Salento fuoco e fumo 9788842068907

Ne ho visti di ulivi strani in vita mia, ma quelli di queste parti hanno forme fuori da qualsiasi logica progettuale, co

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Salento fuoco e fumo
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Salento fuoco e fumo

Editori Laterza

© 2012, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2012 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2012 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-6890-7

Ce t’ha misu a ‘ncapu? Te pienzi ca stu munnu era comu l’ivi calcolatu? None, ’sta vita è dura, dura e misteriosa. Però tìe sicuramente te spettavi n’autra cosa. La vita è misteriosa

Indice

Il mondo cambia a San Cataldo

3

A Trepuzzi ci la ’rizza, la ’ntizza

17

Tratturi e masserie dell’Appia Antica

31

Tutti gli ulivi di Otranto

43

Cirri blu e magenta al largo di Sant’Isidoro

55

Lu sound system ete la BBC delli poveri

67

Gli hacker di Santu Paulu

83

Revolución a Cerano

93

Ringraziamenti 107

Salento fuoco e fumo

BRINDISI Centrale Cerano

Mesagne

San Pietro V.

San Gennaro Lendinuso Canuta Casalabate Torchiarolo

Torre Rinalda Torre Chianca Parco Naturale Rauccio

Squinzano

Campi Salentina

Villa Elvira

Trepuzzi

Novoli

Surbo

Frigole San Cataldo

LECCE

Villa Convento

Monteroni

Le Cesine

Il mondo cambia a San Cataldo

Ma finché i servi acclameranno i potenti, finché i padroni saranno dei santi, finché i cervelli saranno spenti quaggiù la schiavitù non finirà mai. La ballata del precario

Chi decide di farsi una casetta con un bel giardino sul davanti e un orto sul retro ha le idee chiare. Innanzitutto ha deciso di vivere con poca gente intorno e con molto verde tra i piedi, rallentando così la velocità della propria vita a un ritmo strano e incomprensibile per noi, come se non si aspettasse più nulla dalla vita. Proprio nulla. E tutto ciò mi mette a mio agio: in fondo anch’io non mi aspetto un cazzo dalla vita. Quel giorno, l’11 settembre, era un giorno afoso, all’ozono. Appena superata la breve ma brusca pendenza, dove bisogna pedalare fuori-sella, ci appare la villetta. La villetta “speciale”, la chiamavamo. Non so se fosse pura suggestione, ma eravamo certi che nei pressi di quella villetta si sentisse un forte odore di erba. Non erba di campo, sia chiaro. Ancora oggi non so dire se fosse realtà o immagina­ zione. Forse i polmoni aperti dallo sforzo atletico amplificavano quell’odore o forse il sangue che ci circolava dentro a velocità inaudite drenava quel tanto di THC residuo che bastava per animare i nostri pensieri. 5

Davamo per certo che chi vivesse in quella villetta doveva essere per forza un fumatore. Magari qualche vecchio professore di filosofia in pensione, che di nascosto si teneva qualche pianticella tra i pini del giardino. O un ex emigrante, uno di quelli che si è fatto trenta o quarant’anni di lavoro duro in paesi più evoluti della nostra Italietta, tipo Svizzera-Germania-Australia, e poi se n’era tornato quaggiù e la sera si faceva un bel cannone con la moglie, immancabilmente bionda. O forse era un nostro coetaneo, che approfittando di quella situazione periferica si cimentava a esercitare il suo pollice verde. Erano tante le congetture che azzardavamo sull’identità del “coltivatore”, o ganjafarmer, come li chiamano i cantanti giamaicani nelle loro canzoni. Ma forse quell’odore non era affatto di maria. Siamo appena montati in sella quando a Luca squilla il telefonino. E Sirio puntualmente si incazza. Non gli è mai andato giù di pedalare per la campagna con il cellulare acceso. La nostra regola è che si accendono i cellulari solo se qualcuno di noi resta indietro per forature, crampi o altri accidenti. E Luca invece lo lascia spesso acceso, perché magari telefona la sua Veronica e lui deve raccontarle le sue imprese ciclistiche, o per fare qualche foto, almeno così dice. Ma a me e Sirio sembra un’intrusione troppo tecno in un mondo come quello della mountain bike. Luca grida al telefono: “Nicò! E tìe pe ’ste strunzate me disturbi? Ma vaffanculu va’!”. 6

“Sì, fanculu a tìe e a fràtita lu Nicola!”, sbotto io. “E mo’ si prontu? Ne sciamu o no?”. “Sine, sta ’rrìu!”, risponde Luca. Dà due belle “pompate” sui pedali e ci raggiunge. “Cosa voleva tuo fratello?”, chiede Sirio a Luca. “Minchiate dice. Quiddru invece cu studia stae sempre su internet e... mi ha detto che sono caduti due aerei nel centro di New York”. “Minchia! E quanti morti ci sono stati?”, gli chiedo. “Mbo? Ancora non si sa!”, risponde Luca con indifferenza. Forse non ha gradito la telefonata. Magari si aspettava che fosse Veronica, lo sborone. Sirio, che non ha ancora digerito l’inutile sosta, gli si accosta dicendo: “Ma scusa, cadono due aerei e nu tte ne futte nienzi? Ma cosa ti porti nella testa?”. Sirio è fatto così. Sanguigno e istintivo. Uno che ti dice sempre in faccia quello che pensa. Luca invece incassa in silenzio. E io? A me è sempre piaciuto osservare il comportamento degli altri. Gli cucio addosso un carattere, un destino: li smonto per poi riassemblarli pezzo per pezzo. Cerco di cogliere lo stato d’animo delle persone dai loro occhi, facendo attenzione a non incrociare i loro sguardi. Forse è per questo che molta gente cammina con gli occhi bassi: per sfuggire a quelli che come me si cibano degli sguardi altrui. “Pedala!”, urla Sirio, voltandosi verso di me. “Che cazzu hai, stai in estasi?”. 7

Pedaliamo veloci tra le viuzze di Frigole, un piccolo centro sul mare che d’inverno è vissuto appieno da pescatori e contadini dal fare lento e accomodante. Li troviamo come sempre nella piazzetta del centro, seduti sulle panchine come se fossero i monumenti della piazza, a bere birra e a sorridere a chiunque incroci il loro sguardo. E noi passiamo di lì per quello, giusto per salutarli. A noi bikers piacciono le persone che ti salutano anche se non ti conoscono, facciamo parte della stessa specie perché un biker vero non deve dissetarsi di sola borraccia. E così, dopo aver fatto il pieno di sorrisi, ci lasciamo alle spalle Frigole accompagnati dall’odore di pane e focaccia proveniente dal forno di una masseria fortificata e dalle mura rosee che sta proprio all’uscita del paese. Ci immergiamo tra uliveti e macchia mediterranea, pedaliamo per un’altra dozzina di chilometri, e arriviamo a San Cataldo. San Cataldo è un centro balneare ben curato che d’estate si riempie fino all’inverosimile accogliendo i leccesi in villeggiatura, mentre d’inverno ci trovi un solo bar aperto, qualche coppietta dal fare furtivo e tanti cani a zonzo che qualche volta provano pure a rincorrerti mirando ai polpacci. La zona più bella di San Cataldo è la folta pineta circostante la marina. Se la attraversi nel tardo pome­riggio, quando il sole è basso e non cuoce più, ti fa sentire l’odore intenso della resina di pino che ti rinfresca i polmoni. Ci fermiamo al bar per prendere un caffè, ma già 8

sull’uscio si vede una strana calca. Non la calca estiva, di mamme in costume con i figli che vogliono il gelato, o di pensionati con la paglia in testa che comprano la minerale. No, ci sono tutti i pescatori della darsena davanti alla tv sparata a tutto volume. Stanno guardando le scene degli attacchi come guarderebbero l’equilibrista al circo: bocca aperta e suspense. Con il barista che ripete a mo’ di litania: “Oggi sta cambiando il mondo. Apriamo gli occhi gente. Queste cose cambiano il mondo...”. Ci fermiamo anche noi a guardare quelle immagini per dieci minuti, poi usciamo, andiamo a riempire le borracce alla fontana e via di ritorno verso Trepuzzi. Tra San Cataldo e Frigole c’è una zona militare che rimane chiusa solo in caso di esercitazioni, più o meno una volta a stagione. Allora trovi la strada sbarrata con tanto di sentinella con il fucile stretto in mano che ti consiglia il tragitto alternativo da fare. Come tutti i campi di addestramento militare è pieno di cunette che, se pedali con la rincorsa giusta, ti fanno volare due o tre metri da terra: adrenalina pura, irrinunciabile per noi tre. Sono il nostro bike-park aggratis con tanto di toboga in sequenza, modellati e induriti dai cingoli dei carri armati. Sono almeno due chilometri di salti, e in quei momenti la nostra età precipita vertiginosamente in giù. Quando arriviamo davanti alla sbarra il militare schiaccia PLAY su se stesso e inizia il download dei suoi comandi. Noi intanto guardiamo alle sue spalle: ci sono un centinaio di 9

carri armati schierati in riga con la canna puntata verso il mare. Salutiamo educatamente la sentinella e procediamo per il percorso alternativo. Intanto il sole si abbassa e colora di rosso il v­ olo di un falco. È sempre lo stesso scenario quando torniamo da San Cataldo: la pianura è come un maxischermo, ti fa vedere le cose in grande, e così anche una terra povera e ruvida come quella salentina può sembrarti un film avvincente. Quei tramonti mi lasciano sempre un nodo alla gola, come se dovessi pentirmi di qualcosa che in realtà non ho commesso, mi resta addosso una strana nostalgia per cose che non ho vissuto. È lo stesso per Luca e Sirio, tanto che il percorso per San Cataldo lo abbiamo battezzato il nodo alla gola. Appendo la bici al cavalletto e apro la porta d’ingresso. Entrare in casa dovrebbe essere un gesto appagante ma io l’appagamento l’ho provato di rado. Forse perché sono abituato a sentirmi un fantasma in casa propria. Eppure la casa in cui vivo è una bella casa. Arredata con gusto e razionalità, non assomiglia per niente a coloro che l’hanno voluta e costruita, e cioè i miei genitori. Mio padre è un uomo nato di fretta, mi lancia sorrisi di fretta, in casa lo vedo sempre di fretta, intento a cercare le sue agende in pelle, sempre gonfie di foglietti e di appunti scritti in fretta. Ha uno strano modo di sorridere mio padre, sembra che gli abbiano trapiantato uno di quei sorrisi pre-congelati sulla faccia, che se lo guardi dritto di fronte a te sembra un sorriso, 10

ma se lo guardi di profilo ti accorgi che sembra piuttosto una smorfia di tristezza. Ho sempre pensato che quel ghigno, quella smorfia di mio padre fosse per me una sorta di eredità. Io non ho quel ghigno in faccia, ma forse l’ho trasformato nel nodo alla gola che mi porto dietro sin dalla nascita. E mia madre? Dov’è mia madre? Oggi è martedì? Allora sta pagando la rata della BMW 320 di Tina, la sua parrucchiera. Tina sino a qualche anno fa abitava nel quartiere degli “indiani”, che a Trepuzzi equivale ad abitare nel quartiere meno figo del paese. I suoi genitori avevano le pecore e facevano la ricotta e il pecorino più buono della zona. Quei due poveri cristi si portavano addosso la puzza del gregge anche dopo essersi lavati per tre ore di seguito. Per alcuni quella puzza rappresentava una sorta di timbro. Ma Tina non sopportava quell’odore e forse è per questo che ha deciso di fare la parrucchiera-estetista. Fa la parrucchiera da quando aveva dodici anni. È riuscita ad aprire un salone di bellezza tutto suo grazie alle “patite del phon” come mia madre. Che va a rimettersi a posto due o tre volte alla settimana. È molto difficile prendere per il culo i propri genitori. Per un figlio maschio è ancora più deprimente ridere della propria madre. Ma lei ha sempre voluto presentarmi al suo mondo a modo suo. E io no. Lei amava mostrarmi alle sue amiche come se fossi un ometto, vestito da ometto, pettinato come un ometto, zitto e al suo posto come un ometto. 11

Non ho mai odiato i miei genitori. Ci ho pensato, è vero. Ascoltavo i discorsi dei coetanei e avvertivo la mia diversità. Non so se i miei amici raccontassero stronzate, ma nelle loro storie ci trovavi sempre i genitori, i fratelli e i parenti. Erano storie che facevano ridere e piangere, e sentivo che erano vere. Al Sud la famiglia è invadente e questa invadenza è tangibile, ma non per me. A me toccava far calare l’oblio sui miei genitori. E cosa potevo mai raccontare, di conoscerli appena? Il citofono suona forte, ripetutamente. Finalmente lo sento. Chiudo il rubinetto della doccia, mi avvolgo un asciugamano intorno alla vita, e infilo i piedi nelle pantofole. “Chi è?...”, urlo. “Un po’ di pazienza e arrivo! Stavo facendo la doccia! Chi è?”. “Tuo zio! E apri questa cazzo di porta, scemo!”. È la voce di zio Maurizio, il fratello di mia madre. Ha la voce seria, non è da lui. “Zio, ce sta succede? Tuttu a postu?”. “No”, risponde secco. “None, nu stae nienzi a postu. È muertu lu Vitu, lu postinu. Nu mbe giustu cu mueri a trentasette anni cu tre figghie alle elementari! È assurdu! Iddru nu fumava ne beìa, facìa footing tre o quattro fiate alla semana... ieu me pensava ca era sanu comu nu pisce e invece stia chinu de tumori! Ma ce cazzu ni fannu mangiare intra stu paise de merda? Ma ce beìmu? Ce cazzu respiramu?”. Poche volte l’ho visto arrabbiato, ma mai piangere. Sì, perché zio Maurizio sta piangendo.Vito era il suo 12

migliore amico e aveva saputo di star male solo otto mesi fa. Aveva speso tutti i soldi di suo padre e dei suoceri per andare a farsi curare a Milano, poi a Bologna, poi ancora a Milano e infine a Torino, dove gli avevano detto che non c’era più nulla da fare. Povero Vito. Aveva voglia di vita da vendere, era il classico terrone capace di esorcizzare qualsiasi male con una bestemmia e una risata fragorosa. Era il miglior pescatore da surf casting di tutto il Nord Salento e per questo aveva deciso di fare il postino, per avere mezza giornata libera e andare a pescare. Da giovane aveva fatto il muratore, ed era anche bravo. A venticinque anni, con l’aiuto delle sue sole braccia, si era costruito la casa in cui viveva con la famiglia. Si era fatto pure un bel giardino, pieno di alberi di limoni, di aranci e mandarini. Vito e Marta, sua moglie, avevano tre belle figlie, tutte e tre brune con il viso tondo come lei, e gli occhi blu del papà. Era la mia famiglia tipo, sempre uniti, affiatati e sorridenti. Zio Maurizio si asciuga le lacrime con il pollice della mano destra e va dritto in cucina. Prende un bicchiere e una bottiglia di vino dalla mensola e si siede a capotavola. Riempie il bicchiere e comincia a raccontare. Lascia cadere le parole dalla bocca, proprio come il vino esce dalla bottiglia. “Era prima di Natale...”, manda giù un bicchiere. “Era mattina presto, circa le sette e mezza, ed ero incazzato perché mi era scivolata dalle mani una damigiana da cinquanta litri e s’era frantumata. Avevo le mani piene di sapone e la damigiana, quella verde, te la ricordi? Quella lì, mi scivola! C’era il giardino pieno 13

di cocci di vetro e non sapevo da dove iniziare. Mentre guardo quel casino mi squilla il cellulare, e chi era? Era Vito: ‘Maurì è scirocco! Prepari il borsone? Dai che stanotte ce la passiamo con la calomana alli Ronzi! Se hai tempo prepari le sarde? Le prepari tu Maurì?’. Sì, Vito, le preparo io. Quella notte è stata l’ultima che ho passato con un Vito allegro, sorridente”. Approfitto della pausa di mio zio per sedermi di fronte a lui, ma lui mi guarda e mi dice di andarmi a vestire, altrimenti mi becco una polmonite. In effetti ho la pelle d’oca, ma non è per il freddo. Vado in camera e infilo veloce mutande, maglietta e bermuda. Poi prendo al volo un succo ace e torno a sedermi di fronte a zio Maurizio, che nel frattempo si è scolato un altro bicchiere. “Quella notte pescammo bene, come sempre in quel periodo d’inverno: occhiate, spigole, qualche orata. Tutti pezzi dai trecento grammi in su. Vito era su di giri e continuava a coglionarmi. Faceva sempre così quando pescava molto, per farti pesare ancora di più la sua fama di pescatore. Ma scherzava”. Si riempie di nuovo il bicchiere. “A me faceva ridere la sua cantilena. La sua maniera di parlare sempre in modo interrogativo. I brindisini sono così, mettono il punto interrogativo pure quando cacano!”. Ride. “Anche quando dicono di sì prolungando la i finale, così per dire semplicemente sì, loro dicono siniiiii. Poi, dopo Natale, gli è venuta la febbre. Che non passava più! A febbraio è partito per il Nord e oggi me lo hanno riportato in una bara. Ma vaffanculo! Cosa cazzo ci stanno facendo? In questo pae­ 14

