Rocco e i suoi fratelli. Storia di un capolavoro 9788875212643

"Rocco e i suoi fratelli" è una delle opere più note e acclamate di Luchino Visconti. Con i giovani Alain Delo

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Rocco e i suoi fratelli. Storia di un capolavoro
 9788875212643

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MINIMUM FAX CINEMA

nuova serie 5

Rocco e i suoi fratelli. Storia di un capolavoro Per i capitoli «Dovevo farlo» di Goffredo Lombardo e «Cronaca del film» di Gaetano Carancini: © Cappelli editore, 1960. Per l’articolo di Alberto Moravia: © Alberto Moravia, 1960 per gentile concessione di rcs Libri S.p.A./Bompiani. L’editore si dichiara a disposizione degli eventuali aventi diritto sull’articolo di Luchino Visconti «Oltre il fato dei Malavoglia». Per l’inserto fotografico: © INTERFOTO/Alamy. © minimum fax, 2010 Tutti i diritti riservati Edizioni minimum fax piazzale di Ponte Milvio, 28 – 00135 Roma tel. 06.3336545 / 06.3336553 – fax 06.3336385 [email protected] www.minimumfax.com I edizione: maggio 2010 I edizione digitale: dicembre 2013 ISBN: 978-88-7521-563-7

ROCCO E I SUOI FRATELLI STORIA DI UN CAPOLAVORO introduzione di GOFFREDO FOFI

INTRODUZIONE di Goffredo Fofi

Rocco e i suoi fratelli è uno dei titoli più noti nella storia del cinema italiano degli anni d’oro 1945-65, iniziati peraltro con un film dello stesso Luchino Visconti, Ossessione, che è a tutt’oggi, con Bellissima, quello che prediligo dell’ambiziosa carriera cinematografica del maestro milanese. Il neorealismo di Visconti è certamente meno radicale di quello dei capolavori, azzardati ed estremi nel metodo come nei contenuti, di Roberto Rossellini e perfino dei due o tre De Sica migliori; anche un film come La terra trema – nonostante gli attori presi dalla vita, l’uso assoluto del dialetto, la lunga permanenza nel villaggio in cui si svolge la storia, l’assenza degli artifizi e delle cento mediazioni del neorealismo addomesticato che invalida la maggior parte dei film ideati da Cesare Zavattini – comunicò facilmente allora, e comunica a maggior ragione quando lo si rivede a distanza di decenni, la sensazione di trovarci di fronte a un monumento al melodramma e al romanzo ottocentesco più che al racconto nuovo di una realtà inedita. Non a caso ne fu ispiratore Verga, con la sua storia di decadenza familiare: tema che, presente in La terra trema a un livello altissimo e in ambiente poverissimo, ritroveremo in molte altre opere del regista, come Rocco e Vaghe stelle, Il Gattopardo e La caduta degli dei, per finire col Gruppo di famiglia in un interno… Che si tratti di ambiente proletario, borghese o aristocratico, il discorso in Visconti non cambia, la struttura del racconto è la stessa, le passioni narrate si equivalgono. La sua arte ha i piedi nell’Ottocento, e il suo bisogno di stare nel proprio tempo non riesce mai a dimenticarlo, neanche quando egli si vorrebbe artefice di una cultura più libera, al passo con i nuovi dilemmi dell’epoca.

È il caso di Rocco, il film che nel 1960, in quell’arco di tempo incredibilmente fecondo in cui il cinema cambiò pelle in tutto il mondo, e in Italia sfornò un grande film via l’altro, La dolce vita e L’avventura, Accattone e Banditi a Orgosolo, Il posto e Il sorpasso, Signore e signori e Tutti a casa (e ne dimentico!), affrontò il tema più scottante e meno narrato del momento: quello della grande migrazione dalle campagne del Sud alle grandi città del Nord, dei suoi costi umani e sociali, del suo significato economico e della sua svolta antropologica e di civiltà. Nella formula ideata dal critico Guido Aristarco, nefasto rappresentante di un lukacsismo scolastico sposato da Botteghe Oscure (la sede del Pci) e da tanta e influente critica di sinistra, nella sua formula riduttiva e condizionante del «passaggio dal neorealismo al realismo» e «dalla cronaca alla storia» coniata a proposito di Senso, Rocco e i suoi fratelli si calò alla perfezione; l’ambizione di Visconti era proprio quella di realizzare in un film esemplare quel passaggio, e proprio perché così esplicitamente rivendicata, essa corse tutti i rischi della rigidità ideologica ed escluse in partenza quella libertà narrativa che fu di Bellissima, il film più dirompente e a tutt’oggi formidabile, istruttivo e godibile del regista, sbalorditivo per il confluire di suggestioni che Visconti riuscì a fondere senza dimostrare alcun affanno e dando infine l’impressione di una spontaneità della regia in cui il calcolo, pur forte, sembrava scomparire nella suprema capacità di reinvenzione del vero. Bellissima partiva dal neorealismo e dal suo cinema (il soggetto era di Zavattini e riguardava proprio il mondo del grande schermo) per distanziarlo, per criticarlo, per negarlo. Lì, invero, il melodramma entrava nel soggetto senza alcuna fatica, e scalzava il neorealismo dall’interno: dall’interno di un ambiente che si sarebbe detto, quasi per definizione, antimelodrammatico e che sembrava guardare, più che al melodramma tragico e verdiano prediletto dal cinema di Visconti, all’opera buffa. Dopo Bellissima c’era stato Senso, l’ambizioso e per più aspetti formidabile Senso, «romanzo» e «storia», è vero, come

voleva Aristarco, ma in una direzione ben più decadente e morbosa di quella che il critico aveva teorizzato, e c’era stata la parentesi – che avrebbe dovuto essere minimalista e fu costosamente e inutilmente crepuscolare – di Le notti bianche, mentre solo con Il Gattopardo Visconti sarebbe tornato alla storia, ma ancora una volta dalla parte dei nobili e non dei veri perdenti, dalla parte di chi non viene spazzato via dagli avvenimenti e dalle mutazioni perché sommamente abile a cavalcarli, a starci dentro adeguandosi, voltando gabbana. Dentro le trasformazioni del boom economico – un salto rapido che tutto invase, e che sembrò dapprima (al tempo dell’ideazione e della lavorazione di Rocco, 1959-60) portare a un nuovo ordine, a sane riforme, a nuovi equilibri sociali e umani, e poi (al tempo del Gattopardo, 1963) sfiduciarsi nella pompa di nuove apparenze e di abituali sostanze – Visconti seppe ancora operare con una forte attenzione al nuovo, ma sfibrandosi nella delusione per la fine di una collettiva speranza, quella a cui aveva aderito da perfetto «compagno di strada» del Pci, pur senza mai rinnegare niente dei propri privilegi e della propria indipendenza. Scomparsi dal suo orizzonte, se così possiamo dire, il super-io gramsciano e la fiducia nel saper muoversi del leader Togliatti, il più aristocratico dei nostri cineasti riscoprì la decadenza, aderendovi dal più profondo dell’animo ma purtroppo senza l’energia e la distanza che le imprese cui si accinse avrebbero richiesto – con la sola eccezione, a mio parere, di un Ludwig imponente, cupo e funerario, che sembrava celebrare, in modi alti e adeguati, i funerali stessi dell’artista. Erano ormai (1973) lontanissimi i tempi di Rocco, il ’68 aveva cambiato ogni cosa, e furono ben rari i registi che cercarono il dialogo con il nuovo tempo. Quando poi lo fecero, non raggiunsero risultati molto significativi nella loro sostanza politica, anche quando furono significativi in quella morale e nella rappresentazione di un crescente disastro collettivo: si pensi ad alcune opere assai intriganti di Pasolini, Monicelli, Comencini, Ferreri, Bellocchio e pochi altri, pasolinianamente testimoni della rapidissima decadenza della polis, del

disvelamento della pessima classe dirigente che ci guidava (anche quella studentesca e nuova) e del dilagante cinismo di un popolo corrotto nelle sue più intime fibre dal benessere, travolti i suoi valori e amplificati i suoi disvalori dai modelli imposti da media onnipresenti, dagli esempi concreti del comportamento dei ricchi e di coloro che avrebbero dovuto educarli. Il tempo di Rocco era diverso. Al tempo di Rocco si pensava – e Visconti lo pensò con i suoi collaboratori, servendosi di loro con grande libertà – a un presente complesso ma foriero di un futuro migliore. Lo pensavamo tutti, in definitiva, in quegli anni, e intendo davvero tutti gli italiani. Diversissimi tra loro per formazione e perfino per età, pensavano questo anche i collaboratori che Visconti chiamò a scrivere con lui il film, che si chiamavano Vasco Pratolini, autore dei corali Il quartiere e Cronache di poveri amanti (da quest’ultimo romanzo Visconti aveva tentato inutilmente a metà degli anni Cinquanta di fare un film), e Suso Cecchi D’Amico, Massimo Franciosa e Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli e un Giovanni Testori allora nei suoi trent’anni che conosceva come pochi la Milano che cambiava pelle. (Testori non prese parte direttamente alla stesura della sceneggiatura, ma fornì gli spunti fondamentali, desunti dai racconti del Ponte della Ghisolfa. Poco tempo dopo il film, Visconti mise in scena in teatro la sua Arialda, e ne seguì un altro scandalo ipocrita, una censura in perfetta sintonia con le reazioni di un tribunale bigotto alle scene dell’uccisione di Nadia in Rocco, condannate a venire «oscurate» sulla pellicola.) La divisione della storia – stavo per scrivere «del romanzo» – in cinque parti che prendono ciascuna il nome dai cinque fratelli del film, Vincenzo (Spiros Focas), Simone (Renato Salvatori), Rocco (Alain Delon), Ciro (Max Cartier) e Luca (Rocco Vidolazzi), elenca modi diversi di reagire ai nuovi tempi e alla nuova cittadinanza: l’adesione passiva all’ordine del Nord e di una città piuttosto ostile, l’ambizione al successo più rapido, il sacrificio necessario perché gli altri riescano,

l’adesione attiva alla parte più cosciente della nuova società che è quella del proletariato di fabbrica, il sogno del ritorno a un Sud non più povero e in un’Italia infine unita e solidale. (Un tentativo per certi aspetti paragonabile a questo, e altrettanto ideologico, era stato fatto subito dopo la guerra – e cioè dopo la caduta del fascismo e la conquista della democrazia – da Eduardo De Filippo con i personaggi di Filumena Marturano: il padre come borghesia irresponsabile, la madre come popolo tenace ma costretto dalla necessità a prostituirsi, i tre figli di padri diversi rispondenti alle forze politiche che avrebbero dovuto unificare i loro sforzi nella nuova patria-famiglia, liberali e cattolici e social-comunisti…) Alle spalle dei cinque modi di reagire alla città del Nord e a una nuova vita, c’era la Basilicata contadina delle lotte fallite, la morte del padre (una scena mai girata, un prologo di cui non si sentì la mancanza), un passato che stava ancora passando. Nell’oggi del film ci sono invece le contraddizioni di un presente tumultuoso dove tutto sembra andare troppo in fretta, dove non è facile trovare rapidamente le giuste mediazioni con il passato. Nel «dopo il film» c’era infine la prospettiva di un’Italia migliore, dell’Italia che si sperava potesse venire (e che di fatto non sarebbe venuta), di un Sud senza più fame, di un Nord vivificato dalle nuove energie, di un’Italia semplicemente unita, dopo cent’anni di una storia nazionale difficile, aspra, disuguale. Le cose che Visconti volle mettere in Rocco furono tantissime, pescando a piene mani da una cultura allora considerata «la cultura»: la tragedia greca (e Katina Paxinou, la madre Rosaria, venuta da quel teatro, è lì per ricordarcelo) e Thomas Mann (Giuseppe e i suoi fratelli, un ciclo che al giorno d’oggi ben pochi leggono, ma Mann era considerato allora, proprio per via di Lukacs, il massimo tra i romanzieri del Novecento); Carlo Levi e il suo Cristo si è fermato a Eboli, che aveva fatto scoprire in tutto il mondo la Basilicata e la civiltà contadina – dopo Fontamara, che non era però di moda citare a sinistra perché Silone non apparteneva alla parrocchia lukacsiana e non era gradito a Botteghe Oscure; Dostoevskij e

il suo eterno dilemma e gli eterni scambi e compenetrazioni tra Bene e Male (Simone e Rocco che si dilaniano tra frustrazioni rimorsi sogni fallimenti, tra sadismo e masochismo, tra grazia e disgrazia, tra caduta e salvezza, e Nadia in mezzo a pagare, a farsi lei, infine, e non Rocco, il capro espiatorio del conflitto); i citati (e coinvolti) Pratolini e Testori… E l’idea fortemente pedagogica di un cinema che fosse al contempo d’arte e di massa. E cioè neorealista e verdiano, moderno e ottocentesco, colto e popolare: un cinema di mente e di cuore, un sogno grande, una santa ambizione su cui è cresciuto il miglior cinema del Novecento riuscendo a dar vita al sogno in un numero impressionante di capolavori o di opere comuni e pur degne, tante da non poterle contare, e in tutto il mondo. A suo tempo, chi qui scrive era dentro quella storia, da «immigrato dal Sud a Torino» a seguito della grande migrazione, da inchiestatore in quella città su quel fenomeno (ne nacque un libro dal titolo banale e immediato di L’immigrazione meridionale a Torino), e faceva però anche i primi passi nella critica cinematografica, impressionato dalla grandiosa vivacità del nostro cinema ma anche sollecitato dalle «nouvelles vagues» francesi e dalle loro teorie, e reagì a Rocco e i suoi fratelli in modi contrastanti, vedendone le insufficienze sociologiche ma anche affascinato da quelli che gliene sembrarono i limiti maggiori – il romanzo che rischiava di farsi fotoromanzo, il grande melodramma sociale che diventava riduttivo e schematico – e dalla presa popolare e sentimentale dell’opera, portatrice infine di una sorta di educazione civica alla tolleranza e all’incontro. È questa commistione, infine, tra l’alto e il basso, tra le enormi pretese dell’autore e la leggibilità popolare del suo messaggio per il tramite di personaggi altamente significativi e simbolici, a fare il fascino di questo film che, oggi come ieri, continua allo stesso tempo a irritarmi e a commuovermi.

ROCCO E I SUOI FRATELLI

DOVEVO FARLO di Goffredo Lombardo

L’idea di fare un film con Luchino Visconti mi apparve interessante, quando mi fu proposta, per un duplice ordine di motivi: primo, perché Visconti è uno di quei registi che si decidono a fare un film soltanto quando hanno qualche cosa da dire; secondo, perché quel film, pur presentato sotto forma di primo trattamento, mi dava la certezza che Visconti aveva intenzione di dire delle cose che forse, nel cinema, non erano mai state dette. Credo di non dover temere una smentita affermando che fino ad allora nessun film italiano aveva preso spunto – non dico trattato a fondo – dall’argomento delle emigrazioni dei meridionali al Nord. Il cinema, nella maggior parte delle opere, sembra aver accettato quel certo disegno bozzettistico di cui alcuni anni fa il teatro d’operetta e di rivista si saziò: il disegno del Nord «attivista», industrioso, progredito, e del Sud sonnolento, retrogrado. Gli incontri tra Nord e Sud, nei film italiani, sono stati sempre – per quanto mi riesce di ricordare – in chiave umoristica, se non smaccatamente comica. Visconti mostrava chiaramente nel suo trattamento di voler affrontare questo tema sul filo di un racconto molto impegnato, sincero, ricco di fatti. Il progetto d’un film di questa specie era tutt’altro che una cosa tranquilla e di nessuna preoccupazione. Si potevano prevedere fin dall’inizio tante difficoltà e tante grane: anche se l’assoluta mancanza di spirito profetico non consentiva, né a me né a Visconti, di prevedere le grosse grane che sono accadute e che abbiamo cercato di superare. Preso in esame il progetto, seguì una lunga preparazione. E devo dire, con piena onestà, che lo stesso Visconti ritenne necessario un processo di decantazione della sua idea, fino ad

arrivare a un qualche cosa che soddisfaceva pienamente non soltanto il suo gusto ma anche le esigenze imprescindibili di una realizzazione produttiva di alto livello artistico e di grande spettacolarità. Mi sia consentito dire che sono personalmente contrario all’atteggiamento di alcuni produttori i quali, quando si accingono a realizzare un certo film di grande impegno, senza alcuna concessione ai più facili allettamenti del boxoffice (allettamenti che, peraltro, troppo presto si dimostrano fallaci) assumono l’aria di «sacrificati» e ostentano una decisione nobilissima e addirittura eroica: di dare agli archivi del cinema un capolavoro che il grosso pubblico andrà a vedere soltanto quando sentirà impellente il desiderio di accrescere la propria cultura. Fuori dallo scherzo, io sono convinto che un film possa raggiungere un alto livello artistico e una piena, ricca, godibile spettacolarità. Con questo intento si iniziò il 22 febbraio del 1960 la realizzazione del film Rocco e i suoi fratelli. A chi vorrà leggere tutta la cronaca che Gaetano Carancini ha diligentemente annotato in questo volume, apparirà chiaro che i contrattempi, le grane, le difficoltà che ci furono, erano una diretta conseguenza della particolare natura di questo film. Pur senza essere scandalistico, pur senza proporsi una sensazionale «denunzia» – quel che più conta, pur non avendo delle eccezionali esigenze, di quelle che possono talvolta scomodare un intero quartiere o una piccola città – questo film, nel corso della sua realizzazione, ha dato fastidio a qualcuno. Occorre rilevare con tutta schiettezza che i realizzatori del cinema non possono accettare a cuor leggero una certa posizione mentale di alcuni strati del pubblico: quella certa posizione mentale per la quale il cinema è un mestiere allegro, esorbitantemente esigente al di là delle reali necessità; una posizione mentale per la quale si accetta con una certa simpatia, con una tollerante cortesia, direi, la commedia, la farsa, ciò che fa ridere: ma guai a far capire che si fa sul serio, che si documentano certe situazioni reali della nostra vita, del nostro costume, della nostra civiltà. In questo caso la troupe cinematografica si sente fare il vuoto intorno. La gente che voi chiamate a collaborare cerca di esimersi in ogni modo, quasi

temendo di tener mano a una certa impresa che non va fatta. Eppure il cinema italiano non ha mai partecipato alle esercitazioni memorialistiche che hanno afflitto e avvelenato, di tempo in tempo, il pubblico. Dopo tutto quanto la stampa italiana, d’ogni tendenza politica, ha scritto a proposito della sorprendente impuntatura dell’amministrazione provinciale di Milano, che interveniva con un divieto a togliere validità ai permessi già accordati per le riprese d’una scena nella zona dell’Idroscalo, ogni apprezzamento, da parte mia, sarebbe superfluo. Ho letto con molta attenzione il resoconto stenografico della seduta consiliare in cui si tentò di rimettere in discussione l’argomento, e sono rimasto sbalordito dagli apprezzamenti volgari e banali enunciati da alcuni consiglieri contro alcune opere del cinema italiano che da New York a Tokyo, da Parigi a Mosca, sono state accolte come autentiche opere d’arte, degne del massimo rispetto. Devo riconoscere che la troupe del film Rocco e i suoi fratelli ha avuto a Milano una cordiale accoglienza, e ha trovato preziosi collaboratori in ogni settore della città. Ma dopo questo doveroso riconoscimento, che comporta la più profonda gratitudine da parte mia verso tutti coloro che hanno collaborato al film, non posso fare a meno di dire che Rocco e i suoi fratelli, nel corso del suo svolgimento, ha più volte risentito di quella certa posizione mentale che ho cercato di descrivere poco prima. Si tratta di un fatto preoccupante, di cui va approfondito il significato. È vero che tra le carte del vecchio cinema che ho trovato nella casa di mio padre, a Napoli, c’è già una documentazione di questo stranissimo e inammissibile atteggiamento nei riguardi del cinema: allora, dal 1914 al 1918, scrittori come Matilde Serao, Floriano del Secolo, Roberto Bracco, si prodigarono nella difesa del cinema e della sua rispettabilità. Oggi i realizzatori del cinema sono portati a constatare la necessità di riprendere quella difesa. Riesce talvolta difficile convincere il pubblico che un certo film, non comico né farsesco, non è «contro» nessuno.

La realizzazione del film Rocco e i suoi fratelli muove da uno studio approfondito e obiettivo di una realtà sociale e quindi storica del nostro paese. Creare la famiglia di Rocco non è stato facile: è banale dire che un regista è troppo esigente, solo perché vuole interpreti adatti a ciascun ruolo. Era ovvio che il film non potesse avere inizio se non era pronta la famiglia lucana che doveva arrivare dal Sud con un lentissimo accelerato nella immensa stazione di Milano. Speriamo di essere riusciti ad attuare pienamente l’idea di Visconti a questo riguardo. Poi occorreva descrivere l’ambiente dei meridionali a Milano: e non descriverlo esteriormente, come un trapianto folcloristico, ma con tutta la sua carica drammatica. Questo ambiente bisognava, prima ancora di girare, scoprirlo, ricomporlo da minuti pezzi, da sparsi accenni. Questa è stata la fatica della produzione del film di Visconti. Se oggi, ancor prima che il film abbia affrontato il giudizio del pubblico, qualcuno mi chiedesse che cosa conta nel complesso della mia produzione, potrei rispondergli soltanto: «Dovevo questo film al cinema italiano e sono lieto di averlo realizzato». Per una valutazione ancora più pertinente, sul piano produttivo – la valutazione che potrà interessare gli appassionati del cinema – varrà la pena di rilevare che gli interpreti di questi difficilissimi caratteri sono in gran parte giovani, sono anche dei bravi attori, ma non sono ancora dei divi, delle grandi firme. Sono grato a Visconti di aver accolto nel cast degli esordienti, alcuni giovani che si erano da poco affacciati nei teatri di posa. Nel periodo in cui la produzione cinematografica assume l’aspetto della corsa ai progetti valutati in miliardi di lire, mentre c’è qualcuno che mostra di credere che un film possa dare una certa tranquillità solo se affidato a interpreti che costano cifre esorbitanti, la scelta fatta da Visconti per i suoi personaggi difficilissimi può anche essere un esempio positivo e, se mi è consentito dirlo senza offendere nessuno, un ammonimento. Si potrebbe fare un discorso molto più lungo e cercare di stabilire quale sia, nel film, ciò che gli inglesi chiamano «la

materia del fatto» – noi diremmo la cosa essenziale – e forse si finirebbe con lo scoprire che lo star-system non è il segreto infallibile del successo, o per lo meno non lo è sempre. Credo sia pacifico che per poter rappresentare un certo contributo valido e concreto per il cinema, un film debba dire qualche cosa di nuovo come struttura, come fattura, come dosatura degli elementi vari e diversi che lo compongono. Visconti ha sempre detto qualche cosa di nuovo, in ciascuna sua opera, ha sempre aperto un periodo del cinema italiano con un suo film: da Ossessione a La terra trema, da Bellissima a Senso, a Le notti bianche. Io sono convinto che Rocco e i suoi fratelli apre un nuovo capitolo del cinema italiano, un capitolo che sarà letto con grande interesse e seguito da tutti quei realizzatori i quali sono convinti che anche un film, come un libro, è una testimonianza del proprio tempo.

CRONACA DEL FILM di Gaetano Carancini

Si fa (9 febbraio) Telefono a Lombardo per sapere cosa ci sia di vero in certi «si dice», secondo i quali Rocco e i suoi fratelli non si farà più. Goffredo mi risponde che tutto è pronto per cominciare: la sceneggiatura definitiva, il cast, la troupe. Occorre perfezionare solamente la pratica ministeriale. «Quando si comincia, allora?» «Tra pochi giorni: ritelefonami lunedì 15 e potrò essere preciso». Alle undici del lunedì riesco a superare l’insidioso sbarramento del centralino della Titanus, di alcune voci femminili della segreteria particolare che ripetono l’una dopo l’altra: «Attenda! Vedo se c’è», e finalmente arrivo a Lombardo: «Allora?» «Tutto a posto: la troupe è in partenza e si comincia a Milano il 22 mattina». Così prende il via quello che potrebbe anche essere chiamato «Il secondo capitolo della Terra trema».

Il primo giorno (22 febbraio) A Milano trovo la numerosissima troupe: il capintesta è naturalmente Luchino Visconti, con i due aiuti: Rinaldo Ricci, un vecchio amico che conosco da quando, prima della guerra, faceva il correttore di bozze al Giornale d’Italia e che ho spesso reincontrato negli studi cinematografici (ricordo che è stato più volte accanto a Citto Maselli e che ha partecipato alla lavorazione di Bellissima e di Le notti bianche di Visconti e a

quella dei Magliari di Rosi) e Jerry Macc, un giovane polacco garbatissimo («dal cappello inverosimilmente piccolo», hanno scritto, e dalla voce tonante); poi c’è Lucio Orlandini che è un po’ il trait d’union tra la regia e la produzione e il silenzioso, preciso Albino Cocco che, come segretario di edizione, tiene il diario del film. Dall’altro lato la produzione: il dottor Bordogni, che ha fatto almeno venti film, e la romanissima Anna Davini, con tutti i loro uomini. Infine Peppino Rotunno, il direttore della fotografia a cui si debbono le riprese di Le notti bianche, Policarpo, La grande guerra, Jovanka e le altre, L’ultima spiaggia (per la prima volta un operatore italiano fu chiamato a Hollywood, per il film con la Gardner) e La sposa bella. Attorno a lui i vari operatori di macchina (e le macchine sono tre), Nino Cristiani, Silvano Ippoliti e Franco Delli Colli. Infine i fonici, lo scenografo arredatore Mario Garbuglia, il costumista Piero Tosi, la sua assistente Bice Brichetto e i suoi aiutanti, il truccatore, Giuseppe Banchelli, il parrucchiere Vasco e un nutrito gruppo di elettricisti, macchinisti, attrezzisti, gruppisti, per un totale di oltre cento unità. Insomma la popolazione di un piccolo villaggio che, alle 7.30 precise, è pronta per il primo giro di manovella. Ma alle 7.30 piove e, poiché non è possibile lavorare in esterno, come il piano prevedeva, si decide di cambiare programma. Ed ecco, copiata dal diario di Albino Cocco, la cronaca di tutto il 22 febbraio[1]: Ore 8: Gli aiuti registi si mettono in giro per cercare le figurazioni necessarie all’interno della palestra «La Lombarda»; 8.15: I truccatori attendono in albergo l’arrivo del signor Salvatori e del signor Delon per eseguire prove di trucco. Il signor Garbuglia è alla palestra a preparare l’ambiente; 11.30: Gli assistenti del signor Visconti si recano da lui per avere le ultime novità; 12: Riunione di produzione dal signor Visconti. Il truccatore schiarisce i capelli al signor Salvatori e al signor Focas; 13.30: Il signor Visconti con i capi della

produzione a colazione; 14.30: Il signor Visconti sul luogo di lavorazione, la palestra «La Lombarda». Impostazione di inquadratura; 14.40: Viene piazzato il carrello. L’operatore inizia l’illuminazione dell’ambiente; 14.45: Il signor Visconti prova i movimenti di macchina; 14.55: Prosegue il piazzamento delle luci; 15.30: Il signor Focas è sul posto di lavorazione vestito e truccato; 16.20: Vengono messe in scena le figurazioni e il signor Visconti prova la scena; 17.30: Il signor Visconti prova la scena; 18: Con una bottiglia di champagne viene «varata» la prima inquadratura del film; 18.10: Salta una lampada: l’operatore provvede; 18.25: Si gira la scena1 n. 8/1. Buone la 1, la 2 e la 5. Durata scena 41”; 18.35: Spostamento macchina: posizione macchina; 18.40: L’operatore prepara le luci; 19.40: Si prova la scena; 19.45: Definizione delle luci; 19.55: Si gira la scena n. 8/2. Buone la 5 e la 7. Durata della scena 16”; 20: Fine lavorazione. Così Rocco e i suoi fratelli ha avuto inizio a Milano: con la pioggia, un mutamento di programma, dodici ore filate di lavoro, e una coppa di champagne bevuta dalla troupe dieci minuti prima che saltasse una lampada.

