Rivoluzione e reazione. Lo Stato tardo-capitalistico nell'analisi della sinistra comunista

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Rivoluzione e reazione. Lo Stato tardo-capitalistico nell'analisi della sinistra comunista

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(1983) Tipografia MORI & C, S.p.A. - 21100 Varese - Via F. Guicciardini 66

PREMESSA I materiali raccolti in questo volume rientrano in un più vasto progetto di ricerca su « La sinistra comunista italiana negli anni trenta » in corso di svolgimento presso la cattedra di Socio­ logia giuridica della Facoltà di Scienze Politiche dell’università degli studi di Messina con un contributo del Ministero della Pubblica Istruzione. Il marxismo nella sua storia ormai più che secolare ha subi­ to un processo di ideologizzazione la cui genesi si può far risali­ re alla Seconda Internazionale quando esso venne considerato una Weltanschaung proletaria alternativa^ ma non antitetica, alla Weltanschauung borghese (1 ). La rivoluzione d’Ottobre e la conseguente fondazione del­ l’Internazionale comunista, pur rompendo con il precedente in­ dirizzo, finirono per riproporlo in quanto, inserendo il marxismo in una dimensione statalista, lo sconvolsero ulteriormente facen­ dogli assumere connotati di un sistema politico conservatore. Contro le prime manifestazioni di questa tendenza, cioè contro la metamorfosi del marxismo da teoria critica a ideologia, si pronunciarono i cosiddetti marxisti occidentali, in particolare Korsch e Lukacs, alla cui problematica la ricerca si ricollega (2). In questo contesto interpretativo il concetto di « ortodossia marxista » assume il significato ambivalente e contraddittorio ri­ levato da Lukacs evitando così che le fasi di evoluzione-involu­ zione nella metamorfosi ideologica del marxismo, scisse dalle cause reali che le sottendono, vengano sfumate e ricondotte al­ l’interno di un’unica e indifferenziata corrente di pensiero. (9 Cfr. I. Fetscher, Marx e il marxismo, Sucargo, Firenze 1969. (2) Cfr. K. Korsch, Marxismo e filosofia, Sucargo, Firenze 1978; K. Korsch, Crisi del marxismo in Dialettica e scienza del marxismo, Laterza, Bari 1974; G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, Sucargo, Milano 1979.

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In particolare la ricerca intende verificare se accanto e/o contro al marxismo ufficiale si esprima un altro marxismo con una sua propria autonomia critica; non si propone però di de­ scrivere un « pensiero », ma di cogliere nello studio di una cor­ rente politica, la Sinistra comunista italiana, i livelli di com­ penetrazione conoscitiva da essa raggiunti nelle proprie espres­ sioni teoriche collegandola alla sua base sociale. Questa imposta­ zione metodologica comporterà difficoltà che nascono non solo dalla ricostruzione di un dibattito politico che ha manifestato ca­ ratteri di discontinuità, ma anche dalla stessa mancanza di pre­ cedenti ricerche che ne possano costituire la necessaria pre­

messa. In Italia, dove è sorta la Sinistra comunista italiana, una delle correnti più interessanti nell’ambito del marxismo critico, non solo la letteratura, ma le stesse ricerche sull’argomento so­ no pressjocché inesistenti. Tale carenza contrasta con il livello degli studi condotti su analoghe correnti politiche in altri paesi; in particolare nella Germania Federale il numero di pubblica­ zioni apparse negli ultimi anni testimonia la fase avanzata rag­ giunta in questo particolare settore di ricerca degli studi poli­ tologici. Inoltre la diaspora della Sinistra comunista italiana nell’e­ migrazione politica antifascista {Francia, Belgio, Olanda, Stati Uniti, Messico), complica la ricerca delle fonti documentarie di­ sperse in archivi privati o in istituti esteri. La fase quindi di sistemazione analitica delle fonti, non po­ tendosi avvalere di alcun particolare apporto letterario se non marginalmente, deve seguire un criterio di estrapolazione dalla letteratura riguardante analoghe correnti politiche nei confronti delle quali possano essere intercorsi rapporti e procedere, per deduzione, dal confronto delle rispettive elaborazioni teoriche. La ricerca comprende un arco di tempo che va dalla crisi di di­ rezione dell’Internazionale comunista (1923-25) — genesi delle opposizioni — alla seconda guerra mondiale — disgregazione delle opposizioni — e si propone: In una prima fase, di ripercorrere « ricostruendola » la sto­ ria politica della Sinistra comunista italiana dalla costituzione del

PREMESSA

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Comitato d’intesa (1925) all’emigrazione estera (1928: costitu­ zióne della Frazione di sinistra del Partito comunista d’Italia), sino alla crisi nel corso delle vicende belliche. Questa ricostru­ zione impone l’adozione, quale tecnica di indagine, della ricerca documentaria e della successiva analisi qualitativa, con particola­ re riferimento ai metodi dell’analisi del contenuto, del materiale documentario raccolto. In una seconda fase, di analizzare l’elaborazione teorica del­ la Sinistra comunista italiana e sottolineare i contributi da essa apportati allo sviluppo del marxismo critico in rapporto alla ideologizzazione del marxismo terzinternazionalista; di svolgere un confronto analitico con l’elaborazione di analoghe correnti politiche coeve (in particolare: Trotckji e i trotckisti, la Sinistra tedesca, la Sinistra olandese), facendo emergere gli aspetti di re­ ciproca influenza in un contesto che possa delineare i presuppo­ sti dei rispettivi retroterra culturali.

A.G.

La traduzione dei testi è di D. Erba con la revisione di A. Giasanti e A. Peregalli.

INTRODUZIONE

1. « Dalle rovine del capitalismo distrutto emerge il nuovo borghese (nowij burjui), l’uomo della NEP, il nuovo mercante, pri­ mitivo come nei primi tempi del capitalismo, senza borsa e senza li­ stini di borsa, soltanto con la stilografica e il cambio. (...) Tutto ciò non riesce a preoccupare il proletariato. Le persone ric­ che — così si ragiona — verranno schiacciate dalle crescenti imprese di Stato. Tra cinque anni non ci saranno più. ‘È un periodo di tran­ sizione’ — dicono gli operai — e intendono transizione allo Stato socialista. Ma anche i borghesi dicono: ‘È un periodo di transizione’ — e intendono transizione alla democrazia capitalistica. Gli uni e gli altri aspettano quello che verrà e per il momento non si danno fasti­ dio in modo percepibile ».

(Joseph Roth, Il borghese risorto, « Frankfurter Zeitung » 19 ottobre 1926).

Le parole di Roth colgono il dramma della società russa post-rivoluzionaria: una società scossa nel fondo delle sue visce­ re da violenti contrasti di classe che alla superficie emergevano con una lotta sorda, senza partiti, senza bandiere, senza dichia­ razioni di guerra. Sfumando e mistificando nel suo tortuoso per­ corso i propri connotati di classe, la lotta confluiva ed esplodeva dirompente in un unico punto: il partito comunista. Questo con­ torto estrinsecarsi della lotta politica ha fatto sì che in sede sto­ riografica spesso venisse confusa la storia del Partito-Stato con la storia dell’Unione Sovietica, tendendo a capovolgere i termini di un rapporto in cui il Partito-Stato fu solo la cassa di risonanza o meglio il polo di attrazione di antagonismi sociali che nascevano al di fuori di esso;

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Una volta isolato in un ambito in cui prevale l’astrazione ideologica, lo scontro che negli anni ’20 lacerò il PCRb assume ima dimensione fuorviarne. Ponendosi in questa dimensione, e arricchendola con i propri connotati crociani, la storiografia ita­ liana ha avvolto lo sbocco staliniano della crisi politica sovietica in un mantello di falsa oggettività che trascende i reali contrasti di classe e, a prescindere da motivazioni contingenti, ha ignorato o emarginato quanto avveniva al di fuori di un ‘divenire storico’ ravvisato nella « linea generale » (*). Il nuovo corso storiografico per quanto si ponga in una differente problematica e tenda a superare i precedenti criteri interpretativi, resta tuttavia influenzato da questi ultimi nella misura in cui ne ripropone la medesima filosofia della storia (2). L’odierna saggistica, pur basandosi su una notevole opera di ri­ cerca e pur addentrandosi in approfondite analisi, oltre a lascia­ re ancora in ombra molte zone, indulge spesso al descrittivismo e difficilmente coglie la contraddittorietà della dinamica sociale che sottende la disgregazione del movimento rivoluzionario co­ munista nelle sue interrelazioni con l’involuzione dello Stato So­ vietico. Certamente la dinamica sociale alla fine degli anni ’20 e negli anni ’30 è la dinamica di un riflusso che fa emergere la 0) L’espressione « linea generale » indica l’indirizzo plebiscitario impostosi nel partito russo una volta eliminata ogni forma di opposizione e di critica interna dopo il XV congresso. Essa si identifica con le posizioni del segretario generale, Stalin. In sede storiografica, e non solo in opere piattamente agiografiche, viene appunto presentata come l’unica soluzione possibile, eventualmente perfettibile, che coglie l’oggettività del momento. (2) Non ci riferiamo a particolari opere, ma al complessivo indirizzo storio­ grafico. Inoltre il contributo italiano allo studio della rivoluzione russa e del movi­ mento comunista internazionale è stato alquanto modesto e per lungo tempo subor­ dinato alle vicende del comuniSmo italiano, assumendo così profonde connotazioni politico-ideologiche che ne hanno minato la validità scientifica. Solo nell’ultimo de­ cennio, sulla spinta della storiografia anglo-americana, abbiamo assistito a un notevole progresso in questo campo. Tuttavia i recenti studi, a prescindere dalla nostra pre­ cedente osservazione, a livello metodologico, seppure con una corretta concezione dell’interdisciplinarietà, presentano le limitazioni di un’impostazione particolaristica nella frammentazione delle tematiche. La nuova dimensione raggiunta dalla storio­ grafia italiana trova la sua conferma nel convegno organizzato dall’istituto Gramsci (gennaio 1978) sul tema Momenti e problemi della storia dell’URSS; cfr. S. Berto­ lis si (a cura di), Momenti e problemi della storia dell’URSS, Ed. Riuniti, Roma 1978.

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forza ascendente della reazione e della conservazione e, di fronte a queste ultime, un’indagine fenomenologica, per quanto accura­ ta; possa essere, trova poco spazio per la dinamica della lotta di classe e per le sue espressioni politiche che, sommerse da forze avverse, vengono sospese nel limbo del «non divenire». La dia­ lettica della lotta delle classi sconvolge una simile concezione del divenire storico, lineare e esteriore, che eternizza l’immagine del passato nell’ideologia del presente. Il filo conduttore della lotta di classe non può essere scorto negli aspetti fenomenici della so­ cietà, ma deve essere rintracciato nelle interrelazioni sotterranee, sottostrutturali, che ne sorreggono le impalcature esterne. Questo filo sotterraneo che formalmente possiamo chiamare partito, cor­ rente o frazione rivoluzionaria, o con altri nomi, è riassunto nel termine «coscienza di classe»: esso è l’estrinsecazione di una coscienza antitetica che si contrappone, negandola, alla falsa co­ scienza, o ideologia, della classe dominante. Come tale, come espressione di ciò che è subalterno, dominato, reificato, si mani­ festa nella sua compiuta totalità occasionalmente, nella rottura, nel salto e nel superamento dialettico della propria negatività, ossia nella rivoluzione. Se il vecchio contiene il nuovo e il nuovo contiene il vecchio, è indubbiamente più facile scorgere il vec­ chio nel nuovo che il nuovo nel vecchio: il vecchio rappresenta sempre la forza della continuità che tende alla conservazione di un preesistente stato di cose. Il processo rivoluzionario rompen­ do la continuità deve negarla per poter esprimere una nuova fa­ se da cui emergano le forze sociali liberate dai vincoli dei vecchi rapporti di produzione. Restare ancorati a una visione del mon­ do superata dal salto dialettico vuol dire non comprendere il movimento reale delle forze rivoluzionarie che solo allora ap­ paiono sulla scena della storia. La discontinuità del « filo rosso » rivoluzionario si manifesta in processi contraddittori, alterni, episodici, frammentari la cui mera registrazione fenomenica coglie solo ciò che « era ‘scoria’ casuale e contingente, cronaca e non storia, episodio superficiale, trascurabile, in ultima analisi »(3), restando preda delle «fantasime carlailiane ». (3)

A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 1977, vol. II, p. 873.

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Per afferrare l’essenza di un processo storico occorre son­ darlo, individuare i fili che legano le « scorie » superficiali alle sue viscere, esteriorizzare ciò che è interno, raddrizzare ciò che è capovolto. A maggior ragione la ricostruzione politica di un mo­ vimento rivoluzionario avviene solo nella sfera del suo disconti­ nuo manifestarsi in relazione alla classe che lo incarna. Questa affermazione non deve indurre a un populismo banale che iden­ tifica, o confonde, la storia di un movimento rivoluzionario con la storia della classe; l’identificazione è valida solo quando il rapporto tra movimento rivoluzionario e classe, esprimendosi attraverso un reale movimento di antitesi all’ordine di cose esi­ stente, crea i presupposti alla negazione-superamento di quest’ul­ timo. Nei momenti di riflusso o di sconfitta della classe domina­ ta, la forza rivoluzionaria viene trascinata dallo scompaginamen­ to generale, dalla frammentazione, dalla dilaniarne contrapposi­ zione di interessi che esplodono nel seno stesso della classe, ed essa si riduce ai minimi termini fino quasi scomparire. Questa fase chiamata contro-rivoluzione e che, indipendentemente dalle cause immediate della sconfitta, può durare per lunghi periodi, non comporta la scomparsa della forza rivoluzionaria che ha la sua ragione di essere nella lotta di classe stessa, comunque essa si esprima. Il movimento rivoluzionario viene piuttosto disgregato da un processo che, sommergendo l’interesse fondamentale della classe ne rende difficile l’identificazione. Lo studio della contro­ rivoluzione non può quindi essere disgiunto dallo studio della classe sconfitta e di conseguenza dallo studio della disgregazione del movimento rivoluzionario, la cui sopravvivenza costituisce una « scoria » solo per chi si pone nell’ottica della controrivolu­ zione trionfante invece che nella ricerca di una premessa per la ripresa rivoluzionaria (4). Lo studio della disgregazione di un movimento rivoluziona­ rio, che è studio di minoranze rivoluzionarie, deve porsi lo scopo (4) Nel 18 Brumaio Marx afferma che le rivoluzioni criticano continuamente sé stesse. L’autocritica rivoluzionaria si esercita nelle fasi di riflusso, dopo una scon­ fitta, e si manifesta nei mille rivoli nei quali è stato disgregato il movimento rivo­ luzionario. Per poterla ricomporre nella sua totalità occorre raccogliere le tessere del complesso mosaico nella quale essa ha avuto i suoi momenti di espressione.

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di individuare i momenti in cui la classe trova occasione di riflet­ tere sé stessa e, posto in questa sfera il rapporto tra classe e for­ ze rivoluzionarie, deve saper distinguere — ma solo in questo rapporto — ciò che è espressione del processo complessivo con­ siderato dalle sue « scorie », le quali, tuttavia, rappresentano sempre una testimonianza negativa. Nella dinamica della contro­ rivoluzione i rapporti tra classe e forze rivoluzionarie, sotto la coltre totalizzante dell’ideologia borghese, sono resi incerti, pro­ blematici e perfino distorti proprio perché l’ondata disgrega­ trice colpendo la classe colpisce il movimento rivoluzionario av­ viando un’azione di reciproca frammentazione in cui i momenti di riaffermazione unitaria assumono il carattere di precarietà ed episodicità. Quindi, solo le forze che afferrando l’essenza della controrivoluzione seguono una via controcorrente e, non abban­ donando il legame con i fini storici della classe, tendono a supe­ rare la reificazione della coscienza di classe del proletariato, solo queste forze costituiscono i poli a cui è possibile riannodare il « filo rosso » rivoluzionario. Nel contesto storico da noi considerato per poter definire i punti che in seno alla classe hanno costituito la congiunzione col « filo rosso » rivoluzionario occorre stabilire la reciprocità delle relazioni nella loro origine immediata: la rivoluzione d’Ottobre. Ad essa ed al processo rivoluzionario da essa avviato devono es­ sere ricondotte e rapportate le correnti di opposizione che sorse­ ro in seno allTnternazionale comunista nella seconda metà degli anni ’20 e che, di quel processo, erano state parte integrante nel­ la sua fase ascendente. Nella misura in cui la rivoluzione russa fu un momento nel quale trovò e al quale dette alimento il movimento rivoluziona­ rio mondiale e nella misura in cui il rifluire di entrambi divenne un momento di reciproca disgregazione centrifuga, la contrappo­ sizione tra questi due momenti determinò una serie di interrela­ zioni che colpirono il '.proprio rivoluzionario complessivo nelle sue singole componenti. Questa antitesi non può venire annegata in un mistificante continuum stòrico che seppellisce eterizzan­ dolo l’Ottobre, perché è da essa che emergono le contraddizioni esplose in seno al movimento della classe, contraddizioni che

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hanno la loro espressione nell’opposizione al riflusso e all’invo­ luzione rivoluzionaria. Pertanto la corretta analisi delle contrad­ dizioni che investirono il processo rivoluzionario resta la neces­ saria premessa per valutare la genesi delle correnti di opposi­ zione. Nell’ambito di questa introduzione non possiamo adden­ trarci in un’analisi che richiederebbe uno spazio molto più va­ sto, ci limitiamo a riassumere, sulla base delle precedenti consi­ derazioni, i tratti salienti della situazione creatasi in URSS al­ l’indomani della rivoluzione, al fine di sottolineare quegli aspet­ ti, o meglio, per evidenziare dei criteri interpretativi che per­ mettono di cogliere nella loro essenzialità i presupposti da cui muovono le tesi sostenute dalla Frazione di Sinistra del PCd’I e, al tempo stesso, presentare quest’ultima nella sua dimensione storico-politica. 2. La Nuova politica economica (Nep) ha costituito e co­ stituisce il punto centrale su cui è stato impostato il dibattito sulla rivoluzione russa, sia per definirne le cause sia per definir­ ne le conseguenze, indipendentemente dajle valutazioni che sono state e si sono tratte. Nel marzo 1921 Lenin, al X congresso del PCRb, presentò le sue tesi sulla Nep. L’avvento della Nep coincideva con la fine della guerra civile — di fatto vera e propria guerra di aggressio­ ne imperialista contro la giovane repubblica — e con la palese constatazione dei limiti contingenti e forzosi del cosiddetto « co­ muniSmo di guerra ». Come è noto gli ultimi scritti di Lenin sul­ la, Nep, sull’imposta in natura e sulla cooperazione (s), alimenta­ rono interminabili polemiche in seno al partito invischiandolo in una bizantina esegesi filologica dei testi. Lenin aveva presentato la Nep come una necessaria ritirata che permettesse al potere sovietico di consolidarsi, per creare le basi della edificazione della società socialista e, come tale, fu (5) Alcuni scritti fondamentali del periodo sono pubblicati nell’antologia: Lenin, La costruzione del socialismo, Ed. Riuniti, Roma 1972; in essa non è com­ preso l’articolo Sulla cooperazione, in Opere, Ed. Riuniti, Roma 1967, vol. XXXIII, p. 433, ed il cosiddetto Testamento, in Opere, vol. XXXVI, p. 429.

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progressivamente condivisa da tutto il partito. Per più di quattro anni la Russia aveva dovuto sostenere disperatamente, e da sola, l’attacco concentrico del capitalismo; l’auspicata rivoluzione in Europa non si era accesa, anzi, con la sconfitta dell’Armata Ros­ sa a Varsavia, nell’agosto del ’20, l’ondata rivoluzionaria europea si era arrestata per poi rifluire. Il capitalismo, dissanguato dalla guerra, non era in grado di protrarre più a lungo la propria ag­ gressione, mentre, al contempo, al classe operaia europea, pur in stato di fermento in Italia, Germania e nel resto dell’Europa centro-orientale, non riusciva a scatenare un attacco risolutivo. Nel 1921 si era pertanto creata una situazione di stallo, in cui la Nep rappresentava il riflesso sul piano interno allo Stato russo. La Nep, intesa come ritirata temporanea, non prescindeva dalla lotta di classe, anzi esprimeva la necessità di evitare, con le con­ cessioni ai contadini, che la lotta divampasse in un momento in cui il proletariato, in Russia come in Europa, si trovava in una posizione di debolezza. La precarietà dell’equilibrio fu scossa non per incapacità o malafede dei bolscevichi ma perché ad essi, a tutti, sfuggì dalle mani il controllo di una situazione che finirà per sommergerli. La Nep aveva lo scopo di mantenere l’equilibrio tra due set­ tori economici nella dinamica dei loro rapporti sociali: il prole­ tariato nell’industria di Stato, i contadini nell’agricoltura. In questo equilibrio si condensavano tutte le contraddizioni politi­ che, economiche e sociali del nuovo potere sovietico, contraddi­ zioni che, d’altro canto, erano la conseguenza ineluttabile della rivoluzione d’Ottobre: un blocco operaio e contadino. Quando si trattò di concretizzare i frutti della vittoria, le due classi unite nella rivouzione e nella sua difesa, manifestarono la loro intrin­ seca divergenza. Il partito bolscevico, consapevole della proble­ maticità di questo rapporto, aveva riposto tutte le sue speranze nella rivoluzione europea, e, a questo fine, era stato promotore della Terza Internazionale. Posta in questo quadro la ritirata del ’21 si presentava come una momentanea attesa tra due scoppi rivoluzionari destinati a congiungersi, in cui il proletariato rus­ so, per mantenersi al potere, non poteva fare a meno di avanzare concessioni all’alleato contadino. Ma, nel momento stesso in cui

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si riconosceva la necessità cjella ritirata, sfuggiva la sua defini­ zione temporale, mentre 1’incalzare di enormi difficoltà si mi­ schiava alla prospettiva rivoluzionaria, investendo la nuova In­ ternazionale. Il proletariato, attraverso il partito, aveva in mano il potere politico e, allo stesso tempo, il partito, attraverso lo Stato, aveva in mano l’industria, ma la fonte dell’accumulazione era nelle campagne, nelle mani dei contadini che, ora, dopo anni di priva­ zioni, alzavano la testa e rivendicavano diritti e miglioramenti per l’appoggio dato alla rivoluzione. Compresso da queste due forze sociali il partito diveniva l’ago di una bilancia in cui si concentravano interessi contrapposti e l’arena di uno scontro inevitabile. Unanimamente i bolscevichi consideravano la rivoluzione russa il primo passo verso un’esplosione rivoluzionaria che avrebbe condotto il sistema capitalistico al suo crollo definiti­ vo (®): la crisi del dopoguerra, i fermenti rivoluzionari nelle me­ tropoli e nelle colonie, la vittoria sulla controrivoluzione bianca, tutto tendeva ad alimentare questa tesi; si trattava solo di tempo, ma quanto tempo? La questione, mano mano che assumeva il carattere di un’aspettativa « millenaristica », favorì lo sviluppo e lo scontro di due tendenze nel dibattito sulla natura del com­ promesso con i contadini. Queste tendenze, solitamente, vengono indicate; con i termini di «destra» e di «sinistra», ma tali defini­ zioni falsano la sostanza del contrasto che, se fu violento e ten­ denzioso, nasceva comunque da una comune valutazione: raffor­ zare il potere proletario in attesa della ripresa rivoluzionaria. La « destra » di Bucharin vedeva nel contadino là fonte dell’accu(6) Tra le tante espressioni letterarie di questo spirito di aspettativa rivolu­ zionaria, è emblematica per la sua lucidità l’analisi presentata da Trockij nella sua relazione al IV Congresso deU’LC., ora in: L. Trockij, Problemi della rivoluzione in Europa, Mondadori, Milano 1979, pp. 368-400. La Sinistra italiana, benché avesse idee molto chiare riguardo alla profondità della controffensiva capitalistica in Italia (cfr. Relazione del partito comunista d'Italia al IV congresso dell'Internazionale co­ munista, novembre 1922, Iskra, Milano 1976, p. 9 e ss.) non si discostava da questa prospettiva come possiamo vedere ancora nelle tesi presentate a Lione (cfr. In difesa della continuità del programma comunista, ed. Il programma comunista, Milano 1970, P* 102).

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mulazione che avrebbe permesso, nel suo libero dispiegarsi, lo sviluppo dell’industria in mano allo Stato e perciò della classe proletaria, garante del potere rivoluzionario. La « sinistra » di Trockij voleva evitare che con questo processo di accumulazione la classe contadina assumesse un peso tale da compromettere il potere proletario e, pertanto, sosteneva la via di una più rapida industrializzazione da realizzarsi anche con un prelievo forzato di risorse dalla campagna (la cosiddetta « accumulazione sociali­ sta» di Preobrajenskj). Pur restando nell’economia di questa schematica presentazione non dobbiamo trascurare il fatto che entrambe avevano molti punti di contatto, tali da impedire una contrapposizione di fondo. Esse, infatti, possono essere ricondot­ te a un comune denominatore: rafforzare il potere proletario tramite l’industria di Stato, divergendo poi nei metodi e nei tempi di questo rafforzamento. Anche se sottendevano alcuni equivoci non secondari — la ‘destra’ sottovalutava la crescente ingerenza dell’ascesa contadina e, soprattutto, le sue conseguenze (kulak e nepmen), la ‘sinistra’, sopravvalutava l’industrializza­ zione, tendendo a identificarla con il socialismo —, tuttavia queste deviazioni non sarebbero state tali da pregiudicare i pròsupposti rivoluzionari di fondo che, una volta ricongiunti a una corretta visione dei rapporti di classe, avrebbero potuto trovare un momento di potenziamento nell’organico intreccio delle due posizioni!7). Ciò non avvenne, Anzi la polemica tra « destra » e « sini­ stra » si inasprì sempre di più e con sempre maggiore acredine (7) I poli estremi delle due tendenze — Bucharin e Preobrajenskj — avevano alla base una comune concezione astratta dei rapporti sociali. Le rispettive tesi ri­ flettevano specularmente, l’una nell’altra, la reciproca fragilità, alla quale essi contrap­ ponevano l’armonia di una costruzione economica, impossibile nell’ambito di rapporti, di produzione espressi da più classi. Per una sommaria esposizione del dibattito, cfr.: N. Bucharin, G. Stalin, L. Trotskij, Zinov’ev, La « rivoluzione permanente » ed il socialismo in un paese solo, Ed. Riuniti, Roma 1970; N. Bucharin, E. Preobrajenskj, L'accumulazione socialista, Ed Riuniti, Roma 1970; A. Erlich, Il dibattito sovietico sull'industrializzazione, Laterza, Bari 1969. Segnaliamo anche per l’incisiva essenzialità l’opuscolo: La crisi del 1926 nel partito e nell'Internazionale, Quaderni del Programma Comunista, Milano 1980.

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dove il personalizzarsi dello scontro indica emblematicamente la mancanza di referenti politici che offrissero sbocchi privi di mediazioni. In seno alle due tendenze l’equilibrio della Nep diveniva sempre più instabile, per pendere poi a favore di quelle classi, i contadini e i nepmen, che riuscivano ad allargare la propria in­ fluenza e ingerenza sociale, mentre il proletariato passava dalla cauta ritirata iniziale a posizioni sempre più ridotte e precarie. Nella polemica, quindi, dietro gli aspetti teorico-formali, agivano violenti contrasti di classe che, pur prendendo ineluttabilmente il/sopravvento, non giungevano a un’estrinsecazione tale da far emergere in primo piano i reali protagonisti della lotta. Se ci soffermiamo in modo particolare su queste considerazioni non è tanto per respingere ottuse argomentazioni che riducono i dibat­ titi e gli scontri del partito comunista a livello di una rissa tra frazioni e capi rivali, ma piuttosto per sottolineare la profondità di un intrico conflittuale la cui comprensione sfuggì ai protago­ nisti stessi (8 ). I Trockij usa l’espressione « bonapartismo » per indicare una anomala situazione di equilibrio sociale in cui la direzione poli­ tica cade nelle mani di una forza che, ponendosi al di sopra del­ le parti, sia in grado di garantire gli interessi superiori di un dato sistema. Non vogliamo entrare nel merito della tesi trockiana che, basandosi peraltro su di un controverso passo di Engels, (8) D’altra parte anche la piatta identificazione delle due tendenze con le for­ ze sociali a esse sottese non coglie assolutamente la dinamica dello scontro. A preva­ lere fu infatti il centro stalinista che presenta il duplice carattere di prodotto e ma­ trice di quelle forze sociali incubate nelle interrelazioni tra ‘destra’ e ‘sinistra’. Spes­ so gli storici si limitano alla pura e semplice registrazione di passaggi di uomini della ‘destra’ a posizioni della ‘sinistra’, o viceversa, riconducendoli alla logica dei giochi di potere. In questo modo, anche il Carr presenta la genesi dell’opposizione Unifi­ cata, sorta nel ’26 con l’avvicinamento di Zinov’ev e Kamenev a Trockij (cfr. E. Carr, Il socialismo in un solo paese, Einaudi, Torino 1968, vol. I, cap. XVIII). Con il cosiddetto ‘terzo periodo’ (industrializzazione e collettivizzazione forzata delle campagne) la commistione delle posizioni assumerà una forma ancora più sconcer­ tante, disorientando lucidi uomini politici come Trockij (cfr. Lev Trockij, I pro­ blemi dello sviluppo deirURSS, « Prometeo », A. IV, nn. 58-64 ss.) che non col­ sero in tutta la sua portata il salto qualitativo di Stalin verso il rafforzamento for­ male e reale dei rapporti di produzione capitalistici.

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presenta molti aspetti discutibili nel suo riferirsi a fenomeni po­ litici diversi che vanno dal fascismo al centrismo (9) staliniano, come a forme contingenti di governo autoritario!10). Tuttavia possiamo ricorrere al concetto di « bonapartismo », nella sua ec­ cezione di « formazione politica al di sopra delle parti », per in­ dicare la particolare situazione creatasi nello Stato sovietico con l’introduzione della Nep. Adottando la Nep il partito bolscevico era spinto dalla ne­ cessità di mediare — quindi di porsi « al di sopra delle parti » ,—• gli interessi della classe da esso rappresentata con quelli della classe ad essa alleata. E non dimentichiamo che da questa me­ diazione non dipendeva solo la sopravvivenza del potere politicò proletario, ma la stessa sopravvivenza economica e fisica dello Stato russo. Se certamente il partito bolscevico non fu un partito « bo­ napartista », esso tendeva al « bonapartismo » in quanto la me­ diazione insita nella Nep lo costringeva ad allontanarsi dagli in­ teressi proletari (e questo indipendentemente dalla sua volontà), per combinarli nel compromesso con quelli contadini. Anche in questo ambito specifico l’espressione « bonapartismo » sarebbe una forzata estremizzazione; infatti, il contadino inteso come produttore indipendente, inserito in rapporti controllati dal pro­ letariato, non occupava una posizione tale da pregiudicare la dit­ tatura proletaria. Ma questo avrebbe presupposto una stretta compenetrazione nella dinamica sociale correlata alla natura del (9) Nelle correnti di sinistra legate alla Terza Internazionale il termine cen­ trista è usato per descrivere quel tipo di formazioni politiche che non sono rivolu­ zionarie, ma che non sostengono le dottrine della collaborazione di classe del rifor­ mismo classico. Riferito dapprima a tendenze come il massimalismo italiano o gli in­ dipendenti tedeschi (USPD), in seguito indicò le posizioni di matrice staliniana. (10) Le posizioni di Trockij sul ‘bonapartismo’ sono ampiamente esposte in: L. Rapone, Trockij e il fascismo, Laterza, Bari 1978, cap. Ili, Bonapartismo e fa­ scismo. Il passo di Engels afferma: « Eccezionalmente tuttavia, vi sono dei periodi in cui le classi in lotta hanno forze pressoché uguali, cosicché il potere statale, in qualità di apparente mediatore, momentaneamente acquista una certa autonomia di fronte ad entrambe» [corsivi nostri]; F. Engels, L’origine della famiglia, della pro­ prietà privata e dello Stato, Rinascita, Roma 1950, p. 172. Lenin ritorna sul passo in questione, cfr. V.I. Lenin, Stato e rivoluzione e lo studio preparatorio, Il marxismo sullo Stato, Samonà e Savelli, Roma 1963, p. 15.

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compromesso operai-contadini. Gli sconvolgimenti generati dalla rivoluzione, dalla guerra civile e dai mutati rapporti internazio­ nali contribuirono a rendere precaria una simile possibilità, la cui fragilità, sempre più incrinata dalla dinamica delle forze so­ ciali emergenti, sorprendeva i bolscevichi impreparati non tanto a trovare soluzioni quanto a inserire queste soluzioni in una strategia complessiva, come possiamo vedere nelle fasi della « crisi delle forbici » (1X). Il « bonapartismo » cominciò a manifestarsi dal momento in cui il compromesso produsse le sue conseguenze, quando cioè fece germogliare dalle iniziali concessioni ai contadini forze non più controllabili nel quadro della pianificazione: l’accumulazio­ ne e il commercio, con tutte le figure sociali che li accompagna­ no (“). Una sovrastruttura politica, per quanto possa trovarsi al disopra delle parti, risponde sempre, e in modo più o meno di­ retto, a quegli interessi di fondo che la sorreggono, anche se (n) Con l’espressione « crisi delle forbici » si intende lo squilibrio verificatosi nel ’23 nell’interscambio interno tra agricoltura e industria. Esso esprime in modo inequivocabile l’impossibilità di controllare forze economiche prescindendo dai loro rapporti sociali. In tale occasione il dibattito in seno al PCRb iniziò ad assumere i connotati di netta contrapposizione, cfr. E. Carr, La morte di Lenin, L'interregno 1923-1924, Einaudi, Torino 1965, p. 87. (12) Se i contadini in quanto classe intermedia — mezza classe — sono privi di una piena coscienza di classe che si permei nella totalità sociale, in quanto motore del procèsso di accumulazione sono il passaggio intermedio verso le forme sociali compiute e totalizzanti (borghesia e proletariato). Questa dinamica nei dibattiti del PCRb veniva vieppiù sfumata con una mistificazione che si palesava nell’uso ricor­ rente di categorie concettuali statiche e devianti (Stato operaio, Socialismo di Stato, accumulazione socialista fino allo staliniano mercato socialista). Nella valutazione del­ la Nep, « all’« equilibrio dinamico » di Lenin veniva così sostituito un « equilibrio sta­ tico ». Ricordiamo, tra ’altro, che i contadini (si intende ovviamente medi e grandi) non disponevano di una rappresentanza politica formale, tuttavia col ritorno sulla scena delle vecchie figure sociali, seppure camuffate, i residui dei partiti Socialista Rivoluzionario, Menscevico, fino a quelli squisitamente borghesi, cominciarono a in­ filtrarsi nell’apparato dello Stato e nel partito, favorendo la saldatura politica con le tendenze sociali antiproletarie risorgenti. A questo proposito è significativo il ruolo del giornale pubblicato a Parigi dai cadetti (costituzional-democratici, partito demo­ cratico borghese moderato), « Smena vech », e del pubblicista Ustrjalov, rappresen­ tante della vecchia intelligentzia piccolo borghese; cfr. E. Carr, Il socialismo..., cit., p. 55 e ss.

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questi sembrano non coincidere con essa, e occasionalmente pos­ sono anche non concidere. Il « bonapartismo » si presentò dap­ prima come un processo involutivo che contaminò tutto il parti­ to, la « destra » come la « sinistra », per determinare poi, sul­ l’onda delle tendenze da esso stimolate, la metamorfosi del parti­ to, da partito della rivoluzione in partito della controrivoluzione. L’acredine dei dibattiti, i repentini mutamenti delle posi­ zioni individuali, gli zig-zag della linea del partito, tutto ciò che per gli storici rappresenta un non meglio definito gioco di potere — che d’altra parte la rappresentazione formale degli avveni­ menti tende ad accreditare — costituiscono in realtà l’incancre­ nirsi del conflitto che sottende l’innaturale posizione « bonapar­ tista » del PCRb. Nella logica della mediazione, o, come abbiamo detto, del « bonapartismo » in cui si dibatteva il partito, l’indebolimento della « sinistra » è correlato all’indebolimento del proletariato russo, mano mano che veniva meno la prospettiva rivoluzionaria mondiale. La situazione si presentava così segmentata in tre momenti: « sinistra », proletariato russo, riflusso rivoluzionario. Nel primo si ripercuoteva a livello politico le condizioni di quelli successi­ vi, senza seguire uno schema di interferenze dirette, secondo il quale il riflusso rivoluzionario avrebbe dovuto dapprima investi­ re l’organo rivoluzionario internazionale, per poi ripercuotersi nelle altre sfere politiche. Avvenne invece il contrario, generan­ do un processo di reciproco condizionamento involutivo più complesso, ma più integrato, che coinvolse per ultima l’Interna­ zionale. L’Internazionale non fu direttamente investita dal riflusso rivoluzionario europeo, almeno per quanto riguarda le dirigenze di quei partiti che si erano forgiati nella lotta più intransigente contro riformisti e socialsciovinisti: essa fu invece investita dal riflusso sovietico (13 ), e proprio nell’atteggiamento tenuto dal (13) Il riflusso del movimento proletario europeo, almeno inizialmente, non pregiudicò gli intenti rivoluzionari dei partiti comunisti, in essi, anzi, trovarono il loro terreno di sviluppo i primi germi di opposizione alla politica del PCRb e del-

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PCRb nei suoi confronti vennero a maturazione i vizi che il « bonapartismo » imponeva ad una strategia proletaria interna­ zionalista. I partiti comunisti, in quanto forze di opposizione con l’o­ biettivo di rovesciare il potere dello Stato borghese, si ponevano problemi diversi, se non opposti, a quelli del partito russo. Il terreno di incontro poteva essere solo un organismo intemazio­ nale in grado di combinare i rispettivi ruoli all’interno di una strategia rivoluzionaria conseguente, così come miravano i pro­ positi che dettarono la fondazione della Terza Internazionale. Poco dopo il III congresso dell’LC., alla fine del ’21, venne so­ stenuta la tattica del Fronte Unico che, indirettamente ed in su­ bordine alla situazione internazionale generale, sottendeva le esigenze di consolidamento interno ed esterno dello Stato russo. Estrapolando questa considerazione dal suo contesto e ponendola come chiave di valutazione, si potrebbe imputare la tattica del Fronte Unico della ‘destra’ e scorgere in essa il germe del nazio­ nalismo grande russo (14 ), mentre invece essa fu dapprima abboz­ zata da Lenin con la parola d’ordine del III congresso « alle masse»(15 ) e fermamente difesa dallo stesso Trockij che, con questo, non si poneva in contraddizione con la sua posizione di « sinistra » in seno al PCRb. Trockij, come tutti del resto, era infatti ben consapevole che si fosse entrati in una fase di riflusso rivoluzionario e di riorganizzazione capitalistica (fase che poi, lasciando spazio a nuovi equivoci, verrà detta di « stabilizzazione relativa»). Pertanto la «sinistra» russa era propensa, in quella circostanza, ad un’azione che rafforzasse i giovani partiti comu­ nisti, svuotasse i partiti socialdemocratici, riducendone l’influenl’Internazionale, raggiungendo una capacità di afferrare i pericoli di involuzione spes­ so superiore a quella dei dirigenti bolscevichi. (14) A parte le interpretazioni posteriori, dettate da intenti polemici, questa tesi allora fu apertamente sostenuta dal comunista italiano Riccardo Roberto, in oc­ casione della riunione dell’Esecutivo Allargato (24 febbraio-4 marzo 1922) in cui fu­ rono approvate le tesi « Sul Fronte Unico Operaio »; cfr.: Milos Hajek, Storia del­ l’Internazionale comunista (1921-1935). Ed. Riuniti, Roma 1969, pp. 32-3. (15) Cfr. Ulani]esto del Comitato Esecutivo dei proletari di tutti i paesi (17 luglio 1921), ora in A. Agosti (a cura di) La terza Internazionale, Ibis, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 471.

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za in seno alle masse, e preparasse il terreno alla successiva offensiva rivoluzionaria. Come è noto il PCd’I avanzò subito riserve su come attuare il Fronte Unico e sostenne che esso poteva essere valido come strumento di unità proletaria solo se inteso ed attuato dal « bas­ so », cioè senza l’attuazione di alleanze organiche con i partiti e le organizzazioni socialdemocratiche (16 ). La polemica della Sinistra italiana, contenuta entro i limiti di una divergenza tattica, colse un indirizzo che lentamente si stava insinuando nell’I.C. e che tendeva a legarla alle esigenze dello Stato russo mentre in quest’ultimo si faceva strada, una tendenza che lo allontanava dalla prospettiva rivoluzionaria. È significativo che il « nuovo » corso non venisse intuito dalla « si­ nistra » russa, in quanto essa, dal momento che riponeva le sue speranze nella ripresa rivoluzionaria in Europa, non era contra­ ria a una maggiore ingerenza del partito russo nei confronti dei giovani partiti europei, senza però rendersi conto che questa in­ gerenza — il termine giusto sarebbe direzione — era attuata da un partito scosso da contraddizioni interne che ne minavano la compattezza e l’unità di intenti. L’atteggiamento concreto del partito russo, infatti, non tendeva ad avviare una ripresa rivolu­ zionaria che rendesse precaria la stabilizzazione capitalistica, ma produceva l’effetto contrario, stava cioè assumendo la funzione di un agente indiretto della stabilizzazione (17 ). Il nodo della crisi di direzione rivoluzionaria consiste nella stretta interdipen­ denza che legò la necessità di respiro dell’Unione Sovietica con quella del sistema capitalista, con un reciproco condizionamento. (16) Per liberare il campo da vecchi luoghi comuni, sempre riproposti in sede storiografica, ricordiamo che il PCd’I aveva per primo affermato la necessità del fronte unico proletario nell’ambito degli organismi economici, come appare anche dal­ le Tesi di Roma; cfr.: Tesi sulla tattica del PCdT, Roma, marzo 1922, in In difesa della continuità, ..., cit., p. 37. (17) Trockij, pur vedendo l’interdipendenza tra l’economia dei paesi capitalisti con quella dell’URSS, non ne colse le implicazioni politiche, cfr. L. Trockij, Verso il socialismo o verso il capitalismo?, cit., in: E. Carr, Il sociaismo in un solo paese, cit., pp. 428-29. (L. Trockij, Vers le capitalisme ou vers le socidlisme, Ed. La lutte de classe, Paris 1928).

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La spinta rivoluzionaria russa si mantenne viva finché do­ vette affrontare il blocco controrivoluzionario delle potenze capitaliste; quando queste cominciarono a manifestare cedimenti e disposizione al compromesso, l’Unione Sovietica scorse nel muta­ to atteggiamento dell’avversario segni di debolezza e cercò di approfittarne per trarne vantaggi che consentissero la propria riorganizzazione interna. La politica estera sovietica non disgiun­ se la prima considerazione, di ordine contingente (ma indispen­ sabile alla sopravvivenza del paese), dalla considerazione genera­ le, di ordine rivoluzionario, che vedeva nella debolezza e nella divisione del campo capitalista la possibilità di inserire la pro­ pria azione per acuire le contraddizioni interimperialistiche. Considerazioni analoghe, ma con contrari propositi, dettavano altresì la politica del capitalismo internazionale che, superato il viscerale anticomunismo di Clemanceau, lo sostituiva con la più duttile etica mercantile di Lloyd George (18 ). I rapporti commerciali tra l’Unione Sovietica ed i paesi ca­ pitalistici si basavano sullo scambio di materie prime, soprattutto agricole (il 75% cereali), contro mezzi di produzione. Se, come affermava Lenin, « il grano socialista non ha un sapore diverso dall’altro » (19), questo « grano socialista » era però prodotto dai contadini che, nel quadro degli scambi commerciali, assumevano un peso determinante intaccando i tratti originari della Nep (20). La politica interna e la politica estera dello Stato sovietico si intrecciarono così attorno a una linea che portò il contadino, e le (18) Lloyd George il 10 febbraio 1921 affermò alla Camera dei Comuni: « L’Europa non può ricostruire la sua economia se viene privata delle risorse offerte dalla Russia ». Cit. in: Franco Catalano, Stato e società nei secoli, D’Anna, Messi­ na-Firenze 1968, voi. 3°, parte seconda, p. 259. (19) Lenin, Intervista al « The World », in Opere, XIIL, p. 153. (20) Lenin vedendo con chiarezza l’estrema delicatezza della questione si batté fino alla fine in difesa del monopolio del commercio estero, unico mezzo per impedire la libera diffusione di rapporti sociali contrari agli interessi del potere proletario, e non esitò a prendere decisamente posizione contro chi, come Bucharin e Stalin, ne auspicava l’abolizione o l’attenuazione. Cfr. Lenin, Opere, XXXIII, p. 418 e 421. Perché il monopolio del commercio estero mantenesse la sua validità doveva essere strettamente legato agli interessi del proetariato; una volta che a questi ne vennero sostituiti altri, restò una mera forma di protezionismo economico, tipica di un paese sulla via dello sviluppo industriale.

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sue filiazioni commerciali e finanziarie, a permearle dei propri interessi. Il processo di compenetrazione e di influenza di parti­ colari esigenze interne, avvenne lentamente, ma procedette con una permanente progressione che preparava il terreno politico a relazioni più proficue (21 ). Le motivazioni contingenti della politica estera sovietica al­ lentarono i legami con quelle rivoluzionarie, sganciandosi dap­ prima! da esse per poi capovolgere i rapporti è investire la politi­ ca dellT.C. La fase che condusse l’I.C. a diventare uno strumen­ to della politica statale russa coincide con i grandi dibattiti in­ ternazionali della metà degli anni ’20, culminanti con la cosid­ detta bolscevizzazione, cioè con l’allineamento dei partiti del­ lT.C. alle direttive del partito russo. L’involuzione rivoluzionaria ebbe il suo punto d’approdo nella teoria del « socialismo in un solo paese », avanzata, prima quasi di soppiatto, e poi canonizzata da Stalin. Si giungeva così (21) Per quanto duttile il capitalismo non poteva ignorare la politica sovver­ siva dell’LC. e inoltre il rifiuto sovietico a onorare la firma delle cambiali accese dal precedente regime — soprattutto con la Francia — suscitava diffidenza non solo sul piano politico ma su quello commerciale. Potremmo citare molti esempi sul contrasto tra i presupposti rivoluzionari dello Stato sovietico e la sua politica estera. Ma questi esempi, slegati dal loro contesto politico, presentano solo aspetti scandalistici. Si pensi al trattato di Rapallo, del ’22, che implicava il riarmo segreto della Germania da parte sovietica, come si scoprì nel ’26 con lo ‘scandalo delle granate’, fonte di facili illazioni sensazionalistiche e superficiali sul corso della politica sovietica, cfr. E. Carr, La rivoluzione bolscevica, 1917-1923, Einaudi, Torino 1964, pp. 1146 e 1206. Ponendosi in un quadro di considerazioni complessive la Frazione di Sinistra del PCdT colse nell’integrazione russa al mercato capitalistico mondiale la breccia attraverso la quale si era diffusa l’involuzione contro-rivouzionaria. Secondo uno dei soliti luoghi comuni nell’economia sovietica il commercio estero occuperebbe un ruo­ lo trascurabile. Contro questa tési assumono particolare valore le considerazioni che fece alla fine degli anni ’20 Pollock sul caràttere organico occupato nell’economia sovietica dal commercio estero: « Date le premesse l’URSS aveva bisogno, più di ogni altro Stato, di promuovere con ogni mezzo l’esportazione. Nella misura in cui non c’erano a disposizione prestiti esteri, l’importazione dei mezzi di produzione stranieri doveva avvenire esclusivamente sulla base del valore delle esportazioni. Dal volume delle esportazioni dipendeva il ritmo dell’industrializzazione e, quindi, an­ che le prospettive della lotta che i bolscevichi conducevano per trasformare l’Unione Sovietica da paese essenzialmente contadino a paese basato sulla grande industria ». Friederich Pollock, Le fasi più importanti della Nep dal marzo 1921 all'ottobre 1927, in Teoria e prassi dell'economia di piano, De Donato, Bari 1973.

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alla dicotomia tra Stato sovietico e movimento rivoluzionario mondiale e si riaffermava, su scala allargata, la prassi gradualista d’ante-guerra che racchiudeva il movimento di classe nella co­ struzione di organismi economici (sindacati, cooperative, ecc.) fini a sé stessi, scissi dalla prospettiva rivoluzionaria. Scissione che reificando il proletariato lo appiattisce a compiti che servono solo a mascherare una genesi controrivoluzionaria. Dietro il pa­ ravento della costruzione del « socialismo in un solo paese », in Russia corne a livello mondiale, il proletariato veniva reintegrato nella logica del sistema capitalista in cui lo Stato sovietico, una volta persa ogni funzione di antitesi, ne diveniva una componen­ te organica. Mano mano che si manifestava la crescente dicotomia tra i compiti rivoluzionari dell’I.C. e gli interessi nazionali dello Stato russo, sorsero le prime profonde polemiche. La Sinistra italiana fu ima delle voci che si levarono contro questa tendenza, ma non fu l’unica, anzi, prima di essa, si erano già manifestate criti­ che alla dirigenza dell’I.C. e, soprattutto, del PCRb. Le critiche provenivano dalle sinistre dei partiti tedesco, olandese e inglese, uniti nella breve esperienza del Bureau di Amsterdam (ufficio dell’I.C. per i partiti comunisti dell’Europa occidentale, sciolto nel maggio del ’20, dopo pochi mesi di vita), dove esercitarono una profonda influenza le tesi di Gorter e di Pannekoek. Costo­ ro reagirono giustamente allo spostamento dell’asse rivoluziona­ rio, ma si limitarono a una critica formalistica che, in nome di un impotente soggettivismo rivoluzionario, non teneva conto della realtà. Definendo poi borghese la rivoluzione bolscevica, giunge­ vano a conclusioni fin troppo banali per la loro esemplificazione di quei rapporti sociali che in Lenin avevano trovato un’atten­ zione complessa e profonda ai fini della sua strategia rivoluzio­ naria. Ciò non deve indurre a sottovalutare le critiche dei comu­ nisti olandesi che, entro certi limiti, presentano aspetti tutt’altro che secondari nei dibattiti di quegli anni!22). f22) Anche in seno al PCRb, oltre al contrasto sorto intorno alla pace di Brest-Litovsk, si sviluppò, nella seconda metà del 1920, una corrente di opposizione, la cosiddetta Opposizione Operaia, che denunciava nell’incipiente distacco tra par­ tito e masse la fonte del fenomeno burocratico. Di fronte all’insurrezione di Kronstad

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Invece, la Sinistra italiana non trascurava le difficoltà in­ contrate dai comunisti russi e vedeva la possibile soluzione alla loro «impasse» in una lotta per impedire che 1T.C. si trovasse subordinata alle esigenze dello Stato sovietico, e che invece fosse l’Internazionale ad assumere un ruolo di guida tale da trascinare e utilizzare, ai propri fini rivoluzionari, lo Stato proletario, sal­ vaguardandone, al contempo, lo sviluppo a stretto contatto con la lotta di classe mondiale. La Sinistra italiana, dal ’21 al ’26, fu l’unica forza che, forse con qualche incertezza, ma senza mai ce­ dere, martellò 1T.C. con la propria opposizione. Essa occupa un posto del tutto particolare: nettamente distinta dalla « sinistra » russa di Trockij —- troppo influenzata dalle vicende interne del PCRb — come dalla sinistra radicale (KAPD e raggruppamenti affini) — nettamente in rotta, fin dal ’21, con l’esperienza bol­ scevica. Per quanto il radicalismo abbia influenzato alcuni setto­ ri della Sinistra italiana, ebbe comunque un peso marginale che non ne intaccò le caratteristiche peculiari!23). l’Opposizione Operaia si disciplinò alle direttive del Comitato Centrale. In seguito, con analoghe motivazioni di natura politico-organizzativa, si formarono altre correnti di opposizione che si posero ai margini o fuori del partito, tra queste « La Verità Operaia » e, in posizione più radicale, il Gruppo Operaio (poi Partito operaio comu­ nista) vicino alla Internazionale Operaia Comunista, sorta nel ’22 per iniziativa della tendenza Essen della KAPD. Riguardo questi raggruppamenti russi ed europei, cfr.: R. Daniels, La coscienza della rivoluzione, Sansoni, Firenze 1970; E. Rutigliano, Linkkommunismus e rivoluzione in occidente, Dedalo, Bari 1974. t23) Fin dall’origine (1920-21) la Sinistra italiana si distinse nettamente dal­ l’estremismo radicale della KAPD (cfr. gli articoli pubblicati su « Il Soviet » nella primavera-estate del ’20, in particolare Le tendenze nella III Internazionale, del 23 maggio, e La situazione in Germania e il movimento comunista, dell’ll luglio); solo alcuni fuorusciti, trovatisi a contatto con ambienti radicali tedeschi — la tendenza Berlino della KAPD e Korsch — ne assimilarono le posizioni, poi, in Francia, se ne fecero portavoce in seno ai compagni della Sinistra, emigrati, quando, nel ’25, dettero vita al Comitato di Intesa nell’intento di contrastare il centrismo in vista del pros­ simo congresso del partito. Sostenute soprattutto dall’ex segretario della Camera del Lavoro di Napoli Michelangelo Pappalardi, le posizioni radicali — che non ricono­ scevano carattere proletario allo Stato sovietico — furono una tendenza assolutamen­ te minoritaria e, una volta costituita la Frazione di Sinistra del PCd’I, nel ’28, si espressero in modo completamente indipendente da essa per mezzo di propri organi, prima « Le Reveil Communiste », bulletin intérieur des groupes d’avant-garde com­ muniste, poi, nel ’29-30, « L’Ouvrier Communiste », organe mensuel des groupes ouvriers communistes. Cfr. D. Montaldi, Korsch e i comunisti italiani, Savelli, Ro­ ma 1975, p. 24 e ss.

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Queste caratteristiche affondano le loro radici nell’origine stessa del PCd’I, sorto sotto la spinta preponderante della Fra­ zione Comunista Astensionista che ne contrassegnò profonda­ mente la formazione e l’attività dei primi anni, lasciandovi un’impronta indelebile che praticamente solo la « rifondazione » togliattiana del partito, vent’anni dopo, potrà cancellare. La scissione di Livorno, avvenuta sulla base di una rigida delimitazione della componente comunista da quelle riformista e massimalista, non solo si conformava rigorosamente ai « 21 punti di Mosca », ma soddisfava pienamente i postulati della Frazione Comunista che l’aveva promossa e sostenuta. Perciò, quando l’I.C., con la tattica del Fronte Unico, si pose su di una strada che si scostava dal precedente indirizzo, trovò nei comunisti ita­ liani dei fermi oppositori. Ricordiamo ancora che le critiche di questi restarono per tutta la prima fase (1921-24) nel quadro di divergenze tattiche, tanto che al V congresso dell’I.C. (luglio 1924) Bordiga, pur pre­ sentando delle tesi inequivocabilmente critiche alla dirigenza, votò poi a favore delle tesi di Zinov’ev. Solo quando la bolsce­ vizzazione cominciò a manifestare i suoi frutti, con la netta sot­ tomissione del PCd’I all’I.C. e al gruppo di centro da essa impo­ stogli, i contrasti si acuirono, di pari passo con l’esasperazione dello scontro del PCRb. In queste circostanze avvenne l’avvici­ namento della Sinistra italiana alla « Sinistra » di Trockij, in quanto entrambe avvertirono il pericolo rappresentato dal cen­ trismo staliniano; tuttavia esse divergevano, e divergeranno sem­ pre di più, sulla valutazione del nuovo corso politico. Inizialmente, sulle questioni russe, la Sinistra italiana si limitò a farsi portavoce delle posizioni di Trockij, arricchendo­ le con l’apporto delle proprie specifiche motivazioni. Al VI Ese­ cutivo Allargato, febbraio 1926, la Sinistra tenne la sua ultima grande battaglia nel consesso internazionale. In tale occasione Bordiga sollevò la questione del « rovesciamento della pirami­ de », ossia di subordinare lo Stato russo all’Internazionale; con forma incisiva rendeva manifesto quanto la lotta condotta fino ad allora dalla Sinistra italiana aveva presupposto, ponendosi al­ lo stesso tempo come punto di riferimento internazionale per le

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altre correnti di opposizione, anche se a ciò non fecero seguito passi sul piano organizzativo (24). Bordiga, pur mettendo il luce senza mezzi termini la ten­ denza degenerativa del’I.C. e del PCRb, evitò, o meglio cercò di evitare, una rottura insanàbile con quegli organismi, come testi­ monia la lettera inviata a Korsch nel novembre dello stesso an­ no C*). La Sinistra italiana esprimeva la consapevolezza che lo scontro in atto nell’I.C. come nel partito russo avesse origine nel complessivo antagonismo e nei rapporti di forza tra le classi al­ lora determinatisi che, per usare l’espressione di Lenin, attraver­ savano una fase di « equilibrio dinamico delle forze ». Con que­ ste considerazioni di fondo la Sinistra si poneva in una prospet­ tiva in cui una ripresa del movimento rivoluzionario — prospet­ tiva che trovava alimento negli scioperi in Inghilterra e nella fiammata rivoluzionaria in Cina — avrebbe investito l’I.C. spin­ gendola a riassumere i suoi compiti rivoluzionari e, mettendo in crisi il rapporto di subordinazione al partito russo, avrebbe spezzato il guscio conservatore del « socialismo in un solo pae­ se ». Poiché i due momenti — ripresa rivoluzionaria e « raddriz­ zamento » dell’LC. — erano strettamente interdipendenti e im­ prescindibili da una linea di tendenza sorta dall’Ottobre, ne di(24) Cfr.: A. Bordiga, Rapporto della Sinistra alla IV sessione dell’Esecutivo Allargato dell’Internazionale Comunista, V seduta, 23 febbraio 1926, protocollo te­ desco pp. 122-144, ora in « ComuniSmo », A. I, n. 1, gennaio-aprile 1979, pp. 41-62. Analogamente si era espresso Bordiga, o meglio tutta la Sinistra, al congresso di Lione, cfr. Progetto di tesi per il III Congresso del partito comunista presentato dalla sinistra, Lione 1926, ora in: In difesa della continuità ..., cit., p. Ili (Que­ stioni russe); come pure nell’articolo apparso nel luglio ’25 su « Lo Stato Operaio », Il pericolo opportunista e l’Internazionale. Inoltre quando nel ’23 l’Esecutivo dell’LC. intervenne con criteri puramente amministrativi per sanare la divergenza sorta, con la direzione di sinistra del PCd’I, Bordiga assunse subito un atteggiamento di aperta opposizione e, nel maggio, stilò un documento conosciuto come il «manifesto» di Bordiga, che venne pubblicato solo un anno dopo su « Lo Stato Operaio » (n. 17, 22 maggio 1924) col titolo Postille alle tesi della sinistra. f25) La lettera pubblicata per la prima volta su «Prometeo» (novembre 1928), è ora in D. Montaldi, Korsch e i comunisti italiani, cit., pp. 47-52. La rottura di­ venne poi inevitabile quando il XV congresso del PCRb prima (dicembre 1927) e il IX Ssecutivo Allargato dell’LC. poi (febbraio 1928) stroncarono definitivamente ogni forma di opposizione.

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scendeva che la permanenza delle correnti di opposizione negli organismi legati a Mosca fosse la premessa indispensabile per permettere il mutamento di rotta di quegli organismi. Infatti la dialettica rivoluzionaria poteva far superare l’impasse politi­ co-organizzativo solo e unicamente in quella sfera in cui era scoppiata l’antitesi che si esprimeva nello scontro tra due oppo­ ste tendenze in seno al movimento della classe. La Sinistra italiana, pur appoggiando la « Sinistra » di Trockij, e assumendo connotazioni di minoranza internazionale si scostava da essa che, invece, caratterizzandosi come minoranza nazionale, non riusciva a imprimere alla propria influenza inter­ nazionale la priorità di una dimensione internazionalista. Ponen­ do la propria azione nell’ambito ristretto del PCRb, la « Sini­ stra » russa privò sé stessa della possibilità di divenire nel parti­ to il fattore reale di mutamento e, al contempo, mutilò IT.C. di quel momento di interrelazioni con il partito russo che, sull’on­ da della crisi introdotta dalla scossa rivoluzionaria, avrebbe con­ sentito di spezzare e investire il rapporto di subordinazione pri­ ma che si cristallizzasse definitivamente (26). i I diversi presupposti da cui mossero la Sinistra italiana e la « Sinistra » russa fecero sì che le due concorrenti si allontanasse­ ro sempre di più in un quadro internazionale che vide la « Si­ nistra » di Trockij riscuotere un ascendente di gran lunga supe­ riore a quello della Sinistra italiana, impedendole di assurgere compiutamente al ruolo di minoranza internazionale, mentre i limiti che nascevano dalla contingenza della situazione russa vi­ ziarono la diffusione internazionale del trockismo, con uno strascico di polemiche che sembrano capovolgere le posizioni del­ le due correnti (27).

f26) Durante la crisi cinese la bolscevizzazione non era ancora approdata al pieno controllo dei partiti comunisti mentre nel partito russo l’opposizione conser­ vava ancora alcuni spazi che si chiuderanno solo con la sconfitta del proletariato ci­ nese, cfr. Ottorino Perrone, La tattica del Comintern 1926-1940, Ed. Sociali, Vene­ zia 1976 e Trockij, Vujovic, Zinoviev, Scritti e discorsi sulla rivoluzione in Cina 1927, Iskra, Milano 1977. (27) Riguardo ai rapporti tra la Sinistra italiana e Trockij, cfr.: Silverio Corvisieri, Trockij e il comuniSmo italiano, Samonà e Savelli, Roma 1969, tenendo però

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Se la Sinistra italiana fin dall’inizio si tenne ferma sulle proprie posizioni di principio, i suoi passi verso una soluzione politico-organizzativa furono estremamente lenti rispetto all’in­ cedere degli avvenimenti, proprio perché essa si inseriva, o ten­ deva a inserirsi, nella dialettica del processo rivoluzionario in cui ogni singolo momento era strettamente interrelato con l’altro. Nella contraddittorietà di questo processo l’essenziale vitalità ri­ voluzionaria trovava la sua garanzia nella presenza delle sinistre di classe. Presenza che era la conditio sine qua non per permet­ tere a una ripresa rivoluzionaria di determinare un momento in cui, trovando un punto di riferimento, riuscisse a imprimere ad esso una spinta che coinvolgesse tutto l’organismo politico nella dinamica ascendente del movimento rivoluzionario complessivo. Questa concezione implicita nelll’atteggiamento della Sinistra non è altro che il tentativo di trasporre al livello di soggettività l’oggettività storica della lotta di classe. Quando, nella dinamica del­ lo scontro, il sopravvento delle forze avverse spezzò il processo avviato dall’Ottobre, si impose allora drammaticamente il pro­ blema organizzativo, senza però assumere la forma di rottura con un’esperienza ormai in fase agonica. Nel ’28 la Sinistra, co­ stituendosi formalmente in Frazione di Sinistra del PCd’I, rese espliciti quei compiti che prima restavano sottintesi: auspicava ancora una ripresa della lotta in cui essa, ponendosi all’interno di un processo di ricostruzione unitaria delle forze rivoluziona­ rie, potesse costituire un filo di congiunzione con il livello ac­ quisito nella precedente esperienza. Essa, benché avesse una lu­ cida visione della degenerazione del PCRb e dell’I.C. (28), non conto che l’opera presenta molti punti discutibili, forzando l’interpretazione dei fatti in chiave gramsciano-trockista; per la posizione della Frazione di Sinistra del PCd’I, cfr. Vers Vinternationale deux et trois quarts?, « Bilan », A.I., n. 1, novembre 1933. (28) Nella risoluzione della conferenza costitutiva della Frazione, tenuta a Pantin (Parigi), si legge: « ... 4) Costituire dei gruppi di sinistra che avranno lo scopo della lotta senza quartiere contro l’opportunismo. Tale lotta richiamandosi al Manifesto, alle Tesi del Il congresso dell’I.C., alle Tesi di Roma, alle Tesi per la conferenza nazionale del PCI [tesi di Como], alle Tesi presentate da Bordiga al V congresso mondiale, alle Tesi presentate dalla Sinistra al Terzo Congresso del PCI, infine alle Tesi presentate dalla

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riuscì subito a cogliere la profonda relazione che avvinghiava la degenerazione al riflusso del movimento rivoluzionario, relazio­ ne in cui se la degenerazione aveva la sua causa nelle sconfitte degli anni precedenti, essa stessa era giunta ora a un punto tale da rendere pressocché impossibile la ripresa di un movimento che non solo ritrovasse nei vecchi organismi il suo punto di rife­ rimento, ma, al contrario, fosse in grado di arrestarne la degene­ razione per restituirli ai loro compiti originari. 3. Parlando della difficile situazione in cui si trovarono i bolscevichi dopo la rivoluzione, abbiamo accennato a quella con­ cezione diffusasi allora nel movimento comunista, secondo la quale il capitalismo era giunto alla sua fase di crisi finale, al crollo; la mancata soluzione rivoluzionaria aveva poi aperto una serie di dibattiti che vertevano sullo stadio raggiunto dal capitaSinistra al Congresso di Lilla dello Sfic [Section franose de l’Internationale Com­ muniste = PCF] e a tutti gli scritti del compagno Bordiga. 5) Assegnarsi come scopo immediato: a) la reintegrazione di tutti gli espulsi dall’Internazionale che si richiamano al Manifesto e alle Tesi del II congresso dellT.C.; b) convocazione del VI congresso mondiale sotto la presidenza di Trockij; c) messa all’ordine del giorno del VI congresso l’espulsione dall’Internazionale di tutti gli elementi che dichiarano di solidarizzare con le tesi del XV congresso del PCR. Definizione dei più importanti compiti della Frazione: 1) intervenire nella crisi dei partiti comunisti per risolverla in senso rivo­ luzionario; 2) studiare tutta l’attività dell’Internazionale per trarne i dovuti insegnamenti da tutti gli errori commessi e dalle sconfitte subite ». («Prometeo», A. I. n. 1, giugno 1928). Il piccolo gruppo di comunisti italiani che, traendo le conclusioni della situa­ zione creatasi nell’I.C. dopo il XV congresso del PCRb, costituì la Frazione, era com­ posto quasi interamente da operai, ex quadri intermedi del PCd’I (segretari di se­ zione, di Camere del Lavoro, responsabili sindacali ecc.). L’unico intellettuale, Otto­ rino Perrone, in occasione della conferenza di Pantin, si trovava in un carcere belga, dopo essere stato espulso dalla Francia. Solo in un secondo tempo e con la pub­ blicazione di « Bilan », nel ’33, la Frazione potrà contare su di un più largo contri­ buto di intellettuali, sia italiani, come Verdaro, sia esteri, come il belga Mitchell. Ma il tessuto connettivo della Frazione restò sempre l’elemento operaio che anche se non partecipò direttamente all’attività redazionale vi dette il suo concreto con­ tributo con la vivacità dei dibattiti, come risulta dai resoconti pubblicati sul « Bol­ lettino Interno ».

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lismo in relazione alla strategia comunista. L’essenza di tale questione può essere compresa solo se posta nell’ottica della con­ siderazione prima avanzata, cioè che crollo e rivoluzione sono due momenti di un tutto unitario. Mentre la sinistra radicale, in particolare Pannekoek, facendo della rivoluzione un « imperati­ vo categorico » rompeva l’unità dialettica tra il momento oggetti­ vo della crisi e il momento soggettivo del processo rivoluziona­ rio (29), mentre negli ambienti legati a Mosca si imponeva un piatto oggettivismo — anche peggiore —, la Sinistra italiana si sforzò di tenere viva l’unità dialettica dei due momenti. Inizial­ mente essa non scorse il nesso che aveva permesso la ripresa ca­ pitalistica, trovandosi così scavalcata da avvenimenti che la co­ strinsero ad assumere la contraddittoria posizione di Frazione di Sinistra di un movimento rivoluzionario che non era più tale. Ma questa contraddizione, se limitò, ritardandola, l’azione della Sinistra fu il necessario passaggio che consentì poi alla Frazione di mantenere i contatti con un processo storico che, pur nella sua degenerazione, costituiva sempre il punto di partenza per l’analisi di una situazione in cui essa era stata soggetto e oggetto. Negli anni ’30 il rapporto tra la degenerazione dello Stato sovie­ tico e la riorganizzazione capitalistica mondiale (si consideri come la centralità statale posta dalla pianificazione sovietica di­ venta la caratteristica a cui progressivamente si conforma la poli­ tica economica dei principali paesi capitalistici, in modo partico­ lare in Germania col nazismo e negli USA col New Deal) presen­ ta una serie di nessi che investono strettamente la disgregazione del movimento della classe. Seguendo il « filo rosso » dell’Ottobre la Frazione seppe trovare un criterio per afferrare le intrica­ te interrelazioni che, imprigionando il proletariato nel processo (29) Il volontarismo soggettivista fu il sottile diaframma che separò la sinistra radicale dal menscevismo dei socialdemocratici europei — da Kautsky a Mondolfo — che negavano il valore socialista della rivoluzione russa. Il riflusso rivoluzionario, una volta spezzato quel diaframma, trascinò, loro malgrado, le correnti radicali nelle braccia del riformismo, di cui ne costituirono la facciata estremista. La guerra di Spagna fu il banco di prova che ne denunciò la debolezza dei presupposti. Giò non comporta, lo ribadiamo, il rigetto dell’elaborazione delle correnti radicali che, anzi, deve essere attentamente considerata in molti suoi aspetti la cui influenza supera le equazioni dettate da esemplificazioni politiche.

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rapido e sconvolgente della riorganizzazione del capitalismo, avevano consentito a quest’ultimo di traslare la propria crisi fra­ zionandola in una serie di sussulti. La validità di questo criterio consiste nel fatto che esso coglie la dinamica della lotta di classe in un movimento contrario che, sommergendola, sembra negarla, ed è grazie a questo criterio che la Frazione riuscì a stringere col movimento proletario un rapporto di reciproca riflessione per ristabilirne, sul piano della coscienza soggettiva, gli interessi sto­ rici. La disgregazione proletaria non si espresse però sotto un profilo meramente politico, la classe stessa venne morfologica­ mente sconvolta dalla crescente centralizzazione monopolistica che, esasperandone i fattori concorrenziali, la conformava alla nuova struttura assunta dai rapporti di produzione capitalistici. La Frazione, pur cogliendo il nesso tra riflusso rivoluziona­ rio e riorganizzazione capitalistica, non si addentrò in un’analisi complessiva e, soffermandosi essenzialmente sugli aspetti politici, non riuscì a sondare la disgregazione in tutta la sua profondità. Al contrario, correnti di sinistra che non afferrarono i precisi nessi insiti nell’antitesi rivoluzione-reazione, si limitarono a fo­ tografare, e spesso con grande precisione analitica, le conseguen­ ze senza però coglierne le premesse, precludendosi in tal modo la possibilità di giungere ad una sintesi conclusiva che offrisse prospettive all’inserimento della propria azione nel movimento di classe (30). La storia delle correnti di opposizione non può limitarsi a catalogare descrittivamente le varie posizioni, divergenze, con(3°) Ci riferiamo al radicalismo di sinistra che trovò nel consiliarismo di Pannekoek e in Korsch i suoi principali esponenti, tuttavia questo atteggiamento coin­ volse un più vasto ambito, non direttamente desumibile da specifiche posizioni poli­ tiche. Le incongruenze di queste coscienze infelici della rivoluzione sono ben colte da Marramao nel commento ad alcune affrmazioni di Horkheimer del ’34, cfr. G. Marramao, Note sul rapporto di economia politica e teoria critica, prsenetazione a: Friedrik Pollock, Teoria e prassi..., cit. Una posizione specularmente capovolta, ma analoga nella sostanza, fu quella oc­ cupata dalle correnti di ispirazione trockista che videro e denunciarono la natura reazionaria dello stalinismo ma, nella prassi, restarono invischiate a esso, senza op­ porre una linea alternativa.

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trasti, ecc., ma deve porsi come criterio la valutazione del livello di consapevolezza da esse raggiunto, nel periodo considerato, cioè la loro capacità di legare dialetticamente rivoluzione e rea­ zione. Solo così è possibile presentare una valutazione della Fra­ zione di Sinistra che superi i suoi aspetti contingenti e margi­ nali anche se questi, occasionalmente, possono assumere un peso preponderante.

