Schelling. Tra tempo ed eternità. Nuova ediz. 9788885716728, 9788855292238

Prendere finalmente sul serio il tempo! Questo il principale impegno di Schelling a partire dal 1809 e dalle Ricerche su

114 104 14MB

Italian Pages 272 [274] Year 2020

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Schelling. Tra tempo ed eternità. Nuova ediz.
 9788885716728, 9788855292238

Table of contents :
Au dedans, au dehors
Au dedans, au dehors
Presentazione
Dalla libertà assoluta alla libertà finita
L’eternità figlia del tempo
La filosofia della religione: statuto e verità della mitologia
La collocazione del giudaismo tra mitologia e rivelazione
Un popolo metafisico?
Ravaisson discepolo francese di Schelling
Bibliografia
Indice
Au dedans, au dehors

Citation preview

Jean-François Courtine Schelling Tra tempo ed eternità

urtine

Jean-François Courtine, professore emerito all’Università Paris-Sorbonne (Paris IV) e già direttore degli Archivi Husserl di Parigi (ENS-CNRS), è membro dell’Institut Universitaire de France.

Prossimamente disponibili nella stessa collana: Humanity Tra paradigmi perduti e nuove traiettorie vol. II

Copertina a cura di Ufficio grafico di Inschibboleth Immagine di copertina: William Turner, Burning ship, 1830.

Au dedans, au dehors

Collana diretta da: Giuseppe Cantillo, Danielle Cohen-Levinas, Jean-François Courtine, Elio Matassi †

Au dedans, au dehors | 12

Jean-François Courtine

Schelling tra tempo ed eternità Storia e preistoria della coscienza Traduzione italiana di Giuseppe Pintus rivista dall’autore

Titolo originale: Schelling entre temps et éternité © 2012, Librairie philosophique J. Vrin, 6, Place de la Sorbonne, Paris - France

© 2020, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Au dedans, au dehors ISSN: 2281-5368 n. 12 – ottobre 2020 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-85716-72-8 ISBN – Ebook: 978-88-5529-223-8 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Abstract background with fireworks and clock close to midnight @ erika8213 – stock.adobe.com

Presentazione

Per quanto ciò possa risultare inatteso, se non addirittura paradossale, è dagli Stati Uniti e dal mondo anglofono in generale che proviene, in questo inizio del XXI secolo, un rinnovamento radicale degli studi sull’idealismo tedesco in generale e sul pensiero di Schelling in particolare, proprio su colui che, più di Hegel o di Fichte, sembrava dover trovare uno spazio tranquillamente riservato negli annali della storiografia puramente erudita, nella misura in cui ha corso, sotto gli auspici dell’Accademia delle Scienze di Baviera, l’interminabile e magistrale edizione storico-critica. Non vi è alcun dubbio che su un piano puramente «documentario», da cinquant’anni a questa parte i lavori e le pubblicazioni, in particolare quelle delle importanti Nachschriften dell’insegnamento di Monaco, e poi di Berlino, si sono moltiplicate e accelerate. È il 1954 l’anno che ha inaugurato, in quanto centenario della morte del filosofo, il primo grande «rinnovamento» degli studi schellinghiani, segnato in particolare dall’uscita del grande libro di Walter Schulz, Die Vollendung des Deutschen Idealismus in der Spätphilosophie Schellings, che disperiamo di vedere mai tradotto nella nostra lingua.

10

Disponiamo oggi di numerose versioni inedite che hanno profondamente sconvolto il campo delle ricerche dedicate a Schelling, sia per quanto riguarda le Weltalter, sia per le filosofie della mitologia e della rivelazione: Urfassung der Philosophie der Offenbarung, curata da Walter E. Ehrhardt (Meiner, 1992; 2 voll.) e Weltalter-Fragmente, a cura di Klaus Grotsch (Fromman-­Holzboog, 2002), per non parlare della regolare pubblicazione dei Tagebücher conservati a Berlino, rimasti a lungo inaccessibili. Menzioniamo anche la recente pubblicazione, all’interno dell’eccellente serie «Schellingiana», del primo seminario che Heidegger ha dedicato alle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, nel 1927/1928, e dunque immediatamente dopo la pubblicazione di Sein und Zeit1. Ricordiamo anche, per memoria, che la Francia, la quale aveva giocato un ruolo eccezionale nell’ambito della Forschung internazionale, grazie alla summa di Xavier Tilliette2, ma anche grazie al lavoro, eccellente sotto ogni aspetto, di Jean-­ François Marquet3 e di Miklos Vetö4, disponeva già dagli anni

1.  Heideggers Schelling-Seminar (1927-1928), a cura di L. Hühn e J. Jantzen, «Schellingiana» 22, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2010. Questo volume riporta, oltre alle note preparatorie di Heidegger, anche i «protocolli» redatti dai partecipanti, tra i quali Hans Jonas, Gerhard Krüger e Walter Bröcker. Si veda anche all’interno della Gesamtausgabe di Heidegger, il vol. 86, Seminare: Hegel-Schelling (1927-1957), a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a.M. 2011. 2.  X. Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir, 2 voll., Vrin, Paris 1970; riedizione aumentata nel 1992, presso lo stesso editore. 3.  Il suo importante volume del 1976, Liberté et existence. Étude sur la formation de la pensée de Schelling, è stato ripubblicato nel 2006 grazie alla diligenza delle Éditions du Cerf. 4.  La sua opera del 1977, Le fondement selon Schelling, è stato anch’esso ripubblicato nel 2002, e i due volumi, De Kant à Schelling. Les deux voies de l’idéalisme allemand, pubblicati per i tipi di Jérôme Millon nel 1998 e nel 2000, testimoniano di un’attività infaticabile.

11

’90 di un numero decisamente importante di traduzioni erudite (praticamente tutti i testi fondamentali e in particolare quelli dell’ultima filosofia, l’Introduzione filosofica alla Filosofia della mitologia, l’Esposizione della filosofia razionale pura, Il Monoteismo e la Filosofia della rivelazione), grazie principalmente ad una impresa collettiva, sostenuta dal Centre National de la Recherche Scientifique (la «RCP Schellingiana») diretta per otto anni da Jean-François Marquet e da Jean-François Courtine5. Altre importanti traduzioni, la Filosofia dell’arte, La filosofia della mitologia, l’Esposizione del mio sistema filosofico (1801), in particolare6, si sono subito aggiunte. Il volume Schelling, che abbiamo recentemente curato e pubblicato, per le Éditions du Cerf, nella raffinata collana «Cahiers d’Histoire de la Philosophie» (2010), intendeva testimoniare anche la vitalità delle ricerche schellinghiane alla quali si dedicano numerosi giovani ricercatori, in Francia, in Italia e naturalmente anche in Germania, dove la Internationale Schelling-­ Gesellschaft gioca un ruolo decisivo, di federazione e di nuovo impulso7. Se la filosofia di Schelling è ricca d’immagini sorprendenti, la sua ricezione è sempre stata travagliata: ci si può augurare che, dopo qualche anno di bassa marea, sia di nuovo aperto un nuovo periodo fecondo. Ma, come dicevamo, sono stati i paesi anglofoni ad aver intrapreso più di recente, al termine di un notevole sforzo di traduzioni o di ri-traduzioni iniziato una decina di anni fa, il lavoro per la proposta di un «nuovo Schelling», cosa della quale ci danno testimonianza in particolare i volumi: Schelling

5.  Il CNRS non resta mai a corto di sigle e di acronimi, sempre più o meno opachi e improbabili: «RCP» significa «ricerca coordinata su programma»! 6.  La bibliografia, riportata alla fine del volume, si sforza di darne una lista esaustiva. 7. http://www.schelling-gesellschaft.de.

12

Now. Contemporary Readings, opera collettiva curata da Jason M. Wirth (Indiana University Press, 2005), e The New Schelling, opera collettiva curata da Judith Norman e Alistair Welchman (Continuum Press, 2004), per non citare le iniziative più «popolari» come quella di Slavoj Žižek: The Indivisible Remainder. An Essay on Schelling and Related Matters (Verso Press, 2007), The Abyss of Freedom. Ages of the World (University of Michigan Press, 1997) o, con Markus Gabriel, Mythology, Madness and Laughter. Subjectivity in German Idealism (Continuum Publishing Group, 2009). È in parte questa situazione esegetica nuova che ci ha convinto circa l’opportunità di rivedere i lavori, gli studi più vecchi e di rimaneggiarli per proporne un volume (che dunque propriamente non è una raccolta) incentrato sulla libertà umana («l’abisso della libertà umana»), che costituisce l’oggetto dell’opera senza dubbio più celebre di Schelling, le Ricerche del 1809, interessandoci alle trasformazioni di questo tema (la libertà per il bene e per il male) e alla sua articolazione con ciò che costituisce senza alcun dubbio, per noi oggi, la maggiore originalità del pensiero schellinghiano, vale a dire la sua indagine della temporalità: fino ad ora (scriveva Schelling ne Le età del mondo) i filosofi – a cominciare da Kant – non hanno preso sul serio il tempo. Prendere il tempo sul serio significava considerarlo nella sua stratificazione, e non solo nella sua dimensione e-statica orizzontale (passato, presente, avvenire), sia sul piano della coscienza individuale che della sua storia, come anche della sua preistoria e della sua archeologia: la coscienza mitica; ma anche sul piano della storicità delle religioni rivelate (e in primo luogo naturalmente per Schelling, del cristianesimo: fatto, piuttosto che dottrina), e addirittura di una storia divina: la generazione del figlio, la processione trinitaria, la doppia creazione. Si trattava propriamente, per Schelling, di «scavare fino

13

alla notte dei tempi», di scoprire le profondità temporali della coscienza, la sua diacronia, confrontandola con le sue stratificazioni inconsce, sempre pronte a rimetterne in moto la profondità. Autori come Franz Rosenzweig, Gershom Scholem o Emmanuel Levinas non si erano sbagliati8. È per tale ragione che noi siamo partiti da uno studio incentrato sulle Ricerche del 1809 prima di esplorare – ma dovremmo dire per sondare, non tanto in una prospettiva «sistematica» – le conseguenze di questa nuova concezione dei tempi e delle età sul piano della filosofia della mitologia, come sul piano della rivelazione e anche dell’ecclesiologia, accordando anche un posto speciale alle riflessioni originali di Schelling sull’ebraismo. Il capitolo II (L’eternità figlia del tempo) si propone di comprendere, in modo più sistematico, i grandi tratti di questo pensiero della storia, che non è propriamente né filosofia né teologia della storia o teodicea. Gli ultimi due capitoli approcciano il pensiero di Schelling in una prospettiva più determinata: il capitolo V, Un popolo metafisico?, presenta la sua concezione della storia moderna della filosofia, dopo Kant, nella diversità dei suoi orientamenti nazionali e linguistici. L’ultimo capitolo, infine, dedicato a Ravaisson, si sforza di prendere sul serio una questione lanciata un po’ en passant da Alexandre Koyré, ossia sapere se Ravaisson non fosse il solo e più eminente discepolo di Schelling in Francia nel XIX secolo. Anche in questo caso abbiamo privilegiato il pensiero di Ravaisson sulla mitologia, sui Mi-

8.  Pubblichiamo, per le edizioni Hermann, una serie di studi: Levinas. La trame logique de l’être, che si sforzano di seguire alcuni dei prolungamenti della riflessione schellinghiana; tr. it. di G. Pintus, Levinas. La trama logica dell’essere, Inschibboleth, Roma 2013.

14

steri, sull’ellenismo, sull’ebraismo, e sul cristianesimo, sulla scia della filosofia «storica» e «positiva» dell’ultimo Schelling9. Alghero, dicembre 2011, Paris, marzo 2012.

9.  Ringraziamo i responsabili delle opere collettanee e delle riviste che hanno accolto le prime versioni dei seguenti capitoli: Alexandra Roux, curatrice del volume Schelling en 1809, Vrin, Paris 2010, che comprendeva una sorta di bozza, qui profondamente rimaneggiata, corretta in alcuni punti fondamentali e completata, del nostro primo capitolo; una prima versione del capitolo III dedicata alla filosofia della mitologia è stata pubblicata in un numero dell’«Archivio di Filosofia» in omaggio al Prof. Marco Maria Olivetti (n. 1-2, 2008); il capitolo IV si basa sullo studio pubblicato nell’opera collettanea curata da Gérard Bensussan, La philosophie allemande dans la pensée juive, Puf, Paris 1997; il capitolo V aveva dato luogo a una pubblicazione nella «Revue de Métaphysique et de Morale», settembre 2001, sul tema Philosophies nationales? Controverses franco-allemandes; e infine, il capitolo V prende come punto di partenza uno studio pubblicato all’interno di un volume in omaggio a O. Pöggeler, Idealismus mit Folgen, Die Epochenschwelle um 1800 in Kunst und Geisteswissenschaften, a cura di H.-J. Gawoll e Ch. Jamme, Wilhelm Fink Verlag, Frankfurt a.M. 1994. Il capitolo II rilancia in modo nuovo, da parte sua, le questioni della quali ci eravamo già occupati in uno studio dal titolo Histoire supérieure et système des temps selon Schelling, pubblicato nei «Cahiers de l’Université Saint-Jean-de-Jérusalem», n. 14, 1998, e nell’opera collettanea curata da Jean-François Marquet e da noi stessi, Le dernier Schelling. Raison et positivité, Vrin, Paris 1994.

Capitolo I

Dalla libertà assoluta alla libertà finita La «metafisica del male» e l’abisso della libertà umana

Il problema della libertà in quanto libertà per il bene e per il male così come la «metafisica del male», che questa problematica contribuisce a elaborare, costituiscono senza dubbio il centro vitale del pensiero di Schelling. Vi troviamo infatti – lungo tutto un itinerario ricco di metamorfosi –, come una costante forte, l’affermazione entusiasta della libertà assoluta o dell’assoluto come libertà; ma se il pathos della libertà rappresenta indiscutibilmente uno dei tratti fondamentali, tra i più salienti del pensiero schellinghiano, a partire dalle dichiarazioni infuocate del giovane Stiftler fino alle ultime affermazioni della Filosofia della rivelazione1, manca ancora molto affinché 1.  F.W.J. Schelling, Philosophie der Offenbarung, I, Schellings Werke (d’ora in poi SW), riedizione anastatica di M. Schröter, Beck, Frankfurt a.M. 1927-1954 dell’edizione realizzata dal figlio, K.F.A, dal 1856 al 1861, qui vol. XIII, p. 256; la tr. fr. collettiva di «RCP Schellingiana», è stata eseguita sotto la direzione di Jean-François Courtine e Jean-François Marquet (Puf, coll. «Épiméthée», Paris 1989); tr. it. a cura di A. Bausola, Zanichelli, Bologna 1972, p. 339: «La libertà è il nostro punto più alto, la nostra divinità, è essa che noi vogliamo come ultima causa di tutte le cose…». Cfr. anche XIII, p. 359. – Per una presentazione rapida della situazione delle edizioni di Schelling, rinviamo alla nostra Bibliographie, in J.-F. Courtine (a cura di), Schelling, «Cahiers d’Histoire de la Philosophie», Le Cerf, Paris 2010.

16

questo motivo ostinato basti, foss’anche per sé solo, per aprire e determinare lo spazio di una autentica filosofia morale. Questo è il primo punto sul quale vorrei porre l’accento. Da Kant, il quale decretava che «Il concetto di libertà […] costituisce la chiave di volta dell’intero edificio di un sistema della ragion pratica»2, a Schelling, il quale annuncia con enfasi a Hegel, il suo vecchio compagno dello Stift di Tübingen, il progetto della sua opera Dell’Io come principio della filosofia, in questi termini: «… Il principio supremo di ogni filosofia è […] l’Io nella misura in cui esso è puramente e semplicemente Io, non ancora condizionato da un oggetto, ma posto nella libertà. L’alfa e l’omega di ogni filosofia è la libertà»3, vi è molto più che un semplice cambiamento di metafora. Poiché con

Per una bibliografia quasi esaustiva fino al 2005, si veda http://www.philosophie.uni-bremen.de/uploads/media/Schelling-Bibliographie-2004.pdf e http://www.schelling-gesellschaft.de/index.html. [Per ciò che riguarda le opere citate della presente traduzione e le relative abbreviazioni si rinvia alla nota bibliografica posta a fine volume]. 2.  I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft (d’ora in poi KpV), in Kants Werke. Akademie-Textausgabe (d’ora in poi Ak. Aus.), W. de Gruyter, Berlin-New York 1968, vol. V, pp. 3 s.; tr. it. di F. Capra, Critica della ragion pratica, con testo ted. a fronte Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 4 s. (tr. mod.). 3.  F.W.J. Schelling, Lettera del 4 febbraio 1795, in Id., Briefe, vol. I, a cura di I. Möller e W. Schieche, Frommann-Holzboog, Stuttgart 2001, p. 22. [Una traduzione di questa lettera si trova in G.W.F. Hegel, Epistolario, Guida, Napoli 1983. Il testo è oggi fuori edizione e di difficile reperibilità e non ci è stato possibile consultarlo. La traduzione è fatta direttamente dal testo citato da J.-F. Courtine: G.W.F. Hegel, Correspondance. I. 1715-1812, tr. fr. J. Carrère, a cura di J. Hoffmeister, Gallimard, Paris 1962; N.d.T.]. – Cfr. anche SW, I, Vom Ich; tr. it. a cura di A. Moscati, Dell’Io come principio della filosofia, Cronopio, Napoli 1991, § VI, p. 50: «Il punto ultimo da cui dipendono tutto il nostro sapere e l’intera serie dei condizionati non deve essere più condizionato da niente. Il tutto del nostro sapere non ha sostegno se non è sorretto da qualcosa che è in grado di sostenersi con la sua propria forza; e

17

l’abbandono della distinzione netta tra libertà pratica e libertà trascendentale, ne va correlativamente del rifiuto dell’articolazione kantiana tra la legge morale come ratio cognoscendi della libertà, e la libertà come ratio essendi della legge morale. È chiaro che questo «passo al di là del limite kantiano», che costituisce l’assolutizzazione della libertà, conduce Schelling, almeno in apparenza, a mettere in secondo piano la legge morale in quanto tale fino al punto di ridurre la formula dell’obbligazione alla sua espressione più semplice. Infatti, quando la ricerca trascendentale delle condizioni di possibilità crede di potersi radicalizzare in uno studio dell’«Incondizionato nel sapere umano», così come esso si offre all’intuizione intellettuale, la legge suprema per l’Io assoluto o infinito diviene in modo molto rigoroso – come sottolinea espressamente Schelling – quella dell’identità. L’Io assoluto, come autoposizione riflessiva, è così definito dall’«uguaglianza a sé», e la sua «forma originaria» diventa quella dell’identità: Poiché l’io è posto, secondo la sua essenza, dal suo semplice essere come assoluta identità, il principio supremo si può esprimere indifferentemente nella forma: Io sono Io, oppure: Io sono!4

Imperativo etico o ontologico? Ma in ogni caso – ed è proprio ciò che qui ci interessa –, per l’Io assoluto una tale legge va intesa più come «legge naturale» che come morale, perché il vero e ultimo imperativo che si impone all’Io finito nel suo rapporto a se stesso, facendo ciò non è altro che quel che è determinato in virtù della libertà. L’inizio e la fine di ogni filosofia è libertà!». 4.  SW, I, § VIII, p. 179; Dell’Io…, p. 53.

18

astrazione di ogni spazio interpersonale o intersoggettivo che si trova, se non escluso, per lo meno messo in secondo piano, è l’uguaglianza con se stesso, l’identità: Poiché la legge suprema che determina l’essere dell’Io infinito è quella della sua identità, nel finito la legge morale può rappresentare questa identità soltanto come esigenza e non come ente; la legge suprema per l’essere finito è perciò questa: sii assolutamente-identico a te stesso.5

Nella nona delle Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, Schelling ritorna su questo imperativo, che rappresenta l’Urgesetz per l’Io finito, e ne propone una formulazione ancora più economica, la più economica: «Sii! Tale è la suprema esigenza del criticismo». Occorre ancora precisare, se si vuole evitare ogni Schwärmerei, che si tratta qui di un’idea il cui valore è solo pratico, e soprattutto che essa mira solamente a definire la destinazione (Bestimmung) dell’essere morale: Per il criticismo, il mio destino è: sforzarsi all’ipseità immutabile, alla libertà incondizionata, all’attività illimitata.6

Il termine chiave è qui Streben, sforzo al singolare, in effetti, poiché tende non tanto ad una qualche scomparsa dell’Io finito nell’Assoluto – tale è l’«errore» dogmatico di Spinoza sottolineato nella Ottava lettera –, ma a «avvicinare da sé la deità» e questo «avvicinamento deve farsi all’infinito»7. Il Vom Ich aveva già esplicitato, da canto suo, le condizioni di questo Streben, che faceva passare il finito dal Sein al Werden («lo sforzo è possibile solo nel tempo»). L’antagonismo tra «legge di natura» e «legge morale originaria» non si può dunque ri-

5.  SW, I, § XIV, p. 199; Dell’Io…, p. 79. 6.  SW, I, Philosophische Briefe über Dogmatismus und Kriticismus, p. 335; tr. it. a cura di G. Semerari, Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 75 (tr. mod). 7.  Ibidem (tr. mod).

19

solvere se non a favore di una «mediazione temporale» o di un nuovo schematismo, «quello della produzione nel tempo; in modo tale che quella legge che mira a un’esigenza dell’essere si trasformi in un’esigenza del divenire». «La legge morale originaria espressa nella sua forma interamente sensibile è quindi questa: Diventa identico, eleva (nel tempo) le forme soggettive della tua essenza (Wesen) alla forma dell’assoluto»8. È chiaro dunque che per il giovane Schelling non si tratta solo di ricondurre in modo puro e semplice il comandamento pratico alla legge d’essenza, costitutiva: infatti al di là del gesto schellinghiano – lo stesso gesto che sostiene la cosiddetta filosofia dell’identità –, che consiste nel reinscrivere l’Io finito nell’Io assoluto9, ciò che importa è di far emergere le condizioni concrete della messa in opera della libertà umana finita, quella stessa di cui l’ultima delle Lettere, riprendendo il filo dell’analisi della tragedia greca che ne costituiva l’apertura, fornirà una illustrazione particolarmente drammatica attraverso la figura di Edipo. Per l’Io finito, nella figura edipica, non vi è «negazione degli oggetti», infinitizzazione tendenziale della libertà che cerca di coincidere asintoticamente con l’autoposizione dell’Io puro: la lotta contro «i terrori del mondo oggettivo», quella che poteva, come scriveva felicemente Xavier Tilliette, rispondere ad una «strana passione negativa dell’oggetto»10, cede il posto ad una battaglia del tutto diversa, quella che affronta la «superpotenza (Übermacht) del de-

8.  SW, I, § XIV, p. 200; Dell’Io…, p. 80. In nota Schelling dettaglia i differenti momenti di questa schematizzazione: «Secondo la quantità: Divieni assolutamente uno»; «Secondo la qualità: Divieni realtà assolutamente!»; «Secondo la relazione: Divieni assolutamente incondizionato, sforzati di raggiungere la causalità assoluta»; «Secondo la modalità: Sforzati di porre te stesso come indipendente dal mutamento temporale», vale a dire anche «in ogni tempo»! 9. Cfr. SW, I, Vom Ich, § XVI. 10.  X. Tilliette, Schelling, cit., vol. I, p. 76.

20

stino», o le monde comme il va. Ma allora l’affermazione della libertà, o meglio «liberazione della libertà nell’uomo», secondo la magnifica formula di Heidegger a Davos, alla quale ci dedicheremo più avanti, concerne certamente l’Io finito, nel suo statuto più precario. Certo, si continuerà ad affermare che «l’essenza dell’Io è li­ bertà»11, ma ciò significa ormai che l’Io si pone esso stesso immediatamente in virtù della sua «auto-potenza» (Selbstmacht) e che si pone come «semplice Io», in modo preliminare ad ogni determinazione o determinabilità possibile, in funzione di ciò che sarebbe altro da lui. Alla prudenza di Kant, il quale sottolineava sia la fattualità della ragione pratica sia l’inconcepibilità della libertà alla quale accediamo sempre e solo indirettamente12, si oppone ormai la tematica schellinghiana dell’intuizione intellettuale compresa come intuizione della libertà13. Schelling lo indica in modo chiaro nelle Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo: In noi tutti esiste un potere misterioso, meraviglioso, quello di ritirarci […] nella nostra interiorità, e qui contemplare l’eterno in noi sotto la forma dell’immutabilità. Questa intuizione è l’esperienza più interna e propria, dalla quale soltanto dipende tutto ciò che noi sappiamo e crediamo di un mondo soprasensibile. Questa intuizione ci convince che una qualsivoglia cosa è nel senso proprio […]. Essa si differenzia da

11.  SW, I, § VIII, p. 179; Dell’Io…, p. 53. 12.  KpV, pp. 4 s.; tr. it. cit., p. 5: «Ma la libertà è anche l’unica fra tutte le idee della ragione speculativa di cui noi conosciamo a priori la possibilità senza tutta via percepirla, perché essa è la condizione della legge morale che noi conosciamo». 13.  A dire il vero le analisi di Schelling su questo punto varieranno più che su molti altri. Rinviamo allo studio magistrale di X. Tilliette, L’intuition intellectuelle de Kant à Hegel, Vrin, Paris 1995; tr. it. di F. Tomasoni, L’intuizione intellettuale da Kant a Hegel, Morcelliana, Brescia 2000.

21 ogni intuizione sensibile per il fatto che essa è prodotta solo per mezzo della libertà.14

Una tale assolutizzazione della libertà conduce logicamente Schelling a definire, con Fichte, l’Io come pura attività, «attuosità», diceva Leibniz15, o meglio come «agire» assoluto (Handeln) senza oggetto transitivo preliminare16: Perché l’essenza dell’uomo è agire. – Nella misura in cui sono libero (e lo sono dal momento in cui posso elevarmi al di sopra della connessione delle cose e porre la questione circa la possibilità di questa stessa connessione) io non sono alcuna cosa, alcun oggetto. Vivo in un mondo del tutto proprio, sono un essere che non esiste per altri esseri, ma che esiste per se stesso. In me non può esservi altro che atto e azione (That und Handlung): da me possono procedere solo effettuazioni, in me non può esserci alcun patire.

Così, l’Io non è solo questa volontà pura che, attraverso la sua autodeterminazione e la sua potenza, si pone ed esiste per sé; ma, a titolo di volontà libera, l’Io è innanzitutto e fondamentalmente «volontà del volere originario»17. Nella filosofia

14.  Ottava lettera, SW, I, p. 318; Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, p. 52. 15.  Cfr. G.W. Leibniz, Lettere a Des Bosses, in Id., Die philosophischen Schriften, a cura di C.J. Gerhardt, Olms, Hildesheim 1960, vol. II, p. 439; tr. fr. di Ch. Frémont, Lettres de Leibniz à Des Bosses, Vrin, Paris 2000. 16.  Cfr., in particolare, SW, II, Ideen zu einer Philosophie der Natur (1797), p. 13; tr. it. di G. Preti, Introduzione alle idee per una filosofia della natura, in F.W.J. Schelling, L’empirismo filosofico e altri scritti, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 3: «L’essenza dell’uomo è agire» (tr. mod.). Cfr. anche, ivi, p. 17; tr. it. cit., pp. 7 s. 17.  SW, III, System des transzendentalen Idealismus, p. 541; tr. it. di G. Boffi, Sistema dell’idealismo trascendentale, con testo ted. a fronte, Bompiani, Milano 2017, pp. 419-421: «Con l’atto dell’autodeterminazione, devo nascere a me stesso quale io, vale a dire in quanto soggetto-oggetto. Quell’atto, inoltre, dev’essere libero; il fondamento del mio autodeterminarmi deve trovarsi

22

dell’Identità, la libertà è dunque immediatamente considerata come libertà assoluta o meglio come libertà dell’Assoluto e la meditazione sulla libertà come libertà umana finita, seppur non totalmente assente, si vedrà riservata un congruo spazio. Allo stesso tempo – tale punto merita di essere sottolineato fin da ora, se si pensa alle Ricerche del 1809 – il male non può essere colto se non negativamente, a titolo di imperfezione o di mancanza. A dire il vero, dal punto di vista – che non è poi propriamente un «punto di vista» – dell’Identità, il male sparisce interamente come falsa parvenza e la finitudine o finitezza diventa essa stessa puramente illusoria: Non vi è nulla di positivo nelle cose in virtù del quale esse sono finite, ma in tale finitudine si dà soltanto una privazione, la quale è di nuovo un atto dell’immaginare, ovvero dell’osservazione delle cose in relazione.18

Per chiarire questa tesi, ci possiamo basare sull’esposizione canonica del 1804 (System der gesammten Philosophie und der Naturphilosophie insbesondere): è libera la causa che agisce conformemente alla sua essenza o meglio alla libertà della sua essenza, se è vero che agire liberamente vuol dire agire sempre «secondo la legge dell’identità»19. Non resta dunque alcuno spazio per l’esitazione e neppure per una decisione netta intesa come una vera alternativa («o… o…»), e neppuunicamente in me e soltanto in me medesimo. Se quell’atto è una libera azione, devo aver voluto ciò che per me sorge con quest’atto e deve sorgere per me soltanto perché l’ho voluto. Ebbene, il volere stesso è ciò che sorge per me con tale azione (perché l’io è un volere originario). Devo quindi aver già voluto il volere, prima di poter agire liberamente…». 18.  SW, VI, System der gesammten Philosophie, pp. 542-543; tr. it. di A. Dezzi, Sistema dell’intera filosofia e della filosofia della natura in particolare, Accademia University Press, Torino 2013, p. 372. 19.  SW, VI, § 302; p. 539; Sistema dell’intera filosofia…, p. 369: «Può dirsi causa libera soltanto quella causa che, in virtù della necessità della sua essenza, senza alcun’altra determinazione, agisce secondo la legge dell’identità».

23

re la possibilità di considerare qualcosa come un «cominciamento», in radicale rottura con ciò che lo ha preceduto. Se dunque non vi è libertà che non sia assoluta e divina20 o azione propriamente detta se non quella che proviene dall’essenza e dall’autoaffermazione della sua identità21, ne consegue immediatamente che nessun essere può essere considerato come libero se non nella misura in cui esso si identifica con Dio, o meglio, nella misura in cui è Dio che agisce in lui. Non vi è libertà se non attraverso la partecipazione dell’ente finito all’agi­re divino o essenziale: L’uomo non è per se stesso libero, ma, considerato per sé e secondo la vita propria, egli cade vittima della necessità […], solo l’agire che origina da Dio è libero […].22

In compenso, aggiunge Schelling – in una osservazione che racchiude in un certo senso tutto il programma delle Ricerche del 1809 sull’essenza della libertà umana –: «Con il concetto della libertà individuale dell’uomo sono in stretta connessione i concetti del male, del peccato, della colpa, della punizione…»23. Nel trattato del 1809, è l’attenzione nei confronti del male, della finitudine, della caduta, del peccato, che segna assolutamente per Schelling una vera rottura con la sua prima filosofia della libertà assoluta.

20.  Cfr. ibidem: «Dal che si può vedere chiaramente che tutte le altre libertà – le quali possono darsi al di fuori di quella che si dà nel divino – sono nulle, e soltanto Dio può esser detto veramente libero». 21.  Cfr. ibidem: «Il libero agire, ovvero – essendo questa espressione propriamente pleonastica – l’agire tout court, si dà veramente solo laddove quel che segue da una cosa, segue dalla sua essenza, in virtù della legge dell’identità». 22.  SW, VI, § 305, p. 542; Sistema dell’intera filosofia…, p. 371. – Cfr. anche ivi, p. 548; tr. it. cit., p. 377: «…ogni agire emana dalla volontà divina, e […] l’agire rettamente è la più alta beatitudine, vale a dire la partecipazione alla natura divina». 23.  Ibidem.

24

Si può notare certo ancora che il finale del Sistema dell’idealismo trascendentale, aprendo la riflessione sulla filosofia della storia, concepita come il dramma o il poema attraverso il quale si rivela l’Assoluto, quel poema di cui siamo tutti «co-autori» (Mitdichter), aveva già proposto una articolazione più complessa rispetto a quella che alla fine ritroviamo nella filosofia dell’identità, tra libertà umana e libertà divina, intrecciando nell’immanenza libertà e necessità: Se ci raffiguriamo la storia come un dramma in cui ognuno che vi prende parte recita il proprio ruolo in perfetta libertà e come gli pare e gli piace, allora si può pensare uno sviluppo razionale di questo gioco confuso solamente per il fatto che vi è un unico spirito a comporre la parte di tutti e che il drammaturgo, i cui singoli attori sono semplici frammenti (disjecti membra poëtae), ha precedentemente armonizzato il risultato oggettivo dell’insieme con il libero gioco di tutti i singoli, dimodoché infine debba risultarne effettivamente qualcosa di razionale. Ma se il drammaturgo fosse indipendente dal suo dramma, saremmo soltanto gli attori che recitano ciò che egli ha composto. Se non è indipendente da noi, però si rivela e viene in luce soltanto progressivamente attraverso il gioco della nostra medesima libertà, cosicché anch’egli stesso non sarebbe senza questa libertà, allora noi siamo coautori del tutto ed inventori del singolo ruolo che recitiamo.24

Il senso e la coerenza del dramma, la ragione nella storia, si confondono qui con il gioco di una libertà che è sempre la nostra proprio nella misura in cui questa storia drammatica è anche rivelazione continua dell’assoluto al quale, dunque, noi collaboriamo attivamente. «Attraverso la sua storia – sottolinea ancora Schelling –, l’uomo fornisce una prova permanente dell’esistenza di Dio, una prova che tuttavia non può essere compiuta se non attraverso la storia nella sua interezza»25. 24.  SW, III, p. 602; Sistema dell’idealismo trascendentale, p. 527. 25.  SW, III, p. 603; Sistema dell’idealismo trascendentale, p. 529.

25

Il male radicale e l’abisso della libertà umana Lo sforzo di Schelling, nel 1809, per cogliere la libertà come umana, vale a dire anche per pensare la possibilità e l’effettività del male, andrà ormai di pari passo con una storicizzazione crescente della libertà, fino a comprenderla come libertà per il bene e per il male e a considerla nella sua temporalità propria, rispetto a una decisione suscettibile di aprire una storia superiore, la quale, a sua volta, riconduce a delle narrazioni che in linea di principio non si lasciano mai integralmente ridurre all’analisi concettuale: quelle della creazione e della caduta. Per lo Schelling delle Ricerche, così come, e senza dubbio ancora di più, per quello delle differenti versioni delle Weltalter, risalire fino ai principi primi, nell’ambito di una filosofia storica e narrativa, equivale a interrogare la volontà stessa di Dio, definito come pura libertà al di là dell’essere, al fine di esplicitare la decisione della creazione: perché Dio decide e si decide a fare spazio e tempo (vale a dire a ritirarsi per lasciar spazio alla creazione e al mondo creaturale – Tzimtzum)? Qual è il ruolo e lo spazio dell’uomo in questo processo di creazione in cui ne va della processualità divina stessa? Accedere a questo «punto di vista» superiore su un processo unitariamente teo-cosmogonico, ecco ciò che è indispensabile per colui che vuole pensare a fondo la storia, per colui che vuole comprendere il regime generale della storicità nella quale la libertà umana si trova implicata. Per tale ragione è opportuno far ritorno al cominciamento, o meglio al pre-­ cominciamento, vale a dire, in una parola, alla Caduta. La storia superiore trova il suo vero punto di partenza, la sua radice ultima nel fatto originario della Caduta (Urthatsache, unvordenkliche That)26. La storia stessa, nel suo primo sorgere, deve

26.  SW, XIII, Philosophie der Offenbarung, p. 385; Philosophie de la révélation, Libro II, tr. fr. de la RCP «Schellingiana», dir. di J.-F. Courtine e

26

infatti essere considerata come un mondo interamente nuovo, quello della «mobilità» (neue Welt der Bewegung), un mondo nuovo che presuppone che l’uomo abbia liberamente scosso la base stessa della creazione (Grundlage der Schöpfung): Senza un’uscita dal paradiso originario non ci sarebbe storia. Per questo quel primo passo dell’uomo è il vero primo evento [archi-événement, nella tr. fr. cit.], l’evento che solo rendeva possibile una successione di altri, cioè la storia.27

Al di qua di questa prospettiva cosmo-teologica, sviluppata principalmente nel sistema delle Età del mondo e nella Filosofia positiva, le Ricerche presentano anche e soprattutto i primi lineamenti di una antropologia schellinghiana. Ma attraverso la sua questione centrale, quella riguardante la possibilità e le condizioni di possibilità del male, il trattato del 1809 segna paradossalmente un ritorno a Kant. Ora, il punto in cui Schelling si ricollega a Kant, nell’orizzonte di una filosofia pratica, è soprattutto La religione entro i limiti della sola ragione più che la Critica della ragion pratica o i Fondamenti della metafisica dei costumi. Infatti è proprio il testo sulla Religione a prendere in considerazione, nelle prime due parti, la «inerenza del principio cattivo e del principio buono» e a formulare l’ipotesi del male radicale nella natura umana, prima di descrivere la «lotta del principio buono contro il principio cattivo» per il dominio dell’uomo28. Così la Religione prendeva già come vero filo conduttore, prima delle Ricerche, il dramma del Bene e del Male, per considerare poi una possibile risoluzione del J.-F. Marquet, Puf, Paris 1991, p. 242; tr. it. di A. Bausola, riv. da F. Tomatis, Filosofia della rivelazione, con testo ted. a fronte, Bompiani, Milano 2014, pp. 642 s. 27.  Ibidem. 28.  Sull’origine dell’espressione «male radicale» e sull’interpretazione kantiana, si veda J.-L. Bruch, La philosophie religieuse de Kant, Aubier-­Montaigne, Paris 1968, pp. 70 s.

27

conflitto tra i due principi che deve permettere all’umanità di raggiungere la sua destinazione ultima. Dopo aver esaminato, sulla soglia della sua opera «la disposizione originale al male», e poi «la tendenza al male nella natura umana»29, Kant stabiliva la sua realtà effettiva, secondo un modo di procedere che Schelling seguirà a sua volta, anche se è opportuno sottolineare già da ora una forte differenza nella tematizzazione della «tendenza al male»30. Per Kant, come si sa, il male morale deriva essenzialmente da una perversione nel rapporto della volontà con la legge o la massima31, mentre per Schelling il male si rivela innanzitutto nella natura decaduta, attraverso la sua efficacia, a titolo di principio quasi ontologico:

29.  Kant ne sottolinea anche l’universalità: «Si tenga sempre presente che la tendenza al Male (nelle azioni) viene qui attribuita all’uomo in generale, compreso il migliore. E ciò è necessario proprio perché si tratta di dimostrare l’universalità della tendenza al Male negli uomini, ovvero – ed è la stessa cosa – che tale tendenza è strettamente intrecciata con la natura umana» (I. Kant, Die religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, Ak. Aus., vol. VI, I, 2, p. 23; tr. it. di V. Cicero, La religione entro i limiti della semplice ragione, con testo ted. a fronte, Bompiani, Milano 2012, p. 95). 30.  Come sappiamo, il commento del trattato del 1809 proposto da Heidegger nel 1936 (M. Heidegger, Schelling: vom Wesen der menschlichen Freiheit (1809), in Id., Gesamtausgabe [d’ora in poi GA], vol. 42, a cura di I. Schüßler, Klostermann, Frankfurt a.M. 1988) è organizzato intorno alla distinzione tra possibilità, efficienza e efficacia universale del male. 31.  I. Kant, La religione…, cit., p. 95: «La malvagità (vitiositas, pravitas) o, se si preferisce la corruzione (corruptio) del cuore umano, è la tendenza dell’arbitrio ad adottare massime in cui il movente derivante dalla legge morale è subordinato ad altri moventi (non morali). La si può chiamare anche perversione (perversitas) del cuore umano, perché sovverte l’ordine morale dei moventi di un libero arbitrio, e, sebbene possano pur sempre prodursi con essa delle azioni legalmente buone (azioni legali), tuttavia il modo di pensare ne risulta corrotto nella sua radice (per quanto riguarda l’intenzione morale), ed è in tal senso che l’uomo si rivela cattivo».

28 Si dà dunque un male universale, sebbene non originario, ma risvegliato solo attraverso la rivelazione di Dio, fin dal principio, attraverso la reazione del fondamento (Grund), un male che non giunge mai alla realizzazione, ma vi tende costantemente. Solo dopo la conoscenza del male universale, è possibile comprendere il bene e il male anche nell’uomo.32

Per quanto riguarda la nozione di «male radicale», il confronto Kant-Schelling, per quanto limitato, resta chiarificatore anche su questo punto: che cos’è infatti il male radicale? È, ci dice Kant, ciò che corrompe il fondamento di tutte le massime33. Kant distingue, come sappiamo, la malvagità (Bösartigkeit) che altro non è, se così si può dire, se non la corruzione o la perversione (Verderbtheit, Verkehrtheit) del cuore, dalla malignità (Bosheit) che consiste nel fare del male in quanto tale 32.  SW, VII, pp. 333-416: pp. 381 s.; tr. it. di S. Drago del Boca, L. Pareyson e V. Verra, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi, in F.W.J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1990, pp. 77-140: p. 111 (tr. mod.). Possiamo osservare che l’universalità del male qui, nella sua dimensione ontologica e per così dire cosmologica, è del tutto contraria all’analisi kantiana che riconduce sempre la «tendenza al male» a un atto; non certo ad un’«azione» nel mondo, la quale può sempre darsi come conforme alla legge, ma a un «atto intelligibile». Kant moltiplica su questo punto, che è di importanza capitale ai suoi occhi, le messe a punto: «In effetti, l’espressione “atto” può in generale riferirsi tanto a quell’uso della libertà secondo cui nell’arbitrio viene adottata la massima suprema (conforme o contraria alla legge), quanto anche per quell’uso in base a cui le azioni stesse […] vengono compiute in conformità a quella massima. La tendenza al male è allora un atto nel primo significato (peccatum originarium), e, a un tempo, è il fondamento formale di ogni atto – nel secondo significato – che per la sua materia è contrario alla legge […]» (I. Kant, La religione…, cit., p. 95). Ritroviamo questo peccatum originarium nell’analisi abbastanza strampalata che Kant abbozza a proposito dell’immacolata concezione (ivi, p. 101 n.). Cfr. anche J.-L. Bruch, op. cit., pp. 73 s. 33.  Cfr. I. Kant, La religione…, cit., p. 111: «Questo male è radicale perché corrompe il fondamento di tutte le massime». Se non può essere «sradicato» come tendenza «da forze umane», esso però può essere «dominato».

29

il motivo della massima, massima che comporterebbe così una intenzione veramente diabolica34. Senza rimettere esplicitamente in discussione questa distinzione, ma accentuando la dimensione essenzialmente spirituale del male, Schelling si riserva, almeno nelle Ricerche, l’esame di un versante propriamente diabolico della volontà suscettibile di volere il male per il male. Ma così come in Kant l’opposizione reale non porta ad alcun dualismo35, allo stesso modo, in Schelling, la distinzione o la differenza ontologica del fondo e dell’esistenza 34.  Per «spiegare il fondamento del male morale nell’uomo», l’ipotesi di una «ragione, […] per così dire, maligna», ossia di una ragione che potrebbe esentarsi dalla legge morale, sarebbe troppo forte. Ciò equivarrebbe a «elevare a movente» l’opposizione alla legge, ma così si «farebbe del soggetto un essere diabolico» (I. Kant, La religione…, cit., p. 107). [Jean-François Courtine utilizza méchanceté per Bösartigkeit e malignitè per Bosheit; N.d.T.]. Se Kant rifiuta senza esitazione una tale concezione, non smette tuttavia di sottolineare l’abisso di incomprensibilità rappresentato dal male morale e dalla sua origine. – Tra le interminabili discussioni suscitate dalla formula della «banalità del male», H. Arendt così rispondeva a G. Scholem in una lettera del 20 luglio 1963: «Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Può devastare il mondo, perché prolifera come un fungo sulla superfice della terra» [tradotta direttamente dalla tr. fr. di S. Courtine-Denamy, in H. Arendt, Écrits, juifs, Fayard, Paris 2011, p. 650]. 35.  Nella seconda parte di La religione… («La lotta del principio buono contro il principio cattivo per il dominio sull’uomo»), Kant cita Paolo (Ef 6,12): «Non ci si può dunque stupire se un Apostolo rappresenta questo nemico invisibile, corruttore dei principi morali e conoscibile solo mediante i suoi effetti su di noi, come uno Spirito cattivo esistente fuori di noi: “Non dobbiamo combattere contro la carne e il sangue (cioè contro le inclinazioni naturali), bensì contro Principati e Potestà, contro Spiriti maligni”». Se non ci si deve stupire di queste formulazioni è innanzitutto perché si tratta di una affermazione che «non sembra mirare a estendere la nostra conoscenza al di là del mondo sensibile, ma soltanto a rendere intuitivo per l’uso pratico il concetto di ciò che per noi è imperscrutabile». Infatti, collocare il tentatore «semplicemente in noi stessi oppure fuori di noi» sarebbe la stessa cosa, perché in ogni caso, «se non fossimo segretamente d’accordo con lui», non saremmo stati da lui tentati (cfr. I. Kant, La religione…, cit., pp. 155 ss.).

30

(Grund-Existenz) – pietra angolare delle Ricerche – non potrebbe sviare la prospettiva ancora trascendentale che conduce dalla condizione di possibilità a quella della realtà effettiva della e nella esperienza: Abbiamo cercato di dedurre il concetto e la possibilità del male dai primi fondamenti e di scoprire la base generale di questa dottrina, consistente nella distinzione tra l’esistente e ciò che è il fondamento dell’esistenza. Ma la possibilità non include ancora la realtà, e questa propriamente è il grande oggetto in questione. E invero, non si tratta di spiegare all’incirca come il male diventi reale nell’uomo singolo, ma la sua universale efficacia (Wirksamkeit), ossia come abbia potuto scaturire dalla creazione come un principio assolutamente generale, dappertutto in lotta con il bene.36

Questa inflessione della questione della realtà effettiva in direzione dell’efficacia universale rimanda certo, al di là di Kant37, alla problematica generale della teodicea e all’idea di filosofia o teologia della storia, quella che Schelling chiamerà più tardi – come abbiamo già ricordato – storia superiore (höhere Geschichte)38, insistendo sul valore temporale dell’opposizione dei principi, ma soprattutto dandogli una dimensione teologica o teogonica, del tutto estranea a Kant: «Poiché esso [il male] almeno come opposizione universale, è innegabilmente reale, non vi può essere fin da principio nessun dubbio che sia stato necessario alla rivelazione (Offenbarung) di Dio»39. Ci troviamo qui nel circolo teo-antropo-morfico caratteristico del trattato 1809, esplicitamente rivendicato come tale, di cui 36.  SW, VII, p. 373; Ricerche filosofiche…, p. 106 (tr. mod.). 37.  Per Kant, come sottolinea bene J.-L. Bruch, op. cit., p. 62: l’universalità del male si applica solo «alla specie umana nella sua interezza». 38.  Cfr. X. Tilliette, L’Absolu et la philosophie. Essais sur Schelling, Puf, Paris 1987, pp. 239-253. 39.  SW, VII, p. 373; Ricerche filosofiche…, p. 106 (tr. mod.).

31

possiamo trovare una formulazione particolarmente vigorosa l’anno successivo nelle Lezioni di Stoccarda: Se vogliamo farci un’idea dell’essenza originaria (Urwesen), del suo essere (Seyn) e della sua vita, non possiamo propriamente scegliere se non tra due punti di vista. O l’essenza originaria è per noi qualcosa di concluso una volta per tutte e di immutabilmente sussistente, e questo è il concetto consueto di Dio, quello della cosiddetta religione naturale e di tutti i sistemi astratti. Se non che tanto più esasperiamo questo concetto di Dio tanto più Dio perde per noi in vitalità, tanto meno possiamo concepirlo come un essere vivente, reale e personale nel vero senso della parola, come siamo noi. O, se invece esigiamo un Dio che ci sia possibile intendere come un essere affatto vivente e personale, è necessario considerarlo in una maniera risolutamente umana: dobbiamo ammettere che la sua vita abbia la massima analogia con la vita umana, che ci sia in lui accanto all’eterno essere anche un eterno divenire, che egli, insomma, abbia tutto in comune con l’uomo, ad eccezione della dipendenza…40

È ancora questa circolarità che obbliga Schelling a tentare di pensare insieme l’universale necessità del male e la tesi fondamentale che il male resta sempre la scelta propria dell’uomo. L’analisi della libertà umana, nel momento in cui intende esplorare a fondo la sua essenza, ci riconduce una volta ancora alle speculazioni teogoniche. L’inversione completa del modo di procedere schellinghiano rispetto a Kant emerge qui con estrema chiarezza: Si dà dunque un male universale, benché non originario, ma risvegliato solo attraverso la rivelazione di Dio, fin da principio, attraverso la reazione del fondamento, un male che non giunge mai alla realizzazione, ma vi tende costantemente. Solo dopo 40.  SW, VII, pp. 421-484: p. 432; tr. it. di S. Drago del Boca, L. Pareyson e V. Verra, Lezioni di Stoccarda, in F.W.J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, cit., pp. 141-193: pp. 151 s.

32 la conoscenza del male universale è possibile comprendere il bene e il male anche nell’uomo. Se cioè, già al principio della creazione il male è stato suscitato e, attraverso l’indipendente agire del fondamento, è stato poi sviluppato in principio generale, una naturale tendenza (ein natürlicher Hang) dell’uomo al male sembra spiegabile già con ciò, che il disordine delle forze introdotto con il risveglio del volere individuale della creatura, gli è stato partecipato fin dalla nascita.41

Se dunque le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi si collegano aprono innanzitutto una prospettiva antropologica, Schelling rivendica presto, come ha notato giustamente Heidegger nel suo commento42, i diritti dell’antropomorfismo, in virtù del quale l’esame della situazione dell’uomo, nella natura, nella storia, nella sfera creaturale in generale, riconduce sempre al processo della creazione e al

41.  SW, VII, pp. 380 s.; Ricerche filosofiche…, p. 111. 42.  GA 42, pp. 282 ss. [Utilizzeremo la tr. it. di C. Tatasciore, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, Guida, Napoli 1998, pp. 258 ss., che tuttavia non riproduce esattamente il testo di GA 42. Si veda la nota del traduttore, ed. it. cit., pp. 15 ss.; N.d.T.]. Ma è soprattutto nella polemica con Jacobi e nelle risposte a Eschenmayer che Schelling esplicita e giustifica il suo modo di procedere: SW, VIII, pp. 167 s.: «Come avete correttamente percepito, è necessario scegliere il proprio campo: o si esclude ogni antropomorfismo e dunque anche ogni rappresentazione di un Dio personale, che compie degli atti coscienti e intenzionali [ciò basta per renderlo del tutto umano], oppure si adotta un antropomorfismo illimitato, una totale e integrale umanizzazione (Vermenschlichung) di Dio, con una sola eccezione: l’essere necessario. […] Voi dite: Dio deve semplicemente essere sovra-umano. Tuttavia, se volesse essere umano, […] chi avrebbe da ridire? Se Dio stesso discendesse dall’altezza che occupava e si rendesse comune con la creatura, perché dovrei trattenerlo con forza in tale altezza? In che cosa lo ridurrei, io, con la rappresentazione della sua umanità, allorché è stato egli stesso ad abbassarsi?»; il testo è disponibile in tr. fr.: F.W.J. Schelling, Réponse à Eschenmayer sur la philosophie de la nature. Philosophie et religion. Recherches sur l’essence de la liberté humaine. Objections d’Eschenmayer contre les Recherches et réponses de Schelling, Vrin, Paris 1988.

33

processo teogonico. L’uomo è «al bivio»43, poiché in lui «il vincolo dei principi non è necessario, ma libero»44. Ora è giustamente questa libertà, o questa indeterminazione del vincolo, a spiegare in definitiva la possibilità del male: Il male come tale può nascere solamente nella creatura, perché solo in questa possono trovarsi uniti in maniera separabile la luce e le tenebre, ovvero i due principi.

La creatura, termine con il quale dobbiamo intendere enfaticamente l’uomo, è ciò che rivela il male come tale, se è vero che il fondo (Grund), questa istanza abissale, iniziale, che Schelling ha messo in evidenza in tutto ciò che è, compreso in Dio, non può mai essere malvagia in sé45. Il fondo è infatti presente in Dio, anche se esso è in Dio ciò che non è Dio stesso o Dio in se stesso46: è l’altro da Dio in Dio, dal momento che Dio è essenzialmente compreso come spirito o meglio come amore:

43.  SW, VII, p. 374; Ricerche filosofiche…, p. 106: «L’uomo è posto su una vetta dove ha in sé ugualmente la possibilità di muoversi spontaneamente verso il bene o verso il male. In lui il vincolo dei principi non è necessario, ma libero. Egli sta al bivio; qualunque cosa egli scelga, diviene la sua azione, ma non può rimanere nell’indecisione […]». Cfr. SW, VII, p. 458; Lezioni di Stoccarda, p. 172: «L’uomo dunque, per il fatto che sta in mezzo fra il nonessente della natura e l’assolutamente essente = Dio, è libero da entrambi. È libero da Dio perché ha una radice indipendente nella natura, è libero dalla natura perché in lui si è destato il divino, che sta, nel centro della natura, sopra la natura. Queste due parti dell’uomo possiamo chiamarle rispettivamente la parte propria (naturale), quella per cui egli è individuo, essere personale, e la parte divina. Egli è libero nel senso umano del termine, perché è posto nel punto di indifferenza». 44.  SW, VII, p. 374; Ricerche filosofiche…, p. 106. 45.  Cfr. SW, VII, p. 375; Ricerche filosofiche…, p. 107: «L’essere che costituisce il fondamento iniziale non può mai essere in sé cattivo». 46.  La formulazione schellinghiana, nella polemica con Jacobi, è in questo caso particolarmente sorprendente: «Io pongo Dio come Primo e Ultimo, come Alfa e Omega, ma in quanto Alfa egli non è ciò che è in quanto Omega, e nella misura in cui egli non è se non a titolo di questa istanza ultima – come

34 Dio come spirito (l’eterno vincolo dei due principi) è l’amore puro, ma nell’amore non può mai esserci una volontà di male: e nemmeno nel principio ideale. Ma Dio stesso, per poter essere, ha bisogno di un fondamento, soltanto che questo non è fuori di lui, ma in lui, e ha in sé una natura, che, quantunque appartenga a lui stesso, è tuttavia distinta da lui. Il volere dell’amore e il volere del fondamento sono due voleri distinti, ognuno dei quali sta a sé: ma il volere dell’amore non può contrastare al volere del fondamento, né sopprimerlo, perché altrimenti dovrebbe contrastare se stesso. Giacché il fondamento deve agire perché l’amore possa esserci…47

Ma per meglio sottolineare lo sfondo kantiano delle Ricerche, bisogna ancora aggiungere un tratto: in questo trattato Schelling si adopera anche a criticare ciò che egli considera il concetto idealista di libertà, concetto solamente formale al quale Fichte aveva dato, per la prima volta, una determinazione completa. Ora, è contro questa posizione dell’idealismo soggettivo che Schelling scrive infatti: non basta affatto sostenere «che attività, vita e libertà soltanto siano il vero reale» […], si esige piuttosto che si dimostri, anche reciprocamente, che ogni reale (la natura, il mondo delle cose) abbia per suo principio attività, vita e libertà, o […] che non soltanto l’Io sia tutto, ma che, anche, all’inverso, il tutto sia Io.48

Tuttavia, questa prima generalizzazione-estensione del concetto idealista di libertà non solo è insufficiente, ma soprattutto rischia di mascherare interamente ciò che costituisce il proprio della libertà umana: Dio sensu eminenti, egli non può essere chiamato Dio nello stesso senso né, come diciamo espressamente, può essere considerato in modo altrettanto rigoroso quando è Dio non esplicitato, Deus implicitus, e quando è Deus explicitus, come Omega» (SW, VIII, p. 81; tr. fr. di P. Cerutti, Une autre querelle de l’athéisme, Schelling répond à Jacobi, Vrin, Paris 2012). 47.  SW, VII, p. 375; Ricerche filosofiche…, p. 107. 48.  SW, VII, p. 351; Ricerche filosofiche…, p. 91.

35 Ma d’altra parte, se la libertà è il concetto positivo dell’in sé in generale, la ricerca intorno alla libertà umana viene di nuovo respinta nel generico, giacché l’intelligibile, sul quale soltanto essa è stata fondata, è anche l’essenza delle cose in sé. Il semplice idealismo dunque non basta per indicare la differenza specifica, cioè proprio l’aspetto particolare della libertà umana.49

Concludendo così, Schelling non intende semplicemente rifiutare il concetto superiore della libertà così come è stato conquistato dall’idealismo a partire da Kant, «giacché – scrive –, fino alla scoperta dell’idealismo, manca l’esatto concetto della libertà in tutti i moderni sistemi, in Leibniz come in Spinoza»50, ma egli cerca piuttosto di reinterpretarlo nella prospettiva di un «realismo superiore» per il quale sarà necessario niente meno che il progetto di una «metafisica del male»51 i cui ultimi prolungamenti sono visibili sia nella Filosofia della mitologia che nella «satanologia» della Filosofia della rivelazione.

L’uomo creatura centrale L’idealismo, da un lato, fornisce soltanto il concetto più generale di libertà e, dall’altro, il suo concetto soltanto formale. Ma il concetto reale e vivente di libertà è quello di un potete del bene e del male.52

Mettere in evidenza la specificità della libertà umana, colta nella sua essenza, non conduce semplicemente a rinunciare al progetto inizialmente interrotto di fare della libertà l’«Uno e

49.  SW, VII, p. 352; Ricerche filosofiche…, p. 92. 50.  SW, VII, p. 345; Ricerche filosofiche…, p. 87 (tr. mod.). 51.  GA 42, p. 181; tr. it. cit., p. 175. 52.  SW, VII, p. 352; Ricerche filosofiche…, p. 92.

36

il Tutto della filosofia», ma ciò obbliga in ogni caso a introdurre – come abbiamo già suggerito – una prospettiva più storica o narrativa, la stessa che Schelling tematizzerà nella parte introduttiva delle Età del mondo (versione del 1813) e nel System der Weltalter a cui si consacrerà a Monaco a partire dal 182753. Ed è così che una reale continuità si trova ristabilita con questa proposizione del Sistema dell’idealismo trascendentale: «[…] la libertà, l’assolutamente indimostrabile che non si comprova se non attraverso se stesso, costituisce l’inizio e la fine di questa filosofia»54. Se dunque, dal momento che si tratta di libertà umana, questa doppia postulazione del bene e del male è essenziale – senza che si possa mai separare e isolare semplicemente uno dei termini dell’opposizione irriducibile –, è precisamente perché, come abbiamo già notato, l’uomo, essere in-deciso, è anche nel contempo la creatura centrale, vale a dire quella che ospita in sé le due istanze ontologiche differenti e correlative del fondo e dell’esistenza. L’uomo, sottolinea Schelling, porta con sé i due centri, e da ciò deriva il suo ruolo destinale per l’insieme della creazione e persino per la stessa vita divina: Quest’elevazione del più profondo centro nella luce non accade in alcun’altra delle creature a noi visibili, all’infuori dell’uomo. Nell’uomo è l’intera potenza del principio tenebroso, e a un tempo è in lui anche tutta la forza della luce. In lui è il più profondo abisso, e il cielo più elevato, ossia ambedue i centri.55

53  Cfr. F.W.J. Schelling, System der Weltalter, a cura di S. Peetz, Klostermann, Frankfurt a.M. 1990, secondo la Nachschrift di E. von Lasaulx; cfr. anche F.W.J. Schelling, Grundlegung der positiven Philosophie. Münchener Vorlesung WS 1832/33 und SS 1833, a cura di F. Fuhrmans, Bottega d’Erasmo, Torino 1972. 54.  SW, III, p. 376; Sistema dell’idealismo trascendentale, p. 121. 55.  SW, VII, p. 363; Ricerche filosofiche…, pp. 99 s.

37

Così, mettere in evidenza la specificità della libertà umana, colta nella sua essenza come libertà ex-(s)istente o ex-­centrata56, conduce Schelling ad una prospettiva narrativa, quella delle Weltalter, che dovrà rendere conto della possibilità e della realtà effettiva del male, se è vero che queste ci rinviano sempre ad una pre- o ad una proto-storia che è insieme quella della creazione, della libertà e della temporalità e-statica57. È così che la questione della libertà si ritrova intrinsecamente legata a quella della temporalità o, più precisamente, alla questione del cominciamento nel tempo, attraverso il quale Schelling ritrova ugualmente la determinazione kantiana della libertà come facoltà di iniziare da sé un evento, che diventa rottura inaugurale58. La problematica schellinghiana si separa così di nuovo

56.  «Ex-sistenz»: SW, X, Zur Geschichte der neueren Philosophie, p. 181; tr. it., Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna, in F.W.J. Schelling, Lezioni monachesi e altri scritti, a cura di C. Tatasciore, Orthotes, Salerno-Napoli 2019, pp. 53-231: p. 213 [«ek-sistenza», nella tr. it. cit.; N.d.T.]. «Ex-zentriert», «ohne Zentrum», «außer dem Zentrum»: cfr. ivi, p. 186; tr. it. cit., p. 217: «L’uomo non è più, dunque, nel luogo nel quale – grazie alla creazione stessa – era posto; da una falsa estasi egli è posto fuori dal centro, nel quale era colui che sa tutte le cose». 57.  Cfr. SW, VII, pp. 385 s.; Ricerche filosofiche…, p. 115: «L’uomo è, nella creazione originaria, come si è mostrato, un essere non deciso […]; però può decidersi egli stesso. Ma questa decisione non può cadere nel tempo; essa cade fuori di ogni tempo, e perciò coincide con la prima creazione, quantunque come un atto distinto da essa. L’uomo, quantunque sia generato nel tempo, è tuttavia prodotto nel principio della creazione (nel centro). L’atto, per il quale la sua vita è determinata nel tempo, non appartiene esso medesimo al tempo, ma all’eternità. […] Per essa la vita dell’uomo raggiunge il principio della creazione: perciò l’uomo, per mezzo suo, è anche fuori dal creato libero ed esso medesimo eterno principio». 58.  I. Kant, Kritik der reinen Vernunft [d’ora in avanti KrV], in Ak. Aus., vol., III, A 533 – B 561; tr. it. di C. Esposito, Critica della ragion pura, con testo ted. a fronte, Bompiani, Milano 2012, p. 787: «Io intendo con libertà in senso cosmologico la facoltà di cominciare spontaneamente uno stato, la cui causalità dunque non soggiace a sua volta – in conformità alla legge di

38

indubbiamente dalla determinazione kantiana dell’antropologia, contraddistinta dalla filosofia morale pura59, nella misura in cui l’indagine delle Ricerche mira proprio a comprendere ciò che l’uomo è; essa si interroga sull’uomo e sull’essenza della libertà che in lui è storica. Si tratta certo di una storicità superiore, così come Schelling la definirà più tardi, ma basta a scompigliare la stretta divisione kantiana tra l’antropologia (empirica, impura) e la filosofia morale, attenta a far emergere i fondamenti dell’obbligazione, a esibire la legge morale nella sua purezza e a fornire una formulazione rigorosa.

Una distinzione fondamentale Ma, ben al di là (o al di qua) di Kant, il grande e importante paradosso dello scritto del 1809, perfettamente riconosciuto dallo stesso Schelling – poiché è qui che si incontrano la problematica del panteismo e quella della libertà come umana – è che per salvare l’uomo con la sua libertà60, non vi è altra soluzione se non quella di cercare rifugio «nell’essere divino stesso, poiché è impensabile in opposizione alla sua onnipotenza; vale a dire che l’uomo non è fuori di Dio, ma in Dio, e che la sua attività stessa appartiene alla vita di Dio». L’antropologia

natura – a un’altra causa che l’abbia determinata nel tempo. La libertà, in questo senso, è una pura idea trascendentale […]». 59.  Cfr. in particolare la prefazione alla Fondazione della metafisica dei costumi: Ak. Aus., vol. IV, pp. 389 e 390; tr. it. di F. Gonnelli, Laterza, RomaBari 1997, p. 7: «[si ritiene] di estrema necessità elaborare, una buona volta, una filosofia morale pura, che sia interamente purificata da tutto ciò che può essere solo empirico e appartiene all’antropologia. […] tutta la filosofia morale riposa interamente sulla sua parte pura e, applicata all’uomo, non trae il minimo elemento dalla conoscenza di quest’ultimo (antropologia)». 60.  SW, VII, p. 339; Ricerche filosofiche…, p. 83.

39

diventa qui ontologia generale e teologia, entrambe addossate alla distinzione ontologica cardinale del fondo e dell’esistenza61. Ma allora il problema cambia scenario, poiché si tratta ormai, con l’aiuto di questa distinzione, di cogliere in Dio ciò che non è Dio stesso. È proprio questo movimento abbastanza complesso della ricerca a rendere immediatamente caduche tutte le alternative del genere: o indagine antropologica, che si impegna a tematizzare la libertà umana finita, o indagine teologica, incentrata sulla vita in Dio. Altrimenti detto, e in maniera positiva, è ancora questo gioco di rinvii che spiega l’unità «onto-­teo-antropo-cosmologica» del trattato ed è ancora essa che fonda, nel contempo, la centralità dell’antropomorfismo. A partire da ciò, tutto si concatena rigorosamente: grazie a questa distinzione del fondo e dell’esistenza, Dio può essere libero dall’errore, dal male e dalla malvagità e la libertà umana può affermarsi rispetto all’onnipotenza divina – potenza incondizionata – senza per questo essere ridotta ad una «passività incondizionata»62. Quanto al male, la sua realtà positiva è assicurata con lo stesso gesto: Il fondamento del male deve dunque consistere non solo in qualcosa di positivo in generale, ma in ciò che di più altamente positivo contiene la natura. […] esso consiste nel centro fattosi manifesto o nel volere originario del primo fondamento (Grund).63

I due veri poli del trattato del 1809 si lasciano così caratterizzare: la metafisica del male da un lato e, dall’altro, ciò che

61.  Cfr. GA 42, p. 185; tr. it. cit., p. 179 (tr. mod.): «La questione inespressa, ma che nondimeno è presente in tutto il trattato e avvia il movimento è quella dell’essenza e del fondamento dell’Essere». 62.  SW, VII, p. 339; Ricerche filosofiche…, p. 83. 63.  SW, VII, p. 369; Ricerche filosofiche…, p. 103.

