Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau
 8815101225

Citation preview

e

a Guido Sacchi (1974-2004)

BARBARA CARNEVALI

ROMANTICISMO

E RICONOSCIMENTO

Figure della coscienza in Rousseau

IL MULINO

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività

della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: -www.mulino.it

ISBN

88-15-10122-5

Copyright © 2004 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere

fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo — elettronico, meccanico, reprografico, digitale — se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’ Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

INDICE

Premessa

Criteri di citazione e abbreviazione

Il quadro antropologico e morale. La passione dominante

13

1. «Amour de soi» e «amour-propre». - 2. L’alienazione originaria. - 3. Psicologia sociale - 4. L’eredità di Hobbes. - 5. Dal cielo alla terra: riconoscimento e modernità - 6. Tra solitudine e comunità: interstizi sociali. - 7. Figure del riconoscimento compiuto.

Prima figura. Amore e gloria

65

1. Una storia della coscienza. - 2. Prima della battaglia. - 3. «La jeunesse du Monde». Amore e riconoscimento. - 4. La società come rappresentazione.

Seconda figura: Servi, padroni e padroncine

123

1. «Entrée dans le monde». - 2. Amori di classe. - 3. L’età della passione. - 4. Due epifanie di riconoscimento.

Terza figura: La filosofia nel «salon» 1. L’ospite ingrato. - 2. «Ridicule». - 3. La regina delle forme. - 4. L’intellettuale e il suo pubblico.

Lil

Quarta figura: Romanticismo e risentimento

pa 224

1. Il trionfo del riconoscimento. - 2. La rivolta dell’autenticità - 3. Scandalo a corte. Eroismi

morali, esibizionismi romantici - 4. Una genealogia della coscienza. Conclusione. Romanticismo e riconoscimento

247

Indice dei nomi

287

PREMESSA

Questo libro parla del conflitto tra individuo e società — uno dei temi più classici e noti di Rousseau — ma lo affronta attraverso il problema, meno classico e noto, del riconoscimento. Con questa espressione intendo, in senso lato, l’insie-

me di questioni antropologiche, psicologiche, sociali e morali riconducibili alla dipendenza dell’uomo dalla considerazione altrui, che definiscono la coscienza in termini dialogico-competitivi. Nel vocabolario della sua epoca, Rousseau associava questi temi a una passione, l’amour-propre, capace di dominare l’io in ogni movente, e di sovrapporre alla sua identità originaria, naturale dungue immediata e autentica, un'identità sociale derivata, costruita attraverso la mediazione e la lotta.

Benché sia una chiave dell'intero sistema rousseauiano delle idee, il riconoscimento non è mai stato oggetto di un’indagine a tutto campo che ne ricostruisse i fondamenti teorici collocandoli nella storia del pensiero moderno. E quello che mi sono proposta nella prima parte di questo saggio, che ri-

percorre i problemi filosofici sollevati dalla «passione dominante»: l'alienazione, in primo luogo; poi il mimetismo, la rivalità con le sue ripercussioni psicologiche e sociali, l'eredità della tradizione agostiniana e hobbesiana; infine, i diversi mo-

delli che Rousseau ha elaborato per contrastare, a livello etico o politico, quello che ai suoi occhi rappresentava un aspetto drammatico della vita comune, reso ancora più intenso dalle moderne condizioni sociali: l’interdipendenza reciproca delle coscienze.

Questa visione panoramica offre il quadro in cui collocare la seconda parte del libro: nello spazio di quattro «figure», incentrate su altrettanti testi esemplari, le questioni delineate

nella prima parte acquisteranno concretezza e plasticità. In-

carnandosi nella fenomenologia dell’esperienza, il riconoscimento diverrà ancora più problematico, mettendo in discussione gli stessi presupposti del sistema, e incrinando l’immagi-

ne consolidata di Rousseau naturale.

come

cantore romantico

dell’io

Vorrei ringraziare coloro che hanno contribuito in prima persona alla nascita del libro, commentandolo, correggendolo, dandomi idee, suggerimenti, l'appoggio indispensabile per proseguire le ricerche a Parigi e a Ginevra: Philippe Audegean, Flavio Baroncelli, Adriano Bugliani, Tommaso Cavallo,

Sara Della Pergola, Romain Descendre, Sophie Fermigier, Franette Fermigier, Alfredo Ferrarin, Georgia Fioroni, Gianni Francioni, Alain Grosrichard, Marielle Macé, Marco Moneta,

Pierluigi Pellini, Elena Pulcini, Giuliana Ravviso, Aldo Pasca Raymondi, Daniel Roche, Gianni Ruocco, Gabriella Silvestrini, Antonio Somaini, Eugenio Somaini, Mario Telò.

La mia riconoscenza va anche a coloro che, a vario titolo e in diversi momenti, mi hanno sostenuta nei miei studi: i miei

genitori, in primo luogo; e poi Stefano Azzarà, Laura Azzini, Silvana Berra, Alessandro Ferrara, Andreina Franco, Mauri-

zio Iacono, Domenico Losurdo, Elio Matassi, Mario Reale. Un ringraziamento speciale a Raffaele Donnarumma, Simone Giaiacopi, Vincenzo Lavenia, Mauro Piras, Matteo Re-

sidori, Guido Sacchi, per lo scambio intellettuale di questi anni; a Jean Starobinski, per la lezione ermeneutica e l'interesse dimostratomi; a Remo Bodei, per la guida, l’esempio e la fiducia; e a Guido Mazzoni, per aver condiviso ogni aspetto e ogni momento del mio lavoro.

CRITERI DI CITAZIONE E ABBREVIAZIONE

Opere di Rousseau

Ho tradotto tutti i testi di Rousseau dall’edizione di riferimento: J.-J. Rousseau, Euvres complètes, edizione pubblicata sotto la direzione di B. Gagnebin e M. Raymond, 5 voll., Paris, Gallimard (Collection de la Pléiade), 1959-1995. In nota, il titolo delle opere è seguito dall’abbreviazione OC, dal numero del volume in cifre romane e da quello di pagina. Le opere citate più frequentemente compaiono con il titolo in forma abbreviata, secondo la seguente tavola delle corrispondenze, seguito dall'indicazione delle pagine nel volume Pléiade.

Confessions

= Les Confessions de J.]. Rousseau, OC,

Émile

I, pp. 1-656. = Rousseau juge de Jean Jaques. Dialogues, OC, I, pp. 657-976. = Émile, ou De l’Éducation, OC, IV,

Fragments politiques

= Fragments politiques,

Dialogues

pp. 239-868.

OC, II, pp.

471-560.

Lettre à d’Alembert

=

Lettre

è Monsieur

d’Alembert,

OC,

V, pp. 1-125. Lettres à Malesherbes = Quatre lettres è M. le Président de Malesherbes, OC, I, pp. 1130-1147. Nouvelle Héloise

= Julie, ou La Nouvelle Héloise, OC, II,

Origine des langues

= Essai sur l’origine des langues, OC, V,

Préface de Narcisse

=

pp. 1-745.

pp. 371-429.

Préface, in Narcisse,

ou l'Amant

lui-méme, OC, II, pp. 997-974.

de

Discours sur les Sciences et les Arts, OC, II, pp. 1-30.

Premier Discours

=

Second Discours

= Discours sur l'origine et les fondemens de l’inégalité parmi les bommes, OC, III, pp. 109-223. = Les Réveries du promeneur solitaîre,

Réveries

OC, I, pp. 993-1099.

Le citazioni della corrispondenza si riferiscono all’edizione critica, seguita dal numero del volume e dall’indicazione della pagina:

CC = Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, a cura di R.A. Leigh, 52 voll, Genève-Oxford, Institut et Musée Voltaire-The Voltaire Foundation, 1965-1998. Tutte le citazioni di Rousseau riportate in francese rispettano grafia e punteggiatura degli originali.

Opere di Hobbes Elements.

=

The Elements of Law Natural and Politic, a

cura di F. Ténnies, London, Cambridge University Press, 1928. De cive

=

Libri de cive, in Thomae

Hobbes

Malmes-

buriensis Opera Philosophica quae latine scripsit omnia, a cura di W. Molesworth, 5 voll., London, 1839-1845, vol. II

Le Citoyen

Le citoyen ou le fondements de la politique, traduzione francese di Samuel Sorbière, a cura di S. Goyard-Fabre, Paris, Flammarion, 1982.

Leviathan

=

Leviathan, a cura di C.B. Macpherson, Harmondsworth, Penguin, 1968.

10

Altre abbreviazioni

Encyclopédie = Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers par une société de gens de lettres, mis en ordre et publié par Diderot et par d’Alembert, Stuttgard, Friedrich Frommann Verlag, 1988. (Le citazioni sono seguite direttamente dal numero del volume e di pagina). Rouge et Noir

= Stendhal, Le Rouge et le Notîr, in Romans et nouvelles, a cura di H. Martineau, 2 voll., Paris, Gallimard, 1952, vol. I.

«AR»

= «Annales de la Société Jean-Jacques Rousseau», Genève 1905-

«SV»

= «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», Oxford 1955-

Avvertenza

Ho tradotto direttamente dall’originale tutti i testi di cui mi interessava evidenziare la dimensione linguistica. I corsivi, salvo avvertenza contraria, sono sempre miei.

ll

i

free i prrrar, fire 1h”

SEL)

—n-

ripa

ad

: Mi

e

se Dal

pJaimmi sentii

(a

ro >»

=

GER

Ero

»

è

‘(ia Pe

Mi

00

-

|

dibieo

oqsso

@is

WC bb

Mede ooo

=

_4m

= ve

106), Pelu

derit

n

Prego

—.

ia

ili

ce), Ve

O

go

amd

saloon

i o

Vi

fai

ca cè:

si

IL QUADRO ANTROPOLOGICO E MORALE

LA PASSIONE DOMINANTE

La passione dominante, qualunque sia, / La passione dominante governa sempre la ragione. Alexander Pope

Un animale che ha un desiderio impellente di un pensiero di un pensiero — e di un pensiero non

proprio — e il cui agire è profondamente influenzato da questo tipo di desiderio, più profondamente e più pervasivamente che da ogni altro [...]- ecco l’uomo. Arthur O. Lovejoy

1. «Amour de soi» e «amour-propre»

L'intero orizzonte della riflessione psicologica e morale di Rousseau è contenuto in una breve nota del Discours sur l'inégalité.

Due

passioni,

chiamate

amour

de soi e amour:

propre, delimitano il percorso della storia interiore, tanto individuale quanto collettiva, e, come le maschere di un’antica rappresentazione, si contendono il possesso dell’anima umana: Non bisogna confondere l’amor proprio con l’amore di sé, due passioni molto diverse per la loro natura e per i loro effetti. L’amore di sé è un sentimento naturale che porta ogni animale a vegliare sulla propria conservazione, e che nell’uomo, diretto dalla ragione e modificato dalla pietà, produce l’umanità e la virtù. L’amor proprio è solo un sentimento relativo, artificiale

e nato nella società, che

porta ogni individuo a dare più importanza a sé che a ogni altro, ispira agli uomini tutti i mali che si fanno a vicenda ed è la vera fonte dell’onore!.

Il primo principio si presenta come la forma originaria della coscienza: «La fonte delle nostre passioni, l'origine e il principio di tutte le altre, la sola che nasca con l’uomo e che non lo abbandoni mai finché vive, è l’amore di sé; passione primitiva, innata, anteriore

a ogni altra [...]»?. Sentimento

consustanziale alla vita biologica, l’azour de soi coincide con l'istinto che ci fa «interessare ardentemente al nostro benessere e alla conservazione di noi stessi»?. In altri luoghi, Rous1 Second Discours, p. 219 (nota XV). Per una bibliografia essenziale: V.

Goldschmidt, Antbropologie et politique. Les Principes du système de Rousseau, Paris, Vrin, 1974; M.E. Scribano, «Amour de soi» e «amour-propre» nel secondo «Discours» di Rousseau, in «Rivista di filosofia», 69, 1978, pp. 487-

498; N.J.H. Dent, Rousseau. An Introduction to his Psychological, Social, and Political Theory, Oxford, Blackwell, 1988. 2 Émile, p. 491.

3 Second Discours, p. 126.

15

seau si servirà della formula, per molti versi analoga ma metafisicamente più pregnante, di sertimzent de l’existence: La nostra sensibilità è relativa al desiderio di conservarci. Lo stato naturale di un essere mortale, capace di provare dolore e piacere, qual è l’uomo, è di compiacersi del sentimento della propria esistenza, di sentire con piacere ciò che tende a conservarlo e con dolore

ciò che tende a distruggerlo. È in questo stato naturale e semplice che bisogna cercare la fonte delle nostre passioni*.

La re che vita, e mento quella

coscienza naturale prova sensazioni di dolore e di piacele comunicano con indubitabile certezza il pulsare della con cui si identifica di attimo in attimo: «Il primo sentidell’uomo fu quello della sua esistenza, la prima cura della sua conservazione. [...] La fame, gli altri appetiti

gli facevano provare di volta in volta diverse maniere di esistere [...]»}. L'azzour de soi si configura come la somma di questi diversi stati interiori, che costituiscono il nucleo irriducibile dell'io, e grazie ai quali la coscienza raggiunge una certezza di sé paragonabile a quella del cogzto cartesiano: «Esisto, e ho dei

sensi che mi trasmettono delle impressioni. Ecco la prima verità che mi colpisce, e cui non posso non dare il mio assenso». L’amour de soi è una delle due possibili forme di consapevolezza disponibili all’uomo, e la sua differenza specifica consiste nell'essere autoreferenziale e assoluto. Sotto questo aspetto si distingue dal più importante precedente filosofico, il conatus di Hobbes, al quale invece somiglia per il suo fondamento naturalistico, la sua identificazione esplicita con l’autocon4 Fragments divers, OC, II, p. 1324. ? Second Discours, p. 164. © Emile, p. 570. L'idea era comune ad altri pensatori del diciottesimo secolo: G. Poulet, Le senziment de l’existence chez Rousseau et ses prédécesseurs, in «Studi Francesi», 64, 1978, pp. 36-50; R. Mauzi, L’Idée du bonheur dans la littérature et la pensée francaises au XVIII siècle, Paris, Armand Colin, 1960, pp. 109-140 e 293-300; P. Burgelin, La Philosophie de l’existence de JJ. Rousseau, Paris, Put, 1952, cap. IV. Sulle assonanze cartesiane, H. Gouhier, Les Meditations Métaphysiques de ].-]. Rousseau (1970), trad. it. Filosofia e religione in ].-J. Rousseau, Roma-Bari, Laterza, 1986, cap. II. Sull’amour de soi si vedano anche A.M. Melzer, The Natural Goodness of Man. On The System of Rousseau’ Thought, Chicago, The University of Chicago Press, 1990, cap. II; e, per un'analisi ispirata alla fenomenologia, P. Audi, Rousseau. Ethique et passion, Paris, Puf, 1997, pp. 92 ss.

16

servazione e l'interesse’. Mentre il principio hobbesiano ha un'essenza

dinamica,

aggressiva,

costitutivamente

orientata

verso ciò cheè diverso da sé, l’a7z0ur de soi è quieto, pacifico, indolente. Non tende a superarsi e a lottare senza tregua coné tro un mondo esterno percepito come sfida ed ostacolo, ma si mantiene in una dimensione solipsistica cui manca la consapevolezza dell’alterità. Incapace di fare paragoni, l’io non può concepirsi in termini relativi, per analogie e differenze, ma si conosce solo nella forma assoluta del senzizzent, fiore

immediata di essere qualcosa che vive, che sente. Come sottolinea Rousseau, servendosi di una preziosa metafora visiva che si ripresenterà in tutte le sue opere, nello stadio dell’azzour de soî la coscienza si considera come l’unica spettatrice, e dunque giudice, di se stessa: Poiché ogni uomo, in privato, si considera come il solo spettatore che l’osserva, il solo essere nell’universo che si interessi a lui, il solo giudice del suo merito, è impossibile che un sentimento fondato

su confronti che egli non è in grado di fare possa germogliare nella sua anima?.8

Questa autoreferenzialità dell’azzour de soi si ripercuote sulla sua destinazione pratica: bisogni e desideri sono immediati, dettati cioè espressamente dalla natura che si esprime nell’interiorità individuale, istituendo un ponte diretto con la realtà esterna: «Dobbiamo amarci per poterci conservare e,

per una amiamo

conseguenza

immediata

dello stesso

sentimento,

ciò che ci conserva»?. Nessuna mediazione, nessun

passaggio si interpone nel rapporto tra la coscienza e le cose. In questo stadio della sua esistenza, l’io desidera in modo spontaneo, guidato da un’intenzionalità originaria che non si lascia condizionare da influssi esterni, come potrebbero essere i desideri di altre coscienze, le loro opinioni, i pregiudizi sociali e culturali. Il ruolo che l’azzour de soi svolge nella vita della specie umana corrisponde a quello dell’istinto nella vita 7 Come vedremo, Rousseau sdoppia il coratus hobbesiano in due pas-

sioni diverse, di cui una serba il fine autoconservativo, l’altra la natura relati-

vistica e competitiva. 8. Second Discours, p. 219.

? Émile, pp. 491-492. 17

animale: è una voce interiore che guida con sicurezza l’individuo nel mondo, rivelandogli in modo chiaro e distinto ciò che serve alla sua sopravvivenza e al suo benessere.

Specularmente opposta è la fenomenologia dell’azour-propre, che si presenta mediato tanto quanto il primo principio è immediato e assoluto. Rousseau lo definisce un «sentimento relativo, artificiale, nato nella società»!, che emerge quando l’io, pensandosi come uno tra molti, comincia ad affidare la

consapevolezza di sé alla testimonianza delle altre coscienze: l’uomo sociale, sempre fuori di sé, sa vivere solo nell'opinione degli altri, ed è solo dal loro giudizio, per così dire, che ricava il sentimento della propria esistenza!!.

Nel rapporto biunivoco tra individuo e natura si introduce l’intersoggettività che, simboleggiata dalla metafora dello «sguardo», diventa il fondamento ultimo dell’io: «[...] il primo sguardo che getta sui suoi simili lo porta a paragonarsi a loro»!?. L'assolutezza del sentimzent de l’existence lascia dunque spazio alla mediazione, e l’organo privilegiato della conoscenza di sé diventa la ré/lexion, la facoltà che conosce attra-

verso il confronto e la misura. La coscienza sociale si definisce come un'entità costituzionalmente relativa: è certa di esistere solo se altre coscienze dimostrano interesse nei suoi confronti; si attribuisce predicati e qualità paragonandosi al mondo esterno, e in particolare agli altri io; si valuta e giudica assumendo il punto di vista dei suoi spettatori, come se si guardasse con i loro occhi e condividesse i loro princìpi. Gli uomimi dominati da questa passione, scrive Rousseau, hanno un bisogno incessante di conferme: «[...] tengono in conto gli sguardi del resto dell’universo, e sanno essere felici e soddisfatti di sé in base alla testimonianza altrui piuttosto che alla propria»!. La forma della mediazione si ripercuote anche sulla finalità pratica dell’arzour-propre, stravolgendo il rapporto imme10 Second Discours, p. 219 (nota XV). LIDIA pAO5E 2 Emile, p. 523. 13 Second Discours, p. 193.

18

diato con le cose. Invece di dirigersi con sicurezza istintiva verso ciò che serve alla vita e la potenzia, l'io sociale compie un caratteristico détour: vuole ciò che gli altri io vogliono, fa ciò che gli altri io fanno. L’intenzionalità dei desideri viene sviata verso obiettivi estranei alla loro destinazione originaria, e questo per effetto della soggettività mediatrice, che non si incarna tanto nella persona di un singolo e determinato individuo, quanto nel soggetto impersonale dell’opirzon; il sistema dei valori dominanti, il costume acquisito, la massa anonima del «si deve fare, si deve dire, si deve pensare». È un'idea

di lunga tradizione filosofica, che Rousseau sembra attingere dalla filosofia antica, e in particolare dall’etica stoico-epicurea che ispira la sua concezione dei bisogni: l’opinione degli uomini attribuisce alle cose un valore estraneo alla vera utilità naturale — sia al livello della pura sussistenza sia a quello più raffinato, ma comunque legittimo, del bien-étre (la prosecuzione dell’arzour de soi oltre la soglia minima)". Si creano dei bisogni artificiali, che non hanno un fondamento ultimo nel4 La troviamo riassunta in un importante frammento politico: «I nostri bisogni sono di più specie; i primi sono quelli che riguardano la sussistenza, e da cui dipende la nostra conservazione. Sono tali che chiunque perirebbe se non potesse più soddisfarli; si chiamano bisogni fisici perché ci sono dati dalla natura e niente può liberarcene. Di questa specie ce ne sono solo due: il nutrimento e il sonno. Altri bisogni tendono meno alla nostra conservazione che al nostro benessere e, propriamente, sono solo degli appetiti, ma a volte così violenti da tormentarci più di bisogni veri. Tuttavia non è mai assolutamente necessario soddisfarli, e sappiamo tutti fin troppo bene che vivere non significa vivere nel benessere. I bisogni di questa seconda classe hanno per oggetto il lusso che appaga la sensualità, le mollezze (luxe de sensualité, de mollesse), l'unione dei sessi e tutto ciò che solletica i nostri sensi. C’è poi un terzo ordine di bisogni che, nati dopo gli altri, finiscono col primeggiare su tutti: sono quelli che nascono dall’opinione. Tali sono gli onori, la considerazione, il rango, la nobiltà e tutto ciò che esiste solo nella stima degli uomini, ma che per questa via porta ai beni reali che, senza di essa, non sarebbero raggiungibili», Fragments politiques, pp. 529-530. Nella maggior parte dei luoghi Rousseau distingue solo tra due categorie di bisogni. Epicuro, similmente, divideva i desideri in tre gruppi: quelli che non sono né naturali né necessari, ma nascono dalla vana opinione, come il desiderio di ottenere onori; quelli che sono naturali senza essere necessari (ogni raffinamento con il quale si varii, senza accrescerlo, un piacere naturale); quelli naturali e necessari, perché indispensabili alla vita. È regola di saggezza non cedere mai ai primi, soddisfare solo eccezionalmente i secondi, appagare sempree senza timore i bisogni naturali. Cfr. L. Robin, La Pensée grecque et les origines de [ esprit scientifique (1923), trad. it. Storia del pensiero greco, Torino, Einaudi, 1978, pp. 410-411.

19

l’autoconservazione ma sono indotti dalla cultura, con gravi conseguenze per la libertà morale: gonfiandosi potenzialmente all’infinito, possono sfuggire al controllo e rendere schiavi gli stessi uomini di cui dovrebbero facilitare l’esistenza. Il tema, come dicevo, è classico. Ma Rousseau lo affronta con un inconfondibile accento personale, calcando sull’idea di distorsione, sul fatto, cioè, che l'opinione sociale perverta

l’intenzionalità dell'io, minacciandone la primitiva innocenza. In un brano dei Diz/ogues questo motivo filosofico si concretizza in un'immagine folgorante, dominata dalle metafore dello «slancio» e dell’«ostacolo»: Tutti i movimenti originari della natura sono buoni e retti, tendono nel modo più diretto possibile alla nostra conservazione e alla nostra felicità. Ma presto, mancando di forza per seguire attraverso tante resistenze la loro direzione originaria, si lasciano deviare (dé/léchir) da mille ostacoli, che sviandoli dal loro vero fine li instradano per vie oblique, in cui l’uomo dimentica la sua destinazione originaria”.

La fenomenologia somiglia a quella che René Girard ha illustrato nei suoi studi sul cosiddetto desiderio triangolare!°. L’irruzione dell’alterità nell'orizzonte soggettivo condiziona lo slancio intenzionale del desiderio, facendogli assumere una caratteristica struttura a tre vertici (io, l’altro, la cosa che en-

trambi desideriamo), e riflettendosi sul rapporto con l’oggetto. Il legame che, come una freccia, unisce direttamente la coscienza al mondo si spezza. Il rapporto biunivoco e quieto si

trasforma in un problematico 72énage è trois, il cui terzo termine può a sua volta diramarsi in una rete infinita di rimandi, VD Dialogues, p. 668.

‘© Cfr. R. Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque (1961), trad. it. Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano, Bompiani, 1981 (la prima edizione italiana è apparsa nel 1965 con il titolo Struttura e personaggi nel romanzo moderno); Id., Des Choses cachées depuis la fondation du monde (1978), trad. it. Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Milano, Adelphi, 1996, cap. III (a p. 354 compare la stessa metafora dell’ostacolo utilizzata da Rousseau). Si vedano anche P. Dumouchel e J.-P. Dupuy, L’Ewfer des choses. René Girard et la logique de l'économie, Paris, Seuil, 1979 (un’approfondimento in chiave economica delle categorie girardiane); E. Pulcini, Il sé mimetico e il falso riconoscimento, in Pensare la società. L'idea di una filosofia sociale, a cura di M. Calloni et 4/., Roma, Carocci, 2001, pp. 1053125

20

perché il mediatore del mio desiderio sarà sempre a sua volta mediato, e così via. La figura simbolica dell’ostacolo diventa insomma minaccia di una dispersione di senso incontrollata e, a un livello filosofico più generale, come ha intuito Jean Starobinski, metafora per eccellenza dell’alienazione, il problema che costituisce il fondamento e il centro della critica di Rousseau al mondo moderno!. 2. L'alienazione originaria

Proprio per il suo rapporto con l’idea di alienazione, l’analisi delle due passioni, che finora abbiamo considerato da un

punto di vista descrittivo, è pesantemente influenzata da una valutazione morale. L'arzour de soi è «sempre buono e sempre contorme all’ordine»!8. L’azzour-propre, al contrario, «ispira agli uomini tutti i mali che si fanno a vicenda»!?. Per giustificare queste affermazioni, Rousseau sviluppa vari argomenti, che non sempre sono coerentemente articolati tra loro, e a volte obbediscono a suggestioni culturali o teoriche di matrice diversa. Il più importante è certamente quello implicito nel principio della bontà naturale, da cui segue, come deduzione quasi tautologica, l’idealizzazione del sentimento primitivo — naturale, dunque buono e retto — e la conseguente condanna dell’arzour-propre in virtù della sua artificialità?°. All'opposizione di fondo tra natura e cultura, originario e derivato, si ricollega poi, come corollario spontaneo, un motivo

che potremmo definire vitalistico. Nel brano dei Diglogues già !7 J. Starobinski, /.-]. Rousseau. La Transparence et l’obstacle (1957), trad. it. J.-J. Rousseau. La trasparenza e l'ostacolo, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 53-55. Sul tema imprescindibile anche B. Baczko, Rousseau. Samotnosé i wspblnota (1964), trad. fr. Rousseau. Solitude et communauté, Paris-La Haye,

Mouton, 1974, cap. I. Sull’importanza epocale della diagnosi di Rousseau, e la continuità che la lega agli altri grandi classici della critica sociale, A. Honneth, Patologie del sociale, in «Iride», 18, 1996, pp. 295-328. 18 Émile, p. 491. 19 Second Discours, p. 219 (nota XV).

20 Per una rilettura del sistema rousseauiano alla luce del principio della bontà naturale, Melzer, The Natural Goodness of Man, cit. Sul problema del

male, A. Philonenko, J.-J. Rousseau et la pensée du malbeur, 3 voll., Paris, Vrin, 1984, in particolare vol. I (Le Traité du mal).

PAI

citato, ad esempio, Rousseau prosegue la sua illustrazione insi-

stendo sull’«indebolimento», lo spossamento interiore che travolge la coscienza al momento dell’urto con l'ostacolo:

Quest’effetto deriva soprattutto dalla debolezza dell'animo che, seguendo fiaccamente l'impulso della natura, devia urtando contro un ostacolo, come una sfera che descriva un angolo di riflessione;

mentre quella che segue più vigorosamente la sua corsa non devia ma, come una palla di cannone, forza l'ostacolo, oppure si smorza e cade dopo averlo incontrato?!.

In un primo senso, dunque, l'alienazione è intesa nel senso metafisico più forte, come «separazione», distacco o uscita

dall’ordine naturale che, essendo l’ordine buono per eccellenza, è anche il metro di riferimento per la diagnosi della patologia morale: in questo campo semantico rientrano l’idea di disordine, snaturamento,

divenire altro — come

nell’emble-

matica definizione dell’uomo sociale che, vivendo del giudizio altrui, è sempre bors de sos, fuori di sé. In un altro senso, invece, l’alienazione è concepita in termini più dinamici, come una perdita di vigore e di energia da parte di ciò che, allontanandosi dall’origine, si priverebbe della sua intensità naturale (nell'immagine dei Dig/ogues, la «spinta» necessaria a forzare l’ostacolo che si oppone alla soddisfazione del bisogno??). L'idea avrà conseguenze importanti sulla visione normativa dell’io, anche negli aspetti meno legati al problema dell’autoconservazione: una delle maggiori preoccupazioni di Rousseau sarà quella di evitare che forme di espressività originaria, come il sentimento e la passione (nel senso forte, na-

turalistico del termine), si sclerotizzino in atteggiamenti poco spontanei, dettati dalla preoccupazione per le reazioni altrui 21 Dialogues, pp. 668-669. 22 Cfr. sopra, e Second Discours, p. 193. ? Le metafore della corsa e della palla di cannone potrebbero suggerire un’interpretazione hobbesiana di questo brano. Tuttavia, come meglio vedremo commentando il secondo Discours, l'aggressività dell’amzour de soi è solo occasionale e reattiva, priva della volontà di potenza che spinge il conatus di Hobbes verso un continuo autotrascendimento. Va notato, inoltre, come Rousseau tema la deviazione dell’impulso vitale, più che il suo indebolimento. Se non riesce a superare l'ostacolo, lo slancio si spegne, «cade» piuttosto che «riflettersi». La rinuncia, in altre parole, è preferibile all’alienazione.

22

e dall’introiezione delle convenzioni sociali, come l’ipocrisia e

il conformismo”. Le due prospettive critiche, va poi notato, non solo non si escludono, ma s'intrecciano e si rafforzano a vicenda nella plurivocità dell'idea di natura, a seconda che se ne accentui l'aspetto legalistico o quello organico-biologico, la facoltà ordinatrice o quella creatrice??. Infine, possiamo ricostruire un altro ambito semantico dell'idea di male, l'alienazione come perdita di libertà, o meglio come perdita di quell’indipendenza dagli altri esseri umani che spesso Rousseau tende a identificare con la libertà tou? court. Per il nostro tema, si tratta della posta in gioco più alta: è quest’ultimo motivo a determinare conseguenze decisive per

il problema dell’intersoggettività, condizionando all’origine un'etica che, dettata da una preoccupazione difensiva, tende a identificare felicità e solitudine. Rousseau, verosimilmente, eredita quest'approccio dagli stoici*° e dall’amato Montaigne”. Nelle opere autobiografiche, 24 Si veda ad esempio la descrizione del mondo ideale costruito dall’immaginazione di Jean-Jacques, in cui le passioni sono «più vive, più ardenti» che sulla terra, Dizlogues, p. 668. Ma basta pensare al pathos che infiamma la Nouvelle Héloise e le Confessions. D Sempre all'opposizione originario/derivato si ricollega il male della mediazione, contraltare polemico dell’ideale che Starobinski ha definito «trasparenza» (è il terzo modo di riformulare lo stesso principio). L’alienazione, in

questo senso, riguarda le condizioni formali dell'apparato normativo. Tutti i valori difesi da Rousseau, qualunque sia l'ambito di pensiero, condividono il «modo d’essere» dell’immediatezza: l’utilità naturale rincorsa dal RobinsonEmile, la sincerità invocata nell’incipit delle Confessions, il sentimento dell’esistenza rimpianto nel secondo Discours e nelle Réveries, la democrazia diretta idealizzata nel Contrat social. Per contrasto, gli idola colpiti dalla denuncia rousseauiana implicano sempre un'interruzione del rapporto diretto tra la coscienza e il mondo. L’ostacolo, allora, può incarnarsi nei modi differenziali e

discorsivi della réflexion, nell’ansia per il giudizio dell'opinione pubblica, nel procedimento istituzionale della rappresentanza politica: tutti questi fenomeni, apparentemente così diversi, trovano un denominatore comune nel ricorso al passaggio mediatore. 26 Rousseau conosceva bene alcuni testi fondamentali dello stoicismo romano, e in particolare le Lettere 4 Lucilio di Seneca. Si vedano soprattutto G. Pire, De l'influence de Sénèque sur les théories pédagogiques de ].-J. Rousseau, in «AR», 33, 1953-1955, pp. 57-92; E.E. Malkin, Rousseau and Epictetus, in «SV», 106, 1973, pp. 113-155. Sullo stoicismo durante l’dge classique, P. Bénichou, Morales du Grand Siècle (1948), trad. it. Morali del «Grand Siècle», Bologna, Il Mulino, 1990; A. Levi, French Moralists, Oxford, Clarendon Press, 1964. 2? Per l'influsso che possono avere avuto su Rousseau sono interessanti

0.

inoltre, insiste nel presentare l’amore per l'indipendenza co-

me una propensione innata del suo carattere, una sorta di da-

to immediato dell'esperienza, talmente irresistibile da poterlo spingere a gesti bizzarri, ingiusti e antieconomici: «In ogni co-

sa il disagio e l’asservimento mi sono insopportabili; mi farebbero odiare persino il piacere. Dicono che tra i maomettani un uomo passi all’alba tra le strade, per ordinare ai mariti di compiere il loro dovere con le mogli. In quelle ore sarei un pessimo turco»?8. Ad ogni modo, qualunque sia la sua origine ultima, il mito dell’indipendenza condiziona potentemente il modello rousseauiano di soggettività, che per molti versi è una lunga risposta all’assioma formulato nel secondo Discours: «l’uomo è debole quando è dipendente»??. Dietro a questo assunto c'è un’idea naturalistica e tragica di condition humaine, un’antropologia della finitezza cui Rousseau contrappone una morale di «resistenza», ispirata al modello terapeutico delle filosofie ellenistiche?®. In una realtà minacciosa, imprevedibile e fluttuante, che espone l’uomo ad ogni sorta di attacco e di mortificazione, imparare a fare a meno di quelli che Aristotele definiva i «beni esteriori» è la prima, indispensabile regola di saggezza. È molto meglio prevenire il dolore, assuefarsi in anticipo alle sue privazioni, piuttosto che farsi cogliere impreparati, e dunque ancora più fragili. L'obiettivo soprattutto i saggi: Des canzzibales (I, 31), elogio dell’autarchia della vita selvaggia; De la solitude (I, 39) concluso dalla massima: «liberiamoci da tutti i legami che ci attaccano agli altri; riconquistiamo a ragion veduta il potere di vivere soli e di esserne soddisfatti», Essazs, a cura di P. Villey, 3 voll., Paris, Puf, 1988, vol. I, p. 240; e De la vanité (INI, 9), dove Montaigne sostiene di ispirarsi a Ippia di Elea, così autosufficiente da confezionarsi da solo vestiti e scarpe. Cfr. P. Villey, L’Influence de Montaigne sur les idées pédagogiques de Locke et de Rousseau, Paris, Hachette, 1911; C. Fleuret, Rousseau et Montaigne, Paris, Nizet, 1980. Sul rapporto di Montaigne con i modelli antichi di saggezza, H. Friedrich, Montaigne, Bern-Miinchen, Francke, 1949. 28 Confessions, p. 190. Si possono ricordare, oltre alla celebre «riforma» personale, anche la sesta passeggiata delle Réveries, dove il rifiuto delle costrizioni si estende all’elemosina, perché chi la riceve si sentirebbe in diritto di pretenderne un’altra; l’insofferenza che Rousseau ha sempre confessato verso il lavoro continuativo, la decisione di abbandonare l’uso dell'orologio.

29 Second Discours, p. 153. ?© Sul modello terapeutico nell’etica antica, M.C. Nussbaum, The Tberapy of Desire. Theory and Practice in the Hellenistic Ethics (1994), trad. it. Terapia del desiderio, Milano, Vita e Pensiero, 1998.

24

di massima, per ottenere un alto margine di felicità relativa (concepita cioè come non-sofferenza), è l’awtarchia: tutti i rapporti non direttamente controllabili dalla volontà individuale — e in primo luogo l’attaccamento agli esseri umani, ben più pericoloso di quello verso le cose perché legato all’arbitrio, imprevedibile e capriccioso — dovrebbero ridursi al minimo o assumere, se possibile, lo stesso grado di necessità di quelli naturali?!. Il rasoio di Rousseau si rivolge contro le dipendenze materiali: il lusso, i consumi superflui, la divisione del lavoro, il commercio, il nascente sistema dei bisogni, vere e proprie ca-

tene che, «stringendo tra gli uomini i nodi della società tramite l'interesse personale, li pongono tutti in uno stato di mutua dipendenza (dépendance mutuelle)»?, azzerando ogni margine di autonomia e iniziativa. Ma un altro obiettivo polemico, forse meno appariscente ma filosoficamente prioritario (l’etico è sempre sovraordinato all’economico nel sistema rousseauiano

delle idee) è costituito dalle dipendenze interiori. Ecco dunque il principio che pre-giudica fatalmente le due passioni fondamentali: l’amzour de soi è uno stato d’animo autosufficiente per definizione, il compimento del se contentus esse in cui consisteva l’obiettivo supremo delle etiche antiche. L'amzour propre, al contrario, che ha bisogno degli altri persino per l’aspetto più originario della vita, la certezza di esistere e di provare sentimenti e desideri, è la forma per eccellenza di schia-

vitù, l'archetipo dell’alienazione come perdita di libertà. E quando questo motivo filosofico prevale, l'orrore per le dipendenze impedisce a Rousseau di concepire il rapporto tra coscienze in termini diversi da quelli della reciproca esclusione”. 31 Rousseau delinea questo progetto etico nelle Lettres morales e soprattutto nell’Éyzz/e. Sull’idea di condition humaine e i motivi naturalistici ereditati da Montaigne, rimando a B. Carnevali, Rousseau e Montaigne. L'autonomia dell’uomo e la natura, in «Studi Settecenteschi», 19, 1999, pp. 109-143.

32 Préface de Narcisse, p. 968. Cfr. anche Second Discours, pp. 164 ss. 3 Sul problema socialità/dipendenza è incentrato il saggio di John Charvet (The Social Problem in the Philosophy of Rousseau, Cambridge, Cambridge University Press, 1974), ricco di spunti interessanti, ma che offre una lettura tutta interna al sistema rousseauiano delle idee e alla sua logica argomentativa, senza vedere l'influsso, a mio avviso cruciale, che esercitano su di esso suggestioni culturali come il modello delle etiche antiche.

29

Alla luce, dunque, di una morale che promuove l’arroccamento dell’individuo nella sua cittadella interiore e idealizza l’autarchia come stato del perfetto «essere presso di sé», si prospetta la necessità di recidere filo per filo quel reticolo di relazioni che, come un’enorme ragnatela, avvince l’io al mondo esterno, esasperandone la sensibilità e la debolezza. Ma reagendo con la peculiare normatività metafisica del concetto rousseauiano di natura, questo ideale classico finisce per trasformarsi in qualcosa di più moderno: un percorso identitario guidato dal mito soggettivo dell’«autenticità». Il termine del processo di liberazione dalle dipendenze superflue è infatti l’io naturale, che è più vero, più buono di quello sociale perché più originario e genuino. La saggezza dunque, nella sua duplice accezione di avvicinamento alla verità e alla felicità, si conquista «ridiventando noi stessi»: recuperando quell’identità profonda del nostro essere che, come la statua di Glauco in fondo al mare, si conserva intatta sotto le incro-

stazioni dell’opinione, e i cui confini, tracciati dalla mano sicura della natura, sono precisi e chiari come i contorni di un disegno. Condizione essenziale per questo percorso ascetico è la solitudine, sottrazione prima di tutto fisica allo sguardo

altrui: Quando vedo che ciascuno di noi, incessantemente preoccupato dell'opinione pubblica, estende per così dire tutt'intorno a se stesso la propria esistenza, senza riservarne quasi nulla nel proprio

cuore, mi sembra di vedere un piccolo insetto che formi con la sua sostanza una gran tela, e che viva solo attraverso di questa, mentre

lo penseremmo morto nel suo buco. La vanità dell’uomo è la tela di fagno che egli fila su tutto ciò che lo circonda. L'una è solida quanto l’altra. Basta toccare il minimo filo perché l’insetto si metta in movimento, lui che morirebbe di languore se si lasciasse tranquilla la tela, e se gliela laceriamo con un dito, finirà per spossarsi completamente pur di ricostruirla all'istante. Cominciamo a ridiventare noi stessi, a concentrarci in noi, a circoscrivere gli stessi limiti che la natura ha dato al nostro insomma a raccoglierci dove siamo, in modo scerci, tutto ciò di cui siamo composti si venga

la nostra anima con essere, cominciamo che, volendo conoa presentare tutto in

una volta. Per quanto mi riguarda, credo che il più vicino alla saggezza sia chi meglio sa in cosa consista l'io umano, e che, come il primo tratto di un disegno è formato dalle linee che lo delimitano, così la prima idea dell’uomo è quella che lo isola da tutto ciò che è 26

diverso da lui. [...] Raccoglietevi, cercate la solitudine, ecco il segreto grazie al quale soltanto potrete scoprire i vostri}.

In questo brano delle Lettres zz0rales siamo posti davanti a un bivio senza possibilità di mediazione: dove cominciano gli altri finisce il nostro io; e la coscienza resta buona, libera e saggia finché, diffidando da ciò che non è identico a sé, si mantie-

ne scrupolosamente all’interno dei propri confini. Ritradotto nei termini dell'opposizione che struttura il pensiero rousseauiano, l'invito ad essere se stessi coincide dunque con una lotta interiore contro l’amzour-propre, la passione dell’incompletezza che cerca appiglio e sostegno nell’alterità. Gran parte delle difficoltà di Rousseau, sul piano filosofico come su quello personale, nasceranno dal tentativo di conciliare questo bisogno di introversione con le esigenze elementari della natura umana che, incurante del pericolo, proprio in virtù della sua innata finitezza, continua a tessere i fili della sua ragnatela, ad alienarsi spontaneamente nella dipendenza dagli altri. 3. Psicologia sociale Ma il danno dell’arzour-propre per la vita non si riduce al suo potere alienante. Alle ipoteche di natura metafisica e morale, Rousseau

affianca una fosca descrizione delle conse-

guenze sociali della dipendenza reciproca. Riprendiamo la nota da cui è partita l'indagine: «[...] un sentimento relativo, artificiale,

e nato nella società, che porta l’individuo a dare

34 Lettres morales, OC, IV, pp. 1112-1113. Per una lettura di Rousseau

alla luce di questo tema, oltre ovviamente alla monografia di Starobinski: A. Ferrara, Modernità e autenticità. Saggio sul pensiero sociale ed etico di ].]. Rousseau, Roma, Armando, 1989; E. Pulcini, L'individuo senza passioni. In-

dividualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, cap. III, in particolare pp. 118 ss. Per un inquadramento nella storia degli ideali etici moderni: M. Berman, The Politics of Authenticity. Radical Individualism and the Emergence of Modern Society, New York, Athe-

neum, 1970; L. Trilling, Sincerity and Authenticity, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1972; Ch. Taylor, Sources of the Self. The Making of the Modern Identity (1989), trad. it. Radici dell'io, Milano, Feltrinelli, 1993; Id., The Malaise of Modernity (1991), trad. it. I/ disagio della modernità, Roma-Bari, Laterza, 1999.

ZI

più importanza a sé che a ogni altro, ispira agli uomini tutti i mali che si fanno a vicenda, ed è la vera fonte dell’onore». La

ragione per cui un principio passivo, com'è per definizione il

bisogno di riconoscimento, si trasforma in un movente attivo

e violento, è insita proprio nell’essenza «relativa». Ritroviamo quest'idea al centro di un brano dei Dialogues, in cui la differenza tra le due forme di amore viene rivisitata a proposito del godimento e del piacere: La sensibilità positiva deriva immediatamente dall'amore di sé. È del tutto naturale che chi si ama cerchi di estendere il suo essere e i suoi godimenti, appropriandosi tramite l'attaccamento di ciò che sente essere un bene per sé: è una questione di puro sentimento, in cui la riflessione non c'entra nulla”.

L’amour de soi è un egoismo benigno, simile a quello dei bambini e degli animali: non vuole per principio il male altrui, ma diventa aggressivo solo occasionalmente e per reazione,

quando viene impedito. Inoltre, non contamina le proprie sensazioni con confronti e paragoni, perché le prova sempre

en particulier, come se la coscienza fosse sola al mondo”. L’amour-propre, al contrario, per via della triangolazione che ne devia la costituzione interna, si esprime in una forma di sensibilità artificiale che Rousseau definisce «negativa»: [...] un sentimento relativo, tramite cui ci si confronta, che richiede preferenze, il cui godimento è puramente negativo, e che non cerca soddisfazione nel nostro proprio bene, ma solo nel male altrui?”.

L'io sociale, in principio, sarebbe altrettanto egoista dell’io naturale, perché persegue esclusivamente il proprio piacere, senza motivazioni altruistiche. Ma la sua struttura mediata snatura e smaterializza questo piacere, sostituendone il fine conservativo con un obiettivo simbolico. La coscienza che si confronta non vuole un bene definito, assoluto, tangibile, di chiara ed evidente utilità come la quantità d’acqua o cibo necessaria a soddisfare la sua sete o la sua fame: ciò che desidera è «di © Dialogues, pp. 805-806. 3© Cfr. sopra, Second Discours, p. 219. I Dialogues, p. 669.

28

più» rispetto agli altri tra cui vive, un valore definibile soltanto relativamente all'interno del sistema socio-culturale. E dato che questo suo bene coincide per forza di cose con un male altrui, il suo egoismo perde innocenza e il suo atteggiamento di-

venta bellicoso e malevolente. La metafora dello slancio deviato, insistendo sulla differenza tra il fine assoluto dell’«oggetto», e quello relativo dello «scarto» da conquistare rispetto all'ostacolo, esemplifica perfettamente questo meccanismo: Le passioni primitive, che tendono tutte alla nostra felicità, ci

fanno interessare solo agli oggetti che si riferiscono ad esse [...]. Ma quando, sviate dal loro oggetto da degli ostacoli, si interessano più a scartare l'ostacolo che a raggiungere l'oggetto, allora cambiano natura e diventano irascibili e odiose [...]}8.

Nasce così un circolo vizioso: l’io che vuole primeggiare, avendo perso l'autonomia del sentizzent de l’existence, ha bisogno di veder confermato il proprio valore da quegli stessi altri rispetto ai quali rivendica superiorità. Il bisogno di riconoscimento entra in contraddizione con lo spirito di concor-

renza. E il conflitto assume una forma paradossale, rendendo sempre più interdipendenti gli stessi individui che dovrebbe per principio dividere: [...] l'amor proprio, che si compara, non è mai soddisfatto e nemmeno potrebbe esserlo, perché questo sentimento, preferendoci agli altri, esige che anche gli altri ci preferiscano a se stessi, cosa impossibile. Ecco come le passioni dolci e affettuose nascono dall’amore di sé, e come le passioni astiose e irascibili nascono dall’amor

proprio??.

Con queste analisi Rousseau ha compiuto alcuni passi teorici decisivi, collocandosi in modo consapevole e originale nella linea del pensiero moderno: a) Ha accolto l’idea, di origine hobbesiana, che la vita socia-

le sia prevalentemente segnata dal conflitto. Questo conflitto è endemico, perché legato a caratteristiche strutturali della socia-

lità (la mediazione, la relazionalità, il confronto); si configura in 38 Ibid., pp. 668-669. 39 Émile, p. 493.

29

forma individuale-universale, ossia come una lotta tra singoli che si combattono indiscriminatamente tutti contro tutti, non

per gruppi o fazioni; e ha per fine la supremazia relativa sugli altri, l’autoaffermazione nella competizione. b) Ha offerto una spiegazione simbolica della natura e della genesi di tale conflitto. L'ostilità che oppone gli individui rendendoli universalmente nemici non è determinata da cause necessarie, naturali e materiali, quali potrebbero essere la so-

pravvivenza e la riproduzione sessuale (motivi che invece rientrano nella sfera autoconservativa, dunque tendenzialmente pacifica, dell’azour de soi); ma si radica nel movente gratuito dell’amzour-propre. La posta in gioco è la «preferenza», ossia l’insieme dei beni spirituali che dipendono dalla buona opinione degli uomini (l’amore, la considerazione, la stima, ’am-

mirazione, l'onore, la gloria, ecc.) e rispetto a cui la coscienza

competitiva rivendica il primato. c) Ha giudicato il conflitto in modo regativo. Da questo punto di vista, la sua analisi può essere confrontata con quella di Mandeville, che sugli stessi fenomeni, e a parità di spiegazione, aveva espresso una valutazione ottimistica: per l’autore

della massima «vizi privati, pubbliche virtù», la concorrenza stimolata dall’amor proprio è una proficua emulazione, l’indispensabile stimolo che permette alla società borghese di raggiungere vertici di sviluppo, dinamismo e ricchezza. Per Rousseau, al contrario, si tratta di una catastrofe: quando l’in-

dividuo cerca di affermarsi a spese degli altri, il risultato è un impoverimento fatale del tessuto etico, che nessun progresso economico potrà mai compensare.

Ritorneremo a più riprese sull’influenza di Hobbes come sul rapporto con Mandeville. Mantenendoci a un livello espositivo, notiamo per ora come, alla luce di queste premesse, l’analisi psicologica e sociale di Rousseau assuma inevitabilmente *° Come Rousseau, Mandeville distingue tra una passione a fine autoconservativo, pacifica e quieta (se/Alove), e una passione dell’autoaffermazione competitiva (se/-Zking), che ha un’origine simbolica e che si soddisfa solo nel confronto relativistico. Anche la descrizione degli effetti interiori e sociali dei due princìpi è analoga. Cfr. Scribano, «Amour de soi» e «amour-propre» nel secondo «Discours» di Rousseau, cit.; Pulcini, L'individuo senza pas-

stoni, cit., pp. 65 ss. e 90 ss.

30

toni cupi e tragici. Oltre ad essere universale, cioè rivolta in modo indiscriminato verso ogni altra coscienza, la conflittua-

lità generata dall’amzour-propre si prospetta infinita, priva di telos, di riferimenti assoluti. Se gli individui fossero spinti dai bisogno fisico, si potrebbe ipotizzare un termine della lotta: in un'ipotetica condizione di abbondanza, in cui le risorse fossero sufficienti per tutti, si spegnerebbe la ragion d'essere della rivalità. La radice simbolica dell’amor proprio, al contrario, fa sì che la competizione non abbia né possa avere termine: non esiste una meta se le vittorie si misurano solo in termini relativi. Ogni singolo successo sarà effimero, temporaneo, e la minima oscillazione basterà a riaccendere la contesa. Si può immaginare a che livello questa precarietà dei rapporti sociali mini le basi dell’equilibrio psichico soggettivo. Chi ha l’unico fine di superare gli altri si strugge d’insoddisfazione, perché il suo desiderio di eccellenza, svincolato dall’ancoramento al bisogno naturale, non potrà mai saziarsi. E vive nell’ansia, guardandosi continuamente intorno per scrutare i

progressi dei rivali, ondeggiando nell’alternanza di euforia e depressione che si associa sempre a un’esasperata ermeneutica del proprio valore posizionale. E uno stato d’animo noto alle categorie sociali che dipendono direttamente dal giudizio altrui e che presuppongono un impulso agonistico: gli sportivi, in primo luogo, gli uomini di spettacolo, i politici, e in generale tutte le professioni in cui vige la carriera per «merito». In questi ambienti, come nota René Girard,

la ciclotimia si nutre di segni che non sono affatto illusori e insignificanti, anche se la loro interpretazione può suscitare divergenze straordinarie. Ne sono inevitabilmente ossessionati coloro il cui avvenire professionale e la cui reputazione professionale dipendono da tali segni. Si tratta in questo caso di un'ossessione che può essere definita oggettiva, come l’alternanza timica che le è associata. E difficile non rallegrarsi di ciò che rattrista il rivale, non rattristarsi di ciò che lo rallegra‘.

Ma agli occhi di Rousseau c’è una categoria per cui questo quadro psicologico vale in modo idealtipico: «[...] in genere 41 Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 377.

31

le persone di spirito, e specialmente i letterati, sono tra tutti gli uomini quelli che hanno una maggiore intensità di amor proprio, i meno portati ad amare, e i più portati a odiare». Gli intellettuali sono un’oggetto privilegiato per l’analisi dell’amour-propre perché vivono letteralmente di riconoscimento, subordinando all’ordine simbolico le gratificazioni materiali: il desiderio di essere approvati e ammirati, che nella

maggior parte degli uomini convive con altri moventi, li domina in forma pura. Inoltre, intrattenendo con l’opirion lo stesso genere di rapporto che gli attori hanno con il pubblico, illuminano il nesso tra rivalità e simulazione che è alla base dell'idea rousseauiana della vita sociale. Per l’artista ambizioso il modo più facile per conquistare la fama è compiacere in anticipo il soggetto che la attribuisce, assecondando i suoi gusti e i suoi valori. Da qui l'enorme potere ideologico dell’arte, lo svilimento della sua destinazione critica, e l’esasperazione di quelle strategie seduttive che rappresentano il volto ipocrita della rivalità universale: Chiunque si occupi di talenti gradevoli vuole piacere, essere ammirato, ed essere ammirato più di un altro. Gli applausi pubblici appartengono solo a lui: potrei dire che fa di tutto per ottenerli, se non facesse ancora di più per privarne i suoi concorrenti. Ecco, da un lato, l'origine delle raffinatezze del gusto e della cortesia; l’adulazione vile e bassa, le attenzioni seduttrici, insidiose, puerili che, alla lunga, intorbidano l’anima e corrompono il cuore. E, dall’altro, le gelosie, le rivalità, gli odi tra artisti, così ben noti, la perfida calunnia, la furbizia,

il tradimento, e tutti gli aspetti più vili e più odiosi del vizio.

Nelle intenzioni di Rousseau, tuttavia, questi lineamenti psicologici non hanno una validità ristretta a uno specifico gruppo 1° Dialogues, p. 806. Per la fenomenologia dell’invidia e della sua espressione negli intellettuali, si veda anche Mandeville, The Fable of the Bees, nota N. * «Ogni artista desidera essere applaudito. Gli elogi dei suoi contemporanei sono la parte più preziosa della sua ricompensa. Cosa farà dunque per ottenerli? [...] Abbasserà il suo genio al livello del secolo, e preferirà comporre opere comuni, che suscitino ammirazione durante la sua vita, invece che capolavori destinati ad essere ammirati molto dopo la sua morte», Premier Discours, p. 21.

1 Préface de Narcisse, pp. 967-968. Cfr. anche Lettre è d’Alembert, pp.

33-34, e passim.

32

sociale. Homes de lettres e artisti estremizzano — proprio perché incapaci di compensare per vie alternative la sete di riconoscimento — le stesse ansie che, in misura più attutita, prova anche l’uomo comune”. Rispetto a un povero di spirito, il letterato vive il dramma della concorrenza ben più tragicamente, perché ne è più consapevole, grazie all’acutezza dei suoi strumenti intellettuali, e perché non si illude sulla realtà del proprio valore: «[...] riconosce perfettamente sia quel che gli manca, sia il vantaggio che un altro può avere su di lui in fatto di meriti o di talenti. Lo confessa solo a se stesso, ma lo ha sempre presente suo malgrado, ed è una cosa che l'amor proprio non perdona». Ma a parte il grado di consapevolezza, l’arzour-propre è da considerarsi una malattia universale. Ne sono affetti tutti gli uomini viventi in società, per il solo fatto di stare gli uni accanto agli altri e di guardarsi reciprocamente: [...] non appena prendiamo l’abitudine di misurarci con altri, e di uscire da noi stessi per assegnarci il primo e miglior posto, è impossibile non prendere in avversione tutto ciò che ci supera, tutto ciò che ci abbassa, tutto ciò che ci reprime, tutto ciò che, essendo

qualcosa, ci impedisce di essere tutto. L'amor proprio è sempre irritato o scontento, perché vorrebbe che ciascuno ci preferisse a tutto e a se stesso, il che è impossibile: si irrita accorgendosi che altri meritano delle preferenze, anche se non le ottengono; si irrita se un altro ha su di noi dei vantaggi, senza placarsi con quelli da cui si sa ripagato. Il senso d’inferiorità sotto un solo aspetto, allora, avvelena quello di superiorità sotto mille altri, e dimentichiamo ciò che abbiamo in più, per occuparci unicamente di ciò che abbiamo in meno. Capite bene che tutto questo non può disporre l’animo alla benevolenza”. In un mondo che, oltretutto, comincia a non attribuire più

agli individui un posto fisso in virtù della loro nascita, lo spirito 4 Due altre categorie sociali ritornano spesso nelle analisi sulla competizione simbolica: i grandi aristocratici e le donne. Per quanto riguarda i primi, Rousseau nota che l'educazione feudale al culto della gloria, dell’onore e del disinteresse si è ritradotta in epoca moderna nei termini assai meno eroici di una lotta per le distinzioni mondane: ossia nel culto delle apparenze sterili, delle buone maniere, del fasto e del lusso. Tratterò di questi temi nella terza figura. Quella delle donne è invece una questione più complessa, che essendo legata al problema della differenza femminile conduce fuori tema rispetto all’argomento di questo saggio. Lo affronterò dunque solo tangenzialmente. 46 Dialogues, p. 807.

4 Ibid., p. 806.

33

di competizione si estende a qualsiasi aspetto della vita sociale. Ogni stima dipende dal confronto, da misure in termini di «più» e di «meno». La vita intersoggettiva è come una grande

borsa valori, dove non c’è limite alle fluttuazioni quotidiane

del mercato, e in cui il rialzo delle azioni dell’uno coincide au-

tomaticamente con la bancarotta dell’altro.

4. L’eredità di

Hobbes

Quando affonda l’analisi psicologica, Rousseau si colloca a pieno titolo nella prestigiosa tradizione dei moralisti moderni. Pagine come quelle che abbiamo appena commentato fanno immediatamente pensare a Montaigne, Pascal, La Rochefoucauld. In generale, dato il fascino dell'argomento, gli studiosi si sono impegnati nella ricerca di fonti dirette o indirette e, concentrandosi soprattutto sulla distinzione terminologica tra le due forme d’amore, hanno fatto anche i nomi di

Malebranche, Abbadie, Vauvenargues e, per il contesto inglese, di Mandeville*$.

Se ci fermiamo a un primo livello, la riflessione rousseauiana sembra richiamare soprattutto la scuola giansenistica, di cui condivide il lessico, la finezza analitica e l'inconfondibile intonazione tragica. Pascal è il termine di confronto ideale. Anche nel sistema pascaliano l’azzour-propre è la «passione dominante», il cancro che corrode la coscienza spingendola ad un autocompiacimento smodato: «La natura dell’amor proprio e di questo io umano è di amare solo se stesso e di considerare so-

‘lo stesso». Da qui la duplice condanna, metafisico-morale e 1 Jean Starobinski, nel commento all'edizione Pléiade del secondo Discours, cita Jacques Abbadie, Marie Huber, Vauvenargues (OC, III, p. 1376); Iring Fetscher richiama la tradizione agostiniana, in particolare Malebranche e Vauvenargues (Rousseaus politische Philosophie. Zur Geschichte des demokratischen Freibeitsbegriff, 1960, trad. it. La filosofia politica di Rousseau. Per la storia del concetto democratico di libertà, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 56-66); Emanuela Scribano, in polemica con Fetscher, insiste sull’influenza di Mandeville («Amzour de soi» e «amour-propre» nel secondo «Discours» di Rousseau, cit.); Jacques Voisine sui giansenisti: «Amzour de sot/amour-propre» in Dictionnatre de ].-]. Rousseau, a cura di R. Trousson e FS. Eigeldinger, Paris, Champion, 1996. 1° B. Pascal, Pensées, in Euvres complètes, a cura di L. Lafuma, Paris,

34

sociale: «In una parola, l'io ha due particolarità. È ingiusto in sé, in quanto si fa il centro di tutto. È incomodo agli altri, in quanto li vuole asservire, perché ogni io è nemico e vorrebbe essere tiranno di tutti gli altri»?°. Vanno poi ricordati i frammenti sul conflitto tra essere e apparire, come questo che ricorda l’immagine rousseauiana della coscienza-insetto avvolta nell’abnorme ragnatela dell’opirion: «Non ci accontentiamo della vita che è in noi e nel nostro proprio essere: vogliamo vivere nel pensiero degli altri una vita immaginaria, e a questo fine ci sforziamo di apparire. Lavoriamo senza posa ad abbellire e conservare il nostro essere immaginario, e trascuriamo quello

vero»?!. O ancora, le amare considerazioni sui rapporti sociali inquinati dall’ipocrisia e della menzogna: «Così la vita umana è solo una perpetua illusione: non facciamo che ingannarci e adularci a vicenda. Nessuno parla di noi in nostra presenza come parla di noi in nostra assenza. L'unione tra gli uomini non è

fondata che su questo reciproco inganno»??. Cassirer, giustamente, aveva additato in queste pagine la fonte ispiratrice del primo Discours, che di Pascal ritrova, oltre ai princìpi, tutto lo sdegno, l'inconfondibile pathos”. Per cogliere la portata filosofica del discorso di Rousseau, e per collocarlo correttamente nella storia del pensiero morale, non bisogna tuttavia ancorarsi alla sola tradizione francese, ma considerare il problema dall’alto, con uno sguardo più ampio nella direzione del tempo e dello spazio. Credo, infatti, che

l’altra chiave del concetto di azzour-propre sia da cercare nella scuola inglese, e in particolare nell’antropologia hobbesiana, che può essere considerata, insieme a quella di Montaigne, la

madre legittima della psicologia sociale moderna. E stato Hobbes a definire il campo d'indagine, l’obiettivo, il metodo e il Seuil, 1963, p. 636, n. 978/100, corsivi nel testo. (La seconda cifra si riferisce

alla numerazione del frammento nell’edizione Brunschvicg). 50 Ibid., p.584, n. 597/455. 21 Ibid., p. 602, n. 806/147.

52 Ibid., p. 637, n. 978/100. 5 Cfr. E. Cassirer, Die Philosophie der Aufklirung (1932), trad. it. La ftlosofia dell'Illuminismo, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 219 ss. Su Rousseau e Pascal si veda anche M. Hulliung, Rousseau, Voltaire, and the Revenge of Pascal, in The Cambridge Companion to Rousseau, a cura di P. Riley, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, pp. 57-77.

39

linguaggio della nuova disciplina: i mz0ralistes contrassero un enorme debito nei suoi confronti, e non tutti ricordano che Sa-

muel Sorbière, autore della popolarissima traduzione del De crve che circolò in Francia dal 1649, rese la nozione di vazity con amour-propre?*. Soprattutto, è stato Hobbes a mettere all’ordine del giorno dell’inchiesta antropologica la questione del riconoscimento, definendola prioritaria e articolandola nelle sue due grandi linee problematiche: quella psicologica, che interpreta alla sua luce l’anatomia e l’equilibrio dell’animo umano, il «sistema» delle passioni; e quella sociale, che definendo l’a-

mor proprio come causa di conflitto, affianca al paradigma materialistico della lotta tra interessi il modello, alternativo e com-

plementare, di una lotta intersoggettiva per i beni simbolici??. Proprio la natura idealtipica — e per molti versi estrema, radicale, della teoria hobbesiana — permette, nel confronto, di cogliere la posta in gioco nelle mani di Rousseau, e di collocarne la visione dell’uomo in rapporto alla grande svolta seicentesca. Hobbes, d’altra parte, è uno degli interlocutori privilegiati del Discours sur l'inégalité, se non il più importante, e sorprende che gli studiosi dell’opera abbiano trascurato uno degli aspetti più originali del suo argurzen?®. Prima di intra24 Un’affascinante ricostruzione (purtroppo rimasta allo stato di schizzo) di questo percorso anglo-francese, in A.M. Battista, Nascita della psicologia politica, Genova, Ecig, 1982; e Id., Politica e morale nella Francia dell’età moderna, Genova, Name, 1998, in particolare cap. IX (Nuove riflessioni sul «Montaigne politico»). 3 È dunque riduttiva la tesi recente di Axel Honneth, per cui lo stato di guerra hobbesiano è il paradigma del conflitto sociale a fine autoconservati‘vo, cui si opporrebbe l’«idea originale di Hegel», ovvero la scoperta del «Kampfum Anerkennung». Tn questo abbaglio non era incorso Leo Strauss, che aveva colto la novità epocale della riflessione hobbesiana sulla varzty. Cfr. A. Honneth, Kampf um Anerkennung (1992), trad. it. Lotta per il riconoscimento, Milano, Il Saggiatore, 2002, pp. 17-20; L. Strauss, The Political Philosophy of Hobbes (1936), trad. it. La filosofia politica di Hobbes, in Che cos'è la filosofia politica, Urbino, Argalia, 1977, pp. 117-299, in particolare pp. 146 ss. E vero, d’altra parte, che il conflitto illustrato da Hobbes non può essere definito una «lotta per il riconoscimento» nel pieno senso honnethiano: l'amor proprio, malgrado il suo contenuto antieconomico, è privo di rivendicazione normativa e subordinato, seppure con una logica propria, al fine dell’autoaffermazione individuale. °° Rispetto al problema dell’azzour-propre la bibliografia sul rapporto Hobbes-Rousseau è scarna. Le osservazioni più importanti in R. Derathé, Rousseau et la science politique de son temps (1950), trad. it. Rousseau e la

36

prendere il confronto, tuttavia, è bene fare due premesse tanto ovvie quanto necessarie. La prima riguarda la diversa finalità dell'analisi antropologica dei due autori: politica in Hobbes, tesa cioè alla pace, a legittimare l'ordine convenzionale imposto dallo stato; etica invece in Rousseau, in quanto destinata a detinire modelli di vita umana pienamente realizzata, in una prospettiva che ingloba quella politica. Dove Hobbes risolve il problema del contenimento del conflitto in termini sostanzialmente extramorali (se si esclude la parentesi cruciale delle leggi di natura”), Rousseau opporrà all’azzour-propre non la violenza repressiva delle leggi ma i due modelli normativi dell’autenticità personale e della virtù repubblicana’. La seconda premessa, ancora più necessaria, riguarda la di-

versa fondazione filosofica dei due modelli interpretativi??. scienza politica del suo tempo, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 138 e 172-177; M. Reale, Le ragioni della politica. J.-J. Rousseau dal «Discorso sull’ineguaglianza» al «Contratto», Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1983, passi; Id., «Hobbes»,

in Dictionnatre de J.-]. Rousseau, cit. Qualche spunto in P. Winch, Man and Society in Hobbes and Rousseau, in Hobbes and Rousseau. A Collection of Critical Essays, a cura di M. Cranston e R.S. Peters, Garden City (N.Y.), Anchor

Books, 1972, pp. 233-253; G. Gliozzi, Rousseau dalla proprietà al dominio, in Differenze e uguaglianza nella cultura europea moderna. Scritti 1966-1991, Napoli, Vivarium, 1993, pp. 414 ss.; A.O. Lovejoy, The Supposed Primitivism of Rousseau’s «Discours on Inequality» (1923), trad. it. Il supposto primitivismo del «Discorso sull'ineguaglianza» di Rousseau, in L'albero della conoscenza. Saggi di storia delle idee, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 43-68, in particolare pp. 56-59. Sugli altri temi antropologici, politici e religiosi esiste invece una ricca letteratura, per la quale rimando a L. Pezzillo, I rapporto Hobbes/Rousseau: studieinterpretazioni, in «Studi Francesi», 78, 1982, pp. 464-474. 7 Le leggi di natura, improntate al riconoscimento ir foro interno della reciprocità e dell'uguaglianza, forniscono il primo tessuto di socialità non conflittuale, senza di cui l’associazione politica vera e propria non potrebbe avere luogo. C'è chi vi ha riconosciuto una vera e propria filosofia morale hobbesiana. 8 A differenza di Hobbes, Rousseau non tematizza il problema dell’amor proprio nei termini di una crisi propedeutica al contratto — non esiste un capitolo del Contrat social che corrisponda strutturalmente al XIV del Leviathan — ma lo recupera in chiave civile, quando affronta la questione

dell’ethos pubblico e della legittimazione intersoggettiva delle istituzioni. 9? Su questi temi, oltre alla monografia di Strauss, ho tenuto presente: A. Pacchi, Hobbes and the Passions, ora in Scritti hobbesiani, 1978-1990, Mila-

no, Franco Angeli, 1998, pp. 79-95; M. Reale, La difficile eguaglianza. Hobbes e gli animali politici, Roma, Editori Riuniti, 1991; A. Ferrarin, Artificio, desiderio, considerazione di sé. Hobbes e ifondamenti antropologici della politica, Pisa, Ets, 2001.

37

Hobbes, com’è noto, ragiona in una prospettiva naturalistica, in cui l’insieme delle passioni viene dedotto meccanicisticamente dal principio che l’uomo condivide con tutti gli esseri viventi: il conatus (endeavour, nel testo inglese), ossia lo «sforzo», il

tentativo di mantenersi in vita aumentando progressivamente il proprio potere0. Da questo nucleo originario — che rispetto a quello che sarà l’azour de soi di Rousseau, è bene precisarlo

ancora una volta, esibisce un volto ben più dinamico e aggressivo — si sviluppano due categorie fondamentali di passioni: quelle materiali, che ricercano il piacere sensibile, e quelle mentali, che godono invece in forma «spirituale»: Tutto ciò che sembra bene è piacevole, e appartiene all’animo o agli organi. Ogni piacere dell'animo è gloria, ossia avere una buona opinione di sé, o si riferisce in ultimo alla gloria. Gli altri beni sono sensuali, e possono essere tutti designati con il nome di utile®!.

Tra le passioni dell'utile e le passioni della gloria c'è una differenza specifica — la diversa qualità del piacere — ma anche una comunanza strutturale: tutte nascono da una pulsione, un conato appunto, che spinge l'io a trascendersi continuamente, aggredendo gli ostacoli che trova sulla sua strada. A livello materiale questa spinta si traduce in un illimitato desiderio di possesso, che urta contro quello rivendicato a pari titolo dagli altri esseri umani. A livello mentale, in un altrettanto illimitato desiderio di superiorità sulle altre coscienze, di cui nel suo primo capolavoro antropologico, gli Elerzents of Law, Hobbes aveva dato questa paradigmatica definizione: La gloria, o glorificazione interna, o trionfo della mente, è la passione che deriva dall’immaginazione o concetto del nostro potere, superiore al potere di chi contende con noi°?.

Questa passione, che nelle citazioni che ho riportato finora è definita glory, ma che nel corpus delle opere hobbesiane prende anche il nome di pride, vanity o, dal greco, eudoki°° Cfr. la trattazione esemplare nel cap. VI del Leviathan. °! De cive, I, 2, pp. 160-161 (Le Citoyen, p. 92. Sorbière traduce glotre, bonne opinion, utile).

© Elements, IX, 1, p. 28.

38

mein, si manifesta in modo analogo alla nozione rousseauiana di amour-propre. Hobbes la descrive come una forma di consapevolezza positiva del proprio valore (internal gloriation, bene opinari de se ipso, triumph of the mind) che non sorge in maniera immediata dal sentimento interno, ma prende origine dai paragoni con le altre coscienze. L'intersoggettività entra a far parte della vita psichica individuale, che assume una struttura costitutivamente riflessiva: «[...] ogni piacere e ogni ardore dell'animo consiste nel trovare qualcuno, confrontandoci con il quale possiamo trarre un sentimento più alto di noi stessi»®. La stessa dinamica si estende a tutta la vita interiore, a cominciare dal desiderio, che svincolandosi dal bisogno naturale, assume una dimensione socialmente indotta. L'uomo hobbesiano, come quello di Rousseau, desidera ciò che desiderano gli altri, e più in generale vive una doppia vita, in cui ai bisogni fisici dettati dall’istinto di conservazione si affiancano impellenti necessità spirituali: stima, considerazione, prestigio, ammirazione, distinzione, e per converso il timore di offese e umiliazioni, il rancore per l'onore ferito, il desiderio di vendetta. Hobbes, a

questo riguardo, parla della costruzione mentale di una vera e propria realtà parallela: lo stesso mondo immaginario, dominato da ambizioni senza limiti e incubi paranoici, che Rousseau assocerà al termine opinion’. Nella ricca analisi hobbesiana ritroviamo anche gli altri corollari dell’amor proprio. La sua inquietudine, che condanna la coscienza a dipendere sempre dal giudizio degli altri e a fluttuare alla minima oscillazione. La sua insaziabilità: incapace di porsi delle mete assolute, il bisogno di riconoscimento si gonfia all’infinito per effetto del sistema relativistico di comparazione, senza mai placarsi. Infine, il ruolo genetico per lo sviluppo complessivo dell’interiorità. Dalla forma astratta della glory come predisposizione al confronto, Hobbes fa derivare le altre passioni mentali che, in forme più o meno determinate e secondarie, positive o negative, comportano un riferimento

al valore delle altre coscienze. Sono le passioni che René Girard definirebbe mimetiche e che, nelle liste degli E/emzents e 6 De cive, 1,5, p. 163 (Le Citoyen, p. 95). 64 Su questi temi, si veda soprattutto Ferrarin, Artificio, desiderio, considerazione di sé, cit.

39

del Leviathan, comprendono l'umiltà, lo spirito vendicativo, l'emulazione, l’invidia, il riso, l'ambizione, ecc.®.

A fianco di queste importanti somiglianze resta però una fondamentale diversità di approccio, i cui effetti si chiariranno con l’interpretazione del Discours sur l’inégalité. Per quanto la tesi straussiana del fondamento «umanistico» della filosofia politica di Hobbes sia affascinante (e a tratti persuasiva)®, almeno nei confronti dell’47204r-propre rousseauiano, che è una passione integralmente e coerentemente culturale, l’idea hobbesiana di glory conserva un alone naturalistico. Innanzitutto, il filosofo materialista e determinista non può ammettere in modo inequivocabile la discontinuità tra l’uomo e gli altri esseri che invece Rousseau identificherà a chiare lettere con il libero arbitrio”. In più occasioni Hobbes dichiara l'assoluta «innocenza» della costituzione umana, e ribadisce il proprio obiettivo «scientifico», cioè avalutativo e neutrale, di considerare tut-

te le passioni — compreso dunque l’orgoglio — come effetti naturali dell’altrettanto naturale ricerca di potere dei viventi. Inoltre, nel secondo Discours l'argomento della solitudine naturale e la distinzione analitica tra amzour de soi e amour-propre hanno proprio la funzione di separare accuratamente i due domini della natura e della società/cultura che sono invece mescolati nella prospettiva hobbesiana. In questo senso va intesa © Sulla derivazione delle passioni secondarie dall’amor proprio si consideri la struttura del capitolo IX degli E/erzerts, che inizia con la definizione della gloria, e termina con l’immagine della corsa (l’opera resta, per ricchezza e profondità di analisi, il punto di riferimento per la teoria hobbesiana delle passioni). Nel Leviathan il quadro è un po’ diverso, più legato al concetto di «potere» (il che aprirebbe la questione della «svolta naturalistica», e il relativo dibattito interpretativo). © Strauss ritiene che il tentativo hobbesiano di assimilare la natura umana a quella di tutti gli esseri viventi fallisca perché conserva al suo fondo un «pregiudizio» morale, di origine cristiana, contro la passione dell’orgoglio. Questa lettura esistenzial-idealistica coglie un problema importante e ambiguo della filosofia di Hobbes, ma — simile in questo alla teoria del riconoscimento di Kojève — sembra troppo desiderosa di stabilire una netta demarcazione dell'umano dal mondo naturale. Cfr. Strauss, La filosofia politica di Hobbes, cit., pp. 148 ss. ® «La natura comanda a ogni animale, e la bestia obbedisce. L'uomo prova lo stesso stimolo (72pression), ma si riconosce libero di cedere o di resistere. Ed è soprattutto nella coscienza di questa libertà che si rivela la spiritualità della sua anima», Second Discours, pp. 141-142.

40

l'importante obiezione metodologica che Rousseau rivolge a Hobbes e ai suoi seguaci, colpevoli di attribuire all’homzze naturel forme di coscienza derivate, falsamente originarie: «[...] parlando sempre di bisogno, avidità, oppressione, desideri € orgoglio, hanno trasposto nello stato di natura idee che avevano preso dalla società. Parlavano dell’uomo selvaggio e dipingevano l’uomo civile». Quest’esigenza di storicizzazione radicale rafforza la distanza tra il movente solipsistico dell’autoconservazione e le passioni spirituali legate al confronto che, in un'ottica genealogica, possono svilupparsi soltanto in stadi avanzati, pienamente sociali e culturali, dell'esperienza umana.

La critica di metodo, tuttavia, non ha impedito a Rousseau di assimilare la lezione hobbesiana che, una volta trasposta dallo stato di natura a quello civile, viene accolta nelle sue linee essenziali. E questo vale per l’analisi sociale come per quella psicologica. Era stato Hobbes a mostrare come l’amor proprio generasse conflitto in ragione della sua costituzione relativistica: «perché la gloria, come l’onore, consiste nel confronto e

nella superiorità; e quindi, se spetta a tutti, non spetta a nessuno». Gli uomini hobbesiani perseguono la glory come se fosse un gioco a somma zero: il successo dell’uno coincide con la sconfitta dell’altro. Tutti reclamano distinzione, ma non sono pronti a concedere il privilegio che riservano per se stessi: l’unico esito possibile è la guerra. Anche se il conflitto non esplode in modo esplicito, i rapporti intersoggettivi restano avvelenati da una tensione latente, un’at7z0sfera”° emotiva di litigiosità e sospetto. Allora la violenza non si esprime in modo fisico, ma si sfoga per la via subdola dei segni: 68 Ibid., p. 132. 6? De cive, I, 1, p. 161 (Le Citoyen, p. 92, dove si parla di comparaison, termine-chiave del Discours sur l'inégalité). 70 «La guerra, infatti, non consiste solo nella battaglia o nell'atto del combattere, ma in un tratto di tempo in cui la volontà di contendere in battaglia è sufficientemente nota; perciò la nozione di tempo va considerata nella natura della guerra, come lo è nella natura delle condizioni atmosferiche (Weather). Infatti, come la natura delle condizioni atmosferiche cattive non consiste in uno 0 due rovesci di pioggia, ma in una predisposizione di più giorni, così la natura della guerra non consiste nel combattimento effettivo, ma nell’evidente disposizione verso di esso, e in cui, durante tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario», Leviathan, XIII, pp. 185-186. Il nesso conflitto-temporalità si rivelerà molto importante anche per Rousseau.

41

[...] è impossibile non mostrare qualche volta l’odio e il disprezzo reciproco con il riso, le parole, i gesti, o qualche altro segno. Il che è per l’animo la cosa più molesta, e da cui deriva di solito il maggior desiderio di nuocere”.

