San Francesco d’Assisi 9788842067399

Dalla Prefazione: «Nell’attrattiva che su ogni storico esercita la tentazione di raccontare la vita di un uomo (o di una

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San Francesco d’Assisi
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Economica Laterza 262

Dello stesso autore nella «Economica Laterza»:

Alla ricerca del Medioevo La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell’Europa L’immaginario medievale Il Medioevo. Alle origini dell’identità europea Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale Il re nell’Occidente medievale I riti, il tempo, il riso. Cinque saggi di storia medievale San Francesco d’Assisi Dello stesso autore in altre nostre collane:

Con Hanka «i Robinson/Letture»

Il Dio del Medioevo «i Robinson/Letture»

Eroi & meraviglie del Medioevo «i Robinson/Letture»

L’Europa medievale e il mondo moderno «il nocciolo»

L’Europa raccontata ai ragazzi «Laterza ragazzi»

Immagini per un Medioevo «Grandi Opere»

Intervista sulla storia «Saggi Tascabili Laterza»

Il Medioevo spiegato ai ragazzi «i Robinson/Letture»

Una vita per la storia. Intervista con Marc Heurgon «i Robinson»

Ha inoltre curato:

L’uomo medievale «Economica Laterza»

Jacques Le Goff

San Francesco d’Assisi con una Postfazione di Jacques Dalarun

Editori Laterza

Titolo dell’edizione originale Saint François d’Assise © 1999, Éditions Gallimard Per il capitolo II e la Postfazione: Francesco d’Assisi © 1998, by Edizioni Biblioteca Francescana Piazza Sant’Angelo 2 – 20121 Milano tel. e fax: 0039.02.29002736 e-mail: [email protected] url: www.biblia.it/ebf ISBN 88-7962-076-2 Traduzione di Amedeo De Vincentiis Per il capitolo II e la Postfazione, traduzione di Lisa Baruffi Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2002 Quinta edizione 2010 Edizioni precedenti: «Storia e Società» 2000 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-6739-9

PREFAZIONE Da quando, circa mezzo secolo fa, ho iniziato a interessarmi al Medioevo sono affascinato dal personaggio di san Francesco d’Assisi per un duplice motivo. Innanzitutto dal personaggio storico che, nel cuore della svolta decisiva tra XII e XIII secolo, quando nasce un Medioevo moderno e dinamico, scuote la religione, la civiltà e la società. Metà religioso, metà laico, nelle città in pieno sviluppo, sulle strade e nel ritiro solitario, nella fioritura della civiltà cortese che si intreccia con una nuova pratica della povertà, dell’umiltà e della parola, ai margini della Chiesa ma senza cadere nell’eresia, ribelle senza nichilismo, attivo nella regione più in fermento della cristianità, l’Italia centrale, tra Roma e la solitudine della Verna, Francesco ha giocato un ruolo decisivo nello sviluppo dei nuovi ordini mendicanti diffondendo un apostolato per la nuova società cristiana, ha arricchito la spiritualità cristiana di una dimensione ecologica, al punto da apparire come l’inventore di un sentimento medievale della natura che si esprime nella religione, nella letteratura e nell’arte. Modello di un nuovo tipo di santità così centrata sulla figura di Cristo da identificarvisi al punto da essere il primo uomo a ricevere le stimmate, Francesco è stato uno dei personaggi della storia medievale più incisivi nel suo tempo e fino a oggi. Ma sono anche stato affascinato dall’uomo che rivive nei suoi scritti, nei racconti dei suoi biografi, nelle immagini. Unendo semplicità e prestigio, umiltà e carisma, fisico ordinario e splendore eccezionale, si presenta con un’autenticità

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Prefazione

accogliente che permette di immaginare un approccio familiare e, allo stesso tempo, distaccato. Nell’attrattiva che su ogni storico esercita la tentazione di raccontare la vita di un uomo (o di una donna) del passato, di scrivere una biografia che si sforzi di raggiungere la sua verità – e neanche io vi sono sfuggito – Francesco è stato ben presto l’uomo che più di qualunque altro ha suscitato in me il desiderio di farne un oggetto di storia totale (ben lungi dalla biografia tradizionale, aneddotica e superficiale), storicamente e umanamente esemplare per il passato e il presente. Ciò che mi ha trattenuto dallo scrivere questa vita è che, da un lato, ero assorbito da una riflessione e da lavori storici di carattere più generale e che, dall’altro, esistevano già eccellenti biografie di Francesco, opere soprattutto di storici italiani e francesi. Ma poiché continuavo ad immaginare e a costruire il mio san Francesco, mi sono accontentato di approcci rapidi e indiretti, apparsi, a suo tempo, in pubblicazioni italiane e francesi di diffusione limitata. Oggi, non essendo soddisfatto di aver concentrato l’essenziale della mia attività biografica in un San Luigi, molto diverso a causa sia del personaggio che del mio approccio monumentale, ancora una volta sollecitato dall’amicizia di Pierre Nora, mi sono deciso a pubblicare l’insieme dei testi che ho dedicato a san Francesco. Questa pubblicazione si colloca in un filone di ricerca storica desiderosa di ragionare, rinnovandola allo stesso tempo, sulla storia di san Francesco e sull’immagine che egli ci consegna alle soglie del terzo millennio, ancorate a un tessuto storico autentico e distante dalle elucubrazioni pseudomillenaristiche in cui san Francesco è fuori luogo. Tra questi nuovi approcci si distinguono le opere di Jacques Dalarun e Chiara Frugoni (si veda la Bibliografia) con i quali si è manifestata una comunanza di sensibilità francescana, nonostante ciascuno abbia affrontato problemi differenti. Ho scritto la prefazione del San Francesco di Chiara Frugoni che è stato da poco pubblicato in traduzione francese e che si

Prefazione

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concentra sull’uomo e la documentazione iconografica. Jacques Dalarun ha scritto una lunga presentazione e messa a punto (riportata in Postfazione) per la nuova edizione del mio testo principale su san Francesco, sempre in italiano, pubblicato dai frati delle Edizioni Biblioteca Francescana (Milano 1998). Infine, su invito amichevole di Prune Berge, ho appena inciso un disco su san Francesco nella nuova collezione di Gallimard, «A voix haute». Quattro testi sono riuniti in questo volume. Il primo, apparso nel 1981 nel numero speciale della rivista internazionale di teologia «Concilium», dedicato a Francesco d’Assisi nel contesto storico, si sforza di definire brevemente il suo ruolo «tra il rinnovamento e le inerzie del mondo feudale» nel passaggio tra XII e XIII secolo, quando il rinnovamento della società, di cui san Francesco è stato uno degli attori principali, si scontra con tradizioni alle quali egli stesso non sfugge – uomo e santo sempre combattuto. Il secondo, il principale, è una presentazione generale di san Francesco secondo un andamento cronologico, dunque biografico, che tuttavia lo ricolloca nel suo contesto geografico, sociale, culturale, storico. Espone nel modo più chiaro e semplice possibile i problemi posti dai suoi scritti e dalle sue biografie, strettamente connessi alla sua immagine e all’interpretazione del suo personaggio, e rievoca anche i temi principali delle sue concezioni e della sua attività. Questo testo è apparso in italiano, nella serie di ritratti divulgativi di grandi personaggi storici, «I protagonisti», nel 1967, e recentemente riedito, come ho precisato. È un tentativo di avvicinarsi e di presentare il vero san Francesco ovvero, poiché il mio sforzo per una autenticità obiettiva certo non sfugge ad una interpretazione personale, il mio san Francesco. Gli altri due testi rievocano Francesco e ne mettono in luce l’influenza nell’ambiente francescano del XIII secolo, quando i conflitti interni all’ordine, accentuando le differenti interpretazioni della persona e delle intenzioni del fondatore, consentono di cogliere le contraddizioni e le lotte del Me-

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Prefazione

dioevo centrale. Francesco e l’ordine francescano hanno una storia drammatica che agita la loro epoca. Spero di aver mostrato questo dramma. Uno dei testi, presentato a un convegno a Saint-Cloud nel 1967 e pubblicato negli atti semiclandestini nel 1973, è uno studio del lessico (Il lessico delle categorie sociali in san Francesco d’Assisi e nei suoi biografi del XIII secolo). Ritrovare, far sentire, spiegare le parole degli uomini del passato è uno dei compiti principali dello storico. Francesco, che ha voluto agire sulla società del suo tempo, si esprime oralmente o per iscritto e in questo studio il suo armamentario di parole, idee e sentimenti viene valorizzato, chiarendo gli strumenti di cui si è servito per avvicinare tale società e trasformarla. È un lessico d’azione. Infine, ho indagato l’influenza del francescanesimo primitivo sui modelli culturali del XIII secolo (conferenza tenuta ad Assisi nel 1980, pubblicata nel volume degli Studi francescani di Assisi nel 1981). Si tratta di uno schizzo di tutto l’universo culturale di questa epoca e della individuazione della presenza di Francesco e dei suoi discepoli in questo universo. Seguendo l’esempio del personaggio e del suo ordine, attenti a comprendere globalmente la società e la cultura e ad agire in questi ambiti, ho tentato un approccio globale a questa vicenda in una prospettiva di storia sociale. E – senza commettere un anacronismo, spero – ho voluto far risuonare in queste pagine l’eco attuale, nelle domande che ci poniamo alla soglia del terzo millennio, della voce e dell’azione di Francesco e dei suoi fratelli.

CRONOLOGIA 1181 o 1182 Nascita di Francesco (Giovanni) Bernardone, ad Assisi. 1180-1223 Regno di Filippo Augusto di Francia. 1182 Perceval o Le Conte du Graal di Chrétien de Troyes. 1183 Pace di Costanza tra Federico Barbarossa e le città della Lega lombarda. 1184 Pietro Valdès, fondatore dei Valdesi, è condannato dal papato come eretico. 1187 Saladino toglie Gerusalemme ai cristiani. 1189-1191 Terza crociata. 1196 Inizio della ricostruzione in stile gotico di Notre-Dame di Parigi. 1198-1216 Pontificato di Innocenzo III. 1200 I borghesi e il popolo di Assisi si rivoltano contro i nobili: presa della Rocca e inizio della lotta con Perugia. 1202 Battaglia di Ponte San Giovanni. Francesco viene fatto prigioniero a Perugia. Morte di Gioacchino da Fiore. Leonardo Fibonacci da Pisa compone il Libro dell’abaco (Liber abaci). 1203-1204 I crociati della quarta crociata prendono Costantinopoli. 1204 Malattia di Francesco. Gengis Khan unifica la Mongolia. 1205 Partenza di Francesco per la Puglia. Visita a Spoleto e ritorno ad Assisi. 1206 Conversione di Francesco: chiamata al crocifisso di San Damiano, incontro con i lebbrosi, rinuncia ai beni paterni. Al concilio di Montpellier, san Domenico decide di combattere l’eresia catara con l’esempio e la predicazione. 1208-1229 Crociata contro gli Albigesi. 1209 Chiamata del Vangelo alla Porziuncola. Bernardo di

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Quintavalle e Pietro Cattani diventano i primi compagni di Francesco. 1210 Francesco va a Roma con i suoi primi dodici discepoli e ottiene da papa Innocenzo III l’approvazione verbale della prima regola dei frati minori (perduta). Divieto ai maestri parigini di insegnare la metafisica di Aristotele; condanna come eretici degli Amalericiani, i maestri universitari panteisti. 1211 Alla dieta di Norimberga, Federico II, re di Sicilia, viene proclamato imperatore. 1212 Crociata dei bambini. Vittoria a Las Navas di Tolosa dei cristiani spagnoli sui musulmani. Presa dei voti di santa Chiara alla Porziuncola. La nave di Francesco, in viaggio verso la Terra Santa, viene dirottata da una tempesta sulla costa dalmata. 1213-1217 Giacomo I il Conquistatore re d’Aragona. Il conte Orlando di Chiusi dona la Verna a Francesco. 1214 Partenza di Francesco per il Marocco. Ammalatosi in Spagna, rientra in Italia. Battaglia di Bouvines. 1215 Quarto concilio lateranense, a cui Francesco avrebbe assistito. Probabile predica agli uccelli a Bevagna. Concessione da parte della monarchia inglese della Magna Charta. 1216 Morte di Innocenzo III a Perugia. Il nuovo papa Onorio III avrebbe concesso a Francesco l’indulgenza della Porziuncola. 1217 Capitolo della Porziuncola: invio di missionari oltralpe. A Firenze, il cardinale Ugolino convince Francesco, in viaggio per la Francia, a restare in Italia. 1219-1220 Francesco in Oriente (Egitto, San Giovanni d’Acri). Probabile visita ai luoghi santi. 1220 Francesco apprende ad Acri il martirio di molti suoi fratelli in Marocco e i conflitti scoppiati in Italia. Rientra in Italia. Lascia il governo dell’ordine a Pietro Cattani; il cardinale Ugolino è nominato dalla curia romana protettore dell’ordine. 1221 Morte di Pietro Cattani. Frate Elia diventa il nuovo ministro generale dell’ordine. Francesco compone una nuova regola che non è approvata né dall’ordine né dalla cu-

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ria pontificia (Regula non bullata). Redazione e approvazione della regola del Terzo ordine. 15 agosto. Francesco predica in piazza Maggiore a Bologna. Francesco compone una nuova regola approvata da papa Onorio III (Regula bullata). 25 dicembre. Francesco celebra il Natale a Greccio. In cima alla Verna Francesco riceve le stimmate. Francesco, malato, trascorre due mesi presso santa Chiara nella chiesa di San Damiano, dove compone il Cantico di frate Sole; si fa curare senza successo dai medici del papa, a Rieti. Trasportato a Siena, vi compone il suo Testamento (fine 1225 o inizio 1226). Morte di Francesco alla Porziuncola. 16 luglio. Il cardinale Ugolino, diventato papa Gregorio IX, canonizza Francesco. 25 maggio. Il corpo di Francesco è collocato nella sontuosa basilica di Assisi la cui costruzione è promossa da frate Elia. 28 settembre. Nella bolla Quo elongati, Gregorio IX interpreta la regola di Francesco in senso moderato e nega validità di legge al Testamento di Francesco nell’ordine dei frati minori. Prima Vita (Legenda) di Francesco composta da Tommaso da Celano. Canonizzazione di san Domenico (morto nel 1221). Seconda Vita di Tommaso da Celano. Trattato dei miracoli di san Francesco composto da Tommaso da Celano. Il capitolo generale dei frati minori di Narbona affida a san Bonaventura, ministro generale dell’ordine, la redazione di una «buona» Vita di san Francesco che sostituirà tutte le altre. La Vita di san Bonaventura è approvata. La Vita di san Bonaventura è imposta come sola Vita canonica e viene ordinata la distruzione di tutte le biografie anteriori.

SAN FRANCESCO D’ASSISI

I FRANCESCO D’ASSISI TRA IL RINNOVAMENTO E LE INERZIE DEL MONDO FEUDALE* Francesco d’Assisi nasce nel cuore della fase di grande slancio dell’Occidente medievale e in una regione che ne è profondamente segnata. Per lo storico di oggi, la prima manifestazione di tale crescita è di carattere demografico ed economico. A partire circa dall’anno Mille, in misura diseguale a seconda delle regioni ma in modo regolare e talvolta esplosivo – come in Italia centrosettentrionale – il numero degli abitanti aumenta, almeno fino a raddoppiarsi. Sono uomini che vanno nutriti, sia materialmente che spiritualmente. Dunque il progresso è innanzitutto rurale, in un mondo in cui la terra è fondamento di tutto. Soprattutto, progresso quantitativo, estensivo: un vasto movimento di dissodamento fornisce nuovi spazi coltivati, radure nascono o si allargano nel manto forestale della cristianità. La solitudine va cercata più lontano. Progresso anche qualitativo, ma che non investe molto la regione scoscesa culla di Francesco: l’aratro a ruote e a versoio asimmetrico sostituisce nelle pianure quello precedente, meno efficace; il nuovo sistema di tiro permette di sostituire al bue il più possente cavallo; vengono introdotte nuove colture nella rotazione ormai divenuta triennale; la dif* Questo testo, apparso nel 1981 nella rivista internazionale «Concilium», si è giovato delle correzioni e dei suggerimenti di Éric Vigne.

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fusione dei pascoli artificiali consente lo sviluppo dell’allevamento. Tutto ciò sfiora appena i rilievi dell’Umbria. Ma i mulini vi si moltiplicano come altrove, portando un inizio di meccanizzazione nelle campagne e nelle vallate. Le popolazioni accresciute si raggruppano in villaggi, in agglomerazioni concentrate – spesso arroccate – attorno alla chiesa e al castello. È il fenomeno dell’incastellamento. Soprattutto, la conseguenza più spettacolare dello sviluppo demografico ed economico è un intenso movimento di urbanizzazione. Più decisivo dell’urbanizzazione superficiale del mondo greco-romano, più simile alle grandi ondate di esplosione urbana del XIX e, poi, del XX secolo, crea una rete di città che non saranno più, come nell’antichità e nell’alto Medioevo, centri militari e amministrativi, ma innanzitutto focolai economici, politici, culturali. Per citare solo una delle conseguenze religiose di questo fenomeno urbano: la figura del santo vescovo connessa al potere episcopale del vecchio tipo di città (che vedremo scomparire in Italia nel XIII secolo, mentre si manterrà viva nella ancor scarsamente urbanizzata Inghilterra). La santità sarà sempre più legata alla città, sia nella sua accettazione: santi borghesi, santi laici, santi frati mendicanti; sia nel suo rifiuto: santi eremiti. La città è un cantiere in cui si sviluppa, attraverso la divisione del lavoro, un artigianato diffuso e molteplice; in cui nasce, in tre settori che si vanno «industrializzando» quali l’edilizio, il tessile e il conciario, un pre-proletariato di manodopera senza difese contro la subordinazione del «giusto salario» al «giusto prezzo» – cioè il prezzo di mercato determinato dall’offerta e dalla domanda – e contro la dominazione dei «datori di lavoro». È un luogo di scambi che attira a sé o fa nascere fiere e mercati, alimentati dalla ripresa del commercio a lunga e media distanza; questo conferisce un peso sempre più grande nella società urbana ai mercanti che lo controllano. La città è il luogo principale in cui avvengono transazioni economiche che richiedono il ricorso sempre maggiore a un mezzo di scambio essenziale: la mo-

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neta. I mercanti, in una cristianità frammentata in numerose monetazioni, creano ben presto tra loro un gruppo di specialisti della moneta: i cambiatori, che diventeranno i banchieri, sostituendo in questo ruolo sia i monasteri, istituti di credito sufficienti ai deboli bisogni dell’alto Medioevo, sia gli ebrei, ormai confinati al ruolo di prestatori al consumo, cioè «usurai», proprio anche di un numero crescente di mercanti cristiani. Mondo del denaro, la città lo diventa anche del mercato del lavoro in cui il salariato non cessa di diffondersi. Centro economico, la città è anche centro di potere. Accanto e, talvolta, contro i poteri tradizionali del vescovo e del signore, spesso fusi nella stessa persona, un gruppo di uomini nuovi, i cittadini o borghesi, conquista «libertà», cioè privilegi sempre più estesi. Senza rimettere in causa i fondamenti economici e politici del sistema feudale, vi introducono una variante, creatrice di libertà (Stadtluft macht frei, dicono i tedeschi, «l’aria delle città rende liberi») e di uguaglianza (il giuramento civico, il giuramento comunale che unisce degli uguali aventi diritto), in cui la disuguaglianza che scaturisce dal gioco economico e sociale non è fondata sulla nascita, il sangue, ma sulla fortuna immobiliare e mobiliare, la proprietà del suolo e degli immobili urbani, di censi e rendite, del denaro. Come nei momenti di grande urbanizzazione più vicini a noi, la città medievale è popolata d’immigrati più o meno recenti, che si rinnovano con ritmo serrato. Gli uomini e le donne della città sono degli sradicati, dei contadini immigrati. Alla nascita di Francesco d’Assisi, probabilmente nel 1181-1182, la città sta passando dalla fase di crescita anarchica, di sviluppo selvaggio, a quella di istituzionalizzazione, benché in Italia, per quanto riguarda sia le corporazioni di artigiani e di mercanti (arti), sia l’organizzazione politica (comuni), il movimento sia cominciato prima che altrove. Per non citare che un aspetto simbolico, a Perugia, grande rivale di Assisi all’epoca di Francesco, il primo edificio noto del

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comune, il palazzo dei Consoli (in seguito palazzo del Podestà), risale al 1205, quando Francesco ha ventitré anni. Tuttavia la società contadina non resta immobile. Anche se l’inurbamento ha attirato una parte della popolazione rurale nelle città, pure coloro che restano nelle campagne strappano ai loro signori franchigie e, se servi, la libertà. Ma la reazione dei signori alle loro difficoltà finanziare e il crescente controllo delle città sul contado, il loro territorio rurale, fanno gravare un accresciuto sfruttamento economico sulla maggior parte delle categorie sociali del mondo contadino. Nel mezzo e di fronte a tale nuova società, cosa ne è della Chiesa e del mondo ecclesiastico? In un certo modo, la Chiesa è stata la prima a trasformarsi. Quella che chiamiamo riforma gregoriana – che, nel tempo e nel contenuto, si estende abbondantemente oltre il pontificato di Gregorio VII (1073-1085) – non è solamente lo svincolarsi del mondo ecclesiastico dalla dominazione signorile della feudalità laica. Certamente, l’indipendenza della Santa Sede dal potere imperiale, il progresso della libertà di nomina dei vescovi e degli abati nei confronti di potenti laici, sono fenomeni significativi. Non meno importanti sono gli sforzi per eliminare tutte le pressioni economiche e sociali etichettate come simonia. Soprattutto, risulta essenziale la lotta contro ciò che viene designato come nicolaismo. La lotta contro l’incontinenza dei chierici non rappresenta solo un progresso morale e spirituale. Proibendo il matrimonio e il concubinato al primo dei tre ordini definiti, a partire dall’XI secolo, dallo schema tripartito in oratores, bellatores e laboratores – «coloro che pregano», «coloro che combattono» e «coloro che lavorano» –, la Chiesa separa radicalmente i chierici dai laici con la frontiera della sessualità. Ma la riforma gregoriana è, contemporaneamente, aspirazione a un ritorno alle origini (Ecclesiae primitivae forma) e realizzazione dell’autentica vita apostolica (Vita vere apostolica). È, di fronte alla presa di coscienza dei vizi della società cristiana – chierici come laici –, la ripresa del processo di cristia-

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nizzazione. È anche, all’indomani dell’anno Mille, «una nuova primavera del mondo» (Georges Duby). Questo slancio si trasmette all’insieme della società attraverso la mediazione delle istituzioni di pace. La riforma gregoriana rappresenta, in un certo senso, l’istituzionalizzazione di tale slancio e la sua penetrazione nella società cristiana nel corso del XII secolo. Ma la riforma della Chiesa è anche una risposta all’evoluzione del mondo, uno sforzo di adattamento a cambiamenti sopraggiunti dal di fuori. La risposta è, innanzitutto, istituzionale. Investe tre aspetti principali: la fondazione di nuovi ordini religiosi, lo sviluppo del movimento canonicale, l’accettazione della diversità ecclesiale. I nuovi ordini aspirano a un ritorno alla regola originaria di san Benedetto accentuando il lavoro manuale, che ritrova il suo posto accanto all’opus Dei, e la semplicità di vita; ciò si traduce nel rifiuto delle tradizionali forme di ricchezza monastica, come nello stile artistico e architettonico depurato che contrasta con l’esuberanza della scultura, delle miniature e dell’oreficeria del barocco romano. Dei due nuovi ordini più importanti, l’uno, quello certosino fondato da Brunone nel 1084, mira a ritrovare uno stile eremitico primitivo, poi, sotto Guigo II, priore dal 1173 al 1180, un’ascesi attraverso quattro «gradi spirituali»: la lettura, la meditazione, la preghiera e la contemplazione. L’altro ordine, quello di Citeaux fondato da Roberto di Molesne nel 1098 e ispirato da san Bernardo, abate di Chiaravalle dal 1115 al 1153, integra il successo economico alla riforma spirituale. Il «deserto» cistercense si situa nella valle in cui l’ordine costruisce mulini e, facendo ricorso alla meccanizzazione per dedicare più tempo alla vita spirituale, gioca un ruolo nel progresso tecnologico, specialmente nel settore metallurgico. L’ordine si adatta alla nuova economia rurale, in particolare allo sviluppo dell’allevamento da pascolo e della produzione di lana, e diffonde un nuovo tipo di sfruttamento del suolo: la grangia, che ospita bestiame, raccolti, utensili e strumenti di lavoro per i fratelli conversi.

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Se il monachesimo riformato fonda un equilibrio migliore tra lavoro manuale e preghiera, il movimento canonicale stabilisce, per parte sua, un equilibrio nuovo tra vita attiva e vita contemplativa, tra cura animarum e vita comunitaria. Se le regole stabilite nel 1120 a Prémontré, presso Laon, da Norberto di Xanten, si iscrivono in un contesto rurale – incitano a praticare la povertà, il lavoro manuale (gli ordini furono grandi dissodatori) e la predicazione – tuttavia la maggior parte dei canonici del XII secolo furono legati all’ambiente urbano. L’adozione della regola, molto flessibile e aperta, posta sotto il nome di sant’Agostino – concepita proprio in ambito urbano, benché antico, quindi assai differente da quello del XII secolo – permette ai canonici agostiniani di integrare vita comune, ascesi individuale e apostolato parrocchiale. Il Liber de diversis ordinibus et professionibus quae sunt in Ecclesia («Libro dei diversi ordini e delle diverse professioni che esistono nella Chiesa»), scritto tra il 1125 e il 1130 probabilmente da un canonico di Liegi, rimasto incompiuto o giunto a noi in un manoscritto incompleto, prende atto della diversità degli statuti di chierici e religiosi, ammette il pluralismo dell’istituzione ecclesiastica, sull’esempio della dimora divina in cui vi sono case differenti. Definisce tali statuti a seconda del loro rapporto con il mondo, la loro lontananza più o meno grande dagli agglomerati umani: «Alcuni sono interamente in disparte dalle masse [...] altri sono situati accanto agli uomini; altri abitano in mezzo agli uomini». Il mondo dei laici partecipa sempre più alla vita religiosa e, nonostante la persistenza di barriere tra chierici e laici, si afferma la presenza di questi ultimi in campo religioso. Nei nuovi ordini, i fratelli laici o conversi acquistano uno spazio sempre maggiore. Gli ordini militari operano una certa fusione tra il religioso e il guerriero, la vita religiosa e la cavalleria. Si fondano gruppi pietisti, dalla Piccardia alle Fiandre – Begardi e Beghine –, poi attorno alle Alpi, incoraggiati da chierici come il prete Lamberto il Balbo di Lie-

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gi, morto nel 1177, e il celebre predicatore Giacomo di Vitry che scrisse la vita della beghina reclusa Maria d’Oignies prima di diventare vescovo di Acri, quindi cardinale. Verso il 1200, i gruppi di laici religiosi e di mulieres religiosae si moltiplicarono. Già la Pataria milanese e i suoi prolungamenti del XII secolo riunivano chierici e laici avidi di riforma. Un concilio, convocato nell’inverno del 1117 dall’arcivescovo e dai consoli di Milano, riunì su un prato alle porte della città «una enorme moltitudine di chierici e laici che attendevano il seppellimento dei vizi e il risveglio delle virtù». Negli anni attorno al 1140, il canonico regolare Arnaldo da Brescia, che un tempo aveva predicato agli abitanti della sua città natale contro la vita corrotta dei chierici, solleva i laici romani in un movimento di riforma politica e religiosa a un tempo. A questo nuovo mondo la Chiesa si sforza di dare nuove formulazioni dottrinali, nuove pratiche religiose. L’evoluzione più importante riguarda indubbiamente la dottrina del peccato e dei sacramenti. Alcuni teologi, come i maestri della scuola episcopale di Laon, Anselmo e Guglielmo di Champeaux, il parigino Abelardo, benché sovente contrapposti l’uno all’altro, elaborano una dottrina volontaristica del peccato che ne ricerca le origini nella coscienza. L’essenziale ormai è nell’intenzione. Tale ricerca dell’intenzione alimenta una nuova pratica della confessione. L’antica confessione pubblica era caduta in desuetudine e, per quanto se ne può sapere, tra la vecchia pratica e le nuove forme di confessione individuale si era formato un vuoto che i comportamenti penitenziali individuali o collettivi tendevano a colmare. Così, nel XII secolo la tradizionale tendenza penitenziale si orienta, accanto alle manifestazioni collettive, verso la confessione individuale auricolare. Tale evoluzione riceverà una sanzione obbligatoria con il canone Omnis utriusque sexus del quarto concilio lateranense (1215) che esige da tutti i fedeli di ambo i sessi almeno una confessione individuale annuale. Ormai, l’ammissione prende il passo sulla sanzione

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penitenziale e si apre un fronte pionieristico nelle coscienze, quello dell’esame di coscienza. La confessione così rinnovata si situa in una nuova concezione dei sacramenti, organizzata secondo un’articolazione settenaria in un nuovo sistema che comprende anche il settenario dei peccati capitali e quello dei doni dello Spirito Santo. Sarebbe interessante studiare con maggiore attenzione di quanto non sia stato fatto i mutamenti nella gerarchia di questi settenari. È stata evidenziata l’emergenza di vizi: l’avaritia – legata al progresso dell’economia monetaria – rispetto alla superbia, l’orgoglio, vizio per eccellenza della feudalità. Un’evoluzione simile si può notare nel campo delle idee e delle pratiche di giustizia. Qui predomina la ricerca di gradi di punizione proporzionati alla gravità delle colpe e dei crimini, valutati non solo in relazione ai fatti, ma anche in funzione della condizione e delle intenzioni dei peccatori. Infine, un’altra novità capitale: la rivoluzione scolastica. Lo sviluppo urbano sollecita dapprima il rinnovamento di alcune scuole episcopali, a Laon, Reims, Chartres, Parigi. Ma tale rinnovamento non è che un fuoco di paglia e anche le scuole monastiche irradiano il loro ultimo bagliore. Invece, in modo un po’ selvaggio, nascono nuove scuole urbane il cui orientamento è duplice. Da un lato, si impone il fascino della teologia, in un ambiente intellettuale, sociologico e politico che a Parigi è in fermento. Dall’altro, a Bologna vi è la cristallizzazione attorno al diritto, in seno allo sviluppo comunale. A poco tempo di distanza vengono scritte due opere destinate a diventare dei classici: attorno al 1140, il Decretum di Graziano o Concordia discordantium canonum, prima compilazione ragionata allo scopo di armonizzare le decretali, fondamenta del Codice di diritto canonico che si svilupperà nel XIV e XV secolo; quindi, tra 1155 e 1160, i quattro libri delle Sentenze del vescovo di Parigi, l’italiano Pietro Lombardo. In entrambi i casi si tratta di un nuovo ambiente intellettuale, quello dei lavoratori specializzati nella scienza teologica o giuridi-

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ca, e di un nuovo metodo basato sulla discussione e l’argomentazione razionale: la scolastica. Risultato di questa grande mutazione della Chiesa, dopo secoli senza concili generali, è il ritorno in Occidente dei concili «ecumenici»: Laterano I (1123), Laterano II (1139), Laterano III (1179), Laterano IV (1215). Essi rappresentano allo stesso tempo la conclusione della riforma gregoriana e lo sforzo di aggiornamento della Chiesa di fronte a un secolo di grandi cambiamenti. Ma il loro significato è ambiguo, come il trionfo del potere pontificio di cui sono espressione. Assieme all’adattamento al nuovo, organizzano anche il controllo e l’irregimentazione – se non la chiusura – della nuova società. Ma in effetti, nonostante tale sforzo di aggiornamento, la Chiesa all’inizio del XIII secolo resta prigioniera di inerzie vecchie e nuove: è particolarmente in ritardo rispetto all’evoluzione economica e al mondo urbano e resta invischiata nella feudalità rurale. Piuttosto rapidamente, la Chiesa evolve verso nuove strutture paralizzanti: lo slittamento dei nuovi ordini – i Cistercensi in particolare – verso l’arricchimento, lo sfruttamento dei conversi, il ristagno rurale, l’arido formalismo giuridico di un diritto canonico invadente, gli inizi della degenerazione burocratica e autocratica del papato e della curia di Roma. La Chiesa conosce, inoltre, degli scacchi indicativi: quello della crociata, impotente contro i musulmani, sviata dai suoi scopi, come dimostra la deviazione della quarta crociata verso Costantinopoli nel 1204, incapace di suscitare l’entusiasmo di un tempo; e, soprattutto, lo scacco della lotta dell’eresia nel seno stesso della cristianità. Infine, la Chiesa si rivela maldestra, se non incapace, nell’incanalare o addomesticare le sfide della storia: l’aggressione del denaro, le nuove forme di violenza; la contraddittoria aspirazione dei cristiani a un maggior godimento dei beni terreni, da un lato, e, dall’altro, a una resistenza più forte all’accresciuta brama di ricchezza, potenza, possesso.

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Se la scolastica e il diritto canonico nascenti forniscono alla Chiesa gli strumenti per teorizzare le nuove situazioni nel quadro della società cristiana, se le opere divulgative – manuali di confessori, modelli di sermoni, raccolte di exempla – mettono a disposizione dei semplici preti i mezzi per rispondere parzialmente ai nuovi bisogni dei fedeli, tali costruzioni dotte contribuiscono anche ad allargare il fossato culturale tra l’élite ecclesiastica e la massa dei laici, a soffocare, snaturare o recuperare la fioritura di cultura folclorica che si era manifestata nel XIII secolo. La feudalità si era orientata verso la monarchia e la cultura dominante portava l’impronta delle classi laiche dominanti, aristocrazia e cavalleria, il cui sistema di valori cortesi si imponeva alla nuova società, finanche alla società urbana dei comuni italiani. Lo stesso Francesco d’Assisi subirà l’influenza di questa cultura cavalleresca e la sua devozione alla povertà assumerà degli atteggiamenti cortesi. Il suo sogno cavalleresco, incarnato nella visione della casa colma di armi, non scomparirà mai completamente dal suo spirito. Donna Povertà rappresenterà, certo, l’affermazione del rifiuto dei valori economici e sociali della società aristocratico-borghese, ma, attraverso il modello cortese, feudale. L’inglese Gualtiero Map, nel suo De nugis curialum (1192-1193), deplora il coinvolgimento dei chierici nel turbine dei vizi e delle futilità principesche. Sempre alla fine del XII secolo, il vescovo di Parigi, Maurizio di Sully, benché – fatto eccezionale – di modeste origini, ricordava ai contadini in un sermone modello – in latino e in volgare – il dovere religioso del pagamento delle decime alla Chiesa e dei canoni ai signori. Gabriel Le Bras, a proposito del rigoglio ecclesiastico del XII secolo, osserva giustamente: «Per un caso strano, la moltiplicazione della tipologia dei chierici non corrispondeva affatto alle necessità del secolo: corrispondeva a quelle di salvezza (o di fasto) dei ricchi e agli agi (talvolta eccessivi) di canonici e curati».

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Non vi è fallimento più significativo di quello della Chiesa di fine XII secolo nei confronti dei movimenti di laici dichiaratamente eretici o catalogati come tali dalla Chiesa. Il movimento più spettacolare e più drammatico è certamente quello cataro, vera religione diversa dal cristianesimo che sanciva una rigida opposizione tra bene e male, diffusa nella bassa Renania, in alcune regioni della Francia e dell’Impero, dalla Loira alle Alpi, e soprattutto nella Francia meridionale, in Provenza e nell’Italia settentrionale. È il fallimento del clero secolare locale e dei Cistercensi a cui il papato aveva affidato l’organizzazione della predicazione, quindi della crociata. Ne saranno conseguenze la guerra condotta dalla Chiesa nella cristianità, il durevole fossato tra la Francia meridionale e quella settentrionale, la messa in opera dell’Inquisizione – uno dei grandi crimini storici contro l’uomo. Ma, forse, è ancora più significativa l’incomprensione, la paura della Chiesa nei confronti di movimenti di laici religiosi che non professavano alcuna dottrina eretica. Già il canone 26 del Laterano II (1139) aveva vietato le forme di vita religiosa monastiche praticate da pie donne nelle loro abitazioni. I casi dei Valdesi e degli Umiliati sono più gravi. I primo sono dei «poveri» di Lione che, seguendo l’appello e l’incitamento del ricco mercante lionese Valdo, attorno al 1170 si impegnano a dedicare la loro vita alla pietà, anch’essi leggendo la Bibbia in volgare e predicando. Ben presto sciamarono nell’intera Lombardia. Papa Lucio III a Verona nel 1184 scomunicò, allo stesso tempo, Catari, Valdesi e Umiliati. Che cosa gli rimproverava la Chiesa? Essenzialmente di usurpare uno dei monopoli dei chierici, la predicazione. Gualtiero Map, dignitario ecclesiastico (arcidiacono di Oxford), è il primo a indignarsi: «Come le perle ai porci, la Parola sarà data a semplici che sappiamo essere incapaci di riceverla e, ancor più, di dare ciò che hanno ricevuto?». Usurpazione tanto più scandalosa ai suoi occhi in quanto era questione non solo di uomini laici, ma anche di donne.

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Certo, Innocenzo III fece marcia indietro e dal 1196 recuperò una parte degli Umiliati, ma li trasformò in «ordini», dividendoli in tre ordini di cui i primi due raggruppavano veri e propri religiosi obbedienti a una regola, mentre il terzo costituiva ciò che è stato definito «una sorta di terzo ordine ante litteram» che svolgeva una attività artigianale per sovvenire ai propri bisogni e procurarsi di che aiutare i poveri. Allo stesso tempo, Innocenzo III distinse nelle Scritture gli aperta, episodi narrativi e insegnamenti morali accessibili a tutti, dai profonda, passaggi dogmatici la cui comprensione e spiegazione era riservata ai chierici. Vediamo così quali fermenti, quali bisogni, quali rivendicazioni agitassero certi ambienti laici verso il 1200: l’accesso diretto alla Scrittura, senza l’ostacolo del latino e la mediazione del clero, il diritto al ministero della Parola, la pratica della vita evangelica nel secolo, nella famiglia, nel lavoro, nella condizione di laico. Bisogna aggiungervi l’aspirazione all’uguaglianza dei sessi che professavano, alla fine del XII secolo, gli Umiliati della Lombardia, i Penitenti rurali dell’Italia settentrionale, le Beghine e i Begardi dei confini settentrionali della Francia e dell’Impero. Alcuni, come l’abate calabrese Gioacchino da Fiore, vedono come unica speranza l’avvento in terra di una terza età, dopo quelle del Padre e del Figlio, l’età dello Spirito che verrà realizzata da una comunità di «uomini spirituali» – i quali per questo dovranno forse ricorrere a «una opera attiva o anche rivoluzionaria». È in tale contesto che Francesco d’Assisi compie vent’anni, nel 1201 o 1202. Il suo successo deriverà dal fatto che risponderà all’attesa di gran parte dei suoi contemporanei, sia in ciò che accettano sia in ciò che rifiutano. Francesco è figlio della città, figlio di un mercante, il territorio urbano è il suo primo terreno di apostolato, ma vuole dare alla città il senso della povertà di fronte al denaro e ai ricchi, la pace invece delle lotte interne che ha conosciuto ad Assisi, tra Assisi e Perugia. Ritrovando, in un nuovo contesto, lo spirito di san Martino che andava a ritemprarsi nella solitudine del

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monastero di Marmoutier abbandonando provvisoriamente la sua sede episcopale di Tours, egli ricerca l’alternanza tra attività urbana e ritiro eremitico, il grande respiro tra apostolato in mezzo agli uomini e rigenerazione nella, e attraverso, la solitudine. A questa società che si insedia, si installa, propone la via, il pellegrinaggio. Laico in un’epoca che ha visto la canonizzazione (1199) da parte del nuovo papa Innocenzo di un mercante laico, Omobono da Cremona, Francesco vuole mostrare che i laici sono degni e capaci di condurre, come i chierici, con i chierici, una vita autenticamente apostolica. E se, nonostante gli strappi e gli scontri, resta fedele alla Chiesa, per umiltà, per venerazione dei sacramenti la cui amministrazione richiede un corpo di ministri differenti e rispettati; tuttavia rifiuta significativamente, tra i suoi fratelli e per quanto possibile nel suo ordine nascente, la gerarchia e la prelatura. In questo mondo in cui la famiglia coniugale e agnatizia ristretta fa la sua comparsa, ma in cui l’antifemminismo rimane fondamentale e in cui regna una grande indifferenza nei confronti del bambino, egli manifesta, attraverso i suo legami con qualche donna vicina e innanzitutto santa Chiara, attraverso la sua esaltazione di Gesù bambino nel presepe di Greccio, la sua attenzione fraterna alla donna e al bambino. Lungi dalle gerarchie, dalle categorie, dalle rigide classificazioni, propone a tutti un unico modello, il Cristo, un unico programma, «seguire nudo il Cristo nudo». In un mondo che diventa quello dell’esclusione – sancita dalla legislazione dei concili, dai decreti del diritto canonico – e in particolare di quella degli ebrei, dei lebbrosi, degli eretici, degli omosessuali, dove la scolastica esalta la natura astratta e ignora del tutto, salvo eccezioni, l’universo concreto, Francesco proclama, senza il minimo sentore di panteismo, la presenza divina in tutte le creature. Tra il mondo monastico intriso di lacrime e la massa degli incoscienti immersi in una illusoria gaiezza, propone il volto gioioso, ridente, di colui che sa che Dio è gioia.

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Francesco è il contemporaneo dei sorrisi gotici. E appartiene al suo tempo nelle sue esitazioni e le sue ambiguità, come nelle sue aperture e nei suoi rifiuti. Un’esitazione principale: in cosa consiste l’ideale migliore della vita umile? Nel lavoro o nella mendicità? Come si colloca la povertà volontaria in relazione alla povertà subita? Tra le due, qual è la «vera» povertà? Come deve vivere l’apostolo, il penitente, nella società? Che valore ha il lavoro? Un’ambiguità essenziale: quali sono i rapporti tra povertà e scienza? La scienza non è forse una ricchezza, una fonte di dominio e di disuguaglianza? I libri non sono forse uno di quei beni temporali che bisogna rifiutare? Di fronte allo sviluppo intellettuale, al movimento universitario che ben presto assorbirà i leader francescani, Francesco esita. Più in generale, ci si può chiedere se, quando muore, Francesco pensa di aver fondato l’ultima comunità monastica o la prima fraternita moderna.

II ALLA RICERCA DEL VERO SAN FRANCESCO In cerca del vero san Francesco Nulla di più facile a priori che presentare san Francesco d’Assisi. Egli ha lasciato parecchi scritti che ci informano della sua sensibilità, delle sue intenzioni, delle sue idee. Amico della semplicità nelle opere come nella vita e nel suo ideale, volutamente ignaro delle sottigliezze scolastiche, egli non ha avviluppato il suo pensiero e i suoi sfoghi letterari di un vocabolario o uno stile dotti o oscuri che richiedessero un grosso sforzo di delucidazione o d’interpretazione. Nuovo tipo di santo, la cui santità si è rivelata più che attraverso i miracoli – seppur numerosi – e lo sfoggio di virtù – peraltro rare e splendide – nell’arco intero di una vita affatto esemplare, ebbe, nel suo stesso ambiente, numerosi biografi non solo documentati ma altresì preoccupati di dipingerlo in quella verità, quella semplicità, quella sincerità che da lui sempre naturalmente raggiarono. Amico e fratello di tutte le creature e di tutto il creato, egli ha riposto tanta sollecitudine, fraterna comprensione in tutti, tanta carità nel senso più elevato del termine, cioè amore, che la storia lo ha come ricambiato di una identica simpatia e ammirazione affettuosa e generale. Tutti coloro che di lui hanno parlato o scritto – cattolici, protestanti, non cristiani, miscredenti – tutti sono stati toccati e spesso incantati dal suo fascino.

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La geografia e la storia gli hanno anche fornito naturalmente lo sfondo, l’ambiente intimo che fanno apparire con forte evidenza i profondi legami che lo univano al suo paese: alla sua città, posta al margine delle strade, al punto di incontro della pianura e della montagna, a portata degli uomini e vicina agli eremi; alla sua Umbria propizia ai cammini per monti e per valli, piena di silenzio e di rumore, di luce e di ombra, agricola e commerciale, brulicante di un popolo semplice e profondo, tranquillo e appassionato, ardente nell’intimo, ma talora preda di brusche infiammate, in armonia con gli alberi, la terra, le rocce, i fiumi sinuosi, popolata da un mondo di animali nobili e familiari – le pecore, i buoi, gli uccelli, tra i quali si distinguono le colombe, le cornacchie e le gracchie cui egli predicò, il falco, il fagiano, le api operose e l’umile cicala che veniva a cantare sulla sua mano; all’Italia divisa tra papa e imperatore, città levate l’una contro l’altra, nobiltà e popolo, tradizioni rurali e progresso di un’economia sempre più penetrata dal denaro, e che lo univano anche alla sua epoca, questo tempo urbano, dall’inquietudine eretica, dall’entusiasmo – pronto a infrangersi – per la crociata, dalla poesia cortese anch’essa divisa tra la brutalità delle passioni e la raffinatezza dei sentimenti. Sembra facile inquadrarlo! E in questo sfondo luminoso, lo storico si vede offerto un altro inestimabile dono: la poesia che emana da san Francesco, la leggenda ispirata a lui, sin da quando era in vita, fanno talmente parte del suo personaggio, della sua vita, della sua azione che in lui poesia e verità si confondono. Già un secolo fa Ernest Renan si stupiva «che la sua meravigliosa leggenda potesse essere studiata da molto vicino e confermata nelle grandi linee dalla critica». E tuttavia... il semplice, limpido san Francesco, oggetto di tanti racconti e ritratti, si cala dietro una delle questioni più intricate della storiografia medievale. E, paradossalmente, si è obbligati ad affrontare quest’uomo, che tanto diffidava dei libri dotti e dell’erudizione, con un cenno almeno alle ragioni che rendono così difficile l’esplorazione delle fonti.

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San Francesco nei suoi scritti La prima difficoltà procede dagli scritti stessi di Francesco. Anzitutto il santo, nella sua umiltà, non ha mai parlato di sé. Non dobbiamo dunque aspettarci dalla sua opera alcun ragguaglio preciso sulla sua vita. Non vi si trovano che allusioni ad alcuni comportamenti che propone per esempio ai suoi fratelli. Così nel Testamento, il più «autobiografico» dei suoi scritti, ricorda che ha sempre cercato di lavorare con le sue mani perché gli altri frati facciano altrettanto: «E io con le mie mani lavoravo, come voglio lavorare; e voglio che lavorino tutti gli altri frati, di onesto lavoro». D’altra parte, uno almeno dei suoi scritti più importanti, la prima regola che egli scrisse nel 1209 o 1210 per i suoi compagni, è andata perduta. Sappiamo, soprattutto da Francesco stesso e da san Bonaventura, che essa era breve e semplice e si componeva essenzialmente di alcuni passi del Vangelo. Ma i tentativi di certi storici di ricostruirla permangono troppo azzardati ed è impossibile appoggiarsi su questo documento fondamentale per decidere se, a quest’epoca, Francesco avesse già accolto l’idea di fare di sé e dei suoi seguaci un nuovo «ordine» integrato nella Chiesa o non pensasse che alla formazione di un piccolo gruppo di laici, indipendente dall’organismo ecclesiastico. Egualmente perduti – salvo scoperte improbabili, dato lo zelo con cui gli eruditi «francescanizzanti» hanno dato fondo a biblioteche e archivi – sono lettere, poemi e cantici. Di questi poemi noi abbiamo conservato quello che era probabilmente il capolavoro, il Cantico di frate Sole, ma se avessimo conservato gli altri, parte in latino, parte in italiano, altri ancora forse in francese, avremmo un’immagine più completa di san Francesco poeta – momento essenziale della sua personalità. Queste perdite si accompagnano a incertezze sull’autenticità di alcuni degli scritti già trasmessi sotto il nome di Francesco. Questi dubbi non concernono che testi considerati in generale come secondari, ma per alcuni di essi la

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posta della discussione è priva di importanza per la conoscenza del pensiero del santo. Così la lettera indirizzata «a tutti i podestà, a tutti i consoli, giudici e rettori nel mondo intero come a tutti gli altri a cui il documento può pervenire» e nota sotto il nome di Lettera ai reggitori dei popoli, non può essere attribuita a san Francesco che in ragione del suo contenuto. Nessuna prova esterna consente di affermarne l’autenticità. Ora, se le raccomandazioni in essa contenute possono corrispondere alle intenzioni, peraltro conosciute, del santo, se l’appello ai governanti di rispettare e far rispettare i comandamenti di Dio sembra convenire a un’epoca in cui la cristianità abbracciava insieme potere temporale e potere spirituale e a un uomo che si preoccupò sempre di ristabilire la concordia, la pace, l’amore nelle comunità civili e di contribuire alla salute delle collettività come a quella degli individui, la lettera presenta altresì aspetti sconcertanti. L’insistente allusione all’approssimarsi della fine del mondo richiama più le idee apocalittiche di certi ambienti francescani del XIII secolo che la posizione propria di san Francesco che, se ha fatto più volte menzione dell’importanza della preparazione al giudizio finale nella vita dei cristiani e dei chierici, non sembra aver creduto all’imminenza storica di questo evento. Ancora, questo gesto spettacolare suffragherebbe un francescanesimo propriamente «politico», cui si ispirerebbero volentieri certi tribuni contemporanei, ma che va oltre il pensiero e l’azione più discreti e più profondi di Francesco. Si tende oggi a considerare autentica la Lettera a frate Antonio di Padova, ma la sua forma resta dubbia e l’approvazione che Francesco, in contraddizione con la sua abituale diffidenza verso la scienza, vi tributa all’insegnamento scolastico della teologia, permane sconcertante. Infine, se l’interpretazione dei testi autentici di san Francesco lascia scarse possibilità a divergenze gravi, data la semplicità e la chiarezza del linguaggio e lo stile del loro autore, lo stesso non si può dire per quanto riguarda le circostanze

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della loro composizione. In quale misura, per esempio, intervennero pressioni esterne a far sì che il santo apportasse modifiche alla regola del 1221, che né il papa né una parte dei Minori approvarono? Recentemente si è creduto – a mio avviso senza serio fondamento – di poter attenuare la portata del Testamento nella pretesa che san Francesco, prostrato dalla malattia, abbia dettato il testo sotto l’influenza dei frati minori del convento di Siena, che l’avevano ospitato, e che il rigorismo di questo scritto rifletta più la posizione «estremista» di quei frati che quella del santo. Così, attraverso l’abbozzo sommario dei problemi posti dalle opere di Francesco, si coglie la fonte principale delle difficoltà della storiografia francescana: l’esistenza durante la sua vita, di due tendenze all’interno dell’ordine, l’una e l’altra tese ad attrarre a sé il fondatore e a interpretarne nel proprio senso le parole e gli scritti. Tra i rigoristi – che esigevano dai Minori la pratica di una totale povertà, collettiva e individuale, il rifiuto, nelle chiese, nei conventi, nella liturgia degli uffici dell’ordine, di ogni apparato, il distacco nei confronti della curia romana, sospetta di venire troppo facilmente a patti con il secolo –, e i moderati – convinti della necessità di adattare l’ideale della povertà all’evoluzione di un ordine vieppiù numeroso, di non respingere con il rifiuto di ogni piacere esteriore le folle che sempre più si rivolgevano ai Minori, di considerare la Santa Sede come la fonte autentica della verità e dell’autorità in una Chiesa di cui l’ordine era parte integrante – dove collocare il vero Francesco? Il problema delle biografie La risposta va cercata integrando la lettura delle opere del santo con l’esame della sua vita. Ma qui la difficoltà è maggiore. I dissensi all’interno dell’ordine dei Minori nel XIII secolo hanno in effetti avuto per risultato di privarci di fon-

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ti pienamente attendibili sulla vita del fondatore. Tali dissensi tra i frati minori risalgono alla vita di Francesco: essi lo costrinsero a far ritorno dalla Terra Santa nel 1220, a redigere nel 1221 una nuova regola che doveva tosto modificare, ad abbandonare fin dal 1220 la direzione dell’ordine a Pietro Cattani, quindi, dopo la morte di questi nel 1221, a frate Elia. Essi contribuirono al suo ritiro alla Verna nel 1224. Le divisioni dell’ordine si acuirono dopo la morte di Francesco, tanto più che frate Elia, che lo resse fino al 1239 – nonostante avesse ceduto il ministeriato generale a Giovanni Parenti dal 1227 al 1232 –, lo indirizzò decisamente sulla via dell’apparato, di cui è simbolo l’erezione della sontuosa basilica di San Francesco d’Assisi, esasperando così i partigiani dell’austerità. Nella seconda metà del secolo i contrasti – malgrado gli interventi pontifici e talora a causa di essi – si radicalizzarono e le due tendenze si costituirono in vere e proprie fazioni avverse. I conventuali accettarono di seguire la regola interpretata e integrata dalle bolle pontificie che mitigavano la pratica della povertà, mentre i loro avversari – generalmente chiamati spirituali (soprattutto in Provenza) o fraticelli (principalmente in Italia) –, sempre più impregnati di idee millenariste risalenti a Gioacchino da Fiore, accentuando il rigorismo e l’ostilità verso Roma, si trovarono ridotti a posizioni eretiche. La grande speranza che fece nascere in loro l’elezione al trono papale, nel 1294, dell’eremita Pietro di Morrone, si spegneva tosto giacché, in capo a sei mesi, Celestino V era costretto al «gran rifiuto», a rinunciare alla tiara. Benché gruppi di spirituali siano sopravvissuti fino alla fine del XV secolo (fraticelli irriducibili o minori rigoristi poi detti osservanti), si può considerare chiusa la disputa francescana nel 1322 con la bolla Cum inter nonnullos di papa Giovanni XXII, che la risolveva nel senso più contrario alla povertà assoluta e agli orientamenti degli spirituali. Ma per le fonti della storia di san Francesco d’Assisi l’episodio decisivo di questa lotta ebbe luogo nel 1260-1266.

