Scienze e poteri: bisogna averne paura?

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Indice

Preambolo

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1.

In nome della Scienza r. Che cosa sarà mai la Scienza?, r 1 2. Alla ricerca di un criterio, 15 3. Contrasti, 19 4. Problemi scientifici, problemi tecnici, problemi sociali, 24 5. Scienze e poteri, 30

35

2.

Il potere del laboratorio r. Ma che cosa ha dunque provato Pasteur?, 35 2. Il modo di esistenza degli esseri scientifici, 41 3. Prove e controversie, 45 4. Puro e impuro, 49

56 .3. Il veleno del potere r. Poteri multipli, 56 2. Cervelli mutilati, 60 3. Demoralizzare il potere, 65 4. Diffidare del progresso, 71 77

4. Le scienze nella città r. Scienze e democrazia, 77 pia, 86 4. Contestazioni, 90

2.

Sogni irrazionali, 81

3. Uto-

Preambolo

«È provato che... ,,, (j(dal punto di vista scientifico~, ~oggettivamente", (!(i fatti dimostrano che... ~, «in realtà ... »... Quante volte tali espressioni scandiscono il discorso di coloro che, a qualsiasi livello, ci governano. E ogni volta si tratta di chiamare coloro ai quali ci si rivolge a sottomettersi, ad accettare la differenza fra ciò che vogliono o desiderano e ciò che è possibile. E da dove viene il verdetto circa quel che è possibile? Da quando le nostre società si vogliono democratiche, da quando non riconoscono più (ufficialmente) alcuna autorità superiore alla volontà delle popolazioni, il solo argomento di autorità superiore circa quel che è possibile e quel che non lo è proviene sempre, in un modo o nell'altro, dalla Scienza. Ma intendiamoci bene, la Scienza non ritiene di opporsi alla Democrazia. Essa si limita a dire «ciò che, lo vogliamo o no, è». Spetta alla volontà del Popolo decidere, in funzione di « ciò che è», ciò che « deve essere». Bisogna che il Popolo ascolti gli esperti, accetti cli essere realista, vale a dire adulto e razionale, poi decida in coscienza. Ed è compito degli uomini politici spiegare, far capire, fare accettare quel che non può essere modificato, prima cli proporre le opzioni circa quel che resta da decidere. Ha buone spalle, la Scienza, che è capace cli deliberare su tante cose. E ha anche un bel numero cli valenti rap-

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PREAMBOLO

presentanti, di esperti che ci dicono per esempio che «sl sì, potete pure sognare di sfuggire alle dure leggi del me/ cato economico, è pressappoco come se sognaste di librarvi in aria da soli, senza motore, in contraddizione diretta con le leggi della gravitazione>>. Non si vota pro 0 contro le leggi della gravitazione, vero? Parimenti, non si deve votare pro o contro le «leggi» economiche. Bisogna sottomettersi a esse, prevedere i loro effetti, e gestirne le conseguenze. Una gestione più «umana»? Voterete per il tale. Una gestione che «si affida alla dinamica economica per migliorare il bene comune»? Allora sarà piuttosto per il talaltro. E se questa ripartizione fra scienze e decisione politica fosse una vasta, e temibile, fumisteria? E se si potesse dire, invece, che l'affidabilità e l'interesse dei saperi che una società è suscettibile di produrre traducono la qualità del suo funzionamento democratico? In questo caso, tutti gli argomenti che invocano la Scienza sarebbero argomenti di potere, nocivi altrettanto alle scienze quanto alle esigenze di una democrazia che non si riduca a una versione sofisticata della vecchia arte di guidare un gregge. È quel che si tratterà di esplorare. Questa esplorazione si farà più in maniera labirintica che in linea retta. Si tratta infatti non di seguire un argomento ma di comporre un paesaggio di argomenti capaci di connettere questi temi in se stessi molteplici: scienze e poteri. Giacché i plurali sono importanti. Per questo ognuno dei paragrafi che compongono i capitoli che seguono è connesso ad altri paragrafi, in cui sono sviluppati più direttamente problemi ai quali esso si limita a fare allusione. Un po' come un paragrafo che trattasse di una valle: dovrebbe fare allusione alla montagna che sovrasta questa valle, ma sarebbe connesso al paragrafo dedicato alla montagna. Per orientare il lettore, come in una guida di viaggio, là dove faccio allusione a un tema senza trattarlo, indico il paragrafo che lo sviluppa più specificamente.

Scienze e poteri

I.

In nome della Scienza

1.

Che cosa sarà mai la Scienza?

Come mai la Scienza può sapere tante cose? Di dove viene la sua prodigiosa capacità di dire «ciò che è», mentre noialtri, non scienziati, siamo apparentemente prigionieri dei nostri pregiudizi, dei nostri desideri, delle nostre illusioni? Mentre dobbiamo continuamente essere ricondotti alla ragione. Mentre, quando ci opponiamo a una misura, o a una decisione, coloro che ci rappresentano non hanno che una risposta: abbiamo mancato di pedagogia, abbiamo «comunicato ... » male, sottinteso: «le inesorabili e incontestabili ragioni per le quali questa misura o questa decisione non dovrebbe, in realtà, essere discussa, e meno ancora combattuta». La Scienza, si dice, è precisamente ciò che permette agli umani di liberarsi dei pregiudizi, dei desideri, delle illusioni che impediscono loro di vedere «ciò che è». Essa ha per regola la neutralità e l'oggettività. Sono sicuramente virtì1 assai fredde, e si capirà come gli umani abbiano bisogno di un «supplemento di anima», che apporteranno loro le relazioni private, la convivialità, i giochi, la televisione, le arti, il calcio .... Ma sono virtù indispensabili perché esse sole permettono un accordo che sfug~a ai rapporti di forza e di passione. Che cos'è la Terra? E

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CAPITOW PRIMO

sul dorso cli una tartaruga o al centro del cosmo? Galleggia su un oceano caotico o è prigioniera di una volta cristallina? No! Sappiamo tutti che è un pianeta, che gira su se stesso e intorno a una stella, che a sua volta fa parte di... Lo sappiamo tutti, il dubbio è impossibile, e lo è perché la Scienza è entrata in scena. E ha potuto far regnare la concordia perché la discordia proviene dai pregiudizi, dai desideri, dalle illusioni che oppongono gli umani e i gruppi, che impediscono loro di «vedere» la realtà così com,è. La Scienza è ciò che può e deve mettere d'accordo gli umani, al di là delle loro dispute politiche e culturali, perché essa dà accesso a una realtà che è indipendente da tali dispute. E la prova che essa ha effettivamente accesso a questa realtà è il fatto che gli scienziati sono capaci di mettersi d,accordo fra loro, di superare le divergenze, di riconoscere quel che impone loro la realtà che indagano. Fermiamoci qui. Il lettore avrà capito che si tratta di una caricatura, quella della concezione delle pratiche scientifiche alla quale si tratta cli sfuggire. Ma non è proprio una caricatura come un'altra, poiché chi contempla una caricatura sa solitamente quale libertà l'artista si è preso di fronte al suo soggetto, quali tratti sono stati accentuati smisuratamente, quali deformazioni sono state inventate. Ora, nel nostro caso, l'effetto caricaturale proviene non tanto da un'accentuazione o da una deformazione quanto dall'assenza di ogni precauzione oratoria e dall'aperta banalità delle idee enunciate. Ma queste idee, in quanto tali, è possibile ritrovarle nelle dissertazioni più dotte come anche nei discorsi degli esperti, o ancora, più tristemente, nelle esposizioni degli insegnanti. E di fatto, nel momento in cui si tratta di contestare la caricatura, mi trovo in situazione pericolosa. Poiché sent~ già le obiezioni. Se le scienze non sono più oggettive di una qualunque impresa umana, bisogna pensare che la legge della gravitazione universale sia una semplice «ere-

IN NOME DEU.A SCIENZA

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denza», prodotta in un momento della storia, e che passerà come qualunque altra? Se gli scienziati sono capaci di intendersi senza aver accesso a una realtà suscettibile di metterli d'accordo, si deve pensare che siano degli imbroglioni, che si accordano segretamente prima di imporci la loro autorità illegittima? La Terra non è «veramente» un pianeta? E i biologi, eredi di Pasteur, non hanno salvato innumerevoli vite umane perché hanno saputo scoprire la realtà dei microbi? E la bomba di Hiroshima non testimonia che i fisici hanno «veramente» scoperto gli atomi e i loro nuclei? Certo, avrei molte meno difficoltà se prendessi una posizione di ripiego. Potrei dire per esempio che ci sono «vere» scienze, la fisica, la chimica, la biologia ecc., e che vi sono «false» scienze, in particolare l'economia. Di fatto è proprio quello che penso (cap. 3, § 2). Nella misura in cui sono assimilate in un modo qualunque con ciò che i fisici chiamano «leggi», le sedicenti «leggi del mercato» costituiscono una delle più infami imposture intellettuali della nostra epoca. E gli economisti «seri» sono i primi a saperlo. Ma il meno che si possa dire è che questi economisti seri non lottano con molta energia per impedire a coloro che parlano in loro nome di rivendicare un'autorità perfettamente indebita. Forse perché più un economista è serio meno sa quel che la sua disciplina può avere da proporre d'interessante e di pertinente alla società. Questa posizione di ripiego, però, non conviene perché lascia intatta la messa in scena che oppone le scienze (le «vere» scienze, questa volta) e «la società». E aggiungerei che non mi conviene, in quanto filosofa, poiché, certo, la filosofia non è una scienza, non ha né «fatti», né «prove»; e gli argomenti che i filosofi costruiscono hanno per vocazione di obbligare a pensare, non di dimostrare. Come accettare una messa in scena che oppone da un lato le «vere scienze», dall'altro tutto il resto, confuso nello stesso disprezzo più o meno ostentato?