Qui è l'origine «mentale» dello stato di natura hobbesiano: la guerra di tutti contro tutti non è soltanto una lotta per l’accaparramento di beni, dettata dall’utile e dalla necessità di sopravvivere, ma anche un duello per il prestigio, quell’entità immateriale, quasi magica che i greci chiamavano kydos?2. Rispetto a quella che ha per oggetto le risorse, l'aggressività fomentata dall’amor proprio ha un'origine futile. Quando sono accecati dalla vanità, gli uomini si aggrediscono per delle inezie, come «[...] un sorriso, un gesto, un’opinione diversa, e qualunque

altro segno di scarsa considerazione, o direttamente verso le loro persone, o di riflesso verso i loro parenti, i loro amici, la loro nazione, la loro professione o il loro nome». Eppure, l’intensità del conflitto sembra crescere in modo proporzionale al grado della sua evanescenza. Lettore e traduttore dei poemi epici, Hobbes doveva amare molto quegli episodi in cui gli eroi impazziscono o si uccidono per difendere l'onore. Rischiare la vita per qualcosa di così impalpabile sembra il sommo dell’assurdità: proprio contro l’irrazionalità dell’amor proprio si fonderà la logica razionalistica che conduce al contratto. Con Hobbes, insomma, il bisogno di riconoscimento e di

supremazia assurge al ruolo di passione dominante dell’animo umano, trasformando profondamente le visioni classiche della psicologia e della società. Entrambe queste dimensioni convergono nel brano conclusivo del capitolo IX degli E/ezents, in cui la stessa analisi che Rousseau ha tracciato nei Diglogues si cristallizza nella potente metafora di una corsa senza traguardo e senza meta, in cui l’unico obiettivo dei partecipanti è quello di stare davanti agli altri: Lo sforzarsi è appetito. Il mancar d’energie è sensualità. "! De cive, I, 5, p. 163. (Le Citoyen, pp. 95-96. Sorbière traduce la formula conclusiva ue plus forte passion de vengeance). TORE paragone èeisollev sollevato opportunamente da Strauss.

? Leviathan, XIII, p. 185.

42

Considerare quelli che stanno dietro è gloria. Considerare quelli che stanno davanti è umiltà. Il perdere terreno per guardarsi indietro, vanagloria. L'esser trattenuti, odio. Tornare indietro, pentimento.

L’aver fiato, speranza. L'essere stanchi, disperazione. Sforzarsi di superare il vicino, emulazione. Soppiantare o far cadere, invidia. Decidere di sfondare un ostacolo previsto, coraggio. Sfondare un ostacolo improvviso, rabbia. Farsi strada facilmente, magnanimità. Perdere terreno per piccoli intralci, pusillanimità. Cadere all’improvviso è inclinazione al pianto. Vedere un altro cadere, inclinazione al riso. Veder sorpassato uno che non avremmo voluto, è pietà. Veder sorpassare uno che non avremmo voluto, indignazione.

Seguir da vicino un altro è amare. Spingere colui che così segua da vicino, carità. Farsi male per la troppa furia è vergogna. Esser superato continuamente è infelicità. — Superare continuamente quelli davanti è felicità. E abbandonare la pista è morire”*.

Rousseau ha davanti agli occhi un'immagine simile nel momento in cui si accinge a fare la genealogia del mondo moderno. 5. Dal cielo alla terra: riconoscimento e modernità

Il confronto con Hobbes è prezioso anche per un altro motivo: permette di portare alla luce il nesso tra l’azour-propre e l'uguaglianza, o, per dirla con il linguaggio di René Girard, la natura «orizzontale» del conflitto mimetico. I com-

mentatori che insistono solo sulla matrice giansenistica della dottrina rousseauiana dei due amori rischiano di trascurare un problema importante: la distanza che separa una visione

dell’uomo intimamente religiosa come quella degli agostiniani, da un’antropologia molto più secolarizzata come quella di Rousseau, per il quale il problema delle passioni riguarda 74 Elements, IX, 21, pp. 36-37.

43

soprattutto il rapporto tra la coscienza e le altre coscienze, non quello tra la coscienza e Dio. Nella differenza tra la prospettiva verticale e quella orizzontale, tra l'orgoglio cristiano, metafisico e trascendente, e l'orgoglio terreno, umano e troppo umano (malgrado tutte le somiglianze che queste due malattie dell'anima nascondono e possono svelare), è contenuto

il senso della svolta hobbesiana, di cui Rousseau può essere considerato erede e continuatore. Riprendiamo Pascal, come esempio per tutti. I fenomeni psicologici e sociali che sono al centro della sua satira sono gli stessi contro i quali, un secolo più tardi, insorgerà Rousseau, e

sono considerati con lo stesso tipo di sguardo, come «sintomi» di una patologia morale radicata nel profondo della coscienza. Ma la diagnosi, come del resto la cura, è diversa. Nel sistema pascaliano delle idee, l’analisi delle passioni si colloca idealmente nel cuore della requisitoria sulla yzisère de l’homme sans Dieu, e della sua destinazione apologetica. Il concetto di amz0ur-propre acquista una piena pregnanza filosofica soltanto alla luce della spiegazione teologica del peccato originale e della dottrina agostiniana dei due amori: La verità che svela questo mistero è che Dio ha creato l’uomo con due amori, uno per Dio, l’altro per se stesso; ma con questa legge: che l’amore per Dio fosse infinito, ossia senza nessun altro fine che Dio stesso, e che l’amore per se stesso fosse finito e relativo a Dio. L'uomo, in questa condizione [prima della caduta] non solo si amava senza peccato, ma non poteva non amarsi senza peccato. In seguito, sopraggiunto il peccato, l’uomo ha perduto il primo di questi due amori; e siccome l’amore per se stesso è rimasto solo in questa grande anima capace di un amore infinito, l'amor proprio si è esteso ed è straripato nel vuoto lasciato dall'amore di Dio. E così ha amato solo sé, e ogni cosa in funzione di sé, vale a dire infinitamente. Ecco l'origine dell’amor proprio”.

Se dunque l’arz0ur-propre, autocompiacimento dell’io cieco e smisurato, è sempre da condannare, la critica di Pascal salva quella forma di egoismo positivo che l’uomo provava prima della caduta (l’azzour pour soî méme), amandosi in ? B. Pascal, Lettre è Monsieur et Madame Périer sur la mort de Pascal le

Père, 17 ottobre 1651, in uvres complètes, cit., p. 277.

44

quanto creatura di Dio. Ma pur ricordando l’azour de soi di Rousseau’, questa passione rivela nel suo «in quanto» una differenza essenziale: Pascal ragiona in una prospettiva interamente feocentrica, che condiziona a priori il suo sguardo, impregnando di sensibilità religiosa ogni riflessione antropologica, anche quando essa sembrerebbe mantenersi al livello terreno. Agli occhi del filosofo agostiniano, l'attaccamento dell’uomo a se stesso resta buono e legittimo solo finché resta finito e relativo a quello di Dio, finalizzato al suo onore, alla sua lode come creatore. Non esiste una dignità autonoma della natura umana. Ogni passione si colloca all’interno di una gerarchia rigorosa, dove il primo posto spetta alla divinità, e all'uomo è concesso di stimarsi ed amarsi solo in quanto creatura inferiore, subordinata”. Ora, benché qualcosa di quest’'approccio si conservi anche nella metafisica di Rousseau, sensibile al tema del posto dell’uomo nel cosmo e del

giusto ordine di tutte le cose’, il problema antropologicomorale si configura diversamente. Nel Discours sur l’inégalité e nei Dialogues (le due opere fondamentali per la psicologia dell’azour-propre), Rousseau ragiona in un'ottica laica, dalla quale Dio è assente, e che vede protagonisti esclusivi gli esseri umani, nei loro rapporti reciproci. La condanna dell’orgoglio, in questo caso, non riguarda il rapporto tra la coscienza e la divinità superiore, ma quello tra la coscienza e le altre coscienze, sue simili e pari”. 7 Cfr. ad esempio l'introduzione ai Dialogues di Robert Osmont, in OC, I, pp. XLV-LXXII, a p. LXVI. 7 Questo aspetto della riflessione di Pascal è chiarito bene, tra gli altri, da A.J. Krailsheimer, Studies in SelFInterest. From Descartes to La Bruyère, Oxford, Clarendon Press, 1962, cap. VIII. 78 Nell’Énzile e nella Lettre è Beaumont. Qui non sarebbe scorretto dire che l'amour de soi è un amore finalizzato a Dio, che in Dio trova il suo compimento ultimo e la sua vera legittimazione: ma si tratterebbe comunque di una conseguenza indiretta del legame che unisce l’idea di natura a quella del suo creatore. 72 Da un punto di vista storico-filologico, allora, è forse più pertinente, come propone Emanuela Scribano («Arzour de soi» e «amour-propre» nel secondo «Discours» di Rousseau, cit.), considerare come unica fonte diretta del secondo Discours la distinzione tra se/flove e selfliking, passioni prive di contenuto religioso e relative ai soli rapporti sociali. La mediazione di Mandeville, hobbesiano consapevole, rende ancora più plausibile il confronto tra Rousseau e Hobbes.

45

Considerata in questa prospettiva, la teoria rousseauiana

delle passioni nasce da un’intenzione per certi versi opposta a quella di Pascal. Non dimentichiamo il taglio naturalistico con cui Rousseau imposta il problema dell’azour de soi, sempre e inequivocabilmente identificato con il principio di autoconservazione. L’uomo si pone non in rapporto diretto a Dio ma alla natura, e l’unico fine legittimo che gli venga riconosciuto è quello che già gli avevano attribuito Spinoza, Locke, Diderot, e prima ancora Hobbes, vistosamente riecheggiato in questo

passaggio del Contrat social: «La sua prima legge è provvedere alla propria conservazione, le sue prime cure sono quelle che deve a se stesso, e non appena raggiunge l’età della ragione, essendo l’unico giudice dei mezzi adatti a conservarsi, diventa padrone di sé»8°, Rousseau non trova miserevole né riprovevole che l’uomo, considerato nel suo ruolo di essere vivente, si

preoccupi solo del suo amatissimo io. E la legge di ogni creatura: «È del tutto naturale che chi si ama cerchi di estendere il suo essere e i suoi godimenti»8!. Il problema sorge quando nel rapporto biunivoco tra individuo e natura irrompe il terzo incomodo della società, e quest'amore innocente viene sopraffatto dalla preoccupazione per il giudizio altrui, l’opinzon. Allora l'istinto perde la sua naturale bontà — cioè la sua stessa natura di «istinto» — e, deviando verso obiettivi impropri, innesca la corruzione della coscienza. La distanza che separa le due teorie delle passioni, in ogni caso, è già tutta contenuta nella dottrina agostiniana del peccato originale, che fornisce il quadro teologico su cui si giustificano la condanna pascaliana dell’orgoglio e, più in generale, l'antropologia giansenistica. Anche questo confronto merita di essere esplicitato, perché servirà ad illuminare alcuni aspet-

ti ambigui nella filosofia della storia del Discours sur l’inégalité. Secondo Agostino la catastrofe è cominciata quando Adamo si è ribellato contro l’autorità divina per innalzarsi spavaldamente alla sua altezza, per imitarla e sfidarla: Erstts stcut Dei fu la lusinga tentatrice del demonio. Spinto da un desiderio perverso di superiorità, l’uomo ha voltato le spalle 80 Contrat social, I, 2, p. 352, che ricalca la definizione hobbesiana del diritto naturale in De cive, I, 8-9. 8! Cfr. sopra, e Dialogues, pp. 805-806.

46

al bene supremo, subordinando l’amore legittimo dovuto al creatore (47z0r Der) a quello per se stesso (47207 suà):

Infatti principio della superbia è il peccato; ma che altro è la superbia se non l’ambizione di una perversa superiorità? [...] Ciò accade quando ci si compiace smisuratamente di se stessi, quando ci si allontana da quel bene immutabile che si dovrebbe preferire a se stessi®?.

Solo in un secondo momento la superbia si è rivolta verso gli altri esseri umani: la corruzione dei rapporti sociali è una conseguenza, tra numerose altre, del primo errore compiuto nei confronti della divinità. Il vero peccato — da cui l’archetipo di tutte le successive cadute — è stato il tentativo di violare l'ordine supremo secondo cui ciò che è più basso deve ubbidire umilmente a ciò che lo sovrasta: «quella creatura infatti è stata fatta in modo che le torni utile essere sottomessa e dannoso non eseguire la volontà del suo creatore»*. Questo è il motivo per cui, nella tradizione morale cristiana, si insiste tanto sul tema della disubbidienza. L'orgoglio è un atto di bybris: uno slancio folle in verticale, che innalza l’uomo al di sopra del suo legittimo posto, e che Dio punisce in modo altrettanto esemplare: L'orgoglio, che viene dalla corruzione proprio in quanto rifiuta una sottomissione e si stacca da Colui a cui niente è superiore, per ciò stesso diventa inferiore, come sta scritto: li pa: abbattuti quando

si sono innalzati*#.

Anche nel Discours sur l’inégalité la storia umana prende origine da una caduta, a sua volta innescata da un moto di tra-

cotanza, di fybris contro l'ordine del tutto. Ma il primo sguardo superbo dell’uomo ignora completamente Dio — la cui potenza e trascendenza, se ne deduce, non rappresentano una sfida per il suo amour-propre; e dopo essersi soffermato per 8 Agostino, De civitate Dei, XIV, 13, trad. it. di L. Alici, La città di Dio,

Milano, Rusconi, 1992’, p. 669. Su questo tema, e sulla distinzione tra azz0r Dei e amor sui in Agostino, R. Bodei, Ordo Amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 117 ss., 191-192. 8 Agostino, La città di Dio, XIV, 12, cit., p. 668. 84 Ibid., p. 670.

47

un istante sulle altre creature naturali, si rivolge immediatamente al simile, all’altro uomo. L'orgoglio, dunque, conserva il nucleo definitorio della sua antica origine cristiana: resta la passione dell’oltrepassamento del limite, del confronto inde-

bito, del sentirsi impropriamente migliori di quanto si è. Ma perde molta della sua portata metafisica, mantenendosi al livello del mondo terreno dove — ed è questa la differenza fondamentale — now esistono rapporti gerarchici oggettivi e natura-

li. L'essenza moderna dell’arzour-propre può essere compresa solo sullo sfondo del principio di uguaglianza antropologica proclamato da Hobbes: La natura ha fatto gli uomini così uguali nelle facoltà del corpo e della mente che, sebbene si trovi talvolta un uomo manifestamente

più forte dal punto di vista fisico o di mente più pronta di un altro, tuttavia, quando si calcola tutto insieme, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole che un uomo possa di conseguenza reclamare per sé qualche beneficio che un altro non possa pretendere tanto quanto lui [...]. Ciò che può forse rendere incredibile una tale uguaglianza non è che un vano concetto della propria saggezza, che quasi tutti gli uomini pensano di possedere in grado maggiore del volgo, ossia di tutti gli uomini tranne se stessi [...]®?.

Le obiezioni contro lo stato di natura hobbesiano non concerneranno 774i questo assunto, che resta uno degli assi dell'antropologia di Rousseau: gli uomini nascono naturalmente uguali; e proprio perché non vogliono accettare questa verità

incontestabile ma scomoda, scatenano una guerra fratricida. L'abbassamento del baricentro morale dal cielo alla terra ha conseguenze decisive per la filosofia rousseauiana. I temi teologici si secolarizzano e, pur conservando tratti notevoli delle loro radici cristiane, assumono nuovi e suggestivi signifi-

cati*°. La reinterpretazione più importante riguarda il dogma © Leviathan, XIM, pp. 183-184. Sul rapporto tra uguaglianza e orgoglio in Hobbes: Strauss, La filosofia politica di Hobbes, cit., p. 203; Ferrarin, Arti ficio, desiderio, considerazione di sé, cit., pp. 158-159. © Su questi problemi, ovviamente, E. Cassirer, Das Problem J.-]. Rousseau (1932), trad. it. Il problema Gian-Giacomo Rousseau, in E. Cassirer, R. Darnton eJ. Starobinski, Tre letture di Rousseau, Roma-Bari, Laterza, 1994; e

l'introduzione di Starobinski all’edizione Pléiade del Discours sur l’inégalité, OC, HI, in particolare pp. LII-LII.

48

del peccato originale che, da colpa archetipica trasmessa dal progenitore all'umanità, si trasforma in un errore storico, le-

gato a specifiche (e politicamente riformabili) circostanze del processo di civilizzazione, e che soprattutto non contamina la sostanziale bontà della natura umana: nel cuore di ogni individuo, per quanto la società sia corrotta, si conserva intatto il

fondo originario di innocenza, con conseguenze rilevantissime per l’idea di redenzione. Inoltre, trasponendo il conflitto da rapporti gerarchici a relazioni egualitarie — un passaggio in cui si può leggere in trasparenza la transizione storica verso la società borghese — Rousseau traduce il mito luciferino e adamitico nei termini della psicologia di Hobbes. Ciò rende leggermente sviante un'osservazione di Leo Strauss a proposito della condanna hobbesiana della vanità — «forma secolarizzata»,

a suo dire, «della tradizionale antitesi tra l'orgoglio spirituale e la paura di Dio (umiltà)»#. La formula è valida se intesa nell'ottica di una considerazione generica della vanità come passione mentale, qualitativamente diversa, cioè, dalla cupidigia o dalla brama di potere: in questo senso, tanto Hobbes quanto Rousseau possono essere considerati agostiniani, perché identificano il sogno della trascendenza con :/ desiderio specificamente umano, inconcepibile per qualsiasi altro ente naturale: l’animale non si immagina né vuole essere migliore di quanto realmente sia. Ma se accostiamo le due passioni sorelle, la glory di Hobbes e l’azzour-propre di Rousseau, ci accorgiamo che la loro dinamica interna è diversa da quella della superbia, e ne trasforma significativamente la fenomenologia. Mentre l’orgoglio cristiano nega una gerarchia per pensarsi

uguale a ciò che lo sovrasta, l'orgoglio moderno aspira a crearne una: vorrebbe imporre un ordine arbitrario di valori laddove, in realtà, non ne esiste alcuno. Alla passione cristiana

della disubbidienza subentra quella della distinzione’, che 87 Strauss, La filosofia politica di Hobbes, cit., p. 165. 88 Il termine distinction, usato ripetutamente da Rousseau, è particolarmente pregnante, non solo perché conserva entrambe le accezioni dinami-

che della lotta per l’azour-propre (ricerca di differenziazione e di superiorità all’interno dello spazio sociale), ma perché, come ha ben visto Pierre Bourdieu, allude a una sua specifica forma di violenza: quella che non si esercita con la forza fisica o economica, ma con i segni. Cfr. P. Bourdieu, La Distine-

49

non reclama uguaglianza con ciò che è superiore (erztis sicut

Dei), ma, all’inverso, pretende superiorità rispetto ai propri uguali. Hobbes lo afferma a chiarissime lettere: «Ciò che può forse rendere incredibile una tale uguaglianza non è che un vano concetto della propria saggezza, che quasi tutti gli uomini pensano di avere». In Rousseau il legame tra l'affermazione dell’uguaglianza naturale e lo smascheramento delle false differenziazioni costruite dagli uomini è implicito nell’indagine storico-genetica, a cominciare dal titolo stesso dell’opera dedi-

cata alle arbitrarie origini dell’inégalité®?. Non si può insomma comprendere la specificità dell’4mour-propre senza collocarlo sullo sfondo di quell’antropologia naturalistica e democratica di cui Hobbes è stato il campione storico. Per il selvaggio del Discours, come per il lupo del Leviathan, l'orgoglio è essenzialmente fureur de se distinguer, quel vano concetto della propria eccellenza che nasce in rifiuto all’uguaglianza imposta dalla natura. Viene ancora una volta alla mente la teoria mimetica di René Girard, secondo il quale, nel mondo umano, l’intensità del conflitto è sempre proporzionale alla simmetria dei rapporti, e proprio per questo motivo rappresenta un fenomeno tipicamente moderno. Solo nelle società egualitarie, o in quelle in cui si è comunque affermata una prima rivendicazione o idea di uguaglianza, gli individui possono percepirsi tutti come rivali, e deviare verso i propri simili le tensioni interdette dalle società gerarchiche. tion (1979), trad. it. La distinzione, Bologna, Il Mulino, 1983. Nel dizionario Larousse l’ambito dei sinonimi comprende sia i termini différenciation e discrimination, che quelli roblesse, bonneur, mérite, dignité. Sulla sua centralità come concetto conoscitivo, sociale, morale ed estetico nella cultura classica francese, si veda A. Faudemay, La Distinction è l'age classique. Emules et Enjeu, Paris, Champion, 1992. La sensibilità per le dinamiche simboliche della vita sociale, tanto nei suoi aspetti negativi quanto in quelli positivi (come ad esempio il dono) sembra un «carattere originale» della cultura e della società francesi, dai y20ralistes a Proust, da Montesquieu e Rousseau ai grandi sociologi novecenteschi. # Il secondo Discours non è solo un'indagine sull’origine delle disparità economiche, come a volte, un po’ riduttivamente, si tende a credere. Il proposito di Rousseau è di smascherare tutte le disuguaglianze sociali, anche quelle che non sono legate alla distribuzione della ricchezza, ma alla percezione sociale dello status, definita inégalité morale: «Essa consiste nei diversi pri vilegi di cui alcuni godono a scapito degli altri: come l'essere più ricchi, più onorati, più potenti, o anche farsi obbedire da loro», Secord Discours, p. 131.

50

Perciò, la malattia di coscienza caratteristica della modernità non è tanto quella dell’Adamo agostiniano: l’horzo aequalis ha smesso di struggersi d'invidia e rancore per ciò che è fuori della sua portata. Il rivale con cui si misura è un amico, un fratel: lo, un pari. Ed è questa simmetria ad esasperare la violenza: il confronto assume una forma riflessiva alimentata da un vorticoso meccanismo di feedback, suscitando la necessità di una distinzione, che segni allo stesso tempo differenza e superiorità nei confronti dell’altro”. Questo fenomeno, come ben sanno storici, sociologi e scrittori attenti alle dinamiche della psicologia interindividuale, si può osservare anche tra quei grandi individui che sono i ceti e le classi, capaci di proteggersi con trincee invisibili proprio dove i confini reciproci sembrerebbero allentarsi e farsi vaghi. Per i conflitti tra gruppi come per quelli tra individui vale la stessa legge: più i rapporti tendono alla simmetria e all’indifferenza, più si impone l’urgenza di separare e gerarchizzare. E — altro aspetto decisivo per la comprensione del sistema intellettuale di Rousseau — cresce l’importanza dei fattori arbitrari, strzboli e segni, cui è demandato

il compito di stabilire convenzionalmente nello spazio pubblico quelle differenze che la natura, di per sé, non vorrebbe accordare. Mimesi”! e distinzione, insomma, sono due facce complementari del conflitto intersoggettivo moderno, e spiegano il caratteristico rapporto di double bind in cui si trovano irretite le coscienze: attrazione e repulsione trovano la loro radice comune nella simmetria del rapporto ugualitario, che rende gli 9 Cfr. sempre Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, cit., in particolare pp. 88 ss.; e Id., Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., cap. III. Sulla natura specifica dell’antropologia sociale moderna, L. Dumont, Homo aequalis. Genèse et épanouissement de l'idéologie économique (1977), trad. it. Homo aequalis. Genesi e trionfo dell'ideologia economica, Milano, Adelphi, 1984. 9 L'elemento mimetico resta una costante dell’orgoglio, tanto nella sua forma cristiana che nella sua forma moderna: come notano Hobbes e Rousseau, ogni forma di rivalità richiede come condizione gnoseologica la predisposizione al confronto. Tuttavia, se nella bybris metafisica l'imitazione dà luogo a un rapporto di emulazione positivo ed univoco (l’inferiore cerca di essere uguale al superiore), nel caso della rivalità antropologica è oggetto di denegazione: è per non essere uguali (ossia per non imitarsi) che ci si illude di essere diversi.

Di

individui tutti potenzialmente interscambiabili e allo stesso tempo desiderosi di affermare la propria peculiarità. Ed è anche in virtù di questo legame intrinseco con l’uguaglianza che il tema dell’azour-propre trascende l’interesse storiografico, rivelandosi come un problema sempre nostro, destinato a farsi ancora più serio con il crescere delle rivendicazioni di parità e l’estendersi della democrazia. Tutte queste considerazioni possono essere riformulate in

termini storici. Il fatto che Rousseau percepisca nel riconoscimento una questione così drammatica è segno, oltre che dell’acutezza del suo sguardo filosofico, e di una sua personalissima sensibilità, dei profondi mutamenti che stavano trasformando la società del suo tempo. La dipendenza dagli altri, la rivalità, l'uguaglianza, l’affermazione dell’identità, potevano diventare problemi soltanto nel momento in cui i ruoli sociali della tradizione, che funzionavano per così dire da distributori automatici di riconoscimento, cominciavano a perdere la loro presa secolare, sconvolgendo le rappresentazioni consolidate dell’io: Il punto non è che questa dipendenza dagli altri sia nata con l’epoca dell’autenticità. Una forma di dipendenza c'è sempre stata. Ma in una società precedente il riconoscimento non costitutiva mai un problema. Il riconoscimento sociale era insito nell’identità socialmente derivata, in forza del fatto stesso che questa poggiava su categorie sociali che tutti davano per scontate [...]. Quel che è nato con l’età moderna non è il bisogno di riconoscimento, ma le condizioni per le quali questo non può verificarsi”.

Con la modernità la dimensione specifica del riconoscimento diventa quella della /ofta: lotta per la conquista di un’identità che non è più disegnata preliminarmente, e in modo scontato, dall'ordinamento sociale, ma deve essere costruita

dall’individuo stesso, attraverso un tortuoso percorso dialogico-conflittuale con i suoi simili. Per ragioni legate tanto alla sua biografia sociale quanto 2 Taylor, I/ disagio della modernità, cit., p. 57. Cfr. anche Id., The Politics of Recognition (1992), trad. it. in J. Habermas e Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 1998; P. Berger, On be Obsolescence of the Concept of Honor, in «Archives Européennes de Sociologie», 11, 1970, pp. 339-347; Honneth, Lozza per il riconoscimento, cit., pp. 149 ss.

52

alla sua specifica personalità, Rousseau era destinato ad essere l'interprete ideale di questo nuovo problema.

6. Tra solitudine e comunità: interstizi sociali

Ma torniamo all’arzzour-propre, al ruolo che svolge nel sistema delle idee. Per risolvere la crisi morale e sociale scatenata dalla passione dominante, Rousseau formula due soluzioni alternative. La prima rappresenta la radicalizzazione identitaria della via terapeutica prescritta nelle Lettres mzorales. Bisogna liberare la coscienza dalla morsa dell’opizion: abbandonare la società, ritornare alle origini, recuperare la condizione primitiva di autarchia e solitudine. Tutto ciò che è natura si conserva

sotto le incrostazioni

spurie della civilizzazione,

e

basta solo saperlo attingere dal profondo, con il giusto metodo e molta perseveranza. Lontano dalla folla, al riparo dagli sguardi corruttori degli altri uomini, si disinnesca il meccanismo del confronto e della competizione. L’ipertrofico 4770urpropre si ridistilla in a7z0ur de soi e l’inquieta aggressività del mimetismo si dilegua. Una rappresentazione esemplare di questo percorso purificatorio si legge in un brano autobiografico delle Réverses: Ripiegandosi sulla mia anima, e recidendo i rapporti esterni che lo rendevano esigente, rinunciando ai confronti e alle preferenze, [l'amor proprio] si è accontentato che fossi buono per me. Allora, ritornando ad essere amore di me stesso, è rientrato nell’ordine della

natura e mi ha liberato dal giogo dell'opinione. Da allora ho ritrovato la pace dell’anima e quasi la felicità”.

Ritirandosi in se stessa con uno sforzo ascetico, la coscienza ripercorre all'indietro il processo storico di socializzazione, fino a rifugiarsi nel grembo consolante della natura: «Soltanto dopo essermi staccato dalle passioni sociali e dal loro triste corteo, l’ho ritrovata in tutto il suo fascino»?*. Nel dipingere lo stato d’animo risvegliato dalla nuova comunione con le cose, il 9 Réveries, p. 1079.

%4 Ibid., p. 1083.

53

percorso delle Réveries si riallaccia ad anello all’esordio del secondo Discours: Jean-Jacques che galleggia sulle onde del lago di Bienne raggiunge il selvaggio vagante per le foreste. Riecco dunque il serzizzent de l'existence, riecco la pura sensazione della vita. La solitudine è descritta, secondo i topoi della tradizione morale classica, come uno stato di perfetta autosufficienza: «ridotto a me solo mi nutro, è vero, della mia sola sostanza, che tuttavia non si esaurisce»”. E, come per i

filosofi antichi, l’autarchia dell'anima è premessa della sua beatitudine: «ho ritrovato la pace, e quasi la felicità». Ritorneremo sul significato di questo «quasi», piccolo ma sintomatico lapsus che sembra schiudere uno spiraglio d’incertezza nella certezza per altri versi granitica di Rousseau. Ciò che più conta, ora, è che l'estirpazione dell’azour-propre valga come condizione necessaria e sufficiente per la riconquista integrale di sé. La sostanza dell’io riposa in un ordine diverso da quello pubblico, e il giudizio degli altri non condiziona minimamente la sua identità: «in qualunque modo gli uomini mi vogliano vedere, non riusciranno a cambiare il mio essere, e malgrado il loro potere e tutti i loro sordi intrighi, sarò sempre, a dispetto loro, quel che sono». In questa contrapposizione tra io e società consiste quello

che, da ora in poi, definirò il rorzanticismo” di Rousseau: il modello che ispira, oltre alla sua proposta etica, la sua scrittura autobiografica. Uno degli scopi ufficiali delle Corfessions, dei Dialogues e delle Réveries sarà quello di mostrare al mondo il carattere di un vero horzzze naturel, che non ha mai I IUTITA CIbI 9% Ibid., 1080.

7 Il senso in cui intenderò la categoria nel corso di tutto il mio lavoro resterà rigorosamente ristretto al problema dell’individualità, ispirandosi all’uso che ne hanno fatto René Girard (Menzogra romantica e verità romanzesca, cit.) e Charles Taylor (Radici dell’io, cit.). Nell’accezione di Girard, il ro-

manticismo è il mito dell’io immediato che ha trionfato nella cultura ottocentesca, in forma filosofica e soprattutto letteraria, predicando un’espressione dell’interiorità spontanea, del tutto immune dalla preoccupazione per l’altro uomo. Per Taylor, similmente, l'io romantico si crede falsamente libero dalle relazioni dialogiche che definiscono la sua appartenenza linguistica e culturale. Entrambi gli autori polemizzano contro le posizioni identitarie ignare o incuranti del tessuto intersoggettivo che irretisce, condizionandola fin dall’origine, la soggettività individuale.

54

conosciuto le passioni sociali o che da esse si è completamente liberato. Una coscienza trasparente che, come il «ritratto di una bella donna senza trucco», risplende solo dei colori autentici della natura: poiché si ama senza compararsi, è inattaccabile dalla vanità come dalla modestia, soddisfatto di sentire ciò che è, non cerca qual è il

suo posto tra gli uomini, e sono sicuro che in tutta la vita non gli sia mai venuta l’idea di misurarsi con un altro per sapere chi dei due fosse più grande o più piccolo”.

Jean-Jacques si proclama incapace di fare confronti, come richiede la tonalità emotiva dell’arzour de soi, e immune dai

sentimenti rivalitari e dalle pratiche simulatrici che avvelenano la vita intellettuale: Niente dell’amor proprio dello scrittore e del letterato si fa sentire in lui. Sentimenti di odio e di gelosia contro gli altri uomini non hanno mai messo radici nel suo cuore. Mai lo si è sentito criticare o sminuire persone celebri per nuocere alla loro reputazione”.

L’autoritratto di Rousseau vuole servire idealmente a un doppio fine: discolpare lo scrittore-martire infamato dal complotto, riabilitandone l’immagine pubblica; e fornire un modello ad altri io che, sul suo esempio, vogliano liberarsi dalla vanità del mondo e ritrovare la loro più preziosa sostanza. Alla via romantica verso il recupero dell'io autentico, Rousseau affianca una seconda proposta: la soluzione politica. Il cammino a ritroso nell'ordine della storia è possibile per il singolo, non per l’umanità intera. Se per l'individuo alla ricerca di saggezza «la meta è l'origine» in senso letterale (le estasi solitarie della coscienza sono anche forme di regressione uterina nella natura madre), per la società il richiamo vale soltanto in senso figurato, regolativo: il riformatore politico guarda avanti, cercando di portare a compimento il processo che la civilisation ha lasciato in sospeso. Il difficile rapporto tra l’io e gli altri deve dunque risolversi in modo diverso. Si tratta di 98 Dialogues, p. 798.

9 Ibid., p. 810.

55

applicare a livello etico il principio del «rimedio nel male» che nel Contrat social conduce all'istituzione della legge: trasformare in dipendenza assoluta e necessaria la dipendenza parziale ed arbitraria. Non più reprimere, ma fomentare il bisogno di riconoscimento, stimolandolo con premi e distinzioni, affinché diventi una forza aggregante, il collante dello spirito comunitario. In questa nuova prospettiva, la coscienza continuerà ad alienarsi nell’opizion, a cercare il suo essere nello

sguardo altrui. Ma quest’alienazione, al pari della rinuncia alla libertà naturale, propedeutica al contratto, sarà ora totale. Non più una contemplazione narcisistica del proprio sé, compiuta

nel continuo rimando alla condizione dei rivali, ma amore per il grande io collettivo della patria comune: Le buone istituzioni sociali sono quelle che meglio riescono a snaturare l’uomo, a privarlo della sua esistenza assoluta per dargliene una relativa, e trasporre l’io nell’unità comune; in modo che ogni singolo individuo non si creda più uno ma parte dell'unità, e sia sensibile soltanto all’interno del tutto. Un cittadino romano non era né Caio né Lucio: era un Romano!®,

Esiste, in altre parole, un buon uso dell’arzour-propre, ed è quello che Rousseau perseguirà nei progetti politici, in quelle opere, come anche la Lettre è d’Alembert, le Considérations sulla Polonia, che si propongono di rifondare un ethos civile simile a quello degli antichi. C'è stata un’epoca della storia umana in cui la lotta per la distinzione ha rappresentato un fenomeno positivo, stimolando ad azioni grandi ed eroiche: «Qual era il movente della virtù degli Spartani se non l’essere considerati virtuosi?»!0, L’ideale della very conciliava il bisogno di riconoscimento con i valori comunitari: per conquista-

re fama all’interno della città, il cittadino rivaleggiava con gli altri, e la sua passione individuale andava a vantaggio di tutti. Questo tempo è ormai concluso: non esistono più vere patrie,

e l'emulazione virtuosa si è convertita in una gara per le ricchezze e i lussi. Ma proprio questa residua inclinazione alla vanità garantisce una speranza di redenzione. Se i corrotti 100 Émile, p. 249. 101 Fragments politiques, p. 501.

56

uomini moderni hanno ancora bisogno della stima dei loro simili, vuol dire che è possibile riconvertirli all'etica pubblica: «Si tratterebbe di suscitare il desiderio e di facilitare il mezzo di attirarsi con la virtù la stessa ammirazione che oggi riuscia-

mo a procurarci soltanto con la ricchezza»!®, Questi dunque sono i poli tra cui ondeggia il pensiero morale di Rousseau, affine per natura alle antitesi, e apparentemente incapace di pensare quella zona mediana — la società, l’intersoggettività non vincolata alla politica — che pure esiste tra l'individuo e la polis. Sembra che, anche dal punto di vista

delle passioni, l’ultima parola sia la scelta allusa nel titolo della monografia di Baczko: solitudine o comunità. Spesso però questo sistema di rigide opposizioni dicotomiche si sfalda, schiudendo delle faglie, delle aperture. Nella Nouvelle Héloise e nell’Éwzile, in particolare, Rousseau tenta

una strada intermedia, consapevole sia delle difficoltà dell’ideale romantico, troppo intransigente per poter essere credibile come progetto di vita, sia dell’imperfezione della coscienza che, incurante delle raccomandazioni stoiche, sembra ten-

dere irresistibilmente ad alienarsi in qualcosa di altro da sé. La coppia coniugale, la famiglia, la piccola comunità patriarcale di intimi, sono i fuochi intorno a cui ruota il suo pensiero quando cerca di far spazio alla mediazione, e di escogitare, tra gli estremi dell'io assoluto e della comunità assoluta, degli esperimenti di «socialità autentica». Il bisogno di riconoscimento, allora, privato dei suoi aspetti più competitivi e au-

toaffermativi, collocandosi in un delicato equilibrio tra arz0ur de soi solipsistico e a7z0ur-propre concorrenziale, riesce a tradursi in amore per l’altro: «Così, ciò che rende l’uomo essen-

zialmente buono è l’aver pochi bisogni e il confrontarsi poco con gli altri; ciò che lo rende essenzialmente cattivo è l'aver molti bisogni e il tener molto all'opinione altrui»!®. È il Rousseau che recupera l’idea di Gerzeinschaft affettiva, e che sembra offrire stimoli interessanti in una situazione, come quella

contemporanea, a sua volta bloccata nella contrapposizione sterile tra individualismo e comunitarismo. 102 Tbid., p.D02. 103 Éyzile, p. 493.

57

Nel mio saggio parlerò anche di questi temi, in parte già indagati in modo approfondito e convincente!*. Ma non conterrò il riconoscimento in questa dimensione di socialità solidale. Nessuno dei tre modelli infatti — ma potremmo parlare di un unico modello, che a partire da un nucleo comune si snoda a livelli di complessità crescenti, dalla coppia di sposi alla comunità patriarcale — risolve in maniera persuasiva quello che, a mio parere, resta 5/ problema dell’arzour-propre. L'apertura al legame sociale avviene a scapito di quanto la passione ha di più proprio. Il bisogno di stima e di approvazione viene sì accolto, ma sublimato in un «attaccamento» che, come emerge

bene nel brano citato, reprime lo stimolo emulativo a favore di una reciprocità senza agonismo. Rousseau, in altre parole, salva il riconoscimento ma rinuncia interamente alla sua lotta. Questa depurazione si compie in entrambi gli ambiti, l’amore e la ricerca di gloria, in cui si esprime l'aspirazione identitaria dell’arzour-propre. Il matrimonio, che compie idealmente il percorso etico di Julie e della coppia Emile-Sophie, reprime il contenuto passionale del riconoscimento amoroso. Quest'ultimo consiste in un'esperienza di seduzione, nel pia-

cere di essere scelti, preferiti ad altri per le proprie qualità fisiche e per i propri meriti, nel sentirsi i più belli, i più bravi, i migliori, insomma, agli occhi insostituibili della persona desiderata. Comparato a quest’ansia di conquista, che Rousseau definisce emblematicamente furewr, l’amore coniugale è piuttosto simile a una 477t1é, un'amicizia serena, in cui l’ultima

cosa che si chiede all'essere amato è di attestare continuamente il proprio valore!®. Se si tratta, senza dubbio, di un’apertura 104 Si vedano, da prospettive parzialmente diverse: T. Todorov, Fréle Bonheur. Essai sur Rousseau (1985), trad. it. Una fragile felicità. Saggio su Rousseau, Bologna, Il Mulino, 1987; Id., La Vie commune. Essai d’anthropologie générale (1995), trad. it. La vita comune, Milano, Pratiche, 1998, cap. I; Dent, Rousseau, cit.; Ferrara, Modernità e autenticità, cit. E. Pulcini, Amour passion e amore coniugale. Rousseau e l'origine di un conflitto moderno, Ve-

nezia, Marsilio, 1990; Id., L'individuo senza passioni, cit., pp. 101 ss. 1 A questi due modelli di amore corrispondono specularmente gli archetipi femminili che dominano l'immaginario di Rousseau: quella che fomenta la competizione sociale e quella che invece la seda, stemperando nella reciprocità affettiva il potenziale agonistico del mondo pubblico e maschile. Sugli aspetti sacrificali dei modelli rousseauiani di socialità autentica, si vedano soprattutto i lavori di Elena Pulcini.

58

importante all’alterità, che segna un enorme passo avanti rispetto all’avversione per le dipendenze e alla paura di schiudere il bozzolo narcisistico dell'io, è altresì vero che il prezzo

di questa scommessa sociale costa alla coscienza una pesante

rinuncia: la repressione di quella furia che la spinge in avanti come una spinta propulsiva. L'amore è anche un trionfo inte-

riore che accresce la stima di sé e la capacità di dominare il mondo esterno. Non solo quella forma di prosaico quietismo che vediamo illustrato nelle pagine più didascaliche dell’ Érzi/e e dell’ Heloise. Ancora più significativa, da parte di Rousseau, è l’incapacità di accettare il risvolto prettamente hobbesiano della ricerca di riconoscimento, il desiderio di distinzione e di gloria. Nessuno dei modelli normativi citati — né la coppia, né la famiglia, né la piccola confraternita di amici — lascia spazio a sogni di autoaffermazione sociale. I membri della comunità di Clarens vivono isolati in campagna, lontani dalle tentazioni delle metropoli. La fama, il successo, la carriera, gli splendori e le miserie della grande société non li riguardano. Il loro equilibrio comunitario presuppone una divisione dei compiti che re-

prime all’origine ogni ambizione. Il semplice desiderio di trascendere o contestare l’ordine stabilito è inconcepibile: i servi amano la servitù, i padroni addolciscono paternalisticamente la loro autorità. Nessuno prova invidia, risentimento, gelosia; nessuno — tranne forse Saint-Preux nel breve istante in cui abbandona la sua posizione di osservatore neutrale e si lascia sedurre dalle lusinghe parigine — concepisce il progetto di fuggire dall’asfittico mondo della provincia. La stessa chiusura, lo stesso placido isolamento guida la vita dei due coniugi solitari, Émile e Sophie, e quanto costi il semplice contatto con l’aria di città, lo mostra le caduta immediata di Sophie. Il solo ambito in cui Rousseau ammette un ruolo per la distinzione, come abbiamo detto, è quello politico, ma la rilettura repubblicana snatura l’essenza della passione fino a renderla irriconoscibile. L'eroe che si immola per la patria non afferma pubblicamente il proprio io, il proprio valore, ma i valori ideali della corzzzunauté per cui si trascende. La gloria che invoca non è quella dell’Achille omerico, pronto alla morte pur di eternare il proprio nome, ma quella degli anonimi figli della cittadina spartana 39

portata ad esempio nel primo libro dell’ Érzile, scomparsi nella battaglia vittoriosa senza lasciare traccia di sé!%. Per comprendere quale sia la forma di stima sociale che Rousseau ritiene incompatibile con la virtù comunitaria, dobbiamo pensare a una forma di riconoscimento che sposti interamente il proprio asse dai valori civili ai valori identitari, e cioè proprio quella farza letteraria in cui consiste l’espressione

idealtipica del cattivo azzour-propre: la gloria come consacrazione pubblica del talento e del merito personali, che eterna il nome e la visione del mondo di un singolo, unico, insostituibi-

le individuo. La censura rousseauiana è tanto più significativa, se si considera che questo ideale, per certi versi vecchio quanto l’uomo, aveva cominciato ad acquistare verso la metà del Settecento un inedito peso, sovrapponendosi a quel passaggio

dalla società di status alla società egualitaria che stava ridefi-

nendo le coordinate dell'identità. Del mito del parverir la borghesia nascente stava facendo lo strumento della propria affermazione storica, trasformandolo in un modello di vita compiuta meravigliosamente suggestivo. Fare carriera, diventare fa-

mosi, sedurre belle donne: questi gli ingredienti della nuova lotta per il riconoscimento che si apriva per tutti, senza riguardo per nascita, ricchezza e rango, e in cui l’unica variabile de-

cisiva era quella, esclusivamente meritocratica, del talento individuale. Condannando questo mito, Rousseau sembra ancora una volta rinunciare alla posta in gioco della modernità.

7. Figure del riconoscimento compiuto

Bandendo l’azzour-propre dai suoi modelli di vita buona, Rousseau rinnova un antico bando della morale occidentale, di origine soprattutto cristiana. Nel biasimo dell’ambizione letteraria si percepisce ancora il senso di colpa di Agostino, che così rievocava la sua carriera giovanile di retore: «Dico

questo, Dio mio, e ti confesso che mi lodavano le persone, il cui compiacimento costituiva allora per me l’onore della vita.

Non scorgevo la voragine d’ignominia in cui mi ero proiettato 106 Éyyzile, p. 249.

60

lontano dai tuoi occhi»! La novità dell’ideale romantico inaugurato da Rousseau consiste nel fatto che la condanna della varitas non viene più pronunciata in nome della salvezza ultraterrena e di un valore trascendente, ma in vista del godimento solipsistico della propria sostanza interiore. Con la discesa delle passioni dal cielo alla terra, l’amzour de soi si secolarizza e l’anima rinuncia alla stima altrui per amare meglio se stessa, non Dio. Ed è qui che l’enfasi religiosa sull’interiorità si intreccia, inglobandola, al motivo ellenistico dell’autarchia. Paga della propria autosufficienza, la coscienza romantica assume quella forma di divina assolutezza che Montaigne criticava nello stoicismo, paventandone l’aspirazione blasfema: Di cosa si gode in una situazione simile? Di niente di esterno a sé, di niente se non di se stessi e della propria esistenza; finché dura questa condizione, siamo sufficienti a noi stessi, come Dio!°8,

Eppure — ed è questa una delle tante ragioni della sua grandezza, del suo fascino inesauribile e sempre vivo — Rous-

seau non censura rappresentativamente l’esperienza dell’autoaffermazione identitaria, né la esclude dall'immagine positiva dell’uomo. Anzi. A leggere in parallelo le sue opere antropologiche e letterarie, e in particolare quelle due «storie della coscienza» — così distanti per genere e finalità eppure così simili — che sono il Discours sur l'inégalité e le Confessions, si può fare una scoperta avvincente: nell'immaginario rousseauiano ricorre un episodio, una sorta di scena primaria, in

cui la fenomenologia dell’azour-propre è illustrata nella sua forma più antiromantica e moderna. Per ben quattro volte, in momenti e luoghi lontani, Rousseau inscena un dramma che

ha per protagonista l’io nella sua lotta per il riconoscimento pubblico. E l'esito di questa lotta è assolutamente trionfale. Non anticiperò il contenuto di questi episodi, né tanto meno le questioni suscitate dalla loro interpretazione. Mi limiterò a fare, approfittando del contesto introduttivo, una breve premessa di metodo. L'idea di usare i testi letterari come materia 107 Agostino, Confessiones, I, 19, 30, trad. it. di C. Carena, Le Confessioni, Roma, Città Nuova, 1965, p. 33.

108 Réveries, p. 1047.

61

prima per la riflessione filosofica ha alle spalle precedenti prestigiosi, se pure ancora minoritari. A favore di un uso filosofi co della letteratura, schematizzando molto, possono essere ri-

chiamate due categorie diverse di motivazioni. La prima legata al contenuto della letteratura, analogo a quello dell’antropologia e dell’etica, dotato di un forte valore esemplare, a volte più rispettoso della complessità della vita di quanto possano essere certi ipotetici e spesso astrusi esperimenti mentali. La seconda

legata invece alla sua forma: lo stile di un grande scrittore, il tono in cui racconta le situazioni, le forme simboliche che usa,

persino la musicalità della sua lingua, creano significati altrettanto ricchi e profondi di quelli prodotti dalla speculazione astratta. Si pensi solo a come la St/trennung condiziona un brano letterario, pre-giudicandolo socialmente e moralmente, o, ancora, al modo in cui le scelte di genere, quali ad esempio il ricorso ai modelli formali del Bi/dungsroman, del romanzo picaresco o della confessione autobiografica, siano associate intimamente a determinate forme dell'esperienza umana. Da entrambi i punti di vista, per chi voglia tentare vie non convenzionali d’interpretazione, l’opera rousseauiana rappresenta una palestra eccezionale. Basti pensare alla le-

zione di Starobinski, la cui principale innovazione metodologica, elegantemente sottintesa nella filigrana della sua monografia, è stata proprio quella di rovesciare il luogo comune che condannava il poligrafismo di Rousseau come un «limite». Costretto a difendersi dall'accusa di minacciare l’autonomia adamantina del pensiero, egli ha rivendicato la fecondità della propria intuizione ermeneutica, esplicitandola a chiare lettere: Era opportuno leggere Rousseau senza scartare nulla di ciò che aveva preso forma come opera sotto la sua penna. Allo stesso modo in cui Ernst Cassirer aveva postulato un legame organico tra i suoi scritti teorici (un passo in avanti che ormai dobbiamo dare per scontato), ho

ritenuto che si potessero riconoscere dei legami dello stesso ordine tra gli scritti teorici e le altre opere di Rousseau. In lui, la storia congetturale, il pensiero politico e religioso, il sogno romanzesco, la rappresentazione di sé, sono un’unica cosa [...]. E se è vero che Rousseau ha compreso il mondo attraverso diversi sistemi di forme «simboliche» (ricorrendo, in parallelo, al linguaggio dell’immaginazione e a quello del ragionamento astratto), questa molteplicità di linguaggi relativa-

62

mente indipendenti dipende da una forma più fondamentale, che determina le loro differenze e garantisce le loro correlazioni!”. Temi ricorrenti, simboli e metafore, scelte stilistiche, umo-

ri e stati d'animo sono parte integrante dell'immaginario di Rousseau, e formano l’impalcatura irriflessa, ma non per questo meno solida, del pensiero discorsivo. Vanno dunque interpretati come altrettante istanze comunicative, getti di luce che illuminano significati non altrimenti analizzabili. Ora, le quattro scene che saranno oggetto della mia analisi sono da questo punto di vista assolutamente esemplari. Proprio per la loro pregnanza simbolica le ho definite figure di riconoscimento, giocando sulle molteplici accezioni del termine «figura». Immagine, in primo luogo, che incarna nell’individuale concreto ciò che la teoria enuncia in astratto — spesso la forma plastica con cui Rousseau rappresenta i suoi pensieri ha un

ruolo così importante da poter essere considerata non un semplice vestito delle idee, ma un contenuto, un significato in sé. Figura, in secondo luogo, come prefigurazione, qualcosa che annuncia in maniera ancora provvisoria uno sviluppo fu-

turo: e questo vale sia per il legame teleologico che unisce i singoli episodi in una sorta di racconto compiuto, alternativo a quello romantico; sia per il ruolo positivo del riconoscimen-

to identitario che, scartato dalla riflessione ufficiale di Rousseau, balugina involontariamente tra le crepe della sua opera. Figura, infine e soprattutto, come rappresentazione dell'io all'interno dello spazio pubblico. Una felice coincidenza linguistica vuole che tanto l’italiano che il francese si servano della stessa espressione per alludere all'esperienza del riconosci109 J. Starobinski, Préface a E. Cassirer, Le Problème ].-J. Rousseau, Paris, Hachette, 1987, p. XVII. Vorrei anche ricordare il brano di una lettera di Erich Auerbach a Martin Hellweg (22 maggio 1939), che Starobinski ha scelto come esergo di un suo saggio recente: «Sarei molto contento [...] se, nella sua tecnica di lavoro, lei non partisse dal problema generale, ma da un fenomeno di dettaglio scelto con cura e sicurezza, qualcosa come la storia di una parola o l’interpretazione di un passo. Il fenomeno di dettaglio non deve essere né troppo piccolo né troppo concreto, e non deve mai essere un concetto introdotto da noi o da altri studiosi, ma qualcosa di offerto dall'oggetto stesso», cit. in J. Starobinski, Action et Réaction. Vie et aventures d'un couple (1999), trad. it. Azione e reazione, Torino, Einaudi, 2001, p. 3. E il metodo

che ho cercato di applicare in questo lavoro.

63

mento sociale: far bella, brutta figura, figurare, sfigurare, figu-

rer, faire bonne, triste, piètre figure, in entrambe le lingue le associazioni rimandano a un'idea rappresentativa della vita sociale. La chiave è il termine latino di origine (figura, appunto, da cui deriva il verbo figurare),

che indica

un'attività

formativa e, allo stesso tempo, un'idea di visibilità e percettibilità pubblica (im2zzagine, semzbianza). L'individuo che vive tra i suoi simili figura pubblicamente, ossia forma un’immagine di se stesso sottoponendola al giudizio, e prima ancora allo sguardo, di chi lo attornia. Quando diciamo che qualcuno ha fatto una bella o una brutta figura, ci riferiamo sempre implicitamente a una sua esibizione all’interno dello spazio sociale, e all'idea che tale esibizione ha in qualche modo appagato o deluso le aspettative di coloro che lo sottoponevano a giudizio. Quando si abbandona alla fenomenologia dell'esperienza, Rousseau concepisce la costruzione dell’identità personale come una «figura»: in termini squisitamente dialogici. Questo è il tema comune ai quattro episodi. Come nella forma musicale delle variazioni, si ripresenterà nelle più strane e imprevedibili metamorfosi, ma sarà sempre chiaramente riconoscibile. E soprattutto, come una vera variazione, schiuderà nuove prospettive di senso, al punto da costringerci a riformulare la melodia di partenza, fondata sul disaccordo tra amour de soi e amour-propre.

64

PRIMA FIGURA

AMORE E GLORIA

Per un uomo normale non può non esistere un rapporto tra l’immagine che egli si fa del proprio valore e dei valori ai quali tende con il suo sforzo, e la conferma o non conferma di questa stessa immagine attraverso il comportamento di altri uomini. Quest’intima interdipendenza dei giudizi di valore di molti individui rende difficile, se non impossibile, al singolo perseguire obiettivi che non abbiano la possibilità, al presente o nel futuro, di apportargli gratificazioni sotto forma di stima,

riconoscimento,

amore,

ammirazione,

in-

somma di conferma o accrescimento del suo valore agli occhi degli altri. Norbert Elias

b

o ep -

co lè

vie

una bb

© imm ell

«e

VA ai pag

PERÒ 0) Ce »

(o

ea,

rap —7——



lar 0a:

L'ETÀ DELLE CAPANNE

Tutto comincia a mutare aspetto. Gli uomini, che fino a questo

momento erravano nei boschi, presa una dimora più stabile si avvicinano lentamente, si riuniscono in gruppi diversi e formano infine, in ogni regione, una nazione particolare, unita nei costumi e nei carat-

teri, non dai regolamenti e dalle leggi, ma dal medesimo genere di vita e di alimentazione, e dall’influenza comune del clima. Una vicinanza permanente finisce necessariamente per generare qualche rapporto tra famiglie diverse. Giovani di sesso diverso abitano capanne vicine, la relazione passeggera richiesta dalla natura ne produce presto un’altra, non meno dolce e più duratura, attraverso la consuetu-

dine di frequentarsi. Ci si abitua a considerare oggetti diversi, a fare paragoni; si acquistano inavvertitamente idee di merito e di bellezza da cui nascono sentimenti di preferenza. Un sentimento tenero e

dolce s’insinua nell’anima e, per il minimo contrasto, diventa un furore impetuoso: la gelosia si risveglia con l’amore; la discordia trionfa, e la più dolce delle passioni riceve sacrifici di sangue umano. Via via che le idee e i sentimenti si succedono, che la mente e il cuore si esercitano, il genere umano continua ad ammansirsi, i rap-

porti si estendono e i legami si rinsaldano. Ci si abituò a riunirsi davanti alle capanne o attorno a un grande albero; il canto e la danza,

veri figli dell'amore e dello svago, divennero il gioco, o meglio l’occupazione degli uomini e delle donne oziosi e assembrati. Ognuno cominciò a guardare gli altri e voler essere a sua volta guardato; e la pubblica stima acquistò pregio. Chi cantava o danzava meglio, il più bello, il più forte, il più abile o il più eloquente divenne anche il più considerato, e questo fu il primo passo verso la disuguaglianza e al tempo stesso verso il vizio: da queste prime preferenze nacquero, da un lato, la vanità e il disprezzo, dall’altro, la vergogna e l'invidia; e la fermentazione causata da questi nuovi lieviti finì col produrre risultati funesti alla felicità e all’innocenza!.

1 Second Discours, parte II, p. 169.

67

1. Una storia della coscienza

Per un’abitudine consolidata, prevale tra gli interpreti — in particolare tra quelli italiani, i più influenzati dalla tradizione marxista — una lettura economico-politica del Discours sur l’inégalité. AI capolavoro di Rousseau si associano i temi della proprietà privata, della divisione del lavoro, dell’origine delle istituzioni politiche, del patto iniquo, della funzione ideologica del diritto. Vi si riconoscono anticipazioni della filosofia scozzese della civil society, del sistema hegeliano dei bisogni, della critica marxiana del capitalismo e degli apparati borghesi di dominio. Il dettagliato racconto di come gli uomini passarono dallo stato di natura a quello civile, canonizzato come una pietra miliare dell'analisi della modernità, viene interpretato secondo l’accezione più concreta del concetto di civilisation. Si tratta, certo, di una linea interpretativa legittima, giustificata dall’importanza delle questioni considerate e dal largo spazio che occupano nei testi, ma che oscura una parte consistente dell’opera. Accanto ai problemi più strettamente economici e politici, Rousseau affronta temi che hanno poco a

che fare con l’immagine borghese della società, produttiva e commerciale, e che si richiamano piuttosto alla tradizione psicologica d’impronta aristocratica. Le pagine sulle passioni, i desideri, i rapporti simbolici come l’amore o la rivalità per il prestigio, fanno parte dell’indagine filosofica sulla disuguaglianza allo stesso titolo del celeberrimo incipit sulla recinzione fatale («Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare: “Questo è mio”...»°), — se non, addirittura, a un ti-

tolo superiore.

Va ricordato che la filosofia rousseauiana prevede sempre 2

68

Second Discours, p. 165.

una perfetta complementarità tra gli aspetti spirituali e materiali dell’esistenza. La denuncia da cui si sviluppa il sistema delle idee ha pretese totalizzanti: la catastrofe della civilisation stravolge tanto l’interiorità quanto la vita esteriore e, allo stesso modo, anche i progetti di riforma richiederanno sempre un duplice intervento, morale ed economico, pedagogico e politico, psicologico e istituzionale. Soprattutto, da buon erede dei suoi modelli classici, Rousseau crede nel primato della questione etica. Se è vero che gli uomini, secondo l’intuizione che darà vita al Contra? social, sono sempre tali e quali il loro gouverrement li ha fatti), è altrettanto vero che, agli inizi della loro storia, quando ancora i governi non esistevano, hanno coltivato il male nell’anima. L’alienazione, il problema che fonda e tiene insieme il proteiforme pensiero rousseauiano, è innanzitutto una tragedia della coscienza. E un’analisi attenta dei testi mostra in modo incontrovertibile come anche gli aspetti più tangibili della decadenza materiale possano considerarsi «effetti» di un’originaria corruzione della soggettività.

In questa prospettiva, che asseconda l’ordine cronologico e logico dell'esposizione, il Discours sur l’inégalité può esser letto come una storia spirituale dell'umanità. O, meglio: facendo leva sul parallelismo con l’Érzi/e, e sulla coincidenza di sapore vichiano o hegeliano che a volte si manifesta tra onto e filogenesi, tra lo sviluppo del singolo e quello della specie, come una storia filosofica della coscienza, che ripercorre il processo di formazione dell’io dalle sue manifestazioni primitive e semplici, alle sue determinazioni più articolate e complesse (les développemens successifs de l’Esprit humain*). Di questa storia Rousseau fa un vero e proprio romanzo. Il metodo genetico di Condillac, rielaborato nell’espediente

letterario della favola primitivistica, si rivela particolarmente felice per cogliere la dimensione evolutiva dei fenomeni spirituali, di cui scandisce momenti e rotture con plasticità figurativa. Ad ogni epoca o età della coscienza corrisponde } Confessions, pp. 404-405. nur] 4. Second Discours, p. 162. Ho sviluppato i parallelismi tenendo conto della cautela raccomandata da Victor Goldschmidt in Anthropologie et politique, cit., ad esempio pp. 323 ss.

69

una fase della civilisation, collocata in un particolare ambiente fisico e sociale. Ogni stadio è un episodio: ha un tempo, uno scenario, una sceneggiatura e dei protagonisti propri. E i passaggi si manifestano come crisi, piccole o grandi

rivoluzioni. Come nell’Érzile si va dal bambino all’adulto, così, nel Discours, il romanzo dell’anima si snoda tra i poli di due opposte figure o personificazioni simboliche: l’uomo primitivo, bomme naturel, e l’uomo civilizzato, bore

civil, che a loro

volta, fanno capo all'opposizione strutturale tra le due passioni di base, l’azzour de soi e l’arzour-propre. La novità rispetto al modo con cui finora si è considerata la psicologia umana consiste dunque nell’inedita impostazione genealogica. Al metodo antinomico si sostituisce un approccio evolutivo, che risolve e smorza le antitesi in un processo graduale, per stadi. La stessa differenza tra le due passioni, così importante e sostanziale, si rivela in realtà frutto di una vicenda comune, di una medesima storia. Il che pone un problema filosofico decisivo: Rousseau deve giustificare persuasivamente il passaggio

dall’una all’altra forma di amore, ovvero — dal momento che un principio artificiale e cattivo subentra a un principio naturale e buono — mostrare la genesi dell’alienazione, con tutti i suoi corollari morali e sociali. La domanda che guida l’indagine storica, e che è implicita nel passaggio tra la prima e la seconda sezione del Discours, è formulata apertamente in questo brano dei Diglogues: [...] da dove nasce questa disposizione a confrontarsi, che trasforma una passione naturale e buona in una passione diversa, artificiale e cattiva?”

Una risposta a questa domanda si può leggere sempre nei Dialogues, nello stesso brano già commentato

a proposito

della metafora dello slancio e dell'ostacolo. Il passaggio dall'amour de soi all’amzour-propre — spiega Rousseau — non avviene per un improvviso salto categoriale, ma si compie attra-

verso la trasformazione qualitativa di un’identità originaria: °

70

Dialogues, p. 806.

«Le passioni primitive [...] tutte amabili e dolci per essenza [...] cambiano natura e diventano irascibili e odiose: ecco co-

me l’amore di sé, che è un sentimento buono ed assoluto, diventa amor proprio»°. Nell’Eyzile si legge la stessa spiegazione, con in più il riferimento a una determinazione causale

esterna: «La fonte delle nostre passioni, origine e principio di tutte le altre [...] è l’amore di sé [...] di cui tutte le altre non sono, in un certo senso, che modificazioni [...]. Queste modificazioni hanno per lo più delle cause esteriori (causes étrangères) senza le quali non avrebbero mai luogo»”. Anche nella Lettre è Beaumont l'accento cade sull’accidentalità e sulla circostanzialità dei fattori esterni: «Ho mostrato come l’unica passione innata nell'uomo, l’amore di sé, [...] diventi buona o cattiva solo accidentalmente e secondo le circostanze (selon les circonstances) in cui si sviluppa»8. È esattamente il tipo di processo che Rousseau illustra nel secondo Discours: la storia dell’arz0ur-propre coinciderà con una lenta e graduale degenerazione dell’arzour de soi, parallela a un cambiamento delle circostanze ambientali, e in parte determinata da esso. Tra coscienza e mondo si stabilisce fin dall’inizio quel rapporto di intensa reciprocità che rappresenta uno dei tratti più originali della filosofia di Rousseau, in cui la sensibilità introspettiva del moralista si fonde con la consapevolezza scientifica del sociologo storico?. Conosciamo già la fenomenologia dei due princìpi psicologici; concentriamoci dunque sulle novità introdotte dal Discours, con particolare attenzione al ruolo dei fattori ambientali!°. «Il primo sentimento dell’uomo fu quello della sua 6 Ibid., p. 669. 0

Emile, p. 491. Lettre à Beaumont, OC, IV, p. 936.

? Dall’epoché naturalistica dell’Ewzz/e, alle osservazioni è /a Montesquieu sul rapporto tra clima e costituzione politica, dal progetto della «morale sensitiva», alle descrizioni di paesaggio delle Réverzes, la morale di Rousseau fa leva sullo stesso principio: il milieu condiziona l’anima, e gli stati psicologici, le passioni, i costumi dipendono sempre dai loro differenti contesti naturali o sociali. La scoperta apre larghi spazi di intervento per la riforma etico-politica. Se l’uomo non è lo stesso ovunque viva, sarà sempre possibile pensarlo diverso. La difesa più esplicita del relativismo compare nella Préface de Narcisse, pp. 969-970, nota.

10 La mia ricostruzione non pretende di offrire un commento esaustivo

pa!

esistenza, la sua prima cura quella della sua conservazione»!!. In principio era il puro sentizzent de l’existence, sereno, asso-

luto, ignaro delle ansie di confronto caratteristiche delle passioni sociali. Secondo Rousseau, la coscienza nasce incapace

di atteggiarsi in modo relazionale: non sa fare paragoni e nemmeno cogliere rapporti (la sola facoltà originaria è il «sentire», nella sua duplice accezione sensoriale e sentimentale). Questa beata ignoranza è favorita da due specifiche circonstances esterne: la fecondità della terra, ossia l’abbon-

danza di risorse offerte generosamente dalla natura, che sostenta gli esseri viventi senza costringerli alla fatica, al lavoro o alla concorrenza reciproca!?; e la dispersione naturale, ossia

l'isolamento fisico che impedisce i contatti tra membri della stessa specie, o comunque li rende estremamente rari. Entrambi i fattori sono pilastri dell’antropologia rousseauiana, e le loro conseguenze morali e sociali emergeranno pienamente con gli sviluppi successivi. Possiamo però anticipare che, gra-

zie all’assioma dell'abbondanza, Rousseau ha già compiuto un passo filosofico decisivo, eliminando all’origine il principale concorrente di quella che sarà la sua spiegazione genetica del conflitto sociale: l'argomento materialistico della penuria, della scarsità. Se ci fosse una proporzione insoddisfa-

cente tra la quantità di beni essenziali disponibili nell’ambiente e l’intensità dei bisogni degli uomini, si dovrebbe riconoscere che già in natura esiste una forma di guerra per l’autoconservazione.

Ma

nel Discours

quest’eventualità

viene

scartata a priori. Tra i prodotti offerti copiosamente dalla terra e le esigenze umane, — davvero minime quando depurate

dai falsi bisogni dell’opzzzon —, esiste un’armonia prestabilita. Contrariamente a quello che pensava Hobbes, l'interesse naturale, ossia l’a7z0ur de soi, non si scontra per forza di cose contro l'ostacolo, non ha bisogno di essere una pulsione «aggressiva». Se si aggiunge l’improbabilità di incontrare sulla al Discours: mi limito a ripercorrerne le tappe fondamentali per la genesi delle passioni sociali. Ho tenuto presenti, soprattutto, l'introduzione di Starobinski all'edizione Pléiade (OC, II, pp. XLII-LXXI); Goldschmidt, Anthropologie et politique, cit.; Reale, Le ragioni della politica, cit.; Melzer, The Natural Goodness of Man, cit. !! Second Discours, p. 164. 1? Ibid., pp. 135 e 164. Cfr. anche Origine des langues, p. 404.

72

propria strada un altro uomo, l’idea stessa di una lotta per la sopravvivenza è inconcepibile. Rousseau dunque descrive il rapporto tra la coscienza naturale e il suo ambiente nella forma antitetica al conflitto;

quella di un’identità simbiotica. La realtà esterna non esercita pressioni, resistenze. La natura provvede benigna a ogni ri-

chiesta e attutisce ogni possibile attrito. È quello che in termini psicanalitici verrebbe definito come lo stadio narcisistico: l’io è unito al mondo da un sentimento di coappartenenza che si manifesta, oltre che nell’istinto di conservazione, nel

principio complementare della pi?:é, la «ripugnanza naturale a veder morire o soffrire qualsiasi essere sensibile, e in particolare i nostri simili»!?. Questa passione, che sembrerebbe suggerire un’apertura sociale, dando per scontato un riferi-

mento all’altro, non minaccia in realtà l’assolutezza del sentimento dell’esistenza. Si manifesta infatti come un’immedesimazione empatica (identification intime) anteriore alla riflessione o al giudizio: la coscienza non si proietta realmente verso l’esterno, ma si limita a sentire il dolore altrui sulla propria pelle, senza uscire da se stessa, senza alienarsi. La funzione

della pitté è complementare a quella dell’azour de soi (nei Dialogues sarà definita addirittura come una sua «emanazione»): lo limita nella sua pulsione istintiva, impedendo che la volontà di vivere si trasformi in volontà di potenza, e seda quella minima conflittualità che potrebbe darsi, persino nel pacifico e disperso idillio di natura, tra creature che si trovano pur sempre a condividere lo stesso ambiente e le stesse risorse. Si tratta di un antidoto preventivo al veleno dell’az0urpropre e, non a caso, nasce come un argomento 4d bominem contro Hobbes: l’esperienza del dolore, come un minimo comune denominatore biologico, neutralizza la rivalità naturale,

predisponendo — seppure solo virtualmente — alle forme positive di socialità. L'infanzia dell'io, svolgendosi nella pace e nell’abbondanza, 13 Second Discours, pp. 125-126. Cfr. anche #bd., pp. 153-157, 202208 (nota IX), 219-222 (nota XV); Origine des langues, pp. 395-399; Emile, pp. 504 ss.; Dialogues pp. 670 e 684. La bibliografia sul tema è ricca. Mi limito a rimandare alla voce «Piti6» di Starobinski nel Dictionnaire de ].-]. Rousseau, cit.

TE,

è insomma un'epoca felice, di comunione con le cose, di assoluta pienezza e serenità interiore: nel finale del Discours, con un parallelo per noi molto significativo, verrà definita come superiore addirittura all’atarassia stoica!4. Ma l'epoca delle prime inquietudini si sta avvicinando e, fedele all'approccio contestualistico, Rousseau ne ricollega l'origine a una trasformazione ambientale, che annulla entrambe le condizioni che rendevano possibile lo stato uterino d’integrità. La natura ces-

sa di sostentare spontaneamente le sue creature, e da benigna dispensatrice di messi si trasforma in un ostacolo da scavalcare, un nemico da combattere con l’astuzia e con la forza. E per la coscienza comincia la crisi: Tale fu la vita dell’uomo alla sua nascita; tale fu la vita di un animale limitato inizialmente alle pure sensazioni, a mala pena capace di approfittare dei doni che la natura gli offriva, lungi dal pensare di strapparle nulla. Ma si presentarono presto delle difficoltà, bisognò imparare a vincerle: l'altezza degli alberi, che gli impediva di coglierne i frutti; la concorrenza degli animali che cercavano di nutrirsene,

la ferocia di quelli che minacciavano la sua vita, tutto l’obbligò ad applicarsi all'esercizio del corpo. Bisognava acquistare agilità, velocità nella corsa, vigore nella lotta. Ben presto si trovò sotto mano le armi naturali offerte dai rami degli alberi e i sassi. Imzparò a scavalcare gli ostacoli della natura, a combattere all'occorrenza gli altri animali, a contendere il cibo anche agli uomini, o a cercare di compensare la perdita di ciò che gli toccava cedere al più forte!.

L'uomo entra in concorrenza con l’intero regno naturale: i vegetali si sottraggono dispettosamente alla sua mano; gli ani-

mali gli contendono il cibo e lo minacciano con la loro ferocia; altri uomini compaiono all’improvviso nel ruolo di rivali per il cibo. Si può parlare, a questo punto, di una fase di effettiva «scarsità», da cui potremmo aspettarci lo scatenarsi di una lotta hobbesiana per la vita. Ma Rousseau, pur accennando in breve a questi esiti violenti, e all’affermarsi di una sorta di diritto della forza («imparò a combattere all'occorrenza gli 14. Cfr. Second Discours, p. 192. > Ibid., pp. 164-165. Si noti il modo in cui Rousseau accentua il sorgere della nuova dimensione conflittuale anche a livello linguistico. Su

questa sezione del Discours, fondamentali i commenti di Starobinski, (OG, III, pp. LX ss.

74

altri animali, a contendere il cibo anche agli uomini, o a cercare di compensare la perdita di ciò che gli toccava cedere al più forte»), sospende il problema, concentrandosi invece sul rapporto coscienza/mondo suscitato dalle nuove circostanze, é sulle relative conseguenze psicologiche. Nel passaggio dalla passività sentimentale in cui lo contenevano le cure di una natura-madre premurosa, all’angoscia per la sopravvivenza, l’uomo ha modificato notevolmente il proprio atteggiamento interiore. Si è posto in una posizione «attiva», di attacco e domi-

nio, atfine alla forma mentis che oggi definiremmo ragione strumentale: Siccome l’uomo applicava ripetutamente degli esseri diversi sia a se stesso sia gli uni con gli altri, nella sua mente dovette generarsi naturalmente la percezione di certi rapporti. Le relazioni che noi esprimiamo con parole come grande, piccolo, forte, debole, veloce, lento, pauroso, coraggioso, e altre idee simili, messe a confronto quando occorreva, e quasi senza pensarci, finirono col produrre in lui una sorta di riflessione, o piuttosto una prudenza meccanica che gli indicava le precauzioni più necessarie alla sua sicurezza!°.

La scoperta di mezzi per dominare la realtà esterna, il bisogno di calcolare e anticipare sviluppi futuri, stimolano la nascita di una nuova facoltà: la réexion, che a differenza del sentiment, passivo e immediato, si muove

attivamente da un

termine all’altro, e così facendo confronta, compara, giudica,

prevede. Di questa nuova disposizione interiore, — che a ragione è stata definita «baconiana» per il suo atteggiamento tecnico, non contemplativo, subordinato all’interesse biologico! —, Rousseau enfatizza l’effetto lacerante: riflettendo, ra-

gionando, l’uomo si strappa dalla comunione con la natura, non si identifica più con la fragilità e la sofferenza degli altri esseri viventi, ma si oppone loro come un ente ostile e superiore, come un potenziale padrone. Ed è questa, si leggeva nella sezione sulla p7t/6, la condizione gnoseologica necessaria perché possa svilupparsi una passione a sua volta lacerante e conflittuale come l’azzour-propre: «E la ragione a generare l’amor proprio, ed è la riflessione a rafforzarlo. E lei che ripiega 16 Second Discours, p. 165.

1 Goldschmidt, Antbropologie et politique, cit., pp. 404 ss.

7D

l’uomo su se stesso e lo separa da tutto ciò che lo addolora e lo affligge». Siamo alle soglie della prima rottura, la prima scansione tra le due ere della natura e della civiltà. Grazie alla réflexzon, l’uomo scopre e comincia ad apprezzare la propria differenza specifica, interpretandola come un privilegio rispetto al mondo naturale: «La nuova conoscenza che scaturì da tale sviluppo aumentò la sua superiorità sugli altri animali, dandogliene la consapevolezza»!?. E più l’intelligenza umana si raffina, più si accresce la distanza tra le specie: «Si esercitò a tendere loro dei tranelli, ingannandoli in mille modi, e benché parecchi lo

superassero in forza nel combattimento o in velocità nella corsa, divenne col tempo il padrone di quelli che gli potevano servire, e il flagello di quelli che gli potevano nuocere»?0. L'intelligenza, l’astuzia, compensando le doti fisiche mancanti, si rivelano abilità superiori alla semplice forza naturale. La coscienza si contempla compiaciuta, concepisce una stilla di superbia: E fu così che il primo sguardo che rivolse a se stesso destò in lui il primo moto d’orgoglio...?!

È il momento in cui Rousseau, condannando la tentazione di violare una gerarchia sacra ed oggettiva — l’ordine delle cose in cui l’uomo dovrebbe farsi includere, e che invece vuole dominare — si avvicina maggiormente a Pascal e, prima ancora, ad Agostino. Come nel De civitate Dei, questo moto di presunzione provocherà la caduta dal paradiso terrestre, spezzando l’immobilità delle origini e innescando il movimento storico.

Tuttavia, se si prescinde dal ruolo di miccia evolutiva, l’atto di bybris descritto nel Discours — rivolto, si noti bene, non direttamente contro Dio, ma contro le sue creature (/es autres animaux), rivela una fisionomia più moderna della superbia agostiniana. L'orgoglio, che proietta la coscienza al di là dei 18. Second Discours, p. 156. PTDId pA165ì

20 Ibid, pp. 165-166.

21 Ibid... p. 166.

76

suoi confini, è privo di valenze religiose; nasce invece da quel-

lo stesso antropocentrismo ingenuo con cui si erano confron-

tati i filosofi cinque-seicenteschi sull'onda dei problemi aperti dalla rivoluzione scientifica, e che, in tempi più vicini a Rousseau, era tornato al centro della riflessione morale grazie al tema della «grande catena dell’essere»2. È un orgoglio di specie, più metafisico che teologico, del tutto simile a quello che Montaigne aveva deplorato nelle sue famose requisitorie degli

Essaîs. Che Rousseau, nel Discours, stia pensando in questa

stessa prospettiva è confermato da un brano poco più tardo delle Lettres meorales: Non diciamo nella nostra imbecille vanità che l’uomo è il re del mondo, che il sole, gli astri, il firmamento, l’aria, la terra, il mare so-

no fatti per lui, che le piante germogliano per la sua sussistenza, che gli animali vivono per essere divorati da lui: ragionando in questo modo, divorato da questa sete di felicità, di eccellenza e di perfezione, perché ognuno di noi non potrebbe credere che il resto del genere umano sia stato creato per servirlo? E perché non potrebbe considerarsi personalmente come l’unico fine di tutte le opere della natura?”

È una parafrasi scolastica dei ben più suggestivi passaggi dell’Apologie de Raimond Sebond: «Chi gli ha fatto credere che il mirabile movimento

della volta celeste, la luce eterna

delle fiaccole ruotanti così arditamente sul suo capo, i movimenti spaventosi di quel mare infinito siano stati determinati e perdurino per tanti secoli per la sua utilità e per il suo servizio?»?4. Come Montaigne, Rousseau ritiene che quest’assurda 2 Cfr. A.O. Lovejoy, «Pride» in Eighteenth-Century Thought (1942), trad. it. L'orgoglio nel pensiero del XVIII secolo, in L'albero della conoscenza, cit., pp. 97-104. Si vedano anche Id., The Great Chain of Being (1953), trad. it. La grande catena dell'essere, Milano, Feltrinelli,

1966 (capp. VI, VII,

VII), e Cassirer, La filosofia dell'Illuminismo, cit., pp. 178 ss. 23. Lettres morales, OC, IV, p. 1100. Lo scetticismo relativistico di Montaigne, grazie anche alla mediazione di Pope e alla diffusione dell'idea della «grande catena dell'essere», era di senso comune nel diciottesimo secolo (si pensi, ad esempio, alla volgarizzazione datane da Swift). Sulla vanzté in Montaigne, e il suo ruolo fondatore per la psicologia moderna, Battista, Nuove riflessioni sul «Montaigne politico», in Politica e Morale nella Francia

moderna, cit., pp. 249-291, in particolare pp. 268 ss. 24. Montaigne, Essass, cit., vol. II, p. 450.

PA

presunzione metafisica sia un effetto della varzté, la passione infantile dell’io, che si proietta su tutte le cose beandosi nell'illusione della propria superiorità. Ma all’interno della struttura teorica del Discours, l'eredità di Montaigne reagisce con quella di Hobbes, e si trasforma in un approccio originale: la questione metafisica del «posto» dell’uomo all’interno del cosmo si traduce in quella sociale della disuguaglianza, e quindi del conflitto, del dominio, dell’ingiustizia terrena??. Secondo

Rousseau, chi pretende di imporre il proprio ordine, artificiale e arbitrario, all'ordine sacro del tutto, viola il più importante precetto della morale naturale: «Uomo! Resta al posto che la natura ti assegna nella catena degli esseri»?°. E così facendo si prepara a entrare in guerra anche con i suoi stessi simili. Questa prima gerarchia, tanto falsa quanto impositiva, sarà il preludio di nuove graduatorie e distinzioni di valore che, non più dirette verso le altre specie ma verso gli altri individui, sfoceranno nel fosco quadro sociale descritto nella seconda parte dell’opera. Alcuni importanti sottintesi della riflessione di Rousseau possono essere esplicitati alla luce della filosofia di Mandeville. Nell’Enquiry into the Origin of Moral Virtue, una delle sezioni originarie della Fable of the Bees, troviamo la stessa tesi, che le passioni sociali siano nate da una sorta di riconversione terrena di un atteggiamento metafisico. Mandeville aveva supposto che, alle origini della storia, immaginari legislatori avessero suscitato intenzionalmente l'orgoglio di specie nelle coscienze degli uomini, per istituire tra loro i fondamenti della morale: [...] essi esaltarono la superiorità della nostra natura sugli altri animali, ed esponendo con infinite lodi le meraviglie della nostra sa-

gacia e ampiezza d'intelligenza, riversarono mille elogi sulla razionalità delle nostre anime, grazie alla quale potevamo compiere le imprese più nobili?”. ©. Cfr. M. Viroli, J.-J. Rousseau e la teoria della società bene ordinata, Bologna, IlMulino, 1993, capp. I e II 20 Emile, p. 308. Cfr. P. Burgelin, L'idée de place dans l'«Émile», in «Révue de Littérature comparée», 35, 1961, pp. 529-537.

