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UNIVERSITÀ

DI

CATANIA

PUBBLICAZIONI DELLA FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA

Nuova Serie

209

SCIENZA TECNOLOGIA & DIRITTO (ST&D) a cura di

BRUNO MONTANARI

GIUFFRÈ EDITORE - 2006

UNIVERSITÀ

DI

CATANIA

PUBBLICAZIONI DELLA FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA

209

Nuova Serie

SCIENZA TECNOLOGIA & DIRITTO (ST&D) Atti del Convegno Catania, Villa Cerami, 30 maggio 2003 a cura di

BRUNO MONTANARI

GIUFFRÈ EDITORE - 2006

ISBN 88-14-11428-5

Redazione a cura del Dottor Nino Cortese

© Copyright Dott. A. Giuffrè Editore, S.p.A. Milano - 2006

La traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione con qual­ siasi mezzo (compresi i microfilm, i film, le fotocopie), nonché la memo­ rizzazione elettronica, sono riservati per tutti i Paesi. Tipografia «MORI & C. S.p.A.» - 21100 Vakese - Via F. Guicciardini 66

INDICE

Saluto del Rettore Ferdinando Latteri .................................................................

vn

Saluto del Preside Luigi Arcidiacono...................................................................

ix

Presentazione del Convegno .................................................................................

XI

Nino Cortese, Introduzione. Tecnoscienza e rivoluzione culturale......................

1

RELAZIONI Sheila Jasanoff ......................................................................................................

15

Mariachiara Tallacchini .......................................................................................

31

TAVOLA ROTONDA

Nerina Boschiero...................................................................................................

41

Salvatore Amato ...................................................................................................

51

Amedeo Santosuosso..............................................................................................

65

Gustavo Visentini ..................................................................................................

75

Luigi Pannarale.....................................................................................................

83

Roberto Aloisio .....................................................................................................

87

Eligio Resta ...........................................................................................................

95

BRUNO MONTANARI (*)

PRESENTAZIONE DEL CONVEGNO

Ringrazio i colleghi che hanno accettato di partecipare a questo incontro — ed in particolar modo Sheila Jasanoff, perché nei suoi numerosi spostamenti e viaggi ha trovato anche l’occa­ sione e la possibilità di essere oggi qui con noi — tutti i presenti e coloro che dietro le quinte, con la loro preziosa collaborazione, hanno consentito la realizzazione di questo convegno. In questo mio brevissimo intervento introduttivo svolgerò alcune considerazioni di carattere molto generale, cominciando proprio commentando l’acronimo scelto per questo convegno, quanto per il costituendo Dottorato di ricerca. L’acronimo ST&D, stabilisce una intersezione tra tre am­ biti, Scienza, Tecnologia e Diritto che, proprio in quanto inter­ sezione, dà luogo a forme di ragionamento, di tematizzazione, che non si limiteranno a modificare nel tempo, man mano che se ne acquisterà maggiore consapevolezza, alcuni istituti dell’or­ dinamento, adattandone la disciplina da essi codificata ai dati scientifici emergenti e alle produzioni tecnologiche. Questa in­ tersezione inciderà ad un livello più profondo, inciderà, cioè, sul modo in cui l’agire normativo e giurisprudenziale, ivi compreso quello giurisdizionale, ed il sapere ad essi sotteso, si porrà in re­ lazione con il sapere scientifico. Ho sottolineato che non si tratta di un rapporto, ma di una intersezione. Con ciò intendo dire che il sapere e l’agire giuridici non potranno più tenere fuori le que­ stioni promosse dallo statuto epistemologico del sapere scienti­

(*) Ordinario di Filosofia del diritto, Università di Catania e Università Cat­ tolica del Sacro Cuore, Milano.

XII

PRESENTAZIONE

fico attuale e futuro. Questo aspetto riguarda inevitabilmente anche la politica, andando a toccare un livello più profondo di quello al quale siamo abituati a porre la discussione. La novità infatti non riguarda i contenuti normativi emer­ genti dall’attività di selezione politica degli interessi operata dal legislatore. Non riguarda solo questo. Il punto è altrove. Ri­ guarda il rapporto che l’intero complesso dei soggetti, siano essi sociali, siano essi politico-istituzionali, ma tutti dotati di fatto di capacità di negoziazione, e che in questa veste intervengono nella disposizione degli interessi socialmente sensibili e rilevanti, vengono a stabilire con il sapere scientifico, così come esso nella sua versione tecnologica entra nel tessuto della vita. In pochissime battute il discorso è questo: soggetti che prima erano estranei alla negoziazione politica ora vengono, di­ rei di principio, legittimati dagli sviluppi della epistemologia contemporanea; legittimati politicamente. Questo è uno degli aspetti principali che caratterizzano la governance. Credo che su questo terreno si misurerà la tenuta futura del modello democratico, nel confronto con quell’altro modello or­ mai consolidato, appagato dalla sua configurazione procedurale, che finirà per coprire sempre di più istanze efficientistico-tecnologiche. La sfida democratica credo che già adesso non sia più semplicisticamente riducibile ai sistemi elettorali, ma deve riem­ pirsi delle regole che vanno a disciplinare gli effettivi rapporti tra società, potentati economici transnazionali e soggetti decisio­ nali della società civile. In questo confronto tra democrazia for­ male ed effettiva allocazione sociale degli interessi politicamente rilevanti, che è qualcosa di ancora diverso rispetto al vecchio di­ scorso sulla democrazia sostanziale, mi sembra che vi sia davvero qualcosa di nuovo. Ecco, consentitemi anche di dire due parole, ma proprio due, sul nuovo, che è un tema filosoficamente estremamente ricco della dialettica tra sapere, appunto, e novità. Il sapere è quello ricevuto dalla e nella tradizione, digerito, consolidato nei manuali. La novità è un’intuizione che fa fibrillare un sistema provocando la sua capacità di resistenza, che si attua, sia sul

PRESENTAZIONE

XIII

piano della conservazione epistemologica, sia su quello impor­ tantissimo degli interessi economico-professionali connessi. Nella resistenza al nuovo si scontrano due tipi di uomini con i loro atteggiamenti psicologici: il tipo di uomo, esponente della razionalità conservatrice, o conservativa, per il quale tutto è ri­ conducibile a ciò che è già saputo, e ciò che ad esso non sia ri­ conducibile non è scientificamente significativo; e quello della curiosità investigativa che insegue sempre la possibilità della di­ versità. In entrambi gli atteggiamenti vi è ovviamente un peri­ colo, da un lato di voler considerare trasparente il macigno che c’è di fronte, dall’altro quello di scambiare lucciole per lanterne. Ma la vita della scienza tutto sommato è fatta così, non può pre­ scindere dalla testa, dai caratteri, dagli umori, dagli stati d’animo del suo unico protagonista che è l’uomo: cioè noi. Incontrare il nuovo non riesce affatto facile perché il nuovo non si riconosce. Il problema è proprio questo: quand’è che sta­ biliamo che qualcosa è nuovo? Quindi, quali sono gli occhiali con cui guardiamo la realtà? E appunto c’è chi si inforca gli oc­ chiali e chi no. Se ci muoviamo su questa linea c’è un rischio: che la scienza, o le posizioni sui rapporti che si slogano sul cri­ nale tra diritto e scienza, si divida, come si sta dividendo quasi tutto oggi, tra una scienza e un diritto di sinistra e una scienza e un diritto di destra; cioè, quasi che si verifichi una opposizione più di tipo ideologico che non invece di tipo teoretico o gnoseo­ logico. La mia preoccupazione è che non vengano capite le ragioni profonde della modificazione della realtà. E questo dipende, o può dipendere, dal fatto che ci muoviamo su livelli ulteriori ri­ spetto ad un problema fondamentale, che invece credo che esi­ sta ed è di filosofia della scienza o di filosofia tout court. Ecco il nocciolo della situazione: se abbiamo un problema di gestione politica, prima ancora che giuridica, di questa intersezione tra diritto e scienza, poiché aumentano i soggetti legittimati a par­ lare politicamente, quindi che entrano nella negoziazione — per ora solo di fatto, ma diventeranno di principio — allora deve es­ serci necessariamente un motivo, altrimenti si tratterebbe sol­

XIV

PRESENTAZIONE

tanto di un allargamento ideologico. Con la conseguenza che su una posizione ideologica, può esserci lo scontro con una resi­ stenza di tipo conservativo caratterizzata da elementi efficientistico-tecnocratici perché, parliamoci chiaro, più sono i soggetti deputati a scegliere, maggiore è il rischio della non decisione. Possono, quindi, intervenire fenomeni tecnocraticoefficientistici per cui chi ha tra le mani, di fatto, il potere econo­ mico, connesso a quello istituzionale, finisce per decidere; quindi il rischio è altissimo. Il problema filosofico che c’è sotto, e che secondo me fonda la questione, è proprio quello che Silvio Funtowicz in­ tende quando parla di incertezza epistemologica. Credo che que­ sta sia la chiave della questione: la scienza non dice più verità, sebbene provvisorie, come faceva un tempo, ma invece ha per statuto epistemologico l’incertezza. Quindi, secondo me, biso­ gna capire bene in cosa consista questa incertezza, perché un conto è la parola, e un conto è vedere i concetti che si celano dietro a questa parola. L’occasione che consente di rilevare l'incertezza è data dalla tecnologia, perché la tecnologia, il patto tecnologico, mettono in evidenza, proprio con le loro capacità attuali, come la realtà sia molto meno lineare di quanto non eravamo abituati a vederla. La tecnologia mostra, cioè, quanto la realtà sia, come si usa dire, complessa, per cui lo stesso oggetto da investigare è estre­ mamente complesso; complesso in senso tecnico, non compli­ cato. Tutto ciò, però, secondo me, ha un motivo filosoficamente fondante, che non è che abbiamo tralasciato, ma bisognerebbe tornare a un punto abbastanza ovvio nella filosofia, e cioè che la cosa non è l’oggetto: sono due dimensioni diverse. La cosa è estranea, ciò che la scienza conosce è l’oggetto, che, però, non è altro che una rappresentazione fenomenica della cosa prodotta dal soggetto, tra l’altro con intento genera­ lizzante. Il problema della scienza è costruire fenomeni che siano sostenuti da una capacità, diciamo così, di comunicazione tale, per cui gli altri possono dire che « le cose sono davvero così », ma ciò che viene costruito non sono le cose, quanto, piuttosto, la rappresentazione fenomenica della cosa.

PRESENTAZIONE

XV

La tecnologia mostra che non abbiamo più a che fare con fenomeni, perché i fenomeni implicano il nesso di causalità e implicano quindi la possibilità di costruire leggi, il che portava al concetto di ordine. Nel momento in cui la tecnologia mostra che non siamo più in grado di definire fenomeni perché il nesso di causalità non è più determinabile e che addirittura il nesso di causalità lo introduciamo noi, il soggetto diviene colui che stabi­ lisce nessi di causalità, facendo emergere in questa complessità l’elemento della probabilità rispetto a quello, diciamo così, della determinatezza. Abbiamo, cioè, di fronte una realtà non più certa, proprio perché quello che viene enfatizzato non è più la cosa, ma la percezione soggettiva e comunicativamente genera­ lizzante del processo di conoscenza. Abbiamo, quindi, una sog­ gettivazione, non una soggettivizzazione, ma una profonda sog­ gettivazione della conoscenza. Questa, secondo me, è la causa profonda di un nuovo rap­ porto con il momento della conoscenza scientifica, e cioè che la conoscenza scientifica è incerta perché le sue capacità di genera­ lizzazione sono continuamente esposte al rischio della non sicu­ rezza. La scienza costitutivamente non risponde più al paradigma della conoscenza sicura. Se questo è vero, a cascata succede tutto il resto, perché allora non c’è più un esperto, questi vale quanto l’interesse di una comunità di cittadini a non avere le an­ tenne per la telefonia mobile sul proprio palazzo. A questo punto si gioca tutto sulla negoziazione degli interessi e non più sulla disponibilità di una verità saputa. Ne consegue che sul piano del diritto si esaspera l’opposi­ zione tra diritto giurisdizionale dei giudici e diritto del legisla­ tore, come due momenti radicalmente diversi della negoziazione degli interessi. L’esperienza americana, di cui Sheila Jasanoff ci ha offerto una attenta analisi, è il diritto delle liti, che oggi vediamo conti­ nuamente richiamato come diritto della litigiosità, pensando che dal diritto della litigiosità bisogna muovere, perché in fondo quello è l’aspetto concreto e pertanto viene prima del diritto del legislatore.

XVI

PRESENTAZIONE

Io non ho nessuna passione per il diritto del legislatore,

anzi. Credo, però, che la tradizione europea sia una tradizione di diritto della scienza giuridica, cioè di una elaborazione scienti­ fica del diritto da parte dei giuristi, costituita da categorie giuri­ diche che non sono né il legislatore, né immediatamente il giu­ dice della tradizione ottocentesca, e ritengo che questa nuova esigenza di cultura per il giurista debba appartenere all’elabora­ zione culturale della scienza del diritto, proprio attraverso l’in­ tersezione con le altre discipline e le altre forme di culture e di approcci culturali. Se pensiamo al diritto come scienza del diritto, direi che si supera il problema della specializzazione del giudice o della spe­ cializzazione dell’avvocato, poiché sia il giudice che l’avvocato sono giuristi, e, in quanto tali, hanno una capacità di elabora­ zione autonoma delle proprie categorie. Sono d’accordo con Eligio Resta, quando dice che il diritto ha una sua riserva sia di modelli che di tempi, ma naturalmente ciò di cui si deve riempire è tutto l’apporto culturale della cul­ tura delle altre scienze con le quali oggi dobbiamo fare i conti. Non dobbiamo, quindi, copiare le linee americane, che possono sicuramente essere uno stimolo per il ragionamento, per capire quanto sia importante la pratica. Secondo me una via europea va salvata con tutto il « retag­ gio » della nostra cultura. Ecco questo mi sembra il punto: per­ correre una via europea. Ringrazio il dott. Nino Cortese per la cura e l’attenzione con la quale ha rivisto gli atti che qui trovano pubblicazione.

NINO CORTESE (*)

INTRODUZIONE

TECNOSCIENZA E RIVOLUZIONE CULTURALE

La colonizzazione tecnologica del quotidiano che negli ul­ timi decenni, con invisibile perseveranza, ha modificato le istanze esistenziali e i codici relazionali, crea continuamente nuovi paradigmi epistemologici e sociali, imponendo alla politica e al diritto problematiche e approcci assolutamente inediti nella gestione delle nuove situazioni di incertezza scientifico-giuridica. In realtà, la storia della giurisprudenza ricorda un continuo intrecciarsi tra norme del diritto e sapere scientifico in un rap­ porto estremamente complesso. Per secoli la scienza, o meglio, il mito della « neutralità ra­ zionale » del metodo scientifico, ha rappresentato per i giuristi il modello cui ispirarsi, il filo d’Arianna per orientarsi nel labi­ rinto delle inesplicabili vicende umane, per costruire e legitti­ mare decisioni e scelte normative. La « rivoluzione copernicana » moderna, che ha reso il « soggetto » titolare della facoltà investigativa, trasformando il pathema degli antichi in mathema, affermando il modello del metodo sperimentale, come strumento legittimante la corrispon­ denza tra congettura e sostanza, tra ipotesi e legge, ha costruito l’immagine della scienza come una istituzione sociale indipen­ dente, fondata su una epistemologia della oggettività che ne ga­ rantiva la neutralità da qualsivoglia condizionamento esterno (1).(*)

(*) Dottorando di ricerca in Scienza, Tecnologia e Diritto presso l'università di Catania. (1) In tal senso sono paradigmatici i contributi di Weber attorno all’idea della

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INTRODUZIONE

La razionalità universalizzante del metodo scientifico ha rappre­ sentato la chiave di volta della concezione epistemologica mo­ derna, diventando strumento inattaccabile di legittimazione del pensato e del voluto (2). Ciò nonostante, sia giuristi che scienziati hanno avvertito i loro campi d’indagine come sostanzialmente refrattari a conta­ minazioni reciproche (3), e hanno attribuito alle possibili inter­ sezioni dei propri saperi una valenza esclusivamente tecnica (4), considerando ogni interazione tra il diritto e la scienza, o forma di regolazione della scienza, come un’operazione di meccanica recezione, attraverso norme tecniche di conoscenze certe già ac­ certate altrove (5). Tuttavia, i grandi sistemi e apparati logico-grammaticali moderni di dominio dell’ignoto, scardinati dalla scoperta di rea­ zioni sub-fenomeniche caotiche e indeterminate, si sono infranti, sgretolandosi all’impatto con la relatività e l’incertezza. Anche le speculazioni filosofiche più recenti insistono criti­ camente sul carattere non neutrale e tutt’altro che avalutativo

avalutatività della scienza. Cfr. M. Weber, II metodo delle scienze storico-sociali, trad, it. a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino; cfr. anche V. Villa, Teorie della scienza giuridica e teorie delle scienze naturali, Giuffrè, Milano, 1984, cap. I. (2) Anche se, in realtà, come rileva Bobbio, la creazione moderna di un sa­ pere giuridico superiore, ideale, modellato sugli schemi metodologici delle scienze vere, ha portato piuttosto alla costruzione di una scienza del diritto diversa dalla giu­ risprudenza, operando una « duplicazione del sapere nella sfera dell’esperienza giuri­ dica » (N. Bobbio nel saggio, Scienza giuridica, in Contributi ad un dizionario giuridico, Giappichelli, Torino, 1994, p. 337). (3) In tal senso è emblematica la riflessione di Kelsen e il suo tentativo di co­ struire una teoria « pura » del diritto, che scevra da ogni condizionamento politico, sociologico o scientifico avesse il suo unico oggetto nel diritto positivo. Cfr. H. Kel­ sen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 1952; cfr. anche B. Ce­ lano, La teoria del diritto di Hans Kelsen, 11 Mulino, Bologna, 1999. (4) Cfr. M. Tallacchini, Scienza e diritto. Verso una nuova disciplina, prefa­ zione a S. Jasanoff, La scienza davanti ai giudici, Giuffrè, Milano, 2001. (5) D’altronde, sino alle soglie degli anni settanta e comunque all’esplosione della questione ambientale, che certamente ha contribuito a ridisegnare i rapporti tra la scienza e il diritto, le norme a contenuto scientifico erano poche e non erano an­ cora emerse situazioni che consentissero dubbi di sorta sulla certezza e neutralità della scienza. Sul punto cfr. M. Tallacchini, Diritto per la natura, ecologia e filosofia del di­ ritto, Giappichelli, Torino, 1996.

NINO CORTESE

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della conoscenza, o meglio dell’indagine scientifica, segnando il crollo definitivo del mito scientista moderno (6). Il continuo emergere di situazioni in cui la scienza si è di­ mostrata incapace di governare i rischi creati dall’utilizzo quoti­ diano delle tecnologie ha travolto la fiducia tradizionale nella neutralità del sapere scientifico e nella filantropia del suo corso, aprendo nuovi scenari politico-filosofici sui quali si vanno arti­ colando dibattiti etici, sociali ed inevitabilmente giuridici, sem­ pre meno ingenui. Ormai la scienza e il diritto non possono più prescindere da una reciproca osmosi in un rapporto complesso, nel quale la scienza fonda e accredita le decisioni giurisprudenziali e le scelte normative, come queste, d’altra parte, certificano e definiscono il sapere scientifico valido, ossia capace di produrre effetti giuri­ dici (7). Sheila Jasanoff (8), occupandosi delle intersezioni tra scienza e diritto nella società americana contemporanea attra­ verso un percorso concreto di sociologia della giurisprudenza, con le ovvie peculiarità legate alla litigiosità esasperata della so­ cietà americana, mostra come il coniugarsi di diritto e scienza oltre a fondare vicendevolmente il sapere scientifico e sociale, influenza da vicino il rapporto tra gli utenti e i prodotti della tecnologia. In realtà, come hanno messo i lavori degli S&TS (Science

(6) Basti pensare alle riflessioni di Khun o di Feyerabend, che, a partire dai primi anni settanta, stravolsero la fiducia pressoché assoluta nel « dato di osserva­ zione » e nella illimitata capacità conoscitiva della Scienza, mettendo in luce come an­ che i paradigmi di questa cambiano e, di conseguenza, i metodi conoscitivi possono essere solo contingenti, provvisori, relativi. Cfr. T. Khun, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1969; P. Feyerabend, Dialogo sul metodo, Laterza, Bari, 1989. Così anche R. Coombe, che non a caso cercherà nuovi modelli per comprendere la politica interpretativa del diritto nel movimento giusletterario americano, osserva che « i modelli scientifici stessi erano interpretazioni parziali, basate sulle prospettive e le convenzioni disciplinari degli osservatori scientifici ». In G. Minda, Teorie postmo­ derne del diritto, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 136. Per un panorama cfr. inoltre A. Gargani, Il sapere senza fondamento, Einaudi, Torino, 1977. (7) Cfr. M. Tallacchini, Scienza e diritto. Verso una nuova disciplina, cit. (8) S. Jasanoff, La scienza davanti ai giudici, cit.

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INTRODUZIONE

and Technology Studies) (9), lo sconvolgimento dei paradigmi epistemologici dell’oggettività scientifica si è profondamente ri­ percosso sul rapporto tra la scienza e la società, ed in particolare sulle pratiche di accreditamento del sapere scientifico. Il nuovo assetto dei rapporti tra la scienza e il diritto è sfociato in forme di vera e propria co-produzione (10) della validità dei rispettivi saperi. La scienza e il diritto non possono più essere avvertite come due entità separate, ma piuttosto come due istituzioni di­ namiche profondamente interconnesse che, nel gioco delle reci­ proche intersezioni, contribuiscono a strutturare un ordine allo stesso tempo epistemico e sociale. A fronte di un ruolo sempre più « policy-related » (11) della scienza, sembra, infatti, imporsi l’esigenza che all’interno delle procedure di formazione delle scelte normative che coinvolgono questioni scientifiche partecipino oltre ai comitati di esperti, an­ che i cittadini (12). A fronte dell'emergere magmatico dei rischi in qualche modo prodotti, e non del tutto governati, dal progresso scienti­ fico, come più in generale per ogni forma di indeterminatezza delle conoscenze scientifiche, si sta assistendo ad una crescente attenzione da parte dei cittadini, che a volte non stenta a sfociare in forme di vero e proprio allarmismo sociale. La gente è più sofisticata, ed ha ragione Giuseppe Longo quando avverte che: « la tecnologia non è un fenomeno superfi-

(9) Si tratta di una serie di studi interdisciplinari di ampio respiro che hanno preso avvio sul finire degli anni ottanta in America, spaziando dalla filosofia della scienza alla sociologia, dall’antropologia al diritto, riflettendo criticamente sull’impatto sociale della tecnologia e dei suoi rischi. Cfr S. Jasanoff, G. Markle, J. Petersen, T. Pinch, Handbook of Science and Technology Studies, Sage Publications, 2002. (10) Cfr. S. Jasanoff, La scienza davanti ai giudici, cit. (11) L’espressione è di Funtowicz. Cfr. S. Funtowicz, I. Sherpherd, D. Wilkinson, J. Ravetz, Science and Governance in the European Union: a contribution to the debate, http://governance.jrc.it/jrc-docs/spp.pdf. (12) Cfr. N. Lebessis, J. Paterson, Recent developments in institutional and administrative reform, http://europa.eu.int/comm/cdp/cahiers/resume/ gouvernance_en.pdf.

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ciale: al contrario si cala in profondità e modifica l’essenza della società e degli individui che ne fanno parte » (13). Benché la modernità e la sua razionalità abbiano atomiz­ zato la vita collettiva dell’uomo, consegnandolo per molti versi alla gelida solitudine dell’autoreferenzialità della monade, il ti­ more di essere inconsapevolmente sottoposti ai rischi invisibili dell’utilizzo della tecnologia sta creando nuove forme di vita so­ ciale. Sempre più spesso si vanno registrando preoccupazioni pseudo-ecologiste che, più che tentare di garantire il diritto al­ l’ambiente, inscenano egoistiche ansie di tutela del « proprio » ambiente, secondo il tipico atteggiamento della sindrome Non nel mio giardino, particolarmente nota nei paesi di lingua inglese come NIMBY (Not In My BackYard) (14). L’assunto di fondo è che nessuna scelta di valore di rile­ vanza sociale può essere rimessa alla sola scienza, ma che si deb­ bono individuare delle vie di controllo pubblico delle cono­ scenze scientifiche e del loro accreditamento, per costruire la “fiducia” sociale attraverso percorsi partecipativi (15). A livello comunitario è vivissimo, infatti, un dibattito etico­ culturale che insiste sui modelli sottesi alle dinamiche di politica normativa, proponendo nuovi paradigmi di epistemologia civica, attraverso forme di interazione tra scienza e diritto dal conio inedito, tentando di fondare la democraticità delle scelte me­ diante nuove pratiche di partecipazione dei cittadini ai procedi­ menti di formazione delle regole (16).

(13) Longo ha affermato che il modello antropologico della nostra era è l’homo tecnologicus: « non “homo sapiens più tecnologia”, bensì “homo sapiens tra­ sformato dalla tecnologia”, dunque un’unità evolutiva nuova, sottoposta ad un nuovo tipo di evoluzione in un ambiente evolutivo nuovo ». G. Longo, Tecnoscienza e globa­ lizzazione, in « Nuova civiltà delle macchine », 2, 2001 p. 72. (14) Cfr. A. Malocchi, Non nel mio giardino, Cuen, Napoli, 1998. (15) Cfr. Working Group lb, Report « Democratising Expertise and Esta­ blishing Scientific Reference Systems », Pilot: R. Gerold, Rapporteur: A. Liberatore, May 2001, http://europa.eu.int/comm/governance/areas/group2/report_en.pdf. (16) Cfr. M. Tallacchini, Scientific evidence and environmental rule making: the co-production of science and law, cit., p. 4.

