aver negato l’immortalità dell’anima. Serpetro aveva pubblicamente sostenuto che all’uomo, dopo la morte, toccava lo stesso destino degli animali. L’essere umano non possedeva un’anima, bensì una sorta di spirito destinato a perire con il corpo»69. Denuncia, quest’ultima, d’immensa gravità; ma, sottolinea la Leonardi, per 67  68  69 

M. Leonardi, Nicolò Serpetro…, p. 219. Ibidem. Ibidem.

65 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

nulla «sviluppata nelle carte processuali»; anche perché non era difficile rintracciare nell’accusa «l’eco delle lezioni del celebre Cesare Cremonini, eterodosso maitre à penser dell’aristocrazia veneta presso lo Studium di Padova, università frequentata da Serpetro negli ultimi anni della docenza del filosofo nato a Cento»70. Serpetro di fronte ai nuovi capi d’accusa si è ben difeso: asserì di non celebrar messa per «impedimento canonico», ricordando che la sua elevazione alla carica di sacerdote non comportava l’obbligo di questo magistero, mentre si accostava all’eucarestia ogni giorno; fece presente che la frase proferita intorno all’immortalità dell’anima era stata estrapolata da una sua disquisizione intorno al pensiero di Epicuro; ammise di aver preso coscienza, tramite la lettura di un libro, dell’esperienza riguardante l’invocazione dei demoni, ma di non averla mai praticata. A discolpa di queste accuse non ritenne di produrre testimonianze. Serpetro la pose sul piano delle credenziali: le accuse equivalevano alle discolpe: o si credeva nella sua versione oppure in quella dei suoi accusatori. E sebbene si trattasse di accuse pesanti, che in altre circostanze avrebbero sortito pene più severe, il 9 settembre del 1640 al numero 32 del «Ristretto dell’atto di fede» si apprende che Serpetro fu condannato all’abiura «de levi» e all’esilio per la durata di tre anni da Palermo e da Messina. Come si evince si trattò di una pena aleatoria, per la quale, di certo, hanno contribuito le sue amicizie politiche e sociali. Dei capi d’accusa non abbiamo notizie documentate. Come è noto, l’archivio del Tribunale d’Inquisizione venne bruciato nel 1783, anno dell’abolizione del Tribunale in Sicilia. Tuttavia tracce sensibili dei processi consumati in Sicilia sono presenti nell’Archivo Historico Nacional di Madrid71. Notizie certe per quanto riguarda il processo nei riguardi di Serpetro ci giungono dal breve resoconto offerto da Francesco Baronio: «Dottor Nicolò Serpetro, nato in Raccuja diocesi di Messina, ed habitator di Palermo, sacerdote, di anni 34, il quale oltre a mostrarsi maestro di negromanzia si mostrò di vantaggio superstizioso, malamente usando del tremendo e sacrosanto sacrificio della Messa e delle cose sacre; perciò in abito di penitente comparve nel pubblico spettacolo, riportando la pena medesima che riportò pe’ il medesimo errore l’antedetto Giaimo, ossia l’abiura de levi e l’esilio da Messina e Palermo per tre anni»72.

70  71 

Ibidem, p. 220.

Cfr., Archivo Historico Nacional di Madrid, Inq., lib. 902, ff. 63r-65v.

Cfr., Ristretto dei processi nel pubblico spettacolo della fede divolgati ed espediti a IX di settembre 1640 dalla Santa Inquisizione di Sicilia nella piazza della Matrice chiesa di Palermo tradotto dalla lingua spagnola ed in gran parte abbellito e composto dal Dottor Don Francesco Baronio e Manfredi, Palermo, 1640. 72 

66 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Sabir73 è il titolo del bel libro di «racconti» che ha come filo conduttore, dice Giuseppe Quatriglio nella Premessa, «la denuncia dell’intolleranza che ha attraversato i secoli da una parte all’altra del Mediterraneo» e, insieme alla denuncia, «la narrazione intende insistere sulla condanna di mali antichi della società che continuano fino ai nostri giorni, quali la corruzione, il fanatismo, la superstizione, tutte le inquisizioni»74. Il primo racconto, dall’emblematico titolo La memoria e l’offesa, si occupa delle vicissitudini che hanno colpito, a distanza di un ventennio di quanto accaduto la prima volta, il Serpetro per volontà del Tribunale della Santa Inquisizione. Quatriglio, in bella prosa che sa molto di manzoniano, offre una descrizione delle ore e degli ambienti e delle modalità che precedettero l’arresto, che a detta del Serpetro, ma anche di altri illustri studiosi75, era poco in sintonia con la prassi inquisitoriale: «Quel pomeriggio di settembre del 1662 Don Nicolò Serpetro, in abito talare, lo aveva trascorso nella chiesetta trecentesca di San Nicolò Lo

73  Del titolo del libro, Quatriglio offre la seguente spiegazione: «Con la parola Sabìr si identifica la lingua con lessico misto in uso nel bacino del Mediterraneo nella quale entravano parole italiane e parole spagnole con elementi di arabo. Era l’idioma dei marinai e dei mercanti, dei pirati e dei pascià, dei religiosi e dei laici per comprendersi l’un l’altro, pur appartenendo a gruppi linguisti diversi. Una parlata dunque utilizzata negli scambi umani e commerciali, nata dalla necessità di comunicare» (Sabìr, cit. p.11). Sabìr è dunque una lingua, il comune denominatore, fuori dai ceti e dalle ideologie, per meglio relazionare. Il primo esempio di linguaggio comunicativo trasversale, cui tutti ricorrevano per strettissima necessità. Il primo idioma interculturale che fa dei mediterranei il primo popolo che disarticola il linguaggio dotto e lo conduce verso lidi esistenziali per vivere per meglio con-vivere. 74 

Ibidem.

Anche se la finalità del sequestro era chiara, don Nicolò aveva buone ragioni a nutrire dubbi sul protocollo del sequestro e dell’incarcerazione, che nel suo caso non venne rispettato. Era nota a Serpetro la procedura inquisitoriale di Spagna, che contemplava persone diverse con ruoli diversi. Al riguardo così argomenta Franco Di Bella in un succinto e puntuale passaggio della sua Storia della tortura: «I notai o segretari avevano anche l’incarico di mantenere aggiornato l’archivio delle eresie, o degli individui sospetti come eretici. A essi si rivolgevano i calificadores che erano un po’ i periti dell’epoca: essi compivano un esame preliminare delle prove scritte contro l’accusato oppure esaminavano le sue pubblicazioni quando si trattava di un autore sospetto. A questo nucleo centrale di funzionari dell’Inquisizione di Spagna, facevano corona i funzionari minori addetti ai tribunali: l’alguazil, che era una specie di buttafuori (arrestava gli accusati e sequestrava i loro beni); il carceriere; il carnefice, incaricato dell’esecuzione materiale della tortura; il porsero, che recapitava avvisi e citazioni e che è parificabile a un ufficiale giudiziario dei nostri tempi; il medico, che doveva esaminare i prigionieri prima e dopo la tortura e impedire con i suoi referti che i torturatori si fingessero pazzi; il cappellano che celebrava la messa per gli inquisitori (cerimonia dalla quale erano esclusi i prigionieri) e infine il barbiere e il ricevitore delle confische o tesoriere» (F. De Bella, Storia della tortura, Odoya, Città di Castello (PG), 2008, p. 125). 75 

67 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Reale sede di una arciconfratenita il cui appellativo rendeva omaggio a Federico III di Aragona che l’aveva protetta. Qui si era svolta una lunga seduta dell’accademia di nobile origine dei Riaccesi particolarmente piacevole perché vi avevano preso parte eminenti rappresentanti dell’erudizione siciliana (…). Don Nicolò, anche quella volta, aveva dato chiara dimostrazione delle sue eccezionali doti mnemoniche recitando (…) una delle Cento novelle (…) del letterato ferrarese del cinquecento Giambattista Giraldi Cinzio (…). Era stata accolta con particolare favore e ascoltata con attenzione perché da essa Shakespeare aveva tratto materia per il suo Otello saccheggiandola a piene mani (…)».

Ancora «un trionfo per il sacerdote (…). Si era intrattenuto un po’ nel piccolo cortile protetto da alte mura che separava l’arciconfraternita di San Nicolò Lo Reale dalla strada (…) e dopo i saluti si era trovato solo a percorrere la stretta via lastricata, ancora inondata della luce del tramonto (…). Attraversava a passi lenti, assorto nei suoi pensieri, la strada vuota in direzione della piazza, quando venne intercettato da due uomini, il più anziano dei quali, qualificatosi per capitano del Sant’Uffizio, lo invitò con modi spicci a seguirli. Parlavano con accento siciliano ma indossavano vestiti di foggia spagnola, e il capitano portava uno spadino dorato al fianco. Non c’erano testimoni, ma a debita distanza Don Nicolò vide quattro individui vestiti di nero che avevano lo sguardo rivolto a loro e che sicuramente sarebbero intervenuti a una eventuale sua reazione. La meta era il vicino Osterio dal 1600 sede del tribunale e del carcere dell’Inquisizione»76. Mi piace qui di seguito riportare i molto verosimili pensieri, a seguire la narrazione di Quatriglio, che affollarono la mente di Serpetro una volta che varcò la soglia della sede del tribunale e del carcere dell’Inquisizione: «Un breve scambio di battute non chiarì i motivi dell’arresto per cui l’inquisito – perché ormai non poteva trattarsi che di un inquisito – rimase solo in una cella rischiarata da una lampada a olio senza sapere in base a quale legge, e per quale colpa, era stato privato della libertà. Si convinse che a prevalere era stato il sopruso e non la giustizia e tuttavia, a mitigare la sua angoscia, intervenne prima di notte il capitano che l’aveva sorpreso in strada per dirgli che si trovava lì per fornire chiarimenti ai signori inquisitori. Un trattamento inconsueto e una procedura certamente anomala perché, a chi cadeva nella rete inquisitoriale, non erano usati riguardi di sorta. Quali chiarimenti avrebbe dovuto dare? E

76 

G. Quatriglio, Sabir, cit., p. 14.

68 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

perché gli annunciavano, anche se con molte reticenze, i motivi della sua cattura? Ebbe comunque la cena, una brocca d’acqua e un discreto giaciglio. Pensò allo scandalo che la sua inopinata assenza avrebbe suscitato nei Padri Mercedari Scalzi che da qualche anno lo ospitavano nel loro convento di via dei Cartari. E si ricordò del suo protettore, Don Pietro Bonanno principe di Roccafiorita, del quale era stato per qualche tempo anche segretario. L’aristocratico amico avrebbe sicuramente indagato per conoscere i motivi della sua disavventura e forse, con la sua autorità sarebbe riuscito a sapere qualcosa. Era un tenue filo di speranza nella tristezza che gli piombava addosso, nel silenzio rotto soltanto a intervalli dai lugubri rintocchi di un orologio da torre»77.

Delle considerazioni del Quatriglio credo che tutte abbiano un fondamento di verità, fatta eccezione di quella che ritiene la mancata individuazione del Serpetro intorno alle ragioni della sua cattura. Serpetro, visto il luogo dove era stato rinchiuso e le modalità «spicce» e categoriche con cui il capitano del sant’Uffizio lo invitava a seguirlo, non poteva nutrire alcun dubbio sui mandanti e sulle ragioni relative al loro mandato. Serpetro non sospettava, ma sapeva. E proprio perché sapeva ha vissuto momenti di panico e di sconforto. Certo com’era che al sant’Uffizio non era consentito non errare ma neppure nutrire dubbi. E pertanto il solo fatto di essere un inquisito lo spingeva a ritenersi di già un condannato. Nel capitolo X del primo volume delle Istruzioni che riguardano il sant’Uffizio dell’Inquisizione si riferisce in dettaglio, come riporta l’abate Pietro Tamburini, teologo e giurista, nella sua monumentale Storia Generale dell’Inquisizione-Corredata da rarissimi documenti, dei due modi di istruire un processo: “quello per via di denuncia” e “quello per via d’inquisizione”. Il primo è «quando viene alcuna persona a denunciare un’altra che abbia commesso qualche delitto spettante al sant’Officio (…) come d’aver tenuto qualche eresia, fatto qualche incanto o proferito bestemmie ereticali, e dice che ciò fa, cioè denuncia, per isgravio della propria coscienza, per zelo della santa fede, per non cadere in scomunica o perché il suo rev. confessore gliel’ha imposta a voler provare il delitto che depone, né essere attore o parte contro del denunciato…». Il secondo è «quando non v’è alcun accusatore o denunziatore che venga a far sapere nel sant’Officio il delitto, ma corre fama e voce pubblica in qualche città o terra o luogo che alcuna persona ha fatto o detto alcuna cosa contro la santa fede, e tal voce e fama viene all’orecchie del rev. vicario, e massime per via di persone gravi, onorate e zelanti della fede, 77 

Ibidem, p. 15.

69 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

e in tal caso non precedendo denuncia né accusa alcuna, ma solo per pubblica fama venendo a notizia dei rr.vicari che sia stato alcun delitto, dovranno essi vicari per debito dell’ufficio loro formarne inquisizione particolare, e comincerà il processo»78. Serpetro, sebbene ostentasse perplessità sui motivi dell’incarcerazione, sapeva che si potevano rintracciare, agli occhi dell’inquisitore, in una palese oppure anonima denuncia, come anche nelle sue frequentazioni, si pensi a quelle pur brevi ma intense con Tommaso Campanella, e nelle sue opere che ne facevano un inquisito conclamato per via della sinistra fama di traduttore e di scrittore. E non è da escludere che quanto accadde a conclusione di quella sera accademica del settembre del 1662 fosse il risultato di entrambe le tipologie di denunce. Serpetro era in possesso di una personalità forte. Una cultura enciclopedica accompagnata a una non comune memoria faceva sì che lasciasse il segno nei luoghi e nelle persone frequentate. Segno non sempre apprezzato. Spesso i sovrastati, all’interno delle medesime famiglie dove Serpetro in cambio di una vita agiata prestava i suoi servigi, ben celavano il proprio astio e aspettavano che il vento situazionale gli si voltasse contro per consumare le loro infime vendette. Se poi alla forte personalità si aggiunge una buona dose di spregiudicatezza nei traguardi cui mirava, non desta stupore che il Serpetro fosse un sorvegliato speciale del sant’Officio. Questo perseguitava i sospettati innocenti, figuriamoci se tralasciava di seguire le imprese di un sacerdote, più incline ai potentati politici che ai rituali ecclesiastici. All’interno delle atmosfere del sant’Officio il processo a Serpetro era nella logica del tempo, delle cose, del suo vissuto. Un processo che non poteva non essere celebrato. E vista la sentenza, possiamo affermare che essa è stata molto accondiscendente alla ragione del Serpetro più che a quelle dei suoi accusatori. Oppure, come appare più verosimile, la mite condanna a cinque anni di reclusione nel convento, «letta nella Sala del Segreto a porte chiuse», per avere «palesamente percorso le strade della magia occulta», senza, a seguire Quatriglio, «la degradazione che di solito accompagnava un verdetto riguardante i religiosi», era stata, più che per «perpetuare il segreto sulla inconsistente denuncia che aveva tuttavia provocato una perniciosa condanna», «per salvaguardare l’onore della gerarchia ecclesiastica»79. Procediamo per ordine. Al tempo della varcata soglia dell’«Osterio», sede

Pietro Tamburini, Storia Generale dell’Inquisizione-Corredata da rarissimi documenti, Francesco Sanvito editore, Milano 1862. I brani qui riproposti sono stati estrapolati dall’opera del Tamburini e ora presenti nella mirata antologia, a cura di Mario Genco, Storie dell’inquisizione, Sellerio, Palermo, 2007, p. 70 e p. 71. 78 

79 

G. Quatriglio, Sabir, cit., pp. 26-27.

70 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

del tribunale e delle carceri dell’Inquisizione, don Nicolò aveva 56 anni. Età, per i tempi, ragguardevole, anche se il nostro non manifestava cedimento alcuno sul piano fisico e su quello mentale. Certo era un uomo considerato e rispettato, ma era consapevole che il tempo delle grandi protezioni politiche era oramai tramontato. E sebbene si ritenesse fondamentalmente uno studioso di filosofia e di scienze naturali e, sebbene riconducesse l’una e le altre all’insegna della sapienza divina, le fiamme dell’ultimo rogo, acceso dal sant’Officio il 17 marzo 1658 nel piano di Sant’Erasmo, gli balenavano nella mente incutendo preoccupazione e paura. Studioso soprattutto, seppur prete senza obbligo di messa. Anche se lontano dagli uffici ordinari della Chiesa non fu insensibile alla pietà, attraverso attiva opera di volontariato, allorquando Palermo fu piegata dalla peste80, come del resto non rimase insensibile alle grida degli affamati al tempo dei tumulti palermitani del 164781. Sentimenti di nessun conto nella prospettiva accusatoria degli inquisitori Giuseppe Crespos de Escobar e Manuele Monge y Amarrida. Si tratta di «teologi spagnoli coltissimi e intransigenti»82, che hanno formulato i capi d’accusa dopo attente riflessioni su Il Mercato delle Maraviglie, opera principale del Serpetro; dopo aver riflettuto sull’incidenza che aveva potuto avere sulla sua formazione spirituale la vicinanza, seppur di breve durata, di Tommaso Campanella; dopo avere esaminato le straordinarie capacità mnemoniche dell’inquisito e cercato di comprendere psicologicamente le implicazioni che queste capacità avevano avuto sulla formazione del carattere. Tanti i dubbi e tante le perplessità dei dotti e degli acuti inquisitori, che il Quatriglio così enuclea, attraverso una rete di domante chiare e mirate a evidenziare la colpevolezza del Serpetro: « - La sua facoltà di ricordare si rifaceva ai sistemi di memoria magici e occultistici del Rinascimento? - Aveva a che fare questa sua dote con la tradizione ermenetico-occultistica fondata nel Quattrocento da Pico della Mirandola? - Si era rifatto Don Nicolò all’irrazionale Delmino Giulio Camillo che nel Cinquecento aveva affermato d’essere in grado di catturare con la memoria l’intero universo guardando ad esso dall’alto come se fosse Dio? - Aveva l’inquisito captato i riti magici descritti dall’antico saggio Ermete Trismegisto attraverso i quali gli ermetici egiziani erano in grado 80  81  82 

Ibidem, pp. 18-19. Ibidem, pp. 20-21. Ibidem, p. 22.

71 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

perfino di animare le statue attirando in esse le forze divine o demoniache del Cosmo? - Era don Nicolò fautore di un sistema di memoria occulta, una occulta philosophia, basata su pretesi celesti influssi e quindi nella condizione di essere giudicato per aver praticato una perniciosa magia? - Era la sua una memoria artificiale mistico-magia? - Seguendo il Teatro mnemonico di Camillo, Serpetro era in grado di produrre un sistema di memoria attivato magicamente ed essere quindi capace di infondere nei discorsi memorizzati effetti magici sugli ascoltatori? - Essendo stato un ammiratore di Pico della Mirandola, Serpetro non sapeva che l’uomo può catturare i poteri dell’universo, come magia e cabala, ed è anche in grado di sviluppare, come oratore, poteri magici? - Se era un seguace delle teorie dell’uomo ermetico del Rinascimento, Serpetro non si era convinto di possedere poteri divini e quindi ritenersi capace di ricostituirsi una memoria magica con cui catturare il mondo? - Non sapeva l’inquisito che Giordano Bruno, il frate condannato al rogo inquisitoriale nel 1600, aveva trasformato l’arte della memoria in un culto misterico interiore? - Il maestro di Nicolò Serpetro, Tommaso Campanella, non aveva subìto quattro processi per eresia e pratiche demoniache? Non aveva scritto il libretto ateo De tribus impostoribus? Non aveva approfondito pericolosamente la sua ricerca filosofica inoltrandosi nei sentieri perigliosi dell’alchimia, dell’astrologia e dell’occultismo? Non aveva giocato con la magia affermando, in un suo scritto, esserci magia diabolica in coloro che per arte del demonio fanno cose mirabili? Quali insegnamenti, dunque, aveva potuto dare al suo allievo a Roma?»83.

La formulazione delle domande era mirata, ma le argomentazioni che le sorreggevano erano deboli e scarsamente convincenti. Dall’accusa di veggente Serpetro non si è sottratto. Anzi nel Portico Primo, Loggia Sesta, Officina Quinta de Il Mercato ha evidenziato che assieme ai «sogni naturali» la storia ha registrato sogni «sopra naturali». Per quanto riguarda questi ultimi fa presente che «nella legge antica, e nella primitiva Chiesa, Dio per mezo di questi ammoniua i suoi». Ha, inoltre, fatto presente ai componenti del Tribunale di aver avuto in tutta la sua vita non meno di duecento sogni premonitori, tanto che nell’Officina Sesta non ne fa mistero: «Io nel corso della mia vita mi raccordo di hauer fatto più di 200 sogni nei quali 83 

Ibidem, pp. 22-24.

72 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

ho veduto chiaramente tutto quello, che mi è succeduto il giorno seguente alla notte del sogno, e mi sono incontrati accidenti grandissimi, che la prudenza non l’ha saputo fuggire». Come non fa un mistero nella medesima Officina delle sue doti di nottambulo: «Io nella mia adolescenza, che nell’andare à caccia, ero stato abbandonato in un bosco, mi vestij ed uscij di casa, chiamando i compagni, e mi suegliai fuori della Terra trouandomi in braccio d’una mia serua, che mi era corsa dietro». Veggente e sonnambulo, per sua stessa ammissione. Caratteristiche che spinsero gli inquisitori a leggerli, fa presente Quatriglio, «come probabile manifestazione di isterismo causato dalla pratica del sonno ipnotico», come il frutto di «una invasione demoniaca, anche senza la volontà di Serpetro, perché i diavoli (…) possono impadronirsi di un essere umano senza che questi ne abbia consapevolezza»84. Capi d’accusa che però furono «considerati fenomeni minori» dagli stessi inquisitori, i quali preferirono accentuare il peso dell’accusa soffermandosi, a detta del Quatriglio, «sulle arti magiche usate dall’inquisito per nutrire e mantenere la sua memoria così straordinaria»85. La procedura inquisitoriale operò con lentezza e con precisione come con lentezza e precisione si svolse l’interrogatorio. Anche in questa circostanza Serpetro mostrò fermezza nell’atto di smontare l’impianto accusatorio. Fece presente ancora una volta di non aver nulla da nascondere per due ragioni: la prima riconduceva le sue eccellenti facoltà mnemoniche a un dono di Dio, la seconda che di questa facoltà aveva sufficientemente argomentato ne Il Mercato. E pertanto era sufficiente che i santissimi inquisitori leggessero nel Portico Primo, Loggia Settima, Officina Seconda, quanto aveva scritto a suo tempo al riguardo. E siccome, pur avendo il testo di riferimento appresso, gli inquisitori si sono rifiutati di consultarlo, Serpetro diete prova della facoltà di cui veniva accusato riportando, senza alcuna smagliatura, quanto aveva scritto tanto tempo addietro: «Non mi sia quanto ho detto, attribuito à Iattanza, perché è verità, ed io farei torto alla grazia datami da Dio, se non palesassi al mondo questi fauori diuini, per lodarne l’eterna Prouidenza»86.

Di seguito fece riferimento a quanto aveva scritto su uomini celebri, dotati di una memoria eccezionale, che invece di essere processati furono tanto considerati da ricevere apprezzamenti pubblici: 84  85  86 

Ibidem, p. 25. Ibidem.

N. Serpetro, Il Mercato, cit., p. 56.

73 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

«Esdra Sacerdote teneua in memoria tutta l’Uniuersal Dottrina degli Ebrei. Ciro e Scipione haueuano in pronto i nomi di tutti i soldati dell’esercito loro. Carmide recitaua in memoria tutti i volumi mandati fuori nella Grecia. Mitridate seppe le lingue di 22. nationi. Giulio Cesare dettaua nel medesimo tempo quattro lettere. Plinio afferma, che egli soleua leggere, dettare, ed udire in un tempo stesso (… ). Seneca ripeteva 2000. nomi con l’ordine medesimo, che erano stati racitati, e recitaua 200. versi, cominciando dall’ultimo (…). L’imperatore Adriano, leggendosi in sua presenza un libro, finito di leggere, lo recitava tutto senza errare una parola (…). Appio Claudio conosceva, e chiamava per nome tutti gli uomini di Roma…»87.

Gli inquisitori ritennero quanto sostenuto frutto di mera fantasia o di narrazioni fiabesche e invitarono il Serpetro a fare pubblica denuncia delle arti magiche a cui soleva far ricorso per mantenere intatte le sue portentose capacità mnemoniche. Non ricorsero alla tortura, come in uso dall’Inquisizione di Spagna88, «ma prontamente, con procedura insolita, lo portarono solo dopo qualche giorno davanti ai giudici». «Questi – considera il Quatriglio – per salvaguardare l’onore della gerarchia ecclesiastica (…) emisero una mite sentenza che venne letta nella Sala del Segreto a porte chiuse. Anche in questa occasione, non fu decisa la degradazione che di solito accompagnava un verdetto riguardante i religiosi. Fu condannato alla reclusione in convento per cinque anni per avere “palesemente percorso le strade della magia occulta”. 87 

Ibidem, pp. 54-55.

Durante la terribile Inquisizione di Spagna, scrive Franco Di Bella, «non ci furono più differenze né riguardi per la condizione o l’età e la tortura fu applicata a tutti, dai 10 ai 90 anni. I sistemi per tormentare il prossimo seguivano (…) delle regole quasi standardizzate, avallate dalla codificazione ufficiale». Siamo al cospetto di un vero e proprio campionario della tortura, del quale Di Bella offre un quadro sinottico pressoché completo. Di questo quadro ci soffermiamo sulle prime due tipologie, quella del cavalletto e quella della corda. La prima «consisteva in un tavolo che si inarcava all’improvviso: il paziente, legato sopra di esso con le gambe e il dorso, veniva violentemente squassato. In questa posizione il prigioniero veniva sovente sottoposto anche alla tortura dell’acqua, che era proseguita finché si rompevano i vasi interni: l’emorragia finale dello sventurato segnava la sua morte e il riposo del carnefice». Con la seconda il «il prigioniero veniva legato con le braccia, avvinte dietro le spalle, a una corda o a una lunga puleggia. La corda penzolava da una carrucola e, una volta tirata, sollevava il paziente ad altezze diverse dal suolo (di solito a 40 piedi): talvolta il dolore era aumentato da grossi pesi legati alle gambe. A un segno del giudice, la corda veniva lasciata e lo sventurato ricadeva sino a un palmo dal suolo, per cui si slogava vertebre e arti. Talora le ossa si spezzavano e non di rado il ventre scoppiava e ne schizzavano fuori le viscere, ma il carnefice e i suoi manigoldi le rimettevano al posto, e se il torturato non era morto sul colpo, applicavano ferri roventi alle sue carni, onde sentisse e soffrisse spasmi atroci» (F. Di Bella, Storia della tortura, cit., p. 13 e pp. 9-51). 88 

74 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Ebbe l’obbligo anche di non esercitarsi più in prove di memoria»89. Diniego quest’ultimo ridicolo, dal momento che l’esercizio poteva benissimo lasciare la piazza del mercato e trovare attuazione nel «segreto della sua coscienza»90. Per la seconda volta Serpetro, seppur accusato di reati per i quali i più ci rimettevano la vita, viene condannato a una pena mite. Quale la ragione? Quatriglio suppone che «non seppe Serpetro se le cautele usate nei suoi confronti erano state prese per perpetuare il segreto sulla inconsistente denuncia che aveva tuttavia provocato una perniciosa condanna»91. E suppone male. Era noto a tutti che le grinfie dell’Inquisizione non lasciavano in vita alcuna vita92, ammenoché, se fosse una persona nota (Campanella, Galilei), non si piegasse, tramite abiura delle proprie convinzioni, alla «santa» volontà degli altissimi dignitari della Chiesa. E il tutto quasi sempre attraverso atroci sofferenze: si pensi al caso Damiens che fu squartato vivo nel 1757 per aver procurato una scalfittura a Luigi XV; oppure alle sottigliezze del boia che doveva tormentare, facendo uso di tenaglie infuocate per strappare parti del corpo, ma non sopprimere subito il condannato affinché gli spettatori potessero godere il più possibile; oppure al rogo per le streghe ma anche altre soluzioni, come la «ruota»,

89  90  91 

G. Quatriglio, Sabir, cit., pp. 26-27.

C. La Mancusa-F. La Mancusa, La vita…, cit., p. 29. G. Quatriglio, Sabir, cit., p. 27.

«(…) I grandi numeri non servono e, quando pure ci sono, rappresentano un elemento più accidentale che sostanziale; ciò che conta è che non si arresti il meccanismo del terrore e dello spavento collettivo, che il tribunale sia temuto fino al punto di abitare l’anima di tutti, come un deforme e grottesco Super-Io, fino al punto di frantumare la fragile resistenza che le coscienze sono in grado di opporre, almeno interiormente, al sistema del potere statale ed ecclesiale». Meccanismo del terrore che, a seguire Natale Benazzi e Matteo D’Amico ne Il libro nero dell’Inquisizione, filtra attraverso una scenografia sapientemente montata di cui il Bennassar nella sua Storia dell’Inquisizione spagnola (trad. it. Rizzoli, Milano, 1995) ci offre la cifra dei rituali dalle fosche atmosfere: «(…) Simultaneamente l’editto è proclamato in tutti i borghi circostanti (…) affinché la gente accorra (…) Tutte queste cerimonie si svolgono in un clima di grande solennità. Ecco le istruzioni del Santo Uffizio al riguardo: la sentenza deve essere letta durante la messa, all’offertorio; il clero si rechi in processione, con la croce velata di nero affiancata da due ceri, fino al pulpito dove verrà letta la sentenza. Lì resti in silenzio sino alla fine della lettura, poi ritorni all’altare; mentre le campane suoneranno a morto, i chierici canteranno a voce bassa, ma comprensibile, in canto piano, a doppio coro alternato, il salmo: “O Dio non restare muto, ecco che i tuoi avversari tuonano…”. Dopo il salmo, sullo stesso tono, vengono pronunciati i versetti: “Vivi, noi siamo morti…”». Su questa angosciante e spettrale ritualità si regge l’Inquisizione. Commentano Benazzi e D’amico: «Il vero punto di forza dell’Inquisizione è questa capacità di essere presente, sia nella fase di nomadismo che in quella di sedentarietà. La gente la percepisce, le parole del popolo cominciano ad essere sussurrate, si teme sempre di essere circondati da spie. E, in effetti, il procedimento inquisitoriale è una vera struttura di spionaggio, in cui i delatori sono, per la maggioranza, “spie per paura”» (Cfr., Il libro nero dell’Inquisizione, Piemme, Casale Monferrato, 2008, p. 13 e p. 120). 92 

75 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

l’«impiccagione», la «decapitazione», l’«annegamento» e la «propagginazione» al pari dell’essere bruciati vivi; si pensi alle migliaia e migliaia di persone soffocate nell’anima e nel corpo da una dottrina che sembrava essersi esercitata più a inventare percorsi di sofferenza che a indicare i percorsi del cielo93. Serpetro non ha subito torture, non ha abiurato e gli è stata riservata una condanna di tal riguardo che, vista la storia dell’Inquisizione, non appare credibile. La sentenza è stata letta a porte chiuse nella Sala del Segreto, come se ci si vergognasse di renderla pubblica; Serpetro non ha conosciuto l’onta della degradazione della carica religiosa: prete senza obbligo di messa era e tale è rimasto; non ha subito alcun sequestro di beni, come accadeva di rito a tutti i condannati; la limitazione dell’esercizio della memoria era una pena ridicola perché non suscettibile di alcun riscontro empirico visto che la pratica poteva essere esercita a livello di coscienza; la limitazione, per cinque anni, a un vissuto da conventuale, non credo che lo rattristasse tanto, vista l’età e, soprattutto, preso atto che i giochi di potere delle corti italiche non erano più interessati ai suoi servigi. E, pertanto, un pasto caldo nel convento di Rocca Florida lo induceva a guardare con fiducia lo scorrere del tempo. E anche questa volta la fiducia negli altri venne meno. Dal giorno della condanna erano passati soltanto due anni. Una mattina del mese di maggio del 1664 fu trovato disteso sul letto con la schiuma alla bocca. Condizione che induceva a pensare verosimilmente a una morte per avvelenamento. Ipotesi attendibile, ma incerta resta la volontà di chi ha consumato l’atto, dato, fa presente Quatriglio, «che al medico, chiamato tardi, non restò altro che costatarne la morte». Considera di seguito Quatriglio: «Non si seppe mai se era stato un suicidio oppure, verosimilmente, un assassinio forse voluto e attuato da chi mal sopportava la sua presenza, da parassita ormai, e da ingombrante condannato dalla Santa Inquisizione, all’interno di un onorato convento»94. Serpetro godeva di ottima salute. Il fatto che non sia stata aperta alcuna inchiesta e la denuncia del decesso sia stata immediatamente archiviata fa pensare a una morte per avvelenamento per mani altrui. Convincimento che il Quatriglio fa suo sul percorso lasciato agli atti della storia da Antonino Mongitore. Questi, scrive Quatriglio, «canonico della metropolitana chiesa di Palermo nonché giudice sinodale, consultore e qualificatore del Sant’Uffizio di Sicilia, laconicamente annotò nella sua Bibliografia Sicula che la morte di Nicolaus Serpetrus era avvenuta non sine veneni suspicione»95.

93  94  95 

F. Di Bella, Storia della tortura, cit., p. 35, p. 130, p. 153. G. Quatriglio, Sabir, cit., p. 27. Ibidem, p. 28.

76 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Serpetro nell’interpretazione di Corrado Dollo Il quarto capitolo del volume Modelli scientifici e filosofici nella Sicilia spagnola di Corrado Dollo ha come titolo “La filosofia della tradizione – Il sapere neutro” e dedica integralmente al Serpetro il secondo paragrafo. Dollo, però, nel volume, filosoficamente più fondato, Filosofia e scienze in Sicilia, apparso appena cinque anni prima, non aveva annoverato, tra i filosofi operativi tra il 1575 (anno della grave pestilenza) e il 1674 (anno delle rivolta di Messina), la figura di Serpetro e, per essere più precisi, non lo citava alcuna volta, a testimoniare della sua scarsa incidenza in ambito filosofico e scientifico96. Serpetro non è né filosofo e né scienziato: non appartiene alla filosofia e alla scienza tradizionale né alla filosofia e alla scienza moderna97. Dollo, la cui scrittura si affida sempre a una raffinata acribia speculativa, sa che filosofia e scienza non contemplano mai nuovi registri senza la presenza di registri intermedi in cui, per tanto tempo, l’atto di pensiero che accompagna il nuovo filtra attraverso aree di intellezione che dicono di come il “nuovo” non è altro che la conseguenza del “vecchio”. La filosofia, per essenza, la scienza, per convinzione, vivono il passaggio dal vecchio al nuovo con grande travaglio interiore, con conflittualità laceranti che fanno sì che non avvenga un salto ma una lenta procedura di assimilazione del nuovo. L’enunciato teorico di questa procedura, nel caso in questione, ha nome «sapere neutro», dentro cui Serpetro assurge a figura di prima grandezza. Non filosofo tout court, non scienziato tout court, ma portatore di atmosfere che fanno sì che la filosofia non abbia la pretesa di contenere il reale e la scienza di riferirci tutto del reale. Di queste atmosfere, di cui Serpetro è il più significativo acquerellista, Dollo dice: «Non soltanto il “razionale”, ma anche il “meraviglioso” è un luogo naturale del diciassettesimo secolo e non solo lentamente il secondo termine sarà ridotto al primo, e non in modo integrale e dimostrativo». E successivamente offre una giustificazione del passaggio delle atmosfere meravigliose a quelle razionali: «Non può tuttavia negarsi una linea tendenziale che riduce progressivamente lo spazio del lusus naturae, mentre amplifica in modo sempre più insistito i riferimenti alle “leggi”, alla esperienza historica

96  C. Dollo, Filosofia e scienza in Sicilia, “Pubblicazione della Facoltà di Lettere e Filosofia Di Catania” e del “Centro di Studi per la Storia della Filosofia in Sicilia”, CEDAM, Padova, 1979.

97  Serpetro non entra neppure tra quei «nomi sbiaditi o quasi ignoti (Ingrassia, Fedeli, Hodierna, Scilla, Boccone, Bottone)», tra quei «‘filosofi’ non volgari e talvolta curiosi di talento, dietro cui – ammette Dollo – ho potuto ricostruire il composito, e finora ignoto, mondo della intelligenza locale nella medicina, nella spargirica, nelle scienze naturali» (C. Dollo, Filosofia e scienza in Sicilia, cit. p. III).

77 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

svincolata da generalizzazioni metafisiche anche in zone neutre – non apertamente neoteriche, non proclamatamente tradizionaliste – i cui spazi di diffusione non sono stati convenientemente indagati, forse per la poca significanza “teoretica” delle opere che le qualificano»98. In altri termini esistono sul piano dello sviluppo del pensiero delle «zone neutre» dentro cui germoglia un «sapere neutro» che non va verso il nuovo ma neppure verso il vecchio, che il diciassettesimo secolo ha partorito, degnissimo della massima considerazione, anche se le opere dentro cui questo sapere s’origina non sono specificamente teoretiche. Zone importanti, anche se non appaiono teoreticamente fondate, che aprono a saperi argomentativi indiziari, a proiezioni prospettiche non immediatamente codificabili ma non per questo da ritenere inconsistenti e meno che mai inesistenti. Dollo è attratto dalla neutralità dei luoghi (o spazi mentali) e dei contenuti (modalità argomentative dei saperi), che, a suo dire, per la prima volta nella storia del pensiero e della letteratura si fanno condizionare da agenti esterni e interni alle procedure di codificazione tradizionale. Che i contenuti trasmessi possano essere condizionati dalla presenza di “affinità elettive” tra filosofia e letteratura (ma anche tra altri ambiti disciplinari) è un’operazione culturale che darà i suoi frutti con il costituirsi del genere esistenzialista da Stirner, Nietzsche, Kierkegaard fino a Musil, Camus, Sartre, Jaspers, Merleau-Ponty, Barth, Bonhoeffer. Che gli autori non appartengano a ceti e congreghe elitarie ma alla piccola borghesia e si rivolgono alla piccola borghesia è cosa ancor più sorprendente, perché anticipano una tendenza che avrà la sua diffusione planetaria nel XX secolo. Come sorprende il fatto che si tratta di autori che scrivono fuori da rigidi schemi ideologici, che è da considerarsi la caratteristica speculativa più comune degli ultimi tre decenni del nostro tempo. Non meno sorprende la fenomenologia editoriale, non più patrimonio di questa o quella città ma presente su tutto il territorio nazionale. Scrive Dollo: «In primo luogo le affinità elettive con la produzione letteraria stricto sensu, e poi l’appartenenza degli autori al diffuso ceto della media e piccola nobiltà (che ne è contemporaneamente destinatario e fruitore; l’equivocità della ideologia di fondo, non sempre facilmente identificabile dietro la gran massa di notizie ‘erudite; l’editoria diffusa (da Palermo a Venezia)»99. «Cassa di risonanza» di questo genere sono, per Dollo, le opere, guarda caso, di due messinesi: il De Venatione et Natura Animalium o il De natura Piscium di Andrea Cirino100 e il Mercato delle Maraviglie della Natura del 98  99 

C. Dollo, Modelli scientifici e filosofici nella Sicilia spagnola, cit., p. 131. Ibidem.

Cirino, a parte la terra di provenienza, aveva in comune col Serpetro tanto, che va dalla straordinaria memoria allo stesso bagaglio culturale allo stesso interesse per i temi selezionati allo 100 

78 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Serpetro. Del Cirino Dollo offre uno spaccato critico a pagina 112 e una citazione a pagina 113 di Filosofia e scienze in Sicilia e dedica alcune righe e la nota 1 a pagina 132 dei Modelli scientifici e filosofici nella Sicilia spagnola. Poche righe Dollo dedica al Cirino, anche se intense di puntualizzazioni mirate e compiute; mentre al Serpetro riserva una spazio più ampio e un’articolazione delle opere e del pensiero più minuziosa. Le opere del Serpetro considerate dal Dollo sono Il Mercato delle Maraviglie della Natura e le Osservazioni Politiche e Morali sopra la vita di Marco Bruto. Si tratta, come è noto, di traduzioni e non di opere originali. Il Dollo di ciò ha coscienza, ma non lo dà a vedere. Parla come se si trattasse di opere del Serpetro. E ciò a ragion veduta: le sue attenzioni sono riservate soltanto alle aggiunte intercalate dal Serpetro nel tessuto narrativo originale. Di queste aggiunte, spesso sensibilmente autobiografiche, Dollo coglie i valori fondativi delle tendenze intellettuali del Serpetro: «Attenzione al nuovo ovunque si trovi, conseguente valutazione del particolare, del sensibile, nella sua peculiarità e irrepetibilità, desiderio di congiungere osservazioni naturali e osservazioni politiche, arte della diffidenza; e contemporaneamente mancanza quasi assoluta di acribia scientifica, recezione passiva della letteratura sul meraviglioso, tentativi oscuri di comporre morale stoica e precetti machiavellici, condanna del cortigiano e reinterpretazione del ruolo nobiliare. Predomina, nella ricerca naturale, una escussione di testimonianze (…) che da Plinio ad Ammiano, da Aristotele ad Avicenna, da Aldovrando a Bauhin, da Vesalio a Olao Magno, si serve di una vastissima molteplicità di tradizioni e famiglie culturali. Il montaggio del materiale segue le regole della scenografia barocca, la Natura è raffigurata come un mercato nel quale si aprono i portici, scanditi in logge le cui unità sono le officine, in cui

stesso approccio alle problematiche affrontate. Dalle due opere di cui si fa riferimento nel testo, scrive Dollo: «Si impone all’attenzione un bene assortito composto di erudizione (…), interpretazioni misticheggianti, credenze fantastiche (esistenza di ibridi come sirene, tritoni, uomini marini) e demonologia operante. Anche qui, malgrado descrizioni non prive di penetrazione dedicate a strati subalterni, come quello dei pescatori, malgrado rudimenti di critica alle credenze popolari (vedi i casi di Glauco e Cola Pesce), la predominanza conservatrice dell’erudizione classicheggiante è fortissima, anzi è potenziata dalla presenza di autori tecnici o della bassa latinità» (C. Dollo, Filosofia e scienza in Sicilia, cit., p. 112). Un altro aspetto in comune di grande rilievo è rappresentato dallo scarso interesse manifestato dai due nei confronti dell’approccio di metodo di matrice gesuita. Rapportandosi alle due opere del Cirino, Dollo considera: «È interessante il mondo dei religiosi non allineati all’insegnamento gesuita, che al fascino della compattezza ideologica della compagnia preferivano e sostituivano quello dell’abbandono alle historie accompagnato ad una curiosità» (C. Dollo, Modelli…, cit., p. 132, n. 1).