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C’erano sempre stati, nell’ordine, partigiani del giusto mezzo desiderosi di imporre alle due fazioni estreme un compromesso. Essi pensavano come Dante della famiglia di san Francesco: La sua famiglia, che si mosse dritta coi piedi a le sue orme, è tanto volta, che quel dinanzi a quel di retro gitta. E tosto si vedrà de la ricolta de la mala coltura, quando il loglio si lagnerà che l’arca li sia tolta. Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio nostro volume, ancor troveria carta u’ leggerebbe «I’ mi son quel ch’i’ soglio», ma non fia da Casal né d’Acquasparta, là onde vegnon tali a la scrittura, ch’uno la fugge, e altro la coarta.

Quegli cui Dante fa dire queste parole è proprio san Bonaventura che, eletto nel 1257 al ministeriato generale dai moderati per ristabilire l’unità dell’ordine, doveva far adottare una misura gravida di conseguenze per la storiografia di san Francesco. I Francescani dell’una e dell’altra tendenza avevano moltiplicato le biografie del santo attribuendogli discorsi e atteggiamenti conformi alle loro posizioni. Non si sapeva più a quale Francesco votarsi. Il capitolo generale del 1260 affidò a san Bonaventura il compito di descrivere la vita ufficiale di san Francesco che l’ordine avrebbe d’ora in poi considerato corrispondente al vero Francesco. Questa vita o Legenda (detta Legenda maior per distinguerla da una Legenda minor, compendiata sotto forma di lezioni liturgiche ad uso del coro da parte dello stesso Bonaventura) fu approvata dal capitolo generale del 1263, e quello del 1266, per troncare le controversie, decise di proibire ai frati di legge-

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re d’ora innanzi qualsiasi altra Vita (di san Francesco) e ordinò loro di distruggere ogni precedente scritto su Francesco. Stupefacente decisione dettata sicuramente dal desiderio di metter fine alle divisioni interne, facilitata da una certa insensibilità dell’epoca per l’obiettività scientifica, ma che rivela un disprezzo dell’autenticità tanto più curioso se si pensa che san Francesco aveva proclamato tutt’altro rispetto per la lettera e lo spirito dei testi autentici, e che nel suo Testamento aveva dichiarato: «Il ministro generale e tutti gli altri ministri e custodi per obbedienza siano tenuti a non aggiungere e a non togliere nulla a queste parole. Anzi abbiano sempre con sé questo scritto insieme con la regola, leggano anche queste parole». Vero è che dal 1230 il papa Gregorio IX, con la bolla Quo elongati, aveva permesso ai frati minori di non tener conto di questo passaggio del Testamento di san Francesco. Se si poteva passare sopra alle parole del santo, a maggior ragione lo si poteva fare per quelle dei suoi biografi. Malauguratamente per gli storici, i Francescani obbedirono all’ordine del 1266 al punto che la ricerca dei manoscritti non distrutti si rivelò infruttuosa. Ma qui si può ancora sperare nelle scoperte. Dopo la pubblicazione da parte dei bollandisti nel 1768 della Legenda detta dei tre compagni e della prima biografia, la Vita prima di Tommaso da Celano, si è potuto fino a oggi ritrovare una serie di manoscritti che ovviano – in parte – alle catastrofiche conseguenze dell’autodafé del 1266. Un altro inconveniente è che la Legenda di san Bonaventura è pressoché inutilizzabile come fonte della vita di san Francesco, e in ogni modo deve essere controllata su documenti più sicuri. Infatti, tutto preso dal suo compito di pacificatore, san Bonaventura, malgrado abbia nutrito una profonda venerazione per san Francesco e abbia attinto a fonti anteriori autentiche, ha realizzato un’opera ignara delle esigenze della scienza storica moderna, tendenziosa e fantastica. Fantastica, giacché combinava elementi talora con-

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traddittori attinti a fonti diverse senza alcun discernimento critico. Tendenziosa, poiché passava sotto silenzio tutto ciò che avrebbe dimostrato che l’ordine francescano si era allontanato da alcuni intendimenti di san Francesco e talora su punti essenziali: la scienza e l’insegnamento, il lavoro manuale, la frequentazione dei lebbrosi, la povertà delle chiese e dei conventi. In realtà il san Francesco del giusto mezzo che ne risulta è più vicino a quello dei conventuali che a quello degli spirituali. Fino alla fine del XIX secolo sarà proprio questo san Francesco corretto, mutilato ed edulcorato da Bonaventura, reso ancor più insipido dal ricorso a una mediocre opera di devozione di Bartolomeo di Pisa, scritta nella prima metà del XIV secolo e approvata dal capitolo generale del 1399, a essere considerato autentico. Le esigenze della critica storica moderna condussero, alla fine del XIX secolo, a una revisione del san Francesco tradizionale. Si possono considerare come preludio di tale revisione la celebrazione del settimo centenario della nascita di Francesco nel 1882 e la pubblicazione nella medesima occasione dell’enciclica Auspicato concessum di Leone XIII. Ma l’effettivo punto di partenza della ricerca intorno al vero san Francesco fu dato dall’opera fondamentale del protestante Paul Sabatier, apparsa nel 1894. Da questo momento, la storiografia francescana si è sviluppata e altresì complicata, tanto che non possiamo darne qui che un riassunto molto schematico. I dati essenziali della vita di san Francesco gravitano attorno a due personaggi, rappresentanti l’uno i Francescani moderati, l’altro i Francescani rigoristi. Occorre notare che si sono ritrovati con maggior facilità i manoscritti del gruppo moderato che quelli della fazione avversa, sicché ciò che oggi costituisce la questione delle fonti francescane è soprattutto la critica delle fonti della tendenza «spirituale». Le opere del primo gruppo non sono oggetto di facile interpretazione. Esse fanno tutte capo al francescano Tommaso

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da Celano, che le compose su richiesta di alte personalità ecclesiastiche. Rinomato per l’eleganza dello stile, scrisse dapprima, in seguito alla sollecitazione di Gregorio IX, una biografia di san Francesco, la Vita prima compiuta nel 1228. Questa Vita, molto documentata, passa sotto silenzio ogni traccia di contrasti sorti sia all’interno dell’ordine sia fra l’ordine e la curia romana, mette in buona luce frate Elia, allora potentissimo, e si ispira ai modelli agiografici tradizionali: la Vita di san Martino di Tours di Sulpicio Severo e la Vita di san Benedetto di Gregorio Magno. Verso il 1230 Tommaso da Celano redasse un riassunto per il mattutino, la Legenda chori. Nel 1224 Crescenzio da Jesi, generale dell’ordine, domandò a Tommaso da Celano di integrare la Vita prima con un’altra biografia che fornisse nuovi elementi ai frati che non avevano conosciuto san Francesco, e chiese a tutti coloro che potevano essere d’aiuto a Tommaso di scrivere a suo uso i loro ricordi sul santo. Così la Vita secunda pone parecchi importanti problemi: quali sono i suoi rapporti e le sue differenze rispetto alla Vita prima? In qual misura essa traduce gli apporti dei compilatori di memorie che fornirono la documentazione a Tommaso da Celano? Fino a che punto risente dell’abbellimento del ricordo? Tra coloro che aiutarono Tommaso da Celano nella sua opera c’erano tre frati che avevano conosciuto molto bene il santo: Rufino, Angelo e Leone, quest’ultimo personaggio centrale dell’altro gruppo di biografi di san Francesco. Questa collaborazione, peraltro difficile da precisarsi, complica ulteriormente il problema della Vita secunda. Nella lettera che avevano indirizzato nel 1246 a Tommaso, inviandogli la loro Legenda, i tre compagni affermavano: «anziché riferire miracoli che in verità non costituiscono la santità ma soltanto la manifestano, abbiamo piuttosto badato a far conoscere la vita edificante e le vere intenzioni del nostro beatissimo Padre». Questa concezione nuova, «progressista», della santità non soddisfaceva i bisogni delle folle abituate a essere appagate con i miracoli. Per rispondere

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a questo bisogno tradizionale, Tommaso da Celano dovette, su richiesta del nuovo generale dell’ordine, Giovanni da Parma, redigere nel 1253 un Trattato sui miracoli di san Francesco. Benché si tratti soprattutto di miracoli compiuti dal santo dopo la morte e il Trattato sia così un complemento delle due Vite, esso non è però un passo indietro della biografia spirituale di san Francesco. Di contro a questo insieme coerente, saldo, esattamente datato, degli scritti di Tommaso da Celano, il gruppo avverso dei biografi di Francesco presenta numerose lacune, grandi incertezze. Il personaggio centrale, sia come informatore sia come autore, è frate Leone, confessore di san Francesco e dunque particolarmente in grado di conoscere la vita interiore del santo. Ma nessuna delle opere che la critica gli attribuisce ha carattere di sicura autenticità. La Leggenda dei tre compagni (Legenda trium sociorum) da noi posseduta non è probabilmente l’originale indirizzato a Tommaso da Celano, ma verosimilmente una compilazione del principio del XIV secolo che attingeva insieme alla Vita secunda di Tommaso, a fonti autenticamente leonine non utilizzate da Tommaso, e forse, tra queste, al testo originale di frate Leone. Lo Speculum perfectionis o Specchio della perfezione del frate minore non dovette essere opera autentica di frate Leone, ma composta dopo la sua morte, mediante una trascrizione diretta di racconti e scritti di Leone. Il Manoscritto Philipps è un’antica versione degli Actus beati Francisci et sociorum eius (Atti di san Francesco e dei suoi compagni), compilazione del XIV secolo vicina ai Fioretti. Questo manoscritto include probabilmente paragrafi riproducenti un testo originale di frate Leone. Infine, di questi testi il più prezioso è forse la Legenda antiqua, edita nel 1926, che sembra essere il più autentico dei testi attribuiti a frate Leone, ma pone problemi non ancora risolti. Dunque l’utilizzazione di questo gruppo di testi presenta numerose difficoltà. Se, di contro al san Francesco «ufficiale», esso sembra presentare un san Francesco più intran-

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sigente, meno di maniera, più vero, non bisogna dimenticare che deforma altresì probabilmente il santo in senso opposto. E lo storico, cui piacerebbe molto controbilanciare la versione «riveduta e corretta» di san Francesco con quella di frate Leone, è costretto a riconoscere che l’autodafé del 1266 è riuscito fino a nuovo ordine a privarlo di testi di cui servirsi in tutta sicurezza. Tra gli altri testi che forniscono dati biografici su san Francesco, bisogna riservare un posto a parte a due opere di carattere più leggendario che storico, ma che hanno avuto una parte di primo piano nella mitologia francescana. La prima, il Sacrum Commercium beati Francisci cum domina Paupertate (Le sacre nozze del beato Francesco con madonna Povertà), piccola epopea composta nel 1227, esprime un tema nato senza dubbio durante la vita del santo e destinato a una grande fortuna. La seconda, i Fioretti, è una compilazione in italiano che raccoglie, circa un secolo dopo la morte di Francesco, brevi racconti edificanti, gli uni tradotti da diversi opuscoli latini di devozione, gli altri illustranti con esempi aneddotici le massime dello Speculum perfectionis. Quest’opera molto popolare, dopo aver subito un tentativo di svalutazione da parte della critica moderna, ritrova oggi un certo credito. Essa appare più vicina alle fonti autentiche di quanto non si sia pensato, porta il segno profondo dell’influenza degli spirituali e ristabilisce un certo equilibrio rotto in favore del san Francesco ufficiale, rivela infine che san Francesco ha ispirato ben presto una letteratura ove leggenda e storia, realtà e finzione, poesia e verità sono intimamente legate. Vita di san Francesco Quando Francesco Bernardone nacque, nel 1181 o 1182 ad Assisi, la madre, in assenza del padre, mercante di stoffe in viaggio d’affari in Francia, lo fece battezzare con il nome

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di Giovanni Battista, il santo del deserto, della predicazione e dell’annunciazione, cui Francesco portò sempre una devozione particolare. Quando e perché il nome di Francesco, allora «singolare e inconsueto», sostituisse quello di Giovanni, non si sa. Tre le principali ipotesi che sono state avanzate: il cambiamento del nome da parte del padre al suo ritorno dal paese di cui avrebbe dato il nome al neonato; l’omaggio reso più tardi alla madre che sarebbe stata francese – ciò che non è del tutto provato –; la persistenza d’un soprannome che gli sarebbe stato dato in giovinezza a causa del suo entusiasmo per la lingua francese. Quest’ultima sembra l’ipotesi più verosimile: il francese, che Francesco aveva appreso prima della conversione, in quanto lingua per eccellenza della poesia e dei sentimenti cavallereschi, continuò a essere la lingua delle sue intime effusioni. «Quando era pieno dell’ardore dello Spirito Santo», dice Tommaso da Celano, «egli parlava a voce alta in francese». Cantava nei boschi in francese, mendicò un giorno in francese dell’olio per la luminaria di San Damiano che andava ripristinando. Il francese lo riempiva di ebbrezza e di giubilo. Nel 1217, Francesco volle partire come missionario per quella Francia che presentiva recettiva alla sua predicazione e di cui ammirava la devozione eucaristica al punto da volervi morire a causa di questa venerazione per il santo sacramento. In ogni caso non è vano notare che in un tempo in cui i nomi avevano un significato profondo – carico di senso simbolico – il solo fatto di accettare e di divulgare un nome insolito manifestava la volontà di innovazione di Francesco. Ma il giovane Francesco Bernardone non lasciava presagire la sua futura vocazione. Tommaso da Celano ha mosso ai suoi genitori l’accusa di averlo educato in modo deplorevole e ha dipinto a fosche tinte il quadro della sua adolescenza depravata. Luogo comune di agiografia. A cosa dedicava il suo tempo? Ai divertimenti del suo ambiente, niente di più: ai giochi, all’ozio, alle chiacchiere, alle canzoni, alla moda del vestire. Cercava forse di eclissare i suoi

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compagni, di essere il primo in quella che con molta esagerazione è stata definita la jeunesse dorée di Assisi. Il tratto più interessante sta in ciò, che questo figlio di mercante, per un riflesso naturale alla giovane generazione del suo gruppo sociale, cercava di condurre un tenore di vita cavalleresca, di imitare il comportamento dei nobili più che praticare le virtù e i difetti della borghesia mercantile. Se era infatti «abile in affari» era soprattutto un «gran scialacquatore». La liberalità, ecco ciò che lo accomunava ai nobili. Tommaso da Celano, che lo definisce «molto ricco», riconosce peraltro che la fortuna di cui disponeva grazie a suo padre era inferiore alla ricchezza della maggioranza dei giovani nobili: «più povero in beni, era più generoso nel dare». Poi la cultura: grande ammiratore della poesia cortese, si fa tra i compagni autore di canzoni e giullare. Infine il genere di vita: ciò che l’attira è la guerra, il mestiere delle armi. Non sono le occasioni che gli mancano. Ad Assisi innanzitutto, dove una duplice lotta si svolgeva: tra i partigiani del papa e quelli dell’imperatore – egualmente desiderosi di disporre della piazzaforte ben situata e della sua formidabile fortezza, la Rocca; tra la nobiltà e il popolo, cioè tra le vecchie famiglie feudali e la nuova borghesia mercantile appoggiantesi al popolo minuto per costruire un comune che assicurasse alla città l’indipendenza di fronte allo straniero – tedesco o pontificio – e all’aristocrazia feudale. Questo partito «popolare» sembra avere il sopravvento. Nel 1200 il popolo di Assisi caccia la guarnigione tedesca dalla Rocca, rifiuta di consegnare la fortezza ai legati papali e per maggior sicurezza la distrugge, abbatte o incendia i palazzi dei nobili all’interno della città e i loro castelli nei dintorni, ne uccide una parte e costringe l’altra all’esilio, si protegge infine cintando la città di bastioni eretti in tutta fretta. È più che probabile che Francesco Bernardone abbia partecipato a queste lotte. Si è anche supposto che, appunto lavorando alla costruzione dei bastioni, egli si sia iniziato a quel lavoro edilizio che praticherà più tardi come

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costruttore e ripristinatore di cappelle e chiese, a cominciare da San Damiano. Certo è che un episodio di queste lotte finì male per Francesco Bernardone. Le famiglie nobili cacciate da Assisi – come quella della futura santa Chiara, la famiglia Offreduccio da Corano – si rifugiarono nella antica rivale di Assisi, Perugia. I perugini, per ristabilirle nei loro beni e nel loro stato, dichiararono guerra al popolo di Assisi: Francesco, che partecipò alla battaglia che le due città ingaggiarono nel 1202 a Ponte San Giovanni sul Tevere, fu fatto prigioniero dai perugini e restò più di un anno in carcere a Perugia. Particolare caratteristico: «siccome viveva alla maniera dei nobili, fu imprigionato con i cavalieri». Liberato nel novembre del 1203, non fu distolto dal desiderio della gloria militare né da questa triste esperienza né da una lunga malattia che lo immobilizzò gran parte dell’anno 1204. Nel 1205 decise di accompagnare in Puglia un nobile di Assisi che andava a prestar servizio nelle armate pontificie contro le truppe imperiali. Un sogno sembra confermarlo in questa intenzione. Vede tutta la sua casa piena di divise militari e di armi. Sogno di nobile, non di mercante, nota con qualche malizia Tommaso da Celano: «non gli era abituale vedere simili oggetti in casa sua, ma piuttosto mucchi di stoffe da vendere». Egli interpreta questa visione come l’annuncio di futuri successi militari in Puglia. Non comprende ancora che la visione è simbolica, che sarà chiamato ad altri cimenti, a usare altre armi, quelle spirituali. Infatti sulla strada della Puglia, a Spoleto, un’altra visione lo arresta. Non andrà in Puglia, non sarà un glorioso soldato. La conversione è in cammino. La conversione La conversione di san Francesco, secondo Tommaso da Celano, presenta delle incoerenze accentuate dalla differen-

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za di tono tra la Vita prima e la Vita secunda. Si è tentato di risolvere queste difficoltà supponendo che Tommaso abbia avuto a sua disposizione fonti disparate e abbia tentato di armonizzarle senza grande successo e interpretando i due testi a livelli differenti ma non contraddittori. La conversione sarebbe presentata nella Vita prima in una prospettiva «spirituale» o psicologica e nella Vita secunda in una prospettiva «religiosa» o mistica. Non basta riconoscere che un fenomeno di conversione è difficile da analizzare e che ciò che più importa per lo storico è di attenersi ai temi, agli episodi che ne hanno segnato le tappe e di sceverarne l’importanza storica? È significativo che, malgrado il carattere di illuminazione subitanea, di brusco mutamento che sempre riveste una conversione in un racconto agiografico, quella di san Francesco, secondo Tommaso, si svolge per quattro o cinque anni e segue un itinerario che passa attraverso episodi molteplici. Primo episodio: la scossa iniziale si verifica durante una malattia. Sulla natura di tale malattia, che durò dei mesi, non sappiamo nulla, ma da questo momento essa segna un tratto essenziale della personalità fisica e spirituale di Francesco. È un uomo malato; soffrirà fino alla morte di due mali: agli occhi da un lato, di affezioni del sistema digestivo, stomaco, milza, fegato dall’altro. I viaggi, le prediche, le fatiche, le pratiche ascetiche aggraveranno il suo cattivo stato di salute. Ma Francesco non ha cercato sistematicamente di umiliare il corpo. Il suo atteggiamento nei suoi confronti è ambiguo o meglio ambivalente. Il corpo è la fonte e lo strumento del peccato. Dunque, sotto questo aspetto è il nemico stesso dell’uomo: «vi sono molti, i quali quando fan peccato o ricevono alcun torto, spesso incolpano il nemico o il prossimo. Ma non è così: poiché ognuno ha in suo potere il nemico, cioè il corpo, per mezzo del quale pecca» (Ammonizioni, 10). Ma esso è anche l’immagine materiale di Dio e più in particolare del Cristo: «Considera, uomo, in quale stato eccellente ti ha messo il Signore, poiché ti ha

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creato e formato a immagine del suo Figliuolo diletto secondo il corpo, e a sua somiglianza secondo lo spirito» (Ammonizioni, 5). Quindi bisogna mortificare il corpo ma per porlo, come l’anima, a servizio dell’amore di Dio. Il corpo è in definitiva, come tutte le creature, «frate corpo», e «nostre sorelle, le malattie» sono occasioni indispensabili di salute. Ma non bisogna compiacersene tanto da divenirne schiavi se esse rendono il corpo inutilizzabile al fine della salvezza e dell’amore. Certo Francesco non ha una spiccata simpatia per i medici ai quali preferisce il solo vero medico, il Cristo, ma cede volentieri e umilmente a frate Elia che lo persuade, allorché la malattia agli occhi lo rende quasi cieco, a consultare i medici del papa, citandogli le parole dell’Ecclesiaste 38,4: «Altissimus de terra creavit medicinam et vir prudens non abhorrebit eam» («l’Altissimo ha creato la medicina dalla terra e il saggio non la disprezzerà»). Così durante il suo soggiorno a Rieti, affidato alle cure dei medici pontifici, domanda a un suo compagno: «Vorrei che tu in segreto ti facessi dare in prestito una cetra, la portassi qui, e così con qualche onesto suono daresti un po’ di sollievo al mio frate corpo pieno di dolori». Il frate teme ciò che se ne potrà dire, e a lui Francesco dice: «Allora, fratello, non pensiamoci più! È bene rinunciare a molte cose, per non offendere l’opinione comune». Ma nella notte un angelo verrà, con la cetra, a sostituire al capezzale del malato il frate troppo timorato. Così, radicata nel dolore fisico che comincia a farlo riflettere sul destino umano, ponendo il tema, essenziale in Francesco, dei rapporti fra uomo interiore e uomo esteriore, la sua conversione si manifesta da principio con la rinuncia al denaro e ai beni materiali. La cronologia di questa fase è particolarmente confusa in Tommaso da Celano. Un primo atto sembra collocarsi al momento della mancata partenza per la guerra in Puglia. Francesco incontra un povero cavaliere vestito di stracci e gli dona il suo mantello. Evidentemente, vero o falso, il gesto ten-

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de a fare di Francesco un nuovo san Martino. E Tommaso da Celano, che non manca di stabilire il parallelo, sottolinea come esso si risolva a vantaggio di Francesco che ha donato intero il suo mantello mentre Martino non ne aveva ceduta che la metà. Differenza significativa fra due personalità diverse forse – san Francesco è fin dall’inizio l’uomo del dono integrale –, fra due epoche senza dubbio dissimili. Alla svolta fra il IV e il V secolo il bisogno materiale e spirituale della società occidentale è la partizione dei beni, una nuova distribuzione fra vecchi ricchi e nuovi poveri; alla svolta fra XII e XIII secolo il problema è l’accettazione o il rifiuto di ciò che procura il denaro al ritmo accelerato della diffusione dell’economia monetaria. Primo abbandono, primo rifiuto simbolico. Rientrato ad Assisi, è eletto dai compagni capo o re della gioventù, secondo un vecchio rito folcloristico. Ma questo capo profano si allontana poco a poco dai suoi sudditi per prepararsi, recandosi in meditazione in una grotta remota, in compagnia di un solo amico, confidente intimo dei suoi pensieri, a una nuova vita. All’amico egli rivela ciò che sarà per lui il tesoro nascosto che dice cercare e la consorte che le genti di Assisi già congetturano egli si appresti a sposare. Il tesoro sarà la saggezza divina e la sposa la vita religiosa. È così prefigurato il tema delle nozze con la povertà. La povertà, ecco colei cui lentamente si avvicina. Sospetto è il racconto di Tommaso da Celano che lo fa andare a Roma, ove egli si sarebbe mescolato alla folla dei mendicanti davanti alla basilica di San Pietro. Indignato nel vedere la modicità delle offerte fatte al capo della Chiesa, egli avrebbe fatto dono di quanto portava con sé. Ma questo appello all’arricchimento di Roma non si confà a Francesco e si deve vedere qui uno degli episodi filoromani che Tommaso da Celano e la corrente francescana moderata hanno introdotto, inventandoli, nella vita del santo. Gli avvenimenti da questo momento precipitano. Toccato dal rovinoso abbandono della chiesetta di San Damiano,

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al cui parroco mancano i mezzi per ripararla, raccoglie nella casa paterna una partita di stoffe, la carica su un cavallo e va a vendere stoffe e cavallo a Foligno; ritornato a piedi ad Assisi, dona tutto il ricavato al povero prete. Furibondo per la scomparsa delle sue mercanzie, il padre lo fa ricercare. Francesco si nasconde nella cantina di una casa abbandonata, dove l’amico fedele gli rifornisce in segreto di che nutrirsi. Infine, deciso ad assumersi la propria responsabilità, abbandona il nascondiglio e ricompare tra i suoi concittadini. Smagrito per le privazioni, si accusa pubblicamente di neghittosità e fannullaggine. Stupefatta da questo cambiamento, la gente di Assisi si burla di lui, lo tratta da folle, gli scaglia addosso pietre e fango: prefigurazione della persecuzione, della ricerca del martirio, imitazione del Cristo oltraggiato, dell’Ecce Homo. Accorso al clamore, il padre l’afferra, lo rinchiude in catene in una segreta della casa. In capo a qualche giorno, la madre, mossa a compassione lo libera. Francesco cerca rifugio presso il vescovo, e in presenza di questi, testimone, garante e protettore, pubblicamente, di fronte al padre furente di rabbia, compie l’atto solenne che segna la rottura e la liberazione dalla vita precedente: rinuncia a tutti i suoi beni, si sveste e, ignudo, manifesta la sua assoluta spoliazione. Francesco ha rotto con la vita mondana, ma non è ancora avviato alla nuova vita. Tra i primi passi esitanti ce ne sono di falsi, rivelatori delle sue incertezze, della sua difficoltà a trovare il tono giusto, di passare dall’una all’altra via. Un giorno, mentre canta lodi a Dio in francese in una foresta, una banda di briganti piomba su di lui: «Chi sei?». «Sono l’araldo del gran Re». Quelli lo riempiono di botte e lo gettano in un fossato pieno di neve: «Va’ dunque, villano che ti scambi per l’araldo di Dio». Ci sono dunque ancora degli ostacoli da superare. Un giorno un altro gran passo è fatto, il solo che Francesco menzioni all’inizio del suo Testamento quando evoca la sua conversione:

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Il Signore così donò a me, frate Francesco, la grazia di cominciare a far penitenza: quando ero ancora nei peccati, mi pareva troppo amaro vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e con essi usai misericordia; quando me ne allontanai, quello che prima mi pareva amaro, subito mi si mutò in dolcezza di animo e di corpo. Indi attesi poco, e uscii dal mondo.

Il bacio al lebbroso ha fatto entrare nella vita il tema della ripugnanza vinta, della carità per i sofferenti e per frate corpo, del soccorso ai più derelitti. Ma poi? A San Damiano interroga Dio. E un giorno Dio gli risponde. Il crocifisso – questo dipinto in cui si incarna una devozione nuova al Cristo sofferente e che è conservato oggi a Santa Chiara – gli parla. Dio dice a Francesco: «Francesco, va’ e ripara la mia casa che, come ben vedi, è tutta in rovina». E Francesco, non ancora avvezzo a comprendere il senso simbolico del verbo divino, prende alla lettera le parole del crocifisso. Ciò che cade in rovina sono in effetti le case materiali di Dio, le chiese sgretolate, e per cominciare San Damiano. Prefigurando la ricostruzione spirituale della Chiesa, di cui sarà uno dei grandi artefici, Francesco prende la cazzuola, monta sulle impalcature e si fa muratore. Un altro tema entra nella sua vita, il lavoro manuale. Ricostruito San Damiano, Francesco lavora a San Pietro presso i bastioni e infine alla Porziuncola, oratorio sperduto nei boschi ma in prossimità dei due lebbrosari di Santa Maddalena e di San Salvatore. La Porziuncola è, secondo le parole di san Bonaventura, «il luogo che Francesco amò più al mondo». Là si compie l’ultimo atto della sua conversione. Dio parla di nuovo a Francesco. Lo fa questa volta tramite la voce del prete che, nell’umile oratorio della Porziuncola, legge un giorno alla messa un testo del Vangelo che Francesco crede di ascoltare per la prima volta. È il capitolo decimo di Matteo: Andate, dice il Salvatore, e annunciate ovunque che il regno di Dio è prossimo. Ciò che avete ricevuto gratuitamente, gratuita-

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mente donate. Non portate né oro né argento nelle cinture, né sacchi per il cammino, né due tuniche, né calzature, né bastone; perché l’operaio merita che si provveda al suo mantenimento. In ogni città o villaggio ove entriate, informatevi su chi è degno di ricevervi e dimorate da lui fino alla partenza. Entrando nella sua dimora, salutate dicendo: «pace a questa casa».

Francesco esclama: «Ecco ciò che io voglio, che cerco, che desidero fare dal fondo del cuore». Traboccante di gioia, si scalza, getta il bastone e non tiene che una sola tunica che ferma in vita con una corda in guisa di cintura; l’adorna di un’immagine della croce, ed essa è così ruvida che egli vi crocifiggerà la carne con i suoi vizi e le sue colpe, così misera e così laida che nessuno al mondo gliela invidierà. È il «terzo anno della conversione» di Francesco, il 12 ottobre 1208 o il 24 febbraio 1209. Francesco ha ventisei o ventisette anni. Da convertito diviene missionario. San Francesco è nato, i Francescani stanno per nascere. Dalla prima alla seconda regola Dunque Francesco comincia a predicare «dalla sua voce che è come un fuoco ardente». Predica ad Assisi, entro o presso la chiesa ove aveva compiuto, fanciullo, la sua educazione religiosa e dove sarà dapprima sepolto: San Giorgio, oggi inglobato in Santa Chiara. Il suo primo convertito, in questo anno 1209, è un uomo pio e semplice di cui nulla sappiamo. Poi un ricco, Bernardo da Quintavalle, che vende tutti i suoi beni, dona il ricavato ai poveri e si unisce a Francesco. Il terzo è un altro assisiate, giurista e canonico che ha studiato a Bologna, Pietro Cattani, che sarà il successore di Francesco nell’ordine, nel 1220. Il quarto è frate Egidio. Da questo momento comincia la predicazione itinerante. Di volta in volta, noi noteremo una tappa segnata da un episodio celebre o significativo, e ci attarderemo sui punti

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estremi del viaggio, verso Roma o fuori d’Italia. Ma, salvo brevi ritiri, Francesco e i suoi compagni saranno sempre in cammino, a predicare in città e villaggi. Il suo campo per eccellenza è l’Italia, da Roma a Verona, ma soprattutto l’Umbria e le Marche. La prima missione la compie, secondo la Leggenda dei tre compagni, nella Marca di Ancona, che sarà un grande centro del francescanesimo, la culla dei Fioretti. Poi, quando i compagni sono divenuti otto, Francesco, che li invia sempre a due a due come fa Cristo con gli apostoli (Mc 6,7; Lc 10,1), e che va lui stesso sempre con un compagno, manda frate Bernardo e frate Egidio alla volta di San Giacomo di Compostella. Con il suo compagno, si reca nella valle di Rieti da dove ritorna con nuovi seguaci, tra cui frate Angelo che, con frate Leone e frate Rufino, formerà il gruppo dei «tre compagni». Sono dunque in dodici, come gli apostoli, a ritrovarsi nell’inverno 1209-1210 alla Porziuncola. Successi e sconfitte si alternano in questo esordio. Gli uni sono di grande incoraggiamento nel confermare Francesco nella sua missione, le altre sono abbastanza nette per inquietarlo. Durante la prima campagna nelle Marche, dove è stato preso, insieme ai suoi compagni, per folle, Bernardo ed Egidio in cammino alla volta di Compostella sono stati assai male accolti a Firenze. Se Tommaso da Celano tace di queste difficoltà e insiste su alcuni successi, i «tre compagni», che devono esagerare in senso inverso, parlano di uno scacco totale. Altro motivo di inquietudine: Guido, vescovo di Assisi che ha peraltro protetto Francesco al momento della sua conversione, diventa se non ostile, almeno diffidente. Francesco ha dovuto far ricorso a tutta la sua forza di persuasione per convincerlo della legittimità della sua attività e del suo modo di vita. Per tagliar corto a queste minacce, Francesco decide di recarsi con i dodici compagni a Roma e di richiedere al papa l’approvazione della condotta sua e dei suoi seguaci.

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Francesco e Innocenzo III Il viaggio a Roma pone allo storico difficili problemi. Innanzitutto, l’approvazione che Francesco si apprestava a domandare al papa era quella di una regola, cioè della fondazione di un nuovo ordine? Il testo sottoposto a Innocenzo III è perduto e ciò che riferisce Tommaso da Celano è assai vago: «Francesco scrisse per sé e i suoi compagni, presenti e futuri, semplicemente e in poche parole una forma di vita e una regola essenzialmente composta di citazioni del santo Vangelo di cui desiderava ardentemente realizzare la perfezione». «Vitae formam et regulam»: pare però che il biografo del 1228 abbia aggiunto di propria iniziativa il termine regula e che la verità risieda nella forma vitae, un semplice formulario composto di alcune frasi del Vangelo intese a orientare la vita e l’apostolato dei frati. Seconda domanda: quale fu l’atteggiamento di Innocenzo III? Sembra che vi siano stati tre incontri tra Francesco e il papa e che sia stato difficile al Poverello strappare l’approvazione al pontefice. Chi sono quei due uomini, l’uno di fronte all’altro? Due pastori, la cui personalità, esperienza sono quasi in tutto opposte. Innocenzo III è imbevuto della spiritualità pessimistica della tradizione monastica, ha scritto un libro, Del disprezzo del mondo, agli antipodi dell’amore che Francesco porta a tutte le creature, come momento della sua suprema aspirazione al cielo. Innocenzo III, anche se non è il papa «politico» che molti storici vedono in lui, è convinto del primato del potere spirituale su quello temporale, ed è ancor di più persuaso che il vicario di Cristo possegga le due spade, i due poteri. Francesco dice: Tutti i frati si guardino dal mostrare alcun potere o superiorità specialmente tra loro. Infatti, come dice il Signore nel Vangelo: I principi delle nazioni le signoreggiano, e i grandi esercitano il potere su di esse; non sarà così tra i frati, ma chiunque vorrà essere maggiore tra essi sia come minore.

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Per Francesco non esistono nemici fuori di noi, i nemici sono i nostri vizi e i nostri peccati e occorre in ogni modo guardarsi dal giudicare il prossimo. Innocenzo III vede la Chiesa assalita da schiere di nemici, i principi che si proclamano cristiani e su cui egli di volta in volta (sull’imperatore, sul re di Francia, sul re di Inghilterra) scaglia la scomunica e l’anatema; gli eretici che pullulano, dai «poveri» di Lione divenuti i Valdesi e gli Umiliati che si sono soltanto parzialmente sottomessi, fino ai Catari, agli Albigesi contro i quali ha bandito la crociata e va organizzando l’Inquisizione. Ora, questo laico coperto di stracci che davanti alla curia crassa, sfarzosa e arrogante viene a esaltare una cosa scandalosa, l’applicazione integrale del Vangelo, la realizzazione di esso in ogni sua parte, non è agli occhi del papa sulla strada dell’eresia, se non già addirittura un eretico? Un primo colloquio sarebbe stato quindi burrascoso. Innocenzo III scambia o finge di scambiare quest’uomo «dalla misera tunica, i capelli arruffati e le immense sopracciglia nere» per un guardiano di porci: «Lasciami in pace con la tua regola. Torna piuttosto dai tuoi maiali e fagli tutte le prediche che vuoi». Francesco corre in un porcile, si imbratta di letame e ritorna dinanzi al papa: «Signore, ora che ho fatto ciò che mi avete richiesto, abbiate a vostra volta la bontà di accordarmi ciò che con sollecitudine vi chiedo». Il papa, conclude il cronista inglese Matteo Paris, «ravvedutosi, si dispiace di averlo tanto malamente accolto, e dopo averlo invitato a lavarsi, gli promette un’altra udienza». Sembra certo che, dopo la prima accoglienza ostile sia da parte del papa che della curia, Francesco abbia fatto preparativi per il nuovo incontro con Innocenzo: trova chi lo presenti, degli alleati, dei protettori. Intermediario è il vescovo Guido di Assisi e colui che, per sua intercessione, finirà per accettare di preparare a Francesco la strada d’accesso al papa, è il cardinale Giovanni di San Paolo, della famiglia Colonna. Tuttavia, quando Francesco può sottoporre il testo della sua regola al papa, questi si spaventa della sua severità.

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L’applicazione integrale del Vangelo, che follia! Ma il cardinale di San Paolo trova l’argomento capace di toccare il pontefice, un argomento religioso e insieme politico. «Se ci opporremo alla richiesta di questo povero con un simile pretesto, ciò non equivarrà forse ad affermare che il Vangelo non può essere messo in pratica e a bestemmiare il suo autore, Cristo?». Innocenzo III, scosso ma non persuaso, si limita a suggerire a Francesco: «Figlio mio, va a pregare Dio di manifestarci la sua volontà; quando la conosceremo, saremo in grado di risponderti in tutta sicurezza». Francesco e i suoi alleati mettono a profitto questo nuovo margine di tempo e Dio manifesta la sua volontà. Innocenzo III fa un sogno: vede la basilica del Laterano inclinarsi quasi stesse per crollare. Un religioso «piccolo e laido» la sostiene con il suo dorso impedendole di rovinare. L’uomo del sogno non può essere altri che Francesco, colui che salverà la Chiesa. Innocenzo III approvò allora il testo sottopostogli da Francesco. Ma lo fece usando numerose precauzioni: diede soltanto un’approvazione verbale, non scritta; impose ai frati di ubbidire a Francesco e a questi di promettere obbedienza al papa. Senza conferire loro gli ordini maggiori, fece tonsurare tutti i laici e concesse senz’altro il diaconato a Francesco. Infine li autorizzò soltanto a predicare, cioè a rivolgere esortazioni morali al popolo. Francesco non chiedeva di più. «Andate con Dio, fratelli», avrebbe detto Innocenzo III secondo Tommaso da Celano, benedicendoli, «e come Egli si degnerà ispirarvi, predicate a tutti la penitenza. Quando il Signore onnipotente vi farà crescere in numero e grazia, ritornerete a dirmelo giubilanti, e io vi concederò più numerosi favori, e vi affiderò con maggior sicurezza incarichi più importanti». Ma che lo stesso san Francesco fosse rimasto soddisfatto del suo viaggio a Roma si può dubitare se, anziché Tommaso da Celano, si consultano altre fonti. Matteo Paris, seguendo il benedettino Ruggero di Wendover, colloca un celebre episodio della vita di Francesco, la predicazione agli

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uccelli, al momento del ritorno da Roma nella valle di Spoleto. E ne dà un’interpretazione alquanto differente dal clima elegiaco in cui la situeranno – più tardi – i biografi ufficiali di Francesco. Il santo, esulcerato per l’accoglienza fattagli dai romani, i loro vizi e le loro turpitudini, avrebbe chiamato a raccolta gli uccelli, i più aggressivi tra essi, quelli dai becchi voraci, uccelli da preda e corvi, e a loro avrebbe insegnato, anziché ai miserabili romani, la buona novella. La fonte di questo aneddoto si trova in Ap 19,17-18: E vidi un angelo, levato nel sole, gridare con voce forte e dire a tutti gli uccelli che volavano nel cielo: venite e radunatevi al gran banchetto di Dio; mangiate la carne dei re, la carne dei tribuni, la carne dei superbi, la carne dei cavalli e dei cavalieri, la carne dei liberi e degli schiavi, dei piccoli e dei grandi.

Quest’invettiva non si confà all’immagine dolce di Francesco e si capisce come il partito francescano estremista abbia potuto attribuire al fondatore dell’ordine l’assimilazione di Roma e della Chiesa con la città maledetta di Babilonia. L’iconografia del XIII secolo serberà tale ricordo: le immagini raffiguranti la predica di Francesco agli uccelli copieranno tutte, più o meno, altre immagini contemporanee dove l’angelo dell’Apocalisse invita gli uccelli a gettarsi sulla preda, finché Giotto imporrà definitivamente l’interpretazione idillica della scena. Ad ogni modo, al di là di questa interpretazione forzata e tendenziosa, sentiamo che Francesco non dovette serbare un ricordo piacevole dei suoi rapporti con Roma e con Innocenzo III. Questo potrebbe essere un argomento contro l’affermazione della sua presenza al quarto concilio del Laterano nel 1215, presenza che alcuni asseriscono senza prova. Tornati ad Assisi, Francesco e i suoi compagni si stabilirono in una piana limitata dal meandro di un ruscello, il Rivo Torto, e ivi abitarono una capanna abbandonata. In capo a qualche mese essi dovettero lasciare il loro rifugio perché

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un contadino vi spinse il suo asino per scacciarne gli ospiti, secondo il racconto di Tommaso da Celano, o più probabilmente perché l’arrivo di nuovi frati aveva reso inabitabile il minuscolo alloggio. Di contro al rifiuto del vescovo e dei canonici, l’abate del monastero benedettino del monte Subasio concesse a Francesco la cappella della Porziuncola cui era annesso un pezzo di terra. La piccola comunità, che si accresceva di giorno in giorno, continuava a condurre la medesima vita. Tra i nuovi frati, giunti in quest’anno 1210-1211, ricordiamo frate Rufino «che pregava anche nel sonno», frate Ginepro «perfetto imitatore di Gesù crocifisso», questo «giullare di Dio» per eccellenza che è stato definito il «francescano-tipo», frate Masseo dal solido buon senso, frate Lucido «che non restava mai più di un mese nel medesimo luogo con il pretesto che noi non abbiamo mai dimora permanente quaggiù», infine il puro e ingenuo frate Leone, il più intransigente fedele di san Francesco, che ne fece il proprio confessore, perché era prete, e che lo chiamava «frate pecorella di Dio». Santa Chiara Se la Porziuncola diverrà la residenza preferita da Francesco dalla fine del 1210, non bisogna dimenticare che egli l’abbandonerà sovente sia per recarsi a predicare ad Assisi, in Umbria, nell’Italia centrale e settentrionale, e presso gli infedeli, sia per ritirarsi in solitudine, in vari eremi, alle Carceri sulle pendici del Subasio, in un’isola del lago Trasimeno, a Monte Casale presso Borgo San Sepolcro, a Fonte Colombo presso Rieti, in un luogo vicino a Orte, a Poggio Bustone, in un oratorio presso Siena, alle Celle vicino a Cortona, a Sant’Urbano presso Narni, a Sarteano presso Chiusi, e infine alla Verna. Non sempre si riservava, a lui o ai suoi frati, una buona accoglienza. Frate Bernardo da Quintavalle venne accolto a

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sassate dai bolognesi nel 1211 e coperto di sarcasmi nella piazza Maggiore della città. Ma il 1212 riserbò a Francesco una recluta eccezionale. Una nobile giovinetta di Assisi, infiammata dai sermoni del santo, fugge dalla casa paterna con un’amica la domenica delle Palme e si rifugia alla Porziuncola dove Francesco taglia loro i capelli, le riveste di un abito di bigello simile al suo per condurle poi al monastero delle benedettine di San Paolo di Bastia, a qualche chilometro di distanza, nelle paludi di Insula Romana. Qualche giorno dopo esse riparano in un luogo più sicuro, il monastero di Sant’Angelo sul Monte Subasio sopra le Carceri, abitato da un altro gruppo di benedettine. A Chiara e Pacifica si unisce una giovane sorella di Chiara, Agnese, e anche a lei Francesco recide la chioma. Di lì a qualche tempo il vescovo Guido fa dono a Chiara e alle «povere donne» (più tardi denominate Clarisse come si chiameranno «frati minori» i Francescani) della cappella di San Damiano. Così, nelle due branche parallele, maschile e femminile, della tradizione monastica inaugurata da san Benedetto e da santa Scolastica, Francesco e Chiara compiranno insieme fino alla morte il loro cammino. «Giacché voi siete divenute le figlie e le ancelle del Padre celeste e le spose dello Spirito santo scegliendo di vivere secondo la perfezione del santo Vangelo, vi prometto di vegliare su di voi come sui miei fratelli», scrive alle «povere donne» Francesco: manterrà la promessa e sarà ubbidito e da loro diletto come dai suoi fratelli. Miracoli e peregrinazioni Il 1212 è per la cristianità un anno di effervescenza e di speranza. I re cristiani della penisola iberica uniscono le loro forze contro i musulmani e il 14 luglio 1212 ottengono sugli infedeli la più clamorosa vittoria della Reconquista a Las Navas de Tolosa. Da giugno a settembre, dalla Francia

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e dalla Germania irrompono sull’Italia del nord schiere di giovani desiderosi di recarsi in Terra Santa. Si tratta della crociata erroneamente detta dei «fanciulli» che urta in mille difficoltà materiali e morali, nell’ostilità della maggior parte della gerarchia ecclesiastica e finisce per disperdersi. Come questi giovani, Francesco e uno dei suoi frati si imbarcano su una nave in partenza per la Siria. Ma il vento contrario spinge l’imbarcazione sulla costa dalmata e a stento essi riescono a far ritorno ad Ancona. Sprovvisti di denaro, salgono clandestinamente su un’altra nave: scoperti, rischiano di essere malmenati dall’equipaggio, sorte che il santo riesce a evitare placando una tempesta e moltiplicando le magre provviste tanto da sfamare tutti i marinai sul punto di morir di fame per la prolungata bonaccia. Non si tratta che una dilazione del progetto. Due anni più tardi, nel 1214, parte di nuovo, questa volta per andare a predicare ai saraceni, in Marocco, dove pensa di trovare udienza presso il sultano certamente scosso dalla sconfitta di Las Navas. Ma giunto in Spagna si ammala e deve ritornare in Italia. L’impresa gli riuscirà – anche se in parte – soltanto nel 1219, stavolta in Egitto. Intanto il numero dei seguaci di san Francesco andava quotidianamente ingrossandosi, e diffondendosi la loro fama. Tra i nuovi adepti sono, a Firenze, Giovanni Parenti e a Cortona frate Elia, entrambi futuri ministri generali. Si attribuisce a Francesco un elenco sempre più lungo di miracoli. Ad Ascoli guarisce dei malati e converte in una sola volta trenta persone, chierici e laici; ad Arezzo le redini di un cavallo da lui tenute in mano guariscono una puerpera moribonda; a Città della Pieve uno dei suoi risana i malati toccandoli con una corda già usata da Francesco come cintura; a Toscanella guarisce uno zoppo e a Narni un paralitico; esorcizza degli ossessi a San Geminiano, tra Todi e Terni, e a Città di Castello. Vicino a Bevagna avrebbe avuto luogo la predicazione agli uccelli e a Gubbio, secondo i Fioretti, egli

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avrebbe ottenuto da «frate lupo» la cessazione di ogni ulteriore minaccia. Colui che era oggetto di scherno solleva ora al suo passaggio non soltanto curiosità ma anche venerazione ed entusiasmo. Allorché si annuncia la sua venuta in una città o in un villaggio, tutta la popolazione accorre gridando: «Ecco il santo!». Si suonano le campane, gli vanno incontro, gli offrono del pane perché lo benedica, gli strappano brandelli della tunica. Nel 1213 predica durante una festa al castello di Montefeltro. Il giullare di Dio unisce la sua voce a quella dei menestrelli profani. Uno degli astanti, il conte Orlando di Chiusi in Casentino, commosso, dona a Francesco il monte della Verna perché vi fondi un eremo per sé e per i suoi. Il quarto concilio lateranense Nel 1215 la Chiesa vive un grande evento: il papa Innocenzo III raduna un concilio a San Giovanni in Laterano, il quarto che abbia luogo in questa chiesa. Il concilio decide per una nuova crociata e pone le basi di una riforma della Chiesa. Poiché tale timido «aggiornamento» pare volgersi nel senso desiderato da Francesco e poiché il papa ha fatto del «Tau» segnato in fronte ai giusti e caro al santo (che lo usava come sigillo nelle sue lettere e lo dipingeva sui muri degli eremi) l’emblema della riforma, si sono voluti stabilire rapporti precisi tra il concilio e Francesco. Si è preteso che egli vi abbia assistito e incontrato san Domenico, ma niente lo prova. Tuttavia Innocenzo III, Francesco e Domenico, sia pure in uno spirito e con stile differenti, cercano di portare delle soluzioni a un unico problema: quello di schiudere all’umanità, in un mondo in trasformazione, nuove vie verso la salvezza. Da questa situazione oggettiva comune si è tratta più tardi l’illazione di incontri materiali al fine di ma-