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INTRODUZIONE

Nelle riflessioni teoriche più attente è particolarmente av­ vertita l’esigenza che le scelte di valore, di governo dell’incer­ tezza scientifica e di politica dei rischi, spettino ai cittadini e debbano emergere dallo strutturarsi delle esigenze di tutela al­ l’interno di nuovi spazi collettivi di dialogo. La crescente richiesta di una regolamentazione giuridica della scienza e delle nuove prospettive adombrate dal dibattito biotecnologico ed ambientale si inscrive, pertanto, in un più profondo cambiamento etico-culturale che investe le fondamenta dell’assetto politico-istituzionale del nostro ordinamento. Le risposte normative alle questioni giuridico-ambientali poste dalla pressione sociale dei nuovi rischi si muovono sulla soglia di quella che Funtowicz ha definito « post-normal scien­ ce » (17), ovvero la tipica situazione in cui: « facts are uncertain, values in dispute, stakes high, and decisions urgent » (18). L’ordinamento comunitario, nel tentativo di governare l’in­ certezza scientifica ha utilizzato da tempo il c.d. principio di pre­ cauzione che, sebbene concepito originariamente come stru­ mento di tutela eminentemente ambientale (19), è venuto assu­ mendo sempre maggiore rilevanza come strumento generale di tutela da qualsivoglia rischio di difficile valutazione. Tale principio, infatti, è innegabilmente dotato di grande (17) Cfr. 8.0. Funtowicz, Post-Normal Science. Science and Governance under Conditions of Complexity, in M. Tallacchini, R. Doubleday (a cura di), Politica della scienza e diritto: il rapporto tra istituzioni, esperti e pubblico nelle biotecnologie, in « Politela », 2001, 62, pp. 77-85. (18) Cfr. 8.0. Funtowicz, J. Martinez-Alier, G. Minda, J.R. Ravetz, Informa­ tion tools for environmental policy under conditions of complexity, European Environ­ mental Agency: Environmental issues series No 9, European Communities, Luxem­ bourg 1999, http://reports.eea.eu.int/ISSUE09/en/envissue09.pdf p. 8; perciò come avvertono gli stessi Autori poco oltre: « All too often, we must make hard policy de­ cisions where our only scientific inputs are irremediably soft ». (19) « In order to protect the environment, the precautionary approach shall be widely applied by States according to their capabilities. Where there are threats of serious or irreversible damage, lack of full scientific certainty shall not be used as a reason for postponing cost-effective measures to prevent environmental degrada­ tion », Dichiarazione di Rio, Principio 15; Cfr. Anche H. Belzève, Il principio di pre­ cauzione, orientamenti e riflessioni della commissione europea per l’interpretazione el’applicazione di questo principio, in « Ambiente risorse salute », 71, 2000, p. 29 ss.

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elasticità, mostrandosi idoneo ad apprestare forme di tutela tem­ pestive (20) ed efficaci, specie in via cautelare, capaci di seguire da vicino l’evolversi delle conoscenze scientifiche senza cristalliz­ zarle in, meno agili, norme generali ed astratte. In effetti, però, come sottolinea Eugenio Picozza; « la stra­ tegia d’emergenza ambientale non appare più una deroga ecce­ zionale e giustificata dalle fonti del diritto ordinario, ma una vera propria alternativa al modo ordinario di formazione delle regole, cioè le fonti del diritto » (21). Sempre più spesso, infatti, il legislatore nazionale ricorre a nuove tecniche legislative e di formazione delle norme, che si in­ spirano alla legislazione di principio, fissando obiettivi e norme di dettaglio sottoposte a procedimenti periodici di controllo e revisione, in linea con il principio di dinamicità. Tuttavia, l’elaborazione di nuovi modelli politico-legislativi di regolazione dall’incertezza scientifica, o meglio di governance, per utilizzare l’intraducibile termine di conio comunitario, scar­ dinando e ridisegnando le competenze e i ruoli dei poteri dello Stato, finisce inevitabilmente per investire la tenuta dell’ordina­ mento giuridico nella sua interezza. Inoltre, l’emergere di nuovi spazi collettivi di dialogo — per lo più virtuali o, più genericamente, telematici — sta po­ nendo tutta una serie di problemi di informazione e di comuni­ cazione sociale dei rischi e delle scelte normative di regolamen­ tazione della scienza, che esulano dalla concezione tradizionale dei rapporti delle istituzioni con i cittadini e dei loro ruoli. Il radicale cambiamento dei paradigmi epistemologici con cui il nostro ordinamento aveva tradizionalmente gestito i rap­ porti tra la scienza, il diritto e le istanze sociali, ridistribuisce, in (20) La maggior parte delle scelte normative in materia ambientale sono, in­ fatti, caratterizzate dall’urgenza di rispettare una precisa temporalità ecologica che non ammette lungaggini o dilazioni. Cfr. M. Tallacchini, 'Diritto per la natura, ecolo­ gia e filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 1996, p. 264. (21) Eugenio Ficozza, Relazione per gli atti convegno Firenze 14/15 dicem­ bre 2001 sul tema Scientific and Technical Evidence in Enviromental Rule-Making. Conclusioni generali parte prima. Tecnica e politica: trasformazioni della sovranità e tu­ tela dei diritti, pubblicata su internet nel sito www.olea.unifi.it/relaz.htm.

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INTRODUZIONE

maniera non troppo consapevole, ruoli e competenze di quelli che erano stati i principali attori istituzionali delle dinamiche di costruzione delle diverse forme di tutela dei diritti. Tuttavia, i tempi della politica e delle dinamiche di forma­ zione delle norme non coincidono con i tempi della ricerca scientifica, e ancor meno con i tempi delle istanze sociali di go­ verno dei rischi. Come osserva efficacemente Amedeo Santosuosso (22), la necessità di reagire rapidamente all’impatto dell’incertezza scien­ tifica ha portato alla creazione di una sorta di diritto giurispru­ denziale, che, ragionando per principi, ha tentato di superare i vuoti normativi, utilizzando modelli di riduzione della comples­ sità tipici del sistema anglo-americano in cui sono le Corti ad as­ sorbire l’impatto sociale delle questioni più delicate. I nostri Tribunali si sono trovati, infatti, a fronteggiare una situazione di emergenza, in cui il problema era non solo, o non tanto, il riuscire a trovare una parvenza di norma su cui ancorare le proprie decisioni, quanto il gestire da soli, trovando principi, regole e linee guida, un momento di totale stravolgimento della percezione delle garanzie e delle aspettative di tutela da parte dei cittadini. Nella gestione dell’impatto sociale dell ’incertezza scientifica, si è, così, assistito ad un proliferare di decisioni giurisprudenziali che, pur dopo qualche riluttanza iniziale, hanno tentato di of­ frire il bandolo per dipanare la matassa di nozioni medico — sa­ nitarie ed interessi economico — sociali, che, come in una giun­ gla fitta di liane, s’intrecciano con gasse inesplicabili. La società americana, come avverte Sheila Jasanoff, ha svi­ luppato una precisa propensione a risolvere i conflitti sociali e le controversie politiche attraverso il diritto, o meglio il sistema giudiziario, incaricando le corti anziché il sistema legislativo, di

(22) Cfr., oltre alla relazione contenuta nel presente volume, A. Santosuosso, Giudici senza leggi: rimedio o nuova prospettiva?, in « Politela », 65, 2002.

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fornire le regole decidendo le controversie affioranti dal contin­ gente (23). In Europa i sistemi giuridici che dopo la prima codifica­ zione francese avevano affidato esclusivamente alla legge il com­ pito di distinguere il lecito dall’illecito, di regolare le condotte e comporre i conflitti, scompaginati dall’incertezza, che mina la tradizionale fiducia nella ricerca della verità, stanno attraver­ sando una profonda impasse. Sia in Francia che in Germania la giurisprudenza ha comin­ ciato, però a reagire alla paralisi normativa che affligge la mag­ gior parte delle questioni riguardanti la regolamentazione della ricerca scientifica, biotecnologica o ambientale, iniziando a co­ struire un sistema di tutele, specialmente del diritto alla salute dagli echi indubbiamente transnazionali (24). La giurisprudenza francese, malgrado una produzione nor­ mativa copiosa, si è trovata spesso a dover fronteggiare l’impatto sociale di questioni estremamente delicate che coinvolgevano il dibattito bioetico, e ha mostrato, come per la nota vicenda del sangue infetto da HIV, di saper consapevolmente innescare, at­ traverso il processo, il dibattito politico-sociale, portando all’at­ tenzione pubblica tematiche che i politici avevano preferito ta­ cere (25). Anche in Germania è avvenuto qualcosa di simile. Qui, in­ fatti, le Corti si sono trovate ad affrontare una serie di questioni ancora sguarnite di una specifica disciplina normativa a dispetto di un vivissimo dibattito sociale e, come nel caso delle vicende

(23) S. Jasanoff, La scienza davanti ai giudici, cit., p. 15. Cfr. anche M. GeiScientific uncertainty and causation in tort law, in « Vanderbilt Law Review », 54, 2001, pp. 1015 ss.; C. Baron, Regulating Bioethics with judge-made law: the Ame­ rican experience, in « Politeia », 65, 2002, pp. 32 ss. (24) Come nota Santosuosso, infatti, sempre più spesso le motivazioni dei giudici cominciano a tenere conto anche esplicitamente dei precedenti e dei percorsi argomentativi segnati delle Corti di altri Stati tanto da poter parlare di una sorta di « diritto giurisprudenziale universale » che superando barriere geografiche e linguisti­ che stia definendo un nuovo ordine concettuale. Cfr. A. Santosuosso, op. cit. (25) Cfr. C. Byk, Do judges make (a better) law? The Trench experience, in « Politeia », 65, 2002, pp. 40 ss. stfeld,

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riguardanti la protezione dell’embrione umano, le decisioni giu­ diziali hanno costituito il punto di riferimento per i successivi interventi legislativi (26). Tuttavia, a differenza dei giudici della High Court degli Stati Uniti, che nel celebre caso Daubert v. Merrell Dow Phar­ maceuticals, ampiamente commentato nella relazione di Sheila Jasanoff, pubblicata in questo stesso volume, hanno mostrato di avere una profonda consapevolezza epistemologica dei para­ digmi di ragionamento utilizzati per l’ammissione e la valuta­ zione delle prove scientifiche, i giudici europei sono ancora lon­ tani dalla costruzione di percorsi argomentativi e livelli di ragio­ namento capaci di muoversi oltre il limite della puntistica solu­ zione del caso contingente. La Suprema Corte americana nel caso Doubert ha, infatti, affermato il prevalere dell’epistemologia dei giudici sulle contra­ stanti posizioni degli scienziati, superando il principio per cui il giudice, nel valutare la validità scientifica dei diversi enunciati, debba basarsi sul riconoscimento generale o sulla peer review, consentendogli invece di avvalersi della consulenza di esperti che, benché non riconosciuti dalla comunità scientifica ufficiale, siano tuttavia capaci di asseverare le proprie tesi secondo strut­ ture metodologiche tipicamente scientifiche. Nelle questioni cioè che implicano valutazioni scientifiche complesse i giudici pur dovendosi affidare alle expertise si conservano, comunque, il potere, tutt’altro che di poco conto, di stabilire quale sia la scienza valida e chi siano gli « scienziati ». Anche i nostri giudici hanno tentato di fare qualcosa di simile, cercando di motivare quale scienza debba avere ingresso nel processo. Tuttavia, a differenza dei giudici americani che si muovono con decisione, o meglio con consapevolezza, in un ambito pur sempre epistemologico, con precise implicazioni teorico-filosofiche dalla matrice tipicamente costruttivista, districandosi abil­ mente tra modelli filosofico-scientifici come la « falsificabilità »

(26) Cfr. J. Simon, Scientific process, judge-made law and procedural law, in « Politela », 65, 2002, pp. 44 ss.

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popperiana e dottrine sociologiche come la « generale accetta­ zione », i nostri giudici confondono valutazioni etiche e tentativi deboli di elaborare criteri per la valutazione degli studi scienti­ fici, e per quanto vogliano tentare di svolgere il ruolo di gatekee­ per della scienza in causa non riescono ad isolare un metodo o un principio che funga da crinale. In realtà, l’ingresso della scienza in giudizio e la libera va­ lutazione delle prove scientifiche aprono una serie di questioni estremamente delicate, acuite, peraltro, dalla considerazione che il processo è un rito complesso che assolve anche una impor­ tante funzione sociale, consentendo alla comunità di riconoscersi nei percorsi argomentativi del giudice tanto da trarne indicazioni precise per la propria condotta. Diventa così indispensabile cominciare a chiedersi in che misura saremo (o siamo già) cittadini di una nuova repubblica della scienza, e che tipo di democrazia sarà possibile pensare in un simile contesto, riflettendo attentamente sul modo in cui il diritto e le nuove forme di governance costruiscono, o demoli­ scono, l’autorità e la credibilità della scienza e delle decisioni fondate su argomentazioni scientifiche. Diventa insomma indispensabile studiare i rapporti tra la scienza e il diritto, riflettendo sui modelli di ragionamento e le tecniche procedurali che rendono possibile operare delle scelte in ordine alle questioni tecnico-scientifiche che colonizzano la sfera esistenziale di ognuno di noi e che sempre più sono alla base delle trasformazioni sociali e politiche. Bisognerà cercare di capire che tipo di strumenti di tutela siano configurabili all’interno del nostro sistema istituzionale per gestire il potere della scienza e l’arbitrio del diritto, cominciando a pensare ad un sistema di garanzie per i rischi legati al potere che il sapere scientifico esercita su sempre più larga parte delle scelte di governo, ad esempio, attraverso i sempre più diffusi or­ gani di consulenza tecnica o le commissioni di esperti.

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Il diritto e la scienza sono straordinari creatori di fiducia, poiché ci si aspetta che le loro rispettive scoperte siano impar­ ziali, disinteressate ed oggettive. In realtà, il diritto e la scienza sono le due istituzioni, relativamente a-politiche, che costitui­ scono le fonti principali da cui deriva l’autorità dei governi mo­ derni. Tant’è che insieme, secondo un approccio consolidatosi nel tempo, hanno contribuito, in maniera diversa, a garantire la legittimità delle decisioni pubbliche e di conseguenza lo stesso ordine sociale; per cui se le loro interazioni sono governate da principi erronei, anche il loro potere di controllare l’arbitrarietà della politica si indebolisce gravemente. Tuttavia, a partire dagli anni novanta, negli Stati Uniti, si è assistito ad un marcato aumento delle controversie che, in qual­ che modo, ponevano in conflitto i rapporti tra queste due istitu­ zioni. Nel 1993, nel caso Daubert v. Merrell Dow Pharmaceuti­ cals, Inc., la Corte Suprema affermò per la prima volta il potere discrezionale dei giudici di esaminare e di valutare le prove di natura scientifica. Due altre decisioni la seguirono rapidamente più o meno nella stessa direzione: General Electric Co. v. Joiner fissando standard per la revisione delle decisioni di ammissibi­ lità; e Kumho TireCo. v. Carmichae sullo standard di ammissibi­ lità delle prove di natura tecnica non-scientifica. Sono persuasa che questa trilogia di decisioni basate sulla prova scientifica, immensamente rilevante per i meccanismi della democrazia americana, potrebbe avere un impatto di grandis­ sima risonanza anche sul resto del mondo, sol che si consideri(*)

(*) Pforzheimer Professor of Science and Tecnology Studies, John E Ken­ nedy School of Government and School of Public Health.

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che sempre più spesso la produzione di sapere e di fiducia se­ gue approcci globalizzati. D’altra parte, le stesse norme sulla va­ lutazione delle prove sono sempre più interconnesse con que­ stioni di alta politica internazionale. Due esempi estremamente significativi di questa commistione sono stati, solo nel 2003, la lunga disputa che ha coinvolto gli Stati Uniti e l’Europa ri­ guardo ai cibi geneticamente modificati, e le argomentazioni uti­ lizzate dal Segretario di Stato Colin Powell per dimostrare al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il possesso da parte dell’Iraq di armi di distruzione di massa. Entrambi gli episodi, appena richiamati, sembravano dare per scontato che esistes­ sero, o possibilmente che dovrebbero esistere, norme global­ mente condivise per la valutazione di prove tecniche anche in contesti extra-legali. Alla luce di questi esempi, studiare le rela­ zioni tra la legge e la scienza, ovvero cercare gli strumenti per superare positivamente i loro attriti, diventa indispensabile per costruire correttamente qualsivoglia tentativo di mantenere l’or­ dine globale. Dieci anni dopo il caso Daubert, ritengo che sia necessario riflettere sistematicamente sull’impatto di questa decisione, e di quelle che ne sono seguite, sulle relazioni fra il diritto e la scienza non soltanto in America. Il caso Daubert v. Merrell Dow fu una pietra miliare per varie ragioni, alcune programmate, al­ tre meno. Come già detto, fu il primo caso in cui la Corte Su­ prema stabilì l’ammissibilità delle prove scientifiche nei procedi­ menti federali, chiarendo quale fosse la regola applicabile e su­ perando i c.d. test Frye, adottati settant’anni prima dalla Corte d’appello di Washington D.C. Soltanto ciò sarebbe stato già suf­ ficiente ad assicurare al caso Daubert lo status di pietra miliare, ma la decisione fece molto di più. Tanto per cominciare, la sentenza in esame non rappre­ sentò solamente l’elaborazione di un nuovo standard legale di ammissibilità delle prove scientifiche, ma qualcosa di potenzial­ mente più radicale: il cambiamento della visione tradizionale del ruolo svolto nel processo dagli esperti di parte, come della altret­ tanto abituale deferenza giudiziaria verso la funzione di fact-fin­ ding svolta dalle giurie.

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Sotto il profilo procedurale la sentenza della Suprema Corte pose le basi per un nuovo tipo di udienza preliminare, nel quale il giudice potrebbe accogliere l’eventuale istanza di parte (tipicamente del convenuto) per rigettare la prova scientifica o tecnica offerta dalla controparte. La Corte affermò che la valu­ tazione dell’ammissibilità delle prove scientifiche da parte del giudice all’udienza preliminare dovrebbe avere il ruolo di filtro per espungere dal processo, e quindi dalla cognizione delle giu­ rie, qualsiasi prova che non abbia superato alcuni test di rile­ vanza e di affidabilità. In breve, i giudici, nella costruzione operata dalla Corte Suprema nel caso Daubert, hanno il ruolo di gate-keeper, salva­ guardando la corte contro quello che alcuni osservatori vede­ vano come un incontrollato assalto di « scienza-spazzatura ». Questa riforma procedurale maschera, però, uno sposta­ mento intellettuale più profondo, poiché la decisione in esame cercava, in effetti, di riposizionare il fondamento epistemologico dell’ammissibilità delle prove scientifiche, chiedendo ai giudici di « pensare come scienziati ». Il ruolo dei giudici, secondo que­ sta interpretazione, sarebbe quello di assicurare che anche la scienza in giudizio venga valutata con gli stessi parametri utiliz­ zati dagli scienziati nei loro laboratori. La decisione della Suprema Corte ha scosso profonda­ mente l’equilibrio tra il ruolo dei giudici e quello delle giurie popolari previste dalla Costituzione nella valutazione delle prove scientifiche ed ha, in qualche modo, riscritto le regole di base per far fronte all’incertezza o all’insufficienza delle prove. Il ten­ tativo costituito dal caso Daubert, di rendere la pratica giuridica maggiormente scientifica è parte di un vero e proprio sconvolgi­ mento tellurico del pensiero legale e politico americano, che ha l’obiettivo il « modernizzare » i processi di decisione legale, ren­ dendoli più efficienti, standardizzati e prevedibili. Bisogna però chiedersi se una riforma legale dagli echi pro­ fondi, come quella operata dal caso Daubert, sia in grado di bi­ lanciare in maniera appropriata i diritti e gli interessi del singolo in relazione al bene dell’intera società. 2

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Il caso Daubert e le sentenze successive hanno aperto il di­ battito sui principi e sulle procedure attraverso le quali il diritto e la scienza dovrebbero regolare i rapporti interrelazionali tra le diverse parti in causa, alla ricerca di un nuovo contenitore legale per i problemi che sorgono dalle intersezioni tra scienza, tecno­ logia e società. Infatti, sono proposti diversi Appelli al fine di estendere i criteri del caso Daubert anche ad altre forme di prova non propriamente scientifiche, ed in realtà, entro certi limiti, questa forma di estensione è già avvenuta. A testimonianza di ciò la Corte Suprema, nel caso Kumbo v. Carmichael, si è con­ formata agli standard individuati dal caso Daubert per l’ammis­ sibilità della consulenza non-scientifica. Nel contempo, è stato spesso proposto di estenderne l’ap­ plicazione dei nuovi criteri introdotti dal caso Daubert anche alla normativa utilizzata nei processi di decisione ambientali. In am­ bito internazionale, gli Stati Uniti, per risolvere questioni come la valutazione dei cibi geneticamente modificati, si sono appel­ lati a processi di decisione « science based », oltrepassando gli approcci precauzionali europei. L’espressione « science based », in queste occasioni, è stata interpretata come conforme a criteri simili a quelli di Daubert. Quanto esposto è il sintomo di un profondo disincanto verso la capacità della legge di risolvere le molteplici dispute tecniche della modernità. Il dibattito giuridico-politico innescato dal caso Daubert indica il crescente bisogno di riconsiderare i rapporti tra scienza e diritto, poiché articolazioni non corrette contribuirebbero a minare l’integrità non solo dei procedimenti legali, ma, più in generale, gli stessi processi di politica democratica. Come supe­ rare questo ostacolo? Chiaramente, dobbiamo iniziare col ca­ pire, in maniera informata, come queste due istituzioni operino nella pratica. I tradizionali racconti idealizzati dei rapporti tra la scienza e il diritto, come due campi del sapere radicalmente se­ parati costituiscono fondamenta incerte per qualsivoglia analisi. Io sostengo che la trilogia di decisioni giurisprudenziali succedutesi riguardo l’ammissibilità delle prove ha male inter­

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pretato, sia la natura della pratica scientifica, che i suoi legami con la ricerca legale del fatto, per soddisfare il bisogno istituzio­ nale del diritto di poter contare sulla « copertura » di una scienza autonoma e autorevole. Queste decisioni hanno alimen­ tato un modello che presuppone un confine definito tra la scienza e il diritto. Tuttavia, però, la « scienza » che ha permesso alla Suprema Corte di fondare le sue decisioni è stata « creata » dai pregiudizi e delle concezioni erronee che il diritto ha della ricerca scientifica. Contestando il modello epistemologico della scienza for­ nito dal caso Daubert, comincio con l’osservare che il diritto e la scienza condividono numerose peculiarità, la cui chiave si trova nella capacità di produrre conoscenza affidabile. La ricerca del fatto in queste due istituzioni ha funzioni e connotazioni comun­ que diverse: il diritto persegue la conoscenza, come un sorta di strumento, per ottenere giustizia nella fattispecie contingente og­ getto di un determinato processo; al contrario, la scienza ricerca verità che sono, per quanto possibile, separabili dal loro conte­ sto di produzione. Questa differenza radicale non è stata tenuta sufficientemente in considerazione dai giudici della Suprema Corte nel caso Daubert, né, d’altra parte, adeguatamente riconosciuta da­ gli altri più recenti sforzi per migliorare i rapporti tra il diritto e la scienza. Ritengo, infatti, che si pongano problemi intellettuali e pra­ tici non indifferenti dando ai giudici la funzione di gatekeepers (largamente incontrollabili) per l’ammissione delle prove scienti­ fiche. In conclusione, ritengo che sia assolutamente necessario ri­ considerare il modo in cui la Suprema Corte, a partire dal caso Daubert, ha ritenuto di poter entrare in trattative con la scienza. La vera questione, a mio avviso, non è il modo in cui i giudici possano ottenere giustizia attraverso la scienza; piuttosto la preoccupazione maggiore dovrebbe essere quella di elaborare modelli attraverso i quali le corti possano meglio rendere giusti­ zia sotto condizioni di « incertezza scientifica ».