79 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

convengono da ogni paese “le maraviglie più rare, e più dilettevoli, che produsse l’Autore della Natura”, immaginate come ‘espresse al vivo in pitture, o sculture…o ritratte, o rilevate o naturali’. L’enciclopedia dell’eccezionale, nell’intenzione dell’autore non doveva contentarsi di affastellare materiali inusitati, congiungendo all’esposizione ‘le ragioni, secondo la mente de’ più sensati’. Ma questa è la parte che meno lo interessa, spesso Serpetro si contenta di giustapporre opinioni di cui non tenta neppure di giudicare la capacità esplicativa»101.

E, pur tuttavia, l’aspirazione del Serpetro «è di fornire sensate esperienze»102, come, per Dollo, si coglie nell’Introduzione dell’opera del raccujese: «Imperoche, se si guarda quello che, ò bisogna, ò si conuiene per la conuersatione, discorrerà con maggior leggiadria e diletatione colui, che ha esperimentato le meraviglie naturali de’ moti, apprese le virtù delle piante, e de’ metalli, conosciute le nature de gli Animali, e veduta minutamente l’anatomia dell’huomo, che quello, il quale essendosi acquietato in pochi precetti generali della Quantità, dell’Invisibile, dell’anima, e degli Enti, anderà quelli pertinacemente agitando»103.

Scrittura, a seguire Dollo, che evidenzia la netta opposizione tra la «nuova scienza» e la «metafisica scolastica». Opposizione che trova la seguente ragione: «Le universalità fisiche non potranno ritrovarsi senza la storia naturale, nella cui assenza il sapiente non potrà trasformare i metalli in oro, né ritardare la vecchiaia o giudiziosamente congetturare sulla produzione di nuovi metalli, piante ed animali»104. Qui la Natura («Natura» come sinonimo di «Istoria Naturale») fa da padrona, anche se teologicamente governata. E Serpetro, onde evitare equivoci, si affida a una metafora di rara bellezza e incisività: «Colui che vorrà, ò costituire gli assiomi, che inducono alle operazioni, ò indagare le forme , ò correggere i difetti, de’ quali infinito è il numero nella Fisica: se non hauerà prima letto il libro della Natura, sarà quasi un altro Issione, che mentre imaginerà di congiungersi con Giunone ingraviderà una nube, che gli partorirà le chimere ed i Centauri»105. L’invito alla lettura del «libro della Natura» sembrerebbe un’apertura ai nuovi criteri di metodo della «nuova scienza», ma 101  102  103  104  105 

C. Dollo, Modelli…, cit., p. 133. Ibidem.

N. Serpetro, Il Mercato, Introduzioni per chi legge, s.p. C. Dollo, Modelli…, cit., pp. 133-134.

N. Serpetro, Il Mercato…, Introduzioni per chi legge, s.p.

80 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

la piegatura al piano mitologico tiene lontano da tentazioni speculative che non si esauriscono nella ricerca della forma per la forma106. Di qui, conclude Serpetro, «Sarà sempre reputato figlio più legittimo della scienza naturale, chi saperà prolumgar la vita, mutare le complessioni de gli huomini, alleggerire in alcuno la forza dell’Imaginatione, mitigare i tormenti, ed accelerare il tempo della chiarificatione, della putrefattione, della decottione e della germinatione, etc., che quello il quale proferendo i precetti generali stima toccar il Cielo col dito, se gli esplica secondo la mente d’Aristotele»107. Figlio legittimo della scienza naturale non sarà colui che misura gli eventi naturali col metro degli assiomi aristotelici (vedi condizione e funzione delle «categorie»), ma colui che s’insinua nel ventre della Natura e individua quei percorsi che si rivelano proficui per rendere al meglio la vita pratica degli uomini. Se poi si volge lo sguardo al rapporto tra le scienze della Natura e la cognizione di Dio si apprende che la contemplazione dell’eterno affiora più «da infinite simpatie ed antipatie delle cose create, che da quelli lunghissimi discorsi della materia prima, della Identità, del moto, del tempo, del loco e da tante altre spinose questioni, ch’empiono i grandi volumi»108. «Non potrà procurare la trasformazione d’alcun metallo in Oro chi non conobbe le nature del peso, del color Flauo, del Malleabile, dell’Estensibile, del fisso, del volatile, e non riguardò internamente, i semi minerali, e mestrui»109. Alla luce di quanto argomentato e lapalissianamente di quest’ultimo stralcio di scrittura concordiamo con Dollo quando sostiene che «Serpetro rappresenta dunque l’area empirista, pragmatica, alchemica e moderatamente animista, di cui non sarebbe difficile ipotizzare – anche quando non avessimo dati precisi – ascendenze campanelliane». Ipotesi che si fanno certezze quando dalle “chiare simpatie e antipatie naturali” si pone l’accento sulla didattica del mercato che «ripropone gli accorgimenti della Città del sole, e i contatti personali apertamente esibiti sono chiaramente attestati ed indicano una precisa scelta»110. Serpetro è campanelliano, anzi, riteniamo, che voglia restare alla storia, senza destare equivoci per la storiografia avvenire, come l’interprete e la continuazione del filosofo di Stilo. A buona ragione di questo convincimento Dollo considera: a) che non solo Cartesio ma anche Galilei o qualcuno della sua scuola, come il Redi, il Malpighi, il Castelli, il Cavalieri e il Borelli,

106  107  108  109  110 

Cfr., C. Dollo, Modelli, cit., p. 135.

N. Serpetro, Il Mercato…, Introduzioni per chi legge, s.p. Ibidem.

Ibidem.

C. Dollo, Modelli, cit., p. 134.

81 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

portatori di narrazioni che avrebbero di sicuro interessato il Serpetro, sono del tutto assenti nelle opere di Serpetro; b) che è attendibile, come testimoniato da Galilei, che Serpetro e Borelli vissero la stagione romana del 1634 a stretto contatto col Campanella, e che nell’opera dei due, entrambi messinesi, non c’è alcuna traccia della presenza dell’altro è una presa d’atto di «difficile interpretazione». Anche se è indicativo alla nostra causa che Dollo individui una ragione culturale quando afferma che «la linea del De sensu rerum et magia prosegue in Serpetro non in Borelli»111; c) che è minima, se non inesistente, la distanza concettuale e argomentativa tra Serpetro e i più inveterati tradizionalisti: sono di entrambi «simpatie e antipatie celesti, generazione spontanea e credenza in animali fantastici, perfino teoria delle quattro cause e teoria dei quattro elementi (…) penetrano e reggono le argomentazioni, congiungendosi in modo eteroclito alla dottrina telesiana del caldo-vita e ad influssi bodiani (…), per tornare a distendersi sulla orrenda attione delle comete o rimandare all’auxilium diaboli nelle predizioni astrologiche, desunto dalle autorevoli Disquisizioni magiche di Martin Del Rio»112. La «teoria delle quattro cause» si apre a ragioni teologiche che avvalorano la generazione spontanea, cui la Chiesa ancora oggi ricorre per mostrare l’intrinseco nesso tra sessualità e procreazione. Così argomenta Serpetro con parole del tutto analoghe a quelle profferte oggi in ogni dove da Benedetto XVI per legare il piacere sessuale all’atto procreativo: «Perché i semi, che dall’uno, e dall’altro sesso de gli animali si spargono, e si mischiano nel coito, sono come borse, e vagine della virtù formatrice, e spermatica, la quale ferma la materia antegiacente de lo sperma, ò del sangue nella forma essenziale di quella specie, di cui sono i semi in qualsivoglia modo misti, ò prodotti nell’atto. E quella della virtù è una benedizione concessale da Dio nella parola Crescite. La quale parola mai riuscì, né sarà vana mentre dura il mondo»113. Serpetro opera come Giano bifronte: all’unisono guarda in direzione della scienza della Natura e del suo Autore. E riesce a operare delle commistioni, che a volte sanno di originale anche se non sempre di coerenza, tra teologia, interventi astrali, alchimia, tradizione erudita del «meraviglioso», studio empirico delle «eccezioni» mostruose e attenzione ai risultati delle nuove scienze; si pensi, puntualizza Dollo, «l’interesse per la teratologia», di cui si erano occupati in diversa prospettiva autori come G.F. Ingrassia, F. Fedeli e Fortunio Liceti; oppure per la rilevante funzione attribuita all’immaginazione, per la prima volta «considerata mezzo tra il fisico e lo spirituale», che «mossa 111  112  113 

C. Dollo, Modelli, cit., p. 134 e cfr. nota 13. Ibidem, pp. 134-135.

N. Serpetro, Il Mercato…, cit., pp. 279-280.

82 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

dall’impressione fisica determina effetti fisici non soltanto nella veglia ma anche nel sogno»114. E, per guanto riguarda l’efficacia dell’immaginazione, di grande causticità ci appare il dettato relativo alla causazione immaginativa della partenogenesi nelle «vergini lussuriose» e fatti similari115. Al riguardo del sogno invece s’incammina su un percorso di psicologia cognitiva, presente in Eraclito116 e in Nietzsche117, ma oggigiorno tenuto in grande considerazione in tutti gli ambiti del sapere, nello specifico in quello scientifico. Scrive Serpetro: «L’anima sentendo nel sonno, non solo incitata dall’oggetto esterno, si riuolge à sentire; e prima oscuramente, e poscia chiaramente comprende le cose: ma ancora affetta dall’oggetto interno, rappresentato per il sogno, muoue la facoltà motrice e l’imaginatione viene eccitata dalla spetie riseruata delle cose, intorno la quale operando più intensamente, stimula la facoltà motrice. E che ciò sia veramente così, lo mostra il testimonio dell’esperienza cotidiana». In nulla si diversifica da questa scrittura la tesi sul sonno e la veglia sostenuta da Derek Denton nel recente volume Le emozioni primordiali. Volume che si apre con una illuminante prefazione di Jean-Pierre Changeux, che ben sintetizza la posizione del Denton attraverso il seguente dire: «Denton (…) postula che un sistema di neuroni del tronco encefalico

114 

C. Dollo, Modelli…, p. 135.

«Un Boschiducano, congiuntosi con la moglie vestito da demonio, generò un bambino, che subito nato, cominciò a correre. Un mostro simile si troua presso il Lemnio. Anzi il medesimo estende l’immaginazione à tal segno che nelle vergini più lussuriose mischiandosi il seme col sangue, per la libidinosa imaginatione, stima, che danno il principio all’animale» (N. Serpetro, Il Mercato…, p. 43). 115 

116  Dice Eraclito: «L’uomo accende a sé stesso una luce nella notte, quando essa è spenta nei suoi occhi: vivo è a contatto col morto quando dorme, desto è a contatto col dormente» (Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano e G. Serra, Arnoldo Mondadori, Milano, 1980, fram. 25). Commentano con perizia i curatori: «Quando il giorno muore e cede il passo alla notte, che spegne lo spettacolo del mondo, l’uomo accende a se stesso una luce: l’improvviso destarsi della fiamma restituisce la vista agli occhi, ma nella stanza illuminata dalla lucerna sopravvive, “a contatto” con la luce, una periferia ambigua di ombre e di tenebra. Come l’oscurità della notte segue alla luce del giorno e il giorno segue alla notte, così la morte segue la vita e la vita nel sonno “è a contatto” con la morte e nella veglia ‘è a contatto col sonno’» (ib., p. 135).

117  Argomenta Nietzsche: «Nel sonno il nostro sistema nervoso è continuamente in eccitazione per molteplici cause interne, quasi tutti gli organi interni secernono e sono in attività (…). Come l’uomo ancora oggi ragiona in sogno, così l’umanità ragionò anche nella veglia per molti millenni: la prima causa che si presentava alla mente per spiegare qualcosa che abbisognava di spiegazione, le bastava ed era ritenuta verità (…). Nel sogno continua ad agire in noi questa antichissima parte di umanità, poiché essa è la base sulla quale si sviluppò e ancora si sviluppa in ogni uomo la superiore ragione; il sogno ci riporta indietro in remoti stati di civiltà umana e fornisce il mezzo per comprenderli meglio» (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, in F. Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli e M. Montanari, Adelphi, Milano, 1965, vol. IV, t. II, af. 12).

83 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

(…) denominato sistema reticolare ascendente, assicuri la condizione di veglia, l’accesso allo spazio cosciente da parte delle informazioni sensoriali, ma controlli anche il sonno e il sogno»118. A fondamento del museo del «meraviglioso» non sta, per Serpetro, l’accidentalità, ma, restando fedele alla lettura aristotelica della fenomenologia naturale, il principio causativo, anche se non può negare che la molteplicità degli intrecci fenomenologici di cui la natura è portatrice qualche volta fa ricorso più al caso che alla causa. «La natura è sempre intenta in far l’opere perfette. Ma perché, se si ha riguardo alla varia ragione del primo Agente, del seme, della Costituzione del Cielo, della virtù formatrice, dell’immaginazione, e del calore, possono nascere molti ostacoli, non è maraviglia, che qualche volta erra»119. Scrittura pesante questa del Serpetro, che da sola giustificherebbe l’intervento del sant’Offizio; ammenoché quelli che lui chiama errori della Natura altro non sono che i limiti della ragione umana di comprendere ciò che non le è dato comprendere; ammenoché il primo Agente ha lasciato volutamente qualche imperfezione nella Natura all’atto della Creazione per far sentire la sua presenza a lavori in corso120. Ma il libro della Genesi esclude questa seconda interpretazione. La creazione è compiuta secondo i dettami del Primo Motore: l’accidentalità non è contemplabile se non come limite delle umane facoltà. L’accidentalità, a seguire i canoni veterotestamentari, non avrebbe ragione N. Serpetro, Il Mercato…, cit., p. 49; Jean-Pierre Changeux, Prefazione a D. Denton, Le emozioni primordiali. Gli albori della coscienza, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 14. 118 

119 

N. Serpetro, Il Mercato, cit., p. 78.

Psichismo nella materia, coscienza animale e coscienza riflessa dell’uomo sono per il padre gesuita Pierre Teilhard de Chardin un unico fenomeno che si sviluppa, in fasi diverse, nel corso dell’evoluzione. La dinamica di tale corso va dal «Cristo cosmico», il Cristo considerato come centro superiore psicobiologico dell’universo, al «Cristo evolutore», il «Cristo considerato come motore supremo dell’evoluzione», al «Cristo umanizzatore», il «Cristo considerato come centro promotore, mediante la sua incarnazione, di tutti i valori umani», al «Cristo universale», il «Cristo considerato come centro organico di tutto l’universo», al «Dio Omega», al «Dio in quanto centro universale e centro di convergenza cosmica al termine dell’evoluzione». Tematiche che permeano di sé tutta la scrittura del gesuita evoluzionista ben presenti sin dalle prime significative opere come L’ambiente divino (1926-1927), Lo spirito della terra (1931) e Cristologia ed Evoluzione (1933) e che trovano approfondita trattazione ne Il fenomeno umano (1938-1940), un’opera che ben disciplina i passaggi nodali del suo pensiero. In un passaggio di una lettera del 4 maggio 1931, che si può ritenere il suo testamento spirituale e culturale, si legge: «La fede in Cristo non si manterrà e non si propagherà, d’ora in avanti, che con l’appoggio intermediario della fede nel mondo… Lo Spirito che vedo io, è carico delle spoglie stesse della materia» (cfr., S. Quinzio, Che cosa ha veramente detto Teilhard de Chardin, Ubaldini editore, Roma, 1976, p. 26 e, per quanto riguarda le voci di cui sopra, p. 156 e p. 157). Sull rapporto scienza-fede in ambito evoluzionistico si rinvia al recente interessante saggio di Fiorenzo Facchini, Le sfide dell’evoluzione in armonia tra scienza e fede, Jaca Book, Milano, 2008. 120 

84 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

d’esistere, come non avrebbe ragione d’esistere a seguire la teologia classica, a cominciare da Tommaso d’Aquino. Dietro il caso si può nascondere la mano di Dio, come accaduto alla teoria monodiana che ha sostituito la «teleologia» con la «teleonomia»121, ma dietro l’accidentale, l’«eccezionale», che in sostanza permea di sé la complessità del vitale, non opera un «ingegnere» ma un «bricoleur»: «non – sostiene François Jacob – chi si mette all’opera solo dopo aver riunito i materiali e gli strumenti che servono esattamente al suo progetto» ma «chi si arrangia con gli scarti», «chi non sa esattamente cosa produrrà, ma che recupera tutto quello che trova in giro, le cose più strane e diverse, pezzi di spago o di legno, vecchi cartoni che potrebbero eventualmente fornirgli del materiale (…), che utilizza tutto ciò che ha sotto mano per farne qualche oggetto utile»122. Certo Serpetro è avvinto dalla fenomenologia dell’«eccezione», della «maraviglia», dando l’impressione che l’«eccezionale» costituisca la «norma» della Natura; si tratta, ovviamente, di un’impressione priva di fondamento, per la semplice ragione che l’«eccezionale» si mantiene solo se esiste la norma, se esistono le Leggi della natura. Serpetro ha coscienza di ciò, tanto che non di rado si addentra in spiegazioni razionali, anche se scarsamente attendibili sotto il profilo scientifico – come al riguardo delle argomentazioni offerte intorno all’«epilepsia», «conuulsione e dalli delirij»123oppure intorno all’“audacia” di quanti sono in possesso di un cuore di piccole dimensioni124 – ma di rilevante interesse come ponte che dal sapere accreditato dalla scienza ufficiale conduce al sapere popolare. Serpetro, non bisogna dimenticare, è legato al «mistero» sotto il profilo teologico e all’«alchemia» e alla «magia» sotto il profilo dottrinario. Il «mistero» è la cifra del suo mondo, dei suoi interessi, della sua fede religiosa. Il tentativo di razionalizzarlo altro scopo non ha che di rafforzarne la sua impenetrabilità, ma che – quando ad esempio argomenta sulla virtù dei «succhi condensati», come «sale», «alume», «nitro», «vitriolo», «nafta», «petrolio», «malta», dei «succhi impiatrati» e delle «gemme»125 121  Cfr. J. Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia moderna, trad it. Mondadori, Milano,1970, pp. 24-30. Cfr., inoltre, Odo Marquard, Apologia del caso, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1991.

122  F. Jacob, Evoluzione e bricolage. Gli espedienti della selezione naturale, trad. it. Einaudi, Torino, 1978, pp. 16-17. Cfr., inoltre, di Jacob, Il gioco dei possibili, trad. it. Mondatori, Milano, 1983. Vicina alla posizione di Jacob è la tesi di Edoardo Boncinelli presente in Le forme della vita. L’evoluzione e l’origine dell’uomo, Einaudi, Torino, 2000. 123  124 

N. Serpetro, Il Mercato…, cit., p. 22. Ibidem, p. 36.

N. Serpetro, Il Mercato, cfr., Portico Quinto: Delle maraviglie dei fossili: Loggia Prima, Seconda, Terza e Quarta. 125 

85 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

– costituiscono per le masse popolari punti di riferimento, virtutes e rimedia e, pertanto vanno considerati, come considerate vanno le credenze dei poteri eccezionali di alcune famiglie come quella “de’ Ciarauli”: «Viuono fino al dì d’hoggi in Militello di Sicilia, Terra posta nella Valle di Noto, alcuni d’una famiglia detta de’ Cirauli, ne’ maschi, e femine della quale, per molti secoli, s’è andata trasformando una marauigliosa virtù di guarire, non solo col tatto, con lo sputo, e con le parole, ma ancora con la imaginatione, tutti i morsi velenosi d’ogni sorte, e di far morire ogni spetie di velenati, quantosiuoglia lontani. E quello che è più di stupore: Le donne estrane, che vengono ingrauidate da i maschi di quella famiglia, per il tempo, che sono gravide, acquistano la medesima virtù, e scaricate che sono, la perdono, trasferendola ne’ figli. Doue per contrario le donne di questa famiglia, che sono ingrauidate da maschi estranei, essendo grauide perdono la virtù, ma dopo il parto la racquistano, né mai la trasfondono ne’ figli. Perché ella fu solamente concessa al seme dei maschi dal Sommo Dio»126.

Quando passa a considerare la traduzione dell’opera Osservazioni politiche e Morali sopra la vita di Marco Bruto di Francisco de Quevedo, Dollo fa presente al lettore che nel raccujese si registra una mutazione di prospettiva. Serpetro, per Dollo, in questa libera traduzione mostra maggiore profondità eticopolitica rispetto a quanto mostrato nell’opera precedente. Qui «è rigorosamente esposta l’ideologia “repubblicana” tipica di quasi tutta l’intellettualità messinese, con l’accentuazione dell’organicismo, della funzione della nobiltà, e la condanna sia del “cortigiano” che del “popolo”»127. Dollo ritiene che Serpetro si faccia portatore della visione «veteronobiliare» delle famiglie dei Cutelli128

126  127 

Ibidem, p. 57.

C. Dollo, Modelli, cit., p. 136.

A seguire Dollo la figura più rappresentativa della famiglia catanese dei Cutelli era quella di Mario, «grand Commis della politica olivaresiana», che a quel tempo viveva a diretto e assiduo contatto con la centrale sede madrilena. Di rilevante spessore culturale Mario Cutelli va ricordato per aver dato alle stampe il Codex Legum Sicularum, in quattro libri. Scrive Dollo: «Il Cutelli si preoccupa (…) di fissare i caratteri e i comportamenti dell’Optimus princeps e dei nobili, detentori del senso dello stato, non in astratto ma in relazione alle condizioni disastrate e all’auspicata renovatio, in funzione della quale acquistano significato le asserzioni generali» (C. Dollo, Filosofia e scienza in Sicilia, CEDAM, Padova, 1979, n. 6, pp. 108-109). La trattazione morale è di maggiore rilievo rispetto alla stessa Filosofia. A Cutelli, considera Dollo, la trattazione morale interessa più della stessa Filosofia. L’aspetto etico-politico costituisce il punto di riferimento dell’intellettuale organico al potere statale. 128 

86 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

e dei Branciforti129, finalizzata al potenziamento della grande e antica nobiltà in sintonia con il corso politico inizialmente auspicato dall’Olivares. Quello che per Serpetro conta è la figura del nobile, dell’aristocratico erudito nell’accezione etico-politica formulata da Platone. Questa figura, e non quella del “cortigiano” o del «popolo», ha il compito di dettare il destino dello Stato, per cultura e per favorevoli condizionamenti astrali. Il popolo è greve, banderuolo, infido e trascina alla deriva quanti a esso prestano attenzione: «La moltitudine con la medesima facilità abbandona, con la quale incomincia, et invece di aiutare confonde. È carica, non capitale. Carica sì pesante, ch’atterra chi se ne incarica, né può mai essere leggiera, che il peso non trabocchi al fondo. Si infuria e si rivolge come il mare, e con un soffio annega, chi di quella si fida»130. Il popolo non conoscerà nella storia motivi sufficienti per un suo riscatto etico, politico e culturale. Pessimismo irreversibile le cui ragioni si rintracciano nella condizione umana: «Il popolo (…) acclama per principe giusto il Tiranno liberale, et aborrisce come Tiranno il Prencipe avaro, ancorché in tutte le altre virtù sia eccellente (…), le invidie, gli oddij, le vendette, et i pravi costumi della maggior parte del volgo, fanno desiderare il Principe crudele verso gli altri»131. Convincimenti questi del Serpetro molto distanti da quelli palesamente fiduciosi intorno alla natura umana espressi ne Il Mercato allorquando sostiene che cultura e abitudini possono mutare sia gli animali132 che La posizione del Cutelli è condivisa da Ottavio Branciforti, prelato di rango appartenente alla più antica nobiltà dell’isola. Del De Animorum Perturbationibus Subsecivarum Cogitationun, stampata nel 1642 presso la tipografia vescovile di Catania, Dollo fa la seguente analisi: «Il fine istituzionale dell’opera, iscritto nella tradizionale dottrina aristotelico tomista (ricerca della causa efficiente e formale, del soggetto e degli effetti delle perturbazioni), è annunziato con estrema chiarezza fin dall’apertura: “Curiosa admodum cunctis, originis rerum indagatio. Sic in fluminibus, sic in corporis morbis, metallorum venis, maris fluxu, atque refluxu, caeterarumque Naturae rerum effectibus. At multo in perturbationum caussis praestantior:quo quidem sanitatis caussa concurritur, non tam volupatatis: cum certa quadam animorum nostrum cognitione, sordes, si non eluantur cognoscuntur”». Nobile e fruttuoso, l’interiorismo specifica nell’analisi delle passioni la sua superiorità su ogni altro genere di trattazione; non solo nei confronti di coloro che «divinam animi sui particulam de claro die scurram fecerint et balatronem (…)», ma anche di quanti pur si dedicano alla pubblica utilità. La trattazione morale è qui superiore anche alla contemplazione filosofica, o poetica, e giuoca un chiaro ruolo di restaurazione: «hoc Socraticum speculum est, quod quotidie suis consulendum discipulis praecipiebat; multo eius praestantius atque utilius, in quo cum se aspiceret Diana, tumentibus buccia tibias inflantem, proiectis tibijs suam iterum ad formam se recepit» (C. Dollo, Filosofia e scienza in Sicilia, cit., pp. 109-110). 129 

130  131 

N. Serpetro, Osservazioni politiche, e morali sopra la vita di Marco Bruto, cit. p. 66. Ibidem, p. 166.

«Il Signor Gian Francesco Loredano Senator Veneto (…) mi certificò d’haver veduto un Lupo, il quale nutrito da piccolo da un Cittadino Veneziano, haueua cambiato la natura del Lupo in 132 

87 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

l’uomo133, possono mutare il popolo da brutto anatroccolo in cigno, per usare una bella metafora di Heine. È sufficiente, per far sì che il popolo da brutto, sporco e cattivo diventi bello, pulito e buono, che la funzione egemone, che sta a guida delle istituzioni, abbia a cuore il problema dell’emancipazione del popolo, a cominciare di un’oppropriata nutrizione, una decorosa abitazione, un’igiene assidua, una curata istruzione. Anche la stagione dei Cutelli e dei Branciforti sembra volgere a termine. Serpetro, a seguire Dollo, nelle Osservazioni, pur restando filo-governativo e filo-nobiliare, offre spunti di autentica apertura nei confronti della crisi politica che avvince il governo centrale e, di conseguenza, anche i governi periferici. A riguardo della figura del «principe», pur dislogandone il suo esercizio all’interno dei confini della potenza reale, ritiene che il suo impegno tanto più è arduo tanto più è costruttivo per una sana amministrazione locale e centrale e tanto più lo rafforza in prospettiva istituzionale. Fuori dalla prospettiva machiavellica, Serpetro anticipa una problematica presente solo tra i più accorti degli illuministi. Scrive: «È più profittevole al Principe colui che gli dà pensiero, di colui che glielo toglie. Perché non essendo il Regno altro che pensiero, gli toglie il regno chi gli toglie il pensiero»134. Spunti di grande lungimiranza politica, ma che non hanno carattere di continuità non perché Serpetro manchi di ossigeno mentale, ma perché costretto a fare i conti con una realtà che legge il nuovo all’insegna del sospetto. Egli avverte nella società la presenza di nuove esigenze, ma avverte anche che spesso il nuovo non può coniugarsi con il vecchio. E pertanto ritorna, come buon senso gli detta, sulle orme dei suoi maestri e protettori. Egli sa che «la diffidenza regge i rapporti sociali»135 e farsi assorbire dai suoi tentacoli significherebbe esporsi all’ostracismo. Di qui la difesa a oltranza dei vecchi ruoli sociali. La donna resta donna, va lusingata ma non ci si deve fidare, l’interesse deve costituire il motore delle relazioni, dentro lo Stato le virtù civili non possono attecchire «perché le invidie, gli odij, le vendette, et i pravi costumi

Quella del Cane. Perché non solo guardaua la casa, e la persona del Padrone da Ladri, da forestieri, e da animali, e faceua tutti gli altri offitij del Cane: ma (quel che più mi dà maraviglia) non offendeva le pecore, né gli altri animali con li quali hà naturale antipatia facendo mendace il proverbio trito, che se perde il pelo perde il vitio» (N. Serpetro, Il Mercato, cit., p. 308).

«È tanta la forza dell’istitutione, che Socrate douendo esser malo per natura, quella lo rese buono. Anzi ella è tanto benigna, che quasi vergognandosi d’hauer commesso errore, compensa à gli altri abbondantemente ciò, che gli hà negato» (N. Serpetro, Il Mercato, cit., p. 30). 133 

134  135 

N. Serpetro, Osservazioni, cit. pp. 61-62.

C. Dollo, Modelli, p. 137.

88 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

della maggior parte del volgo, fanno desiderare il Prencipe crudele verso gli altri»136. Conclusione «Serpetro», ben conclude il Dollo, «vuol servire da specchio oggettivo per impedire che il potere conosca solo la realtà deformata dall’interesse cortigiano, ma il pessimismo lo risucchia e le oscure vicissitudini della morte sembrano farne, non figuratamente, una vittima del riflusso politico»137. Considerazione finale che legittima il percorso esistenziale e intellettuale del raccujese. Considerazione non malevola se non fosse per quel “pessimismo” che lo “risucchia” nelle oscure vicissitudini del suo tempo, di cui Serpetro medesimo fu vittima. Certo fu uomo di corte, e come tale, ben conoscendo gli scenari, costretto a operare. Senza protezione né di censo e né economica non gli è stato facile imporsi in contesti a lui estranei e ostili. Per avere considerazioni e apprezzamenti era necessario possedere doti intellettuali non comuni accompagnate da una visione costruttiva dell’esistenza. Non si parte da Raccuja senza pastrano e senza il convincimento di arrivare nelle sedi sperate. I più muoiono durante il tragitto. Serpetro arriva, invece, a destinazione e si siede nelle corti e nelle accademie più accreditate d’Italia: da Messina a Padova a Palermo a Roma a Venezia. Le credenziali non gli sopraggiungono ma vengono raccolte da quanti si appropriano del suo operato. Pertanto consideriamo il suo tragitto esistenziale e la filosofia della sua biografia positivi e propositivi. Giudizio che fa di Serpetro né un pessimista né un ottimista, ma un sano realista che giudica eventi e cose per quello che sono e non per quello che vorrebbe che fossero. La maraviglia non è né bianca né nera, ma è nella realtà delle cose e degli eventi di cui mantiene la regia la mente umana. Alla mente appartiene la «Maraviglia», alla mente appartiene la “Filosofia”: appartenenze come facce degli attimi che, a seguire la lettura di Salvatore Natoli, «rendono nuovo il mondo non tanto perché aggiungono qualcosa di nuovo rispetto a quel che c’è, ma perché sprofondano tutto quel che c’è nel senza fondo dell’origine»138. Luogo come non-luogo, luogo impregiudicato dove albeggia l’orizzonte aperto dalla meraviglia alla ricerca. Quella meraviglia come 136  137 

N. Serpetro, Osservazioni, cit., p. 166. C. Dollo, Modelli, cit., p. 137.

S. Natoli, “Filosofia/meraviglia, in Parole della filosofia o dell’arte di meditare, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 13. 138 

89 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

apertura alla ricerca, cui hanno dato una differente risposta due pensatori che vissero a distanza le stesse atmosfere seppur con approccio a volte diverso: Bacone (1571-1626) e Serpetro (1606-1664). Francesco Bacone, uomo della gran corte inglese e primo grande filosofo naturalista dell’era moderna, dalla “maraviglia” della natura raccoglie insegnamenti edificanti in prospettiva umanistica antisociale e anticristiana. Nel saggio Della Deformità dice: «Le persone deformi sono generalmente pari con la natura; infatti, come la natura ha fatto loro del male, così esse ne fanno alla natura, essendo la maggior parte (come dice la Scrittura) ‘privi di sentimento naturale’; e così si prendono vendetta sulla natura». E, più oltre, considera: «Chiunque rechi nella propria persona l’impronta di alcunché che susciti disprezzo, ha anche in se stesso uno sprone continuo a salvarsi e a liberarsi dal dileggio. Perciò tutte le persone deformi sono sommamente ardite (…). Questo stimola in loro la solerzia specialmente a sorvegliare e a osservare la debolezza degli altri, per poter avere qualche cosa da contraccambiare (…) Così che, generalmente, in un grande spirito la deformità è di vantaggio all’innalzamento (…) E perciò non ci si meravigli se talvolta si mostrano persone eccellenti, come furono Agesilao, Ranger figlio di Solimano, Esopo, Gasca, presidente del Perù; e anche Socrate, con altri, può essere annoverato fra questi»139. Diversa è la prospettiva di Nicolò Serpetro. Uomo politicamente addentrato nelle corti d’Italia e di grande cultura classica, il raccujese legge la “maraviglia” della natura all’interno di un umanesimo cristiano che si dona al sociale (“alterità”) per modificare in meglio la condizione del diverso. Nell’Officina Ottava (Portico Primo, Loggia Quarta) Serpetro si occupa Della compensazione che la natura fa alli mostri e scrive: «Dicono volgarmente, che coloro, che dalla natura furono prodotti difettosi, e manchevoli, hanno qualche segno d’improbità. Il che spesse volte si troua esser vero. Ma che sia così sempre, è cosa falsissima. Perché (…) è tanta la forza dell’istituzione, che Socrate douendo esser malo per natura, quella lo rese buono. Anzi ella è tanto benigna, che quasi vergognandosi d’hauer commesso errore, compensa à gli altri abbondantemente ciò, che gli ha negato»140. Bacone non crede nella bontà della natura dell’uomo e della società dentro cui è costretto a vivere, e apre all’homo homini lupus di Thomas Hobbes; Serpetro crede nella bontà dell’uomo e soprattutto all’apertura della natura alla società e alla disponibilità della società a rendere migliore l’uomo, e si fa portatore di quel naturalismo illuministico che vedeva la società come una 139  140 

F. Bacone, Saggi, trad it. Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1966, pp. 164-165. N. Serpetro, Il Mercato, cit., p. 30.

90 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

continuazione della natura stessa, non riscontrando alcuna discontinuità tra ordine biologico e ordine sociale; che vedeva la società non concepita come una realtà diversa dalla natura, ma quasi come un’appendice creata per il suo stesso rafforzamento e per la sua stessa conservazione. Certo l’accostamento all’Illuminismo può apparire fuori misura, e in parte lo è. Si pensi ai motivi di differenza e di distacco dall’impostazione illuministica, che finalizzava il tutto alla felicità e al benessere degli individui e, di conseguenza, esaltava come supremo valore le scienze e le arti. Serpetro, rimane un uomo del suo tempo, e si preoccupa dei singoli più per la loro destinazione umana che per la loro felicità. Da ciò deriva quella radicale posizione del problema che investe la Natura stessa del potere pubblico, che egli vuole fondato, non come per gli Illuministi, sulla libertà degli stessi cittadini, ma sull’accettazione incondizionata dell’assenso al potere regale. Certo la mitologia dell’illuminismo, generatrice dello sviluppo scientifico e tecnologico e garante del primato del mondo occidentale, non si addice a Serpetro. Anzi Il Mercato di questa mitologia è la negazione. In esso emergono altri miti dimenticati: miti d’impronta effervescente, efflorescente, dionisiaca, che dicono della gioia di vivere e financo del disordine dentro cui si culla la condizione umana. Alla scienza con i vari “Novum organon” si appaia la riviviscenza del barocchismo. Il potere del razionalismo cammina con quella parte del diabolicum che esprime il potere dell’immaginazione. Serpetro si colloca qui. Il maraviglioso di cui è portatore s’iscrive nella cornice del suo tempo (marinismo manieristico) e ci fa giungere da lontano quei miti «sempre gli stessi», come un giorno diranno Claude Lévi-Strauss e Michel Foucault. Si tratta di luoghi prospettici che pongono l’accento sulla separazione: corpo e anima, natura e cultura, io e altro, privato e pubblico. E tanta dicotomia ancora che riferisce del brulichio della vita, del disordine delle passioni, del caos dell’onirico, degli alti e bassi dei giochi del potere e del potere-sapere. Appropriandosi degli aspetti dell’homo demens e dei suoi accoliti baccanti, Serpetro limita (o meglio espone al pubblico ludibrio) la sfera dell’homo sapiens e, nell’accettazione dello stile di vita barocco, dice di sì alla vita, nella prospettiva che un tempo, anche se per altri percorsi e per altre motivazioni, sarà di Friedrich Nietzsche. Avendo sposato la prospettiva del maraviglioso riteniamo Serpetro un interprete delle scansioni del suo tempo. Nella prospettiva barocca la sua figura giganteggia: l’animale umano si esprime nella sua interezza, costituita dalle variegate scenografie di tutti gli umori che la borghesia aveva rifiutato, marginalizzato, nascosto, negato. Sangue, sperma, umori vaginali, sudore, urina, escrementi vengono riconosciuti e accettati, ritenuti componenti strutturali della vita sociale. Di ciò che si muove dentro di noi è cosa da cui non vergognarsi: rappresenta il non trascurabile delle relazioni sociali. 91 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Serpetro ha aiutato a scrivere una pagina di storia, pertanto, ha lasciato il suo nome nel tempo. Offrire uno spaccato sull’aspetto maraviglioso, senza eliminare nessun elemento di ciò che mostra la natura significa tessere il più accreditato elogio dell’esistente. Tessere l’elogio della ragione sensibile non è solo ammettere il voler vivere dell’umano senza qualità, di cui più in là riferirà Roberto Musil, ma attribuire a questa ammissione d’essere portatrice del riconoscimento di un pensiero adeguato (o ragion d’essere). Culto esasperante della forma, pulsioni animali, ritmi sfrenati, pensiero primitivo dicono di alcune versioni del barocchismo, delle quali si possono biasimare le sfaccettature ma che non rapprasentano la causa e l’effetto di una innegabile energia esistenziale. Qui c’è l’io-altro: dalle epoche storiche emerge quello stato d’animo in cui la “comunicazione”, la complementarietà, supera l’esclusione, il relativismo si sostituisce all’universale empirico e, quel che più conta, la relazione persona-persone si sostiuisce all’identità individuale. In questa accensione dello stile di vita dello stile barocco, Serpetro si eleva a personaggio di primo piano, per aver scritto, in tempi non sospetti, un importante capitolo di fenomenologia della cultura. Santi Lo Giudice

92 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Sulla nuova versione della morte di don Nicolò Serpetro

La storia, al pari dell’animo umano, è spesso un guazzabuglio, di cui difficilmente, molto difficilmente a volte, si colgono le autentiche movenze del suo svolgersi. Le prove documentali, spesso, non sono sufficienti per fare chiarezza su fatti e avvenimenti che la vurgata ufficiale ci presenta in un certo modo. Dando così ragione a Friedrich Nietzsche, il più grande, insieme a Goethe e Heine, pensatore tedesco di tutti i tempi, che nella Seconda Inattuale (raccolta di saggi) dall’indicativo titolo Sull’utilità e il danno della storia per la vita inverte l’adagio della tendenza classica che riteneva «la storia maestra di vita» con l’adagio che ritiene invece «la vita maestra di storia» – senza con questa inversione pretendere di sovvertire il fatto storico, che è e rimane per Nietzsche il primo e ultimo punto di riferimento in mano agli umani. Tutt’al più Nietzsche per meglio radicalizzare gli accadimenti, non si soffermava sul «come» sono accaduti ma sul «perché» s’è prestato fede al «come» sono accaduti. Che è come dire: il fatto storico non si nega, ma la lettura che di tale fatto si offre, non sempre traduce il vero al cospetto della prospettiva di chi gestisce la narrazione. Spesso la prospettiva è di intima movenza, che per la profondità dell’animo di chi si accinge a scriverla mette in risalto la verità di propria appartenenza più della verità vera del fatto considerato. Ciò premesso veniamo a Serpetro e alla nuova versione relativa alla sua morte, di cui riferisce con testimonianze inconfutabili il prof. Salvatore Aronica negli articoli apparsi sui numeri 98, 99, 100 e 101 (maggio 2010-agosto 2010) della rivista mensile “Lu Papanzicu” col titolo L’avventurosa vita del raccujese Don Nicolò Serpetro, scrittore, poeta, astrologo e arciprete di Ravanusa. Testimonianza di cui siamo venuti a conoscenza in seguito all’avvenuta ristampa anastatica del volume Il Mercato delle Maraviglie overo Istoria naturale (Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2009) di Nicolò Serpetro. Ristampa che ha avuto due visibilità ufficiali. La prima, celebrata presso l’Aula Magna dell’Università di Messina il 28 maggio 2010 alla presenza del Magnifico Rettore prof. Francesco Tomasello e del Preside della Facoltà di Scienze della Formazione prof. Antonino Pennisi, si è avvalsa degli apporti scientifici del prof. Mario Ruggenini (Univ. Ca’ Foscari di Venezia) che ha tenuto una lectio magistralis sul tema “Filosofia/Meraviglia” e dei proff. Mario Alberghina (Univ. di Catania), Salvatore Cavallo, Raimondo De Capua e Pietro Emanuele (Univ. di Messina). La seconda, alla presenza del sindaco di Raccuja prof. Cono Salpietro Damiano, 93 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

delle autorità religiose e militari del luogo e del presidente del “Comitato amici di Serpetro” prof. Antonino La Mancusa, si è svolta il 28 agosto 2010 presso il “Castello Branciforti” di Raccuja. L’apertura del lavori è stata del prof. Pietro Emanuele (Univ. di Messina), la lectio magistralis sul tema “Filosofia/Meraviglia” è stata tenuta dal prof. Salvatore Natoli (Univ. Bicocca di Milano), le relazioni ufficiali sono state del giornalista e poeta Melo Freni e della prof.ssa Leonarda Vaiana (Univ. di Messina). Gli interventi programmati sono stati affidati ai proff. Martino Michele Battaglia, Franco Capelvenere, Giovanni Coglitore, Raimondo De Capua, Carmelo La Mancusa. La chiusura dei lavori è stata di Santi Lo Giudice, presidente onorario del “Comitato Amici di Serpetro”. Aronica, dopo aver succintamente ed efficacemente riportati i passaggi nodali della vita e delle opere di Serpetro, fa presente che l’illustre raccujse svolse attività in qualità di Arciprete nella Chiesa Madre “San Giacomo” della città di Ravanusa tra il 16631 e il 16682. Anno quest’ultimo della sua morte per cause naturali. Il suo corpo ebbe sepoltura nella stessa Chiesa Madre, e tale Chiesa accolse, anche se sono andate perdute, le sue ossa. Fa inoltre presente che riscontri dell’arcipretura serpetriana a Ravanusa si hanno negli archivi arcivescovili riguardanti la storia degli arcipreti di Ravanusa, nelle iscrizioni a firma di Serpetro sul Fonte Battesimale sito sempre nella Chiesa Madre: fonte da lui voluta che mette in bella mostra i suoi titoli e lo stemma della famiglia Bonanno (“un gatto nero passante su un fondo d’oro”), che aveva protetto e sostenuto Serpetro nel corso delle sue vicissitudini giudiziarie. Fa presente inoltre Aronica che alcuni componenti dell’originaria famiglia di Serpetro hanno abbandonato Raccuja per stabilirsi a Ravanusa, come si evince dai cognomi “Sampietro”, “Sarpietro” e “Salpietro” che si rintracciano a tutt’oggi a Ravanusa e dintorni, a testimoniare non solo della presenza in questa terra di don Nicolò ma anche di parte del suo ceppo familiare. E fin qui nulla da eccepire al riguardo delle argomentazioni di Aronica. Qualche perplessità rimane allorquando egli ipotizza intorno alle modalità di affrancamento da parte di Serpetro dalla condanna a cinque anni inflittagli dal tribunale della Santissima Inquisizione e da scontare in clausura conventuale. Aronica, nel far presente che il Serpetro intratteneva buoni rapporti con l’intera famiglia Bonanno3, col barone che governava Ravanusa e con quello che

1  Cfr., p. LXXXI, da cui si ricava la data del 16 giugno 1663, in riferimento alla nomina ad Arciprete di Ravanusa di don Nicola Serpetro. 2  Cfr., p. LXXXIII, da cui si ricava la data 13 marzo 1668 che riferisce della nomina di natale Cammalleri, successore di don Nicola Serpetro, ad Arciprete di Ravanusa.

