Saggio sulla struttura della metafisica [2 ed.]

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Saggio sulla struttura della metafisica [2 ed.]

Table of contents :
SAGGIO SULLA STRUTTURA
DELLA METAFISICA
Capitolo I
Capitolo Π.
Capitolo I.
2. - La fenomenologia dell’esperienza integrale e la
Capitolo II.

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PUBBLICAZIONI DELLA SCUOLA DI PERFEZIONAMENTO IN FILOSOFIA DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA ---------------------------------------------- 5----------------------------------------------

Serie: LEZIONI E CONFERENZE

PIETRO FAGGIOTTO

SAGGIO SULLA STRUTTURA

DELLA METAFISICA Seconda edizione riveduta ed ampliata

P AD Ο V A CEDAM - CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI 1969

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

(g) Copyright 1969 by CEDAM - Padova

Printed in Italy - Stampato in Italia ISTITUTO POLIGRAFICO UMBRO - CITTÀ DI CASTELLO - 1969

A Umberto Antonio Padovani dedico questo mio lavoro

inadeguata ma affettuosa testimonianza

di quel « vivente discorso » che egli ha

« scritto nella mia anima »

INDICE

Prefazione alla li edizione.................................................................. pag. Prefazione alla I edizione..................................................................

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13

»

Parte Prima DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

CAP. I - « Domanda totale » e sapere metafisico............................. pag. 1. - L’aporia della definizione..................................................... 2. - Il concetto di conoscenza come « visione »....................... 3. - Domanda totale e mediazione........................................... 4. - La conoscenza « atematica »................................................ 5. - «Visione» e «interpretazione»........................................... 6. - Le forme della conoscenza................................................ 7. - La conoscenza filosofica.......................................................... 8. - Le articolazioni del discorso metafisico............................ 9. - Passaggio dalla definizione alla costruzione metafisica . » Cap. IL - Itinerario metafisico........................................................

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9-

-

» » » » » » » »

»

Premessa................................................................................... » I primi principi . . ,..................................................... » Il principio di non contraddizione...................................... » Il principio di ragion sufficiente...................................... » Passaggio dai principi ai concetti primi............................ » Sostanza e accidenti............................................................... » Potenza ed atto.................................................................... » L’Atto puro.............................................................................. » La posizione critica del problema della possibilità della metafisica............................................................................ » 113

21

21 24 31 34 36 40 48 59 64 67 67 68 70 76 82 84 85 103

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INDICE

Parte Seconda POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

Cap. I. - Esperienza aiematica e discorso metafisico 1. 2. 3. 4. 5. 6.

7. 8.

....

- La metafisica di fronte alla critica empiristica .... - La fenomenologia dell’esperienza integrale e la scoperta dell’esperienza atematica................................................... » - La struttura dell’esperienza integrale ................................ - Applicazioni semantiche.......................................................... - La classificazione empiristica delle proposizioni ... - Critica alla classificazione empiristica delle proposizioni. Proposizioni analitiche con valore fattuale............... » - Autenticità delle proposizioni metafisiche...................... - Le proposizioni e i simboli metafisici nel contesto del­ l’esperienza integrale........................................................ »

pag. 119

»

119

125 » 129 » 135 » 137

142 » 146 149

Cap. II - Fondamento eidetico e valore « fattuale » del discorso metafisico.................................................................... » 155 1. 2. 3. 4. 5.

Giudizio sintetico a priori e definizione...................... » 155 Definizione e astrazione..................................................... » 166 La struttura delle proposizioni della geometria ... » 173 La struttura delle proposizioni metafisiche: necessità e fattualità delle conclusioni...................................................... » 180 - Conclusione: ritorno al concetto di esperienza integrale » 186

-

APPENDICE I

Introduzione ad una fenomenologia dell’esperienza integrale

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

-

.

.

pag. 193

L’esperienza come originaria mediazione....................... » 193 Esperienza e discorso......................................................... » 201 Esperienza e giudizio......................................................... » 206 Esperienza e intelligenza.................................................... » 214 Esperienza e verità.............................................................. » 219 Esperienza e metafisica................................................. » 227 Compito e limiti dell’indagine fenomenologica ... » 235

9

INDICE

APPENDICE II

Il problema della metafisica nel progetto dell’unificazione del sapere pag. Evoluzionismo e metafisica classica...................................................... » Pensiero mitico, metafisica e analisi dell’esperienza........................ » Il punto di partenza dell’indagine filosofica....................................... » Il valore ontologico dei primi principi............................................ » L’originaria correlazione tra il concetto del tempo e il concetto dell’eterno................................................................................. » 273 Il problema dell’esistenza di altri soggetti pensanti e della loro comunicazione............................................................................ » 281

Indice dei nomi....................................................................................

243 249 253 259 269

» 291

PREFAZIONE ALLA II EDIZIONE

La seconda edizione di questo Saggio ripropone, con qual­ che correzione e qualche modifica non sostanziale, il testo della prima. L’ampliamento consiste nella pubblicazione di una seconda Appendice, in cui sono raccolte alcune tra le note più recenti, scritte in occasione di Congressi, Convegni o altri in­ contri di studio, le quali rappresentano un approfondimento ed un’integrazione di temi già affrontati nel Saggio. Avevamo in un primo tempo pensato di rifondere il nuovo materiale nel testo originale, modificando quest’ultimo più pro­ fondamente; ma, dopo qualche incertezza, abbiamo alla fine de­ ciso di ricorrere alla formula sopra indicata, per mantenere di­ stinti quelli che sono effettivamente dei momenti successivi del nostro itinerario speculativo. In questo modo, riteniamo, risul­ terà di volta in volta più evidente il motivo problematico che ha determinato certi sviluppi, e più manifesto il nostro debito verso quanti, con la discussione pubblica e privata, hanno con­ tribuito a stimolare e a sviluppare la nostra ricerca.

P. F. Padova, gennaio 1969

Avvertenza. - Il compito di stabilire il rapporto tra il testo principale e YAppendice II è stato assolto con l’introduzione di nuove note contrassegnate da asterisco.

PREFAZIONE ALLA I EDIZIONE

Il presente saggio si articola in due parti: la prima è dedi­ cata alla presentazione del concetto di metafisica, nel suo stretto rapporto con quello di filosofia, e alla fondazione delle sue strut­ ture essenziali; la seconda è rivolta alla difesa della possibilità della metafisica, attraverso l’analisi della forma logica di questo particolare tipo di discorso. Si è voluto così intenzionalmente capovolgere l’atteggia­ mento che, da Kant in poi, è invalso assumere nei confronti della metafisica: quello cioè di ritenere che la ricerca intorno alla possibilità di questa disciplina debba precedere qualunque tentativo di effettiva costruzione. Dopo tante indagini condotte in questa direzione, e dopo tante discussioni e polemiche, viene ormai facendosi sempre più strada la convinzione che non ha senso cercare di determinare « a priori » la possibilità o meno della metafisica, ma che tutto ciò che si può ragionevolmente fare nei suoi confronti è di controllare la validità delle sue con­ crete formulazioni. Invero, chi voglia discutere seriamente sulla possibilità della metafisica è necessario ne possieda prima un qualche concetto; ma, d’altro canto, non può possedere un tale concetto senza averlo ricavato da qualche espressione ben determinata. È per questo che tutte le discussioni sulla possibilità della metafisica

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PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

in generale si sono, in effetti, sempre riferite, almeno implici­ tamente, a questo o a quel particolare sistema. Con ciò non si intende negare la possibilità di istituire in­ torno alla metafisica una indagine di carattere generale — che invece è proprio quello che qui si vuol fare —; si intende sol­ tanto richiamare la elementare verità che una ricerca di questo ge­ nere, che non si riferisca a precise esperienze storiche, si riduce in sostanza ad una vuota discussione verbale. Dato infatti il carattere convenzionale del nostro linguaggio, non c’è niente che possa conferire un reale significato ad una parola, in questo caso al termine « metafisica », se non il suo riferimento alla concreta esperienza. Di diritto, perciò, la ricerca intorno alla possibilità della metafisica deve essere preceduta dal tentativo della sua costruzione. Si potrebbe obiettare che è sufficiente che tale tentativo sia stato compiuto nel passato e che non è necessario che esso venga nuovamente ripetuto; tuttavia dovrebbe risultare abbastanza evi­ dente come non sia possibile comprendere appieno un’esperienza passata senza un’intima partecipazione ad essa, senza cioè che essa venga in qualche modo rinnovata. Il riferimento alle concrete esperienze storiche porta invero con sè il pericolo di una frantumazione del concetto di meta­ fisica, il pericolo cioè che ci si disperda fra i molteplici signifi­ cati, talora equivoci, che al termine « metafisica » sono stati di volta in volta attribuiti. In tale situazione, l’unico modo di evi­ tare questo inconveniente consiste nell’operare una scelta tra i vari usi del termine in questione, una scelta diretta ad enucleare una nozione di carattere generale, che trovi, possibilmente, la più ampia esemplificazione analogica. Il concetto di metafisica che in questo saggio viene proposto è quello di una scienza capace di pervenire a delle conclusioni universali e necessarie, non solo sul piano semplicemente for­

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

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male, come, ad es., è il caso della matematica pura, ma anche sul piano fattuale o, come ci sembra più esatto dire, ontologico. In questo senso appunto la metafisica è stata intesa da coloro che sono generalmente riconosciuti come i suoi maggiori cultori o i suoi maggiori oppositori. Un simile concetto di metafisica mette immediatamente in evidenza la intrinseca contraddittorietà della sua negazione, ten­ tata attraverso l’analisi logica del linguaggio, il cui primo com­ pito sarebbe quello di stabilire le condizioni imprescindibili di ogni discorso sensato. Una simile indagine di natura trascenden­ tale rientra infatti in quello stesso concetto di metafisica che si vorrebbe rifiutare. Il discorso umano è pur sempre qualcosa di « effettivo », di « reale »; perciò chi intende scoprire in esso delle leggi universali, capaci di valere come criteri categorici in base ai quali operare una netta distinzione tra proposizioni au­ tentiche e pseudo-proposizioni, fa già della metafisica. Il non ve­ dere che il discorso sul discorso (lo si chiami gnoseologia, logica maior, logica trascendentale od altro) è già una forma di metafi­ sica, significa accettare acriticamente il presupposto gnoseologistico (dualismo di essere e pensiero), sulla cui completa incon­ sistenza s’è fatta da tempo piena luce. In questo saggio si avanza, la tesi che la logica, intesa in tutta la sua portata trascendentale, non solo sia una forma di metafi­ sica, ma che addirittura sia la forma peculiare cui la metafisica debba pervenire per costituirsi nella sua piena autonomia, vale a dire in tutto il suo rigore critico. Vi è infatti una forma spon­ tanea ed ingenua di metafisica che si costituisce come Weltanschauung elaborando i dati dell’esperienza alla luce dei primi principi, ma accogliendo tali dati ed usando tali principi senza far­ li oggetto di una esplicita riflessione; ciò che normalmente, e del tutto legittimamente, avviene, seppure in gradi diversi, nelle varie formulazioni del discorso comune e del discorso scientifico.

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PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Non si vuol certo negare a questo tipo di metafisica il suo par­ ticolare valore; si vuol soltanto denunciare nei suoi confronti la mancanza di quella maturità che può venire soltanto dalla piena consapevolezza della natura dei materiali e della validità degli strumenti che in essa vengono usati. Questa consapevolezza può essere raggiunta procedendo alla più radicale problematizzazione del discorso umano, fino a rag­ giungerne la struttura essenziale ed originaria che è la stessa espe­ rienza integrale. In questo processo di problematizzazione si inse­ risce l’importante contributo dialettico della stessa polemica an­ timetafisica. Costretta alla confutazione della propria negazione, la metafisica esce da questo confronto non solo riconfermata, ma anche criticamente consolidata. Le tesi, che qui si è voluto sommariamente richiamare, rap­ presentano lo sviluppo di quelle contenute nel volume Espe­ rienza e Metafisica (Liviana, Padova, 1959). Il trapasso dalle une alle altre è costituito dalla Introduzione ad una fenomenologia del­ la esperienza integrale (« Studia Patavina », 1959, fase. 2, pp. 287324), che si è perciò ritenuto opportuno riportare in appendice al presente volume. Quanto di nuovo si trova in esso contenuto, rispetto ai precedenti lavori, è dovuto, da una parte, allo studio più approfondito delle opere di alcuni maestri del pensiero antico e moderno, dall’altra, alla mia partecipazione ai lavori della Scuola di perfezionamento in filosofia della Università di Padova, diretta dal Prof. Marino Gentile. Non sembrerà strano perciò che alcune idee presentate in questo volume siano condivise, sia pure con diverse inflessioni e sfumature, dalla maggior parte di coloro che lavorano in que­ sta scuola. Esse sono appunto venute maturandosi attraverso le frequenti discussioni che hanno preso le mosse dalla concezione della problematicità pura del Prof. Gentile, al quale rivolgo il più vivo ringraziamento per la somma di spunti e di suggeri­ menti che ho potuto trarre dal suo pensiero.

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PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Un ringraziamento particolarmente commosso al Prof. Um­ berto A. Padovani, che mi è stato per tanti anni Maestro, e nel cui programma di una metafisica classica « essenzializzata » la scuola padovana riconosce il suo stesso programma.

P. F. Padova, gennaio 1965

Avvertenza. - I primi tre capitoli del presente volume sono già stati pub­ blicati, sotto forma di articoli, su due riviste filosofiche (in ordine: Studia Patavina, 1964, fase. 1, ρρ. 67-101; fase. 2, pp. 236-274; Rivista di filosofia neo-scolastica, 1963, fase. 3-4, pp. 263-286). Qui appaiono con lo stesso ti­ tolo, ulteriormente elaborati.

PARTE PRIMA

DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

Capitolo I « DOMANDA TOTALE » E SAPERE METAFISICO

1. - L’aporia della definizione. Una ricerca intorno alla struttura della metafisica, che vo­ glia porsi in forma radicale, non può evitare di richiamarsi ad una definizione di « filosofia ». Il compito non è certo facile, soprattutto nel nostro clima culturale, in cui regna nell’uso del venerando termine un disaccordo che è spesso completo. Ogni scuola filosofica ha un proprio modo di concepire la filosofia e tende addirittura a negare alle altre scuole, agli altri indirizzi di pensiero, l’ispirazione genuinamente filosofica. Come dall’interno di ogni religione si è portati a mettere in discussione il carattere di vera religiosità delle altre confessioni, o come dalla prospettiva interna di ciascun partito si è portati a dubitare della stessa buona fede politica dei partiti avversi, così dall’interno di ogni filosofia si giunge a rimproverare alle altre filosofie non questo o quell’errore particolare, ma il tradimento dell’autentico concetto di filosofia. Si potrebbe invero scorgere in questo stesso atteggiamento di esclusività uno dei tratti essenziali della speculazione filosofica, cioè la sua esigenza di assolutezza e di totalità che rende impossi­ bile la convivenza di una pluralità di dottrine; si potrebbe forse riconoscere ancora nella radicalità stessa del contrasto un altro aspetto fondamentale della ricerca filosofica, cioè il suo carattere di totale problematicità per cui la filosofia diventa problema a

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

se stessa. Tuttavia non crediamo che attraverso questa via si possa giungere ad una definizione di filosofia, sia pur vaga e incompleta, che possa essere universalmente accolta. Ma è questo appunto un equivoco che deve essere evitato da chi si propone di definire il termine « filosofia », come del resto qualunque altro termine: di pensare cioè che esista di diritto una definizione univoca del termine cui tutti debbano necessaria­ mente conformarsi. Esiste al contrario nella definizione dei ter­ mini un larghissimo margine di convenzionalità che legittima l’uso ampiamente analogico, o addirittura estremamente equivoco, dello stesso termine in differenti ambienti e in diversi contesti cul­ turali. Si dovrà allora rinunciare ad una definizione preliminare di filosofia, universalmente valida, e si dovrà accogliere senza di­ scussione questa o quella particolare definizione, pregiudicando così fin dall’inizio ogni possibilità di accordo? Crediamo di dover rispondere che l’accordo in filosofia, non meno che nella vita, non è per lo più un punto di partenza, ma un punto di arrivo. Conferire carattere universale ad una deter­ minata definizione di filosofia rappresenta perciò il compito finale e non iniziale di uno studio introduttivo. Noi cominceremo con il dare la « nostra » definizione di filosofia, « nostra » non nel senso che sia stata arbitrariamente coniata, ma nel senso che essa è il risultato della nostra particolare formazione, vorrei dire espe­ rienza, filosofica. Ciò che importa, anzitutto, è elaborare chiara­ mente la nostra definizione, cioè analizzare e descrivere con asso­ luta fedeltà quel determinato contenuto eidetico che noi inten­ diamo indicare con il termine « filosofia ». La nostra speranza, o presunzione, è che altri riescano a riconoscere, in quanto noi ver­ remo esponendo, quello stesso contenuto eidetico o concettuale che essi ugualmente si sforzano di esprimere, seppure con termini diversi. L’accordo insomma, se possibile, deve essere raggiunto movendo non dalle parole verso le idee, ma in un certo senso dalle idee, vorremmo dire dalle cose, verso le parole. È chiaro tuttavia che non ci è dato di comunicare direttamente le nostre idee, ma che la comunicazione è condizionata

CAP. I. - « DOMANDA TOTALE »

E SAPERE METAFISICO

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sempre dall’uso delle parole, necessario strumento, ma ad un tempo inevitabile limite alla reciproca comprensione. L’aporia della incomunicabilità, che già Gorgia aveva sollevato, si supera osservando che di fatto nella vita di ogni giorno gli uomini, almeno in una certa misura, comunicano tra loro e si compren­ dono. Ciò sta a testimoniare che un accordo esiste sul significato di alcuni termini, ed è appunto usando di questi che si potrà pervenire alla fine a chiarire il significato dei termini controversi. Da ciò l’importanza essenziale del linguaggio comune come strumento per ristabilire la comunicazione, specie là dove essa ap­ pare oggi più compromessa, nel campo cioè della ricerca filosofica. Per linguaggio comune si intende qui, tautologicamente, l’insieme dei termini sui quali l’accordo già sussiste. La distinzione perciò tra linguaggio comune, od ordinario, e linguaggi speciali, o tec­ nici, viene anzitutto operata con riferimento alla fortuna este­ riore, vale a dire alla diffusione più o meno grande di un linguag­ gio. È certo tuttavia che queste denominazioni hanno riferimento anche alla natura intrinseca dei linguaggi considerati. Poiché i vari linguaggi speciali sono sempre il frutto di un lavoro di affi­ namento svolto da singoli individui o da singoli gruppi, è natu­ rale che essi siano non solo più circoscritti nel loro uso, ma anche più precisi e determinati rispetto al linguaggio comune da cui sono venuti differenziandosi. Si dà inoltre la possibilità che un linguaggio speciale diventi a sua volta comune in rapporto ad una successiva elaborazione. In questo caso esso sarà meno arti­ colato e meno differenziato (ma perciò anche meno esoterico) dei nuovi linguaggi speciali che verranno enucleandosi. Ciò che im­ porta in questa continua vicenda è che vengano mantenuti i con­ tatti tra i vari linguaggi speciali e la loro matrice comune. In caso contrario i vari linguaggi si chiuderebbero in se stessi, cesserebbe il dialogo e, col dialogo, la possibilità di ulteriori sviluppi ed ap­ profondimenti. Da ciò l’opportunità che in una ricerca introduttiva parole come « idea », « concetto », « oggetto », « realtà», ecc., quali che siano la loro origine e il loro significato nei vari linguaggi

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

speciali, vengano all’inizio adoperati nell’accezione che essi hanno nel parlare ordinario. A mano a mano che l’indagine proseguirà, essi potranno acquistare un significato più preciso e differenziato che, se venisse attribuito loro fin da principio, non potrebbe es­ sere facilmente inteso da quanti sono stati iniziati ad una termi­ nologia filosofica diversa. Questa pratica di mediare i linguaggi tecnici particolari con il ricorso al linguaggio ordinario contri­ buirà, si spera, a ristabilire, pur nel fatale riprodursi della diver­ sità dei linguaggi, un sostanziale accordo sulle idee. Ed è questo l’essenziale.

2. - Il concetto di conoscenza come « visione ».

Il concetto più ovvio di filosofia da cui intendiamo esordire è quello suggerito dall’etimo stesso, quello cioè di ricerca di quella particolare forma di « conoscenza » che dicesi « sapienza ». Que­ sta prima definizione di filosofia ci costringe a compiere dei passi indietro per tentare di definire il nostro concetto di « sapienza » e, prima ancora, di « conoscenza ». Cerchiamo di esprimere questo concetto con i termini del linguaggio comune dicendo che conoscere è vedere come stanno le cose Q). C’è in tale concetto di conoscenza come « visione » un O II concetto di conoscenza come « visione » è chiaramente presente nell’etimo stesso di molti termini della nostra lingua (idea, teoria, specie, speculazione, perspicacia, evidenza, ecc.) e lo è indirettamente nell’uso tra­ slato di altri (chiarezza, oscurità, lucidità, illuminazione, riflessione, ecc.). Alcuni di questi termini (idea, teoria) sono di origine greca e si richia­ mano a quella che fu appunto la concezione classica della conoscenza come « visione ». In tale concezione il conoscere in quanto tale, nello stesso suo grado supremo, è θεωρία, e dunque adeguazione del conoscente al cono­ sciuto. Da questa condizione di adeguazione e di passività si salva soltanto il pensiero divino per la identità che in esso si realizza di conoscente e cono­ sciuto: νόησις νοήσεως. La concezione del conoscere come « visione » o « adeguazione » dura fino

CAP. I. - «DOMANDA TOTALE»

E SAPERE METAFISICO

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significato di fondamentale recettività, un significato quasi di pas­ sività. Anche se per pervenire alla conoscenza fosse necessario un precedente o concomitante esercizio di attività, l’atto conosci­ tivo si risolverebbe pur sempre alla fine in un atto di adeguazione o accettazione, che è tale soltanto se accoglie le cose come stanno, senza alterarle o modificarle. Può darsi, ad esempio, che per sco­ prire le sorgenti di un fiume un esploratore debba superare una infinità di ostacoli, impegnando fino all’estremo le sue risorse morali e fisiche; giunto però alla meta, non gli rimane che arre­ starsi e prender atto della situazione. Questo suo « vedere » può alla rivoluzione kantiana. Il concetto nuovo del conoscere come « costru­ zione » dell’oggetto da parte del soggetto, rivela tutto il suo significato pole­ mico solo se confrontato, con il concetto classico della conoscenza. L’ideali­ smo, poi, con la sua identificazione del processo conoscitivo con il processo « creativo », porta alle estreme conseguenze il punto di vista kantiano. Era naturale che l’esaurirsi della posizione idealistica dovesse portare ad una rinascita della concezione classica. Tale rinascita, prodottasi per la me­ diazione della dottrina scolastica della intenzionalità, è particolarmente evi­ dente nella fenomenologia husserliana. In polemica anche con la posizione empiristica, che riduceva la « visione originalmente offerente » (originar gebende Anschauung) alla sola esperienza sensibile, Husserl difende un più am­ pio concetto di « visione », che, oltre alla sensibile, si estende a quella eide­ tica e a quella categoriale. La « visione originalmente offerente » di « qual­ siasi specie » è in ogni caso la sorgente di legittimità di tutte le afferma­ zioni : « Se noi vediamo un oggetto in tutta chiarezza, se siamo giunti ad esplicarlo e comprenderlo concettualmente sul fondamento del vedere e nei limiti di quanto in questo vedere abbiamo afferrato realmente, se vediamo (come maniera nuova di « vedere » ) come l’oggetto è costituito, allora la fedele espressione di tutto questo è valida » (Ideen zu einer reinen Phànomenologie und -phànomenologischen Philosophie, I, Husserliana, Band III, Martinus Nijhoff, Haag, 1950, p. 44). Nella riconquista del concetto di conoscenza come visione riteniamo con­ sista il significato essenziale della fenomenologia husserliana. La stessa εποχή o riduzione fenomenologica non è che l’applicazione metodologica di questo concetto, la via cioè per pervenire all’evidenza apodittica (cfr. in particolare i §§ 6-7-8 delle MÀditations Cartésìennes').

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

ancora chiamarsi attività, ma si tratta di una attività ben diversa dalla precedente: quella conduceva ad una modificazione delle cose esterne che dovevano cedere il passo all’osservatore, questa consiste invece in una adeguazione dell’osservatore alla cose, con la conseguente rinuncia alle precedenti congetture ed ipotesi. Se per caso l’esploratore, esausto per le fatiche compiute, fosse colto dal delirio e gli sembrasse, ad esempio, che il fiume scen­ desse direttamente dal cielo, questa sua rappresentazione non sa­ rebbe detta nel linguaggio comune « conoscenza », ma « illu­ sione » o « allucinazione »; appunto perchè conoscere, in tale linguaggio, significa registrare fedelmente le cose come sono, senza alterarle nella propria immaginazione o crearle con la pro­ pria fantasia. Mi rendo conto benissimo della obiezione che mi può essere a questo punto rivolta. Potrei essere accusato di ingenuo realismo, di presupporre cioè, senza giustificarla, l’esistenza di cose al di fuori del pensiero; potrei essere accusato di ritornare acriticamente su posizioni oggettivistiche senza tener conto di tutta l’esperienza idealistica. In realtà non credo di meritare queste accuse. Ho in­ teso semplicemente richiamarmi, indipendentemente da qualsiasi dottrina della conoscenza, a quello che è il significato del termine « conoscenza » nel linguaggio comune. Che poi la pretesa espressa da questo linguaggio si realizzi effettivamente, che si dia cioè un conoscere come puro vedere, con esclusione di qualsiasi azione mo­ dificatrice da parte del soggetto, questo è un altro problema che non riguarda affatto il significato che alla parola in questione è attribuito dal linguaggio ordinario. Da questo punto di vista non dovrebbero esserci dubbi sulla fedeltà della nostra descrizione. Il vero problema sorge precisamente solo a questo punto. Ed è un duplice problema: in primo luogo, se sia possibile accogliere una diversa accezione del termine « conoscenza »; in secondo luogo, se sia possibile riscontrare di fatto la situazione conosci­ tiva nei termini in cui è stata descritta. Quanto al primo problema la risposta è affermativa. Niente potrebbe vietarmi di usare, ad esempio, il termine « conoscenza »

CAP. I.

« DOMANDA TOTALE »

E SAPERE METAFISICO

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per designare un atteggiamento mentale di creatività, anziché di recettività. Nel linguaggio idealistico effettivamente « conoscere » significa « fare », « porre », « creare ». Si considera l’oggetto co­ nosciuto non come qualcosa che è dato al soggetto conoscente, ma come qualcosa che è prodotto dalla sua fantasia creatrice, infinita ed assoluta attività. Ripeto che nulla vieta di accettare questa defi­ nizione del termine « conoscenza ». Il problema, se mai, è un al­ tro: quello cioè di vedere se si realizzi di fatto nella nostra espe­ rienza umana una simile forma di attività e se si realizzi in quel grado che l’idealismo pretende. Tuttavia l’accettare la definizione di « conoscenza » come attività, non è perciò escludere la possibi­ lità dell’atteggiamento di recettività precedentemente descritto; soltanto che questo dovrebbe essere indicato con un termine diverso. Il pericolo di certe discussioni filosofiche è che ci si ostini dalle parti in contesa a legare un determinato nome ad un determinato contenuto eidetico, trasformando così la discussione in una pura contesa verbale, paragonabile a quella che sulla culla del neonato si svolge talora tra congiunti ed amici troppo zelanti. In entrambi i casi non è bello litigare sui nomi; ci si deve invece preoccupare di dare ad ogni cosa il suo nome, per poterla al momento op­ portuno indicare senza pericolo che vada confusa con altre. Perciò, se qualcuno intendesse fare un uso del termine « cono­ scenza » diverso da quello che si riscontra nel linguaggio comune, sarebbe perfettamente libero di farlo, a condizione di rimaner poi fedele alla convenzione adottata. Il rischio infatti cui ci si espone quando di un termine si sceglie una accezione diversa o addirit­ tura antitetica a quella del linguaggio ordinario, è di finire per contaminare i due significati, sovrapponendo l’uno all’altro, in luogo di sostituire l’uno con l’altro. Può avvenire infatti che ad un certo punto il significato che era stato sacrificato torni a riaf­ fiorare, rendendo tutto il discorso estremamente equivoco. È per questo che mi sembra preferibile non allontanarsi, fin dove è pos­ sibile, dal linguaggio comune. Il problema fondamentale tuttavia non è quello di scegliere

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

i nomi con cui tenere a battesimo le nostre idee, ma quello di ana­ lizzarle attentamente e di vagliarne la corrispondenza alle reali situazioni della nostra esperienza, in questo caso della nostra esperienza teoretica. Ciò che a noi interessa soprattutto stabilire è se si verifichi effettivamente la situazione che abbiamo indicato con l’espres­ sione « vedere come stanno le cose ». Osserveremo in primo luogo come l’atteggiamento conoscitivo, almeno come disposizione del soggetto a vedere e a prender atto delle cose così come esse sono, si verifichi anche in coloro che propongono una diversa definizione del termine « conoscenza ». Se l’idealista, ad esempio, può desi­ gnare con questo termine l’attività creatrice del soggetto, è per­ chè egli ritiene di aver preso atto, in un modo o nell’altro, dell’esi­ stenza di una simile attività, è perchè egli presume di « aver visto come stanno le cose » per ciò che riguarda il nostro pensiero. An­ che l’idealista dunque, per professarsi tale, dovrebbe riconoscere l’esistenza della tipica situazione del « vedere », qualunque fosse il termine con cui intendesse indicarla, dopo che il termine « conoscenza » è stato da lui attribuito alla precedente forma di attività. Il vero torto quindi dell’idealista non è quello di riser­ vare il termine « conoscenza » a designare l’attività creatrice del pensiero; il suo vero torto è di attribuire al pensiero soltanto que­ sta forma di attività. Se il nostro pensiero creasse sempre ed in ogni caso, non potrebbe neppure « vedere » il proprio creare. Nel­ l’idealismo il pensiero rischia di perdere se stesso per essere stato dotato, come il mitico re Mida, di un tocco troppo miracoloso. In questa difficoltà l’idealista sembra essersi cacciato per aver trascurato la distinzione, presente invece nel linguaggio comune, tra « conoscenza » e « pensiero ». « Pensiero » è, in questo lin­ guaggio, termine molto più esteso di quello di « conoscenza ». Certamente il conoscere è un atto del nostro pensiero, ma il nostro pensiero si manifesta anche in altre forme che sono, ad esempio, il dubitare, il domandare, il congetturare, l’interpretare, l’immagi­ nare, ecc. In rapporto a questa distinzione può avere un senso af­ fermare che un dato oggetto è prodotto dal nostro pensiero (che

CAP. I. - « DOMANDA TOTALE »

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qui verrebbe considerato nella forma della immaginazione), ma non ha alcun senso dire che un certo oggetto è il prodotto della no­ stra conoscenza e che quindi conoscere è creare. Conoscere, in que­ sta terminologia (a differenza delle altre manifestazioni del pensie­ ro in cui è chiaramente presente un senso di iniziativa e di attività), è sempre e soltanto « vedere », « prender atto », e perciò « ac­ cettare » e « subire », anche se ciò che si subisce fosse, sotto un altro aspetto, creato. Ripetiamo che si può benissimo indicare la situazione del « vedere » o « subire » con qualunque altro termine che non sia quello di « conoscenza ». Tuttavia non si può trala­ sciare di indicare in qualche modo questa situazione e meno an­ cora è lecito confonderla con qualche altra forma del pensiero. Discorso analogo a questo che è stato fatto nei confronti della concezione idealistica della conoscenza, può essere ripetuto nei ri­ guardi di qualunque altra definizione di « conoscenza », quale, ad esempio, quella kantiana di sintesi a priori, o quella pragmati­ stica di manifestazione di esigenze vitali. Tali concezioni impli­ cano ancora il riconoscimento di ciò che il pensiero comune in­ tende per « conoscenza ». Se si afferma che il conoscere è « sintesi a priori » o che il conoscere è « espressione delle forze cieche della vita », è.perchè si ritiene di avere « visto » che le cose stanno effettivamente in questi termini. La concezione del conoscere come « vedere » è dunque più o meno coerentemente presente in qualunque dottrina della conoscenza. L’atteggiamento « visivo » non si realizza però soltanto come semplice disposizione, come semplice pretesa, presente anche in coloro che sembrano misconoscerla. Esso si realizza anche come effettivo « vedere », precisamente come quel vedere che è a fon­ damento di ogni nostra enunciazione per il fatto stesso che non c’è enunciazione che non contenga un nucleo più o meno consistente di verità. L’errore infatti altro non è che una falsa interpretazione di un dato e presuppone in ogni caso il dato stesso intorno a cui l’interpretazione si svolge. Ora, quando la nostra affermazione di una cosa è contenuta dentro i limiti in cui la cosa effettivamente ci è data, quando ogni nostra interpretazione soggettiva è lasciata

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

in sospeso, allora la nostra enunciazione risulta necessariamente adeguata e vera (2). Ad esempio, l’affermazione « in questa stanza c’è un tavolo » trae la sua incontestabile verità dal fatto che io vedo che in essa c’è un tavolo. Anche se il tavolo fosse espres­ sione di un potere creatore della mia mente, non verrebbe meno la situazione del « vedere ». Il tavolo che « vedo » sarebbe ap­ punto un tavolo creato dalla mia immaginazione, ma con questo l’atto del « vedere » non sarebbe negato e non si risolverebbe nell’atto del creare. Se io ignoro la vera natura del tavolo che « vedo », è proprio perchè non sono ancora giunto a vedere come in questo caso stanno le cose. Se io erro, o corro il rischio di er­ rare, sostenendo una determinata tesi, è perchè non fondo la mia affermazione su di una semplice « visione », ma su di una discu­ tibile interpretazione. Il « vedere », insomma, può avere diversi livelli, può essere più o meno completo, cioè più o meno adeguato alla nostra esigenza teoretica, più o meno puro, cioè più o meno (2) Ci riferiamo qui al « principio di tutti i principi » enunciato da Husserl al § 24 delle Ideen : « Nessuna immaginabile teoria può indurci ad errare sul principio di tutti i principi: che ogni visione originalmente offerente è una fonte legittima di co­ noscenza, che tutto ciò che si presenta nella «intui­ zione» in maniera originaria (per così dire nella sua realtà cor­ porea) è da assumersi semplicemente come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui esso si dà» (Ideen, cit., p. 52). Analogo principio è alla base della gnoseologia pura di Giuseppe Zam­ boni : « La presenza e la manifestazione non hanno bisogno di ulteriore ga­ ranzia: ciò che è immediatamente -presente e manifesto esiste realmente, almeno nella misura e nella forma in cui si manifesta » (La dottrina della coscienza immediata — struttura funzionale della psiche umana — è la scienza positiva fondamentale, La Tipografica Veronese, Verona, 1951, n. 54). Per un confronto tra i due Autori si vedano: P. Valori, Il punto di partenza della filosofia in G. Zamboni ed E. Husserl, e Novato Picard, Gno­ seologia pura e fenomenologia trascendentale, in Studi sul pensiero di G. Zamboni, Marzorati, Milano, 1957, pp. 667-674, 675-688; G. Giulietti, La filosofia del profondo in Husserl e in Zamboni, Canova, Treviso, 1965.

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integrato da altri fattori, senza che tuttavia, pur nei suoi limiti, esso cessi di essere un autentico « vedere ». Domandare se si realizzi un effettivo « vedere » è in fondo la stessa cosa che domandare se noi conosciamo qualche verità. Così posta, la questione è facilmente risolta. Affermazioni quali « io esisto », « questo foglio è bianco », « 2 + 2 = 4 », assunte nella loro povertà e genericità, e con tutte le necessarie riserve, rap­ presentano delle verità assolutamente certe, perchè assolutamente « evidenti ». Molti tuttavia sono i casi in cui non sappiamo raggiungere la verità, appunto perchè non sappiamo raggiungere l’evidenza; e spesso anche ciò che vediamo, non lo vediamo integralmente, fino in fondo, ma in una forma superficiale ed incompleta. Se è evidente, ad esempio, che io esisto, non è altrettanto evidente che cosa io sia, sotto ogni riguardo. Il nostro effettivo « vedere » in ogni momento del processo conoscitivo risulta inadeguato rispetto alla nostra esigenza teoretica.

3. - Domanda totale e mediazione.

È da questa situazione di inadeguatezza, di sproporzione, che sorgono i dubbi, i problemi da cui siamo di volta in volta assillati e, conseguentemente, i vari tentativi per giungere alla loro solu­ zione. Nessun dubbio, nessun problema potrebbero sorgere se le singole conoscenze parziali non fossero rapportate ad una radi­ cale esigenza di sapere totale nei confronti della quale esse risul­ tano appunto insufficienti. A tale esigenza originaria daremo il nome di domanda totale o trascendentale·. « totale » ad indicare l’oggetto di cui essa è domanda, « trascendentale » ad indicare la sua costante presenza in ogni domanda particolare (s). Per la presenza in noi di questa domanda totale ogni « ve-

(3) Per il concetto di « domanda totale » o « trascendentale » si veda la concezione della « problematicità pura » di M. Gentile, di cui alla nota 16.

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dere » parziale viene avvertito sin da principio come tale: ve­ diamo e ci accorgiamo dell’insufficienza del nostro vedere. Se non fossimo sollecitati da tale domanda, ogni nostra « visione » incompleta acquisterebbe un carattere di compiutezza e di auto­ sufficienza: una « visione » seguirebbe all’altra, sovrapponendosi ad essa in forma del tutto estrinseca, senza provocare alcun pro­ blema, alcuna ricerca. Al contrario, in virtù della domanda trascendentale le varie prospettive parziali vengono connesse tra loro, così che la nostra conoscenza si configura originariamente e strutturalmente come relazione organica, come mediazione. Parlando della conoscenza come « visione » si corre il rischio di lasciar credere che si intenda la conoscenza come qualcosa di immediato, come l’apprendimento puntuale, di volta in volta, di questo o quell’oggetto particolare, al di fuori di ogni loro reci­ proco rapporto. Niente di tutto ciò. Neppure infatti sul piano di quella visione sensoriale, cui a torto può richiamarsi questa falsa interpretazione, si realizza una simile situazione. Ogni oggetto su cui posa il mio sguardo è colto in relazione ad una molteplicità di oggetti che nel loro insieme costituiscono lo sfondo della mia vi­ sione. Tale sfondo rappresenta un momento necessario della dia­ lettica dell’atto percettivo, perchè è solo in opposizione ad esso che l’oggetto in questione può essere colto con chiarezza e pro­ filarsi nella sua interezza. La sfera totale della mia percezione visiva è dunque qualcosa di intrinsecamente articolato e, in que­ sto senso, di mediato. La distinzione tra immediatezza e mediazione viene intro­ dotta nell’ambito della conoscenza quando si cerca di chiarire la natura del procedimento discorsivo ponendolo in rapporto con il momento originario della conoscenza che dicesi esperienza. Poiché nel discorso si perviene alla fondazione di una determi­ nata tesi mediante il ricorso ad altre tesi, precedentemente note, per la necessità di escludere un regresso all’infinito che rende­ rebbe impossibile ogni radicale fondazione, si è portati ad am­ mettere l’esistenza di alcune nozioni prime che si manifestano

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per se stesse, cioè immediatamente. Tali nozioni rappresentereb­ bero appunto i dati immediati dell’esperienza. Ora, se per « dati immediati » si intendono delle conoscenze che non sono frutto di un processo di dimostrazione, ma sono al contrario principio e fondamento di questo stesso processo, nulla di più legittimo che riconoscere dei dati di questo genere. Ma se per dati immediati si intendono degli elementi atomici isolati, delle monadi senza alcuna relazione tra loro, nulla di più errato, perchè nulla di più inadeguato a giustificare la genesi stessa del discorso. Puri dati irrelati non produrranno mai, per la loro stessa estraneità, un discorso. È necessario che i dati siano inclusi in una originaria, intrinseca relazione, perchè ciascuno di essi possa assolvere alla propria funzione di mediazione e di fecondo svi­ luppo. Immediati rispetto al successivo discorso esplicito, tali dati non sono però immediati nei confronti di quella relazione origina­ ria che appare quasi una sorta di discorso implicito. Il termine « immediato » risulta allora così facilmente equivoco, così biso­ gnoso di continue precisazioni, che forse è più utile in questo caso abbandonarlo. Si parlerà piuttosto della conoscenza, ad ogni li­ vello, come di una forma di mediazione e si distinguerà una me­ diazione originaria ed implicita, l’esperienza, da una mediazione derivata ed esplicita, il discorso. Il passaggio dall’esperienza al di­ scorso dovrà allora essere concepito non come l’inespicabile salto dall’immediatezza alla mediazione, ma come lo sviluppo di una mediazione originaria: in termini di « visione », come il progres­ sivo chiarirsi di una iniziale visione globale (4). Per giustificare quest’ultima espressione è necessario richia­ marci al concetto di domanda totale, che abbiamo più sopra intro­ dotto. Abbiamo visto come le manifestazioni del dubbio e della (4) Sul problema del rapporto tra esperienza e discorso si veda in Ap­ pendice I Introduzione ad una fenomenologia dell’esperienza integrale, §§ 1 e 2. Per lo sviluppo di questo stesso tema, si vedano inoltre i due saggi di R. Bacchin, L’originario come implesso esperienza-discorso, Jandi Sapi, Roma, 1963; Originartela e mediazione, ivi, 1963. 2

P. Faggiotto, Saggio sulla struttura della metafisica.

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

ricerca non si giustifichino con la sola presenza di un sapere par­ ziale (che preso in se stesso non potrebbe essere colto come tale), ma implichino anche la sollecitazione di una originaria esigenza di sapere totale. Ma l’esigenza di un sapere totale non equivale alla semplice assenza di tale sapere. L’esigenza di un sapere totale implica a sua volta che sia presente, che sia « intravisto » il tutto che si vuole sapere. Si tratterà certamente di una presenza nascosta, di una « visione » oscura (chè altrimenti ci troveremmo di fronte non ad una esigenza, ma alla sua soddisfazione); si tratterà senza dubbio di una esperienza inconscia o atematica (perchè è pro­ prio di chi, nell’indigenza, aspira alla ricchezza, non prestare at­ tenzione a quel poco che possiede); tuttavia si dovrà riconoscere che questa « visione oscura » rappresenta la condizione necessaria, senza la quale non avrebbero origine il dubbio, la ricerca, il discorso. La « domanda totale » rinvia adunque ad una « visione to­ tale », che può dirsi anch’essa « trascendentale » perchè costan­ temente presente come sfondo oscuro di ogni più chiara visione particolare. Questo rapporto tra le singole visioni particolari e il loro sfondo comune determina il carattere mediato della cono­ scenza nella sua espressione originaria e nei suoi successivi svi­ luppi.

4. - La conoscenza « atematica ». Abbiamo detto che la visione totale che è a fondamento della domanda trascendentale ha il carattere di una conoscenza incon­ scia o atematica (5). Dei due aggettivi preferiamo il secondo, ben­ ché entrambi siano usati a significare la stessa cosa. Il termine « in(5) Abbiamo tratto l’uso sistematico dei termini « tematico » ed « ate­ matico » dal saggio 7-ur philosophischen Klàrung der religiosen Erfahrung di J. B. LoTZ (in II problema dell’esperienza religiosa, Morcelliana, Brescia, 1961, pp. 259-277).

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conscio » può infatti suggerire l’idea errata che si intenda indicare con esso la negazione assoluta della coscienza, mente si vuole desi­ gnare semplicemente una espressione attenuata della coscienza stessa. Questa invero ammette una infinità di gradi e il cosiddetto « inconscio » rappresenta appunto il grado più basso. È assai fa­ cile tuttavia che il termine venga impropriamente interpretato, nel qual caso l’espressione « conoscenza inconscia » potrebbe ap­ parire addirittura contraddittoria (®). Il termine « atematico », invece, nella sua contrapposizione a quello di « tematico », espri­ me meglio l’idea che un certo oggetto non è assunto come « tema » di riflessione e quindi come punto focale dell’attenzione, ma per ciò stesso non nega la possibilità che esso sia notato in forma marginale. Il riconoscimento dell’esistenza di una forma atematica di conoscenza, qualunque sia poi il termine con cui la si intenda indicare, riveste una grande importanza soprattutto per la forma­ zione di un concetto meno inadeguato di conoscenza originaria, cioè di esperienza, e per la determinazione dei rapporti di questa con il discorso. Tale riconoscimento rende possibile il supera­ mento della posizione empiristica, e dei suoi corollari scettici in ordine al valore del discorso metafisico, perchè permette che si in­ cluda nell’esperienza oltre ai dati del senso anche alcune intuizioni fondamentali dell’intelletto. Se per esperienza infatti si intende l’insieme di quelle nozioni originarie che nella loro reciproca me­ diazione dànno origine al discorso, nell’esperienza dovranno tro­ varsi anche gli strumenti logici di cui il discorso si avvale. Se spesso non si giunge a prender atto di ciò, è perchè i dati senso­ riali nella loro corpulenza, vivacità e mobilità attirano più facil­ mente su se stessi l’attenzione, e in tal modo entrano a costituire il polo tematico della nostra esperienza, mentre gli elementi noe­ tici nella loro costanza ed uniformità passano più facilmente inos-

(8) Si ricordi a questo proposito la polemica del Locke, nel I libro del Saggio sull’intelletto umano, contro la possibilità delle idee inconscie.

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servati, rappresentando così di norma il polo atematico della esperienza stessa (7). L’esistenza adunque di una conoscenza atematica si stabilisce in linea generale richiamandosi alla natura selettiva della nostra attenzione, per cui, quanto più essa si concentra in un oggetto, tanto più si distrae dagli oggetti circostanti. Il riconoscimento poi dei vari elementi noetici, che costituiscono le costanti della nostra esperienza e per lo più rivestono la forma della atematicità, si ottiene, fin dove è possibile, riflettendo sulla funzione media­ trice che essi esercitano nella genesi del discorso. Avremo modo più avanti di introdurre questa riflessione; per ora ci basta anticipare che questi elementi noetici si richiamano tutti alla « totalità » originariamente intravista, al suo fonda­ mento, alle sue articolazioni. Questa totalità, atematicamente pre­ sente nella esperienza quotidiana, diverrà così ad un certo punto il tema centrale di quell’indagine speciale che è la metafisica, la quale fin d’ora può esser definita la tematizzazione dell’atematico.

5. - « Visione » e « Interpretazione » (). * Esiste una profonda sproporzione tra conoscenza tematica e conoscenza atematica, nel senso che ciò che riusciamo a vedere con chiarezza è assolutamente inadeguato rispetto a tutto ciò che desideriamo conoscere, in quanto riusciamo oscuramente a in­ travedere. Noi cerchiamo tuttavia di colmare questa sproporzione e ina­ deguatezza in diversi modi. Anzitutto ci sforziamo di « guardare di più », cioè di rivolgere la nostra attenzione ad un maggior numero di cose e di relazioni; inoltre cerchiamo di « guardare meglio », di osservare cioè più attentamente ciò che abbiamo già visto per cogliere aspetti e relazioni che prima erano rimasti (7) Per una ulteriore illustrazione del rapporto tra l’aspetto tematico e l’aspetto atematico dell’esperienza, cfr. Parte II, Cap. I, § 2. (*) Su questo tema si veda ancora Appendice II, pp. 286-289.

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nell’ombra. Si tratta in fondo dei due processi di sintesi e di ana­ lisi mediante i quali riusciamo spesso ad estendere ed approfon­ dire la nostra visione delle cose. Esiste tuttavia anche un altro modo con cui la nostra intelli­ genza cerca di soddisfare in qualche maniera il suo bisogno di co­ noscere. Questo modo è Γinterpretazione. L’interpretazione, nel significato che intendiamo attribuire a questo termine, non è pro­ priamente una « visione », ma ne è, ci si perdoni il termine, un surrogato: chi vede veramente non ha più bisogno e possibilità di interpretare ciò che vede sotto l’aspetto per cui lo vede: l’in­ terpretazione si inserisce soltanto là dove la visione vien meno; quest’ultima è per definizione sempre certa, mentre la prima è soltanto più o meno probabile. L’interpretazione è una costru­ zione del nostro pensiero, che non vuol essere però un puro sfogo della fantasia fine a se stesso, ma la ipotetica ricostruzione di qual­ cosa di reale. Se il momento del conoscere è il momento della re­ cettività del pensiero, il momento dell’interpretazione è una delle forme in cui si esprime la produttività del pensiero stesso. L’interpretazione non è quindi propriamente un conoscere, anche se risponde ad una finalità conoscitiva, perchè non è un autentico « vedere », ma un « vedere nell’immaginazione », vale a dire un immaginare ciò che un intelletto più potente del nostro (o il nostro stesso intelletto in condizioni diverse) potrebbe vedere. Pur essendo per sua natura distinta dalla « visione », l’in­ terpretazione si esercita a stretto contatto con essa, in quanto non è una operazione che possa esplicarsi in forma autonoma, ma è un atto che si inserisce nelle lacune del tessuto teoretico e deve perciò collegarsi il più possibile con questo tessuto stesso. Una interpretazione è tanto più fondata quanto più numerosi sono i punti di contatto e di sostegno nella « visione » vera e propria. Per questa ragione l’atto conoscitivo e l’atto interpretativo sono spesso così strettamente intrecciati tra loro che non è sempre fa­ cile distinguere l’uno dall’altro. Spesso, molto di ciò che si giudica essere vera e propria « visione » è in effetti una interpretazione. E tuttavia, da un punto di vista critico, è quanto mai importante

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

saper riconoscere e distinguere i due atti, perchè soltanto nel primo caso si ha l’assoluta certezza, mentre nel secondo si rimane sempre sul piano di una maggiore o minore probabilità. Per assolvere efficacemente al suo intento conoscitivo, l’inter­ pretazione deve dunque riconoscersi come tale. Se non si effettua tale riconoscimento, e la interpretazione è scambiata per visione, si è già, non fosse altro che per questo scambio, sul piano dell’er­ rore. Inoltre, in questo modo, si impedisce alla interpretazione di rinnovarsi, di farsi, come è sempre possibile, più adeguata, di cedere, al caso, il passo ad una vera, autentica visione. Le forme più note in cui l’atteggiamento interpretativo si con­ creta sono l’opinione volgare, l’ipotesi scientifica e il mito. Di queste forme si deve ripetere quello che s’è detto dell’atteggia­ mento generale di cui sono espressione, che esse cioè sono manife­ stazioni positive, quando sono accompagnate dalla consapevolezza della loro vera natura, sono invece manifestazioni negative, qu mdo intendono valere quali autentiche visioni. Uno dei compiti fon­ damentali dell’indagine fenomenologica è appunto quello di rico­ noscere ciò che si offre alla nostra diretta visione, indipendente­ mente da ogni successiva interpretazione, e che, in questo modo, costituisce, nel senso husserliano dell’espressione, un « cominciamento assoluto ». La sospensione del giudizio, che in questo modo viene esercitata nei confronti di ciò che non è oggetto di una genuina visione, è solo apparentemente una riduzione del campo della conoscenza; essa ne rappresenta al contrario una estensione: è infatti un saper vedere, da una parte, ciò che costi­ tuisce il puro vedere, dall’altra, ciò che costituisce la semplice interpretazione, la congettura, l’opinione. Ma, ci si può domandare, come è possibile che l’autentico vedere, con il suo carattere di assoluta certezza, possa andar con­ fuso con l’interpretazione, che ha invece soltanto un valore di probabilità? Non dovrebbe esser proprio del vedere il sapersi ri­ conoscere per ciò che esso è, senza possibilità di equivoco e di incertezza? Per rispondere a questa domanda dobbiamo richiamarci an­

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cora alla distinzione tra conoscenza tematica e conoscenza atema­ tica. Se la nostra visione fosse sempre chiara, consapevole, riflessa, se fosse sempre un « vedere di vedere », non potrebbe certo essere scambiata con l’interpretazione. Il fatto è che la maggior parte del nostro vedere è invece qualcosa di irriflesso, atematico, privo quindi della consapevolezza di ciò che esso propriamente è: è un vedere questo o quell’oggetto, ma non è ancora un vedere se stesso. Da ciò la possibilità della confusione, dello scambio. È solo anzi attraverso lo sforzo di distinguerlo da ciò che esso non è, che il vedere si delinea nelle sue caratteristiche, si fa tematico. La tematicità, in questo caso, non è una condizione iniziale, ma è frutto di riflessione e di confronto. Distinta dalla « visione », l’interpretazione non va neppure confusa con la dimostrazione. Con l’interpretazione la dimostra­ zione ha in comune la caratteristica di essere un processo secon­ dario che si appoggia sul fatto primario della visione. Tuttavia la dimostrazione, quando è vera e rigorosa dimostrazione, si ri­ solve in visione: il dimostrare si conclude sempre con un « mo­ strare », e questo implica un correlativo « vedere ». La distinzione tra interpretazione e dimostrazione si riporta quindi alla distinzione tra interpretazione e visione. È però ne­ cessario avvertire che le tesi dimostrate costituiscono delle vere e proprie visioni solo quando sono inserite nell’attualità del processo dimostrativo. Avulse da questo, perdono il loro carat­ tere di visioni. Ecco perchè una indagine fenomenologica, ri­ volta a riconoscere le « visioni originariamente offerenti », deve cominciare con il sospendere il giudizio su tutte le dottrine filo­ sofiche. Infatti, costituendo queste il risultato di un procedi­ mento dimostrativo, assunte inizialmente e quindi fuori di questo procedimento, o perdono tutto il loro significato, o valgono al più come semplici opinioni od ipotesi (8). (8) Si veda a tal proposito l’atteggiamento di Husserl: « Ι/έποχή filo­ sofica che ci proponiamo deve, formulata con chiarezza, consistere in que­ sto : che noi ci asteniamo completamente dal giudizio sul

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6. - Le forme della conoscenza. L’atteggiamento conoscitivo si articola in diverse forme o gradi. Non è nostra intenzione procedere alla loro enumerazione completa e alla loro descrizione esauriente; si tratterebbe, ci pare, di una ricerca più psicologica che filosofica. Quello che ci inte­ ressa è la deduzione di alcune determinazioni essenziali che siano in grado di rivelare la struttura generale dell’atto teoretico!9). contenuto dottrinale di ogni filosofia precedentemen­ te data ed effettuiamo tutte le nostre constatazioni nei termini di questa astensione... Se la filosofia in genere si basa su fondamenti « principali » nel senso autentico della parola, su fondamenti che possono quindi per la loro stessa essenza venire posti tramite una visione immediatamente offerente, allora una discussione nei loro confronti non dipende nel suo esito da nessuna scienza filosofica, nè dal possesso della sua idea e del suo contenuto dottrinale che si presuma fondato » (Ideen, cit., pp. 40-41). (9) Per la determinazione della struttura essenziale del processo cono­ scitivo (indagine questa che può prescindere dagli aspetti sperimentali della questione), ci sembra ancora sostanzialmente valida la classificazione aristo­ telica dei gradi del sapere, quale risulta dai due capitoli introduttivi del I libro della Metafisica (confrontati ed integrati con quanto sullo stesso argo­ mento è detto al cap. I del libro VI e al cap. VII del libro XI della stessa opera, nel VI libro dell’Etica Nicomachea e alla fine del II libro degli Ana­ litici Secondi). Abbiamo tenuta presente tale classificazione e l’abbiamo in molti punti liberamente seguita. Riteniamo perciò opportuno richiamarla qui sommariamente. Affermato il valore autonomo della conoscenza nel suo aspetto propria­ mente speculativo, indipendentemente dalle sue applicazioni pratiche, Ari­ stotele comincia con l'indicare il primo grado del sapere ηεΙΓαίσθησις (che più che al nostro concetto di sensazione corrisponde a quello di percezione). Dall’ αϊσ-9-ησις, per la mediazione della memoria (μνήμη), si passa ?dY esperienza ( εμπειρία ). E dall’esperienza nasce la scienza ( επιστήμη) che dalla moltepli­ cità dei casi simili giudica dell’universale, si eleva cioè alla conoscenza delle cause e dei principi. La scienza poi si distingue in speculativa (θεωρητική), quando il suo fine

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Una delle distinzioni più largamente accettate è quella tra la conoscenza del particolare e la conoscenza dell’universale. Que­ sta distinzione non rompe la fondamentale unità dell’atto teo­ retico. Avremo modo di vedere come un riferimento all’univer­ sale accompagni sempre la conoscenza del particolare e come, viceversa, un richiamo al particolare sia sempre implicito nella conoscenza dell’universale. Non si può tuttavia negare che la co­ noscenza sia prevalentemente polarizzata ora sul particolare, ora sull’universale. La forma iniziale della conoscenza del particolare è la perce­ zione. Intendiamo per percezione quell’« originario vedere » che è a fondamento del giudizio o proposizione particolare. Se posso affermare che questo foglio su cui sto scrivendo è bianco, è perchè « vedo » che è bianco. Questo « vedere » è un essere presente non soltanto all’occhio, ma anche all’intelligenza. In ciò appunto si distingue la sensazione dalla percezione: la prima è la sola pre­ senza al senso, la seconda è, ad un tempo, presenza al senso e all’intelligenza. Si chiarisce questa distinzione tra senso e intelligenza, di­ cendo che l’intelligenza è lo stesso soggetto che predica, che giudica, e fa ciò in base a quello che gli è presente; il senso, invece, è il veicolo di questa presenza. Che poi il « vedere » del­ l’intelligenza in questo suo primo grado sia reso possibile da un veicolo, anzi da vari veicoli di diversa modalità, lo si inferisce dal condizionamento estrinseco cui il vedere intellettivo è sotto­ posto. La mia intelligenza può essere tutta occupata nell’osserva-

è il puro conoscere, in tecnica (ποιητική επιστήμη ; τέχνη), quando è rivolta alla produzione, e in pratica (πρακτική), quando riguarda l’agire morale. Tre sono le forme di scienza speculativa : la fisica ( φυσική ), il cui oggetto è ciò che è in movimento, la matematica ( μαθηματική ), che studia ciò che è im­ mobile ma non separato, e la sapienza (σοφία) che, indagando sui principi e sulle cause prime, si eleva fino a ciò che è immobile e separato. La sapienza è prima tra tutte le scienze (πρώτη φιλοσοφία) per la sua universalità e per il suo totale disinteresse, che è il segno stesso della libertà.

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zione di un oggetto, ma è sufficiente l’intervento di un ostacolo esterno, perchè, ferma restando la tensione intellettiva, l’osserva­ zione ne sia impedita. Non si dà percezione senza sensazione. Al contrario, posso immaginare che il veicolo sensitivo porti fino alla soglia dell’intelligenza un determinato oggetto, ma che l’intelligenza sia distratta, completamente rivolta ad altro: si avrà in questo caso una sensazione non accompagnata da perce­ zione. Naturalmente, mentre posso presentare infiniti esempi con­ creti di percezione, non posso documentare la mia analisi con nessun esempio concreto di sensazione pura, per la semplice ra­ gione che qualunque sensazione, per essere descritta, dovrebbe essere osservata e si eleverebbe per ciò stesso a percezione. La sensazione è piuttosto una idea limite che si costruisce sottraendo da una percezione, presa in tutta la concretezza e va­ rietà del suo contenuto, il momento della visione intellettiva. Po­ trebbe anche darsi il caso che noi non avessimo mai in concreto delle pure sensazioni, ma invece delle percezioni imperfette, cioè delle sensazioni distrattamente, superficialmente osservate. Una annotazione essenziale che merita infatti di essere ripetuta è la seguente: il vedere deU’intelligenza presenta una vasta gamma di gradi, che da un massimo di attenzione vanno scendendo verso lo zero. Che questo poi venga in effetti raggiunto non è possibile dirlo. Quando l’attenzione è massima, quando la percezione è ben chiara, essa tende ad esprimersi nel giudizio o proposizione. Il giudizio che esprime una percezione è un giudizio particolare: « questo foglio è bianco ». La struttura del giudizio particolare rivela la natura dell’atto percettivo che in esso si esprime. Non potrei dire « questo fo­ glio », se in qualche modo non mi fosse presente, sia pure nella forma più indistinta, un campo, un insieme di altri oggetti, cioè tutto quello che non è questo foglio. Questo campo da un punto di vista sensoriale può avere dei confini abbastanza precisi, ma non è in riferimento ad un campo così limitato che il questo as­ sume il suo esatto significato. Il questo ha la capacità di opporsi

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non solo a ciò che attorno a lui scorgo ora, con i miei sensi, ma anche a tutto quello che penso potrei scorgere. Il quello nella sua indeterminatezza non ha confini: potenzialmente si estende quanto l’universo. Il giudizio sul particolare implica perciò un riferimento all’universale. Naturalmente questo riferimento rimane il più delle volte qualcosa di inosservato, di atematico. È solo in una indagine di struttura, come quella che stiamo ora eseguendo, che esso si manifesta chiaramente e può essere assunto a vero e pro­ prio tema. Uno dei problemi più interessanti che riguardano la perce­ zione è se essa sia un atto puramente « visivo » o non implichi anche un momento interpretativo. Essendo lo sforzo interpreta­ tivo un atteggiamento costante della nostra intelligenza, che in questo modo tenta di colmare la sproporzione esistente tra il suo vedere parziale e la sua « domanda totale », non pare dubbio che l’atto interpretativo debba prodursi anche in occasione della percezione. Il verificarsi di illusioni e di allucinazioni ne sembra essere una conferma. Ma altro è riconoscere ciò, altro è soppri­ mere ogni distinzione tra visione e interpretazione. L’interpreta­ zione è un modo di ordinare e integrare ciò che si vede, ma per ciò stesso implica un vedere distinto da quell’ordinare e da quell’integrare. Che nel caso concreto sia spesso impossibile porre un confine esatto tra i due atti, non è una buona ragione perchè si possa identificarli tra loro. È chiaro che uno potrebbe usare il termine « percezione » ad indicare il momento interpretativo, nella sua pur necessaria inclu­ sione del momento visivo. Non abbiamo motivo di opporci asso­ lutamente a quest’uso. Quel che ci interessa è che sia riconosciuta, almeno in linea generale, la presenza del momento visivo nella percezione, e che sia riconosciuta la possibilità di raggiungere, at­ traverso un processo di riduzione, un sicuro nucleo teoretico che possa essere in ogni caso sottratto all’incertezza della interpre­ tazione. Facciamo un esempio. Prendiamo ancora il giudizio « questo foglio è bianco ». È chiaro che, parlando di foglio e di bianco, non

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mi limito a fissare un determinato contenuto sensoriale (e in que­ sto fissare deU’intelligenza consiste propriamente il momento vi­ sivo della percezione), ma passo anche a valutare tale contenuto, includendolo, per un aspetto, nella classe dei fogli e, per un altro aspetto, nella classe delle cose bianche. È qui che si inserisce il momento interpretativo ed è qui che si introduce la possibilità del dubbio e dell’errore (10). Anziché di un foglio potrebbe trat­ tarsi di altra cosa; ciò che giudico bianco potrebbe essere un punto di colore leggermente diverso. Ma queste incertezze non toccano per nulla ciò che propriamente « vedo », cioè quel deter­ minato contenuto sensoriale: esso rimarrebbe sempre lo stesso anche quando giungessi a mutare la mia interpretazione. Il giudizio « questo foglio è bianco » ha dunque un valore ipotetico, se esso enuncia insieme, senza distinguerle, la « vi­ sione » e Γ« interpretazione »; ma, se la « interpretazione » (qua­ lunque interpretazione) viene problematizzata, cioè lasciata in so­ speso, messa tra parentesi, il giudizio, in quanto si limiti a regi­ strare ciò che « vedo », acquista una indiscutibile certezza. Mettere tra parentesi l’interpretazione non significa poi estro­ metterla completamente dalla considerazione, significa tenerla di­ stinta dalla « visione », in quanto si è giunti a riconoscerla per quello che essa è, interpretazione appunto. Ma « riconoscere quello che è » significa, ancora una volta, « vedere ». Dal che risulta, come s’è già osservato, che una simile riduzione od epochè non è un vedere meno, ma, al contrario, è un vedere di più: è un vedere un precedente vedere, riconoscendone i limiti e le integrazioni. La seconda forma della conoscenza è la conoscenza dell’uni­ versale. Vi è una differenza fondamentale tra il giudizio « questo foglio è bianco » e il giudizio « l’agosto (nelle nostre regioni) è (10) Da questa considerazione è scaturita, in seno al positivismo logico, la discussione sulla possibilità di proposizioni empiriche elementari assolutamente certe. Cfr. sull’argomento, tra gli altri, A. J. Ayer, Language, Lrath and Logic, Dover Publication, Ine., New York, s. d., pp. 10-11, 90-93. Vedi anche, più avanti, la nota 18 a p. 138.

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un mese caldo ». Il primo giudizio si fonda su di un « vedere », il secondo su di un « avere visto », anzi su di un « aver visto ri­ petutamente ». Questo nuovo tipo di giudizio ha un suo primo fondamento nella memoria che, a differenza della percezione o « vedere originario », è un « vedere secondario », un « vedere di aver visto ». Un « ricordare o vedere di aver visto ripetutamente » non è però ancora un fondamento sufficiente per un giudizio univer­ sale. Tale giudizio richiede che quel « ricordare » sia accompa­ gnato dalla persuasione che ci debba essere una ragione o causa della ripetizione, persuasione che giustifica l’attesa che la ripeti­ zione continui. Quando questa persuasione rimane implicita, quasi sullo sfondo della coscienza, e la causa non diviene oggetto di una diretta indagine, mentre la motivazione esplicita del giudizio è la ripetizione in quanto tale, allora si ha la cosiddetta esperienza volgare: « giudico così, perchè le cose sono andate sempre così ». L’esperienza volgare è il primo grado, il più basso, della cono­ scenza dell’universale. Su di essa si fonda il comportamento quo­ tidiano dell’uomo. « Ma perchè le cose sono andate sempre così? ». Quando sorge questa domanda, quando cioè viene in primo piano la que­ stione della causa della ripetizione, il livello dell’esperienza vol­ gare è superato e si è già guadagnato quello della ricerca scienti­ fica, che rappresenta il secondo grado della conoscenza dell’uni­ versale. La scienza è appunto, secondo la classica definizione, ricerca delle cause (n). Se, ad esempio, non mi limito a ritenere che l’ago(xl) Qualcuno potrebbe osservare che, se la definizione della scienza come ricerca delle cause poteva valere per il passato, cioè, al massimo, fino alla fine deU’Ottocento, tale definizione non appare più valida per la scienza contemporanea, in particolar modo per la fisica, che ha ormai rinunciato alla determinazione di leggi necessarie e intende ora limitarsi alla considerazione delle concomitanze tra fenomeni e ai rilievi statistici. In realtà, il fatto che la scienza contemporanea abbia limitato le proprie pretese è il risultato della maggior consapevolezza critica che essa ha acquistato dei propri metodi: la

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

sto è un mese caldo, ma ricerco il motivo del ripetersi in questo mese deH’aumento della temperatura, ho già dato inizio alla ri­ cerca scientifica. Se riesco nel mio intento il guadagno è notevole: conoscendo la ragione del fenomeno, conosco le condizioni e quindi anche i limiti del fenomeno stesso. So che esso dipende dalla particolare esposizione della terra ai raggi del sole, e so quindi che esso può variare anche radicalmente, in funzione della latitudine, della altitudine, delle precipitazioni meteoriche, ecc. Il guadagno si può apprezzare particolarmente sul piano della vita pratica. Dalla scienza discende infatti quella tecnica che è strumento molto più efficace e duttile di quanto non lo sia la pra­ tica ordinaria, frutto dell’esperienza volgare. Nella sua ricerca delle cause lo scienziato è mosso dall’intima e salda persuasione che di tutti i fenomeni ci sia una causa. Egli non si domanda mai se ci sia una ragione dei fatti di cui si occupa, ma quale sia la ragione. L’atteggiamento dello scienziato è quello di colui che sa già che una qualche ragione (fondamento o causa) deve in ogni caso esistere. Uno dei principali intenti dell’inda­ gine metafisica è quello di mostrare la validità, l’autenticità di questo sapere che, operante in forma atematica nella esperienza volgare e nella ricerca scientifica, diverrà alla fine oggetto di espli­ cita tematizzazione (12). L’esperienza volgare e la ricerca scientifica si fondano su due soli momenti autenticamente teoretici o « visivi » : la visione per­ cettiva di certi fatti particolari e la visione (visione che per il suo carattere particolare può dirsi postulazione) di una ragione uni­ versale. Tra questi due poli visivi si svolge il lavoro di interpreindagine sperimentale non può condurre, per la sua stessa natura, a delle con­ clusioni necessarie, ma soltanto a delle ipotesi più o meno probabili, a delle teorie più o meno fondate. Tuttavia, anche se l’esigenza teoretica è nella scienza sperimentale soddisfatta solo parzialmente mediante una attività che non oltrepassa il livello della « interpretazione », resta il fatto che tale atti­ vità rappresenta un momento essenziale del lavoro scientifico e che la scienza, perciò, nel suo impulso originario, rimane pur sempre ricerca delle cause. (12) Cfr. Parte I, Cap. II, § 4.

