Ritorno a Reims [1 ed.]
 9788858776018

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Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Colophon
Dedica
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III
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IV
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V
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EPILOGO
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Citation preview

RITORNO A REIMS

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DIDIER ERIBON RITORNO A REIMS Traduzione di Annalisa Romani

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www.giunti.it www.bompiani.eu Eribon, Didier, Retour à Reims © Librairie Arthème Fayard © 2017 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani Via Bolognese 165, 50139 Firenze - Italia Piazza Virgilio 4, 20123 Milano - Italia ISBN 978-88-587-7601-8 Prima edizione digitale: luglio 2017 Bompiani è un marchio di proprietà di Giunti Editore S.p.A.

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Per G., che vuole sempre sapere tutto

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Per molto tempo è stato solo un nome, per me. I miei genitori si erano stabiliti in questo paese quando già avevo smesso di andarli a trovare. Ogni tanto inviavo loro una cartolina, in occasione dei miei viaggi all’estero, ed era l’ultimo sforzo per mantenere un filo che volevo restasse il più tenue possibile. Mentre scrivevo l’indirizzo mi chiedevo che aspetto avesse il posto in cui abitavano, ma la curiosità non si spingeva più in là. Quando parlavo al telefono con mia madre, non più di una o due volte ogni tre mesi, mi chiedeva: “Quando ci vieni a trovare?” Eludevo la domanda con il pretesto dei numerosi impegni e la promessa di andare presto. Ma non ne avevo intenzione. Ero fuggito dalla mia famiglia e non avevo nessuna voglia di ritrovarla. Per questo sono stato a Muizon solo di recente. Era come l’avevo immaginato: un esempio caricaturale di “riurbanizzazione”, uno di quegli spazi semicittadini nel bel mezzo dei campi, di cui non si capisce più se appartengano ancora alla campagna o se con il tempo siano divenuti una sorta di periferia. All’inizio degli anni cinquanta – l’ho appreso dopo – il numero di abitanti non superava la cinquantina. Vivevano in piccoli gruppi, attorno a una chiesa che conservava alcune sue parti intatte fin dal dodicesimo secolo, nonostante tutte le guerre che avevano 9

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devastato a più riprese il Nordest della Francia – questa regione che Claude Simon definì a “statuto speciale”, in cui i nomi delle città e dei paesi rievocano “campi militari”, “cannonate sorde” e “vasti cimiteri”.1 Oggi ci vivono più di duemila persone, tra la Route du Champagne da un lato, che inizia a snodarsi proprio qui vicino, in un paesaggio di colline coperte di vigne e, dall’altro lato, una zona industriale piuttosto sinistra, nei sobborghi della città di Reims, che è a quindici, venti minuti di macchina. In seguito hanno costruito strade, e ai loro bordi case, tutte simili, allineate per gruppi di due. Sono per la maggior parte abitazioni popolari: gli affittuari non sono certo persone ricche, tutt’altro. I miei genitori hanno vissuto qui per quasi vent’anni, senza che io mi decidessi ad andarli a trovare. Ho messo piede in questa borgata – non so in quale altro modo definire un posto simile – e nella loro minuscola casa solo dopo la partenza di mio padre. Mia madre l’aveva fatto trasferire in una clinica per malati di Alzheimer, dalla quale non sarebbe più uscito. Aveva rimandato questo momento finché aveva potuto, ma un giorno, stremata e spaventata dalle sue improvvise crisi di violenza – aveva afferrato un coltello da cucina e l’aveva aggredita – aveva finito per arrendersi all’evidenza: non c’erano più soluzioni. La sua assenza mi ha permesso di intraprendere questo viaggio, o piuttosto questo processo di ritorno, fino ad allora per me impossibile. Mi ha permesso di ritrovare questa “regione di me stesso”, come avrebbe detto Genet, da cui avevo così tanto cercato di evadere. Uno spazio sociale che avevo allontanato e uno spazio mentale in opposizione al quale mi ero ricostruito, ma che continuava ugualmente a costituire una parte essenziale di me. Così sono andato a trovare mia madre ed è stato l’inizio di una riconciliazione con lei. 1



Claude Simon, Le Jardin des plantes, Paris, Minuit, 1997, pp. 196-197.

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O, più esattamente, di una riconciliazione con me stesso, con tutta una parte di me che avevo rifiutato, respinto, rinnegato. Mia madre mi parlò molto durante gli incontri dei mesi successivi. Mi parlò di lei, della sua infanzia, della sua adolescenza, della sua vita da donna sposata… Mi parlò anche di mio padre, del loro primo incontro, della loro relazione, dell’esistenza che avevano portato avanti, della durezza dei mestieri che avevano esercitato. Voleva dirmi tutto e così parlava a lungo e in modo veloce. Era come se per lei fosse importante recuperare il tempo perso, cancellare d’un colpo la tristezza per le conversazioni che non avevamo avuto. Io l’ascoltavo, bevendo caffè, seduto di fronte a lei. L’ascoltavo con attenzione quando si raccontava, con insofferenza e noia quando entrava nel dettaglio dei fatti e dei gesti dei suoi nipoti, i miei nipoti, che non avevo mai visto e ai quali non m’interessavo affatto. Si stava ritessendo un legame tra noi. Qualcosa in me si riparava. Capii quanto il mio allontanamento per lei fosse stato difficile. Capii che ne aveva sofferto. E io? Sebbene l’avessi deciso, ne avevo sofferto in un altro modo, secondo lo schema freudiano di una “melanconia” legata a un lutto insuperabile delle possibilità scartate, delle identificazioni rifiutate. Queste sopravvivono nell’io come uno dei suoi elementi costitutivi. Tutto ciò da cui si è stati sradicati o da cui ci si è voluti sradicare continua a essere parte integrante di noi. Gli strumenti della sociologia sarebbero sicuramente più adatti di quelli della psicoanalisi per descrivere quello che la metafora del lutto e della melanconia permettono di evocare in termini semplici, ma inadeguati e fuorvianti: le tracce di chi siamo stati durante l’infanzia, del modo in cui siamo stati socializzati, permangono anche quando le condizioni in cui viviamo da adulti sono cambiate, anche quando l’allontanamento da questo passato lo abbiamo voluto noi. Il ritorno all’ambiente da cui si proviene – e dal quale si è usciti, in tutti i sensi del termine – è, così, sempre un ritorno a sé e su di sé, un ritro11

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varsi con un se stesso tanto più negato, quanto più conservato. Ecco allora che in circostanze simili affiora alla coscienza tutto ciò da cui avremmo voluto crederci liberati, ma che sappiamo bene essere la struttura della nostra personalità. È il malessere prodotto dall’appartenenza a due mondi differenti, separati da una distanza tale da sembrare inconciliabili, e che tuttavia coesistono in tutto ciò che siamo. Una melanconia legata all’“habitus sfalsato”, per riprendere questo concetto di Bourdieu così bello e potente. È proprio nel momento in cui si inizia a superarlo, o almeno ad alleviarlo, che questo malessere profondo e diffuso ritorna prepotentemente in superficie e la melanconia raddoppia di intensità. Questi sentimenti erano sempre stati lì, e allora si scopre, o piuttosto si riscopre, che erano sempre stati rintanati nel più profondo di noi stessi e che stavano agendo in noi e su di noi. Mi chiedo, poi, se sia veramente possibile superare questo malessere e alleviare la melanconia. Quando la chiamai per farle gli auguri, il 31 dicembre di quello stesso anno, poco dopo mezzanotte, mia madre mi disse: “Ha appena telefonato la clinica. Tuo padre è morto un’ora fa.” Non lo amavo. Non lo avevo mai amato. Sapevo che aveva i mesi e poi i giorni contati, e non avevo fatto niente per rivederlo un’ultima volta. Per quale ragione poi, visto che non mi avrebbe riconosciuto? Era da un’eternità che non ci riconoscevamo più. Il divario, che si era scavato tra noi quando ero ancora adolescente, era aumentato con il passare degli anni ed eravamo diventati degli estranei. Non c’era più niente in grado di avvicinarci, né di riavvicinarci. Almeno lo credevo, o avevo desiderato crederlo, visto che pensavo si potesse vivere esclusi dalla propria famiglia e reinventarsi voltando le spalle al proprio passato e a chi lo aveva abitato. Lì per lì pensai che per mia madre sarebbe stato un sollievo. Mio padre sprofondava ogni giorno di più in uno stato di 12

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deperimento fisico e intellettuale destinato solo ad aggravarsi. Era un disfacimento inesorabile. Non sarebbe più guarito, su questo non c’erano dubbi. Di conseguenza alternava le crisi di follia, durante le quali si scontrava con gli infermieri, a dei lunghi periodi d’inerzia, provocati senza dubbio dalle medicine somministrategli dopo gli episodi di agitazione. Durante queste fasi di sonnolenza non parlava, non camminava e non mangiava. In ogni caso non si ricordava nulla e non riconosceva nessuno. Andarlo a trovare aveva rappresentato una dura prova, sia per le sorelle (due di loro si erano spaventate e, dopo la prima volta, non erano più tornate) sia per i miei tre fratelli. Mia madre, poi, doveva percorrere venti chilometri in macchina e questo fatto rivelava una devozione che non mi spiegavo. Sapevo che nutriva per lui solo sentimenti di ostilità, e per quanto io mi ricordi era sempre stato così: un disgusto misto a odio. No, non esagero: disgusto e odio. Ma lei se ne faceva un dovere. Era l’immagine di se stessa che era in gioco: quando le chiedevo perché mai continuasse ad andare in clinica tutti i giorni, visto che lui non sapeva più chi lei fosse, mi ripeteva: “Non posso abbandonarlo così.” Aveva attaccato sulla porta della sua camera una foto di loro due e regolarmente gliela mostrava: “Sai chi è?” “La signora che si occupa di me,” rispondeva lui. Due o tre anni prima, la notizia della malattia di mio padre mi aveva gettato in un’angoscia profonda. Non certo per lui, era troppo tardi e a ogni modo non m’ispirava alcun sentimento, nemmeno la compassione. Si trattava, egoisticamente, di me: era ereditaria? Presto sarebbe toccato a me? Mi mettevo a recitare delle poesie o delle scene di tragedie che prima sapevo a memoria, per verificare se ancora le conoscevo: “Pensa, pensa, Cefisa, alla notte crudele che per tutta una gente fu notte sempiterna…”; “Ecco dei frutti, dei fiori, delle foglie e 13

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dei rami / E poi ecco il mio cuore…”; “Lo spazio eguale a sé, che si neghi o s’accresca / in questa noia rotea.” Non appena un verso mi sfuggiva, mi dicevo: “Eccoci, siamo all’inizio.” Questa ossessione non mi ha più abbandonato e non appena la memoria inciampa su un nome, una data, un numero di telefono, immediatamente si risveglia in me un’inquietudine. Vedo ovunque segni premonitori. Quanto più li spio, tanto più ne ho paura. In un certo modo la mia vita è perseguitata dallo spettro dell’Alzheimer. Uno spettro che proviene dal passato, per terrorizzarmi con la visione del futuro. È così che mio padre continua a essere presente nella mia esistenza. Strano modo, per una persona scomparsa, di sopravvivere nel cervello – il luogo stesso in cui è localizzata la minaccia – di uno dei suoi figli. Lacan descrive molto bene, in uno dei suoi Seminari, quest’apertura sull’angoscia prodotta, in ogni caso nel figlio maschio, dalla scomparsa del padre: si ritrova solo, in prima linea, davanti alla morte. L’Alzheimer aggiunge una paura quotidiana a quest’angoscia ontologica: si spiano gli indizi, li si interpreta. La mia vita, tuttavia, non è solo perseguitata dal futuro, lo è anche dai fantasmi del passato. Questi emersero subito dopo il decesso di colui che incarnava tutto ciò che avevo voluto lasciare, tutto ciò con cui avevo voluto rompere e che, sicuramente, aveva costituito per me una sorta di esempio sociale negativo, un contromodello per tutto il lavoro di creazione di me stesso. Nei giorni successivi ritornai sulla mia infanzia, sulla mia adolescenza, su tutte le ragioni che mi avevano portato a detestare quest’uomo appena morto. La sua scomparsa e l’emozione inaspettata che questa suscitava in me risvegliarono nella memoria tante immagini che credevo di aver dimenticato (ma forse avevo sempre saputo di non avere dimenticato, anche se le avevo – consciamente – rimosse). Mi si obietterà che questo avviene in ogni lutto e forse ne costituisce proprio una 14

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delle caratteristiche essenziali e universali, soprattutto quando si tratta dei genitori. Ma in questo caso era uno strano modo di sperimentarlo: un lutto in cui sulla tristezza prevaleva la volontà di comprendere colui che era appena scomparso e me stesso che gli sopravvivevo. Precedentemente ero stato colpito da altre perdite, con più violenza, e mi avevano gettato in una tristezza più profonda. Si trattava di amici, di rapporti elettivi il cui brutale annientamento aveva privato la mia vita di ciò che ne tesseva la trama quotidiana. La forza e la solidità di queste relazioni scelte da me derivavano da una volontà tenace di farle durare, e questo spiegava il crollo provocato dalla loro interruzione. Ciò che mi univa a mio padre, invece, mi sembrava che rivelasse un legame esclusivamente biologico e giuridico. Mi aveva generato, portavo il suo nome e, per tutto il resto, lui non contava nulla per me. Quando lessi gli appunti a cui Barthes affidava quotidianamente la disperazione per la morte di sua madre e la sofferenza insormontabile che lo stava trasformando, capii fino a che punto i sentimenti che mi avevano invaso alla morte di mio padre fossero diversi da questa disperazione, da quest’afflizione. “Non sono in lutto, provo tristezza,” scrive Barthes, per esprimere il rifiuto di un approccio psicoanalitico rispetto a ciò che avviene dopo la scomparsa di una persona cara.2 Che dire di me? Potrei dire, proprio come lui, che non mi sentivo “in lutto” (nel senso freudiano di un “lavoro” che si compie in una temporalità psichica e in cui il dolore iniziale scompare progressivamente). Non provavo neanche questa tristezza permanente, sulla quale il tempo non avrebbe alcuna presa. Che cosa provavo, allora? Uno sconvolgimento, piuttosto, provocato da una serie di domande sui destini sociali, sulla divisione della società in classi, sull’effetto dei determinismi   Roland Barthes, Dove lei non è, tr. it. di V. Magrelli, Torino, Einaudi, 2012, p. 75 [Journal de deuil, Paris, Seuil, 2009, p. 83]. 2

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sociali nella costituzione delle soggettività, sulle psicologie individuali, sui rapporti tra gli individui. Queste domande erano intimamente personali e politiche. Non andai ai funerali di mio padre. Non avevo voglia di rivedere i miei fratelli, non ero più in contatto con loro da più di trent’anni. Di loro ormai conoscevo solo le foto incorniciate che si trovavano un po’ ovunque nella casa di Muizon. Sapevo che aspetto avevano, come erano diventati fisicamente. Ma come potevo ritrovarli dopo così tanto tempo, in circostanze simili? “Com’è cambiato…” avremmo pensato gli uni degli altri, cercando disperatamente di scovare dietro i lineamenti odierni chi eravamo ieri, o piuttosto l’altro ieri, quando eravamo fratelli. Quando eravamo giovani. Andai il giorno dopo, a passare il pomeriggio con mia madre. Parlammo per diverse ore, seduti sul divano del salone. Lei tirò fuori da un armadio delle scatole piene di foto. Ce n’erano, ovviamente, diverse di me da ragazzino, adolescente… dei miei fratelli… Avevo ancora davanti agli occhi – ma non mi era, in fondo, ancora inciso nella mente e nella carne? – questo ambiente operaio nel quale avevo vissuto e questa miseria operaia, che si legge nella fisionomia delle abitazioni sullo sfondo, negli interni, nei vestiti, sui corpi stessi. Sorprende sempre vedere fino a che punto i corpi nelle fotografie del passato si presentino immediatamente allo sguardo come corpi sociali, corpi di classe – forse in modo maggiore di quelli in azione e in situazione davanti a noi. E allo stesso modo constatare fino a che punto la fotografia, in quanto “ricordo”, riportando un individuo – in questo caso me – al suo passato familiare, lo inchiodi al suo passato sociale. La sfera del privato, perfino dell’intimo, per il modo in cui rimonta in superficie dalle vecchie fotografie, ci reintegra nel perimetro di mondo sociale da cui proveniamo, nei luoghi marcati dall’appartenenza di classe. In una topo16

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grafia in cui ciò che sembra riguardare le relazioni più profondamente personali ci situa invece in una storia e una geografia collettive (come se la genealogia individuale fosse inseparabile da un’archeologia o da una topologia sociale, che ciascuno custodisce in sé come una delle sue verità più profonde, pur non essendo la più cosciente).

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Da quando avevo varcato la soglia del ritorno a Reims, una domanda aveva cominciato a ossessionarmi. Si andava formulando in modo ancora più netto e preciso nei giorni che seguirono questo pomeriggio passato con mia madre a guardare le fotografie, il giorno dopo i funerali di mio padre: “Perché io, che avevo scritto così tanto sui meccanismi della dominazione, non ho mai scritto nulla sulla dominazione sociale?” E poi: “Perché io, che ho attribuito così tanta importanza al sentimento della vergogna nei processi di assoggettamento e di soggettivazione, non avevo scritto quasi nulla sulla vergogna sociale?” Dovrei anzi precisare la questione in questi termini: “Perché non ho mai avuto l’idea di affrontare questo problema in un libro o in un articolo? Proprio io, che avevo così tanto provato la vergogna sociale, la vergogna dell’ambiente da cui venivo. Proprio io che, quando mi sono stabilito a Parigi e ho conosciuto persone provenienti da un ambiente sociale molto differente dal mio, quasi mentivo sulle mie origini di classe, oppure mi sentivo profondamente in imbarazzo nel confessarle.” La riformulo in questo modo: mi è stato più facile scrivere sulla vergogna sessuale che sulla vergogna sociale. Come se studiare la costituzione del soggetto inferiorizzato e quella, complementare, del complesso rapporto tra il silenzio su di sé 19

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e l’“ammissione” di sé fosse oggi una posizione valorizzata, valorizzante e perfino richiesta dai contesti contemporanei della politica, quando si tratta di sessualità. Quando si tratta dell’origine sociale popolare, invece, conservare tale atteggiamento è molto difficile e non ha quasi alcun sostegno nelle categorie del discorso pubblico. E vorrei capirne le ragioni. La fuga verso la grande città, la capitale, per vivere la propria omosessualità è un percorso tipico e molto comune per un giovane gay. Il capitolo che ho dedicato a questo fenomeno in Riflessioni sulla questione gay può essere letto – come tutta la prima parte del libro, d’altronde – come un’autobiografia trasfigurata in analisi storica e teorica o, se si preferisce, come un’analisi storica e teorica ancorata a un’esperienza personale.3 Ma l’“autobiografia” è parziale e, partendo da uno sguardo riflessivo sulla mia traiettoria, un’altra analisi storica e teorica sarebbe stata possibile. Perché la decisione, a vent’anni, di lasciare la città dove ero nato e dove avevo passato tutta l’adolescenza, per trasferirmi a Parigi, per me significò anche un cambiamento di contesto sociale. Non esagero, di conseguenza, nel dire che il coming out sessuale, il desiderio di accettare e affermare la mia omosessualità, coincideva nel mio percorso con l’entrata in una sorta di nascondiglio sociale, ovvero nei vincoli imposti da un’altra forma di dissimulazione. Un altro tipo di personalità dissociata o di doppia coscienza (con gli stessi meccanismi, ben noti, della vergogna sessuale: i sotterfugi per depistare, i pochissimi amici che sanno ma mantengono il segreto, i differenti registri del discorso a seconda delle situazioni e degli interlocutori, il costante controllo di sé, dei propri gesti, intonazioni ed espressioni per non lasciar trasparire nulla, per non “tradirsi”…). Quando iniziai a scrivere sull’assoggettamento, dopo   Cfr. Didier Eribon, Riflessioni sulla questione gay, tr. it. di V. Cavagnoli, Milano, Ariele, 2015 [Réflexions sur la question gay, Paris, Fayard, 1999]. 3

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alcuni lavori nell’ambito della storia delle idee (in particolare i miei due libri su Foucault), scelsi di rifarmi al mio passato di gay. E scelsi di riflettere sui meccanismi dell’inferiorizzazione e dell’“abiezione” (le modalità attraverso cui il mondo in cui viviamo ci rende “abietti”) di chi trasgredisce i codici della normalità sessuale. Lasciai da parte tutto ciò che in me, nella mia esistenza, avrebbe potuto e dovuto portarmi a rivolgere lo sguardo anche ai rapporti di classe, alla dominazione di classe e ai processi della soggettivazione in termini d’appartenenza sociale e d’inferiorizzazione delle classi popolari. Ovviamente non trascurai tali problemi in Riflessioni sulla questione gay, in Une morale du minoritaire, o in Hérésies. L’ambizione di questi libri era proprio quella di oltrepassare l’ambito determinato di analisi che si erano proposti. Era mia intenzione, in questi testi, abbozzare un’antropologia della vergogna e, partendo da qui, costruire una teoria della dominazione e della resistenza, dell’assoggettamento e della soggettivazione. Senza dubbio è questa la ragione per cui in Une morale du minoritaire (il cui sottotitolo è Variations sur un thème de Jean Genet) faccio dialogare continuamente le teorie di Genet, Jouhandeau e di altri autori che hanno riflettuto sull’inferiorizzazione sessuale, con le teorie di Fanon, Baldwin e Chamoiseau sull’inferiorizzazione razziale e coloniale. Resta il fatto che questi aspetti sono presenti nelle mie argomentazioni solo come punti di riferimento, nello sforzo di comprendere cosa rappresenti e cosa comporti il fatto di appartenere a una minoranza sessuale. Rendo operativi degli approcci prodotti in altri contesti, cerco di allargare la portata delle mie analisi, ma si tratta sempre di elementi secondari, di integrazioni, con valore sia di supporto sia di ampiamento. Come ho sottolineato nella prefazione all’edizione inglese di Riflessioni sulla questione gay, ho voluto trasporre la nozione di habitus di classe, creata da Pierre Bourdieu, alla questione degli habitus sessuali e chiedermi se le forme d’in21

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corporazione delle strutture dell’ordine sessuale producessero degli habitus sessuali, proprio come le forme d’incorporazione delle strutture dell’ordine sociale producono degli habitus di classe. E se è vero che ogni tentativo di fornire risposte a un simile problema deve obbligatoriamente affrontare l’articolazione tra habitus sessuale e habitus di classe, il mio libro era dedicato alla soggettivazione sessuale e non a quella sociale.4 Nel ritornare a Reims ero posto davanti a questa domanda, insistente e negata (fortemente negata sia nei miei scritti che nella mia vita): nell’assumere come punto di partenza del mio approccio teorico – e dunque nell’instaurare come orizzonte per pensare me stesso, il mio passato e il mio presente – l’idea, in apparenza evidente, che la radicale rottura con la mia famiglia poteva spiegarsi attraverso la mia omosessualità, attraverso l’omofobia costitutiva di mio padre e quella dell’ambiente in cui avevo vissuto, non mi ero già fornito – per quanto tutto ciò potesse essere profondamente vero – delle nobili e incontestabili ragioni per non pensare che si trattava, al tempo stesso, di una rottura di classe con il mio ambiente di origine? Seguendo, nella mia vita, il percorso tipico del gay che va verso la città, che s’inserisce in nuove reti sociali, che fa l’esperienza di se stesso in quanto gay e al tempo stesso scopre il mondo omosessuale e, a partire da questa scoperta, si reinventa, ho seguito contemporaneamente un altro percorso, sociale stavolta: l’itinerario di coloro che abitualmente chiamiamo “transfughi di classe”. E io fui, senza dubbio, un “transfugo” la cui preoccupazione, costante e più o meno cosciente, era di tenere a distanza la sua classe d’origine, scappare dall’ambiente sociale della sua infanzia e della sua adolescenza. 4   Ho pubblicato il testo francese di questa prefazione nella raccolta Hérésies. Essais sur la théorie de la sexualité (Paris, Fayard, 2003). Per la versione inglese, cfr. Insult and the Making the Gay Self, Durham, NC, Duke University Press, 2004.

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Continuavo, ovviamente, a essere solidale con il mondo della mia gioventù, non aderendo mai ai valori della classe dominante. Provavo sempre imbarazzo, perfino odio, quando sentivo qualcuno parlare con disprezzo o sufficienza delle persone del popolo, del loro modo di vivere e di essere. Dopo tutto era da lì che venivo. E provavo un odio immediato anche davanti all’ostilità che i benestanti e gli arricchiti esprimevano nei confronti dei movimenti sociali, degli scioperi, delle proteste, delle resistenze popolari. Certi riflessi di classe resistono nonostante tutti gli sforzi, soprattutto quelli per cambiare se stessi e attraverso i quali ci si è allontanati dall’ambiente d’origine. E se qualche volta, nella vita di tutti i giorni, mi capitò di lasciarmi andare a degli sguardi o a dei giudizi affrettati e sprezzanti, che rivelavano una percezione del mondo e degli altri plasmata da ciò che è quanto mai doveroso chiamare razzismo di classe, solitamente le mie reazioni somigliavano a quelle di Antoine Bloyé, il personaggio con cui Nizan ha descritto suo padre, ex operaio diventato borghese: le frasi offensive sulla classe operaia pronunciate dalle persone che frequenta nella sua vita adulta, e che ormai costituiscono il suo ambiente di appartenenza, lo feriscono ancora, come se fosse lui stesso a essere attaccato insieme al suo ambiente di allora: “Come partecipare ai loro giudizi senza essere infedele alla propria infanzia?”5 Ogni volta che sono stato “infedele” alla mia infanzia, partecipando a giudizi offensivi, una cattiva coscienza non ha mai mancato, presto o tardi, di manifestarsi in silenzio. Quanto era grande, invece, la distanza che ormai mi separava da questo mio antico universo a cui, con tutta l’energia della disperazione, non avevo più voluto appartenere. Con 

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Paul Nizan, Antoine Bloyé (1933), Paris, Grasset, 2005, pp. 207-209.

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fesso che, pur sentendomi sempre vicino e solidale alle lotte popolari, pur restando fedele ai valori politici ed emotivi che mi fanno ancora tremare quando vedo un documentario sugli scioperi del 1936 o del 1968, provavo un rifiuto profondo per l’ambiente operaio. Per come era realmente. La “classe mobilitata” o percepita come da mobilitare, e dunque idealizzata, perfino resa eroica, è differente dagli individui che la compongono, o che potenzialmente la compongono. Detestavo sempre di più ritrovarmi a contatto diretto con ciò che erano – e sono – le classi popolari. Nel primo periodo della mia vita parigina, un imbarazzo difficile da definire e da descrivere prendeva il sopravvento ogni volta che mi ritrovavo con i miei genitori. Loro abitavano a Reims, nel quartiere di case popolari in cui avevo trascorso tutta la mia adolescenza – sarebbero partiti da lì per stabilirsi a Muizon diversi anni dopo. La stessa sensazione si ripresentava quando pranzavo con loro la domenica, a casa di mia nonna che viveva a Parigi e che loro ogni tanto venivano a trovare. Questo imbarazzo si manifestava davanti a certi modi di parlare e di essere così diversi da quelli dell’ambiente in cui ormai evolvevo, davanti a preoccupazioni così lontane dalle mie, davanti a frasi in cui un razzismo primario e ossessivo si manifestava senza freni in ogni conversazione, senza capire bene perché qualsiasi discorso dovesse ineluttabilmente ricondurre lì. Associavo sempre di più questi incontri a un sacrificio, e più mi trasformavo in un’altra persona più questo sacrificio mi diventava insopportabile. Ho riconosciuto con precisione ciò che provavo in quel periodo quando ho letto i libri che Annie Ernaux ha dedicato ai suoi genitori e alla “distanza di classe” che la separava da loro. In questi passi descrive perfettamente il malessere che si prova quando si riviene dai genitori, dopo aver lasciato non solo il domicilio familiare ma anche la famiglia e il mondo di cui, nonostante tutto, continuiamo a fare parte. E questo sen24

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timento sconcertante di essere a casa ma, allo stesso tempo, in un universo estraneo.6 Per ciò che mi riguarda, a essere sincero, dopo qualche anno questi incontri mi divennero quasi impossibili. Due percorsi, dunque, intrecciati l’uno all’altro. Due traiettorie interdipendenti di reinvenzione di me stesso: una rispetto all’ordine sessuale e l’altra rispetto all’ordine sociale. Eppure, quando si è trattato di scrivere, ho deciso di analizzare la prima, quella inerente all’oppressione sessuale e non la seconda, relativa all’oppressione sociale. E forse attraverso il gesto della scrittura teorica ho raddoppiato il tradimento esistenziale. Ho adottato un certo tipo di coinvolgimento personale rispetto a un altro e forse ne ho utilizzato uno per escludere l’altro. Questa scelta ha costituito non solo un modo di definirmi e di soggettivarmi nel presente, ma anche una scelta del mio passato. Una scelta del bambino, dell’adolescente che ero stato: un bambino gay, un adolescente gay e non un figlio di operaio. E invece…

6   Annie Ernaux, Il posto, tr. it. di L. Flabbi, Roma, L’Orma Editore, 2014 [La Place, Paris, Gallimard, 1983]; Id., Una vita di donna, tr. it. di L. Prato Caruso, Parma, Guanda, 1988 [Une femme, Paris, Gallimard, 1987]; Id., L’onta, tr. it. di O. Orel, Milano, Rizzoli, 1999 [La Honte, Paris, Gallimard, 1997].

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“Chi è?” chiesi a mia madre. “Ma… è tuo padre, non lo riconosci? Sarà perché non lo vedi da tanto tempo.” In effetti non avevo riconosciuto mio padre in quella foto, scattata qualche tempo prima della sua morte. Rannicchiato su se stesso, dimagrito, lo sguardo perso, era terribilmente invecchiato e mi ci volle qualche minuto per far coincidere l’immagine di questo corpo indebolito con l’uomo che avevo conosciuto: stupido e violento, che urlava in continuazione, e che mi aveva suscitato così tanto disprezzo. In quel preciso istante mi sentii disorientato nel comprendere che nei mesi, forse negli anni, che avevano preceduto la sua morte aveva smesso di essere la persona che avevo detestato per divenire quest’essere patetico: un anziano tiranno decaduto, inoffensivo e senza forze, sconfitto dall’età e dalla malattia. Nel rileggere il bel testo di James Baldwin sulla morte di suo padre sono stato colpito da un’osservazione. Racconta come aveva rimandato il più a lungo possibile l’andarlo a trovare, pur sapendo che era molto malato. E spiega: “Avevo detto a mia madre che non lo volevo vedere perché lo odiavo. Ma questo non era vero. Era solo che lo avevo odiato. Non volevo vederlo come un relitto: non era un relitto quello che avevo odiato.”7 7

  James Baldwin, Appunti americani, tr. it. di A. Hilbe, Firenze, Le Lettere,

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E più toccante ancora mi è apparsa la spiegazione che propone: “Credo che una delle ragioni per cui le persone rimangono aggrappate così tenacemente ai loro odi sia perché intuiscono che, una volta sparito l’odio, saranno costrette ad affrontare il dolore.”8 Il dolore, o piuttosto, per ciò che mi riguarda – dal momento che l’estinzione dell’odio non fece nascere in me alcun dolore –, l’obbligo imperioso di pormi delle questioni su di me, il desiderio incontenibile di risalire nel tempo per capire le ragioni che mi resero talmente difficile avere il minimo scambio con lui che, in fondo, non ho conosciuto. Quando provo a riflettere, mi dico che non so poi un granché di mio padre. Che cosa pensava? Sì, che cosa pensava del mondo in cui viveva? Di se stesso? Degli altri? Come percepiva le cose della vita? Le cose della sua vita? E in particolare la nostra relazione, sempre più tesa, poi sempre più distante, in seguito la nostra assenza di relazione? Rimasi sbalordito, poco tempo fa, nel sapere che un giorno, vedendomi in una trasmissione televisiva, si era messo a piangere, sopraffatto dall’emozione. Constatare che uno dei suoi figli aveva raggiunto quello che ai suoi occhi rappresentava un successo sociale appena immaginabile l’aveva sconvolto. Era pronto, proprio lui che avevo conosciuto così tanto omofobo, a sfidare il giorno dopo lo sguardo dei vicini e degli abitanti del villaggio e perfino a difendere, se fosse stato necessario, quello che considerava come il suo onore e quello della sua famiglia. Quella sera presentavo il mio testo Riflessioni sulla questione gay e, temendo i commenti e il sarcasmo che questo avrebbe potuto scatenare, aveva detto a mia madre: “Se qualcuno mi dice qualcosa, gli do un cazzotto in faccia.” 2007, p. 98 [“Notes of a Native Son” (1955), in Notes of a Native Son (1964), Londra e New York, Penguin Books, 1995, p. 98]. 8   Ibidem.

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Non ho mai – mai! – avuto una conversazione con lui. Ne era incapace (meno che mai con me, e io con lui). È troppo tardi per lamentarsene. Eppure mi piacerebbe fargli tante di quelle domande oggi, se non altro per scrivere questo libro. Sono stupito, ancora una volta, nel leggere questa frase nel racconto di Baldwin: “Quando morì, mi resi conto che non gli avevo quasi mai parlato. Dopo molto tempo che era morto, cominciai a desiderare di averlo fatto.”9 Più avanti, evocando il passato di suo padre che era appartenuto alla prima generazione di uomini liberi (sua madre era nata all’epoca della schiavitù), aggiunge: “Sosteneva di essere orgoglioso del suo essere nero, ma questo era anche stato causa di grande umiliazione e aveva posto squallidi limiti alla sua vita.”10 Come sarebbe stato possibile, d’altronde, che Baldwin non si rimproverasse un giorno o l’altro di aver abbandonato la sua famiglia, di aver tradito i suoi? Sua madre non aveva accettato il fatto che li lasciasse, che andasse a vivere lontano, prima al Greenwich Village per frequentare gli ambienti letterari e poi in Francia. Gli sarebbe stato possibile restare? Certamente no! Aveva dovuto partire, lasciarsi dietro Harlem, la ristrettezza di vedute e l’ostilità bigotta di suo padre alla cultura e alla letteratura, l’atmosfera asfissiante della casa familiare… per poter diventare scrittore ma anche per poter vivere liberamente la sua omosessualità (e affrontare nella sua opera la duplice questione di che cosa significhi essere nero e di che cosa significhi essere gay). Arrivò, tuttavia, il momento in cui il bisogno di rivenire gli s’impose, anche se avvenne dopo la morte di suo padre (suo nonno, in realtà, ma era stato lui a crescerlo fin dall’infanzia). Il testo che scrive per rendergli omaggio può dunque essere interpretato come il mezzo per compiere, o in ogni caso iniziare, questo 9

  Ivi, pp. 85-86 [pp. 85-86].   Ivi, p. 87 [pp. 85-86].

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“ritorno” mentale, cercando di comprendere chi fosse questa figura che aveva così tanto detestato e da cui era a tal punto voluto fuggire. Attraverso questo processo d’intellettualizzazione storica e politica c’è forse la volontà di diventare, un giorno, capace di riappropriarsi emozionalmente del proprio passato e di arrivare non solo a comprendersi ma soprattutto ad accettarsi. È chiaro perché, ossessionato da ciò, abbia affermato con tanta forza in un’intervista che “evitare il viaggio di ritorno è evitare se stessi, evitare la ‘vita’”.11 Come Baldwin a proposito di suo padre, arrivai a pensare che tutto ciò che lui era stato, vale a dire tutto ciò che gli rimproveravo, per cui lo avevo detestato, fosse stato forgiato dalla violenza del mondo sociale. Era stato fiero di appartenere alla classe operaia. Più tardi era stato fiero di elevarsi, anche se poco, al di sopra di questa condizione. Ma questo era stato anche causa di molte umiliazioni e aveva fissato “squallidi limiti” alla sua vita. Aveva inscritto in lui una sorta di follia che lo rendeva pressoché incapace di rapportarsi agli altri e dalla quale non arrivò mai a liberarsi. Come Baldwin, ma in un contesto molto diverso, sono certo che mio padre portava in sé il peso di una storia schiacciante, destinata a produrre profondi danni psichici in chi l’aveva vissuta. La vita di mio padre, la sua personalità, la sua soggettività furono determinate da una doppia inscrizione in un luogo e in un tempo i cui limiti e la durata, nel coincidere, si moltiplicavano. La chiave del suo essere: il luogo e il periodo in cui era nato. L’epoca e la regione dello spazio sociale in cui si decise quale doveva essere il suo posto nel mondo, la sua assimilazione del mondo, il suo rapporto con il mondo. La semifollia di mio padre e la sua conseguente incapacità relazionale non avevano, 11   James Baldwin, Conversations, a cura di Fred L. Stanley e Louis H. Pratt, Jackson, University Press of Mississippi, 1989, p. 60. Su tutti questi punti cfr. David Leeming, James Baldwin: A Biography, New York, Alfred A. Knopf, 1994.

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in definitiva, niente di psicologico, nel senso di un tratto di un carattere individuale: erano l’effetto di questo essere-al-mondo così precisamente situato. Proprio come la madre di Baldwin, la mia mi disse: “Dopo tutto è lui che ha lavorato per darvi da mangiare.” Poi mi parlò di lui mettendo da parte le sue recriminazioni: “Non giudicarlo in modo troppo severo; non ha avuto una vita facile.” Era nato nel 1929, il primo di una famiglia che sarebbe diventata molto numerosa: sua madre ebbe dodici figli! Oggi si fatica perfino a immaginare il destino di queste donne asservite alla maternità: dodici figli! Due di loro erano morti alla nascita (o molto piccoli). Un altro – nato sulla strada, durante l’evacuazione della città nel 1940, mentre gli aerei tedeschi si accanivano sulle file di rifugiati – era handicappato mentale. Probabilmente perché il cordone ombelicale non gli era stato tagliato correttamente o forse perché era rimasto ferito quando mia nonna si gettò con lui in un fosso, per proteggerlo dai mitragliamenti, o semplicemente per mancanza delle prime cure necessarie subito dopo la nascita – non so quale di queste differenti versioni, conservate nella memoria familiare, sia quella giusta… Mia nonna lo tenne tutta la vita con sé. Ho sempre sentito dire che fosse per beneficiare dell’assegno sociale, indispensabile alla sopravvivenza economica della famiglia. Quando ero piccolo, mio fratello e io ne avevamo paura. Sbavava, si esprimeva solo attraverso borborigmi, tendeva le mani verso di noi per cercare un po’ d’affetto o per manifestare il suo, ma in risposta otteneva solo dei passi indietro, quando non si trattava di grida o di spinte. Retrospettivamente ne sono mortificato, ma eravamo dei bambini, e lui un adulto che all’epoca era definito “anormale”. Durante la guerra, la famiglia di mio padre, in effetti, dovette lasciare la città, al momento del cosiddetto “esodo”. Il viaggio li condusse lontano da casa, in una fattoria vicino Mimizan, 31

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una piccola città delle Landes. Dopo qualche mese ritornarono a Reims, una volta firmato l’armistizio. Il Nord della Francia era occupato dall’esercito tedesco (sono nato dopo la fine della guerra e nonostante ciò nella mia famiglia si utilizzava esclusivamente la parola “crucchi” per designare i tedeschi, ai quali si consacrava un odio feroce e palesemente inestinguibile. Fino agli anni settanta, e perfino dopo, avveniva spesso di terminare un pasto con l’esclamazione: “Alla faccia dei crucchi, che questo non avranno!” E devo ammettere che io stesso ho utilizzato questa espressione più di una volta). Nel 1940 mio padre aveva undici anni e, fino all’età di quattordici o quindici, per tutto il tempo dell’occupazione, toccò a lui cercare il cibo per la sua famiglia nei villaggi intorno. In ogni stagione, con il vento, con la pioggia o con la neve. Nel freddo glaciale dell’inverno della Champagne, lui a volte faceva anche venti chilometri in bicicletta, per procurarsi delle patate o altro. A casa spettava a lui occuparsi di tutto, o quasi. Si erano trasferiti – non so se durante o alla fine della guerra – in una casa abbastanza grande, al centro di un quartiere in cui negli anni venti erano state costruite case popolari per le famiglie numerose. Questo tipo di abitazione corrispondeva ai progetti elaborati da un gruppo di industriali cattolici che, all’inizio del ventesimo secolo, si preoccuparono di migliorare gli alloggi dei loro operai. Reims era una città divisa in due da una frontiera di classe molto netta: da un lato la grande borghesia e dall’altro gli operai poveri. I circoli di filantropi della prima classe si preoccupavano delle condizioni di vita dei secondi e delle conseguenze nefaste che ne potevano conseguire. La paura della denatalità aveva portato a un cambiamento profondo nella percezione delle “famiglie numerose”: colpevoli di disordine e produttrici di una gioventù delinquenziale fino alla fine dell’Ottocento, erano diventate all’inizio del Novecento il baluardo contro lo spopolamento che minacciava la patria di 32

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un’allarmante debolezza rispetto al nemico. Le famiglie numerose, che erano state stigmatizzate e combattute dai promotori del malthusianesimo, avevano ormai il favore del discorso dominante – tanto a destra quanto a sinistra – che esortava a incoraggiarle, valorizzarle e di conseguenza a sostenerle. La propaganda sulla natalità si accompagnò a una serie di progetti urbani, per assicurare a questi nuovi pilastri della rigenerata nazione un alloggio decente, che permettesse di scongiurare i pericoli – da molto tempo sottolineati dalla borghesia riformatrice – di un’infanzia operaia lasciata per strada o in alloggi inadeguati: la proliferazione anarchica dei cattivi ragazzi e delle ragazze amorali.12 I filantropi della Champagne, ispirati da queste nuove prospettive politiche e patriottiche, fondarono una società che si consacrò alla creazione di alloggi a basso costo, il Foyer Rémois, incaricato di costruire delle cités13 che offrissero alloggi spaziosi, puliti e salubri, accessibili alle famiglie con più di quattro figli, con una stanza per i genitori, una per i ragazzi, una per le ragazze. Le abitazioni non avevano il bagno ma disponevano di acqua corrente (ci si lavava a turno davanti al lavandino della cucina). La preoccupazione dell’igiene fisica rappresentava, evidentemente, solamente uno degli aspetti di questi progetti di urbanizzazione. La questione dell’igiene morale era altrettanto importante: incoraggiando la natalità e i valori familiari si voleva distaccare gli operai dalla frequentazione dei bar e dall’alcolismo conseguente. Non mancavano le considerazioni politiche. La borghesia pensava di riuscire, in questo modo, ad arginare la propaganda socialista e sindacale che temeva potes  Per tutti questi aspetti cfr. Virginie de Luca Barrusse, Les Familles nombreuses. Une question démographique, un enjeu politique (1880-1940), Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2008. Cfr. anche Remi Lenoir, Généalogie de la morale familiale, Paris, Seuil, 2003. 13   Agglomerati di edifici extraurbani. (N.d.T.) 12

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se sbocciare nei luoghi di aggregazione operaia esterni alla famiglia, proprio come negli anni trenta avrebbe sperato con gli stessi mezzi di preservare i lavoratori dall’influenza comunista. Il benessere domestico, nei termini in cui i filantropi borghesi l’immaginavano per i poveri, era così ritenuto in grado di distogliere i lavoratori, legandoli al loro focolare, dalle tentazioni della resistenza politica e dalle sue forme di associazione e di azione. Nel 1914 la guerra interruppe la realizzazione di questi programmi. Dopo i quattro anni di apocalisse che visse il Nordest della Francia, e in particolare la regione di Reims, fu necessario ricostruire tutto (le foto scattate nel 1918 di quella che al tempo fu chiamata la “città martire” sono spaventose: all’orizzonte non si vedono che lembi di muri ancora in piedi, in mezzo a montagne di macerie, come se un dio cattivo si fosse ingegnato a cancellare dalla carta questo concentrato di storia. Solo la cattedrale e la basilica di Saint-Remi erano sopravvissute, sebbene seriamente danneggiate, al diluvio di ferro e fuoco che si era abbattuto). Grazie agli aiuti americani, gli urbanisti e gli architetti fecero sorgere da queste rovine una nuova città, ai cui confini disegnarono le famose “città-giardino”, degli insiemi di case in “stile regionale” (alsaziano, in realtà) a volte isolate, a volte a schiera, tutte dotate di un giardino e costruite lungo larghe strade, intervallate da piazze alberate.14 È in uno di questi quartieri che si stabilirono i miei nonni, durante o dopo la Seconda guerra mondiale. Quando ero piccolo, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta, lo scenario 14   Cfr. Alain Coscia-Moranne, Reims, un laboratoire pour l’habitat. Des citésjardins aux quartiers-jardins. Reims, CRDP Champagne-Ardenne, 2005. Cfr. anche Delphine Henry, Chemin vert. L’œuvre d’éducation populaire dans une cité-jardin emblématique, Reims 1919-1939, Reims, CRDP Champagne-Ardenne 2002; Delphine Henry, La Cité-jardin. Une histoire ancienne, une idée d’avenir, sito del CRDP Champagne-Ardenne, https://www.crdp-reims.fr/ressources/dossiers/chelinvert/expo/ portail.htm.