3  Cfr., p. LXXXIII, in cui si fa riferimento al duca di Montalbano (dux Montis Albani) ma non viene esplicitato il casato dei Bonanno.

94 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

governava Canicattì, evidenzia di quanto a quel tempo il potere temporale del governo politico delle città sovrastasse quello della chiesa Cattolica. Scrive Aronica: «Con ambedue i baroni l’arciprete Don Nicolò entro i confini della terra di Ravanusa si sente ben tutelato e al sicuro dagli sgherri della S. Inquisizione. Del resto nella sede della sua Arcipretura il diritto di vita e di morte dei terricoli spettava in esclusiva al barone di tale terra, suo Patrono. E Don Nicolò non voleva sentirne più di Palermo, ove l’invidia lo aveva coperto di ignominia. Lasciato il passato alle sue spalle, poté curare serenamente la nuova incombenza parrocchiale. E ricordava ancora con ripulsa i clamori dell’Accademia dei Riaccesi, il suo arresto a Palermo da parte del Capitano del S. Uffizio, mentre usciva dalla sede di quell’Accademia, a Piazza Marina nel settembre 1662, e la cella di Palazzo Steri, ove era stato rinchiuso di nuovo, e l’ulteriore condanna per magia della S. Inquisizione a cinque anni di clausura in convento. Perciò nel maggio del 1664 nella cella del convento di Roccafiorita (ME), pure baronia del Bonanno, e sua dimora ufficiale, anche se si trovava con il beneplacito di quel Padre Guardiano, fuori ordinanza arciprete a Ravanusa, per sottrarsi al pesante domicilio coatto, inscenò la propria morte simulata con la bava in bocca, perché venisse notificata ai molesti signori dell’Inquisizione. A Ravanusa il Rev. Serpetro si sentiva ben tutelato. La sua arcipretura clandestina era iniziata nel 1663 e durò, senza incidenti di sorta un bel quinquennio, sino al 1668, anno in cui il nostro arc. Serpetro morì, stavolta senza simulazione, nella nostra Ravanusa, per come si legge nella Bolla di nomina datata 1668 del suo successore arc. N. Cammalleri. E fu sepolto con tutti gli arcipreti dell’epoca nella chiesa madre di Ravanusa, nella cripta a pavimento dell’altare maggiore. In ordine al menzionato quinquennio della sua arcipretura, il compianto fraterno amico Mons Enzo Gallo lo riconferma, trascrivendolo, tuttavia, con date d’inizio e fine differenti: 16.6.1662-1667 (V. Gallo, Parrocchie e Parroci della Chiesa Agrigentina, Agrigento 1991, pag. 139»; cfr., S. Aronica, L’avventurosa vita..., cit., luglio 2010). Questo il dettato nodale della ricerca di Salvatore Aronica. Questi, a ulteriore supporto di quanto scoperto, fa inoltre riferimento allo studio Novecento anni di Storia (Agrigento 1985) di A. Noto. Di questo prendiamo atto, anche se qualche perplessità resta in piedi, anche dopo le prove provate di Aronica. Ammesso, come dice Aronica nel citato articolo, che della morte di Serpetro per avvelenamento avvenuta a Palermo nel 1664 «ne ha scritto soltanto il Mongitore e tale notizia manca di riscontro presso altri contemporanei» – cosa non del tutto vera, in quanto a pagina 61 della Brevissima sintesi della storia di Raccuja (Edizioni della Cassa Rurale Artigiana, Raccuja, 1981) Giuseppe Algeri scrive: «[Serpetro] morì a Rocca Florida, nel 1664, forse per veleno, per volgare invidia, in quanto era nominato “La Fenice degli Ingegni”»; 95 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

ammesso che la sopra riportata narrazione di Aronica possa rappresentare più di un’attendibile ipotesi, restano in piedi alcune perplessità che spero possano essere confutate con altrettante prove provate: 1) se è vero, come fa presente Aronica nell’incipit del citato articolo del giugno 2010, «che mentre era in carcere, fu accusato altresì da due sacerdoti regolari di avere cattiva nomea nel palazzo, conducendo vita scandalosa e non celebrando Messa, e di avere sostenuto in pubblico tesi a favore della mortalità dell’anima», e che «in ordine alla prima accusa il Serpetro si giustificò che non aveva celebrato Messa per un impedimento canonico», come è giustificabile, sul piano del diritto canonico, che un sacerdote, consacrato tale ma privato dal diritto di celebrar messa, possa, dopo aver subito due condanne dal tribunale della Santa Inquisizione, non solo ignorare la condanna ma addirittura appropriarsi di funzioni che inizialmente il suo magistero non contemplava? 2) se è vero, come è vero, che le condanne ci sono state, come risulta tra l’altro dalla voce dello stesso Serpetro, come si giustifica, in un tempo in cui la Santa Inquisizione governava le azione e financo le budella della gente, la messinscena della morte di Serpetro, non per scomparire definitivamente dagli orizzonti sociali ma addirittura per coprire nel sociale, come nella città dalla valenza politica di Ravanusa, un incarico importante come quello di un’arcipretura? 3) è mai possibile che i tanti nemici, soprattutto quelli all’interno della stessa Chiesa palermitana, che lo avevano tanto perseguitato e tanto calunniato, non abbiano avuto sentore della presenza a Ravanusa in qualità di arciprete della Chiesa Madre del pluricondannato don Nicolò Serpetro? Ravanusa era a un tiro di schioppo da Palermo, che a quel tempo rappresentava la sede siciliana principale della casa madre madrilena, e con Palermo non aveva rapporti quotidiani in senso lato? 4) i baroni Bonanno erano così potenti da soffocare la voce di una Chiesa che aveva ovunque ramificazioni e che non tollerava, se non altro per una questione di principio, di essere beffeggiata e irrisa come Aronica vuol farci credere nella sua narrazione della messinscena della morte per avvelenamento del Serpetro? 5) è mai possibile, come afferma ancora Aronica, che la baronia dei Bonanno comportasse, dopo l’Umanesimo e il Rinascimento e agli albori della scienza moderna che apriva all’Illuminismo, il diritto di vita e di morte sui «terricoli»? Diritto, che a ben considerare, era prerogativa di re, imperatori e papi. 96 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Sono tutte perplessità che rimangono, e che trovano una giustificazione scarsamente attendibile nel metaracconto di Aronica. A parte le ragioni del metaracconto, riteniamo lodevole il lavoro di Aronica per quanto riguarda la ricerca e la successiva pubblicazione dei dati riconducibili al vissuto ravanusano di Serpetro in qualità di Arciprete. Per quanto riguarda il perché di questo vissuto, contro tutto e contro tutti, non è dato sapere con certezza. Un’ipotesi vale un’altra ipotesi. Ma non sempre e così. Certe ipotesi storiche sono più attendibili di altre. E per restare fedele all’insegnamento di Nietzsche, anche per quanto riguarda l’ipotesi sulla morte di Serpetro, riteniamo che vada rintracciata non in un tergiversamento da palcoscenico di provincia ma in una solida prospettiva ermeneutica machiavellicamente legata a una commistione di elementi in cui Cesare e Dio si fanno tutt’uno – come da sempre accaduto e accade, ieri con la figura del vescovo-conte oggi con quella delle elargizioni economiche alla Chiesa da parte di chi ci governa – all’insegna di un do ut des che si sostanzializza tramite il danaro e il potere che da questo deriva. Si è trattato di un accordo solido che avrebbe consentito alla Curia palermitana di trarre rilevanti benefici economici e alla famiglia Bonanno di avvalersi della collaborazione economico-giudiziaria, oltre che culturale su un piano più generale, di un uomo esperto come don Nicolò Serpetro. s.l.g.

97 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

98

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

SERPETRO TRA CONDANNA E PROMOZIONE Sulla ragione della mancata applicazione della condanna di Serpetro e sulla ragione della sua promozione ad arciprete della Chiesa Madre di Ravanusa

Premessa A testimoniare che è rimasta sempre la stessa a partire dal suo costituirsi, fa testo l’ultima, tra le centinaia delle migliaia di nefandezze consumate dalla Chiesa cattolica di questi ultimi decenni. Scrive Laura Sirignano, nell’articolo “Sesso con minori in cambio di soldi, prete fermato” (Gazzetta del Sud del 24 luglio 2013): «L’appuntamento era al “crocifisso”, vicino a una missione per poveri, o nei luoghi abituali della prostituzione gay a Palermo. Arrivava in auto, caricava ragazzini tra i 15 e i 17 anni, regalava soldi per le sigarette o per la spesa, prometteva loro smartphone costosi e li convinceva a prostituirsi». Continua la Sirignano: «Faceva leva sui bisogni delle vittime – adolescenti cresciuti tra povertà, ignoranza e degrado – le riempiva di sms, parlava di sentimenti, di amore. E tra un messaggio hard e l’altro assicurava che avrebbe pregato per loro». Protagonista di queste turpi vicende è il sacerdote ed ex professore di religione don Aldo Nuvola, chiamato dai ragazzi «parrino», finito in manette il 23 luglio per ordine dalla Procura di Palermo. A seguire la Sirignano, don Aldo «non nuovo ad adescamenti di adolescenti, è stato condannato nel 2012 a un anno e mezzo di carcere, pena sospesa. La curia gli ha tolto la guida della parrocchia di Regina Pacis, ma don Aldo è rimasto sacerdote a tutti gli effetti. E ha continuato a molestare ragazzini (…)». Qualcuno, si chiederà: perché i vertici della Chiesa cattolica di fronte a conclamate nefandezze non lo ha allontanato dai suoi ranghi? Perché, e ritenuto colpevole, è stato sollevato dalla condanna? Al secondo interrogativo, che investe la giustizia ordinaria, non siamo in grado di rispondere, mentre al primo, che investe il foro ecclesiastico, rispondiamo per bocca di Michele Mancino e Giovanni Romeo: i due studiosi che hanno dimostrato le ragioni che hanno spinto le alte gerarchie ecclesiastiche, già all’indomani del Concilio di Trento, a tollerare le più aberranti trasgressioni da parte della gran massa del «clero criminale», comprese ovviamente le aberrazioni che riguardavano la sfera sessuale. E la ragione di questa tolleranza va rintracciata non fuori ma 99 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

dentro le componenti dottrinarie della Chiesa cattolica. Il crimine, e quello sessuale in particolare, è una malattia che si contrae non all’esterno ma all’interno delle mura vaticane, è endogamico al costituirsi della Chiesa in quanto Chiesa votata al celibato. Eppure come è noto, dei dodici apostoli di uno solo si riferisce che non era sposato, e quasi certamente perché troppo giovane. Addirittura, nei primi secoli, non era consentito l’accesso al ruolo di presbiterio (prete) e di episcopo (vescovo) se non si dava prova di saper gestire una propria famiglia con moglie e figli. Delle tante confessioni cristiane sparse sull’intera terra (evangelica, battista, cattolica, ortodossa, anglicana, luterana, calvinista, zuigliana, etc.) solo quella cattolica impone ai suoi ministri l’obbligatorietà del celibato e, quel che è più grave sotto il profilo fisiologico che su quello morale, l’astensione da qualsiasi gratificazione affettivo-sessuale. Per Non lasciate che i bambini vadano a loro per usare un indicativo titolo di un interessante libro-inchiesta a firma dell’acuto scrittore e giornalista Augusto Cavadi, la Chiesa cattolica, proprio perché cattolica, ossia aperta all’universalità delle sane relazioni, farebbe bene ad abbandonare la strada della sessofobia. Proprio perché sappiamo che la percentuale dei preti cattolici pedofili non è più alta rispetto a confessioni religiose analoghe o a gruppi sportivi, diciamo che la Chiesa cattolica deve aprire a una sessualità come linguaggio di comunicazione metafisica, per chiudere gli spazi a quell’interscambio (anche in funzione di carriere o di progressione di carriere) fondato sulla compravendita di corpi prosciugati dal segno dell’affezione autentica1. E pensare che Mancino e Romeo, all’indomani di un Concilio piegato sempre più agli interessi della Curia romana, non esitano ad affermare che le blande relazioni dei vescovi sull’operato del «clero criminale» erano dettate dal fatto che non si comprendeva «perché mai (…) di fronte a una centralizzazione così aggressiva, avrebbero dovuto collaborare con autorità romane così poco rispettose del loro ruolo». Certo non tutta la chiesa è corrotta, qualche realtà pia c’è stata, ma raramente, molto raramente. Tra le ultime eccezioni, di certo, padre Pio e madre Teresa di Calcutta. La prima fu avversata apertamente da due papi stolti, la seconda, per aver interpretato e vissuto appieno il senso della vita caritatevole, fu tollerata senza alcun entusiasmo. E non dimentichiamo padre Puglisi, assassinato per non essersi piegato ai voleri della mafia. E, a seguire il dettato di Alessandra Ziniti presente nell’articolo “Ragazzini pagati per fare sesso, prete in manette” (“Repubblica-Palermo” del 24 luglio 2013), proprio «nel giorno in cui la Chiesa siciliana gremiva il prato del Foro Italico per la be1  Cfr., A. Cavadi, Non lasciate che i bambini vadano a loro, Falzea Editore, Reggio Calabria, 2010.

100 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

atificazione di don Puglisi, padre Aldo Nuvola scambiava messaggi nervosi con i suoi “amichetti”. “Dove ci vediamo? Al Foro Italico, in via Lincoln, è tutto chiuso. C’è polizia ovunque. Danny, Jassim, Giovanni, Daniele, tutti minorenni e tutti pronti a soddisfare le voglie di quel prete che, nonostante la condanna a un anno e mezzo di carcere per induzione alla prostituzione minorile, non aveva perso il vizio di fare sesso con ragazzini pagandoli con poche decine di euro (…)». A quattro giorni dall’arresto si apprende che la Curia di Palermo ha sospeso a divinis, cioè dai misteri, padre Aldo Nuvola, che non potrà più celebrare messa e confessare. A seguire la nota della Curia si apprende inoltre che non vengono escluse «le dimissioni dallo stato clericale e la dispensa dagli obblighi del celibato» (Romina Marcega, Padre Nuvola, scatta la sospensione, “Repubblica-Palermo” del 26/07/2013). Eppure dal 2008, da quando don Nuvola era stato invitato a presentare le dimissioni dalla carica di insegnante di religione, dopo la denuncia di atti osceni in luogo pubblico e a dimettersi da parroco della chiesa “Regina Pacis” dopo l’apertura di un procedimento per molestia nei confronti di un minorenne, sono passati cinque anni. Perché la Curia ha fatto trascorre così tanto tempo prima di prendere una decisione radicale nei confronti di don Nuvola? Il perché è scritto nelle ragioni argomentate di seguito. La Chiesa nell’era postridentina Dal Concilio di Nicea (325) al Vaticano II (1962-1965) la Chiesa cattolica annovera 21 Concilii. Quello di Trento (1545-1563) è il diciannovesimo e gode di rilevante efficacia e maggiore notorietà. Efficacia e notorietà per la Chiesa cattolica per due motivi: a) assunse posizioni dottrinali chiare al riguardo delle tesi dei protestanti, b) promosse il rinnovamento della disciplina della Chiesa, auspicato da troppo tempo dai cristiani, attraverso precise indicazioni sulla formazione e sul comportamento del clero. Per quanto concerne il primo motivo va rilevato che nei documenti del concilio si fa ricorso ai termini e ai concetti tomistici e scolastici con parsimonia e cautela e, come ben evidenziato da osservatori attenti, la misura non è quella delle particolari Scuole teologiche bensì quella della fede della Chiesa. Si argomenta principalmente sulle questioni dottrinarie suscitate dai protestanti, in particolare sulla «giustificazione per fede», sulla questione delle «opere», sulla «predestinazione» e, con grandi spazi argomentativi, sui «sacramenti», che i protestanti tendevano a ridurre solo al battesimo e all’eucarestia. Per quanto riguarda quest’ultima, si ribadisce la dottrina della «transustanziazione eucaristica», secondo la quale la sostanza del pane e del vino si 101 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

trasforma in carne e sangue di Cristo, in contrasto con la «consustanziazione» di Lutero, che contempla la permanenza del pane e del vino pur realizzandosi la presenza del Cristo, e in contrasto a Zwingli e Calvino versati ad offrire un’interpretazione simbolica dell’eucarestia. Riguardo al secondo motivo, che in questa sede ci riguarda maggiormente, citiamo, per dare un’idea dello spirito riformatore che animava il Concilio, parte del canone I del “Decreto di Riforma” (sessione XXII,17 settembre 1562): «Non vi è altra cosa che spinga più assiduamente e maggiormente gli altri alla pietà e al culto di Dio, della vita e dell’esempio di coloro che si sono dedicati al divino ministero. Vedendoli, infatti, sollevati dalle cose del mondo e su di un mondo più alto, gli altri guardano a essi come a uno specchio e da essi traggono l’esempio da imitare. È assolutamente necessario, perciò, che i chierici, chiamati ad avere Dio in sorte, diano alla loro vita, ai loro costumi, al loro abito, al loro modo di comportarsi, di camminare, di parlare e a tutte le altre loro nazioni, un tono tale, da non presentare nulla che non sia grave, moderato, e pieno di religiosità. Fuggano anche le mancanze leggere, che in essi sembrerebbero grandissime, perché le loro azioni possano ispirare a tutti venerazione»2. Il Concilio di Trento la dice tutta intorno all’elemento di reazione espresso nel concetto di «Controriforma», ma la dice tutta anche intorno all’elemento di continuità espresso nel concetto di «Riforma cattolica». La «Riforma cattolica» non è cosa del tutto diversa dalla «Controriforma». Si tratta di sfumature finalizzate a caratterizzare lo stesso dipinto, i cui tratti strutturali sono acutamente evidenziati da Hubert Jedin, storico tedesco dei Concilii e in particolare del Concilio di Trento che, alla domanda se si debba parlare di «Riforma cattolica» o di «Controriforma», così risponde nella pregevole opera Riforma cattolica o Controriforma (1957): «Non si deve dire: Riforma cattolica o Controriforma , ma Riforma cattolica e Controriforma. La Riforma cattolica è la riflessione su di sé attuata dalla Chiesa in ordine all’ideale di vita cattolica raggiungibile mediante un rinnovamento interno; la Controriforma è l’autoaffermazione della Chiesa nella lotta contro il Protestantesimo». «Riforma Cattolica» e «Controriforma», seppur non si confondono si tratta di due movimenti inscindibili e concorrono parallelamente allo stesso fine. Fine ben esplicitato da Jedin attraverso la seguente scrittura: «La Riforma è basata sull’autoriforma delle membra nel tardo medioevo; essa è cresciuta sotto la spinta dell’apostasia ed è giunta alla vittoria mediante la conquista del Papato, l’organizzazione e attuazione del Concilio di Trento: è l’anima della Chiesa ripristinata nel suo vigore, mentre la Controriforma ne è il corpo. Nel2 

Anonimo Veneziano, Il concilio di Trento, Parigi, Louvre, pp. 318-319.

102 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

la Riforma cattolica sono immagazzinate le forze che vengono poi scaricate nella Controriforma. Il punto in cui esse si intersecano è il papato. La frattura religiosa ha sottratto alla Chiesa forze preziose annientandole, ma anche risvegliato quelle forze che ancora esistevano, le ha accresciute e ha fatto sì che lottassero fino all’ultimo. Essa fu un male, ma un male dal quale è nato anche qualche cosa di positivo. Nei due concetti di “Riforma cattolica” e di “Controriforma” sono adombrati anche gli effetti che ne conseguirono»3. Lutero ha con la sua Riforma rinunciato al principio di autorità romana solo per trasferirlo nelle mani del principe, che diviene in tal modo il padrone assoluto della coscienza dei suoi sudditi. Questo fu ben compreso dalla Chiesa cattolica. A Trento, rifiutando la tutela dei prìncipi, il Papa, come ai tempi gloriosi della Santa Sede, si impose come il solo capo della Chiesa. I padri conciliari, respingendo ogni compromesso con le eresie, salvarono l’unità della Chiesa e fissarono rigorosamente i suoi dogmi. Il catechismo romano, redatto da Carlo Borromeo nel 1566, li rese intelligibili alle masse; un “Breviario” e un «Messale» stabilirono la rigorosa unità dei riti per l’intera cattolicità. Di seguito fu redatto e pubblicato nel 1582 il Corpus Juris Canonici, che diede al diritto canonico la sua forma definitiva, e, nel 1592, l’edizione della Bibbia, la Vulgata che diede ai cattolici la versione autentica. L’autorità del Papa, negato da Lutero e dai movimenti protestanti in genere, si affermava sovrana, più monarchica che mai. Al riguardo invece della riforma interna della Chiesa, è noto che non è stata compiuta dal Concilio, ma dall’autorità della Santa Sede che veniva intraprendendo un’opera di profondo rinnovamento. Roma, dal Concilio di Trento, intraprese una missione spirituale, attraverso la creazione di seminari, conventi e l’istituzione di nuovi ordini religiosi. E con questo si può dire che il Concilio di Trento segna una forte rinascita cattolica, fondata sull’autorità del Papa, sull’intangibilità del dogma e, per quel che ci riguarda, sulla severità della disciplina ecclesiastica.

3  H. Jedin, Riforma cattolica o Controriforma. Tentativo di chiarimento dei concetti con riflessioni sul Concilio di Trento, trad.it. Morcelliana, Brescia, 1995.

103 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Severità della disciplina ecclesiastica fino a che punto? Dei tre punti che dovevano promuovere la rinascita della Chiesa cattolica postridentina, il terzo, che contemplava il riordino morale dei comportamenti del basso clero (preti, chierici, frati, monaci, monache), resta il più controverso e, a seguire le conclusioni a cui sono divenuti Michele Mancino e Giovanni Romeo nel loro già citato volume Clero Criminale. L’onore della Chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell’Italia della Controriforma, il più disatteso. Le argomentazioni di Mancino e Romeo non lasciano nulla al caso, e anche i pur minimi particolari funzionali all’ordine del discorso dicono delle ragioni storiche ed etiche della disattesa severità papale della disciplina ecclesiastica ma, soprattutto, dicono delle ragioni che hanno spinto i vertici della Chiesa ad arrendesi alle ragioni di quel «clero criminale» trincerato alla difesa dei privilegi da secoli acquisiti. È vero che una parte non consistente dei processi riguardava trasgressioni di poco conto come litigi, ingiurie, eccessivo attaccamento ai soldi, lassismo nell’esercizio del magistero sacerdotale, ma è altresì vero che una parte non proprio esigua dei processi riguardava delitti gravi che andavano dagli omicidi premeditati alle violenze sessuali su minori, al concubinato. A seguire Mancino e Romeo «l’aumento vertiginoso delle iniziative penali contro il clero delinquente era accompagnato da una diffusa indifferenza, come se si trattasse di un’attività di routine, non di una novità assoluta e per molti versi sorprendente». Si chiedono gli autori nella Premessa: «Come spiegare questa curiosa situazione? Perché la Chiesa italiana combatté una battaglia così importante in sordina senza darle troppo rilievo?». La risposta, a seguire gli autori, è una, ed è valida per l’intero terreno giurisdizionale della Chiesa cattolica: «più che i limpidi schemi tridentini, furono determinanti le scelte romane che li affossarono, a cominciare da quelle che ridussero i vescovi italiani al ruolo di semplici esecutori delle decisioni centrali»4. Quale la ragione che indusse le alte gerarchie romane a svuotare di ogni valore il «modello tridentino»? Perché, a seguito dell’idea di rinnovamento della Chiesa nell’Italia tridentina, le ispezioni, i controlli, le ammonizioni, i decreti, i processi e le blande condanne servirono poco o, addirittura, a niente? Perché il basso clero, a volte pluricondannato, fu sistematicamente reintegrato nello stesso incarico e nella medesima sede, senza tenere in alcun conto i fedeli a cui avrebbe dovuto fare da guida spirituale? Anche di fronte a questi interrogativi la risposta è una ed è valida dal Sud al Nord delle terre della Chiesa. I pochi prelati che rimasero fedeli alla lettera del modello tridenti4  M. Mancino-G. Romeo, Clero criminale. L’onore della Chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell’Italia della Controriforma, Laterza, Roma-Bari, p. VI.

104 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

no «furono sconfessati, anche perché aumentarono, a dispetto del concilio, le vie di fuga tradizionali offerte al clero delinquente dal pluralismo delle giurisdizioni ecclesiastiche. Così, proprio nel corso degli anni Settanta del Cinquecento, sentenze di condanna sistematicamente annullate o annacquate in appello e richiami costanti delle autorità romane alla cautela e alla riservatezza nell’uso dello strumento penale nei confronti degli uomini di Chiesa fecero capire allo sparuto gruppo di vescovi fedeli al concilio che erano su una strada sbagliata, che non bisognava eccedere nel rigore. In quella battaglia gli obiettivi irrinunciabili erano altri: la tutela dell’onore del clero e il rispetto del privilegio di foro, cioè del diritto dei suoi membri ad essere giudicati dai tribunali ecclesiastici»5. L’enfasi dell’operato della Chiesa postridentina, ora nell’accezione di “Riforma cattolica” ora nell’accezione di “Controriforma”, versata alla professionalizzazione del clero e alle istanze di risveglio riformatore, che all’inizio del XVII secolo caratterizzò il pontificato di Innocenzo XI, va ridimensionata di molto e, a poco a poco, quasi del tutto. Il ridimensionamento e la scomparsa delle linee guida del Concilio Tridentino non sono un fenomeno della Chiesa italiana ma della Chiesa cattolica in generale. «Le linee di intervento in materia di criminalità ecclesiastica», puntualizzano gli autori, «furono ovunque le stesse»6. Avocare a sé i più gravi delitti degli ecclesiastici e vietare la pubblicizzazione dei relativi processi non appartiene alla Chiesa del XVII secolo ma alla Chiesa di sempre, alla Chiesa dell’oggi. Un riscontro si ha nel volume La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla conquista di Roma di Giovanni Miccoli7, in cui l’autore rintraccia un esempio altamente significativo, che dice di come i fondamenti dottrinari della Chiesa cattolica vengono sempre inficiati, indipendentemente dalle epoche storiche, da quelle ragioni di stato (etico) finalizzate a garantirne sopravvivenza e potere. Un esempio indicativo a tutt’oggi, argomentano Mancino e Romeo a seguire gli studi di Miccoli,«è quello delle lodi profuse dal prefetto della Congregazione del Clero, il cardinale colombiano Dario Castrillón Hoyos, all’indirizzo di un vescovo francese condannato nel settembre del 2001 a tre mesi di reclusione e a un franco simbolico di risarcimento a ciascuna delle vittime di un prete pedofilo delle diocesi. Il prelato, che pagava così la scelta di aver disatteso l’obbligo tassativo di denunciare abusi di cui era da tempo a conoscenza, era stato elogiato dal porporato sudamericano, in una circolare ai vescovi di tutto il mondo, 5  6 

Ibidem, pp. VI-VII. Ibidem, p. VIII.

G. Miccoli, La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma, RomaBari, 2011, pp. 386-394. 7 

105 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

come un martire dei nostri tempi, che ha preferito subire una condanna pur di non ‘tradire’ un collaboratore. L’iniziativa dell’autorevole cardinale è stata sconfessata solo nell’aprile del 2010 dal portavoce della Sala Stampa vaticana (l’illuminante vicenda è documentata in http://magister.blogautore.espresso. repubblica.it2010/04/16)»8. Mancino e Romeo non hanno remore ad ammettere che, all’indomani del Concilio di Trento, il ruolo centrale dell’educazione dei laici ed ecclesiastici vessati a vivere in un nuovo modo l’esperienza cristiana era affidata alla figura del vescovo, ma è anche vero che «l’autorità vescovile era facilmente messa sotto i piedi, in modi e per motivi diversi»9 da parte del «clero delinquente» e, quel che più sorprende, da parte dei componenti del collegio cardinalizio che governava la Chiesa del tempo. Questo era lo scenario in cui per lo più versava il mondo cattolico: «omicidi, violenze, pratiche sessuali di ogni genere, estorsioni, truffe, usura, falsificazione di atti e di monete, contrabbando, abusi legati al magistero sacerdotale, vedono con frequenza sotto processo esponenti del clero. Né mancano delitti, anche efferati, commessi nei monasteri femminili. Non di rado, inoltre, finiscono alla sbarra le stesse autorità della Chiesa. Fece scalpore, ad esempio, la condanna al carcere perpetuo (di solito condonato in breve) inflitta nel 1559 al vescovo di Polignano, sorpreso a letto con una cortigiana la notte prima della domenica delle Palme. Tuttavia, il prezzo più pesante lo pagò la donna, perché subì la frusta pubblica, la confisca dei beni, l’esilio e la distruzione della casa. La sentenza fece discutere, dato che l’interessata era in regola con il pagamento del tributo annuo dovuto dalle meretrici nella città del papa»10. E le cose non cambiano nell’era di Serpetro. Per i casi che riguardavano l’eresia o la magia, l’accusa veniva a volte resa pubblica, mentre per i procedimenti penali di natura sessuale era ritenuto quanto mai opportuno mantenere il segreto. Non occultarli significava ottenere «solo il paradossale risultato di rinfocolare l’avversione endemica dei laici per gli ecclesiastici»11. Si trattava G. Miccoli, La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla conquista di Roma, citato in M. Mancino-G. Romeo, Clero criminale, cit., p. VIII, nota 1. 8 

9 

M. Mancino-G. Romeo, Clero criminale, cit., p. 12.

Ibidem, pp. 12-13; cfr., T. Storey, Carnal Commerce in Counter-Reformation Rome, Cambridge, 2008, p. 8. 10 

M. Romeo-M. Mancino, Clero criminale, cit. p. 79. Per la tutela della segretezza nelle procedure giudiziarie si rinvia tra l’altro a P. Salodi, Praxis compendiosa de visitazione, Mediolani, apud Pacificum Pontium, 1593, pp. 161-186, P. Fusco, De visitazione et regimine ecclesiarum libri duo, Ex Typographia Vincenti Accolti, Roma, 1581, pp. 8-11 e 31-41, a F. Ninguarda, Manuale visitatorum duo bus libris complectens visitazioni subiacentia, Ex officina Accolyiana in Burgo, Roma, 1589, p. 17, 19-20, pp. 131-175. 11 

106 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

di una leggerezza imperdonabile per due ragioni. La prima si regge sul convincimento che le visite pastorali di controllo devono mirare non a reprimere ma a correggere; la seconda sul convincimento che quando gli abusi non provocano scandalo, infamia o pregiudizio di terzi, è molto meglio astenersi dal giudicare e condannare12. Le autorità ecclesiastiche, a conoscenza di fatti criminosi di preti, frati, chierici, debbono intervenire con molta cautela, muoversi con equilibrio ed evitare ogni forma di pubblicità le pene repressive. Le nuove procedure per combattere il clero delinquente sono inscindibili dalla riservatezza. E c’è di più. Scrivono i nostri autori: « Procedimenti penali, anche ripetuti, non impediscono neppure significativi avanzamenti di carriera, se è vero che nell’intenso ventennio di repressione successivo al 1581 due dei recidivi sono eletti pievani. Uno di essi, don Girolamo Locatelli, per oltre trent’anni cancelliere del patriarcato, supera anche senza problemi, prima della nomina, un esame speciale sui costumi (nel 1594, quando aveva subito, dopo la condanna del 1581 del nunzio/visitatore per una convivenza proibita, un altro processo per concubinato nel 1586, due per negligenza nell’esercizio delle sue funzioni nel 1586 e nel 1589, uno per simonia e altri eccessi nel 1593)»13. Come è possibile che giudici tanto influenti annacquino decisioni ineccepibili? Il problema è nel rigore eccessivo dei giudici, non nei delitti del clero. È giusto punire un ecclesiastico che ha sbagliato, ma rendergli la vita impossibile, vietandogli di celebrare o sequestrandogli i proventi, è inopportuno. Su Serpetro, sulla mancata applicazione della condanna e sulla promozione ad Arciprete Come già riferito nella nostra Introduzione alla versione del Serpetro de Il Mercato delle Maraviglie overo Istoria naturale – traduzione scarsamente fedele della Thaumatographia nauturalis di Jan Joston –14, Serpetro nel 1640, al tempo del suo soggiorno palermitano presso la nobile famiglia Branciforti, fu processato dal Tribunale del Sant’Uffizio per avere, a detta delle testimonianze di tre servitori del principe, praticato la magia e invocato nei suoi atti quotidiani la figura del demonio. Sebbene si trattasse di accuse pesanti, che Cfr., M.A. Genovese, Praxis archiepiscopalis curiae Neapolitanae, apud Io. Iacobum Carlinum, Neapoli, 1602, pp. 112-113. 12 

13 

M. Mancino-G. Romeo, Clero criminale, cit. p. 98.

S. Lo Giudice, Introduzione a Il mercato delle maraviglie della natura overo Istoria naturale Del Cavalier Nicolò Serpetro, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2009, pp. LII-LXVI. 14 

107 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

in altri luoghi e altri tempi, avrebbero potuto comportare pene severissime, il Serpetro venne condannato all’abiura «de levi» e all’esilio dalle città di Palermo e di Messina per la durata di tre anni. Si trattò di una pena alquanto aleatoria che di certo fu condizionata dall’intervento sulla Chiesa del tempo da parte della potente famiglia Branciforti, presso cui il Serpetro svolgeva la carica di segretario. Come inoltre riferito nella citata Introduzione, una sera del settembre del 1662, Serpetro, non più segretario del potente casato dei Branciforti ma della meno accreditata famiglia Bonanno, viene intercettato da due uomini vestiti in nero e, una volta che si erano qualificati come gendarmi del Sant’Uffizio, lo condussero a Palazzo Steri, sede del tribunale dell’Inquisizione. Anche questa volta l’accusa era quella di praticare, sulle orme del suo maestro Tommaso Campanella, facendo ricorso ai prodigi di una memoria che sa di diabolico, i pericolosi sentieri della magia, dell’occultismo, dell’astrologia e dell’alchimia. Anche in questa occasione la condanna fu mite. E venne pronunciata nella Sala del Segreto a porte chiuse. Non fu decisa alcuna degradazione dall’ordine religioso e non gli furono sequestrati i beni, come accadeva di rito a tutti i condannati. La condanna alla reclusione in convento per cinque anni e all’obbligo di non esercitarsi più in prove di memoria, è da ritenersi ancor più aleatoria della prima15. Avevamo, a conclusione di quel percorso, sposato la tesi di Giuseppe Quatriglio che, rapportandosi a una nota di Antonino Mongitore – canonico della metropolitana chiesa di Palermo nonché giudice sinodale, consultore e qualificatore del Sant’Uffizio di Sicilia – dice che la morte di Serpetro «era avvenuta non sine veneni suspicione (non senza il sospetto del veleno)». E invece le cose stavano diversamente. A ridosso alla ristampa anastatica della traduzione de Il Mercato delle maraviglie apprendevamo, grazie agli articoli di Salvatore Aronica apparsi sulla rivista mensile “Lu Papanzicu”, che il Serpetro non ha scontato alcun giorno di reclusione, non è morto avvelenato e, quel che più ha sorpreso, in seguito alla condanna, come si rileva da documenti inconfutabili, svolge, tra il 1663 e il 1668, anno della sua morte per cause naturali, missione pastorale in qualità di Arciprete nella Chiesa Madre “San Giacomo” della città di Ravanusa. Di tutto ciò abbiamo offerto un circostanziato rendiconto in una notarella esplicativa alla seconda ristampa16 del Il Mercato delle Maraviglie, avvenuta

15 

Cfr., ibidem.

S. Lo Giudice, Sulla nuova versione della morte di Don Nicolò Serpetro, in Il mercato delle maraviglie della natura overo Istoria naturale Del Cavalier Nicolò Serpetro, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2011, pp. LXXV-LXXIX. 16 

108 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

a due anni di distanza dalla prima ristampa. In essa prendevamo atto di quanto sostenuto da Aronica, ma non ci capacitavamo intorno al perché: a) la Chiesa invece di far eseguire la condanna ha elevato il Serpetro al ruolo di Arciprete della chiesa più importante di Ravanusa, b) al perché la Chiesa nel promuovere Serpetro non ha tenuto in alcun conto che il raccujese era stato consacrato sacerdote senza «diritto di messa» e, pertanto, non avrebbe potuto svolgere il ruolo di arciprete, c) al perché Serpetro, non più legato alla potente famiglia dei Branciforti, bensì alla molto meno potente famiglia Bonanno, abbia potuto eludere la pena e addirittura essere promosso al rango di Arciprete, nel cui ruolo non avrebbe potuto accedere ora perché condannato ora perché non attrezzato giuridicamente ai compiti che il suo nuovo ruolo comportavano. Intorno a questi manifestavamo ragionate perplessità. E come unica risposta attendibile avevamo ipotizzato uno scambio di favori, su base economica, tra la Chiesa palermitana e la famiglia Bonanno. Questa nostra ipotesi evidenzia a tutt’oggi ragionevolezza. Ma, alla luce dei risultati della rigorosa ricerca storica sul clero criminale portata a compimento dai sopracitati Michele Mancino e Giovanni Romeo, apprendiamo che la Chiesa postridentina, a meno che non venivano messi in discussione i principi relativi all’«unità della Chiesa», all’«autorità del Papa», all’«intangibilità del dogma», accondiscendeva a tutto, compresi a volte i crimini più orrendi, come l’omicidio, la pedofilia, lo stupro, la simonia e, quant’altro di più turpe può albergare nell’animo umano. Si registrano sentenze di condanna nei confronti di uomini di Chiesa sistematicamente mitigate o, a volte, addirittura annullate in appello da parte delle alte gerarchie della Chiesa di Roma. E come sopra riportato, a seguire Mancino e Romeo, i procedimenti penali, spesso reiterati, non impediscono che avvengano, come accaduto al nostro Serpetro, significativi avanzamenti di carriera «se è vero che nell’intenso ventennio di repressione successivo al 1581 due dei recidivi sono eletti pievani»17. Conclusione In Italia, dalla seconda metà del Cinquecento fino al tutto il Settecento inoltrato, i crimini comuni del clero furono ad appannaggio dalla giustizia di parte governata dai tribunali della Chiesa, tanto che è facilmente riscontrabile che uomini di Chiesa pluricondannati furono reintegrati nello stesso incarico e, molto spesso, nella stessa sede. Oppure addirittura, come nel caso di cui sopra, furono riservati loro «significativi avanzamenti di carriera». Come pro17 

M. Mancini-G. Romeo, Clero criminale, cit., p. 98.

109 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

prio accaduto al nostro Serpetro. Di certo il raccujese non era un delinquente, ma fu pur sempre processato e condannato per crimini ideologici di rilevante importanza come la magia, l’alchimia e il ricorso al demoniaco. Siamo convinti che nessuno dei tre crimini fu consumato dal Serpetro, ma non è dato negare di quanto i giudici ecclesiastici fossero convinti del contrario. Non a caso lo condannarono. E che poi la condanna non fu, sia nel primo che nel secondo caso, eseguita, va annoverato in quella logica di cui riferiscono Mancino e Romeo, che vuole la Chiesa «annacquare», se non addirittura annullare, le condanne di primo e secondo grado. Così come entra nella stessa logica della Chiesa ricorrere, a volte, alla promozione del reo. E in quest’ultimo caso contribuiscono elementi noti ma, molto spesso, ignoti, non per questo privi di fondamento, come nel caso nel nostro Serpetro. Serpetro fu processato, condannato e poi promosso, perché accreditato socialmente dal peso politico delle famiglie aristocratiche che lo proteggevano, ma soprattutto perché la Chiesa postridentina aveva a cuore la «tutela dell’onore del clero» e il «rispetto del privilegio di foro», che consisteva nel diritto dei suoi membri ad essere giudicati solo dai tribunali ecclesiastici. Serpetro era un uomo di cultura, che aveva messo il suo ingegno al servizio dei potenti. Da quanto ci risulta non aveva recato danno a nessuno, tutt’al più aveva destato invidia per i ruoli che copriva e per la grande considerazione in cui era tenuto dalle famiglie che lo foraggiavano per l’alta competenza e professionalità dei servigi. Ad una Chiesa che dal basso fino alle alte gerarchie viveva fuori dal diritto civile e da quello canonico, adusa a minimizzare e sorvolare su crimini orrendi, non di certo poteva considerare le accuse di magia e alchimia che venivano rivolte a quel prete che nulla aveva a che spartire con il pubblico e con la gerarchia ecclesiastica. Se non venivano condannati gli ecclesiastici rei dei crimini più efferati perché avrebbero dovuto sottoporre a pene, qualora fossero realmente colpevoli, uomini come il sacerdote Serpetro che si occupava di magia e di astrologia per arricchimento culturale e non per pratica di tali arti al fine di ricavarne benefici economici? Se non venivano condannati quegli uomini di Chiesa adusi a reiterate pratiche criminali e senza alcun riguardo per i fedeli che avrebbero dovuto fare da guida spirituale, perché avrebbero dovuto sottoporre a varie pene il Serpetro che era sacerdote senza diritto di messa, che nulla aveva a che spartire con le masse se non l’obbedienza alla Chiesa e al casato nobiliare di appartenenza? La risposta, vista la logica che sottintendeva l’etica della Chiesa postridentina, alle linee d’intervento in materia di criminalità ecclesiastica, dal Nord al Sud d’Italia, erano ovunque le stesse. E se si volge lo sguardo all’oggi la mentalità postridentina è rimasta, nello spirito, immutata. Non quelli come Serpetro, che in fondo restano anime pie, ma il clero criminale continua a gestire i traffici della casa vaticana, e spera di sbarazzarsi di papa Francesco, 110 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

come i fiorentini si sbarazzarono del Savonarola, per poter dire ancora una volta: dopo quella nuvola di polvere tutto è rimasto come prima. Perché la Chiesa per potersi eternizzare ha necessità di mantenere in piedi il «come prima», legato, come è noto, al bisogno che l’umanità sofferente di lei può sempre avere, come ben compreso dal grande poeta e filosofo hegeliano Heinrich Heine18. E per l’uomo, essere di bisogno, la Chiesa, indipendentemente dal tempo d’appartenenza, ha l’obbligo di tutelare l’onore del clero, che è stato e continua a essere il suo obiettivo di fronte alla criminalità ecclesiastica.