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fazione. Il risultato di questo lavoro può essere più o meno va­ lido, più o meno adeguato (e lo è molto di più nella scienza che nell’esperienza volgare), ma lo schema interpretativo è sempre lo stesso: i rapporti spazio-temporali sono assunti come indici dei rapporti causali. Collocandosi sul piano inesauribile della molteplicità spa­ zio-temporale, la scienza può giungere soltanto a delle prospettive più o meno probabili e sempre provvisorie. Spinta anche da esi­ genze di ordine pratico, la scienza viene inoltre suddividendosi in una serie di ricerche particolari. La spiegazione scientifica non è perciò mai totale e mai radicale. Non è radicale perchè non è totale: non si riesce a spiegare fino in fondo un certo fenomeno, perchè il regresso di fenomeno in fenomeno ad un certo punto viene interrotto e ci si accontenta di accogliere certi dati senza cercarne l’ulteriore ragione! ). * Permane tuttavia nell’uomo l’aspirazione a raggiungere una visione totale e radicale della realtà·, questa aspirazione è la filo­ sofia-, la visione totale cui essa mira è la sapienza, il terzo e più elevato grado della conoscenza dell’universale C’1)·

(*) Sulla parzialità del sapere scientifico in rapporto all’esigenza filo­ sofica si veda in Appendice li, pp. 249-252, Evoluzionismo e metafisica classica. La parzialità del sapere scientifico non esclude tuttavia, ma implica la sua autonomia nei confronti della metafisica, cui corrisponde, a sua volta, l’autonomia della metafisica nei riguardi delle scienze. Si veda ancora a questo proposito, Il problema della metafisica nel progetto dell’unificazione del sa­ pere, in Appendice II, pp. 243-247. (1;i) Tra la scienza, intesa in senso fisico, e la sapienza, presa nel suo significato metafisico, si colloca (ed è stata collocata fin dall’antichità) la matematica, che ha in comune con la metafisica il carattere di necessità, pur non avendo la stessa universalità. Essendo comunque la matematica la forma di sapere che presenta la maggiore analogia con la metafisica, è di grande interesse lo studio della forma logica del discorso matematico per la com­ prensione della struttura dello stesso discorso metafisico. È quanto appunto abbiamo cercato di fare nella seconda parte di questo lavoro (cfr. in parti­ colare: Cap. I, § 6 e Cap. II, § 3).

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7. - La conoscenza filosofica. Siamo così giunti, dopo la lunga ma necessaria digressione sulla natura dell’atto conoscitivo e sulle forme in cui esso si esprime, a precisare la nostra iniziale definizione di filosofia. Filosofìa è ricerca della sapienza, ricerca cioè di una visione to­ tale e radicale della realtà. La filosofia è perciò la stessa « domanda totale » o « tra­ scendentale » che è alla radice di tutto il processo conoscitivo, ma che soltanto alla fine giunge alla sua consapevole formu­ lazione. Una delle caratteristiche più largamente riconosciute (o rim­ proverate) alla filosofia è appunto questa sua esigenza di tota­ lità, di onnicomprensività. Si tratta in fondo del concetto ari­ stotelico di filosofia come metafisica, cioè come « ricerca delle cause prime e dei primi principi », o del concetto kantiano di metafisica come « aspirazione all’incondizionato ». Il fatto che nel concetto, anzi nel nome stesso di filosofia, sia messo in risalto l’aspetto della ricerca piuttosto che del pos­ sesso, è un chiaro segno della difficoltà estrema del compito che la filosofia si assume. In un certo senso, anzi, questo obiet­ tivo è irraggiungibile, se perseguito lungo la linea sulla quale procede la scienza. Questa avanza collegando ad uno ad uno i singoli dati tra loro, ma, per l’enorme sproporzione tra la limitatezza deH’intelligenza umana, e dei suoi strumenti, e la infinita varietà dei fenomeni particolari, la totalità, per questa via, non può essere attinta. Di più, una totalità come somma di dati particolari, per il dinamismo stesso del reale, è sempre una totalità che viene crescendo su se stessa, ed è, di volta in volta, come totalità, provvisoria. Al contrario, la totalità cui la filo­ sofia aspira è una totalità definitiva, incondizionata, assoluta! ). * (*) Sul modo in cui la totalità può essere « oggetto » di indagine filo­ sofica, si veda Appendice II, pp. 264-266.

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A questa la filosofia cerca di pervenire per una via tutta propria, attraverso una sorta di visione globale o panoramica, in certo modo affrancata dall’analisi dei singoli elementi parti­ colari. La filosofia è possibile solo- se è possibile una visione del tutto che in qualche modo prescinda dalla visione delle sin­ gole parti(14). L’accenno alla «visione panoramica» contiene un incoraggiante esempio di una simile visione globale, totale cioè, ma scarsamente differenziata nei suoi aspetti particolari. Ad essere esatti, il nucleo originario di questa visione non costituisce per il pensiero umano, e quindi per la filosofia, og­ getto di ricerca, ma, in un certo modo, di iniziale possesso. Que­ sto attribuire alla filosofia un iniziale possesso non contraddice però al carattere di radicale ricerca che le è stato precedentemente riconosciuto. È nota l’aporia dei rapporti tra ricerca e possesso conoscitivo: non si ricerca ciò che già si conosce, ma non si ricerca se non si conosce che cosa si debba ricercare (*loil ). L’aporia si supera distinguendo due diverse forme di conoscenza o possesso: vi è un possesso iniziale imperfetto che stimola la

(14) Uno dei maggiori ostacoli alla comprensione della natura della conoscenza filosofica è il pregiudizio empiristico che alla conoscenza del tutto si pervenga soltanto attraverso la conoscenza analitica delle parti o, che è lo stesso, che all’universale si giunga iniziando dai casi particolari e passando attraverso le generalizzazioni intermedie (la « via » indicata da Bacone). In realtà la conoscenza del tutto presuppone quella delle parti solo nel caso che quello risulti dalla semplice somma o agglomerato di queste. Dove invece il tutto non è soltanto la somma, ma l’organizzazione delle parti in virtù di un principio che ad esse non si riduce, allora la conoscenza del tutto in un certo modo precede e condiziona la conoscenza delle parti. (Sul problema del rapporto tra il concetto del tutto e quello delle parti cfr. Aristotele, Meta­ fisica, VII, cc. X e XVII). (1B) Si tratta del « principio eristico » di cui parla Platone nel Me­ nane (80 e) : « che non sia possibile all’uomo cercare nè ciò che sa nè ciò che non sa: non quello che sa perchè lo sa e non c’è bisogno di alcuna ri­ cerca; non quello che non sa, perchè non sa cosa cercare » {Dialoghi, IV, trad. Zambaldi, Laterza, Bari, 1946, p. 208).

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ricerca; e vi è un possesso finale perfetto che, se fosse raggiunto, porrebbe fine alla ricerca stessa. La filosofia è dunque totale, radicale ricerca, per quanto può esserlo una ricerca, la quale non sarebbe tale se non includesse un qualche nucleo di ori­ ginaria certezza (16 ). (le) Il motivo della filosofia come ricerca ha trovato una particolare accentuazione in due manifestazioni della cultura filosofica italiana con­ temporanea. La prima di queste manifestazioni è rappresentata dal 'problematicismo di Ugo Spirito, in cui il tema della ricerca è svolto in forma scettica e aporematica. Lo Spirito sostiene l’assoluta impossibilità di superare sul piano della conoscenza intellettiva la situazione della problematicità e di pervenire ad una qualche forma di sapere valido. La tesi problematicistica si fonda, da una parte, su di una analisi della struttura del giudizio (concepito come atto di divisione e di opposizione) e, dall’altra, su di una concezione monistica della realtà come assoluta totalità (totalità che il giudizio, per sua natura antino­ mie©, non potrebbe cogliere). Così posta e giustificata, la posizione proble­ maticistica appare contraddittoria proprio perchè si presenta con il carattere di una definitiva soluzione. Senonchè tale posizione conserva ugualmente un suo profondo significato, purché si tenga presente che in U. Spirito la problematicità non è una espres­ sione puramente teoretica, ma è anche una esigenza pratica, è non solo aspi­ razione a conoscere l’Assoluto (con gli inevitabili limiti che la conoscenza intellettiva comporterebbe), ma volontà di possederlo e di viverlo. Una pro­ blematicità, così concepita, è naturale non possa trovare la sua soluzione sul piano del sapere intellettivo, astratto, ma soltanto sul piano dell’esperienza religiosa che Spirito addita nella via dell’amore. In questa prospettiva, il problematicismo perde in gran parte il suo carattere di paradossale contrad­ dizione ed il momento della ricerca non appare più incompatibile con una forma di limitato sapere, di imperfetto possesso : « Se si ricerca si deve avere una qualche nozione di ciò che si ricerca ed è in un certo senso pienamente giustificata l’affermazione che chi cerca ha già trovato. Ma in che senso ha già trovato e in che senso la nozione di ciò che si ricerca non elimina la ricerca? È chiaro che ciò che si è trovato è soltanto la nozione di ciò che manca, non l’effettivo possesso » (La vita come amore, Sansoni, Firenze, 1953, p. 246). E ancora : « La coscienza dell’assoluto è immanente nel nostro di­ scorso, qualunque esso sia. Perchè io possa aprir bocca e pronunciare una

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Ora, se la filosofia è la ricerca di una visione totale e radi­ cale, cioè della visione della totalità delle cose nella loro fon­ damentale ragione, la filosofia deve originariamente conoscere, qualsiasi parola, occorre che in me la parola aderisca alla coscienza di una realtà assoluta » (Il problematicismo, Sansoni, Firenze, 1948, p. 127). (Per una più ampia discussione del problematicismo di U. Spirito rinvio al mio saggio Paradosso e verità nel problematicismo di U. Spirito, in Esperienza e Metafisica, Liviana, Padova, 1959, pp. 99-128). Più equilibrata formulazione il motivo della filosofia come ricerca ha trovato nella concezione della problematicità pura di Marino Gentile, che abbiamo qui tenuto particolarmente presente per ciò che riguarda l’espres­ sione e il concetto di « domanda totale ». Per M. Gentile la filosofia è quel « domandare tutto che è insieme un tutto domandare », è cioè quella pro­ blematicità « che è non solo totale, perchè è problema di tutto, ma anche integrale, perchè non è altro che problema: puramente e semplicemente problema» (Filosofia e Umanesimo, La Scuola, Brescia, 1947, p. 12). « Il problema, dal quale la riflessione filosofica muove come dalla sua prima condizione, non è questo o quel problema; ma è il problema nella sua forma più assoluta e propriamente trascendentale. Se problema significa domandare e sistema significa rispondere, il pro­ blema da cui deve muovere la filosofia, è un assoluto e puro domandare; è un domandare tutto, ma per questo dev’essere insieme un tutto domandare : cioè, per essere domanda su tutto quel che di domanda può formare oggetto, dev’essere intrinsecamente null’altro che domanda; è un puro domandare senza che nell’atto di domandare esso sia minimamente un rispondere: è problematicità pura » (op. cit., p. 155). Questa esclusione di ogni sapere dal momento problematico iniziale non è preludio ad una chiusura scettica del problema su se stesso. La nega­ zione riguarda soltanto un sapere che abbia, come la domanda, le caratteri­ stiche della totalità e dell’integralità, ma non è negazione di qualche altra forma di sapere originario. « Domandare — avverte infatti il Gentile — non è certo ancora sapere la risposta, ché altrimenti uno non domanderebbe; ma è un sapere almeno questo, che una risposta, universale come la domanda, ci deve essere. Quindi, vista in relazione al sistema, la problematicità asso­ luta è un saper niente, ma vista in se stessa, problematicamente, è un sapere tutto: ben s’intende, non in atto, ma in potenza» (op. cit., pp. 155-156). Si rinnova adunque l’importante riconoscimento che la ricerca « non sarebbe

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seppure in forma atematica, l’esistenza di questa totalità, resi­ stenza di questa ragione. Tale conoscenza originaria non è propriamente patrimonio ricerca, se non fosse già, in forma più o meno chiara e in misura più o meno piena, sapienza » (Che cos’è il sapere, La Scuola, Brescia, 1947, p. 98). La problematicità « pura » non è allora una problematicità « vuota », ma è quella forma di sapere concreto, benché finito, che si colloca tra un assoluto saper niente e un assoluto saper tutto e che in rapporto a quest’ul­ timo rivela con la propria problematicità la propria finitezza, appunto. Nel suo momento iniziale la problematicità pura coincide con la stessa espe­ rienza. « L’esperienza, infatti, è un conoscere tante cose; ma è, stutturalmente, un domandare quella ragione del tutto, che non può essere data dal­ l’esperienza stessa, per quanto ci sforziamo di raccoglierla ad unità, nella maggiore ampiezza e complessità possibile; ed è un domandare assoluto; poiché il domandare il tutto diventa, nonostante le parziali certezze e imme­ diatezze, un tutto domandare» (Filosofia e Umanesimo, p. 156). Ma l’espe­ rienza con la quale la problematicità pura coincide è l’esperienza attinta anch’essa nella sua purezza teoretica, liberata cioè mediante l’atto di radi­ cale problematizzazione dalle arbitrarie integrazioni della fantasia, dai miti, dagli « idoli » di qualunque specie. La domanda totale, non diversamente dalla scepsi platonica, dal dubbio cartesiano o dalla εποχή husserliana, è la forma in cui si realizza il ritorno all’originario « vedere ». La problematicità non è però soltanto la condizione iniziale, ma è in un certo senso la stessa situazione intrascendibile del sapere umano, anche nel momento finale della sistemazione, della risposta. Infatti anche quando si giunga, come giunge il Gentile, alla affermazione di un principio assolu­ to, di un Atto trascendente l’esperienza, la conclusione non si trasforma mai in un possesso incontrastato, ma si sostiene soltanto sul perdurare della tensione problematica attraverso cui è stata raggiunta. « Qualunque affer­ mazione di certezza scaturisca debitamente dalla ricerca, non può mai infran­ gere la posizione assolutamente problematica da cui sia sinceramente par­ tita ... Anche quando si ammette l’indipendenza dell’assolutamente certo dalla problematicità, non può essere in alcun modo dichiarato indipendente dalla problematicità stessa l’atto con cui tale certezza viene dichiarata» (Fi­ losofia e Umanesimo, p. 51). L’affermazione dunque del carattere problematico di tutta la conoscenza umana non ha nel Gentile il significato di una negazione scettica, ma è il riconoscimento del valore e, ad un tempo, dei limiti del nostro sapere.

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esclusivo della filosofia, ma, come s’è visto, della mente umana in generale: la persuasione dell’esistenza di una ragione a fon­ damento di tutte le cose è presente, con diverso grado di consa­ pevolezza, tanto nella esperienza volgare che nella ricerca scien­ tifica. Solo che, in questi gradi del sapere, l’interesse è rivolto alla giustificazione dei fatti particolari, mentre la totalità in quanto tale e le sue ragioni supreme non sono oggetto di inda­ gine. La filosofia invece si rivolge espressamente alla totalità cercando di determinare l’orizzonte estremo, che sia in grado di includere ogni possibile incremento, la ragione prima, che sia capace di giustificare la mutevole varietà delle cose. In questo senso la filosofia è, ripetiamo, esplicitazione dell’implicito, tematizzazione dell’atematico. L’orizzonte estremo attinto dal pensiero umano nella sua esigenza di totalità è rappresentato dall’idea dell’essere in quanto essere. Per quanto diverse possano tra loro risultare le cose, esse convengono tutte nel fatto stesso di essere. Le cose si distin­ guono una dall’altra nell’essere ciascuna questa o quella cosa, ma tutte hanno in comune la necessità di essere qualcosa. Pen­ sare l’essere in quanto essere è già rappresentarsi quel piano uni­ versale entro il quale si collocano le molteplici cose, qualunque sia la struttura che ciascuna di esse presenta. La nozione dell’essere in quanto essere per la sua stessa va­ stità è così vaga, è così indeterminata rispetto a ciò che ogni cosa è nella sua concretezza, che si è portati a domandarsi se si tratti di una autentica idea o se non sia, per caso, un nome vuoto, privo di significato. Tuttavia, per quanto difficile possa apparire una esplicita semantizzazione dell’idea dell’essere, mi sembra che l’obiezione nominalistica trovi un principio di su­ peramento nell’accostamento tra il termine « essere » e il ter­ mine « cosa ». Il concetto di essere non è una invenzione di filosofi di professione, esso è l’equivalente, sul piano della rifles­ sione, di quel concetto di cosa cui il parlare comune fa così spesso ricorso. Id essere o la cosa è il denominatore comune cui si ricorre quando ci si vuol riferire alle . . . cose, nella loro ge­

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

neralità. Senza questo concetto la molteplicità non potrebbe es­ ser colta come totalità. L’essere perciò, come la totalità che ne è circoscritta, è og­ getto di esperienza. Nella nostra terminologia, come abbiamo avvertito, il termine « esperienza » designa quel momento co­ noscitivo che precede e condiziona il procedimento discorsivo. Ora, poiché non ci sarebbe nè discorso comune, nè discorso scien­ tifico, nè discorso filosofico senza lo stimolo della « domanda totale », e quindi senza la presenza al nostro pensiero della to­ talità e dell’essere che la circoscrive, totalità ed essere sono da considerarsi oggetto di esperienza e precisamente di esperienza atematica. Ma il procedimento discorsivo è la ricerca delle ragioni, delle cause dei fenomeni. Ebbene, anche tale ricerca non sarebbe possibile se non si ritenesse che l’ordine totale delle cose è in qualche modo fondato, se non si ritenesse che tutto ha una sua ragion d’essere. Ora, mentre la scienza, sollecitata anche dai bi­ sogni pratici, si limita ai fondamenti o ragioni prossime di de­ terminati fenomeni, la filosofia invece mira al fondamento re­ moto, totale. Anche l’esistenza di tale fondamento è, nel nostro linguaggio, oggetto di esperienza, appunto perchè il discorso ha inizio quando ha inizio la ricerca del fondamento. Totalità, essere e fondamento non sono tuttavia dei dati ato­ mici, dei termini isolati della nostra esperienza. Anzitutto essi sono strettamente connessi tra loro, rappresentando la totalità quasi un cerchio, di cui l’essere è come la circonferenza e il fon­ damento è lo stesso centro di ir radiazione. Inoltre la totalità (assieme all’essere e al fondamento che essa implica) è colta dalla nostra intelligenza nella sua opposizione ai singoli oggetti; essa è quel campo infinito che abbiamo riconosciuto presente nello stesso atto della percezione. La « visione globale », quale originariamente si offre, ap­ pare così come qualcosa di articolato, come una iniziale media­ zione, di cui il discorso filosofico vuol essere l’esplicitazione. A differenza dell’esperienza volgare e della ricerca scienti­

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fica, che sono in gran parte espressione deli'attività interpreta­ tiva del pensiero, la filosofia, nella misura in cui si costituisce come sofia o metafisica, è pura conoscenza, « pura visione ». Questa differenza tra il carattere interpretativo della scienza e il carattere « visivo » della filosofia, traduce in termini diversi la differenza (da molti riconosciuta) tra il carattere sintetico e ipotetico delle conclusioni scientifiche e il carattere analitico e necessario delle conclusioni metafisiche. La metafisica trae il suo carattere di visione pura, di cono­ scenza necessaria dal fatto di essere semplice chiarificazione di quanto è contenuto oscuramente nella « visione totale origi­ naria ». Nelle sue conclusioni la metafisica perviene semplicemente alla consapevolezza riflessa di quelle premesse da cui essa sorge come problema, cioè come filosofia. Il problema metafi­ sico, a differenza dei problemi che vengono posti dal pensiero comune e da quello scientifico (e la cui soluzione è legata al pre­ sentarsi di contenuti empirici particolari e contingenti), con­ tiene già in se stesso, nei presupposti da cui sorge, la propria risposta. Il metafisico non ha bisogno di allargare quantitativa­ mente la propria esperienza, ma di viverla intensamente e pene­ trarla profondamente, fino a coglierne la più intima e autentica struttura, che è poi la struttura stessa del reale)17). Certamente molto di ciò che passa comunemente sotto il nome di filosofia esce dal piano della « pura visione » metafisica e rientra invece in quello della interpretazione. Questo perchè la filosofia come « domanda totale » è solo parzialmente soddi-

(17) « Perchè si abbia una considerazione metafisica dell’esperienza, non è necessario che il raggio di osservazione abbia un’estensione quantitativa­ mente universale, la quale, data l’infinità delle specificazioni concettuali, sa­ rebbe per sè impossibile; ma è indispensabile che si abbia quell’universa­ lità qualitativa, la quale consiste nell’esaminare anche il più modesto e ri­ stretto settore dell’esperienza, in modo che di esso si palesi la struttura problematica, ch’è la condizione trascendentale della sua universalità » (Ma­ rino Gentile, Filosofia e Umanesimo, p. 126).

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

sfatta dalla metafisica che è una forma di sapere totale sì, ma sempre astratto!18). Nessun filosofo, di conseguenza, s’è forse limitato al semplice momento della « visione », senza svolgere anche un lavoro di interpretazione. Tale è, ad esempio, l’impiego del mito in filosofia, impiego che può esser consapevole, come ad esempio avviene spesso in Platone (19), oppure inconsapevole, e perciò acritico, come si verifica in certe contaminazioni di scienza e filosofia proprie della cultura positivistica. Per evi­ tare appunto la confusione tra due attività di pensiero essen­ zialmente diverse, quali la visione e l’interpretazione, noi riser­ veremo il nome di « metafisica » alla sola tematizzazione della conoscenza atematica originaria, mentre adopereremo il termine « filosofia » ad indicare sia la formulazione esplicita della do­ manda totale, come abbiamo fin qui fatto, sia i tentativi di in­ terpretazione connessi a tale domanda che non superano il piano della presumibilità. Questa distinzione tra metafisica e filosofia sembra ponga dei limiti alla problematicità filosofica che al contrario riteniamo permanga in un certo modo totale e radicale. La problematicità filosofica potrebbe già apparire limitata a parte ante dalla esi­ stenza di una certezza originaria. Potrebbe ora apparire limitata* il (18) Questa incapacità del pensiero astratto a soddisfare la « domanda totale » pone l’esigenza di un passaggio dalla filosofìa alla religione, passag­ gio su cui ha particolarmente insistito Umberto A. Padovani a proposito dell’impossibilità di risolvere sul piano filosofico il problema del male (cfr. U. A. Padovani, La filosofia della religione e il problema della vita, Vita e Pensiero, Milano, 1935). (19) Si ricordino, ad esempio, le famose parole con le quali nel Fedone il Socrate platonico conclude l’esposizione del mito dell’oltretomba : « Certo impuntarsi a sostenere che questo sia proprio come l’ho esposto io non si addice ad un uomo che abbia senno; ma sostenere che sia così o ad un di­ presso per quel che riguarda le nostre anime e le loro dimore, dopo che è manifesto che l’anima è immortale, mi pare si addica, e anche metta conto di arrischiarsi a crederlo, poiché il rischio è bello» (Fedone, 114d, trad, di G. Capone Braga, Cedam, Padova, 1941, p. 133).

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a parte post dall’affermazione del carattere di necessità, e quindi di assoluta certezza, delle proposizioni metafisiche. Per quanto riguarda la prima forma di limitazione, la distin­ zione tra implicito ed esplicito, tematico ed atematico, rende pos­ sibile accordare il carattere di assoluta problematicità, proprio della filosofia, con il carattere di certezza, proprio della visione originaria. Infatti, qualunque sia la verità di cui possiamo es­ sere implicitamente certi, è solo mettendola in discussione, pro­ blematizzandola, che essa, nella misura in cui resisterà alla prova del dubbio, si paleserà come irrefutabile certezza. La dimostra­ zione « per confutazione » che Aristotele nel IV libro della Me­ tafisica dà del principio di non contraddizione, che è il princi­ pio supremo del conoscere e dell’essere, è un chiaro esempio di quella che è la tipica forma della dimostrazione metafisica. Si tratta di mettere in discussione sul piano della conoscenza riflessa ciò che è assolutamente indiscutibile sul piano della conoscenza irriflessa, affinchè la certezza originaria possa essere consapevol­ mente riconfermata. Il principio di non contraddizione è ap­ punto così poco discutibile e discusso sul piano della conoscenza irriflessa che inconsapevolmente lo usa anche chi intende espres­ samente negarlo. Il dubbio appare allora senza significato. Ep­ pure il tentativo del dubbio è un momento dialettico necessario per la conquista consapevole della certezza. La tematizzazione dell’atematico, in cui consiste la metafisica, ha come unico stru­ mento la problematizzazione totale, che è la filosofia, discussione dello stesso indiscutibile, problematizzazione (ci si perdoni la barbara espressione) dello stesso improblematizzabile (20). (20) La negazione esplicita di ciò che è di per sè indubitabile e di cui in effetti implicitamente non si dubita, costituisce la posizione scettica, la quale è resa possibile dal limite della nostra consapevolezza che si lascia sfuggire il fondamento primo di ogni certezza. La « confutazione » dello scetticismo appare allora la forma stessa del discorso metafisico, in quanto per essa la consapevolezza acquista piena uni­ versalità, fino ad includere la certezza originaria.

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

Per quanto riguarda poi la seconda forma di limitazione, la conquista della più completa certezza non estingue la proble­ maticità per il fatto stesso che la presuppone. Non si tratta in­ fatti di una certezza che, una volta raggiunta, possa esser messa tranquillamente da parte, per sempre. Essa infatti come consa­ pevole certezza si sostiene sul processo di problematizzazione da cui è scaturita e permane finché quel processo resta presente, attuale. Se la tensione problematica si attenua, la certezza nei risultati raggiunti attraverso la dimostrazione si oscura. La situazione sul piano deU’argomentazione ordinaria e della dimostrazione scientifica è diversa. Qui la validità di quanto è stato raggiunto attraverso la dimostrazione può trovare con­ ferma nella verifica empirica, nella riprova sperimentale, rese possibili dal continuo aumentare delle esperinze. I risultati deU’indagine metafisica, al contrario, non possono essere este­ riormente garantiti. Il metafisico non può ricorrere a nuove espe­ rienze, perchè ha già usufruito, in un certo modo, cioè essenzial­ mente, di tutta l’esperienza. L’unica verifica di cui dispone è la

L’incapacità dello scettico di elevarsi, nonostante la sua pretesa, ad un livello universale, si manifesta anche nel fatto che io scettico, negando tutto fuorché il proprio negare, tralascia di considerare il proprio caso: solo per questo infatti non si accorge della propria contraddizione. Ma tralasciare di necessità anche un caso soltanto è già decadere dal piano della vera uni­ versalità. L’enunciazione scettica è così il porsi di una esigenza filosofica che non sa ancora attuarsi, mentre la « confutazione » dello scetticismo è l’attuarsi appunto di questa esigenza, nel senso che è la conquista dialettica della autentica universalità. Il momento « confutatorio » diventa così il criterio formale per distin­ guere le proposizioni metafisiche da quelle non metafisiche. Mentre, ad esem­ pio, nel caso delle proposizioni scientifiche una proposizione vera può es­ sere negata senza che, in base a questa negazione, la stessa proposizione che nega risulti insignificante, per ciò che riguarda invece le proposizioni metafisiche, una proposizione vera non può essere negata senza che la sua negazione risulti, mediatamente o immediatamente, assurda, offrendo in que­ sto modo il fianco alla « confutazione ».

CAP. I.

« DOMANDA TOTALE »

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possibilità di rinnovare perennemente il processo di problema­ tizzazione e di dimostrazione. La certezza del metafisico poggia su questa costante tensione problematica, come l’immobilità del­ l’acrobata sul filo è il risultato di un continuo sforzo equili­ bratore (21). Ciò spiega perchè ogni filosofo (ed è questo uno degli aspetti della filosofia che più dànno scandalo) debba sempre ricomin­ ciare da capo, debba sempre rimettere in discussione qualunque tesi, anche quelle suffragate dalle maggiori autorità o consa­ crate dalle più venerande tradizioni. E ciò spiega pure un fatto ancor più scandaloso: perchè cioè nella storia della filosofia si verifichino così spesso errori, incomprensioni e divisioni tra i pensatori. È sufficiente infatti che lo sforzo di radicale problema­ tizzazione venga meno perchè le certezze più elementari siano mi­ sconosciute o perchè appaia addirittura privo di senso ciò che ad altri risulta evidente. La tematizzazione metafisica adunque richiede la incessante problematizzazione filosofica. Più che di due tappe successive, si tratta di due momenti distinti, ma inseparabili, di un unico processo circolare, attraverso il quale si effettua il ritorno al­ l’originario.

8. - Le articolazioni del discorso metafisico. La metafisica, complessivamente considerata, è sapere totale, cioè esplicitazione della totalità nella sua struttura essenziale. Questa definizione deve essere ulteriormente approfondita. L’orizzonte estremo che avvolge e penetra la totalità è il concetto trascendentale dell’essere in quanto essere. Le caratte­ ristiche dell’essere in quanto essere si ritrovano in ciascun essere, i suoi principi (primo fra tutti quello di non contraddizione) valgono per la totalità degli esseri. In quanto studio dell’essere (21)

Cfr. M. Gentile, Filosofia e Umanesimo, p. 51.

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

nei suoi caratteri essenziali, nei suoi principi primi, la metafisica può esser detta anche ontologia. Il concetto di metafisica non può tuttavia ridursi a quello di ontologia. Il concetto dell’essere in quanto essere ci rivela ciò che è comune a tutti gli esseri (l’incontraddittorietà, ad esem­ pio), ma, da solo, non ci mostra ancora il rapporto che inter­ corre tra i diversi esseri, non ci fa cogliere quindi la struttura della totalità. Eppure la conoscenza di questa struttura è ri­ chiesta dalla stessa domanda con cui si apre la storia della filo­ sofia: quale sia cioè l’archè o principio delle cose. È una do­ manda che ci impegna davvero di fronte alla totalità, perchè ce ne indica i termini estremi: da un parte le cose, dall’altra il principio. Conoscere la struttura essenziale della totalità è ap­ punto conoscere la natura della relazione tra le cose e il loro principio. Il discorso sulla totalità dovrà allora necessariamente arti­ colarsi nelle due forme del discorso sulle cose, sul condizionato, e del discorso sul principio, sull’incondizionato; insomma, dovrà svolgersi in una cosmologia o fisica (nel senso filosofico del ter­ mine) e in una teologia. Cosmologia e teologia sono così due aspetti complementari e perciò inseparabili dell’unico discorso metafisico. Siffatta articolazione della metafisica appare del tutto evi­ dente nelle dottrine della trascendenza, nelle quali è altresì pa­ lese la complementarità tra le due forme del discorso cosmolo­ gico e teologico, concludendosi il primo con la indicazione del principio trascendente e iniziandosi il secondo da questa stessa indicazione, emergente dall’insufficienza della realtà mondana. Nelle dottrine monistiche la distinzione tra le due forme di discorso si attenua, ma non scompare mai completamente, permanendo nell’ambiguità stessa del loro oggetto: Deus sive Natura. Se si tratta poi di un monismo naturalistico, il discorso teologico si esaurirà ben presto nella negazione stessa del suo oggetto e il discorso cosmologico sembrerà coprire l’intera area del discorso metafisico; questo nondimeno, senza essere espres­

CAP. I. - « DOMANDA TOTALE »

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samente teologico, sarà pur sempre teologicamente rilevante. Se invece si tratta di un monismo acosmico, il mondo degradato ad illusione alimenterà pur sempre una forma particolare di discorso, distinto da quello propriamente teologico, in funzione di emen­ datici dalla falsa prospettiva mondana. Tra cosmologia e teologia si inserisce una terza forma di discorso, quello ontologico, già considerato. Esso si inserisce come la possibilità stessa della mediazione tra le due precedenti forme, allo stesso modo in cui l’essere in quanto essere, realiz­ zandosi analogicamente nell’essere condizionato e nell’essere as­ soluto, rappresenta la loro prima e fondamentale relazione. Non è perciò una circostanza puramente fortuita se in Ari­ stotele, che per primo tentò di definire con precisione l’oggetto e la natura della metafisica, non si trova una definizione uni­ voca di questa disciplina, che è presentata ora come « scienza che specula sui principi e le cause prime » (22) (e perciò ancora tanto vicina alla fisica da sembrarne per molti aspetti il dupli­ cato), ora come « scienza che riguarda ciò che è separato ed im­ mobile », cioè espressamente come « teologia » (23), ora infine come « scienza che studia l’ente in quanto ente e le sue proprietà essenziali » (24), cioè, diremo, ontologia. Queste definizioni di­ verse ci sembrano riflettere non tanto una incertezza del filosofo, o un suo mutamento di prospettiva in momenti diversi della sua evoluzione spirituale (cosa che del resto non è necessario negare), ma la stessa intrinseca complessità della metafisica. Di questa disciplina è inevitabile parlare in molti modi, perchè in molti modi ( πολλαχώς ) si deve parlare dell’essere che costituisce il suo oggetto. Ma le articolazioni del discorso metafisico non sono ancora terminate. Nella metafisica rientra ancora di diritto il discorso sull’uomo o antropologia. Vi rientra per un duplice aspetto: in (22) (2S) (24)

Met. I, 982 b 9Met. VI, 1026 a 15-19. Met. IV, 1023 a 21-22.

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

primo luogo, per la ragione tutta particolare che l’uomo non è soltanto un essere tra gli altri esseri, ma è quell’essere cui la to­ talità degli esseri si rivela; in secondo luogo, per le conseguenze pratiche che dalla conoscenza della totalità possono esser tratte in ordine all’orientamento dell’uomo nella vita. Queste due ultime considerazioni pongono, da una parte, il problema dei rapporti tra metafisica e gnoseologia, dall’altra, quello dei rapporti tra metafisica ed etica. Quanto al primo problema è noto come, in rapporto ad esso, il pensiero antico e quello moderno divergano e si oppon­ gano tra loro. Nel pensiero classico, infatti, la ricerca primaria e fondamentale in rapporto alle altre parti del sapere è la metafi­ sica, che Aristotele appunto indicava come « filosofia prima »; nel pensiero moderno al contrario questo primato viene asse­ gnato alla gnoseologia. Qualunque sia stato il vero motivo di questa opposizione, ci sembra che essa non abbia una necessaria ragione di sussistere. Riteniamo che metafisica e gnoseologia, cri­ ticamente intese, non costituiscano due diverse ricerche, intorno alle quali possa aver senso parlare di un eventuale primato dell’una sull’altra, ma due aspetti o prospettive diverse di una stessa ricerca. Infatti la totalità che è oggetto della metafisica, non è la totalità pienamente determinata e concreta, quale potrebbe essere presente ad un pensiero infinito, ma quella totalità scar­ samente determinata e mai completamente determinabile, quale soltanto può essere attinta dal pensiero umano, finito. Una me­ tafisica che voglia essere critica, che non voglia essere sogno di visionario, deve essere consapevole degli insuperabili limiti del pensiero umano, deve essere in questo senso una gnoseo­ logia. D’altra parte il conoscere che è oggetto della gnoseologia non deve essere inteso come un fatto puramente soggettivo, come un semplice fenomeno psichico (in questo senso il cono­ scere è oggetto piuttosto della psicologia come scienza speri­ mentale), ma deve essere considerato in tutta la sua portata og­ gettiva, nel suo intrinseco riferimento intenzionale agli stessi oggetti conosciuti. Di nuovo, non tutti gli oggetti nella loro

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« DOMANDA TOTALE »

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contingente varietà, ma l’oggettività nella sua essenzialità, non tutti gli enti nella loro infinita molteplicità, ma la totalità nella sua struttura fondamentale, nelle sue caratteristiche ontologiche trascendentali. Una gnoseologia così intesa, libera cioè da ogni presupposizione gnoseologistica che separi il pensiero dall’essere, implica già una metafisica. Quanto al rapporto tra metafisica ed etica, esso si chiarisce come un caso particolare del rapporto tra attività teoretica ed attività pratica. Anche senza affrontare il problema se sia possi­ bile o meno una attività teoretica indipendente ed autonoma rispetto all’attività pratica — alla radice di entrambe vi è sem­ pre, in fondo, una domanda totale f25) —, è fuori discussione, almeno, l’efficacia della teoresi sulla prassi. Quanto più adeguata è la conoscenza, tanto più efficace è l’azione. Dall’opinione vol­ gare discende una pratica approssimativa, dalla scienza una tec­ nica molto più precisa. Qual è allora la forma di attività pratica che può discendere dalla metafisica? Potrebbe a prima vista sembrare che la metafisica, per il suo stesso carattere di universalità, fosse assolutamente estranea alla sfera della prassi, giudicata spesso come la sfera dei soli fini particolari, degli interessi puramente contingenti. È noto anzi come il pensiero classico abbia esaltato l’« inutilità » di questa forma suprema di speculazione come segno dell’affran­ camento dell’uomo dalle necessità materiali e di affermazione della sua libertà morale; ed è altrettanto noto come la stessa « inutilità » sia stata spesso dal pensiero moderno denunciata come stolta evasione dagli impegni vitali o come vana osten­ tazione di aristocratica sufficienza. A nostro avviso, la questione va risolta tenendo presenti i (2o) La stretta connessione tra l’aspetto teoretico e l’aspetto pratico della domanda totale è stato profondamente colto e vissuto da Socrate, come ha messo chiaramente in luce Franco Chiereghin nel suo saggio Storicità e originarietà nell’idea platonica, Cedam, Padova, 1963 (si veda in particolare il Cap. II : « La struttura del discorso socratico » ).

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

due diversi gradi in cui l’attività pratica si esplica: il grado del particolare e il grado dell’universale, la sfera cioè dell’uti­ lità (economia) e quella della moralità (etica). Sul piano econo­ mico in effetti la metafisica risulta di per sè assolutamente inef­ ficace, se si prescinde dall’apporto di questa disciplina alla for­ mazione integrale dell’uomo e dall’influsso indiretto che tale formazione può avere su ogni singolo aspetto dell’attività umana. È invece sul piano della vita morale che va ricercata ed indi­ viduata la sua efficacia pratica. Nella misura infatti in cui la filosofia riesce a costituirsi come metafisica, ad elevarsi cioè ad una consapevole visione della totalità, nella sua essenziale strut­ tura e quindi nella gerarchia dei suoi valori, essa rende possi­ bile una impostazione razionale del comportamento pratico in ordine ai fini della vita umana. La proclamata « inutilità » della metafisica altro non può essere allora che un paradossale richiamo alla sua peculiare forma di utilità, alla sua insostituibile funzione morale.

9. - Passaggio dalla definizione alla costruzione meta­ fisica.

Possiamo ora, al termine delle riflessioni fin qui svolte, de­ finire sinteticamente i concetti di « filosofia » e di « metafisica » con una formula più precisa e articolata di quelle che abbiamo fin qui proposte. « La filosofia è il porsi consapevole di quella domanda totale che, in forma implicita, è alla radice di tutte le manifestazioni teoretiche (e non solo teoretiche) dell’uomo. Tale domanda è sollecitata da un sapere totale, ma oscuro e atema­ tico, ed è orientata verso quel sapere totale, fin dove è possi­ bile chiaro e tematico, che è la metafisica, nella varietà delle sue determinazioni ». Dicevamo all’inizio di questo capitolo che la nostra spe­ ranza era che altri riuscissero a riconoscere in quanto noi indi­ cavamo con il nome di filosofia quello stesso contenuto eidetico

CAP. I. - «DOMANDA TOTALE»

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che essi forse esprimevano con termini diversi. Dicevamo e di­ ciamo speranza, perchè la semantizzazione del termine « filo­ sofia » presenta la grave difficoltà che è propria di tutti i termini che non si riferiscono ad oggetti già costituiti e dati nell’espe­ rienza sensibile. Mentre cioè per i termini che designano tali og­ getti le incertezze della definizione verbale possono essere risolte mediante la loro diretta presentazione, per ciò che riguarda un termine come « filosofia » non è possibile additare un oggetto già costituito, ma si deve fare appello all’esperienza spirituale che lo costituisce. È chiaro però che in qualcuno questa esperienza può anche mancare, nel qual caso ogni sforzo di esplicazione e di comunicazione risulterebbe vano. Questo timore riguarda il concetto di filosofia non tanto nel momento problematico iniziale, quanto nel momento della siste­ mazione finale. La sensibilità moderna infatti è abbastanza pronta a cogliere le espressioni problematiche ed esigenziali della vita spirituale, ma è piuttosto contraria a riconoscere la possibilità che esse vengano effettivamente soddisfatte. Ora è evidente che il significato di una esigenza varia profondamente in relazione al fatto che si ammetta o no la possibilità del suo adempimento. Per ciò che riguarda il concetto di filosofia noi riteniamo che la domanda totale sia in un certo modo suscettibile di una risposta totale sul piano teoretico. È solo per questa convinzione che giu­ dichiamo la filosofia una domanda autentica e non una vana pre­ tesa. Questa nostra convinzione non è essa stessa una semplice esigenza, ma si fonda su una esperienza, sia pur limitata, di co­ struzione metafisica. Ma è proprio questo il punto in cui risiede la particolare dif­ ficoltà di una definizione preliminare di filosofia: che non può acquistare un concetto di filosofia come domanda autentica chi non ha una qualche esperienza della sua soddisfazione, cioè della metafisica. Che questa esperienza manchi in molti settori della cultura contemporanea, non è una nostra accusa, ma è la loro stessa confessione o il loro stesso vanto. In tale situazione, una introduzione ai concetti di filosofia e metafisica non può con3 — P. Faggiotto, Saggio sulla struttura della metafisica.

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

eludersi con una definizione esauriente, che possa essere uni­ versalmente accolta, ma deve convertirsi nell’invito, rivolto a tutti, ad affrontare, con animo sereno e spregiudicato, l’espe­ rienza di una effettiva costruzione metafisica (2e).

(26) per cile rjguarda questo nuovo modo di sentire il problema della metafisica, ecco quanto scrive C. B. Daly nel suo saggio Metaphysics and thè limits of language (in Prospect for Metaphysics, Essays of metaphysical exploration, edited by lan Ramsey, George Alien, London, 1961, pp. 193194) : « I filosofi oggi sono generalmente disposti a riconoscere che non ci sono buone ragioni per dire che non esistono problemi metafisici, o che essi sono privi di senso, oppure banali. Però si nutrono ancora molti dubbi che tali problemi possano essere risolti in maniera sensata. C’è oggigiorno un generale riconoscimento di quello che D. F. Pears ha definito " il proteiforme tentativo metafisico di trascendere il linguaggio ". Tuttavia si ritiene comu­ nemente che questo tentativo sia destinato a fallire. Infatti, per definizione, le risposte metafisiche andrebbero oltre i limiti della ragione, della logica e dell’espressione sensata. Rimane adunque il problema di mostrare che la metafisica è concreta­ mente possibile. Ora, in definitiva, non c’è altro modo di mostrare una volta per sempre la possibilità di una cosa che quello di realizzarla ».

Capitolo Π. ITINERARIO METAFISICO

1. - Premessa. A conclusione del precedente capitolo, dedicato alla defini­ zione dei concetti di filosofia e metafisica, prospettavamo l’op­ portunità, ai fini di una più approfondita comprensione di que­ sti concetti, di tentare l’esperimento di una costruzione metafi­ sica. È quanto appunto intendiamo fare nel presente saggio. Un simile esperimento non consiste necessariamente nel ten­ tativo di fondare un nuovo sistema. Ciò che qui importa non è la novità delle tesi presentate, ma il procedimento attraverso il quale esse vengono stabilite. Costituisce una autentica costru­ zione metafisica anche la ricostruzione di un precedente sistema, quando questa riesca a ritrovare i fondamenti ultimi su cui pog­ gia il sistema esaminato. Da questo punto di vista diciamo subito che il nostro ten­ tativo si inserisce nel quadro della metafisica classica, e precisamente aristotelica, attinta alle sue fonti dirette. Questo non per­ chè riteniamo che la concezione artistotelica rappresenti la verità conclusiva, ma perchè siamo convinti che Aristotele, attraverso il più radicale processo di problematizzazione e quindi nella forma più rigorosamente critica, sia riuscito a porre alcuni dei principi davvero basilari della metafisica. Il fondamento della metafisica, complessivamente conside­

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

rato, è costituito dalla struttura teoretica originaria, da quella struttura cioè che è necessariamente presente in qualunque espres­ sione della attività conoscitiva e che non può perciò essere ne­ gata, senza che la negazione stessa risulti insignificante. Di que­ sta struttura teoretica Aristotele ha riconosciuto con assoluta chiarezza l’orizzonte estremo, cioè l’idea dell’essere in quanto essere, e la sua proprietà essenziale, l’incontraddittorietà, che ha trovato la sua classica definizione nel principio di non con­ traddizione. Ci sembra tuttavia che Aristotele non abbia rico­ nosciuto con altrettanta chiarezza alcuni altri aspetti della strut­ tura originaria. Si deve a questo incompleto riconoscimento il fatto che nel discorso aristotelico entrino talora alcuni termini che non appaiono giustificati in maniera esplicita e radicale, ma sono invece il risultato di una precedente mediazione, operata in forma irriflessa da quella stessa struttura che è costantemente presente ed attiva nel nostro pensiero, anche a nostra insaputa. Ricondurre adunque esplicitamente il discorso metafisico al­ l’intero complesso degli elementi originari, affinchè nessuna me­ diazione rimanga implicita e perciò, almeno sul piano della co­ noscenza riflessa, ingiustificata, è l’intento del presente saggio che, nella sua brevità, non intende certo esaurire l’intera costru­ zione, ma indicare semplicemente l’itinerario che può condurre ad essa.

2. - I

PRIMI PRINCIPI.

In quanto scienza della totalità, la metafisica trova il suo primo oggetto di indagine nell’idea dell’essere, orizzonte estremo da cui la totalità risulta circoscritta, denominatore comune cui la molteplicità delle cose può essere ricondotta. Intesa in questo senso, la metafisica è ontologia: studio delle proprietà essenziali che competono all’essere, non in questa o quella sua manifesta­ zione particolare, ma semplicemente in quanto essere-, proprietà, quindi, che si riscontrano in ogni essere, universalmente. In que­

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sta dimensione universale sta il carattere differenziale dell’onto­ logia nei confronti delle altre scienze, che, in rapporto ad essa, risultano perciò tutte particolari. « Nessuna delle altre scienze — avverte appunto Aristotele — considera in universale l’essere in quanto essere, ma ne studia qualche sua parte, in ciò che essa ha di accidentale; come avviene nelle matematiche » (x). La distinzione dell’ontologia dalle altre scienze non è tut­ tavia così semplice come a prima vista potrebbe apparire. Poiché l’essere è l’aspetto essenziale e trascendentale di ogni singola cosa, come è possibile che esso non sia presente nella considerazione di ogni parte dell’essere e di ogni accidentalità dell’essere (acci­ dentalità che è, ancora, essere)? In effetti è impossibile che la considerazione di una qualunque parte dell’essere, in un suo qualunque aspetto accidentale, escluda completamente la consi­ derazione, almeno implicita, dell’essere; ma la differenza tra l’on­ tologia e le altre scienze sta appunto nella maniera puramente implicita con la quale le scienze particolari considerano l’essere, e nella maniera invece esplicita che è propria della considera­ zione ontologica. Non c’è scienza, anzi non c’è atto di pensiero, che non abbia per oggetto l’essere, ma solo l’ontologia ha per oggetto l’essere in quanto essere; dove l’espressione « in quanto essere » sta ad indicare la forma dichiaratamente tematica nella quale, in sede metafisica, viene assunto quello stesso oggetto trascendentale che altrove è presente solo in forma atematica. Questa distinzione tra le due diverse maniere di considerare il trascendentale può essere immediatamente ripetuta, ed anche meglio chiarita, quando si passi alla determinazione delle pro­ prietà essenziali dell’essere in quanto essere e dei principi primi od « assiomi » in cui tali proprietà sono formulate. Si tratta dei principi che valgono per tutti gli esseri e che nessuna scienza può perciò ignorare. « Tutti — osserva ancora Aristotele — li usano, appunto perchè appartengono all’essere in quanto es­ sere, e ciascun genere di cose è essere; e li usano quanto basta p) Mei., IV, 1, 1003 a 23-26.

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

loro, cioè quanto si stende il genere di esseri che fanno oggetto delle loro deduzioni. Ma, poiché gli assiomi valgono per tutti gli esseri in quanto esseri (questo è infatti ciò che essi hanno di comune), è chiaro che anche lo studio di essi apparterrà a colui che indaga sull’essere in quanto essere. Perciò nessuno di coloro che si occupano di ricerche particolari si propone di dire qualcosa intorno ad essi, se siano veri o no, nè il geometra, nè l’aritmetico » (2). Qui la distinzione tra la maniera tematica e quella atematica di considerare il trascendentale si impone con la massima evi­ denza. Che i principi primi, universalmente validi, siano pre­ senti anche alle scienze che si occupano di oggetti particolari, ciò risulta chiaramente dal fatto che questi principi vengono ef­ fettivamente adoperati nei procedimenti di tali discipline. Tutta­ via nessuna di esse porta esplicitamente il discorso sui principi che usa. La loro validità è tacitamente, anche se fermamente, pre­ supposta, ma non espressamente riconosciuta ed illustrata. È questo il punto in cui si rivela la particolarità dei vari discorsi scientifici nei confronti di quello metafisico: sono discorsi che si svolgono mediante i principi, ma non sui principi. Al contrario il discorso metafisico od ontologico, risalendo fino alla conside­ razione esplicita di quei principi da cui anch’esso ha implicita­ mente preso le mosse, rivela in questo suo movimento circolare, in questa sua ricerca di autosufficienza, la pienezza della sua universalità.

3. - Il principio di non contraddizione. Il primo e più importante degli assiomi è il principio di non contraddizione che Aristotele formula in questi termini: « È impossibile che la stessa cosa insieme convenga e non convenga ad una stessa cosa e sotto lo stesso aspetto » (3). (2) Met., IV, 3, 1005 a 23-31. (3) Met., IV, 3, 1005 b 19-20.

CAP. Π. - ITINERARIO METAFISICO

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Il riconoscimento di tale principio procede dalla riflessione e quindi dalla esplicitazione della struttura del discorso dimo­ strativo. La forma della dimostrazione scientifica rigorosa con­ siste sempre nel fondare una tesi mostrando che l’antitesi in­ clude una contraddizione, vale a dire la contemporanea afferma­ zione e negazione di una stessa cosa. Ciò significa che chi dimostra presuppone già, in ogni caso, che una stessa cosa non possa insieme essere e non essere, ha cioè già riconosciuta una proprietà essen­ ziale dell’essere in quanto essere, la sua « incontraddittorietà ». Questo riconoscimento è il presupposto di qualunque afferma­ zione, di qualunque conoscenza. È per questo che Aristotele afferma che il p. d. n. c. è « il più noto di tutti », che « la sua conoscenza è necessaria per la conoscenza di qualsiasi cosa », che è « il principio più certo di tutti », « quello intorno al quale è impossibile ingannarsi » (4). Tuttavia Aristotele riconosce, subito dopo, che vi sono alcuni, e non pochi, « i quali affermano che è possibile che una stessa cosa sia e non sia, e che così la si possa pensare » (B). Come adunque è possibile che non sia noto ciò che è massimamente noto, che si oscuri il principio più certo di tutti, come, soprattutto, è pos­ sibile che ci si inganni su ciò intorno a cui è impossibile ingan­ narsi? In questo caso, il semplice fatto che qualcuno possa ne­ gare il p. d. n. c sembrerebbe costituire una insormontabile dif­ ficoltà al diritto dello stesso principio di porsi come assioma supremo. In tale situazione, l’unico modo di difendere il p. d. n. c. consiste nel contestare l’autenticità della negazione. È appunto ciò che fa Aristotele quando, a proposito dell’opinione di alcuni che Eraclito abbia negato il p. d. n. c., osserva che « non è ne­ cessario che ciò che uno dice lo pensi effettivamente » (6). La negazione del p. d. n. c., intende dire Aristotele, è puramente (4) Met., IV, 3, 1005 b 11-1S. (5) Met., IV, 4, 1005 b 35 - 1006 a 2. («) Met., IV, 3, 1005 b 25-26.

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

verbale, può essere pronunciata, ma non può essere davvero pensata. Viene così introdotto quel tipo particolare di giustificazione del p. d. n. c. che Aristotele chiama « per confutazione ». Il p. d. n. c. non può essere oggetto della forma consueta di dimo­ strazione, che consiste nella riduzione all’assurdo dell’antitesi, perchè questa forma di dimostrazione importa già l’uso di quel principio che qui invece si tratta di giustificare. La difesa del p. d. n. c. viene da Aristotele operata mostrando come la pretesa negazione non sia propriamente tale. Infatti, argomenta il filo­ sofo, o il discorso di chi nega il principio non ha alcun signifi­ cato, e allora non costituisce una vera negazione (e preoccuparsi di discutere con chi si comporta in questo modo sarebbe altret­ tanto ridicolo quanto voler discutere con una pianta); oppure il discorso è costituito di parole fornite di significato, e allora esso è in effetti non una negazione, ma una affermazione del p. d. n. c. Invero, affinchè una parola abbia significato è necessario che essa esprima qualcosa di determinato; ciò però non sarebbe possibile se la stessa cosa potesse, sotto lo stesso aspetto, essere e non essere. Se uomo potesse essere, ad esempio, anche non-uomo, la parola « uomo » non avrebbe più un significato determinato (7). Il p. d. n. c. appare così, prima ancora che il criterio supremo di dimostrazione, il criterio supremo di significanza (8). Il signi-* Il (') Per tutta questa argomentazione, fondata sul criterio di significanza, si veda Met., IV, 4, 1005 b 35 - 1007 a 8. Cfr. inoltre De interprefattone, 8, 18 a 18-27. (8) L’appello al criterio supremo di significanza è il mezzo più radicale cui si può ricorrere nella dimostrazione di una tesi, in quanto per esso si attinge il limite estremo del processo di problematizzazione. Infatti, senza l’accettazione di tale criterio vien meno la possibilità stessa di formulare qualunque problema. Il fatto che il neo-positivismo abbia cercato di demolire la metafisica negando il significato stesso delle proposizioni in cui essa si esprime, rivela il carattere di radicale problematicità e, perciò stesso, la natura genuina­ mente filosofica di un movimento che, per altri aspetti, può presentarsi come

CAP. II. - ITINERARIO METAFISICO

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ficaio di ogni termine sussiste nella sua opposizione ad un si­ gnificato antitetico: il significato di « uomo » nella sua opposi­ zione a quello di « non-uomo », il significato di « essere » nella sua opposizione a quello di « non-essere ». Tolta la distinzione, e perciò l’opposizione, è tolta ogni significazione. Anche da un punto di vista comportamentistico il p. d. n. c. si rivela come il supremo criterio di significanza. Invero il com­ portamento stesso rivela che chi nega il p. d. n. c. non è in realtà persuaso che le cose stiano come egli dice. « Infatti — si do­ manda Aristotele — perchè mai un bel mattino non parte deciso a buttarsi in un pozzo, oppure in un precipizio, mentre mostra di guardarsene, come ritenesse che non fosse ugualmente buono e non buono il caderci? » (9). Questi adunque gli argomenti principali avanzati da Aristoantifilosofico. Il vero torto del neo-positivismo non è dunque quello di aver messo in discussione il significato delle proposizioni metafisiche — ché questo, al contrario, è in fondo l’unico modo possibile di fare della metafisica — ma quello, se mai, di non aver riconosciuto il vero criterio di significanza di tali proposizioni, scambiandolo troppo spesso con un diverso criterio, quello della verificabilità empirica, valido per un altro genere di enunciati. Ciò che interessa, comunque, è di mettere in rilievo che l’esigenza legit­ tima, avanzata dal neo-positivismo nei confronti della metafisica, si trova in Aristotele già soddisfatta, almeno per ciò che riguarda il principio fonda­ mentale di questa scienza, il principio cioè di non contraddizione. (9) Met., IV, 4, 1008 b 15-17. Gli altri argomenti usati da Aristotele a difesa del p. d. n. c. (Met., IV, 4, 1007 a 8 - 1008 b 2) consistono nel mostrare come la negazione di tale principio importerebbe: 1°) la soppressione della sostanza di ogni cosa e l’affermazione che tutto è accidentale; 2°) la riduzione di tutte le cose ad una sola; 3°) la contemporanea verità e falsità della negazione del p. d. n. c., e l’impossibilità quindi che tale negazione venga enunciata. L’ultimo di questi argomenti si richiama direttamente al supremo crite­ rio di significanza, mentre gli altri non sembrano avere in se stessi carattere di estrema radicalità, a meno che non siano anch’essi ricondotti allo stesso criterio, che rappresenta adunque il fondamento principale di tutta l’argo­ mentazione.

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tele a difesa del p. d. n. c. Tale difesa è forse suscettibile di un ulteriore approfondimento. Essa infatti si proponeva anche di spiegare come fosse possibile l’errore a proposito del p. d. n. c., cioè la sua negazione, se esso è il principio intorno al quale è im­ possibile ingannarsi. La risposta che è stata data è che l’errore in fondo non sussiste, perchè non sussiste l’effettiva negazione. Chi nega a parole il p. d. n. c. crede di negarlo, ma in realtà l’afferma nell’atto stesso di conferire un significato ai termini che adopera. Ma non è, ancora una volta, un errore credere di negare senza realizzare una effettiva negazione? Lo stesso tentativo di negazione non implica l’ignoranza di ciò che dovrebbe essere massimamente noto? La risposta a questa ulteriore obiezione ci costringe a ripro­ porre la distinzione, sottintesa dallo stesso Aristotele, tra due diversi livelli di conoscenza: il livello della conoscenza impli­ cita o atematica e il livello della conoscenza esplicita o tematica. L’incontraddittorietà, che è la proprietà essenziale dell’essere in quanto essere, è la cosa più nota e più certa che il nostro pen­ siero possieda: è quella conoscenza prima senza di cui non sa­ rebbe possibile nessun’altra conoscenza, è, per dirla con le pa­ role dello Stagirita, « ciò che è necessario conosca chi voglia conoscere una qualsiasi cosa » (10). Pur tuttavia, al livello della conoscenza esplicita, questa fondamentale nozione può talora essere ignorata o negata. Ciò che noi sappiamo di sapere, e riu­ sciamo quindi a formulare esplicitamente, è molto meno esteso e molto meno sicuro di quanto originariamente, anche se solo implicitamente, sappiamo. Di conseguenza il p. d. n. c., che sul piano della conoscenza atematica « non è affatto ipotetico » ( άνυπόθ-ετος ), sul piano della conoscenza tematica può essere posto in discussione e deve quindi essere riconquistato nella sua originaria certezza attraverso una qualche forma di dimostrazione. Aristotele attribuisce la « colpa » di questa dimostrazione (10) Met., IV, 3, 1005 b 17-18.

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non al dimostrante, ma all’oppositore. Indubbiamente il negare sul piano del discorso esplicito ciò che sul piano del sapere im­ plicito non è per nulla ipotetico, ed è anzi assolutamente certo, è una colpa che qualcuno commette e che potrebbe anche es­ sere evitata; nondimeno, il mettere in discussione ciò che è im­ plicitamente indubitabile e l’esigerne una esplicita giustificazione, se è una « colpa », nel senso che è l’espressione della finitudine della nostra intelligenza, è tuttavia una « felix culpa », nel senso che è la condizione necessaria perchè la nostra intelligenza finita pervenga alla tematizzazione della originaria certezza. L’impos­ sibilità che i contraddittori si identifichino risulta infatti espli­ citamente solo quando si sia esperito il tentativo di procedere alla loro identificazione. L’abisso della più assoluta insignificanza, che ci si spalanca davanti, ci costringe a ritornare sui nostri passi e a tenerci ben stretti a quel principio che è il più saldo di tutti. Per la metafisica, insomma, la problematizzazione del p. d. n. c. non è una vicenda occasionale, determinata da una nega­ zione del tutto estranea alle esigenze di questa disciplina, ma è un momento essenziale che ne rivela la particolare struttura nei confronti delle altre scienze, vale a dire la sua assoluta radica­ lità. Come forme di sapere esplicito, le altre scienze arrestano il loro processo di giustificazione ad un certo punto, cioè di fronte ai primi principi: li usano, riconoscendoli perciò come veri, ma non dicono esplicitamente « se sono veri o no ». La metafisica al contrario non accetta questo limite e, attraverso una forma estrema di problematizzazione, procede alla loro « verifica ». La metafisica nel suo momento ontologico si rivela così come quella forma di sapere tematico che attinge la certezza più radicale, avendo saputo formulare la più radicale domanda)11). (u) « Mentre nelle discipline scientifiche particolari è possibile che l’at­ teggiamento problematico sia circoscritto a particolari, singole zone ed è ne­ cessario che vi siano delle premesse, intorno alle quali il dovere dello scien­ ziato è di essere dogmatico (se fosse problematico anche in confronto a que­ ste, distruggerebbe la propria disciplina), la caratteristica propria dell’inda-

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4. - Il principio di ragion sufficiente. Nel IV libro della Metafisica Aristotele, presentando la scienza che studia l’essere in quanto essere e le sue proprietà essenziali, attribuisce ad essa anche lo studio dei principi primi od assiomi. In realtà, tuttavia, egli non tratta che del p. d. n. c. È adunque il p. d. n. c. l’unico principio primo o ve ne sono altri? È l’incontraddittorietà l’unica proprietà essenziale dell’es­ sere in quanto essere o ve ne sono delle altre? Per rispondere a questa domanda dobbiamo riprendere in considerazione il rapporto che passa, a proposito dei primi prin­ cipi, tra la metafisica e le scienze particolari. Anche se solo la metafisica porta espressamente il discorso sui primi principi, questi tuttavia sono adoperati da tutte le scienze. Se esiste adun­ que qualche altro assioma oltre al principio di non contraddizione, lo si potrà scoprire esaminando la struttura del discorso scien­ tifico in generale. S’è visto come nel discorso scientifico una tesi venga ne­ cessariamente dimostrata quando si riesca a mostrare la contrad­ dittorietà dell’antitesi. In questo modo, però, il p.d. n. c. è lo strumento in conformità del quale si costituisce il discorso scien­ tifico, ma non è quello dal quale il discorso stesso riceve il suo impulso, il suo stimolo originario. Orbene, l’impulso che pro­ voca il discorso scientifico è, in ogni caso, la ricerca della ra­ gione o fondamento di questa o quella manifestazione del reale, nel senso più ampio dell’espressione. In questa ricerca il nogine metafisica è che nulla può essere mantenuto in senso meramente dog­ matico » (M. Gentile, Come si pone il problema metafisico, Liviana, Pa­ dova, 1955, p. 41). L’intento del presente saggio è appunto quello di prospet­ tare per tutti i punti fondamentali della costruzione metafisica lo stesso pro­ cesso di radicale problematizzazione, quasi a riprova che « la posizione classica della metafisica non solo è compatibile con un atteggiamento problematico, ma che l’atteggiamento problematico è ad essa assolutamente necessario » (op. cit., p. 38).

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stro pensiero è sollecitato dalla ferma, anche se inespressa con­ vinzione, che di qualunque cosa ci debba essere un fondamento, una ragione. Questa convinzione perviene appunto alla sua espli­ cita formulazione nel principio di ragion sufficiente, di cui è pos­ sibile ripetere quanto Aristotele dice in generale degli assiomi: che cioè tutte le scienze li usano entro l’ambito della propria ricerca, ma che solo la scienza dell’essere in quanto essere deve occuparsene espressamente, dicendo « se sono veri o no ». Trattandosi di un assioma, questa « verifica » potrà avve­ nire solo « per confutazione ». Il p. d. r. s. non può infatti es­ sere oggetto di una dimostrazione vera e propria, perchè di­ mostrare significa giustificare una cosa in base ad un’altra, sul fondamento di un’altra, ciò che presupporrebbe già l’uso del p. d. r. s. In verità s’è tentato talvolta di dedurre il principio di ra­ gion sufficiente dal principio di non contraddizione. La dedu­ zione che in questi casi viene prospettata è, in sostanza, la se­ guente: ciò che è, deve avere, in sè o fuori di sè, la ragione o fondamento del proprio essere, altrimenti l’essere, mancando di una ragione, verrebbe a sostenersi sul nulla, sul non-essere, e questo sarebbe così convertito in un positivo, in un essere, in quanto capace di sostenere l’essere (12). È evidente tuttavia che una simile deduzione del p. d. r. s. dal p. d. n. c. è solo apparente. Chi nega il p.d. r. s. non in­ tende appoggiare l’essere sul non essere, ma crede di poter ne(12) Si veda, ad esempio, quanto scrive A. Masnovo (La filosofia verso la religione, Vita e Pensiero, Milano, I960, pp. 44-45): «Ci sarebbe modo di evitare l’affermazione, secondo cui il complesso degli enti ha in sè la ragion sufficiente, assegnando per esempio il nulla come ragion sufficiente. Ma c’è poi chi voglia attribuire efficacia al nulla? Costui che fa agire il nulla, lo fa certo essere, e pone la bella contraddizione " niente = ente " ». Si veda ancora F. Olgiati (1 fondamenti della filosofia classica, Vita e Pensiero, Milano, 1950, p. 160): «Nessuna realtà, di nessun genere e di nessuna specie, per minuscola che sia, balza dal niente (per il principio di non contraddizione) : il nulla sarebbe eguale all’essere ».

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gare l’esigenza stessa di qualunque sostegno, di qualunque fon­ damento, appunto (13). La presunta dimostrazione del p. d. r. s. è in realtà soltanto la dimostrazione dell’alternativa, per ciò che è, di avere in sè o fuori di se, la propria ragion d’essere, una volta che sia stato riconosciuto che ciò che è debba avere, comunque, un fondamento. A tale alternativa si richiama appunto la giustificazione del principio di causalità (cioè della ragion sufficiente esterna): ciò che diviene, nella misura in cui comincia ad essere ciò che prima non era, deve avere fuori di sè la causa del proprio di­ venire. Sembra perciò che chi vuol fondare il p. d. r. s. sul p. d. n. c. scambi quel principio, schiettamente ontologico, con il principio di causalità che ne è l’applicazione cosmologica. Lo scambio tuttavia è assai significativo: mentre infatti, da un punto di vista logico, è il principio di causalità che si fonda sul p. d. r. s., da un punto di vista psicologico, è nel principio di causalità che il p. d. r. s. si manifesta. Il modo infatti in cui ci è dato di co­ gliere la ragion sufficiente è indiretto e mediato: è cioè la do­ manda che se ne avverte negli esseri contingenti; considera­ zione, questa, che ci riporta alla struttura mediata dell’esperienza

(13) Scrive a questo proposito Gustavo Bontadini: « Concessa l’evidenza di tale principio («è evidente che dal nulla esce nulla; che il nulla è sterile affatto»], si deve subito constatare che colui che impugna Γ" inferenza " non attribuisce la " fecondità " o " causalità " al nulla, ma nega la necessità di introdurre comunque la fecondità stessa (la quale è già supposta in quel­ l’enunciato con la preposizione " da ") » (Gnoseologia e metafisica nel pen­ siero di G. Zamboni, in Studi sul pensiero di G. Zamboni, Marzorati, Milano, 1957, p. 604). E ancora : « L’oppositore non sostiene che il « contingente » abbia l’es­ sere da sè, ma, semplicemente, che non si veda la ragione perchè il suo essere debba " essere da " » (op. cit., p. 605). Eppure, osserviamo, l’oppositore che sostiene di non vedere la ragione riconosce implicitamente la necessità che di ogni cosa si dia una ragione, riconosce cioè il valore del p. d. r. s.!

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integrale, in cui la ragion sufficiente o fondamento è originaria­ mente presente solo in forma atematica. Dato il suo carattere di originarietà, il solo modo di giusti­ ficare il p. d. r. s. è adunque quello di confutarne la negazione. Il discorso in questi casi diventa molto semplice, anche se assai pregnante. Basta infatti osservare se chi nega il p. d. r. s. adduce o meno degli argomenti a sostegno della propria negazione. Se non porta alcun argomento, allora la sua negazione è un puro atto di arbitrio, privo di valore teoretico, e non ci si deve preoc­ cupare di discutere con chi, in fondo, non ragiona; se invece egli ricorre ad una qualche motivazione e cerca di presentare delle buone ragioni, allora la sua negazione è soltanto verbale e la sua argomentazione rappresenta in realtà un implicito rico­ noscimento del p. d. r. s., di quel principio cioè « in virtù del quale pensiamo che nessun fatto potrebbe essere vero o reale, nessuna proposizione vera, senza che ci sia una ragione suffi­ ciente perchè sia così e non altrimenti »(14). Uno dei modi in cui tuttavia si cerca talora di sottrarsi al p. d. r. s. è quello di distinguere la formulazione logica da quella ontologica del principio stesso, e di accettare la prima respin­ gendo invece la seconda. La negazione del p. d. r. s. nella sua portata ontologica — quella che qui in particolar modo ci interessa — è stata ten­ tata, come è noto, da A. Schopenhauer, che ha ridotto il p. d. r. s. ad un puro principio a priori dell’intelletto umano, valido sol­ tanto sul piano fenomenico. In realtà, l’impossibilità di limitare al piano fenomenico o logico l’uso legittimo del p. d. r. s., si manifesta nella dottrina stessa di Schopenhauer, quando egli attribuisce all’intelletto umano e alle sue forme a priori la capacità di costruire il mondo fenomenico. È chiaro infatti che il principio che pone il feno­ meno non può essere esso stesso fenomenico, e l’introduzione

(14)

Leibniz, Monadologia, § XXXII.