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prima sognato e poi creato dai filantropi si era molto rovinato: la “città giardino” del Foyer Rémois in cui ancora vivevano i miei nonni e i loro figli più piccoli sembrava un lebbrosario, a causa della scarsa manutenzione, corrosa dalla miseria che aveva la funzione di ospitare e che era visibile ovunque. Era un ambiente altamente patogeno, dove si sviluppavano in effetti vere e proprie malattie sociali. Statisticamente parlando, una delle vie che si presentavano ai giovani del quartiere era la deriva verso la delinquenza, come avviene ancora oggi negli spazi istituiti della segregazione urbana e sociale. È impossibile non rimanere sconvolti da queste costanti storiche. Uno dei fratelli di mio padre divenne ladro, fu arrestato e finì per essere “interdetto dal soggiorno” a Reims. Ogni tanto lo vedevamo apparire di nascosto, la notte, per vedere i genitori o per chiedere un po’ di soldi ai suoi fratelli e alle sue sorelle. Era ormai scomparso dalla mia vita e dalla mia memoria da molto tempo quando appresi da mia madre che era morto per strada, dove ormai viveva da tempo. Da giovane era stato marinaio (aveva fatto il servizio militare obbligatorio in marina, e poi si era arruolato e vi era rimasto a lungo, prima di essere cacciato a causa del suo comportamento e delle sue azioni – risse, furti…). Pensai a lui quando lessi per la prima volta Querelle de Brest. Mi apparvero il suo viso e la sua immagine in divisa da marinaio, impressi in una foto che era poggiata sulla credenza della sala da pranzo dei miei nonni. Gli atti illegali, piccoli o grandi, erano generalmente la regola del quartiere, come una sorta di resistenza popolare e ostinata alle leggi di uno stato percepito quotidianamente come lo strumento del nemico di classe, il cui potere si manifestava ovunque e in modo costante. In conformità alle speranze iniziali della borghesia cattolica e a quelli che essa considerava come i “valori morali” da promuovere nelle classi popolari, la natalità prosperava: non 35

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era raro che le famiglie delle case vicine ai miei nonni avessero quattordici o quindici figli – fino a ventuno mi diceva mia madre, anche se mi sembra inverosimile. Ma anche il Partito comunista cresceva. L’adesione effettiva era abbastanza frequente – per gli uomini, perché le donne, benché condividessero le idee dei loro mariti, restavano al di fuori della pratica militante e delle “riunioni di cellula”. Tale adesione, tuttavia, non era necessaria alla diffusione e al mantenimento di questo sentimento di appartenenza politica che si legava in modo stretto e spontaneo all’appartenenza sociale. Del resto, si diceva semplicemente “il Partito”. Mio nonno, mio padre e i miei fratelli – così come il patrigno e il fratello acquisito di mia madre – assistevano in gruppo alle riunioni pubbliche, tenute periodicamente dai dirigenti nazionali. Votavano tutti, a ogni elezione, per i candidati comunisti, infuriandosi contro la falsa sinistra rappresentata dai socialisti, i loro compromessi e i tradimenti. Pur sempre accordandogli, tra i borbottii, il voto al secondo turno, quando occorreva, in nome del realismo e della “disciplina repubblicana” che non andava rimessa in discussione (il candidato comunista, tuttavia, era spesso quello in posizione migliore, e lo scenario appena descritto si presentava veramente di rado). L’espressione “la sinistra” era dotata di un significato forte. Si trattava di difendere i propri interessi e di far sentire la propria voce, e questo avveniva, oltre che durante gli scioperi e le manifestazioni, attraverso la delega e il mettersi nelle mani dei “rappresentanti della classe operaia” e dei responsabili politici dei quali poi, di conseguenza, si accettavano tutte le decisioni e si ripetevano tutti i discorsi. Costituirsi come soggetto politico voleva dire affidarsi ai portavoce: attraverso la loro mediazione gli operai e la “classe operaia” esistevano in quanto gruppo costituito, in quanto classe cosciente di se stessa. Tutto quello che si pensava, i valori, i comportamenti, tutto ciò era forgiato dalla concezione del mondo che “il Par36

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tito” contribuiva a insediare nelle coscienze e a diffondere nel corpo sociale. Il voto era così un momento molto importante di affermazione collettiva di sé e del proprio peso politico. La sera delle elezioni, quando arrivavano i risultati, si esplodeva di rabbia nell’apprendere che la destra aveva vinto ancora, ci si infuriava con gli operai “gialli”15 che avevano “votato gollista”, e quindi contro se stessi. Condannare l’influenza comunista sugli ambienti popolari – non su tutti – dagli anni cinquanta fino alla fine degli anni settanta è diventato talmente comune che è opportuno ritornare al senso che rivestiva per coloro che oggi si accusano tanto più facilmente quanto è poco probabile che possano accedere al discorso pubblico (ci si preoccupa mai di dare loro la parola? Di quali mezzi dispongono per prendersela?). Essere comunista non aveva quasi nessun rapporto con il desiderio di veder instaurato un regime simile a quello dell’URSS. La politica “estera”, d’altronde, appariva ben lontana, cosa frequente negli ambienti popolari – e ancor più tra le donne che tra gli uomini. Era evidente che si stesse dalla parte sovietica contro l’imperialismo americano, ma questo argomento non entrava quasi mai nelle discussioni. E benché si fosse disorientati dagli atti dell’Armata rossa contro i paesi amici, si preferiva non parlarne. Nel 1968, mentre la radio trasmetteva gli avvenimenti tragici che si svolgevano a Praga dopo l’intervento sovietico, chiesi ai miei genitori: “Che succede?” Subito mia madre mi rimproverò: “Questo non deve riguardarti… Non capisco perché te ne interessi…” sicuramente perché lei non aveva nessuna risposta da darmi ed era perplessa quanto me, che avevo appena quindici anni. L’adesione ai valori comunisti era ra15   Il termine jaune, che in origine designa un movimento sindacale nato in Francia a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo in funzione antisocialista e anticomunista, ha assunto in seguito un significato peggiorativo di “traditore”. (N.d.T.)

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dicata in preoccupazioni più immediate e concrete. Quando Gilles Deleuze, nel suo Abecedario, propone l’idea che “essere di sinistra” è “prima di tutto percepire il mondo”, “percepire all’orizzonte” (considerare che i problemi urgenti sono quelli del terzo mondo, più vicini a noi di quelli del nostro quartiere), mentre “non essere di sinistra” sarebbe, al contrario, focalizzarsi sulla strada e il paese in cui si vive,16 la definizione che propone si situa all’estremo opposto di quella incarnata dai miei genitori: negli ambienti popolari, nella “classe operaia”, la politica di sinistra consisteva prima di tutto in un rifiuto molto pragmatico di ciò che si subiva nella propria vita quotidiana. Si trattava di una protesta, e non di un progetto politico ispirato da una prospettiva globale. Si guardava intorno a sé e non in lontananza, sia nello spazio che nel tempo. E anche se si ripeteva spesso: “Ci vorrebbe una bella rivoluzione”, questa frase fatta era più legata alla difficoltà delle condizioni di vita e al carattere intollerabile delle ingiustizie, che alla prospettiva d’instaurare un sistema politico diverso. Dal momento che tutto ciò che succedeva sembrava essere stato deciso da potenze occulte (“Tutto questo è deciso altrove”), l’invocazione alla “rivoluzione”, senza chiedersi mai né dove né quando né come sarebbe potuta scoppiare, appariva come il solo ricorso – un mito contro un altro – opponibile alle forze malefiche – la destra, i “ricconi”, “pezzi grossi”… – che provocavano così tanta infelicità nella vita della “gente che non ha niente”, della “gente come noi”. Nella mia famiglia si divideva il mondo in due campi: quelli che sono “per gli operai” e quelli che sono “contro gli operai” o, secondo una variazione sullo stesso tema, quelli che “difen16   Gilles Deleuze, “Gauche (Sinistra, Giustizia, Diritto)”, in L’abecedario di Gilles Deleuze tr. it. di I. Bussoni, F. Del Lucchese, G. Passerone, Roma, DeriveApprodi, 2014 [“Gauche”, in L’Abécédaire de Gilles Deleuze, DVD, Éditions de Montparnasse, 2004].

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dono gli operai” e quelli “che non fanno niente per gli operai”. Quante volte ho sentito queste frasi nelle quali era riassunta la percezione della politica e delle decisioni che essa prendeva! Da un lato c’eravamo “noi” e quelli che erano “con noi”, dall’altra c’erano “loro”.17 Chi assume, oggi, il ruolo che giocava “il Partito”? A chi possono rivolgersi gli sfruttati e i disagiati per sentirsi rappresentati e sostenuti? A chi possono riferirsi, appoggiarsi, per fornirsi di un’esistenza politica e di un’identità culturale? Per sentirsi fieri di se stessi perché legittimi e allo stesso tempo legittimi perché legittimati da un’istanza potente? O, molto semplicemente: chi tiene conto di ciò che sono e vivono, di ciò che pensano e vogliono? Quando mio padre guardava i telegiornali, i suoi commenti traducevano un’allergia epidermica alla destra e all’estrema destra. Nel 1965, durante la campagna presidenziale e poi durante il Maggio ’68, si infuriava da solo davanti alla televisione, nell’ascoltare i discorsi di Tixier-Vignancour, rappresentante caricaturale della vecchia estrema destra francese. Quando quest’ultimo aveva denunciato “la bandiera rossa del comunismo” che veniva agitata nelle vie di Parigi, mio padre aveva urlato: “La bandiera rossa è la bandiera degli operai!” Tempo dopo si sentì altrettanto aggredito e offeso dal modo in cui Giscard d’Estaing impose in tutte le case francesi, attraverso la televisione, il suo ethos da gran borghese, i suoi gesti affettati, la sua eloquenza grottesca. Mio padre insultava anche i giornalisti che conducevano le trasmissioni politiche ed era contento quando la persona che lui considerava il portavoce di ciò che 17   Su questa divisione operata nelle classi popolari tra un “loro” e un “noi”, cfr. Richard Hoggart, La Culture du pauvre, tr. fr. di F. e J.-C. Garcias e di J.-C. Passeron, Paris, Minuit, 1970, p. 177 e segg [The Uses of Literacy, London, Penguin Books, 1957].

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pensava e sentiva – magari un burocrate stalinista che parlava proprio come un operaio – arrivava a rendere giustizia a tutti coloro che non sentivamo mai parlare in questo genere di circostanze, a tutti coloro la cui esistenza stessa era sistematicamente esclusa dal paesaggio della politica, quella legittima. Perché la persona in questione, invece di rispondere alle domande da politicante, attraverso le quali il giornalista voleva circoscrivere il suo discorso, evocava i problemi reali degli operai. Questa presa di parola avveniva infrangendo le regole del gioco stabilito, in una modalità che nessuno oggi avrebbe il coraggio di riproporre, talmente la sottomissione al potere mediatico è divenuta totale, o quasi, da parte dei politici e degli intellettuali.

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Il giardino della casa dei miei nonni, ricordo, non era molto grande e una recinzione ne separava ogni lato dai giardini identici dei loro vicini. A un’estremità c’era una casetta di legno in cui mia nonna, come tante altre famiglie del quartiere, allevava i conigli. Noi li nutrivamo con l’erba o le carote fino a quando finivano nei nostri piatti, la domenica o i giorni di festa… Mia nonna non sapeva né leggere né scrivere. Chiedeva agli altri di leggere o scrivere al suo posto le lettere amministrative, quasi scusandosi della sua ignoranza. “Sono analfabeta,” ripeteva in questi casi, con un tono che non aveva né rabbia né rivolta, solamente una sottomissione alla realtà dei fatti, una rassegnazione che caratterizzava ogni suo gesto, ogni sua parola e che, probabilmente, le permetteva di sopportare la sua condizione come si accetta un destino ineluttabile. Mio nonno era falegname, lavorava in una fabbrica in cui si costruivano mobili. Per arrotondare lo stipendio ne faceva anche per i vicini, a casa. Gli passavano molti ordini, in tutto il quartiere e anche fuori. Si uccideva letteralmente di lavoro per dare da mangiare alla sua famiglia, senza prendere mai un solo giorno di riposo. Morì a cinquantaquattro anni, quando io ero ancora piccolo, di un tumore alla gola (questa piaga che all’epoca si portava via gli operai, che fumavano un numero inimmaginabile di sigarette 41

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al giorno. Tre fratelli di mio padre cedettero, tempo dopo, alla stessa malattia mentre un altro, prima di loro, era rimasto vittima dell’alcolismo). Quando ero adolescente mia nonna si stupiva che io non fumassi. “Un uomo che fuma è più sano,” mi disse un giorno, incosciente di quanto leggende simili fossero causa di devastazione intorno a lei. Era cagionevole e morì una decina d’anni dopo suo marito, senza dubbio di sfinimento: aveva sessantadue anni e per vivere faceva le pulizie negli uffici. Una sera d’inverno, rientrando dal lavoro a casa – un minuscolo bilocale di un edificio popolare, in cui alla fine si era trasferita –, scivolò su una lastra di ghiaccio e batté la testa a terra. Non si riprese e morì qualche giorno dopo l’incidente. Questa città-giardino, in cui visse mio padre prima della mia nascita, costituì anche uno dei contesti della mia infanzia, perché mio fratello e io vi passavamo molto tempo, soprattutto durante le vacanze. Era senza alcun dubbio un luogo di segregazione sociale, una riserva di poveri, fuori dal centro e dai bei quartieri. Quando ci ripenso, tuttavia, mi rendo conto che non aveva niente a che vedere con ciò che oggi chiamiamo cité. Era un habitat orizzontale, e non verticale: nessun palazzone, nessuna torre, niente di ciò che sarebbe sorto alla fine degli anni cinquanta e soprattutto durante gli anni sessanta e settanta. Ciò permetteva a quel territorio ai confini della città di conservare un carattere umano. Anche se il quartiere aveva una cattiva reputazione e somigliava a un ghetto in rovina, viverci non era poi così spiacevole. Continuavano a svilupparvisi e a tramandarvisi le tradizioni operaie, e in particolar modo certe forme di cultura e di solidarietà. Attraverso una di queste forme di aggregazione – il ballo popolare del sabato sera – si erano conosciuti i miei genitori. Mia madre viveva lontano, in un sobborgo della città, con sua madre e il compagno di quest’ultima. A lei e a mio padre, come a tutta la gioventù popolare 42

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dell’epoca, piacevano i momenti di gioia e di divertimento come i balli di quartiere. Oggi sono scomparsi ovunque, esistono quasi esclusivamente il 14 luglio, o alla vigilia di questa festa. All’epoca, invece, per molti costituivano l’unica “uscita” della settimana, l’occasione per riunirsi con gli amici e per fare incontri sessuali e amorosi. Durante queste feste le coppie si facevano e si disfacevano, altre volte duravano. Mia madre era innamorata di un altro ragazzo ma lui voleva che andassero a letto insieme, e lei non voleva. Aveva paura di rimanere incinta e di mettere al mondo un bambino senza padre, nel caso in cui quest’ultimo avesse preferito rompere piuttosto che accettare una paternità indesiderata. Non voleva che un suo figlio vivesse ciò che aveva vissuto lei, e per cui aveva così tanto sofferto. Il suo amato la lasciò per un’altra e lei incontrò mio padre. Non fu mai innamorata di lui, ma se ne fece una ragione: “Questo o un altro…” Voleva essere finalmente indipendente e solo il matrimonio gliel’avrebbe permesso, visto che all’epoca si diventava maggiorenni a ventun anni. Dovettero aspettare che mio padre fosse maggiorenne: mia nonna paterna non voleva che se ne andasse, ci teneva che continuasse a “portare a casa lo stipendio” il più a lungo possibile. Non appena gli fu possibile sposò mia madre. Lei aveva vent’anni. All’epoca mio padre era operaio – al gradino più basso della scala operaia – ormai da molto tempo. Non aveva neanche compiuto quattordici anni (perché la scuola finiva alla fine di giugno e lui cominciò a lavorare subito dopo la fine della scuola, tre mesi prima del suo compleanno) quando entrò in quello che sarebbe diventato lo sfondo della sua vita e il solo orizzonte che gli si potesse aprire. Lo aspettava la fabbrica. Era lì per lui, e lui era lì per lei. Allo stesso identico modo aspettò i suoi fratelli e le sue sorelle, che lì lo raggiunsero. Così come aspettava e aspetta sempre chi nasceva e nasce in famiglie socialmente 43

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uguali alla sua. Il determinismo sociale esercitò la sua influenza su di lui dalla nascita. Non sfuggì a tutto ciò a cui era destinato da tutte le leggi, da tutti i meccanismi di ciò che non si può chiamare altrimenti che “riproduzione”. Gli studi di mio padre non andarono dunque al di là dell’école primaire. Nessuno avrebbe immaginato il contrario, d’altronde. Né i suoi genitori né lui stesso. Nel suo ambiente sociale si andava a scuola fino a quattordici anni perché era obbligatorio e la si lasciava alla stessa età perché non lo era più. Era così. Uscire dal sistema scolastico non appariva come uno scandalo. Mi ricordo che ci s’indignò molto nella mia famiglia quando l’istruzione obbligatoria venne estesa a sedici anni: “A che serve obbligare dei ragazzini a continuare la scuola se non gli piace, quando preferirebbero lavorare?” si ripeteva, senza mai interrogarsi sulla distribuzione differenziale di questo “gusto” o di quest’“assenza di gusto” per gli studi. L’esclusione scolastica si realizza talvolta come autoesclusione, e si rivendica quest’ultima come se si trattasse di una scelta: i lunghi studi sono per gli altri, quelli “che hanno i mezzi” e che sono gli stessi a cui “questo piace”. Il campo delle possibilità – e anche quello delle possibilità semplicemente immaginabili, senza parlare di quello delle possibilità realizzabili – è strettamente circoscritto dalla posizione di classe. È un po’ come se ci fosse un’impermeabilità pressoché totale tra i mondi sociali. Le frontiere che separano questi mondi definiscono, all’interno di ciascuno di essi, percezioni radicalmente differenti di ciò che è immaginabile essere e diventare, e di ciò a cui si può aspirare o no: si sa che altrove è tutta un’altra storia, ma questo avviene in un universo inaccessibile e lontano, e quindi non ci si sente né esclusi e nemmeno privati di qualcosa quando non si ha accesso a ciò che in queste regioni sociali lontane costituisce la norma altrettanto evidente. È l’ordine delle cose, ecco tutto. E non si capisce come funziona 44

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quest’ordine, perché questo significherebbe poter vedere se stessi dall’esterno, adottare una vista dall’alto sulla propria vita e quella degli altri. Bisogna essere passati, come è successo a me, da una parte all’altra della linea di demarcazione per sfuggire all’implacabile logica di ciò che è evidente, e vedere la terribile ingiustizia di questa distribuzione ineguale di opportunità e di possibilità. Questo non è affatto cambiato, d’altronde: l’età dell’esclusione scolastica è aumentata ma la barriera sociale tra le classi resta la stessa. Per questa ragione, ogni sociologia o filosofia che vuole mettere al centro del suo approccio il “punto di vista degli attori” e il “senso che loro danno alle proprie azioni” rischia di non essere altro che una stenografia del rapporto mistificato che gli agenti sociali mantengono con le loro pratiche e i loro desideri e, di conseguenza, di non essere niente di più che un contributo alla perpetuazione del mondo tale e quale è attualmente: un’ideologia della giustificazione (dell’ordine costituito). Solo una rottura epistemologica con il modo in cui gli individui si pensano spontaneamente permette di descrivere, ricostruendo l’insieme del sistema, i meccanismi attraverso i quali l’ordine sociale si riproduce. E in particolare il modo in cui i dominati ratificano la dominazione a cui sono condannati scegliendo l’esclusione scolastica. La forza e l’interesse di una teoria risiede precisamente nel fatto che non si accontenta mai di registrare le parole che gli “attori” pronunciano sulle loro “azioni”, ma al contrario si dà come obiettivo di permettere agli individui e ai gruppi di vedere e di pensare in modo diverso ciò che sono e ciò che fanno e, magari, anche di cambiare ciò che fanno e ciò che sono. Si tratta di rompere con le categorie incorporate della percezione e dei quadri di significato prestabiliti, e dunque con l’inerzia sociale di cui queste categorie e questi quadri sono i vettori, al fine di produrre un nuovo sguardo sul mondo, e di aprire nuove prospettive politiche. 45

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I destini sociali, infatti, sono tracciati molto presto. Tutto è giocato in anticipo. I verdetti sono emessi prima ancora che se ne possa prendere coscienza. Al momento della nascita le sentenze ci sono incise sulle spalle con il ferro rovente, e i posti che andremo a occupare sono definiti e delimitati da chi ci ha preceduto: il passato della famiglia e dell’ambiente nel quale si viene al mondo. Mio padre non ebbe nemmeno la possibilità di presentarsi all’esame per conseguire il Certificat d’études primaires, il diploma che costituiva, per i figli delle classi popolari, il risultato e il completamento dell’istruzione. Quelli della borghesia seguivano un altro percorso: a undici anni entravano al liceo, mentre i figli degli operai e dei contadini restavano confinati nell’insegnamento primario fino a quattordici anni, e si fermavano lì. Si trattava di evitare qualsiasi commistione tra quelli a cui si dovevano dispensare i rudimenti di un sapere utilitaristico (leggere, scrivere, far di conto), indispensabile per districarsi nella vita quotidiana e sufficiente per occupare impieghi manuali, e coloro che provenivano dalle classi privilegiate, a cui era riservato il diritto a una cultura considerata come “disinteressata” – la cultura tout court, che si temeva potesse corrompere gli operai che vi avessero avuto accesso.18 Il Certificat misurava quindi l’acquisizione di certe conoscenze “funzionali” di base (a cui si aggiungeva qualche complemento di “storia della Francia”, vale a dire qualche gran data della mitologia nazionale, e di “geografia”, ovvero la lista dei dipartimenti e dei loro capoluoghi). Negli ambienti a cui era destinato, questo attestato manteneva un carattere selettivo e si era fieri di averlo ottenuto. Solo la metà delle persone che si presentavano superavano l’esame. Molti, usciti dal sistema scolastico prima di avere l’età legale, non arrivavano neanche   Cfr. Francine Muel-Dreyfus, Le Métier d’éducateur, Paris, Minuit, 1983, pp. 46-47. 18

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a questo esame, come successe a mio padre. Tutto quello che imparò, per di più, lo imparò da solo, più tardi, seguendo dei “corsi serali”, nella speranza di salire qualche gradino della scala sociale. Per un certo periodo nutrì il sogno di diventare disegnatore industriale. Venne riportato subito alla realtà: suppongo che non avesse la formazione iniziale necessaria ma soprattutto non doveva essere facile per lui riuscire a concentrarsi dopo aver passato tutta la giornata in fabbrica. Fu costretto ad abbandonare e a rinunciare alle sue illusioni. Conservò a lungo grandi fogli quadrettati, pieni di schemi e di grafici, probabilmente erano esercizi, che a volte tirava fuori da un fascicolo per riguardarli o mostrarceli, prima di riporli ancora una volta nel fondo del cassetto in cui giacevano defunti, senza più speranze. Non solo continuò a fare l’operaio, ma dovette farlo due volte: quando ero piccolo, iniziava la giornata molto presto e andava a lavorare in una fabbrica fino al primo pomeriggio, per poi andare in un’altra fabbrica nel tardo pomeriggio, ad aggiungere la retribuzione di un paio d’ore al suo stipendio. Mia madre aiutava come poteva, sfiancandosi nel fare le pulizie e i bucati (le lavatrici non c’erano ancora o erano comunque pochissimi quelli che vi avevano accesso. Fare il bucato degli altri era un modo per guadagnare un po’ di soldi e aumentare le entrate). Lei entrò in fabbrica soltanto quando mio padre si ritrovò disoccupato per un lungo periodo, nel 1970, ma continuò a lavorarci anche dopo che mio padre trovò un impiego (oggi mi rendo conto che lei andava a lavorare in fabbrica affinché io potessi passare il baccalauréat19 e frequentare l’università. In quei momenti non mi venne mai il pensiero che avrei potuto guadagnarmi da vivere per aiutare la mia famiglia, oppure lo riponevo nei meandri della coscienza quando mia madre evocava questa possibilità – e a dire il vero l’evocava  

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Il corrispettivo dell’esame di maturità. (N.d.T.)

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spesso). Mio padre poteva ripetere quanto voleva che “il ruolo di una donna non era quello di lavorare in fabbrica”, e sentirsi colpito nel suo orgoglio maschile per non essere il solo a provvedere ai bisogni di casa sua, ma dovette rassegnarsi e accettare che mia madre diventasse un’“operaia”. Con tutte le connotazioni negative che questa parola si trascinava dietro: donne “sfacciate”, che parlano in modo “brusco” e che probabilmente vanno a letto “a destra e a sinistra”, insomma delle “sgualdrine”… Questa rappresentazione borghese della donna del popolo che lavora fuori casa in luoghi in cui è circondata da maschi era molto diffusa anche tra gli uomini della classe operaia, ai quali non piaceva affatto perdere il controllo delle loro mogli o compagne per diverse ore al giorno, e più di tutto erano spaventati dallo spettro della donna emancipata. Annie Ernaux racconta che sua madre era entrata a lavorare in fabbrica quando era ancora ragazza, e che ci teneva a essere considerata come “un’operaia, ma seria”. Il semplice fatto che lavorasse con degli uomini bastava a “farla giudicare diversa da come aspirava a essere, una ‘ragazza ammodo’”.20 Era lo stesso per le donne più grandi: il mestiere che esercitavano era sufficiente per attribuire a tutte una cattiva reputazione, che avessero praticato o no la libertà sessuale di cui erano sospettate. Questo portava mio padre ad andare spesso al bar vicino alla fabbrica all’orario di uscita, per vedere se anche mia madre ci andasse di nascosto ed eventualmente sorprenderla. Ma lei non frequentava quel bar, né altri. Rientrava a casa a preparare la cena, dopo aver fatto la spesa. Come tutte le donne che lavoravano era condannata a una fatica doppia. Mio padre riuscì solo parecchio tempo dopo a elevarsi di qualche gradino, se non nella gerarchia sociale almeno in quel20



A. Ernaux, Una vita di donna, cit., p. 23 [Une femme, cit., p. 33].

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la della fabbrica, passando dal ruolo di manovale a quello di operaio qualificato per diventare, alla fine, supervisore. Non era più operaio. Dirigeva gli operai. O, più esattamente, animava una squadra. Questo nuovo statuto gli procurava un orgoglio ingenuo, un’immagine di sé più valorizzata. Io ovviamente trovavo tutto ciò ridicolo… io che tanti anni dopo sarei ancora arrossito di vergogna quando, per ottenere tale o tal altro documento amministrativo, mi sarebbe toccato fornire un estratto di nascita, in cui figurava la professione iniziale di mio padre (manovale) e quella di mia madre (domestica). Io che non riuscivo a concepire che avessero desiderato elevarsi al di sopra della loro condizione di così poco ai miei occhi, mentre per loro quello era già molto. Mio padre lavorò in fabbrica dai quattordici ai cinquantasei anni. Fu mandato in “pensionamento anticipato” senza essere consultato, lo stesso anno di mia madre (che allora aveva cinquantacinque anni), entrambi rigettati dal sistema che li aveva sfruttati senza vergogna. Lui si sentiva perso senza qualcosa da fare; lei era abbastanza contenta di lasciare un luogo di lavoro con compiti massacranti – a un punto tale che chi non ne ha fatto esperienza non può neanche immaginarlo – e in cui il rumore, il caldo, la ripetizione quotidiana di gesti meccanici corrodevano lentamente anche le persone più resistenti. Erano stanchi, usati. Mia madre non aveva abbastanza contributi perché i suoi lavori di pulizie non erano stati sempre dichiarati; la sua pensione di conseguenza venne ridotta e questo diminuì gravemente le loro entrate. Si reinventarono una vita con i mezzi che avevano. Ad esempio si misero a viaggiare più spesso grazie al comitato aziendale della vecchia fabbrica di mio padre e andarono un fine settimana a Londra, una settimana in Spagna o in Turchia… Non si amavano più di prima, avevano semplicemente trovato un modus vivendi. Si erano abituati l’u49

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no all’altra e sapevano entrambi che solo la morte di uno dei due li avrebbe separati. Mio padre era un tuttofare, sapeva riparare ogni cosa ed era fiero delle sue capacità pratiche e del lavoro manuale in genere. Si realizzava in quest’attività a cui consacrava quasi tutto il suo tempo libero, e gli piaceva fare bene le cose. Quando ero al primo o al secondo anno di liceo, mi fece una scrivania trasformando un vecchio tavolo. Nell’appartamento montava gli armadi e riparava quello che cominciava a rompersi. Io restavo con le mani in mano. E investivo in questa incapacità voluta – avrei potuto anche decidermi a imparare qualcosa da lui – il mio desiderio di non somigliargli, di diventare socialmente altro da lui. Più tardi scoprii che certi intellettuali adorano fare lavori manuali e che è possibile amare i libri – leggerne e scriverne – e allo stesso tempo dedicarsi con piacere alle attività pratiche. Questa scoperta mi gettò in un profondo sconcerto. Un po’ come se tutta la mia persona venisse rimessa in discussione dalla destabilizzazione di ciò che a lungo avevo percepito e vissuto come un binario fondamentale, costitutivo (ma che in realtà era costitutivo solo per me). La stessa cosa avvenne con lo sport: il fatto che alcuni dei miei amici amassero guardare lo sport in televisione mi turbò profondamente, facendo crollare un’evidenza che mi si era sempre imposta con forza. Perché per me definirsi intellettuale, voler essere uno di loro, aveva significato odiare le serate passate a guardare le partite di calcio. La cultura sportiva, lo sport come unico centro d’interesse – degli uomini, perché le donne amavano piuttosto i fatti di cronaca –, era un’altra realtà che avevo giudicato dall’alto, con molto disprezzo e un sentimento di superiorità. Mi ci è voluto del tempo per decostruire tutte queste rigide strutture che mi avevano permesso di diventare quello che ero diventato. E per reintegrare nel mio universo mentale ed esistenziale queste dimensioni che avevo escluso. 50

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Quando ero piccolo i miei genitori si muovevano in motorino e trasportavano mio fratello e me su seggiolini per bambini montati dietro. Poteva essere pericoloso. Un giorno, facendo una curva, mio padre perse il controllo sulla ghiaia e mio fratello si ruppe una gamba. Nel 1963 presero la patente e comprarono una macchina usata (una Simca Aronde nera; in diverse foto che mia madre mi ha regalato mi si vede, a dodici o tredici anni, appoggiato al cofano). Mia madre passò l’esame prima di mio padre. E lui, che trovava disonorevole essere seduto accanto alla propria moglie al volante, per un certo periodo preferì guidare senza patente pur di evitare questa situazione infamante. Diventava matto – e cattivo – quando mia madre esprimeva le sue paure e manifestava il desiderio di riprendere il suo posto al volante. In seguito tutto rientrò nell’ordine ed era sempre lui a guidare (anche quando aveva bevuto troppo). Grazie all’automobile, la domenica potevamo fare dei picnic nei boschi o nei dintorni della città. In estate, ovviamente, non si parlava neanche di andare in vacanza. Non ne avevamo i mezzi. I nostri viaggi si limitavano a gite in giornata in qualche città della regione come Nancy, Laon, Charleville… A volte ci capitava di passare la frontiera belga, per visitare una cittadina che si chiamava Bouillon (un nome che imparammo ad associare a Goffredo di Buglione e all’avventura delle crociate, ma che ormai associo più volentieri all’opera di Cilea, Adriana Lecouvreur, e al personaggio grandioso e terribile della principessa di Bouillon). Andavamo al castello, compravamo cioccolata e souvenir. Non potevamo spingerci oltre. Vidi Bruxelles solo anni dopo. Una volta visitammo Verdun. Mi ricordo il macabro e terrificante ossario di Douaumont, dove sono ammassati i resti dei soldati morti nelle battaglie che si svolsero durante la Prima guerra mondiale. A lungo alimentò i miei incubi. Andavamo anche a Parigi, a trovare la mia nonna materna. Il traffico di Parigi provocava terribili crisi di rabbia in mio padre che 51

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batteva i piedi, imprecava, urlava senza che noi riuscissimo a capire perché si irritasse tanto, finendo sempre a litigare senza tregua con mia madre. Lei non sopportava quelli che definiva i suoi “drammi”. La stessa cosa avveniva durante il viaggio: appena sbagliava strada o saltava una svolta si metteva a urlare come se ne dipendesse la sua vita o la nostra. La maggior parte delle volte, quando era bel tempo andavamo ai bordi della Marna, vicino ai paesi della Champagne, dove restavamo ore intere a dedicarci al passatempo preferito di mio padre: la pesca. Diventava un altro uomo e si instaurava un legame tra lui e i suoi figli: ci insegnava i gesti e le tecniche necessarie, ci dava dei consigli e nel corso della giornata commentavamo quello che succedeva o non succedeva: “oggi abboccano” o invece “non abboccano”. Cercavamo di capire perché, incriminando il caldo o la pioggia, il momento dell’anno troppo prematuro o tardivo. A volte incontravamo anche i miei zii e le mie zie con i loro figli. La sera mangiavamo il pesce che avevamo pescato. Mia madre li lavava, li passava nella farina e li gettava in padella. Ci deliziavamo con queste fritture. Ma presto questi momenti iniziarono a sembrarmi sterili e ridicoli. Volevo leggere, non perdere il mio tempo a tenere una canna da pesca e a controllare le oscillazioni di un tappo di sughero sulla superficie dell’acqua. Così cominciai a detestare tutta la cultura e le forme di socialità legate a questo passatempo, la musica della radio, le chiacchiere senza interesse con le persone che incontravamo e la rigida divisione del lavoro tra i sessi: gli uomini pescavano e le donne lavoravano a maglia, leggevano fotoromanzi o si occupavano dei bambini e preparavano da mangiare. Smisi così di andare con i miei genitori. Per inventarmi mi occorreva, prima di tutto, dissociarmi.