40

bisognerebbe chiamare, senza dubbio, metafisica dell’amore. Poiché l’ultima definizione di Dio nel trattato è in realtà l’amore: Dio è amore, e soprattutto la legge suprema è la legge dell’amore, quella stessa legge che prescrive di lasciare il fondo all’opera, vale a dire di non impedirgli di agire. Questa è, secondo Schelling, la sola maniera possibile di concepire in modo nuovo l’idea classica di una permissione del male64.

La vetta dell’idealismo tedesco? Apriamo qui una lunga parentesi: nella magistrale interpretazione che Heidegger, nel 1936, ha dato del trattato di Schelling sull’essenza della libertà umana, l’accento è posto, in una maniera apparentemente indiscutibile, sul volere, la volontà, la volontà di volontà65. Possiamo chiederci tuttavia se la ce-

64.  SW, VII, p. 375; Ricerche filosofiche…, p. 107. Questo punto è ben messo in evidenza da Heidegger alla fine del corso del 1936: Cfr. GA 42, pp. 280 s.; tr. it. cit., p. 257: «La libertà umana […] è il punto centrale della filosofia, perché è muovendo da essa come centro che tutta la motilità costitutiva del divenire del creato, quale divenire di ciò che crea e quale eterno divenire dell’Assoluto, diviene unitariamente manifesta nella sua contrappositività, nella sua lotta. La lotta è, secondo l’antico motto di Eraclito, la legge fondamentale e la potenza fondamentale dell’Essere. Ma la lotta più grandiosa è l’amore, perché esso suscita il più profondo conflitto per essere, nel superamento di questo, se stesso». 65.  A tal proposito, il corso del 1941 (M. Heidegger, Die Metaphysik des deutschen Idealismus (Schelling), GA 49, a cura di G. Seubold, Klostermann, Frankfurt a.M. 1991) forza ancora i tratti di una lettura risolutamente ontologizzante, in quanto Heidegger pone espressamente (§ 15) che è tale determinazione dell’essere come volere a costituire «la radice della distinzione del fondo e dell’esistenza» (p. 89): «“Wurzel” soll sagen: Die Unterscheidung entspringt aus dem Wollen, und das Unterschiedene hat den Charakter von “Wille”».

41

lebre tesi secondo la quale il «volere» è Ursein66 rappresenti l’ultima parola dell’ontologia schellinghiana nelle Ricerche del 180967, o se non si tratti per lui piuttosto di un semplice punto di partenza ancora «idealista» che egli intende superare proprio attraverso il suo studio della libertà umana, la quale non si apre veramente se non con la distinzione del Grund e dell’Existenz68. È abbastanza singolare, in ogni caso, vedere come

66.  SW, VII, p. 350; Ricerche filosofiche…, p. 91: «In ultima e suprema istanza non c’è alcun altro essere che il volere. Il volere è l’essere originario, e ad esso soltanto si addicono tutti i suoi predicati: assenza di principio, eternità, indipendenza dal tempo, auto-affermazione. L’intera filosofia non mira che a questo, trovare questa suprema espressione». 67.  La questione è stata ben posta da H.-J. Friedrich, Der Urgrund der Freiheit im Denken von Böhme. Schelling und Heidegger, «Schellingiana» 24, Frommann-Holzboog, Stuttgart 2009, p. 11. Dopo aver ricordato la celebre formula che Heidegger commenterà in modo dettagliato nel corso del 1941 (GA 49, pp. 83-89): «In ultima e suprema istanza non c’è alcun altro essere che il volere…» (SW, VII, p. 350; Ricerche filosofiche…, p. 91), sottolinea giustamente che la tesi «Wollen ist Urseyn» è qui presa come punto di partenza e non come vero oggetto della Ricerca. Meglio ancora, questa tesi, che resta intrinsecamente legata al «concetto idealistico di libertà», non permette più di quanto non faccia «il semplice idealismo» di «risolvere le difficoltà più profonde incluse nel concetto di libertà» (SW, VII, p. 353; Ricerche filosofiche…, p. 92; tr. mod). Il proposito di Schelling, nota H.-J. Friedrich, è proprio quello di far esplodere un enunciato di questo genere (H.-J. Friedrich, op. cit., p. 14). 68.  La formulazione schellinghiana è peraltro particolarmente trasparente: «La filosofia della natura dei nostri tempi ha per la prima volta introdotta nella scienza la distinzione tra l’essere (Wesen), in quanto esiste, e l’essere, in quanto è semplice fondamento dell’esistenza. Tale distinzione risale alla prima esposizione scientifica della filosofia della natura» (SW, VII, p. 357; Ricerche filosofiche…, p. 56; tr. mod.). Questa «filosofia della natura» contemporanea è evidentemente quella dello stesso Schelling e il riferimento è allo Darstellung del 1801. Proprio dopo la «rettifica dei concetti essenziali» alla quale procede l’Introduzione, è solo partendo dai «principi di una vera filosofia della natura» che sarà possibile rispondere al compito assegnato: cogliere l’essenza della libertà umana, e «gli oggetti che vi si collegano».

42

l’interpretazione di Heidegger nel corso del 1936, per quanto non si soffermi sull’Amore come istanza suprema, comprenda tuttavia in maniera restrittiva la «volontà dell’Amore», nel senso del Wirkenlassen des Grundes (lasciar operare il fondo), in termini di «soggettività incondizionata»69. Sin da subito il commento associa la questione dell’essenza dell’uomo e quella dell’essenza dell’essere: l’indagine che si interroga sulla libertà umana conduce «oltre l’uomo», in direzione di ciò che è più originario e più potente dell’uomo stesso, e si dispiega come un domandare in vista dell’«essenza dell’autentico Essere, essenza del fondamento per l’ente nella sua totalità»70. Così, per Heidegger, il trattato di Schelling è considerato nella sua massima ampiezza, e nella sua più alta ambizione, se è vero che concepire71 l’essenza della libertà umana significa an-

69.  Nell’introduzione (Übersicht, Aufbau und Problemanzeigen) al volume collettaneo, curato da Otfried Höffe e Annemarie Pieper, che apporta alla serie «Klassiker Auslegen» un eccellente commento del Trattato, Hans Michael Baumgartner chiedeva: «Possiamo comprendere, nell’introduzione di Schelling, i passaggi corrispondenti all’idea di volere originario nel senso che la più alta istanza deve sempre e necessariamente – come fa Heidegger – essere concepita come voler-se-stessa, o bisogna piuttosto intendere un tale volere-se-stessa come l’essenza originaria dell’essere?» (Schelling. Über das Wesen der menschlichen Freiheit, Akademie Verlag, Berlin 1995, p. 52). 70.  GA 42, pp. 15 s.; tr. it. cit., p. 40. 71.  Heidegger insiste giustamente lungo tutto lo sviluppo del suo commento sull’esigenza propriamente concettuale che sottende l’insieme delle Ricerche, sia che si tratti di «rettificazione di concetti essenziali» (SW, VII, p. 357; Ricerche filosofiche…, p. 95), sia che si tratti dell’«elaborazione della verità rivelata in verità razionali» (ivi, p. 412; tr. it. cit., p. 133). Vi è qui una attenzione decisiva nei confronti del rigore concettuale del trattato che non risulta contraddetta da questa altra sottolineatura, ugualmente pertinente, che si trova all’inizio del commento della «Parte Principale», e che mira a descrivere l’«atteggiamento del pensiero di Schelling»: «Schelling infatti non pensa “concetti”, egli pensa forze e pensa in termini di posizioni del volere, egli pensa nel conflitto di potenze (Mächte), che non si lasciano accordare per mezzo di un artificio concettuale» (M. Heidegger, Schellings Abhand-

43

che e innanzitutto fare in modo che «il centro più intimo della filosofia acceda al sapere»72. Avendo così definito la portata dell’opera e la sua posta ultima, Heidegger può dichiarare, all’inizio del suo corso, che se riuscissimo a cogliere la filosofia schellinghiana nei suoi tratti fondamentali, «raggiungeremo una comprensione della filosofia dell’idealismo tedesco nella sua totalità a partire dalle forze che la mettono in movimento; Schelling è infatti il pensatore veramente creativo e di più ampio respiro di tutta quest’epoca della filosofia tedesca. Egli lo è a tal punto che spinge dall’interno l’idealismo tedesco al di là della sua propria posizione fondamentale»73. Se dunque è vero che nel 1936, vale a dire nel momento in cui si intraprende la dura e faticosa Auseinandersetzung con Nietzsche e in cui si elabora, secondo un regime di scrittura molto diverso, la meditazione di cui i Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) danno testimonianza, Schelling può apparire come un «alleato sostanziale», può esserlo anche se la sua impresa è caratterizzata come un «fallimento» (Scheitern); fallimento «grandioso» certo, comparabile a quello contro il quale anche il pensiero di Nietzsche si era appena infranto, rinunciando all’Hauptwerk della volontà di potenza. Senza il termine, questo motivo del fallimento (Scheitern o Versagen) ritorna nelle pagine conclusive del corso del 1936. Heidegger, commentando la fine del Trattato del 1809, mette in rilievo la vera unità o l’unità anteriore alla disgiunzione del fondo e dell’esistenza, quell’unità che Schelling chiamerà Urgrund, Ungrund, per esplicitarla nei termini di una assoluta indifferenza. Heidegger osserva correttamente – ma senza tuttavia ritornare sull’analisi di quella che considera la proposizione ontologica fondamentale del lung über das Wesen der menschlichen Freiheit (1809), a cura di H. Feick, Niemeyer, Tübingen 1971, p. 133; GA 42, p. 193; tr. it. cit., p. 184). 72.  GA 42, p. 6; tr. it. cit., p. 31. 73.  Ibidem.

44

trattato, ossia che Urseyn ist Wollen è l’istanza primordiale alla quale si applicano tutti i predicati che la filosofia associa tradizionalmente all’essere originario – che il solo «predicato» che possa essere attribuito a questa «absolute Indifferenz» è quello di «non-predicabilità»74, per poi proseguire: «L’indifferenza assoluta è il nulla, nel senso che rispetto ad essa ogni predicato ontologico è nulla; ma non nel senso che l’Assoluto sia nullo e puramente vacuo». Siamo qui molto prossimi alle analisi della lezione inaugurale Was ist Metaphysik?, e ancora di più alle integrazioni e alle precisazioni apportati dal Nachwort del 1943 o dall’Einleitung del 1949 sul Nulla o sul niente come «l’essere stesso»75, ovvero alla svolta operata dal corso del 1935, Introduzione alla metafisica, sulla parola di Nietzsche: l’essere è considerato come niente, «parola vuota», «feticcio verbale», «ultima fumata di una realtà che si volatilizza». Dov’è, chiedeva Heidegger alla fine del corso del 1935, il «vero nichilismo»? È quello che considera l’essere come niente e che fa rimanere «attaccati all’essente consueto, dove si pensa che sia sufficiente assumere l’essente, come è stato fatto fino ad oggi, come essente puro e semplice e basta»? O piuttosto si trova nel versante dei pensatori che si avventurano, nel rilanciare la domanda nella ricerca dell’essere, «fino ai limiti del nulla, includendolo in tale domanda»? Solo quest’ultimo passo (der einzig fruchtende Schritt) è fecondo e permette di considerare

74.  SW, VII, p. 406; Ricerche filosofiche…, pp. 130 s. (tr. mod.): «L’indifferenza non è un prodotto dell’opposizione, né gli opposti sono contenuti implicite in quella, ma è un essere proprio, separato da tutte le opposizioni, nel quale tutte le opposizioni si infrangono, un essere (Wesen) che non è nient’altro che il non-essere (Nicht-seyn) delle opposizioni, e che perciò quindi non ha altro predicato che l’esser priva di predicati (Prädikatslosigkeit), senza per questo essere un nulla (Nichts) o un inconsistente (Unding)». 75.  M. Heidegger, Wegmarken, GA 9, a cura di F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1976, pp. 306 e 382; tr. it. di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano 2008, pp. 260 e 333.

45

un superamento del nichilismo76. Questo passo è anche quello che porta a rischiare la tesi: l’essere stesso è finito. Ora, Schelling non avrebbe rischiato questo passo! «Anche qui Schelling non vede la necessità di compiere un passo essenziale» (die Notwendigkeit eines wesentlichen Schrittes): Se l’Essere non si può dire in verità dell’Assoluto, ciò implica che l’essenza di tutto l’Essere è la finitezza e che solo l’esistente finito ha il doloroso privilegio (das Vorrecht und der Schmerz) di stare come tale nell’Essere e di fare esperienza del vero in quanto ente.77

È certamente questo il punto in cui Heidegger si avvicina di più all’impresa schellinghiana fino a reinterpretare arditamente secondo la tematica eraclitea del frammento 52 – frammento all’insegna del quale si organizza tutto il pensiero di Heidegger a partire dai primi corsi dedicati a Hölderlin e fino alla fine degli anni Quaranta – la volontà dell’amore, al di là del fondo e dell’esistenza: La lotta è, secondo l’antico motto di Eraclito, la legge fondamentale e la potenza fondamentale dell’Essere. Ma la lotta più grandiosa è l’amore, perché esso suscita il più profondo conflitto per essere, nel superamento di questo, se stesso.78

L’effetto di risonanza del «grandioso fallimento, ripetuto due volte, dei grandi pensatori» colpisce tanto più per il fatto che, all’inizio degli anni Trenta, Heidegger ha preso atto del fallimento di Sein und Zeit. Nel settembre 1932, scriveva alla sua amica Elisabeth Blochmann:

76. M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, GA 40, a cura di P. Jaeger, Klostermann, Frankfurt a.M. 1983, p. 212; tr. it. di G. Masi, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 207. 77.  GA 42, p. 280; tr. it. cit., p. 257. 78.  GA 42, p. 281; tr. it. cit., p. 257.

46 Si fanno molti pensieri e discorsi sul fatto che io ora starei scrivendo Essere e tempo II. Va bene così. Tuttavia, dato che Essere e tempo I è stato per me un sentiero che mi ha guidato da qualche parte, ma che adesso non è più battuto ed è già coperto di vegetazione, non posso assolutamente più scrivere Essere e tempo II. Né scrivo in generale alcun libro.79

L’ombra di Nietzsche Sembrerebbe dunque che Heidegger, già dal 1936, leggesse Schelling nell’orizzonte di ciò che lui stesso chiama il «capovolgimento» nietzschiano della volontà come amore nella volontà di potenza e per la potenza80, e ciò lo conduce anche a oscurare la distinzione del fondo e dell’esistenza sotto la tesi, pretesa come ontologica-fondamentale, del volere come senso dell’essere originario. Il modo di procedere è sorprendente, per il fatto che Heidegger, peraltro così attento alla lettera degli enunciati ontologici, è portato ad invertire la formula schellinghiana, come se essa volesse dire: Urseyn ist Wollen. Il corso dell’estate 1936 ne offre una illustrazione sorprendente. Mentre sottolinea la novità radicale dell’idea di un eterno divenire e le implicazioni di questa nozione quando si tratta, allo stesso tempo, di dissociare ed articolare tempo ed eternità, Heidegger riconduce alla volontà ciò che ha opportunamente caratterizzato come Fuge, Fügung, commessura del fondo e dell’esistenza: Questo divenire è l’essenza dell’Essere. Per la stessa ragione, neanche l’Essere può essere compreso come l’esser-sussistente (vorhanden) di ciò che è stato fatto, bensì come commes79.  M. Heidegger - E. Blochmann, Briefwechsel 1918-1969, a cura di J.W. Storck, Marbacher Schriften, Marbach am Neckar 1989, p. 54; tr. it. di R. Brusotti, Carteggio 1918-1969, Il melangolo, Genova 1991, p. 92. 80.  Cfr. l’appendice a GA 49, p. 194; cfr. anche ivi, p. 89.

47 sura di fondamento ed esistenza. La commessura […] accade come volontà (west als Wille).81

Nelle note del seminario, che porta la data dell’estate 1941, note che seguono il corso nella prima edizione curata da H. Feick nel 1971, Heidegger indicava, in modo decisamente ellittico: Ogni volere vuole se stesso, ma in modo diverso. Nel volere come volersi vi sono due possibilità fondamentali di dispiegare l’essenza: 1) Il voler-si come venire-a-se-stesso e così rivelar-si e apparire davanti a se stesso («idea assoluta»); soggettività incondizionata quale «amore» (non voler più nulla di proprio). 2) Il voler-si come andar-oltre-se-stesso (Über-­ sich-hinaus-gehen), come ultrapotenza e come comando, «volontà di potenza». (Il comando come volontà nella volontà); «ultrapotenza»; soggettività incondizionata come «potenza».82

E alcune righe dopo, scriveva ancora, opponendo questa volta esplicitamente Schelling e Nietzsche: «Schelling: non voler nulla, volere il nulla: gelassene Innigkeit. Intimità intensa e separata». O ancora: «La volontà dell’amore: “lasciar agire il fondamento” non voler nulla, né il proprio né il suo, neanche sé»83. 81.  M. Heidegger, Schellings Abhandlung…, cit., p. 163; tr. it. cit., p. 220 (tr. mod.). Come sappiamo, questo volume è stato ripubblicato all’interno della Gesamtausgabe, vol. 42, a cura di I. Schüßler, nel 1988. La nuova edizione non introduce cambiamenti importanti e propone unicamente una sistemazione un po’ più chiara e dettagliata delle parti, dei capitoli e dei paragrafi. La Feick aveva aggiunto al volume del 1971 alcuni estratti del corso del 1941, oggi pubblicati in GA 49. 82.  M. Heidegger, Schellings Abhandlung…, cit., pp. 224-225; tr. it. cit., p. 292. Si veda oggi GA 49, pp. 184 s. 83.  Ibidem. Nelle note al seminario del semestre estivo 1941, facendo seguito al corso del primo trimestre di questo stesso anno, dedicato a Schelling, con il titolo generale: Die Metaphysik des deutschen Idealismus (Schelling) (GA 49, pp. 184 s.), Heidegger si impegnava a differenziare in modo drastico, e in funzione di alcuni concetti portanti, le filosofie di Hegel e di Schel-

48

In questo stesso paragrafo 15 del corso 1941, già richiamato più in alto, in cui Heidegger s’interrogava sulla «radice» della distinzione del fondo e dell’esistenza, egli nota che per Schelling l’«ente supremo», «il vero esistente» è lo spirito, esso stesso determinato come «spirito dell’amore». È dunque proprio l’amore ad essere «il più alto». Ma Schelling si esprimeva qui con la massima prudenza, moltiplicando le questioni e le formulazioni apofatiche: Giacché nemmeno lo spirito è l’essere più alto; esso è soltanto lo spirito, ossia l’afflato dell’amore. Ma l’amore è il più alto. Esso è ciò che era prima che fosse il fondamento (Grund) e prima che fosse l’esistente (come separati) ma non era ancora come amore, bensì… come dobbiamo designarlo?84

ling. Quanto allo spirito (Geist), si aveva, per Hegel: die Wissenschaft, e per Schelling: Die Liebe. Quanto al sistema: System der «Wissenschaft», da un lato, System «der Freiheit» dall’altro. Infine, ed è ciò che ci interessa, in materia di scissione (Scheidung), per Hegel: «negatività del soggetto, “del pensare” a titolo del pensar-si dello spirito, del sapere (riconoscimento)». Per Schelling: «la differenziazione (Unterscheidung) all’interno dello stesso volere in quanto voler-si dell’amore (lasciar agire il fondo) (Wirkenlassen des Grundes)». Ciò che intendiamo sottolineare e che è confermato dalle note «per la storia dell’essere come metafisica», che compaiono in appendice al tomo II del Nietzsche che Heidegger pubblica nel 1961 (Neske, Pfullingen, pp. 478 s.), è la tesi che riconduce interamente la volontà dell’amore al volersi («“Wille” als Sich-selbst-wollen – das Selbstsein»), alla volontà di volontà, come Heidegger ripeterà ancora con forza nel suo corso del 1951-1952, Was heißt Denken?, GA 8, a cura di P.-L. Coriando, Klostermann, Frankfurt a.M. 2002, pp. 94-96; tr. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Che cosa significa pensare?, SugarCo, Carnago 1994, pp. 84-88; e in Vorträge und Aufsätze, GA 7, a cura di F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 2002, pp. 112 s.; tr. fr. di A. Préau, Essais et conférences, Gallimard, Paris 1958, pp. 131 s.; tr. it. di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 74 s. 84.  SW, VII, pp. 405-6; Ricerche filosofiche…, p. 125. Al di là dei riferimenti scritturali 1Cor 13,13; 15,26-27, mi prendo la libertà di rinviare alla nota che abbiamo redatto, Emmanuel Martineau ed io, nella nostra traduzione in Œuvres métaphysiques, Gallimard, Paris 1980, pp. 379 s.

49

La risposta arriva due paragrafi più avanti: questa istanza archi-­ primordiale, anteriore al fondo così come all’esistenza, «come potremmo chiamarla altrimenti che Urgrund (fondamento-­ originario), o anzi Ungrund (non fondamento, abisso)». Se Schelling si ricollega al lessico della filosofia dell’Identità, senza troppo preoccuparsi della coerenza, ed evoca «l’assoluta indifferenza», emerge in ogni caso il fatto che questa ultima istanza, che Heidegger, non si comprende bene perché, si ostina a caratterizzare come ens summum («das höchste Seiende»), non potrebbe in alcun modo corrispondere ad una qualche «radice» della distinzione centrale: fondo/esistenza85. Come sottolinea Slavoj Žižek, questa «indifferenza» è come un «nulla» prima del Grund, ma non un semplice nihil privativum: «Il “niente” che precede il fondamento» rappresenta «l’abisso della pura Libertà»86.

Eros, Eris In modo abbastanza curioso, il commento di Heidegger rompe qui tutte le distinzioni, comprese quelle del genitivo, oggettivo e soggettivo, quando sottolinea: «la volontà è fondo», «la volontà è intelletto», la «volontà è subjectum». Quest’ultima formula fa emergere in un certo senso il telos di tutta questa analisi e testimonia anche della violenza ermeneutica all’opera. Infatti, seppure Heidegger nota l’ambiguità del concetto schellinghiano di «soggetto» – «La volontà è subjectum 1) a titolo di

85.  In favore delle risposte alle obiezioni di Eschenmayer, Schelling precisa che questa «indifferenza» o Urwesen è «anteriore a e al di là di ogni fondamento» (SW, VIII, p. 172). 86.  S. Žižek, Il resto indivisibile. Su Schelling e questioni correlate, tr. it. a cura di D. Giordano, Orthotes, Napoli 2012, p. 36.

50

ὑποκείμενον; ma volontario, sforzo (έξ οὗ); “base”; 2) a titolo di egoità, di coscienza, di spirito (εἰς ὅ), “verbo”, λόγος» –, tuttavia ne conclude, questa volta in modo decisamente unilaterale: «Nell’essere come volere il carattere di soggetto dell’ente emerge nella sua spiegazione, sotto ogni punto di vista. […] Il volere propriamente detto, l’ente vero è l’amore. Da ciò deriva la distinzione, in quanto è ad essa adattata»87. Leggendo queste indicazioni, a dire il vero abbastanza laconiche – datate 1941, quando cioè Heidegger è, da tempo, impegnato in un’altra discussione fondamentale per il proprio pensiero, la discussione con Nietzsche88 –, è possibile chiedersi se il commento del 1936 non abbia mancato o misconosciuto la tesi centrale delle Ricerche: «Giacché nemmeno lo spirito è l’essere più alto; esso è soltanto lo spirito, ossia l’afflato dell’amo­re. Ma l’amore è il più alto». È ancora questo pensiero dell’amore come istanza suprema che – a titolo di pura libertà che non vuole niente – lascia essere ad essere tematizzato da Schelling in modo ancora più esplicito nel suo grande progetto incompiuto delle Età del mondo, prendendo in prestito, questa volta in modo deciso, il vocabolario della mistica della tradizione eckhartiana: All’uomo ordinario, che non ha mai provato la vera libertà, sembra che la cosa suprema sia assolutamente un essente o un soggetto; perciò, se sente dire che ciò che esprime la Deità

87.  GA 49, p. 90. 88.  Cfr. anche M. Heidegger, Nietzsche, GA 6.1, a cura di B. Schillbach, Frankfurt a.M. 1996, pp. 31-32; GA 6.1 e 2 sono pubblicati in un unico volume tradotto da F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 47 (tr. mod): «Interpretare l’essere dell’ente come volontà è qualcosa di messo in evidenza come ciò che caratterizza in prima istanza la tradizione della metafisica, quella che troverà il suo compimento nel e attraverso il rovesciamento nietzschiano. Schelling e Hegel si inscrivono totalmente in questa storia».

51 non è né essente né essere, chiede: “che cosa dunque può venire pensato al di sopra di ogni essere e essente?”. E si risponde: “il nulla, o qualcosa di simile”. Sì, è senz’altro un nulla, ma così come è un nulla la limpida libertà; così come la volontà che non vuole nulla, che non desidera alcuna cosa, per la quale tutte le cose sono uguali e che perciò non è mossa da alcuna. […] È dunque in questo senso che vogliamo chiamare “nulla” quella stessa libertà limpida, se si intende con ciò che non dev’esserle attribuito alcun tipo di azione o di proprietà verso l’esterno. Ma procediamo ancora oltre, e se è detto “qualcosa” solo ciò che almeno per se stesso c’è esteriormente, o che pone se stesso, allora non possiamo ammettere che quella suprema limpidezza [Lauterkeit, «semplicità» nella tr. fr. utilizzata da J.-F. Courtine; N.d.T.] valga per Qualcosa anche in questo senso. Essa è la pura libertà stessa, la Gelassenheit che non pensa a nulla e gode del suo non essere.89 89.  F.W.J. Schelling, Die Weltalter. Fragmente in den Urfassungen von 1811 und 1813, a cura di M. Schröter, Beck, München 19662, pp. 47-49; tr. it. di V. Cicero, Le età del mondo. Le età del mondo. Redazioni 1811, 1813, 1815/17, con testo ted. a fronte, a cura di V. Limone, pres. di F. Tomatis, Bompiani, Milano 2013, pp. 295-297. [Le versioni del 1811 e del 1813 de Le età del mondo vengono sempre prese dall’edizione tedesca appena citata e si trovano rispettivamente alle pp. 1-107 e 109-184; verranno d’ora in avanti indicate con la dicitura Urfassungen. La loro tr. it. è disponibile nel volume Le età del mondo, cit., risp. pp. 3-243 e 245-411; d’ora in poi indicata col titolo Le età del mondo, seguito dall’anno di riferimento della versione citata e la pagina. La tr. it. della redazione del 1815/17 si trova ivi (d’ora in avanti citata come indicato sopra), ricavata però dall’edizione tedesca in SW, VIII, pp. 195-344 (d’ora in poi citata con il riferimento a SW, VIII); N.d.T.]. Cfr. anche Initia philosophiae universae. Erlanger Vorlesung WS 1820-21, a cura di H. Fuhrmans, Bouvier, Bonn 1969, p. 71: «La Gelassenheit… è quando la volontà lascia essere l’essere, quando l’essere è lasciato nel suo essere dalla volontà». – Cfr. anche SW, VIII, p. 237: «Der reine Wille, der nichts will und insofern nicht wollend ist, der doch Wille bleibt…». Analisi complesse e, se vogliamo, esitanti, che Schelling non smetterà di riprendere e di variare; esse sono schiacciate anche dalla ripresa heideggeriana che si focalizza sulla nozione di subjectum; cfr., nell’edizione di Schellings Abhandlung…, cit., p. 211: «Wille heißt eigentlich: Sichzusammennehmen, Zu-sich-selbst-kom-

52

Se dunque l’amore, definito come Gelassenheit, non vuole nulla o vuole il Nulla, se esso si caratterizza fondamentalmente con il rifiuto o meglio l’abbandono di ogni ipseità (Selbstheit), rinunciando all’essere se stesso, a tutto ciò che è proprio e suo90, è assolutamente difficile reinterpretare la volontà dell’amo­re in termini di «volontà di volontà», nel senso di un volersi se stessi. E ciò sebbene Schelling – bisogna ricordarlo ancora – non manchi mai di indicare che l’amore, o la volontà dell’amore, per rivelarsi, ha bisogno, se non di un principio contrario che rischia di reintrodurre il dualismo («disperazione della ragione»), in ogni caso di un antagonismo, di una forza cieca di chiusura e di resistenza, di ritrazione e di contrazione: la forza di rientrare in se stesso91. Resta aperta naturalmente la questione di sapere se e in quale misura una filosofia pratica può più facilmente, e come tale, far appello a questa Gelassenheit, anziché a un volere inteso come volontà di volontà. Ma questo è un altro problema che possiamo qui tralasciare, chiudendo questa lunga parentesi.

men, Sich-selbst-wollen, Selbstsein, Geist, Liebe»; tr. it. cit., p. 275: «Nell’essere come volere, il carattere di subjectum dell’ente viene a dispiegarsi sotto ogni riguardo. Se è vero che in ogni metafisica l’enticità è subjectum (nel senso greco e moderno), quando l’essere originario diventa volere, il volere deve essere il vero subjectum, e ciò nel modo incondizionato del voler-si. Da cui: negar-si, chiudersi e portarsi-fino-a-se-stesso». 90.  Nel suo bel libro, Welt-Geschichte: Kunst. Geschichte, Zum Verhältnis von Vergangenheitserkenntnis und Veränderung (Verlag M. Du Mont Schauberg, Köln 1975), Dieter Jähnig sottolineava la novità introdotta dalle Ricerche rispetto alla filosofia trascendentale: alla «volontà dell’ipseità» si oppone ora un’altra «modalità della volontà, quella nella quale colui che vuole non vuole se stesso, ma ciò che è altro da lui» (ivi, p. 44). 91.  Urfassungen, p. 50; Le età del mondo [1911], p. 81.

53

Il male è spirito Per Schelling, come abbiamo visto, l’idea di rivelazione implica non solo la temporalità e la storicità, ma anche e soprattutto l’antagonismo delle forze. A partire dalle Ricerche, e più ancora nelle Lezioni di Stoccarda, Schelling sottolinea come affinché vi sia rivelazione occorre che il fondo susciti il contrario dell’amore o della volontà universale, ossia: l’individualità (Eigenheit), l’esser-proprio, l’essere92. Così ciò che si è giocato innanzitutto sul piano teo-cosmogonico – prima dell’uomo – si ripete e si drammatizza in lui che è la vetta della creazione. Però anche nel singolo uomo il fondamento continua incessantemente ad agire e suscita (erregt) l’individualità (Eigenheit) e il volere particolare, appunto perché in opposizione a esso possa dischiudersi il volere dell’Amore.93

Se dunque l’opposizione del fondo e dell’esistenza ha innanzitutto una portata teologica e soprattutto teo-cosmogonica, poiché essa permette di formulare la «legge fondamentale dell’opposizione» che regge sia la vita divina che la sua rivelazione nel mondo e nella storia94, essa è anche ciò che permette di rendere conto, in ultima istanza, della possibilità del male, come separazione o disgiunzione (Zwietracht) dei due principi ontologici ultimi95. La possibilità del male consiste dunque nel fatto che l’uomo, anziché fare della sua ipseità, del suo «essere-proprio», che è l’analogo del fondo in lui, «la base e lo strumento», cerca di elevare questa ipseità al rango

92.  Cfr. anche SW, VIII, p. 210: «Seyn ist Seinheit, Eigenheit; ist Absonderung»; Le età del mondo [1815/17], p. 441: «Essere è suità, proprietà; è isolamento». 93.  SW, VII, p. 381; Ricerche filosofiche…, p. 111. 94. Cfr. SW, VII, pp. 434 s.; Lezioni di Stoccarda, pp. 153 s.; cfr. anche SW, VIII, p. 210. 95.  SW, VII, p. 392; Ricerche filosofiche…, p. 119.

54

di un principio universale. È ancora questa «legge fondamentale dell’opposizione» che permette a Schelling di proporre a sua volta una notevole interpretazione dialettica dell’identità e della copula, l’interpretazione che culmina della proposizione: «Il bene è il male». Il bene in effetti non è mai altro se non superamento del fondo: Soltanto l’individualità vinta […] è il bene. […] Perciò dialetticamente, con tutta esattezza, si dice: il bene e il male sono la stessa cosa. […] chi non ha in sé elementi né forze per il male, è anche incapace di bene […].96

Bisogna dunque pensare e tenere insieme la tesi dell’universale necessità del male e la tesi che il male «resta sempre la scelta propria dell’uomo». Poiché il «fondo non potrebbe mai – precisa Schelling – fare il male come tale». Nella natura, infatti, il male non è mai come tale, non è come tale se non quando è spirito: «come si dà un entusiasmo per il bene, altrettanto si dà Begeisterung, esaltazione per il male»97. Questo tratto spirituale del male può suscitare una tale «esaltazione» che lo caratterizza anche nella sua figura specificamente umana98. Così come l’errore, lungi dall’essere una semplice privazione di verità, è qualcosa di altamente positivo, che non tradisce alcuna mancanza di spirito, ma piuttosto uno spirito pervertito, il male non è semplicemente la privazione del bene, l’assen-

96.  SW, VII, p. 400; Ricerche filosofiche…, p. 125. 97.  SW, VII, p. 372; Ricerche filosofiche…, p. 105 (tr. mod.). 98.  SW, VII, p. 372; Ricerche filosofiche…, pp. 105 s.: «Certo, anche nell’ani­ male, come in ogni altro essere della natura, agisce quel principio oscuro: ma esso non è ancora generato nella luce, come nell’uomo, non è spirito e intelletto, ma cieco desiderio (Sucht) e appetito; in breve, qui non è possibile nessuna caduta, nessuna separazione di principi, poiché non vi è ancora un’assoluta e personale unità. […] L’animale non può mai uscire dall’unità, mentre l’uomo può volontariamente (willkürlich) spezzare l’eterno vincolo delle forze».

55

za di legame o di armonia, ma una vera disarmonia positiva. Il male – scrive Schelling – è, da un certo punto di vista, «ciò che vi è di più puramente spirituale, perché muove la guerra più accanita contro ogni essere, e vorrebbe distruggere addirittura la base della creazione»99. Il male è spirito, ecco la formula decisiva che attirerà l’attenzione di Heidegger, se si deve poter pensare una «libertà per il male»100. Così, nelle Ricerche, ciò che tiene insieme speculazione teocosmogonica, antropologia e metafisica del male è, in fin dei conti, l’analisi della situation della libertà umana in rapporto con il fondo, in rapporto con la natura in Dio, in rapporto con tutto ciò che in Dio non è Dio stesso o Dio come tale: «L’uomo è, nella creazione originaria, un essere in-deciso […], però può decidersi egli stesso»101. Ma anche se una tale archi-decisione si lascia anzittuto pensare fuori dal tempo, secondo il modello della determinazione kantiana del «carattere intelligibile»102, la 99.  SW, VII, p. 468; Lezioni di Stoccarda, pp. 179 s.: «Anche l’errore non è una privazione di verità, ma qualcosa di altamente positivo: non è difetto di spirito, ma spirito pervertito. […] E così il male non è semplice privazione di bene, non è una mera negazione dell’armonia interiore, ma disarmonia positiva. […] Da un certo punto di vista il male è anzi ciò che vi è di più puramente spirituale, perché muove la guerra più accanita contro ogni essere, e vorrebbe distruggere addirittura la base della creazione». 100.  Cfr. anche SW, VII, p. 388; Ricerche filosofiche…, p. 117: «Poiché, non le passioni in sé sono il male, né noi abbiamo da combattere solamente con la carne e con il sangue, ma con un male dentro e fuori di noi, che è spirito». 101.  SW, VII, p. 385; Ricerche filosofiche…, p. 115 (tr. mod.): l’uomo è inizialmente That und Handlung, egli non possiede, nella sua natura spirituale, un essere anteriore alla sua volontà e da questa indipendente. 102.  SW, VII, p. 385; Ricerche filosofiche…, p. 115. Cfr. anche ivi, p. 389; tr. it. cit., p. 117: «È vero, nel senso più rigoroso, che, così come l’uomo è conformato, non lui stesso, ma il buono o il cattivo spirito agisce in lui; e tuttavia questo non costituisce ostacolo alla libertà. Poiché appunto la disposizione a lasciar agire in sé il principio buono o cattivo è la conseguenza di quell’atto intelligibile, attraverso cui vengono determinati il suo essere e la sua vita».

56

questione della libertà si trova intrinsecamente legata a quella della temporalità o, più precisamente, a quella del cominciamento nel tempo. Come, si chiede ancora Schelling nella sua ultima filosofia – riallacciandosi così, in modo abbastanza curioso, alla determinazione kantiana della libertà trascendentale come potere di iniziare da sé103 –, come è possibile un vero cominciamento? Cos’è veramente cominciare, nel senso radicale in cui un cominciamento è sempre iniziativa non prevedibile, rottura inaugurale? Poiché è ancora e sempre questa elucidazione della libertà umana che costituisce il vero filo conduttore della filosofia positiva la cui caratteristica principale è quella di essere anche storica, vale a dire una filosofia attenta nei confronti della temporalizzazione in Dio. Un Dio storico, vale a dire un Dio che propriamente si temporalizza ed entra nella storia, deve infatti lasciarsi toccare dal divenire. Il Dio che diventa e si rivela nella storia è precisamente il Dio Vivente. Non possiamo sperare di comprendere la Lebendigkeit, la «vitalità» o la «vivacità» del Dio del quale la Scrittura ci insegna che esso è un Dio vivente se non mettendo in luce la possibilità di questo divenire storico di e in Dio stesso. «La creazione – si chiedeva Schelling nelle Ricerche del 1809 – ha una finalità? E, in tal caso, perché essa non è raggiunta immediatamente, perché il compimento non è già fin dal cominciamento?». A tale questione non si può rispondere se non in funzione del concetto di vita: Dio è vita e non semplicemente essere, ora «ogni vita ha un destino ed è soggetta al patire e al divenire. Anche Dio dunque vi si è volontariamente assoggettato, fin da quando, per divenir personale, divise il mondo tenebroso dal mondo della luce. L’essere si fa sensibile solo nel divenire»104.

103. Cfr. KrV, A 554 – B 582. 104.  SW, VII, p. 403; Ricerche filosofiche…, p. 127.

57

Si comprende allora come questa determinazione, teologicoscritturale, del Dio come Dio vivente ha delle implicazioni decisive per ogni pensiero della storia. Fedele alla tesi generale dell’antropomorfismo, Schelling ne conclude infatti che «senza un concetto di Dio che umanamente soffre […] l’intera storia rimane incomprensibile»105. Ma occorre concepire Dio come un essere in divenire – «Dio fa se stesso»106 –, e occorre farlo non solo perché non possiamo pensare Dio come un essere effettivo e personale se non lo consideriamo come qualcosa di compiuto una volta per tutte e che sussiste immutabilmente, puro pensiero di sé, mai affetto da alcunché. Se esigiamo un Dio che ci sia possibile intendere come un essere affatto vivente e personale, è necessario considerarlo in una maniera risolutamente umana: dobbiamo ammettere che la sua vita abbia la massima analogia con la vita umana, che ci sia in lui accanto all’eterno essere anche un eterno divenire…107

Questa è la tesi portante delle Lezioni di Stoccarda che le diverse versioni delle Weltalter sviluppano senza sosta. Dio non è «un essere morto e immobile», ma esso è «la vita più alta»108. E se non vi è affatto vita senza divenire e senza movimento, senza gioia, ma anche senza sofferenza, in una parola, senza passione, affermare di Dio che è vivo significa anche pensar105.  Ibidem. 106.  SW, VII, p. 432; Lezioni di Stoccarda, p. 152. 107.  Ibidem. 108.  Cfr. ibidem: «Dio è un’essenza reale che però non ha nulla prima o fuori di sé. Tutto ciò che egli è lo è di per sé: egli proviene inizialmente da se stesso per terminare di nuovo alla fine puramente in se stesso. In una parola: Dio fa se stesso. […] Egli non è già concluso e fatto fin dall’inizio». Nella sua ultima filosofia (positiva), Schelling darà questa precisazione decisiva (contro Aristotele e contro Hegel): «Il Dio di una filosofia veramente storica e positiva, viceversa, non si muove: agisce» (SW, XIII, p. 125; Filosofia della rivelazione, p. 207).

58

lo come divenire eterno. Senza dubbio si può vedere in ciò la risposta schellinghiana all’esigenza hegeliana di prendere seriamente in considerazione la negatività, senza lasciarsi ingannare da ciò che può darsi anche in modo edificante come «il gioco dell’amore con se stesso»: «Dio è vita, non semplicemente essere (Sein). E ogni vita ha un destino ed è soggetta al patire e al divenire […]. L’essere si fa sensibile solo nel divenire…»109. Ma l’idea di divenire implica anche propriamente la possibilità di una distinzione e di una dissociazione tra l’inizio e la fine. Non basta rimarcare che il divenire prende posto nel tempo, bisogna anche capire come, e quale temporalizzazione lo avrà ogni volta reso possibile. Divenire è innanzitutto «fare tempo», darsi del tempo, il tempo come farsi spazio o aprirsi un campo110. Nella misura in cui l’inchiesta schellinghiana sulla condizione di possibilità della libertà, come libertà umana finita, e sulla sua situazione in seno al sistema dell’assoluto, sfocia, attraverso la distinzione generale del fondo e dell’esistenza, nella meditazione congiunta della vita in Dio e della mobilità della creazione, rilanciata dalla decisione umana, è consentito sostenere che il singolare ritorno a Kant del 1809, così come l’accentuazione del carattere antropologico e pratico dell’inchiesta, hanno in programma un nuovo pensiero della storicità e soprattutto della temporalità (il «sistema» o l’«organismo dei tempi»111), in netta rottura con la tradizione dominante della

109.  SW, VII, p. 403; Ricerche filosofiche…, p. 127. 110.  SW, X, Darstellung des philosophischen Empirismus, p. 253; tr. it., Esposizione dell’empirismo filosofico dall’introduzione alla filosofia, in F.W.J. Schelling, Lezioni monachesi e altri scritti, cit., p. 276. Cfr. anche SW, XIV, Philosophie der Offenbarung, p. 353; Filosofia della rivelazione, pp. 1465-1467. 111.  SW, VIII, p. 310; Le età del mondo [1815/17], p. 659.

59

metafisica, secondo la quale il tempo si dà innanzitutto come presente, cosicché la storia non si lascia interpretare se non teleologicamente.

Al di là dell’essere e del tempo Nel suo commento del saggio del 1809 che costituisce, ai nostri occhi, il vero centro dell’opera di Schelling – «la cima della metafisica dell’idealismo tedesco» –, Heidegger notava, con una formula sorprendente, che l’indagine vi si orienta innanzitutto verso ciò che nell’uomo supera l’uomo, in direzione della libertà «al di là dell’essere e del tempo»112. Vi è qui, come sappiamo, per lo Heidegger degli anni Trenta, un motivo importante, che egli avrebbe a sua volta sviluppato, in particolare nel corso del semestre dell’estate 1930, Dell’essenza della libertà umana: «L’essenza della libertà viene allora autenticamente allo sguardo soltanto se la cerchiamo in quanto fondamento di possibilità dell’esserci, in quanto ciò che si trova ancora prima di essere e tempo». La libertà, fondamento della possibilità del Dasein, è anche «la radice di essere e tempo», essa è «fondamento della resa possibile della comprensione dell’essere in tutta la sua ampiezza e pienezza». Se la libertà è «più originaria dell’uomo», questa, lungi dal poter essere considerata come una proprietà dell’uomo, obbliga a pensare al contrario «l’uomo in quanto una possibilità della libertà». Se la libertà è più originale

112.  Nel 1936, Heidegger, nel sottolineare il fallimento (Scheitern) del tentativo schellinghiano, apriva l’opera dedicata alle Ricerche rilevando che questo fallimento non comportava in realtà niente di negativo, ma che «esso è il segno del sorgere di ciò che è totalmente altro, il balenare di un nuovo inizio» (GA 42, p. 5; tr. it. cit., pp. 30 s.).

60

dell’uomo, l’uomo ha in carico e in custodia la libertà, della quale è come un «amministratore», e a lui spetta di «lasciar essere la libertà»113. Nel testo pubblicato in omaggio a Husserl per il suo settantesimo anniversario, Vom Wesen des Grundes, Heidegger, dopo aver determinato la libertà come Grund des Grundes, fondo del fondamento, al principio della trascendenza che ogni atto di fondare implica, la caratterizzava anche come abisso (Abgrund) dell’esserci (Als dieser Grund aber ist die Freiheit der Ab-grund des Daseins)114. Così, quando l’abisso di nuovo si apre, esso rilancia questo movimento originario (Urbewegung) «che realizza con noi la libertà». E il saggio del 1928, dopo aver evocato «il cuore dell’Esserci», la sua «ipseità» che così le viene affidata come di persona dall’abisso della trascendenza fondativa, proseguiva, come in un vero e proprio contrappunto al trattato del 1809: «La non-essenza (Unwesen) del fondo viene perciò soltanto «oltrepassata» nell’esistere effettivo, ma mai eliminata», come se fosse possibile sbarazzarsene115. Nella conferenza dedicata alla verità (Vom Wesen der Wahrheit), più volte esposta e rimaneggiata, tra il 1930 e il 1943, Heidegger indicava ancora: «L’uomo non “possiede” la libertà come una

113.  M. Heidegger, Vom Wesen der menschlichen Freiheit. Einleitung in die Philosophie (Sommersemester 1930), GA 31, a cura di H. Tietjen, Klostermann, Frankfurt a.M. 1994, pp. 134 s.; tr. it., Dell’essenza della libertà umana. Introduzione alla filosofia, con testo ted. a fronte, a cura di M. Pietropaoli, Bompiani, Milano 2016, pp. 287-289. 114.  GA 9, p. 174; tr. it. cit., p. 130. [La tr. fr., a cura di H. Corbin, si trova in M. Heidegger, Questions, vol. I, Gallimard, Paris 1968, pp. 156 s. A proposito di questa traduzione, J.-F. Courtine scrive:] Occorre forse ricordare, ancora una volta, che questa traduzione «eroica» risale al 1938 e che, evidentemente, dovrebbe essere interamente rifatta? 115.  Ibidem (tr. mod.) [nella tr. it. cit., Unwesen è reso con «malaessenza»; N.d.T.].

61

sua proprietà, ma tutt’al più il contrario: la libertà, l’esser-ci e-sistente e svelante, possiede l’uomo»116. È impressionante vedere Heidegger, nel corso del 1930 dedicato all’essenza della libertà umana, far uso di un vocabolario che ritroverà nel 1935, nell’Introduzione alla metafisica, per commentare il primo Stasimo dell’Antigone di Sofocle: das Ungeheure. È così in effetti che Hölderlin, nelle sue Annotazioni e nella sua traduzione dell’Antigone, restituiva le δεινόν, δεινότερον dei versi 332-333: «Ungeheuer ist viel. Doch nichts / Ungeheuerer, als der Mensch». Heidegger prosegue: «Adesso, [l’uomo, o l’esserci] visto a partire dal fondamento della sua essenza, a partire dalla libertà, ci diviene chiaro il fatto mostruoso e meraviglioso (das Ungeheure und Wunderbare) che egli esiste come l’ente in cui l’essere dell’ente, e così l’ente nell’intero, è manifesto»; «L’uomo è tanto enorme [o mostruoso] quanto un Dio non può mai essere, perché dovrebbe essere tutt’altro»117. In questo semestre dell’estate 1930, Heidegger – che aveva tenuto un primo seminario dedicato a Schelling e alle Ricerche, a partire dal 1927/1928 – può dunque prolungare e precisare il «programma» magistralmente annunciato a Davos, nel dibattito con Cassirer: La libertà non può essere compresa e la domanda: «come è possibile la libertà?», è un controsenso. Ma di qui non discende affatto la conseguenza che in un certo senso si è cristallizzato un problema dell’irrazionale; invece, non essendo la libertà oggetto di comprensione teoretica, ma piuttosto del 116.  GA 9, p. 190; tr. it. cit., pp. 145 s. Oggi possiamo farci un’idea abbastanza precisa della prima versione della Conferenza grazie al lavoro di F. Jaran, Heidegger inédit. 1929-1930, inachevable Être et temps, Vrin, Paris 2012. 117.  GA 31, pp. 135 s.; tr. it. cit., pp. 287-289. E il seguito che ciascuno potrà apprezzare a suo modo: «L’uomo non è il ritratto di Dio in quanto borghesuccio assoluto, bensì questo Dio è la resa non genuina dell’uomo».

62 filosofare, questo non può significare altro se non che la libertà c’è soltanto e può esserci soltanto nella liberazione. L’unico rapporto adeguato alla libertà nell’uomo è il liberarsi della libertà nell’uomo.118

Così, l’enormità mostruosa (das Ungeheure) che noi siamo, e che non emerge come tale se non all’apice della finitudine, fa eco direttamente alla situazione centrale, che è insieme anche la più esposta, ossia quella dell’uomo nell’economia delle Ricerche del 1809. Schelling avrebbe senza dubbio potuto far sue queste parole del corso su L’essenza della libertà umana: nella sua finitudine e attraverso la libertà in lui, l’uomo è proprio questa istanza in cui si «incontrano, nell’esistenza, gli elementi conflittuali interni all’ente, e perciò l’occasione e la possibilità dell’irruzione e dello schiudersi dell’ente nella sua molteplicità e alterità»119.

L’abisso della libertà Forse è proprio perché considerava già la libertà umana come finita che la riflessione schellinghiana si è impegnata a chiarirne la situazione centrale e il contesto teologico per comprendere la «possibilità della libertà», fondata essa stessa in una temporalità essenzialmente determinata come futurizione. È senza dubbio per questo che Schelling – al di là delle speculazioni teosofiche dell’ultima filosofia o delle laboriose metafore della 118.  Dibattito di Davos tra Ernst Cassirer e Martin Heidegger, in Appendice II a M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, tr. it. di M.E. Reina, riv. da V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 219-236: p. 227. 119.  GA 31, p. 135: «[Der Mensch ist]… in dieser Endlichkeit die existente Zusammenkunft des Widerstreitenden innerhalb des Seienden und deshalb die Gelegenheit und Möglichkeit des Auseinanderbrechens und Aufbrechens des Seienden in seiner Viel- und Andersartigkeit»; tr. it. cit., p. 289 (tr. mod.).

63

dottrina delle potenze – conserva ancora per la filosofia contemporanea, come aveva ben visto Heidegger, delle risorse intatte quando si intende tematizzare l’evento della decisione – il suo liberar-si – e la sua temporalità propria120, o ancora l’irriducibile positività di ciò che si presenta o si dà a pensare – ciò che Schelling chiama con predilezione das Unvordenkliche, l’immemoriale o l’inanticipabile del pensiero, che nessun pensiero del pensiero sarebbe mai in grado di raggiungere.

120.  Rinviamo qui alle parole decisive di E. Martineau, La modernité de «Sein und Zeit», in Id., La Provenance des espèces. Cinq méditations sur la libération de la liberté, Puf, Paris 1982, pp. 194-195: «lungi dall’idea […] che il primato della libertà contesti la primalità fenomenologica del tempo, solo la libertà, nella misura in cui essa altro non è che un liberar-si, consegna la piena essenza della temporalità come autentica, il suo carattere “originario”. […] Si potrebbe quasi proporre la seguente relazione reciproca del tempo e della libertà: il tempo è ciò che “libera” la libertà aprendola estaticamente all’essere; la libertà è ciò che, liberando-si, struttura il tempo, richiudendo il limite di un orizzonte dell’essere. Senza il tempo, la libertà non sarebbe «libera» di liberarsi come tale, senza una libertà ipseica, il tempo non potrebbe essere tempo di un essere nel mondo». Parole senza dubbio scritte al di fuori di un qualsiasi riferimento schellinghiano, ma in grado di chiarire sia le letture resistenti del trattato del 1809 da parte di Heidegger, sia soprattutto, foss’anche in modo incompiuto, la breccia di colui che intendeva, per la prima volta, «prendere sul serio il tempo».

Capitolo II

L’eternità figlia del tempo

Die Zeit ist der Anfangspunkt aller Untersuchung in der Philosophie…, System der Weltalter.

L’idea di rivelazione, nella sua dimensione teologica, è senza alcun dubbio intimamente legata a una concezione del tempo e della storia che può anche restare implicita: la Rivelazione accade nel tempo, tempo del quale essa spezza la linearità e l’iterazione; attraverso la sua irruzione in un orizzonte temporale, l’assoluto costituisce un evento e inaugura una storia scandita in modo specifico, per esempio quella della salvezza. Per una riflessione filosofica che, come quella di Schelling, si sofferma sul concetto e sul fenomeno della rivelazione, senza tuttavia condividere alcuna preoccupazione di ortodossia, senza darsi né come una filosofia cristiana, né a fortiori come «filosofia rivelata» – formula interamente sprovvista di senso e anche contraddittoria1 –, la vera posta in gioco dell’inchie1.  Cfr. la polemica con F.H. Jacobi, Des choses divines et de leur révélation, intr., tr. e ann. di P. Cerutti, Vrin, Paris 2008. Ricordo anche, ancora una volta, la formula decisiva che interviene alla fine delle Ricerche filosofiche…, in riferimento a Lessing e a L’educazione del genere umano (SW, VII, p. 412; Ricerche filosofiche…, p. 106; tr. mod.): «Noi invece crediamo che appunto dei più profondi concetti debba esser possibile una chiara veduta razionale, giacché solo in questo modo essi ci appartengono realmente, possono essere accolti in noi stessi, ed avere un fondamento eterno. Anzi, noi andiamo più oltre,

66

sta che decide di appoggiarsi su documenti positivi – sia che si tratti di racconti mitologici, attestati letterariamente, sia che si tratti di mitologumeni generali, o anche di quegli archi-­ documenti che si lasciano raccogliere sotto il titolo enfatico di Scritture – consiste, come vedremo nel prossimo capitolo, in un «ampliamento» (Erweiterung) della filosofia. Che questo ampliamento comporti, per di più, un radicale cambiamento nella natura stessa del progetto filosofico e nella sua mira sistematica, ciò è tutto un altro affare che qui non possiamo considerare e che è già stato magistralmente trattato dal Padre Xavier Tilliette, nelle sue riflessioni sul passaggio dalla filosofia negativa a quella positiva2.

La pulsazione del tempo La questione della quale ora ci occuperemo è un po’ diversa e, in un certo senso, preliminare: si tratta di sapere se e come l’interpretazione schellinghiana della temporalità, nel suo tentativo di «percorrere il cammino dei tempi»3, può costituire come una sorta di prerequisito per ogni filosofia della rivelazione. Ci chiediamo in quale misura l’attenzione rivolta alla «pulsazione» del tempo (die Pulse der Zeit)4, così come si e consideriamo, con Lessing, come assolutamente necessaria l’elaborazione della verità rivelata in verità razionali, se il genere umano deve trarne aiuto». 2.  Cfr. in particolare la sintesi: X. Tilliette, Deux philosophies en une, in G. Planty-Bonjour (a cura di), Actualité de Schelling, Vrin, Paris 1979, pp. 89106; ripreso in X. Tilliette, L’Absolu et la philosophie, cit., pp. 182-199. Cfr. anche A. Bausola, Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling, Vita e Pensiero, Milano 1965, cap. IV, pp. 73-116. 3.  Urfassungen, p. 226. 4.  Ivi, p. 186 [tradotta direttamente dall’edizione francese citata]: «Anche la scienza non potrà ritrovare un libero movimento fintanto che il polso del

67

trova elaborata nelle prime versioni delle Weltalter 5 – in netta rottura con l’idea di subordinazione del tempo all’eternità, caratteristica della cosiddetta Filosofia dell’Identità –, forma come un presupposto indispensabile allo studio del concetto di rivelazione nell’ultima filosofia6, e se, per contro, la tematica positiva di una storia superiore, che integra le differenti mitologie, i misteri pagani, le teofanie ebraiche dell’Antico Testamento e l’apparizione del Figlio, rimette in discussione tempo non ricomincerà a battere in modo vivo. Il concetto di tempo che oggi prevale ignora totalmente i tempi: conosce solo un’astrazione del tempo, un certo tempo universale che considera come il tempo assoluto, mentre sarebbe legittimo dire che si tratta di una semplice forma della nostra coscienza, e sarebbe altresì più esatto dire che non è nient’altro che una forma vuota e artificiale». 5.  Come ha correttamente ricordato Aldo Lanfranconi, quando Schelling spiega questo titolo, lo fa sempre riferendosi al χρόνοι αἰωνίοι (Rm 16,25; 2Tm 1,9; Tt 1,2). Cfr. anche G. Strummiello, L’idea rovesciata. Schelling e l’ontoteologia, Edizioni di pagina, Bari 2004, pp. 136-137. Queste prime versioni sono state tradotte in francese da Pascal David (Puf, Paris 1992). Altri frammenti delle Età del mondo sono stati pubblicati da Klaus Grotsch, come edizione preparatoria in vista della grande edizione storico critica pubblicata con gli auspici dell’Accademia delle Scienze di Baviera, e la cui progressione è disperatamente lenta, «Schellingiana 13.1-13.2», Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2002. Per uno studio più dettagliato delle differenti versioni delle Età, possiamo far riferimento alle due opere classiche di E. Brito, La création selon Schelling. Universum, Peeters, Louvain 1987, in part. le pp. 189-270, e di M. Maesschalck, Philosophie et révélation dans l’itinéraire de Schelling, Peeters, Louvain 1989, pp. 210-292. Aldo Lanfranconi ha ugualmente dedicato un’opera importante alle differenti versioni: Krisis. Eine Lektüre der «Weltalter»-Texte F.W.J. Schellings, «Schellingiana» 26, Fromman-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1992. Si veda anche, dello stesso autore, Die Weltalter lesen, in «Dialektik», n. 2, 1996 (a cura di H.-J. Sandkühler), pp. 59-72. 6.  È Walter Schulz ad aver rilanciato, nel 1954, i lavori dedicati all’ultimo Schelling, nella sua grande opera Die Vollendung des Deutschen Idealismus in der Spätphilosophie Schelling, Neske, Pfullingen 19752. Si possono consultare, in francese, le traduzioni di Samar Abou-Zeid, nell’opera collettiva da me curata, Schelling, cit.

68

l’analisi del tempo, o meglio dell’organismo dei tempi, del sistema dei tempi esplicitato dal 1811 lungo il filo conduttore di una inchiesta incentrata su o in ogni caso illustrata dalla temporalità umana estatica e finita7. È abbastanza chiaro che lo stesso Schelling ha voluto segnare la continuità del suo modo di procedere a partire dal grande progetto incompiuto delle Età del mondo fino agli ultimi rimaneggiamenti dell’ultima filosofia in funzione della disgiunzione della negativa e della positiva. La pubblicazione recente della Grundlegung der positiven Philosophie, dovuta a Horst Fuhrmans, basta a indicarlo, e i differenti Nachschriften recentemente pubblicati del primo insegnamento a Monaco, nel 1827-1828, con il titolo significativo di System der Weltalter, lo attestano oggi in modo definitivo8. In una prospettiva più sistematica che storico-filologica, mi propongo dunque di trattare successivamente i seguenti punti. 7.  È Wolfgang Wieland, allievo di H.-G. Gadamer, ad aver per primo attirato l’attenzione sull’importanza del paradigma antropologico nell’analisi della temporalità delle Età del mondo, in Schellings Lehre von der Zeit. Grundlagen und Voraussetzungen der Weltalterphilosophie, Winter Verlag, Heidelberg 1956, sottolineando anche la stretta articolazione fra le due problematiche: «tempo» e «libertà». Egli scrive: «Libertà e temporalità sono dei concetti reciproci che si interpretano l’uno attraverso l’altro» (ivi, p. 39). 8.  In una lettera del 11 luglio 1827 indirizzata al re Luigi I di Baviera, Schelling scrive: «ho dato forma ad un progetto che consiste nell’esporre, già dal prossimo inverno, il contenuto di un opera attesa da tempo, che avrà come titolo Le età del mondo» (in A. Hutter, Geschichtliche Vernunft. Die Weiterführung der Kantischen Vernunftkritik in der Spätphilosophie Schellings, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1996, p. 57). Cfr. anche F.W.J. Schelling, Grundlegung der positiven Philosophie, cit.; Id., System der Weltalter. Münchener Vorlesung 1827/28 in einer Nachschrift von Ernst von Lasaulx, a cura di S. Peetz, Klostermann, Frankfurt a.M. 1990; Id., Einleitung in die Philosophie, a cura di W.E. Ehrhardt, «Schellingiana 1», Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1989; tr. it. di A. Dezzi, Invito alla filosofia, Accademia University Press, Torino 2001.

69

Dopo aver ricordato in modo molto schematico la novità schellinghiana dell’interpretazione del tempo, o meglio della temporalità nelle prime versioni delle Weltalter, mi sforzerò di distinguere i differenti concetti schellinghiani di Offenbarung, da una concezione larga o «universale» a una concezione «stretta» o «superiore», prima di abbozzare, per finire, un confronto tra l’interpretazione hegeliana e l’interpretazione schellinghiana della rivelazione, in grado, spero, di far emergere la portata, l’originalità e la fecondità dell’approccio schellinghiano dell’organicità e dell’immanenza del tempo nella sua attestazione estatica.

Il cantiere delle Età del mondo Iniziamo ricordando brevemente i principali campi di tensione dell’interpretazione della temporalità che sostengono il grande progetto delle Età del mondo9. Che questa interpretazione, per ragioni insieme fenomenologiche e teologiche, si distingua innanzitutto da ciò che Heidegger ha caratterizzato, in una celebre nota di Sein und Zeit (§ 82), come la concezione «volgare» del tempo, quella che risulta dominante a partire dal trattato aristotelico (Fisica IV), fino a Hegel e anche al di là di esso, Bergson compreso, possiamo considerarlo come un punto acquisito, se almeno si accorda a Heidegger che il tratto dominante della concezione volgare è quello di considerare il tempo a partire dall’ora e dal suo privilegio on9.  Precisiamo che si tratta solamente dell’interpretazione schellinghiana contemporanea del grande progetto delle Età. Per il periodo precedente, rinvio allo studio dettagliato di A. Schnell, En deçà du sujet. Du temps dans la philosophie transcendantale allemande, Puf, Paris 2010, cap. III: Surgissement du temps et essence du temps dans le Système de l’idéalisme transcendantale, pp. 129-156.

70

tologico: l’ora è ciò che del tempo è (enfaticamente), come se fosse ridotto a un punto (στιγμή). Ciononostante esiterei a dire, come fa Pascal David, traduttore delle Urfassungen, che con il suo concetto di organicità del tempo Schelling è il primo a proporre una concezione non-metafisica della temporalità10. In questa prospettiva, alla quale non possiamo qui collegarci, occorrerebbe esaminare in modo preciso anche ciò che lega intimamente la meditazione schellinghiana della temporalità alla metafisica della volontà, la quale trova la sua formula canonica nelle Ricerche: «in ultima e suprema istanza non c’è alcun altro essere che il volere. Il volere è l’essere originario […]»11. La filosofia ulteriore resterà in ogni caso fedele a questo motivo residuale secondo il quale non vi è rivelazione se non della volontà! D’altronde, la cosa importante e degna di nota nel passaggio ben noto delle Ricerche appena citato è che Schelling prosegue assegnando al volere come archi-­ essere gli attributi che tradizionalmente convengono all’essere: «assenza di principio, eternità, indipendenza dal tempo, auto-affermazione»12. A dire il vero, se dovessimo cercare nelle Ricerche del 1809 il primo abbozzo di un nuovo pensiero della temporalità, in chiara rottura con le determinazioni della Filosofia dell’Identità che facevano della temporalità una categoria della finitezza

10.  Cfr. P. David, Postfazione alla sua traduzione francese, Puf, Paris 1992, La généalogie du temps, pp. 341-342. 11.  SW, VII, p. 350; Ricerche filosofiche…, p. 91. Cfr. supra, cap. I, pp. 40 ss. 12.  Heidegger commenta a lungo questa caratterizzazione dell’essere originario nel suo corso del semestre estivo del 1936 [GA 42]. Vi ritorna inoltre, in maniera ancora più precisa e dettagliata nel corso del 1941, GA 49, pp. 84 s. – Emmanuel Cattin ha dedicato uno studio tanto dettagliato quanto suggestivo a questo motivo della «volontà»: Méditation de la volonté, 18091821, che si trova all’interno dell’opera collettanea da me curata, Schelling, cit., pp. 179-194.

71

radicalmente estranea all’Assoluto eterno e fuori dal tempo13, è senza dubbio non tanto verso la celebre dissociazione del «fondo» e dell’«esistenza» che occorrerebbe rivolgersi, quanto piuttosto verso l’idea del dio in divenire, dell’Assoluto colto come vita, forza, antagonismo e gioco di forze: unità mobile e vivente di forze opposte (lebendige Einheit von Kräften). Ma torno alle Weltalter per sottolineare ciò che potremmo caratterizzare quasi come una fenomenologia della coscienza interna del tempo, attenta innanzitutto alla molteplicità dei suoi aspetti, alla sua «multi-lateralità», e all’articolazione, in tensione, delle sue dimensioni o dei suoi strati: «Wie vielgestaltig ist das Ansehen der Zeit!» – «Quante molteplici sfaccettature ha il tempo!». Cosi scrive, stupito, Schelling all’inizio della prima versione. Il modo di procedere di Schelling, per tentare di prendere in considerazione il tempo nelle sue differenti sfaccettature, è in realtà abbastanza complesso, poiché esso pretende, allo stesso tempo, sia di impegnarsi in una riflessione altamente speculativa incentrata sulla teologia trinitaria o sul divenire trina di una proto-deità, sia anche di seguire un filo conduttore risolutamente antropologico, quello che porta immediatamente a «prendere le cose in modo umano». Questo principio metodologico sarà fortemente riaffermato nelle Lezioni di Stoccarda del 1810: Se […] esigiamo un Dio che ci sia possibile intendere come un essere affatto vivente e personale, è necessario considerarlo in una maniera risolutamente umana: dobbiamo ammettere che la sua vita abbia la massima analogia con la vita umana, che ci

13.  Si veda in particolare l’Exposition de mon système de la philosophie, tr. fr. e note di E. Cattin, Vrin, Paris 2000, in part. p. 45 e la lunga nota del traduttore alle pp. 45-47. Cfr. anche E. Cattin, Transformations de la métaphysique. Commentaire sur la philosophie transcendantale de Schelling, Vrin, Paris 2001, e F. Fischbach, Du commencement en philosophie. Étude sur Hegel et Schelling, Vrin, Paris 1999.

