Saggi eretici sulla filosofia della storia
 880618878X, 9788806188788

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Jan Patocka

Saggi eretici sulla filosofia della storia Edizione italiana e introduzione a cura di Mauro Carbone Prefazione di Paul Ricoeur Con uno scritto di Roman Jakobson

Piccola Biblioteca Einaudi

Piccola Biblioteca Einaudi Nuova serie

Filosofia

Titolo originale

Kacirské eseje o filosofii déjin

© 2002 Jan Patocka heritors © 2002 Archiv Jana Patocky

QÓvt]oi5, la comprensione a partire dalla natura delle co­ se, non può essere che al tempo stesso comune e conflittua­ le. Vedere il mondo e la vita nel loro insieme significa ve­ dere JtóXejiog, EQig come ciò che è comune: ìjwóv èoxi Jtòoi tòcpQoveìv2’. Parlare, prestare la parola all’intuizione della comune ori­ gine significa parlare «con ragione» Ojùvvóu>)2\ Ciò signifi­ ca «accompagnare le cose con parole tali che distinguano ogni cosa secondo il suo essere, e dire quel che ne è»25. Ma distinguere la cosa secondo il suo essere significa vederla nell’atto del suo ingresso nella zona aperta (nel cosmo indi­ viduato) e nel suo emergere dal buio, significa vedere il lam­ po dell’essere sull’universo e la notte aperta degli enti. E questa l’opera di chi è saggio, l’opera del filosofo. In lui si riunisce ogni àgerri (la determinazione della vita libera che contraddistingue il jtoXLtr|g). «Tò cpooveìv è la massima òqciti e la saggezza è dire ciò che viene svelato (xà àXeBéa) e fare ciò che viene così compreso nella sua natura essenziale»26. nóÀ,8(j,og, il lampo dell’essere che scaturisce dalla notte del mondo, lascia essere ogni singolo ente e gli permette di mostrarsi per quello che è27. La massima contraddizione si tiene quindi insieme nell’unità che è al di sopra di tutto, si manifesta in tutto, domina su tutto. Ma con questo Uno che è saggio28l’uomo s’incontra solo quando egli stesso agi­ sce e compie i suoi atti in quell’atmosfera di libertà che è garantita dalla legge della comunità, la quale, a sua volta, si è nutrita di quella divina” , il cui nome è jtóXe|kk;. 23 Letteralmente, «l’aver senno, il capire» [N.d.C i .]. ” e r a c l i t o , Diels-Kranz B 1 1 3 [«Comune è il retto pensiero», trad. it. di A. Pasquinelli, Ipresocratici eit., p. 176] [N.d.C.]. M Cfr. il)., Diels-Kranz B 1 1 4 [N.d.C.]. n Cfr. id. , Diels-Kranz B 1 [N.d.C.]. u Cfr. in., Diels-Kranz B 1 1 2 [N.d.C], 21 Cfr. in., Diels-Kranz B 64 [N.d.C.]. n Cfr. li)., Diels-Kranz B 32 [N.d.C]. n Cfr. ib., Diels-Kranz B 114 [N.d.C].

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IlóXenog è quindi anche ciò che crea la comunità, è quel­ la intuizione originaria che rende possibile la filosofia. TlóXenos non è la passione distruttiva di un selvaggio ag­ gressore, bensì ciò che crea l’unità. L ’unità da esso fonda­ ta è più profonda di ogni effimera simpatia e di ogni coali­ zione d’interessi; nello sconvolgimento inferto al senso dato gli avversari si incontrano fra loro e creano con ciò un nuo­ vo modo di essere dell’uomo, forse l’unico che offra una speranza nella tempesta del mondo: l’unità di coloro che, sep­ pur sconvolti, affrontano il pericolo intrepidamente. E cosi che Eraclito vede l’unità e la comune origine di comunità e filosofia. Ma con ciò sembra risolto anche il problema dell’inizio della storia. La storia sorge e si può affermare solo là dove àQzrr\ - cioè l’eccellenza dell’uomo che non vive più solo per la vita, ma che costruisce uno spazio per la propria af­ fermazione penetrando la natura delle cose e agendo in ac­ cordo con essa - fonda la comunità sulla base della legge del mondo, ossia jtóA.e[iog, e dice ciò che scorge rivelarsi al­ l’uomo libero, aperto e intrepido (la filosofia). La storia dell’Occidente e la storia in generale hanno quindi un inizio davvero degno, cioè tale che non soltanto segnala il punto dove si trova la grande cesura tra il mon­ do pre-istorico e la storia, ma mostra anche a quale livello si deve mantenere la vita storica, se non vuole soccombe­ re a una minaccia, interna o esterna che sia. Questo inizio tende quindi la mano a tutti gli ulteriori tentativi di slan­ cio storico, soprattutto perché insegna ciò che l’umanità non vuole imparare nonostante tutte le infinite crudeltà della storia e di cui forse si renderà conto per prima la no­ stra epoca tardiva, che ha raggiunto il culmine della rovi­ na e della distruzione: che bisogna comprendere la vita non dal punto di vista del giorno, del mero vivere, della vita ac­ cettata, bensì anche dal punto di vista della lotta, della not­ te, dal punto di vista di jtóXefiog. Nella storia non è que­ stione di ciò che si può rovesciare o sconvolgere, ma del­ l’apertura verso ciò che sconvolge. Ora dobbiamo occuparci di due concezioni della storia, che derivano dai fondatori della fenomenologia e sembra­ no profondamente diverse dalla nostra, per il fatto che par­

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lano entrambe espressamente solo della filosofia come sboc­ co e quasi centro della storia. Edmund Husserl parla della storia europea come di un nesso teleologico il cui asse è costituito dall’idea della con­ templazione razionale e della vita che si fonda su di essa (cioè la vita responsabile). Secondo Husserl, la cultura eu­ ropea si differenzia da tutte le altre per questa idea teleo­ logica. L’idea della vita originata dalla ragione, dalla con­ templazione razionale solleva l’Europa al di sopra delle altre culture, come l’unica essenziale fra tante casuali. L’eviden­ za della contemplazione razionale è l’idea «innata» dell’u­ manità, cosicché lo spirito europeo è anche lo spirito uma­ no in generale. La cultura e la civiltà europee sono valide universalmente, mentre le altre, per quanto interessanti possano essere, sono solo particolari. Ne deriverebbe che la storia [déjiny], come sviluppo e graduale attuazione di questa idea teleologica, sia sostan­ zialmente la storia dell’Europa, e che la storia del resto del mondo sia solo nella misura in cui entra nel campo d’a­ zione della cultura europea. In accordo con ciò, Husserl parla dell’alba della Grecia e intende con ciò la «prima fondazione» dell’idea teleologica europea nella filosofia greca. A prima vista, sembra che questa concezione riprenda l’ingenuo razionalismo illuministico, per il quale l’illumi­ nazione, la luce, è l’unica sorgente di vita. In realtà essa è in accordo con tutto il carattere della fenomenologia hus­ serliana e della filosofia fenomenologica. Ma che cosa può essere la storia [déjiny] in questa filosofia? La fenomenolo­ gia è la scienza non soltanto della struttura degli enti, ma anche del fatto che gli enti si manifestano, di come essi si manifestano e del perché si manifestano in tal modo. La storia qui non può essere altro, nulla di più e nulla di me­ no, che l’indispensabile scheletro di questo manifestarsi, rivelarsi degli enti. Questo manifestarsi può giungere a compimento solo nel caso che la sua vera natura si sveli, si riveli: e questa è la filosofia, non una determinata filoso­ fia, bensì la filosofia come processo. E proprio della natura della cosa che l’ente si mostri in tal modo non solo come razionale, ma anche come la ragione stessa. La fenomeno­

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logia husserliana non ricorda tanto il razionalismo illumi­ nistico quanto quello hegeliano. E una vera ironia che Husserl scriva l’opera che espone la concezione fenomenologica della storia [bistorte] alla vi­ gilia della seconda conflagrazione mondiale, che ha defini­ tivamente tolto di mano all’Europa la guida del mondo. È certo vero che la guerra ha fatto della scienza e della tecni­ ca europee il tessuto connettivo del pianeta. Ma la civiltà europea è divenuta questo tessuto connettivo proprio in quella versione che la Crisi delle scienze europeeha dimostra­ to essere decadente, poiché in essa si è perduto il senso, cioè quell’idea teleologica capace di conferire un senso, in cui, secondo Husserl, consiste l’intima essenza spirituale dell’Europa. La fenomenologia non può considerare la storia [historie] come qualcosa di essenziale né può farne uno dei suoi prin­ cipali soggetti senza che in ciò si manifesti tutta la sua con­ cezione fondamentale, tanto sotto l’aspetto metodologico che sotto quello materiale. Nel corso del suo itinerario di pensatore Husserl insiste sempre più sulla genesi contro l’a­ nalisi statica, sul ruolo della genesi passiva, sul sorgere di tutte quelle componenti, apparentemente solo recepite, vis­ sute nella coscienza interiore del tempo. Tutto ciò che è statico rimanda alla genesi e quindi alla storia [historie]. La storia è perciò il piano più profondo di contenuti cui la fe­ nomenologia può attingere; ma se intendiamo la storia co­ me libero agire e decidere, o magari come il loro presuppo­ sto fondamentale, allora bisogna dire che la genesi husser­ liana, anche se trascendentale, e anzi proprio in quanto trascendentale, conosce soltanto le strutture afferrabili dal­ la riflessione di uno spettatore imparziale, disinteressato, cioè di una soggettività sostanzialmente non storica nel sen­ so della parola discusso in precedenza. Se quindi il feno­ meno della fenomenologia, e cioè il fenomeno profondo, non quello «volgare» di ciò che si mostra da sé, ma quello dei suoi presupposti nascosti, che lo rendono possibile, ri­ siede nella genesi trascendentale, bisogna ammettere che la possibilità di afferrarlo presuppone una soggettività fon­ damentalmente «astorica», perché disinteressata. Con ciò inoltre concorda il concetto stesso di riflessione, che coglie

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le strutture soggettive come rivolgimento dello sguardo og­ gettivante «verso l’interno», verso l’esperienza vissuta, ver­ so l’aspetto «noetico», come se la struttura d’atto, dalla quale è stata originariamente derivata la contrapposizione «noesi-noema», fosse valida per tutti i fenomeni in gene­ rale e come se l’intenzionalità fosse l’ultima parola che pos­ sa esser detta sulla soggettività del soggetto. La concezione di Heidegger, per contro, è storica non sol­ tanto nel senso che l’analisi fenomenologica conduce a una determinata genesi, ma soprattutto perché tale concezione nonsoltanto rifiuta lo spettatore disinteressato come presup­ posto della possibilità della fenomenologizzazione, ma indi­ ca al contrario l’essere interessato all’essere quale punto di partenza e condizione della possibilità di comprensione del fenomeno profondo, cioè del fenomeno dell’essere. In tal modo Heidegger opera da una parte il rinnovamento del pro­ blema ontologico su un fondamento fenomenologico, dall’al­ tra la restaurazione della giusta comprensione del significa­ to della fenomenologia in generale. Per Heidegger il nome «fenomenologia» designa non un contenuto, ma un metodo, una ricerca che si fonda, in tut­ to ciò che afferma, sull’immediato mostrare e dimostrare. Ma questo non significa che le sue indagini siano evidenza che balza agli occhi. Al contrario, i fenomeni propriamen­ te fenomenologici sono originariamente nell’ombra, poiché non si riferiscono alle cose esistenti, che si palesano di per se stesse, ma al loro essere, alla loro potenzialità e alla loro essenza, che bisogna anzitutto portare alla luce. Questo «mettere in chiaro» è tuttavia possibile proprio perché l’uo­ mo non ha un rapporto di estraneità con il proprio essere - quindi con l’essere in generale - come, per esempio, le cose naturali o le creazioni della mano dell’uomo. Questo rapporto è ben lungi dall’essere disinteressato, non è e non può essere una mera, inerte constatazione. Tale è appunto il contenuto dell’espressione che nel suo essere ne va del proprio essere. Il suo proprio essere gli è dato come qual­ cosa di cui egli è responsabile, non come un oggetto di con­ templazione. Deve assumerne la responsabilità, realizzar­ lo, ed egli è nella misura in cui accetta questo compito, op­ pure invece se lo scrolla di dosso, lo sfugge, se lo nasconde.

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Ciò si può esprimere anche dicendo che l’esistenza30(= l’es­ senza della vita umana) è fine a se stessa. Com’è evidente, questo stesso inizio di analisi è storico in un significato com­ pletamente diverso dalla genesi trascendentale di Husserl. Questa «realizzazione», che non è contemplazione, non per questo è cieca. Essa ha una sua visione di un genere particolare, in cui il nostro «comportamento», e cioè la no­ stra manipolazione delle cose pratiche che ci circondano, costituisce solo l’ultima e più evidente componente che emerge, come la punta di un iceberg, nella nostra vita di tutti i giorni. Ma la teoria degli atti dell’intenzionalità del­ la coscienza non è in grado di spiegare neppure questo no­ stro comportamento, questa nostra azione: essa sottolinea, o piuttosto conserva, solo ciò che si può cogliere con uno sguardo diretto o con uno sguardo rivolto aH’interno. In realtà questo comportamento non fa che cogliere quelle pos­ sibilità di rapporto con se stessi, nel mezzo e per mezzo del­ le cose che ci devono essere in qualche modo già aperte, e tali possono essere solo in una situazione reale, in quel «ci» di fatto che è diverso per ognuno di noi e in ogni momen­ to, e in cui il nostro stato d’animo accorda il nostro com­ portamento possibile in sintonia con quell’esistenziale in cui siamo posti, in considerazione delle nostre possibilità di accordarci con esso. Così questo «fatto originario della nostra situazione emotiva» ci scopre d’un sol colpo, in mo­ do non intenzionale e non oggettivo, la nostra enigmatica situazione in mezzo alle cose, ma allo stesso tempo anche quella totalità a cui ci rapportiamo continuamente, la tota­ lità del rapporto con noi stessi attraverso la possibilità d’incontrarci con le cose e con il nostro prossimo. Ma come il comportamento presuppone già sempre questo essere posti all’interno di qualcosa che non abbiamo creato e che dove­ va già esserci, così esso presuppone parimenti che compren­ diamo ciò verso cui abbiamo un certo comportamento e perché. Ciò a sua volta presuppone - poiché la compren** C.om’è noto, per Heidegger Inesistènza» designa l’essere dell’Esserci (Dasein). Quest’ultimo termine, che nel vocabolario heideggeriano a sua vol­ ta caratterizza la realtà umana, è riecheggiato da Patocka più sotto attraver­ so il suo suffisso «ci» [N.d.C./’J.