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Il diritto e la scienza sono state tradizionalmente descritte come « culture in contrasto », l’una naturalmente volta alla so­ luzione definitiva delle controversie, l’altra, al contrario, impe­ gnata in un continuo, aperto percorso di ricerca della verità. Il diritto, secondo il senso comune, cade in errore quando subor­ dina la scienza e il processo scientifico alla propria etica incon­ trollata del « vincere a tutti i costi ». Questa diagnosi porta con sé una prescrizione implicita: l’unico modo per preservare l’in­ tegrità della scienza, da questo punto di vista, è di costruirla come uno spazio essenzialmente delegalizzato, dove la scienza possa rimanere libera da influenze distorsive. Questo è ciò che la Suprema Corte cercò di fare nel caso Daubert, ma lo sforzo, si fonda su di un terreno instabile. Gli spazi formali di diritto e scienza — corti e laboratori — sono entrambi auto-proclamatisi deputati alla ricerca della ve­ rità, anche se con, in mente, diverse finalità: il diritto ha bisogno di fatti come strumenti necessari per ottenere giustizia; la scienza cerca i fatti più che altro come un fine in se stesso. Quindi, ali­ mentando il processo di risoluzione delle controversie, la ricerca legale generalmente rimane entro l’ambito di un caso specifico. In ambito scientifico invece, i fatti devono parlare ad un pub­ blico più vasto. I risultati della ricerca scientifica, quando suffi­ cientemente fondati, vengono pubblicati e partecipano così ad un continuo gioco dialettico e di ricerca. Nonostante ciò, « dire il vero » rimane la virtù principale di entrambi i contesti: men­ tire (o spergiurare, nel suo equivalente legale) è tra le cose più gravi che possano accadere in ambedue i campi, minacciando la legittimità pubblica di entrambe le istituzioni. Di conseguenza, i processi di entrambe le istituzioni sono organizzati per produrre rivendicazioni veritiere. Ognuno impiega sanzioni forti — puni­ zione e ostracismo inclusi -— contro i violatori di questo regime di verità. La verità si trova in ogni ambito, tanto legale, quanto scien­ tifico, fondando una corrispondenza con la realtà esogena: con un evento legalmente significativo nel diritto e con un fenomeno naturale nella scienza. La scienza e il diritto, in questo senso,

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sono entrambi deputati alla produzione di rappresentazioni di eventi che accadono oltre i loro rispettivi immediati perimetri. Nel procedimento di creazione di queste rappresentazioni, i di­ versi attori istituzionali testano o « provano » la validità delle as­ serzioni fatte in quel preciso ambito, cercando di accertare, non solo l’affidabilità dell’asserzione, ma anche la sua tenuta secondo un preciso nesso causale (la teoria di un caso legale; l’ipotesi scientifica o il paradigma che motiva un esperimento). In en­ trambi i contesti la riproduzione della realtà esterna avviene sotto restrizioni abbastanza rigide, tanto sul piano istituzionale, quanto su quello materiale, come ad esempio con riferimento al­ l’uso degli strumenti disponibili nella scienza, ovvero alle norme per la valutazione della prova nel diritto. Analizzare la realtà a queste condizioni spesso richiede un’innovazione metodologica, nel diritto non meno che nella scienza. Sia le corti che i labora­ tori possono essere pensati come spazi di sperimentazioni, nei quali le asserzioni sulla realtà vengono costruite, presentate, te­ state, rapportate agli standard ed eventualmente giudicate come credibili o meno. La similitudine istituzionale non termina certo qui. Fino ad un certo punto, le dinamiche del diritto e della scienza si pedi­ nano. La testimonianza, in particolar modo, è lo strumento indi­ spensabile per assicurare l’affidabilità delle rappresentazioni in entrambi i contesti. Nelle corti, la testimonianze degli esperti chiarisce per la giuria i dettagli tecnici del nesso causale, del quale il processo cerca di giudicare la plausibilità. Nei laboratori scientifici, gli sperimentatori o gli osservatori clinici, generalmente aiutati da strumenti meccanici, testimo­ niano e creano una documentazione sul funzionamento della na­ tura. Attraverso la cross examination e la peer review, inoltre, i testimoni, sia nella scienza che nel diritto, rimangono aperti al contraddittorio, libero di mettere in dubbio la fondatezza di ogni affermazione. Riferendosi alla scienza, il sociologo della scienza Robert K. Merton ha chiamato la pratica della peer review « scetticismo or­ ganizzato ». Ma bisogna ricordare che anche il diritto persegue

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la ricerca del fatto attraverso una forma tipica di scetticismo or­ ganizzato, sebbene orchestrato da principi diversi e caratteriz­ zato dalla presenza di osservatori eterogenei che pongono « do­ mande scomode ». La conoscenza sviluppata attraverso i processi di rappre­ sentazione dei fatti tipici del diritto, o della scienza, hanno quindi parametri di riferimento e finalità diverse. Collocata ai quattro angoli del caso, la conoscenza del diritto è condizionata dai fatti in causa, così come dai principi normativi entro i quali il caso nasce e acquista significato, come « causa petendi ». La conoscenza, rilevante per un procedimento legale, è creata con lo scopo di rendere giustizia entro quello specifico ambito. La conoscenza scientifica è anch’essa fondata, ma principalmente in relazione all’insieme di teoria e prassi. A differenza del processo legale, il lavoro scientifico crea affermazioni le cui finalità tra­ scendono l’ambito in cui la conoscenza è stata prodotta: soltanto se hanno successo, i risultati scientifici acquistano vita al di fuori del laboratorio, ottenendo l’attenzione e il supporto degli altri ricercatori, di altre discipline e addirittura dei politici e del pub­ blico in senso ampio. Ritengo che ci siano divergenze importanti, così come so­ miglianze, tra i paradigmi epistemologici del diritto e quelli della scienza. Entrambe queste istituzioni sono volte alla ricerca dei fatti, ma articolano considerazioni normative ed epistemologiche in maniera diversa. Il diritto ricerca i fatti per definire una con­ troversia, mentre la scienza è costitutivamente votata al divenire del progresso scientifico. Il diritto pone la questione come il suo teatro d’operazione ed è preoccupato di collocare, o di incasto­ nare, la produzione della conoscenza nel suo specifico contesto fattuale, mentre la scienza cerca di rimuovere i fatti dalle circo­ stanze che li producono. Questi contrasti influenzano il modo in cui le questioni vengono poste, come e da chi la ricerca è por­ tata avanti, e quali standard di validità sono applicati nei due ambiti istituzionali. In buona sostanza, queste divergenze pon­ gono in dubbio l’affermazione che il diritto può semplicemente trasporre all’interno dei suoi propositi, di ricerca del fatto e di

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rappresentazione della realtà, le conoscenze scientifiche, senza nulla aggiungere. Mentre, il caso Daubert diede per assodato che fosse possibile trasferire conoscenze e competenze scientifiche all’interno del giudizio, lasciando poi ai giudici il compito di trovare i metodi che rendessero possibile questa osmosi. In effetti, il diritto ha storicamente creato uno spazio pres­ soché autonomo per le conoscenze scientifiche e la « expertise » che entravano a qualsiasi titolo nel processo, distinguendo le te­ stimonianze peritali, e le norme che ne regolano l’ammissibilità, da quelle ordinarie. Si tratta di un rapporto asimmetrico. Men­ tre la scienza ha preso in prestito meccanismi procedurali dal diritto, i processi scientifici non sono formalmente responsabili di fronte alla legge, ad eccezione degli aspetti pratici che ne sono specificamente regolati. Il parere scientifico, la peer review, i co­ mitati di esperti, e le consulenze ammesse dal caso Daubert sono gli strumenti usati dal diritto per produrre la credibilità e la le­ gittimità delle proprie asserzioni. Il diritto, insomma, ritiene di poter perseguire la giustizia preservando l’autorità indipendente della scienza, iscrivendo la scienza nel diritto. Si consideri, an­ cora una volta, che la ricerca del fatto nel diritto e nella scienza è comunque sottoposta al rispetto di metodologie e standard concettualmente diversi. In questo senso, il diritto e la scienza operano entro diverse economie di credibilità. L’investigazione di processi naturali entro il diritto non è fine a se stesso, e la ri­ cerca dei fatti o della rappresentazione di ciò che è realmente accaduto è strumentale alla scelta tra ricostruzioni alternative di causa e responsabilità. Ne deriva che le rappresentazioni legali, quand’anche si concentrano su ciò che è obiettivamente deter­ minato attraverso l’uso di macchinari, manufatti od oggetti na­ turali, come ad esempio una ruota, una droga, un’arma o una sostanza inquinante, sono sempre legate a preoccupazioni sog­ gettive e normative, nel senso che lo scopo ultimo del diritto è comunque quello di individuare le responsabilità umane, indivi­ duali o istituzionali. La ricerca scientifica potrebbe implicare una scelta tra ipo­ tesi alternative, ma generalmente non sono legate a questioni di obbligazioni, colpa, interesse personale o giustizia sociale.

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Alcuni principi legali riflettono giudizi comuni profonda­ mente radicati riguardo a valori che non dovrebbero essere in­ franti nel corso della ricerca del fatto, quand’anche l’adesione a questi valori impedisse il formarsi di una prova rilevante, come ad esempio i limiti imposti alle indagini di polizia, o il diritto alla difesa garantito attraverso l’interrogatorio incrociato. Altri prin­ cipi — come ad esempio l’onere della prova, il privilegiare la te­ stimonianza oculare o comunque di chi per professione, pratica o esperienza è ritenuto maggiormente affidabile — rappresen­ tano posizioni culturali antiche, fondate sull’esperienza, spesso formalmente testate, sulla credibilità della prova e sul giusto processo. Al contrario, la ricerca scientifica subisce limiti minori da parte di norme etiche o da campi del sapere ad essa estranei. Bisogna, poi, ancora osservare che i procedimenti legali sono volti alla ricerca di una conclusione mentre la ricerca scien­ tifica può rimanere aperta. Una preoccupazione perenne in ambito giudiziario è come limitare la discrezionalità del diritto. I giudici non dovrebbero avere la facoltà di inventare le norme scientifiche più di quanto non possano fare con le norme giuridiche. Nonostante ciò, la questione del controllo dell’arbitrarietà epistemologica non è stata affatto tenuta in considerazione dalla Suprema Corte nel caso Daubert, che ridefinì radicalmente il ruolo del giudice, senza considerare che questo avrebbe potuto creare dubbi o confusione. Questa omissione, comunque, non è soprendente: fin quando le corti possono appellarsi a criteri esterni, determi­ nati dalla comunità scientifica, il ruolo soggettivo sia dei giudici che delle giurie appare sufficientemente limitato. Il caso Daubert propone quattro interrogativi cui rispondere per assistere i tri­ bunali e, forse, incoraggiare una maggiore uniformità nell’appli­ cazione delle leggi. La Suprema Corte ritiene che ogni qualvolta bisogna decidere se ammettere o meno una prova scientifica, bi­ sogna chiedersi se: a} la prova è basata su una teoria o tecnica esaminabile; b) la teoria o la tecnica è stata sottoposta alla peer review,

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c) nel caso di una teoria o tecnica particolari, se queste hanno un margine di errore; d) infine, ricapitolando la regola di Frye, se la scienza in questione sia generalmente accettata. L’introduzione di questi criteri diede però ulteriore spazio alla creatività individuale e alla discrezionalità epistemologica dei giudici, estremamente evidente se paragonata ai due miti ge­ neralmente condivisi. Cioè, il mito del metodo scientifico, se­ condo il quale veniva dato per scontato che ci fosse un modello di « scienza buona », i cui standard potessero essere obiettiva­ mente applicati alle prove presentate. Ed ancora, il mito dell’in­ nocenza epistemologica, secondo il quale si presupponeva che i giudici avrebbero trattato la questione della validità scientifica senza nessun preconcetto circa il sapere scientifico. Nessuno dei due assunti rimane intatto. Anziché svolgere il ruolo di gatekeepers che si limitano a lasciare che la « scienza buona » entri attraverso la porta del­ l’aula di tribunale, i giudici post-Daubert partecipano consisten­ temente al processo di formazione della scienza, con il loro modo di intendere come la scienza è, o dovrebbe essere creata. L’apertura di questo spazio per l’attivismo giudiziario nella produzione della conoscenza fu una grossa conseguenza, peral­ tro non voluta, del caso Daubert. Infatti, la conoscenza scienti­ fica di cui il diritto ha bisogno per il raggiungimento dei suoi scopi, spesso non è disponibile fino a quando il processo legale stesso non crea gli incentivi per la generazione della conoscenza stessa. Peraltro, lo stesso metodo scientifico sperimentale è in condizioni di garantire l’affidabilità dei risultati solamente fin quando l’evoluzione delle conoscenze non li smentisca. Concludendo, ho cercato di dimostrare che il proposito principale della Suprema Corte nel caso Daubert, cioè immettere standard scientifici « esogeni » direttamente nella ricerca legale del fatto, è stato sviato per due ragioni. Innanzitutto, poiché la Corte Suprema non ha tenuto sufficientemente in conto le con­ vergenze istituzionali, le disparità e le connessioni fra il diritto e la scienza, che, invece, possono rendere la conoscenza necessa­

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ria ai bisogni del diritto, anche diversa dalla conoscenza pro­ dotta attraverso la ricerca scientifica ortodossa. In secondo luogo, poiché ha concepito i giudici come stru­ menti impersonali volti a garantire l’ingresso della scienza ogget­ tivamente affidabile nell’aula di tribunale. Nel diritto americano, i livelli di prova considerati suffi­ cienti per l’azione legale variano da contesto a contesto. L’am­ missibilità delle prove, aldilà del legittimo dubbio, sono conside­ rate necessarie nei processi penali, nei quali la vita o libertà di una persona potrebbero essere in gioco. Mentre, al contrario, l’attore in un processo civile deve semplicemente presentare prove sufficienti per costruire una richiesta risarcitoria plausibile nei confronti del convenuto. Prove inaffidabili che potrebbero porre fine alle vite di innocenti sono temute molto di più nei procedimenti penali che non in quelli civili, che servono mera­ mente alla ridistribuzione della ricchezza. La quantità di prove necessaria per giudicare tipi diversi di controversie giurisprudenziali non è una questione che l’ordina­ mento giuridico fronteggia astrattamente. La risposta dipende dalla natura dell’interesse che la legge cerca di servire o proteg­ gere; parte degli strumenti attraverso i quali viene resa giustizia consiste nel ponderare diversamente l’onere della prova nei di­ versi contesti legali. Il ruolo delle giurie assolve ad una funzione simile nel con­ testo del processo, permettendo di considerare l’adeguatezza delle prove in relazione ad altri fattori che influenzano il modo di rendere giustizia. Dopo che la prova viene ammessa dalla corte, la giuria è libera di soppesare la forza e affidabilità della prova scientifica insieme alle questioni più ampie sul nesso di causalità e sulla responsabilità. Una giuria può rinvenire la re­ sponsabilità del reo anche a fronte di « prove deboli », se appare evidente che chi era tenuto a fornire una certa informazione non ha tenuto fede ai propri compiti. Altri fattori che potrebbero essere tenuti in considerazione dalle giurie per compensare i punti deboli della prova presentata dall’attore includono il costo complessivo e le ripercussioni che

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provocherebbe l’assegnare la responsabilità ingiustamente (in­ cluse le possibili ricadute del creare un precedente), il potere economico o sociale dell’attore rispetto a quello del convenuto (come ad esempio lavoratori in un’industria di sostanza chimi­ che o soldati che servono il loro paese in guerra), e la possibilità delle parti di sostenere i costi del danno, la responsabilità collet­ tiva dell’incapacità di presentare conoscenza rilevante (come ad esempio nei casi che coinvolgono mastoplastica, in cui a livello normativo la produzione di conoscenza è giunta in ritardo ri­ spetto all’utilizzo dello strumento medico), il possibile impatto della decisione nella formazione della conoscenza. Contrariamente ai giudici del caso Daubert, allora, le giurie non devono necessariamente dividere la valutazione della prova scientifica dalle questioni riguardo la moralità dello « ordine di conoscenza » entro cui un caso si sviluppa. Per « ordine di cono­ scenza » intendo l’insieme delle modalità istituzionali ed econo­ miche che determinano, in qualsiasi società, chi è responsabile della produzione della conoscenza, con quali strumenti e se­ condo quali regole, al fine di distribuire i costi dell’incertezza e dell’ignoranza. Comparando la prova scientifica e tecnica con gli altri pos­ sibili elementi che possono determinare la responsabilità, le giu­ rie statunitensi hanno l’opportunità di integrare la valutazione della testimonianza peritale con la sensibilità umana riguardo la percezione della giustizia in quella precisa società. Qualsiasi cosa si pensi del sistema delle giurie, nella cultura fortemente liberale americana, nella quale i processi assolvono a molte funzioni di riduzione delle tensioni del welfare state, l’at­ tenta valutazione dell’adeguatezza della conoscenza (razionalità) operata dalle giurie in relazione alla responsabilità per la produ­ zione della conoscenza (norme) è di estrema importanza. Solo contestualizzando la conoscenza disponibile rispetto a ciò che si sarebbe, o si sarebbe dovuto, sapere, il processo legale può pro­ durre decisioni importanti sulle questioni di responsabilità e colpa. Secondo questa linea di pensiero, le udienze preliminari introdotte dal caso Daubert potrebbero invece ostacolare la

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causa della giustizia, impedendo questa contestualizzazione, ri­ schiando di non mettere in risalto l’esistenza di incertezza scien­ tifica su questioni specifiche. In conclusione, il caso Daubert diede per scontato che la scienza avesse un nucleo che non dovrebbe essere messo in di­ scussione nel corso del procedimento legale. Questo aspetto ap­ parentemente irriducibile della scienza — chiamato a volte « buona scienza » e a volte « metodo scientifico » — doveva es­ sere trascritto nei criteri di ammissibilità della prova scientifica utilizzati dai giudici, i quali avrebbero dovuto espellere dal pro­ cesso le asserzioni che non rispettavano i criteri scientifici di va­ lidità. Questa era la giustificazione implicita per la rimozione di certe questioni di fatto dalle considerazioni della giuria., perfino in casi nei quali la determinazione dei fatti da parte della giuria è altrimenti dettata dalla costituzione. Dopo tutto, rivendicazioni di periti che non rispettano criteri di qualità adeguati non po­ trebbero facilmente raggiungere il tetto di concretezza che fa giustamente scattare una decisione della giuria. In questa relazione, ho sviluppato tre linee argomentative per spiegare la ragione per la quale questo modello di trascri­ zione scientifico e legale — che semplicemente riscrive gli stan­ dard del primo sul secondo — nella pratica non funziona come la corte di Daubert aveva immaginato. In primo luogo, contrariamente a quanto detto negli scritti tradizionali sulla scienza e sul diritto, gli obiettivi di entrambe le istituzioni si intersecano più di quanto non si oppongano. Il di­ ritto è allo stesso tempo un produttore e un utente di cono­ scenza scientifica, ma i suoi obiettivi e suoi bisogni istituzionali non sono identici a quelli della scienza. Mentre la ricerca della verità è importante in entrambi i domini, la conoscenza legale riguarda la risoluzione di conflitti normativi, più che cognitivi. La ricerca legale del fatto di conseguenza aderisce, legittimamente, a restrizioni etiche e pratiche che non hanno ovvi equi­ valenti nella scienza. In secondo luogo, i procedimenti che precedono le udienze, tesi all’identificazione e all’applicazione del nucleo ap­

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parentemente irriducibile del metodo scientifico, pongono i giu­ dici nel ruolo di epistemologi. Un ruolo che essi non possono ri­ coprire per mancanza di formazione, abilità o conoscenza. L’im­ missione di criteri scientifici nelle udienze preliminari del caso Daubert per la valutazione della scienza stessa può comportare interpretazioni, sia giuste che sbagliate. In terzo luogo, Daubert ha, discutibilmente, sconvolto il contratto sociale implicito americano con la scienza e la tecnolo­ gia. Troppe preoccupazioni riguardo alla bontà della scienza cor­ rono il rischio di distogliere il diritto da preoccupazioni che sono centrali nel fare giustizia in società moderne e tecnologica­ mente avanzate. In particolare, un’aderenza eccessivamente let­ terale al caso Daubert potrebbe inibire le corti dall’interrogarsi sulla mancanza di conoscenza, e potrebbe quindi impedire la giusta distribuzione dei costi dell’incertezza nella società. La questione di fondo è che i criteri che rendono validi gli enunciati scientifici entro ambiti scientifici non sono necessaria­ mente trasferibili in ambiti legali senza ulteriori riflessioni. Una dipendenza acritica del diritto da criteri e metodi meramente scientifici non è solo praticamente problematica, ma potrebbe anche essere epistemologicamente e normativamente inappro­ priata. Riordinare le relazioni fra scienza e diritto richiede una ricerca più attenta sulla natura dell’indagine legale, piuttosto che su quella scientifica. Solo attraverso questo tipo di ricerca possiamo sperare di raggiungere un equilibrio giudizioso fra quegli aspetti della pra­ tica probatoria nei quali la deferenza nei riguardi di un’autorità scientifica generata all’esterno è garantita, e quelli dove invece non lo è. In altre parole, fare giustizia richiede tanta attenzione alle dimensioni normative della conoscenza e dell’ignoranza degli esperti, quanta alla base razionale su cui si fonda l’emissione di giudizi normativi.

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Credo che l’accento forte iniziale, nella relazione di Sheila Jasanoff, sia stato posto sulla necessità di trovare uno spazio di fondazione di statuto e di fondazione epistemologica per lo sguardo sulle intersezioni tra scienza e diritto, proprio perché non si può passare in modo naif da un campo all’altro, pensando di non portarsi dietro le spalle un bagaglio pregresso di cono­ scenze, di concetti, di metodi, che possono creare dei corto cir­ cuiti, anche di incomprensione, del lavoro che si sta svolgendo. Quindi, questa possibilità di vedere e di investigare da vicino il lavoro dello scienziato ed il lavoro del giurista, nelle loro sovrap­ posizioni e nei loro scambi, mi sembra un punto essenziale, così come il pensare alle nostre attività in campo giuridico come at­ tività di produzione della conoscenza. Il fatto che il diritto oggi validi la conoscenza scientifica e che le Corti svolgano un ruolo centrale, non solo negli Stati Uniti e nei sistemi di common law, ma anche da noi su temi che sono largamente non regolati — se ne occuperà diffusamente il dott. Amedeo Santosuosso che sta portando freneticamente i giudici nei laboratori (vorrei che Sheila vedesse la copertina di uno dei volumi che questo gruppo per la formazione dei magi­ strati ha pubblicato, dove ci sono appunto gli arnesi anche fisici degli scienziati e gli strumenti del giurista) — genera una produ­ zione di conoscenza che è anche una produzione di strumenti tecnici. Mentre la professoressa Jasanoff parlava, mi veniva in mente che la nostra stessa piccola, iniziale, impresa intellettuale(*)

(*) Piacenza.

Straordinario di Filosofia del diritto, Università Cattolica del Sacro Cuore,

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in questo dottorato, può essere descritta come un fatto di pro­ duzione di conoscenza. Insomma, c’è stato un grande lavoro nel portare persone, reperire risorse, istituzioni, nel raccogliere inte­ ressi ancora nel nostro paese dispersi, per cercare di produrre qualcosa che generi consapevolezza ed una visione diversa su questi temi. Io passerei a vedere alcuni aspetti di quello che vorrebbe essere il nostro programma per un dottorato su Scienza, Tecno­ logia e Diritto, segnalando alcuni elementi. Solo alcuni perché, appunto, da una parte, credo che ci debba essere in noi la consapevolezza, sottolineata dalla profes­ soressa Jasanoff, che questo ambito di studi, in altri paesi, co­ mincia ormai ad avere una propria tradizione e propri confini disciplinari, e dall’altra perché sarà interessante vedere quale tipo di configurazione e prevalenza di temi e interessi potrà su­ scitare in Italia. Quindi il panorama è ovviamente aperto e tutto da definire in questo momento. Anch’io volevo dire qualcosa sull’acronimo. Abbiamo voluto evocare nell’acronimo il riferimento a una specifica prospettiva sulle relazioni tra scienza, diritto e politica, ed innestarci quindi in questo vasto campo di indagine che an­ novera anche prospettive parzialmente diverse. L’idea di studiare le relazioni tra la scienza e la società è emersa nel secondo dopoguerra, da una parte con la consapevo­ lezza nascente negli scienziati delle responsabilità sociali della scienza e degli scienziati, dall’altra con la consapevolezza, invece, degli Stati, in particolare di Paesi come gli Stati Uniti, della rile­ vanza che gli investimenti e il governo della scienza avrebbero avuto negli anni a venire come un vero e proprio programma politico di investimento in un futuro del Paese che puntava su aspetti di leadership molto forti. Sul versante epistemologico Sheila Jasanoff ha ricordato come un certo tipo di interesse per gli aspetti storici e storiciz­ zati della scienza e della comunità scientifica, e tutto l’interesse appunto per quegli aspetti sociali della scienza, sia stato l’ele­ mento che, da Kuhn in poi, ha posto e cambiato parzialmente la

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domanda, o ha integrato la domanda tradizionale dell’epistemo­ logia relativa alla validità dei metodi della scienza, facendo emer­ gere il problema della credibilità della scienza. Perché i cittadini, ma anche gli scienziati che appartengono a settori diversi, dovrebbero credere al discorso scientifico, dal momento che non sempre possono accertarsi della validità delle conoscenze? C’è un elemento di fiducia, di fiducia reciproca all’interno della comunità scientifica, e di fiducia nei rapporti tra la comu­ nità scientifica e la società, nell’accettare per buono ciò che la scienza ci dice. In fondo, compiamo continuamente atti di fidu­ cia prendendo aerei, parlando ai microfoni. Mi colpisce sempre che gli studenti al primo anno non vogliono mai parlare nel mi­ crofono, sono terrorizzati. E questo atto di fiducia continua che noi facciamo nella tecnologia, anche usando powerpoint, che a me crea sempre delle ansie incredibili, è parte di questo aspetto. Cioè, non possiamo semplicemente ridurre la questione episte­ mologica a un problema di validità interna, ma c’è tutto questo scambio, questa comunicazione sociale. Se questo tipo di approccio all’epistemologia, e faccio rife­ rimento al costruttivismo nelle sue versioni più radicali, ha su­ scitato critiche, comunque il dibattito prosegue, dal punto di vi­ sta interno dell’epistemologia che ancora combatte e si arrovella su dimensioni sempre più complesse, chiedendosi che cosa sia la validità della scienza. Certamente, dal punto di vista dello studio della scienza, come si declina nelle istituzioni e come viene poi utilizzato dal diritto o dalla politica, il discorso della credibilità diventa fondamentale, così come il fatto che i linguaggi si me­ scolano e non possono assumersi l’un l’altro come fonti indipen­ denti di autorità indiscusse. Credo che un aspetto importante, emerso anche nella rela­ zione della professoressa Jasanoff, sia proprio il fatto che al giorno d’oggi la democrazia viene esplorata nella direzione della democraticizzazione dei linguaggi. Io credo che Silvio Funtowicz, che con nostro grande dispiacere non ha potuto parteci­ pare a questo convegno, avrebbe parlato di come le visioni più,