CAPITOLO PRIMO 14

• , 1 notato il lettore che, per descrivere c'ò 1 eh Giace11e, 18 .. 1 . non è ho ut111zzato so o contrasti neg . e 1a Scienza . , . . . . • . nti"~ . d. • desideri e i11us1on1, tutt1 questi termin. Pregtu 1z1, .. , 11 1· , d 1. l che alla oggett1v1 ta e a a neutra 1ta, es gna 11 ho oppos t o non pensa, o moto 1 poco. N e11a migliore . • ' do un 11 h umano e e d.1 stati. d'ammo . p1ù . e.ue • . il nutrimento O 111 0 ., . eno 1potes1, son . Nella pegoiore, sono c10 c11e impedisce J: persona1J. ~ 1· d. .d F d ag.u 1 1v1 e. anno a scllern-. umam• d"1 1·ntendersi ' ciò che • • • • • ,,,o alcunché d1 pos1t1vo m ma tena di con rtano e non po ' . . . . o, e si accetta una s1m1le descr1z1one, come si Pu' S scenza. . ;> I o pensare in termini di democrazia. n queste condizioni· . , come non sognare vergognosa~ente una evo1uz1one in cui i problemi «veramen.te seri» sareb~ero ~e~pte più materia di sapere «oggett1vo» ment1·e «1 gusti e 1 colori» sarebbero oooetto di discussioni democratiche? E ha nota~~ anche il lettore che, per descrivere le pratiche scientifiche stesse, ho prestato alla «realtà» il potere di mettere gli umani d'accordo se, beninteso, riescono a superare i loro pregiudizi? Come capire, in queste condizioni, le controversie che costituiscono l'attualità della scienza? Dobbiamo pensare che se degli scienziati non sono d'accordo, l'uno imbroglia o è vittima dei propri pregiudizi? E come capire 1a differenza fra le scienze «feconde», quelle che ci hanno dato 1a Terra-pianeta, i microbi e gli atomi, e le altre.' Dobbia~~ pe?s~e 0e gli economisti, per esempio, sono a?cora pr1g!oruer1 de1 loro pregiudizi? O allora, a quale stadio la ~> e quella di cui si può dire «questo dovrebbe potersi aggiustare in segtùto»; e nessun filosofo delle scienze ha mai potuto proporre un criterio per definire la «buona scelta».

CAPITOID PRIMO

Ma il criterio cli Popper è troppo restrittivo anche da un altro punto cli vista. Esclude le scienze che non hanno a che fare con situazioni che permettono un confronto fra ciò che potrebbero predire e ciò che succederà. Immaginiamo una teoria rientrante nel campo delle scienze della società e, peggio ancora, immaginiamo uno storico. Nel primo caso le situazioni sono sempre talmente complicate che se la previsione non si realizza, non è possibile parlare di contraddizione. Così tanti fattori intervengono che nessuno può ragionevolmente pretendere dallo specialista che abbandoni la sua teoria. Quanto allo storico, non può semplicemente predire alcunché perché si occupa del passato e, inoltre, di avvenimenti che sono accaduti una volta e non si riprodurranno più. Infatti, la sola «storia» che permette a1 contempo di ricostituire il passato e di predire il futuro è quella che racconta il cielo, e che decifrano gli astronomi. Non vi è nulla di sorprendente nel fatto che l'astronomia sia uno dei saperi umani più antichi. Ma, in generale, vi è un tipo di luogo e uno solo in cui teoria e fatti possono essere confrontati: il laboratorio. Poiché nel laboratorio gli scienziati non si limitano a osservare e a descrivere. Le teorie insegnano loro come creare situazioni precise che dovrebbero, se la teoria è corretta, dare risultati determinati (cap. 2, § 1). E in questo caso possono arrivare alla conclusione: «La cosa non va come dovrebbe. Che fare?» E ritorniamo al problema della scelta: accettare o no il verdetto dei fatti? Dunque, se ascoltassimo Popper, dovremmo concludere che - anche se lasciamo tra parentesi la questione della scelta - non vi sono altre scienze che quelle che si pr~ducono in laboratorio o quelle che, come l'astronom1a, hanno a che fare con fenomeni particolarmente semplici e riprodudbiH. In questo caso, il criterio di dcma~cazionc è abbastanza inutile: esso prende in considerazione soltanto quelle scicnic di cui nessuno dubita.

IN NOME DELLA SCIENZA

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Tuttavia, qualche cosa cli Popper, o più esattamente del fallimento di Popper, è da prendere in considerazione. Noi abbiamo l'abitudine di associare «scienza» e «produzione di teoria». Ma qual è il rapporto fra una teoria nata in un laboratorio, riguardante, per esempio, il comportamento di un elettrone sottoposto a un campo elettromagnetico, una teoria prodotta nelle scienze sociali e una teoria prodotta in storia? Non è curioso il fatto che usiamo la stessa parola mentre solo la «teoria dell' elet• trone» potrebbe, eventualmente, essere confutata dai fatti? Parimenti, quando usiamo la parola «obbedire», che non è mai lontana quando si parla di teoria (cap. 3, § 3 e cap. 4, § 2): diciamo la stessa cosa quando affermiamo che il comportamento dell'elettrone «obbedisce effettivamente alla teoria», che le società «obbediscono a certe regole» o che la storia umana «obbedisce a una legge»?

3. Contrasti Ho annunciato che volevo cambiare messa in scena, non più riferirmi alla Scienza. Ma abbiamo appena fatto un passo avanti. Se la Scienza non esiste, probabilmente è in primo luogo e anzitutto perché le nostre pratiche scientifiche hanno a che fare con tipi di realtà che pongono problemi completamente diversi gli uni dagli altri. Ed è forse il pericolo più grande della Scienza quello di farci dimenticare queste differenze, di farci sognare - sogno o incubo - un futuro possibile nel quale si conoscerà il cervello di un umano come si conosce un elettrone, un futuro cioè in cui si saprà a che cosa «obbedisce» il comportamento di un umano come si sa a che cosa obbedisce quello di un elettrone. Nel quale si potrà dunque fare la differenza fra >, che includono prodotti pericolosi, come il crack, o innocui come la cannabis. Al di fuori della politica, nessun tossicologo si sognerebbe di raggruppare l'insieme delle droghe proibite nella stessa categoria. Eppure, quando si tratta di difendere il mantenimento della legislazione attuale, sono esperti detti «scientifici» che si fanno salire sugli spalti, come se la politica dovesse nascondersi dietro «la Scienza». Questo terzo caso merita che ci si soffermi un po' più a lungo, perché per la prima volta è entrata apertamente in scena la questione del potere, presente nel titolo di questo libro. Certo, già nel caso della diga, il potere non era lontano, poiché la risposta alla domanda «Che cos'è una diga» dipende dal modo in cui si pone il problema, in cui si prendono in considerazione certe conseguenze - e gli esperti che corrispondono loro - e in cui se ne trascurano altre. «Tu che hai il potere di convocare esperti, fammi vedere quali esperti riunisci, e ti dirò come intendi porre il problema, e quale tipo di risposta cerchi, "in tutta oggettività", di ottenere». Ma fin qui, non c'era motivo di dubitare degli esperti stessi, di chiamare in causa la loro affidabilità. Il loro sapere aveva un bel essere parziale, rispondere soltanto a un aspetto della questione, non vi era ' necessariamente motivo di dirlo di parte (salvo, certo, che esistano esperti venduti, deliberatamente disonesti). Ora, nel caso della politica delle droghe, si trovano (probabilmente) pochissimi esperti «venduti», ma in compenso si trovano saperi non affidabili, e che non occorre essere grandi competenti per riconoscerli come tali. «Che cos'è una droga?» Per rispondere a questa domanda in modo da giustificare la decisione politica, e in parti: colare l'amalgama fra droghe «pesanti» e «le~gere», q~ali • . · · rere? Bisogna ev1taespert1 trovare, aquali argomenti r1cor