Così Heine: «Il destino finale del cristianesimo dipende quindi, dal bisogno che ancora possiamo averne. Nekl cosro di diciotto secoli esso fu un bene per l’umanità sofferente, fu una religione provvidenziale, divina, sacra. Tutto l’utile che essa ha recato alla civiltà, ammansendo i forti e dando forza ai mansueti, riunendo i popoli in virtù dello stesso sentimento e della stessa lingua (...) è sempre poco di fronte alla grande consolazione che esso ha rappresentato per l’umanità» (H. Heine, Per la storia della religione e della filosofia in Germania, in H. Heine, La Germania, a cura di Paolo Chiarini, trad, it. Bulzoni, Milano, 1979, p. 187). 18 

111 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

112

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

INTRODUZIONE Sulla “Vida de Marco Bruto” di Francisco de Quevedo nella versione “Osservazioni politiche, e morali sopra la vita di Marco Bruto, trasportate dallo spagnolo dal Cavalier Nicolò Serpetro”

«(...) Francisco de Quevedo, scrittore aggressivo e satirico, riflette bene le contraddizioni del barocco. Senza dubbio lo scrittore più intelligente del secolo, Quevedo appare spesso trasportato dal suo eccessivo settarismo – antisemita, antifemminista, patriottico, reazionario politicamente – che in un momento può far scordar la bellezza della sua prosa, la profondità delle sue meditazioni sulla vita, la morte, l’amore (...)» (F. Garcìa de Cortázar - J. M. González Vesga, Storia della Spagna)

Cenni storici sulla Spagna al tempo di Quevedo I trattati di Vestfalia (24 ottobre 1648), che posero fine alla guerra dei Trent’anni, sancirono il crollo della politica egemonica degli Asburgo. L’idea dell’unità imperiale dell’Europa veniva provvisoriamente scartata: alla concezione dell’egemonia si sostituì quella dell’equilibrio. Un equilibrio politico e religioso. Fallito il sogno imperiale degli Asburgo, l’Europa cercava di adattarsi alle diversità che la sua evoluzione economica, sociale e religiosa imponeva alla sua organizzazione politica. La specificità fondamentale dei trattati di Vestfalia fu la mancanza assoluta di principi teorici che vi si manifestò. All’ideologia assolutista, autoritaria e cattolica degli Asburgo, i trattati non contrapposero alcun’altra ideologia, bensì riflessioni realistiche dettate dal governo di Francia e che ebbero come unica finalità quella di assicurare la pace. Ma l’opera dei partecipanti i trattati fu sminuita dal rifiuto della Spagna di parteciparvi. Al tempo dei segni tangibili di decadenza dell’impero, Filippo IV, fermo nei progetti di egemonia e incoraggiato dalle instabilità politiche che si manifestavano a quel tempo in Francia, aveva nel 1647 firmato a Münster, una pace separata con le Provincie 113 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Unite, al fine di volgere tutte le sue attenzioni ed energie contro la Francia. Con questi accordi la Spagna riconobbe l’indipendenza delle Provincie Unite, cedette loro tutto il Bramante del Nord e le fortezze di Maastricht sulla Mosa, rendendo in tal modo i Paesi Bassi del Sud indifesi contro un eventuale attacco proveniente dall’Est, e sacrificò loro Anversa consentendo alla chiusura del porto fluviale della Schelda. Di qui, pur di continuare contro la Francia una guerra d’ordine prettamente dinastico che non poteva recare alla Spagna alcunché di positivo in ambito economico e politico, Filippo IV rinunciò definitivamente alla base marinara di Anversa che era stata, come ben noto, l’anima economica dell’impero di Carlo V. Spinto dalla sola preoccupazione di far riconoscere l’egemonia dinastica sul continente, egli si disinteressò del tutto del mare, che aveva reso grande la Spagna nel mondo. Autorizzando la chiusura della Schelda, Filippo IV non solo recò danno alla Spagna ma tradì l’intera terra dei Paesi Bassi di cui era il legittimo sovrano. Di certo Anversa, dopo le guerre religiose, non aveva più quell’energia di prima. Ora il suo posto era stato occupato da Amsterdam. Pur tuttavia restava una delle terre più significative d’Europa, centro di ricchezza economica ma anche di arte e di cultura. Filippo IV però non si curava dei vistosi segni di decadenza di questa terra, a lui interessava soltanto la gloria. La firma dei trattati di Vestfalia fece della Francia la prima potenza terrestre in Europa. In questi anni, tutto l’Occidente è agitato da un violento movimento d’opposizione contro l’assolutismo1. In Inghilterra il Parlamento, dopo aver fatto imprigionare il re, aveva assunto la direzione del regno. In Spagna, la Catalogna, elevata a repubblica indipendente, e il Portogallo, separatosi dalla Spagna, spinsero Filippo IV a intraprendere, contro i sudditi ribelli, due L’assolutismo, preparato in Francia da Francesco I e attuato da Enrico IV, non ha nulla in comune con quello che si impose in Spagna con Filippo III. Prendendo le distanze dalla tradizione nazionale degli Aragonesi, Filippo III introdusse in Spagna la dinastia degli Asburgo d’Austria e, per imporre la sua sovranità ai sovrani d’Europa, considerava la Spagna e gli altri suoi Stati solo come strumento della sua potenza dinastica. Questo comportava una vera e propria rottura con la visione della monarchia nazionale fondata sugli Stati Generali, formatasi in Europa a partire dal XV secolo. L’assolutismo di Filippo III era di diritto divino. Esso si fonda sull’unità di culto sancita dalla Santissima Inquisizione e rappresenta la nazione spagnola non in quanto fa appello al suo consenso, ma perché si presenta come salvaguardia della sua fede e della sua razza, perseguitando gli eretici e i recidivi, scacciando dal paese i mori e gli ebrei. Il nazionalismo di Filippo IV è un effetto dell’autoritarismo: non è un sentimento germogliato dal territorio nazionale spagnolo, ma una teoria imposta dalla monarchia per assicurare il trionfo dell’assolutismo che si ufficializza come l’incarnazione non del sentire nazionale, ma dello spirito eterno della razza, che deve impregnare di sé ogni altra considerazione e che il solo re è capace di imporre dentro e fuori i confini (cfr. al riguardo F. García de Cortázar-J.M. Gonzáles Vesga, Storia della Spagna. Dalle origini al ritorno della democrazia, trad. it. Bompiani, Milano, 2001, pp. 186-263). 1 

114 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

guerre. Napoli, dove le leve degli uomini per le guerre spagnole diventavano sempre più massicce, faceva ricorso alle armi. Dopo le sommosse del 1622, del 1636 e del 1646, provocate dalla politica assolutista di Filippo IV – che aveva soppresso gli Stati nel 1642 – a Napoli era scoppiata una rivolta che, con a capo il pescivendolo Masaniello, aveva dato luogo nel 1647 alla proclamazione della Repubblica. La Sicilia, la più disagiata di tutte le province, era stata rovinata dalla politica di statalismo economico della Spagna, che aveva fatto cessare le sue esportazioni di grano sottoponendole a dazi proibitivi. Oppressa dalle sanzioni delle imposte e dalla falsificazione della moneta, soffocata dalla venalità della giustizia, si era votata anch’essa alla ribellione. Le rivolte del 1647 di Messina e quelle dell’anno successivo che si ampliarono in tutta l’isola erano la testimonianza del profondo declino economico e del malessere generale del popolo siciliano, costretto a vivere in stato di miseria. Sulle ragioni dell’assolutismo quevediano La ragione fondativa dell’assolutismo spagnolo del XVII secolo è da rintracciarsi nelle unioni dinastiche messe in atto in Spagna da Filippo IV (16211663). Questi, col matrimonio delle figlie Maria Teresa con Luigi XIV e Margherita Teresa con l’imperatore Leopoldo I, fece di questi sovrani i cognati di Carlo II, di cui erano, attraverso i matrimoni dei loro padri, cugini germani. Carlo II stesso sposò Maria Luisa d’Orleans, nipote di Luigi XIV, in modo che tutti i grandi sovrani cattolici e le loro spose erano discendenti diretti di Filippo III. Nella prospettiva di Filippo III, la dinastia spagnola si veniva ad affermare come l’architrave della dinastia assolutista. E c’è di più. Una politica tal fatta, nell’intenzione di Filippo III, avrebbe dovuto dare all’Europa una certa unità e quell’equilibrio garantito dalla legittimità monarchica e dal rispetto reciproco dei sovrani nell’ottica di una medesima ideologia cattolica autoritaria, come il più grande strumento politico del secolo XVII per l’affermazione dell’assolutismo di diritto divino. Sul piano teorico, l’intenzione di Filippo III era portatrice di un’ideologia forte, ma per lo più non si rivelò causa di stabilità politica. Per esempio, in ambito di politica estera, invece di sanare i conflitti, né favorì l’insorgere. I diritti di successione alle varie corone furono all’origine delle guerre che misero a repentaglio l’equilibrio internazionale, come nel caso della Spagna e dell’Austria. La politica dinastica, oltre a registrare fenomeni di degenerazione delle famiglie regnanti, come nel caso di Carlo II di Spagna, favorì la netta separa115 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

zione tra gli interessi dei regnanti e quelli del popolo. Le monarchie occidentali, ispiratrici del sentimento nazionale di coesione politica ed emancipazione sociale dei popoli, di fatto consideravano i loro Stati e i loro sudditi come meri strumenti della loro politica. Infatti è proprio all’interno della cornice imposta dall’assolutismo che l’evoluzione interna delle nazioni si svilupperà, non intorno alla figura del re, ma contro di essa. Tanto che per sopravvivere l’assolutismo si vede costretto a soffocare le nazioni che, in passato, si erano create sotto l’egida dei re. Il sentimento nazionalista, le aspirazioni versate a favorire la libertà politica e intellettuale, si costituiranno come elementi di scardinamento del potere assolutista, ritenuto oramai un ostacolo alla crescita e allo sviluppo delle società moderne. È questa l’origine della grande crisi della monarchia che, proprio laddove rimarrà attaccata alla formula assolutista, verrà trascinata dalle irrefrenabili correnti della vita che pensava di potere arginare. Questo fu ben compreso da Quevedo, che proprio nella Vida de Marco Bruto recupera ragioni intorno al perché i popoli, le razze, gli individui, nel momento in cui si oppongono al potere assoluto, si oppongono al fondamento della vita politica e, dunque, alla vita in generale. Visto che il potere di per sé è sempre illegittimo – ovvero visto che di notte tutte le vacche sono nere – allora tanto vale fermarci a quello primigenio, cioè a quello che storicamente viene fatto risalire a Dio e concesso per diritto divino. Il popolo resta in ogni caso in stato di sudditanza. È meglio per tutti che tale stato viva del convincimento della sua origine divina. Fare opera di dissimulazione per Quevedo ha forte valenza politico-sociale, dunque pedagogica. E Serpetro nel tradurre l’opera di Quevedo fa sua l’idea centrale dell’assolutismo di Filippo III, perché convinto della validità al riguardo dei tempi di sua appartenenza e di quelli che verranno. Vediamo in virtù di quali principi si articolava la sua via dinastica. Prima di tutto nel fare del re il detentore di ogni autorità, Filippo III costruì una visione centralizzata del potere. Al di sopra dei numerosi stati sui quali regnava riunì il governo nelle mani di tre segretari regi, il cui controllo si estendeva rispettivamente ai paesi del Nord, Paesi Bassi e Franca Contea, ai regni spagnoli e all’Italia. Si faceva assistere da una serie di consigli, reclutati tra la nobiltà: consiglio di stato, consiglio di guerra, consiglio dell’inquisizione, consiglio delle finanze e consiglio delle crociate. La loro autorità, in cui non era facile discernere gli interessi politici da quelli religiosi, doveva adattarsi alle varie istituzioni dei sei regni di Spagna, del Portogallo, dei diversi principati belgi, dei regni di Napoli e di Sicilia e del ducato di Milano. I consigli, quasi sempre liberi da ogni controllo, s’imposero sui paesi governati, attraverso un’impostazione oligarchica che, dato il ruolo che svolgeva nel governo, si impose allo stesso re. In passato le cortes, che continuavano a riunirsi per votare l’im116 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

posta, avevano talvolta opposto al re i diritti che derivavano dalle loro libertà. I consigli, che operavano in nome e per conto del potere assoluto del monarca, si impadronirono di questi diritti. Se pur assoluta nel suo principio, l’autorità di Filippo III era di fatto frantumata in tante sovranità al pari di quanti erano gli Stati dell’impero: accaparrata dagli agenti incaricati di farla rispettare l’autorità non ebbe dell’autocrazia che la sontuosa facciata conferitale dalla corte, dove la moltitudine dei cortigiani pensionati si sostituiva all’opinione pubblica, operava in nome del potere regio e metteva in crisi le finanze dello Stato. Questa immensa struttura, creata per supportare l’assolutismo, in vero lo soffocava. Per mantenersi in piedi, esigeva risorse consistenti, che il re chiedeva alle colonie. Ma, per quanto ingenti fossero le risorse provenienti dalle colonie, non erano mai sufficienti ad alimentare i bisogni della corte e dell’amministrazione centrale, a spese delle quali viveva un quinto degli abitanti della Spagna alla fine del regno di Filippo III. Questa mastodontica struttura burocratica, che dipendeva da se stessa, aveva per cervello il consiglio segreto. Consiglio, del quale, per evitare di cadere nelle mani dell’oligarchia, il re si riservò la nomina dei componenti, che sceglieva tra i suoi familiari. Scelte che diedero vita al regno dei favoriti. Regno di corruzione, di sperpero, di venalità della giustizia. E non è errato dire che il governo spagnolo, dietro la facciata dell’assolutismo, imboccò il crinale dell’anarchia fatto sistema. Non bisogna dimenticare che sotto il regno di Ferdinando d’Aragona, predecessore di Filippo III, l’assolutismo spagnolo era basato sull’unità della fede, che legittimava il suo carattere di diritto divino. Il clero, depositario della fede, acquisì un posto dominante all’interno dello Stato. Posizione di prestigio che gli derivava dalle immense proprietà assegnate tramite i beni confiscati dalla Santissima Inquisizione. Beni ingenti da fare del clero la prima potenza economica dell’impero. L’autorità del clero, che divenne sempre più inseparabile da quella del re e la sola capace di far fronte all’influenza dell’oligarchia, si impose in tutti i settori della vita dello Stato. Si pensi: il superiore dei Domenicani presiedeva il consiglio delle Indie, il confessore del re era un componente del consiglio segreto, al clero venivano affidati compiti di governo, compreso quello che dirigeva la tratta dei negri, i gesuiti governavano le Università e le scuole. E c’è di più: alla fine del XVII secolo la Spagna, sotto l’autoritarismo del re e della Controriforma, si chiuse all’influenza del pensiero straniero per non subire contaminazioni esterne. Le Università rimasero legate all’insegnamento dottrinale che proveniva dalla scolastica e la loro pratica pedagogica era riservata a un’élite sociale. Accanto al clero, la nobiltà privilegiata, decaduta dai suoi diritti politici, viveva delle pensioni della corte, chiusa in un orgoglio di casta che generalizzava 117 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

l’istituzione dei fidocommessi, che manteneva intatta quell’ampia fascia di popolazione che si trasformava in un miserabile proletariato di salariati. Antica vestigia di facciata. In vero la Spagna, a parte gli splendori che le derivavano dalle sue tradizioni, aveva intrapreso irrevocabilmente la strada del declino in senso lato2. Com’era noto, l’egemonia spagnola era legata alla grandezza della sua flotta. Venuta meno questa, in seguito alla distruzione della cosiddetta Armada Invincible3, vennero meno le risorse che avrebbero dovuto continuare la politica di contenimento iniziata da Filippo II. Filippo III, una volta insediatosi al potere, non disponeva di forze navali tali da proteggere i suoi convogli dalle incursioni corsare olandesi e inglesi. Per evitare la caduta economica e politica non esitò a firmare un trattato di pace con l’Inghilterra (1604) e con le Province Unite (1609). Trattato che gli consentì successivamente di salvaguardare quel prestigio che avrebbe accresciuto con la sua politica egemonica dinastica. Anche se l’apertura commerciale delle colonie spagnole agli olandesi protestanti altro non era che una mortificazione per la politica di statalismo economico e d’unità cattolica, cifra massima dell’assolutismo spagnolo. Filippo III, a questo appannamento della sua facciata esposta al mondo, rispose con uno sguardo interno finalizzato a recuperare quelle ricchezze che Cfr., J.H. Elliott, La Spagna imperiale 1469-1716, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1982. Cfr. particolarmente il capitolo VIII “Splendori e miserie”, pp. 327-371 e il capitolo IX “La ripresa e la catastrofe”, pp. 371-417. 2 

L’Armada Invincible fu la flotta composta da 138 navi con 24000 uomini voluta da Filippo II per contrastare la flotta britannica. L’armata spagnola non è stata battuta sul mare. Pur avendo subito danni pesanti e perdite dolorose, aveva però perso la speranza di sconfiggere gli inglesi, manovrava ormai a fatica e cercava di aprirsi con forza la strada per raggiungere le coste dei Paesi Bassi. Decise quindi di desistere dall’impresa e cercò faticosamente di riorganizzarsi. Ormai il tentativo di imbarcare le truppe con la conseguente invasione era fallito tanto che i galeoni spagnoli cercarono di ritornare in patria ma, a causa delle avverse condizioni metereologiche, decisero di puntare verso Nord circumnavigando l’Inghilterra. Gli inglesi, che fino ad allora avevano seguito i nemici, li lasciarono andare tranquillamente, anche se speravano che sarebbero ritornati. Il 10 agosto la flotta inglese si avvicinò per cercare di attaccare le navi spagnole rimaste attardate, ma Medina Sidonia riuscì a ricompattare le sue squadre e si preparò a dar nuovamente battaglia, cosa che gli inglesi vollero evitare, e quindi dopo un fiacco scambio di cannonate le due flotte si separarono definitivamente. Ma un’incredibile serie di tre violentissime tempeste si abbatté sugli spagnoli. La prima li sorprese il 12 agosto, al largo delle Isole Orcadi e sulle Isole Shetland; la seconda il 12 settembre al largo delle coste irlandesi; seguita dopo pochi giorni da una terza al largo delle coste del Connacht (sempre in Irlanda). Delle 138 navi con 24.000 uomini che erano salpate da Lisbona, 45 imbarcazioni e 10.000 unità andarono perdute. La grande impresa di Filippo II sfumò. Grazie a questo importantissimo successo, l’Inghilterra della regina Elisabetta I affermò il proprio predominio sui mari ed inflisse una battuta d’arresto al tentativo spagnolo di egemonia sullo scacchiere europeo (cfr. A. Martelli, La disfatta dell’Invincibile Armada, il Mulino, Bologna 2008). 3 

118 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

la guerra gli aveva sottratto. Ristabilita la pace, ordinò l’espulsione (1607) di tutti i moriscos e la confisca di tutti i loro beni, ossia di tutti i mori convertiti, risparmiati fino a quel tempo dal tribunale dell’inquisizione. Si rimproverava loro di essersi accaparrati le arti e i commerci, di possedere ingenti ricchezze, di non entrare a far parte degli ordini religiosi cattolici. Le cose stavano diversamente. Filippo III, il cui governo rischiava la bancarotta, aveva bisogno di danari. L’ordine di lasciare il suolo di Spagna fu perentorio: entro tre giorni 450 mila persone furono deportate sulla costa barbaresca, dove 300 mila in breve tempo morirono di fame e di miseria. Non furono risparmiati i bambini che, dopo aver ricevuto il battesimo, furono deportati anche loro. Non diversamente, anche se con modalità diverse, vennero trattati gli Ebrei, un anno dopo. I benefici ottenuti con il sequestro dei beni fu di gran lunga inferiore ai danni causati con l’espulsione dei mori e degli ebrei. La Spagna privata da artigiani, commercianti ed agricoltori rimase in balia del capitalismo straniero. I danari confiscati evitarono la bancarotta, ma l’immenso capitale produttivo del paese venne definitivamente perduto. E questa fu l’autentica causa della decadenza della Spagna. A poco valse la revoca dell’espulsione degli Ebrei ordinata successivamente da Filippo III. Sono da ascriversi all’intenzione di rimettere ordine nel suo regno, iniziative rilevanti come le inchieste coloniali e la soppressione del sistema della venalità delle cariche, introdotto alla fine del regno di suo padre, il rafforzamento dello stato spagnolo attraverso l’accentuazione del regime dei monopoli, l’introduzione nell’amministrazione delle colonie del principio del primato del fisco e, per ridare vita all’attività della Spagna, la chiusura nel Messico delle tessiture della seta e anche del panno e della distruzione delle vigne. Iniziative che si rilevarono disastrose per l’intera economia spagnola, al punto che il governo spagnolo fu costretto a indebitarsi presso i banchieri genovesi, impegnando addirittura in anticipo le rendite coloniali. La situazione politica ed economica della Spagna durante il regno di Filippo III peggiorò notevolmente col passare degli anni. E peggiorò al punto che, pur di mantenere il prestigio in Europa e nel mondo, il re non esitò a trascinare l’Europa nella Guerra dei Trent’anni che ebbe come epilogo lo sfaldamento dell’impero spagnolo a tutto vantaggio di quello francese. Non si trattò di una guerra consumata da potenze nemiche, bensì tra due sistemi politici opposti: l’egemonia assoluta contro l’equilibrio, il potere dinastico contro il principio nazionale. Quello che bisogna comprendere è che non si trattò di una guerra d’interesse per il popolo spagnolo, bensì fu la guerra del re: Filippo IV. Suo scopo era quello di istaurare in Europa l’egemonia autoritaria degli Asburgo. Filippo IV per renderla popolare si impegnò in una vasta propagan119 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

da ideologica che tendeva a coinvolgere la Spagna e anche l’Europa intera. Fin dai tempi di Ferdinando d’Aragona, i re di Spagna avevano sostenuto il loro assolutismo con un’ideologia religiosa, che sotto Filippo III era diventata razzista e che, con Filippo IV, stava per assumere un carattere nettamente nazionalistico. Furono diffusi libelli, che presentavano gli Asburgo come i soli discendenti di Carlo Magno, la Spagna come il primo paese che fosse stato abitato dopo il diluvio e la nazione spagnola come fondatrice di tutte le altre. Era dunque legittimo che i suoi re dominassero il mondo. In nome di questa ideologia nazionalistica, tutti gli Stati di Filippo IV, sempre più sottomessi alla politica autoritaria del re, furono invitati a contribuire con uomini e danari al successo della guerra. In nome di questa ideologia tutti gli intellettuali spagnoli, a cominciare dal nostro Quevedo furono invitati a produrre opere finalizzate ad esaltare il progetto ideologico di Filippo IV. Ed è proprio in questo periodo che Quevedo scrisse la sua opera politicamente più significativa, ossia la Vida de Marco Bruto. Opera data alle stampe nel 1644 ma scritta intorno al 1632, al tempo della preparazione della Guerra dei Trent’anni. Guerra che via via mostrò i grandi limiti economici e politici di Ferdinando II, Filippo IV e, ancor più, i limiti economici della Germania, la cui popolazione moriva di fame. Sulla Vida de Marco Bruto La Vida de Marco Bruto di Francisco de Quevedo vide luce nel 1644, un anno prima della morte del suo autore, sebbene si suppone, a ragion veduta, che sia stata portata a compimento nel 1632. L’opera appena pubblicata fu ben considerata e apprezzata tanto da conoscere traduzioni in diversi idiomi: italiano, latino, olandese e inglese4. La traduzione italiana fu la prima, ed è da ascriversi al poligrafo Nicolò Serpetro. Questi non è escluso che delle prime opere del Quevedo abbia fatto conoscenza in età giovanile, tra gli anni 1624-1630, in cui ancora erano vive le tracce della permanenza del Quevedo in Sicilia in qualità di segretario del duca di Osuna, nominato nel 1610 viceré dell’isola. La traduzione del A parte quella italiana firmata dal Serpetro, si ricordano quella in latino (pubblicata due volte col titolo Politicus prudens, sub persona Marci Bruti exhibitus, Hagae Comitum, 1660 e Amsterdam 1669), quella in olandese (Leven van Brutus, Amsterdam, 1700) e quella inglese (The Controversy about Resistence and Non-rsistence discurse in Moral and Political Reflections on Marcus Brutus, London, 1710). Per una bibliografia aggiornata delle opere sul Quevedo si rinvia a F. De Quevedo, Obras completas, Madrid, 1958, II, pp. 1437-1455. 4 

120 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Serpetro apparve in Venezia nel 1653, per Cristoforo Tomasini, con il titolo Osservazioni politiche, e morali sopra la vita di Marco Bruto, trasportate dallo spagnolo dal Cavalier Nicolò Serpetro. Anche per la traduzione de la Vida de Marco Bruto – come già per Il Mercato delle Maraviglie della Natura overo Istoria Naturale del Cavalier Nicolò Serpetro, traduzione dal latino della Thaumatographia naturalis (1633) di Jan Jonston (1603-1675) – il Serpetro nella prima di copertina, come chiaramente si evince, non fa alcun riferimento né all’autore dell’opera né ai preliminari dell’opera originale (privilegio, licenza, approvazione, dedica, il portico «Giudizio che di Marco Bruto fecero gli autori nelle loro opere» e «Della medaglia di Bruto e del suo rovescio»). Omissioni, a seguire Valentina Nider, di grande rilievo come, ad esempio, «nella dedica “A chi legge” si sopprimono i passaggi autobiografici che si riferiscono alle circostanze della scrittura (il carcere, la infermità) e la menzione delle sue opere inedite, tra cui Los dichos y hechos del (...) Duque de Osuna e le traduzioni dell’opera di Seneca»5. Omissioni che hanno sapore di un voluto ridimensionamento, puntualizza la Nider, se ci si accosta alla «suasorias» in cui Serpetro, nel menzionare esplicitamente Quevedo come autore della declamazione conclusiva, pone come circonlocuzione di opportunità (perìfrasis): «l’autore delle osservazioni politiche e morali sopra la vita di Marco Bruto»6. Le Osservazioni tradotte dal Serpetro furono dedicate, come si evince dal frontespizio della versione del Serpetro, dallo stampatore veneziano Tomasini ad Alessandro Cibo, figlio dei marchesi di Carrara Alberico II Cibo e Fulvia Pico. Il Tomasini si scusa col Cibo dicendo che «Non hauerei ardito questo 5  V. Nider, Nicolò Serpetro, traductor del “Marco Bruto” del Quevedo, in “La Perinola”, 15, 2011, p. 171. Delle manipolazioni e delle omissioni, non solo riguardo alle prime di copertina del Mercato e delle Osservazioni del Marco Bruto, ma anche della mancata fedeltà delle due traduzioni compiute dal Serpetro non si conoscono le ragioni. Le ragioni si dovrebbero rintracciare nel perché il Serpetro abbia, di caso in caso, modificato o manipolato il testo. E il perché non sempre si dispiega ad una esegesi storica. Le valenze sociali di ogni autore possono essere più o meno palesi ma per quelle psicologiche non sempre è possibile coglierne a volte il minimo appalesamento. Nel Mercato i tagli, le sostituzioni, gli aggiustamenti, sono tanti e tali che, se pur non giustificano l’omissione del nome dell’autore, alla fin fine ci troviamo di fronte a un testo stravolto nell’impianto e spesso nei contenuti, anche se la prospettiva di fondo perdura intatta. Nelle Osservazioni del Marco Bruto invece Serpetro incide sul testo del Quevedo con molta delicatezza. Le modifiche, seppur di poco rilievo, ad attenta riflessione, appaiono finalizzate a sorreggere condizioni d’esistenza personale e socio-ambientale del tessuto politico dentro cui il Serpetro è calato. Il raccujese, come ben compreso da Corrado Dollo, è un intellettuale raffinato che non ha nulla da invidiare ai nomi più noti del XVII secolo (cfr. C. Dollo, Modelli scientifici e filosofici nella Sicilia spagnola, Guida, Napoli, 1984, pp. 131-137). 6 

V. Nider, Nicolò Serpetro, traductor del “Marco Bruro” de Quevedo, cit., pp. 171-172.

121 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

picciol Volume offerirlo alla benignità dell’Eccellenza Vostra», ma aggiunge di essersi spinto a tanta «humilissima confidenza» perché confortato dalle rassicurazioni che gli sono pervenute dal «Signor Cosimo Farsetti, soggetto ben noto in questa Città di gran talenti, e spirito (delle cui lodi è meglio tacer, che dirne poco), quanto sia generoso l’animo di V.E.»7. Dal frontespizio dell’opera il lettore veniva messo al corrente dell’origine iberica dell’opera e dell’Autore della traduzione («Trasportate dallo Spagnolo Dal Cavalier Nicolò Serpetro»). Scompaiono dal frontespizio il nome del Quevedo, la dedica preposta all’opera del Quevedo (in cui l’umanista spagnolo omaggiava il duca dell’Infantato), le approvazioni dei censori, l’imprimatur ecclesiastico e scompaiono anche tutti i riferimenti all’autore presenti nelle dinamiche del testo. Per quanto riguarda le modifiche strutturali apportate da Serpetro alla traduzione/adattamento della Thaumatographia Naturalis del polacco, calvinista e collaboratore del pedagogista Comenio, Jonston, sono così tanti da giustificarne la presa di distanza dalla figura e dell’opera dell’autore. A parte il variegato universo relativo alle scienze naturali, che costituiscono il tema di fondo dell’opera di Jonston, tutto il resto viene manipolato dal Serpetro. Insieme all’impianto dell’opera, che affida le informazioni intorno alle scienze naturali a geometrie come «logge», «portici» e «officine» che sanno di immaginario, il Serpetro riempie questi spazi da lui inventati con narrazioni presenti nell’opera di Jonston ma principalmente con narrazioni legate al suo vissuto, a partire dai primissimi anni della sua infanzia nella natia Raccuja agli studi superiori (Messina) fino al conseguimento della laurea in utroque iure (1630), ai suoi viaggi in Spagna e in America (1626-1627), alla sua permanenza a Roma al servizio di Pietro della Valle e, a Venezia, quale segretario del Nunzio Francesco Vitelli (1630-1635), al suo ritorno a Palermo (1639) dove nel 1640 fu processato dal tribunale della Santa Inquisizione per aver praticato la

Osservazioni politiche, e morali sopra la Vita di Marco Bruto. Trasportate dallo Spagnolo dal Cavalier Nicolò Serpetro, in Venetia, MDCLII, Presso Cristoforo Tomasini, con Licenza dei Superiori, e Privilegio, ora in copia anastatica per le Edizioni Luigi Pellegrini, Cosenza, 2013, p. 7. Farsetti era uno stimato cortigiano della famiglia Cibo, componente di un’aristocratica famiglia, trasferitasi nel 1300 a Massa dalla natia Luni. Compiuti gli studi giuridici presso l’università di Pisa fu accolto dalla famiglia Cibo in qualità di giureconsulto e ambasciatore presso le sedi di Venezia, Lucca, Milano e Firenze. Fu tanto accreditato dal ruolo svolto presso i Cibo che in seguito si trasferì nel granducato di Toscana e, insieme alla sua famiglia, prestò i suoi servigi ai Medici. Per approfondimenti sulla vita di Cosimo Farsetti, si rinvia alle notizie biografiche dedicate al figlio Andrea, noto giureconsulto toscano presenti in M.P. Paoli, Andrea Farsetti, in DBI, ILV, pp. 180-181. 7 

122 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

magia e invocato la presenza del demonio in incontri particolari e condannato all’esilio per tre anni da Messina e da Palermo; e poi alle narrazioni relative ai suoi universi interiori legate a quelle esteriori concernenti la storia della sua famiglia, la cultura della sua gente, gli ambienti fisici da lui frequentati, le persone conosciute nei suoi viaggi, i suoi amici e mecenati, gli uomini illustri da lui stimati, i suoi universi emotivi a cui dava senso attraverso attente minuziose ricerche semantiche legate al corpo della sua scrittura. Nel Mercato c’è poco di Jonston e molto di Serpetro. Pertanto, come rilevato da attenti studi al riguardo, si potrebbe dire, a buona ragione, che la traduzione di Serpetro è opera “altra” rispetto alla Thaumatographia Naturalis di Jonston8. Altrettanto non si può dire della traduzione dell’opera di Quevedo, in cui il Serpetro porta qualche funzionale ritocco mirato alla nuova situazione politica e mantiene quasi intatto sia l’impianto dell’opera e sia l’originario profilo filosofico ed etico-politico. E allora la mancata attribuzione dell’opera a Quevedo è da rintracciarsi in ragioni altre da quelle meramente scritturali. Ragioni che sanno di vita vissuta e di convenienza. I libri, per lo più, si scrivono, si stampano e si ristampano, si traducono e non si traducono, si traducono seguendo mille giochi perché mille e più sono le versatilità in cui il traduttore è esposto al mondo della vita. Di questo siamo convinti. E lo siamo tanto da non provare alcuna meraviglia intorno alla faziosità della scrittura primigenia, figuriamoci se ci si rapporta a quella che filtra attraverso i canali di altre intellezioni e di altri mondi emotivi. La scrittura non raggiunge di per sé la verità dell’essere, tutt’al più attesta dei suoi ornamenti, dei suoi ricami per catturare il lettore. E questo vale per la scrittura e per le arti in genere. E se poi si volge lo sguardo al tempo di Quevedo e di Serpetro e agli spazi dentro cui hanno operato, che sono quelli del barocco, ci si rende conto di quanto il manierismo incida sulle assi portanti del vissuto storico-politico del tempo. Quando Serpetro dà alle stampe (1652) la traduzione della Vida de Marco Bruto, Quevedo aveva concluso la sua vicenda terrena (1645). E Serpetro sa 8  Sulle diversificazioni e sulle ragioni delle diversificazione delle opere di Jonston, di Quevedo e sulle traduzioni di Serpetro si rinvia ai seguenti scritti di: C. Dollo, Modelli scientifici e filosofici nella Sicilia spagnola, cit., pp. 131-137; M. Leonardi, Nicolò Serpetro. Ermetismo e magia nella Sicilia spagnola, in “Quaderni Storici” 115/a XXXIX, n. 1, aprile 2004, pp. 217-240, ora in M. Leonardi, Governo, istituzione, inquisizione nella Sicilia spagnola. I processi per magia e superstizione, A&B Editrice, Acireale-Roma, 2005, pp. 153-181; C. La Mancusa-F. La Mancusa, La vita,”La Fama” e “Il simbolo della virtù” di Nicolò Serpetro, Armenio Editore, Brolo (Me), 2006; S. Lo Giudice, Introduzione a Il mercato delle maraviglie della natura overo Istoria naturale del cavalier Nicolò Serpetro, Luigi Pellegrini Editore, nuova edizione riveduta, Cosenza, 2011, pp. VII-LXXIX; V. Nider, Nicolò Serpetro, traductor del “Marco Bruto” de Quevedo, in “La Perinola”, 15, 2011, pp. 171-190.

123 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

che i morti non entrano in gioco se non giovano. E a Serpetro Quevedo giova9, come giovano le idee su cui si regge la narrazione riguardante la sua versione della vita di Marco Bruto. Al tempo della pubblicazione delle Osservazioni Serpetro aveva già rotto i suoi rapporti con il suo protettore Nicolò Placido Branciforti e andava alla ricerca di un’altra famiglia nobiliare che gli potesse garantire protezione e benefici10. Di qui, opportunamente fa presente la Nider, se la traduzione inizialmente può nascere come omaggio allo scrittore spagnolo, per gratificare la cerchia dei suoi amici siciliani, in particolare la famiglia dei Branciforti, successivamente, proprio in seguito alla rottura con questa famiglia, lo scenario muta al punto da pubblicare «in un contesto geografico e secondo istanze editoriali differenti»11. Quale era questo nuovo contesto geografico; e quali erano i nuovi scenari editoriali? Nel citato studio della Nider, che solleva il problema, non c’è una risposta puntuale a questo interrogativo. L’autrice ben evidenzia sia le modifiche apportate dal Serpetro nel riproporre la traduzione dell’opera del Quevedo e sia la ragione di queste modifiche, ma nulla ci dice intorno alle mutate ragioni geo-politiche ed editoriali al tempo della stampa del Il Mercato e, particolarmente, delle Osservazioni. A proposito delle circostanze dell’opera del Quevedo scrive: «Le circostanze della pubblicazione dell’opera, furono altre» – altre rispetto ovviamente al fatto certo della pubblicazione in sé e per sé, oppure altre che le è dato intuire ma non conoscere con certezza? – «la

9  Non a caso il Quevedo, ricordando le accoglienze riservategli nella terra di Sicilia dalla famiglia Branciforti a quel tempo ancora legata, per la protezione e i benefici ricevuti, al Conte duca de Olivares, dedica la Enfermidad cuarta fantasma de vida (1635) a «Don Octavio Branciforti vescovo di Cefalù in Sicilia» con le seguenti parole «Non posso dimenticare l’amicizia che, stando in questo regno (quando governava il grande e sempre vittorioso Osuna) ebbi con il signor duca di San Juan, padre di vostra signoria. Non mi è lecito essere ingrato a sua chiara memoria, di cui il ricordo accompagno con l’aver vostra signoria accettato per eredità quell’affetto con cui sempre mi hizo merced» (citazione presente in V. Nider, Nicolò Serpetro, traductor del “Marco Bruto” del Quevedo, cit., p. 173). 10  A partire dal 1653, anno della pubblicazione de Il Mercato delle Maraviglie e delle Osservazioni, i rapporti tra la Famiglia Branciforti e Serpetro sono deteriorati al punto da cessare del tutto, e non è detto che non ci sia una relazione tra la pubblicazione di questi due libri, la cui stesura risale di certo agli anni precedenti, e la rottura con l’illustre famiglia siciliana. Rottura che spinse il Serpetro a cercare protezione politica ed economica presso varie famiglie nobiliari e alti prelati della Sicilia del tempo. Dopo il tentativo fallito di entrare a far parte della segreteria di monsignor Vincenzo Vicentini, vescovo di Geraci Calabro a cui dedicò il panegirico in ottave Il Simolacro delle virtù, Serpetro divenne segretario di Don Pietro Bonanno Balsamo, barone di Castellammare del Golfo, principe di Roccafiorita e duca di Montalbano, feudo dove i nonni di Serpetro possedevano alcune proprietà. 11 

V. Nider, Nicolò Serpetro, traductor del “Marco Bruto” de Quevedo, cit., p. 173.

124 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

traduzione è dedicata dall’editore veneziano Cristoforo Tomasini ad Alessandro Cibo, figlio del marchese di Massa, a richiesta di Cosimo Farsetti, segretario e ambasciatore della famiglia. Seguendo questa pista, le omissioni sul nome dell’autore potrebbero achacarse al contesto veneziano dove si stampò la traduzione e alla strategia editoriale di Serpetro che, proprio in quest’epoca (1653), ruppe con il suo protettore Nicolò Placido Branciforti e dovette cercare un altro mecenate. In conclusione, se la traduzione inizialmente può nascere come omaggio allo scrittore spagnolo per la cerchia dei suoi amici siciliani, tra i quali i Branciforti, dopo si pubblicò in un contesto geografico e secondo istanze editoriali differenti. Lo stesso si potrebbe dire per l’altra traduzione di Serpetro»12. Considerazioni sulla traduzione del Serpetro di Valentina Nider La Nider dice che la rottura con i Branciforti è legata al 1653 (anno della pubblicazione delle due traduzioni) e puntualizza che non sono note le ragioni di questa rottura ma che, a suo dire, «non è da escludere che la circostanza non abbia influito nella pubblicazione dei suoi libri»13. A un attento confronto tra l’opera del Quevedo e la traduzione del Serpetro, la Nider afferma che il raccujese non stravolge il testo come accaduto per Il Mercato. Fa presente che nella «traduzione si possono rilevare alcuni cambiamenti, tanto sul piano ideologico come in quello stilistico», finalizzati alla «volontà di semplificare il testo originale». Semplificazione finalizzata, a suo dire, a «consolidare la simmetria sintattica già presente nel testo di Quevedo», promuovendo la tendenza a «passare da una struttura parallelistica a una struttura chiastica e soprattutto a convertire in espliciti tutti i nessi causali». E tutto ciò per rendere il testo scorrevole, ché, una volta scorporato dalle strutture paralogiche, possa essere di facile comprensione da parte della ricezione, in modo che «l’interpretazione dei fatti non necessita tanto della collaborazione del lettore»14. Alla luce di queste riflessioni possiamo tentare una qualche verosimile risposta sul perché la Nider abbia accompagnato la stampa delle traduzioni del Serpetro con l’espressione «si pubblicò in contesto geografico e secondo istanze editoriali differenti». Il contesto «geografico» è di certo quello della nuova «ge12  13  14 

Ibidem.