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come dire, vicine alle teorie della complessità della scienza fini­ scono per influire e determinare anche visioni più sofisticate nella realizzazione dei processi democratici, e quindi avrebbe proposto degli approcci per cercare di stemperare la complessità della scienza o di renderla più credibile, proprio all’interno delle nostre società, approfondendo le procedure democratiche nella convivenza civile. Chiarito il riferimento che Facronimo fa ad una particolare prospettiva sull’interdisciplina di scienza e diritto, il secondo punto che intendo chiarire riguarda il perché un dottorato di questo genere appartiene alla filosofia del diritto. Ci è sembrato — anche se il nostro intento è quello di coinvolgere poi molte discipline scientifiche, ma anche molte prospettive di diritto positivo in cui i problemi della scienza sono emersi — di essere di fronte un po’ a ciò che è accaduto riguardo le tematiche ambientali. La giuridificazione dell’am­ biente è passata proprio attraverso un processo simile, vale a dire, venivano emergendo singole esigenze in settori differenti del diritto che all’inizio non sapevano trovare collegamenti tra loro: il diritto amministrativo, poi il diritto penale, il diritto co­ stituzionale. Ad un certo punto si è visto è che c’era bisogno di una famework, di un quadro generale, di una prospettiva teorica che ovviamente non è appannaggio privato dei filosofi o dei teo­ rici del diritto, ma che certamente è una discussione dinamica, un dialogo complesso tra discipline positive in cui i singoli pro­ blemi si pongono. Parecchie nuove ragioni di interesse dipendono dal fatto che ormai moltissimi contenuti del diritto hanno una base scien­ tifica, e che la politica della scienza e una parte cospicua della politica tout court, delle preoccupazioni anche giuridiche e dei nostri diritti, sono sempre più riformulati da possibilità o vincoli posti dalla scienza. Tuttavia, accanto all’emergere di questo qua­ dro e panorama nuovo, io credo che ci siano anche ragioni molto tradizionali e temi tradizionalmente filosofico-giuridici che avvicinano la scienza e il diritto. Intendo riferirmi al fatto che il diritto, e la filosofia del diritto in particolare, hanno subito

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il fascino del metodo scientifico fin dalle origini dell’impresa scientifica. Tradizionalmente era del tutto ovvia l’idea che il metodo e il linguaggio della scienza potessero fornire al diritto criteri di oggettività e di certezza nella formalizzazione dei sistemi giuri­ dici, pensati anche come sistemi logici (ieri proprio al Consiglio Superiore della Magistratura veniva ricordato come Leibniz fosse al tempo stesso matematico e logico e giurista), basti pen­ sare al controllo sulle possibilità di arbitrio dei giudici. Pensate all’idea del giudice « bocca della legge ». Ma dal punto di vista anche della filosofia politica, pensate alla prefazione del De cive di Hobbes, dove l’idea di fondare scientificamente la politica e la convivenza sociale viene ricondotta ai metodi della meccanica. Pensate al paragone che Hobbes fa, che è poi la stessa metafora newtoniana dell’orologio: l’idea di un meccanismo che deve es­ sere decostruito e ridotto ai suoi ingranaggi elementari per po­ terne capire il funzionamento. Quindi, il metodo della scienza ha affascinato il diritto come avvicinamento asintotico ad una certezza e ad una ogget­ tività che venivano considerate prerogativa della scienza. Ma c’è un altro tipo di rapporto che è abbastanza esplorato nella lette­ ratura straniera, anglosassone in particolare, e direi che non lo è quasi per nulla nella nostra, pochi filosofi — mi viene in mente, per esempio, Aldo Gargani che ha studiato la dimensione di Hobbes allo stesso tempo di scienziato e politico — hanno ri­ flettuto sull’idea che la comunità scientifica sia stata idealizzata come una comunità politica ideale, dalle utopie della Nuova At­ lantide di Bacone fino alle versioni di questo secolo della Repub­ blica della scienza preconizzata da Michael Polanyi. Pensate al­ l’idea della intrinseca struttura democratica della scienza di Ro­ bert Merton, ovvero alla società aperta e i suoi nemici di Pop­ per. L’idea che il metodo scientifico sia talora allo stesso tempo una metafora, o addirittura una analogia stringente delle società liberali, e quindi di un certo tipo di visione politica ed econo­ mica della realtà, è un tema centrale assolutamente tradizionale negli studi filosofico-giuridici e filosofico-politici.

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Vengo invece alle cose più recenti. I rapporti recenti sono sotto i nostri occhi. La professoressa Jasanoff ha illustrato con molti esempi il tipo di rapporti che si danno ormai tra scienza e diritto. Quello che adesso è interessante, e che forse vale ulterior­ mente la pena di sottolineare, è come la scienza e la tecnologia abbiano permeato la nostra società in modo talora implicito e inavvertito di una propria carica normativa, nel senso che i tempi e la normatività della tecnologia si sovrappongono alla normatività giuridica. Ieri la professoressa Jasanoff, in una delle cinquecentoquarantatre interviste che ha avuto tra Roma e Cata­ nia, diceva che il fatto che il diritto è sempre dietro a rincorrere la scienza — pensate alla nostra direttiva europea sulla brevetta­ bilità delle biotecnologie che nel Preambolo dice espressamente che il diritto non può allontanarsi, deve tenere il passo con la scienza — nel momento in cui questo correre dietro alla scienza da parte del diritto da implicito venga formulato in una do­ manda esplicita o in una proposizione fa sorridere, perché su tutti gli argomenti su cui il legislatore deve intervenire sono ne­ cessari tempi inevitabilmente lunghi, e sono necessari, per il tipo di complessità della decisione, mentre in campo scientifico i tempi devono essere i più rapidi possibile. Ecco, tutto questo ci suggerisce che c’è qualcosa di strano nell’accavallarsi e intersecarsi di una normatività che si potrebbe dire meramente fattuale e dall’altra, invece, la normatività giuri­ dica, mescolate in un modo che può dare esito anche a risultati perversi. Allora, ho parlato prima delle scienze dell’ambiente, ma le applicazioni della biomedicina e le biotecnologie sono i luoghi in cui più vivacemente le questioni scientifiche sono arrivate all’at­ tenzione o del decisore politico o delle Corti, e dove domina una grande carica di incertezza. La cosa interessante, che è emersa nella relazione della pro­ fessoressa Jasanoff, è che questa incertezza scientifica finisce per essere in qualche modo placata, sedata o compensata da ragio­ namenti, da accordi, da negoziazioni di tipo giuridico e politico

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e quindi questa conoscenza ibrida diventa un modo per ridurre l’incertezza del progresso scientifico. Nel nostro Paese alcuni temi, direi tutti quelli della biome­ dicina e delle biotecnologie, sono stati unicamente ridotti alla loro dimensione etica escludendo, invece, tutta la componente del problema della validazione della scienza nelle questioni bioe­ tiche. Tra l’altro qui si apre un problema, che è quello della isti­ tuzionalizzazione, della burocratizzazione della bioetica, che è uno dei temi più rilevanti dal punto di vista degli studi dei Science and Tecnology Studies. Guardando dall’esterno come questo processo si è verificato, possiamo vedere che la dimen­ sione giuridica, in qualche modo, specie nei primi anni della bioetica, è stata del tutto accantonata al grido che l’etica fosse migliore del diritto, mentre l’etica ha finito per istituzionalizzarsi in comitati e commissioni nelle quali le regole della democrazia e dello Stato di diritto sono sospese perché in etica non si de­ cide a maggioranza, ma si decide in base alla verità. Cioè assistiamo a meccanismi burocratici nei quali le più vecchie modalità di decisione dei comitati degli esperti, quando si riteneva che la scienza esprimesse la verità, ormai dimessi dai comitati e dalle commissioni scientifiche, invece entrano a pieno titolo nei comitati e nelle commissioni di tipo bioetico come una diversa forma di autorità, o di forma di politica-legislativa. Ecco questo è uno dei temi su cui riflettere. Allora nasce questa idea di pensare un po’ a 360 gradi che cosa accade concretamente nel momento in cui usciamo dalla prospettiva idealizzata di che cosa dovrebbe essere la scienza nei libri, di che cosa dovrebbe essere il diritto nei libri. Incominciamo a vedere quali sono le pratiche sociali, i sog­ getti, il tipo di conoscenza e i prodotti di conoscenza che ven­ gono elaborati. Io credo che così potremmo acquistare una pro­ spettiva diversa che può arricchire il dibattito attuale su chi sono gli esperti, sul rapporto tra le Corti e gli esperti, sul tipo di scienza che va in onda nei Tribunali e nelle decisioni dei Tribu­ nali, sul problema della riformulazione dei diritti costituzionali e delle garanzie dei cittadini.

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L’idea di ragionare sulla scienza come dovrebbe essere, e non come è, ha fatto sì che a fronte di molti problemi relativi alla deliberazione in campo scientifico, o per lo meno alle poli­ tiche pubbliche che hanno alle spalle, o che si fondano su cono­ scenze scientifiche, le garanzie tradizionali che uno stato di di­ ritto offre ai propri cittadini rispetto all’esercizio dei propri po­ teri, siano state in qualche modo sospese o non tematizzate. E qui abbiamo visto che abbiamo a che fare proprio con saperi che si costituiscono come poteri. Io credo che nella nostra piccola impresa di produzione di conoscenza possiamo solo cercare di metterci al lavoro, e spero che sia un lavoro lungo e proficuo, e sono felice che la profes­ soressa Jasanoff abbia tenuto a battesimo questa iniziativa.

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NERINA BOSCHIERO (*)

Ringrazio subito l’amico Amato e l’amico Bruno Montanari per avermi invitata. Sono sempre felicissima di tornare in questa Facoltà alla quale ho lasciato il cuore, e che continua a distinguersi per ini­ ziative d’eccellenza come questa. Confesso che non avevo nessuna idea di che cosa avrei do­ vuto dire in occasione di questa tavola rotonda dal titolo Scienza, Tecnologia & Diritto, profili di Governance. Ho deciso di fare una scelta di campo, per una volta ho deciso di scendere dal di­ ritto internazionale sul piano, se mi consentite, del linguaggio dei filosofi del diritto, perché spesso i giuristi e i filosofi non si capiscono. Quando si parla di concetti così importanti è chiaro che occorre in qualche modo definirli per poterci ragionare. Dovendo parlare di scienza, di tecnologia e di governance, ho preso spunto dal linguaggio degli scienziati e dei filosofi per cercare di capire di che cosa si sta parlando, e come metterli in relazione al problema della governance. Due giorni fa a Milano uno scienziato di chiarissima fama, Umberto Veronesi, e un filo­ sofo di altrettanto chiarissima fama, Umberto Galimberti, hanno presentato la « Fondazione Umberto Veronesi per il progresso delle scienze »; una fondazione di eccellenza, che raccoglierà im­ mensi consensi sotto il profilo scientifico e anche sotto il profilo dei finanziamenti. Questo ha dato l’occasione per un dibattito pubblico, estremamente interessante, di cui è stata data contezza anche nella stampa nazionale. Lo scienziato ed il filosofo sono stati(*) (*)

Ordinario di Diritto internazionale, Università degli Studi di Verona.

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chiamati a parlare del rapporto tra scienza e tecnologia; rap­ porto che coinvolge tutta una serie di problemi estremamente complessi, come quello dell’etica, di cui non parleremo in que­ sta sede, ma che naturalmente sono al cuore del dibattito sul rapporto che intercorre tra scienza, tecnologia e diritto. Ed entrambi hanno espresso dei concetti per me sorpren­ denti. Il professor Veronesi, in particolare, ha distinto scienza e tecnologia come rispondenti a due logiche e a due scopi diversi, presentando la scienza come la parte buona del ragionamento: la funzione civilizzatrice che ha riscattato il mondo dalle credenze primordiali e dalla barbarie. Scienza dunque come strumento di civilizzazione. Scienza buona, perché rispondente ai principi galileiani della ricerca della verità, della riproducibilità, della universalità. La tecnologia invece è la parte cattiva, poiché presentata come uno strumento della scienza che risponde solo alle logiche del mercato, solo alle logiche del consumo. Sotto questo profilo, il Professor Veronesi ha pubblica­ mente dichiarato di essere terrorizzato dall’idea che, nel terzo millennio, le tre grandi aree di sviluppo siano le biotecnologie, la scienza e l’informazione. Viviamo quindi l’era della tecnologia dell’informazione, dell’« Information Society », delle telecomuni­ cazioni, con il rischio di essere sostanzialmente succubi e vassalli di un mondo tecnologico che vive una propria vita « a-morale », una vita priva di intenzioni e di responsabilità. Anche il filosofo del diritto Umberto Galimberti, in per­ fetta sintonia, ha dichiarato che la scienza dovrebbe diventare il luogo etico della tecnologia; luogo eminente di pensiero, che pone i limiti alla tecnologia. Dunque, tecnologia come strumento della scienza. Prendo spunto da questo autorevole dibattito per dire che personalmente non condivido affatto le loro posizioni: non credo che, oggi, si possa fare una distinzione tra scienza e tecno­ logia nei termini proposti. Non si può dire che la scienza è il bene e la tecnologia il male. Non credo che si possa parlare di

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scienza pura. La scienza pura non esiste. Nessuno scienziato ha mai dedicato la propria intelligenza, e le proprie risorse, per svi­ luppare concetti che non abbiano agganci con la realtà. Sto par­ lando di scienziati, non di scienziati del diritto. Non credo di es­ sere una scienziata del diritto, forse sono solo una pensatrice, una teorica, però, se dobbiamo considerarci scienziati, forse noi siamo gli unici a fare, come dire, riflessioni scientifiche sganciate da una realtà fattuale. Chi ha avuto il privilegio di poter andare a visitare ad Amboise l'ultima casa di Leonardo, ed ha visitato il museo sulle scoperte del grande scienziato, avrebbe potuto im­ pressionarsi nel verificare, concretamente, la straordinaria capa­ cità innovativa e tecnologica di quest’uomo, che si è dedicato a studi importanti cercando di metterli in pratica realizzando stru­ menti utilissimi per il movimento dell’acqua, dell’aria e, cosa che ha molto colpito i miei bambini, ha progettato il primo sorpren­ dente carro armato blindato della storia dell’umanità. Questo per dire che gli scienziati hanno sempre lavorato al servizio dei Principi, all’epoca committenti, e oggi lavorano al servizio delle multinazionali e del capitale, dai quali ricevono gli strumenti per la ricerca. E gli strumenti per la ricerca non arrivano dagli Stati, arrivano dal capitale privato, che, ovviamente, incide e influenza la ricerca. Gli scienziati puri, oggi non esistono. In secondo luogo, sotto il profilo giuridico, nemmeno la normativa internazionale, in particolare quella sulla privativa in­ dustriale e sui diritti di proprietà intellettuale, aiuta a, come dire, riportarci nel discorso bello e alto del professor Veronesi, a que­ st’idea della scienza universale alla portata di tutti e da tutti co­ noscibile. E vero che lo scopo della scienza è la conoscenza, ma i diritti di privativa industriale tendono oggi, evidentemente, a limitare la riproducibilità di questa conoscenza e hanno, quindi, ricadute estremamente importanti. Questi discorsi sono tanto più veri, e tanto più importanti, se li confrontiamo con problemi concreti, come l’applicazione della scienza alla vita o a diritti fondamentali come quello della salute, ovvero con il problema estremamente importante e dram­ matico degli investimenti nella ricerca per le cure sanitarie.

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Alcuni dati possono servire per chiarire come stanno in realtà le cose: ogni anno muoiono diciassette milioni di persone di infezioni gravi. Di questi diciassette milioni di persone il 97 % arrivano dai Paesi in via di sviluppo. La metà dei morti di AIDS all’anno sono africani, il 95% dei quattordicimila nuovi casi di contagio al giorno arriva dai Paesi sottosviluppati. Non sor­ prenda che, analizzando i dati relativi alla scienza, agli investi­ menti, e alle cure sanitarie i riscontri non siano meno allarmanti. Il fatturato dei medicinali venduti al mondo per curare le malat­ tie è di circa quattrocento miliardi di dollari all’anno. Il 53% di questi quattrocento miliardi è costituito dai medicinali venduti nel Nord America, il 23% in Europa, il 13% in Giappone e 1’11% nel resto del mondo. Peccato, però, che il resto del mondo sono i quattro quinti della popolazione mondiale. Africa, Asia, Sud Pacifico, cioè in realtà sostanzialmente tutto il resto del mondo contribuiscono al fatturato mondiale soltanto per 1’11%. Si aggiunga ancora che solamente 1’8% delle spese far­ maceutiche mondiale è destinato ai Paesi in via di sviluppo, e appena il 2% all’Africa. Allora, la scienza pura è pulita? Credete che sia molto in­ teressata alle malattie dei poveri? Il 65% del mercato mondiale dei medicinali è destinato alle malattie dei ricchi, e le malattie dei ricchi sono le malattie della vecchiaia: non sono la tuberco­ losi, non sono la malaria, non sono neanche l’AIDS. Esclusivamente il 5% degli investimenti mondiali viene speso in ricerca per la salute dei paesi sottosviluppati del mondo. A Evian incomincia il G8, i grandi del mondo dovranno prendere delle decisioni fondamentali sul problema del rapporto tra ricerca, in vestimento, tecnologia e diritti fondamentali come il diritto alla salute, ed in particolare il diritto alla salute dei quattro quinti della popolazione mondiale, che inevitabilmente influenzeranno il vertice che si terrà a Calcun nel prossimo set­ tembre. In quell’occasione, infatti, si incontreranno i ministri del commercio dei centoquarantasei Paesi attualmente membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, che sono incaricati, in quella sede, di risolvere il problema delicatissimo rimasto

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aperto alla fine della quarta conferenza interministeriale di Doha, e cioè il rapporto molto complicato tra i diritti di priva­ tiva industriale, i diritti di proprietà intellettuale, ed i brevetti ri­ conosciuti dal Trips; ed ancora, il problema altrettanto compli­ cato della legittimità di riprodurre farmaci generici per i lavora­ tori dei nuovi Paesi emergenti, quali il Brasile, l’india, la Thai­ landia e il Sud Africa che possano portare concreti benefici. So­ lamente per fare un esempio, una cura completa per l’AIDS prodotta in Sud Africa o in India oggi costa duecento dollari, contro i diciannovemila dollari proposti dalle multinazionali non solo americane, ma anche occidentali. Sono problemi molto complicati sui quali occorre trovare un bilanciamento di interessi e un compromesso, e qui arriviamo al fantomatico concetto di governance. Da internazionalista mi sono sempre chiesta che cosa significasse. Questa parola, a mio giudizio intraducibile in italiano, è un concetto che forse si può avvicinare in qualche misura all’idea di governabilità, più che di buon governo, ma certamente è un concetto che i nostri colle­ ghi, che si occupano di questioni molto più serie del diritto in­ ternazionale, e cioè di finanza o di commercio, conoscono benis­ simo, infatti la parola governance ha un senso ben preciso e molto chiaro in ambito societario o commerciale, nel quale signi­ fica, appunto, predisporre le condizioni per poter esercitare un governo legittimo della società. Rapportando il concetto di governance al diritto interna­ zionale io, invece, incontro parecchi problemi e difficoltà. Da internazionalista mi sono messa a studiare i documenti della Co­ munità europea, per cercare di capire che cosa l’Unione europea intende per governance. Il risultato sorprendente di quest’inda­ gine è che l’Unione fornisce una definizione di governance in termini solamente procedurali, probabilmente molto diversa da quella che hanno in mente i filosofi o i sociologi. Per governance in Europa s’intende il modo in cui le autorità pubbliche, in que­ sto caso le autorità europee, elaborano, decidono, attuano, o il­ lustrano le politiche e le azioni. Dunque le strategie. Applicando questo concetto, che è un concetto tutto pro-

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cedutale, ovvero i modi con i quali le autorità politiche elabo­ rano, decidono, attuano e illustrano, al problema della scienza e della tecnica, cioè alla tecnologia dell’informazione, alla scienza della vita e alle biotecnologie che sono, nonostante quello che pensa il professor Veronesi, la prossima fase dell’economia mon­ diale basata sulla conoscenza, si deve riflettere su alcuni punti fondamentali che consentono il passaggio dalla definizione di governance al concetto di buona governance. Bisogna cioè ragio­ nare in termini di partecipazione, responsabilità, efficacia, coe­ renza. Si tratta di concetti essenziali, che mirano sostanzialmente a creare una governance « più democratica », cioè si tratta di applicazioni di principi che costituiscono il fondamento della democrazia e del principio di legalità. L’osservazione che voglio proporre da internazionalista e da comunitarista è che, in realtà, questa nozione procedurale, che implica un miglioramento della govenance sotto il profilo di una maggiore democraticità, è tutta figlia delle deficienze pro­ prie dell’entità Unione europea. Quest’ultima, infatti, non è uno Stato, non è un super Stato, e non è neppure una federazione di Stati, ma se vogliamo definirla, soltanto una « Entità » che di­ fetta largamente di legittimazione democratica, che ha un Parla­ mento Europeo associato nelle decisioni in misura estremamente limitata, e che è afflitta, da bulimia burocratica più che da slan­ cio democratico. Dunque una nozione procedurale di governance, che è ov­ viamente legata al problema comunitario di rendere democra­ tico, trasparente e coinvolgente il processo decisionale che ri­ guarda le linee strategiche dell’Unione europea. Cosa fare per spiegare ai cittadini se gli organismi geneticamente modificati sono buoni o sono cattivi; come indirizzare i consumatori, per­ ché i consumatori sono parte integrante del mercato interno, e sono, come dire, la risorsa primaria dell’organismo europeo. Quando ci occupiamo di governance legata alla scienza e alla tecnologia in Europa, che, peraltro, rappresenta, l’unico esempio che si possa fare attualmente di governance sopranazionale, in

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qualche misura orientiamo l’evoluzione del diritto. È indispen­ sabile, infatti, sviluppare un’azione responsabile, dove per azione responsabile s’intende evidentemente un’azione legisla­ tiva, che sia vicina ai valori etici e agli obiettivi della società eu­ ropea. Bisogna garantire ai consumatori una scelta informata sui prodotti da acquistare, consentendo loro di decidere se assumer­ sene o meno il rischio; e poi evidentemente è essenziale elabo­ rare dei principi normativi di base circa gli obblighi giuridici da rispettare per orientare la scienza, perché non è la scienza che deve orientare la tecnologia: è il diritto che deve porre limiti a scienza e tecnologia. È chiaro che da questo punto di vista il discorso della go­ vernance europea riguarda sostanzialmente un problema di scelte e strategie politiche, ma ancora una volta si tratta di scelte strategiche o politiche che servono per attirare risorse umane e industriali e finanziare e sviluppare la ricerca. Il controllo nor­ mativo, che è fondamentale, è l’espressione delle scelte etiche effettuate dalla società. In questo caso noi abbiamo un quadro normativo europeo che, per quanto frammentario, si occupa di tante cose, si occupa di brevetti, si occupa di proprietà intellet­ tuale, si occupa di organismi geneticamente modificati, si occupa dell’immissione in commercio di derivati da organismi geneticamente modificati, ecc. Sotto questo profilo le scelte strategiche della governance europea sono sostanzialmente il modo di rendere il più possibile efficace, reale e concreta una valutazione oggettiva dei rischi. Una valutazione oggettiva dei rischi per la salute umana, per gli animali, per l’ambiente, ecc. attraverso l’utilizzo del principio precauzionale, e delle procedure di autorizzazione per l’immis­ sione in commercio dei prodotti biotecnologici. Abbiamo parlato di governance europea e abbiamo detto come a livello europeo l’accezione è una accezione tutta, come dire, figlia delle deficienze del sistema europeo. Per quanto riguarda la governance globale in relazione alla scienza e alla tecnologia i discorsi sono ancora più complicati. Non c’è nessun dubbio che la rivoluzione scientifica e la rivolo-

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zione tecnologica hanno una dimensione globale. La ricerca è una ricerca essenzialmente mondiale, ma è anche vero che esiste una grandissima diversità tra paesi, regioni, continenti in rela­ zione alla capacità di produrre scienza e di produrre tecnologia. E una diversità ancora maggiore esiste in relazione alle priorità che i singoli Stati danno ai valori. A sfide globali sarebbe logico contrapporre strategie globali, elaborare dunque programmi in­ ternazionali basati su valori condivisi e programmi a lungo ter­ mine, ma tutto questo si scontra con i limiti oggettivi dell’ordi­ namento internazionale. Nell’ordinamento internazionale non esiste un legislatore sopranazionale che si sostituisce ai singoli Stati, e non c’è dub­ bio che esiste un carattere ancora molto embrionale del con­ trollo dell’applicazione del diritto e delle reazioni alle violazioni del diritto. Esistono poi limiti intrinseci anche alla materia in quanto oggettivamente legiferare in un settore così delicato è molto complesso poiché ci sono in gioco interessi molto contra­ stanti. Esistono logiche diverse: la logica della ricerca, la logica della scienza, e la logica della ricerca della scienza che è eviden­ temente orientata verso lo sviluppo e la valorizzazione econo­ mica. Vi è poi la logica della protezione dei diritti dell’uomo, della libertà e dell’ambiente, che spinge al contrario nel senso opposto, tentando di frenare questo dinamismo. La scienza pro­ gredisce, la tecnologia progredisce, mentre il diritto è lento, per­ ché trovare il compromesso su questi valori implica negoziati lunghissimi che non tengono il passo con il progresso tecnolo­ gico. Allora il diritto rincorre sempre, e quando rincorre lo fa sul minimo comune denominatore possibile, cioè su quel piccolo valore comune sul quale la comunità internazionale nel suo com­ plesso ritiene di poter concordare. Siamo di fronte a risultati ra­ dicalmente insoddisfacenti. La prima legge sulla bioetica è del 1985 e venne promulgata dallo Stato di Victoria in Australia. Dunque è una scienza del diritto internazionale nuovissima an­ cora tutta da esplorare. Non esiste un ragionamento globale e meccanismi di controllo ed indirizzo globali, ci sarà sempre la

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possibilità di sviluppare altrove ciò che eticamente o per altri condizionamenti non è possibile fare nello Stato A o nello Stato B. Pertanto diventa impossibile ragionare in relazione alla scienza e alla tecnica in termini di governance globale, tanto sotto il profilo procedurale di accezione comunitaria, quanto sotto il profilo della creazione delle condizioni, come dire, per il controllo per l’esercizio del potere, che è il concetto di Corporate Governance che invece funziona benissimo negli assetti finan­ ziari. Tuttavia non ritengo affatto che bisogna rassegnarsi all’im­ possibilità di ottenere sistemi di governance globale, sorpren­ dentemente è, infatti, possibile rinvenire uno straordinario esem­ pio di buona governance globale nell’unico posto nel quale gli internazionalisti mai lo cercherebbero. Gli internazionalisti oggi, soprattutto quelli italiani, tutti concentrati nella legittima pole­ mica nei confronti dell’unica superpotenza imperialista mondiale che tenta di imporre in modo egemonico un nuovo ordine inter­ nazionale, condannata dunque senza nessuna scusante da tutti gli internazionalisti in blocco, non si rendono conto che proprio questa superpotenza sta dando l’unico buon esempio di good governance. Mi riferisco chiaramente alla recente creazione della Road Map. Infatti, applicando il concetto di corporate governance, la Road Map oggi è esattamente il miglior esempio di creazione delle condizioni per poter esercitare legittimamente un potere, in un’area del mondo che da millenni è soggetta a turbolenze economiche e ad instabilità politiche. Il quartetto della pace USA, Russia, ONU, Unione Euro­ pea, al di fuori delle logiche della Carta delle Nazioni Unite, come delle logiche della presunta costituzione per il diritto in­ ternazionale, se lavorano bene insieme, possono dar luogo ad esempi eccellenti della possibilità di creare delle condizioni di legittimità del potere. Oggi con la Road Map hanno creato le condizioni perché ciò avvenga: quando le condizioni si saranno verificate avremo 3

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uno Stato palestinese e uno Stato israeliano che eserciteranno le­ gittimamente il potere su quella parete di mondo. Non è pertanto impossibile avere una global governance, bisogna solo intendersi sul concetto di governance e sul suo contenuto.