Il cinema e i milanesi I milanesi si sono accorti che Luchino Visconti sta girando un film a Milano solo la sera in cui, all’uscita del Vigorelli, attori e comparse, per esigenze di copione, se le son date di santa ragione. Quello è stato il primo contatto tra gli ambrosiani e la troupe, perché si girava in esterno: e niente come il veder grossi riflettori piazzati un po’ dappertutto, le macchine da presa sistemate secondo le angolazioni scelte da Visconti, i

volti noti di attori popolari come Renato Salvatori o Claudia Cardinale, figuranti maschi e femmine ubbidienti agli ordini che partono dai megafoni e le strade, le piazze della città diventare prospettive sceniche, riesce ad avvicinare gli abitanti di una città al lavoro cinematografico. E come accade dovunque, anche a Milano gli ambrosiani si sono avvicinati alla troupe di Rocco e i suoi fratelli; ma con una sorta di preoccupata curiosità, con un pizzico di divertita diffidenza. I milanesi, si sa, son gente concreta, abituati a ragionare a base di cifre, di centinaia di «pezzi» all’ora che passano, secondo un ritmo prestabilito, lungo una catena di montaggio di una fabbrica; menano vanto delle loro industrie e adorano la tradizione della Scala. Per loro il cinema è solo «un divertimento» e, di conseguenza, immaginano che, tutto sommato, anche coloro chelo fanno si divertano. Inoltre certi servizi più o meno scandalistici dei rotocalchi su questa o quella diva, la descrizione delle sontuose ville sull’Appia Antica dove vivono, tra il bar fornitissimo e le piscine dalle acque azzurrine, un pizzico di quella sciocca polemica antiRoma che ogni tanto affiora nei rapporti tra meneghini e quiriti (e si sa, finora, salvo rare eccezioni, il cinema italiano è sempre partito da Roma che è la sua capitale) determinano nel milanese medio la convinzione che «le faccende della pellicula» sono tutte «stüpidate». Altri, poi, temono, benché pronti a giurare che Visconti come milanese e come artista abbia le carte in regola, che, a questa prima troupe esemplare, seguano altre meno qualificate e tali da fornire agli spettatori di tutta Italia un’idea sbagliata della città e dei suoi abitanti. Tuttavia i milanesi si interessano alle riprese di Rocco, anche se talvolta non si rendono perfettamente conto dei molti «perché» cinematografici: principalmente della ragione – che è tecnica e artistica insieme – per cui i «cinematografari» di Roma comincino ad agitarsi alle otto per poi girare una scena solo a mezzogiorno e mezzo, dopo, cioè, duecentosettanta minuti spesi per il piazzamento delle luci, nella ricerca dell’inquadratura, nelle lunghe prove prima del ciak (eppure il risparmio di pellicola è un argomento che essi, sagaci amministratori, dovrebbero capire: più si prova, maggiori sono

le probabilità che la scena venga bene e che si risparmi pellicola e luce e tempo, quindi denaro); spesi, insomma, in tutto quel, talvolta, snervante lavoro che a molti non vuole entrare in testa che sia fatica, quel lavoro che, anche se al profano sembra inutile e magari estemporaneo, rientra, invece, in un rigido preventivo studiato in ogni dettaglio per abbassare i costi di produzione e non perdere neppure una giornata. Ma, pian piano, anche i milanesi si accorgeranno che il cinema è una cosa seria, che costa intelligenza, sudore e danari. Comunque, nonostante questo curioso stato d’animo (che si rivela in qualche risatina venata di ironia, o nella battuta di uno «spettatore», seccato dal prolungarsi dei preparativi, che esplode: «Ehi, Culombo, quando la scopri l’America?»), ho notato che i milanesi sono garbati e, quando vogliono assistere a qualche ripresa, educatamente rimangono dietro le transenne o le corde tese a notevole distanza dal luogo dell’azione: e in perfetto silenzio. Il che è molto diverso, poniamo, da quel che accade a Roma, nonostante, ormai, i romani siano abituati da anni a vedere troupe cinematografiche al lavoro: a Roma, infatti, non bastano corde e transenne per trattenere gli occasionali spettatori, specialmente se sono di scena attori molto popolari. Sicché non è difficile prevedere che, col passare dei giorni, anche tra Milano e il cinema l’intesa sarà perfetta: basterà soltanto, per raggiungere questa intesa, che cadano le prevenzioni del «divertimento» e della «stupidata». Il che, con il contatto quasi quotidiano della troupe con la gente della strada, non sarà troppo difficile.

Ricerca della verità Luchino Visconti, sulla necessità dell’ordine e del silenzio durante il lavoro, anche quello preparatorio, ha testualmente dichiarato a Grazia Livi dell’Europeo: «Forse è una mia inferiorità, lo riconosco, io non posso lavorare nel caos, non posso sopportare nessuna forma di disordine. Un film è già un

fatto così sbriciolato di per se stesso; occorre sempre una tale concentrazione, un tale sforzo per ricordarsi la fine della scena precedente e il principio di quella che seguirà!» E ho personalmente constatato sul set – fosse esso costituito da un interno o la scena si svolgesse sulla pubblica via, su una piazza o un parco – che questa giustificatissima esigenza di Visconti viene rispettata da tutti: dal direttore della fotografia agli aiuti registi, dal segretario di edizione fino all’ultimo figurante. Sicché, per scambiare due parole con Peppino Rotunno sono costretto ad attendere la pausa. E a tavola, in una trattoriola della periferia milanese dove oggi si gira una complessa scena, riesco a imbastire un colloquio disteso, a voce normale e che non debba essere sussurrato quasi come una preghiera. «Con Visconti sono molto affiatato: con lui», mi dice Rotunno, «è la quarta volta che giro: fui operatore di macchina per l’episodio con la Magnani di Noi donne e per Senso, poi direttore della fotografia delle Notti bianche e ora di Rocco. E ancora una volta mi sono messo al servizio di un film di Visconti con sincero entusiasmo. Dico “al servizio” perché sono profondamente convinto che la fotografia debba ubbidire alle esigenze dell’opera e non servirsi di questa come pretesto per brillare di luce propria, frantumando così l’equilibrio del tutto. Per fotografare un film non esistono e non possono esistere regole fisse: ogni volta è necessario inventare un tipo di fotografia intonata, adatta alla storia da raccontare. Per Le notti bianche, ad esempio, insieme con il regista, studiai una serie di accorgimenti (mascherino, scelta della pellicola più adatta, filtri, ecc.) che consentissero quei particolari rapporti necessari per ottenere una continua altalena tra il “reale” e l’“irreale”: tra, cioè, le scene apparentemente più concrete, che dovevano avere il massimo della corposità, e quelle dei “ricordi” di Natalia, che dovevano apparire abbellite e lucenti, quasi illuminate di luce propria, dal didentro, come anche nella vita ci appaiono i nostri ricordi. «Per Rocco, invece, trattandosi di una storia realistica, la fotografia sarà una continua ricerca della verità, anche se a volte interpretata a seconda del momento e dell’ambiente:

quindi bianchi e neri in tutta la loro gamma, con una tendenza ai contrasti forti. Cercherò di essere più chiaro: pur essendo la fotografia basata sul contrasto deciso, essa non sarà uniforme. Infatti tenteremo, fermo restando il tono di ricerca di verità dell’insieme, di sottolineare i vari ambienti, i vari mondi di cui ciascun personaggio fa parte, anche con la fotografia. Se il paragone non è ardito, direi che tenteremo di utilizzare le possibilità degli obiettivi e dei rapporti di luce, come fa il musicista che, una volta identificato un tema, pur tenendolo sempre presente, anche nei sottofondi, riempie i vari momenti con variazioni. Ecco, così, presso a poco così: cercando anche, pur trattandosi di bianco e nero e non avendo a disposizione, poniamo, la tavolozza dell’Eastman o del Ferraniacolor, di far sentire, attraverso l’uso appropriato dei filtri, i colori allo spettatore. E per questo “far sentire i colori” ho scelto una pellicola particolarmente adatta, nelle sue varie gradazioni. Spero, così, con questi accorgimenti e altri che si riveleranno necessari durante la lavorazione, di sottolineare come si conviene gli elementi drammatici e narrativi del racconto. E fin dall’inizio la fotografia è subito forte, drammatica, come un presentimento di quello che succederà poi. «Usiamo quasi sempre tre macchine da presa, ma non per avere più “campi” tra cui scegliere in sede di montaggio, bensì in funzione narrativa, anticipando in certo qual modo il racconto definitivo. Mi spiego con un esempio: c’è da raccontare un certo incontro tra due personaggi, che si svolge, poniamo, in un bar; dopo questo incontro i due escono e se ne vanno a compiere una qualche altra azione. Ebbene noi piazziamo una macchina sul carrello fuori del bar: una seconda innanzi alla porta del locale, e una terza puntata sul marciapiede su cui i due personaggi se ne andranno. La prima servirà, muovendosi esternamente, a descrivere, attraverso le vetrine, l’ambiente del bar e i suoi clienti; la seconda, che entrerà in azione quando la prima avrà compiuto l’intera carrellata, descriverà l’incontro dei due personaggi che, dopo il loro colloquio, apriranno la porta e usciranno all’aperto; a questo punto si girerà con la terza, che riprenderà l’allontanarsi dei due personaggi lungo il marciapiede. Così la

regia otterrà, già in partenza, un blocco unitario, quasi montato. È un procedimento, richiesto da Visconti, che presenta per il direttore della fotografia, particolarmente per il piazzamento delle luci, mille difficoltà e richiede molto lavoro soprattutto quando le tre macchine da presa sono puntate su una stessa azione; ma, una volta risolti i problemi che il sistema comporta, quello che può sembrare un allungamento dei tempi di preparazione risulta, a film finito, un vantaggio notevole: in tal modo il montatore ha il compito facilitato, e si ottengono maggiore omogeneità nella fotografia e maggiore compattezza nella recitazione degli attori». Siamo ormai alla frutta: la pausa sta per finire: e Peppino Rotunno torna alle sue Mitchell per preparare una nuova inquadratura.

La laringite di Visconti (12 marzo) La lavorazione è sospesa: per un paio di giorni, perché Visconti soffre di una improvvisa laringite acuta, che lo ha reso completamente afono. Milano ripaga piuttosto male l’amore che ha spinto un milanese, il quale a Roma «si sente ancora di passaggio», a girare un film quassù: ma evidentemente Visconti mal sopporta il clima, ancora umido e invernale, della città in cui è nato. E sono stati il freddo e la nebbia di cui, suo malgrado, s’è imbottito venerdì sera al Bar Giambellino, nella via omonima, che a un certo momento gli hanno impedito di farsi udire, tanto la voce s’era abbassata. Poiché una prima avvisaglia s’era già avuta giorni fa, la produzione, giustamente preoccupata, ha deciso di sospendere per quarantott’ore la lavorazione del film per dar modo a Visconti di curarsi ed evitare che si abbiano ricadute. Quindi per oggi e domani niente riprese: se Visconti sarà completamente ristabilito, si ricomincerà a girare lunedì mattina.

E mentre Luchino è alle prese coi medici e con gli antibiotici, approfitto della sosta per avvicinare gli attori e le attrici – in questo momento a Milano di attrici c’è solo Annie Girardot, perché Katina Paxinou non è ancora arrivata e Claudia Cardinale, ultimate le pose dei primi giorni, è stata restituita a Citto Maselli con cui, contemporaneamente a Rocco, gira I delfini – che prendono parte al film: voglio incominciare da loro per ricostruire dall’esterno, dalle loro impressioni, quella parte della personalità di Visconti da essi captata o ad essi rivelata. Poi – se domani sarà in condizione di ricevermi – parlerò anche con lui, che oggi non voglio disturbare. Poiché la hall dell’albergo Principe e Savoia è un passaggio obbligato, sono sicuro che riuscirò a pescarne parecchi. Il primo che «cade nella rete» è Renato Salvatori in procinto di partire con la sua velocissima Ferrari per Forte dei Marmi, per trascorrere la domenica con la mamma, a cui è molto affezionato. Lo trovo asciutto, tirato, come un pugilatore in piena forma. «Per forza: prima di iniziare il film, Visconti ha voluto che facessi cinque mesi durissimi di allenamento: palestra, footing, corda, sacco e ring. E non solo», aggiunge Renato,«ne ho guadagnato in salute, ma sono riuscito in tale maniera ad affiatarmi in modo quasi perfetto con quello che è l’ambiente del mio personaggio. Visconti è meticoloso e vuole che ciascuno si trovi a suo perfetto agio dentro i panni dell’essere umano a cui deve dar vita innanzi alla macchina da presa. E tutto quello che è davanti alla camera per Visconti è importante: sia l’attore che il figurante, sia un oggetto che una piegaccia a un vestito. E si ricorda tutto: possiede una memoria veramente prodigiosa, tanto che, anche se dopo aver girato una scena questa si riprende dopo due giorni, Luchino non ha bisogno di ricorrere alle foto di raccordo che scatta Ronald con una specie di macchina infernale. Prima di cominciare il film, conoscendo le difficoltà del mio personaggio (Simone è senza dubbio il più difficile e il più complesso di quanti ne ho interpretati), ero addirittura terrorizzato: poi, quando mi sono trovato sul set, mi sono accorto che Visconti mi conduceva con enorme facilità. E alla

paura ha fatto posto la certezza che con Luchino sarei riuscito a sfruttare il massimo delle mie possibilità, a ottenere risultati che mai avevo sperato di poter raggiungere. Perciò sono veramente felice (anche se le difficoltà che debbo superare sono tante: e ogni volta che me ne lascio una dietro le spalle, mi accorgo che una ancora più grossa mi aspetta domani) di fare Simone. Con gli altri attori mi sono inteso subito: sia con Delon che con Max Cartier, con Spiros Focas e con la Girardot: finalmente, mi riferisco alla Girardot, posso fare un film accanto a un’attrice vera». Anche la Girardot è di partenza: farà un salto a Parigi e tornerà nella giornata di domani. È una donna bionda, non alta: non bella, ma in certi momenti bellissima, viva, attraente. Era pensionnaire della Comedie Française, ma dopo quattro anni, quando era in procinto di diventare sociétaire ne è uscita, per non condannarsi alla onorevolissima routine del «teatro conservato in bottiglia»: aveva bisogno di respirare aria nuova, senza polvere, anche se questa è gloriosa. E aria nuova ha trovato nel film di Visconti e nel suo personaggio. «È una storia très émouvante. E quello di Nadia è un personaggio très nature, un po’ mitomane: è fille de joie ma assai naturalmente. Incontra l’amore e ritorna alla superficie quella purezza che, nonostante tutto, non ha mai completamente perduto. Personaggio un po’ dostoevskiano, quando perde l’amore la sua vita è improvvisamente come ferma; quindi, per lei, non vale più la pena di vivere: così accetta la morte per mano di Simone, un essere che apparentemente impersona la forza bruta, ma che è anche intimamente buono e il più debole dei cinque fratelli». Quando Visconti le propose la parte fu entusiasta. «Avevo già visto i film di Luchino; poi l’ho conosciuto a Parigi: un autentico avvenimento, per me. E la più grande emozione della mia vita la debbo a Visconti: doveva dirigermi in Due sull’altalena e mi recitò tutta la commedia. Visconti è un attore formidabile e riesce a condurre l’attrice fino a farla diventare, senza parere, pian piano, un prolungamento della vita stessa. Agisce in profondità, quasi nel subcosciente, riuscendo a ottenere, più dall’istinto che dall’intelligenza dell’attrice, il risultato che desidera, la

perfetta aderenza al personaggio. E io sostengo che per un attore, quando il regista è meraviglioso, terribile e allegro come Visconti, vale più être que comprendre». «Mi è parso», mi dice il piccolo, malizioso Max Cartier, il Ciro del film, che incontro insieme con il lungo bonario Focas, mentre mi accomiato dalla Girardot, «che sul plateau la vita continuasse. Avevo molta paura prima di cominciare: io non ho mai fatto cinema prima di oggi. Io sono un ginnasta, uno sportivo e avevo sempre rifiutato proposte che riguardavano il cinema. Ho accettato quella di Visconti e, quando si è trattato di cominciare, avevo una fifa blu; ma Luchino mi ha messo subito a mio agio con grande gentilezza. Mi ha fatto provare due volte e poi abbiamo girato; e tutto (Visconti non mi abbandonava col suo sguardo che è veramente magnetico) è sembrato facile: mi sembrava che la scena facesse parte di una mia giornata, della vita di ogni giorno». «Chi pensava», rincara Spiros Focas, il nativo di Patrasso, uno dei protagonisti di Morte d’un amico, che in Rocco è il buon, modesto Vincenzo, «che un giorno avrei potuto girare un film sotto la guida di Visconti? È vero che sono un attore professionista che ha partecipato già a tre film in patria: ma immaginare di poter essere scelto da Visconti per una parte in Rocco era una di quelle cose che fan parte solo dei sogni. Sicché quando ho girato la prima scena ero talmente carico di emozione che temevo di apparire rigido, insincero. Ma Visconti, che possiede, nonostante i suoi proverbiali scatti improvvisi, una gentilezza persuasiva che solo i suoi attori e le sue attrici possono apprezzare, nella giusta misura, letteralmente mi convinse che tra me e il personaggio non esisteva e non doveva esistere nessuna differenza; sicché mi trovai, dopo un paio di prove, a essere Vincenzo pur rimanendo me stesso, con semplicità, con naturalezza: un Vincenzo – com’è quello dello scenario e vivificato da Visconti sul set – un po’ timido e tranquillo, senza grandi aspirazioni, contento del poco che gli basta per vivere, desideroso di non cacciarsi nei guai, buono e fondamentalmente giusto».

Al bureau, mentre sta chiedendo se gli hanno riservato un posto sul «Settebello» di oggi, pesco Paolo Stoppa che, terminato il blocco delle sue pose milanesi, sta per rientrare a Roma. Stoppa conosce Visconti meglio di tutti gli altri: con lui ha recitato in ben ventidue spettacoli teatrali. «Ma è questa la prima volta», rivela Paolo con quella sua voce scattante, «che Luchino mi dirige in un film. E sono veramente contento di prendere parte a Rocco e i suoi fratelli, che mi sembra un film importantissimo e che viene realizzato nel momento più giusto. Il cinema, oggi, non può più giocare con i piccoli sentimenti ma ha bisogno di grandi affreschi in cui venga ritratto e interpretato il tempo moderno. Non si può giocare più con la robetta: non ci si può più abbandonare alle esperienze del neorealismo ma occorre ricercare una verità artistica. E Rocco possiede tutti gli elementi di questa verità, perché, oltre a raccontare storie umane, affronta il problema, così di oggi, del contatto, della convivenza tra Sud e Nord, e contribuisce alla conoscenza di queste due Italie che poi sono un’Italia sola: alla conoscenza di un problema che esiste non solo nel nostro ma in ogni paese. Ecco che cosa intendo per “verità artistica”. In quanto al modo che ha Visconti di dirigere gli attori, la mia lunga esperienza mi consente di affermare che esso è un vero e proprio fenomeno medianico. Luchino possiede quella indefinibile forza interna, per cui il suo dirigere non è un insegnamento ma un agire sul subcosciente dell’attore. È questa una qualità che posseggono solo i veri, autentici registi: perché Visconti è un regista vero, come lo era Toscanini quando dirigeva alla Scala. Pochissimi al mondo posseggono questo potere, ripeto, quasi medianico: e questi pochi sono i soli che dall’attore – sia esso professionista o un semplice uomo della strada – riescono a ottenere quello che vogliono». Posso, dopo le parole di Stoppa, tracciare un primo bilancio, o meglio un abbozzo di profilo di Visconti regista: Salvatori, la Girardot, Cartier, Focas e Stoppa, cinque temperamenti diversi, cinque attori di differente formazione e provenienza, pur mutando i termini con cui si sono espressi, m’hanno detto la stessa cosa. Tutti e cinque, infatti, hanno sottolineato la straordinaria facoltà posseduta da Visconti, di «condurre»

l’attore in modo che diventi il personaggio, pur rimanendo se stesso: la facilità con cui avviene questo processo di inserimento dell’io umano di ciascuno in quello del personaggio (o, se preferite, viceversa), la bravura, infine, nel recitare egli stesso qualunque personaggio, impostandolo, sviluppandolo e completandolo in modo da costringere, senza parere, l’attore a fare altrettanto, lasciandogli, però, la convinzione di «fare da solo». Sicché, come Visconti crede negli attori (che, quando si trattava di formare il cast, ha voluto e sostenuto), così gli attori credono, e senza riserve, in Visconti. E questo mi sembra un presupposto di enorme importanza per un felice lavoro comune, per un risultato di qualità.

Una certa vestaglietta Ho inteso Rinaldo Ricci e il costumista Piero Tosi mentre discutevano di una certa «vestaglietta»; ho aguzzato l’orecchio e mi son reso conto che si trattava di un indumento femminile che doveva servire a Nadia-Girardot per coprirsi alla bell’e meglio quando, scacciata di casa dal padre, incontra, in uno sgabuzzino dove s’è nascosta, Vincenzo: un incontro particolarmente importante perché, da quel momento, Nadia entrerà nella vita della famiglia di Rosaria, influenzandola profondamente. Luchino, d’accordo con Tosi, la vuole così e così: quindi è necessario tagliarla in una determinata stoffa e cucirla in quel preciso modo, oppure trovarla confezionata in qualche negozietto già con le caratteristiche richieste. Perché Visconti vive talmente con il suo film che, pur fidandosi dei suoi collaboratori (che del resto ha scelto tutti lui, come fa sempre), gli chiede che realizzino certe cose ch’egli vede in maniera precisa. Aspetto che la discussione su quel metro e mezzo di stoffa sia finita, e poi domando a Tosi qual è, secondo lui, l’importanza del costumista in un film moderno, ambientato ai nostri giorni, qual è Rocco e i suoi fratelli.

«Grandissima, perché i vestiti, oltre che per i personaggi maschili, particolarmente per quelli femminili, servono a molte cose. Innanzitutto bisogna ricordare che l’azione di Rocco abbraccia un periodo di tempo che va dal 1955 al 1958. Quindi la prima funzione dei costumi è quella di dare allo spettatore la nozione del trascorrere degli anni. Per questa necessità sono particolarmente adatti gli abiti delle attrici, perché la moda femminile muta più rapidamente di quella maschile. Per gli uomini, cioè per i figli di Rosaria, dato che vengono nel ’55 direttamente dalla Lucania e vivono fino al ’58 a Milano, questo passaggio di tempo è reso evidente dal modo di vestirsi: paesano all’inizio, man mano esso acquista un qualche elemento cittadino, e perde le caratteristiche tipicamente regionali. Inoltre i vestiti hanno anche il compito di chiarire i vari momenti diciamo economici e, quel che più importa, quelli psicologici dei singoli personaggi. Se, infatti, noi incontriamo Nadia, la prima volta, con indosso un abito da sera, con scarpine dal tacco alto ornato di strass, e avvolta in un cappotto di cammello, mettiamo lo spettatore sulla buona strada per comprendere immediatamente – contrasto abito da sera e cappotto di cammello – che cosa faccia Nadia in quel momento e con quale stato d’animo bussi alla porta della casa paterna. Se, invece, quando si intreccia il suo idillio, che poi diventa amore profondo, con Rocco, la reincontriamo con vesti semplicissime, non chiassosamente colorate, non molto eleganti, diamo egualmente al pubblico la possibilità di capire subito, al primo sguardo, che la ragazza ha mutato vita e sentimenti. «Alcuni vestiti (quelli di Nadia e di altri personaggi femminili, come Ginetta, come Rosaria) sono inventati o disegnati ispirandosi, come nel caso di Rosaria, a costumi regionali. Per la maggior parte dei personaggi maschili, invece, ho saccheggiato la “fiera di Sinigaglia”, ho girato in lungo e in largo per la Lucania, e ho riportato dei pezzi autentici che mi sembrano molto funzionali. Certe giacche vecchie, piene di buchi e di rattoppi, non sarei mai riuscito a farle cucire così autentiche, così piene di vita e segnate da essa. Sicché, specialmente per i figli di Rosaria, sono riuscito a

scovare maglie, magliette, canottiere, pantaloni e giacche che avevano avuto già una lunga esistenza, talvolta addirittura spogliando degli individui per la via; come avvenne una volta in Lucania. Andavo insieme con Ricci da un paese all’altro, quando scorgemmo un gruppo di operai che stavano eseguendo lavori stradali. Uno d’essi aveva una giacca molto usata e pantaloni nelle identiche disastrose condizioni, particolarmente adatti, secondo noi, per Simone. Arrestammo la macchina e ci facemmo vicini all’operaio, chiedendogli se era disposto a venderci, subito, i suoi indumenti. Questi in principio ci guardò male e credette che lo prendessimo in giro: spiegammo pazientemente le ragioni per cui volevamo acquistare la sua roba: vinta la diffidenza iniziale, l’operaio ci dette tutto quello che volevamo. E, mentre si spogliava, bofonchiava tra i denti qualche cosa che non capivamo: poi – evidentemente egli non era tra i sostenitori del partito di maggioranza – ci disse che tutta la colpa era della DC. Gli chiedemmo perché: e lui aggiunse che “era pieno di buchi perché governava la DC”. «Comunque, aneddoto a parte, in Lucania e in tutto il Meridione trovammo costumi adattissimi per i nostri personaggi. «Tornando a Nadia, aggiungerò che i costumi chiave della sua vicenda sono: abito da sera vistoso, scarpette con strass e cappotto di cammello al suo primo apparire; un pagliaccetto piuttosto piccante con sopra la vestaglietta, di cui parlavo con Ricci, quando è scacciata dal padre; gonna a pieghe e impermeabile quando si trova con Rocco; abito da sera nero molto scollato, quando reincontra Simone nella bisca; infine, per la scena dell’uccisione, una gonna con un golfetto chiaro che si strapperà mostrando un dessous nero e paletot di peluche bianco. Naturalmente questi sono i costumi base che potranno essere modificati immediatamente prima di girare una scena, con invenzioni estemporanee necessarie perché il costume stesso leghi di più o contrasti maggiormente con l’ambiente, secondo le necessità del film».

Visconti e Rocco (13 marzo) Fino ad oggi non sono riuscito a scambiare che poche parole con Luchino Visconti: ci siamo sempre visti sui luoghi delle riprese e non c’è mai stato il tempo necessario per un discorso un po’ lungo e non interrotto da Tizio o da Caio, che, nelle brevi soste tra una inquadratura e l’altra, hanno bisogno di sapere questo o quello per preparare i figuranti, o di sottoporre al giudizio di Visconti un paio di tipi che serviranno per il giorno dopo, eccetera. Ma oggi, finalmente, riesco a intrattenermi con lui quanto voglio: oggi si fa pausa e le condizioni della voce di Luchino sono migliorate, tanto che domattina si potrà riprendere la lavorazione. Visconti, presente Tosi che è venuto a riferire sulla ormai famosa «vestaglietta» (è stata trovata ed è stata già consegnata alle sarte che debbono sistemarla per la taglia della Girardot), mi riceve nella sua stanza, un gran letto su cui sono accatastati giornali e riviste: c’è un copione di Rocco, su un tavolino da notte una radio accesa, che funziona a basso volume, sull’altro alcune medicine e un’ampolla di sugo d’arancio. Per quanto i medici lo abbiano rigorosamente proibito, a un certo momento Visconti accende una sigaretta. Prima di toccare l’argomento Rocco, gli porgo un vecchio numero di Sequenze (una rivista che uscì nel ’48-49), contenente un articolo che Visconti scrisse per Cinema. Secondo me è un articolo molto importante perché definisce in modo inequivocabile la posizione di Visconti nei confronti del cinema e costituisce la chiave per intendere la coerenza di tutte le sue opere; e, non appena Luchino lo ha scorso rapidamente, chiedo se gli argomenti espressi nello scritto di allora siano per lui validi anche oggi. Visconti mi risponde che non cambierebbe una virgola: perciò riproduco qui appresso l’intero articolo che considero una precisa risposta al primo interrogativo che avrei posto, per introdurre il «discorso Rocco».

Che cosa l’ha spinta, dopo una lunga parentesi teatrale, a tornare al cinematografo? Che cosa mi ha portato a un’attività creativa nel cinema? (Attività creativa: opera di un uomo vivente in mezzo agli uomini. Con questo termine sia chiaro che mi guardo bene dall’intendere qualcosa che si riferisca soltanto al dominio dell’artista. Ogni lavoratore, vivendo, crea: sempre che egli possa vivere. Cioè: sempre che le condizioni della sua giornata siano libere e aperte: per l’artista come per l’artigiano e l’operaio.) Non il richiamo prepotente di una pretesa vocazione, concetto romantico lontano dalla nostra realtà attuale, termine astratto, coniato a comodo degli artisti per contrapporre il privilegio della loro attività a quella degli altri uomini. Poiché la vocazione non esiste, ma esiste la coscienza della propria esperienza, lo sviluppo dialettico della vita di un uomo al contatto con gli altri uomini, penso che solo attraverso una sofferta esperienza, quotidianamente stimolata da un affettuoso e obiettivo esame dei casi umani, si possa giungere alla specializzazione. Ma giungere non vuol dire rinchiudervisi, rompendo ogni concreto legame sociale, come a molti artisti accade, al punto che la specializzazione finisce sovente col prestarsi a colpevoli evasioni dalla realtà, e in parole più crude: al trasformarsi in una vile astensione. Non voglio dire che ogni lavoro non sia un lavoro particolare e in un certo senso mestiere. Ma sarà valido solo se sarà il prodotto di molteplici testimonianze di vita, se sarà una manifestazione di vita. Il cinema mi ha attirato perché in esso confluiscono e si coordinano slanci ed esigenze di molti, tesi per un lavoro complessivo migliore. È chiaro come la responsabilità umana del regista ne risulti straordinariamente intensa, ma, purché egli non sia corrotto da una decadentistica visione del mondo, proprio da essa verrà indirizzato sulla strada più giusta.