Ibidem, p. 174. Ibidem, p. 175.

125 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

ografia politica», che vedeva il Serpetro allontanarsi definitivamente dai benefici della famiglia Branciforti, mentre quello relativo alle «istanze editoriali» c’è da supporre che intenda dire che i libri che vengono stampati debbono essere venduti e, per essere venduti, debbono essere compresi dalla maggior parte dei lettori. Serpetro, pertanto, stravolge l’opera di Jonston per sorprendere il lettore e stupirlo con le narrazioni dei suoi fatti personali, mentre porta aggiustamenti all’opera di Quevedo per facilitarne la lettura. Nell’uno e nell’altro caso si può ravvisare in Serpetro la volontà di catturare il lettore per promuovere, attraverso una maggiore fruibilità, la vendita dei libri dati a stampa. Assieme all’opera di promozione editoriale, riteniamo che Serpetro sia stato mosso da ben altro che riguardi la mera promozione commerciale. Riteniamo che Serpetro nel vedersi respinto dalla famiglia Branciforti, da cui aveva tratto di certo vantaggi, ricambiati però con servigi approntati a lealtà e competenza, abbia vissuto momenti di accoramento accompagnati da forte mortificazione morale. E per un intellettuale il venir meno della fiducia e della stima è sempre e in ogni caso la peggiore delle offese. Non sorprende che il Serpetro, vistosi messo alla porta dalla famiglia Branciforti, abbia cercato di recuperare quella dignità morale che i governati sogliono facilmente sacrificare alle ragioni politiche. Colpire l’ipocrisia, l’ambiguità, la doppia morale, degli uomini di potere, sembra essere la finalità di Serpetro. E le modifiche apportate alla traduzione della Vida de Marco Bruto sembrano essere orientate a questo fine. Modifiche moralizzatrici, che spingono a riflettere su quanto le norme etiche su cui si regge il potere siano lontane dal bene della collettività. Questa è la ragione ideale che ha spinto il Serpetro a tradurre un pensatore etico-politico irriverente come Quevedo e, dei tanti titoli della sua produzione, riteniamo che sia questa la ragione che lo ha spinto a proporre proprio la traduzione della Vida de Marco Bruto: opera dagli accenti precettistici, dunque pedagogici, molto più spregiudicati di quelli presenti, ad esempio, in un pensatore come il Machiavelli. Il Serpetro comprese appieno la notevole solidità dottrinaria della speculazione etico-politica del Quevedo, tanto che non esista a porre lievi aggiustamenti alla sua scrittura quando non gli appare all’altezza dell’intelligibilità di chi la legge. Certo nessuno nega che le modifiche che il Serpetro apporta al testo quevediano in considerazione siano finalizzate a facilitarne la comprensione, ma non è da escludere che gli aggiustamenti sconfinino dal piano semantico e vanno ad incunearsi in quello dottrinario. Serpetro non possiede la genialità di Quevedo ma delle trame ideative dello spagnolo ha compreso le ragioni che le pongono in essere, tanto che non esita a prendere le distanze, con mirate modifiche, quando non sono in sintonia con le proprie. Per quanto riguarda le facilitazioni del testo quevediano presenti nella tra126 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

duzione serpetriana un riscontro si può cogliere nel seguente passaggio. A pagina 33 della Vida si legge: «Era Pompeyo enemigo suyo por causa tan justificada como haberle muerto a su padre. Era Pompeyo entonces padre de su patria: acudiò Bruto al parentesco universal, y apartose del propio: mas no sin cumplir con él».

Alla pagina 32 delle Osservazioni invece si legge: «Aderì Bruto à Pompeo suo nemico, per hauere ucciso suo Padre: perché era in quel tempo il Padre della patria. Seguì il parentado uniuersale e s’appartò del proprio, ma non però senza complir con esso».

Serpetro, come si evince, si disfa qui del quevediano nesso causale, e fa sì che il testo doni al lettore esplicitamente il senso di cui è portatore. Per quanto riguarda invece le modifiche che investono la sfera etica, Serpetro sembra prendere le distanze dalla scrittura del Quevedo. Due gli esempi eclatanti: il primo, che ha per oggetto la donna, le sue virtù e i suoi difetti. Così Quevedo a pagina 21: «Es la mujer compañia forzosa que se ha de guardar con recato, se ha de gozar con amor y se ha de comunicar con sospecha».

Così invece Serpetro a pagina 20: «È la donna una compagnia necessaria, la quale si deue custodire con cautela, godere con amore, e comunicar seco con sospetto».

Considera la Nider che mentre Quevedo «con “comunicar con sospetto” ricade nella cautela che ha nel custodire la donna per non esporla al pericolo di rapimenti e di stupri (...), Serpetro sottolinea un difetto delle donne»15. La modifica apportata dal Serpetro, che non è cosa di poco conto, appare una forzatura a discapito delle donne solo se è avulsa dal resto del contesto quevediano. Dentro il prosieguo di questo contesto, che è opportuno considerare, la diversificazione del Serpetro non appare più una forzatura, dettata dalla “misoginia” del Serpetro, bensì diventa la conseguenza logica di quanto 15 

Ibidem, p. 181.

127 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Quevedo ha inteso comunicare al lettore. Questo il seguito della scrittura quevediana: «Si las tratan bien, algunas son malas. Si las tratan mal, muchas son peores. Aquél es avisado, que usa de sus caricias y no se fìa dellas. Màs puedencon algunos reyes, que con los otros hombres, porque pueden màs que los otros hombres los reyes. Los hombres pueden ser traidores a los reyes, las mujeres hacen que los reyes sean traidores a sì mismos, y justifican contra sus vidas las traiciones. Clàusula es ésta que tiene tantos testigos como letores» (Quevedo, p. 21).

Questa invece è la traduzione del Serpetro che resta tale e quale alla scrittura del Quevedo: «Alcune, se vengono trattate bene riescono cattiue. Molte, se sono trattate male, diventano peggiori. Colui che è prudente, che adopera le carezze, e si fida poco di esse. Elle possono appresso alcuni Regi, più che sopra gli altri uomini: perché possono più degli altri uomini i Regi. Gli uomini possono essere traditori de’ Regi. Le Donne fanno diuentare i Regi traditori di sé stessi, e giustificare contro le proprie vite i tradimenti. È questa una verità, c’hà tanti testimonij quanti lettori» (Serpetro, p. 20).

In altri termini, la modifica apportata dal Serpetro ha come fine quella di far uscire il Quevedo dall’ambiguità dentro cui versa. Nel caso in questione: non si può affermare della condizione eticamente ineccepibile della donna quando sul piano della natura femminile si rintracciano forti elementi di cattiveria versati al crimine e alle nefandezze. E di questa condizione in Quevedo, come anche condiviso dal Serpetro, c’è sensibile traccia, come evidenzia la stessa Nider, negli scritti dei «trattatisti politici», che non si fanno remore a mettere in evidenza quanto raccolto sulla natura delle donne dalla testimonianza dei loro mariti, padri o figli16. Quevedo, per la Nider, riconduce la descrizione dei fatti all’interno di visioni esagerate che a volte sconfinano nell’«iperbole di tono filosofico», come quando riconduce la lettura del comportamento di Cinna alla sfera della «malvagità» quanto invece avrebbe dovuto ricondurlo alla sfera della «maldicenza»17. Ad

16 

Cfr. ibidem.

Cfr. ibidem, p. 181. Qui più che di «iperbole di tono filosofico» siamo di fronte a una strategia di potere politico, in cui il Quevedo riconduce l’operato di Cinna all’interno di scelte finalizzate 17 

128 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

esempio, considera la Nider, nell’interpretazione dell’operato morale di Cinna, Quevedo riteneva che Cinna mirasse a distruggere i personaggi di riferimento; a differenza dell’interpretazione dell’operato morale di Cinna, a seguire Serpetro, i personaggi vengono invece ridimensionati attraverso minimizzazioni e infamie. In altri termini per Quevedo Cinna distrugge le persone amiche perché la pensano diversamente da lui e quelle nemiche perché potrebbero dargli fastidio; per Serpetro, invece, Cinna tendeva ad annientare sia gli uni che gli altri attraverso giudizi infamanti sul loro comportamento. Scrive Quevedo: «Era Cinna falsario de virtudes, Hablador y embustero. Tenìa su medra en la eminencia de las maldades; no tenía vergüenza: Su oficio era acusar a los buonos, sin perdonar a los malos; a aquéllos, porque le eran contrarios; a éstos, porque no le fuesen competidores. Su cobardìa era infame; su invidia aun no tenía por límite la miseria, ni su venganza la muerte. No se defendía della el invidiado con dejar de ser, porque alimentaba su rabia en procurar (siendo imposible) que no habiese sido» (Quevedo, p. 131).

Traduce Serpetro: «Era questo Cinna un falsificatore delle virtù. Ciarlone, et imbroglione. Riponeua ogn’utile, et ogni profitto nelle maldicenze. Non haueua vergogna d’altri, che de’ peggiori di lui. Non hebbe mai rossore d’alcuna viltà. Faceua ufficio d’accusare i buoni, senza perdonare a’ cattiui. Quelli, perché gli erano contrarij, e questi perché non gli fossero competitori. La sua codardia era disonestamente infame. La sua inuidia non haueua per limite la miseria, né la vendetta. L’inuidiato non si difendeua dalla sua rabbia, col lascirar di viuere, perché l’alimentaua col procurar d’oscurargli la fama, e scancellar la sua memoria con le detrattioni, e con gli opprobrij» (Serpetro, p. 130).

Anche per quanto riguarda le metafore, la Nider mette in evidenza che nella versione del Serpetro «in alcuni casi si perdono nella traduzione, in altri alla distruzione di quanti gli si ponevano davanti, indipendentemente dall’esser buoni o cattivi in rapporto al suo operato. Cioè Cinna era sempre in ogni caso un procacciatore di morte. Serpetro non condivide questa lettura del Quevedo e, a suo dire, Cinna più che verso la morte fisica è versato per procurar quella morale, attraverso calunnie e infamie di ogni genere. Quevedo fa di Cinna un criminale, Serpetro un infamante denigratore: per entrambi resta un politico dalle strategie spregiudicate e ciniche.

129 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

si raccolgono e si ampliano in più complesse metafore continuate» e, in altri casi, «Serpetro introduce nuove metafore in sostituzione delle originali». Significativa appare alla Nider la sostituzione che Serpetro opera della metafora quevediana «scalata del potere» con «travestimento». Quevedo utilizza una metafora del senso comune per indicare la salita senza remore ai vertici del potere, Serpetro parla che i governanti, per raggiungere il vertice del potere, sogliono utilizzare vestiti impropri per meglio far credere ai sudditi della loro integrità morale. E la differenza non è di poco conto: Quevedo, sulle orme del tanto amato quanto odiato Machiavelli, parla di scalata del potere come se si trattasse di un incedere verso il fine, con ogni mezzo e senza remora alcuna; Serpetro ribadisce che il fine che viene raggiunto attraverso armi sofisticate, come il travestimento (maschera), non è altro che un «furto» travestito d’apparenze improprie, camuffato da principi d’integrità morale, per meglio abbindolare i sudditi e indurli alla passiva obbedienza. Quella di Quevedo è una metafora che conduce alla strategia utilizzata dai potenti per raggiungere il potere, mentre quella di Serpetro suona più come una denuncia nei confronti delle modalità d’approccio al potere da parte dei potenti. Così Quevedo: «No tomar del que puede dar, por tomarle el poder, para tomarse lo que quisieren, y no pedir, es, con buen nombre, escalamiento del poder» (Quevedo, p. 135).

Serpetro invece: «Non riceuere da quel che può dare, e pigliar senza domandare è un furto vestito di apparenza d’integrità» (Serpetro, p. 134).

Serpetro mostra qui di possedere una visione del potere più reale di quella in possesso del Quevedo. A Serpetro, che restava pur sempre un uomo di Chiesa e che del potere della Chiesa aveva compreso le più intime movenze, non sfuggivano le trame del potere, ora per affermarsi e ora per consolidarsi. Il potere gli appariva non come una montagna la cui vetta si raggiunge facendo leva su forza fisica, robusti scarponi e affilate piccozze, ma come un terreno morfologicamente variegato che va affrontato con strumenti che variano di passo in passo e che vanno modificati al cospetto delle sempre nuove insorgenti difficoltà. Assieme all’energia fisica ci vuole un’energia mentale che consenta di vincere gli ostacoli prima di tutto sapendoli raggirare e solo quando si è con le spalle al muro affrontarli di petto. Ma quando si è costretti a ricorrere a questa soluzione, il potere sa che la sconfitta è imminente, e la 130 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

decadenza e la successiva morte è nei fatti e negli eventi a venire. Il potere ha di certo bisogno di energia fisica, ma non meno di quella mentale legata alla capacità di fornire tanti infingimenti (maschere) quanti sono le strategie che le situazioni richiedono. Serpetro ha coscienza di tutto ciò. Ora nel caso che il potere scelga la via della forza (violenza fisica) ora nel caso che faccia leva sugli infingimenti (violenza psicologica), si tratta sempre di strategie che mirano allo stesso fine e che sono lontane dal garantire governi che operano all’insegna del rispetto dei sudditi. Imporre le leggi con la forza oppure con la persuasione è un cambiamento di registro ma non di finalità. Questa resta uguale ed è finalizzata, ieri come oggi, sembra dire Serpetro con Quevedo, al potere, che, indipendentemente da come si conquista e si mantiene, resta il frutto di un’impropria usurpazione. Quello che del Quevedo interessa al Serpetro è di mostrare come l’ascesa al trono celi sempre un’ingiustizia originaria, che i sovrani si sono sempre attivati ad occultare facendo ricorso a qualsiasi forma di raggiro. E allora a che servono i riformisti, gli innovatori, i rivoluzionari? Per il popolo o per la giustizia distributiva non servono a niente. Servono solo a mettere a nudo la violenza su cui si regge il potere, a prescindere dalle motivazioni ideali che lo sorreggono. Alcune riflessioni sul testo di Quevedo Composta verosimilmente in prossimità del 1632 e pubblicata nel 1644 dal Quevedo subito dopo la liberazione dal carcere18, la Vida de Marco Bruto si inserisce a pieno titolo sull’articolato versante delle opere storiche ed etiche riccamente presente nel XVII secolo19. L’opera di Quevedo, seppur con fiDal 1635 in poi Francisco de Quevedo è sempre più esposto ad attacchi politici. Nel 1639 è sospettato di essere al servizio dei francesi e nel dicembre dello stesso anno viene arrestato e chiuso in cella nella città di Leon. Nei primi due anni di prigione gli viene addirittura vietato financo di scrivere. Successivamente compone, sempre in carcere, due trattati di morale: La costancia y paciencia del santo Job e Vida de San Pablo Apostol. Solo nel 1643, in seguito alla caduta del primo ministro, Quevedo viene liberato. Ammalato nel fisico e nell’anima, autorizza nel 1644 la pubblicazione della Vida de Marco Bruto e della Vida de San Pablo Apostol. L’anno successivo si trasferisce a Villanueva de lo Infantes, ospite dell’umanista Bartolomé Jimenéz Paton, e qui si spegne l’8 settembre. 18 

Al riguardo delle implicazioni precettistiche presenti nella pubblicistica etico-politica del Seicento, si rinvia alle seguenti opere: B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Laterza, Bari, 1946, pp. 143-167; S. Bertelli, Storiografi, eruditi, antiquari e politici, in E. Cecchi-N. Sapegno (a cura di), Il Seicento. Storia della letteratura italiana, Garzanti, Milano, 1965, pp. 335-434; A. Asor 19 

131 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

nalità etiche esplicitamente espresse, si caratterizza per la radicale critica cui sottopone il concetto di potere. Non c’è, per Quevedo, alcuna legittimazione del potere che non sia dettata dal potere medesimo. Il governo, comunque si caratterizzi, è portatore di un’ingiustizia capitale, e proprio perché capitale sta alla base di tutte le ingiustizie. Se i governi costituiscono il male assoluto, la speranza nella possibilità di cangiare la ragione di un governo consolidato da tempo, per creare un governo maggiormente rispondente a criteri di giustizia, è impresa vana e folle a un tempo. Le novità politiche introdotte altro non dicono che della loro arbitrarietà e dell’arbitrarietà delle vecchie norme di potere che vorrebbero sostituire. Più che il pensiero conservatore le riflessioni quevediane contemplano la filosofia della tradizione. Egli non ama che il re appaia nudo. Quando questo accade il regno è esposto al peggiore dei perigli: la rivoluzione. Questa, che come fine si propone una migliore giustizia sociale, in vero non fa altro che appalesare al popolo le ragioni che per affermarsi la fanno essere violenta. Difendere le antiquitates di un casato significava per Quevedo non consentire che l’illegalità su cui il suo potere si è imposto si perda nella notte dei tempi e venga sommersa dalla coltre dei secoli. Quello che non deve mai accadere è che questa coltre venga sollevata. Che le nudità appaiano alla luce del sole e che tutti possano prendere coscienza della natura di cui son fatte, assieme al disincanto, genera nel popolo il convincimento che all’interno dello Stato, dello Stato di Diritto, tutto è lecito perché tutto si è costituito sull’illecito. La saggezza, per Quevedo, non passa attraverso l’operato di Bruto bensì attraverso l’accondiscendenza di Cesare. In contrasto con l’ideazione eticopolitica della maggior parte della tradizione del pensiero politico, che riteneva opportuna, per la salvaguardia della Repubblica, l’aggressione di Marco Bruto nei confronti di Cesare, Quevedo paradossalmente trova il comportamento di Marco Bruto sconsiderato mentre ritiene saggio quello di Cesare, che legge la sua morte come un sacrificio necessario per l’instaurazione dell’impero. A suo dire solo la sua morte avrebbe celato per sempre il vulnus inflitto alla Repubblica e alla libertà romana, impedendo di avanzare perplessità sulla genesi della legittimità dell’impero. Quevedo sa che l’origine dell’impero (o di qualunque altra forma di governo) non ha legittimità né divina né umana ma è sempre il risultato di un’usurpazione, ma sa anche quanto deleteria sia per il

Rosa, Politici e moralisti della Controriforma, in La cultura della Controriforma, in Storia della letteratura italiana, Laterza, Roma-Bari, 1973, pp. 200-230; M. Ciliberto, Storici e trattatisti, in Il secolo barocco. Arte e scienza nel Seicento, in Storia della letteratura italiana, Laterza, RomaBari, pp. 81-94; E. Belligni, Lo scacco della prudenza. Precettistica politica ed esperienza storica in Virgilio Malvezzi, Olschki, Firenze, 1999.

132 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

popolo la presa di coscienza di questa usurpazione. Tutti, a suo dire, possono sentirsi legittimati a fare opera di usurpazione. Se non c’è legittimazione non c’è motivo che chiunque possa pensare di essere egli medesimo portatore di legittimazione. Quevedo ha paura che il popolo, prima o poi, possa prendere coscienza dell’impropria autolegittimazione di chi detiene il potere. A ben guardare la preoccupazione dettata dall’autolegittimazione al potere da parte dei più trova la sua ragione d’essere, prima che in Giulio Cesare, in Socrate. Questi, invece di sottrarsi alla pena di morte con la fuga, come sollecitato da parte dei suoi più cari allievi ed estimatori, accetta l’ingiusta condanna e beve la cicuta pur di dimostrare a tutti quanto importate sia per il cittadino l’osservanza delle Leggi20. Autolegittimazione che ha permeato di sé diciannove secoli di storia e che trova argomentazioni che la inficiano solo grazie l’insorgere di quell’idea di “giusnaturalismo”21, quale si configura nel Seicento e nel Settecento e che sta a fondamento della nascita dello Stato liberale. Ed è questa autolegittimazione che Quevedo vorrebbe evitare. Quevedo e Serpetro in comune hanno tanto, e Serpetro non a caso traduce l’opera politica più significativa del Quevedo. Dei tratti comuni c’è senza alcun dubbio l’alta considerazione che entrambi riservano all’aristocrazia e Così Socrate per Bocca di Platone quando nel Critone afferma che il cittadino è tale solo in virtù delle Leggi. E che, a sua dire, non è la Legge che ingiustamente lo fa morire, bensì è l’uso improprio che di essa fanno gli uomini. Pur tuttavia, una volta emessa, anche se in base a Leggi male applicate, la sentenza ha valore di Legge, tanto che colui che la disattende, disattende la Legge in quanto tale (Critone, 50c-d e 54b-c). Non è un caso che Platone chiude il suo percorso teoretico con le Leggi, il suo ultimo e il più lungo dialogo che si può considerare come una sorta di manuale scolastico, destinato ad uso di quegli accademici che si assumevano compiti di responsabilità legislativa. Dialogo che può essere così sintetizzato: le Leggi hanno come fine la messa in pratica della virtù e della ragione (631e-d) e a nessuno è dato pensare che siano state prodotte ad altro fine che non sia il raggiungimento della felicità che ne deriva da una pratica di vita approntata a misura e a proporzione (636d-e). 20 

21  Il Giusnaturalismo (o teoria del diritto naturale) ha avuto in Ugo Grozio (1583-1645) il suo ideatore e in Thomas Hobbes (1588-1679) e Samuel Pufendorf (1632-1694) i più significativi esponenti. Teoria che rivendica i due principi più significativi della modernità in ambito politico: quello della tolleranza religiosa e quello della limitazione dei poteri dello Stato. Principi, come è noto, che hanno favorito la nascita dello Stato liberale moderno. Dalla teoria tradizionale, quella per inteso difesa ad oltranza dal Quevedo, il Giusnaturalismo si caratterizza perché non considera tale diritto come l’adesione umana a un ordine cosmico perfetto (che o è Dio stesso, come ritenuto dagli antichi sul modello ideato dagli Stoici, oppure che proviene da Dio, come per i medievali), bensì come la regolamentazione necessaria per meglio stabilire i rapporti umani, che l’uomo scopre facendo leva sulla ragione. Si può dire che il giusnaturalismo rivendica in ambito morale e politico quell’autonomia della ragione che Galilei, Cartesio e Kant avevano imposto in ambito filosofico e scientifico.

133 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

di conseguenza la bassa considerazione che riservano al popolo. Due passi, tra i tanti, testimoniano questa loro visione di vita. Senza modificare alcunché della scrittura quevediana così traduce il Serpetro: «(...) La moltitudine con la medesima facilità abbandona, con la quale incomincia, et in vece di aiutare confonde. È carica, non Capitale. Carica s’ pesante, ch’atterrà à chi se ne incarica, né può mai essere leggiera, che il suo peso non trabocchi al fondo. Si infuria, e si riuolge come il mare, e con un soffio annega, chi di quella si fida»22.

E più oltre, in rapporto al tema del pessimismo che entrambi nutrono nei riguardi del popolo, si legge: «(...) Il Popolo (...) acclama per Principe giusto il tiranno liberale. Et abborrisce come Tiranno il Principe auaro, ancorché in tutte l’altre virtù fia eccellente (...) Perché le inuidie, gli odij, le vendette, et i praui costumi della maggior parte del volgo, fanno desiderare il Principe crudele verso gli altri»23.

Malgrado questa avversione viscerale nei confronti del popolo, tuttavia entrambi concordano sulla valenza costruttiva che le istituzioni riservano a quanti non vengono premiati dalla natura. Nella scrittura serpetriana de Il Mercato, ad esempio, allorquando parla della Compensatione che la natura fà alli mostri, si legge al riguardo di quanto le istituzioni hanno riservato addirittura a Socrate: «E’ tanta la forza dell’istitutione, che Socrate douendo esser malo per natura, quella lo rese buono»24.

Come dire: il popolo è per natura brutto, sporco e cattivo, ma se le istituzioni sono efficienti è possibile che possa tramutarsi in cigno; anche se le istituzioni, per raggiungere tale fine, debbono essere governate da uomini forti, che trovano il loro rigore nell’impianto organicismo ed esecutivo veteronobiliare.

N. Serpetro, Osservazioni politiche e morali sopra la Vita di Marco Bruto. Trasportate dallo Spagnolo dal Cavalier Nicolò Serpetro, cit., p. 66 e p. 68. 22 

23 

Ibidem, p. 138.

N. Serpetro, Il Mercato delle Maraviglie della Natura overo Istoria naturale del cavalier Nicolò Serpetro, cit., p. 49. 24 

134 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Quevedo è stella di prima grandezza nel panorama letterario del suo tempo25, mentre Serpetro, che a seguire Corrado Dollo, «non ultimo dei mostri del tempo»26, individua in Quevedo il grimaldello del suo modo di pensare. Eppure lo spagnolo è autore mentre il raccujese è traduttore. Il primo è portatore di una certa genialità, mentre il secondo si serve di questa genialità per avvalorare sé medesimo agli occhi degli uomini dei suoi tempi che hanno potere. Dell’originalità e della genialità del Quevedo, Serpetro ha coscienza, eppure non palesa alcuna gratitudine nei suoi confronti. E non la palesa per due ragioni. La prima perché convinto che il pensiero una volta uscito dalle mani di un autore diventa patrimonio di chi se ne appropria; la seconda perché di Quevedo il Serpetro ne sposa l’ideologia di fondo e, pertanto, sono accumunanti dalla medesima finalità. Se l’intentio è lo stesso, è inutile pertanto mettere l’accento sul maggiore e minore acume delle sottigliezze semantiche. Quello che conta per Serpetro è conservare e tutelare l’anima del Quevedo,

Da sempre è accreditato come uno dei più grandi scrittori che ha avuto la Spagna, «senza dubbio», a seguire il giudizio di Ferdinando García de Cortázar e José Manuel González Vesga, «lo scrittore più intelligente del secolo» (Storia della Spagna. Dalle origini al ritorno della democrazia, trad. it. Bompiani, Milano, 2001, p. 262). Di formazione senechiana, al pari di altri scrittori della caratura di Alfonso de Madrigal, Pellicer, di Baltasar Gracián e Diego de Saavedra Fajardo, Quevedo della visione di vita stoica esalta la lotta costante dell’uomo saggio, guida dell’umanità, capace di vincere il destino. Visione realistica che con la sua idea di un principe cattolico cristiano al servizio del suo popolo, che vuol, sempre vicino a suoi sudditi, governare con prudenza e con equilibrio tra la sua vita pubblica e quella privata, fa di Quevedo lo scrittore più rappresentativo della prima metà del XVII secolo. E non c’è da meravigliarsi se, in una società dominata dal contrasto apparenza/realtà e dalle forti tendenze per raggiungere il potere, Quevedo difenda l’arte della dissimulazione come contributo del sovrano per raggiungere la gloria e perpetuare in quella il suo potere. Egli, molto di più del nostro Machiavelli, è uno spregiudicato in politica e nella letteratura, anzi lo è nella letteratura per meglio esserlo in politica. La sua scrittura non ha tendenze velleitarie finalizzare alla difesa della ristretta cerchia della casta degli intellettuali, come per esempio si può cogliere ne Polifemo e Solitudini dell’erudito Luis de Góngora, bensì ha tendenze prorompenti e dissacranti come si può cogliere in certe sfaccettature del barocco, che non è solo un genere letterario ma un ideale di vita. Il barocco dice alla vista del corpo quello che non dice alla vista dell’anima, o meglio, nasconde all’interiore quello che manifesta all’esteriore. Il barocco dissimula per meglio corrompere le coscienze, e ricondurle a quell’unità fondativa di cui si vuole che abbia origine il «meraviglioso». E per questo «meraviglioso» tutto viene sacrificato, compresa, quando le circostanze lo richiedono, la vita. Ma per Quevedo si tratta sempre della vita degli altri, di quelli che vanno sacrificati per mantenere in piede la sovranità politica. Quella sovranità a cui Filippo IV non esitò un istante, pur di mantenere in piedi uno stato traballante, a massacrare e privare i mori e gli ebrei dei loro beni. E per la difesa del privilegio del sovrano, Quevedo, come ben sostengono de Cortázar e González Vesga, si fa trascinare «dal suo eccessivo settarismo – antisemita, antifemminista, patriottico, reazionario politicamente –, che in un momento può far scordare la bellezza della sua prosa, la profondità delle sue meditazioni sulla vita, la morte e l’amore» (ibidem). 25 

26 

C. Dollo, Modelli scientifici e filosofici nella Sicilia spagnola, cit., p. 132.

135 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

rivolta a proteggere le istituzioni dagli attacchi sconsiderati di quanti ne vogliono sovvertire l’ordine e la legalità su cui tale ordine si regge27. E Bruto

Quevedo, nella maggior parte dei suoi scritti e indipendentemente dalla materia trattata, racconta con spirito satirico, a volte non privo di una spiccata causticità, la società di sua appartenenza: in una Spagna dai contrasti drammatici e in un’Europa dalle rivalità insanabili. Devozione e irriverenza, santità e (Santa) Inquisizione, aristocrazia e plebaglia, convivono in un miscuglio da cui doveva venire alla luce la modernità, l’umanesimo illuminato dalla nascita della nuova scienza di Copernico, Galilei e Newton, le grandi rivoluzioni politiche e soprattutto le avventure che riservavano ai grandi viaggiatori le Americhe. Quevedo non si aspetta nulla di nuovo da tutto questo. Tutte le sue opere sono pregne di scrittura rancorosa nei confronti di quella umanità «diversa», ma che non vuole apparire tale. Lui resta uno scrittore; ma uno scrittore che è prima di tutto un aristocratico, un uomo di corte, un consigliere apprezzato da principi e monarchi. Di qui i suoi strali contro un fenomeno che emerge nella Spagna del suo tempo e che diventerà la cifra della civiltà occidentale: l’attivismo truffaldino dei pervenus senza arte ne parte ma disposti a tutto per il raggiungimento delle proprie finalità a tutti i costi e nel più breve tempo possibile. Il continuo procacciarsi maschere per ciò che non si è, il voler manifestare qualcosa fuori dagli schemi del reale, il procedere nella vita per accaparrarsi ciò che non si merita è, per Quevedo, impostura detestabile, corruzione morale che può solo condurre all’abisso. Punto di rifermento stabile di queste condizioni sono i mori e gli ebrei convertiti, masse di persone che cercano di imporsi per quello che in realtà non sono. In questo spasmodico desiderio di camuffare in modo fraudolento la propria condizione d’essere, Quevedo rintraccia gli elementi di potenziale corruzione della società del suo tempo, lo scardinamento dei valori sanciti dalla tradizione, la disubbidienza all’ordine legale stabilita ab imis da Dio. Degno di apprezzamento invece è chi accetta la propria condizione d’essere in rapporto al proprio ruolo sociale e in questa simbiosi si evolve in prospettiva morale e spirituale. Ma Quevedo è un osservatore accorto per non comprendere che la società di cui è un esponente aristocratico si regge su criteri di ingiustizia elevati a sistema. Ha coscienza infatti che è il sistema a generare imbonitori e impostori. Se gli imbroglioni, o i “pitocchi”, come lui li definisce nella celebre Historia de la Vida del Buscón, llamado don Pablos, ejemplo de Vagamundos y espejo de Tacaños (1626), esistono è perché non hanno altra opportunità per sopravvivere. E questa condizione d’essere necessitata investe altre categorie sociali: se poetastri e puttane abbondano è perché perbenismi e falsi valori dello stile di vita corrente fomentano ipocrisia; se maghi e fattucchieri gestiscono le coscienze del popolo è perché la religione cattolica è governata dai principi omicidi che tiene in vita la (Santa) Inquisizione; se mori ed ebrei indossano la maschera dei convertiti è perché sanno che la (Santa) Inquisizione li conduce al rogo. Egli sa che i diversi, i perseguitati, i poveracci sono costretti a far ricorso all’astuzia per sopravvivere, in quanto nessuno, in cielo e in terra, viene loro in soccorso; come sa che giudici e poliziotti vogliono tutti morti perché vogliono detenere l’esclusività nel commettere truffe e crimini. E in questo sapere Quevedo attesta la consapevolezza di quanto profonde siano le radici del malaffare e di quanto opportuno sia voltare lo sguardo indietro al dire e al fare dei nostri antenati per meglio comprendere noi stessi e i mali che ci trasciniamo dietro. E allora? Conviene che le strade vengano percorse tutte. Il mondo è dei furbastri, dei senza scrupoli, e la vita è senza confini e dà i suoi frutti a chi sa coltivare il terreno con astuzia e poca attenzione alle leggi e ancor meno ai diritti altrui. È noto a tutti che le leggi vengono fatte per avvantaggiare chi le promulga e che lo stato di diritto, come un giorno attesteranno i «contrattualisti», si fonda sull’iniquità, finalizzata a garantire i beni di chi li possiede da chi non li possiede. L’ambiguità in cui versa la fibra morale del Quevedo è palese. La difesa ad oltranza del potere 27 

136 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

è, tra le tante, una delle espressioni più significative di tale sovvertimento. Ma per Serpetro, a seguito della disastrosa rivoluzione siciliana del 1647, le considerazioni di Quevedo su quei consiglieri che manovrano subdolamente l’animo dei regnanti sono di gran lunga più malefiche, per le sorti dello Stato, delle azioni violente di Bruto e dei suoi amici cospiratori. Profetiche appaiono le parole di Quevedo tradotte da Serpetro: «Li Medici ammazzano, viuono d’ammazzare, e la causa cade sopra l’infirmità. Rouinano un Monarca i consiglieri cattiui, e danno la colpa alla fortuna, e gli uni, e gli altri sono homicidi pagati. Il Medico uccide l’infermo, con ciò che gli ordina, perché sani, il Consigliero distrugge il suo Principe, con ciò che le persuade, perché auerti». E il messaggio si rafforza quando dalla metafora si passa alla analisi reale del dato che si intende comunicare: «Si fa solamente mentione di coloro, che uccisero Cesare, perché si viddero le ferite de’ pugnali: ma non di quei, che uccidono i Regi, perché non si vedono le ferite de’ consigli. Si dice, che ammazzano quelli, che feriscono, ma non si dice, che ammazzano quelli, che consigliano. La differenza è grande; ma non buona. Perché con le stoccate ne muore uno: ma co’ mali consigli muoiono i più, se non tutti»28. Qui il riferimento al ruolo della famiglia Olivares all’interno della Casa Madre è esplicito. C’è da dire che il Quevedo e il Serpetro hanno avuto in simpatia l’ascesa ai vertici della casa regnante della famiglia Olivares. Quevedo era legato al duca di Osuna e, anche se limitatamente al periodo tra il 1627 e il 1630, manifesta le

costituito dell’aristocrazia di governo è una scelta necessitata. Egli sa, come lo sa anche Serpetro, che per difendere i privilegi che gli derivano dal rango di intellettuale di corte, deve assecondare incondizionatamente la linea politica del potere costituito. E sa – e in questo sta la sua saggezza – che il suo non avventarsi contro le tendenze dell’ufficialità di potere non è di natura diversa di quanti, pur di sopravvivere, indossano maschere che non gli appartengono come i mori e gli ebrei convertiti; oppure di quanti fanno ricorso all’arguzia per evitare la fame e le persecuzioni. Quevedo non si sente diverso dall’ebreo convertito e dal moro convertito, dalle puttane e dagli imbonitori di basso rango. Nella giungla dell’esistenza bisogna alzarsi per primi e correre più velocemente degli altri per tutelare la propria esistenza e garantirsi condizioni di vita dignitose. Che è come dire: per i moralisti il convento, per gli uomini di mondo tutte le strade sono accreditabili. In questa terra il più e il meno in ambito morale non dipende dalla virtù ma dalla necessità. I ruoli non sono inficiati da un ordine oggettivo ma da scansioni ritmiche che la condizione d’essere di ogni singolo suole di volta in volta dettare. Condizione che di certo può sconfinare dai topoi etici d’appartenenza ma che, ad una attenta analisi, ci si rende conto che questo sconfinamento non investe mai l’alterità come finalità suprema ma sempre come strumento per la propria affermazione. In questa prospettiva di vita non c’è spazio per le etiche altruistiche di ispirazione cristiana e laica. Cristo è stato soffocato dai mercanti dalla Chiesa cattolica e Kant, con i suoi imperativi etici, non ha minimamente scalfito le coscienze dei più. Questo resta in sintesi il messaggio fondamentale della scrittura di Quevedo. 28  N. Serpetro, Osservazioni politiche, e morali sopra la Vita di Marco Bruto. Trasportate dallo Spagnolo dal Cavalier Nicolò Serpetro, cit., p. 94.

137 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

sue simpatie con il primo ministro Conte Duca de Olivares; Serpetro legato alla famiglia Branciforti, che coltivava il sogno di accaparrarsi la carica di vicerè di Sicilia, sapeva che la sua crescita era legata a quella nobile famiglia siciliana presso cui prestava i suoi servigi e, pertanto, palesi erano le sue simpatie per il Conte Duca de Olivares. Ma una volta che il Conte Duca cadde in disgrazia e venne estromesso dal regno29, gli scenari politici cambiarono, ma non cambiarono gli scenari ideologici del Quevedo e del Serpetro. E la ragione di questa fedeltà allo scenario politico del Conte Duca de Olivares è da rintracciarsi nella stesura della Vida de Marco Bruto di Quevedo e, successivamente, nella traduzione di tale stesura in lingua italiana operata dal Serpetro. Quevedo e Serpetro erano rimasti avvinti alla progettualità politico-ideologica del Conte-Duca: «Il primo e ultimo governante della Spagna asburgica che avesse avuto una tale ampiezza di vedute da immaginare piani grandiosi per il futuro: una monarchia che con i suoi territori abbracciasse l’intero mondo»30. Entrambi guardavano ai loro interessi. E quando questi non risultarono più tutelati non esitarono a iscrivere il loro nome nei registri paga di altri protettori. Ma questo non seguiva la logica che diceva che morto un papa non se ne sarebbe fatto un altro. Diceva che se sempre ne sarebbe fatto un altro di papa e sempre all’interno della Chiesa, come sempre sarebbe stato fatto un primo ministro e sempre all’interno della stessa Spagna. Indipendentemente da chi gestiva il potere, al Quevedo e al Serpetro interessava la terra di Spagna, la sua potenza politica ed economica sul mondo. E si prodigavano a sorreggere, in opposizione ad ogni forma di ribellismo politico, i presupposti teorici ed ideologici che avevano via via fatto della Spagna la nazione guida dell’Europa e della cristianità (leggesi Chiesa cattolica) che avvalorava tale guida di legittimità divina. Di certo Quevedo è lungimirante. Morto Filippo III, Quevedo, coinvolto nel processo contro il duca di Osuna, viene nel 1622 mandato in esilio nelle sue terre di Torre de Juan Abad. L’anno successivo, ancora in vita il duca di Osuna, riottiene il favore della corte, rientra a Madrid, e partecipa a pieno titolo alle cerimonie ufficiali, comprese quelle di accompagnare Filippo IV nei suoi viaggi. Una volta rientrato a corte, il Quevedo non esita a mettersi al servizio dell’Oli29  Il 27 gennaio del 1643 il governo di Spagna per volontà di Filippo IV licenzia l’Olivares e lo obbliga ad allontanarsi da Madrid, quella capitale da dove aveva gestito la Spagna e gran parte del mondo per ventidue anni, e ritirarsi in esilio nelle sue terre. Qui, con le ultime energie rimaste, stese un significativo resoconto dal titolo Nicandro per difendere le sue scelte politiche e, soprattutto, i disegni ideologici che le avevano dettate. E il fatto che non siano andate a buon fine non è stato di certo dovuto al suo disamore per la terra di Spagna. Egli ha operato da statista, e nel suo operato non altro si deve rintracciare che la volontà di fare della Spagna la guida morale e politica del mondo. 30 

J.H. Elliott, La Spagna imperiale 1469-1716, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1982, p. 405.

138 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

vares e, contro ogni evidenza, «per sostenere la propaganda governativa scrisse un pamphlet per esaltare l’immagine del valido immune dal vizio cronico di tutti i favoriti, quello di creare altri favoriti»31. Questo sta a significare che, seppur il duca Osuna, suo protettore, non fosse stato riabilitato, al Quevedo stava a cuore prima di tutto se stesso e contemporaneamente gli stava a cuore la causa per cui era stato chiamato, che lo accreditava agli occhi del suo popolo e della sua terra. Sul Quevedo etico-politico di Walter Ghia Walter Ghia, nell’Introduzione al suo pregevole studio su Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, sostiene che solo riposizionando il grande intellettuale spagnolo «nel quadro della cultura europea», lo si sottrae «alla leggenda che lo vuole conformisticamente appiattito sulle idee matafisicoreligiose dominanti nel suo paese», ed è «possibile porre le basi di un’interpretazione plausibile di molte sue pagine tanto sottili e profonde, quanto ambigue e sfuggenti»32.

F. Benigno, L’ombra del re. Ministri e lotta politica nella Spagna del Seicento, Marsilio, Venezia, 1992, p. 103. E che la difesa del Quevedo fosse una sfacciata forzatura dell’evidenza dei fatti lo attesta, considera Benigno, «un anonimo libretto intitolato El tapaboca», che «gli rinfacciò pedantemente la valanga di nomine di Guzmanes e dei loro alleati in uffici di corte e di governo: tutti del resto a Madrid sapevano delle promozioni assegnate a Leganés e Monterrey, popolarmente conosciuti col poco rassicurante epiteto di los dos ladrones, e non meno erano quelle di cui avevano goduto altri parenti ed amici di Olivares come Alcañices, Carpio, Montesclaros, Hinojosa, García de Haro, Camarasa, e Medina de la Torres». Cfr. al riguardo della politica nepotista del conte Olivares, E. Chamberlayne, The Rise and Fall of the Late eminent and Powerful Favourite of Spain the Count Olivares, London, 1653, pp. 7 ss e anche J. Elliott, The Count-Duke of Olivares, The Statesman in an Age of Decline. New Haven: Yale University Press, 1986, p. 420. A seguire ancora Benigno il duca di Olivares fece ricorso più volte all’appoggio degli intellettuali per rivitalizzare la sua immagine appannata dalla sua politica nepotistica e sensibilmente avversa alla vecchia casta aristocratica. Scrive Benigno: «La reazione di Olivares a questo progressivo deteriorarsi della sua immagine pubblica fece leva soprattutto su un rinnovato utilizzo degli strumenti della propaganda. Mentre intellettuali come Hurtado de Mendoza, il conte de la Roca e Quevedo si impegnarono nella difesa del regime, artisti come Velázquez, Maino e Zurbaran venivano ingaggiati per esaltare le vittorie delle armi spagnole, in una serie di quadri destinati ad adornare il salone nuovo, magnifico palazzo reale, detto del Buen retiro» (F. Benigno, L’ombra del re, cit., p. 108). Scrittura che sta a testimoniare di quanto importante, per l’immagine della politica olivaresiana, fosse l’appoggio della classe degli intellettuali. E sta a testimoniare inoltre quanto gli intellettuali fossero disposti a concedere i loro servigi per la difesa di prebende e benefici di ogni genere. A Quevedo, come a tutti gli altri intellettuali, poco interessava la verità, molto invece il prestigio e il benessere che gli potevano derivare dall’avere a cuore la causa di chi deteneva il potere. 31 

32 

W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, Edizioni ETS, Pisa, 1994, p. 9.