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Ah! Ma non è davvero nella scienza che risiede la felicità, bensì nell’acquisto di essa. Sapere per sempre costituisce l’eterna beatitudine, ma sapere ogni cosa, costituisce, invece, una demoniaca maledizione.

(E.A. Poe, La potenza delle parole)

Sommario: 1. Il problema. — 2. Oltre il diritto. - a) Ideologia. - b) Politica. - c) Cul­ tura. — 3. Dentro il diritto. - a) Crisi del soggetto. - Z>) Crisi dell’oggetto. c) Crisi dei processi interpretativi.

1.

Il problema.

Un elenco di temi oppure un catalogo? Nell’uso linguistico corrente, l’elenco presuppone la neutralità descrittiva e l’ordine, il catalogo presuppone la capacità valutativa e un fine. L’uno dovrebbe essere esaustivo e immediato: il più rapido possibile a scorrersi, come l’elenco del telefono. L’altro dovrebbe essere suggestivo e mediato: pieno di rinvii e di possibili percorsi, come il catalogo di una casa editrice. L’uno aiuta a trovare, l’altro a cercare. Chi vuole soltanto trovare ha già in mente una soluzione e sa di calarsi entro una struttura preordinata. Chi si appresta a cercare ha in mente solo un fine e rifiuta qualsiasi preordina­ zione. Il giurista che voglia guardare ai rapporti tra diritto e scienza, impegnandosi il meno possibile, cosa dovrebbe com­ porre: un elenco o un catalogo? Il suo compito dovrebbe essere(*)

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Ordinario di Filosofia del diritto, Università di Catania.

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proprio quello di preordinare, offrendo schemi attraverso i quali garantire rapide soluzioni a qualsiasi problema. Anche lo scien­ ziato non si aspetta dal giurista nient’altro che questo: inquadra­ menti generali e strutture formali per mezzo dei quali evitare di incorrere in responsabilità impreviste, oneri inattesi, rischi ecces­ sivi. Dunque si aspetta un elenco: chiaro, semplice, essenziale. Tuttavia l’elenco presuppone l’ordine e l’ordine è proprio quello che la scienza ha oggi sottratto al giurista, dissolvendo categorie stabili e tranquillizzanti come naturale e artificiale, soggettivo e oggettivo, persone e cose, materiale e immateriale, invenzione e scoperta, biologia e chimica, chimica e fisica, causa ed evento... Al giurista resta, allora, la via del catalogo? Un catalogo va­ riegato e composito, pieno di intrecci caotici e incerti. Ma, in questo caso, la rinuncia a qualsiasi pretesa ordinatrice, elimina anche l’elemento fondamentale che caratterizza, da Galileo in poi, la storia dei rapporti tra diritto e scienza. Una storia im­ prontata da una costante ansia di certezza. Alla certezza episte­ mologica e cognitiva offerta dalla scienza, il diritto rispondeva, o forse avrebbe dovuto rispondere, con la certezza dei modelli e degli schemi di comportamento. Senza certezze e senza ordine cosa potrebbero attendersi, scienziati e giuristi, da un catalogo? C’è ancora un fine? La scienza ha un fine a cui il diritto può for­ nire i mezzi? E il diritto ha una funzione a cui la scienza offre gli strumenti? Un catalogo: di che cosa e per che cosa? La tradizionale visione delle scienze sociali che abbiamo ereditato da Max Weber e di cui le teorie procedurali e discor­ sive della giustizia, le teorie di Rawls e Habermas, sono il più raffinato tentativo di attuazione, presenta l’etica (e il diritto) come una carta geografica: ha il compito di mostrarci come an­ dare da un posto a un altro, ma non dove andare. In questa vi­ sione, il catalogo avrebbe ancora un senso, perché presuppone che vi siano dei fini o meglio che vi sia un rapporto tra proce­ dure (la carta geografica) e fini. Se voglio viaggiare, mi serve una carta geografica; se voglio leggere, mi serve un catalogo... men­ tre non avrebbe senso fornire una carta geografica a chi vuole leggere e un catalogo a chi vuole raggiungere Varsavia. Tutto

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sembra diventare, così, chiaro e semplice. Basta trovare il fine della scienza e possiamo, poi, apprestare il relativo catalogo giu­ ridico. La prima voce del catalogo dovrebbe essere fini della scienza e funzione del diritto. Ma sorge subito il dubbio: pos­ siamo parlare di un fine della scienza? Già negli ultimi anni dell’Ottocento aveva cominciato a venir meno la tradizionale, e ideale, visione della scienza come neutrale e disinteressata ri­ cerca del sapere per il sapere. Edison e Lysenko potrebbero es­ sere assunti come i due poli, opposti e simmetrici, di una scienza che fa totalmente propri i fini del mercato o della politica, di una scienza che interviene radicalmente e consapevolmente nei processi produttivi con il solo intento di potenziarli. Dal sapere per il sapere si passa al sapere per il potere. Più sapere significa più potere. Che si tratti del potere economico del mercato, a cui guarda Edison, l’ideatore del primo laboratorio privato che fa delle invenzioni una professione e dei brevetti uno strumento di lucro, oppure della necessità di politicizzare i cromosomi, con cui Lysenko pretende di combattere l’improduttiva biologia bor­ ghese, la scienza finisce per scoprire la propria affinità con il po­ tere, con il potere come viene inteso dalla filosofia politica a partire da Machiavelli: una forza originaria assoluta e indetermi­ nata. Se diamo ormai per scontato che, per la politica, il fine del potere sia il potere, sarebbe illusorio ostinarsi a ritenere che il fine della scienza sia il sapere. Anche la scienza tende a un con­ tinuo potenziamento del potenziamento a cui non ha alcun senso pretendere di sovrapporre un’etica, imponendo fini: non ha fini perché non ha fine. La volontà di potenza, ce lo ha spie­ gato molto bene Nietzsche, non risponde alla logica del bene o del male, del giusto o del torto. Torto o male è solo l’impotenza. Questa ossessione dell’impotenza o ansia di potenza emerge involontariamente in tutte le decisioni che hanno se­ gnato le svolte cruciali del nostro tempo. Quando ha clonato il primo mammifero, la famosa Dolly, fan Wilmut si è giustificato affermando: « se non l’avessimo fatto noi l’avrebbe fatto qualcun altro: la tecnologia era disponibile ». Sono quasi le stesse parole

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che aveva pronunciato uno dei padri dell’atomica, Oppenhei­ mer. « A mio parere quando si trova qualcosa che è tecnicamente seducente, si parte e lo si fa; ci si pone le domande su ciò che provocherà solo dopo aver ottenuto il successo tecnico ». Non è un caso che diventi sempre più difficile, proprio ai livelli più elevati della ricerca, distinguere tra scienziato e manager, se­ gnando una chiara linea di demarcazione tra incremento del sa­ pere e incremento degli utili. Queste constatazioni stanno oltre e dentro il diritto. Stanno oltre perché ne definiscono l’orizzonte di operatività, stanno dentro perché ne alterano le categorie e i modelli di percezione. Di quello che sta oltre il diritto proverò a fare un catalogo: un catalogo di problemi proprio perché un aspetto interferisce con l’altro senza che appaiano linee unitarie di letture. Viene messo in dubbio, semmai, che sia possibile condurre ancora una qual­ siasi lettura, diversa dalla semplice constatazione di una prassi che si impone ed afferma. Di quanto sta dentro il diritto proverò a fare un elenco: un elenco di ambiguità e contraddizioni proprio perché schemi e categorie appaiono immutate, ma vengono chiamate a svolgere ruoli e funzioni assolutamente diverse rispetto alla loro conce­ zione iniziale. Si continua a ricorrere alla categoria della pro­ prietà o della personalità, ma si è a contatto con parti di organi, strutture cellulari, sequenze genetiche, che sono cose e sono an­ che persone, sono oggetti dell’io e aspetti dell’io, sono reazioni chimiche e informazioni, sono informazioni per me e per gli al­ tri... Possedere un organo è come possedere una casa? Acquisire l’informazione contenuta nel test del DNA è come acquisire i dati della dichiarazione dei redditi?

2.

Oltre il diritto. a)

Ideologia.

La visione della scienza come potenza rende sempre più difficile distinguere cosa sia scientifico, nel senso di spiegazione

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del mondo, e cosa sia politico, nel senso di decisione sul mondo. Il primo e più evidente effetto di questa confusione è l’integra­ zione capitalistica della scienza, che trova nel mercato il proprio destinatario privilegiato. Abbiamo un’evidente inversione dei rapporti tra ricerca di base e ricerca applicata. Si parla di un vero e proprio circolo virtuoso in forza del quale la ricerca di base stimola l’innovazione tecnologica, ma è poi l’innovazione tecnologica ad alimentare, e finanziare attraverso le ricadute sul mercato, la ricerca di base. Fino a che punto resta « virtuosa » una simile correlazione tra scienza ed economia? — La pretesa purezza e trascendenza della scoperta scien­ tifica purifica, sempre e in ogni caso, gli eventuali inquinamenti della sua utilizzazione attraverso il mercato? Se la logica di po­ tenza, a cui abbiamo accennato, rende impensabili limiti o cen­ sure, dobbiamo concludere che viene meno anche ogni forma di coscienza critica. Avremmo lo strano paradosso per cui la libertà della scienza esclude la libertà di pensiero. O meglio, e in que­ sti termini l’esasperazione ideologica è ancora più evidente, ci troviamo di fronte all’impotenza delle idee dinanzi alla potenza della prassi. — Il rifiuto del mercato implica, sempre e in ogni caso, il rifiuto della scienza? Più si diffonde la visione precedente, più si radicalizza l’opposta convinzione che la cultura moderna vada respinta in blocco perché non è più possibile rifiutare il mercato senza attaccare anche il supporto di potenza che gli conferisce la scienza. Nelle forme estreme e irrazionali di violenza no-global si esprime, in maniera istintiva, il conflitto tra la violenza in volon­ taria e asettica, che è intrinseca ad ogni forma di potenza senza limiti e senza fini, e la violenza istintiva e passionale, che è tipica di coloro che si sentono messi in un angolo e senza prospettive. b)

Politica.

Esiste ancora un luogo politico di riflessione comune sul­ l’utilizzazione e sullo sfruttamento delle risorse scientifiche? In che modo è possibile salvare la democrazia dal carattere « extra­

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parlamentare » della scienza (U. Beck)? In che modo è possibile salvare la libertà dai rischi manipolativi della scienza (Haber­ mas)? In che modo è possibile salvare l’essere umano dalla pos­ sibilità della microelettronica e dell’ingegneria genetica di creare nuove forme di vita in vitro o in silicio (Gorz)? In che modo è possibile salvare l’identità come diritto al futuro, diritto a sco­ prire se stessi, dinanzi una prassi senza tempo (Jonas)?

c)

Cultura.

Il riduzionismo è quell’atteggiamento culturale secondo il quale è possibile spiegare e descrivere i fenomeni della vita come il risultato di processi fisico-chimici È una suggestione avanzata negli anni ’30, sotto l’influenza della fisica quantistica, alimen­ tata da II caso e la necessità di Monod, rafforzata dalle infinite capacità manipolative e inventive offerte dalla scoperta della struttura del DNA e dalla relativa constatazione che tutte le spe­ cie viventi sono legate dai medesimi meccanismi fisico-chimici e che questi meccanismi stanno a fondamento del funzionamento dell’intero universo, dalle stelle ai cromosomi. Semplificando, potremmo dire che si basa su uno schema di ragionamento di questo genere. Se è possibile rinvenire una correlazione tra la meccanica del vivente e la meccanica quantistica; se sulla base di questa correlazione la biologia appare riconducibile alla chimica e la chimica alla fisica, cosa impedisce di sintetizzare tutte le leggi della natura attraverso poche equazioni fondamentali, ap­ pena « due righe di simboli algebrici »? L’Universo è una rea­ zione chimica regolata dalla fisica. Il vivente è una reazione chi­ mica regolata dalla fisica. Per inciso, va notato quanto una simile forma di riduzionismo radicale costituisca la dimensione episte­ mologica più vicina alla visione della scienza come potenza...

3.

Dentro il diritto.

Evidenti o latenti che siano, tutte queste spinte culturali e

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ideologiche ci aiutano a comprendere la crisi della legislazione che caratterizza i rapporti tra diritto e scienza. Non si tratta tanto del ritardo rispetto all’innovazione quanto dell’impossibi­ lità di controllare una prassi che altera gli sviluppi sociali, crea aspettative, avanza pretese, attende e impone schemi di qualifi­ cazione. Abbiamo tutta una serie di comportamenti, dalla fecon­ dazione assistita alla manipolazione genetica, che diventano ipo­ tesi giuridiche per effetto della prassi, di estemporanee decisioni giudiziarie, di provvedimenti amministrativi, di codici deontolo­ gici: si accumulano frammenti normativi nel tacito presupposto che spetti ad altri risolvere i problemi etici e politici che la loro applicazione potrebbe sollevare. Solo che questo momento deci­ sivo di ripensamento complessivo e legislativo non sembra arri­ vare mai. La crisi politica di cui abbiamo parlato in precedenza diventa una crisi giuridica e i dubbi sull’esistenza di una spazio democratico di scelta vengono scavalcati dalle scelte che intanto avvengono nei laboratori, negli ospedali, nelle imprese, nei mer­ cati, nella famiglia... Per cui, anche se i timori sulla possibilità di uno residuo spazio decisionale democratico fossero infondati e arrivasse il momento pubblico e legislativo tanto atteso, non po­ trebbe comunque modificare i vari indirizzi interpretativi che si sono imposti né deludere i modelli culturali ed economici che hanno determinato. Un parlamento, oggi, può decidere la guerra all’Afganistan, all’Iraq e forse al mondo intero, ma non potrebbe più modificare le linee generali della brevettabilità del vivente. Non potrebbe, infatti, alterare gli assetti delle imprese, le quota­ zioni di borsa, il finanziamento delle università, la struttura della ricerca... Non è più possibile decidere su questo assetto com­ plessivo, ma questo assetto complessivo è stato deciso? E da chi? Il modo soft per porre simili problemi è parlare di governance come meccanismo procedurale complesso e articolato che sosti­ tuisce la tradizionale struttura monolitica della sovranità, per cui sarebbe ingenuo domandare chi decide e bisognerebbe eviden­ ziare e razionalizzare il come si decide, come sfere e interessi en­ trano in gioco: io credo si debba semplicemente prendere atto dell'incontrollabilità della prassi alimentata da una potenza

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senza oggetto e, quindi, senza limiti e senza controllo. Fram­ mento per frammento, prassi per prassi, il diritto ha subito dei mutamenti radicali che, pur lasciando inalterate strutture con­ cettuali e denominazioni, hanno corroso il tessuto sistematico e il disegno concettuale che le sorreggevano. Per averne una prova, basta rapido elenco dei tanti problemi che i comitati etici si trovano ad avallare, i codici deontologici ad assimilare, i giu­ dici a risolvere, il legislatore a prendere in esame.... a)

Crisi del soggetto.

Il corpo cessa di costituire un dato certo ed univoco nel­ l’assunzione dell’identità soggettiva. Ai vincoli naturalistici su­ bentrano le possibilità dispositive: posso acquistare o alienare organi, sezioni di organi, cellule, linee cellulari, geni, sequenze genetiche. Appare molto labile la linea di demarcazione tra ciò che è me e ciò che è in me. Se si accentua l’aspetto di ciò che è me il corpo appare un elemento costitutivo dei processi di acqui­ sizione dell’identità soggettiva. Ma, perso ogni dato di riferi­ mento naturalistico, il modo di osservare e valutare l’identità ap­ pare variabile e mutevole a misura del senso attribuito al corpo o alle parti del corpo e, viceversa, del senso che il corpo attri­ buisce all’io. Qui di seguito cercherò di mostrare alcuni possibili modelli di identità, prendendo spunto dalla tante riflessioni bioetiche che si sono succedute in questi anni. Al contrario se si accentua l’aspetto di ciò che è in me prevalgono gli elementi pa­ trimoniali e dispositivi come vedremo nel successivo punto b). — Identità personale. Costituisce la tradizionale visione naturalistica, espressa dall’art. 5 del c.c., dell’identità psico-fisica come elemento fondamentale dell’unicità della persona umana. Attraverso l’indisponibilità del corpo, il diritto protegge in modo assoluto il bene della vita, anche oltre la volontà del sog­ getto che ne è titolare. Qualsiasi trapianto, intervento medico o genetico va inquadrato come eccezione, legalmente e rigida­ mente predeterminata. Rigida salvaguardia del principio di gra­ tuità. Questa visione del dominus membrorum suorum nemo vi-

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detur si prolunga del divieto penale tanto dell’omicidio del con­ senziente (art. 579 c.p.) e quanto dell’assistenza o istigazione al suicidio (art. 580 c.p.). — Identità narrativa. Il Sé va oltre il corpo ma si esprime con il corpo. Il principio di autodeterminazione diventa la chiave di legittimazione dell’identità soggettiva. Il corpo non è natura, né merce, né interesse... ma modalità espressiva (come il volto, l’immagine, la voce o la proprietà intellettuale). Non trova più la sua rilevanza giuridica nell’art. 5, ma nel complesso di norme costituzionali che legano il diritto alla salute al diritto alla libertà e all’autonomia individuale e quindi all’idea che l’indivi­ duo ha di se stesso e della propria esistenza (artt. 2, 3, 13, 32 Cost.). Ne deriva un’integrale disponibilità del corpo e della vita entro il quadro del consenso informato e della extra-patrimonialità. — Identità sociale. Il rapporto tra il sé e il corpo à una costruzione sociale. Il diritto va considerato come una « attività in corso », un continuo problem solving, che fornisce risposte specifiche a domande specifiche, subendo revisioni, ripensa­ menti e anche mutamenti radicali. Non esiste alcun senso a priori a cui ricondurre ogni cosa (e neppure una qualsiasi teoria generale dell’esistenza), ma è solo l’esperienza scientifica a for­ nire, caso per caso, il significato che noi dobbiamo attribuire a un certo evento. I « comandamenti » di questo modello di iden­ tità presuppongono un solo dato minimo fondamentale: il con­ cetto di vita (e, quindi, il valore della vita) è variabile. Il corpo come risorsa sfruttabile commercialmente nel quadro di una ge­ stione del sé regolato dal consenso informato e dall’esistenza di un beneficio oggettivo per la collettività. Potremmo pensare a una sorta di disciplina privilegiata del corpo simile a quella dei beni storico-artistici o a quella delle specie protette, per cui sa­ rebbe ipotizzabile un mercato di servizi e beni biologici. Un mercato controllato negli accessi e nella distribuzione a tutela dei contraenti deboli e a salvaguardia degli interesse generali, con la rigorosa verifica, caso per caso, della rilevanza della causa dell’obbligazione. Una nozione di « causa » più vicina alla consi­ deration che ai nostri elementi del contrattuali.

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— Identità manageriale. È la visione che rispecchia mag­ giormente il modello riduzionista: l’identità è biografìa, la bio­ grafìa è biologia e la biologia è chimica. Questa forma di ridu­ zionismo mette in discussione anche l’ultimo residuo organico riposto nel dualismo fondamentale tra il genotipo e il fenotipo, tra l’insieme delle caratteristiche genetiche di un organismo e l’organismo compiuto e visibile quale risulta dall’interazione con l’ambiente interno ed esterno. Il corpo viene quindi a coincidere con i suoi dati costitutivi: è ora DNA ora proteina ora milza ora Salvatore Amato... secondo infinite variabili, aventi tutte la stessa rilevanza giuridica. Finiamo, quindi, per ritrovarci entro un magma indifferenziato in cui non ha alcun senso porre il pro­ blema di una qualsiasi unità naturalistica di identità o di genere o specie. Non esistono limiti all’organizzazione manageriale del Sé e alla costruzione di nuove forme di vita nel quadro di un complessivo re-engineering genetico e informatico: apertura inte­ grale alla logica del mercato come strumento ideale per garantire la più efficiente allocazione delle risorse e la più immediata sod­ disfazione dei deisideri. b)

Crisi dell’oggetto.

La frantumazione del corpo agisce tanto sull’identità indi­ viduale quanto sul regime giuridico del corpo. Inserito tenden­ zialmente entro la sfera patrimoniale regolata dal principio di­ spositivo, il corpo assume diversi livelli di rilevanza, tra loro spesso incompatibili. A differenza dell’analisi dell’identità sogget­ tiva che rimane in gran parte teorica, abbiamo, in questo caso, nu­ merosissime decisioni giudiziali che, dovendo rispondere a precise rivendicazioni (ad esempio: a chi spetta la proprietà di un em­ brione o del DNA), hanno preso in esame diversi schemi di qua­ lificazione giuridica delle parti staccate del corpo umano, dei geni e delle sequenze genetiche, prima e dopo la morte. Emergono soprattutto quattro modelli di qualificazione che possiamo leggere attraverso una linea orizzontale di progressiva crescita nella consapevolezza dogmatica: Proprietà Identità Informazione Salute

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Potremmo però leggerli anche come un processo circolare di reciproci richiami, interferenze e contraddizioni. — Proprietà. Messa da parte la visione del corpopersona, unità integrale e indisponibile, emerge la prospettiva del corpo-oggetto e, quindi, dei suoi vincoli di appartenenza. Il problema del diritto patrimoniale sul corpo ha trovato diverse giustificazioni: tutela del legame biologico (il corpo come perti­ nenza del soggetto) o tutela del vincolo di destinazione (il corpo come insieme di beni destinati al medesimo fine, sul tipo del­ l’azienda) o tutela della manipolazione intellettuale (brevetto) — Identità. Qui l’identità non entra più in considera­ zione, sul modello del punto a), nel suo complesso, ma come manifestazione, specifica e determinata, di un aspetto del corpo. Il fegato o il DNA non sono l’io né il corpo, ma non sono nep­ pure « altro dal corpo »: un qualsiasi oggetto del mondo. Che cosa sono? Si è pensato si risolvere il problema, costruendo una figura dogmatica che abbia le stesse caratteristiche e la stessa tu­ tela del diritto all’immagine. Il DNA o il fegato come elementi fondamentale della mia identità meritano la stessa tutela giuri­ dica della mia immagine o della mia voce. Questo diritto al corpo come diritto all’immagine ha assunto, soprattutto nella giurisprudenza americana, una duplice valenza legata ai valori della dignity o della property. Il corpo-immagine come diritto della personalità e quindi come tutela del valore indisponibile della dignità individuale oppure il corpo-immagine come diritto di proprietà sulla « pubblicità » (publicity) e, quindi, sul diritto alla tutela del valore patrimoniale delle diverse espressioni del­ l’identità, un diritto elaborato soprattutto con riferimento alle personalità dello spettacolo o dello sport. — Informazione. La tutela dell’immagine richiama il pro­ blema dell’informazione. Il corpo è, soprattutto, attraverso il Dna, informazione. Informazione su di me, e quindi privata e soggettiva, ma anche informazione sulla natura umana e quindi sociale e pubblica. Ecco allora l’ambivalenza: può essere consi­ derata un diritto (diritto di conoscere i propri genitori biologici, le proprie predisposizioni genetiche oppure diritto di non sa­

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pere, diritto che altri non sappiano, privacy) o un dovere, il do­ vere di fornire tutta l’informazione disponibile (controlli legali sulla filiazione, sulla commissione di reati, sulla predisposizione genetica a determinate malattie, sulla compatibilità di organi per i trapianti). — Salute. L’informazione incide sulla salute, anche in questo caso, come diritto o come dovere (test genetici prenatali e danno da procreazione, banche di organi, banche dati geneti­ che).

c)

Crisi dei processi interpretativi.