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scherare le divergenze che separavano la curia romana dai due santi e, se non essi stessi, perlomeno i loro figli spirituali. Che il concilio contenesse una minaccia per Francesco e Domenico e i loro compagni è evidente. Il canone 13 proibisce formalmente la fondazione di nuovi ordini e il canone 10 prevede l’attività presso i vescovi di ausiliari «non solo per garantire la predicazione, ma anche per ascoltare le confessioni, distribuire penitenze e per tutte le altre cose riguardanti la salvezza delle anime». Siffatto ruolo di aiutanti subordinati alla gerarchia era evidentemente contro le intenzioni di Domenico e di Francesco, ed essi cercarono di sventare la minaccia in modi diversi. Nel 1216 Domenico, adottando la regola di sant’Agostino per i suoi predicatori organizzati in confraternita di canonici regolari, riesce a fondare il suo ordine sotto la parvenza della semplice continuazione di una tradizione esistente. Francesco procede in modo più discreto, attento a non trasformare i suoi seguaci in un vero e proprio ordine così da serbare loro un maggior grado di elasticità e giungere più agevolmente, per mezzo della coesistenza di laici e chierici, a costituire un punto di incontro tra Chiesa e laicato. Egli si basa sull’approvazione verbale di Innocenzo III per giudicare le decisioni del concilio come non concernenti i suoi confratelli già riconosciuti. Ad ogni modo, volendo consolidare la loro posizione presso i fedeli e la gerarchia, sarà vero che egli sollecitò e ottenne nell’anno 1216 dal nuovo papa Onorio III, secondo quanto si è sostenuto, l’indulgenza della Porziuncola, cioè l’indulgenza plenaria per tutti coloro che visitassero il santuario il giorno anniversario della sua consacrazione (il 2 agosto) – privilegio eccessivo, che poneva l’oratorio di Francesco sul medesimo piano di Roma, la Terra Santa e San Giacomo di Compostella? La cosa è molto dubbia dal momento che nessun documento degno di fede permette di attestare l’esistenza prima del 1277 di questa indulgenza, la cui

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leggenda va dunque attribuita all’attrazione precoce esercitata dal luogo sulle folle dei pellegrini. Comunque, Francesco dotò i suoi seguaci di una certa organizzazione resa necessaria dall’accrescimento del loro numero e dall’estendersi della loro attività. È molto difficile fornire dati precisi sulle riunioni periodiche dei primi compagni del santo, alle quali con qualche esagerazione è stato dato il nome di capitolo. Sembra che fin tanto che i frati furono poco numerosi, Francesco abbia richiesto loro di recarsi alla Porziuncola due volte all’anno, alla Pentecoste e il giorno di san Michele. Ma allorché crebbe il loro numero e si estese il loro raggio di azione, egli non poté più convocarli che una volta all’anno. Il che presumibilmente avvenne già a partire dal 1216. La riunione del 1217 riveste particolare importanza. In tale occasione Francesco decise di portare oltre i confini d’Italia la predicazione dei frati. È questa forse la riunione che nei Fioretti è divenuta quel «Capitolo de’ graticci ovvero di stuoie», pieno di inverosimiglianze, ma che restituisce sotto forma di una gaia e semplice festa campestre il raduno dei frati che si erano costruiti per l’occasione capanne di canne. Infine Francesco decide di partire egli stesso alla volta della Francia insieme a frate Masseo. Passando da Firenze si reca in visita al cardinale Ugolino che vi sta appunto predicando la crociata. Fu allora – o prima – che il cardinale venne affascinato da Francesco? Comunque, a partire da questo momento, Ugolino prodigherà a Francesco e ai suoi compagni consigli efficaci accompagnati da suggerimenti di prudenza. E, per cominciare, persuade Francesco a desistere dal viaggio in Francia: l’accorto prelato teme il diffondersi dell’entusiasmo francescano in Francia o sa che Francesco rischia molto ad allontanarsi dalle sue basi senza essersi prima assicurato di ciò che si lascia alle spalle? I missionari che lasciarono l’Italia non vennero in effetti a capo di nulla ed ebbero cattiva accoglienza in Germania. Tuttavia, nel 1219, Francesco riprende il suo vecchio pro-

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getto: recarsi presso gli infedeli, convertirli o trovarvi il martirio. Imbarcatosi ad Ancona il 24 giugno, assistette il 5 novembre alla presa di Damietta da parte dei crociati, rimanendo disgustato della loro sanguinaria cupidigia; ottenne dal sultano Malik-al Kamil un’udienza che non portò ad alcun risultato; si recò in Palestina dove è probabile abbia visitato il santo Sepolcro. Viene poi a sapere che cinque dei frati partiti per il Marocco vi hanno subito il martirio. Già sconvolto dalla notizia, riceve quindi un emissario che reclama il suo ritorno in Italia a causa della grave crisi scoppiata tra i frati durante la sua assenza. Nell’estate 1220, si imbarca di nuovo e nell’autunno giunge a Venezia, donde pare che abbia raggiunto direttamente Roma. Francesco si rende conto di non poter riprendere in mano la situazione senza ottenere l’appoggio della curia pontificia e senza farle di conseguenza delle concessioni. Nelle decisioni prese dal 1221 al 1223 in merito alla riorganizzazione del suo movimento, è spesso difficile distinguere le intenzioni del santo da ciò che gli viene imposto. Cos’era successo? Da un lato, gli estremisti avevano dato libero sfogo alle loro stravaganti tendenze: divenire dei veri e propri vagabondi, circondarsi di donne fino a «mangiare con loro, nella stessa scodella», dar vita a comunità di lebbrosi di entrambi i sessi. Dall’altro, i lassisti volevano abbandonare ogni traccia di rigorismo costruendo belle chiese di pietra, praticando e favorendo gli studi, sollecitando privilegi presso la curia romana. Soltanto in un caso Francesco infierì senza indugio: nel viaggio da Venezia a Roma passò da Bologna dove frate Giovanni di Staccia aveva fondato una scuola. Li scacciò tutti, compresi i malati, e maledisse Giovanni di Staccia. Furono allora prese una serie di misure più o meno conformi ai suoi desideri. Un anno di noviziato fu imposto a tutti coloro che volessero d’ora in poi entrare a far parte della comunità. Un rappresentante della Santa Sede, il cardinale Ugolino, di-

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venne «protettore, governatore e correttore della fraternità». Francesco cedette la direzione amministrativa della comunità a Pietro Cattani alla cui morte, avvenuta il 10 marzo 1221, successe frate Elia. Infine Francesco, rimasto il capo spirituale della confraternita, la dovette trasformare in un vero e proprio ordine dotato di una regola che sostituisse la «forma» del 1210. La «Regula bullata» La regola venne presentata al «capitolo» del 1221. Essa suscitò tali riserve da parte sia dei frati sia della curia romana che si decise di sottoporla al cardinale protettore. Nell’attesa, per inquadrare la folla di laici desiderosi di entrare nell’ordine, fu istituito un Terzo ordine dietro probabile suggerimento di Ugolino, ispirato in questo senso dalla recente istituzione degli Umiliati. Il Terz’ordine rispondeva sicuramente alle intenzioni di Francesco, desideroso di conservare alla sua confraternita il carattere di una piccola comunità di puri. Secondo Tommaso da Celano egli avrebbe detto sospirando: «Ci sono troppi frati minori! Ah! Venga il giorno in cui la gente, anziché incontrarne a ogni piè sospinto, si lamenti di vederne troppo pochi» e, secondo i Fioretti, avrebbe detto alla gente di Cannara che voleva abbandonare tutto per seguirlo: «Non abbiate troppa fretta». Ma il Terz’ordine, nella forma che gli venne impressa, corrispondeva soprattutto al desiderio della Santa Sede di arginare il flusso francescano e deviarlo a suo favore facendone una milizia laico-religiosa al servizio dei propri interessi spirituali e temporali. A partire dal dicembre 1221 il papa Onorio III utilizzò i numerosi terziari francescani di Faenza contro il partito imperiale. Il Terz’ordine divenne uno strumento della politica guelfa. Forse non è un caso che la prima comunità del Terz’ordine francescano sia stata fondata probabilmente a Firenze, città guelfa per eccellenza, nel marzo

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1221, durante un soggiorno di Francesco e del cardinale Ugolino. Comunque la regola del Terz’ordine, secca e giuridica, redatta nel 1221 e approvata dal papa, porta il sigillo personale di Francesco. Fu probabilmente allora che Francesco dovette approvare l’insegnamento inaugurato da Antonio di Padova in quel convento di Bologna, dal quale aveva poco tempo prima scacciato Giovanni di Staccia e i suoi discepoli, colpevoli soprattutto di essersi dedicati agli studi. Ma la lettera inviata da Francesco ad Antonio e da cui è stata tratta questa ipotesi, non è di sicura autenticità. Nel frattempo il papa e il cardinale Ugolino avevano chiesto a Francesco di ritoccare il progetto di regola del 1221. Francesco si ritirò nell’eremo di Fonte Colombo presso Rieti in compagnia di frate Leone e di un altro compagno che possedeva nozioni di diritto, frate Bonizzo. I ritocchi apportati non parvero comunque sufficienti a frate Elia che, dopo aver ricevuto dalle mani di Francesco il testo, lo smarrì. Francesco si rimise al lavoro con frate Leone. Impresa difficile: Francesco era scoraggiato e talora anche amareggiato. Mandava indietro senza molta tenerezza i frati che andavano a importunarlo perché introducesse nel testo disposizioni contrarie alle sue intenzioni. Finalmente la nuova regola fu pronta nella primavera o estate dell’anno 1223, inviata a Roma, dove subì ancora qualche ritocco da parte del cardinale Ugolino, fu approvata dal papa Onorio III con la bolla datata 29 novembre 1223, Solet annuere, donde il nome di Regula bullata. La maggior parte delle citazioni evangeliche della regola del 1221 vi erano state soppresse, i passaggi lirici erano stati sostituiti da formule giuridiche. Fu soppresso un articolo che autorizzava i frati a disubbidire ai superiori indegni. Subirono la stessa sorte le prescrizioni relative alle cure da prodigarsi ai lebbrosi e quelle destinate a ottenere dai frati l’esercizio di una rigorosa povertà. La regola non insisteva più sulla necessità del lavoro manuale né proibiva più ai frati di tenere presso di sé i libri.

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Con la morte nell’animo Francesco accettò la regola così deformata. I biografi hanno definito questo periodo della sua vita, verso la fine del 1223, l’epoca della «grande tentazione». Tentazione cioè di abbandonare completamente il nuovo ordine, se non l’ortodossia. Poi si rassegnò e si calmò. «Povero piccolo uomo, gli disse il Signore, perché ti rattristi? Il tuo ordine non è il mio ordine? Non sono io a esserne il supremo pastore? Cessa dunque di affliggerti e prenditi cura piuttosto della tua salvezza». Così Francesco giunse a considerare la propria salvezza come indipendente dall’ordine nato da lui, in definitiva suo malgrado. E si avviò serenamente alla morte. Verso la morte Tommaso da Celano ha diviso la sua Vita prima di san Francesco in due parti, assai sproporzionate cronologicamente. La seconda parte non copre in effetti che gli ultimi due anni della vita di Francesco, dal 1224 al 1226. Francesco si è allora ritirato dal mondo: egli ha, secondo le parole del biografo, «abbandonato le folle secolari che ogni giorno accorrevano piene di devozione per ascoltarlo e vederlo». Tommaso da Celano ha dunque terminato la prima parte su una lunga nota di dolcezza e soavità. L’amore di Francesco vi trabocca, verso i poveri di cui porta sulle spalle le fascine di legno e i fardelli, verso gli animali – anche le serpi, e soprattutto verso le pecore e gli agnelli di cui egli impedisce la vendita e l’uccisione riscattandoli con il dono del suo mantello –, verso tutte le creature – dai vermi e le api alle messi, alle vigne, ai fiori, alle foreste, alle pietre e ai quattro elementi –. E la scena del presepe di Greccio corona questo lirico finale. Possiamo trovare alla fine della vita di Francesco altri movimenti e un’altra orchestrazione. Dopo la «grande tentazione», una lunga calma, in cui si alternano e si mescolano

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episodi di traboccante tenerezza e di sublimata sofferenza, conduce Francesco attraverso una lenta e interminabile agonia al suo ultimo respiro. Il primo episodio è il Natale del 1223. Francesco risponde all’invito di uno dei nobili che egli ha toccato, Giovanni Velita, signore di Greccio. Celebrerà la natività in mezzo a grotte ed eremi su una montagna scoscesa. Chiede all’amico di ricostruire il presepe di Betlemme come gli suggerisce la sua immaginazione poetica: «Io desidero ricordare il bimbo che è nato a Betlemme e vedere con i miei occhi carnali le difficoltà della sua infanzia bisognosa, come egli riposò nella mangiatoia, e come, tra il bue e l’asino, venne adagiato sul fieno». Da ogni parte, la notte di Natale, uomini e donne dei dintorni scalano la montagna con tanti ceri e torce che la notte ne è tutta illuminata. Essi cantano, la foresta effonde le loro voci, le rocce le rimandano. La messa è celebrata. Il santo di Dio è presso il presepe, canta il Vangelo, predica «con la sua voce veemente, con la sua voce dolce, con la sua voce chiara, con la sua voce sonora» e annuncia le ricompense eterne. Uno degli astanti ha una visione: vede improvvisamente il bimbo adagiato nella mangiatoia e Francesco chinarsi su di lui per svegliarlo. Greccio fu una nuova Betlemme. Francesco, passato l’inverno e la primavera del 1224 a Greccio, si recò alla Porziuncola per il capitolo generale di giugno, l’ultimo cui assistette, quindi raggiunse un altro eremo, quello della Verna, donatogli da Orlando di Chiusi in Casentino. Non portò con sé che pochi frati, i più cari al suo cuore: i «tre compagni», Leone, Angelo e Rufino; Silvestro, Illuminato, Masseo e forse Bonizzo. Giunto con loro alla Verna, egli li lascia sovente per ritirarsi in solitudine, e si abbandona alla contemplazione. Un giorno apre il solo libro che legge e che ha portato con sé, il Vangelo, e si imbatte nel racconto della passione di Cristo. E un giorno, forse il 14 settembre, ha l’ultima visione: al di sopra di lui un uomo con sei ali come un serafino, le braccia aperte e i piedi giunti, infissi su una croce. E

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mentre, pieno di gioia e insieme tristezza, medita su questa visione, stimmate sanguinanti gli si formano sulle mani e sui piedi e una piaga sul costato. Francesco ha compiuto il suo cammino verso l’imitazione di Cristo. È il primo stimmatizzato del cristianesimo, «il servo crocifisso del Signore crocifisso». L’avvenimento lo riempie di confusione. Cerca di celare le stimmate avvolgendo di bende piedi e mani. Soli fra i contemporanei, secondo Tommaso da Celano, frate Elia le vide e frate Rufino le toccò. Alla sua morte gli astanti si precipitarono sul suo corpo e il numero di coloro che affermarono di aver visto le stimmate di Francesco non cessò di crescere nel corso del XIII secolo. Sentendosi confermato nella sua missione dalle stimmate, Francesco riprende nell’autunno del 1224 i suoi pellegrinaggi, in groppa a un asino. Ma le sue infermità si moltiplicano. È divenuto quasi cieco e soffre di terribili mal di testa. Santa Chiara, cui rende visita a San Damiano, lo trattiene qualche settimana per curarlo. Si costruisce una capanna di vimini nel giardino e quivi conosce uno dei suoi ultimi periodi di pace terrena. Si usa credere che qui abbia composto il Cantico di frate Sole, il cantico di tutte le creature. Frate Elia lo persuade infine a consultare i medici del papa la cui corte risiede allora a Rieti. Egli l’accompagna come una madre, secondo Tommaso da Celano, come un sorvegliante secondo molti storici. A Rieti Francesco fu alloggiato sia al palazzo episcopale sia, come riferisce la Legenda antiqua, nella casa di «Tebaldo il Saraceno», probabilmente un medico musulmano del papa. Vana è la scienza dei dotti, e Francesco peggiora. I frati di Siena lo reclamano affermando di poterlo curare e forse guarire. Il suo stato, al contrario, precipita al punto che egli detta loro il suo testamento (di cui Tommaso da Celano non fa menzione) e frate Elia accorre. Francesco migliora. Lascia allora Siena con frate Elia per l’eremo delle Celle presso Cortona. Ma qui il male riprende con una tale vio-

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lenza che Francesco domanda di essere portato ad Assisi, e più precisamente alla Porziuncola. Ma se era desiderio di frate Elia che Francesco morisse ad Assisi, culla del francescanesimo, soggiornare alla Porziuncola costituiva un grosso pericolo. All’inizio del XIII secolo, in effetti, la mentalità e il comportamento delle folle e degli individui nei confronti dei personaggi reputati santi non sono mutati dalla fine del IV secolo, quando la popolazione di Tours trafugò il cadavere di san Martino a quella di Poitiers; dalla fine del X secolo, quando i catalani pensarono di uccidere san Romualdo malato per conservarne le reliquie. Intorno a Francesco moribondo vegliano le bramosie in cerca del santo cadavere. La grande paura della popolazione di Assisi è il suo nemico tradizionale, il popolo di Perugia. Ora, la Porziuncola, nella pianura, è alla mercé di un colpo di mano dei perugini... Si trasporta allora il moribondo all’interno dei bastioni, nel palazzo episcopale ove Francesco sarà messo al riparo, insieme, dai perugini e dai franchi tiratori della religione. Meno che mai Francesco si sente a suo agio nei palazzi della Chiesa. Ottiene infine di farsi trasportare alla Porziuncola. Qui è vegliato dai frati e custodito da gruppi di uomini armati di Assisi che si danno il cambio. Francesco è giunto agli ultimi atti dell’imitazione di Cristo di cui ha avanti tempo ricevuto il suggello finale con le stimmate. Il 2 ottobre procede alla Cena. Benedice e spezza il pane e lo distribuisce ai suoi frati. L’indomani, il 3 ottobre 1226, si fa cantare il Cantico di frate Sole, leggere la Passione nel Vangelo di Giovanni e deporre al suolo su di un cilicio coperto di cenere. Uno dei frati presenti vede all’improvviso la sua anima, come una stella, salire al cielo. Aveva quarantasei anni. Poi tutto si svolge molto rapidamente. La ressa sul corpo per vedere le stimmate e toccare la santa reliquia. Le esequie – ancora semplici – il 4 ottobre con la sosta a San Damiano, dove santa Chiara copre di lacrime e di baci il corpo del suo

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celeste amico, e la sepoltura provvisoria a San Giorgio. Poi, il 17 luglio 1228, meno di due anni dopo la morte di Francesco, la canonizzazione pronunciata dal papato che, se di solito non procede sollecitamente, ha ora urgenza di tagliar corto alle controversie su questo santo. È vero che papa è il cardinale Ugolino divenuto Gregorio IX, e che egli rende al suo protetto un omaggio in cui si mescolano venerazione e disegno politico. Poi il 25 maggio 1230 si ha l’ingiuria dell’inumazione nella cripta della basilica antifrancescana che frate Elia fa erigere nell’ostentazione. L’ultimo tradimento sarà l’insopportabile basilica di Santa Maria degli Angeli, con cui il cattolicesimo post-tridentino maschererà, annientandola, a partire dal 1569, l’umile e autentica Porziuncola. Le opere e l’opera San Francesco non ha scritto molto. Anche se possedessimo la prima regola, le lettere e i poemi andati perduti, tutte le sue ricchezze occuperebbero un piccolo volume. L’edizione dei francescani di Quaracchi è divisa in tre parti: I. Le ammonizioni e le regole; II. Le lettere; III. Le preghiere. Con il pretesto di non pubblicare che le opere in latino, i padri di Quaracchi hanno mutilato l’opera scritta di Francesco di un capolavoro essenziale, il Cantico di frate Sole, in italiano. È quindi preferibile migliorare e integrare questa presentazione come hanno fatto, in italiano, Vittorino Facchinetti e Giacomo Cambell (I. Legislazione serafica; II. Le direttive del Padre; III. La corrispondenza di un santo; IV. Inni e preghiere, compreso il Cantico di frate Sole) e, in francese, Alexandre Masseron (I. Le législateur; II. Le messager; III. L’ami; IV. Le Saint en prière; V. Le poète). Ma pur sotto la diversità delle loro forme esteriori tutti questi opuscoli non sono che contributi a una medesima opera: la formazione spirituale dei suoi frati e, al di là, la comunicazione di un messaggio all’umanità. Francesco non fu

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uno scrittore, ma un missionario che integrò con alcuni scritti un messaggio espresso già con la parola e l’esempio. Tra la regola del 1221 che non fu approvata e quella, ancor oggi vigente presso i Minori, confermata nel 1223 da una bolla pontificia, ci sono alcune differenze che abbiamo sostanzialmente sottolineato, tra cui la riduzione a 12 articoli piuttosto recisi del testo di 23 articoli ricco di citazioni evangeliche e di effusioni. L’esordio afferma la necessità che i Minori rispettino i tre voti di obbedienza, povertà e castità. Il fine loro assegnato nella prima regola, di «seguire l’insegnamento e l’esempio di nostro Signore Gesù Cristo», riceve una formulazione più astratta nella seconda, «di osservare il santo Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo». I ministri generali dell’ordine obbediranno al papa, i frati ai ministri generali. Seguono poi le condizioni per essere ammessi all’ordine, l’anno di noviziato, la cessione dei beni personali ai poveri, la descrizione dell’abito: una tonaca con il cappuccio, una senza cappuccio, una cintura, un paio di mutande, il tutto di vile stoffa. La seconda regola vi aggiunge le calzature in caso di bisogno. L’opus Dei è ridotto. Per i chierici, l’ufficio divino e il breviario, per i laici ventiquattro Pater al Mattutino, cinque alle Lodi, sette a Prima, Terza, Sesta e Nona, dodici al Vespro e sette a Compieta; la preghiera per i defunti. La proibizione di possedere altri libri oltre il breviario e i libri dei salmi – e per coloro soltanto che sanno leggere – scompare dalla regola. Dei due digiuni imposti dalla prima regola, dalla festa di Tutti i Santi a Natale, dall’Epifania a Pasqua, il secondo, nella seconda regola, si riduce alla Quaresima, divenendo facoltativo il digiuno dall’Epifania alla Quaresima. A ciò si aggiunge il digiuno del venerdì. Ma ogni tabù alimentare è proscritto. I rapporti tra i ministri e gli altri frati sono insieme più succinti e più stretti nella seconda regola. Il dovere di disobbedienza dei frati nel caso che i ministri ordinino qualcosa con-

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trario alla regola o alla coscienza, «perché non è virtù di obbedienza dove si commette delitto o peccato», scompare, al pari dell’interdizione di usare l’appellativo «priore», dovendosi tutti chiamare «frati minori». I ministri non dovranno ordinare ai frati ciò che contraddice al bene della loro anima e alla regola, ma i frati sono tenuti a una totale obbedienza. Scompare anche l’obbligo, per tutti i ministri e frati, di lavarsi i piedi gli uni agli altri. La proibizione assoluta di ricevere denaro è mantenuta, ma senza la litania di precisazioni e maledizioni del primo testo e con l’aggiunta della possibilità per i ministri e i padri guardiani di ricevere tramite «amici spirituali» di che curare i malati e vestire i frati «secondo i luoghi, i tempi e i paesi freddi». Le prescrizioni concernenti il lavoro sono del pari edulcorate. Il lavoro non è più richiesto a tutti ma solamente permesso ai frati «cui il Signore ha concesso la grazia del lavoro». La mendicità è esaltata; essa è «la vetta sublime di quell’altissima povertà, che ha fatto voi, fratelli miei carissimi, eredi e re del regno dei cieli». Ma essa è privata del contesto che, nella prima regola, dava un senso alla sua pratica. Tale contesto era duplice: sociale e apostolico. Da una parte la mendicità poneva concretamente i frati tra i poveri: «E debbono essere felici quando si trovano tra gente dappoco e tenuta in nessun conto, tra i poveri e i deboli, gli infermi, i lebbrosi e i mendicanti della via». Tutto questo corteo di poveri involontari che dà un senso alla povertà volontaria scompare dal secondo testo. Così pure il rimando cristologico e apostolico a Gesù – «e fu povero e pellegrino e visse di elemosine lui stesso e con lui la beata Vergine e i suoi discepoli» – cede il posto a una vaga allusione alla povertà di Cristo: «il Signore per amor nostro si fece egli stesso povero in questo mondo». Di tutte le prescrizioni relative alla pratica della povertà in viaggio «quando i frati vanno per il mondo, non portino nulla per il viaggio, né borsa, né bisaccia, né pane, né denaro, né bastone» – non resta che l’inter-

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dizione d’andare a cavallo, salvo in caso di malattia o di grave necessità. Le condizioni dell’elezione del ministro generale, riservate ai ministri provinciali e ai padri guardiani, e la convocazione del capitolo generale della Pentecoste, normalmente ogni tre anni, sono precisate, ma per contro gli elettori possono deporre un ministro generale che sarà parso impari al compimento del suo ufficio e al servizio comune dei frati. La predicazione, ordinata nella prima regola a tutti i frati, è nella seconda strettamente regolamentata. Non può aver luogo che nelle diocesi in cui i vescovi ne diano autorizzazione. Deve essere subordinata a un esame e a una licenza accordata dal ministro generale. Deve limitarsi a prediche brevi e relative soltanto a soggetti morali ed edificanti – non di teologia, di dogma e di argomento dipendente dalla giurisdizione ecclesiastica – «per utilità ed edificazione del popolo, parlando loro dei vizi e delle virtù, della pena e della gloria, con brevità di sermone». La condanna dettagliata e severa concernente la frequentazione di donne e la fornicazione è sostituita da un breve articolo che proibisce soprattutto ai frati di entrare, salvo permesso speciale, nei monasteri di monache. Il lungo articolo relativo alla missione, molto caldeggiata, presso i saraceni e altri infedeli, è ridotto a quattro righe raccomandanti ai ministri di non accordarne il permesso che con molta prudenza, e la seconda regola si chiude con la menzione del cardinale preposto dal papa all’ordine «come governatore, protettore e correttore di questa fraternità». Ma nell’ultima riga san Francesco ha potuto citare «il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo». A questi due testi essenziali occorre aggiungere le Ammonizioni, il Della religiosa abitazione nell’eremo, il Testamento e il Piccolo Testamento. Le ventotto Ammonizioni sono piccoli testi spirituali assai semplici che compendiano l’insegnamento relativo alla pratica della vita religiosa che Francesco aveva rivolto oral-

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mente ai suoi frati e che non aveva trovato posto nella regola, trattandosi più di raccomandazioni che di prescrizioni obbligatorie. È un piccolo trattato sul buono e il cattivo religioso: «il sermone della montagna di san Francesco». Il testo sulla vita dei frati negli eremi completa altresì la regola che è pressoché muta sui ritiri in solitudine che corrispondevano a una tradizione eremitica apprezzata e praticata da Francesco e dalla maggioranza dei suoi compagni. Esso regola soprattutto i rapporti tra vita attiva e vita contemplativa nel corso di tali ritiri. In gruppi di tre o quattro, i frati dovevano dividersi in due «madri» conducenti la vita attiva di Marta, e in uno o due «figli» conducenti la vita contemplativa di Maria. Il Testamento, probabilmente scritto a Siena durante l’inverno del 1225-1226, è un testo capitale. Francesco ha voluto farne un complemento della regola e conferirgli allo stesso titolo forza di legge nell’ordine, ciò che il papa Gregorio IX si è affrettato ad annullare dal 1230 con la bolla Quo elongati. Francesco sembra aver cercato di reintrodurvi un certo numero di principi o prescrizioni che erano stati tolti o addolciti nella regola del 1223. È stato detto che, quasi prevedesse che le sue intenzioni non sarebbero state rispettate, Francesco ha messo in questo testo «una sconsolata tristezza ove si sente talora un accenno di disperazione». Se egli vi richiama la sua venerazione per le chiese, la sua fede nei preti, compresi i teologi, vi evoca anche il ruolo decisivo dei lebbrosi nella sua conversione, l’ispirazione che egli non ha ricevuto che da Dio, nel definire il suo ideale, l’obbligo del lavoro manuale, la necessità di non dimorare «che da straniero e pellegrino» in povere chiese e conventi, l’assoluta proibizione di far richiesta di privilegi alla corte romana, lo stretto dovere di seguire la regola e il Testamento senza nulla aggiungervi o sottrarvi. Infine il Piccolo Testamento, dettato da san Francesco a frate Benedetto nell’aprile del 1226, dopo aver dato la benedizione a «i miei frati i quali sono nell’ordine e che vi entreran-

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no fino alla fine del mondo», ribadisce i tre principi essenziali: l’amore tra i frati dell’ordine, il rispetto di «nostra signora la santa povertà», l’obbedienza alla «Santa Madre Chiesa». Ciò che resta delle lettere, anche ove ci si attenga a quelle sicuramente autentiche, testimonia dell’attività epistolare di Francesco verso i compagni, l’ordine, tutti i cristiani. Delle lettere agli amici resta una Lettera a frate Leone: Così ti dico, figlio mio, come madre, che tutte le parole che dicemmo per via brevemente raccolgo in questa parola e consiglio; e non è necessario che tu venga ulteriormente a me per consiglio, perché così io ti ammonisco: In qualunque modo ti sembra di meglio piacere al Signore e di seguire i suoi passi e la sua povertà, fatelo con la benedizione di Dio e con la mia obbedienza. Ma se ti è necessario per la tua anima o per tua consolazione, e vuoi, o Leone, venire da me, vieni pure.

Ancora a frate Leone è destinato un documento eccezionale, una pergamena autografa di Francesco, conservata nel Sacro Convento di Assisi, che reca da un lato le Lodi di Dio, dall’altro la Benedizione di frate Leone con il segno «Tau». Francesco la scrisse nel settembre 1224 sulla Verna. Un’altra lettera da amico è quella che egli fece pervenire poco prima della morte chiedendole di affrettarsi se voleva vederlo ancora vivo, alla sola figura femminile che, con santa Chiara, compaia nella vita del santo, la nobildonna romana Giacomina de’ Settesoli – da lui chiamata «frate Giacomina» – la quale soleva preparargli un dolce di mandorle che egli amava gustare durante la malattia a Roma. Le lettere riguardanti l’attività dell’ordine comprendono una lettera (di obbedienza) nella quale ordina a frate Agnello di Pisa di recarsi in Inghilterra per svolgervi l’ufficio di ministro, una lettera a un ministro concernente i problemi della regola sui quali dovrà riflettere prima del capitolo di Pentecoste e una lettera al capitolo generale e a tutti i confratelli contenente, oltre alla sua confessione per aver pec-

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cato «sia per negligenza, sia a cagione della mia infermità, sia perché sono ignorante e illetterato», delle prescrizioni relative all’eucaristia, la messa, la sacra Scrittura e il canto ove occorre prestare attenzione non «alla melodia della voce ma alla rispondenza della mente». L’appello rivolto alla cristianità comprende una Lettera a tutti i chierici e una Lettera a tutti i fedeli. La prima, il cui testo proviene dal monastero di Subiaco con il quale san Francesco mantenne relazioni dovute sia al suo gusto per l’eremitaggio sia al desiderio di riallacciarsi a una tradizione benedettina autentica, richiama i chierici al rispetto del santo sacramento. La seconda, piuttosto lunga, è un appello alla penitenza. L’interessante quadro che egli vi fa del moribondo impenitente attorniato da parenti e amici che fingendo di piangere hanno fretta di impadronirsi della sua fortuna, rivela, oltre al talento satirico dell’autore, l’apparizione di un tema che avrà successo alla fine del Medioevo. Gli inni e le preghiere manifestano altresì un aspetto ancor più profondo del genio del santo: la sua sensibilità poetica e lirica. Le Lodi del Signore, la Salutatio B. Virginis e la Salutatio Virtutum, l’Ufficio della passione del Signore testimoniano il senso liturgico di Francesco, il suo bisogno di risolvere in effusione la sua meditazione e contemplazione, i centri d’attrazione della sua devozione: il Signore come creatore onnipotente, il Cristo come crocifisso, la Vergine come sposa del Signore, le virtù come sante donne della religione: santa Sapienza, pura e santa Semplicità, santa Povertà, santa Umiltà, santa Carità, santa Obbedienza. Ma questo contributo di san Francesco alla poesia spirituale così caratteristica del XIII secolo è eclissato dal suo capolavoro lirico, il Cantico di frate Sole. Questo poema, perla degli esordi della poesia italiana, è stato definito da Renan «il più bel brano di poesia religiosa dopo i vangeli». Il cantico attesta l’amore fraterno di Francesco per tutto il creato.

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San Francesco medievale o moderno? La novità del messaggio di Francesco, del suo stile di vita e di apostolato colpirono subito i suoi contemporanei. Se può sembrare che Tommaso da Celano, portato a insistere sull’originalità di un santo di cui era discepolo e di un ordine cui apparteneva e su cui era in certo qual modo incaricato di richiamare l’attenzione, abbia esagerato in questo senso, si pensi che in un’epoca in cui la tradizione rappresentava invece un valore essenziale e la novità era motivo di scandalo, gli occorse un forte incitamento per mettere così in evidenza la novità di Francesco e della sua azione: Nell’avvilimento in cui, non in particolare, ma in generale, dovunque era caduta la dottrina evangelica, egli fu mandato da Dio a testimoniare per tutto il mondo, come gli apostoli, la verità. Il suo insegnamento mostrò ad evidenza la stoltezza di tutta la sapienza del mondo, e in breve lo riportò, con l’aiuto di Cristo, per mezzo della stoltezza della sua predicazione, alla vera sapienza di Dio; poiché nuovo evangelista in questi ultimi tempi, come un fiume di paradiso inondò il mondo intero con le acque fluenti del Vangelo, e con le opere predicò la via del Figlio di Dio e la dottrina della verità. Così in lui e per lui si è operato sulla terra un insperato fervore; e il santo rinnovamento con il germe dell’antica religione ha ringiovanito i rami assai vecchi e induriti. È stato infuso nuovo vigore nel cuore degli eletti e in mezzo a loro si è sparsa una salutare unzione, appena, come un lume celeste, il santo servo di Cristo con una nuova forma di santità e con prodigi nuovi ha diffuso la sua luce. Per lui si sono ripetuti gli antichi miracoli, quando, nel deserto di questo mondo, all’antica maniera ma con mutato ordine è stata piantata la vite fruttifera (Vita prima, trad. it. di F. Casolini, Milano 1923, pp. 89-90).

Gli storici della fine del XIX e del XX secolo fecero coro ed esaltarono la modernità di san Francesco iniziatore del Rinascimento e del mondo moderno. Il francese Emile Gebhart, nella sua opera Italie mystique (Parigi 1906), accomu-

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nava Francesco d’Assisi e Federico II e vedeva in questi due primi grandi moderni del Medioevo coloro che, ciascuno nella sua sfera, avevano liberato l’Italia e la cristianità dal disprezzo del mondo, dall’ossessione del diavolo, dal peso dell’Anticristo. Francesco era il liberatore: I caratteri distintivi della religione francescana: la libertà di spirito, l’amore, la pietà, la serenità gioconda, la familiarità formeranno per lungo tempo l’originalità del cristianesimo italiano, così diverso dalla fede farisaica dei bizantini, dal fanatismo degli spagnoli, dal dommatismo scolastico della Germania e della Francia. Niente di ciò che, ovunque, ha ottenebrato o inceppato le coscienze, né la metafisica sottile, né la teologia raffinata, né le inquietudini della casistica, né l’eccesso di disciplina e di penitenza, né lo scrupolo estremo della devozione, peserà più sugli italiani.

Un campo in cui si è preteso che l’influenza di san Francesco, della sua sensibilità, della sua devozione sia stata decisiva e abbia sospinto l’Occidente sulle nuove vie dell’età moderna, è l’arte. Il movimento francescano sarebbe all’origine del Rinascimento. Il tedesco Henry Thode lo sostenne in un libro del 1885 che fece epoca: Franz von Assisi und die Anfänge der Kunst der Renaissance in Italien (Francesco d’Assisi e gli inizi dell’arte del Rinascimento in Italia). Francesco avrebbe drammatizzato la religione cristiana e svolto un ruolo decisivo nello sviluppo delle «laudi» e delle «sacre rappresentazioni». Avrebbe diffuso il gusto per gli aneddoti edificanti, gli exempla, donde il rifarsi della pittura all’aneddoto e alla vita comune. Egli avrebbe scoperto la natura nella sua forma sensibile e introdotto nell’iconografia il ritratto e il paesaggio. Da lui deriverebbero all’arte il realismo e il racconto. Ma un esame più attento ha mostrato che la maggior parte delle correnti che si facevano derivare da san Francesco avevano una fonte a lui anteriore. Consideriamo temi precisi: alla svolta dal XII al XIII secolo, vediamo il passaggio nei crocifissi dipinti, dalla figura del Cristo in gloria a quella del Cristo in atto di dolore, l’arretrare della Madonna in maestà

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dinanzi alla maternità, la tendenza dell’iconografia dei santi a staccarsi dalle figure stereotipe e dagli attributi simbolici per aderire alla verità della biografia e dei tratti. Fin dal 1215 il paliotto di Berardenga alla pinacoteca di Siena narra su sei piccoli pannelli aneddotici, attorno alla figura del Cristo in trono, la storia della croce. Del pari gli storici sono stati colpiti dalla novità del tipo di santo imposto da Francesco ai suoi contemporanei, sensibile fin dalla Vita prima di Tommaso da Celano, ove, accanto alla descrizione dell’uomo interiore di Francesco è ritratto, con realismo assai preciso e dettagliato, l’uomo esteriore, cioè Francesco sotto un’apparenza fisica che si oppone alla bellezza tradizionale del santo grande e biondo, canone estetico improntato al cavaliere nordico. Francesco vi è descritto di media statura, quasi piccolo, la testa rotonda e proporzionata, il volto allungato, la fronte piatta e piccola, gli occhi di media grandezza, neri e ingenui, i capelli molto scuri, le sopracciglia diritte, il naso piccolo e rettilineo, le orecchie dritte ma minute, le tempie piatte, i denti ben allineati, regolari e bianchi, le labbra sottili, la barba nera, il pelo ineguale, il collo fine, le spalle dritte, le braccia corte, le mani piccole, le dita affilate, le unghie lunghe, le gambe esili, la pelle levigata, scarnita...

Il solo ritratto contemporaneo di Francesco, quello di Subiaco, ha dipinto l’uomo interiore secondo i canoni della bellezza tradizionale (a meno che i capelli biondi e gli occhi azzurri non siano dovuti a un restauro non fedele del XIX secolo), mentre quello, posteriore, di Greccio evoca bene l’uomo piccolo e nero che doveva parlare per sedurre le folle, quel «pulcino nero» a cui lui stesso si paragona. Questo Francesco dall’aspetto misero lo si ritrova nei Fioretti mendicare senza successo con frate Masseo: Poiché san Francesco era uomo di aspetto miserando e piccolo di statura e per questo passava per un vile poverello presso co-

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loro che non lo conoscevano, egli non riceveva che qualche boccone e resti di pane secco; ma a frate Masseo, poiché era uomo grande e prestante, davano molti buoni bocconi, e pani interi.

Ma questo ritratto realista di un santo è già largamente abbozzato, più di mezzo secolo prima, nella Vita di san Bernardo ove l’uomo esteriore, senza essere oggetto d’altrettanta attenzione che l’uomo interiore, è tuttavia già descritto senza compiacimento. Del resto Francesco è in sintonia con le tendenze essenziali della sensibilità gotica ansiosa di realismo, di luce, di delicatezza. Ma se egli non ha creato tale sensibilità, l’ha, con il suo prestigio, con la sua influenza, con il suo ordine, prolungata, singolarmente aiutata e rafforzata. Nel Cantico di frate Sole, malgrado un’allusione al simbolismo del sole, immagine di Dio, le stelle, il vento, le nubi, il cielo, il fuoco, i fiori, l’erba sono innanzitutto visti e amati nel loro essere sensibile, nella loro bellezza materiale. L’amore che egli ha loro portato si è trasmesso agli artisti che d’ora in poi hanno voluto rappresentarli fedelmente, senza deformarli né gravarli del peso di simboli alienanti. Così per gli animali, che da simbolici divengono reali. Dunque san Francesco è stato moderno perché tale era il suo secolo. E non si sminuisce la sua originalità né la sua importanza constatando, come ha fatto mirabilmente Luigi Salvatorelli, che «non sorge come un albero magico in mezzo a un deserto» ma è altresì il prodotto di un luogo e di un’epoca, «l’Italia comunale al suo apogeo». In questo contesto tre fenomeni sono decisivi per l’orientamento di Francesco: la lotta delle classi, l’ascesa dei laici, il progresso dell’economia monetaria. Ciò che lo colpì per tempo fu l’asprezza e la frequenza delle lotte sociali e politiche cui dovette egli stesso prender parte prima della conversione. Le lotte fra partigiani del papa e partigiani dell’imperatore, tra città, tra famiglie, non fanno che ampliare ed esasperare le opposizioni tra gruppi sociali. Francesco che, figlio di mercante, si trova a mezzo fra ceti popolari e nobiltà, appartiene al popolo per nascita

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ma è vicino all’aristocrazia per fortuna, cultura e tenore di vita, è particolarmente sensibile a queste fratture. Vuol sempre essere umile di fronte ai suoi superiori ma altresì al cospetto dei suoi pari e dei sottoposti. Così accoglie l’ammonimento di un contadino, intento a lavorare il suo campo che egli attraversa in groppa a un asino, il quale l’esorta a non tradire la fiducia che molti ripongono in lui e a essere così buono come si dice. Francesco scende dall’asino, bacia i piedi del contadino e lo ringrazia per la lezione. Inversamente, indovina i pensieri di frate Leonardo che gli cammina a lato mentre egli monta un asino e che dice fra sé: «Non si trattavano certo da pari i parenti di costui e i miei ed ecco che egli cavalca, e io a piedi devo guidare il suo asino». Francesco scende tosto a terra e gli dice: «No, fratello, non è conveniente che io cavalchi e tu te ne venga a piedi, poiché al secolo tu fosti più nobile e onorato di me». Sormontare le fratture sociali dando all’interno dell’ordine l’esempio dell’uguaglianza e, nel contatto con gli uomini, dell’adeguazione ai ceti più diseredati, ai poveri, ai malati e ai mendicanti, fu dunque il suo scopo. E, all’interno della società secolare, fu sua aspirazione far opera di pace. Ai perugini, sempre pronti ad assalire i loro vicini, predice che le discordie intestine li lacereranno e che il giudizio di Dio li forzerà in modo sanguinoso a ritrovare il bene supremo, la concordia, l’unitas. Così ancora a Bologna, il 15 agosto 1222, secondo Tommaso da Spalato, testimone della scena: Il suo discorso non aveva nulla del tono né dei modi di un predicatore; somigliava piuttosto a una conversazione e non mirava che a placare gli odi e a ricondurre la pace. L’abbigliamento dell’oratore era miserabile, il suo aspetto dimesso, il suo volto senza bellezza; ma la sua parola giunse nondimeno a riconciliare i nobili bolognesi che da generazioni non cessavano di uccidersi fra loro.

Nella casa in cui entra, egli comincia con il dire: «Pace a questa casa», e nella Lettera a tutti i fedeli inizia con l’augu-

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rare loro «la vera pace». Ma come ricondurre la pace? Bisogna innanzitutto associare i laici alla vita della Chiesa anziché sottometterli al dominio dei chierici, colpirli di scomunica e di interdetti – come quello che Innocenzo III scaglia su Assisi nel 1204 – che perdono, per l’abuso che se ne fa, ogni efficacia. Così egli vuol fare dei suoi frati non l’ordine che gli sarà imposto ma un sodalizio, una confraternita in cui convivano chierici e laici. Accetta quindi volentieri l’istituzione del Terz’ordine. Ai nobili che hanno dato vita a una cultura, la cultura cavalleresca, ai mercanti che cominciano a dominare le città, agli umili che mostrano, con il lavoro o la rivolta, il loro ruolo nella società, a tutti costoro egli si rivolge altrettanto che ai chierici. Nella chiusa della regola del 1221 Francesco li nominava accanto ai chierici: a tutti i fanciulli e bambini, poveri e ricchi, re e principi, operai, agricoltori, servi e padroni, a tutte le vergini, vedove e maritate, ai laici, maschi e femmine, a tutti gli infanti, adolescenti, giovani e vecchi, sani e infermi, a tutti piccoli e grandi, a tutti i popoli, genti, tribù e lingue, a tutte le nazioni e a tutti gli uomini di ogni parte della terra...

A tutti gli uomini bisogna dunque predicare il Vangelo. Ma che cosa c’è d’essenziale nel Vangelo? Cosa di esso si oblia e si tradisce? La spoliazione, la povertà. I progressi dell’agricoltura e la vendita dei surplus che ne derivano, lo slancio del commercio al minuto e all’ingrosso, ecco ciò che, a causa della seduzione crescente del denaro che sostituisce le pratiche semplici dell’autarchia, del baratto, diffonde vieppiù la corruzione. La salvezza l’ha mostrata Cristo nel Vangelo di Matteo, così come Francesco l’ha intesa alla Porziuncola: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e vieni, seguimi»; al che si aggiunge un’altra rinuncia: «Ognuno, che lascerà il padre o la madre, i fratelli e le sorelle, la moglie o i figli, le case e i campi per amor mio, riceverà il centuplo e possederà la vita eterna». All’abbandono del

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denaro si aggiunge quello della famiglia che non è spiegato soltanto dal testo evangelico e dagli screzi di Francesco con i suoi, ma che corrisponde altresì al contesto sociale e mentale in cui egli vive, in questo inizio del XIII secolo in cui le strutture tradizionali della famiglia sono sconvolte e in cui si crea una sorta di vuoto tra la grande famiglia di nobile lignaggio o della comunità contadina e la famiglia ristretta comprendente solo ascendenti e discendenti diretti che non si è ancora costituita. Ma innanzi a queste sollecitazioni congiunturali in cosa consiste la modernità della risposta di Francesco? La cultura e la sensibilità cavalleresche, che ha acquisito prima della conversione, egli le porta con sé nel suo nuovo ideale religioso; la Povertà è la sua sposa. Madonna Povertà, le sante Virtù sono altrettante eroine cortesi, il santo è un cavaliere di Dio nelle vesti di un trovatore, di un giullare. I capitoli della Porziuncola si ispirano alle riunioni della Tavola Rotonda attorno ad Artù. La modernità di san Francesco è forse l’aver introdotto l’ideale cavalleresco nel cristianesimo, come i primi cristiani vi avevano introdotto l’ideale sportivo antico – il santo atleta di Cristo –, e san Bernardo l’ideale militare della prima cavalleria, la Milizia di Cristo? Le direttive propriamente religiose di Francesco possono sembrare altrettanto tradizionali. La tendenza eremitica risale almeno alla stabilizzazione del cristianesimo nel IV secolo e da allora non è mai venuta meno. Francesco e i suoi compagni, nei loro assidui soggiorni eremitici, non differiscono affatto a prima vista da tutta una folla di solitari che, a quel tempo, abitano le grotte, le foreste, le alture di tutta Italia, dalla Calabria al nord dell’Appennino. La pratica del lavoro manuale si ricollega al movimento benedettino primitivo altrettanto che alla riforma monastica dell’XI e XII secolo introdotta da Prémontré a Citeaux. La povertà è dalla fine dell’XI secolo la parola d’ordine di tutti i pauperes Christi, i «poveri di Cristo» che pullulano in tutta la cristianità. L’originalità di Francesco sarà soltanto nell’aver resistito alla tentazione eretica cui la maggioranza di questi «poveri»

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ha ceduto? Certo non mancano coloro che all’inizio del XIII secolo sono entrati nei ranghi della Chiesa: nel 1201 una comunità di Umiliati ortodossi, nel 1208 i «poveri cattolici» del valdese convertito Durando di Huesca, nel 1210 un altro gruppo di Valdesi attorno a Bernardo Primo. Ma che ne è della folla di Albigesi e, in Italia stessa, al tempo di Francesco, dei Catari che hanno un vescovo a Firenze e una scuola a Poggibonsi, dei Patari, degli Arnaldisti, dei Valdesi? Nel 1218 a Bergamo si tiene un congresso dei Poveri lombardi, nel 1215 Milano è definita «fossa di eretici», Firenze è ancora considerata nel 1227 come infestata dall’eresia. E, innanzitutto, Francesco ha veramente rischiato di cadere nell’eresia? Bisogna distinguere le tendenze e le circostanze. Si sono avuti certamente nelle une e nelle altre elementi che avrebbero potuto condurre Francesco all’eresia. L’intransigente volontà di praticare un Vangelo integrale, spogliato di tutto l’apporto della storia posteriore della Chiesa, la diffidenza nei conforti della curia romana, la determinazione di far regnare fra i Minori una eguaglianza quasi assoluta e la previsione del dovere di disobbedienza, la passione di spoliazione spinta fino alla manifestazione esteriore di nudità che Francesco e i suoi confratelli hanno praticato sull’esempio degli adamiti, il posto accordato ai laici, tutto ciò parve pericoloso se non sospetto alla curia romana. Unendo i suoi sforzi a quelli dei ministri e dei padri guardiani preoccupati di tanta intransigenza, essa sottopose Francesco a pressioni, esigendo da lui se non delle abiure almeno delle rinunce che lo condussero certamente nel 1223 sull’orlo della tentazione eretica. Egli vi resistette. Perché? Molto probabilmente innanzitutto perché non nutrì mai i sentimenti che, dopo di lui, condussero all’eresia una parte dei Francescani, gli spirituali. Francesco non fu né millenarista, né apocalittico. Egli non frappose mai un Vangelo Eterno, un’età d’oro mitica, tra il mondo terreno in cui viveva e l’aldilà del cristianesimo. Non fu l’angelo del sesto sigillo dell’Apocalisse cui indebitamente l’assimilarono alcuni

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spirituali. Le loro elucubrazioni escatologiche eretiche procedettero da Gioacchino da Fiore, non da Francesco. Ma ciò che soprattutto lo trattenne fu la determinazione fondamentale, ripetuta senza posa al di là di ogni pressione, di restare a qualunque prezzo (e sarà in effetti un caro prezzo), lui e i suoi frati, nella Chiesa. Perché? Indubbiamente perché non voleva spezzare quell’unità, quella comunità cui tanto teneva. Ma soprattutto a causa del suo bisogno viscerale dei sacramenti. Quasi tutte le eresie medievali sono contro i sacramenti. Ora Francesco ha, nel suo intimo, bisogno dei sacramenti e fra gli altri del primo tra essi, l’eucaristia. Per somministrare i sacramenti occorre un clero, una Chiesa. Quindi Francesco – anche se la cosa può sorprendere – è disposto a perdonare molto ai chierici in cambio di tale ministero. In un’epoca in cui gli stessi cattolici ortodossi si pongono il problema della validità dei sacramenti somministrati da preti indegni, Francesco la riconosce e la afferma senza difficoltà. Così si è potuto dire di lui che, insieme a san Domenico, pur con mezzi differenti, ha salvato la Chiesa minacciata dall’eresia e dalla decadenza. Egli ha realizzato il sogno di Innocenzo III. Per alcuni d’altronde ciò è stato oggetto di scandalo e di deplorazione, come per il Machiavelli: Furono sì potenti gli Ordini loro nuovi che ei sono cagione che la disonestà dei prelati e dei capi della religione non la rovini vivendo ancora poveramente ed avendo tanto credito nelle confessioni con i popoli, e nelle predicazioni ch’ei danno loro a intendere come gli è male a dir male del male e che sia bene vivere sotto l’obbedienza loro e se fanno errori lasciarli castigare da Dio; e così quelli fanno il peggio che possono perché non temono quella punizione che non veggono e non credono (Discorsi, III).

