Sacro contemporaneo: Rassegna di Architettura e Urbanistica Anno LVII, numero 166, gennaio-aprile 2022 [166, 1 ed.] 9788822908995, 9788822913272

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Sacro contemporaneo: Rassegna di Architettura e Urbanistica Anno LVII, numero 166, gennaio-aprile 2022 [166, 1 ed.]
 9788822908995, 9788822913272

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RASSEGNA DI ARCHITETTURA E URBANISTICA

Consiglio scientifico Maria Argenti (Direttore responsabile) Lucio Valerio Barbera Andrés Cánovas Alcaraz Giorgio Ciucci Jean-Louis Cohen Paolo Colarossi Claudia Conforti Umberto De Martino Alberto Ferlenga Tullia Iori Fulvio Irace Elisabeth Kieven Francesco Moschini Alessandra Muntoni Valérie Nègre Carlo Olmo Elio Piroddi Piero Ostilio Rossi Sergio Rotondi Fabrizio Toppetti Comitato editoriale Michele Costanzo Fabio Cutroni Maura Percoco Segreteria Gianpaola Spirito

RASSEGNA DI ARCHITETTURA E URBANISTICA Pubblicazione quadrimestrale della Sapienza Università di Roma Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale Facoltà di Ingegneria Civile e Industriale «Rassegna di Architettura e Urbanistica» è una rivista internazionale di architettura con testi in italiano o in lingua originale ed estratti in inglese. Le proposte di pubblicazione che pervengono in redazione sono sottoposte alla valutazione del Consiglio scientifico-editoriale secondo competenze specifiche e avvalendosi di esperti esterni con il criterio della double blind review. La rivista adotta un proprio codice etico ispirato alle Best Practice Guidelines for Journal Editors (COPE). Direzione e redazione Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale Facoltà di Ingegneria Civile e Industriale via Eudossiana, 18 – 00184 Roma [email protected] [email protected] Website www.rassegnadiarchitettura.it a cura di Maria Argenti e Franco Squicciarini Autorizzazione del Tribunale di Roma del 27-3-65 n. 10277 Centro di spesa Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale Facoltà di Ingegneria Civile e Industriale La rivista usufruisce di un contributo annuo della Sapienza Università di Roma Editore Quodlibet srl via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 62100 Macerata www.quodlibet.it issn 0392-8608 isbn 978-88-229-0899-5 | e-isbn 978-88-229-1327-2 Abbonamento annuo (3 numeri) Italia carta € 40,00 Italia online € 20,00 Italia carta + online € 50,00 Estero carta € 59,00 Estero online € 20,00 Estero carta + online € 69,00

Il presente numero è a cura di Maria Argenti e Maura Percoco

Per abbonarsi o per acquistare fascicoli arretrati rivolgersi a Quodlibet srl, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23, 62100 Macerata, tel. 0733.264965, [email protected] In copertina: Dellekamp/Schleich, AGENdA Agencia de Arquitectura, Santuario del Señor de Tula, Jojutla de Juárez, Messico, 2020. In primo piano l’aula all’aperto parzialmente coperta, sul fondo i resti della chiesa di San Miguel. Foto Rafael Gamo (elaborazione grafica).

RASSEGNA DI ARCHITETTURA E URBANISTICA Sacro contemporaneo

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RASSEGNA DI ARCHITETTURA E URBANISTICA Anno LVII, numero 166, gennaio-aprile 2022 | Year LVII, number 166, January-April 2022 Sacro contemporaneo | Sacred Contemporary

Sommario | Contents Maria Argenti, Maura Percoco Editoriale. La misura del sacro nella smisuratezza contemporanea | The Measure of the Sacred in Our Measureless Contemporary Era

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DIBATTITO | DEBATE José Tolentino Mendonça Nuove forme di conversazione | New Forms of Conversation Álvaro Siza Io e il sacro in architettura. Dialogo con José Tolentino Mendonça | The Sacred in Architecture and I. In Dialogue with José Tolentino Mendonça

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João Norton de Matos Il sacro nell’architettura e nella società secolare | The Sacred in Architecture and in the Secular Society

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Sabina Tanović The Mood of the Sacred: Agency and Appropriation in Memorial Architecture

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Lidia Decandia Tasselli di buio e di silenzio: «controambienti del sublime» | Expanses of Darkness and Silence: “Counter-Environments of the Sublime”

31

RICERCHE | RESEARCHES Lorenzo Grieco Memoria, materia e architettura. Il recupero delle chiese bombardate nel Regno Unito | Memory, Materiality and Architecture. The Renewal of Blitzed Churches in the United Kingdom

39

Joaquim Félix de Carvalho Il lieve poggia a terra, il pesante è sospeso. Del fruire senziente nelle cappelle di Braga | Lightness Rests Upon the Earth, Weight Is Suspended. On the Sentient Use of the Braga Chapels

46

Federica Morgia Sacralità sociale. La chiesa di San Giacomo Apostolo a Ferrara | Social Sacredness. The Church of San Giacomo the Apostle, in Ferrara

58

Carlo Atzeni, Silvia Mocci Il villaggio, l’incrocio, la casa, la chiesa, la croce. Complesso parrocchiale di Santa Chiara a Sini | The Village, the Crossroads, the House, the Church, the Cross. Parish Church Complex of Santa Chiara in Sini

65

Jacopo Gresleri Modelli «rassicuranti». La chiesa del Buon Ladrone a Bologna | “Reassuring” Models. The Church of Buon Ladrone, in Bologna

72

Maria Argenti Una diversa concezione del sacro. Il Santuario del Señor de Tula a Jojutla de Juárez e le cappelle aperte | A Diverse Notion of the Sacred. The Santuario Señor de Tula in Jojutla de Juárez and the Open Chapels

78

Gianpaola Spirito Architetture della memoria in America Latina | Architectures of Memory in Latin America

88

Roberto Pasini Una chiesa e un paesaggio sulla Cordillera del Litoral in Venezuela | A Church and a Landscape in the Cordillera del Litoral, Venezuela

95

Maura Percoco Sacralità del quotidiano. La moschea Bait ur Rouf a Dacca | The Sacredness of the Everyday. The Bait ur Rouf Mosque in Dhaka 103 Francesca Sarno Sulla soglia dell’altrove. La Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque | On the Threshold of the Elsewhere. The Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque

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Abstracts

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Biografie degli autori | Author biographies

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Editoriale

La misura del sacro nella smisuratezza contemporanea Il culto del qui e ora e l’utilità immediata come misura di ogni cosa hanno determinato il prevalere di un modello sociale basato sull’accumulo – anche sproporzionato – come diritto dei singoli, e dello scarto – proporzionato a questo squilibrio – come conseguenza inevitabile, da gestire piuttosto che da evitare o almeno ridurre. Il narcisismo individualista è divenuto l’ingrediente base di comunità sempre più disgregate; e la smisuratezza appare la misura della qualità anche architettonica. In queste caratteristiche del nostro tempo, che sembra aver dissacrato (nel senso più laico del termine) la bellezza dinamica della storia e corrotto la gratuità delle relazioni, si può trovare forse la ragione della perdita del senso del sacro come valore condiviso, fattore di persistenza di un luogo e di una comunità. Il fondamento materialista dell’era digitale, paradossalmente dominata dalla incorporeità del virtuale, ha portato, nell’uomo contemporaneo, a un fraintendimento del sentimento del sacro. Per un verso lo ha relegato a mera convenzione sociale, considerata illogica in quanto apparentemente non fondata sulla ragione; e per un altro lo ha esaltato ma solo nella sua forma, che irrazionalmente ha finito con il considerare immobile, congelata, e venera come fosse essa stessa il tutto che invece rappresenta. In questo anche l’architettura rischia di smarrire la sua strada. Come osserva nel suo saggio José Tolentino Mendonça, «la religione non detiene oggi la centralità egemonica che ne faceva il sistema dominante di senso, contro il quale, in passato, si sono posizionati in termini critici l’arte, la cultura e il pensiero. Al contrario, nel regime odierno essa non di rado appare confinata a una lateralità sommersa, una quasi clandestinità culturale che spetta (anche) alla contemporaneità riscattare». E il tempo di questo riscatto, forse, è ora. Da più parti, arrivano infatti segnali di quanto sia fragile questo sentire; e di come sia forte invece un rinnovato bisogno e desiderio di sacralità; non solo nel senso che le viene dall’accadico sakāru «sbarrare, interdire, separare» ma anche in quello che trova la sua radice nella parola sanscrita sac, che vuol dire fra l’altro unire, collegare, attaccare, aderire. La natura relazionale, cangiante, della nozione di sacro segnata dall’indicibile, dall’incommensurabile, riemerge come un’araba fenice. Si tratta di un bisogno spirituale, insopprimibile, che reclama anche luoghi concreti, spazi fisici capaci di significarlo; in questo senso sacri, non necessariamente religiosi. Sacri sono certamente gli spazi liturgici, descritti in questo numero da un liturgista cattolico, Joaquim Félix de Carvalho, in forma poetico esperienziale, quasi un rito processionale in cui l’autore fa da guida al lettore nella visita alle cappelle di Braga. Ma come osserva Álvaro Siza, «il concetto di sacro è molto più ampio di quello di religioso». «La pratica, in qualsiasi fede, ha regole, modi di relazionarsi con Dio e tra i credenti. Le religioni sono addirittura la causa delle guerre, anche oggi. La religione è una cosa regolata. L’idea del sacro è più universale, più completa. Ha a che fare con la cura, con la tutela, con la separazione, con ciò che è intoccabile». Sacro non è infatti solo ciò che riguarda il culto. Sacro è anche ciò a cui riserviamo una attenzione particolare, che proteggiamo come inviolabile. Sacro è anche tutto ciò che rende visibile e duraturo nel tempo un rapporto, un legame. Sacro è ciò che è capace di offrire ristoro all’inquietudine delle nostre coscienze. Sacre sono le nostre radici, ed è sacro ciò che vogliamo tramandare. Sacro è ciò che ci rimanda ad un oltre. Ed è interessante su questo leggere quel che osserva Siza: «Anche chi si definisce agnostico ha una sua spiritualità. La spiritualità è la vita dello spirito e lo spirito non è necessariamente religioso».

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editoriale

Qual è allora il contributo dell’architettura contemporanea in questo processo di risignificazione dello spazio sacro come luogo dello spirito? Interrogarsi sulla capacità e il ruolo del progetto nel farsi interprete e precursore delle attuali esigenze mistiche e simboliche, è l’intento di questo numero della rivista. A partire da quel che citando Louis Kahn afferma João Norton de Matos a proposito dell’architettura, o della dimensione ineffabile dell’architettura: «un buon edificio deve iniziare con l’incommensurabile, passare attraverso strumenti misurabili durante la progettazione e, alla fine, diventare di nuovo incommensurabile». In quali modi l’arte di costruire esprime oggi il suo potenziale trascendente ponendosi come strumento di mediazione tra la nostra coscienza e il senso del vivere? Quale forma espressiva, quale dimensione e materialità, quali logiche e quali estetiche hanno gli spazi di contemplazione, di sosta, di silenzio, preghiera e raccoglimento nel nostro tempo così confuso e frenetico? Dove è presente nella vita quotidiana individuale e sociale lo spazio di culto? Raduna ancora una collettività? In quale misura la costruisce e la rappresenta dando forma alle nostre città? Al di là di un approccio classico al tema (rappresentato da chiese, moschee, sinagoghe) in che modo il sacro contemporaneo riguarda esperienze architettoniche «altre», informali, costruzioni silenziose, spazi intimi inattesi o anche non luoghi del quotidiano, capaci di metterci in contatto con l’oltre, l’ignoto e, se credenti, con il divino? Si può cercare un comune denominatore in quelle architetture religiose, o semplicemente appunto sacre, che attraverso i propri spazi si pongono il problema di preservare un bene immateriale (ideale, valoriale), facendolo diventare ciò che visivamente unisce una pluralità di persone, e trasforma in memoria collettiva le memorie individuali, senza che queste perdano la propria identità, tessendo una fede comunitaria in luogo di una fede altrimenti singolare? In questa accezione sono sacre le chiese e i templi, certo; ma sono sacri anche i memorial, che individuano nel ricordo il valore che trascendendolo dà un senso al tempo (passato e presente). Ed è sacra la natura anche; non solo in generale, ma quando la costruzione di una soglia, di un percorso, di un discorso, esalta il suo aspetto relazionale. Nel suo saggio Lidia Decandia, narra con straordinaria acutezza «la ricerca di nuovi spazi di contemplazione, di silenzio in cui poter sostare, per riprendere, nell’insensato movimento che caratterizza ormai le nostre vite, i contatti con la propria finitezza, trascendere la mediocrità del quotidiano, riporsi le grandi domande sull’esistenza e sul cosmo». Con un approccio diverso, Roberto Pasini riprende il tema del paesaggio e analizza il lungo processo di progettazione partecipata e autocostruzione che ha portato alla realizzazione, attraverso il lavoro comunitario, di una piccola chiesa sulla Cordillera del Litoral in Venezuela. La dimensione sacra dell’architettura oltrepassa dunque sia gli oggetti, sia le singole religioni, riguarda la progettazione di spazi pensati per facilitare, costruire letteralmente, tramite il loro attraversamento, la riflessione sul senso della vita e sulle ragioni ultime della nostra esistenza o preservare il ricordo di eventi significativi. In questo senso sono sacri allora gli spazi che suscitano la memoria, che sono memoria essi stessi: della storia che si fa e che si disfa, luoghi che scavano la giusta distanza tra noi e il tempo presente, per consentirci di vederlo in prospettiva, testimoni della possibilità di sottrarsi a questo flusso fissandolo nel divenire. Lorenzo Grieco affronta il valore immateriale della memoria nel saggio sulla ricostruzione delle chiese danneggiate dai bombardamenti nel Regno Unito: un cammino tra restauro, riutilizzo e riconoscimento del valore della rovina come essenza della sacralità del rito, una riflessione sul potere ammonitore delle chiese distrutte, convertite in monumenti di guerra. Sabina Tanović riprende attraverso l’analisi di alcuni memorial, la questione relativa alle architetture dedicate al ricordo delle atrocità commesse nel corso della storia recente. Ri-iniziare un discorso è lo scopo di questo numero: «la ricerca di nuove forme di conversazione», come ci dice José Tolentino. Sottolineando quanto non sia un compito da poco «quello che nel nostro tempo la cultura esige da noi: la creatività, per forgiare nuove architetture capaci di fare tesoro di ciò che rappresenta, nella sua ampiezza e diversità, l’inalienabile patrimonio fisico e spirituale della nostra umanità». maria argenti, maura percoco

DIBATTITO

Nuove forme di conversazione José Tolentino Mendonça

«Un argomento difficile da trattare». È così che lo storico e critico d’arte statunitense James Elkins vede il rapporto tra creazione artistica e religione nella contemporaneità. Il suo saggio più conosciuto sul tema reca un titolo che dice tutto: The Strange Place of Religion in Contemporary Art (2004). Uno «strano posto» perché? Ci sono certamente ragioni culturali antiche, collegate al dibattito che fonda la modernità: l’emergere dell’autonomia dello spazio secolare di fronte al religioso; la rivendicazione della libertà individuale, che reinterpreta la stretta normatività dell’ethos comunitario; lo smantellamento di una visione sociale che aveva nel riferimento religioso il suo elemento decisivo di definizione, ecc. Ciononostante, rivisitare le ragioni storiche all’origine dell’odierna frattura non ci esime dal dovere di pensare il presente, senza preconcetti, dal momento che i presupposti della relazione tra arte, architettura e religione non sono più gli stessi. Elkins per esempio ricorda che, mentre l’università in quanto istituzione si è giustamente fatta più sensibile e attenta ai diritti civili, non ha però ancora esteso lo stesso grado di coscientizzazione al campo religioso. E dice: «Mentre negli ultimi vent’anni si sono fatti grossi passi avanti nell’affrontare questioni razziali e di razzismo, di privilegi sociali, di diritti delle donne, di identità di genere e di sessualità, le questioni religiose sono a malapena menzionate»1. E insiste che «la religione fa parte della vita ed è intimamente intrecciata con tutto ciò che pensiamo e facciamo, sembra assurdo che non trovi un posto nel dibattito»2. La religione non detiene oggi la centralità egemonica che ne faceva il sistema dominante

di senso, contro il quale, in passato, si sono posizionati in termini critici l’arte, la cultura e il pensiero. Al contrario, nel regime odierno essa non di rado appare confinata a una lateralità sommersa, una quasi clandestinità culturale che spetta (anche) alla contemporaneità riscattare. Nell’impattante ritratto della contemporaneità delineato dal filosofo Charles Taylor nell’ottica del credere e del non credere (A Secular Age, 2007), un dato fondamentale che emerge è che l’orizzonte si è modificato e i modi del credere – come pure del non credere – vengono percepiti tutti allo stesso modo contestabili e fragili. Non viviamo più in un’era di fede omogenea e al riparo da ogni messa in discussione – se mai la si può descrivere in tali termini –, ma neppure siamo più nel tempo in cui l’ateismo pareva rivendicare una sorta di superiorità culturale, come nel periodo dell’Illuminismo e della sua lunga eredità. E Taylor prende posizione contro una narrazione che pretenderebbe di progettare il futuro a partire dalle teorie della «sottrazione», come se esistesse incompatibilità fra la religione e la complessità della modernità con i suoi nuovi immaginari sociali. Ove fosse presente l’una, non ci sarebbe spazio per l’altra. Invece di parlare di sottrazione, egli preferisce parlare dell’attuale fase della storia come di una «occasione per la ricomposizione»3, che rende possibile l’emergere di nuove forme di nuovi modi di esistenza. C’è veramente tutto un mondo di relazioni da riscoprire e da inventare, ma occorre costruire un percorso di conversazione e dibattito, possibilmente libero dagli schematismi, dai fantasmi e dalle costrizio-

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nuove forme di conversazione

ni precedenti, attivando genuine politiche di reciproco riconoscimento. Ora, questo passa per il privilegiare l’esercizio del dialogo, lo scambio narrativo, l’incontro fra attori non necessariamente sovrapponibili ma capaci di mutuo ascolto. Nella recente enciclica Fratelli tutti4, uno dei temi più frequentati è precisamente quello del dialogo. Afferma papa Francesco: «In una società pluralista, il dialogo è la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che dev’essere sempre affermato e rispettato, e che va oltre il consenso occasionale» (n. 211). Non si avanza storicamente, né si rilanciano alleanze che siano umanamente significative senza la capacità di riconoscere l’altro, guardando alla diversità non come a un ostacolo ma come a una condizione di dialogo che ci arricchisce. Evitiamo dunque le visioni monolitiche ed escludenti. Il Papa propone anzi di guardare alla vita come a «quel poliedro che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti compongono un’unità ric-

ca di sfumature». E sottolinea: «Il poliedro rappresenta una società in cui le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda, benché ciò comporti discussioni» (n. 215). Un’indicazione interessante delle nuove morfologie di dialogo tra la religione e il mondo moderno è quella, per esempio, dello storico e filosofo Marcel Gauchet5, che aiuta a vedere come le società, via via che si sono rese autonome dall’orbita della religione, non hanno però cessato di continuare ad essere caratterizzate da una persistenza del religioso. Questo torna ad emergere sempre di nuovo, sotto altre tipologie, poiché permane un «substrato soggettivo ineliminabile del fenomeno religioso», forse non più in una forma tradizionale e «in un contenuto dogmatico stabilito», ma fondamentalmente come «esperienza personale»6. E Gauchet presenta tre ambiti di esperienza personale in cui il substrato religioso è un necessario partner del dialogo. L’esperienza duale della conoscenza

1. Álvaro Siza, Chiesa di Santa Maria, Marco de Canaveses, Portogallo, 1996. Foto Maria Argenti.

Lo schema duale della relazione, «Io/e l’Altro», da solo non produce la fede, né prolunga il sacro, ma è lo schema che serve da supporto all’esperienza religiosa, e che più di altri è stato da essa tematizzato. Ora, la verità è che questo schema continua ad essere per noi assolutamente vitale, nella relazione con noi stessi e nel nostro essere-nel-mondo. La nostra esperienza si organizza in questa forma e reclama l’orizzonte dell’altro. Inoltre, l’esperienza che facciamo della realtà è che essa è inafferrabile e ci rinvia sempre a un’altra realtà, e poi a un’altra, e a un’altra ancora. La nostra conoscenza è sempre una parte della conoscenza possibile. Una deduzione elementare del nostro contatto con il reale è la sua divisione tra ciò che i nostri occhi attingono e ciò che ci rimane nascosto, tra l’apparenza e la verità, il sensibile e l’intelligibile, l’immanenza e la trascendenza. La realtà, interna ed esteriore, si dispiega su una molteplicità di piani, su una rete di oggetti distinti, su un accumulo di differenze concrete. Il registro biografico del mondo, per lo meno com’è raccontato dagli uomini, si rivela pertanto inesorabilmente duale.

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L’esperienza estetica E allo stesso modo possiamo dire che il nostro abitare il reale non si riassume in un neutro registro percettivo di dati. Esso è segnato (e spesso redento) dalla virtualità di un’esperienza estetica. Come scrisse il poeta Fernando Pessoa: «La stupenda realtà delle cose / è la mia scoperta di tutti i giorni. / Ogni cosa è quel che è, / ed è difficile spiegare quanto questo mi rallegri, / e quanto questo mi basti». Per Marcel Gauchet, la nostra capacità di emozione davanti allo sconvolgente spettacolo delle cose proviene, in un modo fondamentale e recondito, dalla nostra inscrizione nell’essere, e, attraverso di essa, noi comunichiamo con ciò che per millenni è stato il senso del sacro: «L’arte – scrive Gauchet –, nel senso specifico in cui noi moderni la intendiamo, è la continuazione del sacro con altri mezzi»7. E per illustrare questa sorta di inerente vestigia dei ricorre ancora al lessico religioso per definire quello che nell’esperienza estetica è in gioco: «È la fratturante prossimità dell’invisibile al cuore del visibile»8. Oggi certamente esiste un’attività autonoma di esplorazione del sensibile in ogni gamma di registri e modulazioni. Ma possiamo intravedere tracce di un riverbero più antico esattamente in questa ricerca, mai conclusa, di frantumare lo schermo della superficie, nella deduzione di una trascendenza interna che sopravviva alle apparenze, nella manifestazione incessante del mondo come altro da sé. L’esperienza del problema che noi siamo per noi stessi Se c’è una cosa che riassume la coscienza di sé è che noi costituiamo per noi stessi un enigmatico oggetto di pensiero. Siamo una domanda che si sovrappone alle risposte che esistenzialmente (e storicamente) andiamo

josé tolentino mendonça

trovando. Ora, afferma Gauchet, «il declino della religione si paga con la difficoltà di essere se stessi»9. Le nostre società sono diventate psichicamente estenuanti per gli individui, e sembra mancare un supporto per le difficili questioni eterne che tornano a sferzare con maggior frequenza: perché proprio a me? Che fare della mia vita quando mi ritrovo da solo a decidere? A cosa serve vivere se dobbiamo scomparire senza lasciar traccia, come se agli occhi degli altri non fossimo mai vissuti? C’è una persistenza del religioso in questo dolore umano, mai completamente risolto: la paradossale condizione di essere. Come ben diceva lo scrittore Jean Cocteau, «in fin dei conti, tutto si aggiusta, salvo la difficoltà di essere». Non è compito da poco quello che nel nostro tempo la cultura esige da noi: la creatività, per forgiare nuove architetture capaci di fare tesoro di ciò che rappresenta, nella sua ampiezza e diversità, l’inalienabile patrimonio fisico e spirituale della nostra umanità. Mettiamoci perciò alla ricerca di nuove forme di conversazione.

Note J. Elkins, Lo strano posto della religione nell’arte contemporanea, Johan & Levi Editore, Monza 2022, p. 14. 2 Ivi, p. 127. 3 C. Taylor, A Secular Age, Belknap Press, Cambridge 2007, p. 437; trad. it. L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009. 4 Papa Francesco in www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html. 5 M. Gauchet, Le désenchantement du monde, Gallimard, Paris 1985; trad. it. Il disincanto del mondo, Einaudi, Torino 1992. 6 Ivi, p. 292. 7 Ivi, p. 297. 8 Ibid. 9 Ivi, p. 302. 1

Io e il sacro in architettura Dialogo con José Tolentino Mendonça Álvaro Siza

Il testo che segue è il racconto, scritto in prima persona, di una conversazione di Álvaro Siza con José Tolentino Mendonça, poeta portoghese, teologo, cardinale, archivista e bibliotecario della Santa Sede. È difficile rispondere a una domanda su come io affronto l’«architettura sacra» o l’«arte religiosa». Sono espressioni difficili. Per farlo, ho dovuto indagare sui concetti di «sacro» e «religioso». Mi sembra che il concetto di «sacro» sia molto più ampio di quello di «religioso». La pratica religiosa, in qualsiasi religione, ha regole, prassi, modi di relazionarsi con Dio e tra i credenti. Le religioni sono addirittura la causa delle guerre, anche oggi. La religione è una cosa regolata. L’idea del sacro è più universale, più completa. Ha a che fare con la cura, con la tutela, con la separazione, con ciò che è intoccabile. È più un’idea, mentre la religiosità è più una pratica, un modo di aderire ai precetti. Se mi domandi sull’arte sacra, la mia risposta è che i libri e i musei sono pieni di arte religiosa. Sono secoli di lavoro. La storia della pittura può essere fatta, almeno fino a un certo punto, fino agli impressionisti, attraverso l’arte religiosa. Se mi domandi di evidenziare due o tre edifici religiosi, antichi o contemporanei, che mi hanno colpito di più, ti rispondo i due di Le Corbusier: Ronchamp e La Tourette. Il loro impatto è stato enorme; anche rispetto alle perplessità dei più convinti corbusieriani, perché contraddicevano gran parte dei canoni dell’architettura moderna che lui stesso aveva definito. A Ronchamp e a La Tourette si può vedere come quest’uomo avesse visto molto, a par-

tire dal suo viaggio in Oriente. E come avesse studiato molto: tutti gli aspetti della luce, dell’atmosfera… con una grande connessione a quella scenografia dello spazio. Questi ambienti sono la grande sintesi moderna dell’architettura religiosa. Ma queste influenze possono essere anche un pericolo, come lo è quella esercitata da Frank Lloyd Wright e come quella in generale dei grandi maestri dell’architettura. Un’influenza diretta è un pericolo. Un’altra cosa è l’influenza che si incrocia con altre memorie. È quello che è successo a Ronchamp. C’è uno schizzo di Le Corbusier fatto nella sua casa in Marocco o in Algeria. Ronchamp è tutta in questo schizzo. Le torri che portano la luce sono le torri tradizionali utilizzate per la ventilazione degli edifici. Le Corbusier fonde tutte queste reminiscenze e così è profondamente originale. Poi certo, hai ragione, è noto quanto sia stata importante per lui l’architettura religiosa, in particolare l’habitat certosino. L’architettura certosina pone in modo molto forte la questione della solitudine, dell’intimità e della convivialità, nel contrapporre la sequenza di celle ad un grande spazio comunitario. Credo che questo, più di ogni altra cosa, abbia impressionato Le Corbusier: il rapporto fra pubblico e privato. La casa è questo: uno spazio intimo, privato, ma con una connessione al mondo, al quartiere, alla città… E anche la certosa è questo, ma con una maggiore distanza dal «mondo». Nell’unità di Marsiglia, le abitazioni familiari sono quasi delle celle; ma c’è anche una grande attenzione agli spazi comuni: la meravigliosa terrazza, il supporto commerciale, un grande

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álvaro siza

1-3. Álvaro Siza, Algumas cenas da Paixão de Cristo, 2020.

atrio trasparente, il rapporto con la città. Uno degli aspetti sorprendenti dell’architettura di Le Corbusier è quella sorta di inquietudine che porta all’introduzione di contraddizioni. Per esempio, l’edificio è su pilastri, ma questi hanno una massa che caratterizza bene lo spazio, in un certo senso chiuso. Lui parla molto di questa trasparenza mediata dai pilastri. Ci sono molti suoi disegni su questo. A Marsiglia, per esempio, la terra scavata per le fondazioni è servita per fare una piccola collina, per tagliare in qualche modo quella trasparenza, per mettere lì un’interruzione. Se mi domandi del mio rapporto con l’arte e l’architettura sacra, ti posso raccontare di come, quando dovevo progettare la chiesa di Santa Maria, a Marco de Canaveses, sono andato a vedere una mostra di arte sacra moderna, qui a Porto, e sono rimasto deluso da quello che ho visto in termini di scultura religiosa. Rappresentare Cristo provoca una grande inibizione: ci sono secoli di croci, ci sono milioni di meravigliose croci di Cristo e quindi c’è qualche scrupolo. C’è anche la questione della ricezione dell’arte moderna nelle chiese: allora era praticamente assente o di scarsa qualità. Così ho sentito anche io quell’inibizione. Ma,

pressato dalle circostanze, ho pensato di andare avanti. Avevo certi obiettivi in relazione allo spazio della chiesa: il posizionamento, l’esposizione alla luce, ecc. Ho iniziato facendo dei tentativi per rappresentare l’immagine di Cristo sulla croce, ma senza esito. Quello che disegnavo non mi soddisfaceva. Dato che non riuscivo a trovare un’immagine convincente, ho cercato un’alternativa. Mi è venuta l’idea di sottintendere solo la presenza di un corpo sulla croce. Il modo in cui la croce è montata, la connessione dei bracci, il leggero allargamento dell’elemento verticale, alludono ad un corpo. Questa difficoltà a trovare buone soluzioni, o soluzioni soddisfacenti, non riguarda solo la scultura. Riguarda anche l’architettura. C’è stata una grande difficoltà a trovare il tono, a integrare i segni della modernità nell’architettura religiosa. Difficoltà da parte degli architetti e difficoltà da parte del clero ad accettare nuove proposte. Ricordo che un giorno, in Italia, quando ho vinto il premio Frate Sole [per il progetto della chiesa di Marco, assegnato nel 2000] due teologi mi hanno avvicinato per chiedermi di progettare una chiesa. Credo che fossero vicini

io e il sacro in architettura

al cardinale Martini. In quell’occasione ho sentito un grande desiderio di rinnovare l’architettura sacra. Purtroppo il progetto non è andato avanti… Ma già in precedenza avevo visto buoni segnali di apertura. Alla fine degli anni Settanta, se non sbaglio, mi fu commissionato un progetto per la conservazione di una chiesa in rovina a Salemi, in Sicilia. Parlai con una persona vicina a Papa Paolo VI, un Papa molto intelligente. Sentivo che c’era un’inquietudine e un desiderio di introdurre idee moderne nelle opere della Chiesa. C’è stato un impulso all’aggiornamento, dopo il Concilio Vaticano II. Poi, non so perché, quel fuoco si è un po’ perso. Certo, è diverso avere a che fare con Gesù rispetto a qualsiasi altra figura della storia. La differenza è nell’intensità e nel valore senza tempo della testimonianza di quella vita. Ho sempre avuto qualche scrupolo nel trattare questo argomento a causa della sua rilevanza storica. Ho sentito dire che lo scrupolo, nella sua origine etimologica, è una piccola pietra che impedisce un approccio senza ostacoli. Ecco: ho qualche inibizione nell’avvicinarmi alla figura di Gesù, anche nel rappresentarlo, per il peso che porta nella nostra cultura.

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Ma se mi domandi cosa ho capito e cosa invece non ho ancora capito nel rappresentare ripetutamente il dramma di Gesù, ti rispondo che per me tutta la vita di Gesù, almeno quella che conosco io, è l’andare incontro a coloro che soffrono, a coloro che sono umiliati, a coloro che sono emarginati. Penso che questo messaggio sia molto forte, l’essere lui libero da tutti i pregiudizi che esistevano. La sua è stata una vita santa, di dedizione ai più poveri. E questo include anche i suoi momenti di sofferenza e di debolezza, come quello in cui disse sulla croce: «Padre, perché mi hai abbandonato?» È come se concentrasse in sé tutto ciò che nella natura umana è debolezza e fragilità. È un peccato che la Chiesa, in molti momenti della storia, si sia schierata con i poteri oppressivi e abbia dimenticato di difendere i più deboli. Io alla rappresentazione di Cristo sono arrivato dopo aver frequentato da ragazzo la scuola di catechismo. Lì ho avuto il mio primo contatto con la figura di Gesù, anche se la pedagogia non era forse la migliore. Poi ho avuto un contatto permanente con lui attraverso l’arte: pittura, scultura, disegno, musica, letteratura. La figura di Cristo è presente in tutta la varietà di situazioni che ha la vita di chiunque. Ci sono i cristi sofferenti, quelli della serenità, quelli del movimento o del riposo. E i cristi della morte. L’immagine di Cristo e delle figure intorno a Cristo sono state e sono presenti in tutta la mia vita. È quasi impossibile, quando mi manca lo stimolo per disegnare, non ricorrere alla sua figura e alla sua vita, così piena di avventure e momenti ricchi di significato. È una questione culturale. È anche una specie di sfida, questa profusione di immagini in relazione a Cristo. Fare l’ennesimo Cristo che non ha nulla di nuovo dal punto di vista espressivo, qualcosa che attira l’attenzione, non per esibizionismo, ma per concentrazione, non vale la pena… A casa della mia bisnonna c’era una Bibbia, un volume spesso. C’era un altro grosso volume, Don Chisciotte, con incisioni di Gustave Doré. Credo che anche la Bibbia fosse illustrata da lui. Quando ci andavamo, la bisnonna ci mostrava i libri, li apriva per farceli vedere. Quel suo gesto è rimasto in me, più delle foto che ho visto in chiesa. In chiesa badavo di più alle finestre alte (ride)… Ogni persona ha un cammino che comprende tappe, momenti di vicinanza alla fede

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4. Álvaro Siza, Uma cena da Paixão de Cristo, 2020.

e momenti di distanza. Avere o non avere fede non è qualcosa di statico. Ricordo quello che qualcuno [Sant’Agostino] ha detto sulla questione del tempo: «Se non me lo chiedete, so cos’è, ma se me lo chiedete, non so spiegarlo». La domanda su Dio e sulla fede è un po’ così, non sapere come spiegare… Poi è vero, hai ragione, penso che anche chi si definisce agnostico ha una sua spiritualità. La spiritualità è la vita dello spirito e lo spirito non è necessariamente religioso. Metto in relazione l’agnosticismo con il dubbio, l’insoddisfazione. Se non credevo senza dubbio ero un ateo, non un agnostico. Il mio spirito in qualche modo vive in quel dubbio…. Cosa significa progettare una chiesa? Ricordo che il giorno dell’inaugurazione della chiesa [di Santa Maria, a Marco de Canaveses, Porto], una signora venne da me per congratularsi, ma fece un’osservazione: «sai cosa, in questa chiesa non riesco a concentrarmi perché c’è quella finestra [che inquadra l’esterno]…». Le risposi: «se ti concentri solo perché sei costretta dallo spazio, quella concentrazione non avrà molto valore»… (ride). C’è un’altra critica che mi è stata fatta perché l’edificio non ha una croce esterna, in alto, per segnalare la chiesa. Bene, mi sono posto la

sfida fondamentale di progettare uno spazio che fosse davvero una chiesa senza il bisogno di un’etichetta che dichiarasse: «questa è una chiesa». Mi sono costretto a concentrarmi sullo spazio stesso e sulla creazione di un ambiente. Una chiesa è più un ambiente che una somma di simboli. E c’è tutta l’atmosfera che ho vissuto nel contatto con le diverse chiese: gotica, piena di luce, romanica, piena di penombra, barocca, piena di luminosità e connessione con la città. Se mi interessa il misticismo, domandi? Se c’è un autore mistico o religioso che ricordo? Santa Teresa d’Avila… è quella che mi viene subito in mente. Ha passione, intensità. Può essere interessante per l’architettura e le arti. In qualche modo si può mettere in relazione il misticismo con l’ispirazione, che è il duro lavoro di ricerca di soluzioni a problemi concreti nel progetto. Spesso scherzo con i miei collaboratori quando, in questo processo di ricerca, e dopo molte ipotesi abbandonate, emerge finalmente una soluzione inaspettata. In quei momenti di illuminazione, e quando gli altri mi chiedono come ci sono arrivato, rispondo: «è stato Dio!» (ride). L’ispirazione ha un lavoro precedente e, durante questo lavoro, qualcosa che si deposita nel subconscio.

io e il sacro in architettura

Poi, più avanti, appare come se fosse un regalo. Ha anche a che fare con il mistero: della vita, del lavoro, della creazione artistica. Penso di aver fatto centinaia di disegni su Gesù. Quando stavo facendo ricerche per la croce di Marco ho disegnato una serie di cristi. Alcuni di loro hanno anche dato origine a una serigrafia… A quel tempo disegnavo molto, tanti disegni. Questi disegni, come quelli che faccio per lo sviluppo di un progetto, sono ipotesi. I cristi che disegno sono ipotesi di espressione. Nei miei quaderni rivestiti di nero tutto è mescolato: il diario, i disegni architettonici, i disegni spontanei, tutto… Sulla prima pagina del quaderno faccio il calendario. Poi continuo a prendere appunti, a fare ricerche sui progetti che ho in mano – sollevo diverse ipotesi per poi selezionare – dettagli, mobili. Nei quaderni scrivo anche piccole note o testi che mi vengono richiesti. Di notte, in generale, disegno cose che vedo in TV. Ci sono anche disegni che faccio su fogli sciolti (A3 o A4), quando non ho il taccuino a portata di mano. Quando si sviluppa una serie di disegni che alludono a un tema, Chiara [la responsabile dell’archivio] taglia abilmente i fogli e mette in evidenza quell’insieme, come è successo con questi disegni di Passione che sono nati tutti all’interno del quaderno. Poi archivia questi set per temi o per epoche. Mi dici che Laurent Beaudouin1 ha scritto che non ho bisogno di eteronimi «come il poeta Fernando Pessoa», che la mia mano, che è un altro me stesso, mi tiene compagnia e mi dice ciò che penso. Tutti abbiamo eteronimi perché dentro di noi ci sono contraddizioni e dubbi. Non diamo loro la forma filosofica e letteraria di Pessoa, ma ne abbiamo molti che convivono in noi. Siamo diversi, assumiamo ruoli diversi, ma, per ragioni pratiche, non diamo autonomia a queste differenze. Il ruolo della mano nel disegno, e non solo nel disegno, è stato molto studiato. C’è una sorta di intersezione tra la mano e il pensiero che ha a che fare con la riflessione e l’istinto. La mano spesso suggerisce cose che poi vengono corrette o strutturate dalla razionalità. L’esercizio stesso della mano ha un’influenza sul pensiero. Basta notare i suoi movimenti quando parliamo. Le mani pensano o accompagnano il pensiero, e a volte sono più illuminanti del pensiero. Se il disegno è un esercizio di silenzio?

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Nel mondo di oggi c’è una grande riserva nei confronti del silenzio, sia dal punto di vista del suono sia della forma. Il mondo di oggi è rumoroso, confuso. Ma il silenzio è una necessità vitale. Se il silenzio è un limite o un’apertura? È entrambe le cose contemporaneamente. Questo è molto chiaro nella musica, che penso abbia molto a che fare con l’architettura. In una sinfonia c’è continuità di suono, ma ci sono pause, pause brusche in certi brani. Ma queste interruzioni sono l’anticamera della continuità. Il silenzio, improvviso o prolungato, apre alla continuità. Quando il concerto finisce il silenzio che segue è l’apertura per le pause e i bravos! (ride…) Se sono anche io un po’ un eremita, un custode del silenzio…? No… Io ho davvero bisogno di compagnia e convivialità, non in modo esuberante, ma in modo controllato. Non ho molti amici, ma ne ho buoni. L’architettura stessa è dialogo, ha la partecipazione di squadre di varie aree tecniche. Ho bisogno di stare solo, ma questo non significa che sono un eremita. Ho bisogno di pause, come succede nella musica, nell’architettura e in quasi tutto nella vita. Questo bisogno si presenta anche a casa quando sono solo. È un bisogno fisico. E poi, con l’età, la necessità di una grande attività sociale scompare. Ho anche letto di me, che sono una persona molto triste e malinconica. Non credo che sia vero neanche questo. Ho momenti di tristezza, come tutti, ma non sono una persona triste. Mi domandi ancora se c’è posto per il mistero nella mia architettura? Per me il progetto è una progressiva presa di coscienza, una razionalizzazione (non una razionalizzazione dall’inizio perché questo limita molto). Ecco perché faccio un sacco di schizzi. La velocità dello schizzo aiuta la dinamica della ricerca. Alcuni, mi rendo subito conto che sono completamente senza senso, che non servono a niente. Ma quella ricerca un po’ ansiosa, che è uno sforzo di razionalizzazione, non può portare alla completa cancellazione del dubbio, dell’istinto… Ci deve essere una certa disciplina. Ciò che mi sorprende di più del mio lavoro sono le critiche che spesso leggo… Allora mi sorprendo e penso tra me e me: «Ah, ecco…». Lavoro sempre tra il conscio e l’inconscio, quella vasta zona dove accadono le cose più importanti della vita.

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Nell’intero processo c’è un equilibrio tra istinto e studio. O, come dici tu, fra il controllo tramite ciò che si conosce e l’implicito, cioè ciò che non si conosce ancora. La razionalizzazione da sola limita molto. È una specie di prefabbricazione. Ma quello che chiamiamo istinto è il risultato di molto lavoro, molti viaggi, molte ricerche. C’è tanta esperienza che non può essere trasposta volontariamente nell’opera, ma che poi appare dissolta in essa. Ricordo la Scuola di Educazione di Setúbal. Quando è stata inaugurata, un collega mi ha detto: «evidentemente hai studiato bene Sines (che è vicino)»… Ho pensato: «è vero, sono stato a Sines, ma Sines non mi è mai passato per la mente quando ho fatto questo progetto». Sono sicuro che è arrivato attraverso il mio subconscio… Ha a che fare con quel lungo cortile con due braccia. Sines è esattamente questo. Un altro episodio: un giorno stavo camminando con l’architetto Peter Brinker, che lavorava con me, a Berlino. Dietro quel blocco, ho visto una forma curva e ho detto: «qualcuno mi sta copiando…». Ha iniziato a ridere e mi ha detto: «se c’è qualcuno che sta copiando, sei tu. Questo è stato qui per molto tempo e ora sta per essere demolito…». Probabilmente, dalle molte volte che sono passato di lì, ho annotato quella forma nel mio subconscio e poi, senza rendermene conto, l’ho riportata nella progettazione del mio edificio…

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È vero, come dici, viaggiare è molto importante. I miei viaggi? Purtroppo, non ho viaggiato tanto quanto avrei dovuto. Ma ho fatto molti viaggi con un gruppo di amici, con Távora, Soutinho… le ultime volte non sono andato per mancanza di tempo. Non sono andato con loro in Siria, in Turchia… e non posso perdonarmi per questo… è una colpa irrecuperabile. Tra i viaggi fatti, quelli che mi tornano sempre in mente sono: Marocco (abbiamo fatto un viaggio di un mese), Grecia, New York… Brasile, Colombia, Argentina. Ricordo l’Italia, naturalmente. Tutto ciò che viene dall’Italia, specialmente dalla Sicilia. E la Spagna. Con i miei genitori facevamo ogni anno in estate un viaggio in Spagna; abbiamo viaggiato attraverso le varie regioni. Non c’era turismo, non c’erano autostrade e un escudo valeva due pesetas (ride)… Ovunque c’erano cose importanti da vedere. Ah, e il Giappone, naturalmente. I giardini zen, Kyoto… Non c’è nessun posto che non sia interessante, bisogna solo essere attenti e nello spirito della scoperta. Note Á. Siza. Uma questâo de medida. Entrevistas com Dominique Machabert e Laurent Beaudouin, Caleidoscópio, Casal de Cambra 2009.

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Il sacro nell’architettura e nella società secolare João Norton de Matos

Umanità dell’architettura A proposito dell’architettura, o della dimensione ineffabile dell’architettura, Louis Kahn ha scritto che un buon edificio deve iniziare con l’incommensurabile, passare attraverso strumenti misurabili durante la progettazione e, alla fine, diventare di nuovo incommensurabile1. «Tra tutte le cose, amo gli inizi. Credo che ciò che è stato, è sempre stato; ciò che è, è sempre stato; e quello che sarà è sempre stato»2. L’architetto estone-americano cerca di conferire una dimensione originale e senza tempo alla realtà attraverso le qualità concrete dell’architettura: luogo, materia, struttura, luce. È, tuttavia, questo stesso atteggiamento che storicamente dà al suo lavoro una collocazione critica rispetto al razionalismo funzionalista del moderno. Un esempio di dettaglio, ma di forte carica simbolica, è la fontana all’estremità occidentale della grande piazza nel Salk Institute a La Jolla, che incarna la freschezza e la vitalità di una gioia originale. Un ineffabile torrente di allegria trascende, secondo l’architetto, quella sorgente concreta, divenendo condizione di possibilità dell’architettura: «la realtà originaria è la capacità di gioia»3, «non si può costruire un edificio se non si è intrisi di gioia»4. D’altra parte, Kahn afferma in una conversazione con gli studenti che l’atto della creazione cerca le sue forme nella storia, nessuno sa come saranno gli edifici tra cinquant’anni5. L’apertura verso l’immenso oceano della spianata del Salk Institute, coronata da questa fontana, è un momento di architettura dove il sacro è presente in modo sublime, tra il sentimento della finitezza umana e l’esperienza di elevazione del nostro essere.

