Roma. Il tramonto della città pubblica 8858105583, 9788858105580

Roma è un caso esemplare di una condizione urbana le cui patologie affliggono la qualità del vivere e l'esistenza m

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Roma. Il tramonto della città pubblica
 8858105583, 9788858105580

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Saggi Tascabili Laterza 383

Francesco Erbani

Roma Il tramonto della città pubblica

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione marzo 2013 1

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Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018 La cartina è stata realizzata da Alessia Pitzalis

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0558-0

Roma Il tramonto della città pubblica

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1 Centro Storico

7 San Paolo-via Alessandro Severo

2 Bufalotta/Porta di Roma

8 Laurentino/Tor Pagnotta

3 Casilino

9 Eur

4 Ponte di Nona

10 Decima/Malafede

5 Romanina

11 Prati

6 Area dell’Appia Antica

Aeroporto di Fiumicino

Prologo

Le storie che seguono sono raccontate con la lingua delle inchieste giornalistiche. Il loro fulcro sono le trasformazioni che Roma ha vissuto o subìto negli ultimi decenni. Trasformazioni che hanno investito molte delle sue parti e che sono quasi tutte riconducibili a un vorticoso aumento dell’edificato o, almeno, all’elaborazione di progetti in quella direzione. Quanto poi alla crescita dell’edificato abbia corrisposto un proporzionato incremento degli spazi di comunità e un generale benessere è questione che queste storie vorrebbero accertare. Dietro, accanto, sotto le trasformazioni fisiche si delinea inoltre il progressivo impoverimento della città pubblica, mentre è avanzata l’idea che soltanto l’estendersi di un controllo privato su parti crescenti di essa possa contribuire a diffondere quel generale benessere e a fronteggiare la crisi che si è abbattuta su Roma come su tutto il mondo occidentale. Proveremo a documentare che cosa è avvenuto e sta avvenendo a Roma usando gli strumenti del cronista, visitando luoghi, intervistando persone, facendo parlare atti e delibere e tentando di capire se quel che accade nella capitale è una vicenda per alcuni aspetti esemplare della condizione urbana oggi in Italia, e non solo. Da tempo studiosi di diverse discipline discutono il tema delle ricadute nello spazio cittadino delle ricette che invocano una progressiva e forse definitiva ritirata del pubblico entro ­3

recinti sempre più stretti. Quando urbanisti e sociologi parlano di città pubblica, il riferimento è, storicamente, a quelle parti di città di proprietà pubblica, dove si è realizzata edilizia pubblica, dove risiede un parco pubblico. In fondo, però, tutta la città nel suo insieme è pubblica anche se costituita di tante parti private che, decidendo di condividere uno stesso spazio, realizzano qualcosa di pubblico. Attraverso le storie che seguono cercheremo di capire se le trasformazioni avvenute o che stanno avvenendo a Roma rispondono a criteri urbanistici corretti, se vanno incontro a bisogni collettivi o se invece sono l’effetto di strategie immobiliari che arrecano profitto a chi costruisce e un utile molto dubbio alla città. Se, cioè, danno lustro e soldi ai privati e scaricano oneri sul pubblico. Percorreremo poi la strada delle decisioni politiche, per appurare quanto le amministrazioni pubbliche abbiano esercitato un governo effettivo delle trasformazioni e quanto, viceversa, si siano piegate a interessi privati, lasciando che venisse consumato suolo pregiato (che pur essendo proprietà di qualcuno assolve comunque a funzioni ecologiche di interesse collettivo, dall’assorbimento di acqua piovana allo stoccaggio del carbonio, alla produzione agricola...) senza che la città ne guadagnasse in termini di qualità urbana e, anzi, vedesse aggravati i propri affanni. Oppure consentendo, persino sollecitando, che parti crescenti di città migrassero dalla mano pubblica o da un uso pubblico al controllo privato (siano edifici o aree libere, mercati rionali o depositi dismessi, suoli o sottosuoli). A Roma si è teorizzata ed esercitata molta contrattazione urbanistica. È finito il tempo, ha sostenuto chi ha governato la città, della cosiddetta urbanistica autoritativa (l’autorità pubblica che tutto decide e tutto pianifica), ogni cosa si negozia. O si scambia. Se c’è bisogno di un’opera pubblica, essendoci sempre meno soldi, questa si paga elargendo concessioni edilizie. Ma molto spesso – quanto spesso si cercherà di capirlo nelle storie che seguono – è il privato che, pur ­4

di avere un permesso di costruire, suggerisce al pubblico un’opera da realizzare in cambio di quel permesso. Interrogheremo poi chi la città ha studiato e studia, nelle università e nei centri di ricerca, per raccogliere analisi e riflessioni. E sonderemo il vasto fronte dei comitati di cittadini, di gruppi e associazioni che producono una mole imponente di indagini sul proprio quartiere e che avviano vertenze per salvaguardare quel che appartiene a una collettività e che invece si vorrebbe alienare a vantaggio di pochi. Le loro azioni vanno dalla semplice cura di uno spazio – un edificio dismesso, un orto, un paesaggio, un giardino – intorno al quale si tessono o si rigenerano relazioni comunitarie che si vorrebbero annientate in una bulimia consumistica, fino ai flash-mob, alle battaglie, alle iniziative legali per non perdere ciò che è proprietà di tutti e tanto più delle generazioni future. In queste fatiche, compiute con energie volontarie e senso del gratuito, colpisce un dato: la controparte è quasi sempre il pubblico che smette di fare il pubblico, sono l’amministrazione e l’ente che si sottraggono al compito di tutelare interessi generali. Il fenomeno è relativamente recente, una quindicina d’anni al massimo, ha dimensioni nazionali e Roma ne è investita, documenta il passaggio dall’indignazione individuale a un sentimento civile. È uno dei tanti segnali che attestano la crisi della rappresentanza politica tradizionale, ed è anche il sintomo di una rinascita democratica, banalmente rubricato ad antipolitica o a episodio Nimby (Not in my backyard). Molti di questi gruppi si affiancano alle associazioni storiche, Italia Nostra, Legambiente, il Wwf, ma sempre più spesso le sostituiscono o le condizionano. Tentano di compiere un salto di scala, riuscendo solo in parte a collegarsi fra loro e mettendo in comune un patrimonio culturale, di passione politica, di competenze e di battaglie ambientaliste. Ma i numeri sono consistenti e ormai formano una massa critica. La dimensione locale e il carattere spontaneo si esprimono in iniziative di documentazione storica sul proprio quartiere, in occasioni di ­5

recupero della memoria, in piccole forme di welfare e poi in lavori di progettazione alternativa rispetto alle proposte del Comune o di un Municipio. Ed è evidente in molti dei comitati romani lo slancio a creare coordinamenti, a cercare ciò che di simile esiste in tante vicende dissimili e dunque a passare dalla singola vertenza a un’elaborazione più politica, di cui l’urbanistica rappresenta uno dei cardini. Roma per molti aspetti è esemplare di una condizione urbana che riguarda altre città del paese, si diceva. Le sue patologie si rintracciano anche altrove, e anche altrove, in proporzioni diverse, queste affliggono la qualità del vivere e l’esistenza materiale delle persone. Quanto, per dirne una, il disegno di Roma è pianificato e quanto invece è affidato al caso per caso? Quanto conta l’idea che la città ha di sé, e quanto invece vale la sommatoria di interessi, a volte conflittuale a volte consensuale? Quanto Roma si sforza di garantire a tutti i suoi residenti il diritto alla città, un’accessibilità che è condizione perché chiunque vi abiti si senta anche cittadino? A Roma, inoltre, è possibile definire la fisionomia esemplare di un potere, quello legato all’edilizia e alla proprietà dei suoli, che è stato il motore secolare dell’economia cittadina, e che tuttora è alimentato più dal propellente della rendita fondiaria che dal profitto d’impresa, ed è intrecciato alla finanza. L’espressione “poteri forti” è adulterata dall’abuso: ma in pochi altri casi, come a Roma, definisce bene un grumo di interessi ampiamente addossato alla politica e all’amministrazione, che agisce come impresa privata, ma non disdegna, anzi, di colonizzare le aziende municipalizzate oppure di tracciare le linee guida delle Grandi opere, chiedendo per sé un perenne regime di deroghe e dunque auspicando Grandi eventi – Olimpiadi, Mondiali di nuoto, Giubilei – e sistemi da Protezione civile. Questi poteri sono in grado, quando andava bene e ora che va male, di condizionare il tenore di vita della città. E anche di proporsi come protagonisti per fissare la direzione di marcia dell’urbanistica. Direzione di marcia che spetterebbe alla politica e all’amministrazione pubblica di detta­6

re, ma la cui formulazione è spesso culturalmente incerta e altrettanto spesso è il prodotto di mediazioni al ribasso, sintomo di una fragilità sia della politica sia dell’amministrazione pubblica che non è solo prerogativa della capitale, ma di altre città e di un paese intero. Roma sembra essere progredita per parti separate. A pezzi. Per tendenze, ha scritto uno dei massimi studiosi della sua storia urbana, Italo Insolera, scomparso a fine agosto del 2012. Quasi nelle pagine d’esordio del suo Roma moderna, a proposito di come vennero distribuiti i ministeri negli anni immediatamente successivi alla breccia di Porta Pia, Insolera scrive che «il non trasformare nessuna tendenza in un piano, in una legge precisa che modelli la struttura stessa della città, è una caratteristica tipica e costante dell’amministrazione romana. Ogni provvedimento deve sempre lasciare un margine al provvedimento opposto. Qualsiasi iniziativa viene subito svilita nel compromesso: per evitare che si accusi l’amministrazione di favori eventualmente disonesti nei confronti dei proprietari e impresari di una zona, non ci si cura tanto di creare gli strumenti fondiari e tecnici per prevenire da ogni parte possibili corruzioni, ma di distribuirne un po’ dappertutto le premesse». Le storie che seguono proveranno anche a rispondere a domande che, a Roma, incalzano con la stessa energia con la quale i problemi si aggravano. Non è detto che le risposte si riescano a trovare o che, trovate, sia semplice metterle distesamente in fila. Perché, per esempio, Roma è la città con più macchine e motorini in Europa? In rapporto alla popolazione, ovviamente. Perché a Roma – sono dati elaborati nel 2009, fonte lo stesso Comune di Roma – circolano 978 veicoli a motore ogni 1.000 abitanti, comprendendo fra i 1.000 abitanti anche i ragazzi con meno di 18 e anche di 14 anni, i neonati e gli ultra ottantacinquenni, praticamente una macchina o un motorino ogni abitante? Perché questo accade a Roma, che conta 2 mi­7

lioni 700 mila abitanti, mentre a Londra i veicoli a motore sono 3 milioni 10 mila e gli abitanti 7 milioni e mezzo, con un rapporto di 398 ogni 1.000? Parigi e Barcellona stanno un po’ peggio di Londra, ma nella capitale francese il rapporto è di 415 su 1.000, e nel capoluogo catalano di 621 su 1.000. Perché? Non è conveniente introdurre un racconto sparando cifre. E neanche ponendo domande. Ma quelle cifre e quelle domande contengono un problema. Più macchine ci sono in giro, meno si va in giro. La ragion d’essere di una macchina sta nel facilitare la mobilità. Ma troppe macchine sono l’antitesi della mobilità. E la mobilità è il presupposto dell’accessibilità, che a sua volta consente di esercitare degnamente il diritto alla città. Inoltre, troppe macchine inquinano insopportabilmente l’aria. Se parcheggiate ostacolano la viabilità, se parcheggiate male la ostruiscono in un crescendo di illegalità che la Polizia municipale ha rinunciato a perseguire. Troppe macchine sono causa di incidenti, anche mortali (un altro po’ di numeri: 19.960 gli incidenti a Roma ogni anno, 23.210 a Londra, con una popolazione quasi tre volte superiore; 201 i morti a Roma, 222 a Londra). Se questi sono solo alcuni dei problemi, e altri li vedremo in seguito, diventa ancora più incisivo domandarsi perché tutto ciò accada. Perché questi dati crescono costantemente nel tempo e non si vedono indicazioni che vadano in senso contrario. E perché il problema traffico viene affidato a una gestione emergenziale, che con tutta evidenza ha prodotto assai poco e che, dopo sette anni di proroghe, il governo Monti nel gennaio 2013 ha nuovamente prorogato con il consenso di centrodestra e centrosinistra. Alle domande sul numero di macchine che circolano a Roma, se ne incrociano altre, apparentemente disomogenee, ma che pure dimorano nello stesso spazio e hanno a che fare con il modo in cui questo spazio si organizza. A Roma si sono costruite nel primo decennio del Duemila moltissime case. 8.598 alloggi nel 2003, 11.056 nel 2004, 14.889 nel 2005, 8.433 nel 2006 e 8.919 nel 2007. In cin­8

que anni si sono completati quasi 52 mila alloggi, 10 mila ogni anno in media: Roma ha avuto un tasso di crescita dello stock edilizio dell’1,4 per cento, il doppio di quello di Milano (+0,7). Ci sono ragioni demografiche, di riorganizzazione dei nuclei familiari, ragioni produttive che giustifichino questi incrementi, che hanno poi rallentato il proprio ritmo, fin quasi ad arrestarlo fra la fine del decennio e l’inizio di quello successivo? E perché ancora tante persone non trovano una casa che possano permettersi e un numero sempre crescente di queste persone va a vivere fuori Roma, in provincia o addirittura in altre province e persino oltre i confini della regione, al punto che qualcuno, in onore a questi paradossi, sostiene che Roma cresca a Orte (sono 163 mila i romani che tra il 2003 e il 2010 hanno lasciato la città e si sono trasferiti nei comuni della provincia)? Chi conosce non solo Roma, ma la letteratura su Roma, sa che il disagio abitativo non è un problema di oggi o dell’ultimo decennio. È uno degli aspetti strutturali di uno scadente diritto alla città. Si è scritto – è ormai acquisito – che una certa quota di fabbisogno inevaso è sempre funzionale al mantenimento di un livello accettabile dei prezzi delle case – accettabile per chi quelle case costruisce. Si è scritto che più case si costruiscono, più ce ne vorrebbero; lo si è scritto per Roma, ma anche per l’Italia intera. Quanta gente, fin dall’alba del Novecento, si è ammassata in baracche addossate alle Mura Aureliane? E poi si è costruita una casa in mattoncini di tufo senza intonaco lungo le vie consolari? E in quanti hanno popolato i borghetti fino a tutti gli anni Settanta del secolo scorso? Insolera e poi Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta, autori di Borgate di Roma, fra i più illustri esponenti di quella letteratura sulla capitale prima richiamata, hanno calcolato che alla fine degli anni Settanta erano fra 800 e 830 mila i romani che vivevano in case abusive, costruite senza alcuna licenza, poi in qualche modo rientrate nella legalità. Una città come Palermo. Altre stime parlano di 10 mila ettari abusivi, ­9

poco meno del 20 per cento di tutto l’attuale edificato a Roma. Nel 1997, quando l’amministrazione Rutelli approva un importante documento urbanistico, la Variante delle certezze, gli insediamenti abusivi conteggiati a partire dal Piano regolatore del 1962 ammontavano a 204. Le pagine su Roma, le immagini di Roma, sono piene di case che si tirano su e di gente che cerca casa. Ma perché si costruiscono o si progettano ancora oggi tante case se 250 mila restano a vario titolo vuote (secondo una stima di Legambiente; erano comunque 193 mila al censimento del 2001)? Perché a pochi mesi dalla chiusura della legislatura in Consiglio comunale l’amministrazione di Gianni Alemanno cercava di far approvare in tutta fretta 64 delibere, molte in variante al Piano regolatore approvato nel 2008 e tutte proponenti ulteriori espansioni edilizie per un totale stimato fra i venti e i trenta milioni di metri cubi? Perché si progettano bretelle autostradali, raddoppi di aeroporti, perché le società di calcio cittadine, appartenenti a potenti famiglie di costruttori o a fondi immobiliari esteri, immaginano nuovi stadi che costituiranno la piccola parte di insediamenti contenenti centri commerciali, alberghi e, ancora, case? E poi: le domande sulle macchine e quelle sulle case si tengono insieme, si incrociano in qualche punto del discorso? Forse perché quelle case le si va a sistemare fuori dalla città già edificata, che pure conserva molti spazi vuoti, essendo bassissima la sua densità abitativa? Forse perché, nonostante tante dichiarazioni solenni e formalmente codificate, i nuovi insediamenti sorgono lontano o lontanissimo da una fermata di metropolitana, di tram e persino di autobus? E perché, come effetto non secondario, di questa frammentazione abitativa, si decide di sacrificare porzioni di campagna romana, “l’erme contrade” che Giacomo Leopardi racconta nella Ginestra e che irrorano la facoltà immaginativa di Montaigne, Montesquieu, Charles de Brosses, Goethe e che ancora nel Novecento offrono materiali a Ennio Flaiano, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini? Con ­10

la cultura non si mangia, disse un ministro della Repubblica, e tanto meno con la letteratura, ma con quel che l’agricoltura produce sì: e allora perché si lascia che quelle case, in gran numero restate invendute, minaccino le migliaia di aziende che l’agricoltura insistono a praticarla (Roma è ancora il comune o uno dei comuni più agricoli d’Italia) coltivando carciofi, innestando vigneti, allevando pecore e confezionando formaggi? Le domande diventano perentorie. E, come in una struttura frattale, ne producono altre, che poi vanno a raggrupparsi. Fino a formare accorpamenti e gerarchie. E domande capofila, del tipo: chi decide che tutto ciò accada? Chi decide perché si costruisce, che cosa, per chi, come e dove? Chi stabilisce che un edificio, un’area di proprietà pubblica, un mercato rionale, con la scusa di ridurre il debito, finiscano in mano a un privato che ne fa quel che vuole ignorando ciò di cui ha bisogno la parte di città in cui quell’edificio, quell’area e quel mercato risiedono? Quali sono i soggetti, le forze, le aggregazioni sociali, economiche e politiche che definiscono gli assetti della città? E quanto costa ai cittadini romani, e non solo ai cittadini romani, una Roma così fatta, che ha un debito di oltre 9 miliardi, scarsissima liquidità, un bilancio sempre a rischio di censure dalla Corte dei Conti e che, per evitare l’indecenza, dichiara per acquisite anche le entrate presunte, come le multe? Quanto spazio i temi urbanistici occupano nel dibattito politico? È possibile, per esempio, fare anche minimamente un raffronto con le polemiche aspre, le divisioni profonde, appassionate e culturalmente motivate che si agitarono negli anni Cinquanta, quando si scriveva il Piano regolatore della città? Che durata hanno i fenomeni che oggi investono Roma? Quand’è che Roma ha cominciato a farsi del male? Forse quando compì il vertiginoso salto da misero borgo papalino a capitale del Regno? Oppure quando il cardinale de Mérode acquistò i terreni sui quali avrebbe fatto costruire via Nazionale? Quando fu­11

rono distrutte Villa Ludovisi e decine di altre ville patrizie sostituite da lottizzazioni? Quando fu stravolto il Piano regolatore del sindaco Ernesto Nathan? Quando furono inventate le borgate? La caccia alle origini del malessere di Roma è stata condotta e prosegue in sede storiografica con risultati a volte ottimi. Ma non è questa la sede per spingersi così lontano. Qui si può fissare, non tanto arbitrariamente, un punto nella storia secolare di Roma. Quel punto è l’articolo che Antonio Cederna pubblica su Il Mondo il 15 marzo 1955 e che il direttore del settimanale, Mario Pannunzio, intitola La macchia d’olio. Come una goccia d’olio che cade da un recipiente produce su una superficie una macchia la quale si espande in modo irregolare e si dilata in ogni direzione, così la città di Roma è cresciuta fin dagli anni successivi al 1870 allargandosi in tutti i punti cardinali e seguendo non la linea di marcia dettata da una corretta pianificazione, ma le forze di trascinamento delle proprietà fondiarie – la speculazione edilizia – le quali, chi a est, chi a ovest, chi a sud e chi a nord, spingono la città sui loro terreni. Dal 1951, comunque, mescolando interventi di edilizia pubblica e privata, in proporzioni a tutto vantaggio di quest’ultima, la città si espande a un ritmo che non ha eguali nella propria storia. Vediamo qualche dato. Il Piano regolatore del 1931 dimensiona l’edificato di Roma, per i futuri 25 anni, in 14 mila ettari. Non è la fotografia dell’esistente, sono previsioni. Se anche le dessimo per acquisite nei decenni successivi, e non lo sono, queste previsioni fissano la città costruita entro un decimo del territorio comunale (che allora comprendeva anche Fiumicino). Va da sé che nei 14 mila ettari non sono compresi i numerosi “nuclei edilizi”, così li chiamavano, sparsi già allora nella campagna. Roma ha impiegato 2.500 anni per arrivare a quelle dimensioni. La grandissima parte dell’incremento avviene dopo Porta Pia e accompagna un ritmo di crescita demografica altrettanto imponente: 240 mila gli abitanti nel 1870, 691 mila nel 1921 (quasi triplicati), 1 milione 8 mila nel 1931, 1 milione 415 ­12

mila nel 1941, 1 milione 651 mila nel 1951. In ottant’anni la popolazione aumenta di 6 o 7 volte. Nel 2010, stando alle previsioni del Piano regolatore approvato nel 2008, l’area urbanizzata raggiunge i 60 mila ettari. In sessant’anni la superficie del costruito è aumentata di 4 o 5 volte (sempre che sia corretto il dimensionamento a 14 mila ettari fra 1931 e 1951). E la popolazione? Il censimento del 2011 indica che i romani residenti sono 2 milioni 760 mila, 1 milione e 100 mila più del 1951 (grosso modo 0,7 volte), ma appena 210 mila più del 2001 e praticamente gli stessi del 1991 e del 1971. Da quarant’anni, con lievi oscillazioni, Roma è demograficamente stabilizzata. Inoltre, a conferma di quanto si diceva prima, a proposito di Roma che cresce a Orte, mentre dal 2001 al 2011 la capitale conta un +8,4 per cento di residenti, la provincia di Roma si ingrossa di un +13,3. C’è dunque sproporzione fra il ritmo di crescita dei romani e quello di Roma, considerando anche l’aumento del numero delle famiglie e segnalando che l’incremento di residenti è soprattutto prodotto dagli immigrati. Le case invendute sono uno degli effetti di queste sproporzioni. Sono contemporaneamente il prodotto di un boom edilizio e il referto di una crisi drammatica. Il costruito è tanto, troppo, ed è andato per ogni dove anche dopo l’inizio del millennio. Perché? È frutto di intenzioni speculative o di un disegno, di un’idea della città? E qual è il vantaggio che resta alla città e ai romani, vantaggio in termini di benessere economico e di benessere e basta? Quando Cederna coglie con la metafora della macchia d’olio la forma che prende la crescita di Roma, quella crescita è in atto già da decenni. L’articolo su Il Mondo viene riprodotto in I vandali in casa, pubblicato da Laterza nel 1956. L’espressione “macchia d’olio” diventa proverbiale. Il libro di Cederna può leggerlo chiunque abbia responsabilità amministrative da allora in poi: lo hanno letto? Ne hanno tratto qualche istruzione per mettere mano al governo della città? Roma che si espande come si ­13

espande una macchia d’olio è una città che si fa del male o del bene? Nessun sistema di trasporto supporta in modo minimamente adeguato questo sviluppo e se fosse adeguato sarebbe insopportabile finanziariamente, una condizione già in atto se si osservano i disastrosi bilanci dell’Atac e il debito che affligge il Comune. Nascono quartieri inospitali che hanno scarsi punti di raccordo fra loro e con il centro della città. Roma è una metropoli che esclude. La letteratura su questi fenomeni è abbondante. Riprendiamo Roma moderna, laddove Insolera fa il resoconto delle ville distrutte dopo il 1870. Molte di queste ville, annota, si sarebbero salvate se solo si fossero applicate le prescrizioni contenute nel Piano regolatore del 1883. «Ma i Piani regolatori a Roma sembrano essere sempre esistiti per dividere le opere in due categorie: quelle dentro al Piano e quelle fuori. Realizzabili poi tutte quante, indifferentemente e quasi sempre prima e più facilmente quelle fuori».

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Le porte di Roma

Un tempo, non molto tempo fa, cinque, sei anni al massimo, la porta di Roma erano i palazzi di Fidene e di Castel Giubileo. Alti parallelepipedi in verticale, lunghi parallelepipedi in orizzontale. Svettavano sulla collina che sovrasta il Grande raccordo anulare, proprio nel punto in cui la bretella dell’autostrada proveniente da Milano s’immette nell’anello circolare che scorre intorno alla città. Dalla cresta di quest’altura, in età imperiale e per tutto il Medioevo, si dominavano le vie commerciali che collegavano l’Etruria, la Sabina e l’Italia meridionale. Senza trasmettere nulla di bellicoso, anche i palazzi di Fidene e di Castel Giubileo sembravano però torri di guardia. Accoglievano chi arrivava in macchina come un simbolico cartello di indicazioni stradali, preannunciandogli che quella in cui stavano entrando non era una città come le altre. Anticipavano un concetto di grandezza. Nella loro proletaria monumentalità racchiudevano l’idea che la storia avesse distribuito magniloquenza pur senza alcuna regolarità. E che questo segno architettonico imponente non era prerogativa del passato, ma anche del moderno. Non solo dei ricchi, ma anche dei poveri. Chi entrava a Roma, e chi da Roma usciva, almeno fino alla metà del primo decennio del Duemila, vedeva allungarsi sul raccordo l’ombra delle torri di Fidene e di Castel Giubileo. Anzi di Nuova Fidene, perché il toponimo sem­15

plice, Fidene, designava una borgata abusiva, cresciuta su una collina e poi diffusasi sistemando a casaccio villette unifamiliari e palazzine di due piani, e quindi di tre e di quattro. Nuova Fidene e Castel Giubileo sono nate di fronte a Fidene, quasi a specchio, esito di uno dei Peep, Piani di edilizia economica e popolare, avviati a metà degli anni Sessanta del Novecento sulla base della legge 167, quella che favoriva, appunto, l’edilizia pubblica, le case popolari, le case per chi non poteva permettersi di acquistarne una a prezzi di mercato. Nuova Fidene e Castel Giubileo sono esemplari di una stagione che ora si è chiusa, emblemi di un welfare generosamente denso di idee, prefigurazione di una città migliore, più disegnata, e poi fonte di cocenti disillusioni. Nuova Fidene e Castel Giubileo ospitano oggi novemila persone. Le torri hanno tredici piani, sono di colore grigio, ma altri palazzi hanno l’intonaco ocra che rimanda alla tinta di molti casali dell’agro romano e persino a quello dei palazzi del centro storico. Se si cerca una raffigurazione plastica dell’edilizia popolare, il pensiero può comodamente ricorrere a queste torri. Giganti su una collina, segnavano l’inizio della città. O la fine. Ed entrambi questi limiti erano marcati dalla grande dimensione che racchiudeva altri significati: la loro mole, la loro razionale, geometrica volumetria sfidava la città delle casette abusive che brulicava nell’intorno. I palazzoni del proletariato contro le palazzine unifamiliari del sottoproletariato e della microborghesia. Il movimento operaio contro la plebe. Fra le ragioni che supportavano i quartieri di edilizia pubblica figurava anche quella che essi avrebbero portato servizi e qualità urbana fra le palazzine accatastate dall’abusivismo accanto alle quali si disponevano. Una specie di missione rigeneratrice. Erano gli anni Settanta. Non si pensava solo a risolvere o a mitigare il disagio abitativo (nel novembre del 1969 fu indetto uno sciopero generale nazionale per la casa), si lavorava a una città che avesse più forma, che includesse invece di escludere. Il Peep di Roma è il più grande che ci sia in Italia, ­16

interessa quasi 4.500 ettari, il 10 per cento di tutta la città allora edificata. 700 mila stanze, questa la previsione, di cui 550 mila realizzate in oltre 40 anni, dal 1964 al 2006. Vi abita il 16 per cento dei romani e vi si trova il 40 per cento delle aree per attrezzature pubbliche della città. Ora Nuova Fidene e Castel Giubileo non sono più la porta di Roma. Per chi viene da Milano, sulla sinistra della collina c’è un’altra porta di Roma. Porta di Roma, appunto, si chiama il quartiere nato nel 2007 intorno a un grande centro commerciale. Occupa integralmente il campo visivo, spezzettando l’isolata monumentalità di Nuova Fidene e Castel Giubileo, mescolando colori e altezze, profili architettonici, spazi riempiti e spazi vuoti. Inoltre alcuni cartelloni pubblicitari, con scritte blu, gialle e rosse, contendono la cima agli edifici popolari. Sei anni dopo la posa delle prime pietre, il quartiere Porta di Roma è ancora punteggiato da cantieri. Non tutto quel che si poteva costruire è già costruito e fra un lotto e l’altro spiccano i gabbiotti degli uffici vendita che allettano chi passa con vistosi cartelli raffiguranti il quartiere che sarà. Che solo molto vagamente somiglia a quello che è. Porta di Roma è un quartiere di case per lo più a quattro piani, ma anche sei, raggruppate in diversi lotti, ognuno con una sigla diversa, un brand che li identifica come se fosse stato depositato in un fantomatico ufficio brevetti dai tecnici delle imprese che i quartieri li hanno costruiti. A differenza di Nuova Fidene e di Castel Giubileo, case pubbliche e popolari, Porta di Roma è un quartiere tutto privato, costruito da privati su suoli privati. Gli appartamenti costano dai 4 ai 5 mila euro al metro quadrato. Il taglio che prevale è piccolo, 50, 60 metri quadrati. Destinatari, almeno sulla carta, giovani coppie, single, famiglie con uno, al massimo due bambini. Due milioni di metri cubi la volumetria complessiva. Qui un lungo fascione che abbraccia l’intera facciata e gira intorno all’edificio, cingendolo di balconate bianche, uniformi. Lì un motivo bombato, una specie di conchiglia al centro della ­17

ringhiera, una conchiglia dalla superficie liscia, levigata e morbida. Visti in una sera d’estate, quando il tramonto proietta strisce di rosso sull’intonaco, i palazzi prendono una movenza statuaria, sembrano assecondare l’ondulazione di quelle che un tempo erano colline. È un gioco illusionistico, è quel che resta delle colline a dare un senso plastico a questi palazzi. Nelle intenzioni del Comune di Roma, che fortemente ha sostenuto l’idea di costruire, Porta di Roma è una centralità. Le centralità sono uno degli assi che reggono il Piano regolatore approvato nel 2008, sindaco Walter Veltroni, ultimo atto di un centrosinistra che ha governato Roma dal 1993, un documento duramente osteggiato dal centrodestra, che poi con Gianni Alemanno lo ha ereditato e gestito, incrementando cemento e consumo di suolo. Essendo nel Piano regolatore consegnato il disegno di Roma nel futuro, si può immaginare che le centralità debbano avere lo stesso rilievo che hanno avuto nel passato, tanto per dire, i Lungotevere o via Nazionale. Di centralità il Piano ne prevede 18. Al centro commerciale lavora Gabriella Di Lorenzo. Mentre l’aspetto, sotto il grande logo che ne domina l’ingresso, una cornice rettangolare con tanti schizzi di pennello, tornano alla mente le parole di Giuseppe Campos Venuti, un maestro dell’urbanistica nel secondo Novecen­ to, partigiano comunista, amministratore comunale a Bologna negli anni Sessanta, fra gli artefici della qualità che tutti riconobbero al capoluogo emiliano. Bubi Campos, così lo chiamano amici e allievi, è stato il consulente del Piano regolatore di Roma. Vedendo disattese alcune sue impostazioni, non tanto sulle centralità, ha ritirato la firma da quel documento. «Si è scelta una centralità diffusa», disse Campos in un’intervista a Repubblica del dicembre 2000, «un’edilizia meno gridata, tante aree di pregio in periferia che accoglieranno uffici e serviranno a rigenerare zone degradate». Queste, nelle intenzioni, sono le centralità. Senza dilungarsi sulla letteratura urbanistica a ­18

riguardo, basta solo segnalare che la città policentrica è sperimentata da decenni in Europa e si fonda essenzialmente su un sistema di trasporto pubblico su rotaia che ne è il supporto necessario. 18 centralità. 18 città nella città. Stando ai numeri che compaiono nel Piano regolatore, sono 16 milioni di metri cubi di costruzioni, 11 dei quali già in corso di realizzazione nel momento in cui il Piano viene approvato. Sono disseminate un po’ dovunque: il 20 per cento a nord (Porta di Roma in primis), il 45 a est (Ponte di Nona, per esempio, oppure Anagnina-Romanina o, ancora, Tor Vergata e Torre Spaccata) il 35 a sud (Eur-Castellaccio, FiumicinoMagliana...). Manca la direttrice ovest, per il resto, i punti cardinali sono tutti occupati. Sulla carta le centralità vengono destinate per quasi la metà (48 per cento) a servizi e direzionale, che, tradotto, vuol dire uffici pubblici come i ministeri e sedi di importanti enti. Appena il 14 per cento è la quota per le abitazioni (il calcolo arriva a ipotizzare 12 mila abitanti). Il 13 per cento viene occupato da università e campus per studenti. Solo una parte minima, l’11 per cento, è commerciale – ipermercati, centri commerciali, grande distribuzione. Quanto questi numeri corrispondano poi alla realtà, lo si potrà dire solo quando tutte le 18 centralità prenderanno forma definitiva. Se mai la prenderanno. Ma, non appena quei dati vennero resi noti, nel 2007, non mancarono le osservazioni critiche. Perché così tante centralità? Non rischiamo di spruzzare da tutte le parti insediamenti che di una vera centralità rappresentano solo un simulacro? E poi: non c’è il pericolo di aggravare la dispersione in una città già dispersa e anzi frantumata? Un problema risaltava con evidenza e suonava sinistro se fatto rimbalzare nella storia recente di Roma: solo alcune centralità erano già servite da trasporto pubblico su rotaia, Pietralata e Ostiense. Alcune delle più imponenti, come Porta di Roma e Ponte di Nona, non lo erano affatto. Veniva poi sollevata un’altra questione: secondo i detrattori, le centralità coincidevano ­19

alla perfezione, o quasi, con alcune grandi proprietà fondiarie, i cui valori in questo modo schizzavano alle stelle: Bufalotta-Porta di Roma era dei fratelli Toti e di Parnasi; Anagnina-Romanina di Sergio Scarpellini; Ponte di Nona di Francesco Gaetano Caltagirone; Acilia-Madonnetta della Pirelli Real Estate; la Fiera di Roma ancora dei Toti... Una storia già vista a Roma e diffusamente raccontata da Berlinguer e Della Seta, che in Borgate di Roma (prima edizione 1960, seconda edizione 1976) notavano come «la coincidenza tra le previsioni del Piano [del 1962] e i confini di questa o quella tenuta è precisa e puntuale lungo tutto l’arco dei 360 gradi del territorio comunale». La replica del Campidoglio è sempre stata netta: alcune centralità sono di proprietà pubblica, Tor Vergata, per esempio, oppure Ponte Mammolo, e poi noi fissiamo regole, il mercato delle aree non ci riguarda, va per conto suo. Il centro commerciale è il nucleo della centralità Porta di Roma (come di altre centralità: a Ponte di Nona, per esempio). Non è scritto in nessun documento urbanistico e nessuno degli autori del Piano regolatore sarebbe disposto ad ammetterlo. Ma nei fatti è così. Gabriella Di Lorenzo ci lavora da cinque anni e il centro commerciale lo conosce. Nel 2009 ha preso una laurea specialistica in antropologia discutendo una tesi su Porta di Roma. L’edificio principale ha forma di trapezio. Da lontano è grigio, ma non opaco. Ha un aspetto evanescente. È stato progettato dallo studio di Gino Valle, uno dei grandi nomi dell’architettura italiana, scomparso nel 2003. All’interno è luminoso, ma non ha finestre né altre aperture sull’esterno. «Qui sono ospitati circa duecento negozi», racconta Gabriella, «la crisi li ha ridotti. Vengono ricontrattati gli affitti, molti non ce la fanno a sostenerli e vanno via. Restano, appunto, i grandi. Questo risponde a una logica del centro commerciale in tutto il mondo: mutare volto, offrendo di sé un’immagine continuamente rinnovata. Si vuol dare l’impressione di essere un pezzo di città soggetto a cambiamenti». Il centro commerciale è il cuore del quartiere, ma è un ­20

oggetto chiuso, senza contatti. Se ne sta per conto suo. È avvolto in una rete di strade che lo cingono al pari di un antico fortilizio e lo tengono issato, visibile anche da lontano come la cattedrale romanica in vetta a un borgo medievale. Dal quartiere ci si arriva a piedi faticosamente, anzi è proprio sconsigliato arrivarci a piedi se si ha una certa età e si cammina lentamente, perché le strade sono solo per le macchine, che corrono veloci dilettandosi fra curve e incroci senza semafori, sottopassi e percorsi in trincea. La luce interna è abbagliante, si moltiplica e si riflette nei pavimenti lucidi, nelle maniglie e nelle ringhiere. Fra il centro commerciale e i grandi magazzini dell’Ikea e di Leroy Merlin si aprono due piazze, collegate da scale mobili. Sono piazze senza ombra, con poche panchine. Sono pulite e animate. Dicono che non c’è mai entrato un mendicante o un ambulante o un suonatore. Se qualcuno scatta fotografie arrivano i vigilantes. Sono piazze aperte al pubblico, ma sono private. Fino a qualche anno fa non si potevano svolgere iniziative di alcun genere senza l’autorizzazione della direzione. Adesso che la crisi picchia duro, nel centro commerciale si passeggia soprattutto. Si compra meno di qualche anno fa e, per un paradossale capovolgimento di ruoli, l’aspetto urbano del centro commerciale ha preso vigore rispetto a quello mercantile. Si viene per passeggiare, per trascorrere il tempo molto più di prima, racconta Gabriella. E pur non essendo una città né un suo pezzo, pur simulandone goffamente le fattezze, è diventato più città di quanto non lo fosse all’inizio della sua storia. Involontariamente. È sempre un veicolo spaziale approdato sulla collina, con i portelloni che si aprono a comando. Ma piccole cose negli anni sono mutate. La piazza di Porta di Roma è il centro commerciale. La città pubblica si ritira. Eppure lo scopo della centralità era un altro. Le centralità, diceva Campos Venuti, serviranno a rigenerare zone degradate. Ci riescono? Ci riusciranno? Ci riesce Porta di Roma a trasmettere qualità nella zona Nord, dove s’innal­21

zano le torri di Nuova Fidene e Castel Giubileo e poi di Vigne Nuove, Val Melaina, Serpentara, tutti quartieri di edilizia pubblica, edilizia popolare? Alcuni anni fa, con otto suoi compagni di università, Gabriella ha condotto una ricerca proprio in quei quartieri che un tempo erano la porta di Roma, un Municipio, il IV, che conta oltre duecentomila abitanti, quanto una delle prime quindici città italiane. Era una ricerca a metà fra antropologia e urbanistica. Che cosa mancasse non era difficile da immaginare. Mancavano trasporti efficienti. Le strade erano carenti, incapaci di sopportare il carico dei residenti, e poi la manutenzione era scarsissima, l’asfalto giaceva in condizioni pietose, i marciapiedi erano sconnessi. Non c’erano biblioteche, centri anziani, scuole, parchi ben tenuti. Inoltre molti spazi erano sprecati, vaste distese di cemento si aprivano in attesa di asili che non erano mai arrivati o di parcheggi mai definiti. E poi le parti comuni degli edifici apparivano degradate, macchiate d’umido, nonostante l’anno di costruzione non fosse così lontano. Dalle interviste dei ragazzi veniva fuori che la città storica era lontana, inaccessibile, ostile. Ci si andava occasionalmente, ma nessun ponte la metteva in agevole comunicazione con il proprio quartiere. Roma era altrove e la città tutta viveva in uno stato di separatezza, noi qui, loro lì. Trasferire qualità nelle periferie che qualità non ne avevano per niente era stato uno dei temi della migliore urbanistica romana. E chi ha redatto il Piano regolatore non poteva sottrarsi a riflettere, mutatis mutandis, sulla questione. Negli anni Cinquanta l’idea si coniugava con un’altra: quella di togliere dal centro storico una serie di funzioni poco compatibili con la struttura antica di strade ed edifici. Le due questioni si incrociavano nelle riflessioni di Luigi Piccinato e di Ludovico Quaroni, autori insieme ad altri del primo progetto di Piano regolatore del dopoguerra. E fu promotore di questa impostazione Antonio Cederna. Sgomberiamo il centro storico di ministeri e di uffici pubblici, dicevano, di banche e di assicurazioni, per­22

ché senza questi potenti attrattori di uomini e di auto il cuore rinascimentale e barocco della città pulsa con minore affanno. Lasciamoci solo le sedi delle più alte istituzioni, la Presidenza della Repubblica, le Camere, la Corte costituzionale. E portiamo ministeri, uffici pubblici, banche e assicurazioni nelle periferie, che smetteranno di essere tristi luoghi dormitorio. Il progetto Sdo, Sistema direzionale orientale, rispondeva a questo doppio bisogno. Nella zona Est di Roma sarebbe sorto un centro alternativo a quello antico. Discussioni infinite, pregi e difetti scandagliati con cura. Non se ne fece nulla. Ma l’idea ha continuato a vagare in città, si è messa in cerca di paternità culturali e politiche e ha anche cambiato i propri connotati. Lasciamola per un attimo lì dov’è, nel dibattito di quegli anni, fra le pagine di I vandali in casa e di Mirabilia Urbis di Cederna. E torniamo al IV Municipio e alle storie raccontate da Gabriella. A quei problemi, a quelle carenze, le amministrazioni comunali di centrosinistra, prima di Rutelli poi di Veltroni, hanno pensato di rispondere con le centralità e con un altro strumento urbanistico, i Pru, cioè Programmi di recupero urbano. Anche i Pru sono stati fra i cardini dell’urbanistica romana degli ultimi anni, poi entrati nel Piano regolatore generale. Furono varati nel 2006, ne fu artefice Daniel Modigliani, architetto, che dirigeva l’ufficio del Piano regolatore. Consistevano in questo: il Comune individuava i quartieri di edilizia popolare che, nonostante fossero terminati appena pochi anni prima, già mostravano le prime crepe, erano privi di servizi. Il Comune non definiva in dettaglio di che cosa un quartiere avesse bisogno, lo lasciava un po’ nel vago, e però si rivolgeva ai privati con un bando: vi diamo permessi edilizi in aree non previste come edificabili e voi, oltre ai cosiddetti oneri concessori stabiliti dalla legge (la legge n. 10 del 1977, la legge Bucalossi), ci versate altri soldi con i quali costruiamo strade, biblioteche, scuole, centri anziani, ecc. ecc. I quartieri romani interessati ai Pru erano tanti, da Prima Porta a Tor Bella ­23