?? B. Mandeville, The Fable of the Bees, or Private Vices, Publick Benefits, a cura di F.B. Kaye, 2 voll., Oxford, Clarendon Press, 1924, vol. I, pp. 42-43.

78

Fu così che, per dimostrarsi degni della perfezione che i politici attribuivano alla loro natura, gli individui si sforzarono di eccellere nei loro rapporti reciproci. L'orgoglio nei confronti degli animali si convertì presto in orgoglio intraumano, quella spinta emulativa che — secondo l’idea più originale di Mandeville — è foriera di progresso, civilizzazione, benessere: nell’uomo, il più perfetto degli animali, [l'orgoglio] è a tal punto inseparabile dalla sua stessa essenza [...] che, senza di esso, il com-

posto di cui l’uomo è fatto mancherebbe di uno dei principali ingredienti. Se consideriamo questo, è difficile dubitare che lezioni e rimproveri come quelli che ho menzionato, così abili e adatti alla buona opinione che l’uomo ha di se stesso, dovessero, se diffusi fra una moltitudine, non soltanto guadagnare su un piano speculativo l’assenso della maggioranza, ma anche indurre molti, specialmente i più fieri, i più risoluti e i migliori fra loro, a sopportare mille disagi e ad affrontare altrettante difficoltà per [...] far propria tutta l’eccellenza di cui avevano sentito parlare?*.

Rousseau, nel Discours, seguirà un percorso analogo, invertendo però i risultati del bilancio di Mandeville. Dopo il breve accenno all’umana «superiorità sugli altri animali», il suo interesse comincia a spostarsi dalla posizione dell’uomo nel cosmo?” a quella dell'individuo nella società. Decollato in un primo momento verso l’alto, lo slancio orgoglioso della coscienza modifica subito la sua traiettoria. Si inclina, discende nuova-

mente verso il basso e poi prosegue in direzione orizzontale: E fu così che, discernendo

ancora

a stento le gerarchie (/es

rangs), e contemplando al primo posto la sua specie, si preparava da lontano a pretendere il primato come individuo”.

Sta per compiersi il salto da Montaigne a Hobbes. Dopo essersi proclamati sovrani del mondo naturale, gli uomini si preparano a diventare lupi gli uni per gli altri. 28 Ibid., pp. 44-45. Cfr. A.O. Lovejoy, Reflections on Human Nature, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1961, pp. 172-178. 29 Il tema giocherà invece un ruolo importante nelle Leztres m0rales e nel cuore metafisico della Profession de foi: recuperato in chiave antropocentrica, servirà a dimostrare la dignità morale dell’uomo, unico essere dotato

di autonomia e di conscience. 30. Second Discours, p. 166.

19

2. Prima della battaglia

Perché l'orgoglio di specie si trasformi pienamente in amour-propre, tuttavia, l'orizzonte interiore deve ampliarsi, concependo e inglobando la consapevolezza dell’alterità che serve a innescare il conflitto mimetico. Rousseau distingue con grandissima cura i momenti di socialità pre-identitaria, in cui gli uomini interagiscono come semplici cose, dotate di presenza fisica ma non di personalità, e quelli in cui invece diventano individui a tutti gli effetti, inaugurando forme di rapporto ben più problematiche. Anche per questo processo il racconto del Discours prevede tempi lunghissimi e molteplici stadi che vale la pena ripercorrere analiticamente. Benché i suoi simili non fossero per lui ciò che sono per noi, e non avesse con loro molti più rapporti che con gli altri animali, non dimenticò tuttavia di osservarli. Le analogie che il tempo gli permise di scorgere tra loro, la sua femmina e se stesso, gli fecero intuire quelle che non scorgeva e, vedendo che si comportavano tutti come avrebbe fatto lui nelle stesse circostanze, concluse che la loro maniera di pensare e di sentire era del tutto conforme alla sua [...]}!. La premessa, per i suoi sottintesi, è molto intrigante: la co-

scienza naturale non considerava i suoi «simili» come li consideriamo noi. Viene spontaneo chiedersi: e noi come li consideriamo? Ma per ora la risposta appare solo in negativo,

attraverso il quadro di questa primitiva e ambigua forma di considerazione naturale dell’alterità. Si tratta, spiega Rousseau, dello stesso rapporto che il selvaggio intrattiene con gli animali (non a caso definiti autres anizzaux, come per eviden-

ziare quest'indifferenza di trattamento). Ad eccezione, però, di una differenza: l’uomo, che ormai applica sistematicamente la sua facoltà riflessiva, percepisce tra sé e gli altri esseri umani delle conforzzités. Vede che esistono creature dotate delle sue stesse sembianze, capaci dei suoi stessi comportamenti, e

da queste analogie intuisce somiglianze ulteriori, psicologiche e intellettuali. Scopre insomma accanto a sé l’uguale, l’alter ego. Si tratta però di una scoperta priva di quei risvolti emotivi 1 Ibid.

80

che potremmo aspettarci da parte di chi, dopo essersi a lungo considerato solo al mondo, comprende all'improvviso di non esserlo più. Lettore appassionato del Robinson Crusoe, Rousseau ricordava di certo lo sgomento misto a sollievo con cui il

suo eroe letterario preferito, nel capitolo di svolta del romanzo, rinveniva nella sabbia un'impronta «umana». Invece, nella

prima sezione della seconda parte del Discowrs, questo momento potenzialmente drammatico per là storia della coscienza è descritto come un freddo calcolo mentale, una deduzione compiuta per via di confronti e giudizi, cui manca persino quel minimo pathos che caratterizza il sentimento della pitié. Ci troviamo, con ogni evidenza, nel campo semantico della réflexion. E infatti il selvaggio impara subito a mettere a frutto la nuova scoperta, manipolando abilmente le azioni altrui anticipate per analogia con le proprie. Lungi dal preludere a sconvolgenti sviluppi morali, l'umanità intravista nell’altro uomo viene piegata alle esigenze strategiche dell’autoconservazione. La coscienza si rapporta agli esseri umani come a degli enti, a dei semplici mezzi: [...] quest'importante verità, radicatasi nella sua mente, gli fece seguire, per un presentimento altrettanto sicuro e più rapido della

dialettica, le regole di condotta da mantenere più convenientemente con loro per il suo vantaggio e la sua sicurezza. Avendo imparato per esperienza che l’amore del benessere è il solo movente delle azioni umane, fu in grado di distinguere le rare occasioni in cui l'interesse comune doveva portarlo a contare sull’assistenza dei suoi simili, e quelle, ancor più rare, in cui la concorrenza doveva spingerlo a diffidare di loro. Nel primo caso si univa ad essi in branco, o tutt’al-più in una qualche specie di associazione libera che non obbligava nessuno e che durava solamente quanto il bisogno passeggero da cui si era formata. Nel secondo, ognuno cercava di realizzare il proprio vantaggio, apertamente con la forza, se ne era capace, o con abilità e astuzia, se si sentiva il più debole”.

Siamo ormai entrati nel «secondo stato di natura», la fase

di sviluppo in cui, spezzatasi la simbiosi con l’ambiente ed essendo cresciuta la popolazione, l'isolamento finisce e cominciano a darsi forme di rapporto sociale. Ecco dunque la nascita 32 Ibid.

81

di quelle che Rousseau, con una felice scelta espressiva, definisce «associazioni libere»: funzionali cioè all’interesse istantaneo, indipendenti da obbligazioni durature e sempre pronte a trasformarsi nel loro rovescio (come nell’esempio del selvaggio che, appostato in gruppo per la cattura di un cervo, non esita ad abbandonare i compagni per rincorrere una preda più facile, la lepre sgusciatagli tra le gambe)??. Si tratta di un tema fondamentale. Descrivendo queste società temporanee,

Rousseau

sta dimostrando

implicitamente

come la lotta contro la scarsità non solo non porti alla guerra (intesa come

condizione endemica, non come

conflittualità

occasionale), ma addirittura preluda propedeuticamente al contratto politico: lungi dal separare in forma stabile gli individui, l'interesse materiale ben inteso li unisce, rivela loro l’i-

dentità della natura umana, la possibilità di perseguire obiettivi comuni all'insegna della comune aspirazione al benessere (è un aspetto sotto cui l'antropologia politica rousseauiana si avvicina a quella di Spinoza). Nella nostra prospettiva psicologico-morale, però, ci interessa soprattutto il fatto che tali associazioni temporanee siano «libere» da coinvolgimenti emotivi: gli uomini si incontrano, valutano le circostanze, se lo ritengo-

no opportuno collaborano o si combattono fugacemente — il tutto senza sentimento, calore, passione. Il rapporto intersoggettivo non è mai problematico, nemmeno quando rischia di ostacolare l’interesse, attentando agli oggetti dei suoi bisogni e minacciando il bene supremo della conservazione. La ragione di tanta asetticità è spiegata nella preziosa nota sulla differenza tra a720ur de soi e amour-propre: In una parola, ogni uomo, vedendo i suoi simili solo come vedrebbe degli animali di un’altra specie, può strappare la preda al più debole o cederla al più forte, senza considerare queste rapine se non come avvenimenti naturali, senza il minimo moto di insolenza o di stizza e senz’altra passione che il dolore o la gioia di un risultato buono o cattivo?4.

Nello stato d'animo dell’azour de soî, ogni incontro inte5 Cfr. bid., pp. 166-167. 34. Ibid., pp. 219-220.

82

rumano è ancora un «avvenimento naturale». Che sia un’associazione o una contesa, il rapporto sociale presenta sempre gli

stessi caratteri: è finalizzato al vantaggio privato, breve, occa-

sionale, emotivamente neutro. Anche se sfocia nella violenza,

somiglia più a uno scontro meccanico tra forze che a un dissidio umano: come quando due belve affamate attaccano la stessa preda o un cane «se gli gettano un sasso, lo morde»”, Rispondendo sempre a uno stimolo esterno, l’atto violento è

privo di quella gratuità che caratterizza, invece, le aggressioni dell’arzour-propre. Soprattutto, malgrado la comparsa di un falso segnale mimetico (il riferimento a un ostacolo che si frappone tra il soggetto e l’oggetto), la fenomenologia del desiderio resta quella dell’arzour de sot: la coscienza, saldamente ancorata ai suoi bi-

sogni fisici, rivolge il suo interesse prima verso il bene funzionale alla vita, e solo in un secondo momento verso ciò che glielo contende. Manca cioè quella preoccupazione preventiva per la considerazione altrui, che sola può innescare il conflitto simbolico: [...] quest'uomo non potrebbe provare odio o sentimenti di vendetta, passioni che possono nascere solo dalla convinzione di aver ricevuto un'offesa; e poiché l’offesa è costituita dal disprezzo e dalla volontà di nuocere, uomini che non sanno né apprezzarsi né confrontarsi possono farsi a vicenda molte violenze, quando ne ricavino qualche vantaggio, senza mai offendersi reciprocamente’.

Offense e vengeance sono le parole-chiave. C'è offesa — ossia mortificazione, oltraggio, sensazione di essere disprezzati — soltanto se la violenza sfonda la sfera fisica per aggredire l’interiorità dell'individuo, per ledere intenzionalmente la sua dignità, il suo io, il suo valore (Rousseau parla anche di differenza tra il danno fisico, darne, e l’ingiuria morale, injure). Ma

un uomo che vive prizza di queste nozioni non può sentirsi of-

feso né ingiuriato, né tantomeno concepire per reazione il desiderio di vendicarsi. Due selvaggi mossi dall’azzour de soi, una volta conclusa la lotta per il possesso della preda, si separeranno senza provare altro che l’appagamento o la frustrazione 2 Ibid... pi157: 36 Ibid., p. 219 (nota XV).

83

del bisogno fisico: «Il vincitore mangia, il vinto va a cercare fortuna, e tutto è finito»?”. Placata altrove la sua fame, il soc-

combente dimenticherà presto la sconfitta, non sarà nemmeno in grado di riconoscere il volto del suo avversario. Rousseau esplicita questo nesso tra riconoscimento e identità in modo

letterale: l’uomo di natura —- leggiamo — errava per i boschi «senza riconoscere mai nessuno individualmente (sans jarzais en reconnoître aucun individuellement)»; «non riconosceva nemmeno i propri figli (/ re reconnoissoit pas méme ses Enfants)»8. Se nel sistema simbolico rousseauiano il mondo sociale appartiene al campo semantico della visione, e metafora dell’intersoggettività è per eccellenza lo sguardo, potremmo dire che nello stato dell’azzour de soi prevale decisamente la miopia. Gli altri sono ancora presenze vaghe, dai contorni confusi e ondeggianti. Possono essere visti, secondo i vari stadi di sviluppo, come animali o come «simili». Ma sono sempre indistinguibili, privi di personalità, di un carattere proprio. A questo punto è opportuno

un piccolo passo indietro

nell’ordine espositivo del Discours. Prima di depurare da ogni contenuto simbolico i rapporti sociali successivi alla fine dell'abbondanza e dell'isolamento, Rousseau aveva già neutraliz-

zato la relazione sessuale presente nel primissimo stato di natura. L'operazione era ancora più delicata, perché l'istinto ri-

produttivo (a differenza degli altri due bisogni fondamentali ammessi nell’antropologia minima, il nutrimento e il sonno), non può essere soddisfatto autarchicamente, e sembra inscindibile da qualche forma di socialità stabile. Così, prima che si sviluppi l’arzour-propre, la sessualità umana ha le sembianze gelide e meccaniche di un’associazione libera: dà luogo a unioni occasionali, rapide, finalizzate al mero soddisfacimento fisico, indipendenti da una vera consapevolezza dell’altro, dalla preoccupazione per il suo giudizio, 7? Ibid., p. 203 (nota IX). La fenomenologia degli stati interiori derivanti dai rapporti di forza può essere accostata a quella di Nietzsche: tutto si gioca nella dimensione del presente, non esiste memoria del passato né anticipazione del futuro. Le consonanze, come vedremo, proseguono anche sui temi della vendetta e del risentimento. 98 Ibid., pp. 147 e 160. #° «I soli beni che conosca nell'universo sono il nutrimento, una femmina, e il riposo», /brd., p. 143.

84

da un interesse per la sua specificità. Per soddisfare l’istinto,

l’uomo di natura non ha bisogno di una singola, individuata persona, ma si accontenta di qualsiasi femmina. Che sia bella o brutta non fa alcuna differenza, perché la sua coscienza «non ha potuto ancora formare delle idee astratte di regolarità e di proporzione», e il suo cuore è insensibile a «sentimenti d’ammirazione e d’amore»?°. Chi non ha nozioni di gusto è incapace di scegliere: toute femme est bonne pour lui*!. Anche in questo caso l’inconsapevolezza dell’identità personale viene associata all'esperienza percettiva del riconoscimento: «Una volta soddisfatto il bisogno, precisa Rousseau, i due sessi non si riconoscevano più (le besoin satisfait, les deux sexes ne se reconnoissotent plus)[...]»*. Metafora eloquente di questa forma d'amore non umano è la cecità: «quest’inclinazione cieca (penchant aveugle), priva di sentimenti del cuore, produceva un atto puramente animale». Ancora una volta Rousseau ci chiede uno sforzo intellettuale: la capacità di distillare la nostra immagine quotidiana dei rapporti sociali con la precisione di un chimico. Bisogna imparare a distinguere ciò che appartiene davvero all’ordine naturale, ne costituisce il grado zero ineliminabile ed eterno, e

cosa invece è prodotto dalla cultura, e in quanto tale storico, relativo, suscettibile di riforma. Applicato all'amore, e reinterpretato alla luce di una distinzione di Buffon, questo metodo impone di separare l’aspetto fisico da quello rz0rale: Tra le passioni umane, ce n'è una ardente, impetuosa, che rende un sesso necessario all’altro, passione terribile che sfida tutti i pericoli, rovescia tutti gli ostacoli, e che, nel suo furore, sembra in grado di

distruggere il genere umano che dovrebbe essere destinata a conservare. Cosa diverranno gli uomini in preda a questa rabbia sfrenata e brutale, privi di pudore, privi di ritegno, e disputandosi ogni giorno i loro amori al prezzo del sangue? [...] Cominciamo distinguendo, nel sentimento dell’amore, l’aspetto fisico da quello morale”.

40 Ibid., p. 158. 41 4 5 44 zione

Ibid. Ibid., p. 164. Da Ibid. Ibid., p. 157. Sul modo in cui Rousseau reinterpreta e usa la distindi Buffon, Goldschmidt, Anthropologie et politique, cit., pp. 362-363.

89

È un’applicazione classica del principio di straniamento. In questa nuova prospettiva esterna alla cultura, che ne sospende i rapporti di senso, la passione amorosa perde molti dei suoi tratti falsamente scontati: lo struggimento, il delirio immaginativo, l'inquietudine, l’insaziabilità, l'eccesso di speranza e di dolore, soprattutto quell’irritabilità sempre pronta a trasformarsi in violenza che, considerata invece dall’interno,

sembrava intrinseca alla definizione stessa di «amore»: Limitati al solo amore fisico, e abbastanza felici da ignorare quelle preferenze che ne irritano il sentimento e ne moltiplicano le difficoltà, gli uomini devono sentire con meno frequenza e vivacità gli ardori del temperamento, e quindi avere dispute più rare e meno crudeli. L’immaginazione, che tra noi provoca tante devastazioni, non parla a dei cuori selvaggi. Ognuno aspetta serenamente l’impulso della natura, vi si abbandona senza scelta con più piacere che furore e, una volta soddisfatto il bisogno, ogni desiderio è spento.

Impermeabile all’arzour-propre, e dunque privo di quei risvolti emotivi — il voler essere preferiti, la gelosia, la mortificazione per il rifiuto, il piacere della conquista — che snaturano il desiderio, gonfiandolo fino al parossismo e trasformando il plaisir in fureur, l'accoppiamento non può essere pretesto di vere contese. Dove manca consapevolezza dell’identità, manca anche ogni pretesa esclusiva: lo stesso bisogno sessuale, privo del pungolo rivalitario, sembra perdere molta della sua forza e della sua urgenza (nel frammento politico sulla classificazione dei bisogni, non a caso, compare nella categoria di quelli «naturali» ma «non necessari»). Senza cibo si muore, senza una femmina si sopravvive. Un eventuale combattimento tra rivali le cui mire siano casualmente convertite sulla stessa donna avrebbe un esito ancor più meccanico di quello per la preda da divorare: non ci sarebbe nessuna ragione per ostiSecond Discours, p. 158. Nel libro IV del De rerum natura Lucrezio aveva applicato un metodo analogo, che distingueva il punto di vista della natura e quello della società, al fine di disilludere l’uomo sulla realtà dell'amore, e liberarlo da sofferenze inutili. Cfr. Nussbaum, Terapia del desiderio, cit., cap. V. Sul metodo dello straniamento e le sue origini stoiche, C. Ginzburg, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Milano, Feltrinelli, 1998.

10 Fragments politiques, pp. 529-530. Cfr. Il quadro antropologico e morale, par. 1.

86

narsi a pretendere proprio quella che vogliono gli altri. Al termine dell’analisi, tuttavia, leggiamo queste parole: «Quanto alle induzioni che si potrebbero trarre in molte specie di animali dai combattimenti tra maschi che insanguinano in ogni stagione i nostri cortili, o che in primavera, per disputarsi le femmine, fanno risuonare di grida le foreste...»47. Davanti a un’evidenza così impressionante, che potrebbe inficiare tutta la sua costruzione naturalistica (gli animali lottano furiosamente per l'accoppiamento, dunque anche l’uomo, nella sua natura animale...), Rousseau si appella alla differenza specifica: esclude che si dia per l’uomo una concorrenza sessuale dipendente da un’originaria scarsità. L'argomento, che si snoda attraverso una serie di distinzioni analitiche*8, corrisponde simmetricamente a quello della fertilità della terra. La natura prevede un equilibrio, una proporzione felice tra i bisogni (minimi) degli uomini e gli oggetti (copiosi) necessari alla loro soddisfazione: «il numero delle femmine sorpassa generalmente quello dei maschi», e «non si è mai osservato che le femmine abbiano, come nelle altre specie, periodi di calore e di esclusione». Il paragone con gli animali non minaccia ma rafforza la neutralizzazione del conflitto: Non si può dunque concludere dai combattimenti di certi animali per il possesso delle femmine che lo stesso accadrebbe all’uomo nello stato di natura. E se anche si dovesse arrivare a questa conclusione, dato che queste contese non distruggono le altre specie, non si vede perché dovrebbero essere più funeste alla nostra?°.

Un breve confronto con il modello hobbesiano può utile a chiarire l'originalità di quest'approccio. Hobbes ambientato la guerra nello stato di natura e l'aveva all’interno dello stato politico. Rousseau la estromette

essere aveva sedata invece

Second Discours, p. 159. 4. Rousseau distingue in primo luogo il caso, come quello dei galli, in cui la potenza naturale del maschio richiede di sfogarsi su un alto numero di femmine; poi quello delle specie in cui la proporzione tra i due sessi è numericamente sfavorevole, infine quello in cui la periodicità del ciclo riproduttivo femminile rende comunque insufficiente il loro numero. Queste analisi verrano riprese in Émile, pp. 796-797.

49. Second Discours, p. 159. > Ibid.

87

dalla natura, esasperandone così il contenuto culturale. Solo nel Discours sur l’inégalité la lotta per l’autoaffermazione si trasforma interamente in lotta per il prestigio, portando a termine il processo di denaturalizzazione avviato da Hobbes con l’idea di glory?!. La posta in gioco non è più il potere, ma la stima, entità astratta, impalpabile, mentale, che consiste in valori. Questi valori, a loro volta, sono stabiliti da un terzo me-

diatore, cui spetta di osservare, confrontare e giudicare i rivali in base a un sistema comune di riferimento. Nell’immaginario rousseauiano, quest’entità mediatrice si personificherà in due

figure complementari e convergenti: la donna oggetto d’amore-passione (e non più di istinto cieco, indiscriminato); e l’en-

tità collettiva ed anonima dell’opirion publique 0, ancora più emblematicamente, del public. Dallo sfondo naturalistico su cui la collocava Hobbes, la

lotta per il riconoscimento si sposta dunque in un foro pubblico, un vero e proprio teatro civile, che nella progressione

storica del Discours corrisponde alla cosiddetta epoca delle «nazioni». È lo stadio delle prime società stanziali, formate

dall’assembramento di più famiglie, prive di istituzioni e di stato, ma caratterizzate da una forte omogeneità culturale: Tutto comincia a mutare aspetto. Gli uomini, che fino a questo momento erravano nei boschi, presa una dimora più stabile, si avvicinano lentamente, si riuniscono in gruppi diversi, e formano infine, in ogni regione, una nazione particolare, unita nei costumi e nei ca-

ratteri, non dai regolamenti e dalle leggi, ma dal medesimo genere di vita e di alimentazione, e dall’influenza comune del clima.

‘ Stabilità nel tempo e nello spazio, coesione dei 72@urs e dei caratteri, ossia un’identità collettiva determinata da pratiche condivise, a loro volta influenzate da fattori fisici e climatici: Rousseau si serve implicitamente di Montesquieu per se-

gnalare ciò che distingue una «nazione» da un assembramento di animali o dall’unione contingente di interessi che promuoveva le «associazioni libere». Non ci sono ancora istitu21 Sul concetto di déenaturalisation come chiave di lettura del secondo

Discours, in rapporto critico soprattutto all’antropologia hobbesiana, B. Bachofen, La Condition de la liberté. Rousseau critique des raisons politiques, Paris, Payot, 2002, cap. I

88

zioni e leggi, ma c'è già l’esprit che definisce la cultura, e questa è la condizione imprescindibile perché possa darsi una costruzione sociale dell’identità individuale?2. Sarà qui, lontano ormai dalla dispersione dei boschi, tra le sagome protettive delle capanne, che nasceranno le prime forme di conflitto veramente umano.

3. «La jeunesse du Monde». Amore e riconoscimento

La vera grande crisi della coscienza, l’esperienza destinata

a promuovere l’uscita definitiva dallo stato di natura e lo scatenarsi della guerra per il riconoscimento, coincide con l’amore. L'origine storica di questa passione è a sua volta associata a

quella della famiglia, la prima forma di legame stabile e, soprattutto, affettivo: I primi sviluppi del cuore derivarono da una situazione nuova, che riuniva in un'abitazione comune i mariti e le mogli, i padri ei figli. L’abitudine di vivere insieme fece nascere i più dolci sentimenti che si conoscano tra gli uomini, l’amore coniugale e l’amore paterno. Ciascuna famiglia divenne una piccola società, tanto più unita in quanto i soli legami erano il reciproco attaccamento e la libertà??.

Favorita dall’unità spaziale e simbolica della dimora comune, la socialità umana perde i tratti del freddo interesse, e ac-

quista il calore del sentimento. La presenza di un altro essere umano

diventa per la prima volta parte integrante, non più

5. Interpretando l'opposizione stato di natura/stato civile in termini culturali, oltre che sociali, Rousseau pone il problema dell’origine dei giudizi di valore: il merito di una persona, qualunque sia il campo di riferimento, può essere stabilito solo se si è formata una qualche forma comune di ethos, un'identità culturale che a sua volta permette di definire l'identità sociale dell'individuo. Con ciò il Discours arricchisce ulteriormente il modello hobbesiano, che colloca la lotta per il riconoscimento nell’instabilità delle relazioni naturali, sottoponendola a criteri soggettivi, relativistici (tutti, dal loro

punto di vista, si credono migliori, ma nessuno lo è in verità). Rousseau, come vedremo, eredita il prospettivismo di Hobbes, enfatizzandone gli aspetti mentali, allucinatori; ma riconosce anche una dimensione più oggettiva del conflitto, che è mediato da fattori (storicamente variabili ma cogenti all’interno della comunità) come il gusto, l'opinione pubblica, e si sedimenta nel «fatto» della disuguaglianza sociale. 53. Second Discours, p. 168.

89

fugace e strumentale, dell'orizzonte soggettivo. Eppure, benché la famiglia segni una tappa decisiva nel passaggio tra natura e cultura, (è in questo stadio che si collocano i prodromi della civilisation e del linguaggio), e rompa definitivamente l’autorelazionalità dell’a7z0ur de soi, non è al suo interno che la tonalità di base della coscienza si trasforma pienamente in a720ur-propre. Tra mariti e mogli, come

tra genitori e figli, si danno rapporti d’interazione stabile, ma non ancora sentimenti di rivalità (e nemmeno, per le ragioni

che vedremo, forme di «identità personale»). Ognuno è consapevole dell’esistenza dell’altro, lo ama come un complemento indispensabile alla propria finitezza, ma non lo percepisce come fonte d’inquietudine. Ai legami familiari — associati significativamente all’abitudine — manca quell’elemento di novità e di sorpresa senza di cui, come Rousseau preciserà nell’Essai sur l'origine des langues, la comparaison, condizione propedeutica all’autoaffermazione, non può svilupparsi??. Perché la scintilla d'orgoglio nata dal confronto con gli animali infuochi il mondo umano, e lo contagi con la sua presunzione, bisogna che lo scenario domestico si allarghi, introducendo sulla scena nuovi protagonisti capaci di spezzare l'immediatezza dei rapporti familiari, di movimentarli con forme inedite di sentimento. Solo quando la porta della capanna si sarà spalancata, la coscienza potrà uscire dal cerchio protettivo della natura. Allora comincerà una nuova fase — sociale, pubblica e per questo finalmente umana, della sua esistenza: Una vicinanza permanente finisce necessariamente per generare

qualche rapporto tra famiglie diverse. Giovani di sesso diverso abitano capanne vicine, la relazione passeggera richiesta dalla natura ne produce presto un’altra, non meno dolce e più duratura, attraverso la consuetudine di frequentarsi. Ci si abitua a considerare oggetti 24. «La riflessione nasce dal confronto delle idee, ed è la pluralità di idee che porta a compararle. Chi vede un solo oggetto non ha alcun confronto da fare. Neppure chi vede solo un piccolo numero di oggetti, sempre i medesimi fin dall'infanzia, riesce ancora a confrontarli, perché l’abitudine di vederli gli impedisce l’attenzione necessaria ad esaminarli. Ma, nella misura in cui un oggetto nuovo ci colpisce, vogliamo conoscerlo, e cerchiamo dei rapporti tra lui e quelli che ci sono noti», Origine des langues, p. 396. Si noti l’insistenza sul tema della «diversità» nel brano relativo del Discours.

90

diversi, a fare paragoni; si acquistano inavvertitamente idee di merito e di bellezza da cui nascono sentimenti di preferenza.

E una delle immagini più importanti di tutto il secondo Discours: incarna i concetti con icasticità, e le sue figure sim-

boliche ritorneranno in luoghi insospettabili dell’opera di Rousseau. Per comprenderla ed apprezzarla in pieno, dobbiamo leggerla a fianco di questo brano corrispondente dell’Essai, che ne arricchisce lo sfondo con suggestivi elementi scenografici e sonori: la trasparenza cristallina delle fontane (il tema rievoca scene bibliche, e l’acqua diverrà un topos dell'immaginario amoroso di Rousseau); l’ombra protettrice delle vecchie querce (un altro simbolo dalle forti valenze politico-religiose); la sensazione del tempo sospeso; l’accompagnamento musicale creato dagli appassionati gorgheggi del linguaggio vocale nascente: Là si formarono i primi legami tra le famiglie, là avvennero i primi appuntamenti tra i due sessi. Le fanciulle venivano a prender l’acqua per la casa, i giovani venivano ad abbeverare le mandrie. Là gli occhi, abituati dall'infanzia agli stessi oggetti, cominciarono a vederne di più dolci. A questi nuovi oggetti il cuore si commosse, un'attrazione sconosciuta lo rese meno selvaggio, sentì il piacere di non essere solo. L'acqua divenne inavvertitamente più necessaria, il bestiame ebbe sete più spesso; si arrivava in fretta e si andava via a malincuore. In quest’età felice, in cui niente scandiva le ore, nulla obbligava a contarle; il tempo non aveva altra misura che il divertimento e la noia. All’ombra di vecchie querce trionfanti degli anni, un’ardente gioventù dimenticava gradualmente la propria ferocia, ci si familiarizzava poco a poco gli uni con gli altri; sforzandosi di farsi capire, si imparò a spiegarsi. Là si fecero le prime feste, i piedi saltellavano di gioia, il gesto sollecito non bastava più, la voce lo accompagnava con accenti appassionati, il piacere e il desiderio, confusi insieme, si facevano sentire con-

temporaneamente. Là fu insomma la vera culla dei popoli, e dal puro cristallo delle fontane scaturirono i primi fuochi dell'amore”.

Le due immagini si sovrappongono a tal punto che si potrebbe parlare di un’unica scena. Tuttavia, nel brano dell’Essai le diverse fasi del processo di riconoscimento sono meno 55. Penso in particolare a Genesi 29, in cui Giacobbe incontra Rachele al pozzo, e a Genesi 24 (l’amore tra Isacco e Rebecca).

56 Origine des langues, capitolo IX, pp. 405-406.

Si

distinte (tra amore e festa non c'è una separazione netta, ma il primo momento tende a fondersi nell’altro) e, soprattutto, manca l’allusione al lato oscuro della vita comune, che costi-

tuisce un aspetto fondamentale del problema dell’arzour-propre. Ci appoggeremo dunque all’ordine espositivo e al testo del Discours. Un primo dettaglio degno di considerazione è che Rousseau faccia vivere l’esperienza che si rivelerà fatale sia per la storia dell’individuo sia per quella della comunità non all'uomo — in quanto generico protagonista del processo evolutivo — ma specificamente a degli adolescenti: de jeunes gens de differens sexes, che vivendo in capanne vicine finiscono per frequentarsi, secondo la versione del Discours; une ardente jeunesse che si incontra presso le fontane per attingere l’acqua e abbeverare il bestiame, secondo la più pittoresca versione dell’ Essaz. L’intuizione psico-evolutiva si integra perfettamente nel sistema rousseauiano delle idee. L'adolescenza, come insegnerà in modo più esplicito l’Emzile?, è l'epoca della scoperta dell’intersoggettività e della nascita delle passioni. Nel momento critico in cui il bambino matura sessualmente, verso i quindici o sedici anni, l’equilibrio simbiotico dell’infanzia va in frantumi. La coscienza si svincola dall’abbraccio della natura che comincia a percepire come soffocante e, pungolata da un senso di irrequietezza, un desiderio astratto che non trova più corrispettivo nel bisogno naturale, trabocca verso il mondo esterno: una lunga inquietudine precede i primi desideri [...], si desidera senza sapere perché. Il sangue fermenta e si agita, la vita, nella sua sovrabbondanza, cerca di estendersi al di fuori?8.

Destinatario ideale di questo slancio emotivo non è più il mondo materiale, che aveva dominato l’ége des choses, la prima fase del processo educativo. Inizia l’dge des hommes, l’epoca dei rapporti sociali: L'occhio si anima e percorre gli altri esseri; ci si comincia a interessare a chi ci circonda, a capire che non si è fatti per vivere soli. È Emile, libro IV, in particolare pp. 489 ss. 3 Ibid.\p.,502.

92

così che ilcuore si apre agli affetti umani e diviene capace di attaccamento?”

Lo sguardo è l'emblema di questa nuova età della vita, e soprattutto del ruolo che, d’ora in poi, vi giocherà l’intersoggettività. Emblema in primo luogo del suo fascino — quando lo sguardo è lanciato al di fuori, e percorrendo curioso gli altri esseri si lascia sedurre dalla loro novità, come nel brano suggestivo dell’Essa;: «gli occhi, abituati dall’infanzia agli stessi oggetti, cominciarono a vederne di più dolci. A questi nuovi 0ggetti il cuore si commosse, un'attrazione sconosciuta lo rese

meno selvaggio...». Ma anche emblema — come vedrà Sartre, ritornando a distanza di due secoli su questi stessi temi — del suo peso insostenibile: lo sguardo allora viene subìto, e la coscienza percepisce nell'altro io una minaccia, il rischio di un’alienazione e di una reificazione®® Tra questi due poli — l'attrazione e la paura, il desiderio e la fuga, l’amore e l’odio — si struttura quella che Rousseau definisce la seconda nascita della coscienza, la tempestosa rivoluzione, il momento critico dell’esistenza: Come il mugghiare del mare precede da lontano la tempesta, questa tempestosa rivoluzione èannunciata dal mormorio delle passioni nascenti: un sordo fermento avverte dell’approssimarsi del pericolo. Cambiamenti di umore, frequenti impeti di collera, una continua agitazione di spirito rendono il fanciullo quasi intrattabile. Diventa sordo alla voce che lo rendeva docile; è un leone febbricitante.

Non riconosce la sua guida, non vuol più essere governato”!

AI vertice della sua sensibilità psicologica, Rousseau sembra aver colto una dimensione universale dell’esperienza umana, o comunque della sua forma tipicamente moderna. Ancora oggi, l’adolescente è per antonomasia la creatura dell’ansia e del conflitto, ossessionata dal confronto con gli altri, dal loro giudizio, dal desiderio di piacere. L’uscita dalla dimensione chiusa e protetta della famiglia lo sottrae a una sicurezza affettiva che per molti versi era indipendente dal suo merito e dai Ritbed, 6 Cfr. J.-P. Sartre, L'Étre et le néant (1943), trad. it. L'essere e il nulla, Milano, IlSaggiatore, 1965, pp. 329 ss. 5 Émile, pp. 489-490.

93

suoi sforzi personali, esponendolo al rischio del riconosci mento, non più scontato, dei suoi simili. Le prime esperienze

intersoggettive diventano allora prove terribili, sentenze capa-

ci di condizionare l’intera valutazione di sé: sarà dall'amore,

dall’amicizia, dalla ricerca del giusto posto all’interno della società che la coscienza emergerà fiera, perplessa o vergognosa del proprio valore. E sono questi tipici drammi adolescenziali che troveremo messi in scena nell’età delle capanne: Rousseau, in questo caso, ottiene una perfetta corrispondenza

tra la storia del singolo e quella della specie. La dottrina antropologica trova conferma anche nell’immaginario letterario. Nelle opere romanzesche come nelle Confessions, l'infanzia si proporrà come età dell’idillio, dell'armonia, mito d’integrità uterina corrispondente sotto molti aspetti a quello dell’éta de nature. Le figure di adolescenti, al contrario, resteranno per lo più associate a situazioni di conflitto tragico e d’instabilità emotiva, oscillando tra gli estremi dell’estasi e della disperazione. Paradigmatica, da entrambi i punti di vista, la vicenda di Julie e Saint-Preux. Ma c'è un dettaglio ancora più rilevante. A differenza di Hobbes, che aveva descritto un duello d’onore tipicamente «virile», Rousseau associa il riconoscimento all'amore, e specificamente all'amore romantico. E uno dei temi più originali della sua antropologia, in cui il talento del filosofo e quello del romanziere si fondono in analisi di grande acutezza. Oltre alla sensibilità personale dell’autore, in questa nuova centralità del sentimento dobbiamo riconoscere l’effetto di un’importante trasformazione

storico-culturale,

compiutasi tra la

guerra civile inglese e la raffinata società dei salotti schi. Il philosophe parigino, che ha letto i romanzi, Racine, Richardson, per il quale la passione è un di conversazione quotidiana, la galanteria un gioco

settecentei moralisti, argomento mondano,

© Si vedano, tra gli altri: F Orlando, Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai Romantici, Padova, Liviana, 1966; Ph. Lejeune, Le Pacte autobiographique (1975), trad. it. Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 97 ss. , © Nel Discours e nell’Eyzile, secondo il vocabolario di Buffon, si parla

di amour moral in opposizione all’azour physique; ma il concetto, definito «passione» e illustrato da una fenomenologia inequivocabile, coincide a tutti gli effetti con il topos della tradizione occidentale.

94

è abituato a considerare l’amore come oggetto privilegiato delle sue riflessioni sull’uomo: un campo di osservazione da scandagliare in tutte le sue sfumature, nelle sue ambivalenze, nei suoi effetti interiori e sociali. Nella Nouvelle Héloise, cer-

to, il debito con questa tradizione si percepisce più nitido, e viene dichiarato con fierezza dallo stesso Rousseau: «Ne metto senza timore la sua quarta parte a fianco della Princesse de Clèves [...]»*. Ma non dobbiamo dimenticare che l’autore del romanzo sentimentale è lo stesso del Discours sur l’inégalité: anche nelle pagine dal taglio più naturalistico e scientifico, accanto alla voce di Buffon, è legittimo riconoscere quella di Madame de la Fayette. Cardine filosofico dell'idea rousseauiana di amore, e del

suo peculiare rapporto con il riconoscimento, è il concetto di «preterenza». A differenza delle altre forme sentimentali prese in considerazione da Rousseau, infatti, l’4a7z0ur-passion è indissociabile dalla scelta. L’accoppiamento fisico, come abbiamo visto, è un istinto cieco, indifferente alle qualità personali del partner: «ognuno segue serenamente l'impulso della natura, vi si abbandona senza scelta». L’affetto familiare, per ragio-

ni diverse ma con risultati identici, prescinde da giudizi di merito: non a caso, l’amore materno è per definizione, e a sua

volta, cieco. L'amore

coniugale, infine, anche se frutto di

un'antica passione, dovrebbe consacrarsi a un solo individuo, senza più sottoporlo a confronti, all'insegna di una sempiterna fedeltà. Ma il sentimento che unisce due adolescenti immuni da costrizioni ha una natura squisitamente elettiva: è un giudizio di gusto, una preferenza, appunto, che presuppone la possibilità di confrontare candidati diversi e di preferirne uno solo, secondo una scala soggettiva di valore. Per la storia delle mentalità, quest'immagine dell’amore coincide evidentemente con il sentimento moderno, di origine borghese, nato e cresciuto in reazione alle pratiche matrimo-

niali d'Ancien Régime: la difesa della libera scelta in base ai criteri personali del merito e della bellezza, indipendentemente dalle esigenze del rango e del patrimonio, sarà oggetto del64 Confessions, p. 546. Su questi temi si veda soprattutto la seconda figura.

95

l’accesa battaglia ideologica nella prima parte della Nouvelle Héloise. Tuttavia, nello specifico contesto del Discours e del quarto libro dell’ Éyz//e, Rousseau ignora o postpone questi temi di critica sociale. Il suo interesse, genuinamente filosofico,

si focalizza sulla psicologia della passione amorosa, e in particolare sul fenomeno del «giudizio», promotore di sviluppi decisivi per l'evoluzione della coscienza. Leggiamo con attenzione il modo in cui il manifestarsi di questo processo viene descritto nell’Eyzz/e: L’inclinazione dell’istinto è indeterminata. Un sesso è attirato dall’altro, ecco il movimento della natura. La scelta, le preferenze,

l'attaccamento personale sono opera dell’intelletto, dei pregiudizi, dell’abitudine: ci vogliono tempo e conoscenze per renderci capaci di amore. Si può amare solo dopo aver giudicato, si può preferire solo dopo aver comparato. Tali giudizi avvengono inavvertitamente, ma non sono per questo meno reali”.

Il brano, estrapolato dal contesto pedagogico, può essere riletto alla luce della filosofia della storia del Drscours. Come già avvenuto alla nascita della ragione strumentale, ma con conseguenze più dirompenti, l’esercizio della comzparazson riflessiva distrugge l'immediatezza della coscienza. All’epoca dei primi progressi pratici, orgogliosamente persuaso della propria superiorità rispetto agli animali, l’uomo aveva imposto al cosmo la sua gerarchia di valore. Ora, la stessa forzza mentis si orienta dentro il mondo umano. La scelta amorosa solleva il velo di neutralità che ancora avvolgeva gli individui esterni alla famiglia, e si concretizza in un atto di determinazione artificiale e arbitraria: L'aspetto fisico [dell'amore] è il desiderio generico che porta un sesso a unirsi all’altro. L'aspetto morale è ciò che determzina tale desiderio fissandolo esclusivamente su un solo oggetto, o per lo meno dandogli per quest’oggetto preferito un maggior grado d'energia‘.

L'amore, in altre parole, è una fissazione — proprio nel senso un po’ morboso che associamo al termine nel linguaggio comune. Di questa nuova forma di desiderio Rousseau non 6 Émile, p.493. 66 Second Discours, pp. 157-158.

96

smette di rilevare l’inmaturalità: «Lungi dal venire dalla natura, l'amore è la regola e il freno delle sue inclinazioni: è per mezzo suo che, a eccezione dell'oggetto amato, un sesso non è più nulla per l’altro». È l’origine di tutti i rapporti di inclusione/esclusione che caratterizzeranno la vita sociale pienamente sviluppata: cominciano i confronti di valore che saranno i presupposti,

soggettivamente,

del processo

di indivi-

duazione e, collettivamente, della disuguaglianza e del conflitto sociale; svanisce l'uguaglianza stabilita dalla natura e l’individuo subentra al membro della specie; nasce la questione del rango, del posto da occupare nella vita pubblica — e con essa il dramma dell’insicurezza, della rivalità, della concorrenza. Sia-

mo giunti al nocciolo filosofico del Discours sur l’inégalité: dopo aver preteso di essere i primi nel cuore della persona amata, gli uomini vorranno esserlo anche nella società. Ma prima di compiere anche noi questo passo, soffermiamoci più attentamente sulle riflessioni di Rousseau, per il quale la gravità della scelta amorosa si fonda su un importante sottinteso: «La preferenza che si accorda, la si vuole anche ottenere: l’amore deve essere reciproco»®5. Il baricentro dell’analisi, tanto nel Discours che nell’Érzz/e, si sposta dall’attivo al passivo: ciò che conta, ai fini della nascita dell’arzour-propre, non è tanto il fenomeno dell’amare — come dispendio affettivo, piacere del possesso erotico, della cura — quanto il desiderio di essere amati, la versione sentimentale, potremmo dire, del «desi-

derio di desiderio» hegeliano-kojèviano. E questa componente passiva a stimolare le più importanti trasformazioni interiori della coscienza, promuovendo la rivalità, che — si badi bene — non è scatenata dall’esuberanza del desiderio fisico, ma dal-

l’insaziabilità di quello morale. Il bisogno sessuale si soddisfa facilmente, ma #/ bisogno di riconoscimento non si estingue mai: all’infinitezza dell'esigenza soggettiva corrispondono le difficoltà ambientali del suo appagamento, ossia il fatto che, una volta formata la società, ci siano anche altri esseri umani che

anelano stabilmente allo stesso bene prezioso, il desiderio altrui. La situazione è simmetricamente antitetica a quella dello 67 Émile, p. 494. 68 Ibid.

I

stato di natura: alla coppia bisogni naturali finiti/abbondanza si oppone quella bisogni sociali infiniti/scarsità. In questo modello bipartito si riassume l’antropologia di Rousseau. Ecco perché il desiderio di essere amati, sentimento della dipendenza, innescando quel processo di snaturamento relativistico che abbiamo analizzato nel quadro introduttivo a proposito del convertirsi dell’arzour de soi in amour-propre, dispiega il suo potenziale mimetico, trasformandosi in una frenesia da seduzione: Per essere amati bisogna rendersi amabili; per esser preferiti, bisogna rendersi più amabili di un altro, più amabili di tutti gli altri, almeno agli occhi dell’oggetto amato: ecco l’origine dei primi sguardi sui nostri simili, dei primi confronti con loro, dell’emulazione,

delle rivalità, della gelosia. [...] Chi prova quanto sia dolce essere amati, vorrebbe esserlo da tutti, e quando tutti desiderano essere i preferiti, è inevitabile che molti restino insoddisfatti. Con l’amore e l'amicizia nascono i dissensi, l’inimicizia, l’odio. Dal seno di tante

passioni diverse vedo l'opinione approfittarne per innalzarsi un trono solidissimo, mentre gli stupidi mortali, asserviti al suo potere, finiscono per fondare tutta la loro esistenza sul giudizio altrui. Sviluppate queste idee e vedrete da dove viene quella forma dell’amor proprio che riteniamo essergli naturale, e come l’amore di sé, cessando di essere un sentimento assoluto, diventi orgoglio nelle anime grandi, vanità in quelle piccine, e in tutte si alimenti incessantemente a spese del prossimo®?

Siamo in una dimensione psicologica tipicamente hobbesiana: il sogno ad occhi aperti di sedurre il mondo intero è l’apoteosi per antonomasia della glory. Ma Rousseau fa un passo in più, perché intuisce la differenza specifica del riconoscimento

amoroso

rispetto a quello sociale. Si tratta in primo

luogo di una questione numerica, di intimità: significativa l’equazione, in questo brano, tra amore ed amicizia. Ma non solo: l’amore coinvolge una sfera di esperienza, quella degli affetti, che resta esclusa dal conflitto agonistico e virile ritratto da Hobbes (come anche dallo Hegel della Ferormzerologia e da Kojève)?0, È vero che — a differenza di quanto faranno lo Hegel SA T:d. 7° A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel (1947), trad. it. Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, Adelphi, 1996.

98

della Siftlichkett e più recentemente Axel Honneth riflettendo sul rapporto amore/riconoscimento”! — Rousseau calca molto sulle analogie tra l’amore e la gloria, individuando in entrambe le passioni, non a caso accomunate nell’idea di «seduzione», una forte componente pubblica e autoaffermativa”?, È altresì vero, però, che rispetto alla vita sociale pienamente dispiegata, lo stadio dell’azour mora! risveglia una sfera di esigenze ancora intermedie tra natura e cultura. Si tratta di bisogni ron necessari, è in quanto tali derivati, gratuiti, artificiali. Ma comunque più vicini all'origine, alla sfera dell’immediatezza e della naturalità, dunque un po’ meno «colpevoli». Può essere utile, a questo punto, ripercorrere le opposizioni latenti nella riflessione di Rousseau. Dal lato della natura c'è l’instinto, spontaneo, assoluto, cieco alle differenze indivi-

duali e per questo pacifico e unilateralmente buono. Dal lato della cultura c’è la passione, gratuita, elettiva, in cui essere amati significa anche sapersi scelti e anteposti ad altri. L'autoalimentarsi di questa dimensione relativistica e performativa («Per essere amati bisogna rendersi amabili; per esser preferiti, bisogna rendersi più amabili di un altro, più amabili di tutti gli altri...»), finisce per compromettere irrimediabilmente l’equilibrio sociale: Un sentimento tenero e dolce si insinua nell'anima, e per la mini-

ma opposizione diviene un furore impetuoso. La gelosia si risveglia con l’amore; la discordia trionfa, e la più dolce delle passioni riceve sacrifici di sangue umano”.

La conclusione è allora paradossale. L'amore, sinonimo di unione e di simbiosi, si converte nel suo contrario, il trionfo della discordia. Sono nate dolcezza e tenerezza, ma anche

quel «furore terribile», capace di annientare il genere umano, 71 Cfr. G.W.E Hegel, System der Sittlichkeit (red. 1802-1803), trad. it. Sistema dell’eticità, in Scritti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1962; Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., pp. 116-131.

72 L'amore hegeliano è quello familiare. Similmente Honneth pensa al rapporto tra la madre e il neonato, paradigma della relazione oggettuale psicanalitica, biunivoca e priva di elementi mimetici: il riconoscimento materno è il medium: essenziale della fiducia in se stessi. Cfr. anche Todorov, La vita comune, cit.

3. Second Discours, p. 169.

59

con cui l'opinione comune identifica il sentimento amoroso’*. Lo spiazzo tra le capanne è un pesaggio idilliaco sempre sul punto di trasformarsi in un campo di battaglia: la compresenza simultanea delle due dimensioni — armonia e conflitto, pa-

ce e guerra — è solo il primo segno dell’ambivalenza di Rousseau nei confronti della vita sociale. Prima di seguire gli ulteriori sviluppi, va però rilevato come questo ragionamento si fondi su un presupposto misogi-

no: «[...] l'aspetto morale dell'amore è un sentimento artificiale, nato dalla consuetudine sociale e celebrato dalle donne

con molta abilità e cura per stabilire il loro imperio, e rendere dominante il sesso che dovrebbe obbedire»??. L’allusione si illumina con le lunghe riflessioni sul rapporto tra i sessi che Rousseau svilupperà nella Lettre è d'Alembert e soprattutto all’inizio del quinto libro dell’É72//e?9. La natura assegna a maschi e femmine compiti distinti: l’onere del corteggiamento spetta all’uomo, mentre la donna, in posizione passiva, si con-

cede o si nega, costringendo il partner a fare di tutto per «piacerle»”. All’interno dell’étaf civil, questo piccolo privilegio destinato a compensare la naturale inferiorità femminile si è trasformato in una dipendenza umiliante: «[...] gli uomini hanno sacrificato il loro gusto ai tiranni della loro libertà»?8. Rilette alla luce della filosofia pessimistica della storia tracciata nel Discours, queste tesi si caricano di suggestioni cri-

stiane. Rousseau suggerisce, nemmeno troppo sottovoce, che Cori EpdlDr Ptbid. pi 193 76 Cfr. Lettre à d’Alembert, pp. 43 ss. e 77 ss.; Emile, pp. 692 ss. Sulla morale sessuale di Rousseau, J.-L. Lecercle, La femme selon Jean-Jacques, in AA.VV., ].-]. Rousseau. Quatre études, Neuchàtel, La Baconnière, 1978, pp. 39-67; e J. Schwarz, The Sexual Politics ofJ.-J. Rousseau, Chicago-London,

The University of Chicago Press, 1984. Per uno sguardo d’insieme, P. Hoffmann, La Femme dans la pensée de Lumières (1977), Genève, Slatkine, 1995.

” «Ecco dunque una terza conseguenza della costituzione dei sessi: il più forte, padrone solo in apparenza, in realtà dipende dal più debole; e questo non per una frivola consuetudine di galanteria, né per un’orgogliosa generosità di protettore, ma per una legge invariabile della natura che, attribuendo alla donna una facilità nell’eccitare i desideri maggiore di quella che ha l’uomo nel soddisfarli, fa dipendere nonostante tutto quest’ultimo dalla volontà dell'altra, costringendolo a piacerle a sua volta per ottenere che essa consenta a farlo essere il più forte», Emile, pp. 695-696. 78 Premier Discours, p. 21.

100

la responsabilità della caduta riposi sull’ascendente femminile: la coscienza ha cominciato a eccitarsi, a voler uscire da se stessa, quando sono entrate in scena le prime fanciulle. Il rapporto amoroso, dunque, si configura fin dall’inizio secondo la tipica triangolazione dei rapporti mimetici: per es-

sere scelto, il maschio deve distinguersi agli occhi della donna, trionfare coraggiosamente sui rivali. Questo immaginario

un po’ cavalleresco ci riporta alle origini della formazione letteraria e sentimentale di Rousseau, in cui fu notevole l’influenza cortese; e ci suggerisce di reimpostare su nuove basi il contronto cruciale con Hobbes. Se è vero, infatti, che l’approccio rousseauiano al riconoscimento si caratterizza per la

sua originale apertura agli affetti, è altresì vero che, come nel paradigma hobbesiano, tematizza le conseguenze agonistiche come un problema essenzialmente virile. D'altra parte, non poteva essere altrimenti per due pensatori educati e cresciuti

in una società che assegnava ai sessi ruoli e spazi ben distinti, e in cui era difficile pensare una forma di rivalità diretta tra uomini e donne. Malgrado l’amore per la poesia di Tasso, Rousseau non poteva, e soprattutto r0r voleva concepire la donna come un’eroina guerriera in grado di duellare a pari titolo contro l’altro sesso: nel suo immaginario antropologico, il posto femminile si situa fuori dal campo di battaglia, sul metaforico balcone da cui si assiste al torneo e si aggiudicano i premi ai campioni. Che siano ingenue damigelle innamorate, aristocratiche snob, lettrici di romanzi — anticipo alcune delle incarnazioni simboliche che ritroveremo nelle Confessions — le donne

rousseauiane

sono

presenze

spettatrici e giudicanti,

che decidono dei valori e assegnano il riconoscimento, senza però partecipare all’azione in prima persona. Al maschio spetta l’onere e l’onore di conquistarle. È possibile, dunque, distinguere analiticamente due dimensioni del riconoscimento, cui corrispondono due diverse fasi di

sviluppo interiore, e due diverse accezioni di arz0ur-propre. Il riconoscimento, innanzitutto, è desiderio di desiderio e, quan-

do viene appagato, comporta un'attestazione di valore: la coscienza che ottiene la prima conferma esterna si completa nello sguardo e nel giudizio di approvazione dell’altra coscienza. In questa fase, come suggerisce Nicholas Dent, si può effettiva101

mente parlare di un azz0ur-propre positivo, non ancora intorbidato dalla voglia di primeggiare, e addirittura passibile di importanti sviluppi morali, come avverrà nell’Erzzle o nelle opere politiche’?. Tuttavia, sarà la seconda forma, quella dell’azowur propre come autoaffermazione e aggressività, a prendere il sopravvento nel Discours. Non a caso, la prima delle passioni so-

ciali nominate nell’opera è la gelosia, che conserverà uno statuto privilegiato in tutte le ulteriori analisi morali di Rousseau. Parente stretta dell’invidia — di cui rappresenta il complemento oggettuale8® — la gelosia ha un ruolo decisivo dal punto di vista storico-genetico: è l’esperienza di transizione, il ponte di passaggio dalla prima alla seconda forma di riconoscimento, attraverso cui il desiderio si smaterializza, acquistando un contenuto simbolico. La coscienza gelosa sposta progressivamente il cen-

tro delle sue preoccupazioni dal godimento dell’oggetto d’amore, al timore che un altro desiderio lo sottragga (la gelosia vera

e propria, parzialmente assolta dalla condanna di Rousseau!) per arrestarsi infine sulla persona del rivale: 7? Cfr. Dent, Rousseau, cit. Dent rilegge l’intera opera di Rousseau alla luce di questa forma positiva di 47204r-propre, su cui si fondano le idee di dignità e di rispetto associate alla natura morale dell’uomo. La sua interpretazione «kleiniana» del riconoscimento può essere accostata alle riflessioni di

Honneth sul rapporto madre/figlio. 80 La gelosia è la passione del possessore, che teme di perdere ciò che ama per effetto di un terzo minaccioso. L’invidioso invece è a mani vuote, e focalizza il suo desiderio non sull’oggetto ma sulla persona che ne gode, convertendolo in odio: invidia, invidere significa originariamente guardare l’altro obliquamente, gettare il malocchio, mentre un’altra etimologia, da invita

re, allude all’esito di questa tensione: lanciare la sfida, invitare alla contesa. Si confrontino le analisi (lontanissime ma convergenti) di Pierre Charron in De la Sagesse, Paris, Fayard, 1986, capp. I, 27 e 28, pp. 187-189; e di G.M. Foster, The Anatomy of Envy. A Study in Symbolic Bebavior, in «Current Anthropology», 13, 1972, pp. 165-202, in particolare le pp. 167-168. 8! In seguito Rousseau distinguerà tra due forme di gelosia, corrispondenti alla differenza tra az0ur de soi e amour-propre. La prima è un «impulso naturale», il «desiderio di possedere esclusivamente ciò che ci piace», un effetto spontaneo dell’«avversione contro tutto ciò che turba e combatte i nostri piaceri». Forte negli animali poligamici, che hanno bisogni sessuali proporzionali alla loro potenza, è debole nella specie umana, monogamica e temperante. La seconda forma di gelosia, invece, nasce dalla vanità, e coincide con la passione descritta in queste pagine. Privo di sentimenti competitivi, Emile proverà nei confronti di Sophie solo il commovente timore di perderla: «[...] sarà più allarmato che irritato; cercherà di guadagnare la sua amante più che di odiare il suo rivale; lo scarterà se possibile come un ostacolo, senza odiarlo come un nemico; se lo odierà, non sarà perché osa auda-

102

Nella maggior parte delle relazioni galanti, l'amante odia i suoi rivali ben più di quanto non ami la sua amata. Se teme di non essere il solo favorito, è per effetto di quell’amor proprio di cui ho mostrato l’origine, e la vanità lo fa soffrire molto più dell’amore8?.

E una rappresentazione esemplare della dottrina dello slancio deviato illustrata nei Diz/ogues. La fissazione sul rivale può addirittura spingere l'io a dimenticare il suo oggetto originario: «Può benissimo succedere che l’odio di quest’ultimo, divenuto la sua passione dominante, sopravviva al suo amore e anzi si accresca dopo che l’amore si è spento». Saranno i grandi romanzieri come Stendhal e Proust a sviluppare fino in fondo l’analisi di questo tormentato stato d’animo*'. Rousseau, insomma, considera la gelosia come il primo,

ma già funesto sintomo dell’arzour-propre. Non si tratta di una semplice debolezza amorosa, ma di un morbo terribilmente contagioso. Da questo primo nucleo di rivalità si scateneranno, come dall'apertura degli otri di Ulisse evocata suggestivamente nell’E7zz/e, tutte le passioni «odiose e irascibili» che avvelenano la vita comune: emulazione, invidia, disprezzo, snobismo, vergogna, desiderio di onore e di vendetta... Nel cuo-

re del giovane selvaggio innamorato si è spalancato un abisso. Non è un caso che, per Rousseau, proustiano ante litterara, tra la passione privata della gelosia e le passioni pubbliche cemente disputargli il cuore cui aspira, ma perché gli fa correre il pericolo reale di perderlo; il suo ingiusto orgoglio non si offenderà stoltamente per il fatto che si osa entrare in concorrenza con lui [...]», Erzzle, pp. 797-798. 8 Ibid., p. 798. Coerentemente con il proposito di rappresentarsi come homme naturel, Rousseau si è sempre detto ignaro della gelosia. Così l’idillio à trois delle Charmettes: «Vivevamo in un’unione che ci rendeva tutti felici, e che solo la morte ha potuto distruggere. Una prova dell’eccellente carattere di quell’amabile donna è che tutti quelli che l’amavano si amavano tra loro. La gelosia, la stessa rivalità cedevano il posto al sentimento dominante da lei ispirato, e non ho mai visto nessuno di quelli che la circondavano volere del male agli altri», Confessions, p. 178. La stessa situazione è idealizzata nella seconda parte della Nouvelle Héloise, quando Saint-Preux si stabilisce a

Clarens nel ruolo di «terzo». Cfr. anche Dialogues, p. 810. 83. Dialogues, p. 670. 84 Per Stendhal, oltre alle opere romanzesche, si vedano le riflessioni teoriche di De l’Amour, capp. XXXV-XXXVI. Per quanto riguarda Proust sono esemplari il primo e il quinto volume della Recherche. Per un inquadramento generale, Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, cit., capp. IV e IX; e, da un punto di vista più letterario, P. Chardin, L'Amour dans la haine, ou la jalousie dans la littérature moderne, Genève, Droz, 1990.

103

dell’ambizione e del prestigio non si dia soluzione di continuità: gli uomini sociali si limitano a spostare l’oggetto del contendere dal favore amoroso di una donna alla più eterea, ma non meno ambita, estizze publique?.

4. La società come rappresentazione

Eccoci all’ultima scena, la figura con cui si chiude la storia della coscienza, e che illustra la conversione

definitiva

dell’azzour de soi in amour-propre. Lo sfondo riproduce, a uno stadio leggermente più avanzato, le circostanze che hanno accompagnato la nascita delle passioni amorose: le famiglie riunite si trasformano in villaggi, la sfera pubblica si allarga («i rapporti si estendono e i legami si fanno più stretti»8°), agli incontri sentimentali tra giovani si affiancano, «davanti alle capanne o attorno a un grande albero»®’, le prime riunioni comunitarie. Non si tratta però di assemblee destinate alla deliberazione politica, come quelle descritte nel quarto libro del Contrat social, ma di oziose feste, durante le quali, per passare il tempo, gli abitanti del villaggio organizzano intrattenimenti: «il canto e la danza, veri figli dell'amore e dello svago, divennero il gioco, o meglio l'occupazione degli uomini e delle donne oziosi e assembrati»88. In queste occasioni gioiose si compie la catastrofe: Ognuno cominciò a guardare gli altri e voler essere a sua volta guardato; e la pubblica stima acquistò pregio. Chi cantava o danzava meglio, il più bello, il più forte, il più abile o il più eloquente divenne anche il più considerato, e questo fu il primo passo verso la disuguaglianza e al tempo stesso verso il vizio: da queste prime preferenze nacquero, da un lato, la vanità e il disprezzo, dall’altro, la vergogna e l’invidia; e la fermentazione causata da questi nuovi lieviti finì col produrre risultati funesti alla felicità e all’innocenza.

È la replica su più larga scala del processo di individuazio© In Proust, com'è noto, le due grandi linee del riconoscimento sentimentale e mondano confluiscono nel personaggio di Madame de Guermantes. 86 Second Discours, p. 169. 87 Ibid. SI bidi

104

ne-differenziazione stimolato dall’innamoramento, a cominciare dalla metafora del gioco di sguardi che annuncia il pieno sviluppo dell’intersoggettività. Dato che Rousseau sintetizza in immagini le riflessioni che ha sviluppato analiticamente al: trove®, non forzeremo la sua mano cercando di esplicitare i passaggi sottintesi nell’episodio. L'amzour-propre nasce da un

composto di concorrenza e simulazione: nel mezzo della festa, coloro che dapprima danzavano, cantavano, declamavano per puro piacere, per esprimere la loro gioia di vivere e di trovarsi insieme, capiscono di essere osservati,

e cominciano a deside-

rare l'approvazione degli sguardi che sentono posare sui loro gesti. La loro immediatezza espressiva si spezza e l’arte diventa «esibizione»?°. Ma, essendo la scena affollata, la ricerca del-

l'applauso si trasforma in una gara, dove ogni singola performance acquista valore in modo relativo, confrontata con quelle degli altri in base a un sistema comune di riferimento, il gusto del pubblico. Gli spettatori, chiamati in causa, decretano

il successo dei migliori, istituendo una graduatoria di preferenze che subito travalica l'ambito artistico per tradursi in una scala di prestigio sociale: «chi cantava o danzava meglio, il più bello, il più forte, il più abile o il più eloquente divenne anche il più considerato». Questo è l’atto che sancisce l’ingiustizia: «fu il primo passo verso la disuguaglianza e al tempo stesso verso il vizio». Il primo motivo per cui Rousseau condanna la nascita della disuguaglianza — che è ancora morale, si badi bene, e potrebbe erroneamente sembrare innocua a una lettura economico-politica del Discours — fa capo al problema del disordine. L’opinion publique determina una gerarchia di valore che poggia su distinzioni simboliche arbitrarie (il più bravo, il più abile, il più bello), e che subentra all’uguaglianza stabilita dalla natura. Gli uomini non contano più come membri a pari titolo della specie pozzo sapiens, ma come individui dotati di caratteristiche uniche e socialmente discriminanti. Ma, oltre

ad essere artificiale, l’ordine di questa seconda natura è solo 89. Cfr. Il quadro antropologico e morale, par. 3. 9

La nascita dell’«arte» (nel senso delle belle arti: musica, danza, canto,

eloquenza) si situa dunque ai prodromi della cultura, prima ancora della scoperta delle arti utili come l’agricoltura e la metallurgia.

105

apparente. Al suo interno si cela infatti il più instabile dei criteri, l'ideologia dei valori dominanti, il «gusto» fluttuante, imprevedibile, sempre pronto a lasciarsi sedurre dalle mode o da un’ipocrisia abilmente amministrata. Da un altro punto di vista, la critica di Rousseau è riconducibile alle preoccupazioni di Hobbes. L’irrompere, nell’orizzonte desiderativo della coscienza, del nuovo bene dell’estize publique (e dei beni sinonimi che vi si rapportano: la réputation, Vhonneur, la considération, ecc.) promuove un’escalation

del conflitto innescato dalla gelosia. La continuità tra i due fenomeni è evidente già a livello terminologico. Il lessico rousseauiano della concorrenza sociale ricalca perfettamente quello della concorrenza amorosa: «[...] questo desiderio universale di reputazione, di onori e di preferenze che ci divora tutti, [...] rendendo gli uomini tutti concorrenti, rivali o piuttosto

nemici, è causa ogni giorno di rovesci, di successi, di catastrofi d’ogni specie, mettendo in lizza tanti pretendenti»?!. Rivaux, prétendens e più ancora lice, parola carica di suggestioni eroi-

co-cavalleresche??: la lotta per l’amore e quella per la stima sociale si fondono in un vocabolario agonistico che evoca l'immagine di un torneo. Come nei romanzi medievali, il premio della lizza è l'’«onore», ossia un ruolo prestigioso all’interno della comunità unito al cuore di una fanciulla. Le due passioni si somigliano anche sotto il profilo psicologico. Quando si sa sottoposta a giudizio, la coscienza comincia a concepirsi in modo riflessivo, a considerarsi con gli occhi altrui. A seconda del successo del suo tentativo di distinzione, prova o un senso di orgogliosa superiorità («va-

nità e disprezzo»), lo stesso che Hobbes definiva «trionfo della mente»; o un sentimento di umiliazione, scontento di sé e rivendicativo nei confronti degli altri concorrenti («vergogna e invidia»). In entrambi i casi, l’atarassia del serzizzent de l’existence viene sconvolta dall’ansia da prestazione e dai sintomi dello stato d'animo che Rousseau definisce pittorescamente fureur. Il vocabolario è sempre ricco di conferme. 91 Second Discours, p. 189. °° La Lice era il terreno predisposto per i tornei; la parola è poi passata a indicare in senso figurato ogni forma di gara o di competizione. Cfr. il Die tionnatre de l’Académie Frangaise, edizione del 1762.

106

«Un sentimento tenero e dolce s’insinua nell'anima, e per il minimo contrasto diventa un furore inpetuoso: la gelosia si risveglia con l’amore...», cui corrisponde, con perfetto parallelismo, la fenomenologia dell’ambizione: «questo ardore di far parlare di sé, [...] questo furore di distinguersi che ci tiene quasi sempre lontani da noi stessi...»?. Infine, analoga a quella dell'amore è la superfetazione della vita immaginaria, dove tutto diventa segro, tutto può essere letto come prova di una mancanza di rispetto, offrire il pretesto a ingiurie, rivendicazioni, terribili vendette. È il crollo di quella separazione tra sfera fisica e sfera morale che, nello stato di natura, preservava i selvaggi dall’esperienza dell’offesa. La coscienza cade in preda al delirio interpretativo, mentre i

rapporti sociali, in equilibrio precario, sono sempre sull’orlo dell'esplosione: Appena gli uomini cominciarono ad apprezzarsi a vicenda e a concepire mentalmente l’idea di considerazione, ognuno pretese di avervi diritto, e divenne impossibile mancarne impunemente nei confronti di qualcuno. Ne derivarono i primi doveri della cortesia, persino tra i selvaggi, e ogni torto volontario divenne un oltraggio, perché, insieme al male prodotto dall’ingiuria, l’offeso vi vedeva il disprezzo per la sua persona, spesso più insopportabile del male in sé. Quindi, siccome ognuno puniva il disprezzo che gli avevano testimoniato in proporzione all'importanza che attribuiva a se stesso, le vendette divennero terribili, e gli uomini sanguinari e crudeli”.

Siamo entrati definitivamente nello stato di guerra hobbesiano, di cui il quadro di Rousseau condivide l’atmosfera allucinatoria e la tensione endemica. La guerra, come aveva scritto

Hobbes nel Leviathan, non ha bisogno di dichiarazioni o trattati: è una predisposizione, un atteggiamento, una «condizione

metereologica» che trascende le occasioni di conflitto aperto, estendendosi in un arco temporale indefinito”. Chi è incline alla rivalità vede un potenziale nemico in ogni altro essere 93. Second Discours, p. 189. 9 Ibid.,p:170. 8. Si confronti il quadro psicologico dipinto da Rousseau con quello, pressoché identico, di De cive, I, 5. Notevole l'ipotesi, di ascendenza forse pascaliana, che le buone maniere (les premziers devoirs de la civilité) siano nate per contenere, e in parte prevenire, la violenza simbolica.

107

umano, vivendo in uno stato di perpetua minaccia e suscettibilità. Ogni minimo sospetto sarà sufficiente per scatenare la sua reazione sanguinaria e irreversibile”. È bene sottolineare per l'ennesima volta la natura simbolica di questo stato di cose, che secondo l'ordine argomentativo del Discours si colloca in una sfera ancora estranea, perché

precedente, alla concorrenza economica. Nello stadio delle famiglie, la proprietà vera e propria non si è ancora sviluppata, i

bisogni sono relativamente scarsi e e ricchezza non costituiscono reali razione altrui è ricercata come un strumentale. Lo stesso ricorrere di

facili da soddisfare, potere motivi di lotta: la considevalore in sé, non a titolo temi come la festa, il canto

e la danza — sempre associati, nell'immaginario rousseauiano,

a quelli dell’ozio e dello svago — testimonia il trascendimento della necessità fisica: l’età delle capanne è un’epoca di esubero, in cui i rapporti intersoggettivi si determinano ancora al-

l'insegna della più assoluta gratuità. Soltanto in una fase evolutiva più avanzata, quando la disuguaglianza morale comincerà a concretizzarsi in istituzio-

ni, leggi e patrimoni per via di quel secondo peccato originale rappresentato dalla recinzione dei terreni, scatterà lo scontro materialistico tra egoismi, l’opposition d’intérét, «il desiderio nascosto di fare il proprio interesse a spese degli altri»””. Ma perché questo accada, deve essersi già innescata la frenesia emulativa della distinzione. Come infatti aveva intuito Mandeville, l’istinto autoconservativo (self/ove) è una passione modesta ed indolente, che si accontenta dello stretto necessario per sopravvivere; mai darebbe luogo a sentimenti di concorrenza o aggressività se non fosse pungolato da qualcos’altro: il desiderio di essere ammirati (sel/f/ki77g), che trascina gli uomini in un «continuo sforzo di superarsi a vicenda», spronandoli all’azione, al lavoro, all’industriosità?8. °% Bisogna rilevare un tratto originale della riflessione di Rousseau, che in questo si distingue da Hobbes (e dallo Hegel della Ferorzezologia, Kojève e Strauss): l’assenza del tema della morte. La lotta per il prestigio è vendicativa, «sanguinaria» e «crudele»; ma non richiede esplicitamente dai partecipanti il rischio della vita. 7 Second Discours, p. 175. L'esempio classico è quello del lusso e della moda femminile: per suscitare invidia e distinguersi dalle loro rivali, le donne desiderano vestiti e

108

Nella spiegazione genealogica di Rousseau, allo stesso modo, il conflitto economico viene inglobato, «digerito» in quello mentale. Il giudizio complessivo sul fenomeno, ovviamente,

è mutato di segno, perché dove Mandeville simpatizza per il lato eroico della società competitiva, considerando la decadenza morale come un prezzo spiacevole ma inevitabile, il fustigatore della civilisation chiude il bilancio in rosso. L’impostazione del problema, però, resta la stessa. Gli uomini credono di combattersi razionalmente per l’accaparramento di beni e ricchezze, mentre in realtà sono mossi dall’«ambizione divorante, la frenesia (ardeur) di elevare la propria fortuna relati-

va, non tanto per un vero bisogno, quanto per collocarsi sopra

gli altri»”. Sotto il falso idolo moderno dell’interesse economico si nasconde insomma la solita irrazionale passione dominante. Rousseau formulerà le conclusioni antropologiche più audaci in alcuni frammenti politici: Per una singolarità del cuore umano, benché gli uomini tendano tutti a dare un giudizio favorevole su se stessi, ci sono dei punti su cui si giudicano ancora più disprezzabili di quanto non siano in realtà. Uno di questi è l'interesse, che considerano la loro passione dominante, benché ne abbiano una più forte, più generale, più facile da correggersi, che si serve dell'interesse solo come di un mezzo per ottenere soddisfazione: l’amore delle distinzioni. Si fa qualsiasi cosa per arricchirsi, ma si vuole esser ricchi per essere considerati!%,

L’Emile imposterà su tali premesse un'originale teoria del valore, che riformula l'opposizione tra azour de soi e amourornamenti sempre più raffinati e cari; sarti e artigiani si fanno in quattro per accontentarle, raffinando le loro abilità, moltiplicando le opportunità di lavoro e la quantità di ricchezza in circolazione; l'aumento del benessere materiale incrementa ulteriormente i consumi, che a loro volta stimolano nuovi bisogni, e così via. Cfr. The Fable of the Bees, nota M. Su questi temi, M.E. Scribano, Natura umana e società competitiva. Studio su Mandeville, Milano, Feltrinelli, 1980; e, con riguardo alla continuità tra Mandeville e Rousseau,

L. Colletti, Ideologia e società, Bari, Laterza, 1969, pp. 263 ss. esempio di interpretazione economico-politica del Discours); M. State of Nature: Mandeville and Rousseau, in «Journal of the Ideas», 39, 1978, pp. 118-124; Pulcini, L'individuo senza passioni, ticolare pp. 65-75 e 90-97. 9. Second Discours, p. 175. 100 Fragments politiques, pp. 501-502, e ss. Cfr. anche Narcisse, pp. 965 ss.

(un tipico Jack, One History of cit., in par-

Préface de

109

propre come differenza tra la vera utilità delle cose e il «prezzo» stabilito dall’opinion publique, in funzione del prestigio (o, come diremmo oggi, il loro valore posizionale). Ne è un ottimo esempio il lusso, uno dei temi più dibattuti dagli economisti e dai politici settecenteschi, di cui Rousseau offre un’interpretazione psico-sociale molto vicina alla sociologia novecentesca!0, Gli oggetti lussuosi sono ricercati dalle classi privilegiate secondo una logica inversamente proporzionale alla necessità: «l’importanza che ad essi attribuisce il ricco non deriva dall’uso, ma dal fatto che il povero non può pagarli. Nolo habere bona nisi quibus populus inviderit»!®. Lungi dal procurare immediato piacere fisico - come pretendeva ad esempio Voltaire, appellandosi a un ideale di vita sedicentemente epicureo!® — il lusso è un tipico caso di corspicuous consumption (il consumo vistoso, secondo la celebre formula

di Veblen), che serve a testimoniare pubblicamente lo status di chi lo ostenta: «Non sono loro a godere dello scialo destinato soltanto ad attirare l’attenzione e l'ammirazione degli altri. È abbastanza evidente che il desiderio di distinguersi è l’unica fonte del lusso fastoso (luxe de magnificence) [...1»!*. Solo questa radice mentale giustifica l’insaziabilità del desiderio. 10 Cfr. in particolare T. Veblen, The Theory of the Leisure Class (1899), trad. it. La teoria della classe agiata, Torino, Edizioni di Comunità, 1999; N. Elias, Die hofische Gesellschaft (1969), trad. it. La società di corte, Bologna, Il Mulino, 1980; Bourdieu, La distinzione, cit.

102 Emile, p. 457 (la citazione è di Petronio). cours, rispetto alla distinzione tra ricchi e poveri: se di cui godono solo in quanto gli altri ne sono dizione, cesserebbero di essere felici se il popolo

Ugualmente nel Second Dis«[...] i primi stimano le coprivi e, senza cambiare concessasse di essere miserabi-

le», p. 189.

1 Come nel poemetto Le Mordain. Per un inquadramento storico del problema: A. Morize, L’Apologie du Luxe au XVIII siècle et «Le Mondain» de Voltaire, Genève, Slatkine, 1970; C. Borghero, La polerzica sul lusso nel Settecento francese, Torino, Einaudi, 1974. Sulla posizione di Rousseau, G. Silvestrini, Luxe et richesse dans la pensée de Rousseau, in Étre riche au siècle de Voltaire, a cura di J. Berchtold e M. Porret, Genève, Droz, 1996, pp. 117134, che discute anche la bibliografia precedente. 10 Fragments politiques, p. 502. Oltre che in Mandeville, Rousseau poteva trovare ispirazione in Montesquieu, che aveva rilevato la funzione distintiva del lusso e l'obbligo sociale, da parte dei nobili, di spendere in proporzione allo status. Cfr. P. Rétat, De Mandeville à Montesquieu: bonneur, luxe et dépense noble dans l’«Esprit des lois», in «Studi francesi», 50, 1973, pp. 238-249.

110

Per dirla con le parole di Veblen, «poiché la lotta è sostanziale mente una corsa all'onorabilità basata su un confronto antagonistico, non è possibile nessun avvicinamento ad una meta definitiva»', Può addirittura succedere che le esigenze emulative contraddicano quelle utilitaristiche, ostacolando la naturale aspirazione al piacere. Per dimostrarlo Rousseau si appella agli stessi paradossi sociali, come l’infelicità dei ricchi e la rovina delle grandi famiglie nobili, che susciteranno l’interesse di Norbert Elias — portandolo alla conclusione, formulata nella Società di corte, che la logica simbolica del riconoscimento sia altrettanto, se non più costrittiva di quella che guida gli interessi economici!°, Rousseau, ovviamente, non arriva a tan-

to. Con lo sguardo straniato dei suoi maestri stoici e di Montaigne, si limita a compiangere il mistero doloroso della vanità umana: Ne è prova il fatto che, invece di limitarsi a quella media fortuna (mediocrité) in cui consiste il benessere, ognuno vuol giungere a quel grado di ricchezza che attira tutti gli sguardi, ma che aumenta le preoccupazioni e le pene fino a pesare quasi quanto la povertà stessa. E un’altra prova è offerta dall’uso ridicolo che i ricchi fanno dei loro beni. Non sono mica loro a godere di tanto scialo, destinato solo ad attirare gli sguardi e l'ammirazione degli altri [...]. E così che vediamo, in base allo stesso principio, tutte le famiglie impegnate senza posa ad arricchirsi e a rovinarsi con alterna vicenda. E la fatica di Sisifo, che suda sangue e acqua per portare in cima alla montagna la roccia che un momento dopo farà rotolare a valle!”7.