Non tutti gli architetti sono filosofi o hanno una vocazione mistica. Costruire bene e organizzare la complessità degli spazi in cui abitiamo in modo funzionale e piacevole è molto importante, c’è addirittura una retorica di «umiltà» tra architetti riconosciuti che vogliono restringere la propria attività a questi aspetti. Comprendiamo il valore ascetico di questo atteggiamento, ma non basta a spiegare la qualità dei suoi edifici. L’architettura, infatti, non si limita alla sua complessità tecnica o alla utilità immediata, ma è una funzione dello spirito e della cultura in cui l’essere umano si proietta nel suo insieme, investendo lo spazio di profondi significati esistenziali. In questo senso, riconosciamo nell’architettura un luogo di rivelazione del sacro quotidiano, resistendo all’alienazione che Heidegger designò come oblio dell’essere. Per questo condividiamo l’affermazione che «il sacro ha bisogno dell’architettura e che l’architettura ha bisogno del sacro»6. È un bisogno senza tempo dell’uomo, per il quale ogni epoca trova le sue forme viventi. Profondità umana Lo sviluppo delle scienze della religione nel XX secolo ha mostrato un grande interesse in Occidente per la questione del sacro. Il suo scopo è comprendere razionalmente il fenomeno religioso, ma anche abbracciare una dimensione che la semplice razionalità esclude. Senza nulla togliere alla sua forza organizzatrice della vita sociale, evidenziata dalle visioni più positive e strutturaliste, vengono sottolineate le prospettive fenomenologiche ed ermeneutiche. La prima, sulla scia di Rudolf Otto, evidenzia la realtà numinosa trascendente al soggetto,

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1. Louis Kahn, Salk Institute for Biological Studies, La Jolla, California, 1965. Foto Maria Argenti.

vissuta come esperienza esistenziale totalizzante, e descritta in modo ambivalente come tremenda e affascinante, abisso e fondamento dell’essere, più vicino a un’estetica del sublime che a quella delle categorie cognitive o morali. Nella sua estensione, Mircea Eliade sottolinea che questa disposizione permanente dello spirito umano è mediata da forme simboliche. Queste fanno da ponte tra la profondità del reale e la profondità della persona, costituendosi come luoghi di incontro con il sacro. Questa mediazione delle strutture simboliche può essere approfondita in tre aspetti importanti. Da un lato, le forme di manifestazione del numinoso appartengono al mondo dei fenomeni naturali e culturali, sono presenti ad esempio nelle pietre, nei testi e negli oggetti, nelle persone e negli edifici, negli spazi e nei paesaggi, nei cicli di feste settimanali e annuali, ecc. Le religioni, quindi, non possono fare a meno dell’architettura e delle arti, per la loro capacità di plasmare l’esperienza religiosa. D’altra parte, il sacro stabilisce una polarità con il profano, come altro da esso. L’originaria simbiosi di queste due dimensioni in ar-

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chitettura si sviluppò poi parallelamente alla specializzazione delle diverse funzioni della cultura, attribuendo statuti diversi agli edifici consacrati e secolari. Questo contrasto ordina lo spazio e il tempo, la città e il cosmo, il lavoro e il riposo, in due distinti modi di essere. Tale dicotomia apre un conflitto sullo status dei simboli religiosi e sul modo in cui possiamo accoglierli e ricrearli oggi. Una prospettiva teocratica-clericale sacralizza il simbolo per la sua straordinaria partecipazione alla realtà ierofana, concentra su di essa la totalità del significato, fissandone le forme e separandola dalla creatività profana e storica. All’estremo opposto, il razionalismo moderno tende a desacralizzare i simboli collocandoli in un contesto meramente linguistico, svuotando simultaneamente il profano della sua qualità da un altro del sacro e disincantando il mondo stesso in cui viviamo, svuotando il profano. Separati gli uni dagli altri, questi due regni si svuotano reciprocamente di significato. Possiamo, tuttavia, considerare una prospettiva intermedia che chiameremo sacramentale, più interessante per estendere più a fondo la sua correlazione nella società e nell’architettura in particolare. Questa prospettiva conferisce al simbolo il potere di rivelare la straordinaria profondità delle realtà ordinarie della vita: i pasti, l’abitazione, la nascita e la morte. Lo spirito umano è capace di elevare allo stato sacramentale le cose più semplici, come la bellezza di un fiore o un dettaglio di architettura, scoprendo in esse una dimensione ineffabile. Sebbene nella città celeste di Gerusalemme, nell’ultimo libro della Bibbia, non ci sia un tempio7, simbolo della pienezza della città degli uomini, l’alienazione dalla sua profondità spirituale ha bisogno di simboli sacramentali che indichino il mistero del profano. Questi possono permeare ciascuno degli elementi architettonici, nobilitando le loro funzioni immediate. Così, salire alcuni gradini solleva lo spirito, varcare una porta è un piccolo rito di passaggio, aprire una finestra è abbracciare la luce e comporre uno sguardo. Entrando nella cappella di Ronchamp, di Le Corbusier, il pavimento discende, il soffitto si alza e, contemporaneamente, sono il corpo e lo spirito che si espandono e si dilatano. Un ultimo aspetto del rapporto tra le forme sacre e simboliche è che esse portano questa relazione non solo nell’esperienza, ma anche nel linguaggio e nel significato. Sentire è sempre sentire. Que-

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2. Santuario di Nostra Signora da Pedra de Mua, Cabo Espichel, Portogallo, 1707.

sto è: dare senso nel contesto di una biografia personale e di una tradizione condivisa, di una matrice affettiva e categoriale, storicamente e culturalmente condizionata. Ciò attribuisce al sacro qualità al di là di un’esperienza generica e fornisce strumenti per affrontare criticamente la sua ambiguità. È in questa circolarità tra esperienza e interpretazione che le forme del sacro restano vive e attuali. Se l’attenzione all’esperienza dell’architettura richiede un atteggiamento di riduzione fenomenologica, mettendo tra parentesi la precomprensione delle cose, per accogliere meglio l’esperienza immediata dei valori sensoriali, questa si completa solo con una dimensione di significato, dinamico, intersoggettivo, temporale e culturalmente situato. Unità tra sacro e profano È al lavoro poetico sulla forma che daremo attenzione, con l’aiuto del concetto di «stile» nella teologia della cultura e dell’arte di Paul Tillich8. Il teologo tedesco-americano affronta e supera la questione del vuoto di senso che

nasce dall’opposizione tra sacro e profano, religione e cultura, se intesi separatamente, come è oggi sempre più comune. In questo senso, afferma che l’esperienza del sacro ha bisogno delle forme profane della cultura e del linguaggio per comunicare, e viceversa, le funzioni profane della cultura hanno bisogno della profondità di questa esperienza per essere pienamente esercitate. La metafora della profondità ci pone sul piano di un contenuto esistenziale ultimo, quello che in fondo ci riguarda di più come esseri umani, e che conferisce, ad esempio, all’etica, una serietà incondizionata o, all’architettura, un desiderio illimitato di esprimere il significato ultimo dell’abitare, delle istituzioni, della vita urbana, dell’uomo9. Un approccio fenomenologico ed ermeneutico può riconoscere l’attualità del sacro nell’architettura profana, che il soggetto comune sente e incorpora, con un grado di razionalizzazione più o meno consapevole. L’autore afferma inoltre che la determinante nell’esperienza attuale del sacro in architettura dipende più dallo «stile», colto dalle qualità della forma dell’edificio e dalla sua

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3. Nuno Valentim, Frederico Eça, Cappella CREU-IL, Porto, 2003. Foto © João Ferrand.

4. Cappella CREU-IL. Scorcio dell’interno. Foto © João Ferrand.

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5. João Luís Carrilho da Graça, Chiesa di Santo António, Portalegre, 2008. Foto © FG+SG – Fernando Guerra, Sergio Guerra.

atmosfera interna, che dalla sua ufficiale consacrazione a una funzione religiosa. Il concetto di «stile» acquista così grande importanza. Etimologicamente lo stilo si riferisce a uno strumento che, nell’estensione della mano, cioè l’azione dell’uomo, è capace di inscrivere un contenuto spirituale nella materia. Lo intendiamo anche come un modo di fare, di dare forma, che rivela qualcosa della tua circostanza e della tua profonda motivazione. La caratteristica dello stile è la sua capacità di esprimere un contenuto spirituale attraverso le qualità stesse della forma. Ma è un contenuto che va oltre la soggettività del suo creatore, per acquisire una caratteristica di esemplarità in cui gli altri si vedono, e che traduce ciò che è più importante della visione di un artista, di una scuola, di un popolo, di un’epoca10. Prendendo ad esempio il lavoro dello stile sul simbolo religioso cristiano del crocifisso, le rappresentazioni di Duccio, Grünewald o Chagall, dispiegano la loro codificazione di base in diverse prospettive e significati storici. Ben oltre i limiti della propria soggettività, questi maestri della forma ci introducono alla visione del sacro dei loro tempi e di un’intera civiltà. La forza espressiva dello stile è, insieme al simbolo, con

cui ha somiglianze strutturali, la mediazione per eccellenza del sacro nelle forme artistiche e culturali, è indice della sua attualità, in sintonia con le preoccupazioni e i linguaggi di ciascuno tempo. In opposizione a questa capacità espressiva dello stile, o addirittura in contraddizione con la sua stessa definizione, possiamo designare per «stile banale» un modo di fare che manca di autenticità, di profondità e delle altre qualità dello stile affinché ciò che trascende la forma non si vede. In linea con l’argomentazione categorica di Tillich, possiamo commentare quattro possibili scenari di correlazione tra edifici cultuali o secolari e concetti di stile espressivo o banale. Consideriamo anzitutto come la forza della grande architettura religiosa risieda nella correlazione di una funzione cultuale con uno «stile espressivo». Guardiamo la storia dell’edificio ecclesiastico alla luce delle qualità espressive dello stile, che rivela il contenuto spirituale della fede cristiana vissuta secondo la cosmovisione di ogni epoca. Lo stile romanico, nell’accostamento di strutture massicce, una penombra illuminata e la crescente accentuazione della verticalità, riflette tempi instabili e necessità di protezione, ma nello stesso tempo mostra interiorità ed elevazione.

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6. Chiesa di Santo Antonio, Vista interna. Foto © FG+SG – Fernando Guerra, Sergio Guerra.

Il gotico supera il peso della materia e realizza grandi aperture e vetrate, luce e colore inondano l’interno e arrivano a toccare i credenti come metafora della vicinanza del Dio trascendente; o ancora il barocco, che nell’ondulazione delle pareti e nei contrasti della luce, attraverso forti risorse sensoriali, mette in scena il dramma religioso in tempi spiritualmente agitati11. Questi sono solo esempi che ci incoraggiano a fare una lettura stilistica simile delle chiese contemporanee. Continuiamo con il caso di un edificio laico, come un’abitazione, ma caratterizzata da quello stile che abbiamo chiamato «banale», perché non esalta la dignità, in fondo sacra, dell’abitazione della casa. I luoghi di incontro e di riposo, il camino, la preparazione dei cibi, la tavola da pranzo, tutto indicherebbe la celebrazione della dimensione profonda della vita, ma resta il primato dell’apparenza, delle dipendenze imitative o delle fantasie inconsistenti. Manca la gioia, la semplicità delle forme, la solennità negli atti, l’edificio soccombe alla gestione pragmatica dei vincoli funzionali, normativi ed economici. Possiamo ancora considerare un edificio religioso, una chiesa, un convento, un cimitero, in correlazione con uno stile banale. È forse il caso più triste in cui lo stile contrad-

dice la funzione dell’edificio. Non perché un edificio religioso richieda uno stile architettonico o un linguaggio diverso, ma perché uno stile banale non riesce a manifestare una funzione così delicata. Simboli religiosi convenzionali possono essere visibili, ma configurati in una modalità di contraddizione e di inautenticità, in un kitsch che abbellisce superficialmente ogni cosa, cancellando la densità del reale. Siamo arrivati a un’ultima possibilità, quella con cui abbiamo iniziato questo testo, in cui un edificio secolare, come il Salk Institute for Biological Studies, vive di uno stile espressivo che, grazie alle sue qualità architettoniche, manifesta pienamente la dimensione trascendente dell’architettura e della vita. Queste, oltre a creare uno spazio di benessere e sicurezza, a risolvere la complessa funzionalità dei laboratori, valori di per sé molto significativi, manifestano anche, nell’insieme e nelle parti, nei loro dettagli, ben oltre la soggettività dell’architetto, lo spirito dell’istituzione, l’idiosincrasia del suo tempo e qualcosa di più atemporale come sfondo comune dell’umanità in cui ha luogo l’esperienza della realtà ultima dell’essere e del significato.

il sacro nell’architettura e nella società secolare

Fenomenologia del sacro in architettura Nonostante l’interesse novecentesco per il sacro, esteso fino ai giorni nostri alle diverse avanguardie culturali, ciò avviene contro la corrente di una mentalità dominante improntata al razionalismo riduttivo, al pragmatismo superficiale e al legalismo, un’interiorità soffocata dal materialismo ideologico e di mercato. È in una modalità di resistenza che la creatività plasma la dimensione trascendente della vita a cui ci siamo riferiti. Una descrizione degli elementi di una poetica dell’architettura che trascende questa orizzontalità sarebbe vastissima, erede delle tradizioni greco-romane e giudeo-cristiane culturalmente assimilate e inseparabili dalle esperienze archetipiche come la luce, il silenzio, la grotta e la foresta, la montagna e il cosmo. Queste tradizioni affinano valori sia formali che esistenziali come ordine, geometria, proporzione, scala e si estendono in valori personali come interiorità, ospitalità, incontro e relazione. Raccogliamo solo alcune tracce in cui questa intenzione poetica è più esplicita dall’esempio di tre edifici religiosi di tradizione cristiana, in Portogallo. E ci basiamo sull’argomento di Tillich per affermare che l’intenzione di esprimere la funzione religiosa di questi edifici, grande sfida per qualsiasi architetto, mette in luce una dimensione trascendente secolare. Il primo esempio è il Santuario di Nossa Senhora do Cabo Espichel, luogo di pellegrinaggio, costruito sulla tradizione di un’immagine medievale della Madonna ivi trovata e venerata ancora oggi. Oltre alla leggenda religiosa, e il non essere un’opera di architet-

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tura contemporanea, questo luogo è segnato da un carattere sublime e senza tempo. Un promontorio, circondato da alte scogliere che finiscono nel mare, esponendosi agli elementi cosmici, al sole e al vento, un immenso cielo e oceano. In netto contrasto, la chiesa manierista (1700 ca.) è chiusa all’esterno, creando un luogo di silenzio, raccoglimento e interiorità. È in questo contrasto inoltre che risiede una dimensione sacra dell’architettura. La luce scende dalle alte finestre, elevando lo sguardo coinvolto nella cupa atmosfera interiore. Un altro esempio è la cappella in un centro universitario dei Gesuiti a Porto, CREU (2000), degli architetti Valentim-Eça. Possiamo collocarlo in una genealogia di cappelle universitarie che risale al lavoro di Romano Guardini con gli studenti a Rothenfels, sostenuto da Rudolf Schwarz, e proseguito in Italia dagli architetti Gresleri-Varnier, nelle cappelle di Navarons (1970)12 e Pordenone (1971)13. In queste cappelle la dimensione del sacro vive nelle condizioni della vicinanza umana, nell’apertura all’altro e nella valorizzazione dell’incontro, che segnano la versatilità degli spazi e delle attrezzature. Il silenzio visivo e la poetica della luce naturale favoriscono il raccoglimento e le relazioni di una comunità consapevole. L’atmosfera della cappella CREU è segnata anche da un forte rapporto di trasparenza con un giardino esterno abitato da un enorme tiglio. La facciata in vetro ha le qualità di un’opera d’arte di Dan Graham, beneficiando dello stesso gioco di riflessi e trasparenze, a seconda dell’ora del giorno e della predominanza della luce naturale o interna. In tutta la cappella vibra una «nobi-

7. Chiesa di Santo Antonio, Vista interna. Foto © FG+SG – Fernando Guerra, Sergio Guerra.

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le semplicità», concretizzando una sobria, ma densa, raccomandazione del Concilio Vaticano II per l’architettura religiosa cristiana. Ben oltre la contemporanea sfiducia nei canoni della bellezza, in questa cappella persiste un senso trascendente della bellezza nei piccoli gesti dell’architettura e nella cura dei dettagli. Come terzo esempio, ci riferiamo alla chiesa parrocchiale di Santo António, a Portalegre, dell’architetto Carrilho da Graça (2009). Non è più una scala di intimità, ma un complesso programma di funzioni sociali di una comunità allargata. Il suo impatto passa attraverso un’architettura dal linguaggio minimale con grandi pannelli di facciata piatti e bianchi, sia nell’esterno urbano che in un grande atrio interno a cielo aperto e dentro l’aula. C’è una qualità del vuoto associata a una poetica dello spazio e della luce che riprende un simbolico del sublime e della trascendenza, inaugurato nella chiesa del Corpus Domini, ad Aquisgrana, di Rudolf Schwarz, e ugualmente esplorato come valore spirituale degli scultori baschi Eduardo Chillida e Jorge Oteiza. La densità poetica del vuoto risponde anche a un’esigenza antropologica di ascesi e distacco, contrapposta all’eccesso di immagini accumulato negli ambienti religiosi tradizionali così come nello spazio pubblico contemporaneo. La poetica del vuoto tocca un aspetto importante della sensibilità contemporanea al sacro. C’è ancora un elemento di verità che segna lo spazio interno della chiesa. Durante i lavori è stata scoperta una grande roccia che è stata integrata nell’architettura, mettendola in scena sullo sfondo del santuario. La presenza della roccia lega in un unico registro la forza dell’elemento naturale e un realismo progettuale, convergendo con una felice reinterpretazione del simbolo religioso e cristiano della roccia e dell’atmosfera ondulata degli intagli dorati delle tradizionali chiese barocche. Possiamo cogliere da questi esempi il valore senza tempo della luce e la sua materializzazione come dimensione sacra dell’architettura, così come il valore del silenzio, acustico e visivo, accentuato dalla sua rarità nella città contemporanea. I luoghi del silenzio, e la loro radicalizzazione ascetica nel vuoto, rispondono

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tanto a un’esigenza antropologica quanto a una condizione di possibilità dell’interiorità, in cui l’architettura la fa da padrone, come presupposto dell’esperienza del sacro. Ma questi aspetti apofatici e ascetici hanno il loro contrappunto, in valori contemplativi di nobile semplicità e autenticità dei materiali, della persona, dell’incontro, della relazione e della comunità, che possono essere estesi a valori ecologici di vicinanza alla natura e agli elementi cosmici. Questi luoghi dovrebbero essere oasi di verità e di autenticità nella città degli uomini. Note J. Lobell, Between Silence and Light, Shambhala Publications, Boston 1979, p. 54: «There is nothing about men that is really mesurable. He is completely unmeasurable, and employs the measurable do make possible for him to express something». 2 Ibid.: «What was has always been, what is has always been, what will be has always been». 3 R.S. Wurman (coord.), What will be has always been. The words of Louis Kahn, Rizzoli, New York 1986, p. 101: «The initial thing is the capability of joy». 4 J. Lobell, Between Silence and Light cit., p. 6. 5 Si veda M. Bell, L. Lerup (eds.), Louis I. Kahn. Conversa com estudantes, Gustavo Gili, Barcelona 2002, p. 42. 6 K. Harries, Transcending aesthetics, in J. Bermudez (ed.), Transcending Architecture. Contemporary Views on Sacred Space, Catholic University of America Press, Washington 2015, p. 208. «The shape of our modern age seems to render both claims: that the sacred needs architecture and that the architecture needs the sacred». 7 Libro dell’Apocalisse, Ap 21,22: «Tempio, non vidi nessuno in città […]». 8 Paul Tillich, teologo protestante tedesco-americano (1886-1965). 9 P. Tillich, Théologie de la culture, Planète, Paris 1968, pp. 16-17. 10 Si veda P. Tillich, Theology of Fine Arts and Architecture, in P. Tillich, J. e J. Dillenberger (eds.), On Art and Architecture, Crossroad, New York 1987, p. 206. 11 Si veda K. Seasoltz, The Christian Church Building, in J. Bermudez (ed.), Transcending Architecture cit., pp. 113-129. 12 Gl. Gresleri, S. Varnier, Costruire l’architettura, Electa, Milano 1981, pp. 67-71. 13 F. Debuyst, Dix petite églises pour aujourd’hui, Publications Saint-André, Ottignies 1999, pp. 39-42. 1

The Mood of the Sacred: Agency and Appropriation in Memorial Architecture Sabina Tanović

Memory is a spiritual concept. Andrey Tarkovsky1

temporary sacred or as spaces on the border between the sacred and profane.3

More than a lump of clay in the hands of a technically capable artist is needed to produce a form which is emotionally moving. Thomas H. Creighton2

If we look at some of the well-known examples from Berlin such as the New Guardhouse (Neue Wache, 1993), Jewish Memorial Museum (2001) and the Memorial for the Murdered Jews of Europe (2005), they all convey what can be interpreted as dark sacred atmosphere. Their materiality, proportions and purpose are elements that, composed together, make us think of the religious sacred. In fact, sacred atmospheres are an integral part of designing spaces of remembrance. In memorial architecture we can find atmospheres that elevate us and make us believe in humanity in spite of their inherently inhuman subjects, belittle us and make us feel terrified in their intangible narration of trauma. They can also invite us to contemplate in an austere, calming or inspiring atmosphere. One memorial space can be composed of a variety of atmospheres tinted by the sacred, but they can also purposefully aspire toward the sacred as hope and a form of redemption.4 Historically, atmospheres designed to elevate spirits and strengthen nation-states were achieved by monumentality and grandiosity as constituent parts of public commemorative projects that normally recalled victories and triumphs and only occasionally mournfully commemorated dead soldiers.5 After the atrocities of the two world wars – the unprecedented number of the missing and dead soldiers in World War I and the enormous number of civilian victims, a result of the Nazi policy of industrialized murder, in World War II – implications of sacred atmospheres in spaces of remembrance became more in-

Designing monuments and memorials has occupied architects since the early civilizations. Throughout centuries there have been periods when the intensity of erecting commemorative structures was higher, and when both official and unofficial projects proliferated. How to commemorate atrocities remains an urgent question that resonates with the ongoing orchestra of destruction. The public feels the victims should be acknowledged, the perpetrators should be brought to justice, and the world should be united in the interpretation of what exactly happened and who is to blame. To set all this in stone, we call for a memorial of some sort: a place where survivors, victims, and their loved ones can gather together for support and commemoration, and where they might find solace; but also, a place to remind society of what happened and how important it is to prevent it from ever happening again. In principle (and provided it is not hijacked by political frameworks), memorial architecture dedicated to atrocities aims to alter a society’s relationship to itself by focusing on how the concept of human rights can be violated. Hence, a premise on which we build, visit and preserve spaces for difficult and traumatic histories is to reinforce the notion of humanity and its resilience. In this light, a number of authors recognize memorial architecture as con-

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1. Peter Eisenman, The Memorial to the Murdered Jews of Europe, Berlin, 2005. Approaching view to the memorial with an access to the underground museum at the very end of the memorial’s field of stelae, impossible to be seen from this perspective. Photo Ivan Pashov.

congruent.6 Arguably, this fact incentivised the agency of designers grappling with commemorative projects as their work was geared towards creating a new language to materialize spaces dignified enough to remember unforeseen destruction of humanity and nature.7 Especially after the carnage of WWII, a palpable disruption occurred. While responses to the tragedy of the war were significant in art, literature and philosophy, architects refrained from reflecting on the devastation left by war in general, and the Holocaust in particular.8 Designers had to address unparalleled and at times unanswerable questions as to the nature of what David Rousset in 1946 termed “L’Univers concentrationnaire.” The very idea of dealing with horrors of WWII was antagonistic in itself. Since then, the mood has changed and today we even speak of different levels of memory-fatigue as memorial projects proliferated while some argue that memorial architecture fails as it is becoming more generic through institutionalization and, in turn, insufficient in supporting remembrance.9 To tackle this and move beyond the obvious reason for the conception of memorial architecture which is to commemorate an

event, we need to complicate straightforward and obvious comparisons (such as that memorial architecture is an extension of the religious experience), to aim at a more critical view on what constitutes the sacred in contemporary memorial architecture. We can start by recognizing that memorial architecture is dangerous. When we visit a memorial voluntarily, we expose ourselves to the unknown forces of material and immaterial influences of a given space and place. If we end up at a memorial site accidentally, there are psychological impacts unbeknownst to us at that moment, that can be re-experienced in hindsight, once the knowledge, and subsequently the awareness, reach us. For example, the Memorial to the Murdered Jews of Europe remains an actively dangerous space that accommodates multiple social interactions, rendering this space and place relevant through a dynamic exploration of the tension between a sacred and common public space. It is only in the controlled and curated underground information centre, underneath the memorial itself, that one is preconditioned and therefore instantly understands the severity and burden of the danger. The underground exhibition secures the aura of sacredness for the above memori-

the mood of the sacred: agency and appropriation in memorial architecture

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al. Hence, the architecture is rendered sacred only through knowledge. This tension is usually absent from authentic places of murder, terror and suffering because these sites are heterotopias, normally visited with dedication in the quest for knowledge. Here architectural design aims to reinforce the sense of past by deducing its symbolic and pragmatic language from that history. If we look at European Holocaust memorial sites, information centres and carefully curated exhibitions precondition visitor experiences. Authentic sites derive their sacredness through knowledge and architecture that together uncover palimpsests of the past. If this symbiotic relationship is successful in doing this, there is no need to install additional signs for codes of conduct since visitors understand and feel the sacredness of the place, especially on places where people were murdered. However, and depending on contextual specificities (namely socio-political, cultural and spatial aspects), this is not always the case. We can argue that in these instances memorial architecture seizes to expose palimpsests of the past and, in consequence, a sense of the sacred eludes it. This can be argued regardless of the architectural qualities and innovative approaches employed in a designing process in terms of sensorial and symbolic aspects of a design, for which there is a significant interest in the recent years.10 But there is one topic that tends to be overlooked specifically in the field of memorial architecture: the agency of a designer and, by extension, agency of the design. In memorial architecture, the notion of agency directly impacts the symbolic and material value of a design, effect of which is immediate on multiple levels: individual and collective, political, social and cultural. Since 1980ies when memorial architecture expanded as a genre to include memorial museums, memorial archives and research centres, the architecture itself formed a specific language or, to stay within our focus, a repertoire of sacred atmospheres that in one way or another feature in contemporary memorial spaces. However, and in the light of multiple crisis of the contemporary world, there is more and more interest not in how architecture feels, but in its origins, meaning and agency – how does it contribute to the society. Political, ecological

2. David Chipperfield Architects, Neues Museum, Museum Island, Berlin, 2009. Destruction from the World War II integrated into the new design to reinforce the sense of place through preservation of palimpsests of the past. Photo Ivan Pashov.

and racial activism do not eschew memorial architecture. On the contrary, agency brings it into the spotlight. Inevitably, designers are in the focus as well. In the translation process from sentiment to memorial, designers embark on the intricate process of creating a memorial project and, typically, have little experience with or knowledge of the complexity inherent in creating memorial architecture, for example the psychology of mourning. They often operate under assumptions that deserve closer scrutiny, such as the idea that memorials can assist in the healing process of survivors. Indeed, today we know much more about the inclusion of the sensate dimension of the body and attunement of physical environment in psychoemotion-

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3. Julian Bonder and Krzysztof Wodiczko, The Memorial to the Abolition of Slavery, Nantes, 2012. The symbolic passageway of the memorial offers a calming atmosphere, intended to spark reflection on the horrors of transatlantic slave trade. Photo Sabina Tanović.

al health.11 However, it remains unclear how these findings apply in our built environment and, concretely, in memorial spaces. But there is strong evidence that social recognition aid trauma recovery.12 Therefore, it is crucial that designers of memorial architecture enter the designing process with an open approach and agency to reconsider standardized architectural production to expand the process of creating toward sustainable inclusivity of various stakeholders (e.g. local communities, future audiences and potential audiences). To be sure, this can be practiced in most architectural projects to achieve remarkable results as demonstrated in Neues Museum in Berlin where palimpsests of the past are the fermenting energy for achieving the sense of sacred. If we look at, for example, memorial museums as one relatively recent typology of memorial architecture, we arrive at a rather intricate and complex demonstration of remembering through architecture. Unlike the traditional museum, a memorial museum deals with a set of issues that inevitably place this particular architectural form into an interdisciplinary field of Memory Studies. In doing this, contemporary memorial museums put to test a common premise that memorial projects are static entities, fixed in space and primarily didactic-devised to preserve history and provide factual knowledge. What is more, they critically probe a concept of a designer as an isolated and phase-determined contributor to the overall conceptualization of a project. Specifically, the question is what a designer

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does to examine and re-examine established modes and methods of commissioning processes. One recent notable example of memorial architecture where designer’s agency extends to the design itself is certainly the National Memorial for Peace and Justice and the Legacy Museum in Montgomery, Alabama (2018) that through the power of architectural design engages society in a difficult dialogue about traumas of the past and their implications in the present and future.13 Unfortunately, there is still no comparable multilayered example on the European grounds except for a more convectional and state-oriented projects such as the Memorial to the Abolition of Slavery in Nantes (2012), recognized as a “Cartesian space that masks the corporal, mental, emotional, and spiritual violence,”14 agency and appropriation of which are still unclear. A designer’s agency can also go beyond architecture itself and it can be expressed through symbolic acts such as Horst Hoheisel’s 1994 radical proposal to explode the Brandenburg gate as a way to commemorate the Holocaust and Germany’s role in WWII, but they can be of a more constructive nature as in the case of 11M memorial (2007) in Madrid. Here designers changed the commissioner’s program of demands to include an underground space for contemplation and commemoration. This was a direct response to the poignant public mourning that took place in the immediate aftermath of the 2004 terrorist attacks; designers rightly recognized the lack of space for mourning and managed to create it, albeit numerous obstacles and contestation, in hope of achieving nothing short of sacred for the local community. The Madrid’s 11M memorial achieved a lot in terms of enriching original plans for a permanent monument on a site of tragedy, but proved too complex for the vectors of reality. Especially so in regard to one crucial issue: the design did not facilitate a continuation of the public mourning, a process that was not (if it ever is) finished at the time of the memorial’s inauguration. Also, the demanding technological aspect of the design itself was incongruent with what was deemed possible by the commissioner in regard to maintenance. This resulted in the collapse of the focal feature of the memorial – a translucent membrane containing texts from public mourning – only

the mood of the sacred: agency and appropriation in memorial architecture

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4-5. El studio FAM, Monument to the Victims of 11M, Madrid, 2007. View on the memorial’s cylinder with and without the inner content that consisted of texts from the public mourning in the aftermath of the attacks. Photo Sabina Tanović.

6. Daniel Libeskind, Namenmonument, Amsterdam, 2021. A detail of the memorial with stones left by the visitors. Photo Ryama Alsaadi.

eight years after the memorial’s inauguration.15 The words of the bereaved public that designers installed in the glass cylinder with an idea to preserve them as a sacred token of hope in humanity were an essential feature of the overall experience that suddenly disappeared. Symbolically, the collapse, the subsequent absence and the current solution to place the collapsed text onto the walls of the memorial demonstrated that the sacred is not only contained in the design or, rather, that the design is a consensus. It is constructed through social sustainability that allows people to appropriate the design. Concretely in memorial architecture this means that the design supports people to mourn by leaving objects, thoughts or traces that signify meaning. Only then can memorial architecture be perceived as a resilient architectural form that can potentially provide a significant locus for processing legacies of trauma. As such it can be deeply imbedded in social and cultural dimensions of a society. For example a project for the Namenmonument (2021) in Amsterdam was

opposed by the citizens who live next to the location because of an untransparent and non-inclusive design process – it took a court decision to give a green light for its instalment – but the recently built memorial materializes a set of sacred atmospheres that certainly influence visitors. Even though one can argue that the sanctity of the memorial is tarnished by the dispute, we can find details of appropriation that will, in time, demonstrate whether the memorial will be recognized as a sacred place of remembrance. All things considered, we can say that the sacred in memorial architecture is constructed through interactions, both direct and indirect, material and immaterial. As an architectural genre that belongs to both art and architecture, with a symbolic power and meaning-making potential that extends beyond the material, memorial architecture invites various forms and possibilities of social engagement to be explored. Here emotional realities meet physical realities and that is where we can experience the contemporary sacred – in traces, absorbed by the architecture of a sense of place. Henceforth, agency of both a de-

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signer and her design renders memorial architecture relevant to contemporary societies through its response to context-specific demands and the creation process. In this framework architecture gathers the potential for conceptualizing and exercising agency that is relevant to contemporary conditions and spirituality. Notes A. Tarkovsky, Sculpting in Time (Austin: University of Texas Press, 2008), p. 57; originally published as Die Versiegelte Zeit in 1986. 2 T. Creighton, The Architecture of Monuments. The Franklin Delano Roosevelt Memorial Competition (New York: Reinhold Publishing Corporation, 1962), p. 13. 3 J. Rosenberg, “Contemporary Holocaust Memorials in Berlin: on the Borders of the Sacred and the Profane,” in D.I. Popescu, T. Schult, Revisiting Holocaust Representation in the Post-Witness Era. The Holocaust and its Contexts (London: Palgrave Macmillan, 2015), pp. 73-89. 4 On the topic of atmospheres in architecture see: T. Griffero, M. Tedeschini (eds.), Atmosphere and Aesthetics. A Plural Perspective (Cham: Palgrave Macmillan, 2019). 5 See S. Michalski. Public Monuments. Art in Political Bondage 1870-1997 (London: Reaction Books Ltd, 1998). 6 See M. Meng, Shattered Spaces. Encountering Jewish Ruins in Postwar Germany and Poland (Cambridge Mass.: Harvard University Press, 2011); J. Winter, Sites of memory, Sites of Mourning: The Great War in European Cultural History (Cambridge: Harvard University Press, 1995). L. Mumford, “Monuments and Memorials,” Good Housekeeping 120, 17 (January 1945), pp. 106-108. 7 While designers and artists grappled with the insurmountable traumas of WWI, the threat of resurging nationalism and renewed warfare permeated every aspect of life. In most cases, renowned architects were commissioned for these projects and played key roles in the materialization of nationalist rhetoric that infused commemoration preceding WWII. Most nations and ideologies preferred timeless ancient forms for their public architecture commemorating the war dead – with several notable exceptions. See G. Brands, “From WWI Cemeteries to the Nazi ‘Fortresses of the Dead,’” in J. Wolschke-Bulmahn (ed.), Places of Commemoration: Search for 1

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Identity and Landscape Design (Washington D.C.: Dumbarton Oaks Research Library and Collection, 2001), pp. 215-256. F. Garofalo, L. Veresane, Adalberto Libera (New York: Princeton Architectural Press, 2002); T.L. Schumacher, The Danteum. Architecture, Poetics, and Politics under Italian Fascism (London: Triangle Architectural Publishing, 1993). 8 See G.D. Rosenfeld, Building after Auschwitz. Jewish Architecture and the Memory of the Holocaust (New Haven-London: Yale University Press: 2011); H. Marcuse, “Holocaust Memorials; The Emergence of a Genre,” American Historical Review 115, 1 (February 2010); J. Winter, “Thinking about silence,” in E. Ben-Ze’ev, R. Ginio, J. Winter (eds.), Shadows of War. The Social History of Silence in the Twentieth Century (Cambridge: Cambridge University Press, 2010), pp. 3-32. 9 See: L. David, The Past Can’t Heal Us: The Dangers of Mandating Memory in the Name of Human Rights (Cambridge: Cambridge University Press, 2020). J. Jones, “War memorials have failed – we have forgotten the chaos of fascism,” The Guardian (9 December 2016) (www.theguardian.com/ artanddesign/jonathanjonesblog/2016/dec/09/ war-memorials-have-failed-peter-eisenman-holocaust) (accessed 14.04.2022). 10 See for example: C. Spence, “Senses of place: architectural design for the multisensory mind,” Cognitive Research 5, 46 (2020); available at doi. org/10.1186/s41235-020-00243-4. 11 See B. van der Kolk, The Body Keeps the Score: Brain, Mind, and Body in the Healing of Trauma (New York: Viking Penguin Group, 2014). 12 M. Rzeszutek, M. Lis-Turlejska, A. Krajewska, A. Zawadzka, M. Lewandowski, S. Szumial, “LongTerm Psychological Consequences of World War II Trauma Among Polish Survivors: a Mixed-Methods Study on the Role of Social Acknowledgment,” Frontiers in Psychology 11 (February 2020), Article 210; available at doi.org/10.3389/fpsyg.2020.00210. 13 See C. Solomon, “Bringing Slavery’s Legacy to Light, One Story at the Time,” Harvard Law Bulletin (13 February 2019); available at today.law. harvard.edu/feature/bringing-slaverys-legacy-tolight-one-story-at-a-time/. 14 D. Désir, “The Memorial to the Abolition of Slavery in Nates, France,” The International Review of African American Art Plus, Extending the Coverage of the Print Journal; available at iraaa.museum. hamptonu.edu/page/The-Memorial-to-the-Abolition-of-Slavery-in-Nantes%2C-France. 15 S. Tanović, Designing Memory. The Architecture of Commemoration in Europe, 1914 to the Present (Cambridge: Cambridge University Press, 2019).

Tasselli di buio e di silenzio: «controambienti del sublime»1 Lidia Decandia

Solitudini immense Sono molti i segnali che indicano l’affiorare di un rinnovato desiderio e bisogno di sacralità nell’orizzonte del contemporaneo. Uno dei tanti è la ricerca di nuovi spazi di contemplazione, di silenzio in cui poter sostare, per riprendere, nell’insensato movimento che caratterizza ormai le nostre vite, i contatti con la propria finitezza, trascendere la mediocrità del quotidiano, riporsi le grandi domande sull’esistenza e sul cosmo. A questo proposito, all’interno della dimensione urbana planetaria, i luoghi in cui la dimensione ambientale assume un carattere pervasivo, acquistano un valore significativo. Tra questi è il territorio dell’Alta Gallura: una subregione localizzata nella cuspide nordorientale della Sardegna, caratterizzata da una bassissima densità insediativa e dalla grande estensione delle superfici comunali. Qui, infatti, sono i vuoti e non i pieni dei nuclei costruiti a delineare in maniera preponderante i caratteri salienti del contesto. In questo territorio, dominato dalla presenza del Monte Limbara, la natura, a seguito dei processi di abbandono della campagna determinati dall’invenzione della città della vacanza2, sembra aver ripreso il sopravvento sulla vita dell’uomo. Basta guardare una visione notturna dal satellite per capire come il buio, in cui i territori poco abitati dell’Alta Gallura appaiono immersi, costituisca all’interno della nebulosa europea una qualità davvero eccezionale: una riserva immensa nel cuore di un continente così densamente urbanizzato. In queste aree ancora un senso quasi panico di appartenenza a un tutto pervade gli oriz-

zonti. Qui un solo dialetto, come direbbe Michela Murgia, sembra parlato: il silenzio3. In mezzo ai boschi di querce, nella notte, sono solo il chiarore quasi perturbante della luna, la via lattea e le scie luminose di stelle, ad aprire radure di luce capaci di suscitare un sentimento di meraviglia. È impossibile, nel guardare questi cieli notturni, non sentire un brivido, non capire come mai l’uomo abbia costruito miti e cosmogonie per dare un senso al misterioso apparire degli astri nascenti. Durante il giorno è invece il colore del bosco, con le sue tonalità e i suoi profumi intensi, insieme alla durezza dei graniti e agli azzurri nitidi del cielo, a dominare la solitudine immensa. Qui – nei paesaggi ritmati dalla presenza dei muri, degli antichi stazzi abbandonati, delle tombe dei giganti e delle chiese campestri, nelle rocce plasmate dal vento, nei piccoli nuclei storici che emergono come iceberg nelle distese di querce e nei manufatti più poveri delle architetture, ma anche nel canto e nei riti – il pensiero di un destino di intima coappartenenza e di vicinanza tra uomo e uomo e tra uomo e natura ha trovato espressione non nella dismisura della ragione, ma nella delicatezza degli affetti e dei sentimenti, nell’armonia della luce e dei colori, nella misura della forma dei paesaggi, nel desiderio dell’essere insieme, nei linguaggi della poesia e della festa. In esodo dalla città consolidata: ritessere forme di rapporto con l’insieme dei viventi In questo territorio buio e vuoto da diversi anni in forme pulviscolari, che assumono

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maggiore consistenza a partire dal 2010, stanno arrivando, in esodo dalla città consolidata, uomini e donne che decidono di venire ad abitare proprio in Alta Gallura, e di ripopolare alcuni vecchi stazzi abbandonati nella campagna4. Si tratta spesso di uomini urbani ammalati di velocità e di incapacità di fermarsi, che si muovono per andare alla ricerca di contrappunti e geografie alternative ai velocissimi densi e rumorosi spazi metropolitani. In alcuni casi «volte le spalle alle vecchie città vuote e insensate» decidono proprio di fermarsi qui stabilmente. Altre volte preferiscono pendolare stagionalmente tra gli spazi affastellati e densi delle città compatte «immerse in un tramonto di valium profondo e dorato»5 e queste «distese interrotte di montagna e di cielo […] che ti danno una coscienza e un timore sovrannaturale»6. Lo fanno, spesso, per condividere con altri la stanchezza, ma soprattutto per sospendere il tempo frenetico e cercare intervalli di ricaricamento attraverso cui rigenerarsi facendo appello alle energie più vitali dell’umano, e poter tornare ad affrontare l’ossessiva iperattività dei multitasking urbani7.

1. Boschi di quercia e graniti. Foto Lidia Decandia.

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Come nell’Alto Medioevo, quando si sgretolano, a seguito della caduta dell’Impero romano, le città8, l’uomo va alla ricerca dei deserti, dei luoghi della solitudine e dell’interiorità, degli spazi della natura più incontaminati e selvaggi in cui fermarsi per ascoltare la parola divina, oggi allo stesso modo, questi uomini urbani sembrano, infatti, riscoprire le dimensioni della natura, della pace, del buio e del silenzio: quei luoghi in cui, oggi come allora, «l’aria è più pura, il cielo più aperto e il Dio più vicino»9. Non sarà un caso. Come alla fine di quell’Impero anche noi stiamo attraversando, infatti, una crisi profonda che richiede una nuova rigenerazione. Una crisi che non è solo economica, ma soprattutto crisi di valori sociali e culturali. Quel modello di sviluppo in cui avevamo riposto tutte le nostre speranze – quel modello che ha esaltato la velocità rispetto alla lentezza, la potenza rispetto alla fragilità, le luci accecanti della visibilità e dello spettacolo, rispetto ai valori d’ombra, i pieni rispetto ai vuoti, l’individuo rispetto alla relazione, la performance rispetto alla contemplazione, la tecnica rispetto ai valori e ai

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2. Graniti sfatti all’aria tra terra e cielo: Montagna del Limbara. Foto Lidia Decandia.