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re di rivolgersi ai tossicologi, che avranno l'incresciosa tendenza a disconoscere i pericoli della cannabis, pericoli che non riescono, nonostante le somme enormi spese in questa ricerca, a dimostrare. Certe statistiche possono servire, come per esempio quella che permette di affermare che la maggior parte dei consumatori di eroina ha cominciato col consumare cannabis. Ma bisogna evitare di interrogare uno specialista delle statistiche, il quale dirà che la correlazione che fonda questa «teoria della escalation» - si comincia con un droga «leggera» e si passa a qualcosa di più pesante - non ha molto più significato di quella che si applicherebbe al latte con il quale i consumatori di eroina hanno pure cominciato. E bisogna evitare anche di andare a guardare troppo da vicino il caso che può smentire questa famosa teoria: quello dell'Olanda, per esempio, dove il consumo di eroina non è esploso mentre la cannabis diventava accessibile. Il che significa che la validità di un sapere esperto ha qui per condizione l'assenza di altri esperti. Ragion per cui bisogna dirlo- ed è un'accusa -di parte. Fino a questi ultimi anni, la politica di Stato era riuscita a reclutare alleati stabili in una classe di esperti: gli «psi» - psicologi, psichiatri, psicoanalisti... - testimoni della sofferenza del «tossicomane», affermavano che il consumo di droga illecita, qualunque sia, è sempre il segno di una sofferenza che non bisogna banalizzare, di un appello che bisogna sentire, di un ritiro dal legame sociale, di una ricerca della dipendenza e di una abdicazione di fronte alle responsabilità contro la quale bisogna lottare. E certi terapeuti avevano cominciato a difendere le leggi di proibizione in quanto strumenti terapeutici rispondenti al bisogno che avrebbero i tossicomani di essere costretti ad accettare le cure di cui, per definizione, hanno bisogno. Anche se questi terapeuti avessero avuto ragione, il loro argomento porrebbe un serio problema politico. La legge avrebbe il dovere di definire coloro ai quali si rivolge in quanto cittadini, non in quanto malati bisognosi di

CAPI'IUW 1-NJV1V

soccorso. Non dovrebbe essere al servizio della terapia non più di quanto la terapia non sia al servizio della legg~ (eccetto nei regimi che identificano, come avvenne in Unione Sovietica, opposizione politica e malattia menta . le). Ma si dà il caso che il problema drammatico di dover rinunciare a una eventuale efficacia terapeutica accertata dalla legge non si ponga. Gli esempi olandese e inglese dimostrano che le richieste di cura di disassuefazione non diminuiscono là dove i tossicomani beneficiano di alternative che erano loro rifiutate fino a poco tempo fa in Belgio e in Francia (in particolare trattamenti detti di sostituzione, al metadone). E man mano che scompariva la credibilità dell'argomento secondo cui rendere disponibile il metadone vuol dire voltare le spalle alla soffe_ renza, l'amalgama che questo argomento esperto costituiva diventava più percettibile. Giacché, con chi avevano a che fare gli «psi» nei paesi «proibizionisti rigorosi»? Con individui costretti dalla legge a definirsi o come delinquenti, o come malati bisognosi di aiuto. «Scegliendo», se si può dire, la richiesta di aiuto, dovevano p1·esentarsi nei termini del solo tipo di tormento che interessa gli «psi». Non si tratta di lamentarsi del prezzo della droga, della sua cattiva qualità, della «galera» delle giornate passate a procurarsi, in un modo o nell'altro, sia il denaro necessario, sia il prodotto. Bisognava presentarsi come un caso «psi». Correlativamente, ora che la «politica delle droghe» è in crisi, altri saperi esperti diventano udibili. Quello dei sociologi, che descrivono i circoli viziosi della «marginalizzazione» che «fabbricano» il tossicomane, descritto poi dagli «psi» come imbroglione, seduttore, disonesto ecc. E quello degli epidemiologi, i quali dimostrano che il propagarsi del consumo è favorito dalla proibizione, poiché uno dei modi di assicurarsi il denaro necessario al proprio consumo è di reclutare nuovi consumatori, di diventare dealer.

fil IN NOME DELLA SCIENZA

Ritornerò su questo terzo caso, perché il contrasto fra la decisione di «costruire un ponte» e quella che riguarda «la questione delle droghe» non deriva soltanto dalla qualità degli esperti. In effetti, tale contrasto risulta anche dalla questione dei rischi. Se il ponte crolla, e se talvolta la diga produce danni inattesi, l'errore può difficilmente essere contestato e il sapere degli esperti, o la loro competenza, sarà chiamato in causa (non sempre e non per tutti i tipi di «danni» nel caso della diga). In compenso, quando si tratta di un problema come quello delle droghe, la fondatezza della perizia e della decisione politica che si giustifica a partire dal sapere esperto sarà ben più difficilmente smentita dai suoi effetti. Il fatto che i tossicomani, ai quali si è intimato di definirsi o come malati, o come delinquenti, abbiano pagato il prezzo della decisione, che abbiano potuto effettivamente diventare delinquenti, irresponsabili, suicidi, ladri, imbroglioni ecc., è servito al contrario a giustificare la parola d'ordine secondo la quale al di fuori della disassuefazione e del1' astinenza non vi è salvezza. In altri termini, in un problema come quello, la scelta degli esperti suscettibili di discutere e di mettere alla prova una proposta non è soltanto una scelta circa ciò che «deve essere», su ciò che ha priorità, come nel caso della diga oppure ogni volta che interessi molteplici sono in conflitto. È parimenti una scelta che contribuisce a creare una situazione in cui sembra imporsi come normale, o come realistica. Correlativamente, e su questo tornerò più avanti (cap. 4, § r), si impone il carattere inseparabile della qualità delle scelte dette «razionali» e della qualità di ciò che chiamiamo democrazia. Poiché se la politica delle droghe è potuta sembrare una scelta razionale, o addirittura una scelta etica, è proprio perché coloro che fanno uso di droghe avevano voce in capitolo soltanto se erano «pentiti», testimoniando da che cosa la prigione e gli «psi» li avevano salvati.

CAPITOLO PRIMO

5. Scienze epoteri Quando si parla di scienze, ma anche quando si Pat~ di potere, il plurale è assolutamente importante. Vi sonc, molti legami fra scienze e poteri. Certuni sono mitici: U genio onnipotente che inventa l'arma assoluta. Altri Pas. sano inosservati: per esempio, come si ripartiscono le sovvenzioni alla ricerca e allo sviluppo? Chi fissa le prio. rità, e secondo quali criteri? Ma ognuno sa, o può sapere leggendo la stampa, una cosa abbastanza semplice ma sj. gnificativa: non tutto ciò che dicono gli scienziati ~ ascoltato in egual maniera dai loro interlocutori politici o amministrativi. Alla fine dell'estate 1996, alcune righe di un breve articolo della rivista «Nature» hanno autorizzato i ministri inglesi a tentare di ottenere la soppressione della misura di abbattimento delle mucche sospette, che essi avevano accettato. Secondo gli autori dell'articolo, «potrebbe darsi» in effetti che l'epidemia della «mucca pazza» si fermi da sé fra qualche anno, senza che ci sia bisogno di ricorrere a misure così drastiche come l'abbattimento previsto. In questo caso, il Potere politico inglese ha dunque conferito un'autorità straordinaria a una équipe di scienziati. Nel caso del riscaldamento dell'atmosfera (effetto serra) i politici hanno alla fine dovuto risolversi ad ascoltare non una équipe particolare, ma un vero collettivo di scienziati inquieti che sono ricorsi a mezzi estremi per avvertire l'opinione pubblica, per far conoscere i loro risultati e le loro previsioni prima che sia troppo tardi. Ma in quanto alle decisioni concrete, esse n~n seguono: il riscaldamento eventuale del pianeta susata soprattutto grandi discorsi e buone intenzioni. Se la situazione dovesse cambiare, nel contesto attuale sareb~ forse pe~ché altri attori, dotati di un grande po~ere soc1oeconomtco, sarebbero entrati in ballo: si sa per esem-

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pio che le compagnie di assicurazione, preoccupate dall'apparente recrudescenza di catastrofi climatiche (cicloni, inondazioni, siccità ecc.) per loro costose, cominciano a preoccuparsi seriamente di questo famoso effetto serra. In compenso, è troppo tardi per quello che fu uno dei più enormi banchi di merluzzi che abbia abitato gli oceani, quello che faceva la ricchezza dei pescatori lungo la costa atlantica del Canada. Eppure le quote di pesca si presumevano essere razionalmente e scientificamente controllate. Ma ecco: gli scienziati incaricati di tale controllo sapevano che se non avessero proposto le ipotesi più ottimistiche, coloro di cui ostacolavano l'attività avrebbero denunciato l'imprecisione dei loro modelli, la mancanza di affidabilità dei loro dati. Questa imprecisione relativa era certo normale e prevedibile: non avevano a che fare, gli scienziati, con una popolazione di milioni di pesci in libertà nell'Oceano e non con esseri controllati in laboratorio? Ma quegli scienziati sapevano che si sarebbe rimproverato loro altrettanto di non aver «provato» la necessità di ridurre la pesca. Hanno scelto di essere prudenti, troppo prudenti in questa circostanza, poiché, quando la prova alla fine è venuta, ha avuto effettivamente il potere di mettere d'accordo tutti: il banco cli merluzzi non esisteva più. Se le scienze ci insegnano molte cose sul mondo e sui rischi che le nostre attività ci fanno correre, non tutto ciò che ci insegnano è anche preso in considerazione, e coloro che dovrebbero tenere conto di una previsione inquietante possono, nel caso, permettersi di esigere prove perfettamente impossibili da produrre, e prendere pretesto dal fatto che «non è provato» per non fare alcunché. Ma il caso inverso è altrettanto importante. Può accadere che un sapere di tipo scientifico sia invocato come facente testo su un terreno in cui non ha per niente dato prova di sé (cap. 3, § 4). Una dimostrazione prodotta nell'ambiente semplificato, controllato, cioè del tutto artifi-