Monaca, da San Basilio a Primavalle e Corviale. Fra questi anche Val Melaina, Fidene, Serpentara e Vigne Nuove. In totale 6 mila ettari di città in cui vivevano 450 mila persone, un quinto di tutti i romani. Gli investimenti erano cospicui: 1.800 milioni, di cui 1.620 privati e 183 provenienti dai bilanci del Comune. Un esempio di buona partnership fra pubblico e privato? Oppure una contrattazione al ribasso in cui erano i privati a dettare regole e a ricavarci profitti e rendita, lasciando ben poco alla città? Questioni cruciali nell’urbanistica degli ultimi anni, non solo romana, che si riproporranno e che si propongono ancora oggi con il loro portato di intrecci fra politica e interessi immobiliari, fra politica e affari. Io, Comune, ti garantisco suoli, edificabilità e cubature, tu, privato, costruisci, mi paghi e fai servizi. Le discussioni si accesero immediatamente. Perché mai per portare servizi in un quartiere che non li ha bisogna sovraccaricarlo di altro cemento? Non abbiamo soldi, rispondevano al Comune, e i servizi li possiamo fare solo se li pagano i privati. Ma così si consuma altro suolo, arriveranno altri abitanti e ci sarà bisogno di altri servizi, è un circolo vizioso, una spirale che non si chiuderà mai. Non è vero, replicavano in Campidoglio, vigiliamo noi, state tranquilli. E poi non finirà che sono i privati a decidere che cosa fare, con la conseguenza che prima si fanno le case e poi, con la mano sinistra, i servizi per il quartiere, seppure si faranno mai? State tranquilli, insistevano al Comune, vigiliamo noi. Le centralità rispondevano, nelle intenzioni dei promotori, alle stesse esigenze. Vicino ai quartieri dormitorio, alle periferie desolate mettiamo insediamenti ricchi di funzioni pregiate (uffici, direzioni di banche, di aziende pubbliche e private, sedi universitarie, ministeri...). Questi produrranno effetti benefici e garantiranno servizi anche laddove la fatica del vivere e a volte la disperazione sembrano le uniche dimensioni dell’esistenza. Non una centralità, lo Sdo, ma tante centralità diffuse, auspicava Campos Venuti. Passeggiando con Gabriella nel viale Carmelo Bene, che qui chiamano il boulevard, uno stradone che dal cen­24

tro commerciale scorre verso Serpentara e Castel Giubileo (qui tutte le strade sono dedicate a personaggi dello spettacolo di ieri e di oggi. Qualche esempio: Cesco Baseggio, Alberto Lionello, Lina Cavalieri, Carlo Dapporto, Wanda Osiris. Compare anche Mario Soldati, evidentemente più come regista e documentarista che come scrittore), passeggiando con Gabriella, dicevo, riflettevamo sulla ciclicità dell’urbanistica romana. I quartieri di edilizia pubblica avrebbero dovuto portare servizi ai quartieri abusivi, le centralità e i Pru avrebbero dovuto portare servizi ai quartieri di edilizia pubblica. Ogni insediamento nasce come riparatore dei guasti commessi dal precedente, come se la storia della città fosse un rosario di colpe e di redenzioni, di affanni e di risarcimenti. Che cosa è successo in questo lembo di Roma Nord quando si è cominciato a parlare di centralità e di Pru? Comitati di cittadini sono sorti in molte parti della città, e anche a Serpentara, uno dei quartieri meglio riusciti fra quelli del secondo Peep romano. In mezzo ai grandi edifici che si affacciano, dall’alto di un colle, sulla stazione Salaria c’è uno spazio verde che gli abitanti di Serpentara hanno curato, piantandovi alberi di betulle e sistemando giochi per bambini. Proprio di fronte al Parco delle betulle, il Comune stava per concedere una licenza a un costruttore che vi avrebbe edificato un quartierino di villette, i cui oneri di urbanizzazione sarebbero serviti a finanziare un centro anziani di cui a Serpentara non c’era tanto bisogno mentre era più importante che il Parco delle betulle non fosse soffocato dal cemento. Il comitato sorto a Parco delle betulle alla fine l’ha spuntata, il quartierino non si è fatto più. Loro continuano a vigilare, ogni tanto vedono arrivare delle ruspe, ed ecco che partono gli esposti, le interrogazioni al Municipio, scattano foto e girano video che poi mettono sul sito del comitato. La storia del Parco delle betulle la raccontano ancora, è esemplare dei Pru, della loro logica e in generale di quella che chiamano urbanistica negoziale. Di questi paradossi Gabriella e i suoi compagni ne ­25

hanno incontrati tanti. Ma il più grande di tutti era proprio l’impostazione generale: ai tanti bisogni del quartiere, da Val Melaina a Fidene, da Vigne Nuove a Serpentara, dove dominava la sensazione che quello fosse un grande quartiere dormitorio, un quartiere fatto solo di case, di immensi spazi vuoti e di poco altro, malamente collegato con il centro, si rispondeva con altro cemento e altre case. È accaduto questo a Porta di Roma? Alla Bufalotta, l’antico toponimo dove ora sorge Porta di Roma, era previsto dal Piano regolatore del 1962, un autoporto: un grande spazio in cui i camion giunti da nord avrebbero scaricato le merci che poi sarebbero state distribuite con mezzi più leggeri in città. Ma a un certo punto, a metà degli anni Novanta, i nuovi proprietari dell’area, i fratelli Toti della società Lamaro e Parnasi della società Parsitalia, si sono resi conto che con l’autoporto ci avrebbero sì guadagnato, ma mai quanto costruendo un quartiere con tante case, un albergo, un centro commerciale e un po’ di uffici. E di questo hanno convinto il Comune, che, quand’era ancora sindaco Francesco Rutelli, con una variante urbanistica (delibera comunale n. 167 del 9 settembre 1998) ha cambiato la destinazione d’uso dell’area, stabilendo inoltre che il nuovo quartiere – la centralità, appunto – avrebbe avuto la procedura agevolata delle misure previste dalla legge per Roma capitale. Insieme ai Toti, che sono proprietari anche del centro commerciale, e a Parnasi, sono arrivati diversi costruttori romani, Caltagirone, Santarelli, Mezzaroma e altri ancora. Stando agli accordi, su una superficie di 330 ettari, 65 dei quali utilizzabili per costruzioni, sarebbero dovuti sorgere edifici residenziali per quasi il 40 per cento, servizi turistico-ricettivi per il 20, centri direzionali privati e pubblici per il 25. Inoltre i privati si impegnavano a cedere al Comune 150 ettari di verde pubblico, il Parco delle Sabine. Il piano urbanistico è stato affidato a Gino Valle. Si è cominciato a costruire verso il 2005. Sono giunte l’Ikea, poi Leroy Merlin, poi le prime case. Nel luglio del 2007 il centro commerciale. ­26

La storia di Porta di Roma la raccontano le carte, le delibere, gli accordi di programma. Ma la racconta anche Cristina Grancio, che di mestiere fa l’architetto, abitava in via Monte Cervialto, uno stradone che attraversa Val Melaina, e ha comprato casa proprio a Porta di Roma, dove vive e dove è stata presidente di un comitato di residenti. Val Melaina è un’antologia dell’edilizia popolare romana. Venendo dal centro si incontra un primo insediamento che risale agli anni Trenta, una delle borgate costruite dal fascismo contemporaneamente agli sventramenti del centro storico. Poi ce n’è un secondo degli anni Cinquanta, quindi si arriva al quartiere di Vigne Nuove, cinquecentoventi alloggi per più di tremila persone costruito negli anni Settanta, e infine alle torri – altri trecentosessanta alloggi – completate nel 1990. I genitori di Cristina avevavo preso in affitto nel ’68 un appartamento dell’Inpdap. Lei è nata tre anni dopo. Alla Bufalotta venivano a fare i pic-nic. Da alcuni contadini compravano le uova e i conigli. «Nel quartiere non c’era niente, solo case, quando sono arrivati i miei genitori non c’era neanche un autobus», racconta Cristina. La desolazione del quartiere era raffigurata in quegli spazi immensi, arrostiti dal sole durante l’estate e battuti dal vento e dalla pioggia d’inverno. La centralità, così come la raccontavano nei volantini che cominciarono a circolare intorno al 2000, sembrava la soluzione a tutti i problemi. Va bene nuove case, ma poi c’erano centri direzionali, uffici, trasporti, la metropolitana. Parchi pubblici. Un lago. Il bird-watching. Mobilità. Lavoro. Cristina avrebbe rinunciato ai conigli e al pic-nic sulla Bufalotta. Ma per lei e i suoi coetanei non c’era solo la fuga dal quartiere in cui non si erano mai veramente riconosciuti. Nel 2006 Cristina compie il grande passo. Compra una casa di cinquanta metri quadrati, 275 mila euro. Mutuo trentennale. Un po’ cara. «I prezzi sono sempre stati alti (oltre 4.500 euro a metro quadrato), ma quello che li giustificava, secondo le agenzie immobiliari di vendita, era il privilegio di poter vivere in un quartiere che sarebbe ­27

diventato attrezzato e completo di qualsiasi servizio. Davano per scontata la realizzazione della centralità, come se i soldi per poter realizzare tutto già ci fossero e fosse solo questione di tempo. Quando invece l’assessore Morassut venne in municipio per convincerci della bontà dei contenuti della delibera, la quale con un accordo di progamma intendeva nella sostanza vanificare l’idea di centralità, ci siamo resi conto che il Piano regolatore veniva usato come specchietto per le allodole, per far credere a chi intendeva comprare che in futuro ci saremmo trovati in un quartiere tipo l’Eur». Tutti compravano sulla carta e a chi comprava veniva fornita una mappa del nuovo quartiere: qui le case, qui il centro commerciale, qui gli uffici, qui il parco, qui la fermata della metro, ecc. ecc. Insieme al rogito notarile, racconta Cristina, veniva allegata la convenzione fra i costruttori e il Comune. Ma in fondo al contratto c’era anche una clausola, piccola, piccola. C’era scritto che la convenzione poteva essere modificata e che non c’era possibilità di risarcimento a causa di questa modifica. Intanto il cantiere procedeva. Ma a Cristina cominciavano a sorgere dei dubbi. Dov’erano i servizi, dove gli uffici, dove il centro direzionale? Qualche spazio verde si iniziava a scorgere, ma il paesaggio era fatto di case e solo di case. I servizi, le funzioni direzionali, erano il centro commerciale. Non tutto quello che si sarebbe dovuto costruire era già stato costruito, ma riemergevano i fantasmi di un nuovo quartiere dormitorio che si aggiungeva agli altri quartieri dormitorio. Con in più il centro commerciale, che nel frattempo costringeva molti negozi di Vigne Nuove e di Val Melaina a chiudere. Che cosa è successo a questo punto? Che i fantasmi si sono moltiplicati. Il 10 ottobre del 2007 la giunta del Comune di Roma voleva approvare una delibera che avrebbe cambiato la destinazione d’uso di ciò che si sarebbe ancora dovuto costruire nella centralità. Una parte dei 2 milioni di metri cubi di Porta di Roma, una parte consistente, più di un milione di metri cubi, mutavano destino: da uffici passavano a case. ­28

Ancora case. Solo case. Perché? Secondo qualcuno, i costruttori si erano accorti che gli uffici non li avrebbero mai venduti: troppo scomodo arrivarci e, inoltre, se il mercato non tira da quella parte mica lo possiamo costringere. E dato che è il mercato a decidere che cosa fare, dove farla e per chi, anche se in gioco sono il disegno e il destino della città, non si fanno uffici, ma solo case. Il Comune, dal canto suo, poteva vantare di aver incassato dai costruttori 85 milioni di euro per far giungere la metropolitana fino a Porta di Roma. Adesso Porta di Roma è una selva di palazzine e nient’altro. Residenza e nient’altro. Un quartiere dove si dorme e che di giorno è animato da chi va al centro commerciale e da chi si avventura a fare jogging lungo via Carmelo Bene. Ci sono un paio di bar, qualche pizzeria al taglio e nessun altro negozio, tanto c’è il centro commerciale. Di sera, dice Gabriella, si accendono le luci negli appartamenti, un paio, tre, quattro per palazzina. Gli altri restano bui. Bisognerebbe piantarsi qui e fare il conto di quanti alloggi sono occupati e quanti invece sono ancora invenduti. I prezzi sono leggermente calati, ma non si scende sotto i 4 mila euro al metro quadrato. Bella fregatura per chi paga mutui pluridecennali e si trova svalutata la casa che gli costa lacrime e sangue. Nessuno possiede cifre ufficiali, tranne gli uffici vendita degli immobiliaristi, che però non le danno. E allora si deve ricorrere all’empirìa. Una passeggiata di sera, verso le nove e mezza, quando chi doveva tornare dal lavoro è tornato ed è ancora presto per chiudere le serrande e andare a letto, ed ecco che le impressioni di Gabriella si confermano. Dietro il centro commerciale, incorporato nella mole geometrica disegnata da Gino Valle, svetta un palazzone di 13 piani. Si chiama Torre Roma. Doveva essere un hotel, parte di quel 20 per cento che nell’accordo iniziale pareva destinato a funzioni turistico-ricettive: ma perché mai qualcuno avrebbe cercato ospitalità alberghiera a Porta di Roma? E così, con un cambio di destinazione d’uso, anche ­29

l’albergo è diventato appartamenti. Nel video che promuove Torre Roma si dice che in pochi minuti si raggiungono gli aeroporti di Fiumicino e Ciampino, e anche il centro di Roma. Che il panorama su Roma è mozzafiato. Che intorno si estende una corona di verde, anzi «un contesto verdeggiante». Che non è un palazzo, ma un campionario di tecnologie, che ogni dettaglio è bio e sostenibile e che proprio lì sotto fermerà il capolinea della metropolitana. Già, la metropolitana. Ne parlavano Veltroni e il suo assessore Morassut, i quali sventolavano gli 85 milioni ottenuti dai costruttori quale contropartita del cambio di destinazione d’uso di una parte di Porta di Roma da terziario a residenziale. 85 milioni che però rappresentavano una piccola parte dei 600 necessari per il tratto della linea B1 della metropolitana che dalla stazione di Conca d’Oro, aperta a giugno del 2012, sarebbe dovuta arrivare a Porta di Roma. Nel frattempo i milioni complessivi sono schizzati quasi a 700. Come trovarli? Il Comune non ha un soldo e il sindaco Gianni Alemanno, subentrato a Veltroni, ha pensato che potrebbero essere i privati a metterceli. Quali privati? Ovviamente i costruttori. E in cambio di che cosa? Ovviamente di altre cubature. Quante? Non è chiaro, ma i comitati provano a fare qualche calcolo: se 85 milioni si incassano in cambio di circa 1 milione e mezzo di metri cubi, per arrivare a 700 di milioni ne servono 615 e quante cubature saranno necessarie per racimolare questi altri 615 milioni? Basteranno altri 15 milioni di metri cubi? Forse sì, forse no. «Scusate», dice Mimmo D’Orazio rivolgendosi a me, ma parlando idealmente al sindaco Alemanno e ai suoi assessori, «ma non è più economico, più veloce e più certo coprire i 3 chilometri e mezzo, tanto sarebbe lunga la tratta, con un autobus che viaggia in corsia protetta?». Mimmo D’Orazio è il presidente del comitato di Serpentara. Lavora all’Inps, non ha alle spalle nessuno studio di urbanistica o di economia o di diritto amministrativo, ma gli argomenti che fa scivolare in un morbido romane­30

sco sono raccolti in buon ordine e sembra che reggano. Ci incontriamo in un bar, sul tavolino squaderna mappe e rapporti. «Abbiamo messo sul nostro sito un documento di osservazioni lungo 25 cartelle. La metropolitana è un pasticcio amministrativo, ha costi abnormi, più di 200 milioni a chilometro, e partorirà un topolino. Che ce ne facciamo di un treno che al massimo della frequenza passa ogni 8 minuti? Abbiamo raccolto oltre duemila firme di cittadini. Una metropolitana in cambio di altri 15 milioni di metri cubi non la vogliamo. Serve solo a chi vuole occupare le poche aree libere ancora rimaste nel nostro quartiere. Sono i costruttori e i proprietari di quelle aree che vogliono la metropolitana. Se volete i servizi dovete accettare le cubature: questo ce lo diceva già l’assessore di Veltroni, Morassut, e ce lo ripetono gli assessori di Alemanno. Ma non lo vedono che questo territorio non ce la fa più? Le strade sono strette, ogni mattina per uscire da qui si perdono ore e ore in macchina». A luglio del 2012 Alemanno sembra intenzionato a fare retromarcia. Almeno su questo i comitati l’hanno spuntata. «La metropolitana di Bufalotta è ancora ferma», ha spiegato il sindaco, «stiamo valutando varie proposte. Ma il project financing che è stato presentato non è convincente. Troppo impatto urbanistico. C’era un eccesso di cubature difficile da sistemare». Questo lembo dell’estrema periferia Nord di Roma alle elezioni del 2008 è passato in blocco al centrodestra dopo decenni di amministrazioni di centrosinistra. Secondo molti osservatori, il ciclone di cemento che qui si è abbattuto, la nascita di quartieri dormitorio, l’accondiscendenza mostrata dall’amministrazione comunale verso i costruttori hanno portato alla disaffezione nei confronti del centrosinistra, contribuendo in maniera decisiva alla sconfitta dello schieramento progressista in tutta la città. Ma altri nuvoloni neri si addensano all’orizzonte. Andando verso la via Nomentana, ancora dentro il Grande raccordo anulare, si stende la tenuta di Casal Boccone, lambita da due corsi d’acqua, il Fosso della Cecchina e il Fosso ­31

di Casal de’ Pazzi. Qui, su un’area di oltre 13 ettari sono previsti 253 mila metri cubi di nuove costruzioni. La proprietà è di Salvatore Ligresti. Anzi, era di Ligresti. Casal Boccone con il progetto di edificazioni è passato al Monte dei Paschi di Siena, l’istituto bancario investito da uno scandalo nel gennaio 2013, e al suo braccio immobiliare, la Sansedoni, a causa dei guai finanziari occorsi all’ottantenne immobiliarista di Paternò, uno dei giganti barcollanti dell’immobiliare in Italia, 2 anni e 4 mesi di reclusione patteggiati durante Tangentopoli, sotto inchiesta a Firenze per corruzione (l’insediamento alla Piana di Castello). Ligresti aveva un debito con l’istituto di credito toscano di 85 milioni e il terreno è stato valutato 110 milioni. «La storia è sempre la stessa», racconta D’Orazio mentre davanti ci si para il grande lenzuolo di terra che potrebbe finire sepolto dal cemento. «L’intervento è frutto di un accordo di programma. Una prima proposta prevedeva che il 37 per cento fossero uffici, il 23 case-albergo e il 40 attività amministrative o commerciali. Ma con tutto il commerciale che c’è a Porta di Roma, come si fa a pensare che qualcuno compri qui, a poche centinaia di metri, per farci altri ipermercati? E allora ecco che la proprietà chiede di cambiare la destinazione d’uso e il Comune che prontamente gliela concede». E dunque? E dunque qui arrivano 253 mila metri cubi, 4 torri di 16 piani alte 61 metri e altri edifici: 60 per cento residenza a libero mercato, 25 per cento a residenza convenzionata, un 10 per cento a riscatto e appena il 5 per cento commercio e servizi. Sono previsti una scuola materna e un asilo nido e anche molto verde – prati e alberature – che nel rendering preparato dall’ufficio di progettazione è festosamente frequentato da bambini e che, rinchiuso fra i palazzi, è solo una corte interna, ad uso di chi quei palazzi li abita. Il grimaldello per poter aprire tutte le porte del Comune, il cuore degli amministratori di centrodestra e per poter costruire si chiama housing sociale. Una formula magica. Edilizia a prezzi calmierati, che è cosa diversa dall’edilizia ­32

popolare, quella di Nuova Fidene e di Castel Giubileo, dove la casa viene assegnata sulla base di graduatorie fissate dalla legge, graduatorie che calcolano il reddito, il numero dei figli e altre condizioni di svantaggio. L’housing sociale, che incontreremo altrove in questo viaggio romano, non è regolato da nessuna legge, è solo una casa ad affitto più contenuto assicurato da una convenzione fra il Comune e chi costruisce. Una convenzione, uno dei tanti scambi non alla pari, tipici dell’urbanistica contrattata, che consente all’immobiliarista di tirar su molti palazzi da mettere sul mercato a prezzo libero, di pagare minori oneri di urbanizzazione e di dare, come contropartita, alcuni appartamenti a prezzi concordati. La convenienza per chi costruisce è tutta nei numeri di Casal Boccone: dei 2.000 residenti previsti, appena 184 sono in housing sociale. Contro la lottizzazione di Casal Boccone si sono espressi all’unanimità i consiglieri del IV Municipio, destra e sinistra insieme. Ma il Comune va avanti. Avviando quelli che si chiamano “processi partecipativi”, che sarebbero obbligatori per legge, ma che si risolvono in un’assemblea nella sede del Municipio dove un dirigente del Campidoglio scaraventa su uno schermo qualche slide e qualche tabella, ascolta gli interventi dei cittadini e dei comitati, annota obiezioni, proteste, proposte alternative e se ne va. Qui un accordo di programma, lì un Pru, un Programma di recupero urbano. Sotto piazza Minucciano, a pochi passi da Serpentara, il pendio che scende verso la stazione Salaria è di un altro nome sonante del mattone a Roma, Domenico Bonifaci, anche lui uscito da Tangentopoli e dal processo Enimont con il patteggiamento di 11 mesi di reclusione. Bonifaci dal 1996 è proprietario del Tempo, acquistato per 70 miliardi di lire da Caltagirone che, padrone del Messaggero, non poteva detenere il monopolio della stampa romana. Per mandare a memoria la sua griffe occorre osservare le balaustre dei balconi negli edifici che costruisce, fatte con mattoncini incrociati che sembrano una citazione postmoderna dell’opus reticulatum. ­33

Un primo accordo, raccolto nel Piano regolatore, prevedeva che Bonifaci potesse costruire 55 mila metri cubi destinandoli a uffici e attività commerciali più un parcheggio multipiano. Ma se si concede un cambio di destinazione d’uso a Casal Boccone, perché lì vicino sorge Porta di Roma con i suoi 200 negozi, come si fa a negarlo a piazza Minucciano? E così i 55 mila metri cubi schizzano a 70 mila, diventano tutti residenziali e qui arriveranno altri 700 abitanti. E in cambio? In cambio Bonifaci si impegna ad allestire due campi di tennis e uno di calcio, sistemerà il Parco della Torricella, una bellissima area verde che custodisce reperti antichi e ha soltanto bisogno che l’erba venga tagliata e che si faccia un po’ di manutenzione, e infine piazzerà qualche gioco per bambini nei giardinetti di piazza Minucciano. Sembra finita, ma è un’illusione che svanisce dietro le colline della Bufalotta. Dalla sua cartella Mimmo D’Orazio tira fuori altri fogli. 15 palazzine su 5 ettari destinati all’Aeronautica militare. Una base? No, 270 alloggi, un quartierino con 8 mila metri quadrati di verde in un’area che il Piano regolatore destina a «servizi pubblici di livello urbano», fra i quali sono compresi anche «insediamenti, immobili, impianti e attrezzature di carattere militare» che solo un arzigogolo formale consente di potervi includere gli appartamenti per gli ufficiali e le loro famiglie. Gli hanno dato anche un nome: Parco della pace e della solidarietà fra i popoli. Sarà aperto ai visitatori, si legge nella brochure confezionata dal Comune di Roma, e offrirà «luoghi simbolo dei valori dell’Aeronautica militare». Centralità, Pru, accordi di programma. Case, solo case. Che in buona parte restano invendute. Che cosa s’impara girando per il boulevard di Porta di Roma, parlando con Mimmo D’Orazio, Gabriella Di Lorenzo e Cristina Grancio? S’impara che la logica con la quale si regolano le trasformazioni della città è la contrattazione. Meglio, lo scambio. Ma se la politica è debole, il negoziato non si svolge alla pari. Il privato ottiene quel che vuole e alla ­34

città restano le briciole. È il privato che impone le regole e che, volendo, le regole può anche modificare mentre la partita è in corso. E così, progressivamente, si cancellano le norme urbanistiche, quelle che la disciplina insegna a proposito di come una città deve trasformarsi e crescere oppure, se necessario, trasformarsi senza crescere. La città pubblica tramonta, quella privata prende il sopravvento.

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La città bancomat

Giovanni Caudo insegna Urbanistica all’Università Roma Tre. Lo incontro nella vecchia sede della Facoltà di Architettura, un edificio di via Madonna ai Monti. Da molti anni con i suoi studenti svolge indagini nelle periferie romane, nei luoghi ai bordi della città, terre di interstizi che non sono più campagna e non sono mai diventate città. I ragazzi di Caudo compiono rilievi, disegnano, parlano con gli abitanti, recuperano mappe, scattano fotografie. Chi si laurea con lui compie un faticoso tirocinio fra insediamenti abusivi, quartieri di edilizia popolare, periferie storiche. Roma Nord, Roma Est, Bufalotta, Cinquina e quindi Casilina, Anagnina, Romanina, Lunghezza... Poi torna in via Madonna ai Monti e compulsa il Piano regolatore, i piani particolareggiati, calcola indici di edificabilità. Ragiona sul diritto alla città, sui modi dell’abitare e su come da questi si misura il grado di accoglienza di un organismo urbano, se è giusto o no, se è alla portata dei più deboli o no. Nelle bibliografie d’esame compaiono Zygmunt Bauman e Hannah Arendt. È così che si lavora al Dipartimento di studi urbani, infilando sonde nelle zone critiche della città, confrontandosi con il disagio abitativo che scivola nella disperazione e conteggiando i metri quadrati delle superfici che nei quartieri di edilizia popolare restano inutilizzate, desolatamente vuote, nonostante siano espropriate e dunque di proprietà pubblica. Vi si potrebbero costruire ­36

altri alloggi oppure scuole e tutte le altre attrezzature che mancano al quartiere e che possono offrirsi come luoghi in cui si allevia la solitudine e dove i problemi di ognuno diventano quelli di tutti. I ragazzi disegnano, costruiscono tavole e plastici. Imparano un mestiere che forse sfrutteranno in Olanda, in Francia, in Inghilterra. In Venezuela o in Colombia. O anche a Roma, se ce ne sarà la possibilità. Caudo ha vasta esperienza internazionale, sempre sul tema delle periferie. «Quand’era ancora ministro, il futuro premier inglese Gordon Brown aveva elaborato un rapporto, insieme alla London School of Economics, nel quale si dimostrava che le periferie del suo paese potevano rappresentare un fattore di grande crescita economica, valutabile in una misura cinque volte superiore a quello del centro città», racconta Caudo. Che ha in mente un altro esempio, quello del quartiere di Ballymun, a nord di Dublino, quasi 17 mila abitanti in 300 ettari. Ballymun, che rimanda alla Barrytown dei romanzi di Roddy Doyle (e al più rappresentativo di essi, I commitments), è stato per decenni il simbolo della periferia abbandonata, popolata da tossici e delinquenti. Nel 1995 è stato avviato un piano di rigenerazione non solo edilizia, ma anche sociale, terminato a fine 2012. Il governo e l’amministrazione comunale hanno investito inizialmente 260 milioni di sterline per demolire e ricostruire edifici, per alloggi sociali e aree verdi, per migliorare i collegamenti con la città, sviluppare attività produttive. Tutto con investimenti pubblici, che hanno attirato capitali privati (su aree che restano di proprietà comunale) e fatto crescere gli indici di benessere. L’immagine di Ballymun sta cambiando, spiega Caudo, e la spia più evidente è che anche le classi sociali medie cercano casa in quel quartiere. Parlando di Ballymun il pensiero corre a Corviale, al Laurentino 38, a Tor Bella Monaca, i quartieri di edilizia pubblica romana sorti fra gli anni Settanta e Ottanta. Su di essi gravano le stimmate della periferia irrecuperabile. O recuperabile solo ricorrendo ai costruttori privati, i quali in ­37

cambio ottengono premi di cubature che appesantiscono carichi urbanistici e problemi. Ma se si scosta il velo di certa retorica anche giornalistica (perché, quando c’è un delitto in una qualsiasi periferia d’Italia, in alcuni telegiornali scorrono le immagini di Corviale? Perché Corviale viene definito un “serpentone” se è una stecca rigida lunga quasi un chilometro, mentre i serpenti si muovono in maniera sinuosa?), se si adotta una minima cautela nei giudizi, si può verificare, per esempio, che i dati sulla criminalità in quei quartieri non si discostano molto da quelli medi cittadini. A Corviale funziona un’eccellente biblioteca comunale, ora intitolata a Renato Nicolini, l’assessore delle estati romane degli anni Settanta e Ottanta scomparso nell’agosto del 2012, e fioriscono i comitati di cittadini che prendono in cura i terreni intorno al gigantesco edificio e ne fanno orti. Si attende l’arrivo di 42 milioni, da anni congelati, ma intanto chi abita a Corviale elabora progetti, moltiplica gli studi sull’edificio, che ha già bisogno di essere rimesso in sesto, perché gli ascensori non funzionano, molti dei ballatoi sono stati chiusi e buona parte dei materiali usati per la costruzione sono deperiti. Alcuni anni fa un gruppo di architetti, incaricati dalla Fondazione Adriano Olivetti e dall’Osservatorio Nomade, si sono installati a Corviale per studiare come era fatto e come gli abitanti lo avevano trasformato, piegando l’incombente rigidità delle sue forme. Corviale non è solo un grande edificio di abitazioni. È il frammento di una città lineare che doveva comprendere asili, scuole, negozi, impianti sportivi, bar, ristoranti, un teatro all’aperto sul modello della unité d’habitation immaginata da Le Corbusier. Nelle intenzioni di Mario Fiorentino, che progettò Corviale, lì avrebbe dovuto fermarsi la città delle palazzine, dell’abusivismo e della speculazione e Corviale sarebbe stato il bastione di Roma, affacciato verso l’agro romano e verso il mare, come le mura ciclopiche di un comune medievale. La Fondazione Olivetti e l’Osservatorio Nomade hanno fatto arrivare artisti, installatori, musicisti. ­38

L’idea che ha animato il progetto era di non precipitare dall’alto una fredda ristrutturazione architettonica, ma di ridisegnare gli spazi insieme a chi li abitava. Aggiustamenti, niente che sconvolgesse la struttura. Un lavoro di cuci e scuci, molto rispettoso di cosa Corviale nel frattempo era diventato. Ma c’era chi – amministratori pubblici o architetti di fama, come Paolo Portoghesi e Massimiliano Fuksas – invocava il piccone demolitore: buttiamo giù tutto, facciamo palazzine. Piccone demolitore intervenuto per abbattere i ponti del Laurentino 38, considerati un ricettacolo di delinquenza, e fatti fuori ritenendo che l’architettura possa generare crimine. Piccone demolitore che viene auspicato anche a Tor Bella Monaca, «una cisti urbana», l’ha definita il sindaco Alemanno. Giù alcune torri, tiriamo su palazzine «come alla Garbatella», il quartiere nato negli anni Venti del Novecento sul modello della “città giardino”. La palingenesi come soluzione integrale, l’azzeramento che profuma di affari ed è l’anticamera dell’immobilismo. «Da anni a Roma non si fa più urbanistica», mi dice Caudo, «o si fa urbanistica senza avere a cuore la cura per la città. Le scelte non incontrano i bisogni dei cittadini: si fanno più case, molte restano invendute, ma il disagio abitativo si allarga sempre di più». È un paradosso. Chiedo: quanto è grande questo disagio? «Secondo alcune stime si dice che manchino quasi 30 mila appartamenti. Il Comune ne censisce 25.700. Approssimativamente 100 mila persone. Dalle 30 alle 40 mila famiglie. E poi ci sono i 163 mila romani che tra il 2003 e il 2010 hanno lasciato Roma per spostarsi nei comuni della provincia, che si aggiungono ai 180 mila che se n’erano andati fra il 1991 e il 2001. 163 mila abitanti sono la popolazione di una città come ­Cagliari. Questo avveniva negli stessi anni in cui si elaborava il Piano regolatore, con scelte urbanistiche presentate come “moderne” e “innovative”, ma che p ­ refiguravano un’urbanistica senza città e senza un’idea di città. Per molte famiglie la mancanza di casa è un dramma cresciuto mentre a Roma ­39

si registrava un boom delle nuove costruzioni: dal 2003 al 2007 si sono costruiti quasi 52 mila alloggi, 10 mila ogni anno (erano stati 7 mila tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo). Un incremento percentualmente doppio di quello di Milano. Negli stessi anni il disagio abitativo è diventato insostenibile. Abbia­mo visto quanti romani sono stati espulsi dalla città (il costo medio di un alloggio in provincia è del 43 per cento più basso rispetto alla media di Roma); gli sfratti eseguiti crescevano in un solo anno dell’8 per cento e quelli per morosità erano quasi l’80 per cento. Nel pieno di questa tragedia sociale l’espressione “emergenza abitativa” neanche compare nella relazione del Piano. Ripeto: crescevano le case costruite e aumentavano le persone senza casa. Alla Biennale Architettura del 2008, Francesco Garofalo dedicò il padiglione italiano al tema della casa: “Housing Italy. L’Italia cerca casa”. In una mostra di architettura, di fronte ai grandi nomi della scena internazionale, sostenevamo che costruire case non basta per contrastare l’emergenza abitativa, che c’è bisogno di politiche per la casa che tocchino aspetti diversi e che ruotino attorno a una sola questione: aumentare la dotazione di case a costo accessibile, sia in affitto che per l’acquisto. Occorre chiedersi per chi si costruisce, e il per chi si porta appresso il come, sia rispetto ai modelli costruttivi che a quelli della gestione degli immobili. In una parola, bisogna fare delle politiche per l’abitare e non solo case. Roma avrebbe bisogno di un piano per “riabitare la città abitata”, altro che cementificare l’agro romano». Gli interrogativi, mentre Caudo parla, rimbalzano. Ma tutto questo invenduto non resta sul groppone di chi ha costruito? Sullo sfondo si spalanca lo scenario della bolla immobiliare che nel mondo ha provocato la più acuta e lunga crisi in epoca capitalista e che, dagli Stati Uniti alla Spagna, è stata generata proprio da un eccesso di offerta immobiliare rispetto alla domanda. Ora il mercato è fermo. A Roma nel primo trimestre del 2012 le compravendite di case sono diminuite del 20,6 per cento rispetto ­40

allo stesso periodo del 2011 (la media italiana è del 19,6). Ma si può sperare che la crescita dissennata di una città si fermi solo se si ferma il mercato? Non ci sarebbe bisogno di un’autorità pubblica che su questo abbia voce in capitolo, prima di trovarsi con vaste aree urbane popolate di case vuote, nuove ma già decrepite, con le finestre sbarrate da assi di legno? E finire come a Detroit, dove una casa ipotecata e abbandonata dal proprietario che non poteva più pagare il mutuo viene venduta dalla banca a 500 dollari (il progetto di riqualificazione di quell’immobile era in mostra alla Biennale Architettura di Venezia del 2012)? «Il sindaco di Baltimora», mi racconta Caudo, «ha fatto causa alla Wells Fargo, la più grande società erogatrice di mutui della città, ritenendola colpevole del degrado urbano in cui è precipitata. L’accusa rivolta alla Wells Fargo muove dai prestiti facili concessi anche alle famiglie che non davano le necessarie garanzie (i cosiddetti subprime); quando non sono più state in grado di pagare e la banca ha imposto loro il rientro del credito, quelle stesse famiglie si sono viste costrette ad abbandonare l’alloggio e il degrado ha invaso interi quartieri, vanificando l’azione di riqualificazione che l’amministrazione aveva portato avanti e sulla quale aveva investito importanti risorse pubbliche». Le case non si vendono, i prezzi crollano e crolla il sistema bancario che si era esposto con i costruttori. Nei primi sei mesi del 2012 le quotazioni delle abitazioni di Roma sono diminuite del 5,3 per cento rispetto a un anno prima, secondo l’ufficio studi di una società immobiliare. La contrazione ha interessato anche gli immobili di zone centrali (3,4 per cento), salvo quelli del Pantheon, via del Corso, Portico d’Ottavia, piazza Barberini e Fontana di Trevi, rimasti invariati. Nelle zone del centro maggiore ribasso è stato registrato tra Prati e Cavour (–7,1 per cento). Ribassi anche nelle zone più periferiche come CassiaTorrevecchia (–8,8 per cento), Policlinico-Pietralata (–7 per cento), Roma Sud (–6,3 per cento).
 E allora? «In Italia e a Roma i prezzi sono comunque ­41

calati meno che altrove in Europa, anzi sono rimasti più o meno stabili. Il fatto è che da noi, per il peso enorme che la rendita fondiaria conserva in tutto il mercato immobiliare, i profitti da costruzione sono inferiori rispetto a quelli che si accumulano ottenendo che un proprio terreno da agricolo venga dichiarato edificabile. Secondo alcune stime, basta che un costruttore venda un appartamento di tre che ne ha realizzati per accontentarsi in tempi di magra». Quindi, a chi costruisce dell’invenduto interessa ben poco? «Non è proprio così. Se vendesse tutto sarebbe meglio. È che buona parte del guadagno l’ha già ottenuta con l’edificabilità, che è moneta corrente, anzi titolo di credito da far valere con le banche, per esempio». La chiacchiera con Caudo si muove agilmente fra la Bufalotta, Romanina e i santuari della finanza internazionale. Locale e globale si intersecano dimostrando come nelle scelte per un territorio si possano leggere molto più che la piccola o grande speculazione edilizia. La città è il luogo in cui si scaricano le tensioni che un’entità nebulosa eppure opprimente come i mercati produce. L’urbanistica è la disciplina che aiuta a leggere dove va il mondo. Molte delle analisi di Caudo ci accompagneranno in seguito. Nel frattempo, dal quadernetto di appunti ne estraggo alcune. «Nei momenti in cui il sistema economico produce ricchezza reale il settore immobiliare se ne avvantaggia perché patrimonializza quella ricchezza. E questo è stato anche l’uso anticiclico che si è fatto del settore edilizio in Italia. Tutto ciò appartiene a un’altra epoca. Oggi che il nostro sistema economico è in difficoltà strutturale, che ricchezza da patrimonializzare ce n’è sempre meno, ci si illude di poterla inventare costruendo. Il sindaco Gianni Alemanno nella sua relazione a un seminario dell’aprile 2012 l’ha proprio teorizzato questo approccio quando ha parlato di “moneta urbanistica”». Moneta urbanistica? La città come una banca dalla quale si incassa rendita, come uno sportello bancomat dal quale si preleva contante? «Direi che Roma diventa ­42

una zecca: non possiamo più stampare la lira e allora a Roma stampiamo metri cubi. Prendiamo le centralità. Le centralità definite dal Piano regolatore, perno del Piano regolatore e già cariche di cubature, in alcuni casi vedono raddoppiate le previsioni edificatorie. E un caso esemplare è quello di Romanina». Tornano le centralità. Le città nella città, i luoghi che avrebbero dovuto ospitare funzioni pregiate, sedi di ministeri, direzioni generali di aziende pubbliche, uffici amministrativi, tribunali. Una delle centralità è prevista a Romanina. Il garbato vezzeggiativo, Romanina, definisce un quartiere abusivo che si è sviluppato nei primi anni Settanta del Novecento fra via Anagnina e via Tuscolana, a cavallo del Raccordo anulare poco dopo l’ingresso dell’autostrada per Napoli. 4.500 abitanti, una selva di magazzini e depositi, un grappolo di case basse e di palazzine. Una linea dell’Atac, partenze ogni 20, 30 minuti, niente scuole. Chi ha comprato qui indica altri riferimenti identitari, la Torre di Mezzavia, per esempio, una costruzione del XIII secolo come se ne vedono altre nella campagna romana, che sta proprio all’incrocio fra Anagnina e Tuscolana e che si chiama così perché era a metà strada fra le Mura Aureliane e Frascati. È il nuovo baricentro simbolico e culturale del quartiere. Uno dei comitati di cittadini sorti negli ultimi anni è intitolato alla Torre. Lo animano persone come Fabio Depino e Aldo Pirone, che hanno dato vita alla Comunità territoriale del X Municipio, un coordinamento di decine e decine di comitati. Sul sito web si raccontano la storia e i pregi architettonici della Torre. E poi sfilano le analisi e le riflessioni critiche sulle scelte urbanistiche per il quartiere. Molti qui, nella stagione dell’abusivismo, hanno costruito in proprio, altri hanno tirato su una palazzina, tre piani li hanno venduti e l’attico se lo son tenuto per sé. Molti, la maggior parte di chi vive a Romanina, hanno comprato. Qui ricordano ancora il cartello che diceva: “Vendesi terreno edificabile previa approvazione Piano ­43

regolatore”. Romanina fa parte di una striscia pressoché compatta di abusivismo. Duemila ettari, li hanno calcolati Piero e Roberto Della Seta in I suoli di Roma, che si allungano nell’arco orientale, da nord verso sud, più o meno a ridosso del Grande raccordo anulare. Erano spaziose tenute, originariamente di proprietà di congregazioni religiose, quindi passate di mano spesso in enfiteusi, ai cosiddetti mercanti di campagna – i Gianni, i Talenti, i Parmegiani, i D’Orazio – «tutti divenuti poi esponenti del “generone” romano e rappresentanti della grossa borghesia imprenditoriale fascista», scrivono Piero e Roberto Della Seta. Queste aree furono riscattate negli anni Quaranta e divennero il teatro della più massiccia speculazione abusiva. Piero e Roberto Della Seta le elencano, compilando un rosario toponomastico dai sapori antichi e popolari: Tor Sapienza, San Basilio, Lunghezza, La Rustica, Podere Rosa, Fosso dell’Omo, Torre Angela, Torrenova, Colle Mentuccia, Tor Vergata e, appunto, Romanina. Alla fine degli anni Settanta, sindaco Luigi Petroselli, questo e altri quartieri abusivi di Roma vennero “perimetrati”, definiti “zona O”, vennero cioè inclusi nella città legale e Roma tentò generosamente di chiudere il capitolo dell’abusivismo accogliendo chi aveva costruito per necessità, si presumeva, senza chiedere né ottenere licenze edilizie. Si avviò la contabilità di quanto edificato senza regole, un fenomeno diffuso in Italia, ma a Roma imponente. Si provò a mettere insieme i pezzi sparsi di una città cresciuta senza ordine e senza legge, di dare un’anima a una sconosciuta periferia. Nei quartieri abusivi furono portati i servizi, gli allacci all’illuminazione e alle fogne, alcuni di essi videro arrivare linee di autobus. E si disse: basta, da ora in poi niente più edilizia abusiva. Le cose andarono diversamente da come Petroselli e la giunta di sinistra avevano pensato. Petroselli morì schiantato da un infarto nell’ottobre del 1981, portando con sé il sogno di una Roma che garantisse a tutti il diritto alla città. L’abusivismo continuò, non tanto qui, ma altrove, in ­44

aree di maggior pregio, a nord di Roma. Qui invece sbarcarono negli anni Novanta i primi grandi centri commerciali, una specie di testa di ponte per misurare l’accoglienza nella capitale di quel genere di templi della mercanzia. Ikea esordì nel paesaggio delle periferie romane piazzando un capannone blu con le scritte gialle, poi Decathlon, il centro Anagnina, Domus. Furono costruiti tre insediamenti di edilizia pubblica, 10 mila stanze, 8.500 abitanti, e poco distante da qui, a Tor Vergata, su oltre 500 ettari in mezzo a una fungaia abusiva, vennero collocate alcune imponenti strutture: la seconda Università con un Policlinico e successivamente un Campus di 1.500 alloggi per studenti, una sede del Cnr, una della Banca d’Italia e furono avviate la progettazione e la costruzione dell’Agenzia Spaziale (completata nell’estate 2012). Tutte strutture pubbliche su aree pubbliche. Secondo qualcuno una vera centralità (e tale è considerata, sebbene a posteriori, dal Piano regolatore). Qui, su una vastissima area, si svolse per il Giubileo del 2000 il gigantesco raduno di giovani con papa Giovanni Paolo II. La centralità Romanina è prevista in un’area grande quasi 100 ettari al di là della via Tuscolana, verso Tor Vergata. In fondo s’impone la sagoma dei Castelli romani. Voltando lo sguardo si vede svettare un’altra delle ambiziose architetture di Tor Vergata, la più scintillante di tutte, la imponente struttura tubolare a forma di onda dello Stadio del nuoto di Santiago Calatrava, primo di due complessi che avrebbero dovuto formare una Città dello Sport. Si avviò la costruzione delle piscine nel 2005, con una previsione di costi intorno ai 60 milioni. Sarebbero diventate, nelle intenzioni del sindaco Veltroni, la sede dei Mondiali di nuoto del 2009. Si aggiudicò i lavori la Vianini, del gruppo Caltagirone. Ma quasi immediatamente i costi raddoppiarono: 120 milioni. Come per le altre opere previste in occasione dei Mondiali, come per tante altre iniziative che in Italia vennero elevate al rango di Grande evento, la gestione passò a Guido Bertolaso e alla Protezione civile. ­45

Che la girarono ad Angelo Balducci, allora presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici e direttore del Dipartimento per lo Sviluppo e la Competitività del Turismo presso la Presidenza del Consiglio, e successivamente a Claudio Rinaldi. Si dovevano accelerare i tempi e bruciare i passaggi burocratici. Da un regime ordinario si passava a un regime straordinario. Ogni cosa andava in deroga. Non valevano le regole urbanistiche o quelle della contabilità generale. Su tutto vigilavano le ordinanze. Era il paradiso della cricca. A Roma, oltre Tor Vergata, fiorivano piscine ovunque e se già c’erano venivano raddoppiate, triplicate, potenziate con centri fitness e ristoranti. In molte di queste strutture figuravano come soci persone appartenenti a qualche cordata. Prendiamo la più celebre: il Salaria Sport Village, Roma Nord, dove Bertolaso andava a farsi praticare massaggi e di cui, insieme a Guido Anemone, era proprietario Filippo Balducci, figlio di Angelo. L’impianto sportivo ottenne di ingrandirsi e con procedure d’urgenza piazzò 160 mila metri cubi (piscine coperte, scoperte, palestre, un albergo) ai bordi del Tevere, in un’area che il Piano regolatore classificava come inedificabile perché a rischio alluvionale. Su questa e su altre vicende la magistratura ha aperto inchieste per abusi edilizi. Ma le indagini hanno imboccato anche altre piste, Balducci, Rinaldi, Anemone erano fra i perni di un sistema fondato sulla Protezione civile che da L’Aquila alla Maddalena, passando per i Mondiali del 2009 e per le opere dei 150 anni dall’Unità, controllava appalti e commissionava lavori in un vortice di corruzioni. Sono fioccati gli arresti, lo scandalo è divampato. Ma le procedure, che quel regime commissariale avrebbe dovuto snellire, si sono ingarbugliate. Quasi mai si è arrivati in porto: basta ricordare la triste, grottesca vicenda del Palazzo del Cinema al Lido di Venezia che ha divorato decine di milioni e che è ancora un buco – letteralmente – spalancato di fronte al mare. ­46