se non si muore più di morte naturale. Non si diventa neppure vecchi. Colpa di quella distilleria di merda, che ci riempie di benzene!”. Zio Maurizio è diventato rosso in viso e ha gli occhi fissi dinnanzi a sé. Mi guarda e dice: “Lo sai che alla distilleria lavano il nocciolino con il benzene? Eh? Lo sapevi che per avere l’ultima goccia di olio lavano il nocciolino con il benzene?”. “Cos’è il nocciolino, zio? E a che cosa serve il benzene?”. Non so di cosa stia parlando. ’Sto nocciolino mi sembra un gelato con il nome da cartone animato, e più che essere incuriosito mi vergogno di non sapere cosa sia. “Il nocciolino è ciò che rimane dal processo di spremitura delle olive. Dopo che l’olio viene colato resta la sansa, una poltiglia che conserva ancora alcune percentuali di olio: la sansa viene torchiata e rimane solo il nocciolino. Il benzene viene usato per separare l’olio dal nocciolino. Hai capito?”, mi fa, diventando ancora più serio. “Il benzene è così sottile che riesce a infilarsi tra una sostanza e l’altra e le separa. Hai capito? Le separa. Chiaro?”. “Chiaro zio”, rispondo ostentando sicurezza. “Il problema è che il benzene è cancerogeno! Tumori! Capisci? Tumori! I muri sono sempre pieni di manifesti a morto. Abbiamo una distilleria al centro del paese e di notte la fanno funzionare mettendolo in culo a tutte le regole e a tutti i parametri. L’hai sentita la puzza che c’è la notte? O ti sei abituato pure tu? Quella puzza è 15

veleno. Anni fa, i turisti, quelli del Nord, ci dicevano: ‘Beati voi! Al Sud non avete le fabbriche che producono, ma almeno non avete l’inquinamento: respirate aria pura’. Così dicevano. Beh, abbiamo l’inquinamento senza avere le industrie. Bel record di merda. E poi, che quella è un’industria? Ditemi: è un’industria un posto dove ci lavorano dodici imbecilli che fanno morire una cinquantina di persone all’anno? E chi ci guadagna? Uno stronzo? Solo uno stronzo ci guadagna! Questa è l’economia: dodici imbecilli lavorano per uno stipendio provocando la morte di cinquanta persone all’anno, con il risultato che uno stronzo si riempie la pancia”. S’è fatto buio. Chiedo a zio Maurizio se ha voglia di mangiare, lui prima fa cenno con la mano di avere lo stomaco chiuso, poi dà un’occhiata alla bottiglia ormai vuota ed esclama: “È meglio che ci metto qualcosa nello stomaco, altrimenti questo Primitivo mi stende. Tu scalda l’acqua per la pasta, che io preparo il sugo. Prendi qualche foglia di basilico in giardino e tira fuori il parmigiano dal frigorifero”. Zio Maurizio non ha l’eleganza del cuoco, e non sa neppure presentare i piatti con grazia. Per non parlare del sugo, sempre saturo di olio. Però la sua cucina mi è sempre piaciuta: rozza e diretta, come lui.

A Trepuzzi ci la ’rizza, la ’ntizza

Cammino per queste strade piene di sole, niente asfalto, solo terra rossa intorno a me. È un deserto ma a volte nasce un fiore, questo tu sei per me. Strade rosse

I funerali sono sempre gli stessi, almeno quelli cattolici. Ovunque ti trovi, a qualsiasi latitudine, assisterai sempre alle stesse scene: gente in lacrime, gente rassegnata e gente a testa bassa. Quando muore una persona giovane, però, salta il copione: una morte precoce fa sempre abbassare le aspettative di vita di una intera comunità. Il clima si fa più mesto e il silenzio ferma il tempo. In quei momenti la morte fa paura per davvero e ti lascia un sapore amaro in bocca. Durante la celebrazione funebre mio zio è rimasto accanto alla vedova, il volto inespressivo, inaccessibile. Lo conosco bene: non vuole dire niente a nessuno e non vuole ascoltare nessuno. Zitto, con lo sguardo fisso, risponde solo a chi gli fa le condoglianze, giusto un attimo per dire grazie e poi ripiombare nell’abisso del silenzio. Alla fine di ogni funerale, dopo l’ultimo saluto al cimitero, si torna a casa per raccontare le storie dei tempi in cui il compianto era tra noi. È necessario per chi resta, le parole sono come la terra che seppellisce la bara. 19

Zio Maurizio mi chiama in disparte, vuole che vada a casa sua e che lo aspetti lì. Mi mette le chiavi in mano e mi dice di preparare qualcosa da mangiare. Poi abbassa la testa e torna da Marta e dai parenti del defunto. La casa dello zio è la tipica abitazione salentina, con alte volte a stella e pareti tinte a calce sia all’esterno che all’interno, come vuole la tradizione greca. Una casetta a dimensione di single, dotata di ogni comfort e con un bel caminetto posto nel muro centrale del soggiorno. In cucina trovo peperoni verdi e pomodori e decido di preparare un’insalata. Ma dov’è il pane? Ovvio, nella mattra-banca. E cos’è ’sta mattra-banca?, vi chiederete. È un tavolo da cucina come tutti gli altri, solo che dispone di un vano contenitore ricavato sotto il piano d’appoggio, che si apre come una botola e consente di riporre le farine e i derivati, e cioè pane, frise, taralli... In pratica, è una sorta di grosso baule su quattro piedi. Una eccellente invenzione dei contadini di tanto tempo fa perché permette di conservare al buio e in ambiente secco il pane, che così si mantiene più buono. Ammucchio un po’ di carboni sotto il caminetto, ci spruzzo sopra un po’ d’alcool e accendo un fiammifero. Si alza una fiamma azzurra che inizia ad arrossare gli spigoli dei carboni. Poi scelgo una dozzina di peperoni e mi metto a lavarli e affettarli. Torno a controllare i carboni e dispongo i peperoni sulla griglia. In giardino raccolgo qualche foglia di menta, prezzemolo, e l’aglio. I peperoni si sono ormai ammorbiditi profumando tutta la casa. Mi accomodo sul gradino del caminetto 20

per controllare meglio la grigliata, e per qualche minuto rimango ipnotizzato dal fuoco che corrode lentamente i carboni, riducendoli a scaglie di cenere sottile. Improvvisamente mi ricordo dei pimmitori te corda appesi sotto la pergola del giardino. Lo zio ama preparare le corde di pomodori e gli piace stagionare quelli gialli. Fa così: sradica la pianta con gli ultimi frutti ancora appesi, unisce le due estremità con un pezzo di spago come per creare una sorta di corona, che poi appende al riparo dalla pioggia. Così i pomodori hanno il tempo di maturare e diventano più polposi. Metto anche quelli sui carboni. Do un’occhiata all’orologio: quasi le 8. Sistemo i peperoni in un piatto di ceramica bianca decorata d’azzurro, con al centro un’illustrazione colorata della corrida. È il mio piatto preferito e faccio sempre molta attenzione nel maneggiarlo. Aggiungo prezzemolo e aglio sminuzzati accuratamente, un pizzico di sale e tanto peperoncino, poi tre foglie di menta. Completo il capolavoro con tre giri di olio d’oliva. Tre giri lenti e in senso orario: così mi ha insegnato lo zio. Torno a controllare i pimmitori te corda e decido di lasciarli sulla brace, tanto è prossima a spegnersi. Quasi non mi accorgo dell’arrivo di zio Maurizio. Mi toglie il telecomando dalle mani (nel frattempo ho acceso la televisione, c’è Blob) e schiaccia il tasto mute. “Che cazzo mi fai mangiare?”, esclama con aria schifata. Poi apre il ripostiglio e tira fuori una scatola di 21

cartone. “Patriglione”, sussurra mentre osserva con attenzione la scatola. “Questa bottiglia me l’ha regalata Vito. Prima di Natale, prima che sapesse tutto... Mi disse di conservarla e di tirarla fuori solo per qualche evento importante. Lui non ci capiva niente di vini. Si presentava a cena con quelle bottiglie da due o tre euro, comprate ai banchi dei discount, robaccia imbottigliata per i turisti: aceto! La prima volta che gli consigliai il Patriglione mi suonò a casa e mi mostrò la bottiglia: ‘È buona ’sta bottiglia? Va bene questa, Maurì?’. E come al solito aveva sbagliato. Tirchio com’era aveva comprato il Patriglione da tavola, un vinello che arriva appena a tredici gradi e costa solo otto euro. Nulla a che fare con i quaranta euro della versione da meditazione”. “Mi mancherà. Senti questa! Sei il primo a saperlo, era il nostro segreto. Due anni fa eravamo a pesca di notte. La tramontana tagliava le labbra, il cielo traboccava di stelle e io e Vito eravamo andati alla spiaggia della Canuta. Lì è comodo perché la strada si affaccia sulla spiaggia e i pescatori possono usare il cofano delle auto come ‘reparto operativo’. Fissiamo le canne sulla sabbia e ci rintaniamo nell’abitacolo della macchina di Vito a sorseggiare Primitivo. Il vento tendeva a calare ma il mare ribolliva ancora e avevamo tirato fuori bei pezzi di spigole, mormore e orate. Quando vai a pesca di notte devi stare attento a non farti ipnotizzare dalle stelle, altrimenti i pesci ti fanno fesso. Il pescatore esperto lo sa bene che deve mettere a fuoco il cimino della canna ignorando tutto ciò che gli sta dietro, ma è difficile fare 22

a meno di guardare le stelle. Sono come il fuoco. Come fai a non guardare il fuoco? Ogni rumore era svanito e il ritmo delle onde si era bloccato. Ci sembrava di essere immersi in un racconto di Castaneda. Improvvisamente udimmo il rombo di un motore. Sembrava un mezzo pesante ma non vedevamo nulla intorno a noi. Dopo un paio di secondi, un altro rumore, come lo sfiato di una grossa valvola. Vito lo riconobbe subito: era il rumore dei freni di sosta di un camion. Strano a quell’ora, pensammo. Quei mezzi servono per lavorare e alle due del mattino certi lavori non si fanno, specialmente al buio e in prossimità di una spiaggia. Cosa ci faceva un camion sulla spiaggia di notte? Poi il rumore di una portiera. Ci rendemmo conto che il tir doveva essere ad un centinaio di metri da noi. Il camionista aveva pensato bene di raggiungere la spiaggia con i fari spenti per non farsi vedere, e non si era accorto della nostra presenza. Aveva parcheggiato con la parte posteriore rivolta verso il mare ed era sceso dall’abitacolo per controllare che lo scarico procedesse correttamente. Capimmo subito che doveva trattarsi di qualcosa d’illegale: qualcuno voleva disfarsi di rifiuti tossici o qualcosa di simile. Vito infilò la mano nel cruscotto della sua auto e afferrò la fotocamera con il flash. La portavamo sempre con noi, giusto per immortalare le prede più eclatanti. Silenziosi come guerrieri ninja ci avvicinammo di nascosto al tir. E Vito scattò una foto. La spiaggia s’illumi23

nò a giorno. Sembrava che qualcuno avesse lanciato un bengala. Il camionista rimase immobile per una frazione di secondo e quando capì di essersi infognato ebbe un raptus e corse verso di noi gridando ‘vi ammazzo’. Meno male che eravamo in due: quello non era un uomo, era una bestia. Riuscimmo a farlo cadere per terra e a metterlo fuori uso senza fargli male; poi gli facemmo un’altra foto dove si vedeva tutta la scena e ci siamo anche noi. Quella la tengo nascosta sul pc. Vieni, guarda!”. Mi avvicino al monitor. Nello scatto ci sono Vito e lo zio vestiti da pescatori, con al centro il camionista accasciato a terra e privo di sensi, mentre dietro di loro si vede un grosso camion bloccato nell’atto di scaricare in mare tettoie di amianto. “Abbiamo rischiato grosso, e la storia ha avuto un seguito. Avevamo fatto altre foto delle tegole, la targa e il carico. Il giorno dopo volevamo mandarle a qualche quotidiano locale: in fondo riversavano amianto nei pressi di una spiaggia pubblica dove giocano soprattutto i bambini, era una questione di coscienza... Ma mentre discutevamo su come fare, mi suona il campanello di casa. Vado ad aprire la porta, e chi mi trovo davanti? Il maresciallo. Questo cazzo di siciliano, senza dire buonasera, s’infila dentro casa mia dicendo che deve parlarci di un fattaccio. Dice che un poveretto è stato aggredito di notte, sulla spiaggia, e che gli aggressori volevano rubargli il camion, ma non ci sono riusciti grazie all’intervento provvidenziale dei vigilantes, che hanno soccorso 24

il camionista. ‘C’è una denuncia per tentato omicidio, lesioni aggravate e tentato furto di automezzo. Una decina di anni al carcere di San Nicola non li toglie nessuno a questi figghi de buttana. Io lo so che di notte andate a pescare lì vicino, perciò se sapete qualcosa mi chiamate, e se invece non sapete niente io me ne vado tranquillo tranquillo a continuare le mie indagini. Mi sono spiegato? Ma se mi raccontate minchiate peggio per voi. Chiaru ’stu fattu?’, dice quel cazzo di siciliano. Poi mi si avvicina e ‘Tu ancora il comunista fai?’, sbraita. ‘Non sei stanco di scassare la minchia alle persone perbene? Quelli come te dal Sud se ne devono andare, hai capito? Vattene al Nord a organizzare scioperi! Anzi vattene in Russia e salutami a Stalin!’. Non si fece più vedere e qualche mese più tardi si seppe in giro che non c’era stata nessuna denuncia di furto e aggressione. Ma quella visita lo aveva messo allo scoperto, perché io e Vito avemmo la percezione che il maresciallo non era venuto per indagare. Quello era venuto per capire le nostre intenzioni, sapeva che avevamo preso il numero di targa del camion e voleva capire fin dove saremmo arrivati. A quel punto la mia curiosità era enorme, anche se non riuscivo a immaginare il nesso tra il maresciallo e il camion che versava le tettoie di amianto in mare. Era evidente che il camionista non avrebbe sporto alcuna denuncia, altrimenti avrebbe rischiato la galera, perché la legge proibisce il versamento in mare di qualsiasi rifiuto, figuriamoci l’amianto! E poi, chi era il camionista e chi gli aveva commissionato quel viaggio alle due del mattino? 25

Nel frattempo avevamo scoperto da dove arrivava tutto quell’amianto. Qui a Trepuzzi, nella zona industriale, avevano demolito un vecchio capannone che aveva le coperture proprio in eternit. Apparteneva alla famiglia Spierti, che poi sono anche i padroni di quella merda di distilleria che ci ritroviamo in mezzo al paese, quella accanto al cimitero. Proprio loro! Sul camionista invece non riuscimmo a sapere nulla, probabilmente veniva da fuori: la targa non indicava la provincia di immatricolazione. Le tettoie, inoltre, avevano un lato verniciato di marrone: proprio il colore del vecchio capannone degli Spierti! Ora, se hai uno spirito d’osservazione acuto, riesci a mettere insieme le cose. La vita, in fondo, è un’eterna addizione: è sempre la somma che fa il totale. Smaltire l’amianto costa come la costruzione di un nuovo capannone e chi deve disfarsene farebbe carte false per occultarlo spendendo solo qualche migliaio di euro. Chi lo sa? Forse quell’amianto proveniva dal vecchio capannone degli Spierti, e magari avevano commissionato lo smaltimento illegale a qualche camionista compiacente. Ci sembrava un’ipotesi del tutto ammissibile, anzi era una tipica storia made in Italy. In fondo, basta vedere in che modo gli Spierti hanno sempre trattato i loro dipendenti: sottopagati, privati di qualsiasi norma di sicurezza. Se mai quei poveri diavoli dovessero arrivare alla pensione dovranno fare i conti con la leucemia, che qui a Trepuzzi chiamano Trattamento di Fine Rapporto. 26