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Quando mia nonna ebbe mia madre, non aveva neanche diciassette anni. Il ragazzo con cui aveva “sgarrato” non doveva essere molto più grande. Quando suo padre si accorse che era incinta, la cacciò di casa urlando: “Vattene, con il tuo bastardo in pancia! Che siate maledetti tutti e due!” Lei se ne andò e poco dopo prese con sé sua madre (per ragioni che ignoro, ma sicuramente perché non aveva accettato di non vedere più sua figlia e aveva lasciato suo marito). Il giovanotto non sopportò a lungo la situazione – il loro appartamento doveva essere molto piccolo – e così le disse: “Scegli, o tua madre o me.” Lei scelse sua madre e lui la lasciò senza farsi più sentire. Si occupò di sua figlia giusto qualche mese e poi sparì dalla vita di mia madre, la “bastarda”, prima ancora che lei avesse l’età per conservare qualche ricordo di lui. Mia nonna si mise insieme a un altro uomo, con il quale ebbe altri tre figli. Mia madre visse con loro fino alla guerra, che sconvolse per sempre la sua vita. Più tardi supplicò sua madre di dirle il nome dell’uomo che non aveva conosciuto, le chiese se sapesse cosa faceva, ma ottenne in risposta solo questa frase: “Rimuginare sul passato non serve a niente.” Le uniche informazioni che aveva di suo padre erano che era molto bello e che faceva il muratore. E anche che era spagnolo. “Andaluso,” mi ha detto poco tempo fa. Le piaceva 55

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pensare che fosse gitano, cercando di scriversi un romanzo familiare che le rendesse sopportabile il dolore di tutte le nefaste conseguenze legate allo statuto di figlia senza padre (parla spesso della ferita, ancora aperta, provocata dal tono derisorio della maestra elementare quando, ancora piccola, a scuola, rispondendo di non avere un padre a una delle abituali domande sui genitori, si era sentita obiettare con una risatina crudele che “tutti hanno un padre…”. Ma lei, invece, non lo aveva). Non è impossibile, d’altronde, che questa favola gitana sia vera. Riguardando le mie foto di quando avevo quindici o sedici anni, con la carnagione scura, i capelli neri, lunghi, ricci, ho pensato di aver ereditato qualcosa da quei geni. Diversi anni fa, durante un viaggio organizzato dal comitato aziendale della fabbrica in cui aveva lavorato mio padre, mia madre visitò con lui l’Andalusia. Quando il pullman si avvicinò a Granada, ebbe un sussulto d’emozione: “Era strano, tremavo,” mi ha raccontato. “Non sapevo che cosa mi stesse succedendo, ma sicuramente è successo perché quello è il mio paese. Pensa che c’era un pranzo al ristorante con i gitani che suonavano la chitarra, e uno di loro si è seduto accanto a me e mi ha detto: ‘Tu sei una di noi.’” Non ho mai aderito a questa mistica delle origini – di cui non capivo, francamente, da quale fantasma della trasmissione biologica o da quale psicologia degli abissi familiari provenisse – ma sono consapevole che mia madre ha sempre vissuto in modo difficile il fatto di non aver potuto conoscere suo padre, ed è tuttora così. A partire da questi elementi reali, s’inventava una Spagna che custodiva nel più profondo di sé. Come un raggio di sole in grado di salvarla dalla nebbia del Nord e dalla realtà buia della sua esistenza. Per tutta la vita non ha sognato la ricchezza, ma la luce e la libertà. Se avesse seguito un percorso di studi, forse avrebbe potuto raggiungere questa libertà. “Mi sarebbe piaciuto diventare maestra,” mi dice oggi, “perché all’epoca per le ragazze era l’unica possibilità dopo 56

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gli studi.” Le sue ambizioni erano limitate e nonostante ciò si rivelarono irrealizzabili. Quando fu sul punto di entrare al liceo, cosa davvero desueta per qualcuno del suo ambiente – era un’ottima allieva e aveva perfino ottenuto un esonero dal frequentare l’ultimo anno del primo ciclo di studi per passare direttamente al ciclo superiore a dieci anni, anziché a undici –, la sua famiglia fu costretta a lasciare la città, in fuga davanti all’avanzata delle truppe tedesche. La popolazione fu trasportata a sud in pullman. Restarono solo quelli che avevano l’intenzione di saccheggiare le case e quelli che volevano proteggere i loro beni dai saccheggiatori (è così che mia madre commenta questo triste episodio). Questo periplo la portò in Borgogna, dove la sua famiglia fu accolta in una fattoria. Durante questo soggiorno mia nonna partecipava al lavoro nei campi dalla mattina presto fino alla sera tardi. I bambini giocavano in cortile o aiutavano nelle faccende domestiche. Dopo l’armistizio rientrarono tutti. Mia nonna trovò lavoro in una fonderia. Quando chiesero dei volontari per andare a lavorare in Germania, lei si propose. Lasciò il suo compagno e affidò i suoi quattro figli a una famiglia adottiva. Dopo qualche mese smise d’inviare i soldi, e questa famiglia portò i due ragazzi e le due ragazze all’istituto della Charité, dove accoglievano i bambini orfani e abbandonati. L’iscrizione al liceo di mia madre non venne neanche più presa in considerazione. Passò però l’esame e ottenne il suo Certificat, che ancora oggi è per lei motivo di orgoglio. Poco dopo fu “mandata a servizio”, perché la Charité, a partire dai quattordici anni, faceva lavorare i ragazzi di cui aveva la responsabilità: in una fattoria i maschi – come avvenne per il più grande dei suoi fratelli – e come collaboratrici domestiche le femmine. Mia madre cominciò a lavorare presso una coppia d’insegnanti; brave persone che si affezionarono a lei. Ne conserva un ricordo pieno di riconoscenza, perché durante il periodo 57

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che lavorò per loro le pagarono corsi di stenodattilografia pensando che avrebbe potuto fare la segretaria. Era la migliore del corso. Le sarebbe piaciuto continuare, visto che un solo anno non era sufficiente per trarne un beneficio professionale; ma un anno era il periodo massimo che la Charité lasciava lavorare le ragazze in un posto, poi dovevano cambiare datore di lavoro. E mia madre dovette ancora una volta rinunciare ai sui sogni. Era una domestica e domestica sarebbe restata. Non era certo un mestiere facile, e le molestie sessuali erano pressoché la regola. Succedeva spesso che il marito della donna che l’aveva assunta le desse appuntamento da qualche parte; siccome mia madre non si presentava, il giorno dopo veniva licenziata dalla signora, a cui il marito aveva raccontato di aver ricevuto delle avance dalla domestica. Una volta perfino il padre della sua datrice di lavoro arrivò dietro di lei e le mise le mani sui seni. Lei si liberò con un gesto brusco ma si guardò bene dal lamentarsene, per non ritrovarsi ancora una volta senza lavoro e costretta a cercarsene un altro: “Nessuno avrebbe creduto a me, una povera servetta contro un ricco industriale della città,” mi ha confidato, quando ha accettato di ripercorrere per me questo passato. In quell’occasione ho potuto constatare che ancora sessant’anni dopo, nel rievocarlo, era sopraffatta da una rabbia fredda e triste. E ha aggiunto: “Queste cose succedono sempre, ma si sta zitte. A quei tempi non era come adesso, le donne non avevano alcun diritto… erano gli uomini che facevano la legge.” A sedici o diciassette anni lei sapeva già chi fossero e quanto valessero gli uomini. Quando si sposò, lo fece senza grandi illusioni sui maschi in generale e su suo marito in particolare. Quando mia nonna rientrò in Francia dopo il suo soggiorno in Germania, tornò a vivere con il suo compagno di prima della guerra e riprese con lei anche i tre figli avuti con lui, ma 58

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non la maggiore di cui non si preoccupò mai di sapere dove fosse e cosa facesse. Eppure mia madre, che ormai viveva con i suoi datori di lavoro, prima della guerra aveva vissuto con loro due e con i fratelli e la sorella acquisiti. Aveva desiderato intensamente poter considerare il compagno di sua madre come un padre. Faceva il carbonaio: passava per le strade con il suo carretto tirato da un cavallo urlando: “Carbone! Carbone!” e chi voleva comprarne dei sacchi lo chiamava dalla finestra. Dopo la guerra continuò a esercitare questo mestiere, ma il carretto e il cavallo furono rimpiazzati da un furgoncino. Quando mia nonna lo sposò, nel 1946, tralasciò d’invitare al matrimonio la sua prima figlia. Mia madre lo venne a sapere da un fratello con il quale aveva mantenuto i contatti. Poco tempo dopo, presa dalla solitudine e dalla tristezza, mia madre andò a trovarla, nonostante si fosse comportata in un modo orribile con lei (“Dopo tutto era mia madre, e poi non avevo nessun altro”). Non la trovò a casa. Era andata a Parigi, dove viveva sua sorella, portando con sé anche i figli. A Parigi, o piuttosto nel comune di periferia in cui si era trasferita, sembrava che avesse molte avventure amorose e sessuali. “Una rovinafamiglie”: così qualcuno la descrisse un giorno a mia madre. Alla fine però tornò a Reims con suo marito e mia madre finì per trasferirsi da loro. A diciotto anni sua madre la “riprese”, secondo la sua espressione. Mia madre perdonò tutto. Era contenta di essere finalmente rientrata in famiglia, anche se non dimenticò mai l’indifferenza che le aveva riservato, che neanche i tormenti della guerra riuscivano a giustificare ai suoi occhi. Eppure quando, mezzo secolo più tardi, mia nonna dovette lasciare il modesto appartamento in cui abitava, in una misera via di Barbès, nel cuore della parte più popolare del XVIII arrondissement di Parigi, fu mia madre ad aiutarla. Per lei vivere e sbrigarsela da sola stava diventando sempre più difficile, così mia madre le trovò un monolocale a Reims e se ne prese cura. Quando mia 59

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nonna perse l’autonomia fisica e le divenne impossibile muoversi, insistette per ritornare a Parigi, dove voleva finire i suoi giorni. Fu ancora una volta mia madre a trovarle una casa di cura e, poiché le entrate della nonna non bastavano a saldare la retta, io e mia madre pagammo, fino alla sua morte, l’ingente somma che gli aiuti sociali non coprivano. Ho ignorato a lungo tutto, o quasi, della vita di mia madre durante e subito dopo la guerra. Da piccolo e da adolescente, negli anni sessanta e settanta, volevo molto bene a mia nonna. Allora abitava a Parigi (da quando l’ho conosciuta ha sempre abitato a Parigi, città che adorava. Vi si era trasferita alla metà degli anni cinquanta, lasciando definitivamente suo marito a Reims). Faceva la portinaia. Nel XIII arrondissement (rue Pascal), poi in una stradina delle Halles, che erano ancora quelle di una volta (rue Tiquetonne, oggi irriconoscibile). In seguito lavorò in un quartiere più borghese, il XII arrondissement (rue Taine), prima di andare in pensione e di trasferirsi a Barbès. Viveva con un altro uomo che ho sempre chiamato “mio nonno” – la famiglia vera e la famiglia biologica, per non parlare della famiglia giuridica, coincidono meno spesso di quanto si pensi, e le famiglie “allargate” non sono certo nate negli anni novanta. In questo mondo operaio le strutture coniugali e familiari già da molto tempo erano caratterizzate, nel bene e nel male, da complessità, molteplicità, rotture, scelte successive, riorganizzazioni (con coppie di concubini, figli di secondo letto, donne e uomini sposati che vivevano ciascuno per conto proprio, con altre donne e altri uomini senza essere divorziati…). Mia nonna e il suo nuovo compagno non si sposarono mai e per di più lei non divorziò mai dall’uomo che aveva sposato nel 1946 e che morì negli anni settanta o ottanta, ma che non vedeva più da molto tempo. Quando ero adolescente, e anche molto tempo dopo, mi vergognavo di questa situazione fami60

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liare un po’ torbida: mentivo sull’età di mia nonna e di mia madre affinché non si potesse calcolare che mia madre era nata quando la sua non era ancora maggiorenne. Parlavo come se quello che chiamavo “nonno” fosse il secondo marito di mia nonna… L’ordine sociale esercita il suo condizionamento su tutti. E quelli a cui piace che tutto sia “in ordine”, pieno di “senso” e di “punti di riferimento” possono contare su questa adesione alla norma, inscritta nel più profondo delle nostre coscienze fin dalla prima infanzia attraverso l’esperienza del mondo sociale. Possono contare anche sull’imbarazzo, o meglio sulla vergogna che si prova non appena l’ambiente in cui si cresce contravviene a quest’ordinamento giuridico e politico così bello, rappresentato da tutta la cultura circostante come la sola realtà vivibile e, allo stesso tempo, come un ideale a cui tendere: anche se questa norma familiare, questa famiglia normativa, non corrisponde per nulla alle vite reali. Non c’è dubbio che i sentimenti di disgusto che oggi mi suscitano quelli e quelle che cercano d’imporre la loro definizione di che cosa sia una coppia, di che cosa sia una famiglia, della legittimità sociale e giuridica riconosciuta agli uni e rifiutata agli altri, e che invocano modelli che non sono mai esistiti se non nella loro immaginazione conservatrice e autoritaria, devono molto del loro ardore a questo passato, in cui le forme alternative erano destinate a essere vissute come devianti e a-normali, e di conseguenza inferiori e vergognose. E questo, senza alcun dubbio, spiega il perché diffido anche delle ingiunzioni all’a-normalità che ci sono rivolte dai difensori – fondamentalmente altrettanto normativi – di una non-normatività eretta a prescritta “sovversione”. Ho potuto constatare nel corso della mia vita fino a che punto la normalità e l’a-normalità fossero realtà allo stesso tempo relative, relazionali, mobili, contestuali, interconnesse, sempre parziali… e fino a che punto l’illegittimità sociale potesse produrre disastri psichici in chi la vive nell’inquietudine e 61

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nel dolore, e generare di conseguenza un’aspirazione profonda a far parte dello spazio del legittimo e del “normale” (la forza delle istituzioni deriva in gran parte da questa desiderabilità).21 Il nonno che ho conosciuto negli anni sessanta (non metto le virgolette alla parola nonno perché si trattava effettivamente di mio nonno, nella misura in cui la famiglia, sia essa o meno giuridicamente conforme ai decreti dei difensori dell’ordine sociale, è sempre il frutto della volontà e della decisione e, in ogni caso, della pratica effettiva) esercitava il mestiere di lavavetri. Si spostava in motorino con la sua scala e il suo secchio e andava a pulire i vetri di bar o negozi a volte molto lontani dalla sua abitazione. Un giorno, mentre passeggiavo a Parigi, mi passò vicino, mi vide e si fermò al bordo del marciapiede, contento di quell’incontro casuale. Io ero in imbarazzo, terrorizzato all’idea di essere visto con lui, che se ne stava piegato sul suo strano rimorchio. Che cosa avrei risposto se mi avessero chiesto: “Chi era l’uomo con cui parlavi?” Nei giorni successivi feci fatica a liberarmi da uno schiacciante senso di colpa: “Perché,” mi rimproveravo, “non ho il coraggio di accettare quello che sono? Perché la frequentazione di un mondo borghese o piccoloborghese mi ha portato a rinnegare in questo modo la mia famiglia e a provarne vergogna fino a questo punto? Perché ho interiorizzato in tutto il corpo le gerarchie del mondo sociale mentre invece intellettualmente e politicamente dichiaro di combatterle?” E allo stesso tempo maledicevo la mia famiglia perché era quello che era. “Che sfortuna,” mi ripetevo, “essere nato in quell’ambiente.” Oscillavo da un umore all’altro, un momento mi biasimavo e il momento dopo li biasimavo (ma 21   Questo probabilmente spiega perché, nelle classi popolari, costumi non rigidi e mobili possano coabitare con una morale rigorista. E questa combinazione di flessibilità nelle pratiche e di rigidità nell’ideologia rende molto sensibili al pettegolezzo, alle chiacchiere, al giudizio degli altri.

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erano loro i responsabili? Di cosa?). Ero dilaniato, stavo male con me stesso. Le mie convinzioni si trovavano in conflitto con la mia integrazione nel mondo borghese, la critica sociale a cui mi rifacevo era in contrasto con i valori che mi s’imponevano, e non posso neanche dire “nonostante me”, dal momento che niente mi obbligava se non una sottomissione volontaria alle percezioni e ai giudizi dei dominanti. Politicamente ero dalla parte degli operai, ma detestavo le mie radici nel loro mondo. Situarmi nel campo del “popolo” mi avrebbe senz’altro provocato meno tormenti interiori e meno crisi morali se il popolo non fosse stato la mia famiglia, vale a dire il mio passato e di conseguenza, malgrado tutto, il mio presente. Mio nonno beveva molto (“È uno che trinca,” dicevano di lui) e dopo qualche bicchiere di pessimo vino rosso si lanciava in monologhi interminabili, con una creatività linguistica che allora era tipica dell’eloquenza popolare e di cui oggi si ritrovano equivalenti nella parlantina degli adolescenti di periferia. Non gli mancava la cultura, sapeva molte cose e, credendo di saperne ancora di più, non si tirava mai indietro davanti un’affermazione perentoria – che si rivelava spesso falsa. Era comunista così come i borghesi erano di destra: per lui era naturale, come se l’appartenenza di classe l’avesse ricevuta alla nascita con il patrimonio genetico. Come mio padre – prima che smettesse di esserlo, e perfino dopo poiché in un certo senso lo restò sempre – iniziava le frasi con “Noi, operai…”. Un giorno mi raccontò che, mentre circolava sul boulevard Saint-Germain per andare al lavoro, alle cinque del mattino, alcuni borghesi ubriachi che camminavano sulla carreggiata, all’uscita da una serata o da una discoteca, gli avevano gridato: “Bastardo di un povero!” Quando parlava di lotta di classe, il discorso aveva un senso molto concreto per lui. Sognava a voce alta la futura rivoluzione. Quando mi trasferii a Parigi, la domenica presi 63

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l’abitudine di andare a mangiare da mia nonna e da lui. E succedeva ogni tanto che i miei genitori venissero da Reims per unirsi a noi, a volte con i miei due fratelli più piccoli. Ma se qualcuno che conoscevo e più tardi qualcuno con cui lavoravo avesse saputo dove vivevano, mi sarei vergognato a morte. Ero molto reticente al riguardo e, quando mi facevano la domanda, eludevo o mentivo. Avvertivo chiaramente che esisteva una tensione tra mia nonna e mia madre. Ne conobbi le ragioni solo quando mia nonna morì. Mia madre ci tenne a raccontarmi tutto quello che aveva sempre, più o meno, tenuto per sé: l’abbandono, l’orfanotrofio, il rifiuto di sua madre di occuparsi di lei dopo la guerra… non ne aveva mai parlato a nessuno. “Il mio subconscio l’aveva nascosto”: si giustificava così, riprendendo stranamente il linguaggio della vulgata psicoanalitica che doveva aver sentito alla televisione. Invece se ne era sempre ricordata ma aveva preferito mantenere il segreto, anche se a volte non riusciva a non farvi allusione (ad esempio quando ero piccolo e mi lamentavo per un motivo o per un altro, lei s’innervosiva: “Forse avresti preferito crescere alla Charité?”). E, come se la storia di una famiglia non fosse altro che una successione di vergogne, custodite le une nelle altre e più o meno taciute tanto all’interno quanto all’esterno del circolo familiare, mia madre aggiungeva così un’altra rivelazione, che tingeva di un tocco più nero questo quadro già abbastanza oscuro. Lei stessa non ne aveva saputo niente fino a quando suo fratello, nello spiegarle perché si rifiutava di pagare la sua parte per l’ospitalità di mia nonna in una casa di riposo, le ricordò che li aveva abbandonati e la informò di altri avvenimenti che lei ignorava. Mia madre mi raccontò questa storia solo qualche mese più tardi, dopo il decesso della nonna. Forse si sentiva liberata nel confidarmi, in una volta sola, quello che ci aveva sempre nascosto e quello che aveva appena saputo su sua madre. Ho ripensato a mia nonna, 64

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questa strana donna. Nonostante la gentilezza custodiva in sé una durezza che le si leggeva nello sguardo e che tradiva, a volte, nelle intonazioni della voce. Sicuramente non aveva mai dimenticato quella giornata di orrore, le grida, forse le botte. E le settimane che seguirono, finché i capelli ricrebbero, i vicini finirono per non pensarci più e il dramma si ridusse a un mormorio che tornava di tanto in tanto nelle conversazioni su di lei. Le piaceva “fare i bagordi”. E se traduco correttamente quest’espressione usata da mia madre nei suoi confronti, significa che voleva essere una donna libera, che le piaceva uscire la sera, abbandonarsi ai piaceri, alla sessualità, passando da un uomo all’altro, senza avere troppo l’intenzione di affezionarsi, di mettere radici. I suoi figli per lei erano senza dubbio un intralcio, e la maternità un destino imposto piuttosto che una scelta di vita. All’epoca la contraccezione non era diffusa e l’aborto era illegale. E fu quello che le successe dopo la guerra: fu condannata a una pena detentiva per avere abortito. Non so quanto tempo fu imprigionata, mia madre non lo sa. Gli uomini potevano sicuramente vivere la loro sessualità come meglio credevano. Le donne no. Senza dubbio esisteva negli ambienti operai una certa libertà sessuale o, in ogni caso, una certa libertà rispetto alle regole della morale borghese. E questo portava i difensori di questa morale a denunciare le vite dissolute di chi viveva in modo diverso. Per le donne la scelta di una vita libera comportava sicuramente dei rischi. Cosa successe dopo l’armistizio, nel 1940, quando la regione fu occupata dall’esercito tedesco? Non solo mia nonna, che aveva ventisette anni, andò volontariamente a lavorare in Germania, ma venne anche accusata, in seguito, di aver avuto – è vero? è falso? – una relazione con un soldato tedesco… Provo a immaginare: il suo desiderio di sopravvivere, di avere da mangiare, di non conoscere la miseria o le difficoltà di approvvigionamento. Chi era questo soldato nemico? Ne era 65

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innamorata, o cercava solo di assicurarsi una vita migliore di quella che aveva vissuto fino ad allora? Le due cose non si escludono a vicenda. Come prese la decisione di abbandonare i suoi figli e il suo compagno? Non avrò mai risposta a queste domande. Come non saprò cosa provò quando dovette subire le conseguenze delle sue scelte, divenendo simile alla “vittima” con la “veste strappata” per cui Éluard prova compassione in una celebre poesia di tristezza e “rimorso”: l’“infelice che restò sul lastrico”, “deposta, sfigurata”.22

22   Paul Éluard, “Capisca chi può”, in Poesie (1955), tr. it. di F. Fortini, Milano, Mondadori, 1976, p. 426 [“Comprenne qui voudra”, in Au rendez-vous allemand, Paris, Minuit, 1945, p. 40].

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Durante la Liberazione mia nonna conobbe la sorte riservata a quelle donne che non avevano misurato la portata e le conseguenze delle loro azioni. Era sola in quell’istante che per lei sarà durato “un’eternità”, quando venne sottomessa a quella “giustizia stupida e sbrigativa”23 secondo le parole di Marguerite Duras in Hiroshima mon amour, a quell’“assoluto di orrore e stupidità”?24 O forse tutto ciò avvenne durante una delle punizioni collettive di cui talvolta compaiono immagini nei documentari sulla fine della guerra – gruppi di donne costrette a sfilare davanti agli schiamazzi, agli insulti e agli sputi della folla? Non lo so. Mia madre non mi ha detto di più in proposito. Mi ha detto che non sapeva altro. Solo questi fatti grezzi e violenti: suo fratello le aveva raccontato che era stata rasata. Dopo i tempi della disfatta e dell’occupazione, la nazione rigenerava la sua forza virile punendo le donne e i loro sgarri sessuali, reali o presunti, e riaffermando il potere maschile su di loro.25   Marguerite Duras, Hiroshima mon amour, tr. it. di P. Deivelle Serra, Torino, Einaudi, 1965, p. 77 [Hiroshima mon amour, Paris, Gallimard, 1979, p. 139]. 24   Ivi, p. 13 [p. 15]. 25   Cfr. Fabrice Virgili, La France “virile”. Des femmes tondues à la Libération, Paris, Payot, 2000. 23

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Da allora, ogni volta che mi è capitato di avere sotto gli occhi delle foto che mostravano una di questa scene di umiliazione – quando si sa bene che tanti collaborazionisti di alto livello, in ambienti borghesi, non conobbero né l’ignominia né la degradazione né la violenza della vendetta pubblica – non ho potuto evitare di cercare dove fosse stata scattata e di chiedermi: forse mia nonna è una di loro? Forse uno di questi visi sconvolti, di questi sguardi terrorizzati è il suo? Come riuscì a dimenticare? Quanto tempo le occorse per “uscire dall’eternità” (ancora Duras)? Certo, avrei preferito sapere che aveva combattuto nella Resistenza, che aveva nascosto degli ebrei rischiando la vita, o semplicemente che aveva sabotato dei pezzi nella fabbrica in cui lavorava o fatto qualche altra azione di cui essere orgogliosi. Si sogna sempre di avere una famiglia gloriosa, qualunque sia il motivo della gloria. Ma il passato non si cambia. Tutt’al più si può cercare di capire come gestire il proprio rapporto con una storia che suscita vergogna. Come affrontare questi orrori del passato, quando non si può sfuggire all’evidenza che si è inseriti, nonostante sé e nonostante tutto, in questa genealogia? Potrei compiacermi al pensiero che tutto ciò non mi ha toccato, dal momento che ne sono al corrente solo da poco tempo (come avrei guardato mia nonna, se l’avessi saputo? Avrei osato parlargliene? Sono preso da una grande emozione, ora, mentre mi pongo queste domande). Tutti questi avvenimenti – l’abbandono, da parte di mia nonna, dei suoi figli, il suo soggiorno in Germania – ebbero ripercussioni talmente forti nella vita di mia madre e nel modo in cui formò la sua personalità e la sua soggettività, che è impossibile per me non pensare che abbia avuto conseguenze anche sulla mia giovinezza e sulla mia vita successiva. E così mia madre non ha studiato. Ne soffre ancora. “È per la maledizione lanciata contro la nonna e me”: avanza questa 68

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ipotesi per provare a spiegare tutte le sue sventure e i suoi dolori. Per tutta la vita ha portato in sé questo dramma personale: avrebbe potuto diventare qualcos’altro, ma la guerra aveva distrutto i suoi sogni di bambina. Era consapevole di essere intelligente e per questo non è mai riuscita ad accettare questa ingiustizia. Uno dei principali effetti di questa fatalità era di non aver potuto aspirare a “trovare di meglio” di mio padre. Le leggi dell’endogamia sociale sono forti tanto quanto quelle della riproduzione scolastica. E profondamente legate a queste ultime, come lei ben sapeva. Non smise mai di pensare, neanche oggi, che avrebbe potuto diventare un’“intellettuale” e incontrare “qualcuno di più intelligente”. Ma lei era una donna delle pulizie, e incontrò un operaio che non aveva avuto, neanche lui, la fortuna di continuare gli studi e che, per giunta, non era molto aperto di vedute. Si sposò a vent’anni, nel 1950, con il ragazzo che sarebbe poi diventato mio padre. Negli anni successivi al matrimonio ebbero due figli: mio fratello maggiore e me. Vivevamo in una situazione di povertà, per non dire di quasi miseria. Per non aggravare ulteriormente le cose, mia madre decise di non avere più figli e dovette ricorrere all’aborto, credo più volte. Si trattava ovviamente di aborti clandestini, quindi pericolosi da tutti i punti di vista, sanitari e giudiziari. (Un giorno i miei genitori si recarono in una città della periferia parigina, Juvisy-sur-Orge; ricordo l’atmosfera misteriosa che circondava i preparativi di questo viaggio e il viaggio stesso, l’inquietudine che si leggeva nel volto di mia madre, il silenzio di mio padre. Arrivati a Parigi, lasciarono me e mio fratello da nostra nonna. Riapparvero parecchie ore dopo e mia madre raccontò a mia nonna, a voce bassa e in modo ellittico, che era andato tutto bene. Mio fratello e io eravamo ancora molto giovani ma, stranamente, sapevamo di che cosa si trattasse. O forse ho solo l’impressione di 69

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averlo sempre saputo, e in realtà l’ho compreso solo più tardi, rivedendo mentalmente le immagini di quel momento.) Nonostante ciò i miei genitori ebbero altri due figli, otto e quattordici anni dopo la mia nascita. Poco dopo il matrimonio mia madre iniziò a provare per suo marito un sentimento di ostilità, che a volte si esprimeva gridando e altre volte con lo sbattere delle porte e il fracasso dei piatti gettati a terra durante le loro liti frequenti. Ma, in modo più profondo, si manifestava quasi in ogni istante della loro vita condivisa. La loro relazione somigliava a una lunga e incessante scenata: sembravano incapaci di rivolgersi la parola senza insultarsi nel modo più cattivo e offensivo possibile. Lei decise più volte di divorziare e consultò un avvocato che le consigliò di non andarsene prima del giudizio definitivo, perché avrebbe finito con il passare dalla parte del torto (“abbandono del tetto coniugale”) e perdere la custodia dei figli. Aveva paura della reazione di mio padre quando lo avrebbe saputo e della “vita infernale” che lui le avrebbe fatto vivere per mesi (e forse anni), attraverso una procedura che si annunciava lunga e costosa. Aveva paura, inoltre, che non sarebbe riuscita a farcela da sola e, per evitare che i suoi ragazzi fossero privati di qualcosa, finì per rinunciare. La loro routine continuava: le scenate, le grida, gli scambi d’insulti continuavano come prima. Il disprezzo dell’altro eretto a modalità di vita. Il contrario di quello che Stanley Cavell chiama la “coppia conversazionale” o, in ogni caso, una versione di questo modello molto strana e triste. È importante, tuttavia, evitare una visione ispirata in modo univoco a un modello di pensiero femminista che nasconderebbe una parte della realtà (il femminismo, che permette di vedere e comprendere molte cose, diventerebbe in questo caso una sorta di ostacolo epistemologico). Mia madre era abbastanza violenta, forse più di mio padre. In realtà, nell’unico scontro 70

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che, per quanto io ne sappia, li vide opporsi fisicamente, fu lei a ferirlo, lanciandogli contro il frullatore che stava utilizzando per preparare una zuppa: l’urto fu così forte che lui riportò due costole rotte. Mi ha raccontato questa impresa con orgoglio, come si racconta una prodezza sportiva: una prova, secondo lei, del fatto che non era disposta a “farsi mettere i piedi in testa”. Quali che fossero le ragioni e i torti dell’uno o dell’altra, questa atmosfera era pesante, dolorosa da vivere tutti i giorni, anzi insopportabile. Questo clima di guerra coniugale, queste scene ripetute di scontri verbali, di urla, questa follia a due con i figli per testimoni ebbero un grosso peso nel determinare la mia volontà di fuggire da quell’ambiente e dalla famiglia (e per molto tempo mi fecero orrore l’idea stessa di famiglia, di coppia, di coniugalità, di legame duraturo, di vita in comune). È merito di mia madre se ho avuto la possibilità di andare al liceo e di continuare gli studi. Non lo espresse mai direttamente, ma credo che vedesse in me colui che poteva godere di una fortuna a lei preclusa. Il suo sogno irrealizzato trovava compimento attraverso di me. Ma ciò risvegliava anche antiche tristezze e rancori accumulati nel più profondo dell’anima. Poco dopo il mio ingresso al primo anno di collège,26 durante la lezione d’inglese imparammo una filastrocca di Natale. Rientrato a casa dissi a mia madre (avevo undici anni): “Ho imparato una poesia” e cominciai a recitargliela, me la ricordo ancora: “I wish you a merry Christmas, a horse and a gig, and a good fat pig, to kill next year.” La sua rabbia, o meglio la sua furia, scoppiò prima ancora che potessi terminare. Aveva pensato che la stavo 26   In Francia il collège è la scuola secondaria obbligatoria di primo grado; dura quattro anni e le classi sono: la sixième (la sesta) a cui si accede a undici-dodici anni, la cinquième (la quinta) a dodici-tredici anni, la quatrième (la quarta) a trediciquattordici anni e la troisième (la terza) a quattordici-quindici anni. (N.d.T.)

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prendendo in giro? Che cercavo di “sminuirla”? Di manifestare una superiorità su di lei, che questi primi mesi di scuola mi avrebbero già conferito? Si mise a urlare come una matta: “Lo sai che non capisco l’inglese… Ora me la traduci immediatamente!” Gliela tradussi. Era breve e la sua crisi d’isteria durò giusto qualche istante. Da allora presi coscienza che si era venuta a creare una frattura – e ovviamente non fece che ampliarsi – tra lo spazio esteriore all’ambiente familiare (rappresentato dal liceo, dagli studi, da ciò che imparavo) e lo spazio interiore, il luogo domestico. In questa esplosione di rabbia si era espressa tutta la frustrazione di mia madre per non aver potuto continuare gli studi. In seguito successe ancora e spesso, in forme differenti. Una semplice osservazione critica, l’espressione di un disaccordo erano sufficienti ad attirarmi repliche di questo tipo: “Non è perché tu vai al liceo che stai al di sopra di noi,” oppure: “Chi ti credi di essere? Pensi di essere meglio di noi?” Quante volte mi sono sentito ripetere che non ero “uscito dalla coscia di Giove”… Ma la frase che ritornava con più frequenza sulle sue labbra consisteva nel ricordarmi che lei era stata privata di tutto ciò a cui io avevo accesso: “Io non ho mai potuto…” oppure: “Io non ho mai avuto…” Contrariamente a mio padre, tuttavia, che invocava tutte le cose a cui non aveva “avuto diritto”, per stupirsi – e a volte per tentare d’impedire – che i suoi figli avessero la possibilità di beneficiarne, mia madre si limitava a sfogare il suo risentimento, come un modo di ammettere che mi si sarebbero aperte prospettive che a lei erano state sempre precluse, o chiuse non appena avevano cominciato ad aprirsi. Per lei era importante che io avessi piena consapevolezza della mia fortuna. Quando diceva: “Io non ho mai avuto…” significava prima di tutto: “Tu possiedi tutto ciò… e devi sapere cosa rappresenta.” 72

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Quanta disillusione provò, quando cercò di riprendere gli studi! Aveva letto un annuncio nel giornale regionale: era stata appena aperta una scuola privata – sicuramente degli imbroglioni, gente senza scrupoli – per insegnare l’informatica ad adulti desiderosi di riconvertirsi a nuove carriere e professioni. Lei si iscrisse e spese molti soldi per frequentare – più volte la settimana, dopo il lavoro – corsi nei quali si rese subito conto di non capire nulla, o comunque molto poco. Si ostinò, tenne duro. Ripeté per settimane che non avrebbe smesso, che avrebbe raggiunto il livello richiesto. Poi si arrese all’evidenza e abbandonò le speranze. Rinunciò. Amareggiata. Disillusa. La sua ultima possibilità era volata via. Smise di lavorare nel 1967, alla nascita di mio fratello più piccolo. Dopo essere stata per molto tempo donna delle pulizie. Ma non durò molto: costretta dal bisogno, dovette cercarsi un lavoro e così andò a spaccarsi la schiena per otto ore al giorno in una fabbrica – ci passai un mese durante le vacanze estive dopo il baccalauréat, e potei constatare la realtà di un simile “mestiere” – affinché io potessi studiare Montaigne e Balzac al liceo o, una volta all’università, restare ore intere chiuso in camera mia a decifrare Aristotele e Kant. La notte, mentre lei dormiva per poi alzarsi alle quattro di mattina, io leggevo fino all’alba Marx e Trockij, in seguito Beauvoir e Genet. A questo punto posso solo rinviare alla semplicità con cui Annie Ernaux, a proposito di sua madre che aveva un piccolo negozio di generi alimentari nel quartiere, esprime la brutalità di questa realtà: “Non dubitavo del suo amore e trovavo ingiusto che vendesse patate e latte dalla mattina alla sera per permettermi di starmene seduta in un’aula a sentir parlare di Platone.”27 27



A. Ernaux, Una vita di donna, cit., p. 85 [Une femme, cit., p. 66].

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Quando la vedo oggi, il corpo bloccato dai dolori legati alla durezza del lavoro eseguito per quindici anni in piedi davanti a una catena di montaggio (bisognava attaccare coperchi a contenitori di vetro, con la possibilità di farsi sostituire dieci minuti la mattina e dieci minuti il pomeriggio per andare in bagno), sono impressionato da cosa significhi concretamente, fisicamente, l’ineguaglianza sociale. Perfino questa parola “ineguaglianza” mi appare come un eufemismo che derealizza la questione di fondo: la violenza nuda dello sfruttamento. Il corpo di un operaio, quando invecchia, mostra a ogni sguardo che cos’è la verità dell’esistenza delle classi. In quella fabbrica il ritmo di lavoro era appena immaginabile, come per altro in tutte le fabbriche: un controllore un giorno aveva cronometrato un’operaia per qualche minuto e da lì aveva determinato il numero minimo di contenitori da fare in un’ora. Già questo era irragionevole, quasi inumano. Ma poiché una buona parte dei loro salari era composta da premi che si ottenevano in base a un numero di contenitori al giorno, mia madre mi ha precisato che lei e le sue colleghe arrivavano a raddoppiare il numero richiesto. La sera rientrava a casa sfinita, “a pezzi” come diceva lei, ma contenta di aver guadagnato nella sua giornata quel tanto che ci avrebbe permesso di vivere decentemente. Non mi spiego perché e in che modo le condizioni di lavoro disumane e gli slogan per denunciarle – “Abbasso i ritmi infernali!” – siano potuti sparire dai discorsi della sinistra e dalla sua percezione del mondo sociale, quando sono proprio le realtà più concrete delle esistenze individuali a essere in gioco, a partire dalla salute. All’epoca, a dire il vero, non mi preoccupavo affatto della durezza senza tregua che regola il mondo del lavoro in fabbrica, se non in modo astratto: ero troppo affascinato dalla scoperta della cultura, della letteratura, della filosofia per interessarmi alle condizioni che mi resero possibile accedere a esse. Al con74

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trario, ce l’avevo molto con i miei genitori per come erano, per non essere gli interlocutori che sognavo di avere e che alcuni miei compagni di scuola invece avevano. Sebbene fossi stato il primo della famiglia a seguire una traiettoria ascendente, non fui per niente incline, da adolescente, a voler comprendere chi fossero i miei genitori, e ancora meno a cercare di riappropriarmi politicamente della verità della loro esistenza. E se ero marxista, devo ammettere che il marxismo a cui aderivo durante i miei anni di studio, così come il mio impegno di estrema sinistra, probabilmente era soltanto un modo d’idealizzare la classe operaia, di trasformarla in un’entità mitica rispetto alla quale la vita dei miei genitori mi sembrava deprecabile. Loro ambivano a possedere i beni di consumo corrente e io vedevo nella triste realtà della loro esistenza quotidiana, nelle loro aspirazioni a un comfort di cui erano stati privati, il segno della loro “alienazione” sociale e al tempo stesso del loro “imborghesimento”. Erano operai, avevano sperimentato la miseria e, come tutti nella mia famiglia, come tutti i vicini, come tutte le persone che conoscevamo, erano animati dalla voglia di disporre di quanto gli era stato negato fino ad allora, di tutto quello che, ancora prima che a loro, era stato negato ai loro genitori. Non appena ne ebbero le possibilità, acquistarono ciò che sognavano, moltiplicando i debiti: una macchina usata e poi una nuova, un televisore, mobili ordinati su un catalogo (un tavolo in formica per la cucina, un divano in finta pelle per il salotto…). Li rimproveravo di essere mossi esclusivamente dalla ricerca del benessere materiale e perfino dalla gelosia – “Non c’è ragione per cui non dovremmo possedere queste cose anche noi” – e constatavo che questa invidia e questa gelosia forse erano alla base delle loro scelte politiche, anche se loro non ne vedevano il nesso. A tutti i membri della mia famiglia piaceva vantarsi del prezzo che avevano pagato per il tale oggetto, perché ciò dimostrava che non stavano più in miseria, che ce l’avevano fatta. 75

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I sentimenti di orgoglio e di onore si traducevano nel gusto spiccato per l’ostentazione dei prezzi. Questo non corrispondeva assolutamente ai racconti del “movimento operaio” di cui mi ero riempito la testa. Ma che cos’è un racconto politico che non prende in considerazione chi siano realmente coloro di cui interpreta le vite, e che porta a condannare gli individui di cui parla solo perché sfuggono a questa finzione costruita? È un racconto che andrebbe cambiato, per disfarne l’unità, la semplicità, e integrare la complessità e le contraddizioni. E per reintrodurvi il tempo storico. La classe operaia cambia, non resta identica a se stessa; e sicuramente quella degli anni sessanta e settanta non era più la stessa degli anni trenta o cinquanta: una medesima posizione nel campo sociale non ricopre le stesse realtà né le stesse aspirazioni.28 Mia madre mi ha ricordato poco tempo fa, con ironia, che non smettevo di rimproverarli di essere dei “borghesi”; e ha aggiunto: “Dicevi molte stupidaggini come questa, in quel periodo; spero che adesso tu te ne renda conto.” Ai miei occhi dell’epoca, i miei genitori tradivano quello che avrebbero dovuto continuare a essere: ma lo sdegno che provavo non esprimeva altro che la mia volontà di non somigliare loro assolutamente. E ancora di più di non somigliare a quello che avrei voluto che fossero. Per me il “proletariato” era un concetto attinto dai libri, un’idea astratta. I miei genitori non rientravano in quest’idea. E se da un lato mi compiacevo di deplorare la distanza tra la classe “in sé” e la classe “per sé”, il “lavoratore 28   Su questo aspetto rinvio alle belle osservazioni di Carolyn Kay Steedman a proposito di sua madre in Landscape for a Good Woman. A Story of Two Lives, New Brunswick, NJ, Rutgers University Press, 1987, pp. 8-9. Rinvio anche alla sua feroce critica al libro di Hoggart (The Uses of Literacy, cit.) che presenta un quadro antistorico del mondo operaio e ne celebra la semplicità e l’immobilità psicologica. Come se la classe operaia avesse smesso di trasformarsi non appena ne era uscito il futuro sociologo (ivi, pp. 11-12).