Queste considerazioni sul rapporto tra prestigio ed economia ci conducono al cuore della teoria sociale di Rousseau,

quella che definirò la sua componente scena-madre

rappresentativa. La

del Discours, in cui i giovani cantanti, retori e

ballerini si esibiscono davanti alla comunità spettatrice richiama apertamente un immaginario teatrale, e se riletta a fianco 105 Veblen, La teoria della classe agiata, cit., p. 24. Cfr. G. Vichert, The Theory of Conspicuous Consumption in the Eighteenth Century, in The Varied Pattern. Studies in the Eighteenth Century, a cura di P. Hughes e D. Williams, Amsterdam-Toronto, Hakkert, 1971, pp. 253-267; Dumouchel e Du-

puy, L’Enfer des choses, cit. 106 Cfr. Elias, La società di corte, cit., pp. 70 ss. 107 Fragments politiques, p. 502.

LI

delle considerazioni sul rapporto tra società e spettacolo formulate più esplicitamente nella Nouvelle Héloise e nella Lettre à d’Alembert, rivela conseguenze importanti!8, Vale la pena, innanzitutto, di riflettere sul rapporto privilegiato che la filosofia rousseauiana intrattiene con la visione. La vista — da sempre considerata il senso pubblico per eccellenza, le cui percezioni soggettive possono essere potenzial-

mente partecipate con altri perché fanno riferimento a un mondo esterno e comune — rappresenta per Rousseau il medium dell’esistenza sociale. Come si è notato a proposito del riconoscimento mancato tra i selvaggi nello stato di natura, stare tra gli altri in modo realmente umano — l'inter bomzines esse ciceroniano e arendtiano — vuol dire in primo luogo imparare a vederli, e sapere di poter essere visti da loro. Si potrebbe parlare di «berkeleismo sociale»: esistere in società significa essere percepiti da occhi umani, mentre il non apparire, l’essere ignorati senza ricevere nemmeno quello sguardo distratto in cui consiste la soglia minima del riconoscimento, equivale sostanzialmente al non essere!®. 108 Dell’Hé/oîse si vedano le lettere II, 18 e 23, sulla società parigina e il suo rapporto con il teatro. Sui temi che seguono: Burgelin, La Philosophie de l’existence de J.-J. Rousseau, cit., cap. X (Les masques); P. Coleman, Rousseau’s Political Imagination. Rule and Representation in the «Lettre à d'Alembert», Genève, Droz, 1984. Spunti per l’interpretazione di Rousseau nella psicologia sociale e nella sociologia novecentesca, tra cui: G.H. Mead, M7rd, Self, and Society from the Standpoint ofa Social Behbaviorist (1934), trad. it. Mente, Sé e Società: dal punto di vista di uno psicologo comportamentista, Firenze, Editrice Universitaria Barbera, 1966; E. Goffman, The Presentation of

Self in Everyday Life (1959), trad. it. La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969; Id., Behaviour in Public Places. Notes on the

Social Organization of Gatherings (1963), trad. it. Il comportamento in pubblico. L'interazione sociale nei luoghi di riunione, Torino, Einaudi, 1971. Cfr. anche D. Sparti, Soggetti al tempo. Identità personale tra analisi filosofica e costruzione sociale, Milano, Feltrinelli, 1996, capp. II e III !0° Sul tema della visione in Rousseau, J.C. O’Neal, Seeing and Observing. Rousseau's Rbetoric of Perception, Saratoga (Calif.), Anma Libri, 1985, e i saggi di R. Glauser e F. Lefebvre nel volume ].-J. Rousseau et les arts visuels, «AR», 45, 2003. Sulla funzione sociale dell’occhio e il guardarsi reci-

proco come la più immediata e pura delle relazioni tra individui, si veda l’excursus sulla sociologia dei sensi di G. Simmel, Soziologie. Untersuchungen tber die Formen der Vergesellschaftung (1908), trad. it. Sociologia, Milano, Comunità, 1998, pp. 550 ss. Sul nesso riconoscimento-visione anche D. Sparti, L'importanza di essere umani. Etica del riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2003, in particolare cap. V.

LI?

Nella scena della festa tra le capanne, oltre ad esprimersi nel gioco riflettente degli sguardi, il tema della visione si incarna in un grande individuo collettivo, quell’opizion publique che assolve la stessa funzione giudiziaria della fanciulla corteggiata e sedotta dai pretendenti innamorati. E’ un'entità che ricorre in tutte le opere di Rousseau, non solo politiche,

ma anche letterarie e autobiografiche, secondo modalità ambivalenti che vanno dalla celebrazione repubblicana alla paranoia ossessiva. Dal public sinonimo di popolo, virtuoso protagonista del Contrat social, al public losco e complottardo, da cui sfugge il protagonista delle Confessions e dei Dialogues; dal public come platea di veri spettatori teatrali, al centro della Lettre à d'Alembert, all'occhio orwelliano di Wolmar, che vigila sui costumi di Clarens, un filo rosso intreccia i moltepli-

ci piani del sistema rousseauiano delle idee, compendiandone (come forse nessun altro tema) tutte le diverse radici culturali: la formazione classica con il mito della polis, l'educazione ginevrina, l’esperienza mondana e, non ultima, la nascente fa-

miliarità dell’intellettuale settecentesco con il nuovo soggetto critico della cultura illuministica!!°, Ad ogni modo, che sia circondato da un'aura positiva o temuto come un giudice severo e vigilante, il public è una presenza fondamentale dell'immaginario di Rousseau. Al suo cospetto, la coscienza si muove nella costante consapevolezza della

propria visibilità, di essere «spettacolo» per qualcuno che la sta osservando: lo spazio intorno a lei si configura come un palcoscenico e le sue relazioni con gli altri assumono una forma 110 Sull’opizion in generale (ma l’analisi è tendenziosa, perché finalizzata

ai presunti esiti «totalitari» dell’atteggiamento di Rousseau), L.G. Crocker, Rousseau et l’«opinion», in «SV», 55, 1967, pp. 395-415; J.N. Shklar, Mer and Citizens. A Study of Rousseau's Social Theory, Cambridge (Mass.), Cambridge University Press, 1969, cap. III. Sull’eredità della pois, la sintesi di Y. Touchefeu, L’Antiguité et le Christianisme dans la pensée de ].-J. Rousseau, «SV», 372, 1999; sull’influenza ginevrina, J. Starobinski, /.-J. Rousseau et le péril de la réflexion, in L'Eil vivant (1961), trad. it. Rousseau e il pericolo della riflessione, in L'occhio vivente, Torino, Einaudi, 1975, in particolare pp. 75-84. Sulla nascita dell’opinione pubblica come nuovo soggetto critico, ]. Habermas, Strukturwandel der Offentlichkett (1962), trad. it. Storia e critica dell'opinione pubblica, Bari, Laterza, 1971. Sull’opinione mondana, come criterio simbolico di selezione sociale, si vedano la terza figura e la relativa bibliografia.

LIO

rappresentativa, cioè fittizia e illusoria. Il teatro è l'essenza del. la vita sociale, la sua più intima natura. Ed è proprio questa scoperta a squarciare il velo di Maya dell’innocenza infantile: Ci si figuri il mio Émile, [...] al levarsi del sipario, mentre posa per la prima volta gli occhi sulla scena del mondo; o piuttosto mentre, stando dietro il teatro, vede gli attori che indossano o tolgono i

loro costumi, e conta le corde e le carrucole il cui grossolano artificio inganna gli occhi degli spettatori!!!.

La metafora del teatro come specchio della società ha avuto fortuna nella storia della cultura, e nella letteratura francese classica, in particolare, era un luogo comune! La riflessione rousseauiana presenta tuttavia aspetti originali. Innanzi-

tutto, per la sua radicalità filosofica: il problema sociale è parte di un sistema coerente di idee, che ne sviluppa tutte le implicazioni e sfumature, a un livello antropologico, psicologico, morale, politico, estetico. Rousseau non si limita, come molti,

a dirci che gli uomini recitano quando stanno insieme, ma ci spiega approfonditamente come e perché: anatomizza la psiche umana, ricostruisce la topografia delle passioni, interpreta la società alla luce dell’animo umano e l’animo umano alla luce della società. In secondo luogo, grazie al metodo genealogico, l’analisi dei rituali sociali viene contestualizzata e storicizzata, con tutte le conseguenze relativistiche indissociabili da tale approccio: c’è stata un’epoca in cui gli uomini agivano diversamente, dunque è lecito sperare (ed è compito del riformatore rendere concreta questa speranza) che forme di relazione più autentiche si sostituiscano al «grossolano artificio» di corde e carrucole scoperto da Émile. Infine — ed è l’aspetto per noi più interessante — la riflessione di Rousseau si distingue per i suoi toni pessimistici. Quando valuta la natura rappresentativa della società dal punto di vista dell'individuo, egli esprime una condanna senza appello: assumendo un'identità sociale la coscienza si svilisce, L1 Émile, p. 532. . !!? Taine ne ha fatto l'emblema del rimpianto espri? dell’Ancien Régime. Cfr. H. Taine, Les Origines de la France contemporaine. L'Ancien Régime (1875), trad. it. L'antico regime, Milano, Adelphi, 1986, libro II, cap. 2 (La commedia di società).

114

si riveste di una maschera che ne snatura la sostanza originaria. L'io accetta di vivere «secondo gli altri», assumendo un’iden-

tità artificiale che ha il suo centro al di fuori di sé:

[...] un attore sulla scena, esibendo sentimenti diversi dai propri, dicendo solo quello che gli si fa dire, rappresentando spesso un essere chimerico, si annienta, per così dire, si annulla nel suo personaggio; e, dove l’uomo cade a tal punto nell’oblio, quel che ne resta serve di divertimento agli spettatori!!,

Reinterpretata

e, per così dire, «ambientata»

in questa

concezione teatrale della vita pubblica, l’idea originale di Hobbes si arricchisce notevolmente. Il riferimento all’essere guardati, d’altra parte, è insito nella definizione stessa di amour-propre, in cui il fattore mimetico convive, esprimendosi

attraverso di esso, con quello rappresentativo. Le coscienze di Rousseau gareggiano per la gloria proprio come quelle hobbesiane, ma sempre davanti a una platea: approfittando di una metafora dell’Érzi/e, possiamo immaginare che la corsa descritta negli E/emzents avvenga sulle corsie di uno stadio olimpico affollato di spettatori!!*. Mimesi e finzione, concorrenza e spettacolarizzazione, (nel senso anche di ricerca del

sensazionale e del grandioso)!!, sono aspetti complementari dello stesso fenomeno, e si rafforzano a vicenda: dove conta solo l'apparenza, affettare qualità inesistenti può essere altrettanto efficace che il possedere meriti reali. La lotta per la supremazia si smaterializza ulteriormente, inglobando quelle strategie seduttive, simulatrici ed esibizionistiche che sono ti-

piche degli uomini di spettacolo: 113 Lettre à d’Alembert, p. 74, e ss. 114 «Lo spettacolo del mondo, diceva Pitagora, somiglia a quello dei giochi olimpici. Alcuni vengono per fare affari, e non pensano che al profitto; altri si impegnano in prima persona e vi cercano la gloria; altri ancora si accontentano di assistere ai giochi e, tra tutti, non sono certo i peggiori», Émile, p. 525. 115 Si pensi sempre alla metafora del teatro: i gesti, il trucco, i vestiti, le scenografie sono caricati, perché devono impressionare spettatori lontani dalla scena. Sull’esse est percipi nella contemporanea società dello spettaco-

lo (problema che si rivelerà pertinente anche nell’ultima figura di riconoscimento), Ch. Tiirke, La società della sensazione, in «Iride», 36, 2002, pp.

387-397.

115

Ecco tutte le qualità naturali in azione, il rango e la sorte di ogni uomo stabiliti [...] in base allo spirito, alla bellezza, alla forza o all’abilità, al merito o ai talenti; ed essendo queste qualità le sole che potevano attirare la considerazione, bisognò ben presto averle o simularle. Bisognò, nel proprio interesse, mostrarsi diversi da ciò che si era in realtà. Essere e parere diventarono due cose completamente diverse, e da questa distinzione scaturirono il fasto imponente, l’astuzia ingannatrice, e tutti i vizi che ne formano il corteo!!5,

Fondendo la sensibilità hobbesiana per il mistero della rivalità antropologica e quella, che potremmo invece definire pascaliana, per l’inganno e la finzione, la separazione ontologica tra étre e paraître, l’amour-propre di Rousseau finisce per riassumere in sé tutti i significati filosofici dell’alienazione. Per l’individuo, la fine dell’indipendenza e l’inizio dell’eteronomia; la perdita della personalità naturale, con i suoi tratti di originalità, spontaneità, immediatezza; la rottura dello slancio espressivo vitale, che si sclerotizza in riflessione!!”. Per la società, disordine, disuguaglianza, ipocrisia, ingiustizia, dominio: «[...] quando si è cominciato a misurarsi in tal modo non si smette più. L’animo, ormai, non sa più occuparsi d’altro che cercar di mettere tutti gli altri al di sotto di noi»!!8. E con questo veniamo al principale problema interpretativo posto dall'episodio. Può sembrare strano che Rousseau abbia ambientato eventi così funesti in uno scenario così gioioso: «il canto e la danza, veri figli dell'amore e dello svago...». Un quadro ancora più idilliaco nell’Essaz, con il suo sfondo di canti e gorgheggi appassionati: «Là fu insomma la vera culla 116 Second Discours, p. 174. A 117 La situazione descritta nel Discours ricorda il saggio di H. von Kleist, Uber das Marionettentheater (1810), trad. it. in Sul teatro di marionette, aneddoti, saggi, Milano, Guanda, 1986, pp. 29-37. Kleist racconta alcuni apologhi per illustrare come la riflessione, che a sua volta è destata dalla consapevolezza di essere osservati, trasformi la grazia naturale (Grazie) in una posa (Zzerere:). La più eloquente e celebre è quella del giovane che, uscito dal bagno per asciugarsi, si accorge che la propria immagine riflessa ricorda quella del Cavaspino, la statua ellenistica conservata al Louvre, e compiaciuto della somiglianza, tenta di riprodurne l’atteggiamento per mostrarlo agli altri; ma non appena comincia a rifletterci intenzionalmente, non ci riesce più e diventa affettato e ridicolo. Cfr. Ch. Larmore, The Romantic Legacy (1996), trad. it. L'eredità romantica, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 101-102 (e in generale tutto il cap. III). 18 Dialogues, p. 806.

116

dei popoli, e dal puro cristallo delle fontane scaturirono i primi fuochi dell’amore». Considerato che lo stesso stadio evolutivo è segnato dal verdetto del Discours— «risultati funesti alla felicità e all'innocenza» — sembra esserci, come minimo, un

misterioso contrasto tra la forma simbolica e il contenuto esplicitamente comunicato dai testi.

Nella letteratura critica il tema della festa — penso soprattutto alle interpretazioni ormai classiche di Starobinski e Baczko!! — è considerato come un caposaldo dell’immaginario positivo di Rousseau, in cui si condensa il sogno di riattualizzare lo spirito civico degli antichi. La vendemmia di Clarens, le celebrazioni patriottiche dei polacchi e la festa danzante dei ginevrini, sono letti giustamente come frammenti utopici di comunitarismo, teatri di emulazione tra i cittadini che concorrono per l'approvazione pubblica nello spirito di quella fusione tra coscienze che Starobinski definisce «trasparenza». La festa, da questo punto di vista, è la cerimonia che realizza sul piano dell’essere ciò che il contratto sociale stipula sul piano della volontà e dell’avere: «ognuno è alienato nello sguardo altrui e restituito a se stesso da un riconoscimento universale»!0, Nell’epoca delle capanne, però, siamo ancora lontani dalla

possibilità di applicare a tal modo l’art perfectionné. Lo stadio di sviluppo cui è giunto il genere umano è una via di mezzo tra solitudine e comunità, e la coscienza si trova avvinta da una serie di legami ormai fatali per la sua indipendenza. È uno stato intermedio, di profonda ambivalenza, cui il giudizio complessivo di Rousseau sembra adeguarsi per la sua ambiguità. Poco dopo aver descritto l’amore come una passione

aggressiva e assetata di sangue, e dopo aver scaricato sulla festa la responsabilità per la perdita dell’innocenza, l’autore del Discours conclude: questo periodo di sviluppo delle facoltà umane, tenendo il giusto mezzo tra l’indolenza dello stato primitivo e l’impetuosa attività del 119 Cfr. Starobinski, /.-J. Rousseau, cit., pp. 154-161; Baczko, Rousseau, cit., cap. IV; Id., Lumzières de l'Utopie (1978), trad. it. L'Utopia, Torino, Einaudi, 1979, pp. 80-101; Coleman, Rousseau Political Imagination, cit. 120 Starobinski, /.-. Rousseau, cit., p. 161. Cfr. Id., Le remède dans le mal: la pensée de Rousseau (1989), trad. it. Il rimedio nel male: il pensiero di Rousseau, in Il rimedio nel male, Torino, Einaudi, 1990, p. 159.

LIA

nostro amor proprio, dovette essere l’epoca più felice e duratura. Più ci si riflette più si deve riconoscere che questa condizione era la meno soggetta a rivoluzioni, la migliore per l’uomo!?!.

Nell’Essai il bilancio sarà ancora più netto: «quest'epoca di barbarie era il secolo d’oro»!?2. Il significato di queste pagine è già stato oggetto di riflessioni importanti, prima tra tutte quella di Lovejoy che, in un saggio miliare nella storia dell’interpretazione, se ne servì per dimostrare l’antiprimitivismo di Rousseau!”. Lungi dal rimpiangere tempi di purezza originaria, e dal voler ricondurre gli uomini alla vita animale, il Discours sur l'inégalité fornirebbe un ideale regolativo alla critica della civilisation, fondato — come sembra alludere la formula del giusto mezzo — su un delicato equilibrio tra natura e cultura, esemplificato dal modello delle società patriarcali. E una lettura nel complesso condivisibile: se dobbiamo rimpiangere un’età dell'oro — commenta a sua volta Starobinski — si tratta proprio della jeuresse du Monde!?4. Ma non soddisfa la nostra peculiare prospettiva, perché se giustifica la posizione dello stadio delle famiglie nella filosofia della storia, non scioglie la sua contraddittorietà psicologica. Il problema è conciliare due affermazioni difficilmente componibili: che l’azzourpropre generatosi nelle esperienze dell’amore e della lizza per la corsidération sia funesto ma anche positivo; o che addirittura, volendo prendere alla lettera le dichiarazioni di Rousseau, esista e non esista allo stesso tempo.

Victor Goldschmidt, rilevando il problema, ha proposto un'interpretazione che si richiama ai frammenti politici commentati a proposito della sublimazione politica della gloria!??. Rousseau distinguerebbe tra un a7z0ur-propre «disinteressato», 121 Second Discours, p. 171. 122 Origine des langues, p. 396. 15 Lovejoy, I/ supposto primitivismo di Rousseau, cit., pp. 14-37, in particolare pp. 29 ss. Ri OG: pp EXIICLEXITI. _ 12 Goldschmidt, Anthropologie et politique, cit., pp. 451-457. I due frammenti cruciali sono quello sull'amore per le distinzioni come passione dominante, «più forte, più generale, e più facile da correggere» dell'interesse economico; e quello sulla possibilità di riconvertire la vanità in amor di patria, «attirando con la virtù la stessa ammirazione che oggi si sa solo attirare con la ricchezza», Fragrzents politiques, p. 502.

118

cioè simbolico ed equivalente al bisogno spirituale di riconoscimento, e un 47704r-propre «interessato», da identificarsi con l’autoaffermazione economica e la volontà di potenza. La distinzione sarebbe confermata da un brano del Discours relativo allo stadio in cui scatta la concorrenza tra interessi materiali, e

che è successivo alla scena della festa: «Ed ecco tutte le nostre facoltà sviluppate, la memoria e l'immaginazione in gioco, l’amor proprio interessato (l’azour-propre intéressé), la ragione resa attiva [...]»!?°. Questa sarebbe la passione condannata da Rousseau, sottintesa nella formula «l’impetuosa attività del nostro amor proprio», rispetto cui il «giusto mezzo» del secolo

d’oro sarebbe altrettanto lontano che dall’indolenza delle origini. Nell’epoca delle famiglie si darebbe un azzour-propre che in realtà ha ancora tutto dell’azzour de soi, tranne un unico

aspetto: la comparaison. Ma ignari della proprietà privata e della brama di possesso, i selvaggi non possono trasformare la

predisposizione a confrontarsi in concorrenza violenta. Goldschmidt dunque conclude: «L'arzour de soî, in questo stadio, non è arzour-propre, benché, visto dall’esterno, sembri presentarne alcuni tratti»!?”. La spiegazione, va riconosciuto, concorda non solo con

l'impostazione degli scritti politici, ma anche con quella dell'Émile. Tuttavia, rispetto ai problemi emersi nel commento al Discours, restano irrisolte diverse questioni.

In primo luogo, Goldschmidt non tiene conto del rapporto genetico che lega le passioni della concorrenza economica a quelle della vanità spirituale. E vero che la lotta dell’amzourpropre intéressé comincia in una fase ulteriore a quella delle famiglie. Ma gli uomini non si contenderebbero la ricchezza se non si fosse già scatenato in loro il desiderio di primeggiare: la stessa proprietà privata, più che un fenomeno originario, è un effetto dell’emulazione orgogliosa!?8. Non è insomma 126 Second Discours, p. 174. 127 Goldschmidt, Anthropologie et politique, cit., p. 457. 128 Una forma di proprietà si era già stabilita con la costruzione delle capanne; ma non essendo ancora scattato il processo di individuazione, non aveva dato esito a vere contese. (Cfr. Second Discours, p. 167). Il possesso del selvaggio è un’emanazione spontanea della sua forza naturale. Perché si dia proprietà privata nel vero senso del termine, invece, deve essersi formato un io, con le sue pretese esclusive e distintive.

119

l’interesse materiale a corrompere un azour-propre di per sé innocente perché simbolico, ma, al contrario, è il movente simbolico, e perciò insaziabile, a corrompere l’interesse che,

nello stato di natura, non comportando nessun riferimento relativistico agli altri, era una passione pacifica e quieta. Invertendo l’ordine causale e gerarchico tra le due sfere, Goldschmidt accoglie l’interpretazione standard, materialistica del conflitto sociale, ignorando la scoperta di Hobbes, sviluppata da Mandeville e da Rousseau: la vera causa dell’ostilità reciproca tra gli esseri umani è nella loro mente. In secondo luogo, sostenendo che la decadenza cominci dopo le prime forme positive di intersoggettività, e che tra queste forme positive vi sia il bisogno di riconoscimento che si tratterebbe di fomentare in funzione civile (la virtù della polis), Goldschmidt semplifica la fenomenologia dell'amore e della gloria tracciata nel Discours. Qui Rousseau dice in modo molto esplicito che il primo desiderio di riconoscimento equivale a quello di distinzione, e che quest’ultimo, consistendo in una fureur, è intrinsecamente portato alla rivalità e al male!??. E se è vero che la formula arzour-propre non compare in alcuni dei brani commentati (ma lo stesso si può dire, allora, di quella di azz0ur de sot), è evidente che all’innamoramento e al-

la festa calza perfettamente la definizione da cui è partita tutta la nostra indagine: «l’uomo sociale, sempre fuori di sé, sa vivere solo nell’opinione degli altri, ed è solo dal loro giudizio, per così dire, che ricava il sentimento della propria esistenza»!59.

La mia impressione, insomma, è che l'ambiguità dello stadio delle famiglie derivi proprio dall’ambigua natura dell’amour-propre, quei due lati del riconoscimento che si oppongono entrambi, ma a titolo diverso, al modello romantico della

solitudine. Prima di tutto il riconoscimento affettivo, che a scapito dei proclami contro la società, Rousseau dipinge come una sorta di complemento ontologico alla finitezza individuale. Se consideriamo il racconto del Discours dall’alto, ascoltandone le sfumature emotive oltre che le dichiarazioni letterali, il ‘2° I primi rapporti tra gli uomini sono già avvelenati dalla «radicale distorsione antropologica» esemplificata dal modello hobbesiano. Cfr. Reale, Le ragioni della politica, cit., pp. 227-228. 150 Second Discours, p. 193.

120

processo di socializzazione sembra compiersi con la fatalità di un destino, quasi fosse uno spontaneo sviluppo d’essenza. Non è un caso che la prima reazione degli uomini alla scoperta della vita comune sia quella di un’incontenibile gioia, una festa appunto: l’esplosione vitale che contraddistingue il canto, la danza, la stessa idea di passion, sembra simboleggiare, oltre all’avvenuto trascendimento

dell’animalità, la sconfitta

di un’angosciosa solitudine. Così, d’altra parte, è detto espressamente nell'episodio dell’Essaz, ignaro del pessimismo che inquina invece l’idillio del Discowrs: #/ sentit le plaisir de n'étre pas seul. C'è un motivo platonico in questo sogno di «completamento». Come ha visto bene Todorov, l’amore solidale è il presupposto imprescindibile della «fragile felicità» concessa all’uomo: È la sua debolezza a rendere l’uomo socievole. Sono le nostre miserie comuni che sospingono i cuori all'umanità: non le dovremmo nulla se non fossimo uomini. Ogni legame è un segno d’insufficienza: se ognuno di noi non avesse alcun bisogno degli altri non penserebbe affatto ad unirsi a loro. Così, dai nostri limiti, nasce la nostra fragile felicità. Un essere davvero felice è un essere solitario. Dio solo conosce la felicità assoluta, ma chi di noi può farsene un’idea precisa?!!

Ma il riconoscimento non testimonia soltanto la fragilità intrinseca alla condition bumaine. E anche la passione della lotta, che si confronta con gli altri, compete con loro, e vor-

rebbe godere del piacere unico del proprio trionfo. Descrivendone la nascita come una piccola festa, Rousseau sta lasciando parlare anche un lato più hobbesiano, moderno, della propria visione del mondo: quello in cui l’autoaffermazione nella società è il massimo premio della vita individuale, e le

passioni dell'amore e della gloria, vissute come esperienze di conquista, coincidono con la consacrazione dialogica dell’identità. È un lato del rousseauismo molto meno noto e meno

ufficiale, rispetto alle immagini consolidate nella tradizione. E 131 Éyzile, p. 503. Cfr. Todorov, Una fragile felicità, cit. La stessa tesi è alla base del capitolo consacrato a Rousseau in La vita comune, cit., pp. 27 ss. Una severa critica filologica a quest’ultimo saggio (che però non tiene conto di effettive tensioni macrostrutturali presenti nel pensiero rousseauiano), in R. Wokler, Todorov’s Otherness, in «New Literary History», 27, 1996, pp. 43-55.

121

in cui la stessa voce di Rousseau è meno sicura e squillante di quella del solitario romantico. Ma basta trovare il modo di farla parlare per cogliere il suo messaggio.

122

SECONDA FIGURA

SERVI, PADRONI E PADRONCINE

Adolphe aprì il libro, lesse una parola, e Julien recitò tutta la pagina con facilità, come se avesse parlato in francese. Il signor de Rénal guardava la moglie con aria trionfante. I ragazzi, vedendo lo stupore dei genitori, spalancarono gli occhi. Un domestico comparve sulla porta del salotto e Julien continuò a parlare in latino. Sulle prime l’uomo restò immobile, poi scomparve. [...] Questa scena valse a Julien il titolo di signore: nemmeno i domestici osarono rifiutarglielo. Stendhal, I/ Rosso e il Nero

IL PRANZO DI TORINO

Il conte de La Roque mi accompagnò dal conte de Gouvon, primo scudiero della regina e capo dell’illustre casata de Solar. L’aria dignitosa di quel rispettabile vegliardo mi rese la sua affabile accoglienza ancora più commovente. Mi interrogò con interesse, e gli risposi con sincerità. Disse al conte de La Roque che avevo una fisionomia piacevole, che prometteva un certo ingegno: gli sembrava davvero che non mi mancasse. Ma questo non bastava, e bisognava vedere il resto. Poi, rivolgendosi a me, mi disse: «Ragazzo mio, quasi in ogni cosa il principio è difficile, ma il vostro non lo sarà troppo. Fate il bravo e cercate di piacere a tutti quelli che sono qui; per ora questo sarà il vostro unico compito. Per il resto, abbiate coraggio: vogliamo prenderci cura di voi». Subito dopo mi condusse da sua nuora, la marchesa de Breil, e mi presentò a lei, poi a suo figlio, l’a-

bate de Gouvon. L'inizio mi parve di buon auspicio. Ne sapevo già abbastanza per capire che non si fanno tante cerimonie per accogliere un lacché. Infatti non fui trattato come tale. Ebbi il mio posto alla tavola dei servi; non mi dettero la livrea, e quando il conte de Favria,

giovane sventato, tentò di farmi salire in serpa dietro la sua carrozza, suo nonno proibì che io salissi su qualsiasi carrozza o che seguissi chicchésia fuori di casa. Tuttavia servivo a tavola, e in casa facevo

press’a poco il servizio di un lacché; ma lo facevo più o meno liberamente, senza essere addetto nominalmente a nessuno. Tranne le poche lettere che mi dettavano, e le immagini che il conte de Favria mi faceva ritagliare, durante la giornata ero padrone di quasi tutto il mio tempo [...]. Il mio esordio fu ammirevole: la mia costanza, la mia attenzione,

il mio zelo incantavano tutti. L'abate Gaime mi aveva saggiamente avvertito di moderare il mio primo fervore per paura che si attenuasse e che quindi ne tenessero conto. [...] Non avendomi esaminato

nei miei talenti riposti, e attribuendomi solo quelli che mi aveva dato la natura, nonostante le promesse del conte de Gouvon, non sembravano aver intenzione di approfittare di me. Sopravvennero varie

faccende e fui praticamente dimenticato [...]. Una cosa mi fece bene e male, allontanandomi da ogni dissipazione esterna, ma rendendo-

mi un po’ più distratto nei miei Mademoiselle de Breil era età, ben fatta, piuttosto bella, benché bruna, dotata di quella

doveri. una fanciulla pressa poco della mia pallidissima con capelli nerissimi e, dolce espressione delle bionde cui il

125

mio cuore non ha mai resistito. L'abito di corte, che tanto dona alle

persone giovani, metteva in risalto la sua figura graziosa, lasciando scoperti il petto e le spalle, e rendendo la sua carnagione, grazie al lutto che allora si portava, ancora più splendida. Mi si obietterà che un domestico non dovrebbe accorgersi di queste cose. Sbagliavo, indubbiamente, ma me ne accorgevo lo stesso, e del resto non ero il solo. Il maggiordomo e i camerieri ne parlavano qualche volta a tavola, in modo così volgare che ne soffrivo terribilmente. La testa tut-

tavia non mi girava a tal punto da essere completamente innamorato. Mi sapevo contenere, stavo al mio posto e persino i miei desideri non si concedevano troppa libertà. Mi piaceva vedere Mademoiselle de Breil, sentirla dire qualcosa che denotava spirito, buon senso, onestà. La mia ambizione, limitata al piacere di servirla, non oltrepassava i miei diritti. A tavola cercavo attentamente l'occasione per farli valere. Se il suo lacché lasciava per un istante la sua sedia, subito mi mettevo al suo posto; altrimenti restavo di fronte a lei, scrutan-

do nei suoi occhi quanto stava per chiedere, spiando il momento per cambiarle il piatto. Cosa non avrei fatto perché si degnasse di ordinarmi qualcosa, guardarmi, rivolgermi una sola parola! E invece nulla: provavo la mortificazione di non esistere per lei; non si accorgeva neppure della mia presenza. Un giorno, però, suo fratello, che a volte mi rivolgeva la parola a tavola, mi disse qualcosa di poco cortese, e gli replicai con una risposta così sottile e tornita, che lei se ne accorse, e gettò uno sguardo su di me. Quell’occhiata volante mi fece andare in estasi. Il giorno dopo si presentò l’occasione di ottenerne un’altra, e non la sciupai. Si dava quel giorno un pranzo di gala, durante il quale, con gran stupore, vidi per la prima volta il maggiordomo servire con la spada al fianco e il cappello in testa. Il discorso cadde per caso sul motto della famiglia de Solar, che si leggeva sulla tappezzeria insieme al blasone: Te/ fiert qui ne tue pas. Di solito i piemontesi non sono molto versati nel francese, e qualcuno scoprì in quel motto un errore di ortografia, sostenendo che alla parola fiert non occorreva la £. Il vecchio conte de Gouvon stava per rispondere, ma, avendo gettato uno sguardo su di me, si accorse che sorridevo e non osavo dir nulla. Mi ordinò di parlare. Allora dissi che non credevo che la # fosse di troppo, perché fiert è una vecchia parola francese che non deriva da ferus, fiero, minaccioso, ma dal verbo ferit, colpisce, feri-

sce. Perciò mi sembrava che il motto non volesse dire «minaccio e non uccido», ma «colpisco e non uccido». Mi guardavano tutti, e si guardavano tra loro senza fiatare. Non si è mai visto un simile stupore. Ma ciò che mi lusingò di più fu l’aria di soddisfazione che lessi chiaramente in viso a Mademoiselle de Breil. Quella personcina così sdegnosa si degnò di gettarmi un secondo sguardo che valeva almeno quanto il primo. Poi, volgendo gli occhi 126

verso suo nonno, sembrò attendere quasi con impazienza la lode che mi doveva, e che lui infatti mi concesse così incondizionata e con

un'espressione così contenta che tutti i commensali si affrettarono a

fargli coro. Fu un momento breve, ma assolutamente delizioso. Uno di quei momenti troppo rari che ristabiliscono l’ordine naturale delle cose e vendicano il merito umiliato dagli oltraggi della sorte!. 1. «Entrée dans le monde»

Siamo a Torino nel febbraio del 1729?. Il sedicenne JeanJacques, appena assunto come domestico dal conte de Gouvon, si appresta a vivere un'avventura analoga a quella che, un secolo più tardi, il suo allievo ed emulo Julien Sorel concluderà tragicamente all’Hòtel de la Mole. I presupposti della storia sono molto simili: l'ambientazione in un palazzo dell’alta aristocrazia cittadina, le ambizioni di ascesa del giovane plebeo protagonista, il paternalismo benevolo dei protettori e persino l’improbabile /iaisor sentimentale con la loro giovane figlia (col suo abito a lutto e le maniere altezzose, Mademoiselle de Breil regalerà qualche tratto a Mathilde de la Mole). Ma il parallelismo va ben oltre un debito letterario. Più che da singoli episodi o personaggi, Stendhal trae spunto da quella che definisce /a position de Rousseau dans sa jeunesse, condizione spirituale archetipica di un determinato rapporto tra la coscienza e il mondo: ! Confessions, libro III, pp. 93-96. 2 Sui mesi di Torino, E. Gaillard, /.-J. Rousseau à Turin, in «AR»; 32, 1950-1952, pp. 55-120. L'episodio è già stato oggetto, in una prospettiva parzialmente diversa da questa, del saggio di Jean Starobinski, Le sens de la critique, in La Rélation critique (1970), trad. it. Il senso della critica, in L'occhio vivente, cit., pp. 216-260 (I/ pranzo di Torino). } Sul rapporto tra i due autori, E. Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendlindischen Literatur (1956), trad. it. Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, 2 voll., Torino, Einaudi, 1956, vol. II, pp. 220-268; J. Roussel, J.-/. Rousseau en France après la Révolution, 1795-1830. Lectures et légendes, Paris, Colin, 1972, pp. 395-423; M. Crouzet, Nature et société chez Stendhal. La Révolte romantique,Villeneuve-d’ Ascq, Presses Universitaires de Lille, 1985; R. Trousson, Stendhal et Rousseau. Continuité et

ruptures, Genève, Slatkine, 1999. Crouzet, in particolare, affronta il problema da un punto di vista teorico — la categoria, appunto, di «romanticismo»

come forma dell’individualità immediata — le cui conclusioni si sposano bene con la tesi del mio lavoro.

127

Sugli uomini e sul mondo Julien sa solo ciò che ha imparato leggendo, di nascosto e all’insaputa del curato Chelan, le Confessions di Rousseau. La condizione giovanile di Rousseau ha più di un rapporto con la sua, il che spiega l’immensa influenza di questo libro sul suo carattere*.

Acutissimo psicologo e interprete, Stendhal non si fa ingannare dalla veste ufficiale delle Confessions. Riconosce nel loro protagonista non tanto il fantasticatore solitario disgustato dal mondo, quanto il plébéien révolté tormentato dal desiderio di affermarsi rel mondo. Il suo Jean-Jacques è uo-

mo della società più che della natura: è il giovane ambizioso che ha abbandonato la provincia in cerca del successo, certo del proprio valore come del proprio diritto ad ascendere la scala sociale, e per questo in lotta contro una realtà storica che si rivela ostacolo alle aspirazioni dell’io. Il romantico Stendhal sa benissimo che il romanticismo rousseauiano è anche la reazione tragica, storicamente e socialmente determina-

ta, a un tentativo di conquista fallito. Diffidando dell'amore per i boschetti, legge le Confessions nella chiave musicale dell’arz0ur-propre, sempre sullo sfondo, cioè, di quella società vagheggiata ed ostile che si presenta per la coscienza come oggetto di sfida’. La stessa passione dominante arderà il cuore

del protagonista di Le Rouge et le Noîr, magistralmente costruito da Stendhal secondo una sorta di principio di amplificazione che si rivela assai utile per chi vuole interpretarne il modello ispiratore. Jean-Jacques esasperato, quasi parodistico, Julien Sorel estremizza ogni conflitto e soprattutto — non

avendo bisogno di costruirsi un io ideale e di giustificarsi davanti ai lettori per conservare autorevolezza morale — lascia 4 Stendhal, Projet d’article sur «Le Rouge et le Noir» (1832), in Romans, a cura di H. Martineau, 2 voll., Paris, Gallimard, 1952, vol. I, p. 707. ? Così sarà, d’altra parte, per la generazione che, nella prima metà dell’Ottocento, rincorrerà il mito del parvenir. Si pensi alle I/lusions perdues di Balzac, il cui protagonista Lucien de Rubempré è l'emblema dell’ambizioso alla ricerca di successo: è sulle orme di Rousseau che il «grand’uomo di provincia» decide di lanciarsi alla conquista di Parigi, ed è al modello di Rousseau che si ispira il cenacolo letterario degli intellettuali bobérziens del Quartiere latino. Riferimenti espliciti e allusioni rousseauiane abbondano in tutto il romanzo. Sul rapporto Balzac-Rousseau, R. Trousson, Balzac disciple et juge de J.-J. Rousseau, Genève, Droz, 1983.

128

trasparire le passioni più scomode. Il suo amor proprio non combatte la censura introiettata di un pubblico sospettoso,

non è soffocato da istanze apologetiche e autoassolutorie, ma può essere esibito, gridato a tutto il mondo. Possiamo consi: derarlo un’ottima cartina di tornasole per rivelare aspetti nascosti della personalità spirituale di Rousseau: è dalle caricature riuscite, non dai ritratti idealizzati, che emerge la vera personalità dei modelli. Il fatto che Stendhal si sia ispirato a quest’episodio specifico delle Confessions è ancora più significativo. Tra tutte le avventure giovanili, quella torinese illustra l’esperienza del riconoscimento nella forma più pura. Già la scelta del genere letterario ha un valore emblematico: Rousseau conduce il racconto secondo quelli che pochi anni dopo la stesura della

sua autobiografia diverrano i modi del B/dungsroman, forma simbolica per eccellenza del rapporto moderno tra io e società?. Se la consideriamo come un tutto conchiuso, a prescindere dai suoi sviluppi successivi, la trama è idealtipica:

un giovane di umili origini ma di grandi speranze ottiene la fiducia di una famiglia aristocratica e, grazie all’azione congiunta dei propri meriti e della generosa disponibilità dei protettori, al termine di una serie di prove brillantemente superate, riesce a conquistarsi un posto nella società che conta.

Il significato esplicito della storia è poi arricchito da un denso apparato formale, dove si intrecciano figure retoriche, metafore, rimandi teleologici sapientemente elaborati. Nell’introduzione, ad esempio, tutto prelude alla futura ascesa del protagonista. Il suo status di partenza si configura all’insegna di un’eccezionalità che il lettore dovrebbe interpretare come un segno di predestinazione. Benché sia stato assunto con la paga e i compiti di un servo — anzi, di un /acché, il grado più infimo della scala sociale” —, Jean-Jacques viene esentato da 6 Cfr. E Moretti, I/ romanzo di formazione (1986), Torino, Einaudi, 1999. In genere l’accostamento con il romanzo di formazione viene riservato all’Émzile, in cui però il motivo didattico non si mescola affatto a quello, decisivo per la mia lettura, della promozione sociale. Sull’immagine di Rousseau come filosofo dell’anti-Bi/dung — interpretazione diffusa tra gli idealisti tedeschi e ancora oggi di senso comune —, R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, Torino, Einaudi, 1987, pp. 114-126.

? Cfr. G. Besse, ].-]. Rousseau: maître, laquaîs, esclave, in Hegel et le siècle

129

alcune incombenze del servizio domestico: in virtù delle promesse della sua fisionomia e delle garanzie fornite dal conte

de La Roque, non porta la livrea, scrive lettere come un se-

gretario, non è tenuto a salire in serpa dietro alle carrozze, è

stato presentato cerimoniosamente alla famiglia il giorno della presa di servizio. Sono piccoli privilegi che però sembrano importantissimi per la sua autorappresentazione sociale, al punto da convincerlo di non essere un semplice servitore come tutti gli altri: L'inizio mi parve di buon auspicio. Ne sapevo già abbastanza per capire che non si fanno tante cerimonie per accogliere un lacché. Infatti non fui trattato come tale8.

Nell’introdurre il suo eroe nell’alta società parigina, fedele al principio di amplificazione, Stendhal ne renderà gli esordi ancora più singolari. A palazzo de la Mole il précepteur? Julien veste un abito borghese, prende lezioni di danza e di scherma come un giovane gentiluomo e condivide i pasti dei padroni, privilegio che, più di tutti, denuncia l'avvenuto oltrepassamento della barriera sociale. Il posto accanto ai grandi, che Rousseau riuscirà a guadagnare soltanto negli anni del pieno successo letterario — e a prezzo del rischio, più umiliante che mai, di venir rigettato dal primo rigurgito di orgoglio aristocratico — lo ha ottenuto già dall'impiego a Verrières. Proprio des Lumières, a cura di J. D’Hondt, Paris, Puf, 1974, pp. 71-99; R. Trousson, Rousseau et «les derniers des hommes», in «Studi francesi», 104, 1991, pp. 249-259.

8 L'inciso tradisce lo spirito dell’intero episodio, e trova conferma anche nell'uso sintomatico di alcune espressioni: servire en quelgue facon librement, ad esempio, è una formula un po’ ridicola per segnalare un’indecifrabile distinzione dal resto della servitù. ? Figura sociale fortemente ambigua, perché allo stesso tempo domestico e intellettuale, il precettore è un simbolo dell’immaginario pre e postrivoluzionario. Cfr. D. Roche, Les Républicains des lettres (1988), trad. it. La cultura dei lumi. Letterati, libri, biblioteche nel XVIII secolo, Bologna, Il Mulino, 1992, cap. XIV. Si ricordi che sono precettori tanto il protagonista maschile della Nouvelle Héloise quanto l’io narrante dell’Éyzile. Rousseau fece per breve tempo quest'esperienza, (che si rivelò decisiva per la sua formazione ideologica e la sua autorappresentazione sociale), nel 1740 a Lione, presso i signori Mably, e qualche anno dopo a Parigi, con il figlio di Madame Dupin.

130

dalla meditazione quotidiana delle Confessions ha imparato che la tavola signorile è la frontiera simbolica che separa i due mondi. E, fedele all'impegno preso interiormente con il proprio maestro spirituale, se ne prefigge la conquista, come pri-

mo atto dell'entrata in guerra contro la società: — Non voglio fare il servo! — Bestia! E chi ti dice di fare il servo? Credi che manderei mio figlio a fare il servo? — Ma con chi mangerò? L’orrore che provava all’idea di mangiare con la servitù era estraneo alla natura di Julien [...]. Tale ripugnanza gli veniva dalle Confessions di Rousseau. Era l’unico libro che lo aiutasse a immaginare il mondo".

Stendhal coglie perfettamente il dramma di riconoscimento che attraversa le Confessions, e ne esaspera la già potente dimensione simbolica. Per Julien, come per Jean-Jacques, conquiste e privazioni materiali sono dettagli secondari della lotta per l’esistenza: la vera posta in gioco è la «considerazione», la stima sociale, mentre la sconfitta coincide con il misco-

noscimento, la mancanza di amore e di onore da parte degli altri uomini. Questi beni spirituali esistono solo nella sfera pubblica dell’apparenza. E si misurano in base a segni — simboli, onorificenze, privilegi — tra i quali uno dei più emblematici è indubbiamente quello del posto a tavola. Le ragioni di tale primato sono meno idiosincratiche di quanto possa sembrare. La cerimonia del pasto aristocratico aveva un ruolo di primo piano nella vita quotidiana d’Ancien Régime: non solo era l’occasione in cui si riunivano, in perfetta unità aristotelica di luogo, tempo ed azione, i due estremi della gerarchia sociale, ma accostava in modo assai ritualizzato e allegorico le loro funzioni socialmente distintive: il lavoro servile per il terzo stato e il consuzzo dispendioso per la nobiltà e il clero!!. Lo spazio pubblico era ripartito in una forma dicotomica che non dava adito a interpretazioni: se si stava seduti a mangiare 10 Rouge et Notr, I, 5, pp. 234-235. !l Cfr. Elias, La società di corte, cit., in particolare i capp. I, III, IV. Rossellini ne ha offerto un’affascinante traduzione cinematografica nel suo film del 1966, La presa del potere da parte di Luigi XIV.

Iol

si era parte del ceto dominante, se si restava in piedi si denunciava la propria natura di servi. Non c’era via di mezzo. E, come vedremo ampiamente anche nel corso dei prossimi capitoli, il dramma dell’intellettuale settecentesco di origine borghese consisterà proprio nell’impossibilità di collocarsi stabilmente in una di queste due condizioni. Non è un caso, allora, che molti episodi cruciali delle Cor-

fessions abbiano per oggetto del contendere un invito a pranzo: Rousseau ambienta mentalmente le sue battaglie per il riconoscimento nel luogo che, ai suoi occhi, esibisce ogni giorno la spietatezza e l’illegittimità del dominio sociale. «I...] Non vedo perché un orzo che può e deve mangiare in pubblico con il doge e il senato di Venezia non potrebbe mangiare in privato con il signor duca di Modena»!, protesterà il giovane segretario d’ambasciata, piccato contro il suo nobile superiore, il conte de Montaigu, che non vuole concedergli un onore dovuto; e la mortificazione che seguirà al litigio con l’ambasciatore sarà così importante per la sua presa di coscienza

ideologica da stimolare il progetto delle Institutions politiques, l’idea originaria del Contrat social. Ancora, l'ossessione per il posto a tavola contribuirà ad avvelenare i rapporti con l’aristocrazia parigina negli anni burrascosi dell’apprendistato mondano, e si ripresenterà puntualmente nella Nouvelle Héloise, dove l’utopia sociale di Clarens ha le sembianze di un desco democratico, intorno al quale servi e padroni siedono fianco a fianco e si servono spontaneamente a vicenda: Tutti si accomodano a tavola, padroni, giornalieri, domestici; ognuno si alza indifferentemente per servire, senza esclusioni, senza preferenze, e il servizio si fa sempre con grazia e piacere!.

A Torino, però, siamo agli antipodi di questo sogno eguali2 Confessions, p. 310. !) Nouvelle Héloise, p. 608. Si vedano anche la lettera I, 23, dove SaintPreux esprime approvazione per l'abitudine dei padroni vallesani di mangiare insieme ai loro servitori (p. 81); e l’immagine del picnic campestre nell’Émile (pp. 687-688). Qualche osservazione utile su questi temi in J.-C. Bonnet, Le système de la cuisine et du repas chez Rousseau, in «Poétique», 22, 1975, pp. 244-276; e J. Mikami, Les Relations sociales chez ].-]. Rousseau. Essai de lecture critique de la seconde partie des «Confessions», Genève, Slatkine, 1987, pp. 23-25.

152

tario. E proprio il timore di Julien Sorel a metterci in guardia contro i toni trionfali degli esordi: «Ebbi il mio posto alla tavola dei servi (J'eus la table de l'Office)», deve ammettere Rousseau, denunciando lo spazio simbolico che gli è stato de: stinato come un luogo naturale, e che non solo è estraneo, ma

addirittura subalterno a quello dei padroni («tuttavia servivo a tavola»). Dobbiamo concludere che la sua autorappresentazione sia mistificatoria? Non del tutto, perché se è vero che il sistema di segni legato alla tavola da pranzo sembra congelare il suo status in una sorta di immobilità ontologica, un altro sistema di segni (l'assenza di livrea, lo scriver lettere, il permesso di non salire in serpa, le cerimonie d’accoglienza) compensa il primo abbassamento metaforico spalancando lo spazio della mobilità sociale. Sono i simboli legati all’abbigliamento a svolgere il ruolo decisivo — e la cosa è comprensibile, se si considera quanto contasse l'apparenza nella società settecentesca!*. In un famoso episodio del Paysan Parvenu di Marivaux, Jacob, il plebeo protagonista, si trasforma nel gentiluomo Monsieur de la Vallée, e in modo assolutamente credibile, grazie all'abilità di un

sarto cittadino”. Di certo, la trama del romanzo somiglianza con la prima parte delle Confessions; so Jean-Jacques doveva ricordarla molto bene se, della prima assunzione torinese a casa di Madame

ha una vaga e l’ambizioal momento de Vercellis,

!4 Cfr. D. Roche, La Culture des apparences. Une histoire du vétement, XVII-XVIII siècle (1989), trad. it. Il linguaggio della moda, Torino, Einaudi, 1994. 15 P. de Marivaux, Le Paysan parvenu, a cura di H. Coulet, Paris, Galli-

mard, 1981, pp. 219-221. (Il topos sarà ripreso da Balzac nelle I/lusions perdues). Un altro romanzo settecentesco, a sua volta imperniato sul rapporto servo/padrone e in cui il cambio d’abito è un momento centrale del processo di riconoscimento, è la Parzela di Richardson. La situazione è opposta a quella rappresentata da Rousseau: la coscienza servile che non contesta la gerarchia sociale rifiuta di vestire segni superiori al suo status oggettivo. Deliziosa, come sempre, l’interpretazione del tema da parte di Stendhal. Il marchese de la Mole, che trova piacevole la compagnia del suo domestico ma se ne vergogna, lo costringe a un malizioso espediente: «‘Permettetemi, caro Sorel, di regalarvi un abito blu: quando vorrete indossarlo e venirmi a trovare, sarete il fratello minore del conte de Chaulnes [...]”. Julien non capì bene di che si trattasse: la sera stessa tentò una visita indossando l’abito blu. Il marchese lo trattò da pari a pari. [...] La mattina dopo si presentò al marchese in abito nero, portando con sé la cartella e le lettere da firmare. Fu ricevuto coi soliti modi», Rouge et Notr, II, 7, p. 477.

133

registrò così attentamente i dettagli della propria tenuta: «Mi fecero indossare la livrea dei suoi domestici, con la sola distin-

zione che loro portavano gli alamari mentre a me non li dettero: siccome la livrea non aveva galloni, l’effetto era più o meno quello di un abito borghese»!9. La distanza tra realtà e apparenza era indubbiamente

maggiore di quel commovente

«più o meno». Ma per un io assetato di riconoscimento, l’assenza di un cordoncino era già un segno incontestabile di superiorità, uno stats syr2bol sufficiente a legittimare la sua ambizione e a suscitare gli sguardi invidiosi degli altri domestici: «D'altronde, ero per loro una specie di personaggio inquietante: vedevano bene che non ero al mio posto, e temevano che anche Madame se ne accorgesse [...]»!”.

Non si capisce in realtà per quale motivo un lacché sedicenne, e per di più ultimo arrivato, avrebbe dovuto rappresentare un «personaggio inquietante». La diffidenza della servitù era giustificata dal comportamento di Jean-Jacques, che passava intere giornate al capezzale della padrona morente con l’aria del tartufo in attesa dell’eredità. La ragione di tanta costanza, tuttavia, non era l'interesse economico. Da Madame de Vercellis, ancora una volta, Rousseau non si aspettava un premio materiale, ma una conferma simbolica, il segno di

un'attenzione esclusiva che attestasse il suo valore agli occhi di tutti: la coscienza — come ormai sappiamo dal Discowurs sur l’inégalité - non può essere certa di sé finché non si sente riconosciuta nello spazio pubblico, finché non si rispecchia stabilmente nello sguardo di approvazione degli altri. E questo sguardo di approvazione, almeno in un primo momento, deve venire da una donna in posizione giudicante. Nel caso della signora piemontese, troppo distratta dalla propria malattia per interessarsi al dramma interiore di un domestico (e forse anche troppo vecchia per svolgere il ruolo che nell’archetipo antropologico compete a una leggiadra fanciulla) quest’attesa era destinata ad essere delusa: Verso la fine non mi faceva più domande, mi rivolgeva la parola solo per motivi di servizio. Non mi giudicò per quello che ero ma 16 Confessions, p. 80.

7 Ibid, p.83.

134

per quello che lei mi aveva fatto. E 4 forza di non vedere in me che un lacché, mi impedì di apparirle diverso!8.

L'esperienza viene descritta secondo i topoi antropologici

del Discours e dell’Essai: parola, vista, apparenza, giudizio, conferimento di identità. Questa volta, però, si tratta di un’i-

dentificazione mancata: Madame de Vercellis ron riconosce un simile in Jean-Jacques. Ferita ma non rassegnata, la coscienza irrequieta doveva rivolgersi altrove per cercare conferma di sé. Prima di seguire il seguito delle sue avventure, tuttavia, è

opportuna una considerazione generale. Il secondo e terzo libro delle Confessions sono dominati da una forte tensione interna, relativa al contrasto tra la posizione che il protagonista occupa nei fatti e quella che pensa, idealmente, di meritare. Questo contrasto si percepisce anche nel lessico e nello stile del racconto, dove si moltiplicano termini legati allo spazio o alla mobilità sociale (désir, espoîr, espérances, ambition, s'élever, s élancer, soprattutto l’emblematico place!?), e dove a bra-

ni di brutale realismo si affiancano fiabesche réverzes di ascesa. In alcuni momenti, tuttavia, il conflitto assume una formu-

lazione esplicita. Si tratta in particolare di tre episodi, in cui Rousseau ormai adulto cerca di fare il punto sulle proprie aspirazioni giovanili e su quello che, all’epoca delle prime avventure, era il proprio effettivo posto nel mondo (in altre parole, la position dans sa jeunesse di cui avrebbe parlato Stendhal). Carichi di suggestioni culturali, strutturati in modo complementare secondo un’alternanza di slancio, caduta e nuovo slancio, questi tre brani programmatici forniscono un’imper18 Ibid., p. 82. Nei primi tempi la padrona aveva mostrato qualche interesse per Jean-Jacques, sottoponendolo a piccoli interrogatori che lo avevano intimorito per la loro severità: «Quelle domande secche e fredde, senza alcun segno di approvazione o di biasimo per le mie risposte, non mi davano alcuna fiducia», 14id., pp. 81-82. 19 «Non ero al mio posto», «mi consideravano generalmente come un giovane di grandissime speranze, che non era al suo posto», «uno di quei momenti troppo rari che ristabiliscono (replacent) l'ordine naturale delle cose». Cfr. M. Raymond, ].-J. Rousseau. La Quéte de soi et la réverie (1962), Paris, Corti, 1986, pp. 63 ss.; E Chedeville e C. Roussel, Le vocabulaire de l'ascension sociale dans le livre II des «Confessions», in «AR», 36, 1963-1965, pp. 57-86.

435

cettibile ma solida impalcatura ideologica alla prima parte del racconto autobiografico. Il primo è quello, celeberrimo, della fuga da Ginevra, che segna la cesura simbolica tra l'infanzia e l’adolescenza del protagonista. È il momento dell’entrata ufficiale nella vita, della prima esplorazione dello spazio pubblico, dunque del massimo impeto per l’io che, travolto dalla sovrabbondanza vitale tipica dell’adolescenza, si proietta verso il mondo esterno in un atteggiamento di entusiastica fiducia: Entravo sicuro nel vasto spazio del mondo. I miei meriti lo avrebbero colmato. Ad ogni passo avrei trovato festini, tesori, avventure, amici pronti a servirmi, amanti premurose e compiacenti.

Al mio apparire, l'universo si sarebbe occupato di me (er we 720ntrant f'allois occuper de moi l’univers)?®.

Oltre ad essere letterariamente affascinante, il brano ha un notevole valore ideologico: mescola infatti, e con significativo eclettismo, le aspettative di una matura coscienza moderna, consapevole delle proprie potenzialità — J'entrois avec sécurité dans le vaste espace du monde; mon mérite alloit le remplir — a suggestioni romanzesche fatte di tesori, avventure e, come presto vedremo, anche castelli e castellane. E un misto di indi-

vidualismo borghese e di eroismo cavalleresco che resterà uno dei tratti più caratteristici dell’immaginario di Rousseau, per il quale la coscienza della dignità del terzo stato, e dell’ingiustizia a esso inflitta dai ceti dominanti, si accompagnerà fino al-

l'ultimo a una visione idealizzata della grande aristocrazia feudale. Riuscire nel mondo significherà sempre, ai suoi occhi, assumere le qualità che la letteratura presenta come fonte dell’onore e del prestigio: compiere azioni eroiche, sollevarsi al di sopra della plebe come i nobili protagonisti dei romanzi tanto amati nell’infanzia?!. Senza questa componente idealistica si fraintenderebbe il mito rousseauiano del parverir, che mai as20 Confessions, p. 45.

2! Rousseau attribuiva le «idee bizzarre e romanzesche», che avrebbero dominato per sempre la sua visione della natura umana, alla lettura dei romanzi della biblioteca materna, tra cui l’Astrée di Honoré d’Urfé, la Cassan-

dre e la Cléopàtre di La Calprenède, Artamzène ou le Grand Cyrus di Madeleine de Scudéry. Cfr. Confessions, pp. 8-9, 164 e relative note; Lettres è Malesberbes, p. 1134.

136

seconda la realtà esistente. Benché possa essere considerato come il loro legittimo padre spirituale, Jean-Jacques è molto

diverso da Lucien de Rubempré o Bel-Ami?: la sua ambizione conserva un'esigenza di grardewr che la preserva dall’opportu-

nismo e dall’ipocrisia. Si tratta di una novità importante rispetto all'impostazione del Discors, in cui prevaleva la polemica contro il conformismo: la gloria non equivale qui semplicemente al «successo», perché la coscienza vuol essere lodata ed ammirata secondo un ordine normativo che trascende i valori dominanti. Il riconoscimento si carica di quella valenza eroica che si ritrova ad esempio in Plutarco, nel teatro di Corneille, nella letteratura classica francese”). E l’idealità di questo eroismo, nell'immaginario giovanile di Rousseau, è garantita dal doppio ambito semantico del concetto di nobiltà: i Grands sono tali perché, in un mitico passato, hanno compiuto gesta straordinarie. Il loro esempio permette di conciliare l'ambizione morale con quella sociale. Seconda tappa decisiva per lo sviluppo ideologico delle Confessions è il discorso che l’abate Gaime, futuro modello del Vicario savoiardo, rivolge al protagonista a Torino, poco dopo la morte di Madame de Vercellis. Il contenuto della predica, realistico e severo, rappresenta l’esatto contraltare dei sogni formulati davanti alle porte di Ginevra: Smorzò molto la mia ammirazione per la grandeur dimostrandomi che coloro che dominano gli altri non sono né più saggi né più felici. Mi disse una cosa che mi è spesso ritornata in mente: ossia che, se ogni uomo potesse leggere nel cuore di tutti gli altri, ci sarebbero più persone disposte a scendere che persone disposte a salire. Questa massima, così vera e per nulla eccessiva, mi è servita molto

nella vita per farmi restare serenamente al mio posto?4. 22 In questo senso, pur essendo un ipocrita, Julien Sorel è più fedele al carattere di Rousseau: l’amore per Napoleone, la nostalgia per l’eroismo, conciliano i suoi sogni di gloria con il rispetto di valori morali e l'esigenza della fedeltà a se stessi. Gli eroi di Balzac e Maupassant, invece, non vogliono portare qualcosa del loro io ideale nella realtà: cercano solo di adattarsi ad essa, e di imparare le sue regole meglio di altri. L'equilibrio tra interiorità e mondo si sposta, nei loro romanzi, interamente a favore del mondo. 2 Cfr. Bénichou, Morali del «Grand Siècle», cit., cap I; Krailsheimer,

Studies in SelfInterest, cit., capp. II-IV; e soprattutto Levi, French Moralists, cit., cap. VII (The Cult of Glory). 24 Confessions, p. 91.

15%

Nel sistema

ideologico

delle Confessions

si stabilisce

un’opposizione netta tra eroismo aristocratico ed etica cristia-

na. Il centro della predica dell'abate Gaime è il rifiuto di assimilare la nobiltà interiore alla nobiltà di nascita, fondato sugli stessi princìpi che verranno formulati dottrinalmente nella Profession de foi: ogni uomo porta in sé un principio di dignità morale che lo mette in grado di compiere il proprio dovere a prescindere dalla classe di appartenenza e dai riconoscimenti esteriori. La vera nobiltà non si identifica necessariamente con imprese sublimi destinate a portare fama e ricchezza, ma può essere raggiunta in tutte le condizioni sociali: è un’arte sobria, paziente, che accumula piccole vittorie quotidiane senza bisogno di esibizione e di lode. Sarà il Padre che vede nel segreto dei cuori ad apprezzare gli sforzi e a distribuire secondo giustizia le ricompense: Mi fece capire che l’entusiasmo per le virtù sublimi è poco utile nella società. Lanciandosi troppo in alto ci si espone alle cadute, mentre fare il proprio umile dovere con continuità non richiede meno forza delle azioni eroiche [...]. È infinitamente meglio godere della stima duratura degli uomini che della loro effimera ammirazione”??.

Queste parole provocano un brusco allentamento nella tensione del racconto, facendo risprofondare la coscienza al livello della propria classe d'origine. Allusioni alla stabilità e alla discesa si accumulano vorticosamente nel linguaggio della memoria:

«smorzò»,

«persone disposte a scendere», «restare

serenamente al mio posto». La consapevolezza della possibilità di una caduta rovinosa sembra estinguere in modo definitivo ogni slancio verso l’alto. La saggezza dell’abate Gaime, tuttavia, era destinata a portare i suoi frutti in un’altra fase dell'evoluzione spirituale di Jean-Jacques. Poche righe dopo il resoconto di questa frettolosa conversione, che la stessa voce narrante definisce onesta-

mente «poco solida», leggiamo un secondo sermone pedagogico, destinato a riaccendere i sogni di gloria:

Ibid.

138

Un giorno, quando meno ci pensavo, vennero a cercarmi da parte del conte de la Roque [...]. Mi accolse bene. Mi disse che, senza distrarmi inutilmente con vaghe promesse, aveva cercato di trovarmi un posto, che ci era riuscito, che mi instradava a diventare qualcuno e che il resto era compito mio. La casa in cui mi introduceva era potente e rispettata: non avrei avuto bisogno di altri protettori per andare avanti e, benché trattato all’inizio da semplice domestico, com’ero stato fino ad allora, potevo stare sicuro: se per i miei senti-

menti e la mia condotta mi avessero giudicato superiore a quello stato, erano

disposti a non lasciarmici. La conclusione del discorso

smentì crudelmente le brillanti speranze datemi dal suo inizio. «Ma come, sempre lacché!» mi dissi con un dispetto amaro che la fiducia cancellò subito. Mi sentivo troppo inadatto a quel posto per temere che mi ci lasciassero?.

Anche questo brano dice molto sulla visione rousseauiana del mondo. Dal punto di vista soggettivo, quello dell’eroe delle Confessions, rappresenta una sorta di compromesso realistico tra i desideri utopici formulati durante la fuga da Ginevra e la scoraggiante

ramanzina

religiosa. A palazzo Gouvon,

Jean-Jacques occuperà il posto che gli compete per nascita e per esperienza, quello di sirzple domestique. Premessa che

provoca la sua prima reazione, delusa e stizzita: «“‘Ma come, sempre lacché!”, mi dissi con un dispetto amaro...». A differenza di quello dell’abate, però, il discorso del conte lascia aperta un’ampia prospettiva di speranza. La condizione è nel-

l’onere della prova: «Se [...] m27 avessero giudicato superiore a quello stato, erano disposti a non lasciarmici». Tra il sogno ad occhi aperti e la rassegnazione cristiana si prospetta un’alternativa credibile: l’apprendistato, la Bildung, la lotta per il riconoscimento. Infine, da un punto di vista più latamente storico, queste stesse parole del conte si caricano di allegorie, potendo essere lette come il manifesto dei nuovi rapporti tra nobiltà e borghesia intellettuale al tramonto dell’Ancien Régime. Incuriosita dai nuovi valori di cui il terzo stato si fa portatore, l’aristocrazia comincia a schiudere le porte delle proprie case, offrendo sostegno e protezione a chi saprà adeguatamente «distinguersi». E l’offerta - commenterà amaramente Taine 26 Ibid., pp. 92-93.

139

riflettendo sugli errori che portarono alla Rivoluzione — sarà la causa remota della sua disfatta: nel seno della classe dominante comincerà a formarsi a poco a poco il tumore maligno destinato a ucciderla”. Nel prossimo episodio assisteremo a una fase ormai avanzata di questo processo, in cui le rivendicazioni aggressive dell’intellettuale plebeo si accompagneranno ai primi segni di cedimento nel corpo della controparte aristocratica. Qui siamo in uno stadio ancora embrionale: l’e-

quilibrio di potere è tutto a favore della nobiltà, e il rapporto si configura non come un conflitto aperto ma come un accor-

do paternalistico e bonario. I termini del patto, d’altra parte, sono stati formulati chiaramente: «7 instradava a diventare qualcuno. [...] Il resto era compito mio».

2. Amori di classe

Ci sono coincidenze sorprendenti tra il racconto dell’avventura torinese e il sogno espresso durante la fuga da Ginevra. Subito dopo aver formulato il proclama più audace, JeanJacques aveva ristretto il campo delle sue ambizioni, con il ti-

pico movimento di introversione che segue tutte le sue estasi espansive. Non pretendeva di affermarsi nell’universo intero, «nel vasto spazio del mondo». Una piccola société charmante, in cui regnare come un favorito, avrebbe appagato a sufficienza ogni suo desiderio: La mia ambizione si limitava a un solo castello. Favorito del si-

gnore e della dama, amante della damigella, amico del fratello e protettore dei vicini, sarei stato soddisfatto. Non mi occorreva nulla di : 28 più?8.

A conferma della complessa elaborazione cui Rousseau sottopone il suo materiale mnemonico, nell’episodio di Torino troveremo queste identiche condizioni di felicità. Il conte de Gouvon fa parte della più scelta aristocrazia piemontese, frequenta la corte con il titolo onorifico di «scudiero della 27 Taine, L'antico regime, cit., libro IV. 28 Confessions, p. 45.

140

regina», e sfoggia il nome prestigioso dell’«illustre casata de Solar», le cui origini si perdono nella mitologia feudale. La sua famiglia vive in un palazzo cittadino che agli occhi dello sprovveduto lettore di romanzi certamente troneggia con l'imponenza di un maniero; e comprende, oltre a una «dama» (la marchesa de Breil, nuora del conte), anche due giovani nipoti, il conte di Favria e Mademoiselle de Breil, più o meno coetanei di Jean-Jacques??. Non sapremo mai se il sogno ginevrino abbia preso forma a posteriori, su ispirazione degli avvenimenti successivi, o se davvero una sorte benigna abbia posto sulla strada per la Savoia un «castello» modellato 44 hoc. Comunque sia, si può comprendere la trepidazione con cui la voce delle Confessions attende di raccontarci l’esito delle proprie avventure. A far fede alla testimonianza autobiografica, persino i desideri più irrealistici saranno soddisfatti: oltre al favore del vecchio signore e all'amicizia cameratesca del suo figlio cadetto, la stessa esibizione di sapere che guadagnerà al giovane servitore il plauso della tavolata di nobili porta con sé, nel ricordo, uno sguardo pieno di promesse da parte della damigella di casa. Il breve romanzo sentimentale che, collocato a metà dell’episodio, sembrerebbe interrompere sul più bello la scalata a palazzo Gouvon, non ha dunque una semplice funzione digressiva. A partire da questo punto delle Confessions, il tema dell’affermazione sociale si presenterà sempre associato a quello della conquista amorosa. Ritroviamo nell’immaginario letterario quella stessa complementarità tra azzore e gloria che si era rivelata come uno dei motivi centrali dell'analisi antropologica: il riconoscimento della coscienza si compie in due dimensioni convergenti, quella privata e affettiva dell’«essere desiderata» da una donna, e quella più pubblica e più intellettuale dell’«essere considerata» all’interno della propria comunità. Come nel Discours e nell’Érzle, inoltre, protagonisti privilegiati di questa duplice esperienza sono degli adolescenti. La memoria personale attesta implicitamente la teoria evolutiva che fonda le riflessioni sulla storia umana e sull’educazione: 29 Sulla storia e la posizione sociale della famiglia Gouvon, Gaillard, /.-/. Rousseau à Turin, cit., pp. 106 ss.

141

tra tutte le fasi della vita, quella in cui il bisogno di riconoscimento diventa un problema tragico è l’età di transizione tra l'infanzia e la maturità. In questo travagliato passaggio, l’io si scopre dipendente dal giudizio altrui. Capisce che la conquista di un posto nel mondo non dipende soltanto dall’intensità del desiderio o dalla forza d’animo: le altre coscienze saranno spettatrici e giudici del suo valore, della sua identità. Anche sotto questo profilo, il ricorso da parte di Rousseau agli stilemi ante litteram del romanzo di formazione si rivela illuminante. Verso la fine del Settecento — scrive Franco Moretti a proposito delle origini della nuova forma simbolica — la gioventù diviene per la cultura occidentale moderna «l’età che racchiude in sé il “senso della vita”», che alimenta un’«interiorità non solo più ampia che in passato, ma soprat-

tutto, come ben vide Hegel che peraltro deprecò tale sviluppo, perennemente insoddisfatta e irrequieta»?°. Come non pensare alla prima parte delle Confessions, e in particolare all’autoritratto posto alla fine del primo libro, immediatamente prima che Jean-Jacques decida di abbandonare la città materna per lanciarsi alla conquista del mondo? Raggiunsi così i sedici anni, inquieto, scontento di tutto e di me, privo dei gusti del mio stato come dei piaceri della mia età, divorato da desideri di cui ignoravo l’oggetto, piangendo senza motivo, sospirando senza sapere perché, cullando insomma teneramente le mie chimere, poiché non vedevo nulla intorno a me che valesse altrettanto?!.

Inquietudine, scontentezza, Sebrsucht, sono i «sintomi» della giovinezza, il nuovo rapporto tra l'io e il mondo destinato a sfociare nell’intersoggettività: la storia del genere umano, quella di Émile e quella di Jean- Jacques si sovrappongono perfettamente. Ma oltre a queste riprese letterali, le Confessions introducono un'importante variazione sul tema. Gli individui che, nel Discours e nell’Énzile, si confrontavano come membri indistinti di una specie all’interno dell’uguaglianza di natura, ora agiscono nel contesto gerarchico della società prerivoluzionaria: la coscienza in cerca di approvazione è quella °° Moretti, Il rorzanzo diformazione, cit., p. 4, e in generale pp. 3-15. 91 Confessions, p.41.

142

di un giovane plebeo, mentre sia la fanciulla sia il public che ne attestano il valore sono nobili. La scena delle capanne si traduce in un rapporto servo/padrone, caricandosi dei nuovi significati epocali della lotta borghese per il riconoscimento. Il fatto che Rousseau aspiri ad essere riconosciuto dai membri di una classe non è la sua, e che tale richiesta venga presa sul serio dagli interlocutori aristocratici, dimostra che l’ordine tradizionale della società di status comincia a vacillare, e che le vecchie forme di socializzazione obbligata, riassumibili nell'imperativo di «seguire il mestiere del proprio padre», hanno perso parte della loro cogenza. Si stanno aprendo prospettive inedite per la costruzione dell’identità: le qualità personali, come il talento e la bellezza, compensano quelle della nascita, giustificando aspettative di ascesa e rendendo pensabili incontri interclassisti. Lo spazio per l’iniziativa individuale si espande a dismisura: ciò che la coscienza diverrà da adulta potrà essere considerato il risultato dei suoi sforzi e delle sue ambizioni, non più un destino fatalmente iscritto nelle strutture sociali. Ed è anche quest’inedito peso della responsabilità a rendere la gioventù un’età dello spirito così critica per la cultura moderna. La nuova ambientazione dei rapporti intersoggettivi si ri-

flette anche sul problema delle passioni, che, acquistando concretezza storica e innestandosi sugli equilibri di forza, diventano oggetto di analisi parzialmente diverse. Se nello stato di natura, ad esempio, la fureur de se distinguer era bollata come nociva e mistificante vanità (nociva perché colpevole di alienazione, mistificante in quanto contraria all’uguaglianza antropologica), nell'esperienza vissuta da Rousseau diventa una necessità positiva: distinguersi, emergere, «brillare» — uno dei

termini-chiave del vocabolario sociale delle Confessions — è il solo mezzo con cui un plebeo meritevole può farsi strada e conquistare una qualche forma di parità con i suoi superiori. Le coordinate valutative del Discours sembrano allora sdoppiarsi: l’azzour-propre diventa una passione dell’emancipazione, oltre che della servitù; dell’uguaglianza, oltre che del do-

minio; della conquista di un'identità, oltre che dell’alienazione. Un’ambiguità che si ripercuote sulla psicologia dell’amore, cui spetta fin dall'inizio una marcata connotazione di classe. 143

Per tutta la vita Rousseau ha mostrato insofferenza, se non

addirittura disgusto, verso le donne della sua stessa origine sociale. Le popolane, le piccole borghesi gli sono sempre parse rozze e volgari, troppo inferiori alle eroine da romance su cui il suo immaginario amoroso si era modellato durante l’infanzia. Non c'è bisogno di azzardare interpretazioni psicologi-

che perché, in un candido passaggio delle Confessions, è Rousseau stesso a dichiararsi vittima di quello che definisce il suo ridicolo «debole»: Le sartine, le cameriere, le piccole bottegaie non mi tentavano. Per me ci volevano damigelle. Ognuno ha le sue fantasie, e questa è sempre stata la mia [...]. Non è però la vanità della condizione o del rango ad attirarmi, bensì una carnagione conservata meglio, mani più belle, un aspetto più aggraziato, un’aria di delicatezza e di decoro in tutta la persona, più gusto nel modo di abbigliarsi e di esprimersi, un vestito più fine e tagliato meglio, una scarpetta più piccina, nastri, merletti, capelli meglio acconciati. Preferirei in ogni caso la meno carina purché avesse tutto ciò. Io stesso trovo molto ridicolo questo mio debole; ma il mio cuore lo concede mio malgrado??.

La rassicurazione preventiva ha il sapore di una negazione freudiana: è evidente che il fascino irresistibile delle «damigelle eleganti»?? risiede proprio nel loro status. Cos'è mai l’eleganza della donna ricca, se non il segno sublimato della sua superiorità di classe? In realtà, la fissazione confessata da Rousseau non ha nulla di stravagante, ma rappresenta un sintomo tipico del cosiddetto corzplexe du roturier, il sentimento composto di rivalsa e senso di inferiorità sociale che spinge i plebei in carriera a innamorarsi di donne della classe dominante. Già Marivaux ne aveva fatto il tema principale del suo più celebre romanzo, il cui protagonista si fa strada nel mondo grazie a ricche protettrici opportunamente sedotte4. E che Jean-Jacques ne soffrisse lo avrebbe rilevato ancora una volta Stendhal, in una fine annotazione di De l’Arzour: «Per un parvenu, il peso del rango si fa sempre sentire attraverso il genio. Pensate a Rousseau, innamorato di tutte le dame che 32 Confessions, p. 134. 3 Ibid., p. 188. 24 Marivaux, Le Paysan parvenu, cit.

144

incontrava»?.

Nella

consueta

e lieve

forma

caricaturale,

Stendhal non mancherà di infliggere lo stesso complesso all’eroe di Le Rouge et le Noir che, soprattutto nell’avventura parigina, viene soggiogato da un inconsapevole snobismo amoroso. Inizialmente indifferente alla bellezza e all’intelligenza di Mathilde, Julien si fa sedurre dalle sue facons de reine, i

modi da gran dama di città che abbagliano l'immaginazione inesperta di un provinciale:

Quell’amore non era fondato che sulla rara bellezza di Mathilde,

o piuttosto sulle sue arie da regina e sulla sua squisita eleganza. In questo, Julien era ancora un parvery. A quanto si dice, una bella donna del gran mondo è ciò che stupisce maggiormente un contadino intelligente quando questi riesce a raggiungere le sfere più alte della società’.

Il povero Jean-Jacques non si comporta diversamente da Julien Sorel: pretende di essere attratto da una bellezza oggettiva, evidente agli occhi di tutti, ma poi, per esemplificare al lettore le qualità dei suoi oggetti di desiderio, non si sofferma su quei dettagli grossolanamente fisici che, come insegnava il suo maestro Montaigne, disvelano sotto le differenze di rango l’essenza universale della condition bumaine?. Gli attributi che colpiscono la sua fantasia sono proprio quelli della distinzione aristocratica, i segni di distanza dalla fatica e dal lavoro grazie a cui la nobiltà, fin dalle origini, ha legitti35 Stendhal, De L'Amour, a cura di V. Del Litto, Paris, Gallimard, 1980,

pp. 249-250. Balzac, a sua volta, fa innamorare Lucien della prima gran dama incontrata a Parigi: «Il povero ragazzo, il cui destino somigliava un po’ a quello di Jean-Jacques Rousseau, lo imitò anche in questo: fu sedotto da Madame d’Espard, e immediatamente si innamorò di lei», I/lusions perdues, a cura di R. Chollet, in La Comédie hbumaine, 12 voll., Paris, Gallimard, 19761981, vol. V, p. 281.

36 Rouge et Noir, II, 13, p. 519. 3? Cfr. in particolare il saggio I, 42, De l’Inequalité qui est entre nous. Sul tema, J. Starobinski, Montaigne en mouvement (1982), trad. it. Montaigne, Bologna, Il Mulino, 1984, cap. IV. Rousseau assume la prospettiva di Montaigne in tutte le opere antropologiche e morali. Emblematica la dichiarazione dell’Enzzle: «L’uomo è identico in tutte le condizioni: il ricco non ha lo stomaco più grande del povero, e non digerisce meglio; il padrone non ha braccia più lunghe né più robuste del suo servo; un uomo potente non è più forte di un uomo del popolo. Insomma, se i bisogni naturali sono identici per tutti, anche i mezzi per soddisfarli devono essere uguali», p. 468.