Sai quanta gente si ammala di leucemia a Trepuzzi ogni anno? Te lo dico io: saranno una trentina su una popolazione di quattordicimila abitanti. Troppi! Secondo le statistiche dovrebbero ammalarsi solo un paio di persone all’anno”. Zio Maurizio sposta lo sguardo sulla bottiglia di Patriglione e accenna un sorriso. Versare il vino è un rito e mio zio ama i rituali, lo rendono impeccabile. “Lo sai che mi è venuta fame?”, dice afferrando il coltello per affettare il pane. Poi mi fa cenno di prendere posto e inizia ad assaggiare un po’ di tutto. Forse la fame ha avuto la meglio sui suoi pensieri e dopo una giornata simile bisogna solo mangiare. Consumiamo tutto rapidamente mentre la tv continua a parlare da sola, nessuno le presta attenzione. Lo zio si avvicina alla sua scrivania e prende una scatola di legno. È una di quelle scatole utilizzate per confezionare le bottiglie di vino, quelle con il coperchio che si sfila da un lato. Sul coperchio c’è l’illustrazione dorata di un grappolo con intorno la scritta Cave à Vins. Tira fuori un vasetto, svita il tappo e avvicina il naso al contenitore per saggiarne la fragranza. “Ah, settembre, settembre, quante cose mi dirai...”, comincia a canticchiare sottovoce mentre osserva il fiore di ganja come il gioielliere osserva un diamante. “Vito non fumava, ma a settembre qualche tiro di canna se lo faceva volentieri. A lui dava fastidio il fumo nei polmoni, ma la ganja non gli dava fastidio, anzi quel retrogusto che assomiglia vagamente alla menta gli piaceva molto. 27

Lo vedi questo fiore? Lo avevo messo da parte per Vito ma il destino non ha voluto. Vuol dire che lo fumeremo da soli”. “Fai tu...”, dice porgendomi il vasetto e le cartine, “io non fumo da un mesetto, ho perso la mano nel rollare”, aggiunge ridacchiando. “Anzi, se devo dirla tutta, ultimamente ho problemi a fumare”. “In che senso? Che tipo di problemi?”. “Non so, ma le ultime volte che ho fumato non mi ha preso affatto bene. Sento come un leggero mal di stomaco. Anzi, no, piuttosto come un nodo alla gola, e poi un velo di sudore sulla fronte, come la sensazione di brivido continuo che ti provoca il vento di scirocco. Sai, quel vento forte di scirocco che sfrega le piante, le rocce e le persone. Sai cosa fa il vento quando scivola sulle cose? Produce attrito! E sai cosa fa l’attrito? Produce scariche elettrostatiche, ci carica tutti di ioni positivi e ci fa impazzire. Case, alberi, piante, animali e persone sono tutti carichi di ioni. Non ci credi? Prova ad osservare i capelli delle donne durante i giorni di scirocco, ti accorgerai che sono più gonfi, più voluminosi”. “Zio, ma qual è il nesso tra il vento, le canne e il tuo nodo alla gola?”, gli chiedo intento a tritare il fiore di ganja pieno di resina che si appiccica alle dita. In fondo, anch’io provavo spesso un nodo alla gola. “E che vuoi che ne sappia. Sono deduzioni di Vito. Ragionava come un alchimista, riusciva sempre a collegare, a mettere insieme le cose. Per esempio, diceva che per lui la marijuana era come il vino. Riusciva a convin28

certi che si comportano in modo simile, proprio per il fatto che hanno una missione comune”. La canna di ganja è pronta per essere fumata e faccio cenno allo zio di accenderla. Mi risponde con un proverbio da fumatore: “Valiò, ci la ’rizza, la ’ntizza!” (chi la rolla, l’accende). L’erba ha un buon sapore di fresco. Non so dove vada a cercarla, in fondo lo zio non è più un fumatore incallito. Spesso si accontenta di due tre “tiri” e basta. Dice che un piacere finisce quando diventa vizio. Solo che io e i miei amici proviamo più interesse a sguazzare nel vizio. “Buonissima zio! Ma si può sapere da dove cacchio arriva questa maria? Non mi dire che è albanese... non ci crederò mai, è troppo forte!”. “E fai bene. Infatti non è maria albanese. Quando la maria albanese è buona, lo è per pura casualità”, ridacchia. “Non puoi crescere una pianta senza sapere la qualità dei suoi frutti. Lo sai che i contadini albanesi non la fumano, vero?”. “Beh, questo lo sanno tutti. Ma se non è maria albanese, da dove viene?”. “Questa maria la coltiva un mio amico. La coltiva da una ventina d’anni, e prima di lui la coltivava suo nonno. Ma non posso dirti altro per ora. Magari un giorno ti faccio una sorpresa e ti porto in campagna da questo amico”. Aspiro un’altra volta e osservo il fumo che si sprigiona dalla canna: è un fumo pesante che fatica a salire su. Ma basta pronunciare bum! muovendo leggermente le labbra per dissolverlo in un solo istante. 29

Tratturi e masserie dell’Appia Antica

La memoria ede cultura e bede quistu ca ole: recorda ce ha successu, cussì pueti capire ca lu boia denta vittima puru dopu menz’ura, ma la vittima denta boia se nu tene cultura. Le radici ca tieni

Faccio sempre lo stesso percorso da anni e non mi an­ noio mai. Parto da casa mia e mi dirigo a nord-est, verso il mare, seguendo vecchi tratturi ricamati intorno all’Appia Antica, la via che portava i romani a Costantinopoli e che connette una miriade di masserie imponenti e austere, dove gli ulivi soffocano le memorie di quei tempi vivi e produttivi dal sapore bizantino. Qui i miei allenamenti hanno un senso. Strade antiche costrette da muretti a secco e protette da una vegetazione che le trasformano in veri e propri tunnel, a volte rassicuranti e talvolta inquietanti. Strade volute dalle vigne e dagli ulivi. Strade colorate dal rosso della terra arsa e dal bianco delle rocce calcaree. Strade medioevali, un tempo trafficate da vecchi carri colorati trainati da muli appesantiti dal carico di vino o di olio, mossi da due enormi ruote che limavano lunghi solchi paralleli su quelle rocce che osavano puntare al cielo. Proprio a qualche chilometro dalla costa, tra Masseria Monacelli e Torre Giampaolo, c’è una stradina che percorre alcune decine di metri tra rocce affioranti. Mo33

stra segni antichi scavati dalle ruote dei carri, profondi più di mezzo metro, che come solchi lisci e affusolati si intersecano tra loro, simili a scambi di binari o a enormi graffi generati dalle unghie di un gigante. Sono un monumento alla perenne attività corrosiva della nostra specie sulla Terra, e in questi momenti è disumano riconoscersi umani. Ecco perché amo percorrere queste strade: perché segnano la mia ricerca di quel che non ho più e che purtroppo mi sfugge, lasciando spazio al maledetto nodo alla gola. Non so se al mondo ci sia un’“Università della Moun­ tain Bike”, ma se esistesse sarei tra gli studenti più dediti e meritevoli. Passo il mio tempo a pensare alla bici, ai suoi ingranaggi, alle tecniche per ottimizzare i miei sforzi, alle geometrie utilizzate per concepire i telai o alle leghe usate per ottenere componenti rigidi e leggeri. Non è facile gestire tutti questi dati. Ho dovuto colmare le mie lacune in chimica e fisica imparando a conoscere le caratteristiche dei vari metalli e restando affascinato dal titanio, un metallo particolare che consente di costruire telai indistruttibili ma elastici, ideali per la mountain bike destinata a percorsi sconnessi e impervi che mettono a ­dura prova le ossa del biker. Ma il titanio presenta un piccolo problema: il costo proibitivo! Un telaio può costare come un maxi s­ cooter. Sì, avete capito bene, il solo telaio composto da appena otto tubi può costare intorno ai tremila euro e poi bisogna aggiungerci anche la componentistica: ruote, 34

trasmissione, cambio anteriore e posteriore, sella, manubrio, freni, leveraggi e forcella ammortizzata, che tradotti in euro possono superare tranquillamente altri duemila euro. No, il titanio non fa per me. E così, nel dicembre del ’99, approfittando di una svendita totale in un negozio di Lecce decido di comprare un telaio in alluminio da ottocentomila lire, per poi acquistare su internet la componentistica che sognavo, partendo da una forcella ammortizzata leggera e performante, e via via aggiungendo le ruote e il kit della trasmissione composto da pedali, guarnitura, cambio anteriore e posteriore, catena e mozzi, cioè quegli ingranaggi fissati sulla ruota posteriore. Il resto degli acquisti lo completo nei negozi sparsi nel Salento spingendomi sino a Taurisano in autostop, dove incontro un meccanico doc! Un ometto sulla sessantina, che si accorge subito del mio magro portafoglio e mi propone materiale usato ma in ottimo stato. Si offre pure di montarmi tutta la componentistica sul telaio, e io ho accettato molto volentieri. Mi ci è voluto un intero anno per allestire la mia bici riuscendo a contenere la spesa intorno ai duemila euro. Spesso in quel periodo avevo dovuto tenere a freno la mia irrequietezza, ma ero deciso a costruirmi una bici leggera ed economica – come dire un paradosso, perché nel mercato della bici da competizione il peso del mezzo è inversamente proporzionale al prezzo, e quindi con il diminuire del peso cresce il costo della bici stessa. Mio padre, che aveva capito le mie intenzioni, voleva 35

regalarmela lui: gli sarebbe bastato staccare un assegno e in un’ora mi sarei trovato sotto il culo la bici dei miei sogni. Ma me ne sarei vergognato a morte. Pensavo a Sirio, studente come me, che per comprarsi la bici aveva iniziato a lavorare il pomeriggio nel bar di sua zia Carmelina. Poi a maggio se n’era partito per Rimini dove per quattro mesi aveva lavato piatti in un ristorante. A ottobre aveva accumulato i soldi necessari e così se ne tornò a casa. Arrivato in paese, manco la doccia si fa, corre subito al negozio ad acquistarla: una made in Taiwan da dieci chili (pedali compresi) per soli quattro milioni delle vecchie lire. Mitico Sirio! Lui ha sempre interpretato la parte del ciclista puro, dolce e cocciuto. È stato Sirio a far scoppiare la mia febbre per la bicicletta. Quel pomeriggio eravamo circa in dodici al Boschetto, seduti chi per terra chi sulla panchina a parlare del più e del meno, quando da lontano si sentono le urla di Sirio che, a cavallo del suo nuovo acquisto, procede veloce verso di noi come la boccia verso i birilli. In un attimo ci è addosso, e noi ci avviciniamo tutti ad ammirare. Una bici da cross country che profumava ancora di nuovo. Il telaio era verde con delle livree bianche, il resto era tutto nero. Conosco Sirio da quando siamo nati ma così felice non lo avevo mai visto, sembrava un altro. La sua gioia mi colpì: quell’ammasso di tubi saldati con le ruote dentate su cui era poggiato doveva trasmettere strane ebbrezze. Ben presto mi accorsi che quello non era un ammasso di tubi ma un mezzo meccanico raffinato, dotato di mec36

canismi intelligenti capaci di ottimizzare le prestazioni di un atleta in condizioni estreme. Ogni gesto espresso alla guida di una bicicletta mette in relazione diretta con le leggi che regolano l’universo. Attraverso il proprio sforzo fisico, l’atleta conosce l’intensità delle forze naturali che gli si oppongono e questa cognizione è un premio per il sudore versato. Chi pedala, pedalerà sempre contro. Contro le forze di Madre Terra, che mescola gli attriti regolati dalla fisica con gli umori di noi poveri mortali. Le gambe girano e il terreno ti scivola sotto, mentre il cervello è impegnato a scegliere le traiettorie, a dosare le forze e a conservare lucidità. Perché basta una folata di vento contrario a scombussolare i tuoi piani, e allora devi essere pronto a calcolare e dosare nuovamente le tue forze. Il tuo nemico è l’attrito ed è presente ovunque, si confonde nell’aria, nel fango, sul terreno, finisce per usurarti. E poi c’è la sabbia, che immancabilmente si insinua in tutti i meccanismi che hai lubrificato con cura. Alcuni pensano che per far andare una bicicletta sia sufficiente pigiare i piedi sui pedali. Nulla di più sbagliato, è come pensare che per fare sesso si abbia bisogno soltanto di una figa e di una minchia. A qualcuno forse potrà pure bastare, ma non sa cosa si perde. Trovare i soldi per comprare la bicicletta è rimasta per molto tempo una delle cose più esaltanti che io abbia mai fatto. Ho dovuto cercare un lavoretto, però, perché non sapevo fare nulla all’infuori di studiare (o far finta di studiare, quello mi riusciva ancora meglio). Ma sapevo 37

usare il computer, e così, facendo leva sulla mia passione per la grafica, ho iniziato a usare Photoshop, diventando un vero esperto nel fotoritocco. Me ne andavo in giro a scattare foto in qualsiasi luogo e in qualsiasi situazione, ai vecchi per strada, alle belle ragazze, agli ulivi nelle campagne, al mare, al cesso di casa mia, ovunque. Ho iniziato a fare foto con la reflex di zio Maurizio, che mi ha insegnato i fondamenti: la luce, la profondità di campo e le tecniche per inquadrare i soggetti. Mi piace ottenere foto sottoesposte, in cui il soggetto viene toccato da un riflesso di luce necessario per distinguerlo dal buio. Cerco la luce giusta per illuminare i profili delle mie storie, perché ogni foto è una storia. I primi scatti erano un po’ troppo minimalisti o dark, come diceva mio zio, poi pian piano sono riuscito a catturare più luce, a individuare la posizione migliore. Fotografare non è solo una passione. Per me rappresenta una sorta di fuga: mi immergo in un mondo fantastico ma allo stesso tempo reale. Qui riesco a cancellare il mio peccato originale; qui lascio esposto al mondo il mio lato più sensibile, quello represso che spesso mi fa commuovere e mi lascia piangere di gioia in santa pace. È stato zio Maurizio a trovarmi il lavoretto di cui avevo bisogno. Gli dissi che volevo comprarmi una mountain bike da competizione, e lui in quattro e quattr’otto mi fissò un appuntamento con il suo amico Carlo per il sabato successivo. L’agenzia in cui lavorava Carlo sta nel centro storico di Lecce, nei pressi della piazzetta della Chiesa Greca. Per raggiungerla si parte da Porta Napoli 38

e si percorre a piedi via Principi di Savoia, la strada che porta proprio nel cuore del barocco leccese. È una strada affollatissima, piena di studenti, bancarelle senegalesi, pub, crêperie, botteghe artigianali e negozi di ogni tipo, e dove si affacciano i balconi più belli di questa parte del Sud Italia. A metà strada c’è un’osteria o putéa, come la chiamiamo noi salentini. Non c’è nessun cartello o insegna luminosa che la indichi, ma per i leccesi doc, quelli che parlano ancora il dialetto, la Putéa de l’Angiulinu è un punto di riferimento. Per individuarla basta affidarsi al naso, seguendo il profumo di vino e di sugo di carne di cavallo, messa a cuocere per ore ed ore perché diventi tenera da masticare. Il piatto tipico della casa affonda le proprie radici nella notte dei tempi e ci riporta alla mensa dei messapi: pezzetti e mieru, che serviti in Italia diventeranno spezzatino di cavallo e vino. Se passi vicino alla porta della putéa e sposti la tenda con un dito puoi intravedere il vecchio Angiulinu che gioca a scopa con Assan, un ambulante senegalese simpaticissimo che parla il dialetto salentino meglio di un vero leccese. Quel sabato Angiulinu stava perdendo la partita, lo si capiva perché sbatteva le napoletane sul tavolo dando la colpa al santo patrono. Assan, invece, mostrando i suoi denti bianchissimi, si sbellicava dalle risate dicendo ad Angiulinu di bestemmiare di meno se voleva vincere a carte. Conosco bene la sua cucina e posso dire che non mi ha mai deluso. Ho mangiato da lui in diverse occasioni 39

e ancora oggi è l’unico posto dove puoi prendere un contorno, un secondo e una boccia di vino con appena dieci euro. Quando arrivai nella piazzetta della Chiesa Greca, vidi Carlo sull’uscio dell’agenzia intento a sfogliare una rivista e a fumare svogliatamente una sigaretta che gli pendeva dalle labbra. Portava jeans neri, t-shirt nera, scarpe nere e occhiali con montatura di osso nera. Il tipico abbigliamento dei creativi. Con Carlo ho collaborato per quasi due anni. Lavoravo il venerdì e il sabato, e la domenica sera spedivo tutto il materiale in agenzia in modo che fosse disponibile per il lunedì mattina. E così ho potuto comprarmi la bici. Ma soprattutto ho imparato a ricercare quel che Carlo definiva “fare tutto ad arte”. L’ambiente di lavoro in cui mi ero inserito offre molti stimoli e in breve tempo ho cambiato il mio modo di concepire il mondo. Carlo, sin dalla fine degli anni Ottanta, ha lavorato per molti anni fuori dal Salento, collezionando diversi successi. Si è formato progettando fanzine nei centri sociali del Nord, all’epoca in cui per impaginarle erano necessari una Polaroid, una macchina da scrivere, un pennarello, una forbice o un taglierino, un po’ di creatività e una macchina fotocopiatrice. Quando arrivò a Milano era poco più di un ragazzetto senza un soldo in tasca. Ha dormito per un mese in un sacco a pelo militare sul pavimento del Leoncavallo, e quando ne ha avuto abbastanza ha squattato una casa nella zona dei Navigli. 40