72 sia in lui accanto all’eterno essere anche un eterno divenire, che egli, insomma, abbia tutto in comune con l’uomo, ad eccezione della dipendenza.14

Opponendosi al «purismo» di Eschenmayer che protesta e chiede «con quale diritto noi trasferiamo a Dio i nostri concetti», Schelling risponde, con una formula eccezionale – si tratta forse, del resto, della prima occorrenza del termine – che questo purismo farebbe «sparire tutta la filosofia della soggettività» (die ganze Subjektivitätsphilosophie) che è oggi dominante; e aggiunge che, all’inverso, nessuno può arrogarsi il diritto di dire che Dio vuole: «Voi dite – scrive a Eschenmayer –: Dio deve semplicemente essere sovra-umano (übermenschlich). Tuttavia, se volesse essere umano, […] chi avrebbe da ridire? Se Dio stesso discendesse dall’altezza che occupava e si rendesse comune con la creatura, perché dovrei trattenerlo con forza in tale altezza? In che cosa lo ridurrei, io, con la rappresentazione della sua umanità, allorché è stato egli stesso ad abbassarsi?»15. Non vi è dunque alternativa: «o si esclude ogni antropomorfismo e dunque anche ogni rappresentazione di un Dio personale, che compie degli atti coscienti e intenzionali [ciò basta per renderlo del tutto umano], oppure si adotta un antropomorfismo illimitato, una totale e integrale umanizzazione di Dio, con una sola eccezione: l’essere necessario»16.

14.  SW, VII, p. 432; Lezioni di Stoccarda, p. 152. 15.  SW, VIII, pp. 167 s. La corrispondenza con Eschenmayer che segue le Ricerche del 1809 è stata tradotta in francese da Bernard Gilson nel volume: Schelling. La liberté humaine et controverses avec Eschenmayer, Vrin, Paris 1988. Trattandosi di Eschenmayer e della sua difesa della «non-filosofia», si veda l’opera a cura di Alexandra Roux: C.-A. Eschenmayer, La philosophie dans son passage à la non-philosophie, Vrin, Paris 2005. 16.  SW, VIII, p. 167.

73

Out of joint Prendere le cose «in modo umano» equivale dunque a rivolgersi in modo non prioritario verso il tempo fisico e il tempo del mondo, ma piuttosto nell’impegnarsi risolutamente in quelle che Schelling chiama anche «considerazioni etiche», allo scopo di studiare, per esempio, come il rapporto con il tempo, o meglio il tratto temporale è costitutivo della coscienza, se è vero che questa è insieme – zugleich, con lo stesso atto – coscienza di qualcosa che è escluso e coscienza di qualcosa che porta verso di sé, che attira (ausgeschlossen, angezogen)17. Così Schelling intende innanzitutto studiare le relazioni tra il carattere intelligibile dell’uomo e la sua libertà temporale e finita, o ancora, e in modo privilegiato, intende esaminare la scansione dinamica dei tempi nel momento della decisione: Solo l’uomo che ha la forza di elevarsi al di sopra di se stesso è capace di crearsi un vero passato, solo lui gode di un vero presente come lui solo attende un autentico avvenire; queste considerazioni etiche bastano a mostrare che passato, presente e avvenire non sono dei semplici concetti di relazione all’interno di un solo e dello stesso tempo, ma bensì che essi sono, in virtù della loro significazione più alta, dei tempi effettivamente differenti tra i quali c’è posto per una ripartizione e una gradazione.18

17.  SW, VIII, pp. 262-264: «Es gibt kein Bewußtwerden […] ohne ein Vergangenes zu seyn. Es gibt kein Bewußtsein ohne etwas, das zugleich ausgeschlossen und angezogen wird». Su questo punto si veda lo studio di Ch. Bouton, Considérations éthiques sur le temps dans Les Âges du monde, in J.-F. Courtine (a cura di), Schelling, cit., pp. 139-178. 18.  Urfassungen, p. 223: «Nur der Mensch, der die Kraft hat, sich über sich selbst zu erheben, ist fähig, eine wahre Vergangenheit sich zu; eben dieser genießt auch allein einer wahren Gegenwart, wie er allein einer eigentlichen Zukunft entgegensieht; und schon aus diesen sittlichen Betrachtungen würde hervorleuchten, daß Vergangenheit, Gegenwart und Zukunft doch nicht bloße Verhältnißbegriffe einer und der nämlichen Zeit sind, daß sie

74

Sul versante trinitario, quello che prende in considerazione la «nascita eterna di Dio», Schelling noterà, come facendo eco a questa nascita: Manifestamente Dio non è essente da tutta l’eternità, c’è qualcosa che precede il Dio essente, e precisamente uno stato cao­ tico19, pieno di contraddizioni, quello di una natura anteriore che deve innanzitutto essere acquietata, posta a titolo di passato, prima che Dio sia effettivamente presente.20

Ma ritorniamo alle «considerazioni etiche»: sono esse che conducono Schelling a opporre quella che chiama l’organicità del tempo al tempo meccanico, lineare e indefinito nel quale si troverebbero situate tutte le cose per resistervi o per lasciarvisi

der höchsten Bedeutung nach wirklich verschiedene Zeiten sind, zwischen denen eine Anstufung oder Steigerung stattfindet». 19.  Nella sua Agenda del 1813, Schelling indicava l’essenziale in modo laconico: «Das Ganze das Chaos, das allem zu Grunde liegt – und dies dann die Ewigkeit, was supponiert werden muß – um Zeit zu begreifen» (F.W.J. Schelling, Philosophische Entwürfe und Tagebücher 1809-1813, Philosophie der Freiheit und Weltalter, a cura di Lothar Knatz, Hans Jörg Sandkühler e Martin Schraven, Meiner, Hamburg 1994, p. 154. 20.  «Gott ist offenbar nicht von Ewigkeit seyend, es geht dem seyenden Gott Etwas und zwar ein chaotischer widerspruchsvoller Zustand der früheren Natur voraus, der erst besänftigt, als Vergangenheit gesetzt seyn muß, ehe Gott wirklich da ist» (F.W.J. Schelling, Weltalter-Fragmente, a cura di K. Grotsch, intr. di W. Schmidt-Biggemann, «Schellingiana» 13.1, Fromman-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2002, pp. 226-227). Il termine «natura» corrisponde qui all’uso fattone da Jacob Böhme (cfr. A. Koyré, La philosophie de Jacob Boehme, Vrin, Paris 19712, pp. 354 s.). Cfr. anche SW, VII, p. 441; Lezioni di Stoccarda, p. 159: «Per “natura” si può intendere il mero B, quella oscura forza originaria che sta a fondamento di ogni esistenza, l’indistruttibile ciò che nessun menstruum può dissolvere. Ora, forse che secondo il mio sistema questo B è Dio in senso proprio? No di certo: esso è soltanto l’essere di Dio (diverso dall’essente: per Dio come tale si intende sempre il Dio essente). Ma tutto ciò si deve chiamarlo divino? Indubbiamente sì, perché è un’originaria forza divina, non si può però chiamarlo divino in senso stretto (nel senso cioè che appartenga al soggetto propriamente divino, alla sua intima essenza)».

75

trascinare21. Il tempo organico è un tempo interiore, immanente, conformemente al quale si può dire, come suggerivano già le Lezioni di Stoccarda, che «ogni cosa ha il tempo in se stessa. […] Non c’è un tempo esterno, comune; ogni tempo è soggettivo, è cioè un tempo interiore che ogni cosa ha in se stessa e non fuori di sé»22. Da questa tesi della soggettività radicale del tempo, al di sopra della quale Kant non sarebbe riuscito a elevarsi, le Weltalter23 intendono ricavare due corollari decisivi. Se ogni cosa «non ha che un tempo interno, proprio, che le è ingenito ed immanente», se il tempo non è «un principio esterno, selvaggio e inorganico», ma un principio interno, questo è sempre presente ed è presente interamente, fin nella disgiunzione delle sue dimensioni opposte (out of joint), e infine, e soprattutto, non è più concesso sostenere che le cose nascano nel tempo, ma occorre piuttosto dire che «in ciascuna cosa il tempo nasce nuovamente e immediatamente» e dunque che per ogni cosa il suo tempo è «in ogni attimo il suo tempo totale»24. Ma questo tempo interno, autentico e proprio, non deve essere concepito come un flusso con il quale si confonderebbe la coscienza in un avvolgimento continuo. La tem21.  Urfassungen, p. 81: «Also ist die Zeit im Ganzen und Großen organisch»; Le età del mondo [1811], p. 185: «Dunque il tempo nel tutto e nel complesso è organico». 22.  SW, VII, pp. 430 s.; Lezioni di Stoccarda, p. 152. 23.  Urfassungen, pp. 78 s.; Le età del mondo [1811], p. 179: «L’errore del kantismo in riferimento al tempo consiste nel non riconoscere questa soggettività universale del tempo, nell’accordargli perciò la soggettività limitata, per cui il tempo diviene una mera forma delle nostre rappresentazioni. Nessuna cosa nasce nel tempo, bensì in ciascuna cosa il tempo nasce nuovamente e immediatamente dall’eternità, e anche se non si può dire di ogni cosa che sia nell’inizio del tempo, tuttavia l’inizio del tempo è in ogni cosa, e invero in ogni cosa è inizio ugualmente eterno. Infatti ogni entità singola nasce dalla medesima separazione da cui nasce il mondo, e dunque è fin dall’inizio con un proprio centro del tempo». 24.  Urfassungen, p. 79; Le età del mondo [1811], p. 179.

76

poralizzazione è infatti discontinua e presuppone sempre – lo abbiamo visto – conflitto, separazione, scissione, differenziazione di forze. L’immagine del flusso è così poco pertinente che Schelling insiste in egual misura su quella che potremmo chiamare la dimensione verticale o stratificata dei tempi. Nella versione del 1815/17 delle Età del mondo, e in un contesto parzialmente teologico e trinitario, scrive per esempio: Tempi diversi […] possono senz’altro, in quanto diversi, essere simultanei (zumal), anzi, per l’esattezza: sono necessariamente simultanei. Il tempo passato non è un tempo rimosso (aufgehobene Zeit); il passato (das Vergangene) non può certo essere come un presente (ein Gegenwärtiges), ma in quanto passato dev’essere senz’altro simultaneo con il presente; il futuro non è certamente come un essente attuale (ein jetzt Seiendes), ma in quanto essente futuro è senz’altro simultaneo con il presente, ed è ugualmente assurdo pensare che l’esser-passato così come l’esser-futuro siano un completo non-essere.25

Lontana dall’immagine del fiume, la temporalizzazione implica dunque necessariamente differenziazione, scissione, persino contraddizione. Considerando ciò che in Dio o nella deità costituisce la dimensione arcaica del Grund, di ciò che precede il fondo, come il «no», l’«eterna negazione» che il «sì» deve superare, Schelling arriva fino a scrivere che la contraddizione, qui portata fino alla sua massima intensità, è ciò che «rompe l’eternità e, al posto di un’unica eternità, pone una sequenza di eternità (eoni) o tempi». Questa sequenza di eternità «è ciò che noi comunemente chiamiamo «tempo». In questa decisione, dunque, l’eternità si dischiude nel tempo»26.

25.  SW, VIII, p. 302; Le età del mondo [1815/17], p. 641. 26.  Ibidem: «Es ist also nur der Widerspruch in der höchsten Steigerung, der die Ewigkeit bricht und statt der Einen Ewigkeit eine Folge von Ewigkeiten (Aeonen) oder Zeiten setzt. Aber eben diese Folge von Ewigkeiten ist es, was wir insgemein die Zeit nennen. In dieser Entscheidung als solche schließt

77

Se ritorniamo ora al paradigma antropologico, diremo anche: Chi si accontenta di prendere il tempo solo per come si presenta, sente in esso un conflitto tra due principi: uno che tende in avanti, che spinge allo sviluppo, e l’altro che trattiene, ostacola, resiste allo sviluppo. Se questo secondo principio non facesse resistenza, non ci sarebbe alcun tempo, poiché lo sviluppo accadrebbe nell’istante, senza interruzione né successione; ma se questo secondo principio non venisse anche costantemente superato dal primo, ci sarebbe quiete assoluta, morte, stasi.27

Il tempo del Figlio Il tempo non può dunque dispiegarsi – ed è proprio ciò che è in discussione nelle Weltalter, le quali propongono anche una vera Genealogia del tempo28 – nella molteplicità delle sue sfaccettature, nella diversità delle sue dimensioni estatiche, se non nel caso in cui si fa («fare tempo», come si dice «fare spazio»)29 attraverso una lotta o in ogni caso attraverso una

sich Ewigkeit in Zeit auf». – In uno studio particolarmente suggestivo Fiona Steinkamp mette in relazione questa eternità arcaica, che si sarebbe tentati di classificare come pre-temporale, con l’il y a levinassiano, e mette a confronto la dottrina schellinghiana della temporalizzazione con la nozione della diacronia: F. Steinkamp, Eternity and Time. Levinas Returns to Schelling, in J.M. Wirth (a cura di), Schelling Now. Contemporary Readings, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 2005, pp. 207-222. 27.  Urfassungen, p. 122; Le età del mondo [1813], p. 271 (tr. mod.). 28.  Urfassungen, p. 75. Così Pascal David ha intitolato la sua Postfazione alla sua traduzione delle Età del mondo. 29.  Cfr. SW, X, p. 253; Esposizione dell’empirismo filosofico…, p. 276. «Fare spazio», Raum geben, significa anche lasciar spazio a… In Urfassung der Philosophie der Offenbarung, Schelling, evocando lo Spirito santo (Luca, ma anche Anassagora!), scrive che una potenza anteriore si abbassa («condiscen-

78

tensione permanente di differenti principi, istanze o potenze antagoniste30. Se possiamo dire che Schelling è sicuramente, in un certo senso, pensatore della decisione, dell’apertura del e all’avvenire31, lo è anche e soprattutto perché cerca di prendere in considerazione la profondità dei tempi, perché riesce a cogliere in termini di riservatezza, ritiro, contrazione, resistenza, la forza che ritarda (κατέχον?) e che permette a tutto ciò che avviene di arrivare nel suo tempo, «nella sua ora»: Noi presagiamo che un organismo giace profondamente nascosto nel tempo e si estende fino agli elementi più piccoli. Noi siamo convinti (chi non lo è?) che a ogni grande evento, a ogni atto ricco di conseguenze, sia destinato il suo giorno, la sua ora, anzi il suo attimo, e che tale atto non venga alla luce del giorno neanche un istante prima che lo voglia la forza che ritiene e modera i tempi.32

denza») e così gibt sie der höheren Raum und wirkt attrahierend auf diese, essa gli lascia spazio (fa spazio) ed esercita la sua attrazione sulla potenza superiore. 30.  Non solo tensione e lotta sono al cominciamento, ma esse costituiscono lo stesso cominciamento, la possibilità di un cominciamento: «Ognuno riconosce che la forza di contrazione è il vero e proprio inizio effettivo di ogni cosa. Non da ciò che viene facilmente dispiegato, bensì da ciò che è chiuso, e che solo con resistenza si dischiude al dispiegamento, ci si può aspettare la massima gloria dello sviluppo. Ma molti non vogliono riconoscere quella sacra forza arcaica dell’essere, e vorrebbero bandirla fin dall’inizio, prima che tale forza, superata entro se stessa, ceda all’amore che essa fa nascere traendolo da sé» (Urfassungen, p. 50; Le età del mondo [1811], p. 113). 31.  Cfr. Urfassungen, p. 119; Le età del mondo [1813], p. 265: «L’uomo che non è capace di separarsi da se stesso, di staccarsi da tutto ciò che gli è avvenuto e di contrapporvisi attivamente, non ha un passato, o piuttosto non ne fuoriesce mai, vive costantemente in esso. Benefica e utile è all’uomo la coscienza di lasciarsi – come si dice – qualcosa alle spalle, cioè come passato; sereno gli diviene solo così il futuro, e facile, solo a questa condizione, anche il proporsi qualcosa». 32.  Urfassungen, p. 14; Le età del mondo [1811], p. 29.

79

Se questa forza di resistenza venisse meno, «se tutto ciò che è essere fosse posto subito e simultaneamente come passato, ogni essente come presente, e quindi quella suprema unità dei due giacente nel futuro fosse posta come effettuale, […] non ci sarebbe tempo bensì eternità assoluta», scrive ancora Schelling33. Così il tempo che sorge in ogni istante e per intero, è innanzitutto sostenuto da una «distinzione polare»34 o ancora da una «dissociazione dinamica» grazie alla quale solo si trovano congiunte le estasi del tempo, di un tempo che non è dunque autenticamente temporale, suscettibile di novità imprevedibili, di cominciamenti veri, se non nella misura in cui resta in lui, e come in riserva, un principio originale di contraddizione e di ritiro, fondamento di ogni «essere-proprio», di ogni «ipseità»35.

33.  Urfassungen, p. 74; Le età del mondo [1811], p. 167. È in virtù di questa dissociazione che, come scrive felicemente Schelling, «nascono i tempi». L’idea è già formulata nelle Ricerche filosofiche… [SW, VII, p. 362; Ricerche filosofiche…, p. 98]: «È facile vedere che per la resistenza del desiderio, necessaria a una perfetta nascita, il più intimo legame delle forze si scioglie soltanto in un progressivo dispiegarsi, e ad ogni grado nella separazione delle forze sorge dalla natura un nuovo essere». 34.  Urfassungen, p. 75; Le età del mondo [1811], pp. 169-171 (tr. mod.): «Un cominciamento del tempo è dunque impensabile se non viene subito posta un’intera massa come passato, un’altra come futuro; infatti solo in questa distinzione polare nasce a ogni attimo il tempo». Cfr. anche SW, XIV, p. 109; Filosofia della rivelazione, p. 1063: «Non si dà nessun tempo finché non c’è un passato. L’unico modo possibile perché si ponga un inizio del tempo – cosa di grande importanza – è appunto che qualcosa che prima era non-tempo sia posto come tempo, quindi come passato». 35.  Cfr. SW, VII, p. 438; Lezioni di Stoccarda, pp. 156 s.: «Il primo principio o la prima forza originaria (Urkraft) [in Dio] è quella per cui egli è un’essenza particolare, singola, individuale. Possiamo chiamare questa forza l’ipseità (Selbstheit), l’egoismo in Dio. Se ci fosse questa forza da sola, ci sarebbe soltanto Dio come essenza singola, separata, particolare: non ci sarebbe alcuna creatura».

80

Che questa impresa della «genealogia dei tempi», attenta alla sua diversità, o meglio alla sua autodifferenziazione e alla sua organicità, si sviluppi nell’ambito di una speculazione trinitaria o più ampiamente teo-cosmo-gonica in cui si sovrappongono i principi la cui distinzione è all’origine di ogni temporalizzazione, in cui le «potenze», presentate implicitamente nell’Urwesen, si distinguono in persone, e queste in periodi, ecco che di certo questo fatto non è né indifferente né fortuito. Che la generazione (Zeugung) del Figlio, per esempio, coincida con «il primo e vero inizio del tempo»36 o che il Figlio sia immediatamente concepito come il conciliatore (Versöhnender) che insieme modera ed esteriorizza la forza contrattiva e il ritiro del Padre – «insondabile abisso d’eternità»37 –, o ancora che «spinge verso il futuro», o ancora l’amore – «poiché è solo grazie all’amore che il passato è abbandonato» –, tutti questi sono temi che meriterebbero uno studio dettagliato, in particolare rispetto alla loro possibile o necessaria inscrizione o ripetizione nel «sistema dei tempi»38. Dovendo lasciare qui aperte tali questioni, tratterremo, di questo troppo rapido sorvolo, solo la tesi per la quale se l’istanza paterna è propriamente, a titolo di forza di contrazione, il principio della generazione del Figlio – contraendosi essa si ritira nel passato, vale a dire approfondisce la dimensione del passato –, questa istanza non diventa essa stessa identificabile come tale, come Padre, se non attraverso la forza di resistenza che essa offre al Figlio, fino al punto che occorre dire, in verità, «il Padre è Figlio del Figlio»39. «Prima del

36.  Urfassungen, p. 77; Le età del mondo [1811], p. 175 (tr. mod.). 37.  Urfassungen, p. 76; Le età del mondo [1811], p. 173. 38.  SW, XIV, p. 109; Filosofia della rivelazione, p. 1063. 39.  Urfassungen, p. 59; Le età del mondo [1811], p. 135: «Il Figlio è il conciliatore, il liberatore e il redentore del Padre, e se la forza paterna era prima del Figlio, essa era nondimeno anche prima del Padre; infatti il Padre stesso è Padre soltanto nel Figlio e mediante il Figlio».

81

Figlio, non è neanche il Padre, bensì soltanto la natura occlusa, nascosta, della Deità indispiegata»40. Il che significa anche, sul piano temporale che ci interessa direttamente, che l’eternità deve a sua volta essere considerata come «figlia del tempo»: «L’eternità non è per se stessa, essa è solo per il tempo; il tempo precede dunque l’eternità sul piano dell’effettività […]»41. Così, senza escludere la deità dalla legge generale secondo la quale ogni cosa ha il suo tempo, viene nel suo tempo, e porta in essa, in modo immanente, il tempo nella sua interezza che, ad ogni istante, è anche tutto il tempo, Schelling può caratterizzare la funzione primordiale della creazione – prima manifestazione generale di Dio o l’Assoluto – come ciò grazie a cui può venire «espresso e rivelato anche il tempo nascosto nell’Eterno»42. Porre così il tempo in Dio stesso, impegnarsi a svelare e a comprendere la temporalità, o meglio la tempora-

40.  Urfassungen, p. 71; Le età del mondo [1811], p. 163. Cfr. anche Urfassungen, p. 61; Le età del mondo [1811], p. 139: «Ma è soltanto mediante il Figlio e nel Figlio che l’essente è separato dall’essere ed elevato allo spirituale; così come solo nel Figlio il Padre è effettivamente Padre. Entro se stesso, però, il Figlio è ancor sempre ciò che era prima, e se il Figlio potesse sparire, allora anche l’autocoscienza del Padre ritornerebbe in quella profonda occlusità della quale troviamo una debole immagine quando la nostra interiorità si trova in uno stato tenebroso, non-libero, indistinto». 41.  Urfassungen, p. 73. Cfr. anche Urfassungen, pp. 77 s.; Le età del mondo [1811], p. 177: solo il Figlio, come «avvenire», «può esplicitare e rivelare anche il tempo nascosto, in riserva, nell’Eterno (die im Ewigen verborgene Zeit)»; «Ma questo inizio non è un inizio che potrebbe cessare di essere inizio, bensì è sempre inizio ugualmente eterno. Infatti è ancora a ogni attimo che nasce il figlio divino, per mezzo del quale l’eternità viene dischiusa ed espressa nel tempo; questa generazione non è una generazione transeunte, […] bensì una generazione eterna che accade costantemente. A ogni attimo, così come nel primo attimo, viene superata la severità e occlusità del Padre, e questo atto, che unico pone costantemente un tempo nelle cose, è un atto pre-temporale non una sola volta, bensì sempre…». 42.  Urfassungen, p. 77; Le età del mondo [1811], p. 177.

82

lizzazione divina, in uno stretto confronto, in parallelo, con la temporalità umana, ciò non significa semplicemente concepire come e a quali condizioni il Dio si manifesta nella storia, o come lo Spirito, attraverso la sua fenomenalizzazione temporale (finita), riconquista le sue determinazioni permanenti in vista di una parusia definitiva, ma piuttosto ciò conduce ad introdurre la disgiunzione temporale nel cuore dell’eternità senza fondo dell’essenza divina, a scavare fino alla notte dei tempi43.

Fattualità e positività Per tentare di mettere in luce l’articolazione tra temporalità stretta e rivelazione – il che implica anche sottolineare il carattere intrinsecamente temporale di ogni rivelazione e, correlativamente, il tratto epifanico della stessa temporalità estatica –, occorre innanzitutto distinguere, con Schelling, diversi concetti di rivelazione (Offenbarung), o meglio esaminare delle specificazioni complementari del concetto di Offenbarung. Al concetto più ampio, quello di rivelazione in generale, che integra la processione trinitaria e la creazione, Schelling oppone il fatto singolare dell’Incarnazione del Cristo. Per questo, già 43.  Schelling evoca esplicitamente, all’inizio delle Età: «gli abissi dei tempi» (Urfassungen, p. 14; Le età del mondo [1811], p. 29). Cfr. anche Urfassungen, p. 210: «Il carattere successivo delle operazioni divine deve avere il suo fondamento e la sua ragion d’essere nelle profondità più intime della divinità» – «Se vi è qualcosa come i tempi della rivelazione divina, perché i tempi non potrebbero essere pensabili in questa rivelazione – la più precoce e la più universale – attraverso la quale fu posto il fondamento di ogni rivelazione? Perché sarebbe impossibile che l’oscuro concetto dell’eternità che precede il mondo si decomponga di nuovo in tempi agli occhi di colui che ne ha una veduta profonda, come le nebulose, il cui vago alone sembra evanescente all’occhio profano, si decompongono in astri agli occhi di chi è armato di telescopio?».

83

nelle Ricerche del 1809, Schelling si interrogava su quello che chiamava l’«universale» della rivelazione, legato senza dubbio alla metafisica della volontà, e in ultima istanza all’antagonismo e alla complementarità del Grund e dell’Existenz, innanzitutto per sottolineare questo fenomeno unico che ne costituisce come il punto culminante e anche la «fine», vale a dire il Cristo44. Così il concetto stretto, o superiore, di rivelazione designa eminentemente la Rivelazione cristiana e propriamente cristologica, in quanto si oppone al paganesimo e alla mitologia: Con Rivelazione, che noi trattiamo come l’opposto della Mitologia e del Paganesimo, non intendiamo altro che il Cristianesimo. La rivelazione dell’Antico Testamento, infatti, è il cristianesimo solo come presentimento e profezia; essa infatti viene compresa solo nel cristianesimo e attraverso di esso. […] Si può dunque dire: in una filosofia della Rivelazione si tratta solo, o eminentemente di comprendere la Persona di Cristo.45

44.  Cfr. SW, VII, p. 406; Ricerche filosofiche…, pp. 113 s.; SW, XI, Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der Mythologie, p. 180; tr. it. di T. Griffero, Filosofia della mitologia. Introduzione storico-critica, Guerini, Milano 1998, pp. 288 s. – La cristologia schellinghiana è stata oggetto di un lavoro ben documentato: Ch. Danz, Die philosophische Christologie F.W.J. Schellings, «Schellingiana» 9, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1996. Ma si consulteranno soprattutto i lavori di X. Tilliette, sapiente guida negli studi schellinghiani per decenni, in Francia e nel mondo: La christologie idéaliste, Desclée, Paris 1986 [tr. it. di F. Coppellotti e G. Riccardino, La cristologia idealista, Queriniana, Brescia 1993]; Le Christ de la philosophie, Le Cerf, Paris 1990 [tr. it. di G. Sansonetti, Il Cristo della filosofia. Prolegomeni a una cristologia filosofica, Morcelliana, Brescia 1997]; La Semaine Sainte des Philosophes, Desclée, Paris 1992 [tr. it. di G. Sansonetti, La settimana santa dei filosofi, Morcelliana, Brescia 2003]. Si veda anche l’opera fondamentale di W. Kasper, Das Absolute in der Geschichte. Philosophie und Theologie der Geschichte in der Spätphilosophie Schellings, Grunewald, Mainz 1965; tr. it. di M. Marassi e A. Zoerle, L’assoluto nella storia. Nell’ultima filosofia di Schelling, pref. di A. Bausola, Jaca Book, Milano 1986. 45.  SW, XIV, p. 35; Filosofia della rivelazione, XXV lezione, p. 937. Cfr. anche SW, XI, p. 180; Introduzione storico-critica…, pp. 288 s. Per quanto riguarda

84

Così, l’oggetto della filosofia della rivelazione, in senso stretto, è certo il Cristo, ma il Cristo stesso considerato come fatto (Faktum), piuttosto che come fondatore di una «dottrina» (Lehre) alla quale occorrerebbe riferirsi fedelmente, seguendo il filo conduttore di una tradizione ecclesiale incaricata dell’interpretazione degli avvenimenti, dei racconti e delle parole, nell’attesa del «cristianesimo esoterico», «predicazione del Vangelo assoluto»46. Ma in compenso per comprendere o concepire il contenuto della rivelazione (in senso stretto) – questo è il primo compito di una filosofia della Rivelazione –, questa deve innanzitutto essere intesa ben al di là del fenomeno storico del cristianesimo: «essa comprenderà ancor più e ancor altro che la sola Rivelazione, anzi, comprenderà quest’ultima solo in quanto essa avrà compreso altro, cioè il Dio reale [effectivement réel, nella tr. fr. cit.; N.d.T.]»47. È in questo senso, in virtù di questo ampliamento, che la filosofia della rivelazione è anche una conseguenza o una parte – una applicazione – della filosofia positiva48. La filosofia positiva non si confonde dunque con la filosofia della rivelala collocazione dell’ebraismo all’interno dell’economia generale mitologia/ rivelazione, si veda infra, cap. IV. 46.  SW, V, pp. 286-295, e p. 305; tr. it. di C. Tatasciore, Lezioni sul metodo dello studio accademico, Guida, Napoli 1989, VIII lezione e fine della IX, pp. 135-143 e p. 153. Su questo punto fondamentale si vedano le analisi del saggio dedicato alle Lezioni sul metodo dello studio accademico, in L. Ferry J.-P. Pesron - A. Renaut (a cura di), Philosophies de l’Université. L’idéalisme allemand et la question de l’Université. Textes de Schelling, Fichte, Schleiermacher, Humboldt, Hegel, tr. fr. di J.-F. Courtine e J. Rivelaygue, Payot, Paris 1979, pp. 41-164. 47.  SW, XIII, p. 141; Filosofia della rivelazione, VII lezione, p. 233. 48.  SW, XIII, p. 174; Filosofia della rivelazione, p. 289: La filosofia della rivelazione può dunque essere considerata come una «applicazione della filosofia positiva» («Anwendung der positiven Philosophie»). Cfr. anche ivi, p. 141; tr.

85

zione, non più di quanto questa seconda si confonda – come abbiamo sottolineato – con una qualunque «filosofia rivelata» (Offenbarungsphilosophie) rispetto alla quale la Rivelazione sarebbe la sorgente, di diritto. Tale era la posizione di Jacobi che Schelling non smetterà di criticare. Ma cosa costituisce, innanzitutto, la positività della filosofia della Rivelazione? Sicuramente la sua storicità49. Essa si fonda su dei «fatti positivi», non nel senso in cui Hegel e Hölderlin criticavano, nella loro giovinezza, la «positività» della religione, ma per il fatto che la filosofia positiva ha essenzialmente a che fare con degli atti (Thaten). Il fondamento ultimo della positività è in effetti, per Schelling, sempre la volontà che non può manifestarsi, nella sua libertà, se non attraverso il fatto, agendo, o, come si dice giustamente in francese, en passant à it. cit., p. 233: La filosofia della rivelazione non è certo «la filosofia positiva stessa», ma costituisce «une conseguenza o anche una parte di quella». 49.  Già nelle Lezioni sul metodo dello studio accademico del 1802, Schelling scriveva: «… il cristianesimo, conformemente al suo spirito più intimo, e nel suo senso più elevato, è storico. Ogni momento particolare del tempo è rivelazione di un aspetto fondamentale di Dio; il quale è assoluto in ognuno di essi» (SW, V, pp. 288; Lezioni sul metodo dello studio accademico, p. 137). L’opposizione «filosofia storica» – «filosofia logica» ha preparato, all’epoca dell’insegnamento monachese, la divisione più tardiva tra la filosofia «positiva» e quella «negativa». Cfr. H. Fuhrmans, Dokumente zu Schellingforschung, in «Kantstudien», Bd. 47, 1955-1956, pp. 182-191, 273-287, 378-396, e Bd. 51, 1959-1960, pp. 14-26; e, soprattutto, F.W.J. Schelling, Grundlegung der positivien Philosophie. Münchner Vorlesung WS 1832/33 und SS 1833, a cura di H. Fuhrmans, Bottega d’Erasmo, Torino 1972, pp. 90-91. Nel 1830, l’Einleitung in die Philosophie precisava, a partire dalla distinzione «filosofia soggettiva», «filosofia oggettiva»: «il loro difetto [quello delle filosofie soggettive che “pretendono di essere nient’altro che lo sviluppo di una necessità del pensiero”] è appunto soltanto una mancanza, un meno cui deve essere aggiunto un più. Per questo possono essere designate in maniera del tutto corretta con il nome di filosofia negativa, mentre l’altra filosofia, quella che comunque vogliamo ancora chiamare storica, può essere designata come filosofia positiva» (F.W.J. Schelling, Invito alla filosofia, cit., p. 9).

86

l’acte (passando all’atto). La rivelazione – come Schelling ama ripetere – è sempre in ultima istanza rivelazione della volontà; ora questa non si disvela come tale, non è veramente se stessa, come volontà volente, se non attraverso l’atto, attraverso l’esecuzione: «Fino a che una volontà è solo volontà e non è trapassata in azione, in quella misura essa è mistero. L’azione è invece la sua manifestazione»50.

Negazione e reclusione Della volontà divina in particolare, non si può, in linea di principio, sapere niente senza la rivelazione: «questa volontà è il mistero κατ᾽ἐξοχήν». La Rivelazione, nel senso più alto del termine è dunque «rivelazione di questa volontà»51. Questa è peraltro anche la ragione per la quale non si potrebbe considerare un sapere a priori del positivo: il Dio creatore non è egli stesso accessibile se non attraverso la sua decisione, il suo atto (die That), vale a dire sempre attraverso ciò che non può mai essere conosciuto se non après coup, ciò che non si lascia per principio mai anticipare. Ma se la creazione stessa – cominciamento del mondo e temporalizzazione inaugurale dei tempi, inizialmente colta come tempo del mondo52 – deve essere pen-

50.  SW, XIV, p. 11: «Solange ein Wille nur Wille ist und nicht in That übergegangen ist, solange ist er Geheimniß, aber die That ist seine Manifestation»; Filosofia della rivelazione, XXIV lezione, p. 895. – Della volontà divina, non si può sapere niente, per principio, senza la rivelazione: «Dieser Wille ist das Geheimniß κατ᾽ἐξοχήν». La rivelazione, nel senso più alto del termine è dunque «Offenbarung dieses Willen. Kein Wille aber offenbart sich anders als durch die That, durch die Ausführung». 51.  SW, XIV, pp. 10-12; Filosofia della rivelazione, XXIV lezione, pp. 895-897. 52.  Schelling sottolinea a più riprese il doppio significato del termine greco αἰών: tempo e mondo. «Ciò che comunemente chiamiamo il “mondo” non è

87

sata come questa archi-rivelazione attraverso la quale è superata la forza oscura del Padre (l’ira, Zorn)53, la sua reclusione e il suo ottenebramento, una seconda rivelazione analoga alla prima, a quella della creazione iniziale, deve intervenire come in risposta alla «catastrofe» nella quale il primo uomo, creatura centrale, colui al quale Dio aveva affidato il destino della sua creazione, ha fatto precipitare tutta la natura. Sono questi aspetti – il significato dell’uomo nella creazione, la missione a lui affidata e il capovolgimento che egli ha operato nell’equilibrio delle potenze (teo-cosmogoniche) – che spiegano infatti la necessità dei differenti gradi della rivelazione54. Fermiamoci un istante su questo punto: la prima creazione compiuta poggiava sull’uomo come su un «fondamento mobile»55, ma la mobilità qui evocata era quella dell’equilibrio delle potenze in cui il principio ribelle (B) che costituisce

propriamente che un solo tempo, quello nel quale non vi è né vero passato, né vero avvenire. Infatti in lui si ripete ciò che è già avvenuto. […] Questo tempo apparente o volgare è ritardamento, arresto, ἐποχή; e è tale poiché non può e non vuole passare» (F.W.J. Schelling, Grundlegung der positivien Philosophie, cit., p. 89). Cfr. anche SW, XIII, p. 308; Filosofia della rivelazione, p. 515. 53.  SW, VIII, p. 311; Le età del mondo [1815/17], p. 661: «Nella rivelazione la volontà negativa, reclusiva (der verneinende, einschließende Wille) deve necessariamente precedere, affinché ci sia qualcosa che sostenga e sorregga la grazia (Huld) dell’essenza divina, la quale altrimenti non potrebbe rivelarsi. Il vigore deve essere prima della dolcezza, il rigore prima della mitezza, prima l’ira poi l’amore, nel quale soltanto l’adirato (das Zornige) diviene propriamente Dio». Cfr. anche SW, XIII, p. 372; Filosofia della rivelazione, p. 623. Schelling cita l’Apostolo (Ef 2,3; 5,6): ὀργὴ θεοῦ. Cfr. anche la lunga nota, SW, XIV, p. 129; Filosofia della rivelazione, p. 1095, che richiama i due tratti caratteristici di Jahvè. 54. Cfr. SW, VII, pp. 377 e 411. 55.  SW, XIII, p. 359; Filosofia della rivelazione, XVII lezione, p. 601: «La creazione era compiuta, ma era posta su un fondamento mobile – su un essere padrone di se stesso. L’ultimo prodotto era assolutamente mobile,

88

il fondo della creazione56 si trovava dominato e come interiorizzato. Rottura dell’equilibrio delle potenze, extra-posizione del principio cieco dell’essere-fuori-di sé, la Caduta è anche, scrive Schelling, «lacerazione della coscienza», e così precisamente origine del mondo extra Deum. L’uomo […] può vantarsi di essere l’autore di questo mondo esterno. […] è quello che ha posto il mondo fuori di Dio, […] egli può chiamare questo mondo il suo mondo», ma si tratta di un mondo «privato della sua signoria, diviso in se stesso», quello che, «staccato dal suo vero futuro, inutilmente cerca la propria fine e, generando quel tempo falso, puramente apparente, ripete sempre soltanto se stesso in una triste uniformità.57

Questa è esattamente l’origine di tale angoscia della creazione messa in evidenza già dal 180958. «Da quella catastrofe – prosegue Schelling in questa lezione –, che ha prodotto tutta una nuova serie di fatti, noi siamo stati per così dire divisi dai precedenti avvenimenti, dal nostro stesso passato; così come da questa stessa catastrofe caduta su tutta la creazione, la quasarebbe potuto ricadere subito, anzi in certo qual modo doveva inevitabilmente cadere». 56.  Ibidem. 57.  SW, XIII, p. 352; Filosofia della rivelazione, vol. I, XVI lezione, p. 424 (tr. mod.). Questo tempo è anche quello dell’attesa: attesa impaziente di tutta la natura – ἀποκαραδοκία τῆς κτίσεως (Rm 8,19). 58.  SW, VII, pp. 380-381; Ricerche filosofiche…, pp. 110-112. Cfr. anche SW, VIII, p. 322; Le età del mondo [1815/17], p. 685. E ancora Urfassungen, p. 41; Le età del mondo [1811], p. 97; questo motivo, la melanconia che affligge tutta la natura e l’angoscia che raggiunge ogni vita, aveva attirato l’attenzione di Heidegger nel suo corso del 1936 (GA 42, p. 278; tr. it. cit., p. 255) e ha recentemente dato luogo a importanti lavori: J. Hennigfeld, Angst – Freiheit – System. Schellings Freiheitsschrift und Kierkegaards Der Begriff der Angst, in J. Hennigfeld - J. Stewart (a cura di), Kierkegaard und Schelling. Freiheit, Angst und Wirklichkeit, W. de Gruyter, Berlin-New-York 2003, pp. 103-115; A. Hutter, Das Unvordenkliche der menschlichen Freiheit. Zur Deutung der Angst bei Schelling und Kierkegaard, ivi, pp. 117-132.

89

le propriamente contiene la storia del nostro primo passato, è stato gettato un velo che nessun mortale può togliere»59. – Per togliere il velo, ma anche per mettere fine al processo che ormai si riproduce compulsivamente, come processo mitologico, nello spazio stretto della coscienza umana60, occorre niente meno che una seconda rivelazione, una «rivelazione nel senso più determinato del termine». Il processo mitologico, i misteri pagani, così come l’economia specifica delle teofanie dall’Antico Testamento, definiscono dunque un concetto «largo» di Rivelazione, anche se la figura del Cristo resta per esse la chiave, riconosciuta come tale però solo a posteriori. Egli è colui che propriamente disvela il mistero (Geheimnis), μυστηρίον, il «piano» o il «disegno» concepito da Dio prima della fondazione del mondo61.

Il Figlio dell’Uomo Ma se Schelling sottolinea con insistenza il centro propriamente cristologico del sistema dei tempi e della storia superiore nella quale si decide la volontà di Dio, egli non di meno afferma l’autonomia (relativa) del processo mitologico, e soprattutto dell’economia specifica dell’Antico Testamento, fin nella sua indissociabile unità con il Nuovo Testamento62. Il Nuovo Testamento è edificato sulla base, il Grund, dell’Antico e lo presuppone veramente. Gli inizi (Anfänge) si trovano nell’Antico

59.  SW, XIII, pp. 352 s.; Filosofia della rivelazione, pp. 589 s. 60.  Si veda infra, cap. III. 61.  Si veda infra, cap. IV. 62.  SW, VIII, p. 271; Le età del mondo [1815/17], p. 573. SW, XIV, p. 88; Filosofia della rivelazione, p. 1029: «… implicite Cristo è già anche nel paganesimo, sebbene non come Cristo […], ma colto ancora solo nel suo venire».

90

Testamento, «ma appunto gli inizi sono l’essenziale». Così la coappartenenza incancellabile dei due Testamenti rinvia, al di là di qualsiasi ermeneutica di stile tipologico, alla connessione stessa delle teofanie divine, la quale non si lascia comprendere o apprendere se non a partire dall’inizio – archeo-logicamente, se così si può dire –, e non solamente a partire dal «centro» cristologico63. Solo in funzione di questa connessione della storia superiore può darsi a pensare la vera storicità. La più alta vetta della rivelazione è ancora l’uomo, ma «l’uomo originario e divino, quello che in origine era presso Dio e nel quale sono state create tutte le altre cose e l’uomo stesso», così «il grado più alto della rivelazione è quello in cui il divino si finitizza esso stesso completamente, in breve, in cui egli stesso diventa uomo […]»64. Ma ciò equivale a dire anche, per seguire fino in fondo questa linea di pensiero, che l’idea di Rivelazione in senso stretto, lungi dal prolungare direttamente una prima manifestazione (la Creazione praeter Deum), implica sempre per Schelling dissimulazione e «ironia». Infatti, è sempre in una prospettiva «economica» (κατ´οἰκονομίαν) e ironica che è opportuno apprendere la rivelazione divina65.

63.  SW, VIII, p. 272, Le età del mondo [1815/17], p. 574: «Nelle rivelazioni divine c’è una connessione che non può venire compresa nella sua parte centrale, ma solo a partire dall’inizio». 64.  SW, VII, p. 377; Ricerche filosofiche…, p. 108 (tr. mod.). 65.  SW, XIV, p. 72; Filosofia della rivelazione, p. 999. Cfr. anche F.W.J. Schelling, Einleitung in die Philosophie, cit., p. 113; tr. it. cit., p. 107: «Una rivelazione immediata di Dio è impossibile […]. Inizialmente, nel processo, Dio appare come ciò che è dissimile da se stesso. Questo pensiero è l’unico veramente esplicativo. Il processo del mondo è la rivelazione di Dio per contrarium…». – Ivi, p. 114; tr. it. cit., p. 109: «Il concetto di una rivelazione per contrarium o di una dissimulazione (Verstellung) divina è così poco scandaloso che, lo confesso, senza questa presupposizione l’intero cristianesimo risulterebbe inintelligibile. Il cristianesimo, come dice l’Apostolo, riposa su un piano taciuto dai tempi eterni. L’apparizione di Cristo è il primo

91

Così il concetto generale di manifestazione (Manifestation) non deve solamente essere distinto da quello di Offenbarung, ma è anche opportuno opporre rigorosamente i due termini, dal momento che la Rivelazione, in senso stretto, presuppone l’idea di Verstellung, di travestimento o di dissimulazione conformemente all’«ironia» divina66. Come il sovrannaturale della religione rivelata – nota Schelling – presuppone sempre una natura che esso supera, allo stesso modo il concetto di rivelazione implica una oscurità originale: In generale, infatti, già il concetto di rivelazione di un rivelantesi presuppone un oscuramento originario. Si può rivelare solo ciò che prima è stato nascosto. Il vero Dio, il Dio nella sua sopra-naturalità, può dunque rivelarsi in quanto spezzi svelarsi di questo piano. Essa porge la chiave per la spiegazione del piano del mondo, il quale è stato rivelato non tanto attraverso la dottrina di Cristo, quanto piuttosto dalla sua stessa apparizione. In questo piano consiste la divina economia del mondo. Agire κατ᾽οἰκονομίαν infatti non significa altro che fare, secondo l’appartenenza, qualcosa di diverso rispetto a quel che si ha intenzione di fare». 66.  SW, XIII, p. 304; Filosofia della rivelazione, p. 509 (tr. mod.): «Nulla impediva a Dio di trasformare proprio quella alterità, che era l’originariamente invisibile della sua Divinità, di trasformarla ora viceversa piuttosto in occultante la sua Divinità; di far ciò in un atto della più libera volontà che, proprio perché è un’estrinsecazione della pluralità e un’intrinsecazione dell’unità, può essere denominato anche universio; nella quale tuttavia Egli stesso non diventa in sé diverso, seppure si contraffaccia e sembri un altro e mostri, in conseguenza di questa divina arte del contraffarsi o ironia, il contrario di ciò che egli è veramente…». SW, XIV, p. 24; Filosofia della rivelazione, p. 917: «Ai miti uomini dabbene che vogliono avere un Dio razionale nel loro senso, si potrebbe domandare con J. G. Hamann: “non vi siete mai accorti che Dio è un genio che poco si preoccupa di sapere cosa voi chiamate razionale o irrazionale?” Non a tutti e dato di comprendere la profonda ironia di tutti i modi dell’agire divino…». A proposito dell’uso del concetto di genio da parte di Hamann (Dio «genio creatore», «genio mediatore», «genio autore»), possiamo rimandare a H.-M. Lumpp, Philologia crucis. Zu Johann Georg Hamanns Auffassung von der Dichtkunst, Niemeyer, Tübingen 1970, parte II, cap. I, in part. pp. 114 ss.

92 quell’oscuramento o quel nascondimento in cui egli è posto per la coscienza […].67

Non può in effetti rivelarsi, nel senso ovvio del termine, se non ciò che è stato dapprima nascosto, dissimulato. Ma questa oscurità preliminare è solo di primo piano. Più fondamentale, in effetti, dell’uscita da uno stato primo di dissimulazione o di obliterazione, è il fatto che il Dio che si rivela, vale a dire che decide di apparire con il favore di tal fenomeno, segno o traccia, non si esaurisce mai nella e attraverso la sua rivelazione, non si riduce affatto ad essa, ma resta essenzialmente in ritiro, latente in una riserva insondabile: il Dio che si rivela è dunque sempre e, con ciò stesso, deus mirabilis, deus absconditus. In realtà, la deità stessa di Dio non consiste nella sua «estroversione» (Hinauswendung, universio), ma piuttosto nella sua «introversione» (Hineinwendung), nel suo ritiro68. Ritiro, riserva o reticenza di un Dio che ci risparmia – come diceva anche Hölderlin69 – non tradiscono alcuna impotenza del divino, ma indicano piuttosto la misura della sua generosa e condiscendente mediatezza70, in assenza della quale – se Dio, nella sua figura di Padre, volesse immediatamente essere tutto in tutti – egli non sarebbe nient’altro che «fuoco divorante».

67.  SW, XIII, pp. 187 s.; Filosofia della rivelazione, IX lezione, p. 311. 68.  Cfr. SW, VIII, p. 227; Le età del mondo [1815/17], pp. 475-477. SW, XIII, p. 250; Filosofia della rivelazione, p. 419. 69.  Cfr. W. Binder, Hölderlin: Theologie und Kunstwerk, in «Hölderlin-Jahrbuch», XVII, 1971-1972, pp. 1-29. 70.  «Mentre il dio di un apostolo è più mediato», sottolinea ancora Hölderlin nelle Note all’Antigone, nel punto in cui tematizza la «presentazione tragica» (F. Hölderlin, Fragments de poétique, pres., tr. e note di J.-F. Courtine, Imprimerie Nationale, Paris 2006, p. 429; tr. it., Sul tragico, a cura di R. Bodei, Feltrinelli, Milano 2017, p. 106; o anche Tutte le opere. Prose, teatro e lettere – Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, Mondadori, Milano 2020, p. 778).

93

E Schelling, al quale gli «antropomorfismi» non fanno alcuna ripugnanza, soprattutto quando ne va dell’analogum princeps della libertà, precisa che, anche per noi altri uomini, «l’autentica libertà non consiste tanto nell’esteriorizzazione, quanto nel potere di non manifestarsi al di fuori»71. Allo stesso modo, la «personalità divina» consiste precisamente nel fatto che Dio è Signore dell’Essere, vale a dire che in virtù della sua riservatezza (Zurückhaltung), non si perde ciecamente, disperatamente nell’essere. Così il Dio che si rivela a noi è colui che ha assunto i panni dell’umanità, il Dio ἐν μορφὴ δουλοῦ, Deus indutus72, il Dio velato, nascosto nel suo Verbo incarnato73. È questo concetto schellinghiano di Offenbarung, inteso come venuta, apparizione, ma anche superamento, vittoria, elevazione, le quali restano indissociabili dal velamento, dal coprimento, dall’occultazione, che sottende sia la critica della determinazione di Dio come ens manifestativum sui, presente in particolare in Oetinger74, sia la critica al concetto hegeliano di Spirito. Un secondo tratto essenziale del concetto schellinghiano stretto di Rivelazione emerge qui: è attraverso la rivelazione (il fatto, l’atto) che Dio diventa personale. Ma occorre subito aggiungere che la relazione personale è sempre anche «ein ver-

71.  SW, XIII, p. 209; Filosofia della rivelazione, X lezione, p. 347 (tr. mod.): «Ma l’autentica libertà non consiste nel poter essere, nel poter manifestarsi in sé, ma nel poter non essere, nel poter in sé non manifestarsi…». 72.  Cfr. F. Hölderlin, «ma ogni giorno Dio porta un vestito», Griechenland, 2a versione. 73.  Padre X. Tilliette ha dato un’idea profonda della Cristologia schellinghiana nel suo Avant-propos alla traduzione francese del tomo III della Philosophie de la révélation, cit., pp. 5-20. 74.  Cfr. E. Benz, Les sources mystiques de la philosophie romantique allemande, Vrin, Paris 1968, pp. 48, 56. Cfr. anche, dello stesso autore, Schelling. Werden und Wirken seines Denkens, Rhein-Verlag, Zürich 1955, capp. I e II.

94

mitteltes Verhältnis», un rapporto mediato, e il mediatore è precisamente il Figlio in quanto Figlio dell’Uomo75. Se dunque, come scrive Schelling, «la vetta della Rivelazione» o «la più alta rivelazione» (die höchste Offenbarung) non è altro se non l’esecuzione di questa decisione volontariamente bloccata al momento stesso della Caduta, al tempo di questo episodio, letteralmente catastrofico, accaduto all’insieme della natura e delle potenze cosmogoniche, è ad una filosofia della Rivelazione che spetta l’incombenza di elucidare questi due momenti di decisione: la volontà divina di creare un essere differente da sé (vale a dire di ritirarsi in se stesso, di sospendere la sua essenza per lasciar spazio a un altro essere) e, secondariamente, la volontà di redenzione76.

Quale Manifestazione? Il punto limite al quale mi dedicherò, per concludere, consisterà nel rimarcare brevemente ciò che distingue radicalmente la filosofia della religione o filosofia positiva «alla Schelling», ed egli avrà dei successori77, dalla filosofia hegeliana della religione. In altri termini, la questione consiste nel sapere se l’impresa hegeliana di una filosofia della religione apra veramente il

75.  Cfr. SW, XIII, pp. 341-345; Filosofia della rivelazione, XVI lezione, pp. 570-579. 76. Cfr. SW, XIV, p. 10; Filosofia della rivelazione, XXIV lezione, p. 895. 77.  Cfr. in particolare gli studi classici di M. Theunissen, Die Dialektik der Offenbarung. Zur Auseinandersetzung Schellings und Kierkegaards mit der Religionsphilosophie Hegels, in «Philosophisches Jahrbuch», Bd. 72, 19641965, pp. 134-160; Die Aufhebung des Idealismus in der Spätphilosophie Schellings, in «Philosophisches Jahrbuch», Bd. 83, 1976, pp. 1-29; e quello di B. Casper, Sein und Offenbarung. Zum achtzigsten Geburtstag Franz Rosenzweig, in «Philosophisches Jahrbuch», Bd. 74, 1966, pp. 310-339.

95

campo di una inchiesta nuova e «positiva» o se il pensiero che vi si dispiega non costituisca piuttosto una ripresa dell’antica theologia naturalis, restando chiusa in una economia non riconosciuta come tale e non padroneggiata, quella della costituzione ontoteologica. Ciò che verrà dunque problematizzato sarà programmaticamente: 1.  lo statuto rispettivo, forse radicalmente differente, della filosofia della religione, vale a dire della filosofia della mitologia e della rivelazione nei due pensatori; 2.  le conseguenze che possono essere ricavate quanto alla loro rispettiva concezione della fenomenalità e quanto alla determinazione di ciò che appare e della modalità del suo apparire. Si può anche considerare un secondo versante della stessa problematica: in quale senso la critica schellinghiana della filosofia negativa (o razionale pura) apre ad una rinnovata possibilità di pensare la fenomenalità, la manifestazione, come rivelazione, nell’ambito di una filosofia seconda in opposizione alla πρώτη φιλοσοφία aristotelica78? Senza pretendere di trattare qui in modo esaustivo queste domande indubbiamente difficili, si può tracciare a titolo di indi-

78.  Cfr. SW, XIII, p. 120; Filosofia della rivelazione, p. 199; ivi, p. 151; tr. it. cit., p. 249. Kierkegaard, uditore di Schelling a Berlino, ricorderà questa ridistribuzione della scienza ricercata: «La filosofia positiva non possiede solamente il vero alla fine, come nel caso della filosofia negativa. Presa in se stessa, la filosofia negativa non può essere chiamata filosofia, lo diventa solo nel legame con la filosofia positiva. La filosofia negativa è prima scientia, la filosofia positiva è scienza suprema. La filosofia negativa ha il primum cogitabile, quella positiva il summum cogitabile». Passaggio citato in A.M. Koktanek, Schellings Seinslehre und Kierkegaard, Oldenburg, München 1962, p. 131. Si veda oggi l’eccellente traduzione curata da I. Basso, Kierkegaard, Appunti delle lezioni berlinesi di Schelling sulla «Filosofia della Rivelazione» 18411842, Bompiani, Milano 2008, pp. 6 e 13-16.

96

cazione preliminare una analisi sommaria dei due concetti in gioco, riferiti rispettivamente a Hegel e a Schelling. Che ne è infatti dei concetti hegeliani e schellinghiani di Erscheinung, Manifestation, Offenbarung? Nel contesto hegeliano, come è noto, la Rivelazione (Offenbarung) di Dio è essenzialmente compresa come manifestazione dello Spirito. In Hegel, il termine di «Offenbarung» si specializza, se così si può dire, nell’orizzonte di una teologia dello Spirito. Hegel, nelle Vorlesungen sulla filosofia della religione, esplicita la proposizione fondamentale secondo la quale Dio è Spirito in questi termini: Egli è spirito, e non lo spirito finito, bensì quello assoluto, ed egli è spirito per il fatto che non è solo l’essenza che si mantiene nel pensiero, ma è anche ciò che si manifesta, ciò che si dà rivelazione, oggettività (das Erscheinende, das sich Offenbarung, das sich Gegenständlichkeit Gebende).79

Questa insistenza sulla fenomenalizzazione non invalida se non a un primo livello la critica schellinghiana secondo la quale Hegel si limita sempre, senza poter andar oltre, al «concetto logico» di Dio. Non semplicemente perché solo la completa determinazione del Concetto conduce, secondo Hegel, alla tematizzazione dello Spirito, ma più radicalmente ancora perché lo Spirito stesso, nel principio della sua «spiritualizza-

79.  G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, vol. I, Einleitung. Der Begriff der Religion, in Id., Vorlesungen. Ausgewählte Nachschriften und Manuskript, vol. III, a cura di W. Jaeschke, Meiner, Hamburg 1983, p. 35; tr. it., Lezioni di filosofia della religione. Parte I. Introduzione. Il concetto della religione, a cura di R. Garaventa e S. Achella, intr. di W. Jaeschke, Guida, Napoli 2003, p. 94. Walter Jaeschke ha fornito una presentazione storica molto completa della serie delle Lezioni, come quella che potrebbe essere oggi ricostruita grazie ai diversi Nachschriften, Vernunft in der Religion. Studien zur Grundlegung der Religionsphilosophie Hegels, «Spekulation und Erfahrung», Fromman-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1986.

97

zione», obbedisce alla riflessività del Concetto, alla sua autooggettivazione80. Nell’Introduzione al corso del 1827 sulla Filosofia della religione, Hegel sottolinea tale aspetto in modo chiaro e in questi termini: Ora, il concetto che abbiamo qui davanti a noi, è comunque lo spirito stesso; è lo spirito stesso che è questo sviluppo e che è attivo in questo modo. […] Più precisamente, lo spirito è l’attività di manifestarsi. […] Manifestarsi (Manifestieren) vuol dire diventare per un altro. In quanto diventare per un altro […] è finitizzazione (Verendlichung) dello spirito. […] Quindi il secondo momento è lo spirito che si manifesta, che si determina, che entra nell’esistenza, che si dà finitezza. Il terzo momento, però, è che esso si manifesta secondo il suo concetto, riprende in sé quella sua prima manifestazione, la toglie (aufhebt), ritorna a se stesso, diventa ed è per sé come è in sé. Questo è il ritmo, la vita pura, eterna dello spirito stesso […]. Lo spirito è avere sé come oggetto (Sich zum Gegenstand zu haben). In ciò consiste la sua manifestazione (Manifestation).81

In tal modo lo Spirito si sottomette dunque, anch’esso, al principio generale e fondamentale formulato nella Enciclopedia (§ 131, edizione del 1827-1830) e che è altrettanto valido per ogni «teologia»: «Das Wesen muß erscheinen» – «L’essenza deve apparire»82. Questa rivelazione, pur passando attraverso la finitezza, l’alterazione, e anche l’estraneazione, resta fondamentalmente ri-

80.  Cfr. le analisi critiche di V. Vitiello, Filosofia teoretica. Le domande fondamentali: percorsi e interpretazioni, Bruno Mondadori, Milano 1997, § 12.2: Offenbarung e Revelatio, pp. 201 ss. 81.  G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, cit., p. 85; tr. it. cit., pp. 139 s. 82.  G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, tr. it. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 137.

98

flessione, manifestazione di sé a sé; essa è sempre ed essenzialmente auto-manifestazione. Poiché essa è auto-­manifestazione in virtù della legge onnipotente del «superamento», dell’Aufhebung, lo Spirito è in senso profondo dispiegamento del medesimo, attestazione, conferma della sua ipseità diventata infine evidente. Su questo punto, una Aggiunta al § 383 dell’Enciclopedia è sufficientemente esplicita nella sua elucidazione della «manifestazione»: Lo spirito, quindi, nell’altro non fa che rivelare se stesso, la sua propria natura; ma questa consiste nella rivelazione di sé (Selbstoffenbarung): l’atto di rivelarsi è dunque già il contenuto dello spirito, e non una forma che si aggiunga dall’esterno al contenuto di questo; quindi mediante la sua manifestazione lo spirito non manifesta un contenuto diverso dalla propria forma, ma la sua forma, esprimente l’intero contenuto dello spirito, cioè la sua rivelazione di sé.83

Automanifestazione o riserva Questa auto-manifestazione dell’assoluto – nella sua pura attualità o «attuosità» – si lascia anche caratterizzare, in Hegel, come riflessione determinante, rapporto in-finito a sé, vale a dire ripresa in sé dell’esser-altro. Ora una tale riflessione potrebbe comportare anche e necessariamente l’estinzione del finito e l’abolizione dell’esteriorità84.

83.  G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito, a cura di A. Bosi, UTET, Torino 2005, p. 96. 84.  In questa stessa aggiunta, Hegel illustra il proposito generale rispetto all’auto-manifestazione tramite un riferimento trinitario. È la dimensione kenotica quella che risulta risolutamente cancellata, in quanto colta nella auto-differenziazione dell’Assoluto: «Per chiarire questa unità di forma e di contenuto – di rivelazione e di rivelato – che troviamo nello spirito, in modo

99

La rivelazione schellinghiana, per contro, dal momento che è tematizzata prioritariamente a partire dalla soggettività e dalla sua finitudine intrinseca, presuppone sempre ricettività, affezione, estasi, vale a dire anche e fondamentalmente esteriorità; essa non potrebbe dunque essere intesa primariamente come auto-riflessione dell’Assoluto. Senza dubbio infatti è la problematizzazione – a titolo del superamento o della Aufhebung – della soggettività finita che è radicale per la determinazione hegeliana dello spirito come auto-manifestazione senza riserva, senza ritiro, senza «interiorità», per seguire qui un prezioso suggerimento di Michel Henry85.

da potercela rappresentare, ci si può richiamare alla dottrina della religione cristiana. Il cristianesimo afferma che Dio si è rivelato mediante Cristo, suo figlio unigenito. La rappresentazione intende dapprima questa proposizione come se Cristo fosse l’organo di questa rivelazione, come se colui che in tal modo è rivelato fosse l’organo di questa rivelazione, come se colui che in tal modo è rivelato fosse altro dal rivelante. Il significato della frase è invece piuttosto questo: che Dio ha rivelato che la sua natura consiste nell’avere un figlio, cioè nel differenziarsi, nel finitizzarsi, pur rimando presso se stesso nella propria differenza, nel contemplare e rivelare se stesso nel figlio, e nell’essere spirito assoluto mediante questa unità con il figlio, mediante questo essere per sé nell’altro; in questo modo il figlio non è il semplice organo della rivelazione, ma ne è esso stesso il contenuto» (ivi, p. 97). 85.  Michel Henry scriveva, proprio nella sua prima opera importante, L’essence de la manifestation, contro Hegel e riferendosi espressamente a Schelling: «La soggettività non è in alcun modo per Hegel un’essenza autentica, fenomenologicamente determinata da un modo peculiare di rivelazione. […] Si dice a volte che Hegel concepisce lo Spirito come ciò che deve manifestarsi. In realtà lo Spirito è il prodotto della manifestazione, è il termine e non l’origine di una realizzazione. Lo Spirito reale è lo Spirito oggettivo. L’Interiorità non è lo Spirito. Al contrario, è ciò che non è ancora pervenuto nella luce della realtà, qualcosa di oscuro, la possibilità, l’in-sé che dobbiamo comprendere come il Fondo senza causa delle Ricerche sulla libertà umana, o come la prima Potenza (– A) dell’ultima filosofia di Schelling. Tuttavia, la manifestazione di produce a partire da quest’oscurità del Grund in cui è immersa l’interiorità» (M. Henry, L’essence de la manifestation, Puf, Paris 1963,

100

Certo, per Hegel, se la religione cristiana è religione compiuta e assoluta, è innanzitutto perché essa è religione rivelata, ma ciò significa qui che essa è quella religione nella quale Dio ha completamente, senza restrizioni e senza alcun resto, manifestato ciò che è, la pienezza compiuta della sua essenza: la religione rivelata è dunque quella nella quale la realtà dell’essere divino è interamente (ri)-presentata alla conoscenza dell’uomo. Questo è d’altronde il motivo, secondo la rigorosa legge dell’Aufhebung, per cui essa può ormai diventare la sostanza stessa della ragione e della filosofia! La religione rivelata mette Dio allo scoperto e interamente allo scoperto per lo spirito umano. Essa rende la verità dell’essere di Dio disponibile per il sapere filosofico. Alla religione nella sua positività, secondo l’esteriorità, per la quale lo spirito viene «come dal di fuori», la filosofia hegeliana oppone dunque la manifestazione che accade al di dentro dello spirito, che si gioca da spirito a spirito. Così il sapere filosofico reintegra, se così si può dire, re-interiorizza la rivelazione, la riafferra nell’interiorità stessa dello spirito, superando definitivamente la semplice rappresentazione, per quanto la rappresentazione abbia sempre un oggetto, un fuori e come un faccia a faccia. La concezione hegeliana della religione cristiana come religione della rivelazione compiuta indica abbastanza questa circolarità della manifestazione e della coscienza come coscienza di sé divino-umana: In tal modo la religione cristiana è la religione della rivelazione. In essa si manifesta ciò che Dio è, affinché Egli venga conosciuto come è, non storicamente, o altrimenti, come in altre religioni, bensì la manifestazione evidente è la sua determinazione, essere per la coscienza e veramente per la

p. 879; tr. it. di G. de Simone e F.C. Papparo, L’essenza della manifestazione, vol. II, Filema, Napoli 2014, p. 368).