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quindi di un tale principio implica già l’uso ontologico del p. d. r. s. D’altro canto, la stessa Volontà di vivere, che è l’essenza noumenica che ci è dato di cogliere dietro il velo dei fenomeni, non potrebbe essere considerata come principio di tutta la realtà, in particolare di quella manifestazione non fenomenica che è il Mondo delle idee, se, anche in questo caso, non venisse fatto un uso metafisico del p. d. r. s. Ed ecco quindi la « confutazione » della negazione del p. d. r. s.: colui che pretende negare questo principio, anche sol­ tanto nel suo aspetto ontologico, deve in effetti usarlo anche sotto questo profilo, se egli vuol dare una giustificazione, cioè un significato logico, alla sua negazione (* ). In Aristotele non si trova una fondazione esplicita del p. d. r. s., ma se ne trova un implicito riconoscimento nel suo stesso concetto di scienza come ricerca dei principi e, in parti­ colare, in quella che costituisce la sua caratteristica formula­ zione del principio di causalità: il primato dell’atto sulla potenza, dell’immobile su ciò che diviene. Aristotele inoltre ha offerto un contributo essenziale alla conquista dell’autentico concetto di ragion sufficiente mediante una corretta formulazione del con­ cetto di causa. Invero Aristotele non ha identificato il concetto di causa, nella sua portata metafisica, con il concetto di mutamento, che ne è la traduzione sul piano empirico. Tale identificazione è stata invece compiuta dal pensiero moderno, sotto l’influsso della scienza sperimentale. Si prenda, ad esempio, la formu­ lazione che del principio di causalità ha dato Schopenhauer sulla sulla scia della dottrina kantiana: « ogni nuovo stato deve ri­ sultare da un precedente mutamento » (ls). Così formulato, il (*) Per una ulteriore discussione di questo tentativo di limitare al piano logico il valore del p. d. n s., cfr. Appendice II, pp. 269-272. (ls) A. Schopenhauer, Ueber die vierjache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, Samtliche Werke, I, Eberhard Brockhaus Verlag, Wiesbaden, 1948, p. 34.

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principio di causalità importa un regresso infinito di muta­ mento in mutamento, che implica la negazione dell’esistenza di qualunque realtà incondizionata, la quale rappresenterebbe, ar­ gomenta Schopenhauer, la distruzione dello stesso principio (ie). Per Aristotele, al contrario, ciò che diviene richiede neces­ sariamente, non tanto un precedente mutamento, quanto, in generale, un ente che sia già in azione. In questo modo il re­ gresso all’infinito è evitato qualora si giunga a qualcosa che sia assolutamente in atto (17). A questo termine per Aristotele non è soltanto possibile, ma è necessario pervenire se non si voglia distruggere il signi­ ficato stesso del principio di causalità. Data infatti una serie di cause, quelle che seguono possono agire solo in virtù delle ante­ cedenti, cosicché « se nessuna è prima, non ci sarà assolutamente nessuna causa » (18). Solo la causa prima, incondizionata, è adunque per Aristotele la ragion sufficiente di ciò che diviene. La nozione di ragion sufficiente rivela così la sua stretta rela­ zione con la nozione di Atto e di Assoluto. Diremo allora che, come il p. d. n. c. rappresenta l’enunciazione dell’originaria in­ tuizione dell’incontraddittorietà dell’essere, così il p. d. r. s. è l’espressione dell’originaria nozione dell’esistenza dell’Assoluto. Se tale è la natura, cioè la portata metafisica del p. d. r. s., come è possibile che ne venga tentata la negazione? Anche in questo caso si tratterà di distinguere una negazione reale, da una negazione puramente verbale; o, meglio, si tratterà di di­ stinguere il piano della conoscenza atematica, dove la negazione è assolutamente impossibile, dal piano della conoscenza tema­ (le) « Una causa prima è inconcepibile... perchè ogni causa è un mu­ tamento, del quale è ancora necessario chiedersi quale sia stato il precedente mutamento che l’ha prodotto, e così in infinitum, in infinitum! » (op. cit., p. 38). (1T) Per la differenza tra movimento (κίνησις) ed azione, atto (ενέργεια), si veda più avanti alla fine del § 7. (18) Mei., II, 2, 994 a 18-19.

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tica che, per la sua finitezza e imperfezione, permette che la ne­ gazione, anche se assurda, possa in qualche modo essere formu­ lata. Ed anche in questo caso si dovrà ripetere che, se una negazione così intesa è una colpa », il tentativo di negazione, al contrario, cioè la problematizzazione del p. d. r. s. compiuta sul piano del pensiero riflesso, è una condizione essenziale per­ chè si raggiunga il riconoscimento esplicito della sua verità.

5. - Passaggio dai principi ai concetti primi.

Restano ancora da chiarire i motivi che possono aver spinto alcuni pensatori a negare sul piano della conoscenza riflessa quei principi che sul piano della conoscenza irriflessa continuano ad essere affermati in quanto continuano ad essere usati. Aristotele dedica appunto molta parte del IV libro della Metafisica ad eliminare le difficoltà che hanno provocato la ne­ gazione del p. d. n. c. Seguiremo Aristotele nell’esame di una di queste difficoltà per trarne alcune significative indicazioni. La prima difficoltà esaminata da Aristotele procede « dalle cose sensibili », osservando le quali si può constatare come una stessa cosa sia in grado di produrre effetti contrari)19). Da ciò che è tiepido, chiarisce con un esempio Tommaso (20), può pro­ dursi sia qualcosa di caldo che qualcosa di freddo. Ora, ciò che si genera non può generarsi dal non-essere e perciò deve essere già; di conseguenza nella cosa iniziale devono trovarsi ambedue i contrari (in ciò che è tiepido, stando all’esempio citato, devono già trovarsi il caldo e il freddo). Questa la difficoltà. La quale evidentemente non procede dal semplice dato dell’osservazione sensibile, ma da questo dato va­ lutato alla luce dei principi di ragion sufficiente e di non con­ (19) Per la esposizione e la discussione della difficoltà, cfr. Mei.. IV, 5, 1009 a 22-38. (20) S. Thomae In M.etaphysicam Aristotelis commentarla, § 667.

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traddizione. Infatti solo in base al p. d. r. s. la nuova manife­ stazione del reale viene concepita come generata, e solo in base al p. d. n. c. si riconosce che la cosa generata non può essere generata dal nulla. Ma allora è veramente strano che la solu­ zione del problema consista nella negazione della validità di uno di quei principi la cui mancanza renderebbe impossibile il sor­ gere del problema. Senza contare che, ad un certo punto, è il dato stesso di osservazione che sembra venir negato, cioè il pre­ sentarsi di qualcosa di nuovo, il quale invece dovrebbe es­ serci già. È evidente adunque che la difficoltà proposta risulta da una incompleta problematizzazione del dato di osservazione. Se la problematizzazione viene condotta fino in fondo, se si fa vera­ mente radicale e totale, la difficoltà viene rimossa e vengono anzi conquistati alcuni concetti primi, necessari per l’ulteriore sviluppo della metafisica. Proprio per non negare nessuno dei tre fondamenti su cui il discorso procede (i due principi e il dato sensibile), Aristo­ tele ritiene che sia giusto dire che ciò che si genera in un certo senso debba essere già, e sia al tempo stesso giusto dire che ciò che si genera, si generi da ciò che in un certo senso non è. I due sensi diversi sono rappresentati dai due concetti di potenza ed atto. Se ci si riferisce all’essere in potenza, si deve dire che ciò che si genera deve essere già e che non può procedere dal non-essere; se invece si intende parlare delPe^ere in atto biso­ gna dire che ciò che si genera non deve essere già, ma che procede dal non-essere. In questo modo, anche l’unico confuso concetto di non essere si chiarisce, articolandosi nei due concetti del nulla assoluto, da cui niente può generarsi, e del non-essere relativo, cioè dell’essere in potenza, da cui ciò che si genera procede. I due contrari, può così concludere Aristotele, devono già trovarsi insieme nell’oggetto iniziale, ma solo in potenza e non in atto. In tal maniera il p. d. n. c. non viene negato, ma riceve anzi una ulteriore precisazione.

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Assistiamo così alla nascita di due termini (potenza ed atto) tipicamente metafisici (e tuttavia non ignoti al pensiero co­ mune), la cui semantizzazione non può essere operata mediante l’appello a contenuti empirici immediati, ma solo in riferimento all’intera struttura del discorso metafisico. È interessante a que­ sto proposito osservare che tale discorso minacciava qui di in­ cagliarsi in una antinomia, in cui la tesi (« ciò che diviene deve essere già ») era sostenuta dalla necessità di salvare i principi di n. c. e di r. s., e l’antitesi (« ciò che diviene procede dal non­ essere ») si fondava sulla necessità di non negare il dato di os­ servazione. L’antinomia viene invece risolta accettando sia la tesi che l’antitesi, ma togliendo loro il carattere di reale con­ traddittorietà mediante una distinzione che introduce i due con­ cetti di potenza ed atto. È questo in generale il modo di procedere del discorso me­ tafisico, il quale perciò si muove sempre al limite della contrad­ dizione, nella continua tentazione di risolvere l’apparente anti­ nomia da cui esso è sollecitato, sacrificando o l’una o l’altra delle due tesi che dovrebbe invece saper accogliere insieme. Nel suo sforzo di mediazione e di sintesi il nostro pensiero traccia alcune distinzioni fondamentali che entrano a costituire i concetti primi del discorso metafisico. Il significato autentico di tali concetti sussiste però soltanto in relazione al problema che essi sono chiamati a risolvere. Se invece si attenua la tensione problema­ tica, essi risultano insignificanti o vengono sostituiti da rappre­ sentazioni empiriche che di quei concetti sono una impropria versione.

6. - Sostanza e accidenti.

Il pensiero comune e le scienze particolari, dei principi di non contraddizione e di ragion piegano anche alcuni concetti fondamentali che uno speciale rilievo nel discorso metafisico. Di

oltre a far uso sufficiente, im­ acquistano poi tali concetti si

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può, ancora una volta, ripetere quello che è stato detto intorno ai primi principi: che cioè il nostro pensiero in genere li ado­ pera senza portare esplicitamente il discorso su di essi e senza preoccuparsi di giustificarli, mentre tocca alla metafisica di pro­ cedere alla loro tematizzazione, per dire « se son veri o no ». Vi è tuttavia una netta differenza nel modo di « verificare » i primi principi e in quello di giustificare i concetti fondamen­ tali del pensiero umano. Nel primo caso la dimostrazione av­ viene « per confutazione », nella maniera che è stata illustrata; nel secondo caso, invece, è possibile una vera e propria dedu­ zione dei concetti primi a partire da quella che è la struttura teoretica originaria, cioè l’esperienza integrale. Dell’esperienza, presa nella sua integralità, il p. d. n. c. e il p. d. r. s. costituiscono i due principi fondamentali, enun­ ciami le due proprietà fondamentali dell’essere in quanto essere: la sua incontraddittorietà e la sua fondatezza. Chi coglie l’essere in quanto essere, lo coglie come incontraddittorio e come fon­ dato. Le due proprietà essenziali si trovano intimamente con­ nesse nell’unica essenza dell’essere, presa nella sua obiettività, ma sono tuttavia colte in maniera distinta dal nostro pen­ siero che, mortificando il proprio moto intenzionale, può arre­ starsi alla considerazione della prima senza trapassare alla se­ conda. È per questo che riteniamo impossibile dedurre il prin­ cipio di r. s. da quello di n. c. Terzo fattore fondamentale per la costruzione della meta­ fisica è la realtà che ci è data dalla percezione sensibile. Non è questo un terzo elemento che si aggiunga estrinsecamente ai due precedenti: l’esperienza nella sua integralità ci offre originaria­ mente la realtà sensibile dentro l’orizzonte dell’essere intelli­ gibile, inquadrata nei suoi fondamentali parametri, gli assiomi primi. Valutata alla luce di tali assiomi, la realtà sensibile ri­ vela alcune strutture e alcuni rapporti che non potrebbero es­ sere colti attraverso il solo senso e la cui intellezione dà luogo appunto ai concetti primi del discorso umano. Fondamentali, tra questi, le categorie della sostanza e degli accidenti.

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Nel discorso comune tali categorie sono operanti nella du­ plice forma che può assumere il nostro modo di parlare di una cosa: talvolta infatti diciamo di una cosa che cos’è, altra volta invece quali sono le sue proprietà (21). Il primo modo di par­ lare di una cosa presuppone una domanda, tacita od espressa: che cos’è? Perchè sorga tale domanda è necessario che qual­ cosa sia già percettivamente presente, in quanto intorno al nulla non si può porre domanda alcuna; ma perchè essa sorga è necessario ancora che ciò che è percettivamente presente sia daU’intelletto avvertito come una incompleta manifestazione di qualcosa di più profondo verso cui si dirige appunto la ricerca. A questo qualcosa di più profondo la metafisica ha dato il nome di sostanza (ούσία). È di questa che si chiede il che cos’è (το τί έστιν), ο essenza·, essenza che non può essere concepita come l’insieme di quelle iniziali manifestazioni, senza che in questo modo la domanda venga svuotata di ogni significato. Quelle ma­ nifestazioni sono invece già implicitamente giudicate come pro­ prietà o accidenti (συμβεβηκότα) che esistono in quanto esiste anzitutto la sostanza in cui essi ineriscono (22). La presenza nel discorso comune delle nozioni di sostanza ed accidente, quali che siano i termini con cui vengono espresse, non rappresenta ancora la loro effettiva giustificazione. Questa, dicevamo, deve consistere nella loro deduzione da quella strut­ tura teoretica originaria che è costituita dalla percezione della realtà sensibile dentro l’orizzonte dell’essere intelligibile e dei suoi primi principi. Sarà perciò necessario iniziare dalla pura descrizione fenomenologica della realtà sensibile, quale si offre alla nostra percezione, nelle sue fondamentali caratteristiche: la molteplicità spaziale e la successione temporale. Di fronte a me, qui, in questo istante, sono compresenti mol(21) « Quando infatti parliamo della qualità di una determinata cosa, diciamo che è buona o cattiva, e non che è di tre cubiti o che è uomo; quando invece intendiamo dire che cos’è, non diciamo che è bianca, o che è calda, o che è di tre cubiti, ma che è uomo o dio » (Met., VII, 1, 1028 a 15-18). (22) Cfr. Met., VII, 1, 1028 a 10 - 1028 b 7.

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teplici oggetti: questo tavolo, quelle sedie, la libreria, le pa­ reti della stanza, la finestra e, oltre questa, la strada, alcune case, alcuni alberi, ecc. Questa molteplicità appare inesauribile, nonostante il mio tentativo di abbracciarla tutta; anzi tanto più aumenta, quanto più si approfondisce la mia analisi. Se fisso la mia attenzione sul tavolo, posso distinguerne le varie parti: il piano su cui sto scrivendo, le gambe che lo sostengono, il cassetto, la serratura, ecc. Se poi mi concentro su uno di que­ sti elementi, posso anche qui distinguere altri aspetti ancora più elementari: la forma, il colore, anzi le varie sfumature di colore, così all’infinito. Eppure, l’impressione che provavo, prima di accingermi a questa analisi, non era la stessa che provo ora, quasi di vertigine, di fronte a questo dissolversi del mondo in una miriade di frammenti. Il fatto è che la molteplicità, che all’inizio avevo di fronte, era una molteplicità organizzata in alcuni principali complessi, gli oggetti appunto che ho enume­ rati per primi. Afferrati globalmente, prima dell’osservazione delle singole parti, essi apparivano ben compatti e solidi, quasi semplici. Donde procedono, adunque, questa organizzazione e questa semplificazione del molteplice dell’intuizione sensibile? Per quanto io cerchi sul piano della molteplicità spaziale, non so tro­ varne la ragione, anzi, quanto più cerco in questo settore, tanto più aumenta il processo dissociativo e tanto meno giustificata appare quella organizzazione. È necessario allora che io sposti la mia attenzione sull’altra caratteristica della realtà sensibile, sulla successione temporale. La scena che in ogni momento della mia vita mi si apre da­ vanti, non è mai immobile, ma sempre più o meno mutevole. Di quando in quando qualcuno si affaccia alla mia stanza; fuori, sulla strada, c’è un continuo via vai di persone e di cose; da ogni parte mi giungono voci e rumori sempre diversi. Più os­ servo, anche in questo campo, e più mi accorgo che il movi­ mento è incessante, continuamente presente in ogni aspetto, anche il più infimo del reale. Se prima il movimento mi appa­

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riva come qualcosa di episodico, il turbarsi momentaneo di una scena fondamentalmente statica, ora la quiete mi appare come una breve pausa, anzi come il semplice rallentare di un movi­ mento che sembra ormai costituire la vera essenza della realtà sensibile, il classico fiume nel quale è impossibile immergersi due volte. Tuttavia in questa scena continuamente mutevole non tutto muta con la stessa velocità e nella stessa maniera. Vi sono settori in cui il movimento è meno rapido, complessi di cose dotati di maggiore stabilità. È proprio questa differenza di moto, questa maggiore stabilità di alcuni insiemi, ciò che, nell’infi­ nita e complessa varietà dei contenuti sensibili, viene deter­ minando alcune distinzioni fondamentali, dando così luogo al­ l’organizzazione della molteplicità spaziale. Se, ad esempio, sotto il nome « tavolo » io vengo raggrup­ pando alcuni contenuti sensibili, piuttosto che altri, se non con­ sidero il tavolo e i libri che in questo momento vi sono po­ sati, come un unico oggetto, ciò si deve anzitutto al fatto che nella mia quotidiana esperienza vedo che le varie parti, i vari aspetti del tavolo sono costantemente uniti tra loro, mentre la contiguità di questo o quel libro rispetto agli altri elementi del tavolo è soltanto un fatto momentaneo. Insomma, è la per­ manenza nel tempo di un certo complesso di contenuti sensi­ bili ciò che mi induce a distinguere tale complesso dagli altri contenuti e a considerarlo un oggetto a sè stante. Tuttavia, se la permanenza nel tempo di un certo complesso di contenuti sensibili è condizione necessaria perchè io possa con­ siderare quel complesso stesso come un singolo oggetto, tale permanenza non è però la condizione sufficiente. Nell’esperienza comune quando io parlo di oggetti, quali il tavolo, la sedia, l’al­ bero, e via dicendo, penso a qualcosa di più che ad un rag­ gruppamento relativamente stabile di qualità sensibili; penso a qualcosa di più profondo e di più saldo. Io sono, in questi casi, tacitamente ma fermamente convinto che quel raggruppamento costante ha la sua ragion d’essere in qualcosa che fa da sostrato

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alle determinazioni sensibili. A questo sostrato la filosofia tra­ dizionale, come già si diceva, ha dato il nome di sostanza, alle sue determinazioni quello di accidenti. Il concetto di sostanza e quello correlativo di accidente sor­ gono adunque da una originaria problematizzazione e da una conseguente mediazione di un particolare aspetto dell’esperienza sensibile, la permanenza nel tempo di determinati complessi di qualità, operate alla luce del p. d. r. s. La sostanza è pensata appunto come la ragion sufficiente, senza la quale il permanere di quel determinato complesso di qualità apparirebbe ingiusti­ ficato. Il concetto di sostanza conferisce così al mondo dell’espe­ rienza sensibile una stabilità che va ben oltre la relativa per­ manenza di certi complessi sensibili. I concetti di sostanza ed accidente stanno tra loro in una particolare relazione che va attentamente esaminata. L’accidente è ciò che esiste in altro, nella sostanza appunto; la sostanza è ciò che esiste per sè (23) e, come tale, può fare da sostrato agli accidenti. L’accidente può essere pensato solo in relazione alla sostanza, e questa, in quanto sostrato, può essere pensata solo in relazione agli accidenti. Tuttavia il concetto più profondo di sostanza non è quello di sostrato, ma quello di ente per sè: infatti, è perchè la sostanza è un ente per sè che essa può fare da sostrato, non viceversa. Non è allora inconcepibile un ente che esista per sè, senza fungere da sostrato ad altri enti, non è cioè inconcepibile una sostanza che esista indipendentemente da ogni accidente. Intesa come ente per sè, la sostanza non può essere in nessun modo negata: infatti, se si negasse la sostanza quale sostrato di qualche altra cosa, quest’altra cosa verrebbe ad essere concepita come esistente per sè e dunque, in questo senso, come sostanza (24). (2S) « Substantiae nomea... significar essentiam cui competit... per­ se esse » (S. Thomae Summa theologica, I, q. 3, a. 5). (24) Cfr. G. Bontadini, Osservazione sulla critica empiristica del con­ cetto di sostanza, in Riv. di filosofia neo-scolastica, 1938, pp. 353-356. Vedi

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È chiaro tuttavia che il vero problema della sotanza non riguarda la sostanza concepita come semplice ente per se. Se non esistessero che enti per sè non ci sarebbe neppure bisogno di chiamarli « sostanze », basterebbe chiamarli « enti ». Il vero problema è adunque quello della sostanza concepita come quel­ l’ente per sè che fa da sostrato agli accidenti. Come intendere allora tale sostrato? Un modo errato di intendere il sostrato sostanziale è quello di concepirlo come qualcosa di assolutamente indeterminato, come una pura materia informe, quale si potrebbe immaginar di ottenere eliminando tutte le determinazioni (25 ). L’inadegua­ tezza di questa soluzione risulta evidente se essa viene confrontata con la domanda che ha dato origine a tutta la ricerca. Se di fronte ad un certo complesso percettivo ci si chiede che cos’è, è chiaro che si ricerca una determinazione, o un insieme di determinazioni, che vanno al di là di quelle che ci sono ini­ zialmente note. Concepire la sostanza come un sostrato inde­ terminato significa anzitutto eludere la domanda, e significa poi, ciò che è ancora più grave, rinunciare ad indicare quella strut­ tura profonda che sola può costituire un vincolo sufficiente a mantenere la permanenza del complesso percettivo. Se di fronte ad una macchina costituita di numerose parti, io mi chiedo che cos’è, non posso rispondere dicendo che è un qualche cosa formato da queste determinate parti, ciascuna di una determinata forma e di un determinato colore (e lasciando quindi indeterminato quel qualche cosa che va oltre le determinazioni sensibili): tutto ciò io posso ben vederlo fin da principio, senza che ciò impedisca il sorgere della domanda stessa. Quel che io voglio sapere è la funzione che quella macchina è chiamata a anche S. Vanni Rovighi, Elementi di filosofia, II, Metafisica, Marzorati, Mi­ lano, 1948, pp. 117-118. (23) La critica alla identificazione della sostanza con il sostrato materiale assolutamente indeterminato, è svolta da Aristotele nel c. Ili del 1. VII della Metafisica (1028 b 33 - 1029 b 12).

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svolgere, funzione che spieghi perchè quelle parti sono organiz­ zate così e non altrimenti. In altre parole, voglio sapere qual è Videa che ha presieduto alla costruzione di quel meccanismo. La sostanza è adunque questa stessa idea, forma od essenza, non concepita nella sua astratta universalità, ma concretata in un individuo, sussistente « in carne ed ossa ». Quello che prima era un concetto nella mente dell’artefice, è stato tradotto sul piano della effettiva realtà, è diventato l’intimo principio organizza­ tore, il saldo connettivo di quella molteplicità di parti che al pro­ fano è dato di cogliere superficialmente nella loro estrinseca giustapposizione. Quanto è stato detto in riferimento ad una sostanza arti­ ficiale, vale anche per la sostanza naturale. Come nella produ­ zione artificiale l’artista costruisce il proprio oggetto tradu­ cendo nella materia l’idea che è nella sua intelligenza, così nella generazione naturale un individuo genera un altro indi­ viduo perchè quell’essenza, che in lui è già individuata, egli riesce in qualche modo a moltiplicarla in un’altra individualità. « Come nei sillogismi, il principio di tutte le cose è la sostanza: infatti i sillogismi procedono dall’essenza di una cosa, e di qui anche le produzioni. E similmente per le cose costituite dalla natura: giacché il seme opera in modo simile a quello in cui le cose sono prodotte dall’arte » (2e). (2e) Met., VII, 9, 1034 a 31-34. Sull’analogia tra produzione artificiale e generazione naturale si veda quanto osserva M. Gentile {Che cos’è il sapere, cit., pp. 66-67): «Una delle gioie più pure dell’intelligenza è quella di poter scorgere con evidenza che una trama finissima di concetti e di ragionamenti è al fondo essenziale di ogni produzione umana, non come un ingrediente ma come una luce orientatrice e come un principio direttivo. La formazione umanistica insegna a scorgere questa realtà tutta partico­ lare del concetto e dell’idea nella stessa natura fisica, là dove sembra preva­ lere la bruta immediatezza della presenza materiale e l’impetucsa incoscienza della vita istintiva, e dove invece un occhio più attento scorge manifestazioni anche più meravigliose di un’intelligenza capace di suscitare e di padroneg-

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Il riconoscimento della natura intelligibile della sostanza ha condotto qualcuno a concepire l’essenza come qualcosa di separato, di trascendente la sostanza nella sua concreta indi­ vidualità. È questa la soluzione platonica del problema della sostanza, il cui difetto è, ancora una volta, quello di tradire la domanda da cui tutto il problema ha tratto origine: che cos’è questa cosai Tale domanda implica già l’avvertimento che il che cos’è, l’essenza, è nella realtà individuale, e non oltre questa. Del resto, un’essenza disindividuata, presa nella sua astratta universalità, non potrebbe neppure esistere, come, d’altro canto, sarebbe inintelligibile un individuo privato di qualunque es­ senza. Porre l’essenza fuori della sostanza significherebbe allora rendere irreale la prima e assurda la seconda. « Se le sostanze e le essenze — avverte Aristotele — si trovano separate tra loro, allora di quelle non ci sarà scienza e queste non saranno esistenti » (37). Il vizio reale della dottrina platonica non è per­ ciò quello di avere indicati dei principi trascendenti per dar ragione delle sostanze naturali soggette al divenire — anche Aristotele alla fine non farà cosa diversa —, ma di aver con­ cepiti questi principi come sostanze universali. L’universale in quanto tale non esiste per sè, non è sostanza, e non può essere perciò principio di produzione e di generazione (28). Se l’errore dell’idealismo platonico era quello di sottolineare l’aspetto intelligibile della sostanza individuale a un punto tale da farne un elemento autonomo e trascendente, l’errore opposto è quello compiuto dall’empirismo che si arresta al piano della percezione sensibile, dove è dato constatare soltanto la relativa costanza di rapporti e la relativa coerenza tra determinate im­ pressioni, e si rifiuta di riconoscerne il fondamento intelligibile, giare energie infinitamente più grandi e più complesse di quelle che l’uomo riesce a signoreggiare e a produrre ». (2T) Met., VII, 6, 1031 b 3-4. (28) Per la critica alla concezione dell’universale come sostanza si veda in particolare il c. XIII del 1. VII della Metafisica (1038 b 1 - 1039 a 23).

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considerando la sostanza come una assurda supposizione, sem­ plice frutto della nostra immaginazione (29). Per una malintesa fedeltà alla esperienza sensibile, l’empirismo rigetta così quella che in realtà è una valida inferenza compiuta dall’intelletto sulla base del p. d. r. s. Ma affermare che la sostanza non esiste perchè non è percepita, significa non avere afferrato il vero senso del problema della sostanza, problema che non sorgerebbe neppure se tutta la funzione della nostra intelligenza si riducesse alla constatazione dei dati del senso. Ancora una volta, insomma, ci è dato riscontrare la validità di quello che viene ormai configurandosi come un canone me­ todologico fondamentale della ricerca filosofica: che cioè una soluzione non può essere tale se contrasta con la possibilità stessa del problema in rapporto al quale essa viene formulata, se contraddice cioè la struttura della problematicità. Ci sia permesso a tal proposito soffermarci su una formula­ zione piuttosto recente della critica empiristica al concetto di sostanza. « Si verifica il caso — scrive A. J. Ayer — che non possiamo nel nostro linguaggio riferirci alle proprietà sensibili di una cosa senza introdurre una parola od una espressione che sembri significare la cosa stessa come opposta a ciò che si predica di essa. Come risultato di ciò, coloro che sono affetti dalla superstizione primitiva che ad ogni nome debba corrispon­ dere una reale entità, ritengono che sia necessario distinguere tra la cosa stessa e qualcuna, o tutte, le sue proprietà. E così essi adoperano la parola " sostanza " per indicare la cosa stessa. Ma dal fatto che ci avviene di impiegare una singola parola per indicare una cosa, e che facciamo di questa parola il soggetto grammaticale delle proposizioni con le quali ci riferiamo alle apparenze sensibili della cosa, non segue in nessun modo che la cosa stessa sia una ” entità semplice ", o che non possa es­ sere definita nei termini della totalità delle sue apparenze. È (29) Cfr. Hume, A Treatise on human nature, 1. I, parte IV, in partico­ lare sez. II, § 5.

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vero che nel parlare delle " sue " apparenze sembra che noi distinguiamo la cosa dalle apparenze, ma questo è semplicemente un accidente dell’uso linguistico. L’analisi logica mostra che ciò che rende queste " apparenze " le apparenze di una stessa cosa, non è la loro relazione ad una entità altra dalle ap­ parenze, ma la relazione reciproca tra queste apparenze stesse. Il metafisico non riesce a vedere ciò perchè è tratto in inganno da una caratteristica grammaticale del suo linguaggio » (30). Abbiamo creduto opportuno riportare per esteso la critica dell’Ayer al concetto di sostanza perchè essa rappresenta un significativo esempio di attacco neopositivistico alla metafisica impostato sull’analisi del linguaggio. L’Ayer adunque per spie­ gare il sorgere di certe concezioni metafisiche ricorre alla sug­ gestione, esercitata sul nostro pensiero, da certe forme gramma­ ticali del linguaggio. E qui si arresta. Avrebbe invece dovuto, sembra, continuare nella sua indagine e chiedersi il perchè di certe strutture grammaticali, anziché considerarle senz’altro del tutto casuali. E allora avrebbe forse visto che è un’esigenza logica quella che spesso influisce sulle strutture della grammatica. L’esigenza di indicare una determinata relazione tra apparenze mediante un’unica parola tova la sua spiegazione ultima nel fatto che una certa relazione tra contenuti sensibili si impone tra altre possibili e che tale imporsi rinvia logicamente ad un fondamento in qualche modo distinto da ciò che quel fonda­ mento dovrebbe giustificare. Ma un empirista non sospetta nep­ pure questa soluzione perchè non si pone neppure il problema. In verità, nella sua qualità di empirista, l’Ayer s’è già posti troppi problemi, s’è cioè già troppo compromesso quando s’è chiesto la ragione di certe concezioni metafisiche. Un empirista (30) A. J. Aver, Language, truth and logie, cit., p. 42. La posizione « radicalmente fenomenistica » dell’Ayer è particolarmente illustrata nel cap. VII della stessa opera : « The Self and Common World », pp. 120-132. Cfr. anche The foundations of empiwcal knowledge, Macmillan, London, 1958, cap. V: «The constitution of material things», pp. 229-274.

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coerente non dovrebbe chiedersi la ragione di niente, dovrebbe tutt’al più limitarsi a constatare i fatti (e tuttavia, se questo suo atteggiamento fosse motivato, esso implicherebbe ancora il ricorso ad una ragione). Ci troviamo allora di fronte ad un in­ completo processo di problematizzazione che, dopo avere attinto, nella spiegazione del concetto di sostanza, il piano delle strut­ ture grammaticali, si rifiuta di procedere oltre, sul piano delle strutture logiche ed ontologiche. Ma se il problema della so­ stanza viene invece posto in maniera radicale, si giunge ad in­ tendere che l’istanza prima, da cui scaturisce il concetto di so­ stanza, si riflette, sì, sulle strutture grammaticali, ma non pro­ cede da queste, bensì dall’esigenza logica di giustificare la co­ stituzione della nostra esperienza (S1).

7. - Potenza ed atto. La valutazione della realtà sensibile alla luce dei primi prin­ cipi, come ha condotto alla distinzione della sostanza dall’acci­ (31) La tesi della dipendenza delle strutture logico-ontologiche dalle strutture linguistiche, è frequente presso i cultori di linguistica e di filosofia del linguaggio. Ne fa cenno C. Schick (Il linguaggio, Einaudi, Torino, I960, p. 243) che cita a questo proposito S. Hofmann (Die Sprache und die archaische Logik, Tiibingen, 1925) e J. Stenzel (Ueber den Einfluss der griechischen Sprache auf die philosophische Begriffsbildung, « N. J. », XXIV, 1921). La tesi in questione è ricordata anche da B. Russell (Analisi della mente, Ed. Universitaria, Firenze, 1955, p. 189). Si oppone ad essa M. PlTTAU (Filosofia e linguaggio, Cursi, Pisa, 1962, pp. 177-182), il quale sostiene che « sono le categorie logiche del pensiero a determinare certe ca­ tegorie grammaticali, non viceversa » (p. 182). Sull’argomento si veda ancora G. Reale, Filo conduttore grammaticale e filo conduttore ontologico nella deduzione delle categorie aristoteliche, in « Riv. di filosofia neo-scolastica », 1957, V-VI, pp. 423-458; e i due articoli: É. Benveniste, Catégories de pensée et catégories de langue; J. Fourquet, Pen­ sée et grammaire, in « Les Études philosophiques », IV, 1958 (numero speciale dedicato al linguaggio), pp. 419-429, 430-445.

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dente, così conduce alla distinzione tra la potenza e l’atto. An­ che in questo caso la percezione della successione, del divenire, svolge un ruolo fondamentale. Il divenire è uno degli aspetti più comuni ed evidenti della nostra esperienza. Le forme di divenire che una analisi feno­ menologica potrebbe descrivere, sono quanto mai varie, ma tutte possono essere ricondotte sotto questa definizione generica: il divenire è il presentarsi di qualche cosa che prima non c’era. Questo qualche cosa potrà essere una sostanza, oppure un acci­ dente di una sostanza, come, ad esempio, una certa qualità, una certa quantità, un’azione, una passione, ecc. Per ciascuno di que­ sti casi avremo una specie diversa di divenire, ma questo, nella sua essenza generica, rimarrà sempre il presentarsi di qualche cosa che prima non c’era. La prima e più ovvia condizione della possibilità del di­ venire è che ciò che compare — il pensiero, ad esempio, che in questo momento formulo, o la scrittura che si imprime ora su questo foglio — non debba, prima, essere già. Per il p. d. n. c. questo suo « essere-già » escluderebbe il suo sorgere. Il sorgere di qualche cosa segue adunque il suo non-essere. Ma donde pro­ cede il nuovo essere? Evidentemente la domanda scaturisce dal confronto della percezione sensibile del divenire con il p. d. r. s. La risposta che a questo problema viene data in base al p. d. n. c. è che il nuovo essere, anche se segue al suo non-essere, non può derivare da esso. D’altro canto è già stato escluso, in virtù dello stesso principio, che possa derivare dal suo « essere-già ». Il divenire adunque potrebbe apparire impossibile (32). Eppure (32) È appunto questa la tesi di Parmenide, che Aristotele espone nel c. 8 del 1. I della Fisica e contro la quale combatte, osservando che, se ciò che diviene non può divenire dal non-essere in senso assoluto, può tuttavia de­ rivare dal non-essere in senso relativo, nel senso cioè di una privazione che inerisce ad un sostrato. Si tratta, a giudizio dello stesso Aristotele, di una prima spiegazione, destinata a trovare il suo completamento nella dottrina della potenza e dell’atto, svolta nella Metafisica.

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esso è là, in tutta la sua irrefutabile realtà. Ne sono assoluta­ mente certo perchè lo « vedo ». Bisognerà allora dire che la distinzione tra l’assoluto essere e l’assoluto non essere di una cosa, non è sufficientemente sot­ tile per poter giustificare nei propri termini il fatto del dive­ nire. Si dovrà quindi riconoscere — come è già stato indicato precedentemente — che ciò che si produce in qualche modo deve « essere-già »; e che in quache altro modo esso si produce dal suo « non-essere ». Questi due modi sono quelli della potenza e dell’atto. Ciò che si produce non deriva dal suo « essere in atto », non era cioè già prima ciò che è ora; deriva dal suo « essere in potenza », vale a dire deriva da un altro essere che ha la potenza o capacità di produrlo. Il pensiero che formulo in questo momento deriva dalla capacità della mia mente di formularlo; il segno che appare su questo foglio deriva dalla capacità della mia mano di tracciarlo (potenza attiva) e dalla capacità del foglio di riceverlo (potenza passiva) (ss). È chiaro adunque che il concetto di potenza è lo stesso concetto di ragion sufficiente riferito al divenire. Chiedersi la ragion sufficiente del divenire è chiedersi ciò che può dar luogo al divenire. La risposta è in un certo modo la stessa domanda: ciò che può dar luogo al divenire è la potenza, qualcosa che può dar luogo al divenire, appunto! La risposta sembra in que­ sto caso eludere la domanda; in realtà non la elude, proprio perchè si tratta di una risposta metafisica. La risposta metafi­ sica, paragonata alle risposte che vengono date sul piano della conoscenza comune e di quella scientifica, è una risposta sui generis, una risposta cioè che si limita a mettere in evidenza quel sapere che è già implicito nella domanda. Chi si domanda che (3S) Per la distinzione tra potenza attiva e potenza passiva si veda il c. I del 1. IX della Metafisica (1045 b 27 - 1046 a 35), dove si parla di po­ tenza come « principio di mutamento in altro o in qualcosa in quanto altro », e di potenza come « principio di mutamento passivo ad opera di altro o di qualcosa in quanto altro ». 4 — P. Faggiotto., Saggio sulla struttura della metafisica.

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cosa dà luogo al divenire, ha già implicitamente riconosciuto che ci deve essere qualche cosa che ha la capacità di produrlo, ha già tacitamente ammessa la potenza. La risposta non ne è che il riconoscimento esplicito. La potenza in quanto potenza è adunque la capacità di un essere di fare o di subire qualcosa. Come tale la potenza non sussiste mai per se stessa, quale sostanza; essa esiste soltanto come qualità o accidente di una sostanza che, in quanto so­ stanza, è già in atto. Questo concetto di potenza implica già il primato dell’atto sulla potenza, in quanto nessuna potenza ci sarebbe se non ci fosse già qualcosa in atto. Certamente c’è un atto che segue alla potenza, in quanto questa è appunto ordinata a quello, ma c’è in primo luogo un atto in cui la potenza si trova radicata. Ciò deve essere tenuto ben presente nei confronti di alcuni modi di dire che potrebbero indurre a dimenticare questo primo, importante aspetto della priorità dell’atto sulla potenza. Si dice, ad esempio, che il seme è la potenza della pianta o che il marmo è la potenza della statua. Deve essere tuttavia assolutamente chiaro che il seme come seme e il marmo come marmo sono già realtà in atto. Queste realtà in atto contengono delle capacità, che, esplicandosi, dànno origine ad una diversa realtà in atto. In conclusione, è sempre una realtà in atto quella che produce un’altra realtà in atto: la potenza in quanto tale non può per sè produrre, perchè per sè non può neppure esistere. S’è detto che il concetto di potenza si delinea nel confronto tra la percezione del divenire e la nozione di ragion sufficiente. Che ciò che diviene si radichi in una precedente potenza, questo è « visto » dalla nostra intelligenza come qualcosa di assolutamente necessario. Il riconoscimento sul piano dell’esperienza sen­ sibile dei singoli esseri che fungono da potenze, è invece il ri­ sultato di una « interpretazione » operata sul fondamento dei nessi spazio-temporali. È evidente che ciò che su tale piano è indicato come potenza è sempre qualcosa di relativo e di con­ dizionato, che non potrà quindi mai esplicarsi da solo, ma richie­

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derà il concorso di determinate circostanze, l’intervento di altri fattori (34). Diremo allora che un essere che sia fornito di una siffatta potenza può attuarla soltanto in virtù di qualche altra cosa che, a sua volta, sia già in atto. Il marmo ha la capacità di diven­ tare statua, ma perchè questa potenza si attui è necessaria l’at­ tività dello scultore, l’impiego di determinati strumenti, e via dicendo. D’altro canto, la capacità stessa dello scultore non avrebbe modo di esplicarsi senza la presenza del marmo, degli strumenti, ecc. Nè l’insieme di tutti questi diversi fattori po­ trebbe essere considerato come la giustificazione esauriente della nuova realtà che viene realizzandosi, per il fatto che il con­ corso di tanti elementi rappresenta anch’esso un movimento che abbisogna di una ulteriore spiegazione. Se si vuole evitare il regresso all’infinito, non rimane allora che porre la giustifica­ zione ultima del divenire in una realtà che sia soltanto atto, atto puro, esente da ogni condizionamento e passività, in grado quindi di fungere da Motore immobile. È questo il significato che scaturisce dai vari passi in cui Aristotele afferma il primato dell’atto sulla potenza. « L’individuo in atto viene prima per la specie, non per il numero. Vale a dire, di questo uomo che è già in atto, e del frumento e di colui che vede, vengono prima nel tempo la materia, il seme e il potere visivo, le quali cose rap­ presentano l’uomo, il frumento e il veggente in potenza e non ancora in atto. Ma prima di queste cose nel tempo c’erano al­ tri enti in atto, dai quali esse furono generate; sempre infatti da un ente in potenza si genera un ente in atto ad opera di un ente in atto, come un uomo si genera da un uomo, un musico (34) A questo genere di potenza si riferisce Aristotele quando afferma che chi ha la potenza « ce l’ha quando è presente il paziente, e presente in un determinato modo, altrimenti non può operare... e ha la potenza nel modo in cui questa è potenza, e non in qualunque modo, ma in condizioni deter­ minate, che includono anche l’assenza di ostacoli esterni » (Mei., IX, 5, 1048 a 5-20).

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da un musico, essendoci sempre un precedente motore che è già in atto » (3δ). « E, come abbiamo detto, sempre per il tempo un atto precede un altro atto, fino a quello dell’eterno Motore primo » (3e). Affermare che la giustificazione ultima del divenire si trova in un ente che è pura attualità, non contraddice allora alla precedente identificazione della potenza con la ragion sufficiente del divenire? Questa domanda ci costringe a distinguere due diversi con­ cetti di potenza: quello di potenza relativa e quello di potenza assoluta. Oltre ad una potenza relativa, la sola che sia dato di riconoscere sul piano dell’esperienza sensibile e in cui non può certo trovarsi la ragione ultima del divenire, è concepibile una potenza assoluta che, in quanto tale, sia tutta espressa e risolta nell’attualità dell’agire. Invero, chi ha la potenza di agire e non agisce, mostra di essere impedito da qualche ostacolo interno od esterno, oppure di attendere il concorso di qualche altro fat­ tore; mostra comunque di possedere soltanto una potenza rela­ tiva e condizionata e non assoluta e illimitata. Se questa invece fosse davvero tale, dovrebbe senz’altro tradursi in azione. In un essere fornito di potenza assoluta non ci sarebbe allora mai movimento, cioè passaggio dall’inazione all’azione, ma soltanto eterna attività. L’esistenza di una tale realtà tutta in atto, nella cui inces­ sante attività sta la ragion d’essere o potenza assoluta di ogni divenire, è necessariamente richiesta dalla stessa relatività e in­ sufficienza degli esseri dotati di potenza relativa, che ci è dato di riconoscere sul piano della realtà sensibile. L’idea di una potenza assoluta sembra esser stata intravi­ sta dai Megarici quando affermarono « che una cosa ha la potenza solo quando agisce, e quando non agisce non ha la potenza; come chi non costruisce non ha la potenza di costruire, ma l’ha (35) (36)

Met., IX, 8, 1049 b 18-27. Met., IX, 8, 1050 b 4-6.

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chi costruisce, quando costruisce » (37). Contro questa afferma­ zione che, se intesa in maniera esclusiva, importerebbe la nega­ zione di ogni potenza finita, Aristotele reagisce mostrando le assurdità che ridentificazione della potenza con l’atto determi­ nerebbe nei discorsi più comuni (38). In realtà le assurdità denunciate da Aristotele nascono dal fatto che il nostro linguaggio ordinario fa uso quasi sempre di termini che implicano il concetto di potenza relativa, cosicché l’argomentazione di Aristotele non è propriamente una giusti­ ficazione teoretica di tale concetto, ma una semplice analisi del significato di certi termini del discorso comune — cosa, del resto, che è assai frequente in Aristotele. È per questo che la critica di Aristotele ai Megarici deve essere interpretata come la dimostrazione della possibilità o pensabilità della potenza relativa, ma non come la negazione della possibilità della potenza assoluta. Questa, anzi, è implicita, come dicevamo, nella riconosciuta necessità di un Motore primo la cui attività sia sempre attuale (39). Ma una ulteriore difficoltà potrebbe a questo punto presen­ tarsi. Come si può conciliare l’idea di una realtà pienamente attuata con quella dell’esercizio di una attività? Non è questo esercizio ancora movimento? La risposta a questa obiezione si trova nella distinzione operata da Aristotele tra varie forme di atto. L’atto, afferma Aristotele, sta alla potenza « come il costruire al poter costruire, il vegliare al dormire, il vedere all’aver gli occhi chiusi, avendo tuttavia la vista; e come ciò che è ricavato dalla materia sta alla materia, e come ciò che è lavorato a ciò che non è lavo-

(37) Mei., IX, 3, 1046 b 29-32. (38) Cfr. Mei.. IX, 3, 1046 b 28 - 1047 b 2. (39) La potenza, nella sua forma attiva ed assoluta, è da Tommaso attri­ buita a Dio, e viene anzi identificata con la stessa sostanza e con la stessa azione divina (cfr. Summa contro, Gentiles, 1. II, cc. VII-X).

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rato » (40). Il concetto di atto che può dunque essere ricavato da questi esempi è un concetto analogico: altro è l’atto che ha fuori di sè il proprio fine (come, ad esempio, l’atto del costruire o del dimagrire), altro l’atto che ha dentro di sè il proprio fine (com’è il caso del vedere o del pensare). Solo quest’ultimo può essere atto perfetto e compiuto: « l’atto del vedere è lo stesso dell’aver visto, l’atto del pensare è lo stesso dell’aver pensato ». Il primo tipo di atto, secondo Aristotele, deve essere detto piuttosto movimento (κίνησις ), il secondo tipo deve invece essere considerato atto ( ενέργεια ) in senso proprio (41). In base a questa distinzione tra movimento ed attività, di­ viene possibile attribuire al Motore primo l’attività senza che questa venga a compromettere la sua assoluta immobilità. « Potenza ed atto — aveva del resto già avvertito Aristo­ tele — si estendono più in là delle cose che son dette soltanto in riferimento al moto » (42). Ora, appunto, se nelle cose mutevoli non è possibile riscontrare nè una potenza che non sia limitata, nè un atto che non si risolva in movimento, nell’es­ sere immobile invece, come è concepibile una potenza assoluta, così è concepibile una immota attività. Con questo nuovo concetto si può pensare che Aristotele abbia voluto risolvere la difficoltà, avvertita in tutto il pensiero antico (e ripropostasi anche nel pensiero moderno), di conci­ liare nell’essere che è assolutamente tale ( παντελώς ov ) l’immo­ bilità, che è il segno stesso della perfezione, con il pensiero e la vita, che sembrano invece comportare movimento. Platone nel Sofista aveva avvertito in maniera esasperata tale difficoltà (43) (40) Met., IX, 6, 1048 a 37 - 1048 b 6. (41) Met., IX, 6, 1048 b 18-36. (42) Met., IX, 1, 1046 a 1-2. (43) « E che, per Zeus? Ci lasceremo convincere tanto facilmente, che davvero movimento, vita, anima e pensiero non siano presenti nell’essere universale e che esso non viva nè pensi, ma che venerando e santo, privo

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e, quasi ribellandosi alle leggi della logica, aveva proposto di fare come i ragazzi che, invitati a scegliere tra due cose opposte, ri­ spondono di volerle tutte e due(44). L’apparente antinomia viene da Aristotele superata mediante una distinzione che introduce un concetto specificamente meta­ fisico, quello di atto puro, il cui significato non è verificabile sul piano sensoriale, ma è intelligibile soltanto sul piano del­ l’esperienza integrale, in rapporto alla contraddizione che esso è chiamato a risolvere.

8. - L’atto puro. L’esistenza di una realtà in movimento conduce adunque Aristotele a riconoscere la necessità di una realtà immobile, di un’attualità tutta compiuta. È il movimento in quanto tale che implica l’immobile; perciò l’esperienza di un qualunque mo­ vimento, per quanto infimo, costituirebbe per sè una base suffi­ ciente su cui fondare la dimostrazione. In verità Aristotele lega la sua dimostrazione dell’esistenza dell’Atto puro ad una forma ben determinata di movimento: il movimento eterno, continuo e circolare del cielo delle stelle fisse. « C’è qualcosa che sempre si muove di moto incessante, che è poi moto circolare: e ciò è evidente di fatto e non solo per mezzo di un ragionamento » (45). L’esistenza di un movimento eterno in un tempo eterno viene infatti stabilita da Aristotele mediante una dimostrazione: impossibile un inizio del movi­ mento, perchè questo inizio sarebbe ancora un movimento; eterno adunque il movimento ed eterno il tempo che lo mi­ sura (4e). L’esperienza, un’esperienza non pura, ma influenzata di intelligenza, se ne stia fermo, immobile? » (Il Sofista, 249 a, trad. it. di M. Gentile, Cedam, Padova, 1938, pp. 87-88). (44) Il Sofista, 249 d. Cfr. anche la nota 30 della traduzione citata, p. 89(4B) Met., XII, 7, 1072 a 21-22. (46) Cfr. Met., XII, 6, 1071 b 3-11; cfr. anche XI, 12, 1068 a 8 - 1069 a 14, e i libri IV e Vili della Fisica.

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dalle dottrine astronomiche e dalle credenze religiose del suo tempo, portava poi Aristotele ad identificare il moto eterno con la rotazione della volta stellata. Ora — argomenta ancora Aristotele — la necessità di un movimento eterno importa l’esistenza di un motore che sia ne­ cessariamente tale, di un qualche cosa cioè che non abbia sol­ tanto la capacità di muovere, ma che muova in atto e necessa­ riamente, la cui stessa natura cioè sia atto. « Deve esserci dun­ que un principio tale che la sua sostanza sia atto » (47). Atto assoluto, quindi, esente da ogni materia perchè esente da ogni passività. Il motore, la cui sostanza è lo stesso atto, muove non mosso, e può muovere così in quanto è oggetto del desiderio e dell’in­ telligenza: κινεί δέ ώς έρώμενον (48). Egli esiste necessariamente ed è questa sua esistenza necessaria ed immobile ciò che ap­ punto assicura l’eterno movimento del cielo delle stelle fisse e, tramite questo, di tutto l’universo: « per mezzo del cielo che da lui è mosso, muove le altre cose » (49). Dal concetto di un principio primo che è attività sostanziale e realtà intelligibile, Aristotele deduce gli ulteriori attributi di quello che ormai viene configurandosi come l’Essere divino. È attività esente per sè da movimento, quella che ha in sè e non fuori di sè il proprio fine. Gli unici esempi di una simile attività immota sono quelli che possiamo trarre dalla esperienza delle nostre operazioni spirituali, dove l’atto del vedere e dell’aver visto, dell’intendere e dell’aver inteso si identificano (B0). La considerazione di questa specie di attività spiega il passag­ gio, che altrimenti potrebbe apparire ingiustificato, dalla con­ cezione del principio come oggetto a quella del principio stesso come soggetto. Non possiamo intendere la vita divina che ad (4?) (48) (40) (50)

Mei., Mei, Mei., Mei.,

XII, 6, 1071 b 19-20. XII, 7, 1072 b 3. XII, 7, 1072 b 4. IX, 6, 1048 b 18-36.

CAP. Π. - ITINERARIO METAFISICO

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analogia della forma più alta della nostra vita spirituale, con la differenza che in Dio è eternamente e necessariamente rea­ lizzato ciò che in noi si verifica talvolta e solo per breve tempo (B1). Allo stesso risultato del resto Aristotele poteva giungere per un’altra via, attraverso cioè il principio dell’identità dell’intelli­ gibile in atto con l’intelligenza in atto (B2). Quel principio che muove in quanto è intelligibile, non sarebbe per se stesso atto se fosse intelligibile solo in rapporto ad altre intelligenze: deve quindi esser anche intelligenza in atto di se stesso. Così « l’in­ telligenza che è per se stessa, è intelligenza di ciò che per se stesso è ottimo » (53). D’altro canto — continua Aristotele — una volta che si at­ tribuisca a Dio l’intelligenza, non si può ammettere che questa abbia altro oggetto che se stessa. Infatti « se pensa, ma il suo pensare è determinato da altro, ciò che costituisce la sua sostanza non è più l’atto del pensare, ma la potenza, e non sarebbe quindi la sostanza più perfetta » (54). Inoltre, se l’essere perfetto non pensasse se stesso, e soltanto se stesso, dovrebbe pensare a qual­ cosa di meno perfetto, a qualcosa perciò che non è degno di lui, e che per lui è meglio non conoscere. « Se stesso adunque pensa, se egli è l’essere più perfetto, e il suo pensiero è pensiero di pen­ siero (καί ε - t , νόησις νοήσεως νόησις) » (55). La profonda analisi che Aristotele fa della natura della so­ stanza divina, principio primo del moto di tutto l’universo si trova collegata, come è stato detto, a una premessa di natura astronomica: il movimento del cielo delle stelle fisse. Ciò deter­ mina una contaminazione tra ricerca scientifica (astronomica, ap­ punto) e ricerca metafisica, che rischia di compromettere la vali­ dità e la coerenza delle conclusioni. « Il principio primo — af­ (51) (52) (53) (54) (55)

Mei., XII, 7, 1072 b De Anima, III, 430 a Mei., XII, 7, 1072 b Mei., XII, 9, 1074 b Mei., XII, 9, 1074 b

14-15. 4-5. 18-1918-20. 33-35.

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

ferma Aristotele — è immobile sia dal punto di vista sostanziale cbe dal punto di vista accidentale (καί καθ7 αύτό καί κατά συμβεβηκός ), e determina il primo, eterno ed unico moto; e poiché ciò che è mosso è necessario sia mosso da qualcosa, e il primo mo­ tore è necessario sia immobile per se stesso, e il moto eterno è necessario sia determinato da qualcosa di eterno, e ciò che è unico da qualcosa di unico, e poiché vediamo oltre la semplice traslazione dell’universo (quella che dicemmo esser mossa dalla sostanza prima ed immobile) altre traslazioni, quelle eterne dei pianeti ... è anche necessario che ciascuna di queste traslazioni sia mossa da una sostanza per se stessa immobile ed eterna ... E quindi evidente che è necessario che ci siano altrettante sostanze per loro natura eterne, immobili per se stesse, e senza grandezza, per la ragione precedentemente detta. Che ci siano tali sostanze, e quale di questa venga prima e quale seconda, è manifesto dal l’ordine stesso delle traslazioni degli astri. Il numero poi delle traslazioni deve essere ricercato da quella delle scienze matema­ tiche che è più vicina alla filosofia, cioè dalla astronomia » (Be). Sulla scorta delle opinioni degli astronomi più autorevoli, quali Eudosso e Callippo, Aristotele giunge a congetturare che il numero delie traslazioni, e quindi dei rispettivi motori immobili, sia o 47 o 55. Lo Stagirita sembra dunque non dare eccessiva impor­ tanza all’esatta determinazione del numero delle sostanze immo­ bili, ma si rimette alla competenza altrui (°7), mostrando così di saper distinguere, almeno fino a questo punto, la ricerca astro­ nomica da quella metafisica. Quello che tuttavia Aristotele considera valido è il criterio generale per la determinazione del numero delle sostanze immo­ bili, vale a dire che ad ogni tipo di movimento corrisponda un diverso motore. D’altronde, la molteplicità dei motori immobili, e cioè delle sostanze divine, sembrava ad Aristotele adombrata (BB) Met., XII, 8, 1073 a 23 - 1073 b 5. (57) Met., XII, 8, 1074 t 14-17.

CAP. Π. - ITINERARIO METAFISICO

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dalle venerande tradizioni religiose che presentavano gli astri come divinità (5S). L’esistenza di una molteplicità di motori immobili non im­ pedisce tuttavia ad Aristotele di affermare l’unicità del motore primo. Poiché la molteplicità degli individui della stessa specie dipende dalla materia, l’essenza di una pura sostanza immate­ riale non può trovarsi moltiplicata in più individui. « Uno adun­ que e per il concetto e per il numero è il primo motore immo­ bile; ed uno ciò che è mosso sempre e continuamente; ed uno solo il mondo » (59). D’altro canto l’ordine dell’universo, il cospirare di tutte le cose ad un unico fine, postulano l’unità del principio ordinatore. « Non è buono il comando di molti — ripete perciò Aristotele con Omero — uno solo sia il comandante » (60). Politeismo, dunque, o monoteismo? Dal punto di vista della coscienza religiosa popolare, l’alternativa, al tempo di Aristotele, non doveva essere avvertita in forma così drastica. Le due pro­ spettive potevano apparire conciliabili tra loro in una concezione teogonica e gerarchica, che elevasse un unico dio a padre e prin­ cipe di tutti gli altri dei. Sotto questo aspetto Aristotele potrebbe non essersi allontanato troppo dalla comune coscienza religiosa del suo tempo. Senonchè la questione, da un punto di vista rigorosamente metafisico — quello che qui propriamente ci interessa — deve essere formulata diversamente. Le molteplici sostanze divine hanno tutte lo stesso valore ontologico, cioè la stessa pienezza di attualità, così da essere tutte ugualmente immobili? È chiaro che se la risposta fosse affermativa ci troveremmo di fronte ad (58) Met., XII, 8, 1074 b 1-14. « Una parte notevole della metafisica aristotelica è offuscata dai presup­ posti mitologici della concezione greca della natura; soprattutto quella, in cui si vuol saldare il principio metafisico con la fisica, è evidentemente influen­ zata dalla religione degli astri che è stata l’ultima forma del paganesimo » (M. Gentile, Come si pone il problema metafisico, cit., 1955, p. 54). (M) Met., XII, 8, 1074 a 36-38. (e0) Met., XII, 10, 1076 a 4.

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

una autentica concezione politeistica. Solo una risposta negativa potrebbe confortare una prospettiva monoteistica. Così posta la questione, non ci sembra dubbio che, per Aristotele, solo il mo­ tore primo sia assolutamente immobile e, dunque, perfetta at­ tualità. Gli altri motori sono necessariamente immobili solo in rapporto alla forma di movimento di cui essi sono principio, ma non sono immobili rispetto al motore primo, che direttamente muove il cielo supremo e indirettamente tutto l’universo, e del quale soltanto Aristotele dice che è « immobile sia dal punto di vista sostanziale che dal punto di vista accidentale » (61). Se adunque in una prospettiva rigorosamente metafisica il vero concetto di Dio è il concetto di una assoluta attualità, esente in quanto tale da qualunque condizionamento e da qualunque passività, non c’è dubbio che nella concezione aristotelica un solo essere, cioè il motore primo, realizza in sè questa perfetta natura. Se ciò non risulta immediatamente evidente ad una prima lettura del testo aristotelico, lo si deve al fatto che l’indagine metafisica è oscurata, come s’è detto, dal sovrapporsi di interessi astronomici e di credenze popolari. Per liberare la teologia di Aristotele da tali contaminazioni non c’è altra via che quella di svincolare la dimostrazione della esistenza dell’Atto puro dalla considerazione di una specifica forma di movimento, per fondarla invece sull’esperienza di un movi­ mento qualsiasi. È la via che è stata appunto intrapresa decisa­ mente da S. Tommaso, il quale ha così riportato l’argomentazione aristotelica sul piano della autentica indagine metafisica. « Certum est enim — scrive l’Aquinate — et sensu constai, aliqua moveri in hoc mundo » (62). Questa è la vera premessa da cui la dimostrazione deve partire: non l’esistenza di un particolare movimento, assunto in tutte le sue caratteristiche specifiche, ma

(el) Per questa soluzione, da un punto di vista metafisico, della questione dell’unicità e della molteplicità dei Motori immobili, si veda C. Giacon, Il divenire in Aristotele, Cedam, Padova, 1947, c. IX, § 7, pp. 143-148. (®2) Stimma theologica, I, q. 2, a. 3.

CAP. Π. - ITINERARIO METAFISICO

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l’esistenza di un qualunque movimento, preso nel suo aspetto più generico. Questa semplificazione dell’argomentazione teologica risulta non solo opportuna, ma anche necessaria per due ragioni, tra loro strettamente connesse. La prima di tali ragioni è rappresentata dalla necessità di partire da una premessa che rappresenti una conoscenza autentica, una sicura « visione » e non una discuti­ bile interpretazione. In quest’ultimo caso, tutta la dimostrazione verrebbe a perdere quel carattere non ipotetico (άνυπόθ-ετος), di assoluta certezza, che deve contraddistinguere il procedimento me­ tafisico. Da questo punto di vista, il movimento eterno del primo cielo, da cui intendeva partire Aristotele nella sua dimostrazione, non costituiva certo una verità di fatto, come lo Stagirita sem­ brava ritenere (benché egli stesso sentisse il bisogno di ricorrere anche alla dimostrazione), ma una mera ipotesi di cui il tempo doveva fare giustizia. Al contrario, l’affermazione « qualcosa si muove », assunta, attraverso la più radicale εποχή, nel suo signi­ ficato più elementare e più generico (« qualcosa si presenta ora che prima non c’era »), rappresenta una costatazione di fatto as­ solutamente irrefutabile (63). La seconda ragione per operare la detta semplificazione è costituita dalla possibilità, che essa offre, di ridurre la dimostra­ zione alla sua forma essenziale. Ripetiamo allora che il dato ele­ mentare da cui si deve partire è il presentarsi di qualcosa che prima non c’era o, che è lo stesso, il succedere di qualcosa a qual­ cos’altro. L’argomentazione teologica dovrebbe consistere nel di­ mostrare che tale successione non sarebbe possibile senza l’in­ tervento di un principio immobile. È evidente che, impostando in questo modo l’argomentazione, si vuol tener conto della obiezione humiana, secondo la quale non ci è mai dato di costatare alcun rapporto di causazione o dipen­ denza ontologica tra dati dell’esperienza, ma soltanto un rapporto (63) Per questa funzione dell’ έποχή fenomenologica di mettere tra pa­ rentesi qualunque interpretazione, al fine di cogliere il dato nella sua indi­ scutibile certezza, si veda Parte I, Cap. I, pp. 39 e 44.

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

di successione cronologica. Non è certo in questo senso di sem­ plice successione che il concetto di movimento è impiegato nella argomentazione aristotelico-tomistica. Qui il movimento è inteso senz’altro come passaggio dalla potenza all’atto, cioè come espli­ cazione di una capacità produttiva da parte di qualche altra cosa che è già in atto. In questo modo la dimostrazione diviene ab­ bastanza facile, in quanto si è già ammesso che ciò che si muove (o perviene all’atto) è preceduto da qualche altra cosa che ha la capacità di produrlo, che ne è la causa (anche se questa può es­ sere concepita come un complesso di cause). E poiché ciò che è in questione è il movimento in quanto movimento, è necessario concludere, ad evitare il rinvio aU’infinito, che la causa prima tra­ scende ogni movimento e non può essere che immobile. Se dunque l’argomentazione aristotelico-tomistica è strettamente legata all’esplicazione analitica di un certo concetto di movimento, in cui è già incluso un senso di produttività o cau­ salità, il vero problema è quello di stabilire come il nostro pen­ siero possa legittimamente pervenire a tale concetto partendo dalla semplice constatazione del succedere di qualche cosa a qual­ che altra cosa. La risposta a tale problema può essere data soltanto sulla base di un concetto di esperienza che superi le angustie della posizione empiristica e pervenga ad una più comprensiva ed adeguata formulazione. L’autentica esperienza, invero, non è co­ stituita semplicemente da un complesso di dati sensoriali, ma da una originaria, inscindibile, sostanziale relazione tra questi stessi dati e l’orizzonte intelligibile che tutti li penetra ed avvolge. È in virtù di questa relazione che ci è dato di costatare il succedere di qualche cosa. Sottolineiamo questo qualche cosa a significare che ciò che succede o inizia, è inteso originariamente come un qualche cosa, come un essere, che, in quanto tale, non può man­ care delle proprietà essenziali dell’essere in quanto essere, cioè dell’incontraddittorietà e della fondatezza, proprietà che, come s’è visto, sono enunciate dai due principi fondamentali della on­ tologia, il principio di non contraddizione e il principio di ra­ gion sufficiente. Ciò che adunque esperimento è un essere incipiente, il quale,

CAP. II. - ITINERARIO METAFISICO

in quanto essere, non deve mancare della propria ragion suffi­ ciente, e, in quanto incipiente, deve avere questa ragione o fon­ damento fuori di sè, perchè non sarebbe fondamento sufficiente un fondamento che avesse esso stesso un inizio. Ora il concetto di un fondamento o ragion sufficiente esterna è appunto il con­ cetto di causa. Di conseguenza, il concetto del movimento come « moveri », come « un essere causato », è il risultato di una me­ diazione che si compie in forma irriflessa, tra il piano sensibile e il piano intellettivo della nostra esperienza, per cui una determi­ nata successione è riconosciuta, almeno implicitamente, come causata. Ma, poiché la nostra esperienza, assunta nella sua inte­ gralità, non è altra cosa che questa originaria, implicita media­ zione, possiamo in certo modo dire che il movimento, nel suo più ricco e pregnante significato di relazione causale, sia oggetto di esperienza, in quanto esperienza integrale. Ci sembra pertanto che queste nostre modeste riflessioni diano un qualche contributo al superamento della obiezione em­ piristica e all’approfondimento della classica prova del movi­ mento (64). Un’ultima questione di essenziale importanza per l’esatta comprensione del concetto di Motore immobile, riguarda il modo in cui tale Motore esplica la sua funzione nei riguardi di ciò che è mosso. Secondo Aristotele, Dio muove il mondo in quanto oggetto di intelligenza e di amore, muove cioè come causa finale. Si tratta di una efficace analogia che ha il merito di illustrare il concetto di una relazione del mondo a Dio, intesa in modo tale da rendere relativo il mondo senza tuttavia rendere relativo Dio. Giunto al riconoscimento della incapacità della realtà mondana a spiegare se stessa, Aristotele passa all’affermazione dell’esistenza di una realtà ultramondana capace di colmare quella insufficienza, mantenendo tuttavia intatta la propria autarchia. Questo pro(M) Le presenti osservazioni sulla « prova del movimento » rappresen­ tano l’approfondimento di quanto, sullo stesso argomento, abbiamo scritto nella Introduzione ad una fenomenologia dell’esperienza integrale, riportata in Appendice I, § 6.

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

cesso ascensivo dal mondo a Dio è la grande conquista del pen­ siero aristotelico. Tale conquista però rischia di essere compro­ messa da una inadeguata concezione del processo discensivo, in quanto l’esistenza del mondo appare in Aristotele presupposta all’azione di Dio. In tal caso, infatti, o Dio non agisce propriamente nei con­ fronti delle cose, ma sono le cose che agiscono, movendosi cia­ scuna verso il proprio termine di perfezione — e allora Dio di­ venta superfluo e la sua esistenza appare ingiustificata (e5 ); op­ pure Dio agisce davvero sulle cose — e allora la sua azione ri­ sulta condizionata dalla loro esistenza e viene compromessa in questo modo la sua piena attualità. Discorso analogo può essere ripetuto per ciò che concerne la conoscenza divina. Invero, o Dio ignora il mondo — e allora la sua potenza conoscitiva risulta limitata; oppure conosce il mondo — e allora egli risulta passivo nei confronti dell’oggetto che gli è presupposto. La soluzione razionale di queste difficoltà consiste nel con­ cepire un rapporto tale tra Dio e il mondo che salvi la piena as­ solutezza di Dio mediante la più completa dipendenza del mondo. Questo rapporto di totale dipendenza è il rapporto di crea­ zione (66). La introduzione del concetto di creazione rappresenta il più importante contributo recato dal pensiero cristiano allo sviluppo della teologia aristotelica (e7).

(e5) Da questo punto di vista, mi sembra, potrebbe essere ripetuta, nei confronti dell’Atto puro, la critica che Aristotele rivolgeva alle Idee plato­ niche, la mancanza cioè di una vera causalità efficiente (cfr. Met., I, 9, 991 a 8-20; Met., VII, 8, 1033b 19-29). (®6) In virtù del concetto di creazione le precedenti difficoltà vengono superate. Essendo infatti la creazione la posizione di tutto l’essere delle crea­ ture, nulla è presupposto all’azione divina, che rimane così incondizionata (Tommaso, Stimma contra Gentiles, 1. II, c. XVI). Ugualmente, nulla è pre­ supposto all’intelligenza divina, la quale conosce ie cose in quanto conosce il proprio atto creatore (Stimma contra Gentiles, 1. I, c. IL). (®7) Sulle difficoltà della teologia aristotelica e sul loro superamento ra­ zionale da parte del pensiero cristiano, si veda U. A. Padovani, Il contributo

CAP. II. - ITINERARIO METAFISICO

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9. - La posizione critica del problema della possibi­ lità della metafisica.