139 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Quella del Ghia è un’impostazione di metodo da noi positivamente considerata. E gli riconosciamo il merito di aver individuato un’impronta teorica che pone il pensiero politico del Quevedo fuori sia dal classicismo di matrice aristotelico-scolastica (Aristotele, Cicerone, Tommaso d’Aquino), sia dal classicismo repubblicano, patriottico e militare, del Machiavelli, sia dal «giusnaturalismo» (Grozio e Hobbes) e sia successivamente dal «contrattualismo» (Locke e Rousseau). Un’impronta tutta nuova approntata al disincanto, a un radicale scetticismo politico versato, esplicita Ghia, ad «ammaestrare l’uomo di governo all’uso non plateale, anzi discreto e dissimulato del potere e delle sue risorse, nella consapevolezza che non esiste modo per render ragione del domino di alcuni sugli altri»33. La concettualizzazione che fa del potere uno strumento necessario per eliminare, o se non altro limitare, la violenza tra gli uomini, considera molto opportunamente Ghia, per Quevedo «non contiene in sé i presupposti per concludere che a comandare debba essere proprio quell’uomo (o quel gruppo) e non quell’altro». E se nessun singolo oppure nessun gruppo è legittimato al comando, allora per Quevedo, conclude Ghia: «La consuetudine e l’uso, oltre ad essere gli unici modi – oggettivi ancorché causali – per riconoscere chi deve comandare, sono anche le sole vie che la questione della legittimità del potere venga posta in maniera esplicita e sostanziale con conseguenze che sarebbero disastrose per la conservazione dell’ordine»34. Quevedo e Montaigne Come è noto ai più, Montaigne, ignorando il divieto da parte degli “Indici romani dei libri proibiti” che pesava sull’opera, aveva tradotto in francese la Theologia naturalis di Raimond Sebont, per poi ritornare ad occuparsi alle ideazioni dell’agostiniano catalano nell’Apologia di Raimond Sebont nel secondo libro degli Essais. Proprio in considerazione della difficile situazione francese, in seguito al gran rumore della “Notte di San Bartolomeo”35, 33  34 

Ibidem, p. 11. Ibidem.

“Notte di San Bartolomeo” è il nome con il quale è passata alla storia la barbara strage consumata nella notte tra il 23 e il 24 agosto 1572 dai cattolici a danno degli ugonotti a Parigi, in un clima di rivincita causato dalla battaglia di Lepanto e dal crescente prestigio della Spagna. La cifra dei morti è incerta, oscilla tra le cinquemila e le trentamila unità. Di certo si sa che fu voluta da Carlo IX e fu finalizzata a uccidere miratamente i maggiori esponenti protestanti, che sei giorni prima del massacro si erano radunati a Parigi, città fortemente cattolica, in occasione delle nozze 35 

140 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

salutata da un gran tripudio di Te Deum dei vertici della Chiesa capitolina, non bisogna negare a Montaigne il merito di avere diffuso in Francia un trattato che, pur colpevole di ridimensionare il ruolo di mediazione della Chiesa cattolica nella interpretazione delle scritture, insistendo sulla dimostrabilità razionale delle verità cattoliche, sul libero arbitrio, sull’eccellenza umana, certamente poteva rivelarsi utile nella confutazione delle eresie e degli eretici. Considerando le convinzioni scettico-fideistiche e la visione politica della religione esplicitata da Montaigne stesso negli Essais, non è da escludere che perdessero valore nella misura in cui l’autore si schierava contro i protestanti e si proclamava contrario a tutti i sovvertimenti religiosi che mettevano in pericolo la pace civile e auspicavano che la Francia si mantenesse nella fede cattolica36. Gli Essais sono portatori di umanesimi tra la sorella del re, Margherita di Valois e il protestante Enrico III di Borbone, re di Navarra e futuro re di Francia. A vuoto cadde l’ordine del re di cessare immediatamente gli assassini: la strage proseguì, considerata a giusto titolo, il «peggiore dei massacri religiosi del secolo» e macchiando il matrimonio reale con il nome di «nozze vermiglie» (cfr., H.G. Koenigssberger, George L. Mosse, G.Q. Bowler, Europe in the Sixteenth Century, Longman, 1989).

Per quanto riguarda gli strali rivolti contro i processi alle streghe, contenuti nel primo libro degli Essais, dal titolo “Della forza dell’immaginazione”, Montaigne si chiedeva, in contrasto col suo conterraneo Jean Bodin, ossessionato dal problema, come fosse possibile «arrostire un essere umano», scambiando per manifestazioni diaboliche delle pure e semplici patologie mentali. Per «uccidere la gente», scriveva Montaigne, «ci vuole una chiarezza luminosa e netta: e la nostra vita è troppo reale ed essenziale per garantire quei fatti soprannaturali e immaginari». Ora, benché non fosse certo quale fosse quella chiarezza luminosa a fare difetto al Sant’Uffizio, la posizione del Montaigne andava nella direzione assunta in quegli anni dalla Chiesa in fatto di stregoneria. Considerato l’inquietante dilagare del fenomeno della caccia alle streghe e la sua strumentalizzazione nei paesi cattolici e in quelli protestanti, i vertici della Chiesa di Roma preferivano difendere il proprio punto di vista in materia di sovrannaturale e assumevano così una posizione critica al riguardo dei fenomeni di magia e di superstizione. Il loro sistema inquisitoriale su magia e superstizione si sarebbe di conseguenza differenziato dalla politica dei tribunali civili e da quelli protestanti, offrendo prove di maggiore moderazione che aprivano a un’indubbia modernità. Di rilevante gravità era ritenuto invece l’uso che Montaigne faceva del termine «fortuna» che, in sintonia col mondo classico, veniva ritenuta come una forza cieca che dettava gli accadimenti degli uomini e ne forgiava il carattere secondo le cangevoli categorie del vero e del falso. Altrettanto gravi apparivano le concordanze tra il pensiero di Montaigne e quello del Machiavelli. Tutto ciò non deve destare stupore se, al momento della sua partenza da Roma, in cui tra l’altro aveva ottenuto la cittadinanza onoraria, il maestro del Sacro Palazzo si limitò a consegnare una lista di rilievi invitando amabilmente il Montaigne a tenerli in considerazione nelle edizioni successive dei suoi Essais. Eppure si vuole per calcolo politico, si vuole per eccesso di fiducia nella bontà del proprio metodo, la censura papale misconosceva (o faceva finta di misconoscere) la portata sovversiva di un’opera che si preparava a diffondere, all’insegna di una doppia verità, lo scetticismo e il dubbio tra i lettori. Come si può immaginare, Montaigne, tornato in patria, non tiene in alcun conto i rilievi del censore romano, lasciando ad esso la consolazione di interferire a suo compiacimento sulla traduzione italiana dell’opera. Invece ad illuminare la censura papale ha inciso la doppia condanna, teologica e morale, 36 

141 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

tolleranti e si avventano contro ogni esercizio politico-ideologico che vuole ridurre l’umanità al servizio di una fede. Nello specifico sono una denuncia del negativo che alberga nell’alveo fideistico di tutte le forme codificate di cristianesimo. Si tratta di un’opera a struttura aperta: un’interpretazione laica dell’universo, che, avendo come punto di partenza la classicità di autori come Lucrezio, Cicerone, Seneca e Plutarco, apre a un colloquio interiore, specchio di tutte le contraddizione dello spirito di ogni singolo soggetto storico. Questo e tant’altro ancora: quel ritirarsi dal mondo per descriverlo meglio, quel suo disintegrare ogni sistema per ricordare al lettore che la verità, ammesso che ci sia, va cercata nelle contraddizioni, nel cangiamento, nel sottoporre alla prova dello scetticismo ogni ideazione. Da lui ci giunge l’insegnamento del far buon uso dell’ozio e dell’egoismo, dell’arte dell’introspezione, della scoperta degli elementi per ridere e irridere su quanti elaborano filosofie pretenziose. Sulle travi del soffitto del suo castello fece imprimere la quintessenza del suo percorso speculativo: «Non posso comprendere», «Non capisco», «Ovunque vanità». Le prime due massime le ricava dai testi scettici, la terza dalla traduzione latina del libro di Qohelet, letta nella Vulgata di san Gerolamo. Quel padre della chiesa che aveva scelto di rendere l’ebraico hebel con vanitas. “Hebel” indica nella lingua biblica qualcosa di fluido, di cedevole, di impalpabile, di inafferrabile: il vuoto che accompagna le cose, il nulla che le attende. Per questa ragione “vanitas” dice del senso della provvisorietà di tutto e di tutti. Quel senso che entusiasmò Montaigne e che ne fece il leitmotiv del suo pensiero. Chi infatti potrebbe smentire l’inconfutabile convincimento che ogni cosa è destinata a dissolversi? Dalla torre di questo convincimento degli Essais pronunciata dalle autorità calviniste nel 1602. Ma a dettare la condanna dell’opera in tutte le lingue (1676) furono, probabilmente, «le perniciose conseguenze che un vasto e inadeguato pubblico avrebbe potuto trarne». Non meno pernicioso doveva apparire ai vertici l’impatto che l’opera avrebbe potuto avere sui lettori colti. Per comprendere la gravità del fenomeno era sufficiente che Roma volgesse lo sguardo a Venezia dove Paolo Sarpi, teologo eretico della Serenissima, aveva contestato l’autorità pontificia con il soprannome di «Montaigne col cappuccio». Eppure dall’anno di pubblicazione, autorizzata dalla curia di Bordoeaux e munita di regolare privilegio reale, all’anno della censura in tutte le lingue, trascorse quasi un secolo. I proibiti Essais dovranno attendere circa due secoli prima di essere spolverati, grazie all’attenuato decreto dell’Indice. Lo si deve all’abate Giulio Perini, seppur con estrema cautela. L’illuminato abate li pubblica in due volumi a Firenze, e, per la logica del non si sa mai, falsifica la sede tipografica (Firenze diventa infatti Amsterdam), cancellando il titolo originario, ribattezzando l’opera di Montaigne col titolo “I saggi di Michele della Montagna” (cfr. al riguardo dell’intera vicenda i due capitoli dedicati a Montaigne – cap. II “Il signore di Montaigne” pp. 99-183; cap. III “Montaigne eretico” pp. 184-220 – dal rilevante studio di Saverio Ricci, Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della controriforma, Salerno Editrice, Roma, 2008).

142 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

egli scaglia frecce intelligenti sull’intera umanità. Non causa ferite come in un campo di battaglia ma di certo non concede tregua allo spirito. Chi viene colpito da un suo strale non può non aprire contenziosi con le sue certezze, le verità che ha accumulato, i tanti beni che gli giungono dalle idee comuni. Stimoli che rendono adulti i lettori. Alle sue pagine bisogna fermarsi e assaporarle con calma, cadenzando ogni proposizione con l’esperienza della vita37. Queste brevi considerazioni mirano ad evidenziare le assonanze e le dissonanze che Quevedo ricava dalla lettura degli Essais. Assonanze tante, dissonanze qualcuna ma strutturale ai fini del percorso etico-politico del Quevedo, che resta, che dir si voglia, strenuo difensore dell’assolutismo imperiale indipendentemente dalle singole ere storiche. Tra le tante assonanze quella che fa di Quevedo il continuatore della ideazione morale di Montaigne è certamente l’idea di progresso legata all’antropocentrismo causato dal potere razionale dell’uomo. Sia in Montaigne e sia in Quevedo si registra il medesimo ribaltamento operato nei confronti della ragione umana di matrice teorica aristotelico-tomistica. L’intelligenza umana ne l’Apologie de Raymond Sebond s’ammanta di ironia, e viene ricondotta su un terreno friabile che evidenzia tutta la sua negatività che va dalla vanità all’artificio all’inquietudine38. Nella Providencia de Dios Quevedo fa ricorso all’ideazione diffusa che lega la ragione alla tecnica che apre al progresso (miniere, navi, bussola) e al dominio dell’uomo sugli animali e sulla natura, ma nello stesso tempo opera una conversione radicale della prospettiva razionalistica, al punto da affermare che, per lo più, gli esiti della ragione umana sono versati ad accrescere la sofferenza e la morte39. E c’è di più. Nelle stesse pagine dice che l’uomo è superiore agli animali grazie all’intelligenza, ma dice altresì che l’intelligenza non è una prerogativa della superiorità dell’uomo sull’animale, bensì è prerogativa della sua superbia e vanità, che

Cfr. S. Ricci, Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della controriforma, Salerno Editrice, Roma, 2008 e cfr. P. Desan (a cura di), Dictionnaire de Michel de Montaigne, Honoré Champion, Paris, 2005. 37 

Così Montaigne con Orazio (Epistole, I, I, 98-99) sulla condizione d’essere dell’umano: «Quod petiit, spernit; repetit quod nuper omisit;/ Æstuat, et vitæ disconvenit ordine toto» («Ciò che ha voluto, lo disprezza; rivuole ciò che poco fa ha lasciato andare; fluttua, e in tutto nella sua vita è contraddizione»), in Montaigne, Saggi, trad. it. Adelphi, Milano, 1992, p. 428. 38 

39  Intendimento quest’ultimo con cui, scrive Quevedo, «burl las defensa de las armas y de las murallas, hozo que por la pudenterí diesen má muertes los ojos que las manos, y pasó la gloria del valiente al certero» (Providencia de Dios padecida de los que la niegan y gozada de los que la confiesan. Doctrina estudiada en los gusanos y persecuciones de job (d’ora in avanti Providencia de Dios), in OP, p. 1211).

143 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

inevitabilmente conducono, in ambito di progresso tecnico, a un inesorabile degrado morale40. Montaigne e Quevedo, a parte la differenza di dettato causata dalla condizione d’essere in cui versano entrambi gli scrittori, sono per Ghia sulla stessa lunghezza d’onda. «Montaigne considera assurdo che l’uomo si vanti della sua superiore capacità di produrre morte, e mette in luce i motivi futili e banali che hanno originato le grandi imprese guerriere. Quevedo argomenta che la facilità (e stupidità) con cui gli uomini rischiano la vita per il soldo nasce dal «desprecio de la muerte corporal» e dimostra (...) «que hay en nosostros mismos caudal eterno y sabitor de otra sin fin»41. Come dire: il francese fa dell’arguzia della ragione la causa della sua rovina, lo spagnolo fa della scarsa considerazione del corpo da parte della ragione la causa del suo decadimento morale. Un altro tema di grande rilievo comune è quello della bellezza. Per Montaigne gli uomini si proclamano superiori agli animali in virtù della facoltà raziocinante ma in vero sono convinti che tale superiorità derivi loro dall’aspetto fisico e dalla bellezza esteriore, che dicono della superiorità della loro specie. Pretesa superiorità che non ha alcun fondamento, anzi a ben considerare la natura si esprime in termini contrari da quelli voluti dall’uomo. «Quando considero l’uomo tutto nudo», dice l’umanista francese, «(anche in quel sesso che sembra dotato di maggior bellezza), le sue tare, la sua natura soggetta a tante imperfezioni, trovo che abbiano avuto più ragioni di coprirci di qualsiasi altro animale. È stato scusabile che abbiano preso a prestito da quelli che la natura aveva favorito in questo più di noi, per ornarci della loro bellezza e nasconderci sotto le loro spoglie, lana piuma, pelo, seta»42. E ciò si evince ancor più dall’universo femminile, dove «non è tanto il pudore, quanto arte e prudenza, quello che rende le nostre signore così circospette nel proibirci l’ingresso ai loro gabinetti prima di essersi imbellettate e acconciate per mostrarsi in pubblico (...) laddove, in molti animali, non c’è parte di essi che non amiamo e che non piaccia ai nostri sensi, tanto che perfino dai loro escrementi e dalla loro secrezione ricaviamo non solo leccornie da mangiare, ma anche i nostri più ricchi ornamenti e profumi»43.

Così Quevedo: «Inventóse poco a poco la artillería contra las vidas seguras y apartadas falseando el cal y canto a las muallas y dando más vitorias al certero que al valeroso. Empero luego se inventó la imprenta contra la artillería plomo contra plomo, tinta contra pólvora, cañones contra cañones» (Le horas de todos y Fortuna con seso, in OP, p. 318). 40 

41  42  43 

W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 26. Montaigne, Saggi, trad. it. Adelphi, Milano, 1992, p. 630.

Ibidem, p. 631.

144 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Quevedo, invece, rintraccia questa presunta superiorità degli uomini sul terreno dell’immortalità dell’anima. Il ricorso all’armonia dell’anima deriva dalle disarmonie del corpo. Considera Ghia che per Quevedo «la vanità con cui gli uomini trasfigurano la loro immagine fisica ad altro non può essere ricondotta che al desiderio del corpo di imitare la perfezione dell’anima immortale». In Sueño del Juicio final (1607) e Sueño del infierno (1608) evidenzia doti caustiche allorquando parla di comportamenti umani che sanno di grottesco: «di donne che vogliono somigliare a “sfere razionali”, di vecchi che vogliono apparire giovani, di uomini che smentiscono il loro sesso»44. Si tratta di comportamenti che attestano la peculiarità della sfera dell’umano, che tra la complessa e articolata sfera dei viventi è l’unico che faccia sovente ricorso, perché si sente inappagato del suo corpo, all’artificio. Chi più e chi meno esplicitamente, Montaigne e Quevedo, dicono che la superiorità degli uomini rispetto agli animali non ha fondamento teologico ma antropologico. Si tratta per entrambi di sconfessare quell’apologetica che vuole il mondo creato per l’uomo, l’uomo superiore degli animali grazie alla ragione, il limite della natura umana che apre all’illimitato, all’immortalità. E invece le cose stanno diversamente: sono proprio i limiti del corpo, le sue disarmonie, a dare l’input a spingere la ragione, che non sta fuori dal corpo ma nel corpo, che non è diversa ma della stessa natura del corpo e delle cui sostanze si nutre, a far ricorso agli artifici che hanno l’assurda pretesa di cogliere un discrimine tra ragione e corpo. Quello che di sorprendente entrambi gli autori evidenziano è il fatto che non è più la ragione a dire della sua superiorità rispetto al corpo, ma è il corpo che offre gli elementi alla ragione per accaparrarsi artifici che possono, seppur parzialmente, sopperire ai propri limiti, alle proprie imperfezioni, alle proprie disarmonie. Dove, si badi, l’agire della ragione per quanto sforzi faccia non raggiunge mai la completezza, visto che la humus di cui si nutre è costitutivamente friabile, instabile, cedevole. Gli artifici coprono le fessure ma giammai riescono a sostituire il mal concepito dalla natura. La valenza fondativa della corporeità sovverte l’ordine costituito della tradizione dotta e del senso comune. In un tempo in cui la Chiesa cattolica dominava le intime movenze delle coscienze degli uomini occidentali non è da poco parlare di anima e di ragione come costruzioni del sentire del corpo. Eppure Quevedo, sulle orme dello scettico Montaigne e della tradizione (Lucano e Tacito) a cui quest’ultimo si rapporta, non esita a mettere l’accento sull’«utilità sociale» dell’efficacia consolatoria della «credenza nell’immortalità dell’anima». La Providencia de Dios, dietro la parvenza dell’ortodossia ufficiale della 44 

W. Ghia, Il pensiero politico de Francisco del Quevedo, cit., pp. 29-30.

145 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

dottrina cattolica, è portatrice di tesi, sposate in Francia da Montaigne, Charron e i libertini e approfondite in Inghilterra da Hobbes45, che dicono che il Diritto, le Leggi e la Giustizia non hanno origine né in Dio né nella Coscienza (intesa come struttura fondativa universale) bensì in un terreno prassistico e strumentale. Non hanno di mira né la giustizia divina né quella umana ma il ristabilimento dell’ordine sociale attraverso la paura della pena. Quevedo è chiaro al riguardo: «Oyeme con más atención y con más bien purgado oído que hasta aquí. En el mundo no hay verdugos ni tormentos para los pecados, sino para los pecadores. Quien peca es la voluntad, y ésta es potencia espiritual del alma: está fuera de la jurisdicción del cuchillo y de la soga y del fuego. Si no hay otra vida y alma inmortal y Dios, el pecado se queda sin pena y sin juez. Los tribunales de la tierra ajustician al homicida, al ladron y al adùltero, para conseguir los efectos del escarmiento»46.

Scrittura questa del Quevedo in cui l’affermazione del carattere specificamente utilitaristico della giustizia umana viene elevata a prova dell’immortalità dell’anima: se le Leggi umane vengono promulgate, non perché conformi alla giustizia, ma perché garantiscono l’ordine sociale, se il ciclo biologico chiude i singoli transiti umani, allora «il peccato rimane senza pena né giudice» e, pertanto, l’immortalità si rivela necessaria se si vuole attribuire alla vita senso e valore47. Letta in prospettiva teologica, considera opportunamente Ghia, «la tesi del carattere puramente strumentale della legge umana potrebbe venir interpretata come una versione moderna (...) di una dottrina che ha origini agostiniane: la politica e il diritto trovano la loro ragion d’essere non tanto in quanto contribuiscono a realizzare nella sua pienezza la natura dell’uomo, bensì in quanto pongono rimedio alla corruzione dell’ordine naturale, perché costituiscono amare e pur necessarie conseguenze della colpa originaria»48. Cfr., A.M. Battista, Alle origini del pensiero politico libertino: Montaigne e Charron, Giuffré, Milano, 1979 e Nascita della psicologia politica, Ecig, Genova, 1982. 45 

Quevedo, Providencia de Dios, cit., p. 1220: «Ascoltami con più attenzione e scevro da condizionamenti. Nel mondo non ci sono carnefici né tormento per i peccati, ma per i peccatori. A commettere il peccato è la volontà, che resta il potere spirituale dell’anima: questa è al di fuori della legge del coltello, della corda e del fuoco. Se non c’è vita dopo la morte, se l’anima non è immortale, se non c’è Dio, allora il peccato rimane ingiudicato, impunito. I tribunali terreni giudicano l’omicida, il ladro e l’adultero soltanto ai fini della punizione» (traduzione nostra). 46 

47  48 

Ibidem.

W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 46.

146 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Quevedo non cessa di sorprenderci. Proprio in questo trattato che ha per oggetto la provvidenza divina, smentisce sant’Agostino e tutta la tradizione che da Tommaso d’Aquino giunge fino ai padri della compagnia di Gesù, e sposa la tesi che «solo Dios (...) puede castigar el espíritu». Che è come dire: se solo a Dio è concesso castigare l’anima allora su questa terra non c’è legge né giudice che si possa appropriare del diritto di quantificare in colpa il peccato. Ipotesi altamente suggestiva, scarsamente congeniale all’edificazione religiosa approntata a quel concetto di colpa-peccato su cui si è retta la Chiesa sin dal suo attribuirsi di rimettere i peccati in nome e per conto della volontà di Dio. Dire che la vendetta appartiene a Dio (dijeron que las venganzas eran de Dios) significa dire che appartiene a Dio perché gli uomini sono privi di un’autentica illuminazione (por falta de verdadera luz)49. E sottrarre agli uomini di Chiesa di operare per nome e per conto di Dio significa per Quevedo svuotare di senso la loro missione storica, che equivale a mettere a nudo l’arbitrio umano, troppo umano, del loro governo sugli uomini. Anche per quanto riguarda temi di valenza specificamente teoretica, come ad esempio l’autonomia della ragione rispetto alla realtà sensibile, la posizione del Quevedo si apre a un vistoso contrasto. Per un verso ritiene la «ragione», in sintonia con la posizione aristotelico-scolastica che fa delle categorie «generi sommi», «valori assoluti», «conosciuti» (id quod cognoscitur) incontaminati dalla sensibilità (tempo e spazio), per altro verso, e a un tempo, parla della «ragione» esposta all’accidentale, all’errore, al limite conoscitivo. Una ragione contaminata non solo dalla sensibilità ma, quel che appare più grave, dalla superstizione, dalla banale credulità, dalla fantasia degli uomini. Dall’elitarietà della ragione, predisposta a far da guida certa all’umanità, si passa ai suoi limiti, alle sue cedevolezze, alle sue miserie, alle sue impotenze. Gli uomini non sono in possesso di alcuno strumento di discernere in assoluto il vero dal falso. La loro scelta non è dettata da valutazioni rigorosamente razionali bensì da fattori che, spesso, non hanno nulla a che vedere con la ragione ma che alla ragione chiedono credenziali giustificative. Ancora una volta Quevedo è in sintonia con Montaigne. Questi al riguardo del tema in oggetto argomenta sulla scienza e sulla fantasia: «In verità, la scienza è una gran cosa, e utilissima. Quelli che la disprezzano, dimostrano a sufficienza la loro stoltezza; tuttavia, io non stimo il suo

49 

Quevedo, Providencia de Dios, cit., p. 1221.

147 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

valore a quel grado estremo che alcuni le attribuiscono, come il filosofo Erillo, che riponeva in essa il sommo bene e riteneva che da lei dipendesse di renderci saggi e felici»50; «(la filosofia) ha tanti aspetti e varietà, e ha detto tante cose, che vi si trovano tutti i nostri sogni e tutte le nostre fantasticherie. La fantasia umana non può concepir nulla, né in bene né in male, che non vi si trovi»51.

A seguire Ghia, questi i punti che accomunano l’itinerario speculativo e morale del grande spagnolo a quello del grande francese: a) la teologia non è che una strategia al fine di ordire inganni finalizzati ad ottenere consenso e potenza sul popolo; b) ogni fiducia incondizionata della superiorità dell’uomo rispetto al resto dei viventi è dettata da una credenza ingenua; c) la ragione non sempre si configura come strumento positivo per la guida dell’umanità, spesso è causa di distruzione, di morte, di crudeltà e di inquietudine; d) la coscienza nel suo costituirsi attinge alla sfera razionale e a quella irrazionale, alla luce e all’ombra, alla veglia e al sonno, alla realtà e alla fantasia; e) la legge non attua né la giustizia divina né quella umana, bensì stabilisce l’ordine sociale tramite la paura della pena. Su religione e politica Religione in funzione della politica. Ecco il tratto essenziale che caratterizza il percorso religioso e politico di Quevedo. Nel volume Política de Dios, Govierno de Christo, y Tyrania de Satanas, di cui la prima parte fu pubblicata nel 1626, viene tracciata la figura ideale del principe cristiano. Titolo, scrive Ghia, «altisonante e fanatico» che «suona come un grido di battaglia e sembra annunciare un programma ispirato al più intransigente radicalismo»52. Tutto è già stato scritto e pertanto non resta che seguire le Scritture. Nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, nella Patristica e nella Scolastica, nei trattati teologici bisogna, a seguire Quevedo, rintracciare criteri e modelli per affrontare i problemi politici, che vanno dal fondamento della regalità alla ripartizione e riscossione dei tributi, dall’atteggiamento del re verso amici, familiari e funzionari alle disposizioni del reclutamento dei componenti l’esercito e alle

50 

Montaigne, Essais, cit., p. 564.

Ibidem, p. 721. Qui Montaigne sposa la tesi di Cicerone: «Nihil tam absurde dici potest quod non dicatur ab aliquo philosophorum» (De divinatione, II, LVIII). 51 

52 

W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 59.

148 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

strategie militari, dalla valutazione sulla condotta di un ministro al pur minimo evento della vita di corte. Si tratta di un percorso in cui, a seguire Raimundo Lida, il «profano» rintraccia nel «sacro» la sua legittimità. «Quevedo si sforza, con ricercata solennità ecclesiastica, di sostenere il parallelismo, e di dissimulare i salti e le ricuciture del discorso, attraverso lo sviluppo di un commentario anomalo, in cui la storia e l’esperienza combattono per intrecciarsi tanto con la sapienza biblica quanto con quella profana e pagana»53. Si tratta, ovviamente, di un percorso sui generis, ma non assurdo. Quevedo al tempo della Política de Dios si fa portatore di una prospettiva, come ben riferisce Lida, «teopatriottica» che fa della Spagna il «braccio destro di Dio»54. La particolarità della tesi di Lida, a seguire Ghia, appare poco convincente, al punto da intravedere i luoghi biblici e teologici della sua scrittura come meri steccati, «docili strumenti adatti a servire le tesi più varie, semplici pedine di una strategia argomentativa tanto spregiudicata da far nascere ragionevoli dubbi circa la genuinità dell’impegno dell’autore a definire i valori e la prudenza politica sulla base della scrittura e della teologia»55. E che il Ghia abbia ben compreso le contorsioni che Quevedo opera all’interno della scrittura biblica si coglie a vista d’occhio allorquando dispiega a un complesso piano ermeneutico il rapporto tra la figura di Caifa e quella del conte-duca Olivares, che governava la politica di Filippo IV e che era stato causa dell’allontanamento del Quevedo dalle sue funzioni alla corte regale. «Il conte-duca è dapprima raffigurato da Caifa (Política de Dios), poi da Davide (Rebelión), e infine diventa l’uomo che, in base al discorso di Caifa, andrebbe giustiziato per il pubblico bene (Panegírico)»56. Quella di Quevedo non è una visione politica inficiata dal diabolico e dal sacro57, bensì è una diversa strategia per meglio proteggere la sua persona dagli attacchi dei suoi nemici. E il ricorso costante ai testi biblici («hablar a sagrado») non attesta di uno stato sinistro del Quevedo, piuttosto, «addurre di continuo gravi ragioni teologiche e citazioni scritturali (in realtà buone per tutti gli usi), è un modo per parlar di politica in un ambiente pericoloso, caute-

53  R. Lida, Prosas de Quevedo, Editorial Critica, Barcellona, 1981, p. 172, citato in W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 60.

54  Cfr. R. Lida, Prosas de Quevedo, cit., pp. 129-130, citato in W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 61. 55  56  57 

W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 61. Ibidem, p. 68.

Cfr., R. Bouvier, Quevedo homme du diable, homme de Dieu, Champion, Paris, 1929.

149 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

landosi da prevedibili attacchi, e insieme indirizzando spregiudicati remedios ad un re alquanto distratto, ma estremamente sensibile e impressionabile di fronte ai discorsi religiosi»58. Riteniamo questa del Ghia una lettura reale e alquanto attendibile. Quevedo non solo ha una chiara visione della situazione storica in cui versa la Spagna del suo tempo, ma ben conosce la psicologia dell’uomo comune e, per quel che più conta, degli uomini di potere e della figura dei regnanti, delle loro passioni e anche delle loro debolezze. Psicologia che lo aiuta a vivere al meglio ma anche a salvaguardare, con i mezzi che ha a disposizione e per quanto gli è possibile, lo stato di diritto e le sue rappresentanze a livello istituzionale. È un uomo che legge il mondo per salvaguardare se stesso ma anche il mondo di cui questo se stesso è parte. In quanto portatore di questa visione Quevedo ci appare un uomo coscienzioso, più aperto al sociale di quanto non lo sia stato il suo maestro Montaigne e il Machiavelli, che di certo ebbe affini transiti esistenziali. Forse il suo autentico compagno di viaggi resta il Guicciardini che difende il «particulare» dentro una più cosmica visione di vita, sebbene la visione del Quevedo si tinge del cosmopolitismo dei colori di Spagna. E che la Spagna venga prima di tutto e sopra tutto si coglie nel dettato del Quevedo che, di fronte al disastro politico ed economico che ha portato la politica interna ed estera dell’Olivares, non esita a prendere le difese delle Cortes e dei Consigli. Difesa che non intende accendere una polemica antiassolutista, bensì far ricorso a un atteggiamento tattico finalizzato a mettere in cattiva luce l’Olivares sia di fronte a quanti non condividevano la sua linea politica nepotistica e sia a quanti avevano visto in questa linea la causa dei molteplici focolari insurrezionistici che se non erano antiassolutistici di certo testimoniavano del disagio in cui versava il popolo di Spagna e degli Stati (comprese le colonie e i vice-reali) ad essa legati da vincoli di sudditanza. Questo fu ben compreso da Elliot che, in un pregevole e acuto studio sugli scritti politici del Quevedo, così argomenta: «E in realtà quel che (Quevedo) manifesta di volere non è una minore, bensì una maggiore autorità regale; e sempre più egli mostra di aver maturato la convinzione che il Conte-Duca stava ostacolando l’esercizio autentico della regalità»59. Quevedo, indipendentemente dalle sue vicende personali, resta che dir si

58 

W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 69.

J.H. Elliot, Quevedo and the Count-Duke of Olivares, in Quevedo in Perspective. Eleven Essays for the Quadricentennial Procedings from the Boston Quevedo Symposium, ottobre 1980, edited and introduced by J. Iffland, pp. 244-245; citato in W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 77. 59 

150 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

voglia un difensore ad oltranza della regalità. Difensore al punto da preferire la crudeltà all’inettitudine del re. Così si legge nella Política de Dios: «(...) un Rey cruel, es Rey cruel, y assi en los demas vicios: mas un Rey falto de discurso y entendimiento, si tal permitiesse Dios, como para ser Rey ha de ser primero hombre, y hombre sin entendimiento y razon no puede ser, ni seria Reym ni hombre y el desprecio le hallaria semejante a qualquier afrentosa comparacion»60.

Sebbene i toni di Quevedo risultino qui acquietati, poco più oltre appaiono duri e determinati nella difesa dell’orgoglio regale: «Aquel Señor, que no queriendo imitar a Cristo, se dexa governar totalmente por otro, no es Señor, sino guante, pues solo se mueve quando, y donde quiere la mano, que lo calça»61.

Quevedo, seppur attraverso percorsi non sempre lineari, si propone sempre come sostenitore ad oltranza della dottrina volontaristica della sovranità. In sintonia con le tesi di Bodin62 e chiamando in causa la nota vicenda biblica di David e Uria, supportata dalla tesi di fondo di Hobbes63, sostiene che «(...) Un re crudele è un re crudele, e così anche negli altri compiti istituzionali: ma un re al quale manca la comprensione, anche se permesso da Dio, per essere re deve essere il primo uomo, e l’uomo senza la comprensione e la ragione non può essere né il re né un uomo serio e lui si troverebbe disprezzato in qualsiasi confronto scandaloso» (Política de Dios, Govierno de Christo, Editorial Castalia, Madrid, 1966, parte I, cap. XX, pp. 32-35, cit. in W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 79). 60 

«Un Signore, che non volendo imitare Cristo, è subito totalmente governabile da un altro, non un altro Signore, bensì un guanto, che si muove solo e quando lo vuole la mano “che lo calça”» (Política de Dios, parte II, cap. II, pp. 137-139, testo originale cit. in W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 79). 61 

62  Cfr. Marocco Stuardi Donatella, La République di Jean Bodin. Sovranità, governo, giustizia, Franco Angeli, Milano, 2006.

63  Le tesi assolutistiche sono esplicitate, come è noto, nel capitolo XXI del Leviatano. Prendendo a modello della sua tesi la nota vicenda di David e Uria, il filosofo inglese sostiene che non solo David non può subire punizione alcuna da alcunché, ma benché il suo operato sia contro le leggi della natura e le leggi di Dio non può, qualunque sia il crimine commesso nei confronti dei sudditi, la sua coscienza percepire alcun senso di colpa. «(...) Quando un principe manda a morte un suddito innocente, poiché, quantunque l’azione sia contro la legge di natura, essendo contraria all’equità – come fu l’uccisione di Uria fatta da David –; tuttavia essa non fu un’offesa ad Uria, ma a un Dio: non ad Uria, perché il diritto di fare ciò, che a David piacesse, gli era stato dato da Uria

151 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

il sovrano in terra non deve, oltre alla sua coscienza, rispondere ad alcuna autorità. Il sovrano, oltre alla sua coscienza, non deve rispondere a nessuno del suo operato. Non diversamente accade all’interno della gerarchia ecclesiastica, il cui unico referente resta l’autorità del papa dentro e fuori i confini vaticani. Ma su un tratto Quevedo prende le distanze dalla strategia della Chiesa di Roma: la pubblicità dei supplizi. In sintonia con le conquiste della Chiesa post-tridentina, più propensa ad occultare che a pubblicizzare i crimini commessi dentro e fuori la Chiesa stessa, Quevedo avversa, con una lettera inviata il 9 luglio 1624 al Conte-Duca Olivares, la condotta degli inquisitori di Toledo nel processo, e nella successiva esecuzione, di Benito Ferrer. Questi, reo di esercitare il magistero ecclesiale senza l’ordinazione sacerdotale era stato, anche a seguito di atti sacrileghi, condotto vivo sul rogo. A seguito dell’eccesso di pubblicizzazione che l’inquisizione di Toledo aveva accompagnato la condanna e la morte di Ferrer, il Quevedo, nella citata lettera, evidenzia le ragioni d’opportunità che dovrebbero spingere la Chiesa contro ogni strategia di spettacolarizzazione architettata e promossa dal tribunale della Santa Inquisizione: «Digo, señor que siempre tuve por inconveniente político (...) quemar vivo con solemnidad a Benito Ferrer, que murió por sus errores tan obstinado y tenaz, que dél se cogieron semejantes escándalos; y que a su imitación otros ambiciosos de nombre y posteridad y rumor de pueblos y naciones, se pasarían riendo por las llamas. Apresuróse como se ve, más de lo que yo quisiera la imitación de aquella porfía: y cuatro días ha padecemos en el más sacrlego ultraje, el proprio sacrilegio»64.

Non bisogna assecondare la strategia psicologica dell’eretico perspicace, controproducente per la causa cattolica e per quella del governo di Spagna

stesso; a Dio, perché David era suddito di Dio, il quale vieta ogni iniquità, per legge di natura. La quale distinzione David stesso quando si pentì del fatto, evidentemente confermò, col dire: Verso di te solo ho peccato» (Th. Hobbes, Leviatano, trad. it. Laterza, Roma-Bari, 1974, pp. 188-189).

«Dico, signore, che ho ritenuto sempre che fosse un inconveniente politico bruciare vivo solennemente Benito Ferrer, il quale è morto a causa dei propri errori così ostinato e caparbio che da lui scaturirono tali scandali e che a imitazione sua altri ambiziosi di nome e di fama postuma  e risonanza di popoli e nazioni, si farebbero mettere al rogo ridendo. Si affrettò come si vede, più di quanto io avessi voluto l’imitazione di quella caparbietà: e da quattro giorni patiamo nel più sacrilego oltraggio, il proprio sacrilegio» (Epistolario, in OP, p. 1666, cit. in W. Ghia, Il pensiero di Francisco de Quevedo, cit., p. 97). 64 

152 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

che del cattolicesimo si nutre. Il rogo pubblico, a ben considerare, suscita sul popolo sentimenti di ammirazione congiunti a interrogativi che potrebbero creare incertezze e squilibri tra il popolo. E Quevedo, che aveva ben compreso più di quanto non avesse compreso Nerone la strategia di Giuliano l’Apostata nel perseguitare i cristiani, giudica i nemici della fede cristiano-cattolica e gli eretici degli esaltati, dei malati mentali, dei «disperados», capaci di tutto pur di acquisire notorietà presso i posteri. E ritiene, proprio perché si tratta di soggetti disturbati, che è quanto mai opportuno che le istituzioni religiose e governative evitino, senza sottrarli al fuoco, la spettacolarizzazione della pena: «Parece medicina segura y descansada (...) que el Santo Oficio de la Inquisición a todo hombre que vivo e impenitente se deja quemar, le queme vivo con el proprio secreto que le prende»65.

Scrittura questa aperta a controverse interpretazioni. Riteniamo, fuori dal coro, che la più attendibile sia legata alla ragione d’essere del cristianesimo. Se è vero come è vero che il cristianesimo si fonda sull’amore e sul perdono, la punizione, e in special modo quella legata al rogo o ad altre tecniche mortali violente, è contro la predicazione di Cristo e a favore della legge del taglione di matrice ebraica. Praticare il rogo o altre forme violente di punizione equivale a ripristinare quella legge ebraica che ha calate le radici nel semitismo che Quevedo intendeva combattere. Quevedo cade spesso in contraddizione, ma non sul piano ideologico. Su questo piano è consequenziale. E lo è anche quando dice che i roghi debbono restare in vita ma praticati segretamente. Per prima ragione perché eretici e satanisti sono dei disturbati mentali, e proprio perché tali non suscettibili di ravvedimento, dunque, anticipando la logica nazista riservata ai diversi, agli ebrei e ai comunisti, è inutile tenerli in vita. La seconda ragione perché i roghi segreti del Quevedo sprigionano lo stesso fumo delle tante camere a gas dei campi di concentramento nazisti del XX secolo. Roghi e forni crematoi certamente, ma altrettanto certamente di nascosto. E, anche quando un giorno l’odore nauseabondo dei corpi bruciati arriverà ai posteri, c’è sempre qualcuno che negherà e tanti altri che troveranno «ragionevoli» giustificazioni per gli orrori consumati in nome e per conto di una religione assoluta, uno stato assoluto, un’etica assoluta. Espressioni ideologiche di un modo di gestire le relazioni

«Sembra medicina sicura e tranquilla che il Santo Ufficio della Inquisizione ad ogni uomo che vivo e impenitente si lascia bruciare, lo bruci vivo con il proprio segreto con cui lo arresta» (ibidem, p. 1667, testo originale cit. in W. Ghia, Il pensiero di Francisco de Quevedo, cit., p. 99). 65 

153 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

etico-politiche all’insegna di una visione gerarchica e per nulla comunitaria del bene comune. Di quel bene comune di cui Quevedo stentava, con marcata evidenza nelle sue opere etico-politiche, a conoscere i contorni di quell’umanesimo cristiano che gli perveniva dalla più genuina tradizione cristiana. Su Quevedo e Machiavelli Al riguardo del rapporto col Machiavelli, Ghia fa leva sugli studi di Helena Puigdoménech che ci informano di come Machiavelli nel XVI e XVII secolo sia stato presente nelle biblioteche del regno di Spagna, «autore in grado sommo pericoloso, ma non precisamente sconosciuto», anzi, a un’attenta analisi, si evince che «il pensiero di Machiavelli, e spesso le sue stesse opere, erano o potevano essere ampiamente conosciute dai personaggi che reggevano i destini spagnoli durante i secoli ricordati»66. Per quanto concerne il rapporto tra Quevedo e Machiavelli, il Ghia sostiene che la lezione più significativa ci giunge da José Antonio Marawall, che legge Quevedo in chiave anti-machiavellica. A suo dire, il principe da cui si ispira il Machiavelli si preoccupa esclusivamente del raggiungimento di quel successo e di quella potenza finalizzata a esercitare il potere assoluto sul popolo, ignorando del tutto quel senso di misura che avrebbe potuto tenere in piedi gli equilibri politici e sociali tra i governanti e i governati. Questo in sintesi il pensiero di Marawall sulla lettura di Quevedo del pensiero di Machiavelli: «Il machiavellismo così come si ingegna a dipingerlo Quevedo (...) è il disastro nell’ordine pratico e la rovina degli interessi materiali dello stato. A che si deve questa azione deleteria del machiavellismo? Semplicemente, perché lo Stato, come ogni corpo, è un composto armonico, ordinato; è un insieme felicemente ponderato dalla natura, di interessi del Principe e dei suoi sudditi, per cui deriva che, se si ha cura dei primi dimenticando in modo pregiudizievole i secondi, crolla l’intero ordine politico, fondato sull’amore tra il re e il suo popolo»67. Ghia riconduce le analisi del Marawall al fatto che Quevedo fa del pensie66  H. Puigdomènech Forcada, Maquiavelo en España. Presencia de sus obras en los siglos XVI y XVII, Fundación Universitaria Espagñola, Madrid, 1988, p. 63 e p. 189, citato da W. Ghia, Il pensiero di Francisco de Quevedo, cit., p. 109.