4. Alberi secolari. Foto Lidia Decandia.

3. Montagne di granito si stagliano all’orizzonte. Foto Lidia Decandia.

5. Paesaggi ritmati dalla presenza dei muri e degli antichi stazzi. Foto Lidia Decandia.

significati, l’efficienza rispetto alla cura e alla custodia della natura e dell’umano – ha esaurito infatti la sua spinta propulsiva e appare mostrare ogni giorno di più le sue crepe. E con esso l’idea stessa di città e di territorio che lo ha caratterizzato ed espresso. Una civiltà sempre più stanca e depressa, enormemente indebolita e fragile, sembra non farcela più ad inseguire quella volontà di potenza che essa stessa si era data come fine ultimo dell’azione10. Tra questi abitanti in esodo che arrivano in Alta Gallura, c’è chi persegue la volontà di uscire in un certo senso dal sistema economico e sociale dominante per promuovere nuove forme di autoproduzione e consumo, e che trova nel modello di organizzazione di queste campagne, un preciso riferimento per condurre forme di vita più autarchiche e marginali al sistema capitalistico. Chi prova a fare esperimenti di resilienza e a riorganizzare progetti di vita in comune basati su nuove

forme di decrescita felice. Chi stanco del modello di vita metropolitano, ricerca un’altra qualità della vita più a contatto con la natura e lo fa sperimentando inediti modi di abitare tra la campagna e il mondo, resi possibili dalle nuove tecnologie e dalle nuove forme di organizzazione del lavoro. Chi decide di prendere una pausa di silenzio dal rumore dei giorni mossi da un andirivieni continuo per comprendere su quali valori ricentrare la propria vita. Chi, una volta lasciato il mondo del lavoro, stabilisce di dedicare l’ultima parte dell’esistenza a riaprire relazioni profonde e vitali con i mondi viventi e a costruire altre maniere di essere insieme. Chi abbandona la propria attività abituale alla ricerca di un ritmo diverso e intraprende pratiche di lavoro pensate in più stretta armonia con gli ambienti storici e naturali, legate in molti casi al turismo ecologico, all’accoglienza, alla cultura del cibo11. Nella diversità dei loro intenti, c’è qualcosa tuttavia che li accomuna in questo allontanar-

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si dalla città consolidata: il desiderio profondo di cominciare a ritessere forme di rapporto diverso con l’insieme dei viventi da cui in questi ultimi secoli ci siamo separati, in un’ottica di prevaricazione e di dominio, e insieme di riprendere contatto con quelle dimensioni dell’umano che una idea di città distaccata dalla natura ci aveva fatto dimenticare. Ma c’è soprattutto in tutti una voglia profonda di silenzio, di contemplazione; un sentimento panico che li spinge a ritornare «ad abitare la terra in un respiro grato»12 per ricominciare a sentirsi parte di un cosmo più grande, «ricordare ciò che più vogliamo, il nostro fine supremo: stare nella pace»13 e riscoprire quei profondi legami di coappartenenza che ci fanno essere insieme. Non è un caso che sia proprio in questi territori che Fabrizio De André, per venti anni abitante di uno stazzo alle falde del Limbara, abbia potuto dire, riferendosi ai primi periodi in cui non aveva neppure la luce, «Stando senza elettricità ho imparato a conoscere più cose di quanto avrei potuto apprendere con la luce e ho cominciato a capire che certe necessità potrebbero essere solo la proiezione di bisogni indotti»14. Quando si resta soli con se stessi – ci ricorda in uno dei suoi brani Anime salve scritto proprio in questa terra – si entra, infatti, in contatto con il circostante che «non è fatto solo di nostri simili ma piuttosto di un universo più ampio: dalla foglia, che spunta di notte in un campo sino alle stelle» ma anche, come dice in un altro pezzo dello stesso album, «di quelle nuvole, che vanno vengono e qualche volta si fermano mettendosi fra noi e il cielo per lasciarci solo una voglia di pioggia». Riserve di silenzio come pietre angolari di un cammino urbano tutto da inventare

6-9. Antichi luoghi sacri. Pietre conficcate nel paesaggio: la tomba dei giganti di Pascaredda (epoca nuragica).

Il ritorno verso queste aree abbandonate, di cui abbiamo solo accennato, non va inteso tuttavia come una semplice riscoperta della campagna. Diversamente da quanto si possa immaginare il territorio dell’Alta Gallura, non costituisce, infatti, una realtà altra rispetto alla città, qui non c’è una cultura rurale che si contrappone ad una distante cultura urbana, ma semmai una territorio denso di natura e di storia perfettamente inserito nei sistemi di mentalità che configurano la cosmopoli contemporanea15. In questi spazi naturali e silenti, non abbiamo più gli antichi pastori-contadini, ma donne e uomini caratteriz-

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10. Chiese campestri disperse nel paesaggio. Foto Lidia Decandia.

zati da provenienze eterogenee, da alti livelli culturali, in grado di utilizzare tecnologie avanzatissime per connettersi con il mondo, capaci di vivere nell’intreccio di diverse scale, di tenere insieme natura e cultura, e di partecipare virtualmente e fisicamente alle dinamiche economiche e culturali che intessono quell’urbs diventata orbs che abbraccia ormai l’intero pianeta. Quell’urbs che identifica uno spazio di mentalità, di istituzioni, di poteri, di informazioni che viaggiano in una rete di flussi, alimentati da uno spazio estetico mediatizzato che disarticola e riarticola, secondo nuove logiche e nuove gerarchie di poteri, i rapporti fra uomini e luoghi ridisegnando la faccia della terra.

Ma proprio per questo, il tassello di buio dell’Alta Gallura, una enorme riserva di silenzio, non più esterna ma interna ad una forma di urbanità allargata, costituisce una risorsa ancora più preziosa: una pietra angolare. Un vero e proprio controambiente «in grado di restituire il posto e il valore ad aspetti che, pur se imprescindibili per la comprensione della stessa struttura dell’esistenza e dell’esperienza umana rischiano»16 proprio in quell’orbs, precariamente abitabile e percorsa dal movimento frenetico e insensato delle merci e delle persone, di svalorizzarsi e di perdersi. In questo spazio, in cui come abbiamo visto la contemporaneità sta riscoprendo l’arcaico, diventa possibile, come le scelte dei nuovi abi-

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11. Il ripopolamento urbano dell’Alta Gallura. L’Agnata: lo stazzo di Fabrizio De André. Foto Lidia Decandia.

tanti rivelano, imparare, infatti, a ridare valore a quelle dimensioni più profonde dell’umano, sviluppare anticorpi rispetto ai condizionamenti a cui siamo esposti dall’ambiente tecnicizzato e mediatizzato, riaprire domande di senso e percezioni del mondo che la tecnica che ci pervade ha semplificato17. Ma anche: ristabilire un rapporto diverso, più amichevole e più fiducioso con gli uomini e le cose; guardare un filo d’erba per sentirsi come lui; fare esperienza di fisicità; rallentare per poter vedere ciò che, nel veloce avanzare, sfugge; riscoprire i dettagli minimi, le sfumature, i piccoli segnali, i cambiamenti che denotano le differenze, le apparizioni minime, le tenerezze, le intensità, schiacciate dalla velocità; ma anche ridare spazio alle dimensioni simboliche, sacre e immaginarie capaci di dar voce al rimosso, al riottoso, alla corporalità, a tutto ciò che non si domina e non si controlla. Qui lontano dalle luci e dalla velocità «la società dell’azione e della prestazione» ormai vicina «all’infarto dell’anima»18 può finalmente fermarsi e ricominciare a «guardare il cielo»19. In questo senso il territorio gallurese, proprio all’interno della nebulosa urbana europea, costituisce un inedito spazio sacro. Un vero e proprio «contro-ambiente del sublime»20, come lo definirebbe Magatti: un luogo di interpellazione in cui rimettere in gioco il rapporto con l’incommensurabile,

risvegliare la parte più immortale dell’anima, trascendere la mediocrità e la banalità del quotidiano, per ricominciare sotto un cielo pieno di stelle, a riporsi le grandi domande sulla propria esistenza nel cosmo21. Un luogo della notte, del vuoto, dell’infinito, pensato non più come esterno, ma come interno di una città allargata e non semplificata a poche dimensioni, ma immaginata piuttosto come una vera e propria polifonica partitura musicale in cui, in un accostarsi di pieni e di vuoti, di addensamenti e di pause, di adagi e di veloci, di luoghi deserti e di nodi a forte densità, anche il silenzio possa essere finalmente ascoltato22. Di tutto questo l’uomo urbano ha estremo ed urgente bisogno se vuole fermare la sua stessa macchina in corsa, prima che si schianti e… riprendere il cammino. Note Questo saggio restituisce parte di una ricerca dedicata al territorio dell’Alta Gallura finanziata dal fondo di Ateneo per la ricerca 2020 dell’Università degli Studi di Sassari. 2 L’invenzione del turismo e della vacanza, che prende l’avvio nel territorio gallurese con la creazione della Costa Smeralda – un peculiare insediamento turistico fondato nell’ambito di un processo di riorganizzazione capitalistica di scala mondiale, sulle coste del Comune di Arzachena, a partire dagli anni 1

tasselli di buio e di silenzio: «controambienti del sublime»

Sessanta – determina una discesa costiera e un abbandono delle aree più interne, provocando peraltro un vero e proprio mutamento socio-antropologico. Sull’invenzione della Costa Smeralda e sugli effetti provocati nella riorganizzazione del territorio gallurese cfr. L. Decandia, C. Cannaos, L. Lutzoni, I territori marginali e la quarta rivoluzione urbana. Il caso della Gallura, Guerini Associati, Torino 2017. 3 M. Murgia, Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede, Einaudi, Torino 2008, p. 11. 4 Gli stazzi erano sino agli anni Cinquanta i perni dell’organizzazione dei territori rurali oggi in gran parte spopolati. Si trattava di piccole unità insediative e produttive autosufficienti, immerse nella campagna, sorte a partire nel XVII secolo quando contadini e pastori, residenti sino a quel momento nei centri dell’Alta Gallura, si allontanano verso i territori più periferici per sfruttare le immense aree dei salti sino a quel momento vuote e silenti. Cfr. a tal proposito M. Le Lannou, Pâtres et paysans de la Sardaigne, Arrault, Tours 1941; trad. it. Pastori e contadini di Sardegna, Della Torre, Cagliari 1979. 5 D. DeLillo, Underworld, Simon&Schuster, New York 1997; trad. it. di D. Vezzoli, Underworld, Einaudi, Torino 2000, p. 190. 6 Ibid. 7 Per un approfondimento dei caratteri e della consistenza di questo fenomeno che qui, per brevità di spazio, viene solo accennato, mi permetto di rinviare al volume di L. Decandia, Territori in trasformazione, Donzelli, Roma 2022, e in particolare alla parte seconda: Una storia in divenire. Verso una riscoperta delle aree interne della Gallura alla ricerca di nuovi modi di abitare tra la campagna e il mondo, pp. 51-142. 8 Con la caduta dell’Impero romano, quando le città, non solo si spopolano, ma perdono la loro carica di centralità, sono diversi gli uomini urbani che si inoltrano prima nei deserti poi sulle vette delle montagne alla ricerca di una intimità con se stessi e con Dio. È da questa esplorazione e ricerca che, prenderanno vita i monasteri: piccoli germogli di una nuova idea di urbanità. Cfr. al proposito F. Marazzi, Le città dei monaci. Storia degli spazi che avvicinano a Dio, Jaca Book, Milano 2015. 9 Origene, cit. in G. Ferraro, Il libro dei luoghi, Jaka Book, Milano 2001, p. 318. 10 Cfr. al proposito B.C. Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Roma 2012. 11 Per un approfondimento delle diverse motivazioni che spingono questi nuovi abitanti a stanziarsi in questa terra, cfr. L. Decandia, Territori in trasformazione cit. 12 M. Gualtieri, Come si fa, «Doppiozero», 20 marzo 2022, disponibile online (www.doppiozero.com/ materiali/come-si-fa). 13 Ibid. 14 F. De André, cit. in A. Franchini, Quello che non ho è quel che non mi manca, in Faber in Sardegna. Raccontato da amici e colleghi, Castelvecchi, Roma 2019, p. 37.

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Sui processi di trasformazione che hanno investito questo territorio e per approfondire l’accezione con cui anche in questo saggio utilizzo il termine urbano, rinvio a L. Decandia, C. Cannaos, L. Lutzoni, I territori marginali cit., e alla bibliografia ivi contenuta. 16 M. Magatti, La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto, Feltrinelli, Milano 2012, p. 330. 17 Come osserva Magatti in ivi, p. 330: «in un contesto profondamente contrassegnato dalla pervasività dell’elemento tecnico – che costituisce ormai l’ambiente in cui tutta la nostra vita sociale ha luogo – diventano particolarmente preziosi quei contro ambienti capaci di attivare degli antidoti rispetto ai condizionamenti critici da cui siamo esposti […] In un mondo sociale completamente avvolto dallo spazio estetico mediatizzato e dal sistema tecnico, la via per sfuggire al regime dell’equivalenza passa da un progetto sociale che punti alla creazione/conservazione di contro ambienti, pensati come spazi nei quali sia possibile sviluppare anticorpi sufficientemente forti rispetto alla logica che l’ambiente (tecnicizzato e mediatizzato) implicitamente inocula». In questo senso proprio il territorio dell’Alta Gallura «può essere pensato come contro ambiente in grado di restituire il posto e il valore ad aspetti che, pur se imprescindibili per la stessa comprensione della struttura dell’esistenza e dell’esperienza umana, rischiano di svalorizzarsi e di perdersi». 18 B.C. Han, La società cit., p. 66. 19 M. Magatti, La grande contrazione cit., p. 329. 20 Ivi, p. 328. 21 Il sublime, come osserva Bodei proprio in riferimento al paesaggio, «rimette in gioco il rapporto con l’incommensurabile, lo smisurato, l’assenza di limiti e di strutture; rifiuta di cristallizzare la sensazione e l’immaginazione in forme rigide e compiute; implica una progressiva derubricazione del bello a qualcosa di gradevole che non coinvolge intense emozioni […] Sublime è risvegliare la parte immortale dell’anima, la parte più vera, la parte più vicina al Dio, trascendere la mediocrità e la banalità del quotidiano, affrancarsi dalla corruzione della vita politica, sopportare la caducità e il dolore della propria esistenza inserendola nell’armonia del cosmo […] il sublime squarcia le tenebre della nostra ottusità intellettuale e del nostro torpore emotivo, mettendoci in contatto con l’eterno. In questo preciso momento è l’inafferrabile che ci afferra, che ci solleva verso una patria sconosciuta, verso quanto oscuramente avvertiamo come più intimamente nostro, ma che generalmente trascuriamo perché la sua grandezza ci intimidisce e ci sfugge […]», R. Bodei, Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Bompiani, Milano 2008, p. 22. 22 Sull’idea di città intesa come partitura polifonica mi permetto di rinviare a L. Decandia, Polifonie urbane, Meltemi, Roma 2008. 15

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RICERCHE

Memoria, materia e architettura Il recupero delle chiese bombardate nel Regno Unito Lorenzo Grieco

Memoria, guerra e rovine Sono molteplici le testimonianze lasciate dagli edifici danneggiati o distrutti dalle guerre, come molteplici sono le modalità del loro risarcimento. Oltre al restauro à l’identique, ovvero il ripristino della facies «originaria», si può procedere alla progettazione ex novo; alla rifunzionalizzazione delle rovine; alla loro reintegrazione nel paesaggio; alla ricomposizione di eventuali segni identitari e via di seguito. Anche la scelta è condizionata da valutazioni di natura multipla e variegata: economica, culturale, simbolica, tecnica. In ultima analisi: politica. Sopra tutte le ragioni aleggia il richiamo al valore immateriale della memoria, intesa come sentimento collettivo e come collante identitario di una comunità, che gli edifici hanno materialmente rappresentato per tramandarlo di generazione in generazione. John Ruskin per sottolineare quanto, in architettura, la memoria si coniughi con la viva testimonianza della capacità manuale dell’uomo in uno specifico contesto culturale e sociale, scrive: «fateci pensare, mentre poniamo una pietra sull’altra, che verrà un tempo in cui quelle pietre saranno ritenute sacre perché toccate dalle nostre mani»1. La memoria degli uomini, di cui le pietre sono depositarie, riassume sia lo spirito di coloro che hanno modellato la materia, sia il sentimento condiviso di una comunità che ha voluto l’edificio, sia la risposta a un imperativo morale di trasmissione di valori immateriali attraverso una formalizzazione di materia. Queste condizioni si confanno particolarmente all’architettura religiosa, prodotto corale dei contributi di architetti, ingegneri, artisti, artigiani e semplici maestranze, che la cultura ro-

mantica si è compiaciuta di immaginare uniti e spinti da un comune sentire spirituale. Se generalmente la mano dell’uomo nobilita la materia, trasformandola da materia bruta a materia signata, nell’architettura sacra la finalità metafisica della fatica umana istituisce un nesso stringente tra l’immanente e il trascendente. La carica simbolica dell’edificio infonde un carattere di intrinseca sacralità alla materia stessa del costruire. Di conseguenza, in accordo con Ruskin, l’uso di un edificio ecclesiale, e anche dei suoi resti, è inevitabilmente condizionato dalla consacrazione originaria, il cui spirito si conserva e si trasmette alle generazioni future. Non è inutile rammentare che nella cultura inglese il processo mnemonico stimolato dalle vestigia dirute si carica di significati estetici e morali di matrice romantica. Il topos letterario del pittoresco sprigionato dalle rovine e dalla loro capacità di evocare ricostruzioni immaginarie persiste fino all’epoca contemporanea e influenza i progetti di ricostruzione delle architetture sacre, mutilate dalla guerra2. La base teorica del rovinismo postbellico anglosassone si fonda su alcuni scritti, tra cui The Bombed Buildings of Britain (1942), curato dallo storico James Maude Richards con note di John Summerson, che fu redatto con la doppia funzione di obituario e di registro pittorico degli edifici distrutti dalle incursioni aeree naziste, e Pleasure of Ruins (1953) di Rose Macaulay3. Per apprezzare l’aspetto pittoresco, l’osservatore deve considerare le macerie come rovine, ovvero come un evento architettonico a pieno titolo4. Nonostante, avvisano gli autori, quel che rimane degli edifici distrutti rappresenti perdite di vite e di beni materiali, il persistente valore simbolico giustifica l’ammirazione riservata al loro stato contingente.

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L’esigenza della ricostruzione La contemplazione della rovina non prevale sull’istanza della rinascita delle chiese bombardate. Nell’Inghilterra del dopoguerra, devastata da cinque anni di bombardamenti nazisti, il futuro delle chiese in macerie è un tema nevralgico di dibattito, a cui partecipano progettisti, storici e critici dell’architettura. Tra essi spiccano i nomi del mitico Nikolaus Pevsner e dell’architetto Henri Stuart Goodhart-Rendel, riferimenti nodali nel campo dell’architettura sacra, che furono interpellati in due programmi radio della BBC, subito dopo le distruzioni5. Nell’intervista di Goodhart-Rendel, registrata all’indomani dei bombardamenti del 1941, emerge il valore testimoniale delle ferite dell’architettura, esposte con fierezza sull’edificio come le cicatrici sui corpi dei guerrieri6. La riflessione sul significato ammonitore e celebrativo della cicatrice, contrariamente al pensiero rovinista, è tuttavia condizionata dall’interesse primario dell’integrità dell’edificio. Perseguendo pragmaticamente l’obiettivo del riuso, l’architetto prospetta tre strade da percorrere in caso di chiese bombardate: riparare, riprodurre, sostituire. La riparazione è d’obbligo per le chiese danneggiate ma, nel caso in cui l’entità della distruzione sia ingente, esse non dovrebbero essere ricostruite esattamente come erano. Sarebbe un doppio errore, innanzitutto per l’inattualità del vecchio spazio rispetto alle moderne esigenze di culto, poi per l’artificiosità storicamente discutibile della ricostruzione. Solo quando alcuni frammenti originali sopravvivono, Goodhart-Rendel ammette la possibilità di replicare il disegno originale, sebbene sia preferibile «incorporare l’opera antica in un nuovo disegno […] facendo in modo che l’edificio appaia così com’è, un misto di vecchio e nuovo»7. Se le chiese ricostruite da Goodhart-Rendel guardano ancora all’architettura vittoriana, in nome di una continuità stilistica che rende difficile distinguere tra la preesistenza e il nuovo intervento, la varietà degli approcci prospettati dall’architetto emerge nella pratica quotidiana dei progettisti, chiamati a declinare i principi del restauro secondo le contingenze del caso8. La libertà di differenziare la ricostruzione dal progetto originale presenta vantaggi dal punto di vista economico, da quello tecnico e

1. Frontespizio di J. M. Richards (a cura di), The Bombed Buildings of Britain: A Record of Architectural Casualties: 1940-41, The Architectural Press, London 1942.

distributivo. Qualora l’involucro dell’edificio si sia conservato, si tende a inserire una struttura interna strutturalmente autonoma, facendo ricorso a moderne tecniche costruttive. La necessità di ricostruire con materiali moderni è al centro della relazione che l’architetto di Bristol Thomas H. Burrough presenta alla conferenza ad Attingham Park, Shrewsbury, nel 19619. Nelle ricostruzioni degli interni, che Burrough definisce come radical reordering, l’impiego di nuovi materiali, tra cui l’acciaio e il cemento armato, permette di massimizzare la luce libera evitando l’ingombro di supporti intermedi. La riconfigurazione dell’interno garantisce così una migliore visione dell’altare, mentre il volume spaziale unitario materializza simbolicamente l’assemblea, che partecipa all’unisono alla liturgia10. La rovina come essenza della sacralità del rito Oltre ad essere depositi della memoria storica, le rovine materializzano l’essenza profonda della sacralità del rito. Si tratta di un concetto affine alla teologia delle reliquie, che affida alla materia il potere di trasmissione del sacro attraverso il contatto, in un’ambigua, seducente, dialettica tra materiale e spirituale. Come le reliquie anche i resti delle chiese devono essere mostrati ed esibiti, come del resto già Francesco Borromini volle allestire, negli oculi della navata maggiore di San Giovanni in Laterano, l’esposizione della nuda muratura della vecchia basilica costantiniana11. Nel caso delle rovine seguite alla distru-

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4. Basil Spence, nuova cattedrale di St. Michael, Coventry, 1951-1962. Pianta del progetto di concorso, 1951. Archivio Privato.

2-3. Messa delle ore otto tra le rovine della cattedrale di Coventry, 1° giugno 1941. Fonte: Coventry Telegraph. Archivio Privato. a. Cerimonia tra le rovine della cattedrale di Coventry nel giorno della Vittoria, 8 maggio 1945. Fonte Coventry Telegraph. Archivio Privato.

5. Nuova cattedrale di St. Michael. Vista dal cortile della vecchia cattedrale. Courtesy Deutsches Dokumentationszentrum für Kunstgeschichte - Bildarchiv Foto Marburg.

zione bellica l’idea di fondo è che la materia dell’edificio religioso sia stata ulteriormente santificata dal martirio subito. Per questo, incorporare le macerie in una chiesa di nuova edificazione, ne rinnova la sacralità ab origine. Il reimpiego delle macerie come materiale da costruzione in architetture per il culto è stato praticato frequentemente all’indomani della Seconda Guerra Mondiale in tutta Europa, materializzando simbolicamente la parabola di Cristo pietra viva (1Pt 2,4-5). Si va dai muri della cappella di Ronchamp (1951), realizzati da Le Corbusier con la «pietra di demolizione» della precedente cappella bombardata12, all’antico pietrame murato da Ru-

dolf Schwarz nel nuovo edificio di St. Anna a Duren (1956)13, per citare due dei modelli più celebri dell’architettura cristiana del secondo Novecento. In ambito inglese si rammentano la ricostruzione di St. John the Evangelist a Newbury (1957), in cui il progettista Stephen Dykes Bower incorpora vetri e mattoni della precedente chiesa vittoriana di William Butterfield, e l’edificazione dell’Holy Redeemer a York (1964), per cui George G. Pace riusa intere sezioni di una vicina chiesa in rovina14. In altri casi, seppur non direttamente impiegate come materiale di recupero, le macerie stabiliscono con la memoria del luogo relazioni immateriali che incrementano l’elo-

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quenza simbolica della nuova architettura. A questo presupposto segue una serie di pratiche che l’architetto mette in atto per esaltare la sacralità delle vestigia antiche. Nel progetto per la cappella della Madonna in den Trümmern (Madonna tra le Macerie) eretta a Colonia (1947), Gottfried Böhm aggancia un piccolo santuario a pianta ottagona ai resti della chiesa romanica di St. Kolumba15. Pietre, frammenti

di decorazioni, monconi di pilastri e porzioni di pavimentazione della vecchia chiesa sono lasciati a circondare il moderno volume traforato, stabilendo una diretta connessione, materiale, visiva e simbolica, tra la celebrazione che si svolge all’interno della cappella e il giardino di rovine che si dispiega all’esterno16. In Inghilterra il caso più emblematico riguarda la cattedrale di Coventry. La città,

6. Chiesa di St. Martin Le Grand, Coney Street, York. Pianta prima del 1942. Fonte: An Inventory of the Historical Monuments in City of York, Volume 5, Central, Londra 1981. Courtesy British History Online.

8. Chiesa di St. Martin Le Grand. Pianta dopo l’intervento di George Gaze Pace. Fonte: An Inventory of the Historical Monuments in City of York, Volume 5, Central, Londra 1981. Courtesy British History Online.

7. George Gaze Pace, ricostruzione di St. Martin Le Grand, Coney Street, York, 1956-68. Vista del giardino della memoria. Foto Stephen Craven.

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9. Copertina di Bombed Churches as War Memorials, The Architectural Press, London 1945.

10. Neville Conder, progetto per la monumentalizzazione delle rovine di St. Alban, Londra, 1945. Fonte: Bombed Churches as War Memorials, The Architectural Press, Londra 1945.

nel cuore delle Midlands, è spietatamente bombardata nel blitz del 14 novembre 1940, e la cattedrale di St. Michael è distrutta dalle fiamme. I resti fumanti, raffigurati già il giorno dopo del bombardamento da John Piper, assurgono a un tale livello simbolico da fungere da potente scenografia per la cerimonia di intronizzazione del nuovo vescovo Neville Gorton17. La ricostruzione della cattedrale è prioritaria per il nuovo vescovo, che nel 1942 incarica l’architetto Giles Gilbert Scott. Costui predispone un progetto che salvaguarda i resti dell’edificio gotico e li ingloba in un’architettura neogotica. L’unità stilistica così raggiunta annulla la riconoscibilità delle rovine, azzerando il loro messaggio simbolico. Il progetto suscita l’opposizione di numerosi critici, tra cui James Maude Richards e Nikolaus Pevsner, tanto che Gilbert Scott rassegna le dimissioni nel 194618. Di lì a pochi anni è indetto un concorso per la nuova cattedrale, il cui progetto vincitore di Basil Spence istituisce un nuovo corso per la ricostruzione delle chiese bombardate. Spence prevede la realizzazione di una moderna cattedrale in pietra e cemento armato, adiacente al perimetro di quella antica, preservata nella

quasi totalità delle sue macerie19. L’impronta dell’edificio medievale configura il perimetro di un giardino della memoria, che custodisce indelebili le ferite della guerra. Quanto resta della cattedrale bombardata è paragonabile al corpo martoriato di un santo che, contemplato nella sacralità della agonia, contrasta con il vigore dell’edificio moderno risorto, che si profila al di là delle antiche finestre gotiche. Questa contrapposizione architettonica è efficacemente espressa da Spence: «Ho visto nella vecchia cattedrale un simbolo di Sacrificio, un aspetto della Fede Cristiana, e ho saputo che il mio compito era quello di disegnare una nuova cattedrale che avrebbe rappresentato il Trionfo della Resurrezione»20. Le rovine assumono un significato teologico e una funzione rituale altrettanto sostanziale nella chiesa nuovamente risorta. L’efficacia liturgica è evidente nelle celebrazioni che si svolgono tra le mura della vecchia cattedrale, così come nella custodia dei materiali che provengono da essa. È il caso di tre chiodi del distrutto tetto medievale, incrociati e incorporati nella croce del nuovo altare maggiore, trattati alla maniera di moderne reliquie.

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La rovina come memoriale

11. St. Mary the Virgin, Aldermanbury, Londra. Veduta area dell’interno della chiesa in rovina e del parco, verso nord-ovest. Courtesy America’s National Churchill Museum, MA.03.030.

12. Elementi architettonici e casse di pietre da St. Mary Aldermanbury depositati nel campus del Westminster College in attesa della ricostruzione. Courtesy America’s National Churchill Museum, MA.04.022.

13. Vista del giardino sul sito di St. Mary Aldermanbury, Londra, dalla strada prospiciente. Courtesy America’s National Churchill Museum, MA.08.003.

Con il progetto per la nuova cattedrale di Coventry la chiesa in rovina diviene così un Tempio della Memoria: un luogo reso sacro non solo dalla destinazione religiosa, ma anche dal ricordo degli eventi che esso testimonia. Questa intenzione è chiaramente perseguita anche nella ricostruzione della chiesa di St. Martin Le Grand a York, distrutta dai bombardamenti del 1942, intesa come «uno scrigno del ricordo per tutti gli uomini morti nelle due guerre mondiali»21. L’architetto George G. Pace ripristina (1956-68) l’aula liturgica solo in una porzione del vecchio impianto, mentre gran parte della restante superficie è lasciata a cielo aperto, trasformata in un hortus conclusus, memore del Getsemani22. In questo giardino della memoria fatto di pietra, i resti di quattro pilastri della antica navata, mentre esibiscono le ferite dell’attacco bellico, alludono all’iconografia della colonna spezzata della Passione di Cristo. Una croce commemorativa e una panca corredano la funzione meditativa dello spazio, la cui sacralità è ribadita da una vasca d’acqua e da un albero a foglie caduche. In tal caso, come afferma Marc Augé nel celebre saggio sulle rovine e le macerie, i resti mortali di tali edifici insegnano a percepire il tempo per prendere coscienza della storia23. Seppur destinata ad altri usi, la superficie della vecchia chiesa continua ad essere un luogo di culto, dove la parola culto va intesa in relazione alla sua etimologia latina. Non casualmente nelle chiese distrutte nel secondo conflitto mondiale e lasciate in rovina si coltiva immaterialmente la memoria dei caduti in guerra e materialmente la vegetazione. In linea con tale finalità pedagogica, numerose chiese distrutte sono infatti trasformate in giardini della memoria, secondo un’operazione che nel Regno Unito è discussa già all’indomani del conflitto, come prova l’emblematico volume Bombed Churches as War Memorials (1945)24. Non importa che l’organismo architettonico sia incompleto, mancante della copertura o di intere porzioni. È il recinto che delimita lo spazio e ne determina l’originaria ragion d’essere: la superficie ivi compresa è benedetta e si differenzia dal suolo profano. L’importanza di questa delimitazione spaziale motiva, ad esempio, l’intervento sulla chiesa di St. Mary Aldermanbury, una

memoria, materia e architettura

delle chiese progettate da Chrisopher Wren nella City di Londra. Dopo una lunga discussione sulla conservazione o sulla demolizione delle sue rovine, i resti dell’edificio sono trasferiti nel campus del Westminster College a Fulton, in Missouri, dove la chiesa è ricostruita come monumento a Winston Churchill. Il sito originario è invece trasformato in un giardino, inaugurato nel 1970, che conserva il sedime della vecchia chiesa25. In questo caso, così come nei volumi cavi del memoriale del World Trade Center a New York, l’impronta dell’edificio è una sorta di metonimia, una figura retorica dove la parte sta per il tutto. Una parte immateriale e spirituale che vive nella memoria collettiva; ciò che rende ancora più sacri i resti materiali dell’architettura. Note Si ringrazia Claudia Conforti per i suoi fondamentali suggerimenti e per aver stimolato la riflessione sugli argomenti di questo contributo. Un ringraziamento anche a Maria Grazia D’Amelio, con cui l’autore si è confrontato sulla traduzione architettonica della memoria nei sacrari del Novecento, Alan Powers, per le sue indicazioni su protagonisti e temi del dibattito architettonico britannico, e Maria Argenti, per i suoi importanti consigli. 1 J. Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, Smith, Elder & Co., London 1849, «The Lamp of Memory», p. 233; trad. dell’autore. 2 M. Treib, Remembering Ruins, Ruins Remembering, in Id. (ed.), Spatial Recall: Memory in Architecture and Landscape, Routledge, New York-London 2009, pp. 194-217. 3 J.M. Richards (ed.), The Bombed Buildings of Britain, a Record of Architectural Casualties, 1940-41, The Architectural Press, Cheam 1942; R. Macaulay, Pleasure of Ruins, Thames and Hudson, London 1953. 4 Sul passaggio dalle macerie alle rovine, si veda C. Conforti, Dalle macerie alle rovine: la misura etica del restauro, in M. Mari (a cura di), Gli edifici di via della Conciliazione: Propilei, San Paolo, Pio XII, Convertendi: Ricerche e indagini per il restauro, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2017, pp. 141-145. 5 N. Pevsner, Reflections on ruins, da In the Margin, BBC Home Service, 3 maggio 1946, h. 6.20-6.30 pm, in S. Games, Pevsner: The BBC Years. Listening to the Visual Arts, Ashgate, Farnham-Burlington 2015, pp. 47-48. 6 H.S. Goodhart-Rendel, Rebuild or Restore, «The Listener», XXV, 629, 30 January 1941, p. 143. 7 Ivi, p. 144. 8 A. Powers, H.S. Goodhart-Rendel: 1887-1959, Architectural Association, London 1987, pp. 25, 42-45. *

45 T.H.B. Burrough, Space and Substance: Two important considerations when radical re-ordering is possible, in G. Cope (ed.), Making the Building Serve the Liturgy. Studies in the Re-ordering of Churches, A.R. Mowbray & Co, London 1962, pp. 57-60. 10 Il focus sull’altare corrisponde alla posizione centrale che il rito Eucaristico assume nella liturgia anglicana del XX secolo: L. Grieco, “Ancient Churches and Modern Needs”. Reordering Anglican Churches in Postwar Britain, in E. Fernández-Cobián (ed.), Architectural Actions on the Religious Heritage after Vatican II, Cambridge Scholar Publishing, Newcastle upon Tyne 2020, pp. 195-210. 11 M. Fagiolo, Borromini in Laterano: il Nuovo Tempio e la Città Celeste per il Giubileo, in M. Fagiolo, Roma Barocca: i protagonisti, gli spazi urbani, i grandi temi, De Luca Editori d’Arte, Roma 2013, pp. 265-266. 12 Le Corbusier, Ronchamp, trad. di G. Veronesi, Gerd Hatje, Stuttgart 1957, pp. 90, 107. 13 W. Pehnt, H. Strohl, Rudolf Schwarz: 1897-1961, Electa, Milano 2000, p. 144. 14 L. Grieco, Adaptaciones y reconstrucciones de antiguas iglesias anglicanas en el siglo XX, «Actas de Arquitectura Religiosa Contemporánea», 7, 2020, pp. 31-33. 15 S. Kraus, A. Pawlik, M. Struck, Kolumba Kapelle, Reihe Kolumba, Köln 2020. 16 Il rapporto con l’esterno è stato modificato dal progetto di Peter Zumthor per il Kolumba Museum. 17 Cfr. www.youtube.com/watch?v=974zj_BkbY4. 18 L. Campbell, Towards a New Cathedral: The Competition for Coventry Cathedral 1950-51, «Architectural History», 35, 1992, pp. 208-234. 19 B. Spence, Phoenix at Coventry: The Building of a Cathedral, Geoffrey Bles Ltd, London 1962, pp. 5: «Era ancora una cattedrale. Invece del bel tetto in legno aveva il cielo a far da volta. Era un Luogo Santo, […] qualsiasi cosa io facessi, avrei dovuto preservare quanto più possibile della vecchia cattedrale»; trad. dell’autore. 20 Ivi, p. 6. Lo stesso accostamento è motivo iconografico nell’arazzo di Graham Sutherland, che contrappone alla figura convulsa del Cristo Crocifisso la ieraticità del Cristo in Gloria. 21 Dalla targa in situ. 22 P. Pace, The Architecture of George Pace, Batsford, London 1990, pp. 209-211. 23 M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 43. 24 P.J. Larkham, J.L. Nasr, Decision-making under duress: the treatment of churches in the City of London during and after World War II, «Urban History», 39, 2, maggio 2012, pp. 285-309. 25 C.E. Hauer jr., W.A. Young, A Comprehensive History of the London Church and Parish of St. Mary, the Virgin, Aldermanbury: The Phoenix of Aldermanbury, The Edwin Mellen Press, Lewiston-Queenston-Lampeter 1994, pp. 370-390. 9

Il lieve poggia a terra, il pesante è sospeso Del fruire senziente nelle cappelle di Braga Joaquim Félix de Carvalho

Neste deserto de areia literária não há o oásis de uma explicação. Fernando Pessoa

Non c’è oasi di una spiegazione Ti condurrò a un vulcano che non si spegne mai. A partire dalla sua sintassi, sì. Non aspettarti di conoscerne nemmeno i nomi. Nel frattempo, riascolta Domenico1, mentre tiene il suo discorso in piedi, sul cavallo di Marco Aurelio, in Piazza del Campidoglio. Coltiva il desiderio di dilatarti all’infinito, respirando il lenzuolo di senso che sorride avvolgendoti. Coltivalo più di ogni spiegazione. E poi lascia che sia la luce a giocare, nella sua densità inesplorata. In quell’estetica così astratta e così vera, secondo Paul Valéry2. È come il centro del fuoco; alto, profondo, in cui si sentono i piedi ancor prima della testa. Così vicina a un’altra esperienza, surrealisticamente ispirata, dalla poesia «Pena Capital», di Mário Cesariny: «O Poeta, exorcismando no seu atelier nos astros: / das páginas do livro jovialmente aberto / primeiro os pés depois a cabeça sais tu / não estás nada parecido / mas és sem dúvida o que se pôde arranjar». Il Poeta, esorcisma3 nel suo studio tra gli astri: / dalle pagine del libro giovialmente aperto / escono fuori prima i piedi poi la testa ed esci tu / non sei più uguale / ma sei senza dubbio ciò che si può arrangiare». Ascoltare. Pensare. Maneggiare. Così nasce l’ineguale. Esorcismando. Tirandole fuori, covandole, in un esordio o un esorcismo, si inanellano parole di gesso, umido sulla via del candore, secondo l’armonia possibile. Così farò,

ma con un avvertimento, secondo l’aforisma dell’epìgrafe: «In questo deserto di sabbia letteraria non c’è oasi di una spiegazione»4. Accedere all’architettura delle cappelle dei seminari arcidiocesani di Braga suppone questa sabbia letteraria sui piedi, per aver camminato pellegrini nel deserto dell’inspiegabile. Sarà un modo, possibile tra gli altri, di esporci all’abuso di pensare all’ecologia poetica nel labirinto dell’architettura liturgica, a partire da un sentimento, quello che sente: «l’abuso di sentirsi pensare»5. Senza paura dell’«ambiguità», e nemmeno della «stravaganza», inevitabile e desiderabile, perché, nella sequenza aforistica di Pessoa, «il sentire è un pensare stravagante». E poiché «il pensiero è ancora il modo migliore per sfuggire al pensiero», radichiamoci nella poetica della loro ospitalità, per fruire attraverso la loro fisicità, ciò che gli incontri rappresentano. Sintassi non spenta di un vulcano Tutto comincia col sentire il silenzio. Ascoltare l’invisibile. Sì, il silenzio nudo, invisibile. Invisibile amante che bacia il visibile. Questo è il modo di posticipare la parola, di sospendere il corpo nel respiro divino, alla luce dell’oracolo, che accende l’invisibile nella nudità del vuoto. Sophia lo verseggia in un trittico, e ci porta a condividere: «1 Il respiro degli dèi è un nudo silenzio/ E una nudità più acuta che riposa sulle cose// 2 Qui la mia anima è sospesa / Come se toccasse la sostanza pre-sentita// 3 Ecco il centro del mondo il suo ombelico/

il lieve poggia a terra, il pesante è sospeso

L’esatta proporzione di presenza e vuoto»6. In perfetta sintonia, in un altro aforisma, Fernando Pessoa dice: «La realtà è il gesto visibile delle mani invisibili di Dio»7. Così intendo la realtà, anche quella delle cappelle, come l’azzurro del cielo con cui Dio si rende presente, secondo Hölderlin, per abitare poeticamente il mondo. Diritto all’amore dal vulcano che non si spegne. Tempo e spazio in fiamme. Ardentemente. Per far fronte allo stato di rovina degli spazi, il rettorato del Seminario Conciliare ha avviato nel 2008 un movimento per il rinnovamento delle arti religiose, con la mostra Lettere da San Paolo, della pittrice Ilda David’. In Ípsilon, sul quotidiano «Público», António Marujo ne ha evidenziato la sintassi: «Ilda David’ è andata a São Paulo da Teixeira de Pascoaes per raccogliere un’immagine: quella di Paolo di Tarso quando “arriva ad Atene e la sua ombra si proietta sulle statue bianche”. Fu questo “spirito al contrario”, “un vulcano”, ad affascinare la pittrice»8. In questo fascino, miracolo degli inizi, è germogliata la cappella Árvore da Vida. Cappella Árvore da Vida Campo de Santiago. Entra nella porta 47. Fai un inventario delle chiese. Braga è la «Roma portoghese». Affacciato sulla città, il Santuario di Bom Jesus do Monte è uno dei più bei Monti Sacri. È architettura incollata alla collina, in pietra, acqua e alberi. Attraverso di essa si sale a Gerusalemme e oltre. Nelle vicinanze, sulla Serra della Falperra, S.ta Maria Madanela è considerata la più bella chiesa portoghese in stile rococò. E la basilica dos Congregados e la cappella di Nossa Senhora Aparecida? Sono gioielli barocchi, disegnati da André Soares, scoperto da Robert Chester Smith. Lo so, hai appena visto, accanto alla torre medievale, la cappella della Senhora da Torre. Come sarebbe celebrare al suo interno, con le porte aperte su Largo de São Paulo? Hai mai immaginato il rapporto tra «spazio sacro» e «spazio pubblico»? La vertigine, l’organo, l’attrazione dello sguardo, il «disorientamento»? Adesso, in questo chiostro9, con archi in volta perfetta poggianti su colonne toscane, si può contemplare il peristylum della più nobile domus romana di Bracara Augusta. Le prime

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1. Cerejeira Fontes Architects, Capela Árvore da Vida, Seminario di Santiago, Braga, Portogallo, 2011. Lo spazio della cappella concepito come un vuoto «scavato» in una grotta. Foto Joāo Lopes Cardoso.

mura sono della seconda metà del I secolo; il lago, con un mosaico di ricca fauna marinara, le basi e il capitello corinzio, in marmo nordafricano, risalgono al passaggio dal III secolo al IV, epoca in cui, grazie alle riforme di Diocleziano, Bracara Augusta diventa capoluogo di provincia, Gallaecia, per suddivisione della Citerior o Tarraconense. Qui, l’architettura è ospitalità raddoppiata. La sua vocazione si comprende meglio quando l’archeologia svela, per stratificazione, gli strati che risultano dall’alluvione dei tempi, la traditio continua. È traditio in progressio fino al «segno» del contemporaneo. Percorriamo il lungo corridoio. Vedi, nel frattempo, questa testa caduta, solo lei, nell’azzurro luminoso, colpita da un fulmine, come solo Teixeira de Pascoaes, nella biografia romanzata di São Paulo, l’ha vista, e Ilda David’ l’ha dipinta. È così lontano dal caos e dalla violenza litica dell’altra metà della tela. Che cambio di mentalità! Lasciala là, quando entri nella cappella. Attento alla prima rampa di scale! Il granito è stato consumato da secoli, più ancora di quello delle scale del coro nella chiesa di San Cristóvão, a Lisbona. I gradini servirebbero allo scultore Rui Chafes per raccogliere gli stampi e realizzare una nuova scultura in ferro, come Ascensão nella mostra Non ti mancherà la distanza10; e appendere un’altra scala al soffitto. Sempre con l’interrogativo che, in Sob a pele11, condivide e ci lascia sospesa sulla testa:

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2. Capela Árvore da Vida. La sagoma plastica della cappella definita da pareti-diaframma in doghe orizzontali di legno. Foto Joāo Lopes Cardoso.