145

mato simbolicamente il proprio dominio: pelle candida, mani curate, abbigliamento raffinato, eleganza nel contegno e nella capacità di acconciarsi... Nell’apprezzare e celebrare tali va-

lori, Rousseau non si rende conto di tradire quel popolo che si guadagna il pane col sudore delle mani, cui le sue opere filosofiche affideranno solennemente le sorti della rigenerazione sociale. Mai come negli episodi amorosi la sua esperienza

vissuta si allontana dal modello della condition moyenne celebrata nell’Ezzi/e: alle certezze di un matrimonio

borghese,

fatto di responsabilità, fatica, giornate tutte uguali, Jean-Jacques anteporrà sempre i brividi delle hautes avantures, nei cui confronti confessa di provare una sorta d’attrazione irresistibile: «le avventure altolocate: il mio chiodo era là»?8. La sola relazione con una donna del popolo, la fedele Thérèse,

sarà una scelta pratica più che una passione, cui gli omaggi rispettosi delle Confessions rifiuteranno ostinatamente la definizione troppo impegnativa di arzour. Sarà amore dichiarato, al contrario, quello che il giovane avventuriero concepirà per molte delle sue ricche amiche o protettrici, Madame de Warens, Madame Dupin, Madame d’Houdetot, le cui

prime apparizioni si stagliano tutte come epifanie sublimi di divinità: Mi ricevette durante la sua tozlette. Aveva le braccia nude, i capelli sciolti, l’accappatoio discinto. Non ero preparato a questo genere di accoglienza. La mia povera testa non resse: mi turbo, mi smarrisco, ed eccomi innamorato di Madame Dupin?°.

Immortalate al tavolino del trucco, spesso associate agli strumenti della loro bellezza o ai riti segreti delle loro stanze, belle, leziose, profumate, le donne ricche sono sacerdotesse di 58 Confessions, p. 80. 9° Ibid., p. 291. Si vedano anche il primo incontro con Madame de Warens, le romanzesche apparizioni di Sophie d’Houdetot, l’innamoramento lionese per Madame de Mably, dove il codice lirico è meno marcato, ma ancora più esplicito è il motivo della distinzione sociale: «Madame Deybens mi aveva raccomandato a Madame de Mably. L’aveva pregata di insegnarmi le buone maniere e lo spirito della buona società. Ella vi si impegnò cercando di farmi fare gli onori di casa, ma mi ci applicai così goffamente, fui così timido e sciocco che lei si stufò e mi piantò lì. Ciò non mi impedì, come mio solito, di innamorarmi di lei», ibi4., p. 268.

146

un mondo più elevato e più puro. Potrebbe sembrare una contraddizione stridente con i princìpi del sistema politico rousseauiano, è così viene in genere considerata dai critici liberali, che ne approfittano per denunciare il «tipico» snobismo dell’intellettuale democratico, che nel profondo disprezzerebbe il popolo*. Ma in realtà, se considerato con gli occhi di Ernst Bloch, come un’«immagine di desiderio» e non come una debolezza psicopatologica, quest’archetipo affettivo rivela una tensione utopica analoga a quella che anima il Contrat social. La dama aristocratica porta con sé i segni di una realtà meno meschina, non oppressa dall’avidità o dall’interesse, che lascia spazio ai valori estetici e morali, all’intensità della passione: desiderandola, Rousseau ribadisce per l'ennesima volta il suo idealismo, implicito nell’avversione che ha sempre dimostrato per la volgarissima famiglia di Thérèse#!. E non solo. Nel mito delle avventure altolocate, apparentemente così idiosincratico, si può leggere una rivendicazione programma-

tica della nuova borghesia intellettuale, equivalente, sul piano privato, a quello nascente del parverzr. Seppur espressa nella forma ingenua e fiabesca del sogno a occhi aperti, si tratta pur sempre di una figura di redenzione sociale. Nelle opere o negli abbozzi giovanili di Rousseau torna il topos del giovane plebeo che viene ricambiato da una nobildonna grazie alle straordinarie qualità del suo cuore. Il protagonista delle Confessions, però, non può dirsi altrettanto fortunato: invece di sedurre trionfalmente le sue dame, regredisce 40 Si veda l’interpretazione (peraltro ricca di acume) di L.G. Crocker, J-]. Rousseau, 2 voll., New York-London, Macmillan, 1968-1973, passi; e M. Cranston, Rousseau et l’aristocratie, in «AR», 39, 1972-1977, pp. 138-

158. (La tesi dell’articolo di Cranston è poi ripresa e sviluppata nella biografia in tre volumi pubblicata da Allen Lane, London, 1983-1999). 41 Cfr. Confessions, p. 340. 4 Può valere cioè per Rousseau la stessa interpretazione che Benjamin e Adorno hanno dato dello snobismo amoroso di Proust: W. Benjamin, Zur Bilde Prousts (1929), trad. it. Per un ritratto di Proust, in Avanguardia e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973, pp. 27-41; Th. W. Adorno, Kleine Proust-

Kommentare (1958), trad. it. Piccoli commenti a Proust, in Note per la letteratura, 1943-1961,

Torino, Einaudi,

1979, pp. 191-202.

Cfr. anche Girard,

Menzogna romantica e verità romanzesca, cit. L’interpretazione blochiana di Rousseau in E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung (1959), trad. it. I/ principio speranza, 3 voll, Milano, Garzanti, 1994, vol. I, p. 109 (il soggettivismo di Rousseau), e vol. II, pp. 616-619 (il Conzrat social).

147

alla condizione di schiavo-bambino, accontentandosi di ser-

virle in cambio di affetto e protezione. Su questo immaginario

erotico influisce molto il modello letterario cortese, che Rous-

seau ha recepito dai romanzi e dalla poesia italiana, enfatizzandone il significato sociale. Fin dalle prime, goffe esperienze adolescenziali, egli ha sempre associato al sentimento amoroso una forma di passività regressiva, che non di rado si trasforma in esplicita sottomissione: «gettarmi ai piedi di un’amante imperiosa, obbedire ai suoi ordini, doverle chiedere perdono, erano per me godimenti dolcissimi [...]»4!. Il racconto autobiografico abbonda di episodi che incarnano questo tipo di fantasia. Quello più significativo, e giustamente ce-

lebre, resta legato alla figura di Madame Basile, la giovane pa-

drona di casa torinese che, in una delle pagine più belle delle Confessions, viene sorpresa da Jean-Jacques mentre ricama as-

sorta vicino alla finestra: Mi inginocchiai sulla soglia della stanza, tendendole le braccia in un gesto appassionato, sicurissimo che non potesse udirmi e non immaginando che potesse vedermi. Ma uno specchio sul caminetto mi tradì. La mia emozione dovette farle un certo effetto: non mi guardò, non mi parlò ma, volgendo il capo a metà, con un semplice gesto del dito mi indicò la stuoia ai suoi piedi”.

Rousseau elabora il ricordo nella forma di un’allegoria medievale. Il gesto della signora Basile, che indica il pavimento in silenzio, e con uno sdegnoso movimento del dito, è di un simbolismo eloquente. Ma ancora di più lo è la sua reazione spontanea, che lo prostra a terra in muta ed estatica adorazione. Eccetto la relazione con Madame de Warens — ma la # Sull’amor cortese in Rousseau e le sue letture di poeti italiani, oltre al fondamentale J.-L. Lecercle, Rousseau et l'art du roman, Genève, Slatkine,

1969, si vedano P. Ambri Berselli, Influences italiennes sur la «Nouvelle Héloise», in «AR», 32, 1950-1952, pp. 155-165; e J.-L. Bellenot, Les formes de

l'amour dans la «Nouvelle Héloise», in «AR», 33, 1953-1955, pp. 149-207. Più in generale, Pulcini, Amzour-passion e amore coniugale, cit. 4 Confessions, p. 17. ® Ibid., p. 75. L'episodio è oggetto di una celebre interpretazione di Starobinski (J.-]. Rousseau, cit., pp. 241 ss.), che si concentra sui temi dell’amore senza possesso e della significazione. Si veda anche l’immagine simile, ma socialmente più esplicita, della lettera I, 36 della Nouvelle Héloise.

148

reciprocità dell’affetto, non dimentichiamolo, non cancella la

netta gerarchia di ruoli tra Marzar e Petit — tutti gli episodi amorosi delle Confessions si chiuderanno in questa forma asimmetrica e un po’ feudale: la dama, superiore, intangibile, accoglie l'offerta d'amore senza ricambiarla; il corteggiatore si tiene a distanza, nel ruolo del cavalier servente. Imprescindibile è la rinuncia al possesso fisico, che Rousseau non solo non contesta, ma addirittura ricerca con masochistica esaltazione: «Nulla di quanto ho provato nel possedere una donna vale i due minuti passati ai suoi piedi, senza nemmeno il coraggio di sfiorarle il vestito». Non è difficile leggere in quest'elogio della passività erotica anche una forma di acquiescenza nei confronti dell’ordine sociale. Quanto sia stretto il nesso tra questa forma di galanteria platonica e il posto subalterno occupato nella realtà, lo mostra il divertente epilogo dell’entrata in servizio presso Madame de Vercellis: [La mia padrona di casa] disse che forse mi aveva trovato un posto, e che una dama di rango voleva conoscermi. A queste parole mi credetti davvero prossimo alle avventure altolocate: il mio chiodo era lì. Ma questa non si rivelò brillante come me l’ero immaginata. [...] Entrai subito al suo servizio, non però nelle vesti di un favorito,

ma in quelle di un lacché*?.

Rousseau si presenta dalla dama nelle vesti di un irresistibile seduttore, e si ritrova con la livrea di lacché. Nel passaggio dalla letteratura alla storia, sullo sfondo dell’oggettivo squilibrio delle posizioni di classe, la servitù metaforica dell’amor

cortese si confonde con la servitù reale.

3. L'età della passione L'avventura di Torino sembrerebbe sottrarsi al modello di questi amori vassallatici e inconcludenti, e ciò a causa della sua minore inverosimiglianza di partenza. L'oggetto della passione di Rousseau, questa volta, non è una dama matura ma 4 Confessions, pp. 76-77. Esemplare la passione per Madame d’Houdetot, (bid., p. 444.

4 Ibid., p. 80.

149

una fanciulla, la cui giovane età sembrerebbe offrire un debole fattore compensativo all'enorme distanza sociale. «Mademoiselle de Breil era una fanciulla press’a poco della mia età»: il fatto stesso che si possa azzardare un paragone, commenta opportunamente Jean Starobinski, legittima un avvicinamento simbolico, perché allude a un’essenza universale, un sostrato

comune di umanità che persisterebbe al di sotto delle differenze di rango. Un ruolo analogo è svolto dalla descrizione fisica della ragazza, dove, in contrasto con la tendenza spiri-

tualizzante che caratterizza i ritratti femminili di Rousseau, sono messi in risalto anche tratti più sensuali, come il petto e le spalle!?. Gli eventi successivi confermeranno che Mademoiselle de Breil, oltre all’età e alla bellezza, possiede un terzo dono naturale, destinato ad attrarla ulteriormente verso il suo

umile lacché: la capacità di apprezzare l’intelligenza e la prontezza di spirito al di là, se non addirittura contro, i pregiudizi tipici della propria classe. Nello scontro tra le controparti, il servo e i suoi padroni, si comincia insomma a intravedere una possibilità di mediazione, decisiva come premessa dell’avventura amorosa e sociale. Alla dubbia posizione del domestico che non si sente al suo posto corrisponde quella della giovane nobile inquieta, tanto attratta dalle battute brillanti, quanto annoiata dalla compagnia dei propri pari. Per questi due virtuali transfughi dalla società di ceto si prospetta la possibilità di un incontro sul nuovo terreno fornito dalle qualità naturali del merito, della prestanza fisica, soprattutto della giovinezza, sinonimo per eccellenza di vicinanza alla natura e di indifferenza all'opinione sociale: A volte oso lusingarmi al pensiero che il cielo abbia stabilito una segreta affinità tra i nostri sentimenti, così come tra i nostri gusti e la 48 Starobinski, I/ senso della critica, cit., p. 224 e ss. 1° Va ricordato il compiaciuto autoritratto del secondo libro delle Confessions: «Senza essere quel che si dice un bel ragazzo, ero proporzionato per la mia piccola figura. Avevo piedi graziosi, le gambe snelle, un’aria disinvolta, una fisionomia vivace, la bocca piccina, sopracciglia e capelli neri, occhi piccoli e persino incavati, ma che sprigionavano con forza il fuoco che mi bruciava nel sangue», p. 48. Anche da un punto di vista fisico Jean-Jacques avrebbe le carte in regola per accampare diritti su Mademoiselle de Breil. Sull’identificazione del giovane Rousseau con Saint-Preux, Confessions, p.

430 e Dialogues, p. 778. 150

i

nostra età. Giovani come siamo, nulla altera in noi la spontaneità della natura, e tutte le nostre inclinazioni sembrano riferirsi ad essa. Abbiamo lo stesso modo di sentire e di vedere, indipendentemente

dagli uniformi pregiudizi sociali che abbiamo appreso. Perché non dovrei immaginare anche nei nostri cuori la stessa armonia che riconosco nei nostri giudizi?”

È con queste parole che Saint-Preux si dichiara a Julie, nella lettera destinata a consacrare un nuovo, rivoluzionario

archetipo dell'immaginario sentimentale moderno. Adattando la leggenda medievale, Rousseau ribalta il modello della mésalliance settecentesca, consacrato dal romanzo più famoso dell’epoca, la Parzela di Richardson: non più il nobile che insidia la cameriera, replicando e rinsaldando con la propria violenza l'ordine della gerarchia sociale; ma il giovane intellettuale plebeo che conquista la fanciulla aristocratica — e la metafora va intesa in senso propriamente militare — con le sole

borghesissime armi del proprio «merito». Che quest’ultima situazione sottintenda qualcosa di assai più sconveniente, per la

morale sessuale, in primo luogo, ma soprattutto per quella sociale, lo si coglie dalle parole dello stesso Richardson, le cui riflessioni di casistica matrimoniale rappresentarono per tutto il diciottesimo secolo un breviario dell’etica borghese. In un dialogo che ha certamente colpito l’attenzione di Rousseau, suo appassionato lettore e ammiratore, il protagonista maschi-

le del romanzo, il gentiluomo Mister B., difende la legittimità della propria unione con la servetta Pamela proponendo un sottile argomento: La differenza è che l’uomo nobilita la donna che prende in sposa, chiunque lei sia; e le trasmette il proprio rango, qualunque esso sia. Ma la donna, per quanto sia nobile, si abbassa con un matrimo-

nio vile, e dal proprio rango scende a quello di colui che si umilia a sposare”!. 50 Nouvelle Héloise, p. 32. Merito, bellezza, giovinezza: valori borghesi per eccellenza, che tuttavia Rousseau presenta come potenzialmente universali, in quanto iscritti nell’essenza naturale di ogni individuo. Il plebeo è avvantaggiato perché, non avendo privilegi sociali da far valere, li considera come il suo patrimonio più specifico. Ma la possibilità di una rigenerazione è aperta anche all’aristocratico, a patto che sappia disincrostarsi, come la statua di Glauco, dalle formazioni spurie della civilizzazione. 51 S. Richardson, Parzela, nella traduzione francese dell’Abbé Prévost, 4

151

Per il modo in cui, nel primo Settecento, si concepivano i

rapporti tra i ceti e tra i sessi, il matrimonio di un nobile con una serva era indubbiamente segno di un'inedita mobilità sociale, ma non era percepito come un pericolo. E sempre stato

un elemento di forza dell’aristocrazia la capacità, o forse il vezzo, di aprirsi arbitrariamente a qualche eletto senza perdere la propria posizione di privilegio??. Ma più ancora che sulla capacità della classe dominante di ammortizzare i conflitti grazie a una politica di assimilazione temperata, la morale di Mister B. si fonda sulle istituzioni storiche e ideologiche del dominio maschile: alle spalle del suo ragionamento c'è il pregiudizio, all’epoca universalmente accettato, secondo cui lo status di una famiglia è determinato dall'uomo. Finché le relazioni tra i sessi si limitano ad assecondare la gerarchia sociale, dunque, l’ordine complessivo della società non corre alcun

rischio. Se le parti si invertono, invece, la più banale delle storie d'amore diventa socialmente minacciosa: «Quando una dama si abbassa fino a sposare uno stalliere, questo stalliere non è forse il suo capo, essendo suo marito?»??. Ben prima

che D.H. Lawrence inscenasse il collasso dei valori tradizionali voll., Paris, 1742, vol. IV, p. 110. Rousseau condivideva l’entusiasmo di Di-

derot per Richardson, e nella composizione dell’Héloîse si è intenzionalmente ispirato alla formula epistolare e ad alcuni temi di Clarissa. Osservazioni sullo stile di Richardson sono contenute nelle Confessions e nella Lettre è d’Alembert. Non si trattava tuttavia di un interesse esclusivamente estetico: molte delle sue riflessioni sul matrimonio e sul rapporto tra i sessi dialogano con il Richardson moralista (ad esempio, nella lettera III, 18 dell’Héloîse, in polemica con Parzela, si difende la concezione dell'amore a prima vista). La bibliografia sul rapporto tra i due scrittori è incentrata quasi esclusivamente sul debito letterario con Clarissa. Le considerazioni essenziali restano ancora quelle di Daniel Mornet nel suo commento alla Nouvelle Héloise, 4 voll., Pa-

ris, Hachette, 1925, vol. I, pp. 93 ss., e di Lecercle, Rousseau et l'art du roman, cit., pp. 117-118.

22 E vero che i romanzi di Richardson sono favorevoli alle donne, e che il matrimonio di Pamela con un uomo socialmente ed economicamente superiore può essere considerato per il suo sesso una vittoria senza precedenti. (Cfr. I. Watt, The Rise ofthe Novel, 1957, trad. it. Le origini del romanzo bor-

ghese, Milano, Bompiani, 1997, cap. V, in particolare pp. 147 ss.). La morale sociale della storia, tuttavia, resta conservatrice. Il fatto che un singolo individuo compia il salto di classe non contesta la struttura complessiva dei rapporti gerarchici che, anzi, può essere rafforzata dalla dimostrazione di un’occasionale elasticità della classe dominante. Se questo individuo, per di più, è una donna, il salto è simbolicamente ancora meno significativo. > Richardson, Parzela, cit., vol. IV, p. 112.

152

proprio nella forma degli amori di una contessa per uno stal-

liere, già Rousseau aveva meditato su queste massime, che verranno riproposte con fedeltà letterale in un brano dell’ Éyzz/e più o meno coevo alla stesura della Nouvelle Héloise: siccome la famiglia dipende dalla società solo per il suo capo, la condizione di questo capo regola quella dell'intera famiglia. Quando egli si lega a un rango più basso, non si degrada, ma innalza la sua sposa. Al contrario, prendendo una moglie al di sopra di sé, abbassa lei senza innalzarsi?*.

Invertendo i ruoli ammessi dalla convenzione morale e letteraria, Rousseau era consapevole di conferire al suo romanzo un significato sovversivo. È la situazione drammatica,

più ancora delle posizioni ideologiche esplicitamente difese dai personaggi, a offrirsi al lettore come un’allegoria della rivoluzione borghese. Lo capì molto bene, ancora una volta, Stendhal, che vi avrebbe ispirato la seconda parte di Le Rouge et le Notr?, e che in alcune delle sue pagine più felici ed umoristiche estremizzerà le valenze sociali della seduzione di Mathilde. Quando l’orgogliosa padroncina, che comanda a bacchetta tutta la casa e ne custodisce religiosamente l’eredità simbolica’, finisce per gettarsi tra le braccia del proprio domestique, le sue prime parole denunciano una sconfitta umi3 Émile, p. 766. 5 Su Stendhal e la Nouvelle Héloise si veda Trousson (Stendhal et Rousseau, cit., pp. 122-136), che rimanda alla bibliografia specifica. Oltre a riprenderne la situazione drammatica con il relativo simbolismo sociale (il solo aspetto che mi interessava in questa ricerca), Stendhal ha interpretato il romanzo come il testo canonico dell’azzour-passion moderno, la passione romantica che promette una felicità assoluta e la perfetta comunione tra le anime. In contrapposizione a questa concezione idilliaca, in cui riconosceva i pericoli di un’antropologia irrealistica e le illusioni della propria giovinezza, Stendhal elaborerà in Le Rouge et le Notr l’idea dell’amour de téte: la passione avvelenata dall’amor proprio e sempre mediata dalla letteratura, di cui gli amori di Julien e Mathilde sono la massima incarnazione romanzesca. In realtà, il referente psicologico di questo tipo di amore resta sempre Rousseau: non il poeta romantico dell’Hé/oise, ma il protagonista inautentico delle Confessions. Le due dottrine dell'amore sono teorizzate in De L'Amour. 56 È Mathilde, con le sue nostalgie di eroismo e il suo culto del passato, a tener viva la memoria storica che legittima carismaticamente la famiglia. Si veda in particolare il capitolo II, 10, sulla regina Margherita di Navarra.

153

liante: «Puniscimi del mio atroce orgoglio [...] tu sei il padrone, io la schiava, devo implorarti perdono in ginocchio per essermi voluta ribellare», «regna per sempre su di me, punisci la tua schiava quando vorrà ribellarsi». E ancora, tagliandosi una folta ciocca di capelli: «[...] è il segno di un’obbedienza eterna. Rinuncio all’uso della mia ragione: sii tu il mio signore e padrone»?. L’allegoria della lotta di classe non potrebbe essere più esplicita. Enfatizzando il rovesciamento dei rapporti di potere, Stendhal suggerisce un’interpretazione del suo romanzo che può essere utile a chiarire quella della Nouvelle Héloise. Possiamo leggere Le Rouge et le Notr come una parodia polemica del romanzo di nobilitazione, il genere letterario che, per ec-

cellenza, illustra l’aggiramento del conflitto sociale’8. Benché attratto dalla prospettiva del matrimonio con Mathilde, Julien non è un nipotino di Pamela, che si accontenta di ottenere un posto tra i grandi senza mettere in questione la legittimità del loro dominio. E neppure è un emulo di Wilhelm Meister, vittima inconsapevole della cospirazione conservatrice, cui viene

fatta sposare un’aristocratica per sigillare un’alleanza che rimedi in via preventiva ai possibili strascichi della Rivoluzione francese in Germania??, Lo snobismo di Julien — che pure esiste, e che costituisce un movente importante della sua psicologia — è controbilanciato da un'autentica coscienza di classe, che gli fa sognare, insieme all’ascesa personale, la distruzione del ceto dominante. Quando non si illude di amarla perché stregato dalla sua superiorità, Julien odia Mathilde. Il suo desiderio profondo è di umiliarla, di «trascinarla nel fango», perché insieme all’onore e all’orgoglio di lei vi finirebbe tutto il suo mondo: un plebeo come me dovrebbe avere pietà di una famiglia di tale rango? [...] Non crediate, signorina de la Mole, che io dimentichi la mia condizione sociale. Vi farò comprendere e sentire fino in fondo 7 Rouge et Notr, I, 19, pp. 559-560. °8 G. Lukacs, Wi/belm Meisters Lebrjiabre, in Goethe und seine Zeit (1932), trad. it. Goethe e #l suo tempo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 22-44; Mo-

retti, Il romanzo diformazione, cit., pp. 83 ss. 3° È l’interpretazione di Luk4cs, ripresa e sviluppata da G. Baioni, Goethe. Classicismo e rivoluzione (1969), Torino, Einaudi, 1998, cap V.

154

che per il figlio di un carpentiere voi tradite un discendente del famoso Guy de Croiseneois, che seguì San Luigi alla crociata,

Il ratto della padroncina, letto alla luce di queste parole, acquista il peso di uno stupro sociale. Non per nulla Stendhal ha ambientato la vicenda durante la Restaurazione, come se

fosse un risarcimento alle frustrazioni della storia: «vent'anni fa avrei portato l'uniforme come loro! Allora un uomo come me era già morto, o gererale a trentasei anni». Chi non può

più marciare nell’esercito napoleonico deve accontentarsi di sedurre la figlia dei propri padroni. Alle soglie della stessa Rivoluzione terminata troppo presto per Julien Sorel, Rousseau consacra la nuova forma simbolica

della

mésalliance

rovesciata,

stemperandone

lirica-

mente il potenziale psicologico di violenza, e contenendone il simbolismo sociale entro limiti rigorosi. Come quello di Mathilde, il tentato tradimento di classe di Julie d’Étange assume nei confronti della società esistente una valenza aggressiva, che si sposa bene con i princìpi egualitari del sistema politico rousseauiano. La polemica tocca il vertice nella lettera in cui Milord Edouard, il lord inglese che nel romanzo

espone il punto di vista dell’osservatore esterno, approfitta delle obiezioni al matrimonio sollevate dal padre di Julie per decretare il definitivo collasso dell’Ancien Régime®: la nobiltà del sangue e della ricchezza — questa la sua diagnosi storica — ha ormai esaurito i titoli di legittimità, il futuro appartiene alla nobiltà dello spirito, che non è «scritta con l’inchiostro su vecchie pergamene, ma incisa in fondo al cuore in caratteri indelebili». Al crepuscolo del vecchio ordine, l’amore 60 61 6 questa

Rouge et Noir, II, 13, pp. 524-525. Ibid., p. 525 (corsivo nel testo). Gli interpreti si sono chiesti perché Rousseau non faccia pronunciare critica al diretto interessato Saint-Preux. Come nota Bernard Guyon

nel commento dell’edizione Pléiade (OC, II, p. 1435), lo stratagemma potrebbe servire ad attenuare la portata rivoluzionaria del discorso; ma non è impossibile leggervi l'intenzione opposta: le stesse parole che, pronunciate da un plebeo, potrebbero suonare ideologiche, nella bocca di un gentiluomo straniero, non implicato nella vicenda, assumono un tono di pacata obiettività. Sembra, da parte di Rousseau, l'ennesima applicazione del principio di straniamento.

6 Nouvelle Héloise, pp. 168-169.

165

tra Julie e Saint-Preux diventa allora la luminosa anticipazione di una società più giusta, fondata sull'ordine naturale e non sull’arbitrio degli uomini, che riconosce l'uguaglianza di tutti gli individui e la superiorità dei diritti del merito su quelli del sangue e del patrimonio: Che il rango sia determinato dal merito, e l’unione dei cuori dalla scelta: ecco il vero ordine sociale. Coloro che lo vogliono regolare sulla nascita o sulle ricchezze sono i veri perturbatori di quest’ordine; sono loro a dover essere screditati o puniti.

Le ultime parole di Édouard sembrano spingersi alle soglie della sovversione: «La giustizia universale esige dunque che questi abusi vengano corretti; è dovere dell’uomo opporsi alla violenza, contribuire all’ordine [...]»®. Ma Rousseau le

compensa facendo seguire all'atmosfera rivoluzionaria della prima parte del romanzo, che culmina nella caduta consenziente della vergine aristocratica’, un epilogo ambiguo, più

conservatore. Julie, che pure ha accettato la difesa dei diritti naturali esposta da Saint-Preux fino a proporre lei stessa all’amante una notte d’amore, non acconsente al matrimonio clandestino, e accetta di sposare l’uomo che, nel rispetto della più classica delle consuetudini nobiliari, il padre ha scelto per lei. Questa decisione rilegittima l'ordine messo in crisi dalla libera scelta dell'oggetto di desiderio. E il matrimonio, infatti, non l'atto sessuale, l'impegno solenne», pubblico e sacro, che prefigura in nuce l’immagine complessiva della società”. % Ibid., p. 194. Si notino le corrispondenze anche terminologiche con la scena delle capanne («rango», «merito», «scelta»), e il nuovo significato che il fenomeno dell’innamoramento elettivo assume ora, nel contesto della società di status. © Ibid. © E significativo che, contrariamente agli amori autobiografici descritti nelle Confessions, quello tra Julie e Saint-Preux venga consumato. La conquista della parità dei ruoli scardina il paradigma dell’amor cortese: al vassallo che si accontenta di adorare in silenzio, subentra l'amante che reclama il possesso fisico della sua donna, in nome della stessa natura che ha predisposto l’incontro tra le anime. Il modello cortese verrà recuperato nella seconda parte del romanzo, quando Saint-Preux, preso atto del matrimonio di Julie e condividendone le ragioni morali e sociali, si stabilirà a Clarens nel ruolo del corteggiatore passivo. Il vocabolario matrimoniale dell’Héloise riecheggia quello del Contrat social. Su questi temi nel romanzo moderno: T. Tanner, Adultery in the Novel.

156

Proprio perché la famiglia è un microcosmo etico, il modo in cui Julie formerà la propria dovrà essere interpretato, indifferentemente dal destino degli individui coinvolti, come un gesto di continuità o di rottura con l’intero sistema sociale. E in questo senso l’ultima parola di Julie, del tutto libera e consapevole, è in favore della tradizione: [...] non diserterò mai la casa paterna. Perciò vattene, dolce chimera di un'anima sensibile, felicità così seducente e desiderata, vai a

perderti nella notte dei sogni, per me non avrai più nessuna realtà®8,

Più che un vero e proprio fallimento, una restaurazione dello status quo e del primato della nobiltà9’, l'esito della storia dimostra la natura onirica, ideale — nel senso in cui sono

ideali anche i progetti di riforma dell’Erzzle e del Contrat social — che contraddistingue l’Héloise come tutte le utopie comunitarie di Rousseau. Per lo scolaro di Platone, tra idea e

realtà si frappone un abisso invalicabile. E l’idea conserva il suo carattere assoluto proprio perché rifiuta ogni compromesso, ogni contaminazione”?.

Resta un tratto caratteristico dell'immaginario di Rousseau, tuttavia, contemplare occasioni in cui questi due univer-

si paralleli accettano di incontrarsi, concedendo all'idea la possibilità di manifestarsi nell’imperfezione della vita reale: istanti di estasi, di catarsi, di réverie, che, riportando le cose nel loro ordine naturale, mostrano il mondo per quello che

dovrebbe essere e non per quello che realmente è. Questi momenti sono disseminati nelle varie opere, dove si trasformano Contract and Transgressions, London-Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1979; Pulcini, Amzour-passion e amore coniugale, cit. 68 Nouvelle Héloise, p. 209. 69 È la tesi ad esempio di N. Sclippa (La «Nouvelle Héloise» et l'aristocratie, in «SV», 284, 1991, pp. 1-71), secondo cui la morale paternalistica del romanzo inviterebbe al recupero della divisione in classi, sancendo il primato sociale e spirituale dell’aristocrazia. Nella stessa direzione vanno l’interpretazione «totalitaria» di L.G. Crocker (Julie ou la nouvelle duplicité, in «AR», 36, 1963-1965, pp. 105-152), e quella psicanalitica di T. Tanner (Julie and «la Maison paternelle», in «Daedalus», 105, 1976, pp. 23-45). 70 Sull’utopia in Rousseau, oltre ai saggi già citati di Ernst Bloch, sono fondamentali gli studi di Judith Shklar, Mew and Citizens, cit.; e Bronislaw

Baczko, L'Utopia, cit.

157

a seconda dei contesti; ma

conservano

tutti la forma del-

l’epifania, l'irruzione dell’attimo divino nel tempo profano della storia: gli incontri illegittimi degli amanti nella Nouvelle Héloise che, in contrapposizione alla continuità del legame tra Julie e Wolmar, non vanno al di là della durata di un bacio o di una notte; i giorni passati alle Charmettes con Marzar, 0 nei boschi dell’Ermitage a fianco di Sophie; le estasi solitarie

godute sul lago di Bienne... Rousseau pensa che non sia possibile realizzare la felicità nel divenire umano, ma la confina in «istanti assoluti»”!, attimi di eternità che concedono grazia al-

l’individuo sofferente, regalandogli un appagamento completo. Così sarà alla fine dell’episodio torinese: in una sola occhiata si concentrerà tutto l’idillio dei secoli delle capanne, l’«età felice in cui nulla segnava le ore».

4. Due epifanie di riconoscimento

Come Saint-Preux nelle prime pagine del romanzo, dunque, Jean-Jacques si innamora di un’eroina socialmente irraggiungibile, che rappresenta ai suoi occhi una speranza di riscatto individuale e il miraggio di una società più giusta ed egualitaria. A differenza però di Julie, Mademoiselle de Breil non concede segni di reciprocità, offrendo a Rousseau il pretesto per soffermarsi sull’analisi della propria passione non corrisposta’. Colpisce nelle sue parole, come nota Starobinski, l'atteggiamento rassegnato e servile. Prima ancora di percepire la scoraggiante indifferenza della padroncina, il giovane domestico si impone un veto morale, che gli proibisce di desiderare, e addirittura soltanto fermare lo sguardo, su un oggetto interdetto: «Mi si obietterà che un domestico non dovrebbe accorgersi di queste cose». Pur avendo constatato la superiorità del proprio desiderio rispetto a quello della plebe comune — la «volgarità» con cui gli altri camerieri parlano di ?! FE. Van Laere, Une Lecture du temps dans la «Nouvelle Héloise», Neuchatel, La Baconnière, 1968, p. 173 e, in generale, cap. VII. Sull’esperienza del tempo in Rousseau si veda anche il classico di G. Poulet, Études sur le

temps bumain, 2 voll., Paris, Plon, 1952, vol. I, pp. 201-235. ?? Su quanto segue, Starobinski, I/ senso della critica, cit., pp. 216 ss.

153

Mademoiselle de Breil lo fa infatti «soffrire crudelmente» —,

egli non si dimostra all'altezza della propria, presunta distinzione, e tantomeno dell'orgoglio rivendicativo che guiderà le audacie di un Saint-Preux o di un Julien Sorel. Per quanto uniti dall’ambigua definizione di dorzestigues, lacché e precettori non hanno la stessa coscienza dei propri diritti. E Rousseau dimostra di saperlo bene, imponendosi una rinuncia ascetica nello spirito della saggezza cristiana dell’abate Gaime: «Mi sapevo contenere, stavo al mio posto e persino i miei

desideri non si concedevano libertà (Je re tenois à ma place, et mes desirs méme ne s'émancipoient pas)». Lo slancio emancipativo della coscienza, autorizzato dalle promesse del conte de la Roque, viene di colpo annullato dall’interiorizzazione acquiescente della gerarchia sociale. Ancora una volta, rafforzata dall’identificazione metaforica del servizio cavalleresco con quello domestico, la reazione di Rousseau è passiva e masochistica; il suo gesto di riconoscimento univoco: La mia ambizione, limitata al piacere di servirla, non oltrepassava i miei diritti. A tavola cercavo attentamente l’occasione per farli valere. Se il suo lacché lasciava per un istante la sua sedia, subito mi

mettevo al suo posto; altrimenti restavo di fronte a lei, scrutando nei suoi occhi quanto stava per chiedere, spiando il momento per cambiarle il piatto”?. Come nel Discours e nell’Essai, il dramma del riconosci-

mento è inscenato attraverso le metafore dello sguardo e della voce. Ma si tratta, in questo caso, di una comunicazione i7-

transitiva: alle occhiate con cui Jean-Jacques spia la padroncina, cercando di anticiparne gli ordini, non corrisponde infatti alcuna risposta visiva o vocale da parte di lei. «Cosa non avrei fatto perché si degnasse di ordinarmi qualcosa, guardarmi, rivolgermi una sola parola!». Saltano all’occhio le analogie con le sofferenze subite in casa di Madame de Vercellis. Ma la nuova umiliazione sembra più insopportabile: se prima Rousseau era oggetto di attenzioni superficiali e classiste («mi rivolgeva la parola solo per il suo servizio», «a forza di non ve7 Il testo della prima stesura dice addirittura che il giovane domestico provava per il suo stato «una passione estrema».

159

dere in me altro che un lacché»), ora non viene più nemmeno percepito. Buio e silenzio avvolgono la sua persona. E sappiamo cosa significhi quest’invisibilità per la sua visione «berkeleiana» della vita intersoggettiva: E invece nulla: provavo la mortificazione di non esistere per lei; non si accorgeva neppure della mia presenza.

Nell’esperienza del riconoscimento vanno distinti due aspetti: l’attestazione dell’esistenza, e la conferma del valore. Il primo è condizione del secondo, ma ne è anche indipendente, perché esprime un'esigenza più originaria e imprescindibile: si può vivere senza la stima degli altri, non si può fare a meno della loro attenzione. Così, per Rousseau, l’indifferenza della fanciulla desiderata significa l’azzeramento dell’identità personale. Se viene negata persino quell’occhiata distratta in cui si esercita il grado minimo dell’interesse umano, subentra per la coscienza una forma di morte psichica’*. A ulteriore conferma del parallelismo tra le due sfere di esperienza, va notato come il dramma amoroso si sviluppi in sintonia con quello sociale. Subito prima di introdurre il personaggio di Mademoiselle de Breil, Rousseau aveva fatto subire al racconto della sua scalata a palazzo Gouvon un’improvvisa battuta d’arresto. L’euforia giustificata dal debutto trionfale, («Il mio esordio fu ammirevole: la mia costanza, la mia attenzione, il mio zelo incantavano tutti»), aveva lasciato spa-

zio a una constatazione realistica: una famiglia aristocratica legata alla corte ha ben altro di cui occuparsi che delle ambizioni di un lacché. Lo Streber sociale segue così la stessa parabola dello Streber amoroso: lo slancio della coscienza verso la gloria viene smorzato da un’ammissione di impotenza, pun-

tualmente accompagnata dal motivo cristiano della rinuncia: 7" Secondo Lovejoy, che polemizzava con il behaviorismo, il tipo di sensazione descritta da Rousseau dimostrerebbe che il bisogno di riconoscimento è la differenza specifica dell’uomo: «Essere tra la gente e non venir nemmeno notati, sentire di non essere oggetto di alcun interesse o attenzione, per la maggior parte delle creature umane sembra la cosa più intollerabile», Reflections on Human Nature, cit., p. 89. Pertinenti anche le riflessioni di Erving Goffman sulla «disattenzione civile», in I/ comportamento in pubblico, cit., pp. 85 ss.

160

«L'abate Gaime mi aveva saggiamente avvertito di moderare il mio primo fervore». Rousseau ammette con amarezza il proprio misconoscimento:

«non sembravano aver intenzione di

approfittare di me. [...] Fui praticamente dimenticato». La duplice umiliazione, tuttavia, non uccide il suo io ideale. Vi sono coscienze che trovano nell’ostacolo lo stimolo a perseguire con più ardore la loro lotta, e Jean-Jacques è una di queste: aspetta e non si arrende, confidando nell’evento provvidenziale che confermi la sua distinzione agli occhi di tutti. E l'evento così fiduciosamente atteso non tarda a manifestarsi,

offrendo l'occasione del riscatto tanto sul piano pubblico che su quello sentimentale. Il rovesciamento

avviene all'improvviso,

subito dopo la

negazione più intensa; e si compie in due tempi — entrambi prevedibilmente ambientati alla tavola da pranzo, ed entram-

bi strutturati nella caratteristica forma «triangolare» delle figure antropologiche di riconoscimento. La prima scena ha per rivale il conte de Favria, quel «fratello» cui, nei suoi sogni di gloria, Rousseau avrebbe voluto donare il privilegio della propria amicizia, e che invece, nella prosa della vita reale, aveva cercato di farlo salire in serpa dietro alla sua carrozza. Offeso dall’ennesima manifestazione d’insolenza, Jean-Jacques lo mette a tacere, rispondendogli

a tono con una risposta

«sottile e tornita». La scelta dell’interlocutore, il solo membro della famiglia che si sia comportato con alterigia, così come l'occasione, che ricorda una schermaglia mondana, non sono privi di significato. Si sa quanto contasse per la mentalità aristocratica quel dono della parola pronta che in altre occasioni Rousseau rimpiangerà di non possedere. Se più tardi, a Parigi, sceglierà il silenzio, a Torino il desiderio di affermare a tutti i

costi il proprio valore vince per un giorno qualsiasi timidezza. Rispondendo brillantemente alla provocazione, il servitorello dimostra di produrre tours d’esprit all'altezza del suo nobile rivale, di poterlo sconfiggere sul piano dei suoi stessi valori, del suo stesso stile di vita. Non sorprende allora che, promosso per un istante dal rango di servo a quello di pari, egli si conquisti un’occhiata curiosa da parte di Mademoiselle de Breil: «se ne accorse e gettò uno sguardo su di me». È la prima epifania di riconoscimento. Jean-Jacques, che finora era 161

rimasto del tutto impercepito, esce finalmente dall’ombra, ac-

quistando esistenza agli occhi della fanciulla che ama. Torna alla mente la scena delle capanne nel Discours: indirizzandosi al giovane che, distintosi in un confronto, ha risvegliato il suo interesse, uno sguardo femminile «si fissa» e gli conferisce identità. Si accendono i prerziers feux de l'amour, e dunque si annunciano, nel cuore del pretendente, anche i sintomi del-

l’ansia da prestazione: «Quell’occhiata volante mi fece andare in estasi. Il giorno dopo si presentò l'occasione di ottenerne

un’altra, e non la sciupai». Nell’epilogo della storia l'archetipo antropologico atfiora ancora più distintamente, evocando la scena della festa selvaggia. Dal riconoscimento affettivo e privato, si passa a quello più genericamente pubblico, e con l’allargarsi dell’orizzonte intersoggettivo anche la scenografia dell’azione diventa più teatrale. L’occasione questa volta è un pranzo di gala, che vede riuniti tutti i membri della famiglia insieme ai loro ospiti, e in cui il servo inesperto assiste stupefatto a una celebrazione di potere fortemente ritualizzata. «Si dava quel giorno un pranzo di gala, durante il quale, con gran stupore, vidi per la prima volta il maggiordomo servire con la spada al fianco e il cappello in testa». In questo scenario spettacolare si compiono l'esibizione e il trionfo di Jean-Jacques che, come il miglior ballerino del Discours, salirà sul palco e oscurerà tutti gli altri concorrenti. Il racconto ha un passo romanzesco. Nel bel mezzo del pranzo, mentre i nobili mangiano e i servi si affaccendano in silenzio, la conversazione dei commensali cade sul motto dello stemma araldico dei Gouvon, di cui un anonimo invitato travisa grossolanamente il significato. È lui il nuovo rivale che Rousseau oscurerà, decifrando la divisa in modo corretto, e

quindi dimostrando di conoscere — un vero miracolo da parte di un servo — tanto il latino che l’antico francese: Il vecchio conte de Gouvon stava per rispondere, ma, avendo gettato uno sguardo su di me, si accorse che sorridevo e non osavo dir niente. Mi ordinò di parlare. Allora dissi che non credevo che la t fosse di troppo, perché fiert è una vecchia parola francese che non deriva da ferus, fiero, minaccioso, ma dal verbo ferit, colpisce, ferisce. Perciò mi sembrava che il motto non volesse dire «minaccio e non uccido» ma «colpisco e non uccido».

162

L'exploit culturale — che deve avere folgorato Stendhal, perché verrà replicato in ben quattro episodi di Le Rouge et le Notr” — è narrato attraverso una sottile trama di rimandi simbolici e formali, che Starobinski ha esplicitato con grande finezza. Dal punto di vista biografico, segnando «il passaggio dal silenzio imposto alla parola trionfante»?5, è una chiara anticipazione del rapporto dello scrittore maturo con il suo pubblico, in cui si preannunciano i futuri successi musicali e letterari. Allo stesso tempo, a un più astratto livello storico-

sociale, prelude a una nuova configurazione dei rapporti di classe: Se possiamo scorgere in questo testo l’eco del conflitto medievale tra il chierico e il nobile, possiamo, in modo ancora più legittimo,

ravvisarvi l'esercizio, da parte di un uomo del popolo, di un’intelligenza storica che gli permette di risalire alle origini dell’ordine sociale esistente [...]. L'illuminista Rousseau sostituisce alla lingua abusiva del «fatto d’armi» il fatto di parola, il fatto della parola critica: la capacità di interpretare risalendo all'origine o all’etimologia, ricercando i princìpi e la deduzione partendo dai princìpi. E dunque una nuova forza che si manifesta, pronta a trasformarsi in potere politico. Il «sapere» plebeo si accinge a inaugurare «una nuova età dello spirito» (Hegel)”?.

La trasformazione istantanea dei rapporti di forza si compie dunque a un duplice livello, in cui il riscatto dell’indivi-

duo Rousseau diventa allegoria del destino collettivo di un’intera generazione di plebei ugualmente colti e ambiziosi, che non vogliono più esser servitori. Questo almeno i giacobini, e

dopo di loro Julien Sorel e tanti altri intellettuali ottocenteschi, leggeranno nelle Confessions.

La traduzione del motto segna dunque la conquista del riconoscimento,

che dapprima — se seguiamo

analiticamente

l’ordine del racconto — si mantiene a un livello percettivo. Rousseau emerge dal buio in cui lo confinava la sua condizione 5 Oltre all’episodio riportato nell’epigrafe di questa figura (cap. I, 6), si vedano l’esibizione al pranzo di Valenod (cap. I, 22), la discussione col vescovo di Besangon (cap. I, 29), e infine quella su Orazio alla tavola dell’ H6tel de la Mole (cap. II, 2). 76 Starobinski, I/ senso della critica, cit., p. 233. Ibid., pp. 239-240.

163

di domestico e si staglia davanti agli aristocratici come un’apparizione inattesa: «Mi guardavano tutti, e si guardavano tra

loro senza fiatare. Non si è mai visto un simile stupore». Solo

in una seconda fase questa semplice attestazione di esistenza matura in un pieno riconoscimento morale, e lo stupore si converte in stima, autentica «ammirazione»:

Ma ciò che mi lusingò di più fu l’aria di soddisfazione che lessi ‘ chiaramente in viso a Mademoiselle de Breil. Quella personcina così sdegnosa (dédaigneuse) si degnò (daigna) di gettarmi un secondo sguardo che valeva almeno quanto il primo.

La sdegnosa padroncina che si degna di riconoscere rito di un sottoposto è l’insostituibile ponte simbolico conoscimento: se allo slancio verso l’alto del servo non spondesse la disponibilità di almeno un membro della

il medel ricorriclasse

dominante ad abbassarsi, l’incontro tra i due estremi sociali

non sarebbe possibile. A conferma della sua importanza, Stendhal lo riproporrà fedelmente nel proprio romanzo: «L'amor proprio di Julien era lusingato. Una persona circondata da tanti omaggi [...] si degnava (dazgratt) di parlargli in un tono che poteva sembrare amichevole»’8. Certo, a differenza di

quanto farà la spregiudicata marchesina de la Mole, Mademoiselle de Breil non si rivolge immediatamente a Rousseau,

limitandosi a contemplarlo soddisfatta. Ma la sua disponibilità è ugualmente provvidenziale per lo sviluppo drammatico dell’azione. E il suo sguardo impaziente a sollecitare il conte a concedere la consacrazione ultima del riconoscimento, la lode

conferita dall'autorità indiscussa della casa e ratificata dal plauso universale dell’opirion publique: volgendo gli occhi verso suo nonno, sembrò attendere quasi con impazienza la lode che mi doveva, e che lui infatti mi concesse così incondizionata e con un'espressione così contenta che tutti i commensali si affrettarono a fargli coro.

Nel crogiolo del chorus si fondono tutte le linee del riconoscimento: i due gradi dell’attestazione di esistenza e della 78 Rouge et Notr, II, 10, pp. 505-506.

164

conferma di valore, e le passioni dell'amore e della gloria. Jean-Jacques, ormai solo sul palco, accoglie trionfante l’applauso del pubblico. E finalmente può compiersi la seconda epifania che, per un istante, fa irrompere l’ordine eterno dell’idea nella realtà imperfetta della storia: Fu un momento breve, ma assolutamente delizioso. Uno di quei momenti troppo rari che ristabiliscono l’ordine naturale delle cose e vendicano il merito umiliato dagli oltraggi della sorte.

L'accenno alla «vendetta» sembrerebbe alludere a un esito violento. Ma non è così. In primo luogo per la natura dell’epifania egualitaria, che non modifica l’oggettività della gerarchia sociale ma si limita a fornire alla coscienza una forma di risarcimento onirico. Da questo punto di vista, il brano potrebbe essere accostato a quello della vendemmia nella Nouvelle Héloise, di cui condivide il carattere fittizio e consolatorio: «[...] la dolce uguaglianza che qui regna ristabilisce l'ordine della natura, istruendo gli uni, consolando gli altri, e rendendoli tutti amici>??. L’'ordre naturel viene sì re-

staurato, ma solo occasionalmente e solo nel regno dell’immaginazione: gli inferiori si sentono uguali ai superiori, e le istituzioni restano immutate. In secondo luogo — e anche in questo caso il paragone con la festa della vendemmia è illuminante — il conflitto latente nei rapporti tra Rousseau e i suoi padroni non esplode, ma si

seda in un'atmosfera gioiosa. Il vecchio conte — che, è importante precisarlo, conosceva la giusta traduzione del motto — ha lasciato che Jean-Jacques si esibisse per un atto di generosità, e non esita a concedergli l’applauso meritato con il favore di tutti i presenti. Il suo atteggiamento non dimostra ignoranza, timore e nemmeno

debolezza di classe: è un'offerta

paternalistica di protezione, simbolicamente più vicina alle forme storiche del dispotismo illuminato che a quelle della Rivoluzione8°. Non bisogna poi esagerare la portata delle 79 Nouvelle Héloise, p. 608. Cfr. Starobinski, /.-J. Rousseau, cit., pp. 165-167.

80 «È chiaro che si tratta di una forma inferiore di autoaffermazione,

giacché si realizza ancora con la complicità dell'orgoglio del padrone», Staro-

165

rivendicazioni politiche di Rousseau, che nel momento in cui rievoca questi avvenimenti ha maturato una maggiore consa-

pevolezza di sé, ma che a Torino non poteva certo credersi, in senso pieno, un intellettuale8!: così giovane, con alle spalle un'esperienza di incisore e vagabondo, non era ancora pron-

to a trasformare il suo sapere in un’arma politica. La sua unica ambizione, infinitamente lontana da tentazioni sovversive,

e più nutrita di miti cavallereschi che di rancore giacobino, era sempre quella formulata sulla strada per la Savoia: «Favorito del signore e della dama, amante della damigella, amico del fratello e protettore

dei vicini, sarei stato soddisfatto.

Non mi occorreva nulla di più». L'esperienza narrata da Rousseau descrive una forma di riconoscimento

che

corrisponde,

in

termini

storici,

alla

conformazione prerivoluzionaria del rapporto tra terzo stato e nobiltà e, in termini culturali, al genere letterario nascente

del romanzo di formazione. Potremmo definirlo il riconosci mento paternalistico, e la sua grammatica presenta alcuni tratti fondamentali: a) un forte squilibrio nelle posizioni di partenza degli attori, ossia tra colui che chiede riconoscimento e coloro che lo

dispensano. Quest'asimmetria condiziona alla base l’intero rapporto, configurandolo in senso inverso rispetto al Discours sur l’inégalité. Al posto di una relazione «orizzontale» che si converte in disuguaglianza di status, c'è ora una situazione gerarchica che lascia spazio a una maggiore vicinanza, ma che ancora non coincide con la conquista della parità (dalla condizione di servo Jean-Jacques non passa a quella di padrone, ma solo a quella di figlioccio-favorito). La dinamica interna del processo di riconoscimento, dunque, non assume i tratti binski, I/ senso della critica, cit., p. 241. Il ruolo del conte può essere dunque accostato a quello di Wolmar nella seconda parte della Nouvelle Héloise, 0, ancora più opportunamente, a quello del precettore dell’Eyzz/e, di cui condivide la funzione transitoria e finalizzata all'emancipazione del protagonista (il conte si offre di guidare Jean-Jacques verso l'ascesa sociale, mentre Wolmar

vuole che i suoi servitori restino per sempre tali). 5! «La mia educazione, iniziata sotto tanti aspetti, non era compiuta in nessuno», Confessions, p. 97.

166

riflessivi del conflitto mimetico, ma si traduce nell’ascesa unilaterale dell’inferiore che viene accolto all’interno del gruppo dominante. b) il prevalere di motivi didattici, e soprattutto la funzione iniziatica della «prova», ossia del momento performativo che deve attestare il valore della coscienza sotto esame e la legittimità della sua candidatura alla promozione®. È importante notare come i valori di cui la coscienza deve mostrarsi degna siano quelli aristocratici. L'allegoria della traduzione dello stemma araldico è chiara: il giovane servo si dimostra all’altezza dell’ethos feudale, ottiene riconoscimento conformandosi alla visione del mondo dei suoi «altri significativi».

c) la tendenza ad aggirare il conflitto sociale attraverso forme di alleanza interclassiste e non paritarie, come appunto l'esame, la protezione illuminata, la wzésalliance e il festeggiamento paternalistico. d) una tonalità emotiva caratterizzata da passioni «calde» e favorevolmente aperte all’altro, non aggressive né livide. Delle due facce dell’a7z0ur-propre prevale decisamente il lato positivo, e questo anche in virtù dell’asimmetria dei rapporti. Rousseau si rivolge ai suoi interlocutori da una posizione di consa-

pevole inferiorità, e in loro non vede ancora dei rivali minacciosi: perciò la conferma è vissuta come un'attestazione di fiducia, e il rapporto si compie all’insegna dell’amore, dell’approvazione, della soddisfazione, della generosità, dell’amicizia, della speranza, ecc.

Non ancora un vero e proprio «Karzpf», insomma, ma una pacifica «Bildung um Anerkennung», riassumibile nelle conclusioni di Michel Launay sulle idee politiche del giovane Rousseau: La soluzione «paternalistica», come diremmo oggi, o piuttosto la soluzione «filialistica», dato che Jean-Jacques è l’inferiore, è quella che si adatta al suo cuore e al suo spirito, e cui aspirerebbe per essere felice: l’immagine del Padre severo ma buono, che certamente 82 Sono

temi tipicamente settecenteschi

che, ammantati

di maggior

esoterismo, si ritrovano nei rituali massonici del Wilhelm Meister e del Flauto Magico.

167

rimpiazza la realtà dell’affetto e della guida paterni di cui è stato privato troppo presto, è sempre pronta ad affiancarsi alla figura del Principe o del Gentiluomo che prenderà definitivamente Jean-Jacques al suo servizio, appagando il desiderio di grandezza, successo, saggezza, devozione, dignità, che infiamma il giovane. Si rispettino la sua dignità e la sua fierezza: Jean-Jacques è pronto a rinunciare a tutto il resto, alla ricchezza come alla chimera dell’uguaglianza”.

Ecco perché il pranzo di Torino si conclude come una festa, celebrando l’adozione del parvenu nella classe dominante. L’idillio sentimentale, a dire il vero, dopo essere culminato

nella prima parola pronunciata da Mademoiselle de Breil, si esaurisce in un prevedibile fiasco”: resosi ridicolo per aver rovesciato l’acqua che lei gli ha chiesto di servirle, Jean-Jacques si sforzerà invano di ottenere nuovi segni di attenzione.

Con il ripristino della distanza originaria si spezza anche il gioco di sguardi, metafora di reciprocità e di riconoscimento compiuto. La topica amorosa — emblematica l’evocazione di Madame Basile — torna ad essere quella dell’omaggio feudale: Qui finisce il romanzo. E si noterà, come già con Madame Basile e come poi per tutto il seguito della mia vita, che non sono fortunato nella conclusione dei miei amori. [...] Usciva e rientrava senza guardarmi, e io osavo appena gettare uno sguardo su di lei.

La restaurazione amorosa, tuttavia, non comporta un’analoga restaurazione sociale. Dopo la prodezza della traduzione, lo status di Rousseau in casa Gouvon si innalza per davvero. Il vecchio conte ne prende atto, («si accorse finalmente della mia presenza»*°), onorandolo di un incontro a tu per tu. E incarica il figlio cadetto, abate e latinista, di occuparsi personal8 M. Launay, J.-J. Rousseau écrivain politique, 1712-1762 (1971), Genève-Paris, Slatkine, 1989, p. 114. 8 «Pochi minuti dopo, Mademoiselle de Breil mi pregò con voce tanto timida quanto affabile di versarle da bere. Ovviamente non la feci aspettare; ma avvicinandomi fui preso da un tale tremore che, riempito troppo il bicchiere, sparsi dell’acqua sul piatto e persino su di lei. Suo fratello mi chiese stupidamente perché tremavo tanto. La domanda non servì a calmarmi, e Mademoiselle de Breil arrossì fino al bianco degli occhi», Confessions, p. 96. 5 Ibid. 86 Ibid.

168

mente della sua istruzione..L’amicizia quasi cameratesca che nasce tra allievo e precettore («non mi trattò come un dome-

stico») suggella il sogno della société charmante: «Insomma, divenni in casa una specie di favorito, con grande gelosia degli altri domestici che, vedendomi onorato dalle lezioni del figlio del padrone, capivano che non sarei rimasto a lungo loro pari»®5. La distinzione che Jean-Jacques pretendeva anzitempo, vedendola ovunque quando ancora non c’era, trova finalmente una giustificazione oggettiva, e questo grazie all’esibi-

zione che gli ha permesso di conquistare, anzi di estorcere, la stima generale. Solo dopo aver dimostrato il proprio valore nell’agone pubblico, la coscienza può sentirsi sicura di sé: Tutto andava a meraviglia. Avevo ottenuto, praticamente estorto la stima di tutti. Le prove erano finite e in casa mi consideravano generalmente come un giovane di grandissime speranze, che non era al suo posto, ma che presto ci sarebbe arrivato”.

Superate brillantemente le prime «prove» del suo apprendistato, Jean-Jacques si avvia alla conquista del mondo.

87 Ibid., p.97. 83 Ibid., p. 98. 89 Ibid. 169

TERZA FIGURA

LA FILOSOFIA NEL SALON

La nostra personalità sociale è una creazione del pensiero altrui. Marcel Proust

IL PRANZO DI MADAME DE BESENVAL

Dopo aver rimandato da un giorno all’altro queste terribili corvées, mi feci coraggio e mi recai da Madame de Besenval. Mi accolse con bontà. Quando Madame de Broglie entrò nella stanza, sua

madre le disse: «Figlia mia, ecco il signor Rousseau, di cui ci ha parlato padre Castel». Madame de Broglie si complimentò per la mia opera e, portandomi al suo clavicembalo, mi mostrò che si era interessata ad essa. Vedendo alla pendola che era quasi l’una, feci il gesto di andarmene. Madame de Besenval mi disse: «Siete lontano dal vostro quartiere, restate a pranzo qui». Non mi feci pregare. Un

quarto d’ora più tardi, capii da alcune parole che il pranzo cui mi invitava era quello della servitù. Madame de Besenval era una bravissima donna, ma limitata e, troppo piena della sua illustre nobiltà polacca, non aveva idea dei riguardi dovuti al talento. Persino in quell'occasione mi giudicava dal contegno, piuttosto che dall’abbigliamento che, seppur semplicissimo, era assai decoroso e non rivelava affatto un uomo da mandare a pranzo coi servi. Da troppo tempo ne avevo dimenticato la strada per volerla riprendere. Senza far trasparire tutto il mio dispetto, dissi a Madame de Besenval che una piccola faccenda, ritornatami in mente, mi richiamava al mio quartiere, e cercai di andarmene. Madame de Broglie si avvicinò a sua madre, e

le sussurrò all'orecchio qualche parola che fece effetto. Madame de Besenval si alzò per trattenermi e mi disse: «Conto che ci farete l’onore di restare a pranzo con noi». Pensai che sarebbe stato sciocco far l’orgoglioso, e restai. D'altra parte, la bontà di Madame de Broglie mi aveva commosso e me la rendeva interessante. Fui molto lieto di pranzare con lei e sperai che, conoscendomi meglio, non avrebbe rimpianto di avermi procurato quest’onore. Si unì al pranzo anche il signor presidente de Lamoignon, grande amico di famiglia. Possedeva, come Madame de Broglie, quel piccolo gergo parigino, tutto parolette e piccole allusioni sottili: per il povero Jean-Jacques non c’era davvero modo di brillare. Ebbi il buon senso di non voler fare lo spiritoso a tutti i costi, e restai zitto. Magari fossi stato sempre così saggio! Non mi troverei nel baratro dove sono oggi. Ero dispiaciuto per la mia goffaggine, e per il fatto di non poter giustificare agli occhi di Madame de Broglie quanto aveva fatto in mio favore. Dopo pranzo, mi ricordai della mia risorsa abituale. Avevo in tasca una lettera in versi, scritta a Parisot durante il mio soggiorno a Lione. Era un pezzo non privo di calore: ne aggiunsi dell’al-

173

tro per declamarlo e li feci piangere tutti e tre. Fosse vanità o verità nelle mie interpretazioni, mi sembrò di scorgere gli sguardi di Madame de Broglie che dicevano a sua madre: «Ebbene, mamma, avevo torto a dirvi che quest'uomo era più adatto a pranzare con voi che con le vostre domestiche?». Fino a quel momento avevo avuto il cuore un po’ gonfio, ma compiuta così la mia vendetta fui soddisfatto!.

1. L'ospite ingrato

Sono passati quattordici anni dal pranzo di Torino, e la condizione sociale di Rousseau è notevolmente mutata. Il lacché vagabondo è oggi un piccolo musicista di provincia trentenne che, giunto a Parigi con la sua prima opera, qualche lettera di raccomandazione e il doveroso requisito di un «aspetto passabile», si accinge a tentare la strada che porta nella République des Lettres. Nel corso del diciottesimo secolo, e per tutto quello successivo, saranno migliaia gli aspiranti filosofi, poeti, musicisti, che come lui, nella speranza di calcare le or-

me di Voltaire e d’Alembert, abbandoneranno le certezze prosaiche della provincia per inseguire la gloria letteraria nella capitale. La stragrande maggioranza di loro si ritroverà sulla strada prima di aver messo piede in un solo salotto importante, condizione imprescindibile, all’epoca, di qualsiasi carriera letteraria. E finirà a rinfoltire la schiera di intellettuali falliti, frequentatori non di sa/0rs ma di bettole e cafés, di cui

Diderot ci ha lasciato il ritratto indimenticabile nel Nevex de Rameatò. ! Confessions, libro VII, pp. 289-290. Una prima versione di questo capitolo è stata pubblicata, con il titolo Una figura di riconoscimento nelle «Confessions» di Rousseau, su «Studi settecenteschi», 20, 2000, pp. 119-160. ? «Arrivai a Parigi nell'autunno del 1741, senza altre risorse che quindici luigi d’argento in contanti, la mia commedia Narciso e il mio progetto musicale, dunque con poco tempo da perdere per trarne profitto. Mi servii subito delle mie raccomandazioni. Un giovane che arrivi a Parigi con un aspetto passabile, e facendosi annunciare dal suo talento, è sempre certo di essere accolto. Così fu per me: il che mi fece piacere, senza però grandi risultati», Confessions, pp. 282-283. ? Sugli intellettuali settecenteschi, il loro reclutamento e le loro condizioni di vita: R. Darnton, The Literary Underground of the Old Regime, Cambridge (Mass.)-London, Harvard University Press, 1982; E. Di Rienzo, Intel lettuali e società in Francia dall’Ancien Régime al Secondo Impero, Roma,

174

Rispetto agli anni del vagabondaggio, la nuova condizione rappresenta un progresso nella carriera di Rousseau'; ma non la fine della sua marginalità, e nemmeno quella, ben più insopportabile, della dipendenza. Nel rievocare le avventure giovanili, le Confessions insisteranno sempre sulla straordinaria

sensazione di libertà che si accompagnava alla mancanza di uno specifico status. Vagando a piedi per la campagna savoiarda, o addormentandosi è la belle étoile su una panchina di Lione, il giovane Rousseau guardava fiducioso davanti a sé, inebriato dalla consapevolezza di non dovere niente a nessuno, di godere di un'autonomia così assoluta da compensare degnamente le difficoltà materiali: L'indipendenza che credevo di aver conquistato era il mio unico sentimento. Libero e padrone di me, credevo di poter fare tutto, arrivare a tutto: bastava solo che mi lanciassi per librarmi e volare in aria’.

Saranno i ripensamenti a posteriori della maturità a contornare di aura il modello dell’artigiano ginevrino, che conduce un’esistenza «oscura e semplice, ma uniforme e dolce», en-

tro i confini ristretti di una piccola città°. A sedici anni questa prospettiva era sembrata claustrofobica per la sua anima sognatrice, e quando sentì suonare il coprifuoco di Ginevra Jean-Jacques esitò solo un istante: prese la via dei campi, e

inseguì quello che si presentava come l’irresistibile «fascino dell’indipendenza»”. Una situazione per molti versi analoga si sarebbe presentata a Torino, soltanto un anno dopo questa Bulzoni, 1983; Roche, La cultura dei lumi, cit.; J-M. Goulemot e D. Oster, Gens de Lettres, écrivains et bobèmes. L'imaginatre littéraire 1630-1900, Paris,

Minerve, 1992. 4 Sull’esperienza sociale di Rousseau: B. Mély, J.-J. Rousseau. Un intellectuel en rupture, Paris, Minerve, 1985; R. Darnton, The Social! Life of Rousseau.

Anthropology and the Loss of Innocence (1985), trad. it. La vita sociale di Rousseau. L'antropologia e la perdita dell'innocenza, in Cassirer, Darnton e Starobinski, Tre letture di Rousseau, cit., pp. 191-204; B. Baczko, Job, mon ami. Promesses de bonheur et fatalité du mal (1997), trad. it. Giobbe amico mio. Pro-

messe di felicità e fatalità del male, Roma, Manifestolibri, 1999, pp. 165-184. > Confessions, p. 45. 6 Ibid., pp. 43-44. Ibid., p:99:

Ino

prima fuga romanzesca. Proprio nel momento in cui, circonda-

to dalla stima dei Gouvon e avviato a una brillante carriera diplomatica, sta per realizzare tutte le sue ambizioni, il giovane servo abbandona la casa dei protettori per rincorrere un amico dell’ultim’ora. Ancora una volta, un desiderio incontenibile di

libertà si impone su prospettive di vita più ragionevoli, ma pazienti e limitate. All’interno del multiforme racconto delle Cowfessions, questa nuova rottura trova una perfetta corrispondenza anche a livello formale, nella riconversione degli stereotipi letterari del Bi/dungsromzan — l'eroe in ascesa, i protettori, il passaggio iniziatico attraverso una serie di prove —, in quelli,

altrettanto significativi da un punto di vista simbolico, del romanzo picaresco di avventura®: Solo un pazzo avrebbe sacrificato una ricchezza del genere a progetti ambiziosi di lenta, difficile, incerta attuazione, e che, se anche un giorno si fossero realizzati, non valevano con tutto il loro splendore un quarto d’ora di vero piacere e di libertà nella giovinezza. [...] Con questo piano in mente decisi di partire, abbandonando senza rimpianti il mio protettore, il mio precettore, gli studi, le speranze e l’attesa di un successo quasi sicuro per cominciare una vita da vero vagabondo. Addio capitale, addio corte, ambizione, vanità, amore e tutte le grandi avventure la cui speranza mi aveva condotto là un anno prima. Parto con la mia fontanella e il mio amico Bacle, la borsa leggera ma il cuore saturo di gioia, pensando solo a godermi 8 Il conflitto tra queste due forme simboliche domina la prima parte delle Confessions, e illumina alcuni nodi cruciali della psicologia e della visione del mondo di Rousseau. Mi limiterò, qui, a rilevarne un’implicazione morale immediatamente connessa al nostro tema: l’opposizione tra la libertà del picaro, volutamente estraneo alla società che percorre, inadatto al lavoro e al progetto, legato all’attimo, incapace di fare vera esperienza, nel senso idealistico del termine; e la dipendenza progettante del protagonista del romanzo di formazione, che persegue la stima sociale tramite l’apprendistato nella classe dominante. L'opposizione tra questi due generi letterari rispecchia una contraddizione interiore di Rousseau, nel cui animo già convivono l'assenza di scopi del Fannullone di Eichendorff e le ambizioni di Julien Sorel, così come la lacerazione del suo pensiero, oscillante tra l’autarchia psicologica e il riconoscimento del ruolo delle passioni sociali come condizioni dell’autorealizzazione personale. Sul modello picaresco, tra gli altri, L. Picard, Le picaresque dans les six premiers livres des «Confessions», in Le Génie de la forme. Mélanges offerts à J. Mourot, Nancy, Presses Universitaires de Nancy, 1982, pp. 319-329. Sugli ideali del vagabondaggio e dell’ozio nella letteratura romantica come sviluppo ideale del Rousseau delle Réveries, Bo-

dei, Scomposizioni, cit., pp. 123-124.

176

la felicità ambulante cui avevo improvvisamente ridotto i miei brillanti progetti”.

Nel 1742, a Parigi, la stagione idilliaca della giovinezza, splendidamente riassunta in questo inno alla libertà, sembra

però essersi davvero conclusa. Il sogno di una felicità ambulante, lontana da progetti e protettori, si è infranto contro le difficoltà della vita reale. Dopo la lunga parentesi con Madame de Warens, e la breve esperienza di precettore a Lione, Rousseau recupera la vecchia ambizione di far fortuna nella capitale. E, spogliatosi in modo definitivo della maschera picara, si riaffaccia alle porte dell’alta società, nelle vesti di musicista e non più di lacché, ma ugualmente in cerca dell’aiuto indispensabile per farsi strada nel rz0nde. L'ambiente letterario parigino, alla metà del diciottesimo

secolo, si presentava come un’evoluzione decentrata e frantumata del mecenatismo di corte seicentesco. Nobili o ricchi finanzieri, dotati di velleità artistiche e dell’istinto del cacciatore

di talenti, introducevano in casa i giovani intellettuali, offrendo loro la possibilità di gettare le prime fondamenta di una carriera. Chi riusciva a farsi notare e soprattutto a piacere — il passepartout sociale dell’epoca — poteva vedersi schiudere poco a poco le porte dei giornali, delle accademie, delle associazioni onorifiche, se non addirittura conquistare — premio più ambi-

to, perché equivalente, di fatto, a una sistemazione a vita — la garanzia di una pensione pubblica. Chi invece non brillava 0, mancando delle conoscenze e degli appoggi giusti, non riusciva nemmeno

a penetrare nella buona società, si affannava

alla ricerca di qualche lavoretto temporaneo, come un discorso da comporre, una lettera su commissione. In questa specie di

limbo, era facile lasciarsi andare alla disperazione o all’apatia. Ce ne offre una comica testimonianza lo stesso Rousseau, che

all’alba dell’arrivo a Parigi già trascinava le sue giornate seduto in un café, assurdamente illuso che la sua fama di scacchista fosse un motivo sufficiente per farlo «ricercare»: Mi dicevo: «Chiunque eccelle in qualcosa è sempre sicuro di essere ricercato. Cerchiamo dunque di eccellere, non importa in che ? Confessions, pp. 100 e 101-102.

174

campo. Mi verranno a cercare, le occasioni si presenteranno, e il mio

merito farà il resto»!°.

Da questo aneddoto delle Confessions Robert Darnton ha tratto un’ipotesi suggestiva: Diderot potrebbe essersi ispirato all'amico per tracciare la figura del più famoso scacchista del secolo, a sua volta musicista con un passato da millantatore,

e critico appassionato delle ipocrisie sociali!!. Comunque sia, seppure in ritardo, la fine dell’attesa di Rousseau sarebbe arrivata, e non dagli scacchi ma dalla prestigiosa collaborazione all’Encyelopédie, propostagli proprio da Diderot, e destinata a segnare ufficialmente la sua ammissione nella République des Lettres. Ma per la maggior parte degli altri nipoti di Rameau, e soprattutto per quelli della generazione successiva, non

ci sarebbe stata salvezza. Alle soglie

della Rivoluzione, la crescita abnorme del proletariato intellettuale sarebbe diventata un problema pubblico, fonte di risentimento, contestazione clandestina e disordine sociale. E, sempre secondo Darnton, avrebbe contribuito ad accelerare

la crisi dell’ Ancien Régime, alimentando le future rivendicazioni giacobine!?. Un'importante conseguenza del mecenatismo settecentesco, decisiva per comprendere la posizione storica e sociale di Rousseau, fu la progressiva assimilazione, da parte dei letterati borghesi, dei valori e dello stile di vita dell’aristocrazia mondana. Nell’ambiente raffinato dei salotti, prima ancora del talento letterario, il requisito indispensabile di una buona carriera divenne il possesso del savozr-vivre distintivo dei frequentatori dell’alta società. L'intellettuale plebeo poteva compensare l’umiltà delle sue origini dimostrando, di fatto, di sapersi com-

portare come un nobile: rispettando le regole della cortesia e delle buone maniere, corteggiando galantemente la padrona di casa, esibendo l’amore per il lusso e per i divertimenti raffinati. Di questa progressiva trasformazione dell’homzze de lettres in honnéte bomme, fenomeno

che gli storici e i sociologi della

cultura definiscono come una delle più importanti chiavi di 10 Confessions, p. 288. !! Darnton, L'antropologia e la perdita dell'innocenza, cit., p. 198. 1° Id., The Literary Underground of the Old Regime, cit.

178

comprensione dell’Illuminismo!, Voltaire fu il campione esemplare. Ricordiamo il compiaciuto autoritratto che ci ha lasciato nel Mondain: Amo il lusso e la raffinatezza, Tutti i piaceri, le arti di ogni specie, Il decoro, il gusto, gli ornamenti: ogni bonnéte homme ha tali sentimenti!4.

Voltaire, che negli ultimi anni della sua vita cercò addirittura di acquistare un titolo nobiliare, descriveva come una conquista storica il fatto che i grandi borzzes de lettres si fossero integrati nella classe dominante, assumendone in prima persona i valori e lo stile di vita («Lo spirito del secolo li ha resi uomini di mondo quanto uomini di studio: e in questo sono assai superiori a quelli dei secoli precedenti»!). Quanto però restasse incerto lo statuto sociale dei piccoli intellettuali, quelli non ancora integrati e verosimilmente destinati a non esserlo mai, lo mostra con grande efficacia la disavventura narrata nel settimo libro delle Confessions.

Rousseau si presenta a casa di Madame de Besenval qualche tempo dopo l’arrivo in città, reduce da un fallimento presso l’Académie des Sciences, che ha accolto il suo progetto di notazione musicale con molte lodi, ma senza alcun ricono-

scimento economico!?. Un musicista cui lo avevano raccomandato gli amici lionesi, il gesuita Castel, lo ha scosso dalla «letargia» scacchistica seguita a questo primo insuccesso, con-

sigliandogli di tentare una strada più lenta ma più sicura: 13 Cfr. Roche, La cultura dei lumi, cit. Sull’ideale morale e sociale dell’bonnéteté: C. Ossola, Dal «Cortegiano» all’«Uomo di mondo», Torino,

Einaudi, 1987; E. Bury, Littérature et politesse. L'invention de l’honnéte bomme, 1580-1750, Paris, Puf, 1996; e, da un punto di vista storico-letterario, il classico di E. Auerbach, La Cour et la Ville (1950), trad. it. in Da

Montaigne a Proust. Ricerche sulla storia della cultura francese, Milano, Garzanti, 1973, pp. 28-85. Sui salotti settecenteschi, per uno sguardo d'insieme, D. Goodman, Enlightenment Salons. The Convergence of Female and Philosophic Ambitions, in «Eighteenth-Century Studies», 22, 1989,

pp. 329-350.

14 Voltaire, Le Mondain, vv. 9-12, in Morize, L'Apologie du Luxe au XVIII siècle, cit., p. 133. 15 Voltaire, «Gens de Lettres», in Encyclopédie, VII, p. 599.

16 Cfr. Confessions, pp. 283-284.

179

quella che non punta direttamente ai vertici delle accademie, ma che vi arriva attraverso i circoli delle gran dame, senza le quali — precisa Castel con parole premonitrici — «a Parigi non si fa nulla»!”. Egli si offre, in particolare, di fare da mediatore presso due relazioni importanti: la prima è Madame Dupin, destinata ad avere un ruolo di primo piano nella biografia di Rousseau. La seconda è Madame de Besenval, un’illustre baronessa polacca le cui simpatie per Ginevra, unitamente alla buona fama intellettuale della figlia, sembrerebbero offrire ottime garanzie di successo. Ricevuto il consiglio, Rousseau esi-

ta ancora qualche tempo; alla fine, preso il coraggio a due mani, decide di bussare alla porta di palazzo Besenval. L'incontro comincia in modo più che promettente: la nobildonna è affabile, accoglie con cortesia lo sconosciuto musicista e lo presenta alla figlia, Madame de Broglie, con allusioni apparentemente lusinghiere. Ai complimenti segue un invito a pranzo, che Rousseau accetta senza nascondere il proprio entusiasmo, eccitato da tanta rapidità, ma allo stesso tempo convinto di star mietendo un riconoscimento dovuto («Un giovane che si faccia annunciare dal suo talento è sempre certo di essere accolto», si era detto entrando a Parigi, ignaro di ciò che lo aspettava!8). Ed ecco l’orrore, l’intuizione mortificante che lo catapulta di nuovo al di qua della barriera simbolica superata con tanta difficoltà: «capii da alcune parole che 7/ pranzo cui mi invitava era quello della servità (celui de son Of fice)». Non è dunque cambiato nulla dal tempo in cui, dopo aver assistito silenziosamente al pasto dei padroni, in attesa di cambiare una forchetta o un piatto, il giovane lacché raggiungeva gli altri domestici nelle cucine: agli occhi di una gran dama parigina, il luogo naturale di Rousseau è sempre quello di un servo. La gaffe — che sull’ambiguo statuto dei letterati settecenteschi dice più di un'inchiesta sociologica — non ha però conseguenze irreparabili. Se a Torino il suo capitale culturale si riduceva a un’infarinatura di latino, alla buona volontà e alle indeterminate promesse di una fisionomia intelligente, Rousli Ibid p3289 !8 Cfr, la nota 2.

180

seau è giunto a Parigi con una più matura consapevolezza di sé: ha letto e meditato i classici, formandosi quel bagaglio di nozioni filosofiche che, con motivata fierezza, definirà il proprio «magazzino di idee»; ha esibito queste conoscenze come precettore a casa Mably, esperienza negativa dal punto di vista pedagogico, ma che lo ha consacrato pubblicamente come intellettuale; si è impadronito dei princìpi di una specifica arte, la musica, al punto da potersi proporre come candidato credibile a un'istituzione scientifica, e ha infine composto, con le sue sole forze, un’intera commedia. Tra tutto questo e l’office si è ormai creata una distanza incolmabile. E Rousseau dimostra di saperlo molto bene, trattenendo a mala pena la rabbia che prova nei confronti di Madame de Besenval: «Da troppo tempo ne avevo dimenticato la strada per volerla riprendere. Senza far trasparire tutto il mio dispetto, [...] cercai

di andarmene». Il servo ha gettato la livrea e, con l’intransigenza che distinguerà i suoi futuri gesti di diniego, rifiuta di sottomettersi a un’autorità che non ritiene più scontata.