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sione pratica è primordiale e l’unica che veramente com­ prende, e in essa le cose sono quanto «corrisponde» o «con­ viene» alle nostre possibilità - che queste possibilità, inte­ se come nostre e appena sopraggiunte, come connessioni comprensibili e significative, siano già qui, che in questo stesso «istante» in cui sono inserito nelle cose io tenga fer­ mo davanti a me questo «progetto», grazie al quale posso comprendere ciò che è. Quindi la comprensione e la spie­ gazione di ciò che mi trovo davanti non è una qualche ap­ percezione, che come tale effettua sempre una sintesi fra ciò che ho constatato in passato e la constatazione attuale, bensì essa vede sempre il presente nella luce di ciò che ab­ biamo «davanti a noi», non come un oggetto, ma come ciò che «sta a noi cogliere». Come si vede, il comportamento verso un singolo ente presuppone la comprensione di una certa totalità dell’ente che ci si apre davanti nel «progetto» delle nostre possibi­ lità e che è avvertito come un tutto nel sentimento della to­ nalità. Né il progetto né la disposizione d’umore sono og­ getti intenzionali e neppure alcunché di autonomo, ma sen­ za di essi non è possibile cogliere concretamente i nostri compiti vitali, senza di essi non è possibile capire la vita co­ me libertà e come storia [bistorte] originaria. Non l’inten­ zionalità, ma la trascendenza è il carattere originario della vita, per cui essa si distingue dall’essere degli enti a cui non importa del loro essere, che quindi non esistono per amor di sé e anzi non hanno nessun «per amore di», oppure lo hanno solo per lo spazio di un baleno, come gli animali. La trascendenza con i suoi momenti, che si implicano recipro­ camente, della (dis)posizione, del progetto e del comporta­ mento, è però una trascendenza dell’uomo verso il mondo, verso quella totalità illuminata e progettata a cui apparten­ gono enti come noi, che siamo rapporto, ed enti a cui que­ sta caratteristica fa difetto. Il mondo, come Kant è stato il primo a vedere, non è una cosa né un complesso di cose sperimentate, e non perché sia un’idea «derivata», che non può essere soddisfatta nell’esperienza, ma perché è dato dalla totalità della trascendenza, da questa «storia origina­ ria», come la chiama Heidegger. Il mondo non è oggetto dell’esperienza non perché non può essere dato, ma non

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può essere dato proprio perché non è un ente, e come tale per essenza non può «esistere». La trascendenza verso il mondo non è però originariamente data, come in Kant, dal­ l’attività di intelletto e di ragione: il suo fondamento è la libertà. Vediamo dunque come nella concezione di due fenome­ nologie si manifesti l’antichissima opposizione filosofica tra il primato dell’intelletto e quello della libertà in ciò che costituisce la natura propria dello spirito umano, e a ciò si collega anche necessariamente il problema della fondazio­ ne filosofica e della natura della storia. Heidegger è il filo­ sofo del primato della libertà e ai suoi occhi la storia non è una rappresentazione teatrale che si svolge sotto i nostri occhi, ma una responsabile realizzazione di quel rapporto che è l’uomo. La storia non è una visione, ma una respon­ sabilità. Però la libertà non è da lui concepita né come li­ bertini arbitrium né come liberazione dal compimento del dovere, ma in primo luogo come libertà di lasciare l’ente cosi com’è, come libertà di non deformare l’ente; ciò pre­ suppone non soltanto la comprensione dell’essere ma an­ che lo sconvolgimento di ciò che, innanzitutto e per lo più, nell’ingenua autocomprensione, viene inteso come essere, e quindi del suo preteso senso, sconvolgimento determina­ to dallo schiudersi dell’essere stesso nella forma del «no» radicale e della questione che lo riguarda esplicitamente. Il disvelamento dell’essere è l’esperienza da cui nasce la filo­ sofia, è il tentativo continuamente rinnovato di vivere nel­ la verità. La libertà è in definitiva libertà della verità, e ciò sotto l’aspetto dell’essere allo scoperto dell’essere stesso, della verità dell’essere, e non soltanto degli enti (sotto l’a­ spetto del comportamento aperto e nella correttezza degli enunciati). La libertà non è un aspetto dell’essenza umana, ma significa sostanzialmente che l’essere stesso è finito e che va cercato nello sconvolgimento di tutte le «certezze» ingenue, le quali tentano di trovare la propria dimora ne­ gli enti per non dovere confessare che l’uomo non ne ha al­ cuna, se si eccettua ciò che tutto rivela e libera, che per­ tanto non può «essere» allo stesso modo degli altri enti: l’essere e il suo mistero e il miracolo che l’ente sia. Il disve­ lamento dell’essere stesso, peraltro, si effettua nella filoso­

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fia e nella sua più originaria, più radicale interrogazione. Questo disvelamento produce necessariamente un muta­ mento non solo nella regione degli enti accessibili, ma an­ che nel mondo di una determinata epoca. Dalla nascita del­ la filosofia la storia [déjiny] è, anzitutto, la storia interna del mondo come essere differente dall’ente e che tuttavia gli appartiene, in quanto essere dell’ente. In questa contrapposizione delle due filosofie che ope­ rano fenomenologicamente è sorprendente il fatto che, no­ nostante l’essenziale contrasto sul punto di partenza, che inuna è l’intuizione, nell’altra la libertà, entrambe giunga­ no all’idea della posizione centrale che la filosofia occupa nella storia. E poiché entrambe intendono per filosofia quella occidentale, entrambe giungono alla conclusione del­ la centralità dell’Europa nella storia. La storia [,bistorte] non è comprensibile senza la libera responsabilità. Entrambe queste filosofie lo sanno e lo pro­ fessano. Ma l’una scorge il nascere della responsabilità nel­ la purezza dell’evidenza, nella subordinazione della mera opinione all’idea, mentre la seconda lo vede nel fatto che non chiudiamo gli occhi davanti all’esigenza di creare via libera e fare posto alla libertà, a quell’esserci che è stato li­ berato dall’oblio corrente e superficiale del mistero dell’es­ sere degli enti. Dove risiede l’accordo tra le concezioni della storia di queste due filosofie, peraltro cosi profondamente diverse ? In che cosa ha la sua radice il fatto che entrambe le filoso­ fie attribuiscano un significato centrale alla filosofia nella storia, tanto da vedere in essa il vero inizio della storia? Evidentemente nel fatto che sono entrambe filosofie della verità, che la verità è il loro problema centrale, problema che non intendono risolvere in base a tesi di pretesa evi­ denza, ma in base ai fenomeni, a ciò che si mostra. Ma l’unavede la verità quale perfetta chiarezza, che conosce pun­ ti oscuri solo come problemi, punti di passaggio verso una risposta; mentre la seconda, ispirata dalla finitezza dell’es­ sere, è aperta al mistero eterno dell’ente che, proprio in questo suo mistero che suggerisce continuamente doman­ de che restano tali, cerca di cogliere la sua verità essenzia­ le, il disvelamento dell’essere dell’ente a cui pertanto ap­

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partiene necessariamente il suo essere velato, quale viene espresso dalla parola greca à-Xr|0Eia. La filosofia di Heidegger ha quindi, al suo centro, un rapporto con il pensiero filosofico altrettanto stretto di quello della fenomenologia di Husserl. Essa tuttavia è più adatta di quest’ultima come punto di partenza per la rifles­ sione filosofica sulla storia, perché ha il suo punto di par­ tenza nella libertà e nella responsabilità dell’essere umano, e non solo nel pensiero. Al suo centro troviamo problemi come la liberazione da quello scadimento nelle cose e nel mondo, di cui tutte le filosofie della storia oggi dominanti sono interamente prigioniere. Come filosofia della libertà finita e come allusione a ciò che si trova al di sopra del mon­ do, perché lo rende possibile, questa filosofia è vicina all’i­ dealismo. Essa fonda, però, lo slancio storico dell’uomo in maniera più profonda e più «realista», perché è l’unica dot­ trina coerente che sia in grado di garantire l’autonomia degli enti contro il soggettivismo di ogni genere, anche con­ tro quello che discende dalla corrente concezione materia­ listica del rapporto tra oggetto e soggetto, che consistereb­ be nella connessione causale nel mondo esterno. Essa tut­ tavia riesce soprattutto a chiarire la natura dell’azione storica e ad aprire gli occhi su ciò che è in gioco nella sto­ ria. Le considerazioni che seguono tenteranno di spiegare alcuni problemi della storia antica e moderna alla luce di suggestioni accolte da quella filosofia. Ovviamente ricade sull’autore stesso la responsabilità delle sue deduzioni.

Capitolo terzo La storia ha un senso ?

Si parla spesso del senso di determinate vicende umane, del senso della vita, della storia, di varie istituzioni, del sen­ so della democrazia, ecc., senza peraltro che il concetto stesso di senso venga determinato e senza che si faccia nem­ meno il tentativo di determinarlo, soprattutto perché, da un lato, si avverte il bisogno di tale concetto mentre, dal­ l’altro, viene considerato come di per sé evidente. Il biso­ gno del concetto si deve al fatto che tutte quelle cose sono problematiche ed è necessario spiegarle, in quanto la va­ rietà di spiegazioni possibili non ci lascia indifferenti. Il concetto di senso condivide questa - apparente - eviden­ za con tutti i concetti fondamentali cosi generali che la lo­ ro natura sfida il corrente modo di determinazione che ci viene proposto dal ricettario della logica tradizionale. Ta­ li sono il concetto di essere, il concetto di processo, il con­ cetto di manifestazione. Il senso rientra senza dubbio in questa categoria; altrettanto indubbiamente, è proprio la sua difficoltà e allo stesso tempo la sua indispensabilità che fanno si che così spesso si ricorra al consueto metodo di presupporre la sua evidenza per risparmiarsene un’analisi più accurata. Cominciamo il nostro tentativo con l’analisi del rappor­ to tra i concetti di senso e di significato. Tra i logici fu Frege che concepì il significato come un rapporto oggettivo, op­ ponendolo al senso come modo di concepire l’oggetto: il quadrangolo e il quadrilatero sono due sensi di uno stesso significato, così come la stella della sera e la stella del mat­ tino. Ciò dimostra che anche la logica può aver bisogno di distinguere tra i due concetti, perché, mentre il senso si tro­ va più strettamente in accordo col nostro modo di conce­

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pire, il significato è più oggettivo. D’altra parte, però, sem­ bra che noi limitiamo il significato più al campo del logos, mentre il senso è per noi qualcosa di più concreto, qualco­ sa che si riferisce, per esempio, ai sentimenti che accompa­ gnano un’azione. Discutiamo infatti se la sofferenza abbia un senso, piuttosto che un significato, oppure di quale s:a stato il senso di una certa azione, per esempio l’occulta­ mento degli scopi della guerra da parte degli uomini di Sta­ to tedeschi durante la prima guerra mondiale (e lo distin­ guiamo nettamente dal significato di tale occultamento per il prolungamento della guerra, e cosi via). Il senso è ciò in base a cui si può comprendere che questi scopi dovevano essere occultati (per esempio la volontà di mutare tutto lo status quo mondiale); il significato invece deriva dal senso cosi compreso, è una sua conseguenza. Risulta dunque giu­ stificata la definizione di Heidegger secondo cui il senso è ciò in base a cui qualcosa si rende comprensibile1. Di con­ seguenza il senso sarebbe qualcosa che provvede una mo­ tivazione, ma non soltanto nel senso di una derivazione logico-formale, bensì anche in quello di comprensibilità materiale. Proprio a questa materiale comprensibilità si connettono tanto la motivazione dell’azione, quanto quel­ lo sfondo di sperimentazione e di azione più profondo di cui si tratta quando, per esempio, parliamo del senso della sofferenza, di quello dell’angoscia, del fatto che l’uomo è una creatura corporea. In tutti questi esempi il senso non è evidente, bensì dobbiamo ottenerlo per mezzo dell’inter­ pretazione che toglie il velo di ciò che originariamente c’im­ pedisce di vederlo, che lo ricopre, lo altera, lo oscura. La motivazione dell’azione pone il problema del rappor­ to tra il senso e lo scopo. La motivazione dell’azione è in­ fatti in sostanza lo scopo perseguito dall’agente e l’impul­ so da cui deriva lo scopo. L’odio e la volontà di eliminare la persona odiata sono rispettivamente l’impulso e lo sco­ po, che suggeriscono l’omicidio come mezzo per l’elimina­ zione intesa come scopo. Ora è chiaro che ogni azione ef­ ficace rispetto a un fine è dotata di senso, mentre non ogni 1 Cfr. M. heidegger, Setn undZeit eit., S 6 5, p. 3 2 4 [trad. it. eit., p. 9x1]

INJ.C].

la s t o r ia h a u n s e n s o

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azione dotata di senso è efficace o orientata a un fine. Lo scopo è un collegamento causale che e dotato di senso so­ loin seguito al suo inserimento in una connessione di mo­ tivazioni e azioni umane dotate di senso. Pertanto non è possibile identificare il senso con l’efficacia rispetto al fi­ nené spiegarlo in base a questa. Da una parte l’azione può essere efficace eppure perdere il suo senso (originario). Co­ si, per esempio, sembra che la scienza moderna, col suo as­ soluto obiettivismo, abbia perduto il suo senso intrinseco e trovi la sua motivazione soltanto nei fini esterni che de­ rivano dalla possibilità di applicarla. D’altra parte l’azione umana può essere inefficace o addirittura controproducen­ te, eppure avere un senso: per esempio, il comportamento patologico degli isterici e dei nevrotici in genere ha un sen­ soche si può comprendere, ma non è efficace rispetto a un fine. Gli errori che commettiamo nel nostro comportamen­ tosono comprensibili ma non sono efficaci rispetto al fine, cioè presuppongono un fine e una (errata) scelta di mezzi (non adeguati). Voler dedurre il senso dal fine e dall’effi­ cacia significa subordinarlo alla categoria della causalità, poiché si può intendere, con Kant, il fine come causalità della rappresentazione. Ma se il senso non può essere ri­ dotto al fine, si può al contrario, e più legittimamente, so­ stenere l’opinione che il fine sia la causalità sollevata al ran­ go di ciò che è dotato di senso, mentre rimane aperta la questione se sia questo il solo modo di azione del senso. Ciò che si è detto pone altresì la questione del rapporto tra senso e valore. I valori come la verità, il bene, il bello non costituiscono di per se stessi degli scopi e dei fini, ma la loro realizzazione può diventare fine e scopo delTagire umano. In sostanza i valori non significano nient’altro se nonche negli enti c’è un senso; essi indicano ciò che dà agli enti un senso. La verità significa che la totalità degli enti è accessibile alla comprensione e alla spiegazione; il bello si­ gnifica che l’ingresso degli enti nella vita umana mostra il mistero dell’essere come qualcosa di eternamente affasci­ nante; il bene significa che nel mondo sono possibili la gra­ zia e una simpatia dimentica di sé. La stessa cosa accade con tutta quella infinita varietà di valori che in continua­ zione si rivolgono a noi, ci attirano e ci respingono. Essi

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«fanno sì», in generale, che gli enti non siano per noi una presenza indifferente, bensì qualcosa che «si rivolge» a noi, ci dice qualcosa, è oggetto di un nostro interesse positivo o negativo. Il valore quindi non è altro che il senso degli enti, senso espresso come qualcosa di autonomo, come se si trat­ tasse di una qualità, si diceva, mentre in realtà si tratta del fatto che nulla ci può apparire se non in una connessione do­ tata di senso, nel quadro della nostra apertura al mondo. Es­ sa significa in generale che noi non stiamo al mondo come testimoni o osservatori indifferenti, ma che l’essere nel mon­ do è ciò a cui siamo interessati nel senso più proprio. Il concetto di valore è importante in riferimento ai no­ stri problemi per un certo suo aspetto, e precisamente per quell’aspetto in cui esso ci si presenta come qualcosa di au­ tonomo, come un ente positivo che in tutte le circostanze è ciò che è. L’idea del bello e quella del bene per Platone sono ciò che «rende» belli e buoni tutti gli enti nella misu­ ra in cui ne sono partecipi. Quindi gli enti possono essere problematici, ma le idee no. In tal modo è garantita la sen­ satezza dell’ente, anche se enti singoli possono essere og­ getto di una svalutazione. La sensatezza dell’ente resta intatta finché i valori stes­ si restano non problematici, sia che vengano intesi in Pla­ tone come ciò che dà un senso alla realtà, sia che siano vi­ sti, come nella teologia cristiana influenzata dal neoplato­ nismo, come emanazioni della perfezione del Dio creatore. Finché il valore è inteso come la vera sorgente del senso, vale a dire finché l’idea o Dio sono ciò che dà senso alle co­ se, alle azioni umane e agli avvenimenti, c’è sempre la pos­ sibilità di interpretare le esperienze di perdita del senso co­ me difetti non di ciò che conferisce un senso, ma di ciò che dovrebbe riceverlo. Questo è un vantaggio perché rappre­ senta un argine contro il nichilismo, ma ha un lato debole, rappresentato dal fatto che diviene indispensabile, in sif­ fatto modo di pensare, ricorrere a concetti metafisici, men­ tre il senso e la sua perdita sono fenomeni dell’esperienza concreta. Ricorrere alla metafisica significa infatti consi­ derare il senso come qualcosa di già dato e rinunciare defi­ nitivamente a porsi il problema della sua origine (non em­ pirico-temporale, ma filosofico-strutturale).

LA STORIA HA UN SENSO?