All’epoca non sapevo neppure cosa significasse squattare, ma Carlo mi spiegò che si trattava di occupare un edificio pubblico disabitato o inutilizzato. Una provocazione verso chi trascura i propri beni, liberare un luogo dal disuso per restituirlo ai legittimi proprietari, e cioè ai cittadini che innanzitutto ne hanno consentito la costruzione e ai loro figli, che oggi ne hanno una fottuta necessità. E Carlo era uno di quei figli. Occupare nasce dalla necessità di avere uno spazio a costo zero, senza fini di lucro, dove chi ha voglia di dare sfogo alle proprie passioni può finalmente contare su un luogo fisico e su tanti coetanei spinti dalle stesse necessità. In queste aree sono nati e nascono laboratori di tutti i tipi, dalle sale prove per concerti, ai teatri, ai corsi di fotografia, d’informatica applicata all’open source e una miriade di attività che normalmente dovrebbe fornire ogni scuola. Per questo Carlo aveva okkupato. Per questo Carlo colorò anche Milano.

Tutti gli ulivi di Otranto

Isciu lu mare na taula, me ene cu fazzu nu tuffu, cu me defriscu nu picca, ca intra ’sti giurni sta brusciu pe tìe, ma li pensieri ca tegnu me ruscenu intra la capu. Aggiu lassata na barca a mare cu begnu e cu cantu pe tìe! Lu mare na taula

Ne ho visti di ulivi strani in vita mia, ma quelli di queste parti hanno forme fuori da qualsiasi logica progettuale, come se la natura li avesse affidati a un artista strambo che con le sue sculture vuole esprimere solo stupore. Gli ulivi sembrano l’istantanea di un movimento convulsivo. Alberi autolesionisti che si squarciano il ventre per creare caverne in cui vivono animali, insetti e folletti dai cappelli rossi. Alberi che annodano i propri rami per ingannare le simmetrie, e che anche quando il vento è assente e sono immobili appaiono fluidi e impetuosi come dervisci roteanti. Gli ulivi di queste brulle e arse pianure posano come divi esibizionisti che ostentano le proprie forme sicuri di essere unici. Avete mai osservato la sezione di un tronco di ulivo? Fatelo: scoprirete che questi grandi contorsionisti, capaci di trasformarsi nei volti di anziani severi e iracondi, posseggono un’anima eccentrica e non concentrica come gli altri alberi. Vecchi più dell’uomo, ci spiano da tempo, carpiscono ogni nostra intenzione, non esitano a incuterci timore. 45

E a voi gli ulivi fanno paura? A me sì, talvolta. Forse per via di un cartone animato che ho visto da bambino, dove una quercia antropomorfa spaventava gli umani, colpevoli di aver distrutto la natura. L’aspetto minaccioso, furibondo, di quella quercia mi impressionò enormemente, ma non le sue ragioni. Perché io ero dalla sua parte. Da quel momento abbracciai la sua causa e per cementare il sodalizio decisi di trasformare la quercia in ulivo, perché nell’immaginario dei bambini salentini l’albero per eccellenza è l’ulivo. Queste immagini le devo alle pedalate in mountain bike, che ti danno la possibilità di percorrere Madre Terra a una velocità “sensibile” e sostenibile e permettono di visionare e memorizzare ciò che ci circonda. Le ruote descrivono traiettorie che diventano un filo lungo trenta, quaranta, ottanta chilometri. È come un filo di Arianna disteso lungo le stradine di campagna. Potrei associare ogni mio itinerario a un gomitolo. C’è il gomitolo di Otranto, quello di Gallipoli, quello delle Cesine, del Parco di Porto Selvaggio, di Cerano, il gomitolo del Parco di Rauccio e quello di Villa Elvira. Ogni volta che mi viene voglia di ripercorrere quelle stradine sconnesse, mi basta afferrare il gomitolo del percorso desiderato, srotolarlo e riarrotolarlo a mio piacimento. Lo faccio anche adesso mentre scrivo: vedo i sassi, le piante, le buche, i muretti a secco, le pajare e gli ulivi. Li conosco tutti, uno per uno. Li considero miei. Come quell’alberello di mirto investito da una tromba d’aria che lo aveva sbattuto a terra strappandogli quasi 46

tutte le radici. Forse, se fossi riuscito a rimetterlo in verticale – pensai scendendo dalla bici – si sarebbe ripreso. Raccolsi un po’ di sassi e li disposi tutt’intorno al tronco. Ancora oggi il mirto è al suo posto, verde e robusto, e mi saluta a ogni passaggio. Tra i miei primi ricordi c’è un albero di limoni, il più alto del giardino, al quale era stata fissata un’altalena da cui non volevo scendere mai. Col tempo, la corda dell’altalena ha ceduto sotto il mio peso e l’ho sostituita con un’amaca comodissima e costosa: ben duecento euro. È di juta intrecciata a mano, decorata con un grosso tribale posto proprio al centro. Proviene da una tribù Yanomami. Nell’immagine compare una grossa capanna verde con il tetto tondeggiante, sull’uscio è seduto un puma; ai bordi dell’uscio sei rondini turchesi, tre su un lato e tre sull’altro, volano verso l’alto. L’ho comprata da Claudio lu Montezuma, un mio amico andato in fissa con le culture amerindie. Claudio ha la mia stessa età, ma ha viaggiato molto su e giù per i paesi del Centro e del Sud America. Sa tutto sulle tribù e sugli sciamani. I suoi eroi, il Che, Simón Bolívar e padre Bartolomé de Las Casas. Se ne va in giro per i mercatini di quei villaggi comprando oggetti di artigianato locale a prezzi stracciati. Quando torna a Trepuzzi fa girare la voce che ha un sacco di cose da vendere a buon prezzo e così inizia il suo mercatino esotico: vasi, vasetti, posacenere, collane, monili, enormi maschere di legno, tele dipinte a mano, indumenti, profumi, cosmetici e... amache. 47

Una sera, cenavamo a colpi di pezzetti e mieru da Angiulinu, a Lecce, forse perché aveva bevuto troppo, o forse perché si era dimenticato che avevo comprato una di quelle amache proprio da lui, Claudio si lasciò scappare di bocca il prezzo reale del mio acquisto. Ne aveva comprate dieci e la donna che gliele aveva vendute gli aveva chiesto dieci euro per ogni amaca. Dopo una lunga contrattazione, prevalse lo spirito levantino di Claudio e chiusero per sette euro al pezzo. Settanta euro per dieci amache, mentre io ne avevo acquistata una per duecento! E senza neppure contrattare sul prezzo. Bella invenzione l’amaca, una volta trovato l’equilibrio diventa comoda come il ventre materno e per me che faccio mountain bike e stresso la colonna vertebrale è pure terapeutica, perché sottopone il corpo a una sorta di stretching. Dal posto in cui l’ho piazzata posso controllare tutto il giardino: di fronte la finestra e la porta della cucina, a destra la casetta di zio Maurizio, a sinistra il verde assoluto del giardino, gli innumerevoli alberi e piante curate da Mesciu Ronzu, mio nonno. La pace e l’ordine che regnano in giardino stridono vistosamente con la casa dei miei, costosamente arredata ed eternamente in disordine. E quasi sempre vuota, o piena dell’ingombrante presenza di gente vuota, a riprova del fatto che se metti il vuoto nel vuoto non si riempie mai un cazzo. Il giardino, invece, ti riempie di aria pura, dei raggi del sole, dei profumi dei fiori e dei frutti. Vedi le nuvo48

le correre e trasformarsi, stai lì a fissare per momenti interminabili i limoni, le arance, i fichi, le nespole, le pesche, i fichi d’india, le olive... Senti le voci del paese, la marmitta bucata di qualche camioncino, le mamme che cantano... Mai che sia la mia a cantare. Mi distendo sempre con la testa dalla parte dell’albero di limoni, faccio scorrere il filo della zanzariera da campeggio che ho montato in cima e chiudo gli occhi. Quel pomeriggio mia madre era uscita per prendere un caffè al bar insieme alle amiche, mentre papà si era accomodato con il suo pc portatile sulla poltrona del soggiorno, circondato da mucchi di carta. Aspettava Lucio, un suo vecchio amico che avevo soprannominato Lo Spaccacoglioni, con cui aveva condiviso la tessera del Garofano Rosso negli anni Ottanta. Adagiato sull’amaca, chiusi gli occhi, dando avvio a quel lento processo che agevola il sonno, quando i pensieri rallentano e le parole immaginate hanno un’eco. Mi succede ogni volta che vado a letto. Appena appoggio la testa sul cuscino avverto un debole sibilo alle orecchie che pian piano scompare lasciando spazio a tutte le domande che mi assillano da una vita o solo da qualche minuto. Dipende. E inizio a dare risposte. Una per volta, come mi ha insegnato zio Maurizio, e rispondo con una sola parola, anch’essa accompagnata dall’eco. Faccio un sogno ricorrente. Sogno di passeggiare sulla sommità dei muretti a secco e dinnanzi a me c’è un Salento “metafisico”, uno di quegli scenari asettici, tipi49

ci di quei sogni in cui sono presenti solo la terra, il cielo e i muretti a secco, appunto. Ci passeggio sopra come se fossero vie da seguire, solo che non portano da nessuna parte. Tutto intorno a me un bagliore arancione, simile alla luce emessa dai lampioni di città mista alla nebbia. Nei miei sogni ho sempre a che fare solo con oggetti, elementi della natura o strane cose costruite dagli uomini. Solo e soltanto cose. In questo mondo onirico, dall’orizzonte piatto e poca vita intorno, non incontro mai nessuno. Solo raramente mi capita di incrociare qualche improbabile personaggio, ma anche lui fa parte del mondo delle cose. Sogno spesso di visitare boschi, campagne, masserie, strane città o il porto di Brindisi. A Brindisi ci arrivo sempre aprendo una botola che dà sul porto: posso osservare me stesso mentre sguscio dalla botola, la richiudo e poi con calma e indifferenza assoluta mi dirigo verso una piccola baia. Da lì mi tuffo verso sud e inizio a “volare” nel mare. Dico volare e non nuotare perché è questa la sensazione che provo; mi immergo e fluttuo leggero e veloce nell’acqua giù giù nell’oscurità profonda. Di tanto in tanto volgo il capo verso l’alto, verso la superficie del mare, e da lì, in lontananza, intravedo le chiglie oscure di enormi navi che lasciano dietro di sé scie sottili. Laggiù mi trovo immerso in un ambiente dove i colori ricorrenti sono l’azzurro e il blu, poi il nero degli abissi e gli oscuri profili degli scogli, colori che messi insieme non rassicurano affatto. Ma in quei momenti io non cerco rassicurazioni. Nelle mie “immersioni oniriche” mi 50

vedo finalmente libero di andare ovunque con leggerezza, e la solitudine non mi fa più paura, anzi diventa mia complice. Questo “stato” particolare riesce a cancellare i miei legami affettivi e i miei obblighi verso di essi. Con i miei sogni mi riapproprio finalmente di me stesso. Ma quel pomeriggio, nel pieno del mio fluttuare, fui svegliato dal campanello del citofono. Era arrivato Lo Spaccacoglioni. Lucio è il tipico politicante del Sud, il sabato va a puttane e la domenica va alla messa cantata, parla molto, conosce tutti, non fa niente dalla mattina alla sera ed è un ignorante. Esce da casa alle otto del mattino con la sua BMW serie 5, va a prendere il caffè al bar del centro, dove fa finta di leggere i giornali. Poi si piazza sul marciapiede di Corso Umberto I e comincia a salutare i passanti con nome e cognome, per sottolineare che lui se li ricorda tutti. Nel mio paese, la maggior parte dei manovali riconosciuti invalidi lo devono a lu Luciu, uno specialista nel settore. Negli anni Ottanta era sindacalista e si occupava soprattutto di pensioni di invalidità. Aveva di fronte gente stanca, che sul lavoro ripeteva gli stessi gesti da anni. Gente stanca, che dopo una giornata di lavoro si rimbambiva davanti alle tette e ai culi delle lolite in prima serata alla tv. Gente stanca, che si ritrovava la vista annebbiata davanti a un documento o a un qualsiasi cazzo di foglio da compilare. Gente stanca, che si rivolgeva a lui solo per malasorte, lavoratori disgraziati che avevano dato al mondo del lavoro proprio tutto, non solo 51

una parte della vita, ma anche una mano, un braccio, un piede o una gamba, un occhio, l’udito, la silicosi... Lucio agiva da “psichiatra”. La sua cura consisteva nell’iniettare ai malcapitati un mucchio di fesserie, parola su parola. Li scoraggiava dicendogli che non avrebbero mai percepito una lira, che in Italia comandano i burocrati, che lo Stato si dimentica dei propri cittadini più sfortunati. Disegnava un mondo regolato dal caos degli uffici e dagli intrallazzi, dove le aspettative della gente finivano appese a un filo sottile. Descriveva ogni procedura in modo esagerato, dalle visite mediche alle richieste da compilare: “Noooo... li moduli su complicati e incomprensibili, ci cazzu li capisce?... e li funzionari poi... li funzionari suntu sospettosi e indisponenti pesciu de na zitella! Ce ne sai? Quiddri su tuesti comu na petra de Patù!... ma dentanu teneri sulu se li ungi... sine compare miu, quisti cu ni minti pressa olenu pacati! ’Nci olenu nu picca de sordi insomma, m’aggiu spiecatu?”. Convinceva i poveretti che da soli, in quella giungla burocratica, si sarebbero persi. A meno che... a meno che non si fossero rivolti a lui, sborsando quindicimila euro in tre tranches, e allora la pensione sarebbe arrivata dopo un anno. “Me sta capisci? Organizzerò la festa del Partito e quest’anno tra gli ospiti abbiamo il Segretario!”, stava dicendo Lucio rivolto a mio padre. “Queste occasioni si presentano una sola volta e guai a non sfruttarle! Se organizzo una festa con i controcazzi, nessuno potrà 52

contestare la mia candidatura. Non dico che diventerò presidente della Regione e neanche vice, sia chiaro! Sappiamo bene a chi vanno ’ste cazzu de poltrone. Ma se mi impunto per una poltrona di assessore, cieddri m’ha rumpere li cugghiuni! Chiaru? Organizzerò una festa della madonna, quest’anno niente cantanti di pizzica curnutissimi o cose culturali, ci cazzu le capisce? Noi del centro dobbiamo toglierci dai cugghiuni quei comunisti di merda, che secondo me portano sfiga, e quando ne vedo uno mi gratto sempre li cugghiuni. Quest’anno li fotto a tutti. Voglio fare il botto! Mi sto immaginando un concorso di bellezza: Miss Petalo Bianco! La ragazza più in fiore del Salento! E non è tutto. Mica me ne esco con un concorso del genere e basta... e che siamo dei pedofili rattusi? Noooo! Diremo a tutti che questo concorso rappresenta la ricerca del bello, perché a noialtri il bello ci piace, è chiaru ’stu fattu, no? E così facciamo vedere alla sinistra che pure noi le donne le prendiamo in considerazione, e mica solo percé simu masculi”. Che Lucio Lo Spaccacoglioni fosse un gran pezzo di merda lo avevo capito sin da piccolo. Avevo sei o sette anni quando mio nonno prese in disparte mia madre per cercare di convincerla a non frequentare più quell’individuo. Non gli riuscì. E allora Mesciu Ronzu si rimboccò le maniche, si sputò sulle mani, afferrò la zappa e per tutto il pomeriggio tentò di disperdere il malumore sotto i colpi feroci del suo fedele arnese. E io? Io ero bambino e non potei fare altro che ricorrere a quel che la natura dà in dote a ogni bambino: 53

l’immaginazione. Immaginai che Lucio fosse una sorta di lupo cattivo che rubava mazzi di soldi ai malcapitati per poi sfogarsi violentemente contro le sue donne. A quell’età non sapevo cosa fosse un abuso sessuale, e decodificai la discussione tra mia madre e mio nonno come un’orgia di morsi e brandelli di carne strappati dalle cosce di queste povere donne. Ne restai traumatizzato. Alcuni anni dopo, confessai a zio Maurizio il timore che Lucio fosse un lupo capace di depredare e sbranare povere donne eccetera, eccetera. Lui scoppiò a ridere: “Non è un lupo, no. È soltanto un caneminkia! È un caneminkia e basta”. Da quel giorno quell’uomo non mi fece più paura. Ma continua a farmi schifo. Per questo scesi dall’amaca e cercai rifugio a casa di zio Maurizio. La porta era semiaperta. Significava che lo zio era in casa e che stava riposando. Lascia sempre la porta così quando vuole farsi accarezzare da quel filo di vento che fa capolino nei pomeriggi estivi.