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alienato” dalla “coscienza di classe”, la verità è che questo giudizio politico “rivoluzionario” mi serviva a mascherare il giudizio sociale che emettevo sui miei genitori e sulla mia famiglia, e a mascherare il desiderio di fuggire dal loro mondo. Il marxismo della mia giovinezza funzionò per me come il vettore di una disidentificazione sociale: esaltare la “classe operaia” per allontanarmi meglio dagli operai, quelli reali. Leggendo Marx e Trockij mi credevo all’avanguardia del popolo. Invece entravo nel mondo dei privilegiati, nella loro temporalità, nella loro modalità di soggettivazione: quelli che possiedono il lusso di leggere Marx e Trockij. Mi appassionavo per quello che Sartre scriveva sulla classe operaia; detestavo la classe operaia in cui ero immerso, l’ambiente operaio che limitava il mio orizzonte. M’interessavo a Marx, a Sartre, e per me era il modo di uscire da questo mondo, dal mondo dei miei genitori. E ovviamente pensavo di essere quello che aveva le idee più chiare, riguardo alla loro vita. Mio padre lo sentiva chiaramente. Vedendomi un giorno leggere “Le Monde” – era uno dei segni attraverso cui manifestavo costantemente il mio interesse per la politica – e non sapendo come esprimere la sua ostilità verso un giornale che percepiva come non destinato a gente come lui e perfino come un organo della borghesia – ne sapeva più di me! – mi disse, in preda alla rabbia: “È il giornale della parrocchia quello che stai leggendo.” E senza aggiungere altro si alzò e lasciò la stanza. Mia madre non capiva bene quello che stava succedendo e nemmeno quello che facevo. Ero entrato in un altro mondo, in cui tutto le sembrava lontano, estraneo. E d’altronde non le parlavo quasi mai di quello che m’interessava, dal momento che lei non sapeva neanche chi fossero gli autori che mi appassionavano. Una volta, avrò avuto quindici o sedici anni, prese tra le mani un romanzo di Sartre che era sulla mia scrivania e 77

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si avventurò in quest’osservazione: “Credo che sia molto spinto.” Aveva sentito questo giudizio da una signora a cui faceva le pulizie – una borghese ai cui occhi Sartre doveva essere un autore scioccante – e lo ripeteva ingenuamente, forse per mostrarmi che conosceva almeno il nome di uno degli scrittori che leggevo. Una cosa è certa: non corrispondevo all’immagine che lei aveva di qualcuno che “continuava gli studi”. Da liceale militavo in un’organizzazione di estrema sinistra e quest’attività mi prendeva molto tempo. Mio padre fu perfino convocato dal preside che gli descrisse le mie attività di “propaganda” ai cancelli e all’interno del liceo. Quella stessa sera fecero una tragedia a casa e mi minacciarono di “ritirarmi” dal liceo. Mia madre temeva che non arrivassi a ottenere la maturità, ma soprattutto nessuno dei due riusciva ad accettare che io non dedicassi tutto il tempo allo studio, quando loro si spaccavano la schiena proprio per darmene la possibilità. Questa cosa per loro era indegna e rivoltante e mi misero davanti a una scelta: o lasciavo la politica o lasciavo il liceo. Dissi che preferivo lasciare il liceo. Il discorso non fu più ripreso. Mia madre, in fondo, ci teneva che continuassi. Da studente poi, delusi ancora di più le sue aspettative. La scelta di filosofia le dovette sembrare stravagante. Restò senza parole quando gliela comunicai. Avrebbe preferito che studiassi inglese o spagnolo (medicina o legge non rientravano nei suoi orizzonti e nemmeno nei miei, ma orientarsi allo studio delle lingue costituiva probabilmente per lei il mezzo migliore per assicurarsi un avvenire come professore di liceo). Percepiva soprattutto che tra noi il divario si stava ampliando. Per lei diventavo sempre più incomprensibile, e diceva spesso che ero “eccentrico”. In effetti dovevo sembrarle strano, fuori dal comune… Mi situavo sempre di più al di fuori di quello che, ai suoi occhi, costituiva il mondo normale, la vita normale. “Mica 78

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è normale che…” è una frase che ritornava spesso, a proposito di me, sia nei discorsi di mia madre sia di mio padre. “Non normale”, “strano”, “fuori dal comune”… queste parole non contenevano alcuna allusione sessuale diretta o esplicita, anche se, ovviamente, la percezione che avevano di me derivava dallo stile che adottavo e dall’immagine che di me volevo dare, in cui senza dubbio s’intravedeva già la dissidenza sessuale che avrei presto rivendicato. Ad esempio portavo i capelli molto lunghi e questo fu per anni motivo di rabbia per mio padre (“Vatti a far tagliare i capelli!” ripeteva sbattendo il pugno sul tavolo). Mia madre scoprì solo anni dopo che appartenevo a quella categoria di persone che lei non riuscirà mai a designare se non con l’espressione “le persone come te”. Il suo desiderio di allontanare qualsiasi tipo di vocabolo dispregiativo e la sua insicurezza al riguardo le impedivano di usare qualsiasi parola e le imponevano questa perifrasi infelice. Poco tempo fa, guardando una foto a casa sua, le chiesi chi fossero i tre ragazzi nell’immagine e lei mi rispose: “Sono i figli di B.,” la compagna di mio fratello maggiore. E aggiunse: “Quello al centro è D.: è come te.” Non capii subito cosa volesse dire ma subito dopo aggiunse: “Quando ha detto a sua madre che era… insomma… mi capisci, no?… che era come te… lei lo ha cacciato di casa… è stato tuo fratello a farle cambiare idea, le ha detto che con un atteggiamento simile lui non avrebbe mai potuto far entrare suo fratello in casa sua.” Mi stupì questo comportamento da parte di mio fratello: in passato l’avevo conosciuto meno tollerante; evidentemente era molto cambiato sotto questo aspetto. Ma resta il fatto che non mi ha mai fatto entrare in casa sua: perché non ho mai cercato di andarci, perché non ho mai avuto voglia di andarci… E, come questo libro cerca di dimostrare, il motivo è molto più legato alla sua identità sociale che alla mia identità sessuale. Dal momento che lui mi accetta per quello 79

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che sono, se non ho ripreso i contatti è perché sono io a essere a disagio con ciò che lui rappresenta. Oggi devo ammettere che, se noi non ci vediamo, la responsabilità è più mia che sua. Non si cancella facilmente la storia. Due traiettorie così divergenti difficilmente s’incrociano di nuovo. Ma questo spiega, allo stesso tempo, quanto sia vero che la famiglia, come ha mostrato Bourdieu, non sia un dato stabile quanto piuttosto un insieme di strategie: se i miei fratelli fossero stati avvocati, universitari, giornalisti, alti funzionari, artisti, scrittori… li avrei frequentati: forse in modo sporadico, ma li avrei rivendicati come fratelli, e assunti come tali. E questo vale per i miei zii e le mie zie, i miei cugini e le mie cugine, i miei nipoti e le mie nipoti… Se il capitale sociale di cui si dispone consiste prima di tutto nell’insieme delle relazioni familiari che si mantengono e che si possono mobilitare, potrei dire che la mia traiettoria – e le rotture che ha comportato – non solo mi forniva di un’assenza di capitale, ma me ne consegnava uno negativo: si trattava di annullare i legami piuttosto che mantenerli. Lungi da me il rivendicare come miei dei cugini lontani, come avviene nelle famiglie borghesi. Io ero arrivato al punto di cancellare i miei stessi fratelli. Non potevo e non avrei potuto contare su nessuno per progredire nel cammino che avrei intrapreso e sormontare le difficoltà che avrei poi incontrato. Quando avevo diciotto o vent’anni mia madre non mi percepiva ancora come una di queste “persone come te”, però mi vedeva cambiare e si stupiva sempre di più. Io la depistavo. E non me ne preoccupavo affatto, in fondo mi ero già molto distaccato da lei, da loro, dal loro mondo.

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Dopo il matrimonio, nel 1950, mio padre e mia madre si trasferirono in una camera ammobiliata. All’epoca non era facile trovare un alloggio a Reims e in questa stanza vissero i primi anni della loro vita insieme. Vennero al mondo due figli, mio fratello e me, e mio padre ci costruì un letto in legno dove dormivamo entrambi, uno al capo e l’altro ai piedi. Restammo in questa camera fino a quando i miei genitori ottennero da un ente sociale una casa in una cité operaia costruita da poco, all’altro capo della città. La parola “casa” non rispecchia affatto la realtà della situazione: era un cubo di cemento incollato ad altri cubi di cemento disposti lungo un vialetto, parallelo ad altri vialetti identici. Tutte queste case, a un solo piano, erano composte da un soggiorno e da una camera che occupavamo quindi in quattro, come prima. Non c’era il bagno, ma un lavabo e dell’acqua corrente nel soggiorno, che serviva sia per la cucina che per l’igiene quotidiana. Durante l’inverno la stufa a carbone faceva fatica a scaldare le due camere, ed eravamo sempre irrigiditi dal freddo. Qualche metro quadrato di giardino adornava l’insieme con un tocco di verde: e mio padre, con tanta pazienza, riuscì a farci un orticello. Ho conservato delle immagini di questi momenti? Sono rare, sfocate, incerte. Eccetto una, precisa e ossessiva: mio padre 81

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che rientrava ubriaco fradicio dopo essere scomparso per due o tre giorni (“Tutti i venerdì sera, dopo la sua settimana di lavoro andava a fare bisboccia nei bistrot e spesso passava la notte fuori,” mi ha raccontato mia madre), si metteva all’estremità della stanza, prendeva una per una le bottiglie che gli capitavano a portata di mano – olio, latte, vino – e le lanciava contro il muro opposto, dove si rompevano. Mio fratello e io piangevamo, rannicchiati su mia madre che ripeteva solo: “Fai almeno attenzione ai bambini.” Quando, poco dopo la morte di mio padre, ricordai a mia madre questa scena, insieme ad altre, per spiegarle perché non avevo voluto partecipare ai suoi funerali, lei rimase stupita: “Te ne ricordi? Ma eri così piccolo…” Sì, me ne ricordavo. Da sempre. Questa immagine non mi ha mai lasciato. Come la traccia ineffabile di un trauma d’infanzia legato a una scena primaria, ma che non bisogna affatto comprendere in termini psicologici o psicoanalitici. Perché, non appena lasciamo instaurarsi il regno dell’Edipo, ecco che lo sguardo indirizzato ai processi di soggettivazione si desocializza e depoliticizza: un teatro familiarista sostituisce ciò che deriva in realtà dalla storia e dalla geografia (urbana), ovvero dalla vita delle classi sociali. Nel mio caso, non ci fu un indebolimento dell’imago paterna, né una mancata identificazione con il Padre, reale o simbolico: nessuno dei tipici schemi interpretativi di cui il lacanismo ordinario si sarebbe servito per scoprire la “chiave” della mia omosessualità – ovviamente dopo avercela messa. No, non ci fu assolutamente niente su cui potessero indagare le nozioni fabbricate dall’ideologia della psicoanalisi e rimuginate dai suoi divulgatori.29 C’è piuttosto quello che potrei designare come uno “stadio dello specchio sociale”, nel quale si opera una presa di coscienza di sé e dell’appartenen29   Ho analizzato il discorso – omofobo nel suo stesso principio – di Lacan sulle “cause” dell’omosessualità in Une morale du minoritaire. Variations sur un thème de Jean Genet, Paris, Fayard, 2001, pp. 235-284.

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za a un ambiente nel quale si dispiega un certo tipo di comportamenti e di pratiche; un palcoscenico d’intimazione sociale – e non psichico o ideologico – tramite la scoperta della situazione sociologica di classe, che assegna un posto e un’identità; un riconoscimento di sé per quello che si è e per quello che si diventerà, tramite un’immagine di ciò che si deve diventare che ci viene rinviata dall’altro… Ciò insediò in me una volontà paziente e ostinata di smentire l’avvenire a cui ero promesso e al tempo stesso l’impronta della mia origine sociale, impressa a vita nella mia mente: un “ricordati da dove vieni” che nessuna trasformazione ulteriore del mio essere, nessun insegnamento culturale, nessuna maschera né sotterfugio riuscirono a cancellare. Questo, almeno, è il significato retrospettivo che si può dare, a mio avviso, a questo periodo così lontano del mio passato. Anche se so che si tratta di una ricostruzione, come lo sarebbe, d’altronde, qualsiasi altra interpretazione, in particolar modo psicoanalitica. I processi dell’appartenenza e della trasformazione di sé, della costituzione dell’identità e del rifiuto di quest’ultima, per me furono legati e inseriti l’uno nell’altro, combattendosi e limitandosi a vicenda. L’identificazione sociale primaria (il riconoscimento del sé come sé) fu dall’inizio forgiata dalla disidentificazione, nutrita essa stessa, continuamente, dall’identità rifiutata. Ce l’ho sempre avuta con mio padre per essere stato, in qualche modo, l’incarnazione di un certo mondo operaio che, se non si è mai appartenuti a questo ambiente e non si è mai vissuto questo tipo di passato, si incontra solo nei film e nei romanzi. “Era un personaggio di Émile Zola,” mi ha detto mia madre, benché non ne avesse mai letto neanche una riga. Quando si è appartenuti a questo mondo e si ha vissuto questo tipo di passato, è difficile assumerlo e rivendicarlo come proprio. Sono consapevole che tutto il mio modo di scrivere presuppone – tanto da parte mia quanto da quella di chi mi legge – un’esteriorità 83

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socialmente situata rispetto agli ambienti e alle persone che provo a descrivere e a restituire in questo libro, e allo stesso modo so che è molto improbabile che queste persone ne siano i lettori. Raramente si parla degli ambienti operai, ma quando se ne parla la maggior parte delle volte è perché se ne è usciti, ed è per dire che se ne è usciti e che si è felici di esserne fuori. E questo ristabilisce l’illegittimità sociale di coloro di cui parliamo proprio nel momento in cui vogliamo parlare di loro, precisamente per denunciare – ma con una distanza critica necessaria, e dunque uno sguardo che valuta e giudica – lo statuto d’illegittimità sociale al quale sono incessantemente rinviati. In fondo non era tanto la persona che aveva compiuto azioni simili che mi faceva inorridire, ma lo sfondo sociale in cui queste azioni erano possibili. Il lancio delle bottiglie durava solo qualche minuto, ma credo che abbia inscritto in me un disgusto per questa miseria, un rifiuto del destino a cui ero assegnato insieme alla ferita segreta, ma sempre viva, di dover portare in me, per sempre, questo ricordo. Episodi simili, d’altronde, non erano rari. Avrò avuto quattro o cinque anni e mio padre, di conseguenza, ventisette o ventotto. Faceva fatica ad allontanarsi da una certa forma di sociabilità operaia (maschile in ogni caso) che aveva scoperto solo in età adulta: le serate e le bevute tra amici, i bistrot dopo le ore di lavoro. E visto che gli capitava di non ritornare per diversi giorni, è probabile che non rinunciasse a finire la notte nel letto di un’altra donna. Si era sposato a ventun anni e, tre anni più tardi, aveva già due figli. Indubbiamente aveva voglia di scappare ogni tanto dai vincoli coniugali, paterni, e di vivere in ritardo i piaceri di una gioventù libera. Immagino che volesse finalmente approfittare di quello che non aveva potuto avere durante l’adolescenza, a causa della sua situazione familiare e delle responsabilità che pesavano sulle sue spalle. Era passato direttamente dalla responsabilità di una famiglia in quanto figlio maggiore a quella di un’altra in quanto marito e 84

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padre. Tutto questo doveva essere pesante da sostenere. E gli doveva essere molto difficile ammettere che la sua vita sarebbe stata limitata, e per sempre, dagli obblighi familiari. Lo sgarro alla regola (la connotazione negativa di quest’espressione non rende conto della totalità complessa che essa designa) deve essere inteso anche come il mezzo per darsi un po’ di ossigeno – e di piacere. Un comportamento analogo sarebbe stato chiaramente impossibile, impensabile, per mia madre, che doveva occuparsi dei figli. Mio padre d’altronde non avrebbe mai tollerato che lei frequentasse i bar, figuriamoci non rientrare la notte: l’avrebbe uccisa, dopo aver rotto tutto in casa! Quando si è figli di operai, si sente sulla propria pelle l’appartenenza di classe. Mentre scrivevo il mio libro sulla rivoluzione conservatrice, presi in biblioteca qualche volume di Raymond Aron, dal momento che è a lui che si rifacevano le ideologie che cercarono, durante gli anni ottanta e novanta, d’imporre l’egemonia di un pensiero di destra nella vita intellettuale francese. Sfogliando velocemente qua e là qualche esempio della prosa senza rilievo e senza slancio di questo professore sentenzioso e superficiale, capitai su questa frase: “Se io cerco di ricordarmi della mia ‘coscienza di classe’ prima della mia educazione sociologica, vi riesco a fatica senza che l’intervallo di anni mi sembri causa della indistinzione dell’oggetto. Detto diversamente, non mi sembra dimostrato che ogni membro di una società moderna abbia coscienza di appartenere a un gruppo nettamente definito, interno alla società globale e battezzato classe. La realtà obiettiva di gruppi stratificati è incontestabile, quella di classi coscienti di se stesse non lo è.”30 30   Raymond Aron, “Scienza e coscienza della società”, in La politica, la guerra, la storia, tr. it. di B. Romani, Bologna, Il Mulino 1990, pp. 21-22 [“Science et conscience de la société”, in Les Sociétés modernes, Paris, PUF, 2006, p. 57].

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Mi sembra incontestabile che quest’assenza del senso di appartenenza a una classe caratterizzi le infanzie dei borghesi. I dominanti non percepiscono di essere inscritti in un mondo particolare, situato (proprio come un bianco non ha coscienza di essere bianco, e un eterosessuale di essere eterosessuale). Questa osservazione, dunque, si manifesta per quello che è: una confessione ingenua proferita da un privilegiato che crede di fare della sociologia, quando in realtà non sta descrivendo nient’altro che il suo statuto sociale. Ho incontrato questo personaggio una volta sola in vita mia. Mi ispirò subito un sentimento di repulsione. Detestai dal primo istante il suo sorriso falso, la sua voce smielata, quel suo modo di mostrare un carattere posato e razionale; tutto ciò non esprimeva nient’altro che il suo ethos borghese fatto di etichetta e di moderazione ideologica, quando invece i suoi scritti sono pregni di una violenza tale che non sarebbe di certo sfuggita a coloro contro cui si scaglia, se li avessero letti. Basta leggere, ad esempio, quello che scriveva a proposito degli scioperi operai negli anni cinquanta! Si è parlato della sua lucidità perché fu anticomunista mentre altri si persero nel sostegno all’Unione Sovietica. Ma non è vero! Era anticomunista per odio del movimento operaio e si era eretto a difensore ideologico e politico dell’ordine borghese contro tutto ciò che poteva emergere dalle aspirazioni e dalle mobilitazioni delle classi popolari. La sua penna era fondamentalmente mercenaria: un soldato arruolato al servizio dei dominanti e della loro dominazione. Sartre ebbe perfettamente ragione a insultarlo nel Maggio ’68. Fu ampiamente meritato. Apprezziamo la grandezza di Sartre che, quando fu importante “insultare coloro che insultano” – come esorta una bella formula di Genet che si dovrebbe sempre tener presente come un motto –, ebbe il coraggio di infrangere le regole imposte della “discussione” accademica, che favoriscono sempre l’ortodossia (che può appoggiarsi 86

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sull’“evidenza” e il “buonsenso”), contro l’eterodossia e il pensiero critico. Per quanto mi riguarda ho sempre sentito, nella parte più profonda di me, di appartenere a una classe, che non vuol dire appartenere a una classe cosciente di sé. Si può avere coscienza di appartenere a una classe senza che questa abbia coscienza di se stessa in quanto classe, né in quanto “gruppo nettamente definito”. Ma in quanto gruppo la cui realtà è nonostante tutto provata dalle situazioni concrete della vita quotidiana. Come succedeva quando mia madre portava mio fratello e me, i giorni in cui non c’era scuola, dalle persone che l’avevano assunta come donna delle pulizie. Mentre lei lavorava noi restavamo in cucina e sentivamo la signora chiederle di fare questa o quell’altra cosa, farle dei complimenti o delle critiche. (Un giorno le disse: “Sono molto delusa, non ci si può fidare di lei,” e mia madre arrivò in lacrime in cucina. Eravamo sconvolti nel vederla in uno stato simile. Provo ancora disgusto, se ripenso a quel tono di voce, per questo mondo in cui si umilia con la stessa facilità con cui si respira; e da allora mi porto dentro un tale odio per i rapporti di potere e le relazioni gerarchiche.) Immagino che a casa di Raymond Aron ci fosse una donna delle pulizie e che, vedendola, non gli venne mai in mente che lei avesse “coscienza di appartenere a un gruppo sociale” diverso dal suo. Lui che senza dubbio imparava a giocare a tennis mentre lei stirava le sue camicie e lavava il pavimento del suo bagno sotto gli ordini di sua madre. Lui che si preparava a un lungo percorso di studi prestigiosi mentre i figli di lei, alla stessa età, si preparavano a entrare in fabbrica o vi erano già entrati. Quando vedo foto di Aron da giovane e della sua famiglia, penso al mondo borghese che si mostra in tutta la sua soddisfazione, una soddisfazione cosciente di se stessa, senza alcun dubbio. E non se n’è mai accorto? Neanche retrospettivamente? Che grande sociologo! 87

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Quando ero piccolo i miei genitori erano amici di una coppia il cui marito lavorava nelle cantine e la moglie era custode, in un quartiere chic, di un hôtel particulier dove viveva una famiglia importante di Reims. Abitavano nella portineria vicino al cancello del palazzo. A volte andavamo a pranzo da loro la domenica e io giocavo con la figlia nel cortile dell’imponente edificio. Noi sapevamo che esisteva un altro mondo, al di là della rampa che conduceva a un’altra scalinata e alla porta d’ingresso, sovrastata da una vetrata. Ne avevamo solo immagini rare e fugaci: una bella macchina che arrivava, un personaggio vestito in un modo che non avevamo mai visto… Ma noi sapevamo, di un sapere preriflessivo, nell’immediatezza del rapporto con il mondo, che c’era una differenza tra “loro” e “noi”. Tra quelli che occupavano questa casa e gli amici che facevano loro visita, e quelli che vivevano nelle due o tre stanze della portineria e i loro amici, ovvero i miei genitori, mio fratello e me, che li andavano a trovare durante i giorni di riposo. La distanza tra questi due universi separati da poche decine di metri era così grande che mi chiedo: come sarebbe stato possibile non avere coscienza del fatto che esistono le classi sociali, e che noi appartenevamo a una di queste? Richard Hoggart ha ragione a insistere sull’evidenza dell’ambiente in cui si vive quando si appartiene alle classi popolari.31 Le difficoltà della vita di tutti i giorni la ricordano in ogni momento, così come la ricorda il contrasto con altre condizioni sociali di esistenza. Se si vedono gli altri e quanto sono diversi da noi, come si fa a non sapere chi siamo? All’inizio degli anni sessanta ci trasferimmo in un edificio popolare che era stato appena costruito e in cui mia madre, a forza di pratiche burocratiche, era riuscita a ottenere un appar  Cfr. Richard Hoggart, 33 Newport Street. Autobiographie d’un intellectuel issu des classes populaires, Paris, Gallimard/Seuil, 1991. 31

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tamento. Credo si trattasse di un bell’esempio di alloggio sociale inserito nel tessuto urbano; era perfino all’interno della città: tre “blocchi”, come si diceva allora, di quattro piani, in un quartiere fatto di case individuali e situato tra una zona industriale e le cantine di alcune case produttrici di champagne (Taittinger, Mumm, Louis Roederer). L’appartamento era composto da una sala da pranzo, una cucina e – finalmente! – due camere, quella dei genitori e quella dei figli. L’altra novità è che avevamo il bagno. Frequentavo una scuola elementare non lontana da casa e tutti i giovedì andavo a catechismo, alla chiesa Sainte Jeanne d’Arc. Occorre vedere, qui, una strana e paradossale osservanza delle tradizioni religiose negli ambienti operai, oppure era una semplice maniera di tenere occupati – e di far sorvegliare – i figli nei momenti in cui non avevano scuola? Entrambe le cose, non c’è dubbio! I miei genitori erano miscredenti, perfino anticlericali. Mio padre non entrava mai in chiesa e durante le cerimonie di famiglia (battesimi, matrimoni, funerali…) restava sul piazzale con gli altri uomini, mentre le donne andavano all’interno. Eppure ci aveva fatti battezzare e poi iscritti al catechismo – dove il parroco, secondo le usanze, prendeva i ragazzini sulle sue ginocchia e accarezzava loro le gambe (aveva questa reputazione, e una volta sentii mio padre gridare forte il suo disgusto per i preti e le loro abitudini: “Se vengo a sapere che ha toccato uno dei miei ragazzi lo faccio fuori”). Seguimmo quest’educazione religiosa fino alla prima comunione, in tonaca bianca, con un’enorme croce di legno sul petto. A casa di mia madre ho trovato delle foto di quel giorno: mio fratello e io, piuttosto ridicoli, con zii e zie, cugini e cugine, davanti alla casa della mia nonna paterna dove, dopo la cerimonia, tutto questo piccolo mondo si era ritrovato per un pranzo di festa, per cui la religione aveva rappresentato solo un pretesto o un permesso. I rituali cattolici, per quanto assurdi, erano l’occasione di riunioni estremamente pagane che svolge89

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vano anche una funzione di coesione familiare, con il mantenimento di un legame tra i fratelli e le sorelle, la creazione di un legame tra i loro figli (i miei cugini e le mie cugine) e la concomitante riaffermazione di un microcosmo sociale – visto che l’omogeneità di classe, professionale e culturale, si mostrava sempre totale, senza che nessuno se ne fosse allontanato dalla precedente riunione. E fu proprio questo aspetto, in seguito, che m’impedì di assistere a queste cerimonie, in particolar modo ai matrimoni dei miei due fratelli più giovani: l’impossibilità di ritrovarmi immerso in queste forme di socialità e di cultura che mi avrebbero messo terribilmente a disagio. I riti alla fine del pasto, quando tutto il tavolo scandisce: “Simone, una canzone!”, “René, una canzone!” – ognuno aveva la sua, a volte comica, a volte melodrammatica, riservata per questi momenti. Di anno in anno venivano ripetute le stesse barzellette grevi, gli stessi balli, le stesse scemenze, le stesse discussioni a fine serata che a volte degeneravano in un principio di rissa non appena risalivano in superficie vecchie opposizioni o antiche controversie, spesso legate a sospetti di adulterio… Sono cambiate poche cose nell’omogeneità sociale della mia famiglia. Quando entrai per la prima volta nella casa di Muizon, passai in rassegna le foto esposte un po’ ovunque, sui mobili, sui muri. Chiesi a mia madre chi fosse la tale o la tal altra persona. Era la famiglia allargata: i figli dei miei fratelli, una cugina e suo marito, un cugino e sua moglie… Ogni volta che accennavo la domanda “Che fa nella vita?” le risposte disegnavano una cartografia delle classi popolari odierne: “Lavora alla fabbrica X o Y… Fa il muratore… Il poliziotto… È disoccupato…” L’ascesa sociale era incarnata dalla cugina impiegata delle imposte o dalla cognata segretaria. Siamo lontani dalla miseria di prima, quella che ho conosciuto durante l’infanzia. “Non se la passano male… Lei guadagna bene,” precisava mia madre dopo avermi detto la professione della persona che le avevo indicato. Ma 90

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ciò rinvia pur sempre alla stessa posizione nello spazio sociale: un’intera costellazione familiare la cui situazione, la cui iscrizione relazionale nel mondo delle classi, non è mai cambiata. A poche decine di metri dall’edificio in cui ci eravamo trasferiti si stava costruendo la cappella in stile romanico disegnata da Léonard Foujita. Più tardi, lo stesso Foujita l’avrebbe affrescata per celebrare la sua conversione al cristianesimo, avvenuta qualche anno prima a Reims, nella basilica di Saint-Remi. Ne sono venuto a conoscenza dopo: in casa non ci si interessava affatto all’arte, e ancora meno all’arte cristiana. L’ho visitata per la prima volta mentre scrivevo questo libro. Il gusto per l’arte si apprende. Io lo appresi. Fece parte della rieducazione quasi completa che dovetti realizzare per entrare in un altro mondo, un’altra classe sociale, e per allontanare il mondo e la classe sociale da cui provenivo. L’interesse per l’arte o la letteratura partecipa sempre, in modo più o meno cosciente, a una definizione valorizzante di sé attraverso la differenziazione da coloro che non vi hanno accesso, attraverso una “distinzione” nel senso di uno scarto, costitutivo di sé e dell’immagine che si ha di se stessi rispetto agli altri – le classi “inferiori”, “senza cultura”. Quante volte, durante la mia vita di persona “colta”, ho potuto constatare, visitando una mostra, assistendo a un concerto o a una rappresentazione all’opera, fino a che punto le persone che si consacrano alle pratiche culturali più “alte” sembrano trarre da queste attività una sorta di autocompiacimento e un sentimento di superiorità. Lo si coglie nel sorriso discreto che non li abbandona mai, nella postura del loro corpo, nel modo con cui parlano da intenditori e mostrano la loro disinvoltura. Tutti questi segni esprimono la gioia sociale di essere come si deve, di appartenere al mondo privilegiato di quelli che possono vantarsi di apprezzare le arti più “raffinate”. Ciò mi ha sempre intimidito, 91

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ma cercavo comunque di somigliare a questa gente, di agire come se fossi nato come loro, di manifestare la loro stessa aria rilassata nella situazione estetica. Fu altrettanto necessario reimparare a parlare: dimenticare la pronuncia e le costruzioni delle frasi inesatte, gli idiomatismi regionali (non dire più che un mela è fière, “fiera”, ma che è acide, “acidula”), correggere l’accento del Nordest e allo stesso tempo l’accento popolare, acquisire un vocabolario più sofisticato, costruire sequenze grammaticali più adeguate… in breve controllare costantemente il mio linguaggio e la mia pronuncia. “Parli come un libro stampato,” mi veniva detto spesso in casa per deridere queste nuove maniere, ma pur sempre facendo attenzione a mostrare che ne conoscevano bene il significato. In seguito, e succede tuttora, ritrovandomi con le persone di cui ormai avevo disimparato il linguaggio, avrei prestato molta attenzione a non usare costruzioni di frasi troppo complesse o inconsuete negli ambienti popolari (ad esempio: non dirò je suis allé, “sono andato”, ma j’ai été, “sono stato”), sforzandomi di ritrovare le intonazioni, il vocabolario, le espressioni che, nonostante fossero relegate in un angolo remoto della memoria, inutilizzate, non ho mai dimenticato. Non si tratta di un bilinguismo ma di un gioco con due livelli di lingua, due registri sociali, in funzione degli ambienti e delle situazioni. Nel periodo in cui vivevamo in questo appartamento, entrai al liceo maschile della città. Devo insistere su questo punto, perché era un avvenimento significativo, rappresentava una vera e propria rottura nella storia della mia famiglia. Ero infatti il primo ad accedere all’istruzione secondaria, anche se ero solo al primissimo gradino del percorso. Avevo undici anni e mio fratello maggiore, che aveva due anni più di me, aveva proseguito con l’insegnamento primario. All’epoca c’erano due vie nettamente separate e il filtro scolastico interveniva in modo 92

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diretto e brutale. Mio fratello sarebbe diventato, un anno più tardi, apprendista macellaio. Non voleva più andare a scuola, dove si annoiava ed era convinto di perdere tempo. Mia madre, un giorno, vedendo affissa sulla porta di un macellaio la scritta Cercasi apprendista gli chiese se gli interessava. Lui rispose di sì, entrarono insieme e l’affare fu concluso. Le nostre traiettorie cominciarono così a divergere. In realtà questo processo era iniziato da un pezzo. Non avevamo in comune nulla, dal modo di vestirci o di pettinarci fino al modo di parlare o di pensare. A quindici o sedici anni a lui piaceva andare in giro con gli amici, giocare a calcio, rimorchiare le ragazze e ascoltare Johnny Hallyday, mentre io preferivo restare a casa a leggere e i miei gusti s’indirizzavano ai Rolling Stones o a Françoise Hardy (di cui Tous les garçons et les filles de mon âge sembrava scritta per evocare la solitudine dei gay), in seguito a Barbara, Léo Ferré, Bob Dylan, Donovan e Joan Baez, cantanti “intellettuali”. Mio fratello continuava a incarnare un ethos popolare, una maniera di essere e una postura che lo riallacciavano al mondo sociale a cui appartenevamo. Io mi costruivo un ethos liceale altrettanto tipico, che al contrario me ne allontanava (a sedici anni portavo un montgomery, le Clarks Desert Boot e mi lasciavo crescere i capelli). Anche il nostro rapporto con la politica ci vedeva opposti: a lui non interessava assolutamente, mentre io cominciai molto presto a parlare di “lotta di classe”, di “rivoluzione permanente” e d’“internazionalismo proletario”. Provavo un terribile imbarazzo quando mi chiedevano cosa facesse, e mi ingegnavo sempre per non dire la verità. Assistette con una certa perplessità e molta ironia alla mia trasformazione in giovane “intellettuale” (anche in giovane gay, e questo di sicuro non gli era sfuggito, benché il suo sarcasmo prendesse di mira uno stile più che una sessualità particolare di cui io stesso cominciavo appena a percepire i segni precursori e i richiami destabilizzanti. Uno stile che per lui, così preoccupato d’incar93

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nare i valori maschili delle classi popolari, era “effeminato”). Abitavamo sempre sotto lo stesso tetto, nella cité alla periferia della città in cui ci eravamo trasferiti nel 1967. Le nostre stanze – ero da solo perché, in quanto liceale, dovevo studiare, mentre lui divideva la sua con uno dei nostri fratelli più giovani, e il più piccolo dormiva nella stanza dei nostri genitori – erano separate solo da uno stretto corridoio, ma noi eravamo ogni giorno un po’ più differenti. Aderivamo pienamente alle nostre scelte o a quelle che credevamo essere le nostre scelte. Per questa ragione non potevamo non essere, entrambi, messi in imbarazzo, in un imbarazzo crescente, da quello che l’altro stava diventando. Lui corrispondeva senza problemi e senza distanza al nostro mondo, ai mestieri che gli si prospettavano, all’avvenire che era stato previsto per noi. Io non avrei tardato a provare e a coltivare l’intenso sentimento di uno scarto, che gli studi e l’omosessualità avrebbero contribuito a insediare nella mia vita: non sarei diventato né operaio né macellaio, ma altro da quello a cui ero socialmente destinato. Lui fece il servizio militare e si sposò subito (avrà avuto ventuno o ventidue anni) ed ebbe molto presto due figli… Da parte mia, entrai all’università a diciotto anni e lasciai la casa dei miei genitori a venti (dunque poco dopo di lui) per vivere solo e libero; e più di ogni altra cosa desideravo essere riformato per evitare di fare il militare, come poi sarebbe successo, qualche anno più tardi. Dopo aver beneficiato del periodo massimo di rinvio per poter seguire gli studi, durante i “tre giorni” che precedevano l’arruolamento simulai dei problemi di vista e di udito che portarono l’ufficiale medico della caserma di Vincennes a chiedermi: “Lei che cosa fa nella vita?” “Preparo il concorso per insegnare filosofia.“ “Ecco, perfetto, allora continui che sarà meglio per tutti.” Allora avevo venticinque anni, e feci molta fatica a contenere e a dissimulare la gioia che mi travolse in quel momento.

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Per quasi trentacinque anni non rividi questo fratello con cui avevo condiviso l’infanzia e una parte dell’adolescenza. Mentre scrivo questo libro, lui vive in Belgio con una pensione di invalidità, non potendo più esercitare il suo mestiere (o qualunque altro): a furia di portare carcasse di animali, ha le spalle distrutte. E se non ho più nessun legame con lui, come ho sottolineato nel capitolo precedente, la colpa è mia. Eravamo già come estranei quando vivevamo insieme, e continuammo a esserlo in seguito, quando, due o tre anni dopo la nostra partenza, ci ritrovavamo per una riunione di famiglia, legati solo dal nostro passato comune e dal rapporto che mantenevamo con i nostri genitori, stretto nel suo caso, indebolito nel mio. Lo vedevo trarre soddisfazione da tutto quello che io ambivo a lasciare, e adorare tutto quello che io detestavo. Per descrivere i sentimenti che provavo nei confronti di mio fratello potrei riprendere quasi parola per parola quello che John Edgar Wideman scrive del suo, in Brothers and Keepers: “Il mio successo si misurava con la distanza che avevo messo tra noi.”32 Come dirlo meglio? In un certo senso, ciò significa che   John Edgar Wideman, Brothers and Keepers (1984), New York, Mariner Books, 2005, p. 27. 32

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mio fratello mi serviva implicitamente da punto di riferimento. Quello che volevo si riassumeva in questo: non essere come lui. Rivolgendosi mentalmente a suo fratello, Wideman si chiede: “Anche io ero così estraneo per te, come tu lo sembravi a me?” Mi feci questa domanda all’epoca? Conoscevo la risposta ed ero contento, perché cercavo in tutti i modi di diventargli estraneo. Mi riconosco ancora nelle affermazioni di Wideman quando osserva: “Dal momento che eravamo fratelli, le vacanze, le feste di famiglia ci portavano negli stessi luoghi nello stesso momento ma la tua presenza mi metteva a disagio.”33 A dire il vero, per quanto mi riguarda, tutto mi metteva a disagio in queste occasioni, perché mio fratello coincideva con questo mondo che non mi apparteneva più, ma che allo stesso tempo era ancora il mio. Dal momento che, per Wideman, “lasciare Pittsburgh, la povertà, la negritudine” e andare all’università aveva rappresentato la via di un esilio scelto, è evidente che era difficile percorrere, a intervalli regolari, il cammino inverso. A ogni ritorno a casa non poteva che ritrovare, immutata, la realtà che gli aveva fatto venire voglia di partire, e constatare, in questo modo, il suo successo sempre più grande nello sforzo di allontanarsi man mano che il tempo passava. Questo non gli impediva di sentirsi in colpa nei confronti di quelli che aveva lasciato dietro di sé. Una colpa raddoppiata, tuttavia, da un sentimento di paura: “La paura simile alla colpa. La paura di risvegliare in me i segni della povertà e del pericolo che ritrovavo intorno a me quando tornavo a Pittsburgh.” Ebbene sì: la paura di essere “contaminato e di trascinarmi dietro, ovunque, il veleno della fuga. La paura che si scopra il diavolo che è in me, e che mi si rigetti come un lebbroso”.34 La considerazione che esprime su suo fratello in fondo è semplice: “Il tuo mon33 34

  Ivi, p. 26.   Ivi, p. 27.

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do. La negritudine che mi accusa.”35 Potrei utilizzare le stesse parole, le stesse frasi per descrivere il modo in cui percepivo mio fratello all’epoca: il tuo mondo, la cultura operaia, questa “cultura povera” che mi accusava e che avevo paura mi restasse incollata addosso nella mia fuga disperata. Dovevo esorcizzare il diavolo, farlo uscire da me. Oppure renderlo invisibile, affinché nessuno potesse individuare la sua presenza. Per molti anni fu un lavoro quotidiano. Bastano queste parole di Wideman per descrivere il peso che durante l’adolescenza, e anche dopo, mi portavo ovunque. Queste parole parlano di me. Per quanto non ignori affatto – è perfino superfluo precisarlo – i limiti di questa trasposizione. Se da un lato mi riconosco nella descrizione che Wideman fa della rottura dei legami con la sua famiglia, e soprattutto con suo fratello o, più esattamente, della trasformazione di questi legami in un rapporto di distanza e di rifiuto, dall’altro lato la situazione che descrive è certamente molto diversa dalla mia. Venuto da un quartiere nero e povero di Pittsbsburgh, Wideman è diventato un professore universitario e uno scrittore di successo, mentre suo fratello è in prigione, fine pena mai, dopo una condanna per omicidio. E lui cerca di comprenderne la tragica storia attraverso questo libro magnifico. Wideman ha ragione di sottolinearlo: bisognava scegliere e lui scelse. Scelsi anch’io e, come lui, mi scelsi. Solo in alcuni periodi provavo il senso di colpa di cui parla. Ero inebriato dal senso di libertà. La gioia di scappare al mio destino. Questo lasciava poco spazio per i rimorsi. Non ho idea di cosa oggi mio fratello pensi di tutto questo. Né di cosa possa dire quando si pronuncia su questo argomento. Quando qualcuno ad esempio gli chiede se io faccia parte della sua famiglia, dopo 35

  Ibidem.