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Le cose stanno invece diversamente se assumiamo in tut­ ta la sua portata l’esperienza della perdita di senso quale indubbiamente si presenta nel corso della nostra vita. In quest’ultimo caso, quest’esperienza non dimostra soltanto la nostra inadeguatezza, la nostra incapacità di afferrare e comprendere il senso, ma significa la radicale possibilità cheogni senso si perda, che possiamo trovarci di fronte al­ lasua completa assenza. Le cose non hanno un senso di per sestesse, ma il loro senso esige che qualcuno abbia un «sen­ so» per loro. Infatti il senso non è originariamente negli enti, ma nell’apertura, nella comprensione delle cose, vale adire in quel processo, in quel movimento che non si dif­ ferenzia da quello del nucleo stesso della nostra vita. E chia­ ro che le cose sono belle e vere, ma non per se stesse: sia­ mo noi, soltanto noi che abbiamo la possibilità di metter­ le in rapporto con il loro proprio senso, poiché siamo tali che la nostra stessa vita può assumere un senso per noi, mentre alle cose questo rapporto con se stesse non è dato, anzi «non ha senso per esse». Se le cose stanno così, non bisognerà allora affermare che siamo noi stessi che diamo un senso alle cose ? Non è forse il nostro rapporto con esse, attraverso il nostro rap­ porto con noi stessi, che «conferisce un senso all’insensa­ to»? Se si dà l’esperienza della mancanza di senso, ciò non significa forse che tutto dipende da noi e dall’apertura che noi siamo ? E se invece siamo chiusi e «le cose non ci dico­ noniente», ciò non significa che scompare anche quel con­ ferimento di senso e il mondo si mostra privo di senso ? E se si può dimostrare che questa esperienza è allo stesso tem­ po l’apertura fondamentale di quel complesso che è la no­ stra vita, della libertà della nostra esistenza, ciò non signi­ fica ancor più che l’origine di qualsiasi senso sta in noi ed è in nostro potere ? Ma l’idea che noi creiamo il senso, in modo tale che la sensatezza o meno degli enti sia in nostro potere, è in con­ trasto con l’idea dell’apertura verso gli enti e il loro senso, idea che è fondata fenomenicamente. In particolare, in que­ st’ultimo caso il fatto che le cose abbiano un senso non di­ pende più dalla nostra volontà, dal nostro arbitrio. Non è cosa che dipenda da noi, non è in nostro potere far sì che

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le cose non ci appaiano in certe circostanze prive di senso o viceversa, che il senso delle cose non ci venga esso stes­ so incontro se noi siamo aperti per esse. Ma noi siamo aper­ ti tanto alla realtà dotata di senso quanto a quella che ne è priva, che è poi la stessa realtà che si mostra una volta dota­ ta di senso e un’altra volta priva, muta. Ma questo cos’al­ tro può significare, se non la problematicità di qualsiasi sen­ so ? E questa stessa problematicità che altro può significa­ re, se non che la nostra stessa apertura verso le cose e verso il prossimo ci mette in guardia a non abbandonarci alla ten­ denza ad assolutizzare determinati modi di comprendere il senso insieme ai corrispondenti modi di conferirlo ? Ora bisogna fare qualche osservazione sul rapporto tra il concetto di senso e quello di essere. Tra i due concetti esiste un’ampia analogia ma anche una profonda differen­ za. Come il senso, anche l’essere appartiene tanto a enti che per loro natura sono possibili soltanto in rapporto a quello2, quanto agli enti che invece sono essenzialmente esenti da tale rapporto. Cosi come sono gli enti che si tro­ vano originariamente in rapporto col proprio essere a met­ tere le cose che semplicemente esistono in rapporto col lo­ ro essere, nel momento in cui le comprendono come qual­ cosa ed emettono dei giudizi su di loro, del pari sono questi enti, aperti all’essere, che pongono le cose in rapporto con il loro proprio senso, nel momento in cui le comprendono nella loro significatività, e non soltanto in modo estetico­ contemplativo, ma anche nella prassi. Ora, quanto appena detto equivale tuttavia a dimostrare fenomenologicamen­ te che il rapporto esplicito con l’essere lo otteniamo unica­ mente in modo tale che le cose perdono per noi la loro si­ gnificatività, e quindi perdono il loro «senso». E come se il senso delle cose e il nostro accesso esplicito all’essere, il nostro svelarlo, si escludessero reciprocamente. Quindi l’es­ sere si presenterebbe solo là dove finisce il senso e sarebbe quindi qualcosa di essenzialmente estraneo al senso. Wilhelm WeischedeP ha dimostrato che la sensatezza 1 Ossia in rapporto all’essere [N .d .C .i.]. *Cfr. H. g o llw itz e r e w. weischedel, Denken und Glauben, Kohlhammer,

la storia h a u n s e n s o ?

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non è mai possibile come fatto isolato, che caratterizzi que­ sto0 quell’oggetto singolo, al di fuori di ulteriori connes­ sioni. Qualsiasi senso individuale rimanda all’intero, e ogni sensorelativo rimanda all’assoluto. Poiché il senso delle co­ seè indisgiungibile dalla nostra apertura verso di esse e ver­ soil loro significato, si può pertanto dire che là dove tale apertura è assente il mondo non può rivolgersi a noi e che pertanto la vita umana intesa come essere nel mondo non èpossibile. Inoltre da ciò deriva anche che la vita umana nonè possibile senza una fede, vuoi ingenua vuoi criticamente ottenuta, nel senso assoluto, nel senso totale dell’u­ niverso dell’ente, della vita e della storia. Là dove la vita umana si trova di fronte l’assoluta insensatezza, non le re­ sta che capitolare e arrendersi. Per questo Vilém Mrstik parla della «terribile inerzia dei suicidi»4. L’antinomia del senso e dell’insensatezza, del senso e dell’essere sembra pertanto suggerire che la vita è possibile soltanto come con­ tinuaillusione di un senso totale, illusione che in certe espe- — rienze si mostra appunto come tale. Anche la verità di con­ seguenza si presenterebbe come qualcosa di sostanzial­ mente ostile alla vita, come qualcosa che si trova in lotta e opposizione implacabile con essa. Sappiamo che la lotta della verità con la vita, anche se filosoficamente motivata in modi differenti, costituisce una delle tesi fondamentali di Nietzsche. Tuttavia in Nietzsche la verità significa senso assoluto, che è in contrasto con la natura degli enti, in quanto sono volontà di potenza, azio­ necontinua, autosuperamento, vita. Nonostante questa di­ versità di concezione, si può dire che Nietzsche ha intuito il contrasto tra l’essere degli enti e l’assolutezza del senso, sebbene egli poi interpreti questo stesso senso assoluto co­ me qualcosa di ostile alla vita, e quindi in modo errato dal nostro punto di vista. Tale contrasto è per lui un segno, un

Stuttgart 19 6 5 ', pp. 2 6 8 -74 , nonché w . w eisch edel, Der Gott der Philosopkcn, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Miinchen 19 7 1, voi. II, pp. 165182 [cfr. a cura e trad. it. di L. Mauro, II Dio dei filosofi, il melangolo, Ge­ nova 1996, voi. II] [N .rf.CJ. 4 Cfr. V. mkstìk, Santa Lucia, Ceskoslovensky spisovatel, Praha 1990, per esempio p. 293 [N.ti.C.].

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sintomo del nichilismo, della svalutazione dei massimi va­ lori, ossia della decadenza di ciò che finora dava un senso alla vita. Nietzsche risolve tale contrasto attraverso l’am­ missione del nichilismo e la proclamazione del mondo co­ me insensato in nome della vita che è creatrice e pertanto è in grado di organizzare una parte dell’ente in modo tale da ottenere un senso relativo. Se però le precedenti analisi delle antinomie dell’essere e del senso, del senso e del nonsenso sono svolte rettamen­ te, risolvere il problema del nichilismo mediante il ricorso a un senso relativo e particolare è impossibile, o meglio il­ lusorio. La vita nel suo svolgimento pratico non può fare affidamento su di un senso relativo, che si fonda sul non­ senso, poiché esso non può mai conferire un senso a ciò che non ne ha, ma anzi viene sempre trascinato nell’insensa­ tezza di ciò su cui si fonda. Una vita autentica nell’assolu­ to nichilismo e nella coscienza dell’insensatezza del tutto non è possibile, o diventa possibile solo a prezzo di un’il­ lusione. Tuttavia le tesi che sostengono un nichilismo così inte­ so non sono affatto meno dogmatiche delle tesi che si fon­ dano su una fede ingenua e intatta nel senso! Infatti, non soltanto uno scetticismo coerentemente fondato deve com­ prendere anche lo scetticismo nei confronti dello scettici­ smo stesso e condurre cosi al non-fondato, almeno in atte­ sa di una prova definitiva, ma è necessario interrogare lo stesso fenomeno della perdita di senso e chiedersi che co­ sa in realtà esso significhi. Nell’analisi heideggeriana della situazione fondamentale che è l’angoscia, veniamo a sape­ re che in essa si apre una possibilità e anche - seppure per un solo istante - un autentico rapporto col nulla. Ma per­ ché solo per un istante? Perché l’angoscia non significa al­ tro che un istante di crisi da cui è indispensabile o tornare indietro nel mondo, cioè al senso e al significato, oppure smarrirsi nella «spaventosa inerzia» della noia assoluta e profonda del taedium vitae, da cui non c’è ritorno. Torna­ re al mondo non significa tuttavia tornare alle cose cosi com’esse erano. Esse infatti non saranno mai più quelle co­ se intatte e non problematiche quali prima ci apparivano. Accade in questo caso qualcosa di analogo, e tuttavia di­

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verso, rispetto a quel che vediamo nel mito platonico del­ la caverna: pure l’emancipato abitatore della caverna deve tornare indietro, anche se non è ben chiaro perché: qui in­ vece il ritorno è qualcosa di comprensibile, poiché esso si­ gnifica la vita. Ma l’uscita dalla prigione, dalla preoccupa­ zione quotidiana, non significa qui scoperta del positivo per eccellenza, di essenze eterne e perciò libere da ogni re­ latività. Significa piuttosto scoperta dell’essere dell’ente nell’al di là di ogni ente e del suo significato, scoperta del­ l’essere che non è nulla di essente, ma, dal punto di vista dell’ente appunto, semplice nulla, semplice prodigio - pro­ digiosa stranezza del fatto che l’ente sia, ciò che rende pos­ sibile quel passo indietro davanti alla totalità degli enti5, sul cui fondamento la vita umana è ciò che è: un distanziar­ si permanente rispetto alle cose essenti e la possibilità, in questo scarto e sulla sua base, di rapportarsi ad esse. Attraversare l’esperienza della perdita del senso significa cheil senso a cui forse torneremo, non sarà per noi semplicemente un fatto immediato, intatto, ma un senso riflesso, in cercadi una ragione e di una risposta. Pertanto, non sarà mai nédato né ottenuto per sempre. Insorgerà così un nuovo rap­ porto, un nuovo modo di mettersi in relazione con ciò che è dotato di senso: il senso potrà manifestarsi solo nell’attività che ha origine dall’insufficienza di senso e spinge alla ricer­ ca, come passaggio obbligato della problematicità, come epi­ faniaindiretta. Se non andiamo errati, questo ritrovare il sen­ sotifila ricerca di esso che ha origine dalla sua assenza, ricer­ caintesa come nuovo progetto della vita, coincide con il senso dell’esistenza di Socrate. Il continuo sconvolgimento della co­ scienza ingenua del senso è un nuovo modo in cui si dà il sen­ sostesso, è la scoperta della sua connessione con l’enigmaticità propria dell’essere e degli enti nella loro totalità.

’ Cfr. m. heidegger, Vom Wesen der Wahrheit, in id., Gesamtausgabe, KUlermann, Frankfurt am Main 19 8 8 , voi. X X X I V , pp. 18 8 sgg. [cfr. trad, it: Deliessenza della verità, in M. h eidegger, Segnavia, a cura e trad, it di F. v'Jpi, Addphi, Milano 19 8 7 , pp. 1 3 3 -5 7 ] . Cfr. inoltre m. heidegger, Was ntMetaphyùk? iniD., Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt am Main 1976, IX, p. 114 [cfr. trad. it. Che cos’è metafisica?, in M. heidegger, Segnavia ■ir ,pj>. 59-77] fiV.rf.CJ.

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Non è solo la vita individuale che, se attraversa l’espe­ rienza della perdita del senso e deduce su questa base la possibilità e la necessità di un rapporto completamente nuo­ vo col tutto, matura una sua generale «conversione»: è pos­ sibile infatti che la vera sostanza della cesura che cerchia­ mo di stabilire come linea divisoria tra l’epoca pre-istorica e la storia vera e propria si trovi proprio in quello sconvol­ gimento dell’ingenua certezza del senso che domina la vi­ ta dell’umanità fino a quella specifica trasformazione che è costituita dall’emergere quasi contemporaneo - e in sen­ so più profondo, realmente unitario - della politica e della filosofia. L’umanità pre-istorica, d’altronde, non è certo partico­ larmente esigente nel determinare ciò che ha un senso. Al contrario, essa è molto modesta nella valutazione dell’uo­ mo e della vita umana, tuttavia il mondo le appare giusti­ ficato e in qualche modo ordinato, senza che l’esperienza della morte, delle catastrofi naturali e sociali riesca a scuo­ tere la sua ingenua fede. Perché il mondo abbia un senso, le basta che gli dèi si siano riservati per sé quel che c’è di me­ glio: l’eternità nel senso dell’immortalità. Il valore dell’u­ niverso non è compromesso per il fatto che in esso esista­ no la morte, il dolore e la sofferenza, cosi come non torna a suo detrimento il fatto che muoiano gli animali e le pian­ te e che tutto sia sottomesso al ritmo della nascita e della morte. Ciò non esclude che, in situazioni estreme, si ceda al panico di fronte alla morte, quando l’uomo, al cospetto di un amico morto, si rende conto che lo attende lo stesso destino. Tuttavia, la ricerca di un senso diverso - per esem­ pio, della vita eterna - è una faccenda che può riguardare soltanto un semidio e non è una faccenda umana, in senso proprio. L’uomo - l’uomo reale - torna da una tale avven­ tura al suo ambiente umano, alla moglie e al figlio, sotto il suo pergolato e accanto al suo camino, al ritmo meschino della sua vita inserita nel flusso generale dove dominano e decidono esseri e potenze completamente diversi. Il com­ pito dell’uomo è procurarsi la vita per sé e per i suoi cari, è ciò che gli vien suggerito dal suo esser legato a questa con­ tinua conservazione della vita, è quella modestia che gli in­ segna a rassegnarsi a essere al servizio della vita, sottopo­

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sto alla fatica di un lavoro che non ha mai fine. A questo prezzo l’uomo può vivere riconciliato col mondo e non con­ siderare la propria vita come insensata, ma soltanto come eccentrica rispetto a ciò che di essa decide, e pertanto na­ turalmente dotata di senso come la vita dei fiori nei campi e degli animali nel bosco. Se non fosse ravvivato da questi ultimi e abitato dagli uomini, il mondo per gli esseri che vi­ vono nel cosmo sarebbe povero e privo di gioia. E cosi che si esprimono gli dèi stessi, terrorizzati dal risultato della catastrofe provocata dal diluvio. La storia \bistorié\ si distingue dall’umanità pre-istorica per lo sconvolgimento di questo senso accettato. E una do­ manda malposta chiedersi cosa abbia determinato questo sconvolgimento; una domanda altrettanto inutile come quella di chi si chiedesse che cosa fa si che l’uomo esca dal­ la sicurezza dell’infanzia verso la posizione autoresponsa­ bile dell’età matura. L’uomo dell’età pre-istorica indietreg­ gia verso l’accettazione della conciliazione con l’universo in base a un richiudersi in se stesso, cosi come testimonia, tra l’altro, Gilgamesh che, davanti alla morte dell’amico, ha paura e si comporta proprio come un adolescente che si ritrae al riparo dell’infantilismo. L’eventualità dello scon­ volgimento della fede ingenua nel senso della vita lo minac­ cia continuamente, ma viene respinta. Egli dà la preferen­ za aun proprio modesto inserimento nell’universo, cui cor­ risponde anche la sua esistenza sociale in una collettività che non si distingue dall’universo stesso e dalle forze che lo determinano. Ciò - o meglio, colui - che è a capo del­ l’impero degli uomini è di natura divina, e gli uomini veri e propri sono destinati al suo servizio, per poi ricevere da lui, 0 per mezzo di lui, quello di cui hanno bisogno, sia dal punto di vista materiale sia da quello della sensatezza. Non esiste nessun settore dell’ente che sia specificamente uma­ no, che sia riservato all’uomo e al suo tentativo di rispon­ dere di se stesso, né tanto meno possono esserlo gli imperi umani. Laddove gli uomini tentano di creare questo setto­ re specifico, la modestia del senso accettato, che caratte­ rizza l’umanità precedente, non è più in grado di resistere. Per il fatto stesso che accetta una responsabilità a nome suo e degli altri, l’uomo pone implicitamente la questione del

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senso in un modo nuovo e diverso. Egli non si accontenta più del legame della vita con se stessa, né del compito di mantenersi in vita come contenuto quotidiano della vita stessa, né del lavoro col sudore della fronte come suo de­ stino vitale, il cui senso è l’episodicità e la sottomissione. Il primo sconvolgimento impresso al senso ingenuamente accettato non è dunque una caduta nel nonsenso, ma al con­ trario la scoperta della possibilità di raggiungere un senso più libero e più ambizioso. Con tutto ciò si trova in con­ nessione quello stupore di fronte all’ente nel suo comples­ so, di fronte alla prodigiosa stranezza del fatto che l’uni­ verso sia, in cui, secondo gli antichi filosofi, stanno pro­ priamente il pathos e l'origine della filosofia. Gli uomini, che ormai non si attengono più alla modestia di un’accet­ tazione puramente passiva di un senso della vita, non pos­ sono più accontentarsi del compito che da tale senso viene loro assegnato. Si aprono cosi a quella nuova possibilità di rapporto con l’essere e con il senso die rifiuta l’identifica­ zione con una risposta già pronta e già accettata, per porsi invece come domanda. Questa domanda è la filosofia. Ma l’interrogarsi presuppone già l’esperienza dell’enigmaticità e della problematicità, ed è appunto quest’esperienza - a cui l’umanità pre-istorica si sottrae rifugiandosi nel mito (foss’anche il più profondo e gravido di verità) - che ora si scatena sotto l’aspetto della filosofia. Così come nell’azio­ ne politica l’uomo si espone alia sua propria problematicità, per il fatto che i risultati della sua azione sono imprevedi­ bili e ogni sua iniziativa va immediatamente a finire in ma­ ni estranee, allo stesso modo nella filosofia l’uomo si espo­ ne alla problematicità dell’essere e del senso degli enti. Pertanto, nell’epoca storica, l’umanità non si sottrae più alla problematicità, ma la sfida direttamente e si ripromet­ te da essa l’accesso a una maggiore profondità di senso del­ la vita rispetto a quello che era accessibile all’umanità pre­ istorica. Nella collettività della polis, nella vita dedicata al­ la collettività stessa, vale a dire nella vita politica, si crea lo spazio per un senso autonomo e puramente umano. E il senso del reciproco riconoscimento nell’azione, che ha un significato per tutti coloro che vi prendono parte e non si limita alla semplice conservazione della vita materiale, ben-