Queste ultime considerazioni intendono soltanto prospettare le ulteriori tappe attraverso le quali potrebbe ancora proseguire il nostro itinerario metafisico. È chiaro tuttavia che esse do­ vrebbero essere più ampiamente svolte e giustificate. Si tratte­ rebbe però di un lavoro che oltrepasserebbe i limiti entro i quali intende rimanere il presente saggio, il cui scopo è stato semplicemente quello di indicare il metodo secondo il quale deve proce­ dere la costruzione metafisica. Questa, come s’è più volte ripetuto, deve poggiare intera­ mente sulla struttura teoretica originaria, esplicitamente ricono­ sciuta. Tale struttura è sempre presente e operante nel nostro pensiero, ma non lo è quasi mai in maniera riflessa e consape­ vole. Il modo per giungere al suo esplicito riconoscimento è la problematizzazione radicale di quei principi e di quei concetti che il pensiero comune e scientifico adoperano spesso, senza preoc­ cuparsi della loro giustificazione. La problematizzazione è vera­ mente radicale quando riesca a raggiungere quelle nozioni prime, le quali non possono, di diritto, essere negate, in quanto rap­ presentano le condizioni supreme, venendo meno le quali nessuna enunciazione potrebbe essere formulata, nessun problema po­ trebbe essere sollevato. Le nozioni prime che, nel loro insieme, costituiscono la strut­ tura originaria, ci sembano essere principalmente tre: l’incontraddittorietà dell’essere, la fondatezza dell’essere e la molteplicità spazio-temporale. Non si tratta di tre nozioni estrinsecamente giustapposte, ma di tre aspetti inscindibili di un’unica « visione » originaria, l’intuizione della realtà sensibile nell’orizzonte dell’es­ sere intelligibile. La polarità del sensibile e deU’intelligibile aldel medioevo cristiano alla metafisica classica e Tommaso d’Aquino e la cul­ tura classica, in Metafisica classica e pensiero moderno, Marzorati, Milano, 1961, in particolare alle pp. 34 e 63-

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PARTE PRIMA - DEFINIZIONE E FONDAZIONE DELLA METAFISICA

l’interno dell’unica intuizione, è ciò che determina il successivo processo di mediazione. Qualunque affermazione si riconduca allora, direttamente o indirettamente, alla « visione » originaria, è validamente fondata, e la metafisica altro non è che la ricostru­ zione consapevole di questo stesso processo di fondazione. A tale proposito, quanto Aristotele ha fatto nei riguardi del principio di non contraddizione, abbiamo cercato di ripetere, per quanto ci è stato possibile, nei confronti del principio di ragion sufficiente e dei concetti di sostanza e accidente, potenza ed atto, e movimento. Ci sembrava che nella costruzione aristotelica quel principio e questi concetti, anche se validamente usati, non fos­ sero tuttavia sufficientemente giustificati. Il metodo della proble­ matizzazione radicale ci ha permesso, riteniamo, di ritrovarne i fondamenti ultimi nell’esperienza integrale. A questo punto della nostra ricerca, ci troviamo di fronte ad un esempio concreto, per quanto elementare, di costruzione me­ tafisica. Tale esempio ci permette ora, da una parte, di dar corpo a quella definizione di metafisica che nel capitolo precedente era stata, in fondo, soltanto anticipata; dall’altra, di impostare in maniera corretta il problema della possibilità della metafisica, deducendo tale possibilità dalla sua stessa effettiva realtà. Parlando della « effettiva realtà » della costruzione metafi­ sica, è chiaro che non si avanza la pretesa che nessuna delle par­ ticolari affermazioni contenute nel presente capitolo possa essere rimessa in discussione, ulteriormente svolta ed anche corretta; si vuol soltanto sostenere che ogni eventuale revisione, sviluppo o correzione devono necessariamente collocarsi a quel livello del discorso che è appunto il discorso metafisico. È la legittimità di questa forma di discorso che noi riteniamo di avere fondata, nell’atto stesso in cui siamo riusciti a mostrare che essa scaturisce dall’intrinseca problematicità della esperienza integrale, cioè dall’inevitabile dialettica che si instaura tra il polo sensibile e il polo noetico dell’unica « visione originaria ». Si può eludere il discorso metafisico evitando di affrontare il problema dell’esperienza nella sua totalità (con l’immergersi ma­ gari interamente nella particolarità dei singoli problemi), ma non

CAP. II. - ITINERARIO METAFISICO

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si può ragionevolmente rifiutarlo, solo che ci si decida a prestare ascolto alla « domanda totale » che è al fondo di ogni nostro atto di pensiero e di vita. In questa prospettiva, il modo corretto di porre il problema della possibilità della metafisica non è allora quello di doman­ darsi, come troppo a lungo si è fatto, se essa sia possibile, ma, piuttosto, come sia possibile. Si deve, cioè, non giudicare della sua possibilità sulla base di schemi logici preconcetti, di criteri e metodi arbitrariamente modellati su quelli di altri tipi di sa­ pere, ma risalire dal riconoscimento della possibilità della meta­ fisica alla determinazione delle strutture logiche proprie di questa forma di discorso. È quanto appunto cercheremo di fare nella seconda parte di questo nostro lavoro.

PARTE SECONDA

POSSIBILITÀ

E

STRUTTURA

DEL DISCORSO METAFISICO

Capitolo I. ESPERIENZA ATEMATICA E DISCORSO METAFISICO

1. - La metafisica di fronte alla critica empiristica. È addirittura superfluo ricordare quanto sia vivamente av­ vertito dal pensiero moderno e contemporaneo il problema della possibilità della metafisica. Da Bacone a Locke, a Hume, a Kant, fino al positivismo dell’ottocento e del novecento, le riserve e le obiezioni circa la possibilità della metafisica si sono ripetutamente rinnovate, così come, d’altronde, s’è ripetutamente rin­ novato il lavoro di ricostruzione metafisica. L’attualità del pro­ blema della metafisica è fuori discussione. Ciò che giova invece sottolineare è la capitale importanza del problema. Si tratta di una questione essenziale per le sorti della filosofia, perchè dalla sua soluzione dipende il riconoscimento della esistenza o meno di una forma di sapere metodologicamente distinta dalle scienze sperimentali; ma, ciò che più conta, si tratta ancora di una que­ stione di grande rilievo per la vita morale dell’uomo, perchè dalla sua soluzione dipende la possibilità o l’impossibilità di giustificare teoreticamente un atteggiamento pratico che superi il livello degli interessi biologici più contingenti, delle faccende quotidiane, delle preoccupazioni mondane. Le obiezioni che lungo il corso della storia sono state solle­ vate contro la possibilità della metafisica sono molteplici e di di­ versa natura f1); nondimeno in tutte queste obiezioni, per quanto (1) Cfr. il mio saggio Idoli dell’antimetafisica. Analisi crìtica di alcune

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PARTE SECONDA - POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

differenti tra loro, compare, prima o poi, uno stesso motivo: la denuncia della vana pretesa della metafisica di oltrepassare la esperienza. La metafisica infatti, in quanto scienza dei principi e delle cause prime, per dirla con Aristotele, o in quanto aspi­ razione verso la Totalità e l’incondizionato, per usare l’espres­ sione kantiana, si colloca su di un piano diverso da quello delle scienze sperimentali, oltrepassa cioè quella esperienza, o almeno quella sezione dell’esperienza, alla quale tali scienze fanno rife­ rimento e nella quale quei principi primi o cpicWIncondizionato non sembrano in alcun modo comparire. Disancorata da una tale esperienza che conferisce concretezza, fecondità e vigore alle scienze sperimentali, la metafisica appare alcunché di vuoto, di sterile, addirittura di « insignificante ». L’empirismo in particolare, da Bacone al neopositivismo dei no­ stri giorni, è venuto maturando contro la metafisica l’accusa di insignificanza. Il criterio di significanza delle proposizioni venne posto nella loro verificabilità, che fu intesa all’inizio' come la possibilità di presentare il contenuto concreto di esperienza cui le proposizioni autentiche dovevano, in ultima analisi, riferirsi. In base a questo criterio le proposizioni della metafisica, appunto perchè metempiriche, furono dichiarate assolutamente prive di senso, cioè pseudo-proposizioni. La critica empiristica apparve subito gravissima; ma forse troppo grave, troppo radicale per non riuscire alla fine sospetta. Essa infatti non distrugge soltanto la possibilità di una metafisica valida, ma rende inesplicabile lo stesso darsi di un discorso me­ tafisico, per quanto errato lo si voglia considerare. Che si possa dare un eloquio assolutamente privo di significato e che un tale pseudo-discorso si prolunghi da secoli nella nostra cultura occi­ dentale, è la cosa più difficile da capire, la cosa davvero meno sensata (2). Di conseguenza la critica empiristica non poteva non obiezioni contro la possibilità della metafisica, in Esperienza e Metafisica, Li­ viana, Padova, 1959, pp. 231-259. (2) «Il recente attacco positivistico ha il difetto di far apparire pres­ soché incredibile che uomini, in genere di non comune ingegno, si siano

CAP. I. - ESPERIENZA ATEMATICA E DISCORSO METAFISICO

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diventare a sua volta oggetto delle polemiche più vivaci, degli attacchi più radicali. Non è mia intenzione ritornare qui sulle critiche alle quali il principio empiristico di verificabilità è stato esposto in questi ultimi trent’anni, nè ricordare le trasformazioni o le attenua­ zioni che esso ha subite sotto l’influsso di quelle critiche (3). Al dedicati con tanto zelo e perseveranza alla esposizione di dottrine che, a detta dei critici, sarebbero tutte semplicemente non-significanti » (G. J. WARNOCK, Criticismi of Metaphysics, in The Nature of Metaphysics, Macmillan e Co., London, 1957, p. 129). (3) Uno dei modi più frequenti di criticare il principio di verificabilità è consistito nel mostrare che tale principio, dato il suo carattere di universa­ lità, non è empiricamente verificabile e dovrebbe quindi ricadere sotto la stessa critica che, sulla sua base, viene rivolta alla metafisica. « È agevole co­ gliere — scrive ad es. F. Barone — il circolo vizioso in cui esso [il criterio empirico di significanza] si avvolge e che, del resto, è stato rilevato da tutti i critici del neopositivismo; poiché l’asserzione del criterio non è verificabile nel senso richiesto dal criterio stesso, nè l’esclusività del significato empirico è costituibile sulla base degli Erlebnisse immediati: la proposizione che do­ vrebbe permettere la distinzione tra proposizioni autentiche e pseudo-propo­ sizioni è essa stessa una pseudo-proposizione » (F. Barone, Rudolf Carnap, Ediz. di «Filosofia», Torino, 1953, p. 21). Allo stesso risultato, cioè alla conclusione che la dottrina empiristica del significato contenga, contro il suo stesso intendimento, una implicita metafi­ sica, si è giunti anche da un altro punto di vista. « Se noi stabiliamo a quali condizioni possiamo correttamente affermare esser certo che una affermazione è vera, siamo già sulla via di costruire un sistema metafisico; perchè avremo trascelto un tipo di affermazione di cui poter dire che i termini rappresentano qualcosa che veramente esiste. Ed allora noi dovremmo spiegare l’esistenza di qualunque altra cosa nei termini di questo privilegiato tipo di entità, qua­ lunque esso sia. Questo è il classico cammino per il quale la teoria della cono­ scenza ha sempre portato, da Platone in poi, alla costruzione sistematica. Spi­ noza e Leibniz usarono entrambi questo argomento tratto dalla natura della conoscenza e della verità nella costruzione dei loro sistemi metafisici; e così fece Russell quando sostenne che, tolta la matematica, noi possiamo essere certi soltanto della verità degli enunciati che descrivono le nostre sensazioni, e quindi che l’intera conoscenza scientifica deve in definitiva riferirsi alla sfera

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parte seconda

- possibilità e struttura

del discorso metafisico

punto in cui siamo arrivati, piuttosto che insistere su di una polemica in gran parte scontata, mi sembra interessante ed utile cercare di cogliere l’esigenza legittima che doveva pur nascon­ dersi sotto il principio di verificabilità, esigenza che potrà essere più facilmente riconoscibile nella formulazione originaria di tale principio (4). delle nostre sensazioni » (S. N. Hampshire, Metaphysical Sistems, in The Na­ ture of Metaphysics, cit., p. 30). Come da parte neopositivistica si sia risposto a tali critiche e quale sia il valore di tale risposta si vedrà più avanti (pp. 132-133). Qui vorremmo ricor­ dare ancora l’interessante critica che G. Ryle ha rivolto alla formulazione clas­ sica del principio di verificabilità (« il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica » ), formulazione che egli riconduce al paradosso del mentitore. « Dire di una asserzione — osserva il Ryle — che ciò che essa ci dice è come dovremmo stabilire se ciò che essa ci dice sia vero o falso, lascia quell’" essa " in sospeso » (fihe Verifìcation Principle, in « Revue Internationale de Philosophie », 1951, fase. 3-4, p. 247). È come se uno dicesse, continua il Ryle, che « ciò che la ricetta di una torta ci dice è ciò che si deve fare in cucina per scoprire se essa è una buona o cattiva ricetta » (ibìd., p. 249). Si tratta di una asserzione insoddisfacente perchè « essa intende dire che ciò che una espressione di una certa specie, precisamente una ricetta, ci dice è il modo di scoprire se ciò che essa ci dice è accettabile o inaccettabile — e que­ sto è appunto una variante del " Mentitore " » (ibid., pp. 249-50). (4) A proposito dell’opportunità di considerare il principio empiristico di significanza nella sua formulazione originaria, intendo adottare il « suggeri­ mento metodico» indicato da Marino Gentile nella valutazione delle posi­ zioni filosofiche, suggerimento secondo il quale queste posizioni devono essere considerate « anzitutto e in primo luogo non nella loro struttura e formula­ zione sistematica, ma nella loro posizione iniziale, che non è di sistema già costituito, ma di problema appena posto ». « Perchè — continua il Gentile — la storia della filosofia si è venuta svolgendo non per contrapposizione di si­ stema a sistema, ma per l’approfondimento dell’impostazione problematica, che un pensatore più robusto compie nei riguardi del pensatore anteriore. Ne ricordo uno degli esempi più facili: la superiorità del pensiero aristotelico in confronto a quello platonico è costituita non tanto e non solo dalla contrap­ posizione di una nuova organizzazione sistematica, bensì dal fatto che Ari­ stotele è riuscito a comprendere lo stesso problema di Platone in una misura

CAP. I. - ESPERIENZA ATEMATICA E DISCORSO METAFISICO

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Da questo punto di vista, la tesi empiristica che il significato di un qualunque discorso, e delle singole proposizioni e singoli termini che rientrano in esso, sia costituito dal contenuto con­ creto dell’esperienza, dal vivo contesto degli Erlebnisse, esprime una esigenza di positività, di obiettività, in se stessa legittima, purché naturalmente l’esperienza venga intesa nel suo significato più ampio ed integrale, non compromesso da restrizioni o da esclu­ sioni preconcette. Non si tratterà allora di respingere senz’altro il principio di verificabilità, ma di estenderne la portata, capovolgendo l’uso che per lo più se ne è fatto. In base a tale principio, anziché condannare come privo di significato quel discorso di cui non si sappia scorgere immediatamente il fondamento nella espe­ rienza, si dovrà ricercare questo fondamento per ogni discorso che sia plausibile supporre fornito di significato. Più che un nuovo atteggiamento teoretico è un nuovo atteggiamento mo­ rale che deve essere assunto, una disposizione cioè a com­ prendere piuttosto che a condannare. È chiaro infatti che non ci è dato di conoscere a priori le varie forme con­ crete di verificabilità, i vari tipi di significanza, ma che al con­ trario noi veniamo specificando via via la nostra nozione di ve­ rificabilità, veniamo determinando concretamente il nostro cri­ terio di significanza, a mano a mano che riusciamo effettiva­ mente ad intendere il significato dei vari tipi di discorso (B). Il più completa, in un grado più profondo, in una complessità maggiore di quanto non fosse riuscito ad intenderlo, dal suo punto di vista, il medesimo Platone» (M. Gentile, Come si pone il problema metafisico, cit., p. 22). (B) È interessante considerare, ad es., il motivo che conduce un neoposi­ tivista come l’Ayer a rendere, come egli dice, più liberale il principio di veri­ ficabilità, rinunciando ad una verifica definitiva e contentandosi di un cri­ terio di probabilità. (Una proposizione, secondo l’Autore, si dice verificabile nel senso « forte » del termine se, e soltanto se, la sua verità può essere stabi­ lita in maniera definitiva in base all’esperienza. È verificabile nel senso « de­ bole », se l’esperienza può renderla probabile). « Se noi adottiamo —- osserva l’Ayer — la verificabilità definitiva come nostro criterio di significanza, siamo

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parte seconda

- POSSIBILITÀ

e struttura del discorso metafisico

principio di verificabilità nella sua formulazione astratta, avver­ tendoci che ogni discorso fornito di significato deve essere fon­ dato sulla esperienza, ci invita a mettere in evidenza tale fonda­ mento, a esplicitare sempre meglio quel significato; ma tutto ciò non sarebbe possibile se prima tale significato non fosse direttamente, anche se oscuramente, avvertito. Se prevarrà questa disposizione a capire piuttosto che a ri­ fiutare, si potrà evitare che il principio di verificabilità sia inteso in una maniera troppo ristretta, vale a dire venga indebita­ mente modellato su di un particolare tipo di verifica, quello, ad esempio, proprio delle scienze naturali; mentre si dovrà al contrario riconoscere che ogni scienza particolare ha una sua particolare forma di verificabilità, o, che è lo stesso, ha il suo fondamento su di un particolare piano della esperienza. Il superamento dell’accusa di insignificanza rivolta al di­ scorso metafisico deve appunto muovere da una problematiz­ zazione del concetto di esperienza, cominciando col mettere in dubbio il preconcetto che non vi sia altra forma di esperienza oltre a quella che entra nella costituzione delle scienze speri­ mentali. Proprio perchè tali scienze rappresentano una sfera sol­ tanto dell’attività umana c’è da attendersi che esse usufruiscano logicamente obbligati a trattare le proposizioni generali esprimenti leggi («l’arsenico è velenoso»; «un corpo tende ad espandersi quando è riscal­ dato » ) nello stesso modo nel quale trattiamo le asserzioni del metafisico » (A. J. Ayer, Language, Tfruth and Logic, cit., p. 37). È questo, ripetiamo, un punto assai interessante: si modifica il criterio di verificabilità per non essere costretti a ridurre le leggi scientifiche a dei non-sensi. Ciò significa allora che il criterio di verificabilità viene modellato su delle proposizioni che risultano significative prima ancora che si assuma qualunque criterio di significanza. Come allora non sospettare che la presunta insignificanza delle proposizioni metafisiche non risulti dall’applicazione di un inadeguato criterio di signi­ ficanza, elaborato da chi si pone da un punto di vista assolutamente estraneo alla metafisica? E perchè allora non tentare una formulazione ancora più libe­ rale del principio di verificabilità che sia in grado di assolvere la metafisica da una squalifica, la quale non può non risultare ingiusta e frettolosa a chi abbia esperienza del lavoro metafisico?

CAP. I. - ESPERIENZA ATEMATICA E DISCORSO METAFISICO

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non dell’intera esperienza, ma di un piano o di un aspetto sol­ tanto di essa. Altri piani od aspetti sono possibili ed è in questi che va ricercato il fondamento del significato, il criterio di ve­ rifica del linguaggio metafisico.

2. - La fenomenologia dell’esperienza integrale e la SCOPERTA DELL’ESPERIENZA ATEMATICA.

Si impone in questo modo il compito di una fenomenologia dell’esperienza integrale (e). Lo spunto per una tale fenomeno­ logia può essere offerto dalla seguente considerazione: se l’espe(®) Un primo tentativo in questo senso abbiamo compiuto nella Intro­ duzione ad una fenomenologia dell’esperienza integrale, riportata in Ap­ pendice I. La convinzione che la metafisica trovi il suo fondamento e la sua giusti­ ficazione (contro tutte le obiezioni empiristiche) nell’ambito dell’esperienza, assunta nella sua integralità, è uno dei motivi centrali della gnoseologia di G. Zamboni (cfr. in particolare La persona umana, soggetto autocosciente nell’esperienza integrale, La Tipografica Veronese, Verona, 1940; La filosofia dell’esperienza immediata, elementare, integrale, ivi, 1944). Il nostro tentativo si è però esercitato in maniera del tutto indipendente dalla posizione dello Zamboni, di cui, oltre tutto, non condividiamo la for­ mulazione della tesi fondamentale che solo nell’autocoscienza sia dato di co­ gliere l’ente. Un recente, importante contributo ad una fenomenologia dell’esperienza è rappresentato dal saggio di Vittorio Mathieu, Il problema dell’esperienza (Pubblicazioni dell’università degli Studi di Trieste, Facoltà di Magistero, 1963). Attraverso l’esame dell’intenzionalità, l’esperienza viene presentata come un processo di identificazione che si compie a diversi livelli; alla radice di tale processo è l’io, che non è dato di cogliere come contenuto, ma come atto identificante la molteplicità dei contenuti, in riferimento ai quali esso si costituisce. Dal nostro punto di vista, l’interesse dell’indagine del Mathieu è rappresentato dal fatto che, attraverso un’originale analisi fenomenologica, viene riguadagnato e messo in nuova luce il significato genuino dell’atto ari­ stotelico, ne vengono illustrate le molteplici implicazioni e, al limite, pro­ spettate le possibili applicazioni teologiche.

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PARTE SECONDA - POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

rienza cui si riferiscono le scienze sperimentali ha potuto essere scambiata per l’unica forma di esperienza, essa deve essere in­ dubbiamente fornita di una particolare evidenza, di una particolare chiarezza, sì da polarizzare su di sè tutta l’attenzione del ricer­ catore. Al contrario, la restante esperienza dovrà costituire una zona più oscura della quale normalmente non siamo consapevoli. Siamo così alla distinzione, fondamentale per il nostro assunto, di esperienza esplicita e di esperienza implicita, di esperienza te­ matica e di esperienza atematica. Questo appello ad un’esperienza oscura, implicita, atematica non apparirà arbitrario e gratuito, quasi comodo stratagemma per contrabbandare impunemente qualunque merce metafisica, sol­ tanto se si considererà come sia inevitabile che, se qualche cosa risulta chiara ed evidente per il concentrarsi in essa della no­ stra attenzione, qualche altra cosa debba necessariamente, fun­ zionalmente rientrare nella zona oscura della disattenzione. Husserl nelle sue Idee descrive magistralmente questa situa­ zione, che io cercherò appunto di illustrare con le sue stesse parole. Inizierò da un passo del « frammento di descrizione pura » contenuto nel § 27. « Assieme ad oggetti attualmente percepiti, son qui per me oggetti reali, determinati, più o meno conosciuti, senza che essi siano percepiti, senza che essi siano visibilmente presenti. Posso lasciar vagare la mia attenzione dalla scrivania propriamente vista ed osservata, alle parti non viste della camera dietro alla mia schiena, sino alla veranda, al giardino, sino ai bambini sotto il pergolato, e così via, a tutti gli oggetti che io appunto « so » essere qua e là nell’ambiente che mi è noto — un sapere che non ha nulla del pensare astratto e che d’altronde con il vol­ gersi dell’attenzione, ed anche così solo parzialmente e per lo più assai incompiutamente, si tramuta in una chiara visione, in una percezione comprensiva, in una convalidante esperienza. Ma nel cerchio di questa compresenza chiara od oscura distinta o indistinta, che forma lo stabile contorno del mio attuale campo percettivo, non si esaurisce il mondo che in ogni momento di veglia mi è coscientemente « alla mano ». Esso al contrario

CAP. I. - ESPERIENZA ATEMATICA E DISCORSO METAFISICO

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si estende all’infinito in una solida struttura. Ciò che è attual­ mente percepito, ciò che è più o meno chiaramente compresente e determinato (o almeno in qualche modo determinato) è in parte penetrato, in parte avvolto da un orizzonte oscu­ ramente consaputo di realtà indeterminata (von einem dunkel bewussten Horizont unbestimmter Wirklichkeit). Io posso dirigere in esso i raggi dello sguardo illuminante dell’attenzione, con diverso risultato. Rappresentazioni determinate, prima oscure e poi via via più vivaci, mi rivelano qualcosa, una catena di ricordi si salda, il cerchio della determinatezza si allarga sempre più ed evidentemente in forma così ampia da realizzare la connessione con l’attuale campo percettivo che costituisce il nucleo cen­ trale. Ma in generale il risultato è un altro: la nebbia uniforme dell’oscura indeterminatezza si popola di possibilità e di supposi­ zioni e soltanto la « forma » del mondo in quanto « mondo » viene a delinearsi. Lo sfondo indeterminato è del resto infinito, cioè l’orizzonte nebuloso e mai interamente determinabile è ne­ cessariamente là » (7). Al § 83 questo stesso tema è così ripreso e sintetizzato: « Un Erlebnis, che è diventato oggetto di uno sguardo dell’io e quindi ha il modo di ciò che è osservato, ha il suo orizzonte di Erlebnisse non osservati; ciò che è osservato nel modo della « attenzione » ed eventualmente con crescente chiarezza, ha come sfondo un orizzonte di disattenzione, con relative distin­ zioni di chiarezza e di oscurità, di rilevanza e di irrilevanza » (8). Questa contrapposizione tra il piano chiaro, esplicito e quello oscuro, implicito dell’intenzionalità nell’ambito dell’Erlebnis, cioè dell’esperienza immediata, è un tema che torna frequentemente in tutto il corso delle Idee. Oltre ai citati paragrafi, Husserl ne parla ai §§ 35, 45, 84, 92, 115, 122, e altrove. Per brevità mi limiterò ad altre due citazioni. Al § 84: « È chiaro che lo sfondo oggettivo, dal quale l’oggetto co(7) E. Husserl, Ideen, cit., pp. 58-59. (8) Op. cit., pp. 201-202.

128 parte seconda - possibilità e struttura

del discorso metafisico

gitativamente percepito si stacca con il volgersi ad esso dell’at­ tenzione dell’io, è uno sfondo oggettivo realmente vissuto. Cioè, mentre noi adesso siamo volti al puro oggetto nel modo del « cogito », nondimeno oggetti diversi « appaiono », sono intui­ tivamente « consaputi », si fondono insieme nell’unità intuitiva di un consaputo campo oggettivo . . . Perciò non includemmo nell’essenza della intenzionalità la specificità del cogito, lo « sguardo-su », cioè il volgersi dell’io (che deve essere ulterior­ mente inteso e fenomenologicamente esplorato); piuttosto que­ sto momento cogitativo fu da noi ritenuto come una speciale modalità di quella generalità che chiamiamo intenzionalità » (9). La distinzione tra la modalità cogitativa, esplicita, e la mo­ dalità implicita dell’intenzionalità costituisce per Husserl una struttura costante della nostra esperienza. Questo o quel termine può passare dalla zona implicita a quella esplicita, o viceversa, ma la distinzione tra le due zone rimane costante, perchè di­ scende dalla natura stessa dell’atteggiamento attenzionale. Così al § 115: « L’attuale Erlebnis intenzionale è un " io penso ” " com­ piuto ". Tuttavia esso può per mezzo di variazioni intenzionali mutarsi in ” incompiuto ". E’Erlebnis di una percezione com­ piuta, di un giudizio, di un sentimento, di una volontà com­ piuti, non ” scompare ” quando l’attenzione si volge " esclu­ sivamente " ad un nuovo oggetto, e dunque l’io " vive " esclu­ sivamente in un nuovo cogito. Il cogito precedente " svanisce ", sprofonda nell’" oscurità ”, ma ha pur sempre una esistenza di Erlebnis, per quanto modificata. Ugualmente dallo sfondo delYErlebnis emergono delle cogitationes . . . Ad esempio, una cre­ denza, una reale credenza si " muove ", noi crediamo già " prima di saperlo ”. Così pure in certe circostanze, stati piacevoli o spia­ cevoli, desideri, anche decisioni sono già viventi, prima che noi " viviamo " " in " essi, prima che noi compiamo l’effettivo co­

(9) Of. cit., p. 205.

CAP. I. - ESPERIENZA ATEMATICA E DISCORSO METAFISICO

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gito, prima che l’io, giudicando, godendo, desiderando, volendo, " si manifesti ” » (10). Queste citazioni del testo husserliano, per quanto limitate e incomplete, sono già sufficienti a dare l’idea dell’importanza che l’Autore attribuisce alla sua scoperta della intenzionalità impli­ cita. In essa, egli afferma, « si radicano delle possibilità eideti­ che: di portare al limpido sguardo ciò che non è osservato, di trasformare ciò che è notato incidentalmente in un oggetto di­ rettamente notato, ciò che è coperto in una cosa scoperta, ciò che è oscuro in un oggetto più chiaro, sempre più chiaro » (11).

3. - La struttura dell’esperienza integrale.

Dal nostro punto di vista la chiarificazione deWErlebnis oscuro corrisponde all’intento semantico fondamentale che ci siamo proposti, la determinazione cioè del significato del discorso metafisico. Abbiamo visto, sulla scorta di Husserl, che la distinzione tra intenzionalità esplicita ed intenzionalità implicita è una strut­ tura essenziale della stessa intenzionalità, distinzione che dipende, non tanto dalla natura degli oggetti che sono termini dell’atto intenzionale, quanto dalla natura stessa dell’attegiamento attenzionale: l’attenzione è per se stessa selettiva e perciò corre­ lativa alla disattenzione. Tuttavia, osserviamo, anche la natura di ciò che è percepito non è senza peso in rapporto a questa distin­ zione. Ci sono oggetti che attirano più facilmente l’attenzione spontanea, altri che più facilmente rimangono nell’ombra. Ora gli oggetti che comunemente occupano il campo del­ l’attenzione sono quelli forniti dei caratteri di novità, varietà, mutevolezza. Niente, al contrario, ottunde più l’attenzione di ciò che è abituale, uniforme, immobile. È questa, mi sembra, la ragione principale per cui all’esperienza sono stati ricono­ sciuti gli attributi della particolarità e della contingenza: s’è (10) Op. cit., p. 281. (1X) Op. cit., p. 202. 5 — P. Faggiotto, Saggio sulla struttura della metafisica.

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metafisico

prestato attenzione soltanto agli aspetti particolari e mutevoli dell’esperienza, mentre le sue strutture costanti, le relazioni uni­ versali, proprio perchè tali, sono comunemente rimaste nell’om­ bra. L’esperienza, o meglio il piano della esperienza cui si ri­ chiamano il sapere comune e le scienze sperimentali, è ap­ punto quello che concerne i fenomeni particolari e mutevoli. Si tratta ora di indicare la zona dell’esperienza in cui la meta­ fisica trova il suo fondamento. Tale zona non è costituita da oggetti particolari, da feno­ meni specifici, distinti dagli oggetti e dai fenomeni di cui si oc­ cupano il sapere comune e le scienze sperimentali, ma, appunto, dalle strutture costanti che condizionano ogni singolo fenomeno e che, per la loro continua presenza in ciascun Erlebnis, finiscono spesso col passare inosservate, anche se esercitano una funzione fondamentale nel contesto globale dell’esperienza. Costituendo esse, normalmente, degli Erlebnisse « incompiuti », non potranno, fino a che rimangano tali, essere immediatamente additate, come è possibile fare per gli Erlebnisse « compiuti », ma dovranno es­ sere indirettamente riconosciute come necessario orizzonte di quanto rientra nel piano della esplicita intenzionalità. Il punto di partenza di una indagine critica sull’esperienza rimane sempre ciò che è esplicito, ciò che è immediatamente dato alla nostra chiara consapevolezza; ma nel corso dell’indagine si può giungere a riconoscere che alcune cose, che non erano imme­ diatamente date alla nostra consapevolezza, erano tuttavia imme­ diatamente, anche se implicitamente, date alla nostra intelligenza, come fermento dinamico che doveva condurre alla problematiz­ zazione di quella primitiva ma ingenua chiarezza. Alle strutture fondamentali dell’esperienza si risale adunque prestando attenzione alla funzione che esse esercitano in seno alla unità dinamica della stessa esperienza. In questa nessun oggetto è dato come un atomo isolato, ma si presenta inserito in una unica grande corrente, connesso nei modi più vari con gli altri oggetti che lo precedono, lo circondano, lo seguono. Ora non sarebbe possibile questa connessione dinamica se assieme alla varietà degli oggetti non fosse originariamente dato

CAP. I. - ESPERIENZA ATEMATICA E DISCORSO METAFISICO

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anche il loro costante fondamento unitario. Per quanto diversi possano essere tra loro, questi oggetti sono, si collocano dentro un unico orizzonte che ad un tempo li « penetra » ed « avvolge ». Questo piano infinito, in cui tutti gli oggetti si radicano senza mai riuscire ad esaurirlo, è ciò che tradizionalmente è indicato con la parola « essere » (12). La nozione dell’essere, costante e intrascendibile orizzonte di tutta la nostra esperienza, è presente tuttavia normalmente come tacito presupposto senza divenire oggetto di esplicita inten­ zionalità (13). Ciò non toglie però che in particolari circostanze — ed è allora che sorge la ricerca metafisica — il raggio dell’atten­ zione si diriga proprio su ciò che costituisce l’aspetto unitario degli oggetti dell’esperienza, mentre questi nella loro molteplicità e varietà siano lasciati nell’ombra. È nondimeno chiaro che, an­ che in questo caso, io non esco dal rapporto di tematico e atema­ tico e, mentre penso esplicitamente l’essere, non posso prescin­ dere da un riferimento implicito alla molteplicità degli esseri per­ (12) Per questa capacità dell’idea dell’essere di esprimere la totalità del reale, si veda ad es., tra i neoscolastici, VAN Steenberghen (Epistemologia, trad, it., Sei, Torino, 1950, p. 191): «L’idea dell’essere esprime adeguatamente (benché confusamente) tutto quanto esiste, la totalità della realtà, tutto ciò che non è puro nulla. Concepire un dato qualsiasi come reale, signi­ fica quindi conoscere implicitamente tutta la realtà, senza alcuna riserva o eccezione, perchè significa rendersi conto che questo dato prende posto nel­ l’ordine universale e che è legato a tutto ciò che esiste da una somiglianza reale; significa possedere confusamente, al di là dei limiti dell’esperienza at­ tuale, l’universo intero». (Per inciso, osserviamo l’insufficienza del concetto di esperienza che qui viene usato, in quanto per esso viene, contraddittoria­ mente, posto « al di là dell’esperienza attuale » ciò che è attualmente, anche se confusamente, «posseduto»). (13) Si veda, ad es., la seguente annotazione di Heidegger: «Sembra davvero che nella vita quotidiana noi rimaniamo sempre attaccati a questo o a quell’essente soltanto, perduti in questa o quella sfera dell’essente. Eppure, per quanto la vita quotidiana possa apparire frantumata, essa, benché oscura­ mente, conserva sempre Tessente in una unità della "totalità"» (Was ist Metaphysik?, Klostermann, Frankfurt a. M., 1955, p. 30).

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PARTE SECONDA - POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

cepiti. Se questo riferimento venisse spezzato l’idea dell’essere perderebbe ogni significato. Come non si può afferrare la plura­ lità degli oggetti senza riferirsi al loro orizzonte unitario, così non si può intendere tale orizzonte senza riferirsi agli oggetti che rien­ trano in esso. Ma, proprio per questo, esso non è una totalità che risulti semplicemente da una somma di parti: in virtù di questa correlazione esso appare oggetto di un apprendimento originario, di una esperienza. In maniera analoga si può arrivare alla esplicitazione di quella struttura fondamentale dell’esperienza che viene solitamente in­ dicata con i termini metafisici di « causa » « principio », « fonda­ mento », « ragion sufficiente ». Per l’empirismo moderno, che ha avuto il torto di impoverire l’autentico concetto di esperienza, privandolo di molte essenziali determinazioni, il significato di questi termini, verificato empiricamente, si risolverebbe in quello di una relazione temporale. Ma, se così fosse, come potrebbe sorgere la domanda intorno al « perchè », che nello stesso lin­ guaggio comune significa ben altra cosa che la semplice ricerca di un precedente cronologico? È chiaro che questa domanda implica che si sia già riconosciuta l’esistenza di un rapporto cau­ sale, anche se questo nella sua modalità specifica resta da de­ terminare. Che una causa, un principio, un fondamento si diano, ciò è originariamente, sebbene oscuramente, consaputo sul piano dell’esperienza, intesa nella sua integralità. E poiché nella sua ricerca del fondamento il nostro pensiero non si acquieta in nessun termine relativo, che richieda a sua volta una ulteriore fondazione, è chiaro ancora che nel suo stesso regresso esso è originariamente e perpetuamente sollecitato dall’idea di un Fon­ damento assoluto (14). (’14) Si veda a questo proposito quanto S. Vanni Rovighi scrive sulla natura della nostra conoscenza dell’assoluto. « Si è detto, e giustamente, che il problema della metafisica è il problema dell’assoluto; ma anche questa for­ mula va intesa a dovere. Il problema della metafisica non è il problema del­ l’esistenza dell’assoluto, ma quello della natura dell’assoluto, e sulla natura dell’assoluto quello che più importa sapere è se Esso sia pensiero o forza

CAP. I. - ESPERIENZA ATEMATICA E DISCORSO METAFISICO

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Anche questa idea deve essere adunque inclusa nel concetto di esperienza integrale, che è il solo concetto che mi sembra ca­ pace di giustificare il valore del discorso metafisico, senza che ci sia bisogno di ricorrere a elementi o categorie a priori che, cieca, valore o puro essere di fatto. Dico che il problema della metafisica non è quello dell’esistenza dell’assoluto, poiché l’esistenza di un assoluto non è un problema, ma una evidenza immediata. Se c’è il condizionato, c’è l’asso­ luto; se c’è il contingente, c’è il necessario; se c’è l’ente ab alio, c’è l’ente a se. Queste sono enunciazioni immediatamente evidenti; il problema è che cosa sia l’assoluto, il necessario, l’ente a se. È il mondo dell’esperienza o è trascendente l’esperienza? È bruto fatto o è valore? » (Heidegger, La Scuola, Brescia, 1945, p. 92). In questo passo adunque l’esistenza dell’assoluto è presentata come una evidenza immediata, cioè come qualcosa che non ha bisogno di dimostrazione e, in questo senso, è oggetto di esperienza. Non devono perciò trarre in in­ ganno certe espressioni (« se c’è il condizionato, c’è l’assoluto; se c’è il con­ tingente, c’è il necessario; se c’è l’ente ab alio, c’è l’ente a se » ) che sembre­ rebbero inferire l’assoluto a partire dal condizionato. Esse non sono infatti presentate dall’A. come vere e proprie dimostrazioni perchè, come tali, avreb­ bero il difetto di presupporre ciò che intendono dimostrare. Dire infatti, ad es., che, se c’è l’ente ab alio, c’è l’ente a se, è già aver presupposto in ogni caso che l’ente sia ab aliqua re, abbia cioè un fondamento, che non potrebbe essere tale se non fosse assoluto. Non si deve credere che l’esperienza ci dia prima il solo contingente, il solo condizionato e che poi si inferisca il neces­ sario e l’assoluto; al contrario, qualcosa è esperito come contingente e condi­ zionato solo in rapporto all’esigenza del necessario e dell’assoluto. Tuttavia quelle apparenti dimostrazioni hanno un grande significato: esse rivelano il fatto che condizionato ed assoluto si mediano reciprocamente nel contesto dell’esperienza integrale, mediazione feconda da cui prende le mosse la dimostrazione metafisica. Se infatti le predette espressioni si vogliono far valere come vere e proprie dimostrazioni, esse devono essere intese come dimostrazioni non dell’esistenza (che appunto non costituisce per ΓΑ. nep­ pure un problema), ma della trascendenza dell’assoluto. In questo modo, ad es. : (dato l’assoluto) se c’è il condizionato, c’è l’assoluto (come altro dal con­ dizionato). Resta chiarito così, ci sembra, in qual modo dell’esistenza dell’Assoluto non si dia dimostrazione, ma evidenza immediata (meglio forse originaria), cioè esperienza.

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PARTE SECONDA - POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

appunto perchè tali, appaiono, da una parte, gratuiti e, dall’altra, risultano eterogenei rispetto all’esperienza e quindi incapaci di un’autentica mediazione. L’apriorismo condivide con l’empiri­ smo un concetto impoverito di esperienza. Questa è ridotta ai soli dati sensoriali, particolari e soggettivi. L’esito scettico nei confronti di una scienza che pretenda di essere fornita dei ca­ ratteri di universalità e necessità, è evitato con l’introduzione di categorie o concetti puri che nella loro origine rimangono estranei alla esperienza. Tuttavia, se per esperienza in generale si intende quel grado di conoscenza che precede il discorso e fonda la mediazione, non si vede perchè non si debbano consi­ derare come parti integranti dell’esperienza quelle stesse strut­ ture fondamentali che precedono e condizionano i processi di­ scorsivi (* ). Si potrebbe, è vero, convenire di chiamare « esperienza » la sola sfera delle mutevoli percezioni sensoriali, con l’esclusione perciò delle categorie intellettuali; ma in questo caso bisogne­ rebbe anche rinunciare ad attribuire al termine « esperienza » il significato, che sempre gli è stato attribuito, di « conoscenza originaria », di « punto di partenza » rispetto alla conoscenza mediata. Se non si è disposti a questa rinuncia — che impor­ terebbe, tra l’altro, tutta una nuova sistemazione della termino­ logia filosofica — bisogna allora decidersi ad includere nel con­ cetto di esperienza quelle stesse categorie intellettive che, in­ cidendo sui dati sensibili, dànno inizio al processo di mediazione. Indicando col termine « esperienza » l’implesso originario che si articola nei due piani del particolare e dell’universale, del sen­ sibile e dell’intelligibile, si riconosce fin da principio quella sin­ tesi dinamica che è alla base del nostro sapere e senza la quale il processo di mediazione apparirebbe sempre qualcosa di arti­ ficioso. (*) Nella nota Pensiero mitico, metafisica e analisi dell’esperienza (vedi Appendice II, pp. 253-258) si è ulteriormente insistito su questo modo di determinare la struttura dell’esperienza attraverso la ricerca delle condizioni di possibilità del discorso.

CAP. I. - ESPERIENZA ATEMATICA E DISCORSO METAFISICO

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Questo più ampio concetto di esperienza si rivela così in grado di giustificare meglio il passaggio dall’esperienza al discorso, che non è più da concepirsi come il passaggio da uno stato di assoluta immediatezza ad uno stato di mediazione, ma come lo sviluppo di una mediazione originaria. Tale mediazione originaria dà luogo alla stessa problematicità del sapere. L’esperienza non risulta di puri e semplici dati che solo più tardi il pensiero pone in discus­ sione, ma risulta di dati che per il loro stesso impianto, per il di­ slivello secondo cui sono disposti, sono, almeno implicitamente, problematici. I dati dell’esperienza sono i termini di un grande problema. Il discorso metafisico è il processo attraverso il quale il problema, colto nella sua totalità, tende alla sua soluzione. 4. - Applicazioni semantiche. Si diceva all’inzio che il fondamento di una filosofia del lin­ guaggio deve essere costituito da una fenomenologia dell’espe­ rienza integrale. Ora, tale fenomenologia conduce appunto alla posizione del principio fondamentale della semantica·, il signifi­ cato del linguaggio è costituito dallo stesso contenuto dell’espe­ rienza integrale. Una prima importante applicazione di questo principio, agli effetti della nostra ricerca, ci sembra la seguente: la stessa corre­ lazione di esplicito ed implicito, di tematico e di atematico, che è caratteristica dell’esperienza integrale, si ritrova anche nel si­ gnificato dei termini. Il significato di una parola non è mai com­ pletamente definito e definibile: esso è costituito da un partico­ lare contenuto o aspetto dell’esperienza; ma, poiché ognuno di questi contenuti od aspetti ha, come s’è visto, delle relazioni con l’intera struttura dell’esperienza, ne consegue che tale significato, oltre ad un nucleo chiaro e sufficientemente definito, presenta un alone meno chiaro e meno definito che si allarga senza posa per quanto si estende la totalità stessa dell’esperienza. Il Russell ha espresso con una immagine particolarmente felice questa fondamentale situazione semantica.

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PARTE

seconda

- POSSIBILITÀ

e struttura

DEL DISCORSO METAFISICO

« Il senso di una parola — egli scrive — non è assolutamente definito, esso resta sempre più o meno vago. Il senso di una pa­ rola è una superficie come il disco di un bersaglio; può avere un centro, ma anche le sue parti periferiche fanno più o meno parte del senso, a un grado che diminuisce man mano che ci si allontana dal centro. Man mano che il linguaggio si fa più preciso, la sepa­ razione tra centro e periferia divien sempre più netta e il centro stesso si restringe sempre più, ma non si riduce ad un punto, e rimane sempre circondato da una regione dubbiosa, anche se minima » (15). Questa natura del significato delle parole costituisce un limite insuperabile nei confronti di ogni tentativo di costruire un lin­ guaggio tecnico perfetto, stabilendo per via di convenzione il si­ gnificato dei simboli in modo da eliminare ogni zona d’ombra, ogni possibilità di equivoco o di incertezza. Un tale tentativo por­ terebbe a svuotare a grado a grado i simboli del loro significato, giacché la zona d’ombra si riproporrebbe continuamente all’in­ terno di ogni riduzione. D’altro canto, se tale riduzione fosse, per ipotesi, realizzabile, verrebbe meno ogni possibilità di istituire dei rapporti tra i simboli, ridotti così a delle monadi isolate: sa­ rebbe tolta la possibilità stessa di un discorso che pretendesse es­ sere qualcosa di più di un insieme di sterili tautologie. Senza dubbio l’opera di chiarificazione del linguaggio va per­ seguita; essa si identifica anzi con l’opera stessa di « debabelizzazione » che è il fine principale che l’analisi del linguaggio si pro­ pone; ma tale opera dovrebbe essere, mi sembra, perseguita non attraverso un’arbitraria riduzione, ma attraverso una progressiva esplicitazione e specificazione dell’iniziale significato globale dei termini. Attraverso tale procedimento verrebbero ad un tempo chiariti il significato e le relazioni tra i simboli e la ricerca se­ mantica si svolgerebbe naturalmente nella ricerca sintattica. Forse quanto aggiungeremo in seguito servirà a chiarire que­ sto nostro punto di vista. Qui, per il momento, ci interessa insi­ (15) B. Russell, Analisi della mente, trad. it. di B. Della Volpe-Longo, Ed. Universitaria, Firenze, 1955, p. 176.

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stere sul tema dell’intervento della convenzione nell’istituto lin­ guistico, osservando che l’unico esercizio possibile di questa con­ venzione può consistere nella nostra decisione di fissare l’atten­ zione su una determinata zona semantica, indicandola con un sim­ bolo determinato; tuttavia la concreta ricchezza e struttura di questa zona semantica, le particolari relazioni che intercorrono in essa, sono sottratte al nostro arbitrio perchè sono sottratte in parte alla nostra stessa iniziale consapevolezza. In ciò appunto consiste l’autonomia del piano semantico rispetto al piano psico­ logico, l’autonomia cioè del significato nei confronti della nostra decisione di usare i simboli in una certa maniera (16).

5. - La classificazione empiristica delle proposizione Queste idee intorno al significato dei termini si rivelano, a mio avviso, particolarmente feconde nella soluzione del problema della natura delle proposizioni, che è il problema capitale di una filosofia del linguaggio e pregiudiziale per ciò che concerne la pos­ sibilità del discorso metafisico. (16) Scrive a questo proposito C. I. Lewis nel suo saggio An analysis of knowledge and valuation (The Open Court Publishing C., La Salle, Illinois, 1950, p. 97): «L’uso dei simboli linguistici è invero determinato per conven­ zione ed è modificabile a volontà. Così, quali classificazioni debbano essere fatte, e con quali criteri, e come queste classificazioni debbano essere rappre­ sentate, tutto ciò è oggetto di decisione. L’insistenza su questi fatti è oppor­ tuna. Nondimeno un simile convenzionalismo non verrebbe a porre l’accento al posto giusto. La decisione circa i significati che debbono essere accolti, o circa il modo di esprimere quelli presi in considerazione, non influisce affatto sulle relazioni che questi significati hanno o non hanno... Anche le regole per l’uso dei simboli linguistici, e per la trasformazione e la derivazione delle espressioni, possono in verità essere fatte a volontà. Ma i significati che i nostri simboli rappresentano non possono essere manipolati affatto. E le nostre operazioni sulle espressioni, e le regole di tali operazioni, saranno significative e valide solo se si conformeranno alle relazioni che vigono effet­ tivamente tra i significati ».

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parte seconda

- possibilità e struttura

del discorso metafisico

Inizieremo dall’esame della classificazione empiristica delle proposizioni e, per evitare di rimanere nel generico, seguiremo da vicino un autore come l’Ayer, che è rimasto costantemente fedele alla impostazione empiristica del problema del significato. Richiamandosi a Hume, l’Ayer divide tutte le proposizioni autentiche in due classi: quella delle proposizioni analitiche e quella delle proposizioni sintetiche. Le proposizioni analitiche sono a priori e quindi universali e necessarie, non confutabili da parte della esperienza. Ciò di­ pende dal fatto che esse non asseriscono nulla intorno al reale, non hanno un contenuto fattuale. Esse discendono dalla pura analisi delle definizioni dei simboli che compaiono nelle proposi­ zioni stesse. Queste definizioni sono il frutto di una nostra de­ cisione, cioè di una convenzione linguistica che avrebbe potuto anche essere diversa; ma, una volta presa la decisione, tali propo­ sizioni non possono più essere negate senza cadere in contraddi­ zione. Le proposizioni analitiche sono adunque delle pure tauto­ logie che non forniscono alcuna informazione su questioni di fatto, « poiché ci dicono soltanto ciò che si può dire sappiamo già » (17). Le proposizioni sintetiche sono invece empiriche, cioè la loro validità non è puramente formale, non dipende esclusivamente dalla definizione dei simboli in esse contenuti, ma è determinata dalla esperienza. Sono proposizioni fattuali, capaci cioè di darci delle informazioni nuove intorno alla realtà empirica, ma sono prive di universalità e necessità. L’Ayer perciò le definisce « ipo­ tesi » (1S). (17) A. J. Ayer, op. cit., cap. IV; la frase citata è a p. 80. (18) Op. cit., cap. V. In un primo tempo l’Ayer aveva affermato il carat­ tere ipotetico non solo delle proposizioni sintetiche esprimenti « leggi di na­ tura » o affermazioni intorno al passato, ma di tutte le proposizioni empi­ riche, indistintamente : « nessuna proposizione, che non sia una tautologia, può essere qualcosa di più che un’ipotesi probabile » (op. cit., p. 38). Questo perchè l’Autore riteneva che non si dessero proposizioni puramente ostensive, proposizioni cioè che si limitassero a registrare direttamente un’esperienza

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Le proposizioni analitiche, che sono quelle della logica e della matematica pura, e le proposizioni sintetiche, che sono proprie delle scienze sperimentali, costituiscono le sole proposi­ zioni autentiche: « Le tautologie e le ipotesi empiriche formano l’intera classe delle proposizioni significative » (19). Da questa classificazione delle proposizioni significative ri­ mangono escluse le proposizioni metafisiche, che risulterebbero pertanto delle pseudo-proposizioni sfornite di ogni significato. Infatti le proposizioni metafisiche pretenderebbero essere delle proposizioni universali e necessarie, valide non solo formalmente, ma anche fattualmente, cioè sul piano della effettiva realtà. Ma, così intese, le proposizioni metafisiche non potrebbero essere analitiche, perchè in questo caso sarebbero universali e necessa­ rie, ma puramente tautologiche, non conterrebbero cioè alcuna affermazione circa il mondo reale; nè potrebbero essere sintetiche, perchè tutte le proposizioni sintetiche sono empiriche, devono cioè essere verificabili sperimentalmente, nel qual caso le propo­ sizioni metafisiche sarebbero sfornite di universalità e di neces­ sità (20). immediata. Questa negazione dell’esistenza di proposizioni empiriche for­ nite di certezza avrebbe costituito indubbiamente una grave difficoltà per la metafisica, la quale, come vedremo più avanti, deve potersi riferire a dei fatti certi, se vuole evitare l’accusa di sterile ontologismo. Tuttavia successivamente l’Ayer ha modificato il suo primitivo punto di vista ed ha riconosciuto che « c’è una classe di proposizioni empiriche di cui è permesso dire che si possono verificare in maniera definitiva. È caratteri­ stico di queste proposizioni, che altrove ho chiamato " proposizioni-base ", di riferirsi soltanto al contenuto di una singola esperienza, e ciò che si può dire le verifichi in maniera definitiva è il darsi dell’esperienza alla quale esse unicamente si riferiscono » (op. cit., Introduzione, p. 10). Ora, in rapporto al nostro problema, questo riconoscimento ci sembra sufficiente. Sulla questione delle « proposizioni ostensive », si veda ancora Appen­ dice II, pp. 262-263. (19) Op. cit., p. 41. (20) Op. cit., cc. I, IV, V, VI.

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PARTE SECONDA - POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

Recentemente G. J. Warnock ha così riassunta e puntualiz­ zata la critica neopositivistica alle proposizioni metafisiche. « Qualcuno potrebbe dire che esse sono delle verità a priori, ne­ cessarie, fondate puramente sul ragionamento. Ma questo, so­ stiene il positivista, è dire che esse sono vere in virtù delle re­ gole generali dell’uso del linguaggio; che la loro necessità con­ siste nel fatto che negarle sarebbe infrangere quelle leggi, con­ traddirsi. Ma ciò a sua volta equivale a dire che la loro necessità si fonda in definitiva su di una tautologia; e, se è così, in un certo senso esse non dicono nulla, la loro verità è puramente formale ed astratta. Ma se esse non sono di questo tipo, se sono fattuali (fact-stating) e non puramente formali, allora è necessaria una qualche osservazione per determinare se effettivamente le cose stanno come esse dicono. Ma l’osservazione può essere sol­ tanto osservazione empirica; così che l’intera ricerca sarebbe im­ mediatamente sottratta all’indagine del filosofo e sottoposta alla prova di una indagine propriamente sperimentale. « Naturalmente i positivisti ritenevano giustamente che nè l’una nè l’altra di queste alternative potesse essere accettata dal metafisico. Questi non sarebbe evidentemente disposto ad am­ mettere che le sue dottrine dovessero essere sottoposte a prove sperimentali, quasi fossero una forma di contributo alla scienza naturale; nè vorrebbe ammettere che esse non enunciassero nes­ sun fatto assolutamente, che la loro validità fosse puramente formale e dipendesse in definitiva soltanto dalle regole della lo­ gica e del linguaggio. Tuttavia, sostiene il positivista, le sue dot­ trine non possono essere niente altro che questo — a meno che non si abbandonasse la pretesa che esse fossero delle verità e venissero presentate semplicemente come un genere di poesia o di suggestiva retorica » (21). (21) G. J. Warnock, in The Nature of Metaphysics, cit., pp. 125-126. Per altri, invece, le proposizioni metafisiche sono proposte di innovazioni linguistiche, determinate da motivi inconsci. Cfr. M. LAZEROWiTZ, The Structure of Metaphysics, Routledge and Kegan, London, 1955; ID., Studies in Metaphilosophy, ivi, 1964.

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In conclusione, il vizio fondamentale del procedimento me­ tafisico sarebbe, come ha sostenuto il Ryle, il vizio stesso dell’on­ tologismo, cioè l’indebito passaggio dal piano puramente logico al piano ontologico. « Ciò che comunemente ci si attende da un metafisico è che egli asserisca l’esistenza o il prodursi di cose inosservabili e di tali asserzioni dia delle ragioni puramente filo­ sofiche o concettuali. Se egli non è un ontologista, non è un me­ tafisico (If he is not an ontologist he is not a metaphysician) » (22). Ora, continua il Ryle, « Hume e Kant mostrarono la fallacia di tutti gli argomenti che da considerazioni puramente concettuali pervengono a conclusioni positive in materia di esistenza ... La argomentazione ontologistica è finita (Ontologizing is out) » (23). Di fronte a questi attacchi alla metafisica, dedotti dalla clas­ sificazione empiristica di tutte le proposizioni autentiche nelle due classi delle proposizioni analitiche a priori e sintetiche a poste­ riori, il primo impulso del metafisico potrebbe essere quello di tentar di introdurre una nuova classe di proposizioni significative. Un simile tentativo fu compiuto da Kant, nell’intento, non certo di salvare la metafisica tradizionale, ma di giustificare l’univer­ salità e la fecondità della matematica e della fisica. Tuttavia, se bisogna riconoscere l’importanza del problema avvertito da Kant, bisogna ugualmente riconoscere il carattere equivoco della sua soluzione. Egli infatti con il suo tentativo finiva con il porre sullo stesso piano delle proposizioni o giudizi un momento della teoreticità che in realtà li precede e condiziona. Il cosiddetto giu­ dizio sintetico a priori, infatti, corrisponde in qualche modo a ciò che l’empirismo intende per definizione. Entrambe le opera­ zioni, sintesi a priori e definizione, trovano la loro giustificazione ultima, come cercheremo appunto di mostrare, nella struttura dell’esperienza integrale; ed è precisamente il richiamo a questa struttura che elimina l’equivoco kantiano della esistenza di un terzo tipo di proposizioni. (22) The Nature of Metaphysict, cit., Final Discussion, p. 144. (23J Op. cit., p. 149.

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Riteniamo perciò di poter accettare la classificazione empiri­ stica delle proposizioni nei due tipi delle proposizioni analitiche a priori e sintetiche a posteriori. Naturalmente questa accetta­ zione sarà accompagnata da un approfondimento della struttura di tali proposizioni. La rivendicazione della possibilità della me­ tafisica consisterà allora nel mostrare come la metafisica si av­ valga di tutti e due i tipi di proposizioni. In un certo senso è esatto dire che non ci sono proposizioni metafisiche autentiche come un tipo nuovo di proposizioni oltre le analitiche a priori e le sintetiche a posteriori; ci sono invece autentiche proposizioni metafisiche che, quanto alla struttura logica, rientrano nell’uno o nell’altro dei due tipi indicati.

6. - Critica alla classificazione empiristica delle pro­ posizioni. tuale.

Proposizioni

analitiche con valore fat­

Procedendo adunque all’approfondimento della dottrina em­ piristica delle proposizioni, ci soffermeremo in particolare sulla natura delle proposizioni analitiche. a) Osserviamo, in primo luogo, che il carattere tautologico delle proposizioni analitiche è solo relativo. Queste proposizioni infatti rivelano delle inattese implicazioni nel significato dei sim­ boli che le costituiscono. Seguiamo ancora una volta l’Ayer in questa nostra indagine. « Ciò che a prima vista appare misterioso — egli scrive — è che queste tautologie siano talvolta così sorprendenti, che ci sia nella matematica e nella logica la possibilità della invenzione e della scoperta. Come dice il Poincaré: "Se tutti gli asserti della matematica possono dedursi l’uno dall’altro mediante la logica formale, la matematica non può equivalere ad altro che ad una immensa tautologia. L’inferenza logica non può insegnarci nulla di essenzialmente nuovo, e, se ogni cosa deve procedere dal principio di identità, ogni cosa deve essere riducibile ad esso. Ma

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possiamo noi realmente concedere che questi teoremi che riem­ piono tanti libri non servano ad altro scopo che a dire con una circonlocuzione 'A=A'?" (La Science et l’Hypothèse, parte I, cap. I) » O. « La vera spiegazione — continua l’Ayer — è molto sem­ plice. Il potere che la logica e la matematica hanno di sorpren­ derci dipende, come la loro utilità, dai limiti della nostra ragione. Un essere il cui intelletto fosse infinitamente potente non avrebbe alcun interesse per la logica e la matematica (cfr. Hans Hahn, Logik, Mathematik. und ISaturerkennen, "Einheitswissenschaft", Heft II, p. 18: "Ein allwissendes Wesen braucht keine Logik und keine Mathematik"). Infatti egli sarebbe capace di vedere con un colpo d’occhio tutto ciò che le sue definizioni implicano, e, di conseguenza, dall’inferenza logica non apprenderebbe mai nulla di cui non fosse già pienamente conscio. Ma i nostri intel­ letti non sono di questa specie. Con un colpo d’occhio siamo ca­ paci di scoprire solo una piccola parte delle conseguenze delle nostre definizioni » (2o). In altri termini diremo che nelle proposizioni analitiche che risultano feconde l’analisi non fa che rendere esplicita, chiara, quella parte del significato dei simboli che precedentemente ri­ maneva implicita, oscura (2β). Ritroviamo così nel significato dei (24) A. J. Ayer, op. cit., p. 85. (25) Op. cit., pp. 85-86. (2e) In questa esplicitazione del significato dei simboli gioca un ruolo assai importante il confronto tra simboli diversi, per cui la deduzione im­ plica non una pura relazione di subordinazione (come il passo di Poincaré sopra citato lascerebbe supporre), ma anche una relazione di coordinazione tra i diversi simboli, cioè tra i diversi contenuti eidetici. « Che la somma degli angoli di un triangolo sia uguale ad un angolo piatto, non si deduce dalla definizione di triangolo, ma dal confronto degli angoli del triangolo con un sistema di angoli risultanti dalla « introduzione » di una parallela ad uno dei lati passanti per il vertice dell’angolo opposto ad esso. Si tratta quindi proprio di una ulteriore « esperienza » e dell’analisi di altre nozioni oltre a quelle inerenti alla definizione di triangolo. La dimo-

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parte seconda

-

possibilità e struttura del discorso metafisico

simboli quella correlazione di esplicito ed implicito, di tematico e di atematico, su cui precedentemente ci siamo intrattenuti. h) Ed è appunto l’esistenza di questa correlazione che ci permette di procedere ad una seconda osservazione: il carattere convenzionale delle proposizioni analitiche, conseguente al fatto di essere pure analisi di definizioni convenzionalmente poste, è solo relativo. Infatti, se il nostro intelletto finito non riesce ad esaurire in un solo istante il significato dei suoi stessi simboli, ciò mostra, come già si diceva, che esiste una certa autonomia del piano semantico rispetto a quello psicologico, una autonomia del significato rispetto alla nostra decisione di usare i simboli in una certa maniera. Il rapporto tra soggetto e predicato nelle pro­ posizioni analitiche feconde non è posto convenzionalmente, ma è scoperto attraverso l’analisi di una zona semantica liberamente scelta e liberamente denominata (ed è qui che ha luogo l’esercizio dell’arbitrio e della convenzione), ma non artificiosamente co­ struita. Se ciò fosse, vale a dire se nel significato del simbolo che funge da soggetto venisse riposto intenzionalmente il suo rap­ porto con il simbolo che funge da predicato, non avremmo una proposizione analitica feconda, ma solo una sterile tautologia, priva di qualunque risonanza sul piano fattuale. Al contrario, l’interesse che le proposizioni analitiche rive­ stono nei confronti della stessa realtà fattuale è dimostrato dalla loro applicabilità ai fatti reali. Come l’Ayer stesso riconosce a proposito delle proposizioni matematiche, « se qualcosa può es-

strazione ha proprio bisogno del V postulato di Euclide affermante ^unicità della parallela per un punto a una retta data... Il teorema... non è quindi puramente dedotto dalla intuizione del trian­ golo — relazione di sub ordinazione —, ma è indotto dal confronto dei suoi angoli con altri « esterni » ad esso, e generati dalla introduzione dell’unica parallela per un vertice, che si richiama al V postulato di Euclide ·— rela­ zione di coordinazione » (Bruno Busulini, Relazione ad intra e relazione ad extra nella matematica, Annali dell’università di Ferrara, Sez. VII, Scienze matematiche, voi. IV, 1956, pp. 100-101).

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sere ricondotta sotto le definizioni, soddisferà anche ai teo­ remi » (27). c) Siamo adunque alla nostra terza osservazione: il carat­ tere non fattuale delle proposizioni analitiche è solo relativo. Da questo punto di vista si può introdurre una distinzione tra le proposizioni analitiche: da una parte, proposizioni che rappre­ sentano delle analisi di pure definizioni; dall’altra, proposizioni che costituiscono delle analisi di fatti reali che sottostanno alle definizioni. « In un triangolo (in ambiente euclideo) la somma degli angoli interni è uguale a due retti »: è un esempio del primo tipo di proposizione analitica; « In questo triangolo la somma degli angoli interni è uguale a due retti »: è un esempio di proposizione analitica del secondo tipo. Questo secondo tipo rappresenta la conclusione di un sillo­ gismo di cui la premessa maggiore è costituita da una proposi­ zione analitica del primo tipo e la premessa minore da una pro­ posizione sintetica a posteriori, nel modo seguente: — « In un triangolo la somma degli angoli interni è uguale a due retti ». — « Questo è un triangolo ». — « In questo triangolo la somma degli angoli interni è uguale a due retti ». Le proposizioni analitiche del primo tipo non ci dicono nulla intorno alla realtà effettiva, esprimono delle pure verità di ra­ gione, delle possibilità astratte. Se io so che in un triangolo la somma degli angoli interni è uguale a due retti, non so tuttavia, in forza di questa proposizione, se esista di fatto un qualche triangolo e se questa proprietà, quindi, trovi effettiva attuazione. Le proposizioni analitiche del secondo tipo contengono invece delle asserzioni valide sul piano della effettiva realtà: so che (27) Op. cit., p. 83. L’idea che quanto l’Ayer riconosce alle proposizioni matematiche possa valere anche per le proposizioni metafisiche è avanzata da G. M. Crespi nel saggio Metafisica ed analisi del linguaggio (in Filosofia e linguaggio, «Archivio di Filosofia», Liviana, Padova, 1950, pp. 38-90).

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questa figura è triangolare e che in essa trova attuazione quella determinata proprietà. Si impone quindi l’opportunità di un chiarimento del signifi­ cato del termine « fattuale ». Quando l’empirismo sostiene che solo le proposizioni sintetiche hanno un valore fattuale, dice bene se intende parlare di « fatti nuovi » non designati, neppure im­ plicitamente, dai semplici simboli che quelle proposizioni conten­ gono. Questo uso del termine « fattuale » può tuttavia riuscire equivoco perchè può ingenerare la convinzione che tutte le pro­ posizioni analitiche esprimano delle mere possibilità, che nessuna possa valere sul piano della realtà effettiva. Ora, se questo è vero per le proposizioni analitiche del primo tipo, non è altrettanto vero per quelle del secondo tipo. Queste ultime hanno ad un tempo un valore necessario ed una portata fattuale. È chiaro che questa portata fattuale è limitata a quei fatti che sono già stati sussunti sotto le definizioni e non si estende a « fatti nuovi »; ma in questo senso la differenza tra il campo di fattualità cui si riferiscono le proposizioni analitiche del secondo tipo e l’ambito di fattualità proprio delle proposizioni sintetiche è già scontata dalla indicazione, appunto, della natura analitica delle prime proposizioni e della natura sintetica delle seconde.

7. - Autenticità delle proposizioni metafisiche .

Il riconoscimento dell’esistenza di proposizioni analitiche ne­ cessarie e fattuali, ad un tempo, è di grande importanza per le sorti della metafisica. Come abbiamo visto, l’accusa che in so­ stanza viene rivolta alla metafisica, in base ad una non appro­ fondita distinzione tra proposizioni analitiche e sintetiche, è di essere una argomentazione ontologistica che presume di poter passare dal piano delle definizioni astratte al piano della effettiva realtà. Ora, se la metafisica fosse costituita tutta da proposizioni analitiche del primo tipo, l’accusa sarebbe indubbiamente valida. Ma l’accusa di ontologismo viene a cadere se si tien conto che

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molte delle proposizioni analitiche usate dalla metafisica sono del secondo tipo. Queste hanno una portata fattuale perchè rap­ presentano, come s’è detto, la conclusione di un confronto tra proposizioni analitiche del primo tipo e proposizioni sintetiche a posteriori. Negare che da certe premesse della metafisica si possa dedurre qualcosa sul piano della effettiva realtà, equivar­ rebbe a negare, nel caso della matematica, l’applicazione delle definizioni ai fatti reali. Ed ecco allora uno schema di discorso metafisico, parallelo all’esempio, sopra riportato, di dimostrazione matematica ap­ plicata: — « Il divenire implica l’immobile ». — « Qualcosa effettivamente diviene ». — « Esiste effettivamente l’immobile ». Non intendiamo procedere qui ad un esame analitico di que­ sta dimostrazione (28). Tuttavia lo schema proposto è sufficiente a mostrare nel modo più chiaro che non esiste affatto la vana pretesa di ricavare l’esistenza effettiva dell’immobile dalla pura nozione del divenire, ma piuttosto dalla effettiva esistenza di qualcosa che diviene, commisurata a quella nozione. Poiché tut­ tavia la maggior parte del discorso metafisico è per lo più dedi­ cata alla fondazione della premessa maggiore (analitica del primo tipo), l’attenzione del critico è portata a concentrarsi tutta su questa fino a scambiare la struttura logica di tale premessa con l’intera struttura del discorso metafisico. Donde l’accusa di on­ tologismo e di inanità rivolta contro questo discorso. Il ricono­ scimento dell’esistenza di proposizioni analitiche del secondo tipo dovrebbe contribuire a liberare la metafisica da questa accusa dovuta ad una inadeguata classificazione dei tipi di proposizioni autentiche. Del resto, se non fosse possibile ricavare dalle proposizioni (28) La dimostrazione è stata compiuta nel cap. II della prima parte (§8, pp. 108-111). L’analisi di questo procedimento dimostrativo sarà completata nel cap. II di questa seconda parte, § 4, pp. 180-185.

