Romagna mia!
 9788842095064

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Contromano

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Tommaso Giartosio L’O di Roma. In tondo e senza fermarsi mai

L.R. Carrino A Neopoli nisciuno è neo

Enrico Brizzi La legge della giungla

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Fabio Genovesi Morte dei Marmi

Gabriella Kuruvilla Milano, fin qui tutto bene

Alessandro Banda “Due mondi e io vengo dall’altro” (Il Sudtirolo, detto anche Alto Adige)

Nandu Popu Salento fuoco e fumo

Marco Rovelli Il contro in testa. Gente di marmo e d’anarchia

Cristiano Cavina

Romagna mia!

Editori Laterza

© 2012, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2012 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council La cartina è stata realizzata da Alessia Pitzalis

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2012 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9506-4

a Giovanni Cavina (Casola Valsenio, 1913-2003) e a Giovanni Cavina (Ravenna, 2007)

Una terra senza confini, che non si riconosce dai boschi, dai monti, dai fiumi, dal clima, ma dalla gente e dalle sue abitudini. Non una regione geografica dunque, ma una regione del carattere, un’isola del sentimento. Un pianeta inventato dai suoi abitanti Guido Nozzoli Romagna solatìa, dolce paese cui regnarono Guidi e Malatesta cui tenne pure il Passator Cortese Re della strada, Re della Foresta Giovanni Pascoli Ma noi sapevamo che la poesia era finita quando la prima piada era cotta Marino Moretti I romagnoli sono una razza rozza e fiera; ma la più adatta che si conosce a rinsanguare una nazione Lord Byron Pure non mi nascondo che è per il senso di liberazione che mi viene da questo simbolismo naturalistico che io amo Faenza come m’inebria la Spagna Dino Campana vii

Se io potessi con voi circolare liberamente nella Romagna per dieci giorni, mi assumerei di operare l’insurrezione l’undicesimo Giuseppe Mazzini Rimanete fedele alla Romagna, sempre; è la terra dove si conserva quel poco di buono che è rimasto al mondo Alfredo Panzini Questi diavoli Romagnuoli ci danno molto da fare; pur questa mattina ne ho impiccati due, e ne impiccheremo altri Annibal Caro – Vengo a cercare Padre Cristoforo. – Padre Cristoforo? Non c’è. – Dov’è andato? – A Rimini. – A? – Rimini. – Dov’è questo paese? – Eh eh eh... Alessandro Manzoni Rien n’est plus beau, de cette Romagne Montesquieu Niuno tra quelle popolazioni generose, è capace di scendere alla delazione; e che raccogliendo un proscritto – essi lo custodiscono come cosa sacra – lo salvano, lo mantengono, lo guidano con una benevolenza incomparabile; la lunga dominazione del più perverso, del più corruttore dei governi, non è stata capace di ammollire e depravare il carattere di quelle maschie e generose popolazioni. Quanto mi duole non poter consacrare alla storia i nomi di quei generosi Romagnoli, a cui devo certamente la vita... Giuseppe Garibaldi viii

E sono convinto che la stoffa della razza romagnola è fra le migliori che si conoscono. Ha nelle vene sangue, e non crema alla vaniglia, come altre che non nomino; e quando c’è sangue, se ne può cavar del buono Massimo D’Azeglio Cosa avete fatto al Papa, che non fa altro che cantare “Romagna mia”? Cardinale Agostino Casaroli Dio Bo’, ho fatto la pole! Marco Simoncelli L’onorevole Borghi diceva ieri: Ma che cosa vuole questa Romagna? Sono veramente incontentabili questi Romagnoli! Ecco, per poco non ha detto che sono refrattari alla civiltà come i Pellerossa! On. Clemente Caldesi Cuocete dunque i cappelletti nel suo brodo come si usa in Romagna, ove trovereste degli eroi che si vantano di averne mangiati cento; ma c’è il caso però di crepare come avvenne ad un mio amico. Una ventina posson bastare... Pellegrino Artusi Piacere, don Leo Tabanelli; Parroco di Rio Valle, Curato di San Rufillo, Monsignore di Renzuno, Rettore del Santuario di Mongardino, Pievaro di Settefonti e Prete più altolocato della provincia di Ravenna (570 metri sul livello del mare)... Don Leopoldo Tabanelli si presenta all’attore Ivano Marescotti

Indice

Pedigree 3 Dire un fatto

9

Dalle sue parti

16

I suoi sganassoni

22

I suoi primi turisti

29

Sarai pure uno sgraziato?

36

Nei suoi caffè: Busso, Striscio, Volo!

42

La sua musica: Taca, Zaclèn!

50

Discoteche di Romagna Greatest Hits

57

I nostri nomi

63

Le cose che ci accadono

69

Le sue belle bastardine

75

Fatti memorabili di Cavina Paolo, guardia e direttore tecnico

83

La Puletca

92

Magnegna? ovvero Passatore & Passatelli

99

xi

Gli sconosciuti romagnoli celebri

109

La più bella truffa del mondo, ovvero un Natale romagnolo

113

Romagna mia!

Ferrara

Bologna

Ravenna

Imola

Faenza

Casola Valsenio

Forlì Cesena

Rimini Rep. di San Marino

Monte Falterona Firenze

Urbino PROVINCIA DI AREZZO

Romagna Granducale

Pesaro

Pedigree

Sono nato romagnolo all’Ospedale Civile di Faenza nella tarda primavera del ’74, e niente e nessuno potrà impedirmi di morire romagnolo quando il Signore lo vorrà. Prima ancora che nella chiesa di Santa Maria Assunta di Casola Valsenio, sono stato battezzato nel podere della Villetta da Saturno Ferretti, cognato di mio nonno Gianì, con un sorso di Sangiovese schietto. Tutti i maschi dei Cavina sono stati battezzati con il vino nero. Cinquant’anni prima, avevano battezzato allo stesso modo mio zio Paolo. Gianì mi ci portò a piedi, dopo avermi impacchettato in un burazzo di cotone, risalendo la collina sovrastata dal rudere dell’antico Castrum Casolae, il castello che formava il primo nucleo abitato del mio paese, raso al suolo dai faentini otto secoli fa. Saturno ci aspettava sull’uscio di casa, con il bicchiere in mano. Ci ha tociato l’indice e me lo ha dato da tittare. Dopo il latte di Nicoletta, il Sangiovese è stato il mio primo sapore del mondo. Cinque anni fa, nel 2007, il novantenne Saturno ha battezzato mio figlio Giovanni. Niente se ne va mai davvero; tutto gira, e prima o poi torna indietro da te. 3

Morirò romagnolo quando piacerà al Signore o a chi ne farà le veci e verrò sepolto al camposanto della Buratta, in un angolo del podere all’ingresso orientale di Casola, da secoli ultima residenza in questo mondo della mia gente. Riposerò tra Gianì e Cristèna la pustèna, mia nonna. Di fronte a noi ci saranno i miei bisnonni; Nicolino, regio portalettere, e Ciompi Paola, la mamma livornese di Cristèna, che nemmeno nella foto sulla lapide riesce a nascondere lo sguardo spaurito da viso pallido priogioniero di una tribù di mohicani. È l’unica particella del mio sangue che non viene da questa terra. I genitori di Gianì riposano dall’altra parte del camposanto. Neanche da morto Nicolino si fidava di loro, e li ha voluti tenere alla debita distanza. Hanno occhi da tagliatori di gole, e con facce come quelle è meglio non andare troppo per il sottile. Non ho fatto in tempo a conoscere di persona il padre di Gianì, anche se è stato una presenza costante nella mia vita. “Tirte sò chel brég”, mi diceva nonno ogni volta che uscivo di casa, “t’em pè Minghinaz d’ Ca di Bèrtle”. Deducevo che il bisnonno Minghinaccio, in grande anticipo sui tempi, amava portare i bragoni con il cavallo basso proprio come me, con buona pace dei rapper di città che oggi si credono di essere all’avanguardia con le mutande in bella vista. Non potrò avere vicino il fratello più piccolo di mio nonno, Mario di Bigiuno, nome di battaglia Tarzan, ferito a Ca di Malanca nell’ottobre del ’44, mio eroe personale. Io so già che andrà a finire così, e non mi spaventa per niente; sarà come una grande rimpatriata. Di certo non avrò da ridire come quel signore sepolto nel cimitero di Gallisterna, frazione di Riolo Terme: “Sappiate che sono qui contro la mia volontà”, ha fatto incidere come epitaffio sulla sua lapide. 4

Molta della gente a cui ho voluto bene non c’è più da tempo; mi mancano tutti quanti, e la maggior parte non ho mai avuto il piacere di vederla da viva. Se ne sono andati prima che nascessi, ma li ho sentiti citare così tanto che è come se fossi cresciuto tra i loro piedi; ci siamo voluti bene a distanza, come accade con dei parenti emigrati in una terra straniera. Gli scambi epistolari che intratteniamo da una vita non sono scritti con l’inchiostro sulla carta, ma raccontati a voce. Quando è morto, mio nonno Gianì non aveva granché da lasciare. Era stato una disgrazia come coltivatore diretto e come allevatore; riempiva il suo staletto abusivo di maiali che non macellava mai e che ingrassavano divorando la sua pensione. Mia mamma ha ereditato il suo tocco. Nello stesso staletto alleva capponi, galline e tacchini che invecchiano beatamente, e finiscono i loro giorni cadendo di morte naturale, panciuti e impettiti come generali in pensione, carichi di medaglie al valore. Anche come marito, mio nonno combinò parecchi di­sastri. Le donne lo cercavano e lui era troppo generoso per non farsi trovare pronto. Era permaloso e orgoglioso; “o tistó”, come si lamentava Cristèna: un testone fatto e finito. Ma in qualche modo strano, era davvero impossibile non volergli bene. Era assemblato alla nostra maniera. Un giorno cadde dalla scala del pollaio, sopra lo staletto, dove passava il tempo a litigare con Dino di Porz per uno scassato di viti, due filari ingarbugliati di Albana a dir tanto, che si trovava proprio al confine della proprietà e che tutti e due sostenevano di aver piantato prima della guerra. Era da cinquant’anni che non ne venivano a capo. Volò giù dalla scala e con la testa diede una gran panacca per terra. Tornò a casa a piedi, lasciandosi dietro una sgom5

mata di sangue; quando entrò in cortile, mia nonna lo vide dalla finestra e le venne il fastidio. Tutte le ’zdore passavano parte del loro tempo a nasare quello che succedeva in cortile, era una specie di social network formato da donne che invece di chattare si urlavano le cose da un piano all’altro. Cristèna aveva informato tutti all’istante del suo malore, com’era sua abitudine. Spesso quando erano in casa litigavano e pareva dovessero andare avanti per settimane intere, lei apriva le imposte e informava tutto il vicinato che la stavano ammazzando, che le veniva il fastidio, una strana malattia che radunava problemi di cuore, pressione bassa, febbre malarica e mal di pancia. Giovannona, la migliore amica di Cristèna, accorse nel nostro appartamento e prese a sgolarsi: “Chiamate l’avtoambulanza!”. In attesa che arrivasse l’avtoambulanza, Gianì cercava di amasare tutta quella spiacevole faccenda. Per lui non era niente di grave, non c’era bisogno di fare tutto quel cinema, e rassicurava i vicini spingendo all’indietro un lembo di pelle grande come una sfiettola di ciccioli che continuava a ricadergli sulla fronte. Era inzuppato di sangue; la ghiaia era piantata qua e là per la pelata e gli donava un’aria da idoletto africano incastonato di lapislazzuli e pietre preziose. L’avtoambulanza arrivò giusto in tempo per portare al Pronto Soccorso Cristèna, che si era talmente immedesimata nella parte della sofferente da esser riuscita a farsi venir male per davvero. Gianì non strizzò una lacrima, nemmeno quando il dottor La Porta gli cucì i punti sulla pelata. Come non l’aveva strizzata in Albania quando una mitragliatrice dei partigiani greci l’aveva centrato nella spalla, lasciandogli un livido perenne. 6

Tornò a casa anche quella volta con i suoi piedi, conservando la pallottola che venne poi appesa al nostro portachiavi. Lui era il mio Superman, con un costume differente, ­però. Invece della calzamaglia indossava un paio di braghe da lavoro in panno tenute su da un filo di spago legato alla cintola, e al posto della maglia attillata indossava una canottiera a coste in cui una macchia di ragù o di Sangiovese, a seconda di cosa cucinava Cristèna, sostituiva la S. Lavorò nei campi fino a ottantasei anni, finché non cadde sul bordo del marciapiede davanti al Bar di Sopra rompendosi una spalla. Incominciò quel giorno a morire, un po’ alla volta. Fanno tutti così, i nostri vecchi. Funzionano che è una meraviglia finché hanno da trafficare con la terra o con l’orto, ma appena si staccano un centimetro dal campo si spengono; appassiscono, proprio come farebbe qualsiasi vitigno. “Mandatemi al sito”, mi supplicava certi pomeriggi, con la spalla fasciata, sdraiato sul letto: aveva le occhiaie e lo si sarebbe potuto scambiare per un qualsiasi drogato in crisi d’astinenza. Morì i primi di novembre, due mesi dopo aver compiuto novant’anni. Gli ultimi giorni si era perso nel tempo, e mi chiamava o Gigì o Carlì, come i cugini con cui era cresciuto a Ca di Bèrtle. Non fece testamento; gli mancava la materia prima per poterselo permettere. Aveva già lasciato quello che serviva: tre figli, sei nipoti, quattro bisnipoti e una scia lunga una vita di cuori spezzati e letti sbaraccati dalla foga. Il giorno del funerale, di mattina presto andai con mia mamma al campo della Furina, il vigneto che lavorava da sempre e che insieme ai maiali gli prosciugava scrupolosamente la pensione. Tagliai due tralci di Albana. Poi mi fermai a Casa Bartoli, la Ca di Bèrtle dei suoi ricordi, che usava come infallibile metro di paragone per il mondo intero. C’era venuto al 7

mondo nel 1913, annunciato da una cometa; dall’aia raccolsi un pugno di terra. Nella camera ardente, prima che chiudessero la bara, sistemai i tralci di Albana tra le sue mani ben composte. Il rosario non l’aveva voluto, perché Cristèna l’aveva già portato nell’altro mondo dieci anni prima e non voleva ritrovarsi con dei doppioni: con le viti magari poteva farci un innesto, sempre che i siti del paradiso fossero buoni come i nostri. Con la terra gli riempii le tasche. Non aveva pianto perché doveva morire; non piangeva per queste cose. Lui piangeva solo quando mia nonna lo sgridava e gli diceva di lavarsi perché puzzava. Le ultime notti invece lo avevo sentito piangere per i suoi filari, per questa terra con cui ragagnava da quando Minghinaz e Maria l’avevano messo al mondo. Ecco, vorrei morire così anche io, quando piacerà al Signore. E se qualcuno che mi vuole bene sarà lì vicino, mi metterà una manciata di quella terra nelle tasche: va bene anche la ghiaia del cortile delle Case Popolari. I tralci non servono. Ho aiutato mio nonno a potare e a vendemmiare, da ragazzino; la mattina del 29 maggio del 1987, giorno del mio tredicesimo compleanno, mi fece trovare in fondo al letto l’unico regalo della sua vita: una zappa nuova fiammante, con duemila lire tenute ferme da un elastico sul manico. Non la usai mai: quello era il suo destino non il mio. Io ho cercato di prendermi cura come meglio potevo di un altro tipo di vitigno che cresce alle nostre latitudini. Io ho coltivato le storie.

Dire un fatto

Quando scrivi, la domanda che ti fanno più spesso è: Perché? Ci sono tante risposte. Scrivi perché è la tua passione, o perché senti di avere qualcosa da dire. C’è chi scrive per cambiare il mondo anche solo di un pelo e addirittura chi scrive per salvarlo. C’è chi lo fa per puro intrattenimento, qualcuno per il piacere di litigare e chi perché è sempre meglio che andare a lavorare. Gianì si stupiva quando mi sentiva passare interi pomeriggi chiuso in camera, a pigiare i tasti della vecchia Olivetti Lettera 22 di zia Mariangela. “’Sa faral?”, chiedeva a mia mamma, che non aveva risposte, visto che ne sapeva meno di lui. Mi guardava inciciuito, dondolando la testa da una parte all’altra, come se si fosse trovato davanti a una bestia stramba, chessò, una giraffa. “Scrivo delle storie”, tentavo di spiegargli a denti stretti, quando mi fissava per troppo tempo. “Scriv?”. Davvero non riusciva a capacitarsi: cosa accidenti servivano la carta e l’inchiostro, dal momento che mi avevano correttamente equipaggiato di lingua e voce? Cristèna ne aveva avuto abasta di quelle. Quando lui la 9

raggiunse nell’altro mondo, capii cosa avrei dovuto rispondergli. Una sera mi spianai davanti al computer – la vecchia Olivetti era già andata in pensione – e buttai giù una specie di lettera, quasi un coccodrillo per la sua morte con l’idea di spedirlo allo “Specchio”, il giornale di Casola di area cattolica, uscito vincitore dalla guerra fredda dopo aver seppellito il suo storico rivale, “Il Senio”, forgiato tra le fiamme infernali della sezione Acerbi del Partito comunista. Terminai la mia lettera un mese dopo, ed era diventata il romanzo della nostra famiglia e del nostro paese. Vedi, nonno, avrei dovuto spiegargli quando ancora potevo, scrivo perché tu non ci sarai per sempre. E neanche nonna ci sarà per sempre, e neanche mamma e io e tutti quanti. E Casola, quella è come se non ci fosse, perché noi siamo di quei posti alla periferia delle periferie e si accorgono della nostra esistenza solo per la cronaca nera; non esistiamo come Bologna o Milano per tutto l’anno. Io devo salvare tutto questo, perché sennò facciamo la fine di Atlantide; la storia ci sommergerà e nessuno saprà più un accidente di noi. Mio nonno solo per firmare un assegno ci metteva una vita. Pensavo fosse timore, visto che l’assegno era puntualmente scoperto; in realtà faceva una fatica a tenere quelle biro che pareva dovesse trascinarsi dietro l’aratro. Io scrivo per mio nonno, visto che nessuno gli ha mai insegnato come fare. Adesso è molto più semplice. Quando mi chiedono perché scrivo, gli dico di venire con me fino a Casola, così lo capiscono subito. Sono nato e cresciuto in un paese in cui la Kelly, il cane pastore di Leoncino Braga, stava seduto al bar con il cappello di paglia, gli occhiali da sole e la sigaretta tra i denti. Un 10

anno la candidò anche come sindaco, girando in macchina per Casola facendo campagna elettorale; lei era accucciata sul cofano, e ogni volta che Leoncino urlava “Votate la Kelly”, lei abbaiava con gusto. Leoncino era l’ultimo discendente di monsignor Braga, cappellano di Pio VII, che lo seguì nell’esilio di Avignone, prigionieri di Napoleone. Monsignor Braga a sua volta era lo zio del cardinale Soglia, segretario di Stato di Pio IX, che aveva ampliato il nostro comune rubando con un tratto di penna non so quanti chilometri quadrati alla vicina Brisighella, e aveva fatto costruire mezza Casola; al bar consigliavano sempre a Leoncino di prendere un avvocato e di fare causa alla Curia, per farsi ridare tutti gli immobili che gli spettavano di diritto. Sono nato e cresciuto in un posto in cui don Leo Tabanelli, curato di San Rufillo, ha combattuto a mani nude contro un lupo, per contendersi la carcassa di un capriolo. Giovannona, la mia vicina di casa, aveva un occhio nero e uno azzurro e un neo sul mento da cui spuntavano tre peli lunghi come baffi di gatto: fino al 1992 andava ancora al fiume a lavare i panni con la sua vecchia carriola di legno. Quanti della mia generazione hanno potuto godere di uno spettacolo simile? Io da piccolo volevo fare il corsaro e me la ritrovavo ogni mattina in cima alle scale delle Case Popolari; era accessoriata pure con una gamba di legno e non avevo alcun dubbio che lei sarebbe stata il capo della ciurma. Quando partiva cigolando dal cortile con la carriola piena di panni sporchi, pareva di essere dentro a un film neorealista; e non sapevi mai se tutto quel rumore venisse dalla gamba o dalla ruota della carriola. Nel palazzo di fronte al nostro abitava Gnali, che quando 11

andava a giocare a boccette al Bar di Sotto indossava sempre lo stesso paio di scarpe eleganti, perfettamente lucidate; erano le sue famose scarpe da filotto, infallibili. Si uccise bevendo la varechina. Sotto di lui abitava Paciachina, uno zione impenitente piccolo e scattante, proprietario di una Cinquecento rossa cabrio con cui ci accompagnava a scuola quando arrivava la bella stagione. Noi bambini non potevamo saperlo, ma in casa sua c’era una delle bische clandestine più attive della Romagna e non solo; il mercoledì sera il parcheggio delle Case Popolari si riem­piva di macchinoni dalle targhe strane e la mattina all’alba ne uscivano dei puttanoni impellicciati che Gianì poi non ci dormiva per mesi. Lo trovarono impiccato allo sciacquone del gabinetto, e si disse che lo avevano ammazzato. Io c’ero, vidi Paese e mio zio slegargli la cintura dal collo e adagiarlo sul pavimento. Come posso non raccontare? È da quando sono bambino che i vecchi mi fermano per strada o al bar per dirmi un fatto. Perché qua non si raccontano delle storie: qua ti dicono dei fatti. “A-t dègh un fat”: è il nostro C’era una volta. Ma un fatto, messo in mano a gente della nostra specie, fa una brutta fine. È quanto di meno accurato ci sia al mondo. Lo prendono e incominciano a tirarlo da tutte le parti. Come quando vai in gita a Murano e vedi gli artigiani del vetro. Prendono un grumo incandescente e a furia di girarlo, rigirarlo e soffiarci dentro, puff, spunta fuori un bel fiaschetto di mille colori o un cavallino che è una meraviglia, con delle zampe sottili come uno spillo che immancabilmente escono rotte dalle valigie. E anche se questi fatti sono quanto di più incredibile e 12

strampalato tu abbia mai sentito al mondo, non puoi dubitarne nemmeno per un secondo, tale è la feroce passione con cui te li dicono. Siamo a mollo nei “fatti” da quando veniamo al mondo. A diciotto anni, con i miei amici, ci raccontavamo di quello che ci era successo a tredici, e non da ragazzi quali eravamo, ma come se fossimo tutti degli Omero, ciechi e vecchi come il cucco. Una vittoria fuori casa contro il Tredozio diventava l’assedio di Troia. Come puoi non scrivere se nei caffè litigano ancora su cose tipo quanto pesa un occhio umano? Che è una gran bella questione, visto che per risolvere il problema o vai di nascosto al campo santo a riesumare un cadavere fresco di giornata o trovi un volontario. Io faccio il pizzaiolo da mio zio. Abbiamo la pizzeria al piano di sopra; sotto c’è il Bar di Sopra, che all’anagrafe sarebbe Bar Nuovo, ma qua nemmeno i luoghi sono immuni dai soprannomi. La scala che li collega è di legno. Il palazzo fu costruito negli anni cinquanta con i baiocchi di Giuffrè, il famoso faccendiere che poi fallì in uno dei primi grossi scandali della finanza italiana. Quando lo edificarono, la fine della bubana era già nell’aria, e i muratori lavorarono a tutto busso, giorno e notte. Zompavano su e giù per le impalcature per fare prima, e quando le smontarono scoprirono che si erano dimenticati di fare le scale. Così andarono dai fratelli Dardi, i due falegnami di via Roma, chiedendogli come si potesse risolvere quella canocchia madornale. Dino e Pellegrino si chiusero nel loro laboratorio e ne uscirono tre giorni dopo. Piegarono dei tubi di acciaio ad uso ferroviario, a misura della tromba delle scale, e ci inchiodarono sopra come gradini delle traversine di quercia. 13

L’ho scoperto un anno fa, quando parlando del caso Giuffrè al bar, Eutimio Cavallari mi ha interrotto dicendomi: “Ti dico un fatto”. Lui era uno di quei muratori che se le erano dimenticate. Le scale sono ancora lì; le salgo e le scendo ogni santo giorno. Il passato non esiste; è roba che hanno inventato per tenerci buoni, da seppellire sotto le corone di fiori a prendere la polvere. Quando facevo le elementari, la mia maestra di italiano, Vittoria Dal Pozzo, l’ultima ora di lezione ci faceva mettere via i testi scolastici e, mentre si preparava il suo spuntino delle 15 e 30, un’insalata con tonno e cipolla, ci leggeva un libro ad alta voce – ricordo ancora molti capitoli di Storie dell’anno mille di Tonino Guerra e Luigi Malerba e anche quando ci parlò dell’Amleto di Shakespeare, che pareva una faccenda successa a Palazzuolo sul Senio – oppure ci raccontava della sua infanzia nel dopoguerra, delle aringhe appese al muro su cui si poteva sfregare un tozzo di pane secco, o di Patatì, il vecchio ubriacone di Casola che dormiva dove capitava e quando il maresciallo dei carabinieri gli disse che se non si fosse dato una regolata avrebbe proceduto con altri mezzi, lui gli rispose che si sarebbe bevuto pure quelli. Quando uscivo di scuola, tutte quelle storie diventavano la mia storia, e personaggi come Patatì dei compagni inseparabili. Il passato, eh? Noi siamo gemellati con un paese tedesco, Bartholomä, che ha 2700 abitanti come noi, è vasto il quintuplo e ha il 90% in meno dei bar; noi undici, loro uno scarso. Mi ricordo che passai davanti al municipio la prima volta che vennero in gita a Casola. Una corriera spettacolare, che pareva un’a14

stronave atterrata dagli spazi siderali: si trattava senza ombra di dubbio di una specie intelligente molto più evoluta della nostra. Dall’altra parte della strada c’era la siepe dei giardini pubblici; attraversai, e ci trovai il povero Aldmiero Rontini inguvito, quasi in posizione fetale. “Sono arrivati i tugnì?”, chiese. Tugnì era il nome con cui venivano chiamati i tedeschi durante la guerra. Si stava nascondendo. Non gli dissi che con il suo metro e quarantasei poteva tranquillamente stare in piedi, che non l’avrebbe visto nessuno, ma lui era davvero terrorizzato. “Ci siamo gemellati”, gli dissi, “adesso siamo amici”. Insomma, erano passati sessant’anni. “Ma saranno i tuoi amici”, disse indignato. “Me a-n me fid: troppe me ne hanno combinate”. Aldmiero aveva ancora il tatuaggio sul braccio. Sei campi di lavoro si era fatto durante la guerra. Sai perché scrivo, nonno? Perché l’inchiostro, come quello del tatuaggio di Aldmiero, il tempo non è buono di cancellarlo.