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avermi visto in una delle mie apparizioni televisive, che cerco di mantenere molto rare. Mi ha sorpreso apprendere da mia madre che i miei due fratelli, di otto e quattordici anni più giovani di me, avevano pensato che li avessi “abbandonati” e che avevano molto sofferto – e che uno dei due soffriva ancora – a causa del mio abbandono! Non mi ero mai chiesto come avessero percepito il mio graduale, e poi totale, allontanamento. Cosa avevano provato? Come mi vedevano? Chi ero per loro? Nella loro vita diventai come un fantasma. Più tardi avrebbero parlato di me alle loro mogli e ai loro figli, ma senza che questi mi incontrassero. Quando uno dei due divorziò, sua moglie, che non mi aveva mai visto, tra le tante accuse gli rinfacciò anche questo (l’ho saputo da mia madre): “E tuo fratello Didier è solo un frocio che ha abbandonato la sua famiglia.” Come potrei dire che è falso? Non stava enunciando, in poche parole, tutta la verità? Tutta la mia verità? Fui egoista. Si trattava di salvare me stesso e non ero affatto propenso – avevo vent’anni! – a prestare attenzione ai danni provocati dalla mia fuga. I miei due fratelli più giovani conobbero un destino scolastico quasi analogo a quello di mio fratello maggiore: entrarono al collège (l’indirizzo ormai è lo stesso per tutti gli studenti) a undici anni perché erano costretti e smisero di studiare appena possibile, a sedici anni, dopo che uno dei due vegetò per un po’ nelle classi professionali di un istituto tecnico, mentre l’altro scelse un indirizzo letterario (“La scuola non era per me,” mi ha comunicato recentemente uno dei due in risposta alle domande che gli avevo posto via mail per scrivere questo libro). Nessuno dei due arrivò alla maturità. Il primo aveva voglia di diventare meccanico: oggi vende automobili nell’isola della Riunione. Guadagna bene, mi ha detto mia madre. Il secondo si arruolò nell’esercito a diciassette anni. È rimasto militare, più esattamente è entrato 98

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nella gendarmeria dove ha ottenuto un grado non molto alto. Entrambi votano, ovviamente, a destra, dopo essere stati a lungo, e fino a poco tempo fa, fedeli elettori del Fronte nazionale. Così, quando manifestavo contro i successi elettorali dell’estrema destra, o quando sostenevo gli immigrati e i sans-papiers, stavo protestando contro la mia famiglia! Ma potrei anche rigirare la frase e dire che è la mia famiglia che si era schierata contro tutto ciò a cui io aderivo, contro tutto ciò che difendevo e dunque contro tutto ciò che ero e rappresentavo ai loro occhi (un intellettuale parigino, lontano dalla realtà e ignaro dei problemi che incontrano le persone del popolo). Questo voto dei miei fratelli, tuttavia, per un partito che m’ispira un profondo orrore, e in seguito per un candidato alle presidenziali di una destra più classica che seppe attirare questo elettorato, sembra essere rivelatore di una tale fatalità sociologica, sembra obbedire a tal punto a leggi sociali (che dunque valgono anche per le mie scelte politiche) da lasciarmi perplesso. Non sono più sicuro come una volta di come giudicare tutto ciò. È facile convincersi, in modo astratto, che non si rivolgerà mai la parola o che non si stringerà mai la mano a qualcuno che vota per il Fronte nazionale… Ma come reagire quando si scopre che si tratta della propria famiglia? Che cosa dire, che cosa fare, che cosa pensare? I miei due fratelli più giovani si innalzarono così al di sopra della condizione dei nostri genitori. Si può parlare in questo caso di un’ascesa sociale, anche se fondamentalmente legata all’origine di classe e limitata da quest’origine e dai determinismi che questa comporta. A cominciare dalla descolarizzazione volontaria e dal campo conseguentemente ristretto dei tipi di mestieri o di carriere professionali che si offrono a quelli che il sistema scolastico esclude, lasciando loro credere che sono gli artefici di questa esclusione. 99

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Ormai mi devo confrontare con queste domande: e se mi fossi interessato a loro? Se li avessi aiutati nel loro percorso scolastico? Se avessi cercato di trasmettere loro il gusto della lettura? Perché l’evidenza del continuare gli studi, l’amore per i libri e la voglia di leggere non sono disposizioni distribuite in modo universale, ma al contrario sono strettamente correlate alla condizione sociale e all’ambiente di appartenenza. E queste condizioni sociali li portavano, come quasi tutti gli altri in questo stesso ambiente, a rifiutare e a rigettare tutto ciò verso cui ero stato spinto da un miracolo. Forse avrei dovuto prendere coscienza del fatto che un tale miracolo poteva riprodursi e che sarebbe stato meno improbabile rispetto al primo, dal momento che si era già compiuto per uno di noi, e che quest’ultimo – io! – avrebbe potuto trasmettere agli altri quello che lui aveva imparato, insieme al piacere di apprendere. Ma questo avrebbe richiesto pazienza e tempo – e quindi un contatto stretto con la mia famiglia. Sarebbe stato sufficiente a contrastare la logica implacabile della rinuncia a proseguire gli studi? Avrebbe permesso di combattere i meccanismi della riproduzione sociale, che fondano la loro efficacia sull’inerzia degli habitus di classe? Non fui affatto, parafrasando Wideman, “il custode” dei miei fratelli e mi è difficile adesso non sentirmi in “colpa”. Ma è troppo tardi. Molto prima di provare questo senso di colpa, mi sono visto e pensato come un “miracolato” del sistema scolastico, nel senso che mi fu subito chiaro che i destini dei miei tre fratelli non erano o non sarebbero stati identici o analoghi al mio. Vale a dire che gli effetti del verdetto sociale emesso su di noi ancora prima della nascita li colpì con una violenza molto più forte rispetto a me. In un altro dei suoi romanzi, intitolato Fanon, Wideman evoca in modo esemplare questa potenza dei verdetti e la coscienza che sempre se ne ha, così come il sentimento di essere un miracolato, dal momento che riuscì a sfuggire ai 100

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destini definiti in anticipo. Suo fratello è in prigione. Va a trovarlo con sua madre. È consapevole del fatto che avrebbe potuto essere lui quello dietro le sbarre e si chiede perché non è lì, come ha potuto sfuggire a quella che si configura come una fatalità per i giovani neri dei quartieri poveri: “Quanti neri in prigione e quanto a lungo: potremmo scervellarci sui numeri, numeri estremamente alti, e indignarci davanti alle probabilità inquietanti e alle sproporzioni palesi. Una montagna orribile di statistiche incomprensibili; ma a volte basta una semplice possibilità a turbarmi. Perché non ci sarebbe niente di strano, e perfino niente di più facile, se stessi al posto di mio fratello. Uno scambio di destini, la sua parte a me e la mia a lui. Mi ricordo di tutti i pasti consumati alla stessa tavola, le notti passate per anni sotto lo stesso tetto, con gli stessi genitori, gli stessi fratelli, le stesse sorelle, gli stessi nonni, zii, cugini e cugine. Ciò che intendo dire, ciò che le statistiche rivelano è che non ci sarebbe nulla di sorprendente se io fossi in carcere.”36 Wideman ci obbliga così ad ammettere quanto segue: il fatto incontestabile che alcuni – molti, senza dubbio – sfuggano ai dati statistici e aggirino la terribile logica delle cifre, non annulla affatto, come vorrebbe farci credere l’ideologia del merito personale, la verità sociologica che essi rivelano. E se io avessi percorso lo stesso cammino dei miei fratelli, sarei come loro? Voglio dire: avrei votato per il Fronte nazionale? Protesterei anch’io contro gli “stranieri” che invadono il nostro paese e “si credono a casa loro”? Avrei condiviso con loro le stesse reazioni e gli stessi discorsi di difesa, contro quella che per loro è un’aggressione permanente nei loro riguardi da parte della società, dello stato, delle élites, dei “potenti”, degli “altri”? Di quale “noi” farei parte? A quale “noi” mi opporrei? Quale sa  p. 50. 36

John Edgar Wideman, Fanon, Boston-New York, Houghton Mifflin, 2008,

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rebbe la mia politica? Il mio modo di resistere all’ordine del mondo o, al contrario, di aderirvi? Wideman non esita a parlare di una guerra contro i neri (non è il solo ad avere questa visione della società americana: questa percezione s’inscrive in una lunga tradizione di pensiero – e di esperienza). Ne parla a sua madre: “C’è una guerra in corso, è contro le persone come noi nel mondo intero e la sala delle visite di questo carcere è uno dei suoi campi di battaglia.” Sua madre gli risponde che esagera, che lei non vede le cose in questo modo e che, nel susseguirsi di tutti questi drammi, preferisce mettere in rilievo la responsabilità individuale. Ma lui mantiene la sua posizione: “Una guerra condotta da un nemico che molti di noi non considerano un nemico, una guerra totale portata avanti da un avversario implacabile.”37 Questa è l’idea rappresentata nel romanzo, in cui s’incrociano una riflessione politica su un’America razzialmente divisa e una meditazione su Frantz Fanon. Viene mostrato quanto l’opera e la vita di Fanon siano importanti per la coscienza nera, per l’autoaffermazione, per l’orgoglio di sé, per la politica a partire dalla propria esperienza situata o, semplicemente, per la “rabbia nera”. E, di conseguenza, per la resistenza di fronte al nemico, alla sua onnipotenza e onnipresenza. Suo fratello, d’altronde, durante l’adolescenza, molto tempo prima di essere arrestato, teneva in tasca una copia di Pelle nera, maschere bianche, che si riprometteva di leggere un giorno. Un libro può rivestire un grande significato ancora prima di averlo letto… Ci basta sapere che ha contato per altri che sentiamo vicini. È possibile proseguire la trasposizione precedente e parlare di una guerra implacabile, condotta dalla società, attraverso il   Ivi, pp. 62-63.

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funzionamento più banale dei suoi meccanismi più ordinari, dalla borghesia, dalle classi dominanti, da un nemico invisibile – o troppo visibile – contro le classi popolari in generale? Basterebbe osservare le statistiche della popolazione carceraria in Francia o in Europa per esserne convinti: le cifre sarebbero eloquenti e indicherebbero la probabilità inquietante per gli uomini giovani delle periferie degradate – in particolare quelli che si usa definire provenienti dall’immigrazione – di ritrovarsi dietro le sbarre. E oggi si potrebbe quasi descrivere le zone popolari attorno alle città francesi come il teatro di una guerra civile latente: la situazione di questi ghetti urbani mostra fin troppo bene come vengono trattate alcune categorie della popolazione, come vengono respinte ai margini della vita sociale e politica, come le si riduce alla povertà, alla precarietà, all’assenza di avvenire; e le grandi rivolte che infiammano a intervalli regolari questi “quartieri” sono solo la concentrazione improvvisa di una moltitudine di battaglie frammentate, il cui fuoco non è mai completamente spento. Sarei perfino tentato di aggiungere che certe realtà statistiche, come l’eliminazione sistematica delle classi popolari dal sistema scolastico e le situazioni di segregazione e d’inferiorità sociale, a cui queste ultime sono votate dalla potenza di tali meccanismi, non possono essere interpretate in modo diverso. Sono consapevole che mi si accuserà di cadere in una teoria del complotto sociale per aver attribuito alle istituzioni delle funzioni occulte e perfino delle intenzioni malefiche. Ed è quello che Bourdieu rimproverava alla nozione althusseriana di “apparati ideologici di stato”: essa tende a pensare nei termini di un “funzionalismo del peggio”. Un apparato, come scrive Bourdieu, sarebbe “una macchina infernale, programmata per raggiungere certi scopi”, e aggiunge che “il pensiero critico è ossessionato da questo fantasma del complotto, dall’idea che una volontà demoniaca sia responsabile di tutto quello che suc103

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cede nel mondo sociale.”38 Ma è proprio così! È innegabile che il concetto di Althusser ci rinvii a una vecchia drammaturgia – o piuttosto a una vecchia logomachia – marxista, in cui delle entità scritte in maiuscolo si affrontano come se fossero sul palcoscenico di un teatro (puramente scolastico). Si potrebbe sottolineare, tuttavia, che alcune formulazioni di Bourdieu si avvicinano sorprendentemente a quelle che vuole rifiutare. Anche se nel suo caso si tratta più di indicare dei “risultati oggettivi” che una volontà nascosta. Ad esempio quando scrive: “Qual è la funzione reale di un sistema d’insegnamento che opera in modo da eliminare dalla scuola, durante tutto il percorso scolastico, i figli delle classi popolari e, in grado minore, delle classi medie?”39 La “funzione reale”! Evidente. Innegabile. Come Wideman, che non vuole rinunciare alla sua percezione immediata del mondo nonostante le ragionevoli osservazioni di sua madre, non posso fare a meno di vedere nel sistema scolastico, per come opera sotto i nostri occhi, un’autentica macchina infernale che, se non è programmata per raggiungere questo fine, conduce tuttavia a questo risultato oggettivo: rigettare i figli delle classi popolari, perpetuare e legittimare la dominazione di classe, l’accesso differenziato alle professioni e alle posizioni sociali. Vi è una guerra in atto contro i dominati e la scuola è senza dubbio uno dei suoi campi di battaglia. Gli insegnanti fanno del loro meglio! Ma non possono fare niente, o talmente poco, contro le forze inarrestabili dell’ordine sociale, che agiscono in modo sotterraneo e, allo stesso tempo, sotto gli occhi di tutti. E che s’impongono malgrado tutti gli ostacoli.   Pierre Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, tr. it. di D. Orati, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 72 [Réponses. Pour une anthropologie réfléxive, Paris, Seuil, 1992, p. 78]. 39   Pierre Bourdieu, “L’idéologie jacobine” (1966), in Interventions. Science sociale et action politique, 1961-2001, Marseille, Agone, 2002, p. 56. 38

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Ho detto prima che, durante la mia infanzia, tutta la mia famiglia era “comunista”, nel senso che far riferimento al Partito comunista costituiva l’orizzonte incontestato del rapporto con la politica, il suo principio organizzatore. Come ha potuto diventare una famiglia a cui è sembrato possibile, a volte perfino quasi naturale, votare l’estrema destra o la destra? Che cosa è successo perché così tante persone, le cui reazioni spontanee esprimevano un disgusto viscerale nei confronti di coloro che negli ambienti operai erano percepiti come nemici di classe e che si amava insultare dall’altra parte dello schermo – modo strano ma efficace di darsi conferme su chi si è e quello in cui si crede –, si mettessero in seguito a votare il Fronte nazionale? È stato il caso di mio padre, ne sono certo. Mi chiedo cosa sia potuto accadere, in seguito, per far sì che un numero considerevole di queste persone spostasse il proprio voto, al secondo turno, sui candidati della destra classica, un tempo temuta (prima di passare a votare direttamente al primo turno un rappresentante caricaturale della borghesia degli affari, eletto – grazie ai loro voti – alla presidenza della repubblica). Quale pesantissima responsabilità ha la sinistra in questo processo? Quali responsabilità hanno quelli che, dopo aver relegato il loro impegno politico degli anni sessanta e 107

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settanta nel passato ormai lontano delle scappatelle giovanili e dopo aver avuto accesso alle funzioni di potere e alle posizioni importanti, si sono messi d’impegno a imporre le idee della destra? E lo hanno fatto cercando di rinviare nel dimenticatoio della storia una delle preoccupazioni essenziali della sinistra, perfino uno dei suoi caratteri fondatori dalla metà del diciannovesimo secolo, vale a dire l’attenzione rivolta all’oppressione e agli antagonismi sociali, o semplicemente la volontà di dare un posto ai dominati nello spazio politico. Non sono stati solo il “movimento operaio”, le sue tradizioni e le sue lotte, a scomparire dal discorso politico e intellettuale e dalla scena pubblica, ma gli stessi operai, la loro cultura, le loro condizioni di vita, le loro aspirazioni…40 Quando andavo al liceo ed ero di estrema sinistra (trotzkista) mio padre non smetteva un attimo d’imprecare contro “gli studenti” che “vogliono dirci cosa dobbiamo fare” e che “tra dieci anni ci verranno a dare ordini”. La sua reazione, tanto intransigente quanto impulsiva, allora mi appariva contraria agli “interessi storici della classe operaia” e dovuta all’influenza che su quest’ultima aveva un vecchio Partito comunista mal destalinizzato, la cui preoccupazione principale era impedire il percorso ineluttabile della rivoluzione. Come potrei, adesso, pensare che mio padre aveva torto? Quando vediamo che fine hanno fatto quelli che predicavano la guerra civile e s’inebriavano con la mitologia dell’insurrezione proletaria! Sono sempre così sicuri di sé, così irruenti ma, salvo qualche rara eccezione, oggi lo sono per denunciare la minima velleità di protesta che proviene dagli ambienti popolari. Hanno ottenuto quello a cui erano promessi socialmente, sono diventati ciò che dovevano diventare e di conseguenza si sono trasformati nei nemici di co  Cfr. Stéphane Beaud e Michel Pialoux, Retour sur la condition ouvrière. Enquête aux usines Peugeot de Sochaux-Montbéliard, Paris, Fayard, 1999. 40

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loro di cui ieri erano all’avanguardia e che giudicavano troppo timorosi e troppo “imborghesiti”. Si dice che Marcel Jouhandeau, vedendo passare un corteo di studenti durante il Maggio ’68, urlò: “Rientrate a casa! Fra vent’anni sarete tutti notai.” Ed è, più o meno, anche se per ragioni diametralmente opposte, quello che pensava e sentiva mio padre. Ed è quello che avvenne. Notai forse no, ma notabili senza dubbio, inseriti politicamente, intellettualmente, personalmente, al termine di traiettorie spesso incredibili, nel comfort dell’ordine sociale e della difesa del mondo così com’è, vale a dire proprio come conviene perfettamente a loro, a quello che ormai sono diventati. Nel 1981 François Mitterrand, offrendo finalmente la speranza di una vittoria della sinistra, riuscì a prendere circa un quarto dei voti del Partito comunista, il cui candidato ottenne solo il 15 per cento al primo turno, quando alle legislative del 1977 ne prendeva ancora il 20 o il 21 per cento. Questo calo preludeva al collasso futuro e in gran parte si spiega con l’incapacità del “partito della classe operaia” di evolversi e di rompere con il regime sovietico (dal quale, è vero, era fortemente finanziato). Anche a causa della sua incapacità a prendere in considerazione i nuovi movimenti sociali che si erano sviluppati sulla scia del Maggio ’68. Non corrispondeva in niente – per usare una formula indulgente – alle volontà di trasformazione sociale e d’innovazione politica che avevano contraddistinto gli anni sessanta e settanta e di cui il 1981 costituiva in qualche modo il compimento. Ma la vittoria della sinistra, con il formarsi di un governo che vedeva la partecipazione dei comunisti, sfociò presto in una forte delusione degli ambienti popolari e in una disaffezione per i politici a cui avevano dato la loro fiducia e il loro voto, e dai quali si sentivano ignorati e traditi. In questo periodo sentivo spesso questa frase (mia madre me la ripeteva ogni volta che avevamo l’occasione di parlare): “La 109

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sinistra, la destra, non c’è differenza, sono tutti uguali, e sono sempre gli stessi che pagano.” La sinistra socialista iniziava un percorso di profonda trasformazione, che si sarebbe accentuato ogni anno di più. Cominciava a posizionarsi con un entusiasmo sospetto sotto l’influenza di intellettuali neoconservatori che, con la scusa di rinnovare il pensiero di sinistra, si adoperavano per cancellare tutto ciò che rendeva tale la sinistra. Si venne così a produrre una metamorfosi generale e profonda sia dell’ethos che dei punti di riferimento intellettuali. Non si parlò più di sfruttamento o di resistenza, ma di “modernizzazione necessaria” e di “rifondazione sociale”; non si parlò più di rapporti di classe, ma di “vivere insieme”; non si parlò più di destini sociali, ma di “responsabilità individuale”. La nozione di dominazione e l’idea di un’opposizione strutturante tra dominanti e dominati scomparvero dal paesaggio politico della sinistra ufficiale, a vantaggio dell’idea neutralizzante di “contratto sociale”, di “patto sociale”. All’interno di questo quadro di riferimento, individui definiti “uguali dal punto di vista dei diritti” (“uguali”? Che scherzo osceno!) erano chiamati a dimenticare i loro “interessi particolari” (in pratica a tacere e a lasciare che i politici al governo governassero come meglio credevano). Quali furono gli obiettivi ideologici di questa “filosofia politica”, diffusa e osannata da un’estremità all’altra del campo mediatico, politico e intellettuale, da destra a sinistra? E c’è da dire che i suoi promotori si misero davvero d’impegno a cancellare la frontiera tra la destra e la sinistra trascinando la sinistra, con il suo consenso, sempre più verso la destra. La posta in gioco era giusto appena dissimulata: l’esaltazione del “soggetto autonomo” e la volontà concomitante di farla finita con quelle visioni che si ostinavano a prendere in considerazione i determinismi storici e sociali ebbero come funzione principale quella di disfarsi dell’idea che esistevano dei gruppi sociali – delle “classi” – e giustificare, così, la demolizio110

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ne del welfare state e della protezione sociale, in nome di una necessaria individualizzazione (o decollettivizzazione, desocializzazione) del diritto del lavoro e dei sistemi di solidarietà e di ridistribuzione. Questi vecchi discorsi e questi vecchi progetti che esaltavano la responsabilità individuale contro il “collettivismo”, e che fino ad allora erano appartenuti alla destra e dalla destra erano ossessivamente rivangati, diventarono anche i discorsi di una buona parte della sinistra. Si potrebbe, in fondo, riassumere la situazione in questo modo: i partiti di sinistra e i loro intellettuali di partito e di stato ormai pensavano e parlavano con un linguaggio da governanti e non più da governati. Si esprimevano a nome di chi era al governo (e con loro) e non più a nome di chi era dall’altra parte (e con loro). Adottarono, così, un punto di vista sul mondo da governanti, rifiutando con sdegno (con una grande violenza discorsiva, che fu sentita come tale dalle persone su cui si esercitò) il punto di vista dei governati. Tutt’al più ci si degnò, nelle versioni cristiane o filantropiche di questi discorsi neoconservatori, di rimpiazzare gli oppressi e i dominati di ieri – e le loro lotte – con gli “esclusi” di oggi – e la loro presunta passività –, e di piegarsi verso di loro come destinatari potenziali (ma silenziosi) di misure tecnocratiche destinate ad aiutare i “poveri” e le “vittime” della “precarizzazione” e della “disaffiliazione”. Ma in realtà fu solo un’altra strategia intellettuale, ipocrita e contorta, per annullare qualsiasi approccio posto nei termini di oppressione e di lotta, di riproduzione e di trasformazione delle strutture sociali, d’inerzia e di dinamica degli antagonismi di classe.41   Il fatto stesso che per analizzare la “precarizzazione” del mondo del lavoro si sia potuto sviluppare il concetto tanto insulso quanto inadeguato di “individualismo di massa” la dice lunga. Questo concetto ci dà molte più informazioni sulla triste traiettoria che ha portato i sociologi che lo utilizzavano dalla sinistra critica ai cenacoli tra tecnocrati e al pensiero neoconservatore, che sulla realtà delle “metamorfosi della questione sociale”. 41

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Questo mutamento del discorso politico trasformò la percezione del mondo sociale e dunque, in modo performativo, lo stesso mondo sociale, visto che esso è in gran parte prodotto dalle categorie del pensiero con cui lo si guarda. Ma far scomparire dai discorsi politici le “classi” e i rapporti di classe, cancellarli dalle categorie teoriche e cognitive, non impedisce affatto a quelli che vivono la condizione obiettiva – condizione che la parola “classe” serviva proprio a designare – di sentirsi collettivamente abbandonati da chi gli predicava i benefici del “legame sociale”, insieme all’urgenza di una “necessaria” deregolamentazione dell’economia e di un altrettanto “necessario” smantellamento dello stato sociale.42 Di conseguenza interi settori delle fasce più svantaggiate si diressero, per un effetto quasi automatico di ridistribuzione delle carte politiche, verso quel partito che sembrava l’unico a preoccuparsi di loro e che, a ogni modo, offriva un discorso che si sforzava di ridare senso alla loro esperienza vissuta. E questo avvenne nonostante l’alta dirigenza di questo partito non fosse affatto composta da membri provenienti dalle classi popolari, al contrario di quello che si era prodotto con il Partito comunista, in cui si faceva molta attenzione a selezionare militanti che provenissero dal mondo operaio, in cui gli elettori potessero riconoscersi. Mia madre finì per ammettere, dopo aver sempre detto il contrario, che anche lei aveva votato per il Fronte nazionale (“Una sola volta,” precisò, ma non sono sicuro che bisognasse crederle su questo punto. “È stato più che altro per dare un segnale d’allarme, perché le cose non andavano,” si giustificò così, una volta passato l’imbarazzo della confessione. E poi, stranamente, aggiunse, riguardo al voto in favore di Le Pen al primo turno: “Le persone che 42   Sulla trasformazione dei discorsi e delle politiche economiche cfr. Frédéric Lebaron, Le Savant, la politique et la mondialisation, Bellecombeen-Bauge, Le Croquant, 2003.

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lo votarono non lo volevano. Al secondo turno si votava in modo normale.”)43 A differenza del voto comunista, che era un voto rivendicato, dichiarato, il voto di estrema destra sarebbe stato un’azione dissimulata, perfino negata di fronte al giudizio “esterno” (di cui, agli occhi della mia famiglia, io facevo parte)… ma, nonostante tutto, ponderata e risoluta. Nel primo caso si affermava con orgoglio la propria identità di classe, costituendola attraverso il gesto politico di sostegno al “partito degli operai”; nel secondo caso si difendeva in silenzio ciò che restava di quest’identità ormai ignorata, quando non disprezzata dai gerarchi della sinistra istituzionale. Tutti provenienti dall’École Nationale d’Administration e da altre scuole borghesi del potere tecnocratico, luoghi in cui si produce e s’insegna un’ideologia dominante divenuta fortemente transpolitica (non si sottolineerà mai abbastanza il livello di partecipazione dei cenacoli della sinistra “modernista” – e spesso cristiana – all’elaborazione di quest’ideologia dominante di destra. Non ci si deve stupire, poi, se un ex leader del Partito socialista – ovviamente del Nord della Francia, e dunque di un’altra origine sociale e di un’altra cultura politica – si sia preoccupato di ricordare ai suoi amici, in occasione della campagna presidenziale del 2002, che “lavoratore” non era “affatto una parolaccia”). Per quanto possa sembrare paradossale, sono convinto che il voto per il Fronte nazionale debba essere interpretato, almeno in parte, come l’ultimo ricorso degli ambienti popolari in difesa della loro identità collettiva, di una dignità che ormai sentivano sempre calpestata, proprio da quelli che un tempo li avevano rappresentati e difesi. La dignità è un sentimento fragile, incerto di sé. Ha bisogno di conferme e sicurezze. Richiede 43   Con questa strana formulazione, mia madre mi disse che aveva votato per Le Pen al primo turno dell’elezione presidenziale del 2002 e per Chirac, contro Le Pen, al secondo turno. Nel 2007 votò per Sarkozy a entrambi i turni.

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prima di tutto che non si abbia l’impressione di essere considerati come una quantità insignificante o come semplici elementi di tabelle statistiche, o di bilanci contabili, in altre parole come oggetti muti della decisione politica. Per questa ragione, se quelli a cui si è data fiducia non la meritano più, la si ripone in altri. E ci si indirizza, di volta in volta, verso nuovi rappresentanti.44 A chi bisogna dare allora la colpa, se il ricorso ha preso poi queste sembianze? Se il significato di un “noi” in questo modo mantenuto o ricostituito si è trasformato al punto da designare i “francesi” opposti agli “stranieri”, piuttosto che gli “operai” opposti ai “borghesi”? A voler essere ancora più precisi: l’opposizione tra “operai” e “borghesi” è continuata, ma sotto la forma di un’opposizione tra “gente dal basso” e “gente dall’alto” (ma non è la stessa cosa e non comporta le stesse conseguenze politiche). Questa opposizione ha integrato una dimensione nazionale e razziale, secondo cui le persone provenienti dall’alto erano percepite a favore dell’immigrazione, e quelle provenienti dal basso come quelle che più pativano nel quotidiano l’immigrazione, accusata di essere la causa di tutti i mali. Si potrebbe sottolineare che il voto comunista rappresentava un’affermazione positiva di sé mentre il voto per il Fronte nazionale un’affermazione negativa (il rapporto con le strutture di partito, con i portavoce, con la coerenza del discorso politico e con la sua coincidenza con l’identità di classe erano molto forti e perfino decisivi nel primo caso e quasi inesistenti o molto marginali nel secondo). Ma in entrambi i casi il risultato elettorale si voleva, o di fatto diventava, la manifestazione pubblica di un gruppo che si era mobilitato in quanto gruppo, attraverso la scheda elettorale messa (individualmente ma anche collettivamente) nell’urna per far sentire la propria voce. Attorno al   Su questo argomento, rinvio al mio libro D’une révolution conservatrice et de ses effets sur la gauche française, Paris, Léo Scher, 2007. 44

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Partito comunista si organizzava il voto collettivo di un gruppo cosciente di se stesso, radicato in condizioni oggettive di esistenza e contemporaneamente in una tradizione politica. A questo gruppo si associarono poi altre categorie la cui percezione del mondo o le cui rivendicazioni potevano raggiungere, durevolmente o provvisoriamente, quelle della “classe operaia”, che si manifestava come classe-soggetto. Nel cancellare dal discorso politico della sinistra qualsiasi idea di gruppi sociali in conflitto tra loro ci si è spinti fino a rimpiazzare l’affermazione strutturante di una conflittualità sociale – nella quale sostenere le rivendicazioni dei lavoratori era un dovere – con una denuncia dei movimenti sociali, tacciati di “arcaismo” e considerati come una sopravvivenza del passato o come il segno di una rottura del legame sociale, che chi governava aveva il compito di restaurare. Si pensava, in questo modo, di riuscire a privare quelli che votavano della possibilità stessa di pensarsi come un gruppo ben consolidato da interessi comuni e da preoccupazioni condivise; li si è riportati alla singolarità delle loro opinioni e si è dissociata quest’opinione dalla forza che un tempo aveva posseduto, condannandola così all’impotenza. Ma quest’impotenza è diventata rabbia. Come risultato ineluttabile, il gruppo si è riformato in modo diverso e la classe sociale decostruita dai discorsi neoconservatori della sinistra, ha trovato un nuovo modo di organizzarsi e di far conoscere il suo punto di vista. La bella analisi proposta da Sartre del voto e dei periodi elettorali come processi d’individualizzazione e, dunque, di depoliticizzazione dell’opinione – la situazione di “serialità” – in contrapposizione alla formazione collettiva e politicizzante del pensiero durante un movimento o una mobilitazione – il gruppo – trova qui i suoi limiti.45 L’esempio che propone è senza 45   Jean-Paul Sartre, “Elezioni trappola per topi”, in L’universale singolare. Saggi filosofici e politici 1965-1973, a cura di Raoul Kirchmayr, Milano, Mimesis, 1980, pp. 229-239 [Élections piège à cons, in “Situations”, X, Paris, Gallimard, 1976, pp. 75-87].

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dubbio calzante: gli operai che avevano partecipato ai grandi scioperi del Maggio ’68 e che, un mese dopo, salvarono il regime gollista votando per i suoi candidati. Questo non deve farci dimenticare, tuttavia, che il gesto elettorale, in apparenza fondamentalmente individuale, può anche viversi secondo la modalità di una mobilitazione collettiva, di un’azione che si porta avanti in comune con altri. In questo senso, esso contravviene al principio stesso del sistema di suffragio universale, nel quale la somma dei voti individuali dovrebbe condurre all’espressione della volontà generale, che deve trascendere le volontà particolari. In ciò che ho evocato prima (voto comunista o voto al Fronte nazionale), si produce il contrario: una guerra di classe condotta attraverso la scheda elettorale, una pratica di contrapposizione che si riproduce di scrutinio in scrutinio e in cui si vede una classe sociale – o una parte di questa – sforzarsi di manifestare la propria presenza rispetto alle altre, d’instaurare un rapporto di forza. Merleau-Ponty insiste sul fatto che “noi votiamo da violenti” perché “ognuno rifiuta il suffragio degli altri”. Sottolineando, anche lui, che “il voto consulta l’uomo a riposo, fuori dal mestiere, fuori dalla vita”,46 secondo una logica astratta e individualista. La classe operaia, o una parte di essa, è lontana dal cercare di collaborare alla definizione della volontà generale del popolo condivisa da tutti. È lontana dal contribuire all’elaborazione d’un consenso o all’emergere di una maggioranza, alla volontà della quale la minoranza accetta di piegarsi. Al contrario la classe operaia, o una parte di questa (come tutte le classi d’altronde, lo si vede dalle reazioni della borghesia ogni volta che la sinistra arriva al potere), viene a contestare la pretesa di una maggioranza elettorale di rappresentare il punto di vista generale, ricordando che essa consi46   Maurice Merleau-Ponty, “L’astensione”, in Segni, tr. it. di G. Alfieri, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 349 [“Sur l’abstention”, in Signes, Paris, Gallimard, 1960, p. 397].

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dera il punto di vista di questa maggioranza come quello di un gruppo antagonista che difende i propri interessi, opposti ai suoi. Nel caso del voto per il Fronte nazionale questo processo di costruzione politica di sé si realizzò attraverso un’alleanza – almeno durante i periodi elettorali – con fasce sociali che in passato sarebbero state considerate come “nemiche”. Il principale effetto della scomparsa della “classe operaia” e degli operai – possiamo dire delle classi popolari in generale – dal discorso politico è stato dunque la disgregazione delle vecchie alleanze del mondo operaio con certe altre categorie sociali (dipendenti del settore pubblico, insegnanti…), sotto l’egida di ciò che costituiva la sinistra e la composizione di un nuovo “blocco storico”, per usare il vocabolario di Gramsci, in grado di unire ampi settori delle classi popolari fragilizzate e precarizzate a commercianti, a pensionati benestanti del Sud della Francia, se non addirittura a militari fascisti o a vecchie famiglie cattoliche tradizionaliste e dunque fortemente radicate nella destra, perfino nell’estrema destra.47 Ma questo gesto è stato, senza dubbio, in un determinato momento, la condizione per pesare, tanto più che si trattava di pesare contro la sinistra al potere o, più esattamente, contro il potere incarnato dai partiti di sinistra. È stato percepito come l’unico mezzo esistente. Ma, evidentemente, entrando in nuove alleanze politiche, in nuove configurazioni politiche, questo gruppo – composto solo da una parte del vecchio gruppo mobilitato nel voto comunista – è diventato altro da quello che era un tempo. Le persone che lo costituivano pensarono se stesse, i loro interessi e i loro rapporti con la vita sociale e politica in modo totalmente differente. 47   Sui processi sociali, politici e ideologici che sfociarono in maniera analoga, in Gran Bretagna, nella composizione di blocchi storici in grado di unire la borghesia e vaste aree delle classi popolari in un voto per i partiti di destra, cfr. Stuart Hall, The Hard Road to Renewal Thatcherism and the Crisis of the Left, Londra, Verso, 1988.

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È evidente che il voto per il Fronte nazionale non fu, per una buona parte dei suoi elettori, identico a quello espresso prima per il Partito comunista. Fu più intermittente, meno fedele; e il rimettersi ai portavoce, la delega della propria parola a chi aveva l’incarico di portarla sulla scena politica non ebbero la stessa solidità, né la stessa intensità. Grazie al voto per il Partito comunista, gli individui oltrepassavano ciò che erano separatamente, serialmente. E l’opinione collettiva che ne emergeva, attraverso la mediazione del partito che nell’esprimerla la plasmava, non rifletteva affatto le opinioni disparate di ciascuno degli elettori. Nel voto per il Fronte nazionale, invece, gli individui restano tali e l’opinione che producono non è altro che la somma dei loro pregiudizi spontanei, che il discorso di partito capta e mette in forma, integrandola in un programma politico coerente. E anche se quelli che lo votano non approvano la totalità di questo programma, la forza che hanno conferito al partito permette a quest’ultimo di lasciar credere che i suoi elettori aderiscano all’integralità del suo discorso. Viene la tentazione di affermare che si tratti di un collettivo seriale, marcato nel profondo dalla serialità – visto che a prevalere sono le pulsioni immediate e le opinioni condivise ma infondate, anziché gli interessi stabiliti in comune e le opinioni elaborate nell’azione pratica. Predomina la visione alienata (denunciare gli stranieri) piuttosto che la concezione politicizzata (combattere la dominazione). Questo “collettivo”, tuttavia, si costituisce nonostante tutto come un “gruppo”, attraverso il voto dato a un partito che strumentalizza, e con il loro consenso, il mezzo d’espressione scelto e utilizzato da coloro che lo hanno a loro volta strumentalizzato per far sentire la propria voce.48 48   Sul voto al Fronte nazionale, cfr. l’articolo di Patrick Lehingue, L’objectivation statistique des électorats: que savons-nous des électeurs du Front national?, in Jacques Lagroye, “La Politisation”, Paris, Belin, 2003, pp. 247-278.

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Occorre constatare, tuttavia, fino a che punto il voto spesso traduce solo un’adesione parziale o indiretta al discorso o al programma del partito o del candidato che si vota. Quando feci notare a mia madre che votando Le Pen aveva sostenuto un partito che militava contro il diritto all’aborto – e io sapevo che lei aveva abortito –, mi rispose così: “Oh! Ma questo non c’entra niente, non è mica per questo che l’ho votato.” Come si scelgono, in tali circostanze, gli elementi di cui si tiene conto e che orientano la decisione, e quelli che si lasciano volontariamente da parte? L’aspetto essenziale risiede senza dubbio nel sentimento di sapersi, o di credersi, rappresentati individualmente e collettivamente. Anche se in modo incompleto, imperfetto, vale a dire sostenuti da chi si sostiene e avere l’impressione, attraverso questo gesto elettorale, attraverso quest’azione determinata, di esistere e di contare nella vita politica. Queste due opposte visioni politiche (quella che prese corpo nel voto comunista e quella nel voto al Fronte nazionale), queste due modalità di costituirsi come soggetti della politica, si fondano su diverse categorie di percezione e di divisione del mondo sociale (che d’altronde possono coesistere nello stesso individuo, ovviamente in temporalità diverse ma anche in luoghi diversi, e a seconda delle differenti strutture della vita quotidiana in cui ci si trova inseriti: se prevale la solidarietà pratica all’interno della fabbrica, o la competizione per la difesa del proprio posto, se si sente di appartenere a una rete informale di genitori di alunni che va a prendere i bambini a scuola, o se si è esasperati a causa delle difficoltà della vita del quartiere…). Sono modalità opposte o comunque divergenti di sezionare la realtà sociale e di provare a incidere sugli orientamenti politici di chi governa. E l’una non sempre esclude l’altra. Per questa ragione, per quanto durature e fuorvianti siano state le alleanze operate nell’elettorato del Fronte nazionale, non è affatto im119

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possibile, e ancor meno impensabile, che una parte – solo una parte – di quelli che avevano votato i suoi candidati si mettano, in un futuro più o meno lontano, a votare per l’estrema sinistra. Questo ovviamente non vuol dire che l’estrema sinistra sia da considerare sullo stesso piano dell’estrema destra, come sono sempre propensi a dichiarare quelli che vogliono proteggere il loro monopolio sulla definizione della politica legittima, accusando sistematicamente di “populismo” qualsiasi punto di vista e qualsiasi affermazione di sé che sfugga a questa definizione. Una simile accusa rivela esclusivamente la loro incomprensione – di classe – rispetto a ciò che interpretano come l’“irrazionalità” del popolo, quando il popolo non accetta di sottomettersi alla loro “ragione” e alla loro “saggezza”. Questo significa, invece, che la mobilitazione di un gruppo – il mondo operaio e le classi popolari – attraverso il voto potrebbe spostarsi di molto sulla scacchiera politica e dunque cristallizzarsi all’interno di un altro blocco storico con altri settori della società, non appena la situazione globale (nazionale e internazionale) sarà cambiata. Ma è evidente che dovrà prodursi un certo numero di avvenimenti importanti – scioperi, mobilitazioni e così via – affinché questo avvenga: perché non ci si dissocia facilmente da un’appartenenza politica in cui si è mentalmente situati da molto tempo – fosse anche in modo instabile e incerto – per crearsi di punto in bianco un’altra appartenenza, vale a dire un altro rapporto con sé e con gli altri, un altro sguardo sul mondo, un altro discorso sulle cose e sulla vita.

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Non ignoro, tuttavia, che i discorsi e il successo del Fronte nazionale furono per molti aspetti favoriti e perfino invocati dai sentimenti che animavano le classi popolari negli anni sessanta e settanta. Se qualcuno avesse voluto dedurre un programma politico dai discorsi che si tenevano quotidianamente nella mia famiglia in questo periodo, perfino quando si votava per la sinistra, il risultato non sarebbe stato troppo diverso dalle future piattaforme elettorali di questo partito di estrema destra degli anni ottanta e novanta: volontà di espellere gli immigrati e d’instaurare la “preferenza nazionale” nell’accesso all’impiego e nelle prestazioni sociali, inasprimento repressivo della politica penale, adesione al principio della pena di morte e sua applicazione molto estesa, possibilità di uscire dal sistema scolastico a quattordici anni e così via. La conquista, da parte dell’estrema destra, del vecchio elettorato comunista, o degli elettori più giovani che votarono sin dall’inizio per il Fronte nazionale (sembra infatti che i figli degli operai abbiano votato per l’estrema destra più facilmente e in modo più regolare degli anziani)49 fu resa possibile o facilitata dal profondo razzismo che costituiva una 49   Su questi cambiamenti da una generazione all’altra nel rapporto delle classi popolari alla sinistra e alla destra, cfr. P. Lehingue, L’Objectivation statistique des électorats: que savons-nous des électeurs du Front national?, cit.

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delle caratteristiche dominanti degli ambienti operai e popolari bianchi. Le frasi che si cominciavano a sentire negli anni ottanta contro le famiglie magrebine – come “Siamo invasi, non siamo più padroni a casa nostra”, “Non ce n’è che per loro: loro vivono con gli assegni familiari e per noi non resta più niente” e così via, ad nauseam – erano state precedute, per almeno tre decenni, da modalità fortemente ostili di percepire i lavoratori venuti dal Maghreb, di parlare di loro, di rapportarvisi.50 Questa ostilità era già palese durante la guerra d’Algeria (“Se vogliono l’indipendenza se ne restino a casa loro”), e dopo l’indipendenza (“Hanno voluto l’indipendenza, l’hanno ottenuta! Adesso che se ne ritornino a casa loro”), ma si moltiplicò durante gli anni sessanta e settanta. Il disprezzo dei francesi nei loro confronti si esprimeva soprattutto nell’uso sistematico del “tu”. Nei discorsi li si chiamava sempre gli “sporchi arabi”, i “ratti” e appellativi simili. All’epoca gli immigrati erano soprattutto uomini soli che vivevano in camerate condivise e topaie insalubri, i cui proprietari si arricchivano imponendo loro condizioni degradanti. L’arrivo in massa di una nuova generazione di immigrati, ma anche la formazione di famiglie e la nascita di bambini cambiarono la realtà: un’intera popolazione di origine straniera si trasferì nelle cités di case popolari costruite poco tempo prima, e che fino ad allora erano state abitate quasi esclusivamente da francesi o da immigrati provenienti da paesi europei. Quando i miei genitori ottennero, alla metà degli anni sessanta, un appartamento in una di queste cités di case popolari, situate ai confini della città, in cui avrei vissuto dai tredici ai vent’anni, l’immobile era occupato esclusivamente da bianchi. Verso la fine degli anni settanta – me ne ero andato ormai da tempo – si trasferirono le famiglie 50   Si troverà una descrizione molto realista di questo razzismo della classe operaia francese e delle condizioni di vita dei lavoratori immigrati negli anni cinquanta nel romanzo di Claire Etcherelli, Elisa o la vera vita, tr. it. di M. Iarocci, Milano, Feltrinelli, 1968 [Élise ou la vraie vie, Paris, Gallimard, 1967].

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magrebine che divennero rapidamente maggioritarie in tutto il quartiere. Queste trasformazioni provocarono un’accentuazione notevole delle pulsioni razziste che si esprimevano da sempre nelle conversazioni della vita di tutti i giorni. Ma, dal momento che si trattava di due livelli di coscienza che molto raramente venivano a coincidere, questo non interferiva affatto sulle scelte politiche consapevoli, come il voto per un partito – “il Partito” – che aveva militato contro la guerra in Algeria, l’adesione a un sindacato – la CGT51 – che, ufficialmente, denunciava il razzismo o ancora, in modo più generale, sulla percezione di sé come operai di sinistra.52 Quando si votava per la sinistra, di fatto si votava contro questo genere di pulsioni immediate e dunque contro una parte di se stessi. Questi sentimenti razzisti erano potenti e del resto il Partito comunista non si astenne certo dall’assecondarli, in modo odioso e in molte occasioni. Ma non si sedimentavano come la fonte principale della preoccupazione politica. Ci si sentiva addirittura in dovere di scusarsene, quando ci si ritrovava in una cerchia più ampia di quella della famiglia più stretta. Non erano rare le frasi che cominciavano con “Non sono razzista, ma…” o che terminavano con “Detto questo, io non sono razzista”; o qualcuno scandiva la conversazione con osservazioni del tipo: “È come dappertutto, anche tra loro ci sono brave persone.” E si citava l’esempio di tale o talaltro tipo, in fabbrica… Ci volle tempo perché le manifestazioni comuni di questo razzismo ordinario si incontrassero con elementi più 51   La Confédération Générale du Travail è un sindacato francese esistente dal 1895. (N.d.T.) 52   Nel romanzo Elisa o la vera vita (cit.) è proprio la classe operaia sindacalizzata e vicina al Partito comunista che esprime il suo razzismo all’interno della fabbrica. Alcuni giustificano perfino la loro ostilità nei confronti degli algerini e dei tunisini con il fatto che questi non hanno partecipato allo sciopero per un aumento di stipendio.