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analitiche alcuna conclusione di carattere fattuale, la stessa teoria empiristica del linguaggio verrebbe invalidata in linea di prin­ cipio. Infatti, in quale delle due classi di proposizioni l’empirismo potrebbe includere le proprie enunciazioni sul linguaggio? Se queste fossero delle proposizioni sintetiche di natura empirica avrebbero sì un valore fattuale, sarebbero cioè in grado di dirci qualcosa sulla effettiva condizione del nostro linguaggio, ma sa­ rebbero delle semplici ipotesi prive di ogni necessità e di ogni certezza, incapaci pertanto di costituire la base per una definitiva ed assoluta eliminazione della metafisica. Non resta allora che esse siano delle proposizioni analitiche. Ma, in questo caso, se si tien fermo il principio che le proposizioni analitiche non hanno alcun contenuto fattuale, queste proposizioni non sarebbero in grado di dirci nulla sulla reale natura del nostro linguaggio, ma sarebbero delle semplici analisi di definizioni convenzionalmente fissate. Anche in questo caso quindi la condanna della metafisica non avrebbe alcun valore assoluto, perchè sarebbe la conse­ guenza della scelta di alcune definizioni che avrebbero potuto anche essere diverse; in particolare, sarebbe la conseguenza della definizione di « significato ». Tornando ancora una volta, nella nostra esemplificazione, all’Ayer, ricorderemo un significativo passo della Introduzione alla seconda edizione di Language, Truth and Logic, in cui l’Autore mostra di avvertire chiaramente questa difficoltà senza tut­ tavia pervenire ad un mutamento radicale di prospettiva, quale sarebbe, a nostro avviso, necessario. « Mentre desidero — egli scrive — che il principio di veri­ ficazione sia considerato non un’ipotesi empirica, ma una defi­ nizione, non lo ritengo interamente arbitrario. Certamente qual­ cuno potrebbe adottare un differente criterio di significato e pro­ porre così un’altra definizione che potrebbe corrispondere esat­ tamente ad uno dei modi in cui la parola « significato » è comu­ nemente usata. Se poi un enunciato soddisfacesse a tale criterio, ci sarebbe senza dubbio un uso proprio della parola « intendere »

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secondo il quale questo enunciato potrebbe essere inteso. Non­ dimeno io penso che, se non soddisfacesse al principio di verifi­ cazione, esso non potrebbe essere inteso nel senso in cui sono comunemente intese le ipotesi scientifiche o gli enunciati del senso comune. Confesso tuttavia che non mi sembra per il mo­ mento verosimile che qualche metafisico avanzi una pretesa di questo genere; e sebbene io sia ancora disposto a difendere l’uso del criterio di verificabilità come principio metodologico, com­ prendo che per l’effettiva eliminazione della metafisica c’è biso­ gno del sostegno di dettagliate analisi di particolari argomenta­ zioni metafisiche » (29). Risulta chiaro dal passo riportato che alla base della classifi­ cazione delle proposizioni significative, proposta dall’Ayer, e della conseguente condanna delle proposizioni metafisiche, c’è la arbitraria assunzione, quale definizione generale di « significato », del criterio di significato proprio delle ipotesi scientifiche e delle affermazioni del senso comune. In tal modo la condanna pregiu­ diziale della possibilità della metafisica appare effettivamente sfornita di ogni fondamento fattuale, come è dimostrato dal rico­ noscimento dell’Ayer della necessità di procedere all’esame delle singole argomentazioni metafisiche. In attesa dei risultati di que­ sto esame, la convinzione dell’Ayer che la metafisica debba essere eliminata appare completamente gratuita.

8. - Le proposizioni e i simboli metafisici nel conte­ sto dell’esperienza integrale.

La dimostrazione dell’esistenza di proposizioni analitiche di portata fattuale, cui riteniamo di essere pervenuti, non rappre­ senterebbe tuttavia ancora il definitivo superamento di ogni pre­ giudiziale empiristica contro la possibilità della metafisica. Se infatti la metafisica abbisogna di proposizioni analitiche fattuali, (29) Of. cit., p. 16.

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non tutte le proposizioni di questo tipo sono per ciò stesso delle proposizioni metafisiche. In questo caso anche le proposizioni della matematica applicata ai fatti (« in questo triangolo la somma degli angoli interni è uguale a due retti ») dovrebbero essere me­ tafisiche. Al contrario devono essere considerate metafisiche solo quelle proposizioni analitiche (formali o fattuali che siano) che sono caratterizzate dalla comparsa di simboli schiettamente me­ tafisici come quelli di « Totalità », « Assoluto », « Infinito », « Dio », e via dicendo; di simboli cioè che, secondo l’empirismo, non avrebbero alcun fondamento nell’esperienza e sareb­ bero quindi insignificanti e tali da rendere insignificanti le pro­ posizioni in cui sono accolti. « È questo il caso — osserva l’Ayer — della parola « dio », quando la si intende usare per indicare un oggetto trascendente. La sola esistenza del nome è sufficiente ad alimentare l’illusione che esista la corrispondente entità reale o, in ogni caso, possibile. È solo quando ci met­ tiamo a cercare quali siano gli attributi di Dio che scopriamo che « Dio », in quest’uso, non è un nome autentico » (30). Di conseguenza « dire " Dio esiste " è formulare una espressione metafisica che non può essere nè vera nè falsa. E per lo stesso motivo nessun enunciato che si proponga di descrivere la natura di un dio trascendente può possedere un qualche significato letterale » (31). Infatti, argomenta l’empirista, se il fondamento del signi­ ficato è l’esperienza, a quale particolare contenuto empirico po­ trebbero fare riferimento i termini metafisici di « Totalità », « Infinito », « Assoluto », dal momento che ogni dato dell’espe­ rienza è particolare, finito, relativo? Come pensare ad una realtà incondizionata ed immobile, quando tutto ciò che ci circonda appare condizionato e mutevole? È chiaro che l’empirista non può dal suo punto di vista dare una risposta positiva a queste

(30) Op. cit., p. 116. (31) Op. cit., p. 115.

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domande e l’accusa di insignificanza nei confronti dei termini e delle proposizioni metafisiche diventa allora inevitabile. Ma è a questo punto che la precedente analisi della strut­ tura dell’esperienza integrale può venirci in aiuto. Essa ci fa avvertiti che ciò che nell’esperienza non ci è dato in forma tematica come contenuto mutevole e particolare, può esserci dato in forma atematica come sfondo costante e universale. Da questo punto di vista la Totalità, l’infinito, l’Assoluto ci sono dati nella esperienza, al suo estremo immutabile oriz­ zonte, come termini necessari di riferimento senza i quali non ci sarebbe dato di cogliere le singole cose come particolari, con­ dizionate e relative. Prima della sua contrapposizione all’incon­ dizionato io posso percepire questo o quell’evento in certe sue caratteristiche particolari, ma non lo posso affermare comples­ sivamente nella sua qualità di condizionato. Proprio perchè espe­ rimento il particolare, il condizionato e il relativo, devo rico­ noscere di aver anche presenti, e quindi in certo modo speri­ mentare, i termini antitetici e complementari (32). Il significato dei simboli metafisici è dunque un significato dialettico, un significato cioè che non sussiste in maniera au­ tonoma, ma come termine di confronto e di stacco, in rapporto al contenuto molteplice dell’esperienza. Ciò può in qualche modo spiegare come possa essere nata l’accusa di insignificanza nei confronti dei termini specificamente metafisici. Se io cerco di assumere questi termini al di fuori del loro rapporto con la restante esperienza, smarrisco inevitabilmente il loro significato, (32) Sulla particolare forma di intenzionalità di cui è fornita l’idea dell’Assoluto, si veda G. Bontadini, La funzione metodologica dell’Unità della Esperienza, in Filosofi italiani contemporanei, a cura di M. F. Sciacca, II ediz., Marzorati, Milano, 1946, pp. 171-172. Ricordiamo inoltre come la tesi di una originaria correlazione tra l’espe­ rienza del relativo e quella dell’Assoluto costituisca il motivo fondamentale della speculazione di A. Faggiotto. Si vedano in particolare L’esperienza del­ l’Assoluto ed altri saggi, Cedam, Padova, 1939, e Catholica instauratio magna, Antoniana, Padova, 1944.

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parte

SECONDA - POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

così come smarrirei il significato di « circonferenza » se pre­ tendessi concepire questo termine indipendentemente dal suo riferimento a quello di « centro ». In realtà i simboli metafi­ sici, riferiti al contesto dell’esperienza integrale, sono così poco insignificanti che senza di essi molti degli stessi termini del lin­ guaggio scientifico e comune (« particolare », « condizionato », «relativo») verrebbero privati del loro significato) ). * Ci sia permesso a questo proposito richiamare un passo dell’Ayer, già citato, in cui l’autore, per giustificare il carattere di fecondità delle proposizioni della logica e della matematica, fa presenti quelli che sono i limiti del nostro intelletto, la cui natura egli cerca di illustrare mediante un confronto con un possibile intelletto « infinitamente potente » (« infinitely power ful »). Questo confronto ci sembra una efficace esemplificazione della necessaria complementarità tra la nozione di « finito » e quella di « infinito »; esemplificazione particolarmente interes­ sante perchè avanzata da un autore per il quale l’espressione « intelletto infinitamente potente » dovrebbe far parte di quelle espressioni metafisiche che sarebbero prive di qualunque fonda­ mento empirico e quindi sfornite di significato. Ora, se veramente l’espressione in questione mancasse di senso, non si comprende di quale utilità essa sarebbe ai fini di illustrare la nozione di intelletto finito. Se invece l’espressione possiede una efficacia chiarificatrice, come coi fatti l’Ayer mo­ stra di riconoscere, allora essa deve pur avere un qualche si­ gnificato. Vero è che la nozione di intelletto infinito non sopraggiunge qui estrinsecamente per rafforzare con il suo contrasto una no­ zione di intelletto finito già fornita per conto proprio di signi­ ficato. Al contrario fin dal primo momento in cui io concepisco (*) Una ulteriore delucidazione della natura dei simboli metafisici è svolta, a proposito del concetto di « eternità », nella nota L’originaria correlazione tra il concetto del tempo e il concetto dell’eterno, in Appendice lì, pp. 273279.

CAP. I. - ESPERIENZA ATEMATICA E DISCORSO METAFISICO

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qualcosa di finito penso ad un tempo a qualcosa di infinito. Se la nozione di infinito sembra presentarsi solo più tardi, è per­ chè, pur essendo sempre atematicamente presente, soltanto in qualche particolare momento essa si manifesta in forma tematica. Questo è quanto ci è sembrato di dover aggiungere per com­ pletare la nostra difesa delle proposizioni metafisiche contro l’ac­ cusa pregiudiziale di insignificanza. La quale accusa poi ha forse la sua radice ultima in quella stessa struttura dialettica della nostra esperienza che abbiamo cercato in questo capitolo di ana­ lizzare. Proprio per chiarire la natura del discorso significativo era necessario tener presente come termine di stacco l’ipotesi di un discorso privo di significato, giacché, ci si perdoni il bi­ sticcio, il significato di « significato » è antitetico e complemen­ tare al significato di « insignificanza ». La tendenza empiristica a fondare il significato delle espres­ sioni su un particolare genere di contenuti empirici ha portato poi alla identificazione del discorso privo di significato con un tipo di discorso storicamente determinato, il discorso metafisico. Non intendiamo escludere certamente le altre molteplici cause che possono aver condotto alla condanna del discorso metafisico. Abbiamo accennato a questa perchè essa ci richiama, ancora una volta, non a particolari aspetti contingenti, ma a quella generale struttura dell’esperienza umana che è necessario tener presente se si vuole comprendere ed approfondire la na­ tura del discorso metafisico.

Capitolo II. FONDAMENTO EIDETICO E VALORE « FATTUALE » DEL DISCORSO METAFISICO

1. - Giudizio sintetico a priori e definizione.

Nel capitolo precedente abbiamo accettata, con alcune pre­ cisazioni e integrazioni, la distinzione empiristica di tutte le proposizioni in analitiche a priori e sintetiche a posteriori, rifiu­ tando esplicitamente l’esistenza di proposizioni sintetiche a priori. La ragione di questo rifiuto era costituita dal convincimento che la vera funzione del presunto giudizio sintetico a priori potesse ridursi a quella che l’empirismo attribuiva alla defini­ zione, intesa come regola o convenzione linguistica f1). Su que­ O II concetto di definizione come convenzione linguistica si ritrova in molti dei principali esponenti della filosofia del linguaggio (Wittgenstein, Carnap, Ayer, ecc.) e corrisponde sostanzialmente a ciò che nella logica clas­ sica e moderna si intende per « definizione nominale ». È appunto in questo senso che anche noi ne parliamo. Per un approfondimento del concetto di definizione nella logica classica e, in particolare, in quella aristotelica, si vedano i seguenti lavori: G. Vailati, La teorìa aristotelica della definizione, in Scritti, Edit. Barth-Succ. Seeber, Leipzig-Firenze, 1911, pp. 485-496; M. D. Roland-Gosselin, Les méthodes de la définition d’après Aristote, « Revue des Sciences philosophiques et théologiques», 1912, fase. 2, pp. 236-252; fase. 4, pp. 661-675; A. Usowicz, De Aristotelis circa definitionem doctrina, commentatorum sententiis illustrata. Collectanea Theologica (Lwów), 1938, pp. 273-317; Id., De partitione defi-

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parte seconda

- possibilità e struttura

del discorso metafisico

sto punto riteniamo opportuno svolgere alcune ulteriori con­ siderazioni. Cominceremo con l’illustrare la natura di quell’atto teore­ tico che passa sotto il nome di definizione. Tanto le proposizioni analitiche a priori, quanto le sinte­ tiche a posteriori, presuppongono la significanza dei termini che in esse vengono impiegati. Ora, poiché nessun termine è signi­ ficante per natura propria, ma solo per convenzione (23 ), è neces­ sario appunto che tale convenzione venga stabilita. La defini­ zione altro non è che questa stessa convenzione, cioè l’atto me­ diante il quale viene stabilita una connessione tra un segno (sim­ bolo, nome') e un significato (contenuto eidetico o concettuale). Secondo il punto di vista da cui la si giudica, la definizione può essere considerata come Γoriginaria attribuzione di un si­ gnificato ad un nome, oppure, reciprocamente, come la deno­ minazione di un determinato contenuto eidetico o concettuale. È chiaro che questo secondo aspetto della definizione è preva­ lente sul primo, essendo il segno in funzione del significato e non viceversa. Se tutti i termini devono essere oggetto di definizione, non tutti però lo sono allo stesso modo. La definizione può essere nitionis apucl Aristotelem, « Divus Thomas» (Piacenza), 1939, pp. 114-119; J. M. Le Blond, La dépnùion chez Aristote, « Gregorianum », 1939, fase. 3, pp. 351-380. Per una moderna discussione sulla definizione di definizione, si veda R. Robinson, Defmition, Clarendon Press, Oxford, 1954, c. I: « Disagreements about definition», pp. 1-11. Per la classificazione dei vari tipi di definizione si veda ancora R. Robinson, op. cit., e C. I. Lewis, An Analysis of knowledge and valuation, Open Court Pub. Co., La Salle, Illinois, 1950, pp. 96-130. Sulla definizione si veda ancora M. Black, Problemi of analysis, Routledge & Kegan, London, 1954, pp. 24-25. (2) Aristotele, De inlerpretatione. 16 a 20-30 : « Nome è voce signi­ ficante per convenzione... Se detto per convenzione nel senso che nessun nome è tale per natura, ma quando sia divenuto simbolo » (trad. it. di E. Riondato, Ed. Antenore, Padova, 1962, pp. 20-21).

CAP. Π. - FONDAMENTO EIDETICO E VALORE « FATTUALE » DEL DISCORSO METAFISICO

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esplicita, come avviene spesso nei linguaggi tecnici, quando essa è operata ricorrendo espressamente ad una certa serie di sim­ boli il cui significato sia già noto; può invece essere implicita, come avviene per lo più nel linguaggio comune, quando l’attri­ buzione del significato ad un simbolo risulta indirettamente dal concreto comportamento di chi parla (ad es. dai suoi atti esten­ sivi) o dal complesso delle relazioni in cui tale simbolo entra con gli altri nel contesto integrale di un discorso. Poiché la definizione esplicita di un simbolo viene operata ricorrendo ad altri simboli, che devono essere forniti già di si­ gnificato, e questi, alla lor volta, possono essere stati oggetto di definizione esplicita solo in riferimento ad altri simboli an cora, non essendo possibile un regresso all’infinito, è evidente che non tutti i simboli possono essere oggetto di definizione esplicita e che, anche quelli che lo sono, lo sono soltanto rela­ tivamente, in quanto il loro significato include ad un certo punto il significato di termini che solo implicitamente risultano definiti. Ne consegue che l’esplicitezza non è un carattere essenziale della definizione, anche se il processo di esplicazione può rive­ stire una grande importanza ai fini della chiarificazione di un linguaggio. L’esplicazione viene operata mediante una propo­ sizione con la quale si enuncia l’originaria definizione, ma questa, in quanto tale, non è una proposizione. Poiché, infatti, la pro­ posizione presuppone la significanza dei termini che in essa com­ paiono, e questa significanza poggia sulla definizione, se la de­ finizione fosse a sua volta una proposizione si avrebbe, da capo, un regresso indefinito che renderebbe impossibile qualunque di­ scorso significante. Inoltre, la proposizione è una espressione suscettibile di essere vera o falsa(3). Ora, in quanto semplice (3) Questa definizione di proposizione risale ad Aristotele: Proposizione ( άπόφανσις ) è quel discorso ( λόγος ) « cui appartiene l’esprimere il vero o il falso » (De interpretatione. 17 a 2-3). In base a questa definizione, Aristotele distingue la proposizione da altre forme di discorso, come la preghiera, che, pur non mancando di un loro significato, non sono nè vere, nè false. Si veda a questo proposito anche Tommaso, In Peri Hermeneias, liber I, lectio VII.

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PARTE SECONDA - POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

convenzione, una definizione non può in nessun caso essere vera o falsa, ma, se mai, utile od inutile, opportuna od inoppor­ tuna. La sua funzione, infatti, non è di pronunciarsi sulla corri­ spondenza o meno tra un eidos e una situazione reale, oppure sulla convenienza o meno di un eidos ad un altro, ma, come s’è detto, è quella di stabilire una connessione tra un nome ed un eidos. Lo scopo immediato della definizione è quello di fissare un determinato contenuto eidetico mediante un nome che lo renda evocabile e, perciò, disponibile per il discorso. Mediante il semplice atto di denominazione si compie un intervento alta­ mente costruttivo della nostra intelligenza che a prima vista potrebbe sfuggire. Prima di quest’atto, la sfera eidetica, che è necessario sia già stata in qualche modo raggiunta, non ha an­ cora una organizzazione stabile. Lo sguardo della nostra intelli­ genza vaga incerto da una idea all’altra, come lo sguardo del profano si smarrisce tra gli astri della volta celeste, senza riu­ scire a cogliere un ordine, a fissare una struttura. Mediante la definizione, l’intelligenza trasceglie nella sfera eidetica, prima inarticolata e confusa, questa o quella forma, a preferenza di altre, questo o quel gruppo di forme, a preferenza di altri, e fissa stabilmente nella memoria queste forme o questi gruppi, ciascuno dei quali è ormai contrassegnato da un nome. Si pro­ fila così una prima struttura, destinata a diventare un punto di riferimento per un ulteriore lavoro di organizzazione. Tale organizzazione non è del tutto arbitraria, ma ha il suo fondamento obiettivo nei rapporti che intercorrono tra le varie forme eidetiche e tra queste e il piano dell’esperienza totale. Pur tuttavia, l’assumere un determinato punto di vista, anziché un altro, l’enucleare una determinata forma eidetica, anziché un’altra, tutto ciò dipende in gran parte dalla libera iniziativa della nostra intelligenza, come è dipeso dalla spontanea fanta­ sia degli antichi la costruzione delle dodici costellazioni dello zodiaco. In questo senso, la definizione è una sintesi a priori: sintesi.

CAP. II. - FONDAMENTO EIDETICO E VALORE « FATTUALE » DEL DISCORSO METAFISICO

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perchè sempre molteplice, complesso, articolato è il contenuto eidetico che la nostra intelligenza riesce di volta in volta a con­ cepire (cum-capere) (4); a priori, perchè la sintesi di un determi­ nato contenuto eidetico sotto un determinato nome, anche se possa esser suggerita in qualche modo dall’intuizione sensi­ bile, non è però mai imposta da essa, ma è di diritto conven­ zionale, e dunque, da questo punto di vista, a priori. È a questo punto che si chiarisce la possibilità di una ridu­ zione del giudizio sintetico a priori di Kant all’atto della de­ finizione. Il preteso giudizio sintetico a priori non è infatti un autentico giudizio o proposizione. Se infatti la caratteristica es­ senziale di una proposizione autentica è quella di poter essere vera o falsa, è chiaro che questa caratteristica non si riscontra nel giudizio sintetico a priori, perchè nei suoi confronti non ha nessun senso parlare di verità o di falsità, almeno nel modo in cui se ne parla per gli altri tipi di giudizio. Nel giudizio ana­ litico, infatti, la verità o la falsità consistono nella raggiunta o mancata adeguazione della nostra mente ad un obiettivo rap­ porto intercorrente tra un eidos ed un altro; nel giudizio sin­ tetico a posteriori è invece in questione l’adeguazione o meno tra un eidos ed una situazione empirica. Ma il giudizio sinte­ tico a priori, nella concezione kantiana, non rappresenta un atto di adeguazione della nostra mente ad un oggetto (ideale od empirico) già costituito; esso è al contrario la costruzione del suo stesso oggetto. Ma tale costruzione è ciò che appunto caratterizza la stessa definizione (5). Il presunto giudizio sin-

(4) Per questa complessità del contenuto eidetico che entra a costituire il significato di una parola, si veda il precedente capitolo, § 4. (5) La sostanziale coincidenza in Kant del giudizio sintetico a priori con la definizione, risulta anche dall’affermazione kantiana che gli unici concetti che possono essere rigorosamente definiti sono quelli che vengono costruiti dalla sintesi a priori : « Poiché nè i concetti empirici, nè quelli dati a priori possono essere definiti... non rimangono altri concetti, che si prestino alla definizione, fuorché quelli che contengono una sintesi arbitraria, i quali pos­

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parte seconda

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possibilità e struttura del discorso metafisico

tetico a priori non deve essere adunque considerato un auten­ tico giudizio o proposizione, ma deve essere ricondotto all’atto della definizione, a quell’atto cioè mediante il quale vengono formati quei concetti che sono poi impiegati tanto nelle pro­ posizioni analitiche a priori, quanto nelle sintetiche a posteriori. La nostra tesi può trovare una riconferma da una analisi della dottrina kantiana intorno ai giudizi sintetici a priori della matematica. È anzitutto necessario richiamare il concetto kansono essere costruiti a priori; e però soltanto la matematica ha definizioni » (Critica della ragion pura, II, Dottrina trascendentale del metodo, c. I, sez. I, 1° Delle definizioni, trad, it., Laterza, Bari, 1925, p. 558). Se Kant ritiene che non tutti i concetti si possano definire, ciò dipende dal fatto che egli per « definire » intende « esporre originariamente il concetto di una cosa dentro i suoi limiti » (op. cit., p. 557), cioè si riferisce alla defini­ zione esplicita, la quale presuppone sempre altri concetti non definibili (espli­ citamente). Se poi Kant limita la definizione al campo della matematica, è perchè egli restringe il concetto di definizione alla sola esposizione del con­ cetto di una cosa, di quel concetto, cioè, che possa essere rappresentato da un corrispondente oggetto di intuizione. Il che, secondo Kant, si verifica sol­ tanto nel caso della matematica. Sul carattere delle definizioni della matema­ tica si veda ancora il saggio kantiano Indagine sulla distinzióne dei principi della teologia naturale e della morale (1764): «Ad ogni concetto generale si può arrivare per due strade: o attraverso un collegamento arbitrario dei concetti, oppure isolando quelle conoscenze che sono state chiarite per suddi­ visione. La matematica arriva sempre alle sue definizioni seguendo la prima strada. Immaginate per es. a vostro arbitrio quattro rette che delimitano un piano in maniera che i lati opposti non siano paralleli, e chiamate trapezio questa figura. Il concetto che io spiego in tal modo non è dato prima della definizione, ma nasce da essa. In genere un cono può significare tutto ciò che si vuole, ma in matematica nasce dalla rappresentazione arbitraria di un triangolo rettangolo che ruota attorno a uno dei lati. È evidente che in questo caso e in tutti gli altri la spiegazione è originata dalla sintesi » (in Scritti precritici, trad, it., Laterza, Bari, 1953, p. 223). A parte questa limitazione al campo della matematica della possibilità di una rigorosa definizione, resta pur sempre il fatto che, nella concezione kan­ tiana, sintesi a priori e definizione coincidono sostanzialmente nel rappresen­ tare entrambe la costruzione originaria del concetto.

CAP. IL - FONDAMENTO EIDETICO E VALORE « FATTUALE » DEL DISCORSO METAFISICO

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tiano di giudizio analitico. « Tutti i giudizi analitici riposano completamente sul principio di contraddizione e sono per natura loro conoscenze a priori, sia che il concetto, che loro serve da materia, sia o non sia di origine empirica. Perchè, essendo il predicato di un giudizio analitico positivo già prima pensato nel concetto del soggetto, esso non può venir di lui negato senza contraddizione; del pari il suo contrario viene necessa­ riamente negato del soggetto in un giudizio analitico, ma nega­ tivo; e ciò egualmente in virtù del principio di contraddizione. Così è, per es., dei due giudizi: "ogni corpo è esteso" e "nes­ sun corpo è inesteso (semplice) " » (*6). Si accosti ora questo passo dei Prolegomeni al seguente passo che si trova inserito sia nel testo della Critica che in quello dei Prolegomeni: « I giudizi matematici sono tutti sintetici. Que­ sta proposizione pare sia sfuggita sinora all’indagine di quanti hanno analizzato la ragione umana, e anzi par proprio opposta alle loro congetture. Infatti, poiché si trovava che le deduzioni dei matematici procedono tutte secondo il principio di contrad­ dizione (richiesto dalla natura di ogni certezza apodittica), così si credeva che anche i principi fossero conosciuti in virtù dello stesso principio di contraddizione; e in ciò si sbagliavano; per­ chè una proposizione sintetica può sempre essere conosciuta se­ condo il principio di contraddizione, ma solo a condizione che si presupponga un’altra proposizione sintetica, dalla quale possa essere dedotta; non mai in se stessa » (7). La ragione adunque per cui Kant considera sintetiche le proposizioni della matematica, che pure sono dedotte dai prin­ cipi di questa scienza secondo l’assioma della non-contraddizione, sta nel fatto che tali principi non sono analitici, o almeno non lo sono quelli propri di tale scienza!8). (e) Prolegomeni, trad. it. a cura di P. Martinetti, Paravia, Torino, 1926, p. 28. (7) Critica della ragion pura, cit., p. 48; Prolegomeni, cit., ppi. 30-31. (8) « Nessun principio della geometria pura è analitico... Vi sono, è 6 — P. Faggjotto, Saggio sulla struttura della metafisica.

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PARTE SECONDA - POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

Ora è interessante notare che anche prima di Kant si era riconosciuto che alcuni principi della matematica non erano pro­ posizioni analitiche. Già il pensiero antico ammetteva tra i prin­ cipi della matematica, oltre agli assiomi ( άξιώματα )? proposi­ zioni analitiche evidenti per se stesse, l’esistenza di postulati ( αιτήματα ) non forniti della stessa evidenza. Qual è adunque l’esatta natura dei postulati? La domanda non ha trovato nel pensiero antico una soluzione univoca (9). Un contributo decisivo alla soluzione di questo problema è ve­ nuto invece dalle moderne teorie convenzionalistiche, secondo le quali i principi della matematica non sono vere e proprie proposizioni, ma « definizioni implicite » o « mascherate », sem­ plici convenzioni, paragonabili, in un certo modo, alle regole di un giuoco. Viene così a cadere la distinzione stessa tra assiomi e postulati: si tratta in ogni caso di convenzioni che si limitano a stabilire il valore di determinati simboli primitivi (10 ). vero, alcuni principi, che sono presupposti dai geometri e che sono realmente analitici e si fondano sul principio di contraddizione: ma essi servono solo, come proposizioni identiche, a concatenare metodicamente il resto e non sono veri principi matematici; come per es. a = a, ossia il tutto è uguale a se stesso, oppure (a -|- b) > a, ossia il tutto è maggiore di una sua parte » (Prolego­ meni, cit., p. 33). (e) Cfr. G. Vailati, Intorno al significato della differenza tra gli assiomi ed i postulati nella geometria greca, in Scrìtti, cit., pp. 547-552. Sulla geo­ metria antica si veda ancora F. Enriques, Gli Elementi di Euclide e la critica antica e moderna, 2 voli., Zanichelli, Bologna, 1932. (10) La letteratura concernente i principi della matematica è troppo vasta per poter esser qui, anche solo sommariamente, richiamata. Preferiamo rinviare alle aggiornate informazioni bibliografiche contenute in alcuni recenti lavori epistemologici : E. W. Beth, I fondamenti logici della matematica, trad. it. a cura di E. Casari, Feltrinelli, Milano, 1963; E. Casari, Questioni di filosofia della matematica, ivi, 1964; A. Pasquinelli, Nuovi principi di epistemologia, ivi, 1964. Ci limitiamo soltanto a ricordare come la tesi che gli assiomi siano defi­ nizioni implicite o mascherate (déguisées) abbia trovato una delle sue prime formulazioni nell’opera di H. Poincaré, La Science et l’hypothèse (Fiamma-

CAP. II. - FONDAMENTO EIDETICO E VALORE « FATTUALE » DEL DISCORSO METAFISICO

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A ragione, dunque, Kant insiste nel considerare sintetici a priori i principi della matematica. Il suo torto, se mai, è di non aver visto che questi principi non sono delle proposizioni, ma delle semplici convenzioni. Considerando i principi come delle definizioni, le proposizioni che se ne possono dedurre risultano allora analitiche, perchè quelle definizioni prime hanno parte nella costituzione di tutti i concetti che compaiono nelle pro­ posizioni stesse. Al contrario, scambiando la sintesi a priori con una forma di proposizione, Kant si espone al pericolo di dover negare l’esistenza di qualunque proposizione veramente analitica, perchè non c’è proposizione analitica che non presupponga la sintesi a priori di quei concetti che entrano a costituirla. Con questa riduzione del giudizio sintetico a priori all’atto della definizione, non riteniamo di aver falsato la posizione kan­ tiana. In verità noi abbiamo estromesso i giudizi sintetici a priori di Kant dalla classe dei giudizi autentici, assumendo in­ nanzi tutto il termine « giudizio » (Urteil) come equivalente a quello di « proposizione » (Satz) — ciò che del resto trova facile conferma nel testo kantiano!11) — e attribuendo inoltre a questo termine quel significato più ristretto che abbiamo più sopra indicato (« espressione suscettibile di essere vera o falsa »). Non era dunque Kant libero, proprio in nome della natura con­ venzionale dei simboli, di assumere i termini « giudizio » e « pro­ posizione » in una accezione più ampia, indicante cioè una qua­ lunque connessione di termini fornita di significato, in modo da poter includere nella classe dei giudizi anche l’atto in cui si esplica la sintesi a priori? rion, Paris, 1902), dove la tesi stessa emerge daU’esclusione che gli assiomi possano essere verità analitiche, oppure dati sperimentali, o, infine, giudizi sintetici a priori. Ricordiamo ancora, su tale questione, il recente intervento di W. V. O. Quine, In appoggio della definizione implicita, « Riv. di filosofia », 1964, fase. 3, pp. 299-302. (n) Si veda, ad es., il § V della Introduzione alla Critica della ragion pura, dove i due termini in questione sono usati, indifferentemente, come sinonimi.

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PARTE SECONDA - POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

Non intendiamo certo negare questa libertà; riteniamo però che il suo esercizio comporti anche certi doveri, in questo caso il dovere di esprimere in qualsivoglia maniera, come le analo­ gie, anche le differenze, là dove esse si trovano. È certo che Kant, dal canto suo, ha differenziato profondamente l’atto della sintesi a priori da quelli della sintesi empirica e dell’analisi, pur includendo tutti e tre questi atti nell’unica classe dei giudizi. Che tuttavia la sua convenzione linguistica sia stata tale da indi­ care fin da principio una differenza di così grande momento, non crediamo di poterlo affermare. Si aggiunga poi che, contra­ stando la sua con una precedente convenzione, essa poteva in­ generare, come in effetti ha ingenerato, equivoci ed incompren­ sioni. Riconducendo allora la classificazione delle proposizioni nei termini della precedente convenzione, abbiamo inteso ope­ rare una preliminare chiarificazione. Del resto avremmo potuto anche tradurre la classificazione empiristica nel linguaggio kantiano, assumendo la definizione come un terzo tipo di proposizione o giudizio (nel senso lato del termine, equivalente a quello di espressione significativa), cioè come giudizio sintetico a priori, appunto, e mettendo, be­ ninteso, subito in luce la natura tutta particolare di questo giu­ dizio nei confronti degli altri due tipi. Se abbiamo preferito la traduzione inversa, è perchè abbiamo voluto attenerci ad una convenzione più antica ed ancor oggi largamente seguita, ad una convenzione, oltretutto, capace di far risaltare meglio la differenza tra il momento « costruttivo » e il momento « vi­ sivo » dell’attività del pensiero. Ad ogni modo, in qualunque senso la traduzione venga ope­ rata, non si intendono certo negare le profonde differenze esi­ stenti tra la posizione empiristica e quella kantiana, viste nel loro complesso. Lo scopo è invece quello di esprimere tali differenze in un linguaggio univoco che renda possibile il confronto e la discussione tra le due posizioni diverse. In base alla scelta lin­ guistica da noi operata, l’opposizione tra empirismo e kantismo, eliminata dalla classificazione delle proposizioni, si ripresenta al-

CAP. Π. - FONDAMENTO EIDETICO E VALORE « FATTUALE » DEL DISCORSO METAFISICO

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Iota nel diverso modo di intendere il momento costruttivo che precede il discorso apofantico. L’aspetto più notevole dell’op­ posizione è costituito dal fatto che Kant attribuisce alla sua sintesi a priori un carattere di necessità e un fondamento metem­ pirico (forme a priori) che l’empirismo in quanto tale non è di­ sposto a riconoscere. Per l’empirismo, infatti, la definizione è un procedimento indipendente dall’esperienza (e perciò a priori) solo nel senso, precedentemente illustrato, che la sintesi di de­ terminati contenuti eidetici sotto un determinato nome, anche se possa essere stata suggerita in qualche modo dall’intuizione sensibile, non è tuttavia assolutamente imposta da questa, ma rimane in una certa misura arbitraria e convenzionale. Questo genere di apriorità, se così la si vuol chiamare, non importa alcuna necessità e alcun fondamento metempirico. Per quanto grande tuttavia possa apparire questa opposi­ zione, essa non elimina l’affinità precedentemente segnalata, tra il concetto kantiano di sintesi a priori e quello empiristico di definizione. Si tratta in ogni caso di operazioni che cadono fuori dell’ambito delle proposizioni vere e proprie, rappresentando esse il momento della costruttività logica. Che tale costruttività richieda l’impiego di elementi a priori, capaci di conferire al re­ lativo risultato un certo carattere di necessità, è una questione che solo a questo punto potrà essere utilmente dibattuta tra le parti in contesa, cioè dopo essere riusciti a dare una formula­ zione univoca al problema. Anticipando quello che sarà il nostro giudizio conclusivo sulla posizione kantiana, diremo che la vera esigenza che ha condotto Kant alla formulazione della sua dottrina, è stata quella di assicurare alla scienza matematica e fisica il carattere di uni­ versalità e di necessità e insieme il carattere di concretezza o fattualità. Le proposizioni della scienza dovevano valere univer­ salmente e necessariamente, non solo nei confronti di puri og­ getti ideali, ma anche nei confronti degli oggetti concreti della nostra intuizione. Senonchè Kant, avendo voluto attribuire alle scienze fisiche

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PARTE SECONDA - POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

e matematiche le due proprietà, dell’universalità e della fattualità, in una forma tale che le rendeva fra loro incompatibili, ha finito per snaturare sia il valore di universalità e di necessità di que­ ste discipline, degradandolo dal piano logico a quello psicologico, sia il loro valore di fattualità, limitandolo ad un livello pura­ mente fenomenico; con la conseguenza, inoltre, di pervenire alla negazione della metafisica, di quell’unica scienza cioè in cui l’esi­ genza kantiana avrebbe potuto trovare autentica soddisfazione. Ma tutte queste non sono che anticipazioni, che devono lasciare il posto ad una indagine più sistematica e radicale.

2. - Definizione e astrazione.

Iniziando adunque la nostra indagine sull’esistenza o meno di elementi metempirici a fondamento di quella sintesi a priori che riteniamo coincida con l’atto stesso della definizione, cominceremo con l’osservare che, certamente, sulla base della sola espe­ rienza sensibile, concepita alla maniera empiristica come unica fonte e unico strumento di conoscenza, nessuna sintesi a priori, nessuna definizione, sarebbe possibile. Come giustificare infatti la stabilità di ciò che è raccolto sotto la definizione, se il flusso delle sensazioni è perenne, ininterrotto? Facendo nostro lo schema di valutazione teoretica delle dottrine gnoseologiche che fu caro al Rosmini, diremo che, in questo senso, l’empirismo pecca per difetto, perchè non riconosce tutte le condizioni che sono indi­ spensabili per giustificare l’atto della definizione. D’altro canto, potremo dire che la posizione kantiana pecca per eccesso, solo se riusciremo a spiegare esaurientemente questo atto senza ricorrere alla dottrina delle forme a priori, evitando anche, in questo modo, le insuperabili aporie che questa dottrina comporta (12). (12) L’aporia fondamentale della dottrina kantiana della conoscenza con­ siste nel fatto che essa finisce per distruggere se stessa: se la conoscenza

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Ora, questa spiegazione più semplice, ma nello stesso tempo più valida, può essere data sulla base della classica dottrina delΓastrazione. Parlando della definizione, abbiamo detto che essa è una operazione che si esercita all’interno della sfera eidetica, la quale deve essere già stata in qualche modo raggiunta. L’opera­ zione mediante la quale la sfera eidetica viene raggiunta è ap­ punto l’astrazione. Per intendere la natura di questa operazione è necessario riferirsi all’esperienza nei cui confronti essa si esercita. L’esperienza, pur non mancando di una sua struttura fonda­ mentale, costante e intrascendibile (13), è nel suo aspetto più ap­ pariscente un continuo fluire di impressioni, di rappresentazioni, di sentimenti, che si succedono ininterrottamente, ora scontran­ dosi, ora armonizzandosi tra loro. Ciascuno di questi momenti dell’esperienza ha un duplice aspetto: da una parte, è un evento quanto mai labile e contingente, che si dissolve nell’istante stesso in cui appare; dall’altra, esso rappresenta una forma, una strut­ tura che trascende l’evento nella sua contingenza per il fatto

umana, condizionata dalle forme a priori, non può avere che un valore fe­ nomenico, come sarà possibile soddisfare quello che è l’intento stesso della Critica della ragion pura, di pervenire cioè al riconoscimento dell’autentica struttura della ragione stessa? È ciò che appunto già osservava il Galluppi: «Queste due proposizioni del criticismo: Noi non possiamo conoscere alcuna cosa in se stessa. Noi conosciamo le sorgenti, la natura degli elementi, il modo della generazione, ed i limiti precisi della nostra conoscenza, sono evi­ dentemente contraddittorie tra loro » (Lettere filosofiche, a cura di A. Guzzo, Vallecchi, Firenze, 1929, pp. 268-269). Cfr. ancora il Saggio filosofico, tomo III, c. XVI, § 112. Analoga l’osservazione di N. Hartmann : « Che le categorie non siano nient’altro che dei "concetti puri deH’intelletto" e, come tali, funzioni di un "soggetto in generale"; che questa loro soggettività sia in grado di giustifi­ care l’oggettività dell’esperienza, questa è una tesi metafisica, nella quale è già pregiudicata la questione centrale del problema della conoscenza » (Grundziige einer Metaphysik der Erkenntnis, Gruyter, Berlin und Leipzig, 1925, p. 34). (13) Cfr. Parte I, Cap. I, § 7; Parte II, Cap. I, § 3; Appendice 1, § 1.

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stesso che essa può ripresentarsi in altri eventi. Questa possibi­ lità di continuo ritorno e di infinita moltiplicazione che la forma possiede è la sua universalità. Ciascun momento dell’esperienza è dunque un evento particolare portatore di una forma universale o, che è lo stesso, una forma universale individuata in un evento particolare. L’evento è assolutamente irripetibile nella sua indi­ vidualità, la forma è per se stessa ciò che può infinitamente ri­ petersi. Prima che intervenga l’astrazione, evento e forma sono tal­ mente fusi insieme nel contesto dell’esperienza, che la contin­ genza del primo sembra travolgere l’eternità della seconda. La astrazione è l’atto con cui la forma è riconosciuta nella sua uni­ versalità, è liberata dalla caducità dell’evento. Quest’atto viene perciò talora indicato con il termine di « universalizzazione » (14), espressione che sta ad indicare, non che l’universale in quanto tale (cioè in quanto possibilità di moltiplicazione) venga prodotto, ma piuttosto che esso viene colto in se stesso, prescindendo da quella individuazione in cui originariamente si offre. Per la stessa ragione, l’operazione dell’astrazione viene anche presentata come una « riduzione eidetica » (15), appunto perchè, (14) Per la dottrina rosminiana dell’universalizzazione, cfr. : Nuovo saggio sull’origine delle idee, §§ 491-504 (Ediz. Naz., voi. IV, pp. 65-72); Logica, §§ 315-319 (Ediz. Naz., voi. XXII, pp. 126-128); Breve schizzo dei sistemi di filosofia moderna e del -proprio sistema, a cura di C. Caviglione, Carabba, Lanciano, 1913, pp. 66-67. (15) Per la « eidetische Reduktion » cfr. E. Husserl, Ideen, cit., Einleitung, pp. 3-9. Non si intende certo qui presentare come del tutto equivalenti il con­ cetto classico dell’astrazione, quello rosminiano di universalizzazione e quello husserliano di riduzione eidetica, concetti che, anzi, per alcuni aspetti pre­ sentano delle notevoli differenze. La difficoltà di un loro confronto è tra l’altro aumentata dalla varietà dei significati attribuiti lungo il corso del pen­ siero al termine « astrazione ». (Così, ad es., il Rosmini, mentre concepisce l’universalizzazione come l’operazione rivolta alla formazione delle idee spe­ cifico-piene, attribuisce all’astrazione la formazione delle sole idee specifico-

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in virtù di tale operazione, Γeidos viene afferrato dopo esser stato liberato da tutte le determinazioni spazio-temporali che caratte­ rizzano il dato di fatto. È a questo punto che si inserisce l’atto della definizione. La astrazione è per se stessa il passaggio dal piano della visione em­ pirica a quello della pura visione eidetica. Tuttavia, l’universale che in questo modo viene raggiunto, potrebbe facilmente andare smarrito, confuso con altre forme, se non intervenisse la defini­ zione a determinarne nettamente i confini e a fissarlo stabilmente mediante un nome. La definizione è in primo luogo questo sforzo di consolidare la fugace intuizione di una forma universale, nel modo stesso in cui la raffigurazione artistica è il tentativo di immortalare l’oggetto di una intuizione privilegiata, fissandolo per i secoli sul marmo o sulla tela (ie). Astrazione e definizione sono adunque due aspetti inscindi­ bili, benché distinti, della stessa intuizione dell’universale: la prima rappresenta l’atto in virtù del quale l’essenza universale viene distinta dall’evento particolare, la seconda l’atto mediante il quale la stessa essenza viene « nominata » e con ciò stesso « fissata » e chiarita in rapporto alle altre essenze. Indico con i termini idea, eidos, forma, essenza, tutto ciò che nella nostra mente rimane della percezione o della rappresenta­ zione di un oggetto particolare, quando si prescinda dalla sua in­ dividualità empirica, cioè dal suo presentarsi hic et nunc. La astratte e generiche). Ciò che ci interessa ad ogni modo sottolineare, è il fatto che le tre concezioni in questione si accordano tutte nel riconoscimento di quella fondamentale operazione in virtù della quale si opera il passaggio dalla percezione dell’evento particolare alla visione dell’essenza universale. (ΐβ) per questa analogia tra l’atto della definizione e quello della raffi­ gurazione artistica, si veda la felice osservazione di C. Diano, il quale, par­ lando appunto della forma, così si esprime : « Gli artisti sopra tutti la ve­ dono, sono artisti in quanto la vedono, e, quando l’hanno veduta, la traspor­ tano dal soggetto vivo, che fino a quell’ora ne aveva fatto un evento, in un soggetto inerte, una materia qualunque, marmo, bronzo, tela, perchè guar­ diamo ad essa sola » (Forma ed evento, Neri Pozza, Venezia, I960, p. 47).

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essenza è tutto ciò che è pensato, cioè presente al pensiero in forma atopica e atemporale. Ciò non significa che l’essenza sia soltanto qualcosa di men­ tale. L’essenza esiste realmente nell’oggetto particolare, indivi­ duata in esso; e tuttavia essa si distingue dall’individualità, presa in senso numerico, per la sua infinita capacità di moltiplicazione che nessun individuo può esaurire in se stesso. Tale capacità di moltiplicazione può essere riconosciuta soltanto dal pensiero, ed è questa, in ogni caso, l’intelligibilità dell’essenza. Così intesa, l’essenza non è necessariamente, dal punto di vista della sua struttura, qualcosa di impoverito, di generico, di scarsamente determinato nei confronti dell’oggetto particolare. Possono entrare a far parte di un’essenza tutti gli aspetti for­ mali dell’oggetto considerato, nessuno escluso, nessuno privile­ giato. Sto, ad esempio, considerando questo tavolo, osservandolo in tutte le sue particolarità: dimensioni, colori, difetti di costru­ zione, segni dell’usura, ecc. Ebbene, se io avessi il potere crea­ tore — ricorrerò ad una immagine usata da Rosmini in relazione appunto ad analoghi esempi (17) — potrei creare una infinità di tavoli nello spazio e nel tempo, tutti con queste stesse precise caratteristiche formali: l’unica cosa per cui questi tavoli si distin­ guerebbero tra loro sarebbe la loro esistenza in tempi e spazi diversi. L’esistenza in questo tempo e in questo spazio è ciò che di irripetibile e assolutamente particolare ha ciascun individuo. La forma invece, per quanto ricca di qualità e determinazioni (e benché si attui di volta in volta soltanto nell’esistenza indivi­ duale), è sempre per se stessa universale, non essendo la sua universalità, come s’è già ripetuto, nient’altro che la sua infinita possibilità di moltiplicazione (18). (17) Cfr. Breve schizzo, cit., p. 159: «Chi possiede l’idea dell’uomo, qua­ lora avesse la facoltà creatrice, potrebbe con essa sola produrre quanti uomini gli piacesse». Cfr. ancora Nuovo saggio, § 403, ediz. hit., voi. IV, p. 13. (18) Analoghi esempi, per indicare la ricchezza di determinazioni che l’essenza può possedere, si trovano in Rosmini. « Sia quest’ente un uccello,

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L’essenza può tuttavia essere anche costituita da uno solo, o da un gruppo soltanto, dei caratteri formali che si riscontrano in un oggetto particolare. Il colore giallo di questa parete che mi sta di fronte, anzi questa particolare gradazione di giallo, in quanto può essere considerata dalla mia intelligenza nella sua possibilità di ulteriori attuazioni, e quindi prescindendo dalla sua presente realizzazione, è una essenza. In questo caso, l’essenza è rappresentata da una qualità sensibile, ma essa è pur sempre qualcosa di intelligibile, perchè la sua universalità, in quanto tale, può essere riconosciuta soltanto dall’intelletto. L’essenza inoltre può essere costituita da quella struttura profonda che la nostra intelligenza sia già pervenuta a riconoscere in un oggetto, come principio unificatore del molteplice acciden­ tale. L’essenza, questa volta, è qualcosa di parzialmente indeter­ minato nei confronti dell’oggetto individuale, in quanto prescinde da tutti quegli aspetti particolari in cui di fatto essa, di volta in volta, si concretizza. Una simile essenza, ad esempio, è, per que­ sto tavolo, la sua particolare funzione di sostegno o di appoggio, funzione che dà ragione della disposizione delle varie parti di un colombo. Coll’aver universalizzato un colombo che cadde sotto i miei sensi, ho io levato nulla dalla mia rappresentazione di quel colombo? Nulla: io posso averne anche l’immagine corporea viva e presente, l’argento delle penne, il cangiante del collo, gli occhi, i piedi, le forme, i movimenti, e tut­ tavia posso aver unito a tutto questo il pensiero della possibilità di altri colombi reali, che a quella rappresentazione a capello rispondono: in tal caso quella mia rappresentazione è già universale, sebbene sia rimasta così intera com’era prima che io la universalizzassi, e fornita non solo delle note es­ senziali, ma ancora di tutte le note accidentali, la sola realtà omessa » (Nworo saggio, § 492, ediz. cit., voi. IV, pp. 66-67). Per questa concretezza di determinazioni di cui l’essenza può essere fornita si veda il seguente passo di Husserl : « Una visione empirica o indi­ viduale può venir mutata in una visione dell’essenza (ideazione) — una pos­ sibilità che è da intendersi non come empirica, ma come essenziale. Ciò che è intuito è quindi la corrispondente essenza pura o eidos, sia essa la suprema categoria, che una sua particolarità, giù, fino alla piena concretezza » (Ideen, cit., § 3, p. 13. Vedi anche Erfahrung und Urteil, sez. Ili, c. I, § 84).

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cui il tavolo è costituito, senza tuttavia risultare necessariamente legata a queste, quando vengano considerate nella loro empirica individualità. Proprio per la sua parziale indeterminatezza (nei confronti della realtà individuale), tale essenza può realizzarsi, e di fatto spesso si realizza, in una pluralità di individui che si distinguono tra loro, non solo per le semplici determinazioni spazio-temporali, ma anche per caratteristiche formali-accidentali. Si tratta dell’essenza specifica, la cui universalità è più facile riconoscere di quella delle essenze precedentemente descritte, perchè è più facile vederla effettivamente documentata: gli indi­ vidui, infatti, che l’esperienza ci presenta, si differenziano sempre tra loro, non solo per la diversa collocazione spazio-temporale, ma, in misura maggiore o minore, anche per caratteri formali. Su di un piano di indeterminazione anche maggiore si trova l’essenza generica, cioè quella struttura formale, puramente in­ telligibile, che ha la possibilità di moltiplicarsi in individui di­ versi tra loro, non solo per caratteri formali-accidentali, ma anche per caratteri formali-specifici. « Suppellettile domestica » è, ad esempio, l’essenza generica che si realizza sia in questo tavolo che in questa sedia. Un’altra distinzione che è opportuno tener presente è quella tra le essenze astratte da un oggetto di esperienza diretta (l’es­ senza, ad esempio, del tavolo che ho di fronte) e quelle astratte da una rappresentazione fantastica (l’essenza di centauro) (19). Indubbiamente in queste ultime essenze entrano contenuti eidetici attinti precedentemente dall’esperienza; resta tuttavia che in questo caso l’iniziativa e la costruttività del nostro intelletto sono più manifesti. Tale iniziativa e tale costruttività attingono il loro vertice massimo nella concezione di essenze che oltrepas­ sano ogni possibilità di esemplificazione sul piano della rappre­ sentazione sensibile. Ma è questo un caso su cui ora non inten­ diamo soffermarci, perchè avremo occasione di chiarirlo più avanti. (19) Cfr. Ideen, cit. § 4, pp. 16-17.

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L’intuizione e l’organizzazione delle essenze avvengono dun­ que, come s’è visto, attraverso le due operazioni, strettamente congiunte, dell’astrazione (universalizzazione, riduzione eidetica) e della definizione (denominazione). Il vero intento però del pensiero non è quello di chiudersi nella regione iperuranica per cogliervi delle mere possibilità eidetiche; il suo intento è anche quello di pervenire alla determinazione dei rapporti necessari che intercorrono tra le varie essenze; infine, e soprattutto, il nostro pensiero è rivolto alla realtà concreta, individuale, per riconoscere quelli che sono gli effettivi rapporti, contingenti o necessari, che passano tra le cose. L’attività astrattivo-definitoria cede così il passo al discorso apofantico che, come si è visto nel precedente capitolo (20), si ar­ ticola nel seguente modo: proposizioni analitiche a priori pura­ mente formali (non fattuali), che enunciano delle relazioni ne­ cessarie tra semplici determinazioni eidetiche; proposizioni sin­ tetiche a posteriori fattuali, che enunciano rapporti contingenti tra oggetti reali; proposizioni analitiche a priori fattuali, che enunciano rapporti necessari tra questi stessi oggetti.

3. - La struttura delle proposizioni della geometria. Nel capitolo citato ci siamo intrattenuti su questa classifica­ zione, mostrando come la possibilità della metafisica sia fondata sulla possibilità delle proposizioni analitiche fattuali. Ora, poiché è il problema della metafisica che ci sta a cuore, vorremmo svol­ gere alcune ulteriori considerazioni intorno a questo punto. E poiché la metafisica si presenta, almeno in parte, come una scienza deduttiva applicata — l’altra parte di questa disciplina è costituita dal discorso confutatorio con cui vengono giustificati i principi primi (21) —, cercheremo di far luce sulla sua struttura, (20) Cfr. Parte II, Cap. I, § 6. (21) Cfr. Parte I, Cap. II, §§ 2, 3 e 4.

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confrontandola con un’altra forma di scienza deduttiva, conside­ rata nella sua purezza formale e nelle sue applicazioni fattuali. Limiteremo per semplicità il nostro discorso alla geometria, la cui possibilità cercheremo di giustificare sulla base delle pre­ messe precedentemente esposte, e cioè impiegando soltanto i se­ guenti concetti: esperienza, astrazione, definizione, essenza e pro­ posizione analitica. Se sarà possibile pervenire in questo modo ad una esauriente giustificazione di questa disciplina, il ricorso a qualsiasi forma a priori, di tipo kantiano, apparirà senz’altro arbitrario. Inizieremo la nostra indagine dalla geometria euclidea, da quella geometria che, almeno nella sua genesi storica e nella sua concezione tradizionale, è strettamente legata alla rappresenta­ zione dello spazio fisico, una delle cui caratteristiche fondamen­ tali è la struttura tridimensionale (22). Qual è la natura e il valore di questa rappresentazione? È possibile indicarne l’origine nella intuizione sensibile e nei successivi processi di astrazione e di definizione? Ciò che a prima vista sembrerebbe opporsi a questa deriva­ zione a posteriori, è il fatto che la nostra rappresentazione dello spazio ci appare fornita di una specie di necessità, nel senso che (22) Sottolineiamo il fatto che, quando in questo capitolo parliamo di geo­ metria euclidea, ci riferiamo al sistema costruito da Euclide e rimasto legato, fino all’ottocento, alla concezione tridimensionale dello spazio. Nella mate­ matica moderna si parla invece di geometria euclidea anche in relazione ad uno spazio n-dimensionale, purché siano soddisfatte determinate condizioni. Se qui continuiamo a parlare di geometria euclidea nel senso antico del­ l’espressione, è perchè stiamo esaminando la concezione kantiana della geo­ metria, nella quale domina ancora la concezione dello spazio tridimensionale. « Che lo spazio perfetto (quello che non è più soltanto il limite di un altro spazio) abbia tre dimensioni e che lo spazio in genere non possa averne di più, si fonda sulla proposizione che in un dato punto possono tagliarsi ad angolo retto tre sole rette » (Prolegomeni, cit., p. 70). Per la « coscienza della necessità » che si accompagna alla proposizione : « lo spazio ha solo tre dimensioni », cfr. Critica della ragion pura, cit., p. 69.

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ci è impossibile, ad esempio, immaginare in maniera concreta uno spazio a più di tre dimensioni. Come spiegare questa forma di necessità senza considerare, alla maniera kantiana, la rappre­ sentazione dello spazio tridimensionale come una struttura a priori della nostra sensibilità, non risultato, ma condizione di ogni nostra intuizione empirica? Eppure una spiegazione, che prescinda da ogni riferimento metempirico, ci sembra possa essere data, e in termini molto semplici. Essa consiste nel richiamarsi alla natura della nostra immaginazione che è tale che, per essa, noi possiamo rappresen­ tarci in concreto solo ciò che abbiamo precedentemente intuito, o nel suo insieme, o almeno nei suoi singoli elementi costitutivi. Così possiamo rappresentarci in concreto un uomo od un cavallo, perchè di questi oggetti abbiamo avuto due distinte esperienze; come possiamo pervenire alla rappresentazione del centauro, per­ chè dalle due precedenti rappresentazioni la nostra fantasia può attingere gli elementi della sua sintesi. Al contrario, per ciò che riguarda uno spazio a più di tre dimensioni, una rappresenta­ zione concreta non è possibile, perchè delle ulteriori supposte di­ mensioni non abbiamo mai avuto esperienza alcuna. Possiamo solo pensare in astratto ad uno spazio a più di tre dimensioni, aggiungendo alla rappresentazione concreta delle tre dimensioni note, l’idea vuota (vuota dal punto di vista dell’intuizione sen­ sibile) di un’altra o di altre dimensioni; tuttavia questa pura e vuota idea di alterità non può supplire alla mancanza della cor­ rispondente intuizione sensibile. La nostra rappresentazione dello spazio tridimensionale è dunque necessaria, ma solo psicologicamente. Del resto, questa necessità psicologica, questa impossibilità per la nostra fantasia di oltrepassare in maniera assoluta i limiti della intuizione sen­ sibile, vale non solo nei confronti della nostra rappresentazione dello spazio, ma nei confronti della rappresentazione di qualunque altro oggetto. Non possiamo, ad esempio, immaginare concreta­ mente una nuova modalità sensoriale, oltre a quelle di cui ab­ biamo effettiva esperienza, benché ci sia sempre possibile pensare

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ad essa in astratto. Questa necessità psicologica non è però as­ soluta, ma è, in ogni caso, relativa all’attuale estensione della nostra intuizione sensibile. Se fino ad ora non abbiamo intuito uno spazio a più di tre dimensioni, nulla però ci autorizza ad escludere, in assoluto, la possibilità di pervenire in futuro ad una tale intuizione; allo stesso modo in cui un cieco nato, che non può attualmente rappresentarsi in concreto la modalità visiva, non è autorizzato ad escludere, in maniera categorica, che la sua sensibilità possa un domani acquistare l’importante dimensione di cui ora è priva. La necessità psicologica di cui è fornita la rappresentazione dello spazio tridimensionale non va confusa perciò con la neces­ sità logica propria delle proposizioni della geometria euclidea. A fondamento di tale geometria vi è il processo astrattivo-definitorio mediante il quale la caratteristica struttura dello spazio fi­ sico, o meglio delle concrete estensioni che sono oggetto della nostra intuizione sensibile, viene colta e fissata nella sua univer­ salità, prescindendo dalle sue particolari attuazioni empiriche. I postulati della geometria euclidea possono, nel loro insieme, es­ sere oggi considerati definizioni implicite di questo spazio e delle sue fondamentali proprietà. Da questi postulati o definizioni implicite vengono poi rica­ vate tutte le proposizioni della geometria euclidea, che sono lo­ gicamente necessarie in quanto analitiche, cioè in quanto ne di­ scendono secondo il principio di non contraddizione. Rimane tuttavia sempre la possibilità di scegliere dei po­ stulati diversi da quelli della geometria euclidea, i quali impor­ terebbero, implicitamente, una diversa definizione dello spazio. La convenzionalità di qualunque geometria, euclidea o meno, sta precisamente tutta e soltanto nella scelta dei postulati o defini­ zioni implicite iniziali su cui operare la successiva costruzione. È chiaro però che, se in questo modo sono garantite la necessità e l’universalità delle proposizioni della geometria, intesa come puro sistema ipotetico-deduttivo, non è con ciò stesso garantita la loro fattualità, cioè la loro validità in rapporto a qualche og­ getto della nostra reale esperienza.

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Anche nel caso della geometria euclidea, che sembrerebbe sottrarsi a questa limitazione in quanto la nozione di spazio, che è alla sua base, procede dalla nostra intuizione sensibile, il valore fattuale delle sue proposizioni è garantito solo nei riguardi degli oggetti che abbiamo finora intuiti e da cui quella nozione è stata appunto ricavata (e, naturalmente, con quel margine di approssi­ mazione che si impone sempre quando si passa dal piano delle definizioni astratte a quello degli oggetti empirici), ma non è garantito in rapporto alle figure spaziali che potremmo in futuro intuire, non è cioè garantita in forma universale e necessaria. Ora è proprio questa forma di fattualità necessaria e univer­ sale che Kant vuole assicurare alla geometria: le proposizioni della geometria devono, a suo avviso, valere necessariamente, non solo nei confronti di oggetti astrattamente pensabili, ma nei confronti degli oggetti reali, cioè concretamente intuibili. È que­ sto il significato della frase, sovente ripetuta da Kant, che la ma­ tematica pura « procede per costruzione di concetti » (23). Co­ struire un concetto significa per Kant tradurre un concetto nella corrispondente intuizione (24). Ora, poiché la geometria euclidea è collegata, nella maniera indicata, alla nostra intuizione dello spazio, per garantire la necessaria fattualità delle proposizioni di tale geometria, Kant si rifiuta di considerare questa intuizione un dato a posteriori, ma, confortato anche dalla particolare ne­ cessità psicologica di cui la nostra rappresentazione dello spazio appare fornita, perviene ad assumerla come una intuizione pura, forma a priori di ogni possibile intuizione empirica. « Se questa intuizione formale [lo spazio] — scrive Kant —· è la proprietà essenziale della nostra sensibilità, per mezzo della quale soltanto ci sono dati oggetti, e questa sensibilità ci rappresenta non cose in sè, ma solo i loro fenomeni, è facile a comprendersi e nello stesso tempo è indiscutibilmente provato: (23) Cfr. Prolegomeni, cit., p. 34; Critica della ragion pura, cit., p. 548. (24) « Costruire un concetto significa : esporre a priori un’intuizione ad esso corrispondente » (Critica della ragion pura, cit., p. 548).

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che tutti gli oggetti esterni del mondo sensibile debbono neces­ sariamente ed esattamente concordare con le proposizioni della geometria, perchè è la sensibilità che sola, per mezzo della sua forma della intuizione esterna (lo spazio), oggetto della geome­ tria, rende possibile quegli oggetti come fenomeni » (25*). Natu­ ralmente, lo scopo che Kant si proponeva era raggiunto soltanto a metà, in quanto, come egli stesso avvertiva, una intuizione pura, assunta come forma a priori, poteva fondare una scienza univer­ sale di oggetti come meri oggetti fenomenici. « La mia dottrina della idealità dello spazio e del tempo è l’unico mezzo di assicu­ rare l’applicazione di una delle più importanti conoscenze, quella che la matematica ci dà a priori, agli oggetti reali e di impedire che essa venga tenuta per mera apparenza . . . laddove noi ab­ biamo potuto dimostrarne l’indiscutibile validità per tutti gli oggetti dell’esperienza, appunto perchè essi sono puri feno­ meni » (2e). È interessante a questo punto osservare come la dottrina kantiana non escluda in maniera assoluta la possibilità che ven­ gano assunte, a fondamento della matematica, delle definizioni di tempo e di spazio diverse da quelle che procedono dalla nostra intuizione; essa esclude soltanto che costruzioni matematiche ottenute in questo modo possano essere considerate scienze di oggetti reali, nel senso di oggetti da noi effettivamente intui­ bili (27). È dunque la fattualità della matematica quella che sta a cuore a Kant, non tanto la sua astratta necessità logica che avrebbe potuto trovare una diversa giustificazione. Ed è per ga­ rantire nella maniera più assoluta tale fattualità che egli fonda su forme a priori l’atto sintetico che, nella veste della definizione, (25) Prolegomeni, cit., p. 76. (2β) prolegomeni, cit., pp. 85-86. (27) Da questo punto di vista il Martinetti, nel suo commento alla citata edizione dei Prolegomeni (pp. 70-72), ha sostenuto sulla scorta di altri autori (Liebmann, Simmel, Masci), che la concezione kantiana della geometria non è incompatibile con l’esistenza di geometrie non-euclidee, in quanto queste ultime rinunciano a valere sul piano della nostra intuizione sensibile.

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è indubbiamente alla base della matematica, anzi della scienza in generale. Si chiarisce così il vero motivo che sorregge la concezione dell’apriori kantiano. Kant aspira alla giustificazione di una scienza universale e necessaria e assolutamente fattuale, valida per tutti i possibili oggetti della nostra intuizione. Egli non ammette che il valore fattuale della geometria euclidea sia, rispetto a noi, soltanto relativo. In effetti, questa scienza vale per tutti gli oggetti della no­ stra intuizione esterna, appunto perchè questi di fatto continuano a conformarsi a quella certa definizione dello spazio che abbiamo precedentemente astratta da essi. Tuttavia non vi è alcuna im­ possibilità logica, nè alcuna assoluta impossibilità psicologica, che si oppongano all’intuizione di oggetti diversi, conformi ad una diversa definizione dello spazio. In questo senso anche le geometrie non-euclidee possiedono una ipotetica fattualità, val­ gono cioè per eventuali oggetti della nostra intuizione che pos­ sano essere in qualche modo ricondotti sotto le loro definizioni. Respinta l’esorbitante pretesa di Kant, la geometria euclidea, come ci proponevamo di dimostrare, può essere adunque giusti­ ficata senza alcun ricorso a forme a priori, ma semplicemente attraverso quel processo logico che si articola nelle fasi preceden­ temente indicate: esperienza, astrazione, definizione, essenza e proposizione analitica. Lo stesso processo logico è inoltre in grado di giustificare la genesi delle stesse nuove geometrie. Anche quando queste ul­ time si riferiscono ad una nozione di spazio diverso da quello della nostra ordinaria intuizione (ad es., ad uno spazio n-dimensionale), anche in questo caso ci troviamo di fronte ad elabora­ zioni concettuali che hanno il loro necessario punto di partenza nella rappresentazione dello spazio tridimensionale e non pos­ sono perciò, geneticamente, prescindere in maniera assoluta da essa (28). L’idea di uno spazio n-dimensionale è ottenuta, come (28) Proprio in riferimento al rapporto tra la matematica antica e quella

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s’è detto, amplificando la rappresentazione dello spazio tridimen­ sionale mediante l’idea indeterminata di alterità. Ma anche que­ sta idea di alterità, non meno dell’intuizione dello spazio tridi­ mensionale, rientra nell’orizzonte di quell’esperienza integrale, da cui l’intelligenza attinge sempre il materiale di tutte le sue costruzioni, anche le più ardite, di tutte le sue definizioni, anche le più arbitrarie.

4. - La struttura delle proposizioni metafisiche: ne­ cessità E FATTUALITÀ DELLE CONCLUSIONI.

Il caso della metafisica, analogo per molti lati a quello della geometria, è invece, per un importante aspetto, profondamente diverso: le proposizioni metafisiche valgono necessariamente in rapporto a tutti i possibili oggetti. Ciò dipende dalla diversa na­ tura delle definizioni che sono alla base delle due scienze. Si può esprimere tale differenza dicendo che i postulati della geometria definiscono semplicemente le proprietà o condizioni di alcuni oggetti possibili, mentre i principi della metafisica (prin­ cipio di non contraddizione e di ragion sufficiente) definiscono le proprietà o condizioni di qualunque oggetto possibile. Invero gli assiomi della metafisica, enunciando le proprietà essenziali delVessere in quanto essere, rappresentano la definizione implicita di questa stessa nozione. Ora, l’idea dell’essere in quanto essere si distingue da ogni altra nozione primitiva, che possa essere assunta come punto di partenza di una scienza deduttiva, perchè le altre sono nozioni categoriali (ad es. la nozione di spazio per la geometria), mentre l’idea dell’essere in quanto essere è una no­ zione trascendentale, è appunto la condizione cui deve confor­ marsi qualunque oggetto per poter essere reale. moderna, così osserva il Poincaré : « Le antiche nozioni intuitive dei nostri padri, anche quando le abbiamo abbandonate, imprimono ancora la loro forma alle impalcature logiche che abbiamo messo al loro posto» (Il valore della scienza, trad. it. di F. Albergamo, La Nuova Italia, Firenze, 1947, p. 43).

CAP. II. - FONDAMENTO EIDETICO E VALORE « FATTUALE » DEL DISCORSO METAFISICO

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La differenza riveste un’importanza decisiva: essa spiega come, mentre è possibile che ad un sistema di geometria si af­ fianchino altri sistemi, non è assolutamente possibile che ad una metafisica si affianchino, di diritto, altre metafisiche. Perchè, se è pensabile uno spazio diverso da quello della nostra intuizione sensibile, non è in alcun modo pensabile un essere (in quanto essere) diverso da quello che effettivamente pensiamo. Si mani­ festa qui l’essenziale divario che esiste tra il piano dell’intuizione sensibile e il piano del pensiero: l’orizzonte dell’intuizione sen­ sibile è trascendibile in quello più ampio del pensiero; al contra­ rio, l’orizzonte trascendentale del pensiero non può essere in alcun modo trasceso (29). Sembrerebbe così garantita l’unicità, l’universalità e la por­ tata fattuale della metafisica, cioè la necessaria conformità di qualunque oggetto reale alle definizioni di questa scienza. Senonchè c’è una difficoltà che sembra contrastare, o per lo meno limitare, questa conclusione. La metafisica, nel suo insieme, non si limita al livello trascen­ dentale, non è costituita dal solo discorso confutatorio con cui si espongono le proprietà essenziali dell’essere in quanto essere (ontologia pura). Essa si muove anche ad un livello categoriale: vale a dire valuta alla luce dei principi trascendentali alcune no­ zioni categoriali (ad es. quella di movimento}, operando le rela­ tive deduzioni. Ora è chiaro che una nozione categoriale non ha la imprescindibilità propria di una nozione trascendentale e che, perciò, da un punto di vista puramente logico nulla mi garanti­ sce la necessaria applicazione fattuale di tali deduzioni. Ad es., (29) Questa essenziale differenza tra l’orizzonte dell’intuizione sensibile e l’orizzonte del pensiero, è stata con grande chiarezza, anche se con un lin­ guaggio parzialmente diverso dal nostro, messa in luce da G. Bontadini : « Si può pensare una realtà che trascenda l’esperienza, la zona dell’immediatezza o della presenza, ma non si può pensare una realtà che trascenda lo stesso pensiero, considerato nella sua obiettiva intenzionalità » ( « Giornale critico della filosofia italiana», 1956, fase. 1, p. 117).