Dalle sue parti

Mi è molto difficile dire qualcosa della mia terra senza lasciarmi prendere la mano; la strada per l’inferno non è lastricata solo di buone intenzioni, ma anche di luoghi comuni. Come usavano fare i poeti sepolti di gloria e di note a margine nei nostri libri scolastici, potrei incominciare con una specie di preghiera alle muse. Solo che qui a Casola di muse non ce ne sono un granché, forse perché quando le scaricavano con le navi dalla Magna Grecia, noi eravamo una tribù di Galli Senoni sperduti dentro a una intricata macchia, troppo impegnati a difenderci dagli orsi con randelli di quercia, così faccio mia l’invocazione del grande Loris Capirossi da Borgo Rivola, pluricampione mondiale. “Come riuscirai a tenere il ritmo dei primi durante la corsa?”, gli chiese un giornalista dopo una problematica sessione di prove. Lui, sudato e sfatto, puntando fisso la telecamera, disse: “Alla fine, sono uno che me la sgavagno”. L’italiano vorrebbe l’uso di “cavarsela” o “venirne a capo”, ma nessuna delle due frasi rende bene l’idea di quanto lo sgavagnarsela sia l’ardua impresa di uscire indenni da un intricato groviglio di condizioni complicate e avversi numi. Io speriamo che me la sgavagno, ecco. 16

Anche perché una certa Romagna da cartolina non esiste quasi più, se non in certi luoghi remoti della Bassa o dell’Appennino. E forse non è mai esistita. Di gente che gira in capparella come si può ammirare nelle foto d’epoca non se ne trova, se non qualche sborone di città, che vuole fare il fis-cino. Ed è un peccato, perché nelle immagini ingiallite dei vecchi mercati cittadini pare di rimirare l’adunata di un reggimento di cadetti di Guascogna, e gli uomini sembrano tutti Cyrano de Bergerac. Ho sempre preferito l’arcaico nome di Romagne, che rende meglio l’idea di tutte le anime che si sono agitate e si agitano in questo piccolo, ingarbugliato pezzettino di terra. Tante anime di un solo corpo, in pluribus unum: come gli americani. Ma anche ammettendo che la Romagna non sia mai esistita, facendo come chi la considera il bagno a mare dell’Emilia, non si può negare che esistano i romagnoli. È molto più semplice mettere i paletti attorno al nostro carattere, che alla nostra terra. Alla Romagna dei modi e dei costumi posso tracciare i confini a occhi chiusi: quell’altra è già più difficile da definire. Amministrativamente esiste, perché l’ho letto sulla Costituzione: Titolo V, Art. 131 Sono costituite le seguenti regioni... Emilia-Romagna. Per chiunque mastichi di calcio, è evidente che siamo condannati a giocare per l’eternità fuori casa. A parte lo svantaggio del campo, i Padri Costituenti non hanno considerato che è complicato individuare un trattino ad altezza d’uomo. Non è che scendendo da Bologna ci si imbatta in un cartello che recita Benvenuti in -Romagna. Per la maggior parte della gente di via, la Romagna è una 17

striscia di spiaggia larga un chilometro che va da Ravenna a Rimini. Quando collaboravo con il “Corriere della Sera”, scrivendo brevi articoli di colore locale, soprattutto l’estate, mi telefonavano al pomeriggio per chiedermi di raccontare cosa stava succedendo di interessante a Milano Marittima. Sapevano che ero romagnolo. Io riagganciavo il telefono e guardavo fuori dalla finestra. A meridione le colline ricoperte di boschi si susseguivano verso la Toscana e ad est lo sguardo si bloccava dopo due soli chilometri contro la Vena dei Gessi, grigia e polverosa che pare la Grande Muraglia Cinese. Milano Marittima è a ottanta chilometri da casa mia, e per vedere il mare dovrei andare in cima a Monte Battaglia in una giornata di sole e sperare che non ci sia l’afa. In un giorno di aria schietta, potrei seguire con lo sguardo la curvatura della riviera, fin su alla foce del Po ed oltre. Nella seconda guerra mondiale, gli ufficiali tugnini armati di binocolo tenevano d’occhio anche Rovigo. I nostri vecchi una volta all’anno andavano sulla vetta di Monte Mauro, e se ne stavano lì seduti per terra a discutere su cosa fosse di preciso quella striscia un po’ più scura che stava tra la terra e il cielo; non avevano neanche la parola in dialetto per indicarla. La nonna del giornalista Beppe Sangiorgi la descriveva come “una spianata turchina che pare il cielo che si specchia sulla terra”. Un confine sicuro ce l’abbiamo, ed è il mare. È l’unico che mi sento di segnare con certezza, tutti gli altri hanno sfumature che proprio non si possono infilare in una cartina geografica. La Romagna non è un luogo preciso, ma uno stato della 18

mente. Noi sappiamo benissimo di essere romagnoli, come sappiamo di avere quasi sempre la testa attaccata al collo. Non ci sfiora nemmeno il dubbio che possano scambiarci per un altro. Spesso, per rompere il ghiaccio, qualcuno mi dice di avere un conoscente che abita dalle mie parti. “Sa Cavina”, mi dicono, “anch’io ho un carissimo amico delle sue parti. Di Reggio Emilia”. Io mi sforzo di non offendermi. Non tanto perché non voglio essere scambiato per un reggiano, ci mancherebbe; quelli sono dei signori, per carità. È che soffro quando incontro gente che non sa dov’è la Romagna. Reggio Emilia non è affatto dalle mie parti. Come può non conoscere la differenza? Certo, ci sono meno di cento chilometri di distanza, ma se ci mettete di fianco, siamo lontani anni luce. Insomma, quella è gente che, se ha qualcosa da dire, ci fa un disco e se la canta: Guccini, Vasco Rossi, Gianni Morandi, Lucio Dalla, Ligabue, Zucchero, Luca Carboni, Cremonini, Nek. Noi, se abbiamo qualcosa da dire, parliamo. E se non abbiamo niente da dire, parliamo ancora di più; sono buoni tutti a star zitti quando non si hanno argomenti. Devo ammettere che lo stesso disagio mi capita quando mi confidano di avere un parente che sta dalle mie parti, diciamo a Brisighella, che dista diciassette chilometri da Casola, nella vallata del Lamone. Ecco, mi spiace puntualizzarlo, ma nemmeno Brisighella è dalle mie parti. Ho amici di Granarolo, frazione di Faenza a due chilometri dal centro, che se gli dai del faentino si arrabbiano; schiumano dalla bocca e ti fanno il resoconto dei duemila anni di storia del loro borgo, che alla fine risulta essere ancora più antico non dico di Roma, ma di Babilonia; anzi, probabile 19

che il primo uomo venga proprio da lì. Buono che non ti trascinino per la manica fino ad un orto per farti vedere l’albero da cui Eva ha preso la mela. Come racconta Beppe Sangiorgi, giornalista e appassionato esperto di tradizioni romagnole, basta infilarsi in un qualsiasi bar per scoprire le profonde differenze tra un paese e l’altro. Riolo Terme, Brisighella e Casola Valsenio stanno tutte dentro a un cerchio di dieci chilometri di raggio. Eppure se vai in un bar a Riolo Terme parlano di soldi e di sport; a Brisighella di soldi e del Vaticano, perché hanno avuto non so quanti cardinali uno dietro l’altro, e quando muore un papa, ti può capitare di sentire un vecchietto che chiudendo il giornale dica: “Alora, chi fégna ’sta volta?”, come se il conclave lo tenessero proprio lì. Le mie parti sono quelle di Casola Valsenio, e da noi, al bar, si raccontano storie. Il centro urbano ha duemila abitanti, ottocento stanno in campagna e nelle frazioni; e siamo divisi anche tra di noi. Così, c’è per esempio qualcuno che se gli domandi da dove viene, ti dice “sono della Cestina”, che è la frazione della frazione di Baffadi. Mio nonno si presentava come “Gianì d’ Ca di Bèrtle”, Giovanni di casa Bartoli, figlio di figli di mezzadri. Alle scuole superiori nessuno mi ha mai chiamato per nome e/o per cognome: per tutti ero semplicemente “Casola”; e loro, faentini di città, la consideravano come la Carson City del vecchio West, dove le leggi federali finivano e incominciava la frontiera. Nella loro mente vedevo le file di pali del telegrafo che salivano verso di noi in collina, e si stupivano che per tornare a casa prendessi le autolinee e non la diligenza. 20

Fellini in una intervista ricorda di quando da giovane faceva scampagnate da Rimini a Santarcangelo di Romagna. Sono diciotto chilometri a dir tanto. Ecco, lui dice che si preparavano a quella gita come i Buana bianchi quando vanno ai safari; aspettavano i portatori e le guide indigene. È difficile individuare con precisione un posto del genere. I confini li abbiamo tracciati addosso noi che la popoliamo; sono marchiati a fuoco nel nostro carattere; per trovare la Romagna, basta trovare uno di noi, che ce la portiamo sempre dietro, come una valigia. Ed esiste un solo metodo infallibile per riconoscerci all’istante. Basta fare caso a come parliamo. Non tanto all’inflessione dialettale, ma alle sfumature dell’italiano. Se parlate con qualcuno che dice: “Ho rimasto”, ecco, allora siete di fronte a un romagnolo; e lui sarà ben lieto di bere alla vostra salute e di spiegarvi per filo e per segno dove si trovano di preciso “le sue parti”.

I suoi sganassoni

Don Francesco Negri, un parroco ravennate del XVII secolo, andò a Capo Nord a piedi, scalando il Monte Istegi a 67 gradi di latitudine armato di ramponi e bastone ferrato; fu uno dei primi italiani che abbiano mai imparato a usare gli sci: lassù si possono ancora leggere le sue iniziali e la data, incise su una roccia. Nel viaggio di ritorno verso casa, gli fu concesso l’onore di essere ricevuto in pompa magna dalla regina di Svezia, Cristina. Quando se la ritrovò di fronte, tra gli splendori di una corte che stava vivendo il suo periodo d’oro, invece che chinare il capo umilmente, don Francesco Negri se ne saltò fuori ricordandole le comuni origini ostrogote. Pare che Sua Altezza Cristina restasse molto perplessa. A quei tempi la monarchia era una cosa più seria e i sovrani erano molto permalosi: non era buona creanza mettersi sullo stesso piano di una regina, e poi ritenne alquanto esile il filo delle comuni origini ostrogote, solo perché seicento anni prima a Ravenna avevano sepolto Teodorico. Il colpo spettacolare, il guizzo d’effetto è nel carattere di ogni romagnolo. È Marco Pantani che getta via la bandana e gli occhiali prima di attaccare in salita, o Valentino Rossi 22

che fa il giro d’onore con una bambola gonfiabile sul sellino dopo aver vinto uno dei suoi primi gran premi. Il numero da sborone ci viene su da dentro, come un singhiozzo, e a volte può essere portato all’estremo. L’autobomba, per dire, l’ha inventata un signore di Savignano sul Rubicone, Mario Buda. Era emigrato nel 1909 negli Stati Uniti. Viveva di ciappini e scazzigni saltuari, finché non aveva scoperto che gli piaceva molto il mestiere di calzolaio ambulante. La sua vera passione però era la politica, la cara vecchia puletca a cui si teneva più che alla donna. Buda, come molti romagnoli del suo tempo, era un fervente anarchico. Eravamo un sito così fertile per il movimento, che Bakunin era andato ad abitare a Imola: nel 1874 aveva cercato con cento armati di ammollare la rivoluzione conquistando Bologna insieme all’amico Andrea Costa, e andò a finire che riuscì a sfuggire ai carabinieri per il rotto della cuffia, travestendosi da prete. Una bella mattina, il buon Mario Buda da Savignano sul Rubicone riempì il suo carretto da calzolaio ambulante di esplosivo e lo lasciò a Wall Street, di fronte alla sede della Morgan & Stanley. Era il 16 settembre del 1920. Fece detonare il carretto a distanza, sventrando il palazzo e uccidendo 39 persone. Quando l’Fbi arrivò al suo nome, lui era già scappato in Messico e da lì in Italia, dove ufficialmente venne spedito al confino; in realtà era a Savignano che risuolava le scarpe. Il povero Napoleone III, imperatore di Francia, di attentati ne subì due, entrambi per opera di romagnoli. Il primo era un mezzadro di Brisighella, Pianori, che girava per Faenza a riparare le ingiustizie; con la classica capparella attorno alle spalle, doveva avere un’aria da super eroe mantellato. L’uni23

co problema era che decideva lui cosa fosse ingiusto o meno. Di sicuro, era un asso con la pistola. Un gruppo di studenti lo sorprese di notte, all’ombra dei portici in piazza del Popolo, mentre spiava chissà chi. “Pianori, cosa fate?”, gli chiesero. “C’è qualcuno che fa del male, a Faenza”, rispose con aria misteriosa. Loro gli dissero scherzando che a Faenza le cose andavano abbastanza bene, non c’era bisogno di fare casino e, invece di perdersi in quelle schiocchezze, sarebbe stato più utile per la causa sistemare l’imperatore. Ridendo, gli misero pure in mano qualche soldo. Nessuno ne seppe più niente, finché un anno dopo si presentò con la pistola in pugno ai Campi Elisi, di fronte a Napoleone III. Era un grande tiratore; a Londra, dove si era fermato per qualche tempo prima di entrare clandestinamente in Francia, si era mantenuto con le scommesse, centrando con la pistola uno scellino a trenta passi di distanza. Sbagliò clamorosamente la mira, perché nessuno dei suoi compagni anarchici gli aveva saputo spiegare con precisione se era meglio mirare alla testa o alla pancia; l’indecisione gli fu fatale. Qualche anno dopo, ci provò Orsini. Sempre un romagnolo, sempre con Napoleone III; mise una bomba e uccise sette persone; si accomodò sulla ghigliottina. Per molto tempo, il nostro carattere e lunghi secoli di cieca dominazione ci hanno condannati ad una esistenza violenta. La storia della Romagna è una storia di sangue, con risvolti da guerra civile. Ancora a metà dell’Ottocento era uno dei luoghi più pericolosi della penisola; l’età media era più bassa che ai tempi degli antichi romani. 24

Basta scorrere i diari di don Domenico Fossa, per farsene un’idea. Faenza, durante i moti risorgimentali, aveva meno di ventimila abitanti: 2 gennaio ’49, Tempo mediocre, uccisione Volpone 5 gennaio ’49, Tempo bello, archibugiata a Vincenzo Regoli 9 gennaio ’49, Tempo mediocre, archibugiata a Casalini speziale 20 gennaio ’49, Tempo bello, archibugiata a don Boschini 26 gennaio ’49, Tempo bello, uccisione di Luchetto del Borgo, dietro Sant’Antonio e attentato a D. Antinori e Raffae­le C. e uccisione di Gallo detto il Morino, falegname. E via dicendo, giorno per giorno, fino a maggio, quando le truppe austriache spengono gli ardori accesi dalla Repubblica Romana: 18 maggio, Tempo bello, la magistratura a parlamento con l’ufficiale austriaco, il vessillo repubblicano ammainato per innalzare di nuovo quello pontificio. In realtà il tempo bello non era per il ritorno del papa, perché don Domenico Fossa era uno strano tipo di prete: non aveva una parrocchia, ma aiutava a scrivere le lettere all’ufficio postale e a compilare i bollettini del gioco del Lotto. Si scoprì che era da tempo iscritto alla Giovine Italia di Mazzini e venne mandato al confino a Bagnacavallo, tra le nebbie e l’afa della Bassa. Quando morì ottantenne, congedò bruscamente il prete che avevano mandato per l’ultima confessione: “Non ho niente da dirle: se c’è il padrone, farò i conti con lui...”. 25

Dal 1848 al 1849, si calcola che in Romagna morirono di coltello oltre cento professionisti, tra papisti e repubblicani. Non fanno statistica i braccianti e i contadini delle classi più povere. A Forlì, in un anno tranquillo come il 1862, scoppiò una rissa per motivi politici all’Osteria del Magazzino Nuovo: morirono due persone. Monti il setacciaro, un uomo grande e grosso, un sandrone insomma, venne accoltellato: si strappò l’arma dalla carne e la riconsegnò al legittimo proprietario, ficcandogliela in pancia fino all’impugnatura. Con gli abiti insanguinati andò dal farmacista. “Guardate un po’ quello che mi hanno fatto”, disse, quasi che chiedesse un rimedio per un raffreddore. Il farmacista inorridito gli fece presente che non era per niente bello quello che vedeva. E Monti, orgoglioso: “Lo so, ma dovreste vedere l’altro: io gli ho ricacciato dentro il suo coltello e ho sentito che ha fatto: Crac!”. Piovene, nel suo Viaggio in Italia, parla di un accoltellamento a Bologna, negli anni cinquanta. La vittima giaceva a terra, riversa in una pozza di sangue, sotto i portici del centro. Un macellaio romagnolo, che aveva bottega lì di fronte, contemplava il corpo con meraviglia. Neanche fossero due turisti davanti agli affreschi della Cappella Sistina, si voltò verso lo scrittore e ammirato per il gesto tecnico disse: “Però, che bella coltellata”. Le vere storie d’amore non finiscono mai, e quella con i coltelli riempie ancora i nostri cassetti in cucina. Conservo con cura i quattro che a rotazione Gianì portava sempre con sé. Io ne ho due, piccoli, che metto in tasca quando vado a fare qualche passeggiata sui monti. 26

Mio bisnonno Nicolino, Regio Portalettere assunto in ruolo il primo maggio del 1891, li costruiva e li vendeva i giorni di mercato, su un tavolino pieghevole, prima di cominciare il giro delle consegne. Quandò morì ne lasciò qualcuno in eredità a Cristèna, che se ne servì anni dopo per minacciare una signora che aveva la cattiva abitudine di andare a letto con mio nonno. Le fece un agguato alla lavanderia pubblica di via Sorgente, sistemandoli in fila sul bordo della vasca di pietra. “Se continuate, incomincio da quello più piccolo e vado avanti”, le disse. Non è un caso che siamo finiti anche in uno dei capitoli centrali di Cuore di De Amicis. Che ci ha sempre voluto bene, e a suo tempo cercava di spiegare ai suoi colleghi sabaudi che non eravamo bestie feroci, ma che semplicemente non ci fidavamo di chi veniva sulla nostra terra a fare da padrone. Nel corso dei secoli, ne avevamo ricevuto solo bastonate. Nel capitolo Sangue Romagnolo, un piccolo teppista, che spezza il cuore alla vecchia nonna per la sua vivacità e la sua abitudine di cacciarsi nei guai, viene redento salvandola dalla coltellata assassina di un brigante. Le fa scudo con il proprio corpo, e muore accovacciato ai suoi piedi, con il capo sul suo grembo, chiedendole scusa e supplicandola di non dimenticarsi di lui. Ho sempre pensato che quella scena fosse una bellissima sintesi di cosa vuol dire essere romagnoli: in ginocchio, sanguinanti, coraggiosi e perduti, con la testa adagiata nel passato. Cuore è il primo libro di cui sia mai stato proprietario. Me lo regalò Cristèna quando avevo sei anni. Anche lei era come la vecchia del racconto; la facevo disperare e ho sempre pen27

sato che me l’avesse regalato apposta affinché potessi trarre insegnamento da quel capitolo in particolare. Nella prima pagina, vergò una piccola dedica, con la sua calligrafia appuntita ed elegante, come non se ne trovano più: 7 novembre 1981. A Cristiano, nella speranza che un giorno diventi buono.