4. Come abbiamo premesso, le nostre considerazioni han­ no lo scopo di inserire il saggio che viene pubblicato Partito, Internazionale, Stato nel preciso contesto storico a cui esso fa riferimento. Il saggio, infatti si propone di trarre un bilancio complessivo del periodo e, sistematizzando i concetti fondamen­ tali a cui deve informarsi la politica dei comunisti, prende le mosse da un’esposizione generale dei principi scendendo poi nel­ la precisazione degli aspetti particolari che allora si imponevano al dibattito rivoluzionario con tutta la loro violenza. La comples­ sità della situazione emerge proprio nello sforzo di trovare una via che offrisse non tanto definizioni risolutive risolutive quanto la possibilità di poterla affrontare con una corretta impostazione. La difficoltà nasceva dall’esigenza di valutare la degenerazione della rivoluzione russa, nelle sue implicazioni interne ed esterne, partendo dall’esperienza medesima maturata con essa. Ogni definizione infatti ne avrebbe comportato la mutilazione, ossia l’implicito dissolvimento delle contraddizioni in quel processo storico il cui superamento non solo richiedeva la precisa consa­ pevolezza delle sue contraddizioni, ma l’apertura di una nuova fase che lo portasse alla sua decantazione definitiva (31 ). (31) Dopo la sconfitta del proletariato tedesco, l’ingresso sovietico nella SdN e la politica dei Fronti Popolari (VII congresso dell’I.C.), la Frazione vide la for­ male conclusione di quel processo ma ritenne che esso si sarebbe ancora trascinato per forza d’inerzia in seno al proletariato fino al momento in cui una nuova ondata rivoluzionaria non lo cancellasse definitivamente. Nel luglio ’35, in occasione del suo congresso, la Frazione cambiò la propria denominazione da Frazione di Sinistra del PCd’I in Frazione italiana della Sinistra Comunista, e, prendendo così atto di una rottura irreversibile, sottolineava la necessità di allargare a livello internazionale la propria influenza, cfr. il manifesto: En dehors des partis communistes devenus des instruments du capitalisme mondial, e i resoconti del congresso, « Bilan», A. Ill,

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Nella sua analisi la Frazione ricorre a tematiche luxemburghiane ponendosi in contrasto con l’impostazione affermatasi nell’I.C. Ciò avviene perché essa, non considerando compiuti i presupposti per una rottura, in senso dialettico, con l’I.C., cerca­ va la specificità della degenerazione sovietica e delle sconfitte ri­ voluzionarie in errori di valutazione e di analisi, portato di ere­ dità secondinternazionaliste non completamente debellate e rein­ trodotte nelle file comuniste con la tattica del Fronte Unico politico, e quindi contrapponeva a quei procedimenti analitici, concetti diversi, riproponendo le posizioni della Luxemburg che, peraltro, venivano intrecciate a quelle leniniane. Questa impo­ stazione se, da un lato, apre la via a quei limiti che si manifeste­ ranno pesantemente con la crisi bellica!32), dall’altro canto, con­ ferma la presenza attiva della Frazione nel dibattito politico e il tentativo di superare l’impasse in cui erano precipitati i rag­ gruppamenti rivoluzionari, per potersi presentare al movimento proletario non solo sotto il profilo della negatività critica, ma per la capacità di costituire un punto di riferimento — con un pro­ prio bagaglio di principi e di analisi — nella prospettiva della ripresa della lotta rivoluzionaria. n. 23, settembre-ottobre 1935. In questo periodo, e soprattutto con la guerra di Spagna, si apre la fase più difficile, costellata da accesi dibattiti che pongono in ter­ mini concreti la prospettiva della costituzione in partito; tale situazione si trascinerà drammaticamente fino allo scoppio della guerra mondiale quando, insieme al prole­ tariato europeo, verranno travolte le file comuniste. (32) Il riferimento alle tesi luxemburghiane contribuì a comprendere l’essen­ za imperialistica della guerra di Spagna, tuttavia la loro esasperazione fece approdare Perrone a posizioni secondo le quali la guerra avrebbe il solo significato « di deviare l’attacco rivoluzionario del proletariato », (cfr. Rapport sur la situation Internatio­ nale présente par le Cde Vercesi, au Congrés de la fraction italienne de la gauche communiste Internationale,. « Bilan », A. V, n. 41, maggio-giugno 1937, pp. 12471359), in un contesto in cui l’imperialismo si prestava coscientemente ad affrontare la minaccia proletaria superando i propri contrasti interni in quanto « la solidarietà interimperialistica è divenuta la legge dell’evoluzione capitalistica e tende a limitare i focolai di guerra per cercare di eliminarli senza il pericolo della rivoluzione » (cfr.: Tendances et contradictions de Involution capitaliste, « Octobre », A. I, n. 2, mar­ zo 1938, p. 6). Questa posizione, benché sostenuta da una minoranza, precluse la via ad una possibile attività rivoluzionaria durante la guerra dal momento che nella ge­ nerale disgregazione contribuiva ad accrescere le divisioni e il disorientamento in seno alle avanguardie comuniste.

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Il fatto che non sia riuscita a conseguire questo scopo ed anzi il fatto che la strada imboccata l’abbia poi allontanata da esso non ne sminuisce l’importanza che supera comunque il va­ lore di mera testimonianza di coerenza rivoluzionaria. Molti problemi che essa dovette affrontare mezzo secolo fa restano an­ cora vivi e in gran parte insoluti e la pubblicazione di Partito, Internazionale, Stato può contribuire a riattualizzarli una volta che essi vengano permeati di quella dimensione metodologica al­ lora sostenuta dalla Frazione, secondo la quale lo studio del pas­ sato deve servire a capire il presente per preparare il futuro (33 ).

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(33) Possiamo quindi ribadire l’affermazione di Revai che ben coglie la di­ mensione temporale a cui si deve informare la praxis rivoluzionaria: « Il problema non esiste realmente in virtù del fatto che esistono il passato e l’avvenire, il presen­ te è la forma del passato inutile e del futuro irreale. La tattica è il futuro che appare come presente ». J. Revai, Das Problem der Taktik, « Kommunismus », A. II, 1920, p. 1676.

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IZ saggio Partito Internazionale Stato apparve, suddiviso in 15 puntate su « Bilan », rivista della Frazione di sinistra del Partito Comunista d’Italia, nel corso degli anni 1934-1936 (dal n. 5 al n. 26). Pubblicandone la traduzione in un contesto unitario abbiamo dovuto apportare piccoli interventi, richiesti appunto dalla forma originaria, per eliminare alcune ripetizioni di collegamento tra una puntata e l’altra e, solo occasionalmente, per ridurre alcuni passi riassuntivi di argomenti esposti in precedenza che avrebbero appesantito la lettura. Non abbiamo indicato queste sop­ pressioni in quanto, oltre a essere del tutto marginali, riguardano passi estremamente brevi e tali da non pregiudicare il contenuto e la natura originaria del testo. La traduzione delle citazioni è tratta, laddove è stato possibile, dalle pubbli­ cazioni più recenti e da quelle presumibilmente più corrette. Negli altri casi abbia­ mo tradotto direttamente il testo francese senza poterne dare la fonte editoriale, mancandone l’indicazione.

PREMESSA

Questo studio ha lo scopo di fornire, per quanto possibile, un’analisi storica sulla fase attuale della lotta di classe per im­ postare i problemi essenziali che emergono oggi dalla lotta ope­ raia. Ancora una volta la comprensione degli avvenimenti è la condizione indispensabile che permette la pratica rivoluzionaria. I militanti che non si pongono categoricamente la necessità di dare a sé stessi e al proletariato una spiegazione di fondo de­ gli avvenimenti storici che hanno accompagnato la prima espe­ rienza di gestione di uno Stato proletario in lotta per la rivolu­ zione mondiale cadono ineluttabilmente prigionieri della reazio­ ne capitalistica. Se è vero che la teoria del socialismo in un solo paese non è la filiazione legittima e inevitabile dell’Ottobre 1917, è altrettan­ to certo che il proletariato non ritroverà la via della sua salvezza con un semplice spostamento politico delle attuali organizzazioni comuniste, riconducendole alle posizioni del 1917. A prescinde­ re dal fatto che tale spostamento è assolutamente impossibile, tra il 1919 ed il 1934 sono avvenuti dei fenomeni politici e sociali di grandissimo rilievo e tali da doverli sottoporre a uno studio completo, come quello effettuato dai bolscevichi, e riguardante i problemi derivati dalla trasformazione dell’economia capitalista nella fase imperialista. Il vero segreto della vittoria bolscevica sta nella rigorosa reazione contro tutte le correnti della Seconda Internazionale: i genuini movimenti di massa si preparano nel fuoco di una serie di scissioni che servono a forgiare l’organismo chiamato a dirigere il proletariato sui principi della lotta rivolu­ zionaria. Ogni altro tentativo di mobilitare le masse al di fuori di questo lavoro f1) — e le correnti di sinistra del movimento 0) Seguendo il suo abituale sistema il compagno Trockij, in uno dei suoi ultimi articoli, Il Centrismo e la IV Internazionale, (del 22 febbraio 1934, ora in

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tedesco l’hanno provato in modo perentorio — doveva portare alla situazione I dei 1919 quando gli operai tedeschi in armi cer­ cavano invano l’organismo che li avrebbe dovuti condurre alla vittoria. Questo organismo non poteva sorgere spontaneamente, ma doveva essere il risultato di un lavoro tenace, analogo a quel­ lo svolto dai bolscevichi. Per indicare con una formula ciò che il nostro bollettino si sforza di compiere, diremo che il reale intervento del gruppo per potere pretendere di rappresentare la classe proletaria è pos­ sibile solo sulla base della soluzione dei problemi politici propri di un’epoca storica data. । « Il socialismo in un solo paese » è, al tempo stesso, la con­ seguenza del’incapacità del proletariato internazionale di realiz­ zare più di quello che i bolscevichi avevano realizzato nel 1917 e la espressione politica della insufficiente chiarezza storica dell’Ottobre, manifestatasi negli avvenimenti mondiali successivi al 1917. I principi scaturiti dalla rivoluzione russa e dalla fonda­ zione della III Internazionale non potevano essere assolutamente considerati un punto d’arrivo, ma solo un passo lungo la strada che il proletariato deve percorrere per raggiungere la sua libera­ zione. Questo passo avrebbe potuto permettere un costante avan­ zamento alla sola condizione che i movimenti rivoluzionari degli altri paesi registrassero, con la vittoria del proletariato, delle nuove basi ideologiche da aggiungere al patrimonio storico del proletariato mondiale. Le sconfitte sopraggiunte non dovevano certamente si­ gnificare che i principi sui quali si basava il proletariato fossero L. Trockij, Ouvres, v. 3, Edi, Paris 1978, pp. 236-246, N.d.t.) dedica qualche riga al nostro movimento — lui che dedica volumi alle beghe tra militanti che, senza pau­ ra del ridicolo, si proclamano « bolscevico-leninisti » — e parla della « passività della propaganda astratta » di quelli che definisce « bordighisti » (non si deve ri­ correre al metodo degli « ismi » per esimersi da serie analisi). Evidentemente per il compagno Trockij « la principale purezza, la trasparenza di posizioni, lo spirito di coerenza nella politica, la chiarezza dell’organizzazione», tutto ciò risiede in quell’im­ presa di confusione, di manovre, di maneggi che pomposamente si proclama IV In­ ternazionale. Nel periodo precedente alla guerra, Lenin (al quale noi ci ispiriamo), secondo il compagno Trockij, doveva essere considerato un campione di propaganda astratta?

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sbagliati o insufficienti, potevano essere invece il risultato di un rapporto di forza tra le classi sfavorevole al proletariato o di etrori nell’applicazione dei principi o infine dell’incapacità tattica o strategica degli organi dirigenti del partito. Oggi, 1934, la si­ tuazione dimostra che per le innumerevoli sconfitte subite in tutto il mondo, Russia compresa, si assiste all’annientamento del proletariato nei vari paesi, mentre, da un lato, in Russia lo svi­ luppo industriale si intensifica e, dall’altro lato, si vuole indivi­ duare le cause di questa situazione in un’errata applicazione del­ la «linea», come fanno i centristi, o personalizzarle in Stalin, come fa il compagno Trockij. Questo procedimento riduce il sanguinoso tribunale dove si svolgono le battaglie storiche di classe a una meschina arringa di paese, davanti a un giudice di pace. Il nostro studio rappresenta solo un modesto contributo, per chiarire quello che sembra essere il problema centrale del­ l’epoca attuale. Ci limiteremo probabilmente a indicare una esi­ genza e non forniremo la risposta adeguata in quanto quest’ultima sarà il risultato di una rivoluzione trionfante e di uno sfor­ zo internazionale dei vari raggruppamenti usciti dalla degenera­ zione del movimento comunista, polarizzatosi attorno al proleta­ riato russo che ormai ha esaurito la sua funzione di guida inter­ nazionale. Dopo il XV Congresso del partito russo si era aperta una situazione in cui un lavoro politico internazionale avrebbe forse permesso al proletariato di evitare una nuova guerra e di affidare la salvaguardia dello Stato russo al proletariato mondiale met­ tendo in pratica gli insegnamenti delle disfatte del dopoguerra e questo attraverso una vittoria della sinistra marxista in seno al­ l’Internazionale comunista. Ora la nostra voce è soffocata in se­ no all’opposizione di sinistra e contro di noi hanno trionfato i bercioni che proclamano il nostro settarismo e la loro capacità (?) di concretizzare immediatamente grandi vittorie contro il centrismo. Sarebbe istruttivo fare il bilancio delle vecchie polemi­ che: per il momento vogliamo solo ricordare da quale parte stanno le responsabilità politiche dell’attuale sconfitta.

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Il nostro lavoro non perde la sua ragione d’essere per il fat­ to che, praticamente, la sorte del proletariato è già irrimediabil­ mente segnata e per il fatto che il capitalismo potrebbe giungere a una guerra. Gli avvenimenti austriaci!2) provano che le masse non sono assolutamente rassegnate a cadere preda del capitale: ciò significa che sullo sfondo della prospettiva capitalistica si possono produrre delle occasioni per una vittoriosa ripresa della lotta proletaria. Ma, per assicurare questa vittoria così come per risolvere la guerra nel trionfo della rivoluzione, il lavoro che proponiamo e che non potremo, lo ribadiamo ancora una volta, svolgere isolatamente, rappresenta la condizione pregiudiziale e indispensabile. « Fino ad oggi la storia di tutta la società è stata la storia della lotta di classe » (M.anijesto del Partito comunista). Questo fondamentale concetto serve a caratterizzare il mar­ xismo rispetto a tutte le altre scuole storiche che l’hanno prece­ duto. Sempre e comunque ci troveremo di fronte all’esigenza di ricavare dagli avvenimenti l’elemento sostanziale che permette di definire le nozioni teoriche e di configurare i postulati per la lotta proletaria nell’attuale situazione. Questo sia affrontando il problema di determinare la classe, non solo in generale, ma an­ che con riferimento alla situazione attuale in cui il proletariato si è trovato chiamato ad esercitare il suo potere; sia trattando la determinazione dell’organo che possa rappresentare questa classe; sia, infine, per definire le basi sulle quali la classe e l’or­ gano della classe debbano operare.

(2) Il 12 febbraio 1934 il proletariato viennese insorse cercando con un estre­ mo tentativo di difendere le proprie organizzazioni di classe fermando le mire dit­ tatoriali del cancelliere cristiano-sociale Dollfuss. L’insurrezione venne repressa dopo aspri combattimenti culminati nei bombardamenti dei quartieri operai (il rione Karl Marx). Gli operai caduti furono circa 1.200-1.500, oltre 10.000 vennero imprigionati e 9 militanti dello Schutbund (Associazione per la difesa, la milizia della socialdemo­ crazia austriaca) vennero impiccati. Il 17 febbraio tutti i partiti furono messi fuori legge e Dollfuss potè fare approvare una costituzione di tipo corporativo (austrofascismo). Cfr. E. Collctti, La sconfitta socialista del 1934 e l'opposizione antifascista in Austria, « Rivista storica del socialismo », n. 20, 1963, pp. 387-432. Cfr. anche L’insurrection 'socialiste' d’Autriche, « Bilan » 4, febbraio 1934. (N.d.t.)

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Per quanto riguarda la classe in generale assistiamo attual­ mente a un fiorire di teorie che portano direttamente al soffoca­ mento delle classi nel fronte comune degli interessi della classe dominante oppure a modificare il ruolo delle classi fondamentai per attribuire alle classi medie funzioni sostitutive sia della bor­ ghesia sia del proletariato. O ancora portano a invertire il pro­ cesso della lotta di classe: non più quindi la classe operaia di un paese che lotta per gli interessi del proletariato mondiale, ma la classe operaia condannata — e per ciò stesso annullata — a rea­ lizzare, nei limiti delle proprie frontiere nazionali, i compiti che spettano al proletariato e alla rivoluzione internazionale. Fascismo (tramite lo strangolamento della classe proletaria) e Democrazia (tramite la corruzione del proletariato) sono le due forme di organizzazione della società capitalistica che Sembrano avere annullato la sostanza della teoria marxista ri­ spetto alle classi. In realtà il marxismo trova, nell’attuale situa­ zione, la conferma più luminosa: sia Tuna che l’altra forma cor­ rispondono all’incapacità assoluta dell’attuale società di mante­ nere, dirigere e controllare l’evoluzione delle forze produttive. Così, poiché è stata annientata la sola classe che può adempiere a questo ruolo storico — il proletariato —, la società si trova nel­ l’incapacità di controllare le forze economiche e può trovare sbocco solo a condizione di ricostruire l’ossatura della classe pro­ letaria e della sua vittoria rivoluzionaria. Non solo da un punto di vista geografico il centrismo ha rappresentato una revisione del significato di classe e, in partico­ lare, della classe proletaria. Il centrismo ha modificato' il concet­ to teorico di classe da un punto di vista sostanziale. Il socialismo in un solo paese può sembrare una artificiosa impresa per sepa­ rare lo Stato sovietico, dove si realizzerebbe il socialismo, dal mondo capitalistico rimasto preda delle crisi economiche e delle convulsioni sociali. In realtà dal momento che la classe è un con­ cetto storico e mondiale, lo Stato proletario, dissociandosi dal processo di evoluzione del proletariato mondiale, diventa, dentro le sue stesse frontiere, strumento della classe capitalista mondia­ le ed elemento di grande importanza nell’attuale situazione che porta all’annientamento del proletariato a scala internazionale.

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Per quanto riguarda l’organo che può rappresentare la clas­ se, esiste una differenza fondamentale nelle funzioni che spetta­ no al proletariarto in rapporto alla borghesia, al feudalesimo o ai proprietari di schiavi dell’antichità. Ciò significa che sostanzial­ mente ogni forma di organizzazione sociale costituisce un mo­ mento particolare che l’umanità attraversa nel progressivo con­ trollo delle forze di produzione. All’inizio ogni organizzazione sociale rappresentava un progresso sulla precedente, progresso raggiunto grazie a una ri­ voluzione. In Seguito questa stessa organizzazione cambia e di­ venta un freno allo sviluppo della produzione; solo a costo di una nuova rivoluzione può riprendere la marcia progressiva. Potremmo classificare storicamente la società in rapporto al­ la classe dominante: questa classe poggia materialmente sulla base di una forma particolare di produzione. Qui troviamo, al tempo stesso, una forma particolare di appropriazione dei mezzi di produzione e uno specifico aspetto della posizione in cui si trova il lavoratore che, finché esistono le classi, è anch’egli un mezzo di produzione. L’economia schiavistica è data sia dall’at­ tribuzione personale dei mezzi di produzione sia dallo schiavo. Il complesso della società vive e si riproduce sulla base della continuità della classe e delle caste che la compongono. A quell’e­ poca il debole sviluppo dei mezzi di produzione permetteva solo una riproduzione sufficiente alla soddisfazione dei bisogni di una infima minoranza della popolazione. L’economia servile, pur la­ sciando sussistere il carattere personale dell’attribuzione dei mezzi di produzione, comincia a permettere una maggiore di­ stribuzione di questi ultimi: il sistema produttivo infatti non può più sopportare la sottomissione alla casta, ma determina una specificazione del lavoro che già obbedisce alle leggi di un mercato più esteso. L’economia capitalista trionfa quando una modificazione radicale e senza precedenti si è già realizzata: i mezzi di produ­ zione così come gli stessi lavoratori hanno perso definitivamente ogni possibilità di essere attribuiti a degli individui singoli e la produzione assume in ogni suo momento un carattere collettivo. La separazione che avviene tra il carattere collettivo e sociale dei

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mezzi di produzione e il carattere di appropriazione di questi mezzi che resta personale sparirà solo quando si stabiliranno i nuovi rapporti sociali. Rapporti sociali che riflettono il sistema produttivo che apre la fase cosciente dell’umanità. Finché i mezzi di produzione si prestano ad essere attribuiti a singoli individui o a caste, la lotta di classe si svolge per il possesso degli strumenti che permettono di garantire il privilegio del nucleo che ha il potere di conformare tutto lo sviluppo eco­ nomico e politico alla difesa dell’organizzazione sociale esisten­ te. Da un certo punto di vista e per tutta la storia che precede la rivoluzione proletaria possiamo sviluppare la formula di Marx « la storia non è stata che storia di lotte di classe » con quest’altra « la storia non è stata che storia di classi in lotta per impadronirsi del potere dello Stato ». Lo Stato, in effetti, rappresenta un ne­ cessario strumento per tutto il periodo in cui la produzione ba­ sta solo per una minoranza della popolazione (minoranza che coincide con quella classe che, a questo fine, stabilirà un tipo dato di società). D’altra parte, se assisteremo a mutamenti delle classi che si trovano alla direzione della società, sussisterà co­ munque una continuità riguardo allo Stato che, pur trasforman­ dosi nelle diverse epoche e pur basandosi su formule differenti, è sempre l’organo di oppressione delle classi lavoratrici. Evidentemente lo Stato non può essere considerato un de­ miurgo al di sopra dele classi come pure l’elemento discriminan­ te dell’evoluzione storica, il motore del movimento resta sem­ pre la classe. Comunque, finché le forze produttive non chia­ meranno, il proletariato al potere, le classi lotteranno sempre per la conquista dello Stato. Per quanto concerne il feudalesimo in rapporto all’econo­ mia schiavistica o il regime borghese in rapporto al feudalesimo, assistiamo all’inizio, trattandosi di differenti tipi di privilegi e di regimi di oppressione sui lavoratori, a una coesistenza delle due forme economiche e alla penetrazione progressiva, nell’ambito dell’antica economia così come dell’antico Stato, di elementi ap­ partenenti alla nuova classe. Solo dopo si avrà la lotta rivoluzio­ naria che darà vita alla nuova organizzazione sociale. Per la bor­ ghesia la rivoluzione non è il punto di partenza, ma quello d’ar­

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rivo: nei tre secoli che ne hanno preceduto la vittoria, la borghe­ sia aveva già realizzato immensi progressi con una continua pe­ netrazione economica e politica. I successi riportati in seno allo Stato non le bastavano, doveva avere nelle proprie mani tutto l’apparato e lo ottenne attraverso movimenti rivoluzionari. Richelieu, Colbert, Turgot rappresentano i passi intermedi e necesari verso questo scopo finale. La penetrazione capitalisti­ ca nello Stato feudale è quindi un fatto che si riscontra in tutte le rivoluzioni borghesi che si concludono con l’istituzione di un tipo più avanzato di privilegi, ma pur sempre di privilegi che permettono alla borghesia, nella persistente divisione della socie­ tà in classi, di realizzare, attraverso lo Stato, i propri compiti storici. Per il proletariato avviene diversamente. Engels ha spiegato la necessità della dittatura del proletariato invocando il carattere transitorio dello Stato proletario; Stato che, riflettendo la mis­ sione storica della classe proletaria e cioè la lotta per la scompar­ sa delle classi, si fonda su un assunto centrale: quello del pro­ prio deperimento e della propria morte. Questo concetto engelsiano sembra poggiare su una concezione più generale secondo la quale il deperimento delle classi e dello Stato non può essere che il risultato di un gigantesco incremento della produzione, capace di assicurare il Ubero appagamento dei bisogni umani. Ci separa da questo risultato un’epoca di profonde modificazioni nella struttura economica, in cui il proletariato non potrà ope­ rare senza una direzione centralizzata che sappia cogliere non gli interessi particolari, locali o corporativi, ma l’interesse collettivo del proletariato come classe che rappresenta l’insieme della so­ cietà. A questo fine il proletariato avrà bisogno dell’apparato statale e solo con il crescente dispiegamento della produzione si manifesta concretamente la condizione per il deperimento e l’annullamento dello Stato. Per il proletariato al potere lo Stato resta una necessità, ma sotto un aspetto diverso che per le classi precedenti. Per il capi­ talismo lo Stato rappresentava l’organo di dominio sulle classi oppresse egualmente nella sua fase di declino il dominio sulle forze produttive. Al contrario, per il proletariato lo Stato non è

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che un organo di complemento, necessario solamente a orientare l’insieme dei lavoratori verso soluzioni d’interesse generale, quan­ do le masse inevitabilmente subissero l’attrazione di solu­ zioni contingenti, in contrasto con lo scopo finale che è quello di uno sviluppo materiale talmente intenso da permettere la realiz­ zazione delle condizioni per la scomparsa delle classi. Fin dalla sua formazione il proletariato non lottò contro lo Stato capitalistico per penetrarvi. Facendolo, giungerebbe a rin­ negare non solo i propri fini specifici e storici, ma anche a sa­ crificare i propri interessi immediati di resistenza allo sfrutta­ mento capitalistico. Feudalesimo e regime borghese sono cresciu­ ti nella misura in cui si sviluppava l’influenza della loro classe in seno ancien regime-, il proletariato può formarsi e crescere solo nella misura in cui concentra le energie più potenti per distruggere l’intero regime capitalistico e per fondare uno Stato sulla base di quel programma, completamente opposto, prima indicato. Per il capitalismo lo Stato era necessario tanto prima quan­ to dopo la vittoria. Il proletariato invece ha solo il programma di distruggere lo Stato capitalista prima della propria vittoria, poi­ ché, dopo, lo Stato diventa un semplice organismo di comple­ mento. L’organo nel quale si costituisce e si sviluppa la classe pro­ letaria è il partito e l’Internazionale. L’ascesa del proletariato può avvenire solo nei successivi tentativi di realizzare e costitui­ re, con un’Internazionale, capisaldi sui quali potrà ingaggiare battaglia per la distruzione dello Stato capitalista, mentre, al contempo, la natura collettiva dei mezzi di produzione chiama il proletariato alla direzione della società superando sia i limiti corporativi e professionali sia le frontiere nazionali. Nel fuoco della lotta per la distruzione dello Stato si realizza, in ultima analisi, la lotta proletaria per annientare con lo Stato capitalista tutte le forze secolari che impediscono all’uomo di liberarsi dai vincoli delle forze economiche. Nel corso del nostro studio analizzeremo la posizione occu­ pata dal proletariato durante la rivoluzione francese. Per il mo­ mento ci basta indicare che la I Internazionale venne preparata

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sulla base delle rivoluzioni del 1848 e che si giunse a stabilire la necessità di porre la lotta del proletariato su una base politica e organizzativa indipendente da quella della borghesia; mentre nel 1848, anche dopo il Manifesto del Partito Comunista, Marx intravedeva la necessità di partecipare alla lotta sulla base di un blocco con le forze progressiste della borghesia. La Comune di Parigi, se provò la possibilità di instaurare lo Stato proletario, al tempo stesso, doveva dimostrare che la vitto­ ria proletaria non poteva essere garantita che per mezzo di una lotta generalizzata non solo oltre Parigi e a tutta la Francia, ma anche al proletariato dei diversi paesi. Ma per il grado di svi­ luppo economico e politico di quell’epoca, la sconfitta della Co­ mune di Parigi (gloriosa anticipazione storica) non poteva che provocare la caduta della Prima Internazionale. La fase successiva del movimento operaio conobbe il perio­ do di slancio capitalistico che rese molto difficile al proletariato dei paesi capitalistici mettere in pratica gli insegnamenti della Comune. La Seconda Internazionale non si pose il problema della presa del potere, ma, proprio in corrispondenza del carattere par­ ticolare della situazione, indusse il proletariato a prendere una via radicalmente opposta. La Seconda Internazionale trasse dalla sconfitta della Comune di Parigi la conclusione che il proletaria­ to doveva ormai abbandonare il programma di distruzione dello Stato e limitarsi ai tentativi di penetrazione, per la via delle ri­ forme, nella fortezza statale del capitalismo: il proletariato finì così per essere schiacciato da quello Stato che si proponeva di conquistare gradualmente. Al contrario, i bolscevichi si dedica­ rono allo studio delle vicende della Comune e fecero di questi insegnamenti le armi per le rivoluzioni del 1905 e del 1917. La posizione di Marx nel 1848 e quella espressa nel 18 Bru­ maio, la Prima Internazionale, la Comune, la Seconda Interna­ zionale e, infine, la Terza Internazionale rappresentano altret­ tante fasi progressive sulla via dell’emancipazione proletaria. Ciascuna di queste fasi si concretizza in una formula centrale caratterizzante la posizione che il proletariato deve occupare per

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la vittoria dell’insurrezione e per il trionfo della rivoluzione mondiale. L’Ottobre 1917 è avvenuto quando le condizioni ideologi­ che e politiche non potevano permettere la vittoria dei movi­ menti rivoluzionari scoppiati in altri paesi capitalistici. Condizio­ ne} che avrebbe permesso di affidare lo Stato sovietico al proletaria­ to internazionale. Invece, dalle sconfitte subite dal proletariato mondiale è nato il centrismo che si è impadronito della direzio­ ne dei partiti comunisti, dello stesso Stato proletario e che repli­ ca, per la Terza Internazionale, lo stesso ruolo che ha svolto il riformismo in seno alla Seconda Internazionale. Dopo la Comune, la Russia sovietica ha dimostrato ancora una volta che lo Stato proletario può difendere la sua funzione rivoluzionaria alla sola condizione di essere legato alle lotte del proletariato internazionale. Più che la Comune di Parigi, la Co­ mune russa ha dimostrato che fino a quando lo Stato predomina sul partito, restano predisposte le condizioni per la degenerazio­ ne e per la vittoria del nemico di classe. Solo nel partito e nel­ l’Internazionale il proletariato può realizzare la sua coscienza di classe e la sua capacità rivoluzionaria. Siamo dell’opinione che i problemi inerenti la gestione dello Stato proletario debbano essere analizzati sulla base dell’esperien­ za sovietica e che la ripresa delle lotte rivoluzionarie così come il successo delle future rivoluzioni sono legate allo sforzo che le frazioni di sinistra sapranno effettuare in questa direzione.

Capitolo I LA CLASSE E IL SUO SIGNIFICATO

La situazione del dopoguerra non ha invalidato il marxi­ smo, ma la sua deformazione, la sua interpretazione grossolana che rappresenta uomini e classi come meri strumenti alla mercé delle forze economiche. I battaglioni nazisti possono trovare operai che si entusia­ smano davanti ai roghi dove si bruciano le opere di Marx, pos­ sono anche trovare braccia di sfruttati che si alzano nel saluto romano e applaudono il programma nazional-socialista che ban­ disce l’eresia marxista come causa di ogni male. Ma questi bat­ taglioni hanno potuto essere fecondati proprio grazie a una adul­ terazione della teoria marxista che i socialdemocratici prima e i centristi poi hanno potuto effettuare, annientando così la fun­ zione storica della classe proletaria nella attuale situazione. Una volta spezzata questa funzione, non c’è nulla di strano che i pro­ letari diano il loro appoggio a un regime diretto contro di loro e che si diano come scopo ìl ristabilimento di un equilibrio sociale attorno alla classe capitalista. Ma se è stato annientato il prole­ tario, con esso è stata annientata anche ogni forma di convivenza sociale, ogni controllo umano sulla forza produttiva e questa «pace sociale», ottenuta con la sottomissione degli operai alla causa del capitalismo agonizzante, comporta una catastrofe gene­ rale che sbocca nella guerra. Lo scoppio cioè di una carneficina per una ripartizione del mondo basata su di un’economia di profitti che può vivere solo con l’ecatombe delle classi oppresse, nella continua distruzione di forze produttive e di immani quan­ tità di prodotti. Coloro che si erano immaginati che la classe fosse il risulta­ to di una sommatoria di individui, uniti da una posizione eco­ nomica simile, saranno certamente stupiti da come gli attuali av­

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venimenti politici procedono e contrastano con la loro logica. Gli operai, infatti, invece di concentrarsi attorno a un programma di lotta in difesa dei loro interessi immediati e invece di approfitta­ re delle circostanze della crisi economica per dare il colpo di grazia al capitalismo, si dimostrano incapaci di opporsi all’at­ tacco borghese. Restano prigionieri delle diverse formazioni po­ litiche che pongono la salvezza della classe operaia nella necessi­ tà di non ingaggiare la battaglia rivoluzionaria contro il capita­ lismo e nel trovare riparo nella patria fascista, democratica o so­ vietica. Non esitiamo ad affermare che la situazione attuale vede una momentanea scomparsa del proletariato in quanto classe e che il problema da risolvere consiste proprio nella ricostruzione di questa classe. Lungi dal ricercare appoggi al di fuori di se stesso o d’attribuire alle classi medie, vecchie e nuove, funzioni che non hanno mai avuto, il proletariato deve ricostruire i suoi organi vitali. Nel momento attuale può farlo solo tenendo pre­ sente questa situazione: se il corso degli avvenimenti apertosi con l’Ottobre è oggi spezzato, ciò è dovuto al fatto che un siste­ ma di principi, che aveva permesso la realizzazione di obiettivi proletari in Russia e che non ha potuto estendersi internazio­ nalmente, si è rivelato, nel corso delle vicende degli altri paesi, insufficiente, portando infine la Russia a ripiegarsi su se stessa. Ciò comporta l’incorporazione dell’Unione sovietica nell’atmo­ sfera capitalista in quanto solo nell’arena mondiale le classi pa­ dronali hanno, in ogni epoca, stabilito il loro dominio.

Classe e aggregato sociale Una iniziale confusione che si riscontra sempre consiste nel non stabilire distinzione tra la classe e l’aggregato sociale. Vo­ gliamo indicare, considerando queste differenti formulazioni, due categorie ben distinte da un punto di vista storico per non cadere nell’errore di fare appello a forze che, non rappresentan­ do una classe, sono come dei « fuochi fatui » attorno ai quali finiscono per smarrirsi le possibilità di ricostruire gli organi del­ la formazione sociale chiamata a realizzare la rivoluzione.

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Il sistema produttivo darà origine a differenti aggregati so­ ciali che sono il risultato sia della divisione del lavoro che delle forme di appropriazione degli strumenti di lavoro. Ma i riflessi dell’organizzazione economica sono stati e sono ancora oggi nu­ merosi e se, per esempio, assistiamo oggi alla polarizzazione di tuti i mezzi di produzione attorno al capitale finanziario, alla crescente perdita di potere da parte degli industriali e dei pro­ prietari fondiari, alla continua decomposizione delle piccole at­ tività produttive, cioè, in una parola, al progressivo sparpaglia­ mento che dà luogo al dominio e all’onnipotenza del capitale finanziario, nondimeno constateremo che la vita della società at­ tuale ruota attorno all’asse borghese. L’industriale, il proprietario fondiario, il piccolo produttore non risolveranno mai i problemi particolari della posizione economica che occupano, ma finiran­ no sempre per piegarsi al dispotismo del capitale finanziario. È questo che, rappresentando la classe da un punto di vista stori­ co, detta il corso degli avvenimenti in quanto tutti gli altri ag­ gregati non hanno alcun effetto. L’aggregato sociale è un prodotto diretto e automatico del­ l’organizzazione sociale e dei contrasti che scaturiscono dalla lotta per il controllo e il possesso dei mezzi di produzione. Ma tra tutti gli aggregati sociali ne esiste uno solo che è chiamato in particolare a realizzare una rivoluzione in quanto si determina una coincidenza tra la posizione di sfruttato che occupa e l’obiettivo che si assegna, quello di una diversa organizzazione del­ la società. Fu così per le famiglie che concentrarono nelle loro mani la proprietà della terra nell’ambito delle comunità consan­ guinee e che, in seguito, dettero origine al regime feudale. Fu lo stesso per i mastri artigiani e i mercanti che formarono la classe capitalista; e oggi è lo stesso per il proletariato che dalla condi­ zione di lavoratore dipendente diventa classe nella misura in cui realizza la sua capacità di distruggere la società capitalistica e di erigere una nuova società. Nell’antichità, nel Medio Evo, così come oggi, furono nume­ rose le lotte, le rivolte dei vari aggregati sociali. Ma questi mo­ vimenti, sebbene fossero il risultato ineluttabile dei contrasti sui quali le varie società erano sorte, non comportavano alcuna mo­

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dificazione dell’organizzazione sociale. Talvolta vi sono stati raggruppamenti sociali che hanno lottato con la nuova classe emergente anche se la difesa dei loro interessi economici poteva essere meglio assicurata dal mantenimento à&'ancien regime che dalla nuova organizzazione sociale. Le rivolte contadine che finirono per accompagnare la lotta rivoluzionaria della borghe­ sia, la sola classe progressiva dell’epoca, raggiunsero il parados­ so: con V ancien regime, contro il quale muovevano, spariva an­ che per loro la possibilità di mantenere una posizione di indi­ pendenza economica. D’altro canto, benché le lotte degli schiavi abbiano riempito pagine eroiche, non fu per mezzo di queste lotte che la schiavitù venne eliminata: la vittoria di Spartaco contro Roma non avrebbe potuto dare agli schiavi la possibilità di costruire una nuova società. Le lotte degli schiavi furono sen­ za futuro e fu invece l’inutilità economica dello schiavismo che comportò la sua estinzione e la sua sostituzione con la servitù della gleba. La classe è la sintesi dell’elemento economico e di quello politico. Economico per ciò che concerne l’identità delle posi­ zioni occupate in rapporto al meccanismo produttivo; storico-po­ litico per ciò che concerne la forma particolare dei suoi rapporti verso l’organizzazione economica. La borghesia, un tempo, il proletariato, oggi, sono classi in quanto sintesi di una particolare posizione economica e di un tipo particolare di rapporto per quanto concerne i mezzi di produzione: la proprietà privata o la loro socializzazione. Questi aggregati possono realizzare la sintesi dei due elementi e perciò sono quelli chiamati ad assumere il ruolo della classe che agisce nel senso dell’evoluzione storica. Il processo di crescita può essere provvisoriamente sbarrato, ma certamente è dalla classe proletaria che dipenderà la ripresa della marcia progressiva dell’umanità.

Classe e società

La vita sociale è l’attributo diretto della specie umana e la storia di quest’ultima non è che la progressiva marcia delle di­ verse forme sociali. Il fatto che la società preceda la classe non

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dipende solo da un fattore cronologico, ma da un fattore sostan­ ziale: l’uomo è inconcepibile al di fuori della società e la perso­ nalità umana, lungi dal derivare da sé stessa, deriva dall’ambien­ te sociale. Dunque la società supera la nozione di classe e, mal­ grado l’esistenza di contrasti di classe in un regime dato, il problema non consiste nello stabilire la fondatezza e la moralità del regime o del bene fondato sulle rivendicazioni degli strati oppressi. Il problema è tutt’altro: si tratta di vedere se l’opposi­ zione reale sussiste tra i due tipi di società e, soprattutto, se la classe chiamata a realizzare una nuova organizzazione si trova nella condizione di potere realmente adempiere a questo com­ pito. I contrasti sociali e il loro aggravarsi possono anche portare ad una situazione di stallo, come quella in cui attualmente ci troviamo. Qualcuno può anche dire che la tragedia attuale con­ siste nel fatto che il capitalismo non è più capace di governare mentre il proletariato non è ancora in grado di governare. Ma sul terreno esclusivo dei contrasti di classe non possiamo arriva­ re ad ima conclusione definitiva in base al fatto (come tutto sta facilmente dimostrando) che il proletariato subisce con la crisi economica un terribile peggioramento della sua situazione così, allo stesso modo, non arriveremo a spiegarci come questo stesso proletariato non giunga a innescare un attacco rivoluzionario ri­ solutivo. Oggi, come sempre, la lotta tra le classi fondamentali non si limita a un semplice contrasto di interessi, ma si incentra attorno a due tipi di organizzazione sociale, quella capitalistica e quella proletaria. Il proletariato, durante la Comune come durante l’Ottobre, si è affermato in quanto classe rivoluzionaria perché ha saputo contrapporre alla società capitalista la società opposta, la società socialista. Il processo di ascesa non è quindi il risultato di un’opposizione prestabilita, ma è il prodotto dell’evoluzione della stessa società capitalista. Il problema di fondo sta nel lega­ me tra lotte economiche e lotte politiche, per mezzo delle quali il proletariato pone la sua candidatura alla direzione dèlia so­ cietà.

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Lo sviluppo dèi contrasti di classe non è solo il risultato di fattori economici contingenti: in questo senso bisognerebbe dire che quanto più miserabili sono le condizioni di vita imposte agli operai tanto più alta sarebbe la loro capacità rivoluzionaria. Ci si potrà invece indirizzare verso una lotta capace sia di difendere gli interessi immediati degli sfruttati sia di scuotere il regime, allor­ ché gli Operai realizzeranno la capacità di combattere per una di­ versa forma di organizzazione sociale. Questa posizione è, d’altra parte, confermata dagli avvenimenti del dopoguerra quando il periodo di assalto rivoluzionario coincise con una situazione di sviluppo economico. Invece, le difficoltà riscontrate dallo Stato operaio dopo il 1920 e le diverse crisi economiche mettevano in luce l’incapacità del capitalismo di restare alla direzione della società senza che gli operai approfittassero delle condizioni obiettive ben più favorevoli che nel 1919-20. Per risolvere i problemi inerenti la situazione attuale bi­ sógna trattarli nell’ottica di riprendere le principali posizioni del 1917 per completarle, ponendo così le basi sulle quali sarà pos­ sibile l’attacco al capitalismo e, dopo la vittoria, la costruzione del comuniSmo. Società, classe e strumento del lavoro

Il criterio discriminante per stabilire i differenti tipi di so­ cietà risiede nella progressiva evoluzione degli strumenti di lavo­ ro. Questa evoluzione determina, a sua volta, una forma più avanzata nell’appropriazione degli strumenti di lavoro da parte delle diverse classi fondamentali della società. L’uso del fuoco rende l’uomo « indipendente dal clima e dall’ambiente » (F. Engels, L’Origine della famiglia, della pro­ prietà privata è dello Stato). In seguito, l’apparizione dei primi utensili di pietra, l’invenzione dell’arco e della freccia, l’intro­ duzione del vasellame, l’allevamento del bestiame, il suo addo­ mesticamento, l’introduzione di cereali coltivabili determinano l’evoluzione delle prime gentes a carattere comunistico si fon­ dano su una base sociale consanguinea della tribù e vivono con

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consuetudini scrupolosamente democratiche) verso la loro disso­ luzione che si poggia sulla specificazione delle famiglie, finché alcune di queste centralizzano la proprietà dei mezzi di produ­ zione. Fino a quando lo schiavo non diventerà uno strumento di lavoro troppo costoso in rapporto a un’agricoltura che può già utilizzare strumenti provenienti dalla nascente industria, l’attri­ buzione della proprietà di questi mezzi di produzione più perfe­ zionati getterà le fondamenta del feudalismo. La manifattura prima e l’industria dopo non possono più sopportare i legami del regime feudale e invocano la nuova forma di organizzazione so­ ciale basata sulla disponibilità di questi mezzi di produzione. Ma la modificazione fondamentale che comporta l’industrializza­ zione,dei mezzi di produzione chiama un’altra formazione socia­ le: il proletariato. Non è da un semplice punto di vista logico che la valuta­ zione dell’attuale situazione russa si scontra con un non-senso storico nel caso in cui si considerasse la burocrazia sovietica co­ me una classe che lotta per la conservazione dei privilegi acqui­ siti. La classe non è determinata da un grado superiore di sicu­ rezza economica, ma risulta dal particolare tipo di rapporti esi­ stenti in relazione al modo di produzione. Del resto l’epoca di formazioni sociali che possono stabilire rapporti personali e di­ retti con la produzione è ormai passata da millenni e anche se in certe colonie inglesi si può ancora oggi rilevare l’esistenza di caste burocratiche che detengono il potere economico a livello mondiale si tratta di sopravvivenza e di anacronismi ben lontani dal costituire l’elemento centrale dell’attuale epoca storica. In Russia abbiamo assistito a una esperienza di gestione sociale che supera il carattere della società capitalista e che non può assolu­ tamente essere paragonata a forme sociali primitive. Se altre forzq hanno potuto pretendere il sopravvento nella curva rivoluzio­ naria mondiale della lotta proletaria si tratta di ricercarne le cause in un’analisi. Questa analisi deve essere condotta anche se essa esige uno sforzo molto più intenso che non la declamazione sullo Stato burocratico russo e la facile demagogia che ne conse­ gue.

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La nozione mondiale di classe Sarebbe certamente impossibile procedere a una classifica­ zione storica enumerando le differenti fasi sociali (barbarie, an­ tichità, feudalesimo e capitalismo) e basandosi su un criterio di contemporaneità che ci permetterebbe di ritrovare in tutte le parti del mondo un tipo di organizzazione sociale corrispondente alla forma sociale predominante. Anche oggi, in un periodo in cui si schiude la possibilità storica per l’organizzazione della società comunista, troviamo in diverse parti del mondo forme sociali primitive e, al tempo stes­ so, possiamo affermare che la maggior parte del globo non è an­ cora conquistata dal sistema sociale capitalistico. Ciò non impe­ disce di porre come obiettivo della lotta proletaria quello della dittatura del proletariato e di realizzare nei paesi arretrati dei salti, grazie ai quali queste società, in qualche dozzina d’anni, percorreranno il cammino che i paesi d’Europa hanno compiuto in millenni. Il grado raggiunto dallo sviluppo dei mezzi di produzione e il tipo di organizzazione sociale che vi corrisponde stabiliscono la forma di vita sociale dell’intera umanità. La coesistenza in certe parti del mondo di forme anacronistiche non solo non infirma la caratteristica generale dell’epoca, ma è il portato di un’ineguaglianza non sopprimibile dello sviluppo economico che dipende da fattori atmosferici, geologici e biologici. Fattori che possono essere livellati in modo proficuo alla sola condizione che lo sviluppo economico dei paesi più favoriti dalle condizioni na­ turali sia spinto tanto lontano da vincere gli elementi negativi che hanno determinato il ritardo economico e sociale. Evidente­ mente sarà impossibile trasferire le miniere di carbone dall’Euroropa all’Africa del Sud, ma già da ora è certo che il carbone sarà rimpiazzato da altre forme di combustibile più adatte a quei paesi che non possono economicamente organizzarsi su una base eguale. Il carattere mondiale della classe è, d’altra parte, storica­ mente confermato in modo indiscutibile. L’impero romano, poi­ ché rappresentava una smisurata estensione della costituzione

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gentilizia, crebbe sulla base delle famiglie e pur essendo assai sviluppate sia la piccola industria urbana che il commercio non trovò al suo interno forze sociali capaci di farlo evolvere verso la società feudale. Questo rinnovamento avverrà dall’esterno. Le tribù germaniche che invasero l’impero romano non mantennero il loro sistema d’organizzazione sociale, ma assimilarono rapida­ mente tutta la civilizzazione romana e permisero, con lo smem­ bramento dell’impero, l’evoluzione verso la nuova economia ser­ vile del feudalesimo. In quest’epoca la classe chiamata a inse­ diarsi al potere era quella dei proprietari terrieri e l’organizza­ zione economica quella del feudalesimo. I germani abbandona­ rono immediatamente le basi della costituzione gentilizia per di­ ventare i protagonisti dell’evoluzione della società romana verso il feudalesimo. All’epoca della vittoria della rivoluzione borghese si verificò nuovamente un fenomeno che comprova la nozione mondiale di classe. Paesi così lontani come l’America saltarono delle fasi in­ tere per raggiungere infine la possibilità di completo sboccio della società capitalista. La guerra di secessione non avviene tra l’economia schiavista e l’economia feudale, poiché quest’ultima è soppiantata dalla società capitalistica a cui spetterà la vittoria sullo schiavismo. Dunque l’opposizione attuale è tra la società capitalista e la società proletaria. Nelle colonie così come nei paesi ancora molto arretrati la forza motrice sta nei primi nuclei operai che possono appoggiarsi sull’immenso progresso ndustriale realizzato negli altri paesi e sulla forza del proletariato mondiale. È evidente che questi paesi arretrati devono conoscere delle fasi intermedie prima di giungere alla società proletaria; ma ciascuna fase sarà superata solo alla condizione che il proletariato — per quanto debole possa sembrare dal punto di vista numerico rispetto alle altre formazioni sociali — abbia conquistato il potere. L’espe­ rienza della rivoluzione cinese è illuminante a questo proposito. I rovesci del proletariato cinese hanno avuto come conseguenza lo spezzettamento della Cina. E Chiang-Kai-shek, il boia degli operai cinesi, espressione della borghesia di questo paese, rivela concretamente l’incapacità del suo capitalismo di realizzare il

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compito che, in generale, sembra proprio della borghesia, cioè l’indipendenza nazionale. La liberazione della Cina dai trattati imperialisti è possibile solo sotto la direzione del proletariato e nel corso della lotta per la rivoluzione mondiale. L’instaurazione dello Stato proletario in Russia non aprì una fase di opposizione inconciliabile e insolubile tra gli Stati ca­ pitalisti da un lato e lo Stato operaio dall’altro. Questa opposi­ zione poteva derivare solo dalla politica dello Stato operaio. Se quest’ultimo, che aveva preso il cammino della lotta per la rivo­ luzione mondiale, fosse rimasto fedele al suo programma inizia­ le, allora la lotta sarebbe stata inevitabile perché attorno alla Russia si sarebbero fecondati gli organi della classe operaia. Ciò avrebbe certamente visto l’incrociarsi dell’espansione dello Stato russo con la vittoria rivoluzionaria negli altri paesi ed è in que­ sto quadro storico che si sarebbero costituite le forme della nuo­ va società comunista. Ma la Russia ha cambiato bandiera e, rinunciando ad una politica rivoluzionaria, a livello mondiale, ha potuto ottenere l’ammissione nel consesso degli Stati capitalisti permettendo così al centrismo di imbastire la sua demagogia sulla vittorie dello Stato operaio, mentre questo aveva subito senza lottare la più cocente disfatta modificando i principi programmatici sui quali era stato fondato. Adesso la classe dominante a livello mondiale è il capitalismo che in Russia come negli altri domini realizza la propria funzione pur tra grosse contraddizioni interne, del resto peculiari del sistema stesso. Il fatto che gruppi imperialisti si facciano guerra non cambia per nulla la situazione di scontro tra Stati che restano capitalisti; parimenti, il fatto che si sia stabilita una coesistenza tra Stati borghesi e Stato operaio non cambia per nulla il carattere della classe mondiale che è attualmente domi­ nante. Se in Russia i fenomeni economici e politici non corri­ spondono a un tipo di regime capitalista verrà comunque stabili­ ta la condizione per incorporarla nel sistema capitalistico mon­ diale, per farne cioè un elemento essenziale dell’attuale situazio­ ne. Questa condizione è data una volta che l’orientamento dello Stato operaio non è più rivolto ad appoggiare il proletariato mondiale per lo sviluppo della rivoluzione, ma è invece rivolto

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ad appoggiare i paesi capitalisti per la coesistenza pacifica dei due regimi e per l’industrializzazione dello Stato operaio, mentre ovunque il proletariato viene strozzato. Il dovere del proletariato è quello di consolidare le posizio­ ni politiche attorno alle quali le sue lotte potranno gravitare ed essere vincenti. I contrasti sociali producono ancora dei movi­ menti di massa e l’esperienza austriaca conferma che, malgrado la completa assenza di un partito di classe, gli operai possono scatenare delle battaglie formidabili. Ma lo scoppio e l’evoluzio­ ne dei movimenti verso la vittoria e la portata dei contrasti su cui poggia il capitalismo è possibile solo alla condizione che 1’ avanguardia — oggi le frazioni di sinistra — realizzi l’indidispensabile lavoro ideologico per costruire l’armatura della classe che al momento dell’esplosione dei movimenti troverà, nella contingenza favorevole, armate d’operai in attesa di una cosciente direzione per potere trionfare e che, sfortunatamente fino a oggi — tranne la Russia del 1917 — hanno cercato invano gli organismi che abbiano realizzato questo lavoro preliminare, indispensabile per la vittoria rivoluzionaria.

Capitolo II

CLASSE E STATO

Nella sua opera, Stato e rivoluzione, Lenin, basandosi sugli insegnamenti di Engels, precisa la concezione fondamentale del marxismo trattando il ruolo storico e il significato dello Stato che « è il prodotto e la manifestazione dell’antagonismo inconciliabi­ le tra le classi. Lo Stato sorge là, nel momento e in quanto, dove e quando e nella misura in cui le contraddizioni di classe non possono oggettivamente essere conciliate. E al contrario: l’esi­ stenza dello Stato dimostra che le contraddizioni di classe sono inconciliabili »(*). Ma, oltre a questa fondamentale concezione, il libro di Lenin contiene elementi essenziali riguardo il ruolo dello Stato, elementi che gli avvenimenti del dopoguerra sem­ brerebbero, a prima vista, smentire e che, proprio per questo, devono essere nuovamente precisati. Di fatto sarebbe impossibile affermare che lo Stato sovieti­ co, allorché « marcia a grandi passi » verso la realizzazione del socialismo e verso « la liquidazione delle classi », rafforza — in­ vece di vederlo svuotare, secondo l’espressione engelsiana — il suo apparato amministrativo, repressivo e militare. Del resto il fenomeno della conversione (violenta o no) della forma statale capitalistica democratica nella forma fascista, che si può effet­ tuare sulla base di forze sociali radicalmente opposte alla bor­ ghesia (piccola borghesia e strati proletari) sembrerebbe, a sua volta, far apparire impossibile, apparentemente, il mantenimento delle formulazioni marxiste per spiegare gli avvenimenti odierni.

(9 V. I. Lenin, Stato e rivoluzione e lo studio preparatorio, trad, it., Samonà e Savelli, Roma 1972, p. 9.

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È vero che si potrebbe opporre a queste considerazioni sul ruolo e sull’attuale funzione dello Stato il pensiero espresso da Engels: « eccezionalmente, tuttavia, si determinano periodi in cui le classi in lotta hanno forze pressoché eguali cosicché il po­ tere statale, in qualità di apparente mediatore, momentaneamen­ te acquista una certa autonomia di fronte ad entrambe » (2). Ma questa immagine engelsiana non può rapportarsi alla situazione attuale in cui le classi, lungi dallo scalpitare in un certo « equi­ librio », sono spinte ai limiti estremi della lotta. Dunque, l’even­ tualità avanzata da Engels non ci permette di fare chiarezza sui problemi odierni. Del resto, presa come giustificazione delle differenti fasi della situazione del dopoguerra, questa eventualità rappesenterebbe piuttosto una smentita grave della teoria mar­ xista dello Stato. Se dopo Lenin ruolo e significato dello Stato sono stati pre­ cisati in modo definitivo, lo stesso non è avvenuto riguardo alla posizione occupata dalle classi nei confronti dello Stato nell’epo­ ca delle guerre e delle rivoluzioni proletarie così come per la po­ sizione dello Stato operaio nei confronti dell’evoluzione della ri­ voluzione mondiale. Il nostro studio ha lo scopo di indicare, sul­ la base dei rapporti esistenti tra lo stato e la classe, le ragioni per cui attualmente la dottrina marxista non soffre di alcuna smenti­ ta. D’altra parte la condizione attuale ci permette già di concen­ trare in alcune formulazioni fondamentali i nuovi dati program­ matici per la vittoria del proletariato. Abbiamo messo in luce, nel primo capitolo, il fatto che la classe, pur essendo il riflesso del meccanismo produttivo, accede al ruolo di forza storica solo alla condizione di essere chiamata a realizzare una forma particolare di organizzazione sociale. Così abbiamo potuto confutare « il meccanismo economico » e mette­ re in evidenza il fatto che, oggi, la partita si gioca tra il capita­ lismo che intende conservare i suoi privilegi attraverso la con­ servazione della società borghese e il proletariato che combatte

(2) F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, trad, it., Editori Riuniti, Roma 1971, p. 202.

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per instaurare la società comunista. Dunque la lotta è ingaggiata tra due forme sociali radicalmente opposte e non tra due classi che lottano nel quadro esclusivo dei loro specifici interessi eco­ nomici. Le due classi antagoniste fondamentali della società at­ tuale non disputano per un organo di dominio, lo Stato, che, una volta conquistato, permetta alla classe vittoriosa d’imporre violentemente la sua sovranità. Ma la battaglia si conduce su di un fronte ben più vasto: la costruzione di una nuova società o la conservazione della vecchia. L’esperienza del dominio capitalistico è, d’altra parte, la migliore conferma di questa affermazione. La sua società non è il risultato del semplice coordinamento dei molteplici interessi economici delle componenti della sua classe, ma di un coordina­ mento che abbraccia tutta la società e che obbliga gli elementi della classe sfruttatrice dominante a tenere a freno l’espansione dei loro interessi contingenti per la sopravvivenza complessiva della loro società. Gli interventi statali in campo economico che attualmente si stanno attuando in tutti i grandi Stati imperialisti hanno il preciso scopo di difendere la società capitalista, control­ lando, per disciplinarla, la libertà d’azione economica di alcuni, e non dei meno importanti, gruppi capitalistici. In questa battaglia impietosa per la conservazione o la fon­ dazione di una nuova società le componenti intermedie, che nel primo capitolo abbiamo definito aggregati sociali in opposizione al concetto di classe, sono inevitabilmente spazzate via sia dal­ l’annessione al capitalismo, a cui però non sono legate da alcun interesse reale, sia dal proletariato vittorioso che può, lui solo, assicurare loro una esistenza migliore: quella del salariato ga­ rantito nei propri interessi dallo Stato. Al contrario, la sconfitta momentanea del proletariato che tende a realizzare la sua mis­ sione storica — e questo elemento caratterizza la situazione at­ tuale — porta inevitabilmente all’incapacità di difendere anche gli stessi interessi economici. Ciò prova che anche il proletariato può'difendere ;i propri interessi economici solo alla condizione di essere capace di lottare per la fondazione della società comu­ nista e di mobilitare per questa forma sociale tutti gli strati sfruttati della società capitalista.

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Nel già citato capitolo ci siamo egualmente sforzati di stabi­ lire le premesse che provino che si può parlare di « classe » quando,, e solo quando, per un aggregato sociale esiste la possibi­ lità storica di identificare la sua evoluzione, i suoi interessi economici e sociali con lo sviluppo della società stessa. Lo Stato che sorge in questo ambito storico come espressione di questa identità evidentemente è e resta « lo Stato della classe più poten­ te, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa an­ che politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tenere sottomessa e per sfruttare la classe oppressa »(3). Certamente l’enunciazione della formula di Engels « lo Sta­ to è l’organo di una classe » sembrerebbe comportare nel mo­ mento attuale delle situazioni inconciliabili sia nei confronti dell’Unione Sovietica sia degli Stati fascisti. Si potrebbe infatti fa­ cilmente dire che o lo Stato russo è lo Stato della classe proleta­ ria, ma nel momento in cui la sua attività interna ed estera ha rotto con le basi elementari della lotta rivoluzionaria viene meno la costruzione stessa di una società senza classi e senza Stato, cioè la teoria della missione storica del proletariato. Oppure lo Stato operaio e, in questo caso, la teoria marxista della classe che si appropria dei mezzi di produzione e istituisce l’organo del proprio dominio, lo Stato, verrebbe a sua volta smentita. Si potrebbe fare lo stesso ragionamento per lo Stato fasci­ sta: o si tratta di uno Stato capitalista e allora l’opposizione che trova da parte di forze sociali e politiche nettamente controrivo­ luzionarie (socialdemocrazia e le stesse destre liberali) diventa incomprensibile; oppure la teoria marxista che ci induce a par­ lare di capitalismo dopo un esame delle forme sociali esistenti deve essa stessa essere rivista dalle fondamenta. In realtà pen­ siamo che la definizione « lo Stato è l’organo di una classe » con­ serva ancora tutto il suo valore storico. In precedenza abbiamo già indicato che la classe è un concetto inseparabile dalla forma di organizzazione sociale verso cui tende e che l’evoluzione delle forze produttive le permette di realizzare, ma anche che la classe è una nozione mondiale che lega agli interessi della sua con(3)

F. Engels, op. cit., p. 202.

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sensazione e a quella della società in cui regna tutti i fenomeni che si manifestano, anche nei paesi in cui è ben lontana dall’a­ vere trionfato e anche là dove viene schiacciata dal suo nemico, il proletariato. Queste premesse devono essere tenute costantemente pre­ senti per non perderci nei meani della situazione attuale. D’altra parte è su una tale base che tutte le scuole storiche (e non solo quella marxista), operano la classificazione tra i diversi pe­ riodi (barbarie, antichità, medio evo, capitalismo, dominio della classe proletaria) in stadi in cui la società non conosce ancora le classi, in quella poi del dominio dei proprietari di schiavi, quella dei signori feudali e dei proprietari terrieri per arrivare al dominio della borghesia e, infine, a quello del proletariato. Così tutta questa immensa molteplicità di fenomeni storici che illustrano l’ascesa dell’umanità durante i millenni si può riassu­ mere nella idea-guida della classe dominante da un punto di vi­ sta storico che fa confluire intorno a sé ogni manifestazione so­ ciale e ciò a scala mondiale. In questo modo il concetto fondamentale che lo Stato resta lo strumento di una classe non subirà smentite. E, quando avre­ mo precisato le posizioni e la via che lo Stato proletario deve percorrere per non derogare dalle proprie funzioni e dai propri scopi, ci sarà possibile dedurre dalle esperienze del dopoguerra gli elementi che permettono la ripresa della lotta rivoluzionaria e, al di là di ogni confusione, ci sarà possibile comprendere per­ ché la dottrina marxista conserva inalterato il suo valore. L’ultimo periodo della barbarie (Morgan ed Engels dividono la fase della barbarie in tre periodi di cui l’ultimo conosce un estensione di scambi, l’introduzione della moneta e, infine, la disgregazione dei legami consanguinei incompatibili con un’eco­ nomia monetaria) potrebbe, a prima vista, invalidare l’idea che lo Stato è lo strumento di una classe. Di fatto, in quest’epoca, la costituzione gentilizia!4) non coincide ancora con l’esistenza di (4) La costituzione gentilizia è basata sulla gens, cioè su gruppi consanguinei che si richiamano ad una comune discendenza e costituiscono una tribù con con­ suetudini comunistiche.

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una classe sfruttatrice, benché sia già stabilito un regolamento, nella gens esista già una certa gerarchia di funzioni e sia presen­ te una palese continuità nell’attribuzione dei compiti svolti dai membri. Così i ruoli militari (il basileus presso i Greci), di dire­ zione e di lavoro (5) dapprima vengono attribuiti per via democra­ tica, in seguito trasmessi per via ereditaria agli elementi che si trovino sia nella gqns sia nelle famiglie della gens. Engels, a cui ci riferiamo, osserva che prima di questa epoca si era già effet­ tuata una evoluzione della costituzione gentilizia, cioè il passag­ gio dal matriarcato al patriarcato e, infine, il suo dissociarsi e poi il costituirsi in collettività familiari nel cui ambito alcune fami­ glie concentrano ben presto, grazie all’incremento delle ricchezze materiali, un potere sempre più esteso. Per dimostrare le ragioni per le quali la costituzione gentilizia non può partorire un appa­ rato statale anche rudimentale e come quest’ultimo sorga solo con la disgregazione dei legami consanguinei, ci soffermiamo ra­ pidamente sul significato della costituzione gentilizia. La gens rappresenta una unità economica in cui l’assegna­ zione dei lavori necessari alla collettività avviene tramite la devo­ luzione di incarichi di direzione a individui che, lungi dall’acquisire una posizione di privilegio e di agiatezza, si vengono a trovare esposti ai più gravi pericoli (6 ). Il modo di produzione (5) « Ogni funzione tende, presso i barbari, a perpetuarsi in una stessa fami­ glia: di padre in figlio si è tessitore, fabbro-ferraio, stregone o prete: in questo modo nascono le caste. Il capo incaricato del mantenimento dell’ordine interno e della difesa esterna era scelto dapprima tra tutti gli abitanti; ma con l’andar del tempo si prese l’abitudine di eleggerlo nella medesima famiglia tanto che questa finì col de­ signarlo da sé senza più ricorrere alla formalità dell’elezione » (Cfr. P. Lafargue, Origine ed evoluzione della proprietà, trad, it., Edizioni Unicopli, Milano 1983, p. 118-19). (6) Lafargue nel suo libro sulla proprietà sostiene: « Si errerebbe credendo che le funzioni di capo costituissero da principio un ambito di privilegio; erano in­ vece un peso grave e pericoloso, perché sui capi ricadeva la responsabilità di ogni cosa. Una carestia era, secondo gli Scandinavi, segno certo della collera divina: chi ne andava di mezzo era il loro re che veniva deposto e qualche volta ucciso. Queste funzioni erano così poco desiderate che l’eletto dall’assemblea popolare il quale cercasse di sottrarvisi incorreva nell’esilio e la sua casa, bene sacro e inviolabile della famiglia, era distrutta» (Cfr. P. Lafargue, op. cit., pp. 118-19). A questo proposito si veda anche il capitolo riguardante le tribù irochesi nell’opera di Engels, Origine della famiglia, della proprietà e dello Stato).

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(cioè il rapporto tra uomo, società e forze produttive) rimane invece retto dal principio della proprietà comune. Nella costitu­ zione gentilizia assistiamo, di conseguenza, all’assegnazione del potere non secondo i vantaggi di un privilegio, ma secondo il criterio opposto: alcuni suoi componenti sono costretti a occu­ pare i posti meno convenienti. Dunque la costituzione gentilizia non ha nulla a che vedere con un’organizzazione statale che pre­ suppone l’utilizzo di quest’ultima al fine di difendere e di po­ tenziare un certo dominio sociale. Nel capitolo dedicato all’origine dello Stato ateniese Engels così ne; definisce la genesi: « Un modello particolarmente tipico della formazione dello Sta­ to in generale, perché essa da una parte si compie in modo assolu­ tamente puro, senza ingerenza di coazione esterna o interna (l’usur­ pazione di Pisistrato non lasciò dietro di sé alcuna traccia della sua breve durata) e, dall’altra, fa sorgere immediatamente dalla società gentilizia uno Stato che ha una forma molto alta di sviluppo: la re­ pubblica democratica » (7).