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PARTE SECONDA - POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

la proposizione che afferma, in linea di principio, che l’ente mo­ bile implica l’immobile, è una proposizione analitica puramente formale, al pari della proposizione della geometria euclidea che afferma che in un triangolo la somma degli angoli interni è uguale a due retti. Entrambe le proposizioni, pur avendo una possibilità di traduzione fattuale, non hanno di per sè un valore fattuale, perchè esse non dicono, rispettivamente, se esista di fatto qual­ che corpo triangolare in cui quella determinata proprietà si rea­ lizzi, o qualche ente mobile implicante effettivamente l’immobile. La difficoltà viene tuttavia superata osservando come la me­ tafisica, nel suo insieme, non sia una pura costruzione logica, ma sia una scienza applicata. L’ontologia pura sta all’intero corpo della metafisica come la geometria pura sta alla sua applicazione agli oggetti dell’esperienza. Ora, il dato dell’esperienza, cui ven­ gono applicati i principi dell’ontologia pura, è desistenza di un ente mobile. Per il principio di ragion sufficiente, l’esistenza di questo ente mobile conduce all’affermazione dell’esistenza del­ l’immobile (30). Ma a questo punto una nuova difficoltà sembra sorgere nei confronti del valore fattuale delle proposizioni di qualunque scienza deduttiva e, perciò, nei confronti della stessa metafisica. La proposizione che afferma la reale esistenza dell’immobile po­ trebbe apparire condizionata all’effettiva percezione di qualcosa che si muove, nel modo stesso in cui la proposizione che afferma che in questa figura triangolare si realizza questa determinata proprietà, è condizionata alla effettiva percezione di questa figura. Sembrerebbe allora doversi concludere che il valore univer­ sale e necessario delle proposizioni analitiche è assoluto solo in rapporto alle pure essenze da cui esse procedono, ma è solo rela­ tivo ed ipotetico in rapporto agli individui in cui quelle essenze si attuano. Più precisamente, il valore fattuale della proposi­ zione che afferma l’esistenza dell’immobile, inferendola da quella del mobile, potrebbe sembrar venir meno, non appena cessasse (30) Cfr. Parte I, Cap. II, pp. 108-111.

CAP. II. - FONDAMENTO EIDETICO E VALORE « FATTUALE » DEL DISCORSO METAFISICO

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l’esistenza o la percezione di ciò che si muove; nel modo stesso in cui la proposizione che afferma l’esistenza di una determinata proprietà in una figura geometrica effettivamente percepita, perde ogni valore ed ogni certezza fattuale, non appena viene a cessare l’esistenza o la percezione di quella determinata figura. Tale conclusione potrebbe apparire del tutto conforme alla dottrina aristotelica, secondo la quale non vi è scienza in senso proprio, non vi è cioè conoscenza necessaria, nei confronti degli individui contingenti; il che equivale a dire che il valore fattuale della scienza (delle definizioni e delle dimostrazioni) è solo ipo­ tetico, condizionato cioè all’esistenza di determinati oggetti con­ formi alle definizioni; esistenza che può ad ogni istante venir meno e che, comunque, può esserci testimoniata, di volta in volta, solo dall’atto concreto della percezione. « Delle sostanze sensibili particolari non c’è nè definizione, nè dimostrazione, perchè contengono materia, la cui natura è tale da poter tanto essere che non essere: perciò queste sostanze particolari son tutte corruttibili. Se adunque la dimostrazione ha per oggetto le cose necessarie e la definizione appartiene alla scienza, e non può essere che questa sia ora scienza ora ignoranza (ma tale è invece l’opinione che non comporta nè dimostrazione nè definizione, in quanto l’opinione concerne ciò che può essere anche altrimenti), è chiaro che di tali sostanze non c’è nè defini­ zione nè dimostrazione. Infatti le cose corruttibili non possono essere osservate da coloro che fanno scienza, quando esse si al­ lontanano dai sensi, e, salvi restando i ragionamenti nell’anima, di esse non vi è più nè definizione nè dimostrazione » (31). Mi sembra che dal passo citato risulti una notevole analogia tra la negazione empiristica del valore fattuale delle proposizioni universali e necessarie e la negazione aristotelica della possibilità di pervenire ad una conoscenza apodittica circa gli oggetti sen­

(31) Met., VII, 1039 b 27-1040 a 5; cfr. ancora Met,, VII, 1036a 2-9; III, 999 b 1-5; XIII, c. X.

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PARTE SECONDA - POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

sibili particolari. Tale analogia non deve però farci dimenticare che tra le due posizioni intercorre una sostanziale differenza, cui sono legate le sorti stesse della metafisica. L’esigenza infatti di questa disciplina è quella di pervenire a delle conclusioni assolu­ tamente necessarie ed indefettibili anche sul piano dell’esistenza reale e non semplicemente su quello delle pure essenze. Ora, que­ sta esigenza della metafisica è assolutamente respinta nella posi­ zione empiristica, perchè in essa la negazione del valore fattuale delle proposizioni necessarie ha il significato più ampio che le si possa dare, equivale cioè alla negazione di qualsiasi valore on­ tologico (32). Al contrario, la negazione aristotelica della possibi­ lità di pervenire a delle affermazioni assolutamente necessarie in materia di esistenza, concerne non l’esistenza in generale, ma soltanto l’esistenza delle cose sensibili soggette a corruzione. Na­ turalmente l’empirismo non avverte questa essenziale differenza, come risulta dallo stesso uso generico del termine « fattuale », perchè, dal canto suo, ha già risolta tutta la realtà nella serie dei « fatti » contingenti. Si tratta però di una posizione che l’empi­ rismo non è in grado di sostenere in quanto una tale pretesa ri­ sulterebbe contraddittoria nei confronti della sua stessa nega­ zione del valore fattuale delle proposizioni necessarie: dire infatti che ogni esistenza è necessariamente una esistenza contingente è già formulare una proposizione necessaria in materia di esistenza! La posizione aristotelica adunque esclude la possibilità di proposizioni necessarie solo sul piano delle cose corruttibili, ma non la esclude sul piano delle sostanze eterne. È a questo

(32) È significativo a questo proposito che si usi talora il termine « fat­ tuale» anche in relazione al linguaggio della teologia, dove il termine in questione appare particolarmente improprio, indicando originariamente la pa­ rola « fatto » qualcosa di contingente, che non può non essere estraneo al concetto della realtà divina. Tale uso del termine fattuale si ritrova, ad es., in Ryle, quando parla di (presunte) conclusioni fattuali della teologia (« thè factual conclusions of theology » ). Vedi The nature of Metaphysics, cit., Final Discussion, p. 149.

CAP. Π. - FONDAMENTO EIDETICO E VALORE « FATTUALE » DEL DISCORSO METAFISICO

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punto che appare l’irriducibile originalità del discorso metafisico nei confronti di ogni altra scienza analitica applicata. Mentre infatti, per rimanere al consueto esempio, una proposizione di geometria applicata ha un valore fattuale soltanto ipotetico, le­ gato cioè al permanere dell’effettiva figura triangolare e dell’atto percettivo che la riconosce; la proposizione metafisica, che af­ ferma l’effettiva esistenza dell’immobile, si presenta fornita di un valore « fattuale » assoluto, cioè è valida anche nel caso in cui venisse a cessare l’esistenza o la percezione di quella particolare realtà cui inizialmente appare legata. Invero, non ha affatto im­ portanza che in questo caso la dimostrazione sia legata alla co­ statazione di una realtà contingente. Se la conclusione è vali­ damente dedotta, essa è l’affermazione dell’esistenza di un Im­ mobile, nel senso metafisico dell’espressione, che è quello di un Essere che ha in sè la propria ragion sufficiente e la cui esistenza è perciò indefettibile, non condizionata alla permanenza di quella realtà contingente da cui la dimostrazione ha preso le mosse. A voler ora indagare la diversa struttura logica delle due proposizioni, quella della geometria applicata e quella della me­ tafisica, potremmo osservare che, quanto alla proposizione della geometria (euclidea) applicata (« in questo triangolo la somma degli angoli interni è uguale a due retti »), essa trova il suo fon­ damento in una essenza (la struttura triangolare, definita in am­ biente euclideo) individuata in un particolare oggetto contin­ gente: tolto questo, è tolta la proposizione nella sua portata fat­ tuale. Nel caso invece della proposizione metafisica più volte indicata (« questa realtà diveniente richiede come propria ragion sufficiente l’immobile »), essa trova il suo fondamento in una essenza (la relazione di ragion sufficiente) rispetto alla quale la realtà diveniente costituisce soltanto uno dei due poli in cui la essenza stessa si individua. Venendo meno il polo contingente, vien meno anche la sua relazione alla ragion sufficiente, ma non è tolta la ragion sufficiente in se stessa (l’immobile), che costi­ tuisce l’altro polo, quello non contingente, della relazione in questione.

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PARTE SECONDA - POSSIBILITÀ E STRUTTURA DEL DISCORSO METAFISICO

5. - Conclusione: ritorno al concetto di esperienza in­ tegrale.

Le considerazioni fin qui svolte hanno avuto lo scopo di di­ fendere, contro gli attacchi empiristici, la possibilità di proposi­ zioni metafisiche valide necessariamente sul piano « fattuale » o, meglio, ontologico. Tali proposizioni, come altrove s’è detto (83), rappresentano la conclusione di un sillogismo di cui la premessa maggiore è una proposizione analitica puramente formale (ad es., « Ciò che diviene implica l’immobile »), la premessa minore è una proposizione sintetica fattuale (ad es., « qualcosa effettiva­ mente diviene »), e la conclusione è una proposizione analitica necessaria e, ad un tempo, assolutamente valida anche sul piano « fattuale » (ad es., « esiste l’immobile »). Affinchè il sillogismo sia corretto, è necessario che il termine « divenire » abbia nella premessa maggiore lo stesso significato che esso ha nella premessa minore; vale a dire è necessario che nella maggiore si sia convenuto (e perciò di convenzione ancora si tratta) di assumere l’essenza del divenire esattamente come essa si trova attuata negli enti mutevoli che l’esperienza ci offre. Ritroviamo così alla fine di questa nostra indagine quello che è il vero punto di partenza di tutto il processo dimostrativo. Tale punto di partenza è l’esperienza: ma l’autentica esperienza, ac­ colta senza arbitrarie amplificazioni, ma anche senza arbitrarie mutilazioni; in una parola, Γesperienza integrale. Nella sua struttura essenziale, l’esperienza integrale è costi­ tuita dalla percezione di un qualche cosa che muta dentro l’oriz­ zonte trascendentale dell’essere, di quell’essere che, in ogni caso, ci si impone come incontraddittorio e come fornito d,i una ragion sufficiente o fondamento assoluto (84). (33) Cfr. Parte II, Cap. I, § 7. (M) Ad un risultato analogo, benché attraverso una via diversa, è giunto E. Berti nel saggio Dimostrazione e metafisica in Aristotele, in Autori vari,

CAP. II. - FONDAMENTO EIDETICO E VALORE « FATTUALE » DEL DISCORSO METAFISICO

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L’inquietudine o problematicità dell’esperienza integrale na­ sce dall’avvertimento dell’impossibilità di identificare ciò che è soggetto a mutamento con il fondamento assoluto, senza incor­ rere nella contraddizione. La problematicità dell’esperienza è dunque già per se stessa testimonianza della trascendenza delΓAssoluto sulla realtà che diviene. È chiaro che questo avvertimento e questa testimonianza sono il risultato di una mediazione originaria che si istituisce tra il piano della sensibilità e quello delle strutture noetiche, e al di là della quale non possiamo retrocedere senza uscire dall’ambito stesso della conoscenza (35). Di qui la necessità di identificare la mediazione originaria con la forma primigenia di conoscenza, cioè con l’esperienza integrale. Senonchè la mediazione originaria, proprio perchè tale, è soltanto una mediazione implicita che richiede di essere espli­ cata. Ed è questa la funzione del sillogismo. Le due premesse analizzano ciò che nell’esperienza integrale è intimamente unito: l’aspetto essenziale e l’aspetto esistenziale (o fattuale). La pre­ messa maggiore mette in evidenza la necessità del rapporto che lega la possibilità del divenire all’esistenza dell’immobile; la premessa minore mette in evidenza l’effettiva esistenza del diveTeoria della dimostrazione, Gregoriana, Padova, 1963. « La vera premessa è l’esperienza degli enti in divenire, considerata nella sua totalità, cioè per mezzo della nozione di essere » (p. 24). (3o) Questa mediazione originaria tra il piano della sensibilità e quello delle strutture noetiche, che entra a costituire l’esperienza integrale, altro non è che la presenza virtuale della ragione nell’esperienza stessa, di cui parla M. Gentile nel saggio Come si pone il problema metafisico, Liviana, Padova, 1955, pp. 109-120: «L’empiria, se per un lato condivide il carattere imme­ diato della conoscenza sensibile, per altro riguardo porta dentro di sè non un’esigenza astratta e vuota, ma la virtualità e la potenzialità del procedi­ mento della ragione ». Quindi « porre l’esperienza nella sua schiettezza signi­ fica anche riconoscere nell’esperienza quella virtualità e potenzialità, per cui l’esperienza trova la propria soddisfazione e il proprio compimento nella ragione» (p. 110).

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parte seconda

-

possibilità e struttura del discorso metafisico

nire; la conclusione chiarisce la necessaria esistenza dell’Immobile, richiesta dall’esistenza del divenire. È evidente tuttavia che ciò che nel sillogismo, cioè sul piano del pensiero esplicito o riflesso, è presentato come conclusione, è in realtà il punto di partenza sul piano del pensiero implicito o atematico: è l’originario riconoscimento della relazione necessa­ ria che stringe il relativo (la realtà che diviene) all’Assoluto. Se non temessimo di essere fraintesi, saremmo tentati di parlare di esperienza della relazione creaturale. Ad evitare equivoci, è necessario ad ogni modo chiarire che in tale esperienza l’Assoluto è attinto soltanto nel suo rapporto con il relativo. Ciò spiega come l’affermazione dell’esistenza dell’Assoluto sia condizionata nel suo porsi, ma indefettibile una volta che sia stata posta: non conosceremmo l’Assoluto se, ad un tempo, non conoscessimo il relativo, ma, una volta riconosciuto l’Assoluto, esso è riconosciuto come tale, cioè con la necessità della sua esistenza. Esperienza integrale, resa oscura (atematica), in molti suoi aspetti, dalla sua stessa pregnanza teoretica; discorso confutatorio, rivolto ad esplicare l’orizzonte noetico di tale esperienza; argomentazione sillogistica, diretta a chiarire quanto può essere affermato universalmente e necessariamente sul piano « fat­ tuale »: ecco in sintesi le tappe attraverso le quali procede il discorso metafisico, che potremmo conclusivamente definire la esplicitazione della struttura essenziale dell’esperienza integrale, secondo il metodo della problematizzazione radicale.

APPENDICE I

Avvertenza. - Riproduciamo in questa Appendice l’articolo Introduzione ad una fenomenologia dell’esperienza integrale (Studia Patavina, 1959, fase. 2, pp. 287-384), perchè riteniamo sia utile a chiarire ulteriormente quel con­ cetto di « esperienza integrale » al quale il presente Saggio fa costante rife­ rimento. Non vi è alcuna differenza di pensiero (a parte il diverso grado di svi­ luppo) tra quanto si trova scritto nella Introduzione e quanto è detto nel Saggio, ma piuttosto qualche lieve diversità di linguaggio, che in genere non richiede neppure di venir segnalata. Su di un solo punto riteniamo di dover richiamare l’attenzione, e pre­ cisamente sul § 3 della Introduzione («Esperienza e giudizio »), nel quale si faceva il tentativo di introdurre una nuova classificazione dei giudizi, in opposizione a quella kantiana, adottando una nuova terminologia. Nella seconda Parte del presente Saggio siamo ritornati sull’argomento (vedi in particolare Cap. I, §§ 5 e 6; Cap. II, § 1) e, pur senza modificare nella sostanza la nostra posizione al riguardo, abbiamo creduto opportuno ritornare alla terminologia tradizionale (distinzione delle proposizioni in analitiche a priori e sintetiche a posteriori). Avendo infatti riconosciuta ancora valida questa terminologia, non abbiamo voluto privarci dal vantaggio of­ ferto dalla sua notorietà e familiarità, anche in relazione alla nostra polemica con l’empirismo e al nostro sforzo di operare un confronto critico tra empi­ rismo e kantismo sulla base di un linguaggio unificato.

INTRODUZIONE AD UNA FENOMENOLOGIA

DELL’ESPERIENZA INTEGRALE

1. - L’esperienza come originaria mediazione. Mi trovo nel giardino della mia casa. Sono seduto su di una panchina. Di fronte a me c’è un cedro mosso leggermente dal vento. L’avvertimento di questa situazione complessiva chiamo esperienza; i singoli elementi inseriti in questa situazione (il giar­ dino, la casa, il cedro, la panchina su cui sono seduto, me stesso che sto seduto osservando) chiamo oggetti di esperienza. Ho enumerato alcuni oggetti soltanto di questa mia espe­ lla presente Introduzione è strettamente legata al volume Esperienza e Metafisica (Liviana, Padova, 1959), nel quale, attraverso alcuni saggi critici sulla filosofia italiana contemporanea, siamo venuti chiarendo ed elaborando, in rapporto alla attuale problematica, un nostro personale punto di vista. Il nuovo saggio, che qui presentiamo, intende esserne una più approfondita ed organica formulazione. Perchè questa non risultasse eccessivamente appesan­ tita, abbiamo tralasciata la documentazione minuta e i riferimenti precisi a questo o a quell’Autore, limitandoci in genere a qualche breve annotazione e a qualche rinvio al detto volume, dove quella documentazione e quei ri­ ferimenti sono contenuti. Ciò non significa che questa Introduzione, anche presa in se stessa, non possieda una sua autonomia. Questa le è oltretutto assicurata dal carattere fenomenologico della ricerca stessa, che rifacendosi da principio al linguaggio comune (intendiamo sottolineare, ad evitare frainten­ dimenti, l’iniziale ricorso a questo linguaggio nella definizione dei termini), si richiama a dei dati originari disponibili a tutti, fa ricorso a degli stru­ menti di verifica che ognuno è in grado di usare per proprio conto. 7 — P. Faggiotto, Saggio sulla struttura della metafisica.

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APPENDICE I

rienza globale, i primi che hanno attratta la mia attenzione. Se mi soffermo ancora ad osservare, vedo sullo sfondo, dietro il cedro, la cancellata del giardino, più in là, la strada e, più in là ancora, confuse tra gli alberi, alcune case. Mi giunge all’orecchio il cinguettio di alcuni uccelli, più lontano avverto i rumori del traffico. Anche questi sono oggetti della mia esperienza, ma non ne occupano il centro e rimangono come sullo sfondo. Mentre tuttavia sto facendo questa considerazione, m’accorgo che la mia attenzione s’è spostata. Il centro della mia esperienza è ora occupato proprio da ciò che prima era sullo sfondo, mentre ciò che prima era al centro s’è spostato alla periferia. La mia at­ tenzione s’è concentrata proprio su ciò che vedo e sento meno distintamente; anzi, se penso alla città che si stende dietro a quelle ultime case e a cui il mio sguardo non giunge, m’accorgo che il centro della mia esperienza è occupato da ciò che io, in questo istante, non vedo e non sento affatto. Questa esperienza di ciò che attualmente non vedo e non sento chiamo pensiero e i suoi oggetti idee f1), l’esperienza di ciò che vedo e sento chiamo percezione; e questo vedere e sen­ tire sensazione. L’attenzione che si dirige verso questo o quel punto della esperienza complessiva chiamo coscienza. La sfera della esperienza complessiva, nel duplice ordine P) Che il pensiero possa estendersi oltre l’orizzonte degli oggetti attual­ mente percepiti, a quelli cioè percepiti in passato o a quelli di una possibile percezione futura, ciò risulta dalla stessa esperienza ed è perciò fuori discus­ sione. Discutibile invece potrebbe apparire questo considerare il pensiero come una forma di esperienza. Una duplice considerazione ci ha convinti ad adottare, sull’esempio altrui, questa terminologia: in primo luogo, il fatto che nel pensiero si riscontra, sotto diverso aspetto, lo stesso carattere di at­ tualità che è proprio della percezione (ciò che è pensato, se non è attual­ mente percepito, è tuttavia, come è ovvio, attualmente pensato); in secondo luogo, il fatto che pensiero e percezione sono così strettamente legati tra loro, si condizionano reciprocamente in una forma così radicale (come ri­ sulterà dalla presente analisi), da costituire una unità inscindibile, che è ap­ punto l’esperienza integrale.

INTRODUZIONE

AD UNA

FENOMENOLOGIA

DELL’ESPERIENZA

INTEGRALE

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della percezione e del pensiero, risulta più ampia della sfera della coscienza. La coscienza è infatti per sua natura selettiva. Essendo attenzione verso un determinato oggetto è, per ciò stesso, disat­ tenzione verso gli altri. Questa disattenzione è tuttavia corre­ lativa all’attenzione: è cioè avvertimento oscuro di quei termini in riferimento ai quali l’attenzione stessa si dirige verso il suo proprio oggetto. Questo avvertimento oscuro chiamo subconscio. Il subconscio non è la negazione assoluta della coscienza. Tra coscienza e subconscio vi è una differenza di grado. Si tratta di gradi diversi di quell’avvertimento che è l’esperienza in genere. Fa parte dunque dell’esperienza attuale anche ciò di cui non sono attualmente consapevole, ma di cui tuttavia ho un oscuro avvertimento e a cui successivamente la mia consapevolezza si estende con lo spostarsi del fuoco della mia attenzione. Se questo è occupato tutto dalla percezione del cedro, la sfera del subcon­ scio è occupata dalla percezione del giardino, da quella del quar­ tiere e, più in là ancora, dall’idea della città e, via via, della re­ gione, del mondo intero, della totalità stessa cioè in cui penso inseriti questi singoli oggetti. E la mia percezione del cedro non avrebbe esattamente lo stesso valore che essa in effetti ha, tolto questo riferimento alla totalità degli altri oggetti più o meno chiaramente percepiti o pensati. Per questo riferimento il cedro è colto non come una monade a sè stante, ma come parte di un intero variamente articolato, e questo intero costituisce la sfera dell’esperienza totale. Il riconoscimento del piano del subconscio come parte inte­ grante della sfera totale dell’esperienza è, a nostro avviso, di grande importanza per determinare l’autentica struttura di que­ sta. Molte concezioni inadeguate dell’esperienza trovano infatti la loro causa nella mancanza di tale riconoscimento. Se si tiene in­ vece presente l’organica connessione di ogni oggetto consapevol­ mente esperito con l’indefinita varietà degli altri oggetti incon­ sciamente percepiti o pensati, si potrà innanzi tutto comprendere in che senso si possa e in che senso non si possa parlare di espe­ rienza immediata.

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APPENDICE I

L’esperienza è sempre mediazione, in quanto qualunque suo particolare oggetto è colto mediante il suo riferimento agli altri. Tuttavia il contesto intero dell’esperienza, in quanto non è me­ diato in rapporto ad altro, può dirsi immediato. La polemica sul carattere immediato o mediato dell’esperienza, mi sembra si possa risolvere riconoscendo l’esperienza come Γimmediato, origi­ nario presentarsi di una mediazione. Il riconoscimento della struttura intrinsecamente mediata del­ l’esperienza giova ancora a chiarire il rapporto che intercorre tra esperienza e discorso. Se l’esperienza è per sua natura mediazione, il passaggio dall’esperienza al discorso non deve essere concepito come il passaggio dall’immediato alla sua mediazione, ma come il chiarirsi, l’esplicitarsi di una originaria mediazione. Non c’è adunque soluzione di continuità tra esperienza e discorso. Si tratta della distinzione tra due momenti di una stessa realtà: un momento in cui l’interna mediazione o articolazione è germinale ed implicita e un momento in cui la mediazione si sviluppa, si rende esplicita, si allarga a nuovi termini, senza che il nuovo distrugga la permanente identità di quella realtà originaria nella sua struttura essenziale; esattamente come un organismo vivente conserva la propria identità lungo tutto il suo sviluppo, così da potersi escludere una sostanziale eterogeneità tra l’embrione e l’adulto. L’esperienza sta appunto al discorso come l’embrione all’adulto: in essa già si profilano i lineamenti essenziali lungo i quali si articolerà il discorso. A chi intenda in questo modo il rapporto tra esperienza e discorso compete l’obbligo di risalire alla determinazione della struttura essenziale di quella esperienza integrale dalla quale il discorso procede. Abbiamo visto nella precedente analisi come la percezione consapevole del cedro fosse condizionata dall’avvertimento più o meno chiaro di una serie degradante di piani, l’ultimo dei quali era costituito dall’idea della totalità. Tale idea, formalmente con­ siderata, non risulta dalla somma dei singoli oggetti attualmente percepiti o pensati, perchè la sua estensione non aumenta affatto

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AD

UNA

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con il sopraggiungere di nuovi oggetti: essa è sempre là, sullo sfondo, e in essa ogni nuovo oggetto sembra già trovar preparato il suo posto; per quanto aumenti il numero degli oggetti, la sua capacità di contenerne ancora rimane assolutamente intatta: essa è la totalità dei possibili oggetti d’esperienza. E poiché ogni og­ getto, percepito o pensato, si presenta come un qualche cosa, come un essere, essa può anche dirsi la totalità degli esseri possibili. Nella storia del pensiero tale idea è stata più volte ricono­ sciuta e variamente denominata. Per Tommaso è l’ente nel suo significato trascendentale, per Kant è l’ideale trascendentale della possibilità tutta (gesamte Moglichkeit), per Rosmini è l’essere possibile. In rapporto a questa idea gli oggetti dell’esperienza si pre­ sentano come particolari modi o determinazioni della possibilità tutta, deU’e55ÉTe: non dunque semplicemente visti come lumi­ nosi, ad esempio, o come verdi, ma percepiti o pensati come es­ seri. Ciò adunque che realizza l’unità dell’esperienza e la sua permanente identità con il discorso è l’idea dell’essere. Per quanto infatti il discorso si sviluppi e proceda di oggetto in oggetto, non trascenderà mai l’orizzonte di una realtà originariamente, anche se oscuramente, colta fin dalla più germinale esperienza. L’idea dell’essere, condizione suprema dell’esperienza di qua­ lunque essere, non precede tuttavia mai completamente l’espe­ rienza dei singoli esseri. Nell’esperienza non ci è mai data la sola idea dell’essere fuori di qualunque rapporto con gli esseri par­ ticolari, allo stesso modo che non ci è dato vedere un sfondo se non in rapporto a qualche oggetto che sullo sfondo si stagli. Poiché tuttavia noi ci siamo accorti che la nostra idea del­ l’essere precede l’esperienza di questo o quel determinato og­ getto, ci siamo talora illusi di poterla intuire per se stessa, im­ mediatamente, mentre la riflessione sulla concreta esperienza ci mostra che essa ci è sempre data in connessione con qualche og­ getto determinato, cioè mediatamente, così come mediatamente ci è dato qualunque altro oggetto, anche se essa è tra tutti il più

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APPENDICE I

esteso e comprensivo. Immediatamente, nel senso in cui s’è detto, non ci è data che l’esperienza nella sua interezza. Questa, per quanto la nostra analisi ha fin qui messo in luce, è esperienza de­ gli esseri in rapporto all’essere ed esperienza dell’essere in rap­ porto agli esseri; benché, solitamente, l’idea dell’essere non oc­ cupi il centro della nostra attenzione, la quale è piuttosto at­ tratta dalla mutevole varietà dei singoli oggetti che non dal per­ manere dello stesso identico orizzonte. È della massima impor­ tanza tener presente questo carattere mediato dell’esperienza dell’essere: se si pretende di intuire l’idea dell’essere per se stessa, essa si tramuta subito in un nome vuoto, senza senso. La obiezione nominalistica contro l’idea dell’essere nasce dal fatto che si dimentica che la sua intelligibilità richiede il rapporto ai singoli esseri (2). Di contro all’immutabile orizzonte costituito dalla totalità del­ l’essere possibile, la pluralità degli esseri percepiti presenta in­ vece il carattere della più grande mobilità. Oggetti sempre nuovi si presentano sul piano della percezione, inserendosi nella più ampia sfera dell’essere possibile, di cui vengono a determinare alcuni degli infiniti modi; altri oggetti escono dal piano della per­ cezione, rimanendo tuttavia sul piano del pensiero o come idee determinate o riassorbiti nell’indeterminatezza dell’essere possi­ bile. La mutabilità degli oggetti di percezione è, accanto all’idea (2) L’aver considerata l’idea dell’essere come una nozione innata, data al nostro intelletto indipendentemente dalla esperienza di qualunque oggetto particolare, in ciò consiste, a nostro avviso, l’equivoco della posizione rosminiana. L’intelligibilità dell’essere universale indeterminato richiede un rap­ porto con qualche determinazione particolare. Il primo in ordine alla nostra conoscenza è ciò che Rosmini chiama percezione intellettiva, rispetto alla quale l’intuito dell’essere è una condizione interna e non un momento ante­ cedente. Verso questo superamento dell’equivoco rosminiano mi sembra muo­ versi M. F. Sciacca, come abbiamo cercato di mettere in luce altrove (cfr. il saggio 11 problema dell’esistenza dì. Dio nella filosofia di M. F. Sciacca, in Esperienza e Metafisica, cit., pp. 171-173).

INTRODUZIONE

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UNA

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dell’essere possibile, il secondo lineamento essenziale della strut­ tura dell’esperienza. Connesso con il mutamento degli oggetti della percezione, un terzo lineamento si manifesta. Esso si profila dietro alla stessa domanda che sorge in me di fronte alla percezione di un nuovo oggetto: donde questo oggetto? donde il nuovo essere che prima non era? La ricerca della fonte, del principio, della causa, del fonda­ mento di ciò che muta è una delle principali forme del discorso. Si noti bene che la domanda non è se ci sia un fondamento, ma quale sia il fondamento. Che ci debba essere un fondamento è già scontato nella stessa domanda. E si noti ancora che la domanda è una domanda totale, che punta già verso il fondamento ultimo, assoluto; essa alimenta infatti il regresso continuo, indefinito, ol­ tre ogni forma di fondamento che si riveli a sua volta soggetto a mutamento e perciò bisognevole di una ulteriore giustificazione. È dunque l’esistenza, l’attualità di un fondamento ultimo, di un assoluto, quello che è il remoto presupposto di ogni domanda, anche la più banale, mentre è il presupposto prossimo della do­ manda metafisica più radicale. Tale presupposto è il terzo linea­ mento essenziale dell’esperienza integrale. Lo chiameremo espe­ rienza dell’Assoluto, usando appunto il termine esperienza, a sot­ tolineare il fatto che si tratta di un apprendimento originario, con­ dizione e non risultato del discorso. Il discorso potrà chiarire la natura dell’Assoluto, ma non dimostrarne l’esistenza, perchè è dalla certezza di questa che esso è perennemente sollecitato (3). (3) Sull’espressione « esperienza dell’Assoluto » s e svolta tra il Prof. Bon­ tadini e noi una discussione in uno scambio di note, raccolte poi nel volume Esperienza e Metafisica (vedi in particolare le pp. 15-16; 23-24, 26-27; 30-32; 39-40; 44-45; 56-57; 67-68; 83-86). In relazione al nostro concetto di esperienza dell’Assoluto, superato l’equi­ voco iniziale che esso sottintendesse una posizione immanentistica o che esso equivalesse alla visione beatifica o all’esperienza mistica, e chiarito che si intendeva parlare di « esperienza dell’Assoluto come certezza originaria della sua esistenza » (p. 32 ), il Bontadini ci concedeva che « l’idea dell’assoluto

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APPENDICE I

Presupposto del discorso, l’esperienza dell’Assoluto non è tuttavia una nozione assolutamente immediata, che si offra per se stessa, al di fuori di ogni relazione con la restante esperienza. Essa infatti si manifesta soltanto in rapporto al mutare degli oggetti della percezione, dentro l’orizzonte dell’essere totale. Fuori di questo rapporto il termine stesso di Assoluto diviene insignifi­ cante. D’altro canto l’esperienza del mutamento, come effettiva­ mente ed integralmente si manifesta, con quella nota cioè di in­ verifica in sè la nota dell’immediatezza, che è nota propria dell’esperienza», proponendo un accordo sulla formula « esperienza dell’idea dell’Assoluto » (p. 57). Ciò che invece il Bontadini non ammetteva in alcun modo era la tesi di una « certezza originaria, indeducibile, che un assoluto non può non esserci » (p. 68). « Che cosa si oppone — si domanda il Bontadini — a chi negasse tale certezza? Il Faggiotto — egli continua — accetta il modo da me proposto di esporla o formularla: l’Assoluto è reale, perchè, se lo togli via, quel che resta è desso l’Assoluto. Dove il termine assoluto equivale, sintatticamente, a quello di totalità del reale. La totalità del reale è reale, perchè, se non lo fosse, la parte sarebbe il tutto. Da questa esposizione della certezza risulta che essa non è fondata sulla presenza dell’Assoluto o della totalità, ma sulla presenza della ragione (la predetta contraddizione in cui cadrei se negassi l'asserto) per cui io affermo la realtà dell’Assoluto o della totalità. E questa è precisamente la natura della conoscenza mediata, in contrapposto all’esperienza. Se la totalità del reale o l’Assoluto fosse presente come tale, non avrei bisogno di ricorrere a nessuna considerazione discorsiva, e sia pur modestissima, come quel " se togli via ", o simili » (pp. 83-84). Da parte nostra, se ci è permesso ritornare ancora su tale questione, diremo anzitutto che nella argomentazione « togli via l’Assoluto, quel che resta è lui l’Assoluto», così come all’inizio (p. 27) era stata dal Bontadini formulata (la seconda formulazione ci piace meno perchè, oltretutto, po­ trebbe far pensare che si accettasse la soluzione immanentistica), il termine assoluto non equivalente affatto a quello di totalità del reale, ma a quello di realtà incondizionata, autosufficiente, autofondantesi. Si diceva infatti che, se un tale assoluto non si riscontra in una determinata realtà, si dovrà riconoscerlo al di là di essa. La considerazione discorsiva esiste indubbiamente anche in questo caso, ma ciò che, a rigore, risulta dimostrato è la trascendenza delΓ Assoluto, una volta che ne sia negata l’immanenza, non l’esistenza dell’Asso-

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sufficienza per cui non ci è dato di acquietarci in esso, è tale per­ ii suo rapporto con l’esperienza dell’Assoluto. La domanda « donde? » rivela questa originaria mediazione tra due piani di una indivisibile esperienza, la sola che, nella sua interezza, possa dirsi immediata. È questo, per quanto ci è dato finora di scorgere (una più approfondita analisi potrà infatti mettere in evidenza altri ter­ mini ed ulteriori articolazioni), il profilo essenziale dell’esperienza integrale: originaria mediazione tra quei termini nel cui ambito si svolgerà il successivo discorso, anzi, essa stessa, discorso in­ cipiente.

2. - Esperienza e discorso. Una delle esigenze che più spesso si ripresenta nella storia del pensiero e che è particolarmente avvertita nella cultura con­ temporanea, è quella di liberare il campo della coscienza da ogni presupposto ingiustificato, da ogni concetto non chiaramente fon­ dato, per rifarsi attraverso V epoche ad una esperienza ingenua, luto che è evidentemente già presupposta. Infatti le due proposizioni : « l’Assoluto è immanente », « l’Assoluto è trascendente », sono contraddittorie (così che dalla negazione dell’una l’altra risulta affermata) solo se sia già stata esclusa una terza possibilità, che cioè l’Assoluto non si dia affatto. Tuttavia, se la dimostrazione concerne la trascendenza dell’Assoluto, essa mette in evidenza la certezza originaria su cui si fonda. Riteniamo anzi che questa certezza non abbia modo di manifestarsi al di fuori di questa o di altra dimostrazione. Perciò dice bene il Bontadini che « se l’Assoluto fosse presente come tale, non avrei bisogno di ricorrere a nessuna considerazione discorsiva ». La certezza infatti dell’esistenza dell’Assoluto è sì originaria, nel senso che non è il risultato di un discorso, ma non è immediata, cioè non è data al di fuori di ogni rapporto con altri termini dell’esperienza, al di fuori di un qualche discorso, almeno implicito. Potremmo anche dire che resistenza di un Assoluto, se non è rivelata dal discorso (nel senso che sia il discorso a fondarla), si rivela tuttavia nel discorso (nel senso in cui, ad es., si dice che la causa si rivela in occasione del manifestarsi dell’effetto).

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APPENDICE I

scevra da ogni sovrastruttura metafisica, da ogni retaggio delle varie tradizioni scientifiche e filosofiche. Tornare all’esperienza primitiva per guardare con occhi puri alle cose e riconoscerle nella loro autentica fisionomia, è la parola d’ordine che da più parti si continua a ripetere. Questo sforzo di ritornare all’ingenuità primitiva rischia però di rivelarsi, esso, una grossa ingenuità. Se per ingenuità primitiva si intende una percezione immediata delle singole cose, una vi­ sione neutrale di esse, scevra da ogni esigenza metafisica, non è possibile ritornare ad essa, perchè una tale condizione non è mai esistita. Si tratta di un mito analogo a quello del selvaggio, del­ l’uomo allo stato di natura precedente lo stato sociale, una delle più artificiose finzioni dell’età illuministica. L’esperienza originaria infatti, anche nella sua forma più ele­ mentare, presenta una struttura mediata in cui è la radice di tutte le successive mediazioni e delle stesse costruzioni metafisiche. Se così non fosse, come spiegare il passaggio che ad un certo punto si sarebbe prodotto dallo stadio di immediatezza allo stadio di mediazione? Il tentativo di risalire ad una esperienza assolutamente im­ mediata si risolve in effetti in una depauperazione dell’autentica esperienza integrale che, di sottrazione in sottrazione, rischia di venire completamente nullificata. Non si tratta adunque di risa­ lire ad una esperienza ingenua che escluda qualunque mediazione, ma di riconoscere il carattere di originaria mediazione proprio dell’esperienza, di descriverne la struttura nelle sue linee essen­ ziali, per trovare in essa la possibilità di verificare tutte le parti­ colari mediazioni operate dal discorso filosofico nel corso della storia; nel modo stesso in cui, conservando il paragone tra l’inda­ gine gnoseologica e quella politica, la valutazione di determinate istituzioni sociali non si ottiene risalendo ad un fantastico stato di natura presociale, ma riconoscendo l’originaria natura politica dell’uomo per giudicare della corrispondenza di quelle a questa. D’altra parte, una volta che ci si accingesse all’impresa di puri­ ficare l’esperienza da un certo numero di termini che in essa non

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troverebbero fondamento, resterebbe pur sempre da spiegare da quale parte essi si siano ad un certo punto introdotti. Se l’unica autentica fonte della nostra conoscenza è la pura esperienza, non dovrebbero presentarsi in nessun modo nel nostro discorso ter­ mini non empiricamente fondati. È la difficoltà principale del­ l’empirismo humiano: se l’esperienza non ci presenta mai una connessione necessaria tra i fenomeni (rapporto di causalità), come avviene che ad un certo punto noi ci troviamo a pensare a tale connessione? L’abitudine può sì generare l’equivoco tra la rappresentazione di un rapporto costante, ma tuttavia sempre contingente, e quella di un rapporto assolutamente necessario, ma non può da sola generare l’idea di un tale rapporto. Quel di più che c’è in questa idea, cioè la nozione di necessità, non può trovare adeguata spiegazione nei termini dell’empirismo humiano. Si comprende così il progresso compiuto da Kant su Hume nella soluzione di questo problema. La nozione di causa non de­ riva dall’esperienza (intesa in senso humiano), ma è a priori, è un concetto originario della ragione. Tale concetto tuttavia è per sè vuoto, è la sola condizione perchè il fenomeno sia pensato e da intuizione cieca si trasformi in vera e propria esperienza. Ma ecco allora che il concetto stesso di esperienza è venuto a mutare: essa non è più il fenomeno, come lo concepiva Hume, ma la sintesi di fenomeno e concetto puro, di senso e di pensiero, fuori della quale non esiste alcuna conoscenza. Nei confronti di questo nuovo e più integrale concetto di esperienza, il concetto di causa (come pure le altre categorie dell’intelletto) non potrebbe più dirsi a priori. Esso infatti ci è dato nel contesto dell’espe­ rienza, indissolubilmente congiunto con gli altri elementi di essa; ed è solo per una ricaduta sul piano dell’empirismo humiano che Kant ne fa un concetto puro, indipendente dall’esperienza (4). (4) Osserva a questo proposito il Dewey che Kant accettò dallo Hume « il particolarismo dell’esperienza e procedette a supplirvi da fonti non em­ piriche ... Il risultato netto avrebbe dovuto suggerire una nozione corretta dell’esperienza. Non dobbiamo infatti far altro che dimenticare l’apparato

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APPENDICE I

Il nuovo punto di vista kantiano, al contrario, si esprime nel celebre enunciato che « pensare è giudicare », vale a dire riferire i concetti alle intuizioni: questo riferimento è appunto la stessa esperienza. Il giudizio non può trascendere l’esperienza perchè è la stessa esperienza nel suo costituirsi. Anche il discorso in Kant non può uscire dall’orizzonte del­ l’esperienza, perchè anch’esso si esplica nel riferimento dei con­ cetti alle intuizioni. Le tre idee trascendentali dell’anima, del mondo e di Dio, e in particolare quest’ultima, si risolvono infatti nella categoria della totalità, tolto il diverso uso regolativo, an­ ziché costitutivo, di essa in rapporto agli oggetti di esperienza. È per questa idea che ogni singolo oggetto di esperienza riceve la sua determinazione completa in rapporto al tutto, realizzandosi in tal modo quell’unità dell’esperienza, fuori della quale non si potrebbe istituire la trama delle relazioni tra i molteplici oggetti, in cui consiste lo stesso discorso. Questo non può adunque tra-

mediante il quale si è arrivati al risultato netto per avere davanti a noi l'esperienza dell’uomo comune, una diversità di cambiamenti incessanti con­ nessi in tutti i modi, statici e dinamici. Questa conclusione avrebbe recato un colpo mortale sia all’empirismo che al razionalismo. Infatti, rendendo chiaro il concetto non empirico del sedicente molteplice di particolari irre­ lati, avrebbe reso non necessario l’appello a funzioni dell’intelletto per corre­ larli » (Intelligenza creativa, trad, di L. Borghi, La Nuova Italia, Firenze, 1957, pp. 49-50). Si veda ancora la seguente osservazione dell’Abbagnano. « L’intero con­ cetto kantiano dellù priori come di ciò che è " indipendente dall’esperienza " deriva dall’uso ambiguo di questo termine il quale, in deroga alla definizione esplicita che Kant ne dà, viene talora ristretto ad indicare l’intuizione sen­ sibile, sicché l’ordine, la regolarità, le categorie, i principi, cadono fuori del suo ambito e devono essere considerati " a priori ". È abbastanza chiaro che, se l’esperienza include l’ordine, la regolarità ecc., i principi che garantiscono tale ordine, cioè la forma dell’esperienza, non può dirsi " a priori " cioè " indipendente dall esperienza " più di quanto non possa dirsi tale il conte­ nuto dell’esperienza stessa, cioè il materiale sensibile» (Sul concetto di espe­ rienza, «Rivista di filosofia», 1958, I, p. 33).

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scendere l’esperienza, perchè è la stessa esperienza integrale nel suo esplicarsi. Dopo Kant, l’identificazione dell’esperienza con il discorso diviene il caposaldo della filosofia idealistica, in particolar modo hegeliana. L’esperienza è la stessa dialettica della Ragione. Ciò significa che non esistono oggetti immediati del pensiero che ab­ biano per se stessi un significato. Qualunque determinazione con­ cettuale ha il valore che ha, in quanto è inserita nel processo della dimostrazione, della mediazione, che è la stessa struttura dina­ mica nella quale l’Assoluto si svolge. Ancora una volta l’espe­ rienza appare intranscendibile, perchè è il movimento stesso del­ l’intero. Da Hegel in poi questa tesi è venuta sempre più diffonden­ dosi, nelle forme più diverse, contaminandosi spesso con altri motivi, con altri temi. Con maggiore fedeltà alla posizione hege­ liana la ritroviamo nell’attualismo gentiliano; ma quando, ad esempio, il Dewey afferma che il processo inferenziale non è estrinseco all’esperienza, secondo il concetto attivo e prospettico che egli ne è venuto elaborando, ma è intrinseco e costitutivo di essa, anche in questo caso dobbiamo costatare che la lezione he­ geliana, benché ripresa in tono naturalistico e pragmatistico, non è stata completamente dimenticata. La piena identificazione di esperienza e discorso, cui l’ideali­ smo è approdato, se ha un significato polemico in relazione ad un concetto di esperienza intesa come somma di dati immediati, finisce tuttavia per fare del termine esperienza un sinonimo di conoscenza in generale; con il pericolo che si rinunci a ritrovare in questa quell’apprendimento originario da cui il discorso pro­ cede e a cui il discorso può rifarsi per trovare in esso la propria verifica. Sembrerebbe quindi opportuno tornare a distinguere in seno alla conoscenza due diversi momenti e designarli con due diversi nomi; tuttavia, se volessimo conservare l’unico termine di espe­ rienza per designare con l’identità stessa del termine l’identità di ciò che nel processo si svolge, dovremmo in tal caso riconoscere

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APPENDICE I

che all’inizio di questo sta una esperienza originaria e sforzarci di scoprirne le elementari strutture. Da questo punto di vista la determinazione dell’esperienza originaria appare piuttosto un punto di arrivo che un punto di partenza. Non si può con un salto abbandonare il piano culturale in cui ci troviamo collocati per attingerne le fonti remote. Ad esse dobbiamo al contrario passo per passo regredire. Questo re­ gresso coincide poi con la fondazione o verifica degli asserti più o meno complessi dei quali il nostro mondo culturale è costituito; verifica attraverso cui vengono ripercorse a ritroso le varie me­ diazioni, le varie tappe precedentemente compiute, e non sempre consapevolmente, fino a ritrovare quella mediazione primigenia che è l’immutabile fondamento di ogni esperienza e di ogni discorso. È necessario che il discorso ritorni di frequente sul proprio fondamento perchè, se il rapporto con questo si allenta, il di scorso si fa oscuro e i suoi termini insignificanti. Nasce allora l’accusa rivolta ad un determinato discorso, che spesso è il di­ scorso metafisico, di essere privo di senso. In realtà un discorso che si dice privo di senso è più spesso un discorso di cui si è smar­ rito il significato, perchè si è dimenticata l’istanza originaria da cui esso è scaturito. Nasce allora, come si è visto, anche il pro­ posito di eliminare i nomi vuoti, le idee imprecise, i cosiddetti presupposti dogmatici, per ritrovare la semplice chiarezza del­ l’esperienza ingenua. In realtà tale chiarezza non sarà mai rag­ giunta, finché non si riuscirà a spiegare come da quella sempli­ cità primitiva si sia prodotta la successiva complessità; allora però non si sarà tornati ad una impossibile ingenuità, ma si sarà invece controllata la validità del discorso.

3. - Esperienza e giudizio. Il rapporto tra esperienza e discorso si può ulteriormente chiarire mediante l’esame della relazione che intercorre tra espe­ rienza e giudizio.

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Il giudizio, come elemento del discorso, è l’enunciazione di una riconosciuta connessione tra dati dell’esperienza. Come tale, esso presuppone l’analisi di questa connessione; analisi che, a sua volta, presuppone la connessione stessa, cioè la sintesi origi­ naria. Sintesi, analisi ed enunciazione sono momenti così stret­ tamente connessi da apparire tutti inclusi nell’unico atto del giu­ dizio, risultando in tal modo incerto da quale di essi il giudizio risulti in particolar modo caratterizzato. Da un punto di vista strettamente logico, il momento della enunciazione può apparire meno importante, legato piuttosto alla comunicazione, al linguaggio. Restano gli altri due momenti della sintesi e della analisi, e quest’ultima appare l’esplicitazione della precedente. La sintesi è dunque il momento fondamentale del giudizio; ma questa altro non è che la stessa esperienza, originaria media­ zione e quindi originaria sintesi. Nell’esperienza infatti la rela­ zione tra i singoli oggetti non è, come si è visto, accidentale, cioè sopravveniente ai suoi termini, ma essenziale e costitutiva di essi. È per questo che ogni oggetto dell’esperienza non può essere colto che mediante il suo riferimento a qualche altro. Se adunque si vuol vedere nella sintesi il momento essenziale del giudizio, questo non può che identificarsi con l’esperienza originaria. Se al contrario si vuol in qualche modo distinguerlo dall’esperienza, è necessario riporre il momento essenziale del giudizio nell’analisi. È questa la ragione per cui nella storia del pensiero si è rimasti spesso incerti tra il carattere sintetico e il carattere analitico del giudizio e si è giunti ad ammetterne due tipi diversi. Riteniamo che tale incertezza possa essere superata mediante la distinzione tra giudizio implicito e giudizio esplicito. Il primo è sempre sintetico e, come dicevamo, si identifica con la stessa esperienza; il secondo è invece sempre analitico e trova il suo compimento nella enunciazione verbale. Quanto stiamo dicendo può essere chiarito da un riferimento alla posizione kantiana. La scoperta kantiana del giudizio sinte­ tico a priori è la scoperta della struttura integrale del giudizio

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APPENDICE I

implicito, vale a dire dell’esperienza. Il termine a priori è poco felice, ancora legato, come si diceva, al concetto di esperienza come puro insieme di dati sensibili; esso tuttavia designa la pre­ senza nella sintesi, accanto all’elemento sensibile, di un originario elemento intellettivo. Il giudizio sintetico a priori è costitutivo dell’esperienza: per esso gli oggetti vengono costruiti, concepiti; per esso vengono forgiati quei concetti che poi nel giudizio espli­ cito fungeranno da soggetti. Lo stesso discorso non si può ripetere per gli altri due tipi di giudizio indicati da Kant. Questi presuppongono già forgiati i concetti, già costruiti gli oggetti dell’esperienza. Si tratta di procedere all’analisi di tali oggetti nei loro rapporti intrinseci (giudizi analitici a priori) od estrinseci (giudizi sintetici a po­ steriori) (5). (•J) Osserva a questo proposito A. Franchi (Su la teoria del giudizio, Milano, Tip. Salvi, 1870, I, p. 65) che Kant « confonde l’operazione primaria dell’intelletto, quella che produce originariamente i concetti (sintesi), con l’operazione secondaria, quella che invece li spiega e li chiarisce (analisi)·. onde non gli riesce mai di determinare con sufficiente esattezza la sua classi­ ficazione; della vera sintesi non tiene mai conto; sotto il nome di sintesi espone per lo più qualche maniera di analisi; ed i suoi giudizi sintetici non si distinguono per alcuna differenza veramente essenziale e specifica dai suoi giudizi analitici ». In conclusione « con i giudizi sintetici si formano i nuovi concetti, con gli analitici si chiariscono i concetti già formati». Riferendosi a questo passo del Franchi e ad analoghe osservazioni del Borntràger e del Trendelenburg, il Martinetti (nel commento della sua edizione dei Prolego­ meni, Paravia, Torino, 1926, p. 27), pur non dichiarandosi d’accordo, così si esprime : « Il solo appunto che si può fare a Kant è essersi provviso­ riamente arrestato troppo alla superficie e di non aver subito avvertito che anche i giudizi analitici e i giudizi sintetici a posteriori presuppongono, come condizione, l’esistenza di giudizi sintetici a priori; perchè i giudizi analitici, quando non siano vacue tautologie, presuppongono un collegamento necessario di più note in un concetto, che per l’intedetto nostro non è pos­ sibile se non in virtù dell’attività formatrice dei principi a priori-, e le sintesi dell’esperienza, appunto in quanto sintesi, risultano da una subordinazione del dato sensibile ai medesimi principi ».

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I giudizi sintetici a priori, in quanto giudizi impliciti, non si possono enunciare senza convertirli in giudizi espliciti e quindi analitici. Enunciandoli, infatti, bisogna indicare il concetto che funge da soggetto; e per far ciò bisogna avere già compiuta la sintesi. Non rimane quindi che l’analisi. È questa la ragione per cui gli esempi portati da Kant di giudizi sintetici a priori sono i più infelici: essi, in quanto espressi, sono in effetti analitici. Il giudizio « la retta è la linea più breve tra due punti » è tanto analitico da essere tautologico. La sintesi si verifica nel momento in cui il concetto di retta è costruito; una volta però che posseggo tale concetto, il giudizio che pronuncio è puramente analitico. Così pure nel giudizio « 5 + 7 = 12 », io posso affermare l’ugua­ glianza solo quando la sintesi di 5 + 7 l’ho già compiuta. Ma al­ lora, da capo, il giudizio in questione risulta analitico. Per quanto poi riguarda il principio di causalità (« tutto ciò che accade ha la sua causa ») Kant stesso nelle Analogie dell’esperienza si è incaricato di dimostrarne il carattere analitico, spiegando come sia impossibile concepire una successione oggettiva senza conce­ pirla come causata (6).

(e) « Quando dunque sperimentiamo che qualche cosa accade, presup­ poniamo sempre che preceda qualche altra cosa, a cui essa segua secondo una regola. Senza di ciò, infatti, non potrei dire dell’oggetto, che segue, perchè la semplice successione nella mia apprensione, qualora non sia determinata da una regola in rapporto a un qualche cosa che precede, non giustifica al­ cuna successione nell’oggetto... ed è soltanto in base a questo presupposto che è possibile la stessa esperienza di qualcosa che accade (und nur ledi­ glieli unter dieser Voraussetzung allein ist selbst die Erfahrung von etwas, was geschieht, mòglich)» (Kr. r. Vern., Cassirer, Berlino, 1922, pp. 179-180). Sul carattere analitico delle analogie dell’esperienza, così come sono da Kant dimostrate, si veda S. Vanni Rovighi, Introduzione allo studio di Kant, 19512, pp. 137-140. Si veda ancora della stessa Autrice, Elementi di filosofia, I, Marzorati, Milano, 19504, p. 180: «Il soggetto dei giudizi sintetici a priori kantiani è già un fenomeno; la sintesi fra dati di sensazioni e forme a priori è già stata compiuta prima che io pronunci il giudizio, è già entrata a costituire, per es., il mio concetto di "retta" o di "cangiamento" e

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Consideriamo invece gli esempi addotti da Kant a proposito degli altri due tipi di giudizi. Il giudizio « tutti i corpi sono estesi », così come è enunciato, è indubbiamente analitico. Ma donde il concetto di corpo? La rappresentazione della pura estensione non è ancora il concetto di corpo (res extensa) se non è sussunta sotto la categoria di sostanza. In questo caso però il giudizio analitico in questione presuppone la sintesi a priori di cui esso non è che l'esplicita­ zione. « Alcuni corpi sono pesanti » è l’esempio di giudizio sinte­ tico a posteriori. Anche in questo caso ci troviamo di fronte al­ l’enunciazione analitica di un nesso (sia pure estrinseco e acci­ dentale) tra dati offerti dall’esperienza, che è essa stessa una connessione sintetica delle intuizioni (« eine synthetische Verbindung der Anschauungen ») (7). Non esistono adunque due tipi distinti di giudizi, gli anali­ tici e i sintetici, ma gli stessi giudizi possono essere considerati ora analitici, ora sintetici, a seconda della fase in cui viene esa­ minata quella operazione complessa che nel suo insieme si deno­ mina giudizio. La prima e fondamentale di queste fasi resta ad ogni modo la sintesi. Tuttavia, se tutti i giudizi sono riconducibili al momento della sintesi, bisogna poi riconoscere che vi sono diversi tipi di sintesi che conferiscono un diverso valore alla loro stessa enun­ ciazione analitica. La principale forma di sintesi è quella che consiste nella co­ struzione di quegli oggetti sui quali poi verterà l'analisi. Si tratta della sintesi tra la molteplicità delle determinazioni sensibili e quando io pronuncio i giudizi " la retta è la linea più breve fra due punti " o " tutti i cangiamenti avvengono secondo la legge del nesso di causa ed effetto " io attribuisco alla retta e al cangiamento dei predicati senza i quali retta e cangiamento non potrebbero essere oggetti di esperienza... dunque anche il giudizio sintetico a priori kantiano è in fondo un giudizio analitico ». (7) Kr. r. Vem., cit., 1922, p. 41.

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le due fondamentali determinazioni ideali (l’idea dell’essere e la idea dell'Assoluto), per cui le varie determinazioni sensibili ven­ gono percepite come modi dell’essere possibile e collegate tra loro in vista di una giustificazione assoluta. Da questo punto di vista, oggetti che inizialmente potevano apparirmi immediati, cioè elementi autonomi della mia esperienza, si rivelano in realtà come il risultato di una dialettica, di un rapporto tra i diversi piani dell’esperienza nella sua integralità. Con ciò non si vuol negare l’obiettività dei dati dell’esperienza, nel mondo che è proprio del fenomenismo, perchè non è negata l’obiettività di quei piani dalla cui relazione l’esperienza risulta. Nel nostro caso si vuol dire soltanto che ogni oggetto dell’esperienza ci è dato non come una monade assolutamente isolata, ma come un modo dell’essere e quindi in relazione con gli altri esseri. Per esemplificare, nella percezione del cedro, cui all’inizio accennavamo, si incontrano la sensazione di una superficie estesa, verde, mobile ecc. e l’idea dell’essere, per cui si ha appunto la percezione di un essere esteso, verde, mobile ecc., inserito nel­ l’orizzonte dell’essere universale e, in particolare, nell’ambito degli altri esseri estesi che chiamo corpi. Su questa prima forma di sintesi si fondano le enunciazioni fornite di valore universale e necessario. « Tutti i corpi sono estesi » è un esempio di enunciazione universale e necessaria, essendo il predicato estensione già im­ plicito nel concetto di corpo. Potremmo dire che è addirittura un’espressione tautologica; e tuttavia non inutile, come potrebbe apparire a prima vista una tautologia, essendo essa l’enunciazione della avvenuta sintesi, dell’avvenuta costruzione del concetto di corpo. E si tenga sempre presente, giova forse ancora ripeterlo, che non mi è dato di sperimentare prima la sensazione dell’esteso, da una parte, e l’idea dell’essere, dall’altra, e poi la loro sintesi; ma ciò che l’esperienza mi offre è questa originaria sintesi dei due termini, il secondo dei quali si rivela via via come il fonda­ mento costante di un indefinito sintetizzare, cioè di un continuo sperimentare.

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Anche la formulazione del principio di causalità (« Tutto ciò che avviene ha la sua causa ») è una enunciazione universale e necessaria, perchè riducibile mediante l’analisi all’identità non di un termine irrelato, ma di una sintesi originariamente offer­ taci. Tale sintesi è costituita, come s’è precedentemente mostrato, dal rapporto tra la rappresentazione del mutamento e l’idea di un necessario fondamento, idea questa che, come si diceva, è costantemente sottintesa nella stessa domanda che ci si impone ogni qual volta avvertiamo qualcosa di nuovo: donde il nuovo oggetto, il nuovo essere? Un secondo tipo di sintesi è quello che, a differenza del precedente, non consiste nella costruzione del concetto di un og­ getto, ma nella connessione tra due oggetti, i cui rispettivi con­ cetti siano già stati costruiti. Su questo tipo di sintesi si fondano tutte le enunciazioni che non pretendono ad alcun valore universale e necessario, ma si limitano ad analizzare un rapporto contingente. Dicendo, ad es., « questo corpo è verde » io mi limito a costatare la coincidenza hic et mine di due elementi dell’esperienza senza connettere a tale coincidenza nessuna nota di necessità. L’affermazione « que­ sto corpo è verde » non esclude la possibilità che un altro corpo, o che questo stesso corpo in un diverso momento, siano di di­ verso colore. L’enunciazione vale hic et nunc·. è una enunciazione storica. Al contrario, la precedente enunciazione, per il suo ca­ rattere di universalità e necessità, potremmo chiamarla meta­ storica. Tra le enunciazioni metastoriche e le enunciazioni storiche vi è un terzo tipo di enunciazioni che risultano dal concorso dei due precedenti tipi di giudizio. « Il calore dilata i corpi » è una enunciazione di questo terzo tipo. Essa risulta dall’analisi di una situazione complessa (sin­ tesi), costituita dall’inscriversi di un rapporto costante (enun­ ciabile nel giudizio storico « il calore si accompagna costantemente alla dilatazione dei corpi ») dentro l’orizzonte di un rap­ porto necessario (enunciabile nel giudizio metastoricoi « la di­

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latazione dei corpi — come ogni altra forma di mutamento — deve avere una causa »). In virtù di questa inscrizione il rapporto costante viene in­ terpretato come un rapporto universale e necessario o, più chia­ ramente, quella causa, che prima era pensata in maniera indeter­ minata, viene ora determinata; nel caso nostro, come calore. Si tratta sempre però di una determinazione ipotetica, condizionata cioè all’estensione e alla profondità del giudizio storico, alla sua capacità (sempre per altro limitata) di esaurire l’orizzonte del corrispondente giudizio metastorico. Nel nostro caso, ad esem­ pio, il fatto che il calore si accompagni costantemente alla dila­ tazione dei corpi non può escludere in maniera assoluta che si tratti di una semplice circostanza concomitante o di una condi­ zione o causa secondaria, anziché della causa vera e propria. A questo terzo tipo di enunciazioni daremo il nome di enun­ ciazioni interpretative, ad indicare il fatto che esse scaturiscono dal tentativo di interpretare o meglio determinare i corrispon­ denti giudizi storici e metastorici. Le enunciazioni interpretative sono in genere proprie delle scienze sperimentali e vanno tenute ben distinte, da un punto di vista logico, dalle enunciazioni metastoriche che sono invece proprie della matematica e della metafisica. Le prime aspirano alla universalità e necessità, che le seconde soltanto posseggono in modo assoluto. Se ora per chiarezza volessimo riassumere schematicamente il confronto tra i diversi tipi di giudizio considerati da Kant e quelli da noi proposti, diremmo che i nostri giudizi storici corri­ spondono a quelli che Kant chiama giudizi sintetici a posteriori; i giudizi metastorici corrispondono a quei giudizi sintetici a priori che, essendo veramente universali e necessari, sono con­ vertibili in quelli che Kant chiama giudizi analitici a priori; i giudizi interpretativi corrispondono infine ai kantiani giudizi di esperienza, elaborazioni di giudizi empirici in virtù di concetti puri. La distinzione tra giudizi sintetici e giudizi analitici è stata

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APPENDICE I

da noi risolta nella distinzione tra sintesi ed analisi come due mo­ menti presenti in ogni giudizio nel suo passaggio dalla forma implicita, che corrisponde alla struttura dell’esperienza origina­ ria, alla forma esplicita della enunciazione verbale. Quanto infine alla distinzione di a posteriori e a priori, ab­ biamo creduto di doverla abbandonare completamente come quella che, nella stessa terminologia, è legata ad un concetto ina­ deguato di esperienza. Essa va, se mai, sostituita dalla distinzione tra sensazione e pensiero come due articolazioni indivisibili di quell’intero che è l’esperienza originaria.

4. - Esperienza e intelligenza. L’esistenza di enunciazioni interpretative rivela, in modo, eminente, la presenza nell’esperienza di un principio attivo, di una capacità inventiva che, come tale, non s’arresta alla costata­ zione dell’esistenza degli oggetti e dei loro rapporti, ma procede nel tentativo di penetrarne l’intimo significato. Questa capacità inventiva chiamo intelligenza. Che rapporto intercorre tra esperienza e intelligenza? Più precisamente, è l’intelligenza un momento interno e costitutivo della stessa esperienza, o rappresenta un intervento che si eser­ cita dall’esterno su di essa? E, inoltre, come si esercita questo tentativo di oltrepassare la sfera della pura costatazione e quale valore esso ha? Per rispondere a queste domande è necessario rifarsi all’ini­ zio di questa ricerca, là dove si definisce l’esperienza come l’av­ vertimento di una situazione complessiva entro cui viene via via spostandosi l’attenzione. Avvertimento, attenzione esprimono già un movimento, una iniziativa del soggetto in rapporto agli og­ getti, una sua partecipazione attiva, che esclude una condizione di passiva recettività. L’esperienza è, fin dal suo primo costituirsi, sostenuta e alimentata da questo interesse del soggetto verso gli oggetti. Se questo interesse venisse meno, l’attenzione si disper­

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derebbe, scomparirebbe ogni dislivello tra gli oggetti e la co­ scienza si immergerebbe nel più assoluto grigiore. Ma la presenza di un principio attivo in seno all’esperienza si manifesta non tanto nel fatto stesso dell’avvertimento e della attenzione, quanto nel loro carattere mediato, per cui l’esperienza risulta sempre un implicito giudizio, una implicita valutazione. Non è esatto ritenere che un oggetto venga prima puramente avvertito e venga poi valutato. Perchè si potesse parlare di puro e semplice avvertimento, bisognerebbe che ciascun oggetto ci fosse dato separatamente dagli altri. In tal caso il successivo con­ fronto con gli altri oggetti darebbe inizio, in un secondo mo­ mento, al procedimento valutativo. Senonchè ogni oggetto è, al contrario, avvertito in connes­ sione con altri oggetti, in particolare con le strutture fondamen­ tali di ogni possibile esperienza, e in questa connessione esso trova già un principio di valutazione. Se, ad esempio, io avverto come luminoso il cedro che ho di fronte, ciò è possibile perchè lo avverto più luminoso dello sfondo in rapporto al quale lo per­ cepisco. Il confronto, la valutazione non sono, in questo caso, successivi all’esperienza, ma simultanei e costitutivi di essa. Queste considerazioni ci preparano a vedere rudtiinterpreta­ zione la manifestazione più piena di quella attività che già s’è rivelata come principio animatore dell’esperienza. Indubbiamente il momento della interpretazione trascende, come s’è detto, il momento della pura e semplice costatazione. Chi interpreta, azzarda, rischia sempre qualcosa oltre i termini indiscutibili della costatazione. La costatazione tuttavia avviene sempre dentro un progetto di interpretazione. Non mi sofferme­ rei infatti a costatare nulla se non avessi, più o meno conscia­ mente, ^intenzione di servirmi di ciò che costato per soddisfare fino in fondo quel bisogno di conoscere, di capire che è appunto l’intelligenza. Potremmo dire anche più semplicemente che la nostra esperienza è l’esperienza di un essere intelligente e che quindi lo sforzo interpretativo è originario quanto lo stesso sog­

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APPENDICE I

getto e accompagna perciò costantemente il momento della co­ statazione. Da questo punto di vista l’esperienza integrale non è la pura e semplice costatazione, ma è la costatazione investita dallo sforzo interpretativo, orientata verso l’interpretazione. Si po­ trebbe paragonare la costatazione alla percezione dei caratteri impressi su di un libro. È vero sì che altra cosa è il percepire quei segni materiali e altra cosa è intenderne il significato; ma è anche vero che io non farei mai attenzione a quei segni se non fossi fin da principio mosso dal desiderio di arrivare al loro significato. Possiamo così rispondere alla domanda, che ci siamo all’inizio proposti, affermando che l’intelligenza non è una attività che si esercita dall’esterno su di una esperienza già costituita, ma è una attività che dall’interno la promuove e costituisce. Tale attività si manifesta nella forma dell’avvertimento, dell’attenzione, della valutazione e infine, in maniera più evidente, nella interpreta­ zione. Ci resta da vedere, o meglio da chiarire ulteriormente, il modo in cui si esercita l’interpretazione e le condizioni della sua pos­ sibilità e validità. Abbiamo visto come l’interpretazione si esplichi in una delle tre forme del giudizio ed abbiamo portato come esempio di enun­ ciazione interpretativa la proposizione « il calore è la causa della dilatazione dei corpi ». Che fondamento ha questa proposizione? Cosa si può op­ porre alla obiezione empiristica che l’esperienza non ci presenta mai un nesso necessario tra questi due fenomeni, ma soltanto un nesso costante e tuttavia sempre contingente? Si risponderà che l’intelligenza, proprio perchè tale, è in grado di riconoscere la necessità di un rapporto al di sotto del suo costante rinnovarsi? Ma, allora, quali sono gli strumenti di cui si serve l’intelligenza per giungere a questo riconoscimento? A nostro avviso, la prima cosa che si deve mettere in luce è come questo intervento interpretativo dell’intelligenza abbia il

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suo fondamento in una nozione di causalità che non nasce dalla costatazione di quel nesso costante, ma la precede (8). Di fronte alla dilatazione dei corpi, come a qualsiasi altra forma di muta­ mento, l’intelligenza riconosce che ci deve essere una causa, la cerca, di conseguenza, e crede alla fine di individuarla in una cir­ costanza che si accompagna sempre al fenomeno della dilatazione, cioè nel calore. Ma, da capo, come può l’intelligenza sapere che ciò che diviene deve avere una causa? È il problema della fondazione del principio di causalità. Noi abbiamo già espresso a questo proposito il nostro punto di vista. Il principio di causalità non è una enunciazione interpretativa, ma metastorica, apodittica, espressione di una sintesi gnoseolo­ gica originaria tra la rappresentazione del mutamento e l’idea di un fondamento che, al limite, si identifica con l’idea stessa delΓAssoluto. L’esistenza di questa sintesi ci è rivelata dal prodursi della stessa domanda « donde? », domanda che non potrebbe in nessun modo sorgere se quel particolare mutamento non fosse concepito in correlazione all’idea di un necessario fonda­ mento. E poiché questa domanda non viene interamente soddi­ sfatta dal riconoscimento di alcun fondamento relativo, ciò testi­ monia che l’esigenza di un fondamento assoluto è presente ori­ ginariamente, anche se inconsciamente, nell’orizzonte della no­ stra esperienza integrale. Chi volesse negare questa originaria presenza dovrebbe poi spiegare come sorga la domanda metafisica. Perchè l’esistenza di questa domanda è un dato indiscutibile dell’esperienza, e nella esperienza quindi devono essere date le condizioni del suo sor­ gere. Il principio di causalità ha adunque il suo fondamento nella struttura originaria dell’esperienza ed è giustificabile solo me­ diante l’appello a questa struttura. Un altro intervento cospicuo della funzione interpretativa (8) Se la nozione di causalità precede logicamente la costatazione della costanza del nesso, non precede la costatazione del mutamento, essendo a questa correlativa.