I suoi primi turisti

L’ultima volta che sono stato alla badia di Susinana avevo undici anni, ed ero un agguerrito Lupetto dei Pezzati. Ricoprivo in maniera impeccabile il ruolo di Coglione di sestiglia, da quando l’anno prima avevo pilotato il povero Marchino Bertaccini direttamente tra le fauci di un cinghiale, invece che sulla cima di Monte La Fine. Soggiornammo alla badia per dieci giorni. Era l’antica roccaforte dei Pagani, signori della Romagna toscana fin dal primo Medioevo, trasformata nel corso dei secoli in convento. Il loro stemma era ovunque: un leone azzurro su campo bianco, che impennava sulle zampe posteriori. Per noi, era soltanto un posto pieno di sassi e pietre a non finire, con corridoi lunghi e umidi, cantine buie come catacombe e una cucina zeppa di paioli affumicati, mestoli e altri strumenti di tortura dell’epoca, ben affilati, che mandavano bagliori sinistri, specialmente quando li brandiva suor Osanna, distaccata dal convento delle Orsoline di Casola Valsenio come cuoca tuttofare. Ero un Coglione di sestiglia con i fiocchi. Ero l’unico a non dormire nei letti a castello, perché quel legno era così polveroso che mi veniva l’asma solo a guardar29

lo. I materassi di piume d’oca erano pieni d’acari, come una piazza il giorno di mercato; li sentivo passeggiarci avanti e indietro tutta la notte. Massimo Bellini, il nostro Akela, mi aveva sistemato in una brandina a parte, con un materasso di gommapiuma avvolto in una sacca di plastica da imballaggi. Oltre alle spedizioni negli sterminati boschi che circondavano la badia, aspettavamo con ansia che facesse buio per giocare a calcio. Akela aveva organizzato un torneo notturno, un triangolare tra le sestiglie, che arbitrava cercando di far vincere i suoi preferiti, i Fulvi. I migliori però erano i Neri, che potevano schierare Poggio e Berna, ed erano i favoriti dall’arciprete perché con loro c’era Fattura in difesa, che era il miglior chierichetto della parrocchia. Noi Pezzati ci difendevamo con i gomiti, ma eravamo svantaggiati perché non eravamo i preferiti nemmeno dei nostri genitori. Si giocava con le torce in mano. Il terreno era gibboso, tutto dossi e cunette in cui era facile ingambarellarsi; prima di essere adibito a giardino, era stato per secoli il cimitero del convento. Giocavamo a pallone sopra delle tombe. Donna Nuda si schiantava a terra ogni volta che lisciava la palla, inquadrato dai fasci di luce di tutte le torce. Si alzava e chiedeva che gli fischiassero fallo contro ignoti, perché sosteneva di essere stato arpionato per le caviglie da una mano scheletrica spuntata dal suolo. “Probabile sia stato Maghinardo Pagani in persona”, lo prendeva in giro Akela. Era stato sepolto lì nel 1302, nel pieno dei suoi poteri. “Il Lioncel dal nido bianco, che muta parte da la state al ­verno”, come scrisse Dante. Era lui. Noi ci giocavamo 30

a pallone sopra. Calpestavamo impunemente una terzina dell’Inferno. Io facevo il portiere. Indossavo sulla fronte un avveneristico lume elettrico da minatore ungherese; me l’aveva regalato mio zio, che da qualche anno abitava a Gyor, al confine con la Slovacchia, dopo essere fuggito dalla Germania dell’Est quando il suo negozio di biciclette aveva chiuso per bancarotta. Si era riciclato come gestore di una gelateria. Era davvero comodo portare la torcia sulla testa, seguendo il gioco senza dover puntare il lume a casaccio come tutti gli altri. A un certo punto Poggio calciò un diagonale dei suoi, e mi tuffai per deviarlo in angolo. Mi schiantai contro il noce che faceva da palo. Con quel lume da minatore ungherese avevo una straordinaria visuale frontale, ma ai lati ero completamente cieco. Quando mi ripresi, il torneo era finito. Avevamo perso, ovviamente, ma nessuno si era accorto della mia assenza; la torcia era rimasta accesa. Ecco tutti i ricordi che ho della badia di Susinana, conosciuta anche come abbazia di Santa Maria di Rio Cesare. Il campo del torneo notturno c’è ancora, come il noce contro cui mi sono schiantato. Nell’agosto del 1849, proprio dalla badia, ci passò l’Eroe dei Due Mondi. Si può certo affermare che i primi turisti a scoprire a fondo la nostra Romagna senza mare furono proprio Giuseppe Garibaldi e il Capitan Leggero, suo leggendario luogotenente. Un periodo di ferie travagliato, il loro, visto che stavano fuggendo dal disastro della Repubblica Romana, inseguiti per la penisola dalle guardie pontificie e dall’esercito austriaco. Avendo frequentato l’università ai tavolini del Bar di Sopra, ho scoperto lì questa storia, dato che nei libri di scuola tutta la faccenda veniva riassunta in una riga. 31

La figura ingessata di Garibaldi, somministratami dagli studi scolastici e forgiata sui film tv, gli “zeneggiati”, come li chiama ancora mia mamma, impallidiva anno dopo anno, sostituita da quella ben più vitale e appassionata che ascoltavo dalla voce di don Leo Tabanelli, curato di San Rufillo, ecclesiastico più altolocato della provincia di Ravenna (570 metri sul livello del mare, 660 contando la cima del campanile, sullo spartiacque tra la valle del Senio e quella del Santerno). Don Leo Tabanelli è cantore appassionato di don Giovanni Verità, parroco di Modigliana, che in quei giorni di agosto del 1849 portò in salvo Garibaldi e il Capitan Leggero, accompagnandoli nell’ultimo tratto di strada, oltre i confini tra lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana. Intrufolandomi nelle seconde file intorno al tavolino di don Leo, scoprivo che la memoria non ha niente a che fare con la retorica trita e ritrita degli anniversari e tanto meno con le statue arrugginite ricoperte di corone di fiori che si seccano al passare del tempo. La storia esisteva sempre, ardente e abbagliante, e quando don Leo si infervorava, sembrava proprio che Garibaldi fosse passato dalla badia di Susinana la notte prima, e che lui stesso l’avesse messo in salvo. Seduto al tavolino del bar, schiena al muro e sguardo al marciapiede, stringeva nella mano sinistra orfana del pollice un sigaro Havana grande come un randello di carpino e con la destra manovrava un bicchiere di ven negre, vino nero, quasi lo stesse decantando, incurante che quel vino da bar – con un fondo di due dita che ci potevi seminare tranquillamente del formentone – non avrebbe avuto niente da decantare nemmeno in mille anni. Erano fatti che arrivavano solo a una certa ora, seguendo com’è giusto che sia sentieri tortuosi e oscuri. 32

Molto spesso si partiva dalla caccia. Don Leo era predatore sopraffino, il cui impeto a tratti sconfinava nel bracconaggio; si definiva lo Zidane dei cacciatori e si racconta di un tale della Bassa che si fermò all’alba al Bar Sport e cominciò a lamentarsi della levataccia a cui era stato costretto per venire a caccia nelle nostre valli. Alcuni conoscenti l’avevano avvertito di andare presto, perché la zona era infestata da un vigliacco di prete che non lasciava che briciole ai ritardatari. Da una nuvola di fumo di Havana, in un angolo del bar, emerse don Leo, che gli allungò la mano per presentarsi. “Il prete sono io, e voi potete anche tornare da dove siete venuto”, gli disse. Che ci fosse da far volteggiare il turibolo o fulminare una beccaccia, don Leo era un maestro, come lo era don Giovanni Verità, che grazie proprio alla scusa delle battute venatorie correva in soccorso dei patrioti risorgimentali inseguiti dall’artiglio del papa. Quando Garibaldi morì a Caprera, sulla testa del suo letto non c’era né il crocifisso né la bandiera della nazione nata dal suo coraggio, ma il ritratto di questo prete di Modigliana perennemente con lo schioppo in spalla, iscritto alla Giovine Italia, che morì solo e dimenticato e venne sepolto in una fossa comune, dato che una bolla del pontefice ad personam gli tolse il diritto dei riti religiosi. Quanti occhi lucidi, al tavolino del bar, e quanti insulti a Pio IX, neanche fosse ancora vivo. Ci scoprivamo tutti ferventi patrioti, chini verso di lui come carbonari ad una riunione segreta; sarebbe bastato un cenno di don Leo per farci correre in Vaticano con lo schioppo in spalla per vendicarlo come si deve. Garibaldi e il Capitan Leggero risalivano l’Italia lasciando33

si alle spalle il sogno infranto della Repubblica Romana, su cui aveva messo le mani un altro nostro conterraneo, Aurelio Saffi (“Firm in the right, mild to the wrong”, come declama in un’ode a suo nome il poeta scozzese George Macdonald). Fuggiva con loro la povera Anita, incinta di quattro mesi. Dopo varie peripezie riuscirono ad imbarcarsi a Cesenatico, volgendo la prua a Venezia, unica via di salvezza rimasta. Furono intercettati da una nave austriaca, e sotto i colpi di spingarda riuscirono a sbarcare appena fuori da Ravenna, negli acquitrini di Magnavacca, che, grazie a questa botta di fortuna, da quel giorno si guadagnò il diritto al nome ben più altisonante di Porto Garibaldi. Si nascosero nelle paludi e nella pineta, e trovarono rifugio nella fattoria delle Mandriole. Anita era allo stremo. Morì. Per dieci anni, fino all’Unità d’Italia, riposò tra di noi, a pochi chilometri dall’altro fuggiasco che adottammo molti secoli prima, Dante Alighieri. Garibaldi era pronto ad arrendersi. Le guardie pontificie si avvicinavano; l’esercito austriaco arrivava in forze. Il Capitan Leggero scese di corsa dal pioppo su cui montava la guardia e andò a posare una mano sulla spalla del Generale, che non voleva staccarsi dalla povera Anita. “Per L’Italia”, gli sussurrò, “per i vostri figli”. Garibaldi dovette guardarlo spaesato: come potevano pensare di cavarsela? Con un’entrata in scena spettacolare, com’è nel nostro codice genetico, ecco arrivare all’ultimo minuto disponibile i patrioti romagnoli. Una rete clandestina di fiancheggiatori, chilometro dopo chilometro, paese dopo paese, si passò Garibaldi e Leggero come due valigie, sotto gli occhi della sbirraglia papale. Dalle Mandriole a Ravenna, da Ravenna a Russi, da Russi a Forlì. 34

Fosse saltato un solo anello della catena, tutta la storia di questa nazione sarebbe andata a gambe all’aria. Don Leo aspirava l’ennesima boccata del suo sigaro, e dal fumo che si disperdeva nell’aria parevano prendere forma i volti di tutti quegli anonimi eroi ai quali nessuno si è mai preso la briga di dedicare un monumento. Che a far l’Italia ci si sono messi un po’ tutti, ma a salvarla dodici anni prima che nascesse, siamo stati buoni solo noi.

Sarai pure uno sgraziato?

La domenica mattina, prima di andare alla messa, Gianì faceva la doccia. Arrivava a quell’unico appuntamento settimanale incrostato di terra, ma alla luce del gabinetto mandava luccichii come se fosse spruzzato di paillettes; era il sudore rancido, che lo ricopriva come una glassa. “Fat schiv”, si lamentava Cristèna, che tra le altre cose doveva dividerci il letto da una piazza e mezzo (da due non si poteva, non ci stava dentro alla camera). Gianì odorava di fosso, prima di entrare in gabinetto, ed era scuro come i due negus messi insieme, quello vero di Etiopia, che non avevo mai visto, e Benericetti il Fabbro, che in mezzo alle scintille dell’officina di via Cenni pareva il dio Vulcano in persona. Quando Gianì usciva un’ora dopo dal bagno, non lo riconoscevi neppure, tanto bianco e profumato diventava. A volte lo scolo si intasava dalla cricca, e allora nonna mi mandava di corsa nella cantina comune delle Case Popolari a recuperare un pezzo di freno di bicicletta con cui spingere giù per il sifone tutta la paciaca che aveva addosso. Una volta lo vidi entrare nel gabinetto con due gambi di er36

ba medica sotto l’ascella; chissà da quanto li aveva lì. Se non si fosse lavato, la domenica dopo sicuramente sarebbero fioriti. Mi alzavo prima per ammirare questo evento. Mi nascondevo dietro l’uscio della camera, lasciando aperto solo uno spiraglio per sbirciare. “’Sa fét dóca, Garibaldi?”, mi chiedeva lui, coprendo con pudore le sue nudità. Non era un’impresa da poco. Gianì non usava l’accappatoio, ma un semplice asciugamano, ed era complicato nasconderci sotto i sette fiammiferi e mezzo di virilità di cui si vantava ogni santo giorno al bar. Non minerva o cerini: sette solfanelli svedesi e mezzo. A me non interessava quello, ovviamente. Io aspettavo solo il momento in cui sarebbe uscito dal gabinetto. Non che lui fosse un granché, come spettacolo, a parte quei sette fiammiferi e mezzo che comunque facevano impressione, al di là dei gusti personali; aveva un busto tozzo, con spalle massicce, montato su un paio di gambette sottili che parevano attaccarsi direttamente sotto la schiena, completamente priva di sedere. Le articolazioni erano grosse e dure che parevano i nodi di una quercia, ma quando usciva candido dal gabinetto, emergendo un poco alla volta da una gran nuvola di vapore, mi sembrava l’apparizione della Madonna. La pelle gli fumava, per via dello sbalzo termico, come quella del toro dei Bertaccini quando fuggì dal camioncino che lo stava portando al macello, con i carabinieri che lo inseguivano per tutto il paese con i mitra spianati. Ogni tanto il toro si fermava e si guardava indietro, quasi per sfida: era sudato e dal manto salivano spire di vapore, quasi gli scorresse lava bollente nelle vene, e non sangue; proprio come accadeva a Gianì quando usciva dal gabinetto. 37

Io contemplavo mio nonno con la stessa pace dei sensi con cui sfogliavo il mio album delle figurine del 1981, il primo che avessi mai terminato, grazie allo scudetto del Catanzaro, che trovai nell’ultima bustina di un lotto da venti che nonna aveva comprato all’edicola di Bruscò e mi aveva regalato solo dopo che le giurai di non dire niente a mia mamma. Il piacere sublime di ritrovare qualcosa di completo e immutabile. Nonno si sedeva sul suo 75% di letto che gli spettava – la metà di una piazza e mezzo, secondo i miei calcoli, anche se non ne ero sicuro, perché la metà era sempre la metà; la questione sconfinava nella filosofia, e non volevo indagare – e si asciugava. A dir la verità, lasciava semplicemente che l’acqua scivolasse via da lui. Le lenzuola si inzuppavano all’istante, e una pozza si allargava sotto i suoi piedi. Nascosto dietro la porta, spostavo lo sguardo verso la cucina, anche se non potevo vederla. La voce di nonna arrivava puntuale come la bolletta della luce. “T’ saré pur o’ sgrazié?”. Era una domanda, ma suonava come una condanna definitiva. Proprio non sapeva come usarlo, quell’asciugamano. Io guardavo questo mio nonno disgraziato, nudo sul suo 75% di letto; sotto i piedi, la pozzanghera colorata dalle mattonelle esagonali delle Case Popolari era rossa, come il sangue. Sulla sua spalla sinistra, c’era il livido che gli aveva lasciato la pallottola di mitragliatrice nel 1942. Mio nonno era un dio guerriero, era Marte tornato dalla battaglia. “Se mi hai bagnato il pavimento t’amazzo”, diceva Cristèna. Povero Marte, pensavo: povero dio guerriero! Tutto il suo rapporto con l’acqua si basava su fondamenta 38

friabili. Non la beveva perché diceva che faceva la ruggine; in tutta la mia vita l’ho visto bere solo ven negre e il caffettino corretto con Fernet. Ogni giorno tornava a casa dai campi e si sedeva direttamente a tavola. Neanche il tempo di appoggiarsi, che nonna lo spediva in bagno a lavarsi “almeno” le mani. Ci andava a testa bassa, come un condannato ai lavori forzati. Apriva il rubinetto quel tanto che bastava per far scendere tre gocce in croce, neanche stesse dosando chissà quale medicina amara, e ci infilava sotto la punta delle dita. Si rigirava le due mani una dentro l’altra per un secondo abbondante e le cacciava subito dentro al primo asciugamano che aveva la sventura di capitargli sotto tiro. Quando finiva, le mani erano ancora marroni, l’asciugamano anche. Cristèna metteva su il broncio da combattimento, e consumava tutta la sua cena con lo sguardo fisso sul piatto della minestra, se non per lanciare di tanto in tanto un’invocazione al soffitto, che le sue lenti da telescopio astronomico trapassavano senza difficoltà consentendole di arrivare dritta dritta all’Altissimo. “S’òja mai fat in te mi mond?”, chiedeva. “Cosa ho mai fatto per meritarmi questo nella mia vita?”. A me suonava come l’evangelico “Eloì Eloì, lamà sabactàni”, che le vecchiette delle prime file in chiesa pronunciavano. “È lui! È lui! C’ama Sabattani”, che era tra l’altro il capo cassiere del Credito Cooperativo, quanto di più vicino al padreterno potessero mai vedere in vita loro. Quando proprio nonna e nonno ragagnavano di brutto, specialmente a fine mese, dopo che tutta la pensione di Gianì era stata divorata dal mangime per le bestie della sua stalla e per gli stipendi dei braccianti che lo aiutavano con l’uva della Furina, Cristèna se ne stava a covare la rabbia sulla sua poltrona, fingendo di dormire, e appena si apriva la porta ed 39

entrava qualcuno, la sua amica Giovannona o il prete per benedire la casa, saltava su come un pupazzo a molla e correva verso la camera urlando “a faz e’ grand vol!”. Fare il grande volo era una delle scene madri della sua vita. Spalancava le finestre e a piene mani spingeva fuori gli scuri, con grande pericolo per i bambini che giocavano in viale Neri, perché quegli scuri erano gli stessi montati nel ’31, con i cardini che cigolavano come un lamento funebre e il legno così secco che se solo ti ci accendevi una sigaretta vicino, esplodevano. Poi si fermava lì, perché per lei sarebbe stato molto più facile scalare l’Everest che il nostro davanzale, se non con l’aiuto di un montacarichi o al massimo con le forche di un muletto sotto le ascelle. Nonno Gianì intanto se ne stava in cucina, e a testa bassa diceva “amazim”. “Ammazzatemi”, gnolava. Che patacca che era. Non lo chiedeva in tono di sfida, lo pregava proprio; sapeva di essere un disastro totale. Ma si vedeva lontano un chilometro che non c’era vero pentimento; replicavano quella scena madre ogni settimana, e lui conosceva bene i suoi polli. Mica pensava di darsi una regolata. Sapeva che la sua Cristèna si calmava quando lo sentiva dire così. Io, quando prendevo un brutto voto, mi ci sedevo di fianco e le dicevo: “Mi dispiace nonna che hai un nipote così disgraziato” oppure “Non te lo meriti proprio uno della mia specie”, e lei subito si addolciva. Le piaceva molto perdonare la gente; era una pia donna sulla via della santità, e immagino che si sentisse come il buon Gesù inchiodato per volere divino sulla croce per redimere il mondo intero. Una volta che imparavi questo, era fatta. Confessavi con40

trito ogni tua nefandezza, e lei non vedeva l’ora di benedirti “ego te absolvo ab peccata mundi” e via dicendo. Mentre nonno recitava il suo atto di dolore, controllava l’orologio. Alle 18 e 45 il Barone lo aspettava al Bar di Sopra per la partita di maraffa. Si giocavano il caffettino corretto al Fernet. Durarono vent’anni, ogni giorno, martedì escluso per chiusura settimanale. Non ho mai visto Gianì vincere.

Nei suoi caffè: Busso, Striscio, Volo!

Il caffè, o bar, come dicono i più giovani, è il secondo domicilio di ogni romagnolo che si rispetti. Come la fede o il tifo calcistico, ti ci ritrovi dentro da piccolo e a parte eventi di portata catastrofica, tipo lasciarci gli zampetti, non lo abbandoni più. Io frequentavo il Bar di Sopra quando ancora c’era l’antico gestore, Tircheo, che appena mi vedeva entrare mi invitava a darmi una mossa, che gli consumavo l’aria. Lo prendevo sul serio perché ai tavolini, bersagliati dalle mosche come i lampioni, c’erano sempre a sonnecchiare tre o quattro vecchietti che respiravano a bocca aperta, il naso puntato al soffitto, e parevano tutti sul punto di dover rendere l’anima al creatore da un momento all’altro. Ci andavo semplicemente perché era il più vicino a casa mia; lo frequentava anche mio nonno, anche se com’era suo costume si concedeva qualche scappatella al Taverna di piazza Sasdelli, che era il covo dei pensionati di area socialista; lui era saragattiano, e veniva accolto come una specie di cugino povero. Se avevi bisogno di qualche spiegazione sull’Inps, era lì che dovevi bussare; pullulava di esperti, specialmente i giorni di mercato. 42

Avevo dieci anni, e rubavo ogni due o tre giorni una mo­ netina da venti lire, quelle così sottili che sembravano ritagli secchi di sfoglia. Quando ne racimolavo dieci, 200 lire, 5 scudi, come li contavano ancora i miei nonni, ero pronto a correre al bar, che nella sala interrata aveva un videogioco che mi piaceva tantissimo. Consisteva in una astronavina composta da tre pixel grandi come cappelletti, sistemati a piramide, che sparava a dei quadrati che solo la mente di un bambino particolarmente impressionabile poteva scambiare per astronavi aliene. A volte, quando distruggevi troppe astronavi aliene di fila, lo schermo andava in tilt, probabilmente per via di quei pixel grandi come cappelletti che cozzavano ovunque. Il videogioco non era verticale, ma orizzontale, e il joystick era una palla da biliardo bianca incastrata di fianco al pulsante per sparare; che io sappia era l’antico discendente dei moderni mouse, e così come accadeva per i dinosauri, era gigantesco. Nel 1985 il Bar di Sopra cambiò gestione: lo comprò mio zio Antonio. Lui era figlio di siciliani, nato e cresciuto a Tunisi, madrelingua francese, ed era diventato uomo a Roma; nessuno l’avrebbe mai scambiato per un romagnolo, perché di cognome faceva Norrito e quando provava a infilare qualche parola di dialetto per fare colpo parlava come uno zulù. Io presi ad andarci a lavorare come garzone un paio d’ore tutti i giorni; il mio fondamentale compito era quello di riempire le celle frigorifere e di farmi licenziare. Mio zio portò grandi innovazioni nel locale. Tolse la testa di cinghiale appesa dentro al bar, per esempio; fu uno dei primi della Romagna occidentale, credo. Riempì la vetrinetta con i tramezzini romani e i toast, rompendo il predominio secolare delle piadine e delle schiacciate al ramerino. 43

Questo spirito da rivoluzionario francese gli portò una nuova clientela giovane, quelli della prima generazione che in massa andava ogni mattina alle scuole superiori di ­Faenza e aveva una visione un poco più vasta del mondo; per quelli come mio nonno, già parlare di Bagnacavallo era come discu­ tere della foresta amazzonica; e Ravenna era remota e distante come Bisanzio. Diede una ripulita alla sala interrata. Il mio videogioco sparì in quattro e quattr’otto, insieme alla cella frigorifera dove Tircheo teneva i Barattoloni Famiglia della Sammontana, con la sua bella catena d’acciaio avvolta intorno che quando l’apriva sferragliava come un treno e stavi lì a trepidare perché da tutti quei lucchetti poteva anche saltare fuori Houdini in persona. Lasciò carta bianca ai suoi giovani clienti per ridipingere le pareti. Sparirono le foto incorniciate dell’Italia Campione del Mondo 1934, dell’Italia Campione del Mondo 1938 e quella dell’Italia Dilettanti Campione Olimpica 1936; le ritrovai dieci anni dopo, in un angolo del magazzino del bar, e me le portai a casa. La capigliatura bianca a turbante di Vittorio Pozzo mi sembrò particolarmente afflosciata, probabilmente per via di tutta la polvere che aveva preso. Scomparve anche la bacheca con le fotografie delle squadre dell’AC Casola Valsenio 1978/1979, una per ogni categoria. Le maglie dei Giovanissimi e degli Allievi le usavamo ancora noi nell’89 e nel ’90. Quelle dei pulcini no, le cambiarono nel 1980, perché le aveva comprate il buon vecchio Duccio Dall’Osso, settimo figlio di un fascista di Casola che aveva battezzato tutta la sua prole con nomi che incominciavano con la D di Duce; nei pulcini ci giocavano due suoi nipoti e lui era il dirigente accompagnatore. Aveva fatto confezionare quindici casacche rigorosamente 44

nere, che quando guardavi quei bambini correre per il campo parevano la Decima Mas. Zio Antonio tolse le foto e consegnò i pennelli e la vernice ai suoi giovani clienti; che se la sgavagnassero loro. Dipinsero le pareti di giallo, e ci disegnarono bicchieri e bottiglie di ogni forma e colore. Cif, che l’anno prima era stato ad Amsterdam, anche se non se lo ricordava proprio tanto bene disegnò alla perfezione l’insegna del famoso pub The Buldog. In cima a un mobile pieno di mazzi di carte e giochi da tavolo, mise un televisore e un avveniristico videoregistratore. Per attirare altri clienti, specialmente nei giorni infrasettimanali in cui di ragazzi ne uscivano pochi, il giovedì sera cominciò a trasmettere clandestinamente film porno. Io avevo il permesso di affacciarmi dalle scale e di guardare, ma con un solo occhio. Era più che sufficiente. Il giorno dopo, a scuola, raccontavo il film ai miei amici: la trama non la sbagliavo mai, il resto improvvisavo mimando, stando ben attento a non farmi vedere dalla maestra, senza capire esattamente cosa stessi davvero facendo. I film li procurava Bruno della Verdura, che aveva bottega di fianco al bar e già da anni gestiva un traffico segreto di videocassette, che spacciava nascondendole nella carta marrone con cui avvolgeva l’insalata. Ne andavo molto fiero, perché Bruno in persona mi aveva tenuto a battesimo, giurando davanti a Dio di vigilare sulla mia crescita spirituale. Ho una foto bellissima in cui mi tiene in braccio, piegandomi verso la fonte battesimale. Aveva due occhiaie da tre chili l’una appese sotto le palpebre semichiuse, e una camicia a fiori dal colletto a punta da magnaccia americano; probabile che avesse già avviato lo spaccio di film pornografici con bobine Super 8, visto che era il ’74. 45