Cirri blu e magenta al largo di Sant’Isidoro

Cantavanu le rime cu spezzanu catine, mescavanu la raggia cu l’amore e la passione, nui l’imu ereditata e proseguimu ’sta missione, moi damme sulu reggae ca brusciamu ogni oppressione. Dammene ancora

Pescare al largo di Sant’Isidoro è un evento speciale, soprattutto quando la giornata è particolarmente secca. Se punti lo sguardo a ovest e ruoti lentamente la testa in senso orario, puoi ripercorrere centinaia di chilometri in un solo istante. Vedrai le coste calabre, distanti ma visibili per le alte e brune montagne che degradano sulle pianure lucane tra Sibari e Metaponto, poi il Golfo di Taranto, riconoscibile anche da lontano per via di quell’ombrello rosso che sovrasta la città: lo smog ferroso prodotto dagli altiforni, dispensatori di tumori per tutto il territorio circostante. Se lasci proseguire lo sguardo verso sud, si perderà dopo Gallipoli, dove, dietro qualche promontorio, si cela Santa Maria di Leuca, de finibus terrae. Arriviamo a Sant’Isidoro che il sole non è ancora spuntato. Non c’è vento e l’afa che ci avvolge lascia presagire un giorno di calura. I cirri sembrano l’opera di un pittore che si è divertito a ripulire nel cielo i pennelli, tinti di blu e magenta. Pazzo di un pittore, che adagia le setole sulle nuvole, per strofinarle con te57

nerezza. O forse le nuvole grigie hanno bisogno della gioia di un pittore per restituirci una bella giornata? Sono immerso in queste riflessioni, e immancabile zio Maurizio si fa scappare uno di quei peti mattutini che la dicono lunga sulla cena della sera prima: frittata di cipolle, parmigiana di pesce e rapacaule ’nfucate! Per fortuna so come difendermi dalle performance di mio zio, e viaggio sempre con i finestrini aperti. E poi manca poco al molo, dove ci aspetta Amadeus. Mio zio e Amadeus me li ricordo insieme da sempre, nel bene e nel male. Sono sempre stati due amici fedeli che la pensano allo stesso modo su un mucchio di cose. Fisicamente, invece, sono molto diversi: al contrario dello zio, Amadeus ha un fisico robusto e possente, temprato dai mille lavori che ha dovuto imparare sin da piccolo, quando fu costretto ad abbandonare gli studi per guadagnarsi da vivere. Ha fatto il muratore, il carpentiere, l’elettricista, il saldatore, il contadino, lo stalliere e chissà quanti altri mestieri ancora. Durante la contestazione, alla fine degli anni Settanta, insieme a sua cugina aprì un asilo proletario dove le mamme che lavoravano alla Manifattura del Tabacco potevano lasciare i propri figli senza spendere un centesimo. È rimasto orfano di padre ad appena quindici anni. Mimino, si chiamava suo padre, e faceva il giardiniere al Giardino Magno, una villa del XIII secolo bella e imponente, di proprietà degli Spierti. Al centro del paese, la villa appare ancora circondata da alte mura che celano piante esotiche e alberi di ogni specie a cui 58

Mimino dedicava tutto il suo amore e il suo ingegno di giardiniere. I giardini della villa erano rimasti incustoditi per più di cento anni, specchio fedele della decadenza e della scomparsa di quell’opulenta quanto inutile e ingombrante aristocrazia feudale che aveva dissanguato i contadini di queste parti. Quando lu Miminu ne divenne il giardiniere, in soli sei mesi trasformò quella foresta aggrovigliata in un vero e proprio gioiello. In quegli anni Amadeus aveva iniziato a lavorare con suo padre, imparando a trapiantare, a potare, a fare innesti e talee, e tutte le tecniche che fanno dei contadini autentici alchimisti. Poi venne il giorno maledetto. Un gelido giorno di marzo. Padre e figlio piantavano rose gialle nelle aiuole. Un migliaio dovevano piantarne, e si erano divisi il lavoro, due zone, una per ciascuno. Mimino amava Mozart e le canzoni di Domenico Modugno, e quel mattino canticchiava Musciu niuru. “Non sentivo tutte le parole perché eravamo distanti e anche perché mio padre amava cantare sottovoce, quasi sussurrando, per pudore”, mi raccontò una volta Amadeus. “Questa canzone conclude alcune strofe con un miaoo prolungato. E mio padre era proprio bravo, miagolava come un vero gatto. Insomma, ero lì a piantare quella cazzo di rosa gialla, intento e concentrato, ma con un orecchio aspettavo quel miaoo. Che non giunse più. Lo trovai accasciato per terra e poi non ricordo più nulla. Venne il buio”. 59

Questo è quanto rammentava Amadeus di quel gelido giorno di marzo. Mi ha raccontato questa storia alcuni anni fa, una sera che eravamo a cena da zio Maurizio. Alla fine del racconto diventò rosso in viso, gli occhi lucidi. Mi piace frequentare Amadeus, è un uomo sincero e diretto, uno che non filtra le parole. Mi piace il suo modo di pensare, semplice e schietto. Per ragionare bene nella vita, dice, bisogna usare un po’ di matematica perché l’esistenza di ognuno di noi è riconducibile alle quattro operazioni elementari: addizione, sottrazione, divisione, moltiplicazione. Secondo lui, le azioni e i pensieri che interessano ogni singolo individuo corrispondono a un dare o un avere, a mettere o a togliere, a mangiare o cacare e così via. La stessa cosa accade quando gli individui interagiscono tra di loro: le persone si uniscono o si dividono, si riproducono o muoiono, soffrono o gioiscono. Amadeus traduce il divenire delle nostre esistenze in una sorta di computo. Ha intuito il valore algebrico di tutto ciò che interagisce con la nostra vita, si tratti di materia o di antimateria: si è inventato una sorta di modello matematico-presocratico! Ragiona come i bambini e i suoi responsi assomigliano veramente a quelli di un bimbo, che il più delle volte si esprime con un gesto o una parola soltanto. Siamo arrivati nei pressi del molo e da lontano vedo Amadeus. È a bordo del gommone, intento a slegare la cima di prua da una bitta. In testa un cappello bianco con la visiera blu, decorato con cordicelle dorate, simile a quello di un nostromo. 60

Appena scorge i fari dell’auto, agita il braccio salutandoci. Parcheggiamo e cominciamo a scaricare lenze, esche e vivande – panini, focacce, parmigiana –, vino e acqua preziosamente custoditi in un frigo da campeggio. Ci muoviamo con gesti lenti, per abituarci all’immobilità e al silenzio: quando si pesca non si parla. Amadeus avvicina la prua al molo e noi saliamo a bordo cauti e prudenti, poggiando adagio i piedi sul fondo legnoso. Il gommone beccheggia lievemente provocando tutt’intorno deboli ondine e minuscoli gorghi, che sussurrano melodie impercettibili che l’orecchio cattura solo grazie al silenzio disumano di quest’ora del mattino. “Benvenuti a bordo!”, ci saluta Amadeus. “Amadè, comu cazzu t’ha cumbenatu ’sta matina? Me pari Capitan Findus!”, sghignazza zio Maurizio. Amadeus risponde con un rutto prolungato e fa un cenno con la testa come per dire “Tiè! Beccati questo!”. Fine della discussione, a riprova del fatto che ancora oggi c’è gente che riesce a comprendersi con pochi, elementari gesti. Persino con un rutto. Con movimenti veloci Capitan Findus immerge il motore nell’acqua, stringe un paio di volte la pompetta del serbatoio del carburante, gira una levetta, tira la corda di avviamento. L’elica inizia a gorgogliare. Amadeus ci porta al largo orientandosi “a vista”. Non sa che farsene di gps o altre diavolerie simili. Non gli ho mai chiesto come faccia a orientarsi in mare aperto, ma sono stato a pesca con lui centinaia di volte e ho 61

osservato ogni suo movimento. Esce dalla darsena puntando la prua del gommone a sud/sud-ovest, spingendo il motore da venti cavalli “a manetta” per una trentina di minuti. Scruta con un occhio il fondale e con l’altro i riferimenti che ha scelto sulla terraferma. E allora anch’io faccio così. Ripeto con scrupolo ogni suo gesto. Con un occhio guardo la costa, con l’altro il fondale. Di tanto in tanto do un’occhiata all’orologio e quando sono trascorsi venticinque minuti dalla partenza so di essere arrivato alla secca sabbiosa, perché il fondale si è fatto più chiaro. Ora si vedono la torre di Sant’Isidoro e quella di Porto Cesareo sempre più vicine l’una all’altra, separate da un solo dito. Ci siamo. Amadeus rallenta e il gommone si fa superare dalla sua stessa scia. Ancora qualche minuto per trovare il punto giusto e... stop! Mio zio si alza e getta in mare “il pallone”, che si assesta a mezz’acqua. La fune scivola silenziosa consumando rapidamente i suoi dieci metri. È il momento di tirar fuori le lenze e i gamberetti congelati da usare come esca. I posti assegnati sul gommone sono sempre gli stessi: Amadeus rimane a poppa, seduto sulla panca accanto al motore, e immerge la lenza sul lato destro; io mi siedo su quella centrale e butto la lenza a sinistra; mio zio si siede a prua e immerge la lenza dove capita. Però oggi non è una giornata buona, abboccano solo cannule (o perchie) e cazzi de re, molto diffusi nei nostri fondali, ben colorati, ma poco consistenti dal punto di 62

vista del peso. Una volta cotti, rimangono soltanto lisca e testa. Qualsiasi pescatore ti dirà che sono buoni solo per la zuppa. Appunto: aggiungono un buon sapore alla zuppa. Nient’altro. Dirò di più, da queste parti cannula equivale a un vero e proprio insulto; cannula è chi crede a tutto, insomma chi abbocca a qualsiasi fesseria. Di questi poveri pesci è pieno il Mediterraneo, ma nessun pescivendolo li ha mai messi sul banco. Sfido chiunque a provare il contrario. Condividono il destino di corvi e gazze: i cieli ne sono pieni, ma trovatemi un cacciatore che abbia mai sparato a uno di loro. Quando peschi con il filo, invece, è tutto diverso, il pescatore esperto sa che deve tener conto di diversi fattori quando tende agguati a un tipo di pesce: della stagione, dell’orario, del tipo di esca, del montaggio degli ami sul filo, della marea, delle correnti e di un accidente e mezzo di altre cose che un pescatore medio come me non sa spiegarvi. È questo il bello della pesca: puoi essere bravo quanto vuoi, ma alla fine chi decide è il fato (o il culo, se preferite). Laggiù, negli oscuri fondali, succede di tutto, non puoi sceglierti la preda. Anzi, molto spesso la perizia del pescatore serve ben poco di fronte alla fortuna sfacciata del principiante. Intanto si sono fatte le 8, l’afa è diventata insopportabile, e una leggera foschia avvolge noi e il sole, che ormai è una palla di neon. Mi sembra di galleggiare e basta, come gli stronzi. Mio zio, che ha intuito da un pezzo che oggi i pesci ci 63

hanno fatto fessi, apre la borsa delle vivande e “Volete un pezzo di focaccia?”, domanda. Poi, rivolgendosi ad Amadeus: “Compare, tiro fuori una cartuccia?”. Cartuccia, nel loro gergo, significa una bottiglia di vino da un litro. Ma Amadeus è già partito col consueto “come eravamo”. “Te lo ricordi Marco? Marco di Novoli, quello che rompeva sempre con i cori da stadio e che ogni tanto veniva al Boschetto con una moto da cross, un vecchio Caballero spernacchiante? Quando passava vicino alla nostra panchina si metteva in piedi sulla moto e rallentava, alzava il braccio per fare il saluto romano e gridava ‘Du-ce! Du-ce! Du-ce!’. E dire che tutti in tutto il Salento sapevano che il Boschetto era dei compagni, che lì il nostro gruppo aveva aperto una sezione di Lotta Continua. Un fascio non ci avrebbe mai messo piede da solo, a meno che non fosse armato, e di armi allora ne giravano eccome! All’epoca – sarà stato il ’78 – una provocazione del genere equivaleva a un insulto o a una dichiarazione di guerra. Eppure non gli torcemmo mai un capello. Alla fine era diventato una specie di appuntamento serale, aspettavamo che arrivasse Marco capi de ueu – Marco testa di uovo, lo chiamavamo così, per via del colore dei capelli –, e iniziavamo a cantare Potere agli operai! Beh, una sera, mentre eravamo lì in attesa, lo vediamo sbucare come al solito dalla nostra sinistra, preceduto dal rumore assordante della marmitta. Si mette in piedi sul Caballero, alza il braccio destro, si 64

volta verso di noi gridando ‘Du-ce! Du-ce! Du-ce!’. Ma accade l’imprevedibile: la ruota anteriore del Caballero finisce in una buca, quello perde l’equilibrio e cade per terra con la moto che gli rotola addosso proprio a pochi metri da noi. Lì per lì ci viene da ridere, ma poi ci precipitiamo a soccorrerlo. Lo adagiamo sulla panchina con cura, sollevando lievemente gli arti per controllare se è ancora tutto intero. Per fortuna lo era, aveva solo qualche escoriazione su entrambe le braccia, il mento lacerato e i jeans strappati sul culo. Puzzava a tal punto di Jack Daniels che appena si riprese fece in tempo a voltare il capo, ad aprire la bocca e a vomitare tutto quello che aveva in corpo. Finì che diventammo amici, lui passò a Trepuzzi un paio d’anni, persino durante le vacanze estive a Casalabate ci vedevamo. S’era rincoglionito per Vera Quattruminne, mia cugina. Teneva proprio delle belle tette, tette di marmo. La chiamavamo così perché a quattordici anni portava già la quinta misura di reggis...”. Amadeus si interrompe di colpo, lo vedo agitarsi, ci fa cenno di fare silenzio. C’è una preda attaccata all’amo e deve pure essere grossa. Inizia a recuperare lentamente ma il filo zigzaga vorticoso nell’acqua. La preda oppone resistenza, sembra non avere nessuna voglia di finire in padella. Passano alcuni minuti e finalmente si comincia a intravedere il pesce. Distinguo le forme abbastanza tondeggianti con riflessi che restituiscono bagliori rossi. Forse è un lutrino. Anzi, è proprio un lutrino! Un bel pezzo da un paio di chili. 65

“Questo lo facciamo al forno!”, dice zio Maurizio, guardandolo ammirato. “Ve lo faccio al forno col courtbouillon. Anzi, al brut-cugghiun, contenti?”.