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ideologici; ma alla fine si trasformarono in modalità egemonica di percezione del mondo sociale, sotto l’effetto di un discorso organizzato che le incoraggiava e forniva loro un senso sulla scena pubblica. Non sopportando più la nuova situazione nel quartiere, i miei genitori decisero di lasciare l’appartamento per trasferirsi a Muizon e fuggire da ciò che consideravano un’intrusione molto pericolosa, in un mondo che prima apparteneva a loro di cui si sentivano sempre più spodestati. Mia madre si lamentava soprattutto della “sfilza” dei figli di questi ultimi arrivati, che urinavano e defecavano sulle scale e che, una volta adolescenti, fecero sprofondare il quartiere nel regno della microcriminalità, in un clima di paura e insicurezza. Era fuori di sé per il degrado del palazzo, evidente sui muri lungo le scale, sulle porte delle cantine individuali, nel sottoscala e sulle cassette delle lettere all’entrata – che non appena riparate venivano subito distrutte – da cui la posta e i giornali sparivano troppo spesso. Per non parlare dei danni alle macchine per strada: specchietti rotti, carrozzerie graffiate… Non sopportava più il rumore continuo e gli odori di una cucina diversa, né le urla del montone che, per la festa dell’‘¤d al-kab¤r, veniva sgozzato nel bagno dell’appartamento al piano di sopra. Le sue descrizioni provenivano dalla realtà o dalla fantasia? Senza dubbio da entrambe. Ma non sono la persona adatta per dirlo, visto che non abitavo più con loro e che non andavo mai a trovarli. Quando al telefono le dicevo – non riusciva a parlare d’altro – che esagerava, mi rispondeva: “Si vede che non è casa tua. Nei quartieri dove abiti tu, queste cose mica le vedi.” Che avrei potuto risponderle? Mi chiedo, tuttavia, come siano potuti nascere i discorsi che trasformano i problemi condominiali – che posso accettare siano irritanti – in concezione del mondo e in sistema di pensiero politico. In quale storia affondarono 124

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le radici? Da quali abissi sociali provenirono? Da quali nuove modalità di costituzione delle soggettività politiche si consolidarono e presero corpo in un voto per un partito di estrema destra, e per un tipo di leader che in passato aveva ispirato solo una forte rabbia? Non appena queste categorie spontanee di percezione, assieme alle divisioni che introducevano (i “francesi” opposti agli “stranieri”), furono ratificate e rinviate nello spazio politico-mediatico, s’imposero con un’evidenza sempre maggiore e occuparono ogni giorno un po’ più di spazio nelle conversazioni comuni, sia all’interno del cerchio familiare più ristretto sia di quello più esteso, negli scambi di frasi nei negozi, per la strada, in fabbrica… Si poté assistere così a una cristallizzazione del sentimento razzista in quegli ambienti sociali e politici un tempo dominati dal Partito comunista. Si verificò inoltre una marcata tendenza a orientarsi verso un’offerta politica che fingeva di limitarsi a rispecchiare la volontà del popolo e il sentimento nazionale, quando in realtà li aveva prodotti così come si presentavano, offrendo un quadro discorsivo coerente e una legittimità sociale alle cattive pulsioni e ai rancori preesistenti. Il “senso comune” condiviso dalle classi popolari “francesi” si trasformò profondamente, perché proprio la qualità di “francese” divenne il suo elemento principale, sostituendo quella di “operaio” o di uomo e di donna “di sinistra”. La mia famiglia incarnava un esempio modale di questo razzismo ordinario presente negli ambienti popolari negli anni sessanta e di questo irrigidimento razzista degli anni settanta e ottanta. Si utilizzava in continuazione (e mia madre continua ancora a impiegarlo) un vocabolario peggiorativo e insultante nei confronti dei lavoratori arrivati soli dall’Africa del Nord, delle loro famiglie, venute per raggiungerli o formatesi sul posto, dei loro figli nati in Francia, e dunque francesi, ma percepiti anch’essi co125

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me “immigrati” o in ogni caso come “stranieri”. Queste parole ingiuriose potevano apparire in qualsiasi momento ed erano, in ciascuna occorrenza, accentuate in modo tale che l’ostilità acrimoniosa che esprimevano veniva decuplicata: gli “sporchi magrebini”, i “musi neri”, i “beduini”… Da adolescente avevo la carnagione scura e mia madre mi diceva regolarmente: “Somigli a un muso nero”, o ancora: “Da lontano ti ho preso per un beduino.” Sono perfettamente consapevole del fatto che a quest’epoca, l’orrore che il mio ambiente mi suscitava era legato anche alla desolazione e perfino al disgusto suscitato dal sentire tutti i giorni, più volte al giorno, questo tipo di espressioni. Recentemente ho invitato mia madre a passare un fine settimana a Parigi. Nei suoi discorsi sciorinava in continuazione questo vocabolario che mi capita raramente di ascoltare, avendo costruito la mia vita in modo tale da non dovermi più rapportare a questo tipo di discorsi: “i beduini”, i “negri”, i “musi gialli”… Stavamo parlando del quartiere di Barbès, in cui aveva vissuto sua madre, da molto tempo occupato quasi esclusivamente da una popolazione di origine africana e magrebina, quando lei disse che non ci avrebbe mai abitato, fornendomi come spiegazione: “Da loro non è la stessa cosa che da noi.” Cercai di reprimere l’irritazione e di argomentare: “Ma mamma, Barbès è un quartiere di Parigi…” Mi rispose: “Sarà come dici tu… ma io so bene cosa intendo…” Non mi restò che borbottare: “Io no.” In quel momento capii che il “ritorno a Reims” su cui avevo già cominciato a scrivere non sarebbe stato un percorso facile e che forse sarebbe stato un viaggio sociale e mentale impossibile da compiere. A volte mi chiedo se il razzismo di mia madre, e il feroce disprezzo che lei (figlia di un immigrato!) mostrava sempre nei confronti dei lavoratori immigrati in generale, e degli “arabi” in particolare, non fosse altro che un modo, per lei, che era appartenuta a una categoria sociale costantemente rinviata alla sua inferiorità, di sentirsi superiore a qualcuno di ancora più debole. Un modo di 126

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costruirsi un’immagine valorizzante di sé attraverso la devalorizzazione di altri. Un modo per contare qualcosa ai propri occhi. Negli anni sessanta e settanta il discorso dei miei genitori, soprattutto quello di mia madre, mescolava già due forme di divisione tra un “loro” e un “noi”: la divisione di classe (i ricchi e i poveri) e la divisione etnica (i “francesi” e gli “stranieri”). Alcune circostanze politiche e sociali, tuttavia, potevano spostare l’accento sull’una o l’altra. Nel Maggio ’68 i grandi scioperi univano i “lavoratori”, indipendentemente dalla loro origine, contro i “padroni”. Circolava un bello slogan che diceva: “Lavoratori francesi, immigrati, stesso padrone, stessa lotta.” Durante gli scioperi più ristretti o più locali, in seguito, prevaleva sempre questa identica percezione (la frontiera si sposta, in situazioni simili, tra gli scioperanti e “quelli dalla parte del padrone”, i “crumiri”). Sartre ha ragione a insistere su questo punto: prima dello sciopero l’operaio francese è spontaneamente razzista, non si fida degli immigrati, ma una volta che l’azione è avviata queste ostilità scompaiono e prevale la solidarietà (sia pure in modo parziale e per un periodo limitato). È chiaro allora che la divisione razzista rimpiazza la divisione di classe solo quando c’è una profonda assenza di mobilitazione, o quando manca una percezione di sé come facente parte di un gruppo sociale mobilitato, o solidale perché può mobilitarsi insieme. Un gruppo, quindi, mentalmente mobilitato in permanenza. Dal momento che la sinistra ha distrutto nel gruppo la mobilitazione come orizzonte di percezione di sé, il gruppo si ricostituisce attorno a un altro principio, nazionale questa volta: la definizione di sé come occupante “legittimo” di un territorio di cui ci si sente spodestati, da cui ci si sente cacciati; come il quartiere in cui si abita, che viene così a sostituire il posto di lavoro e la condizione sociale nella definizione di se stessi e del proprio rapporto con gli altri. E, più in generale 127

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l’affermazione di sé come padrone e possessore naturale di un paese, di cui si rivendica il beneficio esclusivo dei diritti concessi ai cittadini. L’idea che “altri” possano approfittare di questi diritti – quel poco che si ha – diventa insopportabile, perché ne consegue che bisogna spartirli e dunque veder diminuita la parte di ciascuno. Si attua così un’affermazione di sé contro quelle persone considerate non appartenenti alla “nazione”, che si vorrebbero escluse dai diritti che si sta cercando di mantenere per sé, proprio mentre il potere e quelli che parlano in suo nome li rimettono in discussione. Sarebbe necessario, tuttavia, spingere più a fondo l’analisi e chiedersi se, ogni volta che si cerca di spiegare le ragioni per cui in un certo momento le classi popolari abbiano votato a destra, in realtà non si stia già presupponendo – senza interrogarsi mai su questo presupposto – che per esse sia naturale votare a sinistra. E questo a dispetto del fatto che non è, e non è mai stato, sempre così. Dopo tutto, anche quando il Partito comunista prosperava elettoralmente come il “partito della classe operaia”, solo il 30 per cento degli operai lo votava. Erano altrettanto numerosi, se non di più, gli operai che votavano per i candidati della destra rispetto a quelli che votavano per la sinistra in generale. E questo non riguarda solo il voto. Perfino le mobilitazioni operaie o popolari, le azioni comuni nel corso della storia poterono radicarsi a destra o, in ogni caso, voltare le spalle ai valori della sinistra: il movimento dei Jaunes, ad esempio, agli inizi del ventesimo secolo, o gli scontri razzisti nel Sud della Francia nello stesso periodo; o ancora gli scioperi contro l’assunzione degli operai stranieri53… Molti teorici di sinistra, e da molto 53   A proposito del razzismo e dell’antisemitismo degli ambienti popolari francesi (soprattutto di sinistra) e dei movimenti operai della sinistra cfr. Zeev Sternhell, La destra rivoluzionaria. Le origini francesi del fascismo, tr. it. di D. Spini, Milano Corbaccio, 1997 [La Droite révolutionnaire, 1885-1914, Paris, Fayard,

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tempo, hanno cercato di decodificare questi fenomeni. Basti pensare a Gramsci che, nei Quaderni dal carcere, si chiedeva perché alla fine della Prima guerra mondiale, quando sembrava che in Italia ci fossero le condizioni per una rivoluzione socialista e proletaria, quest’ultima non avvenga o, più precisamente, si produca sotto forma di una rivoluzione fascista. O ancora Wilhelm Reich che nel 1933, in Psicologia di massa del fascismo, cercò di spiegare i processi psichici che portarono le classi popolari a desiderare il fascismo. Per queste ragioni il nesso che sembra così evidente tra classe operaia e sinistra potrebbe non essere così naturale come lo si vorrebbe e dipende, in realtà, da una rappresentazione costruita storicamente da alcune teorie, come il marxismo, che hanno prevalso su altre teorie contrastanti plasmando la nostra percezione del mondo sociale, e le nostre categorie politiche.54 I miei genitori, così come gli altri membri della mia famiglia, si definivano di sinistra (“Noi siamo la sinistra…” li sentivo ripetere, come se non fosse nemmeno immaginabile un atteggiamento diverso), prima di votare, in modo discontinuo, per l’estrema destra e per la destra. I miei fratelli, così come altri parenti della loro generazione, rivendicano un’appartenenza alla destra – dopo aver votato a lungo per l’estrema destra – e non vedono perché questo dovrebbe suscitare stupore: il loro voto andò contro la sinistra non appena ebbero l’età per vo2000]. Cfr. soprattutto il cap. 4: “L’antisemitismo di sinistra”, e il cap. 6, “Una destra proletaria: i Jaunes”. Cfr., anche, Id. Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in Francia, tr. it. di M. G. Meriggi, Milano, Baldini&Castoldi, 1999 [Ni droite ni gauche. L’idéologie fasciste en France, Paris, Fayard, (1983), 2000]. 54   A proposito delle teorie che si opposero alla sinistra e al marxismo proponendo altri modelli per pensare la condizione operaia e il posto e il ruolo degli operai nella società, cfr. Z. Sternhell, La destra rivoluzionaria, cit., in particolare il cap. 9: “Alla ricerca di un consenso popolare: l’Action française e il proletariato”, pp. 387-445 [“A la recherche d’une assise populaire: l’Action française et le prolétariat”, pp. 349-396].

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tare. Intere regioni operaie, un tempo baluardi della sinistra e in particolar modo del Partito comunista, hanno assicurato e continuano ad assicurare una presenza elettorale significativa per l’estrema destra. Ho il forte timore che certi intellettuali che si riempiono la bocca con i “saperi spontanei” delle classi popolari corrano il rischio di trovarsi davanti a forti smentite e a cocenti delusioni. E più forte è l’entusiasmo con cui si esprimono a tal proposito, maggiore è la probabilità che non abbiano mai incontrato in vita loro qualcuno che proviene dalle classi popolari, se non leggendo testi del diciannovesimo secolo. Così facendo non dimostrano altro che il loro etnocentrismo di classe, e non fanno altro che proiettare il loro pensiero sulle persone che dicono di ascoltare attentamente. Se la sinistra vuole veramente comprendere i fenomeni che la portano alla rovina e sperare di contrastarli, deve assolutamente disfarsi di questo tipo di mitologie e di mistificazioni (che certi intellettuali si ostinano a trasmettere per farsi acclamare come i fautori di una nuova radicalità), così come deve assolutamente disfarsi delle derive neoconservatrici di cui si è parlato prima. Non esiste il “sapere spontaneo” dei dominati o, più precisamente, il “sapere spontaneo” non ha un significato fisso e legato a una certa forma di politica: la posizione degli individui nel mondo sociale e nell’organizzazione del lavoro non basta a determinare l’“interesse di classe” o la percezione di questo interesse, se poi i partiti e i movimenti non offrono come mediazione delle teorie attraverso le quali vedere il mondo. È questo tipo di teorie a dare forma e senso alle esperienze vissute in un determinato momento; e le medesime esperienze possono rivestire significati opposti a seconda delle teorie o dei discorsi verso i quali sono rivolte e accostate.55 55   Per una critica dell’“esperienza” come “evidenza” immediata e per un’analisi del ruolo dei discorsi e delle teorie politiche nel formarsi delle percezioni, delle pratiche e dei significati che rivestono, cfr. Joan W. Scott, The Evidence of Experience, in “Critical Inquiry”, Summer 1991.

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Per questo una filosofia della “democrazia” (di cui i suoi stessi autori si stupiscono di proporre un pensiero così “scandaloso”) che si accontenta di celebrare la presupposizione dell’“uguaglianza” di tutti con tutti e di ripetere che ogni individuo sarebbe dotato della stessa “competenza” rispetto agli altri non ha nulla a che vedere con un pensiero dell’emancipazione, nella misura in cui non s’interroga mai sulle modalità di formazione delle opinioni; né sul modo in cui gli effetti di questa “competenza” possano invertirsi completamente – nel bene e nel male – nella stessa persona o nello stesso gruppo sociale, a seconda dei luoghi e delle congiunture. E a seconda delle configurazioni discorsive, all’interno delle quali, ad esempio, gli stessi pregiudizi possono sia divenire la priorità assoluta, sia essere tenuti lontani dal registro politico.56 Non vorrei che mia madre o i miei fratelli – che tra l’altro non aspirano a tanto – fossero estratti a sorte per governare la polis, in nome della loro “competenza” uguale a quella di tutti gli altri: le loro scelte non sarebbero poi così diverse da ciò che esprimono attraverso il voto, con la differenza che potrebbero perfino essere maggioritari. E poco importa se le mie riluttanze irriteranno gli adepti di un ritorno alle origini ateniesi della democrazia. Perché se da un lato l’atteggiamento di questi ultimi può suscitare simpatia, sono estremamente preoccupato per le conseguenze che potrebbero derivarne.57 56   Su questo aspetto rinvio alle importanti osservazioni di S. Hall, in The Hard Road to Renewal Thatcherism and the Crisis of the Left, cit. 57   Per un elogio della “competenza” comune e dell’“estrazione a sorte”, come principio regolatore di un “potere del popolo” cfr. Jacques Rancière, L’odio per la democrazia, tr. it. di A. Moscati, Napoli, Cronopio, 2007 [La Haine de la démocratie, Paris, La Fabrique, 2005]. Rancière sembra aver vagamente consapevolezza del problema, senza mai formularlo (e a ragione! Ciò rimetterebbe in discussione molti dei suoi presupposti ideologici), dal momento che tutti gli esempi di espressioni democratiche che cita rinviano a ciò che lui definisce “lotte”, o “movimenti”, vale a dire manifestazioni collettive e organizzate dell’opinione dissidente. Questo significa che il “potere del popolo” come fondamento della democrazia non è mai quello degli

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Mi chiedo, d’altronde, come si possa prendere in considerazione l’esistenza pratica delle “classi sociali” e della conflittualità sociale, perfino della “guerra” oggettiva di cui ho parlato in un capitolo precedente, senza cadere nell’invocazione magico-mitica della “lotta delle classi”, esaltata da chi oggi invoca un “ritorno al marxismo”; come se le posizioni politiche derivassero in modo univoco e necessario dalle posizioni sociali e portassero ineluttabilmente a uno scontro cosciente e organizzato tra una “classe operaia”, uscita dalla sua “alienazione” e animata da un desiderio di socialismo, e la “classe borghese”. Con tutte le mistificazioni che simili nozioni reificate e tali rappresentazioni immaginarie implicano e con tutti i pericoli che esse rappresentano. Dovremmo piuttosto cercare di comprendere come e perché le classi popolari arrivino a pensare le loro condizioni di vita a volte come ancorate necessariamente a sinistra, altre volte come naturalmente inscritte a destra. Ci sono molteplici fattori da tenere in considerazione: senza dubbio la situazione economica, globale o locale, le trasformazioni del lavoro e dei tipi di rapporti tra gli individui – che sono profondamente modificati da queste trasformazioni – ma anche, e sarei tentato di dire soprattutto, il modo in cui i discorsi politici, le categorie discorsive arrivano a plasmare la soggettivazione politica. I partiti in questo caso giocano un ruolo importante, se non fondamentale, perché, come si è visto, attraverso la loro mediazione trovano espressione coloro che altrimenti non potrebbero farlo. Grazie all’azione dei portavoce che parlano per loro, nel senso di parlare in loro favore ma anche al loro posto.58 individui indifferenziati e intercambiabili: è sempre già inscritto in quadri sociali e politici eterogenei e conflittuali tra loro. Sono questi i quadri che una riflessione sulla democrazia deve porre al centro delle sue questioni e delle sue preoccupazioni. 58   La mediazione dei partiti, questo elemento cruciale, è assente nel modello di Sartre (che all’epoca del suo testo sul voto era sotto l’influenza dello spontaneismo di estrema sinistra). È sottolineato al contrario da Bourdieu nel suo articolo “Il

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È un ruolo fondamentale quello del partito, anche perché i discorsi organizzati producono le categorie di percezione, i modi di pensarsi come soggetto politico, e definiscono la concezione che poi si avrà dei propri “interessi” e delle scelte elettorali che ne deriveranno.59 Dobbiamo sempre riflettere su questa antinomia tra il carattere ineluttabile, per le classi popolari, della delegazione di sé – al di fuori dei rari momenti di lotta – e il rifiuto di lasciarsi spossessare da portavoce nei quali si finisce per non riconoscersi più, fino al punto di cercarne altri. Per questo è estremamente importante diffidare sempre dei partiti e della loro tendenza naturale a voler assicurare un’egemonia sulla vita politica, così come della tendenza naturale dei loro dirigenti a voler assicurare la loro egemonia su ciò che delimita il campo della politica legittima.60 Eccoci di nuovo alla questione di sapere chi ha diritto alla parola, chi prende parte, e in che modo, ai processi di decisione. Non solo all’elaborazione delle soluzioni, ma anche alla demistero del ministero. Dalle volontà particolari alla ‘volontà generale’”, in Loïc Wacquant (a cura di), Le astuzie del potere. Pierre Bourdieu e la politica democratica, tr. it. di A. De Giorgi e S. De Petris, Verona, Ombre Corte, 2005 [Le mystère du ministère. Des volontés particulières à la “volonté générale”, in “Actes de la recherche en sciences sociales”, n. 140, 2001, pp. 7-13]. 59   Concordo su questo punto con le analisi di Stuart Hall nel saggio “Gramsci e noi”, in G. Vacca, P. Capuzzo, G. Schirru (a cura di), Studi gramsciani nel mondo: gli studi culturali, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 67-82 [“Gramsci and Us”, in The Hard Road to Renewal, cit., pp. 163-173]. 60   Con il sostegno, ovviamente, degli intellettuali di partito e di governo, che intendono delimitare ciò che è politico e ciò che non lo è, ciò che è “democratico” e ciò che è “antidemocratico” e così via: tentativi che rappresentano il contrario di quello che dovrebbe essere il lavoro intellettuale – pensare il mondo sociale nella sua mobilità, invece di cercare di prescriverlo – e l’attività democratica, che non si lascia rinchiudere nei diktat di questi ideologi autoritari, legati a tecnocrazie e burocrazie, ovvero a istituzioni e poteri. A titolo di antidoto salvatore contro queste pulsioni antidemocratiche, si può leggere il libro di Sandra Laugier, Une autre pensée politique américaine. La démocratie radicale d’Emerson à Stanley Cavell, Paris, Michel Houdiard, 2004.

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finizione collettiva delle questioni che è legittimo e importante affrontare. Quando la sinistra si rivela incapace di organizzarsi in quanto spazio e crocevia in cui si formano le questioni ma si investono anche i desideri e le energie, sono la destra o l’estrema destra che arrivano ad accoglierle e ad attirarle. Ai movimenti sociali e agli intellettuali critici spetta innanzitutto il compito di costruire quadri teorici e modalità politiche di percezione della realtà, che permettano non di cancellare – lavoro impossibile – ma di neutralizzare al massimo le passioni negative che agiscono nel corpo sociale, in particolar modo nelle classi popolari. A essi spetta il compito di offrire altre prospettive e di delineare così un futuro per una sinistra che potrebbe, ancora una volta, dirsi tale.

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Quanto furono difficili i miei primi anni di liceo! Ero un allievo eccellente, ma sempre a un passo da un rifiuto totale dell’istituzione scolastica. Se l’istituto avesse accolto un numero maggiore di ragazzi provenienti dal mio stesso ambiente e non, come avvenne, provenienti dalla borghesia e dalla piccola borghesia, credo che mi sarei lasciato travolgere dall’ingranaggio dell’autoeliminazione. Partecipavo a tutte le cagnare, ero insolente, replicavo ai rimproveri dei professori e li prendevo in giro. Il mio modo di essere e di parlare, i miei comportamenti e le espressioni che utilizzavo mi facevano somigliare più a un bullo che a un allievo modello. Non mi ricordo più quale battutaccia rivolta a uno dei miei compagni di classe, figlio di un magistrato, mi valse questa risposta indignata: “Modera il tuo linguaggio!” Era sbalordito dalla crudezza verbale delle persone del popolo, non vi era abituato. Ma la sua reazione e il tono adottato, chiaramente attinti al repertorio linguistico della sua famiglia borghese, mi sembrarono grotteschi e rincarai la dose d’ironia e di brutalità. Una logica sociale implacabile mi trasformava in un personaggio che, ingenuamente, mi inorgogliva, e tutto mi portava a prediligere quello che era solo un ruolo assegnato in anticipo e correlato a una sorte programmata da sempre: l’uscita prematura dal sistema scolastico. In sixième un 137

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insegnante mi disse: “Lei non andrà oltre il primo anno di liceo.” Questo giudizio mi terrorizzò fino a quando non raggiunsi e superai questa classe. Ma tutto sommato quell’imbecille aveva dimostrato una certa lucidità: ero destinato a non andare più lontano, e sicuramente neanche ad arrivare fin lì. Ho ritrovato in Questa non è un’autobiografia, il breve libro che Pierre Bourdieu terminò e inviò al suo editore tedesco un mese prima di morire, un’immagine ingrandita di quello che avevo vissuto io. In questo testo, Bourdieu si descrive come un preadolescente e un adolescente in stato di “rivolta vicina a una sorta di delinquenza”61 ed evoca le “disavventure disciplinari”62 causate in continuazione da questo “furore testardo”63 che rischiò di provocargli l’esclusione dal liceo poco prima della maturità. Allo stesso tempo era un allievo eccezionale, impegnato nello studio, che amava passare ore intere a leggere in tranquillità, dimenticando allora le cagnare a cui non mancava mai di partecipare e gli schiamazzi di cui era spesso l’istigatore. Bourdieu qui non spinge l’autoanalisi abbastanza in profondità, ed è un peccato. Avverte all’inizio del libro che proporrà solo i “tratti che sono pertinenti dal punto di vista della sociologia” e “solo quelli”, necessari per comprenderlo e per comprendere la sua opera. Ma viene da chiedersi come possa decidere al posto dei lettori quali siano gli elementi di cui avrebbero bisogno per cogliere le disposizioni e i principi che presiedono alla nascita del suo progetto intellettuale e allo sviluppo del suo pensiero. E soprattutto resta l’impressione che gli elementi su cui pone l’accento, riguardo alla sua gioventù,   Pierre Bourdieu, Questa non è un’autobiografia. Elementi di autoanalisi, tr. it. A. Serra, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 91 [Esquisse pour une auto-analyse, Paris, Raison d’agir éditions, 2004, p. 123]. 62   Ivi, p. 89 [p. 121]. 63   Ivi, p. 91 [p. 123]. 61

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e il suo modo di metterli in risalto ci rinviino al registro della psicologia piuttosto che a quello della sociologia, come se si fosse trattato per lui di descrivere il suo – cattivo – carattere personale e non la logica delle forze sociali esercitatesi su di lui in quanto individuo. Scrive dunque con troppe riserve, troppi pudori – e senza dubbio la sua osservazione iniziale aveva la funzione di giustificare questo eccesso di prudenza. Non osa rivelarsi ulteriormente e le informazioni che fornisce sono frammentarie e sicuramente trascurano aspetti essenziali. Tace più cose di quante ne confessi. Non spiega, ad esempio, come arrivò a gestire questa tensione o questa contraddizione tra l’inettitudine sociale a conformarsi alle esigenze dell’istituzione scolastica e la voglia di imparare e di riuscire. Né come quest’ultima finì per prevalere sull’altra (di cui, più tardi, il suo modo di condurre la vita intellettuale conserverà nonostante tutto delle tracce evidenti, soprattutto nella sua inosservanza dichiarata delle regole dei convenevoli borghesi vigenti nella vita universitaria, che tendono a imporre a tutti – pena l’esclusione dalla “comunità accademica” – di sottomettersi alle norme istituite della “discussione scientifica”, quando ciò che è in gioco, in realtà, è piuttosto una battaglia politica). Non spiega come sormontò queste difficoltà e riuscì a mantenersi in un universo che rifiutava con tutto se stesso e in cui allo stesso tempo aspirava, più di ogni cosa, a rimanere (non si dipinge come “adattato tanto bene, paradossalmente, a quel mondo, pur profondamente detestato”?64). Proprio quest’ambivalenza gli permise di diventare quello che poi divenne, e animò tutto il suo progetto intellettuale e il suo approccio ulteriore: la rivolta – il “furore testardo” – continuata all’interno e per mezzo del sapere. Quella che Foucault definirà, a sua volta, l’“indocilità ragionata”. 64

  Ivi, p. 89 [p. 120].

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Non cita nessuno dei libri che leggeva, non ci dà alcuna informazione sulle persone che contarono per lui o che gli trasmisero il gusto della cultura, della riflessione, quando avrebbe potuto sprofondare in un rifiuto totale di entrambe. Rifiuto a cui sembravano destinarlo i valori popolari sportivi e maschilisti ai quali non ci nasconde di aderire pienamente, benché avesse rifiutato l’antintellettualismo di chi condivideva con lui questi stessi valori.65 Sottolinea, d’altronde, che vedeva scomparire dal mondo della scuola, uno dopo l’altro, anno dopo anno, gli allievi provenienti dal suo stesso ambiente sociale e che aderivano ai suoi stessi valori.66 Come e perché sopravvisse? Basta forse, dal momento che noi sappiamo chi è divenuto, raccontare in poche pagine rimandate alla fine del libro le scappatelle violente di gioventù opponendole al suo gusto altrettanto reale per gli studi, la lettura e il sapere? Il ritratto è incompleto, se vuole essere chiarificatore. E che dire poi della trasformazione che si produsse in lui nel corso degli anni, grazie alla quale il bambino proveniente da un villaggio del Béarn, sconcertato per “certi fatti di cultura” che scopriva a scuola, subì una metamorfosi in un allievo ammesso in una classe preparatoria parigina molto elitaria, e poi all’École Normale Supérieure di rue d’Ulm? In che modo e perché si produsse questa trasmutazione? E che dire del bilinguismo (il bearnese parlato con suo padre e il francese della scuola), che dire della correzione del suo accento una volta arrivato a Parigi (per un misto di vergogna sociale e geografica) – questo accento che risorgeva di tanto in tanto durante una conversazione? Che dire della sessualità? Forse l’eterosessualità è una condizione talmente evidente che sarebbe inutile mostrarla se non, in contrappunto, nella fugace evocazione di un allievo della sua classe che suonava il violino 65 66

  Ivi, pp. 93-94 [pp. 126-127].   Ivi, p. 93, [p. 126].

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e che, “riconosciuto come omosessuale”, dovette subire una vera e propria persecuzione da parte degli altri che in questo modo manifestavano di non esserlo, secondo un’opposizione molto classica tra esteti e atleti (quelli con cui Bourdieu giocava a rugby e che vedeva a poco a poco eliminati dal cursus scolastico)?67 E non posso fare a meno di pensare che Bourdieu sia rimasto in larga misura pensato e parlato dalle sue stesse modalità di percezione, o meglio dalle sue stesse disposizioni inscritte da così tanto tempo in tutto quello che lui era, nel passo in cui, in quello stesso libro, non è lontano dal designare peggiorativamente Foucault come un’“esteta”; un’etichetta che, secondo le polarità strutturanti che lui stesso inserisce nel suo capitolo finale, ci rinvierebbe all’opposizione tra “sportivi” e “omosessuali”, tra la squadra di rugby e l’appassionato di musica, e dunque a un certo inconscio sociale e sessuale di cui mi meravigliai con lui, quando mi fece leggere il manoscritto di questo libro, del fatto che non ne avesse percepito il carattere omofobo.68 E anche qui l’autoanalisi avrebbe meritato di essere approfondita. Nel punto in cui cerca di esplicitare come si situasse “oggettivamente e soggettivamente” rispetto a Foucault, Bourdieu sottolinea che aveva “in comune con lui quasi tutte 67   Sul legame tra i valori maschili dei ragazzi appartenenti agli ambienti operai o popolari – soprattutto il rifiuto dell’autorità e l’ostilità riguardo i buoni allievi giudicati “conformisti” – e l’eliminazione scolastica, e dunque l’assegnazione ai mestieri operai, cfr. Paul Willis, Learning to Labour. How Working Class Kids Get Working Class Jobs, Westmead (G.B.), Saxon House, 1977. 68   P. Bourdieu, Questa non è un’autobiografia, cit., pp. 79-80 [Esquisse pour une auto-analyse, cit., pp. 103-104]. Ho raccontato nel mio diario del 2004, quando il libro apparve in Francia, alcune delle molteplici conversazioni che ho avuto con lui su tutti questi argomenti e su altri, sia mentre lo scriveva sia quando me ne fece leggere il manoscritto. Cfr. Didier Eribon, Su questo istante fragile… Diario gennaioagosto 2004, tr. it. di F. Boccaccini e A. Romani, Roma, Homolegens, 2010 [Sur cet instant fragile… Carnets, janvier-août 2004, Paris, Fayard, 2004].

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le proprietà pertinenti”, precisando tuttavia: “Quasi tutte, perché due ci dividevano, e due hanno avuto, secondo me, un peso molto importante nel costituirsi del suo progetto intellettuale: apparteneva a una famiglia della buona borghesia provinciale ed era omosessuale.” E ne aggiunge una terza, ovvero “il fatto che era e si professava filosofo” – ma quest’ultima, precisa, “è solo un effetto delle precedenti”.69 Trovo molto giuste queste osservazioni, perfino incontestabili. Ma anche il contrario deve essere altrettanto vero: la scelta della sociologia per Bourdieu, e la fisionomia stessa della sua opera potrebbero perfettamente essere collegate alla sua origine sociale e alla sua sessualità. Lo si vede soprattutto dal giudizio che esprime in modo più generale sulla filosofia, contro la quale mobilita, in nome della sociologia e della “scienza”, un intero vocabolario strutturato mediante un’opposizione del maschile al femminile. Cosa di cui avrebbe dovuto essere cosciente, lui che aveva così magistralmente studiato queste polarità binarie sia nelle sue ricerche sulla Cabilia sia nella sua analisi del campo universitario e della sua divisione in discipline.70 Se per molti aspetti mi sono riconosciuto, alla fine del libro di Bourdieu, nella rievocazione della tensione, che marcò la sua gioventù, tra l’inattitudine al sistema scolastico e l’adesione sempre più marcata a quest’ultimo, ciò che distinse il mio percorso dal suo nei miei anni di liceo è che, nonostante qualche tentativo, nel primo periodo dell’insegnamento secondario, 69   P. Bourdieu, Questa non è un’autobiografia, cit., p. 77 [Esquisse pour une auto-analyse, cit., p. 101]. 70   Sulle categorie maschili – e di classe – all’opera nel discorso attraverso cui la sociologia si costituisce come “scienza” opponendosi alla filosofia, cfr. Geoffroy de Lagasnerie, L’inconscient sociologique. Émile Durkheim, Claude Lévi-Strauss et Pierre Bourdieu au miroir de la philosophie, “Les Temps modernes”, n. 654, 2009, pp. 98-108.

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per corrispondere al modello imposto dai valori incorporati dal mio ambiente sociale, questo non durò molto. Mi alleggerii molto presto dei giochi di ruolo dell’affermazione maschile (il temperamento rissoso, che non mi si addiceva affatto e che avevo ricalcato da quello di mio fratello maggiore e più in generale dagli uomini – ma anche dalle donne – della mia famiglia) per dissociarmi in modo sempre più marcato da questi modi d’essere caratteristici dei giovani delle classi popolari. Diciamo che, dopo aver iniziato a somigliare a quelli che nel racconto di Bourdieu fanno cagnara e rifiutano la cultura scolastica, mi sforzai di somigliare a quello che suona il violino, all’“esteta” che non vuole appartenere al gruppo degli “atleti”, benché mi dedicassi ancora assiduamente alla pratica sportiva (attività che abbandonai molto presto per corrispondere pienamente a come volevo essere, secondo l’immagine che adottai allora di come è e deve essere l’aspetto di un intellettuale, rimpiangendo perfino di aver irrobustito il mio corpo, anziché mantenerlo mingherlino e filiforme). Questo significa che scelsi la cultura contro i valori popolari virili. Perché è un vettore di “distinzione”, vale a dire di differenziazione di sé rispetto agli altri, una messa a distanza degli altri, l’istituzione di uno scarto con loro. L’adesione alla cultura costituisce spesso per un giovane gay, e soprattutto un giovane gay proveniente dagli ambienti popolari, il modo di soggettivazione che gli permetterà di sostenere e di dare un senso alla sua “differenza” e, di conseguenza, di costruirsi un mondo, di forgiarsi un ethos altro da quello che gli proviene dal suo ambiente di origine.71   Ho sviluppato questo punto in Riflessioni sulla questione gay, cit. e, in Une morale du minoritaire, cit. Questo uso specificamente gay della cultura manca nel modello proposto da Bourdieu, il quale fu immediatamente d’accordo con me su questo punto, quando gli feci quest’osservazione. Cfr. Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, tr. it. di G. Viale, Bologna, Il Mulino, 2001 [La Distinction. Critique sociale du jugement, Paris, Minuit, 1979]. 71

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L’apprendimento della cultura scolastica e di tutto ciò che essa esige fu per me lento e caotico: la disciplina che richiede, tanto del corpo quanto della mente, non ha nulla d’innato e ci vuole tempo per acquisirla, quando non si ha avuto la fortuna che intervenga sin dall’infanzia, senza neanche accorgersene. Per me fu una vera e propria ascesi: un’educazione di me stesso, o più esattamente una rieducazione che passava per il disimparare quello che ero. Quello che per gli altri era scontato dovetti conquistarmelo giorno dopo giorno, mese dopo mese, in un tipo di rapporto quotidiano al tempo, al linguaggio e agli altri, che avrebbe profondamente trasformato tutta la mia persona, il mio habitus, e mi avrebbe posto sempre più in contrasto con l’ambiente familiare che ritrovavo ogni sera. In termini più semplici: il tipo di rapporto con se stessi che impone la cultura scolastica si rivelò incompatibile con ciò che eravamo a casa; e la scolarizzazione riuscita stabilì in me, come una delle sue condizioni di possibilità, una frattura, perfino un esilio, sempre più marcati, che mi separavano a poco a poco dal mondo da cui venivo e in cui ancora vivevo. E come ogni esilio, conteneva una forma di violenza. Non la percepivo, poiché si esercitò su di me con il mio consenso. Non escludermi – o non essere escluso – dal sistema scolastico m’impose di escludermi dalla mia famiglia, dal mio universo. Tenere insieme le due sfere, appartenere armoniosamente a questi due mondi era impossibile. Per diversi anni dovetti passare da un registro all’altro, da un universo all’altro. Ma questo strappo tra le due persone in me, tra i due ruoli che dovevo recitare, tra le mie due identità sociali sempre meno legate l’una all’altra, sempre meno compatibili tra loro, produceva in me una tensione ben difficile da sopportare e, in ogni caso, fortemente destabilizzante. Entrare al liceo della città mi fece entrare in contatto diretto con i figli della borghesia (e soprattutto i suoi figli maschi, 144

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poiché gli istituti scolastici avevano appena cominciato a essere misti). Il modo di parlare, i vestiti indossati e soprattutto la familiarità degli altri ragazzi della mia classe con la cultura – intendo con la cultura legittima –, tutto mi ricordava che ero una specie d’intruso, qualcuno che non era al posto suo. La lezione di musica costituiva forse il test più insidioso ma il più brutale della padronanza o no di ciò che s’intende per “cultura”, della relazione di evidenza o di estraneità che s’intrattiene con essa: il professore arrivava con dei dischi, ci sottoponeva a un ascolto interminabile di estratti di opere e, se gli allievi della borghesia a questo punto mimavano la fantasia ispirata, quelli delle classi popolari si scambiavano in sordina delle battute idiote oppure non potevano trattenersi dal parlare a voce alta o dallo scoppiare a ridere. Tutto cospira, dunque, a insediare un sentimento di non appartenenza e di esteriorità nella coscienza di coloro che incontrano delle difficoltà a piegarsi a queste ingiunzioni sociali che il sistema scolastico, attraverso ciascuno dei suoi ingranaggi, rivolge ai suoi utenti. In realtà, le vie che mi si presentavano erano due: proseguire questa resistenza spontanea, non tematizzata in quanto tale, che si esprimeva in un insieme di atteggiamenti reticenti, di disadattamento, d’inadeguatezza, di repulsione e di sogghigni, di rifiuti ostinati, e finire per ritrovarmi espulso senza troppo clamore da questo sistema (come molti altri ma, in apparenza, come una semplice conseguenza del mio comportamento individuale); oppure piegarmi a poco a poco alle esigenze della scuola, adattarmi a essa, accettare le sue richieste, e arrivare così a mantenermi all’interno delle sue mura. Resistere significava perdermi. Sottomettermi, salvarmi.