Al cinema mi ha portato soprattutto l’impegno di raccontare storie di uomini vivi: di uomini vivi nelle cose, non le cose per se stesse. Il cinema che mi interessa è un cinema antropomorfico. Di tutti i compiti che mi spettano come regista, quello che più mi appassiona è dunque il lavoro con gli attori; materiale umano con il quale si costruiscono questi uomini nuovi, che, chiamati a viverla, generano una nuova realtà, la realtà dell’arte. Perché l’attore è prima di tutto un uomo. Possiede qualità umane chiave. Su di esse cerco di basarmi, graduandole nella costruzione del personaggio: al punto che l’uomo-attore e l’uomo-personaggio vengano a un certo punto a essere uno solo. [Cfr le conclusioni dopo i colloqui con gli attori, registrate in «La laringite di Visconti», n.d.a.] Fino ad oggi il cinema italiano ha piuttosto subito gli attori, lasciandoli liberi di ingigantire i loro vizi e le loro vanità: mentre il problema vero è quello di servirsi di ciò che di concreto e di originario essi serbano nella loro natura. Perciò importa fino a un certo grado che attori cosiddetti professionali si presentino al regista deformati da una più o meno lunga esperienza personale che li definisce in forme schematiche, risultanti di solito più da sovrapposizioni artificiose che dalla loro intima umanità. Anche se molto spesso è una dura fatica, quella di ritrovare il nocciolo di una personalità contraffatta è una fatica che tuttavia vale la pena di spendere: proprio perché al fondo una creatura umana c’è sempre, liberabile e rieducabile. Astraendo con violenza dagli schemi precedenti, da ogni ricordo di metodo e di scuola, si cerchi di portare l’attore finalmente a una lingua istintiva [«vale più être que comprendre», cfr le parole di Annie Girardot, in «La laringite di Visconti», n.d.a.]. Si intende che la fatica non sarà sterile, solo se questa lingua esiste sia pure involuta e nascosta sotto cento veli: se esiste, cioè, un vero temperamento. Non escludo, naturalmente, che un grande attore nel senso della tecnica e dell’esperienza possegga tali qualità primitive. Ma voglio dire

che, spesso, attori meno illustri sul mercato, ma non meno degni di attirare la nostra attenzione, ne posseggono altrettante. Per non parlare dei non attori, che, oltre a recare il contributo affascinante della semplicità, spesso ne hanno di più autentiche e di più sane, proprio perché, come prodotti di ambienti non compromessi, sono spesso uomini migliori. L’importante è scoprirle e metterle a fuoco. Ecco dove è necessario che intervenga quella capacità rabdomantica del regista, tanto nell’uno come nell’altro caso. L’esperienza fatta mi ha soprattutto insegnato che il peso dell’essere umano, la sua presenza, è la sola cosa che veramente colmi il fotogramma, che l’ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza, e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo; mentre anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurrà ogni cosa a un aspetto di non animata natura. Il più umile gesto dell’uomo, il suo passo, le sue esitazioni e i suoi impulsi da soli danno poesia e vibrazioni alle cose che li circondano e nelle quali si inquadrano. Ogni diversa soluzione del problema mi sembrerà sempre un attentato alla realtà così come essa si svolge davanti ai nostri occhi: fatta dagli uomini e da essi modificata continuamente. Il discorso è appena accennato, ma accentrando il mio netto atteggiamento vorrei concludere dicendo (come spesso amo ripetermi): potrei fare un film davanti a un muro se sapessi ritrovare i dati della vera umanità degli uomini posti davanti al nudo elemento scenografico: ritrovarli e raccontarli.[2] Può dirmi se nella scelta e nella costruzione del soggetto di Rocco e i suoi fratelli ha subito influenze o suggestioni? In ogni cosa che facciamo c’è sempre un grano di qualche altra che l’ha preceduta e le suggestioni possono arrivarci, senza che ce ne accorgiamo, da mille direzioni e da grandi lontananze. Per Rocco, una storia a cui pensavo già da molto tempo, l’influenza maggiore l’ho forse subita da Giovanni Verga: I Malavoglia, infatti, mi ha ossessionato sin dalla prima

lettura. E, a pensarci bene, il nucleo principale di Rocco è lo stesso del romanzo verghiano: là ’Ntoni e i suoi, nella lotta per sopravvivere, per liberarsi dai bisogni materiali, tentavano l’impresa del «carico dei lupini»: qui i figli di Rosaria tentano il pugilato: e la boxe è il «carico dei lupini» dei Malavoglia. Così il film si imparenta a La terra trema – che è la mia interpretazione dei Malavoglia – di cui costituisce quasi il secondo episodio. A questa «ossessione» determinata dalla maggiore opera dello scrittore siciliano si sono aggiunti altri due elementi: il desiderio di fare un film su una madre che, sentendosi quasi padrona dei propri figli, ne vuole sfruttare l’energia per liberarsi dalle necessità quotidiane, senza tener conto della diversità dei caratteri, delle possibilità dei suoi ragazzi: per cui mira ambiziosamente troppo in alto e viene sconfitta; e poi mi interessava anche il problema dell’inurbamento, attraverso cui era possibile stabilire un contatto tra il Sud pieno di miseria [ecco un altro elemento che riallaccia Rocco a La terra trema, n.d.a.] e Milano, la modernamente progredita città del Nord. In queste mie necessità si sono poi inseriti altri motivi: alcuni che risalgono alla Bibbia e a Giuseppe e i suoi fratelli di Mann, altri che s’identificano nella mia ammirazione per lo scrittore Giovanni Testori e il suo caratteristico mondo, e, infine, a un personaggio dostoevskiano che, per più aspetti, rassomiglia interiormente al Rocco del mio film: il Myškin dell’Idiota, il rappresentante più illustre della bontà fine a se stessa. Di qui, da tutte queste sollecitazioni, spesso inavvertibili, è nata la storia di Rocco e i suoi fratelli. La storia di Rosaria, una donna lucana energica, forte, testarda, madre di cinque figli, «forti, belli, sani», che sono per lei come le cinque dita della mano. Morto il marito, attratta dal miraggio della grande città del Nord, per fuggire la miseria si trasferisce a Milano. Ma la città non consente a tutti e cinque i ragazzi la stessa identica sorte: Simone, che sembra il più forte e che in realtà è il più debole, si perde e uccide una mondana. Rocco, il più sensibile, il più spiritualmente complesso, ottiene un successo che per lui — che si ritiene responsabile delle disgrazie di Simone — è una forma di autopunizione: diventerà celebre attraverso il

pugilato, un’attività che gli ripugna perché, quando è sul ring, di fronte all’avversario, sente scatenarsi dentro un odio per tutto e per tutti; un odio da cui egli rifugge quasi con orrore. Ciro, il più pratico, il più saggio e il più concreto dei fratelli sarà l’unico a inurbarsi completamente, a diventare una unità della comunità milanese, conscio dei suoi nuovi diritti e dei suoi nuovi doveri. Il più piccolo, Luca, forse un giorno tornerà in Lucania, quando anche laggiù le condizioni di vita saranno mutate, mentre Vincenzo si accontenterà di una vita modesta ma sicura al fianco di sua moglie. Quali sono state le tappe che l’hanno condotta alla sceneggiatura definitiva? In un primo tempo ho scritto il soggetto. Poi un lungo trattamento insieme a Suso Cecchi D’Amico e a Vasco Pratolini. Successivamente ho fatto un sopralluogo a Milano per attingere dalla carne viva della città alcuni elementi e identificare gli ambienti, i luoghi in cui avrebbero vissuto i miei personaggi (la periferia dai grandi casoni grigi, Roserio, la Ghisolfa, Porta Ticinese, ecc.): e, sulla base di questi elementi, ho scritto, insieme con Suso Cecchi d’Amico, Festa Campanile, Franciosa e Medioli una prima sceneggiatura. Poi nuovo sopralluogo a Milano: e questo secondo viaggio è servito per mettere meglio a punto sia i personaggi che le situazioni. Ad esempio, nella prima stesura, avevamo sottolineato la nostalgia dei meridionali che vivono a Milano per la loro terra. Parlando con molti di essi ci siamo resi conto, invece, che non lascerebbero mai la città, che mai tornerebbero ai loro paesi d’origine, perché – dicono – meglio arrangiarsi a Milano che patire in paese. E in base a questa realtà nuova abbiamo notevolmente modificato il testo della prima stesura. Altro elemento che abbiamo captato è stato quello del sistema usato dai meridionali per avere una casa: e anche di questo abbiamo tenuto conto nelle correzioni e nelle modifiche. Infine eravamo in cerca di un finale diverso, più moderno di quelli previsti dal trattamento e dalla prima sceneggiatura. Infatti in una stesura Rocco moriva durante un combattimento,

disputato pur sapendo di non essere in condizioni fisiche adatte a boxare; in un’altra si faceva arrestare in luogo del fratello. Alla fine abbiamo trovato l’attuale finale (l’accettazione, come autopunizione, di un’attività tutt’altro che congeniale) che mi sembra assolutamente privo della melodrammaticità del primo e della meccanicità artificiosa del secondo. La sceneggiatura «definitiva» subirà altre modifiche, oppure girerà attenendosi scrupolosamente al testo? Naturalmente subirà una ulteriore trasformazione durante la lavorazione: perché essa mi servirà solo come base di massima: e su questa base, volta per volta, inventerò ancora, tenendo particolarmente conto degli elementi estemporanei, costituiti dai luoghi, dagli ambienti e soprattutto dalle necessità drammatiche del racconto. Ho sempre fatto così per ogni mio film. Sia in La terra trema che in Bellissima, e adesso in Rocco, lei racconta delle «madri». Quali rapporti esistono tra Maruzza siciliana, Maddalena romana e Rosaria lucana? Sono tre momenti dello sviluppo del personaggio «la madre». Quella di La terra trema era come effacée dagli avvenimenti. Maddalena di Bellissima era aspra e tenera, e stretta parente della Rosaria di Rocco: anche lei usava sua figlia per raggiungere il successo e anche lei veniva sconfitta. Rosaria è una di quelle madri che, come Maddalena, crede nei propri figli quasi con la furia di una scatenata; anche lei è sconfitta e, in più di Maddalena, per la sua origine, recita sempre: recita la gioia e il dolore, quasi dilatando all’esterno i sentimenti che sente dentro. Abbiamo chiacchierato parecchio e Visconti mi sembra un po’ affaticato. Lo lascio al suo riposo: domani mattina si gira presto: e stasera la temperatura è sullo zero.

Via Dalmazio Birago, n. 2 (14 marzo) Già alle sette e mezzo Visconti, copertissimo perché è molto, molto freddo, è sul posto dove si deve girare la scena 19. Siamo in un enorme agglomerato cittadino: grandi casoni grigi tirati su attorno a un ampissimo cortile con quattro alberelli tisici e spogli e quattro o cinque cespugli di verdura. Si entra nell’ambiente da un cancello a tre sezioni, una delle quali è spalancata innanzi alla guardiola della portiera: sul cortile si aprono gli ingressi delle scale, ognuna delle quali conduce a piccoli appartamenti di poche stanze. In alto è la casa dei genitori di Nadia; in basso lo scantinato dove hanno trovato alloggio Rosaria e i suoi figli appena arrivati a Milano: ed è qui che avviene il primo incontro tra la fille de joie milanese e i «cafoni» del Meridione. Tutto l’armamentario (generatori, truck sonoro, roulotte, camion, ecc.), che gli elettricisti hanno battezzato «il circo Togni», è sul posto dalle primissime ore del giorno e, sotto la pioggia e in mezzo alla nebbia, i «truckisti» sembrano palombari, stivalati di gomma e coperti da spessi impermeabili, che si muovono dietro il vetro di un acquario. Su, al terzo piano, la produzione ha fittato per una giornata tre appartamentini: uno come «quartier generale», un secondo per sarte e truccatori, un terzo come abitazione dei genitori di Nadia. Entro al «quartier generale»: una stanza piuttosto grande che è, insieme, cucina, tinello e salotto; vi regna una confusione indescrivibile, mentre i padroni, i signori Abbondio, sorridenti anche in mezzo al tipico bailamme proprio delle troupe cinematografiche al lavoro, anche le più ordinate, si sono arroccati su un canapè. E la signora Abbondio, una cordiale larga faccia lombarda, ogni tanto si leva dall’ottomana per correre con un portacenere appresso a chi fuma, perché la cenere non cada in terra: ma dopo

mezz’ora rinuncerà, rassegnata a una pulizia a fondo, quasi pasquale, dopo che «quelli del cinema» se ne saranno andati. Tra tutti volteggia leggero e taciturno come una presenza astrale il dottor Bordogni, direttore di produzione che non perde mai la calma. Di tanto in tanto incrina il silenzio la robusta e romanesca voce di Anna Davini, energico ispettore di produzione, che grida, senza bisogno di megafono, qualche ordine a coloro che sono accampati nel cortile. Sotto un quadretto in cui si legge «Ad Assisi andai, a te pensai e questo ti portai», siede Vasco, pronto ad accorrere ogni volta che è necessario rimettere ordine ai leggerissimi capelli della Girardot. La Mitchell è piazzata sulle scale: precisamente sul pianerottolo superiore che guarda verso la porta del terzo appartamento, quello dove abitano i genitori di Nadia. La scena da girare racconta l’arrivo di Nadia, reduce da una festa finita male. Suona. La madre apre, si spaventa scorgendo la figlia perché teme le ire del marito. Nadia non si preoccupa eccessivamente delle paure materne. Offre alla donna un pacchetto con delle paste e mezza bottiglia di champagne e, desiderosa solo di riposarsi, mentre la madre chiude l’uscio di casa, si infila nella propria camera da letto, si sbottona il vestito e si addormenta. Visconti studia la scena e la divide in due inquadrature: una fino alla chiusura dell’uscio dell’appartamento; l’altra fino a che Nadia non si addormenta. Le luci sono ormai piazzate: Rotunno controlla ancora con l’esposimetro e chiede un altro riflettore da sistemare dentro la stanza di Nadia, la cui porta è aperta, per dare la sensazione, fin dal corridoio, che è ormai giorno e le imposte sono aperte. Alla scena, oltre la Girardot, partecipa – come madre – una vecchia attrice milanese, la Becker Masoero, a cui Visconti in una stanza dell’appartamento numero due fa provare le battute, dandole l’intonazione. Luchino è pieno di forza persuasiva e per far meglio comprendere quello che deve fare l’attrice, emozionatissima, le recita il personaggio; poi, quando la Becker ripete le battute, la fissa con il suo sguardo quasi

magnetico; infine, quando è certo che l’attrice abbia ormai compreso quello che vuole da lei, accende una sigaretta (e non dovrebbe) e prega gentilmente la vecchia signora di sedersi. In quel momento arriva l’aiuto regista Ricci che avverte che la Girardot (che è nella roulotte del trucco) ne avrà ancora per cinque minuti. Dopo poco sale la Girardot (anche lei piuttosto emozionata – me lo confesserà più tardi – perché è la prima inquadratura che gira con Visconti): indossa un abito da sera blu, scarpe di raso dai tacchetti di strass, un paletot di cammello e attorno al collo un foulard; ha in mano un pacchetto con le paste, la bottiglia di champagne dimezzata e la borsa. Visconti le dà un’occhiata e poi chiama Tosi: «Ma non avevamo detto che il paletot…» Il resto della frase si perde perché Tosi, accorso prontamente, si è chiuso in una stanza insieme con Visconti e la Girardot. Dopo poco esce Tosi, e Visconti, lontano da occhi indiscreti, prova con Annie. Ormai sono le 12: tutto è pronto, quando scoppia la «bomba» dei capelli. Visconti ricorda che la Girardot, nel provino per questa scena, aveva i capelli più gonfi. Vasco, invece, insiste nell’affermare che erano più tirati. Visconti rincara: «No, non troppo. Se no fai Hitler: mancano solo i baffetti». La Girardot è seduta su una poltroncina in casa Abbondio e Vasco armeggia col pettine tra la seta quasi impalpabile dei capelli di Annie che controlla con lo specchio, scontenta. Visconti chiede «la fotografia». Orlandini si precipita a cercare la foto, mentre Ricci – che ha risvegliato nella Becker un affettuoso complesso materno – approfitta della sosta per provare ancora le battute con la vecchia attrice. Torna trafelato Orlandini con la foto: aveva ragione Visconti, e Vasco sistema definitivamente la pettinatura di Annie. È arrivato il momento di girare: Visconti, mentre viene versata dell’acqua sul pianerottolo (fuori, nel cortile e per le strade, si immagina ci sia la neve), controlla il pacchetto dei dolci, che dimezza, il foulard attorno al collo di Annie; poi chiede alle due attrici di provare. Si tratta ora di fondere la recitazione della Becker, un po’ all’antica, con quella modernissima dell’attrice francese. E qui avviene il primo

piccolo incidente: la Becker, piena di emozione perché per la prima volta recita sotto la guida del «Conte», arrivata alla battuta «Sei ancora nei guai? Un’altra volta?», dimentica la seconda parte. Si prova ancora: Annie sale un po’ trafelata le scale, suona (e qui Visconti aggiunge il dettaglio di un dondolio nervoso del pacchetto durante l’attesa prima che la porta si apra), il breve dialogo si svolge senza intoppo. Allora si può girare: Jerry Macc con la sua voce stentorea grida un imperioso «Silenzio, prego!» Visconti dà il segnale: «Motore», e dopo un attimo che s’è inteso il cicalino di conferma, Luchino ordina: «Vas, Annie». Tutta la prima parte della scena va bene, anzi. Visconti, notando un certo movimento della gamba che la Girardot ha eseguito involontariamente, se ne impadronisce e, suggerendo ad Annie di osservare la calza e di fingere di accorgersi di una smagliatura che con la saliva tenterà di fermare, arricchisce l’azione di un nuovo piccolo particolare; ma, arrivata alla famosa battuta, la Becker anche questa volta dimentica. Si ricomincia per una, due volte ancora: e al solito momento il solito errore. La Becker è arrabbiata contro se stessa: «Ho sbagliato tutto: sono da fucilare». Ma Visconti le risponde pacato, gentile: «Tutti possono sbagliare». Si ricomincia e la scena da «recitata» diventa sempre più vera. Finalmente la settima replica è andata assai bene. E Visconti – che ha perfettamente percepito che la Becker è ormai a «cottura giusta» – chiede che l’ultima volta venga ripetuta l’azione «a volontà». E questa volta la Becker, che crede di fare a modo suo, esegue senza neppure accorgersene tutta la scena come desiderava Visconti. Molto più rapida è la seconda parte della scena 19: quella durante la quale Nadia, entrata nella sua stanza, si toglie il cappotto che lascia cadere a terra, si sbottona l’abito da sera, e, sdraiatasi sul letto, si addormenta. Mentre Visconti con il mirino della Mitchell studia l’inquadratura, Rotunno si stende sul letto al posto della Girardot: poi è Luchino stesso che, ad Annie, recita i movimenti e mostra come debba sdraiarsi.

Subito dopo, prova Annie e ci si accorge che la scollatura del vestito da sera è troppo stretta e non vuole scorrere giù dalle spalle: Visconti chiama le sarte, che ha ribattezzato scherzosamente «Sorelle Fontana», e fa tagliare la stoffa nel punto in cui è necessario. Personalmente pareggia il letto, in modo che appaia appena rifatto; un’altra piccola prova nel corso della quale Visconti – è necessario che il pubblico capisca subito quale tipo di donna sia Nadia: e questo lo può percepire dai movimenti leggermente sguaiati della ragazza nel rivoltarsi nel letto, e nel non accorgersi che un seno affiora dalla scollatura – suggerisce: «Si tu fait un petit effort avec une épaule il tombe!», e poi si gira: una, due, tre volte. E, per ora, il lavoro è finito. Si riprenderà all’imbrunire in via Giambellino, nel bar dove tre giorni fa Visconti ha perduto la voce. Visconti è soddisfatto, ed entra nell’appartamento numero due: proprio in quel momento due giovani, un ragazzo di una ventina d’anni e una ragazza che ne ha qualcuno di più, hanno finito di mangiare. Visconti, cordiale, si scusa perché la loro colazione è stata certamente disturbata. I due ragazzi non rispondono. Allora Visconti, vedendo che la ragazza ha indossato il paletot ed è in procinto di uscire, sempre cordiale, chiede: «Così presto va al lavoro? Sono appena le 15.30!» E la ragazza, con una punta polemica nella voce, ribatte: «Sì, perché noi lavoriamo sul serio». (Ancora una piccola dimostrazione dello stato d’animo di alcuni milanesi nei confronti del cinema!) La voce di Visconti acquista di colpo un suono quasi metallico che gela. E lo sento chiedere: «Scusi, quante ore fa al giorno?» «Otto», è la laconica risposta della ragazza. «Ebbene, noi», conclude Visconti, «ne facciamo quattordici, talvolta anche sedici». La ragazza esce mormorando «Scusi»; forse ha capito che anche il cinema è un lavoro serio e faticoso.

Al Giambellino (14 marzo, sera)

Che il «circo Togni» sia già sul posto me lo annuncia da lontano una lunga fila di riflettori, piazzati sui pali dell’illuminazione stradale, per rafforzare le luci comunali di quell’immenso, grigio e un po’ squallido vialone che è via Giambellino. E senza che debba chiedere qual è il «baretto» dove sarà girata la scena 72, dalla folla che, ordinata, silenziosa, staziona oltre la linea tranviaria che divide in due il vialone, sul marciapiede di fronte, capisco che sono arrivato. Il locale, scelto da Garbuglia (che è lo scenografo) d’accordo con Visconti, è molto caratteristico: ha la forma di una zeta molto schiacciata; da un lato tavolinetti affollati di ragazzetti di periferia, cascherini, fattorini, piccoli pugili dilettanti. In mezzo il bancone della mescita e di fronte un juke-box. Nell’estremo segmento della zeta, un biliardo il cui panno verde è illuminato da un lume quadrato molto basso, e anche là alcuni giovanottelli, che fanno correre le biglie. All’esterno sono piazzate due macchine da ripresa: una sul carrello che si muove parallelamente al primo corpo del bar, per una ventina di metri: l’altra, fissa, sistemata proprio innanzi alla vetrina d’ingresso del locale, per riprendere le reazioni di Simone e del suo amico Ivo – all’arrivo di un ragazzo in bicicletta che ha scovato Rocco e Nadia in un prato sotto il ponte della Ghisolfa – e l’uscita dei due che andranno a raggiungere il Camisasca e il Rigutini «che sono andati avanti», per sorprendere la coppia. Un altro giorno, cioè non appena il tempo migliorerà e sarà possibile mettere in posizione le camere senza che sprofondino nel fango, sarà girata la sequenza della violenza di Simone su Nadia innanzi a Rocco, e della tremenda scazzottata tra i due fratelli. Il binario del carrello è già a posto e Visconti sale fino alla macchina da presa per controllare l’inquadratura e il movimento: prova due o tre volte, poi, poiché ha in animo di descrivere l’interno del bar e i suoi occupanti dall’esterno, chiede che il binario sia spostato di sessanta centimetri in modo che, «picchiando», la camera possa meglio captare l’ambiente e gli occupanti.

I macchinisti si mettono al lavoro per eseguire l’ordine, e io entro nel bar: là è già Visconti che, di persona, dispone i tavoli, che forma i gruppi; poi passa nella parte centrale della zeta e stabilisce le posizioni di Corrado Pani (che è Ivo) e di Renato Salvatori (Simone), arrivato proprio in questo momento, quasi aggredito da un piccolo esercito di ammiratrici minorenni che, per avere l’autografo o vedere da vicino il loro idolo, hanno atteso pazientemente che Renato uscisse dalla roulotte del trucco. Nel sistemare Ivo, Luchino si accorge che sulla vetrina è incollata una curiosa pubblicità della Coca-Cola, con alcuni dischi posti l’uno sotto l’altro e una donnina seminuda seduta sul basso: e immediatamente fa mutare la posizione di Pani, in modo da inquadrarne il volto tra i dischi e la donnina. Sembra un dettaglio da niente, eppure la piccola trovata migliora figurativamente l’inquadratura e le fa acquistare un certo nuovo sapore che prima non aveva. Infine Luchino distribuisce i figuranti attorno al biliardo, insegnando a qualcuno di essi come deve tenere la stecca e come deve colpire la biglia. Quando ha messo a posto, come in una scacchiera invisibile, tutti i suoi «pezzi», Visconti, soddisfatto dell’insieme, ricomincia da capo per spiegare, recitando a ciascuno dei figuranti i movimenti e le espressioni che esige da loro. Il binario è stato ormai spostato e Rotunno chiama Visconti per un nuovo controllo della posizione della macchina e del movimento del carrello. Poi, una volta d’accordo, mentre Visconti si intrattiene con un giornalista che è venuto a intervistarlo, accompagnato dal capo ufficio stampa della Titanus, Mattia, Rotunno risistema le luci: un lavoro – ora capisco esattamente quel che m’ha detto l’altro giorno Peppino a proposito delle due o tre macchine da ripresa che vengono usate in funzione narrativa – difficile, perché, pur essendo diversi i punti di vista, è necessario pareggiare tutte le luci, in modo che la fotografia risulti omogenea. È uno studio attento delle incidenze sui muri, sulle vetrine, sulle persone, che richiede, oltre che una tecnica smaliziatissima, quasi un sesto senso.

Torno ancora nell’interno del bar e mi avvicino ai tavolini dove i giovani figuranti sono rimasti esattamente nelle posizioni assegnate. Mi colpisce un ragazzetto, con un giubbotto di cuoio, che scrive piegato su un tavolo, con un grosso libro accanto. Senza che se ne accorga gli arrivo alle spalle. È incredibile: sta sunteggiando le opere di Platone, mentre gli altri, piazzati attorno al juke-box, stanno ascoltando un disco dell’urlatrice Mina. Si chiama, quel ragazzo, Baldisserra. Lavora e studia, perché vuol migliorare le sue possibilità. Ecco, questo è un esempio della concretezza e della volontà caparbia di molti milanesi. Altri ragazzi, stretti in blue-jeans aderentissimi, con giacconi a grossi quadri, maglioni, blusotti multicolori, si sono accorti che parlo con Baldisserra, e mi chiedono ai loro tavoli. «Io mi chiamo Alessandro Basile: sono di Taranto e sono venuto a Milano sei anni fa. Ho lavorato per quattr’anni in una raffineria, da due sono disoccupato». «E come vivi?» «Tiro a campa’». Gianfranco Polli, invece, è uno studente: «Diplomato in ragioneria, adesso frequento l’università di economia e commercio. Ho cominciato a studiare, alle serali perché di giorno lavoravo – e continuo a lavorare – a quindici anni. Ho anche fondato un giornale, apolitico. Io non vi scrivevo, ma mi occupavo della distribuzione; era un giornale per i lavoratori studenti. E quando mi capita un lavoro straordinario come questo, lo accetto volentieri, per arrotondare». Riccardo Casali mi confessa che ha «fatto un po’ di tutto» (ma non mi spiega che cosa significhi quel «tutto»). «Anch’io», aggiunge Alfredo Loy, nativo di Reggio Calabria, «accetto qualsiasi lavoro. E la sera faccio un po’ di pugilato: sono dilettante, peso gallo di prima serie». Altri mi gridano dai vari tavoli i loro nomi, vogliono essere ricordati: «Io sono Giuseppe Grignola di Milano, e anch’io faccio tutto»; «Il mio nome è Mario Lezzi e studio ragioneria», e così di seguito fino a che Anna Davini (ormai le luci sono a posto) non tuona: «Silenzio. Si gira!»

La ripresa è piuttosto complessa, ma i ragazzi (che sembrano usciti dalle pagine di Testori) hanno capito, sono svegli e non commettono errori: e particolarmente efficace risulta l’espressione, feroce e disperata insieme, di Renato Salvatori quando esce di corsa per compiere la sua vendetta ai danni di Nadia e di Rocco. Fuori, nel buio, solitario, passeggia il dottor Bordogni e scruta il cielo nebbioso: quando si rimetterà il tempo per poter girare le scene della Ghisolfa?