Vero è che Francesco fu uno degli alibi che la Chiesa invischiata nel secolo periodicamente ritrova. Questo Francesco, così ortodosso come si è sostenuto, e più tradizionale di

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quanto lo si presenti spesso, fu davvero un novatore? Sì, e riguardo a punti essenziali. Prendendo e proponendo come modello il Cristo stesso e non più i suoi apostoli, egli impegnò la cristianità in un’imitazione del Dio-Uomo che ridischiuse all’umanità le più elevate ambizioni, un orizzonte infinito. Sottraendosi egli stesso alla tentazione della solitudine per introdursi in mezzo alla società vivente, nelle città e non nei deserti, nelle foreste o nelle campagne, ruppe in modo definitivo con un monachesimo della separazione dal mondo. Ponendosi come programma un ideale positivo, aperto all’amore per tutte le creature e tutta la creazione, ancorato alla gioia e non più alla tetra accidia o alla tristezza, rifiutando di essere il monaco ideale della tradizione votato al pianto, egli rivoluzionò la sensibilità medievale e cristiana e ritrovò una primitiva allegrezza subito soffocata dal cristianesimo masochista. Schiudendo alla spiritualità cristiana la cultura laica cavalleresca dei trovatori e la cultura laica popolare del folclore paesano con i suoi animali, il suo universo naturale, il meraviglioso francescano ha infranto le chiusure che la cultura clericale aveva imposto alla cultura tradizionale. Anche qui il ritorno alle fonti fu il segno e la prova del rinnovamento e del progresso. Ritorno alle fonti, perché non bisogna infine dimenticare che il francescanesimo è reazionario. Al cospetto del XIII secolo, moderno, esso rappresenta la reazione non di un disadattato come Gioacchino o come Dante, ma di un uomo che vuole, di contro all’evoluzione, salvaguardare valori essenziali. In Francesco tali tendenze reazionarie possono sembrare illusorie e al tempo stesso pericolose. Nel secolo delle università, il suo rifiuto della scienza e dei libri, nel secolo in cui si coniano i primi ducati, i primi fiorini, i primi scudi d’oro il suo odio viscerale per il denaro – la regola del 1221, in spregio di ogni senso economico, afferma: «Non dobbiamo trovare né credere che vi

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sia nel denaro un’utilità maggiore che nelle pietre» – non è una pericolosa sciocchezza? Lo sarebbe, se Francesco avesse voluto estendere la sua regola a tutta l’umanità. Ma giustamente Francesco non intendeva affatto trasformare i suoi seguaci in un «ordine», egli non desiderava che riunire un piccolo gruppo, una élite che facesse da contrappeso, mantenesse desta un’inquietudine, un fermento di fronte all’ascesa del benessere. Questo contrappunto francescano è restato un bisogno del mondo moderno, per i credenti come per i miscredenti. E come Francesco, con la sua parola e il suo esempio, l’ha predicato con un ardore, una purezza e una poesia ineguagliabile, il francescanesimo costituisce ancor oggi una «sancta novitas», secondo la definizione di Tommaso da Celano, una novità santa. E il Poverello resta non solo uno dei protagonisti della storia ma una delle guide dell’umanità.

III IL LESSICO DELLE CATEGORIE SOCIALI IN SAN FRANCESCO E NEI SUOI BIOGRAFI DEL XIII SECOLO* Riterremo già noti1, nelle loro grandi linee, i problemi storiografici che pongono l’autenticità di alcuni scritti di san Francesco da un lato, e, dall’altro, l’obiettività di alcune testimonianze dei suoi primi biografi. In seguito vi faremo allusione, ma solo nella misura in cui tale critica tradizionale dei testi riguarda la nostra ricerca. Poiché, infatti, anche in questo caso dobbiamo lavorare su due livelli: quello del rapporto tra il lessico dei nostri testi e ciò che conosciamo da altre fonti sulle realtà a cui fa riferimento, quello della relazione di tale lessico con il mondo mentale di chi lo utilizzava. * Questo testo è stato pubblicato originariamente in Ordres et classes. Colloque d’histoire sociale, Saint-Cloud, 24-25 mai 1967, Mouton, Paris-La Haye 1973, pp. 93-103. 1 Le pagine che seguono sono solo un abbozzo del tema delimitato e definito dal titolo e hanno come scopo, al di là del problema su cui si concentrano, anche quello di mostrare il carattere drammatico della ricerca storica e del mestiere di storico oggi. Ogni ricerca, per quanto ristretta, non può essere condotta, e ancora meno portata a buon fine, se non rimettendo in causa la globalità del passato in cui si integra il suo oggetto e la totalità dell’attrezzatura concettuale che il presente offre allo storico. Non c’è nulla che illustri meglio questa duplice necessità dello studio delle parole. A ciascuna di queste è collegato tutto l’universo in cui è risuonata e, per farne un oggetto di conoscenza, lo storico deve confrontarla con il proprio linguaggio, a sua volta connesso al proprio universo contemporaneo. Quando Francesco d’Assisi parla dei poveri, non lo si intende se non in riferimento a tutto lo spessore della società del suo tempo; ma cogliamo tale società solo attraverso un ulteriore riferimento,

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I testi considerati sono contenuti nell’esile raccolta delle opere complete di san Francesco2, cioè le due regole, il Testamento, le lettere, le preghiere e i testi liturgici, e nelle biografie raccolte dai padri di Quaracchi3. Tra questi testi, in particolare, abbiamo utilizzato quelli dei seguenti autori: 1) di Tommaso da Celano, francescano italiano nato negli Abruzzi, vissuto in Germania e, soprattutto, in Italia; entrato nell’ordine verso il 1215 «con numerosi altri uomini istruiti e nobili» (cum pluribus aliis viris litteratis et nobilibus): – la Vita prima scritta nel 1228, su richiesta di papa Gregorio IX (citata I Cel.); – la Legenda chori (1230); – la Vita secunda (1246-1247) (citata II Cel.); – il Tractatus de miraculis (1250-1252); quello alla nostra cultura. Nel caso specifico, tutto ciò che questa raccoglie nel dossier «poveri», al di là delle differenze proposte dalle differenti ideologie storiche attuali, ci mostra il ruolo duplice e contraddittorio del presente nella comprensione del passato: rivelatore e obliterante. Per limitarci all’esempio più evidente, il concilio Vaticano II chiarisce e falsa allo stesso tempo le prospettive sulla povertà nella storia della cristianità. Constatare tali complesse embricazioni non significa affermare che «si trova tutto in ogni cosa e viceversa», il che è la negazione di qualsiasi scienza. Incita invece a una analisi a differenti livelli e a un andirivieni metodico e costante tra le strutture del passato e quelle del presente, sempre nella duplice prospettiva delle realtà «oggettive» e di quelle «mentali». Ciò comporta un trattamento delle totalità che solo i metodi dello strutturalismo e il ricorso alle macchine elettroniche sembrano poter consentire. Ma le possibilità concrete di studi di questo tipo sono ancora molto limitate. Da tutto ciò deriva il disagio dello storico di fronte a un lavoro ancora artigianale che sfugge al computer, come quello che è qui presentato (cfr. il programma-questionario apparso in «Annales E.S.C.», 2, 1968, pp. 335-348). 2 Nell’edizione di H. Bochmer, Tübingen-Leipzig 1904 (19613). 3 Nel voluminoso tomo X degli «Analecta franciscana» (Legendae S. Francisci Assisiensis Saec. XIII et XIV conscriptae. I. Saec. XIII), 1926-1941. Si troveranno due interessanti liste di parole chiave di san Francesco, con i riferimenti, in K. Esser, L. Hardick, Die Schriften des Hl. Franziskus von Assisi, Werl/W. 1951, e in P. Willibrord, Le Message spirituel de saint François d’Assise dans ses écrits, Blois 1960. Ma tali lessici si interessano soprattutto ai termini che fanno riferimento a concetti specificamente religiosi. Il tomo X degli «Analecta franciscana» comprende un prezioso indice che ci ha fornito un grandissimo aiuto, ma che presenta alcune lacune: i riferimenti ai termini citati non sono esaustivi; sono assenti certe parole che, indipendentemente dall’utilità per la nostra ricerca, comunque meriterebbero di comparire in un indice così ricco, come dives, fidelis, gastaldus, magister, magnatus, negociator, rex.

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2) di Giuliano di Spira, francescano tedesco, vissuto soprattutto a Parigi dove apprese le arti liberali e segnatamente la musica («prima del suo ingresso nell’ordine fu maestro di canto alla corte del re di Francia, notevole per la sua scienza e la sua santità», ante Ordinis ingressum fuit magister cantus in aula regis Francorum, scientia et sanctitate conspicuus), entrato nell’ordine prima del 1227, che insegnò musica nel convento di Saint-Jacques a Parigi: – una Vita (1232-1235 ca.), molto vicina alla Vita prima di Tommaso da Celano; – un Officium rhythmicum (1231-1232 ca.); 3) di Enrico d’Avranches, chierico secolare, «chierico vagante in missione per i re» (clericus vagus et pro regibus legationibus fungens) (alla corte d’Inghilterra, alla corte di Federico II in Germania, alla corte pontificia), chiamato «magister Henricus versificator», la Legenda versificata, scritta su richiesta di Gregorio IX (1232-1234 ca.), a partire dalla Vita prima di Tommaso da Celano; 4) di san Bonaventura, francescano italiano, nato da una famiglia di «piccoli borghesi» (padre medico di una piccola città), che studiò a Parigi, dove occupò una delle due cattedre di teologia dell’ordine all’Università, e divenne ministro generale dell’ordine nel 1257, la Legenda maior e la Legenda minor, scritte su richiesta del capitolo generale di Narbona nel 1260 per sostituire, come «vite ufficiali», le biografie scritte in precedenza (di cui venne ordinata la distruzione) e presentate al capitolo generale di Pisa nel 1263; 5) di Jacopo da Varagine, domenicano italiano, priore di Lombardia, quindi arcivescovo di Genova, la Vita S. Francisci nella Legenda aurea (scritta tra il 1265 e il 1280), che si serve della Vita secunda e del Trattato dei miracoli di Tommaso da Celano e della Legenda maior di san Bonaventura; 6) di un anonimo benedettino tedesco del convento di Oberaltaich in Baviera, la Vita detta Leggenda di Monaco (Legenda monacensis, 1275 ca.) che si serve delle due Vitae di Tommaso da Celano e di quelle di san Bonaventura.

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DEFINIZIONE E PORTATA DELLA RICERCA

Suo interesse Il francescanesimo è stato un grande movimento religioso che, più degli altri ordini mendicanti, ha scosso, segnato, impregnato l’insieme della società cristiana del XIII secolo, cioè dell’età in cui nacque. Ha utilizzato nuovi metodi di apostolato. Rompendo con l’isolamento del monachesimo precedente, ha lanciato i suoi membri sulle strade e soprattutto nelle città, allora in pieno sviluppo4, nel cuore della società. In tutti gli ambienti il suo successo è stato clamoroso. San Francesco d’Assisi, il suo fondatore, ha contribuito, grazie alla sua personalità storica e leggendaria, a garantire l’essenziale di tale successo. Le sue opere e quelle dei suoi primi biografi hanno rappresentato il principale arsenale a cui hanno attinto i Francescani per agire sulla società del loro tempo, attraverso la parola e l’esempio. Dunque, cosa ci dice questo arsenale su tale società? In questa prospettiva, tre qualità conferiscono un valore esemplare a tale insieme di testi. La sua efficacia va ricondotta a una particolare analisi della società globale. Certamente, l’attrezzatura concettuale francescana mira a trasformare la società, non a descriverla. Ogni lessico, ogni linguaggio è, d’altronde, allo stesso tempo sia strumento d’analisi e di comprensione, sia presa di posizione, mezzo d’azione. Ma, nell’alto Medioevo, la passività culturale delle masse (ancorate alla soggezione sociale e politica che lasciava loro solo l’eresia come espressione di rivolta) consentiva alla Chiesa di agire sulla società per mezzo di un linguaggio sacrale «terrorista» (uso del latino, simbolismo idealistico, antirealismo dell’arte romanica, ecc.). L’emancipazione di 4 Tentiamo di definire le relazioni tra «Apostolato mendicante e fenomeno urbano nella Francia medievale» in una ricerca il cui programma-questionario è apparso in «Annales E.S.C.», 2, 1968, pp. 335-348.

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categorie di laici sempre più numerose (cavalleria, strati urbani, rustici meno rigidamente imbrigliati e sostenuti dalle organizzazioni eretiche) rende tale linguaggio sempre più inefficace. La preoccupazione del francescanesimo di presa sulla nuova società gli impone un linguaggio, un lessico, che abbia un certo rapporto con la realtà, e innanzitutto con la realtà sociale e le sue strutture di gruppo. Allo stesso tempo, la volontà di rivolgersi all’insieme della società («tutti gli uomini, tutte le creature», omnes homines, omnes creaturae) conduce san Francesco e i suoi discepoli a utilizzare sistemi di denominazione che ricoprono tutte le categorie sociali. Tale insieme di testi presenta una sufficiente omogeneità dovuta: – al fatto che tutti ruotano attorno a un uomo, alla sua esperienza, al suo insegnamento: san Francesco; – al predominio tra gli autori di un gruppo modellato dalla medesima formazione e dal medesimo ideale: i Francescani; quest’aria di famiglia è rafforzata dall’influenza di un unico biografo su quasi tutti gli altri: Tommaso da Celano; – alla stessa localizzazione geografica dell’esperienza concreta della maggior parte e, in ogni caso, dei più importanti di loro: l’Italia centrosettentrionale; – all’appartenenza di tutti gli autori, se non alla stessa generazione, almeno a uno stesso periodo, quello tra 1220 e 1280 circa, e, essenzialmente, tra 1220 e 1263 – che si avrebbe la tentazione di chiamare «il XIII secolo di san Luigi» se, così facendo, non ci si allontanasse dall’Italia. Ma l’insieme dei testi considerati offre anche una diversità sufficiente da consentire eventuali varianti. Dal punto di vista della cronologia. Se questo «bel XIII secolo» è un periodo in cui si instaurano nuove strutture e un nuovo equilibrio, è anche un’epoca «in cui la storia si accelera» – il che permette di saggiare la capacità di resistenza o di adattamento delle strutture del linguaggio e delle mentalità. Più specificamente, durante questo periodo

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l’ordine francescano conosce un’evoluzione di cui bisognerà misurare l’impatto sul suo lessico. Dal punto di vista degli autori. Nonostante l’uniformità dello stampo francescano, la diversità delle loro origini sociali e geografiche, della loro formazione (e in particolare del passaggio, o meno, nelle università), della loro carriera e della loro personalità, l’insieme di testi prescelto lascia spazio a una certa diversificazione, incrementata dalla presenza di un domenicano, di un benedettino e di un secolare. Dal punto di vista dei generi letterari. Nonostante il predominio delle convenzioni agiografiche (d’altronde in evoluzione, poiché san Francesco rappresenta proprio uno dei principali riflessi e, allo stesso tempo, un fattore di tale evoluzione5), la diversità dei generi consente di definire il loro grado di resistenza all’interno di una stessa corrente: in san Francesco, a secondo della natura più o meno «ufficiale» dei suoi scritti, che vanno dalla regola alla lettera; nei suoi biografi, secondo la maggiore apertura alle novità di certi generi (biografia in prosa del tipo Vita o Legenda) o invece la loro maggiore aderenza a una tradizione formale (scritti in versi, scritti di tipo liturgico). Ci si può dunque chiedere se il carattere più «tradizionale» e forse anche reazionario dei termini e dei temi di Enrico d’Avranches sia dovuto tanto al «sistema» della poesia dotta della prima metà del XIII secolo, quanto alla sua condizione di secolare legato all’ambiente di corte6. 5 Sulla concezione della santità nei secoli XIII e XIV e il momento decisivo nella sua evoluzione rappresentato da san Francesco e dalla spiritualità mendicante, cfr., ora, A. Vauchez, La Sainteté en Occident aux derniers siècles du Moyen Âge d’après les procès de canonisation et les documents hagiographiques, Roma 1981. 6 Sull’importanza e la rigidità dei generi letterari nel Medioevo, cfr. E.R. Curtius, La littérature européenne et le Moyen Âge latin, Paris 1956 (trad. it., Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di R. Antonelli, Firenze 1992); E. Faral, Les Arts poétiques du XIIe et XIIIe siècle. Recherches et documents sur la technique littéraire du Moyen Âge, Paris 1923; Th.-M. Charland, Artes praedicandi. Contribution à l’histoire de la rhétorique au Moyen Âge, Paris-Ot-

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Ma, per quanto tale insieme di testi possa apparire favorevole allo studio dei rapporti tra il lessico sociale che vi compare e quella che si può definire, in termini scientifici attuali, come la realtà sociale dell’epoca, tuttavia presenta una serie di caratteristiche che non solo creano uno schermo tra il linguaggio e la struttura sociale, ma fanno emergere anche le difficoltà incontrate dallo storico, e particolarmente dal medievista, nella valutazione scientifica del lessico del passato. Sue difficoltà a) Difficoltà inerenti alla letteratura medievale La lingua. La lingua dei nostri testi è il latino. Ma, lungi dal semplificare uno studio del lessico, questa apparente uniformità pone notevoli problemi. Due in particolare: poiché il latino nel Medioevo era una lingua morta e viva allo stesso tempo, a quali realtà contemporanee rinviano le parole, quali approssimazioni, deformazioni, controsensi, giochi di parole intervengono tra i termini e il significato antico e medievale (per esempio: dux, miles, ecc.)? A partire dal XIII secolo quando, come noto, aumenta la pressione della lingua volgare sulla cultura, che rapporti intercorrono tra il lessico letterario latino e quello in lingua volgare? Nel caso di un nuovo tipo di apostolato, come quello di san Francesco, tali rapporti tra latino e volgare non pongono dei problemi specifici?7 tawa 1936. Sul genere agiografico, la maggior parte delle eccellenti opere che gli sono state dedicate, dai lavori classici di P.H. Delehaye al notevole studio di F. Graus (Volk, Herrscher und Heiliger im Reich der Merowinger. Studien zur Hagiographie des frühen Mittelalters, Praga 1965), trattano soprattutto dell’alto Medioevo. 7 Il grande problema della lingua della predicazione nel Medioevo si ripropone in modo ancora più acuto a proposito degli ordini mendicanti e, in particolare, dei Francescani. Per quanto riguarda san Francesco, sappiamo da numerosi passaggi delle biografie che la lingua delle sue effusioni mistiche era il francese (che era stata probabilmente la lingua delle canzoni e dei poemi cor-

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La «Weltanschauung» religiosa. Le religioni, e in particolare quelle universalistiche come il cristianesimo, per combattere la lotta di classe tendono a negarla «desocializzandone» le infrastrutture, in particolare l’arte e la letteratura, in cui il «realismo sociale» si insinua solo surrettiziamente. Gli schemi religiosi della società sono differenti dalle strutture sociali concrete. Talvolta – è il caso del modello dionisiano8 – la gerarchia umana è ricalcata su quella celeste che, d’altra parte, è sovente la trasposizione più o meno incosciente di una data struttura sociale storica9. Talaltra le disuguaglianze sono fondate su criteri prettamente religiosi (per esempio in rapporto al peccato, attitudine che porterà i teologi medievali a delle singolari assimilazioni tra il servus peccati e il servus in generale) e le distinzioni di gruppi poggiano su criteri liturgici o mistici che valorizzano una gerarchia dei sessi (uomini, donne) o situazioni familiari (verginità, vedovanza, matrimonio). Soprattutto, fondamentale risulta lo scarto tra chierici e laici. Benché abbia cercato di avvicinare l’apostolato alle condizioni sociali concrete, talvolta in ragione del suo desiderio tesi che lo deliziavano prima della conversione). I suoi biografi fanno molto raramente allusione al volgare italiano (lingua romana), la sola menzione precisa in proposito è quella del termine guardiani, di cui è segnalato l’impiego corrente per designare i custodi (cfr. «Analecta franciscana», X, Indice, s.v.). Ma san Francesco è autore del celebre Cantico di frate Sole (cfr. G. Sabatelli, Studi recenti sul Cantico di Frate Sole, «Archivium franciscanum historicum», 51, 1958) che, sorprendentemente, è stato scartato dai padri di Quaracchi nella loro edizione delle opere di san Francesco (Opuscula S. Patris Francisci Assisiensis, 1904 [19493]) proprio perché composto in lingua volgare. Questo significativo strappo compiuto da san Francesco alla stoffa latina della letteratura clericale medievale non è sfuggito a E.R. Curtius nella sua brillante opera citata supra, le cui analisi sottili affondano nell’epidermide della cultura: la letteratura «italiana comincia solo nel 1220 con il Cantico delle creature di S. Francesco» (p. 41). Nell’abbondante bibliografia dedicata alla predicazione, rinvio a R.M. Dessi, M. Lauwers (a cura di), La Parole du prédicateur (Ve-XVe siècles), Nice 1997. 8 Cfr. R. Roques, L’Univers dionysien. Structure hiérarchique du monde selon le Pseudo-Denys, Paris 1954. 9 Cfr., per esempio, su sant’Anselmo le pagine notevoli di R.W. Southern, Saint Anselm and his Biographer, Cambridge 1963, pp. 107-114 («The Feudal Imagery»).

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di trasformare la società terrena in società salvifica (tendenza evidentemente più forte nei francescani «gioachimiti», ma comunque presente in tutti), il francescanesimo ha mantenuto una confusione concettuale e verbale nei confronti delle categorie sociali10. I prestiti biblici. Ogni linguaggio è in parte un’eredità. Ma nel Medioevo questa eredità è particolarmente vincolante: il Libro contiene tutto il sapere, compreso il linguaggio: innanzitutto il linguaggio. La Bibbia è l’arsenale del lessico e dei modelli mentali. Per le parole come per il resto, qualsiasi novità è sospetta. Indubbiamente la Bibbia si presta a interpretazioni di ogni sorta ed è sufficientemente ricca e varia da potercisi trovare più o meno tutto ciò che vi si cerca. Alano di Lilla lo dichiara: le citazioni bibliche hanno il naso di cera11. Addirittura, all’inizio del XIII secolo, l’autorità in senso letterale – la citazione – non è più il fulcro della dimostrazione, del ragionamento: la dialettica e la scolastica insegnano al chierico a volare con le proprie ali. Ma se Francesco d’Assisi e il francescanesimo, dal punto di vista della lingua, rappresentano un progresso verso la parlata volgare, se dal punto di vista ideologico cercano compromessi tra il desiderio di un lessico concreto e la tendenza a instaurare una società religiosa in terra, invece dal punto di vista dell’impiego della Bibbia sono nettamente «reazionari». Per loro il Vangelo è alla base di tutto. Indubbiamente Tommaso da Celano definisce san Francesco un homo novus e il francescanesimo una sancta novitas, ma questa «novità» può essere definita da: il Vangelo, solo il Vangelo e tutto il Vangelo. Il Vangelo più della Bibbia. Poiché, per san Francesco la Tale confusione sembra essere alla base degli equivoci tentativi – per altri versi molto onorevoli – di «politica francescana» in epoca attuale, il cui principale rappresentate è indubbiamente Giorgio La Pira. 11 Ricordiamo le parole esatte di Alano di Lilla alla fine del XII secolo: «L’autorità ha un naso di cera, si può piegarlo in diversi sensi» (Auctoritas cereum nasum habet, id est diversum potest flecti sensum) (De fide catholica, I, 30; P.L., 210, 333). 10

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grande fonte non è l’Antico Testamento ma il Nuovo. Su 196 citazioni bibliche nei suoi scritti, non vi sono che 32 citazioni veterotestamentarie (di cui nove dai Salmi), contro 164 neotestamentarie (di cui 115 dai quattro Vangeli). Le altre autorità citate sono san Gerolamo (una volta) e sant’Agostino (una volta)12. Per sottolineare subito l’importanza di questa vera e propria «conversione evangelica» nel lessico, ricordiamo che gli autori dell’alto Medioevo – come è stato studiato in particolare per Alcuino13 – prendevano a prestito dall’Antico Testamento l’essenziale del loro vocabolario politico e sociale. Ora, se il lessico dell’Antico Testamento è più sacrale, spesso è anche più realistico. Quello del Nuovo Testamento invece, se è più spirituale, è tuttavia meno realistico, anche nei passaggi narrativi, nella misura in cui vuole precisamente trasformare, e talvolta svaporare, le istituzioni e lo spirito dell’antica legge. La grazia ritocca il vocabolario smussando e sublimando le categorie sociali. San Francesco, nelle sue intenzioni profonde e così come lo vedono i suoi biografi, è, nelle debite proporzioni, un nuovo apostolo, un nuovo evangelista e anche un nuovo Gesù. Perciò, nei testi che studiamo, incontra più persone del Vangelo che del suo tempo. E tuttavia bisogna ammettere che, dietro il lessico evangelico, vi erano delle realtà contemporanee, e l’efficacia francescana si spiega solo se questo lessico non aveva solamente un effetto magico, ma anche un carattere di adeguamento alle strutture oggettive della società a cui si rivolgeva. D’altronde, tale dipendenza del lessico dal Vangelo è più importante negli scritti di san Francesco che nei suoi biografi. Per esempio, le due parole più frequenti del loro lesSecondo H. Bochmer, ed. cit., pp. 142-144. Cfr. J. Chelini, Le Vocabulaire politique et social dans la correspondance d’Alcuin, in «Publications des Annales de la faculté des lettres d’Aix-en-Provence, série Travaux et Mémoires», XII, 1959; W. Ullmann, The Bible and Principles of Medieval Government, in «Settimane di Studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo» (Spoleto), X, 1963. 12 13

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sico sociale, nobilis e miles, compaiono appena nei Vangeli; e mentre nei Francescani miles ha quasi sempre il significato contemporaneo di «cavaliere», non è così, ovviamente, negli evangelisti in cui ha il significato di «soldato». Notiamo di passaggio, inoltre, un esempio delle contaminazioni mentali che l’evoluzione semantica doveva produrre nello spirito dei chierici del Medioevo, per cui il significato antico stingeva su quello nuovo. I milites del Vangelo appaiono solamente negli episodi della Passione. Sono in primo piano tra i carnefici di Cristo. Ecco di che alimentare l’ostilità che la maggior parte dei chierici del Medioevo – anche se provenienti dall’aristocrazia militare e coscienti della comunanza di interessi tra le due classi dominanti, l’ecclesiastica e la laica – hanno provato nei confronti dei milites. La disputa tra il chierico e il cavaliere è un luogo comune anche nella letteratura dell’epoca di san Francesco. A volte, inoltre, i testi evangelici forniscono ai Francescani un lessico atto a mettere in valore opposizioni sociali che acquistano un significato specifico nella società contemporanea. Ci si può domandare, per esempio, se la distinzione tra populus e turba (Mt IV, 23-25) non consenta ai biografi di san Francesco di cogliere ed esprimere meglio la distinzione tra le folle indifferenziate che si accalcavano nelle città attorno al santo e le formazioni «popolari» recenti, di cui Francesco constata l’esistenza e l’attività in seno alle lotte di classe che tenta di calmare14. 14 «E Gesù percorreva tutta la Galilea insegnando nelle sinagoghe e predicando il Vangelo del regno e guarendo ogni languore e ogni malattia nel popolo. [...] E grandi folle di Galilea lo seguirono» (Et circuibat Jesus totam Galileam, docens in synagogis eorum et praedicans evangelium regni, et sanans omnem languorem et omnem infirmitatem in populo. [...] Et secutae sunt eum turbae multae de Galilea) (Mt IV, 23-25). «Molti del popolo, nobili e non nobili, chierici e laici, iniziarono a venire a san Francesco» (Coeperunt multi de populo, nobiles et ignobiles, clerici et laici [...] ad sanctum Franciscum accedere) (I Cel., 37, p. 30). «Padre Francesco, abbandonate le folle secolari, che ogni giorno accorrevano con grande devozione per ascoltarlo e vederlo» (Pater Franciscus, relictis saecularibus turbis, quae ad audiendum et videndum eum quotidie devotissime concurrebant) (I Cel., 91, p. 69).

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Se dunque vi è un certo sfasamento tra il lessico biblico e quello corrente dell’inizio del XIII secolo, e uno sfasamento tra questo lessico e le realtà sociali dell’epoca, l’inadeguatezza del linguaggio che ne risulta è controbilanciata dalla necessità in cui si trova lo stesso san Francesco di trarre dal Vangelo le parole con cui essere in accordo con il suo tempo. E lo studio di questo gioco sottile nell’impiego del lessico biblico ci informa sui bisogni e le realtà dell’epoca. La scarsa fortuna di una parola, il successo di un’altra, i falsi significati e i controsensi, la necessità di ricorrere a un neologismo e tutta la gamma di slittamenti e di deformazioni semantiche sono indizi preziosi. b) Difficoltà inerenti ai testi scelti Testi di san Francesco. L’autenticità di alcuni testi di san Francesco – soprattutto alcune lettere – è incerta15. È un peccato per il nostro intento che, per esempio, la Lettera a tutti i governanti non sia al di fuori di ogni sospetto, in ogni caso per ciò che riguarda il testo letterale. Ci sembra, d’altronde, che uno studio interno sistematico del lessico dell’insieme delle opere attribuite a san Francesco potrebbe consentire un approccio migliore ai problemi di autenticità. Due dei testi più importanti di san Francesco sono stati redatti sotto influenze esterne. La Regula bullata è un compromesso tra il testo preparato dal santo e le richieste di modifica presentate da certi suoi compagni e dalla curia romana. Ma in questo caso, il confronto con il testo della regola composta dal santo è rivelatore, proprio dal punto di vista lessicale. Viceversa, il Testamento è un testo dettato dal santo in circostanze in cui alcuni hanno creduto riconoscere l’influenza di un ambiente «estremista»16. Anche in questo caso, per 15 Lo studio più serio è quello di G. Cambell, Les écrits de saint François d’Assise devant la critique, «Franziskanische Studien», 36, 1954, pp. 82-109, 205-264. 16 È il tentativo di K. Esser, Das Testament des Hl. Franziskus von Assisi. Eine Untersuchung über seine Echtheit und Bedeutung, Münster/W. 1949.

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quanto in modo meno evidente, il confronto con altri testi, in particolare le regole, può essere illuminante. Testi dei biografi. Tutti questi testi sono debitori, a diverso titolo, delle opere dell’autore più antico e più importante, Tommaso da Celano. Talvolta intere frasi ne sono una ripetizione ad verbum. Se queste variazioni su un modello, una fonte, possono permettere analisi comparative accurate, tuttavia spesso condannano tali sforzi a rimanere esercizi di rischiosa sottigliezza. Soprattutto, la parentela di tutti questi testi esclude un’intera famiglia francescana, quella della tendenza dei futuri «spirituali», il cui primo motivo di disaccordo con la tendenza «ortodossa» verte precisamente sull’interpretazione della persona di san Francesco, della natura delle sue intenzioni, della sua spiritualità, della sua attività, della sua opera. Bisognerebbe, nonostante gli importanti problemi di datazione, di autenticità, di attribuzione che sollevano, confrontare i nostri testi con tutti quelli, conservati e pubblicati17, che sembrano appartenere a tale gruppo non rappresentato e che si ricollega ai «tre compagni», i tres socii, il principale dei quali fu indubbiamente frate Leone. Ma un primo contatto con questi testi conferma un’ipotesi che si poteva fare a priori: la tendenza «spirituale» è, nella sua mentalità, nei suoi scritti, nella sua attrezzatura concettuale e verbale, la più «asociale», la meno realista di tutte, la più ostile al mondo di cui si affretta, come i Catari – con i quali non ha peraltro alcun contatto diretto –, a iniziare la purificazione ignorandone le strutture sociali, incarnazioni impure della sua malignità.

17 Se ne troverà la lista, con una breve presentazione, in O. Engelbert, Vie de saint François d’Assise, Paris 19562, pp. 400-404.

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GLI ELEMENTI DEL LESSICO DELLE CATEGORIE SOCIALI

In san Francesco (a partire dai suoi scritti e dalle sue biografie) La visione sociale di san Francesco sembra ordinarsi attorno a tre società: la società celeste, la società terrestre costituita dall’insieme del popolo cristiano, la società particolare costituita da lui stesso e dai suoi fratelli, per la quale cerca di definire un ruolo di mediazione privilegiata tra le due società precedenti. a) La società celeste Se per designare Dio san Francesco ricorre alle denominazioni correnti di «Signore» e di «Re», tuttavia non sviluppa i riferimenti alle gerarchie feudali e monarchiche implicate dai termini Dominus e Rex. Nella catalogazione della società celeste che si trova nella prima regola18, il santo qualifica Dio «re del cielo e della terra» (Rex coeli et terrae) e Cristo «Nostro Signore» (Dominus noster), ma enumera le gerarchie celesti – dalla Vergine, dagli arcangeli e angeli fino ai santi – al di fuori del lessico feudale o monarchico, accontentandosi di denominazioni prettamente religiose e liturgiche. Francesco sembra estraneo alla moda dionisiana dell’epoca che stabiliva, sul modello feudale, una simmetria tra società celeste e società terrestre. Egli sembra non aver stabilito alcuna corrispondenza tra le due società definite nel corso della prima regola. Se la società celeste obbedisce a un ordine gerarchico, da Dio ai santi, non vi è tuttavia alcun ordine nella catalogazione della società terrestre19. I Regula, XXII. «Tutti gli ordini seguenti, i preti, i diaconi, i sottodiaconi, gli accoliti, gli esorcisti, i lettori, gli uscieri e tutti i chierici, tutti i religiosi e tutte le religiose, tutti i fanciulli e bambini di entrambi i sessi, poveri e indigenti, re e principi, lavoratori e contadini, servi e signori, tutte le vergini, continenti e sposate, i laici, uomini e donne, tutti i fanciulli, adolescenti, giovani e vecchi, sani e mala18 19

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Se Rex rimane relativamente raro per designare Dio, Imperator non appare mai negli scritti di Francesco, e nei suoi biografi il santo definisce una sola volta Dio il «Grande Imperatore» (Magnus Imperator: II Cel., 106, p. 193). San Francesco non menziona mai neanche l’imperatore nella società terrestre, guardandosi bene dal conferirle un capo (tendenza «egualitaria» rafforzata forse da un riflesso guelfo?). Negli episodi della Vita, il solo imperatore menzionato è Ottone IV che, nel 1209, passa vicino ad Assisi, dove si trovano Francesco e i suoi primi fratelli. Ma il santo si guarda bene dal confondersi con i curiosi che vanno ad ammirare la pompa imperiale e vieta ai suoi fratelli di parteciparvi a eccezione di uno solo, incaricato di recarvisi e, con incessanti clamori, ricordare all’imperatore che la sua gloria non sarà durevole20. Quanto a lui, afferma che la sola cosa che avrebbe avuto da dire all’imperatore è di far ordinare con un editto a tutti i possessori di frumento e di grano di cospargerne le strade per far partecipare gli uccellini alla festa «e soprattutto le sorelle allodole»21. I suoi biografi menzionano, tra i re e le regine del tempo, solo il re e la regina di Francia, cioè Bianca di Castiglia e suo figlio san Luigi – sovrani di un paese per il quale Francesco nutriva una predilezione speciale dovuta all’estrema pietà e, in particolare, al fervore eucaristico che vi riconosceva – entrambi benefattori dalla prim’ora dei Minori e presto associati alla vita spirituale e liturgica dell’ordine. Ma il titolo che Francesco accorda più volentieri a Dio è quello di Pater, di «Padre», giacché il suo modello sociale è ti, tutti gli umili e i grandi e tutti i popoli, famiglie, tribù e lingue, tutte le nazioni e tutti gli uomini ovunque sulla terra, che sono e saranno» (Omnes sequentes ordines: sacerdotes, diaconos, subdiaconos, acolythos, exorcistas, lectores, ostiarios et omnes clericos, universos religiosos et religiosas, omnes pueros et parvulos et parvulas, pauperes et egenos, reges et principes, laboratores et agricolas, servos et dominos, omnes virgines et continentes et maritatas, laicos, masculos et feminas, omnes infantes, adolescentes, iuvenes et senes, sanos et infirmos, omnes pusillos et magnos, et omnes populos, gentes, tribus et linguas, omnes nationes et omnes homines ubicumque terrarum, qui sunt et erunt) (I Regula, XXIII). 20 II Cel., 106, p. 193. 21 Ivi, 200, p. 244.

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quello familiare22. Analogamente, se nomina la Vergine Maria una volta come Domina e Regina, «Signora» e «Regina»23, in lei vede soprattutto la prima delle creature, legata per eccellenza alla Trinità divina da rapporti familiari, «figlia» e «serva» del Padre24, «sposa» dello Spirito Santo25, e soprattutto, evidentemente, «madre» di Cristo. Ma è anche modello delle creature, «santa»26, «povera»27, «dolce e bella»28. Satana, se è il «padre del figlio malvagio»29, non è tuttavia mai designato in quanto principe delle tenebre o degli spiriti malvagi, come se Francesco volesse accuratamente evitare tutto ciò che potrebbe somigliare al manicheismo. Lo chiama semplicemente diabolus o Satanas, mentre invece i suoi biografi ricorrono talvolta alle perifrasi tradizionali di «antico nemico» o «antico serpente». Per quanto riguarda i demoni, i biografi ci riportano un paragone rivelatore. Per Francesco sono i gastaldi del Signore, agenti delle sue punizioni. Il santo vi aggiunge, maliziosamente, un riferimento alle corti dei grandi, dei magnati30. Concezione pessimista del potere e degli agenti della repressione, legati non solo al peccato originale dell’uomo, ma anche alla ribellione degli angeli malvagi. Senza spingersi 22 «Dio onnipotente, altissimo, santissimo e sommo, Padre santo e giusto, Signore re del cielo e della terra» (Omnipotens, altissime, sanctissime et summe Deus, Pater sancte et iuste, Domine Rex coeli et terrae...) (I Regula, XXIII). 23 Salutatio Virginis Marie, I. 24 Officium Passionis, I, C, 12. 25 Ibid. 26 Ibid. 27 I Regula, IX, 6; Regula Clarissarum, II, 1; Epistola, 5. 28 Preghiera Sancta Dei Genitrix Dulcis et Decora (opera di dubbia attribuzione). 29 I Regula, XXI, 8-9. 30 «I demoni che Egli destina a punire gli eccessi sono agenti di nostro Signore [...] e forse è per questo che consente ai suoi agenti di abbattersi su di me, perché la mia casa non offre un buon aspetto agli altri della curia dei grandi» (Daemones sunt gastaldi Domini nostri, quos destinat ipse ad puniendos excessus [...] sed potest esse quod ideo gastaldos suos in me permisit irrumpere, quia non bonam speciem aliis praefert mansio mea in curia magnatorum) (II Cel., 120, p. 201). San Bonaventura, che riprende questo passaggio (Legenda maior, VI, 10, p. 586), non parla di gastaldi.

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tanto quanto Jean de Meung nel pessimismo politico, Francesco tratteggia qui, come teologo, una critica del potere e dei poteri, che ritroveremo. b) La società francescana San Francesco considera se stesso e i suoi fratelli in tre prospettive: – Da un punto di vista positivo, neutro, in rapporto alla loro situazione al momento dell’entrata nella fraternita, essi rappresentano una sintesi della società terrena poiché appartengono alle due o tre categorie che si possono identificare nella società o – aggiungiamo – negli schemi ecclesiastici del tempo. In effetti, tra loro allo stesso tempo vi sono 1) «chierici» e «laici» (clerici e laici)31, 2) «istruiti» e «ignoranti» (litterati e illitterati)32, 3) membri di ciascuno dei tre ordini della società tripartita, o piuttosto di due degli ordini di tale società: «quelli che pregano» e «quelli che lavorano», oratores e laboratores, assimilati ai chierici e ai laici33. Ma in quest’ultimo caso, si è già fuori dalla società positiva e si entra nella società ideale. Se 31 Per esempio: «tutti i miei fratelli [...] tanto chierici quanto laici» (omnes fratres meos [...] tam clericos quam laicos) (I Regula, XVII); «Subito numerosi uomini buoni e adatti, chierici e laici, fuggendo il mondo e il diavolo per grazia e volontà dell’Altissimo lo seguirono con devozione e coraggio nella loro vita e nelle loro intenzioni» (Statim namque quamplures boni et idonei viri, clerici et laici, fugientes mundum et diabolum viriliter elidentes gratia et voluntate Altissimi, vita et propositio eum devote secuti sunt) (I Cel., 56, p. 43). 32 Per esempio: «voleva che i grandi si unissero ai minuti, i saggi ai semplici con un affetto fraterno, che coloro che sono lontani si unissero tra loro con un legame d’amore. Ecco, disse, che tutti i religiosi della Chiesa formino un solo capitolo generale! Affinché i letterati siano assieme agli illetterati» (uniri volebat maiores minoribus, germano affectu coniungi sapientes simplicibus, longinquos longinquis amoris glutino copulari [...] Ecce, ait, fiat omnium religiosorum qui in Ecclesia sunt unum capitulum generale! Quoniam igitur adsunt litterati et qui sine litteris sunt) (Act. 4, 13) (II Cel., 191, p. 240). 33 «Omnes fratres meos predicatores, oratores, laboratores» (I Regula, XVII). Non credo che bisogna leggere in questa frase uno schema tripartito originale in cui i predicatores sostituirebbero i bellatores, essendo la predicazione una specie di combattimento con la parola. Gli oratores sono abitualmente al primo posto e sembra piuttosto che, in questo caso, si tratti di una coppia: a oratores e laboratores fa immediatamente eco tam clericos quam laicos.

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Francesco esclude da quest’ultimo insieme i «guerrieri», i bellatores, non è tanto per una concezione dualistica e dialettica della totalità (due opposti che formerebbero un tutto meglio di una triade), ma piuttosto perché non concepisce che il suo ordine possa comprendere dei guerrieri, il che sottolinea la sua distanza sia dalla concezione tradizionale di un monachesimo costituito da milites Christi (concezione bernardiana) sia dallo schema, allora più recente, di una Chiesa dal triplice volto: militans, laborans, triumphans34. – Da un punto di vista normativo, il suo ordine (o la sua fraternita) raggruppa rappresentanti dell’insieme di due élites socio-spirituali: l’élite di «tutti gli inferiori» (i frati sono i minori per eccellenza) – punto di vista per noi particolarmente importante perché cataloga le categorie sociali disprezzate, Francesco stesso qualificandosi per primo come: servus («servo»)35, minister («servitore»)36, rusticus («contadino e illetterato»)37, mercenarius («non produttore», «dipendente economico»)38, alpigena («montanaro e illetterato»)39, mercator (mercante) –, elencando quindi in dettaglio le categorie a cui i Minori dovevano assimilarsi: «la gente vile e disprezzata, i poveri e i deboli, i malati, i lebbrosi, i mendicanti e i vagabondi» (viles et despectas personas, pauperes et debiles, infirmos, leprosos, juxta viam mendicantes)40. 34 Cfr. Ch. Thouzellier, «Ecclesia militans», in Etudes d’histoire de droit canonique dédiées à Gabriel Le Bras, Paris 1965, vol. II, pp. 1407-1423. 35 I Cel., 53, p. 4. «Fratello Francesco loro servitore e suddito» (Frater Franciscus eorum servus et subditus) (Epistola omnibus fidelibus). 36 Ibid. 37 Ibid. e ap. Giuliano di Spira, 33, p. 351; Bonaventura, Legenda maior, VI, 1, p. 582. 38 Ibid. Tommaso da Celano aggiunge: «mercenarium et inutilis», probabile replica alla dottrina dell’utilitas alla moda negli ambienti dei giuristi e governanti cittadini. Francesco non è il solo a protestare in quel tempo contro questo «utilitarismo» alla moda. 39 «Alpigena et mercator» (Enrico d’Avranches, Legenda versificata, VII, 116, p. 452). «Si definiva il più delle volte montanaro e mercenario / Rimproverandosi di essere senza armi e rustico» (Sed magis alpigenam mercenariumque vocavit / Improperando sibi quod iners et rusticus esset) (ivi, XII, 8-9, p. 515). 40 I Regula, IX.

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In questa prospettiva, tre categorie paiono a Francesco particolarmente «raccomandabili»: gli «illetterati» (idiotae, termine ancora più radicale che illitterati), i «sottomessi» (subditi) e, sopra tutti, i «poveri» (pauperes)41. In proposito due osservazioni si impongono. Innanzitutto Francesco sente il bisogno di precisare cosa intende per «poveri», per paura che i suoi fratelli lo intendano alla stregua del concetto un po’ privo di contenuti di cui tanti chierici si riempivano la bocca, o che ripetevano meccanicamente: la pietra di paragone della povertà concreta dal punto di vista sociale è la mendicità. Inoltre Francesco – dopo aver messo in guardia i fratelli contro il possesso dell’oggetto maledetto per eccellenza, il «denaro» (pecunia) – aggiunge che in caso di necessità devono mendicare del denaro, sicut alii pauperes, «come gli altri poveri» – non esitiamo a tradurre «come i veri poveri»42. Quindi, il privilegio riconosciuto da Francesco a queste tre categorie evidenzia quali siano per lui i tre grandi mali, i tre principali poli repulsivi della società: la scienza, il potere, la ricchezza. – Infine Francesco invita i suoi fratelli a realizzare il modello di un’altra élite: la famiglia. Il suo ordine deve essere innanzitutto, in senso proprio, più una fratellanza, una confraternita, di tipo laico, che un ordine di tipo religioso, ecclesiastico, come alla fine invece dovrà accettare con rassegnazione. Sarà il padre di questi fratelli, secondo il modello divino, essendo per lui Dio innanzitutto, come abbiamo visto, un Padre43. Ma è un’intera e curiosa struttura familiare che raccomanda ai suoi fratelli. Il loro amore fraterno deve essere, in41 «Ed eravamo illetterati e sottomessi a tutti» (Et eramus idiotae et subditi omnibus) (Testamentum, 4). Sulla povertà e i poveri negli scritti di san Francesco, cfr. Willibrord, Le Message spirituel cit., s.v. Pauvreté, pp. 284-288. S. Classen, Die Armut als Beruf: Franziskus von Assisi, in Miscellanea Mediaevalia, vol. III, Berlin 1964, pp. 73-85. 42 I Regula, II. 43 Nel racconto della morte di san Francesco, Tommaso da Celano dice: «molti fratelli di cui era il padre e il capo si radunarono presso di lui» (convenientibus itaque multis fratribus, quorum ipse pater et dux erat) (I Cel., 110, p. 86).

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fatti, di natura materna44: quelli che vivono negli eremi devono dividersi due a due in madre e figlio, distinzione che corrisponde anche a quella tra Marta e Maria, tra vita attiva e vita contemplativa45. A frate Leone parla come una madre al figlio46. Infine, nella Lettera a tutti i fedeli, quando si abbandona al sogno di una società laica divenuta interamente spirituale, dopo aver ricordato il modello del servaggio e della sottomissione (servi et subditi), invoca un ideale familiare in cui i fedeli si trasformano in spose, fratelli e madri di Cristo, seguendo un’ascesi spirituale esplicitata con precisione47. I riferimenti familiari stupiscono tanto più se si considera che non sembrano aver avuto corrispondenza reale nella vita pre-religiosa di Francesco. Su questo punto, è vero, siamo costretti a fidarci soprattutto dei biografi che, quando insistono sul conflitto con il padre nel momento della conversione e non sono teneri con i genitori in merito all’educazione data a Francesco, non fanno che conformarsi ai luo44 «Che ciascuno ami e nutra il suo fratello come una madre ama e nutre suo figlio» (Et quilibet diligat et nutriat fratrem suum, sicut mater diligit et nutrit filium suum) (I Regula, IX). 45 «Che coloro che vogliono vivere religiosamente negli eremi siano tre fratelli o quattro al massimo. Che due di loro siano le madri e abbiano due figli o uno almeno. Che gli uni si comportino come Marta e gli altri come Maria Maddalena» (Illi qui volunt religiose stare in heremis, sint tres fratres aut quattuor ad plus. Duo ex ipsis sint matres et habeant duos filios vel unum ad minus. Illi autem tenant vitam Marthe at alii duo vitam Marie Magdalene) (De religiosa habitatione in eremo). 46 «Così ti dico, figlio mio, come una madre» (Ita dico tibi, fili mi, et sicut mater) (Epistola ad fratrem Leonem). 47 «E saranno i figli del Padre celeste [...] di cui compiono le opere e sono sposi, fratelli e madri di nostro Signore Gesù Cristo. Siamo le sue spose quando la nostra anima fedele a Gesù Cristo si unisce allo Spirito Santo. Siamo suoi fratelli quando compiamo la volontà del Padre che è in cielo. [...] Siamo sue madri quando lo portiamo nel nostro cuore e nel nostro corpo per amore e coscienza pura e sincera e lo generiamo con una operazione santa che deve brillare agli occhi degli altri come un esempio» (Et erunt filii Patris celestis [Mt V, 35] cuius opera faciunt, et sunt sponsi, fratres et matres Domini nostri Iesu Christo. Sponsi sumus, quando Spiritu Sancto coniungitur fidelis anima Iesu Christo. Fratres eius sumus, quando facimus voluntatem Patris eius, qui est in coelo [Mt XII, 50]. Matres eius sumus, quando portamus eum in corde et corpore nostro per amorem et puram et sinceram conscientiam parturimus eum per sanctam operationem quae lucere debet aliis in exemplum) (Epistola ad fideles, 9).