101 coscienza che essa stessa è spirito, vale a dire dunque che la coscienza è per la coscienza.86

Senza dubbio siamo autorizzati a vedere qui una «sovversione» radicale, cosciente e conseguente della nozione teologica tradizionale di rivelazione87. Se almeno per rivelazione si intende ciò che un Dio liberamente e gratuitamente dà a conoscere del suo proprio essere, senza che l’intelligenza abbia mai accesso indipendentemente da questa stessa donazione e, correlativamente, dalla disposizione determinata che lo accoglie; se almeno si accorda che è impossibile sopprimere questa condizione essenziale che è la disponibilità, la ricettività e, in una parola, il consenso intellettuale ad un insegnamento il cui contenuto non è per principio mai visto, mai conosciuto oggettivamente. Per Hegel, in compenso, qui singolarmente vicino a Lessing, la religione è proposizione di verità in sé razionali e filosofiche. Di per se stesse, le verità della religione sono destinate a essere riconosciute razionalmente88. Con l’apparizione della

86.  G.W.F. Hegel, Die absolute Religion, a cura di G. Lasson, Meiner, Hamburg 19662, p. 32; tr. it. in Lezioni sulla filosofia della religione, 2 voll., a cura di E. Oberti e G. Borruso, Zanichelli, Bologna 1974, vol. II, p. 247): «Die christliche Religion ist auf diese Weise die Religion der Offenbarung. In ihr ist es offenbar, was Gott ist, daß er gewußt werde, wie er ist, nicht historisch oder sonst auf eine Weise wie in andern Religionen, sondern die offenbare Manifestation ist ihre Bestimmung und Inhalt selbst, nämlich Offenbarung, Manifestation, Sein für das Bewußtsein, und zwar für das Bewußtsein, daß es selbst Geist ist, d.h. also Bewußtsein und für das Bewußtsein». 87.  Cfr. anche H.U. von Balthasar, Herrlichkeit, Johannes Verlag, Einsiedeln 1969, III.1: Im Raum der Metaphysik. Neuzeit, p. 916; tr. it. di G. Sommavilla, Gloria. Una estetica teologica, vol. V, Nello spazio della metafisica. L’epoca moderna, Jaca Book, Milano 1991, pp. 519 s. 88.  Cfr. G.E. Lessing, L’educazione del genere umano, tr. it. di G. Cherchi, Mimesis, Milano-Udine 2018, §§ 72-76, pp. 58 s.: «Quando queste verità furono rivelate esse non erano certamente verità di ragione, ma vennero rivelate affinché lo diventassero». Ci si guarderà tuttavia dall’opporre Hegel e

102

religione assoluta avviene una rivelazione completa, compiuta di ciò che Dio è, che consegna all’uomo la possibilità prossima del sapere della stessa essenza divina. Così Hegel presuppone una unità innata tra l’essenza stessa di Dio, determinata come Spirito e rivelata nella religione, e lo spirito umano in divenire e che si realizza nella storia. Il paragrafo 544 dell’Enciclopedia tematizza con tutta la chiarezza desiderabile questa idea che la coscienza umana è richiesta per il divenire Dio di Dio stesso, accedendo solamente così al sapere di sé: «Dio è Dio solo in quanto sa se stesso; il suo sapere sé è, inoltre, la sua autocoscienza nell’uomo e il sapere che l’uomo ha di Dio, che progredisce al sapersi dell’uomo in Dio»89. Indico, per terminare, l’opposizione non meno esplicita che separa la concezione hegeliana e schellinghiana della positività: per Hegel, come è noto, la positività è sempre collocata sotto il segno dell’accidentalità e dell’esteriorità, essa è dunque destinata a sparire nella misura in cui lo spirituale si trova interiorizzato e autenticamente riappropriato da parte dello spirito umano. Perché l’apporto della religione, quello del divino, possa entrare positivamente nel campo dell’esistenza umana, deve senz’altro apparire (erscheinen) e fenomenalizzarsi,

Schelling, rispetto al loro rapporto con Lessing. L’uno e l’altro consideravano infatti che «i concetti ortodossi di Dio» non sono più per noi, e Schelling, alla fine delle Ricerche del 1809, da canto suo, dichiarava con forza: «Noi invece crediamo che appunto dei più profondi concetti debba esser possibile una chiara veduta razionale, giacché solo in questo modo essi ci appartengono realmente […]. Anzi, noi andiamo più oltre, e consideriamo, con Lessing, come assolutamente necessaria l’elaborazione della verità rivelata in verità razionali, se il genere umano deve trarne aiuto. Così pure siamo persuasi che la ragione sia perfettamente capace di mettere in luce ogni possibile errore (negli argomenti propriamente spirituali) e che si debba evitare di giudicare i sistemi filosofici con l’atteggiamento con cui si conducono i giudizi sugli eretici» (SW, VII, p. 412; Ricerche filosofiche…, p. 133). 89.  G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., p. 546.

103

ma questa fenomenalizzazione implica sempre una aggiunta all’essenziale di un insieme di determinazioni circostanziali che costituiscono precisamente la positività (vale a dire anche l’accidentalità) inerente a ogni Erscheinung. Per tentare di determinare nella sua differenza il concetto schellinghiano di rivelazione, occorre in compenso sottolineare l’articolazione stretta di questo motivo con la tematizzazione della creazione e della libertà che gli sono indissociabili: l’essere che si rivela non si dispensa se non dispone interamente dei suoi doni quando ci apre i suoi segreti, e dispone innanzitutto di se stesso, in una indipendenza sovrana, se egli è – scrive Schelling –: Herr des Seyns, Signore dell’essere, caratterizzato da questa sovranità o meglio «Signoria» (Herrlichkeit), grazie alla quale sfugge ad ogni necessità interna come a ogni esigenza di diritto che sarebbe come immanente all’anima umana. L’evento della rivelazione avviene dunque sempre come rivolto ad un uomo libero e da parte di un Dio vivente. Tre aspetti della problematica schellinghiana emergono qui chiaramente: la finitudine dell’esistenza umana (tematizzata a partire dalle Ricerche del 1809), il momento singolare, ma essenziale, in cui la ragione trova il suo limite, attestato attraverso qualcosa come un impeto estatico, e infine ciò che si sarebbe tentati di chiamare un pensiero del dono, dell’evento o dell’evenemenzialità, dell’Es gibt o dell’Ereignis90. Il vero punto di partenza dell’ultimo Schelling sarebbe dunque doppio: l’analisi della temporalità estatica nelle Età del mondo, ma anche la scoperta, ripresa a suo tempo da Heidegger, dell’abisso della libertà umana nelle Ricerche del 1809.

90.  Cfr. su questo punto i preziosi suggerimenti di M. Maesschalck, Philosophie et révélation, cit., pp. 663 ss.

Capitolo III

La filosofia della religione: statuto e verità della mitologia

Al Padre Xavier Tilliette.

Il progetto della Selbsterklärung Se la mitologia può e deve essere considerata come una totalità autosufficiente e deve poter essere interpretata o spiegata da sé, si pongono due questioni: da un lato occorre sapere ciò che la Selbsterklärung esige e, dall’altro, ciò che, in seno alla mitologia, rappresenta il principio della sua intelligibilità, la sua chiave di lettura o la sua chiave di volta. Il progetto di interpretazione immanente, di auto-esplicitazione, implica innanzitutto di prendere la mitologia alla lettera o in parola. Ossia non di portare niente dal di fuori, di non aggiungere niente a ciò che la mitologia dice. Ora, per spiegare – come suggeriva Karl Philipp Moritz –, è necessario esplicitare, scoprire relazioni dapprima inapparenti, è anche opportuno ordinare, classificare, «costruire» e al limite sistematizzare per mettere in luce, per esempio, la successione logica delle differenti mitologie compiute (egiziana, indiana, greca), o per scoprire una periodizzazione forte nella mitologia greca, quella mitologia che compie e ricapitola tutte le altre, ma senza mai imporre alcuna griglia preliminarmente stabilita. L’auto-interpretazione impone innanzitutto negativamente di non forzare, né defor-

106

mare il materiale mitologico del quale disponiamo, nell’idea di scoprire in esso un senso nascosto1. Si deve, dunque, innanzitutto concepire il progetto di auto-­ esplicitazione2 nel senso di un imperativo metodologico negativo: la mitologia ci consegna, da sé, tutti gli elementi necessari alla sua comprensione3. Non vi è di conseguenza nessun bisogno di far intervenire delle ipotesi ausiliarie, di immaginare, per esempio, una cosmologia primitiva la cui formulazione sarebbe stata in seguito mal interpretata (Ch.G. Heyne), o di presupporre una Uroffenbarung (Creuzer) progressivamente perduta e deformata o sfigurata4. 1.  K.Ph. Moritz, Sul concetto di compiuto in se stesso, in Id., Scritti di estetica (1785-1793), tr. it. a cura di P. D’Angelo, Aesthetica, Palermo 1990. Moritz aveva introdotto questa idea di «tautegoria» già nell’introduzione della sua Götterlehre (1791). Ricordava che il mito costituiva un «mondo in sé» e che voler trasformare con l’aiuto di ogni sorta di interpretazione (Ausdeutungen) la storia degli dèi degli Antichi in pure allegorie è un’impresa del tutto folle esattamente come quella che consiste nel voler metamorfizzare delle poesie in buone storie vere, con l’aiuto di spiegazioni forzate: «Per non alterare in niente queste belle poesie, è necessario prenderle come esse sono, senza nessun riguardo per ciò che dovrebbero significare, e, nella misura del possibile, esaminarle nella loro totalità con una veduta d’insieme, per scoprire progressivamente la traccia dei rapporti e delle relazioni anche più lontane tra i frammenti particolari non ancora integrati» (edizione Insel, Frankfurt a.M. 1975, p. 10). – Cfr. SW, XI, p. 195; Introduzione storico-critica…, pp. 309: «La mitologia non è allegorica, ma tautegorica». 2.  SW, XII, Philosophie der Mythologie, p. 670; tr. it. di L. Procesi, Filosofia della mitologia, Mursia, Milano 1999, p. 446. 3.  Su tutto ciò si veda X. Tilliette, La mythologie expliquée par elle-même, in Id., L’Absolu et la philosophie, cit., pp. 203 ss. 4.  Per una veduta d’insieme sul contesto storico e dottrinale nel quale Schelling elabora la sua riflessione sul mito (peraltro già intrapresa negli anni di formazione allo Stift di Tübingen), si veda il contributo di Ch. Jamme, Introduction à la philosophie du mythe, vol. II, Époque moderne et contemporaine, Vrin, Paris 1996. Si veda anche lo studio molto ricco di L. Procesi, Filosofia e mitologia in Schelling: le interpretazioni del ’900, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», IX, n. 3, 1979, pp. 1293-1323.

107

A partire dal periodo di Würzburg (1804-1805), la Filosofia dell’Arte, seppur senza riferimento esplicito a Coleridge, enuncia chiaramente il principio metodologico della tautegoria: Giove o Minerva non significano o non devono significare questo o quello, poiché ciò equivarrebbe ad annichilire tutta l’indipendenza poetica di queste figure. Non significano qualcosa, ma lo sono in persona. Le idee in filosofia e gli dèi nelle arti sono una sola e medesima cosa, ma ciascuno è per sé ciò che è, nessuno è in vista di altro o per significare altro.5

Il progetto di auto-comprensione è non solo legittimo, ma anche indispensabile dal momento che l’ultima mitologia (quella greca, in quanto mitologia compiuta) si è, essa stessa, alla fine, messa alla ricerca del suo senso, si è rivolta in modo risoluto verso l’elucidazione di sé, del suo primo cominciamento, come è accaduto, in modo eminente, in particolare con la dottrina dei misteri. La parola d’ordine della Selbsterklärung riceve dunque innanzitutto il suo valore da una messa in guardia: la filosofia della mitologia non deve essere concepita come l’applicazione di principi filosofici già stabiliti a un materiale mitologico indifferente. La filosofia della mitologia non è una semplice disciplina regionale, per la quale basterebbe estendere il campo di applicazione di principi generali a un nuovo territorio lasciato da parte fino ad ora. La filosofia della mitologia risponde all’orientamento continuo dell’ultima filosofia di Schelling in direzione dei «fatti», dell’empirico. Per una tale filosofia, è fuori questione l’adozione di «principi di spiegazione, sussunti prima di ogni ricerca e del tutto indipendentemente dai fatti», in modo a priori6. 5.  SW, V, pp. 400 s. Si veda anche X. Tilliette, Schelling, cit., vol. I, pp. 446 ss. 6.  Quanto vale per la mitologia vale ugualmente e soprattutto per la filosofia della rivelazione e per il cristianesimo. All’inizio del libro III della sua Philosophie der Offenbarung, Schelling lo dichiara con forza: «Io voglio trattare del Cristianesimo per ora nello stesso modo in cui ho trattato anche della Mito-

108

Con la teoria della mitologia, si tratta al contrario di costrui­ re una interpretazione che sia «insieme totalmente scientifica e totalmente storica, totalmente empirica e totalmente filosofica»7. Sullo sfondo di questa mira metodologica, è facile riconoscere una tesi schellinghiana fondamentale: «la vera storicità è tutt’uno con la vera scientificità». È proprio dello sviluppo della scienza il regolarsi sul suo oggetto, seguirne il ritmo intimo, sposarne il più possibile lo sviluppo. La ricerca che tende a riunire strettamente storicità e scientificità deve dunque «scoprire il fondamento oggettivo, dunque interiore, dello sviluppo dello stesso oggetto». È proprio di ogni ricerca rigorosa il «seguire l’oggetto nel suo stesso auto-svolgimento»8. «Nel prosieguo si tratterà dunque soltanto – annunciava Schelling nella sua Introduzione storico-critica – di una teoria che è assieme filosofica ed empirica, scientifica e storica, che si sviluppa accanto e insieme all’oggetto». Seguire la mitologia nel suo movimento, nella sua storicità, nel suo auto-sviluppo, questa è dunque la prima condizione per permettergli di auto-spiegarsi, di riflettersi nel senso primo e speculare del termine: die sich selbst erklärende Mythologie9. L’auto-interpretazione, auto-esplicitazione, fissa il punto logia, cioè come un fenomeno che voglio rendere comprensibile per quanto è possibile dalle sue proprie premesse, che dunque voglio diventi chiaro propriamente solo da se stesso» (SW, XIV, p. 34; Filosofia della rivelazione, p. 937). Sull’opposizione e la complementarità «mitologia»-«rivelazione», ci si può riferire all’esposizione sintetica di A. Hutter, Geschichtliche Vernunft. Die Weiterführung der Kantischen Vernunftkritik in der Spätphilosophie Schellings, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1996, pp. 339 ss. 7.  SW, XII, p. 137; Filosofia della mitologia, pp. 9 s. 8.  Ibidem. 9.  Cfr. X. Tilliette, La mythologie comprise. L’interprétation schellingienne du paganisme, Bibliopolis, Napoli 1984 (nuova ed. rivista e ampliata, La mythologie comprise. Schelling et l’interprétation du paganisme, Vrin, Paris 2002).

109

di vista (Ansicht) da prendere sull’oggetto considerato solo a partire da esso e in funzione di quest’ultimo. Qui, nota Schelling, l’Ansicht è determinato dalla stessa Erklärung. Il punto di vista sulla mitologia è lo stesso che impone la mitologia presa in parola. Innanzitutto – sottolinea ancora Schelling –, una spiegazione deve rendere giustizia a ciò che spiega, non deve disprezzarne, svalutarne, sminuirne o deformarne il significato, al fine di renderlo più facilmente comprensibile. Qui dunque non è in questione quale opinione (Ansicht) debba assumersi del fenomeno, affinché esso, reso conforme ad una qualsivoglia filosofia [preliminare], possa essere agevolmente spiegato, ma viceversa, quale filosofia si richieda, affinché, cresciuta con l’oggetto, ne sia all’altezza. Non come debba essere rigirato il fenomeno, reso unilaterale, ridotto, affinché sia comunque giustificabile a partire dai principi che ci siamo prefissi una volta per tutte di non travalicare, bensì: fino a che punto i nostri pensieri devono ampliarsi per essere in rapporto con il fenomeno.10

Come la mitologia, nel suo stesso movimento di elucidazione, può fissare il punto di vista a partire dal quale l’interpretazione, la spiegazione diventa possibile? La mitologia si lascia considerare come un tutto, come un fenomeno di insieme, che basta a se stesso e che solo detiene la chiave della sua intelligibilità. La mitologia deve dunque essere appresa innanzitutto nella sua coesione interna, ricollocando sempre nel loro contesto più ampio e più comprensivo (tiefer und weitgreifender Zusammenhang) ciascuna delle rappresentazioni mitologiche11. 10.  Questo passaggio è citato in maniera elogiativa da W.F. Otto, in Theophania. Der Geist der altgriechischen Religion, Klostermann, Frankfurt a.M. 1975, p. 7; tr. it., Theophania. Lo spirito della religione greca antica, a cura di A. Caracciolo, Il melangolo, Genova 1996. Si veda anche, dello stesso autore, Il mito, tr. it. a cura di G. Moretti, Il melangolo, Genova 2007. 11.  L’espressione «rappresentazione mitologica» deve essere subito precisata e di essa vanno colte le sfumature. Come scriveva molto bene Vladimir

110

Nessun elemento può ricevere senso se è preso separatamente, al di fuori di ciò che, nella mitologia, fa sistema, indipendentemente dalla «concatenazione» o dalla «consecuzione» (Folge, Verkettung) che collega sempre un dio a un altro, un mito a un altro. Il mondo degli dèi (la Götterwelt) forma un insieme coerente a tal punto che se uno tra loro scomparisse, tutto crollerebbe. La connessione, sottolinea Schelling, è qui analoga a quella che esiste tra le diverse potenze.

Katabolè e sprofondamento Questo sistema ha inoltre una propria legge di progressione: la katabolè12, in virtù della quale le figure divine si rimpiazzano o si sostituiscono le une alle altre. Ma se ogni elemento diventa significativo, significante solamente nell’insieme, in funzione della logica propria al sistema, il sistema della mitologia a sua volta acquisisce il suo senso solo se ricollocato in una economia più vasta, l’oikonomia della Rivelazione. Il fenomeno della mitologia, considerato come un tutto, è analogo al fenomeno della natura: è anch’esso autonomo e consistente. Per questa ragione una filosofia della mitologia può elaborarsi in modo altrettanto rigoroso di una filosofia della natura, strettamente articolata con la filosofia trascendentale. Il fenomeno della mitologia si sviluppa del resto in modo naturale, organico

Jankélévitch nel suo Odyssée de la conscience dans la dernière philosophie de Schelling, Alcan, Paris 1932, p. 279: «I miti […] sono degli eventi storici, e non delle rappresentazioni. Certo essi esistono solo nella coscienza, ma la successione stessa delle rappresentazioni non è rappresentata, essa ha veramente luogo. Così si spiega la profonda serietà della pietà pagana, e il terrore che le favole più assurde hanno sempre ispirato agli uomini». 12.  Grundlegung, nel senso di «materializzazione», «costruzione delle fondamenta».

111

e necessario. Anche lo sviluppo della mitologia obbedisce ad un processo analogo a quello della natura: scandito da un inizio, un centro e una fine, esso costituisce un ciclo all’interno del quale dei cicli secondari si trovano collocati: ciclo dei cicli. Un secondo tratto avvicina ulteriormente il fenomeno «mitologia» al fenomeno della natura, si tratta della necessità del suo sviluppo, una volta che il primo colpo di inizio è stato dato. In quanto naturale, il processo mitologico è necessario, irreversibile e immutabile. Non è possibile bruciare le tappe del «percorso» mitologico né aprirci una qualche scorciatoia. Il suo corso (Gang) non può più essere modificato arbitrariamente. Avendo così definito o abbozzato il «fenomeno» della mitologia, si comprende la particolare preoccupazione di Schelling nei confronti della lettera e del «documento»13. La lettera, i documenti sono qui la Sache selbst. E Schelling, pur proponendo spesso delle etimologie che ci sembrano oggi fortemente fantasiose, si sforza sempre di rispettare il più accuratamente possibile i dati storici e filologici. Egli è anche attento – il punto è fondamentale – a ciò che potremmo chiamare la fenomenalità della mitologia: all’Erscheinung, al Phänomen della mitologia presa nel suo insieme, nella sua unità e nella sua coerenza – nel suo Zusammenhang, vale a dire anche nel suo sistema. Ma attaccarsi alla lettera, al documento, prendere la mitologia in parola, vuol dire anche tentare di lasciar o di far parlare la mitologia stessa, fino a sembrare, in una Filosofia della mitologia, di parlare la sua lingua. Parlare la sua lingua e non voler

13.  Schelling attinge a numerose fonti e in particolare alla ricchissima Symbolik di G.F. Creuzer, Symbolik und Mythologie der alten Völker, besonders der Griechen, 1810-1812; cita la seconda edizione: 18192. L’opera è stata rieditata (3a edizione) per i tipi di Olms, Hildesheim-New York, nel 1973 (6 voll.). Cfr. anche il Dionysus (Dionysus, sive commentationes academicae de rerum bacchicarum orphicarumque originibus et causis, in officina Mohrii et Zimmeri academica, Heidelberg 1809).

112

ri-­tradurre la mitologia in concetti filosofici, estrarre dalla mitologia una filosofia latente, e neppure, a fortiori, come avevano tentato di fare Proclus e il tardo neoplatonismo, coprire con un abito mitologico dei concetti filosofici. «Il mio compito – scrive Schelling – è di mostrare le cose così come sono e di porre sempre al posto giusto la parola appropriata, naturale…»14. La prima risposta data da Schelling alla questione della Bedeutung della mitologia, alla questione di sapere come prendere o intendere i miti, può dunque essere formulata nel modo seguente: occorre riceverli quali si danno, come si danno, o meglio come ciò per cui essi si danno. Questa iniziale risposta naturalmente ha anch’essa bisogno di essere esplicitata: Noi lasceremo – annuncia Schelling – alle rappresentazioni mitologiche il loro senso proprio, poiché siamo in grado di comprenderle nella loro proprietà (Eigentlichkeit).15

Se metodologicamente è richiesto l’atteggiamento «fenomenologico», è perché si tratta di afferrare la faccenda stessa in tutta la sua proprietà, in ciò che costituisce il suo senso proprio. Ma che cos’è il proprio della mitologia? Come Schelling determina o predetermina l’Eigentlichkeit della mitologia? Per afferrare la mitologia nella sua «proprietà», bisogna guardarsi da ogni presupposizione, o meglio occorre avere come solo presupposto (Voraussetzung) l’idea che «la mitologia contenga la sua propria storia, che non abbisogni di alcun altro presupposto al di fuori di sé […], ma si spieghi pienamente da se stessa, che dunque gli stessi principi che presi materialmente esauriscono il suo contenuto sarebbero anche le cause formali della sua prima formazione o nascita»16. Questa è la

14.  SW, XII, p. 193; Filosofia della mitologia, p. 60. 15.  SW, XII, p. 137; Filosofia della mitologia, p. 10 (tr. mod.). 16.  SW, XII, p. 670; Filosofia della mitologia, p. 493.

113

proposizione centrale in cui si annuncia l’ipotesi ermeneutica di Schelling, il solo ma decisivo presupposto della sua interpretazione. La mitologia può di diritto spiegarsi da sé perché essa precisamente si espone, perché essa mette in scena i principi stessi che guidano la sua apparizione e la sua storia. La mitologia dunque può e deve anche riflettersi in sé. La sua verità sta in questa riflessione. La tesi fondamentale ha ciononostante bisogno di essere completata da questa ulteriore proposizione che non la contraddice affatto: «La mitologia non può all’inizio spiegarsi da sola, comprendere il suo proprio cominciamento, ma noi ne spieghiamo il cominciamento così come se lo è spiegato quella che è giunta al termine e si è fatta cosciente di sé»17. La mitologia giunta alla sua fine, è innanzitutto – lo abbiamo ricordato – la mitologia greca18, ma è anche e soprattutto la dottrina dei Misteri. Il metodo della filosofia della mitologia è dunque tracciato: deve seguire il movimento di auto-­ spiegazione della mitologia, fino alla sua fine, cioè fino alla dottrina dei Misteri. Ci si può anche arrischiare nel sostenere che la mitologia è alla ricerca, da un capo all’altro della sua storia – attraverso tutte le storie delle quali è ricca –, solamente dell’intelligibilità del suo proprio cominciamento, della comprensione dei principi che avrebbero soprainteso, senza che essa lo sapesse, al suo divenire, alla sua evoluzione. Seguendo l’auto-spiegazione della mitologia, noi abbiamo tuttavia una enorme superiorità rispetto agli antichi autori che la esponevano o che cercavano di spiegarla a se stessi. La nostra superiorità è quella della retrospezione. Noi non ci diamo a priori un punto di vista privilegiato sulla mitologia, anzi è essa che ci 17.  SW, XII, p. 145; Filosofia della mitologia, p. 16. 18.  «I principi che propriamente contengono la chiave dell’intera mitologia, si trovano nel modo più definito e puro nella mitologia greca…» (SW, XII, p. 671; Filosofia della mitologia, p. 493).

114

assegna il nostro punto di vista, ci è tuttavia consentito, après coup, di riconsiderare l’insieme del fenomeno, le tappe successive del processo, del quale possiamo far emergere il cominciamento e il termine. L’auto-comprensione della mitologia si compie – se così si può dire – con noi, nella misura in cui ci spetta il compito di situare questo fenomeno, di assegnarli la sua esatta collocazione in un quadro molto più vasto, in una economia di insieme. Su questo problema dell’inquadramento, dell’«inquadratura» della mitologia, torneremo più avanti.

La Sache selbst Qual è dunque la cosa stessa (Sache) della mitologia? Prendere la mitologia come ciò per cui essa si dà, equivale innanzitutto ad essere attenti alla sua storicità specifica: ricevere la mitologia come si dà equivale infatti innanzitutto a prenderla come un grande racconto, un insieme intricato di storie. La mitologia – che Schelling colloca sotto il patronato di Esiodo – si dà come teogonia: storia della nascita di differenti generazioni di dèi. Il mito ci parla degli dèi, delle loro avventure, delle loro molteplici relazioni, della loro nascita e anche della loro scomparsa e della loro morte. La mitologia è innanzitutto Göttergeschichte, ripete senza sosta Schelling, e non affatto Götterlehre. L’insieme del movimento mitologico tende in fin dei conti a produrre (Erzeugung) il mondo esoterico degli dèi. Se vi è tuttavia dottrina, insegnamento, questo non emergerà che alla fine (precisamente con i Misteri, la Mysterienlehre) e il suo «contenuto» non sarà mai separabile, distaccabile dal racconto mitico e dai suoi episodi, perché questi saranno ancora presentati, messi in scena per gli iniziati. Se dunque ci si interroga sulla «rilevanza» filosofica della mitologia – come si deve fare necessariamente nel quadro di una

115

filosofia della mitologia –, ciò che emerge in primo piano e che permette di abbozzare una risposta è questa dimensione intrinsecamente storica. La filosofia positiva, nella misura in cui è programmaticamente aperta sulla fattualità, sul quod (il daß)19, in una parola sulla storicità, è destinata in particolare ad estendere le sue investigazioni in direzione della mitologia. Se la mitologia richiede un allargamento (Erweiterung) dell’inchiesta filosofica, è proprio perché essa ci permette di accedere a una storia o anche a una preistoria, a una Vorzeit, che altrimenti resterebbe sconosciuta. Schelling stesso sottolinea fortemente questa affinità tra il fenomeno della mitologia e l’orientamento storico-positivo della sua filosofia: Ciò che è veramente storico è anche scientifico. […] Il veramente storico consiste nel fatto che si scopra il principio oggettivo e dunque interno allo sviluppo stresso. […] Non resta altro da fare che seguire l’oggetto nel suo auto-sviluppo.20

Ma in realtà Schelling non si limita a sottolineare questa affinità, poiché, rinviando al Sistema dell’idealismo trascendentale, suggerisce anche che solo la prospettiva di una storia della coscienza, aperta nel 1800, ha reso possibile il progetto di una interpretazione immanente – vale a dire storica – della mitologia: La filosofia ha cominciato a prendere in considerazione il contenuto interno della mitologia, soltanto nel momento in cui ha preso coscienza di essere a sua volta una costruzione dotata di una sua specifica storicità interna, nel momento in cui ha iniziato essa stessa attraverso varie fasi e a spiegarsi come storia quanto meno nell’autocoscienza.21

19.  Cfr., su questo motivo, M. Maesschalck, L’anthropologie politique et religieuse de Schelling, Peeters, Louvain 1991, pp. 267 ss. 20.  SW, XI, p. 223; Introduzione storico-critica…, p. 348 (tr. mod.). 21.  SW, XI, p. 223; Introduzione storico-critica…, p. 348. Cfr. su questo punto l’opera di M. Gabriel, Der Mensch im Mythos. Untersuchungen über Ontotheologie, Anthropologie und Selbstbewußtseinsgeschichte in Schellings

116

Il Pathos dell’esperienza della coscienza Vedremo che per la filosofia della mitologia, il fatto che la storia sia compresa proprio come storia della coscienza non comporta alcuna particolare limitazione. La mitologia dice ciò che essa ha da dire in senso proprio e assolutamente; essa è costituita da un tessuto di storie che possono interpretarsi da sé, e come tale è sufficiente a se stessa. Certo Schelling introduce alcune ipotesi supplementari, ma sono tutte destinate a esplicitare questa prima «tesi» fondamentale. Se la mitologia, a titolo di teogonia, è un racconto, ciò che essa riferisce, è sempre un processo reale: gli dèi di cui essa parla non sono delle finzioni immaginate da dei poeti, ma degli esseri che esistono o sono esistiti; essi sono esistiti nella coscienza, a titolo di rappresentazioni. Prendere la mitologia alla lettera vuol dire dunque prenderla, lo abbiamo già visto, come teogonia, ma questa a sua volta deve essere intesa strettamente come prima testimonianza sul «divenir effettivo di Dio nella coscienza»22. La mitologia non ha comunque altra realtà al di fuori della coscienza. Se però essa procede unicamente attraverso le determinazioni della coscienza, e cioè attraverso le sue rappresentazioni, questo svolgimento, questa stessa successione di rappresentazioni non può allora a sua volta essere oggetto di una mera rappresentazione, deve cioè aver avuto vera-

Philosophie der Mythologie, W. de Gruyter, Berlin 2006, cap. III: Die Philosophie der Mythologie als Selbstbewußtseinsgeschichte, pp. 368 s. 22.  SW, XI, p. 198; Introduzione storico-critica…, p. 312. Cfr. anche ivi, p. 207; tr. it. cit., p. 206: «Il processo teogonico, da cui nasce la mitologia, è un processo soggettivo, nel senso che ha luogo all’interno della coscienza e risulta dal formarsi delle rappresentazioni». Marc Maesschalck parlava correttamente di una «fenomenologia della coscienza», sviluppata secondo un «metodo sperimentale» e fondata «sull’immanenza della vita» (M. Maesschalck, Philosophie et révélation, cit., p. 535).

117 mente luogo, ed essersi compiuta realmente, all’interno della coscienza.23

La coscienza umana è dunque «la vera sede e l’autentico principio generatore delle rappresentazioni mitologiche». Possiamo qui certamente vedere la prima traduzione idealista-speculativa – e peraltro una traduzione «violenta» – operata dalla filosofia positiva: gli dèi sono certamente delle potenze reali (Mächte), delle forze che si esercitano in favore di una storia, attraverso un processo, ma questo processo è delimitato innanzitutto come processo di coscienza all’interno del quale le potenze non intervengono se non a titolo di rappresentazioni. Pertanto il processo teogonico trova la sua realtà nell’esperienza che fa la coscienza, nella prova – dolorosa – del processo che pone e sopprime le figure divine. Ormai, non è più necessario presupporre nient’altro al di là della coscienza (nella sua sostanza) e del primo movimento, incontestabilmente di ordine naturale, in cui la coscienza assume quella determinazione che la sottomette alla successione mitologica.24

Se dunque la mitologia è veramente una storia reale, punteggiata di eventi drammatici, la coscienza umana è «la vera sede e l’autentico principio generatore delle rappresentazioni mitologiche»25. La mitologia innanzitutto dà testimonianza dell’Erfahrung – prova, esperienza teo-patica, passione – della coscienza26. In quanto mito-logia, essa è, anch’essa e in modo 23.  SW, XI, pp. 124 s.; Introduzione storico-critica…, p. 221. 24.  SW, XI, p. 191; Introduzione storico-critica…, p. 304. 25.  SW, XI, p. 199; Introduzione storico-critica…, p. 315. 26.  Cfr. X. Tilliette, Schelling, cit., vol. II, p. 424: «Le rappresentazioni mitologiche non hanno realtà fuori dalla coscienza […]. Esse sono nate all’interno della coscienza dell’umanità originale e dei popoli. Non si spiegherebbe altrimenti l’influenza che esse esercitano proprio sulla coscienza. Se si fosse trattato di belle finzioni o di pensieri mascherati o deviati, la coscienza umana

118

eminente, scienza dell’esperienza della coscienza. Infatti se sopraggiungono nella coscienza, le rappresentazioni mitologiche non la affliggono e neppure la alterano. Le rappresentazioni mitologiche che si succedono nella coscienza non sono state inventate né sono da essa liberamente accettate: In quanto risultato di un processo indipendente dal pensiero e dalla volontà, esse furono per la coscienza, che subì tale processo, qualcosa di inconfutabilmente e di imperiosamente reale. Tanto i popoli quanto gli individui non sono che degli strumenti di questo processo, che oltrepassa il loro orizzonte, e al quale essi si assoggettano, senza poterlo comprendere. Non è loro possibile sottrarsi a queste rappresentazioni, accettarle o respingerle, perché esse non giungono loro dall’esterno, ma risiedono in loro stessi senza peraltro che essi siano mai in grado di spiegarsi come ciò possa accadere. Queste rappresentazioni provengono dall’interno della coscienza stessa, alla quale si impongono con una necessità che non lascia alcun dubbio sulla loro verità.27

Se dunque gli dèi del politeismo non esistono se non «nelle rappresentazioni», tuttavia esse si impongono con forza alla coscienza. Ciò che, nella coscienza, sorge dal più profondo di essa stessa la tiene sotto la sua influenza: la coscienza è affetta, colpita dall’estraneità, alienata, alterata: θεόπληκτος, θεόβλαβης, dice Schelling, che utilizza con predilezione questi termini piuttosto rari per sottolineare lo stupore della coscienza28 in

non le avrebbe vissute e patite, come ha fatto in un lungo combattimento, con una sottomissione cieca e fatale». 27.  SW, XI, p. 194; Introduzione storico-critica…, p. 307. 28.  Cfr. lo studio fondamentale di L. Pareyson, Lo stupore della ragione in Schelling, in Aa. Vv., Romanticismo, Esistenzialismo, Ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979, pp. 137-180. Si veda anche oggi la versione leggermente ampliata, pubblicata con il titolo Stupore della ragione e angoscia di fronte all’essere, in L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995, pp. 385-437.

119

questo stato quasi estatico in cui genera delle rappresentazioni che in essa si concatenano fino a formare precisamente un «processo mitologico»29. Nella loro successione [politeismo successivo30] – scrive Schelling – gli dèi si sono realmente impossessati di volta in volta della coscienza. La mitologia in quanto storia degli dèi, e cioè in quanto mitologia in senso proprio, non ha potuto formarsi se non nella vita stessa, ha dovuto necessariamente essere qualcosa che la coscienza ha vissuto e sperimentato direttamente.31

Nel momento in cui è affetta, la coscienza non ha più scelta, essa deve fare fino alla fine l’esperienza o la prova del processo mitologico32. Certo, l’esperienza mitologica definisce o descrive un cammino che corre attraverso molti crimini e orrori, fino al punto che potremmo chiederci perché l’umanità è dovuta passare da lì; il cammino è senza dubbio incomprensibile, ma

29.  «Questo processo non esige l’intervento di altri fattori che non siano la coscienza e i principi che pongono in essere e costituiscono tale processo» (SW, XI, p. 207; Introduzione storico-critica…, p. 326). La verità della mitologia è allora la verità soggettiva della coscienza nella sua storia interna. 30.  SW, XI, p. 125; Introduzione storico-critica…, p. 221: «Appunto perché gli dèi esistono soltanto all’interno di rappresentazioni, il politeismo successivo può diventare reale solo nella misura in cui, nella coscienza, dapprima è posto un dio, cui ne subentra un altro, che non lo toglie in assoluto, perché in caso contrario la coscienza non ne serberebbe alcuna memoria, ma quanto meno lo ricaccia dal presente nel passato, e privandolo non della divinità in generale, ma solo di quella esclusiva». 31.  SW, XI, p. 125; Introduzione storico-critica…, p. 222. Si vedano anche le belle pagine di V. Jankélévitch, L’odyssée de la conscience dans la dernière philosophie de Schelling, Alcan, Paris 1933, pp. 279 s. 32.  Se abbiamo potuto, all’inizio, caratterizzare cum grano salis l’andatura schellinghiana in riferimento alla fenomenologia husserliana, dobbiamo ora rivolgere l’attenzione sullo Hegel della Fenomenologia dello spirito, intesa come scienza dell’esperienza della coscienza (SW, XII, pp. 272 s.; Filosofia della mitologia, pp. 133 s.); cfr. anche SW, XI, p. 223; Introduzione storicocritica…, pp. 343-346).

120

esso era necessario, aperto o tracciato provvidenzialmente da Dio i cui disegni restano insondabili33. Ciò che così emerge è il versante insieme soggettivo e oggettivo della mitologia: qualcosa nasce nella coscienza (dell’umanità, dei popoli) e la tiene sotto la sua influenza fino a sottomettere la coscienza a ciò che sorge davanti a lei, per lei, ma soprattutto in lei. A dire il vero, la realtà di questo cammino e la sua stessa esistenza in quanto cammino in grado di circoscrivere una storia si chiariscono solo alla luce di ciò che Schelling chiama spesso «storia superiore», storia prima della storia in cui ha luogo questo archi-avvenimento, questo «fatto puro» che costituisce come il colpo di inizio della storia e del mondo così come lo conosciamo. Questo fatto primo, sovra-storico, all’origine del processo mitologico come processo necessario della coscienza in preda al divino, è, ci dice Schelling, ciò che chiamiamo correntemente «la caduta».

Il processo e il suo significato Quando si tratta di mitologia, la principale questione è quella circa il significato, ma il significato della mitologia non può essere se non quello del processo attraverso il quale sorge. Il processo mitologico ha una significazione immediatamente religiosa: «La verità mitologica è specialmente, e prima di ogni altra cosa, una verità religiosa»34. Il processo concerne infatti direttamente «la relazione della coscienza con Dio». Questo è, se vogliamo, il suo primo significato soggettivo. Ma il processo ha anche un significato generale, universale: esso ripete infatti il «processo universale». 33. Cfr. SW, XI, pp. 176 s.; Introduzione storico-critica…, pp. 284-286. 34.  SW, XI, p. 215, Introduzione storico-critica…, p. 336.

121 La mitologia viene conosciuta nella sua verità e, quindi, viene veramente conosciuta, solo quando la si consideri come processo. Ma il processo, che la mitologia non fa che ripetere in modo specifico, è il processo universale e assoluto. […] La vera scienza della mitologia è, allora, la filosofia della mitologia.35

Il processo costituisce, come abbiamo visto, una esperienza per la coscienza; esperienza nella quale la coscienza è come fuori di sé, ammaliata, affascinata, estatica (stupefacta quasi et attonita). Per comprendere in cosa consiste esattamente questa estasi, questo essere fuori di sé, questa affezione o questa alterazione, dobbiamo ritornare allo stato dell’archi-­coscienza o della coscienza originaria (Urbewußtsein, ursprüngliches Bewußtsein), se essa non si fosse proprio catastroficamente impegnata nel processo mitologico. Il progetto schellinghiano di interpretazione immanente tende, fin dall’inizio e in modo esplicito, contro ogni interpretazione riduttrice, a riconoscere il fenomeno della mitologia e a stabilire la sua verità propria. Si tratta dunque di lasciar/far apparire la mitologia. Ma questo progetto iniziale sfocia immediatamente su un proposito del tutto differente: quello di far emergere e annunciare la verità ultima della mitologia come tale e nel suo insieme. Perché questo è il vero oggetto di una filosofia della mitologia. La questione portante è ancora quella della Bedeutung, del significato, eppure essa ha cambiato senso. Far emergere l’intima verità della mitologia come processo teogonico che ha per sito la coscienza implica in realtà, proprio in ragione del suo necessario inquadramento (creazione, caduta, incarnazione), solo all’interno del quale è possibile far emergere il fenomeno come tale, che la mitologia è essenzialmente incomprensibile a se stessa, che non potrebbe mai comprendere interamente

35.  SW, XI, pp. 216 s.; Introduzione storico-critica…, p. 338.

122

se stessa. Non si tratta più allora di sapere come «prendere» o «intendere» tale o talaltro mitologumeno, ma di assegnare al fenomeno della mitologia considerato come un tutto – e dunque dopo la sua ricostruzione o sistematizzazione – il suo luogo o la sua collocazione nel contesto più generale della filosofia positiva, in considerazione del progetto di «religione filosofica» nel quale si impegna l’ultimo Schelling. In particolare, il processo mitologico, dal quale siamo partiti, è anch’esso intellegibile come processo teogonico solo se lo si osserva a partire dalla maniera in cui esso ripete, a suo modo, quel processo universale del quale alla filosofia «generale» spetta il compito di stabilire il senso. Esporre, rimettere in scena il processo assoluto nel processo mitologico – vale a dire mostrare concretamente come si espone nella mitologia e in modo mitologico il processo assoluto (processo teo-cosmo-gonico, processo delle potenze) –, ecco senza dubbio un’impresa differente da quella della Selbsterklärung. Il modo di procedere è qui immediatamente orientato su ciò che Schelling chiama Begründung, l’instaurazione del fondamento della filosofia della Rivelazione. Questa ripetizione di un processo attraverso e all’interno di un altro, nella misura in cui essa ordina la traduzione o la trasposizione permanentemente all’opera nella filosofia della mitologia, non reintroduce forse surrettiziamente i metodi dell’interpretazione allegorica? Malgrado i numerosi passaggi in cui Schelling dice esplicitamente che Dioniso, l’idea o il concetto di Dioniso, Persefone o Demetra, per esempio, significano o rappresentano questo o quello: A2, B, ecc.…, bisogna senza dubbio rispondere negativamente a tale domanda. Perché qui la traduzione – e vi è proprio traduzione o ritraduzione – si opera da medesimo a medesimo. I medesimi principi, le medesime potenze sono all’opera nei diversi processi; è la medesima legalità a regolare ciascuno di essi. Eppure questa prima domanda potrebbe introdurre un sospetto supplementare, se vogliamo più grave: non sarà forse piuttosto la straordinaria plasticità del-

123

la dottrina delle potenze, la drammatizzazione alla quale questa dottrina si presta, ad aprire la strada a una possibile mitologizzazione, forse anche già operante nel processo universale?

Höhere Geschichte Il processo mitologico si chiarisce nella sua fattualità, nella sua storicità, solo alla luce di un’altra storia, solo una volta ricollocato, reintegrato in questa storia superiore (höhere Geschichte) che deve restare necessariamente celata alla coscienza mitologica, proprio come la rammemorazione che mette in opera i misteri, la dottrina dei Misteri. In realtà, il processo mitologico non è un processo teogonico, nel senso che abbiamo detto – la coscienza come principio generatore delle rappresentazioni del dio, la coscienza come sede del divenire del dio, la coscienza come ciò che pone dio (la coscienza teo-tetica) –, se non perché l’uomo originale o l’archi-coscienza (Urbewußtsein) ha rilanciato, rigiocato, il processo teo-cosmogonico al termine del quale l’uomo era apparso proprio come creatura centrale. È infatti l’uomo ad aver costituito il termine, la fine della prima creazione: La coscienza umana era appunto, anche secondo l’intenzione originaria, il mezzo, il medium, dal quale l’intera natura avrebbe dovuto essere sollevata al suo stato effettivo alla sua verità; dunque anche qui l’ultima verità di tutta la natura sta nell’auto­coscienza dell’uomo.36

Con la creazione, l’uomo, come Dio, era già stato posto come Signore delle potenze o delle cause. Esse trovavano in lui la 36.  SW, XIII, p. 364; Filosofia della rivelazione, p. 611. Questo motivo dell’uomo come punto centrale della creazione (Zentralwesen) orientava già l’economia delle Ricerche sull’essenza della libertà umana del 1809.

124

loro unità, ma si trattava, a differenza di Dio, di una unità instabile, labile. Spetta all’uomo fissare questa unità, trasformarla in unità indissolubile. Ma ciò non equivale a calcolare – si sarebbe tentati di pensare – senza considerare la mobilità costitutiva dell’uomo originale? L’ultimo prodotto (Erzeugnis) era assolutamente mobile (ein absolut Bewegliches), sarebbe potuto ricadere subito, anzi in certo qual modo doveva inevitabilmente cadere.37

Non equivale forse a sottostimare l’indecisione dell’Urmensch, al quale si imponeva questa sola legge (Gesetz): la legge che gli ingiungeva di non rimettere in movimento il Grund der Schöpfung38? Questa stessa legge è stata anche la prima occasione, la prima incitazione alla trasgressione (Anlaß der Übertretung). Eppure la sorte di tutta la creazione è riposta in e sull’uomo: «Dio stima tanto la libertà della creatura, da far dipendere dalla libera volontà della creatura il destino di tutta la sua opera»39. Ciò che dunque si ripete in modo mitologico nella coscienza è proprio il primo o l’autentico processo cosmo-teo-­gonico: quello attraverso il quale Dio si genera o si rivela come il Padre, mentre crea il mondo, e nello stesso tempo genera il Figlio. Solo al termine di questo processo teogonico, in cui l’uomo è il compimento della creazione, in cui è esso stesso determinato come das Gott Setzende, diventa infatti legittimo impiegare in senso stretto il nome «Gott»40. Il Dio non diventa Dio, per parlare rigorosamente, se non a traverso la real-

37.  SW, XIII, p. 359; Filosofia della rivelazione, p. 601. Umschlagen, «virare, rovesciarsi». 38.  SW, XIII, p. 358; Filosofia della rivelazione, pp. 599-601. 39.  SW, XIII, p. 359; Filosofia della rivelazione, p. 601. 40.  SW, XII, Der Monotheismus, p. 27; tr. it., Il monoteismo, a cura di L. Lotito, Mursia, Milano 2002, p. 37.

125

tà del rapporto di appartenenza della coscienza a Dio (reales Verhältnis zu Gott). Il processo teogonico che l’uomo o che la coscienza mitologicamente affetta rilancia «non è che una ripetizione di quel processo originale attraverso il quale l’essenza umana è divenuta ciò che pone Dio»41. In un certo senso, dunque, è dal punto di vista di questa storia superiore, alla quale si richiama Schelling per chiarire il cominciamento sovra-storico della mitologia, che si persegue un solo e lo stesso processo, dapprima come processo cosmo-teo-gonico e poi come processo mitologico. Senza dubbio non dobbiamo parlare qui strettamente di continuità né di identità. Innanzitutto perché il processo implica sempre sviluppo inedito, novità, ma soprattutto perché sono intervenute due grandi cesure che interdicono di concepire il processo universale come continuo e strettamente omogeneo. La prima cesura è segnata dalla decisione divina di creare. La seconda da ciò che non è a dire il vero una decisione, ma piuttosto un Urzufall42, il frutto di una illusione (Täuschung), attraverso la quale l’uomo rimette in movimento le potenze che avevano trovato in lui equilibrio precario e riposo. Il processo cambia allora scena, occupa un nuovo teatro e precisamente quello della coscienza. Il processo si svolge ormai inesorabilmente nella coscienza affetta e impotente; esso avviene ormai 41.  SW, XII, p. 128; Il monoteismo, p. 118. 42.  Urzufall, Urereignis: «… L’atto stesso, con cui è posto il fondamento del politeismo, cade a sua volta al di fuori, e non all’intero, della coscienza reale. La prima coscienza reale trova se stessa già gravata da questa affezione, che la separa dal suo essere eterno ed essenziale. Essa non può più fare ritorno in questo suo essere, né può, tuttavia, oltrepassare questa determinazione, se non andando al di là di se stessa. Questa determinazione ha dunque qualcosa di incomprensibile per la coscienza, è la conseguenza involontaria e imprevista di un movimento irreversibile. La sua genesi si trova all’interno di una regione, alla quale la coscienza, una volta separatasene non ha più alcun accesso» (SW, XI, p. 192; Introduzione storico-critica…, pp. 304 s.).

126

attraverso la produzione delle rappresentazioni mitologiche successive. Eppure, se vogliamo, è sempre lo stesso dramma nella misura in cui mette in gioco gli stessi protagonisti, le potenze o le loro cause: È dunque nuovamente la stessa tensione delle potenze che sopraggiunge nell’universio originale: l’estroversione (Herauswendung) delle potenze che sono l’elemento esteriore ed esoterico della divinità (das Äußere, das Exoterische der Gottheit); la sola differenza è che ora questa tensione è posta solo nella coscienza, altrimenti detto, tutti i fattori [tutte le istanze] del processo teogonico sono di nuovo dati, ma si tratta di un processo che si svolge nella coscienza.43

Al centro, equilibrio instabile L’uomo originale occupa una posizione chiave nell’universo, ma è anche e proprio per questo una posizione particolarmente esposta; se l’uomo è infatti in grado di rilanciare il processo, è perché ha ricevuto una funzione preminente nella dialettica delle potenze: interiorizzare, internare, conservare il principio nel nascondimento, il principio, il prius del cominciamento, il fondo o l’assise di tutta la creazione. La sostanza della coscienza umana è perciò proprio quel B che in tutto il resto della natura è più o meno fuori di sé, ma nell’uomo è in sé. Ma proprio questo B si è mostrato a noi nella sua potenzialità o centralità, si è cioè mostrato nel concetto preliminare come il fondamento dell’intera divinità, come ciò che pone Dio. […] In quanto tale, come principio teogonico, esso attraversa l’intera natura. Nella coscienza umana, dove B è ricondotto alla posizione originaria, è riconvertito in se stesso ed è diventato di nuovo = ad A, esso si comporta nuovamen43.  SW, XII, p. 93; Il monoteismo, p. 91 (tr. mod.).

127 te come ciò che pone Dio. […] Dunque la pura sostanza della coscienza umana […] è ciò che naturalmente […] pone Dio.44

Una volta messo in movimento, il processo teogonico è, come abbiamo indicato, un processo necessario; ha il suo posto nella coscienza, la coscienza è non solo la sua sede, ma anche il principio generatore, anche contro il suo gradimento ed essa è anche il suo paziente45. Comprendiamo ora meglio l’importanza e la posta in gioco della critica schellinghiana a tutte le interpretazioni della mitologia in termini di fiaba o di finzione poetica. Ricondotta a ciò che ne costituisce il fondo ultimo, lo sfondo vero e decisivo, il processo universale, la mitologia, lungi dall’apparire come una «invenzione», una qualsiasi opera umana, è il pezzo principale della e nella economia divina che soprintende alla creazione, alla caduta, al paganesimo, all’ebraismo, alla rivelazione, alla crocefissione del Figlio, ecc.… La mitologia […] si fonda sulla presenza immediata delle potenze teogoniche effettive. […] sono le forze originarie in sé teogoniche, ciò il cui conflitto nella coscienza umana produce le rappresentazioni mitologiche.46

Le potenze che sono state nuovamente riattivate dalla e nella coscienza originale – quella dell’Urmensch –, le potenze che si ritrovano in uno stato di tensione e di esclusione reciproca, esse non possono più riunirsi se non in modo successivo, in favore e al livello di configurazioni differenti e sempre effimere che costituiscono altrettante epoche distinte, regni, «stazioni» o «età», nel processo mitologico (tempo di Saturno, di Kronos, di Zeus, di Uranio, di Cibele, di Era). Il passaggio da una epoca a un’altra è sempre segnato da una crisi che obbedisce al movimento di materializzazione, di su44.  SW, XII, pp. 118-119; Il monoteismo, p. 111. 45.  Cfr. M. Maesschalck, Philosophie et révélation, cit., pp. 536-537. 46.  SW, XII, p. 130; Il monoteismo, p. 120.

128

peramento, e di sprofondamento (fondazione) che Schelling chiama Grundlegung, «katabolè»47. Il principio secondo il quale la mitologia progredisce è dunque il principio del successivo emergere (Hervortreten) delle potenze. Ma l’ottica della Potenzlehre presenta una nuova spiegazione della mitologia che difficilmente saremo in grado di ricondurre alla Selbsterklärung, anche se Schelling nota che «la dottrina delle potenze, della loro esclusione e del processo così posto è sufficiente per spiegare la mitologia». Sembra che, arrivati a questo punto, occorra concludere che Schelling smetta di essere fedele al principio della tautegoria: le figure mitologiche – diciamo gli dèi del politeismo successivo – non possono più essere considerati come delle entità autonome che fanno un tutt’uno con il loro significato immanente. Non possiamo più sperare di leggere rigorosamente il senso delle grandi figure mitologiche su loro stesse, in modo diretto. Lungi dall’essere i veri dramatis personae, gli dèi – peraltro oggetti di rappresentazione – sono le istanze attraverso le quali si incarnano o si manifestano le «forze» effettivamente teogoniche, le «potenze», i «principi» (Mächte), che Schelling interpreterà, nel quadro della dottrina dei Misteri, anche come degli «dèi spirituali», «causanti» o «causatori», in opposizione alle figure di dèi semplicemente materiali che si sviluppano in larga misura in tale o talaltra fase del politeismo simultaneo. Dioniso per esempio, nelle sue tre 47.  SW, X, Darstellung des Naturprozesses, p. 346; tr. it. di V. Limone, Esposizione del processo della natura, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 123. Cfr. anche Grundlegung der positiven Philosophie, cit., p. 362. La formula καταβολὴ τοὺ κόσμου è scritturale, come ricorda E. Brito, La création selon Schelling, cit., p. 370 n. Ricordiamo l’eccellente puntualizzazione di X. Tilliette, Une philosophie en devenir, cit., vol. II, pp. 195 s.: il termine katabolè «indica sia la fondazione (Grundlegung) che lo sprofondamento (zum Grunde gehen), ma il secondo senso è subordinato al primo. Ne raccoglie e include il concetto di base, utilizzato nella Freiheitsschrift. Essa è associata, negli scritti dell’ultima filosofia, a “fondamenta, basamento (Unterlage), sostrato, sostanza, soggetto, ὑποκείμενον”, indicanti sempre ciò che è soggiacente o ciò che sta al di sotto».

129

differenti determinazioni (Zagreus, Bakkhos, Iakkhos) è ogni volta una differente epifania dello stesso principio A2. Schelling arriva fino a sostenere che si possono conoscere i diversi momenti del processo «aus der Natur der Potenzen», a partire dalla natura delle potenze, si possono provare, o meglio stabilire, mettere in evidenza (nachweisen) in modo diretto o all’interno delle diverse mitologie reali che si sono succedute48.

La caduta L’intera mitologia, se si intende pensarla a fondo, come teogonia, ossia come processo teogonico necessario che si svolge nella coscienza, deve essere collegata a un «fatto», a un evento primordiale, originario. L’evento ricercato è, per parlare in modo appropriato, un evento fondatore, un evento sopra-­ storico, dunque, che collega insieme, se così si può dire, sia il processo mitologico che la rivelazione in senso stretto. Il fatto in questione, ci dice Schelling, è puro, meta-empirico, sovra-­ storico; è letteralmente un fatto della coscienza che non appartiene alla storia, e nemmeno alla preistoria. Il fatto non è intelligibile se non nella misura in cui è ricollocato in quella storia superiore che è la Rivelazione, in senso ampio: storia scandita da una serie di interventi, di manifestazioni (teofanie) 48.  Su queste differenti figure di Dioniso, si può consultare J.E. Wilson, Schellings Mythologie, Zur Auslegung der Philosophie der Mythologie und der Offenbarung, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1993, sez. 4: Die Erlösung, pp. 80 s., 97 s. Si veda anche L. Procesi, La genesi della coscienza nella Filosofia della mitologia di Schelling, Mursia, Milano 1990, parte IV, cap. II: Liber e Libera: La coscienza dionisiaca del futuro, pp. 312 s. – Vladimir Jankélévitch scriveva audacemente da parte sua: «La Dionisologia è la chiave della Cristologia», «In un certo senso, tutto è Dioniso» (V. Jankélévitch, L’odyssée de la conscience dans la dernière philosophie de Schelling, cit., pp. 238 s.).

130

di Dio, il quale si prende il suo tempo, al quale occorre del tempo per realizzare ironicamente i suoi disegni. Per quanto appaiano, gli dèi del politeismo successivo sono solo alcuni momenti, alcuni volti del Dio. In questo senso, si deve dire che la mitologia appartiene di diritto alla Rivelazione, della quale costituisce una sequenza determinata, che ha una funzione del tutto specifica e insostituibile in seno all’economia divina. Questo evento primordiale, immemoriale (o meglio non pensabile prima, unvordenklich) – lo si conosce solo a posteriori, grazie alle sue conseguenze – è ciò che comunemente chiamiamo caduta. La caduta è il «fatto originario», il «dato di fatto originario della storia»49. Evento sovra-storico, attraverso il quale l’uomo diventa nuovo o «secondo cominciamento», attraverso il quale l’uomo occupa il posto del Padre. Questo evento è in senso proprio una catastrofe, la catastrofe per eccellenza che colpisce sia il rapporto dell’uomo con la natura che il rapporto della coscienza con Dio. L’uomo diventa come Dio, prende il suo posto, si fa Padre, Creatore. Questo – precisa Schelling – potrebbe apparire veramente troppo ardito; pertanto sono in parte obbligato a esporre ora chiaramente questo rapporto, solo in questo modo infatti sarà possibile mostrare la vera differenza tra Mitologia e Rivelazione…50

49.  SW, XIII, p. 360; Filosofia della rivelazione, p. 603 (tr. mod.) [nella tr. it. cit.: «dato di fatto», il «primo dato di fatto della storia»; N.d.T.]. Cfr. anche XIII, p. 385; Filosofia della rivelazione, p. 643: «La storia infatti, come un nuovo mondo del movimento, non avrebbe certo potuto essere posta se l’uomo non avesse mosso e scosso di nuovo quel fondamento della creazione per opera del quale tutto doveva giungere alla quiete e a uno stato eterno. Senza un’uscita dal paradiso originario non ci sarebbe storia. Per questo quel primo passo dell’uomo è il vero primo evento, l’evento che solo rendeva possibile una successione di altri, cioè la storia». 50.  SW, XIII, p. 366; Filosofia della rivelazione, p. 613. Si veda anche J.E. Wilson, Schellings Mythologie, cit., pp. 48 ss.

131

In che misura si può dire che, con questo tema della caduta51, è la rivelazione veterotestamentaria a dover dare la chiave, la spiegazione ultima del processo mitologico informandoci circa il suo punto di partenza? Schelling, ponendo la caduta come Grund – il fondo o il fondamento, la ragione ultima – del processo mitologico, si guarda bene naturalmente dal prendere in prestito un elemento dottrinale dalla dogmatica cristiana. Se il racconto della Genesi è posto come contributo – già dall’Introduzione storico-critica –, è essenzialmente a titolo di documento, di testimonianza. In realtà, è principalmente attraverso la figura di Persefone, figlia di Demetra, sorpresa e abusata da Zeus metamorfizzato in serpente, che Schelling si sforza di trovare in seno alla mitologia una illustrazione della caduta dell’Urbewußtsein52. Ma che ne è di preciso della caduta, fatto puro, irriducibile, che ci è accessibile solo tramite le sue conseguenze, per via delle tracce oscure che ha lasciato e che esigono di essere interpretate? La caduta colpisce l’uomo originale o meglio l’Urbewußtsein; la coscienza originale è essenzialmente teopatica: essa è coscienza di Dio, senza tuttavia avere Dio davanti a sé (vor sich). La caduta segna dunque, per la coscienza originale, un allontanamento (Entfernung) di fronte al vero Dio – al Padre –, ma in realtà, attraverso la caduta, la coscienza di distacca dal dio, dalla sua quasi-fascinazione per dio, solo per cadere sotto l’influenza del principio, della potenza che essa ha imprudentemente messo in movimento. Attraverso la caduta, la coscienza divenuta estranea a se stessa è caduta sotto l’influenza del

51.  SW, XIII, pp. 382ss; Filosofia della rivelazione, pp. 639 ss. SW, XII, p. 152; Filosofia della mitologia, p. 23. SW, XI, pp. 141-144; Introduzione storico-critica…, pp. 240 ss. 52.  Sui differenti tratti e le funzioni del serpente schellinghiano, si veda L. Procesi, La genesi della coscienza nella Filosofia della mitologia di Schelling, cit., pp. 131 ss.

132

principio B riattivato; essa non gli sfuggirà se non progressivamente, al termine di una lunga erranza, di un lungo cammino attraverso il quale la coscienza ritorna a sé, riprende possesso di sé, per essere solamente alla fine Selbstbewußtsein53. Che cosa dunque fa della caduta l’«inizio sovra-storico della mitologia»54? In che consiste questa «catastrofe della coscienza umana» che è la caduta? Se si vuole rispondere a queste domande, occorre determinare in modo più preciso lo statuto dell’Urmensch e la natura esatta del ri-cominciamento così messo in opera, di quella seconda creazione che è il fatto dell’uomo e alla quale prelude il processo mitologico. L’uomo originale è in qualche modo il poter-essere ricondotto a se stesso, in possesso di sé. L’uomo è stato istituito signore di questo poter essere che nella natura era fuori di sé, di quello stesso poter essere che era «il principio del cominciamento», l’assise fondamentale per la creazione, la Grundlage der Schöpfung. È proprio questo principio del cominciamento che la catastrofe risveglia, riattiva. Nell’uomo il principio del cominciamento era destinato a restare in riposo; esso doveva restare immanente e non ridiventare più potenza, vale a dire possibilità di un altro essere. Il principio del cominciamento doveva restare nascosto nell’uomo. Ma l’uomo fa la scoperta della sua libertà proprio nel momento in cui si mostra, si presenta a lui questo principio nella sua possibilità, vale a dire come possibilità. Si sarà riconosciuto qui di nuovo lo schema portante delle Ricerche del 1809.

53. Cfr. SW, XI, pp. 144-174; Introduzione storico-critica…, pp. 245-281, dove l’esegesi schellinghiana della Genesi conferma questa interpretazione della mitologia come erranza. 54.  SW, XII, p. 153; Filosofia della mitologia, p. 24.

133

Quando essa si rivela come tale, la possibilità si mostra come ciò che può ridiventare Seinkönnen in senso transitivo55. In quanto tale la possibilità seduce e attira il volere. Vi è in questo punto il momento femminile della coscienza originale: il momento in cui la possibilità, restando in tutto possibilità, attira a sé la volontà. Momento rappresentato mitologicamente attraverso la figura di Persefone/Proserpina. Bisogna ancora notare qui che questa figura di Persefone non può emergere come tale se non alla fine del processo, in questa ultima ricapitolazione e in questo presentimento dell’avvenire che è la misteriologia, la dottrina dei Misteri. È solamente quando la mitologia è compiuta, quando essa inizia ad essere oggetto, attraverso i Misteri, di una rammemorazione o di una riappropriazione, che il principio – ciò che sarebbe stato il principio – può riapparire oscuramente alla coscienza. Ciò che emerge alla fine, ed è proprio ciò che si è impadronito della coscienza come necessità, fatum, destino funesto e immemoriale (unvordenkliches Verhängniß)56, non era all’inizio nient’altro che possibilità. L’uomo originale o l’archi-coscienza, nel suo poter-essere in stato di immobilità – equilibrio e riunificazione delle potenze; quelle potenze che Dio aveva estrovertito nella creazione, o meglio in questa «uni-versio», Herauswendung57, dalla quale risulta la creazione –, l’uomo originale è dunque libertà o volontà, ma una volontà il cui volere è ancora in stato di immobilità, nella misura in cui l’uomo si consacra o si dedica a, si perde nella rappresentazione e nella contemplazione del Dio. L’uomo è inizialmente assorbito dal divino, presente a Dio

55.  SW, XIII, p. 382; Filosofia della rivelazione, p. 639. 56.  SW, XII, p. 153; Filosofia della mitologia, p. 24. 57.  SW, XII, p. 150; Filosofia della mitologia, p. 20. SW, III, pp. 277, 304; Filosofia della rivelazione, pp. 463, 509.

134

molto più che a se stesso, coscienza sprofondata nella contemplazione del Dio. L’uomo originale – scrive Schelling58 – è in se stesso e, per così dire, prima di se stesso, prima di essere diventato altro – poiché esso è già altro dal momento che, ritornando a se stesso, è diventato oggetto per se stesso. L’uomo, dunque, nella misura in cui si limita a essere senza essere ancora diventato altro, è la coscienza di Dio, esso non ha, ma è la coscienza di Dio, ed è solamente nel non-atto, nel nonmovimento che è ciò che pone il vero Dio. Alla coscienza originale si mostra – si tratta propriamente del momento della tentazione – la possibilità come tale, il poter-essere nella sua accezione transitiva. Ciò che si rivela all’uomo attraverso questa possibilità è l’eventualità di essere liberamente ciò che è; la possibilità di essere ciò che è non fortuitamente, ma perché lo avrà liberamente posto: ciò che si presenta a lui – a dire il vero in modo ingannevole – è dunque la possibilità dell’auto-posizione, quella di riprendere la propria essenza come auto-posta. In poche parole: di essere come Dio! L’aspetto curioso, e decisamente degno di nota, è che la possibilità che si è mostrata a Dio come Saggezza e nella quale egli ha percepito la creazione come in uno specchio59, era anche la possibilità della sua auto-posizione proprio come Dio, vale a dire come Padre. L’emergere di questa possibilità che si leva all’orizzonte fa apparire l’ambiguità, l’indecisione della coscienza, che assume qui la forma femminile di Persefone60; Persefone: Dyas, natura anceps61. 58.  SW, XI, pp. 186 s.; Introduzione storico-critica…, pp. 296-298. 59.  SW, XIII, p. 277; Filosofia della rivelazione, p. 463. 60.  SW, XII, p. 142; Filosofia della mitologia, p. 13. 61.  Persefone è il principio, il cominciamento, la prima figura della coscienza esposta al passaggio, all’inversione dell’essenziale nel fortuito. Persefone è dunque una figura essenzialmente ambigua: zweideutiges Wesen, scrive Schelling. Cfr. SW, XIII, p. 383; Filosofia della rivelazione, p. 641: «Persefone

135

Attraverso la figura originaria di Persefone e con il filosofema della caduta (felix culpa), la filosofia della mitologia si ricongiunge alla filosofia della Rivelazione nella sua parte generale (dottrina della creazione, e processione trinitaria). Allo stesso modo, ci ritorneremo, essa si ricongiunge alla parte speciale della filosofia della Rivelazione, la Cristologia, attraverso la dottrina dei Misteri e in particolare la figura di Dioniso (il Dioniso della terza potenza): anticipazione del dio che viene, del dio a venire, annuncio di un altro regno, di un’altra signoria o sovranità.

Essoterico ed esoterico. La verità della mitologia Il fenomeno della mitologia, nel suo sviluppo storico (Göttergeschichte) rivela progressivamente, in qualità di segno, di indice, una realtà soggiacente e che non si mostra come tale: il gioco di esclusione, di superamento delle potenze e delle loro differenti configurazioni. È questa realtà nascosta che fornisce la chiave della mitologia, intesa come processo. Infatti, scrive Schelling, è dalla «cooperazione (Zusammenwirkung) delle potenze che deriva il mondo degli dèi in quanto fenomeno (Phänomen)». Il mondo degli dèi (la mitologia così come si è dunque nella Mitologia questo essere duplice, dapprima del tutto interiore, ma poi, quando ha abbandonato il suo essere sostanziale, esso stesso soggetto alla necessità, al processo. Non ci si deve però immaginare che l’idea di Persefone sia sorta contemporaneamente all’inizio stesso della Mitologia. Questo inizio è nascosto per la coscienza che ne fu sorpresa; soltanto alla fine del processo, quando il suo tessuto comincia già a decomporsi, l’inizio le diventa chiaro; soltanto qui quel principio le appare di nuovo come possibilità, e le si presenta come Persefone – come quel principio che ha esperito tutto il processo». Persefone, Dioniso: si capisce perché le due figure sono inseparabili, o meglio perché devono necessariamente essere riunite alla fine, con i tratti rispettivamente di Kouros e di Kore.