Molti anni dopo, quando chiuse bottega e si trasferì a Castel Bolognese, mi lasciò in eredità due cassette da frutta piene di video porno, e io presi in mano il suo business. Il giovedì, grazie anche alla chiusura settimanale del Bar Sport, incominciarono a vedersi al bar facce diverse dal solito. Il Bar Sport – o Bar di Sotto – era il caffè degli agricoltori più facoltosi e dei cacciatori; aveva qualcosa come cinque teste di cinghiale nel salone, che ai miei occhi, le rare volte che ci mettevo piede, scintillavano come le stelle del Grand Hotel di Cervia. Al Bar di Sotto c’erano i giocatori professionisti; quelli che quando sbattevano la carta sul tavolo durante la partita a maraffa facevano un rumore di artiglieria pesante. Interi poderi passavano da un proprietario all’altro, alla fine di queste partite, come accadeva nella bisca di Borgo Rivola, che era sotto una botola nel bel mezzo del bar di Cesarino. Quel luogo pareva stregato; ci vedevi entrare della gran gente, e quando ci buttavi un’occhiata dentro, era vuoto; uscivano alle prime luci dell’alba, che parevano degli sfollati sopravvissuti a un bombardamento. Prima e dopo la proiezione del film, questi clienti del giovedì giocavano a carte. Io non potevo rimanere fino a tardi, se non quando c’era Gustì. Gustì era il migliore. Era così professionale che non beveva Sangiovese come tutti quanti, o quel frizzantino che si usava servire allora che bruciava come acido solforico, ma una tazza di tè. Mentre calcolava il gioco da fare, biasicava senza sosta la dentiera rigirandosela in bocca e quando poi si decideva a calare la carta prescelta, la sbatteva giù con un tale impeto che la dentiera gli volava fuori e rotolava lungo il tavolo. Gustì la raccoglieva, e se la partita era difficile non la ri46

metteva al suo posto ma a bagnomaria nella tazza, sostituendola alla bustina dell’infuso. Busso! urlavano. Striscio! Volo! Tutta la sera così, in un tripudio di bestemmie irripetibili, fumo di sigaretta spesso come una nebbia, e dentiere che morsicavano l’aria volando a destra e a sinistra. Busso, Striscio e Volo è uno dei suoni di sottofondo nella vita di ogni romagnolo. C’è anche un’apposita targa, a San Varano, frazione di Forlì: qui in san varano vuolsi prendesse vita ai primi dell’800 il marafò o beccacino gioco principe della gente di romagna antesignano del bridge invenzione democratica nella terra degli eguali giocato dai “galantoman” con le sole tre parole rituali boss

- stress - vol 47

Il Tribunato di Romagna, che commissionò questa targa, evitò con un certo tatto di dedicare una riga a quello che è uno dei momenti più importanti di una qualsiasi partita a beccaccino: la litigata alla fine di ogni mano. Forse perché non si sarebbe condita bene con quella faccenda del gioco da galantuomini. Perché il gioco viene seguito inevitabilmente da una piccola folla, che ha sempre qualcosa da ridire a qualcuno dei giocatori. È una specie di moviola orale che ripercorre la storia della mano a ritroso, finché non si arriva a scoprire il punto esatto in cui il colpevole ha compiuto la canocchia responsabile della sconfitta. Osservando attentamente lo sviluppo della partita, si scopre infatti che ci sono figure fisse, nella maraffa; pare più una recita che un gioco. C’è il Fuoriclasse Assoluto, che raramente sbaglia una carta; per bilanciare il suo talento cristallino, è di solito condannato ad avere come compagno la Schiappa del Bar, che funge da capro espiatorio. L’odio con cui a volte viene squadrato dai pensionati che per lo più compongono il pubblico fa accapponare la pelle. È per questo che la Schiappa del Bar è di solito dotata di un carattere docile e ironico, che gli consente di sopravvivere alle cattiverie che ogni sera gli piovono sulla testa. L’altra coppia è formata dal brillante Nemico del Fuoriclasse e dal Fortunello, quello che accusa almeno un paio di volte la cricca di briscola. Ogni inverno i bar organizzano il loro torneo, che serve a stabilire le esatte gerarchie, perché tutte le coppie iscritte giocano a turno l’una contro l’altra, annullando grazie alla statistica gli errori madornali delle Schiappe e i colpi busoni dei Fortunelli. Non sono mai stato un grande giocatore di maraffa, in48

nanzitutto perché ho sempre preferito guardarla, e poi perché mio nonno perdeva sempre, e ogni sera tornava a casa cantando “Paga paga Giovannino”; cercava di buttarla sul ridere, ma si vedeva benissimo che c’aveva un tiraculo bruciante: sapevo di non avere il fisico per resistere a così tante delusioni. La partita di maraffa più incredibile di cui ho avuto notizia è stata giocata nel cortile interno del ristorante Corona a metà degli anni cinquanta, e se nessuno mi smentisce non è ancora finita. A metà di una mano, uno dei quattro giocatori disse che gli scappava una bella pisciata e chiese il permesso di andare in bagno. Si alzò e uscì dal retro del ristorante; andò a casa, prese la valigia e partì per l’Argentina. Tornò trent’anni dopo: entrò al bar a prendere il caffè, e seduto a un tavolino, dietro al giornale, c’era uno di quelli che aveva abbandonato a metà della mano. Abbassò il giornale e guardò l’uomo che trent’anni prima si era assentato per andare al gabinetto. “Fatta tutta?”, gli chiese. Sì, forse ha ragione il Tribunato: anche se bravano di continuo, i giocatori di maraffa sono davvero dei “galantoman”.

La sua musica: Taca, Zaclèn!

Quando servivamo la Via Crucis, nella prima metà degli anni ottanta, ci facevamo delle così grandi spataccate che l’arci – don Giancarlo Menetti da Piancaldoli – era costretto a interrompere la funzione per intimare di darci un taglio, con eloquenti gesti della mano passata sul collo a guisa di seghetto. A scatenare la nostra ilarità, il più delle volte, erano quelle tre o quattro vecchiette che trascorrevano tutta la loro vita inginocchiate nei primi banchi di fronte all’altare. Probabile che Nedina la perpetua passasse la polvere anche sopra di loro, una volta terminate le funzioni. Verso la fine della Via Crucis, l’arci spalancava solennemente le braccia, così ispirato che pareva dovesse decollare per l’alto dei cieli da un momento all’altro, risucchiato dallo Spirito Santo in persona. Era un momento di grande intensità: la luce soffusa che scendeva dalle vetrate e dai neon scarichi della chiesa gli accendeva un’aureola di santità attorno ai candidi capelli bianchi. “Tantum ergo, sacrame-entum”, intonava con voce profonda, “Ve-e-ne-remur cer-nu-i-ii”. E noi giù a sghignazzare, a volte così forte da far tintinnare il campanello che tenevamo in mano. 50

Le vecchiette, infatti, seguivano l’arciprete: nessuna di loro aveva studiato il latino, erano cresciute con le messe celebrate con rito gregoriano, e con l’andare dei secoli avevano cambiato le parole con la loro lingua, il dialetto. E mentre l’arci in odore di santità spediva il suo inno al Signore, le pie vegliarde gli facevano un controcanto a squarciagola in latino italo-romagnolizzato che, al posto del “tantum ergo sacramento, veneremur cernuii”, suonava pressappoco come: “Canta il merlo sul furme-e-ntooo, e e fa ri-incicciuir”. L’arci continuava invano a sospingere l’inno verso le vette del paradiso, anche se si rammaricava di un destino tanto gramo con impercettibili oscillazioni della testa. Il passaggio dal latino all’italiano romagnolizzato di quelle vecchiette mi ricorda quello che accadde nella metà dell’Ottocento nei campi di cotone del delta del Mississippi, quando i canti tribali africani antichi come la notte dei tempi, tramandati di padre in figlio, venivano a poco a poco cantati durante il lavoro con la nuova lingua inglese della terza o quarta generazione di schiavi. Da quei canti nacquero il blues e il jazz. Non credo che si possano fare paragoni tra gli schiavi dei campi di cotone degli Stati Uniti e le pie vegliarde delle mie Vie Crucis di metà anni ottanta, anche se entrambi avevano conosciuto la miseria più nera e la mezzadria invece della schiavitù: però negli anni in cui il blues e il jazz prendevano vita, l’aspettativa di vita di un romagnolo era la stessa di uno schiavo africano, l’aria malsana delle paludi della Bassa Romagna era simile a quella del delta del Mississippi – alligatori a parte – e la vita sociale era altrettanto violenta; le fucilate e le coltellate non si contavano, tanto che un senatore piemontese, appena dopo l’Unità, disse che c’era solo una soluzione per i romagnoli: il fucile. La Romagna era una delle regioni più turbolente del Re51

gno. Non mi stupisce, quindi, che proprio negli anni della nascita del blues e del jazz, in questa terra difficile ma ferocemente vitale, prendesse vita una nuova musica. Il liscio è coetaneo del jazz, anche se i due faranno percorsi opposti. La musica americana per eccellenza, nata da genitori poveri come i canti tribali dei primi schiavi, avrà un destino squisitamente elitario. Se ne occuperanno gli intellettuali e verrà frequentata da artisti, scrittori e filosofi: troverà domicilio nei locali più alla moda delle grandi metropoli e renderà immortali i migliori interpreti. Il liscio invece nasce bastardo, ha progenitori nobili, i valzer e le polke dell’impero asburgico, ma dai saloni dorati e stuccati dell’impero scenderà diritta fino alle balere. Da ragazzo odiavo il liscio. Se devo essere sincero, mi vergognavo quando lo vedevo ballare nelle sagre o durante le feste: non mi piaceva un granché da adolescente sentirmi praticamente un contadino, e quel ballo mi sembrava avesse qualcosa di plebeo addosso. Quando poi si univano ai balli gli s-ciucaren, gli s-cioccarini, con i loro gilè smanicati e le fruste di corda che battevano il tempo spaccando l’aria, ecco, mi sarei nascosto dall’imbarazzo. Mi sembravano terribilmente ridicoli. Ma non potevo nascondere il fatto che era impossibile tenere i piedi fermi. Nessun essere umano riesce a restare impassibile quando l’orchestra attacca Tutto pepe dell’immortale maestro Castellina. È uno di quei brani che ci scorre direttamente nel sangue, e anche chi non sa ballare si butta in pista, anche solo per fare il matto. Giuseppe Cenni, mio compaesano, asso dell’aviazione, medaglia d’oro al valor militare, abbattuto sull’Aspromonte 52

nel 1943, amava così tanto il liscio da aver lasciato in eredità il suo grido di battaglia sulle fusoliere dei cacciabombardieri Tornado del 102° stormo, il cui motto è ancora oggi “Walzer, ragazzi!”, che urlava prima di gettarsi a capofitto con il suo stuka sugli obbiettivi. Col tempo, ho fatto la pace con il liscio; a ballarlo come si deve mai, ma ad ammirarlo sì. Resto sempre incantato davanti a quel turbinare di coppie sulla pista, dai saltelli e dai calci volanti degli uomini, dalle sottane che si alzano e dalle guance rosse delle spose che bruciano come tizzoni ardenti: penso con gusto a quanto mi sarebbe piaciuto che ballerini simili fossero finiti nelle regge asburgiche, a sparigliare i valzer perfetti e impostati dell’aristocrazia, come un bambino vivace che mette in subbuglio lo studio del padre. Mentre le nuove generazioni di schiavi impastano d’inglese i vecchi canti tradizionali, accompagnando i giorni di festa con i corni e le trombette, nelle aie della Romagna i mezzadri si concedono serate di veglia, allietati dal suono di orchestrine ambulanti di violini e fisarmoniche che portano negli angoli della campagna gli ultimi valzer della ditta Strauss e figlio. Tra queste orchestrine, c’è anche quella di un musicista di Savignano sul Rubicone, Carlo Brighi, che tutti chiamano Zaclèn, anatroccolo. È stato musicista serio, ha suonato anche per Toscanini. Poi lascia tutto e mette su quello che chiama un festival itinerante; suona nelle piazze e nei cortili i giorni di festa, girando la Romagna in lungo e in largo. Nelle serate danzanti, i balli saltati di gruppo della tradizione contadina si alternano alle mazurke e alle polke della 53

tradizione classica. Un poco alla volta, come il latino e il dialetto delle mie pie vegliarde, si incastrano l’uno sull’altro. Carlo Brighi ha una serie di colpi di genio sfavillanti. I piedi dei contadini, nonostante la fatica, sono pieni di una vitalità e di una libertà che alla corte di Vienna neanche si sognano; il valzer così com’è non basta. Zaclèn aumenta le battute per adeguarlo. Nella terra che regalerà all’Italia generazioni di campioni di motociclismo, cresciuti truccando i motorini, lui fa la stessa identica cosa applicandola ad un’altra forma d’arte: mette il turbo a Strauss. Il violino fatica a tenere le nuove battute: Zaclèn lo sostitui­ sce con quello che diventerà lo strumento cardine del liscio, l’indiavolato clarinetto in do, che scappa da tutte le parti e non sta mai zitto un minuto. Il romagnolo è accordato come un clarinetto in do, c’è poco da fare. Il suo festival è richiesto ovunque; mette su un tendone che batte le campagne e le città come un circo; non è ancora iniziato il famigerato Novecento, che la Romagna è già in preda ad una febbre del sabato sera che ancora deve finire. “Taca, Zaclèn”, gli urlano da sotto il palco i ballerini; “Attacca, Anatroccolo”. Diventa un marchio di fabbrica, che a volte senti ancora risuonare quando l’orchestra tarda a far partire la musica. Invecchiando, Carlo Brighi decide che è il momento di riposarsi un po’. Si ferma a Bellaria, al mare, città natale della moglie. Fissa il vecchio tendone su una pista di terra battuta e lo battezza Salone Brighi. Corrono a frotte da ogni angolo per ballarci dentro. Ha inventato la balera. Zaclèn si spegne a Forlì nel 1915, il giorno dei morti; a Forlì è sepolto. Tra il 1870 e il 1915 ha scritto milleduecento brani, tra 54

polke, valzer e mazurke; il Fondo Piancastelli della Biblioteca di Forlì ne custodisce 831 partiture manoscritte. La sua orchestra passa al figlio, che ha la passione del padre ma non il talento. Ma era destino che la sua famiglia facesse la storia di questa musica indomabile, perché è proprio Emilio Brighi, nel 1924, a prendere nella sua rinomata orchestra un giovane violinista di belle speranze, nativo di Sant’Angelo di Gatteo, che alla anagrafe si chiama Aurelio, ma si fa chiamare da tutti Secondo. Secondo Casadei. Quattro anni dopo il giovane Casadei decide di poter andare con le sue gambe, e fonda il suo gruppo. Fa una piccola rivoluzione: dal jazz, coetaneo, prende in prestito la batteria. E inventa le ballate in dialetto. Nel 1954 si presenta a Milano in sala d’incisione; ha dieci brani già pronti, più uno che non lo convince. Parla della sua “casa” a Gatteo a Mare. Casetta mia si chiama. Il produttore della sua casa discografica, la gloriosa Voce del Padrone, l’ascolta, spalanca gli occhi, e gli dice: “Secondo, siete romagnolo dalla testa ai piedi; ma chiamatela in un altro modo!”. Il violinista si prende cinque minuti, sposta un paio di frasi, ci aggiunge tre parole in croce ed entra ad incidere. Quando finisce, ha inventato l’inno della sua terra: Romagna mia. Io, per dire, l’ho imparato prima di quello italiano. Non credo che sia più importante, di sicuro. Ma quelle parole, la nostalgia del passato, il non ti potrò scordar casetta mia, mi sembra che parlino di me: e non me ne sono mai andato da Casola! Ho fatto pace con il liscio; di più, una volta conosciute, le sue origini bastarde ed epiche mi riempiono d’orgoglio. 55

Quando poi ho scoperto che la famosa sigla di uno dei miei cartoni animati preferiti, Lupin, era della grandissima orchestra Castellina-Pasi – la stessa della travolgente Tutto pepe – me lo sarei scritto nella carta d’identità che vengo dalla patria del liscio. Vado ogni tanto alle Cupole di Castel Bolognese a rifarmi gli occhi. Oppure, mi basta anche non muovermi da Casola. Ogni tanto Rino del Forno e Vannini lo spazzino (quando non va a donne) tirano fuori le loro fisarmoniche e si mettono a suonare nel bar. Gli altri clienti cantano. Bela burdela fresca e campagnola, oppure Dop un son c’un fniva maii; e mi sembra che il tempo non sia mai passato e potrei benissimo essere nella Bellaria di Zaclèn del 1910 o nella Parigi degli anni trenta. Quando Vannini apre la fisarmonica per dare aria all’accordo, sembra un angelo che spalanca le ali; ci manca solo il tantum ergo delle pie vegliarde della mia infanzia, e sarebbe davvero come tornare indietro nel tempo.

Discoteche di Romagna Greatest Hits

La Romagna non è terra solo di balere, ma anche di discoteche: avrei un sacco di fatti da raccontare su questo argomento; se lo facessi, però, seguirebbe una retata che priverebbe me e alcuni miei amici della libertà, quindi mi limiterò a una semplice classifica, del tutto personale, dei miei locali preferiti. Non compaiono alcune famosissime discoteche, molto belle e in cui si suona splendida musica soltanto perché tendono ad essere luoghi in cui ci si mette in mostra e in cui è impossibile intortare, e se in una discoteca non si riesce ad intortare, beh, allora manca uno dei requisiti fondamentali per ottenere un buon piazzamento nella mia classifica. #10 Le Acque, Imola Baci in bocca ricevuti: zero. Baci in bocca dati: zero. E ci andavo solo per quello. #9 La Lanterna Disco Dancing, Riolo Terme La discoteca in cui ho esordito, a tredici anni appena compiuti. Mi ero comprato per l’occorrenza una felpa della Best 57

Company e un paio di jeans Uniform, con la U di pelo verde ricamata sulla tasca. Un ragazzo indigeno, il povero Balogo, mi inchiodò con le spalle contro il muro perché la mia faccia non gli diceva niente di buono, e cercò di tagliarmi la gola con il collo di una bottiglia di Beck’s. Fortunatamente Baldo lo persuase a lasciarmi in vita, poi si complimentò trascinandomi verso il bar, dicendo che un debutto così spettacolare non l’aveva mai visto. Non ho più smesso di andarci. [Chiusa, affittata per feste private] #9 Il Baccara, Lugo di Romagna L’unica che ho frequentato anche di pomeriggio, la domenica; riuscii a portarci un paio di volte anche il Mago Mammola, che non andava in una discoteca dal 1977, ma conosceva tutti i buttafuori e i baristi. Mi terrorizzava, prima di diventare un caro amico. Nell’84 girava per Casola su una 124 color crema, e aveva una cresta verde in testa alta mezzo metro. Quando al bar ordinava il solito Biancosarti, glielo appoggiavo sul banco tenendo il bicchiere con la spugna, perché mi dicevano che era drogato e non volevo correre rischi. Al Baccara ricevetti la prima avance sessuale della mia vita: una bellissima ragazza bionda, con un vestito attillato e un fisico che l’avevo visto solo sulle pagine di “Le Ore”, mi spinse da un canto e mi baciò in bocca. Appena ripresomi dallo shock mi diedi da fare e ci buttai la mano sotto: era un uomo. Lo dissi disgustato al Mago, lui mi guardò e disse: “Beh e allora? Era pur buona, no?”. [Ristrutturata, metà centro scommesse, metà discoteca] 58

#8 Le Cupole, Castel Bolognese Cinque sale per cinque tipi di musica diversa; in venti secondi passi dal liscio suonato live, al latino, all’evergreen di Franco Paradise e Claudia Raganella, al remake anni ottanta fino alla discoteca pura. Tappa privilegiata se si cerca un intorto veloce. Indimenticabili i veglioni mascherati di carnevale; il travestimento più bello che ricordi fu quello di Magrini il barbiere, vestito da Andreino Bellorio, con la tuta che usava per correre nel campionato europeo Superstock dell’81. [Intramontabile] #7 Il Gufo, Brisighella Ogni venerdì sera, si andava prima a fare una bevuta allo Spider di Faenza, fin sulle due, e poi si risaliva a Brisighella al Gufo. Andavo a sniffare il popper nel sottoscala dei vecchi bagni. Se ero fortunato, mi vedeva qualche ragazza che me ne chiedeva un po’: barattavo una sniffata con un giro limoni. Mai limonato così tanto in tutta la mia vita. Credo di averci speso almeno 5 milioni di vecchie lire. Una sera riuscii ad entrarci con una bottiglia di vodka intera, infilata sotto la cintura. C’era la fila, e ci mettemmo un’ora e mezzo. Mi si congelarono i maroni. Poi mi scoprirono i buttafuori, e mi accompagnarono all’uscio. [In attività] #6 La Conca Verde, Fontanelice Da quello che ho capito, era l’ultima spiaggia per chi cercava disperatamente una morosa. Io ci sono andato solo due volte, e tutte e due le volte sono dovuto scappare perché volevano darmi le botte. 59