— Nesso di causalità. Potremmo osservare che la stessa spinta che ha determinato la crisi del soggetto e dell’oggetto si riscontra nei rapporti tra soggetto e oggetto (responsabilità e nesso di causalità). Già Max Plank aveva notato che un evento è condizionato causalmente quando può essere predetto con si­ curezza, ma in nessun caso singolo è possibile scientificamente prevedere un evento con sicurezza. Questo problema è emerso emblematicamente a livello giudiziario con il processo del talidomide, in cui il libero convincimento del giudice integra i dubbi della scienza (Landgericht Aquisgrana 1971). Ha trovato un più ampio ed evidente riflesso dogmatico nella creazione della figura del danno esistenziale, chiamata proprio a superare i limiti della verifica medico-legale attraverso un progressivo spostamento dai diritti patrimoniali ai diritti della personalità, dall’oggettivo al soggettivo, dal soggettivo all’emotivo e dall’emotivo all’indi­ stinto. Questo spostamento trae spunto dalla scienza e si ali­ menta apparentemente all’interno dell’orizzonte scientifico (gran parte delle vicende giudiziarie sono legate ai contrasti tra le di­ verse perizie tecniche), ma le decisioni non hanno, né avrebbero potuto avere, alcun fondamento scientifico. Analogo processo di deformazione interna dei modelli isti­ tuzionali caratterizza il problema dei brevetti biotecnologici. Si è dovuta, innazitutto, superare la soglia naturalistica della distin­ zione tra invenzione e scoperta per sostituirla, in via di elabora­

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zione dogmatica, con la distinzione tra sequenze genetiche e uso delle sequenze genetiche. In particolare il sistema statunitense tende a tracciare una sorta di linea evolutiva nella legittimità dei brevetti che separa le domande di prima generazione (che riven­ dicano sequenze parziali di DNA di cui non vengono indicate funzioni note o supposte) e di seconda generazione (sequenze interamente descritte, ma anche in questo caso prive della rela­ tiva analisi funzionale), dalle domande di terza generazione (se­ quenze interamente descritte, che codificano per proteine aventi una specifica funzione empiricamente accertata). Questa distin­ zione, che dovrebbe fornire un supporto scientifico ai nuovi modelli di brevettabilità, non ha alcun fondamento scientifico. Il concetto di funzionalità implica una valutazione i cui parametri sono estremamente opinabili e, certamente, non hanno niente a che vedere con la scienza. Dal punto di vista scientifico qualsiasi sequenza genetica ha una significatività, a prescindere dalla fun­ zione. Esistono ampie distese di DNA (il c.d. DNA spazzatura) che non vengono convertite in proteine. Venter ricorda di aver sequenziato il genoma di un microorganismo unicellulare, il Mycoplasma genitalium, che ha poco più di 500 geni: quelli in­ dispensabili erano solo 300 e almeno 100 non avevano alcuna funzione nota. Altrettanto opinabile è la funzionalità economica perché è estremamente controverso se vada considerata attra­ verso parametri technology-orientet oppure product-oriented. È solo un accenno, ma credo si debba riflettere sul fatto che il ten­ tativo di superare la crisi della distinzione tra causalità naturale (la scoperta) e causalità umana (l’invenzione) ha finito per ali­ mentare un’ambigua nozione di funzionalità biologica (codifica­ zione di proteine) che non elimina i problemi e riflette, semmai, proprio la visione della scienza come potenza, come trasforma­ zione e modificazione. Avrebbe ragione Nietzsche: il torto (il non meritevole di brevetto) è impotenza, mancanza di funzione? — Ragionevolezza. Tanto la vicenda del talidomide quanto il problema del nesso di causalità evidenziano come i pa­ rametri di valutazione che il diritto ricava dalla scienza devono rinunciare a qualsiasi pretesa di certezza, per affidarsi alla pian-

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sibilità e alla ragionevolezza. Tuttavia siamo lontani dal tradizio­ nale tema della prudentia che presupponeva una razionalità giu­ ridica capace di sviluppare un convincente processo argomenta­ tivo dall’ignoto verso il noto. Lo schema concettuale prevalente, quello ad esempio implicito nella decisione del talidomide, nella teoria del danno esistenziale e in gran parte delle decisioni sui brevetti è costituito dalla logica fuzzy. Anche qui abbiamo un modello di ragionamento che deriva dalla scienza, la scienza in­ formatica, e tende a dimostrare come non abbia più senso la lo­ gica bivalente vero-falso. Bisogna piuttosto accettare una logica polivalente che si costruisce sul vago e lo sfumato o su insiemi vaghi e sfumati. Solo così è possibile continuare a tenere assieme l’indeterminazione epistemologica della scienza e l’indetermina­ tezza strutturale del diritto. La ragionevolezza non costituisce più, dunque, il passaggio « prudenziale » dall’ignoto al noto, ma l’acquiescenza sulla relazione statistica tra l’ignoto e il vago.

AMEDEO SANTOSUOSSO (*)

Abbiamo ricevuto dal passato l’idea che la scienza è per definizione universale, nel senso che la scienza non conosce i confini nazionali, mentre la legge, e le Corti che applicano la legge, svolgono la loro attività esclusivamente all’interno dei confini nazionali poiché sono espressione di quella particolare comunità nazionale. Da questo punto di vista, vi è il massimo di disomogeneità tra il discorso scientifico e il discorso giuridico. Tuttavia, per quanto abbiamo ereditato questa idea dal pas­ sato, è innegabile quanto ricche siano le interazioni tra il mondo della scienza e del diritto e in particolare anche del diritto di origine giurisprudenziale. L’intervento del diritto nel campo della medicina e delle scienze della vita non è affatto una novità. Ci sono, infatti, dei casi divertentissimi già nell’ottocento in cui i giudici si sono domandati fino a che punto l’attività sperimen­ tale fosse giustificata, anche se lì si parlava di attività sperimen­ tale all’ingrosso, di semi-squartamenti o cose di questo genere. Quindi, l’intervento del diritto non è una novità, però è un dato obiettivamente vero che negli ultimi decenni, gli interventi sono aumentati enormemente e hanno avuto nature diverse; dalle di­ chiarazioni di Helsinki, alle Good Clinic Practices in Europa, e poi ad una serie di strumenti con diverso valore giuridico, però con la pretesa di affermare dei diritti in un quadro di livello co­ stituzionale universale, come la Convenzione europea sulla bio­ medicina, la dichiarazione UNESCO sul genoma umano e la stessa Carta di Nizza, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che proprio nei primi articoli pone alcuni(*)

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Giudice presso la Corte d’Appello di Milano.

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punti molto importanti a proposito degli argomenti di cui ci oc­ cupiamo. All’interno di questo grande movimento, diciamo generica­ mente, di intervento del diritto in questo campo l’intervento dei giudici ha avuto un peso enorme. Basti pensare che tutti i di­ scorsi legati ai diritti della persona rispetto al proprio corpo hanno una matrice unica: il riconoscimento del diritto all’auto­ determinazione all’interno della relazione tra medico e paziente. È stato questo il punto di rottura a livello mondiale: il diritto al­ l’autodeterminazione è stato riconosciuto in tutti i paesi esclusi­ vamente dalla giurisprudenza. Le leggi in qualche paese ci sono state, ma spesso sono arrivate successivamente per porre dei li­ miti agli standard che avevano riconosciuto i giudici. La visione d’insieme è quella di un quadro ampio, variegato, difficilmente riconducibile ad una logica giuridica organica secondo le cate­ gorie alle quali siamo abituati noi giuristi, nel quale si va deli­ neando, si è delineato un grande interesse verso i diritti fonda­ mentali della persona e un quadro nel quale il diritto di forma­ zione giurisprudenziale ha avuto un ruolo molto importante. Lino degli aspetti interessanti di questo movimento, che si svolto a livello mondiale, è che all’inizio, cioè fino a un po’ di anni fa, questi percorsi erano paralleli e non si riconoscevano l’un l’altro, o si riconoscevano molto poco. Lina delle vicende più divertenti è che, per esempio, lo standard affermato dalle Corti americane nel caso Canterbury del 1972, a proposito del livello di informazione che doveva ricevere il paziente, e che ha segnato una svolta nella stessa teoria del consenso informato ne­ gli Strati Uniti, era già stato affermato da una Corte tedesca nel 1958 praticamente negli stessi identici termini. Secondo me, i giudici americani non hanno citato il caso tedesco per una que­ stione che, tutto mi lascia pensare, fosse di barriera puramente e semplicemente linguistica. Allora, questo movimento è stato fino a un certo punto un movimento assolutamente inconsapevole, come vi dicevo, però nello stesso tempo era un movimento che aveva forti caratteri di affinità un po’ ovunque in giro nel mondo. Un altro aspetto di

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questo movimento variegato è il fatto che spesso i giudici hanno affermato dei principi, anche belli e nobili, dicendo cose assolu­ tamente inesatte dal punto di vista scientifico. Sospendiamo per un attimo tutti i discorsi sulla critica della scienza ecc., però ci sono cose che andrebbero comunque rispettate. Prendiamo il caso Di Bella in Italia, a un certo punto viene investita anche la Corte costituzionale di questo problema. La Corte doveva deci­ dere se il Protocollo che era stato preparato dal gruppo inse­ diato dal Ministro Bin di — nel quale aveva una posizione, non ricordo se ne fosse presidente, il prof. Veronesi — che preve­ deva alcuni limiti di accesso alla somministrazione della terapia Di Bella, fosse costituzionale o meno. La Corte ritenne che il protocollo era incostituzionale, perché il fatto che qualcuno venga escluso dalla sperimentazione costituisce una violazione dell'art. 32 Cost. Ora, voi capite, sarà una nobile affermazione, ma è un’affermazione che scardina completamente la possibilità di fare uno studio clinico, perché uno studio clinico che non ab­ bia un minimo di criterio di accesso non è uno studio clinico, cioè non rende possibile alcuna valutazione scientifica. Questo per dare anche l’idea di come alcuni interventi hanno posto un problema specifico di ignoranza dei giudici di alcuni elementi fondamentali del ragionamento scientifico. Ma­ gari mi verrete a dire che la Corte forse non era così ignorante, magari domani mi fanno un procedimento disciplinare per aver dichiarato che la Corte costituzionale è ignorante. Probabil­ mente la Corte costituzionale non era affatto ignorante, sempli­ cemente voleva fare un’opera di bene. Ma non importa, perché, anche se com'è probabile questo fosse l’intento, avrebbe potuto trovare un altro modo per motivarlo, evitando un’inesattezza dal punto di vista scientifico. Sul tema dell’autodeterminazione della libertà rispetto al proprio corpo, della possibilità di decidere sulla propria vita e sulla propria salute, e quindi su discorsi comunque tribolati come l’eutanasia, o per esempio l’aborto, però, in qualche modo, il diritto e il diritto di origine giurisprudenziale avevano trovato un criterio, avevano trovato un po’ il bandolo della matassa,

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quando però negli ultimi dieci anni è esploso letteralmente il nuovo problema, la sfida lanciata dalle scienze biologiche e in particolare dalla genetica. Per limiti di tempo, vi cito solamente alcuni dei problemi specifici sollevati dalla genetica. Ora, pensiamo solamente ai problemi che sorgono nel campo delle assicurazioni e del lavoro: l’unica protezione che abbiamo, oggi, rispetto all’invadenza delle compagnie di assicurazioni è il fatto che i dati genetici disponi­ bili non consentono ancora la possibilità di sviluppare i calcoli che le assicurazioni fanno su qualsiasi cosa. Ma possiamo star si­ curi che appena, ed è probabile che ci si arrivi, i dati disponibili consentiranno calcoli di questo genere, la pressione per accedere sia alle assicurazioni sanitarie sia ai luoghi di lavoro diventerà immediatamente enorme. Pensiamo ai problemi sollevati nel campo della riproduzione. Oggi esistono alcuni test durante la gravidanza per accertare l’esistenza di alcune malformazioni, o di difetti di tipo genetico. Provate ad immaginare che cosa suc­ cede se il test viene fatto male, oppure se il test pur fatto bene è pur sempre un test che lascia un margine di incertezza perché comunque questi test non sono bianco o nero. Ecco, proviamo a immaginare il tipo di conflittualità che, in parte già esiste, e in parte sicuramente si amplierà, pensiamo a tutti i problemi della disponibilità dello sperma depositato se il donatore muore, non il donatore anonimo, parlo del progetto di procreazione all’in­ terno di una coppia, che sia il gamete solamente maschile o che sia l’embrione lì si sono posti seri problemi di eredità, di diritto di famiglia. Pensiamo al grande problema degli studi di popola­ zioni. Quello che è accaduto in Islanda, dove il parlamento islan­ dese con una legge ha praticamente concesso, o meglio ha dato la possibilità di concedere, ad un’azienda privata in regime di monopolio l’utilizzo dei dati genetici dell’intera popolazione islandese. Questo pone dei problemi di tipo giuridico, di teoria politica, veramente enormi. Ma il vero punto delicatissimo, sollevato dalla genetica, è il fatto che tutti i dati di tipo genetico hanno una caratteristica fondamentale, sono dei dati genetici condivisi, non apparten­

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gono semplicemente al soggetto di cui parliamo, poiché appar­ tengono in misura maggiore o minore agli altri appartenenti alla stessa linea genetica. In questo senso si iscrive la raccomanda­ zione dell’Unione europea del ’97, laddove riconosce che l’archi­ viazione di dati genetici comporta che siano coinvolti anche dei terzi, che sono appunto coloro che appartengono alla linea ge­ netica. Ecco, gli estensori della raccomandazione hanno conve­ nuto di accordare uno status intermedio ai membri della linea genetica del soggetto, così da distinguerli dai terzi in senso stretto, garantendo loro una protezione legale ibrida. Cos’è que­ sta protezione legale ibrida, la raccomandazione non ce lo dice. Non la troviamo scritta in nessun testo, è una cosa che ci dob­ biamo inventare, cioè dobbiamo evidentemente costruire delle categorie giuridiche che, in qualche modo, diano conto di que­ sto tipo di problema. Allora, voi vedete che questi problemi che ho elencato in estrema sintesi pongono una serie di questioni. Per esempio, come interagiscono le categorie giuridiche e quelle scientificho-biologiche? Perché uno dei fondamenti delle nostre società è il fatto che, dopo la fine del patriarcato, le no­ stre società sono società di individui e le nostre libertà si basano sul fatto che l’esercizio della nostra libertà non incide sui terzi. Dal momento in cui emerge questa interrelazione di carat­ tere biologico, che fine fa il principio di conseguenza esposto così bene da John Stuart Mill? Siamo in una asprissima diffi­ coltà. E se diritto e scienza devono dialogare, qual’è il luogo nel quale dialogano? Quali sono le modalità? Qual è il terreno nel quale si colloca questo tipo di discorso? Mentre le vecchie questioni della bioetica ci turbavano, e ci turbano ancora, però non così in fondo, poiché, tutto sommato, quando parlavamo dell’eutanasia sapevamo quali erano i termini della questione, anche se poi ci dividevamo, ma ci dividevamo sulle soluzioni che volevamo dare a questo tipo di problema, qui invece siamo arrivati al punto di non sapere più qual è il con­ cetto di individuo, e quindi a maggior ragione, qual è il concetto di persona, e quindi il concetto di responsabilità de pensiamo al

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caso dell’Islanda dobbiamo tirare in causa anche il concetto di rappresentanza politica, può un parlamento, solo perché è stato eletto, legiferare a maggioranza su una materia di questo genere? E via dicendo. Il caso dei dati genetici condivisi ci pone la que­ stione se possiamo continuare a dire di avere un patrimonio ge­ netico, perché a questo punto, al contrario, sono io ad apparte­ nere al patrimonio genetico, ed ecco che se ne cade tutto, se ne cade una bella fetta della nostra cultura giuridica, civile, penale, amministrativa, costituzionale, tutto quello che vogliamo. Per esempio, nel 1996 negli Stati Uniti, ad una donna viene diagnosticato un tumore al colon già in una fase avanzata, e al­ lora nel fare l’anamnesi, nel ricostruire, eco., viene fuori che il padre aveva avuto lo stesso tipo di malattia e i medici avevano anche accertato che quella malattia, quel tipo di tumore, era un tipo di tumore per le caratteristiche che aveva con familiarità, e non avevano avvertito la donna per tempo. I giudici hanno con­ dannato i medici che non avevano avvertito la donna del fatto che il padre aveva avuto quel tipo di tumore che aveva spiccato carattere di familiarità. Ora, di fronte a questo tipo di problemi, i giudici come hanno reagito nelle sentenze? I giudici non avevano il diritto scritto, non avevano la legge, e quindi non potevano far « la bocca della legge », perché non essendoci la legge c’era poco da far la bocca, e allora, però, dovendo decidere. E hanno deciso come facciamo sempre: cer­ chiamo una fonte di grado superiore che possa comprendere quel tipo di problema. Però, poi, siccome qui le questioni erano nuove eco. sali, sali, sali, si arrivava a ragionare per principi, e molto spesso erano principi generali dell’ordinamento e non di singoli settori del diritto. E che cosa è accaduto? Che decidendo per principi generali e poi i principi generali, o almeno quelli che sono stati utilizzati, sono due o tre — sono la libertà perso­ nale, che ha acquistato una valenza a trecento sessanta gradi ol­ tre il diritto penale, il diritto alla salute e il diritto alla privacy, a seconda, chiaramente, delle configurazioni che assumono nei di­ versi paesi — il risultato è che la giurisprudenza dei singoli stati

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è diventata assolutamente comparabile, cioè ha perso molto i suoi caratteri nazionali. Se andiamo a prendere la casistica giudiziaria nei vari set­ tori che ho nominato, scopriamo che i giudici hanno ragionato in modi sorprendentemente simili, poi le decisioni non sono state ovviamente tutte uguali, però alcune decisioni italiane sono più comparabili ad alcune decisioni americane, di quanto quelle americane siano comparabili con altre decisioni americane, op­ pure con altre inglesi o tedesche o francesi. Il tessuto, cioè, è diventato praticamente unitario. Se poi consideriamo che in alcuni casi è stato fatto riferi­ mento nelle motivazioni delle sentenze a fonti di grado soprana­ zionale come le Good Clinic Practices, oppure le dichiarazioni di Helsinki, oppure si è già cominciato, per esempio, a citare la Carta di Nizza, viene fuori che i giudici si sono rapportati diret­ tamente a dei principi che non erano più neanche principi del proprio ordinamento, ma erano principi di carattere sopranazio­ nale. Questo diritto giurisprudenziale ha dei caratteri che, in prima approssimazione, in Italia si tende a definire come Com­ mon Law, commettendo un errore, poiché la caratteristica fon­ damentale della Common Law è quella di essere fortemente ra­ dicata nel luogo nel quale viene pronunciata la sentenza. Il pre­ cedente è un precedente non solo teorico, ma è un precedente del luogo, è il diritto che viene riconosciuto dal giudice nel caso concreto come diritto di quella comunità. Invece, questa migrazione di nuclei concettuali, questo di­ ritto, piuttosto che come Common Law, può essere definito di­ ritto giurisprudenziale, o Jurist Law, la cui caratteristica princi­ pale è di essere diritto transnazionale. Allora, se è vero che negli ultimi dieci anni i giudici hanno cominciato a rendersi conto di quanto fossero transnazionali le loro decisioni e sono aumentate le citazioni reciproche e non ac­ cade più come nel caso Canterbury l’ignoranza di un caso tran­ snazionale, ne consegue che l’affermazione dalla quale sono par­ tito per cui la scienza è per definizione universale, mentre il di­

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ritto e le applicazioni che ne fanno i giudici sono per definizione nazionali non è assolutamente più vera. Sia pure a livello embrionale, intendiamoci, qui stiamo co­ gliendo una tendenza con gli occhiali verso « il nuovo » di cui parla Bruno Montanari, e sia pure a livello embrionale si è creato un qualcosa. Si sta creando un qualcosa nell’ambito del mondo della giustizia che non è più disomogeneo quanto ad estensione territoriale rispetto a ciò che accade nel campo della scienza. E allora, se questo è lo scenario, come prima cosa c’è da studiare ulteriormente queste cose, da conoscerle meglio, da ve­ rificare meglio effettivamente le concordanze, dove ci sono. Lo stesso termine « concordanze » evoca il diritto pre-codificazione, pre-era delle codificazioni, ed in effetti siamo lì, possiamo usare questo strumento, chiederci dove, come e a quale livello si consolida una communis opinio, e altre cose di questo genere. Da un paio d’anni vengono fatti alcuni incontri a livello interna­ zionale tra giudici e scienziati, e la caratteristica di questi incon­ tri — ve ne è stato uno alle Hawaii nel 2001 e uno in Canada lo scorso giugno — è che sono incontri in cui vi sono scienziati e giudici. Questo accostamento non è che garantisca una perfetta co­ municazione o interdisciplinarietà, però per esempio ha un ef­ fetto assolutamente benefico nel mondo dei giuristi, perché a questo punto i giuristi non partono dalle differenze dei loro or­ dinamenti, ma partono dai problemi e poi riconoscono le diffe­ renze. Ecco, in questa direzione sta sorgendo un Network euro­ peo di giudici e scienziati con un impegno supplementare in questa comunicazione transnazionale questo, il cui acronimo è ENSC, suona come uno starnuto, e sta per European Network for Science and Court. Questo gruppo ha come sede provvisoria 1 Università di Pavia, che ha già cominciato a svolgere una sua attività, che proprio nei prossimi giorni a Pavia il 3 e il 4 giugno farà, oltre che un seminario con la professoressa Jasanoff, il primo incontro fisico, oltre quelli fatti approfittando delle nuove

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tecnologie della comunicazione, aiutato dal professor Veronesi e dal gruppo promotore internazionale al quale partecipano giu­ dici francesi, spagnoli, tedeschi, ma anche di Paesi come la Bo­ snia, l’Albania e via dicendo. Gli obiettivi del Network sono fondamentalmente due. Il primo sviluppare questa consapevolezza e questa rifles­ sione sul nostro modo di operare transnazionale. Il secondo sperimentare sempre di più, e qui è la strada forse più difficile, però anche più interessante, una forma più intensa di comunicazione tra giudici e scienziati, cercando di fare dei passi avanti in quel discorso di guardare all’interno del proprio mondo, e quindi per noi giuristi guardare all’interno delle nostre categorie con la disponibilità a metterle in discus­ sione. Concludo con una battuta, che non è uno slogan che suona male, ma che è la frase di apertura della Newsletter n. 1 del Network: « è tanto antiscientifico essere contro la scienza quanto essere a favore della scienza in modo atipico ».

GUSTAVO VISENTINI (*)

È davvero difficile comunicare e trovare armonia nel lin­ guaggio quando si trattano temi nuovi e interdisciplinari — e per intenderci, non fare cose con le parole, ma dire cose con le parole — perché ci troviamo nell’area di una elaborazione intel­ lettuale ancora in fortissima evoluzione. Non disponiamo, pur avendone necessità, di un linguaggio preciso che funga da tra­ mite di comunicazione del nostro pensiero. Usiamo dunque ter­ mini generici, che ci consentano di avvicinarci, seppur in prima approssimazione, ai concetti che intendiamo esprimere, come quelli che spesso richiamiamo in questo convegno: scienza, tec­ nologia e diritto - profili di governance. Perché usiamo la parola governance emersa più volte anche oggi? Esiste un significato, cioè un riferimento rispetto al pen­ siero dell’altra parte, inteso in modo univoco? È un'idea o è un concetto? La parola governance nell’uso corrente e con una certa approssimazione indica un’idea di controllo, il tenere le fila: un accordo sul modo di amministrare. È anche vero che il termine tende ad assumere, in alcuni settori, un preciso significato tec­ nico. La parola governance è stata usata infatti prima dagli eco­ nomisti nel senso di « organizzazione dell’azienda », poi dai giu­ risti nell’espressione corporate governance. Ritengo che in questa sede valga la pena cogliere il termine nel suo significato gene­ rico, perché quello tecnico tende, a sua volta, a sfuggire. In verità il termine governance è nella lingua inglese ter­ mine antico, recuperato solo di recente nell’uso corrente: il di­ zionario inglese fino agli anni Settanta lo inidica come arcaico e(*)

(*) Ordinario di Diritto commerciale e Metodologia della scienza giuridica presso la facoltà di Giurisprudenza della Luiss.