La «meridionale» Paxinou (7 aprile) Ho fatto un salto a Roma: da Mattia, per telefono, ho saputo che finalmente è stata girata la scena della Ghisolfa, che la troupe ha lavorato sul Duomo e che, arrivata la Paxinou, sono state effettuate anche le riprese della famiglia di Rosaria alla stazione e del giro notturno per Milano, alla ricerca di Vincenzo. Corro a Milano e riesco ad acchiappare a volo la famosa attrice greca che sta ripartendo per Atene, dove l’attende un impegno teatrale. Sarà a Roma il 25 per iniziare gli interni. Un’intervista con Katina è difficile e facile nello stesso tempo: la Pilàr di Per chi suona la campana è meridionalmente vulcanica e non ti lascia un attimo di respiro, il tempo necessario per infilare una domanda al suo tumultuoso raccontare: è lei che dirige la conversazione che, subito dopo i convenevoli, si muta in un monologo (della Paxinou, s’intende!). E posso facilmente immaginare quel che abbia saputo fare la sera in cui alla stazione di Milano ha diretto imperiosamente, con la vigoria caparbia del personaggio Rosaria, i suoi figliuoli posticci, appena arrivati dalla lontana Lucania nella metropoli lombarda. Ma questo è già passato: il presente è costituito dall’incontro di oggi con Katina che, appena seduta su un divanetto dell’Hotel Duomo, parlando francese con qualche parola d’inglese e qualche interiezione greca, mi racconta tutta la storia della sua partecipazione a Rocco. «Ero in America», attacca

vigorosamente, «per alcune rappresentazioni di Madre Coraggio di Brecht, precisamente a New York. Ricevo una telefonata: mi chiedono da Roma se sono libera da impegni. Ma io dovevo partire per la Grecia, dove avevo firmato un contratto per una stagione ad Atene. Rispondo che viaggerò sulla nave tale e che passerò per Napoli il giorno X, dove sarò ferma per due ore. Lascio New York e m’imbarco: durante la navigazione (io non sapevo ancora di che film e di che parte si trattasse) ricevo un telegramma della Titanus che mi fissa un appuntamento per la sosta a Napoli. A Napoli, infatti, alle dieci, sale a bordo il dottor Bordogni che io ricevo immediatamente; quando ho inteso il nome di Visconti ho fatto un salto di gioia, e – écrivez, écrivez – dite a Visconti che lo ammiro perché è un grande artista, uno dei maggiori d’Europa, se non del mondo, e – mais écrivez, écrivez – che sono veramente felice di lavorare con lui. Ma dov’eravamo? Ah, al punto in cui Bordogni mi propone la parte di Rosaria, e io rispondo che farò il possibile per essere libera. Non ero libera, ma il nome di Visconti era stato come, vous savez, una scarica elettrica. Rimaniamo d’intesa che il copione mi sarà inviato per i primi di gennaio. Trascorro il Natale in Grecia: il 24 dicembre sono ad Atene, e mi nascondo a tutti, perché so che gli impresari teatrali mi cercano per farmi recitare. Mentre sto nascosta, ricevo una telefonata che mi annuncia l’arrivo del copione, questo giunge finalmente e io lo divoro in una notte: sono enflammée, perché adoro il copione che è dostoevskiano. Ma quando si comincia? Quando posso incontrare Visconti? Resto nascosta ancora per un mese intero. Poi sono costretta a rispettare gli impegni teatrali, e per potermi liberare in tempo, per potere recitare con Visconti, accetto di fare Gli spettri due volte al giorno per quindici giorni di fila: una enorme fatica. Ma così mi lasciano partire. E finalmente incontro Visconti. Credevo che quell’essere straordinario fosse nervoso, tempestoso; invece mi accorgo che è la dolcezza fatta uomo. E quando, nella scena della tintoria, in cui io non appaio, ho visto Visconti dirigere, o meglio broder, ricamare, vous savez, sono tornata in albergo e ho scritto a mio marito. Sì, ecco le parole precise: “Chéri, sono tornata proprio in questo

momento dal mio primo incontro con Luchino. È il più grande attore che abbia mai conosciuto e un regista che non si dà arie e che è il ‘perfezionatore’ per eccellenza (tende a quella perfezione per cui abbiamo insieme tanto lavorato). Sento che sarò felice lavorando con lui. Dieu le bénisse”. C’est vrai, vous savez!, ho scritto proprio così. Cosa penso di Rosaria? Per me è una donna forte e debole insieme, testarda, tenace come sa esserlo solo una contadina. Una volta che le è entrata in testa un’idea la vuole realizzare ad ogni costo: e, morto il marito troppo attaccato, secondo lei, alla terra d’origine, si sente libera di tentare la grande avventura. Ha cinque figli, belli e forti: può addirittura conquistare il mondo. Ma si trova di fronte alla tragedia, perché il sogno dégringole, comprenez? E alla fine è convinta di aver fallito. Predilige Simone, il criminale, perché sente che è il più debole. È andata per costruire un mondo, ma ha perduto il mondo, il suo mondo: la famiglia; ma se ne accorge solo alla fine. E io amo questo personaggio: questa Ecuba lucana, questa Niobe del Sud; e sono già entrata in lei con facilità, perché Italia e Lucania sono molto simili alla Grecia, vous comprenez?» E, dandomi appuntamento a Roma per il 25 aprile, corre in camera a cambiarsi perché non vuole lasciare Milano senza aver assistito a uno spettacolo della Scala: e il maître del Domus le ha procurato i biglietti per stasera.

Pasqua anticipata a Bellagio (8 aprile) Mentre mi avvicino a Bellagio (dove oggi si gira la sequenza della gita pasquale di Nadia e Simone), attraverso una lunga serie di paesi e paesetti che si affacciano sul lago di Como e che mi vengono incontro ancora in uniforme invernale. Quando arrivo a Bellagio m’attende una sorpresa: la bella cittadina, come per un improvviso tocco di bacchetta magica, ha assunto l’aspetto di una domenica di alta stagione. La produzione ha convogliato qua, con grossi torpedoni, almeno

quaranta figuranti divisi in due categorie che contrastano fra loro: quelli che rappresentano i gitanti domenicali – con notevole percentuale di turiste tedesche già cotte dal sole e rosse come aragoste bollite – che mangiano sull’erba delle aiuole del lungolago le cibarie portate da casa in pacchi, pacchettini, sporte e sacchi da montagna, e quelli che «consumano» squisitezze attorno ai tavolinetti del parco antistante l’Hotel Gran Bretagna (che era ancora chiuso e «disarmato» e che è stato fatto riaprire dalla produzione, portando qua anche il personale). Insomma, una massa popolare e un pubblico snob. Tra questi due settori così decisamente diversi, non appena la foschia si sarà levata e il sole apparirà nella sua sfolgorante luminosità, dovranno insinuarsi Nadia e Simone: Nadia che ha accettato la gita perché è utile, per lei, allontanarsi qualche giorno da Milano, e Simone che è «su di giri» perché le sue faccende pugilistiche stanno andando per il loro verso. In attesa del sole, aggancio Jerry Macc (che è addetto alle «masse», mentre Ricci si è riservato il compito delle scene a due o tre personaggi, i dettagli, insomma) che si dà un gran da fare per sistemare il suo esercito nei punti da cui ciascuno dovrà cominciare l’azione. È particolarmente felice – mi racconta – di essere riuscito a ottenere la collaborazione dei più vistosi esponenti della haute milanese: impresa che, dopo il chiasso suscitato dai «nobili» della Dolce vita, sembrava impossibile. Jerry ha svolto un lungo lavoro di avvicinamento e ha riunito, prima che il film avesse inizio, con la scusa di un drink, ma in momenti diversi, i rampolli dei grossi industriali e gli aristocratici. Tutti hanno accettato con entusiasmo, ponendo una sola condizione: che aristocrazia del danaro e nobiltà del sangue non fossero mescolate al momento delle riprese. Sicché Jerry – e me lo annuncia quasi con fierezza di stratega – ha sistemato i due gruppi in settori diversi del parco dell’hotel: qua i figli dei ricchi «cummenda» e là giovanotti eleganti e radiose fanciulle tra cui scopriamo Daniela Mola, G.C. Colonna, Eugenio Bergamasco, Carla Notarbartolo, Dado Ulrich, Nico Borromeo, Umberto, Emanuele e Pio Verecondi e Pietro Saibene. I primi – aggiunge Macc – hanno accettato di

lavorare gratis, come se partecipassero a un divertimento, a un party; gli altri, invece, hanno preteso il compenso di 5000 lire a testa e il cestino, «perché», hanno dichiarato, «è questa la prima volta che guadagnano danaro con un lavoro e forse non ne guadagneranno più in tale maniera!» Insomma, nel parco verde del Gran Bretagna, servita da camerieri impeccabili, c’è l’high life di via Montenapoleone. Le inquadrature da girare sono quattro: una in cui viene seguito lo spostamento di Nadia e Simone dall’imbarcadero fino al basso muretto che separa il parco del Gran Bretagna dalla strada, una seconda che descrive la passeggiata della coppia lungo il muretto fino a che non si siede sul muretto stesso, iniziando un colloquio che chiarisce i diversi rispettivi punti di vista sui rapporti tra Nadia e Simone, e infine due primi piani dei due giovani che parlano e che vengono allontanati da un cameriere «perché lì non si può stare». Inizialmente la sequenza prevedeva anche riprese nella stanza di Nadia e Simone, ma Visconti ha preferito concentrare tutto il succo del «blocco» di Bellagio, risolvendolo esclusivamente in esterno. Finalmente il sole è arrivato e tutti i figuranti riprendono le posizioni loro assegnate: e, mentre Salvatori e la Girardot si muovono per arrivare al muretto, vengono provate anche le azioni complementari che sottolineano il momento di Bellagio: una nurse che attraversa il campo spingendo una carrozzina, turiste tedesche che camminano in gruppo lungo il viale, una MG decappottabile che sopraggiunge e si ferma vicino al muretto in modo che gli occupanti possano conversare con un gruppo di «gente bene», i camerieri che servono i clienti del Gran Bretagna, due giovani dell’high life che si spostano per andare a salutare amici che si trovano a un altro tavolo, i gitanti della domenica che mangiano, bevono sulle aiuole, ecc. Contemporaneamente si muovono alcune barche sul lago e un battello corre rapido sulla superficie, sollevando baffi di spuma. È una scena complessa, ma a Visconti non sfugge nessun dettaglio, nessun particolare: «Jerry, fa’ camminare più sveltine le dame: non debbono arrivare fino al Brennero»; «Le

barche si allarghino!»; «I camerieri servano i vari tavoli»; «Quei due giovani sono come i cigni dei laghi, si muovono sempre due a due: prima parta uno, poi parta l’altro, invece»; «La nurse venga avanti quando fischia la sirena del vaporetto!» Si prova ancora e poi tutto fila benissimo: la scena viene girata due volte e Visconti è soddisfatto. Ora i macchinisti stendono venticinque metri di binario per la ripresa col carrello; scambio quattro parole con Luchino. Riprendo il discorso dei rapporti tra la troupe e i milanesi. «Ora», mi dice piuttosto soddisfatto, «i rapporti sono cordialissimi; anche i milanesi hanno capito che il cinema è un lavoro serio, e assistono alle riprese assai interessati o collaborano con entusiasmo. Particolarmente certi enti, come l’Azienda Tranviaria, hanno fatto miracoli. Per una ripresa in tram, per superare la difficoltà del piazzamento della macchina da ripresa, fu asportato un grosso pezzo della vettura stessa, rimesso a posto, poi, a tempo di primato. Sono veramente grato di tutto ciò e dell’atmosfera di simpatia che da qualche tempo ci circonda». Ricci ci interrompe perché il carrello è pronto e Rotunno ha sistemato già le luci e un grosso parasole nero, per evitare, durante la carrellata, salti di illuminazione. Visconti studia il movimento e stabilisce il punto d’arrivo: poi spiega, parlando sottovoce con loro, la scena alla Girardot e a Salvatori: quindi fa vedere, sostituendosi ora all’una ora all’altro, come i due attori debbano sedere sul muretto e come comportarsi. Fa anche provare le battute del dialogo, e le abbrevia perché gli sembrano troppo lunghe; ma non per questo esse perdono i loro significati originali. Ora si può girare: e anche stavolta Visconti è contento (la sua soddisfazione viene rivelata dalla frase ormai tradizionale: «Stampa… provino»). Girardot e Salvatori sono rimasti sul muricciolo per i due primi piani. La camera viene piazzata con grande rapidità. Visconti accomoda i capelli di Annie, chiede «motore» e gli risponde il cicalino del «partito». L’omino del ciak entra in campo e poi si gira. Mentre gli ingranaggi della Mitchell scorrono silenziosi, Visconti suggerisce i vari movimenti:

«Guardala… accarezzala… baciala… sussurra sottovoce… Annie, rispondi… Tu, Simone, non hai capito bene il significato della battuta e torni a baciarla quasi per allontanare un pericolo che non conosci. Ecco… bene. Facciamone un’altra». Verso le sette, abbiamo finito: il programma della giornata è completato, ancora una volta tutti sciamano e, dopo poco, tutta la troupe, con i torpedoni e le macchine, si dirige verso Milano. Mentre ritorno sento parlare per la prima volta di una certa «grana» dell’Idroscalo. Ma chi s’è lasciata sfuggire l’indiscrezione aggiunge: «Ma vedrà che tutto s’accomoda». Qualche cosa che io non so deve essere accaduto, perché le scene dell’uccisione di Nadia, messe in programma diverse volte, per altrettante sono state rinviate e sostituite con altre.

«Le sorelle Ghisa» (9 aprile) Levataccia, stamane: alle cinque siamo tutti sul set che, oggi, è il parco dove è stato trasferito il famoso ponte delle Sirenette che una volta scavalcava il Naviglio. Fa un freddo cane, un freddo pungente che entra nelle ossa. Per fortuna Anna Davini ha pensato a far portare grossi thermos pieni di caffè bollente. Tutti siamo incappottati, con sciarpe pesanti tirate fin quasi sugli occhi. Visconti è di eccellente umore e mi confessa perché abbia scelto il ponte delle Sirenette per girare un importante colloquio tra Ciro e Rocco che la sceneggiatura prevedeva vicino a un anonimo muretto. «Era un ponticello, detto “delle Sirenette” a causa delle quattro statue che ne ornano i due capi. I milanesi, per la materia con cui le sirene erano state fuse, le hanno ribattezzate da tempo immemorabile “le sorelle Ghisa”. Il ponte si trovava, quando io ero ragazzo, vicino a casa mia e, poiché mi piaceva, con i suoi scalini e le sirene, vi passavo tutte le volte che andavo a scuola o ne ritornavo.

Quando il Naviglio fu coperto, il ponte fu trasferito al parco. Durante la guerra una delle sirene scomparve: qualcuno l’aveva rubata. Poi la ritrovarono e la rimisero al suo posto. E per quel ricordo ho pensato che la scena tra Ciro e Rocco potesse svolgersi qua». (Come vedete il milanese Visconti è riaffiorato anche in questa scelta, che è come un atto d’amore per la sua città.) Ma è detto che non si possa stare un momento tranquilli; si avvicina Jerry e prega Visconti di esaminare «due mondane» che serviranno più tardi. Visconti, che si diverte a scandalizzare Jerry, il quale è sempre riguardoso nel parlare, risponde: «Le chiama mondane… ma di’ puttane, che questo è il loro nome!» Ma un attimo dopo Visconti vuole che le due donne siano trattate con gentilezza e prega Jerry di farle spostare in modo che possa osservarle senza parere. Dove le ha pescate Macc? Sono tristi, squallide e patetiche; cavate fuori da un asilo per vecchie filles de joie, dimostrano almeno centodieci anni insieme: una è magra, nervosa, ha un gran naso che sembra un becco di rapace su cui cavalca un paio di occhiali metallici e da poco prezzo; apre e chiude, in un tic, continuamente gli occhi. Indossa un vestitino a fiori con uno sdrucito e scolorito golfetto sopra, calza i sandali e stringe, quasi aggrappandosi ad esso, un vecchio piccolo cane bastardo dagli occhi cisposi. L’altra, invece, è grassa, sorridente, pacifica, quasi materna. Ha una di quelle giacche che i marinai usano quando piove o quando il mare è in tempesta; sotto una vestaglia i cui colori sono un lontano ricordo. Ha le gambe nude, corti pedalini di lana e… le pantofole. Osserva tutto con occhi in cui affiora, ogni tanto, la luce d’un sorriso che vuol essere gentile. Due relitti: Visconti, senza farsene accorgere, le squadra, quasi le soppesa e fa cenno di sì con il capo. Jerry è soddisfatto che la sua scelta sia stata approvata e, cerimonioso, si allontana con le sue protette. Ormai si dovrebbe girare: molti pugili, tra cui Rocco-Delon, fanno footing sui prati, saltellano, eseguono piegamenti agli ordini di Fiermonte. Alcuni spazzini tolgono le foglie morte dai viali, tre barboni si scaldano le mani attorno a un fuoco e

un caldarrostaio accende il suo fornello. Le camere, due – una riprende la scena d’insieme e l’altra è puntata sul ponticello dove Rocco, distaccatosi dagli altri pugili, si incontrerà con Ciro – sono pronte: anche la luce comincia a essere albare, ma nella più nebbiosa città d’Italia oggi manca la nebbia! E, invece, la scena va girata con la nebbia. Ma poiché la produzione studia anche i bollettini meteorologici, ha provveduto a portare la nebbia… da Roma. È una specie di jeep, con un grande serbatoio di olio minerale che, bruciato, uscirà fuori con violenza in candide nubi che poi il vento spargerà tra gli alberi, sui prati, sul ponte e sul corso d’acqua che lo attraversa. La scenografia diventa quasi magica, e il ponte delle Sirenette vien subito ribattezzato da Ricci «pont des brumes». Gli attori hanno già provato, e l’inquadratura 85/1-85/2 viene girata quattro volte. La quarta è ottima e Luchino dà ordine che «si stampi». Il vento, che prima era leggerissimo, è aumentato di intensità e s’è portato via tutta la nebbia. La jeep riparte, ma dopo alcuni starnuti si ferma: che è successo? Lucio Orlandini, che era sulla jeep, corre ad avvertire che la macchina s’è scaldata troppo, quindi bisogna farla raffreddare e, intanto, è necessario pulire le candele. Approfitto della sosta per chiedere ad Alain Delon (che, di solito, appena terminate le riprese, si acquatta chi sa dove con la fidanzata Romy Schneider, che l’ha raggiunto a Milano) qualche cosa sul film, sul suo personaggio e sul modo di dirigere di Visconti. Alain, che è sudato, nonostante il freddo, perché ha fatto molti giri di corsa, per apparire affannato come si conviene durante il colloquio con Ciro, mi dice subito: «Il personaggio di Rocco è il migliore e forse il più importante che io abbia fino ad oggi incontrato. Il film mi sembra molto, molto importante, e me ne accorgo ogni giorno di più. Della regia di Visconti sono veramente contento: tra tutti i metteursen-scène che ho conosciuto Luchino è il più comprensivo e il più sensibile. Egli cura molto i suoi attori e dà l’impressione che prima vengano gli attori e poi il film. [Ecco: anche questo è un aspetto del «cinema antropomorfico» di Visconti, n.d.a.]. Inoltre Luchino è un très grand comédien che recita a ciascuno quello che deve fare: sicché i personaggi vengon fuori tutti

precisi. Io non sono mai stato gêné: e tutti quelli che lavorano con Luchino non possono esserlo. Anche quelli che non sono attori professionisti, ma sono stati presi dalla vita. E la cosa che mi ha più colpito è che anche i figuranti diventano veri: e il merito va suddiviso in parti eguali tra Visconti e tra il temperamento du pays; un temperamento che fa essere nell’azione anche chi non ha mai visto la macchina da presa». Il rauco rumore della jeep, che finalmente è ripartita, interrompe il discorso di Delon (un discorso che dimostra ancora una volta quanto siano generali e identiche le impressioni di tutti gli attori che vengono diretti da Visconti e come tutti abbiano colto gli stessi aspetti della personalità artistica di Luchino) che scatta come un razzo per «fare il fiatone». La jeep vomita ondate di nebbia che coprono tutto il parco, poi Delon e Cartier risalgono sul ponte. Ma prima che possa essere iniziata una nuova inquadratura, il vento, che è diventato fortissimo, spazza via la bruma. Si cerca di ovviare all’inconveniente facendo fare alla jeep giri sempre più stretti: ma dopo un po’ la jeep, perfida e caparbia, tace di colpo, e per quanto l’autista e Lucio Orlandini (che ha persino il viso sporco di grasso) si affannino intorno al motore, non ne vuole sapere di ripartire. Per oggi, ormai, non c’è più niente da fare: è ormai tardi – sono le 8.10 – e la luce d’alba s’è mutata in luce da giorno pieno. Si continueranno le riprese un altro giorno. Oggi alle tre si girerà in via Mac Mahon e su un tram. Andiamo tutti a dormire.

Innamorati in tram La leggenda dei settanta ciak (i maligni del cinema, le mezze figure, i piccoli Tersite incapaci che invidiano la classe di tutti i film di Visconti, hanno inventato la storiella, sussurrata per via Veneto e riportata da qualche cronista pettegolo, secondo cui Luchino è capace di girare settanta volte la stessa scena prima di dichiararsene soddisfatto) oggi riceve la più solenne

delle smentite! C’è da girare una scena piuttosto difficile, perché prevede la fusione, in un tutto solo, di due riprese diverse, l’una in esterno e l’altra in interno: si tratta, cioè, di girare con una macchina, piazzata a terra, sul marciapiede, l’uscita di Rocco dalla Palestra Cecchi, il suo incontro con Nadia alla fermata del tram in via Mac Mahon, e con altre due, la Mitchell e un’Arriflex a mano, sistemate a bordo di un tram, l’arresto alla fermata, l’entrata nella vettura di alcuni passeggeri tra cui si confondono Nadia e Rocco, e una scarrozzata sulla vettura stessa, durante la quale Rocco e Nadia, rimasti sulla piattaforma posteriore, senza parlare, dimostrano la tenerezza del loro amore. Visconti prova a lungo l’incontro con Nadia, poi affida i due attori, e alcuni figuranti, a Rinaldo Ricci. Quindi raggiunge il deposito dei tram e, sulla vettura messa a disposizione dall’azienda, fa sistemare le due macchine: una, puntata sulla porta del tram, che inquadra anche il bigliettaio; l’altra, subito dopo il fattorino, che riprenderà il passaggio dei figuranti diretti verso il davanti della vettura. Piazzate anche le luci (stavolta si usano grossi accumulatori come fonte di energia elettrica), si parte. Anna Davini è vicina al conducente, di vedetta, per avvertire quando giungeremo nei pressi di via Mac Mahon; Rotunno regola, mentre siamo già in movimento, l’intensità delle sorgenti luminose. Visconti è teso, leggermente eccitato. Il tram percorre rapidamente un lungo vialone. Siamo sempre più vicini a via Mac Mahon. Mancano circa duecento metri. Anna Davini lancia un grido, «Ci siamo», e mentre Lucio Orlandini, che ci precedeva in auto, accelera per avvertire Ricci che stiamo arrivando, le camere entrano in funzione: il ciakkista batte la sua leva contro la tavoletta che reca le indicazioni dell’inquadratura (67/4/1 per la Mitchell e 67/5/1 per l’Arriflex), e l’azione comincia. A terra hanno già girato e il sincronismo è perfetto: salgono alcuni figuranti che pagano il biglietto e, una volta fuori campo, vengono letteralmente trascinati da Jerry verso il conducente, mentre Rocco e Nadia si fermano sulla piattaforma posteriore. Giungono sommessi, ma pieni di forza di suggestione, i comandi di Visconti, mentre la vettura è

nuovamente in moto: «Accostatevi al finestrino… regardez le paysage… le printemps… Annie, avvicinati a Rocco… abbracciala appena… Annie, regarde Rocco: c’est ton paradis… Rocco, guardala negli occhi…» La scena è autentica, vera. La tenerezza traspare dagli occhi di Rocco e Annie è veramente dans son paradis. Visconti osserva ancora un poco i due innamorati, compiaciuto. Poi (siamo arrivati all’anello del capolinea) lancia il suo «Stop… bene… stampare… provino». La scena è stata girata una sola volta; ma tutto è andato liscio come l’olio, e Visconti non chiede la replica. Altro che settanta ciak! La malevola leggenda si è frantumata di fronte alla realtà. Torno in albergo con Mario Licari, segretario di produzione per Milano: l’uomo, cioè, che insieme con l’ispettore di produzione romano Luigi Ceccarelli si occupa dei permessi necessari per girare. Licari è nero e preoccupato: la grana dell’Idroscalo, a cui ho inteso accennare ieri per la prima volta, sta per scoppiare e piuttosto clamorosamente.

La grana dell’Idroscalo (l’antefatto) Le cose sono andate così. Il soggetto e la sceneggiatura prevedono l’uccisione di Nadia da parte di Simone. Luogo del delitto è l’Idroscalo, e nel sopralluogo, avvenuto durante la preparazione del film, Visconti indicò, come scena di sfondo da riprendere, tutto l’arco dell’Idroscalo (lato sud). Inoltre fu concordato, per modificare l’ambiente naturale, di erigere lungo i contorni dello specchio d’acqua una lunga fila di pali (oltre cento, per una lunghezza di tre chilometri) con luci, e di costruire, nel punto preciso in cui l’azione principale doveva aver luogo, un chiosco di bibite. Poiché lo specchio d’acqua e la zona limitrofa sono sotto la giurisdizione di tre comuni (Milano, Linate e Segrate) e dell’Aeronautica Militare, innanzitutto la produzione prese contatti con il Comando Aeronautico perché una decina di pali dovevano essere

piantati entro la zona dell’aeroporto. Le autorità militari non poterono accedere alla richiesta, perché i pali avrebbero creato ostacoli ai velivoli in decollo o in atterraggio. Di fronte a tali argomentazioni perfettamente giustificate, Visconti tornò all’Idroscalo per modificare l’inquadratura ed eliminare i pali dalla zona militare. E le autorità dell’Aeronautica concessero, in cortese contropartita, di illuminare il Centro Sportivo dell’Arma. Sistemata la «faccenda militare» si pensò, quasi contemporaneamente, ai permessi che dovevano essere ottenuti dai comuni di Linate e di Segrate, sotto la cui giurisdizione rientrava la zona «corretta» nel secondo sopralluogo di Visconti. In data 21 marzo il sindaco di Linate concedeva il nullaosta: ed eguale autorizzazione veniva rilasciata da quello di Segrate. Frattanto, precisamente il 28 marzo, veniva richiesta alla Questura di Milano la consueta autorizzazione necessaria tutte le volte che si gira in esterno, specificando, insieme con le date fissate per le scene del parco, di via Giambellino, di via Gattamelata e di via Dalmazio Birago, quelle stabilite – nei giorni 8, 9, 10 e 11 aprile – per le scene dell’Idroscalo. Sia il Comando dei Vigili Urbani che il questore non sollevavano difficoltà e concedevano i nullaosta. Ottenuti, così, tutti i crismi che normalmente sono necessari per effettuare riprese in esterno, la mattina del 29 marzo la ditta Way, milanese, iniziò i lavori necessari per la messa in loco dei pali e per la costruzione del chiosco delle bibite. Il 1° aprile, mentre i lavori procedevano celermente (quando, cioè, tutti e cento i pali erano stati posti in loco e si davano gli ultimi ritocchi al chiosco già completamente montato), alcune guardie dell’amministrazione provinciale, avendo visto la costruzione e la palificazione, chiesero agli operai che cosa stessero facendo: questi risposero che il tutto serviva per alcune riprese cinematografiche. Le guardie vollero vedere i permessi, e dopo averli attentamente esaminati dissero che non bastavano: occorreva anche l’autorizzazione dell’amministrazione provinciale.

Ritenendo che si trattasse di un’altra formalità – peraltro insolita, perché almeno mille film sono stati realizzati con permessi analoghi a quelli ottenuti dalla Titanus senza intervento delle giunte provinciali – l’incaricato della produzione, recatosi presso la sede dell’amministrazione provinciale, chiese di prendere contatto con il segretario generale: questi non lo ricevette – è molto difficile essere ammessi negli uffici del Palazzo – e un impiegato d’ordine comunicò che era necessario redigere una domanda scritta, specificando l’argomento delle scene da riprendere. Il 4 aprile fu presentata la domanda, facendo presente che già esistevano i nullaosta della Questura di Milano, dei due comuni interessati e anche dei Carabinieri di Pioltello e di Piantigliate, che si erano aggiunti a quelli già precedentemente ottenuti. Lo stesso giorno l’amministrazione provinciale richiese uno stralcio del copione riguardante la scena numero 106. Ottenuto l’estratto, la giunta provinciale amministrativa, sotto la presidenza dell’avvocato Adrio Casati, mercoledì 6 aprile deliberò di non concedere l’autorizzazione per «riprese filmate nell’area dell’Idroscalo». Conosciuta la delibera della giunta – delibera arrivata come fulmine a ciel sereno – mentre Visconti mordeva il freno (avrebbe voluto convocare una conferenza stampa e raccontare tutta la faccenda ai giornalisti) per non pregiudicare ulteriori passi o iniziative della produzione, Bordogni studiava il modo di riempire con altre riprese il buco improvvisamente aperto nel piano di lavorazione, preoccupato che, concluse le scene «con la neve» di via Birago e quelle del grande magazzino presso cui lavora Ginetta, con la Pasqua ch’era alle porte, sarebbero corse a vuoto le paghe di una troupe composta di oltre cento elementi. Telefonate nelle due direzioni si sono alternate tra Milano e Roma, e a questo punto la Titanus ha deciso di inviare nella città ambrosiana il dottor Clementelli, un organizzatore di molte produzioni della firma romana, per tentare il tentabile, mentre dal Ministero dello Spettacolo partiva un lungo, caldo telegramma dello stesso ministro Tupini, indirizzato all’avvocato Adrio Casati, invitandolo a studiare il modo per rivedere e correggere il precedente

deliberato decisamente negativo. Intanto si preparano, durante la notte, le riprese «con la neve» fissate per lunedì 11 aprile. Il film, comunque, deve procedere.