3. Capela Árvore da Vida. L’ingresso alla cappella dall’atrio del Seminario di Santiago. Foto Joāo Lopes Cardoso.

«Per me la domanda che continua a porsi è come ricostruiremo la cattedrale». In maniera in un certo senso simile a quella del castello di Rothenfels, saliamo verso una cappella «delle altezze», Árvore da Vida. Che nartece! L’atmosfera conduce lo sguardo dalle penombre alla luce. Creata da gesti in microcemento e spatolato, il caos avvolgente ricorda quanto scrisse Kandinsky, nel libro Sullo spirituale nell’arte, sul colore grigio: la gravidanza della speranza12 e un muro insormontabile. Guarda il graffito. Oh! E quella mano, a carboncino e sudore… Com’è tagliente il camino di luce! E il polittico fa da eco cromatico alla cosmogonia. Oh, il profumo dei pini! Ci sono venti tonnellate di legno, senza chiodi, unto con essenza di trementina e olio di lino. Inaspettata la bellezza drammatica delle pietre, il diverso spessore e trasparenza delle pareti, lo spazio ampio e la biblioteca, il piccolo organo a canne, il tabernacolo, l’organizzazione della cappella secondo un asse trasversale, lo schema distributivo bipolare dell’ambone e dell’altare, gli attrezzi e i paramenti…

Molto è stato scritto sulla cappella. Ricordo l’articolo di Tuija Seipell, nella rivista «The Cool Hunter»13, e quello di António Marujo A capela encantada de Braga14. Le immagini degli autori ci fanno pensare ai diversi Modi di vedere, nel saggio di John Berger15. Tuttavia, l’articolo che meglio approfondisce la lettura della cappella è quello di Ugo Rosa, pubblicato sulla rivista «Divisare»16, con fotografie di Santo Eduardo Di Miceli. In esso l’autore racconta bene il Portogallo, valutando il «genio» della sua architettura, per riflettere poi sulla Cappella Árvore da Vida, nella città di Braga, dove José Saramago inizia, accanto alla «Fonte do Ídolo», il suo libro Viagem a Portugal. Ugo Rosa sottolinea l’assenza di «maschera stilistica» e il riconoscimento di «un’aria di famiglia», che beneficia di «una realtà artigianale e di una propensione culturale che non hanno nulla da spartire con quella specie di rappresentazione scenografica del moderno cui ci ha abituato, negli ultimi anni, l’architettura più à la page di altre parti del mondo». Secondo lui, i Cerejeira Fontes, autori

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del progetto, fanno parte della tradizione di quegli architetti portoghesi che «si sono mostrati capaci (finora) di frequentare la vastità del poco, ma di farlo senza l’enfasi, a volte stucchevole, che vi pongono altri». Ugo Rosa esplora il rapporto di ospitalità che esiste, in modo inverso, rispetto alla Porziuncola, ospitata dalla basilica di Santa Maria degli Angeli, ad Assisi: «In ambedue i casi tuttavia si percepisce il medesimo aroma che definirei come appartenente alla specie dei profumi d’infanzia». Presentando la cappella di Braga come «scatola dei giochi e casa di bambole», o «capanna», sottolinea la sua umiltà e trasparenza: «Nella cappella Árvore da Vida s’incontrano, in un gesto artigianale umile e del tutto privo di arroganza, la felicità rigorosa e geometrica del

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concluso, del delimitato, del definito e quella del viaggio infantile verso l’ignoto, viaggio in barca o in mongolfiera». In questa lettura, l’autore esplora lo «statuto ludico» della cappella e della liturgia, che «ci (e si) mette in gioco: intrecciando visibile e invisibile nell’orizzonte di un’autenticità che non ha bisogno di quel reale al quale l’adulto accondiscende supinamente». Pur senza citarlo, si colloca nella stessa linea di presentazione della liturgia, a partire dalla categoria del «gioco», elaborata da Romano Guardini nella sua opera Lo spirito della liturgia17. Vedo la cappella Árvore da Vida sulla scia del grande profeta dell’architettura aperta, Brunelleschi, così come ne parla da Giovanni Michelucci nel libro Brunelleschi mago18. E la vedo anche superare i limiti dell’architettura con-

4. Cerejeira Fontes Arquitectos, Capela Da Imaculada, Seminario - Cheia de Graça Chapel, Braga, Portogallo, 2017. La sottile volta di cemento sospesa nel vuoto della cappella Cheia de Graça. Foto Joāo Lopes Cardoso.

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temporanea, avvertiti da Vittorio Gregotti, in Tre forme di architettura mancata19. Una delle caratteristiche della cappella, infatti, è inscritta in ciò che Gregotti stima come «rumore delle materie». Ed è in una di queste prospettive che l’ho presentata, a Bose, come una «metafora dell’eternità»20, resistente al tempo, anche se in futuro sarà necessario spostarla, come luogo eterotopico e nel rispetto dell’ecologia integrale. Gli «echi» dei pellegrini, che ho ascoltato21, rivelano la forma plurale di come è apprezzata. Nella loro brevità, molti sono profondi. Non ovviamente, né ci si aspetterebbe, come la via ermeneutica di accesso al suo talamo eucaristico, che è il testo pubblicato su «Rever»22, in cui esploro la comprensione multidimensionale: i diversi strati simbolici; come la memoria e il gioco si integrano e coinvolgono a vicenda. Cappelle Da Imaculada e Cheia de Graça Facciamo 20 minuti a piedi. Passeremo dalle chiese e le cappelle appena ricordate. Andiamo ora alle cappelle Da Imaculada e Cheia de Graça. Entriamo dalla porta 94 B di Rua de S. Domingos. L’ingresso può avvenire anche attraverso l’atrio degli aranci, come fa l’architetto Francesca Leto, che li presenta in un articolo23, a «descrizione fenomenologica», sotto forma di viaggio, nel medesimo stile utilizzato nel suo libro sullo spazio sacro. Il nartece presso le tre porte d’ingresso non è suggestivo. I pannelli di «azulejos» di Querubim Lapa si salvano. Una volta varcata la

5. Capela Da Imaculada. La stele di marmo, retroilluminata naturalmente, in corrispondenza dell’abside, realizza il fondale prospettico della volta di cemento armato. Foto Joāo Lopes Cardoso.

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porta, il silenzio irrompe nell’ombra, come in un denso bosco. Che foresta! Fermati. Ascolta. Mentre gli occhi si adattano, ti ricordo che questo luogo era una rovina. Fu costruito alla fine della seconda guerra mondiale. Serviva una comunità che, però, scomparve. Nel tempo, rischiava di disgregarsi. Nella sfida della sua riabilitazione, ci si è posti la domanda: quali qualità dell’edificio si devono preservare e, magari, migliorare? La risposta è stata: scala e luce. Guarda oltre il visibile. Come in una foresta, pensa ai sentieri, come i sentieri della foresta di Heidegger. È bosco di sogni? Guarda la pietra d’acqua vicino al luogo del fuoco. Oh! E l’immenso monolito, in mezzo alla foresta, ha un orecchio di marmo bianco. Cosa ci fa la sedia vuota accanto a lui? Ascolta. È lo Shemà. Asbjørn Andresen, il suo scultore, ha voluto proporre che la prima percezione del luogo inizi con l’ascolto, nella serenità che lo abita, evitando la «cecità delle orecchie», secondo la riflessione di Juhani Pallasmaa sviluppata in conferenze e libri: Gli occhi della pelle, Essenze, Abitare24, tra gli altri. Hai dei dubbi? Apriti alla «domanda». Lascia il tempo al «riconoscimento». La foresta è già una cappella: la Cheia de Graça; l’altare inizia dal monolito. Si alza a 14 m. Sui rami, in cui cantano gli angeli (lo avrebbe detto Gio Ponti della facciata della nuova cattedrale di Taranto), in un’architettura sospesa, sorge il «nido», casa che si stringe al corpo, capanna nella foresta o rifugio sull’albero. È protetto dalla ruota a raggi della bicicletta. Immagina di viaggiare al suono dell’organo Henk Klop. O, in essi, «l’ange espiègle» di Arcabas. Oppure, nei versi di Tolentino Mendonça: «Un sentiero di terra rossa e polvere / e io abbracciato a te sulla grande bicicletta / non ho mai distolto lo sguardo dai campi / a volte vedevo un angelo voltato di spalle». Per François Nicolas, questa foresta è un «filtro liminale»25. Filtro di apertura per la cappella Da Imaculada, che ospita la Cheia de Graça. Camminando sul pavimento «aracoeli», e alzando lo sguardo verso la volta, si ha la percezione che l’architettura del luogo si esprima in un ossimoro: il lieve è appoggiato a terra, il pesante è sospeso. La volta di cemento armato, infatti, con archi di luce a ritmo asimmetrico, è un’installazione sospesa, una poesia alla gravità: 248.376 kg. Pesante è anche l’installazione «Corpo di luce»: le sette tavole, in marmo «Branco de Estremoz», sospese tramite cavi, pesano 587 kg.

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6. Capela Da Imaculada. Vista laterale della volta di cemento. Foto Joāo Lopes Cardoso.

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8. Capela Da Imaculada. Scorcio dal basso delle due parti, distinte e complementari, di progetto. Foto Joāo Lopes Cardoso.

7. Capela Da Imaculada. L’intervento nel suo insieme: la cappella in legno e la volta di cemento armato. Foto Joāo Lopes Cardoso.

Molte sono le interpretazioni dei «verbi» che generano la leggibilità del luogo: altare, ambone, tabernacolo, croce e «corpo di luce», sedia, la Madonna dell’Umiltà seduta al centro dell’assemblea, icone e trittici, installazioni tessili, lampade in vetro soffiato, campane interne, «madonella» di antica scultura, ecc. Nelle relazioni di vicinato, creano l’immagine scultorea della totalità topica. Come scrive Herberto Helder sulla scultura: «L’incontro stesso delle linee di forza nello spazio è già scultura», il cui rapporto obbedisce «alle regole sensibili del ritmo, del nesso, della sintassi»26.

Con questo approccio, Jérôme Cottin ha realizzato anche suggestive ermeneutiche27. Dobbiamo però a Crispino Valenziano, autore di un’abbondante bibliografia in questo ambito (cfr. Architetti di chiese) che contribuì a consolidare l’apostolicità ecclesiologica della cappella, la nota: «L’impostazione che adesso chiamano (troppo approssimativamente) “presbiterio a isola centrale” (termine coniato da Andrea Longhi), in realtà è una rivisitazione, nel nostro dopo-Concilio, nella strutturazione del Bema nell’Aula (spazio liturgico) secondo l’“arcaico” questroma del

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9-10. Capela Da Imaculada. Viste dell’ambito ricavato al piano superiore della struttura di legno, riservato agli abitanti del Seminario. Foto Joāo Lopes Cardoso.

rito siriaco – rivisitazione possibile e persino augurabile»28. L’opera Capelas de Braga. Novas poéticas da espacialidade ritual, che ho scritto, le presenta. In essa sintetizzo: «Nuova Carne del Corpo di Cristo, queste cappelle sono “movimento” culturale, epifania etica, spogliarsi raffinato, pratiche di speranza». Nota endografica Come è stato possibile costruire queste cappelle? – domandi tu. Frédéric Debuyst, nel suo libro Elogio di nuove chiese, in cui lodava le cappelle di Braga, sottolinea ciò che è stato determinante: «Esse sono frutto di una collaborazione straordinariamente complementare tra il sud e il nord dell’Europa, tra artisti norvegesi e svedesi specializzati nell’uso del legno, e teologi-liturgisti portoghesi. Un’impresa che è anche “ecumenica”»29. Riguardo a questa collaborazione, alla quale si sono aperti gli architetti Cerejeira Fontes, in qualità di progettisti delle cappelle, vorrei

sottolineare quanto scrive Asbjørn Andresen nel libretto adottato in occasione della dedicazione della cappella Da Imaculada: «Realizzare progetti pubblici di grande portata come questi richiede uno spazio creativo e un linguaggio aperto alla partecipazione, che consenta lo sviluppo di altre dimensioni». Sulla collaborazione tra architetti e artisti, il cardinale Gianfranco Ravasi, responsabile del padiglione della Santa Sede, con le «poetiche cappelle nel bosco», alla Biennale di Venezia 2018, ha detto in un’intervista a Frédéric Mounier al quotidiano «La Croix»: «A tutti interessava modellare lo spazio nella sua nudità, giocando con la luce, l’intimità… Ma con un’assenza: la distanza dalle altre espressioni artistiche. Perché se una chiesa contemporanea ha spesso interni bellissimi, si può vedere che l’architetto non sempre si è preoccupato degli oggetti di culto. Così vediamo altari, sculture e mobili discordanti, non sufficientemente progettati per questo spazio, che tuttavia è magnifico. Francesco Borromini, rivale del Bernini qui a Roma, proponeva invece per le sue chiese un insieme coerente e armonioso. Ecco una sfida per oggi».

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Nelle cappelle di Braga hanno collaborato diversi artisti: Ilda David’, Lourdes Castro, Manuel Rosa, Asbjørn Andresen, Lisa Sigfridsson, Helena Cardoso, e artigiani del settore tessile, del vetro, dei metalli preziosi e del legno. Le loro creazioni, in armonia con l’architettura, sono fonte di una bibliografia specializzata. La comunicazione di chiusura30 del VI Congresso Internazionale di Architettura Religiosa Contemporanea, svoltosi a Porto, apre le domande che ci siamo posti prima e durante il processo della sua creazione. Le cappelle di Braga hanno vinto il premio come miglior edificio dell’anno, in «architettura religiosa», da Archdaily, nel 2011 e nel 2019. Sarà questo sabbia letteraria? Forse. Ma anche per te – lo dico con Pessoa – «non c’è oasi di una spiegazione». Note Cfr. il film Nostaghia (Nostalghia) dal regista russo Andrei Tarkovsky. 2 P. Valéry, Discurso sobre a estética. Poesia e pensamento abstracto, 2ª edição, Nova Vega, Lisboa 2020. 3 Neologismo coniato dal poeta surrealista portoghese Mario Cesariny per descrivere il momento in cui il poeta compone i suoi versi. 4 F. Pessoa, Aforismos e afins. Edição e prefácio Richard Zenith (Páginas de Fernando Pessoa 3), Assírio & Alvim, Lisboa 2003, p. 54. 5 Ivi, p. 36. 6 S. De Mello Breyner Andersen, Obra Poética. Inéditos, p. 948. 7 F. Pessoa, Aforismos e afins cit., p. 64. 8 A. Marujo, Ilda David’ pinta um vulcão chamado Paulo de Tarso, «publico», 26 gennaio 2009, disponibile online (www.publico.pt/2009/01/26/culturaipsilon/noticia/ilda-david-pinta-um-vulcao-chamado-paulo-de-tarso-221625). 9 L’antico chiostro del Seminario dove attraverso scavi archeologici fu rinvenuta una domus romana della seconda metà del I secolo. 10 Per questa mostra, cfr. Paulo Pires do Vale, «Rui Chafes, Ascenção»: www.snpcultura.org/rui_chafes_ascensao.html. 11 Rui Chafes, Sob a pele. Conversas com Sara Antónia Matos, Documenta-Atelier-Museu Júlio Pomar, Lisboa 2015. 12 Cfr. quanto scrisse Kandinsky sul colore grigio: Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, a cura di Elena Pontiggia (Testi e Documenti 8), SE, Milano 2005, p. 62. 13 Cfr. T. Seipell, The Tree of Life Chapel – Braga, Portugal, «The Cool Hunter», 25 ottobre 2011, disponibile online (thecoolhunter.net/the-tree-of-life-chapel-braga-portugal/). 1

53 A. Marujo, A capela encantada de Braga, «publico», 11 settembre 2011, disponibile online (www. publico.pt/2011/09/11/jornal/a-capela-encantada-de-braga-22862677). 15 J. Berger, Modi di vedere, a cura di M. Nadotti, Bollati Boringhieri, Torino 2015. 16 U. Rosa, Cerejeira Fontes Architects. The Tree of Life Chapel, «Divisare», 12 agosto 2106, disponibile online (divisare.com/projects/324110-cerejeira-fontes-architects-santo-eduardo-di-miceli-the-tree-of-life-chapel). 17 R. Guardini, Lo spirito della liturgia, Morcelliana, Brescia 2008. 18 G. Michelucci, Brunelleschi mago, Tellini, Pistoia 1972. 19 V. Gregotti, Ter forme di architettura mancata, Einaudi, Torino 2010. 20 J. Félix De Carvalho, Una metafora dell’eternità: la cappella Árvore da Vida a Braga, in G. Boselli (a cura di), Architettura della luce. Arte, spazi, liturgia, Atti del XIII Convegno liturgico internazionale (Bose, 4-6 giugno 2015), Edizioni Qiqajon, Bose 2016, pp. 217-232. 21 J. Félix De Carvalho, Capela Árvore da Vida: Memorabilia das visitações, in J. Da Silva Lima (cord.), Igreja Comunhão, Paulus, Lisboa 2019, pp. 191-225. 22 J. Félix De Carvalho, Tálamo dos Cânticos na capela Árvore da Vida: por uma espiritualidade do atrevimento, «REVER», 1, 2018, pp. 115-142. 23 F. Leto, Cappella dell’Immacolata, Seminario di Nostra Signora della Concezione, Braga, «Arti Sacre News. Narrazioni d’arte sacra», 7, 2020, disponibile online (www.sfogliami.it/fl/209064/p65u5387bv23dmmpdnv5mfv313qcg4q9#page/30). 24 J. Pallasmaa, The Eyes of the Skin. Architecture and the Senses, John Wiley & Sons Ltd, Chichester 2005; trad. it. Gli occhi della pelle. L’architettura e i sensi, Jaca Book, Milano 2007; J. Pallasmaa, Esencias, Gustavo Gili, Barcelona 2018; Id., Habitar, Gustavo Gili, Barcelona 2018. 25 F. Nicolas, Sete reflexões sobre duas capelas: “Imaculada” e “Árvore da Vida”, «snpcultura», 23 marzo 2017, disponibile online (www.snpcultura.org/ sete_reflexoes_sobre_duas_capelas_imaculada_e_ arvore_da_vida.html). 26 H. Helder, Photomaton & Vox, Porto Editora, Porto 2015, pp. 70-71. 27 J.J. Cottin, Architecture intérieure, aménagements liturgiques et artistiques à Braga, Portugal, «Protestantisme Images», disponibile online (www.protestantismeetimages.com/Architecture-interieure.html). 28 Per questo e altri riferimenti: J. Félix de Carvalho, Crispino Valenziano: apostolicidade e arquitetura eclesial da capela Imaculada, «snpcultura», 14 maggio 2017, disponibile online (www.snpcultura.org/apostolicidade_e_arquitetura_eclesial_da_capela_imaculada.html). 29 F. Debuyst, Elogio di nuove chiese, Edizioni Quiqajon, Bose 2018, p. 161. 30 J. Félix de Carvalho, Terebinto, Tienda, Templo, Cuerpo. Anamnesis mayéutica acerca de la poética en la arquitectura religiosa contemporânea, «Actas de Arquitectura Religiosa Contemporánea», 6, 2019, pp. 230-247, disponibile online (doi. org/10.17979/aarc.2019.6.0.6245). 14

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Capela Árvore da Vida Braga, Portogallo

Progettisti Cerejeira Fontes Arquitectos (António Jorge Fontes, Asbjörn Andresen, André Fontes) Liturgista Joaquim Félix de Carvalho Completata 2012 Relazione dei progettisti La strategia di intervento prevede l’inserimento di una cappella nel Seminario di Santiago. Si tratta di un volume autonomo che, all’interno dell’ingresso del Seminario, assume la sua centralità. Nella definizione architettonica della forma, questo «corpo» intende essere una struttura singolare, equilibrata e riconoscibile, un elemento contemporaneo ed eccezionale all’interno dell’edificio. Dopo aver delineato la visione dello spazio sacro che circonda questo corpo, si è cercata una proposta che assorbisse il carattere religioso dell’insieme, creando ambienti e spazi che favorissero una dimensione spirituale, di interiorità, riflessione e raccoglimento, così da conservare lo stesso linguaggio. Il progetto del nuovo volume si relaziona alla preesistenza attraverso la creazione di momenti di dialogo e inedite modalità di percezione dello spazio circostante. Il nuovo corpo semicompatto si distingue da quello esistente per il suo aspetto, ma si integra ad esso nella simbologia. Lo spazio che circonda il nuovo volume è assunto come momento di transizione. L’intenzione della proposta progettuale è quella di risvegliare la curiosità ed invitare ad entrarvi. Durante l’analisi dell’area di intervento abbiamo individuato alcuni caratteri che qualificano lo spazio, come il ritmo e la materialità. Questi sono stati importanti per lo sviluppo concettuale della Cappella. Percorrendo il Seminario ci si trova di fronte ad un «silenzioso» rigore imposto dalla posizione ritmica delle

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porte di accesso alle stanze. La proposta progettuale ha voluto rompere questa rigidità ponendo la porta di accesso al volume della Cappella in corrispondenza di uno dei suoi spigoli, in asse con l’ingresso. Così, con un gesto impercettibile, abbiamo progettato un elemento con caratteristiche uniche. Questa soluzione non è casuale, né il risultato di vincoli puramente formali ed estetici, ma la conseguenza diretta della realtà stessa, che conferisce allo spazio una dimensione altra, provocando un’attenzione particolare e una grande ricchezza simbolica. L’organizzazione interna della Cappella è stata concepita tenendo conto di due livelli di valutazione e di due tipi di visione. Questi momenti, distinti ma intrinsecamente correlati, si riferiscono allo spazio della celebrazione della Parola e a quello della celebrazione eucaristica. I due momenti sono presentati dall’asimmetria tra l’ambone e l’altare. All’interno, un’area è riservata anche al tabernacolo, che appare come un elemento di stupore, capace di suscitare un sentimento di mistero quando ci si avvicina. Tale ambito, di raccoglimento individuale, può essere visibile dallo spazio di preghiera comunitario e viceversa, grazie alla presenza di lamelle in corrispondenza delle pareti che ne definiscono il perimetro. La relazione costante tra interno ed esterno trasmette sensazioni di reciproca permeabilità ed «espande» visivamente lo spazio, conferendo al tempo stesso una certa intimità percepibile anche dall’esterno. La struttura della Cappella è concepita in modo artigianale; essa si sviluppa in una sagoma quasi plastica definita da doghe di legno che, nel creare una trama di vuoti, permette alla luce di filtrare dall’interno all’esterno e viceversa, e conferisce maggiore evidenza agli elementi strutturali stessi, prodotto di un lavoro manuale. Le panche emergono dallo scavo delle pareti, evocando lo spazio di una grotta. Giunge così al culmine una composizione che si sviluppa in modo lineare, con momenti di rottura, in cui un volume è liberamente disegnato attraverso un unico gesto. È come un abbraccio, un chiudere tra le braccia qualcosa di prezioso per noi: la Cappella.

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Capelas Imaculada Conceição e Cheia de Graça Braga, Portogallo

Progettisti Cerejeira Fontes Arquitectos (António Jorge Fontes, Asbjörn Andresen, André Fontes) Dipinti Lisa Sigfridsson Liturgista Joaquim Félix de Carvalho Completata 2017 Relazione dei progettisti Il progetto si è concentrato sul restauro della Cappella Da Imaculada e del coro maggiore, trasformandoli in uno spazio riservato agli abitanti del Seminario - Cheia de Graça Chapel. Nell’intervento si è sfruttata l’altezza totale dello spazio interno e valorizzato le pareti esterne della sala, lasciando a vista la «pelle» di pietra esistente che si dispone intorno alle cappelle in modo plastico. La Cappella, realizzata interamente in legno – dalla struttura portante ai piani che definiscono l’ambiente – è composta di diversi elementi, incastrati tra loro, che creano all’ingresso dello spazio sacro una struttura equilibrata, in apparenza simile ad una foresta. La «chioma» realizza un ambito riservato agli abitanti del Seminario e i tronchi un filtro tra lo spazio profano e quello sacro,

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che permette al visitatore di lasciarsi guidare dalla spazialità e abbandonarsi alla percezione dei sensi. Una volta di cemento armato avvolge le cappelle e s’impone alla vista semplice, leggera e sospesa nel vuoto, sfidando la sua stessa materialità. Le sottili asole che incidono la superficie della volta creano pause di apertura, queste filtrano la luce del sole, realizzano una dimensione «di quiete» e assegnano una maggiore evidenza agli elementi strutturali della copertura. La volta, insieme con le altre componenti del progetto, crea uno spazio di assoluto «silenzio inquieto» che invita all’introspezione. Tale volta ha uno spessore di 12 cm ed è sostenuta da una struttura di acciaio, quasi impercettibile all’osservatore, che la fa apparire sospesa. Essa conferisce allo spazio anche una migliore qualità sonora, la sua composizione di pannelli sandwich e la forma allungata migliorano la resa acustica. Tutto ciò permette di conseguire un ulteriore livello di interpretazione spaziale, che consente allo spazio di manifestarsi attraverso il suono e di creare un dialogo diretto con l’utente. Grazie alla volta, la cappella Cheia de Graça assume una configurazione raccolta che favorisce, per gli utenti del Seminario, l’incontro, la privacy e l’introspezione. Sullo sfondo della volta, in corrispondenza dell’abside, si erge una stele di marmo, retroilluminata naturalmente, che trasporta lo spettatore in un’altra dimensione fisica e spirituale. Così, grazie alla sua composizione e scala, il progetto conferisce allo spazio esistente un livello di intelligibilità superiore e una dimensione spirituale che permette il dialogo tra lo spazio, l’individuo e il divino.

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Sacralità sociale La chiesa di San Giacomo Apostolo a Ferrara Federica Morgia

Nel testo del 1943, La persona e il sacro, scritto da Simone Weil poco prima di morire, l’autrice sostiene che l’idea del sacro nell’uomo corrisponde allo stabilire un contatto tra l’individuo e l’impersonale, che si esprime nella tendenza ad aprirsi verso entità astratte quali verità, giustizia, bellezza e perfezione. Dunque partendo dal concetto che ogni essere umano porta con sé l’aspirazione al bene Weil rimette in gioco le nozioni di sofferenza, emarginazione, solidarietà, dignità umana e responsabilità. L’autrice, foriera di una profonda riflessione sulla condizione umana scaturita nel corso della cosiddetta «guerra totale» – la prima catastrofe globale della storia moderna – afferma che «il sacro è insito in ogni essere umano e coincide con il bene». L’idea del bene, intesa proprio come fonte del sacro, dunque, è interamente riconducibile al concetto di sacralità del sociale ovvero l’espressione più alta della presa di responsabilità verso l’altro1. Attraverso la chiave di lettura dell’ossimoro espresso dai termini sacralità-laica possiamo ricercare quel senso di responsabilità weiliano e le ragioni compositive della chiesa di San Giacomo Apostolo a Ferrara progettata da Benedetta Tagliabue che descrive la sua opera come «un’umile capanna, fatta di canne e cemento grezzo» dove il sacro si mescola con l’istanza sociale del progetto per trasformare un luogo marginale in un nuovo spazio pubblico che possa diventare «la casa di tutti»2. Consacrata nell’ottobre 2021, la chiesa è il risultato di un processo decennale intrapreso a partire dal concorso bandito nel 2011 dalla Conferenza Episcopale Italiana e vinto dallo studio di Barcellona. Benedetta Tagliabue, lombarda di nascita, veneziana di formazione e catalana d’adozio-

ne, dirige l’équipe di progettazione EMBT fondata nel 1994 con suo marito, il geniale architetto catalano Enric Miralles, prematuramente scomparso nel 2000. In continuità con quanto già sperimentato in coppia, negli ultimi vent’anni, si misura con nuove grandi occasioni progettuali, dalla sistemazione del porto di Amburgo al Padiglione Spagnolo per la Expo di Shanghai applicando un metodo di sviluppo dell’idea di progetto che consiste nella produzione di schizzi, disegni, dettagli tecnici, modellini di studio, collages, video, accostati a oggetti d’uso comune messi a reagire con i nuovi elementi stabilendo un legame indissolubile con lo spirito e i luoghi del progetto. Un insieme multiforme di strumenti attraverso i quali costruire, in prima istanza, un nuovo abecedario con cui cogliere i molteplici punti di vista delle cose e a partire dai quali declinare il progetto rispetto a tutte le variabili che lo investono e lo intersecano3. L’incarico, commissionato dall’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio e coordinato da Don Stefano Zanella, ha come obiettivo quello di dotare la comunità di Arginone, quartiere in forte espansione che sorge alla periferia sud-ovest di Ferrara, di un nuovo complesso parrocchiale in sostituzione dell’obsoleta struttura esistente che si ponga, nello slabbrato contesto urbano, come nuovo elemento catalizzatore in grado di creare sia un rinnovato senso d’identità collettiva che di promuovere quei valori condivisi legati alle attività di tipo educativo e sociale nei quali coinvolgere l’intera comunità. L’area deputata è costituita da un terreno pianeggiante dalla forma quadrangolare, prospicente il Canale di Burana, bordata su tre lati da un filare di pioppi che attutisce la

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1. Benedetta Tagliabue – EMBT, Chiesa di San Giacomo Apostolo, Ferrara, 2021. Modello di studio in legno. © EMBT.

2. Chiesa di San Giacomo Apostolo. Pianta. Courtesy EMBT.

3. Chiesa di San Giacomo Apostolo. Prospetti sud, est ed ovest. Courtesy EMBT.

4. Chiesa di San Giacomo Apostolo. Vista del prospetto principale dal sagrato della chiesa. Foto Marcela Grassi.

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presenza del nuovo ponte carrabile d’accesso all’area industriale, essa è delimitata ad est dal sedime dei binari della ferrovia che la separano dal centro storico di Ferrara, da cui dista 2,5 chilometri. Il programma di concorso, oltre alla sistemazione paesaggistica del terreno circostante che si estende per 600 metri quadrati, prevede la realizzazione di una chiesa, fulcro del complesso, di superficie pari a 710 mq con una sala parrocchiale annessa e un ensemble di aule e canonica pari a 873 mq. L’occasione del concorso, pur coincidendo all’interno della traiettoria di Tagliabue con la decisiva affermazione – anche di genere – nel cosiddetto architectural star system (le vengono attribuiti in questa fase numerosi premi e partecipa a prestigiose giurie internazionali quali RIBA Stirling Prize, Grand Prix de Rome, National Spanish Prize, City of Barcelona Prize, Pritzker Architecture Prize e Princesa de Asturias de las Artes) rappresenta la prima vera occasione per misurarsi con il tema dello spazio sacro. Muovendo dall’esperienza che vede lo studio protagonista nell’affrontare temi di progetto legati alla creazione di nuovi spazi pubblici, quali quelli di Hafen City ad Amburgo, la stazione della metropolitana Clichy-Montfermeil a Parigi o la stazione centrale della metropolitana di Napoli, la progettista ripropone, in questo frangente, un approccio progettuale caratterizzato da quella stessa dimensione narrativa costantemente rintracciabile nel lavoro sviluppato con Enric Miralles. In particolare, per quelli che potremmo definire progetti dalla vocazione paesaggistica, la produzione di EMBT si è distinta principalmente, come già visto nel progetto per il Parlamento di Scozia o per il Mercato di Santa Caterina a Barcellona, per l’incardinamento del nuovo segno al luogo4. La chiesa di Ferrara è concepita come una mongolfiera che, svuotandosi dall’aria calda, si adagia sul terreno generando una superficie morbida e ondulata cristallizzata dalla copertura in rame. L’edificio è posto al centro del lotto dando luogo a uno spazio antistante che si sviluppa diagonalmente in continuità con l’ingresso principale. Lungo la stessa traiettoria, disposti a ventaglio verso l’altro vertice della diagonale, si dispongono i corpi contigui del centro parrocchiale. Il complesso, proprio in forza della matrice evocativa che ne costituisce la ragion d’essere, instaura un rapporto empatico con il sito e costruisce – instaurando una forte

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relazione tra progetto e fruitore – un sentimento d’affezione che vincola il fedele al paesaggio determinato sia dall’interpretazione delle tracce geografiche e delle sedimentazioni storiche che dai condizionamenti emotivi quali colori, materiali e luce evocati dal contesto esistente. Alla chiesa, collocata in asse visivo e spirituale con il nuovo ponte e la città al di là del fiume, si accede tramite due direttrici laterali che si congiungono nel vertice ideale costituito dal portale monumentale e divergono nel paesaggio circostante come due braccia aperte verso la comunità. Nell’orientare il percorso principale dei fedeli attraverso il sagrato verso il portone di accesso si combinano, con una concretezza costruttiva corbusieriana, astrazione e concettualizzazione, espresse dalla dissacrazione dello spazio cartesiano e dalla mediazione degli elementi utilizzati per la realizzazione della struttura in una visione organica che coniuga natura e artificio. Lo sguardo ravvicinato alla partitura muraria ci riporta ai frutti della tradizione ferrarese in cui il lavoro artigianale del laterizio decorato col disegno «a tre punte», mutuato dal Palazzo dei Diamanti capolavoro del Rinascimento locale, trattiene l’impronta e l’estro degli scalpellini, mentre alla ruvida matericità della facciata

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corrisponde la monumentale sobrietà del portale d’ingresso in legno massello di noce. Questa medesima matrice narrativo-evocativa generatrice dell’inserimento dell’opera nel contesto viene ulteriormente ribadita dalla spazialità interna che coniuga la scarna austerità decorativa a una sofisticata articolazione della volumetria. La fissità mineralizzata della chiesa di San Giacomo Apostolo infatti, ci accoglie al di sotto di una colossale tenda pietrificata. Lo spazio monomaterico delle pareti lievemente ondulate, in cemento faccia-vista, ci avvolge quasi fossimo all’interno d’una immensa cartilagine abitata la cui evidenza figurativa viene progressivamente attenuata mano a mano che l’osservatore si confronta con la realtà costruttiva del progetto. La struttura formale dell’edificio ripercorre l’archetipo della capanna ma l’immagine nitida della primordiale casa dell’uomo è contraddetta dalle calcolate dissimmetrie che ne intaccano la compattezza muraria e la prevedibilità stereometrica e dalle carpenterie lignee che tessono gli intrecci della copertura piana evocante un atavico sistema capriato. La pregnanza volumetrica, che sottende la pianta centrale, è sottolineata dal solenne lucernario che sovrasta la copertura polilobata

5. Chiesa di San Giacomo Apostolo. Vista della navata principale. Foto Paolo Fassoli.

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6. Chiesa di San Giacomo Apostolo. Vista interna del centro parrocchiale. Foto Marcela Grassi.

7. Chiesa di San Giacomo Apostolo. Vista dalla cappella feriale. Foto Marcela Grassi.

ad altezza costante, e che sembra quasi volare sulla archeologica robustezza muraria che avvolge tutto l’invaso. «Immaginiamo così» dichiara Benedetta Tagliabue «una chiesa leggera e accogliente, che viene dal cielo e si colloca nel luogo, dove la comunità cristiana ne ha più bisogno, una chiesa contemporanea, ricca di forza e di simbolismi, sorprendente e familiare allo stesso tempo»5. Nella definizione di questo luogo densamente materico, quasi carnale, Tagliabue sembra operare con la cifra dello scultore eliminando tutto il superfluo, ma affidando a un’unica materia, solcata dalle lame di luce del lucernario, il sistema dei chiaroscuri che conferisce al tempio tutta la carica mistica necessaria. Al grigio del cemento viene giustapposto il legno che, variamente declinato nell’intero apparato decorativo dell’edificio, impreziosisce sia i serramenti, disegnati in risonanza con i fusti longilinei dei pioppi circostanti, che gli arredi liturgici del presbiterio realizzati accostando diversi tipi di essenze. Gli accessori sacri, a loro volta, materializzano forme semplici, organiche ma al tempo stesso scultoree, creando un filo conduttore tra i diversi elementi. L’altare situato in posizione baricentrica rispetto al presbiterio circolare, costituisce anche il punto focale attorno al quale si or-

ganizzano l’auditorio e la cappella feriale, nonché il battistero e tutti gli spazi annessi. Esso è costituito da un blocco di pietra bianca di Trani la cui superficie appena sbozzata riecheggia l’atmosfera del cristianesimo ai suoi albori quando la celebrazione eucaristica si produceva con oggetti rinvenuti dall’uso quotidiano. La sua decorazione è affidata unicamente a quattro piccole croci angolari che ne perimetrano la superficie e un cassetto segreto custodisce una preziosa reliquia. La cappella feriale e il battistero mantengono una costante relazione visuale con l’altare pur costituendo uno spazio separato e unitario, secondo le necessità specifiche dei singoli momenti liturgici mentre, dal piazzale della chiesa si entra nella cappella per il culto quotidiano che contiene il Santissimo Sacramento, grazie anche a un accesso esterno. Al registro narrativo-evocativo fin qui adottato Benedetta Tagliabue ne associa un secondo ermeneutico-simbolico, all’interno del quale accosta elementi variegati e citazioni colte, generando una sintassi progettuale riccamente elaborata. La carica ermeneutica, infatti, non si accontenta di cogliere, o come l’esegesi d’illustrare, il senso che la progettista intende attribuire a un dato spazio, bensì instaura un dialogo con il fedele per cercare di estrarne nuovi significati. Alla definizione di questo secondo

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registro Tagliabue concorre insieme ad altre due figure d’eccezione che l’assistono nella definizione e nella interpretazione artistica degli elementi della componente liturgica: Don Roberto Tagliaferri e Enzo Cucchi. La copertura lignea, che allude alle volte delle navate delle chiese medievali, acusticamente isolata, per consentire l’assorbimento delle onde sonore in dissonanza, è disposta a raggiera attorno all’anello del lucernario, che costituisce una sorta di baldacchino sospeso, la cui forma allude alla conchiglia, icona sacra di San Giacomo. Lampadari in legno lamellare

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contribuisco a illuminare l’ambiente con luci soffuse provocando ombre che possono ricordare la presenza di angeli. Una grande croce sorvola con intensa pregnanza allegorica l’intera navata. Le travi, rinvenute nell’antico municipio di Ferrara, sono state recuperate senza essere sostanzialmente restaurate per lasciare che il legno visibilmente invecchiato dal tempo trasmetta tutto il suo simbolismo primordiale di elemento antico e umile. L’asse longitudinale della croce realizzata con materiale di spolio costituisce, dunque, il vettore che ha il potere di condurre il fedele dall’ingresso verso

8. Chiesa di San Giacomo Apostolo. Vista del battistero. Foto Marcela Grassi.

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9. Chiesa di San Giacomo Apostolo. Vista del presbiterio. Foto Marcela Grassi.

l’altare dove si interseca perpendicolarmente con quello verticale, l’axis mundi, costituito dal rapporto altare-lucernario, che, simboleggiando il legame tra Cielo, Terra e Inferi, eleva i devoti verso l’Altissimo. Lo strumento iconografico degli oggetti d’arte, elaborato da Enzo Cucchi conferisce ulteriore forza al registro ermeneutico-simbolico dello spazio interno. L’artista marchigiano, tra le figure più rilevanti della scena contemporanea, è annoverato con Sandro Chia, Francesco Clemente, Nicola De Maria e Mimmo Paladino, tra i protagonisti della corrente artistica italiana che Achille Bonito Oliva, al principio degli anni Ottanta, denomina Transavanguardia6. A differenza di altri, si misura a livello internazionale con artisti del calibro di Beuys e Kounellis, scegliendo come loro, di collocare nel suo immaginario personale la componente metaforica legata al rito, al mito e all’essenza delle forze vitali primarie. Adottando lo sperimentalismo tipico delle tendenze legate anche a quella che Germano Celant denomina Arte Povera, Cucchi recupera i mezzi espressivi più tradizionali del fare arte e si afferma come un personaggio fra i

più rappresentativi della nuova temperie culturale che fa del ritorno alla figurazione il tratto artistico distintivo di fine millennio. Come un mistico contemporaneo, in un fluire continuo tra passato e presente, tra cultura antica e nuova civiltà, Cucchi esercita il suo straordinario potere visionario. Nel suo lavoro egli sopprime il dettaglio a favore della realtà nella sua essenza dando voce ai fenomeni primari della natura e dell’esistenza umana7. A Ferrara egli travasa, riorientandola, l’esperienza compiuta a Monte Tamaro in Canton Ticino dove, nel 1992, realizza le decorazioni interne e l’altare maggiore nella chiesa di Mario Botta. L’apparato iconografico degli oggetti d’arte, progettati da Enzo Cucchi, viene concepito come un insieme organico che si dispiega nello spazio della Chiesa. La pala d’altare, realizzata in pietra serena, s’ispira alla croce di gemme, simbolo della resurrezione, utilizzata dai padri della chiesa. Collocata in asse con le travi che sorvolano la navata, è contornata da frammenti in ceramica colorata incastonati nel cemento della parete retrostante l’altare maggiore. Questo stesso motivo decorativo

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10. Chiesa di San Giacomo Apostolo. Vista dell’altare e sede del celebrante. Foto Marcela Grassi.

è riproposto da Cucchi sulle pareti laterali della navata centrale e su quelle del battistero ove colloca grandi croci in pietra serena che sembrano emergere dalla superficie in calcestruzzo. A ciascuna di esse vengono affiancate formelle di ceramica nera sulle quali sono raffigurate le storie del Vecchio e del Nuovo Testamento. Nella cappella feriale la raffigurazione della via crucis è affidata alla giustapposizione di una serie di croci, più piccole, in frammenti della stessa pietra serena sulle quali è collocato il numero delle stazioni in cifra romana modellato in ceramica dorata. Altri due elementi completano l’apparato liturgico che, come vuole la tradizione, deve in parte tramandarsi da un luogo consacrato all’altro: una statua lignea del XVII secolo raffigurante la Vergine Maria, rinvenuta nella chiesa della Santissima Trinità e un antico fonte battesimale proveniente da una cappella abbandonata nei pressi di Bergamo, donata dalla famiglia Tagliabue. Riflettendo sulle parole scritte da Rafael Moneo8 circa l’opera di Enric Miralles, possiamo altresì sostenere che quest’edificio contribuisce alla creazione d’una architettura atmosferica e diffusa nella convinzione che la visione dell’architettura dello studio EMBT, aneli senza dub-

bio a costruire un mondo più libero e più bello. Il progetto della chiesa di San Giacomo Apostolo, infatti, più che la messa a fuoco di una forma sembra inseguire e catturare i segni sfuggenti di una sacralità sociale che si amplifica a inglobare la scena urbana non fermandosi alla mera costruzione d’un organismo architettonico ma incorporando in esso l’intera comunità. Note L. Boella, Cuori pensanti. 5 brevi lezioni di filosofia per tempi difficili, Chiarelettere, Milano 2020. 2 A. Belluzzi, C. Conforti, Lo spazio sacro di Michelucci, Umberto Allemandi & C., Torino 1987. 3 F. Morgia, Studio EMBT, Edilstampa, Roma 2010. 4 E. Miralles, Topografia Social, «Arquitectura Viva», 53, 1997, p. 59. 5 L’autrice del testo ha incontrato la progettista nel marzo 2022 e ha avuto occasione di scambiare direttamente con lei, intervistandola, una serie di impressioni e motivazioni inerenti il progetto della chiesa di San Giacomo Apostolo a Ferrara. 6 A. Bonito Oliva (a cura di), La transavanguardia italiana. De Maria, Paladino, Clemente, Cucchi, Chia, Skira, Milano 2011. 7 D. Waldman, Enzo Cucchi, The Solomon R. Guggenheim Foundation, New York 1986. 8 R. Moneo, Enric Miralles, una vida intensa una obra plena, «El Croquis», 100-101, 2000. 1

Il villaggio, l’incrocio, la casa, la chiesa, la croce Complesso parrocchiale di Santa Chiara a Sini Carlo Atzeni, Silvia Mocci

[…] I muri sono oggi brani di pelle, materia necessaria per qualunque operazione plastica. I muri oggi stanno scomparendo, sono una specie minerale in via di estinzione. […] i muri non possono crollare, né essere demoliti (neppure quello di Berlino), poiché sono la nostra casa1. E. Souto de Moura

Pietre, muri, recinti: architettura e massa Il progetto per il complesso religioso di Santa Chiara a Sini2, pensato per accogliere circa duecento fedeli, ricerca nell’aderenza ai principi della cultura abitativa locale le proprie ragioni formali e simboliche, secondo una riflessione interscalare che lega territorio, forma urbana, tipi e caratteri dei contesti. Il riconoscimento delle invarianti insediative e la volontà di ritessere le fila dei processi e delle stratificazioni di lunga durata costituiscono i presupposti per un rinnovato pensiero sui luoghi del sacro di una piccola comunità delle aree interne della Sardegna. L’insediamento della regione storica della Marmilla, nella cui piana si trova il villaggio di Sini, è caratterizzato da un’architettura massiva, elemento pregnante i cui tratti si identificano nei materiali pietra e terra cruda, nella continuità e impenetrabilità dei muri e dei recinti, nell’insieme di bucature minute e irregolari che propongono una sistematica oscillazione tra regole e eccezioni. In particolare, l’architettura sacra dell’isola negli ambiti rurali mantiene un’elementarità figurativa e formale che si esprime nel rapporto tra i piani orizzontale e verticale, e nella coerente relazione tra massa, spessori e materia costruttiva.

La chiesa è il villaggio L’insediamento sardo è fatto di muri, recinti e stratificazioni perlopiù lapidee e il progetto per la chiesa di Santa Chiara propone un’architettura che nel muro e nel sistema di muri ricerca gli elementi di confronto con i caratteri genetici locali, senza rinunciare alla forza espressiva delle forme astratte, «silenziose» e quasi atemporali. Secondo questa prospettiva si è indagato sulla complessità che si cela dietro le forme elementari ed archetipiche dei muri, dei recinti e delle pietre e sulla struttura di appropriazione dello spazio rurale – questioni insite e proprie del paesaggio sardo e di gran parte del Mediterraneo – mediandola con gli aspetti più prettamente morfologici e tecnici legati alle condizioni del sito. La demolizione della precedente chiesa, poiché pericolante, ha disvelato, infatti, un ambito di intervento estremamente articolato sia planimetricamente che topograficamente ma anche fulcro di potenziali relazioni per eccellenza: un isolato in centro storico a disposizione del progetto per stabilire nuovi nessi col contesto di prossimità ancora fortemente connotato da registri tipologici e linguistici del vernacolo locale. La nuova chiesa nasce dall’idea di rappresentare «la casa di tutti» («la chiesa come una casa» fu la sintesi delle richieste espresse dal parroco e dalla comunità) e il luogo in cui ritrovare la propria spiritualità. Le scelte progettuali sono state costantemente discusse e condivise con i fedeli senza rinunciare alla sfida, culturale prima e architettonica poi, di rendere la costruzione dell’edificio di culto un tempo di estremo valore per la comunità e per il territorio coinvolto: un momento di rifondazione o, piuttosto, di riformulazione dell’atto fondativo primigenio

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1. Carlo Atzeni, Maurizio Manias, Silvia Mocci, Franceschino Serra, Complesso parrocchiale e chiesa di Santa Chiara, Sini, 2017. Esploso assonometrico del complesso parrocchiale. Courtesy CA+MM+SM+FS.