Non vedevano di buon occhio quelli di Casola, perché andavano lì e gli portavano via le donne, come accade nelle tribù di selvaggi della Papua-Nuova Guinea. Deve essere l’unico luogo della terra in cui noi casolani facevamo la figura degli sboroni. [Chiusa] #5 Il Cap Creus, Imola Ci andavo da solo, neopatentato, con la mia amatissima Opel Manta del 1973. Avevo brevettato un look infallibile da vampiro intellettuale: indossavo un giaccone di pelle nera lungo fino alle caviglie, e portavo i capelli tagliati corti tranne due lunghi ciuffi svolazzanti sulle tempie. La mia idea era di comportarmi come in certi film; mi piazzavo in un angolo con il bicchiere in mano e guardavo misteriosamente intorno, in attesa che qualche ragazza si incuriosisse abbastanza da venirmi a chiedere qualcosa. Non si presentò mai nessuna. Anche perché ogni tanto passava un mio compagno di classe dell’Alberghetti, l’Istituto Tecnico che frequentavo. “Casola, cosa fai lì come un ciù?”. Mi rovinavano tutta la poesia. [Aperta] #4 Il Piro Piro, Toscanella di Dozza Mi ci spostai per non farmi rovinare la poesia dai miei compagni di classe: dopo quattro fine settimana me li ritrovai anche lì. “Cosa fai lì come un ciù?”. E pensare che secondo me la tecnica del vampiro stava cominciando a dare i suoi frutti, sicuramente con i carabinie60

ri in borghese, che mi chiedevano sempre i documenti; ma iniziavano a notarmi, ne sono certo. [Rasa al suolo] #3 Il Blues Brothers, Faenza Appena sotto il cavalcavia dell’autostrada, il sabato sera diventava un’enclave casolana; era come aver conquistato un pezzetto del comune di Faenza. Deve essere l’unico locale al mondo in cui la musica che si ballava era composta esclusivamente da sigle dei cartoni animati degli anni ottanta. Accessoriata anche con un bel tavolo da biliardo, che veniva preso d’assalto durante le frequenti risse; chi riusciva a prendere le stecche per primo, vinceva. [Adibita ad abitazione privata] #2 Il Bull Bull, Castrocaro Terme La discoteca dei miei sedici anni: ci andavamo con lo stesso pulmino con cui fino a pochi anni prima ci portavano ai campeggi dei Lupetti. Il venerdì facevano il liscio, e c’era sempre all’ingresso una locandina di Bruno La Roccia, il famoso sassofonista; aveva uno sguardo assassino e pareva che in mano stringesse non uno strumento a fiato, ma una clava. Da secoli, ogni anno ci si svolgeva il Pavone d’oro, vinto a suo tempo da una giovanissima Laura Pausini. Negli anni sessanta ci faceva la cubista Raffaella Carrà, che si diceva avesse avuto una storia con un signore di Casola. Fui coinvolto nella mia prima rissa, un butta su di corpi e braccia che copriva l’intera pista da ballo. Mi imbattei in un tizio ranicchiato a terra e cominciai a prenderlo a calci 61

nella schiena. All’uscita, il mio amico Pierantonio quasi non riusciva a camminare, da tante che ne aveva prese. “Se becco quel bastardo che mi ha rovinato la schiena lo ammazzo”, disse. “Bastardo”, concordai. Le serate al Bull Bull incominciavano con il riff di Balliamo sul mondo di Ligabue, con il dj che urlava: “Benvenuti al Bull Buuuulllllll!!!”. [Aperta] #1 Il Classic, Riccione Una vera discoteca trendy di riviera, a metà strada tra Rimini e Riccione. Ci si andava quando chiudeva il Kinky a Bologna; apriva solo alle 5 del mattino. Era un circolo, e per entrare bisognava avere la tessera dell’Arcigay: fortunatamente te la davano senza sottoporti a nessun tipo di esame pratico. Grande musica. La penultima volta che ci sono stato, ho avuto l’onore di vedere un agente della narcotici uscire da un bidone dell’immondizia a forma di Gabibbo, dove era stato nascosto per almeno quattro ore, per arrestare in flagranza di reato uno spacciatore al banco del bar. Ero un po’ ubriaco, e trovai il coraggio di complimentarmi con l’agente. “Sei meglio di T.J. Hooker, Callaghan”, gli ho detto dandogli delle gran pacche sulla spalla. Per poco non ammanettava anche me. [Figurarsi; apertissima]

I nostri nomi

Per molto tempo ho pensato che Dai Dunque fosse il mio nome e Oh Te il cognome. Quando sono nato – dopo essere stato concepito in condizioni alquanto rocambolesche e del tutto fortuite – mia mamma decise di chiamarmi Maicol (spero scritto correttamente come Michael, confidando nell’ufficiale dello stato civile). Cristèna si riprese dal malore che la colpì all’annuncio della gravidanza giusto in tempo per costringerla a darmi il nome di Cristiano, anche se sono convinto che, fosse stato per lei, avrebbe obbligato il prete e l’amministrazione a chiamarmi Cristino, perché non ci fossero dubbi su chi fosse la reale proprietaria del pargolo. Se mi avessero chiamato Michael, ci sarebbe stato da ridere. Già mi immagino mia nonna a scrivere il nome nelle giustificazioni per la scuola; infilare al posto giusto quell’acca le avrebbe provocato esaurimenti nervosi a non finire. Un secondo dopo essere stato battezzato, il Cristiano scomparve prontamente dalla mia esistenza. Non ho mai avuto l’onore di sentirlo pronunciare da Gianì. Da piccolo presero a chiamarmi Ninni. Non ho mai capito da dove venisse, finché non ebbi un’il63

luminazione qualche anno fa, ascoltando il capolavoro del Maestro Leo Ceroni, che veniva ogni tanto a mangiare nella pizzeria di mio zio e io mi emozionavo, perché da giovane, con i Blackmen, aveva suonato insieme ai Beatles al Cavern Club di Amburgo. “L’era ’na troia con set ninén, e n’eva gi grènd, e n’eva di znèn”, cantava il Maestro Ceroni nella sua ballata più classica: “Era una scrofa con sette maialini, ne aveva di grandi, ne aveva di piccini”. Gianì probabilmente mi chiamava Ninè, maialino, e i bambini l’avevano italianizzato in Ninni. Crescendo cessai di essere un ninè, e tutto quello che sentivo quando parlavano con me era Dai Dunque. Dai dunque, lavati! Dai dunque, prepara la cartella! Dai dunque, smettila di scazzignare e fai i compiti! La formula che risuonava più spesso per il cortile era “Non fare casino, dai dunque!”. Non mi era toccato un nome, ma un imperativo. Gianì invece mi interpellava con il più tranquillo e anonimo “Oh, te”; quando era di buon umore diventava Garibaldi o Bas-cianaz, che a me piaceva molto perché suonava come un nome da corsaro delle Antille. Da qualche parte ho letto che il nome di un romagnolo lo pronuncia per intero soltanto il prete quando lo battezza. Poi gliene viene affibbiato un altro, che terrà per tutta la vita e che spesso passerà agli incolpevoli discendenti. Non sono un antropologo, ma penso che sia uno dei rari casi di battesimo collettivo del pianeta, in cui è tutta la comunità a prendersi carico di nominarti, o quantomeno di raddrizzare il torto che ti hanno fatto i genitori assegnandoti un nome che non calza a dovere. C’è gente, come il mio amico Rodo, che secondo me nem64

meno si ricorda il suo, e che deve controllare sulla carta d’identità per farselo tornare in mente. Fino ai sei anni, il suo nome era Emanuele Visani. A quell’età prese a venire al campetto del convento dei frati dove noi ragazzi più grandi giocavamo a calcio. Se ne stava dietro la porta a guardare le nostre partitelle (si vinceva ai dieci, nove a nove si andava agli undici; nel caso di giocatori dispari, la squadra in inferiorità numerica poteva usufruire del classico “portiere volante che può fare gol”). Lui era ancora troppo gracile e indifeso per mischiarsi con noi in quegli scontri furibondi su fondo ghiaioso, però ci stava simpatico perché, oltre a essere sempre dotato di schiacciata al rosmarino, era il nipote di Rino del Forno, possedeva una bellissima erre arrotondata. Così noi dopo la partita lo circondavamo e gli facevamo pronunciare le parole con più erre possibili. “Di’ carro armato”, gli chiedevamo. “Di’ ragagnare”. La migliore era rododendro. Il piccolo Emanuele Visani ha passato l’estate dei suoi sei anni a pronunciare il nome di una pianta. Siccome abitava giù alla Storta, non sapevamo come si chiamasse; noi eravamo tutti di Casola centro, rive gauche; sai che roba, l’altra riva avevano smesso di edificarla a metà Ottocento, quando una frana si era portata via per sempre il Borgo della Valibona, ventuno abitanti compresi. Così prendemmo a chiamarlo Rododendro, che con il tempo fu abbreviato in Rodo. Il rapporto dei romagnoli con i nomi è abbastanza ingavagnato. Il Michael a cui voleva condannarmi mia mamma non avrebbe di certo stonato, dato che c’erano già a Casola, e da se65

coli, nomi improbabili o fuori sincrono con i tempi: c’erano già gli Yuri delle famiglie comuniste che celebravano la conquista sovietica dello spazio; c’erano gli Adelchi dei patiti di opera; c’erano un sacco di numeri primi, Quinto e Settimo soprattutto, ma anche un numero pari coniugato all’imperfetto: il barbiere, infatti, risultava all’anagrafe come Eri Sesto Chapuis. In casa avevo le foto del fratello e della sorella di Cristèna: Fosca, morta di male cattivo nel ’37, e Tosco, emigrato in quel di Ravenna appena messo su un po’ di giudizio (immagino che con quel nome la bisnonna livornese Ciompi Paola avesse voluto creare dei distinguo, come a preservarlo dalla tribù di mohicani da cui era stata rapita). Uno dei figli del fratello di Cristèna si chiamava Canzio, come il patriota Stefano Canzio, genero di Garibaldi. Il rapporto dei romagnoli con i nomi è quantomeno pittoresco. Nel 1554, tale don Sabba fu catapultato dalla cosmopolita Venezia in un villaggio di pescatori sperduto nelle paludi del Ravennate. È stata tramandata una sua interessante predica, tenuta durante la funzione domenicale, pochi giorni dopo aver preso possesso della parrocchia: Cari fratelli, ieri sono andato dal barbiere, e mentre mi radeva mi ha detto di chiamarsi Pompeo. Poi sono passato dall’ortolano, che si è presentato come Cesare. Avevo una scarpa rotta, e quando è venuto il ciabattino a risuolarla, scoprii che si chiamava Annibale. È passato un fattore a sistemare il basto dell’asino, e ho scoperto che si chiamava Alessandro. Cari fratelli, di certo sono nomi bellissimi, di uomini del passato grandi e degni, ma addosso a voi ci stanno come una sella lavorata a mano su un somaro.

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Non ci è stato tramandato come don Sabba abbia potuto uscire vivo da una predica del genere, conoscendo il carattere dei romagnoli dell’epoca, permalosi come gli odierni, ma più inclini a tirar fuori di tasca il coltello per avere soddisfazione dei torti ricevuti. In questa terra dove per secoli la passione politica riscaldava più del fuoco, poteva capitare che il figlio di un vecchio usciere del comune di Forlì venisse chiamato Pravdo, o che a Ravenna si potessero incontrare i fratelli Ordigno e Dinamitarda – che immagino sarebbero andati molto d’accordo con i faentini Risveglio e Ribella. A Giovecca una signora venne battezzata Engels, ma essendo il tedesco poco familiare in quella zona, il nome veniva pronunciato con la g dolce, e suonava come angelo. Era anche un modo sublime per fare dispetto ai preti: immagino il parroco che si è ritrovato tra le mani, di fronte alla fonte battesimale, prima il piccolo Rivo, poi il fratellino Luzio e infine l’ultimo arrivato Nario. Nel 1910 a Imola venne registrato all’anagrafe un bambino con il nome di Venti. Pochi giorni prima i socialisti avevano vinto le elezioni amministrative: “Vent” deve aver detto il padre in dialetto, che l’impiegato ha tradotto nel numero, e non in “Vinto”. Mi ricordo ancora il vecchietto che abitava in via Fondazza, dietro al convento dei frati, che mi salutava sempre: si chiamava Ciro Menotti Quarneti. Quando il nome non ti viene dato in forma di soprannome, capita spesso che qualcuno se lo trovi da solo: ho già raccontato di Aurelio Casadei che si faceva chiamare Secondo. Ho scoperto a quattordici anni che il mio amico Emiliano in realtà sarebbe stato Riccardo. A quindici, ascoltando delle chiacchiere in casa, sono venuto a sapere che Marcello del 67

negozio di bibite si chiamava Vittorio, e che suo figlio Mirko, il bassista del gruppo dei Genitals, in realtà era Andrea. Questo strano gioco ha condizionato a suo modo una bella fetta di storia patria. Gli Sforza di Milano, quelli dell’omonimo castello, ne sono un esempio lampante. Discendono infatti dal condottiero Jacopo Attendolo da Cotignola, un ragazzo dal fisico possente, che si unì a una compagnia di ventura che passava vicino al campo in cui stava lavorando. Scambiò la roncola per la spada, e si coprì di onori e gloria sotto le insegne di Alberico da Barbiano (romagnolo pure lui, dall’omonimo borgo tra Faenza e Lugo, ora conosciuto principalmente per il passaggio a livello dove si attende per ere geologiche che passi il regionale; ci arrivi essere umano, e riparti fossile). Per la sua invincibile caparbietà, Alberico prese a chiamarlo “lo Sforza”. Jacopo Attendolo ne approfittò per farsi un restauro dell’intero nome, che divenne Muzio Attendolo Sforza. Come dire che la famiglia simbolo del Rinascimento milanese è il soprannome di un contadino romagnolo.

Le cose che ci accadono

Oggi siamo gente adulta che vive in italiano, ma un tempo siamo stati tutti bambini nati in dialetto. Le persone che ci hanno tirato su impastavano la lingua ufficiale con i termini romagnoli, e ne veniva fuori una vulgata magica, in cui la vita accadeva in modo diverso. C’erano sfumature impossibili da rendere con la gamma dei colori della lingua che ci insegnavano a scuola. Crescevamo sospesi tra il passato e il presente. Anche solo durante il pranzo, era tutto un avanti e indietro nel tempo. Quando Cristèna mi chiedeva di passarle da bere, sapevo che dovevo darle la bottiglia di acqua dal rubinetto, che vivacizzava con una bustina di idrolitina. Quando me lo chiedeva Gianì, ben attento a non lasciarsi sfuggire nemmeno per sbaglio un per piacere o un grazie, dovevo coniugare il verbo in dialetto, e dovevo passargli il bottiglione del Sangiovese, perché il bere, in dialetto, è un sostantivo e significa sempre e solo vino. Nel mondo in cui sono cresciuto, non si incominciava mai qualcosa e non si accendeva mai nulla, ma ci si dava la molla. Capitava raramente che qualcuno sbagliasse, in compenso era pieno di persone che facevano dei maroni. Gianì, che go69

deva di straordinaria salute, non era un vecchietto arzillo, ma in botta. Quel mondo brulicava di sfide e impegni difficili, e capitava a chiunque di non essere sempre all’altezza: allora si diventava delle mezze pugnette. Quando passavo interi pomeriggi sdraiato sul pavimento a giocare con la nostra gatta, Cristèna perdeva la pazienza e si lamentava a voce alta, in modo che sentissero anche quelli dell’ultimo piano: “Che bastérd on stugia mai”, urlava, “sta tutto il giorno a fare delle meraviglie con la Sibilla”. Sono sempre stato un tipo a cui piaceva fare delle meraviglie. Come tutti gli adolescenti, non uscivamo mai di casa vestiti come si deve, con la camicia dentro i pantaloni, ma nel nostro pianeta raramente qualcuno notava quanto eri in disordine, quanto smagonato. Quando a fine giornata ti si chiudevano gli occhi, non era per il sonno, ma perché stava arrivando Pirò. La cosa più strana era che di bambini non ne esistevano, c’erano solo i bastird, i bastardi. Mia cugina è cresciuta a Roma; la numerosa famiglia di suo padre era stata fondata a Mazara del Vallo, ed era comandata da don Raffaele, che regnava su una moglie, quattro figli, relativi coniugi e dodici nipoti. Si strinsero tutti attorno ai nonni materni romagnoli, quando Cristèna e Gianì si affacciarono sulla culla. “Ma che bella bastêrda!”, esclamò mio nonno. Don Raffaele, al suo fianco, inorridì e si offese a morte come solo un patriarca siciliano può fare. Che gente era mai quella, che chiamava una pargoletta di un anno “bastarda”? Fu una canocchia di dimensioni gigantesche, e a Gianì gli andò di lusso che riuscì a uscire vivo dalla cameretta. 70

In compenso, a parte che gli rubarono il portafoglio appena messo piede nella metropolitana (“un tramvai che passa... sottoterra”, secondo la definizione che Cristèna diede poi alla Giovannona), a Roma si stava proprio bene: era una bubana per tutti, laggiù. Quando cadevi durante una gara di cross a Monte dei Pini, non ti riempivi di lividi ovunque, ma eri abagattato di murloni; senza contare che imbarlavi le ruote della bicicletta e rompevi inesorabilmente la pedivella. Il giorno dopo a fatica riuscivi ad alzarti dal letto, tanto eri incriccato. Non si doveva mai fare la doccia perché si era sporchi; noi eravamo ciussi. Le cose che piacevano tanto, piacevano dimondi; se erano sublimi, ti piacevano una massa. Quando prendevi un brutto voto a scuola, tornavi a casa con lo squizzo, perché dal dispiacere tua mamma metteva su il pippio per una settimana di fila: e a quel punto dovevi procedere molto cautamente, perché quando una persona aveva il tiraculo poteva reagire molto male, e dopo aveva da dire per chissà quanto tempo. E pensare che lei si era tanto raccomandata di stare attento alla maestra quando spiegava, per non essere costretto durante l’interrogazione a darci a spanella. Sono certo che i biscotti che tociavo nel caffellatte la mattina erano più buoni di quelli che semplicemente si inzuppavano. L’esistenza accadeva in un modo tutto suo, e questo ha fatto di noi dei malati incurabili, costretti a una lunga degenza che durerà fintanto che campiamo. Siamo ammalati di passato. Lo dice anche il nostro famoso inno: sentire la nostalgia del passato è un tratto fondamentale del nostro essere. Le 71

case in cui abitiamo sono a loro modo dei piccoli e discreti cimiteri, in cui riposano in pace i ricordi del tempo che fu: mio zio Franco di Brisighella aveva appesi all’ingresso di casa addirittura un giogo dell’aratro e una ruota di uno degli antichi carri, i plaustri, che usavano un tempo i contadini. I due comodini in tek di fianco al lettone matrimoniale dei miei nonni erano due piccoli altari consacrati ai loro genitori: dalla parte di Cristèna la pustèna c’erano Paola Ciompi con colletto di pizzo e Nicolino Conti in giacca e parpaglino, con i capelli glassati di brillantina divisi da una diligente riga che pareva il varco di Mosè tra le acque del Mar Rosso; dalla parte di Gianì c’erano il tagliatore di gole malese Minghinaccio di Ca di Bèrtle in abito della festa in panno di lana, con i capelli indomabili che partivano in ogni direzione, e Maria Creonti che sfidava l’obbiettivo con uno sguardo che ricordava l’ultima foto del capo apache Geronimo. I cassetti degli armadi custodivano ogni sorta di reliquia, da cui era impensabile separarsi. Le ammaccate spille di stagno del Regio Servizio Postale e Telegrafico, gli occhialini da vista con le lenti blu costruiti da un parente di Pontedera della mia bisnonna, una lettera della Fosca dagli stabilimenti balneari di Riccione, dove era stata mandata per ordine del medico condotto nel 1931 per prendere aria buona. Cristèna la chiamava sempre “la povera Fosca”, “Fosca poveretta” o, visto che tutti già sapevamo il suo triste destino, “la Poraza”, la Poveraccia. Nel suo comodino Gianì conservava una logora pietra per arrotare i coltelli, un orologio del Settecento che Dio solo sa dove l’avessero rubato i suoi antenati e un sacchetto di sementi nere di chissà quale pianta, che parevano dovessero germogliare da un momento all’altro. 72

Le agende dono della Cassa Rurale e Artigiana tenevano compresse nell’ultimo cassetto un metro quadrato di cambiali. Nessuno buttava via mai niente. Mia mamma conservava addirittura un vecchio telegramma che le spedì Cristèna nel 1977, mentre lei era in gita in Israele: “qui tutto bene punto Cristiano sempre la tosse fine”. Io mi sono arreso da tempo; non riordino più la mia camera perché quando raduno tutte le cose inutili che la ingolfano, poi scopro di non riuscire a separarmene, che siano vecchi biglietti d’aereo o lacci spaiati di chissà quali scarpe. Ho una montagna di vecchie sorpresine degli ovini Kinder dalle quali cerco di liberarmi da una vita e non trovo mai il coraggio: mi sembrano così importanti. Ogni pomeriggio, quando tornavo a casa da scuola, Giovannona mi regalava un ovino. Si nascondeva dietro la porta socchiusa del suo appartamento, e quando ci passavo davanti, lei lo scossava facendoci tamburellare dentro il bussolotto delle sorpresine. Liberarmene adesso per me sarebbe come separarmi da Giovannona, e proprio non posso; ci sono delle sere che ancora mi pare di sentirla russare, lì in casa nostra, in perfetto sincrono con Cristèna, mentre Bernacca leggeva le previsioni del tempo. Ho visto nel corso degli anni molti miei vicini avviarsi verso l’altro mondo, ma il momento più triste non era il funerale e il trasporto al camposanto, ma quando alcuni giorni dopo i parenti andavano a svuotare l’appartamento. Chissà come si sarebbero sentite sole tutte quelle cose. Solo a quel punto mi rendevo conto che se ne erano andati per sempre. Chissà dov’è finita la collezione a fascicoli dell’Era Fascista 73

di Brillantina, che abitava all’ultimo piano, e il paltò con il collo di pelliccia di sua moglie Carmì. Chissà dov’è finito il bastone da passeggio di Marianina. E la carriola di Giovannona? E quel suo portacenere di porcellana a forma di water che andavo a vedere ogni pomeriggio? Chissà dove sono, adesso. Non valevano due lire, probabilmente, ma mi mancano da morire.

Le sue belle bastardine

Forse per i romagnoli di riviera è diverso, visto che almeno per tre mesi all’anno godono di opportunità che noi romagnoli di montagna ci sogniamo, ma dalle nostre parti raramente la scoperta del sesso coincideva con la scoperta delle donne. L’argomento veniva trattato pubblicamente soprattutto dagli anziani, ad ogni occasione, e ti facevi l’idea che quello meno pratico fosse ai livelli di un Casanova. In tenera età avevi già un’ansia da prestazione che ti svuotava lo stomaco. Intorno ai dodici anni, mi mettevano una mano sulla spalla e mi guardavano fisso negli occhi. “Gnit, vera?”. Io alzavo le spalle, mi guardavo intorno spaesato; ero in grande difficoltà. “Ancora niente, eh? Di’ la verità?”, mi chiedevano, dandomi delle piccole pacche di incoraggiamento. Mi sentivo come se non avessi ancora imparato ad andare in bicicletta. Io sapevo tutto dell’argomento, ma proprio non avevo idea di come fare a concludere. Facevo delle cose con le ragazze, nelle cantine delle Case Popolari, cose che mi inebriavano e mi lasciavano addosso degli odori per tutto il giorno, ma come concludere era proprio un mistero. 75