Mentre si gira «la neve» Clementelli corre per Milano (11 aprile) Alle cinque di lunedì tutto il cortile di via Dalmazio Birago 2 è coperto di neve: uno spesso strato di bianco soffice, che contrasta con il cielo grigio e con il cenerino sporco dei grandi palazzoni, ha fatto assumere al gran cortile un aspetto invernale, quasi natalizio. Visconti, nonostante quello che bolle in pentola per l’Idroscalo, è apparentemente assai calmo. Spiega quello che si deve fare con la consueta precisione ai molti figuranti e agli attori che prendono parte alla scena. Si gira il primo lavoro dei fratelli: è nevicato e Rocco, insieme con Ciro, Vincenzo e Simone, si unisce ad altri abitanti del caseggiato per andare a spalare la neve. I figli di Rosaria salgono dal loro sottoscala, mentre dalle porte dei vari caseggiati, imbacuccati fino agli occhi, escono gli altri: incidono le loro orme sulla neve ancora immacolata e poi escono dal grosso agglomerato edilizio. La scena è breve: dopo un paio di prove viene girata quattro volte e, poiché per le altre inquadrature della neve situate nello stesso ambiente è necessario attendere il pomeriggio avanzato, il lavoro viene sospeso: si riprenderà alle quattro, con i ragazzini, tra cui Luca, che giocano con la neve e l’arrivo di Nadia (che precederà, nel montaggio, la scena del 14 marzo). Corro all’hotel Principe e Savoia per attendere Clementelli che arriva con l’aereo, verso le undici. Mentre passeggio nella hall insieme con Mattia che, come al solito, appena trova un telefono vi si aggancia per almeno una ventina di conversazioni (è impressionante come Mattia conosca tanta

gente!), chiedo a Ceccarelli e a Licari quali siano le ultime notizie sull’Idroscalo. Licari è sull’altalena: un momento in alto, un attimo dopo nello sprofondo; un momento spera che tutto si accomodi e pochi secondi dopo quasi si dispera. Mentre Licari sorveglia il telefono, Ceccarelli mi ragguaglia sugli ultimi sviluppi della situazione: mentre Visconti, chiuso nella sua stanza, si rinfranca della levataccia, e Bordogni è all’aeroporto per ricevere Clementelli, anche il prefetto Vicari si sta occupando, con molto tatto, della questione. Squilla il telefono: Licari si precipita e fa segni di assenso mentre ascolta. Quando riattacca sembra rasserenato: pare quasi certo che Casati concederà il sospirato licet. In questo momento si trova in alto, molto in alto sull’altalena delle docce scozzesi che gli avvenimenti di questi giorni gli stanno facendo subire. Mentre passeggiamo nella hall, arriva una delle macchine della produzione. Ne discende, sorridente, Clementelli. Spedisce la valigia in camera e poi si fa portare, insieme con Licari, Ceccarelli e Mattia al Palazzo della Provincia. Ha mille e uno argomenti da sottoporre all’avvocato Casati: e poi c’è anche il telegramma di Tupini, c’è la telefonata della Prefettura. E c’è il precedente che l’Opera del Duomo, dipendente dall’Arcivescovado, ha concesso senza difficoltà il permesso per girare alcune scene – l’incontro disperato di Nadia e Rocco – su uno dei piani intermedi del «Dòm». Quindi non può assolutamente trattarsi, come da qualche parte si incomincia a sussurrare, di una specie di misura di censura: le cose andranno sicuramente a posto. Ma al Palazzo della Provincia non c’è nessun consigliere, non c’è neppure l’assessore anziano avvocato Brusoni, che era stato relatore in giunta della richiesta di permesso. Brusoni si trova a Lodi. Clementelli decide di andare a raggiungere Brusoni, subito dopo colazione. Infatti, con tutti i giri s’è fatto tardi e abbiamo immerso il cucchiaio nella minestra dopo che le due erano passate da parecchio; mangiamo in fretta e alle tre Clementelli parte per raggiungere Brusoni. Io, invece, torno in via Dalmazio Birago, dove stanno spargendo la neve anche sul

marciapiede: una neve non più vergine, come quella della ripresa mattutina, ma già calpestata e ammucchiata dagli spalatori. Infatti la scena dell’arrivo di Nadia è situata, come tempo, nella mattinata della stessa giornata. Mentre i «nevaioli» usciti all’alba stanno compiendo il loro lavoro, Visconti – che, nonostante la grana dell’Idroscalo sia sul punto di toccare il massimo della tensione, è sempre calmo e tranquillo – spiega ad Annie e a Renato la tecnica dei «fiati invernali» per i primi piani: «Aspiri a fondo il fumo della sigaretta, più che puoi. Lo mantieni per un po’ tra bocca e polmoni, e poi, al momento opportuno, lo emetti lentamente. Così lo spettatore avrà la sensazione del vapore acqueo che, a contatto con l’aria fredda, sembra proprio un fumo bianco». Chiedo a Mattia se sa niente del colloquio tra Clementelli e Brusoni. Da quel fronte nessuna notizia: Clementelli non è ancora tornato e anche Ceccarelli è con lui. Ritorno nel cortile biancheggiante di neve. Visconti ha già iniziato la ripresa della scena 18 (arrivo di Nadia – breve colloquio con la portiera – attraversamento del cortile – entrata nel palazzone dove abita la sua famiglia). La Girardot è molto brava e capisce a volo; anche l’attrice che fa la portiera arriva rapidamente al tono giusto. La scena viene girata tre volte. Subito dopo, poiché le condizioni di luce sono ideali per il raccordo con quanto girato la mattina, Visconti sceglie un nugolo di ragazzini che, appena partiti gli aspiranti spalatori, si divertono a lanciarsi palle di neve. Tra questi è Luca, il minore dei fratelli di Rocco. I ragazzini prendono gusto alla scena e anche dopo lo stop di ogni ripresa continuano nel loro giuoco. Durante una delle riprese un ragazzino cade fra la neve: a Visconti piace quell’imprevisto, e, quando torna a girare, rende obbligatoria la caduta. Anche stavolta le cose vanno per il loro verso, e in poco tempo anche quella scena viene cancellata dal copione guida. E mentre le macchine da ripresa vengono spostate per alcuni dettagli di Vincenzo, di Simone, di Ciro e di Rocco (dettagli che nel montaggio si inseriranno nel totale della partenza mattutina dei fratelli per andare a spalare), arriva Clementelli accompagnato da Ceccarelli.

La «supercensura» di Casati (11 aprile, sera) Clementelli è scuro in viso. Comprendiamo subito che la grana non è stata risolta e, il che è molto grave, a causa della «supercensura» che la giunta provinciale, avvocato Casati in testa, vuole esercitare ai danni del film: una supercensura che non tiene in nessun conto l’approvazione di massima che «la sceneggiatura ha già ottenuto dai competenti organi ministeriali» e il lungo telegramma inviato dal ministro Tupini per appianare le difficoltà (un telegramma che garantiva la serietà d’intenti della produzione e la moralità del film). Infatti l’avvocato Brusoni, raggiunto in quel di Lodi, ha fatto a Clementelli e a Ceccarelli lunghe dichiarazioni il cui sugo è questo: «non è stato concesso il permesso per l’immoralità e l’inopportunità di una scena che ha troppe somiglianze con la realtà», ricordando troppo il clamoroso fattaccio dell’uccisione della mondana Paola del Bono nella Roggia Remartino e, infine, «per dimostrare l’autonomia della giunta nei confronti delle autorità romane». (Ma guarda, anche nella concessione di un permesso, fa capolino la polemica anti-Roma.) Stando così le cose, la giunta aveva deliberato collegialmente e quindi per ottenere una eventuale revisione del deliberato è necessario riconvocare la giunta e sottoporre ai suoi componenti almeno la proposta del taglio di quattordici righe della sceneggiatura («Una sventagliata di fari sulla sponda opposta sembra risvegliare Nadia. NADIA: “Là… una macchina… (Simone non risponde.) S’è fermata, vedi? Spengono i fari… Sono venuti a fare all’amore… (un’altra pausa) Saranno due che si vogliono bene e che sono contenti di stare assieme… Chiusi dentro, al caldo… Coi vetri che a poco a poco si appannano… e non si vede più niente fuori… L’odore delle sigarette fumate… (un sospiro)”»). Forse la giunta revocherà il suo divieto. Ma quando può riunirsi la giunta? Solo mercoledì 13 aprile (cioè tra due giorni), perché il 12 tutti i suoi componenti debbono partecipare

all’inaugurazione della Fiera. Ma non si potrebbe avvicinare uno per uno i membri della giunta per spiegare a ciascuno la nuova situazione e ottenere i singoli voti? Impossibile, perché non si può derogare dalla prassi normale. E allora non c’è che da attendere, tanto più che l’avvocato Casati si trova oggi a Roma. Anche il prefetto di Milano Vicari appoggia la richiesta della Titanus. L’avvocato Brusoni si stringe nelle spalle e consiglia di aspettare. Bordogni, messo al corrente della situazione, annulla l’ordine del giorno del 12, come aveva dal 4 aprile in poi annullato tutti quelli riguardanti l’Idroscalo, e stabilisce che domani vengano effettuate le riprese di altre scene. Le speranze sono poche, ma ancora non è detta l’ultima parola.

Si cerca il surrogato (12 aprile) Mentre noi siamo all’angolo di via Rosmini con via Giordano Bruno, Clementelli, Bordogni e lo scenografo Garbuglia, per evitare le conseguenze del peggio, sono in giro per scoprire uno specchio d’acqua che possa eventualmente sostituire l’Idroscalo. Debbono fare sopralluoghi al laghetto del CRAL dell’Atam, a quello di Recedesio e anche alla Roggia Remartino. Speriamo che portino buone notizie più tardi. Intanto, richiamata a Milano Claudia Cardinale (che ha finito proprio ieri di girare il film di Maselli), è in programma la ripresa dell’incontro di Vincenzo con Ginetta presso i grandi magazzini dove lavora la ragazza. Si doveva girare alla Rinascente, ma poiché l’itinerario del presidente Gronchi (che alloggerà all’hotel Duomo) passa proprio innanzi agli ingressi del supernegozio, la produzione, iersera, si è accordata con la Standa che ha messo a disposizione, appunto, la sua sede periferica di via Rosmini. Siamo in pieno quartiere cinese: ed è curioso sentire dei ragazzini dalla pelle gialla e dagli occhi a mandorla parlare nel

più puro meneghino. Anche dalle finestre, incuriositi dall’arrivo del Circo Togni, si affacciano altri orientali, o orientali a metà. La collaborazione dei dirigenti della Standa è veramente cordiale. Avevano le vetrine preparate per l’imminente Pasqua, con grosse uova di cioccolata e vestiti primaverili. Mentre gli «uomini della neve» ammucchiano la materia prima dell’inverno milanese, i vetrinisti mutano faccia al loro negozio, tirando fuori dai magazzini pesanti cappotti, vesti di lana, sciarpe da Polo Nord. E mentre compiono questa specie di «fregolata», il normale lavoro continua. La Cardinale, con quel suo sorriso da brava ragazza, paziente, tranquilla, attende il momento di girare. Focas sta prendendo caffè su caffè, gli elettricisti incominciano a piazzare le luci e gli attrezzisti mettono a posto le due macchine da ripresa. Scambio, così, quattro parole con la dolce Claudia che mi racconta: «Rocco e i suoi fratelli è il mio quattordicesimo film, e per quanto la parte di Ginetta sia una di quelle di fianco, sono felicissima di sostenerla; perché recitando sotto la guida di Visconti – che lascia l’attore molto libero ma riesce egualmente a fargli fare quello che vuole lui – ho già appreso molto e ancora di più apprenderò nei prossimi giorni». Ci distrae un uomo bianco che, in piena «Milano cinese», vende cravatte! È un effetto quasi surreale: forse è una rivincita della vita. Ma ormai i mucchi di neve sono accatastati in bell’ordine sul marciapiede, la sede stradale è stata convenientemente irrorata con le pompe, i figuranti e gli attori hanno preso le posizioni di partenza. Jerry spiega, nel suo personalissimo italiano, che cosa siano i tre o quattro metri di distanza che ciascun gruppetto deve lasciare a quello che lo segue. Sono ormai le due e Visconti prova: all’inizio le cose non vanno come dovrebbero andare, tanto che Jerry grida a qualcuno che «io dimostro cosa deve fare». Poi le partenze e gli arrivi fino allo stretto cortile in ripida discesa da cui entra il personale del negozio sono regolati, registrati al secondo. Tanto che Visconti

dà buone le due repliche della scena d’insieme, e fa spostare la Mitchell per il primo piano di Vincenzo e di Ginetta. Proprio in questo momento arrivano Clementelli, Bordogni e Garbuglia. Hanno visitato tutti i luoghi che erano stati segnalati, e anche altri, ma nessuno d’essi ha le caratteristiche richieste dalla sceneggiatura. Sono piuttosto depressi, tuttavia sperano ancora in una resipiscenza della giunta provinciale.

Casati «padrone di casa» (13 aprile) La notizia delle difficoltà sorte a causa del no della giunta provinciale, per quanto tutti siano stati abbottonatissimi, è ormai uscita dalla ristretta cerchia della troupe, e un giornalista del Corriere Lombardo ha avvicinato l’avvocato Adrio Casati, il quale, retour de Rome, durante l’inaugurazione del Centro di recupero fisico-sociale per poliomielitici di via Capecelatro 66, ha rilasciato la seguente dichiarazione che il quotidiano pubblica con un vistoso titolo a cinque colonne («Censura all’Idroscalo»): «Noi non abbiamo concesso il permesso a Luchino Visconti e alla sua troupe di girare all’Idroscalo alcune scene di Rocco e i suoi fratelli perché riteniamo che non si tratti di una pellicola propriamente di… bella vita. Noi pensiamo che l’Idroscalo stia per diventare il polmone della città: un luogo per gente sana, sportiva, per i giovani. Non desideriamo che se ne offra una diversa interpretazione. Nel negare il permesso non abbiamo commesso alcun atto di arbitrio [!]. La Provincia esercita un suo legittimo diritto di padrone di casa che accoglie gli ospiti che più gradisce. Io ho anche ricevuto un telegramma del ministro dello Spettacolo nel quale mi si informava che i produttori del film di Luchino Visconti sono in possesso dei più regolari visti di censura. Ne prendo atto, ma ciò non mi riguarda. [Evidentemente la legge che regola i rapporti dello stato con il cinema non ha nessun valore, per l’avvocato Casati, nel territorio della giunta provinciale! Si tratta di un altro stato?, n.d.a.] Nell’esercitare

questo diritto legittimo di padrone di casa penso di interpretare anche [quell’«anche» è formidabile!, n.d.a.] i desideri della cittadinanza. Noi non abbiamo compiuto “un atto di arbitraria supercensura” ma abbiamo esercitato un nostro diritto». L’avvocato Aldo Brusoni, assessore anziano, rilascia dichiarazioni più distensive: «Non posso esprimere un mio giudizio personale sul caso, e per una ragione di sensibilità verso i miei colleghi di giunta e anche perché sono contrario al fatto che della nostra decisione ne abbia parlato e ne parli la stampa. [Istituiamo d’urgenza anche la censura sulla stampa, magari per la sola Provincia di Milano!, n.d.a.] Posso dire soltanto che esaminando la scaletta presentata dai produttori del film vi abbiamo riscontrato un episodio che, per quanto macabro vi era in esso contenuto, suonava a disdoro di un ambiente di pubblica utilità [e di quanta utilità! basta recarsi una sera nella famosa zona dell’Idroscalo per poter contare centinaia, dico centinaia, di automobili coi vetri appannati, mutate in altrettante temporanee garçonnieres. Prima gli amatori notturni si recavano un po’ qua e un po’ là, poi, dato che si ripetevano rapine ai danni di coppie isolate, come se una tacita parola d’ordine fosse stata lanciata, tutti coloro che desiderano un tête-à-tête e posseggono un’auto, si recano all’Idroscalo e stazionano con le vetture l’una dietro l’altra, a pochissimi metri di distanza, tanto che l’intera zona sembra un affollatissimo posteggio, n.d.a.], e di proprietà di un ente pubblico. Specificatamente l’episodio, inserito alla pagina 188 della scaletta [evidentemente l’avv. Brusoni confonde “scaletta” con “sceneggiatura”, n.d.a.] del film, era ambientato all’Idroscalo. Posso dirle che alla decisione adottata dalla giunta provinciale nella sua seduta di mercoledì scorso, i produttori hanno aderito di buon grado, apportando le opportune modifiche all’episodio per così dire incriminato con un risultato che, anche da un punto di vista artistico, può dirsi più soddisfacente del precedente [!]. Comunque la giunta provinciale si riunirà nel tardo pomeriggio di oggi per riprendere in esame le nuove richieste dei produttori del film e

non penso che vi siano altri motivi per evitare il “si gira” all’Idroscalo». Frattanto giunge da Roma all’avvocato Casati un telegramma di Eitel Monaco, a nome dell’ANICA: «A nome Associazione Industrie Cinematografiche Associate preghiamola vivamente rinviare divieto lavorazione esterni film Titanus diretto Luchino Visconti. Mentre est in corso presso Fiera Milano manifestazione internazionale a alto livello per creare in quella città un grande centro del commercio e dell’industria cinematografica non appaionci opportune interferenze locali nei confronti di un film regolarmente approvato da organi ministeriali competenti. Confidando nel riesame della predetta decisione porgiamo vivi ringraziamenti». Ma la fiducia espressa da Monaco nei confronti di un ripensamento dell’avvocato Casati è mal riposta e i ringraziamenti sono assolutamente superflui: infatti alle 17.30 la giunta si riunisce e, alle 20.30, alla produzione viene comunicato un altro categorico no. Più tardi scoppia la bomba che coprirà di ridicolo coloro che questo no hanno sollecitato e convalidato con un voto. Alle 21.30 si riunisce il consiglio provinciale. L’inizio della seduta è tranquillo; viene commemorato lo scrittore Orio Vergani. Poi si leva a parlare l’avvocato Alberto Malagugini, della minoranza, e chiede al presidente «se non ritiene opportuno fornire qualche informazione in merito alla notizia, pubblicata sui giornali, secondo cui un divieto era stato posto alla ripresa di certe scene all’Idroscalo». Subito dopo un altro consigliere della minoranza, Di Pol, si associa alla richiesta di informazioni. Ora tocca all’avvocato Casati. Egli se la prende con la stampa [evidentemente a questi «provinciali» la libertà di stampa dà molto fastidio, n.d.a.] che dimostra una deplorevole indifferenza ai problemi che vengono dibattuti nell’assise consiliare, e una sconfortante sensibilità alle questioni «più o meno mondane». Quindi avverte i consiglieri di stare attenti per non lasciarsi indurre a dibattere un problema che non è un problema, ma soltanto l’espediente

pubblicitario di una troupe cinematografica [!]». Infine spiega che alla vigilia dell’ultima seduta di giunta, martedì l’altro, era stata presentata alla giunta stessa «una domanda intesa ad ottenere il permesso di girare alcune scene di un film all’Idroscalo e di effettuarvi le necessarie installazioni. Si trattava appunto di Rocco e i fratelli, Rocco e i suoi figli… o che so io [sic]». La domanda era stata presentata dopo che erano stati già effettuati gli impianti, quei famosi cento lampioni di cui abbiamo detto ampiamente ieri. La giunta riteneva pertanto che «siccome all’Idroscalo sono protesi i desideri del consiglio provinciale per attuare un polmone di respiro sano, sportivo, morale», non convenisse fornire l’autorizzazione e non fosse opportuno «girare alcun film». Successivamente la giunta era stata pregata da privati e autorità per rivedere il provvedimento perché «si riteneva che fosse stata espressa una supercensura. In effetti abbiamo visto solo la “scaletta” [e dagli con la “scaletta”!, n.d.a.] e quindi il sospetto è assurdo. Nessun giudizio di merito sull’opera di Visconti» [e l’intervista concessa ieri al redattore del Lombardo?, n.d.a.]. La verità è che «nella casa dell’amministrazione provinciale non si fanno film». Di Pol ribatte che l’avvocato Casati ha detto prima di non conoscere affatto il contenuto del film, e poi di averne letto la scaletta; rileva che i giornali della sera sostengono che il divieto è partito da un giudizio sul carattere della pellicola. «Allora», conclude Di Pol, «se il “sacro suolo dell’Idroscalo” non deve comunque essere utilizzato per una scena cinematografica indipendentemente dal contenuto, siamo di fronte ad un fenomeno di grettezza, ma se il film di Visconti è stato interdetto per il suo soggetto siamo obbiettivamente davanti ad un fatto di supercensura». Ad aggravare la situazione interviene il missino Ferrari che esprime il suo voto di plauso al provvedimento della giunta e osserva che è ora di finirla con il neorealismo e i film fatti «a base di prostitute e di ladri di biciclette». Torna a parlare l’avvocato Malagugini rilevando come nessun episodio che, come in questo caso, investa la pubblica amministrazione e trovi così larghe rispondenze, può essere giudicato irrilevante

e passato sotto silenzio, com’era nelle intenzioni del presidente Casati. La stampa ha fatto benissimo a trattarne «perché, per nostra fortuna, essa è particolarmente gelosa delle questioni che investono la libertà soggettiva e collettiva». La giunta ha voluto impedire che all’Idroscalo si girasse non già un film qualsiasi, ma uno ben determinato. All’Idroscalo i delitti sono successi, non nei film, ma nella realtà: è inutile ricorrere alla censura per tema di screditare la città. Il discredito viene provocato in questi giorni col mezzo più travolgente: il ridicolo. Un attimo dopo Storchi incalza ricordando che le riprese di Rocco e i suoi fratelli sono state effettuate anche in cima al Duomo: Bigatello s’infila nella mischia e, dopo aver, forse involontariamente, giocato sul proprio cognome, «Sì, sono un bigotto!», si affianca a Ferrari nel vano tentativo di liquidare il neorealismo, riconoscendogli solo un discutibile contenuto d’arte. Sono le 22.33: l’atmosfera è arroventata. Si leva a parlare nuovamente l’avvocato Casati, che deve aver perduto la tramontana. Infatti, dopo aver dichiarato di «essere orgoglioso» delle espressioni udite in consiglio perché ognuno ha assunto le proprie responsabilità, dichiara: «Sappiamo che se domani altri amministratori fossero in luogo di questa giunta, la proprietà del consiglio provinciale, dell’amministrazione provinciale potrebbe essere invasa da chiunque senza alcuna opposizione [evidentemente Casati considera “invasione” i famosi cento pali!, n.d.a.]. Sappiamo che se domani altri amministratori fossero al posto di questa giunta la prostituzione potrebbe assurgere a dignità morale per coloro che presiedono questa giunta!» La disgraziata frase di Casati crea il caos: chi si alza in piedi, chi gesticola. Si odono grida, «Buffone, buffone», «Si vergogni!», «Ma vedete se dobbiamo sentire queste cretinate», scampanellate inascoltate aggiungono una nota musicale al bailamme. E, improvvisamente, l’avvocato Casati scompare da una porta. La seduta viene sospesa per circa due ore. Verso

l’una Casati e Malagugini si scambiano le rituali scuse per le intemperanze verbali. Appena la seduta è tolta e il suo resoconto è pervenuto a Visconti, lui, che fino a questo momento ha mantenuto un riserbo assoluto, vuol far sentire anche la sua voce. Mattia si attacca al telefono e indice immediatamente una conferenza stampa: all’una e trenta non c’è giornale che non abbia inviato un suo redattore o un corrispondente. «Evidentemente», dichiara Visconti, «il presidente della giunta non dev’essere molto ferrato in questo campo, e sinceramente spero che egli ignori tutto del cinema, perché altrimenti non si saprebbe come giudicare un atto come il suo che mette in crisi la produzione di un film (gli interni a Roma sono in programma per martedì 26 e abbiamo attori stranieri già impegnati per pochi giorni e a scadenze fisse). Abbiamo avuto i permessi da tutti: dal ministero, dal sindaco, dalla Curia (ci ha lasciato girare una scena in cima al Duomo), dai padroni di fabbrica. Abbiamo avuto un’ospitalità commovente dall’intera cittadinanza. Chi si aspettava che si opponesse la giunta, la quale dovrebbe esprimere, tra l’altro, la volontà dei cittadini? «Entrando nel merito della scena, che cosa ci posso fare, io, se le mondane vengono uccise? Forse l’avvocato Casati ci potrebbe fare qualcosa… L’intervento della giunta assume una particolare gravità, io credo, non soltanto nei riguardi del nostro film, ma di tutto il cinema italiano. Proprio adesso che a Roma molti cineasti hanno il desiderio di allontanarsi dall’atmosfera della capitale, dal romanesco imperante, di cambiar aria (e Milano è tra le mete ricorrenti in parecchi progetti), proprio in questo momento il colpo inferto a noi raffredderà molti entusiasmi. E cominci l’amministrazione provinciale a non lasciare più la zona dell’Idroscalo al buio. Siamo stati noi a mettere un chilometro di pali della luce per illuminare l’Idroscalo. Avrebbero dovuti dirci grazie: invece… Ma noi speriamo molto nell’appoggio della stampa, nella comprensione dei cittadini, nel nostro buon diritto di cineasti amanti della verità. Perché è chiaro che gli esterni milanesi li terminerò a Milano. Non so ancora esattamente dove, ma un

posto non sottomesso alla giurisdizione del signor Casati lo troveremo».

Il giorno dopo (14 aprile) I giornali di oggi sono letteralmente pieni del «caso Idroscalo» e tutti sono unanimi nel condannare l’operato della giunta provinciale. Il consiglio direttivo del «Gruppo milanese critici cinematografici» si è riunito d’urgenza e ha stilato un comunicato con cui prende una decisa e chiara posizione: Il consiglio direttivo del «Gruppo milanese critici cinematografici» sente il dovere morale di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, e delle competenti autorità, sulla gravità del divieto che ha interrotto la lavorazione del film Rocco e i suoi fratelli: non può, infatti, essere considerata marginale una delibera che incide sul fatto stesso della libertà di espressione garantita dalla Costituzione. L’ingerenza dell’amministrazione provinciale di Milano nel merito degli argomenti narrativi di un film già approvato dagli organi competenti, costituisce, innegabilmente, di fatto, una discriminazione di carattere prettamente censorio non previsto da nessuna legge. Si segnala – inoltre – l’inopportunità di una decisione che genera sgomento e stupore negli ambienti culturali cittadini proprio quando – sia sul piano commerciale, con l’inaugurazione del Mercato del Film alla Fiera Campionaria, sia nel campo industriale – pareva annunziarsi un promettente risveglio di attività produttive che le autorità avrebbero il dovere di favorire e proteggere, non di ostacolare creando un clima di ostilità preventiva. Esprime, infine, al regista Luchino Visconti la solidarietà dei giornalisti

cinematografici milanesi, deplorando che un artista di chiarissima fama internazionale proprio nella sua città abbia dovuto subire questa assurda disavventura. Da Roma giunge, diretto all’avvocato Casati, anche un telegramma dell’ANAC così redatto: «Associazione Nazionale Autori Cinematografici chiedele revoca divieto lavorazione Idroscalo film socio Luchino Visconti stop Tale divieto non risolvendo preoccupazioni amministrazione provinciale milanese costituisce di fatto indebito intervento censorio». Non tarda anche la presa di posizione del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani: il presidente Gino Visentini ha inviato, a nome di tutti i soci, un telegramma al presidente dell’amministrazione provinciale di Milano, chiedendo la revoca del divieto, e affermando: «Intervento amministrazione provinciale costituisce grave limitazione libertà di espressione et danneggia prestigio culturale Milano. Motivi addotti per divieto non trovano alcuna giustificazione plausibile». Insomma si registra una generale levata di scudi contro l’assurdo divieto. L’unica voce di plauso giunge da un lettore del Giorno, un tale che si firma F. Giusti, che, senza conoscere il contenuto del film, scrive testualmente: Signor Direttore, si è mai sognato Luchino Visconti di fare un film sulla «sua» città natale, sulla generosità, operosità, sincerità della sua gente? Quasi si vergognava di dire che è nato a Milano! [Ma che giornali legge il signor Giusti? Proprio a una redattrice dell’Europeo Visconti ha dichiarato che «a Roma si sente ancora come di passaggio», n.d.a.] Ed ora fa un film sulla «passione» dei meridionali che vengono a Milano per trovare lavoro e pane. Lo sappia il signor Visconti che i «terroni» che vengono da noi veramente per lavorare e vivere in pace coi fratelli del Settentrione, sono da noi

accolti come fratelli, ma non certo quelli che usano mezzi subdoli e vili per soppiantare quelli che ci sono. [Ma anche questo dice il film di Visconti, particolarmente con le vicende personali di Ciro e Vincenzo, due dei fratelli di Rocco, n.d.a.] Il signor Visconti vada in Comune o agli sportelli pubblici e vedrà chi sono i prepotenti che trattano i milanesi come cani! Casati ha ragione di proibire il film all’Idroscalo. Ma i vari Casati o Giusti a parte, la situazione che deve affrontare Bordogni, il direttore di produzione, è veramente drammatica: una troupe di cento persone ferma e inattiva sul «piede di lavorazione». Visconti che, giustamente indignato, non vuole partire, minacciando di sospendere il film. Si compiono ancora altri sopralluoghi alla ricerca della zona adatta a sostituire l’Idroscalo ormai off limits: ma le ricerche sono vane, anche perché il caldo degli ultimi giorni ha fatto scoppiare la primavera e non si trova una pozzanghera d’acqua che non sia circondata di erbe vigorose e di fiori. Sicché il problema Idroscalo viene accantonato: tutti rientreranno a Roma e poi si vedrà. Visconti acconsente e, alle 18.30, la troupe lascia Milano. L’appuntamento è per sabato 16 alla Titanus Appia per iniziare gli interni. Nella città ambrosiana, forse, si ritornerà dopo la conclusione delle riprese in teatro.