2. Complesso parrocchiale e chiesa di Santa Chiara. Pianta del piano alto con l’aula liturgica. Courtesy CA+MM+SM+FS.

3. Complesso parrocchiale e chiesa di Santa Chiara. Sezione trasversale. Courtesy CA+MM+SM+FS.

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del villaggio che, a distanza di secoli, viene ribadito in forma autopoietica, proponendo una rinnovata azione di senso per il radicamento resiliente nelle aree interne, da anni teatro dei processi di spopolamento e indebolimento progressivo del presidio territoriale. Il progetto indaga su coppie concettuali, in alcuni casi dicotomiche, per definire principi operativi che generano la forma e la struttura dell’edificio: il legame della chiesa con suolo e cielo si traduce in un nuovo basamento racchiuso e poroso e in una copertura tettonica che internamente gerarchizza lo spazio senza dividerlo; i paradigmi di sintesi e rinuncia generano forme severe e radicalmente astratte con l’ambizione di raggiungere una collocazione atemporale nel contesto. La riflessione sull’impianto della chiesa è continuamente in bilico tra la simmetria e l’asimmetria e propone, pur senza eccessive perturbazioni, un’innovazione solo apparentemente minima rispetto alla tradizione delle chiese assiali e a navata unica di matrice rurale, allo stesso modo il progetto oscilla tra introversione e estroversione generando puntualmente e selettivamente ambiti dello spazio in cui interno e intorno si dilatano l’uno verso l’altro aumentando il potenziale urbano della chiesa e il suo carattere radunante. Per sorreggere l’edificio si è scelto, in coerenza con la cultura materiale locale, di ricorrere a strutture continue e murarie, stereotomiche e massive, unitamente a una copertura ritmata dal forte carattere tessile, che ricerca relazioni con il cielo e diventa dispositivo di captazione e diffusione della luce nell’aula liturgica. Lo spazio, infine, concepito con geometrie essenziali attraverso la composizione di volumi stereometrici dalle proporzioni auree, è reso più complesso dalla sua interazione con la luce attraverso la grande vetrata della parete di testata e il lucernario lineare di copertura. Suolo e cielo: un basamento poroso e un tetto che gerarchizza lo spazio Il complesso parrocchiale di Santa Chiara si fonda su un progetto di suolo che rimodula la stratigrafia del terreno con una nuova articolazione in sezione, oltreché planimetrica, dell’edificio: i pieni e i vuoti si alternano secondo una matrice orizzontale di controllo degli spazi e dei volumi che mettono in relazione la chiesa, i locali ministeriali e gli spazi aperti del sagrato (questi ultimi ancora non

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4. Complesso parrocchiale e chiesa di Santa Chiara. La chiesa e il villaggio: vista del volume dell’aula liturgica fra i percorsi del tessuto urbano storico. Foto Stefano Ferrando – VetroBlu.

5. Complesso parrocchiale e chiesa di Santa Chiara. La facciata di ingresso fra i muretti a secco del centro. Foto Stefano Ferrando – VetroBlu.

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6. Complesso parrocchiale e chiesa di Santa Chiara. Dettaglio della torre campanaria. Foto Stefano Ferrando – VetroBlu.

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8. Complesso parrocchiale e chiesa di Santa Chiara. La facciata principale e il nuovo ingresso alla chiesa. Foto Stefano Ferrando – VetroBlu.

7. Complesso parrocchiale e chiesa di Santa Chiara. La torre campanaria e la facciata absidale viste dal villaggio. Foto Stefano Ferrando – VetroBlu.

il villaggio, l’incrocio, la casa, la chiesa, la croce

realizzati), risolvendo la topografia del sito fortemente declive con una piastra porosa di altezza costante parzialmente controterra. Questo nuovo zoccolo fondale ripristina un livello di quota unico per l’imposta dell’aula liturgica e della torre campanaria, coincidente con il piano del sagrato e con la quota di monte della parcella di intervento. Nel basamento, che ospita quattro patii interni, trovano collocazione le aule per il catechismo e le attività ludiche, il salone parrocchiale (sotto l’aula liturgica) e una sala per la musica. La porosità garantita dalla presenza dei patii restituisce agli spazi condizioni di abitabilità di elevata qualità: consente infatti di introdurre, alla quota più bassa del complesso, luce naturale costantemente soffusa – grazie anche alla «sponda riflettente» rappresentata dalla grande parete sud dell’aula liturgica collocata alla quota superiore – ed elementi di naturalità, attraverso la vegetazione arborea puntuale in diretto rapporto con le aule. Una serie di scale fra setti mette in connessione esterna i due livelli del complesso parrocchiale e restituisce al centro del villaggio una porzione di trama urbana con rinnovata permeabilità. La chiesa, in questo modo, amplifica il suo ruolo radunante ricucendo brani di tessuto e proponendo nuove geografie dell’attraversamento. Sintesi e rinuncia: la ricerca di una semplicità complessa della forma L’aula liturgica è posata sui volumi massivi che costituiscono il piano basamentale, quasi sospesa tra i patii inferiori in modo da garantire rapporti di continuità fra interno ed esterno sia di natura percettiva che ambientale. Le aule, gli stessi patii e il salone parrocchiale sono messi in relazione secondo una successione «vicolo-patio-salone-patio-aula-strada» che produce spazi accoglienti e sicuri per i fedeli e in particolare per i bambini che frequentano le attività della parrocchia, e ricrea un micro-habitat reinterpretando i caratteri tradizionali dell’introversione. Si tratta di spazi radunanti e al tempo stesso isolati, calmieratori delle oscillazioni termoigrometriche quotidiane e stagionali, luoghi dell’incontro e della socialità. Il volume dell’aula è un prisma perfetto con giacitura orizzontale est-ovest, realizzato in calcestruzzo bianco a vista. Lungo le pareti, un’unica bucatura produce l’alterazione della massa

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9. Complesso parrocchiale e chiesa di Santa Chiara. Continuità: la chiesa e il villaggio. Foto Stefano Ferrando – VetroBlu.

monolitica di questo volume in prossimità della facciata ovest di ingresso. Un portico ombroso e profondo funge da mediatore tra gli spazi del sagrato e dell’aula e si configura come dispositivo di soglia: qui, un’ampia parete vetrata che estende l’aula verso il sagrato e viceversa, permette allo spazio interno di dilatarsi verso l’esterno riproponendo idealmente la struttura dei luoghi di culto campestri diffusi nel territorio, in cui di norma a una piccola cappella polarizzante corrisponde un’ampia area esterna per la preghiera e le celebrazioni patronali. Attraverso la quinta facciata, che si configura come un dispositivo complesso, strutturale e spesso di captazione della luce naturale, si gerarchizza lo spazio. La copertura è rivolta verso l’interno e lungo la linea di forza in cui convergono le due falde asimmetriche, proprio nella discontinuità che si genera fra le stesse falde, ospita un lucernario lineare che diventa il principale dispositivo di mediazione tra lo spazio dell’assemblea e il cielo. La scelta di un linguaggio sobrio e astratto, connotato essenzialmente da muri e da rapporti fra pieni e vuoti che trovano i loro riferimenti nella secolare costruzione di luogo di questi territori, si fonda sull’idea secondo cui lo spazio per lo spirito, in coerenza con la storia di queste piccole comunità rurali, debba e possa opportunamente essere scevro da qualsiasi eccesso. Simmetria e asimmetria: rinnovare la tradizione Lo spazio dell’aula liturgica è un rettangolo allungato che oppone al nartece sulla facciata ovest, prima la pala presbiteriale col crocefis-

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10. Complesso parrocchiale e chiesa di Santa Chiara. Interno dell’aula liturgica lungo il percorso processionale. Foto Stefano Ferrando – VetroBlu.

so e poi la sacrestia su quella est. Secondo uno schema a croce latina, deformato per accogliere le giaciture non regolari dei tracciati stradali, in corrispondenza del presbiterio trovano collocazione nei bracci del transetto le due uniche cappelle che ospitano rispettivamente tabernacolo e coro sul lato nord e battistero e torre campanaria sul lato sud. Tuttavia, l’impianto proposto è asimmetrico e si fonda sul disassamento del percorso processionale lungo uno dei muri perimetrali dell’aula, in continuità con la soglia di ingresso, anch’essa fuori asse e con la discontinuità della copertura di cui si è detto. L’aula si divide dunque in due parti ben distinte nell’uso, pur senza elementi di frazionamento fisico, una destinata ad accogliere l’assemblea e l’altra per il percorso processionale. La sezione trasversale dell’aula è quadrata (lato 10 m) ma viene articolata secondo proporzioni auree sia in verticale sia in copertura, attraverso la geometria asimmetrica della struttura del tetto e dall’ingresso della luce che ne consegue. Il portico a tutta altezza, ricavato nella facciata ovest per mezzo di un’asportazione di volume che genera una cavità in ombra, lega il sagrato e l’aula in modo indissolubile e ge-

nera il dispositivo di ingresso alla chiesa. Una bussola lignea integrata nella parete vetrata impone un doppio cambio di direzione ai fedeli in modo da produrre, sia pure nello spazio ridottissimo di pochi metri come in una sorta di percorso iniziatico, un momento di disorientamento prima dell’entrata. Il suo omologo interno è la pala presbiteriale lignea, articolata in quattro campi con giaciture leggermente convergenti, che definiscono in negativo la croce su cui è sospeso l’antico Cristo della parrocchia. L’impianto liturgico introduce un ulteriore elemento di innovazione proponendo su una stessa linea ortogonale all’asse dell’aula tutti i luoghi sacri: l’altare, l’ambone e la sede occupano il piano del presbiterio e da parti opposte, ma sempre sulla stessa congiungente, si trovano il tabernacolo, il battistero con il fonte battesimale e la penitenzieria. Luce, spazio e materia La luce, particolarmente intensa in queste regioni, è parte costitutiva del progetto necessaria a costruire il carattere sacrale dello spazio;

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11. Complesso parrocchiale e chiesa di Santa Chiara. La cappella del tabernacolo e, in primo piano, l’ambone e l’altare. Foto Stefano Ferrando – VetroBlu.

12. Complesso parrocchiale e chiesa di Santa Chiara. Il tabernacolo. Foto Stefano Ferrando – VetroBlu.

si tratta del materiale proprio con cui stabilire i rapporti di senso negli ambienti e fra gli ambiti del nuovo luogo di culto, con cui introdurre una componente esperienziale dinamica e relazionale che lega l’interno al contesto; quel materiale aggiunto che permette di conferire all’aula una dimensione serena e calma, suggerendo l’idea di raccoglimento in cui ritrovare se stessi e una possibile connessione spirituale. Di luce è fatta la partizione dello spazio dell’aula tra assemblea e percorso; grazie alla luce risulta evidente la dicotomia tra la struttura continua dei muri e la tettonica vibrata della copertura; di luce cangiante

nelle diverse ore del giorno e nelle diverse stagioni dell’anno si colora la parete sud che poi la riflette all’interno e in profondità nelle aule della piastra di base. La materia – calcestruzzo per la cassa dell’aula, legno per la sua struttura e per le finiture nobili dell’interno, acciaio corten per gli elementi di massima tensione formale e simbolica, marmo per gli arredi sacri legati alle liturgie della mensa e della parola – è impiegata con il minor investimento possibile in trasformazione, in modo da non alterarne le proprietà fisico-tattili: un principio di sincerità costruttiva che le consente di interagire con la luce come in natura. Note E. Souto de Moura, Prefazione al libro di G. Casella, Gramáticas de pedra. Levantamento de tipologias de construção murária, Centro Regional de Artes Tradicionais, Porto 2003. 2 Il progetto del complesso parrocchiale di Santa Chiara a Sini, avviato nel 2010, è di Carlo Atzeni, Maurizio Manias, Silvia Mocci e Franceschino Serra. Il cantiere dell’opera è stato aperto nel 2013 e concluso nel 2017 con la cerimonia di consacrazione della chiesa. Rispetto al progetto complessivo, restano ancora da riqualificare gli spazi esterni del sagrato.

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Modelli «rassicuranti» La chiesa del Buon Ladrone a Bologna Jacopo Gresleri

Frazione Mura San Carlo, Comune di San Lazzaro, appena oltrepassata la periferia orientale del capoluogo emiliano. Un volume bianchissimo dalle semplici geometrie si staglia nella pianura, in mezzo a un’anonima zona di espansione di cui probabilmente non si serberà ricordo. La facciata principale rimanda immediatamente all’archetipo dell’abitazione come viene comunemente rappresentata: un rettangolo sormontato da un triangolo, la porta al centro. Si respira un’aria familiare, l’atmosfera di una sensazione già vissuta, di un tranquilla domesticità di periferia. Nulla irrompe, nulla «deflagra», nulla sconvolge un equilibrio formale a cui siamo inconsciamente abituati, nonostante alcuni dettagli tradiscano la spontaneità dell’«architettura senza architetti» descritta da Rudofsky, a cui l’immagine archetipica realizzata vorrebbe forse rinviare. La chiesa di San Disma (o del Buon Ladrone, il malfattore penitente crocefisso alla destra di Gesù) si presenta così, al primo sguardo lascia un po’ spiazzati per la sua «naturale» semplicità. La sua interpretazione richiede la dotazione di un «vocabolario» che fornisca le chiavi di lettura di segni, significati, scelte formali e compositive apparentemente assenti di cui è, invece, pervasa: troppo facile ridurne l’osservazione a una questione di gusto personale. Quel vocabolario, lo strumento esegetico, va cercato lontano, là dove questa prima impressione deve essere ricondotta per essere metabolizzata. Nel Vangelo di Marco conosciuto come «Trasfigurazione e discussione dei discepoli» (Mc 9, 2-13) l’Evangelista narra l’episodio in cui Gesù raccoglie intorno a sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li conduce su un «alto monte». Trasfigurato, appunto, in vesti splendenti e bianchissime, appare ai tre discepoli assieme ai profeti

Elia e Mosè. In questa circostanza, rivolgendosi a Gesù, Pietro pronuncia la frase: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Di fronte all’evento epifanico di Gesù, indecifrabile, i discepoli restano attoniti e muti. Tranne Pietro, il costruttore della Chiesa, il quale, pur non comprendendo la situazione che sta vivendo, suggerisce un’azione precisa: l’edificazione, la realizzazione di tre capanne! A timore, stupore e incredulità, l’apostolo risponde con la definizione fisica dello spazio, la costruzione di un luogo, un riparo, una «casa», appunto: la determinazione di un ambito nel quale dallo stupore istintivo egli passa alla gioia consapevole («[…] è bello essere qui») celebrata con un atto creativo. Fra parole e significati si crea un legame che non resta indifferente all’orecchio di chi ascolta: gioia-capanna-luogo d’amore, di comunione, occasione per stare insieme, contemplazione della presenza divina mediante l’azione comunitaria. Un luogo, una capanna, per impostare una relazione fra il trascendente e l’umano, fra il sommamente grande ed eterno e l’immensamente piccolo ed effimero. In queste poche righe del Vangelo sono racchiusi i principi essenziali della costruzione dello spazio sacro, i principi sui quali si è manifestata l’idea stessa di Chiesa: non più solo comunità raccolta – come nelle parole dei Vangeli – ma anche luogo in cui raccogliersi. La capanna, inoltre, richiama inevitabilmente l’archetipo innalzato a paradigma della cultura architettonica nel XVIII secolo, quando teorici come Laugier1 attribuivano a quella forma di costruzione primitiva – il riparo primigenio che l’abate francese, come ricorda Vidler, considerava «as the firts mark of type

modelli «rassicuranti»

1. INOUT architettura, LADO architetti, LAMBER + LAMBER, Chiesa del Buon Ladrone, San Lazzaro di Savena, Bologna, 2019. L’ingresso principale della chiesa, segnato da un pronunciato aggetto della copertura. Foto Guido De Vincentis.

2. Chiesa del Buon Ladrone. La facciata nord-ovest, caratterizzata dalla profonda fenditura in corrispondenza del presbiterio. Foto Simone Bossi.

in habitation»2 – la più profonda radice del sapere costruttivo occidentale, l’origine di tutta l’Architettura. Capanna e tipo, come sappiamo, sono alla base di un campo disciplinare in cui molti intellettuali si sono cimentati formulando definizioni e costruendo saperi che hanno trovato un terreno particolarmente fertile nella seconda metà del secolo scorso, in particolare in Europa e America del Nord. Gli studi tipologici condotti tra XVIII e XIX secolo da Quatremère de Quincy3 e la definizione da lui formulata di tipo e modello, hanno posto le basi per un dibattito a cui

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Vidler ha dato un contributo a tutt’oggi insuperato. In quest’ottica, il ragionamento del critico britannico a proposito della dicotomia tra God’s House e Adam’s House appare oggi non solo ancora valido, ma addirittura rivitalizzato. Se la «casa di Dio» ha trovato nel tempio la sua connotazione fisica, quella dell’uomo si è concretizzata intorno al riferimento della capanna, ancestrale ricordo della più stretta relazione fra essere umano e ambiente naturale. In estrema sintesi, nella storia dell’architettura lo spazio sacro – limitandone l’accezione a quello ecclesiale – è stato di volta in volta ricondotto all’una o all’altra delle due categorie: tempio-casa di Dio o capanna-casa dell’uomo. Questa semplificazione aiuta a leggere l’orientamento dell’architettura sacra anche nella contemporaneità – come nel caso di San Disma – decisamente più incline a considerare la chiesa come «casa fra le case», citando l’espressione coniata dal cardinale Lercaro, antesignano a Bologna4 dei temi riformatori di una Chiesa che sarebbe uscita radicalmente mutata dal Concilio Vaticano II5. Questo è il quadro entro cui leggere il progetto qui presentato, un’opera la cui interpretazione semiologica attinge con evidenza e in chiave contemporanea, agli «strumenti» ora esposti e, in particolare ad alcuni elementi che i progettisti raccolti nel collettivo MMVL6 impiegano a livello simbolico nel contesto in cui hanno operato: la bianca trasfigurazione di Cristo descritta nel Vangelo; la capanna, tipo prescelto per una configurazione spaziale dello spazio liturgico; l’immagine allegorica di casa fra le case. Ed è proprio fra le case, infatti, che si colloca San Disma, in un’area interessata, fin dagli anni Settanta, da una costante crescita demografica che ha reso opportuno in tempi recenti la realizzazione di una nuova chiesa e relative opere parrocchiali per una comunità radicata e attivamente partecipe anche alla progettazione del nuovo edificio di culto. A tal proposito è interessante ricordare che a ridosso dell’area di progetto esiste uno dei primi cohousing italiani, progettato da TAMassociati nel 2014, a testimonianza di una estesa attenzione ai temi della partecipazione da parte dei residenti della frazione emiliana. Una coincidenza, senz’altro, ma anche un elemento significativo per leggere la modalità che caratterizza l’ideazione del complesso parrocchiale in oggetto. Il coinvolgimento della comunità locale nelle fasi della progettazione, infatti, non è occasionale.

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3. Chiesa del Buon Ladrone. L’ingresso principale alla chiesa avviene tramite una porta a tutta altezza rivestita in frassino. Foto Simone Bossi.

Al contrario, questo attivismo corrisponde all’orientamento che l’Ufficio Nazionale per l’Edilizia di Culto della Conferenza Episcopale Italiana ha adottato da circa un decennio, promuovendo le cosiddette Participatory Action Research (PAR) a requisito imprescindibile per la realizzazione di ogni nuova chiesa. Si tratta di un sistema di azioni a partecipazione attiva denominato CLI-lab7, inteso come «momento della comprensione liturgica, spazio per una riappropriazione dei gesti e dei segni»8, con il quale la CEI intende promuovere un approccio di riconoscimento e rispetto delle particolarità comunitarie e territoriali in occasione della realizzazione dell’edificio di culto, rappresentando le specificità di luoghi, culture e identità locali. Questo strumento costituisce il rassicurante tentativo di ricucire uno strappo sempre più evidente fra chiesa-istituzione e chiesa-comunità la quale (sovente a ragion veduta) si sente sempre meno rappresentata dall’architettura autoreferenziale e, purtroppo, spesso anche insignificante di numerose chiese contemporanee. Se, come la pianta di fico della parabola, questo «processo laboratoriale» darà i suoi frutti, lo vedremo, ma è certo che la trasposizione di un atteggiamento tradizionalmente laico rispetto al tema della partecipazione di solito applicato ai

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campi dell’housing e della (ri)generazione di spazio pubblico, risulta un interessante fenomeno da investigare per comprendere i nuovi orientamenti del sacro contemporaneo. Nel caso di San Disma, infatti, la cooperazione ha influito fortemente sulle scelte formali, a partire dalla definizione della chiesa-casa fino a quelle costruttive, che ha anche visto la partecipazione in cantiere di detenuti a fine pena, qui impegnati in un percorso di formazione e reinserimento. L’affiancamento della comunità all’opera dei progettisti (fino alla definizione degli arredi liturgici, delle opere artistiche e della stessa disposizione dell’assemblea) ha prodotto un edificio formalmente riconducibile allo stereotipo della casa: muri ortogonali, copertura a doppia falda, ingresso collocato in posizione centrale, evidente – quanto forse inconsapevole – riferimento all’archetipo descritto da Quatremère de Quincy, che anche qui esprime le intrinseche, sempre rinnovate, potenzialità del tipo. La facciata principale della chiesa – a capanna, appunto – è caratterizzata da una forte concavità che invita all’ingresso, sottolineato anche dall’aggetto di copertura, un espediente che risolve plasticamente il tema dell’accesso attualizzando il tradizionale pròtiro, elemento tipico delle chiese paleocristiane e romaniche. Il procedimento scultoreo-sottrattivo leggibile in pianta è impiegato dal collettivo emiliano anche per la definizione delle facciate le quali, come fogli di carta, si piegano verso l’interno senza toccarsi (consentendo l’apertura di due ingressi laterali oltre a quello principale contraddistinto da una porta alta e stretta, evidente citazione della chiesa di Santa Maria, opera di Siza a Marco de Canaveses), caratterizzando gli alzati con geometrie determinate dai raccordi fra i piani verticali delle pareti e quelli inclinati della copertura. La scelta dei progettisti è chiara: attingere ai riferimenti contemporanei utili ad assolvere il ruolo di esegeti delle intenzioni della comunità-committente. Non stupisce, perciò, anche l’assonanza con le architetture che i fratelli Aires Mateus elaborano da diversi anni, secondo processi di estrema semplificazione compositiva, a cui sovrappongono progressivi livelli di arricchimento funzionale e formale mediante pochi, riconoscibili, elementi: la piegatura del muro per segnare l’ingresso; l’uso del colore bianco, unico ammesso al cospetto dei materiali di finitura; la «pianta semplice», confinata da muri il cui spessore sovradimensionato permette di alloggiare funzioni accessorie e servizi. Se i primi

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4. Chiesa del Buon Ladrone. L’aula assembleare. Foto Guido De Vincentis.

due espedienti fanno parte di un linguaggio ormai fin troppo internazionale, il terzo è direttamente mutuato dall’opera di Louis Kahn9, il cui insegnamento su spazi serviti e serventi è stato ampiamente metabolizzato dai fratelli portoghesi10. Anche nel caso della chiesa del Buon Ladrone il muro contenitore – di funzioni, ma anche di luoghi – è l’indiscutibile protagonista della pianta: qui, a sinistra e a destra dell’altare, sono collocati coro e cappella feriale, mentre il battistero e la sacrestia sono alloggiati in altrettanti ambienti ricavati nello spessore del muro ai rispettivi lati della porta d’ingresso. Concepito secondo criteri stereotomici, l’edificio è planimetricamente caratterizzato da una forma quadrangolare leggermente allungata, di circa 25 × 30 metri, con l’asse maggiore disposto in direzione nordovest-sudest, coincidente con il percorso che dall’ingresso conduce all’altare, quest’ultimo posto in posizione frontale e centrale rispetto alla porta d’entrata. Un asse, reso evidente da un taglio continuo lungo tutta la struttura di copertura e la parete nordovest, che divide in due l’involucro fino dietro all’altare e al crocefisso sospeso, lasciando filtrare una intensa lama di luce zenitale11. La complessità degli alzati si annulla nella semplicità della pianta, risolta in un unico am-

biente in cui l’assemblea si dispone «a ventaglio» di fronte all’ambone e all’altare12, come abbiamo imparato a osservare in molte chiese post-conciliari: l’assemblea diventa «pietra viva» (1 Pt 2,4-5), assolvendo al diritto-dovere della partecipazione attiva alla liturgia. Un ulteriore contributo al raccoglimento comunitario previsto dai progettisti proviene dalla distribuzione dei nuovi volumi destinati ai locali di ministero pastorale e alla canonica i quali, assieme al preesistente edificio originariamente usato per le funzioni religiose, definiscono una corte semi aperta su cui si affacciano le aule posta, da un lato, in relazione con il sagrato della chiesa e, dall’altro, con il retrostante Parco della Pace. La scelta dei materiali impiegati per gli arredi in legno di rovere (usato anche come rivestimento della pedana del presbiterio e di un classico parquet a listoni in corrispondenza dell’aula) e le finiture a intonaco civile tinteggiato bianco per tutte le superfici murali, esaltano l’aspetto domestico di questa «casa di Dio» e, al tempo stesso, mettono in evidenza i tre fulcri liturgici, realizzati in una volutamente contrastante selenite13. È proprio l’aspetto di domesticità ciò a cui sembra puntare la CEI per riconquistare i fedeli,

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5. Chiesa del Buon Ladrone. Il presbiterio e la zona del coro. Foto Simone Bossi.

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6. Chiesa del Buon Ladrone. Lo spazio aperto fra il battistero e l’aula dell’assemblea; sullo sfondo, il dipinto murale raffigurante la Via Lucis (Paolo Mennea). Foto Simone Bossi.

coinvolgendoli sempre più attivamente in scelte progettuali che rendano più familiare la casa del Signore. Un atteggiamento a cui i progettisti della chiesa del Buon Ladrone sembrano aver corrisposto facendo uso anche di un «docile» processo creativo: l’articolazione funzionale contenuta nella semplificazione formale, le citazioni compositive e i riferimenti tipologici rassicuranti rispetto a ciò che – parafrasando Moneo – si potrebbero definire «inquietudini teoriche nell’opera degli architetti contemporanei». Un processo che riapre il dibattito, ancora oggi irrisolto, sul significato del sacro. Note M.A. Laugier, Essai sur l’architecture (1753), Hachette Livre BNF, Paris 2012. 2 A. Vidler, The Idea of Type: the Transformation of the Academic Ideal, 1750-1830, «Oppositions», 8, 1977, pp. 95-111. 3 Cfr. Dictionnaire d’architecture (1788-1825) e Dictionnaire historique d’architecture (1832). 4 L’intensa esperienza bolognese aveva, infatti, già elaborato una concezione dello spazio architettonico ecclesiale aperta alla libertà espressiva del progettista per «cantare nel linguaggio dei vivi la lode del Dio vivente», com’era solito ripetere il cardinale Lercaro, connettendo l’opera architettonica «al contesto secondo un criterio di nobiltà interpretativa dell’intorno tale da contribuire a qualificare l’insieme urbano», Gi. Gresleri, Con i Maestri attorno, in Id. (a cura di), Glauco Gresleri. Architettura di chiese, Bononia University Press, Bologna 2021, p. 78. 5 L’arcivescovo bolognese fu indiscusso protagonista e artefice della riforma liturgica, anticipandone gli esiti nell’opera svolta dall’Ufficio Nuove Chiese e dal Centro di Studio e Informazione per l’Architettura 1

77 Sacra in Italia da lui creati, azione che trovava nella rivista «Chiesa e Quartiere» un formidabile mezzo di divulgazione internazionale del pensiero riformatore. Cfr. M.B. Bettazzi, Gi. Gresleri, CH+Q. Chiesa e Quartiere 1955-1968. Storia di una rivista e di un movimento per l’architettura moderna a Bologna, Editrice Compositori, Bologna 2004. 6 Il collettivo è costituito dagli studi di professionisti INOUTarchitettura (Mario Assisi e Valentina Milani), LADO (Luca Ladinetti) e LAMBER+LAMBER (Fiorella e Mario Lamber). 7 Laboratorio del Convegno Liturgico Internazionale, presentato dalla CEI alla XVI edizione del Convegno Liturgico Internazionale tenutosi al monastero di Bose nel giugno 2018, dal titolo eloquente di Architettura di prossimità, forse un involontario ma interessante richiamo al fenomeno della Community without propinquity osservato da Melvin Webber nel 1963. 8 L. Bartolomei, Per le nuove chiese un laboratorio partecipato di progettazione, «Il Giornale dell’Architettura», 12 giugno 2018, disponibile online (ilgiornaledellarchitettura.com/2018/06/12/per-le-nuove-chiese-un-laboratorio-partecipato-di-progettazione/). 9 Il sovradimensionamento dei muri perimetrali è una modalità progettuale tipica dell’architetto di origine estone, che aveva appreso dallo studio delle piante degli edifici pubblici dell’antica Roma e delle fortezze medievali, come ricordato in F. Cacciatore, Il muro come contenitore di luoghi, LetteraVentidue, Siracusa 2008. Si vedano a tal proposito gli eloquenti schizzi raccolti in H. Ronner, S. Jhaveri, Louis Kahn. Complete Work 1935-1974, Birkhauser, Basel-Boston 1994. 10 A titolo esemplificativo dell’opera dei fratelli Aires Mateus si rinvia all’osservazione di Casa in Alvalade (1999), Casa a Coruche (2007), Casa al Litorale dell’Alentejo (2000). 11 Una soluzione con la quale i progettisti intendono simboleggiare il velo squarciato del Tempio al momento della crocifissione di Gesù, ma che con altri intenti anche Glauco Gresleri aveva adottato nel progetto sviluppato con Giorgio Trebbi nel Seminario Regionale Pontificio Benedetto XV di Bologna (1960-1965), oggi sede dell’Istituto Ortopedico Rizzoli: una fenditura continua accompagna il visitatore dall’ingresso fino all’altare della Cappella del Seminario, indicando metaforicamente la via da seguire. 12 Anche questa disposizione nasce dalle attività di progettazione partecipata, avendo la comunità sperimentato – insieme con il parroco – diverse possibili soluzioni in situ: a due fuochi distinti, a semicerchio e a quarto di cerchio, soluzione quest’ultima preferita poiché ritenuta la più coinvolgente per l’assemblea. 13 Si tratta di un gesso cristallino proveniente dalle cave locali del Parco dei Gessi, storicamente impiegato nel capoluogo emiliano per la realizzazione di elementi necessariamente duraturi: dalle mura della cerchia difensiva risalente all’epoca romana al basamento della Torre Garisenda, fino ai plinti su cui poggiavano i portici lignei della Bologna medievale, ritroviamo frequentemente l’uso di questa pietra nella definizione dell’attacco a terra di molte costruzioni antiche.

Una diversa concezione del sacro Il Santuario del Señor de Tula a Jojutla de Juárez e le cappelle aperte Maria Argenti

In un tempo che fatica a trovare una forma simbolica rappresentativa del sacro, a sua volta smarrito nella dimensione fluida della modernità, può essere interessante tornare alla radice di tutto, all’idea cioè della separazione, come caratteristica ineliminabile dello spazio dedicato al rapporto con Dio. Ci proponiamo qui di farlo seguendo un’altra strada, opposta, rispetto a quella consueta di recingere: indagando – a partire dalle più recenti – alcune esperienze fondate sull’unione, invece che sulla divisione, architetture in cui il luogo dedicato alla liturgia, seppure delimitato rimane aperto; e seppure paradigmatico rinuncia alla pretesa di contenere, se non addirittura di concentrare in se stesso, l’alfa e l’omega della trascendenza. Questo approccio ci consente forse di comprendere un rischio ben descritto da Raul Gabriel1: «l’uomo che mette in scena l’entità-spazio attribuendole un valore bastante a se stesso ne diviene comprimario. Una contraddizione tautologica: in particolare per un luogo sacro». E ci permette di analizzare, attraverso le «cappelle aperte», una antinomia che l’architettura (non solo contemporanea) non è mai riuscita a risolvere del tutto: quella fra la separazione e l’inclusione in edifici che, prima di ogni valenza storica, sociale, funzionale, hanno il compito di generare un incontro2 con Dio, con la comunità, con l’universo che tutto racchiude. Come costruire le chiese della modernità? Questo è il problema. Case di Dio? Del popolo in preghiera? O di entrambi? Luoghi di ritrovo, o forme simboliche, quasi scultoree? «Costruire una chiesa – scriveva Gio Ponti – è un po’ come ricostruire la religione, resti-

tuirla alla sua essenza»3, che il Concilio Vaticano II riassumeva così: significare, rappresentare, drammatizzare il senso del riunirsi di una comunità intorno a Dio. E qui è la lezione delle cappelle aperte. Terreno di incontro tra uomo e natura, tra comunità e sacralità del paesaggio, esse appaiono come un luogo altro, quasi inaspettato, di connessione tra Dio e gli uomini. Uno spazio definito ma non separato, che allude semmai a un perimetro etereo, sfuggente, a volte vicino a volte distante: il confine dato dall’orizzonte. Si tratta di un modo diverso di definire e proteggere l’isolamento che lo spazio sacro richiede, affidandolo ad un ossimoro; com’è quello di Dio onnipotente che si manifesta ad Elia attraverso il sussurro di una brezza leggera (1 Re 19, 11-12). Risalendo indietro nel tempo tornano alla mente le piccole capillas abiertas progettate in Messico da Félix Candela a Lomas de Cuernavaca (1958-59) e da Luis Barragán nel Parque de las Estrellas, Guadalajara (1955), che incarnano i diversi estremi delle possibilità architettoniche di questo tipo nel rapporto tra il raccoglimento in uno spazio definito e l’infinita natura. Sono inoltre, scrive María Diéguez Melo, «un chiaro esempio delle ampie possibilità progettuali offerte da questo spazio religioso, che reinterpreta i recinti coloniali attraverso l’uso di paraboloidi e piani di cemento che conferiscono una suggestiva poetica materiale»4. Mentre la Capilla di Palmira, realizzata da Candela5, si basa su un paraboloide iperbolico, aperto alle estremità, che copre solo parzialmente l’aula, lasciando una parte della navata dischiusa contro il cielo e lo spazio

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1. Félix Candela, capilla abierta di Palmira, Lomas de Cuernavaca. Morelos, Messico, 1958-1959. Foto Armando Salas Portugal.

2. Luis Barragán, capilla abierta nel Parque de las Estrellas, Guadalajara, Jalisco, Messico, 1955.

circostante, la piccola costruzione di Guadalajara, nel Jardines del Bosque, è di dimensioni modeste, uno spazio custodito tra quattro mura ma proiettato in alto verso l’infinito6.

al progetto della nuova chiesa, hanno preso parte associazioni civili, gruppi di quartiere, diocesi e Chiesa. E anche Dellekamp / Schleich (Messico) e AGENdA Agencia de Arquitectura (Colombia) hanno unito le forze per immaginare insieme il Parco e il Centro Comunitario El Higuerón. L’idea scaturita da questa condivisione è stata di realizzare una cappella aperta, in diretto contatto con la natura e con lo spazio pubblico circostante, meno austera e più accogliente. Il principio ispiratore si fonda sulla convinzione che l’architettura possa riuscire a diventare punto di incontro, di saldatura della collettività, e che «nella sua specificità permetta di articolare risposte a lungo termine, al di là dell’urgenza; cioè faciliti la costruzione del tessuto sociale a partire dalla comunità»8. L’urgenza della situazione ha indotto gli architetti a indirizzarsi verso l’uso di materiali e manodopera disponibili localmente; si è così deciso di realizzare la nuova opera in cemento armato. Il progetto ridisegna dapprima il terreno, scavando un’impronta precisa al di sotto della quota zero per accogliere lo spazio comunitario e le celebrazioni liturgiche. Una gradonata discende dolcemente accompagnando il percorso fino ad uno spazio più ampio dove si trova l’altare, leggermente rialzato. Questo digradare produce un lento distacco dal mondo esterno e permette di co-

Ma non mancano esempi contemporanei. Il Santuario del Señor de Tula, costruito nel 2020 a Jojutla de Juárez, Morelos, in Messico, su progetto di Derek Dellakamp, Jachen Schleich7, è – dal punto di vista appena descritto – un luogo speciale, significativo di questa interpretazione del sacro come luogo in cui riscoprire l’unità perduta tra gli uomini e Dio. Esso rivela e trasfigura una sofferenza. Custodisce una memoria di distruzione, dove ogni cosa sembra andare in frantumi, ma lo fa per radicarvi un nuovo inizio. Una ricostruzione. La memoria è quella del terremoto che, il 19 settembre 2017, ha colpito oltre centomila abitazioni e molti edifici pubblici in Messico. La nuova architettura, realizzata al posto di una chiesa costruita negli anni Ottanta del Novecento, anch’essa colpita dall’evento calamitoso, esprime l’impegno a ricominciare, la forza della ripresa, l’importanza dell’unità. Lì accanto, i resti dell’edificio di culto di San Miguel Arcángel, memoria fisica di un altro tempo, più antico, più remoto, appaiono invece come un’altra chiesa, a cielo aperto. In maniera significativa, dal punto di vista dell’apertura, dell’incontro, della ricerca di unità,

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struire allo stesso tempo un percorso sacro, dove l’intimità e isolamento non recidono il contatto con i giardini e la natura tropicale. Lo scavo è di per se stesso un modo per ritrovare l’origine prima, il principio unitario di ogni cosa. Lo scavo aperto è un’architettura capace di unire alla luce del sole la dimensione terrena a quella ultraterrena. Ci si trova così accolti e raccolti in un ambiente aperto, ribassato e circoscritto, dove tutto lo spazio ricavato è – nei margini contro terra – definito da laterizi. Come anche il pavimento e il muro perimetrale, che ospita lateralmente delle nicchie, anche queste scavate.

3. Dellekamp/Schleich, AGENdA Agencia de Arquitectura, Santuario del Señor de Tula, Jojutla de Juárez, Messico, 2020. Piante del livello terra e dell’interrato. Courtesy Dellekamp Arq.

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Una grande copertura protegge sia l’aula sia un settore della platea, che prosegue estendendosi al di fuori. Il limite indefinito tra la parte più raccolta e l’esterno, rende evidente l’assenza di una soglia, esaltando come caratteristica del luogo «la certezza di essere la casa di tutti»9. L’estesa tettoia si solleva sullo spazio ribassato. È sostenuta da alte travi parete lungo il perimetro, che si abbassano in forma di ampie arcate poggiandosi al suolo in quattro punti. All’intradosso il solaio è definito da piccole volte in laterizio, parallele al lato minore, che si interrompono all’estremità dell’aula lasciando così sole o pioggia cadere dall’alto dietro all’altare. Mentre da uno spigolo della facciata opposta, verso il piazzale si innalza una severa torre che presenta a distanza l’immagine della croce. Lo spazio della celebrazione resta così raccolto tra uno scavo e una copertura sollevata, chiaramente identificato, ma in un paesaggio aperto, continuo nell’intorno. Si può dunque lavorare sull’apertura, sulla leggerezza, sulla natura, per imprimervi un segno che ne muta il significato, lo rende sacro ma non lo separa; sceglie di affidarlo invece che difenderlo. Accade lo stesso nella cappella della Veneza Farm a Valinhos10, vicino a San Paolo, Brasile, progettata quasi venti anni prima, nel 2002, da

4. Santuario del Señor de Tula. Assonometria dell’insieme. Courtesy Dellekamp Arq.

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5. Santuario del Señor de Tula. Vista d’insieme del nuovo Santuario. Foto © Sandra Pereznieto.

Decio Tozzi, architetto brasiliano. L’assunto è il medesimo: non è necessario chiudere lo spazio sacro per definirlo, per proteggerlo. La piccola costruzione ha un’immagine talmente leggera da apparire effimera, come una foglia sottile che sfiora il terreno, sollevata e gonfiata dal vento. La cappella privata si trova all’interno di una fattoria; l’architetto brasiliano ha lavorato su due segni: la croce, piantata sul lago, e una volta sottile, che funge da riparo all’assemblea. Una tenda, forse, ma sospesa. Quasi fosse ancorata più al cielo che alla terra. Posta sul margine di un piccolo lago che specchiandola ne raddoppia l’immagine, la chiesa è completamente aperta, definita in un ambito protetto dalla volta sollevata su soli quattro punti d’appoggio. Un’asola sottile stacca la copertura – intonacata nell’intradosso – dal perimetro laterale, definito in pietre irregolari lasciate a vista. Un contrasto che sembra voler ribadire l’appartenenza alla terra dello spazio dell’aula, leggermente scavato, a contrappunto con la levità della tettoia, all’apparenza priva di peso. La contrapposizione ricorda, nella concezione strutturale, il Garagem de Barcos progettato da João Batista Vilanova Artigas a Santa Paula, di lì non molto lontano, dove il caposcuola brasiliano lavorò allo stesso modo sulla dialettica

tra peso e leggerezza11. Appuntava Artigas sui propri disegni «pietre ciclopiche», per indicare nel progetto l’aspetto del materiale scelto per il basamento e per la finitura degli scavi contro terra, per impegnarsi poi sui sorprendenti punti di appoggio – sottili e tra loro distanti – di una copertura dall’aspetto lieve, come un’ala. Quest’ultima non chiude nulla, esiste solo per creare un ambito, dare ombra, accoglienza e riparo. La stessa sensazione si ha anche, in una dimensione spirituale, trascendente, nella chiesa di Veneza. Come se la copertura appartenesse al vento, e fosse questo a sollevarla; creando non tanto un interno, ma un riparo intimo e sconfinato; uno svuotamento che rimanda ad altro, all’altro, a Dio, attraverso il paesaggio, la natura, la luce, la dimensione aperta, senza confine. È in questo vuoto – afferma il progettista – che si «delinea il piccolo tempio»12. E la successione degli spazi che ne suggeriscono il programma liturgico – l’atrio, il battistero, la navata inclinata, l’altare e l’abside che si fonde nel lago – si configura fluida tra il rifugio e la croce: «Assume la grandezza di una cattedrale […] definita dalle montagne […]. Gli alberi diventano elementi iconografici appartenenti anche essi al tempio che viene così definito. Così lo spazio di culto abbraccia l’universo. L’essenzialità dell’architet-

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6. Santuario del Señor de Tula. Viste della navata nella parte tra la copertura e lo spazio dell’aula scavato sotto il livello del suolo. Foto Rafael Gamo.

tura infonde nella nostra mente, nei momenti di fruizione e meditazione, la vera dimensione dell’Uomo sulla Terra»13. L’aula ospita quattro file di sedute per lato, che seguono la pendenza del terreno digradando dolcemente verso il lago. Le panche sono sobrie, essenziali. Un albero distante da un lato e il nulla dall’altro definiscono i due fronti aperti. La croce, ancorché al di fuori del perimetro della chiesa, appare intrinsecamente legata all’altare, e al cielo, riflesso sull’acqua. Si potrebbe dire, citando Pierre Teilhard de Chardin, che la cappella dà una forma costru-

ita a un’intuizione poetica, o mistica, secondo la quale «Tutto l’universo non è che la frangia del mantello di Cristo»14. In questo senso la cappella, più che un edificio, o anche solo una tenda opera dell’uomo, allude al riparo che Dio ci offre nell’universo e indica un percorso di meditazione, di unità, di riconciliazione, che trova ancora un’eco nel pensiero del gesuita filosofo francese; quando Teilhard cita Camus per dire che: «se solo l’uomo riconoscesse che l’universo è capace di amare, questo gli basterebbe per essere riconciliato»15. Un’altra concretizzazione architettonica di questo pensiero si può rinvenire nella cappella

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7. Santuario del Señor de Tula. L’aula tra la parte a cielo aperto e la copertura. Foto Rafael Gamo.

dedicata a San Bernardo16, a La Playosa, una piccola cittadina nella pampa Argentina, in provincia di Cordoba. La cappella, costruita su una collina, in un bosco di olmi, crea una pausa di isolamento all’interno della natura (in questo caso di una natura ancora abbastanza libera, poco contaminata dal progresso). Senza impianti, né elettricità, né servizi, la costruzione è stata realizzata completamente in mattoni vecchi, «centenari», recuperati da una precedente costruzione nello stesso sito. Il piccolo manufatto, progettato da Nicolás Campodonico, sorprende per l’essenziale

8. Santuario del Señor de Tula. Vista dall’altare verso la navata che prosegue all’aperto. Foto © Sandra Pereznieto.

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originalità dell’impianto, straordinariamente spartano e avvincente. Alla geometria prismatica dell’esterno fa da contrappunto un interno inaspettato, avvolto da superfici curve. Un’ampia apertura semicircolare fora l’involucro per captare la luce dell’ovest, davanti a questa si intersecano due assi in legno posti su piani diversi, quindi distanti. Come una meridiana, la cappella si nutre intimamente del trascorrere del tempo: nelle ore del giorno le ombre portate dei due legni si spostano lentamente, fino ad incontrarsi e ricomporre nell’interno la proiezione d’ombra di una croce. L’ombra degli assi si sposta «scorrendo» lentamente sulle curve delle superfici interne. Questo dialogo muto, di segni, dona al santuario in terracotta, piccolo e spoglio, una straordinaria carica simbolica. Insegna nel senso letterale della parola, «segna dentro», il percorso, il cammino, l’attesa, la certezza che il tempo può ricomporre e ricostruire. La costruzione è aperta da un lato verso terra e dall’altro verso il cielo. L’impianto planimetri-

9. Santuario del Señor de Tula. L’aula parzialmente coperta e il prospetto frontale che si innalza per presentare la croce. Foto Rafael Gamo.