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APPENDICE I

dell’intelligenza si verifica nella costruzione di determinati og­ getti di esperienza. Per meglio chiarire il nostro discorso ritor­ niamo ancora una volta (ci si perdoni l’abuso) all’esempio da cui la nostra indagine ha preso le mosse, all’avvertimento cioè di quella situazione complessiva che ho chiamato esperienza, i cui elementi sono rappresentati dal giardino, dalla casa, dal cedro e via dicendo. Questi elementi potevano apparirmi a prima vista oggetti immediati, autonomi di esperienza. Successivamente mi sono accorto come l’esperienza di ciascuno di essi fosse condizio­ nata dall’esperienza del loro rapporto con molti altri oggetti. Tale condizionamento appare ora anche più profondo se mi do­ mando perchè, di fronte all’infinita molteplicità dei dati della esperienza, io considero come singoli oggetti la casa, la panchina, il cedro, ecc., che da un punto di vista sensoriale sono tutt’altro che unità elementari, e non considero, al contrario, come un unico oggetto l’insieme, ad esempio, della casa e del cedro. È chiaro che la determinazione dei singoli oggetti è il risul­ tato di un ingente, anche se inconscio, lavoro di organizzazione dei dati sensoriali in rapporto alle categorie fondamentali della esperienza. Non è soltanto il fatto che certi dati sensoriali vanno costantemente uniti, che mi spinge a riconoscere in essi un unico oggetto. Interviene anche la convinzione che il vincolo costante che lega quei dati non può essere senza una ragione, senza un fon­ damento. Questa ragione o fondamento credo alla fine di indivi­ duarlo in un substrato o sostanza di cui quei dati sono modi o accidenti. A questo punto io non mi muovo più sul terreno della sem­ plice costatazione, ma sul piano della interpretazione, sollecitata dalla categoria del fondamento. Tale interpretazione, come si diceva, non rappresenta un intervento estraneo all’esperienza, perchè, dato il carattere originario dell’idea del fondamento, essa scaturisce da una esigenza interna dell’esperienza. Potrò discutere sulla validità di questa o quella particolare interpretazione, ma non potrò mai mettere in discussione la legittimità dell’esigenza

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da cui essa è sorta, senza degradare con ciò l’esperienza autentica a semplice senso. L’intervento interpretativo dell’intelligenza trova adunque il suo limite nella qualità e nella quantità del materiale empirico di cui l’intelligenza si serve (e in questo senso qualunque particolare interpretazione è suscettibile d’essere corretta ed integrata), ma trova d’altra parte il suo titolo di validità, o meglio di legittimità, nella stessa struttura originaria dell’esperienza.

5. - Esperienza e verità. L’analisi fin qui condotta ci ha portati a concepire l’esperienza come il principio genetico dell’intera conoscenza, o, se si prefe­ risce, come la stessa conoscenza nel suo iniziale costituirsi entro l’ambito di una originaria struttura. Il nostro concetto di esperienza è dunque condizionato dal concetto di conoscenza. Non è possibile intendere ciò che signi­ fica esperienza se non si intende ciò che significa conoscenza di cui l’esperienza è la prima manifestazione. L’unico modo per stabilire che cosa sia conoscenza è quello di prenderne in esame una manifestazione, un atto concreto. L’atto concreto cui vogliamo riferirci è lo stesso in cui siamo ora impegnati, la nostra indagine cioè sull’esperienza. Supponiamo per un momento che la nostra indagine sia stata compiuta valida­ mente, che quanto siamo riusciti ad affermare intorno all’espe­ rienza sia vero. In che cosa consiste la validità della nostra in­ dagine, la verità della nostra affermazione? Semplicemente in questo: nell’essere riuscita ad adeguarsi alla struttura della no­ stra esperienza, nell’essere riuscita a stabilire, su questo argo­ mento, come stanno le cose. È questo, nè più nè meno, l’originario, autentico concetto di conoscenza. La conoscenza, quando riesce nel suo intento, quando raggiunge la verità, quando è vera conoscenza, è questo puro e semplice vedere come stanno le cose, o, se si preferisce una de­

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APPENDICE I

finizione più classica (ma che qui deve essere presa come perfet­ tamente equivalente alla precedente), è adeguazione dell’intelli­ genza alla cosa. Supponiamo invece che la nostra indagine non sia stata com­ piuta bene, non abbia raggiunto quello che essa si proponeva. In che cosa consiste il suo difetto, il suo errore? Nel non essere riuscita a ritrarre con assoluta fedeltà le condizioni del nostro esperire e conoscere. L’errore appunto altro non è che questa mancata adeguazione della nostra intelligenza alla cosa. Supponiamo infine (ed è l’ipotesi più probabile) che la no­ stra indagine sia riuscita solo parzialmente: il suo parziale valore consisterà nella sua parziale adeguazione al suo oggetto. La conoscenza adunque è essenzialmente adeguazione, corri­ spondenza. Quando manca la corrispondenza non c’è conoscenza, ma qualcosa di diverso (immaginazione, costruzione fantastica, od altro). Quando la corrispondenza è imperfetta, il momento conoscitivo risulta contaminato da un momento diverso. Lo stesso discorso dobbiamo ripeterlo per l’esperienza: espe­ rienza è adeguazione all’oggetto sperimentato. Se essa non è questo, o non è soltanto questo, essa non è pura esperienza, ma qualcosa di diverso e di ibrido. Questo concetto di conoscenza, e di esperienza, come adegua­ zione, proprio del pensiero classico e medievale e riguadagnato dalle correnti fenomenologiche e neorealistiche del pensiero con­ temporaneo, non ha riscosso nel pensiero moderno, nè riscuote attualmente, unanime consenso. Ad esso vengono opposti frequentemente altri concetti di conoscenza, in diretta antitesi col concetto di adeguazione. Tali, ad esempio, sono i concetti di conoscenza come costruzione o sintesi a priori, di conoscenza come creazione, di conoscenza come manifestazione di esigenze vitali, e via dicendo. Tutte queste concezioni, pur nelle loro diversità, includono una fondamentale contraddizione: che esse, per potersi non solo giustificare, ma anche semplicemente enunciare, devono implici­ tamente ricorrere a quel concetto di conoscenza di cui pretendono

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essere l’antitesi e la confutazione. Queste dottrine gnoseologiche infatti ritengono di essere valide in quanto presumono di descri­ vere esattamente, in un modo o nell’altro, la struttura della co­ noscenza. Si affermi, ad esempio, con Kant che la conoscenza è sintesi a priori e che il suo valore è quindi semplicemente feno­ menico. Ebbene, quell’atto di conoscenza che riconosce la natura fenomenica della (restante) conoscenza, non dovrà avere, a sua volta, un valore semplicemente fenomenico e non dovrà quindi essere il risultato di una sintesi a priori, nel senso che Kant con­ ferisce a questo concetto, ma dovrà essere piuttosto, almeno nel­ l’intenzione, l’obiettivo riconoscimento di ciò che è in se stessa la (restante) conoscenza. In tal caso però il vero momento conoscitivo sta in questo obiettivo riconoscimento; e se ad esso risulterà l’esistenza di un processo sintetico, inteso sempre alla maniera fenomenistica, que­ sto, almeno che non si desideri rimanere nell’equivoco, dovrà essere designato con qualsiasi altro termine che non sia quello di conoscenza. Analogamente, chi dice che la conoscenza è creazione, oppure espressione di esigenze alogiche, vitali, non potrà dir ciò se non in virtù di un atto che non potrà essere nè di creazione, nè di irrazionale espressione, ma di semplice costatazione. Mai come in questa circostanza ci sembra valido l’appello a quella che è davvero la condizione suprema della validità di qua­ lunque enunciato, che esso cioè non debba contraddire alle condi­ zioni della possibilità della sua stessa enunciazione (9). Chi dice che

(9) Questa nostra formulazione della condizione suprema della validità degli enunciati si ricollega a quello che l’Abbagnano ha indicato come il canone metodologico fondamentale della filosofia, consistente nell’evitare che « la filosofia proceda tagliandosi l’erba sotto i piedi, cioè rendendo impossisibile, nel quadro dei suoi risultati, ciò che ha reso possibili questi risul­ tati » (Possibilità e libertà, Taylor, Torino, 1956, pp. 66-67). Invocando ap­ punto questo canone, in un saggio sul pensiero dell’Abbagnano abbiamo di­ feso il concetto di verità come adeguazione e valorizzata l’istanza fenome-

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la conoscenza è qualcosa di diverso o di opposto alla semplice ade­ guazione, viene a negare il fondamento della possibilità della sua stessa affermazione, perchè, come s’è detto, viene a negare che la sua proposizione possa adeguarsi alla effettiva struttura della conoscenza. Con ciò non si vuol negare che quelle tesi che abbiamo criti­ cate siano, sotto un certo punto di vista, valide (e perciò ade­ guate!). Sono valide cioè in quanto segnalano un intervento co­ struttivo, o creativo, o pratico, che spesso si manifesta accanto al momento conoscitivo vero e proprio, il quale risulta così più o meno profondamente alterato. Come negare, ad esempio, che presupposti e pregiudizi di diversa origine contaminino spesso il nostro obiettivo giudizio sulle cose? Come negare soprattutto l’intervento dei fattori pratici, dei nostri impulsi vitali, delle no­ stre tendenze passionali, nella valutazione delle cose? La tesi pragmatistica, se non è vera di diritto, è il più delle volte vera di fatto. Quella che noi riteniamo essere una obiettiva conoscenza, una pura e semplice esperienza, è quasi sempre il ri­ sultato di una interpretazione, di una deformazione suggerita dai nostri desideri e dai nostri bisogni. Quasi sempre. È la con­ cessione massima che possiamo fare al pragmatismo. Se concedes­ simo di più e dicessimo sempre, invalideremmo la nostra affer­ mazione e quindi anche la nostra concessione. Questa ed altre possibili concessioni alle tesi criticate nulla tolgono alla validità della nostra tesi, ma stanno soltanto a si­ gnificare quanto ardua sia la via verso la verità, quanto sia diffi­ cile che si realizzi un atteggiamento teoretico puro. Resta tutta­ via fermo che, quando esso si realizza, o nella misura in cui si realizza, esso risulta essere nè più nè meno che una semplice ade­ guazione della nostra intelligenza alle cose. Se tale adunque è il vero concetto di conoscenza, ci rimane

nologica che non manca nello stesso Autore (vedi Esperienza e Metafisica. cit., pp. 175-230).

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da vedere se siamo rimasti ad esso fedeli nella nostra definizione e nella nostra descrizione dell’esperienza. La difficoltà maggiore a questo proposito è rappresentata dallo stesso concetto di esperienza come mediazione. Se ogni singolo oggetto di esperienza non è colto immediatamente in se stesso, ma mediante il suo rapporto con altri, rapporto che non è sem­ plicemente esteriore, ma incide profondamente nella stessa co­ stituzione di quell’oggetto, come si potrà dire che esso sia sem­ plicemente rispecchiato piuttosto che costruito dall’atto della esperienza? La risposta che ci sembra di poter dare, è che la natura spe­ culativa dell’atto di esperienza si riscontra in ogni caso nei con­ fronti dell’oggetto totale dell’esperienza. Se questo risulterà es­ sere una complessa trama di relazioni, i cui termini si condizio­ nano reciprocamente, anziché una somma di oggetti singoli in­ dipendenti tra loro, ciò nulla toglierà al carattere di adeguazione proprio dell’esperienza. La mia attuale esperienza è questo vedere la casa, il giardino, gli alberi, ecc. Qualunque sia la natura di questi oggetti e il pro­ cesso genetico da cui risultano, la mia esperienza comincia con il prendere atto di essi. Anche nell’ipotesi che questi oggetti fos­ sero il prodotto di un mio inconscio potere rappresentativo (ad analogia di quanto avviene nel sogno), l’esperienza, come mo­ mento conoscitivo, sarebbe ancora l’obiettiva costatazione di quel prodotto e dovrebbe essere distinta da quella attività produttiva. Quello che tuttavia giustamente si potrà dire è che, nella esperienza iniziale, Γ adeguazione all’oggetto conosciuto è assai difettosa rispetto all’esigenza di totale possesso propria della nostra intelligenza. Ed è appunto per questo che l’esperienza ini­ ziale trapassa nel discorso, che altro non è che il movimento del­ l’intelligenza verso una sempre più piena adeguazione al proprio oggetto. Nel difendere il carattere di adeguazione proprio dell’espe­ rienza come forma primitiva di conoscenza, abbiamo testé accen­ nato, come ad ipotesi estrema, al caso del sogno. Si potrebbe a

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APPENDICE I

questo proposito osservare che, se il nostro concetto di adegua­ zione si può applicare anche a quella manifestazione che è il sogno, esso è un ben povero concetto di adeguazione, tanto po­ vero da non servire a discriminare il realismo dal fenomenismo; ciò che potrebbe sembrare essere la funzione principale del con­ cetto di adeguazione. Dobbiamo subito chiarire che la nostra era appunto soltanto una ipotesi estrema, conseguenza della riconosciuta imperfezione dell’adeguazione conoscitiva nel suo momento iniziale, costituito dall’esperienza. Sui limiti tuttavia di tale adeguazione non ci siamo pronunciati e non intendiamo negare che essi possano estendersi tanto da escludere l’ipotesi che l’oggetto della nostra esperienza abbia la stessa labile realtà del sogno. Ciò che fin d’ora intendiamo escludere è la possibilità che Vintero oggetto della esperienza si riduca ad un sogno, perchè in ogni caso il soggetto di questo sogno, o almeno l’esserci di questo sogno, non sarebbe un sogno (ce lo insegna Cartesio, il primo che nella filosofia mo­ derna abbia formulato, con funzione metodologica, l’obiezione del sogno). Dall’ipotesi del sogno si salvano inoltre le strutture fonda­ mentali dell’esperienza: l’orizzonte ontologico in cui è inserita la molteplicità degli oggetti e il necessario fondamento del loro divenire; in altri termini, la categoria dell’essere (o della realtà) e la categoria di causa. È assolutamente impossibile limitare l’uso di queste due ca­ tegorie entro i confini angusti in cui il fenomenismo vorrebbe rinchiuderle. Già il semplice fatto di non poter negare la realtà del sogno mostra che non ci si può esimere dal riconoscere una portata metafisica alla categoria di realtà. Riferendoci in parti­ colare alla posizione kantiana, potremmo aggiungere che non si può porre a fondamento del mondo fenomenico l’« Io penso » senza riconoscerne la realtà, senza estendere cioè questa categoria oltre i limiti del fenomeno. Lo stesso discorso si può ripetere per la categoria di causa: il concetto di sintesi a priori e dell’io come unità sintetica implicano un uso metafisico della categoria

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di causa. Nell’attività sintetica dell’io è infatti da riporsi il prin­ cipio, la causa del mondo fenomenico. Anche in questo caso si può costatare come il vero problema filosofico non sia quello di dimostrare se ci sia una realtà, se ci sia un causa o fondamento, ma di determinare quale sia la realtà, quale sia il fondamento. La validità di questa tesi potrebbe essere riscontrata anche nei confronti di posizioni fenomenistiche più radicali, nei con­ fronti, ad esempio, della posizione humiana. Tolta infatti, in questa posizione, la realtà dell’oggetto e del soggetto, è il feno­ meno che acquista valore di realtà autonoma; negato il valore obiettivo ai rapporti di causa tra i fenomeni, l’abitudine e l’im­ maginazione divengono la causa della trasfigurazione dei nessi empirici in nessi causali. È adunque impossibile, contraddittorio, negare valore oggetgettivo, metafisico, alle categorie di realtà e causalità. Esse non sono funzioni soggettive in senso kantiano, ma veri e propri og­ getti cui l’esperienza s’adegua. La nostra intelligenza, fin dalla prima e più elementare espe­ rienza, vede la realtà, vede la necessità del fondamento, anche se si tratta di una prima visione superficiale e l’intelligenza aspira ad una più profonda penetrazione. Ma proprio per questo essa è sollecitata, per soddisfare la propria esigenza, ad un lavoro di confronto e di penetrazione, da cui i singoli oggetti risultano come costruiti. Si tratta però, è chiaro, di una costruzione che, se è ben condotta, si traduce in una nuova e più completa visione. Possiamo così rispondere alla difficoltà che ci siamo più sopra proposti, come cioè si possa conciliare il concetto di esperienza come mediazione, costruzione, con il concetto di esperienza come adeguazione: la mediazione non è che lo strumento della ade­ guazione, la condizione in cui essa si esercita. La struttura mediata dell’esperienza, benché non impedisca l’adeguazione conoscitiva, ne costituisce tuttavia una intrinseca limitazione. Risulta infatti evidente che, in virtù di quella strut­ tura, nessun singolo oggetto dell’esperienza è conoscibile in se stesso (posto che esista come tale), fuori di ogni rapporto con 8 — P. Faggiotto, Saggio sulla struttura della metafisica.

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altri oggetti. Qualunque mia affermazione nei confronti di un oggetto risulta da una comparazione con gli altri oggetti che ne condizionano l’apprendimento. Dire, ad esempio, che un oggetto è luminoso, significa più propriamente dire che è più luminoso di un altro oggetto che gli è vicino. Se dico che un volto è bello, dico in realtà che è più bello dei volti in cui normalmente mi in­ contro. Se dico che una persona è buona, dico, più esattamente, che è più buona di altre persone che sono abituato a frequentare. Analogamente, se dico che Tizio è piccolo, dico che è meno alto della media delle persone. Giustamente è stato osservato che, nel nostro discorso, il vero grado dell’aggettivo è sempre quello comparativo, non quello positivo!10). Da questo punto di vista è indubbiamente vero che ogni no­ stra affermazione è relativa e può variare con il variare dei ter­ mini con i quali un oggetto entra in relazione. Da questo punto di vista, vale a dire in riferimento ai singoli termini della nostra esperienza. È questa, e soltanto questa, la verità che è al fondo di ogni relativismo. Il quale tuttavia in quanto relativismo, in quanto cioè si pone come affermazione assoluta, si contraddice e si distrugge da sè. Anche in questo caso si contravviene al ca­ none fondamentale di ogni enunciato, che esso cioè non debba minare le basi stesse della propria enunciazione. La tesi relativistica vale adunque solo nei confronti dei sin­ goli termini della nostra esperienza (ma in questo caso non si può più parlare di relativismo vero e proprio), non vale in rap­ porto alla relazione tra i termini, complessivamente considerata, relazione che costituisce la totalità della nostra esperienza. Quanto si afferma intorno a questa, nella misura in cui viene effettiva­ mente sperimentato, vale in senso assoluto, giacché non può es­ sere relativizzato in rapporto a nessun termine ulteriore. Se dico, ad esempio, che il cedro che ho di fronte è verde, questa proposizione ha un valore relativo se è diretta a definire una proprietà intrinseca del cedro in se stesso (posto sempre che (10)

A. Faggiotto, Religione e filosofia, Stediv, Padova, 1952, p. 54.

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esso esista come tale), perchè mi si potrebbe osservare che il verde che percepisco è la risultante di una relazione tra il corpo, la luce, la struttura dell’occhio, e via dicendo. Ma se la mia pro­ posizione non intende escludere tutto ciò, e intende al contrario riferirsi appunto alla risultante di questa e di ogni altra possibile relazione, essa acquista una assolutezza che è in grado di sfidare ogni relativismo. Tale assolutezza è pur sempre limitata all’apprendimento della relazione tra i termini. Ogni discorso su questi, presi singo­ larmente, non può che avere un valore analogico. Nel saper ri­ conoscere, caso per caso, il diverso valore, assoluto o analogico, del nostro discorso, evitando in tal modo gli estremi del dogma­ tismo e del relativismo, in ciò ci sembra consistere l’autentico senso critico.

6. - Esperienza e metafisica. Il nostro concetto di esperienza integrale, quale siamo venuti illustrando nelle pagine precedenti, si rivela a nostro avviso par­ ticolarmente fecondo nei confronti del problema della possibilità della metafisica. Intendiamo per metafisica un discorso fornito di valore uni­ versale e necessario intorno alla totalità dell’essere e al suo fon­ damento assoluto; definizione, questa, che equivale a quella che Aristotele dà della filosofia prima: « la scienza che indaga sui principi e le cause prime dell’essere » {Metafisica, I, 2, 982 b 9). Il problema che sorge intorno ad una scienza così intesa si può formulare nei seguenti termini: donde può trarre il discorso metafisico il suo valore universale e necessario, donde la capa­ cità di elevarsi alla totalità dell’essere e al suo fondamento asso­ luto? Donde, vale a dire: qual è il suo punto di partenza, qual è il materiale impiegato, quali sono gli strumenti adoperati per costruire l’edificio metafisico? Tutte le risposte che lungo il corso del pensiero sono state

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date a questo problema si sono, in un modo o nell’altro, richia­ mate all’esperienza come a necessario termine di riferimento del discorso metafisico. L’esperienza infatti ci presenta quei dati particolari, quegli oggetti mutevoli, in rapporto ai quali sorge la domanda sulla totalità dell’essere e sul suo fondamento. Ed ecco allora delinearsi un primo concetto di esperienza: l’esperienza è la conoscenza diretta degli oggetti sensibili, parti­ colari, mutevoli, imperfetti. Ma ecco delinearsi anche una prima risposta al problema che ci siamo proposti: dall’esperienza, così intesa, non potrà mai scaturire la conoscenza dell’universale e del necessario, della totalità e dell’assoluto, in cui dovrebbe con­ sistere appunto il discorso metafisico. Questo, o non è in alcun modo possibile (empirismo), od è possibile per una via del tutto diversa da quella dell’esperienza sensibile, attraverso cioè una di­ retta ed immediata visione, da parte della nostra intelligenza, della totalità assoluta degli enti universali e necessari. La meta­ fisica non è più in questo caso un discorso, una costruzione, ma una originaria intuizione intellettiva. È questa la soluzione del platonismo; ed è da notare che essa ha in comune con l’empiri­ smo lo stesso concetto deA’ esperienza come puro senso, cui non è dato che il particolare e il mutevole. Se nella posizione plato­ nica la metafisica si salva, ciò avviene per questo appello ad una intuizione intellettiva, innata, a priori, foto coelo diversa dal­ l’esperienza sensoriale. Senonchè tale intuizione intellettiva, per il suo carattere di conoscenza originaria, appare anch’essa, sotto questo aspetto, una forma di esperienza; non solo, ma, a mano a mano, che la posizione platonica viene chiarendosi, l’intuizione intellettiva ap­ pare profondamente legata alla forma precedente di esperienza, all’esperienza sensibile. Infatti, se si vuol togliere il carattere paradossale col quale l’intuizione intellettiva viene introdotta (per cui giustamente Antistene protestava di vedere il cavallo, ma non la cavallinita), è inevitabile si finisca con il presentare questa intuizione come elemento latente, inconscio, bisognoso

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dello stimolo dell’esperienza sensibile per venire alla luce e tra­ dursi in una nozione consapevole. È evidente che le due forme di esperienza, prima tanto di­ stanti, cominciano ad avvicinarsi ed intrecciarsi, avviandosi così a risolversi nell’unica, articolata forma di esperienza, quella che amiamo chiamare esperienza integrale. Resta però il fatto che la relazione tra le due forme di espe­ rienza è, nella posizione platonica, affermata soltanto in rapporto ad una particolare ed accidentale situazione dell’intelletto umano. In se le due forme di esperienza rimangono distinte e separate, conoscenza l’una del particolare e contingente, l’altra dell’uni­ versale e necessario. L’ultimo passo che al platonismo resterebbe da compiere per procedere dal concetto di una relazione estrinseca ed occasionale al concetto di una relazione intrinseca e necessaria tra le due forme di conoscenza, nell’unità dell’esperienza integrale, consisterebbe nel considerare come non sia in nessun modo possibile la cono­ scenza del particolare, del mutevole, dell’imperfetto e del con­ tingente, in quanto tali, se non in relazione alla conoscenza del­ l’universale, dell’immutabile, del perfetto e del necessario; e viceversa. Sottolineiamo questo secondo aspetto della relazione gnoseologica perchè, se il primo ha ottenuto nel platonismo qual­ che riconoscimento, altrettanto non si può dire del secondo. Il condizionamento tra le due forme di conoscenza è reciproco, bilaterale. Se talora quelli che sono i due poli di un’unica esperienza ci appaiono come elementi autonomi, così da sembrare che l’uno possa sussistere anche senza dell’altro, ciò accade perchè la nostra attenzione volta per volta si concentra su uno soltanto di essi, mentre l’altro rimane sullo sfondo, oscuramente avvertito. E tuttavia, anche in tale posizione, esso condiziona l’avvertimento dell’altro termine che si trova nella luce meridiana della coscienza. Non si può arrivare al concetto di esperienza integrale se non si vuol tener conto di questo fatto fondamentale, che per ogni oggetto che si conosce con chiarezza e distinzione, altri oggetti

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APPENDICE I

sono oscuramente e indistintamente, ma necessariamente avver­ titi. Ed è perciò da questo punto di vista assai significativo che nella posizione platonica l’esistenza e la funzione dell’elemento inconscio abbiano ottenuto un primo ed autorevole riconosci­ mento. Di contro alla soluzione platonica del problema della meta­ fisica sta la soluzione dell’aristotelismo. Questa è caratterizzata dal ripudio di ogni conoscenza innata e dall’affermazione che la metafisica trae dall’esperienza e solo dall’esperienza, il materiale e gli strumenti per la sua costruzione. Ma, se l’esperienza, come ritiene l’aristotelismo, ci dà il particolare e il relativo, come sarà possibile su questa base elevarsi all’universale e all’Assoluto? È evidente che una esperienza cui si affida un compito tanto impegnativo non è più intesa come il puro senso cui è dato co­ gliere il mero particolare, ma come una forma di conoscenza ad un tempo sensitiva ed intellettiva, cui è originariamente presente, almeno in potenza, lo stesso universale e necessario (n). Attra(u) Si veda a questo proposito quanto scrive M. Gentile (Come si pone il problema metafisico, Liviana, Padova, 1955): «Che in Aristotele, il padre della metafisica, sia possibile parlare dell’esperienza come di un punto di partenza della metafisica, non viene ricordato di solito; ma si può dimo­ strare agevolmente, solo che si ricordi la funzione che nel suo pensiero ha l’empeirìa (cioè l’esperienza). « L’empeirìa, da un lato, mostra uno stretto collegamento, un’intrinseca affinità e una parziale identità con la conoscenza sensibile (intendendo ari­ stotelicamente per conoscenza sensibile la conoscenza dell’individuale). Ma sotto un altro riguardo l’empirìa accenna a un bisogno e a un’esigenza di uni­ versalità, che sono impliciti nella stessa conoscenza del particolare. Dunque nella gnoseologia aristotelica l’empirìa rappresenta una posizione intermedia tra la aisthesis (la quale, si sa, è insieme sensazione e percezione) e i proce­ dimenti noetici. È dunque un momento, in cui il contenuto della conoscenza sensibile si dimostra orientato verso una conoscenza di ordine universale, quale sarà possibile solamente con i procedimenti concettuali e raziocinativi » (p. 47). È appunto richiamandosi a un tale concetto di esperienza, e approfon­ dendolo, che il Gentile può affermare che « il problema metafisico si pone

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verso l’astrazione l’intelletto non coglie originariamente l’uni­ versale; lo coglie per la prima volta come astratto, cioè come li­ berato dai caratteri individuali coi quali si trova commisto negli oggetti di esperienza, ma è già nell’esperienza originaria che l’uni­ versale è in qualche modo attinto. Il giudizio esplicito intorno agli oggetti è il segno dell’avvenuta astrazione, ma questa non è che l’analisi di ciò che sinteticamente è offerto dall’esperienza. Tradotto nel nostro linguaggio, l’atto dell’astrazione non è che il concentrarsi dell’attenzione su quei piani dell’orizzonte ontologico che nell’esperienza ordinaria rimangono sullo sfondo, spesso inconsciamente avvertiti, ^universale in potenza dell’aristotelismo equivale, nel nostro modo di esprimerci, ά\Υ universale inconscio (un inconscio non assoluto, ma relativo). E l’equiva­ lenza appare ancor più chiara se si tiene presente che l’astrazione nell’aristotelismo non significa totale separazione o perdita di contatto con il particolare dal quale l’universale è astratto. L’uni­ versale infatti può essere concepito come tale solo in quanto è contrapposto al particolare, e questo deve perciò essere sempre in qualche modo presente al pensiero che all’universale si rivolge. Se la separazione dell’universale dal particolare fosse assoluta, il primo perderebbe ogni significato, si ridurrebbe effettivamente ad un puro nome. « Il pensiero — dice appunto Aristotele — pensa i concetti nelle immagini » (De Anima, III, 431 b 2). È quanto appunto aU’inizio si affermava intorno all’idea dell’es­ sere, definendola come lo sfondo in rapporto al quale ogni sin­ golo oggetto è necessariamente avvertito e che, d’altro canto, non può a sua volta essere presente se non in relazione a questo o a quell’oggetto particolare. Diremo allora che il nostro concetto di esperienza integrale si identifica con il concetto di esperienza proprio della tradizione aristotelica? Se si fa attenzione al motivo centrale di questa tra­ dizione, secondo cui l’esperienza non è un atto meramente senintendendo l’esperienza nella sua purezza, nella sua schiettezza e nella sua totalità» (p. 57).

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APPENDICE I

seriale, ma, ad un tempo, essenzialmente intellettivo, capace perciò di attingere non il solo particolare, ma, in qualche modo, lo stesso universale, crediamo di poter rispondere che il nostro concetto di esperienza è in effetti molto vicino a quello dell’aristotelismo, purché tale posizione sia svolta fino alle estreme con­ seguenze, giunti alle quali si vedrà che essa è in grado di soddi­ sfare quelle stesse esigenze del platonismo, con le quali essa è apparsa talora in contrasto!12). Tali esigenze si riassumono nella tesi che l’essere nella sua universalità e l’Assoluto nella sua necessità sono in un certo modo oggetto di conoscenza originaria, cioè di esperienza. Quale sia questo modo s’è già più volte chiarito: la nostra intelligenza non conosce prima il solo particolare e relativo e passa successi­ vamente alla conoscenza dell’universale e dell’Assoluto, ma si muove da una conoscenza più chiara del particolare e del relativo ad un esplicito riconoscimento dell’universale e dell’Assoluto, per la stessa sollecitazione di questi termini, già all’inizio oscu­ ramente avvertiti in relazione ai primi. È chiaro che in questo modo, mentre si rivendicano i diritti del platonismo si pongono anche dei limiti a certe eccessive pre­ tese. Dell’universale e dell’Assoluto abbiamo sì una conoscenza originaria, ma oscura o potenziale e non esplicita od attuale, ma mediata e relativa e non immediata ed assoluta. Una ulteriore illustrazione dei rapporti tra esperienza e meta­ fisica può essere fatta prendendo in esame, secondo la stessa ispirazione fenomenologica della nostra ricerca, un esempio con­ creto, classico di discorso metafisico. Prendiamo la prima via di Tommaso per la dimostrazione dell’esistenza di Dio {Summa TIdeologica, I, q. 2, a. 3)(13). (12) Sulla possibilità di un avvicinamento tra platonismo e aristotelismo attraverso l’approfondimento del concetto di esperienza si è insistito nel vo­ lume Esperienza e Metafisica (vedi particolarmente le pp. 157-159; 249-253). (13) Questa analisi della prima via tomistica usufruisce dei risultati di una discussione svoltasi sullo stesso argomento in un Convegno di filosofia

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Questa, come è noto, parte da un dato dell’esperienza, dalla costatazione cioè del moto. « Certum est enim, et sensu constai, aliqua moveri in hoc mundo ». La dimostrazione segue questa linea: ciò che si muove o è mosso da sè o è mosso da altro; non può muoversi da sè, perchè in tal caso sarebbe sotto lo stesso aspetto in potenza ed in atto; escluso il processo all’infinito, si deve giungere ad un primo motore immobile. Esaminiamo innanzi tutto il punto di partenza offerto dalla esperienza: « aliqua moveri ». La traduzione esatta, come altri ha giustamente osservato, di quel « moveri » è « si muovono » e, precisamente, « sono mosse da qualche cosa ». Infatti le due proposizioni « qualcosa è mosso da sè » e « qualcosa è mosso da altro » sono considerate come contraddittorie, in quanto dalla negazione della prima risulterebbe dimostrata la seconda; ora, affinchè le due proposizioni siano contraddittorie, è necessario che quel « moveri » sia assunto in un significato che escluda ogni altra possibilità, cioè sia assunto come un « essere mosso da qualche cosa ». Per Tommaso adunque il dato iniziale del­ l’esperienza è che « qualcosa è mosso da qualche cosa ». Contro tale tesi è stata sollevata l’obiezione pregiudiziale che l’esperienza non ci presenta affatto il divenire delle cose come un « moveri », come un « essere mosso da ». Questo, s’è detto, lo potevano credere i medievali non sufficientemente scaltriti nel­ l’analisi fenomenologica; ma i moderni, da Hume in poi, hanno al contrario riconosciuto che la pura esperienza ci dà un semplice divenire e non il « moveri », vale a dire ci dà una semplice suc­ cessione di fenomeni, ma non ci fornisce l’idea di un qualche cosa da cui essa sia determinata. Di conseguenza, venendo meno la premessa della prima via, tutta l’argomentazione successiva non avrebbe più modo di esercitarsi validamente. Indipendente­ mente dal valore del principio di causalità (« omne quod move(Padova, 27-29 agosto 1957), a seguito di una relazione del Prof. Bontadini. Mancando di un testo scritto cui richiamarci non ci è possibile fare alcun riferimento più preciso.

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APPENDICE I

tur ab alio movetur »), questo non potrebbe più venir applicato al dato dell’esperienza. Questa obiezione alla prima via tomistica è, in ordine al nostro problema, assai interessante, perchè testimonia della im­ possibilità di una costruzione metafisica al di fuori del concetto di esperienza integrale. Se l’esperienza da cui si intende partire è il puro senso alla maniera humiana, non è in effetti possibile dalla costatazione del divenire elevarsi alla affermazione di un principio che lo tra­ scenda. Senonchè è appunto questa riduzione in senso empiri­ stico del concetto di esperienza che non si deve accettare. La concreta, integrale esperienza umana è molto di più che il semplice senso, è sintesi di senso e pensiero. In tale esperienza ciò che il senso avvertirebbe come una semplice successione è dall’intelli­ genza rapportato all’idea del fondamento ed è in questo modo inteso come un vero e proprio « moveri », un « esser mosso ». Qui l’applicazione della nozione del fondamento o ragion sufficiente alla percezione sensoriale del divenire, prima ancora che strumento di esplicita mediazione metafisica, si rivela come condizione imprescindibile per una autentica esperienza dello stesso divenire nella sua profonda struttura ontologica. Ci rendiamo perfettamente conto della difficoltà della nostra tesi. A qualcuno potrebbe forse sembrare che la nostra preoccu­ pazione fosse quella di costruire un concetto di esperienza e, quindi, un concetto di divenire, tali da giustificare in anticipo la costruzione metafisica. Ma, se si considera la cosa attentamente, si dovrà riconoscere che non è così. Quello che innanzi tutto ci preoccupiamo di giu­ stificare è il fatto che noi in effetti pensiamo a qualcosa come « mosso da », mentre non ci riesce di spiegare in qual modo avremmo potuto acquistare un tale concetto se tutta l’esperienza si riducesse alla mera percezione della successione temporale, senza alcun riferimento, almeno implicito, al fondamento o causa di tale successione, che è in fondo, come s’è detto, la stessa no­ zione dell’Assoluto.

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È questa la difficoltà, a nostro avviso insormontabile, di fronte a cui si trova l’empirista; il cui compito appare assai fa­ cile nel momento critico, quando può invocare a proprio soste­ gno la parte più vivace e corpulenta dell’esperienza, ma è ben difficile nel momento ricostruttivo, perchè non può servirsi di quella parte più sfumata e sottile, ma non meno essenziale, del­ l’esperienza, che egli ha prima trascurata. Così, per esemplificare in un campo diverso da quello in cui si svolge la presente ricerca, l’empirista di fronte ad una pagina di musica potrebbe ben dire che tutto si riduce alla percezione di una serie di suoni o di ru­ mori, ma non potrebbe poi giustificare il valore estetico di quella percezione, per l’esiguità stessa del suo concetto di esperienza musicale. Per giustificare adunque i nostri più comuni ed elementari concetti, prima ancora che per fondare la possibilità della metafi­ sica, non ci resta che richiamarci ancora una volta a quella sin­ tesi iniziale tra i dati del senso e le categorie dell’intelletto che si istituisce entro l’esperienza integrale e che condiziona e sostiene il successivo processo della dimostrazione (analisi) razionale. E soltanto a chi è ancora affetto dal pregiudizio fenomenistico tale sintesi apparirà come una costruzione soggettiva. Al contrario, per l’oggettività stessa delle categorie dell’intelletto che abbiamo precedentemente illustrata, essa risulterà essere la obiettiva struttura della realtà sperimentata.

7. - Compito e limiti dell’indagine fenomenologica.

Il compito di un’indagine fenomenologica è quello di descri­ vere con assoluta fedeltà quanto la pura esperienza ci presenta: nè più, nè meno. In questi casi tuttavia la preoccupazione più frequente è di evitare che si attribuisca all’esperienza più di quanto le spetti; e ciò d’altronde si spiega tenendo presente che l’esigenza fenomenologica si fa in genere sentire quando una tra­ dizione di pensiero si oscura e il linguaggio di una scuola perde

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APPENDICE I

il contatto con le esigenze vive da cui era sorto, apparendo così generico, equivoco e, spesso, privo di senso. L’atteggiamento fe­ nomenologico assume allora il carattere e la funzione di una pars destruens, rivolta ad eliminare quanto in quella posizione di pensiero si presenta sfornito di sicure credenziali, fino a ritrovare dei dati primi, delle verità elementari assolutamente inoppu­ gnabili. Senonchè il pericolo connesso a questo atteggiamento, in sè legittimo, è che, in quest’ansia di purificazione, si attribuisca al­ l’esperienza originaria meno di quanto le spetti. Il vizio per di­ fetto non è in tal caso meno grave di quello per eccesso: se prima il pensiero rischiava di perdersi nel generico e nel nebuloso, ora il pensiero minaccia di disseccarsi nel suo stesso principio fon­ tale e di non essere più in grado, non solo di procedere ad una valida ricostruzione metafisica, ma neppure di giustificare come si sia prodotta quella situazione da cui ha preso le mosse la stessa indagine fenomenologica. Il pensiero filosofico viene così a trovarsi in una situazione analoga a quella in cui, ad esempio, s’è trovato quando, ponen­ dosi il problema della costituzione del composto esteso, ha cre­ duto di poter rispondere che esso risultava da un aggregato di parti semplici, inestese. Il risultato che ne è scaturito è stata la impossibilità per il pensiero di dar ragione della realtà dello stesso esteso da cui era partito, in quanto apparve alla fine ben chiaro che da una somma di inestesi nessuna estensione poteva essere generata. Di qui la famosa antinomia, la cui soluzione consiste nel riconoscere l’originarietà dell’esteso, le cui parti risultano sempre alla lor volta estese. Allo stesso modo riteniamo che si dovrà alla fine riconoscere l’originarietà della conoscenza metafisica. È un fatto che nel no­ stro discorso sono contenuti dei termini che alludono a qualche cosa che non è dato di verificare sensibilmente: ora, tale fatto, indipendentemente dal suo positivo valore, non potrebbe in nes­ sun modo prodursi se gli elementi originari, costitutivi del no-

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stro conoscere, fossero soltanto i dati sensoriali, in una parola, se l’esperienza non fosse già una metafisica in nuce (14). È quanto in queste pagine s’è cercato appunto di chiarire e di approfondire, quando s’è tentato di delineare quella struttura mediata dell’esperienza, in rapporto alla quale i singoli dati assu­ mono un significato che è già metafisico, un significato cioè che trascende la particolarità del senso per rapportarsi alla totalità stessa dell’essere e al suo fondamento assoluto. È chiaro che quando si propone di controllare la validità di una indagine fenomenologica invitando a ricostruire la sintesi iniziale, si è giunti al momento più delicato e decisivo di questa indagine, al momento cioè della verifica. Tale verifica è in questo caso particolarmente necessaria per­ chè non è certo un compito facile quello di analizzare l’originaria mediazione in cui consiste l’esperienza integrale; anzi, è addirit­ tura impossibile, se per analisi si intende lo scomporre la rela­ zione gnoseologica fino ad isolarne gli elementi semplici ed auto­ nomi. Non si deve infatti dimenticare che in questo caso la rela­ zione o sintesi iniziale è più dei termini analiticamente rintrac­ ciati e non può quindi venir ricostruita mediante la semplice somma di questi. Riprendendo il paragone istituito all’inizio tra la conoscenza e l’organismo vivente, diremo che, come l’atto della vita è qualche cosa che non può essere interamente spiegato me­ diante l’analisi dei singoli organi e delle singole funzioni (queste piuttosto possono essere intese solo se vengono costantemente riferite a quell’intero che è appunto l’atto della vita, complesso e semplice ad un tempo); allo stesso modo l’organismo gnoseo­ logico, anche in quella forma embrionale che è l’esperienza, non è del tutto scomponibile in una serie di singoli termini, di sin­ goli dati. Se mi domando, ad esempio, donde un nuovo fenomeno (14) In un senso analogo a quello che si è qui chiarito il Bergson poteva affermare che « il vero empirismo è la vera metafisica » e che « la metafisica potrebbe definirsi V esperienza integrale » (Introduction à la métaphysique, in La pensée et le mouvant, Paris, Alcan, 19344, p. 222; p. 255).

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provenga, significa che io già riconosco che esso deriva da, è mosso da qualche altra cosa; ma l’idea di questo essere mosso è di più che la somma dell’idea di una semplice successione tempo­ rale e dell’idea di un fondamento staticamente considerato. L’idea della pura successione e l’idea del fondamento si ricavano piutto­ sto dall’idea di quell’« essere mosso », che è la sintesi concreta delle precedenti e il vero dato originario dell’esperienza. Non per questo si deve rinunciare all’analisi dell’esperienza. Se ne devono tuttavia aver sempre presenti i limiti onde evitare quel miope analitismo, quella vivisezione della concreta espe­ rienza, per cui alla fine ci si ritrova fra le mani un cadavere al posto di un organismo vivente. È quanto in questa nostra indagine abbiamo cercato in tutti i modi di evitare, consapevoli che, come il compito della biologia non è quello di spiegare il sorgere della vita da qualche cosa di eterogeneo, ma quello di indicare i modi e le forme del suo espli­ carsi; così il compito di una indagine fenomenologica non è quello di ridurre la conoscenza umana ad una forma di esperienza infraumana, ma quello di descrivere la linea di sviluppo di un processo conoscitivo che conserva la propria identità dalle forme più elementari dell’esperienza ai gradi più elevati dell’afferma­ zione metafisica.

APPENDICE

II

Avvertenza. - L’insieme delle note, raccolte in questa Appendice, pur rappresentando soprattutto un complemento del Saggio, non manca tutta­ via di un certo ordine interno, di una certa organicità, che qui vorremmo sottolineare. Le prime tre note riguardano il problema dei rapporti tra la metafisica e le altre forme di esperienza spirituale, quella scientifica e quella mitica. Le note successive approfondiscono alcune fondamentali questioni logico-metafisiche, concernenti, rispettivamente, il punto di partenza dell’in­ dagine filosofica, il valore dei primi principi, la natura dei concetti metafisici e il problema della comunicazione. Tutte le note qui presentate sono già apparse anche in altre sedi, che vengono di volta in volta indicate. In questa nuova pubblicazione il testo ha subito qualche necessario ritocco.

IL PROBLEMA DELLA METAFISICA

NEL PROGETTO DELL’UNIFICAZIONE DEL SAPERE *

Il problema dell’unificazione del sapere è un problema essen­ zialmente metodologico, logico. Che il sapere si articoli in varie forme, in relazione alla diversità degli oggetti sui quali si eser­ cita la ricerca, è cosa facilmente riconoscibile che non può perciò sollevare difficoltà. Il vero problema, invece, è quello di stabilire se queste forme di sapere si differenziano tra loro dal punto di vista della struttura logica, cioè per i metodi usati, per i criteri impiegati. In questo senso il pensiero antico aveva distinto due fon­ damentali procedimenti logici: il procedimento induttivo e quello deduttivo, basato, il primo, sulla rassegna dei dati empirici, il secondo, sull’analisi delle essenze. L’induzione aveva trovato pre­ valente impiego nel campo delle ricerche fisiche particolari, la deduzione, invece, nel campo della matematica e della metafisica. Nonostante questa distinzione metodologica, la concezione del sapere nell’antichità, ed anche nel Medioevo, era rimasta sostan­ zialmente unitaria, tanto unitaria da rendere talora possibili delle gravi contaminazioni tra il campo delle discipline induttive e quello delle discipline analitiche. È questa una delle principali ragioni per cui nell’età moderna si avverte con particolare urgenza il problema del metodo. La * Pubblicato nel volume L’unificazione del sapere, Atti del XX Con­ gresso Nazionale di Filosofia, Sansoni, Firenze, 1967, pp. 217-221.

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formulazione di tale problema trova però anche questa volta il suo limite nel fatto di collocarsi all’interno di una concezione del sapere eccessivamente unitaria. Si parla sempre del sapere (scienza o filosofia) al singolare e di tale sapere si cerca di determinare la struttura metodologica. Non vi sono, ad esempio, per Bacone più vie per giungere alla verità, ma un’unica via: quella che dal­ l’esperienza si eleva progressivamente agli assiomi generali attra­ verso la serie degli assiomi medi; l’altra via, quella che presume attingere immediatamente gli assiomi generali per poi ricavarne gli assiomi medi, è la via dell’errore, la via cioè che conduce non alle « interpretazioni », ma alle « anticipazioni » della natura. È agevole riconoscere nelle due vie prospettate da Bacone i due procedimenti logici tradizionali: l’induttivo e il deduttivo; come è facile comprendere ancora che la vera motivazione della condanna del metodo deduttivo è rappresentata dagli abusi a cui esso nel passato s’era talora prestato (il tentativo appunto di de­ durre gli assiomi medi dagli assiomi generali). L’unificazione baconiana del sapere è adunque ottenuta me­ diante il rifiuto di ogni forma di scienza che non si fondi sulla sola induzione, ciò che importa la più radicale ed esplicita ne­ gazione della metafisica. Si profila così quello che sarà anche in seguito uno dei modi più comuni per raggiungere o mantenere l’unità del sapere: l’eliminazione di tutto un settore del sapere stesso (quello metafisico), con grave pregiudizio quindi della in­ tegralità del conoscere umano. L’illegittimità di questa soluzione è però denunciata dalle stesse aporie cui essa dà luogo. La prima di tali aporie è rappresentata dalla presenza di una forma rigorosa di sapere che non si lascia ricondurre al metodo induttivo: la matematica. La dicotomia tradizionale si riproduce allora nella distinzione tra un sapere sperimentale e un sapere matematico, concernente, il primo, « questioni di fatto », espri­ mente, il secondo, « relazioni tra idee ». Questa prima aporia si annuncia già nel metodo cartesiano in cui l’induzione empirica e la deduzione matematica sono estrin­

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secamente giustapposte, piuttosto che fuse in un vero procedi­ mento unitario, come risulta dallo stesso insuperabile dualismo di esperienza sensibile e idee innate. Tuttavia la giustapposi­ zione dei metodi trovava già il principio del suo superamento nel modello galileiano di una nuova scienza fisico-matematica, in cui la matematica entra nella nuova scienza non con il ruolo di disciplina autonoma, ma in funzione di strumento logico (ri­ soluzione in termini quantitativi di impressioni qualitative, for­ mulazioni di ipotesi e di previsioni, ecc.) del sapere sperimentale. Non dunque due distinti ed opposti tipi di sapere, ma un unico sapere articolato in due momenti od aspetti complementari: forma (matematica) e contenuto (esperienza). In questa prospet­ tiva, molte forme di scientismo e di fisicalismo cercheranno in seguito di realizzare l’unificazione del sapere attribuendo appunto alle discipline formali (logica e matematica) il compito di costi­ tuire la struttura sintattica delle scienze sperimentali. Senonché questa nuova forma di unificazione urta contro una ulteriore difficoltà. Tale difficoltà è rappresentata dalla persistente pretesa della metafisica di valere come una autentica ed autonoma forma di sapere. La metafisica infatti, nella sua concezione clas­ sica, non intende ridursi né ad una forma di sapere sperimentale (data la sua esigenza di universalità e di necessità), né ad una di­ sciplina puramente formale (data la sua esigenza di concretezza o « fattualità »). In tali condizioni, riconoscere la pretesa della metafisica importerebbe la frattura di quella unità metodologica del sapere che si ispira al modello della scienza fisico-matematica. Non è un caso se il programma dell’unificazione del sapere si configura nell’ottocento e nel novecento sotto il segno della lotta contro la metafisica. E non si tratta semplicemente della lotta contro le indebite intromissioni della metafisica nel campo delle scienze sperimentali, ma della lotta contro un tipo di sapere che, se riconosciuto come tale, comprometterebbe irrimediabil­ mente la concezione monolitica della scienza. È evidente però che per salvare l’unità del sapere non è suffi­ ciente respingere le pretese della metafisica: è necessario respin­

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gerle in maniera fondata, motivata. Questo compito di eliminare radicalmente la metafisica (questa pars destruens, questa Ueberwindung) è affidato all’analisi logica del linguaggio. Partendo dal criterio che il significato di un discorso è condizionato alla possi­ bilità della sua verifica empirica, la filosofia analitica denuncia l’inconsistenza del discorso metafisico, la sua assoluta mancanza di significato. Ma, ancora una volta, questo stesso tentativo antimetafisico in difesa dell’unità metodologica del sapere, si imbatte in una nuova, insuperabile aporia. La dottrina neopositivistica del si­ gnificato per poter rappresentare la perentoria negazione della possibilità della metafisica, dovrebbe essere essa stessa fornita di un valore necessario e fattuale, dovrebbe essere cioè in grado di definire una volta per tutte quelle che sono le effettive con­ dizioni del discorso umano. Ma allora, in base allo stesso criterio empirico di significanza, il discorso che dovrebbe enunciare e far valere questo criterio, risulterebbe esso pure privo di senso. È una aporia, questa, che è stata ormai innumerevoli volte denunciata. Se qui viene nuovamente richiamata, non è per con­ cludere ad una sterile confutazione dell’atteggiamento antimeta­ fisico, che lascerebbe insoluto il problema della struttura del sa­ pere, ma per introdurre piuttosto un nuovo ordine di conside­ razioni. La prima considerazione è rappresentata dalla constatazione dell’esistenza di un tipo di discorso, il discorso sul discorso (lo­ gica maior o « metadiscorso ») che non può ridursi né al sapere sperimentale, le cui conclusioni sono sempre ipotetiche, né a quella forma di sapere deduttivo (matematica pura), le cui con­ clusioni sono necessarie, ma puramente formali. La seconda considerazione è fornita dall’idea, che dovrebbe essere ulteriormente discussa ed approfondita, che questo par­ ticolare tipo di discorso, che è il discorso logico, coincida, almeno parzialmente, ma forse nel momento essenziale, con il discorso metafisico, nel senso classico, cioè aristotelico, dell’espressione. Non a caso il IV libro della Metafisica, che ha per oggetto

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l’esposizione delle proprietà essenziali dell’essere in quanto es­ sere, è dedicato tutto alla sola giustificazione del principio di non contraddizione, presentato come il principio supremo ad un tempo dell’essere e del pensiero. È nota la linea dell’argomentazione seguita da Aristotele: il principio di non contraddizione è usato, e quindi implicitamente riconosciuto, da tutte le forme di sapere; solo la metafisica, tut­ tavia, porta esplicitamente la riflessione su tale principio, accetta di porlo in discussione, di problematizzarlo, e lo difende dal ten­ tativo di negazione, mostrando come tale negazione renderebbe indeterminato e perciò insignificante qualunque discorso, com­ presa perciò la negazione stessa. Il fatto che nel IV libro della Metafisica il principio di non contraddizione sia elevato a su­ premo principio di significanza, mi sembra una ulteriore con­ ferma dell’intimo nesso che lega tra loro il discorso logico e il discorso metafisico. La terza ed ultima considerazione, a cui mi è possibile sol­ tanto accennare, è la seguente: il riconoscimento dell’esistenza di un sapere logico-metafisico, necessario e fattuale ad un tempo, accanto a quello sperimentale e a quello analitico-formale, non rappresenta affatto la negazione della unità del sapere. In ogni caso la consapevolezza critica della rispettiva validità e dei ri­ spettivi limiti delle diverse articolazioni del sapere, costituisce già il fondamento della loro più vera unificazione. Ma tale consa­ pevolezza critica si conquista appunto attraverso il discorso lo­ gico-metafisico, che si configura così alla fine come quel partico­ lare momento del sapere che è in grado di unificare in sé inten­ zionalmente gli altri momenti, senza distruggerne tuttavia la re­ lativa autonomia.

EVOLUZIONISMO E METAFISICA CLASSICA *

Premesso che qui per metafisica classica intendiamo l’indi­ rizzo filosofico ispirato a quei principi fondamentali che nella « filosofia prima » di Aristotele hanno trovato la loro iniziale for­ mulazione — principi non assunti dogmaticamente, ma criticamente giustificati attraverso la forma più radicale di problematizza­ zione —, è necessario, in via preliminare, precisare ancora il du­ plice senso secondo cui la teoria evoluzionistica può essere as­ sunta: quello cioè di un’ipotesi strettamente scientifica e quello invece di una vera e propria concezione filosofica, consapevole o meno. Se ci si attiene al primo di questi due sensi, il problema del rapporto tra evoluzionismo e metafisica classica si presenta come un caso particolare del rapporto tra scienza sperimentale e filo­ sofia. Si tratta di due piani speculativi nettamente distinti, tra i quali non vi possono essere, di diritto, interferenze. Una dottrina scientifica, nell’accezione sperimentale del ter­ mine, è sempre in fondo la « descrizione » di un fenomeno o di un gruppo di fenomeni: le leggi della scienza si limitano infatti a fissare induttivamente, statisticamente, i modi costanti secondo cui i fenomeni si connettono tra loro. La scienza si sforza di ri­ salire di connessione in connessione, ma in ogni momento del suo indefinito regresso essa si trova sempre di fronte a connessioni di fatto, stabilite a posteriori. Se da un punto di vista pratico, tecnico, è molto importante per lo scienziato giungere alla de­ terminazione di quelle connessioni che egli sia in grado di provo­ * Pubblicato in Evoluzionismo e storia umana, Atti del XXII Convegno di Gallarate, Morcelliana, Brescia, 1968, pp. 208-211.

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APPENDICE II

care e dominare, da un punto di vista teoretico, egli sembra spo­ stare di continuo, piuttosto che risolvere, il problema. In questo senso, confrontata, con la esigenza di un sapere radicale, che è la stessa esigenza filosofica, una teoria scientifica non è mai una « spiegazione », una vera giustificazione dei fenomeni che essa assume a proprio oggetto. Ecco perchè qualunque risultato scientifico, anche se rigoro­ samente accertato, rimane assolutamente problematico dal punto di vista della riflessione filosofica, tutta protesa alla ricerca di ciò che sfugge irrimediabilmente, metodologicamente, aU’indagine sperimentale: il perchè, la ragione suprema di ciò che l’esperienza ci presenta. La problematizzazione e la conseguente interpreta­ zione filosofica dell’esperienza sono operate alla luce dei due prin­ cipi di non contraddizione e di ragion sufficiente. La filosofìa cerca la ragione sufficiente senza la quale l’esperienza risulterebbe con­ traddittoria. E, proprio per questa incidenza sul discorso filo­ sofico del principio di non contraddizione, le conclusioni cui esso giunge sono, a differenza di quelle della scienza, logicamente ne­ cessarie, deducibili analiticamente, a priori, dalla natura stessa dei termini che entrano a costituirle. Tuttavia la filosofia paga, diciamo così, questo valore necessario delle sue conclusioni con una estrema generalità, che è la conseguenza della rinuncia alla pretesa di determinare a priori tutti quegli aspetti del mondo dei fenomeni che possono essere invece rilevati soltanto a posteriori. Nel caso del problema dell’origine delle specie viventi, anzi, in particolare, dell’origine della specie umana, la filosofia può dire soltanto che la ragione, la causa di tale specie deve essere sufficiente, cioè adeguata, proporzionata alle caratteristiche, alle proprietà della specie stessa. Ora la ragion sufficiente ultima, as­ soluta, di un essere vivente, intelligente e libero non può non es­ sere essa stessa dotata di vita, intelligenza e libertà. Nel caso contrario il più deriverebbe dal meno, l’essere deriverebbe dal non essere: si incorrerebbe cioè nella più palese contraddizione. Tuttavia questa spiegazione filosofica ben precisa e sicura, tanto evidente da apparire quasi un truismo, una tautologia, ri­

EVOLUZIONISMO E METAFISICA CLASSICA

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mane per un certo aspetto, che è poi quello che interessa alla scienza, del tutto indeterminata, in quanto non indica per se stessa particolareggiatamente, sul piano empirico, quale sia stata l’origine della specie umana, se essa sia sorta indipendentemente dalle altre specie, oppure attraverso una loro graduale trasforma­ zione. Questa seconda è l’ipotesi evoluzionistica. Spetta allo scien­ ziato verificare, se possibile, tale ipotesi, oppure, se possibile, di­ mostrarne la falsità, sulla base dei dati che gli vengono forniti dall’esperienza e dagli esperimenti. E qui il filosofo non ha nulla da dire, non può fare anticipazioni nè porre remore a priori, pur­ ché, s’intende, lo scienziato rimanga tale e non presenti il suo ri­ sultato parziale, la sua « descrizione », come una spiegazione to­ tale. Non ripugna alla metafisica classica l’ipotesi scientifica che la specie umana sia « derivata » da una specie diversa, radical­ mente inferiore, purché questa, sul piano filosofico, sia conside­ rata non come la vera ragion sufficiente, ma come la semplice ma­ teria o potenza sulla quale agisca una superiore attualità. Come bene ha osservato il P. Selvaggi, vale anche nel caso della gene­ razione della specie umana il principio aristotelico che è alla base di tutta la concezione del divenire: il divenire è passaggio dalla potenza all’atto, ma, per la stessa inferiorità della potenza ri­ spetto all’atto, questo passaggio richiede un precedente atto e, alla fin fine, un Atto primo, un Movente immobile, impassibile, il quale, aggiungiamo, giusta la coerente integrazione di Tom­ maso, non può essere veramente tale, se non è creatore. Ciò che invece ripugna alla metafisica classica è una conce­ zione dell’evoluzione in cui il passaggio dalla potenza all’atto, nel nostro caso dalla specie non razionale a quella razionale, avvenga senza l’intervento di una superiore attualità, in virtù della sola potenza, della sola materia. Ci troveremmo allora di fronte alla contraddizione, già denunciata, del passaggio dal meno al più, dal non essere all’essere. Ma in questo caso avremmo a che fare con una concezione evoluzionistica di tipo filosofico, con una me­ tafisica, magari inconsapevole (« criptometafisica » l’ha giusta­

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APPENDICE II

mente definita il Petruzzellis) che rifiuta il principio della meta­ fisica classica, il primato dell’atto sulla potenza, l’originarietà del­ l’immobile rispetto al divenire (e anche in questo senso ci sem­ bra particolarmente efficace l’accostamento, fatto dal Petruzzel­ lis, dell’evoluzionismo positivistico allo storicismo idealistico). L’interesse adunque del fautore della metafisica classica per la teoria dell’evoluzione è un interesse negativo, nel senso che egli deve preoccuparsi che un’ipotesi scientifica non sia sur­ rettiziamente presentata come una tesi metafisica. Per il resto, cioè per quanto attiene all’aspetto scientifico del problema, il fi­ losofo classico e cristiano non deve nutrire alcuna preoccupazione: la eventuale derivazione dell’uomo da un animale inferiore non lo deve umiliare, più di quanto non l’umili la sua derivazione dal fango, quando egli sappia che su quel fango ha alitato lo spirito di Dio. Ma lo stesso filosofo deve fare attenzione anche al pericolo opposto, quello cioè che una tesi filosofica venga collocata sullo stesso piano di una teoria scientifica. Vogliamo in questo caso dire che il creazionismo, cioè il ricorso all’azione divina, non può costituire, come alcuni ritengono, un’alternativa all’evoluzionismo scientifico, proprio perchè non è verificabile sperimentalmente. L’evoluzionismo ha come alternativa il fissismo, ma queste due ipotesi si collocano su di un piano ben distinto da quello in cui as­ sume significato il creazionismo, che è invece una soluzione schiettamente filosofica, l’unica razionalmente possibile. Come, a suo tempo, Tommaso riconobbe sostanzialmente indifferente nei confronti della tesi creazionistica la questione, indecidibile da un punto di vista razionale, della eternità o meno del mondo, rimet­ tendosi per la sua soluzione alla rivelazione, analogamente noi dovremmo ora considerare estranea alla stessa tesi le ipotesi del­ l’evoluzionismo e del fissismo, abbandonandole completamente all’indagine scientifica. Se il filosofo prende in considerazione que­ ste ipotesi, ciò deve avvenire soltanto in rapporto all’esigenza critica che lo caratterizza, quella cioè di determinare i limiti del proprio e dell’altrui dominio.

PENSIERO MITICO,

METAFISICA E ANALISI DELL’ESPERIENZA *

Esiste senza dubbio un profondo rapporto tra mito, metafi­ sica ed analisi dell’esperienza, per cui si può senz’altro affermare trattarsi non di stadi successivi, ma di strutture o momenti co­ stanti del pensiero umano, anche se nel corso della storia ora l’uno ora l’altro di essi abbia avuto una particolare accentuazione. Resta tuttavia il problema della esatta determinazione del rapporto tra i tre termini in questione. Iniziando dai primi due, diremo che il discorso mitico e il discorso metafisico costitui­ scono due diversi modi di rispondere alla domanda filosofica es­ senziale, che è la ricerca del fondamento ultimo della realtà, con­ siderata nella sua totalità. Ma, proprio in quanto forme di di­ scorso, mito e metafisica devono avere la loro origine e la loro possibilità di verifica nell’esperienza, se per esperienza si intende l’insieme di ciò che è originariamente conosciuto, in opposizione a quanto può essere invece successivamente, discorsivamente ri­ cavato. L’analisi dell’esperienza è appunto chiamata in causa per operare il controllo critico dei due diversi modi di rispondere alla domanda filosofica. Anzi, prima ancora che questa o quella risposta determinata, deve essere oggetto di investigazione la possibilità della stessa domanda. È un fatto (e rientra perciò nella stessa esperienza) che la * Pubblicato in Pensiero mitico, metafisica e analisi dell’esperienza: stadi successivi o strutture costanti del filosofare? Atti del XXIII Convegno di Gal­ larate, Morcelliana, Brescia, 1969.

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APPENDICE II

domanda filosofica si dà: quali sono le condizioni in base alle quali essa può sorgere? Essendo l’esperienza il momento origi­ nario, la fonte di ogni nostra attività teoretica, è chiaro che nel­ l’esperienza dovranno trovarsi i fondamenti di quell’atteggia­ mento teoretico che è appunto la domanda filosofica. E poiché quest’ultima, come s’è detto, è il problema del fondamento ul­ timo della realtà, considerata nella sua totalità, i termini di tale problema (idea del fondamento ultimo e idea della totalità asso­ luta) devono rientrare nella stessa esperienza. Tale affermazione può ricevere una conferma dalla conside­ razione che qualunque tentativo di ottenere queste idee mediante la combinazione di altre più elementari, e perciò davvero origi­ narie, finisce in realtà per presupporre ciò che invece dovrebbe spiegare. Chi crede, ad esempio, che si possa ottenere l’idea della totalità assoluta unendo assieme le rappresentazioni di varie to­ talità particolari, non s’accorge evidentemente che quest’atto di unificazione suprema presuppone già, come suo principio regolativo, quell’idea di totalità assoluta, di cui invece dovrebbe spie­ gare la genesi. Analogamente, non è possibile ottenere l’idea di un fondamento ultimo portando al limite la rappresentazione di questo o quel fondamento parziale, perchè proprio questo muo­ vere verso il limite può essere sollecitato soltanto dall’esigenza di quel fondamento assoluto, la cui idea si rivela così presupposta anziché costruita. Le idee di totalità assoluta e di fondamento ul­ timo sono adunque originarie e in questo senso appartengono al­ l’esperienza se, ripetiamo, il significato essenziale del termine esperienza è costituito dal concetto di conoscenza originaria. La difficoltà di riconoscere queste dimensioni metafisiche del­ l’esperienza è costituita dal fatto che, mentre altri contenuti sono presenti in essa in forma del tutto chiara ed esplicita (così che non avrebbe neppure senso soffermarsi ad illustrarne la genesi), per ciò che riguarda le idee in questione, esse sono presenti come quell’orizzonte o sfondo immutabile su cui la nostra attenzione non è comunemente portata a soffermarsi, come quella sfera o­

PENSIERO MITICO, METAFISICA E ANALISI DELL’ESPERIENZA

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scura o atematica della nostra coscienza, che l’analisi dell’espe­ rienza è chiamata appunto ad esplicitare!1). Il problema, che a questo punto si pone, è la determinazione di un metodo per operare una rigorosa verifica di quanto si af­ ferma celarsi nella zona oscura della nostra esperienza, allo scopo anche di evitare che, senza alcun controllo, vengano ad essa attri­ buiti degli elementi che rendano poi possibile un’arbitraria co­ struzione metafisica (2). La soluzione di tale problema mi sembra sia stata efficacemente, anche se succintamente, prospettata dal Padre Lotz, il quale ha inteso questa verifica in senso trascen­ dentale, cioè come ricerca delle condizioni di possibilità: l’espe­ rienza ontica, cioè l’esperienza dei singoli enti finiti, non sarebbe possibile senza l’esperienza ontologica, senza cioè l’esperienza dell’essere, inclusiva del suo stesso fondamento sovramondano. Dal canto nostro, vorremmo insistere su quella forma di giu­ stificazione trascendentale che non si esercita direttamente sul­ l’esperienza, ma piuttosto sul discorso, risalendo, come s’è visto, dal discorso mitico o da quella metafisico in atto alle condizioni che lo rendono possibile, vale a dire alla domanda filosofica to­ tale e radicale e ai termini originari su cui essa si instaura: l’idea della totalità assoluta e quella del fondamento ultimo. (J) II Lotz ha particolarmente insistito sulla dimensione metafisica che si cela nell’esperienza, quando questa sia intesa in tutta la sua ricchezza (cfr. Relazioni introduttive, pp. 14-16). L’opposizione del Bontadini a tale tesi (cfr. Relazioni introduttive, pp. 7-8) dipende dal fatto che egli restringe per definizione il termine esperienza ad indicare non la totalità di ciò che è originariamente appreso, ma soltanto la sfera dei dati particolari e mutevoli. Così l’esperienza non è per lui l’unico cespite del discorso metafisico, dovendo essa essere integrata dal logo, nell’ambito di quello che il Bontadini chiama Liniero o Implesso originario. La differenza tra il Lotz e il Bontadini appare perciò più terminologica che concettuale, corrispondendo il concetto lotziano di esperienza a quello bontadiniano di Implesso originario. (2) Sul problema della possibilità di verifica dei risultati dell’analisi filosofica dell’esperienza, ha giustamente richiamata l’attenzione, in uno dei suoi interventi, il Mathieu.