La scenografica onda di Calatrava è ancora lì, incompleta (i Mondiali di nuoto si sono svolti nel vecchio Foro Italico, bruciando sogni e soldi): per portare a termine quel complesso le cifre rimbalzano come palline in un box di vetro, dai 200 ai 400 milioni che si aggiungerebbero agli oltre 250 già ingoiati. Se fosse saltato l’appuntamento con i Mondiali, un’altra occasione si sarebbe profilata nel futuro, dicevano in tanti a mano a mano che ci si rendeva conto che scandali e soldi contati avrebbero frenato i lavori: le Olimpiadi del 2020. Ma anche queste sono svanite. E ora solo un paio di custodi nel cantiere deserto vigilano tristemente affinché la pioggia non faccia marcire quel poco che si è fatto. Vista da lontano, l’onda di Calatrava è un geniale svolazzo che raffigura il fallimento di un’intera classe dirigente. All’ombra della sua fascinosa e inutile mole si addensano gli affari della centralità Romanina progettata su questi 100 ettari di campagna romana che si avviano verso i Castelli, un tempo coltivati, ora recintati, arsi e polverosi. Dal 1990 ne è proprietaria l’Immobilfin, società di Sergio Scarpellini, sor Sergio, lo chiamano i suoi collaboratori, ricco e potente, un viso rotondo e bonario, tanti braccialini d’oro al polso. Scarpellini, come altri in quegli anni, rastrellò terreni ai bordi della città costruita, immaginando vistose rendite. Pagò in contanti 160 miliardi di lire e una piccola parte della sua proprietà la cedette al Comune per uno degli insediamenti di edilizia pubblica. Ne ottenne in cambio, si dice, la promessa che la restante parte, la parte più grande ovviamente, sarebbe stata un giorno coperta da palazzi e da torri che guardavano Frascati e i Castelli. Uno scambio. Il tempo trascorre, il prezzo dell’area cresce a vista d’occhio, finché nei primi anni Duemila non si va all’incasso. Scarpellini ha fatto sempre buoni accordi. Fin dagli anni Ottanta ha capito che il centro storico di Roma è affetto da una brutta malattia. È un grande centro direzionale, burocratico, amministrativo, con pochissimi residenti, ­47

tantissimi turisti e tantissime persone che qui vengono a lavorare. Nulla però è pianificato. Se nessuno programma la localizzazione delle sedi di istituzioni oppure di organismi fondamentali per il funzionamento del paese – interi palazzi, con centinaia e centinaia di persone, cortei di macchine, un via vai nevrotico – e quelle sedi le si va a cercare tutte lì, nella trama di strade disegnate dai papi, da Bramante e Raffaello, ecco che si crea una fortuna che va solo raccolta da terra, semplicemente chinandosi. Scarpellini capisce le esigenze, le previene e offre soluzioni. Nel portafoglio delle sue società figurano edifici nel centro di Roma affittati al Senato della Repubblica (Palazzo Bologna, fra piazza della Minerva e piazza Sant’Eustachio), alla Camera dei deputati (il complesso Marini, quattro palazzi fra piazza San Silvestro e via del Tritone), al Tar del Lazio (via Flaminia, dietro piazza del Popolo), al Consiglio di Stato, all’Authority per le telecomunicazioni, al Comune di Roma, e alla Rai (16 mila metri quadrati fra via delle Vergini e via dell’Umiltà, dietro Fontana di Trevi). Scarpellini non offre solo affitti, ma global service, che vuol dire portieri, guardarobieri, autisti, commessi, sorveglianti e talvolta servizi di bar e ristorante. Uffici-albergo, insomma. Lo Stato paga. Paga anche il Comune di Roma che dal 2006 versa nelle casse di Scarpellini prima 699 mila euro l’anno, poi 800 mila (l’ha documentato su Repubblica Mauro Favale) per parcheggiare 80 macchine in uso ad assessori e dirigenti in un garage di via Tito Omboni, fra la via Cristoforo Colombo e la via Ardeatina. Nel frattempo, a poche centinaia di metri, giace quasi abbandonato un autoparco di proprietà sempre del Comune di Roma che, per ristrutturarlo, ha speso qualche anno fa un milione e mezzo di euro. Nel 2010 la deputata radicale Rita Bernardini vuol vederci chiaro nel contratto d’affitto stipulato dalla Camera. E scopre che il primo dei quattro accordi risale al 1997, seguito a ruota dagli altri tre. Niente gare e solo per il primo si dà facoltà alla Camera di rescindere l’intesa. Per gli ­48

altri tre no, gli altri sono vincolati da contratti che durano 9 anni più 9, senza possibilità di recesso anticipato: totale 444 milioni più 288 per i servizi aggiuntivi. «Li abbiamo comprati apposta per loro, abbiamo fatto un vestito su misura», ha detto più volte Scarpellini. Appena capiva che la Camera aveva bisogno di più spazio, ecco pronto un altro palazzo e poi ancora un altro. Intervistato nel 2007 da Annozero di Michele Santoro, scansò con uno svolazzo della mano i sospetti di buone conoscenze e di buone informazioni: «Ma chi me l’ha detto de comprà? Nessuno me l’ha detto. Io c’ho la vista lunga. Io so’ imprenditore. E delle vostre accuse me so’ proprio rotto er cazzo». Per Palazzo Marini 1 (quasi 13 mila metri quadrati, studi per 180 deputati, sale conferenze, buvette e altri servizi) la Camera paga 7,5 milioni ogni anno. Nel 2010, accerta la Bernardini, il 35,5 per cento di tutte le spese sostenute dalla Camera per consulenti e forniture è andato a Scarpellini. La denuncia ha un primo effetto. La Camera decide di disdettare l’affitto per il Marini 1, il solo per il quale può farlo, dando un anno di preavviso nel gennaio 2012. Scarpellini annuncia il licenziamento di 350 dipendenti (sui 600 della società), «i miei ragazzi», li chiama. «E poi la campagna che ha fatto la Bernardini è soltanto un gran casino», va ripetendo appena può. «Ha fatto una campagna contro di me, io sto cercando da farle querela». Torniamo alla Romanina. Il progetto originario della centralità, ratificato nel Piano regolatore, prevede edificabilità su 35 ettari, così ripartiti: 58 per cento funzioni pubbliche, 42 private. L’accordo fra il Comune e Scarpellini parte da una proposta di Scarpellini stesso: si costruiscono 1 milione 130 mila metri cubi (la cifra circolata all’inizio era di 750 mila metri cubi), una parte minore è fatta di case vendute a mercato libero, più strutture commerciali e anche turistico-ricettive, la parte maggiore è comunque edificata dal privato, ma ceduta al pubblico. Il progetto complessivo, presentato sempre dal sor Sergio, prevede che negli edifici pubblici ci vadano il ministero dell’Ambiente, ­49

un museo della Scienza, un polo cinematografico. Quanto però queste localizzazioni siano il prodotto di una scelta concordata con altri soggetti, il frutto di una pianificata distribuzione di importanti strutture, non è chiarissimo. Chi decide, per esempio, che il ministero dell’Ambiente vada lì? Sergio Scarpellini? Esiste un piano a livello governativo che stabilisce di trasferire a Romanina il ministero dell’Ambiente? Ed è un caso, una svista, che il ministero dell’Ambiente sia sistemato anche in un’altra centralità a venire, quella di Pietralata? Scarpellini ha lavorato per bene. Il progetto della centralità viene affidato a Manuel Salgado, architetto portoghese di fama. Fra i collaboratori del costruttore figura anche Maurizio Marcelloni, coordinatore della parte urbanistica, che dal 1997 al 2001 ha diretto l’ufficio del Piano regolatore del Comune quando sindaco è Rutelli (smesso l’incarico pubblico è tornato all’insegnamento e alla professione ed è scomparso nel marzo del 2011). Quale cardine della centralità viene indicato il recupero delle Officine Marconi, lo stabilimento dal quale Guglielmo Marconi avviò i primi esperimenti radio, all’inizio del Novecento, poi sede dell’Italcable, un pezzo di archeologia industriale grande oltre 4 mila metri quadrati che è ai bordi della centralità e che si vuole trasformare in spazio culturale, teatrale e di mostre. Già posto così, il progetto incontra altre perplessità. Ancora non è chiaro il quadro completo delle centralità, ma a Romanina molti si domandano perché prevederne un’altra a poche centinaia di metri da quella tutta pubblica e avviata da tempo a Tor Vergata. Dove molte aree sono ancora libere, ed essendo già di proprietà del Comune possono ospitare altre strutture senza contemplare il costo, enorme, della loro acquisizione. Nel 2004 si avvia un esperimento di progettazione partecipata, un programma coordinato dal Dipartimento di Architettura e Urbanistica della Facoltà di Ingegneria della Sapienza, che interessa anche altre aree della periferia romana. È la stessa ammi­50

nistrazione comunale prima di Rutelli e poi di Veltroni a patrocinarlo, facendolo diventare uno dei perni del proprio metodo di governo. Nel 2006 il Campidoglio si darà un Regolamento della partecipazione, prima ancora sono nati i Laboratori di quartiere, originariamente una realtà stabile, successivamente un luogo nel quale si tenta di fronteggiare i conflitti generati da interventi urbanistici. È una pratica cui tiene soprattutto Veltroni. Sono previsti tre livelli: l’informazione, la consultazione e la progettazione partecipata. Ma gli esiti sono incerti. In molti casi è evidente lo scarto fra quel che si elabora durante incontri, discussioni e seminari e quel che poi l’amministrazione decide. Secondo Carlo Cellamare, professore alla Sapienza, fra i più impegnati in questa vicenda, «la partecipazione, più che un serio indirizzo politico del Comune, testimonia la grande pressione dal basso e la grande mobilitazione che si sono sviluppate a Roma in questi anni e che non hanno confronti con altre città italiane». Inoltre, aggiunge Cellamare, l’amministrazione capitolina ha diversi volti. L’assessorato alle periferie è molto attivo, altri assessorati lo sono meno. Accompagnati da un gruppo di docenti, anche gli abitanti della Romanina, i comitati di cittadini si sono dedicati per quasi tre anni a dare indicazioni, a suggerire bisogni che poi gli urbanisti traducevano in progetti. Un’antica pratica, messa a punto con alcuni quartieri di edilizia popolare e teorizzata da Giancarlo De Carlo. Passeggiate nel quartiere, visite all’area della centralità, questionari, lunghe riunioni. I problemi che emergevano e ai quali si cercava di dare soluzioni tecnicamente fondate, sperando che queste potessero essere comprese nel progetto della centralità, erano l’assenza di verde attrezzato, di un’area facilmente accessibile che contenesse i principali servizi, la piazza che non c’è, le strade dissestate, i marciapiedi scassati, l’illuminazione carente. Si intravedeva un quartiere con spazi pubblici curati e non più un insieme di case abusivamente ammassate e divise da luoghi di risulta, degradati e incolti. Si disegnava una comunità. Qualcuno suggeriva un ­51

parco che contenesse e valorizzasse i ritrovamenti antichi. Qualcun altro arrivava col tracciato di una pista pedonale. Ne è nato un volume, scritto da Giordana Castelli, anche lei insegnante alla Facoltà di Ingegneria e coordinatrice dell’esperimento. S’intitola La citta di Mezza Via. Me ne regala una copia Fabio Depino. Il prodotto di quel lavoro, l’entusiasmo e le competenze maturate, le discussioni, le mediazioni, la buona grana politica sono chiuse in queste pagine. E lì, sistemate in un cassetto, sono rimaste. Intanto è Scarpellini che scalpita. Non è contento. Nel corso degli anni sono numerosi i suoi sforzi per rivedere i termini del vecchio accordo. Messa così, l’operazione gli appare sempre meno conveniente, troppe concessioni al pubblico, troppo esigui i margini del proprio guadagno. Con l’amministrazione di centrosinistra Scarpellini non spunta granché. Le pressioni si fanno più dirette e incalzanti con la giunta di centrodestra. Che in effetti aderisce pienamente alle richieste del costruttore, giudicando ragionevoli le “criticità” da lui lamentate e soddisfacenti le proposte sempre da lui avanzate per mitigarle. In una memoria di giunta del 20 ottobre 2010 si sostiene che una delle principali “criticità” è proprio la ridotta potenzialità edificatoria delle centralità in generale, fissata in un indice di 0,28 mq/mq, vale a dire che su un metro quadrato di terreno si possono costruire al massimo 0,28 metri quadrati, meno del 30 per cento. Troppo poco, ritengono in Campidoglio sulla base delle lamentele di Scarpellini. Appare dunque necessario, si legge nella memoria, «verificare la possibilità di incrementare la potenzialità edificatoria delle centralità da pianificare, con una quota di Sul [superficie utile lorda] premiale da attribuire ai proprietari promotori delle centralità, quale corrispettivo per il contributo offerto ai fini del conseguimento e del buon esito degli obiettivi pubblici e di interesse pubblico prefissati». Insomma, ai volenterosi costruttori o proprietari di aree che dovessero contribuire a raggiungere finalità pubbliche, tipo riqualificare un quartiere, si garantiranno premi in cu­52

bature. A dicembre del 2011, durante un’assemblea nelle Officine Marconi, lo stesso Scarpellini e l’assessore all’urbanistica Marco Corsini hanno illustrato i nuovi termini dell’intesa. I metri cubi complessivi salgono da 1 milione 130 mila a 1 milione 920 mila, il 70 per cento in più circa. La quota residenziale sale da 220 mila metri cubi a 1 milione 200 mila. 3 torri, altezze che superano i 60 metri, oltre 4 mila appartamenti. E invece che su 35 si costruirà su 60 ettari. Soprattutto cambia, anzi si rovescia completamente, la ripartizione fra pubblico e privato. Al pubblico, anziché il 58 per cento dell’edificato, va il 5 per cento, una mollichina scivolata dal tavolo dopo il banchetto. Al privato, il 95 per cento invece che il 42. In una delle zone più densamente popolate di Roma, con carichi abitativi insopportabili e una rete di trasporto pubblico completamente insufficiente (il capolinea della Metro A è ad Anagnina, ma corrono più di tre chilometri per raggiungere la Romanina), potrebbero arrivare altre 10.500 persone e nessuna di quelle funzioni di pregio contenute nel primo accordo, che si è rivelato scritto sulla sabbia, modificabile a un batter di ciglio da parte della proprietà privata. Che cosa resta alla città di tutta l’operazione? In che cosa consiste lo scambio? Che cosa ci guadagna la Romanina? Stando alle dichiarazioni dell’assessore Corsini, in quel 5 per cento che Scarpellini cede al pubblico potrebbe sbarcare Fonopoli, la leggendaria città della musica di Renato Zero che, come una Madonna pellegrina, viene spostata da oltre un decennio da una parte all’altra della città. Non è tutto: l’assessore Corsini aggiunge che Scarpellini verserà alle casse comunali 186 milioni per l’incremento di cubatura. Bella somma per un bilancio dissestato come quello del Campidoglio. A che cosa serviranno? È questa la “moneta urbanistica” di cui ha parlato Alemanno, si fa cassa vendendo pezzi di città, spremendo fino al midollo l’organismo urbano? A ben guardarli, quei 186 milioni non sono un regalo, ma una somma stabilita dallo stesso Piano regolatore e aggiuntiva rispetto agli ordinari oneri di ­53

urbanizzazione fissati per legge. Però chi ha letto la proposta progettuale ha notato che 36 di quei 186 milioni vengono spesi per i parcheggi interrati, 70 sono destinati a un tunnel dove transiteranno le macchine e una metropolitana leggera che dovrebbe prolungare la Metro A, un tunnel che passa sotto il quartiere, che così sarà una confortevole isola pedonale, e 38 milioni serviranno al recupero delle Officine Marconi, che saranno adibite a non meglio precisate attività di formazione e didattica (è una delle parti definite pubbliche). Insomma, 108 di quei 186 milioni, ben più della metà, che sarebbero quanto il Comune guadagna dall’accordo, tornano a vantaggio dell’operazione privata, servono a rendere attraente il quartiere, a ingentilirlo, e consentono a Scarpellini di vendere a un prezzo più alto i suoi appartamenti, appartamenti con ampi parcheggi e affacciati su larghe strade pedonali. «La stragrande maggioranza del contributo fornito al Comune dal privato», mi spiega Caudo, «lo si spende in opere che non ha deciso il Campidoglio e la cui utilità pubblica non è chiara. Per esempio, la scelta della strada interrata che aveva forse un senso nell’ipotesi iniziale, quando la quota di non residenziale era maggioritaria e si poteva pensare a un forte afflusso di traffico verso uffici e centri direzionali, appare sproporzionata ora che il progetto si è trasformato in un normale quartiere residenziale di 10.500 abitanti. Lo stesso per i parcheggi: perché deve essere il Comune a finanziare la comodità del posto auto interrato? Se si facessero strade a raso e parcheggi ugualmente a raso il risparmio si aggirerebbe sui 60 milioni, che forse potrebbero essere destinati per riqualificare davvero l’abitato della Romanina, dove nelle strade mancano anche i marciapiedi».

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Quel che resta dell’Agro

Un Piano regolatore si fa di giorno e di notte si disfa. I Piani regolatori che si fanno a Roma, diceva Insolera, dividono in due le cose da fare, quelle che stanno dentro il Piano e quelle che stanno fuori. Di solito, aggiungeva l’urbanista, quelle che stanno fuori si fanno prima. Gli “Ambiti di riserva a trasformabilità vincolata” sono un parto dell’amministrazione di Gianni Alemanno. Anche se qualcosa di analogo già figurava nel Piano regolatore. Dietro il titolo di questa delibera comunale (la numero 315 del 2008, integrata dalla numero 255 del 2009), all’apparenza burocraticamente innocua, si nasconde un senso che innocuo non è. Su Roma possono abbattersi 66 mila nuovi alloggi, cioè 23 milioni di metri cubi di appartamenti che si piazzeranno su 2 mila 400 ettari di campagna romana. Una campagna dove, nonostante tante aggressioni, si fa ancora molta agricoltura, dove fitta è la trama archeologica e altissimi i valori paesaggistici. Se in ogni appartamento andranno a vivere dalle due alle tre persone, ecco profilarsi, dentro il territorio comunale, una città dai 130 ai 200 mila abitanti. Grande quanto Salerno o quanto Brescia. Che viola persino il Parco dell’Appia Antica, ai bordi del quale potrebbe sorgere un quartiere con 3 mila abitanti. Le delibere sono state messe all’ordine del giorno in Consiglio comunale poche settimane prima che l’assemblea fosse sciolta. Votate o non votate, graveranno comun­55

que sul nuovo Consiglio, perché una serie di procedure sono state avviate, si sono create aspettative, qualche proprietario già si sente baciato dalla fortuna e costerà chiedergli di rinunciarci. Non è però una città compatta quella che si profila se tutto dovesse andare liscio. È una miriade di piccoli e grandi insediamenti, sparpagliati ovunque e che, sommati, fanno 23 milioni di metri cubi. Non una macchia, ma schizzi d’olio che punteggiano la campagna intorno a Roma. Una campagna che si sarebbe voluto mantenere intatta o meno compromessa possibile, ma che è ridotta ad ospitare villette, palazzine, capannoni, capannoni abbandonati, depositi commerciali, supermercati, centri sportivi, concessionarie d’auto, carrozzieri, smorzi (così, a Roma, chiamano i magazzini di materiale edile). La campagna intorno a Roma è una cintura di terreni che abbraccia la città, l’avvolge in tutti i punti cardinali e qualche volta penetra nell’abitato. Non è solo una cornice, lo sfondo neutro e opaco in cui si situa la città. È invece un contesto che attribuisce alla città un “di più” di significati. Al punto che Roma non sarebbe pienamente riconoscibile senza l’interazione costante fra l’edificato e l’inedificato: basta correre con lo sguardo ai pini che fiancheggiano la Passeggiata archeologica o al colore verde brunito della vegetazione che si inerpica sul Palatino. Giacomo Leopardi parlava di “erme contrade”, riferendosi alle solitarie estensioni di terreni che a lui apparivano desolate e inospitali. Vastissima è la letteratura ad esse dedicata, una delle più nutrite fra quelle intitolate a un paesaggio italiano. Se n’è più volte occupata Vittoria Calzolari, urbanista, assessore al centro storico nelle giunte capitoline di Giulio Carlo Argan e Luigi Petroselli. Calzolari è andata alla ricerca, nelle pagine di scrittori e viaggiatori, di un’immagine quanto più possibile unitaria di quel territorio: perché solo così, cogliendo anche attraverso la letteratura ciò che tiene insieme i tanti elementi di un luogo è possibile pianificare quel territorio, dargli un assetto sistematico. In generale la campagna intorno ­56

a Roma appare a chi la racconta punteggiata di bellezze. In essa si alternano taluni pregi naturali alle vestigia del mondo classico, vegetazione e ruderi. Ma questi elementi sono pur sempre eccezioni – agli occhi dei viaggiatori che arrivano fra XVI e XVIII secolo – «in un disastroso contesto agricolo e in un paesaggio extraurbano deprimente che deve traversare per decine di miglia (30 o 40, secondo Montesquieu) chi da nord o da sud si avvicina a Roma». Una campagna senza alberi, senza case, senza uomini, senza animali, scrive Calzolari in Storia e natura come sistema, infestata dalla miseria e dalla malaria, in cui però acquedotti, rovine, tombe e torri medievali suscitano emozioni struggenti, capaci di riabilitare la durezza della natura. La condizione generale della campagna non muta dopo il 1870, anche se iniziano a produrre effetti le grandi operazioni di bonifica avviate fra l’ultimo trentennio dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. «Le strade bordate di pini e i pini sulle colline diventano l’immagine canonica del paesaggio extraurbano», scrive Calzolari. Fino agli anni Cinquanta del Novecento, Roma era ancora circoscritta entro confini definiti, non più di 14 mila ettari di edificato, stando alle previsioni contenute nel Piano regolatore del 1931. «Come ai tempi di Goethe, Roma sorge grande in un deserto, per chi arrivi da nord: le cupole perlacee, l’oliva degli alberi delle poche ville rimaste e il disordine, intorno, dei cosiddetti quartieri moderni», scrive Ludovico Quaroni in Immagine di Roma. Siamo arrivati al 1969. Roma era già molto cresciuta, si era ingrossata un’abnorme periferia, a sud si erano riempite le aree fra le vie Guglielmo Marconi, Ostiense e Cristoforo Colombo, i cosiddetti intensivi avevano invaso ogni spazio e continuavano a espandersi sull’Appia Nuova, la Tuscolana, la Casilina e la Prenestina. E così pure dalla Tiburtina salendo verso gli insediamenti borghesi di Salaria, Flaminia e Cassia, Vigna Clara e Balduina e, di nuovo verso sud, a chiudere il cerchio seguendo la linea di colonizzazione della via Olimpica. Eppure, prosegue Quaroni, «per chi ­57

arriva da settentrione l’ingresso alla città è repentino». E il paesaggio è attraente, mosso, «si tratti della Cassia, della Flaminia o del tratto nord della strada del Sole, si tratti del bruno torvo dell’inverno o del giallo arso dell’estate, del verde morbido della primavera o di quello, più rosso e più grigio, dell’autunno, la strada valica colli e sovrasta valloni così forti e molli al tempo stesso, così romani in quel loro sentimentale distacco, voluto e mai raggiunto...». Roma nel deserto. Negli ultimi decenni del Novecento, invece, la crescita della città prende un aspetto pulviscolare. L’abusivismo, alcuni piani di zona (i piani di edilizia pubblica) e tante iniziative private agevolate dalle norme in deroga alla pianificazione ordinaria, invadono la campagna. La città si sparpaglia disordinatamente e il cemento si distribuisce come una rosa di schegge fra case e casette, strade, piccoli e grandi capannoni, depositi industriali, ipermercati e centri commerciali. Ma talvolta è la Grande opera che squarcia terreni agricoli, paesaggi rurali storici sopravvissuti e insediamenti urbani: se il progetto dovesse andare in porto, una bretella, chiamata Corridoio Tirrenico, partirà dalla Roma-FiumicinoCivitavecchia e proseguirà, lungo la Riserva naturale di Decima Malafede, fino a incrociare la nuova autostrada che porterà a Latina al posto della via Pontina; all’altezza di Cisterna un’altra bretella condurrà verso l’A2 RomaNapoli, all’altezza di Valmontone. Due miliardi 700 milioni è il costo dell’intera opera, 40 per cento pubblici, il resto li metteranno i privati che per trent’anni imporranno un pedaggio. Cantieri dal 2014 al 2018. Cinquanta chilometri in totale. Gallerie per 9 chilometri. Altrettanti chilometri per i viadotti e quello che scavalcherà il Tevere sarà lungo un chilometro e mezzo e alto 25 metri. La bretella, spiegano all’Anas, servirà a decongestionare il tratto meridionale e orientale del Grande raccordo anulare che fu portato a tre corsie appena dodici anni fa per lo stesso motivo (le due corsie non bastavano più) e inseguendo la logica per cui più strade si fanno più ce ne vorrebbe­58

ro. La nuova autostrada, dicono sempre all’Anas, dovrà inoltre servire l’aeroporto di Fiumicino, che si pensa di raddoppiare: se ne parlava in vista delle Olimpiadi del 2020, che però il governo Monti ha cancellato dall’agenda. Quel progetto, un’altra delle Grandi opere che fanno gola ai potenti del mattone, è comunque in piedi. 1.200 ettari di terreni agricoli, di coltivazioni ortofrutticole e di allevamenti, verrebbero cancellati non solo dalle strutture aeroportuali, ma da alberghi, parcheggi, centri commerciali. Il cemento, denunciano al comitato Fuoripista, invaderebbe buona parte della grande proprietà agricola di Maccarese, che nel 1998 il gruppo Benetton acquistò dall’Iri e che verrebbe espropriata. Gruppo Benetton che figura nell’azionariato della società Adr, Aeroporti di Roma, e anche in quello dell’Alitalia Cai. Espropriati ed espropriatori insieme. Agguerriti gruppi di cittadini si sono messi a difesa di questa porzione di campagna. Il comitato No Corridoio organizza da anni una dura resistenza e incalza diverse giunte regionali, di diverso colore. Raccoglie firme, organizza cortei e presidi davanti al Municipio oppure al ministero delle Infrastrutture. Studia le carte e affila le armi per inondare di ricorsi i tribunali amministrativi. E inoltre presenta progetti alternativi: la messa in sicurezza della Pontina, la strada che attualmente porta a Latina e che in alcuni tratti è molto pericolosa; il raddoppio della ferrovia regionale Nettuno-Campoleone, dove ora i pendolari viaggiano in condizioni bestiali; una metropolitana leggera che dal lembo meridionale di Roma raggiunga Pomezia e Ardea. Disordinata urbanizzazione. Progetti faraonici. Speculazioni fondiarie. La campagna intorno a Roma è a rischio di estinzione, si leggeva già in un documento sottoscritto nel 2007 da un centinaio di archeologi, architetti e funzionari della Soprintendenza archeologica di Roma. Quel documento, una lettera-appello all’allora ministro per i Beni e le Attività culturali Francesco Rutelli, è uno dei tanti che negli anni hanno tentato di richiamare l’atten­59

zione della politica e dell’opinione pubblica sulle pesanti trasformazioni nei territori rurali che avvolgono la capitale. Ma rischiano anche pezzi di campagna romana dentro la città. Un caso esemplare è il Comprensorio Casilino, 140 ettari sui quali un piano particolareggiato prevede di edificare 3 mila appartamenti. Contro l’intervento è mobilitato l’Osservatorio Casilino, un comitato che presidia il quartiere organizzando iniziative politiche e culturali. Fino al 2006 vigeva un vincolo della Soprintendenza, ma una sentenza del Tar, sollecitato dalla proprietà, l’ha rimosso. Valeria Garbati, Luciano Fantini, Romina Peritore sono fra gli esponenti del comitato: «Esiste una ricchissima documentazione, tutta prodotta dal ministero, che attesta l’enorme importanza paesaggistica e storico-archeologica di quest’area, che era parte integrante insieme al parco di Centocelle e all’ex aereoporto dell’antico comprensorio Ad Duas Lauros, ossia la residenza imperiale di Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino». Il comitato ha messo a punto il progetto di un Ecomuseo, che vuole documentare le vicende di questa periferia storica della città e i valori che il paesaggio sopravvissuto ancora esprimono. In queste strade, che fiancheggiavano i campi e che un tempo erano di terra battuta, piene di pozzanghere, Pier Paolo Pasolini girò Accattone e le memorie di una Roma popolare rivivono nel film La luna che vorrei, di Francesco Barnabei prodotto dal comitato di quartiere Torpignattara. La storia, i racconti, la musica, le lingue che ora si mescolano, per la presenza di tanti immigrati indiani, bengalesi e cinesi: tutto sembra convergere nella difesa di questo grande spazio inedificato, un’oasi che si spalanca fra quartieri densamente abitati. Ma gli allarmi non hanno frenato l’espansione. E neanche il Piano regolatore del 2008. Il fiotto di coriandoli sputati in aria e poi casualmente depositati al suolo, chiamati “ambiti di riserva”, è tutto fuori Piano. È oltre il Piano. Sono aree che si dovrebbero usare come riserva, casomai finissero quelle ancora libere dentro il Piano. Ma riserva ­60

per farci che cosa? Case, ovviamente. Case a costi accessibili, spiega Alemanno, housing sociale. La preoccupazione è stata alta fin da subito. Si sono mobilitate le associazioni ambientaliste, i comitati di cittadini hanno allestito metaforiche barricate. A luglio del 2012 si è svolto un sit-in davanti alla chiesa di Santa Maria in Cosmedin. I commenti, rimbalzati da un punto all’altro della città, si riassumono in un quesito: c’è bisogno d’altro cemento a Roma? Un diluvio di calcestruzzo sta inondando di gru, di villette e di palazzi la capitale in tutte le direzioni – la terribile “macchia d’olio” paventata da Antonio Cederna. Ma i 66 mila nuovi alloggi sono proprio nuovi, e potrebbero affiancarsi a quelli appena costruiti che giacciono lì, invenduti, a fare la muffa e a impensierire le banche che si sono esposte enormemente e ora vedono in pericolo i capitali anticipati, prefigurando scenari da bolla immobiliare spagnola. Uno dei requisiti fissati dal Comune per individuare queste aree è proprio che gli alloggi vengano costruiti su suoli che il Piano classifica come agricoli. Molto esplicita la relazione del Dipartimento Urbanistica del Comune di Roma: «Le aree selezionate andranno ad aggiungersi agli Ambiti di Riserva a trasformabilità vincolata già individuati dal Prg vigente». A questo punto occorre aprire una parentesi, ci si inerpicherà su sentieri molto tecnici, ma di rilevante importanza. Nel Piano approvato quando sindaco era Walter Veltroni, esistevano già gli “ambiti di riserva” (articolo 67 delle Norme tecniche di attuazione): servivano, sempre se ce ne fosse stato bisogno, per le cosiddette compensazioni, che sono un altro dei punti chiave, stavolta di tipo normativo, del Piano, eredità di un documento urbanistico che risale alla prima giunta di Francesco Rutelli – il Piano delle certezze, fu chiamato. La compensazione urbanistica è quel meccanismo che consente all’amministrazione pubblica di “compensare”, appunto, il proprietario di un’area che il vecchio Piano regolatore del 1962 dichiarava edificabile, ma che non è mai ­61

stata edificata e di cui ora l’amministrazione stessa vuole che si sancisca l’inedificabilità. Questa inedificabilità, dovuta a criteri urbanistici e non al fatto che, per esempio, su quell’area la Soprintendenza ha posto un vincolo che impedisce di costruirvi, il Comune ritiene di doverla “compensare”. Come? Concedendo l’edificabilità di un’altra area. Ma non solo. Per scendere al concreto, si può ricordare una vicenda importante, studiata da due giovani urbaniste della Facoltà di Architettura della Sapienza, Barbara Pizzo e Giacomina Di Salvo, la vicenda che forse segnò l’avvio delle compensazioni, anche se, a ben vedere, con una vistosa anomalia: Tor Marancia. Comprensorio favoloso, per qualità del paesaggio, per il rilievo archeologico e soprattutto perché parte del sistema di verde e di antichità dell’Appia Antica. Il Piano regolatore del 1962 prevedeva a Tor Marancia 4 milioni di metri cubi di cemento su 120 ettari. Poi ridotti con la Variante di salvaguardia a 1 milione 900 mila. Negli anni fu elaborato anche un progetto, curato dallo studio di Vittorio Gregotti. Ma intorno a Tor Marancia fu ingaggiata una memorabile campagna, protagoniste le associazioni ambientaliste, Antonio Cederna, comitati di cittadini, esponenti del mondo della cultura e della politica. Fu sollecitato l’intervento della Soprintendenza archeologica e Adriano La Regina, che la guidava, diede incarico a Vezio De Lucia e Italo Insolera, urbanisti, e a Carlo Blasi, professore di botanica, di stilare una relazione. Il documento venne presentato a fine dicembre del 2001. E le conclusioni dei tre specialisti furono nette: Tor Marancia esprimeva valori tali da imporne la tutela integrale. La Regina pose su tutta l’area un vincolo archeologico, che di per sé, a differenza di altri vincoli che indicano prescrizioni a chi costruisce, impone l’inedificabilità assoluta. Il vincolo del ministero dei Beni culturali (di cui la Soprintendenza è organo periferico) bastava a stabilire che a Tor Marancia non si sarebbe più potuto costruire, e senza ­62

alcun indennizzo per i proprietari. Ma il Comune decise di compiere un passo ulteriore: l’acquisizione dell’area, che invece prevedeva un indennizzo, al posto del quale scattarono le compensazioni. I proprietari ottennero l’edificabilità in altre aree. Ma, dato che queste aree erano molto più lontane dal centro e molto meno attraenti di Tor Marancia, il risarcimento non poteva limitarsi a una superficie uguale, doveva spingersi fino a un importo pari a quello che il proprietario avrebbe incassato a Tor Marancia. Fatti i conti, il milione 900 mila metri cubi diventarono 4 milioni 100 mila. Tutti spalmati su terreni agricoli, su 16 aree, hanno calcolato Barbara Pizzo e Giacomina Di Salvo, localizzate nella campagna romana: dall’Olgiata al Pescaccio, dall’Aurelia alla Magliana, dal Divino Amore a Fontana Candida. In alcuni casi le compensazioni sono atterrate su suoli agricoli vincolati, che non possono essere edificati e che dunque generano altre compensazioni in un vortice che potrebbe proseguire ad libitum. La compensazione è un istituto da molti considerato utile. Un Comune individua un’area, di solito dentro la città, che ritiene indispensabile mantenere libera per attrezzarla a parco oppure per allestirvi servizi. Non può espropriarla perché i costi sono insostenibili e allora avvia una trattativa con il proprietario per localizzare altrove i suoi benefici. Ma benefici di che tipo? Se si trattasse semplicemente di offrire in cambio un’altra area fuori della città, magari più grande di quella ceduta, i problemi sarebbero limitati. L’affare si complica se il proprietario può vantare diritti d’altro genere sull’area che il Comune acquisisce. Diritti edificatori, in particolare. La questione è spinosa, giuridicamente e culturalmente persino lacerante: quand’è che il proprietario di un’area può sostenere di avere giuridicamente acquisito il diritto a costruire? Basta che l’edificabilità sia sancita da un Piano regolatore, sulla base di previsioni urbanistiche che riguardano il territorio comunale nel suo insieme, oppure è necessario avere la concessione edilizia, un atto amministrativo ulteriore, ­63

ottenuto su richiesta specifica e dunque ad personam? Su questo punto la disciplina urbanistica si è divisa. E la divisione non è di poco conto, è diventata una faglia politica, perché sulla prima tesi, vale a dire che la previsione edificatoria contenuta in un Piano regolatore dia da sola un diritto a costruire il quale, se non esercitato, va compensato, si è fondato non solo il meccanismo della compensazione ma l’intero Piano regolatore del 2008. L’amministrazione comunale di Roma, gli uffici tecnici e i consulenti hanno infatti ritenuto che le edificabilità previste nel Piano regolatore del 1962 fossero, nel 2008, ancora perfettamente vigenti. Molte di quelle previsioni (che ammontavano a circa 120 milioni di metri cubi) il Campidoglio sostiene di averle tagliate, riducendole a poco più della metà. Molte altre no. Il principio è stato comunque ribadito: chi aveva un terreno dichiarato edificabile nel 1962 aveva un diritto e se questo diritto gli veniva successivamente negato, andava compensato. Una tesi opposta è stata sostenuta dagli urbanisti Edoardo Salzano, Vezio De Lucia e altri ancora e dal giurista Vincenzo Cerulli Irelli: l’edificabilità è sancita da un Piano sulla base di condizioni demografiche, economiche, produttive che, se mutate, la fanno venir meno. Un Piano deve fissare una serie di regole per l’uso di un territorio che ha validità finché il Piano è in vigore e dunque per un periodo di tempo definito. Quando di Piano se ne fa un altro, va verificato se quelle regole e quelle destinazioni sono ancora valide e solo in questo caso si confermano, altrimenti si annullano. Inoltre le amministrazioni infondono nel Piano indirizzi politici: perché la giunta X, subentrata alla giunta Y, non può ritenere indispensabile che il territorio comunale preservi più suolo agricolo della precedente? Il Piano di Roma del 1962, come molti di quella stagione, era un Piano sovradimensionato. Si immaginavano un’espansione a ritmi costanti e incrementi di popolazione ed economici che procedevano esattamente come tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, quelli del boom. Il Piano di Roma prevedeva ­64

che la capitale superasse i 5 milioni di abitanti e sulla base di quest’analisi stabilì una certa quantità del costruito (i 120 milioni di metri cubi, appunto). Un nuovo Piano regolatore, sulla base di analisi aggiornate e di figurazioni più concrete del futuro, non può che stabilire un diverso, più ridotto, dimensionamento. E dunque, avendo il Piano valore di legge, il nuovo Piano annulla il precedente e quindi le edificabilità precedenti: l’importante è che lo faccia motivando le decisioni, facendole discendere da studi e da analisi e non da volontà vessatorie contro questo o quell’altro. La sola edificabilità, dunque, sostengono Salzano, De Lucia e Cerulli Irelli sulla base anche di sentenze del Consiglio di Stato, non dà diritti e non va compensata se eliminata. Di fronte a tesi così diverse una soluzione percorribile poteva essere quella di attendere che si consolidasse una giurisprudenza amministrativa. Ma il Comune di Roma, già gravato da molti contenziosi, non se l’è sentita neanche di tentare la via della giustizia amministrativa, dando per scontato che i tribunali avrebbero avallato le tesi sul diritto edificatorio che, è inutile sottolinearlo, erano fatte proprie dal Campidoglio, ma erano un baluardo concettuale della proprietà fondiaria. Su questo punto le discussioni fra il fronte ambientalista da una parte e la giunta Veltroni dall’altra sono state aspre e hanno aperto una ferita nello schieramento progressista che non si è mai rimarginata. Tutti tenevano conto che sulla proprietà dei suoli a Roma la partita era di lunga data. E che la storia secolare della città era stata in larga parte dominata dalla presenza di un ceto che sul possesso delle aree aveva fondato un potere fuori dell’ordinario, capace di dettare comportamenti e regole alla politica. Chi pianifica il futuro di Roma non può disinvoltamente ignorare questa realtà. Ma le questioni che dividevano il fronte ambientalista dal centrosinistra che governava in Campidoglio erano molte in quegli anni in cui la marcia del cemento nelle città sembrava inarrestabile e tutti, centrodestra e centrosinistra, condividevano la convinzione che i mattoni portassero solo sviluppo. Nes­65

suno a Roma dubitava che occorresse trattare con la proprietà fondiaria. Ma come? C’era possibilità di distinguere, come aveva fatto Luigi Petroselli, sindaco fra il 1979 e il 1981, fra un’attività imprenditoriale legata all’edilizia, fatta di profitto e di rischio, e un’attività prevalentemente di rendita che lucra sui cambi di destinazione urbanistica di un suolo, sul passaggio di questo da agricolo a edificabile? E dunque, se non si davano per scontati i diritti edificatori, era possibile o no che l’amministrazione pubblica negoziasse da posizioni di maggior forza, considerando una propria prerogativa assoluta quella di fissare indirizzi urbanistici che poi si concretizzano grazie a un’attività imprenditoriale essenzialmente svolta da operatori privati? Le posizioni sono rimaste distanti, le spaccature non si sono composte, ma intanto è accaduto che il formidabile consenso che sosteneva l’amministrazione Veltroni e che veniva sintetizzato nella formula di “modello Roma”, fatto di indicatori economici positivi e di smalto culturale, si è sotterraneamente eroso, fino a infrangersi al momento del voto nell’aprile del 2008. Per tornare al punto da cui si era partiti prima di aprire questa lunga parentesi, gli “ambiti di riserva” sono apparsi subito uno dei meccanismi, un vero grimaldello, per tenere sempre aperta la porta a nuovo cemento, rendendo in teoria disponibile tutto il suolo agricolo sopravvissuto, dentro e fuori il Piano. Insomma è come se il Piano, abbondantemente sovradimensionato (previste altre costruzioni fra 60 e 70 milioni di metri cubi) e sottoutilizzato (250 mila appartamenti vuoti), fosse già carta straccia. Anche se alcuni urbanisti fanno notare che è lo stesso Piano a contenere norme che consentono il suo superamento. Inoltre, stando a quanto sostiene l’Inu (Istituto nazionale di urbanistica) del Lazio, si dà facoltà ai privati di costruire altre case, ma non si avvia l’attuazione di 35 Piani di Zona già approvati e che consentirebbero di realizzare edifici popolari, cioè case di proprietà pubblica. E qui si inciampa di nuovo nel dramma che vivono ­66

oltre 30 mila famiglie romane. La mancanza di case in una città che di case ne ha troppe. Un dramma che nella storia novecentesca di Roma genera sofferenza, battaglie, ipotesi di soluzione, retoriche e usi strumentali. Per Gianni Alemanno e per il suo assessore all’urbanistica, Marco Corsini, con gli “ambiti di riserva” arriva in porto una promessa fatta ai romani subito dopo l’insediamento in Campidoglio nel 2008: quella di fronteggiare, appunto, l’emergenza abitativa patita dai ceti più deboli. I 66 mila appartamenti servono, dice il sindaco, perché destinati in parte ad housing sociale. L’housing sociale, come abbiamo accennato, è una via intermedia fra la casa popolare, di proprietà pubblica e assegnata sulla base di graduatorie, e la casa a libero mercato, costruita da un privato e messa in vendita o affittata a prezzi, appunto, di mercato. L’housing sociale è molto praticato nei paesi anglosassoni e nordeuropei, dove viene definito anche affordable housing, cioè case a buon prezzo, abbordabili, accessibili a chi non possiede alti redditi, ma neanche rientrerebbe nelle graduatorie per l’assegnazione di un alloggio popolare. Dunque, ceto medio che la crisi ha impoverito, famiglie con una sola persona che guadagna, ma anche giovani coppie, single, studenti fuori sede. Stando ai dati forniti dalla società di ricerche Scenari immobiliari, nell’Unione europea l’housing sociale copre il 15 per cento del patrimonio abitativo, con punte del 30 in Germania (in Italia siamo appena al 6 per cento). In altri paesi la casa ad affitto agevolato, segnalano sociologi e urbanisti, non è soltanto la risposta a un bisogno, è anche il supporto logistico per una società molto attiva, mobile, che attira studenti, ricercatori, artisti, sebbene per periodi temporanei. È il frutto di una concezione diversa dell’abitare, molto elastica, fondata su un recupero del senso di vicinato, che si spinge fino al cohousing, l’abitare in comune, una delle tante forme di contrasto nei confronti della città sempre più frammentata e individualista. L’housing sociale è visto in altri paesi come l’occasione per rigene­67

rare quartieri in declino, per immettervi energie fresche, per ricostruirne le parti più degradate, per alimentare un circuito di attività artigianali, di produzioni sostenibili, per formare comunità provvisorie ma continuamente rinnovabili (dagli orti collettivi ai gruppi di spesa), per introdurre stili di vita solidali, meno orientati allo spreco. La questione oltrepassa l’abitare come soluzione di un problema o, peggio, come prodotto di un’attività edilizia quale che sia. Investe molte discipline, interroga quelle più tradizionali (dall’architettura alla botanica), spalanca le porte a ricerche innovative. In Italia, dove il 70 per cento del patrimonio edilizio è di proprietà, si parte da una condizione molto svantaggiata. La Roma che sfrutta gli studenti affittando un letto, solo il letto, a 350/400 euro al mese (l’espressione usata è “a cuscino”) impiegherà molti anni per portarsi al livello della vitalità di Berlino o di Amsterdam. Ma anche a Roma molti spingono in questa direzione e pensano che i tempi siano maturi perché la mano pubblica percorra strade diverse da quelle del passato (l’edilizia popolare, i Peep...), rivelatesi parzialmente insufficienti, senza però finire in bocca alla più spregiudicata delle speculazioni private. Gli “ambiti di riserva” vanno in questa direzione? O l’housing sociale viene esibito come uno slogan, uno dei nuovi feticci della retorica immobiliarista, considerando anche che se lo si pratica o semplicemente promette, si versano al Comune minori oneri di urbanizzazione? Stando ai piani di Alemanno, le case ad affitti agevolati sono realizzate da privati i quali ottengono in cambio licenze per costruire altre case da vendere a mercato libero. La consueta logica di tutte le negoziazioni fra pubblico e privato: il pubblico non ha i soldi per fare quel che vorrebbe, lo fa fare al privato che come contropartita esige cubature. Spesso, però, come abbiamo visto, è lo stesso privato che suggerisce al pubblico un’esigenza che quest’ultimo può soddisfare solo dando al primo la possibilità di costruire quel che vuole. Quante saranno le case ­68