J.A. Maravall, Maquiavelo y maquiavelismo en España, in Atti del convegno internazionale su “Il pensiero politico di Machiavelli e la sua fortuna nel mondo”, Sancasciano-Firenze, 28-29 settembre 1969, Azzoguidi, Bologna, 1972, p. 93, citato da W. Ghia, Il pensiero di Francisco de Quevedo, cit., p. 110. 67 

154 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

ro di Machiavelli un’espressione di irreligiosità finalizzata alla negazione della verità teologica e cristiana68. L’anti-machiavellismo del Quevedo, a seguire la lettura di Marawall e di Bireley69 fatta dal Ghia, «consiste propriamente nel tentativo di riunire nuovamente Cristianesimo e politica, di mostrare che essi possono procedere insieme»70. Ma Ghia, pur apprezzando per alcuni versi la lettura antimachiavellica del Quevedo, offerta da Marawall e Bireley, ritiene tuttavia che l’autore del Buscón non vada annoverato tout court nella categoria degli antimachiavellici. Quevedo, pur non condividendo del tutto i temi machiavellici, a dire di Ghia, non si può considerare un antimachiavellico viscerale. E crediamo non del tutto a torto. Nessuno nega, a seguire Ghia, le invettive della Política de Dios contro la «sinrazón de estado» e soprattutto nessuno nega l’esecrazione che Quevedo riserva al Machiavelli nella celebre Isla de los Monopantos, «scritto perduto in seguito al saccheggio subìto durante la prigionia, e che fu poi trovato nel ‘45 e inserito nella copia della Hora de todos stesa dal suo scrivano»71. Nei Monopantos c’è tutta l’avversione di Quevedo nei confronti degli Ebrei e sono presenti le ragioni che hanno spinto il Quevedo a fare di Machiavelli il difensore delle virtù civili degli Ebrei. «I “monopantos” (...) benché credano “que Jesús era el Mesías que vino, le dejan pasar por sus conciencias...de manera que parece que jamás llegó para ellos ni por ellas»; sono avidi di ricchezza e professano dottrine che cinicamente affermano il sicuro trionfo del denaro e della violenza; aspirano al potere in quanto tale, senza cercarne alcuna legittimazione; conoscono l’arte di impadronirsi della volontà dei sovrani e di manovrarla a loro compiacimento; e a coronamento di tutto ciò sono seguaci fedeli del Machiavelli, le cui opere consegnano ai rabbini, accompagnandole con

68  Cfr., J.A. Maravall-D. Mateo Del Peral, Il pensiero politico spagnolo del ‘600, in Storia delle idee politiche economiche e sociali, diretta da L. Firpo, 6 voll, IV, t. II, Utet, Torino, 1982, p. 341.

69  «Quel che Machiavelli aveva separato gli antimachiavellici confidavano di riunire, la politica con la morale cristiana, l’utile con il buono. Essi raggiungevano l’obbiettivo, in quanto dimostravano che i Cristiani potevano e spesso riuscivano a prosperare in politica senza compromettere se stessi (...) Gli antimachiavellici mostravano ingegnosamente come il Cristiano potesse conservare la sua integrità ed essere un efficace uomo politico» (R. Bireley, The Counter-Reformation Prince, Anti-Machiavellianism or Catholic Statecraft in Early Modern Europe, The University of North Carolina Press, Chapel Hill-London, 1990, p. 239; citato da W. Ghia, Il pensiero di Francisco de Quevedo, cit., p. 111). 70  71 

W. Ghia, Il pensiero di Francisco de Quevedo, cit., p. 111. Ibidem, p. 112.

155 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

dichiarazione solenne: “El autor es Nicolás Maquievelo, que escribiós el canto llano de nuestro contrapunto”»72.

Molto opportunamente il Ghia conviene col Marawall che ritenere il “Principe” di Machiavelli «simbolo della malvagità ebraica» è «privo di senso»73, mentre ha senso ritenere che Quevedo abbia utilizzato «a fini di propaganda politica l’ascendenza ebraica dell’Olivares – raffigurato nel personaggio di Gaspar Conchillos – e i rapporti che il potente ministro ebbe con alcuni finanzieri ebrei del Portogallo», al punto che il Ghia non esita ad affermare che l’antisemitismo di Quevedo, compresa la riconduzione dell’antisemitismo del tempo al pensiero del Machiavelli, era finalizzato a colpire la figura dell’Olivares: «Enfatizzare fino all’enormità rapporti reali, sfruttare le molte voci che circolavano, combinare il tutto con un immaginario antisemita senz’altro diffuso rientrava certamente nelle caratteristiche del polemista Quevedo»74. Isla de los Monopantos è un’opera sensibilmente antisemita, ma, a dire di Ghia, non si tratta di un antisemismo viscerale bensì un «antisemitismo strumentale» finalizzato a ridimensionare, se non addirittura eliminare, gli avversari politici. Termini come «judíos, «ateistas», «dineristas» e «maquiavelistas» facevano parte di una «vulgata» del tempo finalizzata a mettere in cattiva luce il Conte-Duca e la corte di cui si avvaleva. Il Ghia è tanto convinto di ciò che non esita a supportare la sua tesi con uno scritto di Caro Baroja che, pur considerando Quevedo un «antisemita deciso», non esita ad identificare gli antisemiti del contesto della corte con il partito dei nemici dell’Olivares. Scrive: «Si può dire che si costituì a Madrid una specie di partito antisemita (che era quello degli avversari stessi dell’Olivares) negli anni terminali della sua privanza»75. “Discurso de las privanzas” e “Vida de Marco Bruto” Il Discurso de las privanzas e la Vida de Marco Bruto sono di certo le opere più significative del percorso etico-politico del Quevedo. E lo sono soprattutto perché meno distaccate dai condizionamenti ambientali dentro cui

72  73  74 

Ibidem, p. 113.

J.A. Maravall, Sobre el pensamiento social y político de Quevedo, cit., p. 265n. W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 115.

J. Caro Baroja, Los Judíos en la España moderna y contemporanea, 3 voll., Edition Arion, Madrid, 1962, II, p. 40; citato in W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco Quevedo, cit., p. 115n. 75 

156 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Quevedo si trovava ad operare. La prima è un’opera giovanile, che, a causa della mancata edizione critica delle opere di Quevedo, per qualche tempo fu annoverata tra gli scritti di incerta attribuzione. Ghia, sulle orme degli studi di Astrana Marín, ritiene molto saggiamente, non solo per i temi e per lo stile ma anche per i riferimenti alle precedenti opere, che si tratti di un’opera del Quevedo e, forse, la sua prima opera avulsa da disincanto dalle atmosfere politiche dentro cui era calato, in cui non c’è avversione ma contiguità morale e politica, dunque teorica, nei confronti del Machiavelli76. La contiguità teorica col Machiavelli si evince nella Vida de Marco Bruto, opera della maturità ma pubblicata solo un anno prima della morte. Opera volutamente ambigua, di chi si apre a un incarico ed è incerto sulle direttive da prendere perché non gli sono note le direttive di chi quell’incarico gli ha offerto. Di qui hanno ragion d’essere, a volte, le contraddizioni nette. Marco Bruto è portatore di un doppio sguardo: uno socialmente costruttivo e l’altro socialmente distruttivo. Nel primo sguardo Quevedo «ammira prima di tutto il saggio stoico, capace di compiere il più grave dei sacrifici, purché rimangano intatti la dignità, il dominio degli impulsi, l’obbedienza alla ragione. Bruto sa agire in modo aderente ai valori che professa, sa dare senso alla propria vita ordinandola con coerenza»77; egli «solamente es vida y tiene espancio en aquel varón que giunta todos los tiempos en uno», perché è l’uomo che «puede morir con violencia, mas no sin constancia», in quanto è convinto che «peor es vivir indignos de la vida por no saber morir, que morir dignos de vida por saber buscar la muerte»78 (Quevedo p. 75). Marco Bruto viene qui presentato come un uomo sorretto da spirito di abnegazione, capace di sacrificare i suoi desideri e la sua vita alle ferree logiche della ragione, ma ciò non impedisce il Quevedo, come argomenta Ghia, ad esprimere «un giudizio nettamente negativo e addirittura sprezzante quando si passa a valutarne l’operato politico»79. Sprezzante perché ritiene la sua condotta fallimentare sul piano dell’agire politico: «Qué necedad más delincuente que dejarse obligar de César con las honras, beneficios y mercedes pretendidas para culparse de ingrato y alevos?

76  77 

Cfr., W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., pp. 116-122. Ibidem, p. 123.

Così Serpetro: «E’ peggio il viuere indegni della vita, per non saper morire; che il morire degni della vita, per saper cercar la morte» (cfr., Serpetro p. 74). 78 

79 

W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 123.

157 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Qué necedad más torpe que dejarse persuadir de Casio al peligro, y no dejarse reducir de Casio a la seguridad de la muerte de Marco Antonio, en ocultar el testamento de César y su cuerpo?»80 (Quevedo, p. 151).

In contrasto con la tesi di Roig-Miranda81 (Quevedo, p. 147) che ritiene l’operato politico di Marco Bruto intriso di carica idealistica e di passione per la libertà politica, il Ghia fa presente che di certo in Bruto «lo scrittore spagnolo ammira il disinteresse e la disponibilità al sacrificio, ma non la passione per la libertà politica, né tantomeno la carica di idealismo: anzi l’una e l’altro sono riguardanti proprio come le cause degli errori gravissimi che lo portano alla rovina»82. È una prova di ciò il fatto che Quevedo, a dire di Ghia, prende le distanze sia da Marco Bruto e sia da Marco Antonio ma non di certo da Ferdinando il Cattolico. Del primo e del secondo dice: «Marco Antonio sabia ejecutar bien lo que pensaba mal, y Marco Bruto ejecutaba mal lo que pensaba bien (...)»83.

Per Quevedo, a seguire Ghia, Ferdinando il Cattolico recupera il meglio della posizione di Marco Bruto e di quella di Marco Antonio e cioè «mentre agisce in vista dell’interesse pubblico non insegue un modello politico irrealizzabile, e sa anzi all’occorrenza tralasciare i vincoli morali che lo condannerebbero all’insuccesso»84. A Bruto che si lascia attrarre dalla visione idealizzata dei soggetti politici, come quando ad esempio riconduce incondizionatamente l’operato del Senato in prospettiva di bene comune e di giustizia sociale, Quevedo ritiene poco attendibile e scarsamente ineccepibile il modello delle istituzioni repubblicane di Roma:

80  Così Serpetro: «Che leggierezza più delinquente, che lasciarsi obligare da Cesare co’ benefitij, e con le mercedi pretese, per incolparsi poi d’ingrato, e di traditore? Che balordaggine più deforme, che lasciarsi da Cassio persuadere al pericolo, e non lasciarsi ridurre alla sicurezza della morte di M. Antonio, et all’occultatione del Testamento, e del corpo di Cesare?» (cfr., Serpetro p. 150).

Cfr., M. Roig-Miranda, Le paradox dans la “Vida de Marco Bruto” de Quevedo, Ècole Normale Supérieure de Jeunes Filles, Paris, 1980, p. XVI e pp. 136-137. 81 

W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 125. Cfr., M. Roig-Miranda, Le paradox dans la “Vida de Marco Bruto” de Quevedo, Ècole Normale Supérieure de Jeunes Filles, Paris, 1980, p. XVI e pp. 136-137. 82 

83  84 

Quevedo, Vida de Marco Bruto, in OP, cit., p. 734.

W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit., p. 125.

158 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

«Mal entendío Marco Bruto la materia de la tiranía, pues juzgó por tirano al que con la valentía y el séquito de sus virtudes y sus armas, asistidas de fortunados sucesos, en una república toma para si solo el dominio que la moltitud de senadores posee en confusión apasionada: siendo verdad que esto no es introducir dominio, sino mudarle de la discordia de muchos a la unidad de principe. No es esto quitar la libertad a los pueblos, sino desembarazarla: peor sujeto esta el pueblo a un Senado electivo que a un príncipe hereditario. Las leyes sacrosanta mejor se hallan servidas de uno que las ejecuta, que de muchos que las interpretan. Mas quiere la vanidad de los senadores la obediencia para su interpretación en las, que para las leyes mismas en su igualdad»85 (Quevedo p. 151).

Quevedo non apprezza né il modello repubblicano a cui Bruto si ispira e non apprezza nemmeno l’operato di Bruto che, dopo essersi disfatto di Giulio Cesare, non fa ricorso alla violenza per disfarsi di Antonio, che pensa di ricondurlo alla sua causa attraverso la persuasione: «esta fué la pimiera, si no la mayor necedad del discurso de Bruto, pues ignoró que de las acciones violentas la calaficación está en la seguridad, y que ésta la da antes el extremo que el medio»86 (Quevedo, p. 117).

Che è come dire: Bruto non può rappresentare un modello di riferimento per lo stato assoluto sia perché prestava inopportunamente fiducia al modello repubblicano d’impronta senatoriale e sia perché, una volta intrapresa la strada della violenza politica, non l’ha percorsa fino in fondo, tanto da mutare strategia quando avrebbe dovuto continuare su quella della violenza anche nei confronti di Antonio. In politica il percorso per impadronirsi e per consolidare Traduce Serpetro: «Male intese M. Bruto la materia della Tirannide. Giudicò Tiranno colui, che col valore, e col seguito delle sue virtù, e con le sue armi assistite sempre da fortunati successi, in una Republica, prende per se il Dominio, che la moltitudine de’ Senatori possiede con una appassionata confusione. Essendo verità, che questo non è introdurre Dominio, ma mutarlo dalla disunione di molti all’unità à un solo. Questo, non è leuare la libertà alli Popoli, ma sgombrargli l’impedimenti della libertà. Peggiormente viue il popolo soggetto ad un Magistrato che ad un Prencipe cattiuo. Le leggi sacrosante meglio s’attrouano seruite da uno, se l’esseguisce, che da molti se malamente le interpretano. Più brama la vanità de gli Ottimati l’ubbidienza per le loro interpretationi delle leggi, che per le leggi medesime nella loro egualità» (cfr. Serpetro, p. 150). 85 

Così Serpetro: «Questa fù la prima, e forse la maggiore scempiezza del discorso di Bruto. Perché non seppe, che delle attioni violente, la qualificatione consiste nella sicurezza. E che questa le dà più tosto il fine, che il mezo» (cfr. Serpetro, p. 116). 86 

159 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

il potere comporta non scelte intermedie e temperate bensì estreme, come del resto ha ben compreso il Machiavelli, seppur al fiorentino il Quevedo non fa esplicito riferimento87. Alla luce di quanto succintamente considerato nelle due opere rigorosamente etico-politiche di Quevedo, ossia il Discurso de las privanzas e il Marco Bruto, l’agire politico è approntato, senza esitazione alcuna, all’uso costante della violenza e dell’inganno. Molto opportunamente Ghia argomenta: «In effetti, per il nostro scrittore, non ci sono limiti estremamente etici all’agire politico, non ci sono norme che, all’occorrenza non possano venire infrante. Diciamo pure che egli legittima qualsiasi atto – la dissimulazione, l’assassinio, il fratricidio etc. – purché funzionale all’interesse pubblico. Ciò che davvero è oggetto di condanna non è l’azione amorale del politico, bensì il suo gesto ostentato, clamoroso, l’esibizione, l’uso controproducente della potenza»88. La dottrina quevediana, esplicitata nel Marco Bruto, mira, senza tentennamenti di sorta, alla «conservazione dell’ordine politico, ed ha come riferimento implicito la complessa struttura monarchico-signorile della Spagna della prima metà del XVII secolo. Secondo Quevedo, il potere, per conseguire e mantenere stabilità, deve adottare una strategia di basso profilo: chi aspira al comando, o chi intende incrementarlo eviterà di far venire alla luce la sua pretesa di potere; chi intende conservare stabilmente il comando già acquisito eviterà le prove di forza e l’ostentazione della potenza, ogni atto che compromettendo equilibri consolidati, rimetta pubblicamente in questione la legittimità del potere stesso, rivelandolo per quello che effettivamente è: dominio di alcuni su altri»89. Il Ghia ritiene che si tratti di concetti che Quevedo riprende dal Machiavelli, anche se si dispiegano su un terreno storico diverso da quello del segretario fiorentino. Sul piano rigorosamente teorico il pensiero di Quevedo si nutre di quello del Machiavelli. Anche se il Quevedo rispetto al Machiavelli mostra maggiore attenzione agli equilibri dell’ordine interno dello Stato. Ad esempio nel Marco Bruto Quevedo pone l’accento su due tipologie di minacce che possono allignare in uno Stato: quella che può insorgere per iniziativa dei contendenti e degli avversari del principe e quella della mancanza di equilibrio del sovrano o di chi lo aiuta ad esercitare il potere. Entrambe sono portatrici di congiure intrinseche a chi si oppone al potere e a chi ne asseconda il corso con iniziative

Di certo qui Quevedo ritiene, sulle orme tracciate dal potere assoluto di Roma, che, a seguire Machiavelli, le vie di mezzo sono dannose, tanto che «ne’ giudizi di stato (i Romani) sempre fuggirono la via del mezzo e si volgono agli estremi» (N. Machiavelli, Discorsi, libro I, XXX, 6). 87 

88  89 

W. Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, cit. pp. 131. Ibidem, p. 132.

160 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

fuori misura. Nell’uno e nell’altro caso il potere ha il compito di individuare le insorgenze destabilizzanti attraverso punizioni opportune ma non plateali, perché, a ben considerare, le pubbliche punizioni dei congiurati più che consolidare il potere mettono in evidenza la sua debolezza e fragilità, che possono allignare il sospetto che il principe può aver agito ingiustamente, che non è idoneo al governo, che non è solidamente attrezzato, che nella testa di qualcuno si insinua il sospetto di quanto facile sia la possibilità di spodestarlo. Considerazioni di alta raffinatezza politica, così esplicitate dal Quevedo: «Bueno es descubrir la traición, mas no del todo seguro. Las traiciones muestran desconfianza de la bontad o talento o poder del principe. Tan mal efecto han hecho traiciones castigadas como puestas en ejecución y cometidas»90 (Quevedo, p. 155).

Strategia della «dissimulazione» A parte le congiure, e la conseguente perdita di credibilità del potere che le causa la pubblicità delle pene inflitte ai congiurati, l’altra minaccia finalizzata al mantenimento dell’ordine politico è da Quevedo intravista nel falso accrescimento del potere del sovrano che le proviene dall’operato maldestro di ministri superficiali, i quali, nell’ostentare potere per sé e per il sovrano, non fanno altro che destabilizzare gli equilibri interni e esporre l’impalcatura di governo a instabilità. Argomenta al riguardo Quevedo nel Discurso de las privanzas: «A muchos engaña la tiranía; ella hermosa es, ruido hace, pero pàsase presto, ofende, tien mal fin. En nada de diferencia del relámpago, que es hermoso y viene con sonido; pásase presto, y con ser luz ciega; y las mas veces despide un rayo y lo asuela todo. la privanza tiránica es semejante al cohete, pues resplandece como el sol al subir, y llegando al cielo, parece estrella, llévase tras sí los ojos de todos. Lo mísmo que le sube, que es la pólvora, eso le va disponiendo para que caiga escuro en humo y hecho ceniza»91.

Così Serpetro: «E’ bene scoprire il tradimento, ma non del tutto securo. I tradimenti, e le congiure mostrano le differenze della bontà, ò del talento, ò della potenza del Prencipe. Tanto mal’effetto hanno cagionato i tradimenti, e congiure castigate, quanto l’esseguite, e commesse» (cfr. Serpetro, p. 154). 90 

91 

F. de Quevedo, Discurso de las privanzas, in OP, p. 1222. Per consentire al lettore una più

161 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

E ancora, nella Vida de Marco Bruto: «Mucho les importa a los monarcas no admitir con mombre de arbitrio que socorre el despojo que necesita; ni con nombre de ampliación del poderío la diminución dél. Quien extiende cuanto más puede en panes la barra de oro, al paso que la extiende la adelgaza; y de barra sólida que no se puede romper, la vuelve hoja que aun no se defiende de la respiración del que mira. Así suelen los artificies de la maldad extender el poder de sus príncipes, hasta que, de puro delgado, le puede llevar donde quisiere su resuello»92 (Quevedo, p. 65).

Scrittura in cui Quevedo ribadisce quanto già espresso chiaramente nel Discurso de las privanzas: i rapporti interpersonali non possono seguire alcun progetto autonomo, mentre l’ordine statale è costituito da una struttura rigida, immodificabile da alcuna influenza esterna. Palese l’avversione viscerale ai privados che, a dire di Quevedo, pur di conquistare il cuore dei sovrani, apportano modifiche all’ordine consolidato, oppure favoriscono iniziative inopportune, come la guerra, la fiscalità, le promozioni economiche, che comportano danni all’intera impalcatura statale e, in special modo, alle classi meno abbienti. Considerazioni non mosse da astratti principi ma dal suo considerare universi che erano sotto gli occhi di tutti nella Spagna del tempo, come il progetto fuori misura e fuori criterio della Unión de las armas dell’Olivares, le

adeguata comprensione del testo aggiungiamo qui la traduzione moderna dell’ispanista Maria Teresa Morabito del medesimo brano: «A molti inganna la tirannia; è bella, è rumorosa, ma passa presto, offende, fa una brutta fine. Non differisce affatto dal lampo, che è bello e viene accompagnato dal suono; passa subito, e pur essendo luce acceca; e il più delle volte lancia un fulmine che distrugge tutto. Il potere tirannico è simile al razzo, che risplende come il sole quando sale e, arrivato in cielo sembra una stella, attirando su di se gli sguardi di tutti. Ma la stessa cosa che lo fa salire, cioè la polvere da sparo, lo va predisponendo per cadere scuro come fumo e cenere». 92  Così Serpetro: «Importa grandemente alli Monarchi non ammettere con nome d’arbitrio, ò di ampliatione di potestà, la diminutione di essa. Chi stende in lamine le lastre dell’oro, quanto più le stende, tanto più l’assottiglia. E di lastre sode, che non si potevano rompere, le conuerte in foglie, che à pena si difendono dal respiro di chi le guarda. Così gli artefici delle sceleragini sogliono stendere la possanza del suo Prencipe, finchè di pura debolezza assottigliato, possano ridurlo doue piace à loro disegni» (cfr., Serpetro, p. 64). «Molto importa ai monarchi di non ammettere con nome di arbitrio che soccorre lo spoglio di cui ha bisogno; né con nome di amplificazione del potere la diminuzione di esso. Chi estende il più possibile in lamine la barra d’oro, mentre la estende l’assottiglia; e da solida barra che non si può rompere, la fa diventare foglia  che non riesce a difendersi nemmeno dal respiro di chi la guarda. Così gli artefici della cattiveria estendono di solito il potere dei loro principi, fino a quando, diventando così sottile, lo possono portare dove vuole il suo affannoso respiro» (traduzione di Maria Teresa Morabito).

162 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

guerre che la Spagna fu costretta a combattere nell’intera Europa, per non dire delle rivolte della Catalogna e del Portogallo che hanno minato il consolidato sistema politico ed economico della Spagna. Sistema che da quel momento in poi non si è più ripreso. E proprio per aver compreso, sopra tutti, la genesi di questa crisi oramai inarrestabile che Quevedo offre le idee fondative del suo magistero politico: a) non è concesso modificare, seppur minimamente, i simboli e le prerogative del potere; b) non è dato ricondurre al singolo arbitrio le membra dello Stato senza che le fondamenta di questo non vengano scardinate. Cesare, nella Vida de Marco Bruto, è l’emblema più rappresentativo sul piano storico di questo magistero politico. Addirittura emerge come la più elitaria statura di politico che la storia conosca. Là, dove gli altri hanno fallito, egli, facendo ricorso a una strategia dissimulatrice, riesce a raggiungere i risultati voluti. Strategia dissimulatrice che mostra la sua unicità quando si tratta di fondare e accrescere il potere: «Èl (César) no supo ser emperador, y su cadàver supo fundar el imperio. La convenencia de César estaba màs segura en disimular lo que sospechaba y sabía, que en castigarlo. Temía tanto la averiguación de lo delitos, como los delincuentes. màs fiaba de saberse desentender, que de procesar. Persuadióse que el impetu rematado adquiría, y la noticia detenida en aparente clemencia conservaba. Creyó que los pueblos arrebatados tenían por caricia de su magnanimidad los fingimientos de su astucia. Conveníale disfrazarse para introducirse. Quería ser de manera que se olvidasen de lo que había querido ser. No sé cómo diga que erró quien acertó errando»93 (Quevedo, p. 169).

93  Così Serpetro: «Egli viuo, non seppe essere Imperadore: e cadauere fondò l’Imperio. L’interesse di Cesare si trouaua più sicuro in dissimulare, che in castigare, ciò che sospettaua. Temeua tanto la verificatione de’ delitti, come i delinquenti. Più confidaua nel non darsi per inteso, che nel formare i processi. Si persuase, che l’impeto scoperto partoriua pericolo: e la notitia occultata conseruatione. Stimaua che i popoli rapiti dalla sua magnanimità, teneuano per benefitio, quello, ch’era fintione, et astutia. Gli conueniua mostrare di non far contro per introdursi. Voleua apparire d’esser tale, che si scordassero di quello, che haueua voluto essere. Non so come dica, che errò, chi accertò errando» (cfr., Serpetro, p. 168). «Egli (Cesare) non seppe essere imperatore e il suo cadavere seppe fondare l’impero. La convenienza di Cesare era più sicura dissimulando ciò che sospettava e sapeva, che castigandolo. Temeva tanto l’identificazione dei delitti, quanto i delinquenti. Si fidava più di saper disinteressarsene che di processare. Si convinse che l’impeto finito acquisiva, e la notizia ferma in apparente clemenza conservava. Credette che le popolazioni esaltate pensavano che fosse una carezza della sua magnanimità le finzioni della sua astuzia. Gli conveniva travestirsi per introdursi. Voleva essere in tal maniera che dimenticassero quello che aveva voluto essere. Non so come dire che errò chi indovinò errando» (traduzione di Maria Teresa Morabito).

163 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Nel lasciarsi assassinare portò volutamente a compimento la più raffinata delle strategie politiche ideata da uomini di Stato: «Quién no disimula no adquiere imperio: quien no sabe disimular lo que disimula, no puede conservarle. La disimulación en los príncipes es traición honesta contra los traidores (...) Tal fué su condición (de César), que por ella se vió morir y se dejó matar. Por ella, si supiera la conjuración, dejara el dar muerte a los conjurados por darséla con la propria a la conjura, y a las que de ella se habían de producir (...)»94 (Quevedo, p. 171).

In questa ideazione consiste l’originalità della speculazione quevediana. La morte di Cesare è stata portatrice di messaggi diversi. Storici, letterati, filosofi della politica hanno tratto spunti per supportare le loro ideazioni politiche e poetiche, ma nessuno aveva osato trarre dalla morte di Cesare un’ideazione che andasse oltre i pro e i contro dell’assassinio. C’erano quelli che lo ritenevano un accadimento positivo per il bene della Repubblica e c’erano quelli che lo ritenevano invece un accadimento negativo: i pro e i contro erano legati al punto di vista (e della condizione d’essere reale e idea-le) di chi doveva giudicare. Ricorda Ghia che già Platone nella Repubblica riteneva lecito che i governanti potessero dire il falso nell’interesse dello Stato95. In Platone l’inganno viene inteso come una strategia mirata a frenare quel riottoso o gruppo riottoso che contende il potere o tende a limitarne l’espansione. Per Quevedo non è una maschera occasionale in vista di specifiche finalità, bensì è un fatto strutturale che coinvolge, sin dalle radici, il potere politico statuale. Come dire: il potere per costituirsi e potenziarsi deve mascherarsi. Il potere imperiale impe-

94  Così Serpetro: «Chi non dissimula non acquista l’Imperio. Chi non sà dissimulare quel che dissimula non sà conseruarlo. La dissimulatione ne’ Prencipi, è un tradimento onesto contra i traditori. Haueua Cesare per la dissimulatione tanto pronti gli occhi, che sopra il Capo di Pompeo gli comandò, che ridessero con le lagrime. Fù tale questa sua dissimulatione, che per essa si vidde uccidere, e si lasciò morire. Per questa s’hauesse saputa la congiura, haueria lasciato di dar morte alli Congiurati, per darla con la propria alla congiura, et à coloro che haueriano da deriuare da essa (cfr., Serpetro, p. 170). «Chi non dissimula non ottiene l’impero: chi non sa dissimulare quello che dissimula, non lo può conservare. La dissimulazione nei principi è tradimento onesto contro i traditori (…) Fu tale la sua condizione (di Cesare), che per essa morì e si lasciò uccidere. Per essa, se avesse saputo della congiura, avrebbe dato la morte ai congiurati per darla alla congiura e a coloro che da essa ne potevano trarre giovamento (…)» (traduzione di Maria Teresa Morabito).

«I reggitori dello Stato, e non altri, potranno far ricorso alla menzogna nei riguardi dei nemici o degli stessi cittadini, ma solo per il bene della città; su un tale estremo rimedio nessun altro dovrebbe mettere mano» (Platone, Repubblica, III, 389b). 95 

164 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

rituro non è stato funzionale a se stesso per le sue specificità intrinseche né si è imposto per la sua intrinseca forza, bensì si è costituito e imposto attraverso l’abile dissimulazione di Cesare che, per volontà e abnegazione assoluta, si è immolato fino al martirio. Esplicita al riguardo il Ghia il convincimento del Quevedo: «È questo il più profondo arcanum imperii che Quevedo intende comunicare al lettore: la pretesa al potere di un individuo o di un gruppo non deve mai essere apertamente esibita, perché non c’è modo di persuadere gli uomini ad accettare che qualcuno tra loro cresca in potenza. Il potere si costruisce attraverso la dissimulazione, e una volta stabilito, tanto più si mantiene solido quanto più opera con discrezione. Per converso, il potere, in quanto si manifesta apertamente, o peggio in quanto ostenta se stesso esibendo le risorse della violenza, sempre corre pericolo gravissimo per la sua stabilità»96. Conclusione Ci sono alla radice di questa impalcatura ideologico-filosofica del Quevedo due convincimenti strutturali: il primo, che serpeggia in tutta la sua produzione, dice che il potere, per quanto complesse ed articolate siano le sue realizzazioni, non è mai legittimo; il secondo, che di lì a qualche secolo sarà formalizzato teoreticamente da Kant, dice che l’uomo non è educabile97. E se è vero che la spettacolarizzazione dei castighi non giova alla stabilità dello Stato e se è vero che l’uomo non è educabile, si comprende la ragione che spinge il Quevedo a sposare la causa sia dell’occultamento delle congiure e sia nell’attribuire positività all’esemplarità e teatralità delle pene, tanto che, di fronte ai congiurati pentiti che rivelano gli intrighi degli avversari del sovrano, la giurisdizione deve far ricorso alla clemenza. Bisogna evitare il più possibile le punizioni, in quanto il potere quando punisce attesta della fragilità al suo interno: che non è stato efficace e pertanto è minacciato da uomini che vogliono attentare alla sua destabilizzazione. Solo in un caso Quevedo è a favore della spettacolarizzazione crudele della

96 

W. Ghia, Il persiero politico di Francisco de Quevedo, cit. p. 140.

Ghia qui intravede in Quevedo l’antesignano del pensiero di Kant riguardo all’ineducabilità degli uomini. Noto è a Ghia il brano di Kant riguardo alla natura dell’uomo paragonata a quella del “legno storto”. Così Kant: «Il capo supremo deve essere giusto per se stesso e tuttavia essere un uomo. Questo problema è quindi il più difficile di tutti e una soluzione perfetta di esso è impossibile: da un legno storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto. Solo l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura» (I. Kant, Idee di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici, trad. it. Utet, Torino, 2010, p. 130). 97 

165 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

pena: quando il tradimento nei confronti del sovrano è consumato da un componente del governo. In questo caso, e solo in questo caso, il Quevedo ritiene che si debba punire pubblicamente chi dall’interno attenta alla destabilizzazione dello Stato. Per il resto egli resta convinto intorno all’uso spropositato del ricorso alla forza, come per altro verso resta convinto che a nulla può la speranza nella ragionevolezza degli uomini, compresa la speranza nella possibilità di piegarli all’obbedienza tramite argomentazioni approntate al bene comune98. Diffida di ogni forma di proclamazione di amore universale. Dentro uno Stato ci sono milioni di individui, e amarli tutti insieme è come non amare nessuno. Del resto non tutti hanno voglia di essere accumunati nell’abbraccio universale, sebbene tutti si ritengano deficitari, limitati, mendicanti. Quevedo è convinto che le azioni umane vengano mosse dal danaro e dalla ricchezza, e che è bene che il sovrano faccia ricorso a tali strumenti, sebbene ritenga che la tendenza al benessere è sempre causa di conflitto e disordine e non garantisce affatto la stabilità dello Stato. Ritiene, altresì, che la grandezza di uno Stato non consista affatto nei suoi progetti espansionisti, i quali, a causa dei sacrifici imposti al popolo per attuarli, sono fonte di rivolte popolari. Come ritiene nemico dello Stato qualsiasi tentativo di ritualizzazione della tradizione, attraverso il ricorso all’accensione di nuovi miti che rimettano in piedi le antiche credenze. Se le basi dell’impero si fondano sull’impianto della dissimulazione che ha vestito Cesare con i panni del martire, allora per la conservazione dell’ordine politico costituito non c’è che una sola via da percorrere: quella che riafferma la consuetudine attraverso gli infiniti usi consolidati dalla tradizione. La teoria della dissimulazione, che esclude ogni possibilità di legittimare il potere per via etica, fa di Quevedo un filosofo della politica di matrice razionalista, le cui radici sono calate nell’«animalità sociale» dell’uomo aristotelico ma anche nel crudo finalismo di matrice machiavellica. Ma la differenza tra Quevedo e Machiavelli c’è, come ben fa presente Ghia: «(Quevedo)non ha alcuna fede nel “progetto politico”, non crede né nell’energica e plasmatrice azione del “principe”, né nella possibilità di fondare “nuovi ordini”», mentre «nelle opere di Machiavelli l’elogio del principe “simulatore e dissimulatore” si sviluppa nel quadro di una strategia intesa a legittimare alla radice del comando, a porre in primo piano e in piena evidenza il potere, le sue ragioni, i suoi simboli: di qui la riattualizzazione delle glorie antiche, di qui il suo insistere sulla necessità di un periodico “ritorno alle origini”, che rinnovi il patriottismo e restituisca autenticità alle istituzioni; di qui la sollecitazione a raccogliere le 98 

Cfr., W. Ghia, Il persiero politico di Francisco de Quevedo, cit. p. 141.

166 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

sfide storiche, l’esaltazione della “repubblica libera ed espansiva”, che coniuga libertà politica e grandezza militare»99. Il Marco Bruto per lo più non è opera originale, ma ha il merito, non rintracciabile in nessuna altra opera di teoria della politica, di intravedere nella dissimulazione una strategia di controllo sociale che, proprio nell’occultare l’origine e la natura del potere, apre al governo delle masse, non attraverso la repressione e la spettacolarizzazione della repressione, ma attraverso la conservazione dell’ordine politico stabilita dalla consuetudine e dall’uso di far funzionare il potere «rendendolo invisibile e impalpabile»100. Santi Lo Giudice

99 

Ibidem, p. 145.

100 

Ibidem, p. 145.

167 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

168

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

ASSOCIAZIONE “AMICI DI NICOLÓ SERPETRO”

Soci fondatori Presidente onorario: Presidente: Segretario tesoriere: Vice-presidente: Componente:

prof. Santi Lo Giudice prof. Antonino La Mancusa prof. Carmelo La Mancusa dott. Michele Martella Sig. ra Patrizia Celesti

Comitato d’onore Prof. Francesco Tomasello (Rettore Univ. di Messina), Prof. Giuseppe Pio Anastasi (Prorettore Univ. di Messina), Prof. Giancarlo Cordasco (Coordinatore corso di laurea in Odontoiatria e protesi dentaria, Univ. di Messina), Prof. Pietro Ciaravolo (filosofo), Prof. Sebastiano Coglitore (Delegato ai rapporti tra Università e Policlinico di Messina), Prof. Sebastiano Condorelli (Univ. di Messina), Prof. Girolamo Cotroneo (Prof. Emerito Univ. di Messina), Prof. Armando Curatola (Coordinatore corso di laurea in Programmazione e Promozione turistica, Univ. di Messina), Prof. Cono Salpietro Damiano (sindaco di Raccuja), Prof. Pietro Emanuele (Direttore Dipartimento di Scienze Cognitive, Univ. di Messina), Prof. Francesco Faeta (Univ. Messina), Dott. Bruno Ficili (candidato premio Nobel per la pace 2010), Dott. Francesco Fogliani (Dirigente Scolastico), Prof. Domenico Franciò (scrittore), Prof. Josè Gambino (Univ. di Messina), Prof.ssa Rosalba Larcan (Coordinatore corso di laurea magistrale in Psicologia, Univ. di Messina), Dott. Ettore Mastroieni (Tenente Colonnello - Comando Interregionale Carabinieri “Culqualber”, Messina), Prof. Maurizio Migliori (Univ. di Macerata), Dott. Pasquale Monea (Assessore Provincia Regionale di Messina), Prof.ssa Lionella Maria Morano (Pres. “Fondazione Nicola Liotti”, Monterosso Calabro), Prof. Salvatore Natoli (Univ. Bicocca di Milano), Prof. Geri Villaroel (scrittore e direttore di “Moleskine”), Prof. Enrico Pujia (Dirigente Scolastico), Prof. Pietro Puzzolo (Univ. di Messina), Sen. Dott. Giovanni Ricevuto (Presidente Provincia Regionale di Messina), Dott. Santi Ucchino (Ispettore Scolastico), Prof. Aldo Violato (Dirigente Scolastico), Prof. Lorenzo Zaccone (Vicepresidente “Unitre” di Vittoria). 169 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Comitato scientifico Prof. Salvatore Natoli (Univ. Bicocca di Milano), Prof.ssa Gabriella Adamo (Univ. di Messina), Prof. Leone Agnello (Univ. di Messina), Prof. Martino Michele Battaglia (saggista), Prof. Rosario Battaglia (Univ. di Messina), Prof. Achille Bonifacio (Univ. di Messina), Dott. Franco Capelvenere (giornalista e scrittore), Prof. Salvatore Cavallo (Presidente Consorzio Universitario del Mediterraneo Orientale - Noto), Prof. Claudio Ciancio (Univ. del Piemonte Orientale), Prof. Enzo Cicero (Univ. di Messina), Dott. Giovanni Coglitore (Dottore di ricerca Univ. di Messina), Prof.ssa Francesca Cuzzocrea (Univ. di Messina), Prof. Paolo D’Alessandro (Univ. di Milano), Prof. Raimondo De Capua (Univ. di Messina), Prof. Francesco De Domenico (Univ. di Messina), Prof. Luigi Familiari (Univ. di Messina), Prof.ssa Giuseppa Filippello (Univ. di Messina), Prof. Francesco Foti (Univ. di Messina), Prof. Nicola Formica (Sindaco di San Pier Niceto), Dott. Melo Freni (giornalista e scrittore), Prof.ssa Giusy Furnari (Univ. di Messina), Prof. ssa Anna Gensabella (Univ. di Messina), Prof. Giuseppe Gembillo (Univ. di Messina), Prof. Giovanni Invitto (Univ. di Lecce), Prof. Alessandro Laganà (anglista e saggista), Dott.ssa Anna Livigni (Dottore di ricerca, Univ. di Messina), Dott. Antonino Lo Giudice (Dottore di ricerca, Univ. di Messina), Prof. Giuseppe Lombardo (Univ. di Messina), Prof. Armando Massarenti (vice-capo redattore “Domenica” del “Il Sole 24 ore”), Prof. Giovanni Matarese (Univ. di Messina), Dott. Carmelo Micalizzi (linguista e saggista), Prof. Mario Pagano (Univ. di Trieste), Prof. Pietro Perconti (Univ. di Messina), Prof. Rocco Pizzimenti (Univ Luiss di Roma), Prof. Alessio Plebe (Univ. di Messina), Prof. ssa Caterina Resta (Univ. di Messina), Prof. Giuseppe Riconda (Univ. di Torino), Prof. Massimo Rizzo (Univ. di Messina), Prof. Romano Romani (Univ. di Siena), Prof. Emilio G. Rosato (Univ. dell’Aquila), Prof. Mario Ruggenini (Univ. Ca’Foscari di Venezia), Prof.ssa Concetta Sirna (Univ. di Messina), Prof. Mario Strati (Univ. di Messina), Prof. Onofrio Triolo (Univ. di Messina), Prof.ssa Furia Valori (Univ. di Perugia), Prof.ssa Leonarda Vaiana (Univ. di Messina).