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sf è fonte di una vita che oltrepassa se stessa nel ricordo delle gesta compiute, ricordo che è appunto garantito dal­ lacomunità. E una vita sotto molti aspetti più pericolosa e pili rischiosa rispetto a quella limitata al solo aspetto vege­ tativo, cui era abituata l’umanità pre-istorica. Del pari, è piùrischioso quell'esplicito interrogarsi, che è la ricerca fi­ losofica, rispetto a quel misterioso enigma, che è il mito. E più rischioso in quanto, proprio come l’azione è iniziativa che rinuncia a sé nel momento in cui è esplicitamente col­ ta, cosi quella si consegna all’interminabile confronto tra opinioni opposte, le quali conducono le originarie intuizio­ ni dei pensatori verso ciò che non si può né intuire né pre­ vedere. E più rischioso, perché trascina tutta la vita, sia in­ dividuale che sociale, nella sfera del mutamento di senso, zona dove la vita deve necessariamente mutare le sue strut­ ture, dal momento che ne è mutato il senso. La storia si­ gnifica questo, e nient’altro. La filosofia non ha certo scosso quel senso modesto e li­ mitato che sta alla base del meschino ritmo vitale, prigio­ niero dell’angusto orizzonte della vita materiale e dei pro­ pri limitati interessi, al solo scopo di impoverire l’uomo, bensì al contrario l’ha fatto per arricchirlo. L’uomo dove­ va liberarsi del senso accettato ingenuamente per sollevar­ si fino a ciò che aveva dato fino a quel momento senso a tutto l’universo, a lui stesso e a tutti gli altri elementi su­ bordinati, come le piante e gli animali, e che aveva deciso del senso delle cose perché imperituro e quindi divino. La filosofia ha offerto un nuovo aspetto di ciò che è imperitu­ ro: non la permanenza, l’immortalità e la perpetuità pro­ prie degli dèi, bensì l’eternità. L’eternità le si è presentata inizialmente sotto l’aspetto di ciò da cui ha origine la na­ scita e la morte di tutto ciò che esiste, il suo manifestarsi, il suo sorgere e il suo scomparire, il suo perdersi nel buio: sotto l’aspetto della qpvoig. Alla notte della q>voic; appartie­ ne l’alba del cosmo, dell’ordine che regna tra le cose, ele­ mento che non limita ma pone in evidenza il mistero del­ l’essere e degli enti. Ma come alla vita della libera polis era destinato solo un breve lasso di tempo, in cui espandersi nella sua libera audacia rivolta senza timore verso l’ignoto, allo stesso modo anche la filosofia, conscia del proprio col­

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legamento col problema della polis e intuendo già nel suo sorgere il pericolo e la fine che la minacciavano, nello sfor­ zo di creare un senso nuovo e definitivo è indotta a vede­ re nell’oscurità sole un’insufficienza di luce e nella notte un indebolimento del giorno. E indotta cioè - nello splen­ dore accecante della certezza definitiva offerta dalle teorie che si succedono - a presentarsi come una visione degli en­ ti che ne esaurisce il senso in una nuova e definitiva forma. Nel momento in cui la perdita della polis è già decisa, la fi­ losofia si trasforma in quello che sarà ormai il suo aspetto per millenni: si trasforma in metafisica con Platone e De­ mocrito. Essa diviene però una metafisica dal duplice aspet­ to che procede dall’alto e dal basso: una metafisica del lo­ gos e dell’idea da una parte e una metafisica delle cose nel­ la loro mera concretezza dall’altra, entrambe con la pretesa di una chiarezza definitiva e di una spiegazione ultima del­ le cose; entrambe fondate su quel modello di chiarezza che è rappresentato dalla scoperta della matematica, ossia di quel germe della futura trasformazione della filosofia in una scienza. In connessione con questo motivo matematico, secondo il quale la verità può essere colta una volta per tutte, esat­ tamente, da chiunque e in qualunque circostanza, sta quel motivo del pensiero metafisico di Platone che si chiama Xtogionóg, separazione, abisso che si apre tra il mondo au­ tentico, accessibile al preciso e rigoroso sguardo della ra­ gione e quel mondo impreciso che si manifesta sotto forma d’impressione e che è, a rigore, inafferrabile, ossia il mon­ do che costituisce la nostra esperienza giornaliera e l’am­ biente che ci circonda. Questa idea, a prima vista così stra­ na e bizzarra, che proclama come verità autentica ciò di cui il sano buonsenso della schiacciante maggioranza degli uo­ mini non sa nulla, è in realtà uno dei motivi filosofici che hanno avuto storicamente la massima importanza. Senza di esso per noi, oggi, non esisterebbero non solo delle di­ scipline alquanto dubbie, come la teologia, ma anche tutta la scienza moderna e in particolare la scienza naturale ma­ tematica e tutte le applicazioni di così vasta portata che su di essa si fondano. Si può addirittura affermare che Plato­ ne sopravanza Democrito e gli è superiore proprio per que­

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sto concetto. Nonostante ogni apparenza contraria, infat­ ti, la scienza moderna segue piuttosto Platone che non De­ mocrito. Nell’evoluzione storica, tuttavia, un significato di pri­ mo piano spetta proprio a questa dualità della metafisica che è rappresentata dal binomio Platone-Democrito. Esso significa che la metafisica non ha un solo aspetto, ma due già al suo sorgere, e a questi due se ne aggiunge ben presto un altro fondamentalmente diverso: quello rappresentato da Aristotele. Se dunque la filosofia nel suo aspetto meta­ fisico si scrolla di dosso quel mistero che era stato il punto di partenza della meraviglia che le aveva dato origine, es­ so però la sorprende di nuovo sotto l’aspetto dell’enigma contenuto nella pluralità dei concetti metafisici e delle vi­ sioni fondamentalmente diverse della natura dell’ente co­ me tale. La stretta connessione esistente tra la filosofia metafisi­ ca e la politica è dimostrata inoltre dal fatto che la dottri­ na di Platone si pone come suo compito primario l’edifica­ zione di una comunità statale, in cui i filosofi - cioè colo­ ro che si propongono di vivere sulla base della verità possono vivere nel suo seno, invece di entrare con essa in un conflitto che potrebbe essere mortale tanto per loro quanto per la comunità. In seguito Aristotele sarà il primo a dare una fondazione intellettuale della politica sulla ba­ se della polis, ma rimarrà merito di Platone il fatto che anche laddove questa base sarà eliminata dal contesto so­ ciale occidentale, come accadrà nell’ellenismo e nel muta­ mento della cìvitas romana in principato - lo Stato rimarrà qualcosa di rigorosamente diviso per mezzo di un’alta bar­ riera dal resto del mondo, poiché continuerà ad appartene­ re al mondo «autentico», vi sarà connesso e da esso deri­ verà la ratifica delle sue istituzioni e dei suoi atti. Che la filosofia non sia in grado di dare all’uomo un più alto senso vitale, assolutamente positivo, intatto, immedia­ tamente comprensibile ed esente da tutta quella enigmati­ cità determinata dallo sconvolgimento del modesto senso primitivo; che la metafisica conduca all’incertezza invece che alla piena affermazione promessa o almeno sperata, è un’esperienza che si afferma con gran forza proprio nel pe­

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riodo in cui l’uomo, privato del senso pratico della sua esi­ stenza nella polis, si rivolge verso il proprio intimo per tro­ varvi ciò che la vita nella comunità - e quindi anche nel co­ smo di cui la polis è parte e immagine - gli ha ormai nega­ to. Tra l’uomo e il cosmo si eleva cosi un margine di sfiducia che mina anche la filosofia, intesa quale organo che confe­ risce il senso. Il significato dell’esperienza cristiana nella storia si viene quindi a configurare nel modo seguente: ciò che la ricerca filosofica, con tutta la sua esigenza di una salda £7110X111111, negata dallo scetticismo, non è in grado di garantire, e ciò di cui l’uomo non è capace, nonostante tut­ ti i suoi sforzi, è facile per Dio, e la fede, cioè la parola divina a cui l’uomo risponde, respinge il rapporto con il cosmo in una posizione di secondo piano e in definitiva irrilevante. La teologia cristiana non è minimamente scandalizzata dal fatto che l’interpretazione della parola di Dio rivolta all’uomo venga effettuata nella sfera di quel xwQiofAÓg trascendente che era stato creato a tutt’ al­ tro scopo dalla metafisica platonica. La trascendenza di Dio, che indubbiamente non trova nessun fondamento nel patrimonio ideale di Israele, è un’eredità del «mon­ do autentico» un tempo creato da Platone e quindi tra­ sformato da Aristotele. La fede cristiana è il senso non cercato dall’uomo, e non da lui autonomamente trovato, ma dettato dall’altro mondo. Pertanto ad esso appartie­ ne sostanzialmente qualcosa che, in questa forma, non si presenta nella vita greca, vale a dire la coscienza della li­ mitatezza dell’uomo, che è di per se stesso incapace di creare e di darsi un senso. E questo un atteggiamento co­ mune ria alla posizione cristiana che all’antico scettici­ smo, ma nella prima si afferma in maniera più radicale e allo stesso tempo senza quella rassegnazione che caratte­ rizza lo scetticismo. Il cristiano, posto di fronte alla mi­ seria umana, non rinuncia al senso, al senso assoluto e to­ tale, ma lo afferma tanto più energicamente quanto più eloquentemente è rappresentata quella miseria. Su questa base, in cui il problema del senso viene risol­ to positivamente mediante l’espulsione della filosofia e la confutazione dello scetticismo a opera della parola prove­ niente dal mondo «autentico», altrimenti inattingibile, sor­

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gono in seguito una nuova società e un nuovo rapporto co­ noscitivo con l’universo di ciò che è. Una nuova comunità che non è più opera meramente umana, ma alla quale gli uomini prendono liberamente parte: una comunità che non è più solo tra uomini che, in forza del reciproco riconosci­ mento, si garantiscono la permanenza spirituale nella me­ moria della gloria, ma una comunità con Dio, che costitui­ sce la loro memoria eterna e la garanzia della loro essenza spirituale. Una comunità in cui gli uomini, nonostante la gerarchia, sono uguali al cospetto dell’ultima e «autentica» realtà, e in cui sono autenticamente partecipi di un senso che essi non hanno creato, ma che devono contribuire ad attuare. Questo concetto di una nuova comunità è naturalmen­ tepieno di potenzialità di attuazione storica. Nel suo aspet­ to più antico esso costituisce una soluzione del dilemma morale dell’Impero romano, la cui esistenza - la vita che in esso si svolge e gli obblighi che si hanno nei suoi confron­ ti - esige una sanzione più alta, anzi assoluta. Il modo di soluzione costantiniano, secondo il quale la società monda­ nae quella spirituale vengono a coincidere, come anche l’i­ dea cfi Cicerone, secondo il quale il migliore degli stati, lo stato dell’«essere autentico», e la res publica romana sono la stessa cosa (che qui raggiunge una monumentale attua­ zione su una nuova base dogmatica e sul piano del volon­ tarismo romano), sono soltanto una di quelle potenzialità, tale tuttavia da conservare efficacia, nelle sue conseguen­ ze, ancor oggi, sia pure in forma «secolarizzata». Neppure l’Islam è privo di rapporto con il concetto della comunità sacra dell’essere autentico, almeno nella mente di certi suoi rappresentanti filosofici che cercano di porre l’idea della profezia e la sua relazione con il regno della legge araba in rapporto con la dottrina platonica del filosofo-statista (alFàràbl, Avicenna). Tuttavia il diffondersi più significativo e più ricco di conseguenze di una tale tematica è quello a cui assistiamo nell’ambito del medioevo occidentale, dove essa costituisce il problema specifico intorno al quale si di­ spiegano gli sforzi sia di coloro che operano sul piano spi­ rituale sia di coloro che operano sul terreno politico e sto­ rico. Qui però il quadro reale di una vita dotata di senso

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non è più immediatamente dato, come lo erano lo st?to mondiale per un romano del tardo Impero o il regno della legge araba per un musulmano. Il rapporto tra la comunità terrena e quella autentica viene risolto variamente nel cor­ so dei secoli, su una base di fede che rimane costante, an­ che se con diverse concezioni del rapporto della fede con le altre forze e aspetti naturali dell’uomo. A questo punto è necessario comprendere il nuovo po­ sto e il nuovo significato che spettano alla metafisica nel si­ stema della fede e del dogma cristiano. Se da una parte è vero che essa ha cessato di essere il luogo dove si cerca il senso dell’universo e dove si pensa di trovarlo in modo au­ tonomo, è anche altrettanto vero che la considerazione me­ tafisica e l'interrogarsi metafisico pensano che nel campo evidenziato dalla fede e da essa garantito sia possibile rag­ giungere in certa misura una comprensione di ciò che la fe­ de ci apporta. La conoscenza razionale può cosi raggiunge­ re dei fini trascendenti senza timore di smarrirsi, e d’altra parte ci si può abbandonare a tutte le arditezze speculati­ ve senza paura che la ricerca ci conduca ai confini dello scet­ ticismo, dove è in agguato l’insensatezza. Pertanto la ra­ gione, quale naturale organo per la comprensione della ve­ rità, ha da un lato perduto il suo posto di primo piano nella vita, ma dall’altro ha guadagnato un saldo terreno sotto i piedi e, con ciò, sicurezza e coraggio. Sotto l’influenza della concezione antica, l’universo me­ dievale è finito nello spazio, ma tende all’infinità spaziale; invece è essenzialmente finito nel tempo, e il suo tempo è derivato dalla storia della salvezza, storia che appartiene sostanzialmente alla concezione del suo senso della vita e della storia, racchiuso tra creazione, caduta, salvezza e giu­ dizio dell’uomo. A questo concetto cristiano del senso della storia e del­ l’universo l’umanità europea si è talmente abituata da non esser capace di rinunciare a certe sue essenziali caratteri­ stiche, anche quando per essa hanno cessato di aver signi­ ficato i fondamentali concetti cristiani di un Dio creatore, salvatore e giudice. Essa ha perciò continuato a cercare il senso della vita in una concezione cristiana secolarizzata, dove l’uomo e l’umanità subentrano al posto di Dio, e co-

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s( via. Karl Lowith6, che ha messo in evidenza con tanta forza il fatto che il cosmo antico è stato sostituito quale sor­ gente di senso nell’era cristiana dal ravvicinamento tra Dio e l’uomo, vede in questo voler porre ogni senso nella sto­ ria, anche nell’epoca moderna, una delle sorgenti della di­ sperazione contemporanea di riuscire a trovare un senso. Infatti, se la storia è il luogo da cui emerge il senso della vi­ ta, appoggiarsi ad essa è come aggrapparsi a un fuscello in un naufragio. Un’altra sorgente cristiana del nichilismo consiste, se­ condo lo stesso autore, nel rapporto con la natura intesa quale sfera d’oggetti che sono messi a disposizione dell’uo­ moperché li domini e li governi. Questa idea, che origina­ riamente stava a indicare la cura degli oggetti affidati al­ l’uomo, diventa nell’epoca moderna la dottrina del domi­ nio e dello sfruttamento dei tesori della natura, senza il minimo riguardo non solo per la natura stessa, ma neppu­ re per l’umanità futura. La cosa più importante è tuttavia il fatto che per il cri­ stiano la natura non è necessariamente quel concreto in cui egli è immerso e a cui appartiene come uno degli essenzia­ li luoghi di manifestazione della sua forza misteriosa, ma unoggetto di sfruttamento e di costruzione, perlomeno dal­ l’epoca del nominalismo. La natura non ci è data in forma palese e patente, ma ci è lontana ed estranea e a noi tocca dedurla e ottenerla mettendo a frutto gli strumenti della nostra intelligenza. Il luogo autentico del senso e dell’esse­ re è Dio nel suo rapporto con l’anima umana; la natura è invece il luogo della considerazione fredda e astratta. Per­ tanto, nel problema della natura l’uomo moderno non si ri­ collega all’antichità e tanto meno all’antichità greca col suo concetto estetico della geometria, ma al modo cristiano di considerarla a distanza con fredda diffidenza. Nell’ultima fase della concezione cristiana della natura, l’intima rela­ zione ddl’anima umana con Dio è intesa come garanzia di­ vina di ciò che sta ora diventando, o meglio, è già diventa­ 4 Cfr. K. urìwrrn, Meaning in History, University of Chicago Press, Chi­ cco 1949 [trad. it. di F. Tedeschi Negri, Significato e fine della storia, Conilir*iu, Milano 1963] [N . é/.C ./J.