in housing sociale e quante andranno a libero mercato? Non è chiarissimo. Dipende dalle singole convenzioni che il Comune sottoscrive con costruttori e proprietari delle aree. Ma qualche elemento lo si può ricavare dalle linee di indirizzo del Piano Casa, fissate dal Campidoglio nel marzo 2010, che stimavano un fabbisogno abitativo di 25.700 alloggi. In quello stesso documento si sosteneva che l’housing sociale avrebbe assicurato una quota di 7.000 alloggi. Se ne può ricavare quindi che dei 66 mila alloggi previsti negli “ambiti di riserva” quasi 60 mila sono a libero mercato. Si costruiscono 10 appartamenti perché 1 vada ad affitto agevolato. Se queste cifre fossero confermate, i vantaggi per la città e per i suoi abitanti maggiormente in sofferenza diventano incerti, quelli per la rendita fondiaria sono certi e immediati. In Campidoglio assicurano poi che l’importo dell’affitto agevolato si aggira sui 6 euro al metro quadrato, che vuol dire 420 euro per una casa di 70 metri quadrati, due stanze, doppio bagno, angolo cottura e soggiorno. Ma su questa materia, appunto, non esistono norme di legge. Appena eletto, comunque, Alemanno lanciò un bando. I proprietari di aree agricole potevano farsi avanti mettendo a disposizione i loro terreni per costruire case. Sono arrivate 334 proposte. Una commissione le ha valutate e ne sono state selezionate 160 (che potrebbero forse scendere a 135: ma sono pur sempre 20 milioni di metri cubi). Il Comune sostiene che si tratta solo di una ricognizione. Mancano passaggi fondamentali, primo fra tutti l’approvazione di una variante urbanistica in Consiglio comunale, che la maggioranza di centrodestra si era impegnata a varare entro la fine della legislatura. Ma non sfugge alle associazioni ambientaliste e ai comitati quanto la pubblicazione della lista sul sito del Comune abbia generato fin da subito aspettative sfruttabili elettoralmente, abbia fatto sentire i proprietari selezionati in possesso di diritti (non diritti edificatori, ma qualcosa che gli assomiglia) e soprattutto abbia innescato meccanismi di va­69

lorizzazione fondiaria: i 160 della lista, letto il loro nome, hanno immediatamente realizzato che da quel momento il loro terreno valeva di più. Nel X Municipio sono circolati depliant di cooperative edilizie che si proponevano di rilevare terreni e che già promettevano appartamenti ad affitto agevolato. Da nord a sud, da est a ovest, la mappa degli “ambiti di riserva” che compare in rete, sul sito del Comune, è un florilegio di puntini neri sparpagliati ovunque, senza nessuna logica di pianificazione. Senza nessun supporto del trasporto pubblico. Basti pensare che una delle prescrizioni imposte dal bando del Comune è che il terreno sul quale costruire sia a non più di 2 chilometri e mezzo da una fermata dell’autobus. Che comunque deve essere raggiunta in macchina (gli “ambiti di riserva” previsti nel Piano potevano arrivare a 500 metri). I tagli dei terreni sono vari. Si va dai 2 ettari e poco più a Tor Vergata, dove si possono realizzare 82 appartamenti, ai 90 ettari complessivi della società agricola Cornacchiola, dove di appartamenti se ne possono fare 2.500. Questo terreno, diviso in due parti, è il più grande degli insediamenti previsti in tutta Roma, ma non è solo questo il primato di cui può fregiarsi. Questi 90 ettari si stendono proprio al confine con il Parco dell’Appia Antica, zona con vincoli di ogni genere, archeologici e paesaggistici e che, nonostante tutte le norme impongono debba restare integra, potrebbe essere lo scenario di stupefacente bellezza sul quale affacceranno finestre, balconi e terrazzi di oltre cinquemila persone. Un vero sfregio per la Regina viarum, che si aggiungerebbe agli abusi che la vilipendono da decenni. Ma sono picchiettate di lottizzazioni zone adiacenti altri parchi, come quelli di Veio, della Marcigliana o la Riserva del Litorale. Uno dei rilievi polemici sollevati di fronte alle compensazioni previste nel Piano era che esse amplificavano oltre ogni misura accettabile l’edificato nella campagna romana, aggravando la dispersione abitativa di cui Roma patisce conseguenze drammatiche e che è in atto da de­70

cenni. Con le compensazioni si tolgono cubature previste dentro la città, si moltiplicano per due, tre, anche quattro volte e le si fanno atterrare nella campagna romana. E così altri insediamenti dormitorio si affiancano a quelli che già ci sono, si sparpagliano dove prima si coltivavano ortaggi pregiati e pascolavano pecore e mucche. Chi risiede in queste enclave ha l’illusione di vivere nel verde, di abitare in un’oasi di bioedilizia, a consumo energetico zero (così recitano gli slogan delle agenzie immobiliari), ma tutte le mattine si danna l’anima trascorrendo ore fermo in macchina sulla Cassia, la Tiburtina, la Laurentina o la Collatina oppure intasando il Raccordo anulare e, ovunque sia, inalando gas di scarico e nevrosi. Indici accettabili di mobilità si allontanano, il trasporto pubblico non ci prova neanche a spingersi in questi brandelli di abitato che vanno oltre la periferia. Alla sola auto privata è affidata la possibilità di movimento per centinaia di migliaia di romani, in crescita costante, per i quali la città diventa sempre meno accessibile e la cui vita perde ogni giorno un pezzo di socialità. Le compensazioni, gli “ambiti di riserva”, e anche le centralità, perseverano la “macchia d’olio” che Cederna raccontava negli anni Cinquanta, l’aggravano, imbrattano d’unto paesaggi struggenti. E non occorre essere esperti di scienze trasportistiche per cogliere quanto la mappa con la localizzazione delle aree proposte e accolte per gli “ambiti di riserva” è destinata a peggiorare l’affanno che rallenta il respiro della città. E quanto sia distante un organismo urbano così concepito da quelli che l’housing sociale l’adottano come una delle caratteristiche di una città che si rinnova e si rende più amichevole, perché offre a chi è in difficoltà e ai più giovani un modo di abitare solidale. «Dal bando per l’housing ci aspettavamo un disastro», sbotta Lorenzo Parlati, presidente di Legambien­te Lazio, «ma i risultati sono peggiori di qualsiasi incubo. L’associazione dei costruttori aveva chiesto l’1 per cento del territorio e Alemanno ne elargisce quasi il 2. Una brutta ipoteca ­71

sul futuro, che rischia di generare diritti edificatori che non ci toglieremo più». Molto duro è anche il giudizio di Italia Nostra che si dice «assolutamente contraria a tale iniziativa perché porta a una dispersione caotica dei nuovi insediamenti residenziali che non rispondono ad alcun progetto di città ma sono determinati casualmente in base alle offerte della proprietà fondiaria. Prima di pensare a nuove urbanizzazioni dell’agro romano, sarebbe piuttosto necessario utilizzare le aree e i fabbricati dismessi o sottoutilizzati da censire immediatamente per trovare soluzioni alternative e più articolate all’emergenza abitativa». A Roma Nord, nel XIX Municipio, calano 29 “ambiti di riserva”, per un totale di 454 ettari e quasi 15 mila appartamenti. Un acquazzone cementizio anche nel confinante XX Municipio, 357 ettari compromessi da oltre 10 mila appartamenti. Il 40 per cento di tutti gli alloggi previsti, che si abbatteranno su Cesano, Osteria Nuova, Colle dei pini, Due pini, La Castelluccia, Olgiata, Prima Porta e Giustiniana, in aree a ridosso di quartieri abusivi, già in credito di servizi e di infrastrutture. Gli abitanti di questi due Municipi, dove risiede il Parco di Veio, dal quale sono arrivati alcuni capolavori archeologici ora custoditi nel Museo di Villa Giulia, si sentono presi alla gola. Il Consiglio del XX Municipio nel giugno del 2012 ha approvato all’unanimità un ordine del giorno in cui, pur essendo retto da una maggioranza di centrodestra, si invitano il sindaco Alemanno e l’assessore Corsini a non procedere con la variante urbanistica. Altri insediamenti per oltre 110 ettari si annunciano nella zona di Porta di Roma, sempre a nord della città, dove sono stati costruiti negli ultimi sei anni quasi 3 milioni di metri cubi e dove la sera, se ci si aggira fra le palazzine tirate su da Caltagirone, dai fratelli Toti e da Mezzaroma, i grandi nomi dell’edilizia romana, sono pochissime le finestre illuminate in un desolato panorama di case vuote. In pericolo le aree verdi di Selva Candida e Villa Santa, la Cecchignola, Colle della Strega. E altre palazzine potrebbero prendere il posto degli ulivi secolari ­72

nei 30 ettari di una tenuta a pochi metri da Villa Senni, un edificio storico sull’Anagnina. Anche qui vincoli paesaggistici e vincoli archeologici non sono bastati: questo terreno è finito nella lista che potrebbe sconvolgere gli assetti già molto precari di tutta la città.

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Un inferno a quattro ruote

La Roma sparpagliata nella campagna che la circonda, che cresce caoticamente seguendo in prevalenza direttrici speculative, è la Roma che ha bisogno di 978 mezzi a motore, macchine e motociclette, ogni mille abitanti. È la Roma che vanta appena 41,5 chilometri di metropolitana, distribuiti per ora su due linee (saranno un po’ più del doppio quando entreranno in funzione le altre, ma nessuno fa previsioni sui tempi). E che non regge il confronto con Parigi, che di linee ne ha 16 per 200 chilometri, con Londra, 13 linee per 460 chilometri, con Città del Messico (12 linee, 220 chilometri), New York (26 linee, 368 chilometri), Shanghai (12 linee, 407 chilometri), ma neanche Santiago del Cile (5 linee, 110 chilometri), Boston (4 linee, 102 chilometri), Denver (6 linee, 56 chilometri), Teheran (4 linee, 140 chilometri), Atene (3 linee, 55 chilometri), Bucarest (4 linee, 70 chilometri). E neppure con Milano (3 linee, 84 chilometri), che ha una superficie sette volte inferiore e metà popolazione, oppure con Napoli che con 3 linee copre 30 chilometri, ma ha un territorio undici volte più piccolo e abitanti una volta e mezzo di meno. Si ripete spesso che Roma sconta un ritardo decennale (la prima metropolitana fu inaugurata nel 1955, a Londra nel 1863, a Boston nel 1897, a Parigi nel 1900, a New York nel 1904), un ritardo che non si colma in pochi anni e che, più probabilmente, mai si colmerà avendo coperto con 60 ­74

mila ettari di edificato i suoi 129 mila ettari di territorio. E costruire una metropolitana dove già c’è la città e non prima che questa sorga, indirizzandone anzi le direzioni di marcia, è una fatica immane, molto superiore a quella che si evoca sugli strati archeologici sottostanti. Ma sono la forma e la consistenza assunte da Roma a rendere impossibile un impegnativo programma di sviluppo delle metropolitane: la città si espande troppo e si dirada in maniera incompatibile con la densità che una metropolitana richiede. È poi vero che a Roma esistono linee di ferrovia metropolitana che servono il territorio regionale e che nella capitale, cambiando passo, fungono appunto da metropolitana (la Fara Sabina-Fiumicino e la OstienseCesano-Viterbo). Però la loro frequenza in molte ore della giornata non supera il treno ogni 15 minuti e la loro cronica inefficienza viene pagata quotidianamente dalle migliaia di persone che ne usufruiscono. La costruzione di una metropolitana e di un’affidabile rete su ferro non si misura solo con il fattore tempo. È il prodotto di scelte urbanistiche e le scelte urbanistiche a Roma sono state compiute e sono in gran parte irreversibili, cristallizzate in una struttura che fisicamente impedisce di essere sottoattraversata e che, a causa dei tanti, piccoli brandelli che Roma disperde nel vasto territorio comunale, rende incompatibile dal punto di vista finanziario una maglia di metropolitane più fitta. Un treno metropolitano porta dalle 10 mila alle 20 mila persone l’ora. Non a tutte le ore del giorno. Ma quando serve, la mattina dopo le 7 e fino alle 9, la sera dalle 17 fino alle 20, deve poter correre a pieno carico, altrimenti l’investimento per la sua costruzione, per il suo uso e la sua manutenzione è uno spreco che la finanza pubblica non può permettersi. Roma è una città a bassa densità. È una delle città europee con la più alta quantità di suolo urbanizzato per abitante, circa 230 metri quadrati per ognuno di loro. Benissimo, si dirà. Non si sta ammassati. C’è tanto spazio. Vivere in una città slabbrata, insegna la disciplina urbanistica, ha ­75

però molti svantaggi. Negli ultimi sessant’anni la crescita di Roma ha seguito un modello di diffusione abitativa, di vera dispersione, che ha portato a urbanizzare un’enorme quantità di suolo. E il Piano regolatore del 2008 non ha invertito questa direzione di marcia. Lo dicono i dati: fra 60 e 70 milioni di nuovi metri cubi, altri 15 mila ettari di campagna romana consumati. Le centralità sono quasi tutte molto esterne. Le compensazioni ancora di più. E in aggiunta, abbiamo visto, Roma potrebbe crescere anche oltre i confini del Piano. Gli “ambiti di riserva” di Alemanno, se realizzati, sposteranno fuori della città già costruita altri 23 milioni di metri cubi, 2.400 ettari di suolo. È possibile rincorrere con le metropolitane questi brandelli di città che si spostano di continuo? E quanto sono grandi, quanto sono densi questi brandelli? Ed è possibile inseguire sia grandi brandelli che piccoli brandelli, considerando che un chilometro di metropolitana a Roma costa, mediamente, 200 milioni? Una metropolitana ha bisogno che al suo percorso, alle sue stazioni e ai suoi capolinea corrispondano insediamenti cospicui, tali da garantire un carico di persone che renda fruttuoso – socialmente, non in termini imprenditoriali – l’investimento che assorbe. Non c’è solo la metropolitana, inoltre. Ci sono gli autobus e soprattutto ci sarebbero i tram, con un carico di persone inferiore alla metropolitana, e con costi infinitamente più bassi. Già, i tram. I tram hanno iniziato a circolare a Roma dalla fine dell’Ottocento, con l’elettrificazione della linea Termini-San Silvestro. Poi, nei primi anni del Novecento, grazie all’impulso dell’amministrazione di Ernesto Nathan, arrivarono a coprire 400 chilometri correndo su 50 linee, quasi un primato in Europa, che fu annichilito dal regime fascista il quale, nel 1930, decise di smantellare il sistema per sostituirlo con filobus e autobus. I tram sono sopravvissuti a tratti e da allora solo negli anni Novanta – sindaco Rutelli, assessore Walter Tocci, consulente Italo Insolera – si è cercato di riproporli; qualcosa si è ottenuto, poi ci si è di nuovo fermati. Ora se ne riparla, un ­76

rapporto di “Roma servizi per la mobilità” (una struttura del Comune), uscito nell’autunno del 2012, auspica che si torni a puntare su di essi. Ma al momento si tratta solo di uno studio. Una diagnosi su come ci si muove a Roma – che è una delle voci per capire se una città funziona ed è anche un parametro fondamentale per misurare quanto viga il diritto alla città, il grado di accessibilità ad essa – è contenuta in un documento ufficiale del Comune, il Piano strategico per una mobilità sostenibile redatto nel 2009 da una commissione incaricata dalla giunta Alemanno. È un documento pieno di numeri che danno l’entità reale della sofferenza patita soprattutto dai ceti più deboli. Degli oltre 7 milioni di spostamenti che tutti i giorni feriali si realizzano a Roma (ogni residente che ha più di 14 anni ne compie in media 2,4), circa il 9 per cento si svolgono di mattina, nelle ore di punta (sono, per l’esattezza, 564 mila). Ebbene, il 67 per cento di questi spostamenti avviene con la macchina (52 per cento) o con la moto (15 per cento). Soltanto il 27 per cento è smaltito dal mezzo pubblico. Stando sempre al rapporto, sono 570 i chilometri di strada che nelle ore di punta sono intasati. Mettendo a confronto le strade congestionate e quelle libere, si calcola che le ore perse nel traffico sono 135 milioni ogni anno. E si compie anche una valutazione economica, che lascia il tempo che trova ma che val la pena segnalare: la paralisi del traffico fa perdere un miliardo e mezzo l’anno. E poi ci sono i costi ambientali (calcolati però da comitati di cittadini, da Calma e da Mobilitiamoci, in primo luogo): la media annua di concentrazione di polveri sottili è di 33 microgrammi per metro cubo, 7 microgrammi in meno dei limiti di legge. Ma se si rispettasse la soglia consigliata dall’Organizzazione mondiale della sanità, cioè 20 microgrammi per metro cubo, morirebbero 200 persone in meno ogni anno per malattie respiratorie e cardiache. E inoltre dovrebbero essere non più di 35 i giorni in cui si può superare la soglia di 50 microgrammi di polveri sottili per metro cubo. Ma ­77

le centraline di Corso Francia di giorni ne contano 68, quelle di Largo Preneste 62, quelle di via Magna Grecia e di Bufalotta 37. Ancora più serio l’inquinamento da biossido d’azoto: viene scavalcato sia il limite medio annuo, 40 microgrammi per metro cubo, sia il numero di ore, 18, in cui è possibile oltrepassare la quantità oraria, 200 microgrammi per metro cubo. Chi a Roma usa la macchina nelle ore di punta deve calcolare che percorrerà una distanza media di 12,5 chilometri in 45 minuti, che potrebbero essere 20 se le strade fossero sgombre. L’evidenza, segnalano gli autori del Piano strategico, «è quindi di un sistema di mobilità le cui prestazioni sono progressivamente degradate negli anni». Non tutto il territorio comunale, si legge ancora in quel documento, è affetto dalle stesse patologie. «In termini di uso dei diversi modi di trasporto», dice burocraticamente il rapporto, «abbiamo una città in chiaroscuro con le aree centrali, in particolare all’interno dell’anello ferroviario, caratterizzate da un utilizzo del trasporto pubblico a livello delle migliori città europee (fino al 50 per cento in destinazione), mentre al di fuori dell’anello le percentuali scendono fino al 15 per cento». L’anello ferroviario è, grosso modo, il centro storico, la zona a traffico limitato (Ztl) più tutto il costruito all’altezza degli anni Cinquanta del Novecento. Qui si circola bene con metropolitana, autobus e tram. Appena si esce da questi confini e si avvia la navigazione nel cosiddetto sistema tangenziale intermedio (la zona delimitata da via Palmiro Togliatti, via dei Colli Portuensi e via di Pineta Sacchetti), nella fascia intorno al Raccordo anulare e poi ci si avventura oltre, fino ai limiti del territorio comunale, muoversi con i mezzi pubblici è un’impresa residuale. Chi si dirige verso il centro storico, dove la Ztl è teoricamente consentita a pochi, usa per il 24 per cento la macchina, per il 22 la moto e per il 50 si serve del mezzo pubblico. Questi rapporti si ribaltano se una persona si dirige verso la circonvallazione intermedia (58 per cento con la macchina, 12 con la moto, 12 con il mezzo ­78

pubblico), verso il Raccordo anulare (73 per cento con la macchina, 12 con la moto, 12 con il mezzo pubblico) o verso i confini del territorio comunale (76 per cento con la macchina, 8 con la moto, 9 con i mezzi pubblici). Chi, compiendo il percorso contrario, si muove dal Raccordo anulare oppure dagli insediamenti oltre il Raccordo prende la macchina rispettivamente per il 58 e il 57 per cento, riservando al mezzo pubblico il 21 e il 23 per cento. Roma è una città a misura di auto privata, quasi fosse un’autostrada dove è impossibile un’alternativa alle quattro ruote. La certificazione di questo malessere reca la data del 2009. Ma il traffico a Roma era già considerato un’emergenza. Non in senso banalmente deprecatorio, ma politico e giuridico. Nel 2006, infatti, il presidente del Consiglio Romano Prodi ha attribuito al sindaco di Roma Walter Veltroni i poteri di commissario straordinario per il traffico della capitale. Che così viene assimilato a una catastrofe naturale. Poteri eccezionali. Procedure semplificate. Deroghe a molte normative vigenti. Controlli attenuati. La consueta trafila da sistema di Protezione civile che l’Italia ha sperimentato e per il quale ha ancora i panni laceri, dal G8 della Maddalena al terremoto dell’Aquila, da Pompei all’area archeologica romana. Il regime commissariale, assunto poi da Gianni Alemanno, doveva durare fino al 2008, ma è stato prorogato ogni anno ed è nuovamente scaduto alla fine del 2012. Nel gennaio del 2013 il governo Monti, su sollecitazione di centrodestra e centrosinistra, l’ha prorogato di nuovo. Il Comune avrebbe dovuto realizzare parcheggi, aree pedonali, piste ciclabili, vie e corsie riservate agli autobus e poi potenziare il trasporto pubblico e reprimere più duramente chi viola il codice della strada. Un impegno sproporzionato è stato riservato ai parcheggi (ne parleremo più oltre), quasi che l’ordinanza fosse un vestito su misura per essi. Per quanto riguarda il resto, invece, qualunque cittadino romano può misurare il bilancio sulla propria pelle. Giorgio Bertini, del comitato Mobilitiamoci, ha spulciato i rendiconti della struttura ­79

commissariale e la sua prima reazione è stata di raccapriccio: miserevoli, illeggibili schede, senza uno straccio di analisi e di documentazione, attestanti che solo meno di un decimo degli interventi previsti è stato realizzato. E questo «nonostante i poteri speciali attribuiti in tema di procedure per espropri, appalti, istruttorie archeologiche, conferenze dei servizi e procedure partecipative». Dimostrazione quasi plastica di quanto i commissariamenti stravolgano regole e non producano effetti. Questa è la fotografia del presente. E per il futuro? Dal 2009, data del Piano strategico, alla fine del 2012 si è allungata di quasi 4 chilometri la metro B, da piazza Bologna a via Conca d’Oro. Altri prolungamenti sono annunciati, li abbiamo visti, verso Bufalotta e verso Casal Monastero, sempre ammesso che si realizzino risolvendo il contenzioso con gli abitanti del IV Municipio che non vogliono lo scambio metropolitana/nuove cubature. Ed è in cantiere la linea C, un cantiere interminabile, di fatto vicino alla paralisi, mentre c’è un progetto per la D. Quando tutto questo sarà avvenuto, si legge nel rapporto del 2009, l’offerta di metropolitana crescerà del 61 per cento. Quali saranno gli effetti sulla mobilità? Notevoli, immaginerebbe chiunque. La “cura del ferro”, come è stata battezzata, potrebbe produrre se non la guarigione del paziente almeno il contenimento delle patologie più dolorose. Ma sono gli stessi autori del rapporto a gelare ogni illusione, confermando l’idea che se non si interviene sulla forma e sulla struttura fisica della città gli investimenti sul trasporto pubblico perdono molta efficacia. Complessivamente, prevedono gli autori del rapporto, gli spostamenti con la macchina scenderanno dal 52 al 48 per cento (i tragitti con la moto resteranno praticamente uguali). Questa la stima in termini generali su tutto il territorio comunale; quanto poi alla ripartizione fra zone centrali e periferiche, la previsione è che «il traffico automobilistico si ridurrà nelle fasce più centrali della città e tenderà a incrementare in quelle periferiche» (il corsivo è nostro). D’altronde le simulazioni ­80

su come si dislocherà la popolazione di Roma nei prossimi anni elaborate nel Piano per la mobilità sulla base del Piano regolatore indicano che gli abitanti all’interno del Raccordo anulare saranno più o meno stabili, scenderanno di poche decine di migliaia, da 2 milioni 140 mila a 2 milioni 80 mila. In termini percentuali, dal 76 si passerà al 71 per cento. È fuori dal Raccordo anulare che crescono i romani: attualmente sono 705 mila, diventeranno 895 mila, con un aumento di circa il 30 per cento. Molto più accentuato, sempre secondo il Piano per la mobilità, è l’incremento di chi andrà a lavorare fuori dal Raccordo: ora sono 195 mila persone, presto saranno 320, il 64 per cento in più, mentre dentro il perimetro dello stesso Raccordo si sale da 980 mila a 1 milione 30 mila (+5 per cento). In queste sintetiche affermazioni, in queste cifre, è contenuta la diagnosi di una malattia che nessuno si è incaricato negli ultimi anni né di guarire né di lenire. Prima con poteri ordinari e quindi con poteri commissariali. Anzi, si è lasciato che il paziente andasse incontro a un peggioramento delle proprie condizioni fino a vedere intaccata la sua fibra vitale. Roma si espande senza regola, anzi assecondando la regola fissata dai proprietari dei suoli, colloca sempre più distanti dal centro sia la residenza che i luoghi di lavoro. Anche se la metropolitana accrescesse la propria offerta, molto di più cresce la città, sparpagliandosi e diradandosi, per cui il mezzo pubblico sotterraneo arrancherebbe faticosamente e dispendiosamente dietro una preda che non afferrerà mai, fino a rassegnarsi e ad arrendersi. «Come ulteriore effetto negativo per le aree periferiche», si legge ancora nel rapporto del Comune, «si stima l’allungamento dei percorsi dovuto alla “polverizzazione” della città verso l’esterno dove peraltro è più difficile garantire servizi di trasporto pubblico efficaci». Aumenterà il pendolarismo, e questo aumento sarà messo in carico prevalentemente, quasi esclusivamente, a macchine e moto. Che, a loro volta, caricheranno sulla ­81

città gas di scarico, congestione, costi elevati, stress e altro disagio sociale. A cavallo del Raccordo e fuori di esso si sta formando un sistema di insediamenti composto di tante monadi che non comunicano e che mai potranno usufruire di un trasporto pubblico su rotaia. Perché sorge troppo lontano anche dalle estreme periferie e perché è caratterizzato da una bassissima densità. Si mescolano edilizia abusiva ed edilizia legale, abitazioni e officine, centri commerciali e aziende all’avanguardia, fabbrichette e palazzi a specchio. Pezzi di città che si aggiungono ad altri pezzi, senza connessioni e con l’intenzione, anzi, di sanare il preesistente e invece appesantendolo, dando l’avvio a un processo che può proseguire all’infinito. Roma città infinita. Ma Roma è lontana, indifferente, nulla è stato pianificato per consentire al milione e oltre di romani che qui abitano, ci abiteranno e ci lavorano di sentirsi parte di una comunità cittadina. Il Campidoglio ha lasciato fare come si lasciava fare quando si formavano i borghetti abusivi sulle sponde delle marrane. Un’altra immagine del futuro è consegnata in un rapporto anch’esso redatto da una struttura del Comune, la già citata “Roma servizi per la mobilità”. E come talvolta accade, il futuro attinge a quel repertorio che il passato ha coltivato, ma poi chiuso in una soffitta. In questo rapporto torna l’idea del vecchio tram sul quale, abbinato a un potenziamento delle linee ferroviarie, si chiede di investire 2 miliardi per raddoppiarne entro il 2020 la misera gittata di oggi (da 38 a 73 chilometri), nella convinzione – si legge – «che un chilometro di tram costa circa 1/10 di un chilometro di metropolitana». Tram in varie zone della città, dalla stazione Termini al Casaletto, lungo la via Palmiro Togliatti, lungo la Casilina, da Prati e poi sul Lungotevere fino a Trastevere, da viale Jonio a Ponte Mammolo. Il rapporto si sbizzarrisce in previsioni: «Gli interventi individuati ridurrebbero l’ingresso nel territorio di Roma di un numero di veicoli privati tale da occupare una superficie cittadina ­82

pari a circa 20 volte il Circo Massimo, 1,5 volte Villa Borghese oppure l’intero tridente». Quanto il programma sia realistico lo diranno i prossimi anni. Il tram restituisce a Roma le immagini di un Novecento sbiadito, consegnato ai film del neorealismo e della prima commedia all’italiana, ad Aldo Fabrizi e Memmo Carotenuto. Ma anche quelle delle grandi città europee che su questo mezzo poco inquinante, ormai tecnologicamente raffinatissimo, hanno investito energicamente. Di tram è appassionato Walter Tocci. Tocci è s­ tato dirigente del Pci romano, fra il 1993 e il 2001 vicesinda­co della città e assessore alla mobilità. È stato parlamentare del Pd. È laureato in fisica e figura fra i più attivi esponenti della politica romana sul finire degli anni Ottanta, nelle discussioni sull’urbanistica, sul modello di città che si pensava di poter realizzare una volta ritirata, se si fosse ritirata, l’onda privatistica diffusa nel decennio e che aveva dilagato anche a sinistra. Si usciva dalla sconfitta elettorale del 1985, che molti addebitavano alla deludente esperienza delle giunte Pci-Psi successive alla morte di Luigi Petroselli nel 1981. Nel Pci romano, ha ricordato Vezio De Lucia, si avviò una riflessione autocritica sulla necessità «di restituire alla pianificazione urbanistica il ruolo di strumento irrinunciabile per il governo della città». Tocci era il capofila di un gruppo che diede vita a convegni, a documenti sullo Sdo (il Sistema direzionale orientale), sul progetto Fori, sull’abusivismo, su un nuovo Piano regolatore. Ai dibattiti partecipava anche Antonio Cederna, che nel 1987 fu eletto deputato della Sinistra indipendente e nel 1990 consigliere comunale. La Tangentopoli romana manifestava la sua potenza corruttiva proprio sulle vicende urbanistiche. Quelle elaborazioni si spinsero fin dentro il programma elettorale di Rutelli – sindaco dal 1993. Tocci fu il vicesindaco dell’amministrazione che impresse una svolta nei metodi di governo e anche nello stile della politica cittadina che negli anni immediatamente precedenti aveva oltrepassato il grado minimo della decenza. Parchi ­83

realizzati o sistemati, piazze costruite nei quartieri periferici, anche con i soldi sottratti ai tangentisti, pedonalizzazioni nel centro storico, le opere per il Giubileo – alcune discutibili – portate a termine nei tempi e senza mazzette: queste e altre le iniziative, almeno in materia urbanistica, che l’amministrazione poté vantare a proprio merito. Sono anche gli anni in cui si mette a punto il nuovo Piano regolatore della città, preceduto da due interventi di grande rilievo, la Variante di salvaguardia e il Piano delle certezze. A molto tempo di distanza da quelle vicende, il bilancio tracciato da Tocci è fatto di luci e di ombre. Più di ombre che di luci. È il solo, fra i dirigenti di quella stagione, ad aver scavato autocriticamente nelle ragioni che avrebbero portato a un’altra sconfitta cocente per il centrosinistra nel 2008. Ma la domanda che molti gli avranno rivolto in questi anni e che mi sono sentito di rilanciare quando l’ho incontrato riguarda il perché non abbia fatto valere di più le sue osservazioni critiche, perché non le abbia rese sufficientemente di dominio pubblico e come sia riuscito a condividere da posizioni di vertice – vicesindaco – scelte che lo convincevano solo fino a un certo punto. Scelte non marginali, come è appunto l’impostazione del Piano regolatore. Tocci partecipò a quelle discussioni portando le simulazioni che aveva commissionato ai suoi uffici. La giunta Rutelli stava per scadere, il sindaco era in procinto di candidarsi quale premier del centrosinistra. Fu un “testamento politico”. In quelle simulazioni balzava il difetto di lungimiranza del Piano che si faceva trascinare dal fiume in piena di un mercato edilizio in tumultuosa espansione e che, sebbene si proponesse di rallentarne la corsa, assecondava una crescita ad libitum intrapresa negli anni Cinquanta, ratificata dal precedente Piano regolatore (1962-1965) e proseguita in forme legali e illegali fino alle soglie del nuovo millennio. In quelle pagine emergeva la drammatica previsione di un futuro della città fatto di affanni. Se si fossero investiti 25 mila miliardi di lire in un ­84

«eroico programma di investimenti infrastrutturali» – racconta Tocci – un programma finanziariamente ipotetico, la cosiddetta “cura del ferro”, con le previsioni contenute nel Piano regolatore che fissavano quel genere di espansioni, il rapporto fra pedoni e utenti del mezzo pubblico da una parte e guidatori di auto e di moto dall’altro sarebbe passato dall’attuale 34/66 a un ben più equilibrato 44/56. Sempre poco rispetto ad altre capitali non solo europee, ma ci si sarebbe potuti provvisoriamente accontentare in una città con un deficit pesante di trasporto pubblico come Roma. Il problema, denunciò allora Tocci, era come al solito la ripartizione fra zone centrali, dove si sarebbe schizzati da un soddisfacente 56/44 a un eccellente 67/33, zone dentro l’anello ferroviario, dove addirittura da 44/56 si saltava a 64/36 (+ 20 punti tutti a favore di trasporto pubblico e pedoni), e zone periferiche. Qui cominciavano i dolori. Nella periferia storica si passava da 28/72 a 36/64, appena 8 punti. Ma negli insediamenti dentro e fuori del Raccordo anulare si andava, nel primo caso, da 22/78 a 26/74, nel secondo, da 20/80 a 25/75. Furono immaginati degli scenari. Se si fosse realizzato il solo investimento in infrastrutture, il traffico automobilistico sarebbe calato del 15 per cento. Se non si fosse avviata nessuna “cura del ferro”, ma solo l’espansione indicata dal Piano regolatore, il traffico di macchine e motorini sarebbe cresciuto del 10 per cento. Con Piano regolatore e “cura del ferro” insieme, il traffico diminuiva di poco più del 3 per cento. Un’inezia. «È una specie di tiro alla fune tra la tendenza al miglioramento prodotta dalle opere infrastrutturali e quella al peggioramento determinata dalla politica urbanistica. La prima è comunque necessaria per sanare un deficit storico, costantemente cresciuto nel Novecento, la seconda è una forza frenante che vanifica i tre quarti dei vantaggi ottenuti dalla prima». Queste simulazioni Tocci le consegnò alla giunta in un volume del 2001 che si intitola Proimo. Programma integrato mobilità. Le ha poi riprodotte in un libro uscito nel ­85

2008 e scritto insieme a Insolera e a Domitilla Morandi, Avanti c’è posto. Storie e progetti del trasporto pubblico a Roma. «Accertammo», racconta ora Tocci, «che la periferia anulare era incurabile o, almeno, che i programmi dell’amministrazione non erano sufficienti a farne una città normale. Un quartiere che veniva realizzato in quella zona, pur dopo dissanguanti investimenti in infrastrutture, era in grado di offrire ai cittadini un’accessibilità su ferro tre volte più bassa della media cittadina e sei volte più bassa dell’area centrale». E invece di quartieri che si addossavano o scavalcavano il Raccordo anulare il Piano regolatore ne prevedeva tanti. In giunta si discuteva. Non è come ora – aggiunge Tocci – che non ci sono più sedi in cui si elabori un pensiero, i partiti sono sezionati in correnti. Allora, siamo a cavallo del secolo, ancora si dibatteva fra tesi in conflitto. «Io sostenevo che non si poteva espandere ancora la città nell’hinterland. I miei colleghi, il sindaco, ribattevano che si era già tagliato tanto rispetto alle previsioni edificatorie del vecchio Piano e che i proprietari delle aree non li si poteva ammazzare. Io insistevo: non esistono diritti edificatori, questo è un nuovo Piano. E, comunque, se vogliamo mediare, mediamo, ma togliendo le edificabilità alla Bufalotta, a Ponte di Nona e a Tor Pagnotta, sulla Laurentina, perché lì non arriverà mai nessuna rete di trasporto pubblico, e andando invece a costruire pezzi di città intorno alle stazioni della metropolitana che già ci sono, dove le aree sono pubbliche e che ora sono lande desolate, come a Ponte Mammolo, dove arrivano metropolitane, autobus dell’Atac e del Cotral e dove non c’è un bar nel raggio di chilometri. Lì serve che la città si densifichi, non a Bufalotta». Ma a Bufalotta la proprietà è dei Toti, a Ponte di Nona di Francesco Gaetano Caltagirone... «Lo so di chi sono quelle proprietà. Ma perché non si fa come fece Petroselli? Petroselli era consapevole che non poteva governare Roma mettendo al muro i grandi, i medi e i piccoli costruttori. Ma fece capire a tutti che a lui interessava pianificare la città, edificare, ma non consentire speculazioni ­86

sulle aree. Uno si compra un pezzo, un altro se ne compra un altro, poi vengono in Campidoglio e pretendono che il sindaco li dichiari edificabili, guadagnandoci un sacco di soldi senza battere ciglio. Allora presidente dei costruttori era Carlo Odorisio, una persona intelligente. Comprese che le possibilità di lavorare erano elevate e faticò non poco a convincere i suoi associati, i palazzinari. Per tre anni si procedette in questa direzione, fra contraddizioni ed errori, ma seguendo un obiettivo preciso. Poi, morto Petroselli, anche nel Pci prevalse una linea diversa, e si tornò alla mediazione con la rendita». Il traffico di Roma non è un problema che si può isolare dalla forma che ha assunto la città. E forse, dice Tocci con effetto di paradosso, non è neanche un problema, rispetto a quello della sosta. O rispetto, aggiunge, a quello dell’accessibilità, che è la possibilità per ognuno dei suoi abitanti di accedere a tutto quel che la città offre, un valore diverso dalla mobilità, la quale si concentra prevalentemente sullo strumento del muoversi e non sul fine. Un tempo si pensava che la macchina fosse lo strumento ideale per spostarsi in piena libertà, partendo e arrivando all’ora desiderata e fermandosi a seconda della necessità. Adesso ancora si fa fatica a capire che molta parte di un organismo urbano, per esempio il centro storico, è intrinsecamente inadatto a ospitare le macchine. Per questo la mobilità, spiega Tocci, può diventare l’antitesi dell’accessibilità. Si punta a fluidificare il procedere delle auto, senza rendersi conto che così si sposta altrove il collo della bottiglia. Accessibilità, dunque, non mobilità. E l’accessibilità, diceva il presidente di una società dei trasporti di Parigi, «è una delle prime condizioni per il benessere di una città». In modo febbrile, invece, a Roma si prolunga il programma di bucare in più punti il suolo della città per farvi parcheggi. Un’altra delle occasioni in cui con affanno si tenta di rincorrere una preda – le macchine – che fugge in maniera inesorabile. Il Pup, il Piano urbano parcheggi, prende l’avvio circa vent’anni fa sulla base di una legge ­87

del 1989 che consentiva a privati di costruire parcheggi su suolo pubblico dato in concessione per novant’anni. Attualmente sono 187 i parcheggi privati su suolo pubblico realizzati o in via di realizzazione in tutta Roma (ai quali vanno aggiunti 56 parcheggi di privati su suolo privato, molti dei quali di proprietà di enti ecclesiastici, scuole private...). Il Comune di Roma ha però mire più ambiziose e, forte anche dei poteri straordinari assegnati al sindaco dal 2006, prevede 389 nuovi parcheggi (di cui 341 di privati su suolo pubblico) per un totale di 45 mila posti auto. Sulla vicenda si è scatenata a Roma una delle più vivaci vertenze fra comitati di cittadini da una parte, e Amministrazione e costruttori dall’altra. A differenza di altre battaglie ambientaliste, i comitati si sono riuniti in un coordinamento che ha come portavoce Anna Maria Bianchi. Anna Maria vive al Flaminio e da tre anni il suo impegno è senza tregua. Cura il sito, che si arricchisce di corposi dossier, raccoglie dati, sa tutto di cosa accade in altre città, sfodera garbo e fermezza quando parla con gli assessori e con il sindaco. I costruttori la temono. Qualcuno la ricopre di fantasiose accuse. E non si contano i parcheggi che il comitato riesce a bloccare o quantomeno a rimettere in discussione, imponendo modifiche. Dalla fine del 2012 è attivo un altro coordinamento, patrocinato da Anna Maria Bianchi, Maria Cristina Lattanzi, Gaia Pallottino e altri: si chiama Carte in regola ed è un embrione di quella piattaforma comune che i comitati stanno cercando. I parcheggi dovrebbero essere un servizio che il Comune, affidandolo alle imprese, realizza per togliere auto dalla strada (così recitano i proclami che accompagnano il provvedimento) e per soddisfare un bisogno di mobilità e accessibilità dei cittadini. Ma i comitati la vivono in altro modo: i parcheggi servono soprattutto a chi li costruisce. Quelli che si stanno realizzando nascono non per iniziativa del Comune, tantomeno di cittadini, ma di costruttori privati che hanno avanzato una richiesta al Campidoglio sulla base di un avviso pubblico, un trafiletto sistemato ­88

nelle pagine interne di un paio di quotidiani. Dove si realizza, quanti posti deve contenere, quanti box da vendere e quanti posti a rotazione: queste caratteristiche vengono proposte dai privati e accolte dal Comune senza alcun programma che individui i bisogni e ad essi risponda con interventi mirati. Non esiste uno straccio di pianificazione, nonostante la legge del 1989 prescriva che il Pup sia realizzato «sulla base di una preventiva valutazione del fabbisogno [...] indicando, tra l’altro, le localizzazioni, i dimensionamenti, le priorità d’intervento nonché le opere e gli interventi da realizzare in ciascun anno». È solo il mercato, la convenienza del privato, la speculazione – aggiungono i comitati No Pup – a decidere dove, come e perché. Non un’esigenza di mobilità, di accessibilità in qualche modo accertata da un’amministrazione pubblica. E così può succedere, segnala Anna Maria Bianchi, che sotto casa sua, a piazza Gentile da Fabriano, quartiere Flaminio, dove si prevedeva un parcheggio di un piano interrato, si è raddoppiato il volume: due piani. Perché? Perché al consorzio che lo costruisce è stato annullato un altro parcheggio al capo opposto di Roma e quello che è stato perso lì è stato trasferito qui. Che i box aggiuntivi servissero, in un’area dove di parcheggi se ne programmano già tanti, interrati o a raso (una decina nel raggio di un chilometro quadrato), è un altro paio di maniche. Dal quartiere Flaminio a Prati. In via Oslavia, dopo una battaglia estenuante e durata anni fra gli abitanti e l’assessore della giunta Veltroni, Mario Di Carlo, si è realizzato un parcheggio. Un anno dopo l’inaugurazione, nel 2010, la ditta che l’ha costruito, faticando molto a piazzare i box, ha presentato al Comune un “Piano di sosta” in cui, essendo molti appartamenti della zona non di proprietà, ma affittati a uffici, si chiedeva di essere esonerati dall’obbligo di vendere agli abitanti di quella o delle vie limitrofe. Prontamente la deroga è stata concessa: un box poteva essere acquistato anche da chi non possedeva un immobile, cioè da qualcuno che, qualora decidesse di di­89

sfarsene, avrebbe potuto farlo mettendolo liberamente sul mercato, perché non più di pertinenza di un appartamento. Successivamente, dicembre 2010, il Comune emette un’ordinanza (la n. 357) che abolisce ogni vincolo e così se inizialmente si potevano vendere i box ai proprietari di case solo nel raggio di 500 metri, poi esteso a 1.000, ora non ci sono più limiti: chiunque può comprare box dove vuole. A via Oslavia si era fatto un parcheggio senza che nessuno ne avesse accertato la effettiva necessità. E comunque, se il costruttore non vende, non è il mercato che lo induce a calare i prezzi, è il Comune che gli risolve i problemi. Qualche volta i Municipi si oppongono, ma il loro parere è solo consultivo. Le verifiche sulla sicurezza, sui rischi che corrono gli edifici circostanti – denunciano i comitati – sono carenti e le coperture assicurative, in caso di danni, del tutto insufficienti. Ed è così che parti consistenti del sottosuolo romano, di proprietà pubblica, transitano in mani private che ne fanno un uso speculativo secondo quei criteri che abbiamo già visto in vigore altrove. Costruire un box costa, in media, 30/35 mila euro. Ma il prezzo di vendita non è mai inferiore agli 80 mila nei quartieri semicentrali, con punte di 150 mila e anche oltre. Gli oneri concessori versati al Comune sono bassissimi rispetto ai profitti. «A piazza Gentile da Fabriano 138 box si vendono, in media, a 80 mila euro», mi dice Anna Maria Bianchi, «tolti i costi di costruzione c’è un guadagno che con la crisi e con i tanti box invenduti si aggira sui 5-6 milioni. Sa a quanto ammontano gli oneri? 700 mila euro per una concessione di 90 anni». E quel che il costruttore realizza in superficie, per coprire il parcheggio, è spesso un giardino striminzito con alberi che fanno fatica a campare perché le radici affondano in pochi centimetri di terra. A Piazza Bainsizza, in cambio del parcheggio di via Oslavia, gli abitanti hanno ottenuto in dono un’aiuola a forma di 8 con due collinette finte e una decina di panchine in ghisa. La consueta, stentata, spesso inventata, cosiddetta opera ­90