136

dispiega in ogni tappa decisiva come politeismo simultaneo) non rischia allora di essere compresa come il semplice fenomeno, l’apparenza (Erscheinung) di un’altra realtà: quella del processo (Vorgang) che inizia a svelarsi veramente solo nella dottrina dei Misteri? I Misteri ci consegnerebbero così la verità segreta della mitologia: L’essenza, la vera interiorità (das Innere) della mitologia è d’ora in poi nei misteri, quel pantheon essoterico esteriore rimane come fenomeno del percorso intimo, ha solo ancora la realtà di un’apparizione (Erscheinung): infatti il reale (das Reele), il significato autenticamente religioso è ancora solo in quei concetti esoterici che non si riferiscono al generato e al divenuto, ma alle pure cause del processo mitologico, nella cui consapevolezza appare restaurata la archi-coscienza, dalla cui disgregazione (Zertrennung) scaturì originariamente la mitologia.62

È ancora possibile sostenere che la mitologia è in grado di comprendersi, di spiegarsi da sé e per sé? Dobbiamo piuttosto sostenere che la mitologia, proprio nel suo progresso, nel suo sviluppo, tende a comprendersi; essa è sempre alla ricerca del suo senso proprio, della sua intelligibilità. Per la mitologia comprendersi significa innanzitutto ricordarsi, cercare, in un lungo movimento di anamnesi, di ritrovare la propria storia, di ritornare verso il suo punto di partenza catastrofico. Ma, occorre insistervi ancora, il cominciamento si svela solo alla fine e in un certo senso nell’insegnamento esoterico dei Misteri, fuori mitologia o sul suo bordo esterno. La vera retrospezione o meglio rammemorazione comincia in realtà con l’iniziazione. I misteri (di Eleusi e di Samotracia) sono il Verstand della mitologia. Ricapitolazione, interiorizzazione misterica formano come una sorta di ripetizione del processo mitologico che è esso stesso ripetizione del processo universale.

62.  SW, XII, p. 635; Filosofia della mitologia, p. 462.

137

La fine del mondo degli dèi Si capisce meglio ora in cosa consista il privilegio della mitologia greca. Se la mitologia greca è quella attraverso la quale si presentano o si espongono63 tutte le altre mitologie complete, è anche perché la mitologia greca, con lo sdoppiamento interno di essoterico e di esoterico, permette di mettere in evidenza nel modo più puro e più determinato i principi che ci danno la chiave di tutto il processo: Se perciò tra tutte le dottrine degli dèi, quella ellenica contiene i principi ultimi di tutta la mitologia nella purezza massima, ciò è così appunto perché essa è la più recente, quindi è pervenuta al massimo di consapevolezza e coscienza, dunque mostra, nella più pura distinzione e separazione, anche i principi che agivano ancora ciecamente confusi nei momenti precedenti, che si oscuravano e si combattevano reciprocamente. Non avrei mai potuto osare di far passare dal semplice materiale e dall’esteriorità nell’interiorità i principi generanti della mitologia e la legge della loro formazione e progresso, se non li avessi consapevolmente sviluppati ed esposti nella mitologia greca…64

La dottrina (Lehre) dei Misteri costituisce dunque un supplemento decisivo per la spiegazione della mitologia considerata innanzitutto nella sua dimensione di esperienza (Erfahrung). Quando Schelling decide di seguire a priori il movimento della Selbsterklärung, e il modo in cui questo attraversa tutta la mitologia, si basa già su diverse tesi che si riveleranno decisive per tutta l’economia della filosofia della mitologia. Ricordiamolo brevemente: È nella mitologia greca che si espone nel modo più determinato e più puro l’insieme del processo mito-teogonico. In ciascu-

63.  SW, XII, p. 670; Filosofia della mitologia, p. 493. 64.  SW, XII, p. 671; Filosofia della mitologia, pp. 493 s.

138

na delle grandi mitologie storiche complete (egiziana, indiana, greca), sono all’opera le stesse potenze; vi troviamo gli stessi movimenti di giunzione e disgiunzione delle potenze scisse, entrate in tensione (Spannung). È dunque possibile, nonché legittimo, far apparire in modo strutturale le concordanze o le corrispondenze tra le diverse figure divine delle diverse mitologie. In compenso non vi è derivazione, se non fortuita e non significativa, da una mitologia all’altra, non vi sono veri prestiti, ma una sorgente comune e degli sviluppi paralleli. Ecco dunque ciò che, di diritto, uno studio comparativo raccomanda. Tutte le mitologie attingono alla stessa sorgente: la mitologia affonda le sue radici nella Urbewußtsein, essa ne deriva, e le sue rappresentazioni costituiscono ogni volta altrettanti episodi nell’avventura della coscienza. Un solo e lo stesso processo mitologico, dunque, con delle «espressioni», delle formulazioni ogni volta diverse. È nella mitologia greca che la mitologia trova la sua presentazione compiuta, con Omero, gli Inni omerici, Esiodo, più che con Pindaro o i tragici. Nella misura in cui il processo teogonico ci compie nella coscienza greca, i Greci sono anche quelli che possono proporre la più completa elaborazione poetica del processo, una volta che questo è compiuto. Lungi dal ritornare qui sulla tesi, criticata a più riprese, della «finzione poetica» o della «favola», Schelling ricava tutte le conseguenze della sua critica, situando per così dire in un’epoca post-mitologica quei poeti che, come Omero o Esiodo, hanno dispiegato in un secondo momento il mondo degli dèi (Götterwelt). La mitologia greca, che trova la sua espressione compiuta nella poesia epica e didattica, è stata anch’essa oggetto, nel mondo ellenico, di un primo tentativo sostenuto, di uno sforzo di riappropriazione e di rammemorazione, in favore delle dottrine dei Misteri: i Misteri di Samotracia, ma soprattutto quelli di Eleusi che gravitano intorno alle figure maggiori di Persefone, Demetra, Dioniso. Anche la retrospezione, la logica

139

dell’après-coup all’opera nella filosofia della mitologia soprintendono al modo di procedere dei Misteri, rendendo possibile il lavoro di anamnesi nel quale consiste essenzialmente l’iniziazione65. La mitologia non può all’inizio spiegarsi da sola, comprendere il suo proprio cominciamento, ma noi ne spieghiamo il cominciamento così come se lo è spiegato quella che è giunta al termine e si è fatta cosciente di sé.66

La vera auto-spiegazione della mitologia inizia dunque con i Misteri, anche se la dottrina dei Misteri costituisce a sua volta solamente un presentimento della verità a venire: quella del cristianesimo. Una certa spinta dell’interprete è dunque sempre necessaria per spiegare a fondo, per esplicitare l’insegnamento dei Misteri. I misteri sono per così dire la coscienza della mitologia, il presentimento che il paganesimo possiede del proprio crepuscolo.

Ma questa coscienza non è pienamente compiuta. I Misteri sono ancora solo profetici: essi annunciano la morte di tutti gli dèi, compresa quella di Dioniso. È soprattutto la misteriologia che sostiene l’idea secondo la quale il paganesimo anticipa la rivelazione, se per lo meno è vero che l’idea del cristianesimo è

65.  Cfr. a proposito della logica generale dell’après-coup nella sua applicazione alla filosofia della mitologia, SW, XII, p. 645; Filosofia della mitologia, p. 471: «Am Ende zeigt sich was im Anfang war». Le figure di Dioniso e di Persefone forniscono qui due esempi privilegiati. A proposito della triade Zagreo, Bacco, Iacco, Schelling precisa ancora: «Quest’ultimo ci ha ricondotto al primo, poiché viene considerato come unito a lui e in parte completamente scambiato con lui, in un modo che risulta comprensibile, in generale, già dal fatto che la fine è di nuovo simile all’inizio ed è propriamente l’inizio ora esposto e determinato come tale, e quindi una fine esposta a un sovvertimento (Umsturz), a un processo e a una ripristinazione» (SW, XIII, p. 482; Filosofia della rivelazione, p. 801). 66.  SW, XII, p. 145; Filosofia della mitologia, p. 16.

140

una idea eterna, anteriore al Cristo stesso e alla sua incarnazione. Nella storia della coscienza, occorre dunque arrivare fino a dire che Gesù Cristo non costituisce una apparizione assolutamente senza precedenti. Lo schema tipologico si applica non solo alle relazioni, alle corrispondenze tra Nuovo Testamento e Antico Testamento, ma anche, e in modo più generale, a quelle che si stabiliscono tra il «fenomeno della mitologia» e il «fenomeno del cristianesimo». In tal senso, il paganesimo è prototipico del cristianesimo come dell’ebraismo. Possiamo riconoscere per esempio nella serie dei personaggi dionisiaci (Ercole, Bacco, Osiride) altrettante incarnazioni mitologiche del principio A2, altrettanti avvertimenti successivi dati da Dio (l’Uno, il Padre) alla coscienza pagana. Alle apparizioni di Dio nell’Antico Testamento risponde dunque, nella mitologia, la serie delle teofanie. Ma se occorre distinguere e rimarcare l’opposizione, è importante sottolineare anche la complementarità dell’essoterico e dell’esoterico: in verità, non vi è netta rottura tra la mitologia e i Misteri. «I misteri sono un prodotto naturale e necessario del processo mitologico»67. La cesura più netta sarebbe invece tra i misteri e il cristianesimo, nonostante le anticipazioni appena ricordate: la struttura tipologica della spiegazione dei fenomeni: Mitologia-Cristianesimo. Per noi i misteri sono un prodotto naturale e necessario del processo mitologico stesso, ne derivano, non potrebbero quindi esserne anteriori. Essi non cancellano (aufheben) il politeismo (Göttervielheit), ma contengono, come si è detto, la ragione (Verstand), il vero e proprio segreto (das eigentliche Geheimnis) di questa pluralità: non un segreto che sia in contrasto con essa o fuori di essa, bensì quel segreto che questa pluralità nasconde in sé.68 67.  SW, XIII, p. 442; Filosofia della rivelazione, p. 737. 68.  Ibidem.

141

L’iniziazione ai Misteri va compresa, ci dice Schelling, che in questo caso segue da vicino le testimonianze di Platone nel Fedone e nel Fedro, come una liberazione del processo mitologico, vale a dire anche degli dèi materiali, così come sono apparsi necessariamente per la coscienza nel corso di questo processo69. Questo è dunque liberazione dalla materia, dal corpo, dal divenire, dalla mortalità: Secondo la conoscenza che Platone aveva dei misteri, la vera beatitudine dell’epopteia consisteva nella restaurazione di quella pura coscienza originaria, ancora per così dire celeste e paradisiaca.70

È a partire da ciò che possiamo comprendere la funzione, l’efficacia (Wirkung) dei Misteri: l’opera dei Misteri mira a ricondurre l’iniziato alla felicità originale che era quella della coscienza primitiva. È l’iniziazione misterica che rende di nuovo sensibile il paradiesisches Verhältnis nel quale si trovava, rispetto al suo Urseyn, l’uomo originale. La funzione dei Misteri è dunque quella di trasferire la «coscienza del regno delle forme soltanto materiali al regno delle pure potenze spirituali»71. Un tale «spostamento» risponde in un certo modo alla caduta, intesa come allontanamento, scarto in rapporto al centro della creazione72. È precisamente questo spostamento che affranca, che libera la coscienza. L’iniziato si libera progressivamente degli dèi materiali che costituiscono la trama del processo mitologico73. 69.  SW, XIII, p. 450; Filosofia della rivelazione, p. 749. 70.  SW, XIII, p. 457; Filosofia della rivelazione, p. 761. 71.  SW, XIII, pp. 454-455; Filosofia della rivelazione, p. 757. 72.  Cfr. SW, XI, p. 206, Introduzione storico-critica…, p. 326 (tr. mod.), dove Schelling evoca la dottrina di Jacob Böhme e quella di Oetinger: Eine reelle Verrückung des Menschen von seinem ursprünglichen Standpunkte – «uno spostamento originario che allontana l’uomo dalla posizione originaria». 73.  SW, XIII, pp. 453; Filosofia della rivelazione, p. 755: «La beatitudine raggiunta con l’iniziazione consisteva appunto nel fatto che gli iniziati, liberati

142

Ciononostante si pone una domanda: il mettere in rapporto l’essoterico e l’esoterico, della mitologia e dei Misteri, non reintroduce forse lo schema esplicativo dell’allegoria nell’interpretazione del processo mitologico? Credo che possiamo rispondere negativamente, nella misura in cui la lingua dei Misteri è ancora quella della mitologia. I misteri contengono un insegnamento, una dottrina, ma anche – e questo punto è decisivo – una «presentazione», una «messa in scena» (δρώμενα, φαντάσματα, θεάματα) i cui protagonisti sono mitologici o ricavati dalla mitologia (come evidentemente nel caso di Demetra, di Persefone e di Dioniso…)74. Cosa vuol dire esattamente parlare la lingua della mitologia? Che cosa fa della mitologia una lingua? Innanzitutto il suo lessico, costituito dalle figure divine, ma soprattutto la sua sintassi comune. Non si tratta dunque a parlar propriamente di traduzione possibile delle mitologie nella lingua dei Misteri. Se c’è traduzione, essa è in qualche modo intralinguistica. Non si può sostenere semplicemente che ciò che si dice nella mitologia si intende una volta tradotto nella lingua dei Misteri. Perché la metafora o l’analogia: mitologia/lingua dovrebbe necessariamente reintrodurre, foss’anche surrettiziamente, tutta la potenza dello schema allegorico? Certo, Schelling arriva a precisare che «la dottrina dei misteri, non aveva certo alcun altro mezzo, per esprimere le sue idee, che quelli mitologici della generazione e della nascita». Ancora, dunque, è attraverso la storia, l’esperienza – e innanzitutto quella della riconciliazione di Demetra, disperata per il rapimento della figlia Persefone –, che si elabora l’insegnamendalla necessità del processo mitologico, erano posti in immediato contatto (Verkehr) con gli dèi puramente spirituali». 74.  SW, XIII, p. 467; Filosofia della rivelazione, p. 777: «I misteri non cessano di parlare il linguaggio della Mitologia, l’unico comprensibile per il loro tempo, per la coscienza di allora».

143

to dei Misteri. Insegnamento interdetto, ma soprattutto non detto, indicibile, proprio in mancanza di termini, di un’altra lingua per dirlo, per enunciarlo. Non bisogna dunque mettersi alla ricerca di una qualsiasi dottrina astratta che costituirebbe l’ultimo contenuto dell’iniziazione dei Misteri75. La dottrina dei misteri non è mai esistita astrattamente. An­ ch’essa veniva piuttosto mostrata storicamente, attraverso fatti reali – rappresentazioni sceniche.76

Anche se afferma che «i misteri contengono la spiegazione, la vera filosofia della Mitologia»77, Schelling non per questo rinuncia alla separazione radicale tra questa ultima figura del­ l’auto-esplicazione e l’esplicazione propriamente filosofica che si dispiega nella filosofia positiva. In cosa consiste la differenza? Proprio nella retrospezione, nell’inquadramento, nella messa in prospettiva economica che si apre solo a noi, adesso, oggi. La vera conquista dei Misteri è proprio quella dell’interiorizzazione, dell’Erinnerung, se vogliamo. Ma la rammemorazione non gioca se non attraverso una storia delimitata, in favore di una ripetizione di questa storia (la mitologia è innanzitutto, come abbiamo detto, Göttergeschichte)78. Riconoscere nella molteplicità esteriore delle figure divine i momenti convergenti di uno stesso processo unitario, questa è l’ultima conquista della dottrina dei Misteri. Gli dèi materiali, divenuti, sono così ricondotti ai loro principi generatori: le cause, le potenze, gli

75.  SW, XIII, p. 462 s.; Filosofia della rivelazione, p. 769: «Abbiamo dunque trovato nei misteri stessi quei principi da cui deriva tutta la Mitologia. E una spiegazione può essere detta completa soltanto quando le cause sono alla fine indicate come riconosciute nell’oggetto stesso». 76.  SW, XIII, p. 460; Filosofia della rivelazione, p. 765. 77.  SW, XIII, p. 409; Filosofia della rivelazione, p. 683. 78.  SW, XIII, p. 502; Filosofia della rivelazione, p. 833: «Ciò che esternamente appariva come storia degli dèi, internamente era soltanto la storia del dio passato attraverso vari momenti».

144

dèi spirituali. Ma in realtà, si tratta sempre delle stesse figure divine, considerate attraverso ottiche differenti, riconosciute o meno nel loro significato spirituale: Dobbiamo piuttosto pensare [circa il rapporto tra mitologia e Misteri] che anche gli dèi materiali possono venire considerati in due modi, e cioè nel primo caso, appunto in senso puramente materiale, ossia senza vero e proprio intelletto (Verstand) e senza una vera coscienza del loro significato; nel secondo caso, poi, in modo da riconoscere in essi soltanto degli dèi causanti, o da riconoscerli (essi stessi, dei materiali) come pure forme e per così dire travestimenti (bloße Formen oder gleichsam Verkleidungen) degli dèi causanti.79

Ciò che caratterizza i Misteri è dunque essenzialmente una nuova Betrachtungsweise, che non annulla tuttavia, né sopprime, gli dèi materiali, poiché sono proprio loro che, in favore di questa nuova considerazione, nella ripetizione della loro storia, si ritrovano spiritualizzati. La dottrina dei Misteri non tratta dunque propriamente di nuovi dèi: essa mette in evidenza gli dèi causanti80. Questi dèi elevati ad una potenza superiore sono proprio le «Pure potenze» (reine Potenzen), le «forze limpide» (lautere Mächte), le «cause» (Ursachen), così come emergono dal processo mitologico e dalla sua ripetizione misterica. Sono, precisa ancora Schelling, «gli dèi puramente operanti», efficaci, gli dèi causanti. Ma spetta al filosofo che considera in un secondo momento l’insieme dei documenti il compito di mettere in luce in seno alla Mysterienlehre «i principi da cui deriva tutta la mitologia»; spetta a lui il compito di darne la chiave, di decifrarne il segreto, di fornirne l’intelligenza

79.  SW, XIII, p. 454; Filosofia della rivelazione, p. 755. 80.  Schelling cerca di fondare la sua interpretazione degli dèi causanti attraverso numerose formulazioni, prese da Varron: Dii potes (SW, XIII, p. 461), Deorum Dii (ibidem), Dii penetrales, Dii consentes et complices (SW, XIII, p. 462; Filosofia della rivelazione, pp. 767-769).

145

(Verstand)81, seguendo certo la linea già tracciata o abbozzata dalla «dottrina», ma andando più lontano, fino a far veramente luce. Certo, come nota anche Schelling, «i Misteri non sono che la coscienza superiore, la coscienza comprensiva (begrei­ fendes Bewußtsein) della mitologia». Il vero contenuto della coscienza mitologica sono le potenze, cioè le cause a partire dalle quali tutta la mitologia può essere derivata, dedotta, ma ciò non significa in alcun modo che la Mysterienlehre anticiperebbe in qualche modo la Potenzenlehre dell’ultima filosofia. La dottrina dei Misteri ha compiuto un passo capitale rispetto alla mitologia: essa ha permesso di prendere coscienza dell’incatenamento, della concatenazione delle figure divine, spirituali, che sottendono il processo mitologico; essa ha permesso di riconoscere in questi differenti momenti le tappe del divenire di Dio; essa ha saputo decifrare in queste figure spirituali un solo e medesimo Dio: «personalità (Persönlichkeiten) successive di uno stesso Dio»82. Questo è l’ultimo insegnamento della dottrina dei Misteri: le diverse figure, i diversi momenti, rinviano tutte a un solo Dio, mobile e transitivo: ein und derselbe – aus sich, durch sich, in sich gehende – Gott. Accedendo all’intelligenza degli dèi causanti, essenziali, si scoprono le vere cause, le potenze il cui studio specifico emerge dalla filosofia pura: tutto il processo mitologico si muove intorno alle tre potenze. Queste sono l’essenziale nel processo, tutto il resto è più o meno accidentale. Esse sono le vere cause, i principi causatori del processo, e nella misura in cui esse appaiono alla coscienza come degli dèi, questi dèi che entrano solo successivamente nella coscienza, sono gli dèi veramente causatori, gli dèi essenziali. La mitologia non è nient’altro che la venuta successiva di questi dèi. 81.  SW, XIII, pp. 443 s.; Filosofia della rivelazione, p. 739. 82.  SW, XIII, p. 463; Filosofia della rivelazione, p. 769.

146

Il processo mitologico è, come abbiamo sottolineato, un processo reale, anche se il suo luogo è la coscienza, un processo fatto di eventi reali, e segnato da una serie di crisi. La dottrina dei Misteri, nella misura in cui essa appartiene essenzialmente alla mitologia e al suo processo, lungi dall’essere qualcosa di fittizio, di fabbricato, è un momento determinato dell’ultima ed estrema crisi della coscienza mitologica (o mitologicamente affetta). I misteri sono come una rappresentazione ripetuta – «una ripetizione del processo attraverso il quale la coscienza si supera definitivamente e si decide all’ultima conoscenza»83. La storia della mitologia (la mitologia come storia) si riproduce nei Misteri: ciò che dunque si ripresenta nella presentazione dei Misteri è altrettanto reale quanto ciò che ha costituito la trama del processo mitologico. Si tratta di un processo che, lo sappiamo, colpisce o ha colpito essenzialmente la coscienza. Niente di stupefacente, dunque, nel fatto che le principali figure dei Misteri siano delle figure femminili attraverso le quali proprio la coscienza ricapitola o interiorizza la sua relazione con il dio: Persefone, Demetra, di fronte all’ultimo Dioniso.

Il segreto più profondo dei misteri. Demetra, Persefone, Dioniso. Il vero segreto dei misteri è il terzo Dioniso: o meglio il Dioniso della terza potenza: dio del futuro, dio che viene, o ancora dio a venire. Questo dio la cui venuta annuncia un nuovo regno84. Il nome di questo Dioniso mistico è Iacco, quello che sposi in un matrimonio sacro (ἱερὸς γάμος) la Core che non è altri se non Persefone, ma la Persefone celeste, quella che ha 83.  SW, XIII, p. 443; Filosofia della rivelazione, p. 739. 84.  SW, XIII, p. 507; Filosofia della rivelazione, p. 841.

147

ritrovato la sua verginità presa o sorpresa all’inizio di tutto il processo da Zeus metamorfizzato in serpente. Persefone, all’inizio, era la possibilità ancora nascosta, non riconosciuta come tale, in ritiro nella prima coscienza (die verborgene Möglichkeit). È lei che è stata sorpresa in un luogo inaccessibile nel quale la madre credeva di averla messa al riparo. Sorpresa da Zeus, che aveva preso la forma di un serpente; il serpente si insinua in lei, e lei concepisce da questa singolare unione il primo Dioniso, Dioniso primogenito, l’antico «Dioniso Zagreo», il dio «feroce» e «selvaggio» (ὠμηστής), mangiatore di carne cruda, lo stesso che lei sposerà in seguito nella figura di Ade. Sono impressionanti le somiglianze tra questo primo episodio delle avventure di Persefone e la caduta di Adamo ed Eva. Tuttavia Schelling tiene a sottolineare in modo netto i limiti di tale comparazione: Sebbene io abbia paragonato un punto della dottrina di Persefone con quanto narra la Genesi del soggiorno del primo uomo, un tale accordo (Übereinstimmung) sarebbe assai male utilizzato, se lo si usasse per dimostrare che tutte le rappresentazioni mitologiche non sarebbero altro che deformazioni di verità bibliche rivelate. Ciò potrebbe essere solo se potessimo considerare anche quelle rappresentazioni come puramente accidentali. Invece io ho mostrato, ovvero lo ha mostrato la natura di queste stesse rappresentazioni, che esse si producono con necessità, provengono dalla natura più profonda, intima della coscienza. Esse sono attinte dalla stessa fonte da cui è anche attinta la Rivelazione, vale a dire dalla fonte della cosa stessa.

A contrario, Schelling si basa su tale «corrispondenza» per sostenere la sua tesi dell’originalità del mito o meglio dei miti, della dottrina di Persefone: «La mitologia spinge le sue radici ultime, come mostra appunto la dottrina di Persefone, fino nella coscienza umana archetipica»85. Ma l’idea di Dioniso non 85.  SW, XII, p. 160; Filosofia della mitologia, pp. 29 s.

148

si lascia a sua volta esporre senza che si debbano ugualmente mettere in evidenza le figure femminili che sempre lo accompagnano: «il contenuto completo ed esaustivo della più alta dottrina concepita nei misteri è il triplice Dioniso e la triplice coscienza corrispondente, o ancora la triplice divinità femminile che gli corrisponde in ogni momento»86. Perché questa presenza necessaria delle figure femminili, che si tratti di madre o di sposa, di madre e di sposa? Il processo mitologico si svolge nella coscienza e parte da una azione originaria della coscienza. Il processo affetta la coscienza, la quale è essa stessa raffigurata in tutte le tappe decisive del processo. Anche la coscienza è certo in ogni momento soltanto la coscienza di questo dio determinato, solo che essa, oltre a ciò, è per sua natura quella che semplicemente pone dio, e va quindi oltre quel momento determinato. Questa duplicità (Doppelseitigkeit) appare anche in tutte le divinità femminili […]. La divinità femminile o è sempre la coscienza del dio a lei parallelo, oppure è la coscienza di un dio più alto, che sopravviene.87

Nella figura del Dioniso della terza potenza, il paganesimo avverte il tempo del Figlio, il tempo del Cristo e del suo regno. Ecco ciò che possono mostrare alla fine i Misteri, pur essendo incapaci di dirlo. Impossibilità che è anche interdizione. L’idea di Dioniso – presente necessariamente in ogni mitologia88 – si esplicita nella mitologia greca attraverso tre distinte figure. Come sappiamo, Dioniso è questo dio, uno e sempre lo stesso, che opera attraverso tutto il processo mitologico, quello che «partito da sé, ritorna, attraverso di sé, in se stesso». Il processo è compiuto quando si può dire e riconoscere alla fine che «tutto è Dioniso»89. «Quell’uno che come tale viene riconosciuto 86.  SW, XIII, p. 464; Filosofia della rivelazione, p. 771 (tr. mod.). 87.  SW, XIII, p. 412, Filosofia della rivelazione, p. 689. 88. Cfr. SW, XIII, pp. 424 s.; Filosofia della rivelazione, p. 709. 89.  SW, XIII, p. 463; Filosofia della rivelazione, p. 771.

149

in tutti i momenti si chiama Dioniso, ossia Dioniso è il nome comune di quelle tre forme passando attraverso le quali il dio sorge e si genera per la coscienza»90. Che ne è di questo triplo Dioniso e delle tre figure femminili che gli corrispondono? Il Dioniso della prima potenza è Zagreo, figlio di Zeus e di Persefone91. Il Dioniso della seconda potenza è Bacco (Bákkhos), figlio di Zeus e di Semele. Il Dioniso mistico, infine, quello della terza potenza, è Iacco (Iakkhos), figlio di Demetra. Se il segreto dei Misteri porta il nome di Dioniso, ciò intorno a cui i Misteri ruotano, e in particolare quello di Eleusi, è Demetra. Demetra è la coscienza che si tiene nel mezzo, essendo essa divisa tra il dio reale e il dio liberatore (Dioniso2 secondo l’idea di Dioniso)92. Demetra raffigura, se vogliamo, la coscienza indecisa, strappata, tra le due figure divine alla quali continua ancora ad aderire. Rompere con il dio reale per Demetra equivale a perdere una parte di sé, sua figlia, rapita dal dio reale e trascinata nella sua caduta, nel suo divenir invisibile. Persefone, figlia di Demetra, è come una parte staccata dalla madre. Persefone rappresenta infatti questa parte della dea, della coscienza che è rimasta imprigionata dal dio reale, vale a dire dal principio che si è inizialmente imposto alla coscienza quando essa ha incautamente trasformato in potere transitivo ciò che all’inizio le si presentava solo come possibilità. È Persefone, sottomessa al processo teogonico, prigioniera, trascinata da questo processo, che prende su di sé la relazione di fascinazione nei confronti del dio reale. Possiamo così comprendere il racconto del rapimento di Persefone da parte di Ade. La parte della coscienza ammaliata dal dio reale, del quale essa è preda dall’inizio, deve seguire questo dio quando, dopo essere 90.  SW, XIII, p. 483; Filosofia della rivelazione, p. 801. 91. Cfr. SW, XIII, pp. 466 s.; Filosofia della rivelazione, pp. 773-777. 92. Cfr. SW, XII, p. 629; Filosofia della mitologia, p. 457. Cfr. anche SW, XIII, pp. 412 e 483 s.; Filosofia della rivelazione, pp. 689 e 801-805.

150

stato un tempo principe o Dio esclusivo, sprofonda nel passato, trapassa se vogliamo, in ogni caso diventa invisibile, signore di un mondo defunto, materiale sotterraneo: Hades, Ade. Hades-Ade, abbiamo qui ancora una delle figure di Dioniso superata, ricacciata nel passato. Ade e Dioniso sono lo stesso, ci dice Eraclito, nel senso del Dioniso Zagreo. Il primo dio, dio cieco, reale, è superato da un secondo dio, il Dioniso della seconda potenza: il liberatore (Lysios). Il dio vinto, ricondotto al suo in-sé, respinto nel passato, è o diventa simile al dio che lo ha superato. Lui stesso è il Dioniso della prima potenza: il dio diventato invisibile (Ade). Dioniso1, Zagreo, è Dioniso primogenito, il vecchio. Zagreo deve dunque ancora essere compreso come un ricalco di Ades, è il Dioniso ctonio, figlio di Zeus e di Persefone (der reale Gott überhaupt). Il Dio scisso, separato dall’essere, il dio isolato, ma anche defunto (abgeschiedener von Sein). Il Dio della seconda potenza, quello che ha superato il dio reale è Bacco, Dioniso il tebano (Lysios) il liberatore, dio benefico, il figlio di Zeus e di Semele. A proposito di questa triade singolarmente plastica, Zagreo, Bacco, Iacco, Schelling nota: Quest’ultimo ci ha ricondotto al primo, poiché viene considerato come unito a lui e in parte completamente scambiato con lui, in un modo che risulta comprensibile, in generale, già dal fatto che la fine è di nuovo simile all’inizio ed è propriamente l’inizio ora esposto e determinato come tale, e quindi una fine esposta a un sovvertimento (Umsturz), a un processo e a una ripristinazione.93

Per concludere ritorniamo al rapimento di Persefone: La cattura di Persefone aveva lasciato la madre ferita, disperata. Demetra afflitta prende il lutto, ma resta anche non riconciliata, invasa dalla collera, e si mette alla ricerca della figlia 93.  SW, XIII, p. 482; Filosofia della rivelazione, p. 801.

151

che le è stata appena strappata. I Misteri, come abbiamo ricordato, ruotano essenzialmente intorno a Demetra, presentono la riconciliazione della dea. Demetra è dunque la coscienza ferita, in lutto: essa «cerca quel dio che solo è l’unico, l’esclusivo, quello che soddisfaceva del tutto la coscienza». Quando Demetra si separa dalla figlia, quando Persefone le viene strappata, essa si separa, in realtà, da «ciò che è accidentale, puramente aggiunto al suo essere (das Zufällige, das Zugezogene ihres Wesens)». In quale misura è consentito di dire che Persefone è una figura accidentale, un aspetto contingente di Demetra? Proprio perché Persefone è un essere indeterminato, ambiguo, indeciso (natura anceps), non ancora definito. La decisione di Persefone porta con sé il suo rapimento da parte del dio reale. Per questo possiamo affermare a buon diritto che Persefone è l’occasione (Anlaß) dell’intero processo. Che Persefone sia la prima occasione di tutto il processo mitologico, certamente possiamo riconoscerlo solo alla fine. Persefone, l’essere ancora indeterminato (la diade dei Pitagorici) che è uscito dalla sua riserva, si è fatta innanzi, si è esposta (da ciò deriva il nome latino Proserpina, che Schelling fa derivare da pro-serpere). Persefone (die hervorgetretene) è «questa possibilità funesta (verhängnisvolle Möglichkeit) attraverso la quale tutto il processo si trova posto, nella misura in cui essa passa all’effettività o si fa avanti». In questa misura possiamo considerare Persefone come il principio soggettivo, il cominciamento soggettivo di tutta la mitologia. È per questa stessa ragione, prosegue Schelling, che «in modo del tutto conseguente», Persefone non può essere se non la madre di Dioniso, vale a dire quella che pone (porta e partorisce) il primo Dioniso, oggetto di superamento durante il processo, occasione obiettiva del processo. Ritorniamo a Demetra determinata come «das wesentlich Gottsetzende»: quello che, per sua essenza, pone dio. Questa posizione del dio le è talmente essenziale che Demetra non rinuncia

152

alla sua relazione esclusiva con il dio reale se non una volta diventata ciò che pone, vale a dire la potenza generatrice, la madre (e non solamente la nutrice) del terzo Dioniso: il Dioniso della terza persona, Dioniso Iacco (la posizione, la potenza del parto, la madre del terzo dio)94. Solo la nascita di Iacco riconcilia e tranquillizza Demetra: Iacco è «spirito essente e sollevato al di sopra di ogni pluralità, nel quale la pluralità ridiventa spiritualmente Uno». Questa riconciliazione, come abbiamo già sottolineato, non può aver luogo se non nei misteri, vale a dire dopo che il processo mitologico è terminato. Demetra rappresenta l’Urbewußtsein, l’archi-coscienza, prima di ogni dissociazione o scissione (Scheidung, Auseinandersetzung). È anche la prima figura femminile (weibliche Potenz), quella che risponde o corrisponde alla prima apparizione esclusiva o divorante del dio reale e che in tal modo fa nascere Persefone. L’ultima figura femminile, che risponde al Dioniso della terza potenza, è, per i Misteri, Core, la fanciulla. Core si rapporta a Persefone sposa di Ade come Iacco a Zagreo. Core è Persefone risuscitata, elevata a una potenza superiore: è la Persefone dall’alto, la Persefone celeste, quella che ha recuperato la sua verginità. I Misteri celebrano o ripetono la celebrazione del matrimonio mistico di Iacco e di Core95. È questo matrimonio mistico a mettere il punto finale al processo mitologico. La coscienza (Core) è ormai sottratta alla necessità del processo, all’influenza del dio reale. Inizia allora per lei un nuovo mondo, intravvisto «nel segreto più profondo dei Misteri». Un mondo che certo non è all’inizio solo presentito, un mondo

94.  SW, XIII, p. 484: «das Setzende, die gebärende Potenz, die Mutter des dritten Gottes»; Filosofia della rivelazione, p. 803. 95.  Si veda anche F.W.J. Schelling, Urfassung der Philosophie der Offenbarung, 2 voll., a cura di W.E. Ehrhardt, Meiner, Hamburg 1992, vol. I, p. 345.

153

ancora a venire: quello in cui Dioniso avrà a sua volta lasciato il posto al Cristo, «fine della Rivelazione»96.

Il dramma e il suo epilogo La mitologia dovrebbe allora essere colta come «fenomeno» in un senso del tutto diverso da quello che noi abbiamo evocato fin qui: nella mitologia si fenomenalizzano delle potenze il cui gioco conflittuale costituisce segretamente la trama dei racconti mitologici. La logica del mito-logico le è esteriore, trascendente: la mitologia mette in scena, rappresenta, raffigura, nel senso che ricaviamo dai Misteri eleusini, nei quali l’iniziazione consisteva nel ripetere, nel rappresentare tale o talaltro episodio della storia di Dioniso o di Demetra. L’interpretazione della mitologia che pretende di elaborarsi prendendo come filo conduttore la Selbsterklärung, lo sforzo di autocomprensione già all’opera nella mitologia, trova nei Misteri la dottrina (Lehre) che insieme ricapitola, commemora e ricava la lezione dall’esperienza (Erfahrung: erst Erfahrung, dann Lehre) che la coscienza mitologicamente affetta ha dovuto subire, patire senza tregua. I misteri racchiudono il segreto della mitologia; ne consegnano la chiave. Ma, come abbiamo visto, in favore dell’opposizione dell’essoterico e dell’esoterico, la dottrina dei Misteri, anche se non si lascia completamente astrarre dalle grandi figure mitiche che ne costituiscono come la lingua prima e che sono come il rivestimento indispensabile delle sue idee, è già contravvenuta al principio fondamentale dell’esplicazione immanente. Ricondurre gli dèi materiali agli dèi causanti, alle potenze segretamente agenti in tutto il 96.  SW, XI, p. 178; Introduzione storico-critica…, p. 286; cfr. anche SW, XIV, pp. 123 s.; Filosofia della rivelazione, pp. 1085-1087.

154

processo, non equivale a rinnovare in un certo modo l’interpretazione allegorica? Certo, Schelling non ritorna sull’affermazione della realtà del processo, della sua fattualità, e, se posso osare, della sua processualità, ma la verità del fenomeno mitologico si è tuttavia spostata. Se essa si lascia stabilire a titolo di verità storica, è solamente nella misura in cui si ritrova a doversi inscrivere in una storia superiore, in una storicità inaccessibile nel suo stesso principio ad ogni sforzo di comprensione mitologica, ad ogni autocomprensione. I misteri ci ragguagliano sulla mitologia, ne fanno emergere il senso. Ma non può trattarsi di altro che di un presentimento. La dottrina dei Misteri non sarebbe veramente e pienamente in grado di dire il segreto che essa cela a sua insaputa. Non solo perché le sarebbe interdetto di dire, in quanto l’esoterico non deve essere divulgato, ma perché la coscienza stessa che costituisce i Misteri mette al riparo una larga zona d’ombra, perché il segreto che essa annuncia deve restare anche per se stessa non detto e in parte non pensato. È al cristianesimo che spetta il compito di dirlo, o meglio alla filosofia religiosa, alla religione filosofica capace di restituire, nella prospettiva di una filosofia positiva, mitologia, misteriologia e Rivelazione.

Capitolo IV

La collocazione del giudaismo tra mitologia e rivelazione

L’interpretazione schellinghiana del giudaismo, lungi dall’essere marginale, appartiene al nucleo centrale della sua ultima filosofia nell’articolazione mitologia-rivelazione. A dire il vero, la questione è così complessa e multilaterale che occorre necessariamente scegliere tale o talaltro aspetto lasciando gli altri nell’ombra. Perché ci si può in effetti interrogare sulle fonti ebraiche del pensiero di Schelling (buon filologo ed ebraista), ed in particolare sulla sua lettura della Cabala del 1809 (epoca delle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana), e soprattutto a partire dal 1811, all’epoca della prima elaborazione del grande progetto incompiuto delle Weltalter, progetto al quale Schelling in un certo senso non rinuncerà mai. È ciò che ha fatto una volta August Wilhelm Schulze in un articolo ricco di documentazione Schelling und die Kabbala, comparso nella rivista «Judaica», XIII, 19571; si può anche, come 1.  Si devono oggi completare le informazioni raccolte da W.A. Schulze con la messa a punto di Ch. Schulte, Kabbala in der deutschen Romantik. Zur Einleitung e Zimzum bei Schelling, in E. Goodman-Thau et al. (a cura di), Kabbala und Romantik. Die jüdische Mystik in der romantischen Geistesgeschichte, «Conditio Judaica» 7, Niemeyer, Tübingen 1994, risp. pp. 1-19 e pp. 97-118. Cfr. anche Ch. Schulte, F.-W.-J. Schellings Ausleihe von Handund Druckschriften aus der königlichen Hof- und Staatsbibliothek zu Mün-

156

ha fatto Werner Cahnman, studiare l’influenza di Schelling sul pensiero ebraico, di Isaac Bernays, passando per Hirsch Maier Loewengard, fino a Rosenzweig e Scholem2.

I documenti più antichi Per Schelling, il giudaismo o meglio la «situazione» del giudaismo non è un tema regionale, ma una parte essenziale del dispositivo dell’ultima filosofia che non è né filosofia della religione, né una filosofia religiosa che si regola a partire da una qualche ortodossia. L’ultima filosofia di Schelling si lascia dunque caratterizzare come una filosofia positiva contraddistinta dalla filosofia razionale pura. La Filosofia positiva è innanzitutto un empirismo superiore, l’esercizio di un pensiero attento al «fatto», alla storicità, alla aposteriorità3. Essa richiede di per sé un ampliamento (Erweiterung) della filosofia destinato a cogliere, senza sacrificare i diritti e le esigenze del concetto, l’insieme dei fenomeni che sono indeducibili, irriducibili all’auto-dispiegamento della ragione. Ma la preoccupazione della positività significa innanzitutto, per un buon ebraista che si picca di filologia, prestare attenzione alle testimonianze, ai documenti, in un sol termine alla Scrittura.

chen, in «Zeitschrift für Religions- und Geistesgeschichte», XLV, n. 3, 1993, pp. 267-277. 2.  Cfr. W.J. Cahnman, Friedrich Wilhelm Schelling and the New Thinking of Judaism, in Id., German Jewry. Its History and Sociology, a cura di J.B. Maier, J. Marcus e Z. Tarr, Transaction Publishers, New Brunschwick-Oxford 1989, pp. 209-248. Questo notevole studio è ripreso nel collettivo citato nella nota precedente: Kabbala und Romantik, pp. 167-205. 3.  Cfr. F.W.J. Schelling, Urfassung der Philosophie der Offenbarung, cit., vol. I, p. 5: «il Sistema storico afferma che tutto riposa sulla volontà, la libertà e il fatto vero».

157

Dall’epoca delle Weltalter, Schelling insiste in questo senso sul carattere originale dell’Antico Testamento, zoccolo, base, assise fondamentale del Nuovo. E in una osservazione capitale, presentata come en passant, poco prima del primo grande sviluppo dedicato alla questione dei nomi divini, Schelling sottolinea che se si vuole trattare scientificamente dei «primi cominciamenti» – ed è proprio questo l’obiettivo centrale del grande progetto incompiuto delle Età del mondo –, se ci s’impegna nell’esporre la vita divina prima della creazione del mondo, secondo una prospettiva interamente teogonica e cosmo­gonica, è importante potersi ricollegare ad una tradizione antica, solida, riconosciuta. E Schelling si interroga: Dove potevo trovare ora questa tradizione se non nei documenti eterni (Urkunde), eternamente riposanti su se stessi, che soli contengono una storia del mondo e dell’uomo dall’ini­ zio alla fine? (eine vom Anfang bis zum Ende hinausgehende Welt- und Menschengeschichte).4

È la Scrittura a consegnarci questi documenti, aprendo così la possibilità di una riflessione insieme archeologica ed escatologica. Si vede così apparire in Schelling, a partire dal 18111815, l’idea di storia superiore5, di economia, di connessione generale delle epoche, dei tempi, delle età o ancora di ciò che egli chiama «sistema dei tempi»6. È questa preoccupazione di appoggiarsi sui più antichi documenti, indispensabili se si vuole assicurare l’intelligenza della connessione di insieme

4.  SW, VIII, p. 271; Le età del mondo [1815/17], pp. 571-573. 5.  Cfr. Xavier Tilliette, «Die höhere Geschichte», in Schelling, seine Bedeutung für eine Philosophie der Natur et der Geschichte, Schelling-Tagung, Zürich 1979, pp. 193-204. 6.  Philosophische Entwürfe und Tagebücher, 1809-1813, cit., p. 145. Si tratta del motivo delle Età del mondo o degli «eoni» che sarà ripreso nella Filosofia della rivelazione, lezione XXVIII: SW, XIV, pp. 109 s.; Filosofia della rivelazione, pp. 1061-1065.

158

della storia, che giustifica il ritorno o il ricorso alla Scrittura e innanzitutto all’Antico Testamento, nell’ambito di una ermeneutica speculativa, libera da ogni ortodossia: Infatti nessuno vorrà affermare che il presente corpo di concetti dottrinali abbia esaurito le ricchezze della Scrittura; nessuno negherà che non è stato ancora trovato il sistema in grado di spiegare (erklären) tutte le dichiarazioni della Scrittura e di accordarle perfettamente. Una quantità di luoghi estremamente significativi deve sempre necessariamente venire lasciata nell’oscurità e messa da parte. […] In una parola, manca il sistema interiore (esoterico), a cui dovrebbero venire iniziati soprattutto i docenti (… es fehlt mit Einem Wort an dem inwendigen [esoterischen] System, dessen Weihe ganz besonders die Lehrer haben sollten). Ciò che però in particolare impedisce loro di giungere a questo tutto è una indebita e negligente trascuratezza dell’Antico Testamento, nel quale essi (per non parlare di coloro che l’hanno completamente abbandonato) tengono per essenziale solo ciò che è ripetuto nel Nuovo. Senonché il Nuovo Testamento è costruito sul fondamento dell’Antico ed è evidente che lo presuppone. Gli inizi, i primi grandi punti di quel sistema che si sviluppa fino alle parti estreme del Nuovo Testamento si trovano solo nell’Antico. Ma appunto gli inizi sono l’essenziale […]. Nelle rivelazioni divine c’è una connessione che non può venire compresa nella sua parte centrale [il Cristo], ma solo a partire dall’inizio (… Es ist ein Zusammenhang in den göttlichen Offenbarungen, der nicht in seiner Mitte, der nur vom Anfang her begriffen werden kann).7

Si può ancora segnalare un’altra illustrazione di questa volontà, costantemente riaffermata da Schelling, di far ricorso ai documenti più antichi per nutrire le sue analisi «concettuali». Correndo il rischio – è fin troppo chiaro – di un movimento circolare, in un corso davvero notevole del 1830, Einleitung

7.  SW, VIII, pp. 271-272; Le età del mondo [1815/17], pp. 573-575.

159

in die Philosophie, Schelling si impegna innanzitutto a mettere in luce il concetto di Dio, determinato essenzialmente in termini di volontà o di spirito: Der Wille, der zu seyn, der er sein wird, ist er selbst. – Dio stesso è «questa volontà di essere colui che sarà».

Prima di rinviare ai «Libri dell’Antico Testamento»: I libri dell’antico testamento appartengono alla comune ricerca e non dovrebbero più restare solo nelle mani dei teologi. Quei libri ci offrono più dei tesori della Persia e dell’India.8

L’antichità della testimonianza biblica contribuisce ad accrescere il suo interesse e la sua importanza: Poiché nel corso di tutta la filosofia moderna il nome «Dio» è stato usato e abusato in così disparati concetti, sarà necessario risalire fino al tempo in cui quel concetto fu per la prima volta fissato nella coscienza umana. Ma tutti i più antichi documenti hanno profanato il concetto di «Dio» più di quei libri. In essi si riflettono i rapporti di un originario passato del mondo, illuminato per così dire dai lampi di oscure nubi.9

Il nome dell’Esodo, i nomi divini Dopo questa considerazione metodologica generale, Schelling giunge all’esame del nome rivelato a Mosè (Es. 3, 14): ‫אשר אהיה‬ ‫’ – אהיה‬Ehye ’asher ’Ehye. Si tratta di una delle innumerevoli analisi di questo passaggio dell’Esodo nel corpus schellinghia-

8.  F.W.J. Schelling, Einleitung in die Philosophie, cit., pp. 103 s.; tr. it. cit., p. 98. 9.  Ivi, pp. 103 s.; tr. it. cit., pp. 98 s. Possiamo qui rinviare alle eccellenti intuizioni di J.E. Wilson, Schellings Mythologie, cit., e in part. alla sez. 17.4: Offenbarung im Heidentum: Das Alte Testament, pp. 218 s.

160

no. La rivelazione del nome, insiste qui Schelling, è rivelazione di ciò che Dio è. «Io sono colui che sarò». Cos’altro significa se non: «io sono ciò che sono non in maniera sostanziale, ma attraverso volontà e azione», ovvero: «Io non sono nient’altro che la volontà di essere colui che sarò»? Dio è dunque la volontà non di essere colui che Egli è, ma di essere colui che sarà. […] Il primo o vero concetto di Dio è quello del suo futuro, cioè il concetto secondo il quale Dio è la volontà di essere colui che sarà […].10

Quando Schelling riflette sul concetto di rivelazione, sottolinea che questo implica sempre un atto, una volontà di manifestarsi che emerge da un velamento o da un oscuramento preliminari11 e, in questo senso, egli la oppone ad ogni processo naturale o necessario al termine del quale qualcosa appare o si manifesta. Così la rivelazione è sempre svelamento, dis-occultazione, ma essa può anche essere dissimulazione, travestimento (Verstellung), ed in ogni caso essa non è mai totale o senza resto, bensì comporta sempre nel suo fondo un ritiro o una riserva; essa sopraggiunge, colpisce e stupisce, fa evento in maniera 10.  F.W.J. Schelling, Einleitung in die Philosophie, cit., pp. 104 s.; tr. it. cit., p. 99: «Ich bin, der ich sein werde. Was heißt dieses anders, als ich bin, was ich bin, nicht substantiellerweise, sondern durch Willen und Tat, oder ich bin nicht anders, als der Wille der zu seyn, der ich sein werde. Gott ist also der Wille, nicht der zu seyn, der er ist, sondern der er sein wird. […] Der erste oder wahre Begriff Gottes ist der seiner Zukunft, daß er nämlich der Wille sei, der zu seyn, der er sein wird». Cfr. anche F.W.J. Schelling, Urfassung der Philosophie der Offenbarung, cit., vol. II, p. 500. – Sull’interpretazione schellinghiana dei nomi divini, ci si permetta di rinviare al nostro studio: Du Dieu en devenir à l’être en venir, in J.-F. Courtine, Extase de la Raison. Essais sur Schelling, Galilée, Paris 1990, pp. 203-236; tr. it. di G. Strummiello, Dal Dio in divenire all’essere a venire, in J.-F. Courtine, Estasi della ragione. Saggi su Schelling, Rusconi, Milano 1999, pp. 235-270. 11.  Cfr. F.W.J. Schelling, Urfassung der Philosophie der Offenbarung, cit., vol. II, pp. 492 ss.

161

inattesa e impossibile da anticipare: essa apre una storia nella quale essa stessa si storicizza, si temporalizza secondo delle età o delle epoche determinate. In questo senso è necessario opporre l’insieme delle rivelazioni divine al processo mitologico che Schelling per contro caratterizza come un processo naturale, necessario, che deve percorrere tutte le sue tappe. Ma occorre anche notare che questo processo che ha come teatro la coscienza umana, colta, colpita e come allucinata dal dio o dal divino (una figura, un momento o una potenza del divino)12, sopraggiunge anche alla coscienza, colpisce l’intera umanità nella sua storia aperta dalla caduta13, e mette in gioco il dio stesso, la sua vita e il suo divenire; questo processo è anch’esso teogonico e non potrebbe dispiegarsi senza Dio. Al contrario di Jacobi e Schlegel, Schelling rifiuta in modo sempre più netto di individuare il suo punto di partenza in un concetto universale della rivelazione, così come in una idea di Uroffenbarung, che stabilisce un monoteismo primitivo. Per Schelling, al contrario, se la coscienza dell’uomo primitivo è certamente caratterizzata dal suo rapporto immediato con il Dio, tale rapporto non è ancora una conoscenza del vero Dio riconosciuto come tale e con distinzione (mit Unterscheidung). L’interpretazione schellinghiana della Genesi ci vede al contrario una testimonianza del fatto che la primissima generazione umana non aveva ancora veramente coscienza del vero Dio come tale, così come mostra l’analisi dei nomi divini: Elohim, El Schaddai, El’Olam, e infine il tetragramma: 12.  Su questo tema, cfr. lo studio classico di L. Pareyson, Lo stupore della ragione in Schelling, cit. 13.  Cfr. I. Kant, Mutmaßlicher Anfang der Menschengeschichte, Ak. Aus., VIII, pp. 112-115; tr. it., Congetture sull’origine della storia, in Id., Scritti politici, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, UTET, Torino 19953, pp. 195-211.

162

YHWH. Elohim è il nome del dio che non è ancora contenuto immediato della coscienza. Elohim è il dio indistinto, mentre Jehovah è il dio distinto: Dal momento che però Jahvè è al tempo stesso Elohim, e Elohim altri non è che Jahvè, la differenza tra i due può perciò consistere unicamente nel fatto che Elohim è il dio ancora indistincte, mentre Jahvè è il dio distintosi come tale.14

In ogni caso, la coscienza primitiva è «teo-tetica», posizione della divinità15. Tesi che si esprime in particolare in modo stupefacente in un corso pronunciato a Berlino nel 1845-1846, per il quale noi disponiamo oggi degli appunti presi da Henri-­ Frédéric Amiel: Prima della coscienza di sé, può esservi solo coscienza di Dio. – La questione è stata sempre posta in modo sbagliato: Come la Coscienza arriva a Dio? Non ci arriva, ma da esso parte. […] Il monoteismo dell’Urbewußtsein […] è l’assorbimento dell’uomo in Dio. […] Il teismo è il fondo comune del politeismo e del monoteismo; è l’indifferenza, il riposo dei due e il loro antecedente. […] L’umanità, in tal senso, è innanzitutto un-frei; colta da una potenza estranea, fuori di sé…16

La filosofia della mitologia si impegna qui nel compito di ritracciare la storia di una lunga e dolorosa liberazione: la coscienza si libera del rapporto immediato con Dio per accedere 14.  SW, XI, p. 146; Introduzione storico-critica…, p. 247. 15.  SW, XII, p. 111; Il monoteismo, p. 105. Cfr. anche F.W.J. Schelling, Philosophie der Mythologie. Nachschrift der letzten Münchener Vorlesung 1841, a cura di A. Roser e H. Schulten, «Schellingiana» 6, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1996, p. 146: «Das Urbewußtsein kann nicht anders bestimmt werden als so, daß es das seiner Natur nach Gott setzende ist…». 16.  La philosophie de la mythologie de Schelling d’après Charles Secrétan (Munich 1835-36) et Henri-Frédéric Amiel (Berlin 1845-46), a cura di L. Pareyson e M. Pagano, Mursia, Milano 1991, pp. 227, 230, 232.

163

a sé, alla coscienza di sé; da teo-tetica, essa deve diventare a-tea17. Fondandosi sulla considerazione dell’Urbewußtsein, in preda al divino, Schelling potrà mettere in parallelo questa volta le rivelazioni dell’Antico Testamento e le teofanie del paganesimo. Una delle conseguenze più chiare dell’interpretazione «tautegorica»18 della mitologia, una delle conseguenze del rifiuto di considerare l’insieme dei «mitologumeni» come delle allegorie o delle finzioni poetiche, consiste nel situare nell’eco­ nomia generale, o nella storia superiore della Rivelazione, lo stesso processo mitologico o il momento del «paganesimo». Per tale ragione nell’Introduzione, la critica delle interpretazioni allegoriche o «empiriste» dei mitologumeni vale anche contro certi esegeti della Bibbia: Meno di cinquant’anni fa i filologi veterotestamentari si sarebbero burlati di un interprete che avesse preso alla lettera la pioggia di pietre menzionata nel libro di Giosuè, e non come una semplice grandinata; infatti, questo è certo il più semplice sollievo, che chiunque può procurarsi, contro idee che lo

17.  Cfr. X. Tilliette, La mythologie comprise, cit., e L. Procesi, La genesi della coscienza nella Filosofia della mitologia di Schelling, cit., pp. 77 s. 18.  Cfr. SW, XII, p. 139; Filosofia della mitologia, p. 10. Schelling si riferisce espressamente a Coleridge. Cfr. anche SW, XI, pp. 193 s., Introduzione storico-critica…, pp. 309 s.: «A causa della necessità con cui nasce anche la sua forma, la mitologia ha un senso assolutamente proprio; occorre cioè riconoscere che, in essa, ogni cosa significa esattamente ciò che dice, né bisogna immaginarsi che voglia dire e significhi qualcosa di diverso da ciò che dice. La mitologia non è allegorica, ma tautegorica. Dal punto di vista della mitologia, gli dèi sono esseri realmente esistenti, non sono qualcosa di diverso, né significano qualcosa di diverso, bensì significano solo ed esclusivamente ciò che essi sono». Per una riflessione approfondita e originale sulla tautegoria nella filosofia schellinghiana della mitologia, rinviamo all’importante opera di M. Gabriel, Der Mensch im Mythos, cit., cap. II, § 11, e in part. pp. 256 s.

164 disturbino. […] Innanzitutto una spiegazione deve rendere giustizia a ciò che spiega, non deve disprezzarne, svalutarne, sminuirne o deformarne il significato, al fine di renderlo più facilmente comprensibile. Qui dunque non è in questione quale opinione debba assumersi del fenomeno, affinché esso, reso conforme ad una qualsivoglia filosofia, possa essere agevolmente spiegato, ma viceversa, quale filosofia si richieda, affinché, cresciuta con l’oggetto ne sia all’altezza, […] fino a che punto i nostri pensieri devono ampliarsi, per essere in rapporto con il fenomeno.19

La storia della coscienza La filosofia della mitologia ha come primo obiettivo quello di far emergere le «connessioni tanto profonde quanto vaste» delle rappresentazioni mitologiche, sottolineando la doppia articolazione del processo mitologico e delle epoche della rivelazione. Ma ciò implica anche un senso nuovo per la storicità, per questa storia superiore che resta nello stesso tempo storia della coscienza, genesi o genealogia della coscienza: Finché la filosofia presuppose in genere lo stato attuale delle cose della coscienza umana come l’unica misura valida in generale, e vide questo stato come uno stato necessario ed eterno in senso logico, non poté affatto concepire ciò che va oltre lo stato presente della coscienza umana, che lo trascende.20

Questa storicità della coscienza non può emergere se non secondo una logica après-coup, in funzione di una retrospezione immediatamente teleologica, così che «hanno vista migliore non coloro che le sono più vicini nel tempo, ma proprio i più di-

19.  SW, XII, pp. 136 s.; Filosofia della mitologia, p. 8. 20.  SW, XII, p. 140; Filosofia della mitologia, p. 11.

165

stanti, ovvero coloro che siano già di nuovo più prossimi all’ultima evoluzione della coscienza presente». Piuttosto, in quanto all’inizio del processo mitologico la coscienza è piombata in preda di un potere (Gewalt) totalmente cieco e per lei stessa del tutto incomprensibile, […] allora solo alla fine la coscienza mitologica si chiarirà le proprie origini, vale a dire laddove quel potere (Gewalt) sia stato per lei già sconfitto o sia prossimo alla sconfitta.21

È in questo momento che la prima connessione tipologica sulla quale Schelling insisteva, per esempio nel citato passaggio delle Età del mondo22, può complicarsi per lasciar spazio ad altri rapporti privilegiati, in particolare tra paganesimo e cristianesimo. Tutta la XXVII lezione della Filosofia della rivelazione è dedicata a tale questione: I pagani erano per così dire banditi dalla vista del Padre, ma egli diede appunto loro Cristo come Signore, sebbene questi agisse tra loro solo come potenza naturale. Il Paganesimo – appunto per il fatto che il Cristianesimo non è la sua assoluta negazione, ma la sua verità – ha anche in sé una verità relativa.23

Il passaggio è così eccezionale per il fatto che da un lato ripete il motivo paolino del Cristo come luce delle Genti24, ma 21.  SW, XII, p. 145; Filosofia della mitologia, p. 16. 22.  L’Antico Testamento è la base o l’assise fondamentale corrispondente al tempo del Padre, dio geloso caratterizzato dalla collera. Cfr., tra le altre, F.W.J. Schelling, Urfassung der Philosophie der Offenbarung, cit., vol. II, p. 491. 23.  SW, XIV, p. 78; Filosofia della rivelazione, p. 1011. Cfr. F.W.J. Schelling, Urfassung der Philosophie der Offenbarung, cit., vol. II, pp. 458 s.: «Il paganesimo ha proprio in se stesso una verità relativa, in quanto il cristianesimo non è la sua negazione pura e semplice, ma solamente la sua verità, e anche nel paganesimo il Cristo opera, seppur non in quanto Cristo». 24.  Cfr. SW, XIV, p. 75; Filosofia della rivelazione, pp. 1005-1007. Il Paganesimo è anche «il tempo della cecità».

166

dall’altro lato sposta la struttura della tipologia, classicamente applicata all’Antico Testamento, in direzione del paganesimo. Il paganesimo comporta la sua parte di verità, esso non è abolito dal cristianesimo in modo puro e semplice, ma è piuttosto, in un certo senso, superato (nel senso hegeliano dell’Aufhebung). Ciò che di solito vale per giudaismo in rapporto al cristianesimo si applica qui al rapporto gentili-cristiani. Schelling può dunque scrivere: «Cristo era in un certo senso più per i pagani che per i Giudei»25. È questo stesso capovolgimento del rapporto fondativo tra giudaismo e cristianesimo che giustifica ai suoi occhi la «diaspora»: Così i Giudei, avendo travisato e omesso il passaggio al cristianesimo, si esclusero dal grande movimento della storia. Essi dovettero cessare di essere un grande popolo, e venire dispersi e sparpagliati tra gli altri popoli. […] Così il popolo giudeo fu soffiato via e non ha più, da allora, nessuna storia propria, autonoma; esso è in senso rigoroso, escluso dalla storia.26

A dire il vero, questa separazione non fa che ripetere quella che ha già avuto luogo all’inizio della storia, con Abramo e gli Abramidi. Quando apparve il politeismo, strumento della divisione in popoli dell’umanità primitiva, la conoscenza del vero Dio non si è mantenuta se non presso una sola generazione che è al di fuori dei popoli, ed è il fatto di non essersi particolarizzata che diventa la particolarità forte di questa «generazione»27. «È così che la vera religione e la rivelazione non si trovano né nell’umanità, né presso un popolo, ma in una generazione che è rimasta al di fuori dell’evoluzione in dire-

25.  SW, XIV, p. 149; Filosofia della rivelazione, XXIX lezione, p. 1129. 26.  SW, XIV, p. 150; Filosofia della rivelazione, XXIX lezione, p. 1129. 27.  SW, XI; Introduzione storico-critica…, VII lezione.

167

zione dello stato di popolo»28. Affermazioni alle quali fanno eco gli appunti presi da Amiel: La conoscenza del vero Dio non è in un popolo, essa è conservata in una solo razza che è al di fuori dei popoli. Essa è al di fuori dell’umanità, dal momento in cui l’umanità è diventata popolo e politeista (come quando il latte si caglia, ciò che non si caglia non è più latte). La vera religione e Rivelazione resta in una razza, quella di Abramo, opposta a tutti i popoli. I popoli sono attaccati a un dio.29

Il crocifisso, fratello di Dioniso Se per Schelling Cristo è presente fin dall’inizio del processo mitologico e se il cristianesimo è tanto antico quanto il mondo, allora, scriveva ancora Amiel a partire dal corso del 1845-’46: La funzione mediatrice del Cristo non è cominciata solamente con la sua apparizione nella carne, ma essa ha esercitato la sua azione già dall’inizio del mondo: con la Caduta.

Se dunque il Cristo è all’opera nel paganesimo, ma sotto forma di figure «naturali» differenti, diventa possibile considerare delle «prefigurazioni» del cristianesimo persino nel paganesimo e in particolare associare Cristo alla figura di Dioniso o più precisamente a ciò che Schelling tematizza come il terzo Dioniso: il dio che viene o il dio a venire. È questa nuova prospettiva tipologica che spiega l’importanza capitale data da Schelling a ciò che per lui costituisce il momento di transizione, cioè i Misteri eleusini, i quali rappresentano il compimento della mito-

28.  F.W.J. Schelling, Les Âges du monde [vers. 1815], tr. fr. di S. Jankélévitch, Aubier, Paris 1949, p. 188. 29.  Op. cit., p. 225.

168

logia greca, essa stessa compimento e perfezione del processo mitologico: Il paganesimo stesso si compie con una profezia del Cristianesimo.30

Si riconosce qui un motivo comune a Schelling e a Hölderlin, quello del trifoglio, evocato in particolare nell’inno tardivo Der Einzige, che associa Eracle, Dioniso, Cristo31. Nelle Lezioni sul metodo dello studio accademico, Schelling faceva già del Cristo l’ultimo degli dèi greci: «la vetta e la fine dell’antico mondo degli dèi»32. Ma quando Schelling fa apparire in tal modo il paganesimo come sfondo del cristianesimo sul quale questo si allontana, si separa o si distacca, egli non intende tornare in modo puro e semplice sulla tesi precedentemente illustrata – il Nuovo Testamento ha come presupposto fondamentale l’Antico –, ma piuttosto allargare la connessione, prendere in grande considerazione lo Zusammenhang della storia superiore: Loro vedono che il Cristianesimo, in quanto poniamo al suo fondo l’intero grande Paganesimo, ha una base della sua realtà molto più grande e poderosa […]. Il Cristianesimo non è venuto fuori unilateralmente dal Giudaismo, esso ha a proprio presupposto il Paganesimo quanto il Giudaismo.33

30.  Si veda supra, cap. III. 31.  Cfr. M. Frank, Der kommende Gott. Vorlesungen über die Neue Mythologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1982. Ci permettiamo di rinviare al nostro lavoro: De l’Hen kai Pan à l’Unique. Le Christ de Hölderlin, in «Archivio di filosofia», n. 1, 2014, pp. 343-360. 32.  Si veda anche la tr. fr. di J.-F. Courtine e J. Rivelaygue, in Philosophies de l’Université, cit., p. 112. 33.  SW, XIV, p. 78; Filosofia della rivelazione, p. 1011. Cfr. anche F.W.J. Schelling, Urfassung der Philosophie der Offenbarung, cit., vol. II, p. 492: «Il paganesimo e la religione veterotestamentaria furono l’uno come l’altra – uno eodemque actu – superate (aufgehoben). […] Il Cristo è il fine della

169

È l’assoluta centralità del Figlio, mediatore e conciliatore, che porta a riconoscere la sua presenza persino nella mitologia, o meglio come ciò che, nel processo mitologico, a titolo di secondo dio liberatore, assicura a questo il suo proprio movimento, il suo orientamento teleologico. È dunque legittimo sostenere che il Figlio, come «persona nascosta nella potenza soltanto naturale» è «la causa di ogni rivelazione». Il termine, occorre sottolinearlo, è preso nella sua accezione più ampia che ingloba sia la rivelazione propriamente detta, quella trasmessa nelle Scritture, sia tutte le teofanie del paganesimo nelle quali, anche se sotto aspetti ingannevoli, spaventosi, fuorvianti, è sempre il dio o qualcosa del dio che appare. Così implicite Cristo è presente già anche nel Paganesimo, sebbene non come Cristo. Nell’Antico Testamento Cristo è già come Cristo, ma colto ancora nel suo venire. Nel Nuovo Testamento Cristo come Cristo è anche rivelato.34

Schelling intende qui illustrare il paragone paolino (Rm 11,1624) dei due ulivi, l’olivo selvatico e l’olivo domestico: E se la primizia è santa, anche la massa è santa; e se la radice è santa, anche i rami son santi. E se pure alcuni dei rami sono stati troncati, e tu, che sei olivastro, sei stato innestato in luo-

rivelazione così come è il fine del paganesimo. L’apparizione effettiva del Cristo è più di una semplice rivelazione, proprio perché ha abolito (aufhebt) il presupposto della rivelazione, e con essa la rivelazione stessa. Nell’Antico Testamento restava la presupposizione della rivelazione, ed è per questo che l’Antico Testamento è per eccellenza il tempo della rivelazione. Il Cristo abolisce (aufhebt) ogni presupposizione; nella misura in cui abolisce con essa la rivelazione, ne è esso stesso lo scopo e la fine». – Già la Filosofia dell’arte di Würzburg interpretava il Cristo, Dio fatto uomo, come «cima e fine del mondo antico degli dèi» (cfr. D. Jähnig, Philosophie und Weltgeschichte bei Schelling, in Id., Welt-Geschichte: Kunst-Geschichte. Zum Verhältnis von Vergangenheitserkenntnis und Veränderung, DuMont Schauberg, Koln 1975, pp. 38-67: p. 47). 34.  SW, XIV, p. 88; Filosofia della rivelazione, pp. 1027-1029.