Ed è proprio in quest’atteggiamento critico, rivendicativo, che consiste la prima novità importante dell’episodio. Insieme alla consapevolezza del proprio valore, della fatica e del tempo richiesti dall’acquisizione del sapere, Rousseau comincia a maturare un sospetto delegittimante nei confronti dell’aristocrazia del sangue, non più circondata da quell’aura che, a Torino, gli era costata gli ammonimenti severi dell'abate Gaime. E bene ricordare quali fossero state le parole del futuro modello del Vicario savoiardo che, appellandosi ai princìpi della morale cristiana, aveva cercato di sfatare l'equazione tra eroismo e nobiltà accolta dall’allievo: «Smorzò molto la mia ammirazione per la grandeur dimostrandomi che coloro che dominano gli altri non sono né più saggi né più felici». A tanti anni di distanza, è ancora ai Grands che Rousseau continua a chiedere

aiuto e protezione, spinto non solo dalle necessità oggettive, ma dal fascino persistente che riconosce nelle virtù aristocratiche. Tuttavia, tra il sistema di valori del feudalesimo declinante e gli ideali borghesi del merito e del talento, di cui si sente pubblicamente portatore, comincia a percepirsi un con-

flitto più nitido. Accanto all’ammirazione sincera per una classe più eroica e romanzesca

della propria, nell’atteggia181

mento di Rousseau sta nascendo una prima forma di diffidenza: «Madame de Besenval era una bravissima donna, ma limi-

tata e, troppo piena della sua illustre nobiltà polacca, non aveva idea dei riguardi dovuti al talento». Non è molto lontano il disprezzo che avvelenerà lo sguardo di Julien Sorel. Esibendosi davanti agli sguardi attoniti dei convitati torinesi, Rousseau non aveva lanciato una sfida di classe. La sua

piccola vendetta di amor proprio era durata un istante, e non si era mescolata ad alcun consistente rancore sociale: la sola ambizione del giovane lacché, ciecamente individualistica e del tutto priva di consapevolezza politica, era quella di venire «adottato» nel seno della famiglia aristocratica, alla quale non contestava un’oggettiva superiorità di rango, cultura e prestigio. Il «dispetto» con cui ora, invece, reagisce all’offesa, decidendo di abbandonare all’istante la casa che lo oltraggia, testimonia che le posizioni in campo sono significativamente mu-

tate. Jean-Jacques si trova ancora in uno stato subordinato, nella condizione dell’inferiore che chiede e che dipende; ma ha acquisito ormai coscienza dei propri diritti (les égards qu'on doit aux talens), e intuisce il potenziale emancipativo del lavoro intellettuale. I nobili, dal canto loro, cominciano a tradire sintomi di debolezza, dimostrandosi inadeguati a ricoprire degnamente l’antico primato sociale!?. Con il fastidio che Rousseau prova nei confronti della loro alterigia e della loro ignoranza, si intravedono le prime crepe delle fondamenta dell’Ancien Régime. Quando troverà più solide giustificazioni filosofiche, questo fastidio maturerà in denuncia politica e in un vero odio di classe:

!? Ignorante, stupido, testardo, ridicolo, sono alcuni degli attributi con cui Rousseau rievoca il conte de Montaigu, incapace persino di svolgere il semplice lavoro d’ambasciata: «Si era trovato nei pasticci fino al mio arrivo,

non sapendo né dettare, né scrivere in maniera leggibile. Gli ero assai utile [...J», Confessions, p. 297. L'episodio, che segue di circa un anno la visita a Madame de Besenval, ne replica i contenuti e la struttura drammatica: JeanJacques, nella veste di intellettuale consapevole dei propri meriti, si scontra con un nobile tronfio e ignorante, che gli nega gli onori del suo status. Ho già ricordato come il casus belli sia il rifiuto di un invito a pranzo; anche l’esito provvisorio del conflitto con la baronessa si riproduce nel finale dell’avventura: «[...] mi congedai con poche parole [...]. Discesi le scale di corsa e uscii dal palazzo per non rimettervi più piede», ibid., p. 312.

182

Non le nascondo, signore, che provo una violenta avversione verso le classi che dominano le altre [...]. Odio i grandi, odio la loro condizione sociale, la loro durezza, i loro pregiudizi, la loro piccineria e tutti i loro vizi, e li odierei ancora di più se li disprezzassi di meno?°.

Dichiarazioni come questa — che, vale la pena ricordarlo, era indirizzata a Malesherbes, uno dei più grandi aristocratici di Francia — diverranno proverbiali negli ultimi anni del secolo. Su di esse, come sulle più celebri pagine del Discours sur l'inégalité e del Contrat social, si fonderà il culto rivoluzionario del primo intellettuale giacobino, fiero delle proprie origini popolari, incapace di compromessi. Eppure, nella vita

reale, Rousseau non ha mai dimostrato un’autentica coscienza repubblicana. La sua difesa coerente dell’egualitarismo è rimasta confinata alle sole opere teoriche, mentre l’uomo ha conservato fino all'ultimo un atteggiamento ambivalente nei confronti della grande nobiltà. La stessa persona che rifiutava gli inviti del barone d’Holbach, rinfacciandogli l’eccessiva ricchezza, che si vantava di trattare un duca sur le pied d’égalité e di preferire ai pranzi al castello di Montmorency il pasto frugale con la famiglia di un muratore, soffriva di un persistente complesso di inferiorità sociale, una forma di snobismo inconscio, come

sostiene convincentemente

Lester Crocker?!.

Alcuni passi delle Confessions narrano assurde goffaggini, come il cambiamento del nome del cane Duc in Turc, che co-

sterà l'ennesimo trauma di umiliazione pubblica (e oltretutto di fronte a una tavolata di nobili), o quella della copia della Nouvelle Héloise, maldestramente purgata per non offendere Madame de Pompadour?. Altri episodi, invece, sono simboli20 Lettres à Malesherbes, p. 1145. 21 Confessions, pp. 371, 519-529, 527-528. Cfr. Crocker, ].-]. Rousseau, cit., vol. I (The Quest), pp. 150-151 e vol. Il (The Profetic Voice), pp. 31 ss. 2 «[...] Per una stupida pusillanimità avevo cambiato il suo nome in Turc, come se non ci fossero un sacco di cani che si chiamano Marquis senza che nessun marchese se ne offenda. Il marchese de Villeroy, al corrente del cambiamento, insistette talmente tanto che fui costretto a raccontare davanti

all’intera tavolata quello che avevo fatto. L'aspetto offensivo della storia non era l’avergli dato il nome Duc, ma l’averglielo tolto. Il peggio fu che erano presenti molti duchi», Confessions, pp. 596-557. L’aneddoto di Madame de Pompadour compare invece nel decimo libro: prima di inviarle una copia

183

camente più suggestivi, come questo che mima la cerimonia

feudale dell’asservimento: [...] una volta dissi a Monsieur de Luxembourg, abbracciandolo: ah, signor maresciallo, prima di conoscervi odiavo i potenti, e li odio ancora di più da quando mi avete fatto capire così bene quanto sarebbe facile per loro farsi adorare”.

Se nei minuti passati ai piedi di Madame Basile si poteva scorgere una singolare interpretazione dei princìpi dell’amor cortese, inequivocabile è il significato dello stesso gesto replicato immaginariamente nei confronti di un pari di Francia, che si è degnato di riaccompagnare a casa un povero borghese: «Li seguivo piangendo come un bambino, e morendo dal desiderio di baciare le orme di quel buon maresciallo»?4. Rousseau adora letteralmente i suoi protettori. Ed è stupito e commosso dell’attenzione di cui lo onorano — non mancherà di precisare in più occasioni — «persone di tale prestigio», «di tal rango»??. All’idea che un duca venga a fare visita a un povero Jean-Jacques, sembra dimenticare ogni proposito di fierezza, di rivalsa aggressiva, persino la coscienza autonoma del proprio valore: «Ogni giorno della mia vita mi dirò: ricordati che il maresciallo duca de Luxembourg ti ha onorato della sua visita, e si è seduto sulla tua sedia di paglia»?°. Il fiero repubblicano accetta la concessione paternalistica regredendo a un ruolo infantile. Un autentico giacobino come Julien Sorel, nato soltanto troppo tardi per sfogare il suo risentimento con la ghigliottina, non mancherà di rimarcare queste piccole bassezze, rimproverando all'autore del Contra? social, per tanti versi amato e ammirato, di aver frequentato l’alta società con l’animo d’un /aquaîs parvenu: del romanzo, Rousseau aveva corretto la frase «la moglie di un carbonaio è più degna di rispetto dell'amante di un re» con il termine prince. La favorita, che lesse una versione ulteriormente purgata da Malesherbes, si accorse delle correzioni, e le trovò più offensive del testo originario, ;514., p. 512. SHIA NDIOZII

24 Ibid., p. 526.

2 Ibid., pp. 522 e 527. °° Lettera al maresciallo de Luxembourg, 30 aprile 1759, in CC, VI, p. 84. Sulle circostanze della corrispondenza, si veda più avanti.

184

Jean-Jacques Rousseau [...] per me non è che uno sciocco, quando pretende di giudicare il gran mondo: non riusciva a capirlo e lo frequentava con l’animo di un lacché arrivato. [...] Sostiene la repubblica e il rovesciamento delle dignità monarchiche, e poi scoppia di gioia se un duca cambia l'itinerario della sua passeggiata del dopo pranzo per accompagnare uno dei suoi amici?7.

Stendhal intuisce la verità: non è al popolo, protagonista morale del progetto di rigenerazione della società, ma a quella stessa aristocrazia piccina e viziosa, satireggiata in tutte le sue

opere, che Rousseau chiede rispetto e protezione. Le più insistenti rassicurazioni autobiografiche? non riescono a nascondere quali siano i destinatari ideali della sua richiesta di riconoscimento: per il figlio di un orologiaio, essere trattato familiarmente da un duca equivale a considerarsi a sua volta come un Grand. Significa innalzarsi, appartenere — così nota intelligentemente sempre Crocker — a quel mondo che la sua immaginazione romanzesca di bambino associava alla magia e all’eroismo, e che la sua coscienza adulta continua in qualche modo a vagheggiare??. Crocker però si sbaglia nell’interpretare queste oscillazioni interiori come sintomi della «sindrome totalitaria» che costituisce l'oggetto della sua personale ossessione storiografica (come per molta ricerca di lingua inglese)?°, Il fatto che Rousseau ab2? Rouge et Noir, II, 8, p. 488. Stendhal si riferisce proprio allo stesso episodio del libro decimo delle Confessions che ha suscitato in Rousseau il desiderio di «baciare le orme» del maresciallo de Luxembourg. 28 «[...] Chiedo a tutti quelli che mi frequentavano all’epoca, se si sono mai accorti che questo splendore mi abbia abbagliato anche un solo istante, che il vapore di questi incensi mi abbia dato alla testa. Se mi hanno mai visto meno coerente nel mio atteggiamento, meno semplice nei modi, meno familiare col popolo [...]. Se il cuore mi attirava al castello di Montmorency per via dell’affetto sincero che portavo ai signori, mi riportava ugualmente a casa mia, a gustare le dolcezze di questa vita uniforme e semplice senza cui non posso essere felice», Confessions, p. 527. Si vedano anche la quarta delle Leztres à Malesherbes, pp. 1142-1147, e la corrispondenza della primavera 1759. 29 Crocker, The Quest, cit., pp. 150-151. Simile la tesi di Maurice Cranston, secondo cui Rousseau, percependo un’affinità tra i valori feudali e la propria filosofia, esentò l'aristocrazia del sangue dal disprezzo che riservava ai ricchi esponenti della borghesia finanziaria. Cfr. M. Cranston, The Noble Savage. ].-]. Rousseau 1754-1762, London, Allen Lane-The Penguin Press, 1991, p. 160 e, in generale, tutto il cap. VI. 30 Secondo Crocker, dietro alla dottrina democratica del Contrat social si

185

bia nutrito un’attrazione snobistica per le classi alte, e occasionalmente tradito disprezzo nei confronti del popolo, non getta alcun sospetto sulla sincerità della sua fede democratica, almeno quanto, a dispetto di ciò che sperava Voltaire, l’abbandono dei suoi cinque figli all’orfanotrofio non pregiudica il valore pedagogico dell’Ézzile. Tra la vita e l’opera esiste sempre uno iato, e una somma di episodi biografici non esaurirà mai il contenuto di una dottrina né tantomeno il suo potenziale ermeneutico di senso. Per l’interprete privo di pregiudizi ideologici, le incoerenze rivelate dalle Corfessions non forniscono il pretesto per liquidare l’onestà di opere come il secondo Discours e il Contrat social, ma stimoli per un'indagine più approfondita, che si interroghi sulle loro condizioni storiche e sociali, oltre che su quelle banalmente psicologiche. L'ambivalenza di Rousseau nei confronti della nobiltà, infatti, non si esauri-

sce nei vapori della patologia mentale, ma trova solide ragioni nel suo status, nella sua esperienza sofferta dell’inferiorità, nel-

la diversa percezione della classe dominante che gli si è rivelata nelle varie fasi della vita. Durante l’infanzia e l’adolescenza, questa classe si era mostrata come fonte di tutti i valori, dell’e-

roismo, della giustizia, della virtù. Lungi dall’essere sintomo di un'intuizione del mondo cripticamente elitaria, questo pregiudizio assecondava il senso comune dell’epoca, rispondendo alle esigenze di legittimazione di un ordine oggettivamzente fondato sul dominio aristocratico, e alla morale diffusa dalla cultura,

che proporzionava la scala dei meriti morali a quelli del rango. Rousseau riconosceva nella nobiltà la fonte di ogni prestigio nasconderebbe un progetto totalitario di trasformazione della società, in cui la «sovranità popolare» sarebbe solo una formula retorica, mentre il potere resterebbe in mano all’élite intellettuale. Cfr. Rousseau’ «Social Contract». An Interpretative Essay (1968), trad. it. Il Contratto Sociale di Rousseau. Saggio interpretativo, Torino, Società Editrice Internazionale, 1971; e Id., Rousseau and the Common People, in Essays on Diderot and the Enlightenment in Honor of Otis Fellow, a cura di J. Pappas, Genève, Droz, 1974, pp. 89-111. E una tesi viziata dalla tendenza, tipica della storiografia liberale, a psicologizzare i conflitti politico-sociali: l'ossessione totalitaria che Crocker riconosce in Rousseau, infatti, è la stessa «vena paranoica» che gli attribuisce Jacob Talmon in The Origins of the Totalitarian Democracy (1952), trad. it. Le origini della democrazia totalitaria, Bologna, Il Mulino, 2000, in particolare pp. 57-60. Una tesi analoga in R. Galliani, Rousseau, le luxe et l’idéologie nobiliatre, «SV», 268, 1989.

186

perché tutto intorno a lui, dal mondo reale ai libri che leggeva, gli ricordava che i nobili sono la parte migliore della società. Con gli anni, il suo atteggiamento diverrà più sfumato e complesso. Al fascino della mitologia feudale (non dimentichiamo che il rimpianto per un passato più eroico asseconda la filosofia della storia del secondo Discours) si sovrappone la scoperta umanistica della dignità della vita comune. Più ancora della predica dell’abate Gaime - il cui significato si illuminerà pienamente al momento della composizione dell’ Éyzi/e — saranno le esperienze vissute della disuguaglianza e dell’ingiustizia a giustificare il principio che la natura umana sia identica in ogni forma: «L'uomo è lo stesso in tutte le condizioni sociali: se questo è vero, le classi più numerose meritano maggiore rispetto»?!. Alla scoperta morale del popolo contribuisce poi il malessere per le frustrazioni imposte dal sistema mecenatesco. L’ambivalenza della protezione signorile, che trasforma il dominio in dono, rappresenterà sempre un problema per Rousseau, dal giorno dei primi approcci mondani fino agli anni del successo e infine dell’esilio. Combattuto tra l’innato desiderio di autonomia e gli imperativi delle necessità materiali, il suo atteggiamento è rimasto fino all'ultimo contraddittorio, alternando rifiuti orgogliosi a imploranti richieste di aiuto. Indubbiamente, in questo dramma la psicologia ha giocato un ruolo di primo piano, a cominciare dall’inclinazione masochistica che è stata rilevata da molti interpreti??. Ma il disagio con cui Rousseau visse il ruolo di protégé non ha le sue ragioni ultime nella psicologia, e va ricondotto, piuttosto, alle difficoltà 0ggettive in cui si dibattevano gli intellettuali poveri della sua generazione, nati troppo presto per godere di proventi stabili

dai diritti d’autore, e costretti a ricevere il premio del loro lavoro dalla generosità capricciosa di ricchi benefattori”. Nella 31 Émile, p. 509. , 32 Cfr. soprattutto P.-P. Clément, /.-J. Rousseau. De l'Eros coupable à l'éros glorieux (1976), Genève, Slatkine, 1998, cap. IX. 3 Il mutamento di politica del governo francese a favore dei diritti d’autore — vero punto di svolta per lo statuto sociale e l'autonomia degli intellettuali moderni — data soltanto agli anni Settanta del secolo. Cfr. Di Rienzo, Intellettuali e società in Francia, cit., pp. 33-70.

187

quarta delle lettere a Malesherbes, scritta nel periodo di bilancio esistenziale che precedette la condanna dell’Emzile, Rousseau si è mostrato pienamente consapevole di questo

conflitto. Anticipando una possibile critica del suo interlocutore — critica che, in realtà, è la sua cattiva coscienza a solle-

vare — egli cerca di fare il punto dei propri rapporti con i signori de Luxembourg, di cui è diventato occasionalmente vi-

cino di casa. Dopo avere accettato da parte loro ogni forma di beneficio, ha deciso di rifiutarne l’offerta di ospitalità permanente, persuaso che una vicinanza più stretta non porterebbe un mutamento sostanziale nei rapporti: Insomma, anche se avessimo abitato più vicini, la distanza tra le nostre condizioni sarebbe rimasta sempre la stessa, e ai nostri rapporti sarebbe sempre mancata quell’intimità deliziosa che rappresenta il maggior fascino delle piccole comunità. Now sarei stato né l'amico né il domestico del signor maresciallo di Luxembourg: sarei stato il suo ospite?4. Non un servo, dunque, ma nemmeno

un amico, cioè un

pari: è la figura intermedia dell’béfe, che non può reclamare come un diritto ciò che riceve per compiacenza, ed è costantemente sottoposto al ricatto implicito della gratitudine, la metafora che meglio esprime la sua condizione di favorito. Rifiutando di trasferirsi al castello di Montmorency, Rousseau è convinto di salvaguardare la propria immagine pubblica e l'indipendenza necessaria per assolvere dignitosamente il compito di intellettuale: «Non cercate di essere il mio protettore; da parte mia, vi prometto di non essere il vostro panegirista»”?. Come vedremo, altre scelte coraggiose ed eclatanti si iscriveranno nello stesso tentativo di preservarsi dall’onta della scrittura sud conditione, di restare fedele al mito dell’indipendenza. Ma l’eroismo di questi sforzi non servirà a cancellare gli ostacoli di una situazione sociale senza via d’uscita, di 34 Lettres à Malesherbes, p. 1146. Sul dramma di coscienza dall’offerta dei signori di Luxembourg, si vedano l’intera serie di maggio 1759 (CC, VI), e le note di Gagnebin e Raymond ai brani denti delle Confessions, p. 1526. ? Lettera al maresciallo de Luxembourg del 27 maggio 1759, 108.

188

scatenato lettere del corrispon-

CC, VI, p.

cui sono testimoni i sensi di colpa, le oscillazioni, le autocensure, i comportamenti in apparenza insensati o patolo-

gici — come il desiderio di baciare le orme di un duca — che costellano le pagine della sua biografia. Soprattutto, non era copiando musica per qualche soldo alla pagina che Rousseau poteva risolvere i problemi della sua sopravvivenza. Non appena si presentarono nuove difficoltà, l’intellettuale perseguitato fu costretto ad appoggiarsi agli stessi grandi aristocratici, appassionati di cultura e proprietari di splendide dimore di campagna, che lo avevano sempre accolto con sollecitudine. Dopo aver abitato la casa di Madame de Warens, l’Ermitage di Madame d’Épinay, il torrione dei signori de Luxembourg, il castello del principe de Conti, alla fine Rousseau è morto nella tenuta del marchese de Girardin,

in quella stessa condizione di héte in cui aveva così spesso vissuto. Non è stata una semplice ironia della sorte che il processo di canonizzazione, destinato a fare della sua vita uno dei più potenti miti rivoluzionari, abbia preso inizio proprio nella dépendance di un castello aristocratico?°. Il destino di Rousseau non è un paradosso, ma un simbolo, che richiama alla

mente quanto Franco Fortini ha scritto sulla condizione dell’intellettuale sovversivo nella società capitalistica: critico dello stesso sistema che gli permette di esistere e che lo mantiene, non è altro, alla fine, che un ospite ingrato”.

36 Sulle circostanze della morte e della canonizzazione postuma, Baczko,

Giobbe, amico mio, cit., pp. 185-215. Cfr. anche A. Ridehalg, Preromantic Attitudes and the Birth of a Legend: French Pilgrimages to Ermenonvwille, 1778-1789, in «SV», 215, 1982, pp. 231-352; e il volume Rousseau visité, Rousseau visiteur: les dernières années, «AR», 42, 1999. Baczko rileva come, contrariamente alla leggenda, Rousseau non sia morto davvero povero: una piccola rendita vitalizia e le entrate del lavoro di copista gli garantirono fino all’ultimo uno stile di vita molto modesto. Questo non modifica, tuttavia, l’essenza della sua condizione spirituale: se non è stata l’indigenza, sono sta-

te comunque altre necessità, psicologiche, sociali e non ultime quelle causate dalla persecuzione politica, a spingerlo a cercare protezione presso i grandi aristocratici. Emblematico, da questo punto di vista, il sofferto rapporto con il principe de Conti, ricostruito da Jean Fabre: Rousseau et le prince de Conti, in Lumières et Romantisme. Énergie et nostalgie de Rousseau è Mickiewicz (1963), Paris, Klincksieck, 1980, pp. 101-135. 37 E Fortini, L'ospite ingrato, Genova, Marietti, 1985.

189

2. «Ridicule»

Ma torniamo a Parigi. La visita a palazzo Besenval sembrava destinata a chiudersi male se, come già a Torino, una giova-

ne donna non fosse sopravvenuta nel ruolo di provvidenziale mediatrice. Madame de Broglie, che immaginiamo più intelligente e colta della madre (è stata lei a mostrare interesse per il lavoro di Rousseau e ad essersi profusa in complimenti), si accorge dell'incidente e tenta di rimediarvi sussurrandole qualcosa all'orecchio. Il rimedio è efficace: «Conto che ci farete l’onore di restare a pranzo cor n03», si è corretta la baronessa. E Jean-Jacques, vedendosi riconosciuto, dimentica all’istante tutto il suo risentimento: «Pensai che sarebbe stato sciocco far l’orgoglioso, e restat». L'episodio dunque prende una nuova piega, che ricorda per atmosfera l’apprendistato di Torino: la coscienza ambiziosa attende con fiducia la «prova» che le è stata concessa per attestare pubblicamente il suo valore. Insieme al Lertzotiv della gloria, risuona flebilmente anche quello della conquista amorosa: «D'altra parte, la bontà di Madame de Broglie mi aveva commosso e me la rendeva interessante. Fui molto lieto di pranzare con lei e sperai che, conoscendomi meglio, non avrebbe rimpianto di avermi procurato questo

onore». Al pranzo si unisce un aristocratico amico di famiglia, e la conversazione, nella quale il letterato sperava verosimilmente di segnalarsi, prende una piega imprevista, si trasforma nel tipico chiacchiericcio esoterico dei circoli snob, — «quel piccolo gergo parigino, tutto parolette e piccole allusioni sottili» —, che per un provinciale suona oscuro come una lingua stranie-

ra. Jean-Jacques non capisce di cosa e di chi si stia parlando, si sente a disagio, escluso. Con una decisione definita a posteriori piena di buon senso, decide di tacere per non umiliarsi ulteriormente: «Restai zitto. Magari fossi stato sempre così saggio! Non mi troverei nel baratro dove sono oggi». Ma per la sua coscienza così assetata di visibilità, questa saggia scelta equivale a un suicidio: «Per il povero Jean-Jacques non c’era

davvero modo di brillare ...»?8. ras | ? Ancora una volta, la tragedia del misconoscimento si esprime con me-

190

Con questa scena di mortificazione silenziosa si inaugura, nella storia interiore di Rousseau, una nuova fase della lotta per il riconoscimento. D'ora in poi, nella rappresentazione delle Confessions, il conflitto sociale perderà le sue tinte più nette: non sarà più segnato dalla violenza esplicita della sottomissione servile, ma da quella obliqua e sottile dell’esclusione simbolica. Accolto cortesemente nei salotti più eleganti, Jean-Jacques continuerà a soffrire della propria inferiorità, marchiata non più dall’obbligo della livrea, ma dalla goffaggine??. J'étois desolé de ma lourdise, commenta significativa mente, rievocando i dettagli di quel giorno lontano: il termine lourdise, che ha conosciuto, non a caso, la sua più grande fortuna all’epoca del Re Sole, non indica un peccato soggettivo, una mancanza di coraggio o di disinvoltura che ferisce solo l’autorappresentazione di se stessi, ma una trasgressione oggettiva delle regole dell’etichetta, che governano con l’inflessibilità di leggi le relazioni tra i membri della buona società. Non parlando a tono durante la conversazione, Rousseau si è mostrato inadeguato alle convenienze mondane, esattamente come, pochi giorni prima, si era reso ridicolo a

tavola con Madame de Boze: Quando mi presentava un piatto, avvicinavo la forchetta per pescare modestamente un bocconcino di quanto lei mi offriva; e così tafore di percezione: Rousseau, escluso dal circolo aristocratico, non «parla»

e non «brilla», dunque non esiste. Si notino le corrispondenze con la prima parte dell’episodio torinese. 3? L’apprendistato mondano di Rousseau fu breve e fallimentare. Durante gli anni di convivenza, Madame de Warens aveva cercato di impartirgli i rudimenti dell’honnéteté, con lezioni di danza, di scherma e di buone maniere; qualche anno dopo, a Lione, anche Madame de Mably si impegnò inutilmente nell’impresa. (Cfr. seconda figura, nota 39). Come testimoniano il progetto di educazione per i bambini Mably e la lettera a Parisot, Rousseau era consapevole dell'importanza sociale e culturale della bienséance mondana. Ma sia per inettitudine spontanea, sia per un comprensibile complesso d’inferiorità, non riuscì mai ad acquisirla. Sulle cause e le conseguenze di questo suo dramma, oltre alle considerazioni seguenti, si veda il bel saggio di B. Munteano, Solitude et contradictions de J.-]. Rousseau, Paris, Nizet, 1975, pp. 31-36. 40 Secondo il Dictionnaire de l’Académie frangaise, edizione del 1762, la lourdise è una «faute grossière contre le bon sens, contre la civilité, contre la bienséance». Il termine, legato all'atmosfera culturale della corte francese,

nacque nel XVI secolo e raggiunse la più grande grande popolarità all’inizio del XVII, soprattutto per merito di Saint-Simon.

191

lei restituiva al lacché il piatto che mi aveva destinato, voltando la testa per non farmi vedere come rideva”!

Se si considera quanto Rousseau abbia sempre temuto l’umiliazione pubblica, e la frequenza con cui termini come honze e ridicule ritornano nel suo vocabolario autobiografico, si capisce perché un episodio a prima vista così banale — i signori de Boze non avranno alcun ruolo nelle vicende successive — abbia conservato nella memoria una luce così vivida. Mai come in questo caso le Confessions dimostrano di essere un romanzo della vita interiore: la storia della coscienza è costellata da ferite apparentemente insignificanti, meno gravi della sete e della fame, eppure decisive per la rappresentazione dell’io in rapporto al mondo. Gaffes, scortesie, silenzi inopportuni, battute azzardate pur di dire a ogni costo qualcosa: è questo il ricordo che Rousseau pensa di aver lasciato in società. «Credo che basti a far capire come, pur non essendo uno sciocco, io sia apparso sovente tale...»*. Il timore del ridicolo è un fenomeno psicologico legato al bisogno di riconoscimento, quindi incomprensibile al di fuori di una dimensione sociale e culturale. Non si sente ridicolo chi pensa, semplicemente, di valere poco, ma chi teme di offrire agli interlocutori un'immagine di sé inferiore alle loro

aspettative. Queste aspettative, a loro volta, sono plasmate da precisi criteri di valore — convenzioni, mode, pregiudizi — che variano a seconda dei contesti, sono per lo più prive di significato sostanziale, ma forniscono un indispensabile metro di valutazione per i comportamenti soggettivi: è solo in base al princìpi comunemente

accettati che un’azione può essere

definita virtuosa, pavida, così come brillante o ridicola. Questa banale considerazione viene ignorata troppo spesso

dagli interpreti di Rousseau, che tendono ad attribuire il suo profondo malessere sociale a cause psicologiche, come timi41 Confessions, p. 283.

® Ibid., p. 116.

Il ridicolo presuppone un conflitto tra lo status, o più genericamente il ruolo, e la sua percezione pubblica. È una delle situazioni in cui, rompendosi l'illusione quotidiana di naturalezza, viene meglio alla luce la natura rappresentativa della società.

192

dezza, malattia, masochismo, angoscia di persecuzione. L'origine del disagio non viene individuata nel contrasto tra la natura specifica della sua personalità e lo specifico ambiente in cui egli si è trovato a vivere, ma viene attribuita al carattere**, giudicato troppo diverso o troppo malato per potersi adattare alle elementari norme

della convivenza.

Rousseau

stesso, d’altra

parte, ha autorizzato questo tipo di lettura, descrivendosi nelle opere autobiografiche come uno spirito eccezionalmente insicuro, un cuore di vergine condannato a vivere in un corpo viri-

le, tormentato, per colmo di sfortuna, da una disfunzione vescicale dalle conseguenze sociali imbarazzanti. «Naturalmente timido e vergognoso», «naturalmente vergognoso, confuso», «timido per natura», «un cuore tenero»"9 (e, potremmo a que-

sto punto aggiungere, anche «naturalmente malato»): l’autointerpretazione di Rousseau concorda con quella di molti suoi psicologi nell’incolpare il destino della propria inattitudine al monde. Non è stata la società ma la ratura la responsabile ultima del suo male: «[...] sono solitario solo perché malato e timido. Quasi certamente se fossi sano e attivo mi comporterei come gli altri»*”.

Tra le varie interpretazioni dell’insocievolezza di Rousseau si distingue quella più «culturale» di Jean Starobinski, che legge nella paura del ridicolo l’eredità dell'educazione ginevrina**. Il calvinismo istilla nei fedeli un forte senso di colpa e un rispetto ossessivo per il giudizio pubblico. L'occhio invisibile, da 44 La critica, in altre parole, cade nello stesso errore di Rousseau che, descrivendosi, assolutizza la propria soggettività a scapito delle mediazioni sociali. 4 «Questa infermità era il motivo principale che mi escludeva dai circoli mondani, impedendomi di andarmi a chiudere in casa delle donne», Confes-

sions, p. 379. La testimonianza più drammatica si può leggere nella lettera non spedita al marchese de Mirabeau, del marzo 1767, CC, XXXII, pp. 237242. Cfr. la nota di Gagnebin e Raymond, OC, I, pp. 1287-1289; e J. Starobinski, Sur la maladie de Rousseau (1962), ora in J.-J. Rousseau. La Transparence et l'obstacle. Suivi de sept essais sur Rousseau, Paris, Gallimard, 1971, pp. 430-444.

46 Confessions, pp.31 e 52; Fragments autobiographiques, OC, I, p. 1157. 4 Fragments autobiographiques, p. 1125. Come ho già accennato, questa linea di lettura, radicalizzata in senso psicopatologico, ha trovato fortuna nella critica di ispirazione liberale, che se ne è servita per dimostrare le origini mentali del presunto totalitarismo rousseauiano. 48 Starobinski, Rousseau e il pericolo della riflessione, cit., pp. 75-84.

193

cui la coscienza delle Confessions si sente costantemente scrutata e disapprovata, sarebbe quello del Concistoro, che censura

all'origine ogni manifestazione peccaminosa del desiderio:

Mi avvicino alla bottega di un pasticcere, scorgo delle donne al banco: mi sembra già di vederle ridere e prendere in giro il piccolo ghiottone??.

Innegabilmente il ricordo infantile, al pari di altre scene di desiderio proibito come quella di Madame de Boze?, si presta bene a questo tipo di interpretazione. «Se Rousseau imma-

gina uno sguardo di censura dove nessuno si preoccupa della sua mediocre esistenza» — commenta Starobinski — «ciò accade perché l’idea di un Occhio onnisciente e giusto è inseparabile dal cielo di Ginevra»?! Anche così, però, si dà per scontato uno scarto tra la realtà effettuale e la sua percezione soggettiva, implicito nel meccanismo psicologico dell’introiezione. Il sorriso beffardo che Rousseau legge sul volto delle pasticcere forse non esiste, ma vi è proiettato a priori dal senso di colpa. E se comunque l’autocensura conserva valore all'interno di una città oggettivamente vigilante (più di un membro della famiglia Rousseau aveva subito reprimende

pubbliche) una volta abbandonato il paropticon di Ginevra, la cautela si convertirebbe in paranoia: Poco importa ormai che lo sguardo si addolcisca, si allontani o si volga altrove: Jean-Jacques continua a sentirlo, a portarselo dentro, 49 Confessions, p. 37. 20 Starobinski cita, come esempi, lo scherzo del noce piantato sul terrazzo di Bossey, l’idillio con Mademoiselle Goton deriso dai compagni di giochi, l'incisione clandestina delle medaglie nel laboratorio di Ducommun, il furto degli asparagi e delle mele. È un peccato che non abbia rilevato l’analogia tematica e strutturale tra il ricordo ginevrino e quello mondano, entrambi incentrati su una manifestazione di desiderio legata al cibo (i dolci esibiti nella vetrina della pasticceria e il vassoio pieno di prelibatezze esibito da Madame de Boze), censurata da un sorriso femminile («mi sembra già di vederle ridere»; «voltando la testa per non farmi vedere come rideva»). Resta la differenza, non trascurabile, che lo scherno delle commesse è anticipato 0

proiettato dall’immaginazione, mentre Madame de Boze ride davvero. Sulle implicazioni antropologiche e sociali del «riso», si veda la prossima figura. 7! Starobinski, Rousseau e il pericolo della riflessione, cit., p. 81 (corsivi nel testo).

194

così come si appercepisce, per un fenomeno di persistenza retinica,

la luce che si è appena spenta. Quando la sorveglianza scompare, rimane immutato il pensiero della sua presenza??.

L'interpretazione patologica e quella assai più raffinata di Starobinski finiscono così per concordare sulla natura interiore delle insicurezze di Jean-Jacques; e trovano conferma negli

ultimi libri delle Confessions, avvelenati dalla fobia del com-

plotto e da un'atmosfera assurdamente persecutoria. Se ci concentriamo, però, sul periodo mondano del racconto autobiografico, che ne copre una parte più che ampia, questa diagnosi si rivela riduttiva. Non sempre Rousseau si

inganna nel sentire su di sé il peso di sguardi giudicanti. L’ansia di prestazione, quella «vergogna di sbagliare in pubblico» che lo perseguita da quando è bambino”, si esaspera al contatto con un ambiente che davvero valuta le persone per il loro comportamento in pubblico. Forse nessun'altra cultura quanto la società aristocratica d’Ancien Régime ha mai attribuito tanta importanza alla percezione sociale dei comportamenti, al punto di istillare nei propri membri il terrore delle cattive figure. Una fonte contemporanea a Rousseau ma insospettabile dal punto di vista psicologico, l’articolo «Ridicule» dell’Encyclopédie, dedica ben due colonne all’analisi di questo fenomeno di sociologia mondana, che per l’élite settecentesca incarnava un severo criterio autoselettivo. «Il ridicolo» — scrive il cavaliere de Jaucourt, redattore della voce — «è un termine astratto dal significato fluttuante: si mo-

difica continuamente e, come le mode, dipende dal capriccio e dall’arbitrio». Il suo significato è così legato ai singoli contesti e ai valori dominanti, che «[...] tra alcune persone un uomo viene tacciato di ridicolo per aver abbandonato certe pose, mentre le stesse pose lo espongono al massimo del ridicolo in un’altra società». Dal punto di vista formale, si tratta di una normatività simile a quella della moda: anche il ridicolo viene stabilito dalla nobiltà cittadina, /es gens du monde, e

in particolare dalle donne, che ne fissano meticolosamente le leggi dando l’esempio: «[...] qualche nobildonna che dà il 22 Ibid., p. 82. 3 Confessions, p. 14.

195:

tono al suo paese, stabilisce il significato del ridicolo, e rende prestigiosi i vizi della società». Come la moda, infine, il ridicolo si fissa su dettagli insostanziali («cose in se stesse indifferenti, e consacrate dall'uso: la moda, i vestiti, il linguaggio, le maniere, il contegno»), che tuttavia sono in grado di distruggere una reputazione sociale: Il suo potere si estende al merito, l’onore, il talento, la considera-

zione e le virtù. Il suo caustico marchio è indelebile. [...] Il disonore offende meno del ridicolo. La ragione è nel fatto che nessuno ha il potere di disonorare un’altra persona: è la nostra condotta a disonorarci, non i discorsi altrui. [...] La sua autorità è così potente che ba-

sta che l'immaginazione ne sia colpita una volta perché non senta più altra voce. Spesso sacrifichiamo l'onore alla ricchezza, e la ricchezza alla paura del ridicolo”.

Per gli aristocratici francesi della metà del Settecento, insomma, il timore di sbagliare in pubblico era un problema reale, giustificato dalle specifiche dinamiche di riconoscimento del loro milieu. Lungi dall’esaurirsi in una dimensione ludica, la sanzione di ridicolo era una difesa che la buona so-

cietà esercitava su se stessa, stabilendo arbitrariamente delle regole di gusto e convenienza, e poi variandole altrettanto arbitrariamente con la velocità delle mode. Come intuisce il redattore dell’Ercyclopédie, tra il contenuto oggettivo di queste regole e la loro efficacia come mezzi di discriminazione non esiste un nesso. Anzi: è proprio nella natura del dominio simbolico (lo sanno bene, oltre ai sociologi della cultura, i lettori di Proust), l’esercitarsi nel regno dell’effimero”. Ciò che giu-

stifica l'esclusione non è il contenuto della norma trasgredita ma la sua forza: il fatto stesso di ignorare l’ultimo aggiornamento del codice esclude automaticamente dal numero degli iniziati. Il meccanismo esclusivo risulta tanto più efficace quanto più rapida ed esoterica è la diffusione delle regole. C'è ° L. de Jaucourt, «Ridicule», in Encyclopédie, XIV, pp. 286-287 (corsivi nel testo). ? Cfr. G. Simmel, Uber soziale Differenzierung. Soziologische und psychologische Untersuchungen (1890), trad. it. La differenziazione sociale, Roma-Bari, Laterza, 1982; Elias, La società di corte, cit., in particolare pp. 60-67; Bourdieu, La distinzione, cit.

196

un solo modo, infatti, per apprendere lo spirito dell’alta società: frequentarla assiduamente.

La forza che le censure simboliche esercitavano sulla società settecentesca ci invita a riconsiderare la biografia di Rousseau alla luce di categorie più ampie di quelle psicologiche. Dobbiamo immaginare lo sfondo dei piccoli drammi di umiliazione pubblica ricordati nelle Confessions con gli occhi di Elias o, ancora meglio, con quelli di Taine, il cui affresco dei costumi

prerivoluzionari

resta per molti versi insuperato”.

Nella loro ricostruzione, il mondo in cui si muovevano gli intellettuali illuministi si presenta come un grande salotto: l’arte di piacere è la qualità più ambita, e la sola cultura davvero degna di rispetto quel savozr-vivre che conosce a menadito le regole della galanteria e dell’etichetta. È in questo ambiente, dominato dalle forme, fatto come un teatro, lontano da qualsiasi preoccupazione materiale, che Rousseau ha mosso i pri-

mi, decisivi passi della sua carriera di scrittore. Il mondo borghese dell’interesse e del guadagno ha sfiorato solo tangenzialmente la sua vita, anche se sarà oggetto, in opere come la prefazione al Narcisse o il secondo Discours, di acutissime critiche. Non è nella bottega di un commerciante ma nell’anticamera di Madame Dupin che dobbiamo immaginarlo mentre, sforzandosi inutilmente di trovare un motto arguto o dando un'ennesima prova della propria lourdise, matura i princìpi di una rivoluzionaria analisi sociale.

È questo, d’altra parte, il mondo descritto nelle lettere parigine della Nouvelle Héloise, che ci offrono una testimonianza forse ancora più preziosa di quella delle Confessions, perché condotta da una prospettiva straniata. Nell’aggirarsi per i salotti di Parigi con lo spirito del documentarista,

Saint-Preux è stupito dalla serietà professionale con cui gli 56 Taine, L'antico regime, cit., in particolare il libro secondo (I costumi e i caratteri), relativo alla vita sociale. Il libro di Taine, d’altra parte, ha influen-

zato profondamente la formalizzazione sociologica di Elias. Si vedano anche: FC. Green, La Peinture des moeurs de la bonne société dans le roman francais de 1715 à 1761, Paris, Puf, 1924; Mauzi, L'Idée du bonheur dans la littérature

et la pensée frangaises au XVIII siècle, cit., pp. 89-93; Munteano, Solitude et contradictions de ].-]. Rousseau, cit. Anche di questi temi si può trovare una rappresentazione cinematografica, nel film Ridicule di Patrice Leconte (1996).

197

aristocratici affrontano gli impegni mondani — feste, visite, pranzi — e dall’importanza che attività così futili hanno per la loro esistenza. Il primo fenomeno a colpire la sua attenzione è proprio quello della conversazione, lo stesso in cui, un secolo più tardi, Taine riconoscerà il simbolo per eccellenza della sociabilité, l’arte squisitamente nobile di passare il tempo in compagnia: Il tono della conversazione è scorrevole e naturale, non è pesante né frivolo; è colto senza pedanteria, allegro senza chiasso, cortese

senza affettazione, galante ma non insulso, faceto senza equivoci. Non è una dissertazione né un epigramma. Vi si ragiona senza argomentare; si scherza senza giochi di parole; si associano con arte lo

spirito e la ragione, le massime e le arguzie, l’incisività della satira, l’accortezza dell’adulazione e l’austerità della morale. Si parla di tutto perché ciascuno possa dire qualcosa. Per evitare la noia i temi non vengono approfonditi: vengono proposti così er passant e discussi rapidamente: la precisione genera l’eleganza. Ognuno esprime il proprio parere e lo sostiene in poche parole. Nessuno si scaglia con foga contro quello altrui, nessuno difende ostinatamente il proprio; si discute per capire, ci si ferma alle soglie della disputa. Ognuno si istruisce, ognuno si diverte, tutti se ne vanno soddisfatti, e persino il saggio può portar via da questi colloqui degli argomenti degni d’esser meditati in silenzio”.

La conversazione — lo testimonia il proliferare di trattati normativi tra il Seicento e il Settecento — era una delle istituzioni portanti della vita sociale d'Ancien Régime?8. Momento privilegiato in cui si stava con gli altri, cercando di divertirli e di esibire se stessi, il conversare forniva il principale banco di prova dell’bonnéteté. Una buona conversazione, scriverà più

tardi Madame de Staél, richiede tali capacità e tali doti da poter 2? Nouvelle Héloise, pp. 232-233. °* Sull’arte della conversazione e la sua importanza nella società settecentesca, P. Burke, The Art of Conversation (1993), trad. it. L'arte della conversazione, Bologna, Il Mulino, 1997; M. Fumaroli, Trois Institutions littéraires (1994), trad. it. I/ Salotto, l'Accademia, la Lingua. Tre istituzioni letterarie, Milano, Adelphi, 2001, in particolare pp. 177-195; J. Hellegouarc'h e M. Fumaroli, L’Art de la conversation: anthologie, Paris, Dunod, 1997. La nozione di «conversazione» si riferiva a una pratica sociale (un’arte del vivere con gli altri) prima ancora che linguistica. Cfr. B. Craveri, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, 2001.

198

essere paragonata a un’«arte»??; deve essere piena di tatto e di rispetto, in modo da coinvolgere tutti i presenti rispettando i loro ranghi e loro posizioni; deve affrontare mille argomenti diversi senza mai esaurirne nessuno, deve divertire senza cattiveria, essere spontanea, ironica, brillante e leggera, mai eru-

dita e noiosa. Al controllo rigoroso della parola si aggiunge quello dei gesti, degli sguardi, del y2airtier, che deve sempre convenire allo status di chi parla come di chi ascolta, e non

deludere mai le attese degli interlocutori. Non meraviglia scoprire che un esercizio così complesso richiedesse un apprendistato specifico,

e che Madame Necker, la madre di Madame

de Stael, protagonista della vita mondana di fine secolo, confessasse di prepararsi in anticipo, annotando la sera su un quadernino gli argomenti che, all'indomani, avrebbe proposto ai suoi invitati. In una delle Lettres persanes già Montesquieu si era preso gioco di questa pratica, immaginando che un parvenu se ne servisse per conquistare un posto all’Accademia”.

Seppur ironica, la sua testimonianza concorda con quella degli storici della cultura e del costume: «brillare nella conversazione» era una garanzia irrinunciabile di successo sociale. Nella Nouvelle Héloise, il moralista Saint-Preux biasima

severamente il contrasto esistente tra i princìpi difesi nella chiacchiera e quelli messi in atto nella pratica: il suo è un giudizio disinteressato e obiettivo. Sappiamo però da innumerevoli testimonianze autobiografiche che l’incapacità di conversare era per Rousseau un doloroso complesso. «Lento a pensare, pieno di difficoltà nell’ordinare i pensieri e ancora di più le parole»9!, Jean-Jacques si riconosce inadatto ai discorsi brillanti. «Così poco padrone della mia mente quando sono da solo, si immagini cosa debbo essere nella conversazione, dove, per parlare a tono, bisogna pensare a mille cose con-

temporaneamente e all’istante». Lo sforzo di mantenersi attento gli è insopportabile, il significato delle domande per lo più gli sfugge, e spesso si rende conto solo troppo tardi di aver parlato inutilmente o a sproposito: «La memoria e la 5? Cfr. Mme de Staél, De l’Allemagne, 1, 9. 60 Cfr. Montesquieu, Lettres persanes, lettera LIV. 6! Dialogues, p. 820. 6 Confessions, p. 115.

199

riflessione rafforzeranno questa ripugnanza, facendogli capire a posteriori un sacco di cose che non ha inteso al primo colpo, e alle quali, costretto a replicare immediatamente, ha ri-

sposto male, senza il tempo di pensarci». Un’altra convenienza che gli risulta intollerabile è il dovere di riempire i silenzi per cortesia: «Se vi rivolgono la parola bisogna rispondere, e se non si dice nulla bisogna risollevare la conversazione. Sarebbe bastato questo insopportabile obbligo a disgustarmi della società». Infine, il timore delle ga/fes, che tortura l’ex lacché consapevole di essere estraneo al mondo in cui si muove: Non riesco nemmeno a capire come si possa avere il coraggio di

parlare in un gruppo di persone: a ogni parola, infatti, bisognerebbe passare in rivista tutti i presenti, conoscere i loro caratteri, essere al corrente delle loro storie per poter essere sicuri di non dire nulla d’offensivo per qualcuno. Da questo punto di vista coloro che vivono nel bel mondo sono molto avvantaggiati: sapendo meglio cosa bisogna tacere, sono più sicuri di quel che dicono. Eppure persino a loro scappano spesso delle balordaggini (balourdises). Si immagini chi casca dalle nuvole! È quasi impossibile che riesca a parlare un minuto impunemente®?,

Riflettendo a posteriori sui propri fallimenti, Rousseau si rende conto che il 770rde ha una struttura esclusiva: chi lo frequenta da più tempo vi si muove agevolmente, mentre chi è esterno all'ambiente si espone al ridicolo o all’umiliazione passiva del silenzio. Le sue osservazioni sulla condotta delle coteries si ispirano verosimilmente ai Caractères di La Bruyère,

che offrirono preziosi spunti sociologici alla riflessione mora6 Dialogues, p. 820. 4 Confessions, p. 115.

© Ibid. °% Cfr. J. de La Bruyère, Les Caractères de Théophraste traduits du grec avec Les Caractères, ou les Meurs de ce siècle, edizione critica a cura di M. Escola, Paris, Champion, 1999 (in particolare la sezione VII, De la ville). 1 Caractères, molto amati da Madame de Warens, erano stati una delle letture preferite del periodo di Annecy e, quando fu segregato a Métiers, Rousseau chiese di riceverne una copia. Sull’influenza che hanno esercitato sulla tradizione mondana della letteratura francese, da Molière a Proust, si veda soprattutto R. Barthes, La Bruyère (1963), trad. it. in Saggi critici, Torino, Ei-

naudi, 1976°, pp. 316-333. Tra le fonti bisogna poi ricordare La Rochefou-

200

listica successiva’, e aprono la strada a quelle di Proust, che di questi stessi temi avrebbe offerto una virtuosistica incarnazione letteraria. Il problema è quello della chiusura sociale: ogni gruppo ristretto rappresenta un microcosmo che si pro-

tegge dalle intrusioni per mezzo di una frontiera simbolica, un codice di norme comportamentali che comincia dal jargor, il gergo tipico degli ambienti snob68. Creandosi una propria lingua, i circoli mondani ottengono il doppio scopo di distinguersi esteriormente e di purificarsi all’interno dagli elementi estranei. La Bruyère paragonava l’effetto di questi codici sui non adepti a quello che fanno gli usi e la lingua di un paese straniero sulla mente di un viaggiatore che li scopre per la prima volta”. Allo stesso modo, Saint-Preux confessa di aver

provato nei salotti parigini un senso di straniamento, simile alla sensazione di inesistenza denunciata dal provinciale JeanJacques durante il pranzo di Madame de Besenval: cauld (che Rousseau però dice di non amare), lo svizzero Béat de Muralt, autore della peinture des murs intitolata Lettres sur les Anglais et les

Frangais, pubblicata nel 1725, e Charles Duclos, di cui, alla fine dell’episodio di Madame de Besenval, verrà citato il romanzo più celebre, Les Con-

fessions du Comte de**. In un’altra opera importante, le Considérations sur les meeurs de ce siècle, apparsa nel 1751, Duclos aveva affrontato i temi dello snobismo, del prestigio, della rappresentazione del rango, in una prospettiva sociologica ante litteram affine ad Elias. Si veda, a questo proposito, la ricca introduzione di Carole Dornier all'edizione critica (Paris, Champion, 2000, pp. 7-64).

6 Tra gli studi che affrontano il problema dello snobismo in una prospettiva filosofica e sociologica, oltre ai saggi di Adorno, Benjamin e Girard citati nella nota 42 del capitolo precedente, cfr. J. Shklar, Ordinary Vices (1984), trad. it. Vizi comuni, Bologna, Il Mulino, 1986.

i

6 Il testo di La Bruyère cui si ispira probabilmente Rousseau è il quarto paragrafo della VII sezione, De la ville: «La città è divisa in diversi circoli, che sono come altrettante piccole repubbliche, con le loro leggi, i loro usi, il

loro gergo e i loro motti per ridere. Finché quest’unione è salda, e la mania dura, non si trova nulla che sia detto o fatto bene se non ciò che viene dai propri accoliti, e si è incapaci di gustare ciò che viene da un’altra parte. Si

arriva al punto di disprezzare le persone che non sono state iniziate ai propri misteri», Les Caractères, cit., p. 302. Chi ama Proust riconoscerà negli anoni-

mi protagonisti di queste pagine gli antenati di Madame Verdurin. 6 «Se capita casualmente in mezzo a loro, l’uomo di mondo più dotato di spirito sembra uno straniero: si sente come in un paese lontano, di cui

ignora le strade, la lingua, i costumi, le usanze; vede un popolo che chiacchiera, mormora, sussurra all'orecchio, scoppia a ridere e poi ripiomba in un tetro silenzio; non sa più come comportarsi, non sa dire una parola e non ha nemmeno nulla da ascoltare», ibid.

200

Se la conversazione cade casualmente sui commensali, adotta una specie di gergo mondano, che non si può capire senza averne la chiave. In questo linguaggio cifrato ci si rivolgono a vicenda e secondo il gusto del momento mille battute maligne [...] mentre l’estraneo, ignaro, è ridotto alla noia e al silenzio, oppure a ridere di ciò che non capisce”.

Oltre alla chiusura linguistica, che serve a differenziare i singoli circoli gli uni dagli altri, c'è quella dell’etichetta, che li separa invece come ceto dal complesso degli altri gruppi sociali. Come già Montesquieu, Rousseau riconosce alla politesse la funzione di far emergere gli aristocratici dalla massa delle persone comuni. Ricordiamo le parole che poteva leggere nell’Esprit des lois: «[La cortesia] nasce dal desiderio di distinguersi: è per orgoglio che siamo cortesi. [...] Essa dimostra che si è della corte, che si è degni di esserlo»"!. La cortesia è il «gergo delle forme», esteso dalla comunicazione

verbale al

linguaggio dei gesti e degli usi quotidiani. Essa stabilisce delle regole, a volte giustificate da quelle che Elias ha definito le esigenze disciplinatrici della civilizzazione, altre volte, invece, prive di valore strumentale, e dotate di quella gratuità smaccata che ne rende ancora più efficace la funzione distintiva. Le maniere, il galateo, il buon gusto, la raffinatezza, attestano

l'appartenenza delle persone eleganti al 770rde, quella seconda corte decentrata che è l’alta società di Parigi. Così si spiega, inoltre, la natura profondamente imitativa della vita cittadina, l’inquietante regolarità che lo stupefatto Saint-Preux paragona agli spostamenti militari di un esercito: 70 Nouvelle Héloise, p. 248. ?! Montesquieu, Esprit des lots, IV, 2, in Fuvres complètes, a cura di R. Caillois, 2 voll., Paris, Gallimard, 1949-1951, vol. II, p. 263. Anche Taine riconoscerà all'etichetta il compito di selezionare l'élite: «Vi era una maniera obbligatoria di sentire, di pensare, di vivere e di morire [...]. Il bon tor aveva regolato in anticipo tutti i passi grandi e piccoli, la maniera di dichiararsi a una dama e di rompere con lei, di cominciare e condurre un duello, di trattare un eguale, un subordinato, un superiore. Se si mancava in una minima cosa qualsiasi a questo codice universale delle usanze, si diventava “u7e espèce’», L'antico regime, cit., p. 297. La riflessione più ampia e approfondita sulla funzione distintiva dell’etichetta resta comunque quella di Elias, La società di corte, cit., capp. II e IV, pp. 87-190. Cfr. anche Id., Uber den Prozess der Zivilisation (1936), trad. it. Il processo di civilizzazione, Bologna, Il Mulino, 1988.

202

Quest’apparente regolarità conferisce agli usi abituali un aspetto del tutto comico, persino nelle cose più serie. Si sa esattamente quando bisogna mandare a prendere notizie; quando bisogna farsi iscrivere, cioè fare una visita che non si fa; quando bisogna farla di persona; quando è lecito essere in casa; quando non è opportuno esserci, anche se ci si è; che profferte uno deve fare; che profferte l’altro deve respingere; che grado di tristezza bisogna assumere per tale o talaltra morte, quanto tempo è opportuno affliggersi in campagna; il giorno in cui è lecito tornare in città a consolarsi; l'ora e il minuto in cui l’afflizione permette di dare un ballo o di andare a teatro. Tutti fanno insieme la stessa cosa nella stessa circostanza. Tutto si muo-

ve a tempo come i movimenti di un esercito in battaglia. Si direbbe che sono altrettante marionette inchiodate sulla stessa tavola o mosse dallo stesso filo”.

In un mondo in cui sono le forme a determinare lo status,

fare quello che fanno tutti è il mezzo più sicuro per ottenere riconoscimento

sociale. Rivendicare autonomia,

al contrario,

significa esporsi alla gogna del ridicolo. «Sventurato chi presta il fianco al ridicolo» — commenterà Saint-Preux, con parole assolutamente identiche a quelle di Jaucourt. «I/ suo caustico marchio è indelebile»”.

3. La regina delle forme

Resta ancora, in questo piccolo ma esaustivo trattato di sociologia mondana, un'ultima questione sospesa: chi stabilisce le regole cui il popolo degli imitatori cerca disperatamente di adeguarsi? Al momento del suo arrivo a Parigi, Rousseau era stato subito colpito dal protagonismo delle donne nella vita sociale e culturale: era a casa di due gran dame, non a una nuova accademia, che lo aveva indirizzato padre Castel. Nel corso degli anni il suo stupore continuò a crescere, fino a persuaderlo che questo fenomeno fosse alle origini della deca72 Nouvelle Héloise, p. 250. Sulla critica del conformismo mondano si vedano anche le considerazioni generali del Prerzier Discours, in particolare p.3.

7 Nouvelle Héloise, p. 248. Altre riflessioni sul ridicolo sociale nella Lettre à d'Alembert, p. 37 e ss.; e nell’Éyzile, pp. 660 e 667.

203

denza intellettuale del suo tempo. Le sue osservazioni critiche sono affidate alla voce di Saint-Preux o alle velenose invettive disseminate nelle varie opere: regina del sa/or, «idolo disteso immobile nella sua chazse longue»?! attorno al quale si affaccendano artisti, intellettuali, uomini di mondo, la donna è il

fulcro della società mondana. È lei che stabilisce le regole del «gusto», il codice supremo della convenienza estetica e dunque — per una società così teatralizzata e dominata dalle apparenze — anche morale e sociale”. Si tratti del taglio di un vestito, di un’espressione verbale, di una regola di etichetta, della fama di un artista o di una nuova opera letteraria, tutto quello che conta e che deve contare nella vita pubblica viene stabilito nel salotto di qualche grande aristocratica: [...] la donna più stimata è quella che suscita maggior clamore, che fa più parlare di sé, quella più assidua in società, quella da cui si cena più spesso, quella che dà più imperiosamente il tono, quella che giudica, sentenzia, decide, si pronuncia, stabilisce il grado e l’importanza del talento, del merito, delle virtù; e di cui gli umili filosofi mendicano il favore nel modo più basso”°. 74 Lettre à d'Alembert, p. 93. ? Ibid., p. 95. Il gusto è l’espressione estetica dei 77@4rs e ne fa addirittura le veci nella società «rappresentativa». Su questo concetto fondamentale, oltre alle analisi della prima figura, si veda anche Erzz/e, pp. 671 ss. e il frammento Sur le got in OC, V, pp. 482-483. Dato il suo influsso sulla moralità sociale, Rousseau ritiene che la definizione del gusto debba essere di competenza esclusiva degli uomini: «Quando le donne saranno ciò che devono essere, si limiteranno alle cose di loro competenza e giudicheranno sempre bene; da quando si sono erette ad arbitre della letteratura, da quando si sono messe a giudicare i libri e farne in gran quantità, non capiscono più nulla. Gli autori che consultano le savartes sulle loro opere sono sempre sicuri di essere mal consigliati, i galanti che le consultano sul loro abbigliamento sono sempre vestiti in maniera ridicola», Enzz/e, p. 673. 7° Lettre à d'Alembert, p. 45. Alla satira contro le mondane sono dedicate la lettera II, 21 della Nouvelle Héloise e la seconda parte della Leftre è d'Alembert. L'insistenza di Rousseau sulla differenza femminile, che sembra tanto stridere con il suo egualitarismo, si spiega anche con il bisogno di replicare a questo eccesso di visibilità. L'educazione di Sophie inverte sistematicamente i princìpi della soczabilité: destinata dalla natura ad essere prima di tutto moglie e madre, la donna di Rousseau vive quasi sempre separata dagli uomini, non partecipa alla vita pubblica, non si interessa di politica né di cultura, si dedica solo all'andamento della casa e all’educazione dei figli. AI salotto parigino, dominato dalla savarte che discetta di letteratura, si oppone dunque l'istituzione ginevrina dei circoli. In questi luoghi di incontro esclusivamente maschili si discutono le faccende pubbliche e si forma la coscienza repubblicana. Gli uomini, «dispensati dal dovere di abbassare le loro

204

Si potrebbe pensare che queste parole siano frutto di una ipersensibilità individuale. E invece le osservazioni di Rous-

seau concordano pienamente con quelle che, a posteriori, faranno i più attenti analisti della società settecentesca, a comin-

ciare dai fratelli Goncourt, autori di un’opera dal titolo eloquente, La Ferme au XVIII siècle. Anche Taine insisterà sulla figura della grande mondana, arbitra delle forme, e pertanto dispensatrice insindacabile del riconoscimento sociale: Per una parola, per una mancanza di forma, per la minima apparenza di pretenziosità o di fatuità, si incorre nella sua disapprovazione che è senza appello, e uno è perduto per sempre nel bel mondo. Per un'espressione fine, per un silenzio, per un «oh!» detto a proposito al posto di un «ah!» si riceve da lei [...] il brevetto del perfetto savotr-vivre, che è l’inizio di una reputazione e la promessa di una fortuna”.

Il fatto che, nel Discours sur l’inégalité, le donne rivestano questo stesso ruolo selettivo e siano ritenute responsabili della definizione dei valori dominanti basterebbe a farci riflettere

sulle concrete esperienze storico-sociali che si sono distillate nel discorso astratto dell’antropologia. Ma è ancora più signi-

ficativo che il ritratto di Taine si riferisca proprio alla marescialla de Luxembourg, moglie del duca che protesse ed ospitò Rousseau negli anni cruciali della redazione dell’Érzile?8. La duchessa fu la regina assoluta della vita mondana parigina e fondò un salotto che, secondo i Goncourt, era la quin-

tessenza dell’esclusivismo aristocratico’. Non è improbabile che Proust si sia ispirato a questa figura storica per creare il idee alla portata delle donne e di rivestire di galanterie la ragione, possono dedicarsi a discorsi gravi e seri senza paura del ridicolo», Lettre à d'Alembert, p. 96 e, in generale, pp. 77-125. © Taine, L'antico regime, cit., p. 270. Sulla condizione della donna nella società settecentesca si veda anche il recente D. Godineau, Les Femmes dans la société francaise (XVI*-XVIII* siècle), Paris, Armand Colin, 2003. 78 Della marescialla ha lasciato un breve ritratto biografico Hyppolite Buffenoir (La Maréchale de Luxembourg, Paris, Émile-Paul

Frères, 1924),

che però difende una versione ingenuamente idealizzata dei rapporti con Rousseau. 79 E. e J. De Goncourt, La Femme au XVIII siècle (1862), Paris, Flammarion, 1982, p. 88.

205

personaggio di Oriane de Guermantes: ironica, acre, incom-

parabilmente snob, Madame de Luxembourg incarnava l’idea di distinzione, era la grande sacerdotessa di quello spirito carismatico

della vera

nobiltà

che, fino alla fine del dician-

novesimo secolo, ne avrebbe rappresentato il più importante titolo di legittimazione8®; Condannava definitivamente le espressioni di cattivo gusto. [...] La sua disapprovazione, manifestata sempre da una battuta laconica e piccante, era una sentenza senza appello. Chi la riceveva, perdeva comunemente quella specie di considerazione personale che rendeva una persona ricercata in società®!,

È comprensibile che, al cospetto di un simile tribunale, un provinciale timido e goffo abbia sofferto di ansia da prestazione: il salotto di Madame de Luxembourg poteva competere col Concistoro ginevrino quanto a controllo rigoroso del co-

stume. Il fatto che al codice bigotto della morale calvinista si fosse sostituito quello più futile e galante del bor ton, non addolciva la severità degli interdetti, e nemmeno quella della punizione, che in entrambi casi coincideva con una forma di sco-

munica, cioè di bando sociale («Chi la riceveva, perdeva comunemente quella specie di considerazione personale che rendeva una persona ricercata in società»). Probabilmente, anzi, il pas-

saggio da una forma religiosa a una forma mondana di controllo ha acuito il complesso di Rousseau, alimentando il senso di ineluttabilità delle sue tare: un peccatore può sempre sforzarsi di diventare un bravo cristiano — e non a caso sarà pro-

prio la filosofia rousseauiana a opporre al fatalismo della predestinazione calvinistica una morale fondata sul culto delle intenzioni e delle buone opere — ma il figlio di un orologiaio non potrà mai affettare, se non a costo di rischiare il ridicolo, la «disinvoltura»? di una dama nata e cresciuta nell’alta società. 5° Cfr. A. Mayer, The Persistence of the Old Regime. Europe to the Great War (1981), trad. it. I/ potere dell’Ancien Régime fino alla prima guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 1994, capp. II, III, IV. 8! Mme de Genlis, Mérorres, cit. in Buffenoir, La Maréchale de Luxembourg, cit., p.31. $° L'espressione italiana compare a proposito del contegno delle mondane. Sembra che Rousseau sia stato il primo a introdurla in Francia. (Cfr. Nouvelle Héloise, p. 266 e la nota relativa di Bernard Guyon).

206

Sfuggito insomma all'occhio invisibile di Ginevra, Rousseau ne trovò uno altrettanto spietato nei salotti di Parigi. E il suo dramma sembra ancora più tragico, se si tiene conto che, per un letterato di origine plebea, la conquista del successo mondano rappresentava l’unica speranza di riscatto sociale. Non è un caso che i rapporti con le grandi dame siano uno dei punti dolenti di tutto il racconto delle Confessions: «Madame de Boze [...] era brillante e petite-mzaîtresse. [...] Non si potrebbe avere un’aria più impacciata e stupida di quella che assumevo di fronte a lei. Il suo contegno disinvolto mi intimidiva e rendeva più ridicolo il mio»*. Altre incomprensioni si presentarono con Madame de Mably, Madame Dupin, Madame d’Epinay. Ma il principale oggetto delle paure di Rousseau restò sempre la donna che, con una sola battuta, poteva far tremare Parigi: «Avevo un timore esagerato di Madame de Luxembourg», «non sono mai stato molto a mio agio con la signora marescialla»*. Terrorizzato dalla sua fama, Rousseau aveva risposto quasi scortesemente ai primi inviti al castello di Montmorency, nel timore — e l'associazione è emblematica — di essere rispedito all’office come a casa di Madame de Besenval. Anche quando le profferte di amicizia diverranno pressanti, i segni d’affetto inequivocabili, non cesserà di sentirsi

intimidito, costantemente spiato, giudicato, disprezzato: Non ero del tutto rassicurato sul suo carattere, ma comunque lo temevo meno del suo spirito. Sapevo che era difficile nella conversazione, e che ne aveva il diritto: le donne, e specialmente le dame 8 Confessions, p. 283. È significativo che Rousseau abbia invece intrattenuto (o almeno ne sia stato convinto) rapporti camerateschi con i mariti

delle stesse signore che lo imbarazzavano tanto. Il confronto viene già sollevato a proposito di Madame e Monsieur de Boze, il secondo, non a caso,

Accademico di Francia (;bid.). Ma il contrasto più forte è quello tra il comportamento della marescialla e quello del maresciallo de Luxembourg: «Niente di quanto mi intimidiva nella marescialla lo ha mai riguardato un momento. [...] La semplicità, la familiarità dei nostri rapporti dimostravano quanto contassimo reciprocamente l'uno sull’altro», ibid., p. 534. Si veda anche il resoconto idilliaco dell'amicizia con il maresciallo Keith, nel dodi-

cesimo libro. 84 Tbidj.pp-919: e 522:

8 «Ad ogni ritorno [i signori de Luxembourg] non mancavano di rinnovare complimento e invito. La cosa mi ricordava Madame de Besenval che mi mandava a mangiare coi domestici», :b14., p. 518.

207

del gran mondo, vogliono assolutamente essere divertite, e sarebbe meglio offenderle che annoiarle. Dai suoi commenti su quanto avevano detto le persone che se n'erano appena andate, giudicavo ciò che doveva pensare delle mie balordaggini (balourdises)*®.

È una proccupazione che può far sorridere: Madame de Luxembourg era palesemente fiera di ricevere nel suo castello la celebrità del momento, così come era pronta a perdonare qualsiasi bizzarria che fosse inseparabile dal «genio». Eppure, il timore di farla annoiare non era così assurdo. Rousseau non si sbagliava di molto nel sospettare che ci fosse una sorta di «opposizione naturale» tra il suo genere di spirito e quello della marescialla, cosi sensibile alle sfumature da sembrare immerso in una lingua ignota: [...] a prescindere dal mare di balordaggini che mi scappavano ad ogni istante nella conversazione, persino nelle lettere e quando stavo meglio con lei, capitavano cose che le spiacevano, senza che potessi immaginare perché®”.

Il suo solo errore era quello di giudicare l’opposizione, appunto, come «naturale». Quello che si combatteva quotidianamente con Madame de Luxembourg non era un conflitto tra psicologie ma tra culture, lo scontro tra due sistemi di valore incompatibili. Un giorno, per apparire galante e disinvolto, Rousseau le rivolse una battuta molto offensiva, dandole

86 Ibid., p. 522. 87 Ibid., p. 523. 88 «Una sera, mi trovavo con due dame del gran mondo, e un uomo che

si può nominare: il duca de Gontaut. Non c’era nessun altro nella stanza, e io mi sforzavo di dire qualcosa — Dio sa cosa! — in una conversazione fra quattro persone, tre delle quali non avevano certo bisogno del mio supplemento. La padrona di casa si fece portare un oppiato che prendeva due volte al giorno per lo stomaco. L'altra dama, vedendola fare una smorfia, chiese ridendo: “E l’oppiato del dottor Tronchin?”. “Non credo”, rispose la prima sullo stesso tono. “Credo che lei non sia affatto da meno”, intervenne galantemente lo spiritoso Rousseau. Tutti rimasero interdetti; nessuna parola, nessun sorriso, e un istante dopo la conversazione prese un’altra piega. Detta a un’altra persona, la balordaggine sarebbe potuta sembrare divertente, ma, rivolta a una donna troppo amabile per non aver fatto un po’ parlare di sé, e che certo non intendevo offendere, era terribile [...]. Ecco il genere di spiritosaggini che mi scappano pur di parlare senza aver nulla da dire», bd., p. 116. Le cure del dottor Tronchin erano celebri contro le malattie veneree e

208

involontariamente della donna di malaffare88. Dopo un primo momento di sconcerto, gli astanti cambiarono discorso, e, secondo le migliori regole dell'educazione mondana, la gaffe cadde nell'oblio. I biografi della marescialla, del resto, assicurano che l'incidente passò davvero inosservato, e che la dama

non smise mai di nutrire verso l’amico sentimenti del tutto benevoli*’. Ma Rousseau si convinse di una sua persistente ostilità. Molti anni dopo l'accaduto, era ancora questo l'episodio che gli si presentava dolorosamente alla memoria quando ripensava al periodo di Montmorency. Per la sua visione, ormai sempre più paranoica e caricaturale, ci sono errori che un ari-

stocratico non perdona: «Di questo mi dimenticherò difficilmente; perché oltre ad essere di per sé memorabile, non riesco a togliermi dalla testa che abbia avuto conseguenze che me lo ricordano troppo spesso»?. 4. L'intellettuale e il suo pubblico Se riportato sul suo sfondo concreto, il malessere di Rousseau appare insomma sempre più comprensibile, sempre me-

no prodotto da una coscienza malata. E vero che molte difficoltà oggettive furono acuite da una sensibilità morbosa per le questioni d'onore e d’amor proprio. E che un intellettuale come Diderot, proveniente a sua volta da una modesta famiglia di artigiani, legalmente sposato con la sua amante popolana, visse l’esperienza della marginalità sociale in maniera molto meno problematica. Tuttavia, proprio il più celebre dei personaggi diderottiani, il nipote di Rameau, ci ammonisce a riconoscere alla testimonianza delle Confessions una sua legittimità: anche quando riuscì a compiere il salto di classe, e a frequentare

quotidianamente

il gran mondo,

Rousseau

restò

convinto che la cultura, quella vera, non sarebbe mai entrata per procurare aborti. Sull’interpretazione di questo episodio si veda il commento di Alain Grosrichard alla sua edizione delle Confessions, 2 voll., Paris, Flammarion, 2002, vol. II, pp. 363-365.

89 Lo testimoniano, del resto, le lettere calorose che continuò a scrivergli. Cfr. Buffenoir, La Maréchale de Luxembourg, cit., pp. 101 ss. Si veda anche la corrispondenza di Rousseau, soprattutto dopo la morte del maresciallo. % Confessions, p. 116.

209

nei salotti, e che il presunto incontro paritario auspicato da

Voltaire si sarebbe in ogni caso risolto a favore della classe dominante. La nobiltà offriva sì aiuto e protezione, ma in cambio di un’adesione completa ai propri valori e al proprio stile di vita. Non avrebbe mai riconosciuto in senso pieno gli hommes de lettres, ma li avrebbe sempre trattati come i propri giullari: Diteci, celebre Arouet, quante maschie e forti bellezze avete sacrificato alla nostra falsa delicatezza, e quante grandi cose vi è costato lo spirito di galanteria, così fertile di cose piccine??!

È questa la sostanza dell'accusa che, a partire dal primo Discours, Rousseau rivolgerà insistentemente contro la cultura contemporanea, colpevole di essersi piegata al ricatto mondano, e di aver smarrito per strada l’originaria destinazione critica e morale.

Costrette

a piacere,

a divertire,

a dimostrarsi

amabili e brillanti, ingabbiate dentro le regole ferree della

conversazione, le idee perdono vigore. Si «effemminano», conformandosi a un ambiente che ha demandato il primato alle donne: Queste mille opere effimere che nascono ogni giorno, fatte solo per divertire le donne, e prive di forza e di profondità, volano tutte dal tavolino di toletta al banco del rigattiere”?.

Inizialmente, Rousseau reagisce con sconcerto a quello che considera come un imprevisto slittamento di campo. Aveva bussato alle porte dei salotti nelle vesti di musicista, ed era pronto a farsi giudicare per la qualità della sua arte, delle sue idee, del suo talento. Così, d’altra parte, era successo a Tori-

no, quando, condotto sul terreno congeniale del sapere, si era conquistato da parte dei protettori la promessa di una rapida carriera. A Parigi, invece, malgrado l'apparente innalzamento di status, i rapporti di forza sembrano ancora più squilibrati, e soprattutto ogni incontro si compie all'insegna del malinteso, del fraintendimento. Rousseau offre il suo merito, e viene

giudicato per la sua poltesse: «Madame de Besenval non ave9 Premier Discours, p. 21. 2 Lettre à d'Alembert, p. 95.

210

va idea dei riguardi dovuti al talento (aux falers). Persino in

quell’occasione mi giudicava dal contegno (mairtien)». Anche i pranzi con la maliziosa signora de Boze riaffiorano alla memoria come conflitti tra codici non comunicanti. Mentre la dama ridacchia alle sue spalle, la voce che scrive le Confes-

stons commenta

acidamente: «non immaginava neppure che

la testa di quel campagnolo (campagnrard) potesse contenere dello spirito (esprit)»”. E un conflitto tra sistemi etici incommensurabili, e perciò destinato a risolversi nel misconoscimento. Come ha recentemente ricordato Axel Honneth: «È la concordanza fondamentale sui fini pratici a produrre di colpo un orizzonte intersoggettivo di valori, nel quale ognuno impara in un certo modo a riconoscere l’importanza delle capacità e qualità dell’altro»”. Ma nell’impossibilità di creare quest’orizzonte intersoggettivo, davanti a un interlocutore che si ostina a giudicare con i

propri valori, senza nulla concedere a quelli dell’altro, non resta che fuggire e cercare riconoscimento altrove. Questa sarà,

comprensibilmente, la reazione immediata del povero «campagnolo» che, a qualche giorno di distanza da questa scena umiliante, sottoponendo all’ Académie des Sciences il suo nuovo progetto di notazione musicale, constaterà con sollievo

di essere ancora capace di brillare davanti a un pubblico di gente veramente colta: Benché quell’illustre assemblea fosse davvero imponentissima, mi ci trovai meno intimidito che dinanzi

a Madame de Boze, e me la

cavai discretamente con la mia lettura e le mie risposte. La mia memoria piacque,

e mi procurò dei complimenti, che mi sorpresero

quanto mi lusingarono: immaginavo a stento che al giudizio di un’accademia chiunque non ne facesse parte potesse essere ritenuto di buon senso”.

La contrapposizione fra la condotta di Madame de Boze e quella degli accademici è inequivocabile: Rousseau riscatta l'umiliazione mondana

ottenendo

un successo

intellettuale,

che gli è stato concesso, non mancherà di precisare, da perso9 Confessions, p. 283. 9 Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 155. ® Confessions, p. 284.

ZL

ne forse un po’ ignoranti musicalmente, ma di valore indiscutibile (gens de weérite assurément)®®. Non importa, allora, se le lodi non portano alcun vantaggio concreto: il sapere ha smentito la delicatezza mondana, l'accademia ha trionfato sul salon”. Misconosciuto sul terreno dell’ethos aristocratico, Rousseau ottiene dagli accademici una prima attestazione

compensatoria che, all’interno del racconto teleologico delle Confessions, finisce per assumere un valore figurale. Il certificato «pieno di bellissimi complimenti» con cui lo congeda l’istituzione parigina anticipa infatti, in tono minore, il riconoscimento trionfale che otto anni dopo arriverà dall’ Accademia di Digione: Il favore del pubblico, per nulla manovrato e per un autore ignoto, mi dette /a primza vera certezza del mio talento, di cui, nonostante

l’intima coscienza, fin a quel momento avevo sempre dubitato”.

Nietzsche non avrebbe avuto torto nel rilevare l’origine costantemente reattiva delle prese di posizione di Rousseau: la struttura del resserzizzent, il riscatto compensatorio, sembra iscritta nel cuore stesso del suo pensiero, impregnandone la forma, prima ancora che il contenuto. Dal giorno dell’oscuro arrivo a Parigi, a quello in cui la Nouvelle Héloise consacrerà % Rousseau aveva già rimarcato la differenza tra lo snobismo di Madame de Boze e il comportamento rispettoso del marito accademico che, sebbene un po’ pedantemente, «amava la cultura e ne aveva», /5/4., p. 283. % Nei confronti delle istituzioni scientifiche Rousseau ha dimostrato un atteggiamento ambivalente. Come simboli della politica culturale della monarchia francese e del processo illuministico di civilisation le accademie sono oggetto di critica in molte delle sue opere. In questo episodio delle Confesstons, ad esempio, l’Académie des Sciences è sospettata di aver giudicato il nuovo sistema di notazione sulla base di una conoscenza superficiale della materia: «[...] per giudicare rettamente, la conoscenza esclusiva ma profonda della cosa è preferibile a tutti i lumi che dà la cultura delle scienze, quando non vi si unisce lo studio particolare della materia in questione. La sola obiezione solida al mio sistema fu sollevata da Rameau. Non appena glielo ebbi esposto, ne scorse il lato debole», 514., p. 285. In questo contesto, il principio della cultura autentica è incarnato dall’artista Rameau, mentre la conoscenza accademica si rivela generica e superficiale. Rispetto ai salotti, invece, il merito è tutto dalla parte dell'accademia. Si veda anche la lode — indubbiamente un po’ interessata —, che Rousseau rivolge alle istituzioni scientifiche in Prerzier Discours, pp. 29-30.

98 Confessions, p. 363.

242

il suo autore come la celebrità del secolo, l’intero racconto delle Confessions può essere letto alla luce di un movimento in due tempi, che ricompensa il bando dalla società aristocratica con un clamoroso successo intellettuale. All’alba della vittoria del primo Drscowrs, è lo stesso Rousseau a offrirci questa chiave di lettura, confessando di aver vissuto l’imprevista vittoria come una vendetta dell’amor proprio: Che cambiamento! Tutta Parigi ripeteva gli acri e mordenti sarcasmi dello stesso uomo che due anni prima e dieci anni dopo non ha mai saputo trovare la cosa da dire, né la giusta parola da usare”.

Al silenzio del cattivo conversatore si oppone il discorso fluente e sarcastico del moralista. Come alla fine del pranzo di Torino, grazie alla consapevolezza della propria superiorità culturale, Rousseau ha trovato finalmente la parola. E con essa il proprio riconoscimento pubblico. Anche il pranzo di Madame de Besenval si conclude con una rivalsa strepitosa, che imita tanto la struttura psicologica della vendetta quanto quella sociale della lotta di classe. Ma rispetto alle due premiazioni accademiche, la morale della storia si presenta con un'importante differenza. Il riscatto non

si compie grazie a un cambiamento di pubblico e di ambiente: invece di fuggire dal salotto all'accademia, l’intellettuale umiliato si vendica espropriando quello stesso salotto che inizialmente gli ha negato il riconoscimento. L'epilogo dunque ricorda molto da vicino l’exploit del motto interpretato davanti ai signori di Gouvon. Alla fine del pranzo che lo ha visto così passivo, Rousseau decide di ricorrere a un espediente che definisce «abituale»: ricordatosi di avere in tasca una lettera in versi scritta durante il soggiorno a Lione, la legge ai suoi ospi-

ti con tutta la forza del sentimento: «Era un pezzo non privo di calore: ne aggiunsi dell’altro per declamarlo e li feci piangere tutti e tre». Si sa quale importanza abbiano le lacrime all'interno del sistema simbolico rousseauiano: medium della passione, di quella comunicazione immediata tra i cuori che precede la forma del linguaggio, il pianto è il segnale di un avvicinamento emotivo. E, in questo contesto, esprime inequi? Ibid., p.A417.