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ciale, costituito da un laboratorio, sarà considerata vali. da «fuori del laboratorio», cioè là dove non può esserti! eliminato tutto ciò che questo ha accuratamente escluso, e quindi tutto ciò che la dimostrazione non ha preso in considerazione (cap. 3, § 1). Tutto ciò sarà detto secon.. dario, aneddotico, poiché il laboratorio definisce il pun. to di vista «scientifico» - cioè razionale - sulla questio . ne. Così, i laboratori di agronomia moderna possono «pro.. vare» che il tale ceppo vegetale nuovo ha un rendimento migliore degli altri. Ciò che non è stato preso in conside.. razione è che esso ha bisogno del tal tipo di concime o del tal tipo d'irrigazione, e che, nel Terzo mondo, solo i grandi proprietari potranno profittarne. La dimostrazio.. ne di laboratorio ha trascurato, com'è normale, le diseguaglianze sociali ed economiche; ma la possibilità che queste si approfondiscano ancora un po' di più, che i contadini poveri si indebitino e debbano vendere la loro terra ai più ricchi, non ha ostacolato l' «applicazione» del risultato scientifico sul campo. Le conseguenze socioeconomiche, in questo caso, sono giudicate secondarie: la cosa dovrebbe aggiustarsi in seguito poiché il rendimento superiore dei vegetali accrescerà la ricchezza globale del paese. Il potere può assumere forme diverse; il suo segno qui, ciò da cui lo si riconosce, è il fatto di permettersi di scegliere ciò che sente e ciò a cui resta sordo. Secondo i suoi interessi, può esigere da un sapere dimostrazioni affatto impossibili o, al contrario, «dimenticare» tutto ciò che indebolirebbe la portata di una dimostrazione. E il fatto che certi rischi, prima trascurati, siano stati alla fine riconosciuti, che le misure che permettono di evitarli siano diventate norme, è solo raramente legato a una «razionalità» deJ potere, ma più spesso alla comparsa di contropotcri i quali esigono che quei rischi siano presi in considerazione. L'a{{jdabiHtà relativa delle autovetture è stata conquistata dal movimento dd consumatori americani

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IN NUMI!, ul!.LLA SCIENZA

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mobilitati da Ralf Nader. Se le nostre centrali nucleari non sono cosl pericolose come quelle dei paesi dell'Est, è in grandissima parte perché sono state oggetto di attacchi e di contestazione da parte dei movimenti antinucleari, che hanno costretto gli ingegneri a «vedere» rischi che fino allora erano stati giudicati improbabili e quindi trascurabili. I rapporti fra scienze e società fanno dunque intervenire poteri molteplici, e un giorno forse il potere dei movimenti ecologisti permetterà a certi rischi « non provati» di essere presi in considerazione, e quindi agli scienziati di essere meno «prudenti». È questo che oggi si dibatte quando si tratta di sapere a chi spetta l'onere della prova in caso d'innovazione o di sviluppo industriale: devono i contestatari provare che c'è un rischio, o non spetterebbe piuttosto a coloro che propongono provare che non c'è rischio? E in questo caso, industrie e amministrazioni improvvisamente riconoscono con eloquenza la difficoltà di provare: l'esigenza di una tale prova, affermano, rovinerebbe l'innovazione e bloccherebbe quindi il progresso. Che le scienze giochino come risorse (i laboratori producono davvero ceppi vegetali ad alto rendimento), come alibi («in nome della scienza»), o come impedimento a dimenticare ciò che disturba (i «contropoteri» reclutano scienziati e lottano perché il loro sapere imbarazzante abbia voce in capitolo), il potere della prova è comunque sempre centrale: Non avete provato! Le vostre prove non reggono perché .... ! È possibile provare? Quanto costerebbe e che cosa implicherebbe una prova eventuale? Bisogna aspettare la scomparsa del banco cli merluzzi o il momento in cui il riscaldamento del pianeta diventerà una evidenza per tutti? Ma, lo si è visto, il« potere della prova», questo potere di cui le scienze hanno la specialità, se non l'esclusiva, deve intendersi esso stesso in sensi molteplici. Non tutte le scienze sono uguali di fronte

CAPI'roLO PRIMO

all'obbligo di provare. E' ora il momento di entrare in laboratorio scientifico, l'alto loco della prova scientiJJ~ per capire un po' più da vicino il prezzo, le condizioni,~ costrizioni e i limiti delle prove che vi si costruiscono,

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2.

11 potere del laboratorio

1. Ma

che cosa ha dunque provato Pasteur?

Nessuno di noi dovrebbe più ignorare, si presume, che degli esseri viventi invisibili a occhio nudo brulichino ovunque nella natura, siano innumerevoli nelle nostre viscere, dove svolgono una parte essenziale nella digestione, e su ogni centimetro quadrato della nostra pelle; dalla notte dei tempi sono stati i responsabili nascosti delle arti umane della fermentazione, della fabbricazione del pane e di quella dell'alcol, ma sono anche i vettori di quelle catastrofi terribili che, da sempre, colpiscono le popolazioni umane: le epidemie micidiali, cosl spesso decifrate in termini di maledizione divina. Un insieme nuovo di saperi, che riunisce pratiche antiche e tecniche contemporanee, va sviluppandosi da più di un secolo, e ci costringe ad accettare il fatto che la natura non è un insieme armonioso di creature che potremmo sottomettere a nostro servizio, ma un milieu proliferante in cui coesistiamo con esseri tanto «innovanti» quanto noi, sebbene con tutt'altri mezzi, capaci di suscitare malattie nuove o di diventare resistenti alle droghe che noi inventiamo per sbarazzarci di essi. La storia degli umani e quella, vecchia di parecchi miliardi di anni, dei microrganismi, virus, batteri, protozoi ecc., sono sempre state intreccia-

CAPl'roLO SllCONOO

te, ma queste storie intrecciate hanno preso un nuovo corso, per il meglio o per il peggio, da quando i sopcrf umani hanno imparato a rivolgersi ai microrganismi, a rl . conoscere le loro azioni, ninventare nei loro riguardi or.. mi e modi di renderli utili o inoffensivi. I nùcrorganismi esistono «per i snperi umani» da qunn . do Pasteur, nel 1864, ha vinto - in ogni caso secondo i cri. tcri di coloro la cui convinzione «contlwa>> (cap. 2, § 3) rispetto a una ipotesi rivale che designava un tipo tut .. to diverso di viventi invisibili, l'ipotesi della Oita a ~ doma~ c~e gJj uomini si 10no posti da sempre, cht li farebbe qumd1 pa11arc daH'ignoranza al sapere,

n. POTERE DEL LABORATORIO

39

Il più delle volte, le risposte nuove corrispondono a domande nuove, alle quali nessuno, prima, avrebbe pensato cli interessarsi in modo prioritario. Proprio perché il laboratorio permette cli dare loro una risposta tali domande appaiono improvvisamente interessanti, appassionatamente interessanti (cap. 2, § 4). Prendiamo il primo «laboratorio» scientifico in senso stretto, quello in cui Galileo, all'inizio del secolo XVII, fa rotolare delle piccole sfere di bronzo ben tonde su piani inclinati ben levigati. Di Il sono nate le «leggi del moto accelerato» dei gravi, che tutti i fisici celebrano come le prime vere leggi stabilite dalla fisica, ormai battezzata «fisica moderna». Ma chi, prima cli Galileo, avrebbe avuto l'idea cli proclamare che il moto dei gravi che cadono è estremamente interessante, è un primo passo verso la comprensione del movimento in generale o persino di quel che chiamiamo «la natura»? Dopo tutto, è un ben povero movimento, che non ha niente a che vedere con quello, ben più interessante, delle piante che buttano, dei cavalli che galoppano, degli uccelli che volano. È solo perché, con il piano inclinato inventato da Galileo, il moto dei gravi ha avuto il potere di mettere d accordo le interpretazioni, e quindi di riunire attorno a sé coloro che attribuivano valore a un fatto soltanto se era capace di provare, che esso è diventato interessante. Tutti gli altri, che continuavano a dire: «è un movimento assolutamente non interessante, niente affatto interpretativo dei processi naturali», tutti coloro che si ostinavano a chiedere alla fisica che permettesse di capire il movimento degli uccelli, quello del vento e dei cavalli, quello delle piante che buttano e dell acqua che turbina, non hanno niente a che fare con il laboratorio di Galileo. L•appuntamento è riuscito con i corpi che cadono, con il pendolo che oscilla, poi, dopo Newton, con i pianeti e le comete nel ciclo. Ma non con tutto ciò che chiamavamo, prima, movimento. 1