di riqualificazione offerta alla città in cambio di affari privati realizzati togliendo spazio al pubblico e che – secondo i comitati – ammontano a 2 miliardi. In piazza Cavour si è sistemata l’area verde davanti al Palazzo di Giustizia, ma il costo sopportato dal privato è un’infinitesima parte di quel che incassa vendendo i box (anche non tutti) e facendo parcheggiare le macchine a 2,80 euro l’ora. Non essendoci limiti, alcuni comprano più d’un box e poi li affittano. Come se fossero appartamenti. Non essendoci controlli, alcuni li usano come depositi. Se questi sono i meccanismi che regolano l’operazione, l’obiettivo per il quale i parcheggi erano pensati, un obiettivo contestato dai comitati, togliere auto dalla strada per far scorrere meglio il traffico, finisce in un cantuccio. E nessun sollievo è arrecato al problema della sosta di oltre due milioni e mezzo fra macchine e motorini che i romani hanno immatricolato: se anche si realizzassero tutti i sogni del Comune, i 45 mila posti risparmierebbero a pochissime persone l’ansia di sistemare la loro macchina. Intorno a piazza Cavour, nonostante il parcheggio, la sosta in doppia fila è una regola aurea. Lo stesso in via Oslavia. La gran parte dei parcheggi, il 70 per cento, è spuntata in otto Municipi, in zone centrali e semicentrali. Il Municipio con più parcheggi, 41, cioè il 22 per cento del totale, è il II – Parioli, Flaminio, Salario, Trieste – fra i più piccoli di tutta Roma come estensione territoriale. Può darsi che servano. Ma può anche darsi di no. Che nulla sia stato affidato a una corretta pianificazione lo dichiara con sincerità Alessandro Vannini, da gennaio 2012 delegato del Comune al Piano parcheggi, quando ammette che «dovrebbe partire uno studio strategico, condotto dalle Facoltà di Ingegneria della Sapienza, di Tor Vergata e di Roma Tre per capire quali di questi parcheggi siano utili e quali evitabili». Che è come dire: tutto quel che si è fatto lo si è fatto a casaccio. «Sa qual è il motivo del nostro più profondo sconforto?», mi domanda Anna Maria Bianchi sgranando gli occhi. Qual è? «È che quel che diciamo, per il quale l’accusa più ­91

gentile è che difendiamo solo il nostro cortile, lo ritroviamo in tanti atti ufficiali del Comune, patti per la mobilità, piani strategici e altri documenti del genere. L’assenza di pianificazione, l’ininfluenza dei parcheggi per favorire la mobilità, l’assenza di qualunque coinvolgimento dei cittadini, l’uso distorto dei box...». Roma trascina il proprio malessere da decenni. Mobilità e accessibilità sono miraggi che si allontanano. Mentre su di esse si addensano interventi improvvidi e di sfacciata speculazione. Lungo l’intero Ventesimo secolo si accumulano le strozzature di una crescita dettata dalla speculazione e non dalla pianificazione. «Roma per molti aspetti, in molte sue parti non è più una città», mi dice Caudo, «bensì un territorio urbanizzato che in alcune direttrici è ormai senza soluzione di continuità con l’abitato dei comuni vicini. Un territorio formato da isole, frammenti, appendici, propaggini, sacche, strisce... che in mancanza di una vera struttura urbana si organizzerà in ghetti (dove saranno confinati i meno abbienti) ed enclave (dove tenderanno a racchiudersi i più abbienti). È un modello costoso e dispendioso da tutti i punti di vista: ecologico, sociale e per il funzionamento dei servizi e delle infrastrutture. Si è scelto nella sostanza di uccidere la città: basti pensare che con una densità di 15/20 alloggi per ettaro si potrà avere una bottega ogni 5 km, un supermercato o una fermata dell’autobus ogni 3,3 km». Alcune patologie sono incurabili. Che cosa è possibile fare ora? Tocci, che pure sconta una sconfitta politica bruciante, alla quale non ha saputo dare uno sfogo se non ritagliandosi, messo fuori gioco, un ruolo di sofisticato analista sui temi dell’urbanistica, della rendita urbana, invoca una “modestia rivoluzionaria”. Se proprio non si può rovesciare, com’è evidente, la storia della città riavvolgendo diversamente il nastro di molti decenni, che almeno non si persegua nell’errore, non si aggravino i motivi d’affanno, non si prosegua in un’espansione senza limiti e senza logica di piano. Ma questi discorsi è stato difficile renderli senso ­92

comune, almeno nelle pratiche politiche e amministrative. Potevano diventare forse il punto di raccordo per un’opinione pubblica che a sinistra cercava riferimenti alternativi alle suggestioni prodotte da una idea di benessere fondata sull’espansione senza limiti, un’idea che mieteva favori a Roma come nel resto d’Italia. Ma così non è stato. Le amministrazioni di centrosinistra navigavano sulle ali di un consenso inattaccabile. Il buongoverno del Campidoglio, la correttezza assoluta nei comportamenti spazzava le nubi che su quel colle si erano addensate almeno dall’epoca degli articoli di Manlio Cancogni sull’Espresso fra il 1955 e il 1956 e intitolati “Capitale corrotta = nazione infetta” e che si erano fatte nuovamente minacciose al tempo di “A Fra’ che tte serve”, dei Gerace e degli Sbardella. Nubi che si sono poi riaddensate, una volta sconfitto il centrosinistra, quando tanti uomini dentro o nei pressi del Campidoglio sono entrati nel mirino della Procura della Repubblica. In ogni caso, invece della “modestia rivoluzionaria”, lamenta Tocci, «a Roma è prevalsa la conservazione immaginifica». Un esempio? Piuttosto che rincorrere il sogno di una città policentrica, dice Tocci, fatta di centralità deboli, poco raggiungibili, mal collegate e soprattutto prive delle funzioni necessarie a rendere un quartiere residenziale come Porta di Roma o Ponte di Nona una centralità, piuttosto che avventurarsi su questa strada impervia che asseconda i desideri di grandi proprietari di aree, perché «non accettare la sorte di una città monocentrica per curarne la patologia»? Una ricetta per articolare la “modestia rivoluzionaria” la suggerisce Caudo: «Roma avrebbe bisogno di un Piano minuto, attento, che censisca tutte le possibilità di densificazione che ci sono nelle aree già urbanizzate e già accessibili dalle infrastrutture esistenti o almeno programmate. Un Piano di riuso e rigenerazione del costruito, con operazioni di ristrutturazione urbanistica e di sostituzione di quelle parti di città degradate e invivibili per densità edilizia e per mancanza di spazi e di attrezzature. Un Piano per una nuova città pubblica per corrispondere ­93

al bisogno di appartenenza e di radicamento. Un Piano sul quale fare un patto a favore della città con gli imprenditori e con le piccole e medie imprese del settore edilizio che si sono orientate per tempo verso gli interventi di trasformazione del patrimonio esistente e che non si affidano più alla rendita fondiaria». Un lavoro che ricompatti la città, che per quanto possibile riacchiappi in una rete quel che nei decenni si è disperso nella campagna, avrebbe potuto svolgerlo un sistema di trasporti come il vecchio tram, a patto, però, che Roma avesse smesso di perseguire quel modello dispersivo. Vecchio poi fino a un certo punto perché dagli anni Ottanta in poi in molti paesi europei, dalla Francia all’Olanda e alla Germania, si sperimenta un tram più capiente (4/5 mila persone l’ora), più silenzioso e tecnologicamente più raffinato e tanto più affabile nel design dei mezzi che circolavano a Roma in un fragore di metalli. Appena insediata la giunta Rutelli, nel 1993, fu dato incarico a Insolera di progettare un massiccio incremento del sistema tranviario. Tocci fu l’interlocutore, sul versante pubblico, di Insolera. L’urbanista disegnò diversi tracciati per potenziare la rete esistente. Un archeotram, per esempio, sarebbe partito dalla stazione Termini per collegare tutti i siti della Roma antica, i Fori, il Palatino, Caracalla, poi l’Ostiense fino all’Appia, realizzando quel che sempre ha sostenuto Cederna, il quale sottolineava la connessione fra archeologia e città, un’archeologia non relegata a sfondo monumentale e scenografico, ma parte attiva nella vita quotidiana. A Termini, poi, era previsto che si attestassero altre linee, come quella che arriva alla via Prenestina oppure quella che avrebbe attraversato via Nazionale, poi Largo Argentina e di qui, lungo viale Trastevere, all’estremità della circonvallazione Gianicolense. Un’altra linea, invece, da piazzale Flaminio avrebbe percorso l’intera via Flaminia. Il programma era complesso, ma vennero realizzati solo quest’ultimo tracciato e parte di quello che attraversa il centro (da Largo Argentina alla Gianicolense). ­94

Il resto finì in un cassetto, come pure la linea che Insolera immaginava sul Lungotevere (di cui parleremo in seguito), e lì rimase. A dimostrazione di quanto l’amministrazione pubblica e la politica romana siano riuscite a non mettere a frutto l’intelligenza di uno specialista la cui vita è stata spesa nello studio della capitale.

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Roma vendesi

Per vedere come a Roma si vendono pezzi di città, bisogna andare all’Eur (le torri e il Velodromo di Cesare Ligini), nel centro storico (l’ospedale San Giacomo, la sede dell’Istituto Geologico Nazionale, la scuola Angelo Mai...) e anche in piazza Bainsizza, piazza Ragusa e via Alessandro Severo. Quartiere Prati Delle Vittorie, quartiere Tuscolano, quartiere Ostiense. Tre zone della città storica, la città costruita entro la prima metà del Novecento, molto abitate, tanto trafficate, macchine in doppia fila, pochissimi spazi verdi, edifici scolastici degradati, poche biblioteche, pochi impianti sportivi. Qui l’Atac, l’azienda del trasporto pubblico, possiede depositi da anni in disuso. Alcuni servivano per ricoverare i tram. I tram sono sempre meno e l’Atac non sa che farsene: dato che affoga nei debiti (210 milioni nel 2011 oltre a 179 milioni di deficit), ha pensato di venderli con buona pace dei programmi che prevedono di far tornare per le vie di Roma molti più tram. Ma prima di venderli e soprattutto per incassare tanti quattrini non basta un annuncio sul giornale. Occorre una complessa procedura avviata già nel 2004 e proseguita negli anni. Si chiama valorizzazione: quei depositi vanno muniti di previsioni edificatorie che, grazie anche a varianti urbanistiche approvate dal Comune, li rendano attraenti, altrimenti nessuno li compra. Sono edifici sorti nei primi decenni del secolo, archeologia ­96

industriale di pregio, delicate architetture. Devono però diventare piccoli quartieri, palazzi alti anche sette, otto piani, molto commercio, parcheggi, e, se avanzano spazio e soldi, qualche servizio. Cambieranno forma e sostanza perché lo esige il mercato, e perché, nonostante la crisi della finanza internazionale sia stata originata da un eccesso di offerta immobiliare, è ancora di case e di commercio che, si dice, ha bisogno il mercato. Se era proprio questo anche il bisogno del tessuto urbano circostante quei depositi è un altro discorso. All’Atac speravano che l’affare scorresse liscio come l’olio. E invece si sono organizzati comitati di cittadini, alcuni depositi – piazza Ragusa e San Paolo – sono stati occupati per mesi e si sono svolte assemblee. Dalle Facoltà di Architettura sono venuti docenti e studenti che hanno allestito workshop e progettato un uso di questi spazi ascoltando chi vi abitava intorno. Poi l’Atac ha chiesto che arrivasse la polizia e quei depositi sono stati sgomberati. I presidenti dei Municipi, Andrea Catarci dell’XI, Susana Fantino del IX e Antonella De Giusti del XVII, si sono opposti tenacemente. I consigli municipali hanno approvato delibere che bocciavano i progetti dell’Atac. E non poche contestazioni hanno fatto leva sulle storie giudiziarie in cui è impelagato il vertice dell’azienda e che attestano un’allegra e familistica gestione durante la sindacatura Alemanno. 49 assunzioni sospette su 850 avvenute nel solo 2009 – la moglie dell’assessore Marco Visconti, la cubista, il figlio del caposcorta di Alemanno... – per le quali sono indagati l’ex amministratore delegato, Adalberto Bertuc­ci e altri dirigenti (l’inchiesta della Procura è stata formalmente chiusa nell’autunno del 2012). E inoltre, cinque amministratori delegati succedutisi in cinque anni, segno di un’instabilità cronica, pur contando 82 dirigenti. Superminimi di stipendio garantiti ad alcuni amministrativi, fra i quali un ex militante dei Nar (estrema destra terrorista), di nuovo la moglie dell’assessore Visconti, la segretaria dell’ex assessore Sergio Marchi e quella di Bertucci, che portò con sé nell’azienda la nuora, ­97

un nipote, il genero e una cognata. Un parco di autobus sul quale ogni giorno, secondo le denunce dei sindacati, grava un 30 per cento in media di mezzi guasti. Un servizio che sconta una diffusa impopolarità, due linee di metropolitana in affanno continuo, guasti, blocchi, stazioni degradate e quelle in ristrutturazione, come Termini, che per anni sono state un cantiere che costringeva a stressanti gimkane in corridoi dove pendevano tubature e cavi. Eppure, nonostante lo sfascio, a causa della crisi sono più che raddoppiate, fra 2011 e 2012, le tessere di abbonamento annuale, segno di una domanda quasi disperata alla quale si offre un servizio scadente. La vendita dei depositi Atac è un affare da centinaia di milioni di euro, oltre 400, si sente dire. Riguarda 15 aree edificate e non (depositi, ex rimesse, sottostazioni elettriche, uffici). Tranne un paio (una in fondo alla via Collatina, l’altra ad Acilia) sono tutte in zone centrali o semicentrali (oltre quelle già citate: Portonaccio, Trastevere, Garbatella, Nomentana, Ardeatina, Flaminio, Tuscolano, quartiere Africano) per un totale di 165 mila metri quadrati. Su di esse verranno edificati 530 mila metri cubi. Stando ai calcoli, su ogni metro quadrato di suolo ci saranno 1,08 metri quadrati di costruzione, vale a dire una densità molto alta. Sorgeranno insediamenti massicci, che si svilupperanno anche in altezza, sorpassando gli indici di edificabilità previsti dal Piano regolatore per le trasformazioni dentro la città (0,5 metri quadrati su ogni metro quadrato), considerati già abbastanza generosi. La vendita dei depositi, sulla quale il Dipartimento di Studi urbani della Facoltà di Architettura di Roma Tre ha avviato uno studio e organizzato una mostra (curata da Giovanni Caudo, Lorenzo Caiazza, Sofia Sebastianelli e Francesca Romana Stabile), sta dentro una vicenda più ampia: la progressiva dismissione del patrimonio immobiliare pubblico per fronteggiare la montagna del debito. Una vicenda a scala europea. In Italia se ne parla da un decennio almeno, quando Giulio Tremonti inventò la Patri­98

monio S.p.a., che prevedeva anche di mettere sul mercato edifici storici e con vincoli della Soprintendenza. Vennero create scatole societarie alle quali devolvere i beni da piazzare. Si sollevò una polemica durissima e quel tentativo andò avanti stentatamente, con successi miseri. La legge finanziaria del 2008 – governo Berlusconi – ripropose il tema, facendone un perno di tutta la manovra economica. E si avviarono una serie di procedure per la dismissione. Intanto partiva il progetto federalista, che fra tante altre cose prevedeva il trasferimento ai Comuni di beni dello Stato con il fine, appunto, di valorizzarli e venderli. Con il governo Monti la questione è stata rilanciata. E il Comune di Roma ha stilato una nutrita lista delle proprietà che vuol mettere sul mercato, immaginando di poter incassare 230 milioni. L’obiettivo primario, sostiene chi è favorevole, è quello di incassare denaro fresco. D’altronde, si aggiunge, vengono ceduti beni che non hanno più una funzione e la cui manutenzione, da sola, è già un onere insopportabile per aziende o amministrazioni pubbliche vicine al collasso finanziario. Il problema, si sente però ribattere, è più serio quando si vendono pezzi di città, che cambiano la loro destinazione: vengono calcolati gli effetti urbanistici, per esempio, di un sovraccarico di residenza in quartieri già affollati? Sono prese in considerazione le accresciute esigenze di trasporto pubblico? E perché non si procede in altra direzione, utilizzando alcuni di questi luoghi dismessi, invece che per farci appartamenti a caro prezzo o centri commerciali, per offrire ai quartieri in cui essi sorgono le attrezzature, i servizi di cui c’è bisogno (verde, biblioteche, presidi sanitari), sedi di associazioni, riservando una quota ad abitazioni che abbiano costi contenuti, l’housing sociale? E poi: è sicuro che queste operazioni di vendita, se concepite in termini prevalentemente finanziari, alla fine si riescano concretamente a condurre in porto? Insieme all’Atac, anche l’Ama, l’azienda dei rifiuti, met­te in vendita i suoi immobili. Sono in totale 56, preva­ ­99

lentemente edifici che ospitano uffici. Il valore dei beni oscilla fra 140 e 160 milioni. L’obiettivo è lo stesso dell’Atac: incassare quattrini per abbattere un debito insopportabile. L’Ama, come l’Atac, è nel mirino della Procura. Più che l’Ama, il bersaglio è Franco Panzironi, fedelissimo di Alemanno, che da ministro dell’Agricoltura, nel 2002 lo nomina segretario generale dell’Unire, Unione nazionale incremento razze equine, e che, appena insediato in Campidoglio, lo vuole con sé per ricomporre insieme ad altri un consolidato sodalizio. Panzironi va all’Ama come amministratore delegato. Qui, nonostante tutte le attenzioni debbano essere destinate a migliorare un servizio quasi indecente quanto quello dell’Atac, con livelli di raccolta differenziata peggiori che a Napoli, a chiudere la partita di Malagrotta, la discarica più grande d’Europa e ormai satura, paradiso dell’avvocato Mauro Cerroni, il monopolista dello smaltimento dei rifiuti a Roma, Panzironi si dedica a rimpolpare i ranghi di personale. Come i suoi colleghi al vertice dell’Atac. La Procura chiede il suo rinvio a giudizio. Oltre 800 le assunzioni fra il 2008 e il 2009, 41 quelle sulle quali indagano i magistrati. Entrano all’Ama l’ex militante di estrema destra Stefano Andrini (che si dimette nel 2010 dopo che il suo nome compare nell’inchiesta sulla maxi-truffa Fastweb e Telecom Sparkle), la sua segretaria quand’era all’Unire, Gloria Rojo, Edoardo Mamalchi, figlio dell’ex capo della segreteria prima di Gasparri e poi di Alemanno, Costanza Drigo, candidata nelle liste del centrodestra, Antonio Bettidi, in seguito distaccato nella segreteria particolare del sindaco, e Fabio Magrone, segretario dell’eurodeputata del Pdl Roberta Angelilli. E c’è anche suo genero, Armando Appetito. Panzironi lascia l’Ama nel 2011 e transita in un’altra azienda del Comune, la società Multiservizi. A ottobre 2012 un’altra tegola si abbatte sul capo di Panzironi che finisce indagato per turbativa d’asta e per presunte irregolarità in un appalto per il vestiario dei dipendenti. ­100

Con questo management e questi costi, è quasi naturale che l’Ama pensi a ridurre il debito valorizzando e vendendo, senza badare troppo a chi e per farci cosa. Anzi, più cose si fanno con quegli immobili meglio è. Gli immobili sono in tutta la città. Molti nel centro storico. A via Zucchelli, dietro via Sistina, al vicolo del Bologna, a vicolo della Luce, angolo via della Lungaretta, a Trastevere, a vicolo del Cedro, a Borgo Pio, al vicolo della M ­ adonnella, via della Cordonata, via Mameli, via Annia, accanto all’ospedale del Celio, vicino a Castel Sant’Angelo, in via della Mole dei Fiorentini, a vicolo dei Modelli, a poche centinaia di metri da Fontana di Trevi. E poi, due edifici a via Giolitti, due in via dei Campi Sportivi. E quindi al Nomentano, in via Tiburtina, via Casilina... Per la vendita l’Ama ha indetto una gara, vinta da Idea Fimit. Il dibattito su tutte queste operazioni è acceso. Ma gli uffici dell’Atac e dell’Ama, aziende pubbliche che agiscono con logiche da immobiliaristi, vanno avanti con il loro piano. Silenziosamente, ma tenacemente. L’Atac ha anche creato una società ad hoc, l’Atac Patrimonio S.p.a., alla quale sono stati devoluti gli immobili. L’amministratore delegato, Gioacchino Gabbuti, percepisce uno stipendio di 763 mila euro l’anno. Una parte consistente degli interventi riguarda i tre depositi di piazza Bainsizza, piazza Ragusa e San Paolo. In questi ultimi due gli indici di edificabilità sono ancora più alti della media cittadina (2,05 metri quadrati di costruzioni su ogni metro quadrato, nel primo caso, 1,85 nel secondo). I depositi hanno un sensibile valore simbolico nella storia politica di Roma. Furono progettati e poi costruiti fra la fine degli anni Dieci e Venti del Novecento. E costituirono uno degli esiti di una complessa operazione che impegnò il sindaco Ernesto Nathan, radicale, anticlericale, il primo a non essere designato dai proprietari fondiari alla guida di una coalizione che conquistò il Campidoglio nel 1907. Nel 1909 fu approvato il piano regolatore di Edmondo Sanjust di Teulada. E subito dopo vennero de­101

cise una serie di municipalizzazioni, volute in particolare dall’assessore Giovanni Montemartini. Fra queste, quella dei trasporti. Tanto per marcare il valore dirompente dell’iniziativa, Nathan sottopose la scelta a referendum e fissò come data della consultazione il 20 settembre 1909, anniversario della breccia di Porta Pia. Fino ad allora il servizio era gestito in maniera assai scadente da un monopolista privato, la Srto, e quando nel marzo 1911 entrò in scena l’azienda pubblica, che si chiamava Atm, per i romani fu una specie di festa. Alla presidenza si alternarono personalità di primo piano, come Ettore Levi della Vida. La nuova società non assorbiva quella privata, ma le faceva concorrenza, vincendo la gara. Da allora i tram presero a sfrecciare per la città moltiplicando le linee e fornendo a Roma una specie di primato europeo, una trama fittissima, persino caotica e illogica, spiega Grazia Pagnotta, storica dell’Università La Sapienza, che ha dedicato molti studi al trasporto pubblico e che ricorda come, ad un certo punto, per largo Argentina transitassero 24 linee. Poi nel 1930 arrivò la decisione del Governatorato fascista di espellere i tram dal centro storico e da lì è iniziato un declino che oggi, nonostante i tentativi di recupero, si manifesta in tutta la sua gravità. Il settore dei trasporti pubblici fu anche un pezzo importante nella storia del movimento operaio di Roma, una città che non aveva una solida fibra industriale. «Questo fu evidente durante il cosiddetto biennio rosso, fra il 1920 e il 1921», racconta Grazia Pagnotta. «Si svolsero scioperi e i tranvieri viaggiavano con le bandiere rosse sui tram. I gruppi nazionalisti e fascisti furono protagonisti di aggressioni e in quel contesto venne anche incendiata la tipografia dell’Avanti!. La grande caparbietà costò cara agli operai: nel 1923 furono licenziati 1.500 dipendenti dell’azienda pubblica. È una vicenda che a Roma fece grande scalpore e di cui è rimasta una memoria viva». I depositi furono avamposti urbanistici. Vennero realizzati dopo che Nathan uscì di scena, con l’amministra­102

zione del conte Prospero Colonna, esponente dello schieramento di clericali e proprietari fondiari, e poi sotto il Governatorato fascista. Ma essi seguivano le direttrici di crescita della città fissate precedentemente, quando si disegnavano le linee dei tram e successivamente giungevano i palazzi. Una procedura che Roma non avrebbe mai più rispettato. E che si propone come un monito, come se fosse un conto in sospeso, la memoria di un passato che con qualche faciloneria si vuole rimuovere. Dietro la radicale trasformazione dei depositi si agita anche l’indifferenza nei confronti di questi passaggi fra i più densi della vicenda novecentesca di Roma, una specie di inconsapevole desiderio di cancellare dalla storia della capitale una pratica di governo cittadina fondata sul primato del pubblico rispetto agli interessi privati. Il deposito di San Paolo è stato costruito nel 1928. Serviva come ricovero dei tram e le foto dell’Archivio storico dell’Atac lo ritraggono non molto lontano dalla basilica di San Paolo, isolato nella campagna, circondato da allevamenti di mucche. Nelle intenzioni dell’azienda, linea tranviaria e deposito dovevano servire la zona a sud della città dove da decenni erano dislocate industrie, magazzini, centrali elettriche, il Mattatoio, il Campo boario. Intorno alla rimessa sorsero le prime case di tranvieri e nei decenni crebbe un quartiere, che oggi è affollato di enormi palazzi i quali, come fossero insofferenti, ormai soffocano questo spazio. L’edificio è stato inserito nella Carta della Qualità allegata al Piano regolatore di Roma, considerato dunque meritevole di tutela, rappresentativo dell’architettura industriale del Novecento. Lo stesso Piano regolatore lo classifica poi come «servizio pubblico di livello urbano», attribuendogli la funzione di ospitare attrezzature utili al quartiere, diverse da un tempo, quando qui venivano alloggiati e riparati i tram, ma comunque spazi utilizzabili per le esigenze della comunità. Nel progetto dell’Atac sono invece previste costruzioni per 18 mila metri quadrati (la superficie complessiva dell’area non supera i 10 mila). ­103

Che per metà sono appartamenti in cui abiteranno 240 persone. L’altra metà sono negozi e non meglio identificati servizi. Nel giugno 2011, quando si diffusero le prime notizie sulle intenzioni dell’Atac, un gruppo di persone che aderivano ad associazioni per il diritto alla casa occuparono il deposito. La protesta è durata fino ad ottobre, quando la polizia è intervenuta sgombrando le venti famiglie che si erano installate nell’edificio, abbandonato da un decennio. In quei mesi si svolsero dibattiti, cineforum e il deposito si trasformò in quel laboratorio sociale che al quartiere mancava. Un gruppo di ­studenti della Facoltà di Architettura di Roma Tre, guidati dal loro professore, Marco Burrascano, esposero le tavole prodotte durante un workshop in cui si illustravano i possibili usi della rimessa. «Il deposito riprese vita», racconta Andrea Catarci, presidente del Municipio, «l’Atac lo aveva lasciato in uno stato cadente e invece allora divenne la sede che le tante associazioni del quartiere non avevano mai avuto. Dai dibattiti venne fuori un’idea: trasformare la rimessa in un museo del trasporto a Roma, dove esporre macchinari, fotografie e documenti che hanno segnato la storia della città. Un museo del genere c’è, ma è relegato in una corsia laterale della stazione del treno che va a Ostia e non lo visita nessuno. Qui avrebbe un senso, e il deposito tornerebbe a scandire la vita del quartiere». Una procedura simile a quella di San Paolo l’Atac l’ha adottata per piazza Ragusa e piazza Bainsizza. Il primo deposito è di poco successivo a quello di San Paolo. “Rilevante” viene giudicato il suo interesse architettonico nella Carta della Qualità del Piano regolatore. L’Atac programma costruzioni per 20 mila metri quadrati. 180 persone andranno negli appartamenti che occuperanno il 30 per cento dell’area. Il 70 è destinato a commercio e servizi. Anche il deposito di piazza Ragusa è stato occupato nel febbraio del 2011 da movimenti per il diritto alla casa, poi sgomberati come a San Paolo. E contro un uso spe­104

culativo di quest’area si è pronunciata la presidente del IX Municipio, Susana Fantino. Nel cuore del quartiere Tuscolano, dove ha sede la rimessa, quello spazio inutilizzato potrebbe servire a tanti scopi: una biblioteca, per esempio, qualche impianto sportivo, una piscina. Ma sono scopi sociali, per la collettività, e non danno quel lucro che invece l’Atac sogna. Il deposito di piazza Bainsizza venne invece progettato nel 1916 e realizzato dopo la guerra, nel 1920. Anche intorno ad esso crebbe l’abitato e si formò il quartiere di Piazza d’Armi (in quell’area nel 1911 venne insediata l’Esposizione Universale), che poi sarebbe stato chiamato quartiere Delle Vittorie. Allora era prevalentemente riempito di villini, alcuni dei quali realizzati da Innocenzo Sabatini, architetto che legò il proprio nome a tanti edifici della Roma primi Novecento. I villini furono poi sostituiti da grandi edifici. Il piano urbanistico del nuovo quartiere era firmato da Gustavo Giovannoni e Marcello Piacentini, e all’interno di esso il deposito dell’Atm svolgeva un ruolo ordinatore dello spazio circostante. Al punto che la piazza Bainsizza che si apre davanti all’ingresso è disegnata quasi in funzione del deposito. Tutte queste notizie, tratte da uno studio condotto da Lucio Valerio Barbera, professore alla Sapienza, fanno parte di un dossier elaborato da un comitato di quartiere, il Coordinamento cittadino progetto partecipato, sorto proprio intorno alla vicenda del deposito. E che sul deposito ha avviato negli anni un piano alternativo a quello dell’Atac, d’accordo con il Municipio XVII e con la sua presidente, Antonella De Giusti. L’edificio di piazza Bainsizza è vincolato dalla Soprintendenza e, come quello di San Paolo e di piazza Ragusa, figura nella Carta della Qualità. A pochi passi da qui c’è piazza Mazzini, nella quale confluiscono strade disposte con regolarità insolita per Roma, vie larghe, marciapiedi capienti, fitte alberature quasi fiancheggiassero un boulevard. Una maglia ordinata di edifici, indicata a modello da ­105

un critico molto esigente come Italo Insolera, nella quale spiccano, a cento metri dal deposito, alcuni blocchi di edilizia popolare, esemplari della qualità architettonica che nella Roma primi Novecento si richiedeva anche per le case costruite con soldi pubblici e destinate ai meno abbienti. Da anni questa zona di Roma è invasa da uffici e da studi professionali che ne hanno alterato l’assetto, riducendo la quota di residenti. Qui ci sono sedi della Rai, la Corte dei Conti e più in là il Tribunale civile. Di giorno le macchine si ammassano, nonostante due fermate della metropolitana, parcheggiano malamente, approfittando del fatto che i vigili hanno abbandonato il campo alle doppie e triple file. Di sera, l’onda di impiegati e di professionisti si ritira e il quartiere riacquista la signorile tranquillità espressa dalle facciate dei suoi palazzi, alcune decorate con fregi liberty. Nel deposito di piazza Bainsizza si costruiranno superfici per oltre 15 mila metri quadrati, il 60 per cento degli edifici saranno appartamenti in cui abiteranno 240 persone. Il resto saranno negozi. Verrà salvata la sede del Dipartimento di Salute mentale che occupa una parte dell’ex rimessa, un centro di cura al quale accedono molti pazienti, 600 persone in totale, alcune delle quali si fermano anche di notte. Ma tutto il resto sarà stravolto, dicono gli esponenti del comitato. «Un quartiere affamato di verde come il nostro e con un grande fabbisogno di servizi si troverà un insediamento che quel fabbisogno lo aggraverà», spiega Elena Mortola, architetta, professoressa in pensione a Roma Tre (gli studenti della cattedra di Anna Laura Palazzo, sempre di Roma Tre, svolgono un laboratorio di progettazione proprio sul deposito di piazza Bainsizza). «La vede l’altura di Monte Mario? Ecco, lì è il verde del nostro quartiere, a qualche chilometro in linea d’aria. Il verde che l’Atac dice di volerci assicurare facendo costruire su 15 mila metri quadrati di superficie servirà solo chi andrà ad abitare in quelle case». Invece che case e negozi molti abitanti del quartiere, aiutati da Elena Mortola e dagli altri del comitato (Ales­106

sandro Giangrande, Francesca Geremia, Roberto Morziello...), hanno immaginato un diverso futuro. Si sono incontrati, hanno lavorato con le idee e poi le idee le hanno calate nello stampo di un progetto. Hanno raccolto 800 firme, incontrato assessori e dirigenti dell’Atac. Hanno discusso, anche animatamente, fra di loro. L’intero complesso, hanno poi scritto in uno studio che è diventato un volume, dovrà conservare l’impianto a corte. Il bordo sarà continuo, esattamente com’era, ma avrà più aperture. L’ingresso su piazza Bainsizza verrà sostituito. Il Dipartimento di Salute mentale resterà dov’è, verrà restaurato e sulla terrazza torneranno a coltivarci un orto e un giardino, come si faceva fino a qualche anno fa quando tutto fu smantellato perché, si disse, il peso della terra creava problemi di statica. Tutta la parte inutilizzata verrà restaurata per accogliervi attività sportive, culturali, sociali – teatro, cinema, caffè letterario –, artigiane. Il grande piazzale interno, ora occupato da camion dell’Ama che stazionano proprio sotto le finestre del Dipartimento di Salute mentale e ammorbano i pazienti, diventerà «una nuova piazza verde con alberi anche di alto fusto e piccoli specchi d’acqua». Due progetti si confrontano e confliggono. A piazza Bainsizza, quartiere Delle Vittorie, professionisti, insegnanti, medio-alta borghesia, come a San Paolo, dipendenti pubblici, ceto medio impiegatizio o a piazza Ragusa, piccola borghesia e operai. Entrambi i progetti si misurano con la trasformazione, nessuno dei due difende l’esistente. Ma le trasformazioni prendono strade opposte. L’una, quella della valorizzazione economica, del far cassa per abbattere il debito (senza tanto incidere sulle cause che strutturalmente lo producono: l’inefficienza aziendale, per esempio, o i fardelli clientelari), delle leggi di mercato e della speculazione edilizia. L’altra, quella del servizio utile al quartiere, al suo benessere complessivo, la risposta a bisogni che non è difficile individuare e che, lasciati a lungo inevasi, producono comunque sofferenze sociali e individuali, oltre che costi. ­107

La questione investe la scala almeno europea e accomuna i paesi in cerca di soluzioni al debito che li affligge. Ma con risultati incerti. Secondo un rapporto di Emea Research & Consulting, nel 2010 i governi del continente hanno venduto beni per 1,1 miliardi di euro, appena l’1 per cento degli interi investimenti nel settore immobiliare. Inoltre, se si scorre la lista dei paesi più attivi, si scopre che in testa c’è la Svezia, con il 38 per cento del totale, seguita da Gran Bretagna (24 per cento) e da Germania (15 per cento), che insieme superano il 75 per cento di tutte le operazioni. L’Italia è appena al 6 per cento. Vendono di più, dunque, i paesi che non sono assillati da un debito pubblico gravemente incombente e che quindi non sono spinti a mettere sul mercato i propri beni solo per fare cassa. Probabilmente l’intenzione che prevale è quella di riutilizzare aree dismesse per iniziative non solo di valorizzazione e di speculazione immobiliare, ma anche per riqualificare parti di città e per rispondere a bisogni sociali. L’Italia sconta un’anomalia di partenza: le intenzioni del soggetto privato sono più forti che altrove quando c’è da trasformare un pezzo di città (e non solo di città). Questo per ragioni storiche ed economiche. Per una consolidata tradizione giuridica che si spinge fino alla giurisprudenza costituzionale. Per una radicale debolezza della politica, tante volte adattata a convenienza. Ma come ci si comporta in altri paesi? Le aree industriali dismesse dentro le città possono suggerire sia interventi al servizio della collettività, anche con il contributo dei privati, sia sfacciate operazioni speculative. Da almeno quarant’anni nel Nord Europa, da trenta nella parte meridionale del continente, architettura e urbanistica si interrogano. Sono in gioco questioni relative alla progettazione, ma il rilievo sociale non è solo uno sfondo. Si fronteggiano diversi modelli, in una scala di gran lunga superiore ai depositi Atac: il Landschaftspark Duisburg-Nord realizzato dal paesaggista Peter Latz sui 230 ettari prima occupati da un’industria siderurgica del gruppo Tyssen; oppure i docks londinesi, ­108

prima recuperati sulla base di criteri ambientali e paesaggistici, poi diventati il manifesto della deregolamentazione thatcheriana e trasformati in centro finanziario e degli affari. Elena Besussi insegna Plan Making allo University College di Londra. Da anni segue queste vicende in Gran Bretagna dove, dice, si adottano principi apparentemente diversi da quelli in voga in Italia. «Nel Regno Unito mancano piani urbanistici vincolanti come in Italia. Il piano c’è ma agisce da guida e l’amministrazione pubblica locale può decidere caso per caso quali benefici e quali svantaggi arreca la proposta di un privato. Il piano fornisce obiettivi generali, ma quello che si realizza è esito di negoziazioni tra privato e pubblico».  Di nuovo le negoziazioni: ma chi esercita più forza, il pubblico o il privato? «Dipende dai casi», risponde Besussi. «A Clay Farm, periferia di Cambridge, l’amministrazione locale si è rifiutata di accettare la richiesta dell’operatore privato di ridurre drasticamente la quota di residenza pubblica. Questi adduceva a giustificazione che il crollo del mercato immobiliare avvenuto nel frattempo avrebbe ridotto il margine di profitti, rendendo l’intervento irrealizzabile. Il privato ha fatto ricorso, ma la sentenza è stata a favore dell’amministrazione di Cambridge. In essa c’era scritto che non si possono scaricare sul pubblico i rischi di investimento del privato». In un paese di lunga tradizione liberale quando si mette mano alla città sono le istanze pubbliche a prevalere? «Non è più tanto vero come un tempo. Alcuni provvedimenti introdotti dal governo conservatore di Cameron hanno indebolito la capacità di negoziazione del pubblico. Si preferisce la fattibilità sulla qualità o sostenibilità di un progetto, dove per fattibilità s’intende il vantaggio economico dell’operatore privato, anche a scapito della realizzazione di quelle componenti sociali di un intervento che sono viste, in questa logica, solo come costi. Rimane sempre la discrezionalità, ma in un momento di crisi, con ­109

previsioni di profitto ridotte, l’ago della bilancia non è a favore di residenza pubblica o infrastrutture sociali. Fino al 2010 esisteva un’unità governativa dedicata all’elaborazione di politiche per la gestione del patrimonio immobiliare pubblico. Oggi non esiste più». Dunque la crisi penalizza soprattutto la città pubblica. La città diventa una risorsa alla quale attinge il capitale privato? «L’esito di queste vicende non è sempre scontato. Nell’area di Elephant and Castle, ex quartiere di residenza pubblica ora dismessa, l’amministrazione locale di Southwark, uno dei 33 boroughs (quartieri) di Londra, ha rinunciato a negoziare con il privato che ha acquisito l’area per costruire alloggi da affittare a canone sociale. La preferenza è andata verso infrastrutture sociali capaci di giustificare il prezzo a cui dovranno essere vendute unità residenziali e commerciali: verde protetto e poi negozi, ristoranti, impianti sportivi, piuttosto che attività di socializzazione». Ma cambia qualcosa se il proprietario dei suoli è pubblico o privato? «In Gran Bretagna non molto. A volte il settore pubblico agisce come operatore immobiliare attraverso società private. Nella riqualificazione di Kings Cross (nel borough di Camden), per esempio, in cui si stanno costruendo 750 mila metri quadrati su 30 ettari dismessi dalla ferrovia, il proprietario è una società del ministero dei Trasporti, ma sono l’operatore immobiliare e gli investitori che rappresenta ad aver deciso cosa e come si realizza. La maggior parte delle aree ad uso pubblico sono diventate di proprietà privata. L’amministrazione si giustifica dicendo che così ottiene spazi pubblici di qualità a costo zero, ma la logica è che le infrastrutture sociali sono considerate un lusso ingiustificato. Ma c’è un altro motivo che diminuisce le differenze fra pubblico e privato». Quale? «È l’imposizione del ministero del Tesoro di regole sulla valutazione e vendita del patrimonio pubblico. Questo deve essere dismesso al valore massimo di mercato. In caso contrario, l’ente pubblico proprietario dovrà fare fronte al mancato guadagno con tagli di bilancio». ­110

Se non capisco male, rispetto a qualche tempo fa, in tutta Europa si sta andando verso un sistema in cui è sempre più al privato che spetta di decidere che cosa costruire, come, dove e per chi? Oppure esistono paesi in cui prevale il punto di vista del pubblico? «Dall’osservatorio inglese il governo pubblico locale non appare sempre come il migliore alleato della città pubblica. Però anche quando si devono ridurre le spese in infrastrutture o servizi sociali, si possono fare delle scelte a favore di una città per tutti piuttosto che per pochi: a Clays Farm si è difesa la residenza sociale mentre a Elephant and Castle si eliminano pioppi secolari per far posto a un parco che sta dentro le logiche immobiliari del privato. La crisi economica è il grimaldello per avvalorare la tesi che un settore pubblico più ridotto porti benefici sociali. In Grecia, come a Roma, come a Kings Cross. Non vedo paese europeo, dove la riduzione della spesa pubblica da sola abbia dato questi risultati». Spirano venti di privatizzazione in tutta Europa. Ma anche la più energica bufera non riesce a spazzar via come fossero una manciata di foglie secche le esperienze di trasformazione urbana realizzate con criteri non speculativi, esempi invece di buona partnership fra pubblico e privato, un privato però diverso dal grande investitore o dal grande speculatore. A Tubinga, Land tedesco del BadenWürttemberg, sede di una delle più antiche università del mondo, possono con orgoglio esibire la trasformazione in quartiere residenziale della Caserma francese, un complesso di edifici militari su un’area di 65 ettari, il 40 per cento di tutti i depositi Atac in vendita. Quartiere residenziale è un po’ poco, in effetti. Il Comune di Tubinga nel 1993 ha acquistato l’area e ha redatto un piano urbanistico che prevedeva di salvaguardare gran parte degli edifici e di costruire case per circa 6 mila abitanti e aziende per circa 2 mila persone. Oltre a spazi verdi in grande quantità, servizi e luoghi di comunità. Poi ha avviato un programma di infrastrutture leggere per legare il quartiere a tutta la zona sud della città, affetta da antico degrado. Quindi ha affi­111

dato la costruzione a cooperative private costituite dalle stesse persone che sarebbero andate ad abitare lì, piccole aziende molto innovative. Il Comune ha fornito delle indicazioni progettuali e fissato i prezzi massimi di vendita o di affitto (in inglese si chiama affordable housing). Ogni settimana i futuri residenti hanno incontrato gli architetti e i funzionari del Comune, discutendo con loro questioni grandi e piccole. La progettazione esecutiva è durata due anni, dal ’95 al ’97. Da allora si è cominciato a costruire e ora 4 mila persone vi abitano già e 1.200 vi lavorano. Il quartiere è fatto di edifici di varia sagoma, tutti più o meno della stessa altezza (4-5 piani), ci sono servizi di car-sharing (auto da usare in comune), biciclette a disposizione di tutti, asili, scuole. I casi studio sono diffusi in diversi paesi europei, dalla Germania all’Olanda. Un’esperienza analoga a quella di Tubinga si è ripetuta a Friburgo, con il quartiere Vauban, anch’esso sorto dove un tempo erano caserme: 5 mila residenti, edifici costruiti in gran parte da cooperative formate dagli abitanti, progettazione partecipata, ma veramente partecipata, aree verdi, tecnologie avanzatissime e prezzi contenuti. Lo stesso meccanismo di housing sociale ha guidato la nascita del quartiere Am Kronsberg, ad Hannover, nei luoghi in cui si era svolto l’Expo 2000: aree pubbliche, investitori privati, ma il 90 per cento delle case sono ad affitto concordato e solo il 10 di proprietà. E così è accaduto ad Amsterdam, per Gwl Terrein, 625 abitazioni e 1.800 residenti, metà in housing sociale, sistemati dove un tempo sorgeva un’azienda per il trattamento delle acque. Al Quartiere francese di Tubinga, come a Friburgo, ad Hannover e ad Amsterdam le riqualificazioni di aree dismesse sono andate in porto, forse proprio perché nate con intenti non solo finanziari, ma perché venivano incontro a bisogni (case a basso costo, servizi per il quartiere). A differenza di tanti propositi speculativi che poi restano sulla carta, sono esperienze concrete, realizzate. Ci hanno guadagnato tutti. I Comuni che possedevano o che han­112

no acquistato le aree sono andati in pareggio economico rivendendo i lotti a un prezzo maggiorato che li ripagava anche delle infrastrutturazioni e delle bonifiche. Gli architetti che hanno redatto i progetti. Le piccole imprese che hanno costruito. E chi ha comprato o preso in affitto una casa ha guadagnato il fatto di vivere in un quartiere con verde e servizi, a risparmio energetico, usufruendo di trasporto pubblico e in un contesto di vicinato. Non ha guadagnato la speculazione.