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to, l’interesse principale e più attuale delle personalità do­ minanti di questo periodo: garanzia dell’esistenza stessa della natura e di concezioni di essa matematicamente evi­ denti, cioè di quelle concezioni che ci permettono tanto di osservarla quanto di calcolarla. La natura come tale, come insieme di oggetti autonomi, cessa ormai di interessare, ces­ sa di essere un oggetto di considerazione filosofica, per di­ ventare qualcosa di formale: l’oggetto della scienza natu­ rale matematica. Nella scienza naturale matematica la natura non è ciò che si mostra di per se stesso, non è un fenomeno, ma è un oggetto di costruzioni e di esperimenti che ci danno la na­ tura nel quadro di anticipazioni esattamente definite, le quali non possono venir realizzate come tali, ma rendono possibile sottoporla al calcolo. In nessun luogo, in natura, è possibile constatare un movimento che si mantenga co­ stante e uniforme nel senso stretto della parola, eppure il principio della permanenza di un corpo in moto costante è valido in natura, e senza tale principio non è pensabile tut­ ta la cinematica. Di qui poi, grazie allo straordinario, anzi addirittura miracoloso successo dei metodi matematici del­ la fisica e delle scienze naturali in genere, ha origine una nuova considerazione, sobria e ardita allo stesso tempo, del­ l’insieme del reale, considerazione che non riconosce nes­ sun altro ente se non quello a cui siamo giunti mediante la ricostruzione matematica del mondo sensibile in cui ci muo­ viamo naturalmente. Cosi, in seno alla società dell’Europa occidentale, educata dal cristianesimo, e non senza il con­ tributo della nozione cristiana di senso, è sorta una conce­ zione del reale che non solo si è a poco a poco distaccata dalla sorgente stessa del senso cristiano dell’essere e dai concetti di Dio, creazione, caduta e salvezza, ma che è an­ che giunta gradualmente a un completo divorzio tra la realtà e il senso. Infatti la realtà nel senso proprio della pa­ rola, cioè la realtà del sapere efficace, è vuota e priva di senso. La scienza naturale matematica, grazie alla sua applica­ bilità e alla sua effettiva applicazione ai più vari campi del­ la vita, è diventata una componente indispensabile della realtà dell’umanità attuale, una realtà senza la quale non

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siamo capaci di vivere. Ma se non si può vivere senza di es­ sa, vivere in senso fisico, non per questo è ancora detto che siamo capaci di vivere con essa e sulla base esclusiva di es­ sa. Infatti, se ha ragione Weischedel quando avanza la te­ si che con la coscienza di un’assoluta mancanza di senso non è letteralmente possibile la nostra vita fisica, se d’al­ traparte la scienza naturale matematica, del tipo che si vie­ ne formando da trecento anni in qua, fin dal sorgere del meccanicismo moderno, diventa tuttora la norma di vita per un numero sempre crescente di nostri contemporanei, è chiaro che, nonostante la continua crescita di mezzi per la vita, la nostra stessa vita è non solo vuota, ma anche ab­ bandonata alla mercé di forze devastatrici. Nella sua grande opera sulla crisi delle scienze europee, Husserl ha mostrato come la stessa matematica dell’uomo moderno, con il suo carattere formale e il suo mero concen­ trarsi sulla forma e la struttura, evidenzi che non è stato indagato in modo sufficientemente chiaro il metodo della sua applicazione concreta alle scienze naturali, e quindi che essa conduce inevitabilmente alla dissoluzione di ogni con­ creta possibilità d’intuizione, nel vuoto fumo delle formu­ le. Cosi la scienza naturale risulta nichilismo della natura sediventa una mera scienza fattologica di fatti incompren­ sibili, anche se facilmente manipolabili. Tale scienza non è in grado di giustificare se stessa come attività fornita di senso, e quindi deve inevitabilmente ricavare il proprio sen­ so da qualche altra parte, dall’esterno, dalla «domanda so­ ciale», che può essere, com’è noto, a dir poco dubbia rela­ tivamente al senso, se non addirittura una testimonianza di quel nichilismo di cui è essa stessa una manifestazione, in quanto dominante in quella società che l’ha avanzata. La scienza naturale matematica, come disciplina e come modello per ogni scientificizzazione, è - o è stata fino a non molto tempo fa - uno dei principali baluardi del nichi­ lismo moderno. Husserl ne ha illustrato piuttosto l’aspet­ to negativo, cioè il modo in cui essa dissolve la realtà natu­ rale; ma bisogna tener conto anche della straordinaria ef­ ficacia di questa tecno-scienza, che sembra quasi astratta dalla realtà e scorge in essa solo una riserva di attività e di forze manipolabili a piacere. Questa rete di forze, questa

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con-cezione, non si arresta neppure davanti all’uomo che viene a svolgere in essa la funzione di un accumulatore o di un relais. Pertanto la società presenta quello stesso qua­ dro di mobilitazione e accumulazione di forze che si scari­ cano in seguito a gigantesche conflagrazioni, le quali a lo­ ro volta creano costellazioni di forze sempre più ampie, o addirittura universali, planetarie. I rappresentanti del mondo scientifico s’indignano spes­ so contro l’«abuso della scienza» dei nostri tempi. Ma in realtà la scienza che ha perduto il suo senso intrinseco non può reclamare qualcosa di cui si è privata da sé: ai suoi stes­ si occhi e misurato con i suoi stessi criteri, questo «abuso», che in realtà è una dotazione di senso relativa e quindi in­ sensata, è qualcosa di legittimo. Nella nostra epoca non solo il singolo, ma la società nel suo complesso si difende contro l’insensatezza ricorrendo a derivati dell’antico senso cristiano, come le nostre filoso­ fie della storia, per lo più nate già morte, o come la religio­ ne dell’umanità di Comte o il panteismo animistico di Durkheim. In altri casi il senso viene imposto con la vio­ lenza o a dispetto di tutto, perfino là dove, ex datis, non può esistere, come nel marxismo. Non nel marxismo in sen­ so dottrinario, come scienza sociale critica, ma come dot­ trina «sacra» delle società nuove, ristrutturate e aggressi­ ve, che sfruttano il corrosivo scetticismo che mina le so­ cietà antiche. Fondato dottrinalmente sul materialismo di Feuerbach, il marxismo condivide con esso il doppio sen­ so di questo concetto: o intendere la «materia» nel senso della scienza moderna, quindi come qualcosa di essenzial­ mente vuoto e privo di senso, concezione cui corrisponde­ rebbe la distinzione marxista del reale in una base materiale realmente determinante e in ideologie derivate e seconda­ rie, creatrici solo d’incoerenza, oppure intenderla secondo il modello del vecchio ilozoismo. Ciò significherebbe pe­ raltro non un metodo costruttivamente dialettico, ma una fede nei fenomeni come tali e quindi un indirizzo filosofico-scientifico, un atteggiamento e un approccio al mondo totalmente diversi. In realtà, viene qui inconsciamente pra­ ticato quel controsenso nietzscheano che consiste nella se­ guente formula: se non c’è un senso, allora bisogna crear-

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lo «organizzando quella parte del mondo che ci è accessi­ bile»7. Controsenso che viene chiaramente mostrato come tale dalle considerazioni di Weischedel sui gradi della sensa­ tezza: ogni senso particolare, afferma infatti, se dev’essere unvero senso, presuppone quello totale e assoluto, ma un sen­ sorelativo e parziale non può mai dare senso al tutto, poiché unsenso particolare può trovarsi in accordo o essere addirit­ tura un prodotto del nonsenso, mentre solo il senso totale puòimpedire che ogni singolo fenomeno svanisca nell’insen­ satezza. Forse la più spaventosa esperienza di insensatezza è quella che ci offre la visione del fallimento dei regimi par­ ziali di senso o delle catastrofi di società e mondi spirituali costruiti nel corso delle generazioni. E se è giusta quell’altra intuizione di Weischedel, di cui più sopra abbiamo svelato la sorgente fenomenica nell’apparente antinomia tra la vita el’essere - e cioè che l’azione e la vita sono impossibili sen­ za la coscienza del senso8- ebbene allora possiamo spiegar­ ci perché, nonostante tutta la crescente accumulazione di forze e di mezzi, la vita ci conduce verso le catastrofi di una conflagrazione o di una capitolazione, che, per quanto si ri­ ferisce al problema del senso, sono la stessa cosa. E in ciò è contenuta anche la spiegazione del perché, proprio nella no­ straepoca planetaria, nell’epoca in cui l’Europa, per sua pro­ pria necessità storica e per il suo impantanarsi nell’insensa­ tezza, sta uscendo dal centro della storia, l’anonimato del ni­ chilismo deve dominare e soffocare ogni speranza tuttora convulsamente coltivata nonché ogni filosofia. Nella sua polarizzazione, il mondo attuale può talvolta apparire come il campo di battaglia di un duplice nichili­ smo, inteso in senso nietzscheano, come campo di lotta tra un nichilismo attivo e uno passivo: il nichilismo di coloro che sono paralizzati dai resti incoerenti del senso del pas­ satoe quello di coloro che attuano senza inibizioni una tra1

v. nietzsciie, Nachgelasscne Fragmente 1 8 8 5 -18 8 7 , in m .,Sàmtliche Werke (KrttncheStudienausgabe) eit., voi. X II, p. 366 [trad. it. di S. Giametta, Fram­ menti postumi 18 8 7 -18 8 8 , in Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano iV71 \ voi. V ili, tomo 2, p. 27] [N.d.C.]. [Si aderisce qui alla formulazione proposta da Patocka, che pure non trova riscontro letterale nella traduzione naliana indicata N .d .T .]. , Cfr. 5upra, pp. 64-65 [N .d.C .i.],

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svalutazione di tutti i valori, dal punto di vista della forza e del potere. Al tempo stesso, le filosofie oggi dominanti, Tuna pubblica e l’altra segreta, concepiscono l’uomo nei suoi interessi essenziali come organismo biologico, come parte del mondo materiale, non intendendolo però secon­ do il modo in cui viviamo corporeamente, ma secondo quel­ lo in cui ci vede uno sguardo privo di senso, che coincide sostanzialmente con quello della teoria delle scienze natu­ rali: come un organismo che si mantiene in vita grazie allo scambio metabolico con l’ambiente e che si riproduce. In tal modo sembra che tutto il movimento storico, con tut­ ti i suoi slanci per raggiungere un senso assoluto nella po­ litica, nella filosofia di carattere metafisico, in una religio­ ne tanto profonda quanto il cristianesimo, abbia finito per sboccare proprio laddove aveva preso inizio, cioè nella di­ pendenza della vita dalla propria autoconservazione e dal lavoro come mezzo fondamentale di tale conservazione. A proposito di tale dipendenza ci siamo sforzati di dimostra­ re che la soddisfazione trovata nel suo ambito è proprio ciò che distingue l’uomo dell’età pre-istorica rispetto alla storia vera e propria. Saremmo qui di fronte al paradosso di una storia che finisce per sfociare nella pre-istoria, e con ciò si accorderebbe perfettamente quella particolare circo­ stanza per cui i popoli e le civiltà che hanno continuato a vivere per millenni in una situazione pre-istorica (come la Cina), entrando oggi nella storia, possono agevolmente ri­ collegarsi a certi elementi della loro vita pre-istorica - pur con delle correzioni - e da essa attingere la parte forse essenziale dell’energia con cui scendono nell’arena della storia. Ma le cose non stanno così. La pre-istoria non è carat­ terizzata dalla mancanza di senso, non è nichilistica come l’epoca in cui viviamo. La pre-istoria è un senso modesto, ma non relativo. È un senso eccentrico rispetto all’uomo, un senso che si riferisce primariamente ad altri esseri e ad altre potenze. Nell’ambito di questo senso modesto, l’uo­ mo può vivere umanamente e allo stesso tempo compren­ dersi, come un fiore o un animale selvatico. Può vivere riconciliato con ciò che esiste e non in una lotta devasta­ trice con esso, capace di sacrificare possibilità di vita pre­

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servate per miriadi di millenni a ciò che di più banale e as­ surdo si manifesta nell’esistenza umana. Sembra cosi che la nostra meditazione si perda nel più disperato pessimismo. Sembra che a trarre vantaggio da tutti i fenomeni citati sia l’insensatezza, quale risultato ul­ timo degli sforzi umani per raggiungere la verità, cioè un senso autentico. Il nichilismo «dogmatico» sembra essere l’ultima parola dell’umana saggezza, che pertanto sembra coincidere con le idee dell’odierno signor Homais’. Ma il nichilismo si dimostra davvero dogmatico non ap­ pena afferma l’insensatezza come fatto ultimo e indubita­ bile e non appena il suo dubbio nei confronti di un senso dogmaticamente affermato non implica parimenti una even­ tuale scepsi nei confronti dello stesso scetticismo. In tal modo il nichilismo dogmatico non è altro che il correlato delle tesi che affermano dogmaticamente il senso, quelle tesi che la metafisica e la corrispondente teologia dogmati­ ca, tanto peggio se «rivelata», si sono assunte il compito di difendere. In questa prospettiva la storia non sarebbe più una gra­ duale rivelazione dell’insensatezza dell’universo, o almeno non lo sarebbe necessariamente, ed esisterebbe forse per l’umanità una possibilità di realizzare un’esistenza dotata di senso, a condizione che avvenga una gigantesca conver­ sione, un inaudito u e t u v o k l v . L’uomo non può vivere senza il senso e in particolare senza un senso totale e assoluto. Ciò significa che non può vivere nella certezza dell’insensatezza. Ma significa forse che non può vivere nemmeno con un senso continuamen­ te cercato e problematico ? O non significa che un senso autentico, non limitato ma anche non dogmatico, compor­ ta il vivere in un’atmosfera di irriducibile problematicità? Forse questo Socrate lo sapeva. E forse proprio per questo la definizione che oggi viene data di lui da un pensatore contemporaneo, come il filosofo più autentico, anche se * Si tratta del personaggio del farmacista di Yonville nel romanzo Madame Bovary di Flaubert. Malgrado tale personaggio sia l’incarnazione di tutti i va­ lori borghesi detestati dall’autore, a lui è tuttavia riservata l’ultima frase del romanzo [N.d.T.].

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non forse il più grande, è così profondamente giusta. E quando Lessing, ponendosi l’alternativa tra «possedere la verità» e «cercare la verità», dava la preferenza a questa seconda soluzione, non aveva forse in mente la stessa co­ sa? La situazione assume un aspetto particolare quando ci rendiamo chiaramente conto - insieme con Weischedel e, prima ancora, insieme con i suoi maestri - che la domanda e la problematizzazione non sono soltanto degli atti e de­ gli atteggiamenti soggettivi, ma presuppongono anche la problematicità come qualcosa di ulteriore e di generale, co­ me una situazione oggettiva. Insomma, non v’è forse nel cuore stesso del reale qualcosa di segreto e di misterioso ? Si tratta necessariamente di qualcosa di soggettivo e di pri­ vato ? Non si tratta in realtà di una luce tale da eclissare ciò che nella quotidianità ci appare chiaro ? L’infinita profon­ dità del reale non è forse possibile solo perché non è possi­ bile scrutarne il fondo ? E ciò non costituisce forse una sfi­ da e anche una speranza per l’uomo nel suo slancio verso un senso che sia qualcosa di più del fiorire e dell’appassire di un giglio dei campi agli occhi delle possibilità divine ? La possibilità di una |AeravÓT|cnjg nella dimensione stori­ ca dipende sostanzialmente da questo: quella parte dell’u­ manità che è in grado di comprendere che cos’è stato e che cos’è in gioco nella storia - e che allo stesso tempo, per la stessa posizione dell’umanità attuale, al vertice dello svi­ luppo tecnico-scientifico, si trova sempre più costretta ad assumere la responsabilità dell’insensatezza - sarà capace di quella disciplina e di quell’abnegazione che le impone l’atteggiamento di distacco, soltanto all’interno del quale si può realizzare un senso che sia assoluto e allo stesso tem­ po accessibile all’umanità, proprio perché problematico ? In conclusione riassumiamo. Distinguiamo il senso che sorge nella comprensione e nella conoscenza come sedimento durevole: il significato, il concetto; anche i mezzi di comunicazione del senso, in primo luogo il linguaggio, rientrano in questa sfera. In se­ condo luogo distinguiamo il senso contenuto nella cosa stes­ sa, ciò con cui la cosa si rivolge a noi e corrisponde alle no­ stre possibilità, in modo che con essa, o con il suo concor­