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desueto, quale potrebbe apparire oggi l’italiano governamento, che conserva nella radice etimologica anche ciò che Bodin inten­ deva per governo della nave, da cui deriva il senso della parola governo riferita al potere pubblico. Possibili sinonimi dunque appaiono: amministrazione delle società, governo delle società, governamento della società. Ma perché governance e non gover­ namene Probabilmente, perché si voleva dare l’indicazione di un sistema di poteri che vengono tra di loro a comporsi nel mo­ vimento, ma come dicevo, il significato puntuale del termine è di difficile individuazione. Come si vede il lavoro da fare è impegnativo, a partire dalla individuazione del significato dei termini che correntemente usiamo: l’esempio della parola governance offre lo spunto per individuare un criterio di ordine, un metodo comune di indagine sui temi proposti nel costituendo dottorato di ricerca. Sin dal Medioevo la ricerca è il motore dell’insegnamento, è l’elemento di valore aggiunto nella didattica: le antiche Università di Bolo­ gna, Parigi, Oxford, richiamavano studenti da ogni dove proprio perché offrivano un insegnamento « nuovo ». Il dottorato di ri­ cerca dovrebbe, insomma, costringerci a trovare un ordine nello spiegare i momenti innovativi, per riproporre nella didattica i ri­ sultati delle nostre ricerche. Oggi inevitabilmente, nelle temati­ che più attuali, ci muoviamo nella dimensione della « innova­ zione », di cui parlava Montanari, e non certo in quella della tradizionale « conservazione del sapere »: nel contempo l’inse­ gnamento ci costringe a fornire dei saperi, che seppur sappiamo essere provvisori, necessitano di essere ordinati. Si tratta di ela­ borare modelli, nella consapevolezza della necessità di un conti­ nuo ripensamento e rielaborazione degli stessi. Ebbene un primo spunto di ricerca, emerso da questa ta­ vola rotonda, riguarda la nozione di verità, il concetto di verità-. tema centrale di tutta la cultura moderna, ed oggi profonda­ mente in crisi, innanzitutto nell’ambito delle scienze c.d. esatte. La crisi e le rivoluzioni concettuali che hanno interessato le scienze della natura agli inizi nell’Ottocento non hanno avuto la stessa portata culturale di quella attuale, poiché non ha mai in­

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vestito le altre scienze sociali, nelle quali si continuava a credere a quella verità, come rappresentazione, di cui parlava questa mattina la professoressa Tallacchini. La crisi di oggi non ri­ guarda solo la verità delle scienze della natura, ma è la crisi della verità di tutte quelle scienze che, nel Novecento, si sono dogma­ tizzate su quel paradigma e che hanno creduto di trovare il loro referente nell'uomo. E molto interessante un recente studio sul liberalismo in­ glese, nel quale si analizza come l’evoluzione del concetto di ve­ rità si sia riflessa nel modo di vivere il liberalismo stesso. Ed emerge che il dibattito politico-culturale nell’Otto-Novecento si fondava sull’idea che esistesse una verità, sebbene nessuno la possedesse, e che soltanto attraverso la discussione ci si sarebbe potuti avvicinare a quella verità che consente il benessere nazio­ nale. Al contrario l’impostazione moderna del liberalismo muove dal presupposto che non esiste una verità come assoluto, ma ciascuno è portatore della propria verità: ovvero la società si compone di individui che risultano portatori di valori diversi, tutti meritevoli di tutela. La discussione è lo strumento per arri­ vare ad una composizione dei diversi valori in gioco. E utile richiamare l’esperienza di un filosofo che ha vissuto la crisi della verità, sino al punto di affermare che la verità non esiste: Ludwig Wittgenstein. Wittgenstein ha aiutato a porre in luce la differenza tra il momento intellettuale in cui recepiamo le cose dall’esterno per conoscerle e quello in cui, con la nostra mente, costruiamo cose con le parole, creando al contempo la stessa realtà sociale. La stessa conoscenza scientifica è un momeno di questo processo. Uscirei dalla contrapposizione tra verità e approssimazione o incertezza. Tra l’altro, contrapponendo la verità all’incertezza si finisce per cadere nel nichilismo. Il che non corrisponde alla nostra esperienza sensibile, perché nell’azione comune noi ab­ biamo dei punti fermi, pur se frutto di elaborazione intellettuale: penso alla moneta. Allora, ritengo che vada focalizzata l’atten­ zione sugli strumenti intellettuali attraverso i quali interagiamo e

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costruiamo le cose e i rapporti, proprio come il diritto che è stata forse una delle massime espressioni di questa elaborazione. Il diritto è pensiero, che la lingua comunica ed i testi docu­ mentano. È pensiero collettivo formulato per l’azione. Evidente­ mente il pensiero e l’azione sono individuali. Ma è pensiero di individui che il dialogo associa nell’obiettivo della comune per­ suasione, sì da tessere in pensiero collettivo un sistema concet­ tuale che in quanto accettato è in grado di indirizzare l’azione di ciascuno all’ordine sociale. Nella prospettiva di ciascuno il di­ ritto appare oggettivo, come un pensiero altro da sé, come una cosa del mondo reale, che io posso conoscere e definire; come una mela. Il divieto di sosta mi si prospetta alla mente come re­ gola oggettiva. Però l’oggettività del diritto è parvenza contin­ gente di un fenomeno che esiste soltanto nel pensiero degli in­ dividui. La mia decisione se rispettare il divieto di sosta è con­ dizionata dall’aspettativa che il vigile intenderà allo stesso mio modo la regola dettata dal segnale; se il divieto è caduto in di­ suso, mi stupirei che d’improvviso un nuovo vigile ne pretenda il rispetto; ma può accadere. Per questo si dice che il diritto è un’istituzione umana, un fatto creato dall’uomo, per contrap­ porlo ai fatti della natura, che sono cose che s’impongono al pensiero e all’azione dell’uomo. L’idea del fiume mi proviene dalla natura, e se devo attraversarlo non posso fingere che non ci sia; anche l’incapace d’intendere incontra sulla sua strada l’ostacolo del fiume. Invece l’idea del divieto di sosta mi si forma esclusivamente come intendimento del sistema concettuale del codice della strada; mi si forma dalla lettura del testo e dalla presunzione che concepisco sulla lettura che ne faranno gli altri consociati; posso fingere che non ci sia divieto e parcheggiare nella consapevolezza che lo sciopero dei vigili rende assai re­ moto il rischio di sanzione; ma può accadere che mi applichino la sanzione. Non posso convincere la natura che non c’è il fiume; invece posso tentare di convincere il vigile della mia buona fede. Nell’esperienza di una società ordinata il pensiero si fa spontaneamente regola comune, sì da condizionare istintiva­ mente l’azione di ciascuno nel regolare i casi della vita. L’ade-

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guarnente alla regola non richiede la riflessione. Ma nessun si­ stema concettuale è completo nel rappresentare l’esperienza; an­ che il sistema normativo non è esaustivo nel prevedere i casi della vita. Sicché l’intendimento comune non sempre, e non ne­ cessariamente, si forma spontaneamente. E necessario riflettere e discutere l’interpretazione per raggiungere la convinzione co­ mune. La conoscenza del diritto è la ricostruzione di un pensiero che è ragionevole si formi comune; è la rappresentazione nella mia mente del grado di ragionevole probabilità che l’idea si formi simile, sì da condizionare l’agire di ciascuno in sintonia con la società. Ma la sua conoscenza non ci dà certezza di iden­ tità dell’idea che si fa comune, perché nella conoscenza del di­ ritto sono dati ineliminabili: la formulazione dell’idea in con­ cetto, perciò astratta dagli accadimenti, tra loro diversi, e quindi non immediatamente assumibili nel concetto; l’individualità della mente di ciascuno nell’intendere il concetto per riferirlo all’accadimento; l’imprecisione della comunicazione linguistica; l’incompletezza del sistema normativo; il mutare degli accadi­ menti rispetto ad un sistema concettuale pensato alla luce del­ l’esperienza passata. Perciò il diritto non può essere studiato come un fatto della natura, ma come un fatto esclusivamente mentale. Va studiato come lingua e come discorso razionale. Oggetto di studio è il si­ stema concettuale che psicologicamente sta nel pensiero degli individui, che la lingua trasmette ed il discorso organizza. Cono­ scere il diritto è analizzarne la lingua e studiarne la razionalità del discorso, per proporre quell’interpretazione che dia la norma sulla quale è probabile si formi il consenso delle parti, della so­ cietà, del giudice che la impersona. Non ha senso qualificare di vero il diritto; dire che la norma è vera. La verità della proposizione di diritto non va ol­ tre l’attendibilità che la soluzione argomentata razionalmente riesca a corrispondere al pensiero che determina l’azione degli altri. Gli argomenti possono essere qualificati razionali, non veri. La norma proposta può essere razionalmente giustificata, non

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asserita vera. Saranno soltanto i fatti a darmi la verifica della presunzione che la riflessione ha formulato come norma. Ma i fatti non sono sistema concettuale, non sono più diritto. Ap­ punto, sono fatti e non pensiero. Come accadimenti possono fornire ragioni, le ragioni del precedente, per argomentare la norma; ma gli accadimenti non sono la norma. Come fatto istituzionale dell’uomo il diritto si manifesta con le stesse forme di altri pensieri collettivi, con i quali spesso condivide la caratteristica normativa, cioè di pensiero per l’azione comune. Fatti istituzionali diversi dal diritto sono: la fi­ losofia, la religione, la morale, le regole della convivenza, del­ l’etica. Il diritto si distingue innanzitutto perché organizza la forza della società al fine di costringere l’azione degli individui in conformità all’ordine imposto. Perciò il diritto è qualificato positivo. Ma la positività del diritto non è nella legge del sovrano; la positività è generata dall 'autorità del processo, nella sentenza data in nome del sovrano. La caratteristica che in definitiva con­ traddistingue il diritto è che l’impiego della forza è affidato al­ l’autorità della sentenza, argomentata nel processo giurisdizio­ nale. Del resto il diritto non ha mai creduto alla verità oggettiva nelle sue diverse espressioni. Se prendiamo la nostra elabora­ zione culturale sul diritto a partire dalla fine dell’Ottocento a oggi ci accorgiamo che forse la credenza in quella verità, che noi oggi riteniamo venuta meno, è presente solamente nella seconda metà del Novecento, ma più come una assioma, che come una reale credenza. Il positivismo italiano della fine dell’Ottocento e dei primi del Novecento non crede alla verità oggettiva delle cose come rappresentazione, ma alla verità che viene costruita nel pragmatismo. Lo chiamerei molto più pragmatismo che po­ sitivismo, penso a Vivante, penso a Coviello e allo stesso Ascarelli. In che senso allora porre il rapporto tra la scienza, la tec­ nologia e il diritto? Dobbiamo, mi sembra, articolare le prospet­ tive nelle quali poniamo il problema della scienza rispetto al di­ ritto. Di continuo i vari problemi che pone oggi la scienza alla

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società divengono necessariamente problemi del legislatore. È un problema nuovo o è un vecchio problema che si prospetta in nuovi casi e che ci costringe, come giuristi, a conoscere nuove realtà e, come operatori di quelle realtà, a conoscere il diritto cioè a lavorare con approcci pluridisciplinari? Da noi sentiamo ancora spesso dire all’economista che non conosce il diritto e che quindi è costretto a fermarsi perché non riesce a capire, ov­ vero al giurista che non capisce di economia e deve fermarsi, ep­ pure si occupa del diritto delle società. Anzi, arriviamo al punto di una netta separazioe tra gli stessi giuristi, a seconda che si oc­ cupino di diritto sostanziale o di diritto processuale A questo punto siamo arrivati ad una situazione aberrante che ci impedisce di conoscere, di elaborare. È evidente che siamo costretti a porci ad un livello interdisciplinare di elabora­ zione dei saperi, proprio come Venezian nel 1920 che, quando ha scritto sulla responsabilità civile, ha dovuto fare studi di chi­ rurgia perché in quell’epoca cominciavamo i grandi casi di re­ sponsabilità del chirurgo. Quindi per dare la risposta giuridica ha dovuto studiare le diverse tecniche chirurgiche e i protocolli medici anche se il criterio della risposta era il vecchio criterio della responsabilità civile, della responsabilità contrattuale per danno, per colpa, per diligenza; ma dentro l’espressione per di­ ligenza c’è tutta la scienza di quel settore. Da questo punto di vista abbiamo da lavorare tanto, da or­ ganizzarci, ma non c’è un fatto concettuale nuovo. La scienza pone problemi che probabilmente prima dovrebbero essere prima decantati dall’etica, in modo tale da favorire il legislatore nel momento in cui deve compiere quelle scelte che diventano o s’impongono come improrogabili. Se ricordiamo il problema po­ sto dallo scongelamento degli embrioni — è ormai una vicenda di cinque o sei anni addietro — è stato risolto dalla comunità degli scienziati praticamente nello stesso modo nei diversi paesi e la soluzione era: siccome non si sa più di chi è l’embrione dopo un certo periodo di tempo se non viene richiesto non viene seguito scongelato; cioè la morte dell’embrione. La soluzione era la stessa nella comunità scientifica o medica, ma solo in alcuni 4

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paesi si è giunti ad elaborare una legge che prevedesse lo scon­ gelamento, in relazione al grado di maturazione dei valori coin­ volti nei vari Paesi. Tanto che mentre in Francia ed in Inghilterra la legge è stata promulgata, in Italia non si è arrivati mai all’ac­ cordo parlamentare sullo scongelamento. Ecco allora che il criterio di verità cede il posto ai diversi argomenti nelle scelte, i criteri delle scelte. E proprio nel momento ella scelta si ripropongono pro­ blemi di comunicazione e di interdisciplinarietà: penso al mo­ mento di decisione giurisprudenziali in assenza di un legge. La creazione della corte e l’imposizione del processo sono necessari a creare il diritto; ma possono anche essere sufficienti. Chia­ miamo diritto giurisprudenziale il diritto creato dal processo an­ che in assenza di legge. Nelle nostre esperienze il diritto ammi­ nistrativo è essenzialmente processuale. La scelta di una delle possibili soluzione, la ricerca argo­ mentata del plausibile richiede la riflessione del ragionamento. Nel dialogo giuridico non qualunque proposizione, non qualun­ que argomento, ottiene l’adesione della controparte, del giudice, della società. L’adesione è più o meno probabile secondo la forza dell’argomentazione; l’adesione dipende dalla razionalità dell’argomentazione. I criteri della razionalità si rivelano co­ muni. Da questi argomenti e dalla qualità del processo, nell’am­ bito del quale vengono discussi dipende la qualità del diritto.

LUIGI PANNARALE (*)

Devo dire innanzitutto che ero venuto qui a Catania, a questo convegno con aspettative alte, e una volta tanto non sono state affatto deluse. Mi sto occupando da qualche tempo, non da molto tempo, del principio di precauzione, quindi di un princi­ pio assolutamente centrale rispetto a quello che in dibattito emergeva già stamattina, soprattutto dalle cose dette dalla col­ lega Tallacchini, ma anche da quelle della Jasanoff e che penso tornerà un po’ come riferimento più o meno esplicito anche nel dibattito pomeridiano. Io avevo individuato il momento eziologico forte di questo principio di precauzione, da un lato nello sgretolamento del concetto semantico di progresso, dall’altro nella progressiva dif­ ferenziazione dei sistemi della società, nella complessità dei si­ stemi sociali, e quindi nella differenza di codici comunicativi, come direi io con un linguaggio un po’ più mio, all’interno del sistema della società. Mariachiara Tallacchini ha messo in evidenza un terzo ele­ mento problematico connesso ai primi due, che è quello della fi­ ducia nella scienza. Si affacciano alcuni interrogativi: com’è possibile avere fi­ ducia nella scienza? perché avere fiducia nella scienza? perché avere più fiducia nella scienza rispetto ad altre forme possibili di conoscenza? Anche in Italia questo è un problema che è tornato con drammaticità, in alcuni momenti è diventato anche caso giudi­ ziario, adesso per fortuna è un problema dimenticato e accanto-(*)

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Ordinario di Sociologia, Università di Bari.

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nato, ma sappiamo che siamo stati ossessionati drammatica­ mente per mesi dalla cosiddetta cura Di Bella. La cura Di Bella è proprio un esempio, che fra l’altro è di­ ventato anche caso giurisprudenziale di confronto fra scienza ed altre modalità di cura, altre modalità di conoscenza più o meno verificabili più o meno compatibili con i dettami scientifici. E ri­ spetto a questo da sociologo del diritto qual sono, e molto di più non so e non posso fare, devo vedere come reagiscono i sistemi della società rispetto a questo. Il sistema giuridico, mi pare che, fino ad oggi non inventi molto; mi sembra che, poi, la reazione che oggi abbiamo è una reazione che, tutto sommato, i giuristi potrebbero inquadrare nella inversione dell’onere della prova, che è un principio non nuovo rispetto alla costruzione della reazione del diritto rispetto all’incognito, o rispetto al pericoloso. Per esempio l’art. 2050 c.c., che riguarda il risarcimento dei danni per le attività perico­ lose, rispetto ai normali criteri di colpevolezza inverte l’onere della prova, e quindi chi compie attività pericolose deve dimo­ strare di aver fatto tutto il possibile per evitare le conseguenze dannose che da quelle attività derivano. Il principio di precauzione è sostanzialmente, possiamo dire, un adeguamento di questo criterio laddove la scienza passa da una condizione di fiducia a una condizione in cui vi è una presunzione di pericolosità dell’attività scientifica: il nuovo di cui ci parlava molto bene Bruno Montanari. Questa è la prospettiva del diritto. Ma qual’è invece la pro­ spettiva della scienza? La prospettiva della scienza è quella della distinzione fra il konnen e il diirsten fra ciò che è possibile e ciò che è legittimo. Dal punto di vista del sociologo, e qui finalmente vado sul terreno mio, tutto questo non è altro che, è stato detto molto bene da Mariachiara Tallacchini, il confronto fra cognitività e normatività. In buona sostanza abbiamo, da una lato questa reazione del diritto che non è altro se non la normativizzazione di ciò che non è conoscibile, mi chiedo, e questo potrebbe essere un eie-

LUIGI PANNARALE

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mento di riflessione sul quale non ho ancora delle mie convin­ zioni, se, al di là della normativizzazione di ciò che non è cono­ scibile, non assistiamo anche, di contro, alla cognitivizzazione di ciò che non è normale, e cioè dove si sa non c’è più bisogno di norma giuridica e quindi una ecologia del diritto che può disin­ teressarsi di una serie di campi del sapere in virtù della cono­ scenza acquisibile all’interno di quelle forme una degiuridificazione. È difficile articolare un esempio, perciò la pongo come ipotesi, non la pongo come cosa sulla quale ho già arato, mi chiedevo con voi se è possibile questo perché, facciamo il più banale degli esempi: fumare sappiamo ormai che è dannoso per la nostra salute, al di là del normare il fatto che è vietato fumare nei luoghi pubblici, laddove il nostro comportamento incide con le vite degli altri, la salute degli altri ecc., è sicuramente super­ fluo normare il divieto di fumare in privato. Ecco, la non neces­ sità di un divieto di fumare in privato è appunto la sostituzione di una condizione certa rispetto a una normazione eventuale che ormai diventa inutile. E su questo mi piaceva molto il discorso di terzo livello che sia la professoressa /asanoff, che la collega Tallacchini facevano sulla valenza cognitiva del diritto, e sulla valenza normativa della scienza, che complicano ulteriormente questo quadro. E una ri­ cerca da compiere non è una ricerca già compiuta, e diciamo sono ulteriori spunti per il dottorato, se vogliamo, quanto a un possibile campo comune di riflessione. Ultime due cose e concludo rapidamente, perché per la ve­ rità sono andato oltre i limiti che mi ero prefisso. Una è una domanda diretta alla professoressa Jasanoff che, parlando di bilanciamento di interessi usa il concetto di interesse come centrale. Io non so se non sarebbe più utile, anziché par­ lare di bilanciamento di interessi, parlare in termini di bilancia­ mento di rischi, perché mi pare aprire una possibilità a prospet­ tive ulteriori di analisi. Gli interessi sono qualcosa forse di troppo concreto e con­ tingente, e quindi di ancor meno controllabile rispetto invece al concetto di rischio, e il bilanciamento di rischi lascia oltretutto

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forse un campo di apertura di analisi rispetto ad alternative pos­ sibili a quella che oggi sembra, almeno in questo contesto, una via quasi obbligata che è poi la regolamentazione giuridica. Per esempio la monetizzazione dei rischi, che è una via non nuova, ma molto spesso praticata, cioè di fronte alle incertezze e agli incogniti della scienza aumento i costi del prodotto per gli even­ tuali risarcimenti danni futuri, a fronte dell’alternativa di assicu­ rare il prodotto, e quindi comunque ridistribuisco i rischi lad­ dove sarebbe molto difficile bilanciare gli interessi contrapposti. Ultima osservazione, ma veramente un flash, proprio come tema di ricerca per il dottorato: il livello trasnazionale del diritto, è un momento in cui il diritto dimostra ancora più debolezze e ancora più deficit di efficienza, di quanti non ne dimostri a livello nazionale, e quindi si pone il problema di come a un li­ vello trasnazionale la regolamentazione giuridica possa essere veramente un equivalente funzionale, lasciatemelo passare, della incertezza della scienza, mi chiedo quindi se, per esempio, livelli mediati rispetto al livello trasnazionale come la dimensione eu­ ropea potrebbero essere una possibile via di fuga, o anche di so­ luzione, rispetto a questo problema.

ROBERTO ALOISIO (*)

Proseguo nel ragionamento che ha svolto il dottor Santo­ suosso, quando nella parte conclusiva del suo intervento faceva riferimento al diritto giurisprudenziale. Pensavo all’alternativa tra diritto giurisprudenziale e diritto legislativo, come a due modalità attraverso le quali si possono esercitare controlli differenti a seconda dei punti di vista. Mano a mano che si svolgeva il ragionamento degli interventi mutava l’angolazione prospettica nella quale io mi collocavo e ad un certo punto ho perso il filo del discorso; sono stati tali e tanti i suggerimenti, le suggestioni, le indicazioni, il confronto tra scienza e diritto, la distinzione tra scienza e tecnologia per cui sarebbe interessante capire come si conclude questo conflitto che v’è tuttora, e che ognuno percepisce tra diritto e tecnologiascienza, questa battaglia, se così la vogliamo definire con una parola un po’ troppo impegnativa. Se continuiamo a ragionare sui profili aperti dal dibattito, i dati da constatare sono questi: esiste una scienza, una tecnolo­ gia; la tecnologia va avanti e il diritto è conservatore, la scienza è progressista. E allora, vengo al mio intervento, e mi scuso se mi sono permesso di arrampicarmi su qualche liana che mi avete lanciato in questo empireo culturale che non si addice ad un avvocato che è un modesto artigiano del diritto. Noi viviamo l’esperienza del diritto nelle microtragedie del processo, la nostra esperienza si forma lì, in piccole tragedie che si consumano dove vi sono interessi in conflitto, e dove ci si può trovare dinanzi contraddit-(*)

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Avvocato presso il Foro di Roma.

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tori forti che non gradiscono un avvocato che patrocina una pic­ cola causa, o che tutela un piccolo interresse. Il contraddittorio forte non gradisce il giudice né gradisce il diritto giurisprudenziale: vuole certezze. E la tecnologia vuole ed impone le sue certezze. Questo è un dato che io mi sento di dire scontato dalle nostre coscienze, poi con le nostre teste pos­ siamo giocare come vogliamo. Possiamo svolgere il gioco del punto di vista. È diventato un gioco il punto di vista, ognuno ha il suo punto di vista, io la vedo da questa angolazione. Poiché il mio contributo in questa sede così elevata non può che essere un modesto contributo, di un modesto avvocato che esercita onestamente e duramente la professione nel quoti­ diano, vi dico queste poche idee che ho cercato di organizzare dando sistematicità, perché io non posso dare apporti culturali, non ho una caratura specialistica in un settore particolare, sono un genericista, uno che tenta di navigare nel mondo del diritto che non è né il diritto penale né il diritto civile né il diritto co­ stituzionale, ma è tutto questo, perché un diritto civile, ad esem­ pio, che venga esercitato esige la conoscenza del diritto crimi­ nale, dei principi costituzionali, dei principi comunitari, dei principi internazionali. Talvolta vado curiosando in questo mondo affascinante, devo dire, dove ciò che avverto in modo diretto è la grande im­ portanza della gerarchia delle fonti, e i dubbi mi vengono sul valore di queste entità giuridiche sopranazionali. Che cos’è l’ONU? Che sono le Nazioni Unite? Che cos’è il Consiglio di Sicurezza? Che ruolo svolge? Quale incidenza può avere? Qual è la caratura di normatività delle emanazioni delle regole di di­ ritto internazionale. Mi scuso della intensità, non emotiva, ma partecipativa, perché sono problemi, quelli che avete dibattuto e che ho ascol­ tato anche questa mattina, che sento nel profondo di me stesso. Allora, quando, e arrivo poi rapidamente alla parte che mi è propria — vi do soltanto i riferimenti da cui parto per ragione di onestà intellettuale — vedo sullo scenario scienza, tecnologia

ROBERTO ALOISIO

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e diritto; vedo tre mondi rispetto ai quali un avvocato — man­ teniamoci sul profilo basso, sarebbe troppo se dicessi un giuri­ sta, almeno per quello che mi riguarda — si pone questo inter­ rogativo: sono tre mondi che si pongono sullo stesso piano? Sono tre mondi che hanno gli stessi diritti di incidenza sul­ l’umano e sul sociale? O vi è una gerarchia tra questi tre mondi? E questo è un interrogativo di fondo che ci dobbiamo porre, e ci arriveremo subito dopo, non mi voglio sottrarre a questo tipo di valutazione ma credo si capisca. Sono tre mondi che hanno una collocazione gerarchica. Io, per non impelagarmi in quella sottilissima ma acuta distinzione tra scienza e tecnologia, mi fer­ merei a tecnologia perché mi è più agevole poter svolgere il ra­ gionamento che sto per sviluppare. Prima di porre questo inter­ rogativo di fondo — se tra questi tre mondi vi sia una pariteticità di funzioni, sia pure in settori diversi, la scienza per le ricer­ che, i processi scientifici per potare il bene e la salute, per mi­ gliorare lo stato di conoscenza o per applicarli tecnologicamente per produrre prodotti, perché la tecnologia è questa: produce prodotti, vuole produrre e diffondere prodotti, niente di più di questo — credo che sia importante una ricognizione e dichiarare ciò che si percepisce, ciò che ognuno di noi dovrebbe percepire. Credo che l’esperienza, la storia, se mi consentite questo termine così impegnativo, ad uno che storico non è, sia oggi giunta al punto da farci constatare un dato oggettivo, che nes­ suna coscienza può mettere in discussione onestamente, e cioè che la regina che governa il mondo è la tecnologia. Il professor Ragusa Maggiore stamattina diceva che la tec­ nologia è fatta da uomini per uomini. La tecnologia decreta i nostri bisogni, i modi di soddisfarli, gli scopi da perseguire con una proliferazione di desideri indotti che rende l’idea di infinito o di abisso, scegliete voi. Sono concetti, impressioni, a voi tutti noti che si traducono nell’espressione semplice, spero non sem­ plicistica, secondo cui la tecne si è trasformata da mezzo in fine, nello scopo ultimo. Di qui la creazione tecnica appunto dei bi­ sogni che proliferano senza limiti e che orientano i nostri inte­ ressi, i nostri desideri, i modi attraverso i quali soddisfarli ed ap­