Camere e bisca clandestina (16, 26, 27 aprile) Uno degli aspetti più misteriosi della lavorazione di un film, anche per chi ha dimestichezza con gli stabilimenti di posa, è costituito dalla straordinaria facoltà – che posseggono, però, solo i registi autentici – di legare mentalmente scene girate in tempi diversi e in ambienti dissimili. E questa facoltà è, per me, ogni volta, oggetto di ammirazione.

Le riprese dei primi giorni romani hanno per sottofondo questo potere quasi magico che Visconti esercita su se stesso e sugli attori: infatti si gira in due camere che contrastano decisamente l’una con l’altra, sia per la loro ubicazione ideale, sia per i sentimenti, non meno contrastanti, che tra le loro pareti affiorano, si cristallizzano e vengono espressi attraverso la mimica degli attori. La prima di queste stanze è quella di un alberghetto equivoco, in cui vive Simone dopo il ricatto-furto ai danni del Morini: e in questa stanza prendono forma quasi concreta la disperazione di Simone – che lo sciagurato tenta di nascondere dietro una strafottenza e una irritabilità sopra le righe – e l’abnegazione, l’amor fraterno di Rocco, Ciro e Luca per il loro congiunto; infatti essi son là per consegnare a Simone del danaro per scappare, per fuggire lontano. La seconda, invece, è quella di Nadia dove (siamo nel periodo felice di Simone) la ragazza e Simone si amano con slancio irrefrenabile e dove, tra un amplesso e l’altro, affiora quel bisogno di solitudine («oh, poter dormire sola!») che Nadia ha sempre inteso dentro e che, spesso, per emanciparla dalla esistenza in una affollata collettività familiare, l’ha spinta a compiere i primi passi falsi. E Visconti esegue un lavoro di precisione, in profondità, di sempre maggiore affinamento, in modo che i sentimenti, gli stati d’animo si rivelino a beneficio del potenziale spettatore di domani. È, questo sovrapporre i personaggi agli attori fino a che l’attore non diventi tutt’uno col personaggio, come scrivere con una grafia sottile, in cui ogni segno è sempre indispensabile, necessario per comporre la frase perfetta. Ed è qui che Visconti inventa attimo per attimo, secondo un’ispirazione (e una profonda conoscenza dell’animo umano e delle sue reazioni) che non ha mai un attimo di debolezza: è qui che Visconti si impegna in quel suo prediletto «lavoro sull’uomo» a cui accennò quando c’incontrammo la prima volta a Milano. La scena tra Nadia e Salvatori, dopo una serie di prove, durante le quali lo stesso Visconti si sostituisce ora all’uno ora all’altra, e aggiunge e corregge, vien fuori stupenda, piena di sfumature (c’è anche la malinconia di Nadia

per la sua esistenza sbagliata) e culmina con uno dei baci più belli che si siano visti sullo schermo. Concluse le due stanze, si gira la complessa sequenza della bisca clandestina dove Simone si incontra nuovamente con Nadia, dopo la violenza della Ghisolfa. Garbuglia è riuscito a pescare, in piazzale delle Belle Arti, un interno di straordinario effetto. Si tratta di un appartamento che poté essere considerato elegante e sontuoso durante il tramontato regime: lumi enormi, cineserie e altre esoticherie sparse dappertutto: mobili grevi, pesanti, tali da trasferire, come s’usava allora, un pizzico di littorio anche tra le pareti domestiche. «Tutto è autentico», mi dice Garbuglia, «io ho soltanto caricato, accentuato i caratteri originali dell’appartamento, in modo da suscitare nello spettatore la sensazione di uno squallore quasi malinconico, nonostante le sete, i velluti pesanti, con in più un tantino di equivoco. Andare a caccia degli interni veri», aggiunge, «è un’avventura fantastica: si prendono indirizzi dalle agenzie, dalle ultime pagine dei giornali, e poi si parte. E s’incontra un’infinità di gente curiosa e talvolta anche patetica: vecchi, ex ricchi, ex gerarchi che si trovano giù e cercano di affittare le loro case diventate troppo grandi e troppo dispendiose per loro. In piazza Bologna sono riuscito a scovare l’appartamento in cui aveva abitato Osvaldo Valenti: una specie di nave, decaduta, quasi macabra, un elefante putrefatto. Per una delle case di Nadia ho voluto far apparire il contrasto tra una pretesa d’eleganza – appliques, alle pareti la riproduzione d’un Seurat — e il cattivo gusto tipico della gente media, della piccola gente: perciò mobili di serie e certe statuette falsamente belle. Insomma l’ambiente, secondo me, deve essere sempre in funzione sia della meccanica che dello spirito della scena. Quando, poi, torneremo in stabilimento le farò vedere alcuni interni già costruiti ma ancora inediti». Mentre Visconti sta preparando i vari figuranti e gli attori che appaiono attorno al tappeto verde, scorgo un uomo sui sessanta, magro, dal viso emaciato e stanco. In un primo momento lo scambio per un figurante, invece è il padrone di

casa che, intabarrato in un impermeabile un po’ liso per paura delle correnti d’aria, sta spiegando a una signora leggermente più giovane che porta ancora i segni d’una bellezza sfiorita da tempo, la moglie, quello che si sta preparando. La signora ascolta attenta, volge attorno a sé un’occhiata smarrita e accorata, e commenta: «Però, perché hanno aggiunto tanta brutta roba, e hanno scartato la mia che è tanto bella?» In questa frase e in quell’occhiata c’è tutto il dramma di questi vecchi solitari che, per arrotondare l’evidentissimo magro bilancio, hanno fittato alla troupe, quasi, il loro passato. Ma ormai tutto è a posto, i movimenti sono stati regolati al millimetro, la Mitchell (su cui fa bella mostra un fiore rosso, «perché si chiama Carmen», mi spiega Rotunno) è stata piazzata. La voce tonante di Anna Davini allontana «chi non è di scena», e anche i padroni di casa, un tantino offesi, riparano in una delle camere che s’aprono su un lungo corridoio che divide in due l’appartamento. La bisca è entrata in funzione e Simone, mentre il giuoco va avanti, rimasto all’asciutto si impegna l’orologio. Punta e perde. Completamente ripulito, muove verso una gran tenda di pesante velluto che separa la sala da gioco da un salottino. Stop. Ora ci si deve spostare con la Mitchell nel salottino, per riprendere l’entrata di Salvatori e le reazioni di Nadia che è un po’ su di giri per aver bevuto parecchio. Il padrone di casa spera di poter vedere la scena, ma non sapendo dove sistemarsi per non dare fastidio, va a piazzarsi proprio in campo. Lucio Orlandini lo allontana con garbo. Il salottino è pieno, vi si respira un’aria densa di fumo. Su un sofà e un paio di poltrone seggono ragazze, Nadia, alcuni giovanotti. Più avanti c’è Ivo che sta bevendo whisky, e, da un lato, innanzi a un radiofonografo in funzione, una coppia che parla fitto a bassa voce tenendosi quasi abbracciata. Dopo l’entrata di Salvatori, Nadia si leva e comincia a gridare: «Eccolo chi m’ha distrutto» e si affaccia nella sala da gioco, infastidendo tutti, tanto che il proprietario della bisca interviene bruscamente: «Portatela via… qui non voglio casini, va bene?… E neanche ubriachi in casa… Sgombrate».

Quindi Nadia torna a sedersi e intreccia un amaro colloquio con Simone. Si comincia a provare (e Corrado Pani riceve un certo numero di bicchieri di whisky in viso). Salvatori s’ingozza di liquore; poi la scena s’arresta di colpo: c’è un giovane che deve pronunciare una battuta; la comincia, poi si interrompe come se gli mancasse la voce o un nodo alla gola gli impedisse di parlare. E questo incidente si ripete un paio di volte, finché il giovane prorompe: «No… non ce la faccio! È un complesso». Visconti, con una pazienza che mi sembra quasi eccessiva e con un tono di voce pacatamente imperioso, gli ribatte: «Via, su, sta’ calmo: non c’è ragione perché non ce la faccia. Riprova, sta’ calmo». Il giovane è pallido come un cencio. Torna a provare e nuovamente s’interrompe come paralizzato. Visconti finge di non badarci e dà l’ordine di girare egualmente la scena. Dopo i soliti comandi, il giovanotto attacca sicuro la battuta: ha vinto la forza che lo paralizzava, e in tutte le repliche va sempre meglio. Quando la ripresa è finita mi avvicino al giovane e mi complimento con lui: «Ha visto che è andata benissimo?» Mi guarda un attimo, poi mi risponde: «Erano due anni che non mi facevano fare neppure una cachettata. Ecco perché non riuscivo a spiccicare una parola». Più tardi chiedo a Ricci chi sia il giovanotto e so che è un attore che ha sostenuto anche parti di protagonista. Poi improvvisamente non gli hanno fatto fare più niente, e la casa che l’ha in contratto oggi l’ha spedito qua per dire due battute. Visconti lo sapeva, e comprendo ora la pazienza di Visconti: una pazienza che è umanità. Il cinema, spesso, è feroce con le sue creature, e anche quello del giovane è un dramma: contenuto in un’esclamazione e una breve spiegazione. E poi c’è chi dice che il mestiere dell’attore è solo una felice, ininterrotta serie di divertimenti e di svaghi!

Un pezzo di Lucania trasferito a Milano (30 aprile) Quando, disimpegnandomi a fatica tra cavi e cantinelle, arrivo nell’ambiente in cui da stamane Visconti sta girando, un pezzo di Lucania trasferito a Milano, mi viene incontro coi suoi forti colori. Siamo nella casa di Ginetta, la sera del fidanzamento della ragazza con Vincenzo che coincide con l’imprevisto arrivo di Rosaria che si trascina appresso gli altri quattro figli e tutte le mille carabattole che si son portati dal paese. Il «complesso» è costituito da una sala da pranzo dalle pareti rosso violento, da una cucina che immette direttamente in camera da pranzo e ha una porta anche sul corridoio in fondo al quale c’è l’ingresso. Anche i genitori di Ginetta sono lucani e, pur se trasferiti da molti anni a Milano, hanno mantenuto certi usi e il costume della loro terra. Nella stanza da pranzo, sistemati un po’ qua e un po’ là, scorgo, infatti, fiori finti sotto le campane di vetro, un orsacchiotto, la pompa per il flit, spighe di grano dentro un vaso, addobbi di carta e stelle filanti come s’usano nel Meridione, vecchi ritratti di famiglia con personaggi rigidi e impalati dentro i vestiti da festa campagnoli, immagini di santi protettori, rosari di castagne pendenti dal lampadario, festoni d’edera (dove m’attacco muoio) e, sul tavolo, ceci abbrustoliti, ciambelline, caratteristici «’nginetti» (anicetti), una pizza lucana, vino, rosolio e cannellini (quei confetti lunghi tre centimetri con dentro un filo di cannella) che circolano di mano in mano su un vassoio. Sono state già girate le scene dell’arrivo della famiglia di Rosaria, le accoglienze cordiali dei parenti di Ginetta che hanno immaginato che il trasferimento in massa dalla Lucania sia stato determinato dal desiderio di assistere al fidanzamento di Vincenzo. Ora le cose stanno per guastarsi, perché Rosaria, despota irrefrenabile come sa esserlo una madre meridionale, farà capire e poi dirà esplicitamente che non è assolutamente il caso di parlare di fidanzamenti e di matrimoni fino a che anche gli altri fratelli non si siano sistemati a dovere.

Si stanno cambiando le posizioni delle macchine da ripresa: Rotunno, dopo aver dato le sue istruzioni ai macchinisti, è uscito un attimo, lasciando la direzione degli spostamenti a Nino Cristiani, che è uno di quei meravigliosi pignoli indispensabili ai film di qualità (sono i Nino Cristiani che mantengono alle riprese quella precisione che il film richiede). Visconti, che evidentemente deve dire qualche cosa a Rotunno, chiama: «Peppino! Peppino!» Numerose voci rispondono: «Eccolo che arriva». Passa qualche minuto e Rotunno non si vede. Visconti allora chiede: «Ma, allora, Peppino s’è allontanato? Dove sta?» «Qui fuori», risponde Orlandini, «l’abbiamo mandato a chiamare. Torna subito, sta parlando con l’operatore Balboni». «Allora», ribatte Visconti con quel suo tono caratteristico e inconfondibile per cui non sai se scherzi o sia in procinto di arrabbiarsi, «mandatemi a chiamare Germi. Così io parlo con un regista». In tali casi tutti ammutoliscono. Ma ecco che Rotunno, con quel suo disarmante sorriso che lo rende simpatico a tutti, arriva come se non si fosse mai allontanato e chiede: «Volevi, Luchino?» Mentre Visconti confabula con Peppino, vedo la Paxinou in stretto colloquio con Focas: parlano in greco e Katina – che ha stretto con il connazionale una specie di patto massonico – ripassa con lui alcune battute, spiegandone il significato. E questa necessità di spiegare sempre, a tutti, la esercita spesso anche con Visconti che la guarda, allora, con occhio divertito e indulgente, pur se qualche volta viene interrotto dalla sempre vivace attrice. I preparativi sono finiti, e con una rapidità inconsueta per scene in cui sono impiegati numerosi attori e figuranti, vengono girate cinque inquadrature: tutta la preparazione, cioè, alla «grande lite» che è in programma per dopodomani.

«Tetue comme une grecque!» (2 maggio)

Quando, dopo la sosta festiva del 1° maggio, rientriamo nella casa di Ginetta, tutto è perfettamente a posto: una parete, che era stata smontata per consentire una certa ripresa, è tornata dove era prima dell’inizio delle scene dell’altro ieri; la tavola, i vassoi, le bottiglie sono stati riforniti dall’impareggiabile Verdenelli, e anche nei bicchieri il vino e i rosolii sono stati dosati com’erano nel momento in cui il 30 è stata interrotta la lavorazione. Oggi è in programma il gran finale della lite. Visconti lo spezza in due inquadrature: una prima, che viene ripresa con due macchine, ha inizio in camera da pranzo, prosegue in cucina e si conclude nel primo tratto del corridoio innanzi all’altro ingresso della cucina; la seconda riprende di lì e narra l’uscita di Rosaria, urlante e maldicente, insieme coi figli e i pacchi, le valigie, i fagotti depositati innanzi alla porta dell’appartamento. Macchine e luci sono pronte, perciò Luchino attacca subito con le prove: il battibecco tra la Paxinou e la madre di Ginetta aumenta pian piano di violenza fino a mutarsi in vera e propria rissa. Sono due meridionali di fronte e la lite acquista il sapore d’una rappresentazione estemporanea nel corso della quale le due donne recitano tutta la gamma dei sentimenti. La Paxinou dice le battute metà in francese e metà in italiano. Visconti si accorge che questo mélange toglie un po’ di naturalezza alla Paxinou e, interrompendo la «furia» ormai «scatenata» dice sorridendo: «Katina, tu est tetue comme… une grecque. Non iniziare la battuta in italiano per poi concluderla in francese: dilla tutta in francese». La Paxinou vuol spiegare il suo perché e un fiume inarrestabile di parole fluisce impetuoso dalle sue labbra; poi si arrende e bacia Luchino su una gota, quindi riprende la prova. La lite esplode vivace, colorita, autentica. Ma s’ode un grido: una figurante protesta perché, nell’uscire, uno dei figli di Rosaria l’ha «toccata nel didietro». Si riprova e l’anziana figurante leva più alte le sue proteste perché un analogo incidente si è verificato: «Mi hanno battuto di nuovo». Visconti, che è di buon umore, si diverte a questo improvviso diversivo: «Ma signora, sarà stato per simpatia». «Che simpatia del sedere!», ribatte l’attrice. «Sono boccacceschi». E, poiché, mentre sta

accusando, una ignota mano ha ripetuto il gesto, l’attrice, convinta che sia stato il malizioso Cartier, gli si lancia contro come una furia. Delon (che è il vero colpevole) divide i due contendenti e con il suo sorriso d’angelo calma la povera signora. Dopo questa parentesi tragicomica, Visconti fa un’ultima prova, poi gira. L’inquadratura è piuttosto difficile e solo al nono ciak Visconti è soddisfatto. Pausa per la sistemazione delle macchine da ripresa per la seconda inquadratura; tutti lasciano l’ambiente, e mentre Delon e Cartier continuano a dare guai alla figurante, Katina spiega alla Cardinale: «Moi j’ai trente ans de théâtre et chaque fois j’ai peur: pour une phrase aussi!» Ma le sue frasi, dopo poco, le dice come meglio non si potrebbe. Nella seconda inquadratura, dopo aver come un generale impartito ordini ai figli e distribuito pacchi e valigie, lancia ai parenti di Ginetta, con una voce da tragedia greca, l’invettiva finale che suona come una maledizione: «Figli, prendete quei fagotti… Dio ve lo renderà! Perché Dio è giusto! Perché Dio è spietato!» E così, anche l’«ambiente casa Ginetta» è ormai esaurito: da domani Garbuglia lo rimanipolerà, rendendolo irriconoscibile, per mutarlo nella «casa di Vincenzo e Ginetta sposi».

Nadia e i fratelli (6 maggio) Infatti quando, dopo quattro giorni, ritorno alla Titanus Appia e Garbuglia mi requisisce per farmi vedere i promessi ambienti «inediti», non riconosco più nell’abitazione degli sposi la «casa Ginetta». Dove esistevano dei vuoti ora si levano pareti, e viceversa. E su tutto c’è una dominante: il bambino. Il bambino che è presente con la culla, con i panni stesi ad asciugare da ogni parte, con tutto quello che rivela, anche all’occhiata più distratta, l’esistenza, in una casa, di un bimbo.

Poi mi conduce a vedere una palestra con relativi spogliatoi, che sembrano attendere, tanto danno l’impressione dell’autenticità, che i pugili debbano entrare da un momento all’altro insieme con gli allenatori. Ultima tappa è la casa del «piano Romita» abitata da Rosaria e dai suoi figli. È un’autentica trovata: una casa moderna, squallida per il suo falso tono borghese, che accoppia le cose nuove e il meglio della Lucania. Le sue finestre s’aprono su una terrazza che dà su un cortile: una terrazza che gira in quadrato per tutto il cortile (che è vecchio, evidentemente la parte nuova è stata costruita come ala di un antico palazzo sinistrato) e che è simile a quelle dei piani inferiori e superiori. Una specie di teatro quotidiano, che fa da coro alla vita della famiglia di Rosaria e a quella delle altre famiglie del casamento; un coro che commenta e partecipa alle vicende di Rocco e dei suoi fratelli. Ma per ora i giovani lucani sono ancora nel seminterrato in cui si sono sistemati subito dopo la grande scenata in casa di Ginetta: un locale angusto, fatiscente, con camere basse, dove dormono in tre o quattro, dove dai vetri semiappannati entra il riverbero della neve di via Dalmazio Birago. Infatti, Garbuglia non si è accontentato di costruire l’interno, ma ha rifatto, identico a quello che avevo visto a Milano, il cortile con gli alberi striminziti e i grandi palazzoni grigi. Siamo nel momento in cui Nadia, nascosta da Vincenzo dopo la tempestosa fuga dalla casa paterna, conosce Rosaria e i suoi figli. La vecchia donna e tutti i suoi ragazzi sono in cucina; ciascuno ha sulle ginocchia un piatto di lenticchie che sta pulendo. Nadia indossa la famosa vestaglietta sopra la succinta combinazione. È il primo incontro con Simone, con Rocco, con Ciro e con Luca, l’incontro che modificherà in modo così decisivo l’avvenire di tutta la famiglia lucana: insomma, è l’attimo in cui il destino bussa alla porta. Nadia ha già riacquistato la sua sicurezza: parla ora con uno, ora con l’altro, si avvicina a dei ritagli di giornali appiccicati sul muro sotto la fotografia di Vincenzo in tenuta da pugilatore, li osserva interessata e chiede chi sia il boxeur della famiglia.

Simone indica Vincenzo aggiungendo che, però, ora ha smesso di tirare. Nadia ride e ricorda che la boxe è formidabile e che ha conosciuto un pugilatore. Ma alla prima prova s’impapera e invece dice: «J’ai fait de la boxe»! Visconti scoppia in una risata: si riprova e poi si gira. L’omino del ciak mette tanto vigore nella battuta del suo arnese di legno che il blocchetto mobile dei numeri salta inaspettatamente nel piatto che Simone ha sulle ginocchia. Un «Vaff…» molto romanesco prorompe spontaneo dalle labbra toscane di Salvatori. Il ciakkista, un po’ intimidito, d’ora in avanti batterà il ciak pianissimo, tanto che il fonico, per telefono, chiederà maggior vigore. Ma l’omino non muterà condotta. Le inquadrature si inseguono con rapidità: tutti sanno quello che debbono fare e lo fanno assai bene.

Cazzotti finti che sembrano veri (11, 12 e 13 maggio) Si gira al vecchio teatro Manzoni di via Urbana: un teatrino ottocentesco in cui da ragazzino intesi recitare Scarpetta, i De Filippo giovani e don Rafele Viviani. Chiuso da tempo, è stato fittato dalla Titanus per farvi combattere Simone con un negro, il mediomassimo Jerone Adjer, e Rocco con un dilettante svedese, che è, in realtà, il biondo francese Athalie. Due incontri che si risolvono con due verdetti opposti: il primo vede, infatti, la sconfitta di Simone, il secondo la vittoria di Rocco. La produzione, preso possesso del vecchio teatrino, ha dovuto farlo ripulire da cima a fondo. Poi ha fatto rizzare il ring, a ridosso del palcoscenico, e ha colmato le poltrone di cinque-seicento figuranti: ma non scelti a caso, bensì selezionati uno alla volta, con cura, in modo da mettere insieme il più caratteristico pubblico da incontri pugilistici. Non ho potuto vedere il drammatico match di Simone, ma eccomi qua di buon’ora per assistere a quello di Rocco.

Mentre Delon e Athalie si scaldano facendo qualche ripresa, Ceccarelli mi informa sulla precisione con cui è stato preparato e girato tutto quello che ha attinenza con la boxe: basti pensare che Salvatori per cinque mesi è stato allenato da Enzo Fiermonte («Rena’, tu ciai troppi soldi: si no saresti stato un gran ber pugile», gli disse l’ex campione alla fine degli allenamenti), mentre a Parigi Delon, per altrettanto tempo, ha avuto per maestro Choca. Inoltre, al seguito di Fiermonte, molti autentici pugili hanno preso parte alle riprese: da Choca a Rocco Mazzola, da Bruno Fortilli fino al procuratore Barravecchia, uno dei veterani creatori di campioni. Oggi (è il 13 maggio) c’è da girare l’ultima vittoriosa ripresa di Rocco e il suo sconsolato ritorno nel camerino. Le camere sono sistemate una sul palcoscenico e l’altra su una barcaccia. In platea i figuranti, vigilati da Jerry, stanno calmi e tranquilli. Visconti è sul palcoscenico; ha degli ospiti: sono venuti a fargli visita e ad assistere alle riprese Lilla Brignone, Tino Bianchi e un giovane attore che non conosco. Lilla si appassiona già, mentre Delon e Athalie continuano a scaldarsi, scambiandosi dei cazzotti che sembrano (e forse lo sono) autentici: tanto autentici che Athalie ha uno zigomo pieno di sangue senza bisogno dell’aiuto del truccatore. Lilla Brignone è eccitatissima e chiede a Visconti che le faccia fare la comparsa. Luchino risponde che l’unica cosa che può consentirle è di gridare col pubblico durante la ripresa. Luchino dice a Delon: «Adesso basta: giriamo». All’angolo di Delon si portano Fiermonte, che è uno dei secondi, e Stoppa. Confusi in platea sono Ciro, Vincenzo e Luca. Quando Visconti lancia il comando «Azione», è come se si scatenasse il terremoto: tutta la platea è in piedi e urla incitamenti, evviva e abbasso; Lilla Brignone grida: «ROC-CO, ROC-CO» con quanto fiato ha in gola, e Rocco scaraventa una fitta e rapida serie su Athalie che vacilla, barcolla e cade sulla tela del ring, mentre l’arbitro conta: uno… due… tre… Il pubblico è in delirio… quattro… cinque… sei… Le grida arrivano alle stelle… sette… otto… nove… out… Il ring viene invaso e, dopo che lo speaker ha annunciato la vittoria, Rocco, abbracciato, toccato

da cento mani, scende dal quadrato e si avvia ai camerini. Stop. La scena è di un realismo impressionante: «È tutto vero», commenta Lilla Brignone, «sembra tutto vero». Si ripete la scena tre volte, e ogni volta Lilla torna a eccitarsi, a battere i piedi, a gridare fino a diventare roca. Visconti dà l’ordine di girare secondo un’altra angolazione: Athalie cadrà dall’altra parte del ring. E quando si ricomincia il vecchio Manzoni torna, per altre tre volte, a mutarsi in una bolgia urlante. Quando anche le altre riprese sono finite, chiedo a Delon: «Quanti round, tra allenamenti per scaldarsi e scene girate, ha fatto oggi?» Alain pensa un attimo e risponde: «Almeno dieci o dodici». L’equivalente di un intero match. Ora si passa dietro il sipario e si torna a girare la continuazione dell’incontro di Simone. Salvatori rientra col viso ridotto a una maschera sanguinolenta e Stoppa si arrabbia e fa una bella sparata contro il perdente. Intanto un fotografo, entrato di soppiatto, riprende Simone nel camerino. Il figurante, durante la prova, dimostra chiaramente che ha poca dimestichezza con la macchina fotografica, e allora interviene Ronald e spiega la tecnica del fotoreporter. La scena viene girata sette volte e immediatamente dopo gli attrezzisti cambiano i manifesti: si deve riprendere un’altra uscita dalla sala, quella di Rocco. Delon, seguito da parenti e tifosi, si siede su una scaletta che conduce ai camerini e, mentre le lacrime gli sgorgano dagli occhi, parla con Ciro: i nervi gli cedono ed egli dice quanto sia infelice, quanto gli ripugni di fare il pugilatore, perché non vuole, come gli accade quando è sul ring, di fronte all’avversario, odiare nessuno. È una delle scene chiave del film, perché costituisce la premessa per far valutare a pieno l’«autocondanna» di Rocco, quando, per restituire i danari tolti da Simone al Morini, accetterà di firmare un contratto per un lungo periodo: sicché la carriera di boxeur assumerà il valore morale di un’espiazione. Visconti divide la scena in due inquadrature: la prima del rientro di Rocco e di Athalie, mentre un altro pugile svedese («ma sono svedesi di Prima Porta convenientemente

ossigenati», mi soffia in un orecchio Jerry) con i suoi secondi, e un italiano con il suo corteggio, vanno verso il ring, e la seconda di un primo piano di Rocco mentre confessa a Ciro le sue pene. Un figurante fotografo – ma oggi sembra la giornata dei falsi fotoreporter! – fa perdere qualche minuto: è un vero e proprio gigante e con la sua mole impallerebbe ora questo ora quello. Visconti ne chiede un altro perché, dice, «è troppo grande, e non lo posso dividere in due». Una rapida corsa di Ricci e di Jerry per i corridoi, e, dopo poco, ecco il nuovo fotografo: uno smilzo bassetto che non darà nessun fastidio. Risolto con rapidità fulminea il piccolo problema, dopo un paio di prove, si gira e le camere seguono Delon fino a che non siede sul gradino e Ciro non gli si affianca. A questo punto Anna Davini manda via tutti. Le luci in sala sono spente e anche sul palcoscenico si fa buio: solo l’angolo in cui si trovano i due attori è illuminato. Il silenzio si fa, dopo l’urlio di poco fa, incredibilmente profondo: si cammina in punta di piedi. Delon va un attimo nel camerino e torna a sedersi sul gradino. I suoi occhi sono pieni di lacrime. Tenta di parlare, ma non ci riesce. Per dare maggior realismo alla scena, perché le lacrime fossero più vere, Alain ha bagnato di ammoniaca l’asciugamano che ha intorno al collo. L’ammoniaca è troppa e Delon si sente male veramente. Visconti lo rimprovera e rinvia la ripresa. Per oggi abbiamo finito.