170 go loro e sei divenuto partecipe della radice e della grossezza dell’ulivo, non t’insuperbire contro ai rami; ma, se t’insuperbisci, sappi che non sei tu che porti la radice, ma la radice che porta te.35

È proprio il mettere in evidenza questa connessione superiore36 a condurre all’idea di una doppia economia formulata all’inizio della XXVII lezione: Cristo era già anche nella Mitologia, seppur non come Cristo. I Pagani erano dunque certamente χωρὶς Χριστοῦ (Efesini 2, 12), separati da Cristo, da Cristo cioè come tale; e tuttavia fu questa potenza naturale quella che doveva morire in Cristo, fu questa ciò attraverso cui essi furono illuminati, e che sola si interessò di loro. Il Padre, infatti, che si fece inaccessibile all’essere extradivino, si era ritirato anche esternamente nella coscienza di un popolo piccolo, insignificante, respinto in un cantuccio del mondo […]. E anche qui il Padre appariva solo come bisognoso di una riconciliazione stabile. Cristo, viceversa, fu – sebbene ancora nella sua azione meramente naturale – luce dei Pagani: egli fu la potenza propria del Paganesimo. In questo egli si formò il terreno che solo doveva accogliere il seme del cristianesimo, per il quale il Giudaismo sarebbe stato troppo angusto. Paganesimo e Giudaismo erano due distinte economie che dovevano fondersi solo nel Cristianesimo.37

35.  SW, XIII, p. 186; Filosofia della rivelazione, p. 309. 36.  Cfr. SW, XI, p. 150; Introduzione storico-critica…, p. 251: «Nel quadro del grande sviluppo (Entwicklungsgang) che stiamo esponendo, anche le cose tra loro più distanti, come ad esempio l’Antico Testamento e il mondo ellenico, la rivelazione e la mitologia, si rivelano assai più prossime di quanto pensino coloro che hanno l’abitudine di considerare le cose, ad esempio la mitologia ellenica, in maniera del tutto astratta, e cioè isolandole dal loro contesto generale (allgemeiner Zusammenhang)». 37.  SW, XIV, p. 75; Filosofia della rivelazione, pp. 1005-1007. Cfr. anche F.W.J. Schelling, Urfassung der Philosophie der Offenbarung, cit., vol. II, pp. 458-459.

171

Due preoccupazioni fondamentali sostengono qui l’analisi e l’argomentazione schellinghiana: l’affermazione dell’universalità e dell’eternità del cristianesimo da una parte, e dall’altra la preoccupazione di non lasciare che la storia del mondo si scinda in due: Se il Cristianesimo è semplicemente come esso è comunemente considerato, e cioè una semplice negazione del Paganesimo, cosicché questo è di fronte a quello solo favola e assolutamente nulla di reale in sé, se il Cristianesimo non ha nulla di positivo in comune con il Paganesimo, allora la storia si sfascia in due metà, che sono completamente l’una fuori dell’altra e senza alcun contatto. Ogni continuità, ogni sintesi nella storia viene spezzata, e il Cristianesimo non appare come quell’Eterno che esso è, e che pertanto deve esserci in tutto, anche nel Paganesimo; esso appare come qualcosa che c’è solo a partire da un certo tempo. Questa però è una diminuzione del Cristianesimo. Il contenuto di ogni vera religione è un contenuto eterno, che non si può dunque assolutamente escludere da nessun tempo. Una religione che non sia da che il mondo è, che non sia attraverso tutti i tempi, non è la vera. Il Cristianesimo deve dunque essere esistito anche nel Paganesimo: quest’ultimo aveva lo stesso contenuto sostanziale […]. Sarebbe stato impossibile per la natura umana vivere per millenni solo di errore; una coscienza umana riempita solo di nullità non poteva durare. È impensabile che l’umanità abbia potuto sussistere per millenni senza alcun rapporto con quel principio in cui solo è la salvezza.38

Giudaismo e paganesimo In senso contrario, quando egli studia la Rivelazione ebraica (veterotestamentaria), in particolare nella settima e nell’otta38.  SW, XIV, p. 77; Filosofia della rivelazione, pp. 1009-1011.

172

va lezione dell’Introduzione filosofica alla filosofia della mitologia39, Schelling si sforza, distinguendo i momenti del dio e i suoi differenti nomi, di reintrodurre l’equivalente di un elemento mitologico o naturale, perfino nella Rivelazione. Nella settima lezione dell’Introduzione storico-critica alla filosofia della mitologia, in cui Schelling sottolinea ancora una volta l’opposizione tra Elohim, «il dio generale che per mettere alla prova Abramo gli chiede il sacrificio del figlio», e Jehovah, quello che appare per impedire il sacrificio, «l’angelo o l’apparizione di Jehovah», questa analisi conduce Schelling alla tesi secondo la quale è la stessa potenza che ha spinto il genere umano verso il politeismo e che ha orientato una generazione eletta verso la vera religione. Si intravvede qui la posta in gioco della distinzione schellinghiana dei nomi divini: Elohim-­YHWH40 rispetto alle letture che isolano due diverse tradizioni: eloista e jahwista. Ci si permetta qui una lunga citazione della XXIX lezione: Colui che viene chiamato Elohim è la sostanza della coscienza; l’angelo di Jehovah, invece, non è nulla di sostanziale, ma qualcosa soltanto di diveniente nella coscienza, appunto solo apparente, egli è nella coscienza non substantiā, ma sempre solo actu, sempre solo ‫י ַ ְהוֶה‬‎ ‫«[ ַמ ְלאְָך‬angelo» di Jehovah], cioè appunto solo apparenza, rivelazione di Jehovah, e presuppone perciò continuamente Elohim come sostanza, come medium della sua manifestazione. L’angelo di Jehovah non è per sé reale, perché nel caso presente egli si mostra appunto solo attraverso il superamento della precedente sollecitazione, egli presuppone dunque il principio di questa sollecitazione come condizione della sua realtà. Di conseguenza, nessuno dei due è propriamente per sé il vero Dio, poiché quello vero appa-

39.  Cfr. anche il corso trascritto da Amiel, op. cit., p. 223: «Mitologia e Rivelazione sono molto più vicine di quanto non lo si sia creduto fino ad oggi». 40.  Cfr. ibidem: «Nell’Antico Testamento e in particolare nel caso di Mosè, il dio della coscienza immediata è Elohim, il Dio vero e distinto è Jehovah».

173 re solo in quanto supera quello precedente in quanto non è il vero; egli non è perciò separabile da questo. Il vero Dio nell’Antico Testamento, è dunque mediato attraverso quello falso e legato con questo, per così dire. È questo, in generale, il limite della Rivelazione veterotestamentaria. In quanto la potenza più alta, che è causa di ogni rivelazione vince il principio opposto, produce in esso l’apparizione del vero Dio. La Rivelazione non è dunque possibile, dal lato di Dio, senza che Egli nella coscienza sia immediatamente un altro, anzi disuguale a se stesso; però, in quanto Egli supera se stesso in questo essere immediato, media se stesso a se stesso e così si produce di fatto nella coscienza. Senza un tale prodursi nella coscienza, non ci sarebbe alcuna rivelazione di Dio. Una partecipazione meramente esterna, se anche fosse possibile, non basterebbe allo scopo; dall’esterno non si può infondere alcuna coscienza. Ciò che l’uomo deve accogliere come concetto deve venire prodotto in lui stesso, e invero mediante un principio abitante in lui che già vi sia, che si comporti come potenza di ciò che è da produrre. La Rivelazione veterotestamentaria presuppone dunque continuamente la tensione; anzi, l’intero ordinamento e l’intera costituzione religiosa mosaica riposano solo sul riconoscimento della realtà di quel principio che noi abbiamo chiamato il principio contrario, antidivino. Essa deve lasciar sussistere e conservare questo come suo presupposto. Se nella Rivelazione stessa veterotestamentaria non ci fosse un tale presupposto non ci sarebbe nessuna ragione perché l’ordine veterotestamentario fosse abolito da Cristo proprio come egli ha abolito il Paganesimo. Entrambi vengono superati insieme e uno eodemque actu. Appunto a causa di questo rapporto, proprio perché il principio del Paganesimo sta a fondamento della religione mosaica non meno che del Paganesimo stesso (sta a fondamento; perché esso è appunto ciò che in essa è saldamente dominato, limitato e sottoposto a certe leggi), proprio per questo l’Antico Testamento è in modo particolare il periodo della Rivelazione divina che presuppone un principio ottenebratore. Cristo è la fine della Rivelazione, così come è la fine del Paganesimo; egli dà una conclusione alla Rivelazione che, come già detto, presuppone un principio otte-

174 nebratore, così come la dà al Paganesimo. La manifestazione reale di Cristo è appunto perciò più che Rivelazione soltanto, appunto perché essa supera il presupposto della Rivelazione e con ciò questa stessa. Se noi poniamo come grandi forme di ogni religione queste tre: il Paganesimo, il Giudaismo e il Cristianesimo, dobbiamo dire che la Rivelazione dell’Antico Testamento è la Rivelazione operante solo attraverso la Mitologia, il Cristianesimo, la Rivelazione che ha spezzato questo involucro (il Paganesimo), che dunque supera insieme e nello stesso modo Giudaismo e Paganesimo.41

È questa fusione in una sola e nella stessa economia generale delle due articolazioni: giudaismo-cristianesimo, e paganesimo-cristianesimo, che porta Schelling a segnare anche una «gradazione», cristologica nel suo principio – paganesimo, giudaismo, cristianesimo – tematizzata nella ventisettesima lezione: Il vero Figlio […] è dunque la causa di ogni Rivelazione. Così come, appunto, è essa medesima, in quanto potenza meramente naturale, che è la causa di ogni Mitologia. Se noi distinguiamo due età, l’età della semplice decisione, già a partire dalla caduta dell’uomo […] e l’età dell’azione effettiva, allora dobbiamo riconoscere che, prima della seconda età, colui che doveva divenire uomo è già il principio della Rivelazione, anche se certamente di una Rivelazione ancora velata, parlante semplicemente attraverso segni e profezie, come nell’Antico Testamento (Efesini 1, 11). La distinzione tra rivelazione e religione naturale (loro sanno che cosa sia ciò che chiamo così) non riguarda il sostanziale (questo è il medesimo in entrambe), ma solo ciò che agisce. Chi agisce nell’una è la potenza meramente naturale, chi agisce nell’altra è la stessa Personalità. Poiché però la Personalità non dev’essere staccata dalla potenza naturale, così implicite Cristo è già anche nel paganesimo, sebbene non come Cristo. Nell’Antico Testamento Cristo è già come Cristo, ma colto ancora solo nel venire. Nel Nuovo 41.  SW, XIV, pp. 123 s.; Filosofia della rivelazione, pp. 1085-1087.

175 testamento Cristo si manifesta anche come Cristo. Dunque, non è che in generale Cristo prima non ci fosse: Egli c’era solo come velato, nel Paganesimo attraverso una doppia cortina, mentre nel Giudaismo, per così dire, attraverso una semplice. Così come il tempio del Signore a Gerusalemme aveva un doppio vestibolo, del quale il più esterno si chiamava quello dei Pagani, e poi c’era quello detto il Santo, ma al di là di questo c’era un Santissimo, in cui poteva entrare solo il Sommo Sacerdote, e anche questi solo una volta all’anno alla festa della grande riconciliazione: nello stesso modo sono graduati, l’uno rispetto all’altro il Paganesimo, l’Antico Testamento e il Nuovo Testamento.42

Consultazione del Consigliere segreto Presentiamo, per concludere, un documento che illustra concretamente questa visione generale dell’Economia della Rivelazione e che mette in evidenza la difficoltà di caratterizzare univocamente il rapporto di Schelling con il giudaismo. Si tratta di una consultazione del 13 novembre 1848. Il sovrano Massimiliano II di Baviera si rivolge al suo antico precettore, ora Consigliere segreto, per sottoporgli un progetto di legge concernente l’emancipazione degli ebrei nel regno di Baviera. Vi sarei molto riconoscente se poteste darmi rapidamente il vostro parere su una questione così importante e gravida di conseguenze. […] Il Ministro Lerchenfeld crede che questa legge sia un postulato dell’epoca e rappresenti, allo stesso tempo, il mezzo migliore e più sicuro per fare degli Israeliti dei cittadini pacifici. Io non ci vedo tanto chiaro.43 42.  SW, XIV, pp. 88 s.; Filosofia della rivelazione, pp. 1027-1029. 43.  W.E. Ehrhardt, Schelling Leonbergensis und Maximilian II. von Bayern Lehrstunden der Philosophie, «Schellingiana» 2, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1989, pp. 77 s.: «Recht dankbar wäre ich, wollten

176

Il Sovrano espone in seguito l’articolo I del progetto di Legge: «In tutto il regno, i soggetti israeliti hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri politici e civili degli abitanti cristiani. Tutte le disposizioni particolari a ciò contrarie rispetto agli Israeliti divengono dunque prive di oggetto». L’articolo II riservava a decisioni ulteriori tutto ciò che riguardava le disposizioni religiose. Sentiamo la risposta di Schelling: Il grandioso verdetto che è stato pronunciato nei confronti degli ebrei, gli ha per sempre impedito di beneficiare dei vantaggi di una esistenza propria in uno Stato. Mentre è stato dato alle altre nazioni (Nationalitäten) di procurarsi nel corso della storia una vita nello Stato più o meno autonoma, gli ebrei sono stati spinti nella vita nomade. Per tale ragione secondo la loro natura gli ebrei si pongono con un atteggiamento ostile di fronte alle strutture dello Stato; sono del tutto privi del minimo senso delle istituzioni dello Stato germanico, poiché il principio di una considerazione superiore sulla quale posa questo Stato è per loro qualcosa di eternamente inconcepibile. Il sentimento di questa disarmonia nella quale si trova il carattere del popolo ebraico, rispetto alla nostra vita statuale, è stato certamente la base dell’esclusione degli ebrei dai diritti politici in tutti i territori tedeschi; tuttavia abbiamo visto che gli ebrei, dal punto di vista isolato al quale essi erano assegnati, non hanno fatto altro se non lavorare per minare l’ordine dello Stato con una cattiveria e un’ostilità sempre maggiori. L’esperienza degli ultimi decenni insegna che gli elementi ostili che minacciano lo Stato non si lasciano escludere dal sistema delle proibizioni (Prohibitiv-System) applicate nei loro confronti, ovunque infatti è stata aperta una breccia attraverso la quale si sono guadagnati un accesso (Eingang). Si è dunque

Sie mir so bald als nur immer möglich Ihre Ansicht über diese so wichtige und folgenreiche Frage mitteilen. […] Der Minister Lerchenfeld glaubt daß dieses Gesetz ein Postulat der Zeit und zugleich das beste und sicherste Mittel sei, die Israeliten zu ruhigen Staatbürgern zu machen: Ich bin Mir nicht klar über diesen Punkt».

177 costretti dalle circostanze stesse a prendere delle decisioni in senso contrario: vale a dire ad abrogare nel loro insieme e totalmente (im Ganzen und Großen) le misure restrittive, e ad attendere dalla forza propria dello Stato il superamento (Überwindung) degli elementi malvagi e ostili. Da questo punto di vista non si può obiettare niente all’emancipazione degli ebrei enunciata nell’articolo I del progetto di legge. Al contrario ci si può attendere da tale emancipazione che essa favorisca, attraverso una costrizione indiretta, la conversione degli ebrei al cristianesimo. Poiché, dal momento in cui gli ebrei saranno accettati come membri con uguali diritti nell’organismo dello Stato, essi si sentiranno sempre più attaccati agli interessi dello Stato. E più parteciperanno a questa dimensione statuale, più si convinceranno che questa è incompatibile con la religione ebraica e, alla lunga, non potranno difendersi dall’influenza dominante del cristianesimo. All’inizio, senza dubbio, l’arroganza innata (angeborene Anmaßlichkeit) degli ebrei si eserciterà in modo decisamente deplorevole (auf widerliche Weise), con un sovrappopolamento nell’Università di “dozents” ebrei. Ma, in ogni caso, il governo avrà sempre i mezzi sufficienti per paralizzare, in questi particolari casi, l’influenza nefasta degli ebrei che si spingono in avanti, e possiamo anche aspettarci che i cristiani, nella misura in cui gli ebrei saranno esteriormente in una situazione di uguaglianza, prendano sempre più coscienza della loro superiorità spirituale interna e così, come anche grazie alla diffidenza nei confronti degli ebrei ancora dominante nel popolo, si porrà in un certo senso rimedio agli sconfinamenti e alle azioni inopportune degli ebrei.44

Ma Schelling aggiunge anche una nota più personale rivolta al sovrano, che possiamo riassumere citando i passaggi che mi sembrano essenziali per sfumare un po’ la durezza esemplare della prima risposta formale, nell’interpretazione della quale non bisognerebbe senza dubbio arrischiarsi immediatamente, senza tener conto delle circostanze, e senza tener conto even44.  Ivi, pp. 79 s.

178

tualmente delle considerazioni tattiche. Massimiliano II non era esattamente un sovrano liberale e filosemita. Secondo l’articolo II del progetto di legge, articolo che regola le condizioni religiose, gli ebrei reclamerebbero senza dubbio, sottolinea Schelling, in questa nota annessa, «a buon diritto un concistoro ebreo» e forse anche «una facoltà di teo­ logia ebraica». Credo che l’una e l’altra, opportunamente realizzate, non possano avere che un risultato benefico. La ragione principale è che, mi sembra, solo a questa condizione gli ebrei possono allontanarsi dall’assenza di pensiero (das Gedankenlose) della loro religione attuale che alla fine si capovolgerà in un ateismo completo. Per ciò che concerne le nomine alla facoltà di teologia, si dovrebbero trovare, in Baviera e nel vicinato, abbastanza individui; già ai miei tempi studiavano a Monaco molti candidati al rabbinato, che seguivano anche, in parte, i corsi dei teologi cattolici, in particolare il corso di esegesi tenuto da Allioli e dedicato ai libri dell’Antico Testamento. Io stesso avevo molti uditori, e fra questi alcune teste eccellenti, in particolare nei miei corsi sulla filosofia della rivelazione. Se il bisogno si presentasse, potrei nominarne uno in particolare che si è anche reso illustre come scrittore: Löwengard, rabbino di Jebenhausen, vicino a Göppingen, nel ducato di Wurtemberg45. Egli potrebbe nel caso essere consultato prima di qualsiasi decisione concernente la nomina a questa cattedra. […] Ho avuto modo di vederlo qui meno di due anni fa; senza i cambiamenti che sono intervenuti, egli avrebbe certamente ottenuto in Prussia una posizione a misura delle sue capacità; oso sperare che pur sotto la pressione dovuta alle condizioni preoccupanti nelle quali ha vissuto fino ad oggi, abbia potuto conservarsi spiritualmente. […] E poiché la vostra Maestà

45.  Su Hirsch Maier Löwengard (1813-1886), si veda W.J. Cahnman, Friedrich Wilhelm Schelling and the New Thinking of Judaism, in E. Goodman-­ Thau et al. (a cura di), Kabbala und Romantik, cit., pp. 175-183.

179 reale mi ha dato l’occasione di scrivergli a proposito di questioni ebraiche, ne approfitto per esporvi una faccenda che, seppur per aspetti differenti, mi sta profondamente a cuore. Il professor Molitor che, venti anni fa, aveva ricevuto da parte di sua Maestà il Re Luigi, una pensione annuale di 400 fiorini per completare la sua opera: Filosofia della storia, dedicata principalmente all’antica filosofia ebraica, l’ha perduta a causa dei cambiamenti sopraggiunti nel governo. Ho procrastinato fino ad ora questa richiesta […], ma sono talmente riconoscente a quest’uomo da dover testimoniare che la sua opera è di una tale importanza, per la storia della filosofia, e in particolare per quella del cristianesimo, che non vorrei ancora a lungo trattenere la preghiera che vi rivolgo… ecc.46

46.  Circa le relazioni tra Schelling e Franz-Joseph Molitor, si farà riferimento in primo luogo allo scambio di corrispondenze pubblicato da H.-J. Sandkühler (diciannove lettere), in Freiheit und Wirklichkeit. Zur Dialektik von Politik und Philosophie bei Schelling, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1968. Sulla figura molto singolare di Molitor (richiamata diverse volte da Gershom Scholem, in particolare in L’étude de la Kabbale depuis Reuchlin jusqu’à nos jours, e presente dal 1916 nei suoi Tagebücher: Tagebücher 1913-1927, Jüdischer Verlag, Frankfurt a.M. 1995, vol. I, pp. 404 ss.), si può far riferimento alla presentazione generale di R. Goetschel, Franz Joseph Molitor, kabbaliste chrétien du XIXème siècle, in D. Tollet (a cura di), Les Églises et le Talmud. Ce que les chrétiens savaient du judaïsme (XVIème-XIXème siècles), PUPS, Paris 2006, pp. 155-171. Si veda anche A. Hallacker, Franz Joseph Molitor: Lehrer, Freimaurer, Kabbalist, in W. Schmidt-Biggemann (a cura di), Christliche Kabbala, «Pforzheimer Reuchlinschrfiten 10», Thorbecke, Ostfilden 2003, pp. 225-246; si veda anche Ch. Schulte, Scholem und Molitor, “Die Buchstaben haben […] ihre Wurzeln oben”, E. Goodman-Thau et al. (a cura di), Kabbala und Romantik, cit., pp. 143-164; K.R. Meist, Identität und Entzweiung. Molitors Geschichtsphilosophie und der Homburger Kreis, in Ch. Jamme - O. Pöggeler (a cura di), Homburg vor der Höhe in der deutschen Geistesgeschichte, Klett-Cotta, Stuttgart 1981, pp. 267-299. Segnaliamo soprattutto l’importante monografia di K. Koch, Franz Joseph Molitor und die jüdische Tradition. Studien zu den kabbalistischen Quellen der «Philosophie der Geschichte». Mit einem Anhang unveröffentlichter Briefe von F. von Baader, E. J. Hirschfeld, F. J. Molitor und F. W. J. Schelling, W. de Gruyter, Berlin 2006.

180

Studenti e uditori ebrei Per concludere e per tentare di situare questo proposito, occorre ancora senza dubbio evocare la testimonianza di un dialogo tra Schelling e alcuni dei suoi uditori ebrei47, come emerge da una nota della XXIX lezione della Filosofia della rivelazione. Una nota di questa stessa lezione48 infatti riferisce di un dialogo con alcuni uditori ebrei: l’Antico Testamento, aveva sostenuto Schelling, dà ancora testimonianza di una riconciliazione solamente esteriore della coscienza con Dio: riconciliazione sullo sfondo di un disaccordo che costituisce una relazione ancora servile (sotto la legge, come sotto il giogo degli schiavi), alla quale Schelling opponeva quella di un uomo libero o di un figlio apparso solamente con il cristianesimo: Che la riconciliazione nell’Antico Testamento non superasse interiormente l’interna scissione, l’inimicizia con Dio, è anche dottrina degli Apostoli e risulta chiaro appunto dal fatto che i sacrifici dovevano venire ripetuti continuamente.49

Certo, concedeva Schelling ai suoi studenti ebrei, si trovano nell’Antico Testamento un certo numero di passaggi che richiedono l’amore per Dio, l’obbedienza volontaria. Alcuni raggi della riconciliazione più alta penetrano certamente, in particolare nei Profeti o nei passi profetici. Questo si spiega appunto con l’opposizione, della quale abbiamo provato l’esi­stenza nella costituzione veterotestamentaria, tra ciò che in essa è indipendente dalla Rivelazione, come suo presupposto, e ciò che è autentica Rivelazione.

47.  Cfr. W.J. Cahnman, Friedrich Wilhelm Schelling and the New Thinking of Judaism, in E. Goodman-Thau et al. (a cura di), Kabbala und Romantik, cit., pp. 184 ss. 48.  SW, XIV, p. 146 s.; Filosofia della rivelazione, pp. 1123-1125. 49.  SW, XIV, p. 147 s.; Filosofia della rivelazione, p. 1125 (tr. mod.).

181 Quest’ultima si apre una breccia specialmente nei Profeti, nella Legge è solo nascosta. Il profetismo era già in sé propriamente la potenza opposta alla Legge – il dionisiaco, per così dire, nell’Antico Testamento.

Nella misura in cui l’Ebreo offriva il sacrificio prescritto dalla Legge, si piegava in realtà alla stessa necessità, allo stesso impulso che seguivano i pagani nei loro sacrifici: ciò per cui essi si distinguevano da questi ultimi era l’elemento profetico, era l’avvenire che essi annunciavano. E la lezione terminava con queste parole, alle quali fa eco la consultazione del 1848: Sarebbe certamente una strada molto distorta staccare gli Israe­liti dalla religione dei loro padri, per dare loro una religione cosiddetta universale, il che significa assolutamente astorica e semplicemente teistica. Fino a che rimangono nella loro religione paterna, essi hanno pur sempre un rapporto con la vera storia, con il vero processo voluto da Dio, che è insieme la vera vita, e al quale nessuno può impunemente sottrarsi.

Ritroviamo qui un motivo importante della lettera a Massimiliano: l’evoluzione attuale della religione ebraica rischia di condurre i suoi fedeli all’ateismo ed è innanzitutto per lottare contro questo fenomeno che Schelling preconizza la creazione nell’Università di Baviera di una facoltà di teologia ebraica. Ciò che Schelling allo stesso tempo ricusa è l’idea di una emancipazione a-religiosa che farebbe il paio con una religione universale, il teismo. Appare ciononostante una discordanza tra questa lezione e la lettera al sovrano: essa concerne la storicità o la non-storicità del popolo ebraico. Dispersi, gli ebrei sono stati esclusi dalla storia, scriveva, rivolgendosi al sovrano50. Qui, in compenso, Schelling sottolinea la loro ap-

50.  Cfr. SW, XIV, p. 150; Filosofia della rivelazione, XXIX lezione, p. 1129: «I Giudei, considerarono il Cristo come inviato solo per i Pagani, non, come

182

partenenza alla vera storia, la storia superiore, anche se questa appartenenza è abbastanza complessa. Una cosa è chiara in ogni caso, quando Schelling prende parte per la seconda emancipazione degli ebrei nel 1848, la loro ammissione all’Uni­versità, la creazione di una cattedra di teologia, è sempre nella prospettiva di una conversione degli ebrei, foss’anche attraverso delle lunghe deviazioni inattese, nella misura in cui questa conversione è inscritta, ai suoi occhi, nella storia superiore, nell’Economia generale della rivelazione. Ci si può difficilmente attendere una conversione dei Giudei al semplice teismo o alla cosiddetta pura religione razionale.

nei tempi più tardi, come mistificatore, ma piuttosto come un’emanazione del principio del Paganesimo e il Cristianesimo stesso come una modificazione del Paganesimo. Così i Giudei, avendo travisato e omesso il passaggio al Cristianesimo, si esclusero dal grande movimento della storia. Essi dovettero cessare di essere un grande popolo, e venire dispersi e sparpagliati tra gli altri popoli. I Giudei erano qualcosa solo come portatori del futuro. Non appena il fine è raggiunto, il mezzo diventa vano. Come l’involucro viene disperso dal vento, se il grano vivo che esso porta in sé ne è uscito, così il popolo giudeo fu soffiato via e non ha più, da allora, nessuna storia propria, autonoma; esso è, in senso rigoroso, escluso dalla storia». – Affermazioni molto dure che è importante completare con le considerazioni che precedono questo passaggio: «Ma, considerando la cosa assolutamente, non si può trovare altro motivo della scelta di Israele se non questo: il popolo israelitico meno di tutti era destinato ad avere una storia sua propria secondo il metro degli altri popoli, meno di tutti era pieno di quello spirito del mondo che indusse le altre nazioni alla fondazione delle grandi monarchie; esso era un popolo che, incapace di guadagnarsi un nome grande e imperituro nella storia del mondo, appunto per questo motivo veniva a essere idoneo a essere il portatore della storia divina… (Träger der göttlichen Geschichte)». Le analisi schellinghiane saranno ancora sullo sfondo della disputa che opporrà nel 1916 Eugen Rosenstock a Franz Rosenzweig. Si veda la traduzione francese di questa straordinaria corrispondenza, in F. Rosenzweig, Foi et savoir. Autour de l’Étoile de la Rédemption, Vrin, Paris 2001; tr. it. in F. Rosenzweig - E Rosenstock, La radice che porta. Lettere su ebraismo e cristianesimo, a cura di G. Bonola, Marietti, Genova 1992; si veda anche S. Mosès, Franz Rosenzweig. Sous l’Étoile, Hermann, Paris 2009, pp. 207-230.

183 Essi sono anche adesso – solo, in altro senso – il popolo predestinato per il regno di Dio, nel quale essi sono destinati a entrare ultimi, affinché anche qui si affermi quella sublime ironia divina, e coloro che erano i primi siano gli ultimi. […] Verrà il giorno in cui essi verranno nuovamente accolti presso e in quella divina economia, dalla quale essi ora sono esclusi e come dimenticati. […] Nel frattempo è degno del più alto riconoscimento non defraudarli più a lungo dei loro necessari diritti.51

Se una tale conclusione può apparire, in un certo senso – e si sarebbe in torto dimenticandolo –, abbastanza aperta e generosa, essa resta nondimeno singolarmente in ritiro, come ha sottolineato in particolare Christoph Schulte, in rapporto allo straordinario lavoro, che è insieme di appropriazione e di disimpegno, compiuto dal suo allievo Franz-Joseph Molitor. Se non vi è dubbio che Schelling è stato particolarmente colpito dal fatto che le sue lezioni sulla filosofia della mitologia e sulla filosofia della rivelazione sono state seguite e discusse da studenti ebrei, alcuni formati in scuole rabbiniche, né che egli ha avuto grande interesse nel discutere con loro di questioni relative al giudaismo, non solo la Torah, ma anche il Talmud o la Cabala, è importante notare anche che Schelling, nella sua filosofia della religione, non si è mai sentito legato a una qualche ortodossia confessionale, e che anzi egli ha piuttosto concepito questa filosofia come un contributo alla «religione filosofica» da lui invocata, quella che, al di là della comunità ecclesiale (Chiesa di Pietro), poteva indicare in direzione della più larga comunità giovannea, quella dello Spirito, accogliente nei confronti degli ebrei come dei cristiani.

51.  SW, XIV, pp. 150 s.; Filosofia della rivelazione, p. 1131.

Capitolo V

Un popolo metafisico?

«Un popolo metafisico» – «il popolo metafisico»: questo titolo è evidentemente una citazione, o meglio una pseudo-citazione di una formula di per sé mostruosa: pseudo-citazione, perché il titolo rinvia in modo abbastanza vago e inesatto a Madame de Staël che, in La Germania, parte III, capitolo VII, ricorreva a questa rischiosa formula solo per rimanerne stupita: Lo spirito filosofico per sua natura non potrebbe che essere generalmente diffuso in ogni paese. Tuttavia vi è in Germania una tale tendenza alla riflessione che la nazione tedesca può esser considerata come la nazione metafisica per eccellenza.

Formula che ritroviamo, come sappiamo, in un contesto del tutto diverso, ma ugualmente satura, sotto la penna di Heidegger nel 1935. In una Introduzione alla metafisica che ne programma il superamento, Heidegger si interroga sulla situazione attuale della filosofia e pone la domanda: «Che ne è oggi dell’essere? Non è altro che una parola (Wortklang)» o è in questione, con questa piccola parola quasi inapparente, il «destino dell’Occidente» (Schicksal des Abendlandes)? Oggi e qui, vale a dire in Europa, in questa Europa che «si trova oggi nella morsa della Russia da un lato e dell’America dall’altro», le quali, «da un punto di vista metafisico» sono «la stessa cosa:

186

la stessa desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato», e aggiunge: Il nostro popolo, in quanto collocato nel mezzo (in der Mitte stehend), subisce la pressione più forte della morsa; esso, che è il popolo più ricco di vicini e per conseguenza il più esposto [quello più in pericolo], è insieme il popolo metafisico per eccellenza (das metaphysische Volk).1

Une nazione metafisica, «il» popolo metafisico: sembrerebbe che si sia fatto un ulteriore passo verso l’appropriazione nazionale, «nazional-popolare» del filosofare e di ciò che ne costituisce la figura considerata più alta: la metafisica. Certo, come sappiamo, tutto si complica nel corso del 1935, in ragione delle determinazioni critiche che sono date della metafisica in seguito, della sua grammatica e della sua lingua, e soprattutto in ragione del capovolgimento interno che colpisce l’idea stessa dell’appropriazione e dell’essere-presso-di-sé, che colpisce l’idea dell’«heimlich»/«heimisch»: il familiare, il natale, proprio al paese. Il commento del primo Stasimo dell’Antigone di Sofocle sottolinea infatti che l’uomo come δεινότατον è il più estraneo e il più inquietante: «überall hinausfahrend unterwegs» – «ovunque in cammino facendo esperienza del fuori»2. Siamo in ogni caso lontani da una mitologia regionalista (mythologie du terroir). Si potrebbe mostrare così, mi sembra, che ogni volta che si incrocia questa formulazione mostruosa: «un popolo metafisico», l’interpretazione non è mai agevole, innanzitutto perché il gesto di qualificazione e di identificazione (alla nazione, al popolo) non è mai semplice, raddoppiato com’è immediatamente

1.  GA 40, p. 41; tr. it. cit., pp. 48 s. Su questo motivo del «popolo» che sta nel mezzo, rinviamo allo studio di M. Crépon, La “géo-philosophie” de l’Introduction à la métaphysique, in J.-F. Courtine (a cura di), L’introduction à la métaphysique de Heidegger, Vrin, Paris 2007, pp. 105-124. 2.  GA 40, p. 160; tr. it. cit., p. 159 (tr. mod.).

187

da una esigenza di universalità o di universalizzazione. Si potrebbe mostrarlo anche per il Fichte dei Discorsi alla nazione tedesca o dei Dialoghi patriottici, si potrebbe mostrarlo ancora più facilmente trattandosi per esempio dello Hegel che, nella prima Prefazione della Scienza della logica del 1812, si interroga sullo «spettacolo stupefacente» di un popolo di grande cultura (gebildetes Volk), come quello tedesco, che dopo Kant sembra aver perduto la sua metafisica e al quale dunque è importante darne una, e nella sua lingua, a titolo di «vera metafisica» (eigentliche Metaphysik), vale a dire la scienza della logica come speculazione3. Ma anziché impegnarmi in uno studio comparativo, e tenuto conto ogni volta della complessità dei dossier, mi atterrò all’analisi di un solo esempio, quello di Schelling, che mi è sembrato imporsi, anche perché Schelling tratta espressamente e a lungo la questione della nazionalità in filosofia, e ciò in un dibattito privilegiato con la Francia. La posizione della questione della nazionalità in filosofia non è certamente una specificità tedesca, e ancor meno un fenomeno particolare del dopo-Kant. Possiamo trovare numerosi elementi che contribuiscono all’elaborazione di tale questione nel XVIII secolo e persino negli Illuministi tedeschi, poiché una tale questione è evidentemente legata a quella dell’identità e della proprietà, i.e. a quella dell’essere proprio, in opposizione all’essere falso o d’imitazione, e legata anche alla questione della lingua come lingua nazionale4. Questa problematizzazione, ed

3.  Cfr. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik. Das Sein (1812), a cura di H.-J. Gawoll, «Philosophische Bibliothek», Meiner, Hamburg 1986, pp. 3 s. 4.  Henri Heine, nel suo testo Per la storia della religione e della filosofia in Germania, avrebbe largamente contribuito a stabilire questi differenti topoi: la filosofia tedesca, con Kant, è la figlia della riforma luterana: «la rivoluzione filosofica che derivò» dalla «grande rivoluzione religiosa rappresentata in Germania da Lutero» non è «nient’altro che l’ultima conseguenza del

188

è ciò di cui qui ci occuperemo, ha come posta in gioco anche l’emergenza e la determinazione di ciò che saremmo tentati di chiamare «un’altra idea dell’Universalità», in opposizione a quella, europea, della lingua e della cultura francesi, la quale dissimula sempre meno nel corso degli anni il suo volto semplicemente egemonico, passando dagli illuministi della corte di Federico II alle armate rivoluzionarie e poi alle truppe di occupazione napoleonica.

L’universalità della lingua francese Nel 1784, quando l’Accademia delle Scienze di Berlino proponeva come soggetto del suo concorso la questione dell’universalità della lingua francese5, non era tanto nell’intenzione di vederne riaffermare retoricamente e come al primo grado la superiorità – o come si diceva: la prerogativa –, così come farà Rivarol che tuttavia otterrà il premio, o meglio la metà del premio, ma piuttosto per testimoniare, finanche in questo protestantesimo». La lingua tedesca è la lingua del pensiero: a proposito di Tauler e del suo uso dell’«umile lingua del popolo» nei suoi Sermoni: «essa mostra non solo di essere adatta alle ricerche metafisiche, ma di esserlo assai più di quella latina. Quest’ultima – la lingua dei romani – non potrà mai rinnegare la sua origine. Essa è una lingua di comando per capitani, una lingua di decreti per amministratori, una lingua giuridica per usurai, una lingua lapidaria per il duro popolo romano. […] Quando Johannes Tauler volle sprofondarsi completamente nei più paurosi abissi del pensiero, e quando il suo cuore si gonfiò di più sacro empito, dovette parlare tedesco» (H. Heine, La Germania, tr. it. a cura di P. Chiarini, Bulzoni, Roma 2017, pp. 223 e 243 s.). 5.  La Classe di Belle Lettere dell’Accademia Reale aveva proposto la questione formulandola nel modo seguente: «Come la lingua francese è diventata la lingua universale dell’Europa; perché merita tale preferenza; si può supporre che essa conserverà questa preminenza?».

189

recinto della cultura francese nel cuore della Prussia, non solo che questa preminenza del francese era sempre più contestata, ma che questa universalità razionale, che la lingua francese intendeva incarnare, potrebbe in realtà non essere altro che un particolarismo culturale. Ricordo anche che quando, nel 1797, Jean-Bernard Mérian è invitato a presentare in francese, davanti all’Accademia, un Parallelo storico delle nostre due filosofie nazionali6, le due filosofie nazionali sono, da un lato, quelle di Leibniz e di Wolff e, dall’altro, quella di Kant. Lo stesso anno 1797, un altro membro dell’Accademia di Berlino, Pierre Prévost, aggiungeva, nella Postfazione alla sua traduzione francese dei Saggi filosofici di Adam Smith, uno studio nel quale distingueva tre «scuole» «che possono portare il nome dei paesi in cui hanno più discepoli (quella francese, quella scozzese, quella tedesca)»7. Ogni scuola aveva il suo eroe fondatore: Condillac per la Scuola francese, con in più Descartes come antenato e ispiratore, la Scuola scozzese che si ricollegava a Bacon, e la Scuola tedesca a Leibniz e a Wolff. Ma anche qui, con un movimento analogo a quello di Mérian nel suo Parallelo, l’autore introduceva alla fine Kant, sottolineando che questi resta del tutto sconosciuto in Francia: Sono diversi gli uomini di lettere che in questo momento si occupano di far conoscere i principi di questa filosofia nella nostra lingua. Ma l’impresa risulta molto difficile: il suo linguaggio è oscuro; e soprattutto i lettori francesi esigono una chiarezza perfetta. La differenza dei gusti e delle abitudini intellettuali delle due nazioni è tale che le opere di Kant, che in Germania hanno avuto un successo strepitoso, non avrebbero,

6.  Opuscolo opportunamente rieditato, secondo il testo delle Memorie del­ l’Accademia di Berlino (1800), in «Revue germanique internationale», n. 3, 1995 (La crise des Lumières), pp. 181-210. 7.  Cfr. F. Azouvi - D. Bourel, De Königsberg à Paris. La réception de Kant en France, Vrin, Paris 1991, p. 92.

190 credo, trovato un pubblico di lettori se fossero state scritte in francese con lo stesso stile. La lingua tedesca, con la sua ricchezza e con i suoi giri di parole arditi e variegati, si è abituata a sopportare delle violenze che spaventano una lingua più severa e diffidente. Questi respingerebbero gli strani neologismi che quanto più si avvicinano troppo al gergo della scuola, tanto più si riferiscono a concezioni particolari e bizzarre. Essa è una lingua faticosa per la sua oscurità…8

Ci tenevo a citare questo testo di un autore minore, poiché esso rimarca bene, come già faceva Mérian nel suo Parallelo, la rottura che Kant (e a fortiori il dopo-Kant) sembra introdurre in ciò che si presentava fino a quel momento come una giustapposizione di scuole concorrenti, ma la cui assise geografica e soprattutto linguistica era, alla fine, secondaria, in quanto ciascuno poteva, in tale o talaltro paese, collocarsi sotto lo stendardo di un eroe eponimo. Con Kant appare una vera rottura: quella di un’opera eterogenea rispetto a ciò che fino a quel momento costituiva il plurale delle scuole – compresa quella tedesca (Leibniz e Wolff) –, di un’opera che occorrerà sforzarsi, in un senso radicalmente nuovo, di «tradurre», o meglio di «interpretare» per presentarla o esporla nella «nostra lingua» (il francese, naturalmente). Poiché quest’opera fa emergere «la differenza delle abitudini intellettuali» delle due nazioni e delle due lingue: scritta in francese, ma nel suo «stile» (tedesco), essa non troverebbe dei lettori. Persino con la e nella sua lingua, quest’opera ha tutto ciò che occorre per spaventare il lettore francese. Il tedesco di Kant sembra infatti accumulare tutti gli handicap: esso associa ai «giri di parole arditi e variegati», propri della lingua ordinaria, il gergo di scuola, aggiungendovi inoltre anche degli «strani neologismi» – cosa abbastanza curiosa se si pensa al rifiuto formulato da Kant di forgiare delle parole nuove.

8.  Cit. ivi, pp. 92-93.

191

Così, la postfazione di Pierre Prévost9 stabilisce il quadro al­ l’interno del quale si costruiranno, opponendosi, le affermazioni di identità filosofica, nazionale da un lato e universale dall’altro (così richiede la chiarezza della lingua francese). Pierre Prévost, dopo Berlino, fissa il quadro e dà i primi punti di riferimento: lo fa evidentemente «alla francese», ma come vedremo, un certo numero di protagonisti tedeschi, anche se arrivano fino al punto di affermare, con Schelling, «l’essenza di una scienza tedesca»10, dovranno anche interiorizzare questo inquadramento prima di tentare di liberarsene. A leggere questo passaggio di Prévost che valorizza la lingua francese, il suo rigore e la sua «severità», la sua giusta diffidenza nei confronti delle «oscurità» e delle pieghe strane che non possono che rinviare a delle «concezioni particolari e bizzarre», svalutando simmetricamente la lingua tedesca, si comprende perfettamente che una inversione di valori abbia potuto essere considerata. Era già il caso, e resto nel contesto dell’Accademia di Berlino, del saggio del grande orientalista Johann David Michaelis, redatto in tedesco, per il concorso del 1759,

9.  P. Prévost, Réflexions sur les œuvres posthumes d’Adam Smith, in A. Smith, Essais philosophiques, 2 voll., chez H. Agasse, Paris 1797, vol. II, pp. 261-265. 10.  SW, VIII, pp. 1-18; tr. fr. di P. Cerutti, in F.W.J. Schelling, Du rapport des arts plastiques avec la nature et autres textes (1807-1808), Vrin, Paris 2010, pp. 91-103. In questo frammento dedicato alla «scienza tedesca» – frammento la cui data non risulta stabilita in modo chiaro (su questo punto si veda la Présentation di Patrick Cerutti) –, Schelling riporta agli onori «il nome di metafisica nella sua accezione più generale»: «La metafisica è ciò che crea organicamente gli Stati e che fa di una folla umana un cuore e un’anima, vale a dire un popolo. La metafisica è ciò che permette all’artista e al poeta di riprodurre in una forma sensibile la sensazione vivente degli archetipi eterni. Questa metafisica interiore, che ispira l’uomo di Stato e gli eroi della fede e della scienza, è qualcosa che si distanzia tanto dalle pretese teorie dalle quali i più ingenui si lasciano invaghire, quanto dal piatto empirismo che gli si oppone» (p. 96).

192

poi tradotto in francese nel 1762: De l’influence des opinions sur le langage et du langage sur les opinions11. In quest’opera molto sfumata, Michaelis prende in considerazione il «genio delle lingue», mettendolo essenzialmente in relazione con le «etimologie»: Ci sono delle etimologie felici […]: queste prevengono molti errori e molti bisticci di parole, svelano immediatamente, a chi ha la fortuna di trovarsi nella propria lingua, […] certe verità alle quali i Filosofi meno favoriti dalla propria lingua nazionale non arrivano se non dopo molto lavoro. […] La lingua greca ha una grande prerogativa a tal riguardo (Vorteil)…12

Nei confronti di questo merito singolare, la lingua greca è seguita, è una delle tesi centrali del saggio, dalla lingua tedesca. E l’autore, per spiegare questa «prerogativa», aggiunge: Non immaginiamo neppure quante buone cose sono contenute nell’Etimologia. Si tratta di un tesoro di buon senso: essa contiene delle verità che sfuggono alla maggior parte dei filosofi e, un giorno, daranno lustro al filosofo che ne farà la scoperta senza che lo stesso sospetti che, da tempo immemore, esse sono nella bocca di tutti. Ciò non ha niente di sorprendente. Le lingue sono il cumulo della saggezza e del genio delle nazioni nel quale ognuno ha messo del suo.13

11.  J.D. Michaelis, Beantwortung der Frage von dem Einfluß der Meinungen in die Sprache und der Sprache in die Meinungen, Haude und Spener, Berlin 1760. L’insieme dei testi e del dossier sul quale mi baso è stato opportunamente stabilito da Pierre Pénisson, in un volume del «Corpus des philosophes de langue française»: De l’universalité européenne de la langue française, Fayard, Paris 1995, e completato in un numero annesso della rivista «Corpus», n. 30, 1996: L’universalité du français en question. 12.  Ivi, p. 22. Citiamo la paginazione dell’edizione di Brema, 1762, in reprografia nella rivista «Corpus». Il testo era già stato ristampato nella serie «Grammatica Universalis» per i tipi di Frommann nel 1973. 13.  Ivi, p. 27.

193 [così, le verità che hanno trovato la loro espressione propria] si sono eternate nella lingua. […] Il linguaggio è un tesoro nazionale […], una sorta di Archivio in cui le scoperte umane sono al riparo dai più spiacevoli accidenti; Archivi che le fiamme non potrebbero distruggere e che non potrebbero perire se non nella totale rovina della nazione…14

Si può vedere come, a partire da queste testimonianze del resto contrastate, e, per ciò che concerne Michaelis, anteriori alla problematica che si legherà rispetto alla presentazione alla Francia e ai francesi, in francese, della filosofia kantiana, che poi sarà presto semplicemente la filosofia tedesca, si può vedere come al di là della questione della lingua come semplice medium, al di là delle esigenze di una buona traduzione, ciò che emerge è il genio della lingua e della nazione, il suo tesoro nascosto, la sua dimensione essenzialmente diacronica e «archivistica», la sua saggezza latente, le sue «verità» nascoste che il filosofo deve «scoprire nella sua lingua». Si converrà su questo: sono i termini stessi del dibattito tra le «scuole nazionali» che allo stesso tempo si trovano così radicalmente modificati15.

Germanismo o provincialismo Wilhelm von Humboldt rappresenta un testimone decisamente privilegiato della difficoltà di questa esposizione della filosofia kantiana (o tedesca), dal momento che essa risulta così inscritta nella sua lingua con il suo spessore storico etimolo-

14.  Ivi, pp. 28 s. 15.  A proposito di Fichte e in particolare dei Discorsi alla nazione tedesca, dei quali non ci occuperemo qui, possiamo rinviare all’eccellente studio di E. Cattin, Nationalité philosophique? Sur les Discours à la nation allemande, in «Études germaniques», n. 1, 2001 (n. speciale dedicato a Fichte), pp. 97-108.

194

gico, e per la scossa che ne risulta quanto alla possibilità di attenersi a una concezione semplice e immediata dell’universalità della ragione. Egli soggiorna a Parigi dal novembre 1797, dove l’interesse per Kant ha trovato un primo punto culminante nel 1796, in particolare grazie alla traduzione dell’opuscolo sulla Pace perpetua16. Nel maggio 1798, per iniziativa di Destutt de Tracy, Humboldt è invitato a presentare un «rapporto» sulla filosofia di Kant (i.e. ormai la filosofia teorica delle tre Critiche), davanti a Destutt, Cabanis, Laromiguière, Perret, Sieyès… Alla fine di questa presentazione, scrive nel suo diario: Abbiamo presentato la filosofia tedesca da due versanti […] – lascio perdere questa presentazione per soffermarmi solo sulla conclusione di Humboldt –. La conclusione di questa conferenza consisteva nell’affermare che [gli uditori] non hanno appreso niente di più rispetto alla filosofia kantiana e che non ci siano opinioni migliori. Tutt’al più sono diventati più perplessi e dubitano un po’ di più […]. – Prima di concludere: – A fondamento di tutta la filosofia resta l’intuizione dell’Io, esteriore a qualsiasi esperienza; sia espressamente, in modo che vi si parta direttamente, come ha fatto Fichte, o in maniera solamente implicita, mostrando, come ha fatto Kant, che la spiegazione dei fenomeni ci riconduce a ciò. Ma i francesi non sanno assolutamente niente di tutto ciò, non ne possiedono alcun senso né alcun concetto, e noi siamo così sempre restati in due mondi differenti.17

16.  Cfr. F. Azouvi - D. Bourel, op. cit., pp. 68 ss. 17.  W. von Humboldt, Tagebücher, in Id., Gesammelte Schriften, vol. XIV, a cura di A. Leitzmann, W. de Gruyter, Berlin 1922, pp. 484-486: «Wir stellten die Deutsche Metaphysik von zwei Seiten vor. […] Das Ende dieser Conferenz war also, daß sie von der Kantischen Philosophie nicht mehr, als vorher erfuhren, und nicht günstiger von ihr dachten. Höchstens sind sie mehr stutzig geworden, mehr zum Zweifeln gekommen. […] Aller Philosophie

195

La lettera che Humboldt indirizza a Schiller nel giugno 1798 è ancora più disperata, ma soprattutto essa esplicita più a fondo le ragioni profonde dell’incomprensione incontrata presso i francesi: Non siamo mai riusciti a capirci, senza neppure parlare di una possibilità di convertirsi. Tuttavia, mi è capitato nuovamente di esporre loro le idee di Kant in modo più preciso di quanto fosse il caso fino a questo momento. In realtà fu abbastanza facile per me, poiché avevo familiarizzato abbastanza bene con il loro modo di filosofare, e potevo così ricollegarmi alle loro idee. Sono arrivati sino al punto di rimproverarmi, in modo molto ingenuo, di aver francesizzato Kant! […] Capirsi realmente è impossibile, per una ragione semplice: non solo essi non hanno alcuna idea, ma nemmeno il minimo senso di qualcosa che è al di fuori dei fenomeni; la volontà pura, il vero bene, l’io, la pura coscienza di sé, tutto ciò è per loro totalmente e definitivamente incomprensibile. Quando si servono degli stessi termini, li considerano sempre secondo un altro senso. La loro ragione non è la nostra, il loro spazio non è il nostro spazio, la loro immaginazione non è la nostra. Ma dato che questi termini hanno tutti un doppio significato: una accezione semplicemente logica, grazie alla quale costituiscono la forma astratta di una molteplicità di casi singolari, e una accezione metafisica, grazie alla quale acquistano per la prima volta un vero tenore, siamo eternamente condannati a comprenderci di traverso, perché hanno sempre in testa solo l’accezione logica e vi si sforzano sempre innanzitutto. […] Questa maniera non metafisica e semplicemente logica

liegt die reine Anschauung des Ichs, außer aller Erfahrung, zum Grunde; entweder ausdrücklich, so daß man von ihr direct ausgeht, wie Fichte thut, oder nur stillschweigend, daß man zeigt, die Erklärung der Phänomene führt auf so etwas, wie in Kant. Die Franzosen kennen dies schlechterdings nicht, haben weder Sinn dafür, noch Begriff davon, und so waren wir immer in zwei verschiednen Welten». – La traduzione francese è di E. Beyer, Journal Parisien (1797-1799), Solin-Actes Sud, Arles 2001, pp. 123 ss.

196 di filosofare trova il suo senso più profondo nel carattere della nazione…18

Ma il resoconto di Humboldt non si ferma qui: constatare così l’incomprensione non deve portare né a francesizzare Kant, né ad abbandonare la Francia alla sua triste ignoranza della Scuola tedesca, ma ciò conduce anche, come per contraccolpo, a interrogarsi su ciò che Schelling chiamerà un po’ più tardi – vi farò ritorno – il «provincialismo» e il «germanismo» della filosofia tedesca kantiana e postkantiana: [Questa maniera non metafisica di filosofare – scriveva Humboldt – trova il suo senso più profondo nel carattere della nazione] e concludo ciò dal fatto che un vantaggio manifesto del loro spirito vi è strettamente legato – penso alla chiarez-

18.  Lettera n. 290, in F. Schiller, Briefwechsel. Briefe an Schiller 17971798, in Schillers Werke. Nationalausgabe, vol. 37.1, Böhlaus, Weimar 1981, pp. 307-311: p. 308: «Man verstand sich nicht einmal, geschweige denn, daß man sich bekehrt hätte. Indeß gelang es mir noch, ihnen die Kantischen Idee näher zu bringen, als es je geschehen war. Es wurde mir sogar leicht, da ich mit ihrer Art zu philosophieren mich vorher genau bekannt gemacht hatte, und mich nun an ihre Ideen anschloß. Sie beschuldigten mich sogar sehr naiv, den Kant französirt zu haben. […] Sie eigentlich zu verständigen, ist unmöglich, und das aus einem sehr einfachen Grunde. Sie haben nicht allein keine Ahndung sondern auch nicht den mindesten Sinn nur für etwas, das außerhalb der Erscheinungen liegt; der reine Wille; das eigentliche Gute; das Ich; das reine Bewußtsein, alles dieß ist für sie ganz und gar unverständlich. Wenn sie sich derselben Worte bedienen, so nehmen sie sie immer in einem andern Sinn. Ihre Vernunft ist nicht unsere; ihr Raum nicht unser Raum; ihre Einbildungskraft nicht die unserige. Da aber alle diese Wörter ein zwiefache Bedeutung haben, eine bloß logische, wo sie eine von vielem Einzelnene abgezogene Form sind, und eine metaphysische, wo sie eigentlich erst einen Gehalt […] bekommen, so versteht man sich ewig unrecht, weil sie immer nur die logische Bedeutung im Kopf haben, und wie immer mehr hinein legen». – Questa magnifica lettera è citata anche nel prezioso volume: W. von Humboldt, Sur le caractère national des langues et autres écrits sur le langage, pres., tr. e annotaz. di D. Thouard, Le Seuil, Paris 2000, pp. 27 s.

197 za, alla precisione esatta che esigono su tutti, all’impossibilità della loro natura di farsi delle illusioni su queste cose e di immaginarsi delle percezioni più profonde di quanto non lo siano realmente.19

Da cui deriva la caduta, abbastanza inattesa, di questa lettera a Schiller, che perora la causa di una cronologia differente tra la Francia e la Germania: […] in fin dei conti, preferisco vedere un francese che non ha la minima idea del suo vero io che un tedesco che – come tanti bravi discepoli – crede di sentire l’io puro in tutte le estremità delle sue dita. Se, come crediamo, la nostra filosofia è la più esatta, alla fine essa deve necessariamente trionfare, e non mancherà di farlo, e alla fine, farà nelle loro teste meno danni che nelle nostre.20

Come sappiamo, queste Conférences d’Auteuil, nelle quali W. von Humboldt ha tentato di presentare ai francesi la filosofia di Kant, non sono che un picchetto in un lungo processo in rapporto al quale i tentativi di Charles de Villers costituiscono un elemento decisamente di rilievo. Inutile fermarsi su questo autore, molto ben studiato da François Azouvi e Dominique

19.  Lettera n. 290, cit., p. 309: «Diese ganz unmetaphysische und bloß logische Art zu philosophiren liegt tiefer im Charakter der Nation, und dies schließe ich vorzüglich daraus, daß ein offenbarer Vorzug ihres Verstandes eng damit zusammenhängt – ich meine nemlich die Klarheit, die genau Präcision, die sie überall fordern, die Unmöglichkeit ihrer Natur, sich über diese Dinge Illusion zu machen, und sich tiefere Wahrnehmungen einzubilden, als sie wirklich haben». 20.  Ibidem: «Es ist mir am Ende immer noch lieber, einen Franzosen zu sehen, der von seinem eigentlichen Ich auch nicht einmal eine Ahndung hat, als einen Deutschen, der wie so mancher gutmüthige Lehrling, das reine Ich in allen Fingerspitzen zu fühlen glaubt. Wenn, wie wir doch glauben, unsre Philosophie die richtigere ist, so muß sie, und dann wird sie in ihren Köpfen weniger Schaden anrichten, als in den unsrigen». (Questo brano è integralmente citato in F. Azouvi - D. Bourel, op. cit., pp. 109-112).

198

Bourel, nell’opera già molte volte citata: De Königsberg à Paris. La réception de Kant en France. Ci basti menzionare due saggi di de Villers: Philosophie de Kant. Ou principes fondamentaux de la philosophie transcendantale, par Charles de Villers, de la Société royale de Gottingue, pubblicato a Metz nel 1801, e a Parigi, nel 1802, e Philosophie de Kant. Aperçu rapide des bases et de la direction de cette pensée. Kant jugé par l’Institut et observation sur ce jugement, poiché sono queste due le opere di cui Schelling offre una lettura nel 1803, in un Resoconto sui tentativi del sig. Villers di introdurre la filosofia kantiana in Francia21.

La filosofia «in senso tedesco» Ciò che in questa «notizia» si trova immediatamente messo in questione è certamente la possibilità di un dialogo filosofico franco-tedesco rispetto alla questione della lingua, vale a dire anche della concettualità: Schelling, di fronte agli sforzi di acclimatazione e di «traduzione» di de Villers, si chiede se la filosofia di Kant non sia decisamente un «Provincialismo o quanto meno un germanismo». Ed è proprio la questione dell’universalismo ad essere sollevata: All’autore della Philosophie de Kant pare non essere per il momento sorto alcun dubbio circa il fatto che questa filosofia, che egli ha voluto esporre alla propria nazione, sia in generale adat-

21.  SW, V, pp. 184-202; tr. it. di A. Spinelli, Resoconto sui tentativi del sig. Villers di introdurre la filosofia kantiana in Francia, in «Rivista di storia della filosofia», LXII, n. 2, 2007, pp. 345-357. I testi considerati sono: Philosophie de Kant. Ou principes fondamentaux de la philosophie transcendantale, par Charles Villers de la Société Royale de Gottingue, Metz 1801; Philosophie de Kant. Aperçu rapide des bases et de la direction de cette pensée. Kant jugé par l’Institut et observations sur ce jugement, par un disciple de Kant, Paris 1802.

199 ta all’universalità e non sia invece concepita soltanto per una cultura temporale e locale, nel cui contesto può unicamente essere comprensibile.

Si può già vedere qui, oltre l’ironia, la spiccata opposizione delle due concezioni dell’universalità: quella francese, astratta e destoricizzata, e quella tedesca che insisterebbe piuttosto sulla necessità per l’universale di trovare innanzitutto storicamente e linguisticamente il suo punto di ancoraggio, la sua «incarnazione». L’universale per essere veramente universale, vale a dire anche «vivente», per aver presa sulla realtà, dovrebbe sempre particolarizzarsi, assumere la singolarità di un popolo e di una lingua. La filosofia tedesca dopo Kant (il punto è chiaro sia in Fichte che nel giovane Schelling o in Hegel)22 si pensa immediatamente come una filosofia nella storia, vale a dire anche a misura di una filosofia della storia implicita o esplicita, per la quale l’opera di Kant segna l’apertura di un momento critico decisivo, il punto culminante di una crisi non ancora compiuta e la cui prima manifestazione risalirebbe a Lutero23.

22.  Cfr. J.G. Fichte, Über den Begriff der Wissenschaftslehre, in Id., Gesamtausgabe, vol. I.2, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1969, p. 118 n.; tr. it., Sul concetto di dottrina della scienza ovvero sulla cosiddetta filosofia come scritto introduttivo alle lezioni di questa scienza, in Id., Scritti sulla dottrina della scienza, a cura di M. Sacchetto, UTET, Torino 1999, p. 73: «la filosofia, che quanto al contenuto vale per ogni ragione, diventa del tutto nazionale secondo la sua designazione, è tratta dall’intimo della nazione che parla questa lingua, e a sua volta perfeziona il linguaggio di quest’ultima sino alla più elevata determinatezza». 23.  Cfr. F.W.J. Schelling, Vom Ich als Princip der Philosophie, in Id., Werke. Historich-kritische Ausgabe, vol. I.2, Frommann-Holzboog, Stuttgart 1980, pp. 67-175, in part. pp. 79-80. Ricordiamo qui la celebre lettera di Hegel a J.H. Voß del maggio 1805: «Lutero ha fatto parlare la Bibbia, voi avete fatto parlare Lutero in tedesco: il più grande regalo che può esser fatto a un popolo; poiché un popolo resta barbaro, e non considera come di sua proprietà le cose eccellenti che conosce, finché non arriva a conoscerle nella propria lingua. Se volete dimenticare questi due esempi, direi che il proposito della

200

Contro l’ipotesi di una possibile universalizzazione immediata del pensiero kantiano, che passerebbe necessariamente attraverso la sua «esposizione» (Darstellung) alla Francia e ai francesi, Schelling si interroga seriamente: questa filosofia non sarebbe forse piuttosto «Provincialismus oder wenigstens Germanismus»? «Germanismo» che qui non colpisce solo la piega della lingua, l’espressione, ma piuttosto la lingua come tale e il pensiero che vi si dispiega. Occorrerebbe, prosegue Schelling, chiedersi innanzitutto: Quali sono gli elementi della filosofia kantiana che, provenienti dalla cultura particolare e nazionale dei tedeschi, si prestano ad essere assunti in una cultura universale (allgemeine)? La nazione francese, la cui cultura è riuscita fino ad oggi a determinare quella altrui in modo più o meno imperioso, e che si è saputa dare più di tutte il carattere dell’universalità, questa cultura è in grado di fornire il più appropriato dei criteri?

Così dunque è la stessa impresa di esposizione nella misura in cui questa presuppone adattamento e francesizzazione, che Schelling rimette immediatamente in questione, sostenendo all’inverso: … che la filosofia kantiana, così com’è (wie sie ist) non è capace di alcuna universalità (keiner Universalität fähig sey).24

mia impresa consiste nel tentare di insegnare alla filosofia a parlare tedesco» (G.W.F. Hegel, Correspondance. I. 1715-1812, tr. fr. di J. Carrère, a cura di J. Hoffmeister, Gallimard, Paris 1962, p. 96). Nel novembre 1809, risponde al suo vecchio allievo Peter van Ghert, nuovo Ministro dei Culti nei Paesi Bassi, che lo aveva invitato ad insegnare ad Amsterdam: «A proposito della lingua ordinariamente impiegata per i corsi delle università olandesi, sarebbe necessario che, almeno agli inizi, i miei corsi fossero impartiti in latino; se il costume permettesse di discostarsi da questo uso, cercherei subito di esprimermi nella lingua del paese (Landessprache), poiché ritengo che per appropriarsi veramente di una scienza è essenziale possederla nella propria lingua materna» (ivi, p. 269). 24.  SW, V, 185; Resoconto sui tentativi del sig. Villers…, p. 346.

201

Ma quali sono le ragioni avanzate da Schelling per sostenere questo rifiuto, che inizialmente sembrava scandaloso, di esposizione o semplicemente di comunicazione e di scambio? È innanzitutto la lingua, o meglio, nella lingua, l’indissociabilità della lettera e dello spirito: Già la lingua in cui questa filosofia è stata professata dal suo inventore è un elemento non di poca importanza per questa valutazione, poiché è emerso in modo sufficientemente palese che qui la lingua è inscindibile da ciò che è in questione (Sache) e che, per filosofare secondo Kant (nach Kant zu philosophieren), si deve anche parlare come Kant, e che ogni tentativo di abbandonare la lettera conduce immediatamente al di là degli stretti confini di ciò che si può chiamare la sua filosofia.25

Se dunque, ci si propone, come fa de Villers, di «inoculare» (inoculieren) la filosofia kantiana nella sua totale «purezza» (die rein Kantische Philosophie), occorrerà sempre attenersi alla lettera e non tentare di dissociare la «forma», eventualmente ingombra di residui scolastici, e l’essenza. Ma già questa identità dello spirito e della lettera pregiudica in modo sfavorevole la possibile universalità dello «spirito e del senso profondo» di questa dottrina, in quanto è impossibile conservare l’essenziale indipendentemente dalla «forma individuale» che le ha dato il suo autore. Non è sempre facile,

25.  Ibidem. Cfr. anche SW, V, p. 186: «Schon diese Identität des Geistes und des Buchstabens, diese Unmöglichkeit, die individuelle Form des Urhebers, die er sich aus dem Nachlaß der Scholastik und einiger spätern Schulen gebildet, zu verlassen und das Wesen zu behalten – läßt über die Universalität des Geistes und innern Sinns der Lehre selbst, so wie sie ist, kein günstiges Vorurteil fassen»; Resoconto sui tentativi del sig. Villers…, p. 347: «Già questa identità dello spirito e della lettera, questa impossibilità di preservare l’essenza abbandonando la forma individuale dell’autore, che questi ha acquisito a partire dal lascito della scolastica e di alcune scuole successive, non genera alcun pregiudizio favorevole sulla universalità dello spirito e del senso intrinseco della dottrina stessa».