Lu sound system ete la BBC delli poveri

Ieu me recordu cce beddra ca era ’sta terra quannu cieddri se curava de nui, ncera menu denaru e puru menu miseria e dru Salentu ca osce ieu nu troi chiui. Casa mia

Vedere il mondo dalla sella di una bici è diverso. Vi rivelo un segreto: pedalare è come volare. La bici dopo alcuni istanti scompare. Sparisce pure il mio dialogo interno. Scompaiono i suoni della campagna, scompare il rumore delle mie pedalate, il fruscio dei copertoni che mordono il terreno. È a questo punto, quando tutto intorno è silente, quando anche la bici scompare sotto le mie gambe, che mi sembra di volare. Sì, volare. Dolcemente volare. Chissà se Modugno andava in bici... Da quando faccio le gare di cross country ho iniziato ad alimentarmi con criterio, riscoprendo la dieta dei miei nonni. Credetemi, per un atleta è il massimo. Non mangio più cadaveri rossi (carne rossa), tutt’al più un po’ di pollo due volte al mese, e mi perdoni il formaggio se oramai i suoi grassi raggiungono solo di rado i miei vasi sanguigni. Oggi mi nutro in modo sano, con verdure, cereali e legumi, e la mattina mi accontento di una colazione a base di caffè, banane, kiwi, arance e un cornetto. E poi, essendo ciclista, mi dopo! Nel senso che uso 69

sostanze dopanti che alterano le mie prestazioni. Il mio doping è assolutamente legale, e funziona bene ugualmente: io mi faccio di alga spirulina, un’alga che contiene un mucchio di vitamine B che, a quanto pare, annullano la stanchezza. Che i pensieri ci danneggiano, l’ho capito in bici. Ho già detto che la sensazione più gratificante che si prova su una bicicletta è l’interruzione del dialogo interno: tradotto in parole, significa smettere di pensare, smettere di ascoltare quella voce dentro di te che parla, si arrabbia, simula discussioni talvolta improbabili, prevede, profetizza assurdità, ricorda, dimentica, sfida, si nasconde e chissà di cos’altro è capace. Pensiamo sempre, ininterrottamente. Bene, talvol­ta questi pensieri crescono di volume, diventano assordanti e insignificanti. E più si fanno assordanti, più sono insignificanti. Bisogna smettere di pensare per un momento, in un mondo con troppi pensieri e pochi pensatori – ripete sempre zio Maurizio. Gianluca, il mio compagno di squadra, è un ottimo biker, dalla pedalata potente e continua, un passista insomma, mentre io sono uno scattista e vivo di soli agguati. Lo conosco da quando eravamo piccoli. Vive a San Pietro Vernotico, un paese distante una decina di chilometri dal mio, e insieme a lui faccio parte di un team di bikers. La nostra squadra ha due obiettivi: le escursioni infrasettimanali, che giovano tanto all’umore quanto alle gambe, e poi le gare che ci permettono di passare intere domeniche in giro per il Sud Italia. 70

Il team è composto da trentaquattro bikers, quattordici hanno meno di quindici anni e sono la nostra speranza: durante le gare li “carichiamo” per spingerli a dare il massimo, durante la settimana cerchiamo di fargli usare il cervello, perché lo sport è inutile se non riesci a dargli una ragione. Molti di loro vivono nella 167, un quartiere degradato di San Pietro Vernotico, che in passato è stato uno dei centri di comando della Sacra Corona Unita. Capirete anche voi che in questi casi la mountain bike diventa una sorta di prevenzione per i minori a rischio. Le gare permettono loro di conoscere altre storie, altre situazioni, altri coetanei che non parlano di compari, lupare bianche, rapine e borsoni da spostare da un punto all’altro del paese. E noi speriamo che li spingano a uscire, a tirarsi fuori dai quartieri violenti. Noi gli insegniamo a pedalare, a rispettare le regole in gara, a imparare le tecniche e le discipline che consentono alle nostre bici di essere pedalate. Non è una scuola e non riceveranno alcun titolo, ma tornano a casa stanchi e con qualche idea in più. Gianluca è uno di quei bikers dotati d’infinita pazienza, capace di portarsi in giro per gli sterrati tutti quei ragazzini chiassosi e brufolosi. Dovreste vederlo all’opera: è capace di gestirli con un solo sguardo, manco fosse un sergente di ferro. Però così i ragazzi crescono disciplinati. Ma è un ruolo che si è ritagliato solo quando allena, perché Gianluca è soprattutto una persona gioviale e corretta, e se si comporta in modo inflessibile è solo 71

perché conosce i quartieri degradati e sa bene che finché questi piccoli bikers avranno timore di arrivare in ritardo ai suoi allenamenti avremo la possibilità di sottrarli alla criminalità. Quella mattina avevamo appuntamento per le 8 in punto sulla SS 16, all’uscita di Squinzano, dove di solito decidiamo se pedalare verso la costa o chiuderci nel circuito del Castello di Villa Elvira. “Mare o Castello?”, domanda Gianluca. “Ieri mare, oggi Castello”. “Vada per il Castello. Però lo facciamo con i rapporti duri, guai a scendere sul trentadue, faremo tutto il circuito con il quarantaquattro!”. “Ci sto! Però ti blocco il cambio e blocco anche il mio, così siamo sicuri di non imbrogliare”. A questo punto molti di voi si staranno interrogando sul significato di ‘rapporti duri’, ‘trentadue’, ‘quarantaquattro’ ecc. ecc. Tranquilli, non stavamo dando i numeri e il ‘rapporto duro’ non è una performance pornosex tra ciclisti. Qualcuno di voi disporrà di una bici dotata del cambio di velocità, quel meccanismo che permette di spostare la catena migliorando la pedalata. Persino le comuni bici da passeggio lo possiedono, serve per affrontare senza sforzi sia i tratti in pianura che quelli in salita. Se avete presente una mountain bike o una bici da corsa, avrete intuito che essa si muove grazie alle vostre pedalate. Avrete anche notato che i vostri piedi poggiano sui pedali, che a loro volta fanno ruotare una ruota 72

dentata, la guarnitura, che noialtri ciclisti chiamiamo ‘corona’. Per mezzo della catena la corona (le mountain bike di solito dispongono di tre corone dotate di 44, 32 e 22 denti) trasmette il moto rotatorio alla ruota posteriore, anch’essa dotata di una serie di piccole corone dentate raggruppate su un unico pezzo chiamato ‘pacco pignoni’, visibile al centro della ruota posteriore. Detto questo, quando ci si appresta a scalare una salita, per farlo agevolmente e con il minimo dispendio di energie si usano rapporti leggeri: basta agire sulla leva del cambio e la catena si sposta sulla corona più piccola; al contrario, quando si affrontano discese e lunghi tratti in pianura, innestando la corona più grande si raggiungono velocità ragguardevoli usando un rapporto duro; se ne deduce che nei tratti misti è utile servirsi della corona intermedia. Semplice, vero? Arrivati al Castello decidiamo di fare dieci giri a tutta velocità. Ogni giro dura oltre sei minuti e il nostro obiettivo è terminare i dieci giri in meno di un’ora. Il Castello è situato sul ciglio di quella collinetta quasi impercettibile che ospita il mio paese. Si affaccia a ovest su una specie di depressione chiamata Valle della Cupa, che cupa non è affatto, anzi comprende la parte a nordovest del Salento – dove celebri vigneti si contendono ebbri primati – che a me pare il giardino di Dioniso, il fondatore del mio paese. E forse non è un caso che questo oceano di vigne si trovi a ovest di Trepuzzi, il luogo di Tripudio preferito dal nostro dio. Mi piace pensare che Dioniso avesse disposto di piantare le vigne in quei 73

campi dalla terra scura per godere al tramonto del divino privilegio di paragonare il rossore del sole fuggente a quei grappoli di rubino a lui tanto cari, scorgendo in essi sacre analogie da tramandare a noialtri rincoglioniti di stronzate. Il giardino intorno al Castello è stato progettato con cura. Io non capisco nulla di giardinaggio, ma Amadeus mi ha parlato spesso di questo posto: “Si respira un’aria fresca in ogni periodo dell’anno, le aiuole sono disseminate di rosmarino, mentre in alto le chiome dei pini e degli eucalipti profumano e irrorano di ossigeno l’aria circostante. I cipressi a sud assicurano frescura in ogni momento, mentre le rose selvatiche, d’accordo con i fiori di lavanda, donano ai viali profumi dolcissimi. E poi pini di Aleppo, enormi agavi dalle foglie insolitamente larghe, quasi preistoriche, cespugli di asparago, corbezzoli, rovi di more: è tutto un ben di Dio! Passeggiare per i viali del Castello di Villa Elvira equivale a riprendersi la salute, altro che beauty farm! Vai a pedalare in quei viali, così depuri i polmoni dalla diossina che ci fanno respirare in questo schifo di Salento! Se tutti i parchi fossero come Villa Elvira, la gente camperebbe fino a cent’anni!”. Mi sento carico come un bisonte, se ne è accorto anche Gianluca, che di solito alla fine dei dieci giri mi stacca sempre di mezzo giro. E infatti lo precedo. Lui oltrepassa la linea di arrivo, raccoglie il fiato e fa: “Hai cambiato doping?”. “Mens sana in corpore sano! Merito di Paco Ignacio Taibo II. Ho appena finito di leggere un suo libro sul74

la rivoluzione messicana. Grande Taibo, racconta fatti real­mente accaduti e per renderli più vivi e drammatici li condisce con sentenze di tribunali, comunicati stampa, messaggi di spie e agenti segreti, i pizzini dei rivoluzionari, e tante, tantissime puttane. D’altronde, s’è mai vista una guerra senza puttane? A proposito di libri, devo ancora leggere quello su Trieste-Istanbul in bici. Sarebbe magnifico avventurarsi in un viaggio come quello di Paolo Rumiz e Altan”. “Senti, c’è qualcos’altro che vorrei farti leggere. Si tratta di documenti. Documenti che nessuno conosce. Su imbrogli, occultamento di materiale tossico in mare, tangenti per appalti di pulizia, smaltimento illecito di rifiuti tossici in Calabria. Hai saputo, no?”. “Ho letto qualcosa sui giornali, e me ne ha parlato pure mio zio. Ora lavora per un altro quotidiano e so che sta facendo delle indagini”. “Ascolta, questa roba tu la devi far leggere a tuo zio”. “Ma insomma, che roba è?”. “Imbrogli tra politici e mafiosi, un centinaio di pagine con le analisi dei terreni e delle falde circostanti alla Centrale, analisi su carciofi, uva, olive e poi carne, latte, formaggi. Ci trovi elenchi di nomi, luoghi, cifre di denaro in entrata e in uscita. Queste carte le deve vedere gente esperta, e con le palle”. “Ma come hai avuto questo materiale?”. “Da mio fratello Michele. Lavora per una ditta che ha appalti alla Centrale elettrica. Sono già due anni che sta lì. Lui e i suoi colleghi si lamentano spesso con i loro 75

capi perché non sanno cosa trasportano. Hanno provato a mettere in mezzo i sindacati, ma quelli hanno fatto capire che è meglio lavorare e stare zitti. Mio fratello ultimamente fa tre viaggi in Calabria ogni settimana: parte carico e torna scarico. Dice che sembra gesso, ma quando lo scaricano nelle cave si sente un puzzo asfissiante. Molti suoi colleghi tornano a casa con il sangue che cola dal naso, altri con i capillari degli occhi che scoppiano mentre sono alla guida di quei bisonti. Un giorno mio fratello stava facendo manovra nel parcheggio della ditta quando il figlio del capo lo ferma e gli chiede un passaggio col camion per farsi portare in un altro punto del cantiere. Era carico di fogli, cartelle, planimetrie. Non s’è nemmeno accorto che una cartellina era scivolata sotto il sedile. Mio fratello l’ha trovata un paio di giorni dopo, mentre lavava ’dhru cazzu de camion. Ha capito subito che si trattava di documenti compromettenti: ci sono tutte le commesse di viaggio del materiale tossico in Calabria. Se n’è fatto una copia, e ha rimesso i fogli originali sotto il sedile del camion, non si sa mai”. Zio Maurizio apre il browser e inizia a consultare siti dei ministeri, della Provincia, della Regione, Camera di Commercio, elenco fornitori, elenco finanziamenti pubblici o comunitari, legge 488. Gli ho portato il materiale, gli ho raccontato tutto. Improvvisamente impallidisce. Mi invita a seguire il suo sguardo: sul monitor c’è il sito ufficiale della Regione, tra i vari bandi ce n’è uno che riguarda i servizi alla Centrale elettrica. Scorro i nomi dei segretari e sottosegretari con mansione di controllo sulle 76

attività di smaltimento della Centrale. Impallidisco pure io. Perché in quell’elenco c’è Lucio, Lo Spaccacoglioni. Zio Maurizio si attacca al cellulare, contatta amici e colleghi. “Alla Centrale stanno facendo imbrogli. I controllori dormono, coprono illeciti. C’è di mezzo Lucio. D’altra parte solo un politico come lui è in grado di aggirare le leggi in materia”. Cazzo! Adesso mi spiego l’Hummer di suo figlio, la villona a Porto Cesareo che pare la brutta copia di Villa Certosa, la Maserati della moglie... “Vado a fare il mio mestiere, vado al giornale”, mi dice zio Maurizio, già sulla porta di casa. “Tu prepara la cena, e chiama Amadeus, digli di venire”. Chiamo Amadeus, e chiamo anche Sirio e Luca. Poi vado in cucina e apro il frigo. È vuoto. Faccio il numero di Sandro, il mio amico pescivendolo. “Solo cozze e cefali, ti so’ rimasti? Vabbè, portameli lo stesso, li faccio all’acqua pazza”. “All’acqua pazza? Ma sei scemo? Il cefalo è pesce da porto, sta in mezzo al fango e puzza, lo devi coprire con molte spezie. Fai così: prendi una bella manciata di rosmarino, tre spicchi d’aglio, tre cucchiai di capperi, ben scolati mi raccomando, cinque alici sott’olio, metti tutto su un tagliere e affetta fino fino così ti viene un impasto omogeneo. Poi prendi un tegame, ci metti l’olio su tutta la sua superficie, ci aggiungi tre bicchieri di vino bianco, fai un bel letto di cipolle affettate, una decina di ciliegini e una manciata di olive nere. A questo punto prendi i cefali, ficcagli nella pancia l’impasto, mettili nel tegame 77

e infila nel forno per una mezz’ora. A duecento gradi eh? E poi mi dici quanto era buono!”. Amo molto cucinare, è il rito più utile del mondo. Spesso mi chiedo se non avrei fatto meglio a diventare cuoco. Gli spaghetti al sugo di cozze, il primo piatto che ho provato a cucinare, all’inizio mi venivano collosi come il vomito dopo un rave party e le cozze erano dure come i noccioli delle olive. Poi col tempo ho imparato a preparare i vari tipi di sugo, a usare il forno, la brace, il vapore... Ho eseguito a puntino la ricetta di Sandro, e vado a sedermi in giardino, sulla vecchia sedia di paglia, aspettando la “truppa”. Questa sedia sta qui da quando sono nato e chissà quanti culi ha sopportato. Di tutti i tipi. Culi nervosi come quello di mio zio, culi adiposi e pelosi come quello di Amadeus, culi pelle e ossa come quello della nonna, culi scorreggioni come quello di Mesciu Ronzu, culetti profumati come quelli delle amichette di zio Maurizio e chissà quanti altri ancora... Sono arrivati tutti, Amadeus, Sirio e Luca, che hanno portato una bottiglia di Simpotica e una di Patriglione, zio Maurizio e il suo amico Antonio, che fa il maresciallo e si occupa di ecomafie. “Aggiungi un posto”, mi fa Amadeus, mentre accomoda il suo culo peloso e adiposo sulla sedia. “Ho invitato Piero il Militante, il cantante. È appena tornato dal Nord”. Piero è stato il pioniere della musica reggae nel Salento. È stato il primo a proporre il raggamuffin o Dj-Style 78