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so, possiamo fare i conti con gli altri oggetti e adottare un atteggiamento razionale nei confronti delle cose e delle per­ sone. A proposito di questo senso, bisogna poi chiedersi se sia assoluto, generale e onnicomprensivo, o se sia invece soltanto relativo a un altro e quindi da un altro condizio­ nato (per esempio, dalla vita animale), in modo tale da rice­ veree perdere la sua veracità insieme ad esso. Nel quadro di questo senso contenuto nelle cose distinguiamo ulterior­ mente tra il senso che è eccentrico nei confronti dell’uomo equelloinvece che ha l’uomo al suo centro. Il senso relati­ vodelle cose del nostro ambiente è centrato sull’uomo ed èquindi relativo alla vita umana. Un senso assoluto non dev’essere necessariamente e in ogni caso eccentrico rispet­ toall’uomo, e tale non è se ciò che nell’uomo può richia­ marsi al senso corrisponde a ciò che dà un senso all’uni­ verso. L’esperienza della perdita del senso conduce a porsi la domanda se ogni senso non sia centrato sull’uomo e relati­ vo alla vita. Se ciò è vero, ci troviamo di fronte al nichili­ smo. Il senso che pensiamo di poter cogliere in tutto, nel1 intero e nelle singole parti degli enti a noi accessibili, si rivela in realtà limitato e nullo. Un tale sconvolgimento del senso, se non si riesce a trovare una via d’uscita dalla sua negazione, non può che condurre alla stagnazione della vi­ ta. Infatti, dal momento che lo sconvolgimento di un sen­ sodato si realizza contemporaneamente all’esperienza del­ l’essere come ciò che non si può considerare alla stregua di unente, è ovvio definire il nichilismo come antinomia del­ l’essere e del senso. L’esperienza dello svelarsi dell’essere sarebbe infatti, al tempo stesso, l’esperienza dell’assoluta insensatezza dell’ente. In realtà si tratta soltanto della scoperta di un senso che non può mai essere interpretato come una cosa, che non può essere dominato né limitato, non può essere colto po­ sitivamente e posseduto, perché è presente solo nella ricer­ ca dell’essere. Per questo, esso non può nemmeno - come fa invece il senso relativo e positivo - venirci incontro di­ rettamente e immediatamente nelle cose. Il fondamento di questo senso è ciò che Weischedel chiama problematicità o, nei termini di Heidegger, il nascondimento dell’ente nel­

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la sua totalità come fondamento di ogni apertura e aprirsi. E questo mistero a esprimersi nello sconvolgimento del sen­ so ingenuamente accettato (sia che si tratti del senso relati­ vo del comportamento e delTagire umano immediato, sia che si tratti invece del senso assoluto che è il senso misti­ co). In questo sconvolgimento del senso ingenuo sorge una prospettiva verso un senso assoluto e tuttavia non eccentri­ co all’uomo, a condizione che l’uomo sia pronto a rinuncia­ re all’immediatezza del senso per ritrovarlo come cammino. La problematica qui accennata, in relazione alla nostra indagine sul senso della storia, è valida non soltanto per la vita individuale, ma anche per la storia stessa. La storia sor­ ge con lo sconvolgimento del senso ingenuo e assoluto, pres­ soché contemporaneamente al sorgere della politica e del­ la filosofia, con cui è in relazione di reciproco condiziona­ mento. In sostanza, la storia costituisce lo sviluppo delle possibilità contenute allo stato embrionale proprio in quel­ lo sconvolgimento. Per questo motivo, e per coloro che so­ no orientati verso la vita nella sua immediatezza, la storia sfocia apparentemente nel nichilismo degli enti privi di sen­ so. Nella comprensione dell’ente nel suo essere che è carat­ teristica del moderno obiettivismo, ossia di una scienza che rinuncia a ogni rapporto con il senso, questa caratteristica, apparentemente, si afferma con molta energia. Tuttavia questo obiettivismo è intimamente contraddittorio e la stes­ sa scienza mostra i sintomi del suo superamento. E un pro­ blema di cui tratteremo in altra occasione.

Capitolo quarto L’Europa e l’eredità europea sino alk fine del xix secolo

In un lavoro incompiuto della sua giovinezza, La costi­ tuzione della Germania, Hegel afferma che né l’unità delle leggi, né l’unità religiosa costituiscono lo Stato, almeno nei tempi più recenti, anche se ci furono dei tempi in cui, per­ fino in un’Europa notevolmente indifferente, la religione era la base fondamentale dello Stato e questo vincolo reli­ gioso in certi periodi era così forte che perfino dei popoli estranei fra loro e divisi da un odio nazionale venivano spes­ soe improvvisamente uniti da esso in un unico Stato, «che, non solo come comunità sacra della cristianità, né come coalizione unita dai propri interessi e dall’attività necessa­ ria a promuoverli, bensì come potenza mondana unitaria, come Stato, ha conquistato la patria della sua vita eterna e temporale insieme, muovendo guerra all’Oriente come un solpopolo e un solo esercito»'. Per Hegel, dunque, l’Euro­ pa sulla soglia del xix secolo, al momento dell’ultimo col­ lasso del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica, non è più uno Stato, anche se un tempo lo era. Qui Euro­ pa significa Europa occidentale, un tempo unita dalle Cro­ ciate contro il mondo islamico (e, nella quarta crociata, an­ che contro Bisanzio). E vero che l’unità europea si formò e si rinsaldò nella guerra, così che la coscienza di essa si 1 G. w. F. HEGEL, Die Vetfassung Deutscblands (1802), in m., Werke, I. \:riihe Schriften, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1971, p. 478 [trad. it. di G. Bornieina, Scritti storici e politici, a cura di D. Losurdo, Lateraa, Roma-Bari »997. P- 23, il corsivo è di Patoòka]. Dall’idea d’europeismo nella sua versio­ ne cattolica deriva il Romanticismo di Jena, principalmente con lo scritto di Novalis, ÌJk Cristianità ovvero l ’Europa, del 1799. Qui è anche presente l’idea della nuova missione tedesca, che 1legel fece propria nella Fenomenologia dei fa spirito, naturalmente senza l'orientamento cattolico [N.d.A].

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CAPITO LO QUARTO

mantenne anche nell’epoca del particolarismo europeo e della sua divisione dell’Europa nei moderni Stati sovrani, ma sull’origine spirituale di questa unità europea né Hegel né gli altri europei del suo tempo nutrono alcun dubbio, e questa loro convinzione è senz’altro giusta. Qual è il con­ tenuto di quest’idea? L ’unità dell’Europa occidentale, con­ fermata dalle imprese militari, intimamente segnata dalla dualità del potere spirituale e temporale, pur nella supre­ mazia del primo, costituisce una delle tre versioni dell’idea del sacrtim imperium: oltre a quella europeo-occidentale, quella bizantina e quella islamica. L ’idea del sacmm impe­ rium nella versione cristiana si è cristallizzata sul fonda­ mento della teologia della storia contenuta nella Lettera agli Ebrei e nella paolina Lettera ai Romani. Le lotte all’interno dell’Impero romano ormai morente, sia alla periferia sia nel suo centro mediterraneo, lotte che hanno per oggetto que­ sto centro nevralgico della vita dell’epoca, ricevono nel vn secolo una loro definizione spirituale con lo scisma d’Oriente e l’espansione araba2. L ’Europa occidentale si deter­ mina in opposizione all’Oriente bizantino, dapprima poli­ ticamente, quindi spiritualmente nella lotta per l’indipen­ denza e il primato del potere ecclesiastico nei confronti di quello temporale, cosa che solo qui viene raggiunta. Nel corso delle crociate la versione islamica, fondata sull’idea del profetismo e pertanto vicina alla concezione giudaica’, viene tolta di mezzo quale concorrente, e momentaneamen­ te anche Bisanzio. Di conseguenza la formazione cosi re­ centemente definita si dedica alla propria organizzazione, all’elaborazione interna, al consolidamento e alla coloniz­ zazione dei territori nordorientali che, specialmente dopo l’indebolimento della Polonia e la sparizione della Russia kieviana in seguito all’invasione tartara, non dispongono

2 Cfr. al riguardo A . d e m p f , Sacrum imperium, Oldenbourg, Mìindien 1929, specialmente parte II, cap. 1. Grundbegriffe der christlichen Gescbtehn theologie [a cura e trad. it. di F. Cardini, Le Lettere, Firenze 1988] IN J A .) 5 Su questa relazione cfr. le precisazioni molto importanti di Leo StraiwJ nello scritto Philosophieund Gesetz, Schocken, Berlin 1935, specialmente »ul rapporto Platone - Avicenna - Ibn Rukl - Maimonide, pp. 113 sgg. |cir und it. Filosofia e legge, a cura di C. Altini, Giuntina, Firenze 2003] |,\; d A J

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piùdi un baricentro alternativo, concorrente dell’altro, su cui appoggiarsi Ma cos’era nella sua essenza 1 idea del sacrum impenum ì Nient’altro che l’eredità spirituale dell’Impero romano, tra­ montato per l’alienazione esistente tra l’organizzazione sta­ talee il pubblico su cui si fondava. L’Impero romano chiu­ deindubbiamente l’epoca dell’ellenismo con il suo imperia­ lismo sostenuto dalla convinzione della supremazia dello spirito greco e delle sue capacità. Tali capacità tuttavia sono riassunte nella filosofia greca, che nella sua fase el­ lenistica assume come uno dei suoi compiti principali almeno in uno dei suoi indirizzi più tipici, lo stoicismo quello di tradurre la filosofia classica della tradizione so­ cratico-platonica nel fermento pedagogico di uno Stato uni­ versale, la cui versione più riuscita è offerta in definitiva da Roma. Roma, nella sua essenza, è l’ossessione dell’idea dell’imperium, dello Stato nel suo aspetto più proprio, in­ dipendente dalla base etnica, dal territorio e dalla forma di governo, o per lo meno è in questa forma che trova la sua dimensione e lo sbocco al suo ostinato impegno di lotta e di organizzazione. Le maggiori figure del mondo romano sono comprensibili solo se le consideriamo ispirate da un tal fine, determinato nel modo suddetto. Ma ai suoi inizi, Roma non è nettamente diversa dalla polis greca, e come tale ancora la considera Aristotele, e per questa polis l’idea stoico-platonica dell’educazione al bene comune, all’uni­ versalità, alla costruzione di uno Stato del diritto e della giustizia, di uno Stato fondato nella verità, nella ragione, diventa, almeno per le classi superiori, qualcosa di eviden­ te e di corrente. Cicerone e Seneca sono l’espressione let­ teraria di questa evidenza; gli interlocutori dei dialoghi filosofici di Cicerone rappresentano appunto questa ten­ denza all’identificazione tra lo Stato romano e l’ideale edu­ cativo del principale indirizzo della filosofia ellenistica. L’i­ dea del sacrum imperium è da una parte la testimonianza della catastrofe di un tale programma e dall’altra il suo so­ pravvivere in una forma nuova: non più lo Stato mondano dei Cesari, con il suo troppo umano oscillare tra l’arbitrio e l’aspirazione alla giustizia, tra un dispotismo elementa­ re e il «diritto naturale» su cui si fonda lo ius civile, bensì

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una comunità fondata direttamente sulla verità, una verità che non è di questo, ma dell’altro mondo, le cui norme e il cui prototipo sono forniti dalla storia e dal potere divini, e non umani, potere e storia divini che intervengono nell’u­ mano e lo traggono a sé. Pertanto l’eredità stessa dell’Impero romano costituisce la sopravvivenza di un’altra eredità: quella che la polis ro­ mana ed ellenistica avevano ricevuto dalla polis greca e che è riassunta nello sforzo per l’edificazione di una comunità ispirata alla verità intelligibile e alla giustizia quale idea mo­ rale culminante della filosofia classica. Tuttavia questa idea era maturata nella riflessione sulla grandezza e la catastro­ fe della polis, sul significato mondiale e sulla miseria effet­ tiva dell’uomo greco nel suo naturale caratteristico quadro sociale, dov’egli era riuscito ad affermarsi contro la supre­ mazia quantitativa, per poi screditare e distruggere se stes­ so e il proprio quadro sociale a causa della sfiducia, dell’in­ vidia e della paura di venir sopravanzato e oscurato. Il de­ stino dell’uomo autentico e del giusto, il destino dell’uomo che si è posto come scopo vitale di vivere nella verità, ren­ de indispensabile l’idea di una nuova comunità umana: sol­ tanto in una tale comunione di verità egli potrà vivere, se non vuole perire nel conflitto con la realtà. In questa visio­ ne il mondo appartiene al male, e la condanna che esso ha pronunciato contro il giusto costituisce la sua propria con­ danna. Ma l’uomo è giusto e autentico in quanto si prende cura dell’anima. L ’eredità della filosofia greca è appunto la cu­ ra dell’anima. E la cura dell’anima significa che la verità non è data una volta per tutte e non è una faccenda di me­ ra contemplazione e di accettazione nell’intimo da parte della coscienza, ma è una prassi che investe tutta la vita, una prassi che si autoindaga, si autocontrolla e si autounifica nel pensiero e nella vita. Nel pensiero greco la cura del­ l’anima era stata coltivata sotto un duplice aspetto: curia­ mo la nostra anima, finché essa possa, in assoluta purezza e con sguardo limpido, attraversare spiritualmente il mon­ do e l’eternità del cosmo e pertanto assumere, almeno per breve tempo, il modo di essere che è proprio degli dèi (De­ mocrito e più tardi Aristotele); oppure, viceversa, pensia­

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moe conosciamo per fare della nostra anima quel saldo cristallod’esistenza nella totalità degli enti, quel cristallo d’ac­ ciaio temperato alla vista delPeterno, diventare il quale è una delle facoltà di quell’ente che ha in sé la sorgente del movimento, la possibilità della decisione sul suo essere o non-essere, non-essere che coincide con il dissolversi nel­ l’indeterminatezza dell’istinto, e di una tradizione non elu­ cidata (Platone). La cura dell’anima costituisce la forma pratica di quella scoperta dell’universo e dell’esplicito rapporto del pensie­ ro con esso che si era già realizzato nell’antica filosofia io­ nica, dove la scoperta del cosmo è maturata nella forma del­ l’ideale filosofico della vita nella verità. Edmund Husserl, che si può considerare l’ultimo erede di questo ideale, l’ha cosi formulato: regolare l’opinione sull’evidenza, anziché il contrario. In base a ciò diventa comprensibile, e si può verificare in tutto lo sviluppo dell’Europa, l’opinione di questo stesso filosofo di una «peculiarità della cultura eu­ ropea», poiché essa, unica tra tutte le culture mondiali, è cultura fondata sull’evidenza, cultura in cui l’evidenza svol­ ge un ruolo di primo piano in tutte le fondamentali que­ stioni della vita, sia pratiche sia conoscitive. Una tale for­ mazione storica è quindi sempre formata, almeno in parte, dall’evidenza, che non cessa di prendere il posto della non evidenza di una tradizione anonima che si perde nelle te­ nebre. In generale si può dire che l’eredità europea è sem­ pre la stessa in varie forme. In essa la cura dell’anima si tra­ sforma attraverso due grandi catastrofi storiche: quella del­ la polis e quella dell’Impero romano. Anzi, possiamo dire che tale eredità ha contribuito a trasformare entrambe que­ ste catastrofi da fenomeni meramente negativi in tentati­ vi di superare ciò che si era sclerotizzato ed era incapace di vita nella situazione storica di allora, ha contribuito ad adattare e allo stesso tempo a generalizzare l’eredità euro­ pea stessa. Da un lato nell’Impero romano la cura dell’ani­ ma assume l’aspetto dell’impegno a estendere il diritto og­ gettivo a tutta Yoikoumene che, in gran parte, l'imperium abbraccia effettivamente e, per il resto, abbraccia almeno con le sue mire e con la sua influenza. Dall’altro lato, il sacrum imperium dell’Europa del cristianesimo occidentale

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crea in seguito una comunità umana molto più ampia di quella romano-mediterranea e, allo stesso tempo, approfon­ disce l’uomo interiore mediante la disciplina morale. La cu­ ra dell’anima, tfjg ijjux'ns èmiieXeia, è quindi ciò che ha crea­ to l’Europa: si può sostenere questa tesi senza alcuna iper­ bole. Una grande svolta nella vita dell’Europa occidentale sembra essere il xvi secolo. Da allora contro il tema della cura dell’anima emerge un tema diverso, che s’impadroni­ sce di sempre nuovi ambiti - da quello dell’economia a quel­ lo della politica, della fede e della scienza - e li trasforma secondo un nuovo stile. Non è più la cura dell 'anima, la cu­ ra dell’essere, ma quella dell 'avere, quella del mondo ester­ no e del suo dominio a diventare predominante. Non è mia intenzione sviluppare in queste righe la dialettica dei temi della vita cristiana dai quali questa cura di avere e questa volontà di dominare erano originariamente tenute a freno. Indubbiamente, l’espansione dell’Europa al di là delle sue frontiere originarie, espansione succeduta alla semplice re­ pressione della concorrenza del mondo extraeuropeo, con­ teneva in sé il germe di questa nuova vita, esiziale per il vecchio principio. Verso Oriente questa espansione euro­ pea non determinò un mutamento di stile nei principi del­ la vita europea; questo mutamento interviene solo col suc­ cesso nel respingere l’attacco dell’Islam a Occidente, che apre la strada alle scoperte d’oltremare e scatena un’im­ provvisa e selvaggia caccia alle ricchezze del mondo, soprat­ tutto in quel Nuovo Mondo che si arrende alla mercé del­ la progredita organizzazione militare, delle armi e delle esperienze occidentali4. Soltanto in connessione con que­ sta espansione dell’Europa verso Occidente i mutamenti essenziali introdotti nella vita dalla Riforma protestante nell’orientamento della prassi cristiana, che da prassi sacra 4 Claude Lévi-Strauss ha designato l'esperienza che inizia con l’anno 1492 come il più grande spaesamento condotto sinora nell’incontro dell’uomo con se stesso; ha mostrato nello stesso tempo come essa si sia svolta amaramente e come sia finita in catastrofe per le popolazioni extraeuropee del nuovo mon­ do (cfr. c. l É v i - s t r a u s s , Trìstes tropiques, Plon, Paris 1 9 5 5 [trad. it. di B. Garufi, Tristi tropici, il Saggiatore, Milano 1965]) [ N . d . A ] .