202

leggendo questa recensione, fare le parti dell’ironia stridente e dell’amarezza in rapporto all’altezzosità un po’ sprezzante con la quale si rompe a partite dall’Institut de France con la filosofia di Kant. Qui in ogni caso, l’idea del «privilegio» della lingua tedesca o delle sue «prerogative» è ripresa solo a seguito del capovolgimento. Alle prime ragioni relative alla lingua (schon die Sprache), Schelling ne aggiunge delle altre, questa volta storiche: al momento della sua comparsa in Germania, la Critica kantiana ha inizialmente suscitato la più totale confusione (totale Verwirrung) tra i filosofi allora in auge, poiché questi «avevano in gran parte dimenticato i fondamenti (Gründe) e l’origine (Ursprung) della loro stessa filosofia…». Ci si sforzi di comprendere: la novità della filosofia kantiana, nel contesto tedesco, riguardava la sua originarietà, il suo ritorno (tematizzato o meno, poco importa) alle fonti della nostra filosofia. Ma allora quale più grande confusione sarebbe da temere in Francia, dal momento che ci si sforzava «di richiamare alla memoria uno stadio della filosofia da lungo tempo passato, che lì non ha mai neppure gettato radici?»26. La rottura sembra ormai consumata, non più tra «scuole», ma fra tradizioni nazionali: la filosofia kantiana è un edificio (Gebäude) che poggia su un suolo empirico (auf der empirischen Erde), non è affatto un «Weltsystem» che si regge da solo. Così per de Villers non vi è altra alternativa: o esporre la filosofia

26.  Ibidem: «Wenn schon in Deutschland die Kantische Kritik unter den damals geltenden Philosophen die totale Verwirrung anrichtete, weil die Gründe und den Ursprung ihrer eignen Philosophie großenteils vergessen hatten, auf die sich jene (die Kritik) bezog, wie soll man es in Frankreich anfangen, einen längst vergangenen Zustand der Philosophie, der dort nicht einmal je Wurzel gefaßt hat, nur erst wieder ins Gedächtniß zurückzurufen, um einen Ausgang- und Anfangspunkt auch nur des historischen Verstehens der Kantischen Particularitäten zu erhalten?».

203

kantiana in quanto kantiana (die kantische Philosophie als kantische darstellen), vale a dire secondo l’apparenza che si è data, e dunque al di fuori dall’universalità, o piuttosto esporre nella filosofia kantiana non ciò che è kantiano (das Kantische), ma solamente «la filosofia»27. È ciò che ha voluto fare de Villers, senza pensare che lasciando così da parte lo storico, l’individuale, in una parola la firma kantiana, egli perdeva l’essenziale e soprattutto non permetteva di comprendere quelli che erano stati i suoi «temporäre Wirkungen», i suoi effetti in un tempo dato, in un dato contesto. Ritroviamo qui ciò che più in alto avevamo chiamato la prospettiva storica del dibattito o meglio l’orizzonte di filosofia della storia nella quale esso si inscrive: Qual è, si chiede Schelling, quella forma nella quale la filosofia kantiana continuerà ad agire, ad avere degli effetti (fortwirken), nella quale essa segnerà uno dei punti di passaggio e di svolta (Übergangs- oder Wendepunkte) nella storia della filosofia?28

Ecco senza dubbio il punto decisivo, che riguarda la storicizzazione: l’opera di Kant ha senso, ha una vera portata, solo se si sa vedere nel suo pensiero il momento di una transizione, di un passaggio o meglio di una «svolta». Se si perde il rapporto con la storia, della filosofia kantiana si trattiene solo il filosofico, l’universalità astratta e vuota, vale a dire… niente!

27.  SW, V, p. 188: «Es sind nur zwei Fälle: entweder will man die Kantische Philosophie als Kantische darstellen […], oder […], so muß man in der Kantischen Philosophie nicht das Kantische, sondern die Philosophie darstellen»; Resoconto sui tentativi del sig. Villers…, p. 348: «Non vi sono che due possibilità: o si vuol esporre la filosofia kantiana in quanto kantiana […], oppure […] si deve esporre nella filosofia kantiana non ciò che è kantiano, ma soltanto la filosofia». 28.  SW, V, pp. 188 s.; Resoconto sui tentativi del sig. Villers…, p. 349 (tr. mod.).

204

Oggi (nel 1803), spetta ancora ai tedeschi, nel dopo-Kant, il compito di far emergere il positivo e il negativo nell’impresa kantiana29. Ciò a cui non potrebbe certo contribuire l’esposizione di de Villers, esposizione che non può dunque apportare niente ad una nazione che, come quella francese, si è «completamente allontanata dalla filosofia» e che, «pare poter, anche nel campo della scienza, giungere alla rigenerazione soltanto attraverso la distruzione e la demolizione delle forme del sapere sinora in uso»30. Lasciate dunque, consiglia a tutti gli introduttori della filosofia tedesca in Francia, che vi si sviluppi l’empirismo, divenuto per i francesi il «Denksystem der Nation»31, e accettiamo di essere tacciati di «provincialismo».

Il Mosè della nostra nazione Troviamo senza stupore gli stessi motivi sotto la penna di Schelling nel 1804, in un breve testo in omaggio a Kant appena scomparso32. Schelling ricorda che è innanzitutto fallito il tentativo di «separare l’oro puro della sua filosofia dagli ingredienti dell’epoca», tener conto di ciò che in quest’opera si trovava in opposizione e in concordanza con il suo tempo, fino al punto 29.  Segnaliamo en passant che questa opposizione che l’ultimo Schelling rinnoverà profondamente già struttura la recensione critica. 30.  SW, V, p. 191: «…eine Nation, die bei dieser langen und gänzlichen Entfernung von der Philosophie, auch in Ansehung der Wissenschaft nur durch Zerstörung und Zertrümmerung der bisher gewohnten Formen des Wissens […] zur Regeneration übergehen zu können scheint»; Resoconto sui tentativi del sig. Villers…, p. 350. 31.  Ibidem. 32.  SW, VI, pp. 3-30. Una tr. fr. a cura di P. David, è disponibile in «Philosophie», n. 22, 1989, pp. 3-10.

205

che «l’epoca stessa ha portato a questo momento in cui Kant è apparso, in perfetta armonia con il suo secolo, e per la Germania come portavoce e profeta eminente del suo spirito». Viene qui da pensare a questa affermazione di Hölderlin, in una lettera a suo fratello del 1° gennaio 1799: «Kant è il Mosè della nostra nazione; l’ha fatta uscire dal torpore egiziano per condurla verso il libero deserto solitario della speculazione, e riportare dalla montagna sacra la Legge energica»33. Dov’è qui l’Egitto e chi sono gli egiziani? Lascio la questione aperta, per sottolineare, nell’articolo del 1804, la presenza di un’altra analogia d’epoca, molto potente: Kant e la Rivoluzione francese, analogia che rende tanto più drammatica la distanza e la prossimità, franco-tedesca: […] c’è un solo e unico spirito, da molto tempo in formazione, che, pur nella diversità delle nazioni e delle circostanze, si faceva strada là in una rivoluzione reale, e qui in una rivoluzione ideale.34

E ciononostante: Quanto alla diffusione della sua filosofia presso altre nazioni, questa non ha avuto finora alcun successo significativo, con l’eccezione delle nazioni nordiche che si sono sempre collegate in modo più diretto alla cultura tedesca, e nessun successo importante può d’altronde essergli promesso nel futuro su questa via. […] Nella memoria della sua nazione, alla quale solo può veramente appartenere, per il suo spirito così come per le sue disposizioni di cuore, Kant vivrà eternamente come uno di quegli individui, in piccolo numero, che sono allo stesso tempo intellettualmente e moralmente grandi, nei quali lo spirito tedesco si è contemplato in modo vivente e nella sua totalità.35

33.  F. Hölderlin, Grosse Stuttgarter Ausgabe, vol. VI.1, Kohlhammer, Stuttgart 1954, p. 304; tr. it. in F. Hölderlin, Tutte le opere, cit., p. 1093. 34.  SW, VI, p. 4. 35.  SW, VI, p. 10.

206

L’opposizione delle nazioni in filosofia Nell’Appendice che termina, almeno nell’edizione delle Sämmtliche Werke, il suo corso sulla storia della filosofia moderna36, Schelling affronta, ancora una volta tematicamente, «l’opposizione nazionale in filosofia»: Chi ha seguito fin qui il nostro sviluppo storico, può facilmente fare l’osservazione che nel suo procedere esso si è ristretto sempre più alla filosofia tedesca. Se inoltre da queste lezioni ha imparato a conoscere il tipo della filosofia tedesca e di che cosa si occupa la filosofia in Germania, e vuol gettare uno sguardo allo stato della filosofia nel resto d’Europa, non potrà fare a meno di esprimere questo giudizio: la filosofia in questo senso esiste in Germania, ma non nel mondo. Ciò però è più discutibile di quanto si potrebbe a prima vista credere. Infatti, se non dobbiamo considerare quel senso come accidentale, ma come essenziale, allora si sarebbe costretti a dire anche che vi è una filosofia soltanto in Germania, ma non nel resto del mondo. Alla fine di questo sviluppo vale dunque la pena sollevare la domanda se e in qual misura esista realmente questa differenza tra i tedeschi e le altre nazioni europee e, in questo caso, come essa sia da intendere e da spiegare.37

La questione che dirige questo paragrafo è per Schelling una vera questione, non affatto retorica: una questione fondamentale che impegna la comprensione della filosofia in quanto tale, della sua storia moderna e del compito singolare della filosofia dello stesso Schelling in questo contesto problematico in cui la colorazione nazionale, per non dire nazionalista, è singolarmente discreta o totalmente inesistente. Per Schelling, al termine della sua esposizione storica, il fatto della differenza non è discutibile: vi è qui precisamente un 36.  Questo corso è stato pronunciato diverse volte dal 1827 al 1841. La versione delle Werke corrisponde, sembra, alle lezioni degli anni 1835-1836. 37.  SW, X, 193; Lezioni monachesi…, p. 225.

207

fatto, la cui figura triviale è quella del plurale delle lingue vernacolari. Ma questo fatto, la differenza che separa, sembra, i tedeschi da tutti gli altri, non dà luogo ad alcuna rivendicazione della differenza in quanto tale o del diritto alla differenza, la quale in questo caso sarebbe un rinnegamento puro e semplice dell’idea stessa di filosofia, idea sulla quale Schelling non transige, e per la quale, lo vedremo, conduce la battaglia. Del resto, la differenza dei tedeschi appariva inizialmente negativa: Gli altri popoli europei mostrano una grande avversione per la speculazione e da molto tempo hanno totalmente rinunciato a praticare la filosofia scientifica.

Quali sono dunque le cause di questa differenza? La risposta è difficile, se si intende fornire una spiegazione soddisfacente per l’insieme dei protagonisti (il tedesco, così come il francese o l’inglese), perché si tratta – come sottolinea energicamente Schelling – di portar avanti delle «disposizioni d’animo e di spirito» della nazione, come se si potesse naturalizzare la differenza. Occorre allora, si interroga Schelling, portar avanti «i vantaggi della lingua» tedesca, alla quale, come diceva Leibniz, è innata la speculazione38. La risposta non è abbastanza soddisfacente, poiché gli inglesi potrebbero far notare, a buon diritto, che «le radici sono in gran parte affini nelle due lingue»: Ma oltre a ciò una maggiore profondità di disposizione tanto quanto la natura filosofica della lingua spiegherebbero una differenza di risultato e non ciò di cui propriamente si parla, cioè che i francesi e gli inglesi non riconoscono affatto la filosofia nel senso tedesco.39

38.  Cfr. G.W. Leibniz, L’armonia delle lingue, tr. it. di S. Gensini, pref. di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 1995. Cfr. anche F. Nef, Leibniz et le langage, Puf, Paris 2000; in part. il cap. II: L’usage de la langue. Langue nationale et langue philosophique. 39.  SW, X, 194; Lezioni monachesi…, p. 226.

208

Questa è la questione che preoccupa Schelling, questione che deriva da un sentimento di ingiustizia e di incomprensione che porta ad adottare un atteggiamento difensivo, o a rassegnarsi alla non comprensione piuttosto che a esporsi alle deformazioni e alla trivializzazione, come abbiamo visto nella recensione di de Villers. Due cose mi sembra che debbano qui essere sottolineate: per spiegare la differenza non si tratta in alcun caso di far appello a dei dati: dati naturali o linguistici, ma piuttosto ad una decisione o a una volontà (buona o cattiva), quella di non voler sapere niente di…, in un dominio in cui non si tratta, o almeno non più, di semplici conflitti di volontà o di ambizione, i quali possono sempre dopotutto essere regolati… con la forza. Se occorre rinunciare alla spiegazione linguistica (e se ci si allontana qui in modo sensibile da Herder, Hamann o Hegel), si può pensare ad una spiegazione storico-religiosa: lo sviluppo della filosofia (e dell’interesse per la filosofia) potrebbe essere una conseguenza dei conflitti confessionali o in ogni caso dell’assenza di unità religiosa; come se ciascuno dovesse filosofare per difendere la propria confessione di fronte alle altre, come se l’interconfessionalità o i conflitti confessionali dovessero necessariamente ricorrere a degli argomenti filosofici o ad una base filosofica comune. Situazione dunque un po’ analoga a quella della Riforma all’inizio del XVII in Germania rispetto all’offensiva della Controriforma e dei Gesuiti40. Peraltro, ed è un’ipotesi annessa, la «serietà religiosa» che i tedeschi mettono nell’esercizio della filosofia, non sarebbe forse come l’elemento comune, la compensazione reciproca per

40.  Cfr. W. Sparn, Wiederkehr der Metaphysik. Die ontologische Frage in der lutherischen Theologie des frühen 17. Jahrhunderts, Calwer, Stuttgart 1976; cfr. anche e soprattutto Ph. Büttgen, Luther et la philosophie. Études d’histoire, Vrin, Paris 2011.

209

l’unità religiosa perduta? Qualcosa come un correttivo dell’atto di emancipazione al quale hanno tutti preso parte? Questo atto di emancipazione che ha fatto perdere l’unità: l’unità religiosa e anche quella (già una finzione) del Sacro Romano Impero Germanico41. La «perduta unità esteriore» ha così dovuto essere riconquistata su un piano filosofico. Questa interpretazione storico-religiosa seduce manifestamente Schelling: essa era già evocata nel frammento su L’essenza della scienza tedesca; la ritroviamo nella Lezione inaugurale di Berlino il 15 novembre 184142. In questa lezione inaugurale, Schelling identificava infatti il proprio compito filosofico (in questo caso l’esposizione della «filosofia positiva») con il compito filosofico e storico della Germania: La storia della filosofia in Germania è fin dall’inizio intimamente legata alla storia del popolo tedesco.

Allo stesso tempo, come presto sottolineerà Schelling, nell’Appendice alle Lezioni sulla storia della filosofia, una tale spiegazione resta ancora piatta e non del tutto soddisfacente: rispetto all’interesse nei confronti della filosofia in Germania e presso gli altri grandi popoli europei, tale spiegazione considera la cosa come se si trattasse unicamente di gradazioni, nel più o nel meno. Come se dunque la differenza in questione, alla fine, non fosse altro che «quantitativa». Ma non è solo questione di più o meno, si tratta di un conflitto che va al cuore delle cose.43

41.  Senza attendere l’abdicazione di Francesco II nell’agosto del 1806, Hegel scriveva già nelle prime righe della sua Costituzione della Germania: «La Germania non è più uno stato». 42. Rispettivamente: SW, IV, pp. 377-394; SW, XIV, pp. 357-367. 43.  SW, X, p. 195: «… es ist von einem Gegensatz in der Sache selbst die Rede»; Lezioni monachesi…, p. 225 (tr. mod.).

210

Conflitto tanto più drammatico che il rifiuto da parte degli altri popoli non è tanto quello della filosofia, ma piuttosto – e qui sta l’aspetto vivo, il taglio crudele della differenza – il rifiuto della «filosofia nel senso tedesco». Ritroviamo drammatizzato il punto di partenza della questione iniziale: la differenza tedesca è anche o innanzitutto la differenza della filosofia in senso tedesco. In presenza di un tale rifiuto, ogni blocco sul «senso tedesco» della filosofia sarebbe fondamentalmente non pertinente e soprattutto inaccettabile. Non si potrebbe d’altronde rispondere agli altri popoli che sono lontani dalla Germania e che rifiutano la sua filosofia (differente): «ciò che essi ritengono filosofia non lo è affatto, soltanto noi sappiamo che cosa sia la filosofia»44. Una tale risposta sarebbe in effetti disastrosa in quanto porterebbe a distruggere l’idea stessa del filosofare. Una risposta di questo genere, che porta ad una ricusazione di principio, è peraltro, sottolinea Schelling, già troppo frequentemente utilizzata in Germania anche tra i filosofi tedeschi in rapporto alle differenze tra di loro! Ma ancora più in profondità, ciò che scredita immediatamente un tale argomento polemico è la semplice osservazione che sarebbe «contrario a ogni ragione attribuire a intere nazioni, in genere eccellentemente dotate, un’incapacità per la filosofia»45. Tale risposta in forma di rifiuto 44.  Cfr. anche lo sviluppo parallelo nel corso di Monaco (1827), System der Weltalter, a cura di S. Peetz, Klostermann, Frankfurt a.M. 1990, p. 72: «Anche i francesi sostengono di fare molta filosofia e si richiamano a Voltaire, e pretenderebbero di chiamarsi nazione filosofica, in particolare nell’ultimo secolo, tuttavia hanno rifiutato la filosofia tedesca. E se si pretende di rispondere: solo l’orientamento preso dalla filosofia tedesca è vero, non si sarà detto granché, ma soprattutto ci si dovrà chiedere come si può ricusare la capacità di filosofare ad una nazione intera, quella che ci ha dato un Descartes, un Malebranche, un Pascal». Si veda anche lo sviluppo parallelo nel corso del 1832-1833, Grundlegung der positiven Philosophie, cit., pp. 268 s. 45.  SW, X, p. 195: «… scheint es doch aller Vernunft entgegen, ganzen sonst vorzüglich begabten Nationen eine Unfähigkeit für Philosophie zuzuschreiben…»; Lezioni monachesi…, p. 225.

211

altezzoso porterebbe infatti a «negare totalmente al popolo che ha prodotto un Descartes, un Malebranche e un Pascal, una disposizione di animo e di spirito per la filosofia». Non si conterà evidentemente su Schelling (e ancor meno su Hegel) per consegnarsi a questa impresa stupida e di denigrazione di massa. Tutte queste cattive risposte accusano ancora una volta il carattere serio e veramente drammatico della questione della differenza, al punto che Schelling si interroga: … in fin dei conti, potrebbe anche esserci qualcosa di vero e di giusto alla base di questa avversione che tutti i popoli hanno finora manifestato per la filosofia nel senso tedesco.46

E anche in questo caso, il vero punto è il seguente: cosa significa «Philosophie im deutschen Sinn»?

La differenza che ci separa Considerare questo versante della questione equivale dunque a cercare di comprendere perché e in quale misura «gli altri possano aver avuto in un certo modo ragione nel respingere la filosofia nella sua forma tedesca». Senza alcun dubbio, la strategia abbastanza ritorta di Schelling risulta qui smascherata: ciò che è considerato come «filosofia in forma tedesca» agli occhi degli «altri», gli inglesi (anche se occorre fare un’eccezione importante per Coleridge), ma anche i francesi, e persino Victor Cousin, non è necessariamente la «vera» filosofia tedesca! Naturalmente colui che qui si prende di mira è Hegel, e Schelling non cesserà di rimproverare al suo corrispondente francese di non essersi informato sulla filosofia tedesca se non presso Hegel o gli hegeliani. 46.  Ibidem (tr. mod.).

212

Possiamo ora riporre, con Schelling, la questione iniziale e fondamentale: «In cosa consiste la differenza che ci separa?». Questa differenza non potrebbe essere naturale, né semplicemente linguistica o di linguaggio: si tratta di una differenza che concerne «il modo di fare filosofia», il tipo di filosofia (die Art der Philosophie, die Art von Philosophie): «Qual è il genere di filosofia che sola va a genio agli altri popoli e come si rapporta ad esso il tipo di filosofia che noi preferiamo chiamare così?». La risposta ovvia, ma si tratta solo di un primo livello, è così enunciata: da una parte l’esperienza, l’empirismo, dall’altro la speculazione, l’intelletto o il pensiero puro, l’a priori. Anche in questo caso la strategia schellinghiana è un po’ troppo vistosa e fa perdere all’interrogazione fin qui condotta buona parte della sua acutezza: il sottinteso è infatti che solo la filosofia positiva è in grado di far alleare speculazione e positività, e di riconciliare così l’empirismo e il pensiero puro, nella forma di un empirismo superiore (l’empirismo filosofico)47. Essa sola potrà diventare internazionale, essa sola può pretendere all’uni­versalità europea, essa sola potrà acclimatarsi in Francia: le basterà di essere «tradotta», senza esser stata «interpretata», e Schelling si preoccuperà molto, nella sua corrispondenza con Cousin, di trovare dei traduttori fidati per ciò che si propone di pubblicare in Germania48. Ma ritorniamo alla differenza delle due filosofie «nazionali»: l’opposizione è dunque in questo caso quella di una filosofia

47.  Cfr. SW, X, pp. 225-286; per quanto riguarda la ricca polisemia del termine «empirismo» nell’opera di Schelling, si veda l’eccellente contributo di F. Fischbach, Schelling et le problème de l’empirisme, in G. Bensussan L. Hühn - Ph. Schwab (a cura di), L’héritage de Schelling – Das Erbe Schellings. Interprétations au XIXème et XXème siècle, Karl Alber, Freiburg-München 2015, pp. 25-40. 48.  Si veda infra, cap. VI.

213

concepita come Erfahrungswissenschaft, «scienza empirica», «scienza sperimentale» e, da parte tedesca, «scienza puramente razionale» (eine reine Vernunftwissenschaft), una scienza razionale pura nella quale Schelling non è per niente disposto a riconoscere qualcosa come «la maniera tedesca» di filosofare. Ecco senza dubbio ciò che, in ultima istanza, lo avrebbe condotto a rimettere in discussione una opposizione così stabilita: non solo una tale opposizione è fin troppo consistente, ma soprattutto essa ignora la vera e ultima mira del pensiero schellinghiano. Ora, ciò che rende nuovamente fragile questa opposizione sta ancora nel sapere cosa si deve intendere con «scienza sperimentale»: si tratta delle scienze naturali empiriche o dell’esperienza interna, il che porterebbe a ridurre la filosofia a psicologia (questo sembra essere il caso in Cousin, ma anche in numerosi filosofi in Germania)? Questa idea della filosofia, vivente in Germania, corrisponde anche, «pressappoco, alla rappresentazione che i francesi si fanno della filosofia». Si potrebbe forse dire: vi è qui una rappresentazione ristretta, che vale giusto per Victor Cousin e la sua Scuola49. Non bisogna pertanto dimenticare, sottolinea Schelling, che: Ci sono molti tra noi nei quali non solo non si trova un concetto più alto di filosofia, ma che affermano proprio la stessa cosa, cioè che la filosofia non possa in generale andare al di là dei fatti di coscienza, cioè nell’ambito di una psicologia o di una antropologia soggettiva.50

Ma allora è, se non tutta, almeno una buona parte della filosofia tedesca che ignora la «maniera tedesca» di filosofare e

49.  Cfr. la Prefazione del 1834 a Cousin: SW, X, Vorrede zu eine philosophischen Schrift des Herrn Victor Cousin, p. 206; tr. it., Prefazione a uno scritto filosofico del sig. Victor Cousin, in F.W.J. Schelling, Lezioni monachesi e altri scritti, cit., p. 236. 50.  SW, X, p. 196; Lezioni monachesi…, pp. 227 s.

214

che costituisce come un innesto mostruoso o un pollone della filosofia francese in Germania. Allora non si vede propriamente in che cosa debba consistere la grande differenza per lo meno tra una parte consistente di ciò che in Germania si chiama filosofia e ciò che così viene chiamata in Francia.

Siamo tornati al punto di partenza o anche al di qua del punto di partenza. Questo movimento regressivo si prolunga o si ripercuote nell’immediato seguito del testo, dove Schelling arriva fino a interrogarsi sulla realtà e la radicalità della «rottura» kantiana, in quanto Kant è ora rinviato a Locke o a Condillac: Locke ha scritto un Saggio sull’intelletto umano, Kant una Critica della ragione pura, che è molto più metodica, ma anche in buona parte non soltanto più difficile, ma nell’essenziale più incomprensibile.51

E Schelling può anche permettersi il lusso di fare l’elogio dei «grandi naturalisti», inglesi compresi, che hanno totalmente ragione (contro lo Hegel dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, ed. del 1827, § 7) di chiamare «fisica» la filosofia, e di aggiungere che: … la scienza tedesca, come qualcosa fa concludere, potrebbe trovare soprattutto accesso in Francia e in Inghilterra anche dalla parte della storia e delle ricerche sull’antichità. Sarebbe dunque assurdo, semplicemente assurdo voler richiamare quelle altre nazioni dalla dottrina dell’empirismo, che in altro modo esse seguono con così grande vantaggio; per loro questo sarebbe di fatto un movimento all’indietro.52

È ciò che Schelling non cesserà di ripetere a Victor Cousin al quale capita di «germanizzare» a sproposito. Gli scrive, in francese, il 16 aprile 1826: 51.  Ibidem. 52.  SW, X, p. 200; Lezioni monachesi…, p. 230.

215 … voler richiamare questi popoli [si tratta della Francia e dell’Inghilterra] da questo empirismo equivarrebbe a ordinargli di compiere un movimento retrogrado. Non spetta a loro di indietreggiare, ma spetta a noi tedeschi, che grazie alla filosofia naturale [si intende qui la Naturphilosophie e il contributo schellinghiano ad essa] siamo usciti da questa triste alternativa di idee vane tra una metafisica senza basi, che si hanno tutte le ragioni a ridicolizzare, e le osservazioni misere e aride di una psicologia infruttuosa, spetta a noi, dico, e a coloro che ci comprendono, di spingere in avanti il sistema universale – anch’esso parte da un primo principio, che a causa della sua obiettività o positività assoluta si lascia conoscere solo a posteriori – fino al punto in cui si deve confondere con questo empirismo correttamente riconosciuto e formare con esso una sola massa, divenuta così irresistibile e incrollabile.53

Così l’opposizione delle nazioni in filosofia si rivela alla fine abbastanza vana e forzata, poiché essa è soprattutto il segno che «quella filosofia, in cui potrebbe riconoscersi la stessa umanità, la filosofia veramente universale, finora non esiste ancora»54. Il conflitto (Zwiespalt) tra le nazionalità non corrisponde all’aspirazione dell’umanità in quanto tale (die Menschheit selbst). Siamo apparentemente molto lontani dalle critiche rivolte ai tentativi di de Villers di introdurre in Francia la filosofia di Kant: È impossibile che la filosofia veramente universale possa essere la proprietà di una singola nazione e fino a quando una qualche filosofia non abbia superato i confini di un singolo popolo si può ammettere con fiducia che essa non è ancora quella vera, anche se forse è sulla via giusta.55

53.  G.L. Plitt (a cura di), Aus Schellings Leben. In Briefen, vol. III, Hirzel, Leipzig 1870, pp. 17-18. 54.  SW, X, p. 199; Lezioni monachesi…, p. 230. 55.  Ibidem.

216

Eppure, e al di là della complessa strategia schellinghiana, persino nei rapporti con Victor Cousin, è ancora permesso di far emergere una linea continua che disegna un contro-concetto dell’universalità alla francese. Poiché il compito di questa vera sintesi transnazionale – che non si confonderà con l’universalità europea pretesa di lingua francese – è ancora affidata alla Germania56.

Un apprendistato inutile? Ritroviamo, quasi parola per parola, le formule della lettera a Cousin del 1826, appena citata57. Si comprende allora che Schelling possa frenare Cousin nel suo sforzo, ancora o sempre prematuro, per far conoscere in Francia la filosofia tedesca. Schelling raccomanda a Cousin, in una lettera del novembre 1828, di «non superare totalmente la linea dell’Empirismo». E si riconoscono qui i motivi profondi delle critiche formulate contro de Villers: «questa proposta – prosegue Schelling – potrebbe sembrarvi strana, tuttavia, convinto del fatto che voi mi conosciate, oso formularla: per ciò che riguarda tutto quanto è al di là, oggi voi potete dare ai vostri compatrioti solo delle idee per metà vere che poi, una volta fissate, voi o i vostri successori avrete difficoltà a strappar loro dalla testa». Prima di concludere con queste domande:

56.  SW, X, p. 200; Lezioni monachesi…, pp. 230 s. 57.  Schelling scriveva ancora: «È sicuramente una misera pusillanimità e un’angusta limitatezza, se la filosofia, per esempio in Francia, di tutto il vasto e grande regno dell’esperienza non reclama per sé null’altro che il misero e ristretto campo delle limitate osservazioni e analisi cosiddette psicologiche». Cfr. anche i termini usati nella Prefazione a Cousin già citata, SW, X, pp. 216 s.

217 Perché non risparmiare ai francesi gli anni di apprendistato che noi tedeschi abbiamo dovuto fare? Perché dar loro le idee poco chiare con le quali noi abbiamo iniziato, dal momento che con un po’ di pazienza si potrebbero fin dall’inizio collocare sul cammino della scienza chiara, sicura, che ha raggiunto il suo scopo?58

È ancora questa esigenza di compimento, seguendo il ritmo delle idee e della loro maturazione, che permette a Schelling di spiegare a Cousin perché non ha pubblicato quasi niente dopo le Ricerche del 1809. E in tal modo possiamo anche avere la misura dell’importanza della Prefazione che redige nel 1834 per accompagnare la traduzione in tedesco di un testo di Victor Cousin, Über französische und deutsche Philosophie, testo che risponde alla lunga prefazione che Cousin aveva aggiunto alla 2a edizione, del 1833, dei suoi Fragments philosophiques, e nella quale, ricordando il suo metodo, difendendo la sua filosofia e ricostituendo il suo itinerario, egli giustificava il suo interesse per la filosofia tedesca, contro gli attacchi reiterati di «germanismo». Schelling tornerà di nuovo sull’argomento nel 1838 (in una lettera del 23 aprile, ugualmente scritta in francese) sulla questione dell’introduzione della filosofia tedesca in Francia: Se voi aveste trovato opportuno chiedere il mio parere sulla proposta di un concorso sulla filosofia tedesca, vi avrei molto umilmente consigliato di procrastinarlo ancora di qualche anno. Avreste potuto farlo da voi, se aveste aggiunto un po’ di fiducia a ciò che vi ho detto più di una volta, ossia che la filosofia tedesca è sul punto e anche nella necessità di subire ancora un’ultima crisi e che non è possibile dare un giudizio né dall’inizio né dal mezzo né dall’inizio della fine, prima che un movimento scientifico come quello della filosofia tedesca sia interamente terminato e arrivato alla sua vera fine.59

58.  F.W.J. Schelling, Aus Schellings Leben, cit., p. 42. 59.  Ivi, p. 136.

218

Così, come in eco alla recensione di de Villers, si ritrova qui, trentacinque anni dopo, l’idea di una crisi aperta nella filosofia tedesca, in quanto tedesca, da parte di Kant e della Critica, ripetizione senza dubbio e trasposizione della crisi luterana, alla quale è importante lasciare il suo tempo proprio e la sua determinatezza nazionale: sono, dirà ancora Schelling, «i nostri anni di apprendistato» ed essi possono «essere risparmiati ai francesi». Ma sono anche quelli – così come le sovradeterminazioni (provinciali) che li avrebbero segnati – che devono infine o alla fine permettere l’elaborazione di un’«opera di pura speculazione», ma «scritta in modo da essere traducibile ai francesi». Dal rifiuto della francesizzazione del 1803 agli annunci, nel 1828, di un’opera «traducibile» in francese, o meglio che ha bisogno solo di essere tradotta e non «interpretata»60, il cammino percorso è lungo, e il dialogo filosofico franco-tedesco sembra riallacciato: ciò emerge in particolare, senza ambiguità apparente, da questo passaggio della Prefazione a Cousin nel quale Schelling si mostra di nuovo preoccupato della Darstellungsweise e denuncia questa volta il provincialismo tedesco: Che infatti dai nostri vicini occidentali ci sia qualcosa da imparare per ciò che concerne l’esposizione (Darstellung) chiara, semplice e ben riflettuta delle materie scientifiche, è ammesso pressoché da tutti. La modalità di esposizione (Darstellungsweise), però, qualora ad essa sia ascritto un qualche 60.  Ivi, pp. 42 s.: «Le idee, anche in Germania, non sono ancora mature fino al punto da essere presentate ai francesi. È al solo scopo di portare la filosofia a questa alta generalità di idee e di espressioni, dove sarà in grado di essere compresa da tutti i popoli pensanti, che ho dedicato tanto tempo alle mie opere che saranno pubblicate nel corso dell’inverno. Spero che così facendo finiscano d’un sol colpo le discussioni subalterne nelle quali vi vedo ancora implicato. Non appena pubblicate mi basterà trovare un buon traduttore, e spero di poter far a meno di un interprete».

219 valore, si ripercuote sempre in pari tempo sulla cosa e sul contenuto. I tedeschi avevano semplicemente filosofato tra di loro per così lungo tempo che si allontanarono gradualmente in pensieri e parole sempre più da ciò che è universalmente comprensibile (non solo, come in questo caso, in Germania) e il grado di allontanamento alla fine si trasformò quasi in un mezzo per misurare l’abilità filosofica. Non abbiamo bisogno di addurre degli esempi. Come famiglie che isolandosi dalle relazioni comuni vivono semplicemente tra di loro, alla fine oltre ad altre caratteristiche riprovevoli adottano tra loro anche espressioni particolari (Eigenheiten), che sono comprensibili soltanto a loro, così in filosofia era accaduto ai tedeschi, e quanto più essi, dopo alcuni tentativi falliti di diffondere la filosofia kantiana fuori della Germania, rinunciarono a farsi comprendere da altri popoli, tanto più considerarono la filosofia come qualcosa di esistente (etwas Daseyendes), per così dire, soltanto per loro, senza considerare (bedenken) che l’intento originario di ogni filosofia, anche se spesso mancato, e al quale tuttavia non bisogna mai rinunciare, mira proprio all’accordo (Verständigung) universale. Da qui tuttavia non può seguire che delle opere di pensiero siano da giudicare come Exercitia Styli, ma piuttosto che una filosofia, il cui contenuto non possa essere reso comprensibile (begreiflich) ad ogni nazione colta e accessibile a tutte le lingue, già solo per questa ragione non può essere quella universale e vera. L’interesse che gli stranieri mostrano per la filosofia tedesca non può pertanto mancare di ripercuotersi favorevolmente su di essa stessa.61

Tuttavia, potrebbe restare integra l’opposizione – veramente difficile da pensare – tra due concezioni dell’universalità, eredità senza dubbio, ed eredità traviata, del lungo regno della lingua francese nella sua «universalità europea» e nella sua «prerogativa» all’interno dell’Accademia delle Scienze di Berlino. 61.  SW, X, p. 204; Prefazione a Cousin, p. 236.

220

* Resterebbe ancora da affrontare, per noi oggi – e in particolare alla luce di questi Annali, dei quali abbiamo considerato solo una brave sequenza – e rispetto a tutt’altra «prerogativa», quella dell’anglo-americano dominante, la doppia tensione, non più relativa alla nazionalità, ma all’idioma62 e all’universalità: nessuna filosofia può definirsi «nazionale» senza rinunciare anche insieme all’universalità e all’unità del filosofare, senza rinnegare la filosofia in ciò che costituisce della sua mira originale; ma essa deve anche rivendicare il privilegio singolare dell’universale così come si inscrive ogni volta in modo storico e carnalmente in una tale lingua, epoca, «nazione» sempre determinate, nel ritmo del pensiero e dei «suoi anni di apprendistato», salvo riproporre la pericolosa illusione, coltivata a suo tempo dall’Accademia di Berlino, di una «universalità europea» nella quale dovrebbe tradursi e riflettersi, in virtù della sua perfetta chiarezza, ogni altra determinazione filosofica.

62.  Prendiamo in prestito da Jacques Derrida, pur correndo il rischio necessario di una deviazione, questo motivo insistente: Schibboleth, pour Paul Celan [tr. it. di G. Scibilia, Schibboleth, per Paul Celan, Gallio, Ferrara 1991]; Le monolinguisme de l’autre [tr. it. di G. Berto, Il monolinguismo dell’altro, Cortina, Milano 2004], e La langue n’appartient pas. Entretien avec Evelyne Grossman, in «Europe», n. 861-862, 2000 (Paul Celan), pp. 81-91.

Capitolo VI

Ravaisson discepolo francese di Schelling

L’oggetto di questo capitolo è limitato e del tutto preliminare. Si tratta infatti innanzitutto di ricordare i principali fatti, già ben stabiliti, rispetto alle relazioni personali tra Ravaisson e Schelling, prima di abbozzare qualche accostamento dottrinale o tematico, per quanto molto generale. Per andare più in profondità, occorrerebbe impegnarsi nell’esplorazione sistematica del fondo manoscritto depositato alla Biblioteca Nazionale dopo il decesso di Ch. Devivaise1. Senza poter qui anticipare sull’indispensabile lavoro di archivio ancora da rea­ lizzare, vorrei semplicemente – dopo aver ricordato alcuni elementi – interrogarmi sul sapere se e in quale misura è possibile dire, come ha suggerito una volta Alexandre Koyré, in un rapporto sugli studi hegeliani in Francia (rapporto presentato durante il primo Hegel-Kongress nel… 1930), che Schel1.  Un ricercatore belga, Daniel Panis, aveva iniziato l’inventario dettagliato del fondo. Per quanto attiene al nostro studio è particolarmente significativo il dossier “Schelling” che fa parte del dono 31556 (fondo Devivaise) nel quale compaiono diverse note relative alla libertà, l’esistenza, la personalità, lo spirito, il cuore, l’intuizione intellettuale. Oltre alle note Mitologia e Rivelazione, vi si trova anche un commento seguito da una dozzina di lezioni prese dalla Filosofia della rivelazione.

222

ling avrebbe avuto in Francia un discepolo nella persona di Ravaisson2. Ma prima di istruire la questione, in tre tempi, e sul piano delle opere pubblicate o dei frammenti postumi, devo ricordare brevemente i fatti noti concernenti le relazioni tra gli uomini. Studierei in seguito le loro rispettive interpretazioni di Aristotele, la dimensione estetica della loro filosofia, e infine cercherò di ricostruire qualcosa come una filosofia ravaissoniana della rivelazione o più prudentemente qualcosa come la sua costruzione della storia religiosa, confrontandola con quella di Schelling.

Una prima conoscenza indiretta Sappiamo bene, soprattutto grazie al lavoro pionieristico di Joseph Dopp, Félix Ravaisson. La formation de sa pensée d’après des documents inédits3, come il giovane Ravaisson, al di là dell’eclettismo cousiniano e dell’insegnamento, abbastanza sconosciuto, del suo maestro Hector Poret al Collège Rollin, prende conoscenza del pensiero tedesco moderno in generale e della filosofia di Schelling in particolare all’epoca in cui redige la sua tesi sulla Metafisica di Aristotele, depositata nel 1834 all’Accademia delle Scienze, poi quando prepara la sua

2.  A. Koyré, Études d’histoire de la pensée philosophique, Armand Colin, Paris 1961, p. 205. Il testo è stato citato anche da Dominique Janicaud, in uno studio eccellente, del quale sono debitore, apparso in «Les Études Philosophiques», n. 4, 1984 (Victor Cousin et Ravaisson, lecteurs de Hegel et de Schelling), pp. 451-466. 3.  Éditions de l’Institut Supérieur de Philosophie, Lovanio 1933. Cfr. anche R. Berthelot, Un romantisme utilitaire. Étude sur le mouvement pragmatiste, 3 voll., Alcan, Paris 1913-1922, vol. II, parte III, cap. V: Origines romantiques du pragmatisme de Bergson: Ravaisson et Schelling, pp. 83-110.

223

tesi De l’Habitude che sarà sostenuta nel 1837 e pubblicata nel 1838. – Aggiungo immediatamente, tra parentesi, una piccola precisazione: si è spesso fatto notare che Schelling non viene citato né all’interno del Saggio, né nella tesi. Ciò è vero per la tesi De l’Habitude, che tuttavia presuppone un’ampia base schellinghiana, sulla quale tornerò; e ciò è vero anche del Saggio4 così come è stato pubblicato, in una versione profondamente rimaneggiata, come primo volume, nel 1837, ma non è affatto il caso della tesi dell’Accademia propriamente detta. Occorrerebbe potersi riferire direttamente a questa prima versione, il cui manoscritto è conservato presso gli Archivi dell’Institut de France, perché la presenza di Schelling è qui decisamente più netta, soprattutto nella conclusione, di quanto non emerga dal volume rimaneggiato, ampliato, pubblicato più avanti. La stessa questione messa a concorso da Victor Cousin nel 1833 invitava peraltro a: 1) «Far conoscere l’opera di Aristotele intitolata Metafisica attraverso una ampia analisi e determinandone il piano». 2) «Tracciarne la storia, segnalando l’influenza sui sistemi ulteriori nell’antichità e nei tempi moderni». 3) «Cercare e discutere la parte d’errore e la parte di verità che vi si trovano, quali sono le idee che sussistono ancora oggi, e quelle che potrebbero utilmente entrare nella filosofia del nostro secolo». Non vi sarebbe dunque niente di stupefacente nel fatto che Ravaisson conclude il suo studio del 1834 con delle considerazioni, peraltro abbastanza rapide, sul «realismo-idealista» inaugurato da Leibniz, o nel fatto che critica, attraverso Wolff e il

4.  Cfr. F. Ravaisson, Essai sur la métaphysique d’Aristote, 2 voll., ried. an., Olms, Hildesheim 1963; nuova ried., Éditions du Cerf, Paris 2009; tr. it. di A. Tilgher, Aristotile, Le Monnier, Firenze 1922 [l’ed. it. comprende le pagine 209-595 del tomo I e le pagine 1-23 del tomo II. Tale volume non è mai stato ristampato e risulta oggi decisamente raro. Le traduzioni riportate sono nostre; N.d.T.].

224

suo logicismo («combinazione matematica di nozioni astratte»), Hegel, opponendogli la metafisica intesa come scienza dell’essere presa nella sua «assoluta attualità». È importante, proponeva ancora Ravaisson, citando Schelling, dare all’idealismo una base per raggiungere un «assoluto in cui l’atto e la potenza si identificano», anche se, riconosce anche Ravaisson, Kant era già arrivato, «con un lampo di genio», a intravvedere «l’identità del pensiero e dell’esistenza, del soggetto e dell’oggetto, in una unità superiore». Alla dottrina della «soggettività assoluta» sviluppata da Fichte, Ravaisson crede di poter ancora opporre il «realismo» restaurato da parte di uno Schelling che riprendeva il realismo aristotelico in una forma rinnovata. Certo, più prudentemente Ravaisson nota anche che è tuttavia difficile pronunciarsi definitivamente rispetto al pensiero di Schelling, poiché il suo sistema non è ancora compiuto, ma che in ogni caso il pensatore di Monaco tende sempre di più verso il realismo e preconizza ora una «filosofia positiva». Il Rapporto, nella sua versione originale, è certamente un lavoro un po’ snello, se comparato ai due volumi del Saggio, tuttavia meriterebbe di essere pubblicato. Possiamo farcene un’idea leggendo il resoconto redatto da Cousin sul concorso aperto nel 1833 (pubblicato presso Ladrange a Parigi nel 1835, e poi in una seconda edizione aumentata nel 1838). Comunque sia, come ha mostrato J. Dopp, sembra che la conoscenza dell’opera di Schelling da parte del giovane Ravaisson sia stata inizialmente indiretta, trasmessa soprattutto da manuali o articoli di rivista5. – La lettura dell’opera di Fried-

5.  Il manuale di Thaddä Anselm Rixner in particolare (Handbuch der Geschichte der Philosophie, 1822 e 1829), o la storia della filosofia di Tennemann, della quale Cousin aveva predisposto una traduzione francese, accompagnata di appendici redatte da Amadeus Wendt per il periodo postkantiano,

225

rich Julius Stahl, Die Philosophie des Rechts nach geschichtlicher Ansicht (Heidelberg, 1830-1837), discepolo troppo zelante che tentava di applicare alla filosofia del diritto l’idea schellinghiana di positività, ha potuto giocare ugualmente un ruolo importante nella trasmissione delle dottrine spesso riservate all’insegnamento orale. Noi abbiamo la fortuna di possedere le note di lettura di Ravaisson che riassume le idee formulate da Stahl nel modo seguente: Nella filosofia moderna il pensatore si ritira in se stesso, ottiene il principio soggettivo, la sua ragione. Da ciò il formalismo […] filosofia astratta: razionalismo. L’essenza della filosofia astratta è di riconoscere ciò che segue dalla ragione, il necessario logico. Non gli basta che qualcosa sia, occorre che non si possa concepire l’opposto. Il suo principio è dunque la ragione pura, il pensiero prima di qualsiasi contenuto ad essa esteriore, a priori, prima di qualsiasi esperienza. […] Ogni filosofia deve inoltre prendere la ragione come misura in un modo negativo, deve cioè escludere tutto ciò che contraddice le leggi del pensiero. Ma il proprio della filosofia astratta consiste nel prendere la ragione come misura positiva, vale a dire che non riconosce altro se non ciò che queste stesse leggi già contengono ed esclude tutto ciò che secondo essa può essere altrimenti. Da ciò deriva tutto l’andamento di questa filosofia. Occorre trovare tutto attraverso la ragione. Per trovare l’incondizionato, si astrae fino ad arrivare a una rappresentazione perfettamente semplice dalla quale non ci si può separare se si pensa, al fondo di qualsiasi pensiero, per esempio alla sostanza, alla nozione di essere o di incondizionato.

e nella quale una ventina di pagine importanti sono dedicate a Schelling. Lo stesso Wendt aveva presentato al pubblico tedesco i Fragments philosophiques di Cousin. Questa presentazione era stata subito tradotta in francese nella «Nouvelle Revue Germanique» nel settembre 1834; vi compaiono anche delle informazioni preziose sulla prima e sull’ultima filosofia di Schelling: la questione del panteismo, l’idea di Dio causa, la questione del wie, del come di questa causalità. Cfr. J. Dopp, op. cit., p. 76.

226 È da questo Resto dell’astrazione che deve derivare ogni esistenza determinata. In tal modo essa sarà puramente logica. Deve contenere le cose in modo tale che il suo opposto non sia concepibile. Tutto ciò si applica a quei sistemi dell’opposizione necessaria che devono costituire una cosa nell’opposizione all’altra (Fichte, Hegel) come a quelli che derivano solamente dal principio di contraddizione.6

La filosofia nuova, prosegue Ravaisson, deve prendere al contrario «la libertà e la personalità» come principio. È così che il pensiero può «ritornare all’esistenza indipendente di essa» e così non considerare più «le cose in modo greco come i prodotti delle Idee e delle leggi della natura, ma come l’opera di un Dio libero e attivo». Adottando così un nuovo punto di vista, incentrato sull’idea della creazione, la filosofia diventa, come vuole Schelling, «storica, in opposizione al punto di vista logico della filosofia moderna». – La filosofia storica, scoprendo che «vi è un’azione libera», può solo considerare la possibilità del Fatto o meglio riconoscere che «qualcosa si fa e si è fatta»7. Ricordiamo che se le fonti di Ravaisson sono indirette è perché, trattandosi dell’«ultima filosofia di Schelling», non potrebbe essere diversamente: la pubblicazione, postuma, delle lezioni sulla mitologia e la rivelazione attenderà gli anni 18561858. Prima di questa data è sempre contro la volontà di Schelling che circolavano analisi o riassunti, a cominciare da quelli pubblicati da Edouard Kolloff nel 1835, poiché è già a partire dagli anni ’20 a Monaco che Schelling aveva posto le basi per la sua ultima filosofia8.

6.  Cit. da J. Dopp, op. cit., p. 137 n. 7.  Ibidem. 8.  Gli ultimi decenni hanno visto moltiplicarsi le traduzioni fondate sulle Nachschriften che documentano le prime versioni della filosofia positiva: il System der Weltalter del 1827-1828, pubblicato da S. Peetz (Klostermann, Frankfurt a.M. 1990), l’Einleitung in die Philosophie, corso del 1830, pub-

227

Lo Schelling che il giovane Ravaisson conosceva più direttamente, è dunque innanzitutto e complessivamente quello della filosofia dell’identità, caratterizzata dal parallelismo tra filosofia trascendentale e filosofia della natura, e rappresentata essenzialmente dalla Darstellung del 1801, il Bruno, le lezioni sulla Filosofia dell’arte, e sul Metodo degli studi accademici. Numerosi indizi mostrano però che Ravaisson era attento a questa filosofia positiva che il filosofo di Monaco preparava in segreto e della quale non smetteva di rinviare la pubblicazione. Così, nella sua edizione di De l’Habitude, Jean Baruzi segnalava già tra i fogli di Ravaisson un fascicolo di documenti: «Corsi di Schelling, 1835-1836», corrispondenti a una esposizione della Filosofia della mitologia nei suoi principali lineamenti, quelli stessi di cui oggi possediamo una preziosa trascrizione, in francese, che viene dalle note di Charles Secrétan9. Noi non sappiamo come Schelling abbia preso conoscenza di questo corso e se il suo «dossier» consista unicamente negli articoli (gli «estratti») di Kolloff, dedicati a questa stessa filosofia della mitologia e pubblicati nel 1835 nella «Revue du Nord». Ma sappiamo che Schelling, dopo questo episodio di «indiscrezioni» di Edouard Kolloff, che lo aveva tanto irritato, aveva chiesto a Cousin di intervenire per far bloccare questa pubblicazione, della quale era annunciato il seguito, e di far pubblicare un testo di protesta ufficiale nel «Journal des débats»10; penserà in seguito a dare una traduzione francese autorizzata blicato da W.E. Ehrhardt, cit., o ancora, fin dal 1972, la Grundlegung der positiven Philosophie, cit., e più di recente, grazie allo zelo di Walter E. Ehrhardt, l’Urfassung der Philosophie der Offenbarung, cit., trascrizione di un corso del 1831-1832. 9.  Cfr. La philosophie de la mythologie de Schelling, cit. 10.  Si veda la reazione di Cousin, in J. Barthélemy-Saint-Hilaire, M. Victor Cousin, sa vie et sa correspondance, 3 voll., Hachette, Paris 1892, vol. III, pp. 97 s.

228

della sua Filosofia della mitologia11 che potrà essere realizzata proprio da Ravaisson12.

Un giudizio senza compiacenza E in effetti, sarà proprio Ravaisson a dare la prima traduzione francese ad un testo di Schelling, anche se non della filosofia della mitologia. Con il suo aiuto, Cousin pubblica in Germania la Prefazione alla seconda edizione dei suoi Frammenti filosofici13 per i quali Schelling redige a sua volta una importante prefazione insieme storica e metodologica in cui situa la sua impresa tanto in rapporto all’empirismo e agli scozzesi che rispetto alla filosofia tedesca kantiana e postkantiana14. Quali che siano le critiche severe formulate da Schelling nei confronti dell’eclettismo, Cousin si preoccupa di far tradurre subito in francese la Prefazione di Schelling. La traduzione, dovuta a Ravaisson, del Giudizio di Schelling sulla filosofia del Sig. Cousin e sullo stato della filosofia francese e della filosofia

11.  Cfr. la sua lettera a Cousin del 19 ottobre 1835, in G.L. Plitt (a cura di), op. cit., pp. 109 s. 12.  Cfr. la lettera a Cousin dell’ottobre 1838, ivi, p. 142: «Il tempo nel quale potrò iniziare le mie pubblicazioni si avvicina. Mi avevate fatto sperare che il sig. Ravaisson si potrebbe far carico della traduzione della mia prima opera…» – Cfr. anche la lettera a Cousin del 27 ottobre 1835, in J. BarthélemySaint-Hilaire, op. cit., vol. III, p. 98: «Per ciò che riguarda la traduzione della mia Filosofia della mitologia mi rimetto alla vostra amicizia». 13.  Victor Cousin über französische und deutsche Philosophie, tr. ted. di H. Beckers, J.G. Cotta, Stuttgart-Tübingen 1834. 14.  SW, X, pp. 203-224; Prefazione a Cousin, pp. 255 ss. Cfr. anche la recensione di Schelling apparsa nei «Bayerische Annalen», n. 135, 1833, ripubblicata da L. Pareyson, in Schellingiana rariora, Bottega d’Erasmo, Torino 1977, pp. 545 ss.

229

tedesca in generale, viene pubblicato nell’ottobre 1835, nella «Nouvelle Revue Germanique», preceduto da una breve nota in cui Schelling è presentato come «il più grande filosofo del nostro secolo», quello che annuncia un nuovo periodo della filosofia, per il quale «egli potrà ancora una volta far da maestro» e permettere di scuotere «il giogo inflessibile della Logica hegeliana»15. Il Giudizio è in realtà un testo importante nell’economia delle pubblicazioni schellinghiane, poiché esso segna la rottura di un lungo silenzio aperto dalla polemica con Jacobi, consecutiva allo scritto del 1809 sulla libertà umana. In favore della sua discussione, relativamente secondaria, con Cousin, Schelling critica lo hegelismo severamente interpretato come filosofia razionale nella tradizione del wolffismo, e definisce il suo metodo proprio (storico) come un vero empirismo, ascendente e discendente, rigorosamente contraddistinto da qualsiasi filosofia razionale, la quale non può né progredire né cominciare, poiché essa ha sempre a che fare con il puro concetto logico: con ciò che deve necessariamente essere pensato, con ciò che non è possibile non pensare16. Come comprendere in realtà, chiede Schelling «un auto-movimento logico del concetto», come anticipare il «passo che ci condurrà alla realtà effettiva», che permetterà di rompere la noia del puro essere logico? Schelling, si sa, avrebbe sempre deriso, in Hegel, la transizio-

15.  Le prime traduzioni francesi delle grandi opere del primo Schelling compariranno qualche anno più tardi: nel 1842, la traduzione da parte di Grimblot del Système de l’idéalisme transcendantal. Nel 1845, quella di Bruno, da parte di Husson. Nel 1847, la traduzione dovuta a C. Bénard degli Écrits philosophiques de Schelling et morceaux propres à donner une idée générale de son système (comprese le Leçons sur la méthode des études académiques e il discours di Monaco [1807] sur les arts plastiques). Inutile precisare che oggi queste traduzioni hanno un valore solamente documentario. 16.  «das notwendig zu-Denkende», «das nur nicht nicht-zu-Denkende».

230

ne, il passaggio dalla logica alla natura. Al metodo regressivo, Schelling oppone un metodo progressivo, al negativo il positivo, al «ciò senza cui», il «ciò per cui»; di fronte a ciò che è solo «necessità di pensiero» (Denknotwendigkeit), egli difende i diritti di ciò che vuole il pensiero o meglio il cuore: «Ich will nicht das bloß Seyende, ich will das Seyende, das Ist oder existirt»17. Giocando per una volta il francese contro il tedesco, Schelling nota che il termine “Être” [Essere] non designa nella lingua di Malebranche, per esempio, come per Hegel, «das reine Seyn», l’«astrazione di una astrazione», un concetto vuoto che è come niente o che non è niente18. Il francese “Être”, nota ancora Schelling, può, o almeno sembrerebbe significare insieme “être” [astratto] e “étant” [ente], ma, filosoficamente, si riferisce all’ente e non all’essere. Così la «scienza dell’essere» non deve essere compresa come «Wissenschaft des Seyns», ma piuttosto come «Wissenschaft des Wesens» o meglio «des Seyenden». Per tale ragione essa deve partire non da un preteso Prius assoluto, il prius solamente logico – «das schlechthin Allgemeine und Notwendige (als das überall nicht und in nichts nicht zu Denkende [αὐτὸ τὸ ὄν])»19 –, da un Prius che

17.  SW, X, p. 215; Prefazione a Cousin, p. 245. 18.  «Das Seyn als Erstes zu setzen, heißt, es ohne das Seyende zu setzen. Aber was ist das Seyn ohne das Seyende? Das, was ist, ist das Erste, das Seyn nur das Zweite, für sich gar nicht denkbare» (ibidem). 19.  SW, X, p. 214. Cfr. F. Ravaisson, Essai sur la métaphysique d’Aristote, cit., vol. I, p. 572: «il primo pensiero non ha potuto pensare al pensiero, poiché si procederebbe all’infinito senza poter provare inizio. Il primo oggetto del pensiero non può dunque essere un’idea che si oppone a se stessa come una pura idea che si oppone a un’idea: è un essere che agisce con il suo stesso essere sull’intelligenza che lo contempla. Non ci sarebbe niente al mondo se prima di tutto non fosse l’essere come principio di tutto. [Ravaisson rinvia qui a Métaph., Λ 6, 1071b 5-6]; così, anche nell’ordine degli intelligibili, che in generale è l’opposto dell’ordine delle intelligenze e degli esseri, il primo termine è l’essere».

231

non è universale se non negativamente, ma, e questo è il vero empirismo, da una causa positiva, considerata nella modalità concreta, il wie della sua causalità come creazione libera. Così la filosofia in generale, e la filosofia tedesca in particolare, ben lungi dall’essere compiuta con Hegel, come credeva Cousin, è ancora in attesa e come sulla soglia di un’ultima trasformazione (Umänderung), di una vera crisi; è dunque vano, come pretendeva Cousin, tentare di stabilire un bilancio definitivo20. Questa crisi, della quale la natura e la portata si preciseranno con l’articolazione della filosofia positiva e della filosofia negativa, dovrà condurre la filosofia al Prius stesso della deità o meglio a ciò che è prima del Prius, ma a cui si può accedere solo a cose fatte: l’imprepensabile, das Unvordenkliche o ancora, in termini più tradizionali, «il vero Dio», non più colto come «un essere (Wesen) semplicemente universale, ma esso stesso in pari tempo [come] particolare o empirico»21. Le poche righe di presentazione della sua traduzione francese non permettono di determinare in modo più preciso ciò che il giovane Ravaisson ha potuto trattenere di questo testo: la critica dell’ὄν come κατεγούμενον μόνον? L’accento posto sull’individualità22? Si può pensare, in ogni caso, che questo Giudizio di eclettismo abbia potuto costituire ai suoi occhi uno scritto-programma, ricco di sviluppi a venire.

20.  Cfr. la lettera a Cousin, in G.L. Plitt (a cura di), op. cit., p. 136. 21.  SW, X, p. 216; Prefazione a Cousin, pp. 245 s. 22.  F. Ravaisson, Essai sur la métaphysique d’Aristote, cit., vol. I, p. 487: «nella misura in cui ci si innalza in una scala, le funzioni si accumulano in un cerchio sempre più stretto, la materia si comprime in forme sempre più circoscritte. […] i lati di un angolo si avvicinano continuamente fino alla cima indivisibile dell’individualità assoluta e dell’attività pura».

232

Il segreto di Schelling Senza dubbio è solo nel 1839, in occasione del suo soggiorno a Monaco, che Ravaisson – in quel momento ha 26 anni – comprende tutta la portata della critica schellinghiana della metafisica e scopre il suo «segreto». Attraverso la sua corrispondenza con Edgar Quinet, conosciamo alcuni preparativi di questo soggiorno in Germania. Dopo la pubblicazione della sua tesi nel 1838, Ravaisson, inizialmente membro del gabinetto di Salvandy, viene nominato ispettore generale delle biblioteche, proprio nel momento in cui progetta un viaggio a Heidelberg per il quale chiede dei consigli a Quinet. Si rivolge a lui di nuovo verso fine luglio-inizio agosto 1839: «Vorrei anche, da Heidelberg, fare un viaggio a Monaco, soprattutto allo scopo di vedere Schelling»23. Non sappiamo esattamente quanto sia durato questo soggiorno del quale Jean Baruzi, nell’introduzione alla sua edizione di De l’Habitude (Alcan, Paris 1927), aveva sottolineato, con una magnifica formula, l’importanza e il mistero: «Ravaisson, nato nel 1813, morto nel 1900, nostro contemporaneo e nostro antenato, ha conosciuto personalmente Schelling. Poco, ci assicurano: Schelling non conosceva bene il francese, Ravaisson non conosceva bene il tedesco. Tuttavia molte coincidenze restano da spiegare». Se parlare di «coincidenza» non è qui certamente adeguato, l’espressione ha in ogni caso il merito di non porre esclusivamente la questione del rapporto tra le opere nei termini classici di influenza o, come si dice oggi più volentieri, di ricezione. Due testimonianze inegualmente importanti chiariscono questo soggiorno a Monaco dell’autunno 1839: una lettera che Ravaisson indirizza al suo maestro H. Poret e una lettera a Quinet

23.  Si vedano le lettere di Ravaisson, Quinet e Schelling pubblicate da P.-M. Schuhl, in «Revue de Métaphysique et de Morale», XLIII, n. 4, 1936, pp. 487 ss.

233

del 23 ottobre. Poret aveva chiesto a Ravaisson di informarsi circa i riferimenti bibliografici su Aristotele e la lirica greca. Prima di lasciare Monaco, Ravaisson gli invia dunque qualche parola: non vi scriverò di tutto ciò che ho visto, letto, ascoltato, appreso qui; avremo presto occasione di parlarne con calma. Vi darò soprattutto le notizie più fresche della filosofia tedesca; ho visto spesso Schelling, ed è stato lui stesso, per quanto ha potuto, a mettermi al corrente delle sue nuove idee che senza dubbio costituiranno una nuova e forse feconda epoca di questa filosofia. Purtroppo la mia conoscenza troppo imprecisa del tedesco non gli ha permesso di leggermi, come aveva intenzione di fare, la prima parte di un libro che finalmente si decide a pubblicare […].24

Ancora più significativa è la lettera che Ravaisson invia, sempre da Monaco, al suo amico Edgar Quinet; questa è importante anche per definire la natura delle relazioni tra Ravaisson e Cousin in quest’epoca. Evocando le procedure e le trattative preliminari alla nomina di Quinet al Collège de France, Ravaisson scriveva: L’opposizione di M. Cousin non mi ha sorpreso, e ancor meno la sua scaltrezza; l’esperienza mi ha insegnato troppo bene non solo ciò che ci si può, ma anche ciò che ci si deve aspettare da un simile amico. […] Ho trovato Schelling – prosegue Ravaisson – nel pieno delle forze e della giovinezza del suo grande spirito, e ho potuto studiare da vicino questa fase nuova e veramente importante della filosofia tedesca della quale lui sarà l’autore. No, non è tutto finito, qui, con Hegel. Schelling esce ora da questa nuvola scolastica, rinuncia a ciò che chiama il secco formalismo e la sterile ampollosità di questa logica, e ha già dato nei suoi corsi, che leggo, gli elementi di una filosofia libera e sostanziale e, come lui la chiama, veramente positiva. Io trovo, e anche lui, una conformità singolare tra questa di24.  J. Dopp, op. cit., pp. 291 s.

234 rezione nuova e quella che credevo di intravvedere e che ho tentato di abbozzare. È forse questo che mi fa guardare con speranza alla filosofia positiva. […] Ed è forse in Francia, in una terra vergine, che noi potremo realizzare la promessa e riempire l’ideale che si scopre […].25

È con lo stesso entusiasmo che Ravaisson saluterà Schelling nel 1840, nel suo articolo su Hamilton, pensando di nuovo a un incontro spirituale franco-tedesco: Schelling colloca nell’azione, nella personalità, nella libertà, la base della metafisica futura. La Francia e la Germania, attraverso vie così diverse, infine si incontrano, la patria di Descartes sembra vicina ad unirsi nel pensiero, ma direi anche nel cuore e nell’anima, con la patria di Leibniz.26

Alla lettera inviata da Monaco in ottobre, Quinet risponde il 10 dicembre 1839, con lo stesso tono entusiasta: Tutto quello che voi mi dite di Monaco e dei vostri lavori aumentano la voglia di rivedervi! Così avete il segreto di Schelling! È tempo che voi ritorniate alla filosofia che qui da noi muore. Nessuno conosce esattamente lo stato delle cose e gli spiriti migliori non sono più in grado di orientarsi.27

Questo breve soggiorno in Germania può certo contribuire a spiegare il tono e la libertà dell’articolo della «Revue des deux mondes» del 1840 sulla Filosofia contemporanea che segna una netta rottura con il cousinismo. La questione resta quella di sapere qual è la prossimità, la comunanza di ispirazione 25.  Lettera pubblicata da M. David, Le séjour de F. Ravaisson à Munich d’après une lettre inédite, in «Revue philosophique de la France et de l’Étranger», vol. 142, 1952, pp. 454-456. 26.  F. Ravaisson, Philosophie contemporaine. Fragmens de philosophie par M. Hamilton, in «Revue des deux mondes», XXIV, n. 3, 1840, pp. 396-427: p. 421; ripreso in Id., Métaphysique et Morale, Vrin, Paris 1986, p. 26. 27.  Lettera pubblicata da P.-M. Schuhl, in «Revue de Métaphysique et de Morale», XLIII, n. 4, 1936, pp. 500 s.

235

o meglio la «conformità» – per usare il termine della lettera a Quinet – delle vedute e degli orientamenti che farebbero di Ravaisson un discepolo francese di Schelling.