Engels, dunque, sottolinea che uno « dei caratteri distintivi essenziali dello Stato consiste in un potere pubblico distinto dal­ la massa del popolo » D’altro canto egli mostra anche la necessità per lo Stato di stabilire come base dell’organizzazione sociale il territorio e non più il gruppo consanguineo. In particolare, que­ sta evoluzione avviene attraverso le tre costituzioni dello Stato ateniese. Quella di Teseo che per prima regolamenta l’evoluzio­ ne delle gentes che cominciano a perdere il loro carattere di gruppo consanguineo; quella di Solone che, per effetto dell’eco­ nomia monetaria, procede (sempre in base alla sopravvivenza delle quattro vecchie tribù consanguinee) alla divisione della po­ polazione in quattro classi, divisione basata sulla proprietà fon­ diaria; infine, quella di distene che non considera più le quat­ tro antiche tribù fondate sulle gentes e le fratrie (confederazioni di gentes e di tribù), ma le sostituisce con un organismo che si

(7)

F. Engels, op. cit., p. 147.

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basa sulla partecipazione dei cittadini (già divisi in naucrarie, cioè in piccole circoscrizioni militari e territoriali in ragione a 12 per tribù) solo secondo il loro luogo di residenza. Riguardo a quest’ultima costituzione Engels commenta: « [Essa] non decise più l’appartenenza di un’unione gentilizia, ma solo il luogo di residenza; non il popolo venne diviso, ma il territorio; e gli abi­ tanti divennero politicamente semplice appendice del territo­ rio »(8). Perché lo Stato potesse svilupparsi si dovettero dunque spezzare i legami gentilizi incompatibili con un’economia mone­ taria e con il dominio di alcuni gruppi sugli altri e, in questo senso, operarono le tre costituzioni. L’epoca della barbarie è compiuta e con essa il modo di produzione che consente all’uomo di collegarsi direttamente ai mezzi di produzione. La proprietà comune di quest’epoca (i be­ ni mobili, assai poco numerosi, sono per l’uso proprietà privata) è il riflesso di una situazione in cui il carattere ancora primitivo dei mezzi di produzione (caccia e pesca) non lascia intravvedete alcun bisogno al di là delle semplici necessità alimentari. Con lo sviluppo delle attività industriali, di scambio e della moneta si manifestano, da un lato, bisogni più ampi e, dall’altro, l’impossi­ bilità per il complesso della società di poterne beneficiare, unita alla volontà di alcune famiglie, poi classi, di monopolizzare gli strumenti della produzione. Una volta superata questa fase, il modo di produzione cam­ bia radicalmente. Le nuove forme di produzione non permettono più di stabilire legami diretti tra uomini e mezzi di produzione. Solo una minoranza potrà beneficiare della produzione di tutti gli altri: si presenta così la necessità di un organismo destinato a consacrare il dominio della classe proprietaria per assoggettare tutte le altre componenti della società. Ma, come scriveva Lafargue, le forme economiche che han­ no portato alla divisione della società in classi e al dominio del

(8)

F. Engels, op. cit., p. 145.

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capitale contengono in loro le condizioni di un « ritorno al comu­ niSmo », perché

« l’umanità non progredisce in linea retta, come credeva Saint-Si­ mon; al pari dei corpi celesti attorno al loro centro d’attrazione e delle foglie sullo stelo, essa, nel suo cammino, descrive una spirale i cui cerchi vanno facendosi sempre più grandi. Necessariamente essa arriva a dei punti che si corrispondono e allora vediamo ricomparire certe forme anteriori che credevamo estinte per sempre; ma riappaio­ no però profondamente modificate dalla serie continua dei fenomeni economici e sociali che si sono nel frattempo succeduti. La civiltà capitalistica la quale ha reintrodotto il collettivismo sospinge fatal­ mente l’umanità verso il comuniSmo. L’uomo, che si mosse dal co­ muniSmo semplice e grossolano dei tempi primitivi, ritorna ad un comuniSmo complesso e scientifico; la civiltà capitalistica ne elabora gli elementi dopo avere tolto il carattere personale alla proprietà privata. Gli strumenti di produzione, i quali, durante il periodo della piccola industria, erano disseminati e appartenevano individualmente agli artigiani, appena vennero strappati dalle mani di questi ultimi, furono accentrati, posti in comune in opifici giganteschi ed in tenute agricole colossali. Il lavoro ha così perduto il suo carattere indivi­ duale. L’artigiano lavorava in casa, da solo; il proletario lavora in comune con gli altri, nella fabbrica; il prodotto, invece di essere in­ dividuale, è un’opera comune » (B). Queste considerazioni storiche ci permettono di fissare due princìpi che riteniamo fondamentali nella dottrina marxista del­ lo Stato: 1) lo strumento di lavoro pone le condizioni per la divisione della società in classi, 2) le classi danno poi vita allo Stato. ' ; .«! i j Il carattere « al di sopra delle classi » che riveste lo Stato non deriva da una possibilità che offre la classe dominante (certa­ mente essa ne approfitterà per ingannare gli sfruttati), né da una virtù intrinseca allo Stato stesso. Questa caratteristica, come rile­ va Engels riguardo allo Stato ateniese, è il risultato diretto del­ l’impossibilità di stabilire un legame tra l’uomo e i mezzi di produzione dal momento che la loro industrializzazione produce (9)

P. Lafargue, op. cit., pp. 195-196.

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due effetti contraddittori: da un lato, l’allargamento della pro­ duzione e, dall’altro, la possibilità di impadronirsi di questa produzione allargata solo da parte di una minoranza della popo­ lazione. Non si può dunque parlare di uno Stato che genera la clas­ se, ma della classe che precede lo Stato in quanto prodotto diret­ to di quella fase dell’evoluzione della società umana in cui il monopolio dei mezzi di produzione diventa una necessità per stabilire e conservare un privilegio e per conformare l’intera or­ ganizzazione sociale al mantenimento di questa posizione di pri­ vilegio. Certamente lo Stato è uno strumento necessario per in­ staurare e mantenere una classe al potere. Ma se, con il pretesto che la realtà storica è come un composto chimico, si potessero indifferentemente invertire i ruoli dei componenti con l’affer­ mazione che la classe è uno strumento dello Stato, si tradireb­ be non solo l’intera teoria marxista («fino ad oggi la storia di tutta la società è stata la storia della lotta di classe », Manifesto del Partito comunista), ma la stessa realtà odierna diventerebbe un guazzabuglio incomprensibile. In questo caso si dovrebbe ammettere che, se esiste uno Stato fascista, uno Stato democrati­ co e uno Stato sovietico, esiste anche ima classe fascista, una clas­ se democratica, una classe sovietica e che il modo di produzione non è determinato dalle relazioni esistenti tra i rapporti sociali, giuridici e i mezzi di produzione, ma dalla relazione esistente tra le classi e lo Stato. Del resto, il carattere « al di sopra delle classi » dello Stato è permanente per ogni forma statale: è la diretta risultante di quel vuoto che separa l’insieme della popolazione dalla massa dei prodotti, vuoto che viene occupato dalla classe che, impa­ dronendosi dei mezzi di produzione, controlla questa massa di prodotti. Questa separazione dello Stato dalle classi è, d’altra parte, come ha dimostrato Engels, la forma esclusiva su cui si può fondare uno Stato. Di fatto, storicamente, i legami di con­ sanguineità sono sostituiti da quelli territoriali non perché for­ malmente la gens si trasforma in una collettività di famiglie o in una circoscrizione territoriale, ma perché è cambiata la sostanza stessa della nuova organizzazione sociale. Prima, si trattava di

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una divisione del lavoro che avveniva spontaneamente tra i membri della gens-, dopo, si tratta di imporre una coercizione che non può più avvenire sulla base della consanguineità e della proprietà comunista, essendo stata distrutta per sempre l’unità economica della gens. Poiché il rapporto di consanguineità non può dare origine alle classi, queste ultime sorgono dal sistema economico. Nelle conclusioni della sua opera sull’origine della famiglia Engels, tuttavia, si pronuncia sull’eventualità, come ab­ biamo già detto, « in cui le classi in lotta hanno forze pressoché eguali ». Engels non esprime questo pensiero per avanzare una possibilità (sia pur essa contingente) in cui lo Stato abbia una funzione di mediazione, ma per mettere in evidenza situazioni in cui, provvisoriamente, gli interessi delle classi si trovino in equilibrio e lo Stato possa apparire come organo di mediazione. Per Engels non si tratta certo di una fase particolare della vita dello Stato, ma piuttosto di una fase particolare della vita delle classi. Ciò è, d’altra parte, provato dal fatto che egli parla dello Stato che acquisisce indipendenza come « mediatore » apparente­ mente, mentre sta parlando delle « classi in lotta che hanno for­ ze pressocché eguali ». Certi gruppi che si definiscono della sinistra comunista in­ terpretano questo passo di Engels per dare una spiegazione teo­ rica sia del fascismo che del soviettismo, come anche delle for­ me governative che hanno preceduto la vittoria del fascismo. Come ciò sia in flagrante contraddizione con il pensiero di En­ gels è dimostrato da questa considerazione: oggi non ci troviamo assolutamente in un periodo in cui le classi si trovano in equi­ librio, ma, al contrario, attraversiamo un momento compietamente oppposto in cui i contrasti di classe maturano in conti­ nuazione antagonismi sempre più aspri. Per comprendere la situazione attuale consideriamo che la formula « lo Stato è l’organo di una classe » non è formalmente di per sé stessa una risposta ai fenomeni che si producono, o la pietra filosofale che deve essere ricercata attraverso i fatti, essa significa che tra classe e Stato si determinano rapporti dipenden­ ti dalla funzione di una data classe. In particolare, per quanto riguarda il proletariato che non fonda il suo Stato con lo scopo

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di assoggettare altre classi, il problema consiste nel definire le posizioni politiche su cui dovrà essere fondato lo Stato proletario in relazione alla rivoluzione mondiale. Come abbiamo già spiegato, ogni periodo storico è caratte­ rizzato dalla classe che si trova al potere. Considerando il fatto che la funzione dello Stato deriva dal ruolo della classe e che, in generale, per tutte le classi che hanno preceduto il proletariato, questo ruolo è sempre stato quello di fissare il dominio economi­ co e politico e di conformarvi i tipi di società, diciamo che « lo Stato è l’organo di classe » nella misura in cui concretizza il do­ minio della classe. Per il proletariato il problema si pone in altro modo. Di fatto, se si potesse ammettere quell’eventualità completamente astratta per cui il proletariato possa realizzare la sua insurrezio­ ne in un ’epoca in cui, grazie a un’evoluzione industriale spinta estremamente avanti, si possa passare, dall’oggi al domani, dalla società capitalista alla società comunista (permettendo una ri­ partizione della massa dei prodotti in grado di soddisfare com­ pletamente e liberamente le necessità dei produttori), se una tale eventualità fosse possibile, non ci sarebbe alcuna necessità di fondare uno Stato proletario. Ma il periodo di transizione dalla società capitalista alla società comunista, il periodo della dittatu­ ra del proletariato, è caratterizzato dalla necessità di disciplinare e di regolamentare l’evoluzione della produzione (che rimane insufficiente anche dopo l’abbattimento del capitalismo) e di orientarla verso uno sviluppo che permetterà l’affermarsi della società comunista. La minaccia di una restaurazione borghese è in funzione di questa insufficienza della produzione e delle forze produttive ■— anche nel periodo della dittatura del proletariato — e non solo in funzione delle velleità reazionarie delle classi spodestate. Di conseguenza, il ruolo del proletariato potrà essere com­ plessivamente compreso a condizione di considerare che, contra­ riamente a quanto è avvenuto per le classi che l’hanno precedu­ to, i fondamenti del suo programma così come la politica del suo Stato possono essere ricercati e realizzati solo nella visione co­ stante del processo di evoluzione progressiva della rivoluzione

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internazionale. Per il capitalismo, invece, la sostituzione del proprio privilegio al privilegio feudale, nell’epoca delle rivolu­ zioni borghesi, poteva essere accompagnata da una permanente coesistenza di Stati capitalisti e di Stati feudali e anche pre-feudali. Marx ha messo inoltre in luce come una delle condizioni per la fondazione e la conservazione del regime capitalistico stia proprio nella coesistenza di regimi borghesi e di colonie che, permettendo un investimento di plus-valore, non danno luogo ai fenomeni e ai contrasti tipici dell’economia capitalistica (10 ). La visione storica del capitalismo non può, dunque, in alcun caso essere presa a prestito dal proletariato: quest’ultimo può trion­ fare solo alla condizione di sapere opporre alla società borghese una società basata su altri principi. Il ruolo del capitalismo e il suo scopo sono sufficienti a in­ dicare il ruolo e lo scopo delle sue differenti forme statali: man­ tenere l’oppressione a vantaggio della borghesia. Per quanto ri­ guarda il proletariato, è ancora una volta il ruolo e lo scopo del­ la classe operaia che determineranno il ruolo e lo scopo dello Stato proletario. La borghesia potrà avere una serie di orienta­ menti politici contraddittori; ma, in definitiva, per stabilire se certi paesi sono capitalisti o meno, non si tratta di vedere se la natura della politica che applicano è capitalista o meno: basterà stabilire se questi Stati sono fondati sul principio della proprietà privata per riconoscere se effettivamente sono capitalisti e ciò malgrado le contraddizioni sotto un profilo di spazio (simulta­ neità di uno Stato democratico e fascista: Francia e Italia) e di (10) La Frazione di Sinistra nel cercare una via che permettesse di compren­ dere gli avvenimenti in corso partecipò attivamente ai dibattiti sulle tesi della Lu­ xemburg. Le tesi luxemburghiane sull’accumulazione del capitale e sulla questione nazionale erano particolarmente sostenute dalla Ligue des Communistes Internazionalistes. Un militante della Ligue, Mitchell, pubblicò su « Bilan » (nn. 10 e 11) il saggio Crise et cycles dans Veconomie du capitalisme agonisant che indubbiamente contribuì a influenzare l’indirizzo della Frazione verso le posizioni della Luxemburg, come possiamo vedere dalle affermazioni espresse in Partito, Internazionale e Stato. (Mitchell - alias Melis - nel 1936 ruppe con la Ligue sulla guerra di Spagna e aderì alla Frazione. Nel 1940 venne arrestato con il figlio dalla Gestapo e internato a Buchenwald dove morì. In Italia è stato pubblicato un solo testo di Mitchell tratto da Bilan nn. 18, 19 e 20: « I problemi della moneta » in Prometeo, nn. 3 e 4, 1946). (N.d.t.)

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tempo (rottura con i programmi collegati alle formulazioni de­ mocratiche del secolo passato). Egualmente il ruolo e lo scopo deLproletariato, cioè la rivo­ luzione mondiale, condizionano anche il programma, il ruolo e lo scopo dello Stato proletario. Il criterio politico seguito dal­ lo Stato non è più un elemento di indifferenza nella determi­ nazione del suo ruolo (come nel caso della borghesia e di tutte le classi precedenti), ma è un elemento da cui dipende il ruolo dello Stato proletario e, in definitiva, la sua funzione di soste­ gno alla rivoluzione mondiale. Tenendo conto che lo Stato è solo lo strumento della classe e che il proletariato può realizzare la sua missione solo sulla ba­ se del suo trionfo a scala internazionale, comprenderemo meglio come la natura di classe dello Stato proletario non garantisca per nulla il ruolo proletario di questo Stato. Bisogna considerare che, in ultima analisi, lo Stato è solo uno degli strumenti della lotta proletaria, anche se uno dei più importanti. Altri strumenti di lotta proletaria presentano l’apparente contraddizione tra la loro natura di classe e la politica che seguono. Ne risulta che, fatta astrazione per il partito, da un punto di vista materiale è difficile indicare le basi di classe dei sindacati fondati su principi dij classe e che difendono questa natura qualora applichino, sotto la direzione riformista, una politica contraria agli interessi pro­ letari e alla rivoluzione. Ciò che è avvenuto prima della guerra e che oggi si è ripetuto riguardo ai sindacati, si è verificato per lo Stato sovietico. Il sindacato per la sua natura proletaria aveva davanti a sé la scelta tra una politica classista, che l’avrebbe mes­ so in contrasto permanente e progressivo con lo Stato capitali­ sta, e una politica che invitava gli operai a raggiungere il miglio­ ramento delle loro condizioni di vita gradualmente (riforme) con « punti di appoggio » all’interno dello Stato capitalista. La breccia aperta dai sindacati nel 1914 nell’altra parte della barri­ cata provò che la politica riformista sortiva il risultato opposto a quello proclamato: fu lo ,Stato a conquistare progressivamente i sindacati fino a farne strumenti della guerra imperialista. La stessa situazione ha davanti a sé lo Stato operaio nei confronti del sistema capitalistico mondiale. Ancora una volta

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due vie: quella di una politica che realizza sul proprio territorio e all’esterno, in funzione della Internazionale comunista, posi­ zioni sempre più avanzate nella lotta diretta all’abbattimento del capitalismo internazionale; o, invece, la politica opposta che consiste nel chiamare il proletariato russo e quello mondiale ad appoggiare la penetrazione progressiva dello Stato russo in seno al capitalismo mondiale. Ciò condurrà inevitabilmente lo Stato operaio a legare la propria sorte a quella del capitalismo nel mo­ mento dello sbocco finale della situazione in atto, e cioè la guer­ ra imperialista. L’avere messo già a fuoco il carattere mondiale della classe ci permette di comprendere come sia possibile che lo Stato russo (pur esercitando il suo dominio su di un territorio in cui, se­ condo il Manifesto del Partito comunista, è realizzata « la sola formula che possa riassumere la teoria comunista: abolizione della proprietà privata ») possa esercitare un ruolo controrivolu­ zionario per quanto riguarda gli interessi del proletariato russo e di quello mondiale. È evidente che, nella situazione attuale, la classe che domina sotto il profilo mondiale è quella capitalista. Lo Stato operaio, se avesse applicato la politica che scaturiva dal programma dell’Ottobre, avrebbe prodotto anche nelle più picco­ le fibre del tessuto sociale capitalista, arretrato e coloniale, una opposizione tra due società, tra due mondi. E ciò avrebbe fini­ to per fare esplodere una guerra di classe mondiale che avrebbe potuto appoggiarsi sullo Stato operaio. La politica controrivolu­ zionaria, sanzionata nel 1927 dopo l’esclusione delle tendenze di sinistra, non poteva produrre che questo esito: in tutta la società capitalista e anche nella stessa società sovietica le opposizioni di classe sono finite con l’annientamento del proletariato interna­ zionale e con la marcia del mondo capitalistico verso la guerra, che trascina con sé lo Stato operaio giunto all’ultimo gradino della sua politica, il tradimento.

Capitolo III CLASSE E PARTITO

Nel Manifesto dei Comunisti, là dove spiega il ruolo storico del proletariato, Marx, dopo avere sottolineato il carattere effi­ mero dei trionfi operai nelle lotte rivendicative e dopo avere spiegato che il vero risultato di queste lotte consiste più nella crescente solidarietà tra i lavoratori che nel successo immedia­ to », precisa che « l’organizzazione dei proletari in classe e quin­ di in partito politico è continuamente distrutta dalla concorrenza che si fanno gli operai tra di loro ». L’ultima parte di questa frase si potrebbe equivocare lasciando intendere che l’abbando­ narsi alla concorrenza rappresenterebbe una tendenza organica degli operai. Ma il Manifesto spiega subito e molto chiaramente che la tendenza degli operai è quella di fare « rinascere sempre di nuovo, più forte, più salda e più potente »(1) la loro organiz­ zazione in classe. Pertanto è evidente che questa concorrenza è il risultato di una reazione nemica in seno all’organizzazione della classe operaia, che conosce un cammino irto di difficoltà, di mo­ menti di disgregazione o di dissoluzione e di tradimenti. L’interesse del passo citato è il fatto che Marx sottolinea come l’organizzazione del proletariato si possa realizzare sola­ mente nel partito e che spieghi, poi, perché le altre forme orga­ nizzative che si daranno gli operai non potranno realizzare la loro costituzione in classe. È possibile dimostrare che non si tratti di incidentali dichiarazioni del Manifesto con una rapida analisi della posizione tenuta da Marx rispetto all’organizzazione proletaria, limitandoci a osservare che Marx stesso ha partecipa0) Tutti i passi sono citati da K. Marx, Il Manifesto del Partito Comunista, trad, it., Einaudi Torino 1972, p. 112.

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to alla costituzione della Lega dei Comunisti e, in seguito, nel 1864, ha preso l’iniziativa di costituire la Prima Internaziona­ le!2); ha inoltre, in conseguenza della disfatta del 1848, preco­ nizzato lo scioglimento della Lega dei Comunisti e ha proposto, con Engels, nel 1872, al Congresso dell’Aia, dopo l’annientamen­ to della Comune di Parigi, il trasferimento del Consiglio Genera­ le a New York. Ciò equivaleva a dichiarare di fatto lo sciogli­ mento della Internazionale, formalmente dichiarato nel 1876. Vorremmo inoltre mettere in evidenza come Marx si oppose a che il solo partito esistente dopo lo scioglimento della Prima In­ ternazionale, la socialdemocrazia tedesca (tendenza Eisenach) si fondesse, nella totale confusione, con i lassaliani. Nella lettera a Brache Marx scrisse al riguardo: « dunque se ci si trovava nel­ l’impossibilità di superare il programma di Eisenach — e le cir­ costanze non lo permettevano — ci si doveva limitare alla con­ clusione di un accordo contro il comune nemico »(3). Un altro fatto importante è l’opinione di Engels riguardante il movimento francese. In una lettera indirizzata a Bebel il 28 ottobre 1882 egli si felicita che «la scissione attesa da lungo tempo in Francia » si sia attuata. « Lo sviluppo del proletariato — dice Engels in questa lettera — progredisce dovunque attra­ verso lotte intestine e la Francia, dove per la prima volta viene creato un partito operaio, non fa eccezione». E questa scissione tra la tendenza di Guesde-Lafargue e quella di Malon-Brousse è approvata al Congresso di St-Etienne, il 25 settembre 1882, poi­ ché si trattava — scrive Engels — « di una lotta puramente di principio ». (2) In realtà, come sostiene Rjazanov nelle conferenze tenute presso l’Accademia socialista di Mosca nel maggio del 1922 (ora in David B. Rjazanov, Marx ed Engels. Lezioni tenute al corso di marxismo dell’accademia socialista di Mosca del 1922, trad, it., La nuova sinistra Samonà e Savelli, Roma 1972, pp. 116-123), Marx assiste all’Assemblea londinese del 28 settembre 1864, data alla quale si fa risalire la costituzione della Prima Internazionale, quale invitato e solo successiva­ mente, con la stesura dell’indirizzo inaugurale adottato a « maggioranza schiaccian­ te », ne diviene « il principale dirigente spirituale ». (N.d.t.) (3) Marx-Engels, Briefe au A. Bebel, W. Liebkneckt, K. Kautsky und andere 1870-1886, Institut Marx-Engels-Lenine, Moscau. (4) Ibidem.

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I maestri del socialismo scientifico ci sembrano al tempo stesso i fondatori del partito e i promotori di scissioni o, perfino, dello scioglimento del partito da essi fondato. Operando una sin­ tesi, a prima vista, contraddittoria della loro posizione, ci sarà possibile collegare il problema della costruzione del partito della classe operaia ai concetti fondamentali della teoria che serve da strumento della lotta proletaria. Spetta a noi quindi comprende­ re le ragioni per le quali coloro che elaborarono questa teoria di valore universale si assunsero anche la responsabilità di dichia­ rare la fine della Lega dei Comunisti, della Prima Internazionale e, lungi dal sostenere fusioni impossibili (Congresso di Gotha) o dal conservare un’unità nella confusione (Francia), sostennero correnti proletarie che non sempre si collegavano a movimenti di massa, separandosi in questo modo da tutti i confusionari che possedevano una influenza effimera sulla classe operaia (Lassalle, Malon-Brousse). È utile precisare nuovamente il concetto di classe. Bordi­ ga, in un articolo riguardante la classe e il partito, sottolineava: « il concetto di classe non deve dunque suscitare in noi una im­ magine dinamica. Quando scorgiamo una tendenza sociale, un movimento per date finalità, allora possiamo riconoscere l’esi­ stenza di una classe nel senso vero della parola. Ma allora esiste, in modo sostanziale, se non ancora formale, il partito di clas­ se » (B). Nel primo capitolo di questo studio abbiamo sottolineato la distinzione esistente tra aggregato sociale e classe. Con ciò vo­ gliamo indicare che una comunanza di interessi dà sempre origi­ ne a un aggregato sociale, mentre solo una possibilità storica di azione eleverà un determinato aggregato sociale al rango di clas­ se. Per quanto concerne in particolare la società capitalista, pensiamo che il proletariato vi esista sempre come aggregato so­ ciale, non sempre come classe. Per esempio, le grandi disfatte rivoluzionarie trascinano nel loro turbine il partito proletario, (5) A. Bordiga, Partito e Classe, in Rassegna Comunista, a. I, n. 2, 15 aprile 1921, pubblicato in francese in Contre le Courant, a. II, 26 novembre 1928. Ora in Partito e Classe, edizioni Programma Comunista, Milano 1972. (N.d.t.)

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quell’organismo al di fuori del quale è impossibile concepire la classe. È stato così dopo la disfatta del 1848, del 1871 e dopo il tradimento dei partiti socialisti nel 1914, è lo stesso oggi dopo la disfatta della classe operaia mondiale, in Germania con la vit­ toria del fascismo. L’origine di un aggregato sociale può essere trovata nel meccanismo economico, si può cioè dire che esiste una relazione di causa-effetto tra l’organizzazione di una determinata società e tutti gli aggregati sociali antagonisti che ne risultano. Ma la rela­ ziono tra il meccanismo economico e l’unica classe chiamata a realizzare una forma superiore di organizzazione sociale diventa molto più complessa. Intervengono altri fattori che chiamiamo « politici » rispetto ai fattori puramente economici che generano gli aggregati sociali. Questi fattori politici si concentrano attorno a un’asse essenziale: il programma storico che il proletariato si dàijper realizzare la fondazione della società comunista. Il programma storico, prima della vittoria capitalista a livel­ lo mondiale, consisteva nella trasformazione della rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria. Questa tesi ispira non solo gli statuti della Lega dei Comunisti, ma anche tutta la tattica racco­ mandata da Marx all’epoca delle rivoluzioni del 1848-49 in Eu­ ropa (6). Il partito della classe operaia a quell’epoca è dunque un prodotto di quella situazione storica, la sua funzione e il suo programma si troveranno nel punto estremo delle possibilità esistenti: non sarà più unito alla borghesia come pensavano Marat e Babeuf (anche se quest’ultimo, dopo il Termidoro, lo comprese perfettamente ed è su questa base che, d’altronde, or­ ganizzò la Congiura degli Eguali), ritenendo questa classe in gra­ do di realizzare una società di eguaglianza per tutti i cittadini. Tuttavia Marx conterà di potere utilizzare i movimenti che ac­ compagnano la rivoluzione borghese per spingere quest’ultima a soluzioni che permettano l’entrata in lizza della classe proletaria. Dopo i massacri del giugno 1848 in Francia Marx comprese la impossibilità di realizzare questo schema e scrisse: C6) Cfr. David B. Rjazanov, op. cit.

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« La Rivoluzione di Febbraio era la bella rivoluzione, la rivo­ luzione della simpatia universale, perché gli antagonismi che in essa erano esplosi contro la monarchia sonnecchiavano in pace l’uno ac­ canto all’altro, non ancora sviluppati; perché la lotta sociale che ne formava la base aveva solo raggiunto un’esistenza vaporosa, resi­ stenza della frase, l’esistenza della parola. La Rivoluzione di giugno è la brutta rivoluzione, la rivoluzione ripugnante, perché in essa alla frase è subentrata la cosa, perché la stessa repubblica ha denudato la testa del mostro, privandolo di quello che era insieme il suo pa­ ravento ed il suo scudo: la corona ». « Ordine!, era stato il grido di battaglia di Guizot, Ordine!, gridava Sebastiani, il Guizot in sedicesimo, mentre si russificava Var­ savia. Ordine! grida Cavaignac, eco brutale dell’assemblea nazionale e della borghesia repubblicana. Ordine!, hanno tuonato i suoi colpi di mitraglia nel dilaniare i corpi dei proletari. Nessuna delle innu­ merevoli rivoluzioni della borghesia francese seguite al 1789 aveva attentato all’ordine, perché tutte lasciavano sussistere il dominio di una classe, la schiavitù degli operai, l’ordine borghese — per quanto la forma politica di quel dominio e di quella schiavitù cambiasse. Giugno ha intaccato quest’ordine: maledetto sia giugno! » (7). Nel suo libro Le lotte di classe in Francia Marx aggiungeva ancora: «Al posto delle sue rivendicazioni, esagerate nella for­ ma, meschine e persino borghesi nei contenuti, e che esso voleva strappare come concessioni alla repubblica di Febbraio, subentrò l’ardita parola di lotta rivoluzionaria: abbattimento della bor­ ghesia, dittatura della classe operaia! »(8). Sulla base di questi avvenimenti del 1848 e dopo un lungo lavoro di elaborazione teorica che va dal 1850 al 1864 fu fondata la Prima Internazionale che pose alla base il concetto di indi­ pendenza della classe operaia per realizzare la sua rivoluzione. Ma tra il 1848 e il 1862, nel corso degli eventi, si era pure ve­ rificata ima evoluzione: la borghesia, « rivoluzionaria» dal 1789 al 1848, era diventata il boia sanguinario che difendeva il pro­ prio regime con ecatombi di proletari. È chiaro che tra il 1850 (7) K. Marx, Il Quarantotto - La Nue Rheinische Zeitung, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 45. (8) K. Marx e F. Engels, Opere scelte. Editori Riuniti, Roma 1966, p. 399*

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ed il 1862 la situazione non permetteva alla classe operaia, che si stava riprendendo dalla prima disfatta, di porre la propria candidatura alla distruzione della società capitalista: per questo motivo il partito non poteva essere fondato. Alla biblioteca di Londra Marx continua la funzione storica del proletariato, quel­ la funzione che — per quanto riguarda l’effetto immediato sugli avvenimenti — era stata spezzata dai massacri del 1848. Rico­ struirla con la fondazione di un partito sarebbe stato un proce­ dimento artificiale che, lungi dal facilitare la ripresa della lotta proletaria, avrebbe costituito un nuovo elemento di offuscamento e, in definitiva, avrebbe ritardato la ricostruzione di una reale organizzazione della classe operaia. Di fatto, anche nell’ipotesi che il lavoro compiuto da Marx in quattordici anni avrebbe po­ tuto essere compiuto in un tempo più limitato, anche se egli avesse finito il Capitale e il programma della Prima Internaziona­ le nel 1851 invece che nel 1864, il corso degli avvenimenti non ne sarebbe stato assolutamente modificato: infatti nel corso di quegli anni si produsse l’esaurimento storico della classe borghe­ se in quanto forza che può armonizzare l’insieme della società sotto la sua direzione e il ruolo progressivo di questa classe si capovolse in un ruolo regressivo. Abbiamo avanzato questa ipotesi per porre in modo più ampio il problema, ma, in realtà, poiché le nozioni politiche so­ no, in definitiva, l’espressione del processo evolutivo della situa­ zione storica, è evidente che i lavori teorici di Marx apparvero solo al momento in cui la maturazione di questa evoluzione permetteva di comprendere la situazione oggettiva e i compiti spettanti al proletariato. Ma ciò che vogliamo soprattutto mettere in evidenza è che, dopo la disfatta del 1850, il problema di co­ struire nuovi partiti proletari si poneva in questo modo: inven­ tario dei dati teorici precedenti, elaborazione, sulla base delle disfatte subite, delle nuove concezioni di fondo in vista della fondazione del partito di domani. Questo lavoro teorico, effet­ tuandosi in relazione all’evolversi della situazione dopo il 1848, avanzava nella misura in cui il corso contraddittorio degli avve­ nimenti permetteva, nel contempo, di esplorare il nuovo sentiero che il proletariato doveva percorrere e determinava, parallela­

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mente all’apparire di contrasti di classe, le condizioni reali per la ripresa della lotta proletaria. Sostituire a questo lavoro la fondazione immediata di un partito avrebbe significato impianta­ re l’edificio di domani in un ambito sociale e politico collegato fisiologicamente alla stessa strada che portava alla disfatta del 1848. È chiaro che la nostra analisi delle fasi successive della lotta proletaria e della fase attuale tiene conto delle condizioni storiche e non certo di affermazioni o di proclamazioni volonta­ ristiche che si sarebbe tentati di esprimere riguardo alla fonda­ zione di nuovi partiti. D’altronde quando affermiamo che la proclamazione affrettata di un partito impedisce la sua prepara­ zione reale, ci rivolgiamo a quelle correnti che pretendono di fondare un partito per fecondare il lavoro teorico cadendo, in tal mòdo, in contraddizione: il partito è un’organizzazione di com­ battimento e non un laboratorio di lavoro teorico. Dopo l’annientamento della Comune di Parigi si apre un periodo di tempo molto più lungo di quello che separa la Lega dei Comunisti dalla Prima Internazionale. Ci vorranno diciasset­ te anni prima di giungere alla fondazione della Seconda Interna­ zionale, le cui basi politiche, d’altra parte, furono poste solo al congresso di Erfurt. Durante il periodo che intercorre tra la fine della Prima e la fondazione della Seconda Internazionale non assisteremo più a un lavoro teorico analogo a quello che precede la Prima Internazionale. Ciò non dipende da un esaurimento delle facoltà scientifiche di Marx e di Engels (se Marx morì nel 1883, Engels visse fino al 1895), ma dal fatto che una modifica­ zione storica di un’importanza decisiva si era manifestata nella concatenazione degli avvenimenti che legano il 1871 al 1889. In­ fatti la Comune pone fine alla fase in cui il proletariato poteva contare di realizzare la sua liberazione nel corso dei sovverti­ menti sociali che accompagnano la distruzione del regime feuda­ le. I massacri del Pere Lachaise insediano al potere il capitali­ smo che presto avrà davanti a sé un periodo durante il quale potrà realizzare la sua egemonia sulla società, sottomettendo il proletariato impossibilitato di condurre la lotta rivoluzionaria. Il programma di Erfurt, benché riprenda il passo del Manifesto dei Comunisti, che caratterizza come « politica » ogni lotta contro lo

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sfruttamento capitalistico, tuttavia dirà che: « la classe operaia non può condurre le proprie lotte economiche né sviluppare la propria organizzazione economica senza diritti politici. Essa non può operare la trasformazione dei mezzi di produzione in un possesso di tutta la collettività sena essere entrata in possesso del potere politico »(9). Questo pensiero rifletteva mirabilmente la nuova situazione di sviluppo del capitalismo e le prospettive che si aprivano a ima classe operaia uscita sconfitta con la Co­ mune di Parigi. Marx aveva tratto da questa disfatta gli inse­ gnamenti più essenziali che potevano spiegare, nel momento in cui le masse operaie lottavano per un miglioramento delle condi­ zioni di vita, questa lotta «per i diritti politici» e l’inutilità di svolgere un lavoro teorico analogo a quello precedente alla Pri­ ma Internazionale. Il revisionismo marxista, che doveva fiorire in una simile situazione, egualmente si collega a questo passaggio del programma di Erfurt. Non pretendiamo che esista una filia­ zione diretta tra Erfurt e il riformismo, ma è su questa base che esso proclamò il suo attaccamento al capitalismo che corrompeva gli organismi operai procedendo alla conquista del mondo senza il pericolo di insurrezioni proletarie. Le stesse difficoltà attraver­ sate dalle sinistre marxiste nell’ambito della Seconda Internazio­ nale confermano le caratteristiche dell’epoca. Era veramente difficile mantenere intatta la prospettiva del socialismo nel mo­ mento in cui il capitalismo permetteva un certo qual innalza­ mento del livello di vita degli operai con l’inganno di « riforme » che potevano fare presumere un avvento graduale del socialismo. La rigenerazione del marxismo giunse da un ambiente completamente diverso. I bolscevichi avevano sì il loro comitato direttivo all’estero, proprio nell’ambiente della cancrena oppor­ tunista, ma essi agivano in funzione di un terreno sociale in cui il capitalismo era lontano dal potere godere di una situazio­ ne analoga a quella riscontrata negli altri paesi. Gli operai e i contadini russi dovevano porre la questione del potere come condizione primaria per spezzare lo sfruttamento che gravava (9) Cfr. Wolfgang Abrendroph, La socialdemocrazia in Germania, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 128.

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su di loro. Questo doppio concorso di circostanze oggettive ali­ mentò il genio di Lenin e pose le condizioni per la vittoria rivo­ luzionaria. Il successo riformista in seno ai partiti della Seconda Inter­ nazionale non determinò né le condizioni per la fondazione di nuovi partiti né quelle per la formazione dei quadri di futuri partiti. Le condizioni per la costituzione di un nuovo partito po­ tevano sorgere solo dall’esplosione delle contraddizioni su cui era basato lo sviluppo capitalistico dopo il 1870. Questa esplosio­ ne è rappresentata dalla guerra del 1914, quando doveva ve­ rificarsi il passaggio al nemico di una direzione riformista con­ quistata nel corso di un periodo in cui le lotte rivendicative de­ gli operai erano state certamente dellec brecce aperte nel sistema capitalistico, ma non, come sostenevano i riformisti, successi so­ cialisti che dovevano dispensare le masse dal porre il problema della conquista del potere. Il tradimento del 1914 non pose subito all’ordine del giorno il problema di costituire una nuova Internazionale o nuovi parti­ ti. In quell’epoca la sola corrente in grado di affrontare i fran­ genti della guerra era il partito bolscevico, che poteva farlo in quanto aveva compiuto, dopo la disfatta del 1905, un lavóro ana­ logo a quello svolto da Marx dopo il 1848, cioè un profondo lavoro di ricostruzione teorica. I bolscevichi ne raccolsero i frut­ ti nel 1917 quando diressero l’insurrezione delle masse. La guerra ha rappresentato lo sbocco finale della situazione in cui il capitalismo aveva vissuto il suo periodo di ascesa e ha prodotto l’apertura di una nuova fase in cui il problema deh po­ tere si è posto per il proletariato. Ma, questa volta, su di ima base estremamente più avanzata rispetto al 1848: infatti, è uni­ camente con una lotta senza quartiere non solo contro il capita­ lismo, ma anche contro tutti i suoi agenti che sarà possibile con­ seguire la vittoria rivoluzionaria. E, al Secondo Congresso della Internazionale comunista, le tesi sul ruolo del partito comunista contengono un passo che permette di comprendere che il ruolo del partito e il suo programma si possono realizzare solo con la separazione da ogni corrente socialdemocratica, separazione tan­ to profonda da corrispondere a quella che esiste tra il periodo

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del capitalismo in ascesa e il nuovo periodo delle rivoluzioni proletarie. La tesi numero tre, dice: «I concetti di partito e di classe devono essere distinte con la più grande cura », e più avanti: « La confusione di questi due concetti — partito e classe — può condurre ai più gravi errori e fraintendimenti ». Da queste tesi risalta che il compito dei comunisti non consiste più nella conquista dei diritti politici (programma di Erfurt), ma nell’« elevare tutta la classe operaia al livello dell’avanguardia comunista » (w). Il fattore coscienza interveiene dunque come elemento di importanza decisiva perché corrisponde a una si­ tuazione in cui l’elemento essenziale è costituito dalla conqui­ sta del potere politico, dove questa conquista diventa « il diritto politico » fondamentale della classe operaia. Ma, ancora una volta, il nemico di classe doveva avere ra­ gione dello sforzo proletario nonostante questo fossse giunto a forgiarsi, con l’Internazionale comunista, l’organo che potesse divenire lo strumento della sua liberazione a scala mondiale. Noi ci ritroviamo oggi in una situazione in cui, di nuovo, bisogna ricostruire i quadri del partito di domani. La via seguita prima da Marx e poi da Lenin non è il risultato di circostanze fortuite e destinate a scomparire, ma anzi rappresenta la via che il proleta­ riato deve seguire per apprestare le condizioni della futura vitto­ ria. L’analisi del periodo successivo al 1848 ci ha permesso di osservare come la classe generi il partito sulla base del « come » la situazione genera la rivoluzione proletaria. Porre il problema in questo modo ci consentirà di scartare ogni soluzione che vo­ glia spingerci a reagire immediatamente alla situazione costruen­ do nuovi partiti. Ciò che, in definitiva, può solo condurci sulla via già percorsa e che sbocca nella disfatta del 1933. Di fatto il partito è il prodotto complesso di due circostanze di cui deve realizzare la sintesi per il futuro. In primo luogo è il risultato della situazione contingente: per esempio, l’Internazionale co(10) Tesi sul ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria (24 lu­ glio 1920), ora in A. Agosti (a cura di), La Terza Internazionale, Ed. Riuniti, Roma 1974, vol. 1, p. 227. (N.d.t.)

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munista non poneva il problema della presa del potere in modo astratto, ma come ripetizione dell’Ottobre e ciò attorno all’espe­ rienza della Russia sovietica. L’Internazionale comunista viveva di tutti i fattori presenti nei diversi paesi: se possedeva il sangue innovatore della vittoria rivoluzionaria in Russia, respirava pure tutti i miasmi provenienti dai paesi capitalistici. In definitiva, la lotta tra capitalismo e proletariato poteva concentrarsi su una so­ la alternativa: o la spinta dei rivoluzionari russi si collegava con favorevoli circostanze negli altri paesi per fare dell’Internaziona­ le comunista l’organo della vittoria mondiale, o le disfatte rivo­ luzionarie negli altri paesi minavano le basi stesse di questo or­ ganismo e gli stessi bolscevichi venivano trascinati dalla corrente della controrivoluzione mondiale. Comprenderemo meglio l’attuale situazione e il problema dei rapporti tra partito e classe quando avremo richiamato il ruolo storico del proletariato e il meccanismo che può collegarne il partito alla causa del nemico. Come abbiamo già spiegato l’e­ lemento indispensabile per realizzare la missione storica del pro­ letariato non è certamente dato da un organismo economico co­ me per la borghesia e per le classi precedenti, ma solamente dal partito in cui progressivamente si realizzerà la coscienza del proletariato. E questa coscienza non è data dall’allargamento delle posizioni economiche dei proletari, ma dallo sviluppo del­ le armi ideologiche. Questa progressione ideologica, che per­ mette di scuotere tutto il sistema sul quale si insedia il potere capitalistico, determina, da un punto di vista materiale, una disposizione da parte del proletariato a prendere le armi per condurre la battaglia rivoluzionaria. Allo stesso modo determi­ na la possibilità di una rottura nell’apparato di dominio bor­ ghese spingendo funzionari, soldati e gendarmi a disertare il campo borghese per unirsi, poi, al proletariato che va verso la vittoria. All’epoca dell’Internazionale comunista, le posizioni politiche da essa espresse si saldavano con una situazione che esprime direttamente la spinta delle masse verso la conquista del potere. In quel momento non furono le formazioni militari e le squadre della reazione a spezzare la vittoria, ma il ripie­ gamento del capitalismo su posizioni di estrema sinistra che

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riuscirono a mascherare la necessità della presa del potere. Ciò prova che, anche quando esistono le condizioni più favorevoli per l’assalto rivoluzionario delle masse, il partito non è sicuro del successo perché in quel momento il pericolo non sta nella lotta corpo a corpo dell’armata proletaria con le forze nemiche, ma nella disgregazione che il nemico potrà provocare in seno al partito. Partito che non osa decidersi a prendere la via della lotta autonoma e unica del proletariato e che si lascia trascinare in proposte di alleanze con partiti avversi. Dopo la presa del potere, così come prova l’esperienza rus­ sa, l’estremo pericolo sta soprattutto nella progressiva penetra­ zione all’interno del partito di posizioni politiche che mano mano lo svieranno dal suo scopo e ne altereranno la coscienza politica fino a dissolverla nel quadro del sistema capitalistico. Il partito in quanto elemento che dipende dalla situazione in cui è radicato non è assolutamente tutelato dal rischio di diventare una parte integrante del sistema che concretizza il dominio capitalistico, perdendo così ogni capacità di realizzare la coscienza indispensabile al successo della propria lotta. Quan­ do la contaminazione del partito finisce con la vittoria di una corrente opportunista che ne modifica il programma iniziale, la posizione reale del partito subisce una modificazione. E, lungi dal chiamare il proletariato a prendere la via della vitto­ ria, lo farà cadere in una situazione di stallo che lo lascerà pre­ da del capitalismo. A partire da questo momento ogni analisi marxista dovrà tenere conto del fatto che, a favore del nemico, gioca la forza del partito degenerato, poiché ormai la sorte di questo partito è legata a quella del capitalismo. Ciò fino al mo­ mento in cui lo schiudersi delle contraddizioni farà scoppiare l’intero sistema. Il nostro pensiero è, d’altronde, perfettamente confermato dal rafforzamento della Russia sovietica di pari pas­ so con il rafforzamento del capitalismo nei vari paesi. Se il fallimento di un partito nel suo compito è la mani­ festazione di una incapacità iniziale ad abbracciare tutta la via che dovrà percorrere la classe fino alla propria liberazione, ne risulta che la linea progressiva che dalla Lega dei Comunisti del 1848 ci ha portati alla Prima Internazionale, poi alla Se­

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conda e, infine, alla Terza è il riflesso di avvenimenti che han­ no conosciuto le vittorie del capitalismo, i successi e gli insuc­ cessi del proletariato. Non si risolve evidentemente la questione della continuità della coscienza proletaria affermando che la Lega dei Comunisti avrebbe potuto produrre tutti i materiali che furono elaborati solo in seguito. Si deve invece, tenere conto del fatto che lungo tutta la via seguita dal proletariato in seno al suo partito si so­ no introdotte forze nemiche che hanno impedito a esso di orientarsi verso il consolidamento di quelle posizioni che gli avrebbero permesso di vincere le sue battaglie. L’iniziale inca­ pacità di risolvere tutte le questioni dipende dal fatto che la consapevolezza dei compiti da realizzare può venire alla luce solo quando la situazione porta a maturare gli avvenimenti. Ma affermare che il partito verrà fondato solo quando ogni pro­ blema verrà risolto è altrettanto sbagliato quanto affermare che il partito può sorgere indipendentemente dalle condizioni stori­ che di una determinata epoca. Pur sapendo in anticipo che il nostro programma è soggetto a modificazioni che saranno im­ poste dalla nuova situazione storica, possiamo tuttavia stabilire un punto preliminare riguardo il quale nessuna esitazione o concessione è possibile. Se il partito ha fallito il suo compito e se oggi la Russia sovietica può essere ammessa nel consesso del capitalismo mondiale, ciò è avvenuto perché tutto un sistema su cui il proletariato aveva basato la concezione delle sue lotte è venuto meno. Il dovere dei comunisti sta dunque nel verificare, per completarle, l’insieme di posizioni programmatiche sorte nel 1917-21, tenendo conto di questa necessità fondamentale; non sarà più possibile ritornare sui propri passi o stare al di qua dei programmi e di quelle forze che sono state liquidate dall’e­ voluzione storica. La storia del movimento proletario è la storia delle frazio­ ni che ristabiliscono la continuità del pensiero proletario in vi­ sta del,la lotta rivoluzionaria. Come Marx, Engels e Lenin han­ no mostrato: prima che la situazione storica non abbia presen-

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tato un bilancio di liquidazione delle forze e delle posizioni che condussero alla disfatta il partito si fonda nella misura in cui vengono ricostruiti i quadri. Per realizzare questo lavoro ci si deve opporre alle manovre confusionarie che portano alla costituzione immediata di nuovi partiti, destinati a scoraggiare le energie rivoluzionarie e inevitabilmente a crollare.

Capitolo IV PARTITO E INTERNAZIONALE

Nei precedenti capitoli abbiamo analizzato dei punti fon­ damentali che ora confronteremo con l’esperienza del movi­ mento proletario. Potremo così stabilire le posizioni sulle quali la classe operaia potrà ricostruire l’organismo che la guiderà nella realizzazione della sua missione storica: l’Internazionale co­ munista. La marcia degli avvenimenti storici è cadenzata da varie fasi nella evoluzione della tecnica di produzione, fasi che rap­ presentano altrettanti momenti del dominio umano sulle forze della natura. Le fasi successive di questa evoluzione produttiva danno vita alle classi, alla lotta di classe. La complessiva in­ sufficienza della produzione rispetto ai bisogni umani permette a una minoranza di acquisire il possesso e il controllo dei mezzi di produzione attraverso un tipo di società in grado di stabilire il dominio. In tal modo quella minoranza diventerà classe do­ minante in una determinata epoca storica. Tuttavia lo sviluppo della tecnica produttiva si manifesta a livello mondiale e, di conseguenza, i fenomeni di rivolgimento sociale che vengono generati non possono venire circoscritti a un dato paese. Non può esservi un compartimento stagno che spezzi l’unità mon­ diale, facendo sì che un’epoca storica sia caratterizzata dal mo­ saico di più regimi sociali con peso eguale e corrispondente alle rispettive estensioni territoriali. Ciò che determina l’evoluzione storica di tutta un’epoca è la classe che. è chiamata al potere dal grado raggiunto dalla tecnica produttiva. Questa classe costrui­ sce una società corrispondente ai suoi interessi; anche se occu­ pa solo una ristretta parte del territorio mondiale essa rappre­ senta il polo di attrazione di tutta la vita sociale. I paesi euro-

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pei, dove fermenta la classe proletaria rivoluzionaria (la forza storica chiamata a costruire la società comunista), rappresenta­ no oggi il centro attorno al quale si sviluppano gli avvenimenti più importanti per la nostra epoca. Le caratteristiche specifiche di una classe, cioè i compiti storici che essa si assegna, producono la struttura della sua or­ ganizzazione mondiale e dello strumento che deve servire alla sua espansione. Per tutto il tempo in cui l’evoluzione produtti­ va permette solo il dominio di una minoranza, e finché si trat­ ta di stabilire un tipo particolare di dominio e di istituzione di un privilegio sociale, la coesistenza di regimi in cui è diversa la classe al potere, ma che comunque instaurano un particolare dominio sulle classi lavoratrici, è perfettamente possibile. Questa coesistenza dipende dall’impossibilità nell’immediato di generalizzare l’evoluzione produttiva: la formazione del capita­ le è il risultato di un insieme di fattori, che non si trovano nella stessa misura in tutti i paesi, ma solo là dove le condizioni na­ turali e politiche hanno permesso la formazione di imprese in­ dustriali. Inoltre la classe che prende il potere per stabilire il proprio privilegio provoca la formazione di forze che compor­ tano lo sviluppo di un’altra classe, genera cioè il proprio affos­ satore, ma al tempo stesso diventa un freno allo sviluppo del sistema economico e, invece di darsi per scopo la formazione generalizzata di tipi sociali analoghi al suo, cercherà di stabilire il suo controllo su territori (colonie) in cui si sforzerà di arre­ stare l’evoluzione economica e industriale. Al tempo stesso questa classe sfruttatrice dovrà estendere il suo dominio a livel­ lo mondiale e lo strumento di espansione sarà la guerra, solo mezzo per conquistare nuovi mercati ai suoi prodotti, per vin­ cere i concorrenti e per realizzare una corsa ai profitti. Per il proletariato è tutto diverso: esso appare quando la tecnica produttiva può distendersi in tutta la sua ampiezza e soddisfare completamente i bisogni dei produttori, ossia nel momento stesso in cui si richiede la soppressione della borghe­ sia come classe. La società senza classi che auspica il proletaria­ to non può ammettere alcun anacronismo: essa può stabilirsi solo a livello mondiale. Anche in quei paesi in cui l’evoluzione

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industriale è lontana dal permettere di istituire una società senza classi, il proletariato mondiale non può assegnarsi lo sco­ po di favorire il trionfo delle classi borghesi, presentandosi so­ lo successivamente come candidato al potere. Esso può solo so­ stenere le forze del proletariato indigeno che, per quanto esi­ gue, rappresenteranno egualmente la sola forza sociale con va­ lore progressivo. D’altra parte, poiché la sua missione storica non è quella di costruire una specifica e particolare dominazio­ ne, il proletariato non potrà ricorrere, come le classi che l’han­ no preceduto, alla guerra quale strumento della sua espansione, ma dovrà appoggiarsi alle lotte sociali in tutti i paesi al fine di farle evolvere verso il trionfo del proletariato mondiale. La « guerra rivoluzionaria » dello Stato proletario può evi­ dentemente sembrare un aspetto dell’attività di questo Stato, ma solo se esistono le condizioni concrete per innescare movi­ menti rivoluzionari nei paesi capitalisti. La « guerra rivoluzio­ naria » è frutto di particolari circostanze storiche; rappresenta dunque un fattore secondario, subordinato agli eventi sociali e ai movimenti di classe che sono l’elemento essenziale della si­ tuazione. La guerra rivoluzionaria che avrebbe dovuto condur­ re l’Armata rossa all’avvento di Hitler non ha dunque alcun rapporto con la missione storica del proletariato e fa invece parte della politica di disgregazione che incancrenisce il movi­ mento proletario. Si verifica quindi che « l’internazionalizzazione » di tutte le classi che hanno preceduto il proletariato è stato, soprattutto, un fenomeno di diffusione del dominio di un privilegio acqui­ sito. Per il proletariato, l’Internazionale è la forma di esercizio del proprio potere e rappresenta la forma superiore della pro­ pria lotta, le’spressione di maturità per realizzare i propri obiettivi storici. Ne consegue che l’Internazionale proletaria, lungi dal potere derivare da un programma o da un coordina­ mento di volontà militanti, è il frutto diretto di una situazione che permetta la realizzazione della vittoria proletaria. Se la si­ tuazione non permette la vittoria della classe operaia, non sus­ sistono le condizioni per costituire una Internazionale. In que­ sto caso, tutti i tentativi che si potranno effettuare saranno solo

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confusionari e, quello che è più grave, — come dimostreremo in seguito — impediranno l’indispensabile lavoro preliminare per la ricostruzione dell’Internazionale. C’è una differenza sostanziale tra partito e Internazionale, sebbene i materiali per costruire un partito possono evidente­ mente risiedere solo nella valutazione internazionale che forma l’essenza della teoria marxista. Di fatto il partito sorge da un ambito sociale ben determinato, da un clima di lotta di classe che oppone direttamente il proletariato a uno Stato che attacca quotidianamente le sue condizioni di vita. La stessa evoluzione di questa lotta della classe operaia, raggiungendo la sua forma superiore, pone il problema della insurrezione e quello di co­ struire l’organismo capace di generalizzare la vittoria al mondo intero, cioè l’Internazionale comunista. Certamente non vo­ gliamo qui affermare che fatalmente gli avvenimenti dovranno disporsi in un ordine che condurrà improvvisamente alla costi­ tuzione di partiti in tutto il mondo e poi alla fondazione della Internazionale, essendo ciò impossibile senza fasi preliminari e formali, i partiti. Al contrario, l’intreccio degli eventi è conti­ nuo e dialettico: il corso che porta alla vittoria del proletariato in uno o più paesi è lo stesso che determina la progressiva co­ struzione della Internazionale. Vogliamo solo indicare che quan­ do si pone il problema di fondare un’Internazionale biso­ gna porlo in questo modo: ricostruzione delle capacità e del­ le possibilità di vittoria rivoluzionaria internazionale. Se si scambiano i termini del problema affermando che per raggiun­ gere la vittoria, bisogna costruire l’Internazionale, non solo si inraprende una impresa impossibile, ma si ostacola la marcia del proletariato verso la ripresa delle sue lotte. La situazione rivoluzionaria a volte esprime un rapporto di forze molto favorevole alla lotta internazionale e alla capaci­ tà del proletariato di raccogliere ideologicamente sotto la pro­ pria bandiera tutte le masse lavoratrici che sfuggono al control­ lo degli apparati di dominio nemici. Ma l’esperienza di questa situazione non è vantaggiosa solo per il proletariato; anche gli organi repressivi del capitalismo si accrescono grazie al loro perfezionamento e, soprattutto, grazie all’intervento nemico al­

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l’interno delle masse stesse dove entreranno in azione le forma­ zioni politiche che le tradiranno. Oggi la borghesia è completamente diversa rispetto al 1848 e il proletariato ha probabilità di vittoria solo a con­ dizione di essere anch’esso diverso dai proletari del 1848 sia rispetto alla lotta materiale che a quella ideologica. Inoltre an­ che il capitalismo d’oggi è completamente diverso da quello del 1918. Dunque il proletariato può vincere solo alla condizione di seguire, a sua volta, una strada progressiva. La questione dei principi attorno a cui stabilire il programma della insurrezione proletaria (che costituisce anche la base di fondazione dell’In­ ternazionale) è parte integrante della forza sociale chiamata a rovesciare il capitalismo. Così i Soviet sono l’arma della rivolu­ zione in Russia perché diretti dai bolscevichi, ma rappresenta­ no una formula che ha permesso il trionfo della contro-rivolu­ zione in Germania, dove i socialisti indipendenti ne proposero l’inserimento nella Costituzione della repubblica borghese. Pro­ gramma e organismo, di conseguenza, costituiscono un tutt’unico. Ora si tratta di determinare la posizione storica con la quale può crescere la forza sociale che agisce per la rivoluzione proletaria. Dal 1789 a oggi è avvenuta un’ininterrotta pro­ gressione che ogni volta eleva le forme della lotta operaia e al­ lontana dal campo della rivoluzione formazioni politiche che, in precedenza, avevano potuto agire nell’interesse proletario e che, poi, sono diventate anelli della catena contro-rivoluziona­ ria. Ogni disfatta rivoluzionaria mostra, al tempo stesso, l’inca­ pacità del proletariato di realizzare, nel corso stesso dei movi­ menti insurrezionali, una piena coscienza storica sulla via da seguire e la necessità di cogliere un orizzonte più vasto che permetterà la ripresa della lotta e la vittoria comunista. Così, in conseguenza alle disfatte dell’immediato dopo­ guerra, la prima condizione per ricostruire l’Internazionale è di rimettere in cantiere tutto il programma su cui si era basata la prospettiva dello scoppio rivoluzionario nel 1917-20. In questo lavoro bisogna considerare che una forma superiore di pro­ gramma politico si può raggiungere solo attraverso un’affiliazio­ ne con le forze storiche che lottarono per la rivoluzione nel

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1917-20, cioè per mezzo di frazioni di sinistra, diretta reazione proletaria alla degenerazione centrista. Coloro che oggi assu­ mono una posizione formalmente più avanzata e si lanciano nell’avventura della costruzione di una nuova Internazionale finiscono per fare appello alle forze della socialdemocrazia, forze che l’evoluzione storica ha definitivamente gettato nel campo della reazione e della contro-rivoluzione capitalista. D’altra parte, sotto il profilo politico, i « costruttori » di Inter­ nazionali potranno solo riprendere le posizioni programmatiche che hanno generato il centrismo, la disfatta e il tradimento. Tutto ciò, secondo loro, per ricostruire la capacità di lotta (?) della classe operaia. Ancora una volta i continuatori dei fonda­ tori del socialismo scientifico, dei capi della rivoluzione russa si troveranno tra quei militanti che si baseranno sulla necessità di cogliere dalle terribili disfatte del proletariato le regole pro­ grammatiche che accompagneranno la ripresa della sua lotta. Non certo tra coloro che trasformano i grandi capi proletari in icone a cui prestare opinioni politiche che non hanno alcuna giustificazione a una analisi dei principi. Un rapido esame storico ci permette di constatare il pro­ gredire delle nozioni programmatiche della lotta proletaria e l’apparire del proletariato come forza rivoluzionaria parallelamente allo scoppio di grandi rivolgimenti sociali. La rivoluzio­ ne del 1789 non portò al potere la classe operaia, anche se quest’ultima era già destinata alla direzione della società per il carattere ormai collettivo degli strumenti di produzione in op­ posizione all’appropriazione individuale e all’istituzione del privilegio borghese, ma fu il capitalismo a prendere il potere. Gli ideologi della rivoluzione francese espressero questo carat­ tere contraddittorio che informò l’avvento della borghesia. Così Robespierre e Marat superarono il programma reale della bor­ ghesia senza però potere raggiungere la comprensione che solo Babeuf, ma dopo il Termidoro, potè conseguire divenendo un precursore del movimento comunista. La « Congiura degli Eguali » di Babeuf rappresenta già una rottura con la confusione del programma di libertà, eguaglianza, fraternità» del 1789, ma essa è solo un’espressione embrionale di un proletariato che

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deve ancora appoggiarsi alla borghesia, o perlomeno ad alcuni suoi strati, per ritornare alla costituzione del 1793, rovesciata dal Termidoro. I primi vagiti proletari di quest’epoca rappre­ sentano bene la situazione storica e perché il proletariato, estremamente debole, si unisca alla borghesia e non si affermi come classe indipendente che lotta per i propri personali inte­ ressi. Bisogna passare a uno stadio più avanzato, cioè a un mo­ mento in cui lo sviluppo della borghesia al potere causa l’oppo­ sizione del proletariato acuendo i reciproci contrasti, per tro­ vare le prime espressioni di lotta operaia: in Francia la ri­ volta dei setaioli di Lione nel 1831, in Inghilterra il movimento cartista. Questi due movimenti si caratterizzano per il fatto che nascono da una rivolta operaia contro il capitalismo: Blanqui, con l’organizzazione dei « colpi di mano », incarna questa con­ cezione che doveva permanere fino al 1848. Il proletariato si raccoglie attorno a posizioni di lotta contro il capitale, ma non giunge ancora a concretizzare questa lotta stabilendo un pro­ gramma e una tattica che possa scuotere l’insieme della società capitalista. D’altra parte si riteneva ancora possibile appoggiarsi alla borghesia liberale per far avanzare le rivendicazioni ope­ raie. Su queste basi venne fondata la Lega dei Giusti!1). Il colpo di mano del 1839, organizzato dalla Lega dei Giusti e da Blanqui, e che, come si sa, fallì, in realtà rappre­ senta l’esatta misura di ciò che, in quest’epoca, poteva realizza­ re un proletariato ancora in via di formazione. La Lega dei Giusti è l’organizzazione di classe nata dalla lotta contro uno Stato che esclude alcuni strati borghesi dalla direzione della so­ cietà. Il proletariato, pur comprendendo la necessità di lottare per le proprie specifiche rivendicazioni, cerca di supplire alla « timidezza » della borghesia liberale che già lo teme effettuan­ do un « colpo di mano » contro lo Stato. Lo scacco di questi tentativi produsse la caduta dell’organizzazione di classe in quanto espressione dell’impossibilità di rovesciare lo Stato esi­ stente prima di una completa maturazione della situazione e (9 Cfr. David B. Rjazanov, op. cit., pp. 19-23.

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dello stesso proletariato. Con la diffusione del capitalismo pro­ dotta dallo sviluppo su grande scala della macchina a vapore, Marx entra nella lotta e presiede alla formazione della Lega dei Comunisti che costituisce uno stadio più elevato della lotta pro­ letaria. La Lega dei Comunisti certamente rappresenta due co­ se: da un lato, l’espressione della lotta del proletariato tedesco a fianco di una borghesia liberale in lotta contro il feudalesi­ mo e, dall’altro, l’espressione della capacità di lotta del proleta­ riato internazionale. A questo proposito Rjazonov afferma: « Ora abbiamo qualche notizia sulla composizione della Lega. Comprendeva alcuni belgi, alcuni cartisti inglesi simpatizzanti per il comuniSmo, ma soprattutto molti tedeschi»!2). E conclu­ de dicendo che il Manifesto dei Comunisti, piattaforma della Lega, doveva tenerne conto di queste particolarità. « Scopo della Lega è l’abbattimento della borghesia, il dominio del proletariato, l’abolizione della vecchia società borghese poggiante su antagonismi fra le classi e la fondazione di una società senza classi e senza proprietà privata » (3).

L’organizzazione del proletariato sorge in quest’epoca in funzione dello sviluppo della classe capitalista che ingenera al contempo lo sviluppo della classe proletaria; il suo programma storico si fonda sulla lotta contro il capitalismo il cui avvento è caratterizzato dai sussulti vulcanici che scuotono la società nel 1848, pur sperando di potere trarre giovamento dalla lotta del­ la borghesia contro il feudalesimo. Da un punto di vista politi­ co La Lega Comunista affermò, rispetto a Babeuf, la necessità della lotta autonoma del proletariato e pose, rispetto a Blanqui, la questione della lotta di classe. Da un punto di vista storico essa esprime le caratteristiche dell’epoca che non ha ancora mostrato il ruolo reazionario della borghesia liberale sulla qua­ le Marx stima che ci si possa ancora appoggiare per la rivolu­ zione proletaria. Le rivoluzioni del 1848-49 costituiscono la grande verifica storica del programma del proletariato. (2) Ibidem, pp. 61-62. (3) K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunistay trad, it., Einaudi, Torino 1970, p. 272.

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La disfatta del 1848 comportò l’annientamento del prole­ tariato in Europa e, nel 1852, la disgregazione e la dissoluzione della Lega dei Comunisti. Soltanto nel 1864 viene fondata la Prima Internazionale. Al momento della sua costituzione la situazione europea è an­ cora vulcanica. Il 1848 non ha risolto una serie di problemi essenziali per il mondo capitalistico: l’Italia è divisa, l’Unghe­ ria è nuovamente annessa all’Austria e la borghesia francese deve risolvere, tramite Napoleone III, il problema della sua espansione (guerra d’Italia contro l’Austria e guerra di Crimea). In seguito la guerra di secessione americana causa una crisi del cotone e provoca una acuta crisi economica. Infine, nel 1861, l’abolizione della servitù della gleba in Russia determina una effervescenza rivoluzionaria che si manifesta in Polonia con un’insurrezione rapidamente repressa. Tutti questi avvenimenti costituiscono l’assetto sul quale la Prima Internazionale pone le sue fondamenta. Si può dunque affermare che la prima orga­ nizzazione internazionale del proletariato sorge non come espressione della volontà di qualche personalità geniale, ma co­ me strumento della possibilità storica di far trionfare, grazie alla situazione rivoluzionaria, la rivoluzione proletaria nei principali paesi d’Europa. Peraltro l’estrema centralizzazione della Prima Internazionale esprime molto bene il carattere impressole dalla situazione. In conclusione la Prima Internazionale racchiude due elementi fondamentali che ritroviamo parimenti nella fondazio­ ne della Terza Internazionale. In primo luogo si forma come risultato di una lotta di gruppi proletari nazionali giunti a chiarificare i problemi essenziali della lotta di classe contro il capitalismo nel fuoco degli avvenimenti stessi; in secondo luo­ go sorge da una situazione di grandi sconvolgimenti sociali. Ma se la prova storica del « tradimento » della borghesia era già stata fatta nel 1848-49, la storia non aveva ancora mostrato le condizioni reali di lotta proletaria per il potere. La fine della Comune di Parigi doveva fatalmente trasci­ nare con sé quella della Prima Internazionale sullo sfondo di un periodo di espansione del mondo capitalistico. Il trasferì-

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mento del Consiglio generale della Prima Internazionale in America (ciò in realtà significò la sua liquidazione) si spiega dal fatto che, dopo la Comune di Parigi, Marx era ancora indeciso sullo sviluppo degli avvenimenti. Forse sperava ancora in una ripresa della lotta rivoluzionaria in Europa. Questa ripresa non avvenne, anzi il capitalismo si consolidò dovunque (in Germa­ nia con l’aiuto di Bismarck che attuò ima rivoluzione borghese «dall’alto»; in Francia dove la borghesia con la III repubblica prese infine vigorosamente in mano il potere; in Italia, com­ piendosi l’unificazione sotto la direzione di Cavour); si rese pertanto necessaria la completa liquidazione della Prima Inter­ nazionale, in quanto liquidazione della possibilità di lottare per il potere da parte del proletariato mondiale. La fine della Prima Internazionale non comportò la rico­ struzione di una nuova Internazionale. Nuovi partiti comincia­ rono invece a costituirsi in vari paesi e solo molto più tardi verrà fondata la Seconda Internazionale. In una lettera a Bebel Engels fa un’osservazione molto interessante: « Evidentemente non è necessario parlare della Internazionale in quanto tale — dice Engels a proposito del programma di Gotha — ma almeno si dovrebbe restare al di là del programma del 1869, e dire che, benché il partito operaio tedesco sia costretto nell’imme­ diato ad agire nei limiti delle frontiere che gli traccia lo Stato (non ha diritto di parlare a nome del proletariato mondiale e, ancora me­ no, di avanzare false proposte), resta cosciente dei legami di solida­ rietà che lo uniscono agli operai di tutti i paesi e sarà sempre pronto ad adempiere, come nel passato, i doveri che gli impone questa so­ lidarietà » (4).

Engels dunque considera un periodo in cui il partito è obbliga­ to « ad agire nell’immediato nei limiti delle frontiere dello Sta­ to » e, d’altra parte, questo è il caso dei diversi partiti sorti dopo la morte della Prima Internazionale. La disfatta della Comune aprì un periodo in cui non si pose per il proletariato il problema del potere e la Seconda In(4) Marx-Engels, Brief e au A. Bebel, W. Liebkneckt, K. Kautsky und andere 1870-1886, Institut Marx-Engels-Lenine, Moscau.

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ternazionale, in realtà, sarà solo « una federazione di partiti so­ cialisti ». Il capitalismo che attraversa in Europa la sua fase ascendente può fare alcune concessioni agli operai, conquistan­ done in questo modo e progressivamente le organizzazioni. Questo fatto non dipende dalla mancanza di geni, ma dalla si­ tuazione che non permetteva di avanzare il problema della rivo­ luzione mondiale e l’esistenza di una vera Internazionale, un’Internazionale che incarnasse la coscienza rivoluzionaria del proletariato mondiale e che passasse all’assalto del bastione ca­ pitalistico per fondare la propria società. Nel 1914 la Seconda Internazionale morì di morte naturale con la fine della « fede­ razione dei partiti socialisti » i quali seguirono per proprio con­ to i rispettivi capitalismi, passando apertamente al nemico di classe. I bolscevichi russi, dal momento che la Seconda Interna­ zionale si era sfasciata, poterono prendere l’iniziativa di fonda­ re una nuova Internazionale perché ormai da molti anni aveva­ no adempiuto, tramite le frazioni, all’indispensabile lavoro ideo­ logico. Per di più essi furono i pilastri della nuova Internazio­ nale perché avevano diretto la rivoluzione in Russia. E la Terza Internazionale non precede, non accompagna, ma segue la vit­ toria rivoluzionaria dell’Ottobre. Il Primo Congresso dell’In­ ternazionale si tenne solo nel marzo del 1919 e il Congresso che elaborò le condizioni programmatiche nel settembre del 1920. Sotto un profilo politico l’Internazionale rivoluzionaria trova i suoi fondamenti nella lotta impietosa contro Kautsky che pretendeva di applicare la stessa tattica sostenuta da Marx nel 1848. Ciò offriva il destro alla socialdemocrazia tedesca e a quella degli altri paesi di soffocare nel sangue proletario la ri­ voluzione comunista. Sotto un profilo storico la nuova Interna­ zionale è il prodotto della situazione rivoluzionaria e della marcia verso il potere del proletariato internazionale. Questa rapida analisi storica conferma le conclusioni sui principi che abbiamo espresso, all’inizio di questo capitolo, e che sono sostenuti dalla nostra frazione. La via di Marx e di Lenin, in definitiva, è la via sulla quale si è sviluppato il movi­ mento proletario. Oggi, il processo di ripresa di questa via

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programmatica del proletariato, la fondazione della IV Interna­ zionale passano per la soluzione dei problemi di principio rela­ tivi alla gestione dello Stato proletario e dei suoi rapporti con il movimento proletario mondiale e per la critica al processo che ha condotto lo Stato sovietico a farsi lentamente incorporare dal sistema capitalistico mondiale. Questa lenta incorporazione prova che le basi politiche su cui si era stabilita la prima espe­ rienza di gestione di uno Stato proletario devono essere riesa­ minate, rettificate e completate. D’altra parte, questo lavoro non è il prodotto di discussioni accademiche, ma di una rottura nei rapporti di forza tra lei classi che è avvenuto dopo la vitto­ ria dei centristi in seno ai partiti comunisti. Questi rapporti di forza, che sono comunque minati dai profondi contrasti tra le classi, verranno distrutti dalla lotta per la rivoluzione comunista che potrà concludersi con la vittoria solo se le frazioni di si­ nistra mettono in cantiere, fin da ora, il lavoro ideologico e po­ litico che le renderà capaci di dirigere l’insurrezione proletaria.

Capitolo V LO STATO DEMOCRATICO

La concezione materialistica della storia quando afferma l’inesistenza e l’impossibilità di vedere apparire uno Stato realmente democratico non si limita a dimostrare l’errore delle concezioni storiche che l’hanno preceduta, adducendo il fatto che non è mai esistito uno Stato simile. La critica marxista va oltre. Essa rovescia i fondamenti delle teorie liberali e demo­ cratiche, demolendone la sostanza, e dimostra che i binari sui quali corre l’evoluzione storica non poggiano assolutamente sul confronto delle idee, delle volontà, o delle consultazioni eletto­ rali, ma bensì sulla lotta che avviene tra le diverse classi socia­ li. Lotta che è condizionata dall’evoluzione della tecnica pro­ duttiva. Il pensiero proletario, nella critica allo Stato democratico (critica che nasce dai fondamenti stessi della dottrina marxi­ sta), non può maturare una posizione che si situi all’estrema sinistra delle teorie liberali o democratiche: esso deve negare in modo radicale l’intera concezione democratica. Inoltre il proletariato, prodotto di un processo storico che lo spinge al potere in antitesi allo Stato democratico esistente, non potrà porre a base della sua politica posizioni democratiche. Anche se queste ultime sono state dimenticate e abbandonate dalla stessa borghesia che se ne era servita per accedere alla direzione del­ la società. Sulla scena storica non c’è posto per gare oratorie: il gioco di riprendere le rivendicazioni che appartenevano al ne­ mico e che questo è costretto ad abbandonare non costituiscono quasi mai una condizione favorevole al successo della classe operaia. Se ci basiamo sui principi particolari che furono stabili­ ti al momento dell’apparizione delle istituzioni statali o sulle

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modalità del loro funzionamento, non giungeremo mai a stabili­ re le leggi generali che regolano le istituzioni sociali e le stesse istituzioni statali. Per capire la vita di uno Stato bisogna de­ terminare le condizioni storiche in base alle quali esso viene fondato e dalle quali proviene la classe che gli ha dato vita. Così ci sarà possibile constatare che non c’è alcuna con­ traddizione nel processo storico e che il capitalismo può benis­ simo stare al potere anche se fa ricorso a differenti forme stata­ li, come lo Stato fascista e lo Stato democratico. Una lotta rivoluzionaria non può essere diretta contro lo Stato prescindendo dalla sua base sociale, ma contro la classe che l’ha plasmato e al cui servizio esso si trova. Ne consegue quindi che non esiste alcuna possibilità di confondere la teoria marxista della dittatura del proletariato con le altre teorie ditta­ toriali e antidemocratiche. Inoltre ogni classe protagonista di una determinata epoca storica può agire solo a condizione di essere dotata di un programma specifico la cui realizzazione non può essere mai affidata a forme e istituzioni appartenenti al nemico. Nella parabola di una classe al potere c’è un momento in cui essa non può più restare fedele agli impegni contratti al momento del suo apparire e della sua vittoria. Per esempio, il capitalismo non può più conservare il suo dominio per mezzo dello Stato democratico. In questo momento il contrasto sociale non avviene tra l’ideologia democratica ed il capitalismo che la rinnega, ma avviene tra borghesia e proletariato. Quest’ultima forza, maturata dallo sviluppo della produzione, si trova nel­ l’alternativa di conquistare il potere o di farsi schiacciare dal nemico che non vuole perdere i propri privilegi. Se il proletariato si rassegnasse a ricantucciarsi nell’ideologia democratica non farebbe altro che ricollegarsi agli stessi elementi che, dopo ave­ re permesso lo sviluppo della classe borghese, si sono poi muta­ ti in una nuova organizzazione antidemocratica, ma sempre ca­ pitalistica. Se vuole trionfare il proletariato non può che avan­ zare il suo programma; se il momento storico non gli è momen­ taneamente favorevole, la sola condizione del suo futuro suc­ cesso sarà quella di restare fedele a sé stesso.