negli anni Ottanta, quando i suoi coetanei ascoltavano soltanto NewWave. Al raggamuffin giamaicano ha aggiunto il dialetto, iniziando a cantare prima in barese e poi in salentino. Proprio quando tutti pensavano che fosse una scelta sbagliata, il dialetto intendo, proprio quando il tamburello della taranta stava per scomparire, quando l’eroina stava cancellando una generazione, quando la Sacra Corona Unita si era impadronita delle piazze e la gente continuava a emigrare nonostante il benessere promesso a tutti. Piero ha contagiato una generazione intera di salentini. Piero è il padre di una cultura che rappresenta l’identità di questa terra. Prima ha fondato le Tre Esse, poi ha messo su la Salento Posse. E sono arrivati i primi dischi, i concerti, le classifiche italiane con al primo posto Fuecu. Alcuni tamburellisti di pizzica iniziarono persino a frequentare le dance hall per ubriacarsi con il ritmo di quella musica. Se oggi nel Salento è ancora viva la musica delle radici, e pure il dialetto, lo dobbiamo a lui. Mitico Piero! Piero è alto quasi un metro e novanta, ha un fisico possente e asciutto, e si muove come un felino. Ha gli occhi di un tuareg, e lo sguardo che sembra perdersi nel deserto. Indossa un paio di jeans attillati, una t-shirt nera con una stella rossa al centro, e porta un paio di nauseabonde All Star rosse. Al collo, un paio di collane di cordoncino nero con perline rosse, gialle e verdi, colori che richiamano l’Africa e la musica reggae. Ci saluta con un “carnazza a tutti” e si accomoda a capotavola. Tra un piatto e l’altro faccio una panoramica della 79

tavolata: sembra la cena di un manipolo di guerrieri, o dei bravi di don Rodrigo. Mi fermo su Sirio, il mento proteso in avanti in segno di sfida perenne, gli occhi freddi come quelli di un apache. Poi mi dico che siamo piuttosto un campione statistico abbastanza rappresentativo di questo paese: Antonio è un rappresentante dello Stato, mio zio fa il giornalista precario, Amadeus un proletario contadino-metalmeccanico, io e Luca siamo figli di papà, Sirio è un figlio della classe operaia e Piero un artista. La voce di Antonio interrompe la mia “immersione onirica”: sta raccontando agli altri degli imbrogli alla Centrale elettrica. “Dobbiamo fare qualcosa insieme. Questa terra è diventata invivibile. I Casalesi ci scambiano per un cassonetto della spazzatura e i politici locali si nutrono delle loro schifezze. Io faccio lo sbirro, rischio la vita dietro a questa gentaglia, rischio di beccarmi una bomba sotto la macchina o un proiettile in testa, va bene, è il mio lavoro, l’ho scelto io. Ma l’inquinamento no! Non sopporto che per colpa di questa gentaglia di merda mio figlio o mia moglie possano morire di leucemia!”. “Antonio, io combatto contro ’sti malavitosi da cinque anni, e mi sono beccato un mucchio di intimidazioni. In più, da quelli che fanno il tuo mestiere mi sono beccato pure quattro perquisizioni per sei miseri grammi di marijuana. Mi avete tolto la patente, mi avete spaccato la testa con i manganelli, mi avete mandato alla neuro, mi avete fatto una decina di TSO a base di Serenase. Io devo 80

pararmi il culo dai Casalesi, dai tuoi colleghi, dai dottori e da questo paese di merda! I Casalesi sono un sistema, e anche voi siete un sistema, mentre il mio unico sistema è la musica, lu sound system – e comu dicenu li Public Enemy pe lu rap – ete la BBC delli poveri! Che cazzo vuoi che faccia?”. Cala un silenzio pietrificato, come se ci avesse investito un maleficio. Chissà perché ci aspettavamo tutti una soluzione da Piero, il Militante. “Te lo dico io, che cazzo faccio. Chiamo le associazioni, chiamo gli altri artisti, organizziamo un maxi concerto in piazza, un festival contro l’inquinamento e le ecomafie. Embè, non dite niente? Vi siete bloccati?”. Mi viene in mente che mio padre nella cantinetta ha un Nero d’Avola del ’93, e azzardo un brindisi: “Brindiamo alla nostra terra: lunga vita a chi la rispetta!”. “E alli merda na sajetta!”, mi rispondono in coro.

Gli hacker di Santu Paulu

Lassu perta la porta de casa giustu passa nu filu de ientu 
 ca senò me reota lu caudu intra lu liettu. 
 Ma la luna nu mbole cu dormu e stau a quai cu spettu lu momentu ma comu ogni notte ncignu cantu! Filu de ientu

Per me dicembre è sempre lo stesso: disteso sul divano sotto il piumino, piedi gelati, boccette di propoli, decotti fumanti allo zenzero, limone, miele, curry, alloro, fichi, echinacea, eucaliptolo e tutt’intorno montagne di fazzolettini. È da quando sono nato che passo il Natale in compagnia dell’influenza, dei nonni e di zio Maurizio. Me li ricordo tutti e tre accanto a me, a tenermi compagnia, nonna con le sue canzoni in dialetto, Mesciu Ronzu con i suoi racconti, e zio Maurizio che mi faceva ridere. Forse è per questo che mi sono sempre sentito più nipote che figlio. Niente lucine intermittenti alle finestre, niente presepe o albero addobbato, al massimo qualche pigna appesa sulla porta. Quella di mia madre è una famiglia di sobri comunisti, mio nonno è una persona taciturna, cruda, con un coraggio insospettabile. Nel ’43, aveva appena dodici anni, sparò ai tedeschi in fuga verso Brindisi col fucile dello zu Cocu, un vecchio archibugio lasciatogli in ere85

dità da un prozio; nel ’46, dopo il referendum tra monarchia e repubblica, un monarchico gli sparò un colpo di pistola che gli prese di striscio la tempia e gli fece perdere parte dell’udito; nel ’50, a Carmiano, durante la rivolta di Arneo, si beccò due pallottole in culo dai militari del governo al soldo dei latifondisti. Questo della rivolta di Arneo era il cavallo di battaglia del nonno, e per me una sorta di aspirina capace di sbloccare le vie respiratorie più in fretta di quelle pastiglie frizzanti. Gli storici la chiamano anche “la rivolta delle biciclette”, perché i contadini di mezza Apulia accorsero in sella a vecchi cicli mossi da pedalate infuriate. Chissà, forse sono diventato un ciclista proprio per sentirmi invincibile come il nonno. Immaginavo scene in bianco e nero dove nonni baffuti, rubicondi e incazzati su biciclette malandate attraversavano le antiche vie in basolato brandendo forconi, falci e martelli. Mesciu Ronzu era uno di quelli, un rivoluzionario, un uomo di altri tempi e di altri valori. Troverai scritto di lui ovunque si narri di gente dura ma compassionevole, con poche parole da spendere ma tanti pensieri da regalare. È il mio mito, è la strada in cui il mio cammino ritrova la giusta direzione, accanto a lui non sento più quel nodo alla gola. Mia nonna invece è estroversa, per certi versi chiacchierona, non manca mai di contagiare chi le sta vicino con il suo buonumore. Anche lei ha passato la vita nei campi, ma di quel tempo ama ricordare i giorni vissuti in spensieratezza, quando, bambina, aspettava il passaggio 86

del gregge per salire in groppa alle capre, oppure quando, giovincella, andava a Galatina per ballare le tarante alla festa del Santu Paulu. Quei racconti curavano l’influenza e l’anima, e non nascondo che in fondo non mi dispiaceva di essermi ammalato. La nonna di tanto in tanto si allontanava con la scusa di preparare il caffè al nonno. Ma io la sentivo lo stesso, perché il nonno, duro d’orecchi com’è, costringeva lei a gridare e me ad ascoltare. “Ma proprio a Cortina se ne doveva andare ’sta figlia mia! Ma da chi ha preso? Che fa? Se ne va a Cortina e mi lascia il ragazzino a casa, solo!”. E mio nonno, di rincalzo: “A sciare se ne vanno quei due dessemurati! E non è la prima volta! Manco due anni teneva, quando ce lo lasciarono per quindici giorni: e perché? Perché a imparare a sciare dovevano andare”. “Sono uguali: una dorme e l’altro non si sveglia!”, continuava a borbottare mia nonna. Che bella gente i miei nonni, puri di un amore puro, antico e inattaccabile. Sempre complici, e pieni di comprensione nei miei confronti. Alla fine è proprio vero che ami chi ti cresce e non chi ti mette al mondo. Provate a chiederlo alla mia gatta, che mi scambia per sua madre. E se non ci credete, andate a vedere cosa è successo a Lorenz con le sue oche. Anch’io sono un cucciolo che si è affezionato a chi lo ha cresciuto perché l’amore se ne fotte delle conven87

zioni. Io sono figlio di chi mi ha insegnato a fare la pipì, la cacca, a mangiare, lavare i denti, studiare, difendere, rispettare, correre, riposare, aspettare, agire, perdonare, giudicare e... pedalare. Ma stavolta sono proprio incazzato. Mi rode il culo di non poter raggiungere gli altri. Dopo la cena a casa di zio Maurizio, abbiamo cominciato a darci da fare per avviare una campagna d’informazione e mobilitazione su inquinamento e salute pubblica in Puglia. L’idea di Piero il Militante di organizzare un concerto per denunciare quello che succede alla Centrale elettrica sta prendendo forma. Zio Maurizio ha usato tutte le sue conoscenze per ottenere i permessi per il concerto, e Piero ha contattato un sacco di artisti, disposti ad appoggiarci. In poco tempo la notizia dei traffici alla Centrale ha fatto il giro della provincia, della regione e in parte anche del paese, grazie alle nottate in bianco mie, di Luca e di Sirio, che ci siamo assunti il compito di aggiornare costantemente il blog di zio Maurizio spammando sul web tutto ciò che riguarda l’evento, e un mucchio di gente aspetta il concerto per urlare la propria rabbia. Prima di Natale abbiamo montato dei gazebo a Lecce, nella centralissima piazza Mazzini, dove a ritmo di raggamuffin vengono distribuiti volantini, brochure e bicchieri di vino. La gente si ferma, s’informa, firma e va via incazzata. Sono venuti ad aiutarci pure diversi volontari, associazioni di malati di cancro, preti che lottano contro le mafie, gli ecologisti brindisini che dagli anni 88

Ottanta combattono contro la Centrale a carbone e gli attivisti di Greenpeace. Confesso che provo un po’ d’invidia, io che ho sempre quel nodo alla gola e non so mai da dove cominciare, quando vedo tutta questa gente cooperare come se lo facesse da una vita, fasci, democristiani, comunisti, preti, bestemmiatori, ladri e sbirri. Perché ci sono tutti, davvero tutti. Che sia la paura la vera benzina della collaborazione? Il benessere ci divide e la fifa ci ammassa? Ho conosciuto tanti ragazzi di Greenpeace, un paio vengono dal Canada e hanno appena vent’anni. Mi sono chiesto che cazzo ci fanno in questo buco di terra in mezzo al Mediterraneo. Cosa li spinge qui, un luogo dove l’indifferenza si mette ad ammirare lo smog? Mi sono avvicinato al loro tavolino, presentandomi con il mio inglese so’n’so. Gli parlo del Salento che fa rima con sole, mare, vento e inquinamento, e loro mi confidano che vogliono arrampicarsi sulla canna fumaria della Centrale a carbone per fissarci sopra uno striscione con l’arcobaleno, ma non vanno oltre. È un segreto, mi dicono. Gli faccio notare che la ciminiera della Centrale è alta più di centocinquanta metri, ma loro scoppiano a ridere: sanno tutto della Centrale, hanno studiato ogni dettaglio a tavolino, navigando sul web. Robert e Calvin sono due ragazzoni atletici che sanno fare di tutto, dalle immersioni ai lanci col paracadute, alle arrampicate. Mentre continuiamo a parlare ci raggiungono due ragazze, anche loro di Greenpeace. Sono 89

austriache, si presentano, Nina e Annette, e si siedono al tavolo con noi. Intanto si è fatta mezzanotte, ma la notte è calda, non sembra affatto inverno. Li invito a sedersi sui gradini di una chiesetta sconsacrata poco distante dall’anfiteatro greco, famoso per i gatti randagi che vi amoreggiano, e intanto penso che forse il fatalismo del Sud sta per scomparire, così com’è comparso. Magari non saremo noi ad assistere al cambiamento. Noi, terroni del Sud, gabbati dall’Unità d’Italia, dal sacco del capitalismo nordista che ambiva solo al Banco di Napoli, e dalla Chiesa che ci ha illusi, abbandonati e imbigottiti. Da qualche mese Lecce respira un’aria diversa e anche i motivi barocchi scolpiti sulle facciate delle antiche abitazioni signorili sono tornati a sorridere, come se tutt’a un tratto la depressione monarchica di questa città avesse deciso di abdicare a favore della gioia di questi sanculotti-rasta-tarantati assetati d’ecologia. Chissà, forse stiamo imparando a coniugare il futuro, cosa rara a queste latitudini perché il dialetto salentino non consente di coniugare alcun verbo al futuro, e forse per questo ci sembra normale vivere alla giornata. “Il mondo oggi è regolato dall’economia, che decide per noi come se fosse il fato. Ci costringono a vivere a ritmi troppo accelerati, ritmi disumani che creano sprechi e affanni, che assorbono le nostre energie restituendoci in cambio un benessere illusorio e un malessere reale. Ci costringono a vivere in spazi sovraffollati, le chiamano città ma funzionano come le gabbie degli zoo”, mi 90

accorgo di pensare a voce alta, perché Nina mi osserva incuriosita accennando una smorfia tenera come per dirmi che non ha capito, e io sento che le mie ginocchia si sciolgono. Perché Nina è bella, bella davvero. “Non so perché penso queste cose”, le dico anche se non capisce, “forse perché da piccolo ho visto troppe volte The Wall dei Pink Floyd. Sai, dicono che gli esseri umani assomiglino ai posti in cui vivono e io ci credo, perché mi sento un animale in gabbia anche se non vivo in una metropoli. Ormai anche nei nostri paesini ti viene la voglia di abbassare lo sguardo perché non c’è più niente all’orizzonte e quando alzo gli occhi al cielo vedo solo draghi di smog”. Ci sono Luca e Sirio sui gradini della chiesetta. Luca sta rollando uno spliff. Ci sediamo anche noi, e Nina si siede accanto a me, così vicina che i nostri culi si toccano: fuecu intra ’sta casa. Tutt’intorno i richiami erotici delle gatte dell’anfiteatro. E anche i miei ormoni cominciano a volteggiarmi intorno come un branco di barracuda. Zio Maurizio dice sempre che quando vuoi comunicare e non conosci la lingua, devi ricorrere al più universale e comprensibile dei linguaggi. Quello dei corpi. E devi avere la chiave di casa sua. Infilo la chiave nella toppa, spengo il cellulare, spengo le luci. Il resto non vi interessa.