Componenti Prof. Nunziato Adornetto (Raccuja), Ornella Agnello (Messina), Rosaria Agostino Ninone (Castell’Umberto), Flavia Alessi (Messina), Ins. Giuseppina Amati (Mandanici), Ciro Amato (scultore, Serra San Bruno), Associazione musicale e culturale “Banda Musicale Calogero Spanò” (Raccuja), Ins. Nunziatina Auguso (Raccuja), Antonino Ballato (Sinagra), Giuseppe Barone (Raccuja), Dott.ssa Maria Rita Barone (Raccuja), Dott. Giuseppe Battaglia (Soriano Calabro), Giuseppe Bertilone (Raccuja), Dott. Filippo Bonifacio (Messina), Prof.ssa Maria Bucca (Barcellona P.G.), Ins. Grazia Tindara Calabrò (Patti), Maria Cammaroto (Messina), Katia Candido (Gioiosa Ionica), Elvira Cannistrà (Messina), Simona Butera (Capo d’Orlando), Giuditta Giovanna Casile (Reggio Calabria), Dott. Franco Ceravolo (Monterosso Calabro), Ing. Renato Cilona (sindaco di Librizzi), Enzo Crisà (Raccuja), Prof.ssa Danzì Maria Clara (Librizzi), Carmela Di Perna (Raccuja), Laura Di Perna (Raccuja), Prof. Carmelo Di Stefano (Montalbano Elicona), 170 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Barbara Esposito (saggista, Vibo Valentia), Prof. Giuseppe Farina (Monterosso Calabro), Dott.ssa Teresa Fatati (Capizzi), Dott. Carmelo Ferraro (Messina), Maria Lisida Ferro (Ucria), Dott.ssa Valentina Fogliani (S. Agata di Militello), Gilda Fotia (Reggio Calabria), Prof.ssa Franca Furciniti (Monterosso Calabro), Ins. Giuseppe Fusca (Tortorici), Maria Cristina Faranda (Messina), Ins. Carmelo Gaglio (Messina), Ins. Francesco Gaglio (Messina), Domenico Ubaldo Galati (Monterosso Calabro), Annalisa Giordano (Patti), Maurizio Giuffrè (Capo d’Orlando), Dott.ssa Isaja Agatina (Furci Siculo), Dott.ssa Laura Gulino (Messina), Ins. Domenico Gullotti Cordaro (Ucria), Claudia Labate (Reggio Calabria), Antonino La Bianca (Patti), Dott.ssa Gemma Laganà (Messina), Dott.ssa Antonina La Mancusa (Raccuja), Prof.ssa Franca La Mancusa (Raccuja), Francesca La Mancusa (Raccuja), Ins. Francesco La Mancusa (Messina), Maria Lapoli (Raccuja), Maria Giovanna Leone (Melito P. Salvo), Rosaria Lincoln (Raccuja), Dott. Corrado Loreto (Avola), Comm. Nello Manduca (Monterosso Calabro), Carlo Martella (Raccuja), Dott. Nunziato Martella (S. Angelo di Brolo), Antonino Mastrantonio (Raccuja), Prof. Daniel Mento (Villafranca), Ing. Severino Merendino (Raccuja), Aldo Merlino (Rocca di Caprileone), Giovanna Micali (S. Teresa di Riva), Daniela Nunziatina Miceli (Enschede), Ins. Angioletta Mirabile (Messina), Ins. Maria Montagno (Ucria), Dott.ssa Elisa Morano (Soriano Calabro), Dott.ssa Elisabetta Morano (Vibo Valentia), Roberta Rosaria Morello (Villa S. Giovanni), Dott.ssa Rosalia Nasisi (Montalbano Elicona), Ins. Giovanna Natoli (Patti), Ins. Antonina Orifici (Ucria), Prof.ssa Maria Vera Paladina (Capo d’Orlando), Dott.ssa Stefania Palazzolo (Librizzi), Rag. Giusy Pantano (Patti), Anna Pinzone (Capo d’Orlando), Pro Loco di Raccuja, Dott. Salvatore Puglisi (Antillo), Dott. Filippo Putrino (Soriano Calabro), Manuela Raccuia (Messina), Maria Vincenza Raimondo (Milazzo), Daniela Reitano (S. Angelo di Brolo), Carmelo Ricciarello (Piraino), Dott. Mario Riga (Pizzo Calabro), Dott.ssa Daniela Romeo (Reggio Calabria), Daniela Rossi (Messina), Antonino Sampietro Damiano (Raccuja), Dott.ssa Katia Santoro (Messina), Dott. Giuseppe Sapone (Capo d’Orlando), Mario Scalia (Patti), Ins. Agata Scalisi (Floresta), Dott.ssa Valentina Scavino (Messina), Dott. Giuseppe Scurria (Castell’Umberto), Dott.ssa Daniela Sindoni (Torregrotta), Dott.ssa Maria Soccorsa Galati (Monterosso Calabro), Avv. Filippo Tassone (Taurianova), David Trovato (Messina), Avv. Ornella Trovato (sindaco di S. Piero Patti), Dott.ssa Rosanna Trovato Morabito (Messina), Lucia Ventimiglia (Patti).

171 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

172

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Bibliografia

Massimo Luigi Bianchi, Introduzione a Paracelso, Laterza, Roma-Bari, 1995 Benjamin Farrington, Francesco Bacone filosofo dell’età industriale, trad. it. Einaudi, Torino, 1952 Paolo Rossi, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, Laterza, Bari, 1957 Michael White, Newton. L’ultimo mago, trad. it. Mondadorilibri, Milano, 2001 Charles Singer, Breve storia del pensiero scientifico, trad. it. Einaudi, Torino, 1963 Santino Caramella, Unità ideale e coincidenza reale degli opposti nel pensiero di Nicolò Cusano (in Nicolò da Cusa), Sansoni, Firenze, 1962 Santino Caramella, Il problema di una logica trascendente nell’ultima fase del pensiero di Nicola Cusano (in Nicolò Cusano agli inizi del mondo moderno Atti del Convegno Cusaniano di Bressanone (1969), Sansoni, Firenze, 1970 Ernst Cassier, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, trad. it. La Nuova Italia, Firenze, 1935 Rodolfo Mondolfo, Giordano Bruno, in Figure e idee della filosofia del Rinascimento La Nuova Italia, Firenze, 1963 Frances A. Yates, Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, trad. it. Laterza, Bari, 1988 Michele Ciliberto, Giordano Bruno, Laterza, Bari, 1990 Michele Ciliberto, Storici e trattatisti, in Il secolo barocco. Arte e scienza nel Seicento, in Storia della letteratura italiana, Laterza, Roma-Bari Maurilio Frigerio, Invito al pensiero di Bruno, Mursia, Milano, 1991 Carmelo La Mancusa-Francesco La Mancusa, Nicolò Serpetro: filosofo raccujese vittima del tribunale dell’inquisizione (in ‘Messenion D’Oro’) n.s. n.4 aprile giugno 2005 Carmelo La Mancusa-Francesco La Mancusa, La vita, la fama, e il simolacro della virtù di Nicolò Serpetro, Armenio Editore, Brolo, 2006 Claudio Rendina, Cardinali e cortigiane, Newton Compton, Roma, 2007 Heinrich Heine, Per la storia della religione e della filosofia in Germania (in H. Heine La Germania) trad. it Bulzoni, Milano, 1979 Bartolomé Bennassar, Storia dell’Inquisizione spagnola. Fatti e misfatti della ‘Suprema’ dal XV al XIX secolo, trad. it Rizzoli, Milano, 1994 (in particolare il cap. V L’unificazione religiosa e sociale: la repressione delle minoranze) Saverio Ricci, Inquisitori, censori, filosofi, sullo scenario della Controriforma, Salerno Editrice, Roma, 2008 (in particolare il cap. V La Congregazione dell’Indice e i filosofi. Da Sisto V a Clemente VIII) Gianni Paganini, Introduzione alle filosofie clandestine, Laterza, Roma-Bari, 2009 Corrado Dollo, Modelli scientifici e filosofici nella Sicilia spagnola, Guida, Napoli, 1984 Melita Leonardi, Nicolò Serpetro. Ermetismo e Magia nella Sicilia spagnola (in Quaderni Storici 115/a XXXIX n. 1, aprile 2004) riproposto in Melita Leonardi, Governo, 173 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

istituzione, inquisizione nella Sicilia spagnola. I processi per magia e superstizione, A&B Editrice, Acireale-Roma, 2005 Vincenzo D’Alessandro-Giuseppe Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia (in Storia d’Italia a cura di Giuseppe Galasso – vol. XVI) UTET, Torino, 1989 Walter Ghia, Il pensiero politico di Francisco de Quevedo, Edizioni ETS, Pisa, 1994 Francisco de Quevedo, Vida de Marco Bruto (in F. Buendia Obras completas) M a drid, 1958 (trad. it. Nicolò Serpetro, Osservazioni politiche e morali sopra la Vita di Marco Bruto trasportate dallo spagnolo dal cavalier Nicolò Serpetro, Venezia, 1653) Sandro Piantanida-Lamberto Diotallevi-Giancarlo Livraghi (a cura di), Autori italiani del ‘600, Milano, 1948 Charles Webster, La grande instaurazione. Scienza e riforma sociale nella Rivoluzione puritana, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1980 Santi Lo Giudice, Nietzsche e gli echi del corpo, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2007 Antonio Thiery, Federico II e le scienze. Problemi di metodo per la lettura dell’arte federiciana (in Federico II e l’arte del Duecento italiano) Editrice Salentina, Galatina, 1980 Frances Amelia Yates, L’arte della mnemotecnica, Einaudi, Torino, 2007 Sant’Agostino, Confessioni, trad. it. Rizzoli, Milano, 1958 Sant’Agostino, Discorsi Nuovi, trad. it. Città Nuova, Roma, 2001 Sandro De Bernardin, La politica culturale della Repubblica di Venezia e l’Università di Padova nel XVII secolo (in Studi Veneziani XVI, 1974) Archivio della Curia Vescovile di Padova, Diversorum Giuseppe Mira, Bibliografia siciliana, Palermo, 1875-1881 Amedeo Quondam, Varianti di Proteo, l’Accademico, il Segretario, (in Gigliola Nocera (a cura di) Il segno barocco. Testo e metafora di una civiltà), Roma, 1983 Salvatore Silvano Nigro, Storia generale della letteratura italiana, Milano, 1999 Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Feltrinelli, Milano, 1964 Carmelo La Mancusa-Francesco La Mancusa, Il simolacro della virtù (in appendice a La vita, la fama, e il simolacro della virtù di Nicolò Serpetro), Armenio Editore, Brolo, 2006 Giovan Francesco Loredan, Lettere, Venezia, 1660-1661 Esiodo, Teogonia (in Opere a cura di A. Colonna) Tea, Milano, 1993 Esiodo, Le opere e i giorni, Istituto Editoriale Italiano, Milano Franco De Bella, Storia della tortura, Odoya, Città di Castello (PG), 2008 Giuseppe Quatriglio, Sabìr, Sellerio Editore, Palermo, 1999 Pietro Tamburini, Storia Generale dell’Inquisizione. Corredata da rarissimi documenti Francesco Sanvito Editore, Milano, 1862 (ora presente nell’antologia a cura di Mario Genco Storie dell’Inquisizione Sellerio, Palermo 2007) Natale Benazzi-Matteo D’Amico, Il libro nero dell’Inquisizione, Piemme, Casale Monferrato, 2008 Corrado Dollo, Filosofia e scienza in Sicilia, ‘Pubblicazione della Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania’ e del ‘Centro Studi per la Storia della Filosofia in Sicilia’, CEDAM, Padova, 1979 Eraclito, I frammenti e le testimonianze (a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra) Arnoldo Mondadori, Milano, 1980 174 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano (in Friedrich Nietzsche Opere a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montanari), Adelphi, Milano, 1965 Jean Pierre Changeux, Prefazione a Derek Denton Le emozioni primordiali. Gli albori della coscienza, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2009 Sergio Quinzio, Che cosa ha veramente detto Teilhard de Chardin, Ubaldini editore, Roma, 1976 Fiorenzo Facchini, Le sfide dell’evoluzione in armonia tra scienza e fede, Jaca Book, Milano, 2008 Jacques Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia moderna, trad. it. Mondadori, Milano, 1970 Odo Marquard, Apologia del caso, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1991 Francois Jacob, Evoluzione e bricolage. Gli espedienti della selezione naturale, trad. it. Einaudi, Torino, 1978 Francois Jacob, Il gioco dei possibili, trad. it. Mondadori, Milano, 1983 Edoardo Bonicelli, Le forme della vita. L’evoluzione e l’origine dell’uomo, Einaudi, Torino, 2000 Salvatore Natoli, Filosofia/meraviglia (in Parole della filosofia o dell’arte di meditare), Feltrinelli, Milano, 2004 Francesco Bacone, Saggi, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1966 Fernando Garcìa de Cortàzar-José Manuel Gonzàles Vesga, Storia della Spagna. Dalle origini al ritorno della democrazia, trad. it. Bompiani, Milano, 2001 Hubert Jedin, Riforma cattolica e Controriforma. Tentativo di chiarimento dei concetti con riflessioni sul Concilio di Trento, trad. it. Morcelliana, Brescia, 1995 Giovanni Miccoli, La chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla conquista di Roma Roma-Bari, 2011 Michele Mancino-Giovanni Romeo, Clero criminale. L’onore della Chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell’Italia della Controriforma, Laterza, Roma-Bari, 2013 Marco Antonio Genovese, Praxis archiepiscopalis curiae Neapolitanae apud Io. Iacobum Carlinum, Neapoli, 1602 John H. Elliott, La Spagna imperiale 1469-1716, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1982 John H. Elliott, The Count-Duke of Olivares, The Statesman in an Age of Decline, New Haven, Yale University Press, 1986 Antonio Martelli, La disfatta dell’Invincibile Armada, Il Mulino, Bologna, 2008 Francisco de Quevedo, Obras completas, Madrid, 1958 Valentina Nider, Nicoló Serpetro, Traductor del “Marco Bruto” de Quevedo (in La Perinola) 2011 Benedetto Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Laterza, Bari, 1946 Sergio Bertelli, Storiografi, eruditi, antiquari e politici (in Emilio Cecchi - Natalino Sapegno, Il Seicento. Storia della letteratura italiana) Garzanti, Milano, 1965 Alberto Asor Rosa, I politici e moralisti della Controriforma, (in La cultura della Controriforma, in Storia della letteratura italiana), Laterza, Roma-Bari, 1973 Eleonora Belligni, Lo scacco della prudenza. Precettistica politica ed esperienza storica in Virgilio Malvezzi, Olschki, Frenze, 1999 Nicolò Serpetro, Osservazioni politiche e morali sopra la vita di Marco Bruto. Trasportate dallo spagnolo dal Cavalier Nicolò Serpetro 175 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Nicolò Serpetro, Il Mercato delle Maraviglie della Natura, overo Istoria naturale del Cavalier Nicolò Serpetro Francesco Benigno, L’ombra del re. Ministri e lotta politica nella spagna del seicento, Marsilio, Venezia, 1992 Edward Chamberlayne, The rise and fall of the late eminent and powerful favorite of Spain, the Count Olivares, London, 1653 Helmut Georg Koenigsberger - George Lachmann Mosse-Gerry Q. Bowler, Europe in the Sixteenth Century, Longman, 1989 Saverio Ricci, Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della Controriforma S a l e r no Editrice, Roma, 2008 Philippe Desan, Dictionnaire de Michel de Montaigne, Honorè Champion, Paris, 2005 Michel de Montaigne, Saggi, trad. it. Adelphi, Milano, 1992 Anna Maria Battista, Alle origini del pensiero politico libertino. Montaigne e Charron, Giuffrè, Milano, 1979 Anna Maria Battista, Nascita della psicologia politica, Egic, Genova, 1982 Francisco de Quevedo, Providencia de Dios Francisco de Quevedo, Discurso de las privanzas Raimundo Lida, Prosas de Quevedo, Editorial Critica, Barcellona, 1981 René Bouvier, Quevedo homme du diable, homme de Dieu, Champion, Paris, 1929 Donatella Marocco Stuardi, La République di Jean Bodin. Sovranità, governo, giustizia, Franco Angeli, Milano, 2006 Thomas Hobbes, Leviatano,Laterza, Roma-Bari, 1974 Helena Puigdomènech Forcada, Maquiavelo en España. Presencia de sus obras en los siglos XVI y XVII, Fundaciòn Universitaria Espagnola, Madrid, 1988 José Antonio Maravall, Maquiavelo y maquiavelismo en España (in “Atti del convegno internazionale su Il pensiero politico di Machiavelli e la sua fortuna nel mondo Sancasciano, Firenze 28 e 29 settembre 1969”) Azzoguidi, Bologna, 1972 José Antonio Maravall-Diego Mateo Del Peral, Il pensiero politico spagnolo del ‘600 (in Storia delle idee politiche economiche e sociali diretta da Luigi Firpo) Utet, Torino, 1982 José Antonio Maravall, Sobre el pensamiento social y político de Quevedo Robert Bireley, The Counter-Reformation Prince: Anti-Machiavellianism or Catholic Statecraft in Early Modern Europe, The University of North Carolina Press, Chapel Hill-London, 1990 Julio Caro Baroja, Los judíos en la España Moderna y Contemporánea, Edition Arion, Madrid, 1962 Marie Roig-Miranda, Le paradoxe dans la «Vida de Marco Bruto» de Quevedo, Ecole Normale Superieure de Jeunes Filles, Paris, 1980 Niccolò Machiavelli, Discorsi Platone, Repubblica Immanuel Kant, Idee di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico (in Scritti politici) trad. it. Utet, Torino, 2010 Gaetano La Corte Cailler, Documenti sul consolato dell’Arte delle Sete (in Archivio storico messinese, X-XII-1909/1912) Gaetano Platania, Sulla vicenda della sericoltura (in Archivio storico per la Sicilia Orientale, XX – 1924) 176 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Luigi Brenni, La tessitura serica attraverso i secoli, Como, 1925 Alberto Mauceri, I capitoli del Consolato dell’Arte della Seta a Messina (in Archivio storico Siciliano, N.S., XLII – 1932) Domenico Puzzolo Sigillo, Il mercato della seta nell’antica Fiera generale di Messina (in VI Fiera. Attività economiche siciliane, Messina, 1939 Carmelo Trasselli, Ricerche sulla seta siciliana (secoli XIV-XVII) (in Economia e Storia, II) Giovanna Motta, Qualche considerazione sulla attività serica in Messina nei secoli XIIXVII (in Annali della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Messina, IV – 1966 – n. 1) Maria Pia Pavone, Note sulla produzione della seta grezza nel messinese fra Sei e Settecento (in Lusso e devozione. Tessuti serici a Messina nella prima metà del ‘700 – a cura di Caterina Ciolino), Messina, 1985 Antonio Mongitore, Biblioteca sicula sive de scriptoribus siculis qui tum recenti ora specula illustrarunt. Notiae locuplentissimae, Palermo, 1714 Gianni Paganini, Introduzione alle filosofie clandestine, Laterza, Roma-Bari, 2009 Giovan Battista Marino, Murtoleide Giovenale, Contro le donne Semonide di Amorgo, Giambo sulle donne Eschilo, Eumenidi Platone, Timeo Aristotele, Politica Maometto, Corano Gigliola Nocera (a cura di) Il segno del barocco. Testo e metafora di una civiltà Roma, 1983 Salvatore Silvano Nigro, Il segretario: precetti e pratiche dell’epistolografia barocca (in Storia generale della letteratura italiana a cura di Nino Borsellino – Walter Pedullà) Derek Denton, Le emozioni primordiali. Gli albori della coscienza, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2009 Pierre Teilhard De Chardin, Il fenomeno umano, 1938-1940 Augusto Cavadi, Non lasciate che i bambini vadano a loro, Falzea Editore, Reggio Calabria, 2010 Anonimo Veneziano, Il concilio di Trento, Parigi, Louvre Tessa Storey, Carnal Commerce in Counter Reformation Rome, Cambridge, 2008 Paolo Fusco, De isitazione et regimine ecclesiarium libri duo, Ex Typographia Vincenti Accolti, Roma, 1951 Feliciano Ninguarda, Manuale visitatorum duo bus libris complectens visitazioni subiacentia, Ex Officina Accolyiana in Burgo, Roma, 1589 Santi Lo Giudice, Introduzione a Il Mercato delle Maraviglie della Natura overo Istoria naturale del Cavalier Nicolò Serpetro, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2009 Santi Lo Giudice, Sulla nuova versione della morte di Don Nicolò Serpetro (in Il Mercato delle Maraviglie della Natura overo Istoria naturale del Cavalier Nicolò Serpetro Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2011) Antonio Martelli, La disfatta dell’Invincibile Armada, Il Mulino, Bologna, 2008 Maria Pia Paoli, Andrea Farsetti, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 45 177 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Platone, Critone Platone, Leggi Nicolò Serpetro, Osservazioni politiche e morali sopra la Vita di Marco Bruto. Trasportate dallo spagnolo dal Cavalier Nicolò Serpetro, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2014 Luis de Gòngora, Le solitudini e altre poesie Luis de Gòngora, Polifemo Francisco de Quevedo, Hstoria de la Vida del Bùscon, llamado don Pablos, ejemplo de Vagamundos y espejo de Tacanos, 1926 Michel de Montaigne, Les Essais Marocco Stuardi Donatella La République di Jean Bodin. Sovranità, governo, giustizia, Franco Angeli, Milano, 2006

178 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Indice dei nomi

Adamo, 54 Adriano, 53, 74 Adriano IV, 54 Agostino d’Ippona, 56, 57 Agrippa di Nettesheim, 29 Alberghina, Mario, 93 Alcañices, 139n Aldovrando, 79 Alessandro III, 54 Algeri, Giuseppe, 95 Ammiano, 79 Andreä, Johannes Valentin, 50 Andreini, Isabella, 54 Anonimo Veneziano, 102n Agesilao, 90 Anguillara, Giovanni Andrea, 58n Antonio, 159 Areta, 54 Ariosto, Ludovico, 58n Aristotele, 51, 62 e n, 79, 81, 140 Aronica, Salvatore, 93, 95-97, 108, 109 Asburgo, 33, 34, 113 Asor Rosa, Alberto, 131n Avicenna, 27, 79 Bacone, Francesco, 27, 28, 38, 90 e n Baoja, Caro, 156 Baronio, Francesco, 66 Barth, Karl, 78 Battaglia, Martino Michele, 94 Battaglia, Rosario, 22 Battista, Anna Maria, 146n Bauhin, Gaspard 79 Belligni, Eleonora, 132n Benazzi, Natale, 75n Benedetto XVI, 82

Benigno, Francesco, 139n Bennassar, Bartolomè, 37n, 75n Bernini, Gian Lorenzo, 40n Bertelli, Sergio, 131n Bianchi, Massimo Luigi, 27n Bireley, Robert, 155 e n Bodin, Jean, 141n, 151 Bonanno Balsamo, Pietro, 42n, 59n, 59, 69, 96, 109 Boncinelli, Edoardo, 85n Bonhoeffer, Dietrich, 78 Borelli, Giovanni Alfonso, 81, 82 Borromeo, Carlo, 103 Borsellino, Nino, 64n Bouvier, Renè, 149n Bowler, Gerry Q., 141n Branciforti, 19, 46, 47, 65, 87n, 88, 107109, 124n, 126 Branciforti, Nicolò Placido, 64, 124, 125 Branciforti, Ottavio, 87n 124n Brenni, Luigi, 31n Bruno, Giordano, 29, 36, 40, 72 Brusoni, Pietro, 57n Bruto, Marco, 11, 121, 124, 127, 132, 136, 157, 158, 159 e n Buendia, Felicidad, 48n Caifa, 149 Calderón (de la Barca), Pedro, 36 Calvino, Italo, 102 Camarasa, 139n Camillo, Giulio (Delminio), 72 Cammalleri, 95 Campanella, Tommaso, 27, 29, 31n, 40, 43, 57n, 40, 58n, 70-72, 75 Camus, Albert, 78 179

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Capelvenere, Franco, 94 Caporali, Cesare, 58n Caramella, Santino, 29n Carbonchi, Carbonchio, 57n Cardano, Gerolamo, 26 Carlo Emanuele I, 34 Carlo II, 115 Carlo IX, 140n Carlo V, 114 Carmide, 74 Caro Baroja, Julio, 156n Carpio, 139n Cartesio, René, 38, 39, 40n, 81, 133n Cassandra, 54 Cassirer, Ernst, 30n Castelli, Carlo, 31n, 58 Castelli, Benedetto, 81 Castiglione, 42n, 58 Castrillón Hoyos, Dario, 105 Cavadi, Augusto, 100 e n Cavalieri, Bonaventura, 38, 81 Cavallo, Salvatore, 93 Cecchi, Emilio, 131n Cesare, Giulio, 44, 47, 48, 53, 74, 97, 132, 133, 159, 164-166 Cesati, Franco, 23 Chamberlayne, Edward, 139n Changeux, Jean-Pierre, 83, 84n Charron, Pierre, 146 Chiarini, Paolo, 111n Cibo, Alessandro, 121, 125 Cicerone, 140, 142, 148n Ciliberto, Michele, 30n, 132n Cinna, Lucio Cornelio, 128, 129 e n Ciolino, Caterina, 31n Cirino, Andrea, 78 e n, 79 e n Ciro, 74 Claudio, Appio, 74 Cleudiano, 58n Coglitore, Giovanni, 23, 94 Cola Pesce, 79n Colli, Giorgio 83n Colonna, Aristide, 61n

Colonna, Vittoria, 54 Comenio, Amos, 49,122 Conchillos, Gaspar, 156 Copernico, Nicola, 136n Corinna, 54 Cornificia, 54 Cortese, Isabella, 54 Cremonini, Cesare, 40, 66 Crespos de Escobar, Giuseppe, 71 Croce, Benedetto, 131n Cusano, Nicola, 29 Cutelli, Mario, 86 e n, 87n, 88 Cybo, Alberico II, 46, 121 Cybo, Alessandro, 46 D’Alessandro, Vincenzo, 46n D’Amico, Matteo, 75n Damiens, Robert-François, 75 Damofila, 54 d’Aquino, Tommaso, 85, 140 d’Aragona, Ferdinando, 117 d’Aragona, Tullia, 54 Davide, 149 De Bernardin, Sandro, 57n De Capua, Raimondo, 93, 94 de Castro, Guglielmo, 36 de Cervantes, Miquel, 36 de Góngora, Luis, 135n de Haro, García, 139n Della Porta, Giovan Battista, 26, 40 Della Valle, Pietro, 31n, 42n, 43, 57, 58, 122 Del Rio, Martin, 82 de Madrigal, Alfonso, 135n de Mendoza, Hurtado, 139n de Montaigne, Michel 140, 141 e n, 142 e n, 143 e n, 144 e n, 145-147, 148n Denton, Derek, 83, 84n de Saavedra Fajardo, Diego, 135n De Sanctis, Francesco, 59 e n Desan, Philippe, 143n Desargues, Girard, 38 Descartes, René, 43

180 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Des Périers, Bonaventure, 37 de Vega, Lope, 36 Diano, Carlo, 83n Di Bella, Franco, 67n, 74n Diotallevi, Lamberto, 48n d’Ippona, Agostino, 43 Dollo, 78, 79 e n, 80, 82, 86 Dollo, Corrado, 41 e n, 77 e n, 78 e n, 80 e n, 81n, 82 e n, 83n, 86 e n, 87n, 88n, 89n, 121n, 123n, 135 e n don Puglisi, 101 d’Orleans, Maria Luisa, 115 Elisabetta I, 118n Elliott, John H., 118n, 138n, 139n, 150 e n Emanuele, Pietro, 93, 94 Empedocle, 51 Enrico III di Borbone, 141n Epicuro, 66 Eraclito, 83 Erasmo, (da Rotterdam), 36 Erillo, 148 Erininia, 54 Esdra, 74 Esiodo, 61n Esopo, 90 Eua, 54 Eudosia, 53 Eugenio III, 54 Facchini, Fiorenzo, 84n Farrington, Benjamin, 27n, 38n Farsetti, Cosimo, 122 e n, 125 Fedeli, Fortunato, 82 Federico II d’Aragona, 56, 59n Federico III di Aragona, 68 Ferdinando d’Aragona, 120 Ferdinando II, 120 Ferdinando il Cattolico, 158 Ferrer, Benito, 152 e n Filippo II, 118 e n Filippo III, 37, 114n, 116-120, 138 Filippo IV, 38, 113-115, 119, 120, 135n, 138n

Firpo, Luigi, 155n Foucault, Michel, 91 Francesco di Sales, 37 Freni, Melo, 94 Frigerio, Maurilio, 30n Fuluia Morata, Olimpia, 53 Fusco, Paolo, 106n Galasso, Giuseppe, 46n Galeno, (di Pergamo), 27 Galilei, Galileo, 29, 30, 38, 39, 40n, 41 e n, 75, 81, 133n, 136 Gallo, Vincenzo, 95 García de Cortázar, Fernando, 114n, 135n Gasca, Pedro de la, 90 Genco, Mario, 70n Genovese, Marco Antonio, 107n Ghia, Walter, 47 e n, 47n, 139 e n, 140, 144 e n, 145 e n, 146n, 148 e n, 149 e n, 150 e n, 151n, 152n, 153n, 154 e n, 155 e n, 156 e n, 157 e n, 158 e n, 160 e n, 165 e n, 166n Gian Gastone, (de’ Medici), 34 Giarrizzo, Giuseppe, 45, 46 e n Giouane, Theodosio, 53 Giraldi Cinzio, Giambattista, 68 Giuliano l’Apostata, 153 Glauco, 79n Goethe, Johann Wolfgang von, 93 González Vesga, José Manuel, 114n, 135n Górgona, 36 Gracián, Baltasar, 135n Graia, Giovanna, 53 Graziano, Gaspare, 57n Greco, El (Dominikos Theotokopoulos), 36 Grignani, Ludovico, 42n, 58 Grozio, Ugo, 133n, 140 Guicciardini, Francesco, 150 Hartlib, Samuel, 49 Harvey, William, 39 Heine, Heinrich, 35, 36n, 62n, 63n, 88, 93, 181

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

111 e n Hinojosa, 139n Hobbes, Thomas, 90, 133n, 140, 146, 151, 152n Inferrera, Cosimo, 22 Ingrassia, Giovan Filippo, 82 Innocenzo X, 59 Innocenzo XI, 105 Jacob, Francois, 85 e n Jaspers, Karl Theodor, 78 Jedin, Hubert, 102 Jimenéz Paton, Bartolomé, 131n Jonston, Jan, 44, 48-50, 52-55, 57, 121123, 126 Kant, Immanuel, 133n, 137n, 165 e Keating, John, 21 Kierkegaard, Søren Aabye, 78 Koenigssberger, Helmut Georg, 141n La Boètie, Étienne de, 37 La Corte Cailler, Gaetano, 31n La Mancusa, Antonino, 19, 20, 94 La Mancusa, Carmelo, 19, 20, 30n, 31n, 42n, 57n, 59 e n, 60 e n, La Mancusa, Francesco, 30n, 31n, 42n, 57n, 59 e n, 60 e n, 63n, 64 e n, 75n, 123n Leganés (Diego Mexía Felipez de Guzmán y Dávila), 139n Leonardi, Melita, 44 e n, 47 e n, 48n, 49n, 63n, 65 e n, 123n Leone X, 62n Leontia, 54 Leopoldo I, 34, 115 Lévi-Strauss, Claude, 91 Liceti, Fortunio, 82 Lida, Raimundo, 149 e n Lincoln, Abramo, 21 Livraghi, Giancarlo, 48n Locatelli, Girolamo, 107

Locke, John, 140 Lo Giudice, Santi, 9, 13, 17, 19, 20-24, 92n, 107n, 108, 123n, 167n Lo Giudice, Antonino, 23, 24 Lo Giudice, Ludovica, 24 Loredan, Giovan Francesco, 60 e n Lucano, 58n, 145 Lucrezio, 142 Luigi XIV, 34, 115 Luigi XV, 75 Lullo, 27 Lutero, Martin, 62n, 102, 103 Luzi, Mario, 23 Machiavelli, Niccolò, 126, 130, 141n, 150, 154 e n, 155 e n, 156, 157, 160 e n, 166 Macrobio, 52 madre Teresa di Calcutta, 100 Magno, Carlo, 120 Magno, Olao, 79 Maino, Juan Bautista,139n Malpighi, Marcello, 81 Malvezzi, Virgilio, 44 Mancino, Michele, 99, 100, 104 e n, 105, 106 e n, 107n, 109 e n, Maometto, 62n Maravall, José Antonio, 154 e n, 155 e n, 156 e n Marcega, Romina, 101 Marco Antonio, 158 e n Margherita di Valois, 141n Maria Cristina, 34 Marín, Astrana, 157 Marinella, Lucretia, 54 Marino, Giambattista, 36, 42n, 59 e n Marocco Stuardi, Donatella, 151n Marquard, Odo, 85n Martelli, Antonio, 118n Masaniello, 115 Mateo Del Peral, Diego, 155n Matieu, Pierre, 44 Mauceri, Alberto, 31n Medina de la Torres, 139n

182 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Merleau-Ponty, Maurice, 78 Miccoli, Giovanni, 105n, 106n Migliari, Albertino, 57n Minardi, Alessandro, 23 Mira, Giuseppe, 63, 64n Mitridate, 74 Mondolfo, Rodolfo, 30n Monge y Amarrida, Manuele, 71 Mongitore, Antonio, 31n, 76, 95, 108 Monod, Jacques, 85n Montanari, Mazzino, 83n Montanelli, Indro, 23 Monterrey, (Manuel de Acevedo y Zúñiga), 139n Montesclaros, 139n Morabito, Maria Teresa, 162, 163n, 164n Mosse, George L., 141n Motta, Giovanna, 31n Musil, Roberto, 78, 92 Natoli, Salvatore, 89 e n, 94 Nerone, 153 Neuarola, Isotta, 54 Newton, Isaac, 40n, 136n Nider, Valentina, 121 e n, 123n, 124 e n, 125, 127, 128, 129, 130 Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 21, 55n, 78, 83 e n, 91, 93, 97 Nigro, Salvatore Silvano, 64n Ninguarda, Feliciano, 106n Nocera, Gigliola, 64n Noto, Angelo, 95 Nuvola, Aldo, 99, 101 Olivares, 44-47, 87, 138, 139n, 149, 150, 152, 156, 162 Omero, 58n Oratio, 58n Orazio, 143n Ouidio, 58n padre Pio, 100 Paganini, Gianni, 41 e n, 49n

Pagano, Domenica, 30n Pampaloni, Geno, 23 Pancetta, Camillo, 57n Paoli, Maria Pia, 122n Paolo, 57 Paolo di Tarso, 43 Paolo IV, 39 Paracelso, Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, 27, 29, 43 Pascal, Blaise, 39 Pastor Fido, (Giovan Battista Guarini), 58n Patrizi, Francesco, 40 Pavone, Maria Pia, 31n Pedullà, Walter, 64n Pellegrini, Luigi, 19 Pellegrini, Walter, 20 Pellicer, Josef, 135n Pennisi, Antonino, 93 Petrarca, Francesco, 58n Piantanida, Sandro, 48n Pico della Mirandola, 43, 71, 72 Pico, Fulvia, 46, 121 Pietro, 57 Pio IV, 31n, 57n Pitagora, 51 Placido Branciforti, Nicolò, 43, 44 Platania, Gaetano, 31n Platone, 51, 62 e n, 87, 133n, 164 e n Plinio, 51, 74, 79 Plutarco, 142 Pola, 54 Poliziano, 42n, 58 Pompeyo, 127 Pucci, Francesco, 40 Pufendorf, Samuel, 133n Puigdomènech Forcada, Helena, 154 e n Puzzolo Sigillo, Domenico, 31n Qohelet, 142 Quatriglio, Giuseppe, 30n, 67 e n, 68 e n, 69, 70 e n, 71, 73, 74, 75 e n, 76 e n, 108 Quevedo, 11, 24, 44-47, 48 e n, 86, 116, 120 e n, 121n, 123 e n, 124 e n, 126, 183

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

128 e n, 129 e n, 130, 131 e n, 132, 133, 135n, 136n, 137, 138, 139 e n, 140, 143 e n, 144 e n, 145, 146 e n, 147 e n, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158 e n, 159, 160 e n, 161 e n, 162, 163, 164, 165 e n, 166 Quinzio, Sergio, 84n Quondam, Amedeo, 64n Ranger, 90 Redi, Francesco, 81 Rendina, Claudio, 35n Ricci, Saverio, 37n, 142n, 143n Roig-Miranda, Marie, 158 e n Romeo, Giovanni, 99, 100, 104 e n, 105, 106 e n, 107n, 109 e n Rossi, Paolo, 27n, 38n Rousseau, Jean-Jacques, 140 Rubens, Pieter Paul, 37 Ruggenini, Mario, 93 Saffo, 54 Salodi, Paolo, 106n Salpietro Damiano, Cono, 13, 93 San Giovanni della Croce, 36 Sannazzaro, Jacopo, 42n, 58 e n sant’Agostino, 147 Santa Teresa, 36 Sapegno, Natalino, 131n Sarpi, Paolo, 142n Sartre, Jean-Paul-Charles-Aymard, 78 Sassona, Rosuica, 54 Saviane, Giorgio, 23 Scipione, 74 Sebont, Raimond, 140 Seneca, 74, 121, 142 Serpetro, Francesco, 30n Serpetro, Nicolò, 3, 11, 19, 20, 23, 24, 30 e n, 32, 34, 40, 41 e n, 42 e n, 43-47, 48 e n, 49, 50, 51 e n, 52-55, 56 e n, 57n, 58 e n, 59 e n, 60, 62, 63 e n, 64-72, 73 e n, 74-76, 77 e n, 79, 80 e n, 81 e n, 82 e n, 83 e n, 84 e n, 85 e n, 86, 87 e n, 88 e n,

89 e n, 90 e n, 90 e n, 91, 92, 93, 94 e n, 95-97, 106, 107, 108 e n, 109, 116, 120 e n, 122, 123, 124 e n, 125-128, 129 e n, 130, 131, 133, 134 e n, 135, 137 e n, 138, 157n, 158n, 159, 161n, 162n, 163n, 164n Serra, Giuseppe, 83n Shakespeare, William, 38, 68 Simonide, 53 Singer, Charles, 28 e n Sirignano, Laura, 99 Socrate, 88n, 133 e n, 134 Stevin, Simone, 38 Stigliola, Nicola Antonio, 40 Stirner, Max, 78 Storey, Tessa, 106n Sulpitia, 54 Tacito, Publio Cornelio, 145 Tamburini, Pietro, 64, 69, 70n Tasso, Torquato, 42n, 36, 58 e n Tedesca, Ildegarda, 54 Teilhard de Chardin, Pierre, 84n Telesio, Bernardino, 40 Teocrito, 42n, 58 Thiery, Antonio, 56n Tirso de Molina, 36 Tomasello, Francesco, 93 Tomasi di Lampedusa, 46 Tomasini, Cristoforo, 44, 46, 49, 121, 122n, 125 Trasselli, Carmelo, 31n Trismegisto, Ermete, 51, 71 Trismegisto, Mercurio, 51 Urbano VII, 42n Vachero, Giulio Cesare, 34 Vaiana, Leonarda, 94 Varchi, Benedetto, 27 Velázquez, Diego Rodríguez de Silva y 139n Vesalio, Andrea, 79

184 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Vicentini, Vincenzo, 42n, 59 Viète, François, 39 Virgilio (Marone), Publio, 42n, 53, 58 e n Vitelli, Francesco, 60 Vitelli, Nunzio Francesco, 122 Webster, Charles, 50 e n Weir, Peter, 21

Whitman, Walt, 21, 24 Yates, Frances Amelia, 30n, 56n Ziniti, Alessandra, 100 Zoroastro, 51 Zurbaran, Francisco de 36n, 139 Zwingli, Huldrych, 102

185 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

186

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

I volumi di Lo Giudice editi dalla Casa Editrice Pellegrini:

PROFILI DELLA CONTEMPORANEITà. TEMI E PROBLEMI DI ETICA SOCIALE, 2005 STARE INSIEME, 2006 NIETZSCHE E GLI ECHI DEL CORPO, 2007 TRACCE DI FILOSOFIA DEL FINITO, 2007 CORPO E PAROLA, 2009 IL MERCATO DELLA MARAVIGLIE DELLA NATURA OVERO ISTORIA NATURALE DEL CAVALIER NICOLO’ SERPETRO, 2009 SCRITTI DI FILOSOFIA ED ETICA, 2010 EMOZIONI E COGNITIVITA IN NIETZSCHE, 2011 SUL PUDORE E SULL’OSCENO, 2011 BREVE DOCUMENTO SULLA ‘NUOVA FILOSOFIA’, 2012 SCRITTI DI FILOSOFIA ED ETICA – VOLUME SECONDO, 2013 SU MESSINA E ALTRI SCRITTI, 2013 OSSERVAZIONI POLITICHE E MORALI SOPRA LA VITA DI MARCO BRUTO, 2014

187 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

188

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

INDICE

Genesi del libro................................................................. pag. 19 Prefazione............................................................................ » 21 INTRODUZIONE a “Il Mercato delle Meraviglie della Natura overo Istoria Naturale” del Cavalier Nicolò Serpetro....................................................... » 25 Sulla nuova versione della morte di don Nicolò Serpetro................................................. » 93 SERPETRO TRA CONDANNA E PROMOZIONE................. » 99 Introduzione sulla ‘Vida de Marco Bruto’ di Francisco de Quevedo nella versione ‘Osservazioni politiche e morali sopra la vita di Marco Bruto, trasportate dallo spagnolo dal Cavalier Nicolò Serpetro............ » 113 ASSOCIAZIONE “AMICI DI NICOLò SERPETRO”............. » 169 Bibliografia........................................................................ » 173 Indice dei nomi.................................................................... » 179 I VOLUMI DI LO GIUDICE PUBBLICATI DALLA CASA EDITRICE PELLEGRINI................................ » 187

189 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

190

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

Stampato da

Pellegrini Editore - Cosenza

191 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

192

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019

www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 07/03/2019