1

CAh.a~

Lo stesso nel laboratorio di Pasteur. Certo, il genio di Pasteur è stato dì legare la questione dei microrganismi • questioni che ìntcressa,rano gli industriali, i fattori, i me.. dici. Perché la birra si guasta? Perché le nostre greggi muoiono della malattia del carbonchio? Come lottare contro le epidemi~ E anche, a proposito dell'invenzione gloriosa fra tutte della vaccinazione: ci si può proteggere

dall'attacco di un microrganismo? Ma bisogna vedere an-

che le domande alle quali non ha risposto, le domande alle quali il suo laboratorio non poteva rispondere. La forza di Pasteur proviene dal fatto che ha saputo creare un «appuntamento» con i microrganismi. Sono loro che ha saputo interrogare, non il corpo malato, il corpo sofkffl}te che cerca guarigione. La questione della guarigione è certo la questione che ha interessato gli umani da sempre, ma non è a~ che Pasteur risponde. Egli inventa un nuovo modo di accostare la malattia. Non sa che cos'è un corpo sofferente, e l'evento costituito dall'appuntamento riuscito sta appunto nel fatto che, se si tratta dei microrganismi, della loro virulema, dei modi di indebolire quest'ultima, non c'è bisogno di saperlo. Provetta, gallina o corpo umano, quel che il successo di Pasteur attesta è che la differenza fra questi milieux non conta, in ogni caso non in modo finora osservabile, per il microrganismo: questo prolifera dal momento che le condizioni della sua proliferazione sono assirurate. Ma conta per gli umani, che guariscono o no a seconda delle circostanze che il microrganismo sembra incapace di spiegare. Ciò che Pasteur ha provato è che i microbi sono le condizioni sine qua non di certe malattie, che ne sono la «causa» nel senso che, se non sono presenti, la malattia corrispondente non si svilupperà. Ciò che egli non ha «stabilito scientificamente», ciò che non poteva fare perché allora bisogna interrogare il corpo sofferente è la risposta alla domanda che interesserebbe tutti gli udiani: «Che cos'è essere malati?» Cioè anche: «Come guarire?»

n. POTERE DEL LABORAT01UO i.

Il modo di esistenza degli esseri scientifici

Facciamo come Pasteur. Mettiamo fra parentesi la questione dei corpi che soffrono. Non perché, come lui, confidiamo nel progresso delle scienze di laboratorio per ottenere la risposta al problema. Al contrario - equesto in particolare dopo l'epidemia dell'AIDS - sappiamo che progetti e realizzazioni sono due cose ben diverse, che identificare il vettore della malattia e il suo modo di agire non significa necessariamente risolvere il problema della malattia. Forse stiamo veramente imparando che, di fronte alla malattia, non basta volgersi con fiducia verso gli scienziati che lavorano nel laboratorio. Bisogna anche creare risposte a domande quali: « Come rivolgersi ai malati, aiutarli, vivere con loro?» E queste risposte fanno parte, tanto quanto l'identificazione del virus, del sapere al quale ci obbliga una malattia (cap. 4, § 2). Mettiamo dunque provvisoriamente fra parentesi la questione della malattia e della sofferenza non perché sia secondaria, ma perché è troppo grave per essere trattata in questo capitolo, dedicato al potere del laboratorio. Non si incontrano gli «esseri» creati dalle scienze se non in laboratorio, o nei luoghi in cui esistono strumenti che sono nati dai laboratori. Eppure dobbiamo dire anche che gli atomi, gli elettroni, i batteri, i virus, esistono «oggettivamente», cioè che esistono indipendentemente dalle domande che poniamo loro. Non sono le nostre domande che li fabbricano, i nostri strumenti che li creano. Sono loro che, con la loro esistenza autonoma, spiegano i risultati che i nostri strumenti forniscono. Dobbiamo dire per questo che li abbiamo «scoperti» come Cristoforo Colombo ha scoperto r America (che, nessuno ne dubita, preesisteva alla sua traversata delJ>Oceano)? Ho l'aria di spaccare un capello in quattro, ma qui siamo al cuore del problema. Gli scienziati ci chiedono di

CAPITOW SECONDO

accettare che essi hanno davvero a che fare con la realtà, che non si limitano a «creare» esseri secondo regole che sarebbero le loro, un po' come la legge degli uomini crea categorie senza «rispondente» nella realtà, la distinzione fra droghe lecite e illecite per esempio. E questo, dobbia. mo concederglielo, perché rinunciando a fare la differenza fra una creazione puramente convenzionale, che si regge solo grazie all'attività umana, e un appuntamento riuscito, non si capirebbe niente della passione degli scienziati e di ciò che essi chiamano «prove». Tuttavia non bisogna lasciarsi trascinare troppo presto, e assimilare i microrganismi a quella terra abitata, dall'altra parte dell'Oceano, che Cristoforo Colombo ha scoperto quando voleva aprire una nuova via verso le Indie. Per gli abitanti di quella terra, che abbiamo chiamato America, la «scoperta» è stata, in ampia misura, una catastrofe. Per noi europei, è stato un avvenimento gigantesco, politico, economico, sociale, culturale e religioso nello stesso tempo: per la prima volta l'Europa era in contatto con un mondo che ignorava i saperi dell'Antichità, che si presumevano onniscienti. E l'America, da allora, ha interessato tutti, senza che Colombo abbia dovuto più darsi da fare: è piuttosto il rispetto dei suoi diritti di scopritore che ha dovuto tentare di proteggere. Non è lo stesso con gli esseri identificati nel laboratorio. Con la loro identificazione comincia tutto, ma non nella stessa maniera. Le conseguenze non si presentano in folla, ovvero soltanto nell'immaginazione degli identificatori. Ma, anche allora, essi sanno che dovranno lavorare, lavorare molto, per interessare altri a ciò che hanno scoperto (cap. 2, S 4). Pasteur ha dispiegato un'attività formidabile per interessare i contadini, gli industriali, gli igienisti, i funzionari della sanità pubblica i medici affinché tutti coloro la cui l'attività, egli pen~ava, avr:bbe dovuto prendere in considerazione l'esistenza dei microrganismi, la prendessero effettivamente in considera-

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r D.. POTERE DEL LABORATORIO

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zione. E se ha dovuto lavorare cosl, fare opera di vero stratega, non è perché i suoi interlocutori fossero «osCl.lrantisti» che rifiutavano di vedere la luce della verità. E perché ciò che veniva loro richiesto costituiva una vera trasformazione della loro attività, delle sue priorità, delle competenze che esigeva e perché, molto legittimamente, ciascuno poteva porre la questione di quale fosse l'interesse di tale trasformazione. L'esistenza di quegli esseri di laboratorio poteva, effettivamente, costituire una differenza importante per loro? Cosl, i medici non sono diventati veramente «pasteuriani» se non quando Pasteur e i suoi collaboratori hanno messo a punto «sieri» che permettevano di guarire certe malattie epidemiche. Fino a quel momento il microrganismo, se permetteva di spiegare, non permetteva al medico di essere più efficace: perché vi si sarebbe interessato in quanto medico? L'America, una volta scoperta, è un po' come il Sole: abbaglia tutti, tutti vi si interessano, anche se ognuno ha ragioni diverse di farlo. Ma la «verità» scientifica non ha questo potere. Certo, il Big Bang e i buchi neri interessano il pubblico, fanno sognare. Se sono citati nel corso di una conferenza, si può essere sicuri che in seguito si porranno domande al riguardo. Ma questo interesse del pubblico non contribuisce affatto a «stabilizzare» la loro esistenza. Se un giorno la cosmologia teorica, che ha creato il Big Bang, dovesse trasformarlo, o persino farlo scomparire, il pubblico ne sarebbe informato, ma la sua eventuale delusione non varrebbe l'ombra di un argomento. In compenso, ciò che stabilizza veramente l'esistenza di un essere identificato in laboratorio, ciò che rende difficile un futuro in cui si scoprisse all'improvviso che, di fatto, se ne può fare a meno, capire in tutf altro modo ciò che esso sembrava spiegare, è la moltiplicazio~ ne delle pratiche che, a poco a poco, e ciascuna secondo i suoi interessi e i suoi problemi specifici, lo prendono in considerazione, scoprono possibilità nuove che non avreb-