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ghi comuni dell’agiografia che sottolineano il contrasto tra la vita del santo prima e dopo la conversione e la rottura dei legami terreni incarnati dalla famiglia. Tali luoghi comuni sono ravvivati e rafforzati dal modello cristologico che domina tutta la biografia francescana. Anche Francesco, come Cristo, attua alla lettera le parole del Vangelo: «Veni enim separare hominem adversus patrem suum, et filiam adversus matrem suam», del famoso capitolo X di Matteo la cui lettura da parte di un prete alla Porziuncola alla fine del 1208 o all’inizio del 1209 ha avuto un ruolo decisivo nella conversione di Francesco. Potremmo forse chiarire tali punti oscuri, queste apparenti contraddizioni con la psicologia individuale di Francesco, o con un’analisi, o anche una psicoanalisi della psicologia collettiva del gruppo dei Francescani primitivi? Senza negarne l’eventuale interesse, non mi sento capace di avviare una ricerca in cui i passi falsi sono troppo facili. Accontentiamoci di notare che, per un san Francesco d’Assisi, all’inizio del XIII secolo, un modello familiare di tipo stretto ha valore di schema sociale ideale. c) La società cristiana terrena L’apostolato di Francesco – l’abbiamo già detto e ci ritorneremo – si rivolge a tutti. Egli radica questa preoccupazione missionaria in un bisogno profondo di abbracciare, globalmente e singolarmente, l’intera società. A due riprese ha enumerato i componenti di questa società totale. Nella Lettera a tutti i fedeli si accontenta di una catalogazione secondo lo stato religioso, seguendo la banale ripartizione in clero regolare, clero secolare, laicato (religiosi, clerici, laici), e di una catalogazione secondo i sessi («uomini e donne», masculi et feminae), che riassume e completa con la vaga espressione «tutti coloro che abitano nel mondo intero» (omnes qui habitant in universo mundo). Nel XXIII capitolo della prima regola, il santo invece è molto più esplicito. Comincia con una catalogazione del mon-

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do religioso, nel quale distingue gli «ordini ecclesiastici» (ecclesiastici ordines, cioè sacerdotes, diaconi, subdiaconi, acolythi, exorcistae, lectores, ostiarii) che integra con la menzione di tutti i «chierici» e tutti i «monaci», tra cui distingue «religiosi» e «religiose» (omnes clerici, universi religiosi et religiosae). Passando alla società laica, cita innanzitutto i «bambini», i «ragazzi» e le «ragazze» (omnes pueri, parvuli et parvulae), quindi i «poveri» e gli «indigenti» (pauperes et egeni), i «re» e i «principi» (reges et principes), i «lavoratori» e i «contadini» (laboratores, agricolae), i «servi» e i «signori» (servi et domini), le donne «vergini», «continenti» o «sposate» (virgines et continentes et maritatae), i «laici, uomini e donne» (laici, masculi et feminae), i «bambini», gli «adolescenti», i «giovani» e i «vecchi» (infantes, adolescentes, iuvenes et senes), le «persone in buona salute» e i «malati» (sani et infirmi), i «piccoli e i grandi» (pusilli et magni), infine «tutti i popoli, popolazioni, tribù, gruppi linguistici, tutte le nazioni e tutti gli uomini di tutta la terra, presenti e futuri» (et omnes populi, gentes, tribus et linguae, omnes nationes et omnes homines ubicumque terrarum, qui sunt et erunt)48. Qui si possono ravvisare diverse preoccupazioni principali di san Francesco: l’attenzione alla totalità che si esprime sia nelle parole (omnes, universus, ubicumque), sia nell’accavallamento delle categorie enumerate, sia nell’estensione sociale, geografica, cronologica; la deferenza nei confronti dei preti e del mondo ecclesiastico; l’attenzione per i bambini, derivata dal modello evangelico e cristologico e, allo stesso tempo, dall’evoluzione della sensibilità del tempo; la priorità assegnata ai deboli sui forti (i poveri citati prima dei re, il mondo del lavoro: laboratores – «lavoratori» dell’élite rurale o lavoratori delle città? –, agricolae, servi, prima dei signori, i piccoli prima dei grandi); l’attenzione missionaria che abbraccia tutti i popoli della terra. Ma per il nostro tema due osservazioni sono più impor48

Cfr. supra, pp. 88-89.

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tanti. Innanzitutto, san Francesco mescola vari schemi di descrizione della società, seguendo diversi criteri: lo stato religioso, l’età, il sesso, la fortuna, la potenza, l’occupazione professionale, la nazionalità. Non vi è solo un uso di modelli familiari all’ideologia cristiana, preoccupata di destrutturare gli schemi di tipo socio-professionale in modo da negare le divisioni di classe e la loro lotta e da far pesare con più efficacia il proprio dominio ideologico su una società ritagliata a proprio vantaggio49. Vi è soprattutto il desiderio di considerare la società come un insieme di categorie non gerarchizzate dal punto di vista spirituale e, omaggio reso al mondo ecclesiastico, tutte uguali sul piano della salvezza o, se proprio se ne vuole trovare di privilegiate al riguardo, con un vantaggio concesso ai meno privilegiati di questa terra. Inoltre, san Francesco impiega di preferenza schemi multipli o bipartiti piuttosto che schemi tripartiti, benché allora fossero alla moda. Probabilmente gli schemi multipli gli sembravano più concreti e più vicini alla società reale che voleva salvare perché atti a dialogarvi e, allo stesso tempo, più lontani da una gerarchizzazione che il santo preferiva ignorare. Quanto agli schemi bipartiti, rappresentano il genere di opposizione terrena che Francesco vuole distruggere attraverso l’associazione fraterna, a immagine della sua fraternita che accoglie chierici e laici, letterati e illetterati, ecc. Gli schemi tripartiti, invece, gli sembrano indubbiamente di carattere tipicamente dotto, strumenti di quei chierici rigonfi della loro scienza, di quegli arricchiti dalla cultura che gli fanno orrore. D’altronde, a questi schemi tripartiti sono legate le nozioni di gerarchia che gravitano attorno al termine ordo. Nello sche49 Su questa desocializzazione del linguaggio, cfr. J. Le Goff, Les paysans et le monde rural dans la littérature du haut Moyen Âge (Ve-VIe siècles), in L’agricoltura e il mondo rurale nell’alto medioevo, «Settimane di Studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo» (Spoleto), XIII, 1966, pp. 723-741, poi in Id., Pour un autre Moyen Âge, Paris 1977, pp. 131-144 (trad. it. in Id., Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino 1977, pp. 99-113).

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ma, classico dall’XI secolo, della società tripartita, il terzo ordine, quello dei laboratores, è sottomesso ai due ordini superiori, oratores e bellatores, cosi come, nella Genesi, Cham è stato sottomesso da Dio a Sem e a Giafet50. D’altra parte, san Francesco usa il termine «ordine» solo nell’espressione qui utilizzata per designare gli ordini ecclesiastici, in un senso puramente tecnico; oppure, dopo essere stato obbligato a rinunciare alla concezione di una fraternita – conflitto significativo –, per parlare del suo ordine dei Minori. In compenso, troviamo nei suoi biografi il termine «ordine» legato a uno schema tripartito. Ma, in un caso, si tratta dei tre ordini fondati da san Francesco: i Minori, le Clarisse e il Terz’ordine51. Nell’altro, si afferma che la dottrina francescana garantisce la salvezza di ogni ordine, di ogni sesso e di ogni età52. Così, nel primo caso, il termine viene impiegato al di fuori di qualsiasi riferimento ideologico. Nel secondo se designa chiaramente ogni categoria sociale, al contrario dell’uso fatto dallo stesso san Francesco, è pure, nello spirito del santo, associato alle nozioni di età e di sesso che ne attenuano la portata ideologica. Così, tra l’unico mondo celeste gerarchizzato e la molteplicità sociale di un mondo terrestre disordinato, Francesco sogna di instaurare la società francescana come mediatrice, la cui strutturazione deve essere negazione e conversione del disordine terrestre.

50 Abbiamo studiato la formazione e il significato di tale schema in una Nota presentata al convegno su La formation des Etats européens, IXe-XIe siècles (Warszawa 1965) i cui atti sono apparsi sotto il titolo di L’Europe aux IXe-XIe siècles. Aux origines des Etats nationaux, Istituto di storia dell’Accademia polacca delle scienze, Warszawa 1968; ripreso quindi in Pour un autre Moyen Âge cit., pp. 80-90 (trad. it. in Le Goff, Tempo della Chiesa cit., pp. 41-51). 51 «Questo santo [...] cominciando i tre celebri ordini» (Iste sanctus [...] qui tres celebres ordines [...] inchoans) (Giuliano di Spira, 15, p. 342). 52 «Ogni ordine dunque, ogni sesso, ogni età ha in sé le prove della dottrina salvifica» (Omnis proinde ordo, omnis sexus, omnis aetas habet in ipso doctrinae salutaris evidentia documenta) (I Cel., 94, p. 68).

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Nei biografi Nei biografi di san Francesco si incontrano sia personaggi che formano insiemi o categorie di cui si può stilare la lista e che talvolta appaiono in liste, sia individui qualificati dalla loro categoria sociale, ma in modo isolato o anche insolito. a) Le liste Gli insiemi o categorie sociali che appaiono molto frequentemente nei biografi di san Francesco appartengono a tre serie: gli ascoltatori del santo, gli ospiti che lo accolsero, i beneficiati o i testimoni dei suoi miracoli. Gli ascoltatori. Anche nella descrizione degli ascoltatori domina la preoccupazione di totalità, assieme all’intenzione di mostrare come la predicazione del santo si rivolgesse a tutti e come il suo successo fosse universale. Benché i biografi dettaglino solo l’apostolato italiano, che in effetti assorbì la maggior parte della vita missionaria di san Francesco, comunque insistono sul vero e proprio inquadramento territoriale a cui diede luogo tale apostolato: anche qui totalità geografica. Ma il modello, pur corrispondendo alla realtà, è tuttavia sempre evangelico e cristologico: san Francesco percorre città e borghi (civitates et castella), secondo i medesimi termini impiegati dal Vangelo per descrivere l’apostolato di Gesù53. È realmente possibile, in tali condizioni, applicarsi a una esegesi terminologica del lessico per tentare di determinare se l’apostolato di Francesco si estendeva anche all’ambiente rurale, oltre che a quello urbano?54 In ogni caso, i termini evangelici si applicavano particolarmente bene al tipo di insediamento raggruppato in città e borghi rurali a caratMt IX, 35; I Cel., 62, p. 47. Cfr. la nostra ricerca citata in nota 4. Ad Arezzo in preda alla guerra civile, i biografi notano (menzione isolata) che il santo è ricevuto «nel sobborgo» (in suburbio) (Bonaventura, Legenda maior, VI, 9). 53 54

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tere semiurbano dell’Italia centrosettentrionale. In fondo, il modello dell’ambiente socio-geografico in cui si esercita per lo più la predicazione francescana è Assisi. Questo tipo di piccola città situata in prossimità delle grandi strade e ampiamente aperta all’ambiente rurale è d’altronde fortemente rappresentativo di gran parte dell’Occidente medievale55. Tuttavia bisogna notare che le enumerazioni dei biografi, nel loro intento di sottolineare solo le differenze e gli antagonismi sociali che si annullavano davanti al prestigio del santo, fanno risaltare i dislivelli e le tensioni della società meglio delle parole del santo stesso. Lo schema è quello dell’arrivo del santo in un agglomerato; al grido: «Il santo arriva, ecco il santo», la popolazione si riunisce – in generale sulla piazza maggiore – per vederlo, toccarlo, ascoltarlo. Talvolta i biografi si contentano di dire che vi è «tutto il popolo», «tutti» – universus populus56. Più sovente, precisano. Il santo si rivolge soprattutto ai laici57, ma attira sia chierici che laici, e i primi possono essere sia regolari che secolari – precisazione finalizzata a evidenziare la stima che il clero dimostra a Francesco, meglio ancora, il prestigio che il santo vi gode. Ma rappresenta anche la soppressione di una delle grandi barriere della società medievale, quella che separa i chierici dai laici58. Allo stesso modo accorrono tutte le età e tutti i sessi – notazione a prima vista banale, che tuttavia rivela che nella società medievale le donne e, in minor grado, i vecchi sono categorie sociali svalutate59. Da un punto di vista più vicino alla conce55 Su un tipo di insediamento simile, cfr. G. Duby, Recherches récentes sur la vie rurale en Provence au XIVe siècle, in «Provence historique», 1965, pp. 97-111. 56 I Cel., 62, p. 47. 57 Ivi, 31, p. 25. 58 Cfr. G.H. Williams, The Layman in Christian History, London 1963; I laici nella società religiosa dei secoli XI-XII, in Atti del Convegno del Passo della Mendola, 1965; A. Frugoni, Considerazioni sull’«ordo laicorum» nella riforma gregoriana, in Atti del XI Congresso internazionale di scienze storiche, Stockholm 1960, p. 136 (Riassunto delle relazioni, pp. 119-120); A. Vauchez, Les Laïcs au Moyen Âge. Pratiques et expériences religieuses, Paris 1987. 59 «Quando entrava in una città, il clero gioiva, le campane suonavano, gli

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zione moderna della struttura sociale nelle società storiche, Francesco riunisce i due gruppi opposti dei «ricchi» e dei «poveri» (divites e pauperes) e soprattutto (ed è questo agli occhi dei biografi il grande dislivello sociale) dei «nobili» e dei «non-nobili» (nobiles e ignobiles)60. In un interessante testo, certo in versi, Enrico d’Avranches oppone pauper non a dives, non a litteratus, ma a peritus, mostrando che la superiorità sociale proviene dalla potenza che sopravanza la ricchezza e dal sapere tecnico (specialisti del diritto e delle arti meccaniche?) che supera la cultura clericale61. In un altro testo, Tommaso da Celano stila una lista dettagliata di tutti i fedeli, «di ogni genere e qualità» (quicumque ac qualiscumque), che costituiscono l’auditorio-tipo di Francesco: il «ricco» e il «povero», il «nobile» e il «non-nobile», l’«uomo ordinario» e l’«uomo di qualità» (vilis, carus), il «sapiente» e il «semplice» (prudens, simplex), il «chierico» e l’«illetterato»62, sintesi effettiva dei dislivelli coscienti della società. uomini esultavano, le donne erano gioconde, i bambini applaudivano» (Ingrediente ipso aliquam civitatem, laetabatur clerus, pulsabantur campanae, exsultabant viri, congaudebant feminae, applaudebant pueri) (I Cel., 62, p. 47; cfr. Giuliano di Spira, 46, p. 357, e Legenda monacensis, 42, p. 706); «Gli uomini accorrevano, anche le donne accorrevano, i chierici si affrettavano, i religiosi giungevano in fretta [...] gente di ogni età e ogni sesso si affrettava» (Curebant viri, currebant et feminae, festinabant clerici, accelerabant religiosi [...] omnis aetas omnisque sexus properabat). 60 «E numerose persone del popolo, nobili e non-nobili, chierici e laici, iniziarono a venire a san Francesco» (Coeperunt multi de populo, nobiles et ignobiles, clerici et laici [...] ad sanctum Franciscum accedere) (I Cel., 62, p. 47). 61 «E non stima mille potenti più di un povero / Né mille sapienti più di un unico semplice» (Verum non uno plus paupere mille potentes / Extimet, aut uno plus simplice mille peritos) (Legenda versificata, IX, 176-177, p. 468). 62 «Qualsiasi fedele, ricco, povero, nobile, non-nobile, senza valore, brillante, prudente, semplice, chierico, illustre, laico nel popolo cristiano» (Aliquis, quicumque ac qualiscumque fidelis, dives, pauper, nobilis, ignobilis, vilis, arus, prudens, simplex, clericus, idiota, laicus in populo christiano) (I Cel., 31, p. 25). Si può accostare questa lista a quella in cui Enrico d’Avranches rileva tutte le categorie sociali i cui membri sono entrati nell’ordine dei Minori: «Che nessuna condizione, fortuna o età, / Sia rifiutata: che chiunque venga sia ammesso / Senza preferenza, il buono e il cattivo, l’alto e il basso, / Il rustico e il cavaliere, il non-nobile e il nobile, / Il chierico e il laico, il grossolano e il raffinato, il povero / E il ricco, il servo e il libero, il santo e il malato. / Francesco li riceve tutti nel suo pio affetto» (non conditio, fortuna vel aetas / Ulla recusatur:

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Gli ospiti. Certamente non bisogna trarre conclusioni troppo stringenti dal fatto che, salvo eccezioni (il «povero prete di San Damiano», i monaci di Gubbio), gli ospiti di san Francesco che i suoi biografi designano con un termine sociale appartengono tutti ai gruppi superiori. Sono quelli di cui la memoria conserva ricordo e la cui menzione indica che l’ambiente francescano teneva a sottolineare l’impressione fatta da san Francesco sui vertici della società: sono i «signori» (domini)63, i «grandi» (magnae personae)64. Se si tratta di magni principes che l’hanno invitato a un convito, Tommaso da Celano tiene comunque a sottolineare che il santo ha appena toccato cibo65. Quando Enrico d’Avranches lo fa accogliere da quei magnati che Francesco paragonava senza tenerezza ai gastaldi e ai demoni, bisogna ricordarsi che abbiamo a che fare, in definitiva, con il meno francescano dei suoi biografi66. Infine, quando a Tuscanella è un cavaliere, un miles, a riceverlo, si tratta forse ancora di un richiamo evangelico, di un’allusione al centurione del quale Gesù fu ospite67. I beneficiati e i testimoni di miracoli. Se mettiamo da parte coloro che non sono designati con un termine prettamente «sociale» (homo, mulier, puer, puella, caecus, insanus) e gli animali, dei 197 miracoli riportati da Tommaso da Celano nel suo Tractatus de miraculis, 62 (poco meno di un terzo) riguardano personaggi designati dalla loro qualifica sociale. Ma in questo veniens admittitur omnis / Et sine delectu, bonus et malus, altus et imus, / Rusticus et miles, ignobilis et generosus, / Clericus et laicus, rudis et discretus, egenus / Et dives, servus et liber, sanus et aeger; / Affectuque pio Franciscus suscipit omnes) (Legenda versificata, VI, 34-40, pp. 443-444). 63 «Se invitato da signori» (Si quando invitatus a dominis) (II Cel., 72, p. 174). 64 «Se invitato da grandi personaggi» (Si quando invitatus a magnis personis) (Bonaventura, Legenda maior, VII, 7, p. 589). 65 I Cel., 51, p. 40. 66 «Ricevuto in qualsiasi momento tra i grandi» (Inter magnatos ut quandocumque receptus) (Legenda versificata, VII, 113, p. 452). 67 «Un cavaliere di questa stessa città lo ricevette come ospite» (Miles quidam eiusdem civitatis eum suscepit hospitio) (I Cel., 65, p. 49).

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caso, ancora più che per gli ospiti, la tradizione ha ricordato soprattutto i membri delle categorie superiori. Circa la metà, 28, appartengono alla nobiltà o alla cavalleria: nobilis o nobiles 11 volte, a cui bisogna aggiungere delle «nobildonne» (nobiles mulieres, una volta) e una donna di «alta nobiltà» (nobilissima), «signori» (dominus una volta e domina due volte), un «grande principe» (magnus princeps), un «conte di palazzo» (comes sacri palatii), una «contessa» (comitissa), due «podestà» (potestas), sette «cavalieri» (miles cinque volte, eques una volta, duo viri loricati una volta). Il mondo del clero e delle professioni liberali è rappresentato solo sei volte (un canonicus, un frater praedicator, uno scolaris, un notarius, un officialis, un iudex). I «borghesi» sono cinque (civis quattro volte, un popularis homo). Il mondo medico appare sei volte (medicus quattro volte, chirurgicus una volta, una volta delle mulieres edoctae che sono probabilmente delle levatrici). Il mondo rurale è rappresentato sei volte: a un rusticus, un arator, un vir cum bobus bisogna aggiungere due vinitores e un piscator. I «marinai» (nautae) appaiono due volte, i domestici due volte (un serviens, una famula), gli artigiani una sola volta, e si tratta comunque di «maestri campanari» (fusores campanarum). Infine, i poveri sono menzionati solo sei volte (pauper due volte, mendicus due volte, un pauperculus, una vetula extrema paupertate). b) Gli isolati e gli insoliti Raggruppiamo ora tipi sociali menzionati nelle biografie di san Francesco al di fuori dei gruppi o degli insiemi studiati sopra e in termini che sono problematici, sia perché sollevano questioni controverse riguardanti la condizione sociale e l’ideologia sociale di san Francesco, sia perché offrono collegamenti inattesi. Gli isolati: rusticus, artifex, latrones. Assenti o poco rappresentati nelle liste che comprendono soprattutto membri dei

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raggruppamenti urbani, i contadini hanno più spesso incrociato i percorsi solitari di Francesco: rusticus candido e malizioso che consiglia al santo di essere all’altezza della sua reputazione68; rusticus fiducioso che segue il santo arrampicandosi, nella canicola estiva, verso un eremo e per il quale san Francesco fa sgorgare dalla roccia acqua rinfrescante69; rusticus grossolano e ostile che spinge l’asino nella piccola capanna di Francesco e dei suoi primi compagni a Rivo Torto per cacciarli70. Rarità molto sorprendente, nelle biografie si incontra un solo artifex71 – e forse si trova lì solo perché Tommaso da Celano ha incontrato nella Bibbia (Esodo, XXXVIII, 23) l’espressione egregius artifex. Incontro unico anche quello dei banditi che lanciano Francesco nella neve, in un celebre episodio della sua vita72. Benché siano fuorilegge familiari alla società medievale, paiono mobilitati dal biografo soprattutto per consentire la risposta: «Sono l’araldo del gran Re. – Va dunque, contadino, che ti credi l’araldo di Dio»73. Araldo o giullare – (joculator) – di Dio, come si dirà più tardi? Francesco in questa avventura si è presentato come un personaggio del mondo della cavalleria spirituale al quale è stato per molto tempo legato, o come uno di quei vili professionisti, uno di quei mercenarii disprezzati tra cui amava annoverarsi? I casi dubbi sul tipo sociale di origine di san Francesco: «miles» o «mercator»? Non c’è dubbio che Francesco sia stato figlio di un mercante di drappi, itinerante come i suoi colleghi dell’inizio del XIII secolo. Ma è anche certo che 68 «Sforzati di essere così buono da essere celebrato ovunque, poiché molti hanno fiducia in te» (Stude [...] adeo bonus esse, ut ab omnibus diceris, quia multi confidunt de te) (II Cel., 142, p. 212). 69 Ivi, 46, p. 159. 70 I Cel., 44, p. 35. 71 Ivi, 37, p. 30. 72 Ivi, 16, p. 15. 73 «Praeco sum magni Regis... – Iace, rustice praeco Dei».

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abbia condotto in gioventù quel tipo di vita cavalleresca la cui pratica, come ha mostrato Marc Bloch, permetteva talvolta di infilarsi nella stessa cavalleria, tanto che quando viene fatto prigioniero dai perugini condivide la cella con dei cavalieri74. Su questa contraddizione Tommaso da Celano ha insistito nei primi episodi della sua biografia, facendo di Francesco un mercante accorto come quelli della sua classe, ma prodigo come i nobili75, e soprattutto ricordando la vanità dei suoi sogni cavallereschi: quando vede in sogno una casa piena d’armi, il biografo dichiara che sarebbe stato più normale per lui vederne una piena di drappi76. Una volta convertito, Francesco – come abbiamo visto – evita, per lui e gli altri, la menzione di milites a cui rimprovera la vanità e la violenza, e di mercatores di cui condanna l’amore del denaro. Gli capita anche di sottolineare la sua origine mediocre: come nell’episodio della cavalcata con frate Leonardo77. Francesco monta l’unico asino, mentre Leonardo gli cammina di fianco, a piedi. Leonardo, scontento, pensa tra sé: «I suoi genitori e i miei non giocavano assieme come eguali. Ecco ora che lui cavalca mentre io sono a piedi e guido il suo asino». Il santo indovina il pensiero e, smontando, gli dice: «Fratello mio, non conviene che io cavalchi e tu cammini, perché nel secolo tu eri più nobile e più potente di me». Nobilior et potentior: nonostante tutto Francesco impiega un comparativo che tradisce, anche quando riconosce le gerarchie terrestri, il suo rifiuto dell’impermeabilità delle classi. II Cel., 4, p. 132. «Poiché era molto ricco, non avaro ma prodigo, non accumulatore di denaro ma dissipatore di sostanze, mercante accorto ma grande dissipatore» (Quia praedivus erat, non avarus sed prodigus, non accumulator pecuniae sed substantiae dissipator, cautus negotiator sed vanissimus dispensator) (I Cel., 2, p. 7). 76 «Non aveva l’abitudine di vedere tali oggetti nella sua casa, ma piuttosto cumuli di drappi da vendere» (Non enim consueverat talia in domo sua videre sed potius pannorum cumulos ad vendendum) (I Cel., 5, pp. 8-9). 77 II Cel., 31; Bonaventura, Legenda maior, IX, 8, p. 608. 74 75

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Resta comunque il fatto che la maggior parte dei suoi biografi hanno mantenuto i termini di miles e di mercator (o negotiator) e glieli hanno attribuiti, dopo la sua conversione, in un senso spirituale. In effetti queste parole facevano parte del vocabolario agiografico tradizionale, con la riserva di negotiator, termine altomedievale, che rimpiazza in generale mercator, ancora non affermato. Francesco è dunque diventato da un lato negotiator evangelicus78, dall’altro miles Christi79, miles fortissimus in castris hujus saeculi80, doctissimus miles in castris Dei81. Sono gli autori poetici e non francescani che spingono al massimo l’applicazione a Francesco di un vocabolario militare e cavalleresco che gli si attaglia poco. Se dux è impiegato non solo da Enrico d’Avranches82, ma anche da Giuliano di Spira83 e san Bonaventura84, è a papa Gregorio IX che va la palma della trasfigurazione di Francesco nella sequenza Caput draconis composta in onore del Poverello che vi diventa princeps inclitus85. 78 «Divenne mercante evangelico» (Evangelicus negociatori efficitur) (Giuliano di Spira, I, 3, p. 337). 79 I Cel., 8, p. II. È una espressione paolina: II Tim., I, 3. Tommaso da Celano, utilizzando questa immagine tradizionale, sottolinea comunque l’originalità di Francesco, scrivendo: «novus Christi miles». Cfr. H. Felder, Der Christusritter aus Assisi, Zürich-Alstetten 1941. 80 I Cel., 93, p. 71. 81 Ivi, 103, p. 80. 82 «Così specchio dei grandi e capo dei Minori, / Poiché il minore in terra diventa maggiore in cielo» (Sic igitur speculum maiorum, duxque Minorum / Quo minor in terris est maior in ethere) (Legenda versificata, XIV, 82-83, p. 488). Ma la fonte è forse il racconto, già citato, della morte di Francesco di Tommaso da Celano: «ipse pater et dux erat» (I Cel., 110, p. 86), ed è un prestito dal Nuovo Testamento: «ipse pater dux erat» (Atti, XIV, 11). 83 «Fratelli che militate di persona sotto la guida di un così grande capo» (Fratres, sub tanto duce personaliter militantes) (Giuliano di Spira, 23, p. 346). 84 «E lui stesso come il buon capo dell’armata di Cristo» (Et ipse tamquam bonus dux exercitus Christi) (Legenda maior, V, 10, p. 577, e XIII, 10, p. 620). 85 Ispirato al salmo LXXIII, 12: «Hai fracassato la testa del drago» (Tu confregisti capita draconis), l’inno ha un lessico e uno spirito molto militare e cavalleresco (p. 401). Sul tema del dux, Tommaso da Capua, cardinale di Santa Sabina, aveva composto in onore di Francesco un Inno per i vespri che Giuliano di Spira includerà nel suo Officium rhythmicum (p. 386).

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Il caso equivoco dei «magistri» e dei «doctores»: san Francesco e gli universitari. Trattare dell’attitudine di san Francesco nei confronti della scienza e dei dotti, e in particolare dei rapporti tra Minori e università, ci porterebbe troppo lontano. E, inoltre, bisognerebbe riprendere una difficile esegesi dei testi, in particolare la delicata questione dell’autenticità della Lettera a frate Antonio di Padova. Sembra che Francesco abbia provato almeno diffidenza nei confronti dei dotti perché considerava la scienza una forma di possesso, di proprietà e i dotti una specie particolarmente temibile di potenti; ma il suo rispetto nei confronti del clero in generale lo portava a riassorbire in questo rispetto i chierici dotti. La teologia, in particolare, restava ai suoi occhi la scienza della Sacra Scrittura, ancorché non giudicasse indispensabile questa mediazione colta tra la Bibbia (e soprattutto il Vangelo, di più facile accesso) e i fedeli, o per lo meno la mediazione di predicatori come lui e i suoi confratelli. Da cui la precisione del suo Testamento: «Dobbiamo onorare e venerare tutti i teologi e quelli che servono le santissime parole divine»86; e Tommaso da Celano ha certamente ragione quando gli attribuisce, anche se in modo esagerato, una venerazione per i divinae legis doctores87. Francesco deve essere stato molto più reticente nei confronti della frequentazione delle università e, a maggior ragione, dell’occupazione di cattedre magistrali da parte di Minori. La condizione universitaria, per quanto ne abbiano detto in seguito Tommaso d’Aquino e Bonaventura, non era consona alla pratica della povertà, sia perché implicava il posses86 «Omnes theologos et qui ministrant sanctissima verba divina debemus honorare et venerari» (Testamentum, 3), citato da Tommaso da Celano (II Cel., 163, p. 224) che avvicina il testo ad Antonio da Padova. 87 «E per lui la ragione più importante di venerazione dei dottori è che in quanto ausiliari di Cristo compiono il loro ufficio con Cristo» (Et haec penes eum causa potissima venerandi doctores, quod Christi adiutores unum cum Christo exsequerentur officium) (II Cel., 172, p. 230). «Onorava specialmente i preti e venerava con ammirevole affetto i teologi» (Honorabat praecipue sacerdotes et divinae legis doctores miro venerabatur affectu) (Legenda chori, 6, p. 121).

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so di libri molto cari di cui non si riconosceva ancora il carattere di strumenti professionali88, sia perché la vita universitaria permetteva solo con difficoltà di procurarsi il proprio sostentamento attraverso il lavoro manuale o la vera mendicità. D’altronde Tommaso da Celano è esplicito su questo punto89. Resta il fatto che l’evoluzione delle condizioni generali dell’apostolato dei Mendicanti, e dei Minori in particolare, ha rapidamente spinto l’ordine a frequentare le università e a venerare maestri e dottori. Per cui anche la posizione di san Francesco nei confronti dei professionisti della scienza è stata certamente deformata in profondità dai suoi biografi, a cominciare da Tommaso da Celano fino, da ultimo, a san 88 Cosa che svilupparono con molta lucidità i quattro maestri francescani che commentarono la regola, nel 1241-1242 (L. Oliger [a cura di], Expositio Quattuor Magistrorum super Regulam Fratrum Minorum, Roma 1950). 89 «Ne vedeva molti lanciarsi nel potere magistrale di cui detestava la temerarietà e li esortava a distogliersi da questa peste, secondo il suo esempio» (Videbat enim multos ad magisterii regimina convolare, quorum temeraritatem detestans, ab huiusmodi peste sui exemplo revocare suadebat eos) (I Cel., 104, p. 80). Sull’accoglienza di litterati nell’ordine da parte di san Francesco, i biografi si sono dilungati con compiacenza, ma sottolineando la condizione spirituale che il santo si aspettava da loro: «Dice che un grande chierico deve addirittura rinunciare alla scienza quanda entra nell’ordine, affinché, sbarazzatosi da tale possesso, si offra nudo alle braccia del Crocefisso» (Dixit aliquando magnum clericum etiam scientiae quodammodo resignare debere, cum veniret ad Ordinem, sub tali espropriatus possessione, nudum se offeret brachiis Crucifixi) (II Cel., 194, p. 241). «Colui che vuole raggiungere questo vertice deve non solo rinunciare alla saggezza mondana, ma anche alla conoscenza delle lettere, affinché, sbarazzato di questo possesso, entri nel potere del Signore e si offra nudo alle braccia del Crocifisso» (Ad huius, inquit culmen qui cupit attingere, non solum mundanae prudentiae, verum etiam litterarum peritiae renuntiare quodammodo debet, ut, tali expropriatus possessione, introeat in potentiam Domini et nudum se offerat brachiis Crucifixi) (Bonaventura, Legenda maior, VII, 2, p. 587). Cfr. tutto il capitolo De sancta simplicitate, in II Cel., 189-195, pp. 238242. Quando Tommaso da Celano parla della venerazione particolare di cui san Francesco è oggetto in Francia, da parte di Luigi IX, di Bianca di Castiglia e dei grandi (magnati), aggiunge: «Anche i saggi della terra e gli uomini molto istruiti che Parigi produce in abbondanza superiore a tutti gli altri luoghi ammirano e onorano umilmente e con molta pietà Francesco, un illetterato, amico della vera semplicità e della più completa sincerità» (Etiam sapientes orbis et litteratissimi viri, quorum copiam super omnem terram Parisius maximam ex more producit, Franciscum virum idiotam et verae simplicitatis totiusque sinceritatis amicum, humiliter et devotissime venerantur, admirantur et colunt) (I Cel. 120, p. 95).

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Bonaventura, che per fare questo aveva molte buone ragioni personali oltre che generali. Con lui il Cristo di san Francesco diventa innanzitutto un Magister90. Accoppiamenti insoliti della povertà con gli strati superiori. Infine, alcuni termini possono stupire in bocca a san Francesco e nel contesto sociale e mentale del suo tempo. Sono quelli con cui la povertà, da un lato, è trasformata in gran dama e alcuni poveri, dall’altro, appartengono agli strati sociali superiori. Da un lato, infatti, Francesco fa della povertà il suo valore spirituale supremo, una dama, una gran dama: è Domina Paupertas91, Paupertas Altissima92. Questo è certamente il risultato di una complessità psicologica delicata da analizzare. Per prima cosa Francesco convertito resta l’amante della poesia cortese della sua gioventù; il giullare di Dio è soprattutto l’amante della Povertà che gli appare, secondo san Bonaventura, sia come madre, sia come sposa, sia come dama o piuttosto amante93. Egli stesso, d’altra parte, si identifica talmente con la sua dama che diventa lei e un giorno viene riconosciuto come tale da tre povere (in questo caso il folk-

90 «Diceva che il Figlio di Dio era sceso dall’alto del seno paterno verso la nostra spregevole bassezza affinché il Signore e Maestro insegnasse con il verbo e con l’esempio l’umiltà. Per questo si sforzava in quanto discepolo di Cristo di farsi piccolo ai propri occhi e a quelli degli altri, ricordandosi che l’altissimo Maestro aveva detto: ciò che è elevato per gli uomini è abominevole per Dio» (Dicebat, propter hoc Filium Dei de altitudine sinus paterni ad nostra despicabilia descendisse, ut tam exemplo quam verbo Dominus et Magister humilitatem doceret. Propter quod studebat tamquam Christi discipulus in oculis suis et aliorum vilescere a summo dictum esse Magistro commemorans: Quod altum est apud homines, abominatio est apud Deum) (Lc, XVI, 15) (Bonaventura, Legenda maior, VI, 1, 582). Questa fusione di temi è particolarmente rappresentativa dell’abilità di san Bonaventura, arbitro pacificatore delle diverse tendenze dell’ordine. 91 II Cel., 82-84, pp. 180-181. 92 II Regula, VI. Si tratta ancora di un prestito paolino (II Cor., VIII, 2). 93 «Veramente amante della povertà, sia come madre, sia come sposa, sia come amante» (Verus paupertatis amator, quam modo matrem, modo sponsam, modo dominam) (Legenda maior, VI, 2, p. 586).

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lore avrebbe qualcosa da dire) che lo salutano: «Domina Paupertas». Poi, è desideroso di imporre la mistica della Povertà proponendola nelle vesti del più alto modello culturale e sociale del suo tempo: la dama, che incarna anche la Vergine Maria. Infine, nella sua impresa di sconvolgimento dell’ideologia sociale, nella sua rivoluzione socio-spirituale, certo non gli dispiace collocare in prima fila, in un movimento ancora evangelico, colei che la società e lei stessa collocano al fondo. Bisogna infine valorizzare l’episodio, raccontato con compiacenza da Tommaso da Celano e da san Bonaventura94, dell’incontro di san Francesco con il «cavaliere povero» (miles pauper) al quale dona le sue vesti. Il senso della storia è chiaro nelle intenzioni degli agiografi. Si tratta – Tommaso da Celano lo mostra esplicitamente – di comparare san Francesco a san Martino in un paragone favorevole a colui che ha dato tutto dove l’altro non ha dato che la metà. Ma, nella prospettiva prettamente francescana, si tratta di esaltare un tipo sociale concreto che trascende la stratificazione secolare, una categoria che unisce in uno scandalo glorioso la povertà e la nobiltà – un’incarnazione vivente dell’ideologia, dell’utopia sociale francescana.

SAGGIO DI INTERPRETAZIONE

Le pagine che precedono hanno già delineato alcuni schemi esplicativi o interpretativi, poiché sarebbe stato difficile limitarsi a un semplice censimento o a una pura descrizione. Tuttavia, ora vorremmo tratteggiare un approccio più sistematico del materiale semantico che abbiamo presentato. 94 II Cel., 5, p. 133; Bonaventura, Legenda maior, I, 3, p. 561; Legenda minor, I, 3, p. 656.

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Situazione di questo lessico in relazione agli schemi ideologici medievali Se ricerchiamo nel lessico sociale di san Francesco e dei suoi primi biografi gli schemi del «Questionario sulle classi sociali e il loro lessico nel Medioevo» che abbiamo proposto nel convegno di storia sociale su Ordres et classes, constatiamo che: Gli schemi qualitativi chiusi non compaiono praticamente mai: in san Francesco lo schema tripartito conserva gli oratores e i laboratores, ma perde i bellatores; la triade omnis ordo, omnis aetas, omnis sexus, che si incontra una volta in Tommaso da Celano, non è abituale e non sembra implicare un’ideologia precisa. Gli schemi quantitativi «di tipo aristotelico» sono più presenti, ma senza rigidezza, sia che si sfaldino in diverse combinazioni, sia che si allontanino dagli schemi abituali. Per esempio, la coppia litterati/illitterati è rappresentata da altre coppie equivalenti in cui entrano prudens, sapiens, peritus, clericus da un lato, simplex, idiota, rusticus, inutilis dall’altro. A pauper viene contrapposto tanto potens quanto dives. I minores vengono implicitamente opposti a tutti gli quelli che sono maiores, ma questi «maggiori» in genere non sono nominati. Più che coppie antitetiche e complementari, Francesco e, in minor grado, i suoi biografi sono interessati a mettere in luce coppie equivalenti che fanno apparire legami sociali più o meno inattesi, senza che equivalenti coppie antitetiche siano sempre contrapposte, per lo meno esplicitamente. Così, accanto a pauperes et illitterati a cui si oppongono simmetricamente divites et sapientes (II Cel., 193, p. 241), idiotae et subditi (Testamentum, 4), sapientiores et potentiores (Epistula ad populorum rectores), servi et subditi (Epistula ad fideles, 9), nobilior et potentior (Francesco, da Bonaventura, Leg. maior, XI, 8, p. 608) sono autosufficienti. Liste qualitative aperte. Sono quelle più ricorrenti, con la precisazione però che tendono ad abbracciare la totalità so-

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ciale. Ma questa aspirazione quantitativa è più soggettiva, mistica, che matematica poiché succede che, almeno in un caso (I Regula, XXIII), per il gioco dell’accumulazione di gruppi definiti da criteri differenti gli stessi personaggi sono registrati più volte. Il tipo di società che appare attraverso gli schemi francescani è una società in briciole che presenta relitti di strutturazioni differenti ma parallele. Nel racconto si tenta di far apparire elementi di combinazioni reali di strutture che differiscono dalle combinazioni abituali del linguaggio e, mediante il gioco delle liste qualitative aperte, si suggerisce la possibilità di una parcellizzazione più estesa della società. Ma vi è anche la tendenza a raccogliere tutte le briciole. Prima di chiederci: «In vista di quale eventuale ristrutturazione?», bisogna collocare questo lessico francescano in rapporto ad altri lessici medievali. Situazione di questo lessico in rapporto ai principali lessici sociali concreti del Medioevo a) In rapporto al lessico «feudale» Se certo si incontrano i termini dominus, servus, miles, ecc., quelli homo, vassallus, vavassor, liber, ecc. non appaiono mai. Quanto a dominus, servus, miles, sembra che il loro impiego sia determinato dal loro lungo passato semantico e, in particolare, dalla loro presenza nel lessico biblico. È certo che tale scomparsa del lessico «feudale» sia dovuta in gran parte al carattere più debole delle istituzioni prettamente feudali in Italia. Ciò che importa, comunque, è il debole impatto di questo lessico sulla terminologia francescana. b) In rapporto al lessico «politico» Abbiamo notato l’uso molto limitato della terminologia monarchica: imperator, rex, principes, magnati, ecc. Il lessico «comunale» (potestas, civis, homo popularis, ecc.) è altret-

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tanto limitato. Il pessimismo politico di san Francesco, già rilevato, allontanava il suo lessico da ogni inquadramento linguistico di tipo politico. c) In rapporto al lessico «religioso» Certamente è quello il cui apporto, qualitativamente e quantitativamente, appare più importante. La classificazione fondamentale in clerici e laici, la terminologia liturgica, le considerazioni di sesso e di età sono altrettanti riferimenti, prestiti, al linguaggio della Chiesa. E questo non sorprende nel fondatore di un movimento essenzialmente religioso e cattolico. Tuttavia, la diffidenza di san Francesco nei confronti dei litterati, che contribuisce a fargli scartare gli schemi ideologici dotti, il desiderio di sottrarre il proprio ordine e i fedeli, non certo alla Chiesa, ma al clericalismo, il ricorso costante a una terminologia non religiosa accanto al lessico religioso, di cui in tal modo viene mostrata l’insufficienza – tutto questo mostra che il vocabolario sociale del francescanesimo sfugge anche allo stampo, se non religioso, almeno ecclesiastico. d) Altre influenze Non è forse privo di interesse notare, in attesa di provare a trarne le conclusioni, che certe parole chiave del lessico sociale del francescanesimo sono, se non prese a prestito, per lo meno le stesse di un certo linguaggio giuridico passato nell’uso corrente, da un lato, e, dall’altro, della terminologia dei mestieri che si andava definendo. Nel primo caso, si tratta di termini che il linguaggio giuridico medievale ha generalmente preso a prestito dalla Bibbia e che ritroviamo nel XII e XIII secolo sia sotto la penna di giuristi, sia nel vocabolario corrente. È il caso di subditi, che il pensiero e il lessico politico-giuridico medievali hanno indubbiamente preso da san Paolo (Tito, 3, I: «Ammo-

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niscili di essere sottomessi ai principi e ai potenti», Admone illos principibus et potestatibus subditos esse)95, cioè un termine connesso a una morale e a una spiritualità dell’obbedienza che, dopo una lunga e costante tradizione medievale, ritroviamo sviluppata in san Francesco96. Un testo ci mette sulla traccia di un legame fondamentale per la comprensione del lessico francescano: il legame tra subditi e minores. In un formulario, Guido Faba scrive verso il 1230: «Se i grandi, chierici o laici, prelati ecclesiastici o signori secolari fanno sapere per iscritto ai sudditi o ai minori» (Si majores, clerici vel laici, prelati ecclesiastici vel domini saeculares, subditis vel minoribus scripserint) e intitola un capitolo: Principia de subditis et minoribus97. Circa allo stesso tempo, due altri formulari – la Summa dictaminum di Ludolf e il Formulario di Baumgartenberg – così definivano le personae minores: «mercanti, semplici cittadini, coloro che compiono arti meccaniche [mestieri manuali] e tutti quelli che come loro sono sprovvisti di dignità» (mercatores, cives simplices, et artis mechanicae professores et omnes consimiles carentes dignitatibus)98. Eccoci in pieno nel lessico, nell’atmosfera, nell’ambiente sociale francescano. D’altra parte, mentre Francesco scrive una lettera ad populorum rectores e impone il termine di custos ai superiori dei conventi del suo ordine, vediamo le corporazioni che fissano il loro statuto dare tale nome di rectores o di custodes ai loro capi, come per esempio a Tolosa, nel 122799. Il ter95 Cfr. W. Ullmann, The Individual and Society in the Middle Ages, Baltimore 1966, pp. 10 sgg.; C. Morris, The Discovery of the Individual (1050-1200), New York 1972. 96 Ullmann, The Individual and Society cit., pp. 12-13. 97 In L. Rockinger, Briefsteller und Formelbücher, München 1863, p. 186 (citato da Ullmann, The Individual and Society cit., p. 18, n. 38). 98 Rockinger, Briefsteller cit., pp. 361 sgg. e 727 (citato da Ullmann, The Individual and Society cit., p. 17, n. 36). 99 Sui septem rectores super capitibus artium menzionati a Firenze nel 1193, cfr. A. Doren, Le arti fiorentine, Firenze 1940, vol. I, p. 6. Sui custodes di Tolosa, cfr. M.A. Mulholland, Early Gild Records of Toulouse, New York 1941; Id., Statutes on Clothmaking. Toulouse, 1227, in Essays in Medieval Life and

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mine minister, che Francesco ama applicare a se stesso e ai suoi confratelli, nelle corporazioni di mestiere del tempo designa gli apprendisti, chiamati anche discipuli o laboratores (o laborantes). La parola ministeria designa tali mestieri organizzati più del termine artes, che trionferà più tardi in Italia e il cui campo semantico è completamente differente100. In questo modo un sondaggio al di fuori degli autori francescani lascia apparire legami che il vocabolario non rivela immediatamente: legame con il lessico giuridico-religioso della vita corrente, con il lessico professionale e corporativo del mondo dei mestieri. Possiamo ora tentare di definire gli scopi del francescanesimo attraverso il suo lessico sociale, poiché il lessico di un’ideologia è tanto una descrizione della società su cui vuole agire quanto uno strumento di trasformazione di tale società. Situazione di questo lessico in rapporto alla visione e agli scopi francescani101 a) Gli antagonismi di partenza Benché san Francesco si sia sforzato di non concedere troppo alle coppie antagoniste più radicate, è chiaro che il punto di partenza della sua visione sociale è quello di una Thought presented in Honour of Austin Patterson Evans, New York 1955, pp. 167 sgg.; A. Gouron, La Réglementation des métiers en Languedoc au Moyen Âge, Genève-Paris 1958, pp. 204-205. 100 Su minister = apprendista, cfr. C. Klapisch-Zuber, Le Marbre de Carrare, Paris 1969. 101 Non è possibile citare qui tutti i lavori che riguardano i rapporti del francescanesimo con la società del suo tempo. Il problema è stato posto correttamente da L. Salvatorelli, Movimento francescano e gioachimismo. La storiografia francescana contemporanea, in X Congresso internazionale di scienze storiche, Relazioni, vol. III, Storia del Medioevo, Roma 1955, pp. 403-448. Interessante abbozzo di W.-Ch. Van Dijk, Signification sociale du franciscanisme naissant, Paris 1965. Cfr., nonostante l’assenza di una dimensione sociologica concreta, K. Esser, Anfänge und ursprungliche Zersetzungen des Ordens der Minderbrüder, Leyden 1966.

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bipartizione fondata sull’ineguaglianza. Che il pauper o l’egenus o l’idiota trovi davanti a sé il dives, il potens o il sapiens, non è, in definitiva, l’essenziale. Più importante è il fossato che separa i due gruppi, all’interno di ciascuno dei quali le etichette e quelli che le portano sono, in fondo, intercambiabili poiché sono spesso gli stessi: povertà, indigenza e ignoranza vanno di pari passo, così come, dal lato opposto, ricchezza, potenza e scienza. Francesco, nel suo vocabolario sociale, non fa che estendere l’opposizione tra due partiti le cui vicende, che ha vissuto ad Assisi nella sua giovinezza e che ha ritrovato in seguito in tutte le sue peregrinazioni, gli sono apparse come la trama della struttura e delle attività sociali. Che la sua cultura cavalleresca vi aggiunga qualcosa oppure no, è comunque sotto forma di duello, di lotta di classe in due campi, che si rappresenta la società che vuole convertire, trasformare. Secondo Tommaso da Celano il punto di partenza è proprio lo spettacolo che gli offre Perugia (II Cel., 37, p. 153): Saeviunt in milites populares, et verso gladio nobiles in plebeios. Ecco la coppia antagonista di base: milites/populares, nobiles/plebei, nei termini del lessico politico e sociale. Antagonismo simmetrico in cui è inutile ricercare aggressore e aggredito, ma in cui bisogna notare che la forza – in questo caso la spada – introduce una certa uguaglianza a vantaggio delle classi superiori, uno squilibrio. b) La lotta per il livellamento Lo scopo di Francesco è di rimpiazzare tali antagonismi con una società fondata sui rapporti familiari, in cui le sole ineguaglianze riposano sull’età e sul sesso – ineguaglianze naturali, quindi divine. Da ciò deriva la diffidenza o l’ostilità nei confronti di tutti quelli che si elevano al di sopra degli altri per mezzo di artifici sociali. I nemici di san Francesco sono coloro le cui definizioni comportano prefissi che rivelano la superiorità: magis- (magnus, magister, magnatus), prae- (praelatus,

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prior), super- (superior)102. In compenso, sono i disprezzati dalla società che vanno esaltati: minores, subditi. Il male sociale per eccellenza è la potenza. La migliore definizione dell’uomo illecito è potens. Indubbiamente questa potenza si fonda su basi differenti che bisogna, se non distruggere, almeno neutralizzare. La prima di queste fondamenta è la nascita. Sembra che per san Francesco sia la meno detestabile, forse perché essendo innata ha qualcosa di naturale e viene, in un certo modo, da Dio. Le altre due fondamenta – le più abominevoli perché acquisite, perché richiedono sforzo, volontà –, sono la ricchezza e la scienza. L’ascesa sociale, ecco il grande peccato sociale, e i suoi due trampolini, denaro e cultura, devono essere assolutamente evitati se non nella stretta misura in cui l’uno è necessario al sostentamento e l’altro alla salvezza, cioè essenzialmente alla comprensione della Sacra Scrittura. L’ideale sociale a cui aspira Francesco è un livellamento, un massimo di uguaglianza nell’umiltà che, benché egli si renda conto sia utopico voler realizzare nell’insieme della società, tuttavia vuole instaurare nella sua «fraternita». Su questo punto, Francesco si colloca nella tradizione del monachesimo che ha sempre concepito, secondo modalità differenti, la società monastica sulla scala del monastero o dell’ordine come un modello sociale103. Ma, per raggiungere veramente il suo scopo, Francesco avrebbe voluto che il modello proposto trascendesse la divisione-opposizione tra chierici e laici. Accogliendo tra i suoi fratelli gli uni e gli altri sperava di creare una società, un modello originale né completamente laico né, soprattutto, completamente ecclesiastico. Non gli fu consentito. San Francesco ha sempre insistito su questa uniformitas, ancor più, forse come contrappeso, quando la struttura del102 Per la comprensione del quadro più vasto in cui si inserisce il pensiero francescano, cfr. R. Hund Eberstadt, Magisterium et Fraternitas, Leipzig 1897. 103 Cfr. L. Mumford, La Cité à travers l’histoire, Paris 1964, pp. 312 sgg.