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APPENDICE Π

Riferito alla totalità assoluta e al fondamento ultimo, il ter­ mine idea non sta ad indicare qualcosa di meramente possibile, ma qualcosa di reale, anzi di necessario, benché scarsamente de­ terminato. L’esistenza della totalità e quella del fondamento, comunque concepiti, sono assolutamente innegabili. Se, per una assurda ipotesi, nego l’esistenza della totalità, ciò che mi rimane (e qualcosa deve pur rimanere, non fosse altro la mia stessa negazione) sarà esso la vera totalità. Se, per una ipotesi non meno assurda, nego l’esistenza di un fondamento, la mia pre­ tesa che questa negazione sia fondata, è una implicita riaffer­ mazione di quanto cerco invano di negare. A questo livello, il metodo della giustificazione trascenden­ tale di ciò che è originariamente conosciuto mi sembra coinci­ dere con il metodo della dimostrazione elenctica, che ha il suo modello classico nella difesa del principio di non contraddizione operata da Aristotele nel IV libro della Metafisica. Tale difesa infatti si risolve nel mostrare come quel principio sia la condi­ zione suprema della possibilità di qualunque manifestazione lo­ gica, noetica e dianoetica insieme. In questa maniera il metodo della riduzione trascendentale, culminante nella dimostrazione elenctica, perviene alla esplici­ tazione di quelle strutture immutabili della nostra esperienza che, per la loro stessa costante incidenza sul nostro orizzonte conoscitivo, sono destinate, nell’esercizio irriflesso del nostro pensiero, a rimanere inavvertite. Esse nondimeno svolgono un ruolo essenziale all’interno dell’intera sfera conoscitiva: se la nostra esperienza ha una struttura problematica, se essa non si arresta alla mera constatazione del fatto, ma si continua per impulso autonomo nel processo dianoetico, inferenziale, ciò è appunto dovuto all’azione feconda di queste strutture noetiche. Una tale esperienza, riconosciuta in tutte le sue componenti, quelle metafisiche incluse, è l’esperienza integrale. Solo una con­ cezione integrale dell’esperienza può giustificare la possibilità del discorso metafisico. Ciò spiega come un’insufficiente analisi dell’esperienza abbia potuto, in un passato anche molto recente,

PENSIERO MITICO, METAFISICA E ANALISI DELL’ESPERIENZA

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presentarsi come uno strumento di lotta e di distruzione del di­ scorso metafisico. Al contrario, un’analisi più approfondita e completa, condotta secondo i procedimenti indicati, nell’atto stesso in cui giunge ad una concezione meno inadeguata del­ l’esperienza, conduce anche ad una più intima comprensione della natura e del valore del discorso metafisico. Una siffatta analisi dell’esperienza getta anche molta luce sulla natura del mito. Vi è, pur nella opposizione, quale si è storicamente manifestata, uno stretto rapporto tra mito e me­ tafisica, comprovato dal fatto che la metafisica, in polemica con il mito, è venuta sostituendosi ad esso e impossessandosi del­ l’area prima occupata da questo. L’area speculativa del mito, o di quell’aspetto del mito che qui interessa considerare, è in­ fatti la stessa area speculativa della metafisica, definita dalla domanda intorno al fondamento ultimo del reale. Anche il mito intende essere una risposta a questa domanda, una risposta però che, a differenza di quella propriamente metafisica, non è formulata in termini rigorosamente razionali, ma in ma­ niera acritica, fantastica. Ciò spiega la lotta della metafisica contro il mito, lotta che costituisce non solo il momento iniziale, ma anche un atteggiamento costante della coscienza fi­ losofica, che deve sempre guardarsi dalla tentazione di aderire alle soluzioni tanto facili quanto illusorie della nostra facoltà fabulatrice. Da questo punto di vista, pensiero mitico e metafisica po­ trebbero apparire fasi successive o, comunque, atteggiamenti tra loro inconciliabili della nostra vita spirituale. Vi è tuttavia anche un aspetto per cui mito e metafisica risultano in effetti atteggia­ menti costanti e momenti complementari del nostro pensiero. Ciò dipende dal fatto che una concezione metafisica, come so­ luzione rigorosamente razionale, è sempre qualcosa di molto astratto, è un insieme di determinazioni più negative che posi­ tive. Ciò che è razionalmente concepito, senza poter essere piena­ mente esperito, è qualcosa che non può mai soddisfare la nostra domanda filosofica, in tutta la sua portata teoretica e pratica. 9

P. Faggiotto, Saggio sulla struttura della metafisica.

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APPENDICE II

Ecco perchè è inevitabile la tendenza ad integrare la solu­ zione metafisica, sempre molto indeterminata e generica, con rappresentazioni mitiche, le quali, se non rispondono alla nostra esigenza di rigore critico, vanno tuttavia incontro al nostro bisogno di concretezza e di determinazione. In Platone si può trovare esemplificato con molta efficacia questo uso del mito come momento complementare del discorso metafisico e quindi come atteggiamento costante del nostro pensiero. È però da se­ gnalare una profonda differenza tra il mito come fase prefiloso­ fica e il mito come espressione integrativa della risposta meta­ fisica. Nel primo caso, la costruzione mitica ha tutta la pretesa di essere una risposta assoluta ed esaustiva; nel secondo caso, invece, essa è accompagnata dalla consapevolezza del proprio carattere largamente fantastico e vagamente ipotetico. Platone si mostra ben consapevole di ciò quando considera il ricorso al mito come un rischio che è bello affrontare pur di supplire all’insufficienza della risposta metafisica, quando manchi il più valido aiuto di una divina rivelazione (3). Questo richiamo alla posizione platonica non mi sembra privo di attualità, in quanto suggerisce l’opportunità di mante­ nere una precisa distinzione tra mito e fede rivelata, termini che alcuni tendono oggi ad avvicinare così strettamente da iden­ tificarli quasi tra loro(4). La fede rivelata, come il mito, pre­ senta le caratteristiche di un discorso che oltrepassa i confini della pura ragione; ma il mito rimane sempre un discorso umano, una metafisica poetica, che della divina rivelazione esprime sol­ tanto l’esigenza e la speranza.

(3) Cfr. Fedone, 85, c-d; 114, d. (4) Questa tendenza ad identificare i concetti di mito e fede rivelata si è fin dall’inizio manifestata nelle Relazioni di Bontadini e di Prini. La le­ gittimità di tale identificazione è stata posta in discussione da Santinello. Il successivo dibattito, svoltosi intorno a questo punto, ha condotto a delle op­ portune precisazioni.

IL PUNTO DI PARTENZA

DELL’INDAGINE FILOSOFICA *

Chi ritenga che il lavoro filosofico consista essenzialmente in una indagine, non può non riconoscere l’esistenza di un og­ getto o di un insieme di oggetti dati intorno ai quali il filosofo indaga. Il campo di indagine può essere indubbiamente scelto tra altri campi possibili, ma questa scelta avviene entro un campo più ampio che, alla fine, non è scelto, ma è dato al ri­ cercatore e costituisce così il presupposto remoto della sua in­ dagine. Ciò significa che il lavoro filosofico non è mai un’atti­ vità assoluta, ma è sempre condizionato dall’esistenza di dati o presupposti. È da notare che allo stesso risultato si giungerebbe se si parlasse di costruzione, anziché di indagine filosofica. Giacché ogni costruzione presupporrebbe l’uso di materiali e di stru­ menti che quella stessa costruzione non costruisce. E non giova affermare che quei materiali potrebbero essere il frutto di una precedente costruzione, perchè, a parte l’impossibilità di un regresso all’infinito, in rapporto a quella determinata costru­ zione, cui ci riferiamo, essi rappresenterebbero sempre dei puri e semplici dati che condizionano e vincolano la costruzione, impedendole di convertirsi in una creazione, cioè, ancora, in una attività assoluta. * Pubblicato in Posizione e criterio del discorso filosofico, a cura di C. Giacon, Patron, Bologna, 1967, pp. 51-60.

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APPENDICE II

L’autentica autonomia dell’indagine filosofica non si realizza prescindendo da ogni presupposto, ma assumendo come pre­ supposto soltanto ciò che è veramente dato. Il dato, in quanto tale, rappresenta una prima, incrollabile certezza e la proposi­ zione che si limita ad enunciare ciò che è dato è assolutamente vera. Procediamo sulla scorta di un esempio. Una di queste prime certezze è ciò che è enunciato da una proposizione come la se­ guente: « Mi trovo in questa stanza, di fronte a questi oggetti e a queste persone ». Esiste senza dubbio un senso in cui que­ sta proposizione è assolutamente vera, tale da non poter essere in nessun modo negata. È nota l’obiezione fenomenistica che può essere a questo punto formulata. Essa procede dall’ipotesi cartesiana del sogno: la stanza che tu vedi, gli oggetti e le persone che hai di fronte, potrebbero essere delle semplici proiezioni della tua fantasia, paragonabili a quelle che si producono durante il sonno. In altri termini, la rappresentazione di questo o di quell’oggetto, che solitamente indichiamo con il termine di percezione, non porta con sè la garanzia dell’esistenza dell’oggetto in se stesso, indipendentemente dal suo rapporto con il soggetto. Il termine dell’intenzionalità conoscitiva è dunque costituito, secondo il fenomenismo, dalla nostra rappresentazione e resta problematica l’esistenza di una realtà trascendente la sfera della soggettività. Diciamo subito che l’obiezione fenomenistica nei confronti della suddetta proposizione vale soltanto se questa sia assunta in un determinato senso, cioè nel senso di un realismo imme­ diato di tipo forte, secondo il quale sarebbe immediatamente certa l’esistenza dell’oggetto percepito indipendentemente da ogni attività del soggetto che lo percepisce. Tuttavia la proposizione in questione non è affatto toccata dall’obiezione fenomenistica, qualora venga assunta in un altro senso, nel senso, diciamo così, di un realismo immediato di tipo debole (o meglio realismo critico), in base al quale è immediatamente certa l’esistenza del­ l’oggetto percepito indipendentemente non da ogni possibile at­

IL PUNTO DI PARTENZA DELL’INDAGINE FILOSOFICA

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tività del soggetto, ma da quella attività del soggetto che è costi­ tuita dalla stessa riflessione sull’oggetto. Sia che quest’ultimo esista in forma assolutamente autonoma, sia che esso rappre­ senti una proiezione della fantasia creatrice del soggetto, in ogni caso la sua realtà non è posta, ma è data al cogito, inteso come pura coscienza riflettente. Vorremmo insistere su questa distin­ zione tra il cogito e le altre possibili manifestazioni dell’attività del soggetto, perchè molte delle difficoltà che insorgono nei con­ fronti della posizione realistica sono dovute alla mancanza di questa distinzione. Anche ammessa l’ipotesi del sogno, sarebbe ugualmente vero che ciò che percepisco è questa stanza (e non un’altra), questi oggetti (e non altri), queste persone (e non altre); e tutte queste cose hanno una loro qualche realtà, anche se tale realtà non mi è completamente nota (ed è appunto per questo che non sono in grado, per il momento, di asserire o di escludere che essa sia una creazione della mia fantasia). Nell’atto della percezione la realtà mi si rivela ad un livello assolutamente superficiale, non, diciamo così, in tutto il suo spessore, in tutte le sue dimensioni più profonde. Se così non fosse, non si manifesterebbe questa mia ignoranza e perplessità di fronte all’oggetto percepito e non sussisterebbe neppure lo stimolo alla successiva indagine. Perchè questo sorga è neces­ sario che la realtà percepita venga rapportata all’orizzonte di una possibile ulteriore realtà, percettivamente assente eppure in qualche modo presente come condizione della stessa problematiz­ zazione di quanto ci è dato. L’oggetto adunque su cui si esercita la nostra riflessione è qualcosa di reale, di cui tuttavia ignoriamo la più profonda natura, le più intime determinazioni ontologiche. Pure, entro questi limiti, noi possediamo una incrollabile certezza intorno alla realtà di ciò che percepiamo e le proposizioni che si man­ tengono entro questa limitazione sono assolutamente vere. Per­ ciò anche la proposizione « Mi trovo in questa stanza, ecc. » è senz’altro valida, purché sia intesa nel senso di quel realismo

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APPENDICE II

critico che sfugge all’obiezione fenomenistica e che potremmo anche chiamare realismo fenomenologico. La corretta determinazione del punto di partenza dell’in­ dagine filosofica richiede adunque che si eserciti la più radicale epoche, la più completa astensione riguardo a tutte le inter­ pretazioni che in via preliminare, e perciò ingiustificata, pos­ sano essere formulate intorno al dato della riflessione, affinchè esso sia accolto nella sua realtà che è tanto più certa, quanto più rinunciamo a specificarla in anticipo. Una delle principali funzioni della epoché fenomenologica è quella appunto di condurci a considerare negli enti, che la percezione ci presenta, la loro qualità di enti, il loro fondamento trascendentale, mettendo tra parentesi le molteplici determina­ zioni categoriali. Al residuo fenomenologico, che si ottiene dopo aver operata la più rigorosa epoché, non appartiene soltanto la co­ scienza. Anche l’essere, inteso in senso trascendentale e non semplicemente mondano, non può venir messo tra parentesi, pena la soppressione della stessa epoché. Non si può operare sul nulla: si può dubitare della natura di quanto la percezione ci presenta, non si può dubitare della sua realtà nel senso più lato, appunto trascendentale, dell’espressione. In questa prospettiva merita oggi di venire ripensata la de­ finizione classica di filosofia come metafisica, cioè come scienza dell’ente in quanto ente, delle sue proprietà essenziali, dei suoi principi primi. La metafisica è l’unica scienza che presuppone soltanto ciò che non può non essere presupposto, che non può « essere messo tra parentesi »: la coscienza che indaga e l’essere (trascendentale) su cui l’indagine si svolge. La tesi che stiamo sostenendo deve tener conto dell’obie­ zione che potrebbe essere mossa da coloro che negano la pos­ sibilità di proposizioni puramente estensive. Abbiamo prece­ dentemente affermata l’esistenza di proposizioni assolutamente vere che enunciano il dato come esso si dà, e soltanto nei limiti in cui esso si dà. Tali proposizioni sono anche dette « propo­ sizioni estensive » o « proposizioni-base » ed è appunto la loro

IL PUNTO DI PARTENZA DELL’INDAGINE FILOSOFICA

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possibilità che da alcuni è posta in discussione. Il principio da cui muove la critica è costituito dalla considerazione che ogni enunciazione è, in fondo, una classificazione. Se io affermo, ad esempio, « questo foglio è bianco », non mi limito a registrare un determinato contenuto percettivo, ma procedo a classificarlo, includendolo nella classe dei « fogli » e delle « cose bianche ». Ma è proprio in questa classificazione che può introdursi l’errore. Anziché di un foglio potrebbe trattarsi di un oggetto di natura diversa, anziché di bianco potrebbe trattarsi di una differente sfumatura di colore. Le proposizioni di questo tipo vanno già oltre il dato particolare nella sua immediatezza, ed è questo che sembra renderle ipotetiche, sempre più o meno probabili e mai assolutamente certe. Il superamento di questa difficoltà può venire non dal ri­ fiuto del principio che ogni enunciazione è sempre una classi­ ficazione (che al contrario ci sembra imo dei più validi prin­ cipi che la filosofia del linguaggio abbia messo in luce), ma dal riconoscimento che esistono alcune classificazioni in cui l’errore non può aver luogo. C’è soprattutto una classe che include in sè tutte le altre classi e in cui tutti i possibili oggetti rientrano: l’essere nel suo significato trascendentale. Se la proposizione « questo è bianco » può ammettere l’errore, la proposizione « questo è un qualcosa, un ente », pur nella sua indeterminatezza e povertà, è assolutamente certa. Anche da questo punto di vista l’epoché fenomenologica che attinge l’essere nella sua universalità rivela la sua singolare effica­ cia nell’impostazione dell’indagine filosofica. Per quanto povera e indeterminata quest’ultima proposizione possa infatti apparire, essa è alla base della filosofia, intesa appunto come ricerca sul­ l’ente in quanto ente e sulle sue proprietà trascendentali. Vale la pena che ci si soffermi a considerare il fatto che la proposizione « questo è un ente » riveste il carattere di una clas­ sificazione, non esprime cioè il riconoscimento puntuale di un singolo ente nel suo isolamento monadico, ma istituisce una rela­ zione tra questo ente e la classe di tutti gli enti possibili. Chi dice

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APPENDICE II

« questo è un ente » dice implicitamente « questo è uno dei modi dell’essere, della totalità dell’essere possibile ». È quanto aveva riconosciuto Kant, quando aveva affermato che alla determina­ zione completa di un oggetto era necessario il riferimento alla « possibilità tutta », alla totalità dell’essere possibile (omnitudo realitatis). Se le cose stanno in questi termini, allora è chiaro che il punto di partenza dell’indagine filosofica è costituito non dal dato percettivo nella sua immediatezza, nella sua singolarità ir­ relata, ma dalla relazione originaria che intercorre tra il dato par­ ticolare e l’essere universale, tra l’ente particolare e la totalità dei possibili enti. In virtù di questa relazione il dato particolare si rivela problematico, in quanto noi siamo sospinti a ricercare i rapporti che lo legano alla totalità, presente inizialmente in forma oscura e del tutto indeterminata. O si riconosce adunque la rela­ zione originaria che è a fondamento del nostro pensiero, oppure si deve rinunciare a spiegare come si determini la situazione della ricerca, come si produca la figura della problematicità. In questa prospettiva, dire che l’oggetto dell’indagine filo­ sofica è costituito dall’ente in quanto ente, significa allora far rientrare nell’oggetto della filosofia la stessa totalità dell’essere intesa come polo noetico della relazione originaria. Il modo in cui l’essere nella sua totalità può costituire l’og­ getto del pensiero e dell’indagine filosofica va debitamente pre­ cisato. A questa precisazione contribuisce efficacemente la obie­ zione secondo la quale non è possibile assumere come oggetto la totalità, in quanto l’oggetto è ciò che è contrapposto al soggetto, e una totalità assunta come oggetto lascierebbe, per ciò stesso, fuori di sè il soggetto e non sarebbe quindi vera totalità. Tale obiezione nasce dal trasferimento sul piano del pensiero di ciò che vale solo sul piano della percezione. L’occhio, ad esempio, quand’anche riuscisse a vedere tutta la restante realtà, non po­ trebbe vedere se stesso, non potrebbe cogliere, dunque, la tota­ lità. Tuttavia, per ciò che riguarda il pensiero, le cose stanno di­ versamente: la totalità che è pensata, è pensata appunto, sia

IL PUNTO DI PARTENZA DELL’INDAGINE FILOSOFICA

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pure in maniera indeterminata, come totalità, e perciò come in­ clusiva virtualmente dello stesso soggetto. Dico virtualmente perchè non si tratta di una conoscenza esaustiva della totalità, assolutamente sproporzionata all’intelligenza umana, ma di una conoscenza globale e indeterminata, cioè del semplice concetto della totalità. Bisogna a questo proposito distinguere tra la parzialità del­ l’atto di concepire e il contenuto concepito che può essere ugual­ mente universale. Non bisogna cioè attribuire all’eidos cono­ sciuto la parzialità del nostro atto di conoscenza. Certamente il nostro concetto della totalità non esaurisce la possibilità del no­ stro concepire, ma ammette l’esistenza accanto a sè di altri con­ cetti, nel modo stesso in cui la visione panoramica di una città, pur essendo a suo modo onnicomprensiva, non esclude la possi­ bilità di visioni particolari, più dettagliate, dello stesso complesso urbano. Il fatto adunque che il nostro concetto di totalità sia uno tra i tanti concetti di cui siamo forniti, non toglie che esso sia appunto il concetto della totalità. Ciò che in questa discussione deve essere tenuto ben fermo è che noi abbiamo effettivamente il concetto di totalità, e che anzi questo concetto è presupposto da coloro stessi che negano che la totalità possa essere oggetto del nostro pensiero. Per negare infatti che la totalità sia ogget­ tivabile, bisogna concepire la totalità, bisogna assumerla come og­ getto del nostro discorso, del nostro pensiero. Se adunque la ne­ gazione in questione ha un senso, questo senso si riduce all’av­ vertimento, sempre opportuno, che la totalità non può essere oggetto nel modo stesso in cui è oggetto il contenuto della nostra percezione. Questo avvertimento torna a proposito nella chiarificazione della stessa nozione di relazione originaria. Abbiamo detto che tale relazione è quella che intercorre tra il dato particolare e l’es­ sere nella sua totalità. Ora potrebbe sembrare che la totalità non potesse mai essere il termine di una relazione, in quanto il ter­ mine è sempre qualcosa di parziale rispetto alla relazione che co­ stituirebbe allora la vera totalità. Senonchè è da tener presente

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APPENDICE II

la diversità di piani in cui i due termini si collocano: la totalità è presente sul piano noetico, il dato particolare sul piano estetico. La totalità « pensata » contiene la possibilità di ogni dato parti­ colare e, quindi, di quello stesso particolare che nella relazione originaria le è contrapposto; il dato particolare invece rappre­ senta l’attuazione di una delle infinite possibilità che nella tota­ lità sono contenute. Di conseguenza il nostro concetto di totalità non subisce alcuna variazione per quanto numerose siano le de­ terminazioni sensibili che vengono via via presentandosi. Pur es­ sendo un momento, e in questo senso una parte, dell’intera rela­ zione conoscitiva, nel proprio piano, quello noetico, esprime la totalità compiuta e definitiva. La diversità dei piani non toglie la profonda unità, cioè l’originarietà della relazione: per l’inclusione del piano estetico nel più ampio piano noetico, il dato che è sentito è anche pensato, cioè percepito. La percezione intellettiva è la stessa relazione o sintesi originaria, e la proposizione ostensiva più elementare « questo è un ente (=uno dei possibili enti, = uno dei modi della possibilità tutta) » enuncia questa sintesi e, con ciò stesso, ne inizia l’analisi. La filosofia è la continuazione e l’approfondimento di questa analisi. Il suo punto di partenza è il punto di partenza della no­ stra conoscenza simpliciter·. la percezione intellettiva o esperienza. Un punto che non è una unità indifferenziata, ma l’unità propria di una relazione originaria: unità e insieme pluralità, immedia­ tezza e insieme mediazione. Ma l’analisi filosofica è anche sintesi, cioè continuo, rinnovato confronto tra i termini di questa rela­ zione, via via che l’analisi porta alla luce aspetti e proprietà che in precedenza rimanevano impliciti. Così l’analisi dell’idea del­ l’essere conduce alla determinazione dei primi principi (di non contraddizione e di ragion sufficiente), mentre l’analisi del con­ tenuto estetico evidenzia l’aspetto della molteplicità e della mu­ tabilità. Dal confronto dei due termini così analizzati sorge la valutazione filosofica fondamentale: l’impossibilità (contradditto­ rietà) che l’ente molteplice e diveniente abbia in sè la propria

IL PUNTO DI PARTENZA DELL’INDAGINE FILOSOFICA

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ragion sufficiente, e da ciò la necessità logica della trascendenza del fondamento assoluto. Ma così, alla fine, la valutazione filosofica fondamentale non è che l’esplicitazione, cioè la formulazione analitica, di quanto era già implicitamente presente nell’iniziale percezione intellet­ tiva. L’ente infatti, che è colto in tale percezione, è colto solo su­ perficialmente, incompiutamente, così da costringerci sul piano apofantico alla più radicale epoche. Il suo fondamento assoluto (o ragion sufficiente) non ci è dato in maniera determinata, anche se ne avvertiamo oscuramente la necessità. Nell’atteggiamento problematico che in tal modo si instaura all’inizio della ricerca filosofica è già virtualmente contenuta l’affermazione conclusiva della trascendenza. Si chiarisce in questa maniera il concetto stesso di « punto di partenza » dell’indagine filosofica. Non si tratta di un punto che nel progresso della ricerca venga lasciato dietro alle spalle, ma di una struttura originaria che permane costante e si precisa sempre più chiaramente nell’intero processo. Il paragone più adatto non sarebbe quello di una sorgente che rimane a monte, indifferente al successivo corso del fiume, ma quello di una cel­ lula germinale la cui vita si conserva e si potenzia nella vita del­ l’organismo maturo.

IL VALORE ONTOLOGICO DEI PRIMI PRINCIPI

Da una discussione avuta con il Prof. Gustavo Bontadini, ri­ portiamo le seguenti pagine, che hanno tratto occasione dalla sua critica alla nostra dimostrazione dialettica del principio di ragion sufficiente, critica basata sulla distinzione tra la formulazione lo­ gica e la formulazione ontologica dello stesso principio (* ). La nostra proposta era quella di operare la giustificazione del principio di ragion sufficiente con lo stesso procedimento adot­ tato da Aristotele nei confronti del principio di non contraddi­ zione, cioè con la dimostrazione elenctica: nel nostro caso, cer­ car di addurre delle ragioni contro il p.d.r.s. (o, aggiungiamo ora, anche soltanto richiederne in suo favore) è già riconoscere la va­ lidità del principio in questione f1). Contro questo tentativo il Bontadini rivolge la sua critica: a suo avviso, tale dimostrazione approderebbe soltanto alla fon­ dazione del p.d.r.s. in senso logico (« ogni asserto deve essere fondato »), ma non in senso ontologico (« ogni essere deve avere un fondamento ») (2). Il Bontadini pone adunque una netta separazione tra il p.d. r.s. in senso logico e il p.d.r.s. in senso ontologico, e, pur accet­ tando la dimostrazione « per confutazione » del primo, ritiene * La discussione si è svolta su « Studia Patavina » 1968, η. 1, pp. 59-80; n. 2, pp. 290-301; n. 3, pp. 449-460. Il testo riportato si trova alle pp. 294-296 della detta rivista. f1) Cfr. le pp. 76-82 di questo Saggio. (2) Cfr. « Studia Patavina » cit., pp. 77-79·

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APPENDICE II

che il secondo abbia bisogno di una ulteriore fondazione, quella appunto che egli mi invita ad esibire. Senonchè il suo invito muove dal presupposto di una radicale distinzione tra le due formulazioni del p.d.r.s., di una dicotomia cioè che non riteniamo di poter accettare. Va a questo proposito osservato che anche il principio di non contraddizione presenta due diverse formulazioni: una ontolo­ gica (« è impossibile che una stessa cosa convenga e insieme non convenga con una stessa cosa, sotto lo stesso aspetto ») e una logica (« non si può insieme affermare e negare una stessa cosa di una stessa cosa, sotto lo stesso aspetto ») e che la dimostra­ zione elenctica fornita da Aristotele riguarda direttamente la se­ conda formulazione (chi contemporaneamente afferma e nega la stessa cosa non dice in effetti nulla), pur essendo da Aristotele considerata come una giustificazione anche della prima. Ciò di­ pende dal fatto che Aristotele concepisce il principio di non con­ traddizione in senso logico come una particolare applicazione dello stesso principio in senso ontologico (3), in quanto anche l’atto del pensare (affermare o negare) cade sotto il concetto uni­ versalissimo dell’essere in quanto essere: ed è appunto in quel­ l’essere particolare che è il nostro pensiero che egli fa toccare con mano allo scettico l’impossibilità che un essere accolga in sè de­ terminazioni (in questo caso, opinioni) contraddittorie: la loro identificazione importerebbe il loro reciproco annullamento (in questo caso, l’annullamento del pensiero). Si rivela così anche la natura del procedimento dialettico, la

(3) Cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 4, 1005 b, 26-34. Si vedano a que­ sto proposito le osservazioni di E. Severino nel suo commento ad Aristo­ tele, Il principio di non contraddizione - Libro IV della Metafisica, La Scuola, Brescia, 1959, p. 12, nota 24. Si vedano anche le osservazioni di E. Berti nella nota II principio di non contraddizione come criterio supremo di significanza nella metafisica aristotelica, Accademia Nazionale dei Lincei, Rendi­ conti della classe di Scienze morali, storiche e filologiche, fase. 7-12, serie Vili, voi. XXI, 1966, pp. 231-232.

IL VALORE ONTOLOGICO DEI PRIMI PRINCIPÌ

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cui funzione è semplicimente quella di indurre lo scettico a ri­ conquistare sul piano della riflessione la verità di un principio che, sul piano del pensiero irriflesso, è a lui, come a tutti, sempre e necessariamente nota. Si tratta di far riscoprire la legge univer­ sale in una sua realizzazione particolare, che risulti evidente in atto al negatore del principio: questa realizzazione particolare è la sua stessa negazione, la quale egli non vorrà certo ammettere che sia identica all’opposta affermazione. Le cose non stanno diversamente per il principio di ragion sufficiente. Anche qui si possono distinguere due formulazioni del principio: una formulazione ontologica e una formulazione logica. Se nell’atto di giustificare in forma confutatoria il p.d.r.s. in sede logica ritenevamo di garantirlo anche in sede ontologica, ciò dipendeva dal fatto che concepivamo il principio logico come un caso particolare del principio ontologico. Anche una asser­ zione è una forma di essere (inteso sempre in senso trascenden­ tale), e se noi riconosciamo che essa deve avere un fondamento è perchè comprendiamo che ogni essere lo deve avere. Dalla sua natura di asserzione dipende la necessità di un particolare tipo di fondamento (un’altra asserzione e, alla fine, l’esperienza), ma non la necessità di un qualche fondamento: quest’ultima neces­ sità riguarda una asserzione non in quanto è una asserzione, ma in quanto è un particolare modo dell’essere. Solo in questa pro­ spettiva, pensiamo, il p.d.r.s. logico acquista un’assoluta neces­ sità ed universalità. Del resto, la divisione netta operata dal Bontadini tra il senso logico e quello ontologico del p.d.r.s. contrasta con la sua stessa affermazione che uno dei fondamenti ultimi dell’asserire è la esperienza. Ora, per il Bontadini, l’esperienza è l’essere stesso quale si manifesta originariamente e dunque non è un fattore semplicemente logico, ma anche ontologico. Fondare perciò il nostro as­ serire sull’esperienza è fondarlo sull’essere: dimostrare un asserto non immediatamente evidente mediante un altro asserto basato sull’esperienza, è semplicemente riconoscere che un certo essere

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APPENDICE II

dipende da un certo altro. Asserire, ad esempio, che « Socrate non può più filosofare », perchè « Socrate è morto », è ricono­ scere che l’esercizio del pensiero filosofico ha il suo fondamento, la sua ragione (ontologica), nella vita di un essere razionale. Il nostro asserire, se è vero asserire, intenziona l’essere e quindi una relazione tra asserti rispecchia una relazione tra enti. Di conseguenza l’universalità e necessità del p.d.r.s. nel suo aspetto logico riflette l’universalità e la necessità del p.d.r.s. nel suo aspetto ontologico: ogni asserto deve avere in sè o fuori di sè la propria giustificazione logica, perchè ogni ente deve avere in sè o fuori di sè il suo fondamento ontologico. In questa prospettiva, insistere, a proposito dei primi prin­ cipi, sulla divisione tra piano logico e piano ontologico, mi sem­ bra un indulgere a quella posizione gnoseologistica, che, per il peso che essa ha avuto nel pensiero moderno, merita certo tutta la nostra attenzione, ma che sarebbe fuori luogo rimettere in di­ scussione in questa sede, dato che nella sua confutazione il Bon­ tadini mi è stato maestro.

L’ORIGINARIA CORRELAZIONE TRA IL CONCETTO

DEL TEMPO E IL CONCETTO DELL’ETERNO *

Iniziando a trattare dell’eternità di Dio (Summa Theologiae, I, q.10, a.l), Tommaso così afferma: « sicut in cognitionem simplicium oportet nos venire per composita, ita in cognitionem aeternitatis oportet nos venire per tempus ». Sembra che l’affermazione di Tommaso importi la priorità cronologica della cognizione del tempo rispetto alla cognizione dell’eterno. Tale priorità, infatti, oltre che dall’impostazione com­ plessiva della teologia tomistica, risulterebbe in particolare dalla stessa analogia tra il modo in cui si perviene alla cognizione del­ l’eterno e quello in cui si perviene alla cognizione del semplice, tenuto presente che nello stesso articolo l’Aquinate così si esprime: « intellectus noster, qui primo apprehendit composita, in cognitionem simplicium pervenire non potest, nisi per remotionem compositionis ». Non pare dubbio, adunque, che anche a proposito dell’eternità Tommaso ritenga che il nostro intelletto apprenda prima il tempo e giunga poi alla cognizione dell’eterno mediante la « rimozione » di quello. Esiste certamente un senso secondo cui la tesi tomistica è vera. Esiste tuttavia, a nostro avviso, la possibilità che questa tesi sia erroneamente interpretata. Determinare e rifiutare tale interpretazione è lo scopo della presente nota. Considerando il tempo, secondo la classica definizione, come * Pubblicato in Tempo ed eternità nella condizione umana, Atti del XX Convegno di Gallarate, Morcelliana, Brescia, 1966, pp. 188-193.

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APPENDICE Π

« numerus motus secundum prius et posterius », cioè come la enumerazione del prima e del poi in ciò che muta, o, più sempli­ cemente, come l’avvertimento delle varie fasi da cui risulta il movimento, potrebbe a prima vista sembrare che tale avverti­ mento non fosse in alcun modo condizionato dall’apprensione di qualcosa di assolutamente immutabile, in cui consiste il con­ cetto stesso di eternità (« in apprehensione uniformitatis eius quod est omnino extra motum, consistit ratio aeternitatis » — Summa Th., loc. cit.). La conoscenza del tempo apparirebbe così un fatto del tutto autonomo, un vero primo cronologico rispetto al con­ cetto dell’eterno, che sembrerebbe potersi ottenere successiva­ mente mediante la semplice rimozione del concetto del tempo. L’interpretazione della tesi tomistica che qui si intende respin­ gere è appunto la seguente: che il concetto dell’eterno sia, sotto ogni punto di vista, successivo, anziché, in un certo senso, cor­ relativo e simultaneo rispetto al concetto del tempo. Per chiarire il nostro pensiero dobbiamo concentrare la ri­ flessione su quell’atto di « rimozione » che, eliminando il tempo, dovrebbe condurre al concetto dell’eterno. L’osservazione ele­ mentare che si deve fare a questo proposito è che la semplice « rimozione » di un concetto non può essere per sè produttiva di un altro concetto. Se l’intero campo della nostra conoscenza concettuale fosse occupato dal tempo, la soppressione di questo unico ed esclusivo oggetto porterebbe all’eliminazione pura e semplice di ogni concezione. La rimozione, invece, di un concetto può dar luogo ad un altro concetto solo a condizione che questo ultimo sia già in qualche modo presente, sia cioè presente in forma implicita o, per usare un’espressione forse più adeguata, atematica. Rimuovere un concetto significa allora spostarlo fuori del fuoco dell’attenzione, in cui prima si trovava, affinchè possa subentrarvi l’altro concetto che prima restava nell’ombra. Nel nostro caso, adunque, la rimozione del tempo può portare alla esplicita concezione dell’eterno solo in virtù di una originaria, anche se implicita, compresenza di quest’ultimo; in virtù quindi di una radicale correlazione dei due termini.

CORRELAZIONE TRA I CONCETTI DEL TEMPO E DELL’ETERNO

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La natura di questa correlazione dev’essere ulteriormente approfondita. Essa infatti non è che un caso particolare in cui si manifesta la struttura fondamentale dell’atto teoretico. Si può delineare sinteticamente tale struttura, affermando che ogni sin­ golo oggetto che sia assunto come termine della nostra conside­ razione diretta, cioè della nostra attenzione, si trova inserito in un campo eidetico che funge da necessario termine di stacco, ma che solo indirettamente, e perciò oscuramente, è avvertito. L’in­ tera sfera della nostra conoscenza si divide perciò in due zone che si trovano tra loro in un rapporto dialettico, che si presen­ tano cioè come antitetiche e complementari: un nucleo centrale, più limitato ma più chiaro e determinato, e una zona periferica, virtualmente illimitata ma via via più oscura e indeterminata. Tale zona tuttavia può venire gradualmente rivelando ciò che essa racchiude, a mano a mano che la riflessione sull’oggetto che occupa la zona centrale ci conduce a riconoscere la molteplicità delle connessioni dialettiche da cui esso risulta definito. Cercheremo di esemplificare questo processo proprio a pro­ posito della relazione che intercorre tra la nozione del tempo e la nozione dell’eterno. Occorre anzitutto precisare che vi sono due maniere diverse, anche se tra loro connesse, di conoscere il tempo: la percezione dei singoli tempi e l’avvertimento complessivo della temporalità. Nel primo caso io misuro la durata di un evento prendendo come unità di misura la durata di un evento diverso, entro un campo comune che renda possibile il confronto. Posso, ad esem­ pio, misurare la durata di un viaggio riferendola al movimento apparente del sole sulla volta celeste. Il moto del sole, in questo caso, è insieme, sotto aspetti diversi, l’unità di misura e il campo in rapporto al quale mi è possibile determinare la durata del viaggio. L’unità di misura è un determinato tratto del percorso del sole (ad esempio, un’intera orbita solare); il campo, invece, è costituito dalla rappresentazione della serie infinita delle possi­ bili orbite, una delle quali è come occupata dall’evento che in questo modo viene misurato. Ed è necessario che il campo in cui

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APPENDICE II

la misurazione si effettua sia potenzialmente infinito, perchè solo così esso può essere in grado di accogliere movimenti di qualsi­ voglia durata. Nella misurazione dei singoli tempi il campo, cui essi sono riferiti, ha in ogni modo ancora il carattere del movimento e della temporalità. In quanto altro, in quanto contrapposto al tempo misurato, esso ne è in qualche modo la negazione; ma è la negazione di quel tempo nella sua limitatezza, non la negazione del tempo in quanto tale; al contrario, esso corrisponde alla rap­ presentazione complessiva della temporalità, alla rappresenta­ zione cioè di una successione potenzialmente infinita, che impro­ priamente viene talora identificata con l’idea stessa dell’eternità. Tale rappresentazione, quando fa da sfondo alla percezione di una determinata durata, non è esplicitamente o tematicamente presente, ma è avvertita soltanto in modo implicito od atematico. Diverso è invece il caso in cui, per lo spostarsi del raggio della nostra attenzione, ci si eleva alla considerazione diretta della temporalità in quanto tale. Questa nuova considerazione presuppone un nuovo campo, più ampio, o, meglio, un più vasto orizzonte dello stesso campo illimitato, per potersi effettuare; e tale orizzonte, in cui la temporalità è inserita e a cui è comples­ sivamente contrapposta, deve rappresentare la più completa ne­ gazione del tempo in quanto tale, la più radicale antitesi rispetto ad ogni forma di successione: dev’essere cioè l’idea di una realtà tutta simultanea, secondo la nota definizione di Boezio. È questo il momento in cui si manifesta la necessaria corre­ lazione tra la concezione del tempo e la concezione dell’eterno, per cui l’una non può stare senza l’altra e l’una non può quindi precedere assolutamente l’altra. Se mancasse la contrapposizione all’eterno, io potrei solo avvertire sensibilmente i vari eventi nella loro particolarità, ma non potrei cogliere noeticamente il senso della loro temporalità, non potrei possedere cioè a nessun livello, nè implicito nè esplicito, il concetto del tempo in quanto tempo, che solo in quella contrapposizione si definisce. Fra i vari luoghi delle Confessioni in cui Agostino tratta del

CORRELAZIONE TRA I CONCETTI DEL TEMPO E DELL’ETERNO

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tempo e dell’eterno, uno in particolare documenta con estrema efficacia l’intima correlazione tra i due concetti: « Anni tui nec eunt, nec veniunt: isti autem nostri et eunt, et veniunt, ut omnes veniant. Anni tui omnes simul stant, quoniam stani; nec euntes a venientibus excluduntur, quia non transeunt: isti autem nostri omnes erunt, cum omnes non erunt » (1. XI, c. 13). Risulta evidente da questo stesso ripetuto rinvio che Agostino fa da un concetto all’altro, come le due nozioni del tempo e dell’eterno si definiscano reciprocamente e nascano quindi simultaneamente. Da una parte, infatti, è il continuo trascorrere della mia esistenza il termine dialettico in rapporto al quale mi elevo alla rappresen­ tazione dell’immobile stare della vita divina; dall’altra, è proprio questa rappresentazione di una durata assoluta che, a sua volta, mi permette di valutare, nel confronto, il senso complessivo della mia durata relativa, di questo mio continuare a vivere a prezzo di un continuo morire. La negazione dell’eterno appare così costitutiva del signifi­ cato del tempo nella stessa misura in cui la negazione del tempo è costitutiva del significato dell’eterno. Si profila, a prima vista, la prospettiva di un paradossale ricorso all’infinito, dovuto al latto che ciascuno dei due concetti sembra essere costituito sol­ tanto dalla negazione della propria negazione, senza alcun rife­ rimento quindi ad un termine positivo. In realtà questo ricorso non ha luogo se si tiene presente che le due reciproche negazioni equivalgono ad una distinzione che si opera in seno ad un posi­ tivo originario. Tale positivo originario è l’idea stessa dell’essere, che non è una nozione astratta e vuota, ma è quella nozione to­ tale e piena che, sia pur virtualmente o atematicamente (« sub quadam confusione »), racchiude in sè ogni altra nozione. Da questo punto di vista il processo di formazione dei singoli concetti non è che l’esplicazione progressiva di una iniziale con­ cezione globale. Ciò che determina l’apparenza di una formazione separata dei singoli concetti è il fatto che non possiamo tematiz­ zarli tutti contemporaneamente, e nessuno, quindi, compietamente. E in ciò sta appunto la finitezza della nostra intelligenza.

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APPENDICE II

(Si tratta di un processo che Tommaso ha chiaramente ricono­ sciuto in più luoghi — cfr. in particolare Summa Theol., I, q. 85, art. 3-4-5; I, q. 58, art. 3-4 — luoghi sui quali a suo tempo ha puntualmente richiamato l’attenzione il nostro Lambruschini — cfr. Dell’Istruzione, II giornata). Resta comunque il fatto che la formulazione di ogni singolo concetto richiede un riferimento più o meno consapevole all’in­ tero organismo in cui esso è essenzialmente inserito. Nel caso che stiamo esaminando, possiamo indicare questa inserzione di­ cendo che noi concepiamo un tempo nel tempo e concepiamo il tempo wcZZ’eterno. Questo concepire ha, ripetiamo, diversi gradi di chiarezza, corrispondenti ai diversi livelli dell’organismo lo­ gico totale (l’idea dell’essere) che vengono successivamente espli­ citati. Se la nostra attenzione è concentrata su di un determinato tempo, la serie temporale in cui esso è inserito è colta appena di scorcio, atematicamente, e il piano dell’eterno è compietamente immerso nello sfondo indefinito della nostra conoscenza. Anche così, però, esso è in qualche modo presente ed operante: è sufficiente, infatti, che la nostra attenzione si sposti dalla perce­ zione di un determinato tempo alla considerazione della infinita serie temporale, si appunti cioè su quello che è il senso del tempo in quanto tale, perchè anche il senso dell’eterno emerga dalla nebbia indefinita in cui era avvolto, e si faccia tanto più esplicito, quanto più riflessa e consapevole diviene la considerazione com­ plessiva del tempo. L’esperienza del tempo, come qualunque altra esperienza, è dunque inserita in un piano noetico molto più ampio del quale essa copre una parte soltanto. Potremmo paragonare il piano noe­ tico nella sua totalità alla superficie di un cerchio. Tale superficie contiene virtualmente una infinità di figure, senza contenerne de­ terminatamente nessuna. Proviamo allora a tratteggiare entro un tale cerchio un settore convesso: la restante parte della super­ ficie circolare assume la forma di un settore concavo. La mia azione si è esercitata direttamente soltanto su di una parte del cerchio, ma essa si è simultaneamente manifestata nella parte

CORRELAZIONE TRA I CONCETTI DEL TEMPO E DELL’ETERNO

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restante, perchè fin dall’inizio era condizionata dall’intera strut­ tura circolare. La mia attenzione può concentrarsi soltanto sul settore particolare che ho disegnato, ma è chiaro che non potrei percepire tale settore se non percepissi contemporaneamente, anche se distrattamente, l’altro settore che fa da contorno. Le due percezioni sono tra loro legate necessariamente e investono la to­ talità della superficie circolare, e tuttavia dipendono entrambe da una azione in certo modo parziale. Analogamente (ma l’analogia è per molti aspetti inadeguata) i due concetti del tempo e dell’eterno si definiscono simultanea­ mente in seno alla concezione totale dell’essere, ma il loro dif­ ferenziarsi dipende da una esperienza vissuta che è parziale e che, per noi, si esercita dalla parte del tempo. La nostra conoscenza del tempo possiede, in questo senso, una certa priorità rispetto alla conoscenza dell’eterno, ed è appunto questo l’aspetto di ve­ rità della tesi tomistica cui ci siamo all’inizio riferiti. Tale priorità non riguarda il piano noetico in se stesso, ma riguarda il rapporto tra il piano percettivo e il piano noetico, entro la sfera totale della nostra conoscenza. All’inizio, infatti, del processo di espli­ citazione dei vari concetti, virtualmente inclusi nella nozione del­ l’essere, la percezione sensibile svolge un ruolo di particolare im­ portanza che dovrebbe essere ulteriormente approfondito. Ma tale ulteriore indagine supererebbe i confini della presente nota che intende limitarsi all’illustrazione dell’originaria correlazione tra i due concetti del tempo e dell’eterno. E tale illustrazione non mi sembra priva di una sua qualche importanza, in quanto per essa risulta provato, contro ogni posi­ zione empiristica, che il concetto di eterno non è affatto un ter­ mine privo di senso, se esso, come abbiamo cercato di mostrare, condiziona il nostro stesso concetto di tempo, anzi l’intellezione di ogni singola determinazione temporale.

IL PROBLEMA DELL’ESISTENZA DI ALTRI SOGGETTI

PENSANTI E DELLA LORO COMUNICAZIONE *

1. - Premessa. La questione, che intendiamo anzitutto affrontare, riguarda il processo logico attraverso cui s’instaura la comune persuasione dell’esistenza di altri soggetti pensanti, e di stabilire pertanto il valore, il grado di fondatezza di tale persuasione; successivamente toccheremo il problema della possibilità, delle forme e dei limiti della comunicazione tra gli stessi soggetti. Il punto di partenza della nostra indagine, come di ogni altra ricerca filosofica, è la considerazione di tutto ciò che ci è origina­ riamente dato, la riflessione cioè sull’esperienza integrale, la quale è costituita dal molteplice dell’esperienza sensibile, colto entro l’orizzonte noetico dell’essere trascendentale e mediato sulla base dei primi principi ad esso coestensivi, il principio di non con­ traddizione e il principio di ragion sufficiente. Non ci è possibile, in questa sede, soffermarci ad illustrare questa struttura della esperienza integrale, che altrove abbiamo cercato di giustifi­ care f1); qui ci limitiamo soltanto a richiamarla e a ribadire il principio metodologico generale che il valore e il significato stesso di una qualsiasi tesi dipende dalla sua possibilità di mostrarsi ra­ dicata in tale esperienza. * Pubblicato nel volume Soggettività e intersoggettività, a cura di C. Giacon, Antenore, Padova, 1969. O Cfr. le pp. 129-135 di questo Saggio.

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APPENDICE II

2. - L’io e il mondo esterno. Nell’esperienza, assunta nella sua integralità, un posto tutto particolare è occupato autocoscienza., dall’incontrovertibile certezza che io ho della mia esistenza. Io sono il centro della mia esperienza. Ciò che fa sì che questa sia appunto la mia esperienza è il continuo riferirsi della molteplicità dei dati alla mia coscienza. L’esperienza, presa nella sua totalità, è allora come la superficie di un cerchio, di cui l’io è, come si diceva, il centro, mentre tutto il resto costituisce, in forma via via degradante, la periferia. Essenziale alla totalità dell’esperienza è questa relazione-op­ posizione tra centro e periferia, tra interiorità ed esteriorità. L’interiorità è costituita dalla molteplicità dei modi in cui l’io si sente vivere: sono cosciente; ma anche: sono dolente, ad esempio; oppure: sono allegro. La puntualità dell’io, che conse­ gue alla sua stessa centralità, non esclude un’interna ricchezza e complessità di espressioni. Ciò che mantiene l’unità dell’io è il suo riconoscersi identico nella molteplicità dei suoi modi. In questo senso si può dire che nell’esperienza l’io si coglie come sostanza, cioè come un qualcosa che permane al di sotto del va­ riare delle sue manifestazioni. L’io, in quanto tale, non è pura coscienza vuota, mera forma che attenda un contenuto esterno per essere riempita, ma è anche ricchezza di vita, inesausta va­ rietà di atti e di sentimenti. L’esteriorità, al contrario, è costituita dalla molteplicità degli oggetti semplicemente visti o, più generalmente, dati al soggetto come altri dal soggetto stesso: questa superficie verde, ad esem­ pio, che io vedo; questo suono, che io odo. È vero che tutti i dati dell’esperienza, in quanto attualmente esperiti, sono conte­ nuti di coscienza; ciò non toglie tuttavia che alcuni contenuti di coscienza io li identifichi con me stesso, ed altri no. Dico, ad esempio: « sono dolente », « sono allegro »; non dico: « sono

IL PROBLEMA DELL’ESISTENZA DI ALTRI SOGGETTI PENSANTI

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verde », « sono sonoro », ma « vedo qualcosa di verde », « odo questo suono » (2). Si tratta di una esteriorità rilevata fenomenologicamente e che, nei limiti in cui essa è rilevata, non può non essere ricono­ sciuta all’interno di qualsiasi posizione filosofica: realistica, fe­ nomenistica, idealistica, e via dicendo. Ma, proprio per questo, si tratta di una esteriorità che non può essere senz’altro presen­ tata come indipendenza dall’io, dall’interiorità. Se l’io fosse pura coscienza riflettente, sarebbe sufficiente che esso non fosse co­ sciente di porre il mondo esteriore per poter affermare con asso­ luta certezza l’indipendenza del mondo dall’io. Ma l’io, nella ric­ chezza della sua vita interiore, è anche sentimento, fantasia, atti­ vità di cui non sempre esso possiede una consapevolezza riflessa, chiara e distinta. È possibile pertanto (cioè non è contraddittorio) che l’esteriorità mondana sia posta dall’io stesso in quanto imma­ ginazione inconscia (come avviene nel sogno). Di conseguenza, la esistenza di un mondo esterno indipendente dal soggetto non è una tesi assolutamente accertata od accertabile sulla base di una diretta constatazione (come avviene per l’esistenza dell’io), ma è il risultato di un interpretazione che si avvale delle strutture noe­ tiche dell’esperienza integrale, ma che non può oltrepassare il livello di un’ipotesi, sia pure altamente probabile: l’ordine e la regolarità delle manifestazioni del mondo esterno non sembrano trovare la loro ragion sufficiente nell’attività di una immagina­ zione inconscia, ma sembrano richiedere un diverso e più valido fondamento. Qualunque sia il modo in cui quest’ultimo venga concepito, è per questa via, ci sembra, che, consciamente o in­ consciamente, viene instaurandosi la persuasione dell’esistenza di un mondo esterno indipendente dall’attività dell’io.

(~) Cfr. S. Vanni Rovighi, La fenomenologia di E. Husserl, in Note sulla teoria della conoscenza e sull’ontologia, Marzorati, Milano, 1947; cfr. anche della stessa Autrice, Gnoseologia, Morcelliana, Brescia, 1963, pp. 353 e segg.

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APPENDICE II

3. - L’io e il proprio corpo.

Nell’ambito della interiorità, della totalità dei modi in cui l’io si sente vivere, un settore particolare è quello che, con ter­ mine rosminiano, chiameremo sentimento corporeo. Muovo, ad esempio, un braccio. Il complesso delle sensazioni, più o meno intense, piacevoli o, in certi casi, dolorose, che io provo in tale occasione, appartiene appunto al sentimento corporeo. Esso si qualifica come tale, non tanto per il suo diretto riferimento ad uno degli oggetti che appartengono alla sfera dell’esteriorità, quanto per il carattere specifico delle sensazioni che entrano a costituirlo, carattere che può essere illustrato soltanto mediante la esemplificazione e il confronto. Il piacere che si accompagna al bere o al mangiare è un sentimento indubbiamente diverso dal piacere che consegue alla scoperta di una verità; il dolore do­ vuto ad una ferita o ad una malattia è qualcosa di tutt’altro ge­ nere dal dolore dovuto alla perdita di una persona cara. Il sen­ timento corporeo, nella varietà delle sue modificazioni, appar­ tiene però sempre alla vita interna dell’io e non è per se stesso testimonianza sufficiente dell’esistenza del mio corpo come un oggetto tra gli oggetti del mondo esterno. Una tale esistenza è anch’essa il frutto non di una diretta constatazione, ma di un processo inferenziale. Io noto in certi settori dell’esperienza una costante concomitanza tra certi senti­ menti interni e certi fenomeni esterni. Quando, ad esempio, muovo un braccio, alle sensazioni cinestetiche interne, sopra de­ scritte, corrispondono alcuni fenomeni che appartengono per se stessi all’altro settore dell’esperienza, all’esteriorità: vedo lo spo­ stamento di alcune superfici, il mutamento di rapporti tra alcune figure. Il principio di ragion sufficiente richiede allora che si dia una spiegazione di questo parallelismo, che si manifesta tra le due serie di fenomeni, e l’interpretazione più spontanea consiste nel fare dell’io il comune sostrato sia delle attività propriamente psichiche (sentimento, immaginazione, riflessione ecc.) sia di certe

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manifestazioni fisiche (un certa figura, una certa estensione, certi movimenti ecc.). In tal modo il soggetto si riconosce una nuova dimensione, mediatrice tra l’interno e l’esterno, e parla di un certo corpo come del proprio corpo. Ma, così intesa, l’esistenza del proprio corpo è sempre il risultato di una interpretazione che, sebbene possa apparire altamente probabile, è tuttavia sfor­ nita di una certezza apodittica. Non è, almeno immediatamente, contraddittorio pensare che il descritto parallelismo sia da attri­ buirsi, anziché all’identità del soggetto operante, all’intervento di un terzo fattore, ad esempio alla volontà divina (secondo ap­ punto le soluzioni dell’« occasionalismo » e dell’« armonia pre­ stabilita »). Inteso come oggetto tra gli oggetti del mondo fisico, fornito di una esistenza che non dipende dall’arbitrio della nostra imma­ ginazione, il corpo è qualcosa che l’io si attribuisce, attraverso un processo logico che non manca di un suo legittimo fondamento, ma che non può, ripetiamo, aspirare ad una indiscutibile certezza.

4. - L’esistenza delle altre sostanze corporee. Il mondo, quale mi si offre originariamente sul piano della percezione, può essere risolto mediante un’analisi in una molte­ plicità di dati sensibili: figure, movimenti, colori, suoni ecc. Tut­ tavia nella persuasione comune il mondo che ci circonda è qual­ cosa di più della somma di questi dati più o meno elementari; esso è, al contrario, un’organizzazione di oggetti complessi ai quali viene attribuita una fondamentale identità, nonostante il parziale variare delle nostre prospettive e delle loro manifesta­ zioni. L’albero, che mi sta di fronte, ad esempio, non è ritenuto semplicemente l’insieme di determinati colori, di determinate fi­ gure ecc. (insieme che non sarebbe più lo stesso con il mutare anche di un solo elemento), ma un oggetto che si mantiene sostan­ zialmente identico, qualunque sia il lato da cui viene osservato o il momento del suo sviluppo in cui viene considerato. Anche in

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APPENDICE II

questo caso la comune persuasione non manca di un fondamento logico, rappresentato ancora una volta dall’intervento costruttivo del principio di ragion sufficiente. L’occasione a questo intervento è offerta dalla constatazione che i molteplici dati sensibili non ci si presentano tra loro irrelati, ma concomitanti od associati se­ condo rapporti determinati e costanti. Si impone allora logica­ mente la ricerca della ragion sufficiente del permanere di questi rapporti, e tale ragione viene riposta in un sostrato sostanziale, soggetto di inesione di quei dati sensibili, che ora vengono intesi come accidenti. In questa interpretazione dei dati dell’esperienza esterna gioca, riteniamo, un ruolo molto importante l’esperienza che il soggetto ha della propria identità sostanziale oltre il mutare dei propri atti e dei propri sentimenti. Il riferimento dei fenomeni esterni ad un loro profondo nucleo sostanziale è concepito ad analogia di ciò che ci è dato sperimentare nella nostra vita inte­ riore. Ciò sembra confermato dalla visione animistica del mondo propria dei fanciulli e dei primitivi. Questo significa che il pro­ cesso inferenziale, che ci porta a riconoscere l’esistenza delle so­ stanze corporee, è già tendenzialmente orientato al riconoscimento anche di altri soggetti pensanti. È solo la considerazione della profonda differenza, nella proprietà e nel comportamento, tra il mio corpo e alcuni altri corpi, ciò che introduce la distinzione tra sostanze puramente corporee e sostanze corporee e, ad un tempo, pensanti.

5. - L’esistenza di altri soggetti pensanti e la loro comunicazione. Al contrario, la constatazione della profonda affinità tra le manifestazioni di certe sostanze corporee e le manifestazioni del mio corpo, delle quali conosco il rapporto con le espressioni della mia vita interiore, mi induce a ritenere con sufficiente fondamento che anche alla base di quelle prime manifestazioni vi sia una co­ scienza, un’interiorità simile alla mia. Noi adunque attribuiamo

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una mente a certi corpi in virtù dello stesso procedimento logico mediante il quale attribuiamo un corpo alla nostra mente. La cer­ tezza quindi nell’esistenza di altre sostanze pensanti, oltre alla nostra, è della stessa natura, se non dello stesso grado, della certezza dell’esistenza del nostro corpo. Non si tratta di una cer­ tezza assoluta, come quella che si fonda su di una diretta consta­ tazione o su di una conclusione apodittica, ma di una interpreta­ zione altamente probabile e quindi ragionevolmente attendibile. È necessario tener ben presente questa distinzione tra ciò che si conosce con assoluta certezza, in quanto ci si mostra o si di­ mostra, e quanto può essere soltanto interpretato o congetturato, sia pure con notevole grado di probabilità. Perchè, in filosofia, ciò che ci si mostra è ovviamente soltanto il punto di partenza del­ l’indagine, e ciò che si può rigorosamente dimostrare è per molti aspetti inadeguato al nostro desiderio, alla nostra domanda di sapere. Ora, se si facesse coincidere completamente il discorso filosofico con il discorso propriamente dimostrativo, dovrebbero essere espunte dalla filosofia una quantità di questioni che appa­ iono tuttavia essere filosofiche, perchè si mostrano connesse alla nostra domanda di sapere totale e non possono d’altronde essere risolte attraverso le altre forme del sapere, quello matematico e quello sperimentale. D’altro canto, se non si volesse rinunciare alla soluzione di tali questioni, e si pretendesse di raggiungerla con un procedi­ mento rigorosamente dimostrativo, si finirebbe con l’attribuire a certi procedimenti interpretativi, nel loro ambito perfettamente legittimi, un valore probante che essi in effetti non hanno, atti­ rando così il discredito sulla serietà scientifica di qualunque ar­ gomentazione filosofica. La filosofia, entro certi limiti, può costi­ tuirsi come « scienza rigorosa », come metafisica, ma ritengo che, oltre quei limiti, essa possa continuare nella forma dell’interpre­ tazione, che da un grado di massima probabilità si estenda via via all’ipotesi ardita, per giungere, secondo l’esempio di Platone, fino al racconto mitico. L’importante è che il filosofo sia ben con­ sapevole dei diversi livelli in cui, di volta in volta, egli viene ope­

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APPENDICE II

rando, al fine di evitare contaminazioni tra posizioni logicamente diverse e in modo da garantire, in virtù di questa stessa consa­ pevolezza, valore critico alla sua intera speculazione. Ora, il discorso sull’esistenza di altri soggetti pensanti, come quello sull’esistenza di un mondo esterno indipendente dall’io e sull’esistenza del proprio corpo, si colloca appunto sul piano, non della dimostrazione vera e propria, ma della interpretazione, il cui grado di attendibilità deve essere stabilito caso per caso, in rapporto alle singole proposizioni che vengono via via enunciate. Assumiamo allora, in base al procedimento interpretativo so­ pra descritto, l’esistenza di altre sostanze corporee e pensanti, di fronte alla nostra. Si pone a questo punto il problema della co­ municazione tra questa pluralità di soggetti. La prima e fondamentale forma di comunicazione consiste nel loro stesso reciproco riconoscimento, che si effettua, da parte di ciascuno, mediante la « lettura » del comportamento altrui, in cui si rivela l’altrui interiorità. Non c’è comunicazione tra me e le altre sostanze semplicemente corporee, perchè non c’è recipro­ cità di riconoscimento. Nei confronti di una sostanza corporea e pensante, nell’atto stesso di riconoscerla come pensante la giudico capace a sua volta di riconoscermi come dotato di pensiero. Al­ lora il mio messaggio si fa intenzionale: voglio farmi riconoscere da un soggetto che ritengo in grado di farlo e da cui mi attendo un corrispondente, consapevole messaggio. Se questo giunge, la comunicazione si stabilisce e il comportamento esteriore dei due soggetti, che la rende possibile, diviene propriamente linguaggio. Il linguaggio è dunque dapprima globale, mimetico, si rea­ lizza cioè attraverso l’intero comportamento. Da questa matrice si sviluppano in seguito il linguaggio fonetico e quello grafico, i quali sotto un certo aspetto (analitico) costituiscono indubbia­ mente un affinamento del linguaggio primitivo, ma sotto un altro aspetto (sintetico) rappresentano un impoverimento della origi­ naria pienezza espressiva. In ogni caso il corpo, in questa o quella manifestazione, rimane l’unico e insostituibile strumento di co­ municazione, il segno linguistico essenziale, a un punto tale che,

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se gli uomini perdessero la loro dimensione corporea e la loro vita spirituale mantenesse le caratteristiche attuali, verrebbe ov­ viamente meno ogni possibilità di comunicazione tra loro. Tuttavia la comunicazione tra le sostanze corporee e pensanti trova nel corpo, e nelle relative manifestazioni semantiche, non soltanto uno strumento, ma anche un limite. Nella misura in cui i vari soggetti si differenziano tra loro, a causa della loro diversa natura, educazione ed esperienza, variano anche i linguaggi adot­ tati. Anche nei casi più fortunati in cui l’affinità tra due soggetti è più spiccata e maggiore l’intimità, resta sempre un margine di incomprensione ad impedire quella pienezza di comunicazione che è l’esigenza fondamentale della nostra vita di esseri sociali. Esiste nell’animo di ciascuno una zona, forse la più profonda, in cui egli rimane solo con se stesso, incapace di comunicare con i propri simili, incompreso.

6. - L’esistenza dell’Altro assoluto e la pienezza della comuni­ cazione. Se l’esistenza di altri soggetti pensanti è, in generale, oggetto di una interpretazione che non oltrepassa mai l’ambito della pro­ babilità, per quanto elevata questa possa essere, vi è però un caso in cui è possibile dimostrare con assoluta certezza l’esistenza di un soggetto pensante, altro da noi: il caso cioè del Soggetto as­ soluto. Il divenire, che l’esperienza continuamente ci presenta, in noi e attorno a noi, richiede come propria ragion sufficiente ul­ tima un Immobile, un Atto puro, che in se racchiuda la pienezza dell’essere, la ricchezza di ogni perfezione, a cominciare dalla perfezione stessa del pensiero: Pensiero infinito, Autocoscienza assoluta. Non è questo il luogo per procedere alla dimostrazione di que­ sta tesi, sulla quale altrove ci siamo soffermati (3); qui ci limi(3) Cfr., in particolare le pp. 108-111 di questo Saggio. 10 — P. Faggiotto, Saggio sulla struttura della metafisica.

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APPENDICE Π

tiamo ad osservare che il discorso teologico è forse l’unico di­ scorso filosofico capace di essere svolto in forma rigorosamente dimostrativa, secondo, del resto, la classica identificazione della filosofia prima o metafisica con la scienza della sostanza immobile, con la « teologia ». Ciò che importa in questa sede sottolineare è il fatto che l’esistenza di Dio, quale Intelligenza infinita, apre nel problema della comunicazione tra i soggetti pensanti una prospettiva nuova, indica delle nuove possibilità che prima non si potevano scorgere. La comunicazione tra l’io e Dio è la forma più certa e più piena di comunicazione che si possa instaurare. Da una parte, infatti, Dio si rivela a noi, nella sua esistenza e nei suoi attributi, attraverso i segni della contingenza nostra e di ciò che ci circonda, valutati alla luce dei primi principi. È que­ sto il modo in cui, sul piano naturale, Dio comunica con noi. Certamente noi non possiamo in questo modo comprendere con­ cretamente la pienezza della sua perfezione, ma che essa sia tale, questo ci viene comunicato non in maniera più o meno probabile, ma assolutamente certa. Ma è nel momento della comunicazione dell’uomo con Dio che il rapporto religioso rivela tutta la sua efficacia. La possibi­ lità di comunicazione dell’uomo con Dio non conosce limiti. Noi comunichiamo con Dio parlando dentro noi stessi. Nella sua in­ finita sapienza siamo certi che Egli non può fraintenderci, ma che Egli ci comprende quanto, meglio di quanto noi stessi ci possiamo capire: e questa assoluta, totale comprensione ci ripaga di tante altre, grandi o piccole, incomprensioni. S’attenua allora la profonda sofferenza della solitudine spirituale, che in misura maggiore o minore ogni uomo esperimenta nei rapporti con i suoi simili, e lo stesso vincolo sociale risulta rafforzato, perchè gli uomini, rimettendo a Dio il giudizio su ciò che li divide, ri­ spettosi l’uno dell’intimità dell’altro, possono guardare piuttosto a ciò che li unisce e li affratella.

INDICE DEI NOMI

Abbagnano N. : 204, 221. Agostino s. : 276, 277. Albergamo F. : 180. Antistene di Atene: 228. Aristotele: 40, 49, 57, 61, 62, 6777, 80-84, 90, 92, 96, 99, 101114, 120, 122, 156, 157, 227, 230, 231, 247, 249, 256, 270. Ayer A. J.: 44, 93, 94, 123, 124, 138, 139, 142-150, 152, 155.

Bacchin R. : 33. Bacone F. : 49, 119, 120, 244. Barone F. : 121. Benveniste É. : 95. Bergson H. : 237. Berti E: 186, 270. Beth E. W. : 162. Black M.: 156. Boezio S. : 276. Bontadini G.: 78, 83, 151, 181, 199201, 233, 255, 258, 269, 271, 272. Borghi L. : 204. Borntràger I. : 208. Busulini B. : 144. Callippo: 106. Capone Braga G. : 56. Carnap R. : 121, 155. Cartesio R. : 224.

Casari E.: Caviglione Chiereghin Crespi G.

162. C. : 168. F. : 63. M. : 145.

Daly C. B.: 66. Della Volpe-Longo B. : 136. Dewey J.: 203, 205. Diano C. : 169·

Enriques F. : 162. Eraclito: 71. Euclide di Alessandria: 144, 174. Eudosso: 106. Faggiotto A.: 151, 226. Fourquet J. : 95. Franchi A. : 208.

Galluppi P. : 167. Gentile M.: 16, 31, 51-52, 55, 59, 76, 91, 103, 107, 122, 123, 187, 230. Giacon C.: 108, 259, 181. Giulietti G. : 30. Gorgia: 23. Guzzo A.: 167. Hahn H. : 143. Hampshire S. N. : 122. Hartmann N. : 167.

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INDICE DEI NOMI

Hegel G. W. F.: 184. Heidegger M. : 131, 133. Hofmann S. : 95. Hume D.: 93, 119, 138, 141, 203, 233. Husserl E.: 25, 30, 39, 126-129, 168, 171, 283. Kant L: 13, 119, 141, 159, 160165, 177-179, 197, 203-205, 208210, 213, 221, 264. Lambruschini R. : 278. Lazerowitz M. : 140. Le Blond J. M. : 156. Leibniz G. W.: 79, 121. Lewis C. I.: 137, 156. Liebmann O. : 178. Locke J.: 35, 119. Lotz J. B. : 34, 255. Martinetti P.: 161, 178, 208. Masci F. : 178. Masnovo A. : 77. Mathieu V.: 125, 255.

Olgiati F.: 77. Omero: 107.

Ramsey L: 66. Reale G. : 95. Riondato E.: 156. Robinson R. : 156. Roland-Gosselin M. D. : 155. Rosmini A.: 166, 168, 170, 197, 198. Russell B. : 95, 121, 135, 136. Ryle G.: 122, 141, 184. Santinello G. : 258. Schick C. : 95. Schopenhauer A.: 79, 80, 81. Sciacca M. F. : 151, 198. Selvaggi F. : 251. Severino E.: 270. Simmel G. : 178. Socrate: 56, 63. Spinoza B. : 121. Spirito U. : 50-51. Stenzel J. : 95. Tommaso d’Aquino: 82, 89, 101, 108, 112, 113, 157, 197, 232, 233, 251, 257, 273, 278. Trendelenburg F. : 208.

Usovicz A.: 155.

Padovani U. A.: 17, 56, 112. Parmenide : 96. Pasquinelli A.: 162. Pears D. F. : 66. Petruzzellis N. : 252. Picard N. : 30. Pittau M. : 95. Platone: 49, 56, 102, 121, 122, 258. Poincaré H. : 142, 143, 162, 180. Prini P.: 258. Quine W. V. O.: 144.

Vailati G.: 155, 162. Valori P. : 30. Vanni Rovighi S.: 90, 132, 209, 283. Van Steenberghen F. : 131.

Wamock G. J. : 121, 140. Wittgenstein L. : 155. Zambaldi F. : 49Zamboni G. : 30, 78, 125.

Con i tipi dell’istituto Poligrafico Umbro Città di Castello - 1969