Sta per arrivare Simone (20 maggio) La prima cosa che chiedo, quando entro in teatro, è se il famoso primo piano di Delon al Manzoni sia stato girato: Ricci mi dice che la ripresa è avvenuta lunedì 16 ed è andata benissimo. Mi avvicino alla scaletta che conduce al piano della casa di Rosaria, dove si festeggia la vittoria di Rocco, e sono quasi assalito da una torma di bambini: sono sei o sette e di tutte le età, li accompagna una donnetta che si lamenta con il segretario di produzione Romolo Germano che «non ce la fa

più» (uno dei marmocchi – che hanno età variabili da pochi mesi fino ai cinque anni – lo porta in collo) e che ha bisogno che qualcuno le dia il cambio perché «’sti regazzini so’ ’ndiavolati». Germano tenta come meglio può di calmare la donnetta e io salgo su, in alto. Vedo in funzione lo straordinario complesso creato da Garbuglia: nella sala da pranzo sono Rosaria, tutti i figli a eccezione di Simone, Vincenzo, Ginetta che tiene in collo il suo bambino, e molti invitati che traboccano sul terrazzino, mentre gli altri abitanti del caseggiato sono tutti alla finestra per prendere parte, sia pure da lontano, alla festa. Il colpo d’occhio è magnifico: e far muovere a tempo tutta questa gente, far compiere a ciascuno la propria azione è un’impresa che pochi registi riescono a realizzare con la sicurezza e la lucidità di Visconti. Luchino ha occhi per tutto e per tutti: non c’è nulla che gli sfugga. Ad esempio s’è accorto, durante la prova, che un vecchietto tiene perennemente in alto il bicchiere senza mai accostarlo alle labbra («Beva, beva», incita Luchino, «non stia come i coristi della Traviata fatta non dico da chi», e Jerry rincara: «Beva giusto, da uomo, non da uccellino»); ma finalmente il vecchietto fa quello che gli si chiede. Rocco attacca il suo brindisi e Delon in franco-lucano dice: «’Stu vino ca io vevu lu vevu alla salute vostra». Gli altri gli fanno corona. Qui arriva lo stop; subito dopo si cambia la sistemazione delle macchine da ripresa. Visconti studia l’inquadratura successiva. Scorge un bambino, il primogenito di Ginetta, e lo saluta: «Ciao, Paolino». E quello ribatte: «Perché, ciao? Mica è ora di andar via». Ora si riattacca dal brindisi di Rocco, interrotto da Rosaria che ha inteso suonare alla porta; ha come un presentimento. Ma Ciro apre l’uscio, guarda fuori e non vede nessuno. La festa riprende e Rocco pronuncia una lunga battuta, piena di nostalgia per la Lucania e di disperazione. È una scena in cui circola un’emozione autentica, e Delon, quasi magnetizzato da Visconti, ripete le parole del testo: parole che, dette dalle sue labbra pallide che tagliano appena di rosa il viso bianco, acquistano la consistenza di un sentimento. Ma ormai sono le otto e Visconti, visibilmente soddisfatto, dà lo stop.

Giornata magica (21 maggio) L’ordine del giorno di oggi prevede una lunga serie di primi piani che, in sede di montaggio, dovranno essere intercalati alle riprese di ieri. Quando arrivo tutto il complesso «casa Rosaria» è al buio: e nel buio si proiettano travi, scale volanti, cantinelle. Solo in alto c’è una luce che sembra il lumino «lontano lontano» delle favole della nostra infanzia. Già prima di entrare nell’ambiente, si respira un silenzio profondo, un’aria che sa di magia. E questa impressione si rafforza quando arrivo nella stanza dove si sta girando. La gente è pochissima, solo le persone indispensabili. E dal modo in cui i pochi presenti si muovono sembra che stia per compiersi una specie di rito, quasi misterioso: anche negli intervalli tra un ciak e l’altro si cammina senza far rumore per non incrinare la particolare, indescrivibile atmosfera in cui si è tutti immersi. Si inizia con il primo piano di Rocco mentre, interrotto il brindisi, parla della Lucania lontana, del suo paese: il paese delle olive e del mal di luna… degli arcobaleni. La voce di Delon, in una specie di esaltazione interiore, è bassissima, quasi un sussurro: e Visconti ha immaginato un crescendo di emozione che vien reso spezzando il discorso in tanti piccoli frammenti ripresi con obiettivi che aumentano la grandezza del dettaglio: si parte dal 40 e, passando per il 50 e il 75, si giunge fino al 100 che riprenderà meno di mezzo viso dell’attore e il dettaglione degli occhi. Visconti è proteso in avanti e sembra quasi trasmettere gli impulsi che costringono Delon a dire le parole in un certo modo – in quello soltanto e che non può essere diverso – e ad atteggiare il volto in maniera da rivelare sempre di più la sua sofferenza sottile, il rimpianto per la sua terra lontana, il desiderio di tornarvi: un desiderio che forse non sarà mai realizzato e che egli lascia, come in eredità prima di partire per la lunga tournée, al minore dei fratelli, Luca. È questo, a cui

assisto, un lungo momento in cui comprendo perfettamente e compiutamente il significato delle parole che mi disse Stoppa a Milano: «La regia per Visconti è quasi un fatto medianico». Quando la scena finisce rimane ancora qualche cosa di irreale tra le quattro pareti: come una presenza. Dopo il primo piano di Luca, che si inserisce nel discorso di Rocco, è ora la volta di quello della Paxinou. Visconti le chiede «un plan de sentiments» che debbono servire di commento alle parole di Rocco. Katina di rimando pretende che la parte di Rocco venga recitata da Visconti stesso: Luchino acconsente e si piazza, fuori campo, nel punto in cui stava prima Delon. E comincia, in francese, il suo discorso. E qui avviene una specie di miracolo: Visconti è diventato Rocco, prova gli stessi sentimenti di Rocco. «Volevo solo dire che un giorno, anche se non è vicino, io ci voglio tornare al paese mio…» Katina incomincia a fissare Visconti e sembra pendere dalle sue labbra. «E se non sarò io… forse per me è impossibile… qualcuno di noi ci dovrà tornare (guardando Luca): forse tu… non è vero?» Katina sembra diventare più pallida e una lacrima si affaccia lucente sul ciglio, mentre Luca, fuori campo, interviene, commosso anche lui: «Con te, ci voglio tornare». La voce di Visconti diventa tenue, come un filo: «Ricordati, Luca… che quello è il nostro paese… (Luchino sottolinea leggermente quel “nostro”, mentre gli occhi della Paxinou si riempiono di lacrime: lacrime vere che rotolano sulle sue gote scavate)… il paese delle olive e del mal di luna… il paese degli arcobaleni». Il volto della Paxinou è sempre più teso e rivela che, per la prima volta, Rosaria intuisce, anche se non comprende completamente, il tormento del suo figliuolo. E Visconti continua, fingendo di rivolgersi all’invisibile Vincenzo: «Ti ricordi Vincè… ti ricordi che il capomastro quando comincia a costruire una casa tira una pietra sull’ombra della prima persona che passa…» E Luca chiede: «Perché?» Ora il viso della Paxinou, con le lacrime che continuano a sgorgare, sembra di pietra, antica e levigata. E Luchino conclude: «Perché ci vuole un sacrificio, perché la casa venga su solida». La Paxinou è ora una statua che

improvvisamente riprende vita: ma a farla rivivere è un presagio di lutto, di dolore perché, quando la voce di Visconti s’è spenta come in un soffio, dentro Rosaria si è chiesta: «Quale sarà la vittima?»; si passa le mani avanti la bocca, sugli occhi e poi si alza di scatto perché ha inteso suonare: è Simone che torna dopo aver ucciso Nadia. Durante la scena erano tutti commossi: commossa e piangente la Paxinou, con gli occhi lacrimosi anche il piccolo Luca; e Visconti, per nascondere che anche lui è emozionato, si avvicina alla Paxinou, la bacia e le dice: «Sei talmente brava che ne voglio girare un’altra». E per altre due volte (ma Katina e Visconti sono davvero dei mostri di bravura) si ricrea la stessa atmosfera e ogni gesto diventa più fine, più preciso: e allora mi torna in mente la lettera scritta da Katina al marito dopo aver visto dirigere Visconti: «È il più grande attore che abbia mai conosciuto… e un regista che tende a quella perfezione per cui abbiamo lavorato tanto». E quelle parole che m’erano sembrate un po’ la falsa dilatazione di un sentimento col punto esclamativo, oggi, dopo la magia di questa giornata, mi appaiono piene di verità.

Risolto il problema Idroscalo (22 maggio) Oggi, anziché rientrare in teatro di posa, salgo la breve scala che conduce nella stanzetta dove lavora Garbuglia. Fin qui, quasi per una tacita presa di posizione comune, nessuno ha più parlato dell’Idroscalo. Invece voglio sapere, perché, ormai, le riprese in teatro sono quasi finite e il problema deve essere risolto in un modo o in un altro: la scena è troppo importante e non si può – né si deve – eliminare. Lo scenografo non si fa pregare, perché il problema ormai non esiste più. A Milano, anche ottenendo il permesso dal puntiglioso Casati, non si può tornare per diverse ragioni: innanzitutto perché l’aspetto

dell’Idroscalo, con l’inoltrarsi della bella stagione, è ormai mutato e ha perduto quello squallore necessario al clima della scena; e poi perché, dopo che la produzione ha perduto per causa della giunta provinciale oltre venti milioni, anche se le condizioni ambientali fossero ideali, non si può ricondurre a Milano l’intera troupe e le attrezzature. In un primo momento si è pensato di girare la scena in un teatro e con una piscina, e per questo sono stati preparati anche alcuni bozzetti. Ma anche questa è apparsa una soluzione di ripiego, e costosissima. Allora siamo andati in giro per trovare vicino a Roma una località adatta: abbiamo visto tutti i laghi laziali, l’idroscalo di Ostia, persino il lago Trasimeno. Infine la nostra scelta si è fermata sul lago di Fogliano, nei pressi di Latina. Con alcuni accorgimenti lo abbiamo reso simile all’Idroscalo: la luce di certe ore del giorno farà il resto. Così speriamo di poter creare l’atmosfera necessaria a quella che, non a torto, è considerata da tutti noi una delle scene più importanti di Rocco. Sicché, dopo le giornate di Civitavecchia (l’incontro tra Rocco militare e Nadia appena uscita dal carcere) ci trasferiremo a Latina e finiremo il film secondo i tempi previsti per tutte le sequenze già realizzate o da realizzare. È questa la soluzione migliore, adottata di comune accordo, e senza pressioni o resistenze dell’una o dell’altra parte, da Visconti e dalla produzione.

Tre giorni per uccidere Nadia (31 maggio, 1 e 2 giugno) Concluse felicemente le scene di Civitavecchia, eccoci a Latina. Latina non è nuova alla presenza delle troupe cinematografiche, perché il lago di Fogliano e quello di Ninfa sono gli ambienti preferiti per i film d’avventura. Ma Visconti girerà in un angolo assolutamente inedito, dove fino ad oggi nessuna macchina da presa ha mai ritratto un fotogramma: la località, che è a circa sei chilometri da Latina, si chiama Capo Portiere ed è proprietà privata (appartiene alla Società

Bonifica di Fogliano, di cui è il maggiore esponente Mecheri, il figlio d’un noto cinematografaro dell’epoca del muto): sicché, anche se esistesse, nessun Casati locale potrebbe metterci il naso. Lo spazio scelto per girare è un boschetto rado da cui parte una striscia di terra che si protende nell’acqua, formando quasi una piccola isola: un ponticello di cemento, con una piccola chiusa (non dimentichiamo che siamo in zona di bonifica), unisce quest’isoletta – su cui è stato costruito un chiosco da «bibbitaro» multicolore per gli strilli pubblicitari di limonate, birre e aranciate – al lungolago, piuttosto selvaggio e squallido, che è frenato da uno scivolo di pietre. Vicino al boschetto, di fronte – lontano, sull’altra sponda – al luogo prescelto e per molti metri sul lungolago sono stati piantati numerosi pali con fanali elettrici. Grosso modo tutta la zona dove si concluderà la vicenda di Simone e di Nadia ha la forma di una elle maiuscola. La scena è stata sezionata in tre parti: l’incontro e la lite tra Simone e Nadia; la vana corsa di Nadia inseguita da Simone, pentito d’averla picchiata, e l’arrivo della coppia fino a un certo albero; l’uccisione di Nadia e la fuga di Simone dopo il delitto. Occorreranno tre giorni (anziché i quattro che erano stati preventivati per Milano), perché è necessario attendere che la luce divenga «diffusa», in modo che il lago assuma un plumbeo, sinistro colore e le ombre scompaiano. Si può girare, a meno che certe nuvole grosse che si sono formate fin dalle prime ore del mattino sui monti lontani non giungano sul lago a nascondere il sole, per due ore, al massimo due ore e mezzo al giorno. Ma, purtroppo, il vento spira dal mare verso i monti e i grossi nuvoloni abbioccolati, pur aumentando le loro dimensioni, rimangono lontani. Tuttavia, poiché il tempo può sempre cambiare, e il vento può mutare direzione, la troupe è sul posto sin dalle otto di stamane (31 maggio). Le macchine da presa sono già sistemate, le luci egualmente, le lampade dei pali già provate; quindi si sta sotto gli alberi, sdraiati sull’erba che Ceccarelli ha fatto radere a zero, oppure si fa un salto fino al mare per fare

un bagno e prendersi la tintarella. Si respira un’aria da weekend, ma Anna Davini sta di vedetta e ogni tanto osserva i nuvoloni, pronta a fare la chiamata e a radunare tutti i componenti della troupe. Passano lentamente le ore. A mezzogiorno vengono distribuiti i cestini e l’atmosfera di gita campestre diventa ancora più vera, reale. Rotunno è a fare il bagno; Nino Cristiani, che tiene a essere sempre impeccabile, ha sfoderato per l’occasione una maglietta e dei pantaloni azzurrini da piena stagione balneare; i macchinisti e gli attrezzisti hanno ridotto al minimo indispensabile i loro indumenti: pantaloncini corti e dorso nudo. Un piccoletto si… copre con un microscopico triangolo da fiumarolo. La Girardot, in pantaloni e con un cappelletto rotondo che le ripara il viso dai riflessi del sole, ripassa le battute; Salvatori, chiuso in una stanzetta della trattoria-bar-tabaccheria-albergo al mare, si impegna in una tiratissima partita a carte, mentre il sole compie lentamente il suo giro diurno. Alle 16.30 arriva Mattia che, dopo aver depositato sul set campagnolo Liverani del Paese Sera e Perrone dell’Agenzia Italia, corre, come è consuetudine, alla ricerca di un telefono. Se un giorno morirà – commenta il lungo uomo della «giraffa» per il sonoro – sarà perché avrà ingoiato un telefono. Alle cinque, senza che Anna abbia dovuto sgolarsi, sono tornati tutti sul bordo del lago, e Visconti scende da una roulotte dove ha sonnecchiato. Qualche minuto ancora e poi la luce è come si deve. Si gira anche oggi con due macchine: un attrezzista fa segnalazioni in direzione dell’altra sponda del lago e, dopo poco, i fanali attaccati ai pali verdi si accendono. Tutti sono pronti per girare. Ed ecco l’incontro tra Nadia, che è con un cliente occasionale, e Simone, che l’attende nascosto dietro il chiosco del «bibbitaro»: Nadia vede Simone, fa un cenno al cliente, che si arresta titubante (egli non ha certo il cuore d’un leone) e si fa incontro a Salvatori che indossa un cappottaccio, i pantaloni sdruciti e calza un paio di scarpe scalcagnate, e chiede, mostrando la borsetta vuota: «Son soldi che vuoi?»

Simone non ci vede più, abbranca Nadia, le strappa il golfetto rosa che le modella il busto e letteralmente la riempie di botte. Nadia piangente cerca di fuggire gridando: «Aiuto… aiuto!» Questa è l’azione della prima giornata: un’azione che Visconti spezza in sette inquadrature che riescono molto drammatiche (anche se Luchino ha dovuto gridare a Salvatori, che è ormai ufficialmente fidanzato con la Girardot: «Picchiala, picchiala forte… Ripeti un po’ viale Tiziano») e realistiche. Ma sono ormai le 19.15 e non c’è più luce. Si riprenderà domani: «Alle nove tutti qui», grida Anna Davini dopo un breve conciliabolo con Visconti, «perché se è nuvolo si gira anche di mattina». Mentre Liverani e Perrone se ne tornano a Roma coi loro appunti, e Visconti parte con la sua rombante BMW, tutti torniamo all’albergo. E prima di spegnere la luce, per tentare di smaltire col sonno il gran sole che tutti abbiamo preso, do un’occhiata fuori dalla finestra: la luna è opaca come dietro un «velatino». Forse domani ci sarà foschia e potremo girare anche di mattina! Invece, domani – che poi sarebbe oggi – la situazione luce è come quella di ieri. Quindi anche oggi la mattinata è lietamente balneare, con un sole che arrostisce, mentre le nuvole bianche continuano a sfotterci da lontano. Alle 16.10 Anna Davini grida. Anche Peppino Rotunno, che è sempre di umore allegro, urla a pieni polmoni, facendole un po’ il verso, e fingendo un’arrabbiatura che finisce in una risata. Le camere vengono sistemate su due praticabili alti almeno un paio di metri in direzione del ponticello di cemento: una servirà per i totali, seguendo Nadia e Simone dal chioschetto fino al primo albero del lungolago, mentre l’altra riprenderà i dettagli. Visconti prova con Annie e Renato: questo primo frammento della scena di oggi già funziona. Si fa sosta per attendere la luce propizia: una luce che, corretta dai filtri di Peppino, sia perfettamente raccordata a quella di ieri sera, nel momento in cui si è dato lo stop.

Frattanto Ceccarelli spedisce l’autista Bevilacqua ad acquistare in farmacia certi sacchetti di plastica che serviranno per racchiudere il sangue. L’autista parte e torna dopo mezz’ora con dodici bustine di Olla. «La farmacia era chiusa, sono andato a casa del farmacista. Ma gli ho spiegato per che cosa servivano». Leandro Marini (che ha preso il posto di Banchelli) e il suo aiutante Gaetano Capogrossi (che ha sostituito Vittorio Biseo) cominciano ad armeggiare attorno ai sacchetti: sono pronti nel caso si riesca a girare le ultime inquadrature, ma le nuvole sono sempre tanto lontane. Mentre attendiamo l’ora X, un bel maiale nero, seguito dalla «signora» e da un paio di lattonzoli, sbuca da un campo e si mette a passeggiare per il lungolago. Una breve battuta di caccia respinge la schiera fra le stoppie. Il sole incomincia a precipitare verso il tramonto. Dopo un controllo con l’esposimetro, Peppino Rotunno dice: «Ci siamo». L’ometto dei segnali (sembra un marinaio con le bandiere, ma invece delle bandiere ha in mano grossi velatini) fa accendere le luci dei fanali sistemati dall’altra parte del lago. Visconti, dopo aver fatto provare nuovamente Annie e Salvatori (correndo loro appresso e suggerendo le parole, i movimenti, gli atteggiamenti), si appoggia al castello di tubi su cui è sistemata la Mitchell. Finalmente si gira, non senza che prima Nino Cristiani abbia lanciato un allarme: «Fermi tutti quelli che stanno vicino al praticabile: perché mentre si provava ho inteso la macchina ondeggiare». E la scena, mentre il fotografo Secchiaroli (venuto per scattare un servizio richiesto da Paris Match: anche all’estero si interessano molto, ancor prima che sia finito, del film di Visconti) spara fotografie e fotografie, viene girata: una scena piena di drammaticità, che accentua già quel senso di disperazione, appena accennato ieri, che esploderà nelle ultime inquadrature. Ora Nadia è arrivata al primo albero, sfuggendo dalle mani di Simone e, al segnale di Visconti, si ferma. La scena viene ripetuta e poi vengono girate due varianti con i brani del golfino strappato da Simone più lunghi che non nelle due precedenti inquadrature. Con rapidità straordinaria (tutti sanno

che si lotta coi secondi di luce) le camere vengono spostate, per inquadrare un’altra parte della fuga di Nadia: e a tempo di record un ramo di un albero, che disturba la ripresa, è segato da due robusti giovanotti che si danno il cambio nella bisogna per fare più presto. Una prova dell’azione: Annie giunge fino a uno spoglio albero a V, si ferma un attimo, poi a lentissimi passi, piena di una stanchezza indicibile che le pesa sulle spalle e nel cuore, muove verso un fanale del lungolago, seguita a distanza da Simone che sente, anche lui, la situazione «senza via d’uscita», e si ferma guardando verso Salvatori. Anche stavolta Luchino si sostituisce ora all’uno ora all’altra. Quando si sta per girare interviene Jerry: «Il bottone». E Visconti risponde secco: «Va bene, ma non ancora. E poi me ne ricordo». Prendo Jerry da una parte e gli chiedo che cosa sia questa faccenda di bottoni. E il garbato polacco dalla voce stentorea mi racconta che, quando si girò in teatro l’arrivo di Simone a casa di Rosaria dopo il delitto, oltre alle tracce di sangue, questi aveva un bottone in meno sul cappotto, evidentemente strappato da Nadia negli attimi della lotta estrema. Fu Visconti a staccarlo rivolgendosi a Macc: «Ricordati questo bottone che deve mancare, ricordatelo quando realizzeremo la scena dell’Idroscalo: ne sei responsabile». Ecco perché Jerry, per quanto non sia ancora arrivato il momento, ha nominato il famoso bottone. Si gira. Annie arriva all’albero a V: ha uno sguardo veramente disperato, cammina ancora verso il fanale, poi si volta come aspettando un qualche cosa che – lo fa presente il suo deciso «Jamais» lanciato in viso a Simone (che vorrebbe, sempre innamorato, tornare con lei) – avverrà, dovrà avvenire. E non batte ciglio anche quando si accorge che Salvatori, reso pazzo da quel «Jamais», dalle parole d’odio pronunciate dalla ragazza che non potrà mai perdonargli di aver «sporcato l’unica cosa pulita della sua vita», dalle parole d’amore all’indirizzo di Rocco, cava il coltello di tasca. Il volto della Girardot è stupendo: c’è l’attesa, c’è la disperazione, c’è anche la rassegnazione. Ormai per lei tutto è

finito. «Ormai puoi fare tutto quello che vuoi. Non mi importa più niente». (È, questa, una battuta quasi shakespeariana che riecheggia, anche se la situazione è ben diversa, l’ultima battuta di Jago nell’Otello: «Non chiedetemi nulla. Ciò che sapete, sapete. E da questo momento non dirò una parola».) Simone comincia ad avanzare verso di lei. Anche per lui è tutto già finito. Non c’è che da compiere un gesto: e quel gesto sarà compiuto. L’atmosfera è sempre più piena di tensione, e mentre Annie dice le sue battute, Luchino la fissa con i suoi occhi in cui sembra concentrarsi tutta la sua volontà, tutta la sua segreta forza di persuasione: quella che Stoppa chiama «la forza medianica» di Visconti. E mi sembra, nel silenzio profondo, rotto soltanto dalle parole di Annie, di sentire la voce di Visconti (eppure le sue labbra sono silenziose, strette fin quasi a scomparire) che suggerisce, o, più che suggerire, impone le parole, battuta dietro battuta, e il tono quasi d’ogni vocale. Anche la troupe è come sospesa, affascinata: e solo qualche secondo dopo lo stop ritorniamo tutti coi piedi per terra. Una variante anche qui (Nadia senza paletot, perduto durante la corsa della precedente variante); poi il controcampo: «come visto da Nadia», Simone, disperato almeno quanto la sua vittima, avanza con il coltello in pugno. E anche Renato mi sembra molto bravo. La scena viene girata tre volte, poi le ombre cupe della sera che incombe costringono Visconti a dare, per oggi, lo stop: Nadia morirà domani. Quando rientro a Latina e scendo nella hall dell’albergo, incontro Enrico Fontana, uno degli assistenti della seconda macchina che, pallidissimo, si preme una mano sullo stomaco. «Ti senti male?» «No, ho ricevuto una telefonata che m’è nata una bambina, la prima: pochi minuti fa». Tutti gli si fanno attorno, e il neo-papà Fontana offre a tutti un cognac. Oggi, 2 giugno, è festa, e per tutta la mattina, mentre Anna Davini e Ceccarelli si immergono nelle loro scartoffie, si vive come dentro un’aria da domenica al mare.

Infatti macchinisti e attrezzisti hanno chiamato sulla spiaggetta di Capo Portiere le loro famiglie, e tutti sono perduti dietro i loro figlioli che fanno il bagno, che si rosolano al sole. E, all’ora della colazione, la maggioranza trascura il «cestino» per assaggiare cozze e telline, cefalo e calamaretti: le specialità della trattoria-bar-albergo-tabaccheria di cui ho già parlato. Mi dice Bordogni: «Queste tre mattinate al mare sono state una specie di premio per tutta la troupe: una troupe che ha lavorato sodo, senza un momento di stanchezza, e che ha bisogno di un po’ di relax. Ma ha visto come tutti hanno reso in quelle due ore, due ore e un quarto di ogni giorno in cui la luce ci ha permesso di lavorare?» E anche stasera alle quattro tutti sono sul posto, rossi, cotti come gamberi, con ancora nei capelli la salsedine del Tirreno. Si comincia a girare alle 17.25. Si tratta di sistemare, prima che arrivi la luce livida dell’immediato post-tramonto, un «fegatello»: la fuga del cliente occasionale di Nadia che, quando sente gridare «aiuto», se la batte, fulmineo, per non avere grane. La fuga dell’impaurito signore è liquidata in una mezz’ora, e non appena il «cuor di coniglio» se l’è data a gambe, ci si sposta tutti oltre il ponticello, vicino al fanale presso cui lasciammo Nadia ieri sera. Anche stavolta saranno in funzione due camere: la Mitchell sul carrello che riprenderà l’avanzata di Salvatori verso Nadia e l’Arriflex che, insieme con l’altra, seguirà (con diversa angolazione e con diverso obiettivo) la morte di Nadia. Mentre si preparano le rotaie su cui scorreranno le ruote del carrello, Salvatori mi dice che, sia per lui che per la Girardot, le scene di questi giorni sono state di particolare difficoltà: «Siamo entrambi», mi spiega, «due attori istintivi. E poiché ci vogliamo veramente bene [durante la lavorazione è nato un idillio tra i due giovani: idillio che si concluderà in ottobre con un bel matrimonio a Parigi, n.d.a.] ci è veramente difficile odiarci, sia pure sul set». Ma nonostante il sentimento che è nato tra i due, posso garantire a Salvatori che le scene girate fino a questo momento sono veramente ottime: piene di verità. Visconti è di eccellente umore, scherza con tutti.

Intanto Marini e il suo aiutante – ormai ci siamo! – stanno riempiendo una serie di «vescichette» con «sangue» e le attaccano, con fili e spille, al grosso tronco di un albero. Verdenelli prova e riprova il coltello dalla lama rientrante – copia gemella di quello vero con cui Salvatori ha girato ieri – che servirà tra poco. «Vieni, Renato: proviamo», fa improvvisamente Visconti. E di colpo il silenzio scende su quella parte di lago, mentre Anna Davini e i suoi aiutanti, con la collaborazione di alcuni carabinieri, bloccano la strada che da Latina porta alla spiaggia costeggiando lo specchio d’acqua. Luchino insegna a Salvatori come deve inferire il primo colpo di coltello, come ritrarre l’arma. Per un attimo si sostituisce ad Annie e prende il suo posto ai piedi del fanale: quando vede avvicinarsi Renato (Rotunno intanto prova il carrello) allarga le braccia e due o tre volte si fa colpire. Poi pone la Girardot al suo posto e ripete il gesto che deve compiere Renato. Torna a sostituirsi ad Annie e mostra come ella debba, prima, aggrapparsi a Simone e, poi, tentare di fuggire: cade a terra, si rotola sul greto del lago chiedendo a Salvatori che lo colpisca selvaggiamente. Infine dopo aver tentato ancora una fuga impossibile verso lo specchio d’acqua (c’è pronta Anna Maria Vuturo, truccata come la Girardot, per l’evenienza che la scena debba concludersi con la vittima immersa con la testa nell’acqua: la Vuturo è specializzata in scene pericolose, ed è una bravissima nuotatrice e sciatrice acquatica; ma non servirà), si abbandona, morta. E ancora Luchino spiega (è un finissimo lavoro sul dettaglio) come Salvatori debba gettare il coltello nel lago, accorgersi di avere le mani imbrattate di sangue, tentare di pulirsele sul cappotto, scavalcare il corpo inanimato di Nadia e poi fuggire. Ora tutto è a posto: anche la luce è buona. L’atmosfera si carica improvvisamente di tensione. Annie prende la posizione di iersera. Salvatori si prepara, fuori campo, con il coltello e la «vescichetta» del sangue stretti nel pugno. «Silenzio!» «Motore». «Partito». «Azione».