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Il quartiere degli affari

Sulle torri, ora uno scheletro denudato della carne, si infrangono le raffiche di vento che agitano i teli appesi a quel che rimane delle balconate. Le torri sono tre, ognuna ha tredici piani e una rampa di scale esterne appoggiata a una parete. In basso, un altro edificio si stende in orizzontale, sulle fiancate si alternano tre listelle chiare e una grigia. Gli infissi e i rivestimenti non ci sono più, né nelle torri né nello scatolone orizzontale e le raffiche si infilano nelle stanze senza arredi, dove si vedono piccoli cumuli di macerie. Tutto intorno è recintato. In una giornata afosa, battuta dallo scirocco, le torri sembrano un relitto in balìa delle onde, non si vedono operai né ruspe né gru. Accanto alle lamiere del recinto è sistemato un mercatino ambulante, se si alza lo sguardo si viene colpiti dalla luce accecante che rimbalza dal grattacielo dell’Eni. Girato l’isolato, si vedono le torri riflettersi sulla parete di specchio nero di un edificio in costruzione – la Lama, è stato battezzato. Oltre la Lama, svetta il cantiere del Centro Congressi, la Nuvola di Massimiliano Fuksas. Le torri di Cesare Ligini nel quartiere Eur hanno cominciato a morire fra il 2007 e il 2010. Le hanno prima scorticate e poi hanno preso a svuotarle. Ora sono senza pelle e senza carne, scheletri ossidati dal vento. A un certo punto hanno smesso di demolirle. Le hanno lasciate così, nell’attesa di sapere che cosa ne sarà di loro, se verranno ­114

buttate giù completamente o se verranno ristrutturate. È solo un complesso calcolo di convenienze che tiene sospesa la loro sorte: si fanno più profitti radendole al suolo oppure rivestendole d’un altro involucro? La crisi lascia che il quesito galleggi a mezz’aria e svolazzi come i teli rimasti aggrappati alle balconate senza ringhiera. Ma in attesa che la contabilità emetta il proprio verdetto, da tre anni le torri sono immobili, essiccate senza che il loro destino sia scritto. E un pezzo di città convive con questo imponente brandello di cemento, che sembra sopravvissuto a un bombardamento. La vicenda è complessa, ma anche molto semplice. Le torri furono costruite nel 1958 per ospitare gli uffici del ministero delle Finanze. L’Eur era diventato, senza che nessuna autorità pubblica l’avesse pianificato, un centro direzionale. Per il presidente dell’ente proprietario dei suoli espropriati durante il fascismo, Virgilio Testa, tornato a dirigere la creatura che aveva contribuito a battezzare durante il regime, l’Eur doveva essere il futuro centro di Roma. Testa, che sarebbe rimasto su quella poltrona fino al 1973, intoccabile eminenza dell’urbanistica romana, sia che governasse il fascismo, sia la Democrazia cristiana, gestiva un patrimonio immenso, costituito dagli introiti per la vendita delle aree e dai contributi che dal 1936 in poi venivano erogati dallo Stato. Testa, come racconta Italo Insolera in Roma moderna, aveva poteri commissariali. E l’Eur era il suo quartiere, un quartiere fuori del Piano regolatore, che godeva di una specie di extraterritorialità, sopravvissuta fino a oggi. Il Comune di Roma decideva qualunque cosa che riguardasse l’Eur negoziandola con Testa e il suo ente. I soldi che irroravano questa specie di enclave feudale del XX secolo erano solo pubblici. Essendo stato costruito su terreni espropriati, la qualità del quartiere era elevata. Tanto verde attrezzato, strade larghe, luminose, marciapiedi capienti, bassa densità edilizia. Qui arrivavano la metropolitana che partiva da Termini e la via Cristoforo Colombo, che l’amministra­115

zione comunale, sindaco Gaetano Rebecchini, prolungò fino a dentro il quartiere e che da lì sfilava verso il mare di Ostia. Qui stavano sorgendo gli impianti sportivi destinati alle Olimpiadi del 1960. Inoltre un nuovo asse stradale, la via Olimpica, avrebbe facilitato i collegamenti con i quartieri settentrionali di Roma transitando a ovest della città, squarciando in due Villa Pamphili, e lambendo con geometrica costanza decine di migliaia di ettari appartenenti alla Società Generale Immobiliare e a una miriade di congregazioni religiose, che al passaggio di quella luminosa striscia d’asfalto si colorarono di fantastici valori fondiari, poi tradotti in una selva di quartieri che ora sono leggibili come esemplare letteratura della speculazione edilizia (l’esilarante e meticoloso elenco è in Borgate di Roma di Berlinguer e Della Seta). Così andavano le cose a Roma e non solo allora. Negli edifici realizzati a partire dalla fine degli anni Trenta e completati dopo la guerra, si era formata una grande comunità di uffici pubblici e privati, sedi ministeriali e comunali, l’Archivio centrale dello Stato, il Museo della Civiltà romana e il Museo etnografico, l’Inps, una sede della Democrazia cristiana, la Confindustria. V ­ enne trasferita all’Eur la Fiera di Roma, poi spostata sulla Cristoforo Colombo. Sulle aree ancora vuote sorgevano edifici residenziali, la gran parte di buona fattura e molto costosi. Oltre il laghetto e l’altura sulla quale il solito Marcello Piacentini e Pier Luigi Nervi andavano erigendo il Palazzo dello Sport, si nascondevano nel verde le ville di uomini politici, imprenditori, costruttori e attori: una sede distaccata della Dolce vita era allestita fra questi viali spaziosi, che simulavano una città libera dagli impacci dell’antico. Dall’Eur Roma si proiettava verso il mare, concretizzando negli anni Cinquanta e Sessanta il precetto fascista. All’Eur si realizzava una qualità urbana elevata che però aveva trascinato la città in una direzione molto apprezzata soprattutto dai proprietari delle aree che prima lo separavano, ora lo agganciavano alle Mura Aureliane e al centro ­116

storico. La potenza della rendita fondiaria distribuiva, come sulla via Olimpica, quartieri a sinistra e a destra della Cristoforo Colombo. Oltre l’Eur dilagava l’abusivismo. Su questo, però, non occorre aggiungere altro a quel che hanno scritto Cederna, Insolera, Berlinguer e Della Seta. E tornare alle torri di Ligini, che nel 1958, appunto, segnarono il completamento dell’Eur, ma anche il suo aggiornamento, infilando esibizioni tecnologiche, un linguaggio internazionale e altezze inusitate nella scena di metafisico travertino confezionata dal fascismo. Ma il racconto delle torri aspetterà ancora. Prima occorre ricordare un’altra architettura di Ligini, certamente più pregiata delle torri, che però alle torri è accomunata dal tragico destino, stavolta completato: l’essere finita in cenere. Il Velodromo fu realizzato in quegli stessi anni in viale della Tecnica, al margine sud-est dell’Eur. Durante le Olimpiadi fu usato per le gare di ciclismo. Poi dal 1968 venne abbandonato, si disse, per dissesti statici ai quali forse si sarebbe potuto rimediare, visto il valore della struttura. Ligini (insieme a Dagoberto Ortensi e Silvano Ricci) vinse un concorso bandito dal Coni. Fu l’unico caso di concorso per le Olimpiadi, ricorda lo storico dell’architettura Piero Ostilio Rossi, dovuto all’estrema difficoltà di realizzare gradinate che consentissero di vedere i ciclisti anche nella parte di pista fortemente inclinata verso l’interno. Ligini risolse genialmente il problema, disegnando gradinate ad andamento variabile non solo in senso trasversale, ma anche longitudinale. La perizia tecnica produsse un edificio esteticamente armonioso, brillante e curvilineo. Nel luglio del 2008 il Velodromo è venuto giù con la dinamite. Non è più utilizzabile, il ciclismo su pista è uno sport poco praticato, l’edificio non è sicuro dal punto di vista statico: sono questi i capi d’accusa poi raccolti nella sentenza emessa a suo carico. Eppure in uno studio approfondito curato dall’Osservatorio sul Moderno a Roma, diretto da Gaia Remiddi e Antonella Greco presso la Facoltà di Architettura della Sapienza (allo studio hanno ­117

lavorato Remiddi e Antonella Bonavita), il Velodromo non è il relitto che dicono e anzi ha davanti un futuro. «In base ai materiali (studi, disegni esecutivi, relazioni, calcoli) dell’archivio di Cesare Ligini», si legge nel dossier, «si può costatare come il Velodromo sia completamente recuperabile in osservanza della legislazione attuale, sia dal punto di vista strutturale e antisismico, sia dal punto di vista della sicurezza che della normativa antincendio, sia in materia relativa alla funzione sportiva». Persino il Piano regolatore approvato appena qualche mese prima che la dinamite lo distruggesse, classifica il Velodromo come «emergenza storico-monumentale» e la Carta della Qualità, coordinata da Piero Ostilio Rossi e allegata allo stesso Piano, lo definisce come «impianto nodale» e lo include nella categoria dei «complessi specialistici di rilevante interesse urbano». Ma i Piani si fanno di giorno e la notte si disfano. Talvolta li disfano gli stessi che li hanno fatti. Nel 2006 si rivolge al sindaco Veltroni con una lettera aperta Renato Nicolini, che oltre a essere professore di Progettazione architettonica era anche parente di Ligini. Nicolini difende le torri, «che fanno parte integrante dell’operazione di ridisegno dell’Eur che si compie in occasione delle Olimpiadi del 1960. I dieci anni d’età che ci separano», dice l’inventore delle estati romane al sindaco con parole confidenziali, «non ti hanno consentito quella visione dell’Eur, incompiuto e abbandonato, senza la quale non si capisce pienamente cosa è stato “riannetterlo alla città democratica”. Le torri di Ligini, in particolare, sono l’alto contrappeso, dall’altra parte del laghetto, del Palazzo dello Sport di Nervi. Per di più sono state giustamente inserite nella Carta della Qualità... Demolirle contraddirebbe subito e clamorosamente il nuovo Prg. Perché cancellare da Roma la migliore architettura degli anni Sessanta, quasi a dar ragione a chi le ha definite con disprezzo, il capogruppo di An alla Regione Lazio, in modo del tutto ideologico, “brutture della modernità”»? ­118

Nonostante tutto, prima si sbriciola il Velodromo, poi vengono scorticate le torri. Secondo la denuncia di un comitato di cittadini, la distruzione dell’impianto sportivo, nel luglio del 2008, avviene rilasciando nell’aria polvere di amianto. La Procura della Repubblica ha aperto un’inchiesta e nel luglio del 2012 è stato rinviato a giudizio un dirigente dell’Eur S.p.a.: disastro colposo, il reato contestato. Grazie alle ricerche condotte in archivio da un comitato di cittadini che abitano a ridosso dell’area, da Maria Cristina Lattanzi e dalla consigliera del Municipio XII Matilde Spadaro (hanno recuperato tutte le carte del progetto originario di Ligini), è emerso che l’amianto era presente ovunque, dall’intercapedine delle pensiline ai pilastri. E bastava leggere accuratamente le carte per evitare che alcune centinaia di persone fossero esposte al rischio di respirare polvere d’amianto per alcuni giorni. Dal processo, iniziato nel febbraio del 2013, può anche derivare una class action con richiesta di danni milionaria. Le torri e il Velodromo di Ligini dovevano andare al suolo e al loro posto dovrebbe sorgere qualcos’altro. Non è certo che cosa, ma intanto quegli edifici dovevano rimuovere rapidamente la loro ingombrante presenza e lasciar libera un’area da mettere in vendita. All’Eur si sta giocando una partita delicata. Sono in campo i grandi potentati dell’edilizia romana e le banche che li finanziano, intrecciati con l’Eur S.p.a., la società al 90 per cento del ministero dell’Economia e al 10 per cento del Comune di Roma, che al pari di un barone medievale, proprio come ai tempi di Virgilio Testa ma con un’opacità diventata sistema, governa su questa porzione di territorio. Al Velodromo non si gareggiava più da oltre quarant’anni. Ma nelle torri hanno lavorato i funzionari e i dirigenti del ministero delle Finanze fino a tutti gli anni Novanta. Poi gli edifici sono stati svuotati e nel 2002, auspice il ministro Tremonti e la sua ideologica convinzione (molto diffusa anche oltre il recinto del centrodestra) che il patrimonio pubblico andasse venduto per fare cassa, ­119

sono entrati nel portafoglio di Fintecna, altra società del ministero dell’Economia incaricata, appunto, di vendere gli immobili appartenenti allo Stato. La qual cosa è stata prontamente fatta: le torri sono transitate nel 2005 nella società Alfiere S.p.a., di cui Fintecna è parte per metà insieme a tanti nomi dell’immobiliare e della finanza, non solo romane: la società Lamaro dei fratelli Toti, la Maire engineering di Fabrizio Di Amato, Salvatore Ligresti, Alfio Marchini, la Astrim (posseduta da Unicredit al 31 per cento), gli Armellini e la Fimit, una società che mette insieme diversi enti pubblici o ex pubblici (l’Inpdap, l’Enpals, Enasarco...) che a loro volta hanno grandi proprietà immobiliari in via di dismissione. Costo dell’operazione: 160 milioni. La nuova società ha dato incarico a Renzo Piano di elaborare il progetto di un edificio da realizzare sulle ceneri delle torri. Nel 2006 l’allora assessore comunale Claudio Minelli porta in giunta una delibera che ne prevede la demolizione. Nel frattempo, tanto per accelerare i tempi, con una semplice Dia (Dichiarazione di inizio attività) presentata al XII Municipio in cui si chiede l’autorizzazione per lavori di semplice manutenzione, si comincia a scuoiare le torri, rimuovendo il courtain wall, la facciata continua che era uno degli elementi di pregio degli edifici. La Soprintendenza ai beni architettonici lascia fare, assiste inerte benché sollecitata a intervenire per proteggere un edificio che sta per compiere cinquant’anni di vita e che quindi sarebbe rientrato automaticamente in un regime di tutela. Occorre però scavalcare altri ostacoli per arrivare alla demolizione. Per esempio, il divieto contenuto nel Piano regolatore: nessun problema, pochi mesi dopo l’approvazione del documento urbanistico nel febbraio 2008, l’11 aprile 2008, due giorni prima che si vada a votare per eleggere il nuovo sindaco, il commissario prefettizio Mario Morcone, nel 2011 candidato dal Pd a sindaco di Napoli, fa approvare una variante che stralcia le torri dalla Carta della Qualità nella quale erano inserite al pari del Velodro­120

mo. D’altronde, si dice, sono state già scorticate, di qualità non c’è rimasta traccia. L’approvazione definitiva della delibera per la demolizione avverrà con l’amministrazione Alemanno nel maggio 2010. Le giunte passano, le eredità che contano restano. La procedura cammina, nonostante anche il comitato di settore del ministero per i Beni culturali e importanti istituti culturali come la Fondazione Bruno Zevi esprimano parere contrario alla demolizione. Arrivano le ruspe che iniziano la loro opera. Nel frattempo Renzo Piano lavora. Alemanno, sollecitato da nostalgici camerati, gli chiede alcune correzioni: troppa distanza fra i nuovi edifici e il travertino sparato dell’Eur. Nel marzo 2010, l’architetto presenta il suo progetto, una struttura a ferro di cavallo, tutta in vetro con una serra al centro che si affaccia sul laghetto e sul grattacielo dell’Eni. 10 piani, parcheggi interrati, 300 appartamenti di lusso, qualche ufficio. Neppure un anno dopo, nel febbraio del 2011 – racconta Daniele Nalbone che insieme a Paolo Berdini ha scritto Le mani sulla città – incalzati dalla crisi, alcuni partner privati di Fintecna, i Toti e Ligresti, raffreddano gli entusiasmi. Il mercato degli immobili è fermo, le compravendite crollano: a chi piazzeremo i 300 appartamenti (costo per i tagli da 60 metri quadrati fra 600 e 700 mila euro)? Comincia la marcia indietro, il fascinoso affare sfuma all’orizzonte, il Comune non metterà le mani sui 24 milioni di oneri previsti (che pure sono un’inezia rispetto al guadagno previsto e anche ai primi accordi), lo scintillante progetto di Piano viene riposto in un cassetto – se ne parlerà, se se ne parlerà, chissà quando. Nella primavera del 2012 Fintecna, rimasta sola con il cerino acceso in mano, cambia in corsa i programmi: ora pensa di rivestire di nuovo involucro gli scheletri delle torri. Un’idea arriva dal comitato Salute e Ambiente dell’Eur, cittadini residenti nel quartiere: «Perché non vengono nelle torri gli uffici della Provincia di Roma, un’istituzione che dovrebbe chiudere, stando ai programmi del governo ­121

Monti, e che invece acquista una nuova sede, un grattacielo costruito da Parsitalia al Torrino, poco più a sud di qui, che costa 263 milioni? Perché la Provincia non investe su questi stabili che sono già al 50 per cento di proprietà pubblica?». Le proposte non mancano. E neanche il buonsenso. Intanto si contano i soldi sprecati fin qui per scorticare le torri, tempo e denaro buttati rincorrendo gli andamenti di mercato e gli appetiti speculativi scatenati sulla pelle di due edifici che qualcosa nella storia dell’architettura hanno pure significato. E che nel frattempo restano a marcire inzuppati di pioggia e battuti dal vento. La partita giocata all’Eur è delicata, si diceva. Le aree libere sono poche e per costruire occorre sgomberare quelle occupate. La parola che ricorre da un capo all’altro della città è valorizzazione: edifici pubblici, come le torri e il Velodromo, vanno eliminati e quei suoli, predisposti a voluminosi incrementi di cubature e di valore, offerti a costruttori privati. Con i soldi incassati si finanziano altre opere, la Nuvola di Fuksas oppure l’albergo che le sta alle spalle, il gigante di vetro nero chiamato la Lama. Che di quattrini ne ingoiano parecchi. Parti pubbliche della città diventano private. Ma se l’obiettivo è fare cassa, migliorare quella porzione di città diventa un’opzione subordinata, una variabile secondaria una volta assolta quella primaria. Può insomma uscirci qualcosa di utile o di presunto tale, ma il fine non è quello, come risulta in ogni manuale della cosiddetta urbanistica contrattata. Il fine consiste nell’abbassare il suolo al rango di moneta, come teorizza Alemanno. Ma se si prestasse ascolto alle richieste dei comitati di cittadini, anche i bisogni di un quartiere emergerebbero a tinte più nette. Al posto del Velodromo, per esempio, la giunta di Veltroni prevedeva un Acquatic Center, uno spazio fitness (entrambi, si diceva, destinati ai Mondiali di nuoto del 2009) e poi attività commerciali, un albergo, uffici, parcheggi oltre a strutture pubbliche (un asilo, una scuola materna e una media, un centro anziani). Con Aleman­122

no numeri e progetti cambiano: più strutture pubbliche, più verde, annunciano all’assessorato all’Urbanistica, ma anche molto più cemento in generale (da 5,3 ettari di superficie utile lorda a 6,8) e soprattutto quattro palazzi di 6 piani, alti 20 metri e due torri di oltre 25 piani per 90 metri d’altezza. La stessa logica di raccattare denaro attraverso la vendita di suolo era sottesa a un’altra operazione che ha investito l’Eur negli ultimi anni: trasformare il quartiere in una pista per il Gran Premio di Formula 1. Il progetto si è per ora inabissato, ma, come succede a volte, i cassetti sono un luogo riparato e tranquillo per aspettare tempi migliori. Le prime notizie risalgono all’inizio del 2009. L’idea viene lanciata da un gruppo di imprenditori, capeggiati da Maurizio Flammini, ex pilota, presidente di Federlazio, l’associazione delle piccole e medie imprese della regione, e Diego Calzavara, riuniti nella società Formula Futuro. 140 milioni l’investimento, 400 milioni i profitti previsti. Nella capitale arrivano i vertici dell’automobilismo mondiale, suggestionati dall’idea di veder correre i bolidi della Formula 1 fra gli edifici dell’Eur. Alemanno coglie al volo il possibile ritorno di popolarità che un evento di questa portata potrebbe trascinare. È la declinazione sportiva della Grande opera, realizzata in un regime di assoluta straordinarietà che annulla ogni contrappeso, ogni controllo, fa saltare regole e vincoli, appiattisce le procedure riportando ogni decisione politica in un ambito ristretto, commissariale. E aprendo il varco a succosi guadagni. Roma ne ha vissute di vicende in cui lo sport è la leva che alza l’asticella degli affari, dai Mondiali di calcio del 1990 a quelli di nuoto del 2009, fino alle candidature olimpiche, fallite, del 2004 e del 2020. Dietro il rombo dei bolidi che strusciano le architetture dell’Eur spuntano 24 mila metri quadrati di superficie coperta di palazzi nella zona delle Tre Fontane, lungo la via Laurentina, 80 mila metri cubi, due torri alte quindici piani e un altro edificio di sette, e poi un ponte che scavalca la stessa ­123

Laurentina e che, al servizio del circuito di Formula 1, viene esibita come infrastruttura per la comunità del quartiere, senza che il quartiere stesso sia neanche consultato. La prima localizzazione viene poi scartata e i palazzi vengono trasferiti più a sud, al Torrino. Ma l’urbanistica non sembra più la disciplina che regola interessi generali e interessi privati in un territorio, è un mercato e allora Flammini mette sul piatto un altro omaggio alla città: cinquanta grandi appuntamenti sportivi, fra i quali la candidatura a Sprinter World Cup, una specie di coppa del mondo di sci di fondo che l’imprenditore romano propone di disputare al Circo Massimo. Il suo obiettivo è di «portare lo sport in un luogo storico e inatteso, creare interesse e divertimento, creare nuove opportunità di business e costituire una piattaforma di marketing». Alemanno sventola altri regali. L’investimento dei privati sale a 200 milioni, mentre le ricadute economiche sulla città – si dice – supereranno il miliardo. Inoltre gli imprenditori versano al Comune 56 milioni che serviranno per interrare il tratto della via Cristoforo Colombo che penetra nell’Eur tagliandolo in due parti. Ai primi vagiti del progetto reagiscono molti comitati di cittadini dell’Eur. Si mobilitano tutte le associazioni ambientaliste. Viene denunciato l’impatto che un Gran Premio avrebbe sul quartiere, un Gran Premio che si prepara nel tempo e non si riduce a un solo giorno di gara. Il rumore prodotto da un bolide di Formula 1 è pari a 140 decibel, calcolano i comitati, contro i 35-40 che rappresentano la massima soglia tollerabile. Il rumore, inoltre, è in grado di giungere fino a 6 km di distanza, con la conseguenza che migliaia di persone abitanti nell’area sarebbero investite per lunghi periodi da un frastuono insopportabile, che raggiungerebbe anche il vicino ospedale Sant’Eugenio. La vicenda si trascina, Alemanno propone anche un referendum. Poi ogni cosa si sgonfia. Il padrone dell’automobilismo mondiale, Bernie Ecclestone, non dà l’autorizzazione a far svolgere in Italia due Gran Premi, Monza e Roma. ­124

La strada per cavare quattrini dai suoli dell’Eur usando la Formula 1 appare accidentata. Si spengono i motori e il progetto viene accantonato. La parabola del Gran Premio serve però a illuminare quella che sempre più diffusamente viene chiamata una governance. Qual è la governance di questo quartiere romano dove abitano 12 mila perone e che ha caratteristiche speciali, nato per iniziativa del fascismo e ora gestito da una S.p.a.? Eur S.p.a. nasce nel 2000 per iniziativa del ministero del Tesoro, quando al governo nazionale e al governo di Roma c’è il centrosinistra. Si definisce «società di sviluppo immobiliare». Gestisce e valorizza, è scritto nella sua mission, un patrimonio valutato in 3 miliardi che comprende edifici (il Palazzo della Civiltà italiana e quello dei Congressi, il Palazzo dello Sport e la piscina delle Rose, il Museo nazionale delle Arti e tradizioni popolari, l’Archivio centrale dello Stato...), parchi e giardini per oltre 60 ettari, suoli, strade e marciapiedi. Questo patrimonio andrebbe anche tutelato, sia sotto l’aspetto urbanistico che della sua architettura, essendo uno degli esempi che meglio documenta nella sua interezza una stagione della cultura italiana prolungatasi dalla fine degli anni Trenta agli anni Sessanta. Inoltre all’Eur ha sede un complesso museale di grande rilievo, ma poco noto e poco valorizzato: il Museo nazionale delle Arti e tradizioni popolari, che raccoglie oltre centomila fra documenti e oggetti delle culture regionali italiane; il Museo preistorico ed etnografico Luigi Pigorini, con le collezioni paletnologiche accumulate dagli ultimi decenni dell’Ottocento fino alle più recenti scoperte intorno ai laghi di Vico e di Bracciano e poi gli oggetti raccolti da Athanasius Kircher a metà del Seicento, che documentano le civiltà orientali e africane; il Museo della Civiltà romana, con i suoi plastici e le sue ricostruzioni. L’Eur S.p.a. ha dichiarato nel 2011 un bilancio di 645 milioni di euro, un utile di 9 milioni, 190 milioni di debito. E ha in caldo tanti progetti. I debiti sono contratti per ­125

le Grandi opere, la principale delle quali è la Nuvola di Fuksas, il nuovo Centro congressi che l’architetto romano si aggiudicò per concorso internazionale nel 2000. Tredici anni dopo, più volte annunciata e poi sfumata, ancora non si conosce la data di inaugurazione di questa teca di acciaio e vetro alta quasi 40 metri che contiene, sospesa, una struttura in fibra di vetro e silicone. 1.800 posti l’auditorium (la Nuvola), 7.000 la sala congressi. Un ristorante, un albergo, parcheggi. Totale: 27 mila metri cubi. Costo attuale, ma ancora provvisorio: 277 milioni. Costo iniziale 130 milioni. Per completare l’opera, che nelle intenzioni di chi la pensò dovrebbe rilanciare Roma nel mercato mondiale del turismo congressuale, l’Eur S.p.a. attinge in larga misura al credito delle banche, alle quali dà in garanzia parte del proprio patrimonio. Compresa la stessa Nuvola, che è ipotecata come il Palazzo dello Sport. E compresa la sede dell’Archivio centrale dello Stato, realizzata negli anni Quaranta da Mario De Renzi, Luigi Figini e Gino Pollini, per la quale il ministero dei Beni culturali paga all’Eur S.p.a. un affitto di 7 milioni e mezzo l’anno che sono un macigno nei conti di un istituto in cui è custodita la memoria cartacea del paese – 140 chilometri di scaffalature – e che tira avanti una vita stentata, con mortificanti tagli, senza poter sostituire chi va in pensione se non con contratti precari e di fame. Per un archivio lasciato agonizzare, per musei cui si riservano poche cure, altre luci si accendono all’Eur. Fra i progetti cui l’Eur S.p.a. tiene di più, anche un gigantesco acquario, 14 mila metri quadrati, video-proiezioni, una galleria commerciale, un milione e mezzo di visitatori l’anno previsti sotto il laghetto che fronteggia il grattacielo dell’Eni. Un progetto nato nel 2006 (deliberato dalla giunta Veltroni), che, si legge nei comunicati, «recupera la storia e il ruolo centrale di Roma nella cultura del “mare nostrum”». Per realizzarlo, dal 2008 è stato svuotato il laghetto. Ma nulla si fa gratis e l’acquario è affiancato, anzi preceduto nei tempi (la sua inaugurazione è fissata per giugno 2013), da un parcheggio multipiano interrato di ­126

700 posti, aperto da Alemanno nella primavera del 2012, la cui costruzione e la cui gestione è con ogni evidenza una parte molto croccante dell’intero affare. Con il mercato degli immobili che stagna tutti fanno fatica. Le Grandi opere per le quali si spreme il suolo come un limone stentano a trovare acquirenti. Si avviano tante imprese – l’edificio di Renzo Piano al posto delle torri di Ligini, per esempio –, si sperimentano le avventurose strade della finanza, ma poi si innesta la retromarcia e molto resta allo stadio di brandello. Nel 2006 la giunta Veltroni e la precedente gestione dell’Eur S.p.a. (Paolo Cuccia presidente, Mauro Miccio amministratore delegato) volevano costruire 13 mila metri cubi di edifici in una zona verde lungo via delle 3 Fontane (originariamente i metri cubi erano 18 mila). Ci fu una sollevazione di comitati e di associazioni ambientaliste, la delibera venne impugnata al Tar, la Soprintendenza emise un vincolo e il progetto svanì. Ora l’Eur S.p.a., anche con i soldi incassati dall’Archivio centrale, progetta e costruisce la Lama, un paravento alto 70 metri, 17 piani di vetri oscurati che separa la Nuvola dagli scheletri delle torri di Ligini. L’acquirente pareva fosse dietro l’angolo, la Lama (costata 70 milioni e messa in vendita per 100) sarebbe dovuta diventare un albergo di lusso, 440 camere, e invece già nella primavera del 2011 si prendeva atto che nessuno si era fatto avanti. A quel punto è emersa un’altra ipotesi: la Lama resterà di proprietà dell’Eur S.p.a., che metterà all’asta solo la sua gestione, e sarà un annesso della Nuvola. E un pensierino è andato anche alle torri di Ligini, che incombono lì dietro e guastano con la loro scheletrica presenza il quadretto di edifici da proporre al turismo congressuale: perché, si sono detti all’Eur S.p.a., non subentriamo noi ai privati che si sono sfilati? Se n’è parlato per un po’ di settimane, poi anche questa ipotesi è finita in un cassetto. Ma chi è che manovra queste spericolate scorriban­de nelle praterie immobiliari, usando soldi e beni pubblici con dimestichezza tutta privata e trasferendo sotto il control­127

lo privato parti di città che erano pubbliche? Presidente dell’Eur S.p.a. è Pierluigi Borghini, imprenditore romano, nel 1997 candidato sindaco del centrodestra battuto da Rutelli, poi consigliere comunale di Forza Italia nel 2006. Amministratore delegato e vero uomo forte della società è stato, fino alle sue clamorose dimissioni nel gennaio 2013, Riccardo Mancini, anche lui un passato di imprenditore. Ma soprattutto di ex militante di Avanguardia Nazionale, famigerato gruppo dell’estrema destra: nel suo curriculum pende una condanna a un anno e 8 mesi per detenzione di armi. «Non mi vergogno del mio passato. Proprio, no», diceva Mancini in un ruvido romanesco durante un’intervista a Corrado Zunino per Repubblica Tv, «io non mi sono dimenticato niente del mio passato. Nulla. Ho avuto dei processi per Avanguardia Nazionale, ma tutti chiusi. E in fondo sono di estrazione socialista. Sono per il popolo e sono statalista». Mancini fa parte di una pattuglia di ex neofascisti che negli anni hanno accompagnato Alemanno e la sua carriera politica. Molti di loro con le giunte di centrodestra al Comune e alla Regione hanno ricevuto incarichi. Per esempio troviamo Adriano Tilgher, fra i principali leader del neofascismo anni Settanta, nella segreteria dell’assessorato alla Casa della Regione Lazio. Oppure Stefano Andrini, assunto come dirigente dell’Ama, l’azienda comunale dei rifiuti, e promosso amministratore delegato di una controllata, ma poi rimosso: condannato a tre anni per aver sprangato due ragazzi di sinistra nel 1989, arrestato nel 1994 per scontri con gli autonomi. Mancini ha sostenuto Alemanno nella corsa al Campidoglio già nel 2006, corsa stravinta da Veltroni, e nel 2008 si ripropone come tesoriere dell’antico camerata che, una volta conquistato il posto di sindaco, un anno dopo lo nomina al vertice dell’Eur S.p.a.: per Mancini è un colpo grosso, ottenuto grazie al socio di assoluta minoranza – il Comune controlla il 10 per cento – e al silenzio acquiescente di quello di maggioranza (il Tesoro, che ha in ma­128

no il 90 per cento). L’amministratore delegato incamera a cascata la guida di un grappolo di società controllate: Eur Congressi (la sigla che gestirà la Nuvola), Eur Facility (che si occupa di manutenzione degli edifici), Eur Tel (che ha in programma di cablare l’intero quartiere). Diventa presidente anche di Aquadrome, che è una società misto pubblico-privato che insieme a Condotte dovrebbe costruire nell’ex Velodromo (Condotte, inoltre, è l’azienda che edifica Nuvola e Lama). Il suo stipendio dichiarato era, al momento delle dimissioni, di 180 mila euro lordi l’anno. Diversa la valutazione della Corte dei Conti: 280 mila. Il mio compito consiste nel creare valore per gli azionisti, dichiarava Mancini nell’intervista tv. Se lo fanno Scarpellini, Parnasi, i fratelli Toti e Armellini, i grandi nomi dell’immobiliare a Roma, si domandava retoricamente, perché non possiamo farlo noi? Già, perché? Tutto è pubblico-privato in questa storia. Suoli pubblici e profitti privati. Spazi che erano della collettività e che finiscono sotto il controllo di alcuni. Un ente, diventato società per azioni, ma sempre e solo con i soldi di tutti, che governa su un pezzo di città in un regime di spiccata autonomia e che agisce sul mercato delle aree con spregiudicatezza e finalità proprie di uno speculatore. Mancini, documenta Zunino su Repubblica nel maggio del 2011, ha conservato inalterate le sue quote in una ventina di altre società. Buona parte di queste operavano negli stessi settori in cui agivano le controllate dell’Eur S.p.a., dai combustibili al riscaldamento, dall’immobiliare ai rifiuti. Inoltre, prima di diventarne amministratore delegato, Mancini è stato consulente della società per il Gran Premio di Formula 1, che ha poi sostenuto animosamente una volta assurto alla guida dell’ente. Con il suo arrivo, sono sbarcate all’Eur S.p.a. alcune sue vecchie conoscenze. Dario Panzironi, per esempio, figlio di Franco, altro ex neofascista del circuito di Alemanno, poi diventato amministratore delegato dell’Ama, carica dalla quale si è dovuto dimettere perché travolto dall’inchiesta giudiziaria che ha preso ­129

il nome di Parentopoli. Un altro sbarco degno di nota, consule Mancini, è stato quello di Carlo Pucci, titolare di una tabaccheria in viale Europa all’Eur, anche lui trascorsi nell’estrema destra, diventato direttore marketing. Sua moglie era inoltre consigliera d’amministrazione in alcune società private di Mancini. Sulla testa dell’amministratore delegato si addensano, nel settembre 2012, fosche nubi. La Procura di Roma indaga su una tangente che sarebbe stata versata proprio a Mancini dall’azienda bolognese Breda Menarini, controllata da Finmeccanica, per favorire l’acquisto di 45 filobus che avrebbero dovuto servire il nuovo quartiere di Tor Pagnotta, costruito da Caltagirone sulla via Laurentina, a sud-est dell’Eur. Che c’entra Mancini? Secondo l’accusa la tangente sarebbe stata versata nel 2008, prima che lui diventasse amministratore delegato dell’Eur S.p.a. E in virtù di quali buoni uffici? Le sue conoscenze in Campidoglio e in particolare in Roma Metropolitane, la società che ha appaltato i lavori. Mancini figura indagato con altre persone del giro di Finmeccanica che, come lui, avevano frequentazioni nell’estrema destra. Solo la conclusione dell’inchiesta e dell’eventuale processo chiarirà se mazzette ci sono state e chi le ha prese. Mancini, intanto, gravato di sospetti, abbandona e si dimette. Qui interessano i filobus. Fanno parte di un progetto che risale al 2004, quello di un corridoio per tenere agganciati alla città gli insediamenti sorti nei terreni di Caltagirone a Tor Pagnotta, un milione 400 mila metri cubi per 15 mila abitanti. Il solito satellite vagante in un lembo pregiatissimo di campagna romana, con un casale e una torre medievale e sottoposto a vincolo paesaggistico, ora sepolto dalle palazzine con le lunghe balconate continue, la “firma” dell’edilizia del più potente e danaroso dei costruttori romani, titolare di un impero che si allunga dal mattone alla carta stampata (Il Messaggero e Il Mattino di Napoli) alla finanza. Un cliché consolidato: prima facciamo un quartiere a molta distanza dalla città costruita, a ­130

stretto ridosso di piccoli insediamenti di edilizia popolare, poi penseremo a dotarlo di servizi essenziali come il trasporto pubblico. Le concessioni edilizie risalgono al 2003, giunta Veltroni, che sostiene di aver dimezzato le consistenze edificatorie contenute nel vecchio Piano regolatore (diritti già acquisiti, secondo il Campidoglio; nient’affatto, replicano giuristi e urbanisti, solo previsioni correggibili o eliminabili). Quando si sottoscrissero gli accordi, si fissò che le edificazioni potevano partire solo se, contemporaneamente, si realizzava un “corridoio della mobilità”. Che voleva dire, in un primo tempo, il prolungamento della metropolitana B, attualmente attestata a via Laurentina, poi trasformata in una metropolitana leggera superficiale, quindi in una tranvia, infine in un tracciato di filobus in corsia protetta lungo 35,5 chilometri per un investimento di 163 milioni. Inoltre era previsto che Caltagirone avrebbe dovuto costruire un cavalcavia di collegamento. Come sempre, quando il controllo pubblico è incapace oppure senza volontà di fronte alla forza del privato, le case sono state avviate, ma di corridoi, di mobilità e di filobus c’è appena una prima tranche di lavori: 5 chilometri su 35,5. Dei collegamenti previsti con Trigoria e con Tor de’ Cenci si attende ancora il progetto. Del cavalcavia non c’è traccia. Per gli altri chilometri c’è da armarsi di pazienza. E anche di vigilanza, visto che sulla fornitura dei filobus, attualmente in un magazzino della Repubblica Ceca per verifiche tecniche, pesa il sospetto che siano fioccate mazzette.

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Il centro soffocato

L’annuncio era in fondo a pagina 35, Cronaca romana del Messaggero. Mese di novembre, anno 2012. Titolo in rosso, carattere corsivo: “Via di Ripetta finalmente riapre al traffico”. Quindici righe e una firma, Annibale. Annibale è un celebre macellaio della capitale. Con l’annuncio a pagamento, costatogli alcune migliaia di euro, intendeva ringraziare il sindaco Alemanno e il suo assessore Fabrizio Ghera per aver portato a termine il rifacimento dei marciapiedi. Ma un grazie, «cor core da Romano de Roma», Annibale lo rivolgeva anche a residenti e commercianti della strada che, con una raccolta di firme, «hanno permesso di impedire una pedonalizzazione che avrebbe congelato in un freddo museo un luogo ricco di storia e di storie». La storia e le storie, secondo Annibale, si rinnovano con le macchine. Sono le macchine che donano linfa a quella parte di Roma nella quale esse sono comparse da poco meno di un secolo, una porzione molto breve rispetto ai tempi lunghi della vita che in quella zona della città è transitata. Porzione molto breve ma intensa, se sono vere le stime che attribuiscono alle macchine l’occupazione del 56 per cento di tutto lo spazio pubblico del centro storico. Senza le macchine, via di Ripetta, via del Babuino e via del Corso, il tridente d’origine rinascimentale che si chiude in piazza del Popolo, sarebbero un freddo museo, un pezzo di città messo in una ghiacciaia allo scopo di ibernarlo, preservandolo dallo scorrere del tempo. ­132

Annibale non è isolato, rappresenta una fetta della popolazione romana che vive o lavora nel centro storico. Da decenni questa rintuzza con veemenza i deboli tentativi di tenere lontane le macchine, convinti, i promotori di tali tentativi, che esse siano incompatibili con le strade e gli edifici del nucleo antico di Roma, con i modi in cui la vita vi scorre e per il rispetto – un rispetto che non è solo ossequiosa cerimonia – che è dovuto al luogo in cui è contenuto un patrimonio d’architettura e d’arte con pochi paragoni al mondo. Un’incompatibilità denunciata ancora negli anni Cinquanta del Novecento da Antonio Cederna, quando le macchine erano tante di meno rispetto a oggi e quando ancora si ragionava con il piccone demolitore, sognando sventramenti o più pudiche “rettifiche”. E altre volte riproposta, l’incompatibilità, da Leonardo Benevolo, che l’ha ribadita seccamente nel suo La fine della città, pubblicato nel 2011, dall’alto di una consuetudine di studi e di progetti su Roma che pochi possono vantare: «Il centro storico non deve essere in alcun modo attraversato dalle auto». Uno scenario antico e una circolazione moderna sono inconciliabili, aggiunge l’urbanista e storico dell’architettura che a novant’anni continua a macinare lungimiranti idee su Roma dalla sua Cellatica, vicino a Brescia, dove se ne andò nel 1976. In molte città europee questa inconciliabilità si è tradotta in un divieto di ingresso, una misura di natura amministrativa che poggia su perni culturali e civili. «Io credo che la conservazione integrale di questo lascito, che a Roma comprende la porzione abitata, quella incorporata nelle zone archeologiche e i terreni circostanti sottratti al consumo edilizio, sia il compito minimo della nostra generazione», continua Benevolo. «La conservazione è una nozione moderna», insiste riprendendo un argomento caro a Cederna, «accettata generalmente in Europa: essa ammette solo usi compatibili con la cornice fisica attuale per consentire una equilibrata percezione dei suoi valori sia nel contesto quotidiano che nel tempo libero. Inoltre ­133

i centri storici – tutti i centri storici – si salvaguardano come degli organismi viventi, non come dei siti archeologici che vanno visitati: gli unici cambiamenti ammissibili sono quelli che consentano di essere vissuti e abitati, di possedere quel congegno di relazioni umane ed economiche che li hanno alimentati per secoli». Il Municipio I, che coincide con il centro storico di Roma, si estende per quasi 1.500 ettari. Include il colle dell’Esquilino e conta poco più di 120 mila residenti, quasi la metà di quanti vi abitavano nel 1961, meno di un terzo rispetto al 1951: il calo è stato forte almeno fino ai primi anni Novanta, poi la popolazione si è assestata e senza seguito sono stati i propositi di riportare residenza. Se poi ci si limita al tridente, ai rioni di Sant’Angelo, Regola, Ponte, Parione, Sant’Eustachio, Pigna, Trevi e Campo Marzio, i residenti sono solo 32 mila. Fra chi abita nel Municipio vanno anche calcolati oltre 10 mila persone alloggiate nei centri della Caritas, della Comunità di Sant’Egidio e degli altri organismi che accolgono chi vive in condizioni difficili, chi non ha più casa, rifugiati, immigrati senza permesso. Gli immigrati (che qui sono il 23 per cento degli abitanti, mentre in tutta Roma sono il 9), gli anziani in continua crescita e le famiglie composte da una sola persona danno il volto alla comunità dei residenti nel centro storico di Roma. In un piccolo spazio insieme agli immigrati, per lo più concentrati all’Esquilino, convivono ceti medi e medioalti, borghesia delle professioni, alta borghesia e aristocrazia. Lo spopolamento avvenuto dopo gli anni Cinquanta e Sessanta ha mescolato e modificato il profilo sociale del centro storico. Se ne sono andate le fasce più popolari ed è subentrato chi poteva permettersi i costi continuamente in crescita degli appartamenti. Una specie di gentrification senza governo, regolata dalla rendita. Ma soprattutto è arrivato qui tantissimo terziario, uffici, direzioni aziendali, studi professionali. Stando alle rilevazioni contenute nel Piano regolatore sociale del Municipio 2008-2010, nel mo­134

mento di massima crescita dei prezzi, intorno cioè al 2006, nella zona del tridente un appartamento costava in media dagli 8 ai 9 mila euro a metro quadrato, un prezzo che però raggiungeva vette molto più elevate nei tanti edifici di pregio, fino a raddoppiare e anche oltre. Secondo il Cresme, apprezzato centro di ricerca sul mercato dell’edilizia, fra il 2001 e il 2006 si è registrato un incremento medio dei valori del 95 per cento. Dal 2008, con la crisi, i prezzi hanno smesso di crescere o sono diminuiti soltanto di poco (ma quasi nulla per gli appartamenti di lusso). E il mercato immobiliare si è raffreddato, i mutui che sostenevano gli acquisti si sono ridotti e le compravendite sono diminuite sensibilmente. Le tensioni sono rallentate forse in attesa che i prezzi scendano ancora. Il centro storico, abitato da poche decine di migliaia di persone, è ancora il vero, rumoroso e caotico centro direzionale della città. Ed essendo la città la capitale del paese e la capitale della cristianità, è un centro direzionale alla potenza ennesima, ospitando tutti i massimi organi istituzionali e anche le loro infinite propaggini amministrative. E poi molte ambasciate, compresi gli uffici di cancelleria. Molti istituti religiosi. Sedi di organismi internazionali. Ogni giorno si popola di chi in quei palazzi lavora, di commercianti e fornitori, di chi carica e scarica merci violando tutti i limiti orari, di chi anche occasionalmente frequenta studi e uffici, di chi vi transita perché da nord raggiunge il sud della città e viceversa, di un esercito di parlamentari e di politici in genere, dei loro collaboratori. E di turisti che, secondo alcune stime, si aggirano intorno ai centomila ogni giorno. Le macchine, che dovrebbero essere poche, solo quelle alle quali è consentito l’accesso alla Ztl, entrano invece in gran numero e sono uno dei sintomi di una patologia più complessiva, che rimanda agli usi impropri di un centro storico. Un centro storico molto esteso e che, persino a prescindere da quel che custodisce, è esso stesso un bene culturale, non solo uno splendido museo en plein air, bensì la ­135

testimonianza del modo d’essere di una città prima della rivoluzione industriale. Una testimonianza di qualità eccellente, un campionario di strati artistici e architettonici. Un patrimonio collettivo nel suo insieme. Non un reperto congelato, ma l’esempio vivente, definito in uno spazio, di come le relazioni fra gli esseri umani possano essere dettate da tempi, ritmi e abitudini e persino da valori che si affiancano a quelli più consueti di un organismo urbano moderno, convivendo con essi e raffigurando per certi aspetti un’alternativa. Il centro storico di Roma, come molti altri centri storici, esprime valori oltre l’aspetto e il pregio monumentale. Anche dalle facciate più solenni trapela un senso di domestico, di artigianale, che cattura persino le sensibilità meno avvertite. E che spiega perché siano questi i luoghi più ricercati per un disordinato, chiassoso sciamare notturno. In fondo i centri storici non oltrepassano il 10 per cento del costruito in una città (quello della capitale, in realtà, è molto sotto quella soglia). Ma su di essi, sul senso di vitalità che manifestano, gravano attenzioni che vanno al di là di questa dimensione. Però le attrazioni possono diventare un fattore di mistificazione e di asfissia. I valori immobiliari ne sono un segnale. L’essersi consegnati a una specie di monocultura turistica, un altro. Centomila turisti ogni giorno percorrono le strade del centro storico di Roma. Tre volte il numero dei residenti nei rioni che ospitano il Pantheon, piazza Navona, Fontana di Trevi fino all’area archeologica centrale. Una falange di pullman invade il Lungotevere, occupa via della Conciliazione, staziona in doppia fila e con i motori accesi al Circo Massimo. Da qualche tempo giganteschi torpedoni hanno preso l’abitudine di procedere a passo di lumaca per permettere ai passeggeri di fotografare senza neanche scendere. È uno dei segni di come il turismo che divora Roma sia, al tempo stesso, opprimente ed evanescente. E come Roma sia un film che scorre sui finestrini di un pullman e riprodotto su telefoni cellulari. ­136