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co accoglie una porzione del prato circostante, alcuni alberi e un sobrio sagrato in laterizi, all’interno di un basso muro perimetrale. L’ingresso è un varco nel recinto, costringe a un percorso a spirale stretto sempre di più verso l’entrata che immette in un ambito spoglio, occupato solo da poche panche e un altare. Questo modo di intendere lo spazio sacro richiama – per opposto – il progetto della Basilica dedicata a Maria Maddalena che Le Corbusier propose con Edouard Trouin per La Sainte-Baume, in Provenza (1948): una basilica ipogea, nascosta all’interno di un promontorio roccioso, completamente scavata nel picco del monte detto «Le Pilon», immersa totalmente nella natura; senza prospetti, ma con una vetrata – su disegno di Fernand Léger – aperta sull’infinito del mare. Ma merita di essere citata, in questo nostro percorso, anche la recentissima Cappella della Terra, nello Yucatán Messico (2020), progettata da Cabrera Arqs. Ai margini di una piccola città, essa si nasconde nel paesaggio, vi si immerge letteralmente, abbassandosi sotto la quota del parco circostante. Un cammino all’aperto, che parte distante, discende lentamente, come un solco che scava la terra, delimitato da pareti definite da texture naturali, dall’aspetto roccioso, fino a raggiungere un ambito coperto, di isolamento e riflessione. L’edificio scompare, è sotto il paesaggio, come una caverna protetta e nascosta nella natura. Al termine un altare e uno specchio d’acqua concludono il cammino di nuovo all’aperto. Ricapitolando, in conclusione: quali sono gli elementi che caratterizzano le cappelle aperte? Che ne delimitano lo spazio senza reciderlo? Che lo espandono anzi all’infinito facendone il «centro cosmico di quel che il luogo sacro vuole rappresentare»?17 Cosa è che dà loro forma e sostanza? Cosa è che le rende interessanti ai fini di un più generale discorso sul sacro contemporaneo? La risposta è che la separazione dello spazio sacro (insita anche nella etimologia della parola) non significa dividere l’architettura dalla vita, e nemmeno dal luogo, ma al contrario esaltare in quello spazio ciò che dà senso alla vita stessa. Questo alla fine è anche il messaggio delle Vatican Chapels costruite per la Biennale di Venezia del 2018, con le loro diverse capacità di infondere sacralità al luogo, ricercato eser-

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10. Decio Tozzi, Capela Da Fazenda Veneza, Valinhos - San Paolo, Brasile, 2002. Foto Cristiano Mascaro.

12. Capela Da Fazenda Veneza. Il distacco tra la copertura e il basamento. Foto Cristiano Mascaro.

11. Capela Da Fazenda Veneza. © Decio Tozzi Archivio.

cizio di architettura intorno al senso astratto del sacro che con sobrietà è affidato anche all’ambiente che le circonda. Tutte le cappelle veneziane hanno questo in comune: la capacità di cambiare segno al luogo inserendosi in esso con sobrietà, e l’uso della luce per offrire al piccolo bosco una dimensione nuova, trascendente. E ciò che risalta da questa esperienza è il ritorno all’essenziale, al nucleo primitivo del sacro18. Ciò rimanda anche ad altri esempi, ad altre cappelle, ad altri percorsi come quello della

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13. Nicolás Campodonico, Cappella San Bernardo, La Playosa, Córdoba, Argentina, 2012-2015. Pianta e sezione. Courtesy Nicolás Campodonico.

Ruta del Peregrino in Messico dove gli architetti Tatiana Bilbao e Derek Dellekamp – autori del masterplan – hanno coinvolto artisti, designer e progettisti molto diversi tra loro19. Il risultato è un percorso che ridefinisce il territorio in rapporto con Dio e con i fedeli in cammino. Il percorso stesso diviene sacro. E forse è questa la chiave finale. Citando un noto teologo laico russo del Novecento vissuto a Parigi, Pavel Evdokimov, Gianfranco Ravasi ricorre alla spiritualità ortodossa per affermare che «tra la piazza e il tempio non ci deve essere la porta sbarrata, ma una soglia aperta per cui le volute dell’incenso, i canti, le preghiere dei fedeli e il baluginare delle lampade si riflettano anche nella piazza dove risuonano il riso e la lacrima, e persino la bestemmia e il grido di disperazione dell’infelice. Infatti, il vento dello Spirito di Dio deve correre tra l’aula sacra e la piazza ove si svolge l’attività umana. Si ritrova, così, l’anima autentica e profonda dell’Incarnazione che intreccia in sé spazio e infinito, storia ed eterno, contingente e assoluto»20. 14-17. Cappella San Bernardo. L’interno con le assi in legno e le ombre proiettate nelle diverse ore del giorno. Foto Nicolás Campodonico.

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18. Cabrera Arqs, Cappella della Terra, Yucatán, Mexico, 2020. Vista dall’alto. Foto Tamara Uribe, courtesy Cabrera Arqs.

19. Cappella della Terra, lo spazio interno a cielo aperto. Foto Tamara Uribe, courtesy Cabrera Arqs. Note R. Gabriel, Lo spirito del luogo. Nell’architettura cristiana il sacro è sempre relazione, «Avvenire», 5 luglio 2018, disponibile online (www.avvenire. it/agora/pagine/nell-architettura-cristiana-il-sacro-e-sempre-relazione). 2 Ibid. 3 G. Ponti, Amate l’architettura, Rizzoli, Milano 1957, p. 266. 4 M. Diéguez Melo, Modernidad en clave novohispana: las capillas abiertas de Candela y Barragán, 1

87 «Quiroga. Revista de patrimonio iberoamericano», 19, 2021, pp. 60-73. 5 Cappella de Palmira, Lomas de Cuernavaca, Morelos, 1958-1959 (architetti Guillermo Rosell, Manuel Larrosa). 6 Dopo anni di abbandono e di usi impropri, e di solleciti da parte della Fundación de Arquitectura Tapatía Luis Barragán, nel 2018, con il supporto dell’Instituto Nacional de Bellas Artes e della Secretaría de Cultura de Jalisco, la capilla abierta del Parque de las Estrellas, è tornata al suo uso. Il Consiglio Comunale ha affidato il progetto di restauro e recupero della cappella e del suo contesto nel parco agli architetti Sergio Ortiz Jiménez, Juan López Vergara Newton, Estefanía Álvarez. Cruz. Cfr. J. Palomar, Una recuperación histórica: más de Jardines del Bosque y su capilla, «Informador.MX», 5 settembre 2018, disponibile online (www.informador.mx/ ideas/Una-recuperacion-historica-mas-de-Jardines-del-Bosque-y-su-capilla-20180905-0033.html). 7 Il Santuario Señor de Tula a Jojutla de Juárez, Messico, 2020, progetto architettonico: Dellekamp/ Schleich | Derek Dellakamp, Jachen Schleich + AGENdA Agencia de Arquitectura | Camilo Restrepo Ochoa, si è classificato al secondo posto della VII edizione del Premio Internazionale di Architettura Sacra Frate Sole, 2020. 8 Dalla relazione dei progettisti, Santuario del Señor de Tula, disponibile online (arquitecturapanamericana.com/santuario-del-senor-de-tula/). 9 Dalla relazione dei progettisti, cit. 10 Veneza Farm Chapel, Valinhos, Valinhos, São Paulo, Brasile, 2002; Decio Tozzi Arquitetura e Urbanismo. 11 Cfr. M. Argenti, La linea del cielo e la linea di terra nell’architettura paulista, «Rassegna di Architettura e Urbanistica», 142/143, 2014, pp. 53-72. 12 Dalla descrizione del progettista, in www.archdaily. com/21239/veneza-farm-chapel-decio-tozzi. 13 Ibid. 14 P. Teilhard de Chardin, cit. in M. Canciani, Vita da prete, Mondadori, Milano 1991, p. 129. 15 Cfr. P. Teilhard de Chardin, L’avvenire dell’Uomo, Il Saggiatore, Milano 1972, p. 443. 16 Cappella San Bernardo, 2012-2015, Zona Rural, La Playosa, Córdoba, Argentina. 17 Cfr. G. Ravasi, Porte aperte tra il tempio e la piazza, lectio magistralis, 17 gennaio 2011, Facoltà di Architettura dell’Università Sapienza, Roma, «L’Osservatore Romano», 17-18 gennaio 2011. 18 Cfr. M. Argenti, Vatican Chapels. Al posto di un padiglione, «Rassegna di Architettura e Urbanistica», 155, 2018, pp. 21-30. 19 I progetti sono inoltre di due team di architetti svizzeri (Christ & Gantenbein e HHF), l’artista cinese Ai Wei Wei, l’architetto cileno Alejandro Aravena, e i messicani Omar Orlaineta (artista), Taller TOA (paesaggista), Emiliano Godoy (designer industriale), Luis Aldrete, Rozana Montiel. Cfr. M. Adriá, Senderos de arte. La Ruta del Peregrino, arquitectura y religión, «AV» 139, 2011, pp. 67-69. 20 Cfr. G. Ravasi, Porte aperte tra il tempio e la piazza cit.

Architetture della memoria in America Latina Gianpaola Spirito

Memoriale: «Ogni avvenimento, cerimonia, scritto, […] opera che ha per fine di ricordare o di commemorare persone o fatti; ogni opera di architettura monumentale costruita per celebrare uomini illustri o avvenimenti di importanza storica»1 o per onorare persone decedute. I memoriali sono architetture laiche strettamente legate al tema della morte e della memoria di eventi tragici. Nel XIX secolo avevano soprattutto lo scopo di celebrare l’eroismo dei caduti in guerra e i principali eventi legati alla storia di una nazione; la maggior parte erano riccamente decorate e arricchite da statue. In seguito al secondo conflitto mondiale, all’Olocausto, all’uso delle armi nucleari, il significato e le forme dei memoriali mutano2: gli atti criminali perpetrati contro l’umanità determinano la necessità etica di ricordare al fine di educare la collettività e le generazioni future, suscitando un sentimento di pietas e di solidarietà. È eliminato il carattere retorico e propagandistico, i simboli semplificati, le forme divengono più astratte e sobrie; sono prodotte esperienze emotive che rievocano quelle delle vittime. Altri spazi con fini e significati analoghi, sono i parchi e musei della memoria. Nei parchi, tutto ciò che tradizionalmente caratterizzava il memoriale si ibrida con quanto normalmente definisce uno spazio pubblico: si riduce la componente celebrativa, si instaurano maggiori relazioni con il contesto e con le comunità che possono utilizzarli in molteplici modi. I musei, invece, hanno soprattutto lo scopo di raccontare e documentare gli avvenimenti drammatici, spesso caduti nell’oblio.

I musei della memoria3 sono realizzati in tutto il mondo; qui interessa descrivere quelli in America Latina. A differenza di quelli europei, dove una distanza storica ha permesso di elaborare gli avvenimenti accaduti, lì riguardano eventi molto recenti e, in alcuni casi, ancora in atto. Ciononostante o forse proprio per tale motivo, sono esemplari per la capacità che hanno di coinvolgere le comunità locali, sia durante il processo progettuale e costruttivo che come visitatori, e di innescare processi di riconciliazione e tolleranza. Ciò è possibile anche perché i musei della memoria in America Latina sono promossi dalle associazioni delle vittime e dalle «commissioni per la verità», istituite per fare luce su crimini dei regimi dittatoriali, saliti al potere con la forza negli anni Settanta e Ottanta del XX secolo. Analogamente al resto del mondo, essi sono contenuti sia in architetture appositamente progettate, che negli edifici nei quali gli eventi drammatici sono avvenuti: a Buenos Aires, l’Espacio Memoria y Derechos Humanos (2015) è situato in quella che, durante la dittatura che governò l’Argentina tra il 1976 e il 1983, era la Scuola Meccanica della Marina (ESMA), utilizzata come centro clandestino di detenzione, tortura e sterminio; a Montevideo, il Centro Culturale Museo della Memoria (MUME), dedicato alle vittime della dittatura civile-militare che governò l’Uruguay dal 1973 al 1985, è stato inserito all’interno della residenza di campagna dell’ex dittatore Máximo Santos. I luoghi nei quali sono avvenute torture e abusi conservano le tracce e gli oggetti che testimoniano direttamente al visitatore ciò che è accaduto senza aver bisogno di

architetture della memoria in america latina

1. Estudio America, Museo della Memoria e dei diritti umani, Santiago del Cile, 2010. Foto Maria Argenti.

2. Museo della Memoria e dei diritti umani. Sezione longitudinale.

3. Lo spazio pubblico sotto il volume del Museo della Memoria e dei diritti umani. Foto Maria Argenti.

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un progetto. Quando, invece, i musei della memoria sono previsti in luoghi estranei agli eventi, quali sono i mezzi espressivi che l’architettura possiede per realizzare spazi capaci di raccontare avvenimenti così drammatici e suscitare sensazioni simili a quelle provate dalle vittime? A questo interrogativo hanno dovuto dare risposta gli architetti che hanno partecipato ai tre concorsi per altrettanti musei della memoria da realizzarsi nelle capitali latino-americane: lo Estudio America, vincitore per il Museo della Memoria e dei diritti umani (MMHR) a Santiago del Cile (2007-2010); Juan Pablo Ortiz Arquitectos, per il Centro per la memoria, la pace e la riconciliazione a Bogotà in Colombia, (2009-2015) e Barclay e Crousse, per il Lugar de la Memoria a Lima in Perù (2010-2015). Lo scopo principale è far conoscere la verità sugli eventi, esponendo i documenti, le testimonianze dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime, gli oggetti, materiali raccolti per molti anni dalle numerose commissioni governative, dalle associazioni delle vittime e dalle ONG. Congiuntamente alle funzioni espositive, questi musei assolvono anche quelle di centri di ricerca e di documentazione, grandi archivi che mettono in rete e collegano i numerosi siti commemorativi e i piccoli musei sparsi sul territorio nazionale e, a livello internazionale, gli enti e le associazioni di promozione dei diritti umani. Dai loro nomi e come già detto, si capisce che essi hanno anche il compito di favorire processi di riconciliazione con il passato, coinvolgendo le comunità in attività di pedagogia sociale, per promuovere una cultura della tolleranza e della pace e per educare le generazioni future affinché tali abusi e orrori non avvengano più. Per questo scopo, molti spazi sono dedicati alla didattica. I tre musei della memoria presi in esame sono collocati nelle capitali dei rispettivi paesi in contesti molto differenti. Ciò determina modalità compositive e esperienze spaziali diverse, sebbene, sia possibile rintracciare alcuni temi comuni: tutti instaurano una relazione con il suolo; il museo a Santiago e quello a Lima creano una piazza, ovviando alla carenza di spazi pubblici delle metropoli sudamericane; si strutturano lungo un percorso che coinvolge il corpo dei visitatori e necessita di tempo, silenzio e attenzione.

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4. Juan Pablo Ortiz Arquitectos, Centro per la memoria, la pace e la riconciliazione, Bogotà, 2015. Sezione longitudinale. © Juan Pablo Ortiz Arquitectos.

Il Museo della Memoria e dei diritti umani a Santiago del Cile

5. Centro per la memoria, la pace e la riconciliazione. Vista del Centro dal percorso longitudinale. Foto Rodrigo Davila, courtesy Juan Pablo Ortiz Arquitectos.

Il Museo della Memoria e dei diritti umani a Santiago del Cile4 è stato promosso nel 2007 dal presidente Michele Bachelet con un concorso internazionale, vinto da Estudio America e inaugurato nel 2010. Si colloca in un’area, posta sul limite della città storica, che non è stata scenario di eventi drammatici. Vi sono esposti quarantamila documenti che testimoniano i crimini e le violazioni dei diritti umani avvenuti dal 1973 e il 1990 durante la dittatura militare del generale Pinochet. Sono i contenuti dell’esposizione5 a rendere questo museo interessante più che la sua architettura: caratterizzata da una certa monumentalità della piazza, rivestita in pietra e scavata nel suolo, e dai due volumi, quello a corte che ospita il centro civico e quello lineare del museo che vi si sovrappongono. Il museo è sollevato dal suolo e perciò necessita di una imponente struttura a ponte, che viene celata rivestendola all’esterno con lastre microforate di rame, trasverse metalliche e infissi, e, all’interno con vetri opachi e serigrafati, dando a questi spazi una consistenza materica estranea alla cultura architettonica cilena e una luminosità eccessiva per un luogo che commemora atrocità e morti. Sostanzialmente diverse sono, invece, le scelte insediative, spaziali e materiche degli altri due musei, entrambi fortemente radicati nei luoghi nei quali si inseriscono; entrambi in grado di offrire un’esperienza corporea e emotiva ai visitatori. Entrambi realizzati grazie a processi di partecipazione attiva della comunità. Il Centro per la memoria, la pace e la riconciliazione a Bogotà

6. Centro per la memoria, la pace e la riconciliazione. Vista interna al volume in terra battuta. Foto Rodrigo Davila, courtesy Juan Pablo Ortiz Arquitectos.

Il Centro per la memoria, la pace e la riconciliazione di Juan Pablo Ortiz Arquitectos

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commemora le vittime del conflitto armato ancora in corso in Colombia. Esso sorge in un angolo del cimitero centrale di Bogotà, dove erano stati portati i corpi dei deceduti durante la rivolta del 9 aprile 1948, scoppiata in seguito all’assassinio del leader liberale Jorge Eliécer Gaitán, evento che segnò l’inizio delle violenze che ancora oggi affliggono il Paese. Il luogo, quindi, non è neutrale, custodisce 3600 salme sepolte lì tra il 1827 e il 2002, riesumate dagli archeologi per permettere la costruzione. Il progetto propone uno scavo, analogo a quello attuato dagli archeologi, all’interno del quale è collocato il volume che ospita il Centro. La costruzione non emerge dal suolo al fine di evitare di alterare il sito e impedire la vista del vicino colombario. La parte interrata è coperta da superfici d’acqua ed è solcata da due fessure ortogonali a formare una croce. La prima costituisce un percorso centrale che attraversa tutto l’edificio da nord a sud e conduce alla quota inferiore mediante scalinate. La seconda ospita un monolite di terra pressata alto 12 metri, unico elemento verticale emergente, che indica la presenza del Centro e contiene l’atrio d’ingresso. Gli accessi, dislocati secondo i quattro punti cardinali, conducono i visitatori nel sottosuolo, come se fossero attratti verso il basso dalla forza di gravità, costretti ad immergersi all’interno di questa terra lacerata che ha dato sepoltura ai morti. L’atto dello scendere richiede uno sforzo del corpo e la parziale perdita di stabilità che porta il visitatore a compenetrarsi nell’immersione, lasciandosi alle spalle la vita quotidiana e preparandosi alla mostra. Per chi entra nel Centro dall’asse longitudinale, la discesa è lunga e lenta: si procede verso il basso vedendo il cielo che si riflette sulle superfici d’acqua ai lati del percorso, si perde progressivamente il rapporto con l’ambiente circostante fino a raggiunge il patio posto alla quota inferiore. Tre alberi di yarum ne segnano l’asse centrale, intorno superfici riflettenti e trasparenti permettono di percepire simultaneamente il contesto esterno e gli spazi interni. Da questo patio si entra nel volume in terra pressata. Se, invece, si accede al Centro dalla strada, lungo l’asse trasversale, il percorso è più breve: attraverso un portale (largo 1,80 e alto 9 metri) si entra immediatamente nel monolite in terra e una scala conduce alla quota inferiore. Ci si trova in uno spazio alto 12 metri, vuoto, silenzioso e in penombra perché la luce filtra attraverso una serie di piccole fessure, corri-

spondenti al numero delle vittime di cui si ha notizia, che permettono di percepire lo spessore di un metro dei muri perimetrali. Le sensazioni che questo spazio trasmette per le sue dimensioni e i materiali con i quali è realizzato, dipendono dal processo che li ha generati: una azione, fortemente simbolica, di sostenibilità sociale. Essendo la proprietà delle terre l’origine del conflitto colombiano, l’architetto Juan Pablo Ortiz ha invitato le persone coinvolte nelle violenze a portare dai loro luoghi di origine un po’ di terra con cui costruire il monolite e ad inserire memorie e messaggi di pace in tubi di vetro, posti nei fori lasciati dalle casseforme. Duemila persone hanno risposto all’invito dall’architetto, donando la terra, partecipando alla costruzione dell’edificio e iniziando in questo modo a riconciliarsi con il proprio passato e il proprio Paese. Juan Pablo Ortiz ha inteso anche commemorare i duecento anni di indipendenza del Paese costruendo questo monolite sovrapponendo venti strati di terra, ognuno dei quali corrisponde a dieci anni di storia democratica del Paese. Per costruirlo, ha condotto una ricerca sulle tecniche costruttive vernacolari che impiegavano questo materiale. Tuttavia, per realizzare un volume alto 12 metri serviva un materiale più stabile: a tal fine è stato ideato uno nuovo impasto composto con un 90% di terra inorganica e un 10% di cemento, che, attraverso un processo chimico e meccanico, diviene resistente alla pioggia e ai venti. In conclusione possiamo affermare che, come scrive Carlos Naranjo: «Ortiz cerca di ricostruire i legami e le condizioni di reciprocità tra corpo e paesaggio come strategia per guarire la terra e contribuire alla costituzione di una memoria materiale collettiva»6. Il Lugar de la memoria a Lima Anche il Lugar de la memoria a Lima di Barclay e Crousse7 è esito di un concorso, bandito nel 2010. A differenza degli altri musei della memoria non è stato promosso dal governo nazionale, ma dalla Commissione della Verità, presieduta da Mario Vargas Llosa, il quale ha ottenuto dai governi tedesco e svedese e dalla Comunità Europea i finanziamenti per realizzarlo. La Commissione era incaricata, innanzitutto, di ricercare le ragioni e i responsabili dell’insurrezione armata, pro-

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vocata dal movimento di ispirazione maoista Sendero Luminoso, che ha causato 75000 morti tra il 1980 e il 2000. L’area, donata dal Municipio, è sul bordo della città, un sito residuale che ospitava un deposito di camion circondato da strade di scorrimento. Fa parte del paesaggio costiero di Lima, definito da una sequenza di dodici chilometri lungo la quale si alternano faraglioni e gole, prospicenti l’oceano. Il sito non è, quindi, un luogo simbolico, scenario di eventi drammatici legati al conflitto armato, ma dove era presente una ferita prodotta dalla distruzione dell’ultimo faraglione, attuata per costruire una strada che collegasse la città alle sue spiagge. Affrontando il progetto, Barclay e Crousse hanno riflettuto sul fatto che l’unico tipo di memoria che l’architettura può gestire è la memoria del luogo, quella della cultura e della struttura che definisce il territorio. L’edificio intende, quindi, saturare la ferita indotta dalla demolizione del faraglione, completando la sequenza del sistema costiero con un faraglione artificiale: un parallelepipedo in cemento armato che si sviluppa ortogonalmente alla costa e si protende verso l’oceano, appoggiandosi su un basamento che si articola su un doppio livello. In tal modo ricostruisce il sistema originario di terrazzamenti di discesa al mare, evocando, al tempo stesso, un elemento che caratterizza l’architettura precolombiana. Per raggiungere il museo, la maggior parte dei visitatori, che arrivano dalla città con i mezzi pubblici, deve percorrere duecento metri. Questa distanza diviene un’opportu-

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nità per il progetto. Gli architetti la estendono, collocando l’ingresso verso l’oceano ad una quota inferiore di sette metri rispetto alla strada. Quella distanza richiede del tempo per essere percorsa e permette al visitatore di lasciarsi alle spalle la città e la quotidianità e prepararsi alla mostra. Si cammina lungo la strada, si scende una ripida scala e si percorre un tratto piano – la quebrada del silencio – inseriti nella sottile fessura compresa tra il faraglione naturale e quello artificiale, fino a giungere ad un piccolo belvedere che si affaccia sull’oceano e all’ingresso al museo. Qui Barclay e Crousse creano uno straordinario spazio di connessioni tra le parti e le quote: un vuoto coperto e chiuso verso l’oceano da un muro cieco che costruisce il fronte principale del faraglione artificiale, aperto per collegare la quebrada del silencio e la spianata della riconciliazione, una grande piazza creata sulla copertura del basamento. Questo vuoto, la cui altezza varia da 3,85 a 8,35 metri, collega i due spazi esterni posti alla quota dell’ingresso del museo, e, mediante un’ampia scalinata, quest’ultima con quella inferiore di 4,5 metri dove si trova l’auditorium e un ulteriore terrazzamento. Tornando all’ingresso del museo e superandone la soglia, inizia un’altra esperienza: lo spazio è definito dalla scansione regolare del sistema strutturale e dalle rampe, che costituiscono gli elementi permanenti e sono in cemento grigio; invece, ciò che si modifica è la luce e i dispositivi temporanei – le balaustre delle rampe, le pareti espositive, le colonne degli impianti –, dipinti di bianco. Il tempo è ciò

7. Barclay & Crousse, Lugar de la memoria, Lima, 2015. Sezione trasversale. © Barclay & Crousse Architecture.

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8. Lugar de la Memoria. Vista della quebrada del silencio, il percorso tra il faraglione naturale e quello artificiale che porta all’ingresso del museo. Courtesy Barclay & Crousse Architecture.

9. Lugar de la Memoria. Vista dello spazio vuoto che connette l’ingresso al museo e la quota inferiore dell’auditorium. Courtesy Barclay & Crousse Architecture.

che caratterizza l’esperienza di questi spazi. Le rampe sono un dispositivo architettonico che permette di rallentare il tempo, modulare la visione e concentrarsi sui materiali esposti. Esse sono collocate lungo la facciata nord, che fronteggia la piazza ed è prevalentemente cieca, e conducono alle sale espositive, poste a sud e separate le une dalle altre da un dislivello nel pavimento di 45 cm. La facciata a sud, verso il faraglione naturale, è caratterizzata da grandi superfici vetrate, poste all’interno della trama di setti verticali in cemento armato, distanti 70 cm, che assumono l’altezza dell’intera facciata. Le vetrate sono trasparenti, sabbiate, colorate e a specchio, in modo da poter generare viste sempre diverse del faraglione e diversi gradi di luminosità, riflessi e cromie all’interno degli spazi. Il percorso continua salendo verso la luce e raggiungendo il tetto: una grande scalinata è intervallata da cilindri di cemento, lucernai per gli spazi espositivi sottostanti ma anche oculi attraverso i quali si può osservare la mostra da altri punti di vista. Questo spazio all’aperto si

chiama il luogo del cordoglio: sul bordo, una serie di nicchie contengono sottili tubi in metallo dove la comunità e i parenti delle vittime possono portare e appendere oggetti appartenuti alle persone scomparse durante il conflitto, riprendendo la tradizione peruviana del quipu. Al termine della gradonata si riacquista il rapporto con l’orizzonte e si trova un ultimo spazio per la memoria individuale, la riflessione e l’introspezione, prima di tornare alla quotidianità. Nel Lugar de la memoria, come nel Centro per la memoria, la pace e la riconciliazione, i materiali assumono un ruolo importante. Gli architetti scelgono il cemento armato in ragione del budget ridotto e della sua ampia disponibilità in Perù; utilizzato a vista o rivestito di ciottoli di fiume crea continuità con il sistema costiero dei faraglioni naturali. Inoltre il basso costo della mano d’opera permette di lavorare in modo artigianale: sono usati casseri, realizzati assemblando a mano vecchie assi di legno, i ciottoli presi dalla falesia sono disposti a mano; in questo modo l’irregolarità dei muri conserva le tracce del lavoro manuale, le

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10. Lugar de la Memoria. Vista delle rampe e degli spazi espositivi interni. Courtesy Barclay & Crousse Architecture.

impronte degli operai diventano parte della costruzione, innestando un diverso processo di partecipazione e altre memorie. Note Memoriale, voce in Vocabolario Treccani della lingua italiana. 2 Ai memoriali sono dedicati alcuni numeri di riveste monografici: Memoriales. En recuerdo de las tragedias del siglo XX, «Arquitectura Viva», 195, 2017; Sentiment from sacred to human, «C3», 381, 2016; «The Architectural Review», dicembre 2014. 3 Si veda A. Sodaro, Exhibiting Atrocity. Memorial Museum and the Politics of Past Violence, Rutgers University Press, New Brunswick 2018. 1

Cfr. M. Ferrari, Estudio America, Museo della memoria e dei diritti umani, Santiago del Cile. Ombre del passato prossimo, «Casabella», 789, 2010, pp. 34-46; Sitio para la memoria, «Summa +», 111, 2010, pp. 4-13. 5 I contenuti dell’esposizione sono descritti in: The Museum of Memory and human rights: A living Museum for Chile’s Memory, in A. Sodaro, Exhibiting Atrocity cit., pp. 111-137. 6 C. Naranjo, Fistful of earth, «The Architectural Review», 1420, 2015, p. 91; trad. dell’autore. 7 Cfr. T. Cigarini, M. Saavedra, Lugar de la Memoria, Lima – Barclay & Crousse, «Casabella», 844, 2014, pp. 50-69; El Lugar de la Memoria, la tolerancia y la inclusion social, «Summa +», 154, 2016, pp. 12-19; «Arquitectura Viva», 195, 2017, pp. 4449; «Arquine», 87, 2019. 4

Una chiesa e un paesaggio sulla Cordillera del Litoral in Venezuela Roberto Pasini

La chiesa di San Juan María Vianney1 raccoglie la comunità rurale de La Media Legua sparsa sulla Cordillera del Litoral venezuelana. La località si trova a circa due ore di automobile dalla capitale Caracas che occupa un plateau interno. La Media Legua riunisce qualche centinaio di famiglie2, parte della parrocchia di Tarmas nello Stato di La Guaira3, una stretta fascia tra il crinale della cordigliera e il Mar dei Caraibi, delimitata a est dal Río Guayabal e a ovest dal Río de Maya. Sospesa a 2.000 metri di quota tra montagna e oceano, la comunità è composta da campesinos caraibici prevalentemente dediti a un’agricoltura di autoconsumo. La commercializzazione dello scarso surplus è gestita da poche famiglie che hanno beneficiato della Reforma Agraria degli anni Sessanta. Venezuela oggi: il contesto del lavoro di Enlace Arquitectura La Rivoluzione Bolivariana condotta dal presidente Hugo Chávez, rieletto per quattro termini tra il 1999 e il 2013, è stata fondata sulla nazionalizzazione delle industrie strategiche e in particolare di quella dell’estrazione petrolifera. Con il sostegno iniziale di vaste fasce popolari e numerosi intellettuali, sono stati perseguiti programmi per la partecipazione democratica alle politiche locali e per l’estensione dell’accesso a beni fondamentali quali cibo, casa e scuola denominati «missioni bolivariane». L’insostenibilità del progetto chavista, riconducibile tanto all’impraticabilità di una gestione industriale centralizzata, quanto alle pesanti sanzioni nordamericane

ed europee, ha finito per annullare gli iniziali miglioramenti nella condizione delle fasce più deboli della popolazione4. La crisi istituzionale del 2019-20 tra la Presidenza della Repubblica e l’Assemblea Nazionale5 ha sprofondato il Paese nell’isolamento internazionale. La qualità della vita dei venezuelani è crollata sotto grave impoverimento, inflazione esponenziale, carenze materiali generalizzate, corruzione e insicurezza6. Secondo i progettisti della chiesa de La Media Legua, la situazione mostra ora segni di miglioramento. In questo contesto Enlace Arquitectura, atelier fondato da Elisa Silva a Caracas nel 2007, persegue la riqualificazione degli spazi di vita nell’area metropolitana e nei territori rurali circostanti. L’atelier conduce la propria azione non solo attraverso il convenzionale progetto di miglioramento dello spazio fisico, ma ancor più attraverso l’opera di esplorazione, analisi e condivisione delle piccole ricchezze dimenticate della quotidianità, anche di quella più povera ed elementare. Assemblaggi di luoghi, persone e oggetti ordinari della vita di città, di barrio e di campagna, sono restituiti alla consapevolezza delle comunità residenti e della città metropolitana. Attraverso gesti minimi luoghi dimenticati possono rifiorire e addirittura acquisire rilevanza nel dibattito disciplinare su architettura e spazio7. Ne sono un esempio gli spazi riscoperti dal progetto Ciudad Completa: La Palomera, reconocimiento y celebración che porta alla luce piccole meraviglie quotidiane nel barrio degradato sulle pendici a sud-est della capitale. Esposto nelle Corderie dell’Arsenale in occasione della Biennale di Venezia 2021, il progetto presenta la mappatura di ventiquat-

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1. Enlace Arquitectura, chiesa di San Juan María Vianney, La Media Legua, Estado Vargas Venezuela, 2018. Foto Carlos_Ancheta.

2. Chiesa de La Media Legua. Planimetria generale. Courtesy Enlace Arquitectura.

tro giardini privati o comuni, realizzati con mezzi poveri e la preziosa cura quotidiana. Dalla classificazione delle meraviglie vegetali nascoste nei giardini consegue il Diccionario Etnobotánico che raccoglie le conoscenze non scritte di una popolazione ai margini dell’urbanità, ma ancora legata alla terra8. La chiesa de La Media Legua si colloca sulla stessa linea di lavoro, guidata dal proposito di alleviare la cappa di povertà materiale sotto cui ampie fasce della popolazione sono schiacciate e che si manifesta nei termini dell’impotenza di agire. Le ragioni della tettonica e della costruzione

3. Chiesa de La Media Legua. Vista assonometrica. Courtesy Enlace Arquitectura.

Nella grave crisi di risorse in cui versa il Paese, la costruzione di questa chiesa è stata un’impresa collettiva della comunità. Il sito era stato precedentemente spianato per la realizzazione di un centro satellite dell’Universidad Central de Venezuela destinato alla sperimentazione agricola. Si era poi ventilato che il progetto potesse essere convertito dalle autorità in quello di un mercal, mercato di prodotti primari a prezzi calmierati nel quadro delle missioni bolivariane. Contro quella che molti residenti percepivano come una

una chiesa e un paesaggio sulla cordillera del litoral in venezuela

sgradita interferenza governativa, alla fine degli anni Dieci del Duemila emerge un’iniziativa collettiva coordinata dal parroco di Tarmas che si propone come resistenza proattiva al progetto. È così lanciata una raccolta fondi in grado di mettere insieme circa 40.000 USD da comunità religiose europee e micro-donazioni locali. Sono recuperati materiali di scarto dai magri cantieri della regione. Carichi di blocchi di cemento forati sono trasportati sulla montagna per essere messi in opera da parte dei volontari della comunità dopo i lavori nei campi o nei giorni festivi. Le tecniche di costruzione impiegate saranno dunque dettate dai materiali disponibili e dalla necessità del ricorso a manodopera non professionale in regime di autocostruzione. Pro bono è anche il coinvolgimento di Enlace Arquitectura nella progettazione e nella direzione delle opere9. L’azione di contro-progettazione della chiesa de La Media Legua coordinata dal parroco di Tarmas è il risultato di un’evidente contrapposizione ideologica tra la chiesa cattolica venezuelana e il socialismo chavista. Allo stesso tempo essa manifesta una contrapposizione più antica, quella cioè tra la struttura dello Stato e la struttura della Chiesa10. Il bloque industrial de concreto, protagonista della costruzione della chiesa, ha incarnato il sogno della modernità e dell’emancipazione attraverso la conquista della casa per il diseredato urbano e rurale dal dopoguerra a oggi nello spazio iberoamericano. Murature incerte messe in opera in autocostruzione con prestazioni termiche inadeguate hanno rimpiazzato le pareti di «bahareque» come quelle di «ado-

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be» delle fresche mansiones tradizionali. Nella chiesa de La Media Legua le murature di blocchi sono rese portanti con l’inserimento di tondini metallici e il getto di calcestruzzo all’interno delle forature. Per ovviare alla deficienza dell’isolamento termico una gelosia continua viene estesa su tutte le pareti al di sopra della dodicesima fila a quota 2,40 m, con forature incrementali che favoriscono l’aerazione. Le uniche grandi aperture nelle pareti sono serrate da cancelli metallici che replicano in negativo la trama della gelosia muraria e generano ventilazione trasversale costante. La finitura delle murature è in cemento impermeabilizzato per evitare gli oneri delle manutenzioni necessarie per intonaco e pittura in presenza di un clima aggressivo. Il tetto è una soletta di calcestruzzo rinforzata da profili metallici perimetrali e trasversali e gettata su alleggerimenti di polistirolo. Se la gestione strategica del progetto è nelle mani del parroco di Tarmas, Enlace Arquitectura negozia l’attività di autocostruzione con i residenti prestatori d’opera volontaria. A ogni fase di costruzione il progetto è ricalibrato sullo stato di fatto parziale che spesso altera il disegno originale. Il processo continuerà attraverso molte interruzioni per oltre dieci anni e ancora oggi la comunità si propone di completare le strutture di arredo della sala di culto. L’esperienza di autocostruzione della comunità de La Media Legua non è unica. Nella parrocchia sono presenti altre cappelle rurali costruite in circostanze analoghe, come quella di Los Cedros o di Nuestra Señora de Fatima. Questi casi non hanno però implicato la rea-

4. Chiesa de La Media Legua. Prospetti. Courtesy Enlace Arquitectura.

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5. Chiesa de La Media Legua. Vista dall’esterno. Foto Carlos Ancheta.

lizzazione consapevole di spazi architettonici, ma semplici strutture coperte, evidenziando la rilevanza del ruolo dei progettisti pur nel quadro di realizzazioni partecipate. I gesti della composizione Se nel piccolo edificio de La Media Legua le ragioni della tettonica di materiali e tecniche povere sembrano imbrigliare le possibili aspirazioni a una qualità compositiva, a tratti in esso si aprono invece squarci da cui queste sobriamente emergono. Si tratta di una costruzione senza garbo come la casa del campesino nelle solitudini della cordigliera. All’occorrenza, potrebbe essere usata come deposito di fagioli senza perdere nulla della propria dignità. Le grandi solitudini del Nuovo Mondo sanno infatti rovesciare l’aspirazione umana alla centralità11. L’idea compositiva è elementare: nessuna parete rettilinea, nessun pilastro intermedio. All’esterno è un volume sfuggente, cangiante con la visuale, che condivide la natura delle costruzioni rurali immerse nella vegetazione sulla costa della montagna. All’interno, è un’aula atmosferica, non perimetrata da muri, ma avvolta in nubi

di penombra e chiarore. Può accogliere circa duecento fedeli. L’involucro traforato è attraversato da fasci di luce e allevia l’afa tropicale. In esso sono ritagliate tre grandi aperture rettangolari. La prima funge da ingresso, schiacciato tra l’edificio e la costa della montagna, al fondo di un corridoio conico simile all’accesso a una grotta. Sopra di esso, un bordo del tetto sporge come il bavero della giacca di un marinaio sollevato dal vento. Due esili profili metallici più che sostenerlo ne sottolineano la leggerezza. La seconda apertura, posizionata sul lato dell’edificio, cattura una chiazza di luce indiretta nell’angolo nord-est dell’aula e serve a immergere il confessionale al lato di essa in una penombra discreta. La terza apertura, al fianco dell’altare, è dotata di una vita diurna e una notturna. Nella luce del giorno, essa inquadra uno scorcio della vegetazione tropicale, vetrata vivente in una cattedrale di cartone. Una croce di metallo brunito, magra e ossuta come le braccia del campesino ne segnano l’ancora visuale. Con l’oscurità della notte invece l’apertura staglia un quadro luminoso nel corpo nero della montagna. Infine, il tetto è un foglio spiegazzato, come la pagina di un almanacco rurale volato nella campagna.

una chiesa e un paesaggio sulla cordillera del litoral in venezuela

Quello che si vede avvicinandosi alla chiesa de La Media Legua è il fronte posteriore. Qui, una singola piega nel muro genera una concavità in cui alloggiare un altare esterno, opposto a quello interno come in un’abside bifronte. La piccola spianata che lo fronteggia si trasforma così in una seconda aula per le celebrazioni all’aperto. La stessa concavità, disinvoltamente e più spesso, ha alloggiato la motocicletta di qualcuno che raggiungeva il sito per completare una parte dei lavori. Su quella spianata, al fianco di una semplice croce di legno conficcata nel terreno, si è riunita la comunità per celebrare messa durante i dieci anni trascorsi tra la prima determinazione e il compimento del progetto12. Ora, due volte al mese i membri della comunità de La Media Legua lasciano le loro case sparse sulla costa della montagna e percorrono a piedi un agevole cammino per raccogliersi nell’aula e celebrare la messa. La continuità storica di un paesaggio Questo piccolo edificio non avrebbe alcun rilievo se non fosse in relazione profonda con il paesaggio che lo circonda. Abbiamo detto che il paesaggio della cordigliera è caratterizzato da una continuità trans-storica naturale e umana, l’immensa montagna e le sue sparse popolazioni, entrambe esposte agl’impeti dei fenomeni atmosferici. Pur nella condizione di costante sotto-popolamento in cui si dibatteva il Virreinato de Nueva Granada e, dopo l’autonomia da Bogotà del 1777, la Capitanía General de Venezuela, le pendici meridionali della catena litoranea erano occupate già in età coloniale da sporadiche coltivazioni e piantagioni di caffè che risalivano progressivamente dal plateau di Caracas e dalle valli interne. Dei campesinos impegnati nelle conduzioni rurali le famiglie de La Media Legua sono probabilmente discendenti. Esse sono il prodotto del meticciato di conquistatori europei, nativi americani, schiavi africani e immigrati asiatici: quella raza cósmica che José Vasconcelos all’inizio del XX secolo prediceva formarsi nell’America Latina, dal Messico alla Patagonia, per inaugurare trionfante l’era dell’umanità universale, non più distinta per etnie13. Quegli orizzonti sono certo tramontati e il meticciato ha a volte prodotto gruppi a cui l’antropologia recente si è riferita con i termini di pelado urbano (diseredato urba-

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6. La chiesa de La Media Legua in costruzione. Foto Enlace Arquitectura.

no) e indio melancólico (nativo malinconico) a popolare rispettivamente i bassifondi della città industriale e le immense solitudini della campagna14. Quando Alexander von Humboldt e Aimé Bonpland approdano nel porto di Cumaná nel luglio del 1799 dopo avere attraversato l’Atlantico, segnano la prima tappa americana del loro epico viaggio alle regioni equinoziali del nuovo continente. Da lì si sposteranno rapidamente a Caracas dove soggiorneranno per due mesi programmando l’avventurosa penetrazione nella foresta primaria più profonda15. Durante il soggiorno a Caracas von Humboldt e Bonpland avranno l’opportunità di esplorare i paesaggi della Cordillera del Litoral, ascendendo il monte Silla sul versante interno e attraversando la catena dal lago Tacarigua a Puerto Cabello sulla costa caraibica16. La tersa descrizione che ne lascia von Humboldt coglie ancora oggi l’identità più autentica dei luoghi della cordigliera e delle comunità che la popolano. È evidenziato in particolare il contrasto tra la vitalità delle coltivazioni pedemontane nella valle del Guaire e il triste velario che avvolge la montagna alta in un tempo incommensurabile. Così, nel suo resoconto emergono anche i caratteri delle etnie che si fonderanno, in termini che considereremmo oggi forse scorretti, ma che illuminano le sfaccettature antropologiche del meticciato che popolerà la regione: la loquacità dei portatori neri che trasportano i preziosi strumenti di misurazione, la gravità dei collaboratori nativi che procedono chiusi in sé, la vuota retorica e la scarsa prestanza fisica di alcuni religiosi e ufficiali iberici, recentemente trapiantati.

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7. Chiesa de La Media Legua. Vista dell’altare. Foto Carlos Ancheta.