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Riallacciarsi alle posizioni che furono del suo nemico si­ gnifica sicuramente castrarsi come fondatore di una società nuova e diventare preda dei movimenti fascisti che suonano a morto non certo per la società capitalista, ma per lo Stato de­ mocratico. Tutto il lavoro teorico di Marx, Engels e Lenin, così come le sanguinose esperienze degli operai per raggiungere una capa­ cità e una coscienza di affermazione delle loro rivendicazioni storiche, non impediscono per nulla che esista ancora una grande confusione riguardo alla nozione di Stato democratico. Nell’odierno frazionamento del proletariato (che sta pa­ gando il crudele riscatto per l’incapacità di trasformare la guer­ ra del 1914-1918 e la rivoluzione russa nel prologo della rivo­ luzione mondiale) è divenuto impossibile assumere posizioni in modo chiaro e semplice per il fatto stesso che queste posizioni devono tenere conto dei terribili cataclismi nei quali il proleta­ riato ha lasciato migliaia, se non milioni di vittime. Conservare oggi fedeltà alle concezioni proletarie vuol dire condannarsi a un penoso lavoro senza risultato immediato e assistere impotenti alle crisi dei raddrizzatori di partiti, dei fondatori di aborti di partiti o di Internazionali. « Raddrizzatori » e « fondatori » che si vedono poi raggiungere proprio da quei traditori ai quali rimproveravano di non avere capito che per lottare per la rivoluzione comunista ci si deve appoggiare alla rivoluzione democratica. E sì! Ancora una volta i nostri maestri vengono venerati da traditori e da « raddizzatori ». Di­ versamente dalle divinità che promettono il paradiso solo nell’al di là, i nostri « santi » ci indicherebbero la salvezza in salti di quaglia che riportano ai programmi democratici apparsi al­ l’epoca delle rivoluzioni borghesi. Marx nel 1848 e Lenin nel 1917 non avevano forse impegnato il proletariato a lottare per questa o quella rivendicazione democratica o ad appoggiare questa o quella forza liberale, radicale o democratica? Non è forse questa la prova che questi maestri vengono onorati, vene­ rati, santificati proprio quando si riprendono le loro posizioni contingenti? Ma con, questo sotterfugio si fanno vacillare i fon­ damenti stessi del marxismo, facendo credere subdolamente che

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oggi, quando si pone alle jnasse il problema di «prendere il potere o essere schiacciati », quando la storia giunge al proprio crocevia e la lotta tra le classi fondamentali per la direzione della società decide degli avvenimenti, dopo che il proletariato ha dato la vita dei propri membri per la propria liberazione, si vorrebbe accreditare la voce secondo la quale non è più la lotta di classe a decidere, ma la lotta pro o contro lo Stato democra­ tico. E gli anti-marxisti, i settari, sarebbero coloro che, come noi, si ostinano ad affermare che le stesse forze o posizioni po­ litiche che potevano avere un momentaneo valore progressivo nel 1848 o nel 1917 si sono poi dimostrate forze della contro­ rivoluzione. E questo momento nel quale l’evoluzione produt­ tiva e politica ha posto senza equivoco di sorta un dilemma e contrapposto tra loro le classi in una lotta che conoscerà l’esito definitivo solo nell’annientamento del capitalismo o passerà di catastrofe in catastrofe se il proletariato non comprenderà che è esso stesso con il proprio e solo programma che potrà costrui­ re la nuova società f1). I due termini, Stato e democrazia, sono in netta antitesi. Di fatto, le premesse storiche che rendono necessaria la costru­ zione di uno Stato annullano ogni possibilità di un suo funzioG) È chiara la polemica con Trockij sulla possibilità di una tattica « democra­ tica » nella lotta contro il fascismo. Il contrasto era sorto già nel ’31 riguardo la va­ lutazione degli avvenimenti spagnoli (cfr. L. Trotskij, La rivoluzione spagnola e i compiti dei comunisti, in Scritti 1929-1936, Mondadori, Milano 1970 e Italia e Spa­ gna, « Bollettino della Nuova Opposizione Italiana », A. I, n. 3, 9 giugno 1931 (ora in All’opposizione nel pei con Trotskij e Gramsci, Controcorrente, Roma 1977, p. 122). La posizione della Frazione non deve comunque venire confusa con quella so­ stenuta dall’LC. all’inizio degli anni trenta, il cosiddetto « socialfascismo » (cfr. Rapporto di Blasco alla segreteria del PCI, 13 luglio 1929, in 1 primi dieci anni del PCI, Annali Feltrinelli, Milano 1966, p. 938). Nel suo rapporto Blasco (P. Tresso) riferisce i giudizi espressi da Vercesi (O. Perrone) sulla nuova tattica dell’LC.: 1) non era imminente il pericolo di guerra; 2) non si può parlare di una radicalizzazione delle masse in Italia ma solo di una più decisa resistenza all’offensiva borghese; 3) non si condivide la valutazione sulla tra­ sformazione della socialdemocrazia in socialfascismo; 4) non si ritiene che in Italia al fascismo succederà automaticamente la dittatura del proletariato perché non si può escludere un ritorno alla democrazia borghese; 5) riguardo la politica sindacale la Frazione sostiene la necessità di una più incisiva attività per spingerli alla lotta. (N.J.T.).

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namento democratico e, al contrario, un meccanismo democra­ tico può essere messo in funzione solo nel caso in cui lo Stato non esista. Evidentemente qui non cogliamo il significato eti­ mologico o storico di queste due formulazioni, ma il valore che queste due espressioni hanno oggi finito per assumere. Si in­ tende con la formulazione « Stato democratico » la costruzione e la vita di uno Stato che sarà sottoposto alle suggestioni e ai voleri della maggioranza degli elettori. Ma questa concezione deformata della realtà non fa che riflettere la confusione esi­ stente nel movimento comunista, perché è impossibile stabilire un legame tra un organismo, lo Stato, che si base e ha per sco­ po la coercizione e il meccanismo del suo funzionamento che si ispira a un criterio opposto, quello cioè di esprimere la volontà degli oppressi. Riconducendo il problema alla sua radice comprenderemo anche perché questa nozione contraddittoria di « Stato demo­ cratico » sia stata il prodotto di una situazione oggettiva. È infatti erroneo credere che la critica marxista si limita a vedere nello Stato democratico una semplice macchinazione ordita allo scopo di mascherare il dominio della classe nemica. Nel campo dell’evoluzione produttiva assistiamo, in ogni periodo storico, a una crescita dell’influenza umana sulla natu­ ra. Ciò produce un parallelo allargamento delle minoranze che possono beneficiare dell’aumento costante delle forze e della massa della produzione. Le frontiere che delimitano l’ambito della classe sfruttatrice e proprietaria si allargano sempre più, fino a comprendere un numero più elevato di individui che partecipano al bottino economico. Queste stesse frontiere resta­ no però chiuse a una modificazione progressiva della base socia­ le in una sua nuova forma superiore e solo la violenza rivolu­ zionaria potrà provocare un cambiamento nell’organizzazione sociale. La casta, nelle società schiaviste, è meno numerosa del­ la stratificazione sociale che compone la monarchia medioevale e quest’ultima viene sostituita dalla nuova classe capitalistica composta da un numero accresciuto di elementi che possono disporre di mezzi di produzione divenuti sempre più accessibili alle individualità economiche. L’evoluzione produttiva e la sua

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marcia estensiva comportano una progressione costante dell’uo­ mo che trova, nello sviluppo economico, le premesse per passa­ re dallo stato di « schiavo » delle forze della natura alla fase superiore di « produttore » e, in questo senso, sono ostacolate da un altro corso che lascia solo una minoranza alla testa della società. Di fatto la minoranza sarà quella che avrà il controllo dei mezzi di produzione in quanto la massa dei prodotti non è ancora tale da permettere a tutti i membri della società di be­ neficiarne in misura sufficiente a soddisfare i bisogni. Le conce­ zioni democratiche e liberali possono quindi basarsi sulla pro­ gressione dei mezzi di produzione per giustificare una evolu­ zione continua che inevitabilmente porterebbe alla soppressio­ ne delle ineguaglianze sociali. Ma dal momento che questa di­ mostrazione ha per scopo di provare la fondatezza di una data organizzazione sociale (e non quella di considerare — come fa la teoria marxista — che il centro motore si trova proprio nello sviluppo della tecnica di produzione), giungerà a spostare il problema cercando di provare che la situazione obbedisce ad altre leggi e dipende, soprattutto, dalla permeabilità da parte degli elettori degli organismi statali. Poiché ci si basa sull’evoluzione della produzione si deve apertamente affermare che non si assiste a una successione ininterrotta di organizzazioni sociali che si aprono alle masse, al termine delle quali si giungerà alla soppressione delle inegua­ glianze sociali. Si deve invece ammettere che la sola successione possibile è quella delle classi al potere e che, se una progres­ sione esiste, questa consiste solo nel fatto che il privilegio può abbracciare un numero superiore di sfruttatori. Mentre, in cor­ rispondenza e sotto l’effetto della legge della riproduzione umana, si allarga anche — e in base a un ritmo molto più inten­ so — il numero degli sfruttati che non possono raggiungere la qualifica e la posizione sociale di produttori. Se le teorie libera­ li e democratiche possono trovare una sembianza di giustifica­ zione storica è perché esiste una progressione nella tecnica del­ la produzione. Riconoscere questo criterio per comprendere gli avvenimenti significa proprio far venire meno la giustificazione addotta dalla società capitalistica, non più eretta al dogma

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immutabile, di essere in funzione della volontà dei suoi mem­ bri, ma di essere semplicemente legata ad un certo grado di sviluppo delle forze produttive e del privilegio corrispondente. Nel suo significato corrente assistiamo pertanto a una mar­ cia di « democratizzazione » che però si limita solo ed esclusi­ vamente all’ambito degli sfruttatori e non intacca per nulla le basi delle società fondate sulla divisione in classi. Ma anche questa crescita numerica delle classi sfuttatrici non vuol dire che, al loro interno, il meccanismo democratico determini la gerarchia economica e politica e che il consenso dei membri della classe stabilisca la scala delle varie formazioni dirigenti. Come per l’insieme della società, anche all’interno della classe sfruttatrice la posizione occupata rispetto al sistema produttivo stabilisce che il più forte forgi, secondo i propri interessi, il quadro dell’organizzazione sociale. Il meccanismo democratico ha solo un valore formale: ogni individualità sociale può acce­ dere a una certa posizione economica una volta acquisite posi­ zioni concrete che permettano l’ascesa sociale e ciò evidente­ mente è possibile solo a condizione di detenere le leve fonda­ mentali del comando. Poiché l’organizzazione sociale non è una gerarchia militare, ma un processo vivente e continuo che deve cercare lo stimolo al suo funzionamento in un ambito economi­ co, è indispensabile offrire la prospettiva di uno status superio­ re da raggiungere per far sviluppare la vita sociale nel suo complesso. Il meccanismo democratico, quindi, non è una sem­ plice maschera del privilegio sociale, ma ne rappresenta la molla che può mettere in moto tutto l’edificio sociale. Non ha altra funzione che quella di fornire una visione di un possibile miglioramento tra i membri della società in quanto il movimen­ to reale viene diretto dalla gerarchia delle posizioni occupate nel sistema produttivo. Dunque lo Stato democratico si presenta come organicamente composto da due elementi di cui uno, quello essenziale, è costituito da uno strumento di coercizione, mentre l’altro, il processo del suo funzionamento, fa intravvedere ai componenti della società e della classe la possibilità di raggiungere imo sta­

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dio superiore senza però offrire loro le condizioni reali per po­ terlo conseguire. , A prescindere dall’era moderna che in generale si presenta come l’era dello Stato democratico, ritroviamo quest’ultimo soprattutto in Grecia, ad Atene, e nel Medio-Evo a Firenze. Ma in entrambi i casi questi Stati democratici si fondano sulla bru­ tale separazione e sulla esclusione legale di una parte delle classi che compongono la società dell’epoca. Di fatto, ad Atene, vengono considerati cittadini solo gli uomini liberi e la demo­ crazia funziona sulla base del brutale sfruttamento degli schia­ vi. A Firenze, la repubblica si fonda sull’esclusione da ogni funzione sociale delle « arti inferiori ». Queste ultime, d’altra parte, sono la fonte del sopra-lavoro che permette lo sfrutta­ mento da parte delle classi proprietarie. In entrambi i casi as­ sistiamo alla costruzione di una paratia stagna che segna i confini della classe dirigente a cui gli elementi delle altre classi oppresse non avranno alcuna possibilità di accesso. Ciò farà di­ re a Hegel che la repubblica greca fu fondata sul principio « della libertà di imo solo », volendo con ciò indicare che gli schiavi non hanno alcuna possibilità di spezzare le catene che li condannano a vivere come bestie da soma. Nella repubblica fio­ rentina, la natura dello Stato democratico appare così chiara­ mente che gli strati lavoratori dell’epoca cercano l’appoggio dei Medici per liberarsi dell’oppressione degli strati proprietari. Nel periodo della rivolta dei Ciompi constatiamo il mani­ festarsi di rivendicazioni che non abbracciano gli interessi dei veri sfruttati dell’epoca, i quali restano sempre esclusi dalla Repubblica, ma che tendono a modificare l’influenza interna delle arti che compongono questo Stato. Come afferma Engels, lo Stato greco presenta condizioni di « purezza » tali da permettere di cogliere il significato e il ruolo di questa istituzione. Con l’apparire dello Stato si assiste alla formulazione di teorie sullo Stato che ancora oggi forniscono materia alle elucubrazioni dei teorici democratici e liberali. Si è già indicato (in che cosa consiste questo Stato democratico do­ ve gli schiavi costituiscono la massa sulla quale si esercita il dominio degli sfruttatori. Ci è quindi facile comprendere come

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tutta la teoria aristotelica, la quale si limita a considerare lo Stato in sé e non lo Stato in quanto strumento al servizio di una classe data, è il prodotto di certe condizioni storiche. La teoria dello Stato come entità a sé, che ci trasmettono i filosofi greci, esaurisce il soggetto e nulla di essenziale verrà poi ag­ giunto. Ma proprio come la Repubblica ateniese era isolata dal­ la maggioranza della popolazione, così questa teoria dello Stato isola quest’ultimo dal tessuto di classe e dalla situazione che l’anno generato. La critica marxista non può peraltro che ri­ mettere questa teoria su di una base reale, dimostrando come le conclusioni di Aristotele, che permettono la costruzione di una armonia sociale, possono certo giungere a una distribuzione democratica delle funzioni a condizione però di definire la so­ cietà come costituita sola da uomini liberi, con l’esclusione del­ la maggioranza: gli schiavi. Se ci riferiamo ai tempi moderni bisogna subito stabilire che la nozione di Stato democratico non è assolutamente il frutto delle teorie degli Enciclopedisti. La Repubblica demo­ cratica, secondo Rousseau, può corrispondere solo « a un popo­ lo di dei » : le differenze sociali e intellettuali presenti nella realtà obbligano a costituire uno Stato sulla base della gerarchia dei valori esistenti. La teoria di Rousseau, il Contratto sociale, comporta, di fatto, non l’abdicazione o la rinuncia ai poteri da parte di coloro che li detengono, ma il necessario abbandono di una frazione di libertà da parte di tutti i componenti della società per permettere la vita e il funzionamento dello Stato. È evidente che, uscendo dai termini indeterminati nei quali si muovevano gli Enciclopedisti, si comprenderà facilmente come il sacrificio di una frazione di libertà, spontaneamente offerto, in definitiva non sia stato che la giustificazione ideolo­ gica del dominio degli sfruttatori a cui si cedeva il diritto di governare la società. Il moderno Stato democratico non ha la sua genesi nelle elucubrazioni dei teorici democratici e liberali, ma negli avvenimenti che accompagnano l’ascesa del poere del capitalismo. Le concezioni su cui si fonda in America lo Stato della Virginia, che serve di base alla Costituzione americana del 1787 e che, in seguito, si ritrova nella Dichiarazione dei Diritti

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dell’Uomo del 1791, non si ricollega per niente alla filosofia degli Enciclopedisti che, come affermava Montesquieu, conside­ ravano possibile la repubblica democratica esclusivamente per piccoli territori e non come una formula di organizzazione so­ ciale generale. L’ascesa al potere della borghesia è accompagnata da una radicale modificazione del sistema di produzione che già pone le premesse per costruire una superiore società comunista. Lo strumento di produzione che fino allora aveva avuto ima natura di utensile, usato da lavoratori individuali o da unità di lavora­ tori riuniti in corporazioni, diventa uno strumento che richiede l’intervento collettivo dei lavoratori. La macchina a vapore de­ termina ima rivoluzione senza eguali nella storia, distrugge ogni possibilità di contenere la divisione delle classi nelle fron­ tiere delimitate della casta e obbliga i « cittadini » ad assumere direttamente la figura di produttori, raccolti attorno allo stesso strumento di lavoro. Le modificazioni che si realizzarono nelle varie situazioni storiche resero impossibile la conservazione della vita sociale nell’ambito esclusivo degli strati di sfruttatori in seno ai quali, così come abbiamo visto, agisce egualmente come stimolo il meccanismo democratico che permette ai meno privilegiati di intravvedere la possibilità di raggiungere uno sta­ tus sociale superiore. L’alimento della vita sociale deve dunque essere cercato altrove e quale risultante del nuovo carattere assunto dallo strumento di produzione che afferma la sua separazione con l’individualità economica. La base di costituzione degli Stati moderni non si trova così nella possibilità di raggiungere una migliore posizione economica, ma nell’accesso alle funzioni po­ litiche, presentato come possibile a tutti i componenti della so­ cietà, i quali ormai potranno entrare pegli organismi di governo del nuovo Stato. Stato che non appare, come i precedenti, col­ legato meccanicamente alla produzione, ma scisso da questa e con l’apparenza di una vita propria che obbedisce alla legge delle consultazioni elettorali. Lo Stato democratico trova il suo fondamento nel partico­ lare carattere della classe capitalistta che non limitandosi al pri­

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vilegio di sangue trova la fonte della sua egemonia nel nuovo ambiente economico, dove il dominio sociale è il risultato del­ l’appropriazione di plus-valore. La classe non si lega più auto­ maticamente al meccanismo produttivo e non è più possibile escludere obbligatoriamente una parte della società. Inoltre, per il fatto che la vita sociale viene sconvolta dalla nuova con­ dizione in cui si trovano i lavoratori riuniti attorno agli stru­ menti di produzione, diventa indispensabile dover lusingare i lavoratori che hanno acquisito la posizione di produttori col­ lettivi perché sopportino le leggi di una società basata sui prin­ cipi della proprietà privata dei mezzi di produzione. Questa lu­ singa è centrata sulla separazione tra Stato e governo, che costi­ tuisce la caratteristica essenziale dello Stato democratico mo­ derno. Gli operai come i capitalisti hanno quindi accesso agli organi governativi dello Stato e la costituzione della Virginia, così come la dichiarazione del 1791, consacra questo diritto fino a riconoscere il diritto all’insurrezione. Lo Stato democratico, di conseguenza, si presenta come il frutto diretto dell’evoluzione storica che ha portato al potere il capitalismo. La fine del funzionamento del meccanismo demo­ cratico prova che la classe capitalista è diventata un anacro­ nismo storico, ma non prova assolutamente che ristabilire que­ sto funzionamento potrebbe facilitare la vittoria della nuova società comunista. Per raggiungere questo fine si dovrà abbatte­ re la classe nemica e, nel compiere quest’opera, non ci sarà al­ cuna possibilità di incrociarsi con le rivendicazioni della de­ mocrazia. Altrimenti si dovrà ripetere l’astrazione effettuata dalla filosofia greca con la considerazione dello Stato « in sé » e con l’ammissione di una democrazia pura e « in sé ». Questo artificio letterario avrà per effetto il ritiro della classe operaia dall’arena di lotta dove può agire per i propri interessi spe­ cifici perché, in definitiva, la democrazia non permette la costi­ tuzione di una classe indipendente che lotta per una nuova so­ cietà, ma solo di arrivare a costituire un governo che verrà pre­ sentato come « padrone » dell’apparato statale. La costituzione di un’organizzazione operaia è la negazione delle concezioni sulle quali si basa lo Stato democratico ed è assolutamente falsa

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l’affermazione che la costruzione di organismi operai sia frutto dello Stato democratico. Al contrario esiste una opposizione di principio tra le istituzioni dello Stato democratico e la fonda­ zione'di organismi operai. Attraverso le prime i proletari ven­ gono collegati alla finzione democratica, attraverso i secondi gli operai contrappongono al governo borghese un corso storico opposto che porta alla loro emancipazione. Il diritto all’insur­ rezione contemplato nelle costituzioni democratiche si riferi­ sce alle minoranze in rapporto alle maggioranze, ma non riflet­ te assolutamente le rivendicazioni operaie il cui solo apparire rappresenta una negazione dello Stato democratico. La questione della conversione in Stato fascista mostra come sia venuto il momento in cui il capitalismo non può con­ servare il suo dominio lasciando sussistere organismi operai e come questi ultimi non possono mantenere le loro posizioni senza passare all’insurrezione per costruire la nuova società. Non avviene, dunque, una modificazione organica nello Stato democratico, ma un processo di decantazione di questo Stato che elimina con la violenza ogni fattore di antagonismo che poteva presentarsi. Il movimento operaio è sorto come negazione della demo­ crazia e può riprendere il suo corso solo a condizione di tenersi nei limiti del suo programma, programma che si esprime con la necessità di formare lo Stato operaio sui principi della dittatura proletaria. Questo regime di transizione, permettendo di spaz­ zare via ogni resistenza delle forze nemiche, realizza anche le condizioni che spingono verso una più alta espansione la tecni­ ca della produzione. Prepara inoltre le condizioni in cui la volontà dei produttori si possa liberamente esprimere in vista della soddisfazione dei bisogni e le fondamenta di una reale eguaglianza con la soppressione delle basi stesse della democra­ zia. Democrazia che, nella migliore delle ipotesi, consiste solo nel fatto che la maggioranza affida la gestione dei propri inte­ ressi ad una minoranza privilegiata che governa.

Capitolo VI LO STATO FASCISTA

In precedenza abbiamo impiegato i concetti di Stato de­ mocratico e di Stato fascista sottolineando il loro significato contingente e non storico e teorico. Ciò che vogliamo raggiun­ gere in questo studio è l’analisi delle circostanze che determi­ nano queste particolari forme statali, mentre, evidentemente, conserviamo la fondamentale posizione marxista secondo la quale lo Stato è inseparabile dal concetto di classe. Nel primo capitolo abbiamo voluto mettere in evidenza il fatto che le forme rivestite dalle organizzazioni sociali primiti­ ve non danno luogo alla costituzione dello Stato: quest’ultimo sorge molto più tardi. La gerarchia sociale primitiva che si co­ stituisce in base al sistema democratico (le funzioni sono stabi­ lite sulla base di una rappresentanza elettiva) manca ancora dei fondamenti politici, perché l’autorità conferita ai capi delle prime « gens » (*) non comporta la possibilità di godere di un po­ tere o di un privilegio, ma comporta piuttosto rischi per i « basilei » chiamati a funzioni di difesa della collettività o di dire­ zione in imprese pericolose di caccia e di pesca. In questa so­ cietà il sistema elettivo esiste, ma non esistono i fondamenti della vera democrazia. Infatti la sua sostanza risiede nell’attribuire un certo potere politico ed economico, considerato a priori inevitabile nella società e anche utile per una razionale organizzazione di quest’ultima, nell’interesse di « tutti ». La « democrazia pura » è, in definitiva, non la soppressione di questo potere, ma la garanzia di potervi accedere a dispetto del­ le differenze di classe assunte come inevitabili. Nelle società f1)

Cfr. il Capitolo Terzo Classe e Partito.

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primitive l’autorità sociale è quindi il risultato di una rappre­ sentanza di incarichi e di rischi, mentre il regime democratico — anche nella sua concezione più estrema — conosce l’autorità solo laddove è stato stabilito un potere economico e politico. Molto più tardi, quando l’evoluzione produttiva avrà de­ stato bisogni superiori, dal momento che si dimostrerà incapace di soddisfare i bisogni collettivi, sorgerà, insieme alla necessità dello Stato, anche la teoria democratica. Così, come abbiamo visto, il primo Stato, lo Stato greco, che si fonda sull’esclusio­ ne (sanzionata dalle prime Costituzioni) genera la teoria della democrazia e dello Stato democratico. In questa fase già più avanzata nell’evoluzione produttiva, la minoranza che si ap­ proprierà dei mezzi di produzione deve non solo imbavagliare violentemente le classi oppresse, ma anche determinare una si­ tuazione di soggezione di queste ultime, affinché esse non possa­ no neppure percepire dei bisogni superiori a quelli che con­ dizionano il mantenimento e la conservazione della loro specie sociale come forza-lavoro. Lo Stato che sorge dopo le prime formazioni di classe co­ me consacrazione della divisione della società in classi, sarà quindi solo lo Stato di una determinata classe e, in particolare, di quella che si trova — per il grado raggiunto dall’evoluzione produttiva — nella condizione di forgiare tutta l’organizzazione sociale in funzione dei privilegi, al di fuori dei quali cessereb­ be di esistere. Insieme all’idea di Stato e di classe dominante sorge anche l’idea della democrazia che, elevandosi sulla base di un potere che è impossibile sopprimere, rivendica il diritto ad accedere al potere per tutti i membri della società. Ma que­ sto diritto non comporta neppure l’ipotesi di una distruzione del potere, ma solo la possibilità per i cittadini di entrare nel circolo di questa sfera dirigente della società. Nei confronti del­ le teorie democratiche e liberali, e verso le critiche avanzate da queste alle teorie e ai regimi assoluti, la critica marxista è dun­ que una critica alla critica liberale, ima negazione della nega­ zione democratica. I teorici borghesi contestano il diritto e il potere feudale per contrapporvi il diritto e il potere capitalista. Il proletariato contesta non solo la validità della appropriazione

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privata dei mezzi di produzione, ma mostra la necessità di su­ perare questo stadio per raggiungere una fase ormai maturata dalle condizioni oggettive della produzione. In questa fase le funzioni economiche degli uomini non potranno più materia­ lizzarsi in un potere politico e sociale, la meta non sarà più la sfera privilegiata di coloro che dirigono, ma uno stadio più ele­ vato in cui i bisogni possano espandersi e trovare la loro sod­ disfazione. Al fine di limitarci all’epoca attuale, in questo capitolo esamineremo, dal punto di vista storico e teorico, solamente gli Stati diretti dalle classi fondamentali della società: lo Stato ca­ pitalista e lo Stato proletario. Le formulazioni « Stato democra­ tico » e « Stato fascista » le accettiamo solo perché servono a spiegare e ad analizzare le circostanze contingenti che danno vita, in una determinata fase dell’evoluzione sociale del capita­ lismo, a due forme statali che, pur essendo manifestazione di una stessa classe e dei suoi bisogni, non possono tuttavia essere considerate come identiche. Lo Stato democratico nelle sue differenti forme (monar­ chia, repubblica, ecc.) scaturisce dall’ambito storico ben de­ terminato del capitalismo che, pur detenendo il potere, non si trova ancora di fronte a uno sviluppo produttivo tale da minac­ ciare le basi del suo dominio. Infatti, l’esistenza di sbocchi extracapitalistici, di un mercato capitalista che non è ancora giunto al suo grado di saturazione, dell’economia agraria che non è ancora sconvolta dall’industrializzazione, rappresentano ancora un vasto campo aperto all’iniziativa capitalistica che trova in esso la possibilità di smerciare la massa dei prodotti. Anche perché la capacità di acquisto e l’ammontare dei salari non avevano raggiunto le infime proporzioni che attualmente rappresenta la forza lavoro umana nella composizione del prez­ zo di produzione. L’abbassamento tendenziale del saggio di profitto impedi­ sce evidentemente che si realizzi un equilibrio definitivo nella società capitalista (equilibrio impossibile, date le basi di questa società), ma il sopraggiungere della crisi permette di liquidare

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uno stadio dell’evoluzione produttiva capitalista e di aprire una nuova fase. Nelle fasi precedenti la società capitalista non ave­ va ancora raggiunto quel punto di saturazione che viviamo oggi e nel quale la borghesia, pur sottomettendosi il potere, non può conservare il suo dominio che a condizione di comprimere l’apparato produttivo e trovare sfogo nella distruzione: la guerra. Questo perché la massa dei prodotti e degli strumenti produttivi ha superato definitivamente i limiti di un regime ba­ sato sulla proprietà privata. Da un punto di vista economico esisteva dunque in passato una situazione in cui i capitalisti po­ tevano ancora trovare zone da sfruttare e il successo arrideva a co­ loro che detenevano la maggior potenza, dal momento che, for­ malmente, ciascun imprenditore si trovava nella possibilità di acquisire nuove posizioni. Il gradino superiore, nella piramide ca­ pitalista, era accessibile a chiunque, ma vi pervenivano solo colo­ ro che possedevano i mezzi finanziari e industriali atti ad assicurar­ si la potenza definitiva. Proprio come nel meccanismo democra­ tico esiste una sorta di « luogo sacro », riconosciuto indispensabile e dove si esercita il potere direttivo della società, così nel mec­ canismo economico esiste egualmente un centro in cui sono riu­ nite le condizioni del grande sfruttamento capitalistico e in cui tut­ ti hanno il diritto a penetrarvi, benché vi regnino come padroni i grandi magnati, in quanto solo loro detengono il potere economi­ co per restarvi. Da un punto di vista politico assistiamo a un corso analo­ go. I diversi strati oppressi dal capitalismo, e lo stesso proleta­ riato, finché sono fattori utili all’economia borghese (il loro mantenimento e la loro riproduzione non rappresentano ancora un valore eccedente la proporzione del lavoro umano rispetto al capitale costante o al plusvalore accumulato) hanno la possi­ bilità di migliorare le proprie condizioni di vita di sfruttati. Lo Stato capitalista assume l’aspetto di un amministratore al di sopra delle classi e il meccanismo democratico funziona pro­ prio perché esistono obiettivamente le condizioni per lasciare ai vari strati sociali una prospettiva, una possibiltà che faccia in­ travvedere un miglioramento della loro posizione sociale. E, grazie al riformismo, il capitalismo presenta questa prospettiva

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come indefinita fino alla soppressione delle ineguaglianze so­ ciali. Ma il meccanismo politico e sociale, proprio come il mec­ canismo economico, è inevitabilmente portato a raggiungere il suo punto di saturazione: la tecnica produttiva troppo svilup­ pata non potrà più essere pienamente sfruttata e il suo figlio legittimo, il proletariato, non potrà più essere mantenuto né da un punto di vista economico, in quanto salariato (nell’attuale situazione l’esercito dei disoccupati diventa un elemento organi­ co della società capitalista), né da un punto di vista politico. Quindi tutte le sue organizzazioni di classe dovranno essere annientate. Più volte abbiamo sottolineato che il preteso legame tra « istituzioni democratiche » e « organizzazioni operaie » non so­ lo non esiste, ma, sia da un punto di vista teorico che storico, c’è un’opposizione inconciliabile tra la democrazia che presup­ pone la classe e un potere di classe e l’organizzazione operaia che sorgendo spezza l’unità della società capitalistica e può solo assegnarsi lo scopo di sopprimere (insieme alle basi stesse della società di classe) il procedimento democratico. L’essenza di quest’ultimo consiste nell’aprire l’accesso ai centri dirigenti del­ la società o nell’acquisire una posizione sociale superiore, la­ sciando immutate tutte le differenze sociali. Il postulato demo­ cratico funziona solo alla condizione di riconoscere nell’interes­ se individuale lo stimolo per l’evoluzione collettiva. Il procedimento democratico, da un punto di vista sia economico sia politico, accompagna tutta l’epoca del capitalismo ascendente e quando la situazione cambia profondamente e si presentano le condizioni storiche per la nuova forma di orga­ nizzazione socialista della società, il capitalismo deve rinnegare i concetti che aveva sposato in un momento in cui essi rappre­ sentavano la forma di organizzazione sociale rispondente all’e­ voluzione della tecnica produttiva. Più esattamente possiamo dire, da un punto di vista politico, che questo sistema democra­ tico si rivela ancora pienamente in grado di assicurare la vitto­ ria del capitalismo ed è solo in seguito alle disfatte rivoluziona­

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rie che la borghesia è costretta a far ricorso a dei movimenti reazionari violenti che si dichiarano antidemocratici. Per i se­ dicenti comunisti che pretendono (anche solo provvisoriamen­ te) di far sposare al proletariato la causa democratica e che, come abbiamo spiegato, offrono agli operai posizioni ormai su­ perate dalla storia, aggiungeremo ancora che il motivo essenzia­ le della disfatta operaia non sta affatto nel successo delle bande reazionarie o delle forze armate della borghesia, ma piuttosto nel successo che quest’ultima ha potuto ottenere annegando le frontiere di classe e le istituzioni proletarie nelle Costituzioni democratiche o ultra-democratiche. Queste Costituzioni hanno permesso di ottundere, di smorzare la coscienza proletaria e di renderla non più una forza storica e rivoluzionaria, ma ancora una volta una forza dissolta nell’ambito della società capitalisti­ ca, la quale riporta così una vittoria che nessuna violenza le avrebbe assicurato. Da un punto di vista economico il regime democratico che, formalmente, lascia le diverse imprese capitaliste nella loro po­ sizione di uguaglianza, farà posto, in tutti gli attuali Stati, al « dirigismo economico » che consiste nell’intervento sempre più crescente dello Stato nel campo dell’iniziativa privata. Più o meno marcati questi procedimenti li troviamo in Germania, negli Stati Uniti, in Italia, in Francia e in Inghilterra. L’aggra­ varsi della crisi economica e la restrizione delle basi interne agli Stati capitalistici obbligano questi ultimi — soprattutto Germania e Italia — a ricorrere a numerose iniziative econo­ miche di Stato. D’altra parte si rivela ovunque questa medesi­ ma tendenza: in Francia, per esempio, Flandin, che ostenta il suo attaccamento a Waldeck-Rousseau, rende omaggio alle teo­ rie liberali di quest’ultimo coi suoi progetti legislativi sul grano e sul vino, che costituiscono un considerevole intervento dello Stato a vantaggio delle grandi istituzioni capitaliste, ma Flan­ din dice che si tratta di un « contro-intervento » dello Stato in vista di favorire le condizioni della ripresa economica. Così nella sicura prospettiva del perdurare della crisi, Flandin ha svuotato di contenuto le vecchie leggi liberiste sanzionando l’intervento statale nel campo economico. Se in Inghilterra i

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segni della partecipazione statale non sono così marcati ciò di­ pende soprattutto dal fatto che con la confereza di Ottawa e l’abbandono del libero scambio l’economia inglese trova già lo Stato alla testa delle leve di comando. Negli Stati Uniti la ten­ denza è ancora più forte per il fatto che la crisi vi riveste for­ me particolarmente gravi. Il movimento che in seno alla socialdemocrazia si concentra attorno al « pianismo » (2) è, in definiti­ va, solo l’adattamento di questa organizzazione alle nuove ne­ cessità dell’economia capitalista. Non rientra nel quadro di questo studio stabilire se questa trasformazione comporti un indebolimento del potere capitali­ stico. Secondo noi, l’attuale società non deve essere considera­ ta borghese per il fatto che assicura la piena espansione alla potenza di ogni entità capitalista, ma è tale perché realizza gli interessi dell’insieme degli sfruttatori. Anche se ciò deve avere per conseguenza che certe facoltà prima attribuite all’iniziativa (2) Col termine pianismo ci si riferisce alle teorie economiche del socialista belga Henry De Man. Cogliendo il processo di centralizzazione monopolistica e il crescente ruolo assunto dallo Stato nella vita economica, le posizioni di De Man rappresentano uno sviluppo delle tesi di Keynes. De Man, infatti, non limita l’intervento statale a un ruolo di incentivazione o di controllo dell’economia, ma muovendo dalla base di un’economia mista, ormai affermatasi in Europa dopo la Prima Guerra mondiale, vuole assegnare allo Stato compiti di indirizzo sociale (riforme di struttura) e ai settori statizzati la creazione di infrastrutture che sostenendo il settore privato ne condizionino le scelte in una reciproca combinazione che non ne leda la rispettiva autonomia. Lo scopo di De Man è frenare gli eccessi dei monopoli per determinare condi­ zioni che aprano ai ceti medi più ampi spazi di partecipazione economica e, elimi­ nando i più acuti fattori di contrasto sociale, offrano le miglori garanzie per una solida vita democratica. Le posizioni di De Man furono al centro di accesi dibattiti in seno alla sini­ stra, soprattutto tra i socialisti; al proposito cfr. L. Luzzatto e B. Maffi, La politi­ ca delle classi medie e il pianismo, « Politica Socialista », n. 4, agosto 1935, pubbli­ cato poi nella sua versione integrale in S. Merli, Fronte antifascista e politica di classe, De Donato, Bari 1975. Sull’influenza di De Man all’interno del movimento operaio italiano negli anni Trenta cfr. A. Agosti, Le matrici revisioniste della « pianificazione democratica »: il pianismo, «Classe», A. I, n. 2, settembre 1969. La Frazione di Sinistra svolse un’ampia analisi critica in Le plan De Man, « Bilan », nn. 4 e 5. Le posizioni di De Man inoltre influenzarono ambienti fascisti, in particolare U. Spirito che ne curò la pubblicazione di alcuni testi, cfr. U. Spirito, Il Piano De Man e l’economia mista* Sansoni, Firenze 1935. (N.d.t.)

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privata debbono oramai appartenere all’organo che sintetizza gli interessi della borghesia nel suo insieme: lo Stato. Sottoli­ neiamo, per inciso, che in ogni paese questi interventi statali emergeranno per liberare le grandi potenze finanziarie dai ri­ schi e dalle difficoltà che subiscono in conseguenza dei crolli patiti dalle industrie che essi sovvenzionano. Da un punto di vista economico questa alterazione del ca­ rattere dello Stato capitalista e democratico è generale e, per quanto possa essere impiegata l’espressione, la « fascistizzazio­ ne » abbraccia sia la Germania e l’Italia che la Francia, l’In­ ghilterra e gli Stati Uniti. Da un punto di vista politico constatiamo un orientamento generale e comune che giunge alle sue ultime e definitive espressioni in alcuni paesi e che sembra fermarsi a punti inter­ medi in altri. Ma l’obiettivo è sempre lo stesso: espurgare la società capitalista da quelle organizzazioni di classe che, poten­ dosi innestare sulle condizioni obiettive di maturazione della società socialista, non rappresentano più una semplice minaccia localizzata sul terreno del mercato del lavoro, col fine di ottenere salari migliori, ma rappresentano una minaccia diretta sul ter­ reno storico in quanto tendono a far scoppiare la lotta per la vittoria rivoluzionaria. Solo da un punto di vista mondiale pos­ siamo considerare tutti i movimenti — ivi compresa la rivolu­ zione russa — scaturiti dal dopoguerra, e solo per mezzo dei fattori internazionali possiamo cogliere l’epilogo dell’attuale ter­ ribile situazione. In Italia e in Francia l’obiettivo del capitalismo è lo stes­ so: annientare la classe proletaria, distruggere la sua coesione politica e farne un ammasso informe di disoccupati o di sfrut­ tati, ridotti a tenere conto dei più piccoli cambiamenti della situazione per potersi garantire almeno il mantenimento dei sussidi o dei salari di fame, e difendersi da un ulteriore abbas­ samento delle proprie condizioni di vita. E ciò proprio nella prospettiva che domani queste masse operaie verranno travolte dal ciclone che le getterà nella nuova carneficina imperialista. Comunque l’obiettivo che il capitalismo si fissa sul terreno mondiale, e cioè la dispersione del proletariato rivoluzionario e

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la sua soppressione in quanto classe, tiene conto delle condi­ zioni politiche esistenti nei rapporti di classe. Ora questi ultimi sono diversi da paese a paese e risultano soprattutto dal grado di violenza degli avvenimenti e dal carattere estremo in cui essi si sono manifestati. Così in Italia, come in Germania, dove la tensione dei conflitti sociali aveva raggiunto l’apice, il problema che si poneva a questi proletariati non era di stabilire la possi­ bilità o l’impossibilità dell’insurrezione e della lotta per il po­ tere, perché queste rivendicazioni essi le avevano già poste. Il problema era un altro: stabilire, sulla base dell’esperienza ac­ quisita, le possibilità di scontri rivoluzionari, i fattori politici che per mezzo della critica della disfatta potessero generare le condizoni per la vittoria. In queste concrete condizioni, la per­ sistenza della più piccola ed elementare organizzazione minac­ ciava di porsi sul terreno della battaglia indirizzata direttamen­ te alla lotta insurrezionale. A questo proposito basterà ricorda­ re che il Partito Comunista, in Italia, fondato solo nel gennaio 1921 potè realizzare dei considerevoli progressi, fino al punto di minacciare seriamente le posizioni di tutte le correnti con­ trorivoluzionarie, e ciò nel giro di qualche mese, sulla base di un piano politico che si collegava alle elementari rivendicazioni proletarie. Altrove, in Francia, Belgio e Inghilterra, per esempio, il proletariato, avendo vissuto solo di riflesso le esperienze rivo­ luzionarie di altri paesi, non si trovava, come gli operai italiani e tedeschi, nella posizione che avevano tenuto prima della guera gli operai russi, i quali poterono trarre dalla disfatta del 1905 le armi per costruire la guida della vittoria rivoluzionaria nell’ottobre 1917. In questi paesi in cui la lotta rivoluzionaria non si è manifestata, oggi constatiamo, per esempio, che gli ope­ rai possono essere mobilitati su programmi e « piani » costituiti sulla base dell’impossibilità, apertamente dichiarata, di una bat­ taglia insurrezionale. Qui il capitalismo ha di fronte non un proletariato che ha già fatto l’esperienza di un attacco rivolu­ zionario, ma una classe operaia che può essere ancora distolta da questo sbocco. A questo fine si tratterà soprattutto di irregimentare l’avanguardia al di fuori del terreno di classe in mo­

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do da spiazzare la massa operaia per renderla incapace a resi­ stere allo scatenarsi dell’offensiva. Questa opera di « purificazione » che il capitalismo compie nel tentativo di sradicare le posizioni di classe del proletariato, può dunque incrociare la strada della violenza fascista che sca­ tena il suo terrore e distrugge gli organismi operai, oppure può ricorrere a una via progressista che porta questi organismi clas­ sisti a diventare appendici dello Stato capitalistico. Un processo di questo secondo tipo si nota chiaramente in Belgio attraverso le istituzioni delle assicurazioni sociali e in particolar modo quelle per la disoccupazione e in Francia col canale del Consiglio Economico. In Inghilterra — come di­ mostrano gli utlimi congressi delle Trade Unions e del Labor Party — si manifesta un orientamento ancora più marcato in questa direzione tramite un programma corporativo, Esiste una legittima filiazione dello Stato democratico in Stato fascista. Abbiamo già sottolineato che da un punto di vi­ sta teorico non esiste alcuna contraddizione tra queste due forme di Stato capitalista. Sia l’uno che l’altro escludono, in via di principio, la costituzione di organismi di classe. Infatti con una forte lotta gli operai hanno conquistato il diritto all’esi­ stenza delle loro organizzazioni all’interno degli Stati democra­ tici, portando così direttamente l’attacco alle stesse basi delle Costituzioni borghesi, le quali, a loro volta, hanno elargito il di­ ritto di organizzazione, ma per spingere i movimenti sociali nella cerchia degli organismi statali. Se lo Stato democratico ha potuto sussistere malgrado la costituzione di istituzioni di classe che gli erano ostili, ciò non dipende dalla sua natura antiprole­ taria, ma dal fatto che la situazione storica del capitalismo in ascesa poteva tollerare la presenza di queste formazioni. D’altra parte fin dall’inizio gli operai che avevano fondato i loro orga­ nismi, vedevano la loro conquista direttamente minacciata dal­ l’opera di corruzione che voleva inserire le loro istituzioni nel quadro del regime statale capitalista. Del resto gli avvenimenti del dopoguerra ci mostrano (in Germania in modo ancora più decisivo che in Italia) che, dopo la disfatta rivoluzionaria e in vista di impedire al proletariato

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di trarre insegnamenti, la manovra borghese che porta alla vit­ toria il fascismo, avviene sotto la forma di un’evoluzione che permette al fascismo di spazzare via tutte le forze e i partiti che in altre occasioni avevano rappresentato i pilastri del regi­ me capitalista. Questi ultimi non hanno alcuna base su cui ap­ poggiare la loro opposizione al fascismo in quanto non possono appellarsi agli interessi storici della sola classe che, a causa del suo assalto rivoluzionario, ha costretto il capitalismo a ricorrere al fascismo; non possono cioè appellarsi alla sola classe che potrà, domani, scatenare l’insurrezione per abbattere il capita­ lismo nella sua nuova veste fascista. Il fatto che ci siano — in relazione agli innumerevoli episodi di lotta eroica degli operai contro il fascismo — degli elementi che siano appartenuti o si richiamano alle ideologie democratiche, non prova assolutamen­ te un’opposizione inconciliabile tra Stato democratico e Stato fa­ scista. Ciò prova solo che la tormenta sociale può causare mani­ festazioni gloriose anche in ambienti ideologici e politici che hanno rappresentato, e pensano di poter rappresentare ancora, l’ultimo bastione di difesa del regime capitalistico.

Capitolo VII

1. LO STATO PROLETARIO (Parte Prima)

L’ampiezza del problema fa risaltare la grande importanza pratica di un’interpretazione puramente formale dei principi in quanto guide per l’azione del proletariato mondiale. Nel corso di diversi studi pubblicati in questa rivista abbiamo spiegato che il « principio », ridotto al rango di intenzione presso il militante o presso l’organismo dirigente del partito, non avrà che la fun­ zione di giustificazione fraudolenta di compromessi, di deviazio­ ni, se non di veri tradimenti. La teoria della « purezza dei prin­ cipi » ridotta al rito di una rivendicazione di fedeltà al program­ ma risulterà falsa nel momento in cui le direttive tattiche si fa­ ranno discendere da un’analisi « marxista » della situazione. Non è infatti possibile comprendere la realtà di una situazione se non all’interno di un insieme di dati di principio, e l’azione del prole­ tariato non può restare sulla via dell’evoluzione verso il comuni­ Smo che a condizione di essere dedotta da enunciazioni program­ matiche che si incorporano con le conclusioni dell’esame della si­ tuazione contingente. Da sempre abbiamo assistito al contrasto tra « interesse contingente » e perseguimento delle finalità rivo­ luzionarie, contrasto che comporterebbe la perdita di posizioni conquistate, divenendo impossibile sfruttare tale o tal altro con­ trasto tra i gruppi che compongono il meccanismo di dominio ca­ pitalista. Oramai il proletariato, a prezzo delle crudeli disfatte che l’hanno annientato, dovrebbe sapere che, in realtà, non c’è opposizione tra fini e interesse immediato e che in definitiva

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coloro che violano l’obiettivo finale non fanno altro che com­ promettere i più piccoli interessi operai. Così, come abbiamo illustrato negli altri capitoli, il principio ha dunque valore a con­ dizione di ispirare l’attività quotidiana del partito proletario. I gruppi della sinistra comunista che vogliono uscire dall’isolamen­ to che oggi attraversano (come i bolscevichi tra il 1905 e il 1917), aprendosi uno spazio tra gli operai centristi e socialisti avranno successo solo al prezzo di convertirsi in appendici delle forze controrivoluzionarie centriste o socialiste (vedi l’attuale degringalade dell’opposizione di sinistra di Trockij). I principi sono dunque altrettanti fondamenti che sosten­ gono il cammino dell’azione proletaria mondiale. La loro appa­ rizione o la loro consacrazione in testi statutari sono un frutto dell’evoluzione storica stessa e, per quanto riguarda lo Stato pro­ letario, abbiamo potuto constatare di nuovo una coincidenza che si era sempre prodotta: i nuovi compiti della classe operaia do­ vranno essere affrontati senza possedere tutti gli elementi teorici e politici necessari e indispensabili. Questa zona di ignoto e di non conoscenza è, secondo Engels, il tributo che la scienza sociale deve pagare finché la tecnica produttiva non avrà generato una crescita talmente elevata della produzione che le classi cesseranno di essere una necessità storica e la libera soddisfazione dei biso­ gni permetterà la vita della società comunista. Abbiamo già detto che la comprensione di una situazione è possibile solo in funzione di due elementi fondamentali: da un lato l’azione e il ruolo del proletariato, dall’altro la concretizzazio­ ne di questa azione in correlazione ad un sistema di principi. Ab­ biamo anche indicato che, riguardo allo stato proletario, si è nuo­ vamente manifestata l’impossibilità di fissare la politica di questo Stato in base ai dati programmatici stabiliti nel periodo che pre­ cede la vittoria del proletariato russo e che possono abbracciare tutta una fase della evoluzione storica. Il fatto di non essersi rigo­ rosamente attenuti all’analisi della situazione, al criterio fonda­ mentale dell’azione e del ruolo del proletariato ha portato, oggi, l’esperienza dello Stato sovietico a chiudersi, con il suo inseri­ mento nel sistema capitalista mondiale. Le condizioni oggetti­ ve per stabilire i fondamenti teorici dello Stato operaio nel

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corso della lotta proletaria mondiale, che ha accompagnato l’e­ sperienza del proletariato russo, avrebbero potuto essere realiz­ zate se il proletariato in tutti gli altri paesi avesse interpretato le diverse situazioni del dopoguerra nell’ottica della propria funzione politica e dell’inconciliabilità dei propri contrasti con il capitalismo. Nel 1917-18 e nel 1921, nel corso di due svolte della si­ tuazione mondiale, il partito russo dette soluzioni tattiche ai problemi dello Stato sovietico in base ad analisi di una situazio­ ne in cui gli era impossibile far derivare la politica dello Stato operaio dalla posizione che quest’ultimo doveva tenere nella lotta del proletariato mondiale; la mancanza di un’esperienza storica che potesse dare istruzioni in proposito non gli permet­ teva di cogliere la realtà della situazione in cui agiva. Nei due periodi i bolscevichi giunsero alla necessità di operare ritirate, di venire a patti con il nemico, pur affermando che avrebbero agito ben diversamente, se avessero potuto contare su movi­ menti rivoluzionari negli altri fronti di lotta operaia mondiale. E, ogni volta, la ritirata o il compromesso trovavano una giu­ stificazione supplementare nella necessità di salvaguardare lo Stato proletario, non in quanto conquista particolare del pro­ letariato russo,, o in quanto posizione in sé, ma come strumen­ to che, in seguito, sarebbe intervenuto quando la classe operaia degli altri paesi avesse raggiunto nuove possibilità di lotta. I bolscevichi credevano così di compiere il loro dovere inter­ nazionalista, perché salvaguardavano lo Stato proletario impeden­ do al nemico di distruggerlo durante una congiuntura che gli era provvisoriamente favorevole. Ma tutta questa tattica non tene­ va conto dell’elemento essenziale: cioè che il ruolo occupato dallo Stato proletario agiva direttamente sul processo della lotta proletaria di ogni paese e che tutto stava nel prendere la strada favorevole alla posizione della classe operaia nella lotta mortale che essa doveva ingaggiare contro il capitalismo mondiale. Nel 1917-18, a Brest-Litovsk, i bolscevichi avevano da scegliere fra due criteri: o indirizzare la loro politica alla ma­ turazione di movimenti rivoluzionari in altri paesi, o sfruttare la guerra che si facevano gli Imperi Centrali e gli Alleati, mer-

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carteggiando l’appoggio della Russia all’una o all’altra delle due coalizioni. È evidente che i bolscevichi se si fossero limitati alla fotografia istantanea avrebbero dovuto imboccare la seconda stra­ da. Un’immagine statica in cui emergeva da un lato la potenza della borghesia tedesca in grado di imporre le sue armate all’as­ salto delle frontiere sovietiche e, dall’altro, l’incapacità momen­ tanea del proletariato di questo paese di spezzare il progetto capitalista. L’altra politica dello Stato operaio poteva scaturire solo alla condizione di non limitarsi all’istante politico che accom­ pagnava il trattato di Brest-Litovsk e di considerare contingente la prospettiva del momento, nella possibilità di movimenti rivo­ luzionari in Germania. Di fatto, dieci mesi dopo la stipulazione di Brest, potenti movimenti rivoluzionari dilagarono dapprima in Germania, in Ungheria, in Italia e, in generale, in tutti gli altri paesi, dando così alla rivoluzione russa il solo significato proletario che essa poteva avere, cioè di prima vittoria ot­ tenuta dalla classe operaia mondiale nel settore russo, prolo­ go della vittoria sul fronte mondiale. Gli avvenimenti del 1919-21 dimostrarono nettamente che, siccome le premesse sto­ riche dell’ottobre 1917 erano unicamente d’ordine internaziona­ le, solo sulla base della lotta della classe operaia mondiale si po­ teva inquadrare la difesa dello Stato sovietico contro gli attac­ chi dell’imperialismo tedesco e di tutti gli altri paesi. Tra le due tendenze del partito bolscevico che si scontrarono all’epoca di Brest-Litovsk — quella di Lenin (x) a quella di Bucharin —, riteniamo che fosse la prima a orientarsi verso gli obiettivi della lotta per la rivoluzione mondiale. La posizione della frazione diretta da Bucharin — secondo la quale lo Stato proletario avrebbe la funzione di liberare mediante la « guerra rivoluzio­ naria » il proletariato degli altri paesi — cozza brutalmente con la stessa natura della rivoluzione proletaria e della funzione storica del proletariato. Quest’ultimo non può assolutamente seguire il cammino della borghesia che ha trionfato sull’arena mondiale con Napoleone. Napoleone costruì lo Stato francese C1) Riteniamo che l’opinione di Trockij non differisse fondamentalmente da quella di Lenin, per questo non ne parliamo.

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grazie alle vittorie delle sue armate, con l’obiettivo (da un pun­ to di vista storico) non tanto di instaurare l’impero europeo mondiale della Francia, quanto piuttosto di accelerare la matu­ razione delle condizioni politiche negli altri Stati per porre lo Stato capitalista francese in un contesto internazionale che permettesse la vittoria mondiale del capitalismo. D’altra parte il proletariato non può neppure seguire la strada di Bismark che non consiste in un programma di espansione militare e di con­ quiste come quelle di Napoleone, ma nel coagulare la « nazione tedesca » nello Stato borghese centralizzato. Nel caso di Napo­ leone come in quello di Bismark si assiste a un corso di avve­ nimenti che ha per asse la costruzione dello Stato capitalista riproducendo, a scala mondiale, il contrasto intrinseco al mer­ cato capitalista tra le imprese o i trust. Entrambi questi con­ trasti hanno origine nella contraddizione svelata da Marx nella teoria del valore, nel sistema di produzione capitalista, che por­ ta all’impossibilità di realizzare il valore del lavoro in un regi­ me basato sulla divisione della società in classi. Non prendia­ mo in considerazione qui il caso specifico di Brest-Litovsk, in cui il criterio essenziale che doveva prevalere fu quello difeso da Lenin. Questi faceva dipendere l’atteggiamento dello Stato sovietico dal proletariato tedesco, sostenendo, in caso di neces­ sità, il ritiro dei bolscevichi negli Urali e in Siberia, fino al momento in cui una ripresa della lotta rivoluzionaria si fosse manifestata in Europa. Troviamo una ulteriore verifica della posizione di Lenin nelle sue analisi sulla politica perseguita al tempo delle operazioni dell’Armata Rossa in Polonia, nel 1920, quando fu indotto a concludere che in quel periodo la politica sovietica facilitasse le manovre della borghesia polacca, nella misura in cui quest’ultima riusciva con successo a mobilitare le varie classi contro l’attacco sovietico su un fronte di difesa na­ zionalista. Prendiamo invece in considerazione le direttive di Lenin laddove riteneva possibile che lo Stato russo si barca­ menasse tra i briganti imperialisti e accettasse anche l’appoggio di un fronte imperialista in vista di difendere le frontiere dello Stato sovietico minacciate da un altro fronte. Queste direttive

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testimoniano — a nostro avviso — la gigantesca difficoltà che incontravano i bolscevichi per stabilire la politica dello Stato russo, dal momento che nessuna precedente esperienza poteva armarli e dirigerli nella lotta contro il capitalismo, in vista del trionfo della rivoluzione mondiale. Non è facile stabilire che cosa a Brest-Litovsk abbia pre­ valso: se la considerazione generale di ritmare la marcia dello Stato sovietico al passo della lotta del proletariato degli altri paesi, o invece l’altra che Lenin aveva espresso nella stessa epoca. Lenin pensava che l’intervento dello Stato sovietico nel­ l’arena dei contrasti interimperialistici potesse trarre vantaggi dagli appoggi che un gruppo si sarebbe visto costretto a con­ cedere ad esso, per poter battere l’altro gruppo imperialista. Non possiamo dunque affermare, in maniera definitiva, se la direttiva internazionalista abbia ispirato la decisione che fu adottata a Brest-Litovsk o se invece sia stata la necessità che in­ dusse il partito bolscevico ad accettare le condizioni dell’impe­ rialismo tedesco. Se ci rifacciamo all’offensiva dell’Armata Ros­ sa in Polonia nel 1920, dobbiamo concludere che fu piuttosto la seconda ipotesi a prevalere a Brest, cioè che lo Stato russo avesse accettato il diktat tedesco non a causa della situazione che attra­ versava in quel momento il proletariato tedesco, ma a causa della superiorità militare di quel paese. In definitiva l’idea del contrasto « Stato proletario-Stati capitalisti » si manifesta dalla nascita dello Stato sovietico. Questa antinomia tra Stati vela, fin dai primi tempi, l’op­ posizione tra le classi, la sola che possa dare impulso all’azione dello Stato proletario così come all’azione delle altre istituzioni proletarie (sindacati, cooperative, partito di classe). Dobbiamo dire ancora una parola riguardo a Brest. Ab­ biamo visto che dieci mesi dopo il trattato, in Germania inizia­ rono movimenti rivoluzionari che si diffusero poi negli altri paesi, mentre invece i bolscevichi avevano deciso di accettare Brest soprattutto perché l’orizzonte internazionale non presen­ tava prospettive di movimenti insurrezionali. L’impossibilità in cui si trovavano i bolscevichi a determinare la prospettiva del

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momento contingente non era assolutamente occasionale, ma dipendeva dalle condizioni in cui essi agivano, cioè dall’impos­ sibilità di attingere nel campo della teoria e dei principi le ar­ mi che avrebbero permesso loro di superare la visione del mo­ mento politico e al contempo di prevedere la prospettiva che sarebbe scaturita dai centri motori della situazione e che avrebbero potuto spiegare la stessa situazione contingente. Com­ prendiamo ancora meglio la difficoltà che sta alla base della valu­ tazione della situazione del 1917-18 se la paragoniamo con l’estrema decisione che scaturisce dalle tesi di Lenin dell’aprile 1917; situazione in cui, tuttavia, il rapporto di forza tra i bol­ scevichi e il nemico (nei suoi diversi aspetti) era ugualmente sfavorevole come il rapporto di forza nel 1917-18. Lenin, appena giunto in Russia, benché in minoranza in seno al partito stesso, armato com’era di un arsenale di principi conquistati al prezzo di una lotta durata lunghi anni, coglie immediatamente il si­ gnificato della realtà russa e, a dispetto di tutte le apparenze del momento, non esita a stendere un programma d’azione che sembra isolare il partito bolscevico dalle masse e dai movimenti del momento. Esso, in realtà, corrispondeva direttamente all’e­ voluzione della situazione. Cinque mesi dopo gli avvenimenti confermavano perfettamente il piano di Lenin dell’aprile. Ma nel 1917-18 Lenin non possedeva sul problema dello Stato so­ vietico quell’insieme di principi che gli avevano permesso di comprendere la situazione della primavera del 1917. Abbiamo voluto insistere su questo punto per verificare la tesi da noi enunciata, secondo la quale consideriamo impossibile l’analisi di una situazione se non basandosi su considerazioni di principio in relazione alle posizioni tenute dal proletariato. Le precedenti considerazioni potrebbero venire facilmente tacciate di essere elucubrazioni astratte e prive di valore, qua­ lora tutto il problema venisse ridotto a proporzioni ben mode­ ste, cioè che la rititrata e l’offensiva dell’Armata Rossa sarebbe­ ro state decise solo dai rapporti di forza militari tra i due eser­ citi in lotta. A Brest, per esempio, si sarebbe trattato di dare una risposta a un problema strettamente contingente e non in­

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vece di una ritirata in funzione della crescita del movimento rivoluzionario in Germanai, rivelatosi dieci mesi dopo. In ciò abbiamo la ripetizione del vecchio refrain che viene sempre contrapposto ai marxisti: « Ecco la situazione, bisogna rispon­ dere con un sì o con un no, e soprattutto considerare che il rifiuto di un compromesso può far crollare un’istituzione prole­ taria, mentre la sua difesa permetterà, domani, la lotta per gli obbiettivi finali che, provvisoriamente, vengono messi da parte per meglio lottare e vincere in nuove circostanze ». Questo rea­ lismo ha sempre accompagnato le deviazioni e i tradimenti. Contro di esso bisogna ancora una volta opporre la ferma ri­ sposta del proletariato comunista che svela il gioco dell’oppor­ tunista. Non si tratta assolutamente di fare la rivoluzione in un momento qualsiasi e neppure di rifiutarsi di riconoscere la ne­ cessità di una ritirata, quando le circostanze l’impongono. Sem­ plicemente si tratta di non legare mai il proletariato a forze che gli sono profondamente avverse. Allorché si presenta una situazione in cui la stessa esistenza di un’organizzazione prole­ taria è in gioco, mentre il nemico può approfittare delle circo­ stanze a lui favorevoli per ingaggiare un attacco distruttivo, la scelta reale che si presenta alla classe operaia è: o lotta di clas­ se o capitolazione. Nella prima ipotesi la vittoria del nemico è solo momenta­ nea in quanto essa risulta da rapporti di forza contingenti e il capitalismo non può introdurre, con questo suo successo, i propri agenti in seno al movimento proletario. Nella seconda ipotesi non è solo la situazione contingente a venire pregiudica­ ta, ma anche quella futura e il capitalismo avrà raggiunto la più grande vittoria possibile, in quanto il suo rafforzamento non sarà più di ordine quantitativo e contingente ma qualita­ tivo e di lunga durata. Il suo apparato di dominio si sarà arric­ chito di un anello — e il più pericoloso per il proletariato — perché avrà installato una fortezza nel seno stesso del movi­ mento proletario. La soluzione che hanno adottato i bolscevichi a Brest non comportava un’alterazione delle caratteristiche in­ terne dello Stato sovietico nei suoi rapporti con il capitalismo e

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il proletariato mondiale. Nel 1921, all’epoca della introduzione della NEP, e nel 1922, all’epoca del Trattato di Rapallo, dove­ va verificarsi una modificazione profonda nella posizione occu­ pata dallo Stato proletario nel campo della lotta di classe a sca­ la internazionale. Tra il 1918 e il 1921 si era manifestata, e poi rifluita, l’ondata rivoluzionaria mondiale. Nella nuova situazio­ ne lo Stato proletario incontrava difficoltà enormi che determi­ narono una situazione in cui, non potendosi più appoggiare ai suoi sostegni naturali (i movimenti rivoluzionari di tutti i pae­ si), esso doveva o accettare una lotta in condizioni diventate estremamente sfavorevoli oppure evitare la lotta. Accettare un compromesso significava condurre il regime sovietico, gradual­ mente e inevitabilmente, su una strada dapprima di adultera­ zione e poi di distruzione della propria funzione proletaria, per giungere infine alla situazione attuale in cui lo Stato proletario è ormai diventato un anello della catena del dominio del capi­ talismo mondiale. Vogliamo subito porci contro la posizione grossolana che vuole circoscrivere a responsabilità personali le cause profonde del rivolgimento che si è verificato tra la posizione rivoluziona­ ria, che teneva lo Stato russo nel 1917-21, e quella controrivolu­ zionaria, che lo detiene attualmente, nel 1935. Lungi da noi la sottovalutazione delle conseguenze della morte del capo della rivoluzione, ma siamo certi che sarebbe oltraggioso per la memoria di quel grande marxista che fu Le­ nin affermare che il ribaltamento della posizione dello Stato proletario, ed il suo passaggio al servizio del capitalismo, dipen­ de dal non avere più a capo una persona dalle qualità eccezio­ nali e geniali, ma Stalin, « l’inviato del demone della degenera­ zione e della perversione». Il vero omaggio a Lenin consiste, invece, nell’affermare che, anche se egli avesse potuto continua­ re a vivere e operare per la salvezza della rivoluzione mondia­ le, sarebbero apparsi gli stessi problemi e si sarebbero manife­ state le stesse difficoltà. Gli ultimi articoli di Lenin sulla cooperaZione esprimono i riflessi della nuova situazione, conseguente alle disfatte del proletariato mondiale, e non è affatto sorpren­

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dente che essi siano potuti servire ai falsificatori per abbozzare la teoria del « socialismo in un solo paese ». Davanti a Lenin, se fosse sopravvissuto, il centrismo avrebbe tenuto lo stesso atteggiamento che ha assunto verso i numerosi bolscevichi che hanno pagato con la deportazione, la prigione e l’esilio la fedeltà al programma internazionalista dell’Ottobre 1917. Lenin col suo genio, la sua intransigenza e la sua fermezza politica non avrebbe potuto aver ragione delle forze sociali generate da un profondo cambiamento della situazione. Il centrismo, nella persona di Stalin, avrebbe avuto ragione an­ che di lui nel caso — disgraziatamente verificatosi — in cui il proletariato mondiale avesse morso la polvere di fronte al ne­ mico, che era riuscito a raddrizzare l’impalcatura del suo regime grazie all’appoggio fornitogli dai propri agenti in seno al prole­ tariato. Egualmente false sono le posizioni di chi vorrebbe ri­ trovare nell’Ottobre, e negli stessi principi della dittatura del proletariato, i vizi originari che, inevitabilmente, dovevano condurre all’attuale situazione, e di chi vuole formalmente se­ parare in due periodi la vita dello Stato proletario: il primo del tempo di Lenin, in cui tutto marciava a meraviglia e l’altro che sarebbe stato traviato e corrotto da quel demone di Stalin. La distinzione tra i due periodi esiste anche se non in rapporto alle qualità personali degli uomini che le hanno espresse, ma per il contrasto tra la natura stessa di queste due situazioni, di cui l’una è contrassegnata dallo scoppio di movi­ menti rivoluzionari in tutti i paesi e l’altra dal riflusso dell’on­ data rivoluzionaria e dalla vittoria nemica. Il nemico potè, gra­ zie alle disfatte rivoluzionarie del 1918-21, resistere vittoriosa­ mente alle battaglie rivoluzionarie in Germania nel 1923 e in Cina nel 1927, per citare le più importanti. Questi due periodi sono strettamente interdipendenti e dobbiamo affermare che ritroviamo oggi i germi fecondati dal centrismo nelle condizioni di immaturità ideologica, in cui il proletariato internazionale si è ritrovato allorché le condizioni storiche gli hanno offerto l’occasione di distruggere il capita­ lismo mondiale. Queste condizioni di immaturità si esprimeva­

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no nell’isolamento dei bolscevichi in seno al movimento inter­ nazionale, poiché solo essi avevano avviato quel lavoro di fra­ zione che aveva dato al proletariato russo la possibilità di tro­ vare in essi la guida delle battaglie rivoluzionarie. Non sembra che la lezione degli avvenimenti sia oggi presente ai militanti comunisti che sopravvivono, dopo la devastazione del centrismo, perché, a parte la nostra frazione, negli altri paesi non ci si indirizza per nulla sulla strada che permise la vittoria del pro­ letariato russo. Quando nel 1921 si presenta la nuova situazione, Lenin e i bolscevichi l’affrontano con concezioni che, riguardo allo Stato proletario, erano l’espressione della precedente situazione, ma che non si legavano assolutamente al ruolo dello Stato operaio nella realtà delibi lotta di classe mondiale. Nel 1921, basandosi sugli immediati precedenti storici, si doveva concludere con la necessità di difendere, malgrado tutto, l’esistenza dello Stato tusso, poiché quest’ultimo aveva dimostrato i suoi meriti rivo­ luzionari fondando l’Internazionale Comunista. Lenin, con lo studio sulla NEP (2), e Trockij con il suo rapporto al IV Congresso dell’Internazionale (3), dovevano por­ re il problema centrale nei seguenti termini: si ingaggia ima battaglia tra il proletariato che detiene (per mezzo dello Stato) le leve del comando economico e gli altri strati della popola­ zione (contadini e piccola borghesia); la vittoria spetterà a quello dei due antagonisti che riuscirà a dirigere sulla via della rispettiva classe l’indispensabile ripresa economica dopo gli an­ ni della guerra civile e della guerra esterna. Nel 1918, nel suo studio sul capitalismo di Stato (4), Lenin con ima analisi scien­ tifica che metteva a nudo l’impossibilità di ottenere grandi ri­ sultati a causa dello stato economico arretrato della Russia ave(2) Lenin, Sull'imposta in natura, in Opere, vol. XXXII, pp. 262-276. (3) L. Trockij, Relazione sulla nuova politica economica sovietica e sulle pro­ spettive della rivoluzione mondiale, ora in L. Trockij, Problemi della rivoluzione in Europa, Mondadori, Milano 1979, pp. 318-367. (4) Lenin, Sull'infantilismo di « sinistra » e sullo spirito piccolo-borghese, « Pravda », n. 88-90, 9 maggio 1918, ora in Rivoluzione in Occidente e infantilismo di sinistra, Ed. Riuniti, Roma 1969, pp. 124-164.

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va respinto le esagerazioni degli estremisti di sinistra sulla por­ tata reale della rivoluzione russa. Nel 1921, queste stesse con­ siderazioni condussero Lenin alla conclusione opposte, cioè che vi fosse la possibilità di una gestione socialista dello Stato pro­ letario, anche senza l’intervento del proletariato di altri paesi. Lenin affermerà anche la inevitabilità di affidare al rinascente capitalismo la funzione di vincere la piccola produzione arti­ gianale, la piccola borghesia contadina e mercantile, in quanto credeva, e sempre per mezzo dello Stato, di poter sbarrare la strada alla restaurazione del potere capitalista e orientare l’in­ sieme del nuovo corso economico verso la costruzione delle fondamenta del socialismo. Questa nuova concezione di Lenin non dipendeva, come abbiamo detto, da una riduzione delle sue concezioni internazionaliste, ma da queste considerazioni: poi­ ché la nuova situazione aveva tolto allo Stato il suo sostegno naturale, e cioè il proletariato mondiale sconfitto dal nemico, bisognava difendere lo Stato durante il periodo intermedio che lo separava da una nuova ondata della rivoluzione mondiale. Anche se non troviamo, nei testi di quest’epoca, una dimostra­ zione teorica dell’apporto che lo Stato russo poteva fornire alle lotte operaie negli altri paesi con la Nuova Politica Economica, è assolutamente certo che la convinzione intima dei bolscevichi, era che essi potessero, per mezzo della NEP, contribuire, anco­ ra più efficacemente che con il comuniSmo di guerra, allo sfor­ zo rivoluzionario del proletariato mondiale. Gli avvenimenti che sono seguiti al 1921 ci dimostrano che il contrasto « Stato proletario-Stati capitalisti» non può guidare l’azione né del proletariato vittorioso né quella della classe operaia degli altri paesi. L’unica sola alternativa possibi­ le resta quella « proletariato-capitalismo mondiale ». Lo Stato proletario è un fattore della rivoluzione mondiale solo a condi­ zione che esso consideri la borghesia mondiale come il nemico da battere. Anche provvisoriamente questo Stato non può stabilire la sua politica in funzione dei propri problemi di gestione, in quanto i fattori di successo o di disfatta stanno nell’avanzata o

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nella ritirata delle lotte operaie degli altri paesi. Da un punto di vista teorica il nuovo strumento che possiede il proletariato dopo la vittoria rivoluzionaria — lo Stato proletario — si diffe­ renzia profondamente dagli organismi operai di resistenza (sin­ dacati, cooperative, mutuo soccorso) e dall’organismo politi­ co (partito di classe). Ma questa differenza non si verifica per­ ché lo Stato ha in sé dei fattori organici superiori rispetto alle altre istituzioni, ma, per il motivo contrario: perché lo Stato, malgrado l’apparenza di superiore potenza materiale, possiede da un punto di vista politico minori possibilità d’azione; è cioè mille volte più vulnerabile dal nemico che gli altri organismi operai. Di fatto lo Stato deve la sua superiore potenza materiale a fattori oggettivi che corrispondono perfettamente agli interes­ si delle classi sfruttatrici, ma che non possono aver alcun rap­ porto con la funzione rivoluzionaria del proletariato. Quest’ul­ timo farà ricorso provvisoriamente alla dittatura e vi ricorrerà per accentuare il processo di svuotamento dello Stato attraverso uno sviluppo produttivo che permetterà di estirpare le stesse basi di classe. Lo Stato, anche quello proletario, è costretto a intervenire in un ambiente sociale, economico e politico e per questo corre il pericolo di venire trascinato a realizzare obiettivi che lo strappano dalla sua funzione, che può essere solo internaziona­ lista. In questa sfera il rischio si ripresenta e in proporzioni maggiori perché — lo si voglia o no — ciò che si oppone diret­ tamente allo Stato proletario è la brama degli altri Stati che si disputano i mercati, e non certo il regime capitalista nelle sue basi sociali. Una vittoria dello Stato proletario contro uno Stato capitalista (dando a questi termini un valore territoriale) non è assolutamente una vittoria della rivoluzione. Abbiamo sottoli­ neato ciò che diceva Lenin a proposito dell’ingresso dell’Armata Rossa in Polonia, dove la vittoria militare della Russia aveva come contraltare l’indebolimento del fronte proletario e la pos­ sibilità per la borghesia polacca, di imbastire la mobilitazione nazionalista per rimettere in piedi il suo edificio pericolante. Nel 1929 la vittoria dell’armata sovietica sulla Cina, riguardo

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all’Est cinese (6), ha accelerato là disgregazione del proletariato cinese e ha messo in luce i caratteri di uno Stato degenérato che, nel 1934, di fronte a un nemico ben più potente, cioè di fronte al Giappone, doveva vendere, per qualche milione di rubli, ciò che aveva proclamato bastione della rivoluzione mon­ diale e che aveva difeso con lo stesso accanimento usato dagli imperialisti nel fare della Cina un bottino per le loro brame. Il campo economico e quello militare possono essere solo accessori e dettagli nell’attività dello Stato proletario, mentre sono un fattore essenziale per una classe sfruttatrice. Lo Stato proletario deve essere un semplice fattore della lotta del prole­ tariato mondiale e solo nella battaglia rivoluzionaria della clas­ se operaia di tutti i paesi esso può trovare la ragione della sua vita e della sua evoluzione. Avere creduto di poterlo mantene­ re, al di fuori della lotta operaia degli altri paesi, aver ammesso questa ipotesi, anche provvisoriamente, significa aver posto le basi per la conversione, poi verificatasi, della funzione dello Stato russo in pilastro della controrivoluzione. Abbiamo già detto che la reale funzione dello Stato prole­ tario non si è manifestata nel 1917, ma nel 1918-21, allorché le premesse che si erano rivelate in Russia si svilupparono in tut­ ta la loro ampiezza e allorché si aprì una situazione rivoluzio­ naria nel mondo intiero. L’Ottobre 1917 fu proprio il segno foriero di tempeste che ribollivano nella società capitalista. Nel 1921 la situazione cambia e constatiamo, ancora una volta, l’impossibilità di procedere a un’analisi della realtà al di (5) Nel maggio del 1929 la Cina con azioni di ritorsione anti-sovietica riven­ dicò il pieno possesso della ferrovia dell’Est-Cinese, soggetta a un regime di condo­ minio (trattato del 1924). I sovietici al comando di Blucher ingaggiarono una breve campagna e fecero 10.000 prigionieri. Non desiderando avere complicazioni con il Giappone, presente in Manciuria, l’URSS si limitò a ripristinare lo statu quo. In seguito all’intervento degli Stati Uniti nel dicembre 1929 cessarono le osti­ lità e nel 1932 vennero riallacciate le relazioni diplomatiche tra Cina e URSS. Le opposizioni di sinistra in merito al conflitto cino-sovietico espressero valuta­ zioni divergenti, in particolare cfr. Le conflit Sino-Russe (Les points de vue de Louzon, Van Overstraeten, « Rhe Militant », Kurt Landau, L. Trotskij, et le point de vue de «Contre le Courant»'}, «Contre le Courant », A. Ili, n. 36-37, 21 settembre 1929.