Le conseguenze, però, a Roma come a Venezia e Firen­ ze, a Siena e nella piccola Pienza, non si fermano al mondo delle immagini. Il turismo sembra una riserva di caccia in cui si fronteggiano agguerriti clan, le agenzie di pullman, i noleggiatori, i tassisti, gli albergatori, gli affittacamere, i ristoratori, i bancarellari. Ognuno dei quali vanta diramazioni in Consiglio comunale, municipale, fra gli assessori e i dirigenti del Comune. La gran parte del commercio si adatta a questo mercato, lo asseconda e, a sua volta, produce altro spopolamento di residenti. Sono luoghi comuni l’elenco dei tipi di negozi che chiudono o che ormai hanno già chiuso e di quelli che aprono. O la lista delle bancarelle che vendono prodotti alimentari e souvenir e che fanno corona a palazzi storici e monumenti. Chi li ribadisce inarca la voce a modo di giaculatoria. Ma sono luoghi comuni supportati dai numeri, visibili a occhio nudo e costanti, inarrestati nel tempo. Con sempre meno residenti perché dovrebbero tenere aperti fruttivendoli o lavanderie? Il macellaio Annibale è un’eccezione, carissima e ricercata da clienti di tutta Roma. Ma per quale motivo, se ogni giorno passano davanti alle sue vetrine centomila turisti, una salumeria dovrebbe esporre prosciutti e stracchino e non trasformarsi in una pizzeria al taglio? Più birrerie inaugurano, meno residenti resistono, soprattutto se in condizioni economiche non buone. Con le norme nazionali che dalla fine degli anni Novanta, poi ripetute nel tempo, agevolano la concessione di licenze di vendita, ogni programmazione incontra ostacoli proprio nelle leggi. Fino a non molto tempo fa si fissavano limiti al tipo di commercio se questo era già esercitato nelle vicinanze. Ora non vale più neanche l’elementare regola di mercato per cui sarebbe sconsigliabile aprire un bar dove ce ne sono già tanti. Centomila persone al giorno fanno saltare ogni parametro e chi vuole un bar lo avvia. Ristoranti ed enoteche hanno sostituito la varietà di offerte che il centro storico garantiva. E accanto al diverso articolarsi della catena alimentare, dominano altri generi indirizzati al tu­137

rismo: e dall’abbigliamento all’antiquariato, il commercio modifica la propria natura, si attrezza in un procedimento circolare, causa e conseguenza al tempo stesso di un indebolimento della residenza. Anche gli appartamenti nel centro storico hanno cambiato proprietario e soprattutto destinazione. I prezzi alti consentono a poche persone di accaparrarseli. Tanto più se questi appartamenti vengono ristrutturati. I residenti se ne sono andati e al loro posto interi edifici sono passati a ospitare altro, prevalentemente uffici. Come per i negozi, anche gli alloggi hanno beneficiato dell’allentamento di tutte le procedure che tenevano stretto il cambio di destinazione d’uso a una serie di parametri. Un’autorizzazione amministrativa da sola non può contrastare il fiume in piena della rendita immobiliare, che travolge le fragili barriere che la burocrazia comunale dovesse opporle, sostengono amministratori e dirigenti del Campidoglio. Vale per i negozi come per gli appartamenti. Ma, si sente ribattere, se un vincolo si aggira o si rimuove, un’intera politica fatta di azioni coordinate e di iniziative pubbliche e non solo di divieti può contrastare la marea montante di un mercato senza regole. Almeno ci prova. Ma parlare di politiche pubbliche profuma di sfida disperata, ha il sapore di una battaglia persa, condotta con armi antiquate. E poi: chi intraprende politiche pubbliche se è il pubblico che non vuole intraprenderle? Nel centro storico di Roma, in assenza di prospettive più altolocate, si dibatte sui Pmo, un cacofonico acronimo che sta per Piani di massima occupabilità. In sostanza, il rimedio a tavolino selvaggio, come è stato battezzato non impropriamente. Bar e ristoranti non si accontentano dello spazio al coperto, lo spazio privato, ma ambiscono a estendersi quanto più possibile su quello pubblico, marciapiedi prima, strada poi. Il clima della città, una tradizione secolare ed esempi in tutto il mondo giocano a favore degli esercenti. Il punto è quanto questa vocazione al plein air possa esercitarsi fino a dilatare. Le norme sono decla­138

matoriamente restrittive, sia per gli spazi che si possono occupare, sia per gli oggetti che possono occupare quegli spazi. Ma di fronte alle norme formalmente feroci la realtà prevalente è l’abuso. A ogni norma corrispondono centinaia di ricorsi al Tar. A piazza Navona i tavolini dovrebbero limitarsi al marciapiede. Ma nessuno rispetta questa prescrizione. E chiunque può empiricamente verificarlo, ordinando una spremuta d’arancio – che, seduti, costa 7,50 euro – e bevendola osservati da una coppia di vigili urbani. Il costo che il proprietario del bar paga perché ha in concessione uno spazio pubblico, aumentato abusivamente di oltre il 50 per cento, è fra 0,75 e 0,87 euro al giorno per ogni metro quadrato. I conti sui margini di profitto, al netto anche delle lievi multe, può farli chiunque. Quel prezzo dovrebbe compensare il fatto che si sottrae superficie a chi vuol passare. Si sottrae integrità alla percezione dell’edificio pregiato che si vuole osservare. Si sottrae la possibilità che proprio lì un po’ di persone si radunino per chiacchierare senza l’obbligo di prendere un caffè. Si sottrae, insomma, una nutrita serie di prerogative gratuite, appartenenti a nessuno e a tutti, e che Roma potrebbe ambire di offrire anche ai turisti. La discussione sui Pmo si trascina da decenni. È alto il numero di riunioni fra associazioni di commercianti, funzionari del Comune, più quelli di diverse soprintendenze per definire la sagoma delle stufe che riscaldano i dehors (vanno bene quelle a piramide, non vanno bene quelle a fungo). O il tipo di recinzione. Ma il tema principale sfuma sullo sfondo: quanto della parte pubblica di una città e come può essere trasferita al privato che ne fa uso a fini di profitto in cambio del versamento di qualche onere? Agganciato alla vertenza contro il tavolino selvaggio, avanza un altro fronte sul quale si attestano i comitati dei residenti nel centro storico: il rumore, il disordinato frastuono che si allunga nella notte davanti a bar e ristoranti al quale spesso si sommano violente risse, aggressioni e spedizioni punitive. Si chiede che i locali chiudano entro una certa ­139

ora, che non si vendano alcolici ai minorenni e che il diritto al riposo sia garantito. Sui Pmo si è anche lavorato seriamente. In collaborazione con il Municipio I si è impegnato il Dipartimento di Architettura e Urbanistica della Facoltà di Ingegneria della Sapienza (Giordana Castelli, Carlo Cellamare). Si è realizzata una mappa delle occupazioni di suolo pubblico e si è proposta una regolamentazione. Ma ogni tentativo di dare forma a una situazione caotica è precipitato in conflitti e ricorsi. E chi amministra la città ha badato molto al consenso che le forti categorie dei commercianti garantiscono. Dietro tavolino selvaggio, dietro le risse a Campo de’ Fiori, si cela il malessere della parte antica di Roma che continua per certi aspetti a considerarsi una rocca fortificata nel privilegio della sua bellezza, nella sua alterità rispetto al resto informe dell’abitato. La questione non è nuova. Se la pose Giulio Carlo Argan, sindaco dal 1976 al 1979: «Il problema del centro storico sarà risolto nel giorno in cui non se ne parlerà più, cioè non si parlerà più di un problema di centro storico separato e distinto dal problema dello sviluppo e della evoluzione del nucleo urbano nella sua totalità». D’altronde è da alcuni decenni che sul centro storico di Roma, su di esso e sul rapporto che ha con la città intera, si è chiuso un ciclo di discussioni e di iniziative che furono tenaci fino ai primi anni Ottanta. Si è già ricordato il fervore culturale e politico che lungo gli anni Cinquanta e Sessanta animò i progetti per liberarlo di molte delle funzioni che l’opprimevano, degli uffici ministeriali, degli apparati di aziende pubbliche e private lasciandovi solo le grandi sedi istituzionali. Nell’introduzione a I vandali in casa (1956), Cederna lega strettamente due argomenti: l’alleggerimento del centro storico da tutto ciò che l’appesantisce perché incompatibile con le sue dimensioni, con le sue strade, con i suoi edifici; l’arricchimento della periferia grazie al trasferimento in essa di quel che è inadatto nel centro. Crea­140

re un centro moderno alternativo a quello storico era il presupposto dello Sdo, il Sistema direzionale orientale. Che però non si è mai realizzato, nonostante quella sigla continui a volteggiare nell’urbanistica romana come un fantasma ogni tanto evocato e poi ricacciato nell’oltretomba. La questione torna nella relazione con la quale Cederna accompagna la proposta di legge per Roma capitale (siamo nel 1989). Ed è strettamente connessa a un’altra delle grandi idee rimaste tali e di cui parleremo a breve: il progetto Fori. Con tutt’altra valenza e altra profondità, il decentramento delle funzioni amministrative è riproposto nel Piano regolatore del 2008 come condizione delle centralità. Gli esiti, però, sono centralità deboli, improprie, che ospitano in prevalenza residenza e commercio e un centro storico che non è stato alleggerito per nulla. Una spia della condizione di caos e di sudditanza del pubblico al privato sono gli affitti che la Camera dei deputati e altre istituzioni pagano a Sergio Scarpellini per avere alloggio (vedi il capitolo 2). Gli uffici di Camera e Senato sono fra i più voraci e disordinati consumatori di spazi. Senza alcuna programmazione tentano di accaparrare tutto quel che possono. Finendo per rivolgersi a chi approfitta di questo famelico bisogno. L’esigenza è antica. Nel 1966 fu indetto un concorso per costruire un edificio nel buco lasciato quando all’inizio del Novecento si realizzò la facciata di Ernesto Basile in piazza del Parlamento. Arrivarono molti progetti fra i quali quello di Insolera, che proponeva di non costruire nulla, suggerendo alla Camera di acquisire alcuni edifici circostanti. Ma di farlo in maniera ordinata, pianificando e programmando. Le esigenze di un moderno Parlamento, sosteneva Insolera, coincidono con la struttura unitaria del centro storico di Roma. Ma la sua propostaprovocazione fu scartata. D’altronde l’intero concorso finì nel nulla. E da allora, nell’inerzia del principale fra i poteri legislativi, senza alcuna idea su come risolvere il problema, le burocrazie andarono rosicchiando qui e là un po’ di ­141

spazio, finendo per mettere soldi pubblici sotto le grinfie di Scarpellini. Occorre attendere una manciata di tempo, la seconda metà degli anni Settanta, perché il centro storico di Roma torni a essere il cuore di un dibattito all’altezza dei suoi valori. Sono gli anni del progetto Fori. La prima idea risale a Benevolo ed è poi ripresa nell’allarme lanciato dal soprintendente archeologico Adriano La Regina e dal sindaco Argan. Troppe macchine minano l’integrità dei marmi e la stabilità dei monumenti nella zona fra il Foro e il Colosseo. Smantelliamo via dei Fori imperiali e ricostruiamo l’area archeologica centrale da piazza Venezia fino all’Appia Antica. Cederna sottoscrive e rilancia con veemenza. L’idea ha un impianto robusto: Roma guadagnerebbe uno spazio di cultura e di svago di proporzioni mai viste, «un luogo di passeggio, un sublime spazio pubblico», lo definisce Benevolo, eliminando le macchine e creando una connessione fatta di verde e di archeologia fra il centro della città e alcune periferie dove l’edificato soffoca la convivenza. Il progetto è sostenuto da un vasto fronte culturale e politico e diventa uno dei punti di forza del sindaco Luigi Petroselli. Chi lo contrasta – e sono anche personalità eminenti, da Cesare Brandi a Giuliano Briganti e Federico Zeri – lo fa con vigore e argomenti. Il dibattito è acceso, inimmaginabile oggi. Lo smantellamento di via dei Fori imperiali serve al centro storico, perché impedisce alle auto di penetrarvi da sud, dichiarano i favorevoli. Serve alla città nel suo complesso, perché è un fattore di riunificazione tanto quanto il risanamento delle borgate. È un potente investimento culturale sulla propria storia e sulle identità che l’hanno arricchita. Brandi, dall’altro versante, denuncia che l’eliminazione della strada è incompatibile con una città di impianto prospettico rinascimentale e barocco, nella quale «si verrebbe a inserire non più una serie di monumenti da riassorbire nel tessuto vitale urbano, ma un campo di rovine intransitabili che bloccherebbe senza scampo tutto il centro cittadino». ­142

Leonardo Benevolo, Vittorio Gregotti e altri giovani architetti come Francesco Scoppola mettono a punto un progetto. Ma quando questo è pronto, il fervore politico e culturale si è spento. Mai dato per defunto ufficialmente, il progetto svanisce. Svaniscono anche i seri argomenti di chi si oppone. Semplicemente non se ne parla più. Il programma prima è sistemato nell’orizzonte lontano delle utopie, alle quali si immagina di giungere con la velocità burocratica delle mediazioni al ribasso. Poi sparisce dall’orizzonte politico della città. Restano alcuni concreti risultati, come l’eliminazione di via della Consolazione e la pedonalizzazione davanti al Colosseo, lo scavo nei Fori, le limitazioni al traffico. Ma è liquidato l’impianto strategico. Quando tornano le amministrazioni di centrosinistra, il destino del progetto è segnato, nonostante appena pochi anni prima il sindaco Rutelli abbia sottoscritto la proposta di legge, primo firmatario Cederna, che lo prevedeva. Il funzionamento della città ne avrebbe guadagnato, insiste Benevolo, che stenta a darsi pace. La coabitazione fra la città morta e la città viva si sarebbe fondata su un doppio confronto, «di tipo diacronico: la magnificenza del passato si confronta con la rovina del presente. E di tipo sincronico: da una parte la dimensione urbana colossale, perduta e silenziosa, dall’altra la dimensione ordinaria, quotidiana e vissuta. Il confronto ha sempre suggerito l’idea di quanto le imprese umane avessero dei limiti. Roma, da questo punto di vista, non è la città eterna. È anzi il luogo di meditazione sull’impossibilità dell’eterno nel mondo di qua. Queste sono le riflessioni di Goethe, di Stendhal e di Mommsen; le ritroviamo persino in quel dispetto popolare per le rovine che viene colto da Giuseppe Gioachino Belli e da Trilussa». Oggi il progetto Fori è sepolto sotto lo stradone voluto dal fascismo, sul quale nel 2002 il soprintendente Ruggero Martines ha posto persino un vincolo, rendendolo intangibile. Nel Piano regolatore del 2008 non è neanche citato, nonostante il suo autore, Campos Venuti, abbia ­143

firmato un appello a favore nel 1981. È molto più facile governare senza grandi progetti e invece sminuzzando i fatti, sentenzia con tristezza Benevolo. Ma l’inattualità del progetto, al quale si sono preferite altre priorità, altri investimenti, pesa come pesano le occasioni perse. E nessuno, sulla scena politica, si azzarda a farne cenno, neanche quando si reclamizza con sproporzionato frastuono l’intervento di restauro sul Colosseo consentito dall’investimento di 25 milioni da parte di Diego Della Valle, il quale si riserva, in cambio, 15 anni di sfruttamento pubblicitario dell’Anfiteatro Flavio. Il Colosseo come brand. Uno dei fattori di danno per il monumento sono le macchine che lo aggirano per due terzi (Cederna parlava di un Colosseo ridotto al rango di paracarro), scaricando sulle sue superfici i loro gas e facendo vibrare pericolosamente il suolo. Un restauro che non si preoccupi di eliminare anche queste gravi e permanenti sollecitazioni è un restauro che vedrà parzialmente vanificati negli anni i suoi effetti. Il gruppo di Legambiente ha almeno proposto una pedonalizzazione dell’area. Ma il dibattito che ne è sorto si è mosso senza che nessun sussulto di memoria indicasse, anche sommariamente, la bussola del progetto messo a punto oltre trent’anni fa. Di quella stagione politica resta un altro episodio di politiche pubbliche che interessano il centro storico, il risanamento del rione di Tor di Nona. È un’iniziativa promossa da Vittoria Calzolari, assessore al centro storico, prima con Argan e poi con Petroselli. Sulla scia di quel che Pier Luigi Cervellati realizza a Bologna e Benevolo a Brescia, il Comune ristruttura case di sua proprietà oppure acquisite e le riconsegna ai residenti. Si intende fermare l’emorragia degli abitanti, soprattutto dei meno abbienti, e si vuole risanare un patrimonio edilizio senza che lo facciano privati con intenzioni speculative. A metà degli anni Settanta entrambi i fenomeni, svuotamento e speculazione, sono già evidenti. Il Campidoglio non agisce solo vincolando o impedendo cambi di destinazione. Propone ­144

invece un’azione alternativa, in cui il pubblico compete con il privato, mostra di poter intervenire in condizioni migliori sia economiche che qualitative. Fa politica e tenta la via della buona amministrazione. L’esperimento a Tor di Nona interessa 300 vani, 40 botteghe, un centro anziani, locali per il quartiere. L’investimento è di 4 miliardi di lire. Vittoria Calzolari ricorda altre iniziative, l’acquisizione del gigantesco edificio del Mattatoio, a Testaccio, dove poi si sarebbero installati una sede del Macro, il Museo d’Arte contemporanea, e la Facoltà di Architettura di Roma Tre; la ristrutturazione dell’Acquario, in piazza Manfredo Fanti, che oggi ospita la Casa dell’Architettura; la Casa della Città di via Crispi. E poi i piani di recupero di San Paolo alla Regola, Borgo Pio, largo Corrado Ricci, in totale 310 alloggi, 1.230 vani, 70 botteghe, 24 alloggi protetti per gli anziani. Ci sono i soldi, ci sono leggi nazionali che consentono di spenderli, ma ci sono anche le idee e un orgoglio della politica che irrora i percorsi dell’amministrazione. Spesso sottovalutando gli inciampi e collezionando errori. Ma d’altronde non è una stagione di sole rose e fiori. Le strade della capitale sono insanguinate dal terrorismo. Sulla scena politica nazionale si sta per chiudere la solidarietà nazionale e a sinistra le divisioni si fanno cocenti. I conflitti dentro l’amministrazione comunale sono a volte crudeli. Calzolari racconta la battaglia che deve sostenere per evitare che Palazzo Massimo venga assegnato alla Banca d’Italia, come vorrebbe Petroselli, e non al Museo nazionale romano, come fortunatamente accadrà. Nel 1981, poi, Calzolari lascia il suo posto di assessore a Carlo Aymonino, forse pagando il rigore con il quale contrasta l’invasione di attività terziarie nel centro storico. Petroselli è ucciso da un infarto nell’ottobre del 1981. Gli esperimenti di quella stagione, a Roma come altrove, restano senza seguito. Avrebbero dovuto correggersi, certo moltiplicarsi e inoltre attivare iniziative private sotto il controllo del pubblico. Ma invece la strada intrapresa è quella della contrattazione al ribasso ­145

con la rendita e con i costruttori. La politica cambia rotta, assume il complesso d’inferiorità. Il centro storico di Roma è lasciato da solo in balìa delle correnti che il mercato alimenta. «In tutti i paesi europei vige ancora un sistema di regole pubbliche che programmano gli interventi nella città», mi dice Paolo Berdini, urbanista, professore a Ingegneria di Tor Vergata, che qualche anno fa ha scritto La città in vendita, dedicato in gran parte al centro storico di Roma. «La crisi mette in discussione queste regole, ma anche in presenza di economie di mercato, le città europee sono sottratte a un semplice ragionamento economico. In Italia le città e il territorio sono diventati esclusivamente fattori economici e ogni altra argomentazione è stata cancellata». E se questo vale, secondo Berdini, per tutta la città, vale anche per il centro storico, «che dai primi anni Ottanta ha visto chiudersi ogni possibilità di impostare politiche pubbliche». O, comunque, di avviare partnership fra pubblico e privato che non fossero praterie per le scorribande speculative. Nel centro storico diminuiscono i residenti e quindi non c’è necessità di ospedali. E allora l’ospedale San Giacomo dietro a via del Corso si chiude, nonostante due mesi prima che la Regione ne dichiarasse la fine (siamo nell’agosto 2008) fossero stati inaugurati i nuovi reparti dopo costosi lavori di ristrutturazione (8 milioni, forse di più). Che cosa ne sarà di questo complesso cinquecentesco grande più di 30 mila metri quadrati, lasciato in abbandono, non è chiaro. Si attende che il mercato immobiliare riprenda fiato e faccia delle offerte. Ma non è improbabile che diventi un albergo, un residence o tutt’e due le cose andando a ingrossare la quota di posti letto per il turismo che in questa zona supera il 40 per cento del totale cittadino. Nel frattempo l’ex ospedale va in malora, cadono a pezzi gli intonaci, le finestre sono rotte: il San Giacomo è l’esempio di come, alla fine, cartolarizzazioni, valorizzazioni, vendita di beni pubblici sono spesso declamazioni retoriche che non arrivano in porto, si impaludano pietosamente, rive­146

landosi dei miserevoli e fallimentari conati. Eppure si procede lungo questa strada, sorretti dalla forza di un pensiero unico. È trasformata in albergo l’antica sede del Municipio I in via Giulia, il palazzo Medici-Clarelli. Come pure conventi e seminari. Sono stati venduti gli edifici dell’Istituto Geologico Nazionale, in Largo di Santa Susanna – quasi la plastica figurazione della scadente opinione di cui godono le indagini sui dissesti del territorio lì svolte – e quello della Zecca, ai Parioli. Al quartiere Monti la scuola Angelo Mai viene cartolarizzata e diventa appartamenti. Il posto delle politiche pubbliche per il centro storico è saltuariamente occupato da iniziative d’altra natura, che catturano l’attenzione come una brillante fiammata, ma che non hanno il respiro di una strategia. Il Museo dell’Ara Pacis è una di queste, forse la più clamorosa perché rimette in circolazione il tema del moderno in un centro antico, tema sul quale si sono confrontate le intelligenze di architetti, urbanisti e storici almeno per buona parte della seconda metà del Novecento. A distanza di anni dalla realizzazione dell’edificio di Richard Meier, quando già si discute se modificarlo radicalmente abbattendo parte del muro che si erge sul Lungotevere, si misura la portata di quell’intervento e l’incidenza che esso ha sul contesto del centro storico. Non solo in termini di impatto architettonico, quello sì volutamente vistoso fino allo choc, ma per il contributo che fornisce a uno spazio di cui forse aggrava gli elementi di complicazione. Soltanto nell’estate del 2012, per esempio, si accantona, perché tecnicamente irrealizzabile, un progetto che era la conseguenza diretta della sistemazione di Meier, vale a dire il sottopasso sul Lungotevere proprio di fronte al museo. Si pedonalizza l’area dall’edificio dell’Ara Pacis fino al fiume, dicevano nell’amministrazione di Walter Veltroni, sostenitore del progetto. Ma, a ben vedere, il nocciolo duro e fumante dell’intervento sono i 320 posti auto garantiti sulle sponde del sottopasso, un affare che facilmente si contabilizza pensando che ogni box sarebbe venduto a 150 mila euro. ­147

Ed eccoli di nuovo i parcheggi. Sono indicati da più parti come facilitatori della mobilità, come condizione per pedonalizzare e anche come necessari a salvaguardare la residenza nel centro storico. Sui 700 posti che l’amministrazione Veltroni vuole scavare sotto la collina del Pincio si inaugura un’altra delle battaglie intorno a un tipo di interventi che buona parte della disciplina urbanistica ritiene inammissibili: uno scatolone pieno di box per le macchine in un ambiente delicatissimo e pregiatissimo – la sistemazione di Valadier – e inoltre un potente attrattore di traffico in una zona che invece il traffico deve tenerlo lontano. Lo scontro va avanti per mesi. Poi la nuova giunta Alemanno annulla il progetto. Sentiamo ancora Benevolo: «Quel parcheggio non mi ha mai persuaso. Le ragioni, come si dice, trasportistiche erano addirittura meno convincenti di quelle addotte per costruire un altro parcheggio sotto il Gianicolo, che già erano deboli. In quel caso il sindaco era Francesco Rutelli. In entrambe le vicende il Comune di Roma prendeva atto passivamente che nel centro della città le auto possono circolare liberamente, salvo alcune limitazioni, e possono parcheggiare dovunque». Questa acquiescenza è uno degli effetti del laissez faire, dell’arretramento di qualsiasi ipotesi di regolare, in nome dell’interesse generale, un fenomeno che pare quasi rispondere a una legge di natura, come la circolazione delle auto. E così di parcheggi nel centro storico se ne immaginano a dozzine lungo tutto il primo decennio del Duemila. I luoghi preferiti dalla Sta, la società che il Comune affida a Chicco Testa, ex ambientalista, poi manager pubblico e privato, sono gli argini del Tevere, trasformati in loculi, pericoloso alloggiamento quando il fiume si ingrossa. Ma poi si sogna di bucherellare il Quirinale e il Gianicolo. Ognuno dei sette colli suscita appetiti. Centinaia e centinaia di posti-auto che resterebbero comunque una goccia nel mare rispetto alla massa di veicoli che si avventa ogni giorno sul centro storico. Ma che farebbero felici chi li co­148

struisce. Alcuni lavori si avviano, altri si prolungano in un tempo che appare infinito. Ma il programma lentamente si svuota. Resta l’incombente cantiere avviato all’imbocco di via Giulia dalla Cam, un’impresa che a Roma spadroneggia quando c’è da costruire parcheggi. La Cam è interessata anche a un’altra operazione: trasformare tre mercati rionali nei quartieri Trieste, Parioli e San Giovanni ottenendo in cambio di costruire oltre duecento appartamenti in housing sociale. Pezzi di città pubblica che slittano verso i privati. In un primo tempo sembrava che la Cam potesse addirittura demolire e ricostruire i mercati ottenendo premi di cubature. Ora lo scambio dovrebbe limitarsi alla ristrutturazione e gestione dei parcheggi, un affare da mille posti, molto redditizio. Fra i mercati coinvolti quello realizzato a San Giovanni da Riccardo Morandi nel 1956 e incluso nella Carta della Qualità del Piano regolatore per il suo pregio. Un altro oggetto di buona architettura romana che finirà nel gorgo della speculazione edilizia. Ma torniamo al parcheggio, che dovrebbe essere realizzato alle spalle di via Giulia, sul Lungotevere, a ridosso del liceo Virgilio, tra Largo Perosi e vicolo della Moretta, 336 box, appena una sessantina gli spazi a rotazione. Dallo scavo emergono le scuderie di Augusto, le stalle in cui si ricoveravano i cavalli dopo le gare al Circo Massimo, un reperto di rilievo assoluto. Ora tutto è fermo, da tre anni il cantiere è chiuso, sono impediti il passaggio verso uno degli assi fondamentali della Roma rinascimentale e la percezione libera da ingombri di un prezioso assetto architettonico e urbanistico. Sull’esterno del recinto alberelli dipinti, prati in fiore e qualche slogan sui parcheggi che rendono bella la città. Ma a febbraio 2013 spunta da un cassetto anche il progetto di un albergo, di abitazioni, di un ristorante e di un Antiquarium. Il tutto con vista sugli scavi. «Se la popolazione scende sotto certe soglie», mi spiega Berdini, «le scuole, il commercio di vicinato e una lunga serie di servizi spariscono. E la loro sparizione fa a sua ­149

volta diminuire la popolazione. A Roma sono troppe le zone che appaiono prive della complessità di un centro storico. E il depauperamento dei residenti si estende a mano a mano che ci si allontana dal centro. Intorno a via Veneto abitano non più di 4 mila persone, ce n’erano 16 mila nel 1951. A Borgo sono scese da 12 mila a 3 mila. Ma il fenomeno più inquietante è che si sta svuotando anche la prima fascia periferica, la città costruita fra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento. Hanno iniziato Flaminio, Salario, Pinciano, Parioli, Prati. Qui si perdono residenti e avanzano studi professionali e uffici. Se si guardano i dati di Gianicolense, Prenestino, Centocelle, Collatino, Alessandrino, Don Bosco si scopre che anche qui calano i residenti. L’aumento dei prezzi spinge tutti fuori, oltre il raccordo anulare e oltre i confini del territorio comunale». Torna l’incubo di un centro storico che perde l’anima e diventa uno spazio dell’intrattenimento, disponibile per un fugace consumo. Prevale un mercato che ha aspetti predatori, insensibile al deperimento della risorsa primaria che lo alimenta. È come se Roma perdesse il rispetto di sé. E mancano o sono sparpagliate in mille rivoli le idee forti, quelle idee che da Cellatica Leonardo Benevolo e, ora che non c’è più, dalle sue pagine Italo Insolera, due uomini nati nel secondo decennio del Novecento, distillano con poche frasi che riassumono profondi studi e acuta passione culturale e civile. Insolera proponeva una linea di tram che dalla Piramide sfilasse sul Lungotevere a ridosso del centro storico fino al ponte in corrispondenza di piazzale Flaminio: l’intero quartiere nell’ansa del fiume sarebbe stato servito da un mezzo non inquinante, veloce e dai tempi certi; da tutte le zone di Roma, da sud e da nord, ci sarebbe stato molto meno bisogno di prendere la macchina per raggiungere il centro o solo per oltrepassarlo; il Lungotevere sarebbe diventato un magnifico boulevard, restituito in gran parte ai pedoni; e il Tevere avrebbe bagnato finalmente una città dalla quale lo separa ­150

un incombente muraglione. Benevolo rilancia: spostiamo le macchine sul solo Lungotevere di destra, quello che fiancheggia Trastevere, liberandolo dalle auto in sosta e creando due sensi di marcia; all’altezza della Farnesina un sottopasso consentirà di riportare il giardino alla grandezza originaria; il Lungotevere di sinistra diventa solo pedonale; ma pedonale diventa anche tutto il quartiere del tridente. Utopie? Idee finalmente all’altezza di una città che riprende il rispetto di sé? Qui si può solo registrare la gittata a lungo termine di questi progetti, il fatto che non celino intenzioni speculative e che a formularli sono due signori che Roma la conoscono. Non succede di frequente.

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I padroni dell’Appia

Se Antonio Cederna avesse potuto usare Google Maps chissà quante inerpicate lungo i bordi delle cave si sarebbe risparmiato per scoprire e fotografare la piscina di Silvana Mangano nella villa sull’Appia Antica. Nel 1953 Google Maps non c’era. E lui s’inerpicava. «Ci appare una vasta macchia di azzurro accecante, una grande piscina privata con fondo in mosaico di vetro, orlo ondulato di cemento come le fosse degli orsi, toboga, trampolino, ombrelloni gialli, rossi e blu», scriveva sul Mondo l’8 settembre 1953. I gangster dell’Appia, così s’intitolava il suo pezzo, era il primo di una lunga serie di articoli che l’archeologogiornalista dedicò alla Regina viarum e al saccheggio cui veniva sottoposta. La foto scattata da Cederna campeggia fra quelle poi inserite in I vandali in casa. La piscina è a forma di fagiolino ed è ancora lì, nella tenuta di circa 8 mila metri quadrati di proprietà di una società, la Veronica s.r.l., che fa capo all’arcipelago immobiliare di Sergio Scarpellini, costruttore romano che abbiamo incontrato già altrove, alla Romanina, dove possiede un’area sulla quale dovrebbe nascere una centralità, e nel centro storico, con gli appartamenti affittati alla Camera dei deputati e ad altre istituzioni. Qui sull’Appia Antica, al numero 199, poco dopo la tomba di Cecilia Metella, poco prima della villa dei Quintili, Scarpellini ha comprato la villa che fu della Mangano e che ora affitta per ricevimenti. ­152

Feste sfarzose, catering e fuochi d’artificio. E tante macchine che imboccano l’Appia a Porta San Sebastiano, alla chiesetta del Domine Quo Vadis svoltano a sinistra, poi prendono l’Appia Pignatelli e quindi ritornano sull’Appia Antica e parcheggiano lungo i bordi, sotto i cipressi, scostate di qualche centimetro da un sepolcro. Nel settembre del 2009 nella tenuta di Scarpellini sono arrivate le ruspe e hanno rimosso il parcheggio abusivamente costruito, un parcheggio per 130 posti. Qualche giorno dopo una macchina fresatrice ha tritato il terreno che agricolo era e agricolo doveva tornare a essere. L’iniziativa della demolizione, alle quali altre sarebbero seguite, fu presa dal Municipio XI, nel quale in gran parte ricade l’Appia Antica. Il consulente del presidente Andrea Catarci era uno dei pochi mastini che a Roma fronteggino l’abusivismo edilizio: Massimo Miglio. Consulente gratuito, per carità. Ora Miglio, che ha lavorato sia per il Comune che per la Regione, ma sempre imbattendosi in inciampi e ostacoli, fornisce le sue conoscenze e le sue abilità di segugio al Municipio I. Sempre gratuitamente, per carità. Quasi che la lotta al mattone illegale, con il quale Roma convive da sessant’anni, sia appunto un affare da volontariato, un atto eroico. Non una pratica di ordinario controllo di legalità e di repressione degli illeciti. L’abusivismo nell’Appia Antica è un capitolo a se stante nella voluminosa letteratura dell’abusivismo a Roma. Niente a che vedere con la costruzione di case e poi di palazzine senza nessuna licenza e su suoli agricoli negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Poco a che vedere con le ville tirate su dopo gli anni Ottanta nelle aree di pregio della campagna romana. Fino a metà degli anni Sessanta sull’Appia Antica si costruiva in spregio di alcune norme contenute nel Piano regolatore del 1931 che non andavano oltre la tutela di una “zona di rispetto” intorno ai monumenti e che imponevano blande prescrizioni ai progettisti. Nel 1953 due ministeri dichiararono il «notevole interesse pubblico» dell’Appia Antica («un cerotto ­153

applicato sopra una gamba stritolata da un treno», scrisse Cederna). Le ville con piscina, i casali demoliti e ricostruiti, gli edifici che invece di fondazioni sormontavano sepolcri e colombari non sorgevano in violazione di legge. Aggredivano spudoratamente l’integrità di quel paesaggio, manipolavano monumenti, ma i proprietari riuscivano a dimostrare con argomenti di bassa lega avvocatesca che loro le norme le rispettavano. Se non ci fossero state le denunce di Cederna, nell’Appia Antica sarebbero sorti quartieri di palazzine, strade di attraversamento e anche uno stadio. Nel 1960 si varò un piano paesistico che invece di salvaguardare prevedeva che si potessero costruire fino a 5 milioni di metri cubi. Con il Piano regolatore del 1962 e con il decreto attuativo di quel Piano firmato dal ministro dei Lavori pubblici Giacomo Mancini nel 1965, si cambia pagina: il territorio dell’Appia Antica, allora 2.500 ettari oggi 3.500, è sottoposto a tutela integrale e su di esso grava un vincolo di inedificabilità assoluto. È vietato ogni centimetro cubo di cemento. E le destinazioni del cemento esistente non possono cambiare: una stalla non può diventare abitazione. Gli unici interventi ammissibili sono gli impianti sportivi pubblici (ora anche quelli privati), previa autorizzazione della Soprintendenza. Tutto il resto è abusivo. Il Piano fissa anche un obiettivo: in virtù dell’eccezionale valore paesaggistico, archeologico e storico, quel territorio deve diventare parco pubblico. Qualcuno finalmente aveva capito quale portento culturale custodisse l’Appia Antica e che cosa occorresse fare perché anche le generazioni future ne godessero. Che cosa è successo da allora? L’urbanista Vezio De Lucia ha compulsato cartografie, archivi e compiuto rilievi per conto della Soprintendenza speciale archeologica. E ha calcolato che attualmente sull’Appia Antica giacciono 2,7 milioni di metri cubi di cemento. Mettendo a confronto vecchie e nuove carte ha però potuto stabilire che circa 1,3 milioni di metri cubi sono stati realizzati dopo il ­154

1967, dopo l’entrata in vigore del Piano regolatore. E sono dunque abusivi. La rilevazione è aggiornata al novembre 2011. Si tratta però, spiega De Lucia, soltanto di nuove edificazioni, di interi manufatti costruiti violando le leggi. A essi vanno aggiunti altri volumi, «allo stato impossibili da stimare», che hanno manomesso l’edilizia esistente: sopraelevazioni, annessi, box, garage, depositi, magazzini, piscine, parcheggi, oltre ai cambi di destinazione d’uso che sono altrettanto invasivi quanto il cemento, perché se un annesso agricolo diventa residenza occorre allacciarsi alle fognature, scavare per le fondazioni e per i sottoservizi in un terreno archeologicamente sensibile, producendo, inoltre, un carico urbanistico, più abitanti, più macchine... Un suono sinistro emanano, nella relazione di De Lucia, le parole che si leggono alcune righe più sotto le tabelle con i dati: «Il lavoro potrebbe trovare ulteriori e più precisi approfondimenti qualora dovessero rendersi disponibili basi cartografiche maggiormente dettagliate relative ai catasti storici e alla Ctr 2002 [la carta tecnica regionale] del Lazio in formato vettoriale. [...] Sarebbe opportuno approfondire lo studio relativo alle pratiche concernenti gli abusi edilizi nel territorio di competenza della Soprintendenza [...]: studio che non è stato possibile affrontare con le risorse e i tempi disponibili per lo svolgimento del presente incarico». Per arginare l’abusivismo in uno dei luoghi di più struggente bellezza che ci siano non solo a Roma, per assicurare a tutti il godimento pieno di un bene della comunità (il paesaggio, l’archeologia, la memoria), un bene che diffonde senso di cittadinanza, per tutto questo e per tutelare con efficacia l’Appia Antica mancano gli strumenti minimi, le amministrazioni lesinano documenti e fonti di conoscenza, e scarsi sono i fondi. Non solo l’appropriazione privata di quel bene trae alimento da una carenza pubblica. Persino l’illegalità può prosperare grazie al fatto che un Comune, una Regione, lo Stato si ritraggono dietro il rassicurante paravento dell’inefficienza. ­155

In effetti non si capisce bene chi abbia potestà sull’Appia Antica, chi nei fatti eserciti la tutela su questo patrimonio che qualunque paese al mondo ambirebbe a possedere. 3.500 ettari, appunto, di campagna romana che fiancheggiano la strada costruita dal console Appio Claudio nel 312 avanti Cristo e che da Roma conduceva a Brindisi, dove un porto metteva in contatto l’urbe con l’Oriente. Qui sono il sepolcro degli Scipioni, il sepolcro di Geta e di Priscilla, la Porta San Sebastiano, e poi i colombari, le catacombe di San Callisto e di San Sebastiano, il Circo di Massenzio, il Mausoleo di Romolo e quello di Cecilia Metella, il Castrum Caetani, la tomba di Annia Regilla, i Tumuli degli Orazi e dei Curiazi, il complesso termale di Capo di Bove, la splendida Villa dei Quintili. E qui sono la valle dell’Almone, il fiume sacro ai romani, con i boschi di leccio e di roverella, il pianoro ondulato di Tor Marancia, uno degli ultimi luoghi dove in giugno a Roma si possono vedere le lucciole. E poi le cave e le colate laviche, che ai grandi viaggiatori davano l’impressione di aggirarsi in un deserto, al centro del quale spuntava Roma. Un sistema complesso in cui gli studiosi hanno cercato l’elemento ordinatore, una specie di principio costruttivo al quale rimandano tutti gli altri e che quindi è il tratto unificante del vasto territorio. Per Vittoria Calzolari, che fra il 1976 e il 1984 ha coordinato un’indagine promossa da Italia Nostra (con Benevolo, Cederna e altri ancora), l’elemento ordinatore è l’acqua, che dà vita a un reticolo idrografico il quale ha disegnato e tiene insieme paesaggio di natura e paesaggio di cultura. Questo cuneo di verde e di antichità comincia nel centro di Roma, ha il vertice all’imbocco di piazza Venezia e, se non ci fosse la via dei Fori imperiali, farebbe corpo unico con il Colosseo, poi sfila con il Palatino, il Circo Massimo, la Passeggiata archeologica, le Terme di Caracalla e di lì, percorrendo la via Appia, giunge ai piedi del complesso vulcanico dei Colli Albani, risale sul sistema collinare di Decima Malafede e quindi dalla tenuta di Castelporziano arriva al mare. Chissà che cosa sarebbe Roma, quanti ­156

valori di cittadinanza comunicherebbe, quali occasioni di contemplazione, di svago, di conoscenza esprimerebbe se tutto questo sistema ambientale e archeologico fosse davvero fruibile, percepibile nella sua integrità. È un patrimonio che non è chiuso in un museo o in una chiesa, è un pezzo di città scandito da pini e da lapidi invece che da marciapiedi e da uffici. È anche un pezzo di campagna romana in cui la presenza archeologica è molto più densa che altrove, ma anche più affabile, quasi confidenziale. Ed è infine un pezzo di campagna che crea connessioni fra altri pezzi di città, fra il centro e alcuni dei quartieri dove il cemento è più asfissiante, l’Appia Nuova, via Cristoforo Colombo, la Laurentina, la città dei “murati vivi”, come la chiamava Cederna. Eppure l’Appia Antica è ancora in gran parte una strada come tutte le altre. Solo nella primavera del 2012 il Demanio l’ha consegnata alla Soprintendenza archeologica, dichiarandola monumento nazionale. A Rita Paris, che presso la Soprintendenza archeologica dirige l’ufficio per l’Appia Antica, chiedo se sbaglio a pensare che questo avvenga con un po’ di ritardo. «Non sbaglia», mi risponde. «Ora dovremo dettare le regole per la gestione. Metteremo dei cancelli, un cartello su cui è scritto “Proprietà dello Stato” e proveremo a riportare la strada nelle dimensioni che le aveva attribuito Luigi Canina, da macèra a macèra, come si dice. D’altronde succedeva di tutto, qualcuno configgeva fra le bàsole pali con la pubblicità. La strada non sarà più percorribile come una normale via di scorrimento». Una via di scorrimento per la quale transitano 2.000 auto ogni ora. È vero che accade solo nelle ore di punta. E solo nel tratto finale, fra Porta San Sebastiano e il Domine Quo Vadis. Ma è anche vero che molte auto sfidano la tenuta degli avantreni persino sui basolati antichi, davanti alla tomba di Cecilia Metella, scaricano monossido di azoto sulle superfici lapidee di mausolei e sepolcri. Ed è ancor più vero che altre ottanta, centomila macchine tutte le mattine fremono a un incrocio poco distante da ­157

qui, al nodo di Ciampino, nel dubbio se raggiungere il centro di Roma infilandosi nella strada fatta costruire da Appio Claudio. Chi si avventura a piedi, poi, solo con una capriola mentale immagina di stare in un parco. E se si ferma a gettare un occhio al di là delle recinzioni di ville che sembrano fortini militari per vedere un lacerto di muro o il basamento di una colonna (la gran parte di tutto il patrimonio archeologico è in residenze private), corre il rischio che qualche fuoristrada sfrecciando lo arroti. Per arrivare all’aeroporto di Ciampino passano tutti di qui, soprattutto i cortei di auto blindate che accompagnano allo scalo capi di Stato, delegazioni italiane e straniere. E se si considera che Ciampino ospita anche molte linee low cost e che nei paesi sui Castelli romani ogni anno lievitano i residenti (ora vi abitano circa 350 mila persone), molti dei quali tutte le mattine vanno a lavorare a Roma, decidendo se passare per l’Appia Antica a seconda di quanto è lunga la fila al semaforo, si può avere un’idea di come la congestione possa solo crescere. Una congestione causata anche dalle tantissime attività economiche e commerciali che si svolgono nell’Appia Antica e che anni fa si concordò di spostare altrove, ma che restano tutte lì: carrozzieri, sfasciacarrozze, concessionari di auto, di camper, depositi di acque minerali, magazzini di materiale edile, vivai. E poi centri sportivi con file di campi da tennis e di calcetto che di sera si illuminano a giorno. Ma di una minima accortezza come la Ztl neanche a parlarne. E dire che lo chiamano parco. Però, tranne alcune aree come Villa dei Quintili, Capo di Bove, il Circo di Massenzio e altre, tranne la strada, i 3.500 ettari dell’Appia Antica sono tutti privati. E in proprietà private sono molti monumenti. Un Ente parco esiste, in effetti, è un ente regionale fondato nel 1988, di cui fu presidente anche Cederna. Nel corso degli anni è stato guidato da personalità dell’ambientalismo (Gaetano Benedetto del Wwf) e dell’archeologia (Adriano La Regina), ma ancora per tutto il 2012 alla sua testa era un commissario. Un “parco di carta”, lo definiva ­158