Dalle piantagioni di caffè ai piedi del Silla, a circa 1.000 metri di quota, la spedizione s’inerpica per la ripida costa inesplorata. Per quasi mille metri si presenta solo un’ampia fascia di erbe, punteggiate dai fiori gialli di Liliacee17 e attraversata da vene di terre porcellanacee, risultato della scomposizione di feldspati eruttivi. Continui mutamenti della temperatura accompagnano le improvvise incursioni di nubi e nebbie. A 1.900 metri di quota una sorprendente foresta di palme reali18 occupa un pauroso burrone. Ancora fasce estensive di savana erbosa e infine un denso bosco arbustivo, consociazione di numerose specie tra cui prevale la Gaultheria odorata19 dalle foglie profumate. Da qui in poi si moltiplicano le sorprese dell’esplorazione botanica. A 2.000 metri di quota, su un rilievo esposto alle correnti, si attesta una vasta macchia dai rami tortuosi e le foglie spesse che si ricopre di meravigliosi fiori purpurei. In quella regione regna un freddo umido perpetuo20. Qui si trovano Oleandri alpini, Thibaudie, Andromede, mirtilli e Befarie dalle foglie resinose, dette oleandri delle Ande e simili al Rhododendron delle Alpi europee. Infine, sulla sommità del-

la montagna, si presenta un piccolo bosco di Befaria ledifolia, pianta dai molti steli di un metro di lunghezza, le foglie ovali lanceolate dal gradevole odore resinoso e gli ampi fiori purpurei. Si accompagnano con Hedyotis a foglie d’erica, Hypericum, Lepidium, Lycopodiacee, diversi muschi, il cosiddetto Incenso delle Corimbifere dalle foglie coriacee e lanose, e il Trixis resinoso dall’odore di Liquidambar. Improvvisamente la temperatura scende a 11°C e il freddo penetra nelle vesti. Poi una densa nebbia avvolge la spedizione tanto che non si vede a un passo. Con un mutamento altrettanto repentino un potente vento dal mare interviene a spazzare via nubi e vapori. L’atmosfera è cristallina, appare il baratro e l’oceano 2.000 metri più sotto, le cime della cordigliera risplendono21. Dall’estesissima relazione humboldtiana sull’esplorazione della cordigliera, di cui qui abbiamo raccolto gli elementi paesistici caratteristici, emerge un’immagine complessiva capace di rappresentare con autenticità il paesaggio di allora e di oggi, in cui la chiesa de La Media Legua è immersa. Si potrebbe dire che il valore dell’edificio risiede specificamente

una chiesa e un paesaggio sulla cordillera del litoral in venezuela

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8. Chiesa de La Media Legua. Interno dell’aula con altare e scorcio dell’esterno. Foto Carlos Ancheta.

nella lettura di questa geografia latino-americana. È questa una «geo-storia quasi-immobile», secondo la memorabile terminologia braudeliana, sia terrestre che umana, fatta cioè di terre, acque e piante come dell’umanità marginale che vi abita.

9. Chiesa de La Media Legua. Scorcio dell’interno. Foto Carlos Ancheta.

Oggi il paesaggio naturale della cordigliera è punteggiato di piccole coltivazioni di sussistenza, fagioli e ortaggi, mentre bananeti e qualche sparso gruppo di vivai agricoli in serra rappresentano le residue produzioni commerciali. L’espansione delle piantagioni di caffè del XIX secolo ha ceduto il passo alla rinaturalizzazione. Oggi più di ieri, le «montagne tristi e selvagge» descritte nel Voyage sopraffanno gli stentati terreni coltivati. La costruzione di una chiesa non diversamente dalle costruzioni rurali si ritaglia uno spazio modesto tra rocce, piante e clima. Oggi come all’epoca delle grandi esplorazioni, le fluttuazioni meteorologiche, sospinte dai venti impetuosi dell’oceano a 2.000 metri di quota alternano nebbie repentine e banchi di nubi che avvolgono le pendici, sole bruciante e violente precipitazioni. Si tratta di un paesaggio deter-

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minato da contrasti estremi, capovolgimenti improvvisi e imprevedibili, in cui la vita e l’architettura sono precarie come l’evoluzione dei fenomeni atmosferici. Von Humboldt rilevava che lo spettacolo della natura si esprime in questi luoghi nella lotta degli elementi tra loro. E ancora, quando il vento oceanico irrompe a spazzare l’atmosfera, improvvisamente, dalla spianata della Media Legua la vista si apre sullo strapiombo e nella distanza appare il Mar dei Caraibi. È questo il paesaggio capace di dare significato alla costruzione della chiesa di San Juan María Vianney a La Media Legua, modesta opera collettiva di una piccola comunità dispersa sotto preponderanti forze naturali e alienanti desolazioni delle economie. Note Ispanizzazione del nome di Jean-Baptiste-Marie Vianney (1786-1859), ex seminarista espulso per incapacità ed ex disertore graziato, che, reintegrato come parroco di Ars-sur-Forman per una serie di circostanze favorevoli, sarà un confessore talmente apprezzato da attirare a sé migliaia di fedeli ed essere infine canonizzato. 2 Intervista dell’autore con la progettista, realizzata tramite piattaforma telematica, Ravenna / Miami, 18 aprile 2022. 3 Fino a pochi anni fa denominato Vargas. 4 C. Devereux, R. Colitt Venezuelans’ Quality of Life Improved in UN Index Under Chavez, «Bloomberg», 7 marzo 2022, disponibile online (www. bloomberg.com/news/articles/2013-03-07/venezuelans-quality-of-life-improved-in-un-index-under-chavez); M.N. Rico, D. Trucco, D. Mancero, coordinatori, Panorama Social de América Latina, UN CEPAL, 2014. 5 La presidenza è retta dal successore chavista Maduro, l’Assemblea Nazionale è guidata dall’oppositore Guaidó. 6 W. Neuman, Things Are Never So Bad That They Can’t Get Worse: Inside the Collapse of Venezuela, Saint Martin’s Press, New York 2022; Venezuela: a Nation in a State, «The Economist», 18 febbraio 2016, disponibile online (www.economist. com/graphic-detail/2016/02/18/venezuela-a-nation-in-a-state); Human Rights Watch: hrw.org/ world-report/2021/country-chapters/Venezuela. 7 E. Silva, Pure Space: Expanding the Public Sphere through Public Space Transformations in Latin America Spontaneous Settlements, Actar/CAF DBLA, Barcelona 2020. 8 Enlace Fundación: lapalomera.org. 1

roberto pasini

Intervista dell’autore con la progettista cit. Secondo Enrique Florescano, Chiesa e Stato, alleati durante il processo di colonizzazione, consolidano reti concorrenziali sul territorio dell’America ispanica che li portano a collidere. Si veda E. Florescano, Etnía, Estado y Nación, Taurus, México D.F. 1996. 11 Secondo Alexander von Humboldt le solitudini del Nuovo Mondo sono talmente estreme da scatenare il terrore. Si veda A. von Humboldt, Voyage aux régions équinoxiales du Nouveau Continent, Schoell, Paris 1814, Tome 1, Livre IV, Chapitre XIII. 12 Intervista dell’autore con la progettista cit. 13 J. Vasconcelo, La raza cósmica. Misión de la raza iberoamericana, Agencia Mundial de Librería, Ciudad de México 1925. 14 R. Bartra, La jaula de la melancolia. Identidad y metamorfosis del mexicano, Grijalbo, Ciudad de México 1987. 15 L’esplorazione conseguirà l’identificazione del corso del Casiquiare, il leggendario fiume che collega il bacino dell’Orinoco a quello del Rio delle Amazzoni, di cui Charles Marie de La Condamine aveva sostenuto l’esistenza all’Académie Français cinquanta anni prima, sulla base dei racconti di missionari gesuiti. 16 A. von Humboldt, Voyage aux régions équinoxiales du Nouveau Continent cit. Nel viaggio, che secondo Franco Farinelli segna un discrimine tra tutti i viaggi che sono stati fatti prima e tutti i viaggi che sono stati fatti dopo, non mancano gli incontri con anguille elettriche, giaguari, indigeni preparatori di curaro e tribù antropofaghe. Nonostante il florido apparato narrativo, l’obiettivo dell’impresa di Von Humboldt resta però la confutazione del mito, della confusione tra nome e cosa (si veda F. Farinelli, Guida al viaggio dei viaggi, in Alexander von Humboldt. Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente, Quodlibet-Humboldt, Macerata-Milano 2014, pp. 7-26) e la costruzione di un sapere olistico che spieghi le interrelazioni dei fenomeni planetari, basato sulla misurazione e la scienza. S.T. Jackson, Introduction: Humboldt, Ecology, and the Cosmos, in A. von Humboldt, A. Bompland, Essay on the geography of plants, The University of Chicago Press, Chicago-London 2009, pp. 1-46; S. Romanowski, Humboldt’s Pictorial Science: An Analysis of the Tableau physique des Andes et pays voisins, in ivi, pp. 157-197. 17 Probabilmente Rubus jamaicensis. 18 Al tempo attribuite al genere Oreodoxa, successivamente riclassificate. 19 Della famiglia delle Ericacee. 20 Von Humboldt associa questo paesaggio ai paramos andini. 21 A. von Humboldt, Voyage aux régions équinoxiales du Nouveau Continent cit. 9

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Sacralità del quotidiano La moschea Bait ur Rouf a Dacca Maura Percoco

Una stretta fessura verticale incide la parete ovest della moschea Bait ur Rouf a Dacca1 per connettere lo spazio unitario per la meditazione e la preghiera con la realtà di tutti i giorni, la strada polverosa e affollata del quartiere suburbano Faydabad, la sua gente e il paesaggio fluido del delta del Gange. Di questa quotidianità modesta e difficile, quella fessura, per via della sua forma, distilla e materializza nello spazio d’ombra interno l’essenza: una sottile lama di luce che muta nel tempo e per questa sua impermanenza si propone a chi la osserva come dono, stupore per la verità di un raggio di sole, rivelazione della bellezza, manifestazione dell’eternità, vertigine sull’infinito. Pensata per suggerire ai fedeli la direzione della qibla, quest’effimera lama di luce realizza l’impercettibile soglia che mette in relazione il quotidiano con il trascendente. Nella elementarità del gesto che la genera, incidere in profondità un muro in mattoni per farvi filtrare la luce, sta la chiave del senso del sacro che la moschea Bait ur Rouf interpreta: rivelare lo straordinario che si nasconde nell’ordinarietà delle cose. Una finalità ambiziosa, che ha la rilevanza di una missione e che, tuttavia, la progettista Marina Tabassum appare affrontare con la modestia e l’autenticità di un’azione istintiva, quasi giocosa. Di certo, perché motivata dalla responsabilità etica che indirizza e guida un impegno professionale vissuto come una vocazione: «So che se voglio fare qualcosa in architettura – afferma – il Bangladesh è dove ciò dovrà accadere»2. Ancor più, perché ispirata da una spiccata sensibilità nel cogliere dalla realtà l’essenza delle cose e mostrarla con umiltà, senza ridondanza, attraverso opere e costruzioni che parlano del valore autentico della civiltà del

Bangladesh e traggono dallo «spregiudicato raziocinio e dallo stesso ragionamento funzionale» proprio di oggetti e costruzioni rurali il «motivo di lirica espressione artistica»3. Ne aveva già dato prova alla Biennale di Architettura del 2018, con l’allestimento4 di oggetti e strumenti per le attività collettive all’aperto; vasi e ninnoli di terracotta, attrezzi da lavoro, suppellettili di legno, plasmati dal tempo e dall’uso in forme rigorose, capaci di descrivere la vita comunitaria nei cortili dei villaggi bengalesi, di documentarne la tradizione abitativa vernacolare e la saggezza artigianale, mostrandone l’essenza. Con questi oggetti della quotidianità, la moschea Bait ur Rouf condivide le qualità di ciò in cui è istintivo riconoscersi: semplicità e realismo. È evidente fin dalla configurazione elementare dell’impianto planimetrico, strutturato sulla figura geometrica pura del quadrato. Tale «preforma», come Louis Kahn la definisce, rappresenta non solo lo strumento di ordine, controllo logico e dimensionale per distribuire e delimitare gli spazi, ma soprattutto il mezzo espressivo per veicolare il carattere identitario e la cultura di un territorio. La sua selezione, infatti, è l’esito – racconta la progettista5 – di un processo di «radicamento», che si attua per conoscenza e astrazione, ed è fondato su un assunto innegabile: «la quintessenza della tradizione non sta nell’adorare la cenere, ma nel conservare il fuoco»6. Un fuoco che è essenza, ritorno al senso originario delle cose – «Cos’è una moschea?»7 è l’incipit creativo – e aderenza ad una specifica realtà. Tale ricerca delle radici, applicata all’architettura tradizionale locale, identifica nella forma del quadrato, comune

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1. Marina Tabassum Architects, Moschea Bait ur Rouf, Faydabad Uttara, Dacca, Bangladesh, 2012. Il frammentato tessuto semi-urbano nel quale la moschea si inserisce. Planimetria generale. CourtesyAga Khan Trust for Culture.

2. Un basso podio esteso sull’intero lotto di progetto preserva gli ambienti della moschea Bait ur Rouf dalle cicliche inondazioni che interessano il territorio del Bangladesh. Pianta del piano terra. Courtesy Aga Khan Trust for Culture.

maura percoco

sia alla capanna rurale sia ai luoghi di culto del periodo del Sultanato, lo schema morfologico dello spazio per la congregazione, la figura architettonica primitiva da «liberare dalla cenere» dei simboli convenzionali8 e far riaffiorare dall’oblio della memoria collettiva attualizzandola nel progetto contemporaneo, così da riscattare l’anima autentica del popolo che abita il territorio del Bangladesh. Al di là di ogni preoccupazione dogmatica, un’implicazione concreta interviene nella composizione a svincolare il concept ideativo da un eccesso di astrazione. Una bassa piattaforma (bhita) su cui sollevare dal piano di campagna la «costruzione primaria» a base quadrata per proteggerla delle inondazioni – come già Kahn aveva osservato nelle costruzioni di Dacca e introdotto nel suo Capital Complex9 – integra e completa il modello proposto, collegandolo alla geografia del luogo e alla sua natura alluvionale, in linea con una visione simbiotica tra paesaggio e ambiente edificato innata nell’architettura rurale10. Nel tradurre in progetto ciò che è concepito come il moderno prototipo di moschea «bengalese», la conformazione spaziale si afferma come elemento centrale. Questa è risolta con rigore geometrico e razionalità attraverso la calibrata sovrapposizione in pianta di due qua-

3. L’impianto planimetrico della moschea Bait ur Rouf è basato sulla combinazione di due quadrati inseriti l’uno nell’altro. Pianta della copertura. Courtesy Aga Khan Trust for Culture.

sacralità del quotidiano

drati, rispettivamente di 23 e 16,75 metri di lato, combinati l’uno dentro l’altro e sviluppati in altezza fino alla quota di circa 8,10 metri. Impostati entrambi su un basso basamento, ciascuno di essi rappresenta la matrice elementare delle porzioni, servente e servita, di cui il progetto si compone. Differenti per natura costruttiva, ognuno di essi evoca un distinto atto costitutivo dello spazio: quello primitivo dell’insediarsi in un luogo e quello originario dell’edificare un rifugio. Il quadrato maggiore, in alzato, assume il carattere del recinto, è l’involucro murario di mattoni, denso e profondo che circoscrive un interno, lo distingue da ciò che è fuori e racchiude nel suo spessore i relativi ambiti di accesso e supporto. Il quadrato minore, all’opposto, reinterpreta l’archetipo del padiglione, è una scatola di cemento aperta alla base, ritagliata sugli spigoli e sollevata su otto pilastri – distribuiti simmetricamente in numero di due per ogni lato ad una distanza reciproca di 10,75 metri e collegati da quattro travi di 16,75 metri11 – che protegge lo spazio unitario centrale destinato alle attività comunitarie e alla preghiera. In termini simbolici, il recinto è ancorato alla terra, il padiglione è proteso verso il cielo; insieme paiono rappresentare la dimensione esistenziale. Una logica funzionale rigorosa, motivata da ragioni contestuali, regola la disposizione reciproca dei quadrati di base secondo un composto dualismo che suggerisce ancora il binomio tra terreno e divino. Se quello più esterno risponde alla necessità pratica di portare ordine nel caos del frammentato paesaggio semiurbano all’intorno e segue l’ortogonalità del perimetro del lotto d’angolo allineandosi in direzione nordovest sud-est; quello più interno asseconda l’esigenza dogmatica di orientarsi verso la città santa de La Mecca e ruota in senso orario il suo asse di appena 13°, per esigenze funzionali, inoltre, trasla verso nord-ovest, così da assegnare allo spazio interstiziale una maggiore profondità in corrispondenza dei fronti sud ed est, per gli ambienti di filtro e accesso. A rilegare la rotazione tra le due forme principali s’interpone un’altra figura elementare, una circonferenza di 20,75 metri di diametro, centrata sul quadrato minore, la cui traccia affiora nella composizione in negativo. Tale elemento di mediazione, di fatto, costruisce spazio per sottrazione, ovvero scava nella densità del recinto quattro settori circolari aperti al cielo, uno per ogni lato dell’aula centrale. A completare la «corona di luminosità e aria»

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4. Moschea Bait ur Rouf. Scorcio del fronte d’ingresso rivolto a sud-est. © Aga Khan Trust for Culture / Rajesh Vora.

che avvolge la sala per la congregazione, anche gli spigoli aperti del padiglione si manifestano per assenza, incidendo nel recinto quattro prismi di vuoto che, simili a periscopi, emergono oltre la copertura fino all’altezza di 9,50 m. Isolata dalla luce zenitale, la sagoma del padiglione rivela così la sua natura assoluta di «stanza», nell’accezione kahniana, «inizio dell’architettura e luogo della mente»12 in cui è istintivo entrare in comunione con lo spirito sacro del vivere comunitario, della natura e del divino. Nella moschea Bait ur Rouf, di fatto, le dimensioni trascendente e immanente coesistono per rispecchiare simbolicamente la forma religiosa di vita degli islamici, per recuperare la sua natura originaria di spazio collettivo in cui ogni tipo di attività, amministrativa, giuridica, didattica, ricreativa, era solita svolgersi; non ultimo, per una logica pragmatica di aderenza al contesto. «Ho pensato – racconta la progettista – che in una zona priva di servizi, usare un edificio per il culto solo per la preghiera non fosse la cosa giusta da fare. Ho deciso che esso avrebbe dovuto favorire anche altri tipi di usi»13. Una scelta che, in un quartiere densamente popolato fatto di case sparse e nessun servizio come Faydabad, ha il senso di voler contribuire, attraverso l’architettura, a migliorare le condizioni di vita con azioni che favoriscano la formazione e la crescita di uno spirito di comunità, sviluppino i sentimenti di appropriazione, appartenenza e autodeterminazione, accrescano le «ispirazioni» e valorizzino la memoria di una collettività. È quanto la moschea di Tabassum persegue a differenti livelli. Per mezzo degli elementi del progetto, ad esempio in corrispondenza del basamento, la cui maggiore estensione rispetto

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al perimetro dell’edificio14 e raffinata modellazione in un sistema articolato di scale, pedane e rialzi, predispone spazi aperti che offrono l’opportunità di sedersi, riposare, dialogare, giocare, intessere relazioni, promuovendo sentimenti di condivisione e solidarietà. Ancora, attraverso il riwaq, tradizionale ambito di soglia tra interno ed esterno e luogo pubblico di socialità al riparo dal sole, oppure tramite un ambiente per promuovere l’istruzione, una piccola biblioteca ricavata al primo livello, nel lato nord-est del vo-

5-6. Moschea Bait ur Rouf. L’edificio di terracotta, semplice e austero, rispecchia la natura del suo contesto. © Aga Khan Trust for Culture / Rajesh Vora.

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lume-recinto; non ultimo, per mezzo dell’aula centrale, la cui qualità di spazio sociale, adatto tanto per la preghiera e il raccoglimento, le celebrazioni e i riti religiosi, quanto per l’incontro e le feste, la formazione, il divertimento e lo svago, interpreta al meglio lo spirito comunitario del vivere e ne celebra la sacralità. Tuttavia, è nella materialità della sua costruzione, sviluppata grazie alla partecipazione attiva della gente, che quest’opera assume la dimensione corale, il valore di un’architettura a più voci, in cui s’intrecciano e sovrappongono le tante e diverse storie individuali, alcune in primo piano, altre sullo sfondo, ma non minori, confluite da più parti, come i rivoli di un fiume, nel flusso unitario e continuo che restituisce la storia e l’identità della comunità di Faydabad. Nell’organizzare e tessere insieme le fila di questa «narrazione costruita», Marina Tabassum è coinvolta in prima persona a raccontare la sfida personale di progettista bengalese impegnata nell’ambito di un’iniziativa professionale speciale, intersecata con le vicende private della sua famiglia, nella quale si distingue la figura della nonna Sufia Khatun nel ruolo di committente e promotrice del progetto, a seguito della donazione votiva alla comunità di appartenenza del lotto di terreno su cui la moschea sorge. Insieme con questa, la progettista – nel ruolo di regista-capocostruttore, secondo il significato etimologico della parola architetto – racconta altre storie, le tante imprese quotidiane di coloro che hanno contribuito a realizzarla, ciascuno a suo modo, mettendo a disposizione quanto poteva, un contributo economico oppure la propria manualità e competenza. Ogni parte della costruzione diviene così una «pagina» della storia di Faydabad, narra della sapienza artigianale locale, della volontà e capacità di autodeterminazione, delle aspirazioni e del sentimento identitario dei suoi abitanti. In tal senso, le pareti di mattoni celebrano Shariful Islam, originario di Chapai Nawabganj, e la sua professionalità di muratore-artigiano grazie alla quale è stato possibile realizzare, con il solo impiego di terracotta e calce, senza ricorrere a costosi elementi di rinforzo, non solo ciò che è ordinario, la muratura perimetrale, ma anche ciò che è straordinario, ovvero i diaframmi porosi, spessi poco più di 25 cm, che caratterizzano ciascuno degli spigoli dell’involucro

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7. Moschea Bait ur Rouf. Il basamento-piattaforma offre agli abitanti del quartiere un ambito aperto di incontro e socialità. © Aga Khan Trust for Culture / Rajesh Vora.

8. Moschea Bait ur Rouf. Il porticato d’ingresso reinterpreta con linee essenziali il riwaq tradizionale dell’architettura islamica. La predisposizione di arredi fissi ne favorisce l’uso come spazio urbano di aggregazione. © Aga Khan Trust for Culture / Rajesh Vora.

9. Moschea Bait ur Rouf. Lo spazio di luce e aria in corrispondenza della parete ovest della sala per la congregazione. © Aga Khan Trust for Culture / Rajesh Vora.

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10-11. Moschea Bait ur Rouf. Forme di luce «decorano» la sala per l’incontro e la preghiera e favoriscono una dimensione comunitaria e spirituale. © Aga Khan Trust for Culture / Rajesh Vora.

strutturale, muri permeabili al vento, cosicché l’edificio possa «respirare»15 e l’ambiente interno risultare confortevole. In modo analogo, le pavimentazioni onorano Mohammad Esharul, artigiano originario di Kushtia, specializzato nella tecnica tradizionale «a terrazzo», e il suo talento creativo capace di tramutare ciò che per altri è scarto in risorsa; ad esempio, trasformando la polvere raccolta nei laboratori di lavorazione e taglio della pietra nella superficie monolitica e lucente che impreziosisce con i suoi riflessi la sala centrale, oppure convertendo il materiale residuo della lavorazione del cemento armato per la costruzione della sala nel lastricato variegato che identifica gli ambienti della biblioteca. Di certo, tutto ciò non sarebbe potuto avvenire senza la capacità della progettista di valorizzare il lavoro artigianale, attualizzando i sistemi costruttivi tradizionali, e di celebrare i materiali poveri e disadorni combinandoli con la materia che aggiunge loro splendore, la luce del sole. «Non avevamo i soldi per decorare l’edificio e abbiamo pensato di usare […] un materiale che ci è stato donato»16. C’è un profondo senso di gratitudine verso Dio, la Natura e il Creato nel modo in cui Tabassum plasma i raggi luminosi nell’introdurli nello spazio d’ombra della moschea. Lo dimostra nei differenti modi con cui lavora sulla materia e sul vuoto per costruire un’esperienza di luce che muta nel tempo, con il trascorrere delle ore del giorno e delle stagioni. Ora agendo sulla tessitura dei mattoni, per realizzare i diaframmi porosi che contraddistinguono i quattro spigoli del recinto e caratterizzare i relativi ambiti di accesso con trame cangianti di pixel lucenti, diverse in ragione dell’esposizione; ora lavorando sulla conformazione delle pareti verticali che delimitano le quattro corti affuso-

late che circondano la sala interna, per disegnare sulla loro superficie concava insolite sagome di luce; ora intervenendo sull’articolazione della copertura, per distinguere con una maggiore altezza gli spigoli dell’aula centrale e definire il suo contorno evanescente con differenti vibrazioni luminose; ora crivellando il solaio al di sopra dello spazio della congregazione con una miriade di piccoli fori, attraverso i quali proiettare sul pavimento una costellazione di puntini luminosi che ne amplifica l’uniformità e trasmette i sentimenti di uguaglianza e fraternità. Un lavoro progettuale attento, il cui valore sta in piccoli scarti, imperfezioni e sottigliezze; in sintesi, un lavoro che si riassume in azioni semplici come incidere in profondità la materia opaca per generare quella sottile lama di luce che taglia la parete ovest della moschea Bait ur Rouf e rappresenta la soglia della materialità delle cose, il limite sottile tra finito e infinito, oltre il quale la materia svanisce e si configura lo spazio architettonico come condizione emotiva, dimensione ineffabile che rivela la ricchezza, le gioie e la sacralità di una realtà quotidiana fatta «del poco o quasi nulla». Note È significativo evidenziare che nel 2016 la moschea ha conseguito l’Aga Khan Award for Architecture, prestigioso riconoscimento tanto per la natura del premio, rivolto «non solo agli architetti, ma anche a costruttori, committenti, mastri artigiani, ingegneri che hanno svolto un ruolo importante nella realizzazione di un progetto», quanto per la sua finalità, intesa a «identificare e incoraggiare i progetti che rispondono con successo alle esigenze e alle aspirazioni delle comunità in cui i musulmani hanno una presenza significativa», disponibile online (www. akdn.org/press-release/celebration-bahrain-a-

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12. Moschea Bait ur Rouf. La porosità delle pareti in mattoni consente all’edificio di «respirare». © Aga Khan Trust for Culture / Rajesh Vora.

13. Moschea Bait ur Rouf. Vista interna di uno dei varchi di accesso alla sala centrale. © Aga Khan Trust for Culture / Rajesh Vora.

ga-khan-award-laureate-%E2%80%9Crevitalisation-muharraq%E2%80%9D). «I Know that if I want to do something of architecture, [Bangladesh] is where it should be», M. Tabassum, The Kenneth Frampton Endowed lecture series, Columbia GSAPP, 2019. G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, Quaderni della Triennale, Hoepli, Milano 1936, p. 71. Marina Tabassum Architects, Wisdom of the Land, 17. Biennale di Architettura, Arsenale, Venezia, 2018. M. Tabassum, Aga Khan Program Lecture Series, Harvard Graduate School of Design, 2017. Così Tabassum si esprime, forse citando Gustav Mahler (1860-1911), compositore e direttore d’orchestra austriaco, profondo innovatore del linguaggio musicale. Ibid. M. Tabassum, The Kenneth Frampton Endowed lecture series cit. Né cupole, né minareti, né pannelli decorativi a motivi geometrici, floreali o calligrafici: le convenzionali forme dell’architettura delle moschee non sono presenti in questo edificio. «Dato che l’area si trova nella zona del delta, le costruzioni vengono rialzate su terra di riporto per proteggerle dalle inondazioni. Il materiale per i rialzi proviene dallo scavo di laghi e piscine», L. Kahn, Capital

Complex, in C. Norberg-Schulz, Louis I. Kahn idea e immagine, Officina Edizioni, Roma 1980, p. 104. 10 Cfr. K.K. Ashraf, L’ascesa del Bangladesh: un’architettura per il Delta, «Rassegna di Architettura e Urbanistica», 165 (Inventiva e pertinenza. Lezioni dal Sud del mondo, a cura di M. Argenti e F. Sarno), pp. 55-63. 11 La struttura in cemento armato del padiglione è perfezionata da due travi estradossate in copertura della lunghezza di 15 m, disposte secondo la giacitura delle diagonali, che collegano gli spigoli aperti del quadrato di base. 12 L. Kahn, La stanza. La strada e il patto umano, in C. Norberg-Schulz, Louis I. Kahn idea e immagine cit., p. 130. 13 M. Tabassum, The Kenneth Frampton Endowed lecture series cit.; trad. it. dell’autore. 14 A eccezione del lato est in corrispondenza del quale l’edificio si colloca sul perimetro del lotto. 15 «I miei edifici hanno bisogno di respirare» afferma la progettista motivando con un’analogia ad un organismo vivente il principio di simbiosi con l’ambiente naturale che qualifica le sue architetture e ne rende ospitali gli spazi nonostante il clima locale caldo umido; trad. it. dell’autore. 16 M. Tabassum, The Kenneth Frampton Endowed lecture series cit.; trad. it. dell’autore.

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Sulla soglia dell’altrove La Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque Francesca Sarno

Nulla è più spirituale di un luogo dove si celebra e si prega Dio, quale che sia la religione o il nome dell’edificio destinato al culto. E nulla è più materialmente terreno di un camposanto, dove si accolgono i corpi destinati a divenire polvere. La vicinanza fisica di una moschea – o di una chiesa, o di una sinagoga – ad un cimitero è consuetudine diffusa nelle tre religioni monoteiste, per la continuità tra la dimensione immanente e quella trascendente, fra la fede in Dio in questa vita e ciò che avviene dopo, e che ad essa è legato. La presenza di una moschea accanto a un cimitero rende allora immediatamente percepibile l’idea della linearità del passaggio dalla vita terrena a quella spirituale, esorcizza il timore della fine di tutto, in qualche misura si avvale di uno strumento spaziale per raffigurare, attraverso la materia, la fede nell’eternità immateriale. A Dhaka, la Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque, adiacente al cimitero di Azimpur, realizza sotto il profilo simbolico e spaziale questa continuità. È un progetto nel quale l’architettura crea una soglia di comunicazione tra la dimensione temporanea e quella eterna. La prima è costituita dalla caotica arteria commerciale di Pilkhana road, animata da piccole botteghe e da venditori ambulanti, congestionata dal traffico delle automobili e dei risciò, non diversa dalle tante vie che si snodano nella città vecchia, e non solo, della capitale bengalese. La seconda è rappresentata dal cimitero del quartiere di Lalbagh, che costeggia la strada, circoscritto da edifici popolari privi di pregio e dallo stile eterogeneo, limite nord ed ovest della moschea stessa. Progettata dall’architetto Rafiq Azam1 e completata nel 2018, la masjid2 si mostra ri-

spettosa della tradizione (bengalese, islamica), senza tuttavia esserne subalterna: appare omaggiare il simbolismo senza però sottostarvi. È luogo di culto, ma dedicato alla memoria laica, al patriota Mohammad Hanif, eletto nel 1994 primo sindaco della Dhaka City Corporation, figura di rilievo nella lotta per l’indipendenza del Paese prima e per il ripristino della democrazia poi. Ma soprattutto, la moschea non ricerca l’approssimazione alla religiosità islamica attraverso i consueti impianti architettonici, bensì con differenti scelte compositive che insieme rispondono a esigenze rituali e di progetto. Lo si deduce immediatamente dalla volontà di non ricalcare i più diffusi schemi della tradizione (moschea a chiosco, a cortile, a madrasa)3, optando invece per una disposizione a tre corpi principali distinti4, due dei quali connessi da un ponte di vetro semiaperto sostenuto da travi in acciaio, che sorvola lo sahn. Tale corte, propria dell’architettura delle moschee, qui non è racchiusa da un porticato, ma è posta in stretta relazione con il cimitero e con la strada (sull’asse nord-sud), delimitata ad est ed ovest dai volumi destinati propriamente alla preghiera, distinti per donne e uomini. Dei 16.500 metri quadrati dell’area, lo sahn ne occupa poco meno di quattrocento. L’estensione dimensionale è pari al suo valore funzionale e simbolico: capace di accogliere circa cinquecento fedeli, è espansione dello spazio per la preghiera del venerdì (jum῾a), è luogo di festa al termine del ramadàn (īd alfiṭr) o comunitario durante la settimana. «È spazio di soglia ispirato alla moschea Azam Shah costruita dai Mughal nel forte di Lalbagh»5, sorto nel XVII sec. e poco distante

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1. Rafiq Azam - Shatotto Architecture for green living, Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque, Dhaka, 2018. Planimetria del piano terra: 1. sahn; 2. sala di preghiera maschile; 3. corpo scala; 4. spazio per l’abluzione femminile; 5. spazio per l’abluzione maschile; 6. servizi igienici maschili; 7. minareto con ascensore; 8. fontana; 9. volume tecnico. Courtesy © Shatotto.

dall’area di progetto. Dell’antico impianto Rafiq Azam – oltre allo sahn risolto in un’ampia terrazza contigua alla sala principale – appare riprendere l’assialità della successione degli spazi, che rimarcano il tema della vita spirituale, terrena e della morte: la masjid a ovest, la residenza del governatore (Diwan-iAam) a est e l’imponente tomba di Bibi Pari6 nel mezzo. Ma lo sahn della moschea Mayor Mohammad Hanif è soprattutto limbo fisico tra terra e cielo. Qui pochi essenziali elementi architettonici, proprio in virtù della loro semplicità, producono effetti intensamente evocativi: attraversato il disadorno portale in cemento armato a vista, percorsi i pochi gradini che innalzano la corte rispetto al piano stradale, ci si avvia a una progressiva separazione dalla vita terrena, un distacco per il quale «nel Giorno del Giudizio ogni uomo dovrà passare su di un ponte gettato sull’Inferno»7. La scelta di separare i corpi di fabbrica, connettendoli attraverso il ponte, appare allora necessaria per accentuare l’idea della smaterializzazione del corpo che si fa spirito, per dare una cornice spaziale all’assottigliarsi della materia, evocata dalla struttura leggera del passaggio aereo8, aperto verso il cielo e il cimitero. «Nessuno di voi mancherà di passarvi: ciò è fermamente stabilito dal tuo Signore»9 rammenta una scritta sulle vetrate rivolte verso la città. Oltre il aṣ-ṣirāṭ, il ponte «sottile come una lama di coltello», si raggiunge una

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grande fontana (attualmente in costruzione), a ricordare il «“bacino del Profeta”, le cui acque mirabili, provenienti dal fiume al-Kawthar del paradiso, gustate una volta tolgono la sete per sempre. Indi avrà luogo l’ingresso nel paradiso»10. Simbolo di purificazione e rinascita sin dall’antichità, l’acqua è l’elemento costantemente presente negli spazi di culto islamici, cui è affidata l’abluzione rituale, mediante vasche o semplici rubinetti. Nella moschea Mayor Mohammad Hanif gli ambiti destinati al lavacro sono diversi, riservati in quantità maggiore agli uomini. Una prima vasca, ampia ma dal carattere intimo, si incontra nel corpo di fabbrica più interno rispetto alla strada, disposto lungo l’asse est-ovest; una seconda, più piccola, è posizionata invece tra questo e il volume tecnico. Gli ambiti che accolgono tali vasche offrono anche la possibilità di utilizzare rubinetti, per consentire, spiega Azam11, di scegliere tra modalità di abluzioni più o meno tradizionali. Ma l’acqua in Bangladesh, e in particolare a Dhaka, è soprattutto elemento primario dell’architettura, è protagonista del paesaggio antropizzato e naturale, come ha più volte sottolineato Kazi Khaleed Ashraf12. L’idea di un’architettura del delta è oramai consolidata e condivisa anche da Rafiq Azam, quando afferma che «la vita umana qui esiste in un sottile equilibrio tra acqua, luce e natura, esso si perde quando c’è separazione tra questi elementi fondamentali. […] Quindi è importante che la nostra architettura ristabilisca questo equilibrio»13. Gli elementi cardine della moschea assurgono allora al ruolo non solo di sedi del credo islamico, ma di capisaldi dell’architettura bengalese, da perseguire nel progetto secondo un processo che coniuga contemporaneità e memorie del passato. La moschea di Dhaka, anche da questi punti di vista, offre numerosi spunti che fondono l’idea laica dell’architettura con la simbologia sacra. Il secondo elemento dell’equilibrio vitale bengalese menzionato da Azam è la luce, materia della composizione architettonica, filtrata nell’oscurità della massa scavata – secondo la poetica immagine di Peter Zumthor14 –, riflessa sui materiali, combinata sulle superfici, espressione di un’entità superiore al sorgere del sole. La «luce sulle cose» della moschea è quiete e misura quando a filtrarla sono le diverse combinazioni dei muri15: ora è alternata al

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2-3. Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque. Vista della moschea dalla caotica Pilkhana road e dal cimitero di Azimpur. Foto Mike Kelley, © Shatotto.

4. Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque. L’assirāt, il ponte in vetro realizzato in travi d’acciaio sostenute da pilastri parzialmente sagomati, rivestiti in mattoni e per una porzione lasciati in cemento armato a faccia vista. Foto Mike Kelley, © Shatotto.

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ritmo delle scansioni verticali, ora è proiettata dalle più ampie aperture in sommità, ora è geometricamente disegnata dagli schermi traforati in mattoni accuratamente orientati, che richiamano il reticolo della mashrabiyya16. Queste protezioni definiscono i gradi di intimità spaziale necessari per il luogo di culto; esse difendono il fedele sia da un’eccessiva luminosità sia dal caos urbano, mentre si aprono in ampi squarci verso il cimitero e la corte interna, al confine dei quali i setti murari sono intramezzati da vetrate a tutta altezza. Alla suprema luce anelano i fedeli di Oriente e Occidente, quando essa da fenomeno fisico diviene «archetipo simbolico, dotato di uno sterminato spettro di iridescenze metaforiche, soprattutto di qualità religiosa. La connessione primaria è di natura cosmologica: l’ingresso della luce segna l’incipit assoluto del creato nel suo essere ed esistere»17. Ma la luce – ricorda ancora Ravasi – è cardine teologico in quanto «radice della comune esperienza esistenziale umana»18: veniamo alla luce, viviamo nella luce, siamo guidati nell’oscurità dalla luce. Più luce richiede allora il muro della qibla, la direzione verso cui si ha l’obbligo di rivolgere la preghiera rituale, orientato verso alKa‛ba, il piccolo edificio di forma cubica inserito al centro del recinto sacro della Mecca. Nella moschea di Dhaka la parete della qibla, ininterrotta per l’altezza di due livelli così da essere percepibile nella sua continuità da entrambe le sale di preghiera maschili (poste l’una sull’altra), è illuminata da una luce zenitale radente che penetra dal lucernario collocato in sommità. La metafora sacra e trascendente dell’illuminazione spirituale – «Allah guida verso la Sua luce chi vuole Lui e propone agli uomini metafore»19 – si risolve nell’unione della massa fisica (il muro) con la luce naturale attraverso il vetro, trasparente nel lucernario, smerigliato nel pavimento. Sul piano di calpestio le lastre di vetro corrono parallelamente a quelle in cima, lungo l’intera parete in mattoni, interrotte solo dal rivestimento in legno che accoglie il minbar20, il pulpito dal quale l’imam guida l’orazione del venerdì. La scelta di non realizzare un miḥrāb21, la nicchia per la preghiera destinata all’imam22, ma di riservargli l’intero spazio caratterizzato dal vetro smerigliato, è dettata dalla volontà – spiega sempre il progettista – di rappresentare simbolicamente l’importanza del capo spirituale.

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5. Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque. Lo sahn interpretato come soglia relazionale tra temporale e spirituale. Foto Mike Kelley, © Shatotto.

6. Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque. Uno degli spazi per le abluzioni maschili. Foto Mike Kelley, © Shatotto.

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7. Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque. Il muro della qibla visto dalla sala al piano di calpestio e illuminato dal lucernario posto in copertura. Foto Mike Kelley, © Shatotto.

8. Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque. La sala ipostila del primo livello caratterizzata dalla selva di pilastri a fungo. Foto Mike Kelley, © Shatotto.

9. Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque. Parte del prospetto interno del volume destinato in prevalenza alle donne. L’immagine della moschea è affidata al mattone, a volte posto in opera in maniera continua, a volte alternatamente inclinato con funzione di mashrabiyya per consentire all’aria e alla luce di filtrare. Foto Mike Kelley, © Shatotto.

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Al di fuori degli orari di preghiera, tale ambito diviene un luogo di studio e di riflessione, come testimoniano le panche e gli scaffali posti alle estremità della parete. Nelle medesime sale, al calar del sole, l’illuminazione naturale è sostituita dal bagliore prodotto dai LED delle «linee del Qatar» in onice traslucida, che corrono lungo la pavimentazione, nonché da una luce soffusa e discreta emanata dalle lampade ad anello, poste alla sommità del fusto dei pilastri a fungo, realizzati in calcestruzzo gettato in opera in casseri d’acciaio. In tal modo essi assolvono alla funzione di illuminare, oltre che di sostenere, i due livelli destinati alla preghiera degli uomini. Richiamano altresì, nel compito strutturale, la lunga tradizione moderna (europea e americana) che è ricorsa a colonnati a fungo nelle sale ipostile. Come per la luce, anche la selva di pilastri rimanda simultaneamente al simbolismo religioso e alla triade cui è affidato l’equilibrio dell’esistenza in Bangladesh: la natura è infatti il terzo elemento menzionato da Rafiq Azam. Le limitazioni figurative dell’islam hanno comportato il primato decorativo di motivi vegetali, geometrizzanti, scritturali23. L’arbor vitae, soggetto diffuso nell’arte persiana e islamica – si pensi ai tappeti destinati alla preghiera –, torna come elemento strutturale e ornamentale insieme nei complessi di culto. Possono essere d’esempio la moschea di Roma di Paolo Portoghesi (1994), la Cambridge Central Mosque di Marks Barfield Architects (2019) o ancora, sempre in Bangladesh, la Red Mosque di Kashef Chowdhury (2017). Ma l’evidente stilizzazione arborea in tali edifici è solo suggerita nelle ampie sale della masjid dello studio Shatotto. Alle donne, generatrici di vita, è data invece la possibilità di vedere, attraverso il muro traforato in mattoni, che non raggiunge la sommità né le pareti dello spazio di preghiera, l’albero posizionato al centro del piccolo giardino, rivolto verso la strada e posto in continuità con la sala. Un foro circolare ritagliato nel solaio consente all’arbusto di crescere, ma soprattutto rimanda alla matrice architettonica kahniana del Bangladesh. L’immagine riporta immediatamente al Capitol Complex di Dhaka, anche per quella sorta di modernismo mistico, introdotto da Louis Kahn, che avvolge la moschea di Azam. Le forme geometriche, la chiarezza della disposizione funzionale, la scelta dei materia-

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10. Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque. Lo spazio di preghiera femminile al primo livello, sul fondo il giardino. Foto Mike Kelley, © Shatotto.

li trovano però anche recenti riferimenti. Al mattone, proprio della tradizione bengalese e delle moschee storiche della regione, è ricorsa Marina Tabassum per la masjid Bait ur Rouf (realizzata sempre a Dhaka nel 2012), risolvendo però nell’incastro planimetrico di due quadrati l’intero impianto. Diverso, come si è visto, è il complesso della moschea Mayor Mohammad Hanif, completato dal minareto adiacente all’ingresso e alla corte centrale, direttamente collegato attraverso dei pianerottoli alle sale di preghiera maschili e alla copertura. L’alta torre di circa venti metri, dalla quale il muezzin invita i fedeli alla preghiera24, ha assunto però un ruolo funzionale senza rinunciare all’atto esortativo. Il sistema di altoparlanti gestiti dal basso consente infatti di sfruttare lo sviluppo verticale, favorendo – anche grazie alla regolarità della pianta – l’inserimento di un ascensore. Esso completa il sistema dei due collegamenti verticali adiacenti e concentrati nei corpi di fabbrica posti ad est, uno dei quali a esclusivo uso delle donne.