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pagarli. Nella società globale, questa espressione ormai abusata e ridicola, ma che comunque rende l’idea di una società in cui vi è un capovolgimento radicale tra uomo e tecnica, in cui l’uomo non è più motore, ma ricettacolo passivo soggiogato dagli im­ pulsi provenienti dalla tecnica. La tecnica è una sorta di organismo vivente, inutile nascon­ derlo, che dispensa i suoi beni e ha come unico obiettivo quello di dilatare senza misura, e dunque all’infinito, i bisogni dei de­ stinatari; se ciò sia un bene o un male è compito della coscienza di ognuno, di ciascuna coscienza nella sua unicità e solitudine, senza possibilità alcuna da parte mia di dare fastidio o conforto a qualcuno dei presenti. Ma ciò che devo dire invece, per one­ stà di parola, è che questo processo tecnologico è inarrestabile, e questo è il dato di cui dobbiamo prendere atto serenamente e definitivamente. È inarrestabile e nessuno lo potrà mai fermare. Il compito che a noi residua e che dobbiamo ritagliarci è cercare di capire perché, il cur latino, perché tutto ciò. Da questa analisi del perché, ognuno potrà innalzare il proprio grado di preveg­ genza di ciò che accadrà, se non altro perché ognuno preve­ dendo si prepara alla situazione che accadrà. L’altra considerazione, e vengo al punto, è il diritto. Il diritto non ha nessuna supremazia rispetto alla tecnolo­ gia, per quanto si dica che il diritto legislativo interviene per li­ mitare la tecnologia o il diritto giurisprudenziale interviene per fissare principi che limitano la tecnologia laddove tocca, invade interressi superiori, il diritto alla salute, il diritto all’ambiente, quei diritti che lo stesso Trattato dell’Unione Europea prevede e fissa. Vi è una norma nel Trattato europeo che fa riferimento ai diritti costituzionali comuni dei Paesi membri della Comunità Europea, una sorta di slancio del diritto scritto alle forme di un diritto per principio; e il diritto legislativo è talmente invadente che se ne cerca di aggirare l’invadenza attraverso la costruzione dei diritti umani, ad esempio. Il diritto non ha supremazia, ma è soggiogato dalla tecno­ logia, dalla tecne. E una constatazione sulla quale si potrà discu­ tere all’infinito, ma è questo quello che mi sembra si possa con-

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ROBERTO ALOISIO

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statare. E quindi il diritto sotto questo profilo non è altro che uno dei tanti mezzi di cui la tecnica si avvale, la quale fa dire al diritto ciò che serve al fine di rende funzionale il mondo norma­ tivo alle esigenze della tecnocrazia. La tecnologia mal sopporta ingerenze non funzionali del diritto, sia giurisprudenziale o legislativo, ma mentre quello legi­ slativo è più controllabile perché i poteri forti possono influire molto più agevolmente su un potere legislativo, piuttosto che sulla miriade di giudici e di avvocati che operano nei diversi Paesi del mondo. Il diritto è uno strumento quindi della tecno­ logia, è divenuto strumento della tecnologia. Il diritto però non è uno strumento che si addomestichi facilmente, ha dei momenti di ribellione anche significativi, anzi è impossibile che il diritto si addomestichi del tutto, qualunque potere forte vi sia a livello nazionale o sopranazionale, perché ci sarà sempre una mino­ ranza chiamata ad applicare il diritto che riterrà di attribuire al diritto stesso il primato dei primati sulla tecnologia. Il diritto non può che avere una supremazia sulla tecnolo­ gia e sulla scienza. Questa minoranza che non lascerà mai che il diritto venga addomesticato è sfuggente, non si lascia catturare, anzi non si arrende. E quella minoranza che si è rinserrata nelle Corti, nel corpo dei giudici e nelle avvocature di tutti i paesi del mondo e che è mal vista dal potere in genere e dalla tecnocrazia in specie. Si affaccia un interrogativo: che cosa fa in definitiva un av­ vocato della tradizione occidentale, se non dare ascolto agli in­ teressi, alle voci dei cittadini, dei gruppi, delle società, delle per­ sone giuridiche, al fine di invocare una tutela di interessi e di di­ ritti che appaiono, da quel punto di vista essere stati calpestati? E che cosa fa una Corte, se non giudicare le singole domande di giustizia per decidere se attribuire o negare la tutela postulata. Questa minoranza, perché di minoranza si tratta, è fasti­ diosa, lo so che è fastidiosa, i giudici che decidono i casi, e la Jasanoff nelle citazioni che ha fatto nel suo volume lo mette in evi­ denza, le Corti che hanno deciso contro gli interessi forti hanno dato fastidio e danno fastidio prima agli avvocati che patroci­

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nano queste cause e poi ai giudici che le decidono. È fastidiosa questa minoranza perché non è funzionale al sistema tecnologico del potere tecnologico, è un inciampo di percorso, dal momento che non è possibile controllare tutti i giudici e tutti gli avvocati che operano nelle c.d. aule di giustizia. Quando accade che un potere tecnologico viene arrestato nella sua azione, nelle strutture deputate ad emanare i corpi normativi si attiva un allarme, perché il sistema non gradisce di essere messo in discussione, e lo slogan comune è « il progresso non può essere arrestato ». Non vi farò, evidentemente, riferimento a casi specifici, mi limito soltanto a segnalare alla vostra attenzione che quando si pone un problema di tutela della salute o dell’ambiente ci tro­ viamo, come vi dicevo, sempre dinanzi a contraddittori forti, potenze produttrici di progresso tecnologico. Certo non tutti i giudici e gli avvocati sono così mal sop­ portati dalla tecnocrazia, ma solo quelli che abbiano i requisiti dell’indipendenza, della imparzialità e siano professionalmente attrezzati, e vi prego di credermi che anche gli avvocati hanno l’obbligo della in dipendenza e dell’imparzialità, in un modo, in una prospettiva diversa rispetto al giudice, ma anche per l’avvo­ cato c’è il dovere e il giuramento di servire gli interessi della giustizia. Affinché siano professionalmente attrezzati, sappiano cioè coniugare fatti e valori attraverso la mediazione del diritto, e perché ciò sia possibile, occorre che il giurista sia dotato di cul­ tura. Sono necessari centri di produzione di conoscenza, il pas­ saggio successivo sono i centri di produzione di cultura. La co­ noscenza è un mezzo per giungere alla cultura e possibilmente a quello che gli inglesi definiscono knowledge come prima fase. Il giurista deve essere dotato di cultura. La cultura è l’opposto della conoscenza iperspecialistica che si risolve in un processo continuo di riflessione sui dati del­ l’esperienza, ecco perché, e concludo, a me pare che i giudici di professione e di sicura fede, possano essere i periti peritorum, al

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di là di esperti in scienze e tecnologie, il giudice come l’avvo­ cato, sotto altri profili, sono giuristi di professione capaci di es­ sere periti dei periti, perché non devono conoscere i processi di produzione tecnologica, ma devono soprattutto capire la meto­ dica, gli esiti e l’impatto che gli esiti stessi hanno nell’ambiente sociale in quanto, i giudici di sicura fede, abbiano il dovere di stabilire come ultima istanza qual è l’interesse che deve prevalere e quale cedere. A me non spetta fare pronostici, mi preme di ricordare al­ l’esigua minoranza cui facevo riferimento che il mondo dei va­ lori si misura non con le maggioranze numeriche, ma con il me­ tro della qualità.

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Owiarriente non mi azzardo nemmeno a tirare uno straccio di conclusione, però mentre parlavano i miei colleghi, cercavo di decifrare quale fosse la linea di riflessione. Credo che questo dibattito rappresenti in vitro esattamente quello che sta succedendo nel dibattito contemporaneo. Ho re­ centemente partecipato ad un congresso di comparatisti i cui temi di discussione coincidono pressoché con quelli agitati in questa sede. Trovo molto utile che sia stata proposta una rifles­ sione di tipo concettuale sull’uso della categoria della gover­ nance. Le due soluzioni che sono venute fuori sono la soluzione procedurale, cioè quella per cui il modo di trattare e decidere questi temi dipende dalla modalità con la quale si focalizza il tema e si stabiliscono le strutture per decidere, che ha un livello alto, per esempio quello della Comunità Europea che finisce an­ che per decidere di non decidere; e quell’altra soluzione, un po’ da bassa cucina, che io richiamo con l’esempio di come in Italia la tecnica dei comitati etici ha realizzato una sorta di politica dello struzzo. Cosa voglio dire? Quando i temi sono inquietanti, e i temi della biotecnologia lo sono sempre di più, decidere è difficile. Da parte del politico decidere è l’esercizio del rischio per eccellenza, così ci si è attrezzati, attraverso l’istituzione dei comi­ tati etici, spostando il conflitto sulla decisione a livello procedu­ rale, producendo il sottoprodotto del conflitto: come e chi deve decidere in nome di tutti.(*)

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Ordinario di Sociologia del diritto, Università di Roma Tre.

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Decidere su queste cose è veramente difficile, e si è deciso di decidere, attraverso la politica dello struzzo, che spesso sfiora il comico: si litiga su chi debba far parte dei comitati etici. Chi ci deve stare? Il sociologo? Beh, ma si, poi da quando sono anche nel Consiglio di Amministrazione della RAI, figura­ tevi. Ci deve stare l’antropologo? Ma no, tutto sommato. Ci deve stare il medico? Si. Il pediatra? Si. Il filosofo? Si. Ma, quale fi­ losofo? Quale medico? Quale psicologo? Quello della Scuola di Palo Alto, o quello di Padova? il rosminiano o il, ed è un bel­ l’eufemismo, « persiano »? La questione della governance è il paradosso della deci­ sione. La decisione procedurale è la decisione probabilmente più seguita, ma rimane sullo sfondo la questione sostanziale, cioè come dobbiamo decidere questo problema, in che senso dob­ biamo scegliere quando questi valori sono incompatibili, quali sono i processi di aggiudicazione quando i valori sono conflit­ tuali. La governance pone dei problemi di inadeguatezza, di defi­ cit di democrazia nella sfera pubblica. Govenance in questo senso è sfera pubblica: i modi e le procedure di decisione, i contenuti della decisione. Su questo potremmo insieme stare per ore a discutere quali sono i paradigmi della decisione nelle scelte pubbliche, e quali sono gli aspetti spesso inattesi delle decisioni in materia di sfera pubblica. Questo è uno dei punti che secondo me bisognerà svi­ luppare attentamente, ma che per ora non possiamo che liqui­ dare con la storia che la governance in questo caso, trattando di questioni che coinvolgono la dimensione ecologica, e la vita è dimensione ecologica, è una sorta di strategia di ordine, che si produce quando si definiscono i temi, si realizzano meccanismi di decisione e si producono effetti della decisione. Del resto il famoso caso Moore è un esempio evidentis­ simo, una sorta di messa all’ordine del giorno di questioni che soltanto il mercato aveva suggerito: di chi è l’informazione gene­ tica che viene fuori quando si scopre un’informazione genetica?

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È del soggetto il cui corpo contiene questa informazione, o del ricercatore che è riuscito a metterla in evidenza, o meglio della casa farmaceutica che poi la divulga? Questioni emerse per un semplice incidente fiscale: chi deve pagare le tasse? Questa è stata un po’ la questione che ci riporta alle strategie di ordine che sono sottese e che non dobbiamo dimenticare. Non dob­ biamo sopravvalutarle ma non dobbiamo neanche dimenticarle. Il problema in tutta la sua complessità è che la sfera pub­ blica deve decidere su questioni della vita che riguardano gli in­ dividui e le collettività. Questa è un’altra dimensione della que­ stione di cui ci stiamo occupando, però con alcune consapevo­ lezze. Queste consapevolezze sono banali, le riproduco come se fossero piccoli aforismi. La questione della diversità dei tempi, dei campi, dei saperi disciplinari e dei soggetti che se ne devono occupare. Non dobbiamo dimenticare quello che da sempre sap­ piamo, dal mondo greco, dai Greci in poi, moriamo nella stessa maniera. Non dobbiamo dimenticare che il tempo della tecnolo­ gia è il tempo del cosiddetto pensare, cioè individuare il pro­ blema e trovare la soluzione. Il codice linguistico della tecnologia è la possibilità, la di­ sponibilità dell’azione. Il tempo del diritto è un altro. La diffe­ renza è che il codice del diritto è un interrogativo sulla possibi­ lità, e il punto interrogativo è una immissione forte di anacroni­ smi nella decisione, cioè bisogna perdere tempo. Quando in un processo bisogna decidere se fare in una maniera, o nell’altra, la prima cosa che viene in mente è che non esistono limiti di am­ missibilità della prova, perché il processo ha la sua logica e non si può decidere con gli stessi tempi con cui bisognerebbe deci­ dere per la tecnologia; dobbiamo avere, necessariamente, un’al­ tra economia del tempo. Per questo il diritto deve attrezzarsi per conquistare un mi­ nimo di riflessività rispetto alla tecnologia. Vi faccio un esempio. Una questione di anacronismo dei tempi della tecnologia e del diritto è sotto gli occhi di tutti da molti anni, da quando in al­

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cuni Paesi la tecnologia informatica consente lo spostamento di una ingente somma di capitali da una banca all’altra, da un Paese all’altro con il tempo della battitura di un tasto non può essere il tempo, non può essere il tempo delle rogatorie interna­ zionali. Possiamo lavorare per ridurre i tempi, ma non potremo mai evitare una ritualizzazione senza la quale non esiste un pro­ cesso che sia un processo giudiziario, quindi dobbiamo saperlo che i tempi sono sfasati. Il problema, il dramma che accompa­ gna sempre questi discorsi, è che l’inadeguatezza dei tempi sarà destinata sempre a dover essere colmata ma mai interamente eli­ minata. Seconda consapevolezza. Dobbiamo sempre conservare una sorta di autonomia rela­ tiva del diritto rispetto a tutti gli altri sistemi. Dobbiamo conservare e preservare un valore proprio del dialetto del diritto, non sappiamo quale sia, possiamo anche ne­ goziarne il significato, però sappiamo soltanto che il diritto è scommessa di una differenza rispetto a tutto il resto: alla morale, alla religione, alla tecnologia, a qualsiasi cosa. Cerco di produrre auto persuasione, ci credo sino in fondo. Rivendico la necessità che il giurista abbia la vecchia fronesis ri­ spetto a processi decisionali che non possono essere lasciati ai novissima, cioè non basta una decisione, una consapevolezza nuova, per ribaltare tutto il resto. D’altra parte posso garantire descrittivamente che da sem­ pre il diritto ha avuto, in quanto dotato di autonomia relativa, questo compito rispetto a tutto il resto. Volete degli esempi? Beh, nel bene e nel male, la questione delle biotecnologie è stata anticipata dal mondo dell’economia, è stata anticipata dalla reli­ gione, è stata anticipata da tutte le altre cose, ma il processo di adeguamento ermeneutico di compatibilità tra il linguaggio del diritto e gli altri linguaggi è stato da sempre il mestiere del di­ ritto. Ad esempio, siamo davvero proprietari del nostro corpo? La questione della proprietà viene sistematicamente ridefinita in maniera ermeneutica da Corti, da giuristi e da legislatori, ogni qualvolta ci si rende conto che il rassicurante confine di una

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proprietà viene valicato costantemente. Ad esempio: se io sono detentore dell’unico midollo spinale compatibile con quello da trapiantare nei confronti di un soggetto che ne ha bisogno, siamo tanto sicuri che io sono proprietario del mio midollo spi­ nale? La vecchia rassicurantante posizione della proprietà come ius excludendi siamo sicuri che non viene travolta immediata­ mente? Io credo che in questo caso la proprietà cominci a decli­ nare dimensioni della solidarietà che sono inattese, così come sono inattese rispetto alla questione delle informazioni geneti­ che, quando queste finiscono per riguardare intere classi di cit­ tadini. Ad esempio: siamo tanto sicuri che le informazioni gene­ tiche che stanno sostituendo, o stanno riproducendo per molti versi la questione della medicina predittiva ci aiuti più di tanto a risolvere la questione dell’identità? Io penso proprio di no, perché se anche sapessimo in anticipo tutto quello che è il de­ stino della mia persona, e quindi la definizione della mia iden­ tità grazie ad una medicina predittiva, e adesso con la sfida delle informazioni genetiche questo diventa un po’ più probabile, siamo sicuri che questo fatto aiuti a decidere? Io penso proprio di no. Anzi, produce una forbice sempre più forte fra la cono­ scenza e la decisione. Che cosa devo fare? O che cosa deve fare la sfera pubblica nell’aiutarmi a decidere? La questione non è nuova per nulla. C’è un caso che io ricordo, fa parte proprio del sottosuolo della tradizione occidentale ed è il caso dell’etica religiosa. L’etica religiosa aveva sviluppato l’idea, come voi sapete, che gli uomini sono pre-destinati. E qui il gioco di coscienza ri­ torna sotto altro profilo. Il risultato fu, come nelle bellissime pa­ gine debelliane che vorrei non dimenticassimo mai, che gli uo­ mini non si sentivano più impegnati nelle opere del mondo, in quanto consapevoli d’essere pre-destinati. Ci fu un declino forte della c.d. etica della responsabilità. Rispetto a questo, l’etica religiosa pensò di sviluppare nor­ mativamente un’altra dimensione della vita, e affermò che non bastava l’etica della pre-destinazione, bisognava che gli uomini facessero i conti con un elemento imponderabile: la grazia. La

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grazia reimmette il libero arbitrio dove tutto è pre-destinato. Siamo sicuri che la medicina predittiva non stia riproducendo a medesima questione? Cosa devo fare? Siamo sicuri che il mio principio speranza debba essere del tutto annullato? O che non ci possa essere un’imprevedibilità più forte rispetto alla predi­ zione? Chi decide che quella predizione è infallibile? Quanto più aumenta l’incertezza della scienza, questo è il tema, tanto più la decisione di altre sfere dell’azione, in partico­ lare del diritto, diventa complicato, e la complicatezza deriva dal fatto che il diritto non si può permettere di scegliere una solu­ zione, ma deve scegliere la via più riflessiva per salvare le possi­ bilità. Che cosa fare nel frattempo delle questioni della vita pub­ blica? Vi faccio un esempio, quando ero al Consiglio Superiore della Magistratura mi è capitato un caso singolare che mi ha la­ sciato riflettere. Si trattava di un parere che mi veniva richiesto da alcune associazioni di medici, di genetisti, sulla questione del distribuire, del dare, del fornire informazioni genetiche sul bam­ bino da adottare alla coppia di genitori che avevano fatto do­ manda di adozione. Me ne occupai io. La prima risposta banale fu negativa. Mi parve razzista fornire informazioni così che i ge­ nitori scelgano di adottare o non adottare sulla base del patrimo­ nio genetico. Poi ci ho ripensato, non era una buona soluzione né dal punto di vista della economia né del putto di vista della politica delle scelte. Era in discussione la sfera pubblica. Così, ho pro­ posto che le informazioni genetiche che possono e devono essere usate per il benessere del bambino, visto che qui l’unica clausola che può indirizzarci è the best interest of the child, come da Convenzione di New York sulla tutela del fanciullo, una volta perfezionato l’iter dell’adozione, venissero messe a disposizione dei genitori e depositate presso qualche ente responsabile pub­ blicamente di un archivio delle informazioni. Poiché in questo caso ci sono diversi vincoli, riguardo la privacy, o il diritto del bambino di conoscere o non conoscere la propria storia, a seconda dei casi, credo che una buona solu-

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zione sia quella di individuare, all’interno della sfera pubblica, soggetti responsabili di queste dimensioni, delle informazioni importanti. Il problema è di governance, ma nel senso di sfera pubblica, non di privatizzazione dell’informazione. Questo è uno dei nodi fondamentali. E vengo ad un altro esempio che mi interessa. Il diritto da sempre si è posto il problema dell 'identità, e molto probabilmente le tecnologie non spostano più di tanto la questione. L’identità si svolge su una dimensione di tipo inter­ temporale, quello che noi eravamo venti anni fa non è la stessa cosa che siamo oggi, eppure noi oggi condanniamo un soggetto per qualche cosa che ha fatto, facciamo l’ipotesi, dieci anni fa. Stiamo condannando lo stesso soggetto? La risposta della scienza è dura, Musatti diceva: « testa fredda dobbiamo far finta che il soggetto che stiamo condannando sia lo stesso tappandoci il naso ». Se la questione dell’identità non fosse stata risolta così, non avremmo mai potuto, non soltanto incarcerare, ma neanche chiedere al nostro amico l’adempimento del debito contratto molti anni prima. L’identità è una questione decisa dal diritto ed è bene che venga decisa dal diritto indipendentemente, o in maniera relati­ vamente autonoma alle questioni della scienza. Altro esempio. Chi è il continuatore più prossimo? Pen­ sate, per esempio, alle società, oppure ai partiti politici, quando si scindono in tanti rami. Chi è il continuatore più prossimo della Democrazia Cristiana, quando la Democrazia Cristiana di­ venta quattrocentomila cose? Il teorema della scienza è: decidete se è più importante il contenitore o il contenuto, come nella fa­ mosa nave di Teseo. La nave di Teseo subisce un naufragio e la­ scia dei pezzi in mare. Si ricostruisce la nave. La nave di Teseo deve essere considerata la stessa ricostruita con i vecchi legni della nave naufragata, oppure la nuova nave di Teso è quella che ha la stessa forma della nave di Teseo con un contenuto nuovo? Qual’è il contenitore e quale il contenuto? Le biotecnologie por­ ranno questi problemi. Come si decide? La risposta il diritto è

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in questo senso: deciderà il diritto quale identità sarà l’identità possibile, E come nella storia del Circolo di Vienna che durante il nazismo subisce una diaspora, un pezzo va alla Columbia Uni­ versity e un altro pezzo va in Turchia. Il vecchio Circolo di Vienna è quello che si definisce tale presso la Columbia Univer­ sity fin quando non si sa che un altro pezzo del Circolo di Vienna è finito a Istanbul. Qual’è il continuatore più prossimo? Sono teoremi rispetto ai quali il diritto non potrà mai dire l’ul­ tima parola, cioè non possiamo sapere in anticipo quale sarà. Possiamo sapere soltanto che ci sarà un processo di adegua­ mento continuo. Un altro esempio complicato. Siamo sicuri che basti l’indi­ viduazione dei principi normativi a livello legislativo, e tanto a livello nazionale quanto a livello sopranazionale, per aiutarci? Esempio dignità. La dignità è richiamata nell’art. 1 della Convenzione euro­ pea sulla biomedicina, nell’art. 1 della legge sulla privacy, nel­ l’art. 1 della Carta di Nizza; siamo sicuri che basti ricordare la dignità dell’uomo per trovare il nuovo criterio giuridico nei con­ fronti della scienza? Il caso Pretty, presso la Corte europea di Strasburgo, ci da la dimensione della complessità del problema. È il caso di una donna completamente paralizzata negli arti che decide liberamente di interrompere la propria vita perché la ritiene indegna, e la decisione sulla dignità non può che essere dello stesso soggetto che deve compiere un atto. Si rivolge al Governo inglese perché autorizzi il marito ad assisterla nel sui­ cidio. Il Governo inglese non se la sente. Si va avanti in appello sin quando non si ricorre alla Corte di Strasburgo sui diritti umani chiedendo che in nome della dignità venga autorizzato il marito ad assistere nel suicidio la signora Pretty. La Corte di Strasburgo, questo è un modello emblematico, decide in ma­ niera piratesca e dice: « non me la sento di autorizzare il suicidio assistito, però so fino in fondo che se non l’autorizzo compio un grave atto di discriminazione, perché questa persona non si può uccidere da sola ». Ci troviamo di fronte ad una decisione tra­ gica che non potrà mai trovare una soluzione compatibile.

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Mi riferivo alla relazione di Santosuosso. Guardate, vanno benissimo i giudici che parlano con gli scienziati, vanno benis­ simo perché sono un esempio di interferenza culturale molto forte. Ma la questione è un’altra. Soltanto quei giudici che sanno un po’ più di cose sulla questioni delle biotecnologie potranno decidere le questioni delle biotecnologie? Cioè le ricadute forti saranno: dobbiamo pensare ad un giudice altamente specializ­ zato o dobbiamo ancora privilegiare un giudice generalista che sappia delle questioni delle biotecnologie così come di altre que­ stioni? O dobbiamo pensare a giudici che dovranno settorializzarsi sempre di più per esempio nel diritto societario, come nel caso non so del familiare, come nel caso di tante altre materie, o come giudici della mafia? Io penso di no! Penso che la specializzazione forte da parte dei giudici è complessivamente un arricchimento, ma è un danno dal punto di vista della professione, per cui in questo caso i giudici stanno supplendo quello che dovrebbero fare i giuristi e altri decisori della vita pubblica. Lo stesso vale per gli avvocati. Per farla breve: c’è molto da studiare! Però credo che dobbiamo insistere molto di più perché le decisioni che dobbiamo prendere ritornino ad essere un pezzo della sfera pubblica a democrazia possibilmente deliberativa. In questi casi non ci sono sapienti che tengano, non ci sono potenti che tengano, ma dal mio punto di vista è bene che non ci siano assolutamente mercanti che decidono le questioni.

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