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l’ordine gli venne imposta. Su questo punto i biografi in genere sono stati fedeli al suo pensiero. Tommaso da Celano mette in valore la societas caritatis che Francesco voleva creare tra i suoi fratelli grazie a una uniformitas che avrebbe fatto scomparire le ineguaglianze tra maiores e minores, litterati e illitterati104. Il biografo della Leggenda di Monaco ricorda chiaramente come il santo abbia voluto cancellare e compensare con il lessico l’ineguaglianza delle funzioni e delle posizioni all’interno dell’ordine rimpiazzando i termini di abate, preposto e priore con quelli di ministro e custode105. San Bonaventura, infine, sottolinea che Francesco aveva rifiutato da Gregorio IX che i suoi fratelli fossero elevati alle dignità ecclesiastiche (dignitates, praelationes), poiché dovevano restare nello stato (bisogna dare il valore della terminologia sociale a questo status, poco frequente nel vocabolario di san Francesco?) della loro vocazione (vocatio, termine che manifesta la ricerca di adeguamento tra il lessico e l’ideale)106. 104 «Affinché il legame d’amore sia più grande tra i fratelli volle che tutto il suo ordine fosse unito dall’uniformità, i grandi ai minori, i letterati agli illetterati uniti da uno stesso comportamento e da uno stesso modo di vivere [...] come la casa di una stessa famiglia» (Ut maior esset inter fratres caritatis societas, voluit totum Ordinem suum esse uniformitate concordem ubi maiores minoribus, litterati illitteratis simili habitu et vitae observantia unirentur [...] ut quasi unius domu familia) (II Cel., 191, p. 240). 105 «A causa della virtù dell’umiltà non volle che i capi dell’ordine fossero chiamati nella regola con termini di dignità, come abati, preposti o priori, ma ministri e custodi, affinché si capisse che erano piuttosto i servitori che i signori dei fratelli» (Propter humilitatis quoque virtutem noluit rectores Ordinis nominibus dignitatum in Regula appellare abbates, praepositos vel priores, sed ministros et custodes, ut per hoc intelligant, se fratrum suorum potius servitores esse quam dominos) (Legenda monacensis, p. 709). 106 «Quando il cardinale Ostiense gli aveva chiesto [...] se avesse gradito che i suoi fratelli fossero promossi alle dignità ecclesiastiche rispose: Signore, ho voluto che i miei fratelli fossero chiamati Minori affinché non pensassero a essere grandi. Se volete che la loro azione sia feconda nella Chiesa, manteneteli nello stato della loro vocazione e non consentitegli di elevarsi alle prelature ecclesiastiche» (Cum autem requiret ab eo dominus Ostiensis [...] utrum sibi placeret quod fratres sui promoverentur ad ecclesiasticas dignitates, respondit: Domine, Minores ideo vocati sunt fratres mei ut maiores fieri non presumant. Si vultis ut fructum faciant in Ecclesia Dei tenete illos et conservate in statu vocatio-

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Come raggiungere questa uniformità, nell’ordine e fuori dall’ordine? Come realizzare questa «società senza classi»? Se Francesco ha pensato di lanciare i suoi fratelli nella lotta politica, ha comunque solo voluto fargli giocare un ruolo di pacificatori107. Benché abbia talvolta pronunciato degli slogan sovversivi, d’altra parte sostenuti dall’autorità delle Scritture (come l’«ego fur esse nolo»108 che evoca il famoso «la proprietà è il furto»), non ha, nei fatti, mai pensato all’uso della forza e neanche del potere politico che, abbiamo visto, era ai suoi occhi una forma particolarmente sospetta di potere. Giacché questo osservatore critico delle ineguaglianze e delle gerarchie è anche, e innanzitutto nel suo ordine, un apostolo appassionato dell’obbedienza. Obbedienza su cui si fonda la scelta della sottomissione, obbedienza che è la giustificazione e l’ideale del subditus volontario. Come chiamare oggi questa obbedienza, nella prospettiva di azione sulla società in cui si collocava san Francesco, se non non-violenza? Francesco e i suoi sperano di trasformare la società attraverso il carattere sovversivo, scandaloso, rivoluzionario di questa sottomissione volontaria. Ma obbenis eorum, et ad praelationes ecclesiasticas nullatenus ascendere permittatis) (Legenda maior, VI, 5, p. 584). Cfr. II Cel., 148, p. 216. 107 La nozione di pace è essenziale nel pensiero e nell’apostolato di san Francesco. «Quando entrano in una casa, che dicano innanzitutto: Pace a questa casa» (In quacumque domum intraverint, primum dicant: Pax huic domui) (II Regula, III). «Il Signore mi ha rivelato questo saluto affiché noi diciamo: che il Signore ti dia la pace» (Salutationem mihi Dominus revelavit, ut diceremus: Dominus det tibi pacem) (Testamentum, 6). Bisogna pensare al pacificatore san Luigi, così segnato dal francescanesimo. Sui primi Francescani e la politica, cfr. A. Vauchez, Une campagne de pacification en Lombardie autour de 1233. L’action politique des ordres mendiants d’après la réforme des statuts communaux et les accordes de paix, in «Mélanges d’archéologie et d’histoire», t. 78, 1966, pp. 503-549. 108 «Il Santo gli disse: non voglio essere un ladro, ci accuseranno di furto se non daremo di più ai bisognosi» (Cui sanctus: Ego fur esse nolo; pro furto nobis imputarentur, si non daremus magis egenti). Cfr. II Regula, IX: «L’elemosina è l’eredità e la giustizia che dobbiamo ai poveri» (Elemosina est hereditas et iustitia, quae debetur pauperibus).

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dienza non cieca. Perché ci può essere una cattiva obbedienza che scatta automaticamente, senza esaminare il valore del contenuto che accetta. Anche all’interno del suo ordine, anzi soprattutto lì, Francesco mette in guardia i suoi fratelli contro questa falsa obbedienza che si mette al servizio del crimine o del peccato109 e predica, al contrario, «la vera e santa obbedienza», vera et sancta obedientia. D’altro canto, nella regola rivista che gli viene imposta, dovrà notevolmente edulcorare questa raccomandazione. Eppure non faceva che applicare la disciplina della casistica che si elaborava in quei tempi rispetto a nozioni e pratiche fino ad allora condannate o lodate in sé, e all’interno delle quali ci si sforzava di definire un campo del lecito e uno dell’illecito, un settore giusto e uno ingiusto: così a proposito della guerra, del profitto, del gioco, dell’ozio, del lavoro, ecc. c) Fondamenti di un nuovo ordine sociale Questo ideale di livellamento, qualsiasi sforzo implichi per la sua realizzazione, qualsiasi valore positivo di eliminazione dell’ingiustizia contenga, rimane comunque essenzialmente negativo. Inoltre dal momento che san Francesco tende a limitarne l’applicazione pratica ai suoi fratelli, che nuovo ordine propone alla società? È difficile capirlo con certezza ed è probabile che, come molti riformatori e rivoluzionari, Francesco vedeva molto più chiaramente il male da far scomparire che il bene da instaurare al suo posto. Tuttavia, possiamo pensare che abbia espresso l’essenziale del suo pensiero in una dichiarazione riportata da Tommaso da Celano (II Cel., 146, p. 109 «Se un ministro prescrive a un fratello qualcosa contro il nostro modo di vivere o contro la sua anima, il fratello non è tenuto a obbedirgli, poiché non vi è disobbedienza dove vi è crimine o peccato» (Si quis autem ministrorum alicui fratrum aliquid contra vitam nostram vel contra animam suam preciperet, frater non teneatur ei obedire, quia illa obedientia non est, in qua delictum vel peccatum committitur) (I Regula, V).

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214): «Diceva: siamo stati inviati per aiutare i chierici, per promuovere la salvezza della loro anima, per colmare le loro insufficienze. Che ciascuno riceva il suo non secondo la sua autorità, ma secondo il suo lavoro» (Dicebat autem: In adjutorum clericorum missi sumus ad salutem animarum promovendam, ut quod minus invenitur in illis, suppleatur in nobis. Recipiet unusquisque mercedem non secundum auctoritatem, sed secundum laborem), in modo da rimpiazzare un ordine fondato sul rango con un ordine fondato, diciamo, sul lavoro, sul merito. In effetti, come tradurre labor? Tratteggiare le attitudini di san Francesco e dei suoi contemporanei nei confronti del lavoro ci porterebbe troppo lontano. Accontentiamoci di dire che, di fronte a una evoluzione che tendeva a svuotare i riferimenti specificatamente morali di labor («pena») a vantaggio di quelli socio-professionali e socio-economici, san Francesco non sembra aver scelto chiaramente. Mancanza spiegata bene dall’ambiguità del lessico, essa stessa riflesso della confusione delle strutture economiche e sociali110. Se il lessico è uno strumento nelle mani degli uomini e delle società, è anche una struttura che si impone loro e, al di là della propria elasticità, oppone la resistenza propria delle infrastrutture. Situazione di questo lessico in relazione a una problematica storica Così come l’analisi e la descrizione degli elementi del lessico sociale francescano non sfuggono a un tentativo di interpretazione, lo sforzo di spiegazione del senso che questo lessico aveva per san Francesco e i suoi contemporanei non è completamente indipendente dalla situazione dello storico 110 Cfr. K. Esser, Die Handarbeit in der Frühgeschichte des Minderbrüderordens, in «Franziskanische Studien», 40, 1958.

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che lo affronta con i suoi strumenti concettuali e la sua problematica. Dunque non è solo onesto ma anche necessario tentare, per lo meno in modo sommario, di concludere spiegandosi su questo punto. a) La contestualizzazione storica Innanzitutto è stato necessario definire il luogo e il momento. Era importante notare che l’humus italiano del francescanesimo gli offriva un terreno in cui la feudalità nel senso classico non era realmente esistita e in cui, prima e più intensamente che altrove, si era affermato un modello sociale urbano caratterizzato dallo scontro di due partiti. Ma era ancora più importante constatare che nella svolta tra XII e XIII secolo, nell’insieme della cristianità occidentale, con progressi e ritardi qua e là, si è assistito a una generale riclassificazione sociale. Questo sconvolgimento era sentito in termini di potere e il nuovo dislivello si stabiliva tra coloro che partecipavano alle nuove forme di potere e coloro che ne erano esclusi. Notiamo, senza entrare nel dettaglio, che la diffusione dell’economia monetaria, risultato e causa a un tempo di questo sconvolgimento, non era sufficiente né a spiegarlo né a battezzarlo. Il denaro non era il personaggio centrale di questa evoluzione sociale, così come non era l’eroe principale del teatro sociale e ideologico francescano111. Il denaro non è che uno degli elementi del nuovo potere, così come, inversamente, la nobiltà ne è rimasta una componente essenziale. 111 Cfr. L. Hardick, Pecunia et denarii. Untersuchung zum Geldverbot in den Regeln der Minderbrüder, in «Franziskanische Studien», 40, 1958. Sulla lotta di classe nell’Italia del XIII secolo, cfr. il classico studio di G. Salvemini, Magnati e popolani a Firenze, Firenze 1899, e G. Fasoli, La legislazione antimagnatizia nei comuni dell’alta e media Italia, in «Rivista di storia del diritto italiano», e, soprattutto, nella prospettiva qui adottata, Ead., Gouvernants et gouvernés dans les communes italiennes du XIe au XIIIe siècle, in «Recueils de la Société Jean Bodin», 25, 1965, pp. 47-86.

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Nella ridistribuzione delle categorie sociali, lo strato disprezzato è quello dei subditi, sudditi o sottoposti, che vengono anche chiamati pauperes, perché la povertà non si oppone solo alla ricchezza. È stato sempre così, ma in questo caso si tratta di nuovi poveri e di una nuova e originale pauperizzazione della società112. Come nello schema tripartito con cui i chierici descrivevano la società precedente, i laboratores potevano rappresentare sia l’insieme della categoria disprezzata, sia solamente lo strato superiore di questa categoria – una élite economica rurale tenuta ai margini del potere –, così nel nuovo sistema le personae minores possono designare sia, come tendenzialmente in san Francesco, l’insieme dello strato inferiore, e minores è in questo caso sinonimo di subditi e di pauperes, sia, come nei formulari citati in nota 4, una élite, questa volta urbana, anch’essa sprovvista delle dignità, funzioni, attributi e vantaggi del potere. b) La scelta del sistema di riferimento In rapporto a quale modello sociologico e ideologico definire tale società? Senza entrare nel dettaglio di sistemi complessi e, fino a oggi, raramente realizzati in forma pura nella storia delle società concrete, possiamo sommariamen112 Sulla povertà nel Medioevo, le ricerche recenti più importanti sono quelle di M. Mollat e dei suoi allievi, su cui M. Mollat ha fornito due saggi provvisori: Pauvres et pauvreté à la fin du XIIe siècle, in «Revue d’ascétique et de mystique», 1965, pp. 305-323, e La notion de pauvreté au Moyen Âge: position du problème, in «Revue d’histoire de l’Eglise de France», 1967 (si veda l’intero numero e in particolare G. Duby, Les pauvres des campagnes dans l’Occident médiéval jusqu’au XIIIe siècle). In seguito, cfr. M. Mollat, Les Pauvres au Moyen Âge. Ètude sociale, Paris 1978. La povertà nel XII secolo è stata oggetto del convegno dell’Accademia Tudertina (Todi, 1967). Ricordiamo, come inquadramento del nostro periodo, E. Werner, Pauperes Christi, Studien zu SozialReligiösen Bewegungen im Zeitalter des Reformpapsttums, Leipzig 1956; F. Graus, Au bas Moyen Âge: pauvres des villes et pauvres des campagnes, in «Annales E.S.C.», 1961, pp. 1053-1065 (particolarmente importante per la nostra problematica); K. Bosl, Potens und Pauper, in Festschrift für O. Brunner, Göttingen, pp. 60-87, ripreso in Frühformen der Geselleschaft im mittelalterlichen Europa, München 1964.

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te affermare che questa società non è né una società di caste, né una società di ordini, né una società di classi. Per utilizzare criteri molto generali, abbiamo notato, nel corso dell’analisi dettagliata del lessico francescano delle categorie sociali e delle realtà a cui faceva riferimento, che queste non avevano né il carattere di stratificazione sacra o religiosa delle caste e degli ordini, né l’omogeneità relativa delle classi. Sembra che lo schema della attuali scienze umane più adatto a rendere conto di tale società, ed è un merito del francescanesimo averlo sottolineato attraverso l’interesse primario verso lo strato disprezzato, è quello del pauperismo, per esempio, nel senso in cui Oscar Lewis parla di cultura del pauperismo. Ma vi è pauperismo e pauperismo, e, per concludere, bisogna esaminare rapidamente che tipo di «società pauperista» si profila dietro il lessico sociale del francescanesimo. c) La problematizzazione La società pauperista del basso Medioevo occidentale che irrompe sulla scena storica attraverso il francescanesimo e il suo lessico non era segregazionista, nonostante il fossato che separa i potenti dai poveri. A differenza delle culture isolate dei pauperismi d’America studiate da Oscar Lewis, la società pauperista medievale è stata trascinata dalla corrente dello sviluppo e della crescita. Il problema di fondo che si sono posti san Francesco e i suoi compagni è stata l’integrazione di questa società pauperista nella storia. Beninteso, la loro soluzione, che non è il caso di analizzare ora al di là dello studio sociale e linguistico delineato sopra, era una soluzione religiosa, spirituale: integrazione, storia, salvezza. Benché il francescanesimo – e il movimento religioso più vasto a cui bisogna collegarlo – abbia profondamente segnato con la sua impronta il mondo del basso Medioevo e continui a essere presente e attivo an-

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che oggi nella cultura occidentale, la sua soluzione sociale è stata un fallimento. Il problema per lo storico è quindi, attraverso la traiettoria e il fallimento del francescanesimo, tentare di trovare un modello di crescita storica che spieghi il destino di questa società pauperista. Sembra che sia possibile identificare due processi di integrazione che hanno permesso a questa società di essere globalmente trascinata nello sviluppo. Uno è economico. I progressi dell’economia monetaria e dell’accumulazione che – benché certo in modo molto ineguale – hanno messo in causa tutte le categorie della società, dopo la creazione di un nuovo pauperismo (quello della rivoluzione industriale che, invece di lasciare il suo segno sulla società come nel basso Medioevo, ne fu il risvolto negativo), hanno consentito l’accesso della società pauperista all’economia di consumo attuale. L’altro è politico-culturale. La formazione di unità e di coscienze nazionali ha impedito che le categorie sociali disprezzate rimanessero nel ghetto in cui rischiava di rinchiuderle un’unità cristiana diventata solo formale, avendo perduto il suo dinamismo materiale e psichico113. L’aspetto del lessico sociale del francescanesimo primitivo che meglio si accorda alla comprensione storica è il posto che vi occupano gli schemi qualitativi aperti, i quali hanno tradotto e favorito l’integrazione all’evoluzione storica della società pauperista, che peraltro definivano assai bene. In tal senso si può affermare, secondo uno schema di spiegazione storica sommario ma sempre efficace dal punto di vista scientifico, che il lessico sociale del francescanesimo primitivo è rappresentativo della fase di transizione dal feu113 Per un caso di formazione della coscienza nazionale (senza sbocco politico) ricollocato in uno studio di storia globale, cfr. P. Vilar, La Catalogne dans l’Espagne moderne, Paris 1963. Sulle trasformazioni della povertà nel mondo mediterraneo post-medievale, cfr. F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris 19662, vol. II, pp. 75 sgg., e E.J. Hobsbawm, Les Primitifs de la révolte dans l’Europe moderne, Paris 1966.

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dalesimo al capitalismo, secondo le modalità originali che ha rivestito nell’Occidente medievale114. 114 Su Francesco d’Assisi e la società del suo tempo, due saggi interessanti: S. Classen, Franziskus von Assisi und die soziale Frage, in «Wissenschaft und Weisbeit», 15, 1952, pp. 109-121, e H. Roggen, Die Lebensform des heiligen Franziskus von Assisi in ihren Verhältnis zur feudalen und bürgerlichen Gesellschaft Italiens, in «Franziskanische Studien», 46, 1964, pp. 1-57 e 287-321.

IV FRANCESCANESIMO E MODELLI CULTURALI DEL XIII SECOLO* Il mio scopo è redigere un inventario dei modelli o, piuttosto, dei concetti chiave della mentalità e della sensibilità comuni nel XIII secolo e di cercare di definire l’attitudine dei Francescani nei confronti di questi modelli, nella loro prospettiva di evangelizzazione della società laica. La realizzazione di questo scopo si scontra con due insiemi di difficoltà. Il primo riguarda la definizione dei modelli culturali. Questi modelli, in genere, sono stati elaborati dagli strati dirigenti della società: chierici e nobili. È molto difficile cogliere modelli propriamente «popolari», cioè non quelli semplicemente accettati dalle fasce sociali dominate rurali e urbane – modelli volgarizzati –, ma quelli propri della cultura tradizionale di queste fasce, diciamo pure la cultura «folklorica». Mi sono così interessato soprattutto ai modelli che mi è parso si siano diffusi nell’insieme della società, i modelli «comuni». Nel Medioevo non esiste un campo specifico della cultura nel senso moderno del termine. L’espressione «modelli culturali» è qui ripresa in senso largo e i concetti chiave dei * Questo testo è stato pubblicato in precedenza negli Atti dell’VIII Convegno della Società Internazionale di Studi Francescani, sul tema Francescanesimo e vita religiosa dei laici nel ’200 (Assisi, 16-18 ottobre 1980), Assisi 1981, pp. 85-128.

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sistemi di valori sono considerati in una prospettiva di antropologia storica. Mi sono interessato soprattutto ai nuovi valori o a quelli che si sono imposti nel XIII secolo. Ho considerato i seguenti modelli: – modelli legati alla percezione dello spazio e del tempo: la città, la chiesa, la casa, la novità, la memoria; – modelli legati alla struttura della società globale o civile: gli «stati» (status), i laici, la donna, il bambino, la carità (le opere di misericordia e non solamente l’elemosina); – modelli legati alla struttura della società religiosa: la prelatura, la confraternita; – modelli legati alla cultura in modo specifico: il lavoro intellettuale e la scienza, la parola, la lingua volgare, il calcolo; – modelli di comportamento e di sensibilità: la cortesia, la bellezza, la gioia, la morte; – modelli etico-religiosi in senso stretto: la penitenza, la povertà, l’umiltà, la purezza (il corpo), la preghiera, la santità; – modelli tradizionali del sacro: il sogno e la visione, il miracolo, la stregoneria, l’esorcismo. Insisterò meno su aspetti che sono indubbiamente essenziali, ma anche più noti: la penitenza, la povertà, l’umiltà. Il secondo insieme di difficoltà ruota attorno alla valutazione dell’evangelizzazione francescana. Questa è mutata a seconda delle tendenze dell’ordine (in particolare con il movimento degli spirituali); è evoluta molto presto nel tempo, vivente lo stesso san Francesco; è stata profondamente segnata dalla personalità del suo fondatore, in modo così forte che questo studio rinvia sempre a Francesco in prima persona, ma, purtuttavia, si è differenziata sensibilmente da quelli che si può supporre siano stati gli ideali e i comportamenti di san Francesco; non è stata sempre ben distinta né dai contemporanei né dagli storici dell’apostolato dell’insieme degli ordini minori e, in particolare, dei Domenicani. Quindi, non è sempre facile cogliere l’originalità francesca-

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na anche se su certi punti pare evidente. Infine, bisogna tenere conto della distanza tra gli ideali proclamati e i comportamenti reali, non per fare un processo all’ordine, cosa che non compete al ruolo dello storico, ma perché la differenza tra i modelli proposti e quelli realmente seguiti può sollevare problemi di difficile interpretazione sul ruolo storico del francescanesimo per ciò che riguarda i laici. Tuttavia ho rilevato che, nonostante le incoerenze, le contraddizioni e le evoluzioni che indicherò di tanto in tanto, nel XIII secolo vi è una coerenza dei valori francescani sia in teoria che in pratica. In breve, è esistito realmente un modello francescano di evangelizzazione dei laici all’interno del mondo mendicante. Nel mio inventario dei grandi temi della vita culturale – nel senso ampio del termine – del XIII secolo, evocherò l’attitudine dei Francescani dal punto di vista dell’apostolato dedicato ai laici, la loro partecipazione alla diffusione di alcuni modelli oppure la loro opposizione, le modifiche originali, le distinzioni e gli adattamenti che vi hanno apportato. Modelli legati allo spazio e al tempo a) La città Lo spazio di Francesco e dei primi Francescani è rappresentato, innanzitutto, dal respiro dell’alternanza città/solitudine, conventi/eremi, conforme d’altronde alla tradizione di un san Martino che oscilla tra la cura animarum in quanto vescovo di Tours e la rigenerazione a Marmoutier in quanto monaco. Tommaso da Celano ha insistito molto sull’amore per il ritiro nella solitudine di Francesco (per esempio II Cel., 9: solitaria loca de publicis petens, «si allontanava dai luoghi pubblici per raggiungere la solitudine»). Tuttavia, Francesco e i suoi fratelli compiono la scelta dell’apostolato nelle città. Tale scelta e il processo di insedia-

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mento dei Francescani nelle città sono stati ben studiati, in particolare per l’Italia, come, per esempio, nel caso di Firenze1 e di Perugia2. Nella sua celebre Cronaca, Salimbene manifesta il suo interesse per le città e in particolare per Parma, la sua città. Sottolinea l’attenzione specifica che i Francescani riservarono alle piccole città, a differenza dei Domenicani più preoccupati di fondare grandi conventi nei centri importanti3. La scelta urbana ha d’altronde suscitato discussioni echeggiate in un testo francescano attribuito a san Bonaventura: le Determinationes quaestionum super Regulam fratrum Minorum, la cui quinta questione è: «Perché i frati risiedono più spesso nelle città e negli agglomerati fortificati?» (Cur fratres frequentius maneant in civitatibus et oppidis?)4. Matteo Paris identifica addirittura la residenza urbana come caratteristica dei Mendicanti5. Lo spazio di Francesco e dei frati diventa, in seguito, una rete di città e di strade che le uniscono. I Francescani sono per la maggior parte del tempo in via, «per strada». La strada condurrà alcuni di loro fino in Asia e in Cina. A proposito di Francesco e dei suoi compagni le fonti dicono anche che vanno per civitates et loca, che «penetrano nelle città e 1 A. Benvenuti Papi, L’impianto mendicante in Firenze, un problema aperto, in Les Ordres Mendiants et la ville en Italie centrale (v. 1220-v. 1350), Table ronde de l’Ecole française de Rome, Roma 1977, pp. 595-608. 2 A.I. Galletti, Insediamento degli ordini mendicanti nella città di Perugia. Prime considerazioni e appunti di ricerca, in Les Ordres Mendiants cit., pp. 587594. 3 L. Gatto, Il sentimento cittadino nella «Cronica» di Salimbene, in La coscienza cittadina nei comuni italiani del Duecento, Todi 1972, pp. 365-394. Cfr. C. Violante, Motivi e carattere della Cronica di Salimbene, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. II, 22, 1953. 4 L. Pellegrini, L’ordine francescano e la società cittadina in epoca bonaventuriana. Un’analisi del «Determinationes quaestionum super Regulam Fratrum Minorum», in «Laurentianum», 15, 1974, pp. 175-177. Cfr. J. Le Goff, Ordres mendiants et urbanisation dans la France médiévale, «Annales E.S.C.», 1970, pp. 928-931. 5 «I frati detti Minori [...] che abitano le comunità urbane e le città» (Fratres qui dicuntur Minores [...] habitantes in urbibus et civitatibus) (Historia Anglorum, in MGH, SS, XXVIII, 397, ad annum 1207).

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negli agglomerati», «intrant civitates et villas». Il loro apostolato li spinge a utilizzare o a creare nuovi spazi comunitari nelle città, in particolare per la predicazione. Questo nuovo luogo della parola urbana è sovente la piazza, che ricrea uno spazio civico all’aperto, al posto degli ormai scomparsi agorà e fori antichi6. A volte, come a Perugia, i bellatores, i «guerrieri», cercano di confiscare questo spazio a danno degli oratores, degli «oratori». Altre volte, come a Limoges in occasione della predicazione di Antonio da Padova, la folla è tale che si devono utilizzare le antiche rovine romane, nel caso specifico il circo7. Infine, l’insediamento dei Minori (come quello dei Predicatori) si organizzerà in un inquadramento dello spazio sia attorno alla città che al suo interno. Nel primo caso, si tratta della delimitazione dei territori centrati sulle città: le custodie (si pensi alle praedicationes domenicane). Nel secondo si stabilisce, con la bolla di Clemente IV Quia plerumque del 20 novembre 1265, la distanza minima che deve separare due conventi di Mendicanti nella stessa città – delineando così la riorganizzazione dello spazio urbano attorno ai conventi mendicanti8.

6 Per esempio Francesco predica nel 1222 a Bologna sulla piazza davanti al palazzo pubblico in cui «quasi tutta la città era radunata» (Tommaso di Spalato, Historia Salonitarum, in L. Lemmens, Testimonia minora saeculi XIII de S. Francisco Assisiensi, Quaracchi 1926, p. 10). 7 «Poiché aveva chiamato il popolo alla predica a Limoges e poiché la folla era così grande che tutte le chiese erano troppo piccole, convocò il popolo in un luogo spazioso che era stato un tempo il palazzo dei pagani e che era chiamato fossa dell’Arena» (Cum semel Lemovicis populum ad praedicationem convocasset, et tanta esset multitudo populi quod angusta reputaretur quaelibet ecclesia [...] ad quemdam locum spatiosum, ubi olim fuerant palatia paganorum; qui locus dicitur Fovea de Arenis, populum convocavit) (AA.SS., Junii, II, 727, citato da A. Lecoy de La Marche, La Chaire française au Moyen Âge, spécialement au XIIIe siècle, Paris 1886, p. 141). 8 Le Goff, Ordres mendiants et urbanisations cit., p. 932. Cfr. E. Guidoni, Città e ordini mendicanti, in La città dal medioevo al rinascimento, Bari 1981, pp. 123-158.

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b) La chiesa Nonostante la crescente importanza delle chiese degli ordini mendicanti dal punto di vista architettonico, urbanistico e socio-religioso, bisogna notare – e questo è particolarmente vero nel caso dei Francescani – che l’apostolato francescano segna un certo distacco dall’edificio chiesastico. Pierre Michaud-Quantin ha sottolineato che, così come gli universitari nel XIII secolo non miravano a possedere propri edifici, allo stesso modo «i Minori sembrano considerare ancora la Porziuncola [l’umile oratorio primitivo di Francesco] come il loro insediamento ideale»; e che, con i Mendicanti, vi è una «eliminazione dei legami istituzionali e permanenti tra il religioso e la sede dove egli dimora»9. Una funzione essenziale dei Francescani (così come dei Domenicani) è la predicazione. Questa attività tende a uscire dalla chiesa, a svolgersi fuori, sulle piazze, nelle case, sulla strada, là dove vi sono degli uomini. Crea un suo spazio proprio, o muta lo spazio pubblico in spazio della parola e della salvezza. A questo proposito, il «titolo» della bolla di Niccolò III del 14 agosto 1279, Exiit qui seminat («Colui che semina deve uscire»), può apparire simbolico. c) La casa L’apostolato dei Francescani, soprattutto all’inizio, non aspetta che i laici giungano a loro, ma va verso i laici, nella loro residenza per eccellenza: la casa10. Così viene riconosciuto e rafforzato un fenomeno sociale e culturale di grande importanza: la costituzione della famiglia nucleare in uno specifico 9 P. Michaud-Quantin, Universitas. Expressions du mouvement communautaire dans le Moyen Âge latin, Paris 1970, in particolare pp. 78-79. 10 Il testo della Regula non bullata riporta: «E in qualsiasi casa entrino, dicano innanzitutto: Pace a questa casa» (Et in quamcumque domum intraverint, dicant primum: Pax huic domui) (XIV). Cfr. C. Esser (a cura di), Opuscula Sancti patris Francisci Assisiensis, Grottaferrata 1978, Indici, s.v. Domus, p. 370. La frase è ripresa nella Regula bullata.

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luogo di residenza, il recupero della casa come centro di devozione individuale e familiare (immagini pie, spazi riservati alla preghiera) e, quindi, di santificazione della vita quotidiana attraverso la conversazione «a domicilio» con i religiosi. Un celebre passaggio della Leggenda dei tre compagni evoca la nascita del Terz’ordine francescano in questi termini: «Allo stesso modo, mariti e spose, non potendo rompere il vincolo del matrimonio, si dedicavano, nelle loro case, su pio consiglio dei frati, a una pratica di penitenza più stretta»11. La Leggenda dei tre compagni, che insiste sul contrasto tra uomini della foresta e uomini delle città incarnato sinteticamente dai primi Francescani, evoca la loro frequentazione delle abitazioni modeste: Tutti coloro che li vedevano provavano grande meraviglia, poiché il loro abito e la loro vita li rendeva assai differenti da tutti gli altri mortali e ne faceva, per così dire, uomini delle foreste. Quando entravano in una città o in un castello, in un villaggio o in una casa modesta, predicavano la pace, riconfortavano tutti, dicendo di temere e amare il Creatore del cielo e della terra e di seguire i suoi comandamenti12.

La frequentazione delle case dei laici, comprese quelle dei nobili, dei cavalieri, dei ricchi che Francesco stesso non disdegnava – poiché l’apostolato presso i laici ricchi appariva ai suoi occhi altrettanto se non più importante – è messa in relazione con gli inizi dell’ordine e l’assenza di luoghi proprio di ospitalità13. Ma per quanto riguarda i frati, l’idea di possedere case proprie fu certamente uno dei nodi di tensione all’interno dell’ordine: Tommaso da Celano racconta come Francesco, che aveva l’intenzione di passare da Bologna, apprese la reLegenda trium sociorum (d’ora in poi citata Trium soc.), 60. Ivi, 37. 13 Cfr. ivi, 60, p. 845, che si protrebbe tradurre: «Quando non potevano essere ricevuti dai preti, andavano di preferenza presso uomini pii e timorati di Dio». 11 12

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cente costruzione in quella città di una casa dei frati: «Non appena sentì le parole: ‘casa di frati’, voltò le spalle, si allontanò da Bologna e prese un’altra strada; poi ingiunse ai fratelli di lasciare immediatamente quella casa»14. Qui si coglie, su un punto importante, un’evoluzione – nel senso della separazione e dell’allontanamento – dei rapporti tra frati e laici. L’apostolato nelle case, l’ospitalità nelle case dei laici, appartengono soprattutto al primo periodo in cui i frati sono ancora dei semilaici: «frequentando case diverse, seminando la parola del Signore, sull’esempio degli apostoli» (cum [...] serendo semina verbi Dei apostolorum exemplo diversas circumeant mansiones), come dice la bolla di Onorio III del 1219. d) La novità Il carattere nuovo di san Francesco e del suo ordine ha colpito i contemporanei in una epoca divenuta sensibile al lato positivo della novità, di cui si stempera la tradizionale condanna15. Un inno in onore di san Francesco, attribuito a Tommaso da Celano, dice Un nuovo ordine, un nuovo modello di vita Sorge, sconosciuto al mondo Novus ordo, nova vita Mundo surgit inaudita16.

Burcardo di Ursperg, premonstratense morto nel 1230, dice nel suo Chronicon a proposito dei Minori e dei Predicatori: «Quando il mondo invecchiava, due istituzioni religiose sono nate nella Chiesa per rinnovare la giovinezza coII Cel., 58, p. 397. B. Smalley, Ecclesiastical Attitudes to Novelty, c. 1100-c. 1250, in D. Baker (a cura di), Church, Society and Politics, Oxford 1975, pp. 113-131. 16 «Analecta franciscana», t. X, p. 402. 14 15

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me aquile» (mundo jam senescente exortae sunt duae religiones in Ecclesia cujus ut aquilae renovatur juventus)17. Nella Leggenda di Perugia, Francesco dice ai suoi fratelli: «E il Signore mi disse che voleva che fossi un nuovo folle nel mondo» (Et dixit Dominus mihi quod volebat quod ego essem novellus pazzus in mundo)18. Nella sua Expositio super Regulam, Bonaventura dovette difendere i Minori dall’accusa di essere un ordo fictitius, de novo institutus («un ordine immaginato, istituito come novità») e oppose l’idea di rinnovamento a quella di novità: «Questa regola, questo modello di vita non è nuovo, ma rinnovato» (non est ergo haec regula aut vita nova, sed procul dubio renovata). Bisogna ricollocare questa «novità» nella grande inversione di valori riguardanti il tempo che la cristianità latina conobbe tra la metà del XII secolo e la metà del XIII. Padre Chenu ha esemplarmente mostrato ne La Théologie au XIIe siècle come, di fronte all’ideologia dell’invecchiamento del mondo professata nell’alto Medioevo (mundus senescit, secondo la formula ripresa da Burcardo di Ursperg), la macchina della storia nel XII secolo si rimetta in moto. Francis de Beer ha analizzato con molta finezza il modo in cui Francesco viene presentato da Tommaso da Celano come uomo della conversione in quanto partenza, sottolineata dalla formula nunc coepi. È una spiritualità dell’iniziativa. In questo movimento di conversione il passato viene abolito, poiché il presente e il passato sono antagonisti, mentre il presente e il futuro sono solidali. Questo è vero soprattutto in una prospettiva escatologica, ma anche nel senso di un progresso come legge della vita spirituale: perfectiora incipere (I Cel., 103, 3)19. Lemmens, Testimonia minora cit., p. 17. Leggenda di Perugia (d’ora in poi citata Leg. Per.), 114. Si noterà la parola di lingua volgare «pazzo» (pazzus). 19 F. de Beer, La Conversion de François selon Thomas de Celano, Paris 1963. 17 18

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Allo stesso modo, se i rapporti tra francescanesimo e millenarismo, più precisamente tra francescanesimo e gioachimismo, sono molto stretti per quanto ambigui (vi è stato soprattutto un tentativo di cattura, d’interpretazione possessiva del francescanesimo da parte dei gioachimiti e di certe tendenze presenti tra i Minori), non bisogna comunque esagerare il millenarismo francescano20. Tommaso da Celano dà del fenomeno francescano nella Chiesa un’interpretazione molto storica, cronologicamente datata. Quando il vescovo di Assisi ebbe la visione di san Francesco morto a Benevento, «chiamò il notaio e gli fece scrivere il giorno e l’ora»21. Tale è la nuova attenzione al tempo cronologico, datato. e) La memoria Nelle società e nelle epoche in cui l’oralità gioca un grande ruolo – come nel caso dell’Occidente medievale, nonostante i progressi della scrittura –, la memoria ha una funzione particolarmente importante. A questo proposito, dopo la rinascita del XII secolo, il XIII secolo conosce un vero apogeo della memoria. Le teorie e le tecniche di memorizzazione si moltiplicano e si rafforzano. Anche i frati mendicanti partecipano a tale evoluzione intellettuale22. La vita cristiana viene definita in particolare come memoria. Il ricordo attivo di Cristo diventa un motore essenziale della vita spirituale. La confessione e la predicazione mettono in primo piano l’esame di coscienza, che è prima di tutto rimembranza. 20 Oltre al saggio critico di L. Salvatorelli, Movimento francescano e gioachimismo. La storiografia francescana contemporanea, in X Congresso Internazionale di scienze storiche, Relazioni, vol. III, Storia del Medioevo, Firenze 1955, pp. 403-448, con ricca bibliografia, si veda, tra gli altri, F. Russo, S. Francesco ed i Francescani nella letteratura profetica gioachimita, in «Miscellanea francescana», 46, 1946, pp. 232-242. 21 II Cel., p. 220. 22 Cfr. F. Yates, The Art of Memory, London 1966.

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Per Francesco, la virtù essenziale è il ricordo dell’anima amante, la recordatio. Anche in questo caso, Francis de Beer ha ben mostrato l’importanza del «ricordo raccolto» nella conversione di Francesco: «Francesco è memor Dei (II Cel., 14, 15), non dimentica la sua promessa (non obliviscetur, II Cel., 11, 10) [...], si ricorda delle piaghe di Cristo (recordans plagarum Christi, II Cel., 11, 8) [...], Cristo è Colui di cui ci si ricorda»23. La conclusione della Regula non bullata era un appello insistente alla memoria dei fratelli: Prego tutti i fratelli di imparare il tenore e il senso di ciò che è stato scritto in questa vita per la salvezza della nostra anima e di riportarlo spesso alla loro memoria. E prego Dio che Egli stesso, che è onnipotente, uno e trino, benedica tutti gli insegnanti, gli studenti, i possessori, i commemoratori e i lavoratori. Rogo omnes fratres, ut addiscant tenorem et sensum eorum quae in ista vita ad salvationem animae nostrae scripta sunt et ista frequenter ad memoriam reducant. Et exoro Deum, ut ipse, qui est omnipotens, trinus et unus, benedicat omnes docentes, discentes, habentes, recordantes et operantes.

Come aveva fatto Cristo la sera del giovedì santo, anche Francesco nel Testamento di Siena sollecita i suoi fratelli a ricordarsi di lui24. Infine, secondo un’attitudine del monachesimo primitivo, come Atanasio aveva detto di Antonio, la memoria prendeva il posto dei libri: memoria pro libris habebat (II Cel., 102, 9), e in questo si ritrova la tensione tra tendenze antintellettualistiche e partecipazione alla scienza libresca, universitaria. Il ricordo della Passione di Cristo non aveva più lasciato de Beer, La Conversion cit., pp. 222-224. Esser, Opuscula cit., p. 324: «in segno della memoria della mia benedizione e del mio testamento» (in signum memoriae meae benedictionis et mei testamenti). 23 24

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Francesco da quando Cristo gli aveva parlato (II Cel., 11, 7): «come se l’avesse sempre davanti agli occhi» (quasi semper coram oculis). È lo stesso sentimento che anima san Bonaventura nella sua concezione dell’assidua devotio25. Modelli legati all’evoluzione dell’economia L’inizio del XII secolo vede una grande svolta nell’economia occidentale. Due fenomeni principali si iscrivono tanto nel quadro delle ideologie e delle mentalità quanto in quello delle realtà economiche: la diffusione massiccia dell’economia monetaria, del denaro, il mutamento del lavoro con la divisione di quello in ambito urbano, l’estensione del salariato, la valorizzazione del lavoro e le discussioni su quello manuale in ambito monastico e universitario. a) Il denaro Il denaro si presenta a Francesco e ai suoi fratelli innanzitutto nel suo aspetto materiale, sotto forma di monete che chiunque, soprattutto in città, ha sempre più occasione di toccare, palpare, possedere. La reazione di rifiuto del denaro è dunque, innanzitutto, un gesto di repulsione fisica, di rigetto della materia monetaria. Bisogna considerare, sentire, le monete d’argento come sassi e non dar loro più peso che alla polvere. Il lungo capitolo VIII della Regula non bullata vieta ai frati di ricevere denaro, evoca il diavolo, tratta il denaro come polvere («non ci curiamo di questo denaro più che della polvere che calpestiamo con i piedi, poiché è vanità delle vanità», de his non curemus tamquam de pulvere, quem pedibus calcamus, 25 «L’assidua devotio è la ‘memoria di Dio’ presente in maniera stabile e continua ‘ante oculos cordis’» (Z. Zafarana, Pietà e devozione in San Bonaventura, in San Bonaventura francescano, Convegni del Centro di studi sulla spiritualità medievale, vol. XIV, Todi 1975, p. 134).

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quia vanitas vanitatum), invoca l’anatema sul frate che ammassi o possieda denaro e che, se così facesse, sarebbe un falso frate, un apostata, un ladro, un brigante, un possessore di cassa (colui che maneggia la borsa, il tesoro, loculos habens), come Giuda (Giovanni XIV, 6). È un capitolo che la curia fa smussare a vantaggio di una proibizione più pacata e più breve nella Regula bullata, IV: «Ordino con forza a tutti i fratelli che non ricevano in alcun modo denari o pecunia, né direttamente né per interposta persona» (Praecipio firmiter fratribus universis ut nullo modo denarios vel pecuniam recipiant per se vel per interpositam personam). Come ha notato Noonan, quando nel XIII secolo, a proposito del denaro, si distinguerà tra usus facti e usus juris («uso di fatto» e «uso di diritto»), i Francescani riterranno che il donatore può sempre riprendere il suo denaro prima che sia usato26. La diffidenza dunque, almeno sul piano teorico, persisterà. Tuttavia ci sarà un adattamento. Non solamente all’interno dell’ordine l’uso del denaro, regolamentato dall’esclusione della proprietà privata, non sarà più maledetto; ma, soprattutto, la giustificazione della sua lecita acquisizione e del suo lecito impiego sarà un aspetto essenziale dell’apostolato dei Francescani in ambito laico. Più ancora dei Domenicani, i Francescani integreranno il denaro e gli uomini di denaro nel sistema cristiano, riconcilieranno il mercante-banchiere con la Chiesa e il cristianesimo. Nella letteratura spirituale e canonica del XIII secolo, nella cui diffusione i Minori giocano un ruolo così importante, i Francescani, autori di trattati De casibus conscientiae, De virtutibus et vitiis, di manuali per la confessione, Summae confessorum, di trattati sull’usura e sulla restituzione di guadagni illeciti, De usuris, De restitutionibus, per primi fra gli ordini medicanti stabiliscono ciò che è di Dio e ciò che è del diavolo, ciò che è del 26 J.T. Noonan jr., The Scholastic Analysis of Usury, Cambridge (Mass.) 1957, p. 60.

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buon cristiano e ciò che è del cattivo per quanto riguarda il possesso e la gestione del denaro27. Noonan ha notato che è un minore, Astesanus, ministro della provincia francescana di Lombardia, morto nel 1330, a proporre nella sua Summa (1317) «il trattamento teologico di diversi temi dibattuti [nel campo monetario ed economico] più liberale che ci fosse stato fino a quel tempo»28. b) Il lavoro Il problema del lavoro si è presentato a san Francesco e ai frati soprattutto dal punto di vista dei mezzi di sussistenza: lavoro manuale o mendicità? Francesco aveva evocato il problema nel capitolo VII della Regula non bullata. Aveva accettato la continuazione del lavoro da parte dei frati che ne avevano uno al momento del loro ingresso nell’ordine e, nuovamente, in questa fase notiamo l’assenza quasi completa di frontiere tra laici e frati. Francesco aveva addirittura accettato che i frati artigiani possedessero gli strumenti del loro lavoro (ferramenta et instrumenta sui artibus opportuna, «gli oggetti in ferro e gli strumenti, opportuni a questi lavori»). Aveva tuttavia escluso le professioni disoneste29 il cui numero, comunque, si an27 Cfr., tra gli altri, J. Le Goff, Temps de l’Èglise et temps du marchand, «Annales E.S.C.», 15, 1960, pp. 417-433, ripreso in Id., Pour un autre Moyen Âge, Paris 1977, pp. 46-65 pp. 1-23 (trad. it. in Id., Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino 1977, pp. 3-23), e Id., The Usurer and Purgatory, in The Dawn of Modern Banking, Yale 1979, pp. 25-52, e anche Id., La Bourse et la Vie. Èconomie et religion au Moyen Âge, Paris 1986. Cfr. soprattutto L.K. Little, Religious Poverty and the Profit Economy in Medieval Europe, London 1978. 28 Noonan, The Scholastic Analysis cit., p. 63. Sulle attitudini di san Francesco nei confronti del denaro si consulteranno, oltre i passaggi citati dalle due regole: I Cel., 9, 12: «che non ci si curi del denaro più che della polvere» (de pecunia velut de pulvere curat); II Cel., 65, 66-69; Trium soc., 35; Legenda maior, 7, 5; Speculum perfectionis, 14. Su Giuda, simbolo del carattere diabolico del denaro per i Francescani, cfr. M.D. Lambert, Franciscan Poverty, London 1961, s.v. Judas. 29 Cfr. J. Le Goff, Métiers licites et métiers illicites dans l’Occident médiéval, in «Etudes historique. Annales de l’Ecole des hautes études de Gand», V,

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dava assottigliando, e aveva citato le autorità bibliche che rappresentavano gli argomenti principali dei partigiani della valorizzazione del lavoro: il salmo 127, 2 – «Mangerai il frutto del tuo lavoro e sarai contento» (Labores fructuum tuorum manducabis, beatus es et bene tibi erit) – e san Paolo – «Colui che non vuole lavorare non mangerà» (Qui non vult operari non manducet) (II Tess., III, 10), «Che ciascuno resti nel mestiere e nel servizio a cui è stato chiamato» (Unusquisque qui [in ea arte et officio] in quo vocatus est, permaneat) (I Cor., VII, 24). Ma un aspetto preoccupava Francesco: il lavoro salariato. È l’unico divieto che rimane nella Regula bullata, V, in cui si tratta «della remunerazione del lavoro per se stessi e per i proprio fratelli» (de mercede, laboris pro se et suis fratribus). Il Testamento segna un ritorno alla prescrizione del lavoro manuale: E io lavoravo con le mie mani, e voglio lavorare così; e voglio fermamente che tutti gli altri frati facciano un lavoro onesto. Che coloro che non ne conoscono alcuno, lo imparino, non per il desiderio di ricevere il compenso del loro lavoro, ma per l’esempio e per cacciare l’ozio. Et ego manibus meis laborabam, et volo laborare; et omnes alii fratres firmiter volo, quod laborent de laboritio, quod pertinet ad honestatem. Qui nesciunt, discant, non propter cupiditatem recipiendi pretium laboris, sed propter exemplum et ad repellendam otiositatem (Test. 20-21).

In relazione alla grande opposizione tra vita attiva e vita contemplativa, Riccardo di Bonington, nel suo Tractatus de Paupertate fratrum minorum (1311-1313 ca.), colloca i Francescani dalla parte della vita attiva e laboriosa («conducono una vita attiva per quanto possibile, cioè una vita laboriosa», vacant ut plurimum actioni, quae est vita laboriosa). 1963, pp. 41-57, ripreso in Id., Pour un autre Moyen Âge cit., pp. 91-107 (trad. it. in Id., Tempo della Chiesa cit., pp. 53-71).

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Frate Egidio, per non mangiare pane senza lavorare (otiose), andava a cercare dell’acqua a una fonte, la portava a spalla in un anfora e la distribuiva in città in cambio di pane. E a un cardinale che si meravigliava di vederlo guadagnarsi il pane come un povero, citava il salmo 12730. Tommaso di Eccleston ha sottolineato che il secondo laico che entrò nell’ordine in Inghilterra, Lorenzo di Beauvais, «prima lavorava come artigiano, secondo il principio della regola»31. San Bonaventura cercò di attualizzare lo schema trifunzionale oratores, bellatores, laboratores, nato nella società di monaci, guerrieri e contadini dell’alto Medioevo, avvicinandolo alla società urbana contemporanea e agli schemi intellettuali influenzati dalla filosofia antica. Parlò quindi di opus artificiale, opus civile, opus spirituale, raggruppando nella prima categoria agricoltori e artigiani, in una classificazione della società secondo le attività che vi vengono esercitate32. Mi limito a ricordare, inoltre, che san Bonaventura, con san Tommaso, difendendo i maestri universitari mendicanti contro i maestri secolari, in particolare Guglielmo di SaintAmour, respinse l’accusa di oziosità e così facendo estese il concetto di lavoro all’ambito intellettuale e religioso33. I Francescani non solo si allontanarono dalla pratica del lavoro manuale e dall’ideologia del lavoro, ma furono anche meno attenti all’integrazione del lavoro dei laici nel nuovo 30 Vita Beati Fratris Egidii, 5, in R.B. Brooke (a cura di), Scripta Leonis, Rufini et Angeli sociorum S. Francisci, Oxford 1970, pp. 324-326. 31 A.G. Little (a cura di), De adventu fratrum minorum in Angliam. The Chronicle of Thomas of Eccleston, Manchester 1951, pp. 5-6: «che esercitò all’inizio un mestiere manuale, come ordina la regola» (qui laboravit in principio in opere mechanico, secundum decretum regulae). 32 Cfr. W. Kölmel, Labor und paupertas bei Bonaventura, in A. Pompei (a cura di), San Bonaventura maestro di vita francescana e di sapienza cristiana, Atti del Congresso internazionale per il VII centenario di san Bonaventura da Bagnoregio, vol. II, Roma 1976, pp. 569-582. 33 Cfr. M.M. Dufeil, Guillaume de Saint Amour et la polémique universitaire parisienne, 1250-1259, Paris 1972, s.v. Travail intellectuel, travail manuel.