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fuori da considerazioni di principio, che ci indichino il cammi­ no che il proletariato deve affrontare per divenire il fattore di sviluppo della situazione contingente verso gli obiettivi finali. La Nuova Politica Economica era stata introdotta in assenza di lotte rivoluzionarie in altri paesi. Ma questa prospettiva era as­ solutamente sbagliata, perché nel 1923 la Germania era diventa­ ta nuovamente teatro di possenti movimenti rivoluzionari. Ma tra il 1921 e il 1923 la nuova politica dello Stato russo non poteva mancare di influenzare il corso dei movimenti rivolu­ zionari tedeschi in cui troviamo un contrasto sorprendente: i bolscevichi che, con Lenin, avevano sostenuto nel 1917 il pro­ gramma di espulsione violenta di tutte le forze democratiche e socialdemocratiche, saranno più a destra di quanto non lo fu­ rono Zinoviev e Kamanev nell’Ottobre e ciò in una situazione di lotta molto più matura per iniziative mille volte più avanza­ te rispetto all’Ottobre quale quella verificatasi nel corso dei movimenti rivoluzionari di Turingia, Sassonia, e dell’intiera Germania. Da un punto di vista di principio le posizioni di Lenin, contenute nel suo studio sulla NEP, rimangono tutt’ora valide per quanto riguarda i problemi dello Stato proletario. Solo che gli avvenimenti che gli sono succeduti hanno dimostrato come l’antagonista dello Stato operaio sia solo il capitalismo mondiale e come le questioni interne abbiano solo un valore secondario. Nel 1921 Pannekoek (6) scrisse che il risultato della NEP conduceva a una modifica del meccanismo interno della lotta rivoluzionaria. È un peccato che allora egli si sia limitato a esprimere là conseguenza di un fatto politico invece di conside­ rare l’insieme della situazione per trarre la sola conclusione possibile, dare cioè una base di principio ai problemi tattici in modo da riuscire a definire, sull’esperienza dell’Ottobre, posi-

(6) Probabilmente si riferisce all’articolo di Pannekoek, Sovjet-Ruslanden Het West-Europeesche Kommunisme, pubblicato nel 1921 su «De Nieuwe Tijd » (organo del CAPN, Partito Operaio Comunista Olandese), ora in Serge Bricianer (a cura di), Pannekoek e i consigli operai, Musolini, Torino 1975. (N.J.Z.)

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zioni in grado di battere il capitalismo negli altri paesi (7). Oggi le frazioni di sinistra hanno un orizzonte più vasto ed è loro dovere mostrarsi degne delle prove di eroismo che hanno dato gli operai in tutti i paesi; è loro dovere attingere dai grandiosi avvenimenti succeduti al 1921, per garantire la sorte delle fu­ ture rivoluzioni e per stabilire, allo stesso tempo, le condizioni politiche che potranno far risparmiare al proletariato una guer­ ra prima di giungere a una nuova situazione rivoluzionaria.

(7) Abbiamo soppresso l’affermazione che Pannekoek fosse « caduto nella so­ cialdemocrazia » in quanto questa affermazione viene poi rettificata e ovviamente ab­ biamo soppresso anche la rettifica. Ci limitiamo a riportarne la parte finale dove « Bilan » ribadisce il proprio giudizio sulle posizioni di Pannekoek e della sinistra olandese riguardo la loro concezione del partito. « Su questo argomento sosteniamo che la felice visione che Pannekoek ebbe nel 1921, riguardo la Nep, non ha fatto sortire un’altrettanto felice posizione sui problemi attuali del comuniSmo. Nel 1921, come nel 1935, la posizione dei compagni olandesi sul problema centrale della rivoluzione proletaria, il partito di classe, è viziata dal fatto che la loro visione politica non è riuscita a cogliere i problemi della tattica comunista che, per noi, rappresentano il compito fondamentale lasciatoci in eredità dai bolscevichi ». (N.d.t.)

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2. LO STATO SOVIETICO

{Parte seconda)

La vittoria dell’Ottobre 1917 e la fondazione dello Stato sovietico colsero il proletariato internazionale in tali condizioni di impreparazione teorica e politica che già a Brest-Litovsk le due correnti del partito bolscevico che si trovarono in contrap­ posizione non giunsero a fissare un sistema e delle regole di principio in grado di indirizzare complessivamente la futura azione dello Stato proletario. Abbiamo precisato che se la cor­ rente capeggiata da Lenin prevalse su quella di sinistra di Bu­ charin, ciò non avvenne in seguito allo scontro tra la concezione di principio che poneva al centro la valutazione dei rapporti di forza a scala internazionale, facendo discendere da questa valu­ tazione la politica e l’azione dello Stato sovietico e quella che invece poneva al centro l’intervento di questo Stato nella lotta di classe mondiale per accelerarne gli sviluppi rivoluzionari. Non si trattava di risolvere in via di principio il dilemma: Sta­ to proletario alle dirette dipendenze del proletariato interna­ zionale o classe operaia internazionale trascinata al seguito del­ lo Stato russo. Ritirata di fronte a un capitalismo ancora in grado di tenere sotto controllo il proletariato del suo paese o offensiva sovietica per rovesciare in senso rivoluzionario la si­ tuazione nel paese capitalista aggressore. La posizione di Bu­ charin si fondava sulle esperienze della rivoluzione del 1793, mentre quella di Lenin, senza tuttavia precisarsi entro limiti ben definiti, faceva intravvedere le sole concezioni internazionaliste su cui si dovesse basare la via di sviluppo dello Stato proletario. La « guerra rivoluzionaria » corrisponde perfettamente al programma storico di una classe fondata sull’istituzione di un privilegio; classe che deve infrangere le barriere di altri privi­ legi, per poter giungere alla formazione di una struttura inter­

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nazionale, nella quale le contraddizioni economiche e gli anta­ gonismi in seno alla classe dominante possano schiudersi e sbocciare nel contrasto più generale che oppone tra loro gli Sta­ ti capitalisti o coalizioni di essi. Questa teoria della « guerra rivoluzionaria » non può essere presa in considerazione dal proletariato, né deve venire presa in eredità dalle rivoluzioni borghesi, perché il programma storico della classe operaia ri­ siede nella rottura del sistema di dominio di classe in tutti i paesi e ciò può derivare solo dalle capacità del proletariato di ogni paese di compiere la propria missione e dalla maturazione delle condizioni politiche per scatenare l’insurrezione. L’Otto­ bre 1917, lungi dal poter essere considerato un articolo da esportàre in altri paesi, valeva unicamente come modello per gli altri proletariati; tuttavia doveva essere un modello destinato a un superamento continuo nel corso incessante di quella che è la legge delle rivoluzioni proletarie. A Brest l’immaturità stessa della situazione storica impedì di stabilire steccati ideologici tra le due frazioni del partito bol­ scevico, le cui crudeli difficoltà dipendevano dalla impossibilità di richiamarsi a una esperienza storica precedente. Questa giu­ stificazione non sussisterà più per le future rivoluzioni e la prossima vittoria del proletariato in un altro paese potrà rag­ giungere i suoi obiettivi. Essa sarà il segnale della rivoluzione mondiale solo a condizione di preparare fin d’ora, con la critica della rivoluzione russa, gli strumenti di principio che dovranno guidare l’azione del futuro Stato proletario. La critica alla Co­ mune permise a Marx di enunciare la necessità della dittatura del proletariato, e poi a Lenin, in Stato e Rivoluzione, la teoria dell’insurrezione in vista della distruzione violenta dello Stato capitalista. Senza la Comune, né Marx né Lenin, malgrado il loro genio, avrebbero potuto produrre queste fondamentali opete teoriche, poiché il proletariato può costruire solo sul mate­ riale concreto dell’esperienza storica. L’Ottobre in definitiva è un segno foriero della situazione rivoluzionarria che si manifestò un anno dopo con il disarmo degli eserciti imperialisti in tutti i paesi e a cui fecero direttamente seguito le battaglie rivoluzionarie del 1919 in Germania,

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Italia, Ungheria e in generale in tutti i paesi. Il fatto che gli anni 1917-18 non fossero che prodromi della situazione mani­ festatasi poco dopo, è provato dalle seguenti considerazioni: so­ lo nel marzo 1919 i bolscevichi incoraggiano la ripresa dei rap­ porti internazionali (per iniziativa della sinistra di Kienthal) e nel settembre 1920 (tre anni dopo la vittoria d’Ottobre) avvie­ ne di fatto la messa a punto dei materiali ideologici, politici e organizzativi della Terza Internazionale. Lo scarto tra il 1917 e il 1920 si spiega solo col fatto che le condizioni oggettive poste dalla storia per giustificare l’esistenza dello Stato proletario si sono manifestate, nella realtà internazionale, con un considere­ vole ritardo. La fine della guerra imperialista non fu dovuta ai rovesci dell’esercito tedesco o all’apporto fornito agli alleati dall’inter­ vento americano, fu l’Ottobre 1917 a por fine alla carneficina. I successi militari dell’uno o dell’altro paese belligerante erano solo fattori accessori. La castrofe dell’edificio zarista, con le sue ripercussioni immediate su tutti gli altri fronti, dove i pro­ letari ripresero coscienza dei loro interessi, segnò la fine della conflagrazione. Alla guerra non si poteva opporre che la rivolu­ zione. Sono significative le concomitanti riflessioni di Poincaré e del Kaiser, quando entrambi constatarono lo stato d’animo delle truppe nel corso delle manifestazioni di rivolta che pre­ giudicarono la continuità della guerra. Questi fenomeni si ve­ rificarono, d’altra parte, in tutti gli altri eserciti e, dovunque, il proletariato ne fu l’artefice. Evidentemente non vogliamo affermare che senza questi movimenti rivoluzionari la guerra si sarebbe protratta in eterno. Ci basiamo su elementi storici, non su congetture astratte, e analizziamo gli avvenimenti secondo la loro logica, che ci permette di comprendere l’inevitabilità dei movimenti rivoluzionari. Il nuovo scoppio dell’antagonismo di classe fu generato direttamente dalla parentesi bellica in cui l’antagonismo specifico del regime capitalista — la guerra tra Stati borghesi — si era dapprima manifestato e una volta diffu­ so in tutta la sua ampiezza aprì la via allo scoppio dei contrasti di classe che guidano l’evoluzione storica complessiva.

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L’Ottobre è un avvenimento il cui valore emerge solo da considerazioni d’ordine mondiale. È l’espressione di un cam­ biamento radicale della situazione internazionale e assume la sua reale portata storica con l’apparizione, nel 1919-20, delle condizioni oggettive che — da un punto di vista storico — rendono possibile la dittatura proletaria in Russia. A questo proposito si deve esaminare nuovamente la tesi che è stata pre­ sentata per giustificare storicamente la vittoria proletaria in Russia. L’evoluzione del centrismo, favorita dal formidabile sviluppo della tecnica produttiva in URSS, ci permette oggi di comprendere meglio questo problema. In base alle enunciazioni di Marx sullo « sviluppo inegua­ le », Lenin dapprima, e soprattutto Trockij ci hanno indotti a considerare che la vittoria in Russia trovasse la sua giustifica­ zione nello stato economico arretrato di questo paese. Nella ge­ rarchia capitalista mondiale l’arretratezza faceva della Russia l’anello ' più debole e al contempo imprimeva al proletariato russo il più alto peso specifico allorché la catena si spezzò nel suo punto più vulnerabile. Ci sembra che questa condizione oggettiva, benché di grande importanza, non sia alla base della vittoria in Russia, e che la legge dello « sviluppo ineguale » non ci possa far comprendere l’evoluzione reale dell’attuale situa­ zione. Come sappiamo nel 1927 Stalin si è appoggiato proprio su questa legge (8) per concludere che l’ineguaglianza dello sviluppo capitalista lascia la possibilità allo Stato sovietico di incamminarsi verso la costruzione del socialismo in un solo paese. La circostanza dell’ineguaglianza veniva innalzata al ran­ go di legge, di necessità storica e, da allora, è diventato possibi­ le, anzi inevitabile, inserire nello sviluppo ineguale un’eco­ nomia socialista. Inoltre l’economia socialista non solo potrebbe consolidarsi a fianco di un’economia capitalista, ma per svilup­ parsi avrebbe bisogno di quest’ultima quale antidoto che per­ mette il pieno vigore della legge dell’ineguaglianza. Ora lo sviluppo ineguale è sì un’espressione del corso — a prima vista irregolare — dell’evoluzione economica nei di(8) G. Stalin, Questioni del leninismo, Feltrinelli (reprint), Milano s.d., p. 159.

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versi paesi. Esaminato però più da vicino, questo corso ci appa­ re perfettamente logico, perché rivela le condizioni della geo­ grafia economica e politica che hanno permesso a certi paesi di superarne altri, soprattutto grazie alla prossimità di aree di scambio (Impero Romano: Mediterraneo), di miniere (Medio Evo: Francia e Inghilterra) o di industrie (Capitalismo: Ger­ mania). Ma per poter concludere che una circostanza naturale di sviluppo economico possa essere legge di questo stesso svi­ luppo, si dovrebbe considerare che la causa determinante del­ l’evoluzione storica non sia più la lotta di classe, ma che i di­ versi paesi costituiscano altrettante entità separate e nelle con­ dizioni particolari del loro ambiente trovino le basi stesse della loro vita e del loro sviluppo. Ora Marx nella Prefazione al Capitale scriveva:

« Non si tratta in sé e per sé del grado più alto o più basso di sviluppo degli antagonismi sociali sgorganti dalle leggi naturali della produzione capitalistica; si tratta di queste stesse leggi, di queste tendenze che operano e si fanno valere con bronzea necessità. Il pae­ se industrialmente più evoluto non fa che presentare al meno evo­ luto l’immagine del suo proprio avvenire » (9). E più avanti Marx aggiungeva:

« Anche quando una società è riuscita a scoprire la legge natu­ rale del suo movimento — e fine di quest’opera è appunto di svelare legge economica di movimento della società moderna — non può né saltare d’un balzo, né sopprimere per decreto, le fasi naturali del processo. Ma può abbreviare e lenire le doglie del parto » (10). La legge non è affatto la condizione ineguale dello svilup­ po, ma l’essenza stessa del suo sviluppo e, se è possibile abbre­ viare il periodo di gestazione, non è assolutamente possibile cambiare la legge stessa. La società moderna, cioè la società ca­ pitalista, proprio come le altre società che l’hanno preceduta, o come la società socialista (il periodo di transizione dal capita(9) K. Marx, Il Capitale, Libro Primo, Utet, Torino 1974, p, 75. (io) Ibid., p. 76.

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listilo al comuniSmo) non può allatto suddividersi in altrettanti pezzi (gli Stati che la compongono) identici gli uni àgli altri, ma è il risultato di un insieme di società e organizzazioni socia­ li che differiscono non solo per il grado più alto di perfeziona­ mento industriale dell’una in rapporto alle altre, ma anche per la differenza fondamentale delle basi su cui esse vivono e si sviluppano. Nella teoria marxista, così come ha sóttolineato là Luxemburg, il mercato precapitalista delle colonie è una condi­ zione necessaria alla vita della società capitalista. Mólti ciarlatani nell’analizzare la situazione attuale insi­ stono nel dire che le predizioni di Marx sono state categorica­ mente smentite. Marx aveva detto che la società tende a divi­ dersi in due classi opposte e che le classi medie precipitano nella proletarizzazione. Lo sviluppo tecnico spazza via infatti ogni possibilità di sopravvivenza per la piccola industria e fa regnare da padroni assoluti i magnati che dirigono i grandi trust capitalisti. Marx non ha mai parlato di uno sviluppo «manicheo» della società capitalista e, soprattuto, non ha mai immaginato la realizzazione di questo modello di società, dove in alto sta un pugno di individui onnipotenti che hanno in ma­ no tutte le ricchezze e in basso, senza alcun strato sociale in­ termedio, la massa proletaria stracciona, abbandonata al « de­ mone della borghesia». Ciò che Marx aveva presente è la ten­ denza della società capitalista — e tendenza vuol dire direzione e, soprattutto, peso specifico dei differenti elementi che com­ pongono questa società. Ora, se si analizza la situazione attuale, si vede bene che la previsione di Marx si è pienamente verifica­ ta: la società attuale se non si orienta nella direzione del prole­ tariato rivoluzionario, è costretta a marciare direttamente e uni­ camente sotto l’effètto degli ingranaggi di cui solo gli onnipo­ tenti trust del capitale finanziario hanno la guida. D’altra parte se il corso storico perde l’asse volto al conseguimento del­ la nuova forma organizzativa socialista, se il proletariato — a causa delle disfatte — cessa di essere il fattore determinante del corso storico, allora si aprirà una situazione senza sbocco. Infine, se la crisi economica si incrocia, così come avviene oggi, con una crisi interna della dinamica rivoluzionaria viene meno

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ogni possibile soluzione dei problemi economici che, non po­ tendo più trovare sbocco nella sola forza sociale (il proletariato) in grado di farli evolvere verso una nuova e superiore forma di organizzazione sociale, resteranno insoluti nel vecchio sistema e provocheranno conseguenze di gravità sempre crescente. Le classi medie non acquisteranno una funzione autonoma, a causa della crisi del movimento proletario in via di disgregazione per la scomparsa del partito proletario. Solo degli scribacchini poli­ tici o dei veri traditori possono affermare che il fascismo rap­ presenti il regime delle classi medie. È vero poi che questi stessi « marxisti » danno sempre per scontata la caduta del fa­ scismo per l’effervescenza di quelle classi medie che ne costi­ tuirebbero la base sociale; in realtà queste affermazioni non sono altro che una delle numerose contraddizioni dei pretesi affossatori di Marx. Per sostenere che oggi sono le classi medie a detenere il governo di diversi paesi, bisogna, in modo del tut­ to semplicistico, basarsi sull’aspetto esteriore della realtà e so­ stituire alla legge dell’evoluzione storica un elemento esteriore di questa realtà. Per quanto riguarda lo « sviluppo ineguale », dobbiamo considerare che la forma di un’organizzazione sociale ha sem­ pre dimensioni mondiali e si compone non di differenti ele­ menti sincronizzati, ma di un insieme eterogeneo di elementi. L’economia capitalista, che ha bisogno di ingranaggi provenien­ ti da precedenti sistemi economici, può anche adattarsi -— così come la recente esperienza ha dimostrato — a forme più evolute e permettere ciò che Litvinoff chiama « la coesistenza pacifica dei due regimi capitalista e socialista». Non sul terreno eco­ nomico, ma su quello politico constateremo gli effetti dello « sviluppo ineguale », e soprattutto prendendo come riferimen­ to il proletariato internazionale, e non il proletariato di un uni­ co paese, potremo giungere a comprendere il significato di «anello più debole del capitalismo mondiale». Partendo dun­ que da considerazioni opposte a quelle che ispirano, general­ mente, l’analisi delle condizioni oggettive che hanno determina­ to la vittoria dell’Ottobre e l’istituzione della dittatura del pro­ letariato, potremo ristabilire i principi su cui avrebbe dovuto

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basarsi lo Stato proletario. Da questi principi esso si è invece co­ stantemente allontanato, tanto da giungere all’attuale situazione contraddistinta sia dallo sviluppo del centrismo sia dal prodi­ gioso rafforzamento industriale dell’economia sovietica. Con lo sviluppo dell’economia industriale avrebbe dovuto verificarsi un rafforzamento dei compiti rivoluzionari del proletariato rus­ so; mentre invece si è subito il trionfo della controrivoluzione centrista che si è incorporata nel capitalismo mondiale. Tratte­ remo poi gli aspetti economici, per ora ci basti osservare che il programma di industrializzazione fu ripreso da Stalin dalla piattaforma dell’opposizione e che Trockij nel 1923 aveva pro­ posto lo smantellamento delle « fortezze proletarie » di Mosca e Leningrado per trasferire questi centri industriali in prossimità delle fonti di materie prime: l’utilità economica si sarebbe così affermata a spese della forza e dell’efficienza politica del prole­ tariato. Il meccanismo di ogni rivoluzione è retto da obiettivi di trasformazione sociale che non giungono a una loro espletazione sincrona a livello mondiale, ma al dominio di alcuni Stati fon­ damentali. Le classi dominanti nella rivoluzione potranno trar­ re vantaggio dall’apporto delle classi oppresse dal regime che sta per essere distrutto. Ma l’entusiasmo che per esempio i con­ tadini e i proletari avevano manifestato, dando il loro contribu­ to alla rivoluzione borghese, andò sempre più attenuandosi per poi sparire e trasformarsi in una opposizione irriducibile, nella misura in cui la borghesia abbandonava il proprio ruolo di clas­ se rivoluzionaria per quello di classe progressista, divenendo infine ciò che è attualmente: la forza mondiale della controri­ voluzione. Il proletariato, che è stato il « compagno di strada » nella rivoluzione del 1789, partecipa ancora, nel febbraio 1848, in Francia, e nel corso dello stesso anno in Germania, Austria e Italia ai movimenti diretti della borghesia, ma abbandona que­ sta posizione politica già nel giugno 1848 in Francia e nelle guerre di indipendenza che portarono alla formazione degli Stati capitalisti in Germania e in Italia. In Russia nel 1905, e in un modo ancora più netto nel 1917, il «compagno di strada» compie la propria metamorfosi

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in fattore storico di profonda antitesi al capitalismo e, appli­ cando la «teoria del salto» di Engels, strappa alla borghesia la realizzazione degli obiettivi storici che le erano stati propri. Lo sviluppo ineguale fa sì che il contenuto « borghese » (da un punto di vista economico) della rivoluzione russa, per esempio, dovrà essere realizzato dal proletariato. Questo potrà ap­ profittare del fatto che il capitalismo, in quanto sistema mon­ diale, ha esaurito la sua missione per imprimere alle trasforma­ zioni industriali dell’economia non i principi della proprietà privata, ma i principi opposti della socializzazione dei mezzi di produzione. Solo prendendo come base l’antitesi tra capitalismo mon­ diale e proletariato mondiale potremo comprendere l’Ottobre 1917, la dittatura del proletariato e la sua successiva degenera­ zione centrista; degenerazione che sorge nella misura in cui lo Stato proletario, tenuto prigioniero entro i confini nazionali (come sottolinea Marx contro Lassalle), soppianta l’antitesi di classe con il contrasto Stato proletario-Stati capitalisti. Così si è espresso Marx: « si capisce da sé che per poter, in genere, combattere, la classe operaia ha l’obbligo di organizzarsi nel proprio paese, in casa pro­ pria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il teatro immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista non per il contenuto, ma per la sua « for­ ma ». Ma l’ambito dell’odierno Stato nazionale, per esempio del Reich tedesco, si trova a sua volta, economicamente, nell’ambito del mer­ cato mondiale, politicamente, nell’ambito del sistema degli Stati » (1X).

Lo sviluppo ineguale è anche una forma specifica del capi­ talismo come pure del socialismo (esso sparirà solo nella forma superiore comunista), ma non è la legge dello sviluppo storico. Averlo considerato come una legge ha falsato fin dall’inizio il significato dell’Ottobre 1917, permettendo poi di imbastire la teoria del socialismo in un solo paese, di viziare il programma (n) K. Marx,.Critica al programma di Gotha, Samonà e Savelli, Roma 1972, pp. 41-42.

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stesso delle opposizioni russe e, infine, di impedire oggi la comprensione dell’attuale situazione. La sola spiegazione valida non deve assolutamente essere ricercata nell’azione del proleta­ riato russo, ma nell’azione del proletariato internazionale. I vari raggruppamenti politici che si basano su quel dato per spiegare la degenerazione dello Stato russo, e si limitano all’analisi delle questioni economiche sovietiche, si privano del­ la possibilità di comprendere sia la posizione che occupa lo Sta­ to proletario sia le condizioni di principio a cui esso deve obbe­ dire per far sviluppare la sua funzione rivoluzionaria in una dimensione mondiale. Lo sviluppo ineguale dell’economia, in­ serito in un contesto internazionale, ci permetterà di compren­ dere che la classe operaia spezzerà l’edificio capitalistico laddo­ ve lo stato arretrato dell’economia, togliendo ogni possibilità di manovra alla borghesia, porrà imperativamente il problema del­ la rivoluzione. A Brest abbiamo dunque, in Lenin, due considerazioni. Quella internazionalista fa dipendere l’accettazione delle con­ dizioni dell’imperialismo tedesco dalla situazione che attraver­ sava allora il proletariato di quel paese. L’altra (ripresa poi dai centristi, per le possibilità che apriva allo Stato russo di barca­ menarsi tra l’Intesa e gli Imperi Centrali) fa dipendere la linea di condotta dello Stato russo non dalla posizione occupata dalla classe operaia nei diversi paesi, ma dalla guerra che si facevano gli Stati imperialisti. Queste due concezioni si contrastano radi­ calmente, in quanto una misura l’azione dello Stato in base ai rapporti di forza delle classi a scala internazionale, mentre l’altra misura questi ultimi rapporti in base alla posizione occu­ pata dallo Stato proletario di fronte agli altri Stati capitalisti. Tra il 1917 e il 1921, il cambiamento della situazione e il com­ parire di movimenti rivoluzionari nei differenti paesi configu­ rano lo Stato russo come strumento del proletariato internazio­ nale, offrendo così ai bolscevichi la possibilità di dotare lo Sta­ to della sola arma che possa accompagnare la sua esistenza e la sua evoluzione: l’Internazionale Comunista. È vero che nel 1920 la teoria dell’offensiva rivoluzionaria si presenta nuova­ mente e Lenin dovette, poi, scrivere che nel 1920 lui stesso si

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era sbagliato nel lasciare continuare l’offensiva all’Armata Ros­ sa in Polonia. Su tale problema ci siamo già espressi. Lenin, privo di una precedente esperienza storica, si trovava nell’im­ possibilità di comprendere la situazione in cui doveva agire. Mancava quella sistematizzazione dei principi che, sola, può permettere di comprendere una situazione e questo perché mancava un avvenimento analogo, una precedente esperienza storica: unico laboratorio dove il proletariato può forgiare le sue armi teoriche e politiche. Lenin era pertanto nell’impossi­ bilità di impiegare, come diceva Marx, « le armi della critica », al fine di essere in grado di impiegare «la critica delle armi»; la Comune, nel limitato periodo della sua vita, non aveva potu­ to offrire alcunché riguardo alla gestione della dittatura del pro­ letariato. Nulla è più suggestivo, per sottolineare le condizioni in cui i bolscevichi presero il potere, che ricordare la breve nota premessa da Lenin alla sua magistrale esposizione sullo Stato e la Rivoluzione. « Avevo già preparato il progetto del capitolo seguente, il VII: L’esperienza delle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917. Ma all’infuori del titolo non ho fatto a tempo a scriverne una sola riga » (17).

E più avanti: «Ma la seconda parte dell’opuscolo [...] dovrà probabilmente essere rinviata a molto più tardi; è più piacevole e più utile com­ piere l’esperienza della rivoluzione che scriverne » (13).

Certamente è più utile fare che « scrivere » una rivoluzio­ ne, ma se Lenin ha potuto condurre il proletariato russo all’Ottobre è perché ha potuto comprendere la Comune (d’altra parte Stato e Rivoluzione scaturisce dall’analisi di questa prima espe­ rienza). La condizione per condurre le future rivoluzioni sta proprio nell’analisi, nella comprensione e nella critica della ri­ voluzione russa. (12) Lenin, Stato e rivoluzione, Samonà e Savelli, Roma 1963, pp. 141. P) Ibid., p. 141.

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Tra il 1917 e il 1921 scorgiamo anche, nella politica in­ terna, l’inevitabile brancolare dei bolscevichi che passano dalle tesi iniziali sul controllo dell’industria (tesi che presuppongono la permanenza dei capitalisti sotto il controllo dei soviet), alla violenta espulsione di tutti i rappresentanti delle vecchie classi, nell’industria come nelle campagne, mentre i lavoratori pren­ dono in pugno la gestione di tutta l’economia. Lo stimolo degli avvenimenti stessi guida i boscevichi e li spinge ad abbandona­ re il programma economico iniziale, molto moderato, degli anni 1917 e 1918. Il «comuniSmo di guerra» si instaura per ini­ ziativa delle masse il cui ardore rivoluzionario è d’altronde po­ tentemente stimolato dalla guerra civile. Durante gli anni della guerra civile si verifica ciò che Lenin definisce il proce­ dimento classico di « estinzione dello Stato » e sottolineando l’opposizione con lo Stato borghese oppressore (riprendendo ciò che Engels chiamava i pilastri di questo Stato, esercito e burocrazia) afferma: « Ma se è la maggioranza stessa del popolo a reprimere i suoi oppressori non è più necessaria una ‘forza speciale’ per la repressio­ ne. In questo senso inizia l’estinzione dello Stato. In luogo di istitu­ zioni speciali della minoranza privilegiata (una burocrazia privilegia­ ta, gli ufficiali superiori dell’esercito permanente) la maggioranza stes­ sa può compiere direttamente queste funzioni, e quanto più larga­ mente il popolo si assume l’esecuzione delle funzioni del potere sta­ tale tanto meno questo potere diventa necessario » (14).

Ciò che spicca nel modo più chiaro da questi anni di guer­ ra civile è che la vittoria del proletariato era stata possibile, malgrado lo stato di disorganizzazione in cui versava l’esercito e, in generale, l’apparato statale. Più avanti parleremo della centralizzazione e dei comitati di fabbrica, per il momento ci interessa sottolineare che la situazione più pericolosa, sotto il profilo militare, coincise con la magnifica esplosione delle più grandi risorse della classe operaia. Ciò avvenne mentre il potere statale praticamente non esisteva e, soprattutto, mentre questo (14)

Ibid., pp. 50-51.

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potere, lungi dal separarsi dalle masse, si incorporava con esse e si presentava come uno strumento realmente in loro possesso e da difendere contro un nemico che poteva contare sull’appoggio del capitalismo internazionale e, per questo, enormemente più forte. La guerra civile, in quanto espressione diretta della lotta di classe, si risolse a vantaggio del proletariato che, benché mi­ litarmente di gran lunga inferiore, potè prevalere sul nemico grazie alla posizione che occupava nell’apparato produttivo e, di fatto, nel campo politico. I cattivi panegiristi ci presentano Trockij come il creatore di un’Armata Rossa in grado di riva­ leggiare con gli eserciti borghesi in fatto di saldezza organizza­ tiva, spirito di disciplina ed efficienza dei quadri. Ma, a parte l’errore storico di attribuire la vittoria proletaria alla creazione dell’Armata Rossa, (essa apparve solo verso la fine della guerra civile), il grande merito di Trockij deriva dal fatto che nessuno dei caratteri essenziali degli eserciti borghesi si ritrova nell’or­ ganizzazione militare sovietica che incorpora non solo le masse operaie ma anche i loro obiettivi di classe. I contrasti in Ucrania con Machno, così come poi l’insur­ rezione di Kronstadt, se si conclusero con la vittoria bolscevi­ ca (15 ), sono lontani dal rappresentare i momenti migliori della politica sovietica. Di fatto, nei due casi, assistiamo alla prima manifestazione della sovrapposizione dell’esercito alle masse e al presentarsi di uno di quei caratteri dello Stato « parassitario » di cui Marx parla nella Guerra civile in Francia. Il proce­ dimento secondo il quale basta stabilire gli obiettivi politici di un gruppo avverso per giustificare poi la politica che viene applicata (tu sei anarchico dunque ti schiaccio in nome del comuniSmo), non ha valore se non nella misura in cui il partito giunge a comprendere le ragioni di questi movimenti, qualora possano assumere un indirizzo controrivoluzionario per le ma­ novre nemiche. Una volta stabilite le motivazioni di natura so­ ciale che mettono in movimento strati operai o contadini, bisogna dare una risposta a questo problema in un senso che permetta (15) Cfr. P. Avrich, Kronstad 1921, Mondadori, Milano 1971 e La Comune di Kronstad (le Isvestija e altri documenti), «Crescita Politica», Signa 1971.

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al proletariato di investire ancora più profondamente l’orga­ nismo statale. Le prime vittorie frontali ottenute dai bolscevi­ chi (Machno e Kronstadt) contro gruppi che agivano in seno al proletariato, furono realizzate a spese dell’essenza proletaria dell’organizzazione statale. Assaliti da mille pericoli, i bolscevi­ chi hanno creduto che procedere all’annientamento di questi movimenti fosse una vittoria proletaria, in quanto la loro dire­ zione era nelle mani degli anarchici o perché la borghesia spia­ va l’occasione per lanciare un nuovo attacco contro lo Stato proletario. Non vogliamo affermare che l’atteggiamento bolsce­ vico dovesse per forza essere opposto a quello seguito (su que­ sto argomento ci mancano gli elementi di valutazione), voglia­ mo solo sottolineare la tendenza che emerge e che più tardi si manifesterà apertamente con la dissociazione tra masse e Stato. Stato che sempre di più diventa un organismo sottoposto a leggi che lo allontaneranno dalla funzione rivoluzionaria di Stato proletario. Questa tendenza, così come l’abbiamo indicata, si contrappone a quella che conformò tutta l’attività dello Stato sovietico tra il 1918 e il 1920, quando la formula del Manifesto «l’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stes­ si » si realizzava in avvenimenti in cui l’iniziativa di massa co­ stituiva la vera leva di tutta l’attività sovietica. Per osservare il riflesso degli avvenimenti che finirono per trascinare i bolscevichi stessi, è opportuno constatare come nel 1918 (16) Lenin volesse dare al corso economico una direzione diversa da quella che si manifestò nella realtà. Lenin concepiva una progressiva devoluzione delle funzioni economiche allo Stato, mentre durante i primi anni della rivoluzione avveniva il contrario, furono cioè gli organismi locali ad assumersi la ge­ stione economica. A questo proposito dobbiamo chiarire una questione di primaria importanza, in quanto l’esperienza dei primi anni della rivoluzione russa potrebbe indurre a ritenere normale nella vita di uno Stato proletario la decentralizzazione degli organismi sia economici sia politici. Quindi invece di se(16) Cfr. il capitolo sul capitalismo di Stato nell’Estremismo malattia infantile del comuniSmo.

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guire la via di Lenin, centralizzando le funzioni economiche e politiche, ci si dovrebbe incamminare nella via opposta che porta alla frammentazione di queste attività, poiché così si per­ metterebbe il controllo e la direzione delle masse operaie. La Commissione statale che regge un settore economico dovrebbe pertanto far posto all’assemblea dei Comitati di fabbrica, com­ posti da delegati di questi organismi di base, in cui l’iniziativa operaia si possa dispiegare pienamente. Inoltre, poiché la fab­ brica costituisce una cellula economica, i delegati potranno me­ glio giungere a una gestione industriale veramente proletaria. A questo riguardo Stato e Rivoluzione di Lenin contiene una con­ futazione completa di tutte le tesi dei revisionisti che vogliono far emergere, soprattutto dalla Guerra civile in Francia di Marx, l’idea del decentramento economico. Ma ciò che si deve cogliere agli inizi della rivoluzione russa è la vasta partecipa­ zione della classe operaia e non la forma che questa partecipa­ zione assunse. Bernstein si era appoggiato sulla frase « distruzione del potere centrale » per confondere la lotta di Marx contro il po­ tere borghese con le idee federaliste di Proudhon. Lenin, os­ servando che Engels con il termine Comune non volle assolu­ tamente indicare l’autonomia comunale ma il « sistema di co­ muni », scrive:

« Marx è centralista. E nei passi da noi citati non vi è alcuna rinuncia al centralismo. Solo dei piccolo-borghesi permeati di ‘fede superstiziosa’ nello Stato possono scambiare la distruzione della mac­ china borghese con la distruzione del centralismo » (17). D’altra parte tutta l’opera di Marx ci dimostra che la crescente centralizzazione (che avviene sotto il segno stesso del capitale) costituisce, in definitiva, un argomento a favore della nuova organizzazione comunista contro il potere borghe­ se, divenuto — a causa di questa massiccia concentrazio­ ne produttiva — un freno all’evoluzione economica dal momen-

(17) Lenin, Staio e rivoluzione, cit., p. 62.

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to che questa non corrisponde più al modo di produzione ba­ sato sulla proprietà privata. Il frazionamento della produzione per restituire alle mole­ cole industriali o agrarie la « libertà di gestione » sarebbe un evidente ritorno al passato, in netto contrasto con il programma storico del proletariato. D’altra parte la stessa diversità di bi­ sogni, nelle differenti parti che compongono lo Stato proletario, fa sì che il Comitato di fabbrica locale si trovi nell’impossibili­ tà di cogliere una visione territoriale globale, le cui necessità urtano molto spesso con le necessità particolari e contingenti di una località determinata. La centralizzazione permette di rego­ lare l’insieme della produzione seguendo criteri sia economici sia politici e, a questo fine, la sola organizzazione che può per­ mettere al proletariato o a gruppi di esso di superare una vi­ sione contingente è solo il partito di classe. Il problema della necessità del controllo continuo della classe operaia e della crescente capacità di gestione industriale ed economica da parte degli operai (problema che è, in definitiva, la chiave della rivo­ luzione) può essere risolto solo attraverso il partito e non attra­ verso istituzioni che, lungi dallo spingere in avanti gli operai (i comitati di fabbrica), minacciano di farli ritornare a concezioni localiste e contrastano del resto con ogni necessità di sviluppo tecnico della produzione. L’operaio « comunista » è colui che giunge a situare il problema locale nell’insieme della produzio­ ne e non il contrario. La partecipazione effettiva degli operai alla gestione collet­ tiva non è assolutamente impedita dalla centralizzazione, ma dal carattere borghese di questa centralizzazione. Lenin osserva: « Bernestein, come ogni filisteo immagina il centralismo come qualcosa che si esercita solo dall’alto, che può essere imposto e man­ tenuto solo dalla burocrazia e dal militarismo » (18). Questo centralismo borghese (che d’altra parte ha potuto impiantarsi anche in Russia) non può essere ripreso dal prole­ (18)

Ibid., p. 62.

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tariato, che deve opporsi ad esso non con un ritorno a forme di decentralizzazione economica, spazzate via per sempre dallo sviluppo tecnico, né con misure formali, come il ricorso a rim­ proveri programmatici o statutari contro il burocratismo. Quest’ultimo, in gran parte frutto dell’eterogeneità della struttura sociale ereditata dal capitalismo, può essere contrasta­ to e, battuto solo dall’intervento politico, cioè dalla presenza di organismi proletari rivendicativi. La discussione all’XI Congres­ so (19 ) del Partito russo sulla questione sindacale, in cui V Oppo­ sizione Operaia fu letteralmente schiacciata, ci deve indurre ad affermare che, anche in regime di dittatura proletaria (poiché, come vedremo in seguito, i fenomeni essenziali dell’economia capitalistica restano in piedi — e nel periodo di transizione non potrebbe essere diversamente) il solo vaccino in grado di salva­ guardare lo Stato proletario dall’opportunismo è la possibilità che le masse trovino larghi spazi di intervento per difendere i propri interessi. Lungi dal voler fare, dall’oggi al domani, di tutti gli operai i gerenti dell’economia, lungi dal presentare alle masse progetti puramente demagogici, si dovrà affermare con franchezza che l’operaio in grado di raggiungere la posizione dirigente è quell’operaio che, diventato membro del partito, può — grazie alla sua appartenenza a questa organizzazione — trarre gli elementi essenziali per dirigere lo Stato proletario sul­ la via della rivoluzione mondiale. Ciò non significa assolutamente che l’operaio membro del partito raggiunga una posizio­ ne economica superiore a quella del « senza partito », perché sappiamo tutti che il comunista, preposto al controllo e alla di­ rezione economica e politica, non può essere assimilato ai fun­ zionari di estrazione borghese che amministrano l’economia e ai quali lo Stato proletario è costretto a concedere retribuzioni superiori. Nei confronti delle masse operaie, considerate nella loro globalità, si deve sempre tutelare il diritto di poter difen­ dere i propri interessi. Quando i bolscevichi di fronte a cenni di malcontento proletario, vedendo pretestuosamente il perico­ (19) Sul dibattito al XI Congresso del PCRb cfr. E. H. Carr, La rivoluzione bolscevica 1917-1923, Einaudi, Torino 1964, p. 204 e ss.

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lo di una possibile restaurazione borghese, posero in prescrizio­ ne il diritto di sciopero e ‘militarizzarono’ di fatto i sindacati, privarono lo Stato sovietico dell’unico controllo reale delle masse. Il tipo di centralizzazione che il proletariato deve rivendi­ care si distingue radicalmente dal centralismo capitalista. Que­ st’ultimo si afferma secondo la formula democratica, in defini­ tiva solo una maschera destinata a mettere gli operai nell’im­ possibilità di comprendere la realtà del loro sfruttamento. Il tipo di centralizzazione che il proletariato rivendicherà è quella che lascia in piedi l’organo di lotta proletaria, il sindacato, at­ traverso il quale le masse difenderanno i loro interessi. Eviden­ temente è facile riprendere le copiose citazioni di Marx, Engels e Lenin per mostrare che i nostri maestri vedevano il processo di estinzione dello Stato attraverso una progressiva estensione del suo processo di democratizzazione. Ma abbiamo sottolineato più volte che la parte caduca della loro produzione politica (poiché la nuova situazione storica ha trasformato in controrivo­ luzionarie forze che erano democratiche e progressiste ai tempi dei nostri maestri) non consiste assolutamente nei principi che essi hanno elaborato, ma nelle soluzioni contingenti da essi pre­ conizzate e che appunto devono essere modificate per i cam­ biamenti sopravvenuti nella situazione storica. D’altra parte Lenin stesso nell’Anti-Kautsky ha espresso concetti radicali e, a nostro avviso, perfettamente giusti riguardo alla democrazia, e Marx nella Critica al Programma di Gotha, stando ben attento a non farsi legare le mani, dice che « le rivendicazioni (del pro­ gramma ndr) non contengono nulla di più che la vecchia litania democratica conosciuta da tutti: suffragio universale, legisla­ zione diretta, diritto del popolo, milizia popolare, ecc»(20). Se Marx, così come Engels neWOrigine della famiglia, si è appog­ giato alla democrazia, è perché, «sotto quest’ultima forma sta­ tale della società borghese, verrà combattuta la suprema batta­ glia tra le classi ».

(2°) K. Marx, Critica al programma di Gotha, cit., p. 49.

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Sappiamo molto bene che negli avvenimenti del dopoguer­ ra la democrazia ha rivelato di non essere la condizione per ingaggiare la battaglia suprema, ma l’ultimo bastione attraverso il quale il capitalismo ha potuto mettere in atto la sua manovra per evitare l’attacco rivoluzionario del proletariato. Certamente Marx non poteva prevedere questa situazione, ma nella sfera dei principi ci ha dato ciò che è indispensabile e sufficiente: i concetti di classe che hanno valore in qualsiasi contingenza e per tutto il periodo di transizione verso la società comunista.

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3. LO STATO SOVIETICO

(Parte terza)

Abbiamo visto la legge dello sviluppo ineguale del capita­ lismo e le conclusioni, a nostro avviso arbitrarie, che ne sono state tratte. Non si tratta precisamente di una « legge » ma di una di quelle manifestazioni dell’evoluzione della società divise in classi e quindi non specifica della società capitalista. Anche prima del trionfo borghese i precedenti sistemi economici non erano il risultato di regimi sociali paralleli in tutti i paesi, ma una sintesi di diverse organizzazioni sociali che trovavano la loro comune matrice nel regime che corrispondeva alla fase più avanzata del progresso tecnico produttivo a scala mondiale. L’economia schiavista poteva certo combinarsi con forme resi­ due di economia patriarcale; la società medievale e servile po­ teva combinarsi con persistenti regimi schiavisti e anche patriar­ cali; la società borghese si ricollega a tutte quelle forme eco­ nomiche che l’hanno preceduta. Infine, come Lenin ha messo in evidenza nell’imposta in natura, la prima esperienza di ge­ stione proletaria dell’economia in Russia può apparire non solo nell’ambito di un’economia capitalista che controlla tutto il re­ sto, ma il proletariato stesso ha preso il potere in un contesto sociale che contiene una pluralità di elementi economici e so­ ciali fondamentalmente in contrasto tra di loro: il regime pa­ triarcale dell’economia contadina naturale, la piccola produzio­ ne mercantile, il capitalismo privato, il capitalismo di stato, il socialismo. La legge dell’evoluzione storica resta quella della lotta di classe condizionata, a sua volta, dallo sviluppo della tecnica produttiva: lo sviluppo ineguale è solo un’espressione di quella legge fondamentale. L’inversione tra legge e manifestazione di

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questa legge conduce a due conclusioni politiche opposte, di cui sia l’una sia l’altra ci sembrano contrarie alla dottrina marxista. Secondo gli uni la vittoria del proletariato in Russia troverebbe nella legge dello sviluppo ineguale le condizioni oggettive per l’espansione indefinita del socialismo in URSS. Nessuna oppo­ sizione storica potrebbe sorgere tra la costruzione del sociali­ smo in un solo paese e il persistere del regime borghese negli altri, perché l’ineguaglianza dello sviluppo e la sua legge fareb­ bero sì che l’isola socialista possa crescere in mezzo all’economia capitalista. Secondo gli altri la vittoria proletaria in Russia non sareb­ be, e non potrebbe essere, che una manifestazione accidentale dell’evoluzione storica. Ma questa manifestazione accidentale, frutto della legge dello sviluppo ineguale, doveva sparire in se­ guito e a causa dell’immaturità delle condizioni economiche (mancanza di grande industria), che hanno obbligato lo Stato russo ad abbandonare il programma della rivoluzione mondiale per fargli poi imboccare l’opposta via di graduale restaurazio­ ne dell’zzwczéw regime, sotto la nuova forma di dominio di classe o di casta burocratica. I centristi spingono dunque all’estremo l’idealizzazione dell’ineguaglianza dello sviluppo, mentre per gli altri sarebbe possibile spiegare la rivoluzione russa non se­ condo le leggi fondamentali della lotta di classe a livello mon­ diale, ma in funzione dell’ineguaglianza dello sviluppo; in­ somma in funzione di elementi storici che non sono criteri fondamentali e che spingono all’inevitabile riapparire di conse­ guenze legate a fattori economici arretrati. Ne deriva che una vittoria proletaria, laddove — come in Russia — non esistono le condizioni economiche per il socialismo, è obbligata ad am­ mainare la bandiera proletaria e a ritornare all’economia capi­ talista. Otto Bauer, per primo, commentò le misure economiche decise nel 1921 come una nuova conferma della teoria marxista nel senso dell’impossibilità di realizzare una gestione economi­ ca proletaria in Russia. Ultimamente militanti usciti dalla degenerazione centrista e appartenenti a gruppi della sinistra (gruppi che sono dunque chiamati a ereditare l’esperienza fatta

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dal proletariato mondiale in Russia) si indirizzano verso una criti­ ca dello Stato russo, che ha come punto di partenza la constatazio­ ne dell’inevitabilita dell’evoluzione borghese per uno Stato prole­ tario sorto laddove non esistano condizioni economiche per una gestione socialista della produzione. Non abbiamo assolutamente fatto questo richiamo per concludere che nella misura in cui so­ cialisti e comunisti di sinistra si incontrino sul criterio essen­ ziale della critica, le rispettive conclusioni debbano venire con­ fuse e rigettate a priori. Conosciamo troppo bene per usarlo quel sistema di polemica che consiste nel distruggere un’opi­ nione politica solo perché si ritrova presso i nemici del proleta­ riato. Questo sistema, seppure favorisce un successo immediato, non giunge mai a chiarire il problema. Il proletario che se­ guendo il centrismo dichiara: « ciò è sbagliarto perché ne trae profitto il fascista » o « i socialisti dicono le stesse cose », si tro­ verà nell’impossibilità di comprendere qualsiasi cosa. I centri­ sti, per esempio, hanno facile gioco nella loro opera di imbottimento dei crani quando dicono agli operai che bisogna riget­ tare le posizioni sostenute dalle frazioni di sinistra, perché queste ultime mettono sullo stesso piano lo Stato russo con gli altri Stati capitalisti. Fatta astrazione della falsificazione intro­ dotta nell’esporre le nostre posizioni comuniste (noi parliamo di analogia di funzioni tra Stati capitalisti e Stato proletario degenerato e per nulla di identità di natura tra questi Stati), resta il seguente problema: chi ha messo lo Stato russo sullo stesso piano storico degli Stati capitalisti se non il centrismo? Si tratta pertanto di procedere a un’analisi della realtà attuale e delle ragioni politiche che hanno condotto a questa metamorfo­ si che riduce lo Stato russo al rango di pilastro della controri­ voluzione mondiale, e non dobbiamo assolutamente fingere una indignazione verbale per spaventare gli operai. L’analogia che abbiamo fatto tra la posizione sostenuta da Bauer (a cui si è associata la socialdemocrazia internazionale) e la posizione as­ sunta ultimamente da certi comunisti di sinistra, non ha per noi alcun valore conclusivo: ciò che ci interessa è mostrare come la critica comunista della rivoluzione russa debba imboc-

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care un’altra via per giungere a conclusioni valide per le rivo­ luzioni future. Se restiamo fedeli alle essenziali concezioni internazionaliste nel giudicare una determinata epoca dell’evoluzione stori­ ca e se ci atteniamo alle concezioni della lotta di classe, giun­ geremo a fissare le basi che ci permetteranno di pervenire a conclusioni marxiste. Per quanto riguarda lo sviluppo ineguale, per esempio, abbiamo già spiegato che si tratta di ima mera espressione del processo storico e che lo sviluppo ineguale, che non ha alcun valore definitivo sul terreno dell’evoluzione eco­ nomica, acquisterà parimenti il suo valore reale in funzione di considerazioni politiche e storiche. Il regime sociale analizzato nella sua espressione mondiale vive, si sviluppa e non può esse­ re distrutto che sotto l’azione di fattori mondiali. La Russia, per esempio, definita «l’anello più debole del 1917 », non era tale sotto il profilo economico (poiché questa area era quella che presentava in Europa le condizioni economiche per la mi­ glior difesa del regime borghese), ma lo era per le condizioni storiche in cui avvenivano le profonde trasformazioni economi­ che e sociali che, negli altri paesi, erano state la sostanza delle rivoluzioni borghesi. Da un punto di vista mondiale, questo set­ tore dell’economia capitalista crollò in circostanze storiche che ne facevano l’anello più debole, perché il proletariato era in grado di intervenire in quegli avvenimenti con l’esperienza di circa un secolo di lotta di classe. In Russia il proletariato, lungi dall’essere compagno di strada della borghesia nei suoi moti, divenne una forza storica autonoma che entrò in campo per eliminare la borghesia, per annientarla e per adempiere un ruolo i cui fondamenti non possono essere trovati all’interno della Russia, ma in rapporto alla lotta di classe mondiale. Il « contenuto » borghese o proletario della rivoluzione d’Ottobre non si riconosce nell’espressione qualitativa e politica. Ciò che contrappone contenuto borghese a contenuto proletario non è assolutamente il fatto che la rivoluzione borghese procederà al­ la divisione della terra e all’industrializzazione dell’economia, mentre la rivoluzione proletaria istituirà di colpo, con la socia­

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lizzazione dei mezzi di produzione, un tipo di società in cui i postulati comunisti possano essere immediatamente realizzati. Modifiche analoghe o simili possono essere compiute nei rapporti economici sotto la direzione di classi fondamentalmen­ te opposte. Le trasformazioni economiche che furono operate in Francia, in Inghilterra, ecc. con la formula della proprietà pri­ vata dei mezzi di produzione, possono essere fatte in Russia all’insegna della socializzazione degli strumenti di lavoro. Le due forme giuridiche e sociali (proprietà privata e socializza­ zione) non sono assolutamente condizionate dallo stato econo­ mico del paese determinato, ma dal grado raggiunto dalla tecni­ ca produttiva e dalla fase attraversata dalla lotta di classe a sca­ la mondiale. Inoltre, con la socializzazione dei mezzi di produ­ zione si realizza la primaria condizione per l’economia proleta­ ria, ma non è assolutamente la condizione che basterà a garan­ tirci da una eventuale degenerazione della rivoluzione proleta­ ria. Anche se quest’ultima dovesse vincere in un settore alta­ mente industrializzato, non si realizzerebbero affatto le condi­ zioni per una gestione proletaria dello Stato operaio. Queste condizioni dipendono dalla stessa natura del processo rivolu­ zionario proletario e dagli obiettivi che uno Stato operaio può darsi. All’interno di un determinato paese questo Stato operaio ha grandi compiti da adempiere, ma la sfera della sua azione è al di fuori delle sue frontiere, perché la rivoluzione è solo una manifestazione della vita del proletariato mondiale in vista di una trasformazione internazionale della società. I bolscevichi, con la vittoria dell’Ottobre 1917, ci hanno mostrato che solo sulla base di valutazioni internazionali possiamo dirigere la lot­ ta del proletariato di ogni paese e che la vittoria può realizzarsi anche in un settore fortemente arretrato. Solo restando sulla stessa linea storica potremo proseguire l’opera di Lenin. Do­ vremo solo armare lo Stato proletario di una teoria internazio­ nalista in funzione della quale dovranno essere risolti i pro­ blemi economici della gestione dello Stato e non certo darci lo scopo di realizzare le condizioni sociali del comuniSmo in un solo paese. L’errore che a nostro avviso commettono i comunisti

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di sinistra olandesi, e con loro il compagno Hennaut(21), è quello di mettersi in una direzione sostanzialmente sterile. Il fondamento del marxismo consiste nel riconoscere che le basi di un’economia comunista si possono manifestare solo a livello mondiale e non si possono mai realizzare all’interno delle fron­ tiere di uno Stato proletario. Quest’ultimo potrà intervenire nel campo economico per cambiare ih processo produttivo, ma non per fissare in modo definitivo questo processo su basi comuniste, perché, a questo proposito, le condizioni per rendere possibile una tale economia non possono essere realizzate che a scala in­ ternazionale. Credere possibile di realizzare i compiti econo­ mici del proletariato all’interno di un solo paese significa colpi­ re la teoria marxista alla radice. In questo modo ci incammine­ remmo verso la realizzazione del comuniSmo dando a credere ai lavoratori che, dopo la vittoria sulla borghesia, essi potranno gestire direttamente e dirigere l’economia in un solo paese. Fi­ no alla vittoria mondiale queste condizioni non esisteranno e per portarle a mutarazione si deve subito riconoscere che, al­ l’interno di un solo paese, è impossibile raggiungere sia risulta­ ti definitivi sia lo stesso dominio diretto dei lavoratori sull’eco­ nomia. A parte la realizzazione di obiettivi economici, di enorme importanza (come poi vedremo), il proletariato vincitore ha il compito essenziale di proclamare apertamente che gli è impossibile istituire le basi stesse del comuniSmo e che anzi per giungere a questo risultato — risultato che non gli conferisce un’investitura di natura particolaristica — deve porre lo Stato al servizio della rivoluzione mondiale perché solo da essa pos­ sono germinare le condizioni reali per l’emancipazione dei la­ voratori sia a livello nazionale sia internazionale. Abbiamo già messo in evidenza le caratteristiche storiche che fanno nascere e sviluppare lo Stato per farne lo strumento essenziale del dominio della classe al potere. In rapporto ai particolari interessi della classe proprietaria avremo differenti (21) Cfr. Les classes dans la Russie des Soviets, rapporto del compagno Hennaut per la discussione sulla questione russa in seno alla Lega dei Comunisti Inter­ nazionalisti del Belgio, Bruxelles 1935.

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forme di Stato, ma lo Stato deve la sua natura non agli interessi particolari di una determinata classe, ma allo stadio che attra­ versa la tecnica produttiva ed alle conseguenze che ne risulta­ no: la divisione della società in classi e l’accaparramento dei mezzi di produzione da parte della classe chiamata a dirigere la società. Le ragioni stesse che danno vita alla formazione di una classe daranno ugualmente vita allo Stato. Nella Critica al Programma di Gotha, Marx indica chiaramente ciò che distin­ gue il «periodo di transizione» della società comunista: « In una fase più avanzata della società comunista, dopo la scomparsa della subordinazione asservitrice degli individui alla divi­ sione del lavoro, e quindi anche del contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro è diventato non solo mezzo di vita, ma anche il primo bisogno di vita; dopo che con lo sviluppo completo degli individui sono aumentate anche le loro forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze collettive scorrono in abbondanza — sol­ tanto allora può il ristretto orizzonte giuridico borghese essere oltre­ passato e la società può scrivere sulle sue bandiere: ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni » (22).

Per quanto riguarda la fase di transizione Marx aveva in precedenza scritto nella medesima Critica che la concezione lasalliana della « divisione del prodotto », da un punto di vista storico è sbagliato, perché « all’interno della società collettivista basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro incorporato nei prodotti, appare qui come valore di tali prodotti, come una proprietà reale da loro posseduta, dato che ora, in opposizione alla società capitalistica i lavori individuali non esistono più come componenti del lavoro complessivo in modo indiretto, bensì in modo diretto. Il termine ‘reddito del lavoro’ an­ che oggi è da respingere per la sua ambiguità e inoltre perde così ogni senso » (23).

Il fine della società comunista, anche nalla sua fase transi­ toria, non è quindi quello di procedere alla distribuzione dei i22) K. Marx, Critica al programma di Gotha, cit., pp. 38-39. (23) Ibid., p. 32.

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prodotti, ma quello di stabilire tra società e lavoratori un rap­ porto sociale che non sarà più il risultato della legge del valore. Riservandoci di ritornare in seguito su tale questione, ci limi­ tiamo a citare quanto Marx dice su questo argomento: « Perciò il singolo produttore riceve, dopo le ritenute, esatta­ mente ciò che egli dà alla società. Ciò che egli ha dato alla società è la sua parte di lavoro individuale. Per esempio, la giornata di lavoro sociale è la somma delle ore di lavoro individuale. Il tempo di lavoro individuale del singolo produttore è la parte della giornata di lavoro sociale da lui prestata, la sua partecipazione ad essa. Egli riceve dalla società un documento da cui risulta che egli ha fornito tanto lavoro (dopo la ritenuta del lavoro per i fondi comuni) e con questo docu­ mento ritira dal fondo sociale una quantità di mezzi di consumo cor­ rispondenti al valore del suo lavoro. La stessa quantità di lavoro che egli ha fornito alla società in una forma, la riceve come corrispettivo in un’altra » (24).

Abbiamo ampiamente riprodotto questi passi di Marx per dimostrare che le condizioni oggettive, che permettono di rag­ giungere la società comunista, si realizzeranno solo quando lo sviluppo della produzione avrà raggiunto un grado tale che non solo sarà sparita l’inevitabilità della divisione della società in classi, ma ugualmente l’inevitabilità delle differenziazioni sala­ riali tra tutti i lavoratori. Marx mette bene in evidenza che il produttore riceve in proporzione non al suo lavoro individuale, ma in proporzione al lavoro nella sua espressione sociale. Ciò significa, per esempio, che un operaio specializzato riceverà più di un manovale per un uguale tempo di lavoro e Marx precisa che « l’uguale diritto resta sempre contenuto entro limiti bor­ ghesi », che « l’uguale diritto continua ad essere — secondo il principio — il diritto borghese». D’altra parte Lenin in Stato e Rivoluzione, trattando lo stesso problema, dirà che durante il comuniSmo (la fase di transizione ndr) perdura per un certo tempo non solo il diritto borghese, ma anche lo Stato borghese senza borghesia. Infine Engels nella sua lettera a Bebel del 18 (») Ibid., p. 37.

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marzo 1875, beffa i lasalliani e gli anarchici per la loro espres­ sione « Stato popolare » e sottolinea che « finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell’interesse della libertà, ma nell’interesse dell’assoggettamento dei suoi av­ versari, e quando diventa possibile parlare di libertà allora lo Stato come tale cessa di esistere »(25 ). Nella fase di transizione il proletariato non può organizza­ re la società comunista le cui basi dipendono non dalla sua vo­ lontà, ma dalle condizioni della tecnica produttiva e dai fattori mondiali. Per meglio comprendere il ruolo dello Stato nel corso del periodo di transizione bisogna considerare le ragioni che hanno dato vita alle classi così come allo Stato. Né&'Antidhuring Engels scrive: « La divisione della società tra una classe sfuttatrice e una classe sfruttata, tra una classe dominante e una classe oppressa, è sta­ ta la necessaria conseguenza del debole sviluppo della produzione nel passato. Finché il lavoro complessivo della società non fornisce che un prodotto che supera di molto poco ciò che è strettamente neces­ sario all’esistenza di tutti, finché il lavoro occupa tutto o quasi tutto il tempo della grande maggioranza dei membri della società, quella società è per forza divisa in classi » (26).

È vero che poi Engels afferma:

« L’appropriazione dei mezzi di produzione e dei prodotti, e in tal modo la sovranità politica, del monopolio dell’educazione e della direzione spirituale, da parte di una determinata classe della società è diventata non solo una cosa superflua, ma da un punto di vista eco­ nomico, politico e intellettuale un intralcio all’evoluzione. Questo punto è oggi raggiunto » (27). Ma Engels qui parla di intralci, e niente affatto di una realizza­ zione delle premesse della società comunista già ottenuta. Ciò non è assolutamente contraddetto dall’altro passo in cui dice: f25) La lettera di Engels è riportata in Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 75. C26) F. Engels, Antidiihring, Ed. Riuniti, Roma 1971, p. 300. (27) Ibid., pp. 300-301.

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« La possibilità di assicurare, per mezzo della produzione socia­ le, a tutti i membri della collettività una esistenza che non solo sia completamente sufficiente dal punto di vista materiale e diventi ogni giorno più ricca, ma che garantisca loro lo sviluppo e l’esercizio com­ pletamente liberi delle loro facoltà fisiche e spirituali: questa possi­ bilità esiste ora per la prima volta, ma esiste » (28). Ciò che Engels considera sono sempre gli intralci che il regime capitalista oppone all’espansione produttiva. Ciò è co­ munque provato dalla nota in cui riporta la statistica sulla per­ dita economica derivante dalle crisi (29). D’altra parte, in quel­ lo stesso capitolo, Engels spiega la transitoria necessità dello Stato che, in contrasto con l’ideologia anarchica, non viene « abolito », ma « si estingue » nella misura in cui si presentano le condizioni nelle quali « al governo delle persone si sostituisce l’amministrazione delle cose e la direzione del processo produt­ tivo ». Lo Stato trova così la sua origine storica nelle stesse cause che determinano la divisione della società in classi e la forma­ zione delle classi sfruttatrici. Il proletariato è costretto a ricorrere allo Stato poiché la sua vittoria sul capitale non coincide con uno sviluppo tanto alto della produzione da rendere possibile la libera soddisfazio­ ne dei bisogni. Da questo contrasto tra le condizioni economi­ che che il proletariato trova, deriva la necessità del periodo di transizione. Bisogna osservare che la dittatura del proletariato eredita una situazione economica sconvolta dalle immense di­ struzioni di ricchezze causate dalle crisi cicliche e dalle guerre. Nel corso di questo periodo di transizione il grande cambia­ mento che si verifica rispetto al precedente regime borghese sta nel fatto che nessun intralcio verrà più opposto allo sviluppo della tecnica produttiva. Ma ciò non comporta ancora un cam­ biamento nella struttura del meccanismo economico. Nel Capi­ tale Marx ci ha dato una completa spiegazione del funziona­

ci) Ibid., p. 301. (») Ibid., p. 301.

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mento dell’economia capitalista e, soprattutto, ci ha spiegato che non è la classe capitalista a forgiare a immagine dei propri interessi la struttura economica e sociale, ma è invece quest’ultima che dà vita alla borghesia e al suo dominio. Inoltre in tutta la sua opera Marx ci insegna che si deve astrarre sempre dalla posizione e dagli interessi del capitalismo considerati individual­ mente e che bisogna costantemente considerare la società capi­ talista nel suo insieme. Infine non sono più le frontiere statali di un determinato paese a regolare la sua evoluzione sociale, ma quest’ultima deve il suo funzionamento alle leggi storiche che reggono l’economia internazionale. La pluralità di formazioni economiche, lungi dall’essere un ostacolo alla costruzione di un’economia capitalista mondiale, rappresenta una delle con­ dizioni per il funzionamento globale del sistema. Nel meccanismo produttivo ritroviamo le leggi che reggo­ no l’insieme del processo economico. Così la natura stessa di «merce» dei prodotti dell’economia capitalista si manifesta nello scambio, ma essa nasce dalla sfera della produzione. Nel­ l’economia sovietica attuale il mercato non può essere assolu­ tamente paragonato a quello dei paesi capitalisti. Ma ciò non assume un valore tale da indurci a concludere che le leggi es­ senziali dell’economia capitalista mondiale non si manifestino anche in Russia. Se al contrario constatiamo che in Russia il meccanismo produttivo è basato su leggi analoghe a quelle che reggono l’economia borghese, dovremo concludere che le fron­ tiere geografiche (anche se sono difese da una possente Armata Rossa!) non hanno permesso a questo Stato di salvaguardare le proprie caratteristiche proletarie. Il meccanismo che genera il plusvalore si basa sul lavoro non pagato e ciò dà luogo all’accumulazione capitalistica; ac­ cumulazione che si farà sempre, evidentemente, neW.'interesse degli operai che, secondo i moralisti borghesi, sarebbero in­ fine chiamati a beneficiare dei vantaggi della crescente industria­ lizzazione. Marx diceva:

« Risparmiate, risparmiate, ossia riconvertite in capitale la mag­ gior parte possibile di plusvalore, cioè di plusprodotto! Accumula­

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zione per l’accumulazione, produzione per la produzione: in questa formula l’economia classica ha espresso la missione storica del pe­ riodo borghese » (30).

E riguardo al rapporto che si istituisce nell’economia capitalista tra saggio dei salari e saggio dell’accumulazione:

« Il rapporto fra capitale, accumulazione e saggio del salario, non è che il rapporto fra lavoro non pagato convertito in capitale e lavoro addizionale necessario per il movimento del capitale addizio­ nale. Non è quindi affatto un rapporto fra due grandezze reciproca­ mente indipendenti, da un lato grandezza del capitale e dall’altro nu­ mero della popolazione lavoratrice; non è, in ultima istanza, che il rapporto fra lavoro non pagato e lavoro pagato della medesima popo­ lazione lavoratrice » (31). Se il proletariato non è in grado di istituire di colpo la società comunista dopo la vittoria sulla borghesia, se dunque continua a sussistere la legge del valore (e non potrebbe essere altrimenti), tuttavia c’è una condizione essenziale che esso do­ vrà assolvere per orientare il suo Stato non verso l’incorpora­ zione nel resto del mondo capitalista, ma nella direzione oppo­ sta della vittoria proletaria a scala mondiale. Alla formula che rappresenta la chiave dell’economia borghese e che dà il saggio di plusvalore (pl/v, cioè il rapporto tra il lavoro complessivo non pagato e il lavoro pagato) il proletariato non è in condizio­ ne — a causa dell’insufficiente espansione produttiva — di contrapporre quell’altra formula che supera i limiti nella sod­ disfazione dei bisogni dei produttori e, di conseguenza, fa spari­ re sia il plusvalore sia la stessa espressione del pagamento del lavoro. Ma se la borghesia stabilisce la sua Bibbia nella necessi­ tà di una crescita continua del plusvalore al fine di convertirlo in capitale, nell’interesse comune di tutte le classi (sic), al con­ trario il proletariato deve dirigersi verso una diminuzione co­ stante del lavoro non pagato. Come conseguenza inevitabile ciò

(M) K. Marx, Il Capitale, cit., p. 760. (31) Ibid., p. 790.

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comporta un ritmo di accumulazione estremamente rallentato rispetto all’economia capitalista. Per quanto riguarda la Russia, è noto, la norma seguita è stata proprio quella di procedere a un’intensa accumulazione in vista di una migliore difesa dello Stato, che viene presentato come se fosse minacciato in permanenza dall’intervento militare degli Stati capitalisti. Si doveva armare questo Stato di una possente industria pesante per metterlo in condizione di servire la rivoluzione mondiale. Il lavoro non pagato riceveva dunque una consacrazione rivoluzionaria. Inoltre, nella stessa struttura dell’economia russa, il prevalere delle posizioni socialiste nei confronti del settore privato si manifestava con un’intensifica­ zione sempre crescente dell’accumulazione. Quest’ultima, così come Marx ci ha dimostrato, dipende solo dal saggio di sfrut­ tamento della classe operaia, ed è, in definitiva, grazie al lavoro non pagato che la potenza economica, politica e militare russa ha potuto crescere. Solo perché lo stesso meccanismo dell’ac­ cumulazione capitalista ha continuato a funzionare si sono po­ tuti ottenere giganteschi risultati economici. Ma ciò al prezzo di una conversione graduale dello Stato russo che ha raggiunto infine gli altri Stati capitalisti, precipitando nel girone infernale di inevitabili guerre. Lo Stato proletario per restare nelle mani della classe operaia non dovrà quindi assolutamente far dipen­ dere il saggio di accumulazione dal saggio dei salari, ma da ciò che Marx chiamava « la forza produttrice della società », con­ vertendo poi in diretti miglioramenti per la classe operaia — un immediato aumento dei salari — ogni aumento della produttivi­ tà del lavoro. La gestione proletaria si riconosce dunque nella diminuzione del plusvalore assoluto e nella conversione presso­ ché integrale del plusvalore relativo in salari pagati agli operai. Da ciò evidentemente consegue il fatto che lo Stato operaio si trovi in condizioni industriali e militari sempre inferiori a quel­ le degli Stati capitalisti. La questione assume ora tutto il suo valore di principio e si pone nei termini seguenti: chi potrà costruire la società comunista, il proletariato internazionale o il proletariato di un solo paese? Chi d’altra parte può impedire la vittoria del capitalismo sullo Stato proletario: la classe operaia

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internazionale o il proletariato che ha vinto in un dato paese? Avendo già trattato il problema non vi insisteremo. Vogliamo solo osservare che l’economia proletaria non smette di produrre effetti nel circuito dell’economia mondiale, tanto che nel maggio 1921 Lenin scriveva: « Oggi è soprattutto grazie alla nostra politica economica che noi operiamo verso la rivoluzione mondiale. In questo campo la lot­ ta è stata portata nell’arena mondiale. Risolto questo problema, noi vinceremo a scala mondiale, sicuramente e definitivamente » (32).