Lo sfogo per i primi pruriti l’avevamo scoperto negli scatoloni di carta destinati al macero che venivano immagazzinati nel corridoio del vecchio convento dei frati. Molti anni prima della raccolta differenziata, alcuni volontari della parrocchia passavano di casa in casa a ritirare la roba vecchia. Gli abiti e i giocattoli usati venivano destinati alle missioni in Africa di padre Francesco, un missionario comboniano della famiglia Rinaldi Ceroni, mentre i giornali e le riviste venivano ammucchiati negli scatoloni e poi portati al macero a Faenza. Il portone del convento era chiuso, ma noi eravamo dei chierichetti semiprofessionisti e sapevamo che si poteva entrare dalla porticina di legno della sacrestia. Gli scatoloni erano addossati contro il muro che costeggiava via Cardinal Soglia e arrivavano quasi al soffitto. Incominciammo ad andarci ogni pomeriggio, di nascosto, per cercare i pezzi delle piste Polistil, che a metà degli anni ottanta andavano di gran moda. I ragazzi più grandi ci passavano giorni interi su quelle piste; il sabato notte facevano gare che duravano fino alla domenica mattina e arrivavano a messa che camminavano come zombi. Se ti avvicinavi, potevi sentirgli le macchinine ronzare dentro al cervello, come un televisore sintonizzato su un canale vuoto. Paolo Gianelli aveva costruito una pista che occupava tutto il giardino di casa sua; Maurizio Barberis ne aveva un’altra che occupava una camera da letto vuota dell’appartamento dove abitavano, sopra la bottega di Ciata. L’unico modo che avevamo noi più piccoli per essere invitati in quei santuari era portare doni, proprio come facevano gli uomini primitivi con le loro sgangherate divinità. Niente era più gradito di un troncone di pista Polistil. Trascorrevamo pomeriggi interi a rovistare negli scatoloni, 76

a scavare gallerie nei pacchi di giornali ingialliti e nei vestiti gualciti che puzzavano di umido e naftalina. Un giorno Donna Nuda estrasse dalle viscere degli scatoloni una copia stropicciata di “Skorpio”. In copertina c’era il disegno di una guerriera barbara armata di spada e perizoma: i seni gonfi erano scoperti e i capezzoli corazzati con due spuncioni di ferro ricurvi. I fumetti erotici che conteneva quel numero ci riempirono di uno smanezzo di cui ancora oggi posso sentire gli effetti, una specie di big bang pornografico che continua inesorabilmente ad espandersi, che mi farà diventare un giorno come mio nonno e i suoi amici. La storia più bella era a puntate, e quindi non trovammo pace finché non riuscimmo a estrarre il numero successivo. Abbandonammo ogni cautela e cominciammo a sventrare direttamente gli scatoloni. Al diavolo le piste Polistil! Donne nude! Capezzoli corazzati! C’erano modi migliori di utilizzare le mani, che non pigiare i pulsanti del telecomando delle macchinine! All’improvviso capii perfettamente perché i vecchi non potevano fare a meno di parlarne. Era esaltante solo guardare le figure, figuriamoci dal vero! Quello a cui i racconti non mi avevano preparato era tutta la gavetta che c’era da fare. A sentire mio nonno, pareva fosse facile come raccogliere un fiore. Mi convinsi che stavo semplicemente prendendo la rincorsa; più mi allenavo, più il salto sarebbe stato da record. Dopo pochi mesi, la porticina della sacrestia fu chiusa, perché non ci volle molto a scoprirci, con la devastazione che portavamo nel corridoio del convento. Non ci perdem77

mo d’animo, e incominciammo a rubare i fumetti pornografici nell’edicola di Bruscò, in fondo a via Roma. È una faccenda abbastanza compromettente, ma la verità va detta, e in ogni caso penso che quei reati siano tutti caduti in prescrizione, ormai. Tenevano i fumetti in una cassetta di plastica, sotto le copie dei rotocalchi; l’estate la esponevano fuori dal negozio. Mandavamo i più presentabili di noi al banco a comprare due zuccolotti, per distogliere l’attenzione, e piazzavamo Bomba sull’uscio, perché era il più grosso di noi e chiudeva buona parte della visuale. Si rovistava nella cassetta finché non si afferrava una copia di “Corna Vissute” o di “Lando”, e poi si correva via, ciascuno con il proprio passo. Ci ritrovavamo nel cortile della Misericordia, dove c’era il nostro nascondiglio, un pozzetto di cemento di fianco alla bocciofila. In poche settimane era così pieno di fumetti che il coperchio di cemento stava tutto sghembo. Avevamo una collezione che richiamava gente da tutti i cantoni; perfino dal quartiere della Storta venivano in pellegrinaggio. Ti facevano sentire il Re del Mondo. Incominciammo a fissare le bastardine in modo nuovo. Loro parevano molto preoccupate; c’era qualcosa di poco raccomandabile, nelle nostre occhiaie. In effetti non le stavamo affatto guardando, prendevamo la mira. La nostra collezione di fumetti fu requisita a fine agosto, un sabato sera, durante la finale del torneo di bocce. Mio nonno era in campo, a giocarsi il primo premio nella gara a coppie. Noi eravamo seduti come indiani intorno al nostro pozzetto, a parlare. Le gradinate di fronte alla bocciofila erano piene zeppe; c’erano pure mia nonna, mia mamma, i miei zii e mia cugina. Bruscò entrò con passo spedito nel cortile della Miseri78

cordia, puntò dritto su di noi e allungò con una mano una sporta di nylon. “Forza, ridatemeli tutti”. Tirammo fuori le logore copie di “Corna Vissute” una a una. Quando consegnai l’ultima, c’era tutto il pubblico del torneo in silenzio, piegati in avanti e con la testa girata verso di noi. Gli occhi di mia nonna parevano tizzoni ardenti, ci si sarebbe potuta accendere una sigaretta. Fu solo una piccola pausa. In inverno mio zio iniziò a proiettare i film porno nella sala interrata del Bar di Sopra, e l’anno dopo, in estate, mi sentii pronto per spiccare il grande salto; del resto non potevo continuare ad occupare per ore il gabinetto di casa, anche perché Gianì lo raccontava a tutti e avevano cominciato a chiamarmi Segorio. Una sera puntai diritto alla compagna di classe che mi piaceva di più, e le chiesi se voleva mettersi con me. Nella mia testa, mettersi con qualcuna voleva automaticamente dire andarci a letto; insomma, quando in casa parlavano di una coppia di fidanzati, dicevano “tal dei tali fa l’amore con quella”. “Ci mettiamo assieme?”, chiesi a quella ragazza, sotto al monumento dei caduti, ai giardini. Lei mi fissò e mi disse che mi preferiva come amico. Non perse neanche tempo a pensarci. Mi sentii come le patatine fritte, qualcosa che non è mai degno di essere portata principale. Quando ne parlavamo sotto la magnolia, le cose non andavano mai così: mi sarebbe dovuta saltare addosso, a dir poco. Ci riprovai due settimane dopo, con un’altra bastardina, che aveva i nonni di Casola ma abitava a Bologna. Pensai fosse una più aperta, una che capisse meglio delle nostre ragazze indigene come funzionava il mondo. “Ci mettiamo assieme?”, le chiesi. 79

“Sei scemo?”, disse. Forse sbagliavo qualcosa nella postura. In effetti Tiglio della Ca Nova diceva che bastava tirarlo fuori e lasciarlo lì, che poi ci pensavano loro. Ma a me non veniva naturale. Tiglio mi aveva raccontato, un giorno, che da ragazzo riusciva a portare tre secchi pieni d’acqua alla volta. Ecco, forse non avevo il suo fisico. Mi è venuto in mente qualche tempo fa, dopo la sua morte. Qualche settimana dopo il funerale, i suoi amici organizzarono una cerimonia laica al Bar di Sopra, con ciambella, vino e soprattutto bruciati, ché lui ne andava matto. L’autunno per me non è mai incominciato con l’equinozio tra il 21 e il 23 settembre, ma quando Tiglio della Ca Nova arrivava al caffè con il suo sacchetto di maroni ancora caldi di brace, e si sedeva fuori a mangiarli con un bel bicchiere di vino. Alla serata in suo onore c’erano anche Rino del Forno e Vannini con le fisarmoniche, che tra una canzone e l’altra ricordavano i vecchi tempi. Pur con tutta la grazia possibile, vista la presenza dei parenti, non si fece che discorrere di donne. Per questo mi è tornato in mente il giovane Tiglio che mi raccontava dei tre secchi pieni che riusciva a trasportare da giovane. Uno per ogni mano, e il terzo appeso alla maletta, che usava portare sempre pronta all’uso, dritta e dura. Si lamentava che da tempo non era più così. L’unica cosa dritta che gli restava era l’indice della mano destra; si era lesionato il nervo con il nastro dell’atomica, tagliando la boscaglia. Quando era guarito, vedendo il dito stecco che gli era rimasto, si era subito pentito di non essersi segato la maletta; avrebbe ritrovato l’antica rigidità. Sapevo tutto sull’esuberanza sessuale degli amici di mio nonno, che a sentir loro si limitavano a sfoderare l’arma e a lasciar decidere alle signorine di turno: “Fate voi”, dicevano. Gianì non faceva che sbandierare ai quattro venti i suoi 80

sette fiammiferi e mezzo di virilità, a volte replicandoli sul tavolino del bar usando gli stuzzicadenti. Per molti anni mi rodeva non aver preso da lui, dovendomi accontentare di un semplice aggeggio ad uso famiglia, ma poi mi è passata quando l’ho superato statisticamente; lui si vantava sempre di tutte le sue donne, soprattutto quando tornava da chissà dove mio zio Paolo, il primogenito, che a sua volta si vantava delle proprie, di conquiste; il senso di inferiorità mi è passato quando ho superato Gianì e gliel’ho detto: non l’avevo mai visto così fiero di me, nemmeno quando sui giornali incominciarono ad uscire le mie prime interviste. Insomma, si trattava di una cosa seria, le donne, mica dei libri. Gianì e i suoi amici si radunavano sulla panchina di fronte alla Lavanderia Modernissima, in via Roma, all’ombra della vecchia magnolia di Atala Acerbi. Nel mondo delle favole un gruppetto di anziani, tutti dotati di zanetta, dovrebbe parlare delle storie di vita vissuta, della guerra, dei figli; il club della magnolia parlava solo di donne. Insieme a Gianì, c’erano sempre Carlo Cantoni, Gino della Verdura, Ciapernè, Ge zop, Leoncino Braga e Carlo di Nedina, marito della perpetua della nostra parrocchia. Io subito non avevo capito che parlassero solo di sesso, mi vennero i primi dubbi quando notai che certe signore, passando davanti alla panchina, si coprivano le orecchie e allungavano il passo. Parlare di sesso non rende affatto l’idea. Bisogna fare bene i conti, cosa ci si può aspettare che dica su un argomento del genere gente nel cui dialetto spiegare che il tal uomo è fidanzato con la tal donna si dice “e fa l’amór con...”? Succedevano cose innominabili, su quella panchina, so81

prattutto quando prendeva la parola Ciapernè, che ogni tanto abbandonava le parole con un senso compiuto e le inframmezzava con versi e termini inventati, per prendere in giro i suoi amici. “A ficca depò da fricchendò, Gino?”, chiedeva, gettando tutti nel panico. Era un delirio. Gianì raccontava che aveva messo incinta mia nonna in rapida successione perché la sua camera da letto alle Case Popolari era così piccola che, visti i suoi mezzi, non aveva abbastanza spazio per rinculare nel momento culminante: fin quando avevano abitato a Ca di Bartoli, andavano a imboscarsi nel fienile, dove di spazio di manovra ce n’era finché ne voleva, e infatti in quegli anni era nato solo zio Paolo. Non avevo il loro fisico. Avrei dovuto fare come quel latin lover di Cesenatico, che si intestardì per sedurre una straniera che non aveva mai trovato niente di speciale negli italiani. La tampinò per tutta la stagione, e alla fine riuscì a strapparle un appuntamento galante. Passò dalla ferramenta nel pomeriggio a prendere della vernice, e si fece ridere dietro dal commesso, che gli disse che più biondo di com’era già non sarebbe diventato, e poi si andò a preparare. La portò sulla spiaggia, e le diede una tale intortata al chiaro di luna che lei acconsentì a seguirlo fino a casa. Riuscì a spingerla in camera da letto, e prima che lei dicesse niente, si spogliò. Lei rimase a bocca aperta. “Ma Paolo”, gli disse, “ce l’hai d’oro!”. Lui alzò le spalle con calcolata noncuranza. “Beh, noi romagnoli l’abbiamo tutti così...”.

Fatti memorabili di Cavina Paolo, guardia e direttore tecnico

Il primo ricordo che ho di Cavina Paolo risale alla fine degli anni settanta. Non era il tipo che arrivasse da qualche parte. Lui era come la Madonna di Lourdes: appariva. Si materializzò nel nostro appartamento, con la furia del pistolero che spalanca le porte del saloon con un calcio, seguito dalla sua squadra al completo, una decina di corridori polacchi scheletrici, bianchi come vecchi burazzi, che avevano l’aria di essere morti in giornata e lo seguivano ciondolando come zombi. Attraversò come un tornado la stanza e senza chiedere niente aprì il frigorifero e lasciò che i polacchi lo svuotassero senza pietà, divorando pure un troccolo di ciccioli vecchio come l’antico testamento che a uno sguardo poco attento poteva benissimo sembrare un tacco di stivale coperto di muschio. Nel frattempo aveva quasi convinto Cristèna a fargli sistemare per la notte i corridori polacchi nella nostra cantina, quando tornò dai campi Gianì, che gli disse che se li avesse messi laggiù li avrebbe ritrovati rosicchiati dai topi, ed era meglio che andasse a sentire da Derna, che affittava delle camere poco più su nel viale, alle case urra. 83

Gianì non rimaneva abbagliato come me e Cristèna da quel personaggio. Era già il Cavina Paolo che di tanto in tanto comparirà nella mia vita seguendo i suoi misteriosi riflussi, regolati in base agli strani impegni della sua esistenza raminga. Indossava i suoi classici occhialoni fumè, alla Sofia Loren, e la mia attenzione fu subito attirata da quello che mi sembrava il tratto più notevole di tutta la sua fisionomia: una profonda cicatrice che gli solcava tutta la guancia destra, causata da una rovinosa panacca in bicicletta nel cortile ghiaioso delle Case Popolari nel primo dopoguerra. Il freno gli si era piantato dentro fino alla manopola, spaccandogli anche un paio di denti. Era stato un incidente da record, finché mamma non fu centrata da un’auto in via Roma nel ’61, finendo per spatragnarsi contro il muro della casa del prof. Dardi. Quella cicatrice di Cavina Paolo era, per i miei occhi di bambino impressionabile, quanto di più vicino ad una alta onorificenza militare si potesse mai desiderare. Rimasi subito affascinato da questo personaggio che appariva dal nulla, come l’Olandese Volante, seguito da una ciurma di scheletri polacchi. Era scappato in Svizzera nel ’54. Non sopportava l’idea che il suo immenso talento fosse mortificato da un destino da contadino. Lo scoprì nell’estate del 1949, quando Gianì se lo portò dietro al mercato degli animali di Sassoleone, due vallate più a nord della nostra e a sera gli affidò un bue da riportare subito a Casola. Un bambino di otto anni che attraversa da solo gli Appennini, tirando per una corda spelacchiata una bestia grande come un furgoncino. “Mei piò”, si disse. 84

A tredici anni alleggerì i risparmi di Cristèna ed emigrò di là dalle Alpi, per andare a lavorare come garzone in una macelleria. Consegnava in bicicletta la carne ai ristoranti, attraversando Ginevra a tutta manetta, avanti e indietro fino al tramonto. Armandino Tabanelli me lo racconta sempre; andava così svelto che spesso si dimenticava degli incroci e finiva sotto il tramvai; ma nessuno si preoccupava più di tanto, perché poi si rialzava sempre e ripartiva impennando. “L’eva ’na bizicletta cla sarà stêda zent chilo!”, si meravigliava ancora Amandino. In Svizzera c’era mezza Casola a lavorare, compreso zio Tarzan, Mario Cavina, fratello di Gianì. Abitavano insieme in non so quale cantina, e i loro rapporti rimasero sempre molto stretti, almeno fino a metà degli anni sessanta, dopo che Cavina Paolo appioppò una multa a zio Tarzan, che era andato apposta a Ravenna per salutarlo. Lo stava aspettando in un bar e aveva legato il cavallo a un palo della luce sul marciapiede di fronte. Cavina Paolo gli infilò la contravvenzione sotto la sella. Incominciò fin da giovane a dedicarsi al ciclismo agonistico, raffinando anno dopo anno quella che sarebbe stata la sua sopraffina tecnica di corsa; dimostrare fin dai primi chilometri di essere il più tamugno e vendere la gara a tre quarti del percorso. Gli riusciva tanto bene che collezionava non medaglie, ma prosciutti, salami e baiocchi in contanti. A diciassette anni faceva la bella vita, e conobbe Vittorio Emanuele III, che era impiegato in Svizzera come re in esilio. Divenne il suo uomo di fiducia, una specie di guardaspalle, e lo accompagnava sempre nei night club e nei casinò: bevevano Châteauneuf du Pape e giravano con la Jaguar decappottabile. 85

A diciannove anni tornò in Italia, e venne assunto come vigile urbano a Ravenna. Aveva conosciuto una ragazza di sedici anni. Considerando la tempistica, doveva averla fatta pregna al primo sguardo. Cristèna custodì per tutta la vita una foto di Cavina Paolo in alta uniforme, che regge lo stendardo della Provincia e guarda fisso verso l’obbiettivo, con l’aria di chi se non avesse le mani impegnate tirerebbe fuori il blocchetto per fare la contravvenzione al fotografo. Fu una guardia eroica, che si meritò perfino la prima pagina del “Resto del Carlino” quando arrestò a mani nude un serial killer, beccandosi tre coltellate in pancia. Era spesso sul palchetto in mezzo all’incrocio del Candiano, e’ Cangià, il trafficatissimo stradone che collegava la zona industriale del porto alla città. Dirigeva il flusso degli automezzi con i pugni chiusi, minacciandoli, come se volesse prendere a sganassoni i guidatori. Bloccava la circolazione solo quando in lontananza vedeva il camion rosso che portava il gesso della cava di Monte Tondo allo stabilimento dell’Anic. Anche se per lui i casolani erano solo dei cuntadè, dei miserabili contadini, ne aveva un grande riguardo; non c’era modo di cambiarsi il sangue che scorre nelle vene. “A mitêgna ’na garnéda atachéda a e’ speciet”, mi raccontava Leoncino Braga, che guidava quel camion insieme al povero Toro Visani. Cavina Paolo riconosceva la scopa attaccata allo specchietto laterale e fermava il traffico per farlo passare. Leoncino Braga e Toro poi recitarono una parte in Deserto rosso di Antonioni, visto che alcune scene furono girate proprio all’Anic. C’è un momento del film con Monica Vitti in questo piazzale desolato, e dietro di lei, tra nuvole di polvere, passa un 86

Fiat Lupetto Rosso. Dentro c’erano Leoncino e Toro: e Casola Valsenio aveva dato il suo contributo anche al cinema d’essai. Le cose con la sua giovane moglie cominciarono ad andare male molto presto, fin dalla nascita della loro secondogenita. Cavina Paolo multò la Cinquecento di zia Mariapia, parcheggiata in divieto di sosta davanti all’Ospedale Civile; lei era dentro a partorire. A sua difesa, va detto che era integerrimo nel servizio: riuscì anche a multarsi da solo, quando scoprì di aver lasciato la sua macchina sulle strisce pedonali. Fu uno dei primi a condurre un’efficace campagna contro la droga, che a metà degli anni settanta dilagava a Ravenna. Non era basata sull’informazione, però, ma sui pugni in faccia. Quando finiva il turno, andava in borghese a cercare gli spacciatori e li picchiava; quando finiva con loro, incominciava con i drogati veri e propri, andandoli a cercare fino in casa. Per questo i comandanti lo mettevano spesso in punizione, confinandolo nel famoso incrocio del Candiano, una delle zone più inquinate del Nord Italia. Tra l’altro, sfidava i superiori rifiutandosi di portare l’arma di ordinanza. “A differenza di voi”, diceva, “io di pistola ne ho già una che funziona, sotto le braghe”. Andò in pensione sulla fine degli anni settanta, divorziò dalla prima moglie prosciugando i risparmi dei miei nonni e se ne andò in Germania, dove aprì un negozio di biciclette, la Fahrrad Boutique. Iniziò la sua carriera di direttore tecnico. Ero deliziato da questo Cavina Paolo, che vestiva giubbotti smanicati pieni di sponsor; nessuno dei miei amici poteva vantarsi di un lavoro del genere. Quando vedevo la toppa 87

“Cotignola Salumi” andavo in brodo di giuggiole. Mi dimenticavo di tutti gli squizzi che mi causavano le sue apparizioni. Spesso avvenivano nel cuore della notte. Entrava in punta di piedi in casa nostra, mi avvolgeva in un plaid di flanella e mi sollevava di peso. “L’hanno rapito, l’hanno rapito!”, diceva. Sentivo la sua voce ovattata, i pelucchi di flanella mi riempivano la lingua, mi pareva di soffocare e il cuore mi batteva in gola. “Dai dunque!”, gridava mio nonno, e non capivo mai se invocava il mio nome o se sgridava lui. Poi però la mattina dopo mi portava in giro con l’ammiraglia della squadra, un macchinone lungo come un carro da morto ricoperto di pubblicità, con la scritta “Technischer Leiter Cavina Paolo” sulla fiancata, e gli perdonavo tutto. In quel periodo vinse un Giro di Calabria, un Campionato nazionale tedesco e fece fuoco e fiamme ad una TirrenoAdriatico. Nascondeva spesso nella nostra cantina dei borsoni di pelle pieni di medicinali sovietici e mi sembra di ricordare che ne testò uno su di noi, che giocavamo il Campionato giovanissimi di calcio con l’AC Casola. Si nominò da solo nostro capo massaggiatore, e ci seguì per un paio di partite. La prima la vincemmo cinque a zero, in casa dell’Orsa, la squadra dell’Oratorio Salesiani di Faenza, un gruppo di chierichetti innocui, buoni come il pane, che giocavano su un campo di sabbia, con una betulla piantata a bordo campo a cui la riga di gesso girava intorno. Rientrammo negli spogliatoi che schiumavamo dalla bocca, come i cavalli dopo una corsa al galoppo. Io vedevo tutto attraverso una nebbiolina rossastra, dovuta probabilmente al respiro infuocato che mi usciva dalle narici. 88

“L’è bóna, eh?”, ci diceva Cavina Paolo accogliendoci nello spogliatoio, dandoci vigorose pacche sulle spalle. Quando la settimana dopo vincemmo dieci a zero contro il Modigliana A, lui se ne andò via soddisfatto con le sue borse di pelle. Dopo quella partita andammo a giocare al campetto della Misericordia e finimmo che era sera tardi; avevamo uno smanezzo addosso che parevamo in trance. La nostra casa era piena di sue foto con i personaggi più famosi del mondo delle biciclette. C’era Cavina Paolo con Adorni, Cavina Paolo con un giovane Gianni Bugno e addirittura una polaroid di Cavina Paolo ritratto mentre Gino Bartali in impermeabile giallo cerca di strozzarlo con il braccio sinistro. Lo contattò la Nazionale colombiana, per allenare il suo team di corsa su strada. Lui accettò, ma quando lo ­portarono all’aeroporto per caricarlo sul primo volo per Bogotà, disse che non gli piaceva volare, che avrebbe preso la nave. L’idea che il commissario tecnico dovesse ogni volta attraver­ sare l’Atlantico non convinse i dirigenti colombiani, che lo lasciarono a casa. Penso che fu una fortuna: visto come trattava gli spacciatori a Ravenna, là si sarebbe fatto sbudellare in cinque minuti. La sua carriera finì lì. La Fahrrad Boutique fallì, e lui tornò a vivere a Casola, in una roulotte parcheggiata di fianco agli staletti di Gianì. “Sono arrivate le giostre?”, chiedevano al bar quando entrava mio nonno, che era permaloso come una pantera e tornava a casa piangendo dal nervoso. Cavina Paolo passava il tempo stravaccato sul letto della roulotte. Mia nonna mi spediva a portargli la cena, di nascosto da Gianì. 89

“Sono un pascià, io, mica un cuntadè come te”, mi diceva. Si era procurato un vecchio televisore e il telecomando era una lunga canna con cui cambiava i canali senza doversi alzare. Tolse l’accampamento dopo una litigata furibonda con Gianì e mia mamma. Si tirarono dietro le sedie; fu bellissimo. Gli altri dovevano andare al cinema per vedere una roba del genere, io ce l’avevo live, in presa diretta. Un suo amico aveva fatto i soldi, e lo mandò a dirigere una gelateria a Gyor, in Ungheria. E lì finalmente trovò la pace. Fui l’unico ad andare al suo matrimonio con un ufficiale della guardia di finanza ungherese, Marianne, che presto gli diede il quarto figlio. Cavina Paolo era già nonno da un pezzo. Lo chiamò Paolo Junior, perché anche la nostra famiglia potesse vantare finalmente un nome degno di un petroliere texano. JR Cavina. Ebbe un solo periodo di sbandamento, quando per qualche mese prese a trafficare con delle pellicce: le portava dall’Ungheria a Napoli in furgone. Parcheggiava in una piazzola di sosta per dormire, e quando si svegliava le pellicce non c’erano più e al loro posto c’era una scatola piena di soldi. L’uomo che gli commissionava questi viaggi era un casertano, che sparì nel nulla da un giorno all’altro lasciando moglie e figli. Cavina Paolo abbandonò il furgoncino e si diede finalmente alla vita da pensionato. Mi ricordo ancora la prima intervista che concessi in assoluto. Venne un giornalista del “Corriere della Sera” in pizzeria. La sala era piena di clienti, e il fotografo scattava di continuo; non sapevo neanche cos’era un’intervista, figurarsi poi al “Corriere”. Sudavo. 90

E dal nulla apparve Cavina Paolo. Squadrò il fotografo, me, e il giornalista, Carlo Vulpio. “Sgraziè!”, gli disse. “Sono io che dovete intervistare: sono io la celebrità, non quel contadino lì”. Ecco. Aveva ragione. Non ho mai avuto dubbi su questo. Il fenomeno è sempre stato lui, Cavina Paolo, mio zio.