Revolución a Cerano

Pedaleremo verso il mare, saliremo sulle dune e osservando l’orizzonte aspetteremo un giorno migliore. Lontano

Capodanno è trascorso da alcuni giorni quando scoppia lo scandalo. Il sonno tranquillo del nostro paesino viene scosso da una maxi retata anti-usura. Saranno state le 4 del mattino quando la mia stanza viene illuminata a giorno dalla luce dei fari di quattro enormi elicotteri e il silenzio interrotto dal suono delle sirene delle volanti e dai cani che abbaiano. Squilla anche il cellulare, ripetutamente. “Sono zio, mi ha chiamato Antonio, è in corso una retata, sembra che abbiano arrestato Lucio”. La conferma dell’arresto dello Spaccacoglioni, e pure di suo figlio e di altre quaranta persone, metà delle quali insospettabili e con fedina penale pulita, arriva dopo due ore, con i primi notiziari della tv locale. Usura, false fatturazioni e certificazioni, e traffico di materiale tossico in Calabria gestito da una ditta di trasporti di cui Lucio è socio e amministratore. È accusato di essere la mente di questo traffico, e di avere incassato mazzette da milioni di euro. In tutta la Puglia non si parla d’altro, il che giova alla 95

nostra causa: il concerto contro la Centrale elettrica è ormai prossimo e abbiamo bisogno di tutta la copertura possibile. Nel frattempo il Militante ha avviato una campagna mediatica, ed è arrivata l’adesione praticamente di tutti gli artisti pugliesi. Piero si è fatto in quattro: è comparso in tv, nelle radio, nei quotidiani, su YouTube, sui blog. Da Milano è arrivato Umberto, il suo addetto stampa, uno spilungone con la testa piena di dread. Ha organizzato conferenze, sollecitato le redazioni dei quotidiani, è riuscito ad assicurarsi la presenza di diversi giornalisti delle testate nazionali più importanti e di notissimi testimonial che hanno dato pubblicamente la loro adesione. Dopo mille cambiamenti e permessi pubblici negati, si è deciso che il concerto si terrà a Brindisi nel piazzale antistante il monumento del Marinaio. Manca una settimana al concerto. Il lavoro di questi mesi, le nostre denunce, la copertura mediatica hanno dato ottimi risultati. E chissà che un giorno a Taranto le ciminiere non smettano di fumare, per la gioia dei tarantini e degli stessi operai delle acciaierie, che per anni hanno lavorato tra ricatti occupazionali e minacce alla salute. E che, al posto delle acciaierie più grandi e inquinanti d’Europa, non possa sorgere un parco, e tutt’intorno alla città strutture alberghiere per il riscatto turistico della città. E Brindisi? Per fortuna le nuove generazioni sono cresciute con tutt’altra mentalità, non cedono ai ricatti occupazionali e vogliono riappropriarsi del territorio. 96

Con intransigenza, com’è nel carattere dei brindisini. La gente non ne può più di essere indicata come il fanalino di coda in qualsiasi indagine Istat, dove la città compare sempre tra le peggiori per scarsa qualità della vita, disoccupazione e criminalità. Qui le uniche note di gloria arrivano dallo sport, con la squadra di baseball in serie massima, ma, ahimè, le sue vittorie hanno sempre avuto un sapore amaro perché le maglie della squadra le sponsorizza la Centrale elettrica. Quaggiù la Centrale si è comprata tutto grazie alle nostre bollette: pubblicità sui giornali, sui portali, nelle strade, alla stazione, negli aeroporti, ovunque. Un modo per ricordarti che loro sono onnipotenti e onnipresenti. Un assillo continuo, insieme a quei draghi di smog che sovrastano il cielo della mia terra. Naturalmente i dirigenti della Centrale hanno cercato di boicottarci in tutti modi, per dimostrare che la Centrale non è quella descritta dagli attivisti, ma che, anzi, diffonde la materia prima del progresso – l’energia elettrica, appunto. Ma ormai non ci crede più nessuno. Qui, quasi ogni famiglia si ritrova in casa un morto o un malato di tumore, di leucemia o di patologie cardio-circolatorie. E ormai ha capito che non si tratta né di una maledizione né del caso, ma dei veleni sprigionati dalla Centrale. Ma devono essere molto preoccupati, lì in Centrale, perché hanno denunciato preventivamente gli attivisti di Greenpeace. A questo punto è sceso in campo il governatore della Regione, che si è dichiarato pronto a considerare le istanze delle associazioni ambientaliste. 97

Al tg regionale ha dichiarato che bisogna fare molta attenzione a etichettare i cittadini come violenti, lodando pubblicamente tutti quei medici che quotidianamente lottano nei reparti oncologici delle città pugliesi e le associazioni che si battono per la salute pubblica. È stato bello vedere una partecipazione civile così appassionata, una condivisione di valori così ampia. Ci sono le sigle storiche del movimento per il referendum contro le acciaierie di Taranto e i brindisini di “No al carbone”, le nuove associazioni contro le centrali a biomasse e gli inceneritori nel Salento, i promotori per il Parco naturale-culturale della Puglia e poi ancora Green­peace, Legambiente, Libera, i frati missionari, i comboniani e le altre associazioni ambientaliste nazionali. Sono con noi gli anziani, i prof, i commercianti, i contadini, e pure i tifosi che frequentano la curva dello stadio. Si è anche pensato di creare un’associazione che riunisca i malati e i parenti dei malati per i casi di cancro imputabili alle sostanze della Centrale, con lo scopo di chiedere risarcimenti materiali e morali sia per le persone sia per il territorio. È già successo alcuni anni fa, a Marghera, e il padrone ha dovuto risarcire gli operai morti nei reparti in cui viene lavorato il cloruro di vinile monomero. Se ci si riuscisse, rappresenterebbe un precedente pericoloso per tutte le industrie locali che non rispettano i protocolli di sicurezza per la salute pubblica. Oggi è arrivata la tramontana, col suo carico di ge98

lo balcanico. Il sole è ancora basso ma si annuncia una giornata fantastica. Fredda ma fantastica. E poi è la giornata giusta per dirglielo. Mando un sms a Sirio e Luca, “facciamoci un giro, vediamoci al solito posto”. Quando arrivo, Luca e Sirio sono già lì. “Mare o Castello?”, faccio. “Mare”, mi rispondono. Iniziamo a pedalare verso nord-est, sino a San Cataldo. È il nostro percorso e sarà sempre il nostro percorso, perché lo amiamo quando lo dominiamo e lo odiamo quando si allea con il vento, il fango o l’arsura. È nostro perché lo abbiamo cosparso di sputi e sudore. È nostro perché ci ha insegnato a rispettare la natura, perché non è solo un luogo fisico che si può osservare su Google Earth: è un percorso di vita che ogni volta indica un punto di partenza e un punto di arrivo, dove le strade accidentate sono le insidie della vita che per essere superate necessitano di forza e controllo. Infiliamo la provinciale che porta a Casalabate, solo pochi chilometri di asfalto che consumiamo velocemente, col rumore delle catene e dei copertoni dentati che masticano la strada. Superiamo il cavalcavia e poi a destra. Finalmente il tratto sterrato. Dopo dieci minuti ecco la macchia a ridosso della costa, ci invade l’odore di origano che a quest’ora si disperde nell’aria grazie alla rugiada che inizia a evaporare. Non lontano da noi, immersa tra pascoli brulli e spinosi, c’è una masseria disabitata. La “dama solitaria”, la 99

chiamo. Quando le siamo davanti, accenno con la mano un inchino. Svoltiamo a sinistra per un sentiero lungo e sinuoso, interrotto da un breve tratto di asfalto. Se lo percorri, vai a finire in una vecchia strada medioevale costeggiata da cespugli di querce talmente fitti che la fanno sembrare un tunnel. Quando piove, diventa un acquitrino pieno di rane che al nostro passare spuntano fuori dalla fanghiglia e con un balzo si infilano tra i cespugli. D’estate la folta vegetazione ne fa il luogo idea­ le per riprendere le forze, far abbassare la temperatura corporea e proteggere il cranio da insolazioni. Alla fine del tunnel ti trovi di fronte la torre fortificata di Masseria Giammatteo, che si fa guardare sempre con riverenza, dal basso verso l’alto, poi, dopo alcune pedalate, si costeggiano le mura di Masseria Monacelli. Se svolti subito a destra, trovi ad attenderti un altro delizioso single-track immerso in un bosco di querce, e cominci a sentire l’odore del mare, a un chilometro c’è la costa. Anche d’inverno il bosco è un luogo di riparo, perché il vento e l’umidità si consumano tra le fronde degli alberi, creando un ambiente mite in cui i funghi costellano il terreno ricoperto dal fogliame. Pedalando devi fare attenzione alle radici che tagliano il percorso e alle bianche rocce che affiorano all’improvviso. E ai rami sottili e tenaci dei cespugli che, simili alle mani di oscure creature dei boschi, sembrano voler rallentare la tua corsa, graffiando, aggrappandosi a ogni appiglio e costringendoti a restare raccolto sulla bici con i polsi ben 100

saldi sul manubrio, e ad accompagnare la traiettoria con il corpo. E io, Sirio e Luca pedaliamo. Corriamo e pedaliamo come se qualcuno ci inseguisse, e non credo di sbagliare quando dico che la corsa del ciclista consiste nello scappare da qualcuno o fingere di essere inseguiti. E oggi io mi sento inseguito, braccato da un pensiero. La mia mente è già a Valencia, mi sembra già di vedere dal finestrino dell’aereo il Salento allontanarsi e le nuvole avvolgere le mie emozioni lasciandomi fluttuare nei perché. Queste pedalate saranno la cosa più dura a cui rinunciare. Certo, la mountain bike verrà con me, ma non sarà lo stesso. “Devi dirlo a Luca e Sirio, ora, devi farlo ora”, penso. “Non ancora, devo risparmiare fiato, devo pedalare”. Bella scusa. Intanto siamo arrivati al bacino Idume a Torre Chianca, uno specchio d’acqua artificiale che risale al periodo delle bonifiche e che raccoglie le acque di tre sorgenti creando una zona umida dominata da folaghe, cigni, martin pescatore, falchi e altri uccelli migratori che qui fanno sosta durante le loro trasmigrazioni. La tramontana sta scemando, dà tregua alla schiuma del mare, alle chiome degli alberi, ai cespugli. Sono immagini uniche, che mi fisso bene nella testa, perché la natura non concede repliche. Proseguiamo verso San Cataldo, percorrendo una stradina usata dai pastori per condurre le greggi a pa101

scolare su queste collinette ricoperte dalla vegetazione tipica della Murgia, cespugli di mirto e corbezzoli, piante di lampascioni, rovi spinosi e alberelli di quercia. Qui l’odore dell’origano si confonde con gli escrementi delle pecore e c’è un panorama che ti sembra di essere tornato all’età della pietra. Non si vedono tralicci dell’alta tensione, non si vedono case, antenne, e verso nord non si vede più nemmeno l’onnipresente ciminiera della Centrale elettrica. Solo qualche muretto a secco ricorda che anche qui è giunta la mano dell’uomo. Continuiamo a pedalare alternando salite e discese, attraversando di tanto in tanto qualche masseria o qualche borgo in cui la vita si muove a un’altra velocità. Salutiamo chiunque ci capiti di incontrare: le massaie sulla porta di casa, le vacche, le pecore, i pastori e i loro cani, i braccianti, le galline, le bisce, ramarri e lucertole. Mi piacciono le lucertole, animaletti affetti da curiosità incurabili, vestite di colori allegri, innocue per noi bipedi e indispensabili per il contadino. Da piccolo, mio nonno ne aveva una per amica, e nei suoi racconti ne parlava come fosse un’amante: “Quando ero giovincello, restavo spesso a dormire in campagna. Dormivo nel trullo, su un sacco riempito di biada. Avevo tredici anni, ma fumavo già la pipa. Ero piccolo, ma non potevo avere paura, per questo mi affidavo a una pipa, e a due amiche, una biscia e una lucertola. Erano sempre lì, nel trullo, nascoste nelle loro tane tra le pietre, aspettando che accendessi la lampada ad olio per spuntare fuori e salutarmi. La biscia era piuttosto 102

timida, sporgeva appena la testa per raccogliere qualche carezza e le briciole di frisa che lasciavo cadere. La lucertola invece era una vera impunita, e curiosissima. Si lasciava afferrare e accarezzare tranquillamente come se le coccole le spettassero di diritto”. A questo punto del racconto, gli chiedevo puntualmente: “Ma nonno, non avevi paura a stare tutto solo?”. E lui rispondeva di no, ché tutti i suoi coetanei facevano quella vita, tutti erano lasciati soli a lavorare nelle campagne per guadagnare un tozzo di pane. La sera bastava lanciare un fischio di riconoscimento nel buio, chi lo riconosceva rispondeva con il suo e via, a uno a uno. Era come un appello. “C’era Uccio, che sapeva suonare la chitarra come un andaluso, c’era Ferdinando che costruiva i tamburelli, e poi lu Portune, lu Zapata, lu Riestu, lu Scangatu. Con loro ci ho fatto la Resistenza e la battaglia di Arneo. E ci sono pure andato assieme al bordello, che allora così s’imparava a fare all’amore”. Quando pedalo in questi luoghi ho l’impressione di sciogliermi insieme al mio sudore, divento un corso d’acqua capace di scivolare lungo i miei percorsi preferiti. Non è come in città, dove i movimenti si misurano in metri quadri, dove i muri costringono lo sguardo a fare a meno dell’orizzonte, e se è vero che il futuro e l’orizzonte sono la stessa cosa, ti costringono a rinunciare al futuro. Siamo arrivati a San Cataldo e come sempre andiamo dritti al bar vicino al faro. Ci sono i soliti pescatori, al103

cuni giocano a tressette in compagnia di un bicchiere di Sambuca, qualcun altro legge la “Gazzetta del Mezzogiorno” in disparte. Saluto il vecchio barista e ordino tre tazze di cioccolata calda con aggiunta di caffè al ginseng e una goccia di anice, mentre Sirio e Luca si siedono al nostro tavolino preferito, quello con il mare proprio di fronte. “Ho deciso di partire. Dopo il concerto mi trasferisco in Spagna, a Valencia”. Ecco, ce l’ho fatta. L’ho detto. “Mi hanno offerto un lavoro e ho accettato. Qui non saprei davvero cosa cazzo fare e da dove iniziare. A casa mi trattano come un bimbominkia. E come se non bastasse viviamo in un paese col torcicollo che guarda solo a Nord. Non riesco proprio a vedermi seduto di fronte a un pc in qualche azienda del Bergamasco. No. Ho bisogno di stare lontano per un po’, magari solo un paio d’anni. Scusatemi se non ve l’ho detto prima, ma... è che...”. “L’avevamo capito, cugghiune, che avevi qualcosa per la testa. Finalmente ti sei sbrinato”. Sirio sorride e voltandosi verso il barista ordina tre “Sambuca con mosca”. “Ma perché Valencia?”. “Carlo, il designer amico di zio Maurizio, si è trasferito a Barcellona e gli affari gli vanno bene. Ha aperto una agenzia che ha contratti pubblicitari con mezza Catalogna, così ha deciso di aprire una sede anche a Valencia. Ancora non ho capito bene cosa farò di preciso, ma pare che dovrò imparare a gestire un’agenzia pubblicitaria. Carlo dice che sembra una città fatta apposta per noi 104

salentini, amanti del buon vino, del buon cibo e della movida”. “Alla tua salute e a Valencia!”, Luca mi dà una pacca sulla spalla e manda giù tutto, la sambuca e la mosca. Chiamiamo il barista e gli chiediamo di riempirci ancora i bicchieri. E ancora, ancora, ancora. Poi decidiamo che è ora di tornare, abbiamo una cinquantina di chilometri davanti, e siamo mezzi ubriachi e con le mosche che cominciano a ronzare nel duodeno. Montiamo in sella e procediamo verso sud con in faccia la tramontana, che – neanche fosse Maria Callas – è tornata a cantare in do di petto, opponendo forze uguali e contrarie alle nostre. Dopo qualche chilometro mi metto avanti per tirare e faccio capire a Sirio e Luca che voglio passare dal Pagliarone, un trullo che domina la collinetta a ovest di Frigole, ha un diametro di dodici metri e tra base e cono è alto sette metri. Il Pagliarone fa parte della mia vita, da piccolo ci andavo a raccogliere i funghi insieme a zio Maurizio e Amadeus, che avevano scoperto che il bosco attorno era pieno di porcini. Una quindicina di minuti e siamo al Pagliarone. Salgo sul tetto e guardo a nord, verso la ciminiera della Centrale a carbone: la violenza della tramontana ha spazzato via i fumi che invadono quella parte di cielo tanto da darti l’illusione che la Centrale sia un pezzo di archeologia industriale. Una gazza si posa su un mirto a pochi metri da me. Sembra sapere cosa ci faccio quassù, che 105

sto per partire, che voglio salutare la mia terra, le gazze, le lepri, i fagiani, le tartarughe, le volpi, le donnole, i cigni del bacino, i falchi della palude e i gheppi delle serre, che in tutti questi anni hanno accompagnato le mie pedalate. La gazza mi osserva ancora un istante poi vola via verso la sua libertà, sospinta da quella furia chiamata tramontana, vento forte e di sesso femminile, aggressiva, impulsiva, appassionata e tenace, che fa soffrire ma in cambio ti offre quell’ossigeno fresco e puro che lava il sangue trasformando la fatica in estasi. Brava Tramontana!

Ringraziamenti

Questo libro è dedicato a Maurizio Rampino, giornalista unico e amico indimenticabile. Ringrazio mia moglie Angela per avermi aiutato e incoraggiato a continuare a scrivere e mio figlio Orlando, che m’insegna a osservare meglio. Gina Tedeschi, per aver creduto in questo racconto e averlo curato con passione, dedizione e professionalità. I miei fratelli del Sud Sound System e la reggae family sparsa nel mondo, che insieme mi aiutano a parlare d’amore e giustizia. Greenpeace, gli ambientalisti di Taranto, No al carbone di Brindisi, Forum Ambiente Salute, comitato Tutela Porto Miggiano e tutti i cittadini che difendono questa terra dalla crudeltà delle ecomafie. Grazie anche alla mia bici, perché senza di lei non avrei mai scritto un racconto.