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Al liceo, all’età di tredici o quattordici anni strinsi una forte amicizia con un ragazzo della mia classe, figlio di un professore della neonata università di Reims. Non sarebbe un’esagerazione dire che ero innamorato di lui. Lo amavo come si ama a questa età. Ma poiché eravamo due ragazzi, mi era ovviamente impossibile esprimergli i sentimenti che provavo nei suoi confronti (è una delle difficoltà più traumatiche dell’attrazione omosessuale durante l’adolescenza – o in altri momenti della vita, d’altronde: non si può esprimere ciò che si prova per qualcuno dello stesso sesso, e questo spiega la necessità di luoghi d’incontro dove è chiaro che le leggi dell’evidenza sono state ribaltate, non appena se ne conosce l’esistenza e si ha l’età per frequentarli). Ho scritto “impossibile esprimergli” questi sentimenti. Certamente. Ma, prima di tutto, formularli in questi termini a me stesso. Ero ancora troppo giovane, e tutta la cultura era – lo è ancora ampiamente – organizzata in modo tale che a questa età non si disponesse di riferimenti, d’immagini, di discorsi per comprendere e dare un nome a questo attaccamento affettivo così intenso, se non attraverso le categorie dell’“amicizia”. Un giorno in cui il professore di musica chiese agli allievi di riconoscere un pezzo che stava per mettere, rimasi stupefatto nel vedere questo ragazzo alzare la 147

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mano dopo qualche istante e annunciare trionfalmente: “Una notte sul Monte Calvo di Musorgskij!” E io, che consideravo semplicemente ridicola questa lezione, insopportabile questo tipo di musica, che non mi facevo mai mancare un’occasione per ridacchiare, ma che più di ogni altra cosa volevo piacergli, fui disarcionato da questa scoperta: conosceva e apprezzava qualcosa che ai miei occhi poteva essere solo oggetto di ilarità e rifiuto; una cosa che a casa chiamavamo la “gran musica” quando capitavamo su una radio che la trasmetteva, e che ci precipitavamo a spegnere dicendo: “Non siamo a messa.” Aveva un bel nome. Io un nome banale. Questo simbolizzava in qualche modo lo scarto sociale tra lui e me. Abitava con la sua famiglia in una grande casa situata in un quartiere ricco, vicino al centro della città. Andare a casa sua m’impressionava e mi metteva in soggezione. Non volevo che capisse dove abitavo: in un nuovo agglomerato di palazzi popolari in periferia. Restavo evasivo quando mi faceva domande al riguardo. Eppure un giorno, sicuramente mosso dalla curiosità di sapere dove e come vivessi, mi suonò alla porta, senza avermi avvisato prima. Mi sentii mortificato, nonostante la gentilezza che questo gesto esprimeva, e che avrei dovuto considerare come il suo modo per farmi sapere che non c’era motivo di vergognarsi. Aveva fratelli e sorelle più grandi che studiavano a Parigi e, in virtù dell’ambiente familiare in cui era immerso, nei suoi discorsi sciorinava nomi di registi e scrittori: mi parlava dei film di Godard, dei romanzi di Beckett… Rispetto a lui mi sentivo molto ignorante. M’insegnava tutte queste cose e soprattutto la voglia di apprenderle. Ero affascinato e desideravo somigliargli. E mi misi a parlare anch’io di Godard, di cui non avevo visto nulla, e di Beckett, di cui non avevo letto nulla. Ovviamente era un buon allievo e non perdeva mai un’occasione per rivendicare una distanza da conoscitore, rispetto al mondo della scuola; io provavo a recitare la stessa parte, ma senza avere le stesse carte. 148

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Imparai a barare. Mi attribuivo delle conoscenze che non avevo. Che importanza poteva avere la verità? Contavano solo le apparenze e l’immagine che mi ostinavo a fabbricare e a dare di me stesso. Arrivai fino al punto d’imitare la sua grafia, e ancora oggi le lettere che scrivo sono una delle vestigia di questa relazione di un tempo. Una relazione che, d’altronde, durò molto poco. Lo persi di vista presto. Era la fine degli anni sessanta e quell’epoca impresse nelle nostre giovani menti un’impronta profonda ma radicalmente diversa. Lui lasciò il liceo, molto prima di passare l’esame di maturità, e partì on the road. Leggeva Kerouac, gli piaceva suonare la chitarra, si riconosceva nella cultura hippie… Io rimasi profondamente segnato dal Maggio ’68 e dalla rivolta politica: nel 1969 divenni – avevo appena sedici anni – un militante trotzkista, attività che negli anni successivi occupò la maggior parte della mia esistenza. Lo restai all’incirca fino all’età di vent’anni, e questo mi portò a leggere con devozione Marx, Lenin e Trockij. Fu un’esperienza intellettuale decisiva, poiché mi orientò alla filosofia. L’influenza di quest’amicizia e l’aiuto che, senza rendersene conto, questo ragazzo mi diede furono determinanti: il mio habitus di classe mi portava, all’inizio, a resistere alla cultura della scuola, al tipo di disciplina che esige. Ero turbolento, indisciplinato e sarebbe bastato un niente per far sì che delle forze inarrestabili mi facessero deviare verso un rifiuto completo. Lui era l’opposto: la cultura era il suo mondo, da sempre. Scriveva racconti di genere fantastico. Volevo seguirlo su questa via, e mi misi a scrivere anch’io. Aveva scelto uno pseudonimo. Decisi di scegliermene uno anch’io. Quando glielo rivelai mi prese in giro, perché il mio era inventato di sana pianta (lambiccato e stravagante), mentre il suo era formato, mi disse in modo secco, dal suo secondo nome e dal cognome da ragazza di sua madre. Non potevo competere con lui. Ero incessantemente rinviato alla mia inferiorità. Era crudele e offensivo senza vo149

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lerlo e senza saperlo. In seguito ho incontrato spesso situazioni analoghe: quando l’ethos di classe è alla base di comportamenti e di reazioni che non sono altro che l’attualizzazione di strutture e di gerarchie sociali. L’amicizia non sfugge alle leggi della gravità storica: due amici sono due storie sociali che cercano di coesistere, e a volte nel corso di una relazione, per quanto stretta possa essere, sono due classi che si urtano l’una contro l’altra, per un effetto d’inerzia degli habitus. Gli atteggiamenti, le frasi non hanno bisogno di essere aggressivi nel senso forte del termine, né intenzionalmente offensivi, per esserlo ugualmente. Ad esempio, quando si cresce in ambienti borghesi o semplicemente nella media borghesia, spesso si presume di essere circondati da propri simili. Proprio come gli eterosessuali, che parlano sempre degli omosessuali senza immaginare che le persone a cui si rivolgono potrebbero appartenere alla specie stigmatizzata che stanno prendendo in giro o denigrando, allo stesso modo i membri della borghesia parlano alle persone che frequentano come se avessero attraversato da sempre le loro stesse esperienze esistenziali e culturali. Non si rendono conto di aggredirvi con queste supposizioni (anche se questo vi lusinga e suscita in voi, visto che ci è voluto talmente tanto tempo per riuscirci, l’orgoglio di “passare” per quello che non siete: un figlio della borghesia). A volte succede anche con gli amici più cari, quelli di vecchia data, i più fidati: quando mio padre morì, uno dei miei amici a cui dissi che non avrei assistito al funerale ma che, tuttavia, sarei dovuto andare a Reims per vedere mia madre, mi fece questo commento: “Sì, a ogni modo è necessario che tu sia presente per l’apertura del testamento dal notaio.” Questa frase, pronunciata con l’aria di una tacita evidenza, mi ricordò fino che punto le parallele non si toccano mai, neanche in una relazione d’amicizia. L’“apertura del testamento”! Santi numi! Quale testamento? Come se nella mia famiglia ci fosse l’usanza di redigere dei testamenti e di registrarli 150

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dal notaio. Per tramandare cosa poi? Nelle classi popolari non ci si trasmette nulla di generazione in generazione, né valori né capitali, né case né appartamenti, né mobili antichi né oggetti preziosi72… I miei genitori non avevano niente, a parte una misera somma accumulata con fatica, anno dopo anno, su un libretto di risparmio. E in ogni caso, mia madre riteneva che le appartenesse, perché si trattava di ciò che lei e mio padre avevano messo da parte insieme, prelevando dai rispettivi redditi delle somme di cui avrebbero potuto aver bisogno. L’idea che questi soldi, i loro soldi, potessero andare a qualcuno che non fosse lei, sia pure ai suoi figli, le appariva ingiusta e insopportabile. “Spetta comunque a me! Ce ne siamo privati per tenerli in caso di necessità!” esclamò indignata quando la banca le disse che le poche migliaia di euro presenti sul loro conto in comune dovevano essere divise tra i figli e che a lei spettava solo una piccola parte. Ci dovette chiedere di firmare un foglio che le lasciava il beneficio di questa “eredità”. Resta il fatto che questo ragazzo frequentato brevemente al liceo mi trasmise il gusto per i libri, un rapporto differente con la scrittura, un’adesione al culto letterario o artistico che all’inizio furono solo recitati e che divennero ogni giorno un po’ più reali. In fondo era l’entusiasmo che contava; e il desiderio di scoprire tutto. Il contenuto venne dopo. Grazie a quest’amicizia, il mio rifiuto spontaneo – vale a dire il frutto della mia origine sociale – della cultura scolastica non sfociò in un rifiuto della cultura in assoluto, ma si tramutò in una passione per tutto ciò che si avvicinava all’avanguardia, alla radicalità, all’intellettualismo (fui sedotto da Duras e Beckett, ma Sartre e Beauvoir si disputarono ben presto la supremazia nel mio cuore e, visto che dovevo scoprire da solo questi autori e le 72



R. Hoggart lo sottolinea in 33 Newport Street, cit.

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loro opere, spesso li sceglievo perché vedevo il loro nome alla fine di una petizione, soprattutto durante e dopo il Maggio ’68. Fu così che comprai Distruggere, lei disse nel 1969, quando uscì con la copertina che mi sembrò magica delle Éditions de Minuit. E fu così che poi mi entusiasmai per Memorie d’una ragazza perbene di Beauvoir). Passavo, così, senza soluzione di continuità dalle mie letture infantili – la serie della Banda dei cinque, di cui ogni volume mi aveva ammaliato prima del mio ingresso al liceo – alla scoperta entusiasta della vita letteraria e intellettuale contemporanea. Camuffavo la mia mancanza di cultura, la mia ignoranza dei classici, il fatto che non avevo letto quasi niente di tutto quello che gli altri avevano letto alla mia età – Guerra e pace, I miserabili, ecc. – con un atteggiamento sprezzante, di superiorità nei loro confronti, prendendo in giro il loro conformismo: loro mi trattavano da snob, cosa che, ovviamente, mi faceva piacere. M’inventavo una cultura e allo stesso tempo una personalità e un personaggio. Che ne è stato della persona a cui devo così tanto? Non ne ho avuto idea fino a quando, qualche mese fa, ho fatto una ricerca su internet. Abitiamo nella stessa città ma viviamo su pianeti differenti. Ha continuato a interessarsi di musica e a quanto pare ha acquisito una certa notorietà nel mondo della canzone realizzando gli arrangiamenti di diversi dischi di successo. Nessun rimpianto, dunque: trascorsi gli anni dell’amicizia adolescenziale, che cosa ci saremmo potuti dire? Questa relazione, in fondo, non durò che tre o quattro anni. E ho il sentore che per lui non rivestì la stessa importanza che ebbe per me. Anche le mie scelte scolastiche portarono il marchio dell’ambiente povero da cui provenivo. Non avevamo nessuna delle informazioni necessarie sugli indirizzi da prediligere in quanto più prestigiosi: scelsi l’indirizzo letterario, quando sarebbe stato preferibile quello scientifico (che all’epoca costi152

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tuiva l’élite: ma avevo smesso di studiare la matematica dalla troisième e in fondo erano le lettere ad attirarmi). In quatrième abbandonai lo studio del greco antico (in cui avevo eccelso in sixième) e in cinquième, convincendomi che non mi sarebbe servito a niente e conservai solo il latino, il cui interesse mi apparve sempre meno evidente. Ma fu soprattutto perché il ragazzo di cui ho parlato aveva scelto di abbandonarlo, e facevo miei i suoi giudizi su ciò che bisognasse o non bisognasse fare, preoccupandomi, più di ogni cosa, di restare nella sua stessa classe. Contrariamente a colui che mi faceva da guida, stavolta, come seconda lingua viva scelsi lo spagnolo al posto del tedesco, a cui si orientavano i figli della borghesia o di professioni intellettuali. Il corso di spagnolo riuniva gli allievi più deboli del liceo dal punto di vista scolastico, e soprattutto quelli che venivano dagli ambienti meno agiati – questi due fattori erano statisticamente collegati – e questa scelta, che dunque non era tale, prefigurava in realtà un’eliminazione diretta più o meno a lungo termine o una relegazione in uno degli indirizzi meno prestigiosi, nati dalla “democratizzazione”, che fornirono la dimostrazione eclatante che tale democratizzazione era in gran parte una trappola. Ovviamente io ignoravo tutto questo. Mi lasciavo guidare dai miei gusti e dai miei disgusti. Ero attirato dal Sud, dalla Spagna, e volevo imparare lo spagnolo (mia madre me lo ha ricordato proprio recentemente, quando l’ho presa in giro per le sue fantasie biologiche riguardo l’Andalusia: “Ma se anche tu parlavi solo della Spagna quando eri giovane, eppure non ci eri mai andato. Ci dovrà pur essere una ragione”). La Germania e la lingua tedesca m’ispiravano un’avversione profonda, perfino una repulsione. Da questo punto di vista ero nietzschiano ancor prima di aver letto Nietzsche e di conoscere Ecce homo e Il caso Wagner: il Mediterraneo come orizzonte, il caldo contro il freddo, la leggerezza contro la pesantezza, la vivacità contro la serietà. La 153

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gioia del mezzogiorno contro la tristezza della sera. Credevo di scegliere mentre in realtà ero scelto, o piuttosto attirato da ciò che mi aspettava. Me ne accorsi quando un professore di lettere che s’interessava ai miei studi mi fece notare che la scelta dello spagnolo m’inseriva in un indirizzo di secondo ordine e mi costringeva a vegetare in mezzo ai peggiori allievi del liceo. A ogni modo lo capii molto presto: era la via seguita da quelli che mi somigliavano socialmente, ma ai quali non somigliavo scolasticamente (questo significa che un figlio delle classi popolari, anche quando è un allievo brillante, probabilmente prende la strada sbagliata e segue i percorsi meno prestigiosi, trovandosi quindi sempre al di fuori e al di sotto delle vie dell’eccellenza, che sono tanto sociali quanto scolastiche). Arrivai così all’ultimo anno di liceo –­ la terminale – nell’indirizzo letterario. L’insegnamento della filosofia si rivelò, ahimè, deprimente fino all’assurdo: un professore spento, eppure giovane visto che aveva appena ottenuto il primo grado di abilitazione, che affrontava gli argomenti del programma dettandoci un corso scrupolosamente diviso in paragrafi: “Primo paragrafo, la tesi di Bergson, secondo paragrafo, la tesi di…” Su ogni argomento ci leggeva delle schede e proponeva degli insipidi riassunti di dottrine e opere che probabilmente lui stesso conosceva solo attraverso i manuali scolastici. Non si problematizzava nulla. Tutto era privo di interesse ed era pertanto impossibile interessarvisi. Apprezzava e consigliava ai suoi allievi dei libri ridicoli (prestò ad alcuni di noi Il mattino dei maghi di Louis Pauwels e altre idiozie di questo tipo!). Io ardevo dalla voglia di essere iniziato al pensiero e alla riflessione. Ero pronto all’entusiasmo, e la più piatta routine professorale arrivò come una doccia sui miei fervori. Era sufficiente a far venire il disgusto per la filosofia. Non ebbi la fortuna di avere uno di quei professori le cui parole fanno vibrare la classe e di cui ci si ricorda per tutta la vita; che fanno conoscere autori di cui 154

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ci si mette a divorare le opere. No, niente, eccetto la noia e il grigiore. Così saltavo le sue lezioni tutte le volte che potevo. La filosofia per me era il marxismo e gli autori citati da Marx. Attraverso Marx mi appassionai alla storia del pensiero filosofico. Leggevo molto ed ebbi di conseguenza un ottimo voto al baccalauréat. Fu lo stesso per le altre materie (in storia mi interrogarono su Stalin: ero trotzkista, sapevo tutto!): superai l’esame senza alcun problema, perfino con molta facilità. Per i miei genitori fu un avvenimento quasi inimmaginabile. Rimasero sbalorditi. Mi volevo iscrivere alla facoltà di lettere e scienze umane. Bisognava scegliere una materia ed esitai tra l’inglese e la filosofia. Optai per la filosofia, che corrispondeva di più all’immagine che avevo di me stesso e che ormai stava occupando la mia vita e forgiando la mia persona. A ogni modo mi sentivo lusingato dalla mia scelta. Divenire “studente di filosofia” mi rendeva ingenuamente felice. Non sapevo niente delle classi preparatorie alle grandes écoles,73 delle hypokhâgnes e delle khâgnes,74 né delle Écoles Normales Superieures, al cui concorso di ammissione queste classi davano accesso. Quando ero in terminale ignoravo perfino la loro esistenza. La conoscenza di questi corsi (oltre all’accesso alle istituzioni scolastiche più prestigiose) era riservata (oggi forse anche di più) agli allievi non provenienti dalle classi popolari. Il problema per me non   Secondo la definizione del ministero dell’educazione nazionale francese, le grandes écoles sono degli “istituti d’insegnamento superiori che ammettono i loro allievi attraverso un concorso e assicurano una formazione di alto livello”. I concorsi di ammissione alle grandes écoles più prestigiose sono molto selettivi e di fatto sono riservati agli allievi delle “classi preparatorie” post-baccalauréat, che hanno il compito di preparare, in due o tre anni, gli studenti a questo concorso di ammissione. (N.d.T.) 74   La classe preparatoria letteraria (AL) prepara in due anni al concorso delle prestigiose Écoles Normales Superieures, è chiamata hypokhâgne il primo anno e khâgne il secondo. (N.d.T.) 73

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si pose neanche. E quando ne sentii parlare, una volta entrato all’università, mi percepii – che innocenza! – superiore a loro che, cosa così strana ai miei occhi, continuavano gli studi all’interno di un liceo dopo aver ottenuto il baccalauréat, quando per me andare all’università sembrava essere l’aspirazione di ogni studente. Ancora una volta l’ignoranza delle gerarchie scolastiche e l’assenza di dimestichezza con i meccanismi di selezione portano a fare le scelte più controproducenti, a prediligere i percorsi condannati, perfino meravigliandosi di avere accesso a ciò che è evitato con cura da quelli ben informati. Le classi svantaggiate, infatti, credono di accedere a ciò da cui prima erano escluse; ma, non appena vi accedono, queste posizioni hanno perso il posto e il valore che avevano in precedenza. La relegazione si opera più lentamente, l’esclusione si produce più tardivamente, ma lo scarto tra i dominanti e i dominati resta intatto: si riproduce spostandosi. È ciò che Bourdieu chiama la “traslazione della struttura”.75 Ciò che è stato definito con il termine “democratizzazione” è una traslazione all’interno della quale la struttura, al di là delle apparenze di cambiamento, si perpetua e si mantiene, praticamente con la stessa rigidità di un tempo.

  P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, cit., p. 162 e segg. [La Distinction. Critique sociale du jugement, cit., p. 145 e segg.]. 75

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Avevo appena iniziato l’università quando mia madre, un giorno, mi disse con il tono di chi ha riflettuto a lungo prima di comunicare una decisione: “Possiamo pagarti due anni alla fac, ma dopo ti toccherà lavorare. Due anni, è già tanto.” Ai suoi occhi (come a quelli di mio padre) proseguire gli studi all’università fino a vent’anni era un gran privilegio. Non ero ancora pienamente consapevole del fatto che gli studi letterari in un’università di provincia non erano altro – o poco più – che un ghetto. Ma almeno sapevo che il tempo era troppo poco per permettermi di trovare uno sbocco professionale, perché erano necessari tre anni per ottenere la licence, quattro per la maîtrise.76 I nomi di questi titoli mi sembravano meravigliosi. Ignoravo che avevano già iniziato a perdere quasi ogni valore. Ma dal momento che volevo diventare professore in un liceo, dovevo ottenerli per poter passare i concorsi di abilitazione dell’insegnamento secondario, il CAPES e l’agrégation.77 E poi non potevo lasciare l’università così presto perché mi ero appassionato   Corrispettivi della laurea triennale e della laurea magistrale. (N.d.T.) Sia il CAPES (Certificat d’Aptitude au Professorat de l’Enseignement du Second degré) sia l’agrégation consentono di insegnare nei licei, ma il secondo, più prestigioso e difficile da passare, è legato a un salario più alto e a un minor carico di ore di lezione. (N.d.T.) 76 77

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alla filosofia. Non quella, ovviamente, polverosa e soporifera che m’insegnavano. Ma quella che m’insegnavo da solo, ormai soprattutto Sartre e Merleau-Ponty. Mi appassionavano anche i marxisti umanisti dei paesi dell’est, in particolar modo Karel Kosík, di cui la Dialettica del concreto esercitava su di me una strana seduzione: non ricordo nulla di questo libro se non che mi piaceva così tanto che in due o tre anni lo lessi e lo rilessi più volte dall’inizio alla fine. Apprezzavo anche Storia e coscienza di classe del primo Lukács (mi faceva vomitare il secondo, quello degli anni cinquanta, a causa dei suoi attacchi staliniani contro Sartre e l’esistenzialismo nella Distruzione della ragione), Karl Korsch e altri autori che difendevano un marxismo aperto, non dogmatico, come Lucien Goldmann, sociologo oggi ingiustamente dimenticato, ma all’epoca molto importante; i suoi Il dio nascosto e Scienze umane e filosofia mi apparvero come vette di sociologia della cultura… Riempivo le mie dissertazioni di riferimenti a questi autori, cosa che sarà parsa inadeguata ai professori reazionari per i quali le scrivevo (due di loro avevano appena scritto a quattro mani un libro intitolato: Un crime. L’avortement),78 i quali, nonostante fossero persuasi che io fossi di gran lunga, come mi rivelò uno dei due, il migliore studente che avessero mai avuto, me le restituivano con dei commenti che esaltavano “l’originalità della mia riflessione” ma dei voti che non superavano ma i 10/20. Ero abbonato a questo 10, che saliva a volte fino a 12 quando facevo il loro gioco citando, in misura maggiore o minore, Lavelle, Nédoncelle, Le Senne o qualcun altro dei loro autori prediletti… Potevo brillare solo negli scritti di storia della filosofia, anche se il Platone o il Kant di cui parlavo erano per loro sempre troppo influenzati dall’interpretazione dei pensatori a cui mi ispiravo.

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Alla lettera “L’aborto, un crimine”. (N.d.T.)

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Quando si entrava in questo dipartimento di filosofia, in cui regnava un torpore demotivante e avvilente, in totale contrasto con l’animazione che caratterizzava gli altri settori della facoltà, ci si trovava in un universo chiuso da cui i rumori e i colori della realtà esterna sembravano essere stati banditi. Il tempo sembrava fissato in un’eternità immobile: qui, il Maggio ’68 non era esistito, né la critica sociale, politica, teorica che aveva accompagnato e seguito questo grande movimento di rivolta. Aspiravo ad apprendere e a scoprire il pensiero del passato e del presente, a cogliere il loro rapporto con il mondo intorno, ed ecco che eravamo afflitti da piatte e ridondanti spiegazioni di autori e di testi che sarebbe bastato leggere da soli, per comprenderli meglio di quelli pagati per esporceli. Tutto questo trasudava ottusità scolastica, nel senso più triste e desolante del termine. All’epoca, in Francia, le università spuntavano ovunque, e penso che non si prestasse troppa attenzione alla qualità di chi veniva nominato insegnante. Ciò si rivelò controproducente: con il passare dei mesi il numero di studenti diminuiva fortemente, e alla fine del primo anno rischiai anch’io di farmi trascinare da quest’ondata di diserzione. Era, d’altronde, l’amplificazione di un fenomeno più generale, dal momento che questa stessa sorte aspettava al varco, in tutte le discipline, una buona parte degli studenti provenienti dalle classi popolari che erano riusciti a sopravvivere fin là: dopo le sollecitazioni del liceo si ritrovavano abbandonati a loro stessi e non arrivavano a darsi delle regole per organizzare lo studio. E dal momento che non c’era una pressione dell’ambiente familiare che li spingesse a continuare, semmai il contrario, la macchina dell’eliminazione si attivava velocemente, con la forza centrifuga del disinteresse e della rinuncia. Attraversai un periodo d’incertezza: alla fine del primo anno passai gli esami giusto alla sezione di recupero, a settembre. Ciò mi diede una scossa. Decisi di perseverare. Ma nei confronti dei 159

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professori di cui ho appena parlato, incarnazioni caricaturali di una certa mediocrità universitaria, provavo sentimenti che mi piaceva immaginare simili a quelli descritti da Nizan nel suo libro sui maestri della Sorbona negli anni venti e trenta: una rabbia davanti ai “cani da guardia” della borghesia. Tuttavia le due cose non avevano niente a che vedere: i filosofi con cui Nizan se la prendeva con tanta durezza erano tutti menti brillanti ed eminenti professori. Si rivolgevano ai giovani della classe dominante e s’ingegnavano a confermare in loro una visione del mondo favorevole al mantenimento dell’ordine costituito. Ma i miei! Ripetitori senza talento di una cultura che si accanivano a rendere inutile svuotandola di qualsiasi sostanza, erano inetti a conservare qualsiasi cosa, dal momento che non trasmettevano niente ai loro allievi che, in ogni caso, non avevano alcuna possibilità di accedere un giorno a posizioni di potere. Niente! Eccetto – nonostante loro e contro di loro – il desiderio, in alcuni dei loro studenti, di voltarsi altrove e di leggere altro. Naturalmente il mio orizzonte intellettuale era totalmente estraneo ai miei professori e questo dava luogo a scene grottesche, come il giorno in cui, dopo aver citato Freud in una relazione orale, mi si obiettò che “riduceva tutto ai più bassi istinti dell’uomo”; o il giorno in cui, dopo aver citato Simone de Beauvoir, fui interrotto dallo stesso insegnante ultracattolico, che regnava sul dipartimento di filosofia, con un secchissimo: “Lei sembra ignorare che la signorina de Beauvoir ha mancato di rispetto a sua madre,” allusione, immagino, al suo testo al contrario così bello, Una morte dolcissima, in cui Beauvoir (“Signorina!” risi per mesi di questo modo di chiamarla) racconta la morte, e anche la vita, di sua madre. Avevamo dei corsi su Plotino e Maine de Biran (non capivo niente e faticavo a trovarvi il minimo interesse), ma mai su Spinoza, Hegel o Husserl, che sembravano non essere esistiti. 160

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Quanto alla “filosofia contemporanea” non andava più in là dell’esistenzialismo (che uno degli insegnanti affrontava in un corso molto scolastico, ma ben documentato, su “Bergson e l’esistenzialismo”, in cui mostrava tutto ciò che Sartre doveva al bergsonismo). Durante i quattro anni passati in questo dipartimento non sentii mai parlare di Lévi-Strauss, Dumézil, Braudel, Benveniste, Lacan… la cui importanza era riconosciuta da moltissimo tempo. Né, è inutile dirlo, di autori quali Althusser, Foucault, Derrida, Deleuze, Barthes, che avevano già raggiunto una grande notorietà. Ma quello avveniva a Parigi, e noi eravamo a Reims. Sebbene ci trovassimo solo a centocinquanta chilometri dalla capitale, ci separava un abisso dalla vita intellettuale che in quel momento si stava reinventando con un’intensità senza eguali dal periodo del dopoguerra. In fondo gli entusiasmi filosofici della mia gioventù, ne sono perfettamente consapevole, erano legati alla mia situazione provinciale e alle mie origini di classe. Quello che io vivevo come la scelta di un tipo di pensiero filosofico, in realtà era dettato dalla mia posizione sociale. Se avessi studiato a Parigi, o mi fossi trovato a una distanza minore dai centri in cui si elaboravano – e si celebravano – le nuove vie del pensiero e della teoria, le mie scelte sarebbero cadute su Althusser, Foucault o Derrida e non su Sartre. Lo avrei guardato con sdegno, come avveniva di regola, lo scoprii un po’ più tardi, negli ambienti parigini, in cui gli si preferiva Merleau-Ponty, giudicato più serio perché meno famoso nel “secolo” (Althusser lo sottolinea nella sue memorie postume). Eppure io sono convinto, ancora oggi, che Sartre sia un pensatore molto più potente e molto più originale di Merleau-Ponty, che era piuttosto un professore, un universitario molto classico, che d’altronde si ispirò per molto tempo alle idee di Sartre, prima di rompere con lui. Mi sarei preoccupato, in generale, di seguire le produzioni più avanzate della modernità intellettuale. Ma in quel momento e in quel 161

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luogo io non avevo altro dio che Sartre. Per me era veramente Santo Sartre. Retrospettivamente, non mi pento di questo entusiasmo passato. Preferisco essere stato sartriano che althusseriano. D’altronde, dopo un lungo periodo di rottura con questi primi amori intellettuali, le mie tendenze “esistenzialiste” sarebbero poi riemerse nello sviluppo della mia opera, nella quale il riferimento a Sartre si sarebbe intrecciato con le mie letture successive di Foucault e di Bourdieu. Ma per continuare a interessarmi a questo pensatore che mi affascinava era necessario che mi mantenessi. Molti studenti portavano avanti, parallelamente, un’attività lavorativa con cui provvedevano ai propri bisogni. E non avevo altra scelta se non di rassegnarmi a essere uno di loro, se volevo evitare che le mie aspirazioni alla vita intellettuale si distruggessero contro il muro di un principio di realtà – economica – che mi era ricordata quasi ogni giorno dalla mia famiglia. Fu un colpo di fortuna ad abolire la necessità. Non so come fui messo al corrente di questa possibilità, né come mi venne l’idea di provarci. Resta il fatto che, alla fine del mio secondo anno d’università, m’iscrissi come candidato e passai le prove dell’IPES (che dovrebbe significare “Istituto pedagogico dell’insegnamento secondario”, ma non ne sono poi così sicuro). Lo scritto consisteva in una dissertazione generale e in un commento a un testo. Oggi non sarei in grado di dire quel era l’oggetto della dissertazione. Il testo da commentare era un estratto di Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. Avevo appena letto diverse opere su Nietzsche e in particolare sul suo rapporto con Schopenhauer, e non ebbi alcuna difficoltà a eccellere. Gli altri candidati, senza dubbio presi alla sprovvista dall’estraneità e dalla difficoltà del testo, se la cavarono meno bene. Quando uscirono i risultati, constatai con gioia che la lista degli ammessi conteneva solo un nome: il 162

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mio. Rimasto solo in corsa, mi restavano solo le due prove orali da passare, ma la partita era quasi vinta. In sociologia ebbi appena la sufficienza ma in inglese fui in grado di tradurre senza il minimo errore un testo di Marcuse, e il mio commento – in cui avvicinavo la sua idea di “atomizzazione” degli individui al concetto sartriano di serialità – mi valse le congratulazioni dell’insegnante che mi aveva interrogato e un voto piuttosto alto. Avevo superato l’ostacolo e stavo per diventare “allievoprofessore”: per almeno due anni avrei avuto uno stipendio assicurato, forse tre se avessi ottenuto la lode alla tesi della maîtrise (come poi sarebbe avvenuto). La cosa più sorprendente è che durante i miei studi non mi veniva chiesto nulla in cambio: dovevo solo impegnarmi, semplicemente, a servire dieci anni nell’insegnamento secondario una volta passati i concorsi di abilitazione (CAPES e agrégation). Ma il numero di posti all’epoca era talmente esiguo (provai l’agrégation due volte: il primo anno ce n’erano sedici, il secondo quattordici, mentre i candidati erano più di mille) che non avevo nessuna possibilità di passarli. Per superarli era necessario – e da allora non è cambiato nulla, al contrario – aver seguito la via regale: classi preparatorie e Écoles Normales Supérieures. Il mio fallimento era dunque deciso dal principio. L’avrei scoperto dopo. Per il momento contavano solamente la mia nuova situazione e la felicità che mi procurava: avrei ricevuto uno stipendio per dedicarmi ai miei studi. Aprii un conto in banca, e non appena i soldi cominciarono ad arrivare presi una stanza in città, vicino al centro, nonostante le riluttanze dei miei genitori: avrebbero preferito che continuassi ad abitare con loro e che versassi loro “la mia paga”. Avevano provveduto ai miei bisogni e mia madre fece molta fatica a comprendere e ad accettare che lasciassi il domicilio familiare lo stesso giorno in cui cominciavo a guadagnarmi da vivere, invece di aiutarli a mia volta. La cosa dovette turbarla. 163

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Esitò, questo è certo. Ma nonostante fossi ancora minorenne (la maggiore età era a ventun anni) si rassegnò e non cercò più di ostacolarmi. Poco tempo dopo decisi di trasferirmi a Parigi. Avevo vent’anni. Era da tanto che lo sognavo. Affascinato dalle Memorie di Beauvoir e da tutto quello che evocava, volevo conoscere i luoghi frequentati da lei e dalle persone a lei vicine, le vie di cui parlava, i quartieri che descriveva. Oggi so che tutto questo appartiene alla leggenda eroica, a una visione alquanto mitizzata. Ma questa leggenda mi riempiva di meraviglia, m’ipnotizzava. A dire il vero era un’epoca in cui la vita intellettuale, i suoi rapporti con la politica e la società esercitavano un’attrazione magnetica e suscitavano il desiderio di partecipare al mondo del pensiero: si ammiravano le grandi figure, ci si identificava, si ardeva dalla voglia di integrarsi al loro gesto creatore. Ci si proiettava nel futuro come intellettuali: persone capaci di scrivere libri, di scambiare idee con altri durante conversazioni infervorate, di intervenire nella politica, sia dal punto di vista pratico sia teorico… Potrei dire che i libri di Simone de Beauvoir e il desiderio di vivere liberamente la mia omosessualità furono le due grandi ragioni che orientarono il mio trasferimento a Parigi. Ero ancora iscritto all’università di Reims, perché lo stipendio che ricevevo mi veniva versato da quel rettorato, così ogni settimana tornavo per seguire le lezioni o per fare atto di presenza. Ed è qui che ho ottenuto la mia maîtrise. Scrissi una tesi su L’io e l’altro nell’esistenzialismo francese in cui m’interessavo ai primi lavori di Sartre, fino a L’essere e il nulla, e al loro rapporto con Husserl e con Heidegger. Non ne ho conservato nessuna copia e ho un ricordo molto vago del suo contenuto. Mi ricordo solo che alla fine dell’introduzione attaccavo lo strutturalismo e in particolar modo Lévi-Strauss e il Foucault di Le parole e le cose, la cui colpa peggiore, ai miei 164

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occhi, consisteva nel “negare la storia”. Non avevo letto nessuno dei due ma ripetevo i luoghi comuni diffusi contro di loro tra gli autori marxisti che avevo eletto a punti di riferimento, in particolar modo Goldmann e Sartre. Quest’ultimo non aveva mai smesso di riaffermare, contro il pensiero strutturalista, la libertà del soggetto da lui ribattezzata praxis nei suoi testi degli anni sessanta, in cui si sforzava di rielaborare – conservandoli – i principi filosofici definiti in L’essere e il nulla al fine di conciliarli con la sua successiva adesione al marxismo; con l’intento di dare un posto, quindi, alle determinazioni storiche ma pur sempre conservando l’idea ontologica di uno strappo fondamentale della coscienza – la “nientizzazione” – con il peso della storia e della logica dei sistemi, delle regole, delle strutture… Ottenni il titolo con la lode e questo mi permise di beneficiare di un anno supplementare d’IPES, grazie al quale lasciai finalmente quell’università che, all’epoca, era senza dubbio di terz’ordine. M’iscrissi alla Sorbona (Paris-I) per ottenere il DEA,79 e allo stesso tempo preparavo il concorso per l’agrégation. Per ragioni che oggi mi sfuggono non ero più costretto, benché fossi ancora pagato dall’università di Reims, a iscrivermi laggiù. Sicuramente perché il DEA costituiva il primo anno della tesi e dunque non c’era più l’obbligo di rispettare le assegnazioni geografiche della “mappa scolastica”.80 Abitavo a Parigi da due anni ormai e finalmente potevo essere anche studente a Parigi… Reims era alle mie spalle. Non avevo più motivo di andarci. Non ci andai più. La mia vita era parigina. Ed ero felice. Alla Sorbona ebbi 79   Il Diplôme d’Êtudes Approfondies, oggi abolito, si otteneva alla fine del primo anno degli studi dottorali. Permetteva di orientarsi verso la ricerca, la preparazione di una tesi o verso l’insegnamento. (N.d.T.) 80   La carte scolaire è un sistema di assegnazione dei posti degli studenti. Questo sistema di ripartizione è stato istituito nel 1963 e aveva lo scopo di dividere gli allievi in settori di appartenenza, basati sulla residenza. Oggi le famiglie hanno la possibilità di presentare una domanda, affinché il proprio figlio possa essere scolarizzato in un istituto a scelta. (N.d.T.)

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buoni professori, perfino eccellenti ed entusiasmanti. Paragonati a quelli di Reims erano come il giorno e la notte. Per due o tre anni avrei seguito con assiduità i corsi di numerosi di loro. In un certo senso, fu in quel momento che divenni studente di filosofia. Dovevo recuperare il ritardo – potevo misurarlo ogni giorno attraverso il paragone con quelli che avevo accanto sui banchi dell’anfiteatro –, e passavo il mio tempo a leggere. Si potrebbe parlare di un’educazione filosofica differita. Mi ci dedicavo completamente, senza riserve: Platone, Cartesio e Kant riprendevano i colori e finalmente potevo scoprire seriamente Spinoza e Hegel… Passai con successo il mio DEA, per il quale avevo scritto una tesi su Nietzsche e il linguaggio (che ne ho fatto? Non lo so più. Non sono sicuro di averne tenuto un esemplare). E non passai, come da copione, l’agrégation. Non ne fui troppo dispiaciuto, perché me lo aspettavo. Avevo capito che non avevo il livello per un concorso di questo tipo. Dopodiché cominciai a lavorare alla tesi di dottorato, e scelsi di occuparmi di filosofia della storia, da Hegel al Sartre della Critica della ragione dialettica. Non mi venne in mente di arrivare fino a Foucault. Sorvegliare e punire era appena uscito ma non avevo avuto la voglia e neanche l’idea di leggerlo. Poco tempo dopo, invece, avrei scoperto l’opera emergente di Pierre Bourdieu, e successivamente quella di Foucault, già molto affermata. Il mio universo teorico si stava per ribaltare. E Sartre, di conseguenza, stava per essere spinto in disparte in un angolo della mia mente; passò una quindicina d’anni prima che uscisse dal purgatorio interiore in cui lo misi in questo periodo. Intanto, per portare avanti la mia tesi e potermi presentare per la seconda volta al concorso per l’agrégation, era necessario che mi trovassi un impiego. Con il fallimento dell’agrégation, alla fine dell’anno di DEA, le mie condizioni di vita sarebbero cambiate: non avrei più avuto uno stipendio e avrei dovuto ingegnarmi 166

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per guadagnare un po’ di soldi. Per diversi giorni a settimana facevo il portiere di notte in un albergo di rue de Rennes (uscivo alle otto di mattina e andavo direttamente a lezione alla Sorbona, prima di rientrare a dormire il pomeriggio. Era estenuante, e riuscii a tenere questo ritmo solo qualche mese). In seguito trovai un lavoro la sera, dalle 18 a mezzanotte, nell’immediata periferia: custodivo dei computer, che all’epoca somigliavano ad alti armadi metallici, e assicuravo la salvaguardia dei dati che ronzavano in queste macchine, registrandoli su bande magnetiche grandi come la bobina di un film. A mezzanotte mi precipitavo alla stazione per prendere l’ultimo treno per Parigi. Non era affatto entusiasmante, ma almeno disponevo di tempo libero e approfittavo delle ore in cui ero rinchiuso in quest’ufficio per studiare seriamente gli autori in programma (mi rivedo a leggere per serate intere Cartesio e Leibniz). Quando per la seconda volta non passai l’agrégation, nonostante i voti molto buoni allo scritto, fui davvero disperato. Avevo investito molte speranze ed energie in questo concorso, contando di diventare professore dell’insegnamento secondario, e tutto questo non mi era servito a niente. Il ministero dell’istruzione non mi voleva per insegnare in un liceo – e fui dunque dispensato dal mio impegno a servire per dieci anni il corpo professorale, dal momento che non riuscirono a fornirmi neanche un posto da maître auxiliaire, vale a dire da professore supplente e non titolare. Per di più, non avevo i mezzi per continuare gli studi più a lungo e potermi orientare verso una carriera universitaria: compresi quanto fosse scontato che solo persone socialmente ed economicamente privilegiate potessero intraprenderla. Ero fuggito dal mio ambiente sociale, ma venivo raggiunto dalle mie origini: avrei dovuto rinunciare alla mia tesi, alle mie ambizioni intellettuali, alle illusioni che le sostenevano. La verità negata di ciò che ero si ripresentava e m’imponeva la sua legge: dovevo trovare un lavoro vero. Ma come? E quale? Si vede be167

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ne, in questo caso, come il valore dei diplomi sia strettamente legato alla posizione sociale: non solo il mio DEA non aveva costituito la via d’accesso a una tesi, come era avvenuto per altri, dal momento che era necessario avere di che vivere durante il periodo in cui la si scriveva (altrimenti ci si ostina a credere di poterla scrivere, fino al giorno in cui ci si deve arrendere all’evidenza: non la si scrive, perché si ha un lavoro che divora il tempo e le energie). Di più (e annuncio qui una verità la cui evidenza è talmente flagrante che è perfino inutile soffermarsi a dimostrarla), il valore di questo diploma, le possibilità che offre, variano a seconda del capitale sociale di cui si dispone e del volume d’informazioni necessarie alle strategie di riconversione del titolo in sbocco professionale. In situazioni di questo tipo, l’aiuto della famiglia, le relazioni, la rete di conoscenze e così via contribuiscono a fornire al diploma il suo vero valore sul mercato del lavoro. E di capitale sociale, bisogna dire che io non ne possedevo molto. O, per essere più precisi: non ne possedevo affatto. Tanto meno di informazioni. Il mio diploma, quindi, non valeva nulla, o in ogni caso molto poco.