Nel segno di Aristotele Nella tesi De l’Habitude, che tuttavia brulica di riferimenti più o meno espliciti, Schelling brilla per la sua assenza; non sarebbe tuttavia troppo difficile far emergere sullo sfondo del progetto di Ravaisson alcune intuizioni centrali della filosofia dell’Identità, quando evoca per esempio il «mistero dell’identificazione dell’ideale e del reale, della cosa e del pensiero, e di tutti i contrari che l’intelletto separa», o quando, definendo la natura con lo sforzo o il desiderio, scopre in essa, come elemento propriamente dinamico, quella che chiama «idea sostanziale», o ancora quando svela al fondo di ogni natura una «spontaneità» che, secondo la legge dell’abitudine, può essere insieme attiva e passiva. Nel primo Ravaisson, e fin nell’articolo del 1840 su Hamilton, è innanzitutto lo Schelling del periodo dell’identità ad ispirare ancora l’idea di una scienza che «entri in possesso dell’assoluto», non «attraverso il ragionamento, ma per una via immediata, attraverso una intuizione diretta dell’intelligenza». «Questa intuizione intellettuale – aggiunge – sarebbe l’atto in cui, per il fatto che il pensiero, principio della scienza, si riconosce come assolutamente identico all’esistenza, il soggetto della conoscenza e il suo oggetto non si distinguerebbero più, ma si troverebbero uniti insieme e definitivamente confusi in una invisibile unità»28. Così ciò che la speculazione deve sforzarsi di ritrovare come limite ultimo, è ancora «questa unità 28.  F. Ravaisson, Philosophie contemporaine, cit., pp. 403 s.

236

misteriosa delle differenze che è il segreto della scienza non meno che della vita». Cosa vi sarebbe di strano nel concepire – chiede Ravaisson – come ultimo termine della scienza una estremità in cui la diversità, l’opposizione che è la legge del suo sviluppo, arriverebbe per gradi a svanire? Cosa vi sarebbe di così assurdo nel pensare che la conoscenza assoluta è in qualche sorta […] il limite in cui si trova la comune misura e la ragione ultima dei contrari, non il luogo in cui si confondono, ma il termine in cui la negazione e la limitazione spariscono, vinte, nell’iden­tità del principio?29

In realtà, come attestano queste belle formule, per Ravaisson, e senza dubbio in conformità con le sue condizioni storiche e geografiche, nessuna netta distinzione emerge tra il pensiero di Schelling, così come esso appare dalle opere allora pubblicate, e le nuove meditazioni del filosofo di Monaco, singolarmente incline alla procrastinazione. Da ciò deriva la strana simbiosi operata da Ravaisson tra la cosiddetta filosofia dell’Iden­tità (che in realtà è propriamente un pensiero della differenziazione e dell’individualità) e l’ultima filosofia, di cui dà testimonianza quel magnifico passaggio del Testamento filosofico: In Dio solo la coscienza perfetta dell’oggetto è interamente identica al soggetto. Questa è la vetta a cui tende, nei differenti gradi della vita, tutta la natura e ciò di cui questi differenti gradi della vita sono imitazione più o meno completa. […] Nei differenti gradi dell’esistenza, il pensiero, che è anche volontà, si riconosce più o meno nei suoi oggetti. Esso si riconosce diviso, disperso in diverse idee fino al punto in cui non ritrova alla fine la sua integrale unità. Tutta la natura è come fatta di abbozzi, più o meno riusciti, di questa suprema perfezione, che portano a compimento la differenziazione, prima dell’integrazione finale.30 29.  Ivi, p. 406. 30.  F. Ravaisson, Testament philosophique et fragments, rev. e pres. di Ch. Devivaise, Boivin, Paris 1933, pp. 62 s. La prima edizione era stata resa

237

È dunque importante non cedere né sull’«unità del principio delle cose che tutta la natura proclama» né sulla «pluralità sulla quale essa domina»31. Ne deriva questa soluzione: «Le parti sono nate da una condiscendenza, da un abbassamento spontaneo del principio la cui unità riappare alla fine nella costituzione terminale del tutto»32. Tuttavia, in un certo senso, il primo scambio tra i due autori, era iniziato, sotto il segno di Aristotele, con un disaccordo o meglio un malinteso. Il malinteso appare già in una lettera inviata da Schelling a Ravaisson, prima del soggiorno di quest’ultimo in Germania. Da Monaco, il 14 gennaio 1838, Schelling ringrazia, in francese, Ravaisson per l’invio del primo volume del Saggio33 (accompagnato da una lettera partita nel novembre 1837): Ho conosciuto il vostro lavoro solo grazie all’eccellente rapporto del sig. Cousin34, e fui felice di veder sorgere in Francia dei talenti filosofici come il Vostro. Prevedevo che voi sareste arrivato lontano e sentivo anche che ci saremmo incontrati su più di un punto. La vostra lettera mi conferma in questa opinione e di ciò sono molto soddisfatto. Permettetemi però di

disponibile da Léon: Testament philosophique, in «Revue de Métaphysique et de Morale», IX, n. 1, 1901, pp. 1-31. Segnaliamo anche l’elegante piccola edizione realizzata da C. Marin, Éditions Allia, Paris 2008. 31.  F. Ravaisson, Testament philosophique et fragments, cit., p. 63. 32.  Ivi, p. 66. 33  Il vol. I dell’Essai sur la Métaphysique d’Aristote fu pubblicato nel 1837, il secondo nel 1846 (ristampa Olms, Hildesheim 1963; Éditions du Cerf, Paris 2007). 34.  Rapporto dell’aprile 1835 che Cousin inviò a Schelling il 26 giugno: «L’autore dell’elaborato che ha vinto è uno dei miei giovani e promettenti amici. Stamperà il suo lavoro e ve lo farà avere subito» (in J. BarthélemySaint-Hilaire, op. cit., vol. III, p. 92).

238 osservare che io non penso tutto ciò che voi dite sulla filosofia di Aristotele, almeno per quanto concerne la filosofia positiva e la direzione che voi supponete voler imprimere alla filosofia. Apprezzo molto Aristotele e mi sono trovato su una parte del suo cammino ancor prima di saperlo, ma è sulla filosofia negativa che gli riconosco il merito più grande. Lungi da me l’idea di biasimarlo di non essere arrivato fino alla filosofia positiva, anzi, al contrario ammiro il fatto che si sia trattenuto da ciò, così come ammiro la chiarezza perfetta su questo punto, che gli ha impedito di fare questo miscuglio tra negativo e positivo che, sotto l’influenza del Cristianesimo, sarebbe entrato nella Metafisica dei secoli posteriori, e dal quale, anche dopo Kant, non siamo stati in grado di salvaguardarci. Mi sono espresso su questo tema in una parte della prima opera che sto per pubblicare.

Schelling prosegue subito dopo: Cousin [mi ha appena dato una nuova dimostrazione della sua amicizia], essendovi voi impegnato a tradurre la mia prima opera per la pubblicazione. Non potrei esserne più contento, e spero anche di poter presto inviare i primi fogli che saranno seguiti poi da altri secondo l’ordine di stampa.35

35.  È difficile sapere a cosa si riferisca esattamente Schelling. Si veda la lettera a Cousin del 27 gennaio 1834, in G.L. Plitt (a cura di), op. cit., p. 76: «Anche io vedo finalmente la possibilità di terminare con soddisfazione la mia opera sulla filosofia positiva. Questa prima opera sarà di pura speculazione, ma scritta in modo tale da poter essere tradotta in francese. Subito dopo verranno le mie lezioni sulla filosofia della mitologia e da ultimo quelle sulla filosofia della rivelazione». – Sul rapporto di Schelling con Aristotele, si vedano SW, XIII, pp. 101, 108 s.; Filosofia della rivelazione, pp. 167-169, 179-183; e SW, XI, Philosophische Einteilung Einleitung in die Philosophie der Mythologie oder Darstellung der rein rationalen Philosophie, pp. 553 ss.; Introduzione filosofica…, pp. 585 ss. Cfr. anche A. Denker, Schelling und Aristoteles, in R. Adophi - J. Jantzen (a cura di), Das antike Denken in der Philosophie Schellings, «Schellingiana» 11, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2004, pp. 305-320; Th. Leinkauf, Schelling als Interpret der philosophischen Tradition. Zur Rezeption und Transformation von Platon, Plotin,

239

Al di là di questa messa a punto circa una possibile divergenza a proposito dell’interpretazione di Aristotele e della sua situazione nella storia della filosofia – divergenza forse legata all’interpretazione ravaissoniana dell’intuizione intellettuale come figura della νοήσις νοησέως e alla sua accentuazione della causa finale (il Bene) a detrimento della causa efficiente (causa causarum, diceva Schelling)36 –, la distanza tra i due pensatori, peraltro così differenti, non è forse talmente grande. Per Ravaisson infatti, non troppo diversamente da Schelling, Aristotele non rappresenta un compimento, un punto di perfezione o di equilibrio, come testimonia questo frammento tardivo pubblicato da Devivaisse: «Così la metafisica peripatetica restava, nel mezzo del mondo della religione e della dottrina della natura, come una promessa che non poteva compiersi. È in un altro mondo e in un’altra dottrina che essa doveva ricevere il suo compimento, nel mondo e nella dottrina dello Spirito»37. Schelling, da canto suo, aveva lodato Aristotele per essersi fermato sulla soglia della filosofia positiva38. L’atteggiamento di Schelling nei confronti di Aristotele sarebbe sempre rimasto Aristoteles und Kant, LIT, Münster 1998; ci permettiamo di rinviare anche a J.-F. Courtine, La critique de l’ontologie, in Id., Extase de la raison, cit., pp. 263-311 (tr. it. cit., pp. 299-351), e Schelling lecteur d’Aristote, le «cas» τὸ τί ἦν εἶναι, in Id., Les catégories de l’être. Études de philosophie ancienne et médiévale, Puf, Paris 2003, pp. 101-128. 36.  Cfr. F. Ravaisson, Essai sur la métaphysique d’Aristote, cit., vol. I, p. 570: «Non è la causa che è fatta per il suo effetto, ma l’effetto per la sua causa, e in fondo la vera causa è il fine. […] Niente ha realtà se non per la sua fine e nel tendere al suo fine. […] L’atto eterno che fa la vita del mondo è il desiderio eterno del bene». 37.  F. Ravaisson, Essai sur la métaphysique d’Aristote. Fragments du tome III (Hellénisme – Judaïsme – Christianisme), a cura di Ch. Devivaise, Vrin, Paris 1953, p. 54. Cfr. anche Fragment Dopp [22], p. 379: «La forma causa, questo è aristotelismo. Resta da scoprire che essa è Volontà, Cuore». 38.  SW, XIII, pp. 104-106; Filosofia della rivelazione, pp. 173-177; SW, XI, p. 559; Introduzione filosofica…, p. 597.

240

nel segno di una certa ambivalenza, come giustamente sottolineava Xavier Tilliette39: Aristotele è colui che ha preparato la filosofia positiva, ma che allo stesso tempo l’ha mancata. Il Dio di Aristotele esiste, ma è come se non esistesse40. È αἴτιον τέλικον, οὐ ποιητικὸν; è essenzialmente fine, e solo incidentalmente (nebenbei) esso rappresenta l’effettivamente esistente. Certo Aristotele lo definisce come atto puro, ma un tal atto non costituisce tuttavia un vero ed effettivo cominciamento41. In ogni caso, non si giudicherà l’atteggiamento di Schelling in favore di Aristotele in funzione delle sue vivaci reazioni alla comparazione diffusa tra aristotelismo e hegelismo. La lettera a Cousin del 23 aprile 1838 testimonia soprattutto della sua irritazione di fronte ad un simile accostamento: A dire il vero, non guardo più come un vero progresso questo aristotelismo, resuscitato a forza e esaltato a oltranza; sarebbe veramente triste se non ci restasse altro che ritornare a questo peripatetismo che mi sembra peraltro ancora molto poco compreso, se è vero che, come fanno alcuni ignoranti in Germania, Hegel è comparato ad Aristotele; a mio avviso non vi sono infatti in tutta la storia della filosofia due teste più di39.  X. Tilliette, Schelling, cit., vol. II, p. 269. 40.  SW, XI, p. 559, Introduzione filosofica…, p. 597 (tr. mod.): «Perché la scienza teoretica conduce solamente al dio che è fine e che, dunque, non è il Dio reale. Essa conduce solamente a colui che è dio per essenza, non al dio in atto. […] Anche se Aristotele considera questo termine ultimo come esistente, è come se non esistesse, visto che non può fare niente, e che non si sa che farne (da es nichts thun kann, mit ihm nichts anzufangen ist)». 41.  Cfr. anche SW, XIII, p. 107; Filosofia della rivelazione, pp. 177-179: «Anche adesso la via di Aristotele per arrivare dall’empirico, da ciò che è dato nell’esperienza in quanto esistente, al logico, al contenuto dell’essere, sarebbe l’unica via per giungere, senza la filosofia positiva, a un Dio realmente esistente. Se però noi volessimo starcene soddisfatti del Dio trovato aristotelicamente, allora dovremmo anche essere capaci di quella rinuncia (Verleugnung) aristotelica, di rimanere fermi a Dio come Fine, senza volerlo poi come causa produttrice verso l’esterno».

241 verse e più opposte di quelle due. Vi prego di credermi dato che conosco abbastanza Aristotele.42

Un’altra filosofia prima? Tuttavia Ravaisson attribuisce – sembra – ad Aristotele una posizione molto meno netta di quanto non faccia Schelling in particolare in rapporto al divario tra filosofia positiva e negativa. Nel Testament, scrive per esempio: «Il cuore forte vuole l’Essere (Schelling) e non si accontenta di ombre, idoli o fantasmi»43. E prosegue in modo ancora più esplicito: Il cuore, che contiene volontà e sensibilità, chiedeva di più. Era necessario, ed è ciò che chiede Schelling, l’essere che esiste, vale a dire l’essere al quale si rivolge un’esperienza, come l’essere che si pensa e si tocca nella coscienza. […] Aristotele vuole così ritornare dalla siccità e dalla insufficienza logica o razionale alla ricchezza feconda dell’esperienza. […] È stato condotto da un sentimento vivo della realtà. Da questo momento data l’inizio della filosofia positiva.44

42.  G.L. Plitt (a cura di), op. cit., pp. 137 s. 43.  F. Ravaisson, Testament philosophique et fragments, cit., p. 60. Cfr. Schelling, SW, X, p. 215; Prefazione a Cousin, p. 245 (tr. mod.): «Io non voglio il mero essente, io voglio l’essente che È o che esiste». Cfr. anche il finale della Darstellung der rein rationalen Philosophie: «La filosofia positiva potrebbe in questo caso iniziare puramente da se stessa, con questa semplice rivendicazione: “Io voglio ciò che è al di là dell’essere”» (SW, XI, p. 564; Introduzione filosofica…, p. 607; tr. mod.). 44.  Cfr. anche il Rapport de 1867 sur La Philosophie en France au XIXeme siècle, Vrin-Reprise, Paris 1983, pp. 86 s.: «Il realismo o positivismo metafisico fondato da Aristotele». Cfr. ancora nel fondo Devivaise, conservato alla Biblioteca Nazionale, questo frammento tardivo (anni ’90): «Realismo come positivismo. Schelling: ci serve ciò che è o esiste. – Platone vuole il numero, astrazione suprema, con l’unità presa per base, come μὴ ὄν. Ugualmente

242

Ci si può chiedere se una tale divergenza nell’interpretazione o meglio nell’apprezzamento di Aristotele non rischi di impegnare o di compromettere la comprensione stessa della filosofia positiva di Schelling, opposta in maniera abbastanza complessa, come sappiamo, alla filosofia negativa45. L’espressione stessa di filosofia «negativa» appare peraltro solo di rado nel corpus ravaissoniano pubblicato; il suo equivalente regolare sarebbe senza dubbio il termine «nichilismo», che per contro non appare in Schelling. In un frammento pubblicato da Dominique Janicaud possiamo leggere: «Metafisica, nome negativo. Il positivo è filosofia superiore o teologia (prima è un termine equivoco)»46. Quest’ultima notazione tra parentesi è anch’essa di capitale importanza, se si pensa all’idea schellinghiana di δεύτερα φιλοσοφία47. Non si ritrova più in Ravaisson il motivo schellinghiano, soggiacente alla filosofia positiva, di un capovolgimento o di un’estasi della ragione come compimento dell’idealismo assoluto.

Hegel. – Aristotele, piuttosto il Bene e l’Amore. Essere è = Ben-essere, καλῶς ἔχειν». [Il Rapporto è stato pubblicato in traduzione italiana in F. Ravaisson, Saggi filosofici, a cura di A. Tilgher, Tiber, Roma 1917. Tale volume non è mai stato ristampato e risulta oggi quasi introvabile. Le traduzioni riportate sono nostre; N.d.T.]. 45.  Cfr. X. Tilliette, Deux philosophies en une, cit., pp. 89-106; ripreso in Id., L’Absolu et la philosophie, cit., pp. 182-199. 46.  D. Janicaud, Une généalogie du spiritualisme français. Aux sources du bergsonisme: Ravaisson et la métaphysique, Nijhoff, La Haye 1969, p. 265; ried., Vrin, Paris 1998. 47.  Questa idea ha recentemente trovato una interessante ripresa e trasformazione in alcuni studi di Manfred Riedel. Si veda in particolare Für eine zweite Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1988. Ci si permetta di rinviare al nostro studio: Les questions ontologiques dans la dernière philosophie de Schelling: Platon et Aristote, in J.-F. Courtine (a cura di), Schelling, cit., pp. 277-317, in part. pp. 315 ss.: La métaphysique comme philosophie seconde.

243

Ciò che è comune ai due autori, e anche costante, è in ogni caso, nell’invocazione di Aristotele, la critica di Hegel e del Platonismo. La ritroviamo nuovamente nell’articolo del 1887 sulla Filosofia di Pascal dove Ravaisson denuncia l’idealismo che «cerca la ragione delle cose nelle nozioni generali, sulle quali si esercita […] l’intelletto»; questo idealismo, che è tutt’uno con il materialismo, è «nichilismo»48. Il mondo logico, quale ad esempio lo istituisce l’idealismo hegeliano, offre, si potrebbe dire, un’immagine rovesciata del mondo reale. È quello di cui Hegel era del resto consapevole, perché per costruire il proprio sistema dava per base l’identità del puro essere con il puro niente, senza nulla di più.49

A questa filosofia delle «idee», Ravaisson oppone, dopo Leibniz e richiamandosi ad Aristotele, una metafisica della sostanza: Mentre per il Platonismo tutto dipende dalle idee, cose, dice Leibniz, inerti e morte, per Aristotele […] tutto risale alla vita. […] Anche per Aristotele i principi dotati di vita sono succeduti a delle entità senza movimento e senza forza, a delle generalità vuote che, avendo un’esistenza solamente logica, non possono essere delle cause d’esistenza reale, delle individualità piene, per così dire, oggetti di esperienza immediata e che testimoniano di se stesse.50 48.  F. Ravaisson, La philosophie de Pascal, in «Revue des deux mondes», LXXX, n. 2, 1887, pp. pp. 399-428: p. 401; testo ripreso in Id., Métaphysique et Morale, cit., p. 35 (segnaliamo anche l’elegante edizione in volume e formato ridotto pubblicata da Claire Marin per le Éditions du Sandre, Paris 2011); tr. it., La filosofia di Pascal, a cura di D. Bosco, Morcelliana, Brescia 2003, p. 94. Cfr. anche il Fragment Dopp [27], p. 383: «L’idealismo migliorato, ma non radicalmente la sofistica, è in cammino verso la realtà, e cade nel nichilismo». 49.  F. Ravaisson, La filosofia di Pascal, cit., p. 95. 50.  F. Ravaisson, Testament philosophique et fragments, cit., pp. 116 s. Cfr. anche La filosofia di Pascal, pp. 94 s., e il Fragment Dopp [36], p. 386: «Democrito, Platone, vogliono proporre alla natura delle unità astratte, copiate dall’anima dotata di ragione. Comprenderla, dopo Aristotele, come un altro

244

Alla dialettica, associata ai Pitagorici, ai Platonici e, certo, anche a Hegel, a una dialettica condannata a circolare in «un mondo immateriale, ma fatto di contorni vuoti, mondo di astrazione, senza niente di sostanziale e di vitale», Ravaisson oppone ancora una volta la doppia figura di Aristotele e di Schelling: Al sommo dell’universo una energia assoluta, che ha il proprio fine come il proprio principio in se stessa, intelligenza pura, che veglia eternamente nella viva intuizione di sé, tale era la causa suprema, ovvero Dio, al quale il mondo era sospeso, aspirando senza posa ad avvicinarsi alla sua perfezione.51

Ma Aristotele, se è vero che è il pensatore della sostanza, è anche soprattutto, agli occhi di Ravaisson, colui che ha riconosciuto questo fondo di attività che costituisce tutto l’essere della sostanza: approfondendo il principio posto da Aristotele, si arriva a comprendere pienamente come sostanza ed energia siano la stessa cosa, e come nell’azione, allo spirito che riflette su di sé, si mostri l’essere stesso. […] l’essere di prim’ordine, κυρίως, è l’essere che agisce nel modo per il quale tutta la sua esistenza è azione, vale a dire intelligenza.52

E già nel Rapporto del 1867, la nozione di forza, immediatamente riferita a Leibniz e a Schelling, prendeva il posto di quella di sostanza, poiché essa sola «esprime qualcosa di positivo e di reale»53. Ravaisson è qui vicinissimo alla lettura di stato (ἕτερον), un sonno dell’anima, in cui stanno percezioni diffuse, non concentrazione o individualità». 51.  F. Ravaisson, La filosofia di Pascal, cit., 93. 52.  Ivi, pp. 97 s. (tr. mod.). 53.  Cfr. anche F. Ravaisson, Métaphysique et Morale, cit., p. 70): «Per spiegare gli esseri, non è l’idea o il numero ciò a cui si deve far ricorso, ma l’anima […]. Cosa è dunque essere? È, risponde Aristotele, agire. […] L’azione è il bene in quanto è lo scopo di tutto. Così come anche è ciò che precede tutto. E l’azione è l’anima. Così come l’anima è la vera e sola sostanza. Il corpo

245

Aristotele come essa compare in particolare nell’esposizione della filosofia razionale pura54. Lasciando qui da parte l’esame delle evidenti affinità tra Schelling e Ravaisson a proposito della riflessione estetica in cui si trova accentuata da ambo le parti la dimensione spirituale dell’arte che, attraverso una estetica della grazia, approda a una dottrina dell’amore55, considereremo per finire alcuni aspetti della filosofia religiosa dei due autori. Notiamo semplicemente che in Ravaisson il motivo estetico resta presente lungo tutta la sua opera, il che lo conduce a congiungere diversi fili che Schelling non aveva voluto tener insieme56. Il Testament offre una testimonianza particolarmente chiara di questa unità speculativa della natura, dell’arte e della… processione trinitaria: è il virtuale, l’anima è l’atto come fine, e il fine è anche il principio. […] All’azione appartiene dunque sempre e comunque la primarietà [primorité (sic)]». Si veda anche F. Ravaisson, Testament philosophique et fragments, cit., pp. 58 s., 61: «Cos’è l’essere propriamente detto che appartiene alla prima e alla più alta delle categorie e che è il centro al quale si rapportano tutte le altre? È, risponde Aristotele, l’azione […]. L’azione è come un istante che dura senza successione. Si cerca così di concepire l’eterno, il positivo della durata, in cui la negazione introduce la successione. (Più tardi si riconoscerà che il fondo dell’azione è la volontà, e infine il fondo della volontà è l’amore)». 54.  SW, XI, p. 417; Introduzione filosofica…, XVIII lezione, p. 301. 55.  Cfr. il Rapport del 1867: «la bellezza e un’espressione più o meno completa della perfezione spirituale e morale». Attraverso lo «charme» che caratterizza la «grazia», appare che «l’amore […] è il principio e la ragione della bellezza» (ed. del Corpus des philosophes français, Fayard, Paris 1984, pp. 284 s.). E in un frammento pubblicato da D. Janicaud (op. cit., p. 246), Ravaisson si riferisce espressamente a Schelling su questo punto: «In una bella cosa, ha detto bene Schelling, sembra che tutto ami». 56.  Cfr. J.-F. Marquet, Schelling et le destin de l’art, in G. Planty-Bonjour (a cura di), Actualité de Schelling, cit., pp. 75-88; ripreso in J.-F. Marquet, Restitutions. Études d’histoire de la philosophie allemande, Vrin, Paris 2001, pp. 71-82.

246 Ogni essere tende a raddoppiarsi come per conoscersi meglio e comprendersi da sé. Esso crea allora un’immagine di sé nella quale si ripete e si guarda. È quel fenomeno la cui forma iniziale è la coscienza. Il vangelo di Giovanni ci mostra così il Padre che si raddoppia nel suo Verbo o nel suo Pensiero. E lo stesso fenomeno si riproduce in tutta la natura. Si riproduce nell’arte. […] La natura si imita. […] In ogni caso è il superiore che con una sorta di condiscendenza si abbassa all’inferiore.57

Mitologia-Rivelazione Nel 1846, pubblicando il tomo II del Saggio sulla filosofia di Aristotele, Ravaisson annunciava un’opera in quattro volumi. Il tomo III doveva trattare, riprendendo in dettaglio i punti evocati rapidamente nella tesi del 1834, la storia della metafisica nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islamismo in Oriente e in Occidente, fino alla fine del medioevo; il tomo IV, dichiarava Ravaisson, conterrà la storia della metafisica nei tempi moderni e la conclusione di tutta l’opera. Alcuni frammenti del tomo III del Saggio sono stati pubblicati da Charles Devivaise con il titolo Hellénisme – Judaïsme – Christianisme58. L’ipotesi generale di Devivaise, secondo la quale non vi sarebbe una vera rottura nella carriera intellettuale di Ravaisson, ci sembra illuminante: quando egli sembra orientarsi su studi religiosi, questi riguardano ancora Aristotele e il destino della metafisica. «Se – come scriveva Devivaise, sensibile al demone dell’analogia – l’Introduzione alla filosofia della mitologia di Schelling dedica importanti sviluppi alla filosofia di Aristotele, non dobbiamo stupirci che un Saggio 57.  F. Ravaisson, Testament philosophique et fragments, cit., p. 130. 58.  Cfr. F. Ravaisson, Essai sur la Métaphysique d’Aristote. Fragments du tome III, cit.

247

sulla Metafisica di Aristotele si prolunghi in pagine che noi attribuiremmo alla storia delle religioni»59. Nel momento in cui si poteva credere infatti che Ravaisson abbandonasse le sue ricerche dottrinali in favore di lavori eruditi relativi all’arte e all’archeologia, egli elaborava quella che potremmo chiamare la sua filosofia della rivelazione60. Ma al di là dei riferimenti espliciti a Schelling e delle evidenti eco alle lezioni dedicate alla Mitologia e alla Rivelazione, è piuttosto l’ispirazione fondamentale dell’ultimo Schelling quella che Ravaisson raccoglie quando presenta, nell’articolo del 1893 Métaphysique et Morale, l’abbozzo di «una metafisica che riassume l’idea di un primo e universale principio che dona fino al punto di donare se stesso»61. Il Testament riprenderà questo tema del dono o meglio dell’abbandono divino al fine di svilupparlo: In principio il meglio, questo è quanto proclama con le sue prime parole, con la filosofia aristotelica, il più filosofico dei vangeli: “In principio era il Verbo” […]. Se il meglio è al principio, come comprendere il fatto che non resta solo? Dio è l’autore della propria esistenza e ne è il padrone. Tutto ciò che viene all’esistenza ha una causa, Dio è la causa di sé. Così come noi possiamo sospendere l’esercizio della nostra attività, e questo potere appartiene a tutte le potenze naturali, come ci viene testimoniato dal sonno e dagli altri periodi di riposo, allo stesso modo e a maggior ragione appartiene a Dio di abbandonare, almeno per un certo tempo, come dice la teologia cristiana, qualcosa della sua pienezza (se ipsum exinanivit).62 59.  Ivi, p. 12. 60.  Cfr. F. Ravaisson, L’art et les mystères grecs, a cura di D. Janicaud, L’Herne, Paris 1985. 61.  F. Ravaisson, Métaphysique et Morale, cit., p. 79. 62.  F. Ravaisson, Testament philosophique et fragments, cit., pp. 64 s. Cfr. anche il frammento pubblicato da Janicaud (op. cit., p. 239): «Al di sopra di tutto, la disposizione a donarsi: fondo e principio della causalità». E ancora,

248

Più che la kenosis, ciò che qui Ravaisson prende in considerazione è il motivo eriugeniano che associa strettamente processione trinitaria, creazione e incarnazione63, o quello preso dalla Cabala di Isaac Luria, della «contrazione» di un Dio che, come aveva magnificamente detto Schelling, deve «far spazio [faire de l’espace]» per la sua creazione. Ravaisson proseguendo con la meditazione schellinghiana della creazione come «katabolè», Grundlegung interpretata come «zu Grunde gehen» – sprofondare, inabissare –, parlerà di sprofondamento o di abbassamento, o meglio di condiscendenza: […] il principio generatore, attraverso la sua liberalità, si abbassa spontaneamente, dividendosi nelle sue creature, in condizioni nelle quali il suo splendore è velato, ma in cui anche depone con sé una causa di nuova unione e di ricostituzione. È ciò che mostra tutta la natura ed è ciò in cui consiste, in tutte le sfere, il suo sviluppo.64

Alla katabolè risponde, secondo Schelling, il contro-movimento della Steigerung, dell’elevazione fino all’apocatastasi. Questa ἀποκατάστασις Ravaisson la interpreta anche come un «ristabilimento finale del misterioso ἕν πολλά in un ἱερός γάμος»65. Nel Testament, Ravaisson rigetta così ogni idea di un progresso costitutivo della storia universale che si eleverebbe dai confini del niente: «La verità è la divinità che si abbassa per amore

nel Testament philosophique, cit., p. 121: «Per la filosofia che va al fondo delle cose, alla luce che emana dal cuore, tutto si spiega nella progressione della natura in un amore preesistente, in una grazia preveniente». 63.  F. Ravaisson, Testament philosophique et fragments, cit., pp. 161 s.; cfr. anche p. 162: «[concessioni]. Una di queste è quella da parte della divinità che consiste nel discendere dalla pura unità dell’essenza alla pluralità delle persone, persone o figure tra le quali si ritrova la Saggezza biblica, essendo la Parola e lo Spirito come un raddoppiamento». 64.  Ivi, pp. 66; 82 s. 65.  Ivi, p. 66.

249

a delle forme che insieme la nascondono e la fanno vedere, questa è l’anima ispirata della divinità, riempita del desiderio di riversare i suoi doni sul mondo, di vestirlo di splendore e di gloria, di inebriarlo di felicità». Ben lungi dall’essere una marcia solamente ascensionale, questo movimento della storia «è dapprima abbassamento e in seguito innalzamento o resurrezione, […] catodo e anodo […]»66. Questo movimento di «ondulazione» caratterizza sia la natura che la storia, è lui che determina la rotta che la scienza dovrà prendere: «Il metodo seguirà dunque la natura e nella sua contrazione e nella sua espansione». È così che la filosofia diventa positiva o storica, o meglio ancora «eroica», come suggerisce Ravaisson67.

Sacrificio e alleanza coniugale Spetta ad una tale filosofia eroica, per Ravaisson come per l’ultimo Schelling, il compito di sviluppare questa meditazione del dono e della grazia, dell’amore che unisce tutto68, interrogando e accostando filosofemi e momenti della coscienza religiosa. Il dono, come dono di sé, vi si rivela attraverso le figure dell’introiezione e dell’incorporazione che sono esse stesse sussunte

66.  Ivi, p. 121; cfr. anche, p. 83: «La natura si produce per un movimento di abbassamento seguito da un innalzamento e dunque, in definitiva, un movimento di ondulazione». 67.  Ivi, pp. 83 s. e 132; cfr. anche p. 110: «Separazione da Dio, Ritorno a Dio, Chiusura del grande cerchio cosmico, restituzione dell’universale equilibrio, tale è la storia del mondo. La filosofia eroica non costruisce il mondo con delle unità matematiche e logiche e dunque con delle astrazioni separate dalle realtà dell’intelletto; essa raggiunge con il cuore la viva realtà vivente, spirito di fuoco e di luce». 68.  Fragment Janicaud, cit., pp. 242 s.: «L’amore che unisce tutto: ἱερὸς γαμός».

250

nel pensiero cristiano dell’Eucaristia. «Il dio indiano Purusa – scrive Ravaisson – divide le sue membra tra i suoi adoratori. Cerere e Bacco nei misteri di Eleusi servono da alimento per gli iniziati, perché Cerere è il pane e Bacco è il vino». L’accostamento con il Cristo e con il sacrificio eucaristico si impone dunque immediatamente: E nel cristianesimo, il Salvatore, sul punto di morire per i suoi, dona loro come cibo e come bevanda la sua carne e il suo sangue. Anche nel pensiero dell’Eucaristia cristiana la sostanza che doveva preparare la vita delle creature per l’immortalità non era nient’altro che il Creatore. E questa sostanza, in definitiva, non era altro che l’amore e dunque la natura stessa del donarsi.69

Se l’amore è l’essenza della divinità, l’unione intima che esso sugella può essere quella della comunione, ma anche – e identicamente – del matrimonio. L’«alleanza coniugale», come nota Ravaisson a proposito della figura veterotestamentaria di Jehovah, come sposo, e di Israele, come nazione eletta, è «il tipo di tutte le altre», per il fatto stesso che «il matrimonio, legge universale, ha il suo prototipo che è la vita stessa di Dio»70. E Ravaisson, prolungando le analisi che Schelling aveva dedicato alla Saggezza nella sua Filosofia della rivelazione71, vede in essa solamente uno specchio divino, ma una prima sposa: «Jehovah l’ha fatta nascere per contemplarsi in essa come in una imma-

69.  F. Ravaisson, Testament philosophique et fragments, cit., pp. 54 e 112. Cfr. anche ivi, p. 168: «Lo spirito divino che è amore, ciò che ci rivela in particolare il cristianesimo, significa che il Creatore, dal primo momento, ha soffiato l’amore nel cuore dell’uomo, e un amore vero che ha per oggetto la bellezza e la bontà supreme, e ciò significa che Dio, dal principio, ha messo nel cuore dell’uomo l’amore riconoscente per Dio e vi ha posto così il fondamento dell’Eucaristia». 70.  Ivi, p. 170. 71.  SW, XIII, pp. 294 s.; Filosofia della rivelazione, XIX lezione, pp. 491-495.

251

gine nella quale diventa più visibile a se stesso, nella quale si riconosce per richiamarla e riunirla a lui»72. In questa nascita della Saggezza, Ravaisson, dopo Schelling, riconosce una prefigurazione del dogma cristiano della Trinità: «È la teoria che, modificata e sviluppata, diventa il dogma cristiano della Trinità con l’idea dello Spirito Santo che riunisce i due fattori divini, come in quei monumenti pagani un cui due sposi sono riuniti dall’amore […]». Il ἱερός γάμος è dunque la legge fondamentale del mondo, se è vero che «Dio ha fatto l’umanità per unirla a sé, alla fine dei tempi, in un matrimonio paradisiaco. […] Così la natura si incammina per gradi verso l’uomo […] e lo sviluppo del mondo si riduce a una marcia regolare […] verso le nozze sacre»73. È ciò che annunciavano già i Misteri di Eleusi74 il cui «termine era la figurazione o almeno la promessa di un matrimonio con la divinità»75. Ai riti iniziatici segnati dalla purificazione, il banchetto e infine la cerimonia nuziale, corrispondono, nel cristianesimo, il battesimo e l’eucarestia. Già nei Misteri, precisa Ravaisson, il vino non era solo un dono di Bacco, ma Bacco stesso; il pane non era solo un dono di Cerere, ma la stessa Cerere […] nel cristianesimo, Gesù Cristo è venuto sulla terra […] per offrirsi in sposo all’assemblea che i fedeli compongono. […] Che il fine dei misteri sia il matrimonio con Dio ce lo dice già la sola Eucaristia […], ma l’unione santa è differita, «riservata al cielo», come scopre la Maddalena per esempio dopo la resurrezione: «Non toccarmi, non sono ancora risalito al cielo presso il Padre mio!» […]. Con le parole che rivolge a una donna

72.  Cfr. anche il Fragment Janicaud, cit., p. 265: «Il grande Mistero è l’azione attraverso la quale il Principio discende in un’Immagine, per fare di questa Figlia la sua Sposa. Gli è identico qualunque ἑτέρως». 73.  F. Ravaisson, Testament philosophique et fragments, cit., p. 171. 74.  Cfr. Fragment Janicaud, p. 259. 75.  Cfr. supra, pp. 137 ss.

252 amante, qui immagine di tutta la Chiesa, il Cristo sembra aggiornare al tempo del suo rientro nel cielo l’unione mistica che è stata l’oggetto finale di tutta la sua missione.76

L’ironia del regno dell’amore Se, agli occhi di Ravaisson, spetta al cristianesimo il compito di portare a compimento ciò che l’ebraismo e il paganesimo avevano solo accennato77, altrimenti detto, se il regno dell’amore non si instaura immediatamente, ma richiede una lunga e difficile iniziazione al divino imeneo, è proprio in virtù della condiscendenza divina che procede sempre κατ`οἰκονομίαν78. In un manoscritto (L 1860), citato da Devivaise nell’introduzione della sua edizione del Testament, Ravaisson caratterizzava il cristianesimo in questi termini: «È propriamente la credenza in un dio separato dall’essenza e presente ovunque per grazia; questa è proprio la definizione dello spirito che è autosufficiente, ma può comunicarsi; ἕν δι᾽αὑτο, πάντα κάτ᾽οἰκονομίαν». Precisando ancora che per lui Dio καταβαινεῖ οἰκονομικῶς. Nessun dubbio che Ravaisson ritrovi qui una

76.  F. Ravaisson, Testament philosophique et fragments, cit., pp. 176, 180 s. 77.  Ivi, p. 165: «Si può dire che il Cristianesimo è un ebraismo sviluppato». Cfr. anche, ivi, p. 165: «l’ebraismo ha come base, ancor più dell’ellenismo, il culto dell’amore». Su quest’ultimo punto, Ravaisson si separa da Schelling che sottolineava più volentieri la continuità del paganesimo e del cristianesimo, interpretando i Misteri a partire da Dioniso, il dio a venire che prefigura il Cristo. Cfr. supra, p. 148. 78.  Cfr. in Essai, pp. 215 s.: «troveremo più avanti (libro II) quale ruolo ha avuto nella dottrina cristiana l’idea di οἰκονομία con tutte le sue accezioni». Cfr. anche nella Mémoire sur le stoïcisme (Mémoires de l’institut impérial de France, Académie des Inscriptions et Belles Lettres, vol. XXI, parte I), pp. 82 s.

253

intuizione fondamentale di Schelling a proposito dell’economia intesa come «ironia divina»79. In eco diretta alla Verstellung Gottes sottolineata da Schelling, Ravaisson scriveva in un frammento: «Dio sola chiave di tutto, e con lui, l’anima. Tutto ne è travestimento»80. Prospettiva economica, dunque, che non chiarisce semplicemente i rapporti tra Antico e Nuovo Testamento o la situazione preliminare dei Misteri greci, e neppure questa «concessione» insuperabile che è l’Incarnazione, ma che si applica anche – anche qui, come per Schelling – alla pluralità trinitaria in quanto tale: «È una concessione da parte della Divinità il fatto di discendere dalla pura unità dell’essenza alla pluralità delle persone o figure tra le quali si ritrova la saggezza biblica, essendone la Parola e lo Spirito come un raddoppiamento»81. Per Ravaisson, come per Schelling, solo la prospettiva di una «storia superiore», nella quale convergono filosofia e religione, può decifrare, ma sempre e solo aprèscoup e senza che si possa mai assegnare un termine definitivo, il senso di una economia che governa sia i peggiori incubi della coscienza mitologicamente imprigionata, sia la voce dei profeti dell’Antico Testamento: Si prepara così e s’annuncia, matura nella cattività di Babilonia, sotto l’influenza delle dottrine dei Maghi, il dogma nuovo che, riempiendo l’antica promessa, riunirà in una comune credenza la religione degli ebrei e quella dei gentili, il dogma della liberazione, della redenzione per mezzo della saggezza e della Parola divina, il dogma del Dio fatto uomo e la divi-

79.  SW, XIII, p. 272; Filosofia della rivelazione, p. 457: «Dio raggiunge sempre i suoi intenti attraverso il contrario». SW XIII, p. 304; Filosofia della rivelazione, p. 509 (tr. mod.): «Dio si rappresenta e appare altro, e in conseguenza di questa arte divina di rappresentazione o ironia si manifesta il contrario (Widerspiel) di ciò che propriamente vuole». 80.  Fragment Dopp [28], op. cit., p. 383. 81.  F. Ravaisson, Testament philosophique et fragments, cit., p. 162.

254 nizzazione dell’uomo, perché l’uomo fu fatto Dio dallo stesso Dio fattosi uomo.82

Attraverso questa figura del Cristo «conciliatore», Ravaisson raggiunge anche la Cristologia schellinghiana della Filosofia della rivelazione. Il Conciliatore, l’Unico, è quello che può «soddisfare il desiderio pagano presso gli ebrei, e presso i pagani divenire la fine dei diversi liberatori», quello che propriamente annuncia le nozze sacre, il matrimonio paradisiaco del quale oggi conosciamo solamente le primizie. * Nell’introduzione alla sua edizione di De l’Habitude, Jean Baruzi evocava, come abbiamo visto, la «coincidenza» del pensiero tra i due autori, mentre Ravaisson, in una lettera a Quinet, sottolineava la felice conformità tra le direzioni seguite da una parte e dall’altra, e Schelling, da parte sua, sottolineava il «punto di incontro» con il giovane Ravaisson del quale aveva appena fatto conoscenza. Nella sua celebre Notice del 1904, Bergson preferiva, da canto suo, parlare di «affinità naturale» o di «comunanza di ispirazione». Al di là di queste testimonianze esterne, questo studio di alcuni temi dovrebbe aver permesso, lo speriamo, di rispondere alla questione di Alexandre Koyré che abbiamo citato all’inizio: Ravaisson sarebbe stato un discepolo, e anche più che un discepolo, di Schelling. Ci auguriamo solamente che lo studio del fondo manoscritto ora accessibile permetta presto delle nuove ricerche in grado di documentare in modo più completo questo singolare e raro dialogo al vertice.

82.  F. Ravaisson, Essai sur la métaphysique d’Aristote. Fragments du tome III, cit., p. 110.

Bibliografia

Questa bibliografia menziona unicamente le edizioni delle opere di Schelling citate nel presente volume. Per una bibliografia più completa in lingua francese si può far riferimento all’opera collettanea da noi coordinata e curata, Schelling («Cahiers d’Histoire de la philosophie»), Le Cerf, Paris 2010. Si veda anche: http://www.philosophie.uni-bremen.de/uploads/media/Schelling-Bibliographie-2004.pdf; http://www.schelling-gesellschaft.de/index.html. Tutte le altre opere citate sono indicate in nota, con il riferimento bibliografico completo, nella loro prima occorrenza.

Le edizioni La principale edizione di riferimento è oggi l’edizione in corso, pubblicata sotto l’egida dell’Accademia delle Scienze di Baviera: Historische-kritische Ausgabe, suddivisa in quattro serie: I. Werke, II. Nachlaß, III. Briefe, IV. Vorlesungsnachschriften. Nella prima serie, quella delle opere, sono stati pubblicati dieci volumi.

256

Per ciò che riguarda la corrispondenza, si farà riferimenti anche all’edizione (incompiuta) iniziata da Horst Fuhrmans: –  Briefe und Dokumente, Bd. I: 1775-1809, Bouvier, Bonn 1962; –  Briefe und Dokumente, Bd. II: 1775-1803, Zusatzband, Bouvier, Bonn 1973; –  Briefe und Dokumente, Bd. III: 1803-1809, Zusatzband, Bouvier, Bonn 1975. La vecchia edizione disposta da G.L. Plitt, Aus Schellings Leben. In Briefen, 3 voll., Hirzel, Leipzig 1869-1860, risulta ancora utile. Fortunatamente è stata riprodotta da Olms, Hildesheim 2003. L’edizione non autorizzata realizzata da H.E.G. Paulus della Philosophie der Offenbarung (1841-1842), Druck und Verlag Carl Wilhelm Leske, Darmstadt 1843, è stata ripubblicata, arricchita di una ricca introduzione, da Manfred Frank, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1977. * Segnaliamo anche alcune edizioni apparse in forma separata: –  W. Ehrhardt, Schelling Leonbergensis und Maximilian II. von Bayern Lehrstunden der Philosophie, «Schellingiana» 2, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1989. –  Schelling und Cotta. Briefwechsel 1803-1849, a cura di H. Fuhrmans e L. Lohrer, Stuttgart 1965. * Tenuto conto dello stato di avanzamento dell’edizione storico-­ critica dell’Accademia delle Scienze, l’edizione di riferimento

257

è ancora, e per diversi anni, quella disposta da Karl F. August Schelling (J.G. Cotta, Stuttgart-Augsburg 1856-1861): Sämmtliche Werke. Essa è suddivisa in due sezioni. La prima comprende i volumi I-X; la seconda i volumi XIII-IV. Questa è stata oggetto di una riedizione anastatica, da parte di Manfred Schröter, che ha avuto l’idea infelice di proporre una distribuzione differente: 6 Hauptbände, 6 Ergänzungsbände, 1927 ss.; poi 1958 ss., per i tipi di Beck a München. M. Schröter ha anche pubblicato nel 1946 un prezioso volume complementare, ripubblicato nel 1966, presso lo stesso editore, Beck di München: Die Weltalter. Fragmente, in den Urfassugen von 1811 und 1813. Accanto alla grande edizione storico-critica, sono state pubblicate diverse edizioni separate o preparatorie: –  Schellings Seinslehre und Kierkegaard. Mit Erstausgabe der Nachschriften zweier Schellingvorlesungen von G. M. Mittermair und S. Kierkegaard, a cura di A.M. Koktanek, Oldenbourg, München 1962. –  Initia philosophiae universae. Erlanger Vorlesung WS 182021, a cura di H. Fuhrmans, Bouvier, Bonn 1969. –  Grundlegung der positiven Philosophie. Münchener Vorlesung WS 1832/33 und SS 1833, a cura di F. Fuhrmans, Bottega d’Erasmo, Torino 1972. –  Stuttgarter Privatvorlesungen, versione inedita accompagnata dai testi delle Opere, pubblicata, prefatta e annotata da M. Vetö, Bottega d’Erasmo, Torino 1973. –  B. Loer, Das Absolute und die Wirklichkeit in Schellings Philosophie. Mit der Erstedition einer Handschrift aus dem Berliner Schelling-Nachlass, W. de Gruyter, Berlin 1974. –  Schellingiana rariora, a cura di L. Pareyson, Bottega d’Erasmo, Torino 1977.

258

–  Einleitung in die Philosophie, a cura di W.E. Ehrhardt, «Schellingiana» 1, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1989. –  System der Weltalter. Münchener Vorlesung 1827/28 in einer Nachschrift von Ernst von Lasaulx, a cura di S. Peetz, Klostermann, Frankfurt a.M. 1990. –  La philosophie de la mythologie. Nachschriften von Charles Secrétan (München 1835-36) e Henri F. Amiel (Berlin 1845-46), a cura di L. Pareyson e M. Pagano, Meiner, Hamburg 1991. –  Urfassung der Philosophie der Offenbarung, 2 voll., a cura di W.E. Ehrhardt, Meiner, Hamburg 1992. –  Timaeus (1794), a cura di H. Buchner, con un contributo di H. Krings, «Schellingiana» 4, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1994. –  Weltalter-Fragmente, a cura di K. Grotsch, intr. di W. Schmidt-Biggemann, «Schellingiana» 13.1 e 13.2, Fromman-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2002. La Nachlaß di Berlino contiene la serie delle agenda di Schelling relative agli anni 1809-1854. Pubblicate dalla Schelling Forschungsstelle dell’Università di Brema, sotto la direzione di Hans-Jörg Sandkühler, sono già usciti diversi preziosi volumi: –  Das Tagebuch 1848. Rationale Philosophie und demokratische Revolution, con A. v. Pechmann e M. Schraven, dalle Berliner Nachlaß, a cura di H.J. Sandkühler, Meiner, Hamburg 1990. –  Bd. 1: Philosophische Entwürfe und Tagebücher 1809-1813. Philosophie der Freiheit und der Weltalter, a cura di L. Knatz, H.J. Sandkühler e M. Schraven, Meiner, Hamburg 1994.

259

–  Bd. 2: Die Weltalter II. Über die Gottheiten von Samothrake, a cura di L. Knatz, H.J. Sandkühler e M. Schraven, Meiner, Hamburg 2002. –  Bd. 12: Philosophische Entwürfe und Tagebücher 1846. Philosophie der Mythologie und reinrationale Philosophie, a cura di L. Knatz, H.J. Sandkühler e M. Schraven, Meiner, Hamburg 1998. –  Bd. 14: Philosophische Entwürfe und Tagebücher 1849. Niederlage der Revolution und Ausarbeitung der reinrationalen Philosophie, Meiner, Hamburg 2007.

Traduzioni francesi –  Introduction à la philosophie de la mythologie, 2 voll., tr. fr. di S. Jankélévitch, Aubier, Paris 1945. Questi volumi sono fuori edizione e comunque del tutto inutilizzabili. –  Essais, tr. fr. di S. Jankélévitch, Aubier, Paris 1947. Volume fuori edizione, poco affidabile e quasi inutilizzabile. –  Les Âges du monde [vers. 1815], tr. fr. di S. Jankélévitch, Aubier, Paris 1949. Volume fuori edizione, approssimativo e difficile da utilizzare. –  Lettres sur le dogmatisme et le criticisme, edizione bilingue, tr. fr. di S. Jankélévitch, Aubier, Paris 1950. –  Le système de l’idéalisme transcendantal, pres., tr. e note di Ch. Dubois, Peeters, Louvain 1978. –  Œuvres métaphysiques (1805-1821). Aphorismes pour introduire à la philosophie de la nature (1805); Aphorismes sur la philosophie de la nature (1806); Recherches sur l’essence de la liberté humaine et les sujets qui s’y rattachent

260

(1809); Conférences de Stuttgart (1810); Leçons d’Erlangen (1821), Fragment de 1819-1820, tr. e note di J.-F. Courtine e E. Martineau, Gallimard, Paris 1980. –  Leçons sur la méthode des études académiques, in L. Ferry J.-P. Pesron - A. Renaut (a cura di), Philosophies de l’Université. L’idéalisme allemand et la question de l’Université. Textes de Schelling, Fichte, Schleiermacher, Humboldt, Hegel, tr. fr. di J.-F. Courtine e J. Rivelaygue, Payot, Paris 1979, pp. 41-164. –  Contribution à l’histoire de la philosophie moderne. Leçons de Munich, tr., intr. e note di J.-F. Marquet, Puf, Paris 1983. –  Premiers écrits (1794-1795). Sur la possibilité d’une forme de la philosophie en général; Du Moi comme principe de la philosophie ou sur l’inconditionné dans le savoir humain; Lettres philosophiques sur le dogmatisme et le criticisme, tr., pres. e note di J.-F. Courtine, Puf, Paris 1987. –  Bruno ou Du principe divin et naturel des choses, tr., pres. e note di J. Rivelaygue L’Herne, Paris 1987. –  La liberté humaine et Controverses avec Eschenmayer: du vrai concept de la philosophie de la nature et de la bonne manière d’en résoudre les problèmes. Philosophie et religion. Recherches philosophiques sur l’essence de la liberté humaine. Objections d’Eschenmayer contre les Recherches, réponses de Schelling, tr. e pres. di B. Gilson Vrin, Paris 1988. –  Philosophie de la révélation. I. Introduction à la philosophie de la révélation, «Introduction de Berlin», Puf, Paris 1989, tr. della «RCP Schellingiana», sotto la direzione di J.-F. Courtine e J.-F. Marquet. –  Immanuel Kant, tr. fr. di P. David, in «Philosophie», n. 22, 1989, pp. 3-10.

261

–  Philosophie de la révélation. II. Première partie, Puf, Paris 1991, tr. della «RCP Schellingiana», sotto la direzione di J.-F. Courtine e J.-F. Marquet. –  Le monothéisme, tr. e note di A. Pernet, intr. di X. Tilliette, Vrin, Paris 1992. –  Les Âges du monde. Fragments dans les premières versions de 1811 et 1813, tr. fr. di P. David, a cura di M. Schröter, Puf, Paris 1992. –  Exposé de l’empirisme philosophique, tr. fr. di J.-L. Garcia, in «Philosophie», n. 40, 1993, pp. 4-23, e n. 41, 1994, pp. 3-39. –  Philosophie de la mythologie, tr. fr. di A. Pernet, pref. di M. Richir, postfaz. di F. Chenet Millon, Grenoble 1994. –  Philosophie de la révélation. III. Deuxième partie, Puf, Paris 1994, tr. della «RCP Schellingiana», sotto la direzione di J.-F. Courtine e J.-F. Marquet. –  Introduction à la philosophie, tr., pres. e postfaz. di M.-Ch. Challiol e P. David, Vrin, Paris 1996. –  Introduction à la philosophie de la mythologie. 1) Introduction historico-critique. 2) Philosophie rationnelle pure, Gallimard, Paris 1998, tr. della «RCP Schellingiana», sotto la direzione di J.-F. Courtine e J.-F. Marquet. –  Leçons inédites sur la philosophie de la mythologie, d’après Anton Eberz (Munich 1837) et András Chovátz (Berlin 1842), tr. fr. di A. Pernet, Millon, Grenoble 1997. –  Exposition de mon système de philosophie. Sur le vrai concept de la philosophie de la nature, tr., pres. e note di E. Cattin, Vrin, Paris 2000. –  Idées pour une philosophie de la nature, comme introduction à l’étude de cette science, tr. parz. di M. Élie, Ellipses, Paris 2000.

262

–  Introduction à l’Esquisse d’un système de philosophie de la nature, in appendice estratti da Esquisse e La profession de foi épicurienne de Heinz Widerporst, tr., pres. e note di F. Fischbach e E. Renault, «Le Livre de Poche», LGF, Paris 2001. –  Le Timée de Platon, tr. fr. di A. Michalewski, postfaz. di F. Fischbach, Presses Universitaires de Lille, Septentrion 2005.

Traduzioni italiane citate Per le opere di Schelling si farà riferimento alle Sämmtliche Werke (SW), i riferimenti saranno indicati nella loro collocazione all’interno della raccolta seguiti dal numero del volume e dalla pagina. Le traduzioni italiane saranno citate estesamente alla prima occorrenza, poi indicate in forma abbreviata secondo l’elenco che segue: SW, I  [pp. 149-244], Vom Ich als Prinzip der Philosophie oder über das Unbedingte im menschlichen Wissen; tr. it. a cura di A. Moscati, Dell’Io come principio della filosofia, Cronopio, Napoli 1991; indicata con la dicitura: Dell’Io…. SW, I  [pp. 281-342], Philosophische Briefe über Dogmatismus und Kriticismus; tr. it. a cura di G. Semerari, Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, Laterza, RomaBari 1995; indicata con la dicitura: Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo. SW, II  Ideen zu einer Philosophie der Natur; tr. it. di G. Preti, Introduzione alle idee per una filosofia della natura, in F.W.J. Schelling, L’empirismo filosofico e altri scritti, La

263

Nuova Italia, Firenze 1967; indicata con la dicitura: Introduzione alle idee per una filosofia della natura. SW, III  System des transzendentalen Idealismus; tr. it. di G. Boffi, Sistema dell’idealismo trascendentale, con testo ted. a fronte, Bompiani, Milano 2017; indicata con la dicitura: Sistema dell’idealismo trascendentale. SW, V  [pp. 184-202]; tr. it. di A. Spinelli, Resoconto sui tentativi del sig. Villers di introdurre la filosofia kantiana in Francia, in «Rivista di storia della filosofia», LXII, n. 2, 2007, pp. 345-357; indicata con la dicitura: Resoconto sui tentativi del sig. Villers…. SW, V  [pp. 207-352], Vorlesungen über die Methode des akademischen Studiums; tr. it. di C. Tatasciore, Lezioni sul metodo dello studio accademico, Guida, Napoli 1989; indicata con la dicitura: Lezioni sul metodo dello studio accademico. SW, VI  [pp. 131-576], System der gesammten Philosophie und der Naturphilosophie insbesondere; tr. it. di A. Dezzi, Sistema dell’intera filosofia e della filosofia della natura in particolare, Accademia University Press, Torino 2013; indicata con la dicitura: Sistema dell’intera filosofia…. SW, VII  [pp. 333-416]; tr. it. di S. Drago del Boca, L. Pareyson e V. Verra, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi, in F.W.J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1990, pp. 77-140; indicata con la dicitura: Ricerche filosofiche…. SW, VII  [pp. 421-484]; tr. it. di S. Drago del Boca, L. Pareyson e V. Verra, Lezioni di Stoccarda, in F.W.J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, cit., pp. 141193; indicata con la dicitura: Lezioni di Stoccarda.

264

SW, VIII  [redazione 1815/17, pp. 195-344], Weltalter; tr. it. in F.W.J. Schelling, Le età del mondo. Redazioni 1811, 1813, 1815/17, con testo ted. a fronte, a cura di V. Limone, pres. di F. Tomatis, Bompiani, Milano 2013, pp. 413-735. Il volume raccoglie anche i testi di Weltalter, Fragmente in den Urfassungen von 1811 und 1813, che però saranno citati dall’ed. a cura di M. Schröter, Beck, München, 19662: redazioni 1811, pp. 1-107 [tr. it. di V. Cicero, in F.W.J. Schelling, Le età del mondo, cit., pp. 3-243], e 1813, pp. 109-184 [tr. it. di V. Cicero, in F.W.J. Schelling, Le età del mondo, cit., pp.  245-411]. Per quanto riguarda queste prime due versioni, esse saranno indicate con la dicitura Urfassungen seguita dal numero di pagina. La tr. it. delle tre redazioni sarà indicata con la dicitura Le età del mondo, seguita dall’anno di riferimento della versione citata e la pagina. SW, X  [pp. 1-200], Zur Geschichte der neueren Philosophie; tr. it., Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna, in F.W.J. Schelling, Lezioni monachesi e altri scritti, a cura di C. Tatasciore, Orthotes, Salerno-Napoli 2019, pp. 53-231; indicata con la dicitura: Lezioni monachesi…. SW, X  [pp. 201-224], Vorrede zu eine philosophischen Schrift des Herrn Victor Cousin; tr. it., Prefazione a uno scritto filosofico del sig. Victor Cousin, in F.W.J. Schelling, Lezioni monachesi e altri scritti, cit., pp. 233-252; indicata con la dicitura: Prefazione a Cousin. SW, X  [pp. 225-286], Darstellung des philosophischen Empirismus; tr. it. a cura di Carlo Tatasciore, Esposizione dell’empirismo filosofico dall’introduzione alla filosofia, in F.W.J. Schelling, Lezioni Monachesi e altri scritti, cit., pp. 251-305; indicata con la dicitura: Esposizione dell’empirismo filosofico.

265

SW, X  [pp. 301-390], Darstellung des Naturprozesses; tr. it. di V. Limone, Esposizione del processo della natura, Mimesis, Milano-Udine 2012; indicata con la dicitura: Esposizione del processo della natura. SW, XI  [pp. 1-252], Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der Mythologie; tr. it. di T. Griffero, Filosofia della mitologia. Introduzione storico-critica, Guerini, Milano 1998; indicata con la dicitura: Introduzione storico-critica…. SW, XI  [pp. 257-590], Philosophische Einteilung Einleitung in die Philosophie der Mythologie oder Darstellung der rein rationalen Philosophie; tr. it., Introduzione filosofica alla filosofia della mitologia, con testo ted. a fronte, a cura di L. Lotito, Bompiani, Milano 2002; indicata con la dicitura: Introduzione filosofica…. SW, XII  [pp. 3-131], Der Monotheismus; tr. it., Il monoteismo, a cura di L. Lotito, Mursia, Milano 2002; indicata con la dicitura: Il monoteismo. SW, XII  [135-672], Philosophie der Mythologie; tr. it. di L. Procesi, Filosofia della mitologia, Mursia, Milano 1999; indicata con la dicitura: Filosofia della mitologia. SW, XIII e XIV  Philosophie der Offenbarung; tr. it. di A. Bausola, riv. da F. Tomatis, Filosofia della rivelazione, con testo ted. a fronte, Bompiani, Milano 2014; indicata con la dicitura: Filosofia della rivelazione.

Indice

Presentazione

p. 9

Capitolo I Dalla libertà assoluta alla libertà finita La «metafisica del male» e l’abisso della libertà umana Imperativo etico o ontologico? Il male radicale e l’abisso della libertà umana L’uomo creatura centrale Una distinzione fondamentale La vetta dell’idealismo tedesco? L’ombra di Nietzsche Eros, Eris Il male è spirito Al di là dell’essere e del tempo L’abisso della libertà

p. 15 p. 17 p. 25 p. 35 p. 38 p. 40 p. 46 p. 49 p. 53 p. 59 p. 62

Capitolo II L’eternità figlia del tempo La pulsazione del tempo Il cantiere delle Età del mondo Out of joint Il tempo del Figlio Fattualità e positività

p. 65 p. 66 p. 69 p. 73 p. 77 p. 82

Negazione e reclusione Il figlio dell’Uomo Quale Manifestazione? Automanifestazione o riserva Capitolo III La filosofia della religione: statuto e verità della mitologia Il progetto della Selbsterklärung Katabolè e sprofondamento La Sache selbst Il Pathos dell’esperienza della coscienza Il processo e il suo significato Höhere Geschichte Al centro, equilibrio instabile La caduta Essoterico ed esoterico. La verità della mitologia La fine del mondo degli dèi Il segreto più profondo dei misteri. Demetra, Persefone, Dioniso Il dramma e il suo epilogo Capitolo IV La collocazione del giudaismo tra mitologia e rivelazione I documenti più antichi Il nome dell’Esodo, i nomi divini La storia della coscienza Il crocifisso, fratello di Dioniso Giudaismo e paganesimo Consultazione del Consigliere segreto Studenti e uditori ebrei

p. 86 p. 89 p. 94 p. 98

p. 105 p. 110 p. 114 p. 116 p. 120 p. 123 p. 126 p. 129 p. 135 p. 137 p. 146 p. 153

p. 155 p. 156 p. 159 p. 164 p. 167 p. 171 p. 175 p. 180

Capitolo V Un popolo metafisico? L’universalità della lingua francese Germanismo o provincialismo La filosofia «in senso tedesco» Il Mosè della nostra nazione L’opposizione delle nazioni in filosofia La differenza che ci separa Un apprendistato inutile?

p. 185 p. 188 p. 193 p. 198 p. 204 p. 206 p. 211 p. 216

Capitolo VI Ravaisson discepolo francese di Schelling Una prima conoscenza indiretta Un giudizio senza compiacenza Il segreto di Schelling Nel segno di Aristotele Un’altra filosofia prima? Mitologia-Rivelazione Sacrificio e alleanza coniugale L’ironia del regno dell’amore

p. 221 p. 222 p. 228 p. 232 p. 235 p. 241 p. 246 p. 249 p. 252

Bibliografia Le edizioni Traduzioni francesi Traduzioni italiane citate

p. 255 p. 259 p. 262

Au dedans, au dehors

Collana di Filosofia Contemporanea Diretta da: Giuseppe CANTILLO, Danielle COHEN-LEVINAS, Jean-François COURTINE, Elio MATASSI †

1. Jean-François Courtine, Levinas. La trama logica dell’essere. 2. Carmelo Meazza, L’evento esposto come evento d’eccezione. 3. Miguel Abensour, Emmanuel Levinas. L’intrigo dell’umano. 4. Emmanuel Levinas, Gli imprevisti della storia. 5. Carmelo Meazza, L’evento esposto come evento d’eccezione. II edizione ampliata: Materiali per un pensiero neocritico. 6. Felix Duque, Contro l’umanismo. 7. Philippe Capelle-Dumont, Pensare la religione. 8. Miguel Abensour, L’utopia da Thomas More a Walter Benjamin. 9. Rosaria Caldarone, Lo scambio di figura. Tre studi sulla somiglianza e sulla differenza. 10. M. Barale, R. Bonito Oliva, G. Cantillo, P. CapelleDumont, D. Cohen-Levinas, J.-F. Courtine, G. Dalmasso, S. Mancini, G. Mascia, C. Meazza, F. Miano, B. Moroncini, A. Nasone, Filosofia dell’avvenire. L’evento e il messianico. 11. Giuseppe Cantillo, Il tormento della modernità. Religione, etica, filosofia della storia. Studi un Ernst Troeltsch. 12. Jean-François Courtine, Schelling tra tempo ed eternità. Storia e preistoria della coscienza.

Au dedans, au dehors

Collana di Filosofia Contemporanea Diretta da: Giuseppe CANTILLO Danielle COHEN-LEVINAS Jean-François COURTINE Elio MATASSI †

Nella stessa collana Jean-François Courtine

Levinas. La trama logica dell’essere Carmelo Meazza

L’evento esposto come evento d’eccezione Philippe Capelle-Dumont

Pensare la religione Miguel Abensour

L’utopia da Thomas More a Walter Benjamin Felix Duque

Contro l’umanismo Ciuseppe Cantillo Il tormento della modernità Humanity Tra paradigmi perduti e nuove traiettorie vol. II

Au dedans, au dehors 12

Ricorditi, lettor, se mai ne l'alpe ti colse nebbia per la qual vedessi non altrimenti che per pelle talpe, come, quando i vapori umidi e spessi a diradar cominciansi, la spera del sol debilemente entra per essi; Dante, Purgatorio, Canto XVII, 1-6.

Prendere finalmente sul serio il tempo! Questo il principale impegno di Schelling a partire dal 1809 e dalle Ricerche sull’essenza della libertà umana; compito che avrebbero ripreso e fatto loro Ravaisson, Rosenzweig, Heidegger, Scholem e Levinas. La singolarità di Schelling è duplice: non solo ha tentato di esplorare la profondità dello spazio, ma anche «la profondità del tempo», quella evocata da Baudelaire ne Il poema dell’hashish, e si è spinto oltre, verso il «passato che riposa sotto la cenere», fino alla «notte dei tempi», immemoriale o «impossibile». Si trattava di aprire il pensiero classico a una storicità radicale alla quale può rispondere solo il racconto, inteso come mitologia e come rivelazione, il cui teatro si gioca sulla scena della coscienza, interrogando sia la diacronia che decide del suo essere-fuori-di-sé (estasi), sia gli strati incoscienti sempre pronti a rilanciare gli oscuri movimenti delle profondità.

€ 11,00

ISBN ebook 9788855292238