Cederna, che negli ultimi anni di vita chiedeva malinconicamente che almeno gli venisse attribuita una sede. Ora la sede esiste, si organizzano visite guidate, d’accordo con alcuni proprietari si entra nelle loro tenute dove ci sono sepolcri adattati a camera da pranzo, si allestiscono laboratori didattici e orti, ma fra l’Ente parco, la Soprintendenza archeologica, il Municipio e il Comune è un groviglio di competenze, mai ben definite e che si traducono in scarsa collaborazione e dunque in insufficiente protezione nei confronti dell’Appia Antica. È questo il cruccio che tormenta Rita Paris e che contemporaneamente dà carburante alla sua energia da sedici anni spesa a tutela dell’Appia Antica. «Vengono da me studiosi stranieri che vorrebbero compiere indagini su monumenti e io talvolta non so come aiutarli, non so chi abbia in cura quei reperti». Per esempio? «Nella valle della Caffarella, un’area espropriata dal Comune dopo anni di battaglie, ci sono il tempio del dio Redicolo, il Ninfeo di Egeria, il Colombario costantiniano. Sono stati consegnati al Dipartimento Ambiente del Comune di Roma, ma non so a chi. Dovevano passare alla Soprintendenza comunale, ma non mi risulta che ciò sia avvenuto. Avrebbero bisogno di tutela, il Ninfeo è in condizioni tragiche. Scriviamo lettere. Facciamo riunioni. Ma non se ne cava nulla». Alla Caffarella è in corso il restauro di un edificio, il cinquecentesco Casale della Vaccareccia. Se ne occupa da anni Mirella Di Giovine, un’architetta che ha lavorato a lungo negli uffici Ambiente e Periferie del Comune. Un lavoro giudicato da tanti di grande qualità. «Ma per il resto», mi dice Rita Paris, «tutto è avvolto in una confusione di competenze. Ed è un peccato. L’esproprio della Caffarella è uno dei grandi passaggi a favore di una migliore tutela dell’Appia». Da quando dirige l’ufficio della Soprintendenza che ha competenza sulla via romana, l’archeologa Rita Paris fa l’archeologa per un 20 per cento del suo tempo. L’80 per cento lo spende in altre incombenze. Mettere vincoli. ­159

Rigettare richieste di condoni. Studiare le carte degli avvocati pagati da chi non vuole vincoli e invoca condoni. Aggirarsi fra le norme che dovrebbero proteggere questo territorio, e che invece si aggrovigliano in un campionario di inefficacia. Sgranare gli occhi per scovare quali schifezze nascondono le plastichette verdi di un cantiere. Difendersi dal fuoco amico. Sollecitare i suoi superiori al ministero fino a strattonarli se si assopiscono. Tenere a bada la solitudine che, quando stringe la gola, le fa dire che tutto questo non ha senso e, subito dopo, che se mollasse sarebbe peggio. Il suo quartier generale è a Villa Capo di Bove, qualche centinaio di metri dalla tomba di Cecilia Metella. Il vecchio proprietario, un importatore di frutta, aveva ceduto al vezzo di molti residenti: conficcare nella facciata ogni sorta di lapidi romane. Cederna dedicò a quest’abitudine di amare l’antico solo se fatto a pezzi esilaranti racconti. Dall’alto della villa, che ora di Cederna conserva l’archivio, si spalanca una vista su Roma che mette i brividi. Fu lei a battersi perché Capo di Bove fosse acquisita dallo Stato. E davanti alla villa ha scavato uno spettacolare complesso termale del II secolo. «Era il 2002. Quell’operazione creò panico. Ho subìto interrogazioni parlamentari, qualcuno fece circolare l’accusa che Adriano La Regina, allora soprintendente, e io avessimo condotto false gare d’appalto. Ma il direttore generale del ministero, Giuseppe Proietti, ci sostenne. Spendemmo 3 miliardi di lire. Ormai quella stagione si è chiusa». Perché? «Né la Soprintendenza né il ministero proseguono negli acquisti. Eppure alcuni privati si sono fatti avanti per vendere reperti che sono nelle loro proprietà». Per esempio? «Ci è stato offerto il sepolcro degli Equinozi, uno dei monumenti ipogei di maggior rilievo che conosciamo. Chiedono un milione, forse si può trattare. Ma mi hanno detto che non c’è un soldo». Sono monumenti visitabili? «Spesso non sono neanche visibili. Una volta per fotografare il sepolcro di sant’Urbano dovemmo salire sul cofano di una macchi­160

na, tanto alta era la recinzione issata dai proprietari. Lì intorno stiamo scavando e abbiamo rinvenuto materiale strepitoso – strade, incroci, cippi. Il sepolcro lo avrebbero venduto a un miliardo di vecchie lire. Ora, chissà, costerebbe ancora meno. Ma non c’è niente da fare. Per me è una pugnalata». Lo Stato italiano non fa quanto sarebbe necessario perché un bene di queste proporzioni venga salvaguardato come si deve. E delega a un manipolo di combattenti, ai quali però taglia costantemente le unghie. Sulla scrivania di Rita Paris (e di Livia Giammichele, di Antonella Rotondi, di Bartolomeo Mazzetta, di Maria Naccarato) si affollano le domande di condono ancora relative alla prima legge di sanatoria, quella Craxi-Nicolazzi del 1985 (seguite da altri provvedimenti, tutti e due d’era berlusconiana, 1994, 2003). Sono domande che non potrebbero neanche essere ammesse, perché in violazione di vincoli archeologici, vincoli che le leggi di sanatoria dichiarano insormontabili. Sono abusi che non si condonano, pratiche che comunque il Comune istruisce e che invia alla Soprintendenza. È tempo perso inutilmente. La domanda di condono viene presentata da chi commette l’abuso perché blocca la procedura di demolizione. E molto spesso arrivano domande prima che l’abuso si compia, proprio per prevenire le ruspe. Non interessa ottenerlo il condono, basta la domanda. Gli abusi riguardano interi edifici, ma spesso sopraelevazioni, piscine o altre aggiunte. Un contenzioso si è aperto nel 2012 con la principessa Pallavicini che possiede una splendida residenza in un parco proprio a ridosso di Porta San Sebastiano, in cui sono contenuti sepolcri e l’Oratorio dei sette dormienti, costruito nel XII secolo su una villa romana del II secolo, un edificio preziosissimo. Stando ai rilievi dell’Ufficio abusivismo del Comune, due vasche ornamentali sarebbero diventate due piscine (una ha forma ottagonale e si vede perfettamente su Google Maps). Sono poi spuntati un garage, una veranda e altri manufatti a ridosso del muro perimetrale. Inoltre è stata ricostruita ­161

una pavimentazione. Quasi di fronte a questa villa risiede Roberto Benigni, ma i suoi restauri sono stati seguiti e autorizzati dalla Soprintendenza. Nella stessa zona è la villa di Paola Severino, ministra della Giustizia nel governo Monti: nessun abuso, ma nella sua proprietà sono custoditi i colombari di Vigna Codini, l’unica testimonianza dei tanti sepolcri che le fonti letterarie collocano in quest’area. Che per ovvi motivi di sicurezza, nessuno può visitare. Un grande vivaio di fronte alle Terme di Caracalla si è arricchito di un edificio di 700 metri quadrati. Abusivamente, secondo la denuncia di Italia Nostra. Nella proprietà di Giorgio Greco, che con il fratello possiede una catena di negozi d’abbigliamento, a pochi metri da Capo di Bove e da una stazione dei carabinieri, i vigili hanno contestato il cambio di destinazione d’uso di un grande magazzino, da deposito a residenza, con cucina, bagni e accessori. Era in abbandono e ora vi è allestita una scuola per cuochi. Ma spesso l’edificio viene usato per girarvi spot. Nella sua casa Greco custodisce una piccola collezione di bassorilievi e altri reperti. «Tutti denunciati alla Soprintendenza», assicura mostrando il vero tesoro di questa residenza: la camera da pranzo scavata in un sepolcro con le nicchie dove venivano deposte le salme trasformate in alloggiamento per l’oliera e il cestino del pane e un lampadario che pende conficcato nel soffitto. La villa era di Carlo Ponti, il produttore marito di Sofia Loren, racconta Greco: «Quando veniva Alberto Sordi, diceva sempre a Ponti: Ao’ nun me fa’ magna’ ner sepolcro, che porta jella». La Soprintendenza, ad avviso di Greco, ha svolto un gran lavoro nel passato fermando l’avanzata del cemento sull’Appia Antica. Ma ora non deve accanirsi sui proprietari che in fondo sono i veri custodi dell’integrità di questo luogo. Confinante con questa, è un’altra proprietà in cui un tempo c’era un gruppo di serre. Che ora sono diventate appartamenti di lusso, residenze date in affitto e reclamizzate in rete come “case di charme”. Sopra la Villa dei Quintili, in un centro sportivo ci so­162

no una decina di piscine. Si è costruito dentro il Castrum Caetani, villaggio fortificato del XIV secolo dietro al Mausoleo di Cecilia Metella: ma la domanda di condono del proprietario ha fermato la procedura di demolizione. «Ho chiesto almeno quattro o cinque volte agli uffici comunali di poter vedere le pratiche. Ma invano», dice Rita Paris. «Alcuni anni fa abbiamo messo un vincolo. L’allora ministro Francesco Rutelli era contrario e il direttore regionale, Luciano Marchetti, firmò il decreto con riserva. La proprietà ha fatto ricorso e il giudice ci ha dato torto. Il motivo? Occorre vincolare solo il monumento, non anche il contesto, il paesaggio nel quale il monumento è inserito. Io sono convinta del contrario, esistono una vasta bibliografia e una vasta giurisprudenza che lo attestano e appena possibile il vincolo lo rimetteremo». Sull’Appia Antica e nelle vie laterali occorre tenere gli occhi aperti nei mesi estivi. È con il caldo, con la città che allenta i ritmi, con i vigili che già sono pochi d’inverno e sono ancora meno in agosto, che i camion caricano e scaricano laterizi, pannelli, tubi. Intorno alle recinzioni si fa crescere una siepe di alloro, poi si cinge il perimetro con un telo verde. All’ingresso nessun cartello, ma dentro fervono i lavori. Una porcilaia diruta, una vaccheria sfondata diventano un vano, poi due, poi si fanno la cucina e il bagno. Anche senza licenza di abitabilità, i valori immobiliari lievitano. Ha fatto scuola la vicenda di una proprietà di fronte al Mausoleo degli Equinozi iniziata nel 1984 con l’articolo di un atto notarile di compravendita in cui si legge: «La parte acquirente dichiara di essere a conoscenza della destinazione di Prg del terreno acquistato ed in particolare che lo stesso non ha formato oggetto di lottizzazione approvata e che pertanto non può essere utilizzato a scopi edilizi». Due anni dopo veniva costruita una casa di 100 metri quadrati. Un primo sequestro da parte dei vigili, la domanda di condono. Ma i lavori proseguono e arrivano a conclusione. La Pretura apre un’inchiesta che si conclude con una condanna, poi amnistiata in Appello. Ancora nel ­163

1994 la Soprintendenza segnala l’abuso, la pratica rimbalza da un ufficio all’altro, si contano almeno una decina di passaggi burocratici. L’immobile si arricchisce di veranda e di altri manufatti. E ora è lì, forse abitata dai proprietari, forse affittata, nessuno lo sa con certezza. Con certezza, stando alla Soprintendenza, lì ci sono resti di parte del Triopio di Erode Attico, una grandissima villa-azienda romana. A via di Tor Carbone su 9 ettari di terreno c’erano una casa colonica, una vaccheria, un forno, un porcile, un pozzo, un vascone, un frutteto e una vigna. Ora ci sono cinque abitazioni, un grande magazzino, ricoveri per gli attrezzi, laboratori artigianali, officine meccaniche, persino due aule scolastiche e un asilo nido, una pista di pattinaggio, due piazzali. Il contenzioso con la Soprintendenza va avanti da anni, ma il Tar ha spesso dato ragione ai proprietari. Non si può caricare più di tanto questo territorio. Che non è un comprensorio di lusso, una specie di enclave per ricchi dove i monumenti e il verde servono ad abbellire il soggiorno dei residenti. È un patrimonio che forse la città di Roma e l’Italia non meritano. L’Appia Antica è uno spazio aperto al godimento di tutti, perché di tutti sono i valori culturali e di cittadinanza che essa esprime. Condensa gli strati di una storia secolare ed esibisce un paesaggio che è il frutto di un lento deposito di saperi. Ma questi che sono alcuni degli elementi che caratterizzano le identità sia della città che dell’intero paese sono spremuti affinché distillino solo profitti piccoli e grandi per pochi. Ed è così che l’Appia Antica racconta se stessa, la sua esistenza in una terra di nessuno, e racconta anche la città, che dal terrazzo di Capo di Bove si stenta a raccogliere con lo sguardo.

Cronologia

1993, dicembre Francesco Rutelli è eletto sindaco di Roma. Al ballottaggio supera Gianfranco Fini con il 53 per cento dei voti 1997, maggio Il Consiglio comunale approva la Variante urbanistica delle certezze 1997, novembre Francesco Rutelli è confermato sindaco di Roma al primo turno con il 60 per cento dei voti. Il suo avversario era Pierluigi Borghini 1998, settembre Una delibera varia la destinazione d’uso della Bufalotta, che da centro logistico diventa residenziale e commerciale 2001, maggio Walter Veltroni è eletto sindaco di Roma al primo turno. Con il 53 per cento dei voti batte Antonio Tajani La Soprintendenza ai beni architettonici pone un 2002, gennaio vincolo su via dei Fori imperiali 2002, dicembre Inaugurato l’Auditorium Parco della Musica progettato da Renzo Piano 2003, marzo La giunta comunale adotta il nuovo Piano regolatore 2003, ottobre Inaugurata la chiesa di Dio Padre Misericordioso a Tor Tre Teste progettata da Richard Meier Il Comune approva la delibera che autorizza la 2006, marzo demolizione delle torri di Cesare Ligini all’Eur 2006, maggio Walter Veltroni è confermato sindaco di Roma. Batte Gianni Alemanno al primo turno con il 63 per cento dei voti 2006, settembre Inaugurato il Museo dell’Ara Pacis progettato da Richard Meier

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2006, settembre Il governo Prodi emana un’ordinanza con la quale attribuisce al sindaco di Roma poteri straordinari in materia di traffico. La scadenza è fissata al 2008 2007, luglio Inaugurato il centro commerciale Porta di Roma alla Bufalotta. Da due anni intorno all’edificio cresce il quartiere 2007, ottobre Approvata la delibera che trasforma in residenziale la restante parte della Bufalotta 2008, febbraio Il Consiglio comunale di Roma approva il nuovo Piano regolatore 2008, febbraio Walter Veltroni si dimette da sindaco di Roma per candidarsi alla Presidenza del Consiglio quale leader del centrosinistra 2008, aprile Gianni Alemanno è eletto sindaco di Roma. Batte Francesco Rutelli al secondo turno con il 53 per cento dei voti. 2008, luglio Viene demolito con la dinamite il Velodromo di Cesare Ligini all’Eur 2008, agosto La Regione Lazio chiude l’ospedale San Giacomo dietro via del Corso 2008, ottobre La giunta Alemanno approva la delibera che istituisce gli “ambiti di riserva” per residenza e housing sociale nell’agro romano Si svolgono i Mondiali di nuoto 2009, luglio 2009, settembre Demolizioni nella proprietà del costruttore Sergio Scarpellini sull’Appia Antica Il Comune indica in 25.700 alloggi il fabbisogno 2010, marzo abitativo a Roma 2010, maggio Inaugurato il MAXXI, Museo nazionale delle Arti del XXI secolo, progettato da Zaha Hadid 2010, ottobre Memoria di giunta con la quale si chiede di aumentare l’edificabilità nelle centralità Pubblicati i dati del censimento. I residenti a Ro2011 ma sono 2 milioni 760 mila 2011, giugno Comitati e associazioni per il diritto alla casa occupano i depositi dell’Atac messi in vendita a San Paolo e a piazza Ragusa 2011, dicembre Presentato il nuovo progetto per la centralità Romanina. I metri cubi crescono da 1 milione 130 mila a 1 milione 920 mila 2012, giugno Inaugurato il tratto della metropolitana da piazza Bologna a Conca d’Oro

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2012, luglio

Inaugurata la sede dell’Agenzia spaziale a Tor Vergata progettata dallo studio 5+1AA 2012, luglio Manifestazione dei comitati e delle associazioni ambientaliste contro la cementificazione dell’agro romano 2012, ottobre Si chiude con una richiesta di rinvii a giudizio l’inchiesta della Procura sulla “parentopoli” dell’Atac 2012, dicembre Il Consiglio comunale inizia la discussione di 64 delibere urbanistiche 2013, gennaio Il governo Monti proroga i poteri straordinari del sindaco di Roma sul traffico che, più volte prorogati, sono scaduti il 31 dicembre 2012 2013, gennaio Riccardo Mancini, amministratore delegato del­ l’Eur S.p.a., accusato di corruzione, si dimette dall’incarico

Personaggi citati

Alemanno, Gianni (1958) – Sindaco di Roma dal 2008 e candidato alle elezioni del 2013. Ex ministro delle Politiche agricole. Iscritto al Msi fin da giovanissimo e militante nella corrente di Pino Rauti. Arrestato per tre volte negli anni Ottanta, accusato di aggressioni, del lancio di una molotov e di resistenza a pubblico ufficiale, per tre volte sarà assolto. Nel 2005 è inquisito dal Tribunale dei ministri per una vicenda legata al crac Parmalat, ma poi prosciolto. Durante il mandato di sindaco opera diversi rimpasti nella giunta. Sul finire della consiliatura la sua maggioranza tenta di approvare 64 delibere urbanistiche che aggiungono previsioni edificatorie ulteriori rispetto al Piano regolatore del 2008. Argan, Giulio Carlo (1909-1992) – Sindaco di Roma dal 1976 al 1979. Storico dell’arte di grande fama è eletto come indipendente nelle liste del Pci. Attua una svolta rispetto alle precedenti amministrazioni a guida democristiana. L’assessorato alla Cultura è affidato a Renato Nicolini, che inventa l’Estate romana, del Centro storico è incaricata Vittoria Calzolari, che intraprende il risanamento di alcuni rioni. Lancia un grido d’allarme per il degrado dell’area archeologica centrale («o i monumenti o le auto», fu il suo slogan). Benevolo, Leonardo (1923) – Urbanista, storico dell’architettura. Negli anni Cinquanta è stato protagonista del dibattito sul Piano regolatore. Presidente della sezione romana di Italia Nostra, ha elaborato il Progetto Fori con Vittorio Gregotti e Francesco Scop-

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pola. Ha proposto la pedonalizzazione di buona parte del centro storico e del Lungotevere che lo costeggia. Entrambe le idee sono rimaste inattuate. Nella sua vasta bibliografia Roma ha un rilievo assoluto, dall’età antica a oggi. Bonifaci, Domenico (1938) – Costruttore, proprietario dal 1996 del quotidiano Il Tempo. Durante Tangentopoli è stato coinvolto nel processo Enimont, dal quale è uscito patteggiando 11 mesi di reclusione. Grazie ai suoi rapporti con Raul Gardini, è entrato in possesso di grandi estensioni fondiarie a Roma. Ha costruito in diverse zone della città, dal quartiere Flaminio all’Aurelio. Ha interessi a Roma Nord, sotto l’insediamento di Serpentara. I suoi palazzi sono riconoscibili per le balconate con mattoncini disposti a forma di piccoli rombi. Caltagirone, Francesco Gaetano (1943) – Costruttore, proprietario di vaste estensioni fondiarie, uomo di finanza, è considerato fra i più ricchi imprenditori italiani (1,7 miliardi il fatturato delle sue aziende, 1,5 miliardi di dollari il suo patrimonio personale). La sua famiglia, già impegnata nell’edilizia, arriva a Roma dalla Sicilia nel dopoguerra. È a capo di un gruppo molto esteso e costruttori sono anche i fratelli e i cugini. Nel 1996 acquista Il Messaggero e, successivamente, Il Mattino di Napoli e Il Gazzettino di Venezia, costituendo il quinto gruppo editoriale in Italia. Nel 2006 diventa vicepresidente del Monte dei Paschi di Siena, dal cui capitale esce nel 2012. Nel 2010 è vicepresidente delle Assicurazioni generali. Possiede il 16 per cento di Acea. A Roma costruisce molto. Fra le altre cose, sulle proprie aree, il quartiere di Ponte di Nona, innalzato al rango di centralità dal Piano regolatore, e il quartiere di Tor Pagnotta. Collabora alla costruzione di Porta di Roma. Ha in corso diversi procedimenti giudiziari, fra i quali quello per la scalata di Unipol alla Bnl. Campos Venuti, Giuseppe (1926) – Urbanista, partigiano, professore fino al 2001 al Politecnico di Milano. Iscritto al Pci, è stato assessore al Comune di Bologna fra il 1960 e il 1966. È stato presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica e del Consiglio superiore dei Lavori pubblici. L’esperienza bolognese, che farà scuola nell’urbanistica riformista, è fondata sulla tutela del centro storico e sulla costruzione di quar-

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tieri popolari di qualità, contrastando le pretese della rendita fondiaria. È stato consulente per la redazione di Piani regolatori, fra i quali quello di Roma del 2008. Cederna, Antonio (1921-1996) – Archeologo, giornalista. È il capostipite di una moderna idea della conservazione. La tutela dei centri storici è per lui la premessa per la costruzione di una città vivibile ed equa. A tal fine ritiene indispensabile una corretta pianificazione urbanistica. Dalla fine degli anni Quaranta scrive di Roma sul Mondo, sul Corriere della Sera, sulla Repubblica e su altri giornali. Le sue inchieste dedicate a Roma riguardano, fra l’altro, l’Appia Antica, la speculazione edilizia, il Progetto Fori, il patrimonio storico-artistico, l’abusivismo. Alcuni suoi articoli sono decisivi per fermare scempi e devastazioni. Insolera, Italo (1929-2012) – Urbanista, docente universitario. Fra i suoi libri è fondamentale Roma moderna, uscito nel 1962, più volte aggiornato, l’ultima volta nel 2011. Insolera documenta il peso che ha avuto nella storia della città la speculazione edilizia, potente fattore di una crescita che non ha nulla di moderno. Ha studiato le connessioni possibili fra la Roma di oggi e la Roma dell’Appia Antica e dei Fori imperiali. È stato consulente inascoltato del Comune per un sistema di trasporti fondato sul tram. Ligresti, Salvatore (1932) – Costruttore con interessi soprattutto a Milano, ma anche a Roma. Un tempo potente finanziere, è stato costretto a cedere all’Unipol la sua Fondiaria. Condannato a 2 anni e 4 mesi per corruzione è coinvolto in un’inchiesta a Firenze per l’insediamento nella Piana di Castello (l’accusa è sempre quella di corruzione). A Roma è entrato nell’affare delle torri di Cesare Ligini, all’Eur, ma ne è uscito. È proprietario di un’area a Casal Boccone dove si dovrebbero costruire 250 mila metri cubi. Marchini, Alfio (1965) – Costruttore romano con interessi anche in altri settori imprenditoriali, dall’energia all’editoria. È nipote di Alfio Marchini, un costruttore molto attivo a Roma negli anni Cinquanta e vicino al Pci, fratello di Alvaro, anche lui costruttore e a lungo presidente della Roma calcio. Nel 1994, su indicazione dell’allora Pds, diventa membro del Consiglio di

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amministrazione della Rai. Partecipa alla società Alfiere che rileva il 50 per cento delle torri di Cesare Ligini all’Eur, ma poi si sfila dall’operazione insieme agli altri soci privati. Nel dicembre 2012 annuncia la sua candidatura a sindaco di Roma con una lista civica. Parnasi, Luca (1978) – Costruttore, assurto nel 2012 al vertice dell’azienda di famiglia, Parsitalia. Insieme ai Toti (vedi) ha edificato Porta di Roma. In città ha molti interessi: fra gli altri, ha costruito il nuovo centro commerciale Euroma2 e un grattacielo all’Eur destinato alla Provincia (un ente che verrà soppresso). Su un suo terreno a Tor di Valle dovrebbe sorgere il nuovo stadio della Roma, con alberghi, centri commerciali e residenze. Petroselli, Luigi (1932-1981) – Sindaco di Roma dal 1979 al 1981. Segretario della Federazione comunista del Lazio, fu uno degli artefici della vittoria delle sinistre nel 1976 e della nomina a sindaco di Giulio Carlo Argan (vedi). Avviò un programma di risanamento delle periferie portando servizi nelle aree abusive, eliminò i famigerati borghetti. Sostenne vigorosamente il Progetto Fori, smantellò via della Consolazione e pedonalizzò l’area antistante il Colosseo. Avviò la realizzazione del quartiere pubblico di Tor Bella Monaca sottoscrivendo un accordo con i costruttori, ma impedendo loro di incamerare rendita fondiaria. Rutelli, Francesco (1954) – Primo sindaco di Roma eletto direttamente dai cittadini, resta in carica dal 1993 al 2001. Candidato sconfitto a guidare il Campidoglio nel 2008, è stato ministro per i Beni culturali e vicepresidente del Consiglio. Militante radicale, poi fondatore della Margherita, quindi esponente del Pd dal quale è uscito nel 2009 per dar vita all’Api. Durante la sua sindacatura vengono approvate la Variante di salvaguardia e la Variante delle certezze e viene impostato il nuovo Piano regolatore. Gestisce gli interventi per il Giubileo del 2000, fra i quali la sistemazione dei Musei capitolini, il contestato sottopasso di Ponte Vittorio e il parcheggio nelle Mura vaticane. Affida a Richard Meier la costruzione del Museo dell’Ara Pacis. Scarpellini, Sergio – Costruttore, da quarant’anni attivo sulla scena romana. Ha in corso alcune grandi operazioni immobi-

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liari: fra queste, la centralità Romanina, quasi 2 milioni di metri cubi, un intervento nei pressi della stazione Ostiense e l’enorme polo logistico (120 mila metri quadrati) in Sabina. Il gruppo Scarpellini è proprietario di decine e decine di edifici nel centro di Roma dati in affitto alla Camera, al Senato, a Regione e Comune, alla Rai, al Tar e a diverse Authority. Toti, famiglia – Costruttori romani da più generazioni, oggi guidati dai fratelli Claudio e Pierluigi, figli di Silvano, molto attivo negli anni fra Sessanta e Ottanta. Motore operativo del gruppo è la Lamaro Appalti. Fuori Roma, operano in Sardegna (Capo Malfatano) e Milano (City Life). Nella capitale hanno interessi a Porta di Roma, ai Mercati Generali, hanno realizzato la Galleria di piazza Colonna, la sede della Luiss ai Parioli, la Nuova Fiera di Roma, il Centro Agroalimentare. Per il Comune hanno costruito il Globe Theatre a Villa Borghese, intitolato a Silvano Toti. Sono attivi nello sport cittadino sponsorizzando squadre di basket e di pallavolo. Veltroni, Walter (1955) – Sindaco di Roma dal 2001 al 2008. Ministro per i Beni culturali, vicepresidente del Consiglio, primo segretario del Partito democratico. Negli ultimi giorni del suo mandato viene approvato il Piano regolatore che prevede espansioni edilizie per oltre 60 milioni di metri cubi, istituisce diciotto centralità, allarga il perimetro del centro storico, adotta il meccanismo delle compensazioni e ratifica gli accordi fra autorità pubblica e privati già stipulati e in parte avviati. Gli indici di sviluppo economico crescono più che nel resto d’Italia e inducono a parlare di “modello Roma”. A tale modello cooperano anche le iniziative che dovrebbero rilanciare l’immagine della città, fra le quali il Festival del cinema e le notti bianche.

Bibliografia

AA.VV., Modello Roma. L’ambigua modernità, Odradek, Roma 2007. Ella Baffoni, Vezio De Lucia, La Roma di Petroselli. Il sindaco più amato e il sogno spezzato di una città per tutti, Castelvecchi, Roma 2011. Leonardo Benevolo, Roma da ieri a domani, Laterza, Bari 1971. Leonardo Benevolo, Le avventure della città, Laterza, Roma-Bari 1973. Leonardo Benevolo, San Pietro e la città di Roma, Laterza, Roma-Bari 2004. Leonardo Benevolo, La fine della città, intervista a cura di Francesco Erbani, Laterza, Roma-Bari 2011. Paolo Berdini, La città in vendita. Centri storici e mercato senza regole, Donzelli, Roma 2008. Paolo Berdini, Daniele Nalbone, Le mani sulla città. Da Veltroni ad Alemanno, storia di una capitale in vendita, Edizioni Alegre, Roma 2011. Giovanni Berlinguer, Piero Della Seta, Borgate di Roma, Editori Riuniti, Roma 1960 (seconda edizione con aggiornamenti 1976). Alessandro Bianchi, Progetto per Roma, Gangemi, Roma 2013. Lorenzo Caiazza, La città pubblica, Tesi di laurea specialistica, Facoltà di Architettura Roma Tre, relatore Giovanni Caudo, Roma 2010. Vittoria Calzolari, Paesistica. Paisaje, a cura di Alfonso Alvarez Mora, Universidad de Valladolid, Valladolid 2012. Vittoria Calzolari (a cura di), Storia e natura come sistema. Un

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progetto per il territorio libero dell’area romana, Argos, Roma 1999. Giordana Castelli, La città di Mezza Via. Dal centro città al piano di quartiere: partecipando a Romanina, Palombi, Roma 2011. Giovanni Caudo, L’abitare e la città al tempo della crisi, in AA.VV., Ambiente Italia 2011, a cura di Duccio Bianchi ed Edoardo Zanchini, Legambiente, Roma 2011. Antonio Cederna, I vandali in casa, Laterza, Bari 1956 (n.e. I vandali in casa. Cinquant’anni dopo, a cura di Francesco Erbani, Laterza, Roma-Bari 2006). Antonio Cederna, Mirabilia Urbis, Einaudi, Torino 1965. Carlo Cellamare, Fare città. Pratiche urbane e storie di luoghi, Elèuthera, Roma 2008. Comune di Roma, Municipio I Roma Centro Storico, Occupazioni di Suolo Pubblico. Riqualificazione e vivibilità del Centro Storico, a cura di Giordana Castelli, Palombi, Roma 2008. Piero Della Seta, Le campagne d’Italia. Cento anni di saccheggio del territorio in Italia, De Donato, Bari 1978. Piero Della Seta, Roberto Della Seta, I suoli di Roma, Editori Riuniti, Roma 1988. Vezio De Lucia, Se questa è una città. La condizione urbana nell’Italia contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1989 (s.e. Donzelli, Roma 2006). Vezio De Lucia, Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia, Diabasis, Reggio Emilia 2010. Francesco Erbani, Antonio Cederna. Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza, Biblioteca del Cigno Legambiente, Marciano di Romagna 2012. Italo Insolera, Roma, per esempio. La città e l’urbanista, Donzelli, Roma 2010. Italo Insolera, Roma moderna, Einaudi, Torino 2011 (la prima edizione è del 1962). Italia Nostra sezione di Roma, Piano per il parco dell’Appia Antica, a cura di Vittoria Calzolari e Massimo Olivieri, Roma 1984. Maurizio Marcelloni, Pensare la città contemporanea. Il nuovo Piano regolatore di Roma, Laterza, Roma-Bari 2003. Roberto Morassut, Malaroma. Dal modello Roma al fallimento di Alemanno, Aliberti, Reggio Emilia 2012. Grazia Pagnotta, Dentro Roma. Storia del trasporto pubblico nella capitale (1900-1945), Donzelli, Roma 2012.

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Mario Panizza (a cura di), Interventi nel centro storico. Confronto fra esperienze promosso dall’assessorato per gli interventi nel centro storico del Comune di Roma, Dedalo libri, Bari 1978. Proimo. Programma integrato mobilità, a cura del Comune di Roma, Dipartimento VII Politiche della mobilità e Sta, Agenzia per la mobilità, Roma 2001. Ludovico Quaroni, Immagine di Roma, Laterza, Bari 1969. Gaia Remiddi, Antonella Bonavita, Il Velodromo di Roma, Osservatorio sul Moderno a Roma, Roma 2007. Piero Ostilio Rossi, Roma. Guida all’architettura moderna 19092011, Laterza, Roma-Bari 2012. Enzo Scandurra, Vite periferiche. Solitudine e marginalità in dieci quartieri di Roma, Ediesse, Roma 2012. Enzo Scandurra (a cura di), lungoiltevere. Episodi di mutazione urbana, Franco Angeli, Milano 2009. Walter Tocci, Italo Insolera e Domitilla Morandi, Avanti c’è posto. Storie e progetti del trasporto pubblico a Roma, Donzelli, Roma 2008. Corrado Zunino, Sciacalli. Storia della cricca che ha depredato l’Italia, Editori Riuniti, Roma 2010.

L’autore

Francesco Erbani lavora nella redazione culturale della Repubblica. Nel 2003 ha vinto il Premio di Giornalismo civile e nel 2006 il Premio Antonio Cederna. Per le edizioni di Legambiente ha pubblicato Antonio Cederna. Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza (2012). Per i nostri tipi è autore, tra l’altro, di Uno strano italiano. Antonio Iannello e lo scempio dell’ambiente (2002), L’Italia maltrattata (2003) e Il disastro. L’Aquila dopo il terremoto: le scelte e le colpe (2010) e ha curato I vandali in casa. Cinquant’anni dopo di Antonio Cederna (20072), La cultura degli italiani di Tullio De Mauro (n.e., 20103) e La fine della città di Leonardo Benevolo (2011).

Indici

Indice dei nomi

Alemanno, Gianni, 10, 18, 30-31, 39, 42, 53, 55, 61, 67-69, 71-72, 76-77, 79, 97, 100, 121-122, 124, 127-129, 132, 148. Andrini, Stefano, 100, 128. Anemone, Guido, 46. Angelilli, Roberta, 100. Annibale, macellaio, 132-133, 137. Appetito, Armando, 100. Appio Claudio, 156, 158. Arendt, Hannah, 36. Argan, Giulio Carlo, 56, 140, 142, 144. Armellini, famiglia, 129. Aymonino, Carlo, 145. Balducci, Angelo, 46. Balducci, Filippo, 46. Barbera, Lucio Valerio, 105. Barnabei, Francesco, 60. Baseggio, Cesco, 25. Basile, Ernesto, 141. Bauman, Zygmunt, 36. Belli, Giuseppe Gioachino, 143. Benedetto, Gaetano, 158. Benevolo, Leonardo, 133, 142144, 148, 151, 156. Benigni, Roberto, 162. Berdini, Paolo, 121, 146, 149.

Berlinguer, Giovanni, 9, 20, 116117. Berlusconi, Silvio, 99. Bernardini, Rita, 48-49. Bertini, Giorgio, 79. Bertolaso, Guido, 45-46. Bertucci, Adalberto, 97. Besussi, Elena, 109. Bettidi, Antonio, 100. Bianchi, Anna Maria, 88-91. Blasi, Carlo, 62. Bonavita, Antonella, 118. Bonifaci, Domenico, 33-34. Borghini, Pierluigi, 128. Bramante, Donato di Angelo di Pascuccio, detto il, 48. Brandi, Cesare, 142. Briganti, Luciano, 142. Brosses, Charles de, 10. Brown, Gordon, 37. Burrascano, Marco, 104. Caiazza, Lorenzo, 98. Calatrava, Santiago, 45, 47. Caltagirone, Francesco Gaetano, 20, 26, 33, 86, 130-131. Calzavara, Diego, 123. Calzolari, Vittoria, 56-57, 144145, 156. Cameron, David, 109.

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Campos Venuti, Giuseppe, 18, 21, 24, 143. Cancogni, Manlio, 93. Canina, Luigi, 157. Carotenuto, Memmo, 83. Castelli, Giordana, 52, 140. Catarci, Andrea, 97, 104. Caudo, Giovanni, 36-37, 39-42, 54, 92-93, 98. Cavalieri, Lina, 25. Cederna, Antonio, 12-13, 22-23, 61-62, 71, 83, 94, 117, 133, 140, 142-144, 152, 154, 156-160. Cellamare, Carlo, 51, 140. Cerroni, Mauro, 100. Cerulli Irelli, Vincenzo, 64-65. Cervellati, Pier Luigi, 144. Colonna, Prospero, 103. Corsini, Marco, 53, 67, 72. Costantino, imperatore, 60. Craxi, Bettino, 161. Cuccia, Paolo, 127. Dapporto, Carlo, 25. De Carlo, Giancarlo, 51. De Giusti, Antonella, 97, 105. Della Seta, Piero, 9, 20, 44, 116117. Della Seta, Roberto, 44. Della Valle, Diego, 144. De Lucia, Vezio, 62, 64-65, 83, 154-155. de Mérode, Frederick FrançoisXavier, 11. Depino, Fabio, 43, 52. De Renzi, Mario, 126. Di Amato, Fabrizio, 120. Di Carlo, Mario, 89. Di Giovine, Mirella, 159. Di Lorenzo, Gabriella, 18, 20-25, 29, 34. Di Salvo, Giacomina, 62-63. D’Orazio, famiglia, 44. D’Orazio, Mimmo, 30, 32, 34. Doyle, Roddy, 37.

Drigo, Costanza, 100. Ecclestone, Bernie, 124. Fabrizi, Aldo, 83. Fantini, Luciano, 60. Fantino, Susana, 97, 105. Favale, Mauro, 48. Figini, Luigi, 126. Fiorentino, Mario, 38. Flaiano, Ennio, 10. Flammini, Maurizio, 123-124. Fuksas, Massimiliano, 39, 114, 122, 126. Gabbuti, Gioacchino, 101. Garbati, Valeria, 60. Garofalo, Francesco, 40. Gasparri, Maurizio, 100. Geremia, Francesca, 107. Ghera, Fabrizio, 132. Giammichele, Livia, 161. Giangrande, Alessandro, 106-107. Gianni, famiglia, 44. Giovanni Paolo II (Karol Woj­ tyła), papa, 45. Giovannoni, Gustavo, 105. Goethe, Johann Wolfgang von, 10, 57, 143. Grancio, Cristina, 27-28, 34. Greco, Antonella, 117. Greco, Giorgio, 162. Gregotti, Vittorio, 62, 143. Insolera, Italo, 7, 9, 14, 55, 62, 76, 86, 94-95, 115, 117, 141, 150. Kircher, Athanasius, 125. La Regina, Adriano, 62, 142, 158, 160. Lattanzi, Maria Cristina, 88, 119. Latz, Peter, 108. Le Corbusier (Charles-Edouard Jeanneret-Gris), 38.

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Leopardi, Giacomo, 10, 56. Levi della Vida, Ettore, 102. Ligini, Cesare, 96, 114, 117-119, 127. Ligresti, Salvatore, 32, 120-121. Lionello, Alberto, 25. Loren, Sofia, 162. Magrone, Fabio, 100. Mamalchi, Edoardo, 100. Mancini, Giacomo, 154. Mancini, Riccardo, 128-130. Mangano, Silvana, 152. Marcelloni, Maurizio, 50. Marchetti, Luciano, 163. Marchi, Sergio, 97. Marchini, Alfio, 120. Marconi, Guglielmo, 50. Martines, Ruggero, 143. Mazzetta, Bartolomeo, 161. Meier, Richard, 147. Mezzaroma, Pietro, 26, 72. Miccio, Mauro, 127. Miglio, Massimo, 153. Minelli, Claudio, 120. Modigliani, Daniel, 23. Mommsen, Theodor, 143. Montaigne, Michel de, 10. Montemartini, Giovanni, 102. Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone de, 10. Monti, Mario, 8, 59, 79, 99, 122, 162. Morandi, Domitilla, 86. Morandi, Riccardo, 149. Morante, Elsa, 10. Morassut, Roberto, 28, 30-31. Morcone, Mario, 120. Mortola, Elena, 106. Morziello, Roberto, 107. Naccarato, Maria, 161. Nalbone, Daniele, 121. Nathan, Ernesto, 12, 76, 101-102. Nervi, Pier Luigi, 116, 118.

Nicolazzi, Franco, 161. Nicolini, Renato, 38, 118. Odorisio, Carlo, 87. Ortensi, Dagoberto, 117. Osiris, Wanda, 25. Pagnotta, Grazia, 102. Palazzo, Anna Laura, 106. Pallavicini, Maria Camilla, 161. Pallottino, Gaia, 88. Pannunzio, Mario, 12. Panzironi, Dario, 129. Panzironi, Franco, 100, 129. Paris, Rita, 157, 159, 161, 163. Parlati, Lorenzo, 71. Parmegiani, famiglia, 44. Parnasi, Luca, 20, 26, 129. Pasolini, Pier Paolo, 10, 60. Peritore, Romina, 60. Petroselli, Luigi, 44, 56, 66, 83, 86-87, 142, 144-145. Piacentini, Marcello, 105, 116. Piano, Renzo, 120-121, 127. Piccinato, Luigi, 22. Pigorini, Luigi, 125. Pirone, Aldo, 43. Pizzo, Barbara, 62-63. Pollini, Gino, 126. Ponti, Carlo, 162. Portoghesi, Paolo, 39. Prodi, Romano, 79. Proietti, Giuseppe, 160. Pucci, Carlo, 130. Quaroni, Ludovico, 22, 57. Raffaello Sanzio, 48. Rebecchini, Gaetano, 116. Remiddi, Gaia, 117-118. Ricci, Silvano, 117. Rinaldi, Claudio, 46. Rojo, Gloria, 100. Rossi, Piero Ostilio, 117-118. Rotondi, Antonella, 161.

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Rutelli, Francesco, 10, 23, 26, 5051, 59, 61, 76, 83-84, 94, 128, 143, 148, 163. Sabatini, Innocenzo, 105. Salgado, Manuel, 50. Salzano, Edoardo, 64-65. Sanjust di Teulada, Edmondo, 101. Santarelli, Pietro, 26. Santoro, Michele, 49. Scarpellini, Sergio, 47-50, 52-54, 129, 141-142, 152-153. Scoppola, Francesco, 143. Sebastianelli, Sofia, 98. Severino, Paola, 162. Soldati, Mario, 25. Sordi, Alberto, 162. Spadaro, Matilde, 119. Stabile, Francesca Romana, 98. Stendhal (Marie-Henri Beyle), 143.

Talenti, famiglia, 44. Testa, Chicco, 148. Testa, Virgilio, 115, 119. Tilgher, Adriano, 128. Tocci, Walter, 76, 83-87, 92-94. Toti, fratelli, 20, 26, 72, 86, 120121, 129. Tremonti, Giulio, 98, 119. Trilussa (Carlo Alberto Salustri), 143. Valle, Gino, 20, 26, 29. Vannini, Alessandro, 91. Veltroni, Walter, 18, 23, 30-31, 45, 51, 61, 65-66, 79, 89, 118, 122, 126-128, 131, 147-148. Visconti, Marco, 97. Zeri, Federico, 142. Zero, Renato, 53. Zunino, Corrado, 128-129.

Indice del volume

Prologo

3

1. Le porte di Roma

15

2. La città bancomat

36

3. Quel che resta dell’agro

55

4. Un inferno a quattro ruote

74

5. Roma vendesi

96

6. Il quartiere degli affari

114

7. Il centro soffocato

132

8. I padroni dell’Appia

152

Cronologia

165



168

Personaggi citati

Bibliografia

173

L’autore

177



181

Indice dei nomi ­185