213

vocabilmente la pirié, l’identificazione empatica con la sofferenza altrui, svolgendo un ruolo opposto e complementare alla sanzione di ridicolo esercitata dallo snobismo (la risata sta all’amzour-propre come il pianto sta all’azzour de soi). Non è privo di significato che l’opera declamata da Rousseau sia proprio la lettera a Parisot, un’amara elegia in versi sul destino degli uomini di talento, minacciati per nascita a «morire nel fango», e ulteriormente respinti nei loro sforzi di affermazione sociale dal rigore della politesse mondana: Il successo, tuttavia, smentisce la mia fiducia I miei deboli progressi mi danno poca speranza E capisco, a giudicare da effetti così lenti, Che per brillare in società servono altri talenti. Ahimeé! Che posso fare, se con la mia timidezza Non riesco ad affettare quell’audacia intrepida, Quell’aria soddisfatta di sé, quel tono fiero e grazioso Che distingue il gentiluomo dal perdigiorno? No, non posso costringere il mio animo sincero A mascherare a tal punto il mio carattere Costerebbe al mio cuore uno sforzo eccessivo A questo indegno prezzo, rinuncio alla felicità!®,

La lettura della poesia, verosimilmente ispirata alla figura 100 Épftre à Monsieur Parisot, OC, II, p. 1142. La lettera, indirizzata a un amico medico lionese, è stata composta tra il 1741 e il 1742, durante l’ultimo soggiorno alle Charmettes e il viaggio a Lione. Rousseau traccia un bilancio ‘ dei suoi primi trent'anni, assai interessante per comprendere la sua autorappresentazione sociale. Nato in una repubblica, dove l’unica distinzione legittima era quella della virtù, il cittadino dice di aver cominciato fin dall’infanzia a disprezzare l'orgoglio dei Grards, ma di essere stato poi costretto ad abbandonare la patria e a mendicare aiuto proprio alle persone che più biasimava. La conoscenza fortunata con Madame de Warens, tuttavia, lo ha riconciliato con la nobiltà («Imparai a rispettare una nobiltà illustre / Che sa dar lustro anche alla virtù») e, guarendolo dalla sua severità stoica, gli ha insegnato ad apprezzare i valori della socievolezza mondana («Allora riconobbi come è seducente / Aggiungere alla saggezza un po’ di divertimento»). Ora, a trent'anni, egli si appella ancora ai Grards perché il suo merito intellettuale sia finalmente riconosciuto. Ma se il prezzo del successo dovesse essere l'ipocrisia e il conformismo, sarà pronto a rinunciare alla gloria, e a ritirarsi in solitudine per coltivare la virtù. !0! Su questa figura-chiave per l’interpretazione dell’individualismo

214

del Misanthrope di Molière! ha l’effetto di una geniale yzise en abyme: Rousseau non solo rende pubbliche le ragioni dello scontro che lo oppone agli ospiti di Madame de Besenval, ma si giustifica assumendo la parte di un eroico oppositore dell’ipocrisia mondana. Quella che impedisce al piccolo musicista di «brillare», infatti, non è vergognosa ignoranza, ma è la stessa virtù di Alceste, quel misto di schiettezza e di spontaneità, di fedeltà incrollabile al proprio caractère, che nel lin-

guaggio moderno conosciamo con il nome di autenticità. Nel rivendicare il diritto ad essere se stesso, Rousseau sta inaugurando una nuova epoca nella storia dell’individualismo, destinata a sfociare nel mito romantico dell'io immediato. Qui, al pranzo parigino, il processo è ancora in incubazione: trasvalu-

tando il significato delle propria goffaggine dal sistema di valori cortesi a quello di una nuova etica, Rousseau non si pro-

clama del tutto originale, ma si accontenta di ottenere una piccola rivincita di orgoglio. La lettura pubblica delle proprie sventure (gesto di autoesibizione seduttiva che prefigura quello delle Confessions), fornisce finalmente quel tessuto connettivo senza il quale non può darsi accordo sui valori comuni. Tra l’ethos aristocratico e l’ethos intellettuale-borghese Rousseau getta un ponte, rappresentato dalla sua interiorità,

ossia dall’essenza umana comune a lui e ai suoi interlocutori. Gli ospiti di Madame de Besenval, usciti per un istante dalla loro cecità snobistica, si accorgono improvvisamente che al loro fianco siede un simile, un individuo che pur non comportandosi corze loro, è nondimeno un uomo come loro!"2. E si commuovono.

Dopo questa svolta decisiva, l'episodio scivola rapidamente verso la conclusione. Con uno sguardo ammirato e allusivo,

identico a quello che, a Torino, Mademoiselle de Breil aveva rousseauiano e della sua funzione antagonistica al sistema di valori mondani,

si veda il prossimo capitolo. 102 Si ripropone, con caratteristiche proprie, la struttura dell’incontro tra Saint-Preux e Julie: scavalcato il meccanismo del riconoscimento di rango interno alla classe (la distinzione aristocratica), l’esperienza condivisa dell’«umanità» fornisce la base di una diversa e più universale forma di riconoscimento, aperta al valore dell'identità personale. 10 Nello sviluppo dell'episodio, la funzione di Madame de Broglie è equivalente a quella di Mademoiselle de Breil e di Julie: è l’aristocratica più

ZIO

lanciato verso il nonno!%, la figlia di Madame de Besenval non solo ammette personalmente il valore di Rousseau, ma

pretende che lo riconosca anche la madre, che fino a questo momento aveva incarnato i valori più rigidi dell’aristocrazia del sangue: Fosse vanità o verità nelle mie interpretazioni mi sembrò di scorgere gli sguardi di Madame de Broglie che dicevano a sua madre: «Ebbene, mamma, avevo torto a dirvi che quest'uomo era più adatto a pranzare con voi che con le vostre domestiche?».

Ritroveremo nelle Confessions numerose variazioni di que-

sto tema un po’ orfico: l’intellettuale ammansisce i persecutori attraverso la declamazione pubblica della sua opera. La stessa simbologia del pianto, in questo specifico contesto, assume un senso più letterale, una valenza sadica: versate da quei mondani che sono capaci di controllare ogni sfumatura del contegno, le lacrime denunciano sottomissione, una sorta di

sconfitta di classe. L'episodio più emblematico è narrato nell’ottavo libro, dove il compositore del Devin du village trascinerà ai propri piedi un intero teatro di nobili piangenti. Ma

il topos seduttivo torna anche nel decimo, in alcuni passaggi dedicati proprio ai rapporti con la marescialla de Luxembourg. Rousseau vi racconta di essersi servito dello stesso stratagemma usato con gli ospiti di Madame de Besenval per colmare il vuoto angoscioso della propria conversazione: «Per

salvarmi dall’‘mbarazzo di parlare con lei ricorsi a un supplemento: mi misi a leggere»! Per diversi mesi, dunque, a Montmorency, si celebrò questa bizzarra cerimonia di lettura sostitutiva: giunto al castello verso le dieci di mattina, Rousseau saliva nella stanza della marescialla e, seduto accanto al

letto di lei, recitava ad alta voce alcune pagine della Nouvelle Heloise. Secondo la testimonianza orgogliosa delle Corfessions, l’effetto di queste letture private fu eccezionale. Entusiasmatasi del libro, la dama sembrava avere perso ogni alterigia, e improvvisamente scoperto tutti i pregi dell’autore: giovane e colta ad abbandonare per prima i pregiudizi di rango, mediando tra le due classi sociali.

104 Confessions, p. 522.

216

«Non parlava che di re, non si interessava che a mze. Mi diceva continuamente parole dolci, mi abbracciava dieci volte al giorno»! Fu l’inizio di una nuova esistenza coi signori di Luxembourg. L'amicizia concessa quasi per pietà, nel colmo della disperazione e dell’abbandono!%, poteva ora giustificarsi su una base oggettiva. L'insormontabile distanza che impediva il rapporto tra uguali («Anche se avessimo abitato più vicini, la distanza tra le nostre condizioni sarebbe rimasta sem-

pre la stessa») si dissolveva sotto l’effetto taumaturgico del genio letterario. E come la lettera a Parisot aveva conquistato a Rousseau il diritto di sedere alla stessa tavola di Madame de Besenval, il successo della Nouvelle Héloise non poteva non portare un privilegio equivalente: Volle che # wzi0 posto a tavola fosse sempre accanto al suo e, quando qualche nobile signore voleva sedersi lì, lei gli diceva che era mio, e lo faceva accomodare altrove. Immaginate l'impressione che queste incantevoli maniere avevano su di me, che mi lascio soggiogare dal minimo segno di affetto!”.

Il riconoscimento della marescialla fu una conferma decisiva per l'autostima di Rousseau, che ottenne da lei proprio quel posto a tavola, e a scapito di titolatissimi Seigreurs, che

la sua coscienza aveva sempre considerato come la più alta delle conquiste simboliche. Può darsi, come sostengono alcuni biografi, che Madame de Luxembourg si sia tanto appassionata al romanzo solo perché vi scopriva delle analogie con la propria biografia sentimentale!°. Ma l’analogia di struttura tra questo aneddoto e l’epilogo del pranzo a palazzo Besenval fa pensare a una costruzione accurata, prettamente letteraria. Non importa se l'intenzione di Rousseau sia inconsapevole, 0 se celi un tentativo cosciente di trasfigurare il passato. Il suo significato è chiaro. Abbandonati i panni del mondano, VID, Pi 321, 106 Sulle circostanze dell’incontro, si veda la quarta delle Lettres è Malesberbes, pp. 1144-1145. 107 Confessions, p. 523. 108 Dopo una giovinezza burrascosa, la marescialla era diventata un modello di virtù e di vita ordinata, e per questo pretendeva di identificarsi con Julie.

217

l’intellettuale ha ritrovato il suo vero ruolo nell'esercizio della verità. Ha letto al posto di conversare, e così facendo ha conquistato la stima di quelle stesse regine dei salotti che lo avevano deriso per le sue cattive maniere. Con un gesto di seduzione culturale, il servo si è vendicato dei propri padroni: «Fino a quel momento avevo avuto il cuore un po’ gonfio, ma compiuta così la mia vendetta fui soddisfatto». È difficile trovare una formula che compendi i motivi di questo episodio altrettanto felicemente di quella del riconoscimento paternalistico. Consapevoli che si tratta di una soluzione meno riuscita, prendendo spunto dall'immagine fortiniana, potremmo parlare di un riconoscimento d’ospitalità, che si colloca idealmente a metà tra la seconda e la quarta figura. Il rapporto tra Rousseau e i suoi mecenati sviluppa su più lar-

ga scala il rapporto paternalistico, di cui replica le due più importanti condizioni strutturali: la disuguaglianza e la dipendenza. Malgrado l'innalzamento di status rispetto al ruolo di servo o vagabondo, l’intellettuale è ancora costretto a demandare la propria sopravvivenza e la conferma del proprio valore a un'autorità superiore. Il riconoscimento è octroyé, viene con-

cesso come un favore dall’aristocrazia che, al termine dell’avventura, continua a tenere le redini del potere. Tuttavia, rispetto a quella torinese, l’esperienza parigina

introduce delle importanti novità, che preludono a un cambiamento sostanziale dei rapporti intersoggettivi: a) benché l’attestazione di valore resti sempre affidata all'onore della prova, i motivi didattici della prima forma di riconoscimento sono nettamente stemperati. Il rapporto tra la coscienza sotto esame e i suoi superiori perde la familiarità della Bi/dung e acquista tratti rivendicativi e aggressivi: diventa una lotta, solo ora accostabile all’hegeliano «Kamzpf wr Anerkennung». b) Questa trasformazione è conseguente alla presa di coscienza sociale e politica dell'io protagonista. Rousseau scopre la dignità morale della sua classe di origine, il popolo, e i valori del suo gruppo di adozione, gli b0rz7es de lettres. Il riconoscimento, seppur concesso liberalmente dall’alto, comincia ad essere rivendicato dal basso come un diritto. 218

c) La maturazione interiore tuttavia, non cancella i motivi snobistici che dominavano la seconda figura. Questo nuovo stadio della vita di Rousseau si caratterizza per la sua costitutiva ambivalenza: la nobiltà si presenta alternativamente come classe prestigiosa o antagonista gretta e incolta; il popolo oscilla tra l’idealizzazione edulcorata e la presa di distanza venata dal disprezzo. Quest’incertezza ideologica, a sua volta, può essere ricondotta all’ambigua condizione sociale dell’intellettuale settecentesco, di cui la figura dell’ospite e la gaffe di Madame de Besenval sono esemplari metafore. d) Infine, anche il pathos del racconto è all'insegna dell’ambivalenza: tornano alcuni motivi «caldi» dell’episodio torinese, e in particolare si impone la pietà, come condizione dell'incontro intersoggettivo; ma nei ricordi di Rousseau si insinuano tocchi di risentimento. La stizza per l'umiliazione subita, l’odio verso i potenti, il desiderio di vendetta appagato alla fine del pranzo, colorano le passioni del riconoscimento di una patina livida. Il lato nero dell’azzour-propre sta cominciando a corrodere la coscienza.

PA,

>

(Doo

Sela

e

Land

eprrro

Ù

QUARTA FIGURA

ROMANTICISMO E RISENTIMENTO

Sotto ogni romzantisme grugnisce e grufola l'istinto rousseauiano di vendetta. Nietzsche

LA RAPPRESENTAZIONE A CORTE DEL DEVIN DU VILLAGE

Eccomi in uno dei momenti critici della mia vita, nel quale è dif-

ficile limitarsi a narrare, perché è inevitabile che la narrazione stessa si impregni di censura o di apologia. Cercherò tuttavia di riferire come e su quali princìpi mi regolai, senza aggiungere né lode né biasimo. Ero quel giorno nel mio solito abbigliamento trascurato: barba lunga e parrucca piuttosto spettinata. Confondendo la mancanza di decenza con un atto di coraggio, entrai così conciato nella stessa sala dove sarebbero giunti di lì a poco il re, la regina, la famiglia reale e tutta la corte. Presi posto nel palco dove mi condusse Monsieur de Cury, e che gli apparteneva. Era un grande palco che dava sulla scena, proprio di fronte a un palchetto più alto, dove si accomodò il re con Madame de Pompadour. Circondato da dame, e unico uomo sul davanti del palco, non potevo dubitare che mi avessero fatto sedere là proprio per mettermi in mostra. Quando accesero le luci, vedendomi così vestito in mezzo a persone tutte parate a festa, cominciai a

sentirmi a disagio. Mi chiesi se ero al mio posto, se ci stavo con convenienza, e dopo qualche minuto di inquietudine mi risposi di sì, con un’intrepidezza che sorgeva forse più dall’impossibilità di smentirmi che dalla forza delle mie ragioni. Mi dissi: «Sono al mio posto perché vengo a veder rappresentare la mia opera, perché sono stato invitato, perché l’ho scritta appositamente, e perché, dopotutto, nessuno più di me ha il diritto di godere il frutto del mio lavoro e del mio talento. Mi sono vestito come al solito, né meglio, né peggio. Se ricomincio ad asservirmi all'opinione per qualche aspetto, tra breve sarò schiavo in tutto. Per essere sempre me stesso non devo arrossire, dovunque mi trovi, d’essermi vestito nel modo che ho scelto. Il

mio aspetto è semplice e trascurato, ma non sudicio né indecoroso. La barba non è sconveniente in quanto tale, perché ce la dà la natura e perché, a seconda dei tempi e delle mode, può essere talvolta un

ornamento. Mi giudicheranno ridicolo, impertinente, ma che m'importa? Devo saper sopportare il ridicolo e il biasimo, purché non siano meritati». Con questo breve soliloquio mi rinfrancai a tal punto che, se ce ne fosse stato bisogno, sarei stato intrepido. Ma, o per

effetto della presenza del sovrano o per la naturale disposizione dei cuori, non scorsi altro che premura e cortesia nella curiosità di cui

ero oggetto. Ne fui commosso al punto che ricominciai a inquietarmi per me stesso e per la sorte della mia opera, temendo di cancellare quelle disposizioni così favorevoli che sembravano preannunciare

223

solo applausi. Ero armato contro i loro scherni, ma la loro aria carezzevole, cui non ero preparato, mi soggiogò talmente che tremavo come un bambino quando si cominciò. Ebbi subito di che rassicurarmi. L’opera fu rappresentata malissimo quanto agli attori, ma cantata ed eseguita bene quanto alla musica. Sin dalla prima scena, che è davvero di una commovente ingenuità, sentii levarsi dai palchi un mormorio di stupore e di plauso sino ad allora inaudito in quel genere di spettacolo. Il fermento crebbe rapidamente, al punto che si estese a tutto il pubblico e, per parlare alla Montesquieu, moltiplicò il suo effetto con il suo stesso effetto. Alla scena dei due sempliciotti tale effetto raggiunse il culmine. Alla presenza del re non si battono le mani: ciò permise di sentire tutto, e l’opera e l’autore ci guadagnarono. Udivo intorno a me un bisbiglîio di donne che mi sembravano belle come angeli, e che si dicevano sotto voce: «Incantevole!», «Stupendo!», «Non c’è suono che non parli al cuore!». Il piacere di far emozionare tante amabili creature commosse pure me fino alle lacrime, e al primo duetto non riuscii più a contenerle, vedendo che non ero il solo a piangere. Per un attimo ritornai in me, ricordandomi il concerto di Monsieur de Treytorens. La reminescenza ebbe l’effetto dello schiavo che reggeva la corona sulle teste dei trionfatori; ma durò poco, e mi abbandonai subito pienamente, e senza più distrarmi, al piacere di assaporare la mia gloria. Sono sicuro, però, che in quel momento la voluttà del sesso c'entrava molto più della vanità dell'autore. E certo, se là ci fossero stati solo degli uomini, non sarei stato divorato, com’ero,

dall’insaziabile desiderio di raccogliere con le labbra le lacrime deliziose che facevo versare. Ho visto opere eccitare i più vivi moti d’ammirazione, mai però un’ebbrezza così piena, così dolce, così commovente regnare per un intero spettacolo, e soprattutto a corte, il giorno della prima. Chi c'era deve ricordarsene, perché il suo effetto fu unico!.

1. Il trionfo del riconoscimento Ed eccoci, infine, al centro dell’incalzante serie di avveni-

menti — l'illuminazione di Vincennes, la vittoria del primo Discours, la composizione del secondo, il trasferimento all’Er-

mitage — che segna la più importante svolta nel racconto delle Confessions. Alla fine del settimo libro il nostro protagonista era ancora un timido borzzze de lettres alle prese con il primo ! Confessions, libro VIII, pp. 377-379.

224

incarico importante, la redazione degli articoli musicali per l’Encyclopédie. Alla fine dell'ottavo, mentre si prepara ad abbandonare la metropoli corrotta per la campagna, si è ormai trasformato in Jean-Jacques Rousseau, il grande accusatore, l’amico della natura e del popolo, l’eroe pronto a fare della propria vita un modello etico universale. In poco più di sei anni — il bando dell’Accademia di Digione fu pubblicato nell'autunno del 1749, la partenza da Parigi risale al 1756 —, si è consumata una conversione, di cui lo stesso protagonista, rie-

vocandone il momento più celebre, rimarcherà le valenze religiose, quasi mistiche: I miei sentimenti salirono, con inconcepibile rapidità, al livello delle mie idee. Tutte le mie piccole passioni furono soffocate dall’entusiasmo per la verità, la libertà, la virtù; e la cosa più stupefacente fu che questa effervescenza durò nel mio cuore più di quattro o cinque anni, al più alto grado, forse, che abbia mai raggiunto nel cuore di nessun altro uomo?.

La rappresentazione del Devin du village? avvenne nel pieno di questa effervescenza intellettuale. Rousseau racconta di aver scritto musica e libretto in pochissimi giorni e di essere stato colto di sorpresa dal successo. La prima esecuzione, anonima, fu accolta con tanto calore che l’intendente

del re ne chiese una replica immediata a corte. Rousseau, i ibid p-331; } Rousseau compose il Devin du village nel 1752, poco dopo la vittoria di Digione, durante un breve soggiorno a Passy a casa dell'amico Mussard (Confessions, pp. 374 ss.). Musicalmente l’intermezzo s’ispira all’opera italiana, che proprio in quegli anni stava scatenando in Francia la Querelle des Buffons. Il libretto, che narra delle astuzie di una pastorella per riconquistare l’amore del fidanzato, ricorda le trame di Marivaux, ma ha un tono tipi-

camente rousseauiano: Colin ha abbandonato Colette perché innamorato di una dama di città. La morale della storia è la stessa dell’Émzile: grazie a un espediente escogitato dall’indovino del villaggio, Colin si ravvede e torna da Colette, imparando ad accontentarsi del suo posto sociale e a non lasciarsi suggestionare dai falsi splendori. Sul Devi, da un punto di vista storico-musicale: S. Baud-Bovy, J.-J. Rousseau et la musique, Neuchàtel, La Baconnière, 1988; G. Gregoriou, Le Devin du village — un còté peu connu de l’aeuvre de ].J. Rousseau, in Rousseau, l’Émile et la Révolution. Actes du colloque international de Montmorency, a cura di R. Thiéry, Paris Ville de Montmorency, Universitas, 1992, pp. 517-524.

2Z5

sebbene esitando, dovette obbedire, e ricevette in cambio del

lavoro un invito allo spettacolo. Proprio nel prestigioso teatro di Fontainebleau, cuore reale e allo stesso tempo simbolico della società d’Ancien Régime, si consumerà l'ennesimo atto della sua lotta per il riconoscimento, destinato ad aggiungere un nuovo capitolo ai suoi tormentati rapporti con l’aristocrazia e ad alimentare la leggenda del suo personaggio pubblico. L'episodio si apre in un contesto che richiama apertamente l'immaginario del Discours sur l’inégalité: il palcoscenico metaforico della festa tra le capanne si incarna nel palcoscenico vero del teatro di corte, su cui l'artista Rousseau sta per esibirsi soffrendo della dovuta ansia da prestazione*. Dal punto di vista storico-sociale, invece, la circostanza evoca il pran-

zo mondano a casa di Madame de Besenval: gli anni di servitù sono ormai un ricordo, Jean-Jacques è stato invitato al consesso di nobili, e il posto che gli è stato concesso è il premio dovuto al suo talento artistico. O, almeno, questa è la versione ufficiale, legittimata dalle apparenze: Sono al mio posto perché vengo a veder rappresentare la mia opera, perché sono stato invitato, perché l'ho scritta appositamente, e perché, dopotutto, nessuno più di me ha il diritto di godere il frutto del mio lavoro e del mio talento.

Sotto questa superficie rassicurante, tuttavia, il rapporto dell'ex lacché con gli antichi padroni non è ancora alla pari. Jean-Jacques ha motivo di sospettare che il nuovo posto non - gli appartenga a tutti gli effetti e, temendo di apparire visibilmente fuori luogo, viene travolto da un senso di malessere: Circondato da dame, e unico uomo sul davanti del palco, non potevo dubitare che mi avessero fatto sedere là proprio per mettermi in mostra. Quando accesero le luci, vedendomi così vestito in mezzo a persone tutte parate a festa, cominciai a sentirmi a disagio.

Il dramma interiore di Jean-Jacques è sempre lo stesso: è il timore di mostrarsi ridicule, inadeguato alla raffinata società «Ricominciai a inquietarmi per ze stesso e per la sorte della 2/4 opera». L'identificazione tra autore e opera ha un ruolo importante nell’episodio.

226

aristocratica cui si rivolge la sua richiesta di riconoscimento.

Ma le ragioni sono significativamente diverse da quelle degli episodi precedenti: non si richiamano più all’oggettiva mortificazione della livrea o al rischio, dimostratosi tutt'altro che irreale, di essere rispedito a mangiare con i servi, ma alla sensazione immaginaria di essere stato appositamente circon-

dato da donne ed esibito sul fronte del palco per eccitare l’ilarità degli astanti. Solo la terza delle sue cause di imbarazzo, ossia la consapevolezza di indossare un abito inadeguato al luogo e alle circostanze, sembra avere fondamento: eppure è chiaro che non può essere attribuita alla malignità di qualche anonimo

persecutore.

In realtà, non

c'è nessuna

cattiveria

nelle occhiate curiose con cui il pubblico di cortigiani accoglie il musicista che ha già incantato una platea di Parigi. Lo stesso Rousseau, tornato per un istante padrone di sé, deve ammettere l’inconsistenza delle proprie paure: «[...] non scorsi altro che premura e cortesia nella curiosità di cui ero oggetto». Ma la constatazione non riesce a placare la sua insicurezza. Il suo stato d’animo è ancora quello dell’inferiore, ansioso di dimostrare il proprio merito a prestigiosi padri-

protettori, ma allo stesso tempo terrorizzato di deluderne le aspettative: Ne fui commosso al punto che ricominciai a inquietarmi per me

stesso e per la sorte della mia opera, temendo di cancellare disposizioni così favorevoli che sembravano preannunciare solo applausi. Ero armato contro i loro scherni, ma la loro aria carezzevole, cui non ero preparato, mi soggiogò talmente che tremavo come un bambino quando si cominciò.

Ma il tremito di Rousseau non ci contagia: ormai siamo troppo familiari con il suo immaginario e con il suo stile narrativo per non sapere che anche questo ennesimo dramma è destinato a concludersi con un trionfo glorioso. E infatti, con lo stesso meccanismo che abbiamo visto all’opera negli episodi precedenti, la situazione si sblocca non appena il conflitto di riconoscimento scivola dal terreno dei valori mondani a quello dei valori artistici, dando modo all’eroe di riscattarsi attraverso un'esibizione seduttiva. Il rovesciamento dei rapporti di forza viene descritto con lo stesso sapiente effetto di 227

suspense del pranzo di Torino. Ne è un primo annuncio il «mormorio di stupore e di plauso sino ad allora inaudito in quel genere di spettacolo» che si leva nell’oscurità del teatro poco dopo l’alzarsi del sipario. Ricordiamo l’analoga reazione iperbolica da parte dei convitati torinesi: «Non si è mai visto un simile stupore». Sempre come a Torino, dove il plauso era lievitato progressivamente dalla lode del conte al «coro» generale, l’entusiasmo dei cortigiani di Fontainbleau va in crescendo, fino a coinvolgere la sala intera: «Il fermento crebbe rapidamente, al punto che si estese a tutto il pubblico e, per parlare alla Montesquieu, moltiplicò il suo effetto con il suo stesso effetto». Infine, nell’attimo di sospensione silenziosa permesso dall’applauso interdetto dall’etichetta di corte, l'eccitazione esplode in un pianto liberatore: Alla scena dei due sempliciotti, tale effetto raggiunse il culmine. Alla presenza del re non si battono le mani: ciò permise di sentire tutto, e l’opera e l’autore ci guadagnarono. Udivo intorno a me un bisbiglio di donne che mi sembravano belle come angeli, e che si dicevano sotto voce: «Incantevole!», «Stupendo!», «Non c'è suono che non parli al cuore!». Il piacere di far emozionare tante amabili creature commosse pure me fino alle lacrime, e al primo duetto non riuscii più a contenerle, vedendo che non ero il solo a piangere.

Il pianto, che nel finale del pranzo di Madame de Besenval conservava ancora un significato ambivalente, potendo esser letto sia come un’offerta di compassione, sia come un motivo sadico, assume nel nuovo scenario una valenza del tutto positiva. Enfatizzando il potere unificante della pitié, queste lacrime di commozione sigillano una pacificazione simbolica tra le controparti, sono espressione di una catarsi collettiva. Rousseau, infatti, ci tiene a precisare che quelle delle sue spettatrici erano «lacrime deliziose», da cui egli è stato a sua volta commosso: «non ero il solo a piangere». E come sotto lo sguardo benevolo del conte de Gouvon, la sua coscienza sembra ri-

conciliarsi con i propri avversari, abbandonandosi a sensazioni calde, solidali, all'insegna della fraternità. Grazie anche al-

l’effetto socializzante della musica — il linguaggio più trascinante di tutti, perché evoca la passione e parla direttamente al 228

cuore? — l’empatia del sentimento condiviso stempera e seda il conflitto sociale.

i

Lo scioglimento, tuttavia, non ha un andamento perfettamente lineare. Proprio mentre è al suo colmo, la catarsi viene interrotta da un pensiero amaro: «Per un attimo ritornai in me, ricordandomi il concerto di Monsieur de Treytorens». Il

riferimento è a un aneddoto raccontato nel quarto libro delle Confessions, che sembrava sepolto tra le spensierate memorie giovanili, ma che ora riemerge, risorge all’improvviso sull’onda delle associazioni emotive. Vale la pena soffermarsi un istante su questo inciso, che schiude una prospettiva inedita sul rapporto tra memoria e identità. «Niente che sia per lui

indifferente può conservarsi nella sua memoria», scrive Rousseau nei Dialogues, parlando di se stesso; ed effettiva-

mente il suo racconto autobiografico — al pari di qualsiasi racconto autobiografico — si snoda come una sequenza di ricordi significativi, ricchi di senso per il loro ruolo nella storia individuale, per la costruzione dell’io. Ma nelle Confessions si intrecciano due forme diverse, e per molti aspetti antagonisti che, di memoria affettiva: non solo quella proustiana, che si risveglia con emozioni simili a quella suscitata dalla pervinca di Maran, frammento fugace della felicità perduta”, ma anche ? Cfr. Starobinski, I/ rimedio nel male, pp. 193-194. * Dialogues, p. 808. ? L'episodio apre il sesto libro delle Confessions. «Nulla di quello che mi è capitato in quell’epoca così cara [...] è sfuggito alla mia memoria. [...] Solo i ritorni del passato possono lusingarmi, e spesso questi ritorni così vivi

e veri nell’epoca di cui parlo mi fanno vivere felice a onta delle mie sventure. Darò di questi ricordi un solo esempio [...]. Il primo giorno che andammo a dormire alle Charmettes, Mamzan era in portantina, e io la seguivo a piedi. La strada sale; lei era piuttosto pesante e, temendo di affaticare troppo i portatori, volle scendere quasi a metà strada e fare il resto a piedi. Camminando, vide qualcosa di blu nella siepe, e mi disse: “Guarda, della pervinca an-

cora in fiore!”. Non avevo mai visto della pervinca, non mi abbassai per esaminarla e ho la vista troppo corta per distinguere a terra le piante dalla mia altezza. Le diedi solo uno sguardo di sfuggita; e trascorsero quasi trent'anni senza che rivedessi della pervinca o vi prestassi attenzione. Nel 1764 ero a Cressier con il mio amico du Peyrou; salivamo su un piccolo colle [...]. Salendo e guardando tra i cespugli, lancio un grido di gioia: “Ah, della pervinca!”, e ce n’era davvero. Du Peyrou si accorse del mio entusiasmo, ma ne ignorava la causa; lo scoprirà, spero, quando un giorno leggerà questa pagi-

na. Il lettore può giudicare, dall’impressione lasciata da un così piccolo oggetto, quella prodotta da tutti quelli che si riferiscono allo stesso periodo»,

229

quella dostoevskijana, acre e macerante, che segue gli stessi procedimenti analogico-metonimici, ma per la quale il passato è qualcosa di spiacevole, una minaccia da cui difendersi. Sotto il suo peso la coscienza si sente perseguitata da antiche umiliazioni da cui non riesce a liberarsi e, ribollendo nel sottosuo-

lo, «[...] per quarant'anni di seguito ricorderà fino agli ultimi e più ignominiosi particolari la sua offesa»8. Dostoevskij, nello scrivere queste parole, pensava proprio alle Confessions, e la sua nota psicologica, che illumina bene i piccoli traumi rievocati nelle figure precedenti, calza ancora meglio all’episodio di Fontainebleau. Rispetto all’«offesa», di anni ne sono passati più di venti. Nel 1730, diciottenne in pieno vagabondaggio picaresco, Rousseau si era stabilito per qualche tempo a Losanna; e per uno di quei caratteristici e incom-

prensibili colpi di testa che definisce lievemente extravagances, benché ignaro dell’arte, si era spacciato per musicista parigino, sotto il nome anagrammato di «Vaussore De Villeneuve». Non pago di queste già rischiose menzogne, aveva accettato di tene-

re una piccola esibizione dimostrativa davanti alle personalità locali, tra cui si distingueva Monsieur de Treytorens, giurista appassionato di musica che organizzava concerti nella sua casa:

«[...] volevo dargli un saggio del mio talento, e mi misi a comporre un pezzo per il suo concerto con la stessa sfrontatezza che se avessi saputo da che parte cominciare»!°. Il bluff, com'era prevedibile, si risolse in una figuraccia memorabile; Confessions, p. 226. Sulla memoria, il tempo e le anticipazioni proustiane, Raymond, /.-J. Rousseau, cit., in particolare pp. 52-61; Orlando, Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai Romantici, cit.; J.-F. Perrin, Le Chant de l’o-

rigine. La mémotre et le temps dans les «Confessions» de ].-]. Rousseau, «SV»,

339, 1996.

La

8 E Dostoevskij, Merzorze del sottosuolo, trad. it. Torino, Einaudi, 1988, jap 115,

? La differenza tra Rousseau e il vero uomo del sottosuolo, prosegue la voce delle Memorie, consiste soltanto nel grado di consapevolezza: «l’homme de la nature et de la verité, per la sua innata stupidità, considera la propria vendetta puramente e semplicemente come un atto di giustizia, ma il topo, per effetto dell’intensa coscienza, qui nega la giustizia. Si giunge finalmente al fatto, all’atto stesso della vendetta», ibid., p. 12. Sul còté Dostoevskij delle Confessions si veda anche M. Lavagetto, La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Torino, Einaudi, 1992, p. 130 e pp. 143-146 (sull’episodio a teatro). 10 Confessions, p. 148.

230

ma alla luce della rappresentazione del Devin acquista un valore aggiunto che potremmo definire «dialettico-figurale». Ogni dettaglio della scena giovanile può infatti essere letto come un'anticipazione del trionfo futuro, ma invertito di segno: Qualunque cosa si potesse pensare del mio preteso talento, l’effetto fu peggiore di ogni aspettativa. I musicisti soffocavano dal ridere, gli ascoltatori sgranavano gli occhi e avrebbero certo voluto tapparsi le orecchie, ma non c’era rimedio. Quei carnefici dei miei sinfonisti, per divertirsi, raschiavano da rompere i timpani a un sordo. Ebbi la costanza di andare fino in fondo, sudando a goccioloni, è vero, ma trattenuto dalla vergogna, non osando fuggire e piantar tutto così. Per mia somma

consolazione sentivo intorno a me gli

spettatori che si dicevano all’orecchio, o piuttosto lo dicevano al mio: «Non c’è proprio niente di sopportabile», un altro: «Che cagnara!», un altro: «Che diavolo di gazzarra!»!!.

È esattamente il negativo fotografico della scena di Fontainebleau, nella quale tutti i particolari umilianti si convertiranno nella loro antitesi positiva: i suoni striduli che diverranno incantevoli, i giudizi maligni degli spettatori e le risate soffocate degli altri musicisti che lasceranno spazio all’ammirazione e al pianto commosso delle dame di corte. Secondo lo sviluppo ormai classico della dialettica rousseauiana del riconoscimento, la somma negazione si rovescia nella somma affermazione, ripristinando l’ideale normativo, l’ordre naturel des choses. Al trionfo del Devin si addicono ancora, e più che mai,

le parole conclusive del pranzo di Torino: «Uno di quei momenti troppo rari che ristabiliscono l’ordine naturale delle cose e vendicano il merito umiliato dagli oltraggi della sorte». Questa volta, però, la sequenza mortificazione/riscatto non

si compie nei limiti dello stesso episodio, ma si estende all’intero impianto macrostrutturale delle Confessions. Nella trama autobiografica comincia a emergere il primo di una fitta rete di rimandi teleologici che alludono a una filosofia della storia privata opposta e complementare a quella romantica: una costruzione alternativa dell’identità, che invece di realizzarsi nel

recupero solipsistico dell’io naturale, all’insegna della tonalità emotiva dell’arzour de soi, approda a quello che per il moralista ll Ibid.

231

era il vanità stesso stanza fuschi clude lettori

sommo dell’alienazione, l’appagamento pubblico della d’autore. Ma la cosa più importante è che sia Rousseau a suggerire questa chiave di lettura. Temendo che la ditemporale e geografica tra Fontainebleau e Losanna ofl’intimo legame di senso che unisce i due eventi, conla rievocazione dell’aneddoto giovanile anticipando ai la futura Aufhebung:

Povero Jean-Jacques, non speravi davvero in quel momento crudele che un giorno, davanti al re di Francia e a tutta la sua corte, i

tuoi suoni avrebbero eccitato mormorii di sorpresa e di plauso, e che in tutti i palchi intorno a te le più amabili donne si sarebbero dette sottovoce: «Che grazia di suoni!», «Che incanto di musica!», «Sono canti che toccano il cuore!»!2.

A suggellare questa tessitura interna, nel momento dell’acclamazione gloriosa «davanti al re di Francia e a tutta la sua corte», riaffiora il souvenir involontaire del vecchio Jean-Jacques, umiliato e offeso. L'epifania negativa è illustrata da un’impressionante metafora attinta dall’iconografia romana:

«Quella reminescenza ebbe l’effetto dello schiavo che reggeva la corona sulle teste dei trionfatori»!?. Ma il suo significato appare piuttosto enigmatico. È un'immagine positiva, senza dubbio, ma il fatto che vincitore e soccombente siano un’uni-

ca persona — seppure scomposta in due io cronologicamente distanti — la rende sgradevole: il ricordo dei precedenti fallimenti intossica la coscienza, che non riesce a distaccarsi dai propri fantasmi, e a rinascere ex novo grazie alla virtù natura-

le, e nietzscheana, dell’oblio. A differenza del selvaggio vagante per i boschi, Jean-Jacques distingue benissimo tra danno e 12 Ibid. L'aneddoto di Losanna, a sua volta, potrebbe essere considerato come uno «spostamento» dell’umiliazione, ben più grave per le sue conse-

guenze esistenziali e sociali, che Rameau aveva inflitto a Rousseau all’epoca degli esordi parigini. Cfr. Confessions, pp. 333 ss. !3 Nella cerimonia romana il generale vittorioso veniva condotto al Campidoglio su un carro accompagnato dalla folla in tripudio. Per evitare che il trionfatore si inorgoglisse troppo, veniva fatto salire sullo stesso carro anche uno schiavo, denominato da Plinio carnifex gloriae, che aveva ordine di ripetergli: rzemento te bominem esse, ricordati che sei un uomo. Cfr. la voce «Triomphe» del cavaliere de Jaucourt, in Ercyclopédie, XVI, pp. 652-655, e la nota di Grosrichard all’edizione Flammarion delle Confessions, cit., vol. II, p. 494.

232

ingiuria, non dimentica il disprezzo che gli è stato dimostrato: la temporalità della sua memoria è quella dell’amzour-propre ossia, sempre in termini nietzscheani, quella del ressenzizzent. Vedremo più avanti come questo ambiguo rapporto con il passato dischiuda un’aspetto poco noto della sua autorappresentazione intellettuale. Per ora basti notare come, reggendo la corona sul capo del trionfatore, lo schiavo si dimostri indispensabile al rito celebrativo. Tradotto in termini meno allegorici, il risentimento si rivela parte del riconoscimento compiuto, un suo ingrediente fondamentale; e, nel torrente di passioni calde e positive che travolgono la coscienza nell’attimo del piacere completo, si istilla una punta di veleno. L'effetto dell’epifania negativa, però, è solo istantaneo: «ma durò poco», precisa Rousseau. Dopo essere sprofondata in un dolore che sembra insuperabile, la coscienza torna a vivere nel presente, lasciandosi andare al godimento del suo successo: «...e mi abbandonai subito pienamente, e senza più distrarmi, 4/

piacere di assaporare la mia gloria». Per descrivere in cosa consista questo sapore delizioso della gloria, e il fatto che la tensione della lotta lasci spazio a un rilassamento estatico, il testo delle Confessions ricorre a una metafora erotica esplicita: «[...] in quel momento la voluttà del sesso c'entrava molto più della vanità dell’autore. E certo, se là ci fossero stati solo degli uomini, non sarei stato divorato, com'ero, dall’insaziabile desiderio di raccogliere con le labbra

le lacrime deliziose che facevo versare». Con Mademoiselle de Breil, Madame

de Besenval

e sua figlia, la marescialla

de

Luxembourg, anche il pubblico del teatro di corte viene percepito in modo sessuato. È sempre alle donne, e in particolare alle dame del gran mondo, che Jean-Jacques rivolge la richiesta di riconoscimento, ed è soprattutto per loro che scrive le sue opere, brandendole come armi di seduzione!*. Gli apprezzamenti delle persone colte e i premi delle accademie non gli bastano: perché il trionfo sia completo, bisogna che capitolino quelle stesse mondane altezzose, ironiche, annoiate, che avevano decretato il suo fallimento sociale. Non è un caso che, a 14 Sull’atteggiamento genericamente seduttivo di cui Rousseau carica la propria attività intellettuale, Starobinski, /.-J. Rousseau, cit., in particolare pp. 9-21 e pp. 274-275.

233

molte pagine di distanza dall’apoteosi di Fontainebleau, Rousseau ricorra a un identico simbolismo sessuale nel racconto di quella che sarà la sua consacrazione definitiva di scrittore. Il successo della Nouvelle Héloise viene rivissuto dalla memoria interpretante come una seduzione di massa, una grandiosa haute avanture finalmente giunta a buon fine: Fra i letterati i pareri si divisero, ma nel gran mondo il consenso fu unanime, e le donne, soprattutto, si inebriarono del libro e del-

l’autore, al punto che ce n’erano poche, persino tra quelle di alto rango, che non avrei conquistato se lo avessi voluto”.

Non importa, allora, se tutto quest’entusiasmo femminile si spieghi agli occhi degli storici della letteratura come l’effetto di concrete e specifiche condizioni socio-culturali!*. Nel l’autorappresentazione

di Rousseau — in cui si presuppone

sempre l’identità tra l’opera e la persona fisica dell'autore!’ — la confessione della principessa de Talmont, che passò una notte in bianco pur di terminare d’un fiato il romanzo, equivale a ! Confessions, p. 545. Per spiegare come mai il romanzo avesse entusiasmato proprio il 720rde, destinatario delle sue requisitorie, e fosse stato invece trascurato dagli svizzeri, che ne sono gli indiscussi protagonisti morali, Rousseau si giustificò con un sorprendente elogio della sensibilità cortese, che contraddice i princìpi della sua pedagogia e della sua critica sociale: «Per apprezzare, se mi è permesso dirlo, le finezze sentimentali di cui quell’opera è piena, occorre una delicatezza di tatto che si acquisisce solo con l'educazione del gran mondo. [...] Non bisogna meravigliarsi, dunque, se il libro ebbe il maggior successo a corte: è pieno di tratti vivi ma velati, che lì devono piacere perché si è maggiormente esercitati a interpretarli», ibd., p. 546. Il gusto, la finezza del cuore, la penetrazione psicologica sono qualità distintive dell’ethos aristocratico: attribuendosele con fierezza Rousseau dimostra ancora una volta quale sia la sua classe di identificazione ideale. !é Sul successo dell’He/oise, uno dei primi best-seller della storia letteraria, C. Labrosse, Lire au XVIII siècle. La «Nouvelle Héloise» et ses lecteurs, Lyon, Presses Universitaires de Lyon, 1985; e il capitolo di Daniel Mornet nell’edizione critica del romanzo: La Nouvelle Héloise, cit., vol. I, pp. 237-263. !7 Si confrontino la rappresentazione del Devin: «l’opera e l’autore ci guadagnarono»; la pubblicazione dell’Héloîse: «le donne si inebriarono del libro e dell’autore»; e le pubbliche letture a Montmorency: «Madame de Luxembourg si entusiasmò di Julie e del suo autore», Confessions, pp. 522523. All’identificazione tra autore e opera si aggiunge quella con il personaggio di Saint-Preux: «Il motivo per cui le donne furono così favorevoli fu la convinzione che avessi scritto la mia storia personale, e che fossi io stesso l’eroe del romanzo», ibid., p. 547.

234

una conquista erotica!*. E trattandosi, per una volta, di un amore pienamente ricambiato, non più sottomesso e umile co-

me quelli vissuti in gioventù, il suo godimento è descritto come un'estasi di felicità assoluta, nello stesso linguaggio sentimentale riservato ai deliqui di Julie e Saint-Preux: «Ho visto opere eccitare i più vivi moti d’ammirazione, mai però un’ebbrezza

così piena, così dolce, così commovente regnare per un intero

spettacolo». Ivresse, transports, volupté: il vocabolario della passione amorosa si sovrappone a quello del successo letterario, e finisce per assorbirlo, dissolvendo quel surplus di negatività che grava, agli occhi del moralista, la seconda forma del riconoscimento, più minacciosa perché più competitiva ed egoistica («la voluttà del sesso c'entrava r0/to più della vanità dell’autore»!). Suggellando la fusione tra le due sfere della realizzazione identitaria, ed esaltandone gli aspetti sentimentali e affettivi, Rousseau smentisce platealmente le denunce del Dys-

cours, riprendendo invece toni e figure simboliche dell’Essaz: la musica, l’acqua, i canti, i festeggiamenti, la gioia e la passione. Amore e gloria, le due manifestazioni originarie dell’arzour propre, che, rendendo l’io irrequieto e mimetico, dovrebbero corromperne l’innocenza e impedirne la felicità, appaiono come fonti supreme di realizzazione interiore. L'ambivalenza che emergeva tra le righe del trattato antropologico esplode definitivamente, espandendosi sulla rappresentazione autobiografica fino a lacerarla al suo interno. Ormai si percepiscono nelle Confessions due voci narrative opposte e complementari: quella ufficiale dell’homzzze naturel, che ricostruisce la sua parabola solitaria verso la riconquista dell’azzour de soi per offrirsi come modello esemplare di autenticità; e quella, più sotterranea ma non per questo meno distinguibile, di un home social che ha 18 «Vennero a dirle che erano le quattro. “Se è così — disse lei — è troppo tardi per andare al ballo. Sciogliete i miei cavalli”. Si fece spogliare e passò il resto della notte a leggere», 1514. Sull’erotizzazione della creazione e del successo artistico, Clément, ].-J. Rousseau, cit., cap. XXI (Le corps glorieux de l’écriture). 19 È un aspetto importante. In quest’apoteosi, la componente rivalitaria dell’amzour-propre viene come stemperata da quella affettiva: grazie all’empatia dell'amore, il riconoscimento può compiersi nella sua forma moderna, identitaria e autoaffermativa, spezzando l'equazione hobbesiana per cui il trionfo interiore del singolo deve costare automaticamente la sofferenza di qualcun altro.

235

bisogno dell’approvazione dei suoi simili e che, dimentico dell’amore per la solitudine campestre, rivive i ricordi più significativi come bagni di folla. C'è insomma uno Jean-Jacques che recide tutti i legami con il mondo esterno, applicando scrupolosamente la prima regola di saggezza esposta nelle Réveries?®; ma c'è anche uno Jean-Jacques che li rinserra, ricercando un confronto diretto con l’intera comunità dei contemporanei, e affidando proprio all’opinion publique, la grande nemica dell’autenticità, l’ultima parola sul proprio valore: Essere eterno, raduna intorno a me l’innumerevole folla dei miei simili: che ascoltino le mie confessioni, gemano per la mia indegnità,

arrossiscano per le mie miserie. Che ciascuno di essi, a sua volta, scopra il suo cuore ai piedi del tuo trono con la stessa sincerità; e poi uno solo ti dica, se ne ha il coraggio: «Io fui migliore di quell’uomo»?!.

Nell’invocazione che apre le Confessions possiamo insomma riconoscere la figura originaria dell’ a720ur-propre, Varchetipo da cui derivano le molteplici incarnazioni che abbiamo scoperto nell'immaginario di Rousseau. Ogni variazione mette in luce un aspetto, una possibilità e un significato particolare dell'esperienza del riconoscimento. Per comprendere quale sia la caratteristica specifica della terza e ultima forma, e interrogarci sulla morale di tutta la storia, dobbiamo ora ritornare al teatro di Fontainebleau.

2. La rivolta dell’autenticità

Finora, commentando la rappresentazione del Devir, abbiamo ritrovato tutti i più importanti motivi delle altre figure autobiografiche: il conflitto di classe, la prova trionfale, l’amo-

re, la gloria, la seduzione. Non ci siamo però soffermati sull’inedito atteggiamento del protagonista. Nei primi due episodi, desiderando di essere accolto tra i grandi signori aristocratici, ma non potendo competere sul loro stesso campo, Rousseau aveva cercato di dimostrare la dignità del suo talento e della 20 Réveries, pp. 1077-1079. 2! Confessions, p. 5.

236

sua persona. L'elaborazione di un sistema di valori concorrenziale rispetto a quello della cultura mondana era ancora immatura, e sostanzialmente subordinata alla richiesta di riconoscimento: la coscienza servile non reclamava differenza o distinzione, ma si accontentava di chiedere rispetto, di essere trattata allo stesso livello dei padroni. (Persino la stizza susci-

tata dall’alterigia di Madame de Besenval era svanita presto, non appena la distanza sociale si era ridotta). Soltanto durante il finale del pranzo, con la lettura del brano ispirato al Msanthrope, era baluginata l’immagine di un ethos alternativo al culto aristocratico della mediazione: «No, non posso costrin-

gere il mio animo sincero, / A mascherare a tal punto il mio carattere / Costerebbe al mio cuore uno sforzo eccessivo /A

questo indegno prezzo, rinuncio alla felicità». Ma si era trattato di una parentesi. La coscienza si era presto riconformata alle aspettative dei suoi interlocutori, e alla piccola rivolta era subentrata la soddisfazione di godere dell’agognato posto a tavola. A Fontainebleau, questa breve allusione si trasforma in

un’autonoma proposta etica. Sviluppando la sua stessa metafora, potremmo dire che Rousseau rovescia finalmente il tavolo cui implorava di essere ammesso: decide di non sottomettersi più a regole del gioco dettate da altri, ma di elaborare le proprie; di trasgredire i valori dei nobili, invece di conformarsi ad essi. Dopo essersi considerato figlio adottivo, colmo di ammirazione e di gratitudine, e poi ospite esitante tra la riconoscenza e il disprezzo, si rappresenta ora come un

rivale. E così inaugura una sistematica trasvalutazione dell’etica ‘aristocratica settecentesca, destinata a sfociare, tra l’altro, in una nuova concezione dell’individualità.

Lo spirito di questa rivoluzione culturale è già tutto in nuce nell'episodio a teatro. E un’ottima pista per decifrarlo ci è offerta da un dettaglio che potrebbe sembrare filosoficamente irrilevante: l'abbigliamento di Jean-Jacques??. Non si tratta di 22 In realtà è ovvio che l’abito — la prima parte di noi a offrirsi allo sguardo degli altri e a mediare tra il loro giudizio e l’idea che ci facciamo di noi stessi e che vorremmo comunicare — sia un terreno fecondo per studiare l’esperienza del riconoscimento. Basti pensare al ruolo che svolge nella psicologia adolescenziale e dei gruppi, o anche, proprio come in Rousseau, nell’ela-

23)

una preoccupazione nuova per il protagonista delle Confessions, che agli inizi dell’apprendistato torinese affidava le proprie speranze all’aspetto «quasi borghese» della livrea. Anche durante la visita a Madame de Besenval l'abito aveva giocato un piccolo ruolo: «Ella mi giudicava dal contegno, piuttosto che dall’abbigliamento che, seppur semplicissimo, era assai decoroso e non rivelava affatto un uomo da mandare a pranzo coi servi». Intuendo di avere offerto un'immagine di sé inappropriata alle attese dell’interlocutrice, Rousseau si era interrogato sul proprio aspetto: assolto l’équipage, la responsabilità dell’incidente era caduta sul più impalpabile waznzien. In entrambi i casi, dunque, il vestito svolgeva all’interno del dramma di riconoscimento una funzione simbolica positiva, come nel Paysan di Marivaux: compensava una parte del divario sociale, garantendo alla coscienza servile la legittimità del suo desiderio di promozione. Fin qui però si trattava di motivi secondari, che non modificavano la dinamica oggettiva dei rapporti tra dominanti e dominati. Il riscatto di Rousseau si era sempre compiuto su un piano diverso da quello che, secondo le categorie critiche del secondo Discours, è il regno della simulazione e dell’apparenza: il servo poteva emanciparsi grazie al proprio valore intellet-

tuale, grazie all’«essere» del merito e del talento, non alle effimere garanzie di un vestito. Alla prima di Fontainebleau, invece, la questione diventa decisiva, e soprattutto si rovescia di segno. L'abito influisce sul conflitto sociale perché, abbassando lo status della coscienza sotto esame, è causa del suo misconoscimento. Almeno, così è per l’autorappresentazione di Rousseau che, a differenza di quanto aveva concluso meditando sulla gaffe di Madame de Besenval, ora commenta: «vedendomi così vestito in mezzo a persone tutte parate a festa, comin-

ciai sentirmi a disagio». Ma si tratta — dobbiamo chiederci, come ogni volta che ci scontriamo con il suo complesso sociale — di una conclusione realistica? La coscienza proietta il disagio, borazione di atteggiamenti che rivendicano «differenza». Nel momento in cui, al mattino, scegliamo i nostri vestiti, stiamo sempre decidendo implicitamente se vogliamo essere uguali o diversi dagli altri; in ogni caso, ci collochiamo pubblicamente rispetto a loro. 2 Confessions, p. 289.

238

o lo registra nelle reazioni effettive dei propri vicini? Nel capitolo precedente, ricostruendo a grandi linee il milieu degli intellettuali illuministi, abbiamo ricordato l’importanza che avevano le forme in un ambiente dominato da logiche di potere prevalentemente simboliche. Uno dei campi di prova decisivi su cui si giocava la lotta per la rappresentazione del rango era proprio quello dell’abito, tra tutti i segni esteriori il più immediato e visibile, il più facilmente traducibile in termini di status. Contro un ricorso scolastico ai princìpi di Elias, Daniel Roche ha giustamente invitato gli studiosi a non mortificare la «cultura delle apparenze» in una dimensione soltanto cortese: in primo luogo perché la preoccupazione per un abbigliamento conveniente è propria di tutti i soggetti viventi in società (secondo i diversi sensi che possono essere at-

tribuiti alla parola: c'è convenienza rispetto al rango, al ruolo, alla personalità e al carattere, all'immagine interna o a quella esterna dell’io, ecc.); e in secondo luogo perché proprio alla fine dell’Ancien Régime la cura per il decoro del vestiario — e in particolare quello della biancheria personale — si stava affermando come un fenomeno collettivo, una sorta di democratizzazione borghese della distinzione?4. È innegabile tuttavia che, per chi si interessi a questi problemi, lo stile di vita aristocratico resti un campo di osservazione assolutamente privilegiato. Il dominio simbolico vi ha assunto proporzioni così spettacolari che un analista acuto co-

me Proust ha dedicato alla descrizione minuziosa degli abiti di principesse e duchesse interi capitoli del suo affresco sociale. In uno degli episodi più celebri della Recherche — la fantasmagoria della «barcaccia» di Madame de Guermantes, che introduce alla scoperta dell’universo auratico della nobiltà e in cui si compie, tra l’altro, la prima esperienza di riconosci-

mento snobistico del protagonista — l’epifania del conspicuous consumption viene ambientata proprio nello stesso scenario dell’avventura di Fontainebleau: il palco di un teatro affollato di spettatori abbigliati a festa, che si scrutano a vicenda con

avida curiosità?. D'altra parte, che a teatro si andasse per fini 24 Cfr. Roche, I/ linguaggio della moda, cit.

25 Cfr. M. Proust, Le C6té de Guermantes, in À la Recherche du temps

250

estranei all’arte lo aveva già capito Saint-Preux: «Nessuno va a teatro per il piacere dello spettacolo, ma per vedere il pubblico, per essere visto [...]»?°. Tutto insomma conferma l’oggettività del disagio denunciato da Jean-Jacques: non c’era luogo più in vista e occasione più infelice per sfoggiare in pubblico un abbigliamento sconveniente. Ma forse il luogo e l'occasione non erano così inappropriati. È importante precisare, infatti, che Rousseau era consape-

vole delle proprietà simboliche dell’abbigliamento. Oltre ad averne sofferto in prima persona, come mostrano le disavventure autobiografiche che abbiamo ricordato, ha tematizzato il

problema in molti luoghi delle sue opere filosofiche. Nelle lettere parigine dell’Hé/oise, ad esempio, la strategia distintiva che si nasconde nell’apparentemente innocuo avvicendarsi delle mode viene smascherata con una lucidità sociologica?’. Le dame cittadine — spiega Saint-Preux a Julie per illustrare i costumi della metropoli — dettano regole di eleganza che le sprovvedute provinciali imitano con risultati ridicoli, «[...] come copisti ignoranti e servili, che riproducono persino gli

errori di ortografia»’3. Contemporaneamente, una seconda e più sottile lotta per la differenziazione oppone le dame dell’aristocrazia del sangue a quelle della grande borghesia finanziaria: «Si vedono le stesse stoffe in ogni condizione sociale, e sarebbe impossibile distinguere una duchessa da una borghese se la prima non conoscesse l’arte di trovare delle distinzioni che l’altra non oserebbe imitare»??. Malgrado la loro ricchezza, perdu, a cura di J.-Y. Tadié, 4 voll., Paris, Gallimard, 1987, vol. II, pp. 352357. Alla fine dell’episodio il Narratore viene inaspettatamente «salutato» da Madame de Guermantes, che lo riconosce tra la folla del parterre e lo gratifica davanti a centinaia di spettatori. 26 Nouvelle Héloise, p. 254.

27 Sulla moda come strumento di differenziazione sociale, G. Simmel,

Die Mode (1905), trad. it. La moda, in Saggi di cultura filosofica, Vicenza, Neri Pozza, 1998, pp. 29-52. Cfr. anche Bourdieu, La distinzione, cit.

28 Nouvelle Héloîse, p. 266. ° Ibid., p. 267. La descrizione di Rousseau si ispira verosimilmente a questo brano di Mandeville: «[...] Le donne di rango si spaventano vedendo mogli e figlie di mercanti vestite come loro: l’impudenza della città, esclamano, è intollerabile. Vengono chiamate delle sarte e la creazione di nuove mode diventa l’unica occupazione delle dame, in modo che possano sempre disporre di nuovi modelli, non appena le insolenti borghesi prendono a imita-

240

le finanziere non riescono a riprodurre i vezzi che sono i veri indicatori della libertà di definire il gusto, la regola di eleganza cui la schiera delle imitatrici cercherà affannosamente di adeguarsi. Rousseau sottoscriverebbe l'affermazione di Simmel: «Quanto più i ceti sono ravvicinati tra loro, tanto più frenetica diventa la caccia all’imitazione in quelli inferiori e la fuga verso il nuovo in quelli superiori»3°. Ovvero, secondo la legge tipica dell’azzour-propre, più i rapporti sociali tendono alla simmetria e al mimetismo, più aumenta la ne-

cessità di distinguersi. Tutte queste annotazioni si inseriscono nella pars destruens della filosofia sociale, e, come sempre, Rousseau le integra

con un’originale proposta di riforma. Nella Nouvelle Héloise e nell’Erzile la gestione consapevole dell’abbigliamento viene detinita imprescindibile per un modello di vita autentica. Proprio perché gli abiti non sono involucri privi di significato, ma segni pubblici, in cui convergono esigenze espressive, estetiche, morali, sociali ed economiche, la scelta della parure non

deve mai essere lasciata al caso. Così, l'eleganza di Julie è parte integrante del suo codice morale, allo stesso livello dei suoi princìpi pedagogici o di economia domestica: La stessa regola vale per la scelta dell’abbigliamento che, come vedete, non è trascurato: solo l'eleganza vi regna, la ricchezza non si

mostra mai, e ancor meno la moda. C'è una gran differenza tra il valore che le cose acquistano dall'opinione, e quello che hanno realmente. Solo a quest’ultimo si interessa Julie: davanti a una stoffa, lei non si chiede se sia vecchia 0 nuova, ma se è di buona qualità, e se le sta bene. Spesso, come motivo di esclusione basta la sola novità, se questa novità conferisce alle cose un valore di cui esse sono prive 0 che non possono conservare?'. re quelli in uso. La stessa emulazione prosegue attraverso tutti i ranghi superiori, con spesa incredibile, finché alla fine le grandi favorite del principe e le dame di più alto rango, non avendo altro per superare alcune delle inferiori, sono costrette a spendere immense fortune in equipaggi pomposi, arredi magnifici, giardini sontuosi e palazzi principeschi», The Fable of the Bees, cit., vol. I, pp. 129-130 (nota M). 30 La moda, cit., p. 33. Accenni di un’interpretazione sociologica della moda, nel contesto di una serie di riflessioni ispirate da Montesquieu, anche in Contrat social, III, 8, pp. 417-418.

31 Nouvelle Héloise, p. 550. Altre considerazioni sull’abbigliamento di Julie alle pp. 147, 609, 760. L'importanza del problema è confermata dalle

241

Alla luce della «regola» di Julie, il significato dell’incidente di Fontainebleau comincia a illuminarsi. In realtà, come or-

mai si è capito, non si tratta di un incidente: a differenza dell’epoca in cui si serviva dal vassoio di Madame de Boze, JeanJacques non ha peccato né per inesperienza né per disatten-

zione (oltretutto, fino a poco tempo prima, aveva sempre curato scrupolosamente la propria tenuta: «il mio abbigliamento

- aveva precisato nel brano relativo a Madame de Besenval — seppur semplicissimo, era assai decoroso»). Ci troviamo davanti a un messaggio, una provocazione: come Julie, che sceglie personalmente la stoffa dei suoi abiti, domandandosi se sia di buona qualità e se le stia bene, indifferente al valore sta-

bilito dall'opinione sociale, Rousseau vuole dimostrarsi capace di apprezzare il vero valore delle cose, conferito dalla natura e dall’uso. Vuole testimoniare la propria emancipazione dalle dinamiche del desiderio mimetico, esibendo una spontanea autonomia di giudizio. E lo fa mettendo in pratica la sapienza comunicativa degli antichi, così lodata in un brano dell'Éymile, che può essere considerato una chiave interpretativa tanto del suo sistema antropologico-sociale, quanto del suo individualismo, come fenomeno di cultura: [Presso gli antichi] ciò che si diceva più vivamente wor /o si esprimeva con le parole ma con i segni: non lo si diceva, lo si mostrava. L'oggetto che si espone alla vista scuote l’immaginazione, eccita la curiosità, tiene la mente nell'attesa di ciò che si sta per dire, e spesso questo oggetto solo ha detto tutto. [...] Quanta attenzione presso i Romani per il linguaggio dei segni! Abiti diversi a seconda delle età e delle condizioni, toghe, sai, preteste, bolle, laticlavi, pulpiti, littori, fasci di verghe, asce, corone d’oro, di erbe, di foglie, ovazioni, trionfi: tutto tra di loro era pompa, rappresentazione, cerimonia, e tutto faceva impressione sul cuore dei cittadini??.

Gesti, pose, e ancor di più vestiti e ornamenti hanno una

potenzialità espressiva infinitamente superiore a quella delle semplici parole, e sono capaci di condensare contenuti comraccomandazioni di Rousseau per la scelta delle stampe. Nell'Éyzz/e si vedano i giudizi sui vestiti più adatti all’infanzia (pp. 371-373), sul gusto di Sophie (pp. 705-707, 713-715) e su quello di Emile adulto (pp. 669, 683). °° Emile, p. 647. Vale la pena di ricordare anche l'episodio in cui Sophie si dichiara silenziosamente a Emile cambiandosi d’abito (;bid., p. 779)

242

plessi con un'efficacia incomparabile. Quando si vuol dire qualcosa di veramente importante, bisogna prima eccitare l’immaginazione, solleticare lo sguardo, offrire alla vista la plasticità e i colori di un'immagine. In un secondo momento, se necessario, si può passare alla comunicazione discorsiva.

Conformemente al precetto retorico dell’Eyzile, nell’episodio di Fontainebleau possiamo distinguere due diverse strategie comunicative. Prima un discorso muto, enunciato alla maniera dei romani attraverso il linguaggio visivo, e in particolare l'esibizione di una r77se accuratamente studiata. Poi un discorso verbale, che funge da legenda concettuale al primo: «Mi sono vestito come al solito, né meglio, né peggio. Se ricomincio ad asservirmi all'opinione per qualche aspetto, tra breve sarò schiavo in tutto. Per essere sempre me stesso non devo arrossire, dovunque mi trovi, d’essermi vestito nel modo che ho scelto. Il mio aspetto è semplice e trascurato, ma non sudicio né indecoroso. La

barba non è sconveniente in quanto tale, perché ce la dà la natura e perché, a seconda dei tempi e delle mode, può essere talvolta un ornamento.

Mi giudicheranno ridicolo, impertinente, ma che m’im-

porta? Devo saper sopportare il ridicolo e il biasimo, purché non siano meritati». Con questo breve soliloquio mi rinfrancai a tal punto che, se ce ne fosse stato bisogno, sarei stato intrepido.

Il brano riassume, in una sintesi icastica, praticamente tutti i motivi dell'ideale normativo dell’autenticità. Ne cogliamo sia la componente soggettiva, evocata negli attributi dell’immediatezza, indipendenza, originalità, coraggio, coerenza, che rappresentano declinazioni specifiche dell’imperativo-chiave «essere sempre me stesso»; sia la componente oggettiva, implicita nel richiamo alla natura legislatrice, che garantisce alla

ribellione individualistica di mantenersi comunque «centrata», interna ad un ordine (è un aspetto decisivo, la cui impor-

tanza emergerà nel confronto tra l'ideale dell’autenticità nella sua forma pura e la sua degenerazione narcisistica). Nelle intenzioni di Rousseau, i valori cui si richiama la coscienza in ri-

volta contro il conformismo non sgorgano dall’arbitrio, ma da una norma universale, che fornisce un sistema di regole ancora più solido e strutturato di quello dell’opiion publique. Il significato dell’abito umile e della barba non rasata dovrebbe essere immediatamente leggibile alla luce del conflitto tra 243

natura e cultura: l’utilità e il valore d’uso contro l’ostentazione del lusso e dell'apparenza; la semplicità, la mancanza di artificio contro la sofisticazione e la ricercatezza; la spontaneità, l'autonomia contro il formalismo e la convenzione. Ancorandosi all'ordine originario delle cose, il ritorno a se stessi non comporta un abbandonarsi anarchico all’inconsistenza dell'io — nella direzione paventata ad esempio da Montaigne che, per paura delle conseguenze relativistiche della critica demistificante, finiva per appellarsi al costume; ma diventa il medium infallibile per attingere la legge di natura che parla solo attraverso la voce interiore della corscience. Alla pregnanza del soliloquio, infine, concorre il suo scenografico contesto: enunciando il nuovo codice dal palco del teatro reale, Rousseau addita una volta per tutte l’immediato destinatario polemico della sua ribellione, lo specifico ethos contro cui si rivolge la sua critica trasvalutativa. Prosegue cioè

nella direzione della rivolta simbolica in cui si era cristallizzata la denuncia morale del primo Discours: «Cominciai la mia riforma dall’aspetto: abbandonai dorature e calze bianche, presi una parrucca tonda, posai la spada, vendetti l’orologio». Ma c’è una differenza significativa: con la riforma Rousseau aveva abbandonato la società di corte, calcando soprattutto sui segni di rifiuto (je quittai, je posai, je vendis); ora invece la sfida per convertirla al proprio messaggio, penetrando come un cavallo di Troia nel cuore dell’accampamento nemico e cercando di conquistarlo dall'interno. Ho già ricordato il lamento di Taine che, cogliendo la singolarità di questo atteggiamento intellettuale, parlerà di una languida malattia che si insinua nel corpo sano della nobiltà per estenuarlo poco a poco. Ma forse, ancora una volta, la metafora più calzante è quella starobinskiana della «seduzione». In questa prospettiva, le analogie con il finale del pranzo di Madame de Besenval sono impressionanti: stessa esempla-

rità del contesto (salotto e teatro sono i due luoghi-simbolo della sociabilité settecentesca), stessa strategia da parte di Rousseau (sedurre attraverso l’opera e la propria persona), e infine stessi richiami impliciti al Misanzbrope di Molière. Confessions, p. 363.

244

Rileggiamo gli incoraggiamenti che l'eroe si ripete per affrontare lo scherno del pubblico, a cominciare dal motto programmatico «essere sempre me stesso». Vi si sente echeggiare

l'inconfondibile voce di Alceste: Vorrei che fossimo uomini, e che in ogni incontro Mostrassimo nei nostri discorsi il fondo del cuore Che fosse solo lui a parlare, e i nostri sentimenti Non fossero mascherati da vani complimenti?4.

Ancora più inconfondibile è la comparsa del tema del ridicule. «Mi giudicheranno ridicolo, impertinente, ma che m’importa? Devo saper sopportare il ridicolo e il biasimo, purché non siano meritati». Come non pensare allo scambio di battute nel primo atto della commedia, quando l’ostinazione del Misantropo viene derisa dall'amico Philinte, il cortigiano accostumato alle esigenze del mondo? PHILINTE

No, davvero, state prendendo una cantonata. Il mondo non cambierà per le vostre preoccupazioni. E poiché la franchezza ha per voi tanto fascino Vi dirò francamente che questa malattia Dovunque ve ne andiate è oggetto di commedia, E che un così grande corruccio contro i costumi del tempo Vi rende ridicolo presso molte persone. ALCESTE

Tanto meglio, perbacco!, tanto meglio. Non domando che questo. È davvero un buon segno, e me ne rallegro assai: Gli uomini mi son tutti talmente odiosi Che mi offenderebbe sembrar ragionevole ai loro occhi”.

34 Molière, Le Misanthrope, Atto I, Scena 1, vv. 69-72, in Euvres complètes, a cura di G. Gouton, 2 voll., Paris, Gallimard, 1971, vol. I, p. 144. La ri-

bellione di Alceste, va ricordato, è etica come quella di Rousseau, e presuppone un’analoga diagnosi sociale: «Mi prende un umore nero, e un profondo dolore, / Quando vedo gli uomini vivere tra loro in questo modo; / Dovunque trovo solo vili lusinghe, / ingiustizia, interesse, tradimento, furbizia; / Non posso più contenermi, scoppio di collera, e mi propongo / Di manda-

re all'inferno tutto il genere umano», 1bid., p. 145 (vv. 91-96).

35 Ibid., pp. 145-146 (vv. 103-112). 245

L’accostamento, che già Cassirer riteneva prezioso per penetrare lo «spirito» della denuncia filosofica di Rousseau?°, è

imprescindibile quando si affronta il suo modello di soggettività. Il Misanthrope — così sostiene ad esempio Lionel Trilling” — è uno dei testi fondanti dell’individualismo moderno, e il fatto che il più grande dei pensatori «autentici» prima di Kierkegaard vi si sia richiamato in modo esplicito assume, evi-

dentemente, un fascino particolare. Ma c'è un aspetto ancora più suggestivo: Rousseau evoca Alceste sempre nello stesso genere di contesto, ossia quando si scontra con l’ethos della società mondana. Nei due episodi delle Confessions, l’occasio-

ne è quella di una disavventura personale, mentre nella Leztre à d’Alembert — che com'è noto contiene un piccolo saggio interpretativo dedicato al capolavoro di Molière — il confronto avviene nella forma filosoficamente più mediata di una riflessione sui costumi del tempo e il loro rapporto con il teatro. In tutti e tre i casi, la figura di Alceste costituisce il polo positivo di un’opposizione il cui polo negativo è rappresentato dalla cultura della bienséance, della politesse, dell'art de platre. Il che stimola una domanda nuova: tra i contenuti dell'etica dell'autenticità e i valori della classe detentrice del prestigio esiste forse un nesso sostanziale? La ribellione individualistica di Rousseau va intesa come una protesta generica contro la società tout court, o è invece (o anche) la reazione storicamente

e socialmente determinata a uno specifico ambiente? Le pagine della Leztre è d’Alembert dedicate al Misantbrope hanno suscitato da sempre l’interesse della critica per il loro ’© Cassirer, I problema Gian-Giacomo Rousseau, cit., pp. 11-12. Su Rousseau e il Misantbrope, oltre allo studio generale di O. Fellow (Molière è la fin du siècle des Lumières, in The Age of Enlightenment. Studies Presented to Theodore Besterman, a cura di W.H. Barber ef 4/., Edinburgh-London, Oliver and Boyd, 1967, pp. 330-349), si vedano: J.F Hamilton, Molière and Rousseau, in Molière and the Commonwealth ofLetters, a cura di R. Johnson, Jackson, University Press of Mississippi, 1975, pp. 100-108; Coleman, Rousseau's Political Imagination, cit., pp. 168 ss.; RW. Grant, Hypocrisy and Integrity. Machiavelli, Rousseau, and the Ethics ofPolitics, Chicago, The University of Chicago Press, 1997, cap. III. Ho tenuto presenti anche F. Orlando, Lettura freudiana del «Misanthrope» (1979), ora in Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo, Torino, Einaudi, 1990, in particolare pp. 269-277; e F. Fiorentino, I/ ridicolo nel teatro di Molière, Torino, Einaudi, 1997. ?7 Trilling, Sincerity and Autbenticity, cit., in particolare cap. I.

246

tono commoventemente

autobiografico.

Non

bisogna però

schiacciarle in una dimensione psicologistica. Rousseau, infatti, coglie alla perfezione l’intensa dialettica tra io e società che ispira l’opera: come in tutte le commedie di Molière, la «mania» del protagonista (ossia la costante psicologica amplificata

in modo caricaturale: la misantropia di Alceste come l’avarizia di Harpagon, l'ipocrisia di Tartuffe, l’ipocondria di Argan) è considerata non in astratto, ma in opposizione all’ethos corrente, i 777@24rs che costituiscono la norma socialmente accettata. Questa reciprocità tra carattere e costume era evidente agli

spettatori del tempo; ma la lettura rousseauiana si distingue perché stravolge quello che per il senso comune era il significato complessivo della vicenda, il rapporto assiologico tra normalità e anormalità. Per il pubblico di Molière, come per quello settecentesco, la ragione era dalla parte delle convenzioni, rispetto alle quali l’ossessiva autenticità di Alceste, come ogni altra forma di comportamento monomaniacale, rappresentava un’assurdità, un'offesa, se non addirittura una larvata forma di minaccia. Per Rousseau, al contrario, sono i costumi ad essere

assurdi, mentre il Misantropo, eroe dell’azione, è il portatore

dei valori positivi (nella Leftre si accenna all’ipotesi che Molière si identificasse con lui, inaugurando una lettura che avrà grande fortuna nel «romantico» Ottocento?5). Lungi dall’essere sintomo di una patologia soggettiva che andrebbe pertanto curata — la #24/adie cui allude Philinte nei versi citati — il disadattamento di Alceste è la reazione sana, dettata dall’istinto di

autodifesa e dalla generosa angoscia per i destini generali, al gravissimo male che ha contagiato la società: Chi è dunque il Misantropo di Molière? Un uomo per bene che detesta i costumi del suo secolo e la malvagità dei contemporanei; 38 Cfr. Lettre à d'’Alembert, p. 36 e la nota relativa di Jean Rousset. L'interpretazione del Misanthrope, da questo punto di vista, è da accostare a quella del Tasso. Calcando sui temi della malinconia esistenziale, dell’estraneazione dalla vita di corte e dell'amore infelice per la principessa proibita Eleonora d’Este, Rousseau suggerì una nuova identificazione autobiografica, e fu tra i primi a conferire alla leggenda tassiana quell’aura romantica che sarebbe stata celebrata da Goethe e Chateaubriand. Cfr. J. Starobinski, L'Imzitation du Tasse (1992), trad. it. Rousseau e Tasso, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; più in generale, C.B. Beall, La Fortune du Tasse en France, Eugene, University Press of Oregon, 1942.

247

che, proprio perché ama i suoi simili, odia in essi il male che si fanno a vicenda, e i vizi prodotti da questi mali [...]. Non è dunque nemico degli uomini, ma della malvagità degli uni e della complicità che questa malvagità trova negli altri. Se non vi fossero ipocriti né adulatori, amerebbe tutti??.

Ma c'è un altro aspetto notevole in questa lettura. Lo sfondo su cui si svolge e soprattutto si giustifica il dramma di Alceste è il 7z0rde, la buona società dei salotti e della corte. Ed è

proprio dalla frizione tra il più conformistico degli ambienti e il carattere del protagonista, altrettanto radicale nella sua intransigenza, che la vicenda acquista intensità. Secondo Rousseau, Molière avrebbe enfatizzato espressamente questo aspetto, contrapponendo ad Alceste, come suo antagonista ideale, il cortigiano Philinte, specialista nell'arte dell’apparire e del piacere agli altri: Questo Philinte è il saggio della commedia. Uno di quei gentiluomini del gran mondo le cui massime somigliano molto a quelle dei bricconi: quelle persone così dolci, così moderate, per cui va sempre tutto bene, perché non hanno interesse a che le cose vadano meglio, e sono sempre soddisfatte di tutti, perché non si preoccupano di nessuno:

Ridotta alla sua ossatura morale, la commedia consistereb-

be dunque nello scontro tra Alceste e Philinte, ennesima riformulazione del conflitto di base tra 47z0ur de soi e amourpropre. Uno scontro dall'esito deludente: malgrado la sua simpatia per il Misantropo, sostiene infatti Rousseau, Molière non ha saputo sostenere il suo eroe. Sopraffatto dal disperato bisogno di approvazione tipico degli artisti (che è poi la stessa malattia di Philinte), ha voluto assecondare il suo pubblico, ?9 Lettre à d’Alembert, pp. 34-35. 1° Ibid., p. 36. Sull’opposizione tra i due personaggi, in una prospettiva che si concentra sulla vena simulatrice del pensiero di Rousseau, Burgelin, La Philosophie de l’existence de J.-]. Rousseau, cit., pp. 297-304. Benché esulino dal nostro discorso, le osservazioni di Burgelin sono utili a rilevare le debolezze della critica sociale rousseauiana. La società è compromissoria per sua stessa essenza, e la sua componente rappresentativa non può essere considerata una semplice degenerazione storica, «occasionale»: ovunque ci saranno più individui in contatto, si darà qualche forma di inautenticità.

248

composto dai medesimi cortigiani che costituiscono gli avversari letterari di Alceste. E così, tradito per un applauso, il più virtuoso degli uomini è stato abbandonato alla derisione pubblica: Dovendo piacere al pubblico, [Molière] ha consultato il gusto di quelli che ne formano la maggioranza. In base a questo gusto, ha creato un modello, e da questo modello un quadro di difetti opposti, dai quali ha tratto i suoi caratteri comici, i cui vari aspetti ha distribuito nelle sue commedie. Non ha preteso, dunque, di formare un uomo onesto (bornéte bore), ma un uomo di mondo (borzzze du monde); di conseguenza non ha voluto correggere i vizi ma il ridicolo e, come ho già detto, ha trovato nel vizio stesso uno strumento molto efficace. Così, volendo esporre alla risata pubblica tutti i difetti opposti alle qualità dell’uomo amabile, dell’uomo di società,

dopo aver rappresentato tante altre situazioni ridicole, gli restava da rappresentare ciò che il gran mondo perdona di meno: il ridicolo della virtù. E quello che ha fatto con il Misantropo*!.