Evidentemente questa citazione serve ai centristi per ac­ creditare le loro manovre controrivoluzionarie con il sigillo di Lenin, ma questa non è una novità. Gli esecutori testamentari dei capi rivoluzionari sono sempre esecutori criminali della po­ litica rivoluzionaria che i nostri maestri lasciano in legato al proletariato rivoluzionario. Nello stato attuale della divisione internazionale del lavoro l’effetto di un’economia proletaria non può fare a meno di avere delle ripercussioni. È fuor di dub­ bio che l’attuale Stato degenerato, basando il ritmo della sua accumulazione sull’abbassamento dei salari, agisce nel senso di un rafforzamento del meccanismo produttivo capitalista nella sua dimensione mondiale. Al contrario, una costante devoluzio­ ne di plusvalore alla classe operaia turba il meccanismo interno dell’economia capitalistica internazionale, realizzando in tal modo, sotto un profilo economico, una condizione per inserire lo Stato proletario nel movimento rivoluzionario del proletaria­ to intemazionale. È evidente che si tratta solo di una sempli­ ce condizione, in quanto l’essenza dell’azione proletaria può affermarsi e svilupparsi solo in seno all’organismo specifico del­ la rivoluzione mondiale: l’Internazionale proletaria. Nel Compendio di Economia politica di Lapidus o Ostroviatinov, che è certamente consacrato alla giustificazione teorica del socialismo in un solo paese, leggiamo questa citazione di Marx: (32)

Cfr. Lenin, Opere, v. XXXII, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 414.

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« Riconduciamo il salario alla sua base generale, cioè alla parte del prodotto del lavoro individuale che è consumata dall’operaio; li­ beriamo questa parte dalle limitazioni capitalistiche e allarghiamo il consumo fino ai limiti posti dalla forza produttrice della società e richiesti dal completo sviluppo della personalità; riduciamo il lavoro supplementare ed il prodotto supplementare alle proporzioni necessa­ rie nello stato attuale della produzione, all’incessante allargamento della produzione in conformità ai bisogni della società; infine aggiun­ giamo al lavoro necessario e al lavoro supplementare la quantità di lavoro che i membri validi della società devono dedicare ai suoi membri non validi. Nel corso di tutte queste operazioni, eliminiamo realmente i caratteri specificamente capitalistici del salario, del plusva­ lore, del lavoro necessario e del lavoro supplementare e non siamo più in presenza di quelle forme, ma della base su cui esse apparirono e che è comune a tutti i modi di produzione » (33).

Il commento che segue a questa citazione ci offre un significati­ vo esempio della maniere di far dire ai nostri maestri il contra­ rio di ciò che hanno scritto. Gli autori del Compendio comin­ ciano affermando che « nell’industria statizzata dell’URSS, co­ me nella società socialista, ‘i mezzi di produzione dell’operaio così come il suo prodotto non si oppongono sotto forma di capi­ tale ai suoi mezzi di sussistenza’. (Marx) » (34). Il processo di riproduzione nell’industria statizzata sovieti­ ca non ha quindi una funzione capitalistica e non si riduce, non diversamente che nella società socialista, all’accumulazione del capitale. Marx però non aveva parlato dell’espressione sociale che può sorgere dal meccanismo produttivo ma, come vedremo, aveva parlato di questo stesso processo ogni volta che l’accumulazione invece di basarsi sulla « forza produttrice della società» si basa sulla necessità dell’accumulazione per battere la potenza economica e militare degli Stati capitalisti. Ed è evidente che il contrasto tra la forma capitalista e i mezzi di sussistenza si ma­ nifesterà anche se la classe capitalista non è al potere. Gli auto­ ri del Compendio seguono sempre quello schema e affermano (33) I. Lapidus-K. Ostroviatinov, Précis d’économie politique, Bureau de Editions, Paris 1929. P) Ibid.

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che una volta abolita la manifestazione sociale capitalista del meccanismo economico, quest’ultimo evolve nella direzione pro­ letaria ogni volta che esso comporta l’estensione dell’economia statale a scapito del settore privato. Così, per esempio, scri­ vono:

« Le categorie come capitale e plusvalore non fanno che espri­ mere, da un lato, il monopolio capitalistico dei mezzi di produzione nella società capitalista, e, dall’altro, la vendita da parte degli operai della loro forza lavoro. Se vengono meno questi due elementi, senza dubbio non ci sarà profitto nel senso in cui lo intendiamo, cioè nel senso di plusvalore creato dagli operai e di cui il capitalista si appro­ pria » (35). Marx però quando parla di capitale e di plusvalore non ne par­ la come semplici espressioni sociali e giuridiche, ma in quanto categorie economiche. Se, per esempio, in Russia il capitale si accresce a un ritmo che non corrisponde alla progressione della capacità produttiva della società, ma secondo la legge dell’ac­ cumulazione capitalista, avremo allora una manifestazione squi­ sitamente capitalista anche senza capitalismo. Da un punto di vista economico avremo pertanto una premessa che gradual­ mente ci allontanerà dai caratteri proletari dell’economia. Marx, e si deve insistere su questo, parla del cambiamento del proces­ so produttivo per giungere a conclusioni sociali, e mai di cam­ biamenti sociali che non toccano la propria struttura economi­ ca. Sulla questione dell’industria statale (che i nostri autori glo­ rificano fino all’impossibile, traendo profitto dall’espressione di Lenin sul « capitalismo di Stato, socialismo conseguente ») En­ gels ha già scritto pagine definitive, quando afferma che il socia­ lismo non ha nulla a che vedere con la statizzazione di settori economici sviluppata da Bismarck in Prussia. Per Engels si trat­ tava della realizzazione di una condizione per la gestione del socialismo (la centralizzazione economica), ma l’essenziale re­ stava sempre la modificazione della struttura del processo eco­ nomico, cioè la continua diminuzione della parte di lavoro (35) Ibid., p. 156.

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non pagato destinato all’accumulazione. In seno al regime capi­ talista lo stimolo all’accumulazione è dato dalla concorrenza, e per quanto riguarda l’economia russa, questo stimolo non ha fatto altro che trasferirsi nella concorrenza tra lo Stato russo e gli altri Stati. D’altra parte nel libro citato, constatiamo l’imba­ razzo dei nostri autori quando trattano la legge fondamentale dell’economia, cioè la legge del valore.

« Se ci venisse domandato che cos’è — socialista o capitalista? — diremo che non può essere qualificata né socialista né capitalista, perché la sua originalità proviene precisamente dal suo carattere di transizione dal capitalismo al socialismo. Dovremmo rispondere lo stesso a chi ci domandasse se la legge del valore continua ad eserci­ tare i suoi effetti in URSS, o se essa è stata completamente eliminata da un cosciente controllo. L’una o l’altra? È impossibile dire “l’una o l’altra”, perché né l’una né l’altra sarebbe vera. La realtà è che noi stiamo compiendo un processo di transizione dall’una all’altra. La legge del valore non è ancora caduta in disuso, essa continua a esse­ re operante in URSS, ma essa agisce sotto una forma diversa rispetto al regime capitalista, perché subisce un processo di deperimento che deve mutarla in una legge di difesa del lavoro della società sociali­ sta » (3e).

Le code di operai davanti ai negozi alimentari, sorvolati dalle favolose squadriglie di « Maxime Gorki », mentre si mol­ tiplicano gli ersatz in campo industriale e militare, sono la sfer­ zante risposta alla prospettiva del deperimento della legge del valore. L’opposizione tra Capitale e Lavoro, alla base dell’attuale economia, si può manifestare in un paese, anche se la sua espressione sociale non si personifica in una classe capitalista che abbia istituito un regime sociale fondato sulla proprietà privata. Non è l’appropriazione dei mezzi di lavoro e del prodotto che determina i fenomeni dell’economia capitalista; liberare quest’ultima (per mezzo della socializzazione dei mezzi di produ­ zione) dai limiti costituiti dalla proprietà privata capitalista non significa affatto aver istituito la produzione socialista. Questa (36) Ibid., p. 147.

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può nascere solo da un cambiamento nella struttura interna del­ l’economia e non da cambiamenti nella sfera dei meri rapporti sociali. Ciò che deve essere cambiato è il modo di produzione che non dovrà più obbedire alle leggi dell’aumento crescente di sopralavoro, ma alle leggi opposte di un miglioramento costante e continuo delle condizioni di vita dei lavoratori. La duplice natura dello Stato mette il proletariato di fronte al pericolo di vedere il proprio organismo perdere progressiva­ mente la sua funzione e inserirsi nel sistema economico mondia­ le. Lo Stato è sia uno strumento che trova la sua ragione d’esse­ re nell’insufficienza produttiva rispetto ai bisogni dei produttori (circostanza storica che accompagnerà tutta la rivoluzione pro­ letaria) sia, per la sua stessa natura, un organismo destinato a difendere la supremazia di una classe sfruttatrice che ne utiliz­ zerà gli ingranaggi per installarvi una burocrazia, che si lascerà poi progressivamente guadagnare alla causa della classe nemica. Il ruolo che attualmente svolge lo Stato sovietico nel pre­ parare le condizioni politiche per la guerra, prova che lo Stato proletario degenerato diventa un anello utile e indispensabile alla politica del capitalismo mondiale. Riguardo all’esperienza russa sono possibili due conclusioni: o dire che esiste storica­ mente uno scarto insuperabile tra la massa e i bisogni, e quindi cadere in posizioni nichiliste che non portano ad alcun risulta­ to, o trarre da questa esperienza degli elementi che possano permettere la difesa delle future rivoluzioni. A nostro avviso questi elementi consistono in una modifica radicale della strut­ tura produttiva, modifica che non può essere affidata alle buone intenzioni o alle affermazioni programmatiche dei comunisti, ma deve essere affidata, da un lato, al mantenimento all’interno dello Stato proletario di tutte le organizzazioni di lotta della classe operaia e, dall’altro, all’Internazionale proletaria che riu­ nendo la classe operaia mondiale controlli e diriga lo Stato operaio, considerato solo come strumento della lotta rivoluzio­ naria e mai e poi mai come polo di concentrazione della rivolu­ zione mondiale. Le considerazioni che precedono permettono di precisare la nostra posizione sulla Nep. L’imposta in natura di Lenin e le

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discussioni che seguirono ci hanno abituato a contrapporre la Nep al comuniSmo di guerra, come se l’una o l’altra di queste due forme di gestione economica dello Stato proletario potesse­ ro essere elevate a principi definitivi. Di fatto, si tratta di due soluzioni sopraggiunte in differenti momenti della lotta proleta­ ria mondiale e dipendenti da circostanze storiche specifiche. Ciò che ci interessa sono i criteri teorici che sono serviti da base alle due soluzioni economiche e politiche. Hanno un complessi­ vo valore di principio i concetti di base e non la particolarità delle circostanze storiche. Col comuniSmo di guerra, come ha sottolineato il compa­ gno Hennaut nel suo studio, non assistiamo a una connessione degli avvenimenti economici con un piano prestabilito dagli or­ gani del partito e dello Stato Sovietico. Al contrario, le direttive degli organi centrali non hanno fatto che consacrare un’evolu­ zione che si era già manifestata nei fatti, e molto spesso questa evoluzione non corrispondeva alle direttive precedentemente abbozzate. Abbiamo già sottolineato come questa indecisione degli organi dirigenti bolscevichi derivasse dalla situazione del dopoguerra, nel corso della quale Lenin stesso si trovava nel­ l’impossibilità di rapportarsi a un precedente storico che potes­ se servire da « laboratorio teorico » per stabilire la politica del proletariato al potere. Il comuniSmo di guerra, per le stesse condizioni in cui si manifesta, rappresenta qualcosa di più che un’esperienza di gestione economica: una manifestazione — nel campo economico — della guerra civile condotta dal proletaria­ to contro tutti gli aspetti della controrivoluzione. Quando la classe operaia deve stare costantemente in guardia contro il pressante attacco nemico, lo Stato interviene come forza di centralizzazione delle lotte proletarie e non come organo di di­ rezione dei movimenti del proletariato nell’ordine economico e politico. La genesi del comuniSmo di guerra dipende dalle stesse condizioni d’arretratezza dell’economia russa, ma la sua legge interna ha un valore molto più importante, valore di cui si deve tenere conto per elaborare la teoria dello Stato proletario. Cer­ tamente, in un altro paese, industrialmente più sviluppato della Russia, la lotta proletaria si svilupperà in forme che non cono­

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sceranno la dispersione caotica di iniziative operaie, ma la loro concentrazione cosciente attorno agli organi centrali del partito e dello Stato. Poiché la vittoria proletaria in un paese è un mo­ mento dello slancio rivoluzionario del proletariato di tutti i paesi, ciò che ha valore generale è il fatto che lo Stato proleta­ rio non deve procedere a una riorganizzazione che si dia come obiettivo il rendimento economico, ma deve porsi piuttosto l’o­ biettivo di dare la più grande ampiezza possibile alla guerra ci­ vile. Se lo Stato proletario ubbidisse al primo dei due criteri indicati sarebbe costretto a stringere compromessi con la classe nemica, mentre la necessità rivoluzionarie reclamano impe­ riosamente una lotta senza quartiere contro tutte le formazioni antiproletarie, anche a rischio d’aggravare la disorganizzazione economica conseguente alla rivoluzione. La Nep appare in tutt’altra situazione storica, cioè quando, a causa del riflusso della prima ondata rivoluzionaria mondiale (e ciò per la mancanza di partiti capaci di guidare il proletaria­ to alla vittoria), si attenuano provvisoriamente le condizioni che consentono allo Stato proletario di intervenire direttamente nel­ la lotta del proletariato mondiale. Abbiamo detto si attenuano « provvisoriamente le condizioni » perché — secondo noi — lo Stato proletario è concepibile solo in una situazione storica che lo ponga come asse della lotta del proletariato mondiale per la conquista del potere. Dunque si tratta di un momento particola­ re della lotta mondiale, in cui si manifesta uno scarto tra la po­ sizione di ripiego del proletariato nei paesi capitalisti e il man­ tenimento della conquista dello Stato in un determinato paese. In questo intervallo l’interdipendenza tra le lotte operaie nei vari paesi e la politica dello Stato operaio non viene meno. L’esperienza ci prova che le basi storiche dello Stato proletario non risiedono assolutamente nelle particolari condizioni della Russia (anzi in base a questo parametro, proprio per lo stato arretrato dell’economia di questo paese, si dovrebbe affermare che non c’era alcun fondamento per lo Stato proletario), ma nella situazione politica mondiale e nella posizione assunta dal proletariato degli altri paesi nella lotta per la conquista del po­ tere. D’altra parte gli avvenimenti del 1923 in Germania e quel­

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li che seguirono poi in Inghilterra e soprattutto in Cina dimo­ strarono che lo Stato proletario doveva la sua esistenza non alle condizioni interne della Russia, ma alla posizione che deteneva il proletariato internazionale. Il problema sta nel vedere se l’in­ tervento dello Stato nella lotta di classe avverrà in direzione della vittoria della classe operaia, o se esso invece si presterà a fornire al nemico condizioni di scontro favorevoli per lottare sia contro il proletariato dei paesi capitalisti sia contro il pro­ letariato vincitore. È su questo piano che dobbiamo conside­ rare la Nep. Lo stesso problema della riorganizzazione eco­ nomica, a cui il proletariato russo si doveva consacrare do­ po la guerra imperialista e dopo la guerra civile, non può es­ sere considerato « in sé », ma in funzione della lotta inter­ nazionale. Con l’imposta in natura è chiaro che Lenin ha cre­ duto possibile stabilire un piano di ricostruzione per l’econo­ mia russa senza prendere in considerazione, nello stesso pro­ cesso di questa riorganizzazione, le reazioni che ne sarebbero derivate per la lotta di classe internazionale. Lenin considerava possibile procedere a questa costruzione economica per dotare il proletariato mondiale di uno Stato in grado di affrontare la lotta per la rivoluzione mondiale. Ma se le condizioni di svilup­ po di questo Stato sono sbagliate, inevitabilmente ne risulta una alterazione della funzione che questo stesso Stato esercita nel corso del processo di ricostruzione economica. Sotto un profilo economico, le tesi essenziali sostenute da Lenin con l’imposta in natura ancora oggi ci sembrano assolu­ tamente valide da un punto di vista marxista. Consideriamo fondamentalmente sbagliata la teoria del socialismo in un solo paese. Pensiamo infatti che la gestione economica dello Stato proletario debba tener conto dell’impossibilità in cui versa la classe operaia di un solo paese ai fini della realizzazione dei fondamenti del socialismo e comprendiamo la necessità di tol­ lerare, all’interno dei propri confini, espressioni sociali corri­ spondenti alle formazioni economiche preesistenti, in quanto non sono ancora maturate le condizioni oggettive per una ge­ stione socialista. Ma Lenin considera che lo Stato e la sua in­

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dustria possano rappresentare il polo di concentramento dell’eco­ nomia socialista. « Per chiarire ancora meglio la questione, citiamo innanzitutto un esempio più concreto di capitalismo di Stato. A tutti è noto quale sia questo esempio: la Germania. Qui abbiamo 1’“ultima parola” della tecnica moderna nella grande industria capitalistica e nell’orga­ nizzazione pianificata, sottomessa all’imperialismo borghese e junker. Omettete le parole sottolineate, mettete in luogo dello Stato degli Junker, militare, borghese, imperialista, uno Stato che è anch’esso uno Stato, ma uno Stato di un altro tipo sociale, con un altro con­ tenuto di classe, lo Stato sovietico, cioè proletario, e voi otterrete tutte le condizioni che, sommate, danno il socialismo » (3T). Ci siamo già espressi a proposito della soppressione delle parole sottolineate. Lo Stato non cambia cambiandone l’insegna e neppure cambia per semplici modifiche in campo sociale e giuridico (socializzazione dei mezzi di produzione), ma lo Stato cambia se un cambiamento è intervenuto nello stesso processo di produzione, in cui la legge dell’accumulazione avrà lascia­ to posto alla legge del costante elevamento del capitale variabile a scapito del plusvalore, cioè del continuo miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia. La reticenza di Lenin a questo proposito doveva poi permettere a Bucharin prima e ai centristi dopo di confonderla nella colossale falsificazione delle sue posizioni teoriche. Evidentemente Lenin non ha nulla a che vedere con quella teoria che si può sintetizzare con la formula: dal momento che non esiste più la proprietà privata e che per mezzo della socializzazione dei mezzi di produzione è stata rea­ lizzata la condizione marxista (?), lo Stato può allearsi con le Trade-Unions inglesi, con il Kuomintang cinese, con il capita­ lismo francese e può partecipare alla guerra imperialista. Ogni suo atto porterà necessariamente l’impronta proletaria e gli ope­ rai non lotteranno più per la politica riformista, per CiangKai-shek, per l’imperialismo, ma sempre per il comuniSmo, per­ ché lo Stato russo ha compiuto il miracolo di cambiare la natura di (37) Lenin, Ancora sull’imposta in natura, in La costruzione del socialismo, Ed. Riuniti, Roma 1972, pp. 138-139.

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tutti i nemici del proletariato. Di fatto è lo Stato che cambia direzione e si lascia travolgere dal nemico. Se le posizioni centrali contenute nello scritto di Lenin ci sembrano marxiste per quanto riguarda l’inevitabile riapparire di strati e classi antiproletarie, non è assolutamente lo stesso per quanto riguarda la direzione che Lenin crede di poter imprimere al nuovo corso economico e politico. In assenza del proletariato mondiale Lenin stima di poter fare appello alla collaborazione delle classi nemiche, in vista di costruire i fondamenti dell’eco­ nomia socialista. È vero che nel 1921 Lenin non pone ancora la possibilità di costruire il socialismo in Russia, ma è anche vero che, in seguito, ne parla apertamente. Il capitalismo e le altre formazioni avverse possono non essere state liquidate dal­ la vittoria proletaria e lo Stato può dunque trovarsi nella neces­ sità di tollerarle, ma esse mai potranno sostituirsi al proletariato degli altri paesi. La classe operaia le deve considerare come una diretta emanazione del capitalismo mondiale e mai quali possi­ bili ausiliari nell’opera di costruzione di un’economia socialista. Gli avvenimenti hanno visto simultaneità tra l’introduzione del­ la Nep e l’ingresso dello Stato russo nel fronte di lotta interimperialista. Si tratta dunque di stabilire se questa simultaneità dipende da circostanze occasionali o se c’è una relazione di ne­ cessaria interdipendenza. Tratteremo questo problema, come quello concernente la dittatura del partito comunista, nelle ul­ time parti del nostro studio sullo Stato sovietico.

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4. LO STATO PROLETARIO

(Parte quarta}

Nella parte precedente abbiamo voluto sottolineare la ne­ cessità di realizzare condizioni economiche prioritarie. Infatti senza di esse la completa evoluzione dello Stato proletario re­ sterebbe viziata alle sue stesse fondamenta e si verificherebbe la progressiva deformazione dello Stato anche se, sia nell’ordina­ mento economico sia in quello politico, permangono le funzioni monopolistiche delle specifiche forme di potere proletario. L’e­ sperienza ci dimostra che il capovolgimento delle funzioni poli­ tiche dello Stato russo nel campo della lotta operaia, da rivolu­ zionarie e controrivoluzionarie, si è compiuta senza scuotere né i principi economici della socializzazione dei mezzi di produzione né i principi politici della dittatura del partito comunista. L’e­ sperienza inoltre ci dimostra che è perfettamente possibile che i due bastioni della dittatura proletaria (socializzazione e mono­ polio esclusivo del partito comunista) si accompagnino a pro­ fondi turbamenti che, pur non mutando l’assetto di base dei meccanismi economici e politici, ne sconvolgono le loro funzioni politiche facendoli diventare strumenti di prim’ordine in mano al capitalismo internazionale. Nella misura in cui si accresceva­ no i successi industriali, cioè le premesse stesse per un’econo­ mia socialista, e mentre il partito comunista riusciva a soppiantere le forme economiche capitaliste (kulak e capitale privato) e ad affermare la propria totale esclusività nell’ordinamento poli­ tico, questo partito diventava sì un organismo totalitario, ma nella direzione opposta a quella che a prima vista si poteva ar­ guire dai successi industriali: infatti esso si è volto alla conser­ vazione del sistema capitalista mondiale. Il partito bolscevico ha potuto fare ciò che sembrerebbe assurdo: è riuscito a espel­ lere le istituzioni economiche capitaliste, feudali, patriarcali e al

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tempo stesso il « virus » comunista dall’organismo del proleta­ riato russo. Più volte abbiamo confutato la sedicente teoria marxista che fa dipendere, meccanicamente e automaticamente, tutta l’evoluzione sociale dal « deus ex machina », cioè dal meccanismo economico. Secondo questa teoria — rammentiamo le critiche di Antonio Labriola (38) — basterebbe scoprire il meccanismo economico per tracciare i fili che lo collegano a tut­ ta l’evoluzione sociale, a ogni manifestazione ideologica all’in­ terno delle classi o nel complesso sociale. Ci limitiamo a ribadi­ re le conclusioni a cui siano giunti seguendo le linee di Marx, Engels e Lenin, ma soprattutto di Engels che ha trattato la questione in modo più complessivo. La teoria marxista giunge alla sintesi di tre elementi: determinismo economico, materia­ lismo storico, dottrina della lotta di classe. I tre campi (econo­ mico, storico e politico) non vengono analizzati in funzione di un solo strumento (determinismo economico) per consentire al proletariato di agire sul terreno sociale, ma in funzione dei tre criteri, intimamente legati tra loro. Per esempio, il determini­ smo economico non offre assolutamente un valido criterio al proletariato rivoluzionario affermando che, una volta fondato lo Stato proletario, basti estendere le conquiste industriali per im­ boccare la via della rivoluzione mondiale. Per giungere a questa arbitraria conclusione si deve sopprimere, in campo storico e politico, i sostantivi « materialismo » e « lotta di classe », sosti­ tuirvi quello di « determinismo » e cadere quindi nel fatalismo economico. Al contrario, l’essenza della teoria marxista è la re­ ciproca interferenza delle tre sfere, la nostra attenzione deve volgersi con assoluta priorità alla dinamica e non alla forma della società, scorgervi le tendenze e sviluppare in esse la lotta di classe. Egualmente, il corso assunto dagli avvenimenti storici e politici non dipende dalla forma, dall’assetto economico dello Stato proletario, ma dalla natura stessa di questo meccanismo. I successi industriali dello Stato sovietico, poiché vengono realiz­ zati sulla base della legge dell’accumulazione capitalistica — dunque con una tendenza opposta alle leggi di un’economia so­ (38) Cfr. Antonio Labriola, Del materialismo storico, Newton Compton, Ro­ ma 1972, pp. 71-81.

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cialista — se possono estendere i fondamenti della socializza­ zione dei mezzi di produzione (la base di un’economia proleta­ ria) alterano anche la funzione proletaria dello Stato, la sua po­ litica come la sua economia. Per usare una immagine che per­ metta di meglio presentare il problema, diciamo che il marxi­ smo, al contrario di tutte le altre teorie sociali, rompe i limiti della fisica sociale (limiti schiavi delle forme di organizzazione sociale) ed entra nella sfera della chimica politica, per ravvisare le azioni e le reazioni sociali determinate dall’intervento di for­ ze che possono non toccare la forma di un regime sociale, ma mutarne la natura e l’essenza. Abbiamo già posto il problema: l’introduzione della Nep ha inevitabilmente causato una profonda perturbazione della politica dell’Internazionale Comunista? Pannekoek (39) fin dal 1921 insisteva che il problema essenziale, dalle conseguenze inevitabili, risiedeva più nel cambiamento sopravvenuto nel fun­ zionamento interno dei partiti comunisti e dell’Internazionale, piuttosto che nelle modificazioni verificatesi in Russia attraver­ so l’adozione della Nep. Si tratta ora di vedere se è possibile stabilire un legame di stretta necessità tra l’abbandono del co­ muniSmo di guerra e la politica decisa al III e al IV Congresso dell’Internazionale (conquista delle masse e governo operaio), nel cui ambito la teoria della conquista delle masse doveva mi­ nare le basi stesse della costruzione dei partiti comunisti. In questi congressi i bolscevichi sostennero una linea di condotta in netto contrasto con quella da essi seguita in Russia; linea che aveva portato alla formazione del partito non attraverso l’espe­ diente di ammettere tronconi di altre organizzazioni, ma attra­ verso la selezione della lotta di frazione. Secondo noi questo problema troverà la sua soluzione migliore quando invece di in­ seguire esperienze e ipotesi storiche, di discutibile valore, cer­ cheremo di impostare il problema sulle sue proprie basi. Le nostre precedenti considerazioni ci permettono di affermare su­ bito che se è sbagliato dedurre una politica rivoluzionaria dai successi economici e industriali dello Stato proletario, lo stesso (») Cfr. nota (6).

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dicasi per quella posizione che ha la pretesa di far derivare l’a­ zione comunista da un rapporto giuridico tra le classi e l’appa­ rato produttivo: dall’instaurazione, dalla difesa e dall’estensione progressiva del diritto della classe operaia a disporre dell’appa­ rato economico e dall’esclusione rigorosa delle forme di pro­ prietà privata. I compagni olandesi!40) sostengono questa tesi, cioè che l’instaurazione della dittatura proletaria non può sepa­ rarsi dal possesso reale da parte degli operai degli strumenti produttivi e dal loro conseguente impiego. Ora, benché questa tesi si regga sulla base di numerose citazioni, soprattutto di En­ gels, è certo che i fondamenti della teoria marxista non stanno nel campo giuridico (istituzione di un diritto di disporre), ma nel campo dei meccanismi economici. Se è perfettamente con­ cepibile che la classe operaia russa possa raccogliersi entusiasta attorno a Stalin per difendere ed estendere le basi del sistema economico, egualmente è concepibile che il diritto di disporre si affermi concretamente a favore degli operai, ma in un senso controrivoluzionario. In questo caso, anche se è volontario, l’e­ ventuale sacrificio operaio, con la rinuncia di una quota cre­ scente del valore del proprio lavoro, non porrebbe fine al fatto di essere, in campo economico, una concessione all’accumula­ zione di una quota superiore al contributo sociale, e tutto ciò comporta un abbassamento delle condizioni di vita dei lavora­ tori. I principi di un’economia socialista risiedono invece nel crescente e permanente innalzamento dello ‘standard of live’ degli operai, cioè in una legge che è opposta a quella che regge l’economia capitalista. Quest’ultima può benissimo funzionare nel contesto di uno Stato operaio senza scalfire le basi della so­ cializzazione dei mezzi di produzione. Indubbiamente si po­

C40) Cfr. Gik, Principi fondamentali di produzione e di distribuzione comuni­ sta, Jaka Book, Milano 1974. Le posizioni dei GIK (Gruppe Internationaler Kommunisten) sono esposte criticamente da A. Hennaut su « Bilan »: Les fondaments de la production et de la distribution communiste, n. 19, pp. 653-60; n. 20, pp. 66892; n. 21, 707-14. Les internationalistes hollandais sur le programme de la revolution proletarienne, n. 22, pp. 744-50; n. 23, p. 788. Cfr. inoltre: Gic, Tesi sul bolscevi­ smo, Edizioni G.d.C., Caserta s.d.; Serge Bricianer (a cura di), Pannekoek e i con­ sigli operai, Musolini, Torino 1975. (N.d.t.)

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trebbe obiettare che le manifestazioni di entusiasmo degli ope­ rai verso la politica centrista siano solo il risultato ultimo di tutta un’opera che ha così profondamente disarticolato il prole­ tariato russo, tanto che non possiamo più tenerlo in considera­ zione per trarre elementi di valutazione. Ma la nostra valuta­ zione non mira a considerazioni contingenti, essa tende a stabilire che i fondamenti economici non hanno assolutamente sede nel rapporto giuridico di libera disponibilità da parte degli operai degli strumenti di produzione, ma negli ingranaggi del processo produttivo, dove interviene un criterio che sostituisce quello dell’accumulazione capitalista. Non è coll’intervento di criteri giuridici in campo economico che risolveremo il problema, ma solo ‘bonificando’ il campo economico potremo salvaguardare il ruolo rivoluzionario dello Stato operaio. Realizzeremo così una premessa che permetterà al proletariato vincitore di affidare la difesa della conquista dello Stato non alle sue proprie forze, ma al proletariato del mondo intiero, attraverso l’Internazionale. La Nep si differenzia dal comuniSmo di guerra per un cambiamento avvenuto non in campo politico — ripristino dei diritti delle classi spodestate — ma nel campo dei rapporti giu­ ridici che le classi spodestate riuscivano a ristabilire con i mezzi di produzione. L’atteggiamento critico verso la Nep — secondo il quale le concessioni economiche possono avere la sola conse­ guenza di favorire la riconquista dei diritti politici da parte di quelle classi che si ricostituiscono grazie alla Nep — è pienamente confutata dai fatti che hanno visto la scomparsa quasi completa dei diritti dei capitalisti in Russia. Abbiano già detto che tutto ciò non evita, sotto un profilo politico, un mutamento: il partito comunista, che ha il monopolio dell’apparato economico e poli­ tico, passa da una iniziale posizione rivoluzionaria a una posi­ zione reazionaria. La Nep muta i fondamenti stessi della politi­ ca proletaria? E in questo caso si pone al partito comunista la scelta di non abbandonare il comuniSmo di guerra e di andare direttamente incontro al fallimento di un regime che non può sopravvivere, senza appellarsi a cambiamenti economici e giuri­ dici? Secondo noi là Nep non solo non tocca le funzioni e lo sviluppo dell’azione comunista della classe operaia, ma la sua

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costituzione può benissimo combinarsi con la politica rivoluzio­ naria dello Stato proletario. Di fatto le tesi del Secondo Congresso dell’Internazionale, soprattutto sulla questione agraria e coloniale, pur constatando l’impossibilità di fondare un’economia socialista al di fuori di un alto sviluppo industriale, non giungono assolutamente alla conclusione che il proletariato debba spartire il potere con le classi avverse o confondere con esse la propria politica, per consentire la coesistenza di diverse forme economiche. Il ripri­ stino della piccola produzione e della piccola proprietà agraria sono il prezzo dell’incompleta industrializzazione. Lo Stato pro­ letario, che di fronte a questi problemi si trova disarmato e che può giungere a industrializzare l’economia agraria solo grazie alla marcia vittoriosa della rivoluzione mondiale, non è però as­ solutamente costretto ad annacquare la sua politica e a inserirvi le rivendicazioni dei ceti medi, che poi sono i veri e propri scia­ calli al seguito dei grandi imperialisti. Il problema consiste nel­ lo stabilire se le frontiere territoriali di uno Stato proletario siano sufficienti a determinare la sua politica e se invece biso­ gna superarle per inserire questa politica nella dimensione mondiale dello scontro tra borghesia e proletariato; e non è cer­ to il dilemma se sia possibile o meno costruire il socialismo in un solo paese. Dobbiamo sottolineare che tra le nuove posizioni di Stalin e le loro anticipazioni che vennero sostenute, anche ai tempi di Lenin (ricordiamo il discorso di Trockij al Quarto Congresso dell’Internazionale) (41), sussiste un collegamento che sarebbe inutile dissimulare, così come sarebbe sciocco ridurlo a una questione di responsabilità personali. Noi che abbiamo completamente difeso le posizioni di Lenin e di Trockij, ai tem­ pi del Quarto Congresso e della Nep, siamo ben qualificati per affermare che, soprattutto in campi così complessi, ciò che con­ diziona le capacità di comprendere problemi storici è il grado di maturità del proletariato e non le doti intellettuali dei suoi

(41) Cfr. L. Trockij, Relazione sulla nuova politica economica sovietica e sulle prospettive della rivoluzione mondiale, in Problemi della rivoluzione in Europa, Mondadori, Milano 1979.

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capi. Nel 1921 il proletariato mondiale non aveva maturato condizioni che gli permettessero di far chiarezza su questi pro­ blemi e ciò perché gli mancava un’esperienza dalla quale sareb­ be potuto partire lo slancio del suo partito di classe: l’Interna­ zionale Comunista. Oggi, le esperienze vissute permettono a mi­ litanti, di capacità intellettuali irrisorie di fronte a Lenin e Trockij, di impostare questo tentativo. Tutto sta nel non trascu­ rare questo tentativo quando siano giunte a maturazione le condizioni per la sua chiarificazione, senza cercare assolutamen­ te responsabilità individuali e neppure rincantucciarsi in chiassose proteste contro Stalin, accusandolo di essere l’artefice di tutti gli sconvolgimenti che hanno colpito la lotta di classe in Russia e a scala mondiale. La rivoluzione crea i geni del prole­ tariato che ne assumono la direzione, mentre la reazione porta alla testa dei partiti operai i militanti meno qualificati sotto il profilo intellettuale e morale. Ma ciò non deve far dimenticare che sarà possibile scovare le cause dell’attuale degenerazione solo sul terreno della lotta di classe e, di conseguenza, solo gra­ zie a essa — senza farne questione di personalità — sarà possi­ bile ricostruire le condizioni che permettano la ripresa della lot­ ta operaia e, se essa è oggi impossibile, per preparare il terreno alla vittoria del proletariato in una nuova situazione creata dal­ le contraddizioni che minano il sistema capitalistico. Quando fu introdotta la Nep venne sollevato il problema teorico della gestione economica dello Stato proletario, la tesi centrale, allora affermata e sostenuta da tutta l’Internazionale Comunista, dichiarava che esistevano due fronti in seno all’eco­ nomia russa: capitalista e socialista, pur prevedendo la vittoria del fronte socialista nel lasso di tempo che ci separava dalla vittoria proletaria negli altri paesi. Erano considerate socialiste le istituzioni controllate dallo Stato e, a esse, veniva affidata la possibilità di lottare per il socialismo nel corso di una lotta il cui fine era l’eliminazione di tutte le altre forme economiche sussistenti in URSS. Sotto un certo punto di vista, questo obiet­ tivo è stato pienamente raggiunto oggi in URSS e, tuttavia, sia­ mo ben lontani dalla resa dei conti. Sulla base di quanto detto nella parte precedente, non possiamo certo sottoscrivere la qua­

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lifica socialista : affibbiata alle istituzioni statali e tanto meno possiamo sottoscriverla nel contesto in cui questo problema fu sollevato nel 1921-22 (42), in quanto, la conditio sine qua non che avrebbe permesso a questi settori statizzati di uscire vitto­ riosi dal duello con i settori privati, consisteva in un ritmo di accumulazione più intenso rispetto a quello del settore privato. Ciò significa anche che le industrie socialiste dovevano realizza­ re un plusvalore superiore alle altre. Ora, secondo noi, la diffe­ renza tra economia socialista ed economia borghese sta proprio nel fatto che la prima sacrifica gli interessi dell’accumulazione alle condizioni di vita operaie, con un’innalzamento dei salari tale da determinare un’accumulazione e un’industrializzazione molto meno intense. In ultima analisi, fin dall’inizio, la questio­ ne della Nep fu impostata considerando che i compiti economi­ ci dello Stato proletario avessero un ruolo rivoluzionario sul terreno della lotta proletaria tanto in URSS come negli altri paesi. Ma in campo economico non esiste alcuna possibilità di realizzare il socialismo né in un settore socialista né in un intie­ ro paese, come ci dimostra un’esperienza giunta alla fine di un duplice processo di industrializzazione sfrenata e di monopolio economico dello Stato. In campo economico lo Stato proletario può avere solo l’obiettivo di essere uno strumento in mano agli operai ai fini della lotta rivoluzionaria decisiva (la rivoluzione mondiale), come ai fini di sostegno dei sindacati che avanzano rivendicazioni immediate per il miglioramento delle condizioni di vita. Gli stessi fondamenti del problema, quale si presentò nel 1921, oggi devono essere riesaminati con la discriminante di escludere ogni possibile vittoria socialista senza il trionfo della rivoluzione negli altri paesi, perciò dovremo parlare, più mode­ stamente, non di economia socialista, ma di economia proletaria. Cioè di un’economia che non si basa sulla soppressione delle classi, che afferma di non poter considerare socialiste le istitu­

(42) Ci si riferisce alla confusione tra « Capitalismo di Stato » e « Socialismo di Stato », alimentata soprattutto da Bucharin. (N.d.t.)

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zioni statali e che si pone obiettivi più limitati: l’innalzamento delle condizioni di vita dei lavoratori. Lo sviluppo di questa eco­ nomia riuscirà a mantenersi nel solco proletario realizzando l’elevazione salariale, ponendosi così contro quanto nel 1921 veniva considerata una vittoria socialista, cioè contro la pro­ fonda e continua estensione dell’industrializzazione economica. Ciò premesso, il problema di sapere se l’introduzione della Nep poteva avere come unica conseguenza la progressiva dege­ nerazione dello Stato russo, in realtà non si pone, perché le basi stesse dello Stato proletario non risiedono assolutamente nella realizzazione di un’economia socialista, ma sono molto più ar­ retrate e con tutt’altro ordine di considerazioni. Considerazioni che devono essere tratte dalla lotta di classe internazionale, do­ ve la prima condizione da realizzare per una corretta soluzione del problema sta proprio nel fatto che né la Nep né con il Co­ muniSmo di guerra si poteva giungere ad assicurare una gestio­ ne e una politica proletarie per lo Stato; inoltre, in campo eco­ nomico, il metodo d’azione non può iniziare stabilendo il socia­ lismo, quando in campo politico è solo il concetto di lotta di classe mondiale che regge l’attività dello Stato. Lo Stato è lo strumento specifico della lotta proletaria nel­ la fase di scontro per la rivoluzione mondiale. Allorché il riflus­ so dell’ondata rivoluzionaria, che aveva resa possibile la vitto­ ria proletaria, rimosse provvisoriamente le specifiche condizioni per l’esitenza dello Stato proletario, non conseguì affatto il ri­ schio di un’inevitabile vittoria nemica che strappasse al proleta­ riato questo Stato. Così è stato per la Comune di Parigi, in quanto quest’esperienza di governo proletario avvenne in un periodo storico in cui ancora non sussistevano le premesse per instaurare la dittatura del proletariato. Ma non è assolutamente la stessa cosa per la Russia sovietica, che si è trovata in una situazione che aveva in sé la condizione per la vittoria del pro­ letariato, benché fosse costretta a superare uno stadio interme­ dio in cui si rafforzava provvisoriamente il potere del capitale. Di fatto, nel 1923, in Germania, come nel 1927, in Cina, for­ midabili battaglie rivoluzionarie aprirono nuovamente una fase che enucleava elementi specifici per lo sviluppo dell’azione del­

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lo Stato proletario, strumento specifico nello scontro decisivo del proletariato. Dunque, nel 1921 si trattava di attuare una ritirata di ca­ rattere provvisorio. In campo economico, il passaggio dal co­ muniSmo di guerra alla Nep non si ripercosse, nei suoi termini reali, su questa ritirata, poiché è quasi certo che, anche in caso di vittoria del proletariato in un altro paese o di permanente agitazione rivoluzionaria a scala mondiale, in Russia il proleta­ riato sarebbe stato costretto a consacrare, sotto un profilo giuri­ dico, la permanenza di quelle forze economiche che è possibile distruggere solo attraverso lunghe e profonde trasformazioni economiche. Ma questa ritirata non doveva assolutamente recare danno alla politica dell’Internazionale; invece, proprio all’in­ terno dell’Internazionale, assistemmo a un profondo cambia­ mento (rispetto al Secondo Congresso e soprattutto rispetto a tutta la storia del partito bolscevico) che investiva i due elemen­ ti fondamentali della vita e dell’azione proletaria: il processo di formazione dei partiti comunisti e la lotta per il potere. Infatti, l’Internazionale, sotto la direzione dei bolscevichi, compì una radicale revisione che preconizzò per gli altri paesi posizioni di principio di destra, posizioni contro le quali proprio i bolscevi­ chi avevano lottato in Russia in seno al loro movimento. Ri­ guardo alla formazione dei partiti comunisti e alla battaglia ri­ solutiva, soprattutto in Germania, essi sostennero posizioni ana­ loghe a quelle che avevano respinto e spazzato via nel 1903 contro i menscevichi e nel 1917 contro Zinov’ev e Kamen’ev(43). Per concludere l’argomento, riteniamo che il problema dell’inevitabilità di interferenze tra introduzione della Nep e mo­ difiche della politica dell’Internazionale non si possa porre, in quanto i suoi termini stessi non lo permettono. Di fatto, ben lontani dal considerare possibile un legame tra gestione sociali­ sta dell’economia in un dato paese e la lotta dell’Internazionale, subito affermiamo impossibile una gestione socialista e la neces­ (43) Cfr. E.H. Carr, La rivoluzione bolscevica 1917-1923, Einaudi, Torino 1964, p. 96 e ss.

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sita di impostare lo Stato proletario su obiettivi molto più limi­ tati in campo economico. Mentre in campo politico lo Stato de­ ve essere considerato solo come strumento di lotta operaia e mai, come facemmo al momento della vittoria in Russia, un centro di polarizzazione della lotta proletaria mondiale. I nostri argomenti, in campo economico, ci permettono di confutare la tesi secondo la quale la realizzazione di una pre­ messa giuridica (la soppressione della proprietà privata e la so­ cializzazione dei mezzi di produzione) possa salvaguardare la natura proletaria dello Stato operaio. Per quanto riguarda gli aspetti politici inerenti la costituzione dello Stato proletario ci troviamo di fronte a un problema analogo, almeno nelle pre­ messe. L’esperienza ci permette ora di essere molto più solleciti, perlomeno riguardo la formula espressa esplicitamente da Bucharin a livello teorico. Fin dal 1924 Bucharin affermava che in un regime proletario l’apparizione e le conseguenze di fenomeni analoghi, se non identici, a quelli di un regime capitalista assu­ mevano implicazione profondamente e completamente differen­ ti, in quanto le basi economiche e sociali dei due regimi erano intimamente e irrimediabilmente in opposizione. Per il fatto che il proletariato era padrone dello Stato, tutte le misure che il suo Stato decideva avrebbero comportato conseguenze necessaria­ mente proletarie. Il ‘marchio d’origine’ avrebbe assicurato il corretto flusso della produzione economica e della politica dello Stato retto dalla dittatura del proletariato. È evidente che Bu­ charin cercava di sostenere la sua teoria del « contadini arric­ chitevi! » su considerazioni avanzate da Lenin, in particolare nell’I^portó in natura. Lenin affermava che il possesso dello Stato avrebbe consentito al proletariato di giudicare quando sa­ rebbe giunto il momento di arrestarsi sulla via delle concessioni, per riprendere la via opposta della lotta contro l’avanzata eco­ nomica delle classi avverse. Ci siamo già soffermati su queste considerazioni di Lenin nella parte precedente, e abbiamo di­ mostrato che, una volta avviati gli ingranaggi economici, si sa­ rebbe imposta una tendenza di fondo e sarebbe stato impossibi­ le al partito, come al proletariato, arrestarne il corso per imboc­ care una via opposta. Quando si è già manifestata questa ten-

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denza economica, le possibilità di cambiamento possono essere solo bruschi interventi che implicano sconvolgimenti sociali. Ma quando Bucharin cerca l’appoggio di Lenin (per presentarci la teoria della dittatura proletaria sotto quella forma che poi consentirà a Stalin di inserire lo Stato sovietico nella Società delle Nazioni e porlo al servizio della conservazione capitalisti­ ca mondiale) non fa altro che ripetere la manovra dei riformisti della Seconda Internazionale nei confronti dei fondatori del comuniSmo scientifico. In realtà Lenin ci ha insegnato a vedere nella conquista della dittatura proletaria e nella fondazione del­ lo Stato operaio le nuove condizioni di vantaggio per il proleta­ riato mondiale, e per nulla una sorta di talismano che ci pro­ tegge contro le corruzioni e i successi dell’opportunismo. L’esistenza dello Stato proletario non ci protegge assolu­ tamente dalle sue eventuali deformazioni politiche e potremo constatare cambiamenti radicali nei confronti dei paesi capita­ listi solo quando si modificherà l’essenza stessa del fenomeno, senza porre come punto di riferimento la presunta essenza pro­ letaria dello Stato. Ora ci resta da trattare il problema di fondo, il significato specifico di dittatura del proletariato. La piatta­ forma della nostra frazione!44), che nelle parti politiche è piut­ tosto un’esposizione critica, sotto un profilo teorico enuncia una valutazione di principio: l’affermazione che nulla vieta di qua­ lificare la dittatura del proletariato come dittatura del partito del proletariato. Questa precisazione acquista il suo valore dopo che avremo trattato tutta la questione, precisando soprattutto cosa noi intendiamo come dittatura del partito comunista e co­ me intendiamo la sua affermazione. In altre occasioni abbiamo dimostrato che non c’è alcuna contraddizione tra due affermazioni fondamentali del Manife­ sto-. l’affermazione che l’emancipazione dei lavoratori sarà ope­ ra dei lavoratori stessi e l’affermazione che la formazione del proletariato in classe sia possibile solo attraverso la formazione del partito politico. Abbiamo così irriso la rozza ciarla che ci (44) Plateforme de la gauche. Projet de thèses présente par un groupe de « gauchistes » (bordiguistes) à Voccasion du Ve Congrès du Parti communiste franqais, Imprimerle speciale de la Librerie du travail, Paris 1926.

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presenta il bolscevico modello come un agente super demoniaco, capace di suscitare movimenti di classe, di minare con un lavo­ rio di continue cospirazioni le istituzioni economiche, politiche e militari della borghesia. La nascita, l’evoluzione e la vittoria del partito di classe sono altrettanti momenti nel processo di maturazione della coscienza di classe del proletariato, tanto che riteniamo inconcepibile una concezione ideologica del partito al di fuori della lotta di classe. Dobbiamo per questo definire co­ me la coscienza degli operai possa estrinsecarsi e, a questo proposito, l’opinione della nostra frazione è estremamente net­ ta: essa può manifestarsi solo attraverso la costruzione e la crescita qualitativa del partito di classe in rapporto allo stadio che attraversa la lotta di classe. Quindi, non c’è alcuna possibi­ lità di giungervi attraverso furbi noyautages dei membri o delle cellule del partito o attraverso manovre in campo avverso, che possano sostituirsi al compito da perseguire nel processo di evo­ luzione della classe. Quando in futuro ci saranno possibilità di espansione per il partito del proletariato, vedremo elevarsi il li­ vello della coscienza di classe e vedremo maturare quel proces­ so che porta i lavoratori stessi a realizzare la propria emancipa­ zione. Questa nostra intransigenza ci distingue da tutte le altre tendenze presenti nel proletariato, essa ci induce a considerare che solo attraverso il partito possa estrinsecarsi l’evoluzione della coscienza di classe. Ma ciò non significa assolutamente che riteniamo possibile questo processo attraverso un partito che, astraendosi dalle condizioni in cui versa la classe, detti a que­ sta gratuite regole d’azione. Dopo questa precisazione possiamo affermare che, quando parliamo di dittatura del partito comunista, non intendiamo as­ solutamente dare a questa asserzione il carattere di un’imposi­ zione, di qualsivoglia natura, al proletariato. Non possediamo, come chiunque altro, investiture « marxiste » che ci immunizzi­ no sotto un profilo proletario. Anzi, al contrario, abbiamo sempre sostenuto la necessità di confrontare continuamente la validità dei concetti teorici e politici che il partito sostiene, di verificare esperienze in cui la partecipazione delle masse sarà resa maggiormente possibile e vantaggiosa quanto più i succèssi

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sull’avversario avranno reso possibili le conquiste di posizioni di lotta in grado di illuminarne la coscienza e consentire il fun­ zionamento degli organi di classe. Dittatura del partito del pro­ letariato invece e al posto di dittatura del proletariato rende più netta la definizione di un momento che, tuttavia, si esprime at­ traverso l’esistenza del solo partito comunista, e permette anche di proiettare una completa visione dei compiti che investono il partito e dei pericoli che a esso si presentano. Dittatura del partito del proletariato significa perciò che, dopo la fondazione dello Stato, il proletariato ha necessità di erigere un bastione (che sarà il complemento di quello realizza­ to nell’ordinamento economico) entro il quale si svolgerà ogni movimento ideologico e politico della nuova società proletaria. Non si tratta di obblighi astratti, ma di una conditio sine qua non per l’esistenza stessa della dittatura proletaria. Il punto cri­ tico da risolvere è quello di non rendere la questione un fatto di regole amministrative e poliziesche dettate dallo Stato operaio. La questione deve assumere invece una dimensione squisita­ mente politica che consiste nell’elevare la coscienza di classe e quindi le capacità ideologiche e politiche del partito di classe. È completamente inutile privare di ogni possibilità di vita e di espressione non solo le tendenze o le frazioni del partito atti­ ve in seno al proletariato, ma anche le correnti politiche presen­ ti nel proletariato (anarchici, socialisti ecc.), considerando que­ ste ultime, in nome di una valutazione sedicente marxista, alla stregua di movimenti controrivoluzionari, per cui ogni misura di costrizione, di rigore e di repressione contro di essi viene sa­ lutata come una vittoria rivoluzionaria. La teoria che rivendichiamo consente la sola esistenza del partito comunista, ma tiene conto della seguente osservazione: nella fase di transizione della dittatura del proletariato la classe operaia ha la necessità di impedire, anche con la violenza, ogni possibile intervento della classe nemica attraverso le istituzioni che ne hanno permesso il potere e ne assicurano il dominio ne­ gli altri paesi. Ma, ribadiamo, questo divieto non deve venire esteso alle tendenze politiche della classe operaia, siano esse so­ cialdemocratiche o anarchiche.

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5. LO STATO PROLETARIO

(Parte quinta}

In questa parte conclusiva vogliamo definire la tendenza storica da cui possa evolvere la dottrina della dittatura del pro­ letariato in relazione all’esperienza e alla critica della rivolu­ zione russa. Stato e rivoluzione di Lenin ripropone la questione della dittatura del proletariato sulla base della sola esperienza storica fino ad allora vissuta, la Comune di Parigi, analizzandola alla luce degli scritti precedenti e successivi ad essa di Marx e di Engels. Tuttavia le conclusioni a cui giunse Lenin toccavano un aspetto del problema che non usciva, e non poteva uscire, dal quadro statale. Mentre la rivoluzione russa trionfò allorché la formula della dittatura del proletariato si identificò con quella di dittatura dello Stato proletario, Lenin aveva potuto desumere dalla critica alla Comune solo insegnamenti attinenti, essen­ zialmente, la posizione, la funzione e la lotta dello Stato prole­ tario contro le classi controrivoluzionarie. La Comune, poi, non si prestava assolutamente a un’analisi riguardante la questione del partito, infatti, nel 1871, alla sua testa non c’era assolutamente un partito che potesse pretendere di rappresentare la classe proletaria, ma un blocco di tre tendenze: i blanquisti, i democratici e i proudhoniani. La funzione del partito era tal­ mente confusa che, come rilevò Engels, in quel periodo, in seno alla Comune, assistemmo a un brusco capovolgimento delle po­ sizioni precedentemente sostenute dalle correnti propriamente operaie: da un lato i proudhoniani, che si erano sempre opposti alla costituzione di grandi associazioni operaie, ne divennero i sostenitori, dall’altro i centralisti blanquisti si misero a predica­ re il federalismo e l’immediato scioglimento di tutti gli strumen­ ti di difesa dello Stato contro il capitalismo.

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Subito, a pochi giorni dalla caduta della Comune, Marx scrisse La guerra civile in Francia alla quale, vent’anni dopo, Engels stese la sua prefazione, senza comunque sfiorare il pro­ blema del partito. Lenin, riprendendo la dottrina della dittatura del proletariato, doveva perciò indirizzare la sua critica al pro­ blema centrale della Comune: l’estrema debolezza della lotta contro il capitalismo e le sue istituzioni. Nel quadro della « dit­ tatura dello Stato » Lenin era giunto a concepire l’estinzione dello Stato grazie alla dissociazione di quelle che Engels consi­ derava le branche essenziali dello Stato: burocrazia ed eserci­ to. Inoltre Lenin, seguendo Marx e più propriamente Engels, considerava che i provvedimenti riguardo all’elezione e la revo­ cabilità dei funzionari contenessero le necessarie premesse alla salvaguardia della natura proletaria dello Stato. Il fatto che Lenin sia diventato poi il fautore più risoluto del rafforzamento dei poteri dello Stato Sovietico, crediamo di­ penda dallo stadio embrionale della teoria della dittatura del proletariato, quando la classe operaia mondiale veniva spinta dalla situazione ad affermare la propria vittoria nel settore rus­ so dell’economia mondiale. Dittatura dello Stato, ecco come in realtà fu posto il pro­ blema della dittatura del proletariato al momento della vittoria della rivoluzione russa. Indiscutibilmente nel complesso dell’e­ sperienza russa spicca la tesi della dittatura dello Stato operaio, e la funzione del partito veniva impostata in un modo fondamen­ talmente sbagliato, in quanto il legame intimo tra partito e Sta­ to faceva sì che quest’ultimo capovolgesse progressivamente i rispettivi ruoli, trasformando il partito in un ingranaggio stata­ le, cioè in un organismo repressivo che ha permesso poi la vit­ toria centrista. La confusione tra i concetti di partito e di Stato è tanto più pregiudizievole in quanto non c’è alcuna possibilità di con­ ciliare questi due organi, inconciliabili per natura, funzioni, obiettivi. L’aggettivo proletario non cambia la natura dello Stato che resta sempre un organo di costrizione economica e politica, mentre il partito è l’organo per eccellenza dell’emancipazione dei lavoratori, non attraverso la coercizione, ma con l’educazio­

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ne politica. Se i comunisti rivendicano la necessità dello Stato nella fase di transizione, è perché si basano su di un’analisi sto­ rica complessiva (in funzione all’evoluzione produttiva), consta­ tando però che l’ora della vittoria proletaria non giunge quando sono maturate le premesse per una società comunista, quest’ora scocca molto più avanti, in seguito allo sfacelo del regime capi­ talista a scala mondiale. I comunisti non hanno alcuna difficol­ tà a spiegare perché le condizioni per la vittoria operaia si pre­ sentino prima nei paesi economicamente arretrati, paesi che per la loto arretratezza dovrebbero offrire condizioni meno favore­ voli per un sistema sociale comunista. I comunisti, in quanto marxisti, sanno che nell’ambito di una società divisa in classi i borghesi che hanno a disposizione l’apparato industriale più po­ tente avranno anche la possibilità di manovrare tra le file della classe operaia, per minarne gli sforzi tesi alla costituzione del partito. Nei paesi in posizione di inferiorità queste possibilità sono infinitamente minori, se non inesistenti; il solo mezzo che il capitalismo dispone è la dittatura, offrendo come contraltare al partito la possibilità di selezionare i propri quadri. Infine, la visione internazionale del marxismo fa comprendere che il re­ gime capitalista crolla nelle parti più arretrate, quindi più debo­ li, che non possono assorbire i progressi tecnici (che altrove si sono verificati con ritmi più o meno graduali) se non al prezzo di rivolgimenti sociali e di rivoluzioni. La legge della rivoluzio­ ne proletaria non è perciò retta da automatismi economici, ma dall’esplosione delle contraddizioni che spezzeranno gli ingra­ naggi del sistema capitalista mondiale nei suoi anelli più deboli. Questo contrasto tra maturazione delle condizioni econo­ miche per la società comunista e vittoria proletaria rende neces­ sario il periodo di transizione e impone ai comunisti di soppor­ tare lo Stato. Di pari passo con questa necessità di ordine eco­ nomico, ne sorge un’altra (di analoga importanza da un punto di vista storico), cioè il fatto che gli operai giungono alla conqui­ sta del potere politico quando non hanno ancora raggiunto una coscienza comunista che si compenetri nell’insieme della classe. In breve, il proletariato che eredita un organismo, lo Stato (che non è assolutamente conforme al proseguimento e alla realizza­

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zione dei suoi fini storici), eredita anche una condizione ideolo­ gica che nasce dalle viscere stesse della società borghese, dove cultura, stampa, religione ecc., fanno dello schiavo economico anche uno schiavo politico e ideologico. Il compito del partito è ancora lontano dal suo esaurimento con la presa del potere, perché gli operai non possono acquisire di colpo una completa coscienza di classe. Se gli operai sono giunti ad abbattere il po­ tere della borghesia, ciò non è per nulla dovuto al fatto che già avevano acquisito le necessarie condizioni e capacità politiche (ribadiamo: il capitalismo cerca sempre di impedire e spezzare con ogni mezzo il potenziale sviluppo di quelle avanguardie operaie che si pongono l’obiettivo di costruire il partito di clas­ se), ma ciò avviene perché l’evoluzione produttiva mondiale ha spezzato, in uno o più punti, l’apparato di dominio del capitale. Certo, proprio in relazione alla situazione rivoluzionaria, gli operai riescono ad acquisire una lucida coscienza dei propri inte­ ressi di classe (ed è in questo momento che i traditori si daran­ no da fare per deviare lo slancio rivoluzionario), ma si tratta di momentanei sprazzi ideologici. Gli operai hanno dunque un in­ teresse fondamentale all’esistenza e allo sviluppo del partito, solo e unico strumento in grado di condurli alla vittoria. La contraddizione tra presa del potere e immaturità delle condizioni economiche, ideologiche e politiche ai fini dell’eser­ cizio del potere stesso da parte della classe e ai fini del trionfo della rivoluzione mondiale, ci induce a respingere le posizioni dei compagni olandesi, così come le tesi di fondo del compagno Hennaut(4B). Secondo questi compagni, il dilemma sarebbe questo: o la classe operaia è matura e allora la rivoluzione ha la sua ragion d’essere e, in questo caso, si deve realizzare la piena disponibilità dell’apparato produttivo sotto la guida ope­ raia; oppure questa classe non è in grado di esercitare il potere, e allora è inevitabile la degenerazione e la sola condizione per evitarla o scongiurarla consiste sempre nella libertà di avere il controllo dei mezzi di produzione, almeno in questo modo gli operai potranno ostacolare la formazione di una nuova classe45 (45)

Cfr. nota (21).

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sfruttatrice che si insedi sulle fondamenta dello Stato operaio. Per noi l’immaturità politica della classe non ha assolutamente una natura soggettiva, quasi fosse una colpa o un peccato origi­ nale della classe, ma è eredità di secoli di sfruttamento e di sot­ tomissione politica. Tuttavia, poiché la classe è il risultato del contraddittorio processo di evoluzione della società di classe, non ci sarà alcuna possibilità di congiunzione tra apparato pro­ duttivo e politico e la massa dei lavoratori. La storia infatti non vedrà mai la formazione definitiva dei lavoratori in una classe in sé e per sé, perché, nel momento in cui si realizzerà la matura­ zione economica e politica come il raggiungimento di una completa coscienza di classe, in quel momento suonerà l’ora della dissoluzione delle classi nella società comunista (46). Si tratta dunque di un contraddittorio processo, che avvie­ ne contemporaneamente nella caduta del sistema capitalistico mondiale come nella formazione della società comunista attra­ verso una fase di transizione. Nel corso di quest’ultima la sola àncora di salvezza non sono le vittorie militari, economiche e politiche dello Stato operaio a livello mondiale, e neppure l’im­ possibile realizzazione di condizioni di socialismo in un solo pae­ se, ma è la trionfante fondazione del partito internazionale del proletariato. Riprendendo il Capitale, abbiamo ampiamente chiarito che, in campo economico, la socializzazione dei mezzi di pro­ duzione non è una condizione sufficiente per tutelare la vittoria e gli interessi proletari. Abbiamo poi spiegato perché debba es­ C46) La contraddizione fondamentale della società capitalista si estrinseca nel proletariato in quanto classe, cioè in una classe della società capitalista che, nello stesso tempo, non è una classe della società caiptalista. Una classe che nella misura in cui raggiunge il proprio livello assoluto si dissolve dissolvendo la società di classe. « Se il proletariato annunzia la dissoluzione dell’ordinamento tradizionale del mondo, esso esprime soltanto il segreto della sua propria esistenza, poiché esso è la dissoluzione effettiva di questo ordinamento del mondo. Se il proletariato richiede la negazione della proprietà privata, esso eleva a principio della società solo ciò che in esso è già impersonato senza suo apporto, in quanto risultato negativo della so­ cietà ». Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in La Questione Ebraica, Ed. Riuniti, Roma 1971, p. 109. (N.d.t.)

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sere riesaminata la tesi cardine del IV Congresso dell’Interna­ zionale, che, dopo aver considerato come « socialiste » le in­ dustrie di Stato, e « non socialiste » tutte le altre, giungeva a questa conclusione: la condizione per la vittoria del socialismo consiste nell’estensione crescente del settore « socialista » a sca­ pito delle formazioni economiche del settore « privato »(47 ). I fatti dimostrano che alla fine di un processo di socializzazione che ha monopolizzato tutta l’economia sovietica non abbiamo assolutamente visto lo sviluppo della coscienza di classe e del ruolo del proletariato russo, ma la conclusione di un processo di degenerazione che ha portato lo Stato sovietico a integrarsi nel mondo capitalista. Il sistema capitalista ha potuto avere ra­ gione dello Stato sovietico, sotto il profilo della politica rivolu­ zionaria, nella misura in cui lo Stato sovietico accresceva il proprio potere monopolistico nell’economia e nella politica. Riguardo al periodo di transizione della società proletaria, non abbiamo posto concetti di carattere infrastrutturale e orga­ nizzativo, ma una nozione che coglie la vita intima del sistema economico; abbiamo poi sottolineato che lo Stato, anche se pro­ letario, è lungi dal difendere gli interessi operai e tende a in­ frangere ciò che riteniamo il fondamento di un’economia prole­ taria. Abbiamo infatti affermato di preferire l’espressione più circoscritta di «economia proletaria» al posto di «economia socialista ». Marx ha trovato la spiegazione dell’intera economia capitalista e la fonte del privilegio di classe nell’esistenza e nel­ la crescita progressiva, assoluta o relativa, del. plusvalore. Ripercorendo la via di Marx, abbiamo affermato che l’essenza del­ l’economia proletaria deve consistere nella netta opposizione al saggio di accumulazione capitalista, perché la crescita di questo aumenta il saggio dello sfruttamento operaio; mentre, al contra­ rio, il saggio di aumento, assoluto o relativo, dei salari, inevita­ bilmente colpisce il saggio dell’accumulazione. Si tratta dunque di un problema intrinseco al sistema economico, in quanto la socializzazione può essere considerata solo come condizione ini­ ziale a cui deve seguire un cambiamento radicale di tutta la (47) Cfr. n. (3).

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vita produttiva. In contrasto col IV Congresso dell’Internazio­ nale, che vedeva un problema fonmale di crescita dell’industria, abbiamo contrapposto una questione di tendenza e abbiamo an­ che spiegato che l’industria statale non è assolutamente proleta­ ria di per sé stessa e che soprattutto essa non lo diventerà mai se ha lo scopo di raggiungere un tasso di accumulazione più alto di quello del settore privato, per poterlo così soppiantare in una sorta di duello tra due forme economiche. La concezione corrente dell’industrializzazione progressiva sostiene che, in fu­ turo, verrà reso agli operai quanto oggi viene tolto loro per rinforzare economicamente e militarmente la società proletaria. Al contrario riteniamo che questa tesi renda inevitabile una crescente estrazione di plusvalore dagli operai proprio perché mira all’aumento continuo del saggio dell’accumulazione. Si può continuare a tenere alta la bandiera del marxismo solo e unicamente ponendo la possibilità di porre tale o talaltra azione del domani in stretta dipendenza a ciò che facciamo oggi. Fa­ cendo in modo diverso verremo inevitabilmente trascinati nel flusso di quelle tendenze economiche, politiche e storiche che, invece di combattere, saremo stati costretti a convalidare con decisioni programmatiche di partito. Con questa considerazione abbiamo spiegato che per lo Stato sovietico non si è posto il dilemma comuniSmo di guerra o Nep, infatti in entrambi i casi restava il pericolo di una lenta penetrazione di quei germi (che poi sono penetrati) che alterano il sistema economico ponendolo in una direzione contraria agli interessi immediati e storici del proletariato. Ribadiamo, infine, la necessità di porre la formula generale di « dittatura del proletariato » come conditio sine qua non per impostare il problema, tanto complesso, dello Stato proletario. L’esperienza russa ha presentato tale forma attraverso la ditta­ tura dello Stato e questo dopo che le opere teoriche di Lenin hanno sottolineato gli errori della Comune: la mancanza cioè di quella fermezza necessaria alla vita dello Stato operaio nelle sue diverse manifestazioni. Tuttavia le opere di Lenin sfiorano ap­ pena l’essenza del problema che, secondo noi, risiede nel parti­ to, nella sua azione e nelle basi stesse su cui deve poggiare lo

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Stato proletario per affrontare i compiti della rivoluzione mon­ diale. Se il sindacato rischia fin dalla sua costituzione di diventa­ re strumento di correnti opportuniste, ciò vale ancora di più per lo Stato: infatti lo Stato ha la specifica funzione di tenere a freno gli interessi delle masse lavoratrici per consentire la dife­ sa di un regime di sfruttamento, e, anche dopo la vittoria del proletariato, presenta sempre il rischio di favorire quelle stra­ tificazioni sociali che sono in aperto contrasto con il ruolo di emancipazione proletaria. Tuttavia, potremo dichiarare di fare a meno di questo strumento solo quando lo sviluppo della tecni­ ca produttiva renderà possibile, con la piena soddisfazione dei bisogni, la scomparsa delle classi. Nel corso dell’ondata rivolu­ zionaria mondiale, che permette la presa del potere in un de­ terminato paese, lo Stato operaio deve, sulla spinta stessa della rivoluzione, mettere in secondo piano le questioni economiche per poter assumere il proprio ruolo nella lotta proletaria. Men­ tre non si può assolutamente seguire la stessa linea di condotta in una fase in cui il capitalismo abbia spezzato momentanea­ mente l’attacco operaio, cioè in una fase in cui non ci si deve avventurare in battaglie su un terreno provvisoriamente sfavo­ revole. In questa fase, si deve cercar di risolvere i problemi economici e politici propri di un periodo di attesa rivoluzionaria. I problemi della dittatura del proletariato, già molto importanti all’inizio della rivoluzione, diventeranno ancora più complicati con il cambiamento delle condizioni della lotta di classe a livel­ lo mondiale. Precisare come « dittatura del partito comunista » la for­ mula generica di dittatura del proletariato vuol dire, in primo luogo, riconoscere che attraverso lo Stato e le sue istituzioni repressive non è possibile mantenere il proletariato vincitore entro i binari della rivoluzione mondiale. Se si deve inevitabil­ mente sopportare la necessità dello Stato in base a considera­ zioni economiche, allora l’attività dello Stato dovrà essere in­ quadrata e concepita essenzialmente in questo campo. Senza con ciò dimenticare le precedenti osservazioni sul saggio del­ l’accumulazione e sulla necessità di rettifiche proletarie, contro

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il rischio che lo Stato alimenti la tendenza a uscire dai criteri di un’economia proletaria per immettersi nella spirale della concor­ renza internazionale, sviluppando una più alta e redditizia pro­ duzione industriale. Sotto un profilo politico, non ci pare asso­ lutamente sufficiente la tesi che vede la necessità dello Stato per la lotta contro le velleità reazionarie delle classi vinte. I fatti ci dimostrano la possibilità di giungere al monopolio del potere dello Stato e del partito nello Stato e alla completa eliminazio­ ne delle vecchie classi sfruttatrici, mentre al tempo stesso lo Sta­ to, rovesciando totalmente le proprie funzioni, diventa strumen­ to della controrivoluzione mondiale. Anche a questo proposito occorrono rettifiche proletarie, e non si tratta solo di stabilirne i fondamenti, ma le reali possibilità. Con Engels consideriamo lo Stato un flagello, ereditato dal proletariato e, nei suoi confronti, manterremo una diffidenza quasi istintiva. Al partito, invece, indirizzeremo tutta la nostra attenzione, ponendo come prima condizione il fatto che la dire­ zione dell’azione proletaria complessiva, dopo la vittoria, sia in mano solo all’Internazionale, unico organo in grado di portare la classe operaia dei vari paesi alla vittoria definitiva. Questa considerazione generale non ci esime dal risolvere i problemi attinenti l’organizzazione stessa della dittatura proletaria e l’eser­ cizio della dittatura del partito comunista. Per prima cosa, dobbiamo spiegare questo concetto, tenendo conto dell’impossi­ bilità di giungere, in una fase detta di transizione, a definizioni compiute, prive di contraddizioni logiche e di motivi contingen­ ti. Solo i molteplici contrasti che portano alla vittoria del prole­ tariato in una sola parte del mondo possono presentare le solu­ zioni politiche, concernenti l’organizzazione della dittatura pro­ letaria, nella loro vera dimensione, e non come un processo lo­ gico, in cui ogni parte si ricollega al tutto. Al contrario, fin dal­ l’inizio dobbiamo riconoscere che si presenteranno delle con­ traddizioni e che la loro soluzione non può mai essere trovata nei limiti territoriali dello Stato proletario, ma al di fuori di esso, nella valutazione della lotta operaia mondiale posta sotto gli auspici dell’Internazionale proletaria.