Di colpo il viso di Annie riprende l’atteggiamento di iersera. Partono insieme Renato e il carrello, poi Renato entra tra le rotaie e, ripreso di spalle, muove lentamente verso Nadia (lui la «impalla» completamente, come vuole Visconti) che attende con le braccia aperte, a croce. È su di lei, le aderisce al corpo. Le braccia di Annie si richiudono attorno al collo di Renato, e Salvatori spinge il coltello contro un fianco di Nadia. Un grido strozzato della vittima. Salvatori torna a colpire, e Annie quasi gli si affloscia addosso. Renato la distacca da sé, e Annie scivola a terra. Grida, tenta di strisciare verso il lago, rotola una, due volte. Renato le è sopra, la colpisce all’impazzata, sulla schiena, sul petto, ancora sulla schiena. Poi si ferma inebetito, appena rendendosi conto di quello che ha fatto. Nadia muove ancora il capo, poi resta immobile. Salvatori si guarda la mano imbrattata di sangue, fa cadere il coltello nell’acqua. È terrorizzato. Guarda Nadia, poi l’istinto primordiale della paura lo spinge a pulirsi la mano (quasi a cancellare le tracce di quello che ha fatto). La immerge nell’acqua, si pulisce ancora sulla spalla sinistra. Ora ha capito: ha ucciso. Scavalca il corpo di Nadia, immoto, e fugge barcollando, fugge lontano. Stop. «Ottima», dice Visconti. Subito un’altra: si ripulisce Nadia, le sarte le cuciono uno strappo che s’è prodotto sul pagliaccetto nero, il truccatore corre con l’alcol per disinfettare alcuni graffi che Annie s’è fatta rotolando. Si ricomincia, e per altre quattro volte si gira la scena. «Stop. Benissimo: le fai stampare tutte», dice Visconti ad Albino Cocco. Quell’Albino Cocco che con una meticolosità incredibile per tante settimane ha preso nota di tutto quanto è stato fatto; quell’Albino Cocco che, anche lui, ha finito stasera la sua fatica. Infatti, a meno che non si giri il prologo in Lucania, la lavorazione o meglio le riprese sono finite. Ecco l’ultimo foglio del diario di lavorazione: Giovedì 2 giugno; ore 14: La troupe è sul posto di lavorazione. Lago di Fogliano. Capo Portiere.

«Idroscalo»; 16: Viene piazzato un carrello. Si attende la luce di raccordo; 17.15: Il signor Visconti prova la scena; 17.25: Si gira la scena 106/9. Buone 2 e 4; 17.35: Spostamento macchina; 17.50: Il signor Visconti prova i movimenti di macchina; 18: Si attende la luce di raccordo; 18.35: Si gira la scena 106/16, 107/17. Buone; 19.35: fine della lavorazione.

Il film è finito (4 giugno) La lavorazione è finita: cioè sono finite, come dicevo, le riprese, e il film è stato tutto girato a eccezione del prologo lucano che è stato abolito. È questo l’unico taglio di qualche importanza subito dal copione. Concludo questo diario esprimendo la certezza di aver assistito alla creazione di un’opera veramente importante, sia se osservata da un punto di vista assoluto, sia se giudicata da un punto di vista relativo, riattaccandosi Rocco a La terra trema di cui è senz’altro il secondo capitolo. E, anche, con un po’ di malinconia, per la fine di un’esperienza preziosa che mi ha permesso di valutare appieno, ogni giorno scoprendone di nuove, le straordinarie qualità del regista Visconti: di un artista sicuro, intransigente, che, come hanno scritto Festa Campanile e Massimo Franciosa, «attraverso la consapevolezza della cultura, arriva al realismo».

Il primo giudizio (14 giugno) Ho chiesto a Mario Serandrei, il montatore del film, che oltre che uno specialista è un uomo preparato, di gusto e di vasta cultura, il suo giudizio su Rocco sulla base del materiale

girato, che egli ha visto dalla prima all’ultima inquadratura. Serandrei così m’ha risposto: «Ho avuto il piacere e l’onore di montare tutti i film di Luchino Visconti. Da Ossessione a Rocco e i suoi fratelli ho potuto così seguire l’interessante e difficile cammino di questo artista intransigente. Sin dai primi pezzi girati di Ossessione ho avuto la gioia di constatare per primo lo spirito innovatore di Visconti; e mi piace ricordare non senza vanità che per primo scrissi “neorealismo” a lui, in una calda lettera elogiativa. «Rocco, secondo me, è una tappa molto importante della maturità artistica di questo regista; meglio che nei precedenti film c’è chiarezza di linguaggio, pulizia di stile, rigore e approfondimento narrativo. Il “neorealismo” si sfronda qui definitivamente delle ultime contingenti ragioni polemiche, si libera degli effetti facili e si condensa in parole semplici, essenziali. La narrazione è serena e quando, inattesamente, esplode, ha la violenza inaudita di un uragano. «Rocco è un film importante per un altro motivo: viene presentato nel clima favorevole di un pubblico che ha dimostrato di aver notevolmente affinato gusto e sensibilità. Le platee d’oggi possono comprendere tutto il valore di un film come Rocco; si può dire, anzi, che oggi c’è l’attesa di opere cinematografiche che, come questa, abbiano un significato importante e attuale dal punto di vista estetico e umano. «Come montatore dei film di Visconti, ho dovuto in passato provvedere all’esecuzione di tagli che, per quanto fatti con cura, hanno necessariamente diminuito e l’importanza e il significato di film come Ossessione, La terra trema, Bellissima, Le notti bianche. Tutti i film di Visconti sono stati finora dei film tagliati, mutilati di molte pagine che non erano affatto le più brutte, né da eliminare per motivi di censura. Come dolente esecutore dei tagli, posso addurre a mia discolpa le ragioni di noleggio che rendevano allora inevitabili i tagli stessi.

«Mi rimane ugualmente il rammarico di questo lavoro che, dal punto di vista strettamente estetico, non aveva giustificazione. «Con Rocco e i suoi fratelli per la prima volta pubblico e critica avranno la possibilità di vedere un film di Visconti integrale (la visione integrale di La terra trema è avvenuta soltanto in sale specializzate); un film che è espressione completa del suo pensiero, che ha la voluta ampiezza narrativa e il necessario respiro, un film genuino che, in fase di montaggio, ha avuto il solo labor limae del regista e non le forbici del mercante di film».

Un’altra grana: quella dei Pafundi (24 giugno) Il 2 aprile, mentre Visconti e i suoi attori erano impegnati negli esterni milanesi dell’arrivo di Rosaria con i quattro figli, e si stava preparando lo scoppio della «bomba» Idroscalo, Morando Morandini, critico cinematografico della Notte e collaboratore di numerose riviste, pubblicò su Tempo settimanale un lungo servizio, che presentava al pubblico di quel rotocalco Rocco; il titolo dell’articolo era «I Pafundi preoccupano Visconti» e seguiva subito dopo un esplosivo sommario: «Il cognome che la sceneggiatura attribuisce a Rocco e ai suoi fratelli è tipicamente lucano ma corrisponde a quello di un vescovo, di un alto magistrato e di un generale. Il regista spera, tuttavia, di non provocare suscettibilità». E nel testo del suo articolo – Morandini è un critico serio, ma qualche volta indulge alle sollecitazioni del potin dietro le quinte – si leggeva testualmente: «Sulla parola Pafundi, tipico cognome lucano, c’è qualche perplessità nell’ambiente della produzione. Si è saputo, infatti, che tra i lucani illustri che portano quel cognome ci sono un vescovo, un ex presidente di Cassazione e un generale di corpo d’armata a riposo… Conoscendo la suscettibilità degli italiani si teme che qualcuno abbia a risentirsene e pianti qualche “grana”. Uno dei Pafundi

finisce, infatti, male: in carcere, accusato di avere ucciso per gelosia la sua amante. Uno su cinque, la percentuale è bassa, ma non si sa mai». Ora, non so né posso sapere se sia stato Morandini a «scoprire» la faccenda, creando così un particolare stato d’animo negli autentici Pafundi, o se si sia fatto eco di intenzioni colte nel loro ambiente. Fatto è che, quando il film era stato ormai girato tutto, i giornali di sabato 11 giugno e di lunedì 12 pubblicarono la notizia che il dottor Rocco Pafundi, figlio dell’ex procuratore della Corte di Cassazione, aveva presentato contro Goffredo Lombardo, il regista Luchino Visconti, i soggettisti Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa un ricorso innanzi al pretore capo di Roma, chiamando in giudizio tutti i sunnominati per aver dato il nome di Rocco Pafundi al protagonista del film, e chiedendo di «togliere entro breve termine il nome civile e familiare del ricorrente da ogni scena e dalla colonna sonora del film e, nel caso di inadempimento, il sequestro del film in tutte le copie esistenti». Il pretore dottor Lignola, udite le parti, rinviava l’udienza a mercoledì 22 giugno. Frattanto il critico di Telesera chiedeva un colloquio a Visconti, il quale lo riceveva nella sua abitazione di via Salaria 366, e gli dichiarava testualmente: «Ora, in Lucania, i Pafundi si contano a centinaia. Ho scelto questo cognome perché Suso Cecchi D’Amico, di ritorno dalla Germania dove aveva curato la sceneggiatura dei Magliari di Franco Rosi, mi aveva parlato con entusiasmo di un operaio, lucano, incontrato per caso, che si chiamava Vincenzo Pafundi. Era un ragazzo straordinariamente in gamba. Decisi di prendere in prestito questo cognome e cambiai il nome di battesimo con Rocco, in memoria di Rocco Scotellaro per il quale io nutro una grandissima ammirazione. Ecco dunque la seconda verità». Dopo questa intervista e qualche altro trafiletto, il silenzio; fino a che una noterella assai breve, apparsa su un quotidiano romano del mattino – noterella non molto chiara nel dettaglio – avvertiva che un accordo era stato raggiunto tra la Titanus e il ricorrente.

Allora ho chiesto a Goffredo Lombardo elementi più precisi, ed egli mi ha dichiarato questa mattina: «Per fare cosa gradita a S.E. Pafundi ho aderito alla richiesta di mutare il cognome “Pafundi” in “Parondi”, fatto reso possibile dalle più moderne tecniche cinematografiche, che consentono tali variazioni senza rovinare la qualità della fotografia del film. Tale decisione è stata presa di perfetto accordo con Luchino Visconti. A questa soluzione si è arrivati dopo che la Titanus, innanzi al pretore, a mezzo dei suoi legali, aveva fatto la seguente dichiarazione: “L’utilizzazione del cognome Pafundi sarebbe stata legittima in forza dei princìpi giuridici regolanti la materia. Per altro la scelta definitiva del cognome dei protagonisti del film in oggetto è caduta sul cognome di Parondi. La Titanus osserva che con ciò manca la materia del contendere”. I Pafundi hanno preso atto di tale dichiarazione e hanno rinunciato al ricorso». Così anche la grana Pafundi è andata a posto, e avremo, così, i fratelli Parondi! [1] La scena cui si riferisce il diario di Rocco è la seguente: Palestra «La Lombarda». A Milano. Esterno interno sera. Mentre si ode ancora la voce di Rosaria fuori campo, scopriamo finalmente suo figlio Vincenzo che sta uscendo dall’ingresso di una modesta palestra di pugilato. VOCE ROSARIA (F.C.): …sentimi bene, Vincenzo… Tu, la tua sistemazione l’hai trovata… adesso tocca ai tuoi fratelli di avere l’occasione… un giorno o l’altro verremo… Vincenzo sale dal fondo delle scalette del sotterraneo della palestra, mentre alle sue spalle si scorge la confusa mescolanza di figure e gesti di pugili in allenamento; il brusio quasi impercettibile delle voci; i rumori alterni degli at trezzi: l’aria carica e un po’ allucinata di questo luogo di riunioni serali. Uscendo nei rigori dell’inverno, Vincenzo solleva il bavero del cappotto, un cappottuccio liso e modesto, e se ne va fregandosi le mani nude. Al suo fianco passa – all’altezza delle sue gambe – la teoria delle finestre della palestra, basse e quadrate, fortemente illuminate dall’interno. Da quei vetri freddissimi, mezzi velati dal gelo, si intravvedono frammenti dell’attività

della palestra: e ritorna, a brevi ondate, il suono delle voci confuse. [2] L’articolo da cui è tratta questa prima parte dell’intervista è «Il cinema antropomorfico», in Cinema, settembre – ottobre 1943. [n.d.r.]

APPENDICE

OLTRE IL FATO DEI MALAVOGLIA di Luchino Visconti

Interessato come sono ai motivi profondi che turbano e rendono inquieta, ansiosa del nuovo, l’esistenza degli italiani, ho sempre visto nella questione meridionale una delle fonti principali della mia ispirazione. Devo precisare che in un primo tempo mi sono accostato a questa questione, posso dire anzi di averla scoperta, per una via puramente letteraria: i romanzi di Verga. Ciò accadeva nel 1940-41 mentre preparavo Ossessione. La sola letteratura narrativa alla quale, nel quadro del romanzo italiano, sentivo di potermi riaccostare, dopo le letture giovanili, nel momento in cui col mio primo film affrontavo, sia pure con i limiti imposti dal fascismo, un tema contemporaneo della vita italiana, era quella di Mastro Don Gesualdo e dei Malavoglia. Devo dire che, fin da allora, maturai il progetto di fare un film da questo romanzo. Poi venne la guerra, con la guerra la Resistenza e con la Resistenza la scoperta, per un intellettuale della mia formazione, di tutti i problemi italiani, come problemi di struttura sociale oltre che di orientamento culturale, spirituale e morale. Le differenze, le contraddizioni, i conflitti tra Nord e Sud cominciarono ad appassionarmi al di là del fascino esercitato su di me, come settentrionale, dal mistero del Mezzogiorno e delle isole, ancora ai miei occhi assai simili alle terre sconosciute che scoprirono i Mille di Garibaldi. Vittorini aveva suonato un buon allarme con le sue «conversazioni». La chiave mitica in cui fino a quel momento avevo gustato Verga non mi fu più sufficiente. Sentii impellente il bisogno di scoprire quali fossero le basi storiche, economiche e sociali, sulle quali era cresciuto il dramma meridionale, e fu

soprattutto con la lettura illuminante di Gramsci che mi fu consentito il possesso d’una verità che attende ancora d’essere decisamente affrontata e risolta. Gramsci non soltanto mi persuase per l’acutezza delle sue analisi storico-politiche che mi spiegavano fino in fondo le ragioni, il carattere del Mezzogiorno come grande disgregazione sociale e come mercato di sfruttamento (di tipo coloniale) da parte della classe dirigente del Nord, ma perché, a differenza di altri importanti autori meridionalisti, mi dava l’indicazione pratica, realistica, di azione per il superamento della questione meridionale come questione centrale dell’unità del nostro paese: l’alleanza degli operai del Nord con i contadini del Sud, per spezzare la cappa di piombo del blocco agrario industriale. Mi illuminò inoltre, Gramsci, sulla funzione particolare, insostituibile degli intellettuali meridionali per la causa del progresso, una volta che fossero stati capaci di sottrarsi al servilismo del feudo e al mito della burocrazia statale. La bontà dello schema gramsciano ha trovato conferma nelle lotte del dopoguerra. E, malgrado le grandi trasformazioni avvenute nel Mezzogiorno e in Sicilia sulla base dei movimenti contadini per la riforma agraria, per l’autonomia e per l’industrializzazione, sembra a me che l’indicazione del grande combattente antifascista sia rimasta insuperata. Ma si potrà chiedere perché nei miei film di ispirazione meridionale io mi sia addentrato in drammi essenzialmente psicologici, sulla linea costante della rappresentazione del tema verghiano del fallimento, dei «vinti» insomma. Cercherò di rispondere a questa osservazione. Un film nasce da una condizione generale di cultura. Non potevo partire, volendomi accostare alla tematica meridionale, che dal più alto livello artistico raggiunto sulla base di tale contenuto: da Verga. A ben guardare, però, anche nella Terra trema io ho cercato di mettere a fuoco, come fonte e ragione di tutto lo svolgimento drammatico, un conflitto economico. La chiave di volta degli stati d’animo, delle psicologie e dei conflitti, è dunque per me prevalentemente sociale, anche se le

conclusioni a cui giungo sono soltanto umane e riguardano concretamente gli individui singoli. Il lievito. Però, il sangue che scorre nella storia è intriso di passione civile, di problematica sociale. E così, Rocco. La questione dei rapporti tra fratelli e tra figli e la madre non mi ha certo interessato meno di quella che una simile famiglia provenisse dal Sud, fosse una famiglia meridionale. Operando questa scelta non mi sono limitato, però, alla ricerca d’un materiale umano particolarmente suggestivo, ma ho consapevolmente deliberato di tornare sul problema del rapporto tra Nord e Sud, così come può tornarvi un artista il quale voglia, per così dire, non soltanto commuovere ma invitare al ragionamento. Si rifletta su questo: in un momento in cui l’opinione ufficiale che si tende ad accreditare è quella di un Mezzogiorno e di una Sicilia e di una Sardegna trasformati dalla presenza d’un maggior numero di strade asfaltate, di fabbriche, di terre distribuite, di autonomie amministrative assicurate, io ho voluto ascoltare la voce più profonda che viene dalla realtà meridionale: vale a dire quella d’una umanità e d’una civiltà che, mentre non hanno avuto che briciole del grande festino del cosiddetto miracolo economico italiano, attendono ancora di uscire dal chiuso di un isolamento morale e spirituale che è tuttora fondato sul pregiudizio tipicamente italiano che tiene il Mezzogiorno in condizioni di inferiorità rispetto al resto della nazione. Forse ho forzato questo tema in modo energico e persino violento, ma nessuno potrà rimproverarmi di averlo forzato in modo arbitrario e propagandistico. Mi potrei avvalere del conforto della cronaca che registra ogni giorno l’odissea dei lavoratori meridionali che vanno al Nord in cerca di lavoro e di fortuna. Ma per quanto mi sia facile affermare che la storia di Rocco e i suoi fratelli potrebbe benissimo figurare in una di quelle notizie di cronaca, io desidero rivendicare il carattere di tipicità. Nella particolarità del tutto fantastica dei miei personaggi e della vicenda, io credo di aver posto un problema morale e ideale che è tipico del momento storico in cui

viviamo e che è tipico dello stato d’animo aperto, da un lato, alla speranza e alla volontà di rinascita del meridionale, dall’altro lato, continuamente respinto, per l’insufficienza dei rimedi, verso la disperazione o verso soluzioni del tutto parziali come quella dell’inserimento individuale, di ogni singolo meridionale in un modo di vita impostogli dall’esterno. In questo quadro ho collocato la mia vicenda che, come è noto, arriva fino al delitto, centrando un aspetto del carattere meridionale che mi pare di grande importanza: il sentimento, la legge, e il tabù dell’onore. Rispondo alla seconda questione. Il tema della sconfitta, dell’irrisione, da parte della società, dei più generosi impulsi individuali, è un tema moderno quant’altri mai. Vi sono tuttavia almeno due modi di trattarlo. Vi è un modo estetico e compiaciuto che io non esito a definire asociale, anzi antisociale. V’è un modo, invece, che esamina le condizioni della sconfitta nel quadro delle difficoltà imposte dall’ordine costituito e che tanto più si arricchisce di speranza e di energia quanto più fa emergere dalla rappresentazione artistica il volto reale dell’ostacolo e il rovescio luminoso di una diversa prospettiva. Verga arrestava il suo processo inventivo e analitico alla prima fase di questo metodo. Il mio tentativo è stato quello di estrarre dalle radici stesse del metodo verghiano le ragioni prime del dramma e di presentare al culmine dello sfacelo (nella Terra trema: il dissesto economico della famiglia Valastro; in Rocco: la frana morale nel momento di maggiore assestamento economico) un personaggio che chiaramente, quasi didascalicamente (non ho paura della parola) le mettesse in chiaro. Qui, in Rocco, non a caso questo personaggio è Ciro, il fratello divenuto operaio, che non soltanto ha dimostrato una capacità non romantica, non effimera di inserirsi nella vita, ma che ha acquistato coscienza di diversi doveri discendenti da diversi diritti. Tutto sommato, e devo dire senza accorgermene, il finale di Rocco è riuscito un finale simbolico, direi emblematico delle

mie convinzioni meridionaliste: il fratello operaio parla col più piccolo della famiglia d’una visione futura del suo paese che raffigura quella idealmente unitaria del pensiero di Antonio Gramsci. Come si vede sono arrivato a conclusioni sociali, e persino politiche, avendo percorso durante tutto il mio film soltanto la strada dell’indagine psicologica e della ricostruzione fedele d’un dramma umano. Pessimismo il mio? Esasperazione e forzatura polemica di tutti i conflitti? Pessimismo, no. Perché il mio pessimismo è soltanto quello dell’intelligenza, mai quello della volontà. Quanto più l’intelligenza si serve del pessimismo per scavare fino in fondo le verità della vita, tanto più la volontà si arma, a mio avviso, di carica ottimistica, rivoluzionaria. Esasperazione dei conflitti? Ma questo è il compito dell’arte. L’essenziale è che i conflitti siano reali. Io credo perciò di aver dato con Rocco non un quadro di parte, ma un quadro sul quale tutti, purché animati di buona volontà, possono convenire: nel condannare ciò che merita condanna e nell’assumere quelle speranze, quelle aspirazioni cui nessun uomo libero può davvero rifiutarsi. (Da Vie nuove, ottobre 1960)

ROCCO E I SUOI FRATELLI di Alberto Moravia

Rocco e i suoi fratelli narra la storia d’una famiglia meridionale che, essendo morto il capofamiglia, emigra a Milano dove già si trova il figlio primogenito. I fratelli sono cinque e precisamente Vincenzo, Simone, Rocco, Ciro e Luca; ma in realtà gli avvenimenti riguardano soprattutto Simone e Rocco. Infatti, mentre Vincenzo, Ciro e Luca, rispettivamente muratore, operaio all’Alfa Romeo e fattorino, ci sono mostrati sullo sfondo e sono assai poco caratterizzati, Rocco e Simone, entrambi pugilatori, hanno tutto lo spicco e la complessità di due protagonisti. I due fratelli, già rivali nel mestiere, lo diventano anche nell’amore, allorché Rocco s’invaghisce della ragazza di Simone, Nadia. Va a finire che Simone, il quale s’è lasciato andare ad una vita dissipata e truffaldina e ha dovuto abbandonare il ring, cerca di rivalersi stuprando per sfregio Nadia e picchiando selvaggiamente Rocco, che li ha sorpresi insieme in un prato della periferia. Rocco perdona a Simone e cerca di salvarlo ma Simone, ormai lanciato sulla strada d’una morbosa degradazione, uccide a coltellate Nadia. Rocco s’avvia verso il campionato, Simone finisce in galera, gli altri tre fratelli s’adattano e diventano bravi operai milanesi. Visconti con questo film sembra aver voluto illustrare il dramma dell’emigrazione interna italiana. In che cosa consiste questo dramma? Brevemente, è lo stesso dramma degli emigrati italiani a New York o a Buenos Aires. L’ambiente socioculturale, assai fragile e decrepito, dei paesi d’origine non resiste al trapianto e va in polvere, e l’emigrante si trova nudo e indifeso in un mondo del tutto straniero. Di solito gli emigranti reagiscono in due modi alle difficoltà dell’adattamento: sia, se sono vecchi, regredendo agli usi e

costumi del paese originario, e allora abbiamo la sottocultura di Little Italy; sia, se sono giovani, cercando d’inserirsi nella cultura del paese d’adozione, e allora abbiamo l’ibridismo penoso della seconda generazione. Ma è poi veramente questo l’argomento del film di Visconti? Secondo noi, invece, il dramma dell’emigrazione è rimasto nell’ombra. Per esempio, la sconfitta e il disfacimento morale di Simone appaiono nel film come un fatto piuttosto individuale che sociale, ossia Simone è debole perché è debole e non perché è emigrato. Né Visconti ha illustrato le difficoltà che possono incontrare quattro meridionali nella ricerca di un lavoro a Milano. I quattro fratelli Parondi trovano da lavorare in maniera perfino troppo liscia e facile. Il silenzio sulle difficoltà d’adattamento rende superfluo l’impianto veristico dei personaggi, specie di Simone. Infatti, il personaggio veristico è credibile e accettabile soltanto se le sue determinazioni sociali sono fortemente sottolineate. L’argomento vero del film sono invece i rapporti affettivi d’una famiglia meridionale e comunque italiana. Visconti questi rapporti li sente profondamente, con quasi dolorosa intensità; la rivalità di mestiere e d’amore dei due fratelli è così il perno di tutta la vicenda in quanto consente al regista di mostrare, controluce, tutta la complessità e la delicatezza del sentimento che lega Rocco a Simone e agli altri fratelli. Guardando al film da quest’angolo visuale appare spiegata e giustificata anche l’eccessiva lunghezza della scena in cui Simone picchia Rocco: lo picchia con tanto accanimento perché l’ama. Altresì Visconti ha avuto la mano felice in tutte le sequenze d’insieme della famiglia Parondi, sia pure con qualche concessione al verismo di genere. Invece meno ci persuadono gli amori di Nadia; in realtà i due fratelli s’amano troppo per amare anche una donna. Visconti ha girato il film con maestria, Rocco e i suoi fratelli è senza dubbio il suo miglior film dopo La terra trema. Forte, diretto e brutale benché, a momenti, un poco freddo, il film rispecchia fedelmente nelle sue compiacenze di crudeltà e nella sua minuzia descrittiva le due componenti del singolare

talento del regista: quella decadentistica e quella sociale. Tra gli interpreti i due migliori sono senza dubbio Renato Salvatori, un Simone di grande efficacia anche se un poco risaputo, e Alain Delon, un Rocco originale e delicato. Spiros Focas e Max Cartier sono bravi quanto basta in due personaggi appena abbozzati. Annie Girardot è una Nadia molto espressiva, Katina Paxinou una madre di forte rilievo. Tra gli altri interpreti bisogna ricordare soprattutto Paolo Stoppa, Claudia Cardinale, Corrado Pani, Adriana Asti, Claudia Mori. (Da L’Espresso, 23 ottobre 1960)

I CREDITS DEL FILM

Regia Produzione Produttore

Soggetto

Sceneggiatura

Aiuto regista Assistenti alla regia Segretario di edizione Ispettori di produzione Segretari di produzione Operatori alle macchine Assistenti operatori Aiuto operatore Tecnico del suono

Luchino Visconti Titanus (Roma) Les Films Marceau (Parigi) Goffredo Lombardo Luchino Visconti Vasco Pratolini Suso Cecchi D’Amico (basato sul libro Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori) Luchino Visconti Suso Cecchi D’Amico Pasquale Festa Campanile Massimo Franciosa Enrico Medioli Rinaldo Ricci Jerry Macc Lucio Orlandini Albino Cocco Anna Davini Luigi Ceccarelli Romolo Germano Mario Licari Nino Cristiani Silvano Ippoliti Franco Delli Colli Osvaldo Massimi Enrico Fontana Roberto Gengarelli Giovanni Rossi

Fotografo di scena Scenografia e ambientazione Aiuto architetto Aiuto arredatore Costumi Aiuto costumista Truccatore Parrucchiere Montaggio Musica Direttore di produzione Fotografia

Paul Ronald Mario Garbuglia Ferdinando Giovannoni Pasquale Romano Piero Tosi Bice Brichetto Giuseppe Banchelli Vasco Reggiani Mario Serandrei Nino Rota, diretta da Franco Ferrara Giuseppe Bordogni Giuseppe Rotunno

I personaggi

Alain Delon Renato Salvatori Max Cartier Spiros Focas Rocco Vidolazzi Katina Paxinou Annie Girardot Alessandra Panaro Claudia Cardinale Renato Terra Corrado Pani Suzy Delair

Rocco Parondi Simone Parondi Ciro Parondi Vincenzo Parondi Luca Parondi Rosaria, la madre Nadia Franca, la fidanzata di Ciro Ginetta, la fidanzata di Vincenzo Alfredo, il fratello di Ginetta Ivo Luisa, la padrona della stireria

Claudia Mori Adriana Asti Enzo Fiermonte Paolo Stoppa Roger Hanin Nino Castelnuovo Rosario Borelli

commessa della stireria commessa della stireria allenatore di pugilato Cecchi, l’impresario di pugilato Duilio Morini Nino Rossi, amico di Simone biscazziere

INDICE

Introduzione di Goffredo Fofi Rocco e i suoi fratelli Dovevo farlo di Goffredo Lombardo Cronaca del film di Gaetano Carancini Appendice Oltre il fato dei Malavoglia di Luchino Visconti Rocco e i suoi fratelli di Alberto Moravia I credits del film