È chiaro, allora, il senso della condanna pronunciata contro Molière, colpevole di duplicare, in un perverso gioco di specchi, le stesse colpe del 770rde. Chi rende comica la virtù,

offrendola alla risata sprezzante degli spettatori in sala, replica la censura esercitata dallo snobismo: non corregge i «vizi» ma il «ridicolo». Questa perfetta sintonia tra realtà e letteratura rafforza l’avversione di Rousseau per il teatro, che si rivela degno complemento ideologico del sistema sociale dell’amour-propre: più la società degenera, diventando sempre più simile al teatro, più il teatro si alimenta dei valori dominanti, diventando sempre più simile alla società. La riflessione della Lettre à d’Alembert completa quella del Discours sur l’inégalité, mostrando come l’altro lato della «società come rappresentazione» sia la «rappresentazione come società». E tra tutti

i generi letterari, il comico è il più pericoloso: perché più realistico (la tragedia dipinge uomini troppo lontani dall’esperienza comune, ma «non è così per la commedia, i cui 41 Lettre à d'Alembert, pp. 33-34. Opponendo provocatoriamente l’honnéte homme all’homme du monde, Rousseau spezza l'equazione che reggeva l’etica sociale sei-settecentesca: trasvaluta il senso della parola bonnéte dall’ethos mondano (amabilità, politesse), a quello dell’autenticità (sincerità, integrità).

249

Su) i cu i costumi hanno un rapporto più immediato con i nostri»**); e perché fondato su un vizio spregevole, il piacere negativo

«che non cerca soddisfazione nel nostro stesso bene, ma solo nel male altrui»: Poiché il piacere stesso del comico poggia su un vizio dell'animo umano, da questo principio consegue che più la commedia è piacevole e perfetta, più il suo effetto è nocivo per i costumi”.

Ricordiamo cosa aveva già scritto Hobbes in un’osservazione folgorante degli Elerzents: La passione del riso (/aughter) non è altro che un improvviso senso di gloria che sorge da un'improvvisa consapevolezza di qualche superiorità insita in noi, al paragone con le debolezze altrui [...]. Non sorprende quindi che gli uomini non sopportino l'esser scherniti o derisi, cioè l’esser sottoposti a un trionfo altrui.

Da questo punto di vista la psicologia di Rousseau è sempre hobbesiana. La differenza è che, nel passaggio alla Parigi settecentesca dei sa/0rs, questi lineamenti acquistano un più marcato sapore aristocratico, identificandosi nello stile di vita

e nel gusto estetico di una classe che del ridicule ha fatto un’arma di autolegittimazione sociale9. CE EA 4 Dialogues, pp. 668-669. 44 Lettre à d’Alembert, p.31. ._ Elements, IX, 13, p. 46. Cfr. anche Leviathan I, 6 e Mandeville, The Fable of the Bees, nota N. Contro questa passione obliqua e relativistica, oltre al potere empatico del pianto, Rousseau ha sempre rivendicato la positività del riso come espressione spontanea del piacere innocente e della gioia di vivere. Ai critici che lo tacciavano di musoneria, ricordava gli anni spensierati della bohème parigina trascorsi insieme agli amici Grimm e Diderot: «Erano risate interminabili. Coloro che, in una lettera che si sono compiaciuti di attribuirmi, mi han fatto dire che avevo riso solo due volte in vita mia, non mi conobbero in quel periodo, e neppure durante la giovinezza: altrimenti non avrebbero nemmeno concepito quell’idea», Confessions, p. 355-356. Sul riso nel Settecento, si veda il numero monografico di «Dix-huitième siècle», 32, 2000 (Le rire). ‘° Sui motivi aristocratici nella visione hobbesiana dell’uomo, e in particolare nell’analisi della glory: Strauss, La filosofia politica di Hobbes, cit., pp. 189-206; e K. Thomas, The Social Origins of Hobbes Political Thought, in Hobbes Studies, a cura di K.C. Brown, Oxford, Blackwell, 1965.

250

L'interpretazione del Misantbrope, insomma, porta in piena luce il movimento dialettico che è all’origine dell’autenticità di Rousseau, e che Basil Munteano ha paragonato all’effetto di una fortuita reazione chimica: Sembra dunque che l’estremismo solitario di Rousseau sia stato, in qualche modo, determinato da un estremismo contrario, e che il milieu ostile, agendo come reagente e come fermento, abbia contri-

buito al compimento dello stesso uomo che reprimeva. Il più perfetto fenomeno di solitudine doveva cristallizzarsi sul terreno della più conformista delle società umane”. È un invito a riflettere, alla maniera di Mead, sul comples-

so gioco di interdipendenze, di azioni e reazioni reciproche, che può crearsi tra un individuo eccezionale e il suo ambiente'5: Rousseau, cercando riconoscimento nella società in cui

viveva, ma sentendosi da essa rifiutato, seppe sublimare il suo dolore nell’universalità di una nuova forma di pensiero; e il suo rivoluzionario sistema di valori influenzò a sua volta la società, non solo dimostrandosi come uno dei modelli culturali

più suggestivi di sempre, ma trasformando lo stesso milieu cui si era ribellato‘?. Ma, se riportata nei termini del nostro problema morale e identitario, questa constatazione non racchiu-

de forse un paradosso? E davvero possibile raggiungere la spontanettà per reazione, diventare immediati per rifiuto della mediazione?

Non si finirà, piuttosto, per usare l’autenticità

come un mezzo per conquistare il riconoscimento negato?

3. Scandalo a corte. Eroismi morali, esibizionismi romantici

Esibendo il suo vestito semplice e modesto dal palco di Fontainebleau, circondato da cortigiani parati a festa, pronto 4 Munteano, Solitude et contradictions de J.-]. Rousseau, cit., p. 55. Analoga un’osservazione di Elias: «Non si comprenderebbero Rousseau e il suo successo anche all’interno del zzonde se non lo intendesse anche come un simbolo di reazione alla razionalità di corte», La società di corte, cit., p. 141. 48 Cfr. Mead, Mente, Sé e Società, cit., in particolare pp. 223 ss. 49 Sull’infatuazione aristocratica per il rousseauismo si può pensare al quadro molto romanzesco di Taine: L'antico regime, cit., libro IV (La propagazione della dottrina), in particolare le pp. 480 ss.

DI

a sfidare la loro derisione e il loro disprezzo in nome della fedeltà a se stesso, Jean-Jacques sta rivivendo l’eroica ribellione di Alceste. Si rivolta contro il conformismo in nome di quell’io più vero in cui si incontrano soggettività e natura. Ma fa solo questo? È bene ricordare cosa prescrive l'Eyzi/e a proposito del comportamento pubblico dell’homzze naturel: Lungi dallo scandalizzare le maniere degli altri, Emile vi si conforma volentieri, non per fingersi familiare con le convenienze, né per ostentare arie da uomo di mondo, ma, al contrario, per paura di farsi distinguere, per evitare di essere notato; e non è mai così a suo agio come quando non si fa caso a lui?®,

L’uomo realmente autentico è timido, ha il terrore di essere notato. Preferisce mimetizzarsi nella folla, piuttosto che distinguersi con comportamenti eccentrici, che tradirebbero interesse per lo sguardo altrui, e dunque un’indegna preoccupazione di arzour-propre. Poche pagine dopo aver dipinto questo ritratto ideale di Émile, parlando della possibilità di adottarne in prima persona lo stile di vita, Rousseau ribadisce in tono perentorio: Per conservare tra gli uomini il massimo della libertà, vorrei esser vestito in modo da sembrare al mio posto in ogni rango, e da non distinguermi in nessuno; in modo da essere, senza affettazione e senza cambiamenti sulla mia persona, popolano in una bettola e gentiluomo a corte?!.

Ora, se consideriamo l’episodio alla luce di questi manifesti programmatici, non possiamo non stupirci della plateale incoerenza: Rousseau sembra proprio aver scambiato la corte reale per un'osteria. E, soprattutto, sembra ignorare ogni senso delle convenienze: lungi dal conformarsi alle ricercate maniere dei suoi ospiti, cerca evidentemente di scandalizzarle; 50 Emile, pp. 666-667. 2! Ibid., p. 683. Anche dell’abbigliamento di Julie si sottolinea la decorosità (non è mai négligé, com'è invece, per sua stessa ammissione, quello di

Jean-Jacques), e soprattutto l'assoluta «convenienza»: «[...] raramente è alla moda, ma in compenso nor è mat ridicolo, e nella sua modesta semplicità, ricava dalla convenienza delle cose regole inalterabili e certe», Nouvelle Héloise,

p. 550.

252

invece di mimetizzarsi tra gli altri spettatori, sembra far di tutto per essere distinto. Non è un caso che la sua prima sensazione nel momento di entrare a teatro sia quella di essere sta-

to 7225 en vue. In realtà è lui stesso a mettersi in mostra, segna-

landosi per l'atteggiamento inappropriato alla formalità del luogo e delle circostanze. Ce lo conferma il compiacimento con cui descrive i dettagli della propria tenuta, giudicata candidamente «indecente», eppure sfoggiata alla presenza del re come un provocatorio «atto di coraggio»: Ero quel giorno nel mio solito abbigliamento trascurato: barba lunga e parrucca piuttosto spettinata. Confondendo la mancanza di decenza con un atto di coraggio, entrai così conciato nella stessa sala dove sarebbero giunti di lì a poco il re, la regina, la famiglia reale e tutta la corte.

Nessun interprete, che mi risulti, si è mai interrogato sulla straordinaria emblematicità di questa scena delle Confessions: stiamo assistendo — forse insieme allo stupore divertito dell’intera corte di Fontainebleau — alla prima apparizione storica di un artista romantico. Barba sfatta, capelli in disordine, atteggiamento esibitamente sciatto: non manca nulla all’icona del genio ribelle che, consacrata dal Romanticismo e dal Decadentismo, è giunta fino alle odierne esibizioni delle rock stars. La parrucca scapigliata di Jean-Jacques servirà da modello, non importa se consapevole o inconsapevole, per l’autorappresentazione di moltissimi intellettuali otto e novecenteschi, e anco-

ra oggi richiama il cliché — si pensi alle icone popolari di Beethoven o di Einstein — della contestazione contro l'ordine costituito. Certo, per il nostro senso comune assuefatto agli

stereotipi di rivolta, si tratta di una contestazione piuttosto innocua: l'assimilazione della protesta da parte della cultura di massa, soprattutto di quella giovanile, il diffondersi di un paradigma espressivistico dell’io, il declino parallelo del rispetto per la tradizione, hanno privato simili atteggiamenti di una reale efficacia comunicativa. La trasgressione, divenuta quotidiana, non è più trasgressiva. Lo stesso significato del piccolo scandalo raccontato in questa pagina ci sembra così chiaro, così familiare, da non aver quasi bisogno di commenti. Ma è proprio questo senso di eccessiva familiarità a rendere 253

necessaria una storicizzazione analitica, che espliciti icontenuti dell'episodio secondo il senso e il valore che potevano avere per i contemporanei di Rousseau. Quello che a noi sembra banale era tutt'altro che ovvio per degli impreparati spettatori settecenteschi. E costituì, sotto molti aspetti, la novità epocale

del fenomeno Jean-Jacques Rousseau. Notiamo, in primo luogo, che l’amore per la provocazione e per lo scandalo è parte integrante del rousseauismo come fenomeno culturale, e ha contribuito non poco alla sua fortuna storica, creando quell’aura di leggenda che ancora lo circonda.

Dal giorno in cui lesse il bando di concorso sul «Mercure de France», data di nascita ufficiale del suo pensiero autonomo,

fino agli anni della persecuzione e dell’esilio, Rousseau ha sempre accompagnato le sue prese di posizione filosofiche con gesti eclatanti — proclami, esibizioni, pose, scelte di abitazione e di abbigliamento — con cui si proponeva di incarnare simbolicamente gli stessi contenuti spirituali affidati alle opere scritte. L'episodio più celebre, che rappresenta l’archetipo con cui confrontare tutti gli altri, l'abbiamo già evocato: fu la cosiddetta «riforma», la piccola rivoluzione privata con cui l’autore del Discours sur les sciences et les arts, da poco incoronato dall’ Ac-

cademia di Digione, completò la critica alla civilisation assumendone in prima persona i princìpi. Più ancora della folgorazione di Vincennes, fu questo l’atto di nascita del rousseauismo come dottrina etica totalizzante. Abbandonando la posizione dei philosophes, a suo dire troppo intellettualistica e cinica, Rousseau tentò di recuperare lo stile morale proprio delle filosofie antiche o di certe posizioni religiose. Rivalutò le figure del saggio e dell’eroe??, e in questo modo si trovò a fronteggiare in prima persona il problema della coerenza. Un intellettuale °° Nel Discours sur la vertu du béros (OC, II, pp. 1262 ss.) Rousseau riconosce un'importante differenza tra i due modelli etici: il saggio, di cui è emblema il filosofo Socrate, è un modello della ragione, individualistico ed elitario, mentre l’eroe, personificato dal cittadino Catone, offre un esempio di virtù civile, comunitaria e democratica, e per questo preferibile nell’interesse del genere umano. Per quanto riguarda l’esemplarità personale di Rousseau, comunque, i due aspetti possono essere considerati complementari. Su questi temi, oltre alla monografia di Starobinski, il più recente Ch. Kelly, Rousseau's Exemplary Life. The «Confessions» as Political Philosophy, Ithaca-London, Cornell University Press, 1987.

254

che si scaglia contro la degenerazione di un’intera epoca non può esimersi dal dare l'esempio: deve essere un punto di riferimento

ideale, un

modello

che possa ispirare le coscienze,

stimolarle, spronarle all’eroismo e alla virtù — come aveva scoperto, d'altra parte, il piccolo Jean-Jacques lettore entusiasta di Plutarco. Proponendo se stesso come exezzplum, Rousseau tentava un'operazione filosofica e retorica al tempo stesso: contestava la scissione tra vita e dottrina che si era imposta nel pensiero moderno, e rilanciava l’importanza pedagogica dell’e-

sempio. Per l’uomo che decideva a sua volta di lasciarsi alle spalle l'errore, doveva prospettarsi ben chiara la strada della imitatio. E se consideriamo l’illuminazione di Vincennes come una conversione, e la riforma come il tentativo di ancorare la

biografia a una norma trascendente — la Verità, la Natura — il contronto abusato e a volte sterile tra Rousseau e Agostino ac-

quista una sua plausibilità??. Con la riforma, dunque, Rousseau inaugurò il suo personaggio pubblico, o anche quella che i sociologi della cultura definirebbero la sua «postura» (ossia la collocazione soggettiva dell’autore all’interno del campo letterario, attraverso l’elaborazione di un ethos e di una retorica propri)?*. Secondo le Confessions, il progetto nacque poco dopo il premio di Digione, quindi come una sorta di complemento, di ultimo sigillo alla denuncia del primo Discours. Nella versione più tarda delle Réverzes, invece, l'ordine cronologico tra riforma filoso-

fica e riforma personale viene invertito. A distanza di tempo, il gesto esemplare si impone al ricordo per la sua urgenza: Fin dalla gioventù avevo fissato la soglia dei quarant'anni come termine dei miei sforzi per riuscire (parvenzr) e di ogni genere di ambizione. Raggiunta tale età, qualunque fosse la mia situazione, ero risoluto a non dibattermi ulteriormente per uscirne e di vivere alla giornata senza più occuparmi dell'avvenire. Venuto il momento, misi in pratica questo progetto senza fatica. [...)] Abbandonai la società e 5 Cfr. A. Hartle, The Modern Self in Rousseau’s «Confessions». A Reply to St. Augustine, Notre Dame (Ind.), University of Notre Dame Press, 1983; R. Galliani, Rousseau, l'illumination de Vincennes et la critique moderne, in «SV», 245, 1986, pp. 403-447.

5 Cfr. J. Meizoz, Le Gueux philosophe (].-J. Rousseau), Lausanne, Antipodes, 2003, pp. 11-16.

200

la sua pompa, rinunciai a ogni ornamento: via la spada, l'orologio, le calze bianche, gli ori, l’acconciatura. Presi una parrucca semplicissima, un buon vestito di panno e, meglio di tutto, sradicai dal mio cuore i desideri e le brame che danno valore a tutto quello che lasciavo. Rinunciai al posto che allora occupavo, per il quale non ero assolutamente adatto, e mi misi a copiare musica a un tanto la pagina, occupazione che avevo sempre prediletto. Non limitai la mia riforma alle cose esteriori: capii che questa stessa ne esigeva un’altra, più penosa senza dubbio, ma più necessaria, nelle opinioni”.

Se si esclude l’incipit del brano, in cui Rousseau allude a una disillusione delle proprie ambizioni mondane che avrebbe in un certo senso «stimolato» l’iniziativa morale, il tono della pagina è decisamente

solenne, classico. Com'è

stato scritto,

riecheggia in modo vistoso la prima parte del Discours de la méthode®, e un confronto con il modello cartesiano può essere in effetti utile per cogliere lo spirito della sua conversione. Il primo aspetto da tener presente è il diverso ambito delle due esigenze rifondatrici: l'oggetto dell’interesse di Descartes è teoretico (il raggiungimento di un numero di conoscenze scientifiche incontestabili, valide universalmente per tutti gli uomini), mentre Rousseau si muove in un campo che è al tempo stesso pratico e privato. Ciò trasforma la sostanza del contrasto tra epoché e opinione, presupposto alla revisione asso-

luta delle false certezze: mentre la sospensione cartesiana dell’assenso si indirizza contro il sistema di dottrine metafisiche ereditato della tradizione scolastica, quella rousseauiana rompe con il sistema dei valori socialmente dominanti. Nel primo senso, il nemico da sconfiggere è l’opinione-doxa, l'illusione conoscitiva contraria alla vera scienza; nel secondo è l’opinione-ethos, l'entità personificata che irretisce le coscienze tentate dall’arzour-propre: ” Réveries, pp. 1014-1015. Nella versione delle Réverzes, l'evento intellettualmente decisivo è la concezione della Profession de foi, con cui Rous-

seau si distacca dal materialismo dei philosophes. La riforma intellettuale ha dunque un carattere più metafisico (quella del primo Discours era soprattutto morale e civile). Tra la critica, fondamentali le pagine di Starobinski, 7.-7. Rousseau, cit., pp. 89 ss.;J.Guéhenno, Jean-Jacques. Histoire d'une conscience, nuova edizione, 2 voll, Paris, Gallimard, 1962, vol. I, pp. 233 ss.; Gouhier, Filosofia e religione in ].-]. Rousseau, cit., pp. 51 ss. °° Gouhier, Filosofia e religione in ].-]. Rousseau, cit.

256

Deciso a trascorrere nell’indipendenza e nella povertà il poco tempo che mi restava da vivere, rivolsi tutte le forze della mia anima a spezzare le catene dell’opinione, e a fare con coraggio tutto quello che mi sembrava buono, senza preoccuparmi minimamente del giudi: zio degli uomin®?.

Infine, mentre Descartes si mantiene nell’ambito del pensiero puro e della comunicazione discorsiva, Rousseau agisce sul piano etico e simbolico: l'abbandono di parrucca, spada e dorature, segni di appartenenza al gran mondo; la rinuncia all'orologio, che allude alla decisione di situarsi in una sfera di esperienza e di normatività privata, diversa da quella pubbli-

ca; e infine la scelta del lavoro manuale, un gesto il cui significato polemico viene esplicitato nel brano corrispondente delle Confessions: «Come accordare i severi princìpi che avevo adottati con una condizione che vi si adattava così poco? E con quale coraggio io, cassiere di un ricevitore generale delle finanze, predicavo il disinteresse e la povertà?»?8. Non appena presi definitivamente la mia decisione, scrissi un biglietto a Monsieur de Francueil per informarlo e ringraziarlo insieme a Madame Dupin di tutte le loro bontà [...]. Francueil, non capendo niente di questo biglietto e credendomi ancora nel delirio della febbre, corse da me; ma mi trovò così fermo e risoluto che non

riuscì a smuovermi. Andò a dire a Madame Dupin e a tutti quanti che ero diventato pazzo. Lasciai dire e continuai per la mia strada??.

Il passaggio finale è rivelatore: tenendo conto della condizione degli intellettuali all’interno del sistema aristocraticomecenatesco, si può capire l’incredulità che questo colpo di testa apparentemente sconsiderato sollevò nella cerchia di Madame Dupin. E non si trattò di una reazione episodica: dalla riforma in poi, tutte le azioni e gli atteggiamenti che Rousseau chiamerà a testimonianza della propria rigenerazione morale provocheranno lo sconcerto dell'opinione pubblica. Saranno occasioni, letteralmente, di scandalo, secondo

la definizione fornita dal cavaliere de Jaucourt nella tavola dei costumi dell’epoca: 57 Confessions, p. 362. 58 Ibid., pp. 361-362. 59 Ibid., p.363.

251,

Scandalo, nella lingua comune, è un’azione contraria ai buoni costumi, o all'opinione generale degli uomini. Significa anche una voce nociva, che disonora qualcuno in società.

L’aspetto davvero importante è che Rousseau considera queste reazioni come parte essenziale della propria posizione

filosofica: «Attaccando frontalmente tutto ciò che oggi riscuote l'ammirazione degli uomini, non posso aspettarmi che un biasimo universale». A partire dalle risposte al primo Dtscours, e più che mai durante l’esilio, egli interpreterà questo biasimo come una persecuzione, un destino comune a quello dei più illustri precedenti della tradizione morale: «Socrate ha pagato con la vita per aver detto precisamente le stesse cose che dico io», «pensando allo stesso modo gli Ateniesi applaudivano le empietà di Aristofane e fecero morire Socrate». Analoga la sua identificazione con Cristo, ugualmente incompreso, e ugualmente perseguitato dalla comunità che era venuto a salvare: «Il difensore della causa di Dio, infamato, proscritto, perseguito di stato in stato, di asilo in asilo», vittima dei «farisei». Rousseau si crede vittima dello stesso ostracismo. Anche il suo messaggio è troppo inattuale, troppo esigente per essere

compreso dai contemporanei, divenuti sordi alla verità perché ormai irrimediabilmente corrotti: Barbarus bic ego sum quia non intelligor illis*. Il pubblico, sgomento davanti a ciò che — come precisa il redattore dell’ Encyclopédie — è contrario «all'opinione generale degli uomini», reagisce con aggressività e © L. de Jaucourt, «Scandale», in Encyclopédie, XIV, p. 741 (corsivi nel testo). 0 Premier Discours, p. 3. ° Dermière réponse de ].-J. Rousseau, OC, III, p. 73; Lettres de la montagne, OC, III p. 797. ® Lettre à Beaumont, OC, IV, pp. 931 e 961. Altre reminescenze della passione nelle Réverzes. Il rapporto di Rousseau con le figure di Socrate e Cristo è fondamentale, ma tocca questioni religiose e morali che mi condurrebbero fuori tema. Mi limito a rimandare, anche per la relativa bibliografia, alle voci di Raymond Trousson «Socrate» e «Jésus-Christ» nel Dictionnaire de ].]. Rousseau, cit. % E il verso di Ovidio (Tristia, X, 37) posto in esergo sia al primo Discours che ai Dialogues. Cfr. J. Starobinski, Quia non intelligor illis, in «AR»,

42, 1999, pp. 445-517. 258

derisione. Le due reazioni, spesso congiunte, sono espressioni

complementari della stessa violenza esclusiva: la prima si esercita sul piano fisico, la seconda su quello simbolico. Ed è quest'ultima, come sappiamo, a prevalere nell'ambiente frequentato da Rousseau: «Fra di noi, è vero, Socrate non avrebbe bevuto la cicuta, ma avrebbe bevuto una coppa ancora più amara, lo scherno insultante, e il disprezzo cento volte maggiore della morte»®?. Ancora una volta la psicologia rousseauiana si incontra con quella di René Girard. L'individuo che si sottrae al conformismo segnalandosi per la sua differenza attira su di sé l'odio collettivo, diventa il capro espiatorio su cui la massa esercita il meccanismo di espulsione: «[...] subentra un mimetismo che raduna tutti gli scandalizzati contro un’unica vittima, elevata al rango di scandalo universale». Questo destino accomuna tutti i grandi individualisti ribelli con cui si identifica Jean-Jacques: Socrate, non solo ridicolizzato nelle Nuvole, ma anche processato e messo a morte; Gesù, umiliato, schernito e crocifisso; Alceste, sbeffeggiato da amici e spettatori, e infine abbandonato alla sua solitudine. Rousseau si rappresenta nel medesimo ruolo, interpretando come una persecuzione mimetica anche la rottura con i philosophes: Non fu tanto la mia celebrità letteraria, quanto la mia riforma personale [...] ad attirarmi la loro gelosia. Forse mi avrebbero perdonato di brillare nell’arte di scrivere, ma non poterono perdonarmi di

offrire con la mia condotta un esempio che sembrava importunarli””.

In altre parole, lo scandalo dell’autenticità è nello sguardo di chi non la capisce. E solo perché gli uomini sono accecati che le nuove testimonianze morali — rinunciare alla ricchezza e all'apparenza, abitare nei boschi, mantenersi con un lavoro manuale — sembrano eccentriche, contrarie ai buoni

costumi. Se si imparasse ad ascoltare la voce della natura 6 Premier Discours, p. 15. 66 R. Girard, Je vois Satan tomber comme l'éclair (1999), trad. it. Vedo Satana cadere come la folgore, Milano, Adelphi, 2001, pp. 41-42. Cfr. Id., Le Bouc émissaire (1982), trad. it. I/ capro espiatorio, Milano, Adelphi, 1999.

6 Confessions, p. 362.

209

- non quella falsa, che è opinione sedimentata in abitudine, ma quella vera, custodita nel profondo della coscienza — nessuno si stupirebbe più. «Beato chi non si scandalizza di me», promette Gesù nel Vangelo. E allo stesso modo, il martire incompreso confida nel fatto che i suoi persecutori, un giorno, si ravvederanno: «[...] perfino la turba, aprendo infine gli occhi e vedendo a che punto si è spinta, si stupirà del proprio smarrimento»®?. Va notato, però, che rispetto agli scandali consacrati da questa nobile tradizione morale e religiosa, quelli raccontati nelle Confessions hanno

qualcosa

di eccessivo,

di un

po’

troppo teatrale. «Grazie al clamore suscitato dalla mia opera, anche la mia decisione fece scalpore [...]»/: Rousseau si compiace molto di questo br? così come, a Fontainebleau, si compiace dell’indecenza del suo vestito. Tanto esibizionismo sembra in contrasto con il precetto del «vivi nascosto», adottato con entusiasmo dai modelli classici, e tradisce i sin-

tomi di un narcisismo difficilmente conciliabile con l’indifferenza ai verdetti dell’opirzion publique. Per dirla ancora con le categorie di René Girard, sembra che la ribellione rousseauiana non riesca a situarsi in un ordine di esperienza esterno al conflitto mimetico, e continui a sentire su di sé —

anche se in forme sempre più trasversali, camuffate — il peso di quello sguardo altrui cui proclama solennemente di rinunciare. E un sospetto che, se si dimostrasse fondato, trascenderebbe la psicologia: proprio per l’importanza che Rousseau attribuiva all’esemplarità personale, una grave incoerenza rischierebbe di minare i fondamenti della sua dottrina dell'io. Che succederebbe, infatti, se dimostrassimo che il cuore dell’homzzze naturel non è stato interamente quel modello di spontaneità che pretendeva di essere? Che resterebbe della distinzione tra amzour-propre e amour de soi se gli eroismi esibiti come quintessenza dell’immediatezza si rivelassero sintomi della stessa malattia di coscienza che dovrebbero curare? ° Matteo, 11, 6. 60

DI } : S 5 È Con Dialogues, p. 970, e passim. È questa l’opera in cui l’autorappresenta-

zione di Rousseau come capro espiatorio è più marcata.

?° Confessions, pp. 364-365.

260

Cercheremo di rispondere a queste domande — ritornando anche sulla loro legittimità — quando avremo accumulato materiale sufficiente per sollevare accuse fondate. Ma per far questo è necessario radicalizzare la nostra posizione interpretativa:

il «sospetto» che ha stimolato alcune delle ipotesi più lontane dall’autorappresentazione ideale di Rousseau — quelle riguardanti il suo snobismo o il suo complesso di inferiorità, ad

esempio — diverrà sistematico. Abbandonando

temporanea-

mente ogni carità ermeneutica, presupporremo che, in presen-

za di un disaccordo tra la voce ufficiale e quella nascosta delle

Confessions, sia la seconda a esprimere il vero. Scaveremo nei bassifondi della coscienza e, davanti a due possibili versioni in contrasto, seguiremo quella che sceglierebbe Nietzsche. Ci accorgeremo che, per giustificare il cambio di prospettiva, non occorre far violenza ai testi, e nemmeno leggerli troppo tra le righe: per lo più è Rousseau a suggerire la propria genealogia della morale, con il risultato che, spesso, due versioni opposte degli stessi eventi convivono affiancate nelle stesse pagine. È un’ambiguità che risalta anche a livello stilistico: persino, anzi soprattutto negli episodi più drammatici, si percepisce un velo di ironia, come se il genere letterario si sdoppiasse, e lo slittamento di registro autorizzasse una doppia ricezione: una ricezione tragica, in cui Rousseau-autore

solidarizza con Jean-Jacques-eroe, riconoscendone l’ispirazione genuinamente morale e la differenza rispetto al resto della società; e una ricezione comica, in cui l’autore prende invece

le distanze dal suo protagonista, descrivendolo come uomo tra gli uomini, soggetto alle loro stesse passioni, e prima tra tutte quella dominante dell’amzour-propre. Un esempio eccellente di questa schizofrenia stilistica — che corrisponde a una profonda ambiguità di giudizio sull’uomo — si trova proprio alla fine dell’episodio del Devin, dove Rousseau racconta di aver rifiutato la pensione che gli fu offerta da Luigi XV all’indomani dello spettacolo. A una prima

lettura prevale la tonalità tragica. La voce ufficiale delle Confessions ci comunica una decisione importante, adducendo le stesse ragioni ideali — coerenza, amore per la libertà e per la giustizia, disinteresse, coraggio — cui si era appellata rinunciando al posto presso Monsieur de Francueil: 261

Perdevo, è vero, la pensione che in un certo modo mi veniva of-

ferta; ma mi risparmiavo anche il giogo che mi avrebbe imposto. Addio verità, libertà, coraggio. Come avrei potuto parlare, da quel momento, di indipendenza e di disinteresse?”!.

Non bisogna dubitare dell’autenticità di questi scrupoli. Abbiamo già ricordato come l’amore per l'indipendenza assecondi il carattere di Rousseau e i presupposti stoicheggianti della sua morale. In questa posa sublime va riconosciuto il lato più corneilliano, volontaristico del suo io ideale. Ma il retroscena dell'avventura getta sulla vicenda una luce meno eroica. Innanzitutto, prima di queste nobili parole, la seconda voce autobiografica, quella inautentica, aveva esordito con una sa confessione. Il primo timore — ammette Rousseau in una delle pagine più divertenti delle Confessions — fu quello di cadere vittima della terribile infirzzité, l'incontinenza urinaria, che lo aveva già reso ridicolo in tante occasioni pubbliche: I miei prizzi pensieri [...] indugiarono sul frequente bisogno di uscire che mi aveva fatto soffrire molto la stessa sera a teatro, e che poteva tormentarmi il giorno dopo nella galleria o negli appartamenti del re, fra tutti quei nobili, in attesa del passaggio di Sua Maestà. [...] Il solo pensiero dello stato in cui quel bisogno poteva ridurmi era capace di darmelo fino al malessere, a meno di rischiare uno scandalo cui avrei preferito la morte”?.

Il tono del brano sconfessa chi, come Stendhal, rimproverava a Rousseau di prendersi troppo sul serio, di non vedere mai il lato leggero della vita. E nel seguito del racconto la situazione diventa ancora più comica. La seconda buona ra-

gione per non ritirare la pensione offerta dal re fu il terrore delle balourdises. Che bisogno c’è di rischiare l'ennesima brutta figura, si chiede Jean-Jacques nella notte insonne che precede l’incontro, quando si potrebbe tornare a casa con il ricordo intatto di un trionfo? Perché umiliarsi con una battuta fuori luogo o con un silenzio imbarazzante? Molto

71 Ibid, p. 380. 2 Ibidp:339.

262

meglio assumere il ruolo dell’«orso» e screditare in anticipo quei riconoscimenti che potrebbero negarsi. La lunghezza del monologo che passa in rassegna queste ragioni all’apparenza così futili contrasta con la laconicità degli incoraggiamenti morali: Mi immaginavo poi davanti al re, presentato a Sua Maestà, che si degnava di fermarsi e di rivolgermi la parola. In quel moinento, per rispondere, servivano tatto e presenza di spirito. La mia maledetta timidezza, che mi inquieta davanti al più inoffensivo sconosciuto, mi avrebbe lasciato davanti al re di Francia, o mi avrebbe permesso di scegliere opportunamente, lì per lì, le parole da dire? Senza rinunciare all'aria e al tono severo che avevo adottati, volevo mostrarmi sensibile all’onore che mi faceva un così gran monarca. Bisognava avvolgere una grande e utile verità in una lode bella e meritata. Per preparare in anticipo una risposta felice, dovevo prevedere esattamente quel che il re avrebbe potuto dirmi, ma ero certo che in sua presenza non avrei ritrovato una sillaba di quello che avrei meditato”.

Il conflitto di coscienza si concluse con una rocambolesca fuga mattutina che, riletta sullo sfondo socio-culturale che ci è ormai noto, acquista un significato emblematico. L'abusata metafora della «fuga dal mondo» — di cui Hegel accuserà Rousseau, e con lui ogni anima bella”* — assume un significato del tutto nuovo. Nell’attimo stesso della sua genesi storica, la

rinuncia rousseauiana si rivela una «fuga dal ronde»: Che figura avrei fatto in quel momento, e sotto gli occhi di tutta la corte, se per l'emozione mi fosse sfuggita qualcuna delle mie solite balordaggini? Il pericolo mi allarmò, mi spaventò, mi fece fremere al punto che mi indusse, ad ogni costo, a non espormici. [...] Addussi

il pretesto della mia salute, e we ne andai la mattina stessa”.

E al termine di questa fuga c’era ovviamente lo scandalo. Con indubbia sfrontatezza quest'artista povero e semiscono-

sciuto proclamava di rinunciare a quello che per i suoi colle7 Ibid., pp. 379-380. 74 Come ho già ricordato gli idealisti pensavano a Rousseau soprattutto come all'autore delle Réveries. Sull’interpretazione di Rousseau nell'età di Goethe, Bodei, Scorzposizioni, cit., pp. 114-126. 5 Confessions, p. 380.

263

ghi rappresentava l’obiettivo di una vita”, e addirittura rifiutava, contro ogni regola di deferenza e buona educazione, di comparire al cospetto del re. Quale sconcerto peggiore poteva darsi in una società che giudicava il valore degli individui secondo il grado di vicinanza fisica al sovrano? La mia partenza suscitò clamore e fu generalmente biasimata. Le mie ragioni non potevano essere comprese da tutti. Accusarmi di

stupido orgoglio era assai più facile, e accontentava meglio la gelosia di chi sapeva dentro di sé che non si sarebbe comportato così”.

Piccola allegoria genealogica dell’individualismo rousseauiano, l'avventura del Devin disvela — con molta più chiarezza del paludato racconto della riforma — le ambivalenze nascoste nel gesto di rinuncia alla società. Rousseau scappa da

Fontainebleau e dal suo soffocante sistema di mediazioni per difendersi preventivamente dall’ennesima esperienza di ridcule (non importa, ormai, se il dolore sia piuttosto immaginato che sentito), ossia mosso dallo stesso azzour-propre per cui, il giorno prima, aveva gustato il delizioso sapore della gloria artistica. La scelta della solitudine non è la fuga dalla lotta rimproverata dagli idealisti, ma la strategia più sottile e virtuosistica di questa stessa lotta. Cambiano i modi e i contenuti, ma siamo ancora interni alla figura originaria della prima pagina delle Confessions: un io che, esibendosi, si sottopone al riconoscimento dell'intera comunità dei contemporanei. La nuova posizione spirituale di Rousseau, che definiremo il riconoscimento romantico, sviluppa fino in fondo le contraddizioni del riconoscimento di ospitalità, fino a chiudersi in un circolo paradossale in cui convivono disuguaglianza e uguaglianza, complesso di inferiorità e sentimento di superiorità, bisogno degli altri e negazione di questo stesso bisogno. Per completare il quadro attraverso il confronto con le altre due figure, possiamo notare che il rapporto intersoggettivo si compie contemporaneamente su due piani paralleli:

7© Si vedano le reazioni di Diderot e di Grimm all’indomani della fuga,

ibid., pp. 381 ss.

7? Ibid., p. 380.

264

a) da un lato si ripropone lo schema del servo che con-

quista l’ambìto riconoscimento aristocratico attraverso un ex-

ploit culturale. Leggendo le tre figure in sequenza scopriamo un processo in crescendo, che evolve contemporaneamente dalla periferia verso il centro e dal basso verso l’alto: prima la piccola nobiltà di provincia, poi quella parigina, e infine il vertice della corte di Fontainebleau. Con l’applauso personale di Luigi XV, la consacrazione è definitiva: la coscienza ha raggiunto la vetta, è stata riconosciuta dalla massima autorità dell’epoca, il re di Francia. 6) Ma al culmine dell’escalation, veniamo introdotti in un una nuova dimensione: Rousseau provoca la stessa platea di cui agogna la stima, trasgredendone le regole. Cerca un riconoscimento di differenziazione, in cui, invece di conformarsi

alle attese dei suoi interlocutori, la coscienza rivendica nei loro confronti una distinzione irriducibile. Con il risultato paradossale che la richiesta di riconoscimento pretende di negare valore al riconoscimento stesso?8.

L’ambivalenza di questa posizione non sfuggì ai philosophes. Fu soprattutto Diderot” a sollevare quell’accusa di «stupido orgoglio» che sembra tanto ferire l’autorappresentazione di Rousseau, e in cui egli non smetterà di ravvisare il frutto dell’invidia o, nel migliore dei casi, di un’incolmabile distanza spi-

rituale. Ovviamente il conflitto non può essere ridotto a semplici cause psicologiche: tra gli enciclopedisti e l’autore del Discours sur les sciences et les arts si combatteva una battaglia storica, lo scontro tra due diverse visioni dell’uomo, della società e

della cultura, che metteva in discussione i fondamenti spirituali dell’Illuminismo89. Ma non si può negare che i «nemici» di 78 Il paradosso è già implicito nell’atto autobiografico fondatore. Nello stesso momento in cui raduna idealmente davanti a sé l’intera folla del genere umano implorandone l’amore e l'accoglienza, Rousseau non manca di precisare: «Non sono fatto come nessuno di quelli che ho incontrato. Oso credere di non essere fatto come nessuno di quelli che esistono. Se non valgo di più, sono almeno diverso», Confessions, p. 5.

79 L'inizio della rottura tra i due «fratelli nemici» può essere datato proprio all'episodio di Fontainebleau. Cfr. J. Fabre, Deux frères ennemis: Diderot et Jean-Jacques, in Lumières et Romantisme, cit., pp. 35-37. 80 «L'opposizione a Rousseau era storicamente giustificata e necessaria: e

265

Jean-Jacques avessero colto una difficoltà oggettiva nel suo mo-

do di gestire il proprio personaggio pubblico, in quella sua presuntuosa posizione intellettuale che pretende di fondere moralismo e autobiografia. Non è forse contraddittorio dare spettacolo dell’autenticità che, per definizione, è il non spettacolare, l’anti-teatro? Con quale coerenza un saggio può predicare le gioie della vita solitaria se ogni suo gesto sembra quello di un attore davanti alla platea? Anche Spinoza si era isolato per dedicarsi alla meditazione, e aveva scelto di mantenersi con un

semplice lavoro manuale. Ma la sua decisione era maturata nell'ombra e nella modestia. «La mia partenza suscitò clamore», «tutta Parigi ne parlava»: più che al modello di saggezza incarnato dai classici, il modo in cui Jean-Jacques interpreta la propria vita somiglia a quello di Byron. Si potrebbero citare molti altri aneddoti dello stesso stampo. Uno dei più celebri, che ha il pregio, per una volta, di venire da una voce esterna, è ricordato da Madame d’Epinay nei suoi Pseudo-Mémotres. Durante un pranzo da Mademoiselle Quinault, ex-attrice della Comédie Francaise amica degli illuministi, esasperato dalle battute antireligiose dei convitati Rousseau si esibì in questa clamorosa piazzata: Se è vile sopportare che si parli male del proprio amico assente, è un vero crimine sopportare che si parli male del proprio Dio, che è presente. E io, signori, io credo in Dio! [...] Me ne andrò se dite un parola di più®!.

È una testimonianza esemplare della «teatralizzazione dellà moralità» in cui consiste, secondo la nota definizione di Peter Brooks, l'essenza dell’immaginazione melodrammatica. Rousseau inscena i conflitti etici rappresentandoli in modo manicheo; si rappresenta come un indomito eroe disposto a combattere in prima persona la minaccia del male per la gloridove egli credeva di vedere una “congiura” macchinata contro di lui, c'era in realtà una reazione originata e radicata nel più intimo istinto di autocon-

servazione spirituale dell’epoca», Cassirer, I/ problema Gian-Giacomo Rousseau, cit., pp. 56-57. 81 Mme d’Épinay, Les Contre-Confessions. Histoire de Madame de Montbrillant, 2 voll., Paris, Mercure de France, 1989, vol. II, pp. 555-556. Iepi sodio dovrebbe essersi verificato nel 1754.

266

ficazione finale del bene®, E, come nel melodramma, la sua

messa in scena è funzionale a un «estetica dello stupore»: il fatto stesso che l’aneddoto venga ricordato con meraviglia da chi vi assistette sembra confermare l’efficacia della strategia. Vi sono infine momenti in cui la tentazione esibizionistica prende il sopravvento: l’io di Jean-Jacques, perduta la bussola della natura, quel richiamo normativo che garantiva una va-

lenza universale all’ethos dell’autenticità, viene come travolto

dalla sua forza centrifuga. La barba sfoggiata durante la rappresentazione del Devin poteva esser letta come simbolo dell’aderenza a un ordine oggettivo («è la natura a darcela»), e un omaggio ai costumi dei selvaggi da parte di un uomo costretto a vivere suo malgrado nella civilisation. Così la decisione di abbandonare pizzi e dorature a favore del valore d’uso e della semplicità. Ma quale dovrebbe essere l’utilità o l’impellenza morale di indossare un abito arzzezo? Indossai dunque la casacca, il caffetano, il berretto di pelliccia, la cintura e, dopo aver assistito in quell’abito al servizio divino, non ritenni sconveniente portarlo in casa di Milord Maresciallo.

Voltaire non mancherà di rilevare, con la consueta perfidia, che per protestare contro la corruzione non c’è bisogno di passeggiare nelle pubbliche piazze «mascherati da saltimbanchi». E benché le Confessions ci rassicurino a più riprese sulla praticità e l’igiene dell’abito lungo, nasce effettivamente il sospetto che tanta eccentricità sconfini nell’estetismo”. Rousseau non ha più alcun contenuto oggettivo da comunicare, se non la propria diversità. Non si spiegherebbe, in caso 82 P. Brooks, The Melodramatic Imagination (1976), trad. it. L'immaginazione melodrammatica, Parma, Pratiche, 1985, pp. 32 e 33.

8 Confessions, p. 601. 84 Voltaire, Sentiment des citoyens, in Mélanges, a cura di J. Van den

Heuvel, Paris, Gallimard, 1961, p. 717. 8 È giusto ricordare che il successo delle Lettres persanes aveva lanciato in tutta Europa la moda orientaleggiante. Starobinski invece, che interpreta il problema della teatralizzazione rousseauiana in modo caritatevole, come aspirazione all’integrità e alla coerenza, assolve Rousseau anche dal sospetto di estetismo, riconducendo l’abito armeno al bisogno di «rendere manifesto, di fronte a una società malvagia, ciò che è radicalmente altro dal male», ].-]. Rousseau, cit., p. 81 (corsivi nel testo), e in generale pp. 92 ss.

267

contrario, l'attaccamento che riserva al suo bizarro costume

anche nel pericolo, come se fosse una testimonianza di fede che giustifica il martirio:

Il mio vestito armeno serviva da richiamo alla plebaglia. Mi rendevo conto dei suoi svantaggi e ne soffrivo, ma lasciarlo in quel frangente mi sembrava vile. Non mi ci potei risolvere, e passeggiavo tranquillamente per il paese col mio caffetano e il mio berretto di pelliccia, bersaglio delle urla della canaglia e qualche volta dei suoi sassi80.

Nel culmine della persecuzione, la fedeltà a un caffetano diventa l’ultimo atto di una recita pubblica abilmente costruita. L’aneddoto, certo, va contestualizzato nell'atmosfera para-

noica che anima gli ultimi libri delle Confessions. Ma forse Voltaire non aveva torto quando, leggendo le invettive del primo Discours contro gli uomini moderni ossessionati dall’ansia di distinguersi e dall’ardeur de faire parler de soi, annotava con preveggenza

questo semplice scolio: «Scimmia

di Diogene,

come ti condanni da solo!»8”. 4. Una genealogia della coscienza

Gli episodi più esibizionistici delle Corfessiors, generando un dubbio anche sui primordi della riforma, ci invogliano ad estendere la battuta di Voltaire in una vera e propria ipotesi interpretativa: la rivolta di Rousseau non è forse un caso esemplare della «menzogna romantica» denunciata da René Giratd?8p In realtà, nell'opera di Girard non compaiono riferimenti 86 Confessions, pp. 627-628. # OC, II, p. 189. Il riferimento a Diogene mi sembra molto significati vo: mentre Rousseau si richiama ai più nobili modelli di Socrate e degli stoici, Voltaire pensa immediatamente al filosofo antico che ha interpretato l’identità di vita e dottrina nel segno dell’esibizionismo e dello scandalo. 88 Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, cit. Queste tesi sono

state poi sviluppate in direzione socio-antropologica, e in risposta al dibattito contemporaneo, nel successivo Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit. Con l'introduzione del problema «cristiano», la posizione di Girard sull’individualismo si è evoluta.

268

espliciti a testi rousseauiani, una censura curiosa, se si consi-

dera il ruolo che la letteratura francese gioca nella sua antropologia generale. Il romanticismo contro cui si scaglia

Mensonge romantique et vérité romanesque è il movimento let-

terario, o meglio lo stato d'animo che ha dominato la cultura ottocentesca, fondato sul culto della soggettività immediata, e di cui Rousseau è certamente stato il padre spirituale. A esso si oppone la tradizione del romanzo psicologico moderno, da Cervantes a Proust, che ha smascherato la menzogna della spontaneità assoluta. E questa la verità antropologica in cui Girard si riconosce: la coscienza è un’entità costituzionalmente mediata, il prodotto di un processo di costruzione intersoggettiva e violenta. Il fenomeno del desiderio mimetico, che ne costituisce il nucleo originario, ricorda da vicino le tesi di Kojève®?. Invece che sulle pagine della Fenomzerologia, Girard conduce le sue analisi su quelle dei grandi romanzi, ma le sue

conclusioni sono simili: la rivalità simbolica è l’esperienza antropogenica originaria, su cui si fonda l’intera costruzione del mondo culturale. Su questo sfondo di base, Girard imposta la spiegazione storica dell’origine del romanticismo. La rivalità, di per sé eterna quanto l’uomo, si è esasperata nelle moderne condizioni sociali, dove sono cadute le strutture gerarchiche che assorbivano gran parte della violenza. Gli uomini, sempre più propensi a ritenersi uguali, non riconoscono più barriere o interdetti alla loro capacità di confrontarsi, mentre la secolarizzazione ha esasperato l’importanza delle relazioni sociali, che si sono fatte

carico del peso metafisico che prima spettava ai valori trascendenti: Dio è morto, e al suo posto gli «altri» sono diventati «dèi», e al tempo stesso — come aveva intuito Hobbes — temibili «lupi». Emulazione e invidia, imitazione e distinzione, snobismo, gelosia, risentimento, sono stati interiori cui non è possibile sottrarsi, e che definiscono i lineamenti della condizione

umana nella sua forma tipicamente moderna. E se ciò non avviene è al costo di un patetico autoinganno. A volte una coscienza, incapace di sopportare il peso della lotta 0 troppo 8 Sul rapporto Kojève-Girard, R. Bodei, I/ desiderio e la lotta, in A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Torino, Einaudi, 1991, in particolare pp. XIII-XV; Id., Le Prix de la liberté, Paris, Cerf, 1995.

269

orgogliosa per accettare la mediazione dei rivali, si persuade di essere autonoma, indipendente, origirale. Vedendo negli altri un ostacolo al suo desiderio di assoluto, si rinchiude in un’illu-

sione di autarchia divina. Ma è proprio questo gesto solipsistico di ribellione a tradire la sua fragile menzogna:

Il vanitoso romantico non vuole più essere il discepolo di nessuno. È convinto di essere infinitamente originale. Dovunque nel XIX secolo, la spontaneità diventa dogma e sostituisce l’imitazione. Non

lasciamoci illudere [...] gli individualismi clamorosamente dichiarati nascondono un nuovo modo di copiare. I disgusti romantici, l’odio della società, la nostalgia del deserto, allo stesso modo dello spirito di gregge, il più delle volte non simulano altro che una morbosa preoccupazione dell'altro”.

Ogni individuo è avviluppato in un tessuto imitativo che precede e condiziona le sue intime rappresentazioni soggetti-

ve. Chi si rifiuta di ammettere quest’incontrovertibile verità si condanna alla recitazione o all’impostura: «[...] una medesima illusione di autonomia alla quale l’uomo moderno è appassionatamente attaccato»), Ritornando alle Confessions, è indubbio che il modello gi-

rardiano sembra scioglierne molte antinomie: la fuga da Fontainebleau, l’abito armeno, sembrano espressioni esemplari della falsa coscienza che si proclama libera dagli altri, continuando a spiarne in tralice le reazioni. Ma soprattutto, la tesi della menzogna romantica ha il pregio di concordare con alcune autoanalisi dello stesso Rousseau. In un brano delle Réveries, ad esempio, leggiamo: Quando insorgevo con tanto ardore contro l'opinione, ne portavo ancora il giogo senza accorgermene. Vogliamo essere stimati dalle persone che stimiamo; e per il tempo in cui ho potuto giudicare favorevolmente gli uomini, o per lo meno qualche uomo, i giudizi che esprimevano su di me non potevano essermi indifferenti”, CER

l

Re

ì

® Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, cit., pp. 17-18. Nella

stessa direzione vanno anche le osservazioni di Lovejoy in Re/lexions on Human Nature, cit., pp. 101-102. ! Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, cit., p. 18.

® Réveries, p. 1077.

270

Nel contesto dell'ottava passeggiata, il peso di questa confessione dovrebbe intenzionalmente ridursi. C'è stato un periodo in cui, a dispetto dei suoi proclami, Jean-Jacques rincorreva il giudizio degli uomini, sotto la spinta di un azzourpropre subdolamente mascherato da 42041 de sot: «Non sono mai stato particolamente portato all’amor proprio, ma quando vivevo nel gran mondo e soprattutto quando scrivevo, questa passione artificiale si era eccitata dentro di me; ne ave-

vo forse meno degli altri, ma comunque prodigiosamente»?. Ma fu solo l’effetto di una determinata «circostanza», l’influenza dell'ambiente mondano e letterario. La vera natura di Jean-Jacques si preservava intatta e, una volta rimosso l’ostacolo esterno, sarebbe riemersa rinunciando definitivamente all'approvazione altrui: «[...] il desiderio di essere conosciuto meglio dagli uomini si è spento nel mio cuore»?. Così, se nelle prime opere autobiografiche sopravviveva la speranza di riconquistare il rispetto del public — quello dei posteri ma soprattutto dei contemporanei, nel caso delle Confessions, poi solo quello dei posteri, cui si rivolgono idealmente i Dialogues — le Réveries nascono come un diario senza destinatari, mono-

logo di un’anima che scrive soltanto per se stessa: «Compio la stessa impresa di Montaigne, ma con il fine contrario al suo: lui scriveva i suoi saggi per gli altri, mentre io scrivo le mie fantasticherie solo per me»”. Estromettendo definitivamente «gli altri» dal proprio orizzonte, la coscienza ha riguadagnato l’originaria condizione di libertà. Ripercorrendo a ritroso il

cammino del genere umano, è riuscita a ridistillare la passione inautentica dell’arzour-propre in autentico amour de soi”. Ma lasciamo da parte questa ricostruzione in due tempi, in

cui Rousseau applica a se stesso lo schema classico della sua filosofia della storia, purezza delle origini-caduta-redenzione. Affidandoci invece ai suoi nemici, sviluppiamo l'ipotesi

genealogica fino alle conseguenze estreme. Per spiegare quale sia il movente propulsivo dell’individualismo, la specifica spinta che porta alcune coscienze a rifugiarsi nel sogno della Lpd

pi 10/0.

%4 Ibid., p. 1001.

D Ibid. % Ibid., p. 1079. Cfr. Il quadro antropologico e morale, par. 6.

2:71

soggettività assoluta, Girard rimanda in più occasioni al saggio sul risentimento di Max Scheler, che a sua volta rielabora

alcune tesi nietzscheane”. E a Nietzsche dunque che bisogna risalire per scavare in profondità nella psiche rousseauiana. Secondo i princìpi di Genealogia della morale, all’origine dello stato d’animo romantico vi sarebbe il ressentizzent, il movimento d’inversione reattiva con cui la coscienza impotente si

vendica delle ferite subite, negando i valori degli avversari: Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressertiment diventa esso stesso creatore e genera valori; il ressenzizzent di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria. Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio «no» a un «di fuori», a un «altro», a un «non io»: e questo no è la sua azione creatrice’,

Dimentichiamo le implicazioni di valore sottintese nella diffidenza nietzscheana per i pensieri servili, — diffidenza che può essere tranquillamente sospesa senza rinunciare a questa feconda intuizione ermeneutica??: vi sono forme di coscienza ” M. Scheler, Das Ressentiment im Aufbau der Moralen (1912-1919), trad. it. I/ risentimento nell'edificazione delle morali, Milano, Vita e Pensiero, 1975. Scheler accetta i presupposti dell’antropologia nietzscheana, ma cerca di conciliarla con l’oggettività e la materialità dei valori, salvando il cristianesimo dall'accusa di risentimento. % FE. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral (1887), trad. it. Genealogia della morale, Milano, Adelphi, 1989, pp. 25-26 (corsivi nel testo). ” Solo la critica orientata ideologicamente può illudersi che svelare le origini di un pensiero — soprattutto se queste origini sono umili — significhi contestarne la pretesa di validità. E quello che, a partire da Voltaire fino agli odierni interpreti liberali, hanno cercato di fare i maggiori critici del

rousseauismo, come se evidenziare le contraddizioni di Rousseau, le sue oscillazioni psicologiche, il suo disagio sociale, equivalesse automaticamente a negarne il contenuto di verità. Secondo Taine, ad esempio, il fatto che una voce venga dal basso e porti su di sé le stimmate della sofferenza, oscura necessariamente la rappresentazione oggettiva delle cose: quella di JeanJacques non ha titoli di legittimità perché troppo annebbiata dai propri interessi e dalle proprie passioni. Ma si tratta di una posizione insostenibile, che richiede di accettare l'equazione tra pensiero e ideologia, negando che vi sia un residuo di senso che continua a parlare al di là della funzionalità alla vita, in un’ottica di comunicazione universale. E che rischia, oltretutto, di ritorcersi contro i suoi sostenitori: Voltaire, Taine, Nietzsche, lo stesso

22

la cui intima essenza è reattiva. Esse non nascono da un «SÌ»,

dall’adesione immediata a una verità che si impone o si disvela spontaneamente nella propria potenza, ma costruiscono la propria identità per negazione, rovesciando e trasvalutando l'identità di un altro da sé. Come ha visto Starobinski, da un punto di vista formale Rousseau appartiene senza dubbio a questa seconda categoria: «Egli non agisce (se dobbiamo dargli ascolto) seguendo un primo impulso o uno slancio che sarebbe di per sé la causa iniziale. Agisce per reazione, rispondendo a uno stimolo, a una circostanza esterna»!°, Tuttavia,

rispetto a questa lettura idealizzante, Nietzsche insiste sulla dimensione violenta e gerarchica che è alla base del processo reattivo/creativo. La scossa che risveglia Rousseau non è una semplice provocazione intellettuale, una dorzanda come quel-

la avanzata dal conte de Gouvon o dall'Accademia di Digione: è un’urziliazione, una ferita inflitta dall’alto, che lascia nella coscienza una cicatrice profonda e mai interamente rimarginata. Quando Rousseau, reagendo a questo stimolo, inventa

il rousseauismo, non si limita a sfogare pensieri, riflessioni morali astratte e distaccate, ma spurga passioni, umori neri

che si sono accumulati nell'anima e vi sono fermentati per decenni: la mortificazione del servitorello di cui nessuno si accorge, la vergogna del musicista millantatore smascherato da-

vanti al pubblico di Losanna, la stizza dell’intellettuale spedito a tavola con i servi, il ridicolo dell’invitato poco brillante. Solo questa enorme quantità di veleno, scrive Taine, giustifica

la violenza della denuncia rousseauiana: Pieno di rancore per il contrasto tra le condizioni che deve subire e l'animo che sente di avere, sfugge all’invidia con il disprezzo, e conserva in fondo al cuore un’antica amarezza contro i ricchi e i feliCrocker, non fanno forse a loro volta ideologia, criticando Rousseau in nome di una visione del mondo aristocratica e antiegualitaria? Per screditare un pensiero con l’accusa di risentimento, inoltre, bisogna accettare il disprezzo di Nietzsche per i pensieri servili, ancora meno veri di quelli formulati dall’alto, perché indiretti, distorti, nutriti di un minore empito di vi-

ta. Entrambi i passaggi sono frutto di una precisa filosofia della cultura, e possono essere accantonati senza per questo rinunciare all’efficacia di alcune intuizioni di metodo o di interpretazione. 100 Starobinski, I/ senso della critica, cit., pp. 251-252. Cfr. anche Id., Azione e reazione, cit.

273

a sue spese e la loro premondo, quasi che essi lo siano I ci di questo LE tesa di felicità sia un’usurpazione alla propria!!.

Ma lasciamo un'ultima volta la parola a Jean-Jacques, involontario ma spietato genealogista di se stesso. Egli non teme di rilevare l’origine fisiologica dei propri esordi letterari: «[...] ecco come riversai in tutte le mie prime opere la bile e l’umore (/a bile et l’humeur) che mi spingevano a scriverle»!®2. E confessa onestamente a Malesherbes di aver sospettato della sincerità del proprio amore per la solitudine: Mi sono ingannato a lungo sulla causa dell’invincibile disgusto che ho sempre provato frequentando gli uomini, attribuendolo al dispiacere di non essere abbastanza pronto nella conversazione per mostrare quel poco spirito che possiedo e, di conseguenza, a quello di non occupare in società il posto che credevo di meritare!®,

In questo caso Rousseau si autoassolve dal sospetto, spiegando di essersi ritirato all’Ermitage solo perché spinto dall’«indomabile spirito di libertà». Ma non è così nella versione delle Confessions. Con la consueta duplicità di registri, proprio il momento più alto della conversione morale — il racconto della riforma — viene interrotto da una vertiginosa discesa nei bassifondi della coscienza: Un'altra cosa vi contribuiva. Gettato mio malgrado in società (dans le monde) senza averne il tono, senza essere in grado di acquisirlo e di potermici asservire, decisi di procurarmene uno tutto mio, che mi dispensasse dal primo. Dato che la mia sciocca e scontrosa timidezza, che non potevo vincere, nasceva dal timore di mancare alle 10! Taine, L'antico regime, cit., pp. 409-410. Il ritratto di Taine sembra ispirato ai passaggi più dostoevskijani del Nevey de Rameau. L'uomo che agognerebbe a un posto nella società, che vorrebbe diventare celebre, potente, adulato, e avrebbe pure i talenti per riuscirvi, si tortura nell’amarezza del proprio fallimento, nell’invidia per i grands bomzzzes: «Non ne ho mai sentito lodare uno senza rodermi dentro. Sono invidioso...», D. Diderot, Le Neve de Rameau, in Euvres, a cura di A. Billy, Paris, Gallimard, 1951, p. 404. Lo

stesso Scheler, pur simpatizzando con il nobile «filantropismo» di Rousseau, lo definisce forgiato dal «fuoco di un gigantesco risentimento», Il risenzimento nell'edificazione delle morali, cit., p. 122. 102 Confessions, p. 368. 10 Lettres à Malesherbes, p. 1132.

274

convenienze, per farmi coraggio presi il partito di calpestarle. Divenni cinico e caustico per vergogna. Ostentai disprezzo per la cortesia che non sapevo usare!*,

Il brano meriterebbe di figurare in esergo a Genealogia del la morale come emblema della potenza creatrice del ressentiment. Con una geniale anticipazione, Rousseau rifiuta ciò che

potrebbe ancora una volta respingerlo. «Finge di disprezzare» la politesse che non si sente in grado di praticare, e così rende la sua debolezza un punto di forza. La sua posizione si converte da passiva in attiva, e il misconoscimento su un piano di valori diventa pieno riconoscimento sul piano inverso: «Il partito che ho preso di scrivere e di nascondermi è proprio quello che mi conveniva. Me presente, ron si sarebbe mai saputo quanto valevo, non lo si sarebbe nemmeno sospettato»!”.

E si trattò di una strategia incredibilmente efficace. Il successo della posizione romantica replicò alla grande i meravigliosi, ma rari trionfi di azz0ur-propre che avevano puntellato gli anni dell’apprendistato sociale e letterario. Il timido provinciale che non osava dire una parola in pubblico si trasfigurava in un seducente eroe: Ero davvero trasformato. I miei amici, le mie conoscenze nor mt

riconoscevano più. Non ero più l’uomo timido, più vergognoso che modesto, che non osava presentarsi né parlare, che si lasciava sconcertare da una parola scherzosa, che arrossiva per uno sguardo femminile. Audace, fiero, intrepido, portavo dappertutto una sicurezza tanto più ferma quanto più era semplice, e che consisteva nel mio animo più che nel mio contegno!.

Il figlio di un orologiaio ginevrino era diventato Jean-Jacques Rousseau.

104 Confessions, p. 368. 105 Ibid., p. 116.

106 Ibid., pp. 416-417.

ZID

euri ia Sera sd » Pr Ip ila roy Da vir dna

: Ò Timi

step

n Ul) Meranna pi dii

sce

vete

PERLE,

ni

a

"i

o gni adi VA aut Ste gini, Dogi valo Desa Oda pio

i US

NIDO cu Midg a ai

4a

ch Vle

n

5,9

(IS

= ft - pagg

pn

bui vt »

i

cop

Maia ai diFa | aT= vue

BEw° Dal mf



ear

Ce

» dei fe te

cal

ant

o

ble

3 TILTCami

ciro

sareste li al

dè e

©

CONCLUSIONE

ROMANTICISMO E RICONOSCIMENTO

Sottoporre le Confessions al vaglio della coerenza non è un'operazione di bassa cucina e nemmeno di antifilosofico psicologismo. Diversamente da quello che potrebbe essere per altri pensatori, il nesso tra il pensiero e la vita è così stretto che la minima oscillazione del rapporto tra i due termini rischia di compromettere il bilancio del rousseauismo e la validità delle sue proposte normative. La prima ragione è legata alla natura dell’opera di Rousseau, quella che, parafrasando Marx, potremmo detinire la «logica specifica dell’oggetto specifico»: un pensiero così radicato nell’esperienza non può essere compreso pienamente che alla luce di questa stessa esperienza. Rousseau per primo lo ha affermato, non solo additan-

do nelle proprie dottrine il frutto di una conoscenza della condizione umana fuori dal comune, perché ottenuta in prima persona, ma cimentandosi in quella che può essere consi-

derata come la prima interpretazione genealogica del suo stesso pensiero. Uno degli aspetti più originali delle Confessions,

consapevolmente definite dall’autore come un’«impresa senza esempio», è proprio la pretesa di anticipare il lavoro ermeneutico dei lettori, affiancando alle proposte teoriche dell’Émile e del Contrat social una ricostruzione della vita e della personalità del loro autore opportunamente «pregiudicata», nel senso giudiziario del termine. È significativo che siano state le calunnie di Voltaire a catalizzare la decisione autobiografica: persuaso di essere oggetto di un terribile complotto diffamatorio, Rousseau cerca di anticiparne gli effetti, offrendo al medesimo public cui si rivolgono i suoi nemici un'immagine di sé già interpretata, più fedele e consona alla propria dottrina. Ma, ovviamente, non si può lasciare che quest’autoritrat-

to, malgrado tutte le sue pretese di sincerità, costituisca per noi l’ultima parola. Perché l'intuizione genealogica dispieghi il suo potenziale ermeneutico, e il nesso tra la vita e il pensiero si mostri con maggiore oggettività, è necessario percorrere

ZI

anche vie meno ufficiali: rileggere a contropelo le opere autobiografiche, la corrispondenza, le testimonianze; scavare tra le pieghe nascoste della psicologia. La seconda buona ragione per mettere alla prova l’autenticità di Rousseau è emersa nell’ultima figura. Alcune posizioni filosofiche si presentano come «modi di vivere», più che come astratti sistemi dottrinali, e legittimano la loro pretesa di

verità attraverso la retorica dell’exemzplurz in prima persona: per rispettarne la specificità, allora, dobbiamo estendere anche al dominio della pratica l’esigenza di non contraddizione con cui normalmente si giudica la validità di una teoria!. Quello della coerenza è un fest imprescindibile, di cui ci ser-

viamo sempre nell’esperienza e nel linguaggio quotidiani. Ma lo applichiamo spesso, sebbene forse in modo inconsapevole,

anche nell’interpretazione filosofica: ad esempio quando assumiamo come cosa ovvia che la vita e la morte di Socrate (ma lo stesso vale per Seneca o ancor più per Cristo) siano confer-

me della validità del suo messaggio. Alla luce della prova della cicuta, la morale socratica acquista forza, si carica di una sug-

gestione di cui le dottrine che si affidano alla sola forza delle argomentazioni o delle parole sono evidentemente prive. Anche in questo caso, il primo ad esserne convinto è proprio Rousseau: «[...] se Socrate fosse morto nel suo letto, oggi forse ci chiederemmo se non sia stato niente di più che un abile sofista»?. A maggior ragione possiamo sottoporre al test il modello rousseauiano di virtù, che ha dato tanta importanza alla costruzione di un personaggio pubblico esemplare, alla traduzione dei princìpi in uno stile di vita e alla testimonianza universale della più privata, intima soggettività: l’uomo che pretendeva di incarnare la denuncia contro la civilisation persino nei propri vestiti e nei propri ritratti non può esimersi dal

rendere conto di presunte mancanze. Dobbiamo insomma considerare con occhi diversi l’accusa sollevata così spesso contro il rousseauismo, ma liquidata con sufficienza dai suoi partigiani. Il fatto stesso che Rousseau sia popolarmente considerato come l’antonomasia del filosofo ! Su questi temi, P. Hadot, Qu'est-ce la philosophie antique? (1995), trad. it. Che cos'è la filosofia antica?,Torino, Einaudi, 1998.

? Discours sur la vertu du héros, OC, II, p. 1274.

278

che predica bene e razzola male merita attenzione. Il senso comune, continuando a sdegnarsi al pensiero dei cinque bam-

bini abbandonati agli Enfants Trouvés, compatendo il destino

della povera Thérèse, sorridendo delle tante meschinità narrate nelle Confessions, non esprime soltanto un giudizio grosso-

lano: intuisce un problema effettivo, interrogandosi sull’autorevolezza di chi, salendo su un pulpito e presentandosi come maestro di saggezza, non si dimostra poi all’altezza del ruolo. E stato questo, d’altra parte, lo spirito con cui Voltaire ha sollevato le sue terribili accuse. Più che l’uomo, egli voleva colpire il personaggio, scardinando quel delicato equilibrio tra dottrina ed esempio che legittimava l’ethos, la peculiare postura pubblica di Rousseau: Dobbiamo confessare, con dolore e arrossendo, che è un uomo

ancora marchiato dai segni funesti delle sue gozzoviglie, e che, mascherato da saltimbanco, trascina con sé, di paese in paese, di montagna in montagna, l’infelice di cui ha fatto morire la madre e di cui ha esposto i figli sulla soglia di un ospizio, rifiutando le cure che una persona caritatevole voleva offrir loro e abiurando tutti i sentimenti della natura allo stesso modo in cui oltraggia quelli dell’onore e della religione’.

Abbandonando all’orfanotrofio i suoi figli, l’autore dell’Émile non ha semplicemente delegittimato il contenuto intrinseco di questa singola opera (conclusione su cui peraltro si può non essere d’accordo, perché non bisogna a tutti i costi essere buoni educatori per scrivere un buon trattato pedagogico, così come, ricorderà il Contrat social, non bisogna essere

prìncipi o legislatori per scrivere di politica‘); di certo però l’immagine del grande fustigatore morale si è incrinata. Non a caso Rousseau fu così ferito dal Sentimeent des citoyens da aver sentito l'esigenza di giustificarsi: la contraddizione tra teoria e 3 Voltaire, Sentiment des citoyens, cit., p. 717. Sul rapporto tra i due autori, H. Gouhier, Rousseau et Voltaire. Portraits dans deux miroirs, Paris, Vrin, 1983, cap. XII. 4 Cfr. Contrat social, p. 351. Per la pedagogia e la politica il test della

coerenza vale solo indirettamente, in quanto le due discipline sono parte di un sistema fondato sulla denuncia etica alla civilisation. In questo senso, credo, Rousseau ha il diritto di rivendicare la dissociazione tra teoria e pratica,

che non può invece ignorare in campo propriamente morale.

209

pratica era un problema serio per la sua autorappresentazione ideale, e per lo stesso motivo non può non esserlo anche per noi, che cerchiamo di capire le sue opere e ci interroghiamo sul loro valore di verità. L'importante è non intendere la contraddizione in modo semplicistico, cercando di comprenderne le cause, definendone l’entità, e quindi analizzando le possibili conseguenze che essa può esercitare sull'insieme del pensiero.

L’incoerenza, a volte, può scaturire da fattori indipendenti dalla posizione soggettiva. Come nel caso del presunto «totalitarismo» rousseauiano, determinate circostanze materiali, iscritte nelle strutture sociali di un'epoca, possono impedire al filosofo di comportarsi come vorrebbe o come richiederebbe la sua dottrina. Esistono poi, ovviamente, ragioni profonde di ordine psicologico: riconoscendole, non bisogna temere di inquinare la cristallina autonomia del pensiero, perché quando il pensiero porta impressa, e così visibile, la firma del suo autore, si può e si deve, con buona pace di Hegel, spingere la sonda anche nelle acque torbide della «personalità». Ciò che vale come titolo d’onore, deve valere anche a titolo d’accusa; e come lodiamo la forza degli eroi, possiamo interrogarci sulle piccole o grandi debolezze di chi, sebbene lo volesse, non è riuscito ad esserlo fino in fondo. Infine, — ed è questa la ragione filosoficamente più importante —, l’incoerenza tra princìpi e pratica può avere origine dalla posizione morale stessa, e chiamare in causa la sua intrinseca validità. In questo caso, la

mancanza soggettiva non ha origine da una debolezza del volere, ma da un problema teorico: un errore, ad esempio, di valutazione antropologica, come un'analisi irrealistica delle passioni e dei moventi dell’agire, o una fiducia eccessiva che il filosofo ripone in certe facoltà, a scapito della forza o della resistenza di altre. Questo tipo di problema si pone, ovviamente, soltanto per una categoria ristretta di posizioni: non avrebbe senso per un approccio di tipo platonico, che è per definizione indifferente alla capacità umana di adeguarsi alla norma, e neppure per l’etica kantiana disinteressata al corso reale del mondo. Ma colpisce al cuore le scuole che cercano di proporre modelli di saggezza efficaci e concreti, in vista della felicità quotidiana. E quella di Rousseau è a tutti gli effetti una morale 280

di questo genere, guidata dal proposito di offrire sollievo a una scissione che aliena l'individuo da se stesso e che lo rende irrimediabilmente infelice: «Ogni uomo vuole essere felice: ma per arrivare ad esserlo, bisogna cominciare a sapere che cos'è la felicità»?. L'ideale dell’autenticità, tanto nella versione romantica delle Réverzes, tanto nella versione più sociale dell’Emzile e della Nouvelle Héloise, tenta di rispondere a questa domanda, offrendo diverse ricette per una vita realmente umana, che sia al tempo stesso buona, integra e felice. Ora, in ognuna delle sue declinazioni, l'etica di Rousseau si

fonda su un presupposto teorico fondamentale: la distinzione tra amour de soi e amour-propre, che giustifica filosoficamente l’idea di alienazione e garantisce la possibilità di un recupero dell’io naturale al di sotto di quello inautentico. Ma questa distinzione, a sua volta, si regge in gran parte sulla testimonianza

personale di Rousseau: sono la sincerità, la spontaneità, l’immediatezza dell’uomo che si confessa davanti a noi a fornire le prove empiriche di una passione immune dalla preoccupazio-

ne per il giudizio degli altri, la cui esistenza, altrimenti, verrebbe relegata al campo immaginativo delle storie ipotetiche del secondo Discours e dell’Émzile. Nell’esperienza di Jean-Jacques leggiamo la prima, e forse unica testimonianza vivente di cosa sia la psiche di un homme naturel: Da quale fonte il pittore e l’apologeta della natura, oggi così sfigurata e calunniata, può aver ricavato il suo modello, se non dal suo

stesso cuore? L'ha descritta nel modo in cui sentiva se stesso. I pregiudizi da cui non era soggiogato, le passioni artificiali di cui non era vittima, non offuscavano ai suoi occhi, come invece a quelli degli altri, quei tratti originari così generalmente obliati o misconosciuti®.

Se dunque dovessimo concludere, con Nietzsche e Girard, che proprio gli atteggiamenti da Rousseau invocati come prove incontestabili della propria immediatezza sono, in realtà, sofistiche deformazioni dell’azzour-propre, o possono essere anche interpretati come tali, metteremmo inevitabilmente in discussione la sua idea di natura, la sua intera visione dell’uomo. > Émile, p. 444. 6 Dialogues, p. 936.

281

Infine, un’ultima ragione per leggere «sospettosamente» la biografia morale di Rousseau è legata alla straordinaria influenza che l’individualismo rousseauiano ha esercitato sui modelli diffusi di soggettività, dall’Ottocento fino al tempo presente. Sono state soprattutto le Confessions e le Réveries, non le dottrine molto più temperate dell’Éyzi/e e dell’Heoise, a esercitare la suggestione maggiore; e questo ha fatto sì che l’ideale dell’autenticità si sia diffuso esasperando quelle tensioni e contraddizioni interne che abbiamo riscontrato nella sua versione romantica: prima tra tutte la pretesa di «essere se

stessi» esibendosi o spettacolarizzando il proprio io, che ancora oggi ritroviamo in chi si confessa in televisione o in

un’autobiografia pubblicata in milioni di copie. Se Rousseau non può essere ritenuto direttamente responsabile della diffusione di queste patologie, di certo riflettere sulle sue pagine può aiutarci a capire meglio noi stessi.

Ma una volta ammessa la legittimità delle domande, resta ancora il problema delle risposte. Alla fine della nostra rilettura ci troviamo davanti a un’alternativa difficilmente conciliabile: da un lato Rousseau continua a ripetere che il vero io è quello che si trova nel profondo di noi stessi, e che si recupera con la rinuncia all’affermazione competitiva nel mondo. Dall'altro, nelle pieghe delle sue opere e nelle contraddizioni eclatanti della sua stessa vita, sembra sussurrarci la verità contraria: che non esiste pienezza senza l’amore e la stima degli altri uomini, e che i momenti in cui vinciamo la lotta per il ri-

conoscimento, lungi dall’allontanarci irrimediabilmente da un'origine più vera e più innocente, sono il nostro «trionfo», la più importante conferma della nostra identità. Ma quella tra romanticismo e riconoscimento non è un'opposizione simmetrica. La seconda verità, infatti, è così forte da permettersi di inglobare la prima: mentre il romanticismo nega il riconoscimento, escludendolo per definizione, il riconoscimento comprende il romanticismo, nel doppio senso che lo contiene all’interno di sé, come una sua specifica parte, e che lo spiega e lo illumina, come la più obliqua delle sue strategie. Si può cercare di essere autentici per perseguire il più inautentico degli obiettivi: questo ci ha sug282

gerito, nietzscheanamente,

lo stesso Rousseau,

quando

ha

denunciato le proprie pose eccentriche e solitarie, e persino il frutto delle proprie fatiche filosofiche, come armi per conquistare l'approvazione sociale. «Quando insorgevo con tanto ardore contro l’opinione, ne portavo ancora il giogo senza accorgermene». Questa piccola confessione, scivolata dalla penna quasi per caso, ha aperto una crepa fatale. Dall’ammissione che alcuni atteggiamenti romantici sono strategie dell’arz0urpropre, alla conclusione che ?utt7 gli atteggiamenti romantici nascono dalla morbosa preoccupazione dell’altro, il passo è molto breve. La morale di tutta la storia sembra davvero quella di René Girard, che vede nella mediazione e nell’imitazione

i confini inaggirabili della condizione umana, e che condanna il mito dell'autonomia come una menzogna, l’escazzotage di coscienze risentite o troppo deboli per accettare la posta in gioco nel conflitto sociale. Eppure Rousseau non si spinge mai a questa conclusione,

continuando a difendere indomitamente la sua certezza morale, descrivendoci lo stato di autarchia come una condizione di

felicità quasi divina, e sforzandosi di aderire a questo modello anche nei momenti più disperati della sua esistenza. Dal Discours sur l’inégalité alle ultime riflessioni autobiografiche, egli ci porge l’immagine dell'io naturale come la forma di redenzione più efficace e seducente dalla mancanza di senso delle relazioni intersoggettive: Tutto mi riconduce alla vita felice e dolce per cui ero nato. [....] Sto solo con me, contento di me, e già pieno della felicità che mi spetta. È tutto questo è frutto solo dell'amore di me stesso, l'amor proprio non c'entra affatto”.

Davanti alla forza di questo ideale, che avrebbe continuato a suggestionare la nostra cultura per più di due secoli, la prospettiva del genealogista deve sapersi ritirare umilmente. Anche il pensiero più carnale, più plasmato dalla propria umanità riposa su una metabasi qualitativa, che permette alla vita di generare valore — il valore autonomo e universale, non

quello schiavo della vita, come pretende invece Nietzsche. ? Réveries, p. 1081.

283

Ricorda opportunamente Paul Bénichou: Tra la nostra esperienza di esseri viventi e i nostri pensieri sul bene e sul male, esiste allo stesso tempo una continuità e una rottura. È una contraddizione che non si può nascondere né risolvere. [...] Che una sofferenza o una speranza si concretizzino in un’idea del bene; che si identifichino con essa, al punto che, dopo averle distinte, possiamo fondarle saldamente una sull’altra; che l’uomo che vive e l’uomo che pensa, distinti in principio, siano un'unica cosa, e che tuttavia si debbano avere su questo unico essere due punti di vista irriducibili, e che non possiamo sacrificarne nessuno dei due senza mentire a noi stessi — questa è la condizione che ci è stata data e che ci conviene accettare come tale [...]. Così non ci resta altra scelta che

conservare contemporaneamente le due verità, il cui punto di congiunzione ci resta oscuro, e di esercitarci a non negarne nessuna?.

Così, abbandonando la tentazione di ridurre l'autenticità

di Rousseau a epifenomeno di un fallimento esistenziale, l’interpretazione ci lascia alle prese con due verità.

* P. Bénichou, ].-J. Rousseau: de la personne à la doctrine, in L'Écrivain

et ses travaux (1967), Paris, Corti, 1993, pp. 38-54, in particolare pp. 53-54.

284

INDICE DEI NOMI

sia

88-=15=101/22=5

81510