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Il concetto di dittatura del partito non deve diventare uno schema logico, un’imposizione alla classe operaia di soluzioni prestabilite dal partito e, soprattutto, non deve significare che il partito possa ricorrere agli organi repressivi dello Stato per soffocare ogni dissenso. Giustificando la repressione con l’as­ sioma che ogni critica, ogni posizione che provenga da altre correnti operaie è, per ciò stesso, controrivoluzionaria o, in mi­ ce, un attentato al potere proletario o ancora una possibilità che permetta al nemico di classe di aprirsi una breccia attraverso la divisione del proletariato, divisione sorta da una lotta di ten­ denza o di frazioni. Dittatura del partito comunista ha il solo significato di un sincero sforzo, di un tentativo storico che il partito della classe operaia sta cercando di compiere. Questo partito non deve stabilire come assioma che tutto ciò che esso fa è giusto per il proletariato o che solo dal suo seno derivano soluzioni valide alla causa rivoluzionaria. Al contrario, questo partito deve proclamare la sua candidatura a rappresentare l’in­ sieme della classe operaia nel complicato corso della sua evolu­ zione al fine di raggiungere, sotto la direzione dell’Internaziona­ le, lo scopo finale, la rivoluzione mondiale. È necessario che la classe mantenga ancora i propri organismi di sostegno, con piena possibilità di azione e senza il minimo ostacolo da parte degli organi repressivi dello Stato. La lotta per le rivendicazioni immediate (rivendicazioni che costituiscono anche una indi­ spensabile rettifica per mantenere lo Stato sui binari della rivo­ luzione proletaria) è la via precisa in cui la coscienza di classe può trovare il suo momento di sviluppo e di diffusione. Le or­ ganizzazioni sindacali rapresentano pertanto uno dei sostegni essenziali all’opera del partito e, al loro interno la possibilità di costruire frazioni politiche, rappresenta la necessaria premessa per far coincidere l’attività di difesa degli interessi operai im­ mediati con gli interessi storici e finali del proletariato. Il diritto di frazione deve essere riconosciuto non solo al partito comu­ nista, ma anche a tutte le altre correnti che agiscano in seno alle masse, siano anarchiche o socialiste. Vogliamo ora considerare un’obiezione polemica che sembrerebbe demolire ogni nostra argomentazione. Se si rico­

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nosce agli anarchici o ai socialisti la facoltà di costruire loro frazioni in seno ai sindacati, di avere, a questo scopo, una stam­ pa e una rete organizzativa, perché allora non gli deve essere concessa anche la possibilità di costruire dei partiti? E, in que­ sto caso, dove va a finire la teoria della dittatura del proletaria­ to? O meglio ancora, ci potrebbero dire: le frazioni in seno ai sindacati sono allo stesso tempo organismi politici. Oppure: anche se non si dà loro la possibilità di formare altri partiti al di fuori del partito comunista non saremmo più in fase di ditta­ tura del partito comunista, poiché ci sarebbero già altre or­ ganizzazioni politiche in seno ai sindacati, espressioni immedia­ te o mediate dei partiti politici. Abbiamo già affermato che lo stesso concetto di periodo di transizione non consente definizio­ ni compiute e che dobbiamo riconoscere alla base stessa dell’e­ sperienza proletaria contraddizioni che si riflettono nello Stato operaio. Se il sindacato è riconosciuto come strumento necessa­ rio, anche nel periodo di transizione, è evidente che esso può vivere solo a condizione che vi sia la più ampia libertà di di­ scussione tra tutti i membri e la possibilità di costruire i soli or­ gani che possono esprimere le idee operaie, cioè le frazioni sin­ dacali. Nell’ambito delle frazioni sindacali il partito non dovrà avere, per statuto, maggiori diritti di qualsiasi altra corrente del movimento operaio. Se l’impostazione del problema si basa sul fatto che i comunisti hanno lo Stato in pugno, ne consegue ine­ vitabilmente che la posizione dei comunisti, in seno ai sindaca­ ti, diventa di fatto di monopolio e che è sciocco affermare, nello statuto, che gli organi repressivi dello Stato non possono inter­ venire in nessuna questione sindacale. Ma, in questo modo, non solo verrà distrutta la nostra argomentazione, ma verrà anche vanificata ogni possibilità di definire difese politiche di qualsiasi natura, poiché tutto finirebbe inevitabilmente con la degenera­ zione dell’azione proletaria o del partito. Il mantenimento delle frazioni in seno ai sindacati ha la sua giustificazione nella necessità di queste organizzazioni nel periodo di transizione. Il divieto alle frazioni di guadagnare il rango di partito politico, come pure valore politico, è insito nel­ la stessa fase di transizione di cui tentiamo di precisarne meglio

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i caratteri. Acquisita la gestione dello Stato proletario da parte dell’Internazionale, dobbiamo definire più esattamente ciò che è, in realtà, la dittatura del partito comunista. Questo partito pone, riguardo alla gestione economica e politica, un program­ ma determinato che è sottoposto alla duplice critica della classe operaia e dei fatti. Esso non può tuttavia venire sottoposto alla critica di altre tendenze politiche che, a questo fine, si richiame­ rebbero a quell’insieme di espedienti che generalmente viene chiamato democrazia. Riguardo alla democrazia, riprendendo le posizioni di principio di Marx, Engels e soprattutto di Lenin, abbiamo già spiegato che il giorno in cui ci saranno le condi­ zioni per un reale esercizio democratico (nella sua accezione corrente di dare alla maggioranza la possibilità di agire permet­ tendo al contempo alla minoranza di muoversi in vista di diven­ tare a sua volta maggioranza), quel giorno non ci sarà più alcu­ na necesità di impostare la società su basi « democratiche », in quanto la scomparsa delle classi permette il libero sviluppo dei bisogni umani. Finché ci saranno delle classi (ed esse non spari­ ranno assolutamente solo per il fatto che la borghesia è stata spodestata) la democrazia è più che una finzione (una fragorosa manifestazione non di contrasti che scoppiano nel mondo delle idee, ma di contrasti che scoppiano nello scontro di opposti in­ teressi di classe), la democrazia, nella sua versione ristretta o allargata, rappresenta un sistema sociale di dominio di classe. La tesi di Rosa contro i bolscevichi afferma che le istitu­ zioni parlamentari, nei momenti rivoluzionari, riflettono gli in­ teressi proletari!48); questa tesi è stata pienamente smentita da avvenimenti che Rosa disgraziatamente non ebbe la possibilità di vivere (con grande vantaggio dei suoi attuali detrattori che invece avrebbero perduto l’opportunità di combattere il « leni­ nismo » usando il « luxemburghismo » come nuovo canale di corruzione operaia). Di fatto, nell’immediato dopoguerra, ab­ biamo visto che la sola via rimasta al capitale per spezzare l’at­ tacco rivoluzionario consisteva nel dilatare fino all’impossibi­ le la « pelle » del proprio dominio parlamentare e attrarre in (48) Cfr.. Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, in Scritti politici, Ed Riu­ niti, Roma 1970, pp. 582-95.

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esso gli operai che, una volta storditi dalle chiacchiere delle as­ semblee costituenti, vennero distratti dai loro compiti, cioè col­ pire proprio quelle istituzioni borghesi. Inoltre, in Ungheria!49), il ricorso ai sistemi parlamentari di divisione del potere con la socialdemocrazia anche dopo la vittoria sulla borghesia, aprì la strada alla vittoria della controrivoluzione. Parlamenti e Costi­ tuenti potevano essere utili alle rivoluzioni borghesi, poiché es­ se dovevano costruire il loro edificio di classe per nascondere alle masse la realtà della lotta di classe e dar a credere che gli interessi e la volontà del popolo stessero per trionfare. Per il proletariato le cose stanno in modo completamente diverso, esso non ha nulla da dissimulare, esso può dichiarare apertamente che ima minoranza (il suo partito) lo ha guidato alla vittoria e solo nella lunga via di sviluppo rivoluzionario a livello mondia­ le la maggioranza e le masse intiere acquisiranno la capacità di adempiere la missione storica che incombe loro. Lo Stato proletario non può farsi carico della struttura par­ lamentare per portarla alla sua forma perfetta, grazie al fatto che una volta abbattuto il capitalismo verrebbe meno il princi­ pale intralcio. La classe non si configura assolutamente nell’immagine di volontà che attraverso il voto si possono esprimere a ogni livello sociale, essa si configura nell’ambito della produ­ zione, e in base a questa valutazione di fondo sorge l’ostacolo che impedisce alla struttura parlamentare di mettersi a guida dell’evoluzione storica. Quando abbiamo esposto nei suoi fondamenti basilari la teoria della classe e dello Stato, abbiamo spiegato che la classe prima, lo Stato poi, nascono dal divario tra la massa di prodotti corrispondente a un determinato livello della tecnica produttiva e i bisogni delle società. Nella misura in cui la scarsa evoluzio­ ne degli strumenti produttivi permette solo la soddisfazione dei bisogni di una minoranza, la classe e lo Stato diventano inevi­ tabili. Il fatto che la borghesia ricorra allo Stato parlamentare non discende assolutamente dall’ideale democratico del capita­ (49) Cfr. Bela Szanto, La rivoluzione ungherese del 1919, Società Editrice Avanti!, Milano 1921 (Reprint Samonà e Savelli).

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lismo, ma dalla natura sociale degli strumenti produttivi. La se­ parazione tra lavoratore e strumento produttivo obbliga la bor­ ghesia à cercare un sistema di governo per il suo regime e per la sua società diverso da quello servile (sistema che garantisce la continuità della vita economica tramite il legame personale e fisico del lavoratore con la terra, con l’attrezzo industriale, con­ tinuità che viene appunto distrutta dalla nuova fase della tecni­ ca produttiva diventata collettiva). Il parlamento e l’adozione del sistema elettivo attraverso il voto, in ultima analisi, sostitui­ scono la catena che lega lo schiavo al padrone, il legame perso­ nale tra servo e Signore. Tuttavia non sussiste un’equazione di principio tra capitalismo e parlamento; il fascismo lo dimostra, nella fase di declino capitalistico, infrangendo l’impeto rivolu­ zionario del proletariato. Il capitalismo farà a meno del sistema elettivo, ma ciò non comporta l’esaltazione del principio de­ mocratico al livello di una categoria di principio che guida l’evo­ luzione storica. Tanto più che non troviamo affatto la spiega­ zione del fascismo nel peccato di antiparlamentarismo che il capitalismo avrebbe commesso, ma nel fatto che, nella misura in cui si è aperta la fase delle rivoluzioni e gli organismi proletari travalicano il quadro del regime, diventa necessario annientare questi organismi con la violenza. In questa necessità troviamo le basi del fascismo e non Certo in una pretesa crisi della de­ mocrazia. Il ruolo di levatrici del fascismo che hanno svolto le forze democratiche è l’argomento decisivo per respingere la ge­ remiade dei social-centristi riguardo alle libertà democratiche. Infine l’analisi storica ci permette di vedere, alla base dell’uso del sistema elettivo da parte del capitalismo, l’essenziale necessi­ tà di ricorrere a un procedimento che permettesse di colmare il vuoto tra massa della produzione e bisogni sociali. Un procedi­ mento che offrisse una giustificazione giuridica e ideale alla co­ stituzione, consolidamento e difesa del privilegio della borghe­ sia, per sostituire al legame personale della servitù medievale un nuovo legame che sottomettesse gli operai. Dopo la vittoria del proletariato, tale situazione è total­ mente mutata? È possibile soddisfare i bisogni di tutta la so­ cietà? E se così fosse, sarebbe necessario passare per una fase

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di transizione? Sappiamo bene che dopo là vittoria dell’insurre­ zione ci sarà una situazione in cui saremo ben lontani dal poter pensare al libero appagamento dei bisogni, anzi dovremo per­ fino considerare impossibile stabilire l’eguaglianza nella soddi­ sfazione dei bisogni di tutta la società. L’eredità secolare del dominio di classe fa sì che, dal contadino al manovale fino al­ l’operaio specializzato, corra una serie di stratificaziotìi e perciò quei lavoratori che sono sempre stati i più sfruttati non possono nemmeno immaginare i bisogni sentiti dai settori più elevati, anche se questi ultimi versano nell’impossibilità morale, intel­ lettuale e fisica di raggiungerne l’appagamento. Infine, dobbia­ mo tenere sempre valida, anche dopo la vittoria, la tesi già ri­ cordata sia riguardo all’impossibilità di conseguire l’eguaglianza col voto, almeno fino quando l’evoluzione produttiva permet­ terà la dissoluzione delle classi, sia riguardo all’aspetto super­ fluo delle elezioni nella società comunista. Il potere proletario ha il preciso dovere di non ingannare i lavoratori e di non inganare se stesso. Esso ricorre al sistema elettivo solo perché non si presenta un altro procedimento e perché, inoltre, per quanto spetta al funzionamento decisivo dei suoi organismi di difesa e di lotta, la dinamica dei quadri, e non certo il principio demo­ cratico in quanto tale, facendo emergere e permettendo l’azione delle minoranze che si dimostrino all’altezza dei compiti, assi­ curerà la vita e la vittoria alla classe. Di fronte al nemico il proletariato trova la giustificazione storica per instaurare la propria dittatura, poiché la maggio­ ranza della società può espellere la minoranza capitalista e solo ricorrendo alla violenza può spezzare la secolare educazione al­ la soggezione, che vizia alle fondamenta la vita e lo sviluppo del potenziale storico racchiuso nel seno stesso delle masse lavora­ trici. Il partito, espressione della classe operaia, ne inquadra una minoranza, ma si eleva al livello del suo ruolo storico sólo nella misura in cui esprima una continua crescita della coscien­ za dei lavoratori, ponendosi sulla via della loro dissoluzione in quanto classe grazie allo sviluppo del progresso tecnico-produt­ tivo. Se il proletariato non potrà istituire la propria dittatura basandosi su dei soviet regolati da un perfetto sistema elettivo,

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poiché la dittatura esclude il sistema democratico, esso dovrà comunque porsi nella condizione di poter sviluppare concreta­ mente un vivo dominio di classe, per spianare la via alla pro­ pria continua elevazione verso la dimensione del proprio ruolo storico. Tocchiamo ora la nostra tesi sulla dittatura del proletaria­ to, dittatura che tutela il sindacato non solo per la completa possibilità di azione nella difesa degli interessi immediati dei lavoratori, ma anche per la possibilità di fondare frazioni al suo interno. Dittatura del partito, perché è impossibile basarsi sul sistema elettivo, perché è impossibile farsi carico del sistema della rotazione dei partiti (anche di quelli che si definiscono operai); dittatura del partito è un impegno di fronte alla classe operaia, un impegno completo su tutto un programma storico che non potrà essere realizzato che dalla classe operaia stessa. Infine, la possibilità di costituire frazioni in seno al partito non deve assolutamente essere esclusa, ma proprio in queste frazioni si deve scorgere uno strumento di difesa del partito in relazione agli interessi della classe operaia. In conclusione, vediamo la difesa della dittatura proletaria non attraverso strumenti elettoralistici, ma attraverso un com­ pleto funzionamento degli organismi della classe operaia e il lo­ ro risanamento attraverso la libertà di costituire al loro interno frazioni. D’altro canto, alla tesi sorta dall’esperienza russa, cioè l’identificazione della dittatura dello Stato proletario con la dit­ tatura del proletariato e viceversa, vediamo la necessità di contrapporre la tesi della dittatura del partito del proletariato. Al contempo circoscriviamo la posizione governativa del partito al ruolo di delegazione del partito nello Stato. Affidiamo agli effettivi strumenti di lotta operaia, i sindacati, e non a mere affermazioni programmatiche e statutarie, le responsabilità di sorvegliare lo Stato, di mantenerlo sulla via della rivoluzione mondiale e sotto la direzione dell’Internazionale proletaria. Ci resta ancora da confutare un argomento che sembra avere una grande importanza. Questo argomento inibisce ogni sforzo di elaborazione ideologica infatti, in ultima analisi, afferma che poiché lo Stato è stato fondato dal partito ed è nel­

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le sue mani, in un regime di dittatura sarebbe inevitabile che questo partito, o la sua direzione, facciano ricorso a ogni mezzo repressivo per conservare il potere: abbandonando la via del trionfo mondiale della rivoluzione per imboccare quella del consolidamento del regime capitalistico. Abbiamo già detto che le affermazioni: « ogni male nasce dallo Stato » o « ogni male nasce dal fatto che ai lavoratori non è consentito avere la piena disposizione dei mezzi di produzio­ ne », poggiano su di un equivoco storico. Le condizioni essen­ ziali per distruggere lo Stato e per rendere i lavoratori capaci di gestire la società non si presentano grazie alla vittoria insurre­ zionale in un paese, ma si presentano quando essi giungono alla fine di un trionfale processo rivoluzionario mondiale, espressio­ ne politica di un’elevazione del livello tecnico-produttivo in grado di porre le basi reali della società comunista. Evidentemente il proletariato non può inventare le condi­ zioni storiche che gli permettano di passare immediatamente al­ la distruzione dello Stato o di diffondere negli operai una co­ scienza storica che abbracci tutta la classe, e non una minoran­ za. Al contrario, il proletariato, consapevole della natura con­ traddittoria del processo rivoluzionario mondiale, può erigere bastioni ideologici e politici, che lungi dal renderlo prigioniero dello Stato e del nemico di classe, segnino la strada della vitto­ ria. internazionale per la fondazione della società comunista. Nella misura in cui è stato capace di costruire, nel seno stesso della società capitalista, gli organi che l’hanno condotto alla vit­ toria insurrezionale, potrà poi costruire gli organi che gli per­ metteranno di non cadere in preda ! di uno Stato che è costretto a tollerare e di non farsi vincere dal capitalismo mondiale. Niente fatalismo e ottimismo (lo Stato proletario imprime un marchio di comuniSmo a ogni sua manifestazione), niente pes­ simismo (il proletariato può solo cadere prigioniero degli ingra­ naggi dello Stato). L’esperienza della rivoluzione borghese del 1789-93 ha permesso a Marx e a Engels di abbozzare le prime linee sulla dittatura del proletariato. Con la Comune Marx ed Engels e poi con il ‘1905’ Lenin poterono tracciare una prima critica dell’esperienza del 1871 e trarre le conclusioni sulla ne­

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cessità di distruggere tutto l’apparato di dominio capitalista. Al fuoco degli avvenimenti della rivoluzione russa si devono trarre infine conclusioni che possano servire di guida alle future vitto­ rie proletarie. Il nostro sforzo critico, anche se non approda a soluzioni definitive riguardo a questo problema estremamente delicato, servirà perlomeno a superare quei limiti che riducono il più importante problema della nostra epoca a una questione di personalità. Le precisazioni che noi speriamo di aver apportato al con­ cetto di dittatura proletaria e la definizione di dittatura del par­ tito comunista procedono, come abbiamo dimostrato, da una impostazione del problema che supera l’esperienza lasciataci dai comunardi e dai bolscevichi. Il nostro studio e le nostre conclusioni mirano a indicare sia in campo economico sia in campo politico la tendenza storica a cui si deve ricollegare il proletariato e le idee-guida che possono rappresentare la cernie­ ra organizzativa del potere proletario. Seguendo i principi del marxismo abbiamo respinto ogni soluzione che tenda ad allargare il sistema democratico, poiché riteniamo che finché ci saranno classi il voto sia solo espressio­ ne di un vincolo di soggezione. In altre direzioni abbiamo cer­ cato e indicato soluzioni; cioè nel porre condizioni che garanti­ scano la vita e lo sviluppo degli organismi di classe, sia gli orga­ nismi che difendono gli interessi immediati (i sindacati) sia quelli che enucleano gli interessi finali della classe (il partito). Siamo per la costituzione di frazioni sindacali da parte delle differenti correnti politiche e contro l’innalzamento di queste correnti al rango di partito, perché quest’ultima posizione tende all’istituzione di un regime democratico che reputiamo fonda­ mentalmente ostile allo sviluppo della missione storica del pro­ letariato. Rivendichiamo la libera costituzione di frazioni sin­ dacali, perché esse sono in stretta relazione con un organismo indispensabile ai compiti rivoluzionari del proletariato e in gra­ do di frenare il rischio che lo Stato sfugga di mano al proleta­ riato per integrarsi nel sistema capitalistico mondiale pur non sconvolgendo le basi di un regime che continua ad avvalersi della socializzazione dei mezzi di produzione. Ammettere la ne-

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cessiti del sindacato è ammettere la necessità della frazione sindacale e porre su di un piano di parità, nelle file sindacali, il partito comunista e le altre correnti politiche presenti tra le masse. Riguardo ai soviet non esitiamo ad affermare, ih conside­ razione a quanto già detto sul sistema democratico, che se essi hanno un’importanza enorme nella prima fase della rivoluzione — quella della guerra civile per abbattere il regime capitalista — in seguito perderanno gran parte della loro iniziale impor­ tanza, poiché non sono organi in grado di sostenere i compiti del proletariato ai fini del trionfo rivoluzionario mondiale (questo compito spetta essenzialmente al partito e all’Interna­ zionale), e non sono neppure organi di difesa immediata (quest’altro compito spetta quasi esclusivamente ai sindacati, la cui natura non deve essere toccata da vincoli statali). Nella seconda fase della rivoluzione i soviet potranno tuttavia costituire un elemento di controllo all’azione del partito, che ha interesse a farsi circondare dall’attenta sorveglianza delle masse riunite in questi organismi. Quanto al partito stesso — insistiamo — le nostre valuta­ zioni di fondo, pur facendo di esso il pilastro della dittatura proletaria, non ci impediscono assolutamente di rivendicare la possibilità — sancita programmaticamente — di costituire nel suo interno frazioni. È evidente che il fatto stesso di costitui­ re una frazione all’interno del partito rappresenti un pericolo al compimento della missione proletaria. Ma, ci ostiniamo a pen­ sare che, anche senza la costituzione di frazioni, questo pericolo rimarrebbe e che, al contrario, proprio la costituzione di frazio­ ni sia la sola via che, in definitiva, permetta di salvare il partito, esprimendo la tendenza storica proletaria in relazione alle de­ viazioni dell’organismo partitico o della sua maggioranza. Giunti alla fine del nostro sforzo, siamo pienamente consa­ pevoli della nostra debolezza di fronte alla profondità del pro­ blema trattato. Tuttavia osiamo affermare che c’è una ferma coerenza in tutte le considerazioni teoriche e politiche che ab­ biamo esposto nei vari capitoli. Forse questa coerenza potrà rappresentare una condizione favorevole allo sviluppo di un di-

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battito internazionale che, prendendo le mosse dal nostro stu­ dio, giunga a uno scambio di opinioni, a una polemica serrata, al tentativo di elaborare un programma di dittatura proletaria per il futuro. Pur non potendo raggiungere l’altezza richiesta dai sacrifici compiuti dal proletariato in tutti i paesi, pur non potendo affrontare i grandiosi compiti posti dal futuro della classe, il nostro sforzo possa egualmente essere un passo in quella direzione. Un passo necessario, un passo che se oggi non viene superato, domani ci troverà immersi nelle più gravi responsabilità e nell’incapacità di offrire una indispensabile teo­ ria rivoluzionaria nel momento di una ripresa vittoriosa della lotta di classe.

IL DIBATTITO: HENNAUT E VERCESI

L’intervento di Adheimer Hennaut contro le posizioni espresse dalla Frazione di Sinistra nel saggio Partito, Interna­ zionale, Stato e la replica di Vercesi a nome della Frazione, pubblicati nei numeri 33, 34 e 33 di « Bilan », bene rappresenta­ no due criteri di valutazione della rivoluzione russa, diversi sia per le premesse teoriche sia per lo sviluppo metodologico. Alla base della polemica sta una diversa concezione del rapporto avanguardia-masse/partito-classe. Hennaut insiste sul fattore autocoscienza, ma lo inserisce in una dimensione economicista sfumando così i rapporti dialettici che, invece, Vercesi mette in primo piano. Inoltre Hennaut, senza giungere ad un punto di rottura, critica a fondo il leninismo, tendendo a « stori­ cizzarlo » come espressione dell’arretratezza del proletariato russo. Causa quest’ultima del fallimento dei comitati di fabbri­ ca, l’unica garanzia di reale potere proletario. Adheimer Hennaut (1899-1977) era stato nel novembre del 1920 uno dei fondatori del Partito comunista del Belgio, un piccolo partito su posizioni analoghe a quelle della Frazio­ ne comunista astensionista del Partito socialista italiano e che al II Congresso dell’Internazionale Comunista aveva votato a favore della mozione anti-parlamentare presentata da Bordiga (cfr. I Comunisti belgi e il parlamentarismo, « Il Soviet », n. 17, 1920 e Storia della Sinistra comunista, Ed. Programma Comuni­ sta, Milano 1972, p. 682). Nel 1928 il Partito comunista belga, dilaniato dai contrasti, sorti sulle vicende sovietiche si scisse (cfr. La scission dans le parti belge, «Cantre le Courant », A. Il, n. 16, 31 marzo 1928) e per iniziativa di vecchi dirigenti tra cui, óltre Hennaut, War Van Overstraeten, Guidarne Vanden Borre, sorse la Ligue des Communistes Internationalistes. Inizialmente la Ligue si ri­ chiamò all’opposizione di 'Trockij, ma poi se ne scostò strin­ gendo legami sia con la Frazione di Sinistra sia con i comunisti

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olandesi (GIK). Alcuni scritti della Ligue, che pubblicava il « Bulletin de la Ligue des Communistes Internationalistes », apparvero su « Bilan » che, fin dall’inizio, aveva aperto nei suoi confronti un costante dibattito. Nel 1937 una forte minoranza della Ligue (quasi tutto il gruppo di Bruxelles) confiuì nella Frazione condividendone la valutazione sul carattere imperiali­ stico della guerra di Spagna (cfr. Vercesi, Nos divergences avec le camarade Hennaut, « Bilan » n. 39; La scission dans la Ligue des Communistes Internationalistes, n. 42 e Marxisme et dogmatisme-Réponse à la Ligue des Communistes Internationa­ listes de Belgique, n. 43). Il resoconto del dibattito interno della Ligue venne pub­ blicato nel 1946 sul numero unico della rivista «Entre deux mondes », ora in «Invariance» n. 8 ottobre-dicembre 1969. La Frazione belga pubblicò dal 1937 al 1939 un proprio orga­ no, « Communisme ». Hennaut, comunque, pur collaborando a « Bilan », espres­ se sempre posizioni divergenti dalla Frazione subendo l’influen­ za della sinistra tedesca e olandese, senza tuttavia esprimere compiutamente le concezioni di queste ultime avendo come immediato punto di riferimento la Luxemburg, le cui tesi sul rapporto partito-classe furono certo ben lontane da quelle di Gorter, Pannekoek e Ruble. Vercesi, pseudonimo di Ottorino Perrone (1897-1937), militante comunista dalla fondazione del Partito comunista d’Italia, ne era stato dal 1922 uno dei cinque segretari interregio­ nali. Sempre fermo sulle posizioni della sinistra fu tra i promotori del Comitato d’Intesa nel 1923 e dal 1928 uno dei principali esponenti della Frazione. In occasione della sua morte avvenuta nell’ottobre 1937 a Bruxelles, «Programma Comunista» nel n. 21 del 1937 ha pubblicato un breve profilo politico, ora, insieme ad altre annotazioni biografiche, in Appendice a O. Perrone, La tattica del Comintern 1926-1940, Edizioni sociali, Venezia 1976.

A. Hennaut CRITICA ALLE TESI DI « BILAN»

« Bilan » ha pubblicato un lungo studio sullo Stato prole­ tario che riassume, se non ci sbagliamo, le idee e le conclusioni che la Frazione di Sinistra intende trarre dallo sviluppo della rivoluzione russa. Intraprendere una confutazione di tesi che sembrano uscire da un coacervo di opinioni, deduzioni, costru­ zioni (senza dimenticare numerosi errori veri e propri) ammas­ sate nel corso di questo studio non è un’impresa facile. La mag­ gior difficoltà che si oppone alla nostra confutazione consiste nel metodo d’analisi seguito da « Bilan », e per il quale non ab­ biamo ancora trovato una definizione appropriata, ma comun­ que a noi sembra che si allontani completamente dal materia­ lismo storico e dalla dialettica, concezione e metodo di indagine a cui noi riteniamo di essere rimasti fedeli. Pertanto, seguendo nella nostra critica criteri ben diversi da quelli di « Bilan », ri­ schiamo di esporne le argomentazioni in modo « tendenzioso ». Questo rischio è ancora maggiore per i termini metafisici che vengono correntemente usati, d’altra parte solo conseguenza di un modo di pensare che gli è proprio e non certo fatto per facilitare la comprensione delle tesi esposte. Ma, innanzitutto, in che cosa « Bilan » si scosta dalla dialettica e dal pensiero scientifico? Nel fatto che nella sua analisi pone a priori la vali­ dità di fattori la cui verifica dovrebbe invece costituire il punto centrale della ricerca. Spieghiamoci meglio per non cadere nel­ l’errore che pretendiamo di combattere. Di fatto in ogni sintesi non si può fare altrimenti che partire da elementi ammessi a priori come esatti, da cose ammesse come vere senza poterne verificare in precedenza la realtà effettiva con un ragionamento logico. Questo è un metodo imposto al lavoro intellettuale dalla

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natura fisiologica umana. Non c’è nessun inconveniente a usarlo, a condizione tuttavia che, nel corso della sintesi, l’esattezza del­ le verità ammesse senza verifica trovi la sua conferma nel ra­ gionamento. Questo non è il caso di « Bilan»: esso comincia col porre fuori discussione alcuni postulati considerati inattaccabili, e poi abbozza la sintesi. Inutile dire che un simile lavoro non ha al­ cun valore, per cui lo studio di « Bilan » sullo Stato proletario non ci permette assolutamente di comprendere la realtà sovieti­ ca. In effetti « Bilan » non studia lo sviluppo della rivoluzione russa. Per poter corrispondere al suo contenuto reale lo studio avrebbe dovuto intitolarsi: « Tentativo di giustificare la dottri­ na della Frazione di Sinistra con l’aiuto di materiali attinti dallo sviluppo della rivoluzione russa ». I compagni di « Bilan » hanno voluto dare una giustifica­ zione alle loro teorie sul proletariato, il partito, lo Stato, l’Inter­ nazionale, con l’aiuto di fatti attinti dalla rivoluzione russa. Per questo essi hanno costruito pezzo su pezzo uno schema della rivoluzione e, dobbiamo dire, nel quadro di questo schema, le teorie che essi sostengono restano solide. Disgraziatamente il lo­ ro sistema ha questo «piccolo» difetto: il loro schema della rivoluzione non corrisponde alla rivoluzione così come essa si è realmente svolta. Per questo consideriamo il loro sforzo nullo o quasi nullo. Con le loro teorie ci hanno dato la prova di come sia possibile far sboccare il lavoro di ricerca storica, e con esso il lavoro di elaborazione del programma della rivoluzione fu­ tura, in un’impasse. Certo, nel corso del loro studio ci sono discrete annotazioni e osservazioni da cui è possibile trarre profitto, benché lo schematismo ostentato impedisca di dare a quelle annotazioni tutto il rilievo desiderabile e soprattutto im­ pedisce di formulare conclusioni valide. Ma non siamo assolu­ tamente debitori nei confronti di «Bilan » di ciò che ha scritto di giusto sulla rivoluzione russa. Al contrario, è malgrado le sue teorie che esso è tuttavia giunto a enunciare qualche osserva­ zione che conserva il suo valore.

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Lo schema teorico e lo schema storico Nella letteratura rivouzionaria ci si è richiamati a sazietà a quel concetto tanto fecondo messo in luce da Marx e da Engels, cioè che la storia dell’umanità è in realtà storia di lotte di clas­ se. Per quanto lo neghi la Frazione di Sinistra offre una nuova versione di questa fondamentale constatazione. Il motore della storia non è più la lotta di classe, ma la lotta dei partiti di clas­ se. Questa constatazione è il risultato della scoperta di un feno­ meno in sé stesso giusto, ma da cui la Frazione intende trarre conclusioni arbitrarie. Il fenomeno è questo: una classe pren­ de corpo nella storia solo se essa giunge a definire gli scopi fina­ li che presiedono alla sua evoluzione e che le permettano di lot­ tare per erigere un sistema sociale, un regime di produzione che gli sia conforme e grazie al quale questa classe potrà raggiunge­ re il suo massimo sviluppo. Bisogna certo essere sciocchi per negare il fenomeno in sé stesso. Ma su questa base si possono trarre le conclusioni di « Bilan »? Cioè: a) che la classe operaia possa prendere co­ scienza dei suoi interessi e vincere il capitalismo solo per mezzo del partito di classe, b) che quando questo partito cessa di esi­ stere la classe operaia stessa scompare quale fattore cosciente della lotta sociale e addirittura si « dissolve » nel capitalismo, c) che il partito sia il tipo d’organizzazione specifica per mezzo della quale debba trionfare la rivoluzione socialista. Ci sembra fondata l’affermazione secondo la quale una classe apparirebbe realmente sull’arena storica quale fattore at­ tivo solo nel momento in cui essa si dia un sistema organizzati­ vo che le sia confacente, mentre la conclusione che si cerca di trarre secondo la quale questa forma debba essere necessaria­ mente il partito ci sembra grossolana e contraria a ogni seria valutazione. In questo articolo non ci è possibile fare uno studio appro­ fondito sulla formazione delle organizzazioni operaie — benché un simile studio sarebbe estremamente necessario, non fpss’al-

tro che per annullare lo schematismo di « Bilan ».

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In questa sede basta osservare che se « Bilan » si ferma a quella concezione nel suo studio sullo Stato proletario, non è perché esso abbia trovato conferma della sua validità nel corso delle proprie analisi sullo sviluppo della rivoluzione russa, ma solo perché questo modo di presentare le cose gli è necessario per costruire il proprio schema della rivoluzione russa. Andiamo avanti con la nostra dimostrazione. Il partito non è un’organizzazione basata sull’appartenenza a questa o a quel­ la classe, oppure sul ruolo svolto dai suoi membri nella produ­ zione. Ciò che determina l’adesione a un partito è il fatto di trovarsi d’accordo con il programma che enuncia e con l’azione che sviluppa. Sappiamo che nella storia del movimento operaio si sono presentati particolari casi in cui l’azione di reclutamento al partito sulla base del programma si sovrapponeva a un siste­ ma di organizzazione del proletariato in quanto proletariato. È il caso soprattutto dell’Inghilterra e in un modo meno netto del Belgio. Il Labour Party e il Partito operaio belga sono, o meglio sono stati, nello stesso tempo partito socialista (dando quindi corpo ai fino ultimi socialisti della classe operaia) e or­ ganizzazioni di questa stessa classe operaia. Ma queste sono precisamente quelle forme di partito che la Frazione di Sinistra rigetta, perché comprometterebbero l’azione di emancipazione della classe operaia. È giocoforza considerare che la Frazione vede le qualità redentrici di un partito nel fatto che esso orga­ nizzi i suoi membri attorno alle concezioni della lotta sociale assunte da questi ultimi, piuttosto che nel fatto che gli operai in quanto tali si organizzino. Questa scelta non è frutto del caso. Dobbiamo sottolineare che per la Frazione di Sinistra le organizzazioni specifiche della classe operaia, i sindacati, le cooperative, ecc. da sole non possono mai e poi mai innalzarsi alla comprensione dell’insieme delle condizioni della lotta di emancipazione della classe. D’accordo in questo con Lenin, la Frazione ritiene che gli operai organizzati nel campo economi­ co possano al massimo acquisire una visione trade-unionista o sindacalista della lotta di classe!1). (9 Se volessimo veramente scantonare il problema con giochi di prestigio, potremmo vendicarci ponendo il problema in questo modo: quando Lenin affrontò

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Le organizzazioni operaie tipiche, sindacati, cooperative, consigli di fabbricai2) sono certo indispensabili, ma essi non possono fare nulla se in seno a essi non agisce il partito, supre­ mo detentore della scienza rivoluzionaria e della coscienza so­ ciale. Non è un fatto sorprendente che, armata di una simile con­ cezione, la Frazione di Sinistra completi e rifinisca la dottrina bolscevica sul ruolo dirigente del partito comunista nella rivo­ luzione e concluda che la dittatura del proletariato si traduce, nel linguaggio delle realizzazioni storiche, in una dittatura del partito comunista. Lenin stesso aveva già avanzato questa for­ mula quando dichiarò che nel regime sovietico c’era posto, si­ curamente, per molti partiti, a condizione tuttavia che uno fosse al potere e gli altri in galera. Ma per essere precisi noi ci dob­ biamo domandare, nel 1936, se lo Stato sovietico è ancora imo Stato proletario e in quale misura, nel caso lo fosse stato. Que­ ste circostanze, secondo noi, dovrebbero incitare « Bilan » a una maggiore prudenza. Per il resto dobbiamo dire, a discolpa di Lenin, che poco prima della sua morte (se si deve credere al suo testamento po­ litico) egli avrebbe considerato l’eventualità di creare un partito contadino (piccolo borghese) distinto dal partito proletario!3). Come si vede la realtà storica ci allontana abbastanza dallo la questione aveva la scusante di poter ritenere il bolscevismo superiore, poiché, allora, il tradeunionismo e il sindacalismo avevano dimostrato di non essere in grado di condurre al socialismo. Oggi, dopo il « fallimento » del bolscevismo, la Frazione non può riproporne la superiorità, valida per Lenin. Condanniamo il sistema di trin­ ciar giudizi in astratto su presunte superiorità del tradeunionismo, del sindacalismo o del bolscevismo. Consideriamo queste dottrine politiche come fenomeni storici che bisogna saper interpretare e non come soluzioni valide in ogni tempo e in ogni luogo. (2) Sulla questione dei « comitati di fabbrica » particolarmente sviluppata da Hennaut, cfr. Ulf Wolter, Origini dello stalinismo, La Salamandra, Milano 1977, pp. 166-175 e Maurice Brinton, 17-21 i bolscevichi e il controllo operaio, Jaca Book, Milano 1976. (N.d.t.) (3) Hennaut si riferisce alle considerazioni avanzate da Lenin nel cosid­ detto Testamento (Op., Vol. XXXVI, p. 429), dove tuttavia Lenin non parla di creare un « partito contadino », ma di un’eventuale scissione del PCRb, determinata ap­ punto dalla componente « contadina ». (N.d.t.)

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schema di « Bilan ». È vero che quest’ultimo tiene conto di qualche « correttivo » al partito unico dei bolscevichi, « corret­ tivi» di cui vedremo poi la validità. Dopo questo non è difficile capire quale posto « Bilan » ri­ serva alla coscienza proletaria nel processo rivoluzionario. A questo proposito è indispensabile che ci spieghiamo su ciò che intendiamo per coscienza del proletariarto. Ammettiamo che la classe operaia diventi un fattore storico attivo solo nella misura in cui essa acquisisce una cognizione esatta del ruolo che è chia­ mata a svolgere nel divenire sociale. Questa cognizione tuttavia si acquisisce quando la classe operaia raggiunge un certo peso specifico nella società e ciò indipendentemente da ogni elucu­ brazione. Ci spieghiamo. La visione che la classe operaia può acquisire in merito al ruolo che essa è chiamata a svolgere nella trasformazione sociale, che si può definire capacità politica, è una cosa. La capacità tecnica di questa classe, la sua densità, la sua attitudine a occupare funzioni nella produzione e nell’orga­ nizzazione sociale, le sue intrinseche qualità intellettuali e mo­ rali, sono un’altra cosa. È chiaro che le une possono esistere senza le altre. Se si intende per sconvolgimento sociale o rivolu­ zione non solo il momento, abbastanza breve, durante il quale vengono abbattute le classi possidenti, spezzandone gli apparati di dominio, ma il periodo più lungo in cui deve iniziare a far funzionare la società secondo criteri nuovi; nel corso di questo sconvolgimento saranno le capacità tecniche della classe rivolu­ zionaria a essere messe alla prova, piuttosto che le sue capacità politiche. Se dovessimo avanzare un’opinione sulle capacità ri­ voluzionarie del proletariato dovremmo considerare tanto le une quanto le altre, non dimenticando che, le une come le altre, possono acquistare un’importanza determinante a seconda che si consideri o l’atto pressocché istantaneo della presa del potere o lo sviluppo più lungo della conseguente costruzione rivo­ luzionaria. « Bilan », nel suo studio sullo sviluppo della rivoluzione russa, considera solo uno di questi fattori: la capacità politica della classe operaia. Le ragioni di questa esclusività non sono fortuite. Così come nel processo rivoluzionario è determinante

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il partito, è chiaro che solo attraverso la lente del partito ver­ ranno poste le capacità rivoluzionarie del proletariato, mentre la valutazione dovrebbe poggiare su di un insieme di elementi che non possono essere identificati attraverso i rapporti sussi­ stenti tra classe operaia e partito rivoluzionario. Per questo «Bilan» non attribuisce nessuna importanza allo stato arretra­ to della struttura economica russa, quando si tratta di spiegare ciò che chiama degenerazione dello Stato proletario, mentre questa condizione di arretratezza viene considerata, e a buon diritto, come uno dei fattori che hanno contribuito a far scop­ piare la rivoluzione in Russia. Infine, per chiudere questa breve rassegna degli errori me­ todologici di « Bilan », facciamo qualche citazione.

« Le condizioni oggettive per stabilire i fondamenti teorici dello Stato operaio nel corso della lotta proletaria mondiale, che ha accom­ pagnato l’esperienza del proletariato russo, avrebbero potuto essere realizzate se il proletariato in tutti gli altri paesi avesse interpretato le diverse situazioni del dopoguerra nell’ottica della propria funzione politica e dell’inconciliabilità dei propri contrasti con il capitali­ smo » (4).

E ancora: « Ormai il proletariato (...) dovrebbe sapere che, in realtà, non c’è opposizione tra fini e interesse immediato e che, in definitiva, coloro che violano l’obiettivo finale non fanno altro che compromet­ tere i più piccoli interessi operai » (5). «Se il proletariato avesse interpretato (...)», «il proleta­ riato dovrebbe sapere (...)». Questo ragionamento è tipico. Per « Bilan » la vittoria rivoluzionaria si riconduce a una questione di interpretazione e di sapere. Se il proletariato non ha bene « interpretato » e non « ha saputo », è perché non ha seguito il partito rivoluzionario. D’altronde abbiamo già sostenuto che « Bilan » sostituisce alla (4) Partito Internazionale Stato. (5) Ibid.

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lotta degli uomini, delle classi e delle forze sociali la lotta delle idee e delle ideologie. Il suo studio sullo Stato proletario ce ne dà un’altra prova, come avremo occasione di vedere più avanti. La questione che ci preme non è solo quella di sapere se la clas­ se operaia abbia o non abbia « interpretato » o « saputo » tale o tal altra cosa, ma piuttosto perché non l’abbia fatto. Orbene, in questo ambito, « Bilan » non ci dice nulla, a meno che non si consideri come un serio elemento l’affermazione che se la clas­ se operaia si è dimostrata tanto incapace è perché non aveva un partito. Molto volentieri riconosciamo che questa risposta pas­ se-partout è stata per anni la più alta prova di saggezza nell’In­ ternazionale comunista, e che noi stessi abbiamo contribuito ad ammantarla di credibilità. Questa risposta poteva sembrare soddisfacente quindici anni fa, ma non basta più da quando la rivoluzione che aveva a capo il partito del proletariato si è tra­ sformata in guardia del corpo dell’imperialismo mondiale. La rivoluzione russa e la rivoluzione mondiale Il carattere idealista del ragionamento di « Bilan » appare chiaramente anche quando la Frazione di Sinistra mette in rela­ zione i rapporti tra la rivoluzione russa nel 1917 e la rivoluzio­ ne proletaria mondiale. In questo campo i compagni si rivelano innovatori. Tutte le opinioni che erano state espresse su questo pro­ blema sono impietosamente buttate in un canto. Essi non fanno grazia a nessuno, neppure a Lenin e a Trockij. Ma quantunque capiamo bene perché questa demolizione di consolidate opinio­ ni sia necessaria per la costruzione del sistema teorico di « Bi­ lan », riteniamo che il risultato rimanga alquanto mediocre. Non proviamo il minimo desiderio di abbandonare il solido terreno delle verità oggettive per immergerci nella molle atmosfera del­ la speculazione metafisica, anche quando la realtà è talmente dura da far nascere il desiderio di evaderla in un modo o nel­ l’altro. Che cosa ha fatto scoppiare la rivoluzione russa? Le con­ dizioni russe o le condizioni di sviluppo delle contraddizioni tra

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proletariato e capitale a scala mondiale? Ci sono dei begli spiri­ ti che prendono un certo piacere a opporre le une alle altre. Pensiamo che il marxismo insegni, al contrario, che i fattori na­ zionali e internazionali della rivoluzione sociale si aggroviglino, si influenzino e si condizionino. Prendendo come esempio la ri­ voluzione russa, Lenin ha sottolineato, da un lato, come fosse avvenuto che gli operai russi fossero stati obbligati « a iniziare per primi » la loro rivoluzione e, dall’altro, spiegava perché la rivoluzione scoppiata in Russia non dovesse assolutamente fer­ marsi alle frontiere dei paesi dominati dallo zarismo, ma doves­ se estendersi nel mondo intiero. Se non ci sbagliamo l’immagine dell’« anello più debole » (la Russia), in cui doveva spezzarsi per primo il dominio capitalistico, è di Lenin. Trockij, nella sua « Storia della Rivoluzione russa », ha tracciato un panorama molto dettagliato dei fattori riguardanti la Russia pre-rivoluzionaria che rendevano la rivoluzione inevitabile, anche da un pun­ to di vista puramente nazionale (inesistenza di ima forte bor­ ghesia capace di opporsi ai proprietari fondiari, mancata realiz­ zazione della rivoluzione contadina, assolutismo e inadeguatez­ za dello Stato poliziesco). Questo non impediva a Trockij, da vero marxista, di vedere come gli operai dei paesi più avanzati fossero debitori nei confronti degli operai russi. Non abbiamo nulla da ridire riguardo questo modo di spiegare la rivoluzione russa, non è stato assolutamente smentito dagli avvenimenti ul­ teriori. Questo non è invece il parere di « Bilan ». Esso inizia di­ mostrando che, sotto il profilo formale, la lotta di emancipazio­ ne proletaria prende necessariamente veste nazionale per il fatto di avere come arena la stessa società capitalista suddivisa in Stati nazionali; sotto il profilo del contenuto questa lotta può essere solo internazionale, in quanto il suo fine può essere solo il rovesciamento delle frontiere nazionali, la liquidazione degli Stati nazionali e l’instaurazione di una società comunista uni­ versale. La lotta proletaria è pertanto fondamentalmente una lotta internazionale. Ancora una volta siamo d’accordo. Ma ciò su cui non si può essere più d’accordo è il vero abuso che « Bi­ lan » fa di questa fondamentale verità. Non c’è nulla di più fa­

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cile che fare di una regola, entro certi limiti giusta, un’assurdi­ tà. Basta allargare la sfera entro la quale questa regola resta valida. È ciò che fa « Bilan ». Così quando « Bilan » afferma che il destino ultimo della rivoluzione russa era legato alla ca­ pacità rivoluzionaria del proletariato mondiale, enuncia una banale verità, che Lenin e i suoi compagni hanno tuttavia dovu­ to difendere contro coloro che potremmo definire uomini miopi, se non sapessimo che questa miopia ha un’origine sociale ben precisa. Ma quando, a dispetto di ogni aspettativa, malgrado gli sforzi disperati per suscitarla, questa capacità non si manifesta, un marxista non ha forse il dovere di cercare il perché di questa mancanza? Ed è su questo punto che noi ci troviamo in contrasto con « Bilan ». Leggiamo: «... le premesse storiche dell’ottobre erano unicamente di natura internazionale » (6).

E ancora più avanti:

« La Russia, per esempio, che fu definita ‘l’anello più debole del 1917’, non era tale sotto il profilo economico (poiché questa area era qulela che presentava in Europa le condizioni economiche per la migliore difesa del regime borghese), ma lo era per le condi­ zioni storiche in cui avvenivano le profonde trasformazioni economi­ che e sociali che, negli altri paesi, erano state le sostanze delle rivo­ luzioni borghesi » (7).

La prima affermazione è chiaramente sbagliata. Dobbiamo spiegarci meglio, e non ci vengano a smentire affermando che l’Ottobre russo è stata una manifestazione della forza interna­ zionale dei lavoratori, perché gli operai russi hanno vinto in Ot­ tobre appropriandosi delle esperienze di lotta operaia degli altri paesi. Dicendo questo non si spiega un bel niente, si tratta di dimostrare per quale motivo l’Ottobre russo sia avvenuto a Pietroburgo e a Mosca e non in altri paesi dove c’è pure un proletariato che ha avuto altrettante, se non maggiori, occasioni («) Ibid. (7) Ibid.

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di assimilare le esperienze di lotta operaia del mondo intiero. Il tentativo di « Bilan » di dimostrare con gli sconvolgimenti rivo­ luzionari, seguiti alla rivoluzione russa, che quest’ultima era so­ lo un « precursore » di questi sconvolgimenti, non offre nulla di probante. Certamente, non si può concepire che una rivoluzione, dell’ampiezza di quella che è avvenuta in Russia, non si riper­ cuota nel resto del mondo. Ma è molto azzardato pretendere che la rivoluzione russa sarebbe la prova che il «proletariato mondiale» fosse pronto alla rivoluzione, quando da nessun’altra parte la rivoluzione ha avuto l’ampiezza che ha raggiunto in Russia. No, la tesi avanzata da « Bilan » ha solo lo scopo di cerca­ re di negare o sminuire il fondamentale ruolo svolto dai fattori sociali a livello nazionale e il loro contributo nell’accendere la rivoluzione in Russia (8). Diciamo cercare di sminuire perché in altri passi « Bilan » è obbligato a riconoscere la parte che spetta allo stato di arretratezza della Russia nello scoppio della rivolu­ zione. Ciò che persegue la tesi di « Bilan » ci è rivelato dai passi che seguono la nostra precedente citazione. Leggiamo:

« Da un punto di vista mondiale, questo settore dell’economia capitalista [la Russia] crollò in circostanze storiche che ne facevano l’anello più debole perché il proletariato era in grado di intervenire in quegli avvenimenti con l’esperienza di circa un secolo di lotta di classe » (9).

Il proletariato russo interveniva dunque con un bagaglio di conoscenze e di esperienze più considerevoli di quello degli altri (8) I compagni di « Bilan » sono così accecati da ciò che essi considerano trovate originali da cadere in gravissimi errori. Essi ammettono che lo sviluppo ineguale del capitalismo abbia grande importanza per spiegare l’origine della rivo­ luzione russa. Ma poi ammettono che Stalin si è appoggiato alla constatazione dello sviluppo ineguale per giustificare la teoria del socialismo in un solo paese. Doman­ diamo a «Bilan» qual è la sua opinione: chi è marxista, Trockij che spiega par­ zialmente la rivoluzione in base allo sviluppo ineguale o Stalin che se ne serve per avvalorare una menzogna (certamente nel «suo» paese Stalin non costruisce il so­

cialismo). (9) Partito Internazionale Stato.

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proletariati; ecco, secondo « Bilan », la vera causa del trionfo rivoluzionario russo. Non dimentichiamo mai che, per « Bilan », questa prova di maggiore capacità rivoluzionaria sta nel fatto che gli operai russi seguivano il partito bolscevico, partito che si era formato con norme che « Bilan » considera ancora come le sole valide e alle quali è rigorosamente fedele. Vediamo che in questo i compagni della Frazione che si proclamano i discepoli di Lenin, senza tuttavia definirsi lenini­ sti, sono in realtà più leninisti di Lenin. Perché è proprio Le­ nin che nel 1917, poco prima della rivoluzione, respinse con la più ferma decisione — e in questo restava nella miglior tradi­ zione marxista — l’idea che fossero qualità particolari del pro­ letariato russo, il fatto di essere « eletto » per una «speciale missione», a porre questo proletariato all’avanguardia di tutti i proletariati. Per Lenin si trattava solo di un « concorso molto particolare di circostanze » che facevano del proletariato russo, forse solo per un momento molto breve, l’avanguardia del pro­ letariato mondiale. Per il fatto che circostanze particolari faces­ sero entrare per primo il proletariato russo nell’arena della ri­ voluzione, Lenin non ha mai creduto che si potesse affermare che questo proletariato desse prova di una particolare scienza. La prova sta nel fatto che lo stesso Lenin ha mostrato il rove­ scio della medaglia. Ha rilevato che se gli operai russi, col be­ neficio di questo « particolare concorso », avevano trovato una strada abbastanza facile, in ogni caso più facile che i proletari dei paesi più avanzati, nel rovesciare la borghesia, al contrario essi avrebbero avuto più difficoltà di quelli a costruire il socia­ lismo. E ciò risulta dalla semplice osservazione del corso della rivoluzione russa: gli operai russi furono irresistibili finché si tratto di rovesciare Vancien regime, ma sono stati vinti nell’o­ pera di costruzione del regime socialista dopo la rivoluzione. « Bilan » non contesta questa verità, tuttavia cerca di at­ tribuirla ad altre cause. Se gli operai russi, passando di vittoria in vittoria nella lotta rivoluzionaria prima della presa del potere, si fanno privare del frutto della loro vittoria dopo la rivoluzione, dove si devono cercare le cause? Forse le condizioni russe, così favorevoli all’abbattimento della borghesia, erano sfavorevoli al­

IL dibattito: hennaut

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la costruzione del socialismo? Ritroviamo allora le conseguenze del famoso sviluppo ineguale. Una volta rovesciata la borghe­ sia il proletariato deve dimostrare di essere in grado di superarla. Si tratta di dar prova di una serie di qualità che il proletariato può acquisire solo sotto un regime capitalista molto avanzato, cioè dove il sistema produttivo affida al proletariato, manuale e intellettuale, ogni funzione produttiva e lascia alla classe capi­ talistica solo ruoli puramente parassitari. Dunque, dopo la pre­ sa del potere vengono messe alla prova le qualità intrinseche del proletariato che ha compiuto la rivoluzione. Ma questa non è assolutamente l’opinione di « Bilan »:

« Il bolscevichi — scrive « Bilan » — con la vittoria dell’ot­ tobre 1917, ci hanno mostrato che solo sulla base di valutazioni internazionali possiamo dirigere la lotta del proletariato in ogni pae­ se e che la vittoria può realizzarsi anche in un settore fortemente arretrato » (10). Quindi, l’arretratezza economica non era affatto un ostaco­ lo alla costruzione del socialismo. Se il proletariato russo ha subito uno scacco in questo campo è solo a causa della ristret­ tezza nazionalista della politica del proletariato russo dopo la presa del potere. Naturalmente, nessuno si sogna di dubitare che la lotta per la costruzione del socialismo avrebbe preso un’altra piega, molto più favorevole, se la rivoluzione si fosse estesa ad altri paesi e soprattutto a paesi più avanzati, quali la Germania, come speravano i bolscevichi nel 1917-1918. Si sa bene che questa speranza non si è realizzata. Per questo i lati negativi dello « sviluppo ineguale » si sono potuti manifestare in pieno in Russia. La debolezza del proletariato russo è stata la causa della prima disfatta rivoluzionaria sul terreno econo­ mico. Questa disfatta è diventata a sua volta la causa dell’indi­ rizzo nazionalista, che è prevalso in seguito e che ha contribuito poi a imbrigliare la lotta rivoluzionaria fuori dalla Russia. C’è dunque una concatenazione di cause alla cui base ri­ troviamo l’immaturità del proletariato russo a edificare il socia­ lismo. Ci sembra pericoloso cavillare su questo capitolo. « Bilan » (io) ibid.

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se la cava con scappatoie che non possono essere prese sul se­ rio. Si giudichi pure: « A parte la realizzazione di obiettivi economici — scrive « Bi­ lan » — di enorme importanza (come poi vedremo), il proletariato vincitore ha il compito essenziale di proclamare apertamente che gli è impossibile istituire le basi stesse del comuniSmo e che anzi, per giungere a questo risultato — risultato che non gli conferisce un’in­ vestitura di natura particolaristica —, deve porre lo Stato al servizio della rivoluzione mondiale, perché solo da essa possono germinare le condizioni reali per l’emancipazione dei lavoratori sia a livello nazio­ nale sia internazionale » (u).

Troviamo in queste righe un bell’esempio di come «Bi­ lan » nelle strette difficili se la cavi con un vero e proprio scantonamento dei problemi. La questione che merita chiarimenti non e quella di sapere se la politica di un paese, che ha fatto la rivoluzione, debba essere allacciata alla rivoluzione mondiale, ma è quello di sapere come potrà farlo. In Russia il ripiego nazionalistico della rivoluzione è stato il risultato della disfatta subita dal proletariato sul fronte di classe interno alla Russia. La replica di una simile disfatta può essere evitata altrove solo se il proletariato resta padrone della rivoluzione, dopo la presa del potere, allorché si porranno i problemi della costruzione del socialismo. Solo a questa condizione il proletariato può se­ guire il consiglio di «Bilan» e porre lo Stato al servizio della rivoluzione mondiale. Porre lo Stato al servizio della rivoluzio­ ne mondiale presuppone una vittoria, perlomeno provvisoria, al­ l’interno dello Stato in cui è scoppiata la rivoluzione. E, per non aver conseguito questa vittoria, la rivoluzione russa si è ribaltata contro la rivoluzione mondiale. Democrazia formale e democrazia socialista L’opera di Rosa Luxemburg conosce il triste privilegio di godere l’ammirazione di una buona schiera di dilettanti — per non dire peggio —- del socialismo e del comuniSmo. (ii) Ibid.

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Il fatto che questa ammirazione, per quanto possa essere sincera, si basi sull’incomprensione del senso profondo dell’inse­ gnamento che ci ha lasciato in eredità questa incomparabile pio­ niera della rivoluzione proletaria, ci sembra non richieda più ampie dimostrazioni. Per questo pensiamo che i rivoluzionari debbano affrontare lo studio degli scritti della Luxemburg con enorme cura e imparzialità. Si conosce lo strano destino riservato aìVEsame critico del­ la Rivoluzione russa, una piccola brochure scritta dalla Luxem­ burg durante la sua detenzione nella prigione di Breslavia nel 1918. Questo scritto è stato utilizzato dalla socialdemocrazia con­ tro la rivoluzione. Kautsky se ne è servito per presentare la Luxemburg come una nemica della rivoluzione bolscevica. I bolscevichi — e non solo i burocrati e gli attuali sfruttatori de­ gli operai russi, ciò va da sé, ma anche Lenin e Trockij — hanno considerato che questo scritto ponesse la sua autrice, malgrado là sua posizione di estrema sinistra nel movimento operaio te­ desco, nel novero di quelle persone che non capiscono assolutamente le dure necessità della rivoluzione, e per le quali i sen­ timenti e i pregiudizi contano più del freddo computo delle for­ ze sociali in campo. Ciò vuol dire abbassare di colpo la Lu­ xemburg dal rango dei rivoluzionari marxisti a quello dei ri­ belli piccolo borghesi, i partigiani della democrazia formale. Sia­ mo restati spiacevolmente sorpresi nel vedere « Bilan » portare acqua al mulino dei detrattori della Luxemburg. Pur schierando Rosa Luxemburg tra i combattenti rivoluzionari del proletaria­ to, « Bilan » riduce le critiche della Luxemburg, a proposito della democrazia nella rivoluzione russa, a una difesa della « de­ mocrazia formale», quindi borghese(12). La Luxemburg aveva tuttavia fatto ben attenzione a preci­ sare che non si trattava assolutamente di una difesa della demo­ crazia formale e supporre che avesse potuto farlo vuol dire in­ sultarla. La Luxemburg rimproverava ai bolscevichi lo sciogli­ mento della Assemblea costituente, la soppressione delle liber­ (u) Quels sont les héritiers de Lenin, Luxemburg, Liebknecht?, « Bilan »,

n. 27.

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tà di riunione e di stampa per i partiti operai che si erano posti sulla base dell’accettazione della costituzione sovietica e questo non dal punto di vista della difesa della democrazia formale, ma dal punto di vista della dittatura del proletariato. Non è fuori di luogo riproporre i termini con cui la Luxemburg poneva il problema.

« Il diritto di voto elaborato dal governo dei Soviet è calcolato proprio per il periodo di transizione dalla società borghese-capitalisti ­ ca a quella socialista, per il periodo cioè della dittatura del proleta­ riato. Secondo l’interpretazione di questa dittatura che Lenin e Trockij rappresentano, questo diritto di voto è concesso solo a coloro che vi­ vono del proprio lavoro e negato a tutti gli altri. Ora è chiaro che il diritto di voto non ha senso, se non in una società che anche dal punto di vista economico sia in una situazione tale da rendere possibile, a tutti coloro che vogliono lavorare, di avere grazie al proprio lavoro un tenore di vita conveniente e degno della civiltà. Accade ciò nella Russia attuale? Date le enormi diffi­ coltà con le quali deve lottare la Rùssia dei Soviet, a cui è sbarrata la via del mercato mondiale e son chiuse tutte le sue principali sor­ genti di materie prime, data la spaventosa disorganizzazione generale della vita economica, dato il brusco sovvertimento dei rapporti di produzione, in seguito al rovesciamento dei rapporti di proprietà nella agricoltura, nell’industria e nel commercio, è naturale che innu­ merevoli esistenze siano state di colpo sradicate e proiettate fuori dal loro binario senza alcuna possibilità materiale di trovare nel mecca­ nismo economico un impiego qualsiasi per la loro capacità lavorativa. Ciò non si applica soltanto alla classe dei capitalisti e dei proprietari terrieri, ma anche nel vasto strato del ceto medio e della stessa classe operaia. Poiché infine è una realtà che la contrazione dell’attività in­ dustriale ha provocato un afflusso delle masse del proletariato citta­ dino verso le campagne, masse che cercano un mezzo di sostenta­ mento nell’agricoltura. In tali circostanze un diritto di suffragio poli­ tico che ha quale premessa economica l’obbligo generale di lavo­ rare, è una norma del tutto incomprensibile. La sua tendenza deve essere di togliere il diritto politico unicamente agli sfruttatori. Men­ tre forze lavoratrici produttive sono sradicate in massa, il governo dei Soviet si vede al contrario costretto spesso ad affittare, per così dire, l’industria nazionale ai vecchi proprietari capitalisti. Ugualmente il

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governo dei Soviet si sentì obbligato a concludere un compromesso anche con le cooperative borghesi di consumo. Inoltre l’impiego di tecnici borghesi si è rivelato indispensabile. Un’altra conseguenza di questo fenomeno è che strati sempre maggiori del proletariato ven­ gono mantenuti dallo Stato col denaro pubblico, come guardie rosse ecc. In realtà questo sistema priva dei loro diritti strati sempre più vasti della piccola borghesia e del proletariato per i quali l’organismo economico non trova alcun mezzo per l’esercizio dell’obbligo del la­ voro » (13). Si può vedere che tutto ciò non ha nulla da spartire con la difesa della democrazia formale. La Luxemburg si pronunciava contro il diritto di suffragio bolscevico, perché essa non vi scor­ geva un « serio strumento della dittatura proletaria ». Di fatto, la Luxemburg concepiva la dittatura proletaria in tutt’altro modo che i bolscevichi. La Luxemburg vedeva prima di tutto nella dit­ tatura proletaria la costante azione delle masse nella vita pub­ blica. Per questo essa pensava che « senza elezioni generali, sen­ za un’illimitata libertà di stampa, senza libero confronto di opi­ nioni, in tutte le istituzioni pubbliche la vita si spegne, essa diven­ ta una vita apparente, in cui la burocrazia è il solo elemento che resta attivo ». Ben diversa è la concezione dei bolscevichi. Per essi la dit­ tatura del proletariato è in realtà la dittatura della sua « avan­ guardia », la dittatura del partito comunista. E i bolscevichi con­ vengono che è avvenuta una sostituzione, ma in fondo per loro non è una sostituzione, perché « I comunisti — scrive Trockij — esprimono gli interessi fondamentali della classe operaia. È naturale che in un periodo in cui la storia mette all’ordine del giorno in tutta la loro grandezza questi interessi, i comunisti siano divenuti i rappresentanti riconosciuti dell’intera classe operaia (14 ). Per i bolscevichi, proprio come per « Bilan », questa con­ vergenza di interessi delle masse con gli interessi del Partito (13) Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, in Scritti politici, Ed. Riuniti, Roma 1970, pp. 586-87. (14) Lev Trotsky, Terrorismo e comuniSmo, Sugarco, Milano 1977, p. 155.

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Comunista non soffre il minimo dubbio. Il Partito Comunista è l’elemento più coerente, più chiaro e più deciso del proleta­ riato e per questo la sua azione spesso si deve sostituire a quel­ la delle masse che possono venire influenzate dalla parte retriva della classe operaia, propensa a cercare sbocchi in compromessi con le forze borghesi, o perfino disposta a farsi strumentalizzare ancien regime. Tutto ciò ha una grande importanza, perché mostra quale ruolo una tale rivoluzione accorda alle organizza­ zioni della classe operaia. A proposito delle organizzazioni sin­ dacali Trockij, nel libro citato, si esprime in questo modo:

« I sindacati diventano gli organizzatori diretti della produzione sociale. Essi non solo esprimono gli interessi degli operai dell’indu­ stria, ma gli interessi dell’industria stessa. [Questa distinzione tra gli interessi degli operai industriali e gli interessi dell’industria, in re­ gime di dittatura proletaria, è tutta una rivelazione, A.H.]. Nel pri­ mo periodo, le vecchie correnti del sindacalismo alzarono più di una volta la testa, incitando i sindacati ad opporsi allo Stato dei Soviet, a porgli condizioni, a richiedergli garanzie. Col passare del tempo comunque i sindacati riconoscono sempre più il loro ruolo di organi della produzione dello Stato dei Soviet, e se ne assumono la respon­ sabilità, non opponendosi a questo Stato, ma identificandosi con es­ so. I sindacati divengono gli organizzatori della disciplina del lavoro. Essi richiedono agli operai un lavoro intenso nelle più difficili con­ dizioni, finché lo Stato proletario non sia in grado di modificare que­ ste condizioni. I sindacati sono divenuti l’apparato della repressione rivoluzio­ naria contro gli elementi indisciplinati, anarchici, o parassitari della classe operaia. Dalla vecchia politica del sindacalismo, che a un certo livello è inseparabile dal movimento industriale nel sistema della so­ cietà capitalista, i sindacati sono passati alla politica del comuniSmo rivoluzionario » (15). Con questa citazione si misura la distanza che separa la concezione della dittatura del proletariato dei bolscevichi da quella prospettata dalla Luxemburg. Mentre secondo la prima (15) Ibid., p. 156. (L’edizione italiana traduce col termine anarchici l’espres­ sione « des elements turbulents »! N.d.t.)

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concezione le masse sono relegate in secondo piano, poiché non devono far altro che appoggiare l’azione del partito, nella se­ conda il loro ruolo diventa determinante. La Luxemburg assegnava alla dittatura proletaria il com­ pito di realizzare la democrazia socialista. Per i bolscevichi, questa democrazia, sorgerebbe più tardi, dopo che il partito, grazie alla mediazione dello Stato proletario, avrà creato le basi economiche che renderanno possibile la vita sociale senza sfrut­ tamento e senz’altra costrizione che quella che nasce dalla sot­ tomissione dell’uomo alle leggi di natura. Per la Luxemburg, la democrazia socialista inizia subito dopo il rovesciamento del­ la borghesia:

« La democrazia socialista però non comincia solo nella Terra Promessa, dopo che è stata creata la sottostruttura dell’economia so­ cialista, a titolo di regalo natalizio bell’e pronto per il bravo popolo che nel frattempo avrà fedelmente sostenuto il manipolo dei dittatori socialisti. La democrazia socialista comincia insieme all’opera di di­ struzione della dominazione di classe e di costruzione del socialismo. Essa comincia nel momento in cui viene preso il potere da parte del partito socialista [comunista, diremmo oggi, A. H.]. Essa non è altro che la dittatura del proletariato » (16). Si tratta di due modi differenti di realizzare la dittatura del proletariato. Ma non si tratta di una semplice divergenza dello spirito, di differenti maniere di pensare. In quanto marxi­ sti, dobbiamo sapere che ogni contrasto concettuale copre e dis­ simula antagonismi sociali e contrasti di classe. Alla base delle divergenze tra la Luxemburg e i bolscevichi stava la differenza di contenuto tra la rivoluzione tedesca e quella russa. Se si ri­ prendono, a sedici anni di distanza, queste dissertazioni teoriche che opposero la Luxemburg ai bolscevichi, si giunge alla con­ statazione che l’una e gli altri hanno avuto ragione, ma essi hanno potuto avere ragione solo perché partivano da punti di vista differenti. La previsione della Luxemburg secondo la quale la dittatura del partito doveva degenerare in una dittatura di

(16) Rosa Luxemburg, op. cit., p. 593.

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clan, di cricca, si sono realizzate in modo ancora più marcato di quanto essa avrebbe potuto immaginare. La Luxemburg sapeva, poiché lo ha scritto, che se i bol­ scevichi instaurarono una dittatura di ferro, non solo nei con­ fronti della piccola borghesia e del contadiname — del resto, verso questi strati sociali le concessioni furono tanto più gran­ di in seguito, vedi la NEP — ma anche nei confronti della classe operaia, se questa dittatura fu una dittatura giacobina, quindi sull’esempio di una dittatura borghese, ciò non fu tanto per­ ché Lenin e Trockij idolatrassero la dittatura, ma perché furono spinti da necessità esterne che costrinsero il potere sovietico a dover affrontare non solo la contro-rivoluzione interna, ma an­ che gli attacchi del capitalismo internazionale. La Luxemburg sapeva che le rivoluzioni « non si fanno con l’acqua di rosé ». Ma resta ancora da sapere se, nel caso in cui la rivoluzione rus­ sa si fosse svolta in condizioni più favorevoli, i bolscevichi avrebbero dato maggior spazio alla democrazia proletaria. L’ul­ teriore evoluzione, che mostra come la stabilizzazione e l’affer­ mazione del regime sovietico sull’arena mondiale va di pari pas­ so con un rafforzamento della dittatura, fa supporre il con­ trario. I bolscevichi hanno avuto ragione in modo incontestabile su di un altro punto. La storia ha dimostrato che la dittatura giacobina, la dittatura su modello borghese, che riduce il ruolo delle masse alla sola funzione di appoggiare un governo senza poter governare esse stesse, questa dittatura è stata il solo regi­ me che potesse convenire alla rivoluzione russa. Era l’unico mo­ do, per i bolscevichi, di conservare il potere. Ogni attenuazione del rigore della dittatura, non tanto nei confronti della borghe­ sia (una parte della borghesia si è adattata al regime sovietico), quanto nei confronti del proletariato, avrebbe spinto la rivolu­ zione più avanti, ma avrebbe allontanato dal potere il partito comunista. Come contropartita a questa conservazione del po­ tere da parte dei bolscevichi, si iscrive l’abbandono di tutte quel­ le rivendicazioni sociali, grazie alle quali gli operai di tutto il mondo salutarono la rivoluzione russa come precorritrice della rivoluzione proletaria: governo diretto, abolizione del lavoro sa-

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lariato, eguaglianza economica e politica. I bolscevichi hanno saputo trovare i mezzi per mantenersi al potere, ma hanno po­ tuto farlo solo svuotando la rivoluzione del suo contenuto co­ munista.

Bolscevismo e neo-bolscevismo Dalle tesi pubblicate da « Bilan », risulta che i comunisti di sinistra italiani si collegano completamente al bolscevismo ri­ guardo al carattere della dittatura del proletariato: dittatura di partito quindi, non di classe. Ci sarà permesso insistere su que­ sto punto, la Frazione, per i correttivi da essa apportati alla dottrina bolscevica, potrebbe venir inclusa tra gli avversari del­ la dittatura bolscevica, così come si è realizzata in Russia. Que­ sti correttivi toccano solo aspetti marginali e, per di più, si ri­ velano inapplicabili. Resta il fatto che i nostri compagni italia­ ni, pur continuando a considerare lo Stato sovietico come uno Stato proletario, si rifiutano di difenderlo e mantengono, in li­ nea di massima, l’indipendenza di spirito e di azione che si è in diritto di aspettarsi da combattenti della rivoluzione proletaria. Questa è un’incongruenza della quale in questo studio non ci è possibile fornire una spiegazione di fondo. I nostri compagni italiani, riguardo la dottrina del partito, avanzano esattamente le stesse argomentazioni dei bolscevichi.

Ascoltiamo: « [II] contrasto, tra maturazione delle condizioni economiche per la società comunista e vittoria proletaria, rende necessario il pe­ riodo di transizione e impone ai comunisti di sopportare l’esistenza dello Stato » (17). Dunque, se ben comprendiamo, il periodo di transizione, durante il quale il governo assume la forma di una dittatura del partito di avanguardia del proletariato, si giustifica col fatto che l’apparato produttivo ereditato dal capitalismo non permet­ (17) Partito Internazionale Stato.

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te la completa e integrale soddisfazione dei bisogni dei produt­ tori come dovrebbe poter fare un regime di produzione comu­ nista. La funzione del regime di transizione è proprio quella di condurre l’apparato produttivo a un livello tale da permettere l’applicazione della norma: a ciascuno secondo i suoi bisogni per un lavoro secondo le proprie capacità. Provvisoriamente, dopo la sconfitta della borghesia, non si potrà ancora navigare in un mare di abbondanza. È certo possibile, anzi probabile, che, nei primi tempi il regime socialista offra ai produttori con­ dizioni di vita meno favorevoli che il regime capitalista. Sareb­ be demagogico affermare il contrario. Ma questa constatazione non spiega ancora perché il regime che presiede il periodo di transizione (caratterizzato dallo sforzo intensivo della comunità socialista in vista della ripresa delle forze produttive) debba essere una dittatura del partito e non una dittatura della classe operaia nel suo insieme. Per capirlo dobbiamo proseguire la let­ tura di « Bilan »: « Di pari passo con questa necessità di ordine economico ne sorge un’altra (...) cioè il fatto che gli operai giun­ gono alla conquista del potere politico quando non hanno an­ cora raggiunto una coscienza comunista che si compenetri nel­ l’insieme della classe » (18). Questa affermazione ci porta proprio al centro della dia­ triba. Il regime di dittatura del partito è necessario perché si giudica che la classe operaia, nel suo complesso, sia incapace di imporsi i sacrifici propri del periodo di transizione, premessa in­ dispensabile all’instaurazione del regime comunista. In altri ter­ mini, è la tesi sostenuta da Trockij nel suo Terrorismo e Comu­ niSmo. Se fosse vera, si dovrebbe ammettere che il comuniSmo è impossibile. Perché il comuniSmo non può essere conquistato da un’avanguardia di devoti illuminati che si offre al proletariato su un bel piatto d’argento. La storia non ci presenta alcun esempio in cui l’emancipazio­ ne di una classe sia stata conquistata da un’altra classe o anche

(18)

Ibid.