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sistema di valori spirituali e religiosi di quanto non lo fossero riguardo la gestione del denaro. È un fallimento del loro apostolato nei confronti dei laici. Modelli legati alla struttura della società globale o civile a) Stati («status») Il XIII secolo è un secolo di globalità. Procede a esclusioni (ebrei, eretici, lebbrosi, ecc.), ma si sforza di inglobare tutti i cristiani in una struttura unica. Francesco e i Francescani finiscono con il partecipare all’esclusione di alcuni (eretici), benché la lotta contro l’eresia abbia come fine teorico l’abiura e la reintegrazione degli eretici. Hanno invece sostenuto il posto di alcuni esclusi nella società cristiana globale (lebbrosi). Hanno soprattutto voluto rivolgersi all’insieme della società. Questa è la ragione delle lettere di san Francesco a tutti i fedeli (Ep. Fid. I ed Ep. Fid. II), a tutti i chierici (Ep. Cler. I-II) e a tutti i governanti (Ep. Rect.)34. Un testo fondamentale che non analizzerò qui35, contenuto nella Regula non bullata (XXIII, 7), mostra san Francesco che cerca di abbracciare la totalità della società umana e ci rivela come ne intenda la struttura. Cito integralmente questo brano: 34 L’edizione di Esser degli Opuscula di san Francesco non conserva le intitolazioni originali: Lettera a tutti i fedeli, Lettera a tutti i chierici. Questi titoli non esistono, ovviamente, nei manoscritti medievali. Ma le prime righe degli scritti di san Francesco – «tutti loro e tutte loro» (omnes autem illi et illae), «a tutti i religiosi cristiani, chierici e laici, uomini e donne, a tutti coloro che abitano nel mondo intero» (universis christianis religiosis, clericis et laicis, masculis et feminis omnibus qui habitant in universo mundo), «siamo attenti, noi, chierici tutti» (attendamus, omnes clerici), «a tutti i potenti e a tutti i consoli, giudici e governanti ovunque sulla terra e a tutti gli altri» (universis potestatibus et consulibus, iudicibus atque rectoribus ubique terrarum et omnibus aliis) – giustificano i titoli tradizionali. 35 Ho tracciato questa analisi supra, in Il lessico delle categorie sociali, pp. 75-126.

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Et Domino Deo universos sanctam ecclesiam catholicam et apostolicam servire volentes et omnes sequentes ordines: sacerdotes, diaconos, subdiaconos, acolythos, exorcistas, lectores, ostiarios et omnes clericos, universos religiosos et religiosas, omnes pueros et parvulos et parvulas, pauperes et egenos, reges et principes, laboratores et agricolas, servos et dominos, omnes virgines et continentes et maritatas, laicos, masculos et feminas, omnes infantes, adolescentes, iuvenes et senes, sanos et infirmos, omnes pusillos et magnos, et omnes populos, gentes, tribus et linguas, omnes nationes et omnes homines ubicumque terrarum, qui sunt et erunt36.

Testo veramente notevole, che raggruppa ogni sorta di classificazione di princìpi e origini differenti, che conferisce dignità di inclusione nella lista a categorie disprezzate, che abbraccia tutta la terra e tutto il tempo a venire, ma che smussa gli antagonismi sociali e, di fronte ai laici, si presenta con tutta l’ambiguità di un’attitudine che li abbraccia ma anche diluisce le strutture sociali in una fraternità uniforme. Racchiusa in tale concezione, si sente la forza di seduzione, d’incitamento, ma pure la delusione per le masse medievali. Ma sono proprio le masse, tutte le classi, tutti i sessi mescolati, che accorrono a vedere Francesco e ad abbeverarsi alle sue parole. Le espressioni che ricorrono nei suoi biografi sono significative: populus («il popolo»), magnus populus («il grande popolo»), multi de populo («molti del popolo»), nobiles et ignobiles («nobili e non-nobili»), clerici et laici («chierici e laici»), non solum viri sed etiam multae virgines et viduae («non solo uomini ma anche molte vergini e vedove»), cunctus populus («il popolo intero»), parvi et magni («piccoli e grandi»), homines et mulieres («uomini e donne»), ecc. b) I laici L’attività francescana si iscrive, allo stesso tempo, in un movimento religioso di promozione dei laici all’interno del 36

Cfr. la traduzione ivi, nota 19.

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cristianesimo e in un movimento generale di «laicizzazione» della società di cui Georges de Lagarde si è fatto storico, dal punto di vista delle idee e delle teorie37. Agli inizi dell’ordine, il capitolo III della Regula bullata ratifica la presenza dei laici accanto ai clerici. John Mundy ha giustamente notato che i Mendicanti, soprattutto i Francescani, rispetto alle strutture e alle tradizioni monastiche, apportano un cambiamento radicale nella condizione dei conversi o fratelli laici. I frati appartengono al primo ordine, mentre i laici e le donne rimasti nel secolo costituiscono il Terzo ordine. Potranno così contribuire meglio, agli inizi dell’ordine, «a dare il tono nelle case dei frati», poiché i fratelli preti sono maggiormente occupati dall’apostolato all’esterno38. Un esempio di laico agli esordi dell’ordine è rappresentato da John Iwyn, borghese e mercante di Londra, che si fece notare per la sua pietà, «egli stesso entrato come laico nella vita religiosa, ci lasciò l’esempio della perfetta penitenza e della massima devozione» (ipse ut laicus ingressus religionem perfectissimae poenitentiae et summae devotionis nobis exempla reliquit)39. Da questo punto di vista, il capitolo generale di Roma del 1239 che, salvo le rarissime eccezioni contemplate, escluse di fatto i laici dall’ordine, voltò una pagina decisiva e soppresse un’esperienza eccezionale. Raoul Manselli ha mostrato in modo illuminante il processo di clericalizzazione dell’ordine nel XIII secolo, fenomeno decisivo che ristabilisce la frontiera del chiericato tra frati e laici40.

37 G. de Lagarde, La Naissance de l’esprit laïque au déclin du Moyen Âge, 6 voll., Paris 1956-1963. Sulla collocazione dei laici nella spiritualità del XIII secolo, cfr. J. Leclerc, F. Vandebroucke, L. Bouyer, La Spiritualité du Moyen Âge, Paris 1961, pp. 414-447 («Laïcs et clercs au XIIIe siècle»). 38 J. Mundy, Europe in the High Middle Ages 1150-1309, London 1973, pp. 186-187. 39 Little, De adventu fratrum minorum cit., p. 21. 40 R. Manselli, La clericalizzazione dei Minori e san Bonaventura, in San Bonaventura francescano cit., pp. 181-208.

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c) La donna San Francesco e il francescanesimo del XIII secolo conferiscono alla donna un posto che, a un simile livello e in una tale prospettiva, non si incontra in alcun altro ambiente religioso del tempo – escluso, naturalmente, l’ambiente delle Beghine e anteriormente alle grandi mistiche benedettine di Helfta di fine secolo. In san Francesco, la donna si presenta come un’immagine di sogno dal valore simbolico. Francesco «cerca una sposa», «sogna la sua dama». Accanto alla sposa e alla dama, in lui anche la madre è un simbolo ricorrente. Egli stesso si paragona a una «bella donna» (mulier formosa) (II Cel., 16, 10)41. Tre donne attraversano luminosamente la vita religiosa di Francesco: Chiara d’Assisi, Giacomina de’ Settesoli e, in modo minore, Prassede, la reclusa romana. In stretta associazione con il primo ordine, quello maschile, con santa Chiara viene fondato il secondo, quello delle «povere donne». Giacomo di Vitry, nella sua prima lettera del 1216, le nota all’interno del movimento: Ho trovato consolazione nel vedere un grande numero di uomini e di donne che rinunciavano a tutti i loro beni e lasciavano il mondo per amore di Cristo: «frati minori» e «suore minori», così vengono chiamati [...] Le donne occupano vari ospizi e rifugi presso le città, vi vivono in comunità del lavoro delle proprie mani, senza accettare alcuna rendita. [...] La venerazione che gli testimoniano chierici e laici pesa loro, le preoccupa e le contraria42.

Ricordiamoci che, nelle sue lettere, Francesco teneva a rivolgersi agli uomini e alle donne e che i suoi biografi sottolinearono la presenza di molte donne tra il suo pubblico. So41 Cfr. de Beer, La Conversion cit., s.v. Femme. E si veda ora J. Dalarun, François d’Assise: un passage. Femme et féminité dans les écrits et légendes franciscaines, Paris 1997. 42 Testo latino in R.B.C. Huygens, Lettres de Jacques de Vitry, Leiden 1960, pp. 75-76.

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no stati notati gli stretti legami tra i Francescani e numerose confraternite della Vergine e Giovanni Miccoli ha brillantemente chiarito la funzione della devozione mariana presso i fedeli, in particolare laici. Rappresenta una meditazione molto efficace per avvicinarsi alla divinità, più facilmente che attraverso l’esoterismo liturgico e iconografico43. Ma tale presenza della donna e del femminile suscita contrasti tra i Minori. Francesco e i suoi frati partecipano alla tradizione cristiana, e in particolare monastica, per cui bisogna evitare la frequentazione della donna tentatrice. Il capitolo XII della Regula non bullata invita i fratelli a guardarsi «dal cattivo aspetto e dalla frequentazione delle donne» (a malo visu et frequentia mulierum). Il capitolo XI della Regula bullata vieta «le frequentazioni o i consigli delle donne» (suspecta consortia vel consilia mulierum) e l’ingresso delle monache nei monasteri. Se il matrimonio non è un ostacolo all’appartenenza al Terzo ordine, lo è tuttavia all’ingresso nel primo. L’astinenza sessuale, che la riforma gregoriana ha reso uno dei principali tratti distintivi dei chierici rispetto ai laici, viene imposta ai frati dalla Regula bullata. Il capitolo II, nel riportare dettagliatamente le condizioni di ammissione, stabilisce che non si ammetteranno i postulanti sposati e che si farà eccezione solo per quelli la cui moglie è già entrata in un monastero o che avrà ottenuto il premesso, tramite autorizzazione del vescovo diocesano, di entrare nello stato religioso dopo aver fatto lei stessa voto di castità ed essere, per l’età, al riparo da qualsiasi sospetto. Così, la frontiera del matrimonio che separa chierici e laici si stabilisce tra frati e laici, e la donna rimane un essere ambiguo e pericoloso44. G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d’Italia, vol. II, t. 1, Dalla caduta dell’impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 825-831. Sul «discorso complesso» dei Francescani nella predicazione alle donne nel XIII secolo, cfr. C. Casagrande, Prediche alle donne del secolo XIII, Milano 1978, pp. XVIIIXIX, e i brani di Gilberto di Tournai. 44 Cfr. G. Duby, Le Chevalier, la Femme et le Prêtre. La mariage dans la France féodale, Paris 1981. 43

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d) Il bambino In un’epoca che presta poca attenzione al bambino, Francesco e i Minori si iscrivono in una linea di valorizzazione del bambino i cui rappresentanti principali sono stati san Bernardo, circa un secolo prima, e Giacomo di Vitry, contemporaneo (e sostenitore) dei primi Francescani, il quale identifica una categoria di pueri nei suoi Sermones ad status. Nella lista delle categorie di cristiani della Regula non bullata (XXIII, 7), i bambini compaiono in due occasioni: prima tra le categorie dominate45; quindi tra le classi di età: infantes, adolescentes, iuvenes e senes. Un episodio popolare, quello del presepe di Greccio, ha contribuito alla diffusione del culto di Gesù bambino che, a sua volta, nella promozione del bambino ha giocato un ruolo paragonabile al culto della Vergine per quanto riguarda la donna46. e) La carità Non mi dilungherò su tale attitudine ben conosciuta. È fondata sull’amore. Dio è amore, Deus est caritas. Nelle Laudes Dei altissimi consegnate a frate Leone, Dio viene definito come amore e «carità»: «Tu es amor, caritas», e alcuni manoscritti ripetono alla fine delle laudi: «tu es caritas nostra», nella enumerazione delle tre virtù teologali. Nella Regula non bullata, per due volte (XVII, 5; XXII, 26), Francesco si riferisce alla Prima lettera di Giovanni (IV) che dichiara che Dio è amore (Deus charitas est), che il suo amore per noi è perfetto (perfecta est charitas Dei nobiscum) e che se amiamo 45 Alcune versioni riportano conversos e parvulos, altre pueros parvulos: in entrambi i casi, sembra si faccia riferimento ai bambini e agli oblati monastici. Sulla crescente attenzione al bambino nel XIII secolo, cfr. M. Rouche, Histoire générale de l’enseignement et de l’éducation en France, vol. I, Dès origines à la Renaissance, Paris 1981, pp. 408-413. 46 Cfr. in particolare I Cel., 84-87. L’episodio si situa nel Natale 1223. San Francesco ebbe una devozione particolare per la festa del Natale, momento in cui, con l’Incarnazione, si manifestava l’umanità di Gesù.

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Dio dobbiamo allo stesso modo amare il nostro prossimo (qui diligit Deum, diligat et fratrem suum). L’amore che Dio ha per noi e che noi dobbiamo avere per lui secondo Francesco è anche il fondamento dell’amore per il prossimo, e lo dichiara molte volte47. Per esempio, nella Seconda lettera a tutti i fedeli (Ep. Fid., II, 30-31) afferma: «habemus itaque caritatem», e aggiunge subito «et faciamus elemosynas» («proviamo dunque amore e dobbiamo fare elemosine»). Tutto questo paragrafo è d’altronde intriso di misericordia. Ciò che, in effetti, interessa maggiormente la nostra ricerca, è che la proclamazione dell’amore di Dio e del prossimo genera nel XIII secolo delle istituzioni e delle pratiche in cui i Francescani (e gli altri Mendicanti) si incontrano con un movimento più generale. Fin dagli inizi del XIII secolo, vediamo «i ricchi mercanti italiani dedicarsi alla beneficenza su grande scala»48, fondando case di misericordia e ospedali. A Firenze, per esempio, i primi Minori chiedono ospitalità all’ospedale di San Gallo, fondato nel 1218, mentre nel 1219 i Predicatori si rivolgono all’ospedale di San Pancrazio. Francescani e altri Mendicanti giocano un ruolo decisivo nella messa a punto e nella pratica di un nuovo sistema di beneficenza: le opere di misericordia. I Francescani si interessano in particolare ai poveri e ai malati. Un caso particolare è quello delle cure offerte ai lebbrosi con le quali Francesco e i suoi compagni manifestano, come ha giustamente evidenziato Giovanni Miccoli, la loro volontà di sfidare i valori consolidati49.

Esser, Opuscula cit., s.v. Caritas. G.-G. Meerssman, Dossier de l’ordre de la Pénitence au XIIIe siècle, Freiburg 1961, p. 11 e Miccoli, La storia religiosa cit., p. 797. 49 Ivi, p. 737. 47 48

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Modelli legati alla struttura della società religiosa a) La prelatura Francesco ha sempre rispettato il sacerdozio e la gerarchia ecclesiastica. Lo ricorda ai suoi fratelli nel Testamento di Siena: «che siano sempre fedeli e sottomessi ai prelati e a tutti i chierici di santa madre chiesa» (ut semper praelatis et omnibus clericis sanctae matris ecclesiae fideles et subjecti existant). Ammette prelati nell’ordine e tesse anche l’elogio della perfetta obbedienza. Ma se un prelato ordina a un frate qualcosa contra animam, egli ha il diritto di non obbedire senza per questo abbandonare il superiore (dunque il convento e forse l’ordine); i prelati, inoltre, non devono gloriarsi della loro prelatura, ma compierne le funzioni come se si trattasse di lavare i piedi dei fratelli (Ammonizioni, 3 e 4). Francesco, tuttavia, rifiuta per sé la prelatura (II Cel., 138, e Speculum perfectionis, 43) così come san Domenico. Vedeva nella prelatura «un’occasione di caduta» (II Cel., 145). Diffida del «potere». Detesta tutto ciò che è «superiore», tutto ciò che si definisce con particelle di superiorità: magis(magnus, magister, magnatus), prae- (praelatus, prior), super(superior, superbus). Vuole invece esaltare i disprezzati dalla società: minores, subditi. Nel suo ordine auspica l’uniformitas, l’«uguaglianza» (II Cel., 191)50. Questa tendenza corrisponde a un vasto movimento contemporaneo riguardante la società laica e la lotta contro la superbia, peccato dei nobili, peccato feudale per eccellenza, e, forse ancora più, la società ecclesiastica in cui la critica dei prelati – in parte senza dubbio sotto l’influenza degli eretici e per togliere loro un argomento contro la Chiesa – si fa più viva che mai51. Cfr. qui Il lessico delle categorie sociali, pp. 75-126. Marie-Claire Gasnault mi segnala che Giacomo di Vitry (vescovo e, alla fine della sua vita, cardinale!) nei suoi Sermones ad status è particolarmente severo con i praelati a cui dedica otto sermoni, mentre invece a nessun altro status ne sono dedicati più di tre. 50 51

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b) La «fraternita» Francesco non vuole essere un monaco poiché va in mezzo agli uomini e, se la curia non glielo avesse imposto, avrebbe evitato che i suoi discepoli formassero un ordine. Il suo ideale di uniformità, di uguaglianza, da una parte, d’amore dall’altro, lo porta ad adottare il termine fratello per se stesso e i suoi compagni – considera infatti come una fraternitas quello che diventerà il suo ordine. Questo termine a quel tempo è carico di forti risonanze e connotazioni. Oppone i Minori (e gli altri Mendicanti) ai monaci e ai canonici. Pierre Michaud-Quantin ha sottolineato la scomparsa del termine congregatio dal vocabolario dei Mendicanti, scomparsa legata alla soppressione dei legami istituzionali e permanenti tra il religioso e la dimora dove risiede, come quelli espressi dal voto di stabilità monastica52. Ma la fraternita si oppone anche al consortium, parola vaga, più o meno equivalente a universitas ma che, nel XIII secolo, passa da un senso in cui si accentua l’aspetto istituzionale della collettività a un altro in cui si insiste sul legame interno tra i suoi membri53. I maestri secolari della facoltà di teologia dell’università di Parigi formano un consortium e questa struttura che insiste sulla funzione e gli interessi comuni contribuisce a inasprire il conflitto con i maestri degli ordini mendicanti durante il periodo 1250-1259. Fraternitas indica soprattutto, con il suo doppione confraternitas, la confraternita, corrispondente religioso della corporazione nel grande movimento di associazione della società urbana del XIII secolo. È un termine in cui ritroviamo l’atmosfera della caritas per cui amore, fratellanza, beneficenza sono intimamente legati54. Fraternita fa anche allusione alla prima comunità cristiana di Gerusalemme e l’accen52 53 54

Michaud-Quantin, Universitas cit., p. 105. Ivi, pp. 315-319, su consortium. Ivi, pp. 179-192, su fraternitas e confraternitas; pp. 197-200, su caritas.

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to messo sulla coesistenza di chierici e laici nel suo seno. È, infine, un modo di definire il futuro ordine come una famiglia, concezione cara a Francesco, e che si esprime anche attraverso altri rapporti familiari come, per esempio e soprattutto, i rapporti madre-figlio che sono sottolineati nella Regola per gli eremi, in cui vengono presentati anche come modello di fraternita al femminile, con il riferimento a Marta e Maria. L’importanza del codice di parentela per definire la comunità, quindi l’ordine francescano, meriterebbe di essere scrutata più da vicino in un momento in cui i medievisti si interessano sempre di più ai rapporti di parentela e alle parentele artificiali55. Modelli legati alla cultura in senso stretto a) Il lavoro intellettuale In san Francesco prevalse la diffidenza, se non l’ostilità, nei confronti della scienza e del lavoro intellettuale. Rintraccio tre motivazioni e tre aspetti essenziali di questa diffidenza: la concezione corrente della scienza come tesoro che urta il suo senso della indigenza; la necessità di possedere libri, a quel tempo oggetti costosi e di lusso, che urta il suo desiderio di povertà e di non-proprietà; il sapere come fonte di orgoglio e di dominio, di potere intellettuale, che contrasta la vocazione all’umiltà. I testi sono numerosi. Ecco, per esempio, la rinuncia al possesso, alla proprietà della scienza, presentata esplicitamente come condizione d’ingresso nell’ordine: «Un grande chierico deve rinunciare alla scienza quando entra nell’ordine, affinché, sbarazzato di tale possesso, si offra nudo alle braccia del crocifisso» (Magnum clericum etiam scientiae quodam modo resignare debere, cum veniret ad Ordinem, ut 55

Cfr. qui Il lessico della categorie sociali, pp. 75-126.

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tali expropriatus possessione, nudum se offeret brachiis Crucifixi) (II Cel., 192). E il celebre testo dei Fioretti, 8, in cui Francesco dice a frate Leone che la gioia perfetta per un Minore non consiste nel conoscere tutte le lingue e tutte le scienze e tutte le scritture, nel parlare la lingua degli angeli, essere edotto sul corso degli astri e sulle virtù delle erbe, conoscere tutti i tesori della terra, le qualità degli uccelli e dei pesci, di tutti gli animali e degli uomini, degli alberi e delle pietre, delle radici e delle acque. Certo, questo testo più che un attacco alla scienza è un appello alla gioia «nella croce della tribolazione e dell’affetto». Tuttavia, rimane il fatto che Francesco ha insistito particolarmente sui rischi dell’orgoglio legato al sapere, alla scienza. In questo, Francesco va controcorrente rispetto al suo secolo, all’evoluzione di un cristianesimo che ha bisogno di scienza per lottare contro l’eresia, per governare la Chiesa e anche, semplicemente, per soddisfare un bisogno dello spirito, realizzare un umanesimo cristiano in cui la scienza ha un suo spazio. D’altra parte, Francesco fa delle concessioni e se, nelle regole, limita strettamente il possesso di libri (Regula non bullata, III) e fa ammettere gli illetterati all’ordine senza l’obbligo di apprendimento (Regula bullata, X, 8), in pratica tuttavia venera e consulta i sapienti56. Nel suo Testamento, non solo vuole che i manoscritti «contenenti le parole del Signore» siano collocati in un luogo più degno, ma prescrive ai fratelli di onorare e venerare anche i teologi «che ci forniscono lo spirito e la vita» (sicut qui ministrant nobis spiritum et vitam). A dire il vero, l’ordine farà sempre più spazio alla scienza, in collegamento con l’insegnamento universitario57. Tappe essenziali saranno segnate dalla bolla Ordinem vestrum di In56 Th. Desbonnets, D. Vorreux (a cura di), Saint François d’Assise. Documents, écrits et premières biographies, Paris 19812, s.v. Savants, p. 1548. 57 Cfr. Le scuole degli Ordini Mendicanti, Convegni del Centro di studi sulla spiritualità medievale, vol. XVII, Todi 1978.

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nocenzo IV che, di fatto, marginalizzerà gli illetterati nell’ordine, dal generalato di Giovanni da Parma (1247-1257) che sosteneva che l’edificio dell’ordine era costruito su due pilastri, «cioè i buoni costumi e la scienza» (scilicet moribus bonis et scientia) e sottolineava che «i fratelli devono elevare la parola della scienza al di sopra dei cieli per cercare Dio» (parietem scientiae fecerunt fratres ultra coelos et coelestia sublimem, in tantum ut quaererent, an Deus sit)58 e, infine, da san Bonaventura, ministro generale dal 1257 alla sua morte, nel 127459. Bonaventura integrò definitivamente il possesso di libri alla natura stessa dell’ordine: La regola impone imperativamente ai frati l’autorità e l’officio della predicazione, in termini tali che non troviamo, credo, in nessuna altra regola. Se dunque non devono predicare chiacchiere ma parole divine, non possono conoscerle se non leggono: non possono leggere se non hanno libri; è dunque evidentissimo che avere libri fa parte della perfezione della regola allo stesso titolo della predicazione (Epistola de tribus quaestionibus).

Lungi dal considerare la scienza e il libro come monopolio dei chierici, Bonaventura li considerava strumento al servizio dell’apostolato, raccomandava ai frati di scrivere libri di volgarizzazione per i laici. Infine, con un Ruggero Bacone, un Raimondo Lullo, non vi è più contraddizione tra scienza totale e la più ardente spiritualità francescana. b) La parola La diffusione dei libri e della scrittura nell’ordine serve solo all’arricchimento della parola. Per questo aspetto i FranceLittle, De adventu fratrum minorum cit., p. 74. Cfr. P. Gratien de Paris, Histoire de la fondation et de l’évolution de l’ordre des frères Mineurs au XIIIe siècle, Paris-Gembloux 1928, pp. 269-275. Su scienza e povertà, cfr. D. Berg, Armut und Wissenschaft. Beiträge zur Geschichte des Studienwesens der Bettelorden im 13. Jahrhundert, Düsseldorf 1977. 58 59

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scani restano molto vicini alla società laica in cui predomina in modo schiacciante l’oralità – in seno a una cultura audiovisuale di cui bisognerebbe studiare anche l’immagine, cosa che non sono in grado di fare. La parola è, naturalmente, soprattutto quella della predicazione. Per Francesco questa ha lo scopo di trasmettere la parola di Gesù Cristo che è parola del Padre e la parola dello Spirito Santo che è spirito e vita (Prima lettera a tutti i fedeli). Nella Seconda lettera a tutti i chierici, Francesco giunge a mettere le parole di Gesù sullo stesso piano del suo corpo e del suo sangue. Vi è dunque una teologia francescana della parola. Gli scopi che Onorio III, nella sua bolla Solet annuere del 29 settembre 1223 con cui approvò la regola dei Minori, assegna alla predicazione francescana sono più modesti: «Nella loro predicazione, che le loro parole siano caste e ponderate, che mostrino i vizi e le virtù, le pene dell’inferno e la gloria del paradiso, con parola breve, poiché il Signore si è espresso in terra con un verbo breve» (In praedicatione quam faciunt sint casta et examinata eorum eloquia, ad utilitatem et aedificationem populi, annuntiando eis vitia et virtutes, poenam et gloriam, cum brevitate sermonis, quia verbum abbreviatum fecit Dominus super terram)60. La raccomandazione alla brevità nella predicazione era forse ispirata dal desiderio di impedire a Francesco e ai frati di cedere alla tentazione di sermoni-fiume. Ma il papa pensava soprattutto al sermone in chiesa, alla messa, in cui la brevità pare fosse realmente apprezzata dal pubblico61, mentre i Francescani prediligevano la predicazione all’aria aperta che si rivolgeva alle folle e poteva durare a lungo. Sui fondamenti del diritto alla predicazione dei Mendicanti, cfr. M. Peuchmaurd, Mission canonique et prédication, in «Recherches de théologie ancienne et médiévale», 19, 1962, pp. 122-144 e 251-276, e P.-M. Gy, Le statut ecclésiologique de l’apostolat des Précheurs et des Mineurs avant la querelle des Mendiants, in «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 59, 1975, pp. 19-88. 61 Cfr. Lecoy de la Marche, La Chaire française cit., pp. 209-215. 60

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I Minori sanno usare alcune forme nuove della parola62 che istituiscono nuovi tipi di relazioni – meno lontane, meno gerarchizzate che in passato. Secondo Tommaso da Spalato, che ascoltò Francesco a Bologna il 15 agosto 1222, «i suoi discorsi non appartenevano al grande genere dell’eloquenza sacra: erano piuttosto delle arringhe»63 e la Leggenda dei tre compagni insiste anche sul fatto che Francesco parlava più la lingua della sincerità che quella della retorica64. Sappiamo che i Francescani, come gli altri Mendicanti, hanno fatto grande uso di exempla nei loro sermoni e sono stati tra i primi autori di raccolte di exempla. Queste storielle moralizzanti convenivano alla natura della loro predicazione, introducendovi precisamente quell’atmosfera di vita quotidiana e quell’aria di verità vissuta, di testimonianza diretta, che corrispondeva sia al loro stile che al genere letterario dell’exemplum65. Infine, bisogna rilevare l’uso della parola in due occasioni particolari che riguardano fenomeni importanti del XIII secolo: la crociata e la lotta contro gli eretici. In entrambi i casi, Francesco aveva auspicato che la lotta per ottenere la conversione degli infedeli e degli eretici si facesse attraverso la parola e l’esempio. Nel caso della crociata, Davide Bigalli ha mostrato che Ruggero Bacone, servendosi di Aristotele, definisce la parola, il verbum, come un potere, una potestas. Il sermo potens («potere del verbo») è, a differenza del potere, radicato nel62 J. Le Goff, J.-Cl. Schmitt, Au XIIIe siècle, une parole nouvelle, in J. Delumeau (a cura di), Histoire vécue du peuple chrétien, vol. I, Toulouse 1979, pp. 257-280. 63 Lemmens, Testimonia minora cit., p. 10; Desbonnet-Vorreux, Saint François d’Assise cit., p. 1435. 64 Trium soc., XIII, 54 (ed. Th. Desbonnet, in «Archivium franciscanum historicum», 67, 1974, p. 129). 65 Cfr. per esempio, La Tabula Exemplorum secundum ordinem alphabeti, opera di un francescano in Francia alla fine del XIII secolo, edita da J.Th. Welter (rist., Genève 1973). Cfr. Cl. Bremond, J. Le Goff, J.-Cl. Schmitt, L’Exemplum, fascicolo 40 della Typologie des Sources du Moyen Âge occidental, Turnhout 1982.

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la verità della fede. Così, ritrovando l’ispirazione di san Francesco, Ruggero Bacone poneva la parola al centro della «christificatio universale» e ricollocava la crociata in una teologia della parola e della croce di Cristo66. Nel caso dell’eresia si verifica uno scivolamento dalla persuasio alla coercitio67. È la perversione della parola, poi la rinuncia alla parola di persuasione che, come ha giustamente considerato Raoul Manselli, porterà, con l’accettazione da parte dei Minori della lotta contro l’eresia in Italia (1254), alla fine della storia della fraternitas di san Francesco. c) La lingua volgare Già da molto tempo la predicazione era prodigata ai laici in lingua volgare. Resta il fatto che l’impatto dei Mendicanti, e in particolare dei Francescani, sulla promozione delle lingue volgari fu importante. In effetti, ben presto, trasformarono gran parte della società cristiana occidentale, in questo XIII secolo che vede affermarsi le lingue volgari nella letteratura e nelle cancellerie, in cui il movimento di traduzione dal latino in lingue volgari conosce un grande slancio68. Ricorderò solo alcuni punti particolarmente evidenti. È nota l’importanza di san Francesco con il Cantico di frate Sole e di Jacopone da Todi con le sue Laudi per la storia della poesia italiana. Le comunità laiche di laudesi sviluppa66 D. Bigalli, Giudizio escatologico e tecnica di missione nei pensatori francescani: Ruggero Bacone, in Espansione del francescanesimo tra Occidente e Oriente nel secolo XIII, Atti del VI Convegno internazionale (Assisi, 1978), Assisi 1979, p. 186. Sulle attitudini nei confronti della crociata nel XIII secolo, cfr. F. Cardini, La crociata nel Duecento, l’«avatara» di un ideale in «Archivio storico italiano», 135, 1977, pp. 101-139. 67 R. Manselli, De la «persuasio» à la «coercitio», in Le Credo, la Morale et l’Inquisition, Toulouse 1971, pp. 175-198. Sui Minori e l’Inquisizione in Italia nel XIII secolo, cfr. M. D’Alatri, L’inquisizione francescana nell’Italia centrale nel sec. XIII, Roma 1954, e L. Paolini, Gli ordini mendicanti e l’Inquisizione: il «comportamento» degli eretici e il giudizio sui frati, in Les Ordres Mendiants cit., pp. 695-709. 68 Cfr. C. Delcorno, Predicazione volgare e volgarizzamenti, in Les Ordres Mendiants cit., pp. 679-689.

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vano e rendevano popolare questa forma di poesia cantata. Si è sostenuto che i frati mendicanti, e in particolare i Francescani, con le loro gesta esemplari, abbiano permesso lo sviluppo del teatro, la sua indipendenza dalla liturgia69. Ricordo inoltre che san Francesco cantava in francese le lodi di Dio e amava cantare in francese quando la sua anima straripava di allegria. Raimondo Lullo, a sua volta, è stato considerato come il «creatore del catalano». Tuttavia, non vi fu fanatismo nell’uso della lingua volgare come mezzo di comunicazione da parte dei frati minori. Secondo Tommaso di Eccleston, per esempio, Pietro di Tewksbury, ministro della provincia francescana d’Inghilterra, fece venire sei o sette chierici stranieri «che non conoscevano l’inglese per predicare con l’esempio» (qui scilicet, quamvis nescirent Anglicum, exemplo praedicarent)70. d) Il calcolo Alexander Murray ha attirato l’attenzione sull’emergenza di una «mentalità aritmetica» nel XIII secolo. Tra gli esempi che cita, vi è quello dell’ambiente di Salimbene che ha familiarità con i numeri. Nota anno, mese, giorno. Riporta nove liste di prezzi di derrate alimentari. Cita cifre per battaglie, spese, distanze. Ricerca il numero esatto. Dopo la sconfitta navale dei pisani contro i genovesi, nel 1284, si chiede: quanti morti e quanti feriti? Ma non si fida del numero proposto dall’arcivescovo di Pisa. «Ho deciso – scrive – di aspettare che i Minori di Genova e di Pisa mi forniscano una cifra più certa». Così viene evocato il gusto dei Francescani per la precisione espressa in cifre. Alexander Murray con69 F. Demarchi, Una prospettiva sociologica dell’evoluzione della liturgia medioevale in teatro religioso, in Dimensioni drammatiche della liturgia medioevale, Atti del I Convegno di Studi del Centro di Studi sul teatro medioevale e rinascimentale (Viterbo, 1976), Roma 1977, p. 303. 70 Little, De adventu fratrum minorum cit., pp. 91-92.

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clude: «Salimbene e i suoi confratelli erano pionieri». Pionieri del calcolo71. Modelli di comportamento e di sensibilità a) La cortesia Accanto ai modelli religiosi e, in particolare, al modello monastico e a quello della santità, sono esistiti nell’Occidente cristiano medievale modelli culturali laici, modelli «aristocratici», a cui si è particolarmente interessato Georges Duby72. Alla fine del XII secolo, l’ambiente laico aristocratico e cavalleresco produce il primo codice sistematico di valori laici: la cortesia. Questo codice seduce Francesco nella sua giovinezza. Lo riceve senza dubbio con la sua cultura francese e, attraverso i biografi, si percepisce l’eco del fascino che la vita e la cultura cavalleresche esercitavano allora su di lui. La cosa più sorprendente è che questo gusto, questo stile, sussiste almeno parzialmente dopo la sua conversione. Il suo amore per la povertà si esprime attraverso il simbolismo e il vocabolario dell’amore cortese. È «dama Povertà». Francesco conserva la sua «grandezza d’animo», la sua magnanimitas (I Cel., 4, 13; I Cel., 13, 11; II Cel., 3, 14) e resta «molto cortese», curialissimus (I Cel., 17, 15; II Cel., 3)73, ma ha messo il suo ideale di cavalleria al servizio di Cristo e della Chiesa. Il sogno del palazzo della armi (I Cel., 5; II Cel., 5, 6; Leg. min., 1, 3) segna certo la sua rinuncia alla vita cavalleresca, ma rivela anche la profondità di questo modo di sentire e di esprimersi. 71 A. Murray, Reason and Society in the Middle Ages, Oxford 1978 (trad. it. Ragione e società nel Medioevo, Roma 1986, p. 192). 72 G. Duby, La vulgarisation des modèles culturels dans la societé féodale, in Niveaux de culture et groupes sociaux, Paris-La Haye 1967, ripreso in Id., Hommes et structures au Moyen Âge, Paris-La Haye 1973, pp. 299-309. 73 Desbonnets-Vorreux, Saint François d’Assise cit., s.v. Courtoisie, p. 1530.

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Mi sembra che Giovanni Miccoli abbia minimizzato la portata dei testi in cui si vede Francesco gridare a un gruppo di briganti: «sono l’araldo del gran Re» (I Cel., 16) o dichiarare: «ecco i miei cavalieri della Tavola Rotonda, i fratelli che si nascondono nei luoghi deserti e lontani per dedicarsi alla preghiera e alla meditazione» (Leg. Per., 71) o ancora ribattere a un novizio che reclama un salterio: L’imperatore Carlo, Orlando e Oliviero, tutti paladini e pii guerrieri che furono forti nel combattimento, perseguitarono gli infedeli fino alla morte non risparmiando né sudori né fatiche, ed ebbero su quelli una vittoria memorabile; e per finire, questi santi martiri sono morti combattendo per la fede di Cristo. Ora si vedono molti che vorrebbero attribuirsi onore e gloria accontentandosi di cantare le loro gesta (Leg. Per., 72).

Secondo Miccoli queste frasi non rappresentano niente di sostanziale nell’esperienza religiosa di Francesco74. Ma aggiunge con molta perspicacia che tali espressioni indicano la capacità di Francesco di «manifestarsi ed esprimersi nel linguaggio corrente, per immagini e riferimenti noti a tutti, al di fuori dei canali e delle mediazioni tradizionali della letteratura religiosa ed edificante»75. In effetti, notiamo che questo linguaggio avvicina Francesco ai laici. Ma credo che il lessico cortese di Francesco non sia solamente un mezzo per partecipare alle mode culturali dei suoi contemporanei laici. Esprime invece l’interiorizzazione dell’eroismo guerriero che caratterizza la religiosità del suo tempo. Il santo dell’alto Medioevo era l’atleta di Dio, il santo del XIII secolo è il cavaliere di Dio. In questa, come in altre attitudini culturali, Francesco e frati mendicanti sembrano essere i continuatori di san Bernardo e dei Cistercensi. 74 Miccoli, La storia religiosa cit., pp. 735-736. Cfr., al contrario, F. Cardini, San Francesco e il sogno delle armi, in «Studi Francescani», 77, 1980, pp. 15-28. 75 Miccoli, La storia religiosa cit., p. 736.

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Questa sensibilità cortese, questa attitudine cavalleresca, in particolare nei confronti della Povertà, persisterà nei Minori. Jacopone da Todi dirà nella lauda 59: «Povertate ennamorata, grann’è la tua segnoria»76. b) La bellezza Ancor più della donna, la bellezza ha per Francesco e per i Francescani un duplice volto. Da un lato, è la massima espressione della creazione divina. Una tesi antica e contestata, quella di Thode, che faceva del francescanesimo il padre del Rinascimento e del senso della bellezza, è stata recentemente ripresa da Raffaello Morghen che vede nell’arte dei Minori (architettura a navata unica, cicli di affreschi) un’arte della dolcezza di vivere. Morghen riprende una frase di Luigi Salvatorelli che sottolinea la novità della sensibilità estetica di san Francesco: «L’amore di san Francesco per tutto il creato rappresenta qualcosa di veramente nuovo, di radicalmente nuovo. È la sensazione diretta del divino presente in tutte le cose; è la percezione precisa, entusiastica, della bellezza conferita all’universo da Dio»77. Anche in questo caso, bisogna ricollocare tale sensibilità sul suo fondamento divino, teologico. Il Signore è Bellezza, come dice Francesco nelle Laudes Dei altissimi consegnate a frate Leone: «Tu es pulchritudo» (ripetuto). E il sole nel Cantico di frate Sole è simbolo di tale bellezza: «Et ellu è bellu». Francesco paragona se stesso, l’abbiamo visto, a una bella donna (mulier formosa) i cui figli sono molto belli (filii venustissimi) (II Cel., 16, 10). Ma la bellezza affievolisce la volontà: «La bellezza del luogo che può corrompere molto il Si cita dall’edizione di F. Ageno, Firenze 1953, p. 233. Salvatorelli, Movimento francescano e gioachimismo, p. 425, citato da R. Morghen, Civiltà medioevale al tramonto, vol. V, San Francesco e la tradizione francescana nella civiltà dell’Europa cristiana, Roma-Bari 1985, p. 72. Cfr. R. Morghen, Francescanesimo e Rinascimento, in Iacopone e il suo tempo, Todi 1959, pp. 30-35. 76 77

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vigore del cuore» (loci amoenitas quae ad corrumpendum animi vigorem non mediocriter potest) (I Cel., 35, 71), e la conversione di Francesco si allontana dal piacere della bellezza: «La bellezza dei campi, l’amenità delle vigne e tutto ciò che pare bello all’occhio in nulla può dilettarlo» (sed pulchritudo agrorum, vinearum amoenitas et quidquid visu pulchrum est, in nullo potuit eum delectare) (I Cel., 3, 12). È proprio l’attitudine del XIII secolo, che scopre, attratto ma esitante, il senso della bellezza e in particolare della bellezza del mondo. c) La gioia Il piacere del mondo si manifesta ancora più nettamente nel comportamento gioioso. Anche in questo caso, vi è un avvicinamento tra religiosi e laici; mentre ancora il modello monastico faceva del monaco uno specialista delle lacrime (is qui luget), al contrario, abbondano i testi che mostrano Francesco hilaris, hilari vultu78. Nel suo racconto sui primi Minori in Inghilterra, Tommaso di Eccleston moltiplica le testimonianze sulla gaiezza dei fratelli che sembra talvolta essere o forzata, o eccessiva. Quando i frati, stabilitisi a Canterbury, rientrano in casa la sera, accendono il fuoco e vi si siedono attorno, fanno cuocere una minestra (potus) in una marmitta e la bevono in circolo, talvolta questa è così spessa che devono versarvi dell’acqua, ma tuttavia la bevono con gioia (et sic cum gaudio biberent). Allo stesso modo, a Sarun, i fratelli bevono dinanzi al fuoco nella cucina un immondo brodetto (faeces) con tanto piacere e gioia (cum tanta jocunditate et laetitia) che si divertono a sgraffignarselo bonariamente79. A Oxford, i giovani frati prendono così tanto l’abitudine di essere iocundi et laeti tra loro che appena si guardano reciprocamente solo a forza riescono a non 78 79

Desbonnets-Vorreux, Saint François d’Assise cit., s.v. Joie, pp. 1514-1537. Little, De adventu fratrum minorum cit., 7.

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scoppiare a ridere (ut vix in aspectu mutuo se temperarent a risu). Queste crisi di folli risate finiscono con lo scatenare colpi di verga che non hanno effetto. È necessario un miracolo affinché cessi l’epidemia di riso80. Quanto a padre Pietro di Tewksbury, egli disse a un frate: Tre cose sono necessarie per la salute temporale: il cibo, il sonno e il gioco. Quindi ordinò a un frate malinconico di bere un calice pieno di vino eccellente, come penitenza. E non appena bevuto anche se controvoglia, gli disse: «Carissimo fratello, se facessi frequentemente tale penitenza, avresti sempre miglior coscienza»81.

La parola d’ordine di Francesco è paupertas cum laetitia (Ammonizioni, 27, 3): la povertà nella gioia. In effetti, la fonte principale di questa gioia è anche di ordine divino. È un’esperienza trascendente, un segno della grazia, l’effetto dello Spirito Santo, nasce dalla scoperta del Vangelo e della povertà. Il demonio non può niente contro di lei (II Cel., 88). Infine, la gioia si combina con l’ascetismo e l’esperienza del dolore per consumarsi nell’amore. Bonaventura lo dice nel De triplici via: «Questa via comincia sotto il pungiglione della coscienza e finisce con il sentimento della gioia spirituale, si esercita nel dolore, ma si consuma nell’amore» (Incipit via ista a stimulo conscientiae et terminatur ad affectum spiritualis laetitiae, et exercitur in dolore, sed consumatur in amore). d) La morte Questa spiritualità gioiosa non impedisce ai Francescani di integrare nella loro pratica quotidiana il pensiero della morte, che nel XIII secolo prende forme nuove, individuali Ivi, 26. «Tria sunt necessaria ad salutem temporalem, cibus somnus et iocus. Item iniunxit cuidam fratri melancholico ut biberet calicem plenum optimo vino pro poenitentia, et cum ebibisset, licet invitissime, dixit ei: Frater carissime, si haberes frequenter talem poenitentiam, haberes utique meliorem conscientiam» (ivi, 92). 80 81

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(importanza del giudizio individuale e del purgatorio) e collettive (attività funeraria delle confraternite). Ritroviamo questi tratti nella spiritualità francescana della morte che, a sua volta, influenza quella dei laici. Innanzitutto si tratta della devozione al Cristo morto, alla Passione, di cui è intriso l’episodio delle stimmate di san Francesco. Quindi, è lo zelo dei frati nel pregare per tutti i fratelli morti. Ed è anche l’accoglienza dei morti laici nei conventi e nelle chiese dell’ordine. Il papato l’autorizza solo nel 1250, nonostante l’abbia concessa ai Domenicani già dal 1227. Infine – nel Cantico di frate Sole – è «nostra sorella morte corporale» che non è da temere perché solo la «seconda morte» (Cant. Sol., 13), la dannazione, è terribile. Modelli etico-religiosi in senso stretto Sono i più noti e, nonostante la loro importanza, non mi ci dilungherò. a) La penitenza Il XIII secolo è un secolo di penitenti82 e il movimento francescano è un movimento di penitenza profondamente inserito nella società del suo tempo83. Secondo la Legenda trium sociorum (33), Francesco sarebbe stato un pioniere in questo campo: «La via della penitenza era allora totalmente sconosciuta e considerata come una follia». Nel Testamento, presenta la sua conversione Cfr. I. Magli, Gli uomini della penitenza, Milano 1977 che, a giusto titolo, fa di Francesco «un uomo della penitenza» e propone l’espressione interessante di «una cultura penitenziale». Similmente, Giovanni Miccoli descrive i Francescani come un «gruppo di penitenti» (La storia religiosa cit., p. 734). 83 Cfr. M. d’Alatri (a cura di), Il movimento francescano della penitenza nella società medioevale, Secondo convegno di studi francescani (Padova 1979), Roma 1980. 82

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come una conversione alla penitenza: «Il Signore assegnò a me, frate Francesco, di iniziare a fare penitenza» (Dominus ita dedit mihi fratri Francisco incipere faciendi poenitentiam) (1). Francesco e i suoi fratelli adattano la vita penitenziale ai laici tenendo conto, come abbiamo visto, di ciò che appare essere il grande ostacolo nel cammino della penitenza per i laici, il matrimonio. Infatti alcuni laici gli domandavano: «Abbiamo una moglie che non possiamo lasciare. Insegnaci che via di salvezza possiamo prendere». La penitenza deve passare per la confessione. E i Minori, come i Predicatori, favoriscono la pratica della confessione annuale definita dal canone Omnis utriusque sexus del Laterano IV (1215). Compongono manuali per confessori, diventano specialisti della teoria e della pratica della confessione. La ricerca dell’intenzione, la pratica della confessione auricolare conducono a privilegiare l’ammissione. Il XIII secolo è il secolo dell’avvento dell’ammissione nelle sue forme liberatorie e in quelle inquisitoriali (tortura). «Beato colui che si confessa umilmente», dice Francesco (Beatus [...] qui humiliter confitetur [Ammonizioni, 22]). b) La povertà Delle due questioni che devono chiarire la povertà francescana, l’una: «La povertà francescana, continuità o discontinuità rispetto alle concezioni e alle pratiche anteriori?», è stata affrontata84, l’altra: «Quali rapporti la povertà volontaria dei Francescani ha intrattenuto con i poveri involontari del XIII secolo e che senso attribuire all’espressione sicut alii pauperes (Regula non bullata, II, 7-8)?» è sta84 La povertà del secolo XII e Francesco d’Assisi, Atti del II Convegno internazionale della Società Internazionale di Studi Francescani (Assisi 1974), Assisi 1975.

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ta solo oggetto di lavori introduttivi85. Tuttavia, da un punto di vista sia storico che teorico, risulta essenziale. c) L’umiltà86 Il suo modello è evidentemente l’umiltà di Gesù, sorella della povertà. La sua incarnazione specificamente francescana (e, in misura minore, domenicana o propria degli altri ordini del XIII secolo detti «mendicanti»), la mendicità, pone un problema storico. Non appartiene alla tradizione del monachesimo occidentale ed è stata esplicitamente vietata ai chierici. Solo presso i Predicatori itineranti tra XI e XII secolo è stata marginalmente presente, e la regola di Grandmont l’accoglie come «esercizio d’ascesi e di umiltà»87. Anche in questo caso, bisogna ricollocarla nella storia di un personaggio di lunga durata: il mendicante. Per quanto riguarda gli aspetti socio-politici: divieto delle cariche civili per i frati, diffidenza nei confronti dei prelati, ideale di uguaglianza, ideologia dell’inferiorità (minori), rinvio a ciò che ho detto sopra a proposito dei modelli legati alla struttura della società globale (o civile) ovvero religiosa88. d) La purezza e il corpo Nel suo amore per l’insieme della creazione Francesco fa un’eccezione: il corpo. Bisogna odiarlo (Prima lettera a tutti i fedeli). La carne è un muro che ci separa da Dio (I Cel., 15). Tuttavia, per quanto sia disprezzabile, il corpo (Regula non Si farà riferimento ai lavori di Michel Mollat e dei suoi allievi. Cfr. P. Willibrord, Le Message spirituel de saint François d’Assise dans ses écrits, Blois 1960, s.v. Humilité, pp. 238-240. 87 Eccellenti notazioni di Miccoli, La storia religiosa cit., p. 757. 88 E. Longpré nell’articolo Frères Mineurs del Dictionnaire de spiritualité, vol. V (1964), p. 1290, ha fornito la lista di tutti i passaggi degli scritti di san Francesco e dei suoi biografi in cui si esprime l’idea che l’umiltà, la povertà interiore, implica la disapprovazione di ogni funzione (di ogni potere). 85 86

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bullata, XXIII, 23-24) è un dono di Dio attraverso il quale bisogna amarlo, e Francesco dice anche (Ammonizioni, 5) che Dio ha creato l’uomo nel corpo a immagine di suo Figlio beneamato, mentre lo ha creato a propria immagine nell’anima (e questo riconduce alla Passione di Cristo e alla sua imitazione come fine del corpo). Certo, si parla anche di «frate corpo» nel Cantico di frate Sole e Tommaso da Celano riporta un discorso di Francesco sulle cure del corpo (II Cel., 160). Ma il corpo è fonte di peccato (Regula non bullata, XXII, 5), bisogna dunque disprezzare e odiare il proprio corpo89. Tuttavia, più che l’opposizione lussuria/castità, la vera opposizione francescana è carne/purezza che supera il corpo, ingloba il cuore e lo spirito. Noto, a proposito della lussuria, che il settenario dei peccati capitali gode, mi pare, di scarsa fortuna presso Francesco e forse presso tutto il francescanesimo del XIII secolo. Da un punto di vista generale, l’azione di Francesco (e dei Francescani) si compie spesso attraverso uno spostamento dei valori e delle pratiche. La purezza è compagna della semplicità. È una qualità di Dio, unico a possederla interamente. È possibile distinguere una purezza dei sensi, una del cuore e una dello spirito. Nella spiritualità simbolica dei quattro elementi del Cantico di frate Sole, è l’acqua, nostra sorella acqua, che incarna la purezza, e viene anche detta «casta» e «umile». La purezza appartiene a quella grande nebulosa di valori francescani di cui l’umiltà è il centro di gravità. Nel V capitolo del De adventu fratrum minorum in Angliam, Tommaso di Eccleston tratta «della purezza primitiva dei frati» (de primitiva puritate fratrum). Questa purezza, che si definiva anche come simplicitas, era caratterizzata soprattutto dalla castitas (le impurità notturne davano luogo a una confessione pubblica) e dalla laetitia, l’hilaritas, la gaiezza di cui ho parlato. 89 Stessa attitudine in Jacopone da Todi. Arsenio Frugoni ha potuto scrivere: «Jacopone odia il corpo, con tutte le sue forze» (in «Convegno di storia della spiritualità medievale», Todi 1959, p. 86).