Gli ulteriori spazi che la moschea accoglie sono un piccolo appartamento per l’imam, per il muezzin e per chi gestisce il luogo di culto. Il progetto, privo di ostentazioni, è dominato dalla sobrietà e dalla dignità trasmessa dal mattone rosso che caratterizza l’intero impianto. La scelta rimarca la filosofia dello studio, che ricerca nella sostenibilità costruttiva, nel ricorso a materiali locali e della tradizione, la chiave per ricostituire un legame tra cultura urbana e rurale e al contempo per attestare quella bengalese in uno scenario architettonico globale25. Questo approccio duale è costantemente evocato nel progetto della moschea, dove ad avvicendarsi sono la cultura architettonica della contemporaneità e il simbolismo del rituale islamico. L’ultimo, ancora non menzionato, è quello della preghiera. Tutti gli ambienti ad essa destinati, sia interni sia esterni, presentano una pavimentazione in ceramica di colore grigio, intervallata dai

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già citati ricorsi chiari. Il disegno minimale indica dove posizionarsi durante l’orazione: esso ricalca la dimensione del tappeto, o stuoia da preghiera, individuato come luogo per il rito. Il ritmo alternato della pavimentazione richiama altresì geometricamente le traiettorie del cimitero. È possibile qui rileggere la pratica più diffusa tra i musulmani, cui è consentito di rivolgere le cinque ṣalāt obbligatorie giornaliere in qualsiasi luogo, a suggello della semplicità cerimoniale di questa religione. Tale consuetudine affonda le sue radici negli atti del Profeta, che pronunciava le devozioni nella muṣallā26 di Medina o in uno spazio delimitato all’aperto o, durante i suoi viaggi, al cospetto di una lancia conficcata nel terreno ad indicare la qibla. Nella moschea di Dhaka, il richiamo alla memoria di questi gesti originari del culto islamico ci rammenta il senso intimo della fede che, del resto e a prescindere dal credo, non necessita di un ambiente precostituito per essere vissuta e professata. Note Rafiq Azam guida dal 1995 Shatotto Architecture for green living, studio di progettazione con sede a Dhaka. 2 Termine arabo da cui deriva quello di moschea: «un luogo dove ci si prostra (davanti a Dio)» in O. Grabar, Arte islamica: formazione di una civiltà, Electa, Milano 1989, p. 119. I riferimenti all’architettura, all’arte e alla cultura islamica presenti nel testo sono stati approfonditi anche in J.D. Hoag, Architettura islamica, Electa, Milano 1978; B.M. Alfieri, Architettura islamica del subcontinente indiano: India Pakistan e Bangladesh, Arte e Moneta, Lugano 1994. 3 Cfr. J.D. Hoag, Architettura islamica cit. 4 Il volume principale (a ovest) ha una dimensione di 20 × 28 m e raggiunge un’altezza di 11 m. Dei due minori sul margine est del lotto, disposti perpendicolarmente tra loro, il primo misura 7,3 × 20 m e raggiunge la medesima altezza di quello principale, mentre il secondo è di poco più ampio del primo e raggiunge un’altezza di 14 m. 1

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Shatotto, descrizione della moschea. Al momento della morte la giovane era promessa sposa del principe Azam, futuro imperatore Moghul, da cui il nome della moschea. 7 Corano, Sūra XIX (Maryam), nota al v. 71, disponibile online (ilcorano.net/il-sacro-corano/19-sura-maryam/#_ftn30). 8 Il ponte è lungo 14,5 m e possiede un’ampiezza di poco meno di 3,00 m. 9 Corano, Sūra XIX (Maryam), v. 71. 10 Cfr. Islamismo, voce in Enciclopedia Treccani. 11 Shatotto cit. 12 Cfr. K.K. Ashraf, L’ascesa del Bangladesh: un’architettura per il Delta, «Rassegna di Architettura e Urbanistica», 165 (Inventiva e pertinenza. Lezioni dal Sud del mondo, a cura di M. Argenti e F. Sarno), 2021, pp. 55-63. 13 Rafiq Azam, disponibile online (rafiqazam.com/). 14 P. Zumthor, Atmosfere, Electa, Milano 2008. 15 I muri sono stati eretti in mattoni bengalesi bruciati, rivestiti da altri di ceramica Mirpur. Le pareti forate (jaali) sono interamente realizzate in mattoni di ceramica. 16 Propria della tradizione araba, il più delle volte in legno, la mashrabiyya è una raffinata grata in grado di assicurare intimità e al contempo permettere il passaggio di aria e luce. 17 G. Ravasi, La luce, un simbolo religioso tra immanenza e trascendenza, testo redatto in occasione dell’Anno Internazionale della Luce, UNESCO 19 gennaio 2015, disponibile online (www.cultura.va/ content/cultura/it/organico/cardinale-presidente/ texts/lux.html). 18 Ibid. 19 Corano, Sūra XXIV (An-Nûr/Luce), v. 35. 20 «Nel 628 […] si decise di creare per lui [Maometto] un suggesto rialzato su alcuni gradini, chiamato minbar», J.D. Hoag, Architettura islamica cit., p. 8. 21 «Il mihrab assunse forme diverse da una zona all’altra, ma all’interno del tipo generale della nicchia», O. Grabar, Arte islamica cit., p. 146. 22 «Allah è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada», Corano, Sūra XXIV (An-Nûr/Luce), v. 35. Sul tema della luce nell’islam si veda anche: P. Portoghesi, La luce come materiale da costruzione, «Materia», 59, 2008, pp. 40-47. 23 Cfr. O. Grabar, Arte islamica cit., pp. 249-252. 24 Si tratta della pratica dell’adhān, J.D. Hoag, Architettura islamica cit., p. 8. 25 Cfr. Shatotto, disponibile online (rafiqazam.com/). 26 Termine usato per indicare il luogo sacro preislamico. Cfr. O. Grabar, Arte islamica cit., pp. 119-166. 5 6

Abstracts

SACRED CONTEMPORARY Year LVII, number 166, January-April 2022

DEBATE New Forms of Conversation José Tolentino Mendonça What relationship exists between artistic creation and religion in our contemporary era? Why does the space of religion now appear to us, as the American historian and art critic James Elkins writes, a “strange place”? Religion no longer occupies that hegemonic centrality that made it the dominant system of meaning. The premises of the relationship between art, architecture and religion have changed. Our societies have become psychically extenuating for individuals, and there appears to be a lack of support in dealing with the difficult eternal questions that return to us with a greater frequency: why me? There is a persistence of the religious in this human suffering, never fully resolved: the paradoxical condition of existence. The challenge that today’s culture puts before us is no easy one: creativity, in order to forge new works of architecture, capable of learning from what is represented, in its breadth and diversity, by the inalienable physical and spiritual inheritance of our humanity. So let us begin to search for new forms of conversation.

The Sacred in Architecture and I. In Dialogue with José Tolentino Mendonça Álvaro Siza The text is the result of a conversation on the theme of “Sacred Architecture” and “Religious Art,” between Álvaro Siza, Pritzker Architecture Prize 1992, and Cardinal José Tolentino Mendonça, the Portuguese poet, theologian, archivist and librarian at the Vatican. Motivated by Mendonça, Siza looks to Le Corbusier, beginning with his Journey to the East, “as if he had studied a great deal: all the aspects of light, of atmosphere” and the impact of buildings, from Ronchamp to La Tourette, as well as Carthusian monastic life, a mix of isolation and sharing, of intimacy and community, that produced the Unité d’Habitation in Marseille. “Le Corbusier is that form of restlessness that introduces contradictions.” The discourse then shifts to the genesis of the design of the Church of Saint Mary, in Marco di Canaveses, or to the memory of the conservation of the destroyed church in Salemi, Sicily. A spiritual approach to the design of churches that, as the conversation develops, guides the reasoning behind the relationship between inspiration and mysticism, between the idea of architecture, instinct and mystery.

The Sacred in Architecture and in the Secular Society João Norton de Matos Pointing out the sacred in contemporary architecture, in the secularized societies in which we live, implies returning to the way in which the 20th century phenomenology of religion understood the notion of the sacred, but also overcoming its dichotomous separation from the profane. Louis Kahn’s Salk Institut offers us a good example of how the transcendent dimension of the real manifests itself in secular architecture. The writings on art and architecture by the German theologian Paul Tillich show us that it is the style of architecture in its autonomy, and not the symbols of the sacred, that attributes a transcendent dimension to architecture. Thus, if we resort to examples of religious buildings, it is not as spaces conventionally dedicated to the sacred, but as spaces whose architectural intentionality gives priority to the elements and qualities of an atmosphere conducive to interiority, to encounter, and to availability for the dimension of sacred depth of life.

The Mood of the Sacred: Agency and Appropriation in Memorial Architecture Sabina Tanović The article aims to problematize the notion of contemporary sacred by looking into some of the relevant issues regarding contemporary memorial architecture dedicated to remembering atrocities. The text contextualizes memorial architecture as a relatively recent genre that originated in response to the carnage of the two world wars to stress that the modality of the form is dependent on given socio-cultural and political contexts. In arguing that agency of both designer and the design are essential in the conception of today’s spaces of remembrance, the author discusses appropriation as a process that renders memorial architecture meaningful. The argumentation is supported by a number of examples such as 11M memorial in Madrid and the Namenmonument in Amsterdam that demonstrate a variety of approaches and their consequences for the notion of sacred as a consensus between different stakeholders.

Expanses of Darkness and Silence: “Counter-Environments of the Sublime” Lidia Decandia While referring to an old North Sardinian sub-region characterised by distinct emptiness due to low-density settlement and ubiquitous environmental features, the article reflects on the role this marginal area “full of nature and history” could have today in reconfiguring the actual idea of urbanity. Beginning with the role places of silence have had in other crisis periods in the history of mankind, it examines some signs that reveal new urban interest in

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this territory, now completely integrated into the systems of the mind-sets that have shaped the contemporary cosmopolis. It is pointed out that this reserve of darkness could constitute, precisely because of its specific nature, unknown sacred space for the society of action and services now on the verge of triggering infarction of the soul. A sort of counter-environment of the sublime: a place for questioning, where our relationship with the incommensurable can be challenged, the most immortal part of our soul be stirred, and the mediocrity and ordinariness of everyday life be transcended, enabling us once more, under a sky full of stars, to begin to address the great queries regarding our existence in the cosmos.

RESEARCHES Memory, Materiality and Architecture. The Renewal of Blitzed Churches in the United Kingdom Lorenzo Grieco Soon after the Second World War, the reconstruction of blitzed churches became a major theme, especially in United Kingdom, which registered massive bombings. The contribution aims at illustrating the debate on the rebuilding, restoring, and re-use of damaged churches, while describing some key cases. The mentioned projects hovered the immaterial value of memory, understood as a collective feeling, stressing on the symbolism of ruined churches. The cases are symbolical of a complex approach, based on the exigency of reconstruct, the notion of ruin as the essence of the sacredness of ritual, the belief in the admonishing power of blitzed churches, hence their conversion into war memorials. The brief overview of literary works, restoration practices, and visual evidence demonstrates how the post-war affection for the mortal remains of blitzed churches was in continuity with the tradition picturesque, while creating a new set of transcendental values linked to the mortal remains of sacred buildings.

Lightness Rests Upon the Earth, Weight Is Suspended. On the Sentient Use of the Braga Chapels Joaquim Félix de Carvalho Three chapels received the distinction of “religious building with the best architecture of the year”: “Árvore da Vida,” in 2011; “Imaculada” and “Cheia de Graça,” in 2019, located in Braga, Portugal. They were designed by Cerejeira Fontes Architects. Internationally known and described in their objective architectural properties, this article seeks to develop an essay, written in poetic language, evoking a cultural background, from Portuguese poetry to the filmography of Tarkovsky, in a line of appeal to the multisensory experience (according to the critical thinking by Juhani Pallasmaa). A para-liturgical processional narrative is privileged. The chapels are part of the post-MRAR (Movimento de Renovação da Arte Religiosa) and assert themselves as a cultural

119 “movement,” ethical epiphany, refined denudation and practices of hope. They were born from the generous and critical cooperation of the Cerejeira Fontes Architects and a host of artists: Asbjørn Andresen, Lisa Sigfridsson, Lourdes Castro, Ilda David’, Manuel Rosa, Helena Cardoso; and of excellent craftsmen and a theologian. Frédéric Debuyst, Crispino Valenziano and others highlighted their architectural and liturgical values.

Social Sacredness. The Church of San Giacomo the Apostle, in Ferrara Federica Morgia Consecrated in October 2021, the church of San Giacomo in Ferrara is the result of a design competition, in 2011, organized by the Italian Bishops’ Conference and won by Benedetta Tagliabue (EMBT). The project aimed to provide the city with a new parish complex to replace the existing building with the aim of promoting shared values and the involvement of the community. Tagliabue describes her work as “a humble hut, made of reeds and rough concrete” where the sacred is mixed with the social life of the parish to transform a marginal place into a new public space. The church was conceived as a hot air balloon resting on the ground. The building was placed in the center of the site giving rise to a space that runs diagonally from the main entrance. Along the same trajectory, arranged in a fan shape, are the buildings of the parish center. The complex, by virtue of the evocative matrix, establishes an empathetic relationship with the site. Tagliabue collaborated on the artistic design with Enzo Cucchi Don and Roberto Tagliaferri who advised on all liturgy aspects. The design of San Giacomo church seems to capture the elusive signs of Social Sacredness and provides the entire surrounding area with a sense of community.

The Village, the Crossroads, the House, the Church, the Cross. Parish Church Complex of Santa Chiara in Sini Carlo Atzeni, Silvia Mocci The project for the Church of Santa Chiara in Sini arises from the community’s need for a new place of worship to replace the existing structure, built at the end of the 1960s on the area of another historical church which had previously been demolished, which has become all but unfit for use. The demand for a new design comes at the end of a substantial modification process that inadequately affected the features of the traditional fabric of the local architectural heritage, which was still partially well preserved. The small village of Sini is located in a remarkable landscape context, at the foot of the Giara di Gesturi (one of the most important naturalistic and archaeological sites of Sardinia) and in a vantage point overlooking the rural plain of the historical region of Marmilla. Located in a plot that housed the village church for at least five centuries, and embedded inside a traditional fabric of courtyard houses, the new ecclesiastical complex interprets through a complete formal abstraction its long-lasting relationship with the historical settlement and territory.

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“Reassuring” Models. The Church of Buon Ladrone, in Bologna Jacopo Gresleri The CEI introduces participation in the design of sacred space. In light of the example analyzed here, the novelty appears as a “reassuring” attempt to bring the community closer to the liturgy and the church, understood also as a physical place. The poor (design) quality of the majority of the new church spaces has made it more than necessary to verify the way in which these works are realized, but participation has historically proven to be a complex and delicate issue to manage, especially with regard to the set of skills, contributions and decision-making responsibilities shared between designers, clients and users. It is too early to evaluate the outcomes of this engaging collective process, but the proposal (clearly derived from the experiences of housing and urban regeneration of the last fifty years) suggests interesting prospects for the sacred contemporary, as long as it is well guided. There remains, in fact, the suspicion (and the regret) of a weakening of the experimental will – too often confused with forms of forced “originality” of design – that constituted the driving force of the realizations born from the Cardinal Lercaro’s reforming will during the years of the unrepeatable Bolognese context.

A Diverse Notion of the Sacred. The Santuario Señor de Tula in Jojutla de Juárez and the Open Chapels Maria Argenti This essay analyses a selection of small capillas abiertas, recalling the examples designed in Mexico by Félix Candela in Lomas de Cuernavaca and by Luis Barragán in the Parque de las Estrellas in Guadalajara. From the Santuario del Señor de Tula by Derek Dellakamp and Jachen Schleich, to Saint Bernard’s Chapel in La Playosa, Argentina, designed by Nicolás Campodonico, from the small Capela Da Fazenda Veneza by Decio Tozzi in Valinhos, São Paulo, Brazil, to the Chapel of the Earth, in the Yucatán, Mexico, designed by Cabrera Arqs. These open chapels explore another approach with respect to the more common enclosure of sacred space. Here, the space dedicated to the liturgy, albeit delimited, remains open; and while paradigmatic, it renounces the pretext of containing, or even concentrating, the alpha and the omega of transcendence. This space, defined though not separated, alludes to an ethereal and fleeting perimeter, in some cases close, in others distant: the line of the horizon. We are dealing with a different way of defining and protecting the isolation required by sacred space; demonstrating that its separation (intrinsic to the etymology of the term) does not mean separating architecture from life, nor even from place, but on the contrary exalting within this space all that gives meaning to life and consecrates a community.

Architectures of Memory in Latin America Gianpaola Spirito Among the architectures whose task is to remember dramatic past events or commemorate victims – the me-

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morials – a specific typology is becoming increasingly popular, that of memory museums. This article deals with those built in recent years in Latin America to shed light on the dramatic events that took place during the dictatorial regimes that have come to power since the 1970s; some of which have recently come to an end, others are still in progress. The proximity in time of these events determines the fundamental role they play in making the truth known, thanks to the long work of commissions that have collected the documentation and testimonies of the surviving victims and those of the families of the deceased. These have played a central role not only in the reconstruction of the facts, but also in the planning and construction process to enable them to reconcile with their past. The museums described are: the Museum of Memory and Human Rights (MMHR) in Santiago de Chile designed by Estudio America (2007-2010), the Centre for Memory, Peace and Reconciliation in Bogotá by Juan Pablo Otis Arquitects (2009-2015) and the Lugar de la Memoria in Lima by Barclay and Crousse (2010-2015). Especially the last two engage processes of community participation, establish a deep connection with the memory of the places in which they are inserted, and shape narrative spaces that involve the visitor emotionally and lead him to reflection.

A Church and a Landscape in the Cordillera del Litoral, Venezuela Roberto Pasini The article analyzes the construction of the church of San Juan María Vianney in La Media Legua on the Cordillera del Litoral of Venezuela. Through this small implementation, the Caracas-based studio Enlace Arqitectura was involved in a long process of participatory planning and self-construction along with a small rural community. The realization is analyzed in relation to the tectonic and constructive circumstances that have produced it, the sober compositional aspirations that qualify it, the context of economic and political crisis that grips the country, and the long-duration terrestrial and human landscape that surrounds it. The design action of Enlace Arquitectura is interpreted as activism aimed at improving the living conditions of the communities most exposed to the rigors of this crisis. The landscape of the mountain range is read in its geographical and human continuity throughout history.

The Sacredness of the Everyday. The Bait ur Rouf Mosque in Dhaka Maura Percoco The story of Bait ur Rouf mosque in Dhaka is uncommon. At first, the mosque was a votive building thought by Sufia Khatun, grandmother of Bangladeshi architect Marina Tabassum. She donated a plot of land in the suburban quarter of Faydabad to design a space for Islamic cult and religious instruction. Secondly, its realisation, which took several years (2006-2012), is the expression of a shared commitment and the outcome of a choral work. It was made possible by the support of builders, master artisans, and all those who, in some form, have provided their economic contribution or skills and expertise to complete a commu-

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nity place to celebrate the sacred spirit of living together, of nature and of the Divine. Finally, the poetic dimension that identifies the mosque is the product of the awareness of Tabassum to capture the essence of things and show it with simplicity through her works. Such as the Bait ur Rouf mosque, where the evocative quality of space, the realism of materials, the accuracy of details, and the richness of light modulations tell about the authentic value of Bangladeshi culture and the self-determination community’s ability to reveal the extraordinary, hidden in the everyday things.

On the Threshold of the Elsewhere. The Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque Francesca Sarno The passage from earthly to spiritual life is the metaphor that dominates the design of the Mayor Mohammad Hanif Jummah Mosque. Built in Dhaka in 2018,

121 it is the work of Rafiq Azam, a Bengali architect who leads the design studio “Shatotto Architecture for the green living.” The mosque is located adjacent to the Azipur cemetery in the old city of Dhaka; positioned on the eastern edge of the cemetery, the mosque seems to subtract a part of the land from the site destined to the dead in order to delegate it to meditation and prayer. The place of worship, thus, assumes the role of a material tool to endorse the faith in immaterial eternity. The architectural elaboration responds to meanings and rituals of the Islamic religion but elaborated in a contemporary key. The contribution focuses on three key elements of the project and of this worship – water, light and nature – which, according to Rafiq Azam vision, correspond to the elements that guarantee vital balance in Bangladesh as well. Through the analysis of them, however, it is underlined how the mosque, despite being the space for prayer, reaffirms the intimacy of faith which does not need a place to be lived and professed.

Biografie degli autori Author biographies

biografie degli autori / author biographies

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Maria Argenti, architetto, è professore ordinario di Composizione architettonica e urbana presso la Facoltà di Ingegneria della Sapienza di Roma dove insegna Progettazione architettonica e urbana nel corso di laurea in Ingegneria edile-architettura. È coordinatore del dottorato in Ingegneria dell’architettura e dell’urbanistica. Le sue ricerche comprendono l’architettura contemporanea e la sua costruzione, i maestri dell’architettura italiana e l’abitare in condizioni di emergenza. È componente del gruppo di ricerca LAPIS, ha partecipato a numerosi concorsi di architettura nazionali e internazionali conseguendo diversi riconoscimenti. È direttore di «Rassegna di Architettura e Urbanistica» dal 2011, redattore di riviste di architettura, autore di saggi e articoli sui temi oggetto delle sue ricerche. Tra le sue pubblicazioni: Alessandro Anselmi (Edilstampa, Roma 2010), Segni di architettura contemporanea (Kappa, Roma 2005), Kiasma museo di arte contemporanea a Helsinki. Steven Holl (Alinea, Firenze 2000). Maria Argenti, architect, is full professor in Architectural and Urban Design from the Faculty of Engineering at the Sapienza University in Rome, where she teaches Architectural and Urban Design for the graduate course in Building Engineering-Architecture. Her research examines contemporary architecture and its construction, the masters of Italian architecture and dwelling for emergency conditions. She is member of the LAPIS research group, and she has participated in numerous national and international design competitions, obtaining mentions. Coordinator of the PhD Program in Engineering for Architecture and Urbanism. Editor in chief of Rassegna di Architettura e Urbanistica since 2011, editor with various architectural journals, she is also the author of many essays and articles on contemporary architecture and the masters of Italian architecture. Her published work includes: Alessandro Anselmi (Rome: Edilstampa, 2010), Segni di architettura contemporanea (Rome: Kappa, 2005), Kiasma museo di arte contemporanea a Helsinki. Steven Holl (Florence: Alinea, 2000). Carlo Atzeni, ingegnere civile-edile, è dottore di ricerca in Ingegneria edile al DICAAR dell’Università di Cagliari dove è professore ordinario di Architettura tecnica e docente del Laboratorio integrato di progetto e costruzione dell’architettura 3. Dal 2021 è delegato rettorale per gli spazi e la sostenibilità dell’Ateneo di Cagliari. I suoi principali campi di ricerca sono: architettura dei paesaggi rurali, architettura coloniale moderna, recupero e riqualificazione dell’architettura storico-tradizionale del Mediterraneo. La sua ricerca applicata al progetto si è distinta con il conseguimento di numerosi premi e menzioni in concorsi nazionali e internazionali fra cui: Europan IX (Carbonia), Europan X (Seilh-Toulouse), Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa 2011, Big SEE Award 2021. Sugli stessi temi è autore di numerose pubblicazioni scientifiche e monografie. Carlo Atzeni, civil engineer, he is a Ph.D. researcher in Building Engineering and Full Professor in Building Design at the DICAAR of the University of Cagliari where he is professor of Integrated Laboratory of Design and Construction of Architecture 3. Since 2021 he is Rector’s delegate for Spaces and Sustainability at the University of Cagliari. His fields of study and research are: rural landscapes and rural architecture, rehabilitation and recovery of traditional and historical Architecture, colonial modern architecture. His research activity applied to project-making has been awarded several prizes and special mentions in national and international architecture competitions: Europan IX (Carbonia), Europan X (Seilh-Toulouse), Landscape Award of the Council of Europe 2011, Big SEE Award 2021. On the same topics he is author of numerous scientific publications and monographs. Lidia Decandia, PhD, è professore associato presso il DADU di Alghero (Università degli Studi di Sassari) dove insegna Progetto e contesto e Storia del territorio e della città. Nella stessa Facoltà ha fondato e dirige: Matrica, laboratorio di fermentazione urbana. È membro del collegio dei docenti del dottorato di ricerca in Ingegneria dell’architettura e dell’urbanistica presso la Sapienza Università di Roma. Tra i suoi ultimi volumi: Territori in trasformazione. Il caso dell’Alta Gallura (Donzelli, Roma 2022), e I territori marginali e la quarta rivoluzione urbana. Il caso della Gallura (con L. Lutzoni e C. Cannaos, Guerini Associati, Milano 2017). Lidia Decandia, PhD, is Associate Professor at the DADU of Alghero (University of Sassari) where she teaches Design in the Social Context, and Urban and Regional History. At he same faculty, she founded and is charge of Matrica: a laboratory of Urban Fermentation. She is a member of the the PhD Program in Engineering-based Architecture and Urban Planning at the Sapienza University of Rome. Among his books published: Territori in trasformazione. Il caso dell’Alta Gallura (Rome: Donzelli, 2022), and I territori marginali e la quarta rivoluzione urbana. Il caso della Gallura (with L. Lutzoni and C. Cannaos, Milan: Guerini Associati, 2017). Joaquim Félix de Carvalho è ricercatore presso il CITER (Centro de Investigação em Teologia e Estudos de Religião) della Facoltà di Teologia - Università Cattolica Portoghese, dove insegna. Dottorato in Liturgia presso il Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo di Roma, studia e cura fonti liturgiche antiche, latine e orientali, alcune tradotte con José Tolentino Mendonça. Si dedica al rinnovamento delle arti e dell’architettura religiosa, a partire dalla loro poetica. Collabora con architetti nella costruzione e riabilitazione di luoghi liturgici (v.g. Cerejeira Fontes) e con artisti: Asbjørn Andresen, Lisa Sigfridsson, Ilda David’, Manuel Rosa, Carla Pontes; in passato, con Lourdes Castro. Scrive libri e articoli esplorando nuove poetiche della spazialità rituale. Joaquim Félix de Carvalho is a researcher at CITER (Centro de Investigação em Teologia e Estudos de Religião) at the Faculty of Theology - Portuguese Catholic University, where he teaches. Doctor in Liturgy (Ph.D.) from the Pontifical Liturgical Institute Sant’Anselmo, Rome, he studies and edits ancient, Latin and Eastern, liturgical sources, some in translation with José Tolentino Mendonça. He is dedicated to the renewal of the arts and religious architecture from its poetics. He collaborates with architects in the construction and rehabilitation of liturgical places (e.g. Cerejeira

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Fontes) and with artists: Asbjørn Andresen, Lisa Sigfridsson, Ilda David’, Manuel Rosa, Carla Pontes; in the past, with Lourdes Castro. He writes books and articles exploring new poetics of ritual spatiality. Jacopo Gresleri è architetto e dottore di ricerca. Docente a contratto di Architectural Design al Politecnico di Milano, ha insegnato a Ferrara e Torino. Visiting Lecturer e Critic alla TU-Wien, Kent State University (Firenze), New York Institute of Technology, Syracuse University (Londra), Roger Williams (Firenze), Genova e Sassari, ha partecipato come relatore a conferenze e seminari in Italia e all’estero sui temi di cohousing, abitare collaborativo e per anziani, e a ricerche nazionali e internazionali. Autore di monografie, articoli e saggi, svolge attività di peer reviewer per diverse riviste internazionali. Consigliere dell’Ordine degli Architetti di Bologna, è membro della UIA, Education Commission (Work Programme «Social Habitat»), in qualità di rappresentante nazionale del CNAPPC. Jacopo Gresleri, architect, PhD. Adjunct Professor of Architectural Design at Politecnico di Milano, he has taught in Ferrara and Turin. Visiting Lecturer and Critic at TU-Wien, Kent State University (Florence), New York Institute of Technology, Syracuse University (London), Roger Williams (Florence), Genoa and Sassari, he has participated as a speaker at conferences and seminars in Italy and abroad on the themes of cohousing, collaborative living and housing for elderly and in national and international research. Author of monographs, articles and essays, he is a peer reviewer for several international journals. Council Member at the Association of Architects of Bologna, he is the Italian Appointed Member at UIA, Education Commission, Work Programme “Social Habitat” for the National Council of Architects (CNAPPC). Lorenzo Grieco, laureato in Ingegneria edile-architettura, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura presso l’Università di Roma Tor Vergata, con una tesi in co-tutela con l’Università del Kent a Canterbury. La sua ricerca si concentra su temi dell’architettura moderna e contemporanea, tra cui: le chiese del XX secolo in Italia e nel Regno Unito, la storia della costruzione e dell’ingegneria, i soffitti a cassettoni, il trasferimento di strutture, la fotografia d’architettura, sulle questioni legali, politiche e culturali del patrimonio architettonico. Ha lavorato in studi di architettura in Italia e all’estero. Attualmente è professore a contratto presso l’Università di Firenze. Lorenzo Grieco, MSc architecture and construction engineering, received his PhD degree in architectural history from the University of Rome Tor Vergata, with a thesis in co-tutelle with the University of Kent in Canterbury. His research is focused on early modern and contemporary architecture, including twentieth-century churches in Italy and UK, construction and structural engineering history, coffered ceilings, structure relocation, architectural photography, legal, political, and cultural issues in architectural heritage. He has worked in architecture firms in Italy and abroad. Currently, he’s adjunct professor at the University of Florence. José Tolentino Mendonça è teologo e poeta, cardinale, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Presso l’Università Cattolica del Portogallo (UCP) di Lisbona nel 1989 ha conseguito la licenza in Teologia e, nel 2004, il dottorato summa cum laude in Teologia biblica. Membro del Pontificio Consiglio per la Cultura, è stato vicerettore dell’UCP nonché docente invitato, in Brasile a Pernambuco, Rio de Janeiro e presso la Facoltà di Filosofia e Teologia a Belo Horizonte. Ha diretto la rivista di studi teologici «Didaskalia» (2005-2012), è stato direttore del Centro per studi di religioni e culture (2012-2017) dell’Ateneo, e rettore della cappella di Nossa Senhora da Bonança (2010-2018). Ha pubblicato numerosi volumi e articoli in ambito teologico ed esegetico, oltre a varie opere poetiche, attingendo anche al linguaggio letterario e filosofico. Esperto del rapporto tra letteratura e teologia, nel 2014 ha rappresentato il Portogallo nella Giornata mondiale della Poesia. Cura da anni sul giornale «Expresso» una rubrica settimanale dal titolo Che cosa sono le nuvole. José Tolentino Mendonça, theologian and poet, cardinal, Archivist and Librarian of the Holy Roman Church. At the Catholic University of Portugal in Lisbon (UPC) in 1989 he obtained a licentiate in theology and, in 2004, a doctorate summa cum laude in Biblical Theology. Member of Pontifical Councils for Culture, he has been vice-rector of the UPC, also carrying out teaching activities as a visitor in Brazil at Pernambuco, Rio de Janeiro, and at the Faculty of Philosophy and Theology in Belo Horizonte. He edited the journal of theological studies Didaskalia (2005-2012), and directed the Centre for studies of religions and cultures (2012-2017) of the same Athenaeum, and was rector of the chapel of Nossa Senhora da Bonança (2010-2018). He has published numerous volumes and articles in the theological and exegetical fields, as well as various poetic works, also drawing on literary and philosophical language. An expert in the relationship between literature and theology, in 2014 he represented Portugal in the World Poetry Day. For several years he has edited a weekly column in the newspaper Expresso entitled What clouds are. Silvia Mocci, ingegnere edile-architetto e architetta, è dottore di ricerca in Ingegneria edile al DICAAR dell’Università di Cagliari. È stata docente a contratto di Tecnologia dell’architettura per il corso magistrale in Architettura presso il DADU dell’Università di Sassari e la Facoltà di Architettura della Sapienza Università di Roma. I suoi principali campi di ricerca sono: progetto di tessuti abitativi, architettura contemporanea in contesti storici consolidati, architettura dei paesaggi rurali, architettura coloniale moderna, recupero e riqualificazione dell’architettura storico-tradizionale del Mediterraneo. La sua ricerca applicata al progetto si è distinta con il conseguimento di numerosi premi e menzioni in concorsi nazionali ed internazionali fra cui: Europan IX (Carbonia), Europan X (Seilh-Toulouse), XIII (Saint Polten and Azenha do Mar), Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa 2011, Big SEE Award 2021. Sugli stessi temi è autrice di numerose pubblicazioni scientifiche e monografie.

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Silvia Mocci, engineer and Architect, she is a PhD. researcher in Building Engineering at the DICAAR of the University of Cagliari. She was contract professor of Architectural Technology for the Master course in Architecture at the DADU of the University of Sassari and at the Faculty of Architecture of the Sapienza University Rome. Her fields of study and research are: habitat design, contemporary architecture projects in consolidated historical contexts, in rural context, margin environments and colonial modern architecture, rehabilitation and recovery of traditional and historical Mediterranean Architecture. Her research activity applied to project-making has been awarded several prizes and special mentions in national and international architecture competitions: Europan IX (Carbonia), Europan X (Seilh-Toulouse), XIII (Saint Polten and Azenha do Mar), Landscape Award of the Council of Europe 2011, Big SEE Award 2021. On the same topics she is author of numerous scientific publications and monographs. Federica Morgia, architetto, PhD, professore associato, insegna Progettazione architettonica e urbana alla Sapienza Università di Roma, ed è nel collegio dei docenti del dottorato Paesaggio e ambiente e dell’Erasmus+ Joint Master Degree Architecture, Landscape and Archaeology nella stessa università. È docente nel Network Designing Heritage Tourism Landscapes. Si occupa di architettura, città, paesaggio, processi di ricostruzione post-catastrofe e valorizzazione del patrimonio culturale. Sue ricerche, progetti e realizzazioni hanno ottenuto riconoscimenti anche in campo internazionale. Tra le pubblicazioni più significative ricordiamo: Stili di vita e città del futuro (Quodibet, Macerata 2020), Molto piccolo piuttosto grande (Timìa, Roma 2015), Enric Miralles Benedetta Tagliabue (Edilstampa, Roma 2010), e Catastrofe: istruzioni per l’uso (Meltemi, Roma 2007). Federica Morgia Architect, PhD, Associate Professor, teaches Architectural Design at the Sapienza University of Rome. She is member of the Board of Landscape and Environment Doctorate and of the Erasmus+ Joint Master Degree Architecture, Landscape and Archaeology at the same university. She is a docent in the network Designing Heritage Tourism Landscapes IUAV University Venice. She is involved in architecture, cities, landscape, reconstruction processes after catastrophes and enhancement of cultural heritage. Her research, projects and works have also received recognition in the international field. Among the most significant publications are Stili di vita e città del futuro (Macerata: Quodibet, 2020), Molto piccolo piuttosto grande (Rome: Timìa, 2015), Enric Miralles Benedetta Tagliabue (Rome: Edilstampa, 2010), and Catastrofe: istruzioni per l’uso (Rome: Meltemi, 2007). João Norton de Matos, SJ, Guest Assistant Professor di Aesthetics and Theology presso la Catholic University of Portugal, lavora anche presso Brotéria - Centro culturale dei gesuiti a Lisbona. Ha discusso la tesi di dottorato in Fundamental Theology, sulla crisi moderna dell’arte sacra, presso la Facultées Jésuites di Parigi nel 2018, dopo un DEA in Aesthetics and Philosophy dell’arte presso l’Université Catholique de Louvain e le lauree in Architettura, Filosofia e Teologia, rispettivamente a Lisbona, FAUTL, Braga FAC-FIL e Parigi. Laureato in Architettura nel 1987, è entrato nella Compagnia di Gesù nel 1990 ed è stato ordinato sacerdote nel 2002. João Norton de Matos, SJ, Guest Assistant Professor of Aesthetics and Theology at the Catholic University of Portugal, also works at Brotéria - the Jesuits’ cultural center in Lisbon. He defended his doctoral thesis in Fundamental Theology, on the modern crisis of sacred art, at the Facultées Jésuites in Paris in 2018, after a DEA in Aesthetics and Philosophy of Art at the Université Catholique de Louvain and degrees in Architecture, Philosophy and Theology, respectively in Lisbon, FAUTL, Braga FAC-FIL and Paris. Graduated in architecture in 1987, he entered the Society of Jesus in 1990 and was ordained priest in 2002. Roberto Pasini è professore di Architettura del paesaggio presso il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna dal 2020. In precedenza ha insegnato anche all’Universidad de Monterrey, Messico, ed è stato Lecturer, Design Critic e Visiting Professor in Urban Planning and Design a Harvard. I suoi interessi riguardano il paesaggio contemporaneo come campo di interazione tra sistemi ambientali, strutture costruite e dinamiche culturali. È stato giurato dello EU Prize for Cultural Heritage e ha ricevuto il Premio di Architettura H.C. Andersen dell’Accademia Nazionale di San Luca. Roberto Pasini has been Professor of Landscape Architecture at the Department of Cultural Heritage of the University of Bologna since 2020. Previously, he taught at the University of Monterrey, Mexico, and was Lecturer, Design Critic and Visiting Professor in Urban Planning and Design at Harvard. His interests focus on the contemporary landscape as a field of interaction between environmental systems, built structures, and cultural dynamics. He was a juror of the EU Prize for Cultural Heritage and received the H.C. Andersen Prize of the National Academy of San Luca. Maura Percoco è architetto e professore associato presso la Sapienza di Roma dove insegna Architettura e composizione architettonica nel corso di laurea in Ingegneria edile-architettura; è membro del collegio dei docenti del dottorato di ricerca in Ingegneria dell’architettura e dell’urbanistica. Svolge attività di ricerca sui temi: l’abitare in condizioni di emergenza; il rapporto tra materiali, tecnologie e linguaggio contemporaneo dell’architettura; nuovi modelli di spazi per l’apprendimento; opere e protagonisti dell’architettura italiana del Novecento. Partecipa a convegni e a concorsi di progettazione, è componente del gruppo di ricerca LAPIS. Tra le sue pubblicazioni scientifiche: Una piazza al posto di un palazzo. La rappresentazione della Civiltà italiana all’E 42 per Albini, Gardella, Palanti, Romano (Libria, Melfi 2020); Città immaginate. Riuso e nuove forme dell’abitare (a cura di, con M. Gissara, E. Rosmini; ManifestoLibri, Roma, 2020), Paesaggi del pensiero e della conoscenza. Il Learning Center all’EPFL di SANAA («Rassegna di Architettura e Urbanistica», 156, 2018).

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Maura Percoco is architect and Associate Professor at the Sapienza of Rome where she teaches Architecture and Architectural Composition for the graduate course in Building Engineering-Architecture; she is a member of the PhD Program in Engineering-based Architecture and Urban Planning. Her research topics are: dwelling for emergency conditions; the relationship between materials, technologies and languages of the contemporary architecture; new models of learning spaces; masters and leading works of Italian twentieth century architecture. She attends congresses and design competitions and she is member of the LAPIS research group. Among her scientific publications: Una piazza al posto di un palazzo. La rappresentazione della Civiltà italiana all’E 42 per Albini, Gardella, Palanti, Romano (Melfi: Libria, 2020), Città immaginate. Riuso e nuove forme dell’abitare (edited by, with M. Gissara, E. Rosmini, Rome: ManifestoLibri, 2020), Landscapes of Thought and Knowledge. The Learning Center at the EPFL Campus by SANAA (Rassegna di Architettura e Urbanistica 156/2018). Francesca Sarno, ingegnere, è dottore di ricerca in Architettura, con specificità nella composizione architettonica e urbana. È stata assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Ambientale della Sapienza Università di Roma. Ha svolto il post-dottorato presso la Escola Politécnica della USP; durante il dottorato ha trascorso un periodo di studio presso la Faculdade de Arquitetura e Urbanismo della USP. Fa parte del gruppo di ricerca LAPIS. Le tematiche di studio riguardano principalmente: l’architettura moderna e contemporanea brasiliana, l’architettura nel Sud del mondo, il social housing e la rigenerazione di aree informali. Ha pubblicato saggi e articoli inerenti ai temi di ricerca; ha preso parte a convegni nazionali e internazionali e ha partecipato a concorsi di progettazione, conseguendo premi e riconoscimenti. Francesca Sarno, engineer, is PhD in Architecture, with specificity in architectural and urban design. She was research associate at the Department of Civil, Constructional and Environmental Engineering of Sapienza University of Rome. She did her post-doctoral at the Escola Politécnica of the USP; she was visiting PhD student at the Faculdade de Arquitetura e Urbanismo, USP. She is member of the LAPIS research group. Her researches have emphasis on Brazilian modern and contemporary architecture, architectures in the Global South, social housing, regeneration of degraded areas. She has published essays and articles on the research topics; she has contributed in national and international conferences; she has participated in design competitions, receiving awards and mentions. Álvaro Siza Vieira studia architettura alla Escola Superior de Belas Artes di Porto, tra il 1949 e il 1955. Dal 1955 al 1958 collabora con Fernando Távora, per poi aprire il suo studio a Porto, città in cui vive e lavora. Dal 1966 al 1969 insegna nella Facoltà di Architettura dell’Università di Porto e nel 1976 viene nominato cattedratico nella disciplina di Costruzione. Termina l’attività accademica nel 2003. Autore di molte prestigiose architetture in Portogallo, avendo vinto diversi concorsi internazionali e numerosi premi, il suo lavoro è stato presentato in tutto il mondo. Tra i più importanti riconoscimenti ricevuti: il Pritzker Architecture Prize nel 1992, la Royal Gold Medal for Architecture del Royal Institute of British Architects nel 2009 e il Leone d’Oro alla carriera della Biennale di Venezia nel 2012. È membro onorario dell’American Academy of Arts and Sciences, honorary fellow del RIBA (Royal Institute of British Architects) e dell’AIA (American Institute of Architects), membro dell’Académie d’Architecture de France, della European Academy of Sciences and Arts, dell’Accademia Reale Svedese di Belle Arti e dell’Accademia Nazionale di San Luca. Álvaro Melo Siza Vieira studied architecture at the High School of Fine Arts in Porto, between 1949 and 1955. From 1955 to 1958 he worked with Fernando Távora, before opening his own practice in Porto, where he still lives and works. From 1966 to 1969 he taught with the Faculty of Architecture at the University of Porto where he was appointed lecturer in the discipline of Construction in 1976. Siza stopped teaching in 2003. Designer of many prestigious projects in Portugal, and winner of several international competitions and numerous awards, Siza’s work is recognised around the globe. His most important awards include: the 1992 Pritzker Architecture Prize, the Royal Gold Medal for Architecture from the Royal Institute of British Architects in 2009 and the Golden Lion for Lifetime Achievement at the 2012 Venice Biennale. He is an honorary member of the American Academy of Arts and Sciences, an honorary fellow of the RIBA (Royal Institute of British Architects), as well as of the AIA (American Institute of Architects); he is also a member of the Académie d’Architecture de France, the European Academy of Sciences and Arts, the Royal Swedish Academy of Fine Arts and the Accademia Nazionale di San Luca. Gianpaola Spirito, architetto, PhD, ricercatrice in Composizione e architettonica e urbana presso il Dipartimento di Architettura e Progetto e docente della Facoltà di Architettura della Sapienza Università di Roma. Le sue ricerche recenti indagano i fondamenti e le metodologie del progetto di architettura, le trasformazioni dell’esistente e le modificazioni dell’architettura del XXI secolo, soprattutto in Spagna e Portogallo. È autrice di saggi e monografie tra le quali: Alberto Campo Baeza (Libria, Melfi 2017); Un gioco di intagli - Francisco e Manuel Aires Mateus, Facoltà di Architettura a Tournai, Lovanio, Belgio («Casabella», 879, 2017); In-between places (Quodlibet, Macerata 2015); Penisola Iberica: restauro come trasformazione; lettura e interpretazione come metodo (1980-2014) («Rassegna di Architettura e Urbanistica», 145, 2015), e Forme del vuoto (Gangemi, Roma 2011). Gianpaola Spirito, architect, PhD, researcher in Architectural and Urban Composition at the Department of Architecture and Design and lecturer at the Faculty of Architecture, Sapienza University of Rome. Her recent research investigates the foundations and methodologies of architectural design, the transformations of the existing and the modifications of architecture in the 21st century, especially in Spain and Portugal. She is the author of essays and monographs including: Alberto Campo Baeza (Melfi: Libria, 2017); A game of carvings - Francisco and Manuel Aires Mateus,

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Faculty of Architecture in Tournai, Leuven, Belgium (Casabella 879/2017); In-between places (Macerata: Quodlibet, 2015); Iberian Peninsula: restoration as transformation; reading and interpretation as method (1980-2014) (Rassegna di Architettura e Urbanistica 145/2015), and Forms of the void (Rome: Gangemi, 2011). Sabina Tanovic´ è un architetto e ricercatore pluripremiato che si occupa della trasmissione di un passato contestato e di esperienze traumatiche. Ha conseguito un dottorato (2015) presso la Delft University of Technology, nei Paesi Bassi, dove insegna. La sua ricerca analizza la costruzione e la politica della memoria dei siti commemorativi contemporanei, che si basano su approcci partecipativi e di base, sulla psicologia ambientale e sui processi di lutto. Nel suo libro Designing Memory. The Architecture of Commemoration in Europe, 1914 to the Present (Cambridge University Press, Cambridge 2019), analizza l’evoluzione dell’architettura commemorativa dalla prima guerra mondiale e discute i processi di committenza e le strategie di progettazione. Attualmente è consulente scientifico in diversi progetti europei, tra cui Houses of Darkness - Images of a Contested European Memory (HICE) e l’iniziativa National Srebrenica Genocide Memorial all’Aia (NMSG95). Sabina Tanovic´ is an award-winning architect and researcher focused on transmission of contested pasts and traumatic experiences. She holds a doctoral degree (2015) from Delft University of Technology, the Netherlands, where she also teaches. Her research looks into the construction and memory-politics of contemporary memorial sites that are informed by participatory and grassroot approaches, environmental psychology and processes of bereavement. In her book Designing Memory. The Architecture of Commemoration in Europe, 1914 to the Present (Cambridge: Cambridge University Press, 2019), she analyses the evolution of memorial architecture since the First World War and discusses their commissioning processes and design strategies. She is currently a scientific adviser in a number of European projects including the Houses of Darkness - Images of a Contested European Memory (HICE) and the National Srebrenica Genocide Memorial initiative in the Hague (NMSG95).

Finito di stampare nell’aprile 2022 presso o.gra.ro. – Roma