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CAPITOLO SECONDO

bero senso se esso non esistesse. Anche se, ipotesi impr0 , babile, i biologi che, oggi, continuano a ripetere i gesti di Pasteur - coltivare, identificare, produrre eventualmen.. te il vaccino - scoprissero all'improvviso che tutta la lo. ro attività può essere in effetti interpretata senza i ntlcrorganismi, non potrebbero più, da soli, decidere di far .. li «scomparire». Sono ormai troppo numerosi coloro che, in modi diversi e che quindi gli argomenti dei «pasteuriani» non toccherebbero, affermano anch'essi l'esi.. stenza dei batteri, dei virus ecc., coloro che hanno ormai bisogno di questi attori per capire la propria attività. Parimenti, se è fuori discussione che la Terra esiste in quanto pianeta, è perché gli argomenti astronomici di Copernico o di Galileo, argomenti riguardanti l'interpretazione dei dati dell'osservazione del cielo, non sono più soli ad affermarla tale. Per «rimettere» la Terra al centro, bisognerebbe vincere tutta la fisica di Newton, e l'attrazione gravitazionale, ma anche i dati molto più fini riguardanti l'irregolarità dell' «anno solare», senza contare il «pendolo di Foucault», la geologia che ci racconta la storia di un pianeta e non quella cli un centro permanente e stabile del mondo, la scoperta delle galassie, lo studio chimico della composizione delle stelle e del loro invecchiamento... In breve, e non sto a dire tutto, un insieme enorme di saperi che si sono tutti sviluppati implicando attivamente il mondo sprovvisto cli centro che risulta dalla «rivoluzione copernicana». Gli «esseri» prodotti dalla scienza hanno dunque veramente titolo a partecipare a ciò che chiamiamo «realtà», e nel senso più forte. Tale titolo è dovuto non perché la loro esistenza sarebbe stata provata da una scienza - ciò che una dimostrazione sperimentale stabilisce, un'altra, ~n mezzi tecnici e riferimenti rinnovati, può sempre distruggerlo - ma perché sono potuti diventare un vero crocevia per pratiche eterogenee ciascuna dotata di'interessi'diversi,· ctascuna · avendo 'quindi preteso

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n. POTERE DEL LABORATORIO

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dagli esseri in questione che siano capaci di legarsi alle sue questioni e ai suoi interessi in modo affidabile. Questa definizione della realtà non è, in effetti, la più forte che possiamo invocare? Dopo tutto, perché ci è impossibile dubitare dell' «esistenza» del Sole, di rinviarlo per esempio a una allucinazione? Il fatto è che troppi esseri sulla Terra affermano questa esistenza in modi diversi, ben più antichi dei nostri saperi umani. Non è verso una allucinazione che si protendono i vegetali, e il ritmo delle stagioni non è una semplice convenzione umana. Le scienze «fanno esistere» esseri nuovi, perfettamente reali, non perché sono oggettive ma perché sono creatrici di legami nuovi con «la realtà»; e di legami la cui singolarità è di rendere coloro che li creano capaci di affermare, come Pasteur, che la loro creazione testimonia in modo affidabile in favore di un certo tipo di realtà e non di un altro.

3. Prove e controversie Se le dimostrazioni sperimentali traessero il loro valore dalla loro «oggettività», non si capirebbe perché la storia delle scienze sia intessuta di controversie, di liti fra scienziati, ognuno contestando la validità delle «prove» che l'altro propone. Certo, quando la controversia è chiusa, permette, per il fatto stesso che sono stati designati i vincitori e i vinti, di descrivere il vincitore come «oggettivo», mentre i vinti sono giudicati: condannati quando si può pensare che la loro opposizione veniva da un partito preso ideologico, scusati quando si deve riconoscere che, «all'epoca», i fatti erano ambigui, sc thc c.Jcc.Jic:~• aJJc grandi questioni che preoccupano J'umanirà. S), l'impresa «gcnomn umo-

Il. POTERE DEL LABORATORIO

55

no» è profondamente impura, ma se è temibile non è perché coalizza troppi interessi disparati, ma perché la coalizione, in questo caso, è troppo facile, perché è suscettibile di riunire tutti quelli che troveranno convenienza nel trasformare una differenza statistica in strumento di vaglio, di selezione, di controllo. In quanto alla molecola, il suo tragitto eventuale nei nostri saperi traduce in modo tipico il misto inseparabile di «puro» e d' «impuro» che costruisce i nostri saperi e le nostre pratiche. Senza l' «impuro» delle strategie degli scienziati per interessare altri partners, senza gli interessi di questi altri, che includono le questioni di brevetto, di profitto, senza il privilegio attribuito alla terapia chimica, il prestigio scientifico che assicura qualunque inizio di «spiegazione» del comportamento in termini molecolari, la molecola avrebbe soltanto poche probabilità di lasciare i laboratori dov'è stata identificata. Ma perché li lasci effettivamente, perché acquisti la possibilità di esistere per altri all'infuori di quelli che l'hanno creata, niente di tutto questo basta. Non è dalla «purezza» del suo tragitto, dal carattere disinteressato cli coloro che la promuovono ma dalle prove che l'aspettano, dalle esigenze che dovrà soddisfare, dalle controversie che susciterà, che dipenderà il grado cli affidabilità che potremo riconoscere ai saperi e alle pratiche che si costruiranno prendendola per riferimento.

3. Il veleno del potere

1.

Poteri multipli

attesa non avverrà mai. In compenso, si può osservare in questo caso indeciso il gioco di poteri che non sono quelli del laboratorio. Vi è anzitutto il potere sociale. Se la questione della guarigione mettesse innanzi il malato e non degli esseri (i microbi, gli antigeni, gli anticorpi ecc.) che si possono mettere in scena nel laboratorio, non potrebbe diventare una «questione sperimentale». Non ci si può porre contemporaneamente la questione di che cosa permetta a un uomo che soffre, spera, ha fiducia, prega, o dispera, di guarire, e sottoporlo alle prove sperimentali che permettono di dimostrare. La qual cosa significa che i saperi che potremmo produrre a questo riguardo - e che gli umani hanno certamente già prodotto nel corso della loro lunga storia (cap. 4, § 2) - non potrebbero dirsi «oggettivi», capaci di resistere alla controversia. Sono forse questi i saperi che bisognerebbe coltivare, ma dai quali non ci si può aspettare che abbiano il potere di ridurre al silenzio coloro che li mettono in dubbio. Nella misura in cui sono ammessi come «scientifici» solo i saperi che hanno questo potere (cap. 1, § 5), colui che tenta di far esistere pratiche diverse, rivolgendosi altrimenti al malato, è immedia~ ~q~~to ~me «ciarlatano». In compenso, avranno diritto di c1ttadmanza, come approccio scientifi.

IL VELENO DEL POTERE

59

co del problema, «serissimi» studi psicosociologici che si limitano a tentare di mettere in luce regolarità statistiche 11 proposito dei «modi di guarigione». Quando il potere inventivo del laboratorio, che crea le proprie domande e fa esistere esseri di cui non avevamo alcuna idea, trova i suoi limiti, spesso accade proprio cosl: il «resto» è giudicato come un vero residuo, non come una materia per altri tipi d'invenzione pratici. È trattato come tale: si quantifica, si cercano correlazioni statistiche, relazioni tra fattori, tutte cose che possono essere utili ma che, in questo caso, dissimulano il problema. Mai uno studio statistico ci permetterà di sapere come rivolgerci a una vittima del1'AIDS, come aiutarla nella prova, come inventare dispositivi che alimentino la sua capacità di resistenza alla malattia. Questa squalifica del «resto», di quello che non può essere definito in laboratorio, traduce un'altra squalifica: se i malati vanno giusto bene per alimentare delle statistiche, non è forse perché sono essi stessi muti, impotenti, incapaci di far riconoscere il loro problema indipendentemente dalla definizione che ne dà il laboratorio (cap. 4, § 2)? D'altra parte, vi sono cose che sappiamo fin da ora, e · delle quali non teniamo conto. Se il « morale» conta, il modo in cui un malato viene accolto in ospedale, ci si occupa di lui, il modo in cui ci si rivolge a lui, dovrebbero «contare». E quindi il numero delle infermiere, la loro disponibilità, la molteplicità dei loro ruoli, il modo in cui il medico si rivolge al malato, o la qualità delr alimentazione dovrebbero «contare» allo stesso titolo dei dispositivi tecnici d'indagine e d'intervento. Si sa che cosl non è. Le scelte d'investimento privilegiano le attrezzature tecniche e contribuiscono, cosl, a rafforzare ridea che solo i saperi scientifici e tecnici che hanno condizionato lo sviluppo di tali attrezzature contano veramente nella questione della guarigione. Il potere che permette tali scelte è misto. Entrano in conto i modi cli calcolare che

CAJ>m>LO TERZO

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presiedono agli investimenti, la formazione professione .. le dei medici, il disprezzo di classe contro le infermiere, le pressioni degli industriali che «fanno girare la macchi. na economica», la fiducia che i malati fondano nel «pote• re della scienza» e quant'altro. E, certo, per capire que. st'ultimo tratto, il contrasto tra il fatto che i malati vo. gliano beneficiare di «quanto c'è di meglio» in materia di tecnica e accettino in compenso che all'ospedale si possa trattarli come dei bambini, degli imbecilli o degli importuni, bisognerebbe invocare ancora altri ingredienti. In breve, una moltitudine di poteri collabora a questo fatto sorprendente: è come se l'ideale al quale risponde l'ospedalizzazione fosse che si può lasciare a casa il proprio cervello e mandare all'ospedale soltanto il corpo «in cattivo stato». Non tenere conto di quello che si sa, lo si chiama, in generale, «irrazionalità». E nel caso d'irrazionalità di questo genere, il potere non è mai lontano. Quando i risultati di laboratorio e gli esseri creati da questo laboratorio si ritrovano in posizione centrale su questioni che preoccupano la vita degli individui, la vita sociale, il modo in cui concepiamo il nostro futuro, i suoi rischi e le sue promesse, una sola domanda dev'essere posta: quella del potere, e il più delle volte della coalizione di poteri distinti, che ha avuto interesse a far dimenticare una differenza che conta almeno tanto quanto quella fra la pietra che rotola e l'uccello che vola. La differenza, cioè, fra le questioni interessanti perché permettono una dimostrazione sperimentale e le questioni che interessano la vita degli umani.