La Puletca

Adesso che Cristèna non c’è più, essendo da vent’anni nel Regno dei Cieli, seduta non proprio alla destra del Padre ma di sicuro nelle prime due file, posso parlare un po’ di politica senza timore. Mi aveva cresciuto cercando di darmi una rigida formazione da chierichetto professionista e già a otto anni ero la grande speranza di viale Neri; recitavo a memoria le stazioni della Via Crucis e tutti i misteri, gaudiosi e dolorosi; quando Cristèna parlava con le sue amiche, la speranza le incendiava gli occhi e le lenti spessissime dei suoi occhiali la concentravano in potenti raggi laser che saettavano tutt’intorno: mi vedeva già lanciato verso il Vaticano, il primo papa delle Case Popolari; sai che robe! Era una cattolica integralista e, a differenza di mia mamma, la sua santità non era macchiata dall’indelebile peccato originale di essersi fatta mettere incinta da uno sconosciuto patacca della Bassa. Io ero la mela maturata da quel clamoroso peccato e l’unica possibilità per una mia redenzione era darle sempre retta. Così, non sono nato nella classica famiglia comunista che la gente di via si aspetterebbe di trovare dalle nostre parti. 92

Seguendo le elezioni, tutti notano che la nostra è una di quelle terre che quando escono i risultati degli scrutini è sempre dipinta di rosso, come l’Umbria e la Toscana. In linea di massima è davvero così, anche se Faenza ha risaputamente fama di isola bianca. Storicamente, la Romagna è terra repubblicana, condita con un po’ di anarchia. Deve essere l’ultimo luogo della terra nel cui habitat continuano a sopravvivere i circoli Endas del Pri. In famiglia avevamo un solo comunista come si deve, zio Mario, che era stato partigiano nel Battaglione Romagna della Brigata Garibaldi: Tarzan era il nome di guerra che gli avevano dato i suoi compagni. Era alto un metro e cinquantaquattro, ed era terrorizzato dalle armi; il suo ruolo era guarnire i cavalli, non fare a schioppettate. La prima e unica volta che si offrì volontario per un’azione, beccò in pieno la famosa imboscata delle SS a Ca di Malanca, nell’ottobre del ’44: si prese una palla in pancia e Gianì ci mise tre giorni per andarlo a recuperare e riportarlo di nascosto a casa, nel fienile di Ca di Bèrtle. Zio Tarzan non aveva il permesso di entrare a casa nostra; poteva dire quello che gli pareva, ma urlando dal cortile o restando sulla soglia. Lui era un vero rivoluzionario. A differenza di molti suoi compagni che la guerra partigiana l’avevano combattuta nascosti in cantina, per uscire solo dopo la liberazione di Casola per opera dei soldati gurkha dell’esercito inglese, non aveva mai monetizzato il suo contributo nella lotta partigiana e nemmeno la perdita di due metri di intestino per via di quella palla. Dopo la guerra, ogni domenica, andava a prendere il caffè al Circolo Cral con l’“Osservatore Romano” o l’“Avvenire” 93

sotto il braccio, solo per fare dispetto a quei compagni che all’improvviso si ritrovavano pieni di soldi, con le Motoguzzi nuove e il posto assicurato in Comune. Non ammainò mai dal collo il suo fazzoletto rosso: aveva il colore del sangue che aveva versato, e si era guadagnato il diritto di portarlo. Si lamentava che Cristèna sapeva essere più spietata delle Waffen-SS. Nonna era una monarchica imprestata alla Democrazia cristiana. Gianì invece era socialdemocratico, saragattiano convinto; il punto di riferimento dei sei iscritti al Psdi di Casola Valsenio, che non potevano nemmeno sperare di fungere da ago della bilancia, visto che alle amministrative il Pci non scendeva mai sotto l’82% degli aventi diritto. Fu lui a impartirmi di nascosto da Cristèna una indispensabile educazione politica. Alle mie prime elezioni, le politiche del ’94, mi tremava la mano quando misi la croce sul sole dell’avvenire che spuntava dal mare, anche se, per come era ridotto il Psdi, pareva più un pallone sgonfio che galleggiava in una brodaglia senza sapore. A dire il vero, appena vidi il simbolo sulla scheda, di lato, in basso, lo scambiai per una réclame pubblicitaria di Cesenatico. Non prendemmo neanche un seggio, alle politiche; ma ci rifacemmo alle europee, riuscendo a sospingere il segretario Ferri fino a Bruxelles. Quello che sono adesso è frutto dell’opera di Cristèna da una parte e di Gianì dall’altra: un socialdemocratico francescano, spiato dall’alto dei cieli da un padreterno che ha le sembianze di Saragat, occhiaie comprese. Una impenetrabile cortina di ferro divideva Casola Valsenio, nei tempi della mia formazione politica. 94

Come tutti i bambini provenienti da una famiglia cattolica avevo frequentato l’asilo delle Suore Orsoline; i figli del Partito, invece, andavano al Centro comunale per l’infanzia Lo Scoiattolo. Quando nevicava, noi chiesani andavamo con gli slittini e i bob Giordani sui pendii di Pagnano; i comunisti invece avevano la loro pista a Belfiore, che scendevano con sacchi del pattume o camere d’aria di trattore, dato che loro erano più all’avanguardia. Finché Cristèna è rimasta in vita, mi fu sempre vietato di andare alle Feste dell’Unità: un anno mi nascosi dietro ai cespugli del Parco Pertini per ascoltare di nascosto la serata di pianobar con il leggendario Bonetti. A tredici anni scrivevo le cronache delle partite dell’AC Casola sulle pagine sportive dello “Specchio”, il giornale della parrocchia che mia mamma aveva contribuito a fondare nel 1967. Lo consegnavamo porta a porta, e ci guardavamo male con i ragazzi che negli stessi giorni passavano di casa in casa a vendere “Il Senio”, che veniva forgiato tra le fiamme dell’inferno nella Sezione Aurelio Acerbi del Pci. Il muro invisibile che divideva la nostra Casola Valsenio Occidentale dalla Repubblica Democratica dell’Est cadde quattro anni dopo quello di Berlino, quando per la prima volta nella storia il Pci perse il Comune. Non fu un semplice cambio amministrativo. Per il romagnolo la politica è una questione personale, una storia d’amore: il partito è come la morosa. Quando perdi le elezioni, è come se ti mettessero le corna. Il nostro temperamento, molto simile negli impeti a quello del Sud Italia, in questo è sempre stato diverso; là ci si ammazzava per questioni di donne, qua ci si accoltellava per la Puletca. 95

Non è un caso che il presidente del Circolo dei Becchi di Faenza, a fine Ottocento, conservasse con orgoglio un mozzicone di sigaro che Garibaldi aveva dimenticato sul comodino, dopo essere andato a letto con sua moglie. Tugnaz, un grande mazziniano nella Ravenna di fine Ottocento, padre di Libertas Maria Fede Ribelle Repubblicana e del piccolo Menotti, finì in un fosso mentre rincasava ubriaco da una partita di bocce. Volò di sotto mentre cantava “All’erta Pirolin / e non ti avvilire / che prima di morire / repubblica farem”. Si lamentò e chiese soccorso per ore, finché quattro braccia non lo issarono sulla strada. Lui volle sdebitarsi, ma i due sconosciuti non ne volevano sapere; gli spiegarono che era il loro dovere. Tugnaz non sentiva ragioni. Voleva regalargli dei capponi, e chiese dove poteva consegnarli. “In caserma”, gli risposero. “In caserma? perché?”, chiese Tugnaz. “Perché siamo carabinieri”. “Il maresciallo?”, lo riconobbe Tugnaz, “il maresciallo dei Carabinieri del Re? Cazzem in te foss un’etra volta!”, disse, e si buttò da solo nel fosso, e restò lì ad aspettare altri soccorritori, con la Repubblica offesa fino al midollo. Quando nel 1993 la Lista Civica di Franco Tronconi vinse il Comune, io ero a scuola a Faenza. Telefonarono in segreteria dal Bar di Sopra per informarmi che aveva vinto, e quando tornammo a casa, mi sporsi fuori dai finestrini per urlare di gioia, neanche avessi vinto il Mondiale. Non mangiai neanche, andai subito al Bar di Sopra. Era l’evento del millennio. Tatulli, il socio di mio zio, aveva fatto campagna elettorale per la Lista Civica, che era stata votata in massa dai giovani; lui era socialista craxiano, perseguiva un ideale di Casola da 96

Bere e tesserava tutti i ragazzi. Aveva mandato una spia al Bar Senio, dove c’era il Cral del Partito comunista. Quando la spia tornò, disse che là dentro c’era un’atmosfera che il primo che si accendeva una sigaretta faceva saltare tutto per aria. Si vedevano i vecchi comunisti vagare per Casola aggrappati ai manubri delle biciclette. Piangevano. Era come se gli avessero ammazzato il babbo. Si fermavano davanti al Bar di Sopra e alzavano la mano minacciosi verso Tatulli, che gonfiava il petto pieno d’orgoglio. Aprivano la bocca, e non riuscivano a dire niente, il pomo d’Adamo gli andava su e giù: si coprivano gli occhi e andavano via, barcollando come zombi. “Lo Specchio” uscì con una edizione speciale; in copertina si vedeva la mascotte del giornale, un crociato con un elmo che pareva una pignatta di rame, che posava un fiore su un cumulo di terra da cui spuntava una coda biforcuta da diavolo; sulla lapide c’era scritto “Pci Casola Valsenio, 1891-1993. Non ci prendevi mai, ma ti volevamo bene”. Dopo quelle elezioni, mi allontanai dall’ortodossia saragattiana, per diventare un cane sciolto. Avevo già da tempo abbandonato quella cristiana. La mia carriera “ecclesiastica” era stata infatti stroncata nel 1986, quando venni espulso dalla chiesa durante la messa delle nove. Essendo il più esperto e alto in grado, dovevo tenere a bada i chierichetti più piccoli; durante l’omelia, una bambina fuggì dalle grinfie dei genitori e si intrufolò sotto la tonaca dell’arciprete, giocando a tirargliela su e giù. Non riuscivo a ridurre al silenzio gli altri chierichetti, così, preso dalla disperazione, incominciai a picchiarli: in breve, dietro all’altare scoppiò una rissa. “Cristiano, vai fuori”, disse l’arciprete al microfono, dopo essere riuscito ad allontanare la bambina. 97

La sua voce rimbombò lungo la navata. “Vai fuori-ori-ori ori”, echeggiava. A testa bassa lasciai il mio posto: degradato sul campo, sotto gli occhi di mia nonna, inginocchiata in prima fila.

Magnegna? ovvero Passatore & Passatelli

Mi tolgo subito un grande peso dal cuore: sono un romagnolo poco disciplinato, perché alla nostra famigerata e ghiotta piadina al testo, preferisco di gran lunga la piè frètta, la pizza fritta nello strutto, che quando riemerge gocciolante dal bollitore ha un colore che pare oro fuso. Adesso che mi sono confessato, posso andare avanti. Ho notato nel corso degli anni che i momenti più interessanti della mia vita sono legati in qualche modo al cibo, e a quello che gli faceva da contorno. La domenica a pranzo era l’unico giorno della settimana in cui in casa si mangiava tutti insieme, e mi spataccavo la faccia dal ridere. Arrivava sempre un momento speciale, tra i passatelli e l’alesso, in cui Cristèna impugnava il coltello e cominciava a correre dietro a mia mamma intorno al tavolo, cercando di pugnalarla. Erano conflitti che di solito scoppiavano appena si svegliavano, piccoli screzi da niente, e montavano un poco alla volta per tutta la mattina, fino ad esplodere tra il primo e il secondo, quando mia mamma si permetteva di commentare qualcosa citando con una punta di acidità la sgangherata storia della nostra famiglia. 99

Era uno spasso. Del resto, in quel continente fantastico che era il nostro minuscolo appartamento delle Case Popolari, troppe civiltà erano in contrasto tra di loro. Mia nonna era un antico Impero fondato all’alba dei tempi, che dominava con pugno di ferro un territorio vastissimo che andava dalla sua camera da letto fino a tutto l’angolo cucina, frigorifero compreso, passando per il gabinetto: tale era la grandezza di Cristèna che in bagno ci poteva entrare solo di fianco, perché altrimenti si incastrava tra il lavandino e il porta asciugamani. Mia mamma Nicoletta era una giovane e agguerrita Repubblica che cominciava ad affacciarsi coraggiosamente sul palcoscenico internazionale: comandava la nostra camera da letto, escluso il mio letto e l’armadietto dove tenevo i fumetti; era riuscita ad estendere i suoi dominii fino al salotto, televisione compresa. Gianì era un po’ una sorta di Stato-cuscinetto tra i due regni bellicosi con cui si era ritrovato a vivere. Cercava quando poteva di mettere pace, come una specie di Onu in miniatura: infatti non contava quasi niente. Quando l’Impero, tra i passatelli e l’alesso, mobilitava le truppe impugnando il coltello e si metteva in marcia contro la giovane Repubblica, inseguendola attorno al tavolo, l’Onu grugniva qualche formula incomprensibile in dialetto, ma tornava presto a chinare il naso sul suo piatto e a risucchiare il brodo con rassegnazione. Io ero una minuscola nazione privilegiata, tipo la Svizzera, neutrale e coccolata un po’ da tutti quanti. Mi sentivo molto fortunato ad avere una nonna che inseguiva mia mamma brandendo un coltello spuntato; era uno spettacolo che gli altri bambini avrebbero visto solo al cine100

ma. Io ce l’avevo in 3D, e non dovevo nemmeno mettermi gli occhiali apposta. L’unico problema era che l’Impero non avrebbe mai raggiunto la giovane Repubblica, non dico per scotennarla, ma almeno per spillarle qualche goccia di sangue; conoscendomi, a quel punto avrei tociato la camicia nel sangue di mia mamma e sarei andato a scuola a mostrarla a tutti, inventandomi una carneficina e l’intervento dei carabinieri, con le pattuglie che entrano derapando in cortile e gli elicotteri che girano come avvoltoi nel cielo sopra le Case Popolari. Un giorno decisi di cambiare il solito copione, e con uno sgambetto riuscii a rallentare la fuga di mia mamma, che ruzzolò per terra rompendo un vaso. Ebbi una lezione importante, dopo. Imparai che a volte, un vecchio e millenario Impero e una giovane Repubblica possono anche momentaneamente allear­si per prendere a calci nel sedere la Svizzera. Ma a parte i conflitti della domenica a pranzo, come ogni romagnolo avevo capito fin da znino che il mangiare doveva proprio essere una cosa seria. Cristèna cucinava tutto il giorno, da quando si svegliava alle sei di mattina, fino a quando si appisolava sulla sua sedia a sdraio pieghevole alle otto di sera, con le bucce di dieci mandarini sparse sul grembo o sul dorso della Sibilla, la sua gatta, se lei malauguratamente decideva di acciambellarsi lì. Più della musica, è il profumo del ragù la colonna sonora delle nostre vite. C’era sempre qualche pentola sui fornelli o qualche tegame che si scaldava sulla nostra vecchia stufa a legna, che per molti decenni fu l’unica fonte di calore del nostro appartamento. (Non ho mai ringraziato abbastanza il Signore per avermi regalato un’infanzia irlandese: crescere in una casa senza ter101

mosifoni, fredda come la tundra siberiana, è stata una medicina prodigiosa; una volta compiuti quattro anni, ho smesso di ammalarmi e di buscarmi i raffreddori. L’influenza nemmeno so cosa sia: immagino di avere un sistema immunitario con anticorpi e globuli bianchi grossi come biglie di vetro. E profumati di ragù, ovviamente.) La tavola della cucina era quasi sempre occupata dal tagliere di legno per fare la sfoglia, e io me ne stavo in agguato sotto, fingendo di giocare al minatore, aspettando il momento giusto per allungare la mano di sopra e rubare qualche ritaglio di sfoglia per mangiarlo crudo. “Ti vengono i vermi!”, si disperava Cristèna. Ma non le ho mai creduto, e credo di aver fatto bene, dato che i vermi non si sono mai presentati: già allora comunque immaginavo che fosse una scusa perché voleva mangiarseli tutti lei, quei ritagli. Di che razza di mangiatori fossimo, mi accorgevo ogni volta che dovevamo chiamare l’autoambulanza per portare d’urgenza Cristèna al Pronto Soccorso. Quando lei cucinava le sue amate canocchie, i gamberi dei poveri, finiva con l’affogarsi, perché tale era la sua foga che le mandava giù intere, senza togliergli il carapace. Io allora non sapevo che si chiamava così, ma il fatto che fossero venuti a salvarla a sirene spiegate, sgommando nel cortile di casa, mi pareva un privilegio da re, di cui non potevo fare a meno di pavoneggiarmi a scuola. Quando spiegavo l’accaduto con dovizia di particolari, quasi tutti inventati o mistificati, raccontavo che mia nonna era così vorace, che si mangiava pure le corazze, e i miei compagni facevano un passo indietro dallo spavento, come se gli stessi parlando di un drago. I nonni mangiavano in modo diverso da mia mamma. 102

C’era in loro una specie di affannata disperazione, come se qualcuno o qualcosa potesse entrare da un momento all’altro e portargli via tutto. Gianì buttava giù i pasti rigorosamente senza masticarli, tenendo saldamente il piatto con la mano sinistra, senza mollare la presa per un solo secondo, mentre Cristèna lo circondava con il braccio intero, che data la sua mole diventava una muraglia invalicabile. Anni dopo, parlando con don Leo al Bar di Sopra, capii perché si comportavano così. Anche don Leo era un abile e metodico mangiatore: vorace come qualsiasi predatore al vertice della catena alimentare. “Ho patito così tanta fame, da piccolo, che non me la sono ancora tolta”, mi disse. Credo che in un modo o nell’altro secoli di miseria stiano dietro al grande attaccamento che abbiamo per il cibo. Un piacere che ricorda quel tipo di meraviglia di cui s­ olo i bambini sono capaci. Quando nei rari pranzi con tutta la famiglia, zii e cugini compresi, Cristèna portava in tavola la minestra in brodo, Gianì si emozionava e sussultava sulla sedia: “Ció, i caplét!”, gridava, come se stesse vedendo i Re Magi sulla strada per la capanna, e si fregava le mani con una innocenza di cui non lo credevo capace. “Magna che vâ la guera!”, mi esortava poi, se vedeva che mangiavo adagio. Aveva proprio una voglia che, se anche Cristèna avesse mischiato con la costola di maiale e il castrato un po’ di ghiaia, lui si sarebbe mangiato pure quella. Per dire: i rappresentanti della Compagnia del Fiasco che furono invitati dalla Sorbona per le celebrazioni dantesche, negli anni sessanta, si mangiarono la corona di alloro che avrebbe dovuto cingere il capo alla statua del Sommo Poeta. 103

Negli anni sessanta, la città di Parigi e l’Università della Sorbona celebrarono l’anniversario della nascita di Dante Alighieri con la creazione di una statua, alla cui inaugurazione invitarono sia i rappresentanti di Firenze, che gli aveva dato i natali, sia quelli di Ravenna, che gli aveva dato da vivere e in cui riposava per l’eternità. Con il sindaco andarono anche quelli della Compagnia del Fiasco, un’associazione di romagnoli che manteneva vive le tradizioni della nostra terra. Partirono in pullman e si portarono dietro la loro bella corona d’alloro. Era un viaggio lungo, e arrivarono a Parigi la sera prece­ dente le celebrazioni. Non scaricarono nemmeno le valigie dalla corriera; si fiondarono al primo ristorante, dove i francesi servirono i loro famosi composé; a gente abituata ai cappelletti e ai passatelli, era come servire brodaglia. Aspettarono invano i secondi. Così si intrufolarono nelle cucine, e videro un bel tacchino spennato, pronto ad immolarsi nel forno; supplicarono in ginocchio finché lo chef non glielo cucinò arrosto. A gesti, però, questi gli fece capire che non aveva spezie per insaporirlo. “Aspéta o’ sgond”, gli dissero, e spedirono uno di loro nella corriera a rimediare, visto che probabilmente qualcosa da casa si erano portati. Non solo mangiarono il tacchino; spazzolarono via dalle dispense ogni tipo di carne su cui riuscirono a mettere occhio. Il giorno dopo, belli pimpanti, si presentarono sul palco delle autorità, con il sindaco di Parigi, il rettore della Sorbona e il generale de Gaulle. Tutti arringarono la folla con discorsi bellissimi. Poi il rettore, con grande compiacimento, disse che era arrivato il momento di incoronare il poeta immortale. Non accadde niente. 104

Lo ripeté nell’orecchio del traduttore, che girò la ­domanda al sindaco di Ravenna e al presidente della Compagnia del Fiasco. “Dov’è l’alloro?”, chiese. “Ce lo siamo mangiati ieri con l’arrosto”, gli risposero. Alla faccia della famazza! Un’opera d’arte che rispecchia fedelmente questa furia cieca è senz’altro un quadro degli anni novanta di Bianchi Federico, detto Biagio, pittore, mangiafuoco, cantante, intrattenitore e spazzino, appeso nel salotto di casa sua in piazza Sasdelli, qua a Casola. Si intitola Magnegna?. È una natura morta su tela, con cornice barocca, su cui è inchiodato un pollo vero, rinsecchito. Con le nuove generazioni, la furia in qualche modo si è stemperata. Per mio nonno la pacchia finì con la morte di Cristèna, quando mia mamma prese possesso dei vecchi territori dell’Impero rivale. Certo, continuava a fare i passatelli o i cappelletti in brodo la domenica, e anche il baccalà il venerdì, ma presero a fare capolino sulla nostra tavola cibi fino ad allora sconosciuti, come l’insalata o i finocchi crudi; roba che non sguazzava in tre dita di olio di cottura e sugo; non solo non sapevano di niente, ma erano anche salutari. Ricordo ancora il modo con cui Gianì stuzzicava l’insalata che mamma gli serviva a fin di bene. Sembrava stesse rivoltando dei cadaveri con la baionetta. Odiava talmente quella roba che ne parlava in italiano. “Questa qua”, diceva infierendo sulla lattuga, “la porto allo staletto per i conigli”. Spesso a pranzo gli toccava portare una croce ben più grande, perché cucinavo io, se mamma non aveva tempo di pre105

parare qualcosa la mattina prima di andare a dar via la posta. Il più delle volte lui non si fidava, così andava a comprarsi un sacchetto di alici dal pescivendolo, e se le mangiava con il pane. Un giorno c’era una bella pentola sul fornello, con dentro della minestra in brodo. Era dalla mattina che cuoceva a fuoco lento, e quando una cosa bolle per così tanto, di solito è un capolavoro d’arte culinaria. “Mamma c’ha lasciato da mangiare”, dissi a Gianì, che tirò un sospiro di sollievo. Alle undici e cinquanta ci mettemmo a tavola. Eravamo ancora legati ai tempi di Gianì, che erano i tempi dei vecchi mezzadri: per tutta la vita ho pranzato a mezzogiorno in punto e cenato alle sei, massimo sei e un quarto, e questo mi crea molti problemi quando per lavoro vado in Bassitalia; la prima volta che fui invitato in Sardegna, alle due e tre quarti del pomeriggio nessuno aveva ancora accennato al mangiare, e chiesi disperato se almeno potessi fare la merenda. “Merenda?”, mi dissero stupiti, “ma prima pranziamo, no?”. Deglutii. Per me praticamente era già notte fonda. A mezzogiorno in punto spensi il fornello e versai due piatti di minestra in brodo. Gianì guardò il suo piatto, e azzardò una cucchiaiata. Poi lo allontanò e disse che si rifiutava di mangiarlo. Io ci davo sotto con vigore: insomma, mamma non era Cristèna, ma era comunque una grande cuoca. “Dài che è buonissimo”, gli dissi. Tentò un’altra cucchiaiata. Poi si alzò, e andò a versare tutto nel lavello. Io mi servii un altro piatto. Certo, non erano cappelletti in brodo, e nemmeno sfoglia lorda, ma non era male. 106

Mamma tornò alle tre. Vide la pentola vuota. E andò su tutte le furie. “Non siete buoni da niente!”, strillava. “Vi siete mangiati il pastone per i cani!”. Avevo servito a tavola la brodaglia dove stavano bollendo da due giorni gli avanzi di carne di una settimana. Gianì sarà anche stato un mangiatore rozzo e famelico, ma aveva un gusto raffinato a cui non ero ancora stato ben educato. Ecco com’è rocambolesca e spargugliata la storia della nostra cucina. Ne è testimone anche la storia della cucina italiana, ideata da Pellegrino Artusi nel XIX secolo. Artusi era romagnolo, nato nell’epicentro della Romagna, a Forlimpopoli. Grazie agli studi e ai gusti che affinò a Firenze, riuscì a comporre quel capolavoro che è La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene che unificò l’Italia quanto la spedizione dei Mille e le guerre di indipendenza. Ma perché Pellegrino Artusi era a Firenze? Perché è nata la nostra cucina nazionale? Quando c’è di mezzo un romagnolo, c’è sempre un ingavagno sotto. La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene è nato grazie a uno dei più grandi banditi della storia patria: Stefano Pelloni detto il Passatore Cortese, il Robin Hood di Romagna, che rubava ai ricchi per dare a se stesso. La sera del 25 gennaio del 1851, il Passatore e la sua banda presero possesso della città di Forlimpopoli chiudendosi dentro alle mura, requisendo le chiavi delle porte della città ai custodi e imprigionando le guardie della ronda. Poi se ne andarono tranquilli a teatro, dove la compagnia di Antonio Traverso fu Francesco, nativo di Schio, nel Lom107

bardo-Veneto, stava mettendo in scena La Morte di Sisara, un dramma di ambientazione babilonese. Quando il sipario si aprì per il secondo atto, al posto degli attori sul palcoscenico c’era la banda del Passatore al completo, con gli archibugi spianati: un colpo di scena da lasciare stecchiti. Il Passatore si fece avanti e lesse alcuni nomi da un foglio che teneva in mano. Erano i nomi dei ricchi di Forlimpopoli, che una volta chiamati venivano presi in consegna da una coppia di briganti e condotti nelle rispettive case, per farsi consegnare i soldi e i beni preziosi. Tra i nomi chiamati, c’era anche quello di Agostino Artusi, possidente e commerciante, padre di Pellegrino. Un medico amico di famiglia presente in sala fu costretto ad accompagnare tre briganti della banda fino al palazzo degli Artusi. Qualcosa andò molto male a casa loro; una sorella dell’Artusi fu forse violentata, scappò sul tetto di casa, e non si riprese mai più; morì pazza a Pesaro, in un manicomio. Dopo quel fatto, Artusi lasciò con tutta la famiglia la città natale e si trasferì nella meno turbolenta Firenze, dove il figlio studiò e compose il suo capolavoro: tra le pietanze che andava scoprendo in giro per il paese e i ricordi di infanzia nella sua pazza terra. La nostra cucina sta tutta lì, in un certo senso: tra i passatelli e il Passatore.