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da un’avanguardia. Al contrario, l’esempio della rivoluzione rus­ sa, sulla quale ci sforziamo di far luce, conferma che il comu­ niSmo può essere realizzato solo dall’intiera classe operaia. Perché non sarebbe possibile? Non sappiamo, forse, che la classe operaia si deciderà a fare la rivoluzione solo dopo aver sperimentato l’inutilità di tutte le altre strade, quelle che al­ l’apparenza sembrano più facili? E, d’altra parte, forse non sap­ piamo che per quanto essa cerchi simili strade, è necessario che il capitalismo non le lasci più alcuna speranza? Affermiamo ugualmente che il capitalismo porta alla barbarie. Ciò vuol dire che la classe operaia sarà costretta a fare la rivoluzione se non vuole soccombere. In tali condizioni, non si può immaginare che la classe operaia non sia in grado di sopportare gli oneri di una rivoluzione, anche nel caso in cui questa rivoluzione si presenti come un’impresa dubbia. Si avrebbero allora atti di di­ sperazione, quali la violenza sulle macchine, come avvenné con il macchinismo, quando la classe operaia muoveva i suoi primi passi. Poteva sembrare, allora, del tutto naturale che fosse im­ possibile per i lavoratori dominare un giorno quelle macchine che li votavano alla peggiore sottomissione. Ma, da allora, la classe operaia si è evoluta, tutte le funzioni produttive che, un tempo, erano svolte dai borghesi ora sono assolte da salariati. Queste circostanze debbono rinforzare, e non sminuire, la fiducia della classe operaia nelle proprie capacità e queste stesse deb­ bono presentarle i sacrifici richiesti dalla rivoluzione come sa­ crifici ragionevoli, suscettibili di trovare in seguito la più ampia ricompensa. La tesi secondo la quale la Rivoluzione russa avrebbe po­ tuto rappresentare il prototipo di una rivoluzione proletaria e che essa possa ancora servire da modello, a condizione di appor­ tarvi alcuni correttivi, deve essere respinta come un’elucubra­ zione che non ha nulla a che vedere con l’analisi marxista della realtà. I correttivi proposti avrebbero valore sólo se si ammet­ tesse che lo schema della rivoluzione russa possa essere seguito anche per la rivoluzione proletaria in paesi capitalisti più evo­ luti. « Bilan » ci insegna che in Russia la rivoluzione è degene­ rata a causa del suo isolamento, in quanto la rivoluzione può

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trionfare solo a scala internazionale. Per evitate che nello stesso modo degeneri una prossima rivoluzione, si deve fare il contrà­ rio di ciò che è stato fatto in URSS. Invece di mettere l’Inter­ nazionale al servizio della rivoluzione (ciò che oggi ha poratato al trionfo della dottrina della rivoluzione in un solo paese) la futura rivoluzione si dovrà porre al servizio della rivoluzione mondiale, affidando la direzione della rivoluzione non al partito del paese in cui è scoppiata la rivoluzione, ma all’Internazionale proletaria. Inoltre il Partito comunista russo ha avuto il torto di incorporarsi nello Stato, e i comunisti russi commisero pure l’errore di irregimentare i sindacati e soffocare la voce delle al­ tre correnti operaie, a favore delle quali avrebbero dovuto man­ tenere il diritto di costituire frazioni, pur senza autorizzare la formazione di altri partiti. Ma voler spiegare la degenerazione della rivoluzione russa con i sintomi che l’hanno accompagnata, non vuol dire fare il contrario di ciò che dovrebbe essere un’analisi marxista? È giu­ stissimo far risalire l’inizio della degenerazione all’isolamento della rivoluzione russa, al fatto che essa non ha potuto essere spalleggiata da una rivoluzione in Germania, come tutti all’inizio avevano sperato. Ma trovare in questo isolamento delle scuse alla forma essenziale che ha assunto la rivoluzione russa (cioè la dittatura del partito comunista), in questa circostanza, vuol dire scambiare l’effetto con la causa. Se veramente la rivoluzione si fosse estesa alla Germania, si può pensare che i bolscevichi avrebbero mantenuto quella serie di provvedimenti che avevano lo scopo di limitare le iniziative dei lavoratori? Si sarebbero potuti incorporare nello Stato i sindacati, perseguitare l’.Opposizione operaia, che esprimeva, proprio in seno al partito, il malcontento operaio contro le misure alle quali il partito era stato costretto per poter conservare il potere? Evidentemente no. Dalla congiunzione delle due rivoluzioni gli operai russi si sarebbero sentiti più forti e avrebbero trovato la forza di re­ spingere la tutela del partito comunista, tutela che esprimeva le condizioni indispensabili per il mantenimento al potere dei bol­ scevichi, ma che rivelava allo stesso tempo l’immaturità delle condizioni russe per la rivoluzione proletaria.

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Egualmente può dispiacere che il partito comunista abbia reso i sindacati semplici ingranaggi dello Stato e che il partito si sia identificato con lo Stato. Ma a che cosà servono questi ram­ marichi? A noi interessa sapere se era possibile un’altra rivo­ luzione. Sorprende che « Bilan » difenda la non-identificazione degli organismi operai con lo Stato nel regime di transizione dal capitalismo al comuniSmo. Questa identificazione è tuttavia la Caratteristica del periodo di transizióne. In un periodo simile non possono esserci due organismi di potere: lo Stato da un lato, gli organismi operai dall’altro. Sussistono in quanto poli d’attrazione del potere, come auspica « Bilan », perché tra essi permane una contraddizione. Lo Stato può essere solo lo stru­ mento di dominio di una classe. Quindi, se una classe giùnge ad augurare che i propri organismi non si identifichino con lo Stato per lottare meglio contro di esso (non vediamo altro motivo), è perché lo Stato ha cessato di èssere lo strumento di dominio della classe operaia e costituisce un corpo a essa estraneo. È il caso dell’URSS. Lo Stato è estraneo alla classe operaia. I sin­ dacati non sono liberi, ma sono creature dello Stato, quindi del­ la classe dominante, ma se fossero liberi ciò non farebbe altro che confermare la separazione tra classe operaia e Stato, come nei paesi capitalisti l’esistenza dei sindacati non invalida asso­ lutamente il dominio della borghesia ma, al contrario, non fa che confermarlo. Laddove la classe operaia ha bisogno di una qual si voglia organizzazione — sindacato, partito, soviet, con­ siglio, ecc. — per controllare o comandare lo Stato, vuol dire che in questo caso lo Stato non è più in pugno ai lavoratori. In que­ sto caso, dunque, non si può più parlare di un regime di tran­ sizione dal capitalismo al socialismo. I consigli che « Bilan » ci vuole impartire sulla necessità di affidare la direzione di una rivoluzione locale al proletariato mondiale e di alimentare spazi democratici (toh! anche «Bilan» cerca un pizzico di democrazia!) negli organismi operai, valgono quanto i suoi altri rammarichi. Se vi fosse stata uno rivoluzione proletaria, la rivoluzione russa non si sarebbe volta contro la rivoluzione mondiale. Nessun decreto ci può premunire, in fu­ turo, contro il ripetersi di simili eventualità.

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Quanto alla libertà di poter costituire frazioni nei sinda­ cati, rimarrà una liberalità di cui nessun proletario vorrà servir­ si se non verrà sostenuta e completata dalla libertà di stampa, di riunione e, tagliamo corto, della libertà di creare un altro partito. Su questa questione dobbiamo ancora approvare la Lu­ xemburg: « La libertà, è sempre la libertà di coloro che la pen­ sano diversamente ». Noi, invece di spremerci le meningi per dar consigli per l’avvenire, cercare rimedi infallibili e « rifare » la storia, dob­ biamo trarre insegnamento degli avvenimenti e conoscere la realtà. La rivoluzione bolscevica è stata fatta dal proletariato, ma non è stata una rivoluzione proletaria. La dittatura del par­ tito comunista che ci è stata presentata come la forma specifica della dittatura del proletariato, non era una dittatura del pro­ letariato. Essa non esprimeva assolutamente la fase di transi­ zione dal capitalismo al socialismo, ma, questa dittatura comu­ nista, è stata ed è l’espressione della contraddizione, in URSS, tra l’impossibilità di conservare ulteriormente il sistema di pro­ duzione capitalistico e l’incapacità del proletariato di realizzare il socialismo. Non si tratta di sottovalutare o meno la necessità di un partito rivoluzionario. Crediamo sempre che questo or­ ganismo sia necessario, a condizione però che si limiti a svolgere il ruolo che gli assegnava la Luxemburg, che è lo stesso che gli assegnava il Manifesto Comunista:

« I comunisti rappresentano, di fronte a gruppi di interessi dif­ ferenti in seno al proletariato, gli interessi comuni a tutto il prole­ tariato e in tutti i gradi di sviluppo della lotta di classe, l’interesse del movimento nel suo insieme, cioè lo scopo finale, l’emancipazione del proletariato » (19). Siamo d’accordo che i comunisti si organizzino separatamente dalla classe con lo scopo di introdurvi le proprie idee, ma è aberrante che essi si sostituiscano alla classe operaia. Quando avviene questa sostituzione, quando essa prende la for(19) Cfr. la traduzione italiana in: K. Marx - F. Engels, Manifesto del Partito comunista, Einaudi, Torino 1970, p. 147.

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ma, come in Russia, di monopolio della vita pubblica, riservata ai soli comunisti, significa che si celano rapporti diversi da quelli che esistono tra l’avanguardia e la massa. Sotto il manto di una categoria unica sussistono contraddizioni di classe. Ciò è avvenuto in Russia. Il proletariato russo non è stato vinto dalla grande borghesia, questa è scomparsa, ma dalla mas­ sa di piccola borghesia contadina e urbana. Si obbietterà che c’è una contraddizione quando si parla della borghesia come classe dominante, poiché in URSS manca l’elemento fondamentale che contraddistingue la borghesia come forza storica: la pro­ prietà privata dei mezzi di produzione. Va bene, forse la qua­ lifica non è completamente giusta, ma reputiamo che in man­ canza d’altro si deve continuare ad usarla perché meglio espri­ me le finalità sociali che la legano alla borghesia mondiale. Moltissimi autori, tra essi il più illustre è Trockij, si sono sforzati di negare caratteristiche di classe alla burocrazia sovie­ tica e al regime sovietico il carattere di un sistema di sfrutta­ mento di una classe da parte di un’altra. Non si contano più le contraddizioni accumulate da Trockij per giustificare il suo punto di vista. L’ultima, in ordine di tempo, è quella che tro­ viamo nella sua brochure La nuova Costituzione dell’URSS. In polemica con Stalin che parla di « alcune » differenze « per nul­ la fondamentali » presenti tra gli strati sociali della società so­ vietica, Trockij scrive:

« Attualmente, la differenza tra ‘strati sociali’, differenza deter­ minata dalla loro posizione non certo nei confronti dei mezzi di pro­ duzione, ma nei confronti dei beni di consumo, ha una portata consi­ derevole più profonda » (20). Notiamo, a favore di Trockij, che nelle altre parti della sua brochure, mette in luce le stridenti differenze di vita dei diversi strati sociali sovietici. Ma la questione non è questa. Ab­ biamo riportato questo passo per mostrare come Trockij inten­ da provare che lo Stato sovietico è ancora uno Stato proletario (20) L. Trotsky, La nouvelle Constitution de l’URSS, « Spartacus », 30 maggio 1936. I concetti sono poi esposti diffusamente in: L. Trotskij, La rivoluzione tra­ dita, Samonà e Savelli, Roma 1968.

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e la proprietà sovietica dei mezzi di produzione una forma di proprietà comunista. Vorremmo che Trockij ci spiegasse come la burocrazia, la cui posizione sociale non sarebbe determinata dal suo rapporto con i mezzi di produzione, possa trovarsi ih una situazione così privilegiata riguardo i beni di consumo. Fi­ no a oggi, il marxismo aveva insegnato che il posto occupato dagli uomini nella società dipende dai loro rapporti con i mezzi di produzione (capitalisti e proletari). Questo non sarebbe più valido in URSS? Se è così, è perché in URSS è stato realizzato il socialismo. Ma Trockij ci dice tutti i giorni, e a ragione, che il socialismo non è stato realizzato, anzi l’URSS gli volta sem­ pre di più le spalle. Allora, da dove saltano fuori queste diffe­ renze dei diversi strati sociali riguardo i beni di consumo? Chi lo capirà sarà un bel genio? Parimenti « Bilan » fonda la sua affermazione, che lo Stato sovietico è uno Stato proletario, sul fatto che sussiste la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Ma come mai allora, i diri­ genti russi sono controrivoluzionari? « Bilan » ha trovato una spiegazione molto ingegnosa: perché l’URSS si sarebbe integra­ ta nel sistema capitalista mondiale. La burocrazia sovietica non è sfruttatrice di per sé stessa, ma per i suoi legami con il capi­ talismo internazionale. I lavoratori russi sarebbero sfruttati — perché « Bilan » ammette che c’è sfruttamento — non dalla bu­ rocrazia russa, ma dal capitalismo internazionale. D’altra parte, secondo « Bilan », lo sfruttamento si ridurrebbe a ben misera cosa, le condizioni di vita degli operai russi, che sono tra le più degradate del mondo, sarebbero il frutto di un’accumulazione indotta. Va bene, giudicano troppo ristretta la base delle forze produttive per la produzione di beni di consumo. Queste interpretazioni devono essere respinte. Se l’econo­ mia russa ha potuto congiungersi e integrarsi all’economia mondiale, dove sono le cause? Le cause sono nella trasforma­ zione avvenuta nel seno stesso della società russa. La nascita di una classe sfruttatrice ha permesso all’URSS di legarsi al capitalismo mondiale e la burocrazia sovietica la­ vora per i propri interessi quando sfrutta il proletariato russo. Naturalmente è obbligata a pagare un tributo molto alto ai set­

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tori capitalisti più evoluti, come ogni economia arretrata. La burocrazia comunque resta padrona della maggior parte del plusvalore estorto all’operaio russo. L’errore di « Bilan » deriva dal fatto di considerare la rivoluzione come frutto di un atto volontaristico di un’avanguardia. Dal momento che il partito rivoluzionario si è costituito solidamente e possiede giuste dot­ trine, esso può condurre a buon fine la rivoluzione, qualsivo­ glia forma essa assuma. Sicuro, il compagni della Frazione ten­ gono in conto la maturità proletaria, ma dichiarano poi che questa maturità proletaria debba trovare la sua espressione nel partito rivoluzionario. Partendo da queste premesse la Frazione giunge a pensare, per esempio, che la NEP — benché fosse un movimento di considerevole ripiego verso il capitalismo — non dovesse necessariamente portare alla liquidazione del sociali­ smo in URSS. Questa concezione volontaristica è inoltre confermata, quando « Bilan » afferma che l’economia russa potrebbe benis­ simo portare al socialismo se l’accumulazione venisse subordi­ nata al costante innalzamento del livello di vita operaio. Queste supposizioni non approdano a nulla, mentre la questione che ci sta a cuore è sapere perché l’economia russa accumula senza preoccuparsi di migliorare le condizioni di vita dell’operaio russo. « Bilan » non comprenderà neppure perché la rivoluzio­ ne proletaria presuppone la consegna della gestione delle im­ prese agli operai. In questa « rivendicazione » vede non si sa quale deformazione giuridica. Proprio perché, secondo la Fra­ zione, la meccanica rivoluzionaria attraverso il partito, e non attraverso la classe, rende la rivoluzione indipendente da forme produttive determinate. Di fatto, se la rivoluzione è opera del partito, e non della classe, poco importa che la classe tenga leve di comando nella produzione. Sistema tutto il partito; esso ha il potere di comandare alle leggi dell’accumulazione. Crediamo che affrontare il problema in questo modo vo­ glia dire abbandonare il solido terreno del materialismo storico. I motivi per i quali ci sforziamo di veder chiaro nell’esperienza russa nascono dalla necessità di capire ciò che è stata e ciò che è questa rivoluzione. Questo non è assolutamente, come certi

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compagni vorrebbero far credere, una dissertazione retrospetti­ va per vedere se la classe operaia abbia o non abbia fatto bene a cogliere, nel 1917-18, nella rivoluzione russa il precursore della rivoluzione mondiale e, a questo titolo, appoggiarla. Il proletariato mondiale ha fatto bene a schierarsi a fianco della rivoluzione russa. Non è necessario sapere in anticipo come andrà a finire la rivoluzione per gettarsi nella lotta. La classe operaia non ha altro mezzo per verificare la maturazione di una determinata situazione. Ma è tutt’altra cosa volerci fare vedere, come ci invitano i sostenitori del bolscevismo, nella rivoluzione russa l’immagine della rivoluzione proletaria futura. La rivolu­ zione proletaria non può essere una rivoluzione di partito. Essa sarà una rivoluzione di classe o non sarà. La dittatura del partito, così come si è realizzata in Russia, denuncia il fatto che la rivoluzione proletaria era impossibile in Russia. Ogni volta che si vorrà ricalcare l’esempio russo, ogni volta che si vorrà erigere di nuovo una dittatura di partito, sicuramente si ripete­ ranno gli errori della rivoluzione bolscevicà e dello stalinismo. Una rivoluzione fatta non dalla classe operaia ma da una sua sedicente avanguardia si rivolta contro la classe operaia. Certi personaggi giudicano impossibile che la classe operaia riesca a portare a termine una rivoluzione. Per esempio, il socialista olan­ dese J. de Kadt raccomanda un periodo di transizione in cui il potere sarebbe praticamente nelle mani della classe degli intel­ lettuali. Egli ha scritto:

« Tutti coloro che sono in grado di capire la storia avranno os­ servato che è impossibile un’egemonia della classe operaia. Laddove in futuro i lavoratori e gli intellettuali conquisteranno il potere, il vero contenuto del periodo di transizione potrà essere solo — per quanto democratiche ne possano essere le forme — un dominio degli intellettuali che alla lunga si trasformerà in una società intieramente di intellettuali » (21 ). Non si capisce perché questo studioso abbia sentito il bi­ sogno di scrivere un grosso volume di 600 pagine per mettere a (21)

« De Nieuewerkern », n. 10, luglio 1935.

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nudo i misfatti di Stalin, dal momento che oggi l’URSS ci mostra che cosa è una rivoluzione di intellettuali « in nome del proletariato»: il peggior dominio sul proletariato. Il socialismo può essere conquistato solo dalla classe operaia, e quando par­ liamo di classe operaia si tratta di tutta una classe, non della sua « élite » o della sua « avanguardia ». Dalla rivoluzione russa sorge questa grande lezione che deve essere posta alla base di ogni sforzo di rinascita rivoluzio­ naria.

Verges i

NATURA ED EVOLUZIONE DELLA RIVOLUZIONE RUSSA: risposta al compagno Hennaut

Seguiremo le critiche del compagno Hennaut passo passo, nello stesso ordine della sua esposizione, benché un simile pro­ cedimento non possa approdare a risultati definitivi. A questo fine dovremmo poter confrontare le nostre tesi centrali con quelle avanzate e sostenute da Hennaut, ciò permetterebbe alla discussione di giungere — in mancanza di una sintesi delle ri­ spettive posizioni, che si è rivelata impossibile — a mettere a nudo, nel loro complesso, la divergenza fondamentale che ci separa. Ora il compagno Hennaut si è limitato a prendere in esa­ me solo i capitoli di Partito, Internazionale, Stato dedicati al­ l’analisi critica della rivoluzione russa. Ciò gli ha impedito di porre la sua polemica sul solo terreno che avrebbe potuto portare a conclusioni definitive, per mezzo di confutazione o demoli­ zione degli errori di principio che si fossero rivelati nella no­ stra analisi della rivoluzione russa. Per di più, il compagno Hennaut sostiene che vi sia un errore di fondo alla base del nostro pensiero e ci accusa di allontanarci dal metodo marxista e di sostituirlo con l’idealismo e il «volontarismo»! Avrebbe fatto meglio, secondo noi, provare che nelle nostre concezioni sulla natura della classe, del partito, abbiamo commesso errori che viziano l’analisi da noi tracciata sull’esperienza della rivolu­ zione russa. Dunque, seguiremo passo passo il compagno Hen­ naut e ci auguriamo che l’ulteriore discussione possa consenti­ re, al compagno Hennaut come a noi, di superare questa fase

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intermedia e di affrontare il dibattito sulle concezioni di prin­ cipio. Di fatto, a noi sembra che la stessa dimensione delle espe­ rienze visute (la Comune e la rivoluzione russa) non consente di trarre la conclusione che il proletariato sia incapace di for­ giarsi l’arma che gli permetta di avanzare con fermezza sulla via della propria emancipazione. Per poter supporre che la nostra tesi centrale sia sbagliata, le si dovrebbe opporre un’altra tesi nella quale le masse possano domani trovare il punto di riferimento per conseguire la vittoria. A questo proposito, poi­ ché il compagno Hennaut, pur indirizzandosi verso una parti­ colare soluzione di principio, non è ancora riuscito a presentar­ la in forma compiuta, è giocoforza giungere, nel corso della di­ scussione, al livello superiore della polemica. Ciò permetterà di confrontare le soluzioni che si intendono trarre dalle grandiose esperienze del proletariato internazionale. Engels di fronte alla Comune di Parigi diceva: « Ecco la dittatura del proletariato ». La Luxemburg, in un primo saggio critico sulla rivoluzione russa, indicò su quali basi questa po­ tesse evolvere verso la vittoria definitiva. Lenin si pronunciò nel suo Stato e rivoluzione e successivamente in altri studi che scrisse nel corso stesso degli avvenimenti. Sulla traccia dei nostri maestri non possiamo fare diversamente: gli avvenimenti del passato contengono la soluzione per le lotte del futuro e ci dettano la via da seguire. Il nostro compito consiste nell’analizzare questi avvenimenti e comprenderli per scorgere, sin da og­ gi, le basi su cui si potrà fondare domani la dittatura del prole­ tariato. La debolezza delle nostre forze intellettuali, in confron­ to a quelle dei nostri maestri, è un elemento che riduce enor­ memente il valore delle conclusioni a cui possiamo giungere. Questa debolezza tuttavia non deve ostacolare la sola via che dobbiamo percorrere per lottare nell’interesse del proletariato. Il compagno Hennaut non ha ancora detto in modo con­ clusivo se la tesi che possa assicurare lo sviluppo rivoluzionario della vittoria proletaria sia quella insita nella sua affermazione: «la consegna della gestione delle imprese agli operai » (Comi­ tati di fabbrica). Questa affermazione è del resto contraddetta

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da quest’altra, secondo la quale « il tentativo di affidare ai co­ mitati di fabbrica la gestione delle imprese finisce, e doveva finire, nelle circostanze date, in un terribile scacco ». E ancora: « D’altra parte, è certo che i comitati di fabbrica riflettevano l’incapacità delle masse di elevarsi al livello della concreta co­ struzione socialista e a questo riguardo non si può fare a meno di sottoscrivere ciò che scriveva il giornale del Consiglio supe­ riore dell’economia “La Vita Economica”, nel 1919: “La men­ talità della maggior parte delle masse non si è ancora compe­ netrata con il loro dovere civico. Non è ancora stato estirpato quell’atteggiamento servile di arraffare, con o senza pretesti, sempre nuovi vantaggi allo Stato o al capitalista” »(1). Il compagno Hennaut giunge al punto di giustificare il fat­ to che il partito bolscevico abbia spodestato i comitati di fab­ brica:

« È fuor di dubbio che se nel corso di quegli anni i bolscevichi non avessero posto fine ai poteri dei comitati di fabbrica non avreb­ bero potuto resistere agli assalti infernali della controrivoluzione in­ terna ed esterna. Il potere sarebbe caduto in mano a una forza ane­ mica, priva di quella vitalità necessaria a conservarne e rianimarne l’esistenza. Il passaggio della gestione delle imprese dai comitati di fabbrica a organismi statali, sottratti al controllo delle masse, era una neces­ sità storica che gli avvenimenti imponevano. Ciò non toglie che pie­ gandosi a questa necessità il partito comunista abbia inferto un colpo mortale all’egemonia politica delle masse operaie e abbia annientato i soli organismi in grado di permettere al proletariato di esercitare un controllo sull’attività della burocrazia a cui veniva affidata la ge­ stione economica e impedire che questa burocrazia, da semplice inter­ mediaria (inizialmente quasi un servitore) diventasse una forza indi­ pendente che persegue propri scopi fino a impadronirsi del regi­ me » (2). Se il compagno Hennaut fosse tanto convinto che i comi­ tati di fabbrica siano la sola forma di gestione proletaria dello (>) A. Hennaut, Les classes dans la Russie des soviets, Cahier d’étude du L.C.I., 1935, p. 14. (2) Ibid., p. 15.

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Stato, evidentemente non sottoscriverebbe mai ciò che definisce « una necessità storica ». Parimenti, non potrebbe scrivere che

«(...) come controparte a questa conservazione del potere da parte dei bolscevichi, si iscrive l’abbandono di tutte quelle rivendica­ zioni sociali, grazie alle quali gli operai di tutto il mondo salutarono la rivoluzione russa come precorritrice della rivoluzione proletaria: governo diretto, abolizione del lavoro salariato, uguaglianza economi­ ca e politica. I bolscevichi hanno saputo trovare i mezzi per mante­ nersi al potere, ma hanno potuto farlo solo svuotando la rivoluzione del suo contenuto comunista » (3). D’altra parte, Hennaut afferma che « il proletariato avreb­ be spinto la rivoluzione ancora più avanti, ma avrebbe allonta­ nato dal potere il partito comunista » (4), concezione ribadita anche nel capitolo II potere bolscevico costretto a superare gli obiettivi iniziali (5). Non ci troviamo di fronte a un punto d’approdo del pensiero di Hennaut, per quanto riguarda i co­ mitati di fabbrica; per poter esaminare le sue tesi, per il mo­ mento solo abbozzate, dovremo aspettare che giungano a con­ clusioni definitive. Il compagno Hennaut dice che il proletariato russo non fu in grado di difendere la sua vittoria per l’immaturità delle pro­ prie capacità tecniche, e afferma: « La rivoluzione bolscevica è stata fatta dal proletariato, ma non è stata una rivoluzione proletaria. La dittatura del partito comu­ nista che ci è stata presentata con la forma specifica della dittatura del proletariato, non era una dittatura del proletariato. Essa non esprimeva assolutamente la fase di transizione dal capitalismo al so­ cialismo, ma, questa dittatura comunista, è stata ed è l’espressione della contraddizione, in URSS, tra l’impossibilità di conservare ulte­ riormente il sistema di produzione capitalistico e l’incapacità del pro­ letariato di realizzare il socialismo » (6).

(3) A. Hennaut, Critica alle tesi di « Bilan ». (4) Ibid. (5) A. Hennaut, Les classes dans la Russie des soviets, cit. (6) A. Hennaut, Critica alle tesi di « Bilan ».

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Gli avvenimenti hanno rivelato in modo luminoso che le lotte rivoluzionarie non scoppiano nei paesi altamente indu­ strializzati, dove il proletariato ha potuto acquisire ciò che Hennaut chiama « capacità tecniche », ma scoppiano nei paesi economicamente arretrati. Ci riserviamo di ritornare in seguito su questo argomento, per ora ci limitiamo a questa semplice affermazione anti-idealista e « anti-volontarista »: non è possibi­ le inventare un corso storico: si deve analizzare e comprendere quello in atto, una rivoluzione proletaria può evolversi verso la vittoria definitiva. I marxisti devono trarre gli insegnamenti che l’esperienza comporta, senza sostituirli con uno schema che non ha alcuna relazione con la realtà che viviamo. Questo ci prova che fino al momento in cui il partito bolscevico svuotò dei suoi contenuti (nel 1920) la rivoluzione russa, quest’ultima fornì al proletariato mondiale un possente organismo per la vit­ toria della rivoluzione mondiale: l’Internazionale comunista. Senza considerare sacrosante tutte le decisioni prese dai bolsce­ vichi, ci è possibile affermare che la dicotomia, tra i comunisti russi e la rivoluzione mondiale, non si è affatto verificata nel momento in cui il proletariato russo sarebbe stato, come si dice, privato del controllo economico e produttivo in Russia. Pensiamo che allo stadio attuale dell’analisi storica non possiamo ancora toccare la discussione programmatica, mentre è necessario determinare le condizioni per permettere questo dibattito. Gli articoli del compagno Hennaut hanno superato lo stadio intermedio in cui noi restiamo. Prima di iniziare la re­ plica alle critiche che ci sono state mosse, dobbiamo dire che non possiamo seguire il sistema categorico del compagno Hen­ naut, che considera « nullo e non avvenuto » tutto ciò che non concorda con le sue tesi. Hennaut ha trovato che il nostro studio sia solo un’inutile dissertazione, e ciò, senza dubbio, perché non entriamo nel suo ordine di idee. Cercheremo di dimostrare che, senza la sciocca pretesa di aver inventato chissà che cosa, le nostre concezioni non vengono invalidate dalla critica che finora gli è stata fatta. Il compagno Hennaut propone di cambiare il titolo del nostro studio, sostituendolo con quest’altro: Tentativo di giu-

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stificare la dottrina della Frazione di Sinistra con l’aiuto di ma­ teriali attinti dallo sviluppo della rivoluzione russa. Siamo d’accordo, a parte una rettifica: non si tratta di materiali « at­ tinti dallo sviluppo della rivoluzione russa », ma della rivolu­ zione russa stessa. Hennaut rileva nella nostra analisi « errori veri e propri », ma perché non indica questi errori? Senza as­ solutamente pretendere di essere infallibili, aspettiamo che ci mostri gli errori che avremmo commesso. Non possiamo fare a meno di ripeterci: il proletariato può raggiungere la vittoria solo sulla base di un programma e senza di esso non gli è pos­ sibile né vincere né stabilire la sua dittatura in vista di costrui­ re la società comunista. Hennaut è dello stesso parere, anch’egli presenta la soluzione che crede utile e, di fuori dalla quale, non crede vi sia scampo per la classe operaia. Il nostro dovere con­ siste nel tracciare uno schema del passato per costruire il futu­ ro. Non è assolutamente un’astratta elucubrazione, ma la rasse­ gna degli avvenimenti storici che hanno la loro logica e conten­ gono le soluzioni che la classe operaia ha già dato ai problemi sociali che le si presentavano. È necessario lo schema, è indispensabile, rappresenta la condizione di vita e di successo proletario? Ma, di grazia, che cosa hanno fatto i nostri maestri? Marx, nel Manifesto, non ha osato sintetizzare gli avvenimenti di vari secoli in qualche pa­ gina, non li ha sentitizzati in una breve frase: « fino ad ora la storia della società è stata la storia della lotta di classe »? Que­ sto significa che possiamo spiegare ogni istante della vita del­ l’umanità con la formula del Manifesto? Non si pone questo pro­ blema, perché, nel nostro caso, vengono esaminati avvenimenti di colossale importanza, la rivoluzione russa. Pertanto cade l’appunto di Hennaut quando afferma: «Non c’è nulla di più facile che fare di una regola, entro certi limiti giusta, un’assurdi­ tà. Basta allargare la sfera entro la quale questa regola resta valida » (7). Affermiamo che i fondamenti della lotta proletaria posso­ no essere solo di natura internazionale. Abbiamo inventato (7) ibid.

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qualche cosa, come ci fa dire Hennaut? No! Abbiamo solo detto — per usare le sue parole — una verità banale che è sulla bocca di tutti. Dilatiamo questa verità fino a renderla inutile, perché esce dalla « sfera entro la quale essa resta valida »? No! L’appli­ chiamo, a un avvenimento non certo occasionale: la rivoluzione russa, e noi tutti, fin dall’inizio, abbiamo considerato che la sua origine, la sua evoluzione, i suoi successi, la sua vittoria potes­ sero essere ricercati solo sul fronte internazionale. La « banale » verità che il socialismo possa vincere solo a livello internazionale, non significa fors’anco che la base della vittoria internazionale in un solo paese non nasce dalle partico­ lari condizioni di questo paese, ma dal livello internazionale raggiunto dalla lotta tra borghesia e proletariato? I rapporti so­ ciali in un determinato paese sono la spiegazione fondamentale della vittoria in questo paese? Cosa rispondono gli avvenimen­ ti? Esattamente il contrario. La Russia era certo il paese che, astraendo dalla congiuntura internazionale, incarnava le condi­ zioni migliori non per la vittoria del proletariato ma per la vit­ toria della borghesia. Hennaut indirettamente lo conferma, quando dice che il proletariato in Russia si è trovato nell’im­ possibilità di poter determinare la sua rivoluzione. Ciò prova che possiamo spiegare gli avvenimenti solo in funzione di con­ siderazioni d’ordine internazionale. La borghesia è una classe che stabilisce il suo dominio a livello mondiale, malgrado resi­ stenza di Stati nazionali in concorrenza e in contrasto gli uni con gli altri. Perché questo? Perché la tecnica di produzione è diventata mondiale, perché il motore dell’evoluzione storica è parimenti mondiale; infine perché la lotta sociale si sferra solo su questo terreno. L’espressione di Lenin « l’anello più debo­ le » significa solo « anello più debole del capitalismo mondia­ le », nient’altro che questo. Siamo giunti a un punto estremo di saturazione: la borghe­ sia, la classe che entra sulla scena storica levando la bandiera del­ l’industrializzazione e che, con questo programma, estirpa i privilegi feudali, non può portare questa industrializzazione nei paesi che si trovano al di fuori del suo controllo. Nel 1917,

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in Russia, essa si vedrà estirpata dal proletariato nella realizza­ zione di un compito che essa aveva altrove svolto. Quanto Le­ nin aveva dimostrato teoricamente prima, gli operai hanno poi realizzato con le armi: non sarà la rivoluzione borghese ad an­ nientare lo zarismo, sarà il proletariato. I successivi avvenimen­ ti, soprattutto in Cina, non hanno forse dimostrato questa me­ desima impotenza storica della borghesia nel realizzare la pro­ pria rivoluzione? Si pone ora il problema dello « sviluppo ineguale » del ca­ pitalismo. Ciò significa, se le parole hanno un senso, il capita­ lismo può svilupparsi solo in modo ineguale nei differenti set­ tori dell’economia mondiale. Ma siamo giunti o no all’ultima fase in cui ogni futuro sviluppo del capitalismo è escluso per sempre? La rivoluzione russa è vittoriosa perché il proletariato interviene, in quanto classe dominante che dirige gli avveni­ menti. Altrove, dove il proletariato non giunge a portare a ter­ mine la sua lotta, il capitalismo trionfa, ma quale capitalismo? Un capitalismo indigeno che libera il paese dal servaggio stra­ niero e che annienta le classi patriarcali, feudali e schiaviste? No! La Cina prova il contrario: è il capitalismo a vincere la partita e la borghesia indigena è costretta a vivere con la con­ grua, dibattendosi in una sottomissione sempre più abbietta agli imperialistic8). Sulla questione dello sviluppo ineguale, Hennaut ci pone il dilemma: siete con Stalin o con Trockij? Il primo se ne serve per giustificare il « socialismo in un solo paese », il secondo per spiegare parzialmente la vittoria (8) Nel dopoguerra Perrone ritornò sull’argomento nel saggio: La tattica del Comintern 1926-1940, Venezia, Ed. Sociali 1976 (pubblicato originariamente sulla ri­ vista del Partito Comunista Internazionalista « Prometeo », tra l’agosto del 1946 e il novembre 1947). In particolare cfr. pp. 64-65 e la nota n. 29 a p. 169 curata da Bruno Bongiovanni. Per quanto muovano da presupposti teorici corretti, le osser­ vazioni di Bongiovanni non devono essere portate, secondo uno schema logico, alle loro estreme conseguenze. Di fatto le nuove borghesie nazionali trovano nel contesto internazionale spazi d’azione estremamente ridotti, che costringono la politica dei vari Stati, nei confronti delle potenze imperialiste, a un’oscillazione permanente tra subordinazione e scontro. Il nuovo corso cinese, inoltre, posto , fine al giacobinismo di Mao, sembrerebbe convalidare la tesi di Perrone, tenendo anche presente che la Cina è ben lontana da un maturo processo di industrializzazione. (N.d.t.)

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della rivoluzione. La questione è ben altra. A parte che Trockij si è sbagliato di grosso quando ammette la possibilità di uno sviluppo socialista dell’economia sovietica, basandosi sulla legge dello sviluppo ineguale, a parte questo, crediamo che questa ineguaglianza, che è una manifestazione oggettiva del decorso storico, significhi che le possibilità di vittoria rivoluzionaria del proletariato si manifestino laddove lo stato arretrato dell’eco­ nomia, urtando violentemente con la tecnica mondiale, impe­ disce che la borghesia compia, nella fase della sua decadenza, la rivoluzione economica, lasciando al proletariato il compito di realizzare questa trasformazione sociale. È un bene o è un male? È un fatto, non c’è nulla da congetturare; bisogna spiegarlo e riconoscere lo svolgimento oggettivo della situazione storica. All’ineguaglianza dello sviluppo economico corrisponde pure un’ineguaglianza dello sviluppo politico, ma in senso contrario. Laddove il capitalismo è al potere da decadi o da se­ coli, dove sono state realizzate le migliori condizioni per la « gestione socialista » da parte del proletariato (Hennaut dice « capacità tecniche »), proprio là il proletariato si trova, da un punto di vista politico, nelle condizioni meno favorevoli, per­ ché il suo nemico di classe è più potente. Sarebbe stato meglio se la rivoluzione avesse vinto in Inghilterra e non in Russia? Ma che cosa possiamo cambiare quando ancor oggi vediamo il proletariato inglese imprigionato dalla corruzione delle Tra­ de-Unions, mentre, per esempio, per imbavagliare lo spirito ri­ voluzionario del proletariato italiano il capitalismo ha dovuto ricorrere al fascismo. Il compagno Hennaut per spiegare gli avvenimenti si serve di un gioco di parole: «una rivoluzione che è fatta dal proleta­ riato ma non è proletaria ». A questo fine, da buon marxista, si appoggia ai « fattori sociali » che noi, i « volontaristi », avrem­ mo accantonato per inventare una nuova interpretazione della lotta di classe. Per prima cosa non si capisce come, sulla base di questi fattori sociali (che rendono possibile la facile congettura dell’inevitabile degenerazione di una rivoluzione che fin dall’ini­ zio non era proletaria), sia possibile spiegare gli avvenimenti del 1917-1920 in Russia dove, secondo il parere di Hennaut, il

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proletariato aveva animato forme socialiste di gestione econo­ mica (questo è impossibile, perché non si tratta di far conget­ ture, ma di spiegare un fatto). I « rapporti sociali » possono esplicarsi nei confini di un determinato paese e isolatamente dal contesto internazionale? Per noi è impossibile. La stessa essen­ za della teoria marxista ha un carattere internazionalista! Il marxismo non considera le varie epoche storiche settorialmen­ te, nazione per nazione, ma considera le interrelazioni di que­ ste ultime nel contesto internazionale che le influenza. La teo­ ria marxista è confermata dalla realtà. I fattori economici sono gli elementi fondamentali per spiegare lo sviluppo degli avve­ nimenti, ma vuol dire deformare il marxismo rinchiuderli in un solo paese, invece di porli nel quadro mondiale da cui essi sorgono. Ora, non ci troviamo di fronte una manifestazione marginale della lotta sociale, ma ci troviamo di fronte il suo sbocco estremo, la rivoluzione. Dunque, siamo sul terreno spe­ cifico in cui il concetto fondamentale deve venire applicato. L’interrelazione tra fattori nazionali e internazionali di cui par­ la Hennaut è un concetto giustissimo, ma a condizione di co­ gliere la reale dipendenza di un paese dal contesto internazio­ nale di cui è parte integrante. Hennaut, però, sostituisce alla realtà dell’evoluzione sociale internazionale un modello di tutt’altro ordine. Per prima cosa nega la natura proletaria delle lotte che scoppiano nei settori economicamente arretrati, e conclude che la sola possibilità di difesa del carattere rivolu­ zionario delle conquiste operaie dipende dalla facoltà che le masse avrebbero di gestire l’economia nazionale. In questa fa­ coltà risiederebbe la condizione che permetterebbe al proleta­ riato vincitore di tener salda la rotta dello sviluppo rivoluzio­ nario mondiale. Riguardo la Russia questa facoltà era preclusa fin dall’inizio, perché i rapporti sociali non lo consentivano. È possibile porre una simile questione di principio? Per por­ la si dovrebbe ammettere che, una volta rovesciata la borghesia, verrebbero realizzate le condizioni per la gestione socialista della produzione. La rivoluzione russa contrappone a questa as­ serzione una crudele smentita. La lotta di classe continua e la

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classe operaia ha necesità di costituire organismi che difendano i suoi interessi nella fase di transizione dal capitalismo al socia­ lismo. In nessun paese, neppure in quelli più sviluppati, esistono in assoluto condizioni per la gestione socialista. Il socialismo è internazionale o non è. Nell’ambito economico possiamo affermare questa fonda­ mentale verità: le condizioni per una gestione economica da parte della collettività o individualità (consigli di fabbrica), esi­ steranno solo quando l’espansione della tecnica produttiva sa­ rà talmente alta — da un punto di vista mondiale — che non si porrà più il problema, l’estinzione delle classi, facendo sparire il proletariato, farà maturare le premesse della società comuni­ sta. Anche dopo la vittoria insurrezionale in un determinato paese non deve venire alterata la natura degli organismi operai, essi devono restare organismi della lotta di classe e non debbo­ no diventare organismi per la gestione della produzione. È sciocco affermare che lo Stato cessa di essere proletario perché permangono, in antitesi a esso, organismi di classe (sindacati e consigli di fabbrica). Come diceva Engels, lo Stato è un « flagel­ lo » che il proletariato eredita; è un organismo che contrasta fondamentalmente con la missione storica del proletariato. Fin dalla sua fondazione rappresenta una condizione negativa per lo sviluppo delle lotte operaie; che sia fondato sulla base del Consiglio superiore dell’economia o sui Consigli di fabbrica, che sia diretto dal Partito comunista o sottoposto a libere as­ semblee operaie, lo Stato è sempre un’istituzione d’oppressione economica e politica. Il compagno Hennaut crede di trovare una soluzione al problema usando espedienti giuridici (il possesso da parte della classe operaia del meccanismo economico), mentre per noi la questione è politica e può venir risolta solo dalla classe operaia che, finché dura la lotta di classe, ha bisogno dei suoi organismi per difendersi dallo Stato, ed essa vincerà alla sola condizione di unirsi alla lotta della classe operaia mondiale, poiché se quest’ultima resta isolata, anche la prima verrà schiacciata.

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Per concludere l’argomento, crediamo sia bene insistere sui concetti che ci sembrano essere gli insegnamenti capitali da trarre dalla rivoluzione russa:

deve venire rovesciata la struttura stessa del sistema produttivo; con la progressiva sottrazione di plusvalore si deve opporre al sistema di accumulazione capitalistico un sistema che si fonda sul tasso di accumulazione consentito dalla capaci­ tà produttiva dell’apparato economico, tenendo conto di un progressivo avanzamento delle condizioni di vita operaie; b) la classe operaia, per poter risolvere tutti i problemi che si porranno dopo la presa del potere, deve difendere tutti i suoi organismi di classe nella completa libertà di disporre dei suoi specifici strumenti di lotta, compreso, evidentemente, lo sciopero sia nelle imprese socializzate sia nelle altre. Questa considerazione fondamentale vale per tutte le manifestazioni della vita operaia (assistenza, mutua, educazione, sport ecc.) che non devono venire sottoposte al controllo e alla direzione statale; c) la dittatura del proletariato o, per essere più precisi, la dittatura del partito comunista deve assumere questo preciso significato: solo grazie al partito di classe il proletariato può realizzare la coscienza politica che lo metterà in grado di lotta­ re e vincere per la rivoluzione comunista mondiale. Questo partito di classe, contrariamente a quanto fecero i bolscevichi, poteva essere difeso dal proletariato e alla rivoluzione mondiale solo a condizione che la classe operaia vi trovasse il suo spazio d’azione attraverso il canale delle lotte di frazione. Lotte che, in un quadro di opposizione programmartica, nel regime di transizione mirano allo sviluppo dell’attività proletaria e, a li­ vello internazionale, alla vittoria del comuniSmo;

d) il pluralismo dei partiti è in contraddizione con l’idea stessa di dittatura proletaria. Ammettere partiti avversi significa creare condizioni per ristabilire il potere di un nemico già vin­ to. Così come è necessario schiacciare il potere economico e po­ litico avverso (la lotta rivoluzionaria non può essere intesa sul piano della superiorità di gestione economica da parte del pro-

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letariato nei confronti di quella borghese) è pure necessario non lasciare sussistere partiti la cui stessa esistenza presuppone quella della classe nemica, per quanto concerne le diverse ideo­ logie borghesi che direttamente o indirettamente si diffondono in seno alla classe operaia. Contro socialisti, anarchici, ecc. non è possibile alcuna misura dispotica o poliziesca che non solo non risolve il problema della lotta comunista contro queste ideologie, ma progressivamente snatura il partito proletario, le­ gandolo sempre di più agli ingranaggi statali. Le ideologie anti­ comuniste devono venire incalzate negli organismi proletari, perché, lì, esse saranno costrette a confrontarsi con gli obiettivi della classe. La libertà di « frazione », di stampa, di riunione in seno ai sindacati, può perfettamente marciare di pari passo con la dittatura del partito comunista. Il proletariato potrà mantene­ re quest’ultima nel solco dei propri interessi di classe, purché tuteli la facoltà di costituire frazioni; ■?) da un punto di vista internazionale, la rivoluzione russa dimostra la necessità di affidare la direzione dell’organi­ smo internazionale ai partiti che, operando in circostanze nelle quali la lotta di classe conserva tutta la sua immediatezza, per la presenza del capitalismo, si trovano in condizioni migliori rispetto al partito dello Stato proletario, per condurre la lotta per la vittoria comunista internazionale. Quest’ultima osserva­ zione venne avanzata dal compagno Bordiga al V congresso del­ l’Internazionale Comunista (9). Secondo il compagno Hennaut noi agiremmo solo sui sin­ tomi della degenerazione sovietica. A nostro parere operiamo sul punto cruciale di questa formidabile esperienza, mentre egli cerca soluzioni di natura giuridica (possesso dell’apparato economico) e si allontana non solo dal nodo del problema, ma anche dal metodo marxista del materialismo storico. I fulmini del compagno Hennaut non hanno risparmiato un nostro articolo, pubblicato in occasione di tre anniversari: l’assassinio della Luxemburg, di Liebknecht e la morte di Le­ (9) Pensiamo che l’autore si riferisca all’intervento di Bordiga al VI Esecu­ tivo Allargato del gennaio 1926. (N.d.t.)

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nin)(10*). In questo articolo è sostenuta la tesi che è impossibile contrapporre Lenin alla Luxemburg, poiché entrambi sono gi­ gantesche espressioni di due tendenze del movimento proletario mondiale. Avversiamo coloro che vogliono contrapporre l’uno all’altra in due «correnti» distinte, create dagli epigoni: il le­ ninismo e il luxemburghismo. A questo proposito vogliamo de­ nunciare la speculazione sulla Luxemburg fatta da coloro che osano richiamarsi a lei, mentre « intrallazzano » (come la SAP e il suo entourage) (n) con gli stessi ambienti politici che hanno la schiacciante responsabilità dell’assassinio di questa grande guida della rivoluzione proletaria. Ma, sembra, secondo i compagni olandesi (GIK)(12), che vi sia flagrante opposizione tra l’uno e l’altra: o Lenin o Rosa; poiché Timo esclude l’altra. Hennaut, dopo aver riportato dei passi di Rosa, scrive: « Si trattad i due modi differenti di realizzare la dittatura del proletariato. Ma non si tratta di una semplice divergenza dello spirito, di differenti maniere di pensare. In quanto marxisti dobbiamo sapere che ogni contrasto concettuale copre e dissimula antagonismi sociali e contrasti di classe. Alla base delle divergenze tra la Luxemburg e i (10) Quels soni les héritiers de Lenine, Luxemburg, Liebknecht?, « Bilan », n. 27. (n) La SAP (Sozialistische Arbeiter Partei) sorse in Sassonia nel 1931 da una scissione della SDP, promossa da un gruppo di sinistra, tra cui Oscar Wasserman, Boris Goldenberg e Max Seydewitz che ne assunse la direzione. Nel 1932 nella SAP confluì una parte della KPD-0 (Kommunistische Partei Deutschlands-Opposition, la cosiddetta opposizione di destra di Brandler e Thalheimer scissasi nel 1928 dalla KPD) tra cui Jacob Walcher e Paul Frolich, il vecchio compagno e biografo di Rosa Luxemburg. In entrambi i raggruppamenti era forte l’influenza delle tematiche luxemburghiane inoltre, con essi, collaboró anche Lucien Laurat, autore nel 1930 di un riassunto &ALAccumulazione del capitale (Lucien Laurat (esposizione di), L'ac­ cumulazione del capitale, Minuziano, Milano 1946). (N.d.t.) (i2) Verso il 1926 in seno al CAPN (Partito Operaio Comunista di Olanda) si formò attorno a H. Canne Mejer un gruppo vicino alla KAPD-tendenza Berlino e si costituì quindi il GIK (o GICH, Gruppo Comunista Internazionalista Olandese). Questo raggruppamento, rafforzato in seguito dall’emigrazione dei compagni tedeschi, espresse in modo particolare le posizioni consiliariste di Otto Ruble e di Anton Pan­ nekoek. Sulla storia dei GIK cfr. Apergu sur Vhistoire des communistes des conseils en Hollande, «Informations et liaisons ouvrières », n. 30, 6 maggio 1959 e GIC tesi sul bolscevismo, Caserta, Ed. G.d.C., s.d. (N.d.t.)

il dibattito: vércesi

265

bolscevichi stava la differenza di contenuto tra la rivoluzione tedesca e quella russa » (13).

Dobbiamo respingere una questione così posta (il com­ pagno Hennaut ci consenta di raggiungere almeno una volta il suo altezzoso atteggiamento). Il peggior insulto che si possa fare a Rosa è ritenere che un’opposizione di classe, per quanto si­ mulata, la separi da Lenin. Per inciso, è per lo meno curioso che Vultìmatìsmo dei compagni olandesi (per l’uno o per l’al­ tra) si arresti di colpo non appena viene sfiorata l’analisi di fondo sulle divergenze. Per esempio, (se non andiamo errando) sulla questione dell’accumulazione i compagni olandesi accetta­ no, come perfettamente conforme alle concezioni di Marx, la po­ sizione di Lenin sulla formazione di plusvalore, mentre accet­ tano la posizione della Luxemburg per quanto concerne la ne­ cessità di mercati extra-capitalisti per il funzionamento globale del sistema. L’assenza o l’esaurimento dei mercati extra-capita­ listi creerebbero le condizioni per la maturazione della coscien­ za di classe nel proletariato. Non siamo ancora in grado di affrontare lo studio delle divergenze sorte tra Lenin e la Lu­ xemburg sulla questione dell’accumulazione (per il momento ci limitiamo all’accumulazione). Veniamo al problema sollevato nella brochure di Rosa, la cui sorte non è stata più clemente di quella di Engels e di Le­ nin. La morte ci ha tolto questi capi subito dopo che essi ave­ vano scritto testi che, poi, sono serviti a svariate mistificazioni: Engels, la prefazione del 1894 (14); Lenin, gli articoli sulla coo­ perazione (1B); la Luxemburg, la brochure sulla rivoluzione rus­ sa. Bene, lo riconosciamo senza alcun timore di commettere un delitto di lesa maestà: siamo contrari alla parte della brochure che tratta la questione sulla democrazia e sottoscriviamo com-

(13) A. Hennaut, Critica..., cit., p. (14) Cfr. F. Engels, Introduzione alla prima ristampa di Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 di K. Marx, in Marx-Engels, Opere scelte,■ Ed. Riuniti, Roma 1966. (15) Cfr. Introduzione) nota (5).

266

RIVOLUZIONE E REAZIONE

pletamente quella sulla questione nazionale. Siamo inconse­ guenti? Sì, come i bolscevichi riguardo i quali Rosa ha scritto:

« Mentre di fronte all’Assemblea Costituente, al suffragio uni­ versale, alla libertà di stampa, al diritto di riunione, in breve a tutto ciò che costituisce l’apparato delle libertà democratiche fondamentali delle masse popolari e il cui insieme formava il diritto di autodecisio­ ne nella stessa Russia essi dimostravano il più freddo disdegno, trat­ tavano il diritto di autodecisione delle nazioni come un gioiello della politica democratica, per amore del quale dovevano tacere tutti i pun­ ti di vista pratici della critica concreta » (16).

Ci permettiamo di dire che anche Rosa è stata inconseguen­ te, come i bolscevichi, quando, riguardo la dittatura del proleta­ riato non seguiva i medesimi criteri che la guidavano nella questione nazionale. L’esperienza maturata dopo la morte di Rosa (la degene­ razione della Russia sovietica) dimostra la possibilità che il ca­ pitalismo attiri nella sua orbita un paese in cui è stata schiac­ ciata la borghesia, dunque lo stesso pericolo che essa scorgeva, con ottime ragioni, trattando la questione nazionale. Rosa scrisse la sua brochure nel 1918, in un periodo in cui non si era ancora manifestato il potenziale contro-rivolu­ zionario delle forze democratiche, che poco dopo si assunsero la responsabilità del suo assassinio. Le concezioni di Rosa erano diffuse negli ambienti della sinistra marxista della Seconda In­ ternazionale, basterebbe rammentare le tesi di Lenin sulla questione coloniale (1914) per incontrarvi formulazioni pres­ soché identiche (17 ). Lenin, trovandosi nel vivo della rivoluzio­ ne proletaria, potè, fin dall’inizio del 1918, tradurre gli inse­ gnamenti della nuova situazione in concetti politici di fondo sulla democrazia. Rosa non potè farlo, perché la democrazia tedesca ne perpetrò l’assassinio, anche se formalmente non dette l’ordine. (16) Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, in Scritti politici, Roma, Ed. Riuniti 1970, p. 576. (17) Cfr. Lenin, Sul diritto di autodecisione delle nazioni, in Opere, Voi. XXL

IL DIBATTITO: VERGESI

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Dopo la morte di Rosa non sono più possibili gli equivoci in Germania e in Italia la democrazia è il furiere del fascismo. È la bandiera attorno alla quale vengono mobilitate le masse per la carneficina mondiale, come dimostra il Fronte Popolare. Ai tempi di Rosa i marxisti potevano anche accettare il titolo di socialdemocratici e impiegare indifferentemente le parole de­ mocrazia e socialismo; ora non lo possono più, e quando qual­ cuno si riferisce a Rosa per resuscitare formule democratiche, commette il peggior oltraggio nei confronti di una rivoluziona­ ria che non poteva assolutamente prevedere gli eventi futuri. Per trarre previsioni sulla rivoluzione russa, Rosa si basa sull’e­ voluzione delle precedenti rivoluzioni, e non poteva fare altri­ menti mancandole ciò che oggi abbiamo: le disfatte del prole­ tariato italiano e tedesco, determinate dal fatto che essi non giunsero a contrapporre l’insurrezione alle manovre controrivo­ luzionarie del capitale. Rosa ha scritto:

« Questa costante e viva influenza dell’umore e del grado di maturità politica delle masse sulle Assemblee elette dovrebbe arre­ starsi proprio nei tempi rivoluzionari di fronte allo schema inelutta­ bile delle insegne di partito e delle liste elettorali? Al Contrario è proprio la rivoluzione che crea coll’ardore della sua fiamma quella atmosfera politica sottile, vibrante e sensibile ove le onde del senti­ mento popolare, il polso della vita nazionale agiscono istantaneamen­ te e in modo mirabile sui corpi rappresentativi. Proprio da questo derivano quelle note scene ad effetto dei primi tempi di ogni rivo­ luzione, in cui vecchi parlamenti reazionari o molto moderati, eletti solo sotto il vecchio regime a suffragio limitato, divengono improvvi­ samente eroici portavoce della sollevazione, Sturmer uni Dranger. L’esempio classico lo offe il famoso « Lungo Parlamento » inglese, che, eletto e riunito nel 1642, rimase in carica sette anni rispecchian­ do nel suo interno tutti i successivi mutamenti del sentimento popo­ lare, della maturità politica, della divisione delle classi, del progresso della rivoluzione sino al suo culmine, dalle iniziali devote avvisaglie con la Corona, sotto uno ‘Speaker’ in ginocchio, fino alla soppressione della Camera dei Lords, ed all’esecuzione di Carlo e la proclamazione della repubblica.

268

RIVOLUZIONE E REAZIONE

Non si è forse ripetuta questa stessa straordinaria trasformazione anche negli Stati Generali francesi, nel Parlamento censi.tario di Luigi Filippo e inoltre — l’ultimo e più significativo esempio Trockij lo ave­ va a disposizione — nella Quarta Duma russa che, eletta nell’anno di grazia 1909 [1912] sotto il più duro dominio della controrivoluzione, sentì di colpo nel febbraio 1917 passare la ventata rivoluzionaria e divenne il punto di partenza della rivoluzione? » (18).

Abbiamo riportato questa lunga citazione per mettere bene in evidenza lo stato d’animo in cui si trovava Rosa, quando cen­ surò i bolscevichi per aver soppresso l’Assemblea Costituente, ribattendo a Trockij che, se l’Assemblea era diventata ostile al­ l’effervescenza rivoluzionaria del paese, si dovesse procedere a una nuova consultazione elettorale a suffragio universale. Gli avvenimenti poi sopraggiunti in Occidente hanno dimostrato che, malgrado il suffragio universale, la borghesia ha potuto in­ frangere l’impeto rivoluzionario del proletariato e che anche i governi più democratici, lungi dal riflettere la spinta rivoluzio­ naria delle masse, hanno costituito l’ultimo bastione che ha permesso la vittoria nemica. Rosa scrisse: « la quarta Duma, il frutto più reazionario del reazionarissimo sistema elettorale delle quattro classi prodot­ to dal colpo di Stato, si trasformò di colpo in strumento della controrivoluzione » (M). Gli avvenimenti del dopo-guerra hanno chiuso definitiva­ mente un’epoca storica, mentre la rivoluzione russa ha aperto un nuovo capitolo: l’epoca in Cui la democrazia è l’estrema ri­ serva della controrivoluzione borghese. L’esperienza russa di­ mostra che la via tracciata dalla vittoria del proletariato russo, non è la medesima che aveva portato alla disfatta il proletariato di altri paesi. Anche dopo aver scacciato la borghesia, « la ditta­ tura della classe operaia» può essere stabilita solo sulle fondamenta e le organizzazioni di classe, mai con il suffragio univer­ sale. (18) Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, cit., p. 584. (19) Tradotto dalla versione francese di « Bilan ». (N.d.t.)

IL DIBATTITO: VERCESI

269

Come Marx, anche Rosa aveva creduto che una volta schiaccata la borghesia si sarebbero realizzate le condizioni per lo sviluppo della democrazia. L’esperienza russa ha smentito le loro previsioni e, poiché la lotta continua anche dopo la vittoria insurrezionale, è inevitabile cercare la soluzione in un’altra di­ rezione. Veniamo ora alla questione del partito. A questo proposito il compagno Hennaut commette un vero e proprio ersatz quan­ do crede che la nostra tesi si basi sull’« indipendenza del partito di classe ». Sulla questione ci atteniamo alle formulazioni del Secondo Congresso dell’Internazionale, che affermano: « i con­ cetti di partito e di classe devono essere rigorosamente tenuti distinti » (20). Ciò non vuol dire che il partito sia indipendente dalla classe. Più precisamente, pensiamo che il partito non sia solo l’espressione della classe, ma ne rappresenti in ogni mo­ mento la capacità, la forza, la possibilità, sotto tutti i punti di vista. Hennaut crede che polemizzare vuol dire ridicolizzare, comunque ha certamente letto mille volte che anche le opere fondamentali dei nostri maestri sono state concepite unicamen­ te perché nell’epoca in cui vennero scritte, la classe operaia ave­ va raggiunto un livello di coscienza e di capacità di lotta po­ litica avanzato. Resta infine un problema su cui si dovrebbe far chiarezza. È vero o non è vero che la classe operaia è stata battuta mille volte perché, mille volte, invece di trovare l’organismo che po­ tesse guidarla alla vittoria è caduta prigioniera di capi e quadri che l’hanno tradita? Ogni volta che la situazione ha permesso alla classe operaia di gettarsi nella lotta rivoluzionaria non è sta­ ta mai la superiorità dell’armamento nemico e dei suoi apparati repressivi che hanno determinato la disfatta, è stato sempre l’intervento di una forza ostile che, carpendone la fiducia, è riu­ scita a condurre la classe in ima via dove il capitale ha potuto ster­

po) Tesi sul ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria approvate al II Congresso dell’Internazionale Comunista (24 luglio 1920), ora in Aldo Agosti (a cura di), La Terza Internazionale, Roma, Ed. Riuniti 1974, p. 227 (N.d.t)

270

RIVOLUZIONE E REAZIONE

minarla. Non è così? Oppure non abbiamo capito niente degli av­ venimenti in Italia, Germania, Cina e in altri paesi? Si pone ora questo problema: còme il proletariato possa giungere a quella coscienza che gli permetterà di sfruttare una situazione rivoluzio­ naria per una definitiva vittoria. È vano credere che gli operai possano giungere da soli a elaborare il programma rivoluzionario. Glielo impedisce il ca­ pitalismo stesso; non solo nella situazione presente, ma anche nell’immediato avvenire postrivoluzionario, sugli operai graverà un’eredità di secoli di sfruttamento e sottomissione. Una mino­ ranza della classe operaia si assume quella funzione. Una mino­ ranza che incontra terribilità difficoltà per comprendere e agire in diverse situazioni. Questa minoranza si concentra nel partito di classe ed esso si assume un compito che la classe operaia, nel suo insieme, non può realizzare. Come si esplica questa dele­ ga? Per il fatto che questo partito agisce, si addestra, si educa non con astratte speculazioni, ma nella lotta di classe, nella lotta delle sue peculiari organizzazioni, nella lotta per i suoi precisi obiettivi. Tutto questo è ben lontano, il compagno Hennaut lo converrà, dalla sostituzione, che noi avremmo fatto, tra lotta di partito e lotta di classe. Il partito si può sbagliare? Certo, mille volte. Esso deve essere sottomesso all’ossessione del dubbio perpetuo, ma solo sul fronte della lotta di classe potrà trovare la causa dei propri errori e anche la possibilità di guadagnare il livello di lotta più avanzato. È singolare sottolineare che noi, proprio i più accaniti sostenitori della necessità del partito, siamo poi coloro che si oppongono a lanciare o a far accreditare tra le masse posizioni politiche che le sono assolutamente estranee e ostili. Certo, affermiamo che le basi per fondare e sviluppare il partito risie­ dono nell’adesione a un determinato programma. Ma, che cosa è questo programma? Il frutto di speculazioni di un gruppo di illuminati? No, mille volte no! Il programma è la concretizza­ zione, la cristallizzazione di idee, di grandiose battaglie storiche in cui il proletariato ha scritto le pagine fondamentali della sua teoria rivoluzionaria.

IL DIBATTITO: VERCESI

271

Da parte nostra non abbiamo la minima esitazione ad ac­ cettare integralmente le posizioni di Lenin sul partito. Mentre Lenin poteva basarsi solo sul fallimento delle Trade-Unions, oggi possiamo aggiungere il fallimento di ben altre forme di organizzazione operaia, che si era creduto di poter sostituire al partito di classe. I Consigli di fabbrica hanno potuto^ anch’essi, essere messi alla prova in Italia, Germania, Austria. Mentre la degenerazione sovietica non si iscrive assolutamente a scapito del partito di classe. Stalin, per poter inserire la Russia sovieti­ ca nel sistema capitalista mondiale, è stato costretto ad assassi­ nare perfino le vestigia di questo partito. I rapporti tra partito e classe sono dispotici? Nessuno ci muove questa accusa, ma abbiamo voluto sollevare la questione solo per precisare meglio le nostre concezioni. I rapporti tra partito e classe si pongono solo sulla base di una reciproca e simultanea elevazione delle rispettive capacità verso la vittoria finale. Il partito non dovrà mai far ricorso a forme di costrizio­ ne, ma deve considerare che si è assunto un compito che la classe nel suo insieme non può condurre a termine. Il partito deve solo operare affinché la classe operaia raggiunga livelli di coscienza sempre più avanzati e che, al contempo, permettano la propria crescita. « L’organizzazione del proletariato in classe e quindi in partito », afferma il Manifesto. Le avanguardie del proletariato hanno scritto immense pile di libri sulle scottanti esperienze di un secolo di lotte operaie. Spetta a noi, usciti dal­ la degenerazione della rivoluzione russa, cercare di trarre gli in­ segnamenti di questa disfatta. Oggi possiamo solo balbettare. Domani, quando la situazione consentirà un nuovo ingresso delle lotte rivoluzionarie, il nuovo partito, la nuova internazio­ nale, costituiranno, con il nuovo programma, l’arma indispensa­ bile per la vittoria della classe operaia. Il proletariato non ha bisogno di illuminatori, ha bisogno di un partito. Nell’ottobre 1917, in Russia, c’era il partito di classe e abbiamo vinto. Anche in altri paesi si è presentata una situazione rivoluzionaria, ma non abbiamo vinto perché non avevamo il partito. Il materialismo storico ci può spiegare per­ ché il partito fosse in Russia e non altrove. Ma le nostre argo­

272

RIVOLUZIONE E REAZIONE

mentazioni non si pongono uno scopo impossibile, cioè creare oggi un partito di classe quando ne mancano le condizioni. La discussione si propone solo di indirizzare le deboli forze prole­ tarie sopravvissute nei vari paesi verso una strada, che ha fatto la sua prova storica e che poi è diretta espressione di una con­ cezione marxista. Il compagno Hennaut ci assilla con la domanda: «Perché la rivoluzione russa è degenerata? » e poiché le nostre risposte non sono conformi al suo schema della rivoluzione (cioè il pos­ sesso da parte degli operai dei mezzi di produzione), conclude che noi non spieghiamo un bel niente e che abbiamo anzi un passe-partout che ci permette di scantonare il problema. Per semplificare la polemica, riteniamo utile condensare in alcuni concetti fondamentali le divergenze che abbiamo con il compagno Hennaut: 1) Le rivoluzioni, il loro scoppio come la loro seguente evoluzione, possono essere valutate solo in rapporto a conside­ razioni internazionali. In un solo paese non solo è impossibile costruire il socialismo, ma anche stabilirne le basi. Nel paese in cui il proletariato ha vinto non si tratta assolutamente di rea­ lizzare una condizione di socialismo (per mezzo della libera gestione economica da parte del proletariato), ma solo di difen­ dere la rivoluzione, e ciò esige la conservazione di tutte le or­ ganizzazioni di classe del proletariato.

2) La teoria dei Consigli di fabbrica rompe con il mar­ xismo, perché sostituisce alla teoria proletaria della lotta di clas­ se mondiale la ricerca di soluzioni giuridiche. Soluzioni che infrangono il principio marxista dell’intrinseca opposizione tra Stato e proletariato e ammettono l’ipotesi che ima struttura sta­ tale proletaria, sulla base di Consigli (dunque, un cambiamento puramente formale), possa tutelare la rivoluzione proletaria vit­ toriosa. 3) Le classi hanno le loro fondamenta solo nell’ambito della produzione e dell’appropriazione del plusvalore che ali­ menta un’economia basata sul profitto. In Russia, dove la diffe­ renziazione tra i vari strati sociali non è ancora giunta al punto

IL DIBATTITO: VERCESI

273

di determinare l’appropriazione privata dei mezzi di produzio­ ne, non abbiamo ancora una classe capitalista. Il fenomeno rus­ so e la sua degenerazione sono una palese conferma del mar­ xismo, cioè che la lotta di classe ha un carattere internazionale, che l’economia capitalista mondiale può benissimo accordarsi con forme di gestione economica che sono in contrasto con es­ sa, siano queste basate sulla servitù feudale oppure sulla socia­ lizzazione dei mezzi di produzione. Il capitalismo belga si ac­ corda molto bene con colossali cooperative di produzione e di consumo. A scala molto più vasta il capitalismo mondiale ha dimostrato di potersi accordare con la permanenza dell’econo­ mia sovietica. Non diversamente dalla burocrazia belga, la bu­ rocrazia sovietica non può elevarsi al rango della classe fonda­ mentale della società.

4) La soluzione proletaria ai problemi sorti dalla dege­ nerazione sovietica, consiste nel proseguire il cammino percorso fino a oggi dal proletariato di tutti i paesi, cioè nell’arricchire il patrimonio della lotta proletaria mondiale. Non è affatto casua­ le che le valutazioni apparentemente più a sinistra riguardo la situazione russa si accompagnino a posizioni di destra riguardo i problemi della lotta proletaria mondiale. Si elude la base stes­ sa del marxismo, quando si parla di classe sfruttatrice, mentre non c’è ancora appropriazione privata dei mezzi di produzione. Si elude ancora una volta il marxismo quando, invece di porta­ re a un punto più avanzato il programma politico che ci ha lasciato in eredità la rivoluzione russa, si resta al di là delle realizzazioni politiche della rivoluzione russa.

INDICE

Premessa .

v

Introduzione .

1

PARTITO, INTERNAZIONALE, STATO DI « RILAN »

33

Premessa................................................................................

Capitolo I.

- LA CLASSE E IL SUO SIGNIFICATO

45

.

Capitolo IL

- CLASSE E STATO .

57

Capitolo III.

- CLASSE E PARTITO ...

73

Capitolo IV.

- PARTITO E INTERNAZIONALE .

Capitolo V.

- LO STATO DEMOCRATICO .

Capitolo VI.

- LO STATO FASCISTA ....

87 99 Ili

Capitolo VII. - 1. LO STATO PROLETARIO (Parte Prima) .

123

-

2. LO STATO SOVIETICO (Parte Seconda) .

-

3. LO STATO SOVIETICO (Parte Terza) .

-

4. LO STATO PROLETARIO (Parte Quarta) .

181

-

5. LO STATO PROLETARIO (Parte Quinta) .

195

139

.

158

IL DIBATTITO: HENNAUT E VERCESI CRITICA ALLE TESI DI « BILAN », di A. Hennaut .

219

NATURA ED EVOLUZIONE DELLA RIVOLUZIONE RUSSA: risposta al compagno Hennaut, di Vercesi............................................... . ,

251

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MESSINA FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE --------------------------------------------

Sene STUDI SOCIOLOGICI

---------------------------------------------

5

RIVOLUZIONE E REAZIONE LO STATO TARDO-CAPITALISTICO NELL’ANALISI DELLA SINISTRA COMUNISTA a cura di ALBERTO GIASANTI con introduzione di DINO ERBA e ARTURO PEREGALLI

MILANO - DOTT. A. GIUFFRÈ EDITORE - 1983

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MESSINA FACOLTÀ’ DI SCIENZE POLITICHE

STUDI STORICI (serie diretta da Gaetano Cingari)

1.

Tommaso Mirabella, Salvatore Maniscalco, direttore della polizia borbonica in Sicilia ed esule dopo il '60 a Marsiglia, 1980, p. IV-296. ■>

STUDI SOCIOLOGICI (serie diretta da Vincenzo Tomeo) 1. 2.

3. 4. 5.

Enzo Nocifora, Dal latifondo all'assistenza. Le trasformazioni della società si­ ciliana dal secondo dopo guerra ad oggi, 1981, p. IV-252. Classi sociali e agricoltura meridionale: contraddizioni e prospettive (Indagine sulle -aziende agricole e sui braccianti della provincia di Messina), a cura di Enzo Mingione, 1981, p. XVI-144. Domenico Carzo, I segni del potere (Studi sulla comunicazione sociale e sul linguaggio normativo), 1981, p. IV-124. Nella Ginatempo, Marginalità e riproduzione sociale, 1983, p. VIIl-296. Rivoluzione e reazione. Lo Stato tardo-capitalistico nell’analisi della sinistra comunista, a cura di Alberto Giasanti, 1983, p. VIII-276.

STUDI DI ECONOMIA ED ANALISI DEL TERRITORIO (serie diretta da Mario Centorrino) 1.

Alla periferia del Mezzogiorno. Materiali di ricerca sui redditi, i bisogni e le classi in un'area meridionale, a cura di Mario Centorrino ed Emanuele Sgroi, 1981, p. IV-172.

STUDI GIURIDICI 1.

Mario Tedeschi, Contributo alla determinazione della scienza del diritto ec­ clesiastico, 1983, p. IV-76.

L. 16.000 4617 - 51

i.v.A. Inclusi