2.

Cervelli mutilati

Nella misura in cui non si fa differenza fra domande, nella misura in cui predomina l'idea che ogni domanda che sembri implicare saperi, misure da prendere, stati di cose

1L VELENO DEL POTERE

61

de gestire dipende dalla Scienza, non ci si stupirà del fatto che il paesaggio dei nostri saperi sia saturo d' imprese che rivendicano per se stesse l'autorità che la scienza sperimentale dovrebbe avere per la sua «oggettività». Esistono scienze che si presentano come oggettive ma procedono all'accumulazione di dati, alla classificazione burocratica di numeri che possono vertere indifferentemente su tutto. Tutto è misurabile, se non ci si pone la questione - fondamentale nel laboratorio - di sapere che cosa significa la misura, che cosa attesta, che cosa permette di dimostrare. Queste scienze sono riconoscibili dal culto che hanno per la «metodologia», per il « metodo scientifico». Infatti è la sola cosa alla quale possano aspirare poiché non creano le proprie domande: saper costituire un buon campione, valutare l'affidabilità di un risultato statistico, assicurarsi che i dati raccolti non siano sistematicamente distorti ecc. Questo genere di scienza beneficia dello sviluppo degli strumenti statistici, come anche, oggigiorno, della potenza di calcolo dei computers, ma non ha niente a che vedere, a rigore, con la pratica creatrice delle scienze sperimentali. Mai il risultato di tali misure farà veramente battere il cuore dell'indagatore, che si chiede se ha inventato una «buona» domanda, se ha trovato un punto di vista che i suoi colleghi non potranno ignorare (cap. 3, § 4). I risultati si accumulano e all'occasione forniscono, in mancanza di meglio, «preziose indicazioni», ma possono altrettanto bene dissimulare i problemi, e la «mancanza di meglio» diventa allora in se stessa temibile. Un numero può nasconderne un altro o nascondere una questione per la quale non vi è numero. Quindi le statistiche riguardanti il fallimento scolastico, anche se prendono in considerazione lo stato economico e sociale dei genitori, possono, eventualmente, dissimulare il fatto che ciò che la scuola è non ha significato indipendentemente dalla questione di ciò che permette di sperare, e in

CAPITOLO TRR7.0

particolare dalle prospettive che un diplomo ~ in grado di aprire. Ma ciò che sono destinate n ignorare, n rinviare alla «soggettività», al di fuori della scienza, sono dom1n. de del genere: cos'è che fa sl che una classe «funzioni)!), che un insegnante riesco a trasmettere ai suoj alHcvi iJ perché la materia insegnata è in c{fetti dcAna cli cucre trasmessa di generazione in generazione? Domande simJ. li non trovano risposta nelle cifre, ma non per questo so. no «soggettive»: vertono, almeno in parte, sull'iniieme dei dispositivi di formazione, di «riciclaggio», di controllo, che contribuiscono sia ad asservire l'insegnante nei confronti della triplice autoritil del sapere, dei «pedagogisti» e dell'amministrazione, sia a dargli i mezzi di creare ciò che il suo ruolo esige da Jui. Oggigiorno, i «buoni profi» esistono piuttosto nonostante ciò che si suppone sostenerli che grazie a coloro che pretendono di aiutarli (cap. 4, § 4). Bisogna osare affermare che, in questo caso, i giudizi che dividono quello che può essere oggettivamente valutato o controllato e quello che , neutrali in quanto ai valori umani poiché questi ,,.alori diventerebbero, come tutto il resto, prodot. . ti dell'C\·oluzione. Tut~ia - e qui rinvio ai numerosi Ji. . bri di StephcnJ. Gould -, 1a storia deJJe questioni~ dc e delle pratiche innovatrici dci biologi darwiniani dcv'eucrc raccontata in un modo del tutto diverso, La vcr.a inno\·azionc darwiniana sarebbe allora di aver tra.. sformato termini che~ UiUalmente, ~-rvono a ~, giudicare?) - i te:mi::i ,.-c.r.r.r~izione>,1 ,,acfatt.art.ll;tltru, 1 .,,rnigliore11 ecc. - in pu:i ~ ~rnp!id ,., marcatr.Jri ,., JX..,- pr.obk.,-,.i 9i(..-f'IY ?"e ?"'~ia.,lariJ 3empre k.,cali, ~npre drcrJ$ta.n~fati, f/ale a dire pr~i che r,r.,n umferit;Cl'.mr, a chi

li affronta ai

~ ;YJte:-e di generalizzazir.me,

(..:he '°''é il qmigliore,-.,;; Per molto tempo fa ~,mparta dei di:-~ é ~ gimtifkata in un rw,d,.J qu11ii rwxa.. ~ ~ebbero «ati ~ai, WJJ)idi, abitudinari, crnt1tucndo Ut"; o/e-tr; zmr,a:,1,,IJ ddl~~,r,lmJrme, Era normale à,1; imam, ~ j ~,doc1 itr,~sttvi pi,;r,i di ri.v,r1il!, ,JJ1; o,mp,:nn, , r~ pjU./J~ . f d' , l'fJf)fJ(JftfJnJ,, "!f~h rU/ff,I; «;Jf}jJ . ,rf;eTJ1,1fmt! l;t,n W1",,, :i flkiA?;f'Jh ,,,~,inti ,.,, > un sapere effetttvamente sc1ent 1co, m cui il Iavor d . li I . o el l'uno può co~~m~er~ g a tn a. nu~ve d~mande. GÙ «storici darwllllaru» imparano gli uru dagli altri le d mande che contribuiscono a renderli meno vulnerabili le generalizzazioni, più attenti alla molteplicità delle a_tuazioni e delle circostanze, e all'ambiguità delle causs;lmparano gli uni dagli altri a costruire «scenari» più sot~ tili e più interessanti. La pratica degli «storici>> darwiniani, costruttori di scenari, è ormai anche quella degli storici della Terra stessa, con i suoi oceani, l'atmosfera, i suoli fertili. E da quando le sonde spaziali trasmettono informazioni precise sugli altri pianeti del sistema solare, scopriamo che, anche in questo caso, bisogna imparare a raccontare. Che cosa sia un pianeta non è più deducibile dalle sue dimensioni, dalla sua densità, dalla sua distanza dal Sole di quanto ciò che è vivente non sia deducibile da una qualunque teoria dell'adattamento. In altri termini, il tema della «demoralizzazione» del potere ha trovato, in questo caso, veri attori interessati, interessanti, inventivi, creatori di nuovi legami d'interesse con il mondo. Quel che importa loro non è più ciò che avrebbe il potere di imporre un modo di descrivere contro tutti gli altri, bensì le bizzarrie, le anomalie, gli scarti rispetto a ciò che i nostri giudizi ci permettevano di anticipare. La natura che essi fanno esistere è una intricata proliferazione di storie che sfuggono tanto alla generalizzazione quanto alla morale rassicurante del progresso. E queste.storie d parlano dei rischi dcIIa storia , della nostra stona. Raccontano di come un fattore che si sarebbe detto secondario abbia potuto provocare conseguenze smisurate, di come un dettaglio apparentemente insignifi~ante abbia potuto fare la differenza. Si oppongono attJvamente, da una parte, aUa morale del progres-



Il. VELENO DEL POTERE

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so, alla differenziazione fra le « tendenze pesanti» sulle quali potremmo fare affidamento e, dall'altra, alle perturbazioni aneddotiche che dobbiamo poter tollerare aspettando che la cosa si aggiusti. La cosa potrebbe interesse generale che si presuppone trascendere gli interessi particolari, in nome della razionalità davanti alla quale si presume che l'opinione pubblica taccia. Democrazia e razionalità convergerebbero quindi ver• so la stessa esigenza: rinvenzione di dispositivi che suscitino, favoriscano e alimentino la possibilità per i cittadini di interessarsi ai saperi che pretendono di contribuire a guidare e a costruire il loro futuro, e che obblighino