Gli sconosciuti romagnoli celebri

Oltre a Benito Mussolini, Federico Fellini e a Raffaella Carrà, la Romagna ha dato i natali a: Giambattista Morgagni (Forlì 1682-Padova 1771) Sua maestà anatomica lo chiamavano in tutta Europa. Medico e scienziato, nel 1761 raccoglie nel libro De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis gli studi di una vita sui cadaveri, e fonda l’anatomo-patologia forense moderna. Senza di lui, CSI non esisterebbe, e buona parte degli autori di best seller da milioni di copie, come Patricia Cornwell e Kathy Reichs, sarebbero disoccupati. È il bisnonno di Arthur Grissom e di Kay Scarpetta. Gregorio Ricci Curbastro (Lugo di Romagna 1853-Bologna 1925) Matematico, a sedici anni frequentava già l’università a Roma; a diciotto entrò alla Normale di Pisa. Il suo trattato sul calcolo differenziale assoluto fornì ad un oscuro impiegato dell’Ufficio Brevetti di Berna, tale Albert Einstein, il linguaggio base per la teoria della relatività. 109

Senza questo mite e religiosissimo lughese, una delle teorie più importanti della storia umana non starebbe in piedi. Monty Banks (Cesena 1897-Arona 1950) Attore e regista cinematografico, prima di diventare amico e collega delle più importanti star dell’epoca d’oro di Holly­ wood, era nato come Mario Bianchi, da umili origini. Diresse il primo lungometraggio sonoro della coppia Stan Lauren e Oliver Hardy, i celebri Stanlio e Ollio. Agostino Codazzi (Lugo di Romagna 1793-Espíritu Santo 1859) Esploratore, geografo e cartografo, si imbarcò per l’America Latina dopo essere stato un volontario dell’esercito napoleonico. Combatté al fianco di Simon Bolivar, contribuendo alla liberazione del Sud America. Esplorò l’alto Orinoco e tracciò i confini tra Venezuela, Colombia ed Ecuador. Il canale di Panamá segue il tracciato da lui redatto. Riposa nel Pantheon di Caracas, di fianco a Simon Bolivar. Giuseppe Mengoni (Fontanelice 1829-Milano 1877) Architetto e ingegnere. È suo il progetto della Galleria Vittorio Emanuele II a Milano. Non gli portò molto bene: morì cadendo giù dalla cupola centrale due giorni prima dell’inaugurazione. Plauto (Sarsina 255 a.C.-Roma 184 a.C.) Commediografo, uno dei più prolifici e importanti autori dell’antichità, ispiratore di gente del calibro di Shakespeare e Molière. 110

Molti dei servi bricconi delle sue commedie mi pare di vederli ogni giorno al bar... Piero Maroncelli (Forlì 1795-New York 1846) Musicista, poeta, patriota. Compagno di prigionia allo Spielberg di Silvio Pellico, famoso per l’amputazione della gamba subìta senza emettere un solo grido; finita l’operazione, si rammaricò di non avere il denaro per pagare il chirurgo del carcere, a cui regalò una rosa. Scappato in America, diventerà amico di artisti e scrittori, tra cui Edgar Allan Poe, che gli dedicherà un ritratto in una antologia di letterati. Alla sua morte, andò persa la sua biblioteca privata, la più fornita di New York. Giuseppe Pittàno (Casola Valsenio 1921-Bologna 1995) Linguista, giornalista, partigiano e scrittore. Figlio di un oste anarchico che parla solo in dialetto, l’italiano glielo insegna di nascosto un calzolaio comunista. Inventore del Dizionario dei sinonimi e contrari e redattore dell’utilizzatissimo Dizionario Latino-Italiano e ItalianoLatino, vende più di sei milioni di copie. Il cancello della sua casa era la nostra porta quando giocavamo a calcio per strada, in via Cenni. Natale Zen Artigliere meccanizzato distaccato dall’Arsenale di Venezia. Non è romagnolo, ma ha dato alla Romagna il triste onore di ospitare il primo morto della Grande Guerra. Accadde a Porto Corsini, durante un raid nel porto canale dei torpedinieri Scharfschütze e Novara, sotto il comando 111

di Miklós Horthy, che ebbe poi tra le due guerre una bella carriera come dittatore d’Ungheria. Tullo Morgagni (Forlì 1881-Verona 1919) Giornalista e uomo di sport, collaboratore della “Gazzetta dello Sport” e de “Il Secolo”, nel 1909 si inventò il Giro d’Italia. Fratelli Fabbri Editori, inventano le pubblicazioni a fascicoli per le edicole, e la leggendaria enciclopedia Conoscere, che in sei anni vende 600 milioni di copie. Sono i primi a creare prodotti multimediali, allegando alle enciclopedie e alle collane a fascicoli i supporti discografici. Aldo Garzanti (Forlì 1883-San Pellegrino Terme 1961) Docente e patriota. Su consiglio di Aldo Spallicci, lascia l’industria chimica per rilevare la prestigiosa casa editrice Treves, trasformandola nella Garzanti Editore. Ermanno Sangiorgi (Riolo Terme 1840-Napoli 1908) Questore. I suoi 31 rapporti di 485 pagine manoscritte, inviati al ministero dell’Interno, scritti tra il 1898 e il 1900, quando era questore a Palermo, rappresentano il primo quadro completo sulla mafia siciliana, e il primo documento ufficiale che la definisce come organizzazione criminale. Romeo Gigli Stilista. È stata una vera sorpresa anche per me: è di Castel Bolognese! 112

La più bella truffa del mondo, ovvero un Natale romagnolo

Il romagnolo è un sognatore professionista; siamo gente che rimane spesso a bocca aperta, a mangiare dell’oca. Il nostro senso di meraviglia non si è affatto atrofizzato. Grazie a questo, un Natale di tanti anni fa, inciampai nel mio destino, che contrariamente a quanto sperava Gianì non erano né le zappe né le forbici da potatura. Erano i tempi in cui il mio nome era ancora Ninni. La vigilia di Natale, sognai così forte un camion dei Lego, che la mattina dopo credetti veramente che mi fosse stato regalato, e andai a cercarlo sotto il letto a castello, dove ricordavo confusamente di averlo nascosto. Ma non c’era. C’erano i rimasugli polverosi di una vecchia pista della Polistil, una vecchia scatola di scarpe che conteneva i doppioni di un centinaio di figurine, un paio di giochi di società che non avevo mai toccato, la foto del Cesena dell’81 che era caduta giù dal muro la sera che ci avevano eliminati dalla coppa Uefa e un fustino di Dixan sigillato pieno di Playmobil e di regalini dell’ovetto Kinder. Del camion della benzina dei Lego neppure l’ombra. Mi sentii come se mi avessero truffato. Ricordavo benissimo quando mamma me lo aveva messo in mano. Sentivo ancora 113

la spigolosità della scatola e, se chiudevo gli occhi, i colori della confezione mi rimanevano impigliati nitidamente nella retina. Mi avevano derubato. A Natale. Ci sono pochi crimini peggiori del truffare un bambino a Natale. Anzi, pensandoci bene, non esisteva proprio un crimine peggiore. Furto di camion dei Lego, con l’aggravante natalizia. Mi sistemai i pantaloni del pigiama, tirandomeli bene sopra la pancia, e marciai in cucina indossando il mio migliore muso da combattimento. Cristèna stava armeggiando intorno ai fornelli. Dall’odore, stava preparando i fegatini da mettere sulle fette biscottate. Per un attimo, la faccia mi si addolcì, ma trovai in fretta il controllo di me stesso; la situazione richiedeva la massima serietà. Il vetro della finestra era appannato, e le due farfalle di plastica infilzate alle tendine avevano l’aria più morta stecchita del mondo. Se avessi ripulito un piccolo oblò sul vetro, avrei notato che fuori il mondo era diventato tutto bianco. Ma non lo feci. “Dov’è il camion?”, chiesi. La schiena di Cristèna non rispose. Ci fu uno sferragliare di pentole. “Che camion?”. Lei si voltò, e si avvicinò alla tavola. Si mise a tritare il pane secco per preparare i passatelli. Mantenere il muso fu un’impresa. “Il camion del benzinaio”, dissi. Cristèna alzò un sopracciglio. “Benzinaio?”, chiese. “Il benzinaio dei Lego”, dissi io. 114

Cercai di caricare dentro molto ispettore Derrick nel mio sguardo, ma mia nonna non sembrava per niente impressionata. “A ’n sò gnint del benzinaio dei Lego”, rispose. Una congiura, ecco cos’era. Mi piantai le mani sui fianchi. “Me l’ha regalato ieri mamma”, dissi. Cristèna scosse la testa. “Te da sugné men, Ninni”, disse. “Dove l’avete nascosto?”, insistetti. Cristèna mi guardò. Non era molto alta, ma a me sembrava un gigante. A volte la consideravo il mio carceriere, specialmente la mattina, quando mi buttava giù dal letto per mandarmi a scuola, o quando mi teneva fermo per le spalle davanti al lavandino per quella specie di tortura che era lavarsi le mani. Indossava un grembiale da cucina di stoffa pesante che le circumnavigava perfettamente la pancia, come se glielo avessero fuso addosso. Ebbi la netta sensazione che non ci avrei tirato fuori niente, da lei. Era impenetrabile. Specialmente con quel grembiale di ghisa. Soffiai fuori tutta l’aria che avevo in corpo, e tornai in camera strascicando i piedi per terra. Portavo i calzettoni di lana, e per un attimo mi sembrò di lasciare dietro di me una coda di scintille, come una stella cometa. Avevo talmente tanta lana addosso, la notte, che la mattina mi svegliavo con tutti i peli del corpo dritti. Probabile che non ci fosse mai buio, nella mia camera, visto tutta l’energia elettrica che producevo. Controllai un’altra volta. Sotto il letto niente. Provai sotto la scrivania, dove tenevo due fustini di deter­ 115

sivo stracolmi di vecchi pezzi dei Lego. Ma della scatola nuova non c’era neanche l’ombra. Cercai di ragionare. Non era tanto facile nascondere un camion. Ispezionai tutti i cassetti di tutti i comodini, ma l’unica cosa interessante che ne saltò fuori era un braccio di un vecchio Big Jim. La guarnizione bianca che lo avrebbe dovuto tenere attaccato alla spalla sembrava veramente un osso umano. Da un certo punto di vista, la mia camera era sempre stata un luogo di stragi, e non solo di furti clamorosi come questo di Natale. Ne conservava le tracce, come una scena del crimine. Teste, piedi e braccia smembrate ovunque. Per non parlare di automobili distrutte, donne dei Playmobil scomparse e, addirittura, un Furia cavallo del West azzoppato, con una beffarda figurina di Schachner attaccata sul dorso a mo’ di sella. C’erano abbastanza indizi, in quella camera, da tenere occupato un investigatore per anni e anni. In ogni caso, niente camion. Tornai in cucina. Sopra la credenza, l’albero di Natale pigmeo lampeggiava che era una meraviglia. Stava un po’ piegato da una parte, perché avevo voluto per forza metterci sopra una stella troppo grande, ma l’albero sopportava quel carico con una perfetta indifferenza e una dignità da generale pluridecorato. Il presepe, invece, era sopra al finto tavolino di fianco alla televisione. In realtà era un mobile che nascondeva nelle sue profondità l’antica macchina da cucire della Fosca poveretta, la sorella di Cristèna morta nel ’37. Risalii con lo sguardo il corso del torrente di carta stagnola, come se il camion potesse esserci affondato dentro. Niente. 116

E nemmeno i pastorelli, le contadine, i legionari romani e i due soldatini verdi sdraiati di nascosto dietro una palma, con le mitragliatrici spianate, avevano l’aria di chi avesse visto un camion piombare lì all’improvviso. Per non parlare di Giuseppe e Maria, che erano talmente felici di aver avuto un bambino che non gli staccavano gli occhi di dosso. La Santa Vergine, poi, era talmente su di giri che era finita in ginocchio. L’asino e il bue, e il cavallo dei Playmobil che gli avevo messo vicino per fargli compagnia, avevano un’aria così addormentata che non si sarebbero accorti nemmeno di un’esplosione nucleare, figurarsi di un camion dei Lego. Quanto ai Re Magi, beh, loro erano semplicemente troppo lontani, visto che stavano attraversando, faticosamente, il deserto sullo schienale del divano. In ogni caso, controllai tutti i cassetti della cucina. Cristèna mi sbirciava con la coda dell’occhio, e io non capivo se era divertita o preoccupata. “Guêrda che te ne trov mia”, mi informò. Stava infornando una teglia. Dentro c’era un coniglio. Probabile che fosse morto sepolto dalla frana di patate al forno che lo circondavano. “Lo avete nascosto proprio bene, eh?”, dissi fra i denti. “U ngn è propri, Ninni”, rispose lei: “T’en pó truvê quel c u ngn é”, aggiunse. “Me lo ha dato ieri in mano. Sono sicuro. Era una scatola così!”. Ero disperato. Mimai addirittura i confini della confezione, profondità compresa. Poi mi venne un sospetto, guardando l’espressione sul volto di mia nonna. “Te pensi che sono matto”, dissi, socchiudendo gli occhi. 117

Lei sorrise, pulendosi le mani sul grembiale. Era incredibile vedere quella stoffa di ghisa piegarsi. Non l’avresti mai detto possibile. Cristèna doveva avere una forza mostruosa. “A n pens gnint, Ninni”, disse: “Me al só che t’ ce mat”. Accolsi questa notizia scalciando in aria. Che avesse ragione lei? Cioè, non sul fatto che fossi matto, cosa di cui nemmeno io dubitavo, ma sul camion. Magari lo avevo sognato sul serio. Pensandoci bene, a volte mi capitava. Forse era per via di tutta quella carica elettrostatica che sprigionavo nel sonno, di tutta quella lana nel mio letto, delle coperte pesanti che sfregavano contro il pigiama come turbine. Insomma, mi capitava spesso di metterci un po’ troppa foga, nei sogni. Come quella volta che avevo sognato per filo e per segno, mattoncino dopo mattoncino, la costruzione di un nuovo castello dei Lego. Mi ero svegliato apposta due ore prima, la mattina, per finirlo prima di andare a scuola, ma mi ero accorto che non avevo tutti i pezzi necessari, e anche quelli giusti non si potevano attaccare come avevo sognato io. Oppure, come quella volta che avevo l’interrogazione di storia, sui romani, e io avevo studiato un sacco e una sporta, almeno per i miei standard, e la notte mi era apparso tutto l’Impero romano nel suo fulgore, tutte le legioni schierate nei punti strategici delle province, tutte le frecce che indicavano i movimenti delle merci e della flotta. Potevo perfino contare quante anfore c’erano nelle stive d’ogni singola nave e sentire il tintinnio delle spade nelle cinture dei pretoriani. Ma quando mi ero trovato davanti a Vittoria Dal Pozzo, la mia maestra, avevo scoperto che non disponevo di abbastanza parole per raccontarle tutto quanto. Anche se alla fine avevo preso un bel voto, mi era sembrata una fregatura. Una 118

truffa bella e buona, come con il camion dei Lego. Come se mi avessero concesso un superpotere che funzionava solo quando non c’era nessuno che lo potesse vedere. O, ancor peggio, apprezzare. Un po’, lo spirito del Natale mi si incrinò dentro. Produsse uno scricchiolio malinconico, come un alberello piegato da una punta troppo grande. Non sarebbe più stata la stessa cosa. Chissà come avrebbe risolto la situazione mia mamma. Già, perché se il camion non era mai esistito, a tutti gli effetti dovevo ancora ricevere il mio regalo. Ma non sarebbe mai stato all’altezza di quelle cose che la lana e l’elettricità mi accendevano in testa, di notte. Mi sedetti a tavola, abbattuto. Sentivo la testa pesantissima, come se il cespuglio di capelli che ci stava sopra si fosse trasformato in un groviglio di piombo. Quello stramaledetto camion! Adesso che ci pensavo bene, probabilmente non esisteva nemmeno, nel catalogo dei Lego. Che peccato! Sarebbe stato un articolo vendutissimo. La porta di casa si aprì, ed ero talmente prostrato che nemmeno mi accorsi delle scaglie di neve sulle spalle di mia mamma, come forma grattugiata. Lei mi guardò. Poi guardò nonna. “S’al fat?”, le chiese. La nonna alzò le spalle. “E dis che a i â sparì e benzinaio”, l’informò nonna. “Era il camion”, sospirai io. “Eh?”, fece mia mamma, rivolta a tutti e due. “E’ benzinaio l’á pers e’ camion”, si ingarbugliò Cristèna. Frullai le mani per aria, un gesto che loro conoscevano benissimo. Era una specie di “lascia perdere”, ma molto triste. Un “lascia perdere” tristissimo per un’enormità che nes119

suno sarebbe mai riuscito a spiegare. Ci stavano dentro un sacco di energia elettrica, di lana, sogni grandi come imperi e tanto amaro in bocca al risveglio da schiantare perfino la gioia di Giuseppe e Maria. Guardai mia mamma, sperando che lei riuscisse miracolosamente a mettere a posto tutto. Magari a far andare indietro le lancette di tutti gli orologi del mondo. Ma non ci riuscì, e abbassai la testa. Mamma si tolse il cappotto, e appoggiò sulla tavola una sportina di plastica. Che truffa, quando ti svegliavi. E che fregatura scoprirlo proprio a Natale. Sarebbe stato meno duro se fosse successo per il mio compleanno. Almeno era primavera, sarei potuto uscire. “D’ora in poi, voglio solo pigiami di cotone”, dissi. Lo dissi con un tono talmente serio, che per un attimo mia mamma annuì. Poi lei scambiò un’occhiata con Cristèna, e tutte e due insieme alzarono le spalle. “Perché?”, chiesero. Risposi con la frullata di mani. Mamma mi sbirciò con uno sguardo pieno di miele, quel tipo di sguardo che piega le ginocchia a qualsiasi bambino, e come se stesse eseguendo un gioco di prestigio tirò fuori dalla sportina un pacchetto. La guardai con distacco. Era come giocare ad asinone con le carte e conoscere l’esatta posizione dell’asso di bastoni. Non c’era più divertimento. Avevo scoperto il trucco. Era tutto finito. Mi sentii vecchissimo, come se solo a me fosse stata svelata questa tremenda verità. Per un attimo, capii cosa avesse do120

vuto provare Gesù dopo l’ultima cena. Aprii il pacco come un condannato a morte. Niente di quello che ci sarebbe stato dentro avrebbe potuto salvarmi. Tanto più che il pacchetto era abbastanza leggero. Sottile. E con una cosa lunga e stretta sopra. L’irregolarità del pacchetto un po’ mi incuriosì, ma a quel punto ero troppo stanco per provare a mostrare un po’ di entusiasmo. Mi accorsi della neve che si stava sciogliendo sul cappotto di mamma. Male che andava, potevo tirare fuori il Giordani dalla cantina. Il bob era un buon antidoto per un sacco di cose. Quando vidi finalmente cos’era, rimasi muto. Il mio regalo di Natale consisteva in un quaderno e in una penna. Roba che avevo fra le mani tutti i santi giorni. Se c’era qualcosa che non mi mancava, quella era proprio l’accoppiata quaderno e penna. Ne avevo un sacco, di ogni forma e colore. Però questi erano diversi. Lo capii subito, senza doverci nemmeno pensare. Su questo non ci pioveva. Erano completamente diversi. Sentii chiaramente qualcosa accendersi dentro di me, con un poderoso “click”, come se qualcuno avesse pigiato un interruttore rimasto nascosto fino ad allora dentro la mia pancia. Il quaderno non aveva né le righe né i quadretti. Nemmeno il bordo per andare a capo. Era un quaderno di pagine bianche. Mai vista prima roba così. E poi aveva la copertina rigida, marrone, con dei fiori agli angoli simili allo stemma della Fiorentina. Era strano. Non brutto. Strano. Sì, diverso. 121

La penna invece era una sciccheria. Ne avevo vista una simile a casa di mio zio Franco a Brisighella: lui era uno che aveva studiato, un tecnico agrario con i controfiocchi. Una penna bella grossa, più di due Bic messe insieme, e con una punta a foglia sottilissima. Stilografica, ecco come si chiamava. Impugnarla mi diede un gusto incredibile, da tanto che mi riempiva la mano. Era come tenere una spada. Mi venne il dubbio che mia mamma potesse avercela fatta un’altra volta. La parola truffa fece molti passi indietro, nella mia testa, come a “un due tre stella!” quando beccavi qualcuno che non stava perfettamente immobile e lo costringevi a tornare al punto di partenza. Mi venne l’impulso improvviso di correre subito in camera, a provarla. Non era per niente come le altre volte, con le biro sudaticce che ti scivolavano di mano e i quaderni che facevano le orecchiette e avevi paura di sbagliare qualcosa. Una penna come una spada, pensai. Elettricità. Pigiami di lana. Camion dei Lego che non avrei mai avuto. Sogni grandi come Imperi. Pagine bianche come discese coperte di neve. Mi ci buttai a capofitto.