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Sulle attitudini nei confronti del corpo, il francescanesimo primitivo si discosta da quella che sembra essere stata l’evoluzione delle attitudini generali nei confronti del corpo, della carne, che, lungi dall’essere un luogo di povertà come voleva Francesco, aveva piuttosto la tendenza ad apparire come un luogo di godimento – come testimonia la diffusione dei nudi estetici nell’arte (scultura) e il progresso della gastronomia. Nel campo dell’ascetismo alimentare, Francesco, che non ne trova traccia nel Vangelo, difendeva una posizione moderata. Ricordiamo l’aneddoto di Giordano di Giano: Francesco mangia della carne con Pietro Cattani. Arriva un frate con le nuove costituzioni dell’ordine che vietano di mangiare carne. Reazione di san Francesco: «Mangiamo, come insegna il Vangelo, ciò che ci viene messo davanti». e) La preghiera Non conosco studi precisi sulla pratica della preghiera nel francescanesimo primitivo e i suoi rapporti con la pratica contemporanea dei laici90. Ci si può porre il problema dell’equilibrio tra forme molto interiorizzate di preghiera e la pratica (anche presso i Minori) di una preghiera quasi automatica, quasi magica, in particolare per l’Ave e il Pater. f) La santità André Vauchez ha ben chiarito l’importante ruolo dei Mendicanti e, in particolare, dei Francescani nell’evoluzione della concezione della santità verso l’affermazione di un modello «evangelico» (fine XII-fine XIII secolo), basato sull’ascetismo, la povertà e lo zelo pastorale91. 90 Riferimenti in La Prière au Moyen Âge (Littérature et civilisation), in «Senefiance», 10, Aix-en-Provence, Paris 1981. 91 A. Vauchez, La Sainteté en Occident aux derniers siècles du Moyen Âge d’après les procès de canonisation et les documents hagiographiques, Roma 1981, in particolare pp. 243-255 («Les ordres mendiants et sainteté locale») e 388409 («La sainteté des ordres mendiants»).

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Per i Francescani, i miracoli non costituiscono la santità, ma la sua manifestazione. L’inizio della Legenda trium sociorum è caratteristica da questo punto di vista: Non contentandosi solo di raccontare i miracoli, che mostrano la santità ma non la fanno, ma volendo anche mostrare i segni del suo comportamento santo e la sua volontà di pia benevolenza, in lode di Dio sommo e di questo padre santo, e per edificazione di quelli che vogliono seguire le sue tracce92.

La vita, le virtù sono l’essenziale. Il fascino di san Francesco, da vivo e da morto, ha contribuito molto a imporre un modello di santità in cui ha grande spazio l’imitazione cristologica e in cui predominano l’umiltà, la povertà, la semplicità. Ma, come vedremo oltre, la devozione popolare nei confronti dei santi francescani manteneva forme tradizionali, conservava una visione da taumaturghi e si preoccupava soprattutto delle reliquie. Modelli tradizionali del sacro a) Il sogno e la visione I testi medievali sono pieni di sogni e di visioni. Tuttavia, la storia dei sogni e della loro interpretazione nel Medioevo è poco nota. Sembra che il XIII secolo sia un secolo di diffusione e di democratizzazione dei sogni mentre, in precedenza, prevalevano i sogni dei grandi (proseguimento del tema antico del sogno regio) e i sogni dei santi, sottomessi in particolare alle tentazioni oniriche diaboliche o beneficiati da particolari visioni divine93. 92 «Non contenti narrare solum miracula, quae sanctitatem non faciunt sed ostendunt, sed etiam sanctae conversationis eius insignia et pii beneplaciti voluntatem ostendere cupientes, ad laudem et gloriam summi Dei et dicti patris sanctissimi, atque aedificationem volentium eius vestigia imitari» (Trium soc. [in Desbonnets-Vorreux, Saint François d’Assise cit., p. 89]). 93 Cfr. J. Le Goff, Les rêves dans la culture et la psychologie collective de

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Uno studio dedicato ai sogni di san Francesco porta a concludere che dovrebbe aver sognato un po’ meno degli altri santi94. Si possono tuttavia identificare almeno tre insiemi di sogni significativi: 1) i sogni e le visioni legati alla conversione di san Francesco che riportano Tommaso da Celano, Bonaventura e la Leggenda dei tre compagni 95; si tratta di sogni o visioni di san Francesco stesso (tra cui il celebre sogno delle armi)96; 2) le visioni (ve ne sono 18) riportate da Tommaso di Eccleston nel suo De adventu fratrum minorum in Angliam; 3) le visioni di frate Egidio, sulla scia dei Fioretti. Anche solo questa enumerazione mostra che il sogno/visione è stato uno dei procedimenti favoriti di esposizione nell’ambiente francescano. Rappresenta anche un vissuto che meriterebbe di essere studiato da vicino. b) Miracolo, stregoneria, esorcismo Sebbene, secondo i primi Minori, il miracolo non faccia la santità, tuttavia i miracoli francescani, quelli di san Francesco e di sant’Antonio da Padova, conoscono un grande successo, sia come segno di un ritorno ai miracoli cristologici, sia come espressione della persistenza, se non dell’esacerbazione, di attitudini tradizionali delle folle medievali nei confronti del miracolo. Tutte le biografie di san Francesco segnalano i suoi miracoli e, secondo la tradizione, Tommaso da Celano ha composto a parte un Trattato dei miracoli del santo. La Vita di sant’Antonio da Padova narra l’esplosione dei miracoli dopo la morte e l’afflusso di stranieri venuti sulla sua tomba: l’Occident médiéval, in «Scolies», 1, 1971, pp. 123-130, ripreso in Id., Pour un autre Moyen Âge cit., pp. 299-306 (trad. it. in Id., Tempo della Chiesa cit., pp. 279-286). 94 G. Zen, G. Sauro, I sogni di san Francesco d’Assisi, Asolo 1975. 95 Cfr. Desbonnets-Vorreux, Saint François d’Assise cit., s.v. Vision, p. 1551 (lunga lista). 96 Cfr. Cardini, San Francesco e il sogno cit.

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Là gli occhi dei ciechi si sono aperti, le orecchie dei sordi si sono aperte, lo zoppo ha iniziato a saltare come un cervo, la lingua dei muti si è subito sciolta per proclamare le lodi di Dio. Le membra paralizzate hanno ritrovato le loro capacità di un tempo, la gobba, la gotta, la febbre e le varie epidemie di malattie sono messe in fuga [...] i Veneziani accorrono, i Trevigiani si affrettano, così i Vicentini, i Lombardi, gli Slavi, gli Aquileiani, i Teutonici, gli Ungheresi97.

In uno studio suggestivo, André Goddu ha tracciato una curva dei casi di esorcismo nelle Vitae degli Acta Sanctorum e ha sostenuto che questa curva indica in sostanza l’efficacia o l’inefficacia dell’esorcismo98. Il pieno XIII secolo corrisponderebbe dunque a un momento di difficoltà per la fiducia nell’esorcismo. Anche per questo gli esorcismi compiuti da san Francesco e sant’Antonio da Padova sono importanti99. Per quanto portatori di nuovi modelli, di modernità, i Francescani si infilano nel letto di vecchie tradizioni e di modelli sperimentati. Conclusione Non tenterò di dare una risposta sintetica alla domanda fondamentale alla quale ogni storico del francescanesimo apporta elementi, prima di riascoltare quella che ci viene proposta da Raoul Manselli: in che cosa i Francescani nel XIII secolo hanno mutato l’attitudine della Chiesa nei confronti dei laici e il comportamento dei laici stessi – in un secolo in cui, nonostante le ventate di millenarismo, la cristianità non crede più che la fine del mondo sia prossima e in cui mette i piedi per terra? Mi limiterò a tre osservazioni. I Francescani sono stati i principali diffusori dell’idea che Cfr. L. Kerval (a cura di), Sancti Antonii de Padua Vitae due, 1904. A. Goddu, The Failure of Exorcism, in Miscellanea Mediaevalia, vol. XII, t. 2, Soziale im Selbstverständis des Mittelalters, Berlin 1980, pp. 540-557. 99 Desbonnets-Vorreux, Saint François d’Assise cit., s.v. Démon, p. 1531. 97 98

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non ci si salva da soli, che è tutta l’umanità, tutta la creazione che deve salvarsi da se stessa. Certo, il monaco voleva essere un modello per l’insieme della società e la sua ascesi aveva come scopo non solo la sua salvezza personale, ma anche la salvezza del mondo per sua intercessione presso Dio. Nondimeno il modello monastico era quello di una penitenza solitaria. I Mendicanti, e specialmente i Minori, hanno predicato tramite la parola e l’esempio che tutta l’umanità deve salvarsi con una condotta penitenziale comunitaria i cui modelli non si trovano nell’alto della gerarchia, ma in basso, cioè tra i più umili, i più poveri, tra i laici come tra i chierici. Anche se i Francescani non aboliscono la frontiera tra chierici e laici neanche all’interno del proprio ordine, poiché i laici ne saranno presto espulsi, tuttavia hanno dato un impulso fondamentale all’idea di una comunità di destino in cui viene annullata la differenza tra chierici e laici. Hanno affermato con clamore attraverso la dottrina e il comportamento l’ambiguità del mondo in cui vivevano. Da un lato, un mondo creato da Dio che bisogna amare, fonte di gioia e di fratellanza totale; dall’altro, snaturato dal diavolo e dal peccato, al quale bisogna opporsi, che bisogna rifiutare senza compromessi laddove si trova la radice essenziale dell’ineguaglianza e dell’inimicizia, cioè in tutte le forme di potere, che siano fondate sulla proprietà, il denaro, la scienza, la potenza del rango, la nascita e la carne. È in questa tensione tra accettazione gioiosa del mondo e rifiuto della sua perversione che gli uomini devono costruire la loro salvezza, in una dialettica dell’apertura e della reazione. Si tratta, certo, di un ideale da cui i Minori, a partire dal XIII secolo, si sono sovente allontanati. Un anonimo poeta toscano di metà secolo dice di loro: Povero nessun non vogliono vedere, dei richi, tutti quanti ponno avere, tutti li ànno100. 100

A. Stussi, Un serventese contro i frati tra ricette mediche del secolo XIII,

IV. Francescanesimo e modelli culturali del XIII secolo

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Ma l’espressione dell’ideale, il riferimento all’ideale, resta . Infine, hanno fornito un modello storico concreto dell’uomo nuovo, penitente combattuto e alla fine crocifisso, poiché Francesco è l’unico personaggio cristiano, sul modello di Gesù e dopo di lui, ad aver giocato un tale ruolo nella cristianità occidentale. Non fonte di un culto della personalità di cui, quale ne sia il modello, conosciamo la natura profondamente perversa, ma incarnazione individuale dello slancio comunitario, povero più povero di tutti, umile più umiliato di tutti, che si sposta in tutto lo spazio della cristianità, dalle città sovrappopolate alle solitudini naturali, dall’Umbria alla Spagna, alla Terra Santa. Ancora una volta, lo storico percepisce bene come il francescanesimo è storicamente ancorato a un mondo che si organizza in comunità – è il grande momento delle corporazioni, delle confraternite, delle università – e in cui si sviluppano, allo stesso tempo, il senso e l’affermazione dell’individuo. Pochi movimenti religiosi sono stati inseriti meglio di quello dei Minori – nonostante le loro difficoltà, le loro contraddizioni, i loro fallimenti – nella profonda attualità del loro tempo, adattandosi a una società nuova nei suoi progressi come nei suoi rifiuti, esprimendo al livello ideologico e spirituale il passaggio dal feudalesimo al capitalismo, o piuttosto, seguendo l’espressione di José Luis Romero, lo sviluppo di un sistema feudal-borghese. Ma vediamo anche pochi movimenti che sembrano così atti a esprimere e chiarire qualsiasi momento dell’umanità. Aprirsi e a un tempo resistere al mondo, è un modello, un programma, di ieri e di oggi, e indubbiamente anche di domani. 101

in «L’Italia dialettale», 30, 1967, p. 148 (citato da Miccoli, La storia religiosa cit., p. 797). 101 Sui Mendicanti come diffusori di idee tradizionali e come predicatori di rassegnazione sotto l’apparenza di ostilità ai ricchi e alla società, cfr. Miccoli, La storia religiosa cit., pp. 798-799 e 803-806.

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San Francesco d’Assisi

E nel nostro tempo gli sguardi, gli sforzi, devono prima di tutto rivolgersi ai tragici paesi del Terzo Mondo e prendervi a modello i piccoli, i poveri, gli oppressi, poiché, nonostante gli errori, le degenerazioni, i tradimenti, questa rimane la lezione del francescanesimo nel suo grande movimento versi i laici: una lezione che, fino a quando fame, miseria, oppressione non saranno vinte, resta valida per i nostri tempi.

APPENDICE

CANTICO DI FRATE SOLE Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. Ad te solo, Altissimo, se confano, et nullu homo ène dignu te mentovare. Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual’è iorno, et allumini noi per lui.

5

Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione. Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.

10

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento. Laudato si’, mi’ Signore, per sor’acqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte: ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

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Appendice

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

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Laudato si’, mi’ Signore, per quelli che perdonano [per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione. Beati quelli che ’l sosterrano in pace, ca da te, Altissimo, sirano incoronati.

25

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare: guai a cquelli che morrano ne le peccata mortali; beati quelli che trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ca la morte secunda no ’l farrà male. Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate e serviateli cum grande humilitate.

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BIBLIOGRAFIA

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Compact disc François d’Assise, di Jacques Le Goff, Paris 1998.

POSTFAZIONE di Jacques Dalarun

«LARGITAS, NOVITAS, SIMPLICITAS»* Nel 1967 veniva pubblicato in italiano, tradotto da Lisa Baruffi, il Francesco d’Assisi di Jacques Le Goff, numero 91 della collana «Protagonisti della Storia Universale». Scritta originariamente in francese, quest’opera non è mai apparsa nella lingua dell’autore. Cinque anni più tardi, nel 1972, usciva il primo volume della Storia d’Italia, dedicato a I caratteri originali. Il capitolo «Folklore, magia, religione» era dello storico italiano Carlo Ginzburg che, affrontando gli ordini mendicanti e in modo speciale Francesco d’Assisi, introduce la seguente nota a piè di pagina: Cf. sempre P. Sabatier, Vie de S. François d’Assise, Paris 1931. Vedi ora il succoso profilo di J. Le Goff, Francesco d’Assisi, Milano 1967. Ma in complesso, su nessuna questione di storia religiosa italiana la ricerca contemporanea è così gravemente inadeguata come su Francesco.

Questo severo giudizio non mancò di urtare la suscettibilità di alcuni tra gli specialisti di storia francescana, come testimonia il testo di una conferenza tenuta da Raoul Manselli all’Antonianum nel 1977 e pubblicata contemporaneamente nella rivista «Frate Francesco». Va detto inoltre che, appunto nell’anno della pubblicazione del volume della Storia d’Italia, era rinata dalle proprie ceneri la Società Inter* Questo testo riproduce la Prefazione all’edizione del 1998 di Francesco d’Assisi, che costituisce il capitolo II del presente volume.

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Postfazione

nazionale di Studi Francescani e il suo primo Convegno risale proprio al 1973. Facciamo tuttavia rilevare che, quanto alla nota di Carlo Ginzburg, nessuno ne contestò il riferimento elogiativo all’opera di Jacques Le Goff, ma piuttosto ciò che si riferiva alla vacuità degli studi francescani. Carlo Ginzburg ha un innegabile talento per le formule lapidarie e, all’occorrente, provocatorie. Là dove tutti parlano della «visione edulcorata» di Francesco offerta da Bonaventura, egli non esita a qualificarla come «storia [...] castrata»! Relativamente a quella piccola polemica vecchia di un quarto di secolo, vorrei proporre questo compromesso: l’apprezzamento di Carlo Ginzburg aveva forse cessato di essere rigorosamente fondato nel momento stesso in cui veniva pubblicato; era invece sostanzialmente esatto nel momento in cui apparve la biografia di Francesco scritta da Jacques Le Goff, nel 1967. Dell’incontro tra lo storico delle Annales e gli studi francescani vanno brevemente evocati i due protagonisti così come si presentavano trent’anni or sono. Scorriamo dapprima la bibliografia proposta da Jacques Le Goff alla fine del suo testo. Anzitutto le fonti. Per gli scritti di Francesco si appoggia sull’edizione latina dei padri di Quaracchi (quella del 1904, riedita numerose volte e dovuta all’opera di L. Lemmens), sulla traduzione italiana di V. Facchinetti e J. Cambell (1954), sulla traduzione francese di A. Masseron (1959) e riprende il Cantico di frate Sole da V. Branca (1950). Purtroppo gli mancano le edizioni successive di Kajetan Esser (1976, 1978, 1989) e il volume delle Sources chrétiennes (1981). Per quanto riguarda le fonti biografiche, mentre indica le edizioni del Sacrum commercium e dei Fioretti, non cita i riferimenti alle altre leggende, ma si può supporre che si basi sul volume X degli «Analecta franciscana» (1926-1941), nel quale sono assenti tuttavia l’Anonymus Perusinus, la Legenda trium sociorum, la Legenda Perusina. L’ottimo strumento costituito dal volume di Théophile Desbonnets e Damien Vorreux, Saint François d’Assise. Do-

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cuments, écrits et premières biographies, non vedrà la luce che un anno più tardi, nel 1968, seguito, nel 1977, dalle Fonti Francescane; per non dire del Corpus des sources franciscaines che inizierà a essere pubblicato solo nel 1974. Sul versante delle biografie moderne, Jacques Le Goff può rifarsi a quelle di P. Sabatier (1894), J. Jörgensen (1907), P. Cuthbert (1912), L. Salvatorelli (1926), O. Englebert (1947). La biografia scientifica che costituisce ancor oggi un’autorità, quella cioè di Raoul Manselli, sarebbe apparsa solo nel 1980. Per la storia dell’ordine dei frati minori, il nostro autore si fonda sulla somma di Gratien de Paris (1928). Dobbiamo riconoscere per onestà che su questo punto non siamo molto più avanti di lui... 1967: ricordiamoci! Su Francesco, R. Manselli ha pubblicato il solo S. Francesco e Madonna Povertà (1953), mentre il suo articolo su L’ultima decisione di s. Francesco è ancora in stampa nel «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo». Giovanni Miccoli ha pubblicato solamente la recensione, invero magistrale, dell’opera di M. de Beer in «Studi medievali» (1964). In questo anno 1967, David Flood pubblica il proprio lavoro pionieristico sulla Regula non bullata e Sophronius Clasen la propria monumentale ricerca sulle leggende post-bonaventuriane; mentre lo studio di Giulia Barone su frate Elia, che uscirà anch’esso nel «Bullettino» (1974-1975), è ancora lontano. Il «succoso profilo» di Jacques Le Goff appare obiettivamente nella stagione morta degli studi francescani, durante la bassa marea, appena prima che il flusso risalga. Sappiamo in effetti che la rinascita d’interesse per la figura del santo d’Assisi, dopo secoli di torpore o di visione apologetica, si è fatta risentire dapprima e principalmente in Germania, nella seconda metà del secolo scorso. Nel 1894, la biografia di Paul Sabatier, sviluppando le intuizioni di Ernest Renan (1866 e 1884), ha avuto l’effetto di una rivoluzione al punto che, relegando nell’ombra i lavori che l’avevano preceduta, si è collocata come mito fondatore della fin troppo

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Postfazione

famosa «questione francescana». La scossa fu considerevole e le polemiche violente, ma soprattutto la ricerca delle fonti primitive prese uno slancio inaudito: edizioni e studi si succedettero a un ritmo incalzante. Verso gli anni Trenta, i giganti che si erano affrontati in questa tenzone tanto erudita quanto ideologica, scomparvero gli uni dopo gli altri e la febbre ridiscese. L’interesse si mantenne, ma discreto, nelle isole britanniche più che altrove, con i lavori di J. Moorman (1940) o R. Brooke (1959). Tutto ciò fino al 1967. Se si dovesse infatti proporre una cronologia dettagliata degli studi francescani, è a questa data che collocherei la loro rinascita, o piuttosto, i loro primi fremiti. Questa volta, benché tedeschi, francesi o anglosassoni siano sempre presenti, hanno chiaramente perso il loro dominio. L’Italia, fino ad allora sempre più che recettiva nei confronti degli studi francescani, ne diventa il centro per eccellenza, in una luminosa stagione di rinascita che non è ancora terminata. Il testo di Jacques Le Goff è dunque un prezioso indicatore delle tendenze del momento e degli orientamenti del futuro. È significativo che compaia in quella data ed è emblematico che, scritto in francese, sia pubblicato in italiano; proviene tuttavia da uno storico che non è e non diventa per questo un esperto di Francesco d’Assisi e in ciò non sta forse il minore dei suoi meriti. Nel 1967, Jacques Le Goff, nato il 1° gennaio 1924, ha quarantatré anni. Ha al suo attivo un percorso accademico impeccabile: l’École normale supérieure di rue d’Ulm nel 1945, l’«agrégation» di storia nel 1950, soggiorni di studio a Praga, Oxford e Roma, come membro dell’École française (1952-1953), dove nasce il suo affetto per l’Italia che non è mai venuto meno ed è sempre stato ampiamente contraccambiato. Dopo essere stato addetto al Centre nationale de la recherche scientifique e assistente all’Università di Lille, viene notato da Fernand Braudel, che ne intuisce immediatamente il valore e ne facilita l’ingresso alla Sesta sezione del-

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l’École pratique des hautes Études nel 1960. Divenuto presidente della stessa sezione nel 1972 (lo rimarrà fino al 1977), il nostro medievista ne realizzerà l’autonomia con la fondazione, nel 1975, dell’École des hautes Études en sciences sociales. Già nel 1967, Jacques Le Goff è passato attraverso i centri più prestigiosi della vita intellettuale in Francia. Più di una volta, ha contribuito o contribuirà in maniera determinante al loro sviluppo quando non addirittura alla loro nascita. Il medievista, che si dichiara di sinistra, ha il senso delle istituzioni, cosa assolutamente logica nella tradizione repubblicana. È fiero dell’istituzione che lo accoglie e a essa restituisce fedeltà. Questo elemento non è indifferente per comprendere un fondatore di un ordine, anche se lo fu suo malgrado. Ma Jacques Le Goff è inoltre uno storico atipico, d’una grande libertà di movimento, di parole e soprattutto di spirito. A un’età in cui molti dei suoi colleghi faticano ancora sopra l’opprimente tesi di Stato, egli si è già scrollato di dosso questo peso. Mentre il compimento dell’opera principale ritarda frequentemente le pubblicazioni fino a un’età avanzata, il nostro quarantenne ha già pubblicato tre opere innovatrici: nel 1956, Marchands et banquiers au Moyen Âge; l’anno successivo, Les intellectuels au Moyen Âge e nel 1964, a quarant’anni, la sua opera maestra, La civilisation de l’Occident médiéval, senza dubbio una sintesi, ma insieme molto di più: una visione estremamente personale e suggestiva di un Medioevo colto nel suo insieme, senza complessi, con una ostentata preferenza per il Medioevo centrale dei secoli XIXIII. A nessuno verrebbe in mente di minimizzare le numerose pubblicazioni successive a questo libro, fino a Saint Louis (1996), ma non è esagerato dire che i temi fondamentali delle future ricerche di Jacques Le Goff (tempo e lavoro, società urbane, cultura e folklore, eresie, purgatorio, immaginario) sono contenuti nell’opera del 1964. Occorre inol-

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Postfazione

tre aggiungere che vi sono presenti pure numerosi temi fatti poi propri da vari studiosi. Se Francesco d’Assisi e Jacques Le Goff hanno un primo tratto in comune, è proprio questo: la generosità, la «larghezza». Nel 1967, Jacques Le Goff senza dubbio non è «francescanista» di mestiere, ma ha già concepito la sua inchiesta sugli ordini mendicanti e il loro inserimento nelle città della Francia medievale, della quale comparirà sulle Annales del 1968 il programma-questionario. Si prepara soprattutto a pronunciare, nel colloquio del 24-25 maggio 1967 su Ordres et classes, la sua relazione su Le vocabulaire des catégories sociales chez saint François d’Assise et ses biographes du XIIIe siècle, il cui testo verrà pubblicato solo nel 1973 [e compare nel presente volume come capitolo III]. Fondata su un’estrema attenzione al lessico, è una delle illuminazioni più vive che ci siano state offerte sulle strutture mentali dell’Assisiate, le sue motivazioni ideologiche, la sua visione degli uomini, della società, di Dio. Ne La civilisation de l’Occident médiéval, l’autore aveva tracciato in queste poche righe uno schizzo dell’itinerario del Poverello: La lacerazione di Francesco d’Assisi, preso tra il proprio ideale snaturato e l’attaccamento appassionato alla Chiesa e all’ortodossia, è drammatica. Egli accetta, ma si ritira. Nella solitudine della Verna, le stimmate, poco prima della sua morte (1226), sono la conclusione, il riscatto e la ricompensa della sua angoscia.

Apriamo ora il testo del 1967. Esso offre un incontro più piacevole, più ridente, più posato che non la visione lacerata del 1964; è inoltre riccamente illustrato. Quanto al tipo della pubblicazione, I Protagonisti della Storia Universale propongono a un pubblico colto, di non specialisti, le grandi personalità che hanno segnato la storia (al Poverello, per esempio, segue Marco Polo); nessuna nota a piè di pagina, poco latino, chiarezza anzitutto. «Nulla di più facile a priori che presentare san Francesco d’Assisi»: sono queste le pri-

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me parole di Jacques Le Goff, ma una pagina dopo giunge la constatazione: E tuttavia... il semplice, limpido san Francesco, oggetto di tanti racconti e ritratti, si cala dietro una delle questioni più intricate della storiografia medievale. E, paradossalmente, si è obbligati ad affrontare quest’uomo, che tanto diffidava dei libri dotti e dell’erudizione, con un cenno almeno delle ragioni che rendono così difficile l’esplorazione delle fonti.

Il medievista non ha scelto la facilità, né per quanto si riferisce alla conoscenza problematica del personaggio di cui si occupa, né in rapporto alla questione di fondo posta da una collana che si propone di chiarire la storia universale attraverso i suoi grandi uomini. Di questa doppia esigente scelta, riferita a due domande che non vengono mai, neppure per un istante, perdute di vista, è testimonianza l’impostazione generale del suo studio. Là dove potremmo attenderci una narrazione colorita, risolta da una conclusione senza sorprese sul valore universale dell’esperienza del santo di Assisi, Jacques Le Goff opta risolutamente per la storia-problema che gli è cara. L’economia generale del testo è eloquente. Solo la metà di esso è consacrata al percorso biografico propriamente detto. Un primo quarto è dedicato a ciò che si è convenuto chiamare la «questione francescana», ossia una riflessione sullo stato e il valore delle fonti, scritti o biografie, che ci danno notizie dell’Assisiate. Un altro quarto, abbondante, si dilunga su «Le opere e l’opera» di Francesco: le opere nel senso degli scritti, che sono sistematicamente analizzati, ma anche il significato di un’esperienza in rapporto al suo tempo, sotto il segno di una alternativa provocatoria «San Francesco medievale o moderno». Nell’intenzione di Jacques Le Goff si fanno largo altre due esigenze: la volontà di inserire Francesco nell’evoluzione complessiva della sua epoca e, senza che ciò contraddica in nulla l’attenzione alle fonti scritte, il desiderio di prendere in considerazione le fonti iconografiche. Ne sono testi-

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Postfazione

monianza per un verso la cronologia che apre l’opera e per l’altro il ricco materiale illustrativo che la correda. La cronologia proposta da Jacques Le Goff non è un promemoria, è un segno. Mischiati alle date francescane, i fatti non francescani che vi sono citati, e che ritornano in seguito nel corpo del testo, hanno un senso preciso. Indicano tre direzioni: la storia politica (Federico Barbarossa e Federico II, la vita civica di Assisi, la Magna Charta inglese), la storia della Chiesa (Domenico, il Lateranense IV, l’eresia), la Terra Santa, sognata o reale, e la crociata, sviata o meno (Saladino, la presa di Costantinopoli da parte dei Franchi, la crociata contro gli Albigesi e quella dei bambini, la battaglia di Las Navas de Tolosa) [...]. I trent’anni dalla pubblicazione del Francesco d’Assisi di Jacques Le Goff non sono trascorsi senza modificare la nostra comprensione dell’avventura francescana e del suo contesto. Non costituisce offesa all’autore premettere che, su alcuni punti, la storiografia si è mossa. Come potrebbe essere altrimenti? Sono convinto, al contrario, che egli sarebbe il primo a prendere in considerazione questi progressi della ricerca che, così sovente, ha egli stesso suscitato o incoraggiato e dei quali si è così interessato. Comprendiamo oggi meglio cosa sono, nel XIII secolo, le élites sociali urbane nell’Italia centro settentrionale; o perlomeno capiamo che non si possono ridurre alla contrapposizione aristocrazia-borghesia; il nostro autore ha tuttavia già colto perfettamente che il titolo cavalleresco è un criterio essenziale di distinzione, del quale la storia stessa del figlio di Pietro di Bernardone illustra la potenza simbolica, e dunque reale. Sulle società cavalleresche di iuvenes, che provengano da stirpe di milites o aspirino a questo titolo, le ricerche di Georges Duby (1964) hanno gettato nuova luce e la loro trasposizione nell’universo urbano, così come la propone Stefano Gasparri per esempio ne I «milites» cittadini (1992), risulta particolarmente illuminante. Senza dubbio Jacques Le Goff rileggerebbe og-

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gi in quest’ottica la narrazione della giovinezza di Francesco secondo la Vita prima di Tommaso da Celano e le allusioni alla banda di giovani di Assisi. Ma è pur sempre a lui che dobbiamo questo riassunto di mille anni di cristianesimo nel quale confluiscono la storia religiosa e quella sociale: La modernità di san Francesco è forse l’aver introdotto l’ideale cavalleresco nel cristianesimo, come i primi cristiani avevano introdotto l’ideale sportivo antico – il santo atleta di Cristo – e san Bernardo l’ideale militare della prima cavalleria – la Milizia di Cristo?

A Jacques Le Goff mancavano, nel 1967, le opere di G.-G. Meerssman sull’ordine della penitenza (1977 e 1982), che hanno radicalmente rimesso in causa il ruolo del Poverello come fondatore diretto di quel Terz’ordine che, in seguito, ha fatto riferimento al suo insegnamento. Il Memoriale propositi fratrum et sororum de Poenitentia in domibus propriis existentium, approvato da Onorio III nel 1221, non porta il «sigillo personale di Francesco» e non contiene alcuna allusione a un qualsiasi collegamento tra i penitenti, la cui vita è definita da questo testo normativo, e uno degli ordini mendicanti da poco fondati. Il primo riferimento a Francesco come fondatore di tre ordini (Minori, Povere Donne e Penitenti) risale invece all’Officium rhythmicum di Giuliano da Spira, redatto nella prima metà degli anni 1230. G.-G. Meerssman ha operato una critica drastica per eliminare un’idea tramandata che mancava di prove documentali, ma non è certo che non si tornerà a una visione più sfumata del fenomeno. Non domanderemo a Jacques Le Goff perché preferisca la versione della Legenda trium sociorum sull’imposizione del nome a Francesco (che sarebbe stato dapprima chiamato Giovanni) a quella della Vita prima, né perché egli, seguendo la Vita secunda, ammetta la voce che esce dal crocifisso di San Damiano, mentre la prima narrazione dello stesso Tommaso da Celano la escludeva. Sono cavilli da specialisti e non mi pare che, nella sua recente Vita di un uomo (1995), Chiara Fru-

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Postfazione

goni si sia privata di questi brani «leggendari», nei due sensi del termine, fissati nell’immagine di Francesco che abbiamo ricevuto. Il senso critico di Jacques Le Goff si esercita pienamente quando si tratta della Lettera a frate Antonio di Padova, del preteso primo viaggio di Francesco a Roma, della sua presenza al Lateranense IV, del suo incontro con Domenico, dell’indulgenza della Porziuncola... Senza dubbio è nella valutazione delle leggende francescane che avrei più divergenze con il nostro autore. Egli è naturalmente tributario della prospettiva del Sabatier circa i conflitti interni all’ordine, i rapporti tra Francesco e la Chiesa, la personalità di Elia, la posizione, come agiografo ufficiale, di Tommaso da Celano. Uno dei suoi principi interpretativi maggiormente ricorrenti è, di conseguenza, lo scontro tra i «rigoristi» (o «estremisti») e i «moderati» (o «lassisti») all’interno dell’ordine, che avrebbe creato una frattura che si sarebbe ritrovata quasi meccanicamente nelle diverse visioni del santo proposte nelle fonti primitive. Oggi questa visione è comunemente definita sorpassata. La correttezza esige che si ricordi, al tempo stesso, che è questa dicotomia proiettata sulle fonti da Paul Sabatier ad aver ridato all’argomento francescano una dinamica che gli faceva terribilmente difetto e l’onestà vuole che si aggiunga che questa interpretazione bipolare continua, nonostante le dichiarazioni di facciata, a ossessionare numerosi spiriti. Va condivisa l’opinione di Le Goff che presenta un Elia «potentissimo» al momento della redazione della Vita prima, benché avesse perduto, dal 1227, la posizione di preminenza nell’ordine nella quale lo aveva collocato Francesco? Del medesimo punto di vista si trova ancora traccia nel magnifico Francesco d’Assisi di Giovanni Miccoli (1991). Non è certamente scontato situare la Legenda trium sociorum nell’ambito degli scritti leonini, come sembra voler tendere il nostro autore, dato che questa narrazione e la Compilatio Assisiensis (o Legenda antiqua o Perusina), che porta decisamente il marchio di Leone, sono in completa reciproca opposizione

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sui punti che riguardano e Francesco e l’ordine; non si può quindi risolvere la contraddizione se non togliendo a Leone la paternità parziale che gli è tradizionalmente riconosciuta per la cosiddetta Legenda trium sociorum, il che non è privo di problemi. Quanto alla Lettera di Greccio, essa non è indirizzata nel 1246 a Tommaso da Celano, ma al ministro generale Crescenzio da Jesi. Non posso evidentemente concordare con Jacques Le Goff nel considerare il Tractatus de miraculis di Tommaso da Celano «un passo indietro» poiché ho cercato di mostrare che si tratta del vertice dell’opus celanense; è pur vero che, se non un passo indietro, io vi scorgo una fuga in avanti, il che forse non è meglio! Avanzo queste riserve con franchezza, ma conviene accoglierle con prudenza. Il punto di vista sulle diverse leggende francescane che ho tentato di difendere ne La Malavventura di Francesco d’Assisi (1996) e di completare in una Postfazione alla stimolante opera di Felice Accrocca (1997) non è che uno tra tanti altri. Questo per dire che la presentazione della questione francescana di Jacques Le Goff non ha perso la propria attualità e che le perplessità che questa o quella delle sue posizioni possono sollevare sono sempre al centro dei dibattiti in corso. Conviene dunque di più sottolineare che, sulla tela di fondo della volgata sabateriana, Jacques Le Goff inserisce delle sfumature, delle correzioni che riguardano l’essenziale. Egli rende perfettamente ragione dell’incarico di Bonaventura, del suo «compito di pacificatore» in seno all’ordine e dell’uso che egli fece a questo scopo della figura del fondatore. Attira l’attenzione sulla tradizione manoscritta delle leggende, che egli propone come spia delle loro intenzioni, della loro portata, del loro destino. Fa totalmente affidamento sulla Vita prima di Tommaso da Celano, che tuttavia era stata a lungo discreditata e della quale oggi si riconosce concordemente l’importanza fondamentale per un approccio al «vero Francesco». Rimarrebbe il problema di sapere se Francesco abbia o meno voluto l’ordine dei frati minori. Si può affermare che

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Postfazione

egli non l’ha né concepito né voluto; o che non l’ha progettato, ma l’ha accettato suo malgrado (questa sarebbe in sostanza la posizione di Jacques Le Goff). Queste distinzioni vanno fatte oppure si deve affermare, con Hegel, che «l’intenzione dell’atto, è l’atto»? Ora, è Francesco che decide di andare a trovare Innocenzo III verso il 1209-1210 e, in questo modo, di sottrarsi con i suoi compagni al proprio statuto di penitente alle dipendenze dell’Ordinario; è lui che, nel 1217, vuole conquistare la Francia, e in seguito la Germania, alla sua nuova religione; è ancora lui che richiede insistentemente Ugolino, futuro Gregorio IX, come cardinale protettore dell’ordine nel 1220 (e come comprendere che le misure di quell’anno decisivo sono «più o meno conformi ai suoi desideri»?); a Francesco, benché fondatore dimissionario, ma il solo a essere nominato tra altri frati anonimi, è indirizzata, nel 1223, la lettera di conferma di Onorio III per la nuova Regula; è la sua persona a essere il perno del sistema di obbedienza tra il papato e la massa dei frati. E l’ammirabile Testamentum, che non utilizza se non il termine fraternitas rifiutando quello di ordo, non è forse una maniera di imporre le volontà di un fondatore provvidenziale (Dominus dedit mihi...) a oltre cinquemila persone, al di là della sua stessa morte? Se mi permetto d’ingaggiare un’amichevole polemica con Jacques Le Goff, ritenendomi autorizzato per il fatto che l’autore nel 1967 è di poco più giovane di me, è anzitutto per testimoniare che con rigore e chiaroveggenza egli conduce il proprio lettore nello spazio delimitato dalle fonti dove ciascuno può tentare, grazie a lui, la propria ipotesi interpretativa. Questo spazio non è tuttavia un campo chiuso, poiché Jacques Le Goff ne allarga le prospettive con la sua capacità di invenzione storica: un rinnovamento dello sguardo che egli ci offre in molteplici direzioni e sul quale conviene concludere. Il primo tratto che colpisce nella narrazione analitica di Jacques Le Goff è la sua arte nel cogliere la fonte, il brano

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particolarmente chiarificatore; poiché, se il dovere dello storico comporta di prendere in considerazione tutta la documentazione senza esclusioni, il suo merito è quello di sapervi poi individuare una gerarchia interna, dall’accessorio all’essenziale, dal prevedibile all’inatteso. Si avrebbe voglia di parlare, a proposito di Jacques Le Goff, di una intuizione insolita della documentazione medievale, se questo termine non sembrasse attribuire solamente al fiuto ciò che dipende anche dall’acribia e dal lavoro, dal «mestiere dello storico». A tale riguardo il parallelo sistematico tra la Regula non bullata e la Regula bullata può essere citato come esempio: tutti gli sviluppi decisivi che hanno avuto luogo dal 1221 al 1223 sono colti in una struttura perfetta; è interessante notare che quest’analisi si produce nell’anno stesso in cui David Flood propone, a monte, la sua archeologia della sola Regula non bullata. L’insistenza sul Cantico di frate Sole non sorprende affatto, ma la scelta della Chronica di Ruggero di Wendover e Matteo Paris, per fornire la relazione del viaggio di Francesco a Roma e il suo discorso agli uccelli rapaci, è meno scontata; del resto, tutto il confronto del penitente di Assisi e del sommo pontefice, Innocenzo III, al momento dell’incontro romano è ricco di insegnamenti (e, più oltre, notiamo questa sintesi: «Innocenzo III, Francesco e Domenico, sia pure in uno spirito e con stile differente, cercano di portare delle soluzioni a un unico problema: quello di schiudere all’umanità, in un mondo in trasformazione, nuove vie verso la salvezza»). Al testo della Chronica inglese, Giovanni Miccoli (1991) o Chiara Frugoni (1993) accordano ancor oggi la massima importanza. Jacques Le Goff aggiunge: L’iconografia del XIII secolo serberà tale ricordo: le immagini raffiguranti la predica di Francesco agli uccelli copieranno tutte, più o meno, altre immagini contemporanee dove l’angelo dell’Apocalisse invita gli uccelli a gettarsi sulla preda, finché Giotto imporrà definitivamente l’interpretazione idillica della scena.

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Postfazione

È esattamente questo l’approccio alle immagini di Chiara Frugoni, in Francesco, un’altra storia (1988) o L’invenzione delle stimmate (1993), le cui premesse sono qui enunciate. La traduzione italiana della Lettera a frate Leone scelta dal nostro autore è più vicina all’attentissima ricostruzione che Attilio Bartoli Langeli ha proposto al XXI Convegno della Società Internazionale di Studi Francescani (1993, pubblicata nel 1994) di quanto lo sia il testo dell’edizione latina di Kajetan Esser. Segnaliamo la splendida evocazione del presepe di Greccio. Istruttivo ancora il confronto tra due exempla, quello del contadino che incita Francesco a non deludere le speranze riposte in lui (questo episodio della Vita secunda presenta infatti tutti gli indizi dell’autenticità) e il famoso episodio della Legenda Perusina dove frate Leonardo, d’origine aristocratica, è contrariato per il fatto di andare a piedi mentre Francesco è a cavallo: lo spazio sociale dell’esperienza francescana è descritto da queste due parabole. Trattando della concezione del corpo, presente nel penitente di Assisi, come ha ragione Jacques Le Goff a riferirsi alla quinta delle Ammonizioni! Considera, uomo, in quale stato eccellente ti ha messo il Signore, poiché ti ha creato e formato a immagine del suo Figliuolo diletto secondo il corpo, e a sua somiglianza secondo lo spirito.

Non solo «frate corpo» viene valorizzato da un simile brano, come osserva lo storico, ma va sottolineato inoltre il capovolgimento cronologico, di grande portata teologica, che Francesco si concede: l’uomo qui non è creato «a immagine di Dio», come afferma la Genesi, prima che il Figlio venga a incarnarsi, che il Verbo si faccia carne, come annuncia il Vangelo di Giovanni. A credere al Poverello, dalla sua creazione l’uomo è, al contrario, fisicamente modellato a immagine del Figlio. Non è forse vero che se Dio abbraccia la totalità del tempo, come asserisce Agostino, conosce già (ma «già» è già un errore) il corpo del proprio Figlio nel momento in cui dà

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forma all’uomo? È proprio il caso di andare a cercare altrove, rispetto a questa convinzione che noi siamo fin dall’origine modellati a immagine del corpo del Crocifisso, le ragioni dell’«invenzione delle stimmate», un’«invenzione» che non può più, da allora, che essere di Francesco in persona? Jacques Le Goff non spinge all’estremo l’interpretazione del quinto testo delle Ammonizioni, ma propone una soluzione del rapporto tra Francesco e la Chiesa che non mi sembra senza rapporto con il tenore di questo scritto: Ma ciò che soprattutto lo trattenne fu la determinazione fondamentale, ripetuta senza posa al di là di ogni pressione, di restare a qualunque prezzo (e sarà in effetti un caro prezzo), lui e i suoi frati, nella Chiesa. Perché? Indubbiamente perché non voleva spezzare quella unità, quella comunità cui tanto teneva. Ma soprattutto a causa del suo bisogno viscerale dei sacramenti. [...] Ora Francesco ha, nel suo intimo, bisogno dei sacramenti e fra gli altri del primo tra essi, l’eucaristia. Per somministrare i sacramenti occorre un clero, una Chiesa. Quindi Francesco – anche se la cosa può sorprendere – è disposto a perdonare molto ai chierici in cambio di tal ministero. In un’epoca in cui gli stessi cattolici ortodossi si pongono il problema della validità dei sacramenti somministrati da preti indegni, Francesco la riconosce e la afferma senza difficoltà.

Porre così al centro di un rapporto istituzionale e spirituale, che ha fatto scorre fiumi d’inchiostro, il bisogno viscerale, e dunque fisico, del corpo di Cristo per il corpo di Francesco mi sembra al tempo stesso di un’insolita audacia e di una sorprendente perspicacia. Bisognerebbe interrogarsi sull’eredità del profilo di Francesco proposto da Jacques Le Goff. Gli Atti dei serissimi Convegni della Società Internazionale di Studi Francescani in ventiquattro anni non lo citano mai, anche se ne citano cinquantotto volte l’autore. Uno dei più fini conoscitori della bibliografia francescana, Grado G. Merlo, non vi fa riferimento nei suoi articoli storiografici del 1990 e 1993, rac-

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Postfazione

colti rispettivamente in Tra eremo e città (1991) e Intorno a frate Francesco (1993), mentre non manca di utilizzare altri contributi dello storico delle Annales. Nell’abbondante bibliografia di Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana (1997), sono citati cinque titoli di Jacques Le Goff, ma non il fascicolo de I Protagonisti della Storia Universale. Il paradosso va oltre: l’autore stesso non cita, per così dire, mai questo libro apparso al di là delle Alpi, come se lo considerasse trascurabile. Senza dubbio è curiosamente troppo presto per tracciare i confini esatti della sua influenza poiché sono le ricerche da franco tiratore, marginali su Francesco d’Assisi che si rifanno e si rifaranno a questa visione originale: così Chiara Frugoni ne L’invenzione delle stimmate (1993). Io stesso colgo l’occasione per dichiarare il mio debito verso il lavoro di Jacques Le Goff quando ho voluto interessarmi al rapporto del Poverello con le donne e con la femminilità in Francesco: un passaggio (1994); d’altronde nelle mie bibliografie, il suo Francesco non viene mai dimenticato. Un futuro aperto dunque, poiché al di là della chiaroveggenza di questa o quell’analisi dell’autore, che evito di citare per lasciare al lettore il piacere di scoprirle nel testo, ciò che costituisce il valore del Francesco d’Assisi di Jacques Le Goff è il modo con cui l’autore mette il Poverello nella prospettiva del suo secolo. Si faccia attenzione! L’annotazione «Dunque san Francesco è stato moderno perché tale era il suo secolo» non è un banale sillogismo né esprime una tautologia. Nella scia di Marc Bloch, l’autore della Civilisation de l’Occident médiéval ha giustamente messo in guardia contro la ricerca ossessiva delle origini. Egli dimostra qui – e in molti altri suoi libri – che la storia può essere viva, dinamica, avvincente, dal momento in cui vi sostituisce la ricerca appassionata degli albori. Certamente la storia è lungi dall’esserne interamente costituita e la forza d’inerzia è indubbiamente una delle forze più potenti che la plasmano! Ma questa attenzione agli schiudimenti, agli slanci, è una scelta,

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professionale ed esistenziale. Sotto la penna di Jacques Le Goff, le indicazioni di «progressista», di «modernità», di «novità» potrebbero sembrare prestare il fianco alla critica in quanto espressioni di una visione essa stessa «progressista» della storia, ma è perché egli ama il movimento nella storia che la sua storia è in movimento. È perché ha una sensibilità particolare alla novità in generale che coglie quella di Francesco in particolare. Senza dubbio è dunque presente la necessaria empatia, come ha affermato Lucien Febvre, ma nei limiti di un progetto scientifico definito fin dalle prime parole, quello della ricerca del «vero Francesco»: così viene affermata in una sola battuta la scelta di una storia positiva, garanzia contro le tentazioni di confusione tra lo storico, soggetto, e il suo oggetto storico; sono le medesime salutari premesse metodologiche con le quali Giovanni Miccoli aprirà, venticinque anni più tardi, il proprio Francesco d’Assisi (1991). L’ascesi della «questione francescana» è il passaggio obbligato verso il Francesco storico, senza di essa l’Assisiate non diventa che lo specchio dei nostri stati d’animo. Jacques Le Goff, con la sua attenta lettura delle fonti, con la pertinenza delle proprie interpretazioni, prova che semplicità e limpidezza non devono per forza far rima con facilità; che si possono presentare questioni difficili senza nulla disconoscere alle loro sfumature e senza per questo affondare nell’ermetismo elitario. Si deve dunque salutare con favore l’ottima iniziativa presa dalle Edizioni Biblioteca Francescana di Milano e dal loro direttore, padre Aristide Cabassi, di riproporre ai lettori questo «succoso profilo»: un agile trentenne che, ne sono certo, non ha ancora detto la sua ultima parola. Largitas, novitas, simplicitas. Queste sono le tre virtù cardinali di questo piccolo libro, generoso, nuovo, semplice; in una parola, così francescano.

INDICE

Prefazione

V

Cronologia

IX

I.

II.

Francesco d’Assisi tra il rinnovamento e le inerzie del mondo feudale Alla ricerca del vero san Francesco

3 17

In cerca del vero san Francesco, p. 17 - San Francesco nei suoi scritti, p. 19 - Il problema delle biografie, p. 21 - Vita di san Francesco, p. 28 - La conversione, p. 31 - Dalla prima alla seconda regola, p. 37 - Francesco e Innocenzo III, p. 39 - Santa Chiara, p. 43 - Miracoli e peregrinazioni, p. 44 - Il quarto concilio lateranense, p. 46 - La «Regula bullata», p. 50 - Verso la morte, p. 52 - Le opere e l’opera, p. 56 - San Francesco medievale o moderno?, p. 63

III.

Il lessico delle categorie sociali in san Francesco e nei suoi biografi del XIII secolo Definizione e portata della ricerca, p. 78 Suo interesse, p. 78 - Sue difficoltà, p. 81

Gli elementi del lessico delle categorie sociali, p. 88 In san Francesco (a partire dai suoi scritti e dalle sue biografie), p. 88 - Nei biografi, p. 99

Saggio di interpretazione, p. 110 Situazione di questo lessico in relazione agli schemi ideologici medievali, p. 111 - Situazione di questo lessico in rapporto ai principali lessici sociali concreti del Medioevo, p. 112 - Situazione di questo lessico in rapporto alla visione e agli scopi francescani, p. 115 - Situazione di questo lessico in relazione a una problematica storica, p. 121

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IV.

Indice

Francescanesimo e modelli culturali del XIII secolo

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Modelli legati allo spazio e al tempo, p. 129 - Modelli legati all’evoluzione dell’economia, p. 138 - Modelli legati alla struttura della società globale o civile, p. 143 - Modelli legati alla struttura della società religiosa, p. 150 - Modelli legati alla cultura in senso stretto, p. 152 - Modelli di comportamento e di sensibilità, p. 159 - Modelli etico-religiosi in senso stretto, p. 164 Modelli tradizionali del sacro, p. 169 - Conclusione, p. 171

Appendice Cantico di frate Sole

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Bibliografia

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Postfazione «Largitas, novitas, simplicitas» di Jacques Dalarun

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