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CAPITOLO QUARTO

questi saperi a esporsi e a mettersi a rischio nelle loro scelte, nella loro pertinenza, nelle questioni che privilegiano, in quelle che trascurano. Quel che ho appena descritto può sembrare molto idealistico, poiché equivale a esigere da coloro che pretendono di sapere che accettino tanto più doveri, tanto più obblighi di lucidità e di messa a rischio quanto più il loro sapere pretende di essere a lunga portata, pretende di aver titolo a partecipare alla costruzione del futuro comune. E ciò equivale a esigere che i poteri - almeno quelli che si presentano come autorizzati dalla democrazia favoriscano l'invenzione di dispositivi suscettibili di aiutare i cittadini interessati a diventare capaci di complicare il proprio esercizio. Ma affermo che, se si tratta davvero di una utopia nel senso che essa non si compirà spontaneamente, non è una utopia «falsa» nel senso che essa richiederebbe che gli esseri umani si trasformino, diventino «angeli» disinteressati e altruisti. È qui che l'esempio delle scienze è prezioso: se gli scienziati sono vivi e inventivi, e ncUa misma in cui lo sono, è perché sono letteralmente obbligati dal dispositivo al quale appartengono, la rete di laboratori, dei colleghi, la necessità per ciascuno di non accontentarsi di aver ragione da solo ma di inventare i mezzi che gli permetteranno di incontrare le ragioni degli altri. Lo scienziato in quanto individuo dotato di opinioni personuli non ho francamente nient.e di notevole. 11 suo sapere non hn niente a che vedere con l'apertura genernlc e nngdicu nll'nlu·o, c.·on la ricerca intcrsoggct t ivu di ciò che mcl l'crt=bbe d'ru:rntdo al di là delle diff c-rcnie. Se 11011 vi fosse~ co .. i.trc.-tto, non si intercncrcl>bc- uHc J'ugioni dc,i.li nlll'i. Mo dò du: rnntat è- d1c l'ohl>li1tn Jj 11011 limitursi ullc propde i·a,iioni, di dover utiliii,m.· tdi ultl'J,

  • > circu il destino del! 'uomo o al cknmmn c.lclln modcrnit~. Esso pone un prublema politi• co: quello ddln differcnzinzionc frn coloro che. per i cli• sposit ivi che definiscono le loro ~•ttivitìi. sl1no co~trctti nll 'invenzione, e colm·o d,c sono soltimto definiti dlÙla llhert~ di formulut·c un 'opinionc- sen~u m"i dover e:1scre in condizione di c~plidturnc le implku2ioni o le ~onse• ~ucni~. ln 1mmit'l'll in l'Ul li impc11nll, i lcll.inù che s~1:1dt1&,

    I pmn,lblll che up1·e.

    CAPITOLO QUARTO

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    4. Contestazioni

    Il primo senso di una utopia è di rendere attenti a ciò che, essendo abituale, sembra normale ma può invece, nella prospettiva dell'utopia, apparire inaccettabile, contribuendo a separare la nostra «realtà» da ciò che l'utopia dice possibile. Se l'utopia che presento ha un valore qualunque per il lettore, avrà lui stesso pensato a taJi casi, in cui si impone una contestazione di quel che si propone come normale. E in questo caso la messa in convcr• genza che ho tentato fra le esigenze delln razionalità e quelle della democrnzio potrebbe servirgli n modificure ln disLribuzione degH argomenti. Potrebbe incitnrlo u rifiu. tare la mcssu in scena usuale in cui 1n contcstuzione semlm1 sempre doversi riferire ui «vulori » conl ro ln « rnRionc». Potrebbe pcrmcl lcrgli di ritorcere coni rn i polcJ'i l'nrRomcnlo di ruzionnli1~ di mi sono cosl ,-thiot li. Per quunto mi rigunrdn, mi li111i1crò qui n proporre due lipi di postu in ~ioco di questo MCncrc, che ho sccho perché vertono sullu questione delle scienze e prolunl,(nno quin• di dircllamcnlc lu miu nnnlisi. Il primo di questi tipi di postn in gioco verte sullo qucsLionc dcll'insegnnmento delle scienze, vulc udire siu sulla formazione generale del «futuro cittudino» siu sulla formazione dei futuri scienziati. Se il libro che sto per terminare non è inutile, è proprio perché tenta di pensare contro il modo in cui le scienze sono trnsmessc, cioè in cui sono presentate sin all'allievo della scuola secondaria, sia allo studente universitario. Nei due casi, si presume che l'acquisizione di un sapere scientifico faccia la differenza fra l'ignorante e colui che sa, ed è oggetto di valutazione e di prove. Allora l'accento è evidentemente messo sui saperi ben radicati, quelli che nessuno ha i mezzi di mettere in discussione, saperi classici nella scuola secondaria, successi più recenti che saldano una comu-

    LE SCIENZE NELLA CIDÀ

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    nità scientifica e assicurano la sua pratica, all'università. Ma è raro che sia affrontata la questione della pertinenza di questi saperi, del loro carattere selettivo, del carattere raro e limitato delle situazioni in cui sono capaci di «dure prova di sé». Questo genere di questioni, che fo la differenza fra coloro che partecipano alla costruzione dei superi e coloro che sono prcgnti di assistervi du spet tntori impotenti e, se possibile, ammirati, non è, di fotto, materia di «sapere». Tali questioni non fonno porte cU ciò che si trosmcllc esplicitamente, si vnlutn e si discute. Sono in compenso mntcrii, di «snper fnrc», che ~li scicnzinti imparano sul posto, qunndo smettono cli essere studenti sottomessi per diventnre riccrcutori, che devono interessar> che n esse si rif criscono fnnno purtc della c:os1ruzio11c c.lclln nosll'll rcnlt~. Per cui nppniono come inc:011lt·s1nhilmc11tc pertinenti: sono « le buone domnnc.lc» n pnrt ire dnllc qunli è infine diventata possibile unu risposto ni bisogni umnni. Mn ciò con cui i futuri cittadini nvrnnno n che fnrc, ciò rispetto n cui le esigenze della dcmocrniin impongono che essi diventino parte attiva, non hu niente n che vedere con le leggende dorate dclln scicnin fnun. Ciò di cui essi dovrebbero diventare cnpnci di interessarsi è In scienza «cosl come si fa», con i suoi rapporti di forzo, le sue incertezze, le contestazioni molteplici che le sue pretese suscitano, le alleanze fra interessi e poteri che la orientano, le messe in gerarchia delle ,questioni, che squalificano le une e privileginno le altre. E a partire da tutto questo che si costruisce il loro mondo. Parimenti, lo scienziato che im1

    CAPmlLO QUARTO

    «sul posto» la nccessìtà di passare attraverso gli ìnreressi degli altri, di incontrare le loro obiezioni, di crea-

    pant

    re si!Ullionì ìn cui gli interessi rom~ergano. impara solo rr~re .i rb-pettare queste dimensioni cruciali della su.2 .a~::n-i:-à __-\...JC..~ se è questa cosuizione che Jo forza a ~'\"""".....r:a..-e_ "":~; ~ YÌYe rome ciò an:ra,erso cui deYe passare. Pe: q-.xs:0. 1~ qu_a:J.:o esperto o autorità sciem:ili~ è c o s ì ~ Lle tem:azioni del potere che gli propone di rtiwe cb-nanòe. àifficoltà e obiezioni Se un ~-peno designato diroemiot così faciJ:menre di chiedere dove so- :ac., l SDDi. coespetil. ~ 1lOO SCJeDZJBOO ~ per~ le sue a:erd:.e ~ riconoscime mme -«filietessa.-iri-»

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    LE SCIENZE NELLA CTITÀ

    93

    «contro)) la scienza, anche se ne complicano lo sviluppo. Gli scienziati hanno imparato fin d'ora come interessare dei «non scienziati»: quelli che hanno il potere. Sono perfettamente capaci. se vi sono costretti, di imparare come interessare dei cittadini. In compenso. il secondo tipo di posta in gioco che vorrei iTltrodurre de\·e formularsi «contro» la pratica di certe scienze, e più precisamente quelle dette «umane» e «-sociali» che hanno bisogno~ per funzionare: che l 'oggetto del loro studio possa essere definito come e sottomesso». Quando il sociologo. per esempio, definisce quelli che srodia in termini di opinione pubblica, o d'interessi srereoriDari... ou.ando lo -osicol020 òefiuisce le «mom-a.. """ zioni » alle quali gli indiridui obbediscono: essi rivendicano. a prop:io beneficio: 11Tta differen_za che aiierfila il 10::-0 s-:~:--::o sy..zl.2Ìe di scienziari Le loro cp~--~o~i 5cien~~ 6e~ : ::::o -i-:e=es~ pro:es~o--:'.:: le lo:o :::.o~;az:ioni 2. ~.:--==~-e g:.i ~ ~ci da P~~ ?Omio::e è::..-e as~1C7.:=a :a 1oro sedice:::e .:-~eu:.=a 1fr:a :10.::. cie·rn:-~o cor:.ta.!'e. T~ al-~ tenni,,. . ,. "' ,. . . . . ,,,._ ~ ..:2 :::oz:o:-x s-i.essa 01 ""oetI mvone ~n:t1,,-a » pone qm 1 1 • 1 • _J:L m: :;::-=0n~. pe.rcne na 01...sogno cne sia ariermata una di.ife.:-~ stabile fra coloro che definiscono e coloro che vr~ defbi!L E ha quindi bisogno che coloro che si tratta di defL9li=e ~i lascino òef...i!l.ire, cioe non si àefi~iscano es~i ~tt:nL fu bioogno, in aJt..-j U"!1IlL~: che coìoro che 1/J':'"./J p.rl:'Si CO;r.,t: O'~to di S!OOlO Stlm5CarJLO.

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