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diventa sempre più prassi mondana, assumono quel signi­ ficato politico che si manifesterà nell’organizzazione del continente nordamericano da parte dell’elemento prote­ stante radicale. Dopo meno di un secolo, Bacone formu­ lerà inoltre una concezione del tutto nuova della scienza e della conoscenza, concezione profondamente diversa da quella dominata dalla cura dell’anima: sapere è potere, so­ lo un sapere efficace è un sapere autentico, e così ciò che prima valeva solo per la prassi e la produzione vale ora per la scienza in generale. La scienza deve ricondurci al para­ diso, ma al paradiso delle invenzioni e delle possibilità di trasformare e manipolare il mondo secondo le nostre esi­ genze, senza che queste siano in ness.un modo limitate; più tardi Cartesio avrebbe detto che la scienza farà di noi i si­ gnori e i proprietari della natura. Soltanto ora lo Stato, o, per meglio dire, gli Stati, diventano (in opposizione alla concezione medievale che fondava il potere sull’autorità e che si era incarnata nel modo migliore in quella particola­ re formazione che si chiamava Sacro Romano Impero del­ la Nazione Germanica ed era qualcosa di mezzo tra una for­ mazione di diritto pubblico e una di diritto internaziona­ le) degli strumenti di difesa e di offesa per assicurare l’insieme della proprietà, come li definirà in seguito He­ gel5. La specificità di questa concezione si ricollega bensì a certe tendenze medievali, ma le supera di gran lunga. L’or­ ganizzazione della vita economica secondo il moderno mo­ dello capitalista, che emerge anch’essa in quest’epoca, fa parte dello stesso stile. Da quell’epoca non esisterà più, per l’Europa occidentale in espansione, nessun legame univer­ sale e nessuna idea universale che riesca a incarnarsi in un’i­ stituzione o in un’autorità concreta ed efficace che sia an­ che unificatrice: il primato dell'avere sull'essere esclude l’u­ nità e l’universalità, e sono vani i tentativi di sostituirle con il potere. Politicamente ciò si manifesta in un nuovo sistema, al­ l’interno del quale l’Impero è respinto dal centro verso la 9

«Una moltitudine di uomini può chiamarsi Stato, solo se è unita nella difesa comune dell’intera sua proprietà» (g . w . f . h e g e l , Scritti storici e polì' tici eit., p. 19) [N. d. C. i].

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periferia orientale, mentre il ruolo di centro viene assunto dalla Francia, quale forza saldamente organizzata che fun­ ge da contrappeso continentale alle potenze che si sono enormemente espanse in due emisferi, cioè la Spagna e l’In­ ghilterra. E quando comincia a rivelarsi l’immensa forza della Nuova Inghilterra, e da essa comincia a brillare per l’umanità la promessa di una nuova organizzazione che non conosce la gerarchia, con il relativo uso e abuso - utilizza­ zione e sfruttamento - dell’uomo da parte dell’uomo, ecco che non soltanto il Nuovo Mondo, ma anche tutta l’Euro­ pa vengono attraversati da un brivido di speranza in una nuova epoca dell’umanità. Tuttavia quasi nello stesso pe­ riodo l’Europa si trova esposta - dapprima inavvertitamen­ te ma in seguito con sempre maggior decisione - alla pres­ sione orientale. Dal xvi secolo la Russia moscovita aveva rilevato l’eredità bizantina del cristianesimo orientale, l’e­ redità della chiesa imperiale, a cui si ricollega la pretesa di un’espansione territoriale di portata immensa, che presen­ terà all’Europa, invece dell’incerta frontiera orientale, un potere vigoroso, organizzato secondo un modello gerarchi­ co, imperiale e autocratico. Un potere che da questo mo­ mento cercherà anzitutto di definirsi e distinguersi dall’Oc­ cidente, quindi di assicurarsi la possibilità di sfruttarlo, mi­ nacciarlo e allo stesso tempo di dividerlo e dominarlo. Quel che resta del Sacro Romano Impero, disgregato a vantag­ gio della Francia dalla guerra dei Trent’anni, concentrato sull’Oriente e ammaliato dal pericolo turco, dapprima non si accorgerà della crescita alle sue frontiere di quella mas­ sa immensa che, dal xvm secolo, eserciterà un peso sempre maggiore su tutti i suoi destini e, per suo tramite, su tutta l’Europa. Intanto l’Europa si applica con straordinario im­ pegno alla ristrutturazione delle sue idee, istituzioni, mo­ di di produzione, e organizzazioni statali e politiche. Que­ sto processo, che viene chiamato illuminismo, è sostanzial­ mente un adattamento dell’Europa alla sua nuova posizione nel mondo, al sorgere di una organizzazione economica pla­ netaria e alla penetrazione degli europei in nuovi spazi con le relative nuove esigenze di scienza e di fede. La più profonda creazione di tutto questo processo, animato da un genere e uno spirito di sapere completamente diversi dai

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precedenti, è la scienza moderna: la matematica, le scien­ ze naturali, la storia. La scienza rinascimentale dei Coper­ nico, dei Keplero e dei Galileo si ricollega evidentemente ancora alla eredità antica della Beinola come momento del­ la cura dell’anima. Ma sempre più nella scienza stessa, e nella matematica in primo luogo, si manifesta lo spirito del dominio tecnico, e cioè un’universalità di tipo compietamente diverso dall’antica, che si basava sull’unità del con­ tenuto e della forma: un’universalità formale, che passa gra­ datamente a privilegiare i risultati rispetto ai contenuti e il dominio rispetto alla comprensione. Questa scienza si ri­ vela sempre più, in tutto e per tutto, come una tecnica e s’indirizza quindi anche alla tecnologia e all’applicazione. Quanto più si accentua la penetrazione di questo modo di pensare, tanto più evidentemente vengono respinti i resti del pensiero «metafisico» che ancora nel xvn secolo domi­ navano la filosofia europea; quest’ultima ora tenta, soprat­ tutto con i pensatori francesi e olandesi e con altri che si trovano sotto la loro influenza, di raggiungere l’antico sco­ po con nuovi mezzi. Nel xvm secolo la Francia e gli Stati Uniti si mettono a capo del movimento illuministico, che in Francia assume un carattere radicalmente secolare. L’i­ dea della rivoluzione, e cioè di un capovolgimento radica­ le delle cose umane, della possibilità di una vita libera dal­ la gerarchia, nella libertà e nell’uguaglianza, ha probabil­ mente origine dalla realtà della Nuova Inghilterra e la rivoluzione riuscita delle colonie britanniche si trova alla sorgente del pensiero rivoluzionario, quale caratteristica fondamentale dell’epoca moderna in generale6; di li l’acco­ glie la Francia e nella sua rivoluzione le attribuisce, alme­ no in parte, già un carattere apertamente sociale, mostran­ do che nulla sarà risparmiato dal sussulto rivoluzionario. L’illuminismo radicale francese, dopo aver minato le basi dell’autorità spirituale, non aveva saputo fermarsi, come molti si auguravano, davanti all’edificio dell’organizzazio­ ne sociale e statale. L’unione dell’industria, della tecnoio6 Cosi presenta le cose, com’è noto, Hannah Arendt nello scritto On Revolution, Faber & Faber, London 1963 [trad. it. di M. Magrini, Sulla ri­ voluzione, introd. di R. Zorzi, Einaudi, Torino 2006] [N.d.A].

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già e dell’organizzazione capitalistica determina in Inghil­ terra e in una parte del continente occidentale il prorom­ pere della rivoluzione tecnica, da cui l’attacco alle ricchez­ ze del mondo assume un nuovo significato: la creazione di un enorme predominio tecnologico-militare a cui il mondo extraeuropeo non ha nulla di simile da opporre. Ne deriva che il mercato mondiale lavora non solo per il benessere eu­ ropeo, ma anche per la potenza fisica dell’Europa, la cui prima brutale manifestazione sono le guerre post-rivoluzio­ narie dell’epoca napoleonica, che tendono a realizzare su una nuova base mondana e razionale il significato univer­ sale della Francia come centro dell’Europa, centro che spegne l’ultimo e illusorio resto dell’Impero romano. Le po­ tenze continentali, alleate all’Inghilterra, non riescono a difendersi altrimenti che con un esplicito appello alla po­ tenza russa, che diventa ora, e per lungo tempo, l’elemen­ to risolutore delle loro dispute, l’autore del loro sistema di potere e il fattore che approfitta nel modo più felice delle sciagure e dei conflitti europei. Dopo aver eliminato le po­ tenze nordorientali dell’Europa del xvn secolo, cioè la Sve­ zia e la Polonia, dopo aver scacciato sempre più risolutamente quest’ultima dalla scena, dopo essersi inserita, ap­ poggiandosi all’astro nascente della potenza prussiana, nel profondo scisma apertosi tra le potenze che occupano il ter­ ritorio dell’antico Impero romano, cioè la Prussia stessa e i territori degli Asburgo, dopo aver indirettamente distrut­ to gli organismi storici del suo sistema orientale (come lo Stato ceco), dopo tutto questo, all’inizio del xix secolo la Russia mette piede in Europa quale argine contro la prima americanizzazione, come appunto si può definire l’Europa rivoluzionaria e post-rivoluzionaria. Nella seconda decade del secolo, i due eredi dell’Europa si scontrano per la pri­ ma volta sul suolo europeo, non ancora come avversari po­ litici, ma sul terreno dei principi. Hegel ha occasionalmente trattato il problema se erede dell’Europa sarebbe stata l’America o la Russia, ma ogni previsione del futuro ha assunto una sua concretezza solo quando il problema è stato considerato dal punto di vista dell’indirizzo sociale verso l’uguaglianza e l’organizzazio­ ne razionale della società: cosi appunto lo vide per primo

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Tocqueville. Il pensiero europeo conobbe dunque prima e più profondamente gli Stati Uniti che non la Russia, e ciò è comprensibile, poiché gli Stati Uniti erano l’America eu­ ropeizzata, e l’Europa post-rivoluzionaria era l’Europa americanizzata. Il mondo occidentale avrebbe dovuto at­ tendere a lungo, e in sostanza attende tuttora, che il profon­ do rapporto del mondo orientale con l’Europa trovi una comprensione analoga a quella fornita da Tocqueville ri­ spetto all’America. Tuttavia, prima di descrivere l’Europa del xix secolo come un campo di battaglia in cui già getta la sua ombra il futuro con i suoi nuovi spazi e le nuove po­ tenze che erano sorte dall’Europa e ne avevano problema­ tizzato l’avvenire, dobbiamo ancora accennare al tentati­ vo di riflettere e problematizzare lo stesso principio illumi­ nistico dell’Europa occidentale. Questo tentativo si verificò in territorio germanico, cioè sul territorio del declinante Impero romano, anzitutto in Prussia, dove l’illuminismo si era sviluppato sotto l’aspetto di uno Stato militare che ave­ va sfruttato razionalmente le proprie strutture tradiziona­ li, e quindi sotto l’aspetto di una sintesi estremamente pa­ radossale del vecchio col nuovo. La forza e la profondità dell’illuminismo erano senza dubbio fondate su ciò che l’antico sapere, prevalentemen­ te orientato verso l’umano e verso l’interiore, aveva trascu­ rato, cioè sulla nuova idea di un sapere attivo, efficace, in continua crescita e alimentato dai risultati. Questo nuovo sapere non poteva essere preso alla leggera, né poteva ve­ nir collegato solo esteriormente con i vecchi principi euro­ pei del sapere e della fede. D’altra parte, non era possibile accontentarsi di una sintesi funzionale solo a un’utilità im­ mediata, come si faceva nei Paesi anglosassoni, né proce­ dere a radicali operazioni di amputazione, se non si voleva seguire la via della rivoluzione francese. La filosofia tede­ sca a partire da Kant, insieme con altre forme di spiritua­ lità ad essa apparentate, tentò ancora una volta di effettua­ re un rivolgimento dello spirito europeo: l’illuminismo an­ dava accettato, ma solo come metodo di comprensione della natura, intesa come un regno dominato da leggi immanen­ ti che non conducevano però all’essenza delle cose; là do­ ve questo mondo fenomenico veniva analizzato nella sua

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fenomenicità (e cioè nella sua essenza), riprendeva i suoi diritti l’antico principio europeo della cura dell’anima, va­ le a dire il principio di una teoria filosofica contemplativa che ci libera nella sfera morale-spirituale, in cui stanno il radicamento specifico e l’autentica missione dell’umanità. Questa svolta - che non abolisce l’illuminismo, ma ne li­ mita e indebolisce il significato umano - spinge l’arte te­ desca nella stessa direzione in poesia e in musica, mentre in filosofia arriva addirittura a radicalizzarsi in sistemi d’i­ naudito idealismo e di radicalismo metafisico, che qui non è necessario definire più esattamente. Questa Germania spirituale si offre all’Europa occidentale come il Paese do­ ve lo spirito può ripiegare dopo la crisi dell’anarchia rivo­ luzionaria e sottoporsi alla cura di cui la libertà ha bisogno per ancorarsi nella realtà attraverso la comprensione. Ma l'universum spirituale - di per se stesso privo di forza - crea forme intellettuali ideali equivoche, che la reale lotta per l’eredità europea potrà utilizzare a suo vantaggio per svi­ lupparsi: l’idea dell’individualità spirituale (che verrà sfrut­ tata per la progressiva particolarizzazione e per lo scisma nazionalistico in Europa) e l’idea dello Stato come divinità terrena che non tollera nessuna limitazione della propria sovranità. Cosi il grande tentativo tedesco si risolve nel rafforzamento di quelle tendenze alla dissoluzione dell’Eu­ ropa, contro le quali era originariamente diretto. I proget­ ti intellettuali ideali tedeschi, forti e validi come critica, co­ me idee che limitavano il campo d’azione dell’illuminismo, non sono di per se stessi in grado di risolvere i problemi politici e sociali che sorgono nel quadro della problematica illuministica, e in questo quadro devono essere degradati nella prassi a meri mezzi di lotta per la realtà politica e so­ ciale. Dopo il vento fresco della rivoluzione e delle guerre na­ poleoniche che ha soffiato su tutto il mondo, l’Europa tor­ na, sotto la pressione della Russia imperiale, allo scredita­ to «legittimismo» in cui nessuno più crede. Dal momento che, contro il dispotismo francese, ci si era dovuti appella­ re al particolarismo delle tradizioni locali e alla spontaneità popolare, quell’ipocrita ritorno costituisce l’inizio di una storia variegata e a tratti estremamente caotica, che si può

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riassumete sotto il nome di movimento nazionale, naziona­ lista. Nell’Europa occidentale, dove esistono da tempo del­ le unità statali centralizzate e unificate dal punto di vista linguistico, questo movimento si sposa, in modo assoluta­ mente naturale, con l’esigenza di fatto, avanzata dalla ri­ voluzione industriale, di una protezione statale dell’atti­ vità imprenditoriale e speculativa, cosi che gli Stati cado­ no sotto l’influenza del capitalismo borghese. L’Europa centrale e centrorientale osserva con invidia questo svilup­ po che diventa per essa un modello, mentre l’universalismo di principio del radicalismo rivoluzionario si rifugia nella sfera della rivoluzione sociale, del nascente socialismo. Tut­ te queste tendenze costituiscono un miscuglio variegato e spesso eclettico, all’interno del quale l’unica certezza è l’insostenibilità dello status quo. E dunque tenendo conto della rivoluzione e dell’epoca napoleonica da un lato e della Russia dall’altro che la pub­ blicistica europea sviluppa i concetti di «potenza mondia­ le» e di «sistema statale mondiale»7. Intanto la Russia, mentre consolida con successo la sua posizione imperiale contro i primi tentativi di scuoterla mediante le influenze occidentali, sviluppa in modo sempre crescente le catego­ rie politiche ricevute dal cristianesimo imperiale bizanti­ no, con l’idea di diventare l’erede dell’Europa in decaden­ za, idea che si mantiene viva praticamente per tutto il xd c secolo, con il contributo di quei motivi europei che meglio si adattano alla concezione generale. In sostanza, il pensie­ ro russo si trova d’accordo sul fatto che lo Stato russo è chiamato ad essere l’erede dell’Europa, mentre vi è disac­ cordo sui mezzi da impiegare. L’antica concezione di Pie­ tro il Grande, di utilizzare l’Europa a proprio vantaggio senza cedere ad essa, ma anzi per dominarla, contiene in sé tanto l’idea di rivolgersi e avvicinarsi all’Occidente, quan­ to quella di chiudersi in se stessi per aspettare il momento adatto. Quella parte della pubblicistica europea il cui sguar­ do rimane fisso sulla Russia e sulla sua possente influenza ? Al riguardo e su quanto segue cfr. d. g r o h , Russland als Weltmacbt, in u (a cura di), Orbis scriptus. Smitrij Tschizewskij zum 70. Geburtstd&, Miinchen 1966, pp. 3 3 1 sgg. [N.d.A.].

ok* h a r d t

Fink,

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sull’Europa - come gli scritti di Moses Hess, Haxthausen, Fallmerayer*, ma specialmente la pubblicistica dei cattoli­ ci conservatori, comejorg, Mario, Konstantin Frantz9, che non riescono ancora a liberarsi della nostalgia per l’Impe­ ro Romano della Nazione Germanica - contiene in sé un certo germe di europeismo, inteso come sforzo di realizza­ re l’unità europea sotto la forma di una solidarietà degli Stati occidentali di fronte al colosso russo: Frantz ha mo­ strato anche l’accordo delle proprie tendenze con il tradi­ zionalismo contenuto nella filosofia positiva di Comte (non conosceva la politica positiva10). Questi germi, ai quali si aggiunge, negli anni Sessanta, il liberale Julius Fròbel11 con la sua esperienza americana, non ebbero tuttavia una for­ za di organizzazione rispetto alle tendenze prevalenti del­ la realtà europea. Nell’Europa borghese-capitalistica, la forza principale dell’Europa occidentale - cioè l’illuminismo, la scienza (le scienze naturali e la storia) e la tecnica - è dunque collega­ ta alla realtà particolaristica dello Stato nazionale, il cui modello sul continente è la Francia del secondo Impero, che svolge un ruolo fatale in quest’evoluzione verso il partico­ larismo. Tale ruolo comprende degli effimeri successi, co­ me l’ambigua coalizione degli Stati europei contro la Rus­ sia nella guerra di Crimea: parziali e temporanei conteni­ menti della Russia, successi ambigui che non fanno che

* Moses Hess (18 12-7 5), filosofo tedesco, autore di una «filosofia dell’azione»; August von Haxthausen (179 2 -18 6 6 ), economista tedesco di cui cfr. ad esempio Die làndliche Verfassung Russlands, Brockhaus, Leipzig 1866, e Studien uber die inneren Zustande, das Volksleben und insbesondere die làndlicben Einrichtungen Russlands, Hahn, Hannover 18 4 7 ; Jakob Ph. Fallmerayer (179 0 -18 6 1), autore e viaggiatore tedesco di cui cfr. ad esempio Fragmente ausdem Orient, Cotta, Stuttgart 18 4 5 [N.rf.C.]. 9Josef Edmund Jorg (18 19 -19 0 1), storico e politico tedesco di cui cfr. ad esempio DieneueÀra in Preufien, Manz, Regensburg 1860 ; Konstantin Frantz ( 1 8 1 7 - 1 8 9 1 ) , politico tedesco di cui cfr. ad esempio Die Genesis der Bismarckscben Ara und ihrZiely Huttler, Mùnchen 18 7 4 [N.d.C.]. 10 Qui Patocka intende probabilmente riferirsi all’opera di Auguste Comte dal titolo Système de politiquepositive ou traité de sociologie ( 18 5 1 -54) [N.d.C.il 11 Cfr. j. f r ò b e l , System dersozialen Politik, Grohe, Mannheim 18 4 7 ; Aus Amerika. Erfahrungen, Reisen und Studien, Weber, Leipzig 18 5 7 -5 8 [N.^.C.J.

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IOI

addormentare l’attenzione dell’Europa creandovi una fal­ sa sicurezza fondata sulla sua prevalenza industriale, tec­ nica e scientifica. L’autentico universalismo dell’illuminismo radicale si ri­ fugia, come abbiamo accennato, nel pensiero e nel movi­ mento socialista. Specialmente dal momento in cui opera «il superamento hegeliano del pensiero di Hegel»12, Marx non smette di denunciare l’ipocrisia, l’irresolutezza, l’illo­ gicità e specialmente il cinismo e il caos morale scatenati nelle società europee dallo status quo borghese-liberale. Tutte le debolezze della soluzione francese del proble­ ma europeo si accentuano ulteriormente in seguito alla so­ luzione prussiana del problema tedesco, che ha espulso la Francia dal centro dell’Europa sostituendovi di nuovo la Germania, ma sotto un nuovo aspetto, modellato sullo Stato nazionale dell’Europa occidentale: Tuttavia questa Germania prussiana porta in sé più di un elemento contrad­ dittorio: le proprie tradizioni feudali, mai toccate da un au­ tentico rivolgimento sociale, nonché un’ammirazione con­ servatrice per il colosso russo a cui la Prussia resta ricono­ scente per tutta la sua vittoriosa ascesa in Germania e in Europa, oltre alla necessità di riorientare rapidamente la sua politica assumendo il ruolo di scudo e spada perlome­ no dell’Europa sudorientale. Intanto la soluzione borghe­ se, e cioè lo Stato nazionale come difesa di una produzio­ ne industriale sempre più possente, dimostra in Germania, in modo molto più accentuato che nell’Europa occidenta­ le, la propria intima contraddittorietà, poiché il rafforza­ mento dell’industria comporta allo stesso tempo anche il rafforzamento di ciò che si chiamava allora «il quarto sta­ to», la sua presa di coscienza e il suo incontenibile organiz­ zarsi. Il conflitto che da qui prende origine, sempre più aspro e insolubile, determina una tensione sociale sinora sconosciuta e quindi il perpetuarsi di un governo dal pugno di ferro rivolto contro l’assoluta maggioranza del popolo, governo che è rappresentato dalla coalizione bismarckiana

u A. DE w a e l h e n s , Im philosopkie et lei expériences naturelks. Nijhoft,

Den Haag 1961, p. 13 [N. 8 9 , 9 0 ,1 1 5 ,1 7 4 , i 7 5 . Assurbanipal (Sardanapalo), 24. Avenarius, Richard, 3 e n, 4, 5 n. Averroè, ìWz Ibn Rusd, Muhammad ibn Ahmad al-Hafìd. Avicenna, vedi Ibn Sìnà, Abù ‘All. Bacon (Bacone), Francis, 93. Barbaras, Renaud, xxn e n. Barbusse, Henri, 14 1 e n. Becker, Oskar, 41 e n, 42. Bégout, Bruce, xxn n. Behrens, William W . Ili, 105 n. Bélohradsk^, Vàclav, vn n. Bergson, Henri L., 4, 5 n, 9, Berta, Luca, xxi n. Bierael, Walter, xv n.

Bui, Giannetto, 141 n. Boffi, Guido, 164 n. Bonarìn, Giovanni, 87 n. Bréhier, Émile, xiv. Bròcker, Walter, 21 n. Brunschvicg, Léon, xiv. Burckhardt, Jacob, 3 n, 127. Cajthaml, Martin, xiv n, xvi n, xvu ri, 9 n.

Cantimori, Delio, 3 n. Cantimori Mezzomonti, Emma, 161 n. Catabccio, Francesco M., xx n. xxn n. Cardini, Franco, 88 n. Cartesio, vedi Descartes, René. Ceni, Delfo, xi n. Cerny, Vàclav, xvt. Chvatik, Ivan, xrv n, xvn n, xvm n. xx n, xxn e n, xxn n, xxiv n. 2 a.

9 n-

Cicerone, Marco Tullio, 75, &). Cividali, Claudio, 1 1 1 n. Colli, Giorgio, 36 n. Comenio, vedi Komenskv, Jan A. Comte, Auguste, 80, 100 e n, 106. 120 ,160 . Copernico (Mikolaj Kopemik), Cortàzar, Julio. 129 n. Costa, Filippo, xiv n. Cristinm, Renato, xiv n, xxn n. Cuniberto, Flavio, 1 16 n. Dal Lago, Alessandro* 17 a. Dalmasso, Gianfranco, xxi n. Danek, Jaromir, xvi a. Daverio, Maia, xxi n. Declève, Henri, xvi n , xix tv Democrito di Abdera, 7 2 , 7 5 , ^ Dempi, Akws, 88 n. Deniau, Guy, xxn n Derrida, Jacques, xx e n, xxi a, xxm, xxiv e n. Descartes, René (Careesiol, De Waelhens. Atphon* M, A , um n Dicli, Hermann O. P , 14 ^ ^ n

*6 n, 4611, 48 n, 49 n, u 4 a .1i: n, iy * a. Dostoevskij, Fedor M w h*^nK\ -o* e n. 104, 1 \\

INDICE DEI NOMI

18 2 Doron Daverio, Annette, 139 n. Dubcek, Alexander, xix. Duque, Félix, xi n, xn n. Durkheim, Emiie D., 8o, n o , i n e n, 124 e n. Eraclito di Efeso, xxix, xxxm. 14 n, 36 n, 48 n, 5 0 , 1 1 3 , 1 1 4 ^ , 1 3 2 ^ 152, 153 n. Erodoto di Alicamasso, 41 n. Esposito, Roberto, xxm e n. Failmerayer, Jakob Ph., 100 e n. al-Fàràbì, Abù Nasr, 75. Ferraris, Maurizio, 103 n. Feuerbach, Ludwig A., 80. Filippini, Enrico, xv n. Findlay, Edward F.f xn n. Fink, Eugen, xiv, 114 e n, 115. Finzi, Sergio, 17 n. Flaubert, Gustave, 83 n. Formaggio, Dino, xvm n. Formend, Carlo, ix n. Frantz, Konstamin, l o o e n Frege, Gottlob F. L., 59. Freud, Sigmund, 41. Frobel, Julius C. F-, 100 e n. Fukuyama, Francis, xi e n, xn n . Fustel de Couknges, Numa Denys, 27 e n.

20, 87 e n, 88, 93 e n, 96, 101,

r*1.2?* I 3 3 ’

i 6 3 » i 66> *74 e n. Heidegger, Martin, vin, xiv, xxi n, xxvn, xxix-xxxi, xxxiv, 8 , 1 0 , 1 2 , x7n, 5 3 , 5 4 n, 55, 56, 58, 60 e n, 67 n, 85. Heisenberg, Werner, xiv. Herder, Johann G., xvn. Hess, Moses, 100 e n. Hider, Adolf, xrv. Hobsbawm, Eric J., vm e n, xi e n, xxm. Husserl, Edmund G. A., vm, xiv e n, xiv, xv e n, xvi n, xxvn, xxixxxxi, 3, 5, 6, 8-10, 12, 1 4 , 5 i »5 2> 54. 5&> 79» 9i. 167-70, 173. Ibn RuSd, Mu^iammad ibn Ahmad al-Hafìd, 88 n. Ibn Slnà, Abù ‘All, 75, 88 n. Jaeger, Werner, xrv. Jakobson, Roman, xm e n, 17 4 nJervolino, Domenico, xvn n, xx n, xxi n, xxn e n, xxm e n, 146 nJòrg, Josef Edmund, 100 e n. Junger, Ernst, xxxv, xxxvi, 12 5 e n, 135 e n, 1 3 9 , 1 4 0 , 1 4 6 n, 1 5 0 , 1 53 e il Kant, Immanuel, 55, 56, 6 1, 97 >

Galilei, Galileo, 95, 1 22. Galli della Loggia, Ernesto, xn n. Garufì, Bianca, 92 n. Gautama Buddha (Siddhàrtha Gau­ tama), 157 e n. Gerhardt, Dietrich, 99 n. Giametta, Sossio, 81 n. Gillen, Francis J., n o , n i . Giison, Etienne, xrv. Girgenri, Giuseppe, xiv n, xvn n, 9 n. Giuliano, Flavio Claudio, dettol’A­ postata, 117. Gollwitzer, Helmut, 64 n. Groh, Dieter, 99 n. Gurvitch, Georges, xnr. Hagedorn, Ludger, xxm n. Halévy, Elie, 102 e n. Hartmann, Nicolai, xiv. Haxthausen, August von, xoo e n. Hegel, Georg W. F., x e n, xix e n,

Keplero, Giovanni (Johannes K epler),

95*

Kierkegaard, ^ r e n A., 124. Klein, Jacob, xiv. Kobau, Pietro, 103 n. Kojève, Alexandre, xix e n. Komensky (Comenio), Jan A., xvn e n, xvm n, 173-76. Kouba, Pavel, xvn n, xvm e n , 2 n. Koyré, Alexandre, xrv. Kranz, Walther, 14 n, 3 5 " , 36 n' 4 6 n, 480, 49 n, 114 n, 132 n, i 53 n Kundera, Milan, xxi e n, xxn e n. Lalande, André, xiv. Landgrebe, Ludwig, xv, xvi. Lessing, Gotthold E., 84. Lévi-Strauss, Claude, 92 n. L*win, Kurt, 147 n. Losurdo, Domenico, 87 n.

x 83

INDICE DEI NOMI Ix>tti, Bruno, vm n. Lowith, Karl, 7 7 e n. Lyotard, Jean-Fran^ois, i x xn.

e n,

x e n,

Mach, Ernst, 4, Màcha, Karel Hynek, xvu. Magrini, Maria, 95 n. Mahler, Elisabeth, 164 n. Maimonide, vedi Musa ibn Maymun al-Yahùdl. Mandel'stam, Nadezda, 164 e n. Manganelli, Giorgio, 129 n. Marchi, Ena, xxi n. Marini, Alfredo, 18 n. Marini, Giuliano, x n. Mario, Karl, pseudonimo di Karl Georg Winkelblech, 100. Marx, Karl, 31,10 1,10 6 ,16 1 n, 162, 164 n. Masaryk, Tomas G., 173, 175. Masini, Ferruccio, 118 n. Mauro, Letterio, 65 n. Meadows, Dennis L., 105 n. Meadows, Donella H., 105 n. Merleau-Ponty, Maurice, xxvn. Montinari, Mazzino, 36 n. Mrstik, Vilém, 65 e n. Musa ibn Maymun al-Yahùdl, 88 n. Nastri, Teresa, xvn n, xxi n. Nellenm Klaus, xm n. Némec, Jiri, xm n. Neri, Guido D., xvi n, xvm e n, xix, xx n, xxn n, xxrn, 34 n. Nietzsche, Friedrich W., xxxiv, 36 n, 65, 66, 81 n, 103 e n, 104, 118 e n. Nijhoff, Martinus, xxvn. Novalis, pseudonimo di Georg Fried­ rich Philipp von Hardenberg, 87 n. Pici, Enzo, xvm e n. Pacim, Gianlorenzo, v i i n, xvm n. Pantano, Alessandra, xvi n, xvm n,

34 n, 173*

Piolo di Tarso, santo, 118 e n. Pucal, Blaise, 124. Paracelso, pseudonimo di Philippus Aurcolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, 122.

Parmenide di Elea, 46 n. Pasquali, Giorgio, 27 n. Pasquinelli, Angelo, 14 n, 49 n, 132 n. Perrotta, Gennaro, 27 n. Petrosino, Silvano, xxi n. Planck, Max, xiv. Platone, xiv, xvu, xxvm, 39, 40,46 e n, 47, 62, 72-74, 88 n, 91, 1*14, 115, 116 n, 117, 118, 122, 123, 158 e n. Pocecco, Antonella, 102 n. Poe, Edgar A., 129 e n. Pons, Silvio, xx n. Principe, Quirino, 136 n. Proguidis, Lakis, xxi n. Quispel, Gilles, 116 e n, 117 e n. Randers, Jorgen, 105 n. Ravano, Anna, xxi n. Reale, Giovanni, xiv n, xxm n, 9 n. Rembrandt, Harmenszoon Van Rijn, xxvm. Rezek, Petr, xrv n, 9 n. Ricoeur, Paul, vm e n, xm e n, xx e n, 177. Romano, Ruggiero, 19 n. Rorty, Richard, xxm e n. Ruggenini, Mario, xxn n. Russell, Bertrand A. W., 4. Sartre, Jean-Paul, xvm. Schelling, Friedrich W. J. von, 41, 163, 164 e n. Schròdinger, Erwin, xiv. Seneca, Lucio Anneo, 89. Sepp, Hans R., xxm n. Serse I, re di Persia, 39. Service, Robert, xx n. Sessa, Lucio, xi n. Siddhàrtha Gautama, vedi Gautama Buddha. Sieburg, Friedrich, 137 e n. Socrate, xvu, xxm, 67, 83, 113, 151, 158. Spencer, Walter B., no, in . Strasser, Stephan, xrv n. Strauss, Leo, 88 n. Talete di Mileto, 14 n. Tedeschi Negri, Flora, 77 n, Teilhard de Chardin, Pierre, xxxvi,

i% 4 I N D IC E D E I N o M i

* 3 9 c n, 140, 14 5 » x4 6 n, 148, ^ *50, 153. Tenenti, Alberto, 19 n. Tocqueville, Alexis Henri Charles de Clérel, visconte di, 97, 1 2 1 . Tomassucci, Giovanna, xxn n. Treves, Angelo, 103 n. Utits, Erail, xv. Van Breda, Herman Leo, xvi. Villa, Agostino, 103 n. Vojtéch, Daniel, xxn n. Volpi, Franco, 67. Weischedel, Wilhelm, 64 e n, 65 n, 7 9 , 8 1 , 8 4 , 85. Whitehead, Alfred N., 4, 5 n. Zamboni, Chiara, xvm n. Zorzi, Renzo, 95 n. Zumr, Josef, xvm n.