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Quando ripenso agli anni della mia adolescenza, Reims non solo mi appare come il luogo di un radicamento familiare e sociale che avevo bisogno di lasciare per esistere altrimenti, ma in egual misura (e questo fu altrettanto determinante in ciò che orientò le mie scelte) come la città dell’insulto. Quante volte qui sono stato trattato da “frocio” o con altre parole equivalenti? Non lo saprei dire. Dal giorno in cui lo incontrai, l’insulto non smise mai di accompagnarmi. È vero, lo conoscevo da sempre… Chi non lo conosce? Lo si impara con il linguaggio. Ancora prima di conoscere il suo significato lo sentivo sia a casa sia al di fuori delle mura domestiche. Ho raccontato che mio padre esprimeva la sua rabbia nei confronti dei politici quando guardava la televisione. Avveniva la stessa cosa quando vedeva apparire al di là dello schermo quelli che detestava a causa della loro sessualità reale o presunta. Si vedeva Jean Marais nella presentazione di un film? Ecco che ripeteva ogni cinque minuti: “È un finocchio”, “È una checca”, “È un orecchione”, tanto più che mia madre non perdeva mai occasione per dire che lo trovava bello. A lei non piacevano quel genere di frasi e sistematicamente gli rispondeva: “Ma che te ne importa?” oppure: “La gente fa come gli pare, e quello che fa non ti riguarda.” A volte cambiava tono e lo prendeva in giro: 171

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“Forse, ma è più ricco di te.” Scoprire a poco a poco i miei desideri e come sarebbe stata la mia sessualità, significò per me entrare in una categoria preliminarmente definita e stigmatizzata da insulti di questo tipo, e provare il terrore che essi esercitano su chi li riceve e li percepisce come ciò a cui si rischia di essere esposto tutta la vita. L’insulto è una citazione che viene dal passato. Ha senso solo perché ripetuta in precedenza da tanti altri locutori: “Una parola vertiginosa venuta dal fondo delle ere,” come recita un verso di Genet. Ma rappresenta anche, per chi è preso di mira, una proiezione nell’avvenire: l’orribile presentimento che queste parole e la violenza che esse trasmettono lo accompagneranno per tutta la vita. Diventare gay significa diventare il bersaglio (e accorgersi che lo si era potenzialmente ancora prima di diventarlo realmente, e dunque ancora prima di averne coscienza) di un vocabolo sentito mille volte e di cui si conosce da sempre la forza ingiuriosa. Si è preceduti da un’entità stigmatizzata che si viene, a propria volta, ad abitare e a incarnare e con la quale bisogna fare i conti, in un modo o in un altro. E se ci sono tanti modi per farlo, restano tutti segnati con il marchio di questa potenza costitutiva della proliferazione ingiuriosa. Questo non significa che l’omosessualità sia una via d’uscita inventata per non soffocare, come propone Sartre in una formula enigmatica a proposito di Genet, ma al contrario che sia l’omosessualità a imporre di trovare una via d’uscita per non restare asfissiati. Non posso fare a meno di pensare che la distanza che s’instaurò – che mi sforzai d’instaurare – con il mio ambiente sociale e l’aver fatto di me stesso un “intellettuale” abbiano costituito il mezzo che inventai per fare i conti con quello che stavo diventando; e avrei potuto farlo solo se mi fossi inventato come differente da quelli da cui già differivo. Prima, evocando la mia traiettoria scolastica, mi sono descritto come un “miracolato”: è possibile, per quanto mi concerne, che la molla di questo “miracolo” sia stata l’omosessualità. 172

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Così, ancora prima di scoprire che era di me che parlava, l’insulto mi era familiare. L’ho utilizzato io stesso più di una volta e, a essere sincero, ho continuato a rivolgerlo ad altri, quando avevo quattordici o quindici anni, dopo aver capito che mi indicava, al fine di distoglierlo da me, per proteggermene: assieme a due o tre allievi della mia classe prendevo in giro un ragazzo del liceo che giudicavamo effeminato e che trattavamo da “checca”. Insultandolo, di riflesso, insultavo me stesso e la cosa più triste è che, confusamente, lo sapevo. Ma ero spinto dal desiderio irreprimibile di affermare la mia appartenenza al mondo dei “normali”, di evitare il rischio di esserne escluso. Era indubbiamente anche un modo di mentire a me stesso e allo stesso tempo di mentire agli altri: un esorcismo. Poco dopo, tuttavia, divenni il destinatario diretto dell’insulto, che cominciò a essermi rivolto personalmente. Ne fui circondato. E, ancora di più: definito attraverso di esso. Mi accompagnava ovunque, per ricordarmi costantemente che io contravvenivo alla regola, alla norma, alla normalità. Nel cortile del liceo, nel quartiere in cui abitavo… restava lì, in agguato, pronto a emergere – e quasi inevitabilmente emergeva. Un giorno stavo raggiungendo un luogo in cui si va per rimorchiare – avevo diciassette anni e avevo appena scoperto l’esistenza di questi posti: nello specifico una via poco discreta tra il Grand Théâtre e il Palais de Justice – quando una macchina rallentò e degli idioti urlarono: “Froci!” alle persone che si trovavano lì. Era come se un complotto avesse decretato che quest’aggressione verbale prendeva tutta la sua forza e la sua efficacia solo se veniva ripetuta incessantemente e ovunque. Dovetti imparare a conviverci. Che altro avrei potuto fare? Ma non riuscii mai veramente ad abituarmici. Ogni volta l’atto sempre reiterato della designazione ingiuriosa che mi veniva rivolta m’infilzava come una coltellata, e mi terrorizzava. Perché significava che si sapeva o si subodorava chi fossi, mentre io cercavo di na173

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sconderlo. O che mi si assegnava un destino, quello di essere sottomesso in eterno a questa denuncia onnipresente e alla maledizione che essa pronunciava. Venivo esposto sulla pubblica piazza: “Lo vedete, allora, lui cos’è? Pensa davvero di poter aggirare la nostra vigilanza?” In effetti era tutta la cultura intorno a me, a gridarmi “frocio”, oppure “checca”, “orecchione”, “culattone” e altri vocaboli odiosi la cui sola evocazione oggi mi ravviva il ricordo, mai scomparso, della paura che mi provocavano, delle ferite che m’infliggevano, del sentimento di vergogna che m’incidevano nell’animo. Sono un prodotto dell’ingiuria. Un figlio della vergogna. Mi si obietterà: l’insulto viene dopo; prima c’è il desiderio ed è di questo che bisognerebbe parlare! È vero che si diventa l’oggetto dell’ingiuria perché si prova il desiderio che questa condanna. E io desideravo dei ragazzi della mia classe, del club di canottaggio a cui fui iscritto per un periodo (fra i tredici e i quindici anni), dell’organizzazione politica in cui divenni militante a sedici anni… E fu con due ragazzi di questo club di canottaggio che ebbi dapprima le mie esperienze sessuali, poi con un ragazzo della mia classe, al primo anno di liceo. Non con i ragazzi dell’organizzazione trotzkista di cui ho parlato. Il militantismo trotzkista, pur non cadendo nell’omofobia dilagante che regnava nel Partito comunista o nei movimenti maoisti, era fondamentalmente eterosessista e comunque poco accogliente verso l’omosessualità. Vi si recitava il catechismo reichiano sulla “rivoluzione sessuale”, un freudo-marxismo in cui la condanna dell’omosessualità sostenuta dal marxismo tradizionale si mischiava a quella portata avanti dalla psicoanalisi: l’idea secondo cui la società borghese riposerebbe sulla repressione della libido e sulla deviazione dell’energia libidinale verso la forza-lavoro e che, di conseguenza, la liberazione sessuale contribuirebbe all’avvento di un altro sistema sociale e politico conteneva un giudizio dispregiativo sull’omosessua174

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lità, considerata come un semplice effetto dei tabù sessuali, effetto destinato a scomparire con questi ultimi. In realtà, ogni giorno sentivo che non c’era posto per me nel marxismo e, sia all’interno di questo quadro sia altrove, dovevo vivere una vita scissa. Ero diviso in due: metà trotzkista, metà gay. Due identità distinte, che sembravano incompatibili e che, di fatto, facevo molta fatica a conciliare e che feci sempre più fatica a tenere insieme. Capisco perché il movimento gay degli anni settanta poté nascere solo rompendo con questo tipo di organizzazione e di pensiero politici, anche se restò fortemente segnato in certe sue componenti dall’ideologia reichiana.81 Ed è in gran parte contro questi discorsi freudo-marxisti e, più in generale, contro il marxismo e la psicoanalisi che Foucault inizierà a scrivere, alla metà degli anni settanta, Storia della sessualità, con l’intenzione, in particolare, di forgiare un nuovo approccio alla questione del potere e della trasformazione sociale: voleva liberare il pensiero critico e la radicalità emancipatrice non solo dal freudo-marxismo ma anche, e con altrettanta decisione, dal marxismo e dalla psicoanalisi, dall’“ipotesi comunista” e dall’ipoteca lacaniana.82 E mi chiedo, tra l’altro, come si possa non deplorare l’inquietante regressione rappresentata dal ritorno sulla scena intellettuale odierna di questi vecchi dogma  Guy Hocquenghem criticò duramente Reich in Le Désir homosexuel nel 1972 (II edizione: Paris, Fayard, 2000, pp. 154 segg.). Sulle infatuazioni reichiane di una parte del movimento omosessuale degli anni settanta, cfr. Thierry Voeltzell, Vingt ans et après, Paris, Grasset, 1978, soprattutto pp. 18-19 (questo libro è un dialogo tra un giovane di vent’anni e “un amico più grande” che non è altri che Michel Foucault. Ho commentato questo libro in Riflessioni sulla questione gay, cit., pp. 323-329 [Réflexions sur la question gay, cit., pp. 433-439]. 82   Michel Foucault, Storia della sessualità. Vol. 1. La volontà di sapere, tr. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Milano, Feltrinelli 1978 [Histoire de la sexualité. T. I: La volonté de savoir, Paris, Gallimard 1976]. Su questo punto rinvio alle mie analisi dell’approccio di Foucault sviluppate nella terza parte di Riflessioni sulla questione gay, cit., in Une morale du minoritaire, cit. e in Échapper à la psychanalyse, Paris, Léo Scheer, 2005. 81

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tismi rigidi e sterili che sono, ovviamente, molto spesso ostili ai movimenti gay e ai movimenti sessuali in genere. Un ritorno che sembra essere stato prodotto e invocato, proprio come il suo rovescio solidale, all’interno dello stesso schema politico e dello stesso momento reazionario che attraversiamo ormai da molti anni. Resta il fatto che questi desideri – i miei desideri – così come le loro troppo rare realizzazioni erano votati al silenzio e al segreto. Che cosa è mai un desiderio che deve tacersi, nascondersi, negarsi in pubblico; che vive nella paura di essere deriso, stigmatizzato o psicanalizzato e poi, una volta passato questo stadio della paura, deve incessantemente affermarsi, riaffermarsi e proclamare, a volte in modo teatrale, esasperato, aggressivo, “provocatorio”, “proselitistico”, “militante”, il suo diritto d’esistere? È un desiderio che porta in sé una fragilità essenziale, una vulnerabilità cosciente di se stessa e provata in ogni luogo e in ogni momento; un desiderio ossessionato dall’inquietudine (in strada, sul luogo di lavoro…). Soprattutto perché l’ingiuria è anche l’insieme delle parole peggiorative, degradanti, svilenti, sarcastiche, umilianti che ci si ritrova ad ascoltare senza esserne il destinatario diretto, come la parola “frocio” e i suoi sinonimi, che ritornano ossessivamente nelle conversazioni di tutti i giorni, a scuola, al liceo, in famiglia… Da queste parole ci si sente colpiti, bruciati, raggelati, perché, anche se quelli che le usano chiacchierando con voi non sembrano neanche immaginare che stanno parlando di voi, ci si sente presi di mira con forza e colpiti attraverso questa parola indirizzata a qualcun altro o utilizzata in generale rispetto a una categoria vaga. Ma a questa categoria si ha il sentimento di appartenere, pur volendo con tutte le forze non appartenervi. (In ciò risiede, senza dubbio, una delle risorse psicologiche più potenti della volontà di disidentificazione, così forte e duratura nei gay e nelle lesbiche, e anche dell’orrore che ispira in alcuni 176

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di loro l’esistenza stessa di un movimento gay e lesbico che contribuisce a far esistere un’immagine pubblica, e affermata come tale, di ciò che loro vorrebbero accantonare in una sfera del privato beneficiando di un “diritto all’indifferenza” sociale. Benché questa fantasia sia smentita dalla loro esperienza personale, nella quale hanno dovuto provare quotidianamente fino a che punto il privato e il pubblico siano inestricabilmente mischiati, fino a che punto perfino il “privato” sia una produzione della sfera pubblica, ovvero quanto lo psichismo – anche nei suoi meandri più privati – sia forgiato dalle ingiunzioni della normatività sessuale.) L’ingiuria reale o potenziale – quella che si riceve effettivamente o quella che si teme di ricevere cercando di disinnescarne l’irruzione, o ancora quella, ossessiva e violenta, da cui ci si sente invasi sempre e ovunque – costituisce l’orizzonte del rapporto con il mondo e con gli altri. L’essere-al-mondo si attualizza in un essere-insultato, vale a dire inferiorizzato dallo sguardo sociale e dalla parola sociale. L’oggetto dell’atto inferiorizzante della nominazione è prodotto come un soggetto assoggettato dalle strutture dell’ordine sessuale (di cui l’ingiuria rappresenta solo la punta dell’iceberg) ed è tutta la sua coscienza – e il suo inconscio, ammesso che si possa tracciare una separazione netta tra queste due sfere così strettamente legate l’una all’altra – a trovarsi segnata e forgiata dallo stesso processo di costruzione di sé e dell’identità personale. Niente di puramente psicologico, dunque: piuttosto l’azione tanto insidiosa quanto efficace delle norme sessuali e delle gerarchie che esse ordinano. E che fabbricano, giorno dopo giorno, gli psichismi e la soggettività.

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Reims fu anche, e allo stesso tempo, la città in cui arrivai attraverso moltissime difficoltà a costruirmi come gay: a vivere una vita gay ancora prima di assumermi e di rivendicarmi come tale. Perché mentre si cerca di persuadersi che sarebbe meglio non essere così – un “frocio” – allo stesso tempo ci si chiede, con molta intensità, come diventarlo: come incontrare dei partner – sessuali, amorosi –, anche degli amici, delle persone con cui parlare liberamente. E un giorno si scopre che esistono dei luoghi di rimorchio. L’ho scoperto in uno strano modo: l’estate dei miei diciassette anni, mentre lavoravo durante le vacanze in una compagnia assicurativa, una delle impiegate, che non smetteva un attimo di sfottere il capo del personale alle sue spalle, mi disse ridendo: “È un culattone! Se la notte passi vicino al teatro, lo vedi rimorchiare.” L’informazione mi arrivò accompagnata da un’ingiuria terrorizzante, ma era un’informazione eccezionale. Il capetto in questione, spesso autoritario e seccante, era l’oggetto costante delle battute delle ragazze che dirigeva. Sembrava convinto che nessuno fosse al corrente della sua sessualità, quando tutto nei suoi gesti, nella fisionomia, nella voce, nel modo di parlare proclamava agli altri quello che lui voleva tanto nasconder loro. E, come accade spesso nei gay che cercano di nascondere chi sono, al punto che la loro iden179

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tità sessuale problematica arriva a occupare tutta la loro mente, lui non poteva non parlarne, raccontando a ogni occasione delle barzellette e delle storielle, sempre spinte, sull’omosessualità – che indubbiamente circolavano nell’ambiente gay che frequentava; e aveva l’aria di credere che questo senso dell’umorismo greve, di cui erano vittime coloro ai quali temeva di essere associato, bastasse ad allontanare da lui ogni sospetto. In seguito ho spesso incontrato, sotto diverse forme, questo stesso tipo di duplice atteggiamento di attrazione-repulsione, che porta – scrivo al presente perché questo fenomeno esiste ancora – molti gay a evocare compulsivamente l’omosessualità in modo ostentatamente dispregiativo o disgustato, nell’intento di mantenere le distanze con quelli a cui sono uniti da così tanti legami. (Si potrebbe suggerire che il modello di questo atteggiamento, aspetto che André Gide teneva a sottolineare nel suo Diario, si trova nella persona e nell’opera di Proust, benché i risultati, è perfino superfluo precisarlo, non siano sempre allo stesso livello.) Nel momento stesso in cui si affibbiava un’etichetta infamante a chi andava in un luogo simile, apprenderne l’esistenza mi colpì come una rivelazione miracolosa. Pur temendo di essere visto da qualcuno che avrebbe potuto riconoscermi, poiché trovarsi lì significava essere un “culattone”, fremevo da subito dalla voglia di andare a vedere cosa succedeva e, probabilmente, d’incontrare qualcuno. La sera stessa, o il giorno dopo, presi il mio Vélosolex per andare in centro. Lo lasciai piuttosto lontano dalla via in cui c’erano degli uomini che entravano velocemente e furtivamente all’interno di bagni pubblici ai quali si accedeva da una scala di pochi gradini. Altri vagavano più lontano sulla via, e altri ancora restavano seduti nella loro macchina che poi improvvisamente andava via, e allora una seconda macchina seguiva la prima e i due conducenti andavano in qualche posto riparato. Non so più se vennero ad abbordarmi 180

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quella prima sera o se avvenne più tardi. In ogni caso questo fu il mio ingresso nel mondo gay. E una via d’accesso a tutta la subcultura a esso legata. Non misi mai piede in quell’orinatoio. Mi ripugnava. E mi preoccupava. Non sapevo ancora che i gabinetti pubblici – le “tazze”, nel gergo gay – sono una delle cornici tradizionali del rimorchio omosessuale. Ma questa via e quelle adiacenti, la piazza del teatro, i dintorni della cattedrale non lontano da lì, costituivano ormai lo scenario di una parte della mia vita notturna. Vi passavo intere serate a camminare senza sosta o a far finta di telefonare nella cabina accanto alla fermata dell’autobus, affinché non si potesse pensare che rimorchiassi. Nei giorni successivi la mia “prima volta”, l’impiegata grazie alla quale avevo conosciuto l’esistenza di questo posto e alla quale non sfuggiva nulla mi disse con un tono metà ironico e metà intrigato: “Ti ho visto vicino al teatro… Andavi a rimorchiare?” Inventai una scusa: “No, affatto, andavo a trovare un amico che abita lì accanto.” Ma la mia risposta era poco credibile, il tono della mia voce doveva aver tradito la mia agitazione e la sua opinione fu confermata. Del resto non manifestò alcuna ostilità nei miei confronti. Le parole ingiuriose che utilizzava normalmente erano rivelatrici di una sorta di omofobia abitudinaria; se quel giorno avessi avuto il coraggio di confessarle che ero gay, mi avrebbe inglobato nella categoria dei “culattoni”, mi avrebbe preso in giro in mia assenza, ma questo non avrebbe intaccato la simpatia che nutriva nei miei confronti, né la gentilezza amichevole attraverso la quale cercava di esprimermi questa simpatia in ogni momento. Si venne così a creare tra di noi uno strano rapporto in cui la diffidenza si mischiava a una complicità di natura incerta: lei sapeva chi ero, io sapevo che lei lo sapeva, lei sapeva che io sapevo che lei lo sapeva… e che avevo paura che ne parlasse ad altri – azione da cui senza dubbio non si esimeva; e giocava con questa paura attraverso 181

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allusioni che speravo essere il solo a capire. Ero entrato per due mesi in questa compagnia di assicurazioni grazie alla moglie di mio fratello – o piuttosto la sua futura moglie, perché non erano ancora sposati – che ci lavorava, ed ero terrorizzato all’idea che la ragazza che mi aveva riconosciuto l’informasse dalla sua scoperta. Lo fece? È probabile di sì, ma non ne trasparì nulla. Arrivò presto la fine dell’estate e non rividi mai più questa ragazza: ma ritrovai spesso questo genere di situazioni in cui s’intrecciavano i giochi di sapere e di potere; e pensai a lei quando lessi, venti anni dopo, le analisi di Eve Kosofsky Sedgwick in Epistemologia e politica della sessualità, sul “privilegio epistemologico” di cui godono gli eterosessuali, il modo in cui manipolano la conoscenza che detengono su cosa siano gli omosessuali, quando questi ultimi vorrebbero così tanto sfuggire alla cattura di questo sguardo. Le pagine che Sedgwick dedica a tali questioni, soprattutto nel suo splendido capitolo su Proust, risvegliarono in me molti echi di esperienze passate.83 In quel periodo a Reims c’era anche un bar gay, e molti preferivano la discrezione che offriva rispetto al pericolo di esporsi allo sguardo pubblico in strada. Ma non avrei mai osato andarci – e neanche potevo, a causa della mia età. In ogni caso, per un insieme di puritanesimo di estrema sinistra e di elitarismo intellettuale (o che si credeva tale), al tempo consideravo i bar e le discoteche come divertimenti da condannare o quanto meno da disprezzare. I luoghi d’incontro di questo tipo sono spazi di socialità e di apprendimento di una cultura specifica: ogni conversazione, con persone con cui si andrà via più tardi o che semplicemente 83   Cfr. Eve Kosofsky Sedgwick, Stanze private. Epistemologia e politica della sessualità, a cura di F. Zappino, Roma, Carocci, 2011 [Epistemology of the Closet, Berkeley, University of California Press, 1990]. Mi sono molto ispirato alle sue analisi in Riflessioni sulla questione gay, cit.

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s’incrociano lì ogni volta che vi si va e che dunque finiscono per essere familiari, spesso senza sapere molto di loro, costituisce per un giovane gay un modo di diventare gay, nel senso di un’impregnazione culturale informale: si apprendono i pettegolezzi su chi “lo è” in città, i codici e le parole del linguaggio specifico, i modi di parlare tipici dei gay (l’uso del femminile, ad esempio), le battute tipiche (“Quelle heure est-elle?”, “Quel temps fait-elle?”84); e si è iniziati, con questi discorsi e queste chiacchiere, o guardando le biblioteche e i dischi di quelli che si riaccompagnano a casa, a tutto un insieme di riferimenti: libri che trattano di omosessualità (fu così che sentii parlare per la prima volta di Genet, che mi affrettai a leggere, ma anche di altri autori di portata minore), cantanti adorati dai gay (mi appassionai, come a tanti altri, a Barbara dopo aver sentito i suoi dischi da uno dei miei amanti che la venerava; scoprii in seguito – o forse in quel periodo – che era un’icona gay), musica classica e opera (che al tempo per me costituivano continenti sconosciuti e molto lontani e che, molti anni dopo, grazie a queste iniziazioni e a queste incitazioni, avrei esplorato con un grande fervore, divenendo non solo un amatore, ma un conoscitore, non perdendo un concerto, uno spettacolo, acquistando più versioni della stessa opera, leggendo le biografie dei compositori: Wagner, Mahler, Strauss, Britten, Berg…) e così via. Durante queste conversazioni si sente parlare di altri luoghi di rimorchio, in cui ci si affretta ad andare, o della vita gay a Parigi sulla quale ci si mette a sognare… Così le migliaia di discussioni informali che si tengono sera dopo sera in questo genere di luoghi, durante migliaia d’incontri tra i frequentatori abituali e i nuovi arrivati, diventano, senza che nessuno ne 84   Frasi volutamente scorrette, ottenute attraverso la sostituzione del pronome personale maschile (il) con il pronome personale femminile (elle). Le formule corrette sarebbero: “Quelle heure est-il?” (che ore sono?); “Quel temps fait-il?” (che tempo fa?). (N.d.T.).

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abbia veramente coscienza, il vettore (attraverso tutte queste “iniziazioni” individuali) di una vera e propria trasmissione di eredità culturali: un’eredità multipla, certamente, secondo le età e le classi sociali, e che si trasforma con il passare del tempo, ma che forgia i contorni di una “cultura” specifica, o se si preferisce di una “subcultura”. La letteratura dell’“iniziazione” – che si pensi ai Falsari di Gide o a Du pur amour e a L’École des garçons di Jouhandeau – può dunque servire da metonimia o da metafora per descrivere un fenomeno molto più vasto di soggettivazione attraverso l’insegnamento e l’apprendimento, allo stesso modo in cui la relazione tra la guida spirituale e il discepolo nelle scuole filosofiche dell’antichità poté servire a Foucault, alla fine della sua vita, da metonimia o da metafora – o semplicemente da diversione – per pensare i processi più vasti di certe forme di relazionalità gay. In ogni caso, i luoghi di rimorchio funzionavano come scuole della vita gay. Anche se, ovviamente, nel momento in cui questa trasmissione di sapere si effettuava, non lo si percepiva così chiaramente. In Gay New York, che copre il periodo che va dal 1890 al 1940, George Chauncey ha dipinto e teorizzato in modo magnifico ciò che ho appena evocato, e la mia stessa evocazione deve molto a ciò che lui mi permise di cogliere e capire meglio.85 Quando lo lessi, alla metà degli anni novanta, vi ritrovai così tante cose che io stesso avevo conosciuto a Reims alla fine degli anni sessanta e all’inizio degli anni settanta, che sentii una strana e vertiginosa sensazione di atemporalità, direi quasi di universalità dell’esperienza omosessuale. Questo è paradossale, dal momento che quel libro si propone precisamente lo scopo di storicizzare il mondo gay – tanto le categorie della sessualità attraverso le quali è retto, quanto le   George Chauncey, Gay New York. Gender, Urban Culture and the Making of a Gay Male World, 1890-1940, New York, Knopf, 1994. 85

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pratiche sociali e culturali che l’organizzano e lo fanno esistere. Chauncey vuole mostrare che la cultura gay non ha aspettato la fine degli anni sessanta e i moti di Stonewall per esistere e, allo stesso tempo, che essa era molto differente da quella che conosciamo oggi. È un’opera molto emozionante nella misura in cui può essere letta come un omaggio, restituito a tutti quelli che hanno lottato per poter vivere la loro vita e rendere vivibile la loro esistenza: un inno a questa resistenza quotidiana, ostinata, inamovibile, inventiva, che i gay hanno opposto alle forze della cultura dominante che li minacciava senza sosta, li maltrattava, li umiliava, li reprimeva, li perseguitava, li inseguiva, li picchiava, li feriva, li arrestava, li imprigionava… Il primo fenomeno che prende in esame, d’altronde, e che costituisce il punto di partenza del suo approccio fortemente ispirato dalla sociologia urbana sviluppata dalla scuola di Chicago, è quello della città: il modo in cui la grande città attira i gay e il modo in cui loro si ingegnano per crearvi e ricreare senza sosta le condizioni per vivere la loro sessualità, costruendo spazi di libertà, disegnando una città gay nella città eterosessuale. Questo non significa, certamente, che la vita gay esiste solo nelle grandi città! Anche le cittadine e le campagne ospitano luoghi d’incontro, e dunque forme di sociabilità e di relazionalità che, anche se forse sono meno numerose, meno concentrate e meno visibili, non per questo sono meno reali. Ma l’ampiezza non è la stessa. In ogni caso, leggendo Chauncey, ritrovai il racconto di molte esperienze che io stesso avevo attraversato o di cui ero stato testimone. E soprattutto, in ciò che designa con il termine di “mondo gay”, trovavo ricostituito l’insieme delle pratiche quotidiane e dei processi multipli che permettono di farsi una vita gay accanto alla vita sociale che si conduce altrove, e in cui si sa che è preferibile non essere identificato come gay. Questo mondo gay e questi modi di vita gay non risultano solamente dalla sessualità ma anche dalla creazione sociale e culturale di 185

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sé come soggetto. Si possono descrivere come i luoghi, i supporti e i modi di una soggettività allo stesso tempo individuale e collettiva. Senza dubbio esistono, come molti bei lavori oggi ci suggeriscono, delle geografie e delle temporalità specificamente gay o queer: dove e come vivono quelli che non s’inscrivono nella “norma”. È altrettanto evidente che le stesse persone le cui esistenze sono definite da questi spazi non potrebbero viverci costantemente: ciò che caratterizza le vite gay o queer sarebbe piuttosto la capacità – o la necessità – di passare costantemente da uno spazio all’altro, da una temporalità all’altra (dal mondo anormale al mondo normale e viceversa).

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In questi luoghi di rimorchio ci si trova di fronte anche, purtroppo, a molteplici forme di violenza. Vi s’incontrano persone strane o svitati, e bisogna sempre stare all’erta. E soprattutto ci si espone ad aggressioni fisiche da parte di teppisti o ancora a frequenti controlli d’identità da parte della polizia, che vi pratica una vera e propria persecuzione. Forse le cose sono cambiate? Ne dubito. Che terrore s’impossessò di me il giorno in cui dovetti subire un simile controllo per la prima volta – avrò avuto diciassette anni – quando i poliziotti mi dichiararono che ero un malato mentale e che mi sarei dovuto far curare, che avrebbero avvertito i miei genitori e che sarei rimasto schedato a vita… Fu solo l’inizio di una lunga serie d’interazioni con la polizia, sempre accompagnate da insulti, sarcasmi, frasi minacciose. Dopo qualche anno finii per non preoccuparmene più: divenne uno degli elementi della mia vita notturna, insieme ad altri; certamente non il più piacevole, ma in fondo senza grandi conseguenze (per qualcuno come me, in ogni caso – poiché il rischio è più grande quando si abita in una piccola cittadina dove si viene a sapere tutto, o quando non si hanno i documenti in regola). Più gravi sono le aggressioni fisiche. Mi capitò a più riprese di essere vittima di questa forma estrema di violenza omofoba. Fortunatamente ne uscii senza troppi danni, ma una volta conobbi 187

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un ragazzo che aveva perso l’uso di un occhio dopo essere stato riempito di botte da un gruppo di “picchiatori di froci”. Devo menzionare anche le innumerevoli aggressioni di cui nel corso degli anni fui testimone impotente, costretto poi a rivivere, per giorni e settimane, il vile sollievo di essere stato risparmiato e la tristezza, il disgusto, di aver assistito a queste esplosioni di brutalità che i gay devono sempre temere e rispetto alle quali restano sempre disarmati. Mi successe più di una volta di dover lasciare di corsa uno di questi posti sfuggendo per un soffio alla sorte che si abbatteva su altri. Un giorno, poco dopo il mio trasferimento a Parigi, camminavo nella parte aperta del giardino delle Tuileries, uno dei luoghi d’incontro in cui mi piaceva andare all’imbrunire, dove c’erano sempre molte persone; e vidi arrivare da lontano un gruppo di giovani, palesemente con brutte intenzioni. Se la presero con un uomo piuttosto anziano, cominciando a malmenarlo e a riempirlo di pugni e, quando fu caduto a terra, di calci. Passò una volante della polizia sul viale che, all’epoca, costeggiava il parco. La fermai gridando: “Stanno aggredendo qualcuno nel giardino!” Mi risposero: “Non abbiamo tempo da perdere con i froci,” e continuarono sulla loro strada. Ovunque, nelle città in cui mi capitava di andare per un motivo o per un altro, e in cui facevo una passeggiata in un luogo di rimorchio, assistevo a scene simili: bande spinte dall’odio si abbattevano all’improvviso sul tal giardino o tal parco, i presenti fuggivano di corsa e quelli che non avevano avuto la fortuna di scansarsi in tempo diventavano le inevitabili vittime di un pestaggio spesso, ma non necessariamente, accompagnato da furto (gli orologi, i portafogli, i passaporti e a volte i vestiti, quando non si trattava di giubbotti di pelle…). I luoghi gay sono infestati dalla storia di questa violenza: ogni vicolo, ogni panchina, ogni spazio distante dagli sguardi porta inscritto tutto il passato, tutto il presente, e senza dubbio il futuro di questi attacchi e delle ferite fisiche che lasciarono, 188

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lasciano e lasceranno dietro di loro – senza parlare delle ferite psicologiche. Ma non c’è stato niente da fare: nonostante tutto – vale a dire nonostante le esperienze dolorose che si sono vissute personalmente, o quelle vissute da altri di cui si è stati testimoni o di cui si sono ascoltati i racconti –, nonostante la paura, si ritorna in questi spazi di libertà. E continuano a esistere perché, a dispetto dei pericoli, le persone continuano a farli esistere. Benché l’apparizione su internet dei siti d’incontri abbia prodotto profondi stravolgimenti nei modi di entrare in relazione con potenziali partner e, più in generale, nelle modalità della sociabilità gay, nulla di quello che ho appena descritto, ovviamente, è scomparso. E quando mi capita, e non così di rado, di leggere su un giornale che un uomo è stato trovato morto in un parco – o parcheggio, bosco, area d’autostrada – “frequentato la notte da omosessuali”, mi ritornano alla memoria tutte queste immagini, e sono di nuovo colto da un sentimento di rivolta e d’incomprensione: perché le persone come me devono subire questa violenza, vivere sotto questa minaccia costante? A questo si deve aggiungere la devalorizzazione sociale e la patologizzazione medica (all’opera nei discorsi psichiatrici e psicoanalitici sull’omosessualità) che rappresentavano un altro tipo di aggressione: non fisica ma discorsiva e culturale, la cui prevalenza, per non dire l’onnipresenza nello spazio pubblico, partecipava a una violenza omofoba generale, dalla quale ci si sentiva letteralmente accerchiati. E questo continua ancora oggi, come hanno mostrato fino all’indecenza le simboliche cacce alle streghe che si sono scatenate durante i dibattiti sul riconoscimento giuridico delle coppie dello stesso sesso e delle famiglie omoparentali: quanti scritti di presunta scientificità – psicoanalitici, sociologici, antropologici, giuridici, eccetera – si sono rivelati, poi, essere solo gli ingranaggi di 189

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un dispositivo ideologico e politico, incaricato di garantire la perpetuazione dell’ordine istituito e delle norme assoggettanti? Un dispositivo incaricato di mantenere le vite gay e lesbiche nello stato d’inferiorità e d’incertezza di sé nel quale tutta la cultura le aveva fin qui piazzate, e da cui coloro che vivono queste vite si sforzano oggi, per l’appunto, di uscire. Mi chiedo anche: perché un certo numero di persone sono votate all’odio degli altri (che si esprima in maniera brutale nelle aggressioni fisiche nei luoghi di rimorchio o in modo eufemizzato nelle aggressioni discorsive provenienti dallo spazio intellettuale e pseudoscientifico)? Perché certe categorie della popolazione – gay, lesbiche, transessuali, o ebrei, neri e così via – devono portare il fardello di queste maledizioni sociali e culturali di cui si fa molta fatica a concepire cosa le motivi e le susciti instancabilmente? Mi sono posto a lungo questa domanda: “Perché?” E anche: “Ma che cosa abbiamo fatto?” Non c’è altra risposta a queste domande se non l’arbitrarietà dei verdetti sociali, la loro assurdità. E, come nel Processo di Kafka, è inutile cercare il tribunale che pronuncia questi giudizi. Non ha sede, non esiste. Arriviamo in un mondo in cui la sentenza è già stata emessa, e noi arriviamo, in un momento o in un altro della nostra vita, a occupare il posto di quelli che sono stati condannati alla pubblica vendetta, a vivere con un dito accusatore puntato contro, e ai quali non resta che cercare nel bene e nel male di proteggersene e di riuscire a gestire questa “identità guasta”, come recita il sottotitolo inglese del libro Stigma di Erving Goffman.86 Questa maledizione e questa   Erving Goffman, Stigma. L’identità negata, tr. it. di R. Giammanco, Verona, Ombre Corte, 2003 [Stigmata. Note on the Management of Spoiled Identity, Englewoods Cliff, NJ, Prentice-Hall, 1963]. Sulla dominazione simbolica cfr. Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane, tr. it. di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 207-208 [Méditations pascaliennes, Paris, Seuil, 1997, pp. 203-204]. 86

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condanna con cui bisogna vivere fissano un sentimento d’insicurezza e di vulnerabilità nel più profondo di se stessi, una specie di angoscia diffusa che segna la soggettività gay. Tutto ciò – vale a dire tutte queste realtà vissute giorno dopo giorno, anno dopo anno, questi insulti, queste aggressioni, questa violenza discorsiva e culturale – è inciso nella mia memoria (sarei tentato di dire: nel mio essere). È parte integrante delle vite gay, come di quelle di tutti i soggetti minoritari e stigmatizzati. Si capisce perché, ad esempio, il clima presente nei primi testi di Foucault, durante tutti gli anni cinquanta – dalla sua prefazione al libro di Ludwig Binswanger Sogno ed esistenza del 1954 (dove è così vicino, nel suo interesse per la psichiatria esistenziale, al Fanon sartriano di Pelle nera, maschere bianche, apparso due anni prima) fino alla Storia della follia terminata nel 1960 –, è precisamente quello dell’angoscia: un’angoscia espressa da tutto il vocabolario (che Foucault mobilita con un’intensità sconvolgente) dell’esclusione, dell’estraneità, della negatività, del silenzio imposto e perfino della caduta e del tragico. Al pari di Georges Dumézil – a cui piaceva porre la sua ricerca sotto gli auspici del dio Loki e che descriveva questo personaggio del pantheon scandinavo, con le sue trasgressioni sessuali e il suo rifiuto dell’ordine costituito, come un soggetto ideale, oggi, per una cartella psichiatrica ben riempita (cosa che ai suoi occhi rappresentava un complimento) – Foucault intraprese lo studio dell’“inferno” della “negatività” umana e dell’“angoscia”, che lo sguardo medico cercava di ispezionare e di ridurre al silenzio, allo scopo di promuoverlo alla luce del giorno e di portare i balbettii alla parola, restituita al suo pieno diritto.87 Quando rileggo i testi incandescenti e dolorosi che inaugurano l’opera di Foucault, vi riconosco qualcosa di me: ho vis  Cfr. Georges Dumézil, Loki, Paris, Maisonneuve, 1948 e i miei commenti a questo libro in Le Crime de Loki, in “Hérésies”, cit., pp. 19-32. 87

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suto ciò di cui parla e che aveva vissuto prima di me, cercando un modo di scriverlo. E vibro a ogni pagina, ancora oggi, di un’emozione che viene dal più profondo del mio passato, e dal sentimento immediato di un’esperienza condivisa con lui. So fino a che punto gli fu difficile superare queste difficoltà. Tentò più volte di suicidarsi. Restò a lungo in equilibrio incerto sulla linea che separa la ragione dalla follia (Althusser lo dice in modo superbo nella sua autobiografia: in Foucault sapeva di poter trovare un fratello di “sventura”). Ne uscì attraverso l’esilio (prima in Svezia), poi attraverso il paziente lavoro di una messa in discussione radicale del discorso pseudoscientifico della patologizzazione medica. Opponeva, allora, il grido della Sragione – categoria che ingloba soprattutto la follia e l’omosessualità al centro di altre “devianze” – al monologo che la psichiatria – ciò che lui definisce come il discorso dei normali e della normalità – tiene su quelli da essa considerati come i suoi “oggetti” e che tenta di mantenere nella subordinazione. Tutta la politica di Foucault di questo periodo si dispiega in questa cornice, definita dallo scontro tra l’esclusione e la presa di parola, la patologizzazione e la protesta, la soggezione e la rivolta. Possiamo leggere la Storia della follia come un grande libro di resistenza intellettuale e politica. L’insurrezione di un soggetto assoggettato contro le potenze della norma e dell’assoggettamento. Nel proseguimento della sua opera, durante le successive revisioni, Foucault continuerà a proseguire lo stesso intento: pensare lo scontro tra il soggetto e il potere della norma, riflettere sui modi con cui reinventare la propria esistenza. Non sorprende dunque che i suoi testi tocchino così tanto i lettori (in ogni caso alcuni di loro, perché altri non vi trovano che materia da glossa accademica): perché parlano di loro e si rivolgono alle faglie e alle incrinature che li abitano, ovvero alla fragilità, ma anche alla riluttanza e al gusto del rifiuto che ne possono derivare. 192

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Possiamo, senza ombra di dubbio, porre Storia della follia sui ripiani delle nostre biblioteche, o piuttosto delle nostre “sentimenteche”, secondo la parola forgiata da Patrick Chamoiseau per designare i libri che ci “fanno dei segni” e ci aiutano a combattere in noi stessi gli effetti della dominazione,88 accanto a un altro grande libro, che aveva l’intenzione di contestare lo sguardo sociale e medico sui devianti, e di rendere o di dare a essi uno statuto di soggetto del discorso e non più di oggetto, di far sentire le loro parole che contestano e respingono il discorso che gli altri tengono su di loro: si tratta, ovviamente, del Santo Genet di Sartre.89 Vi è, di certo, una differenza di dimensioni: nel caso di Foucault e della lotta che intraprende contro l’ispezione psichiatrica e psicoanalitica è lui stesso a essere in gioco; tratta della sua di esperienza ed è la sua voce a essere affermata, la sua vita a essere difesa; mentre Sartre scrive di un altro e cerca di analizzare una traiettoria diversa dalla sua, con tutta l’empatia e l’entusiasmo di cui è capace per rendere conto dei meccanismi della dominazione e dei processi d’invenzione di sé. Ma la parentela dei due libri, uno pubblicato agli inizi degli anni cinquanta, l’altro agli inizi degli anni sessanta, è evidente (una parentela che, d’altronde, potrebbe essere proprio una filiazione: mi piace immaginare che Foucault fosse profondamente segnato dal libro di Sartre! Come potrebbe essere altrimenti?). Un gesto comune li lega l’uno all’altro. Scoprii questo libro di Foucault solo alla fine degli anni settanta (mi sembra fosse il 1977). Dunque dopo quello di Sartre, che credo di aver letto, se la mia memoria è buona, nel 1974 o   Patrick Chamoiseau, Écrire en pays dominé, Paris, Gallimard, 1997, pp. 23-24. 89   Jean-Paul Sartre, Santo Genet, commediante e martire, tr. it. di C. Pavolini, Milano, Il Saggiatore, 1972 [Saint Genet, comédien et martyr, Paris, Gallimard, 1952]. 88

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nel 1975. E fu quest’ultimo che per me contò primariamente, in un momento in cui i libri costituivano un punto d’appoggio decisivo nel lavoro che avevo bisogno d’intraprendere per reinventare me stesso e riformulare chi fossi. O, più esattamente, quando decisi di accettarmi (e dunque, ovviamente, di riappropriarmi di quello che l’ostilità intorno mi diceva e mi ripeteva). E accettarlo, riappropriarmene, cambiò tutto, o in ogni caso molte cose. Fu una decisione che maturò in me lentamente e s’impose alla fine di una lunga esitazione: non avrei passato la mia vita a soffrire provando vergogna, e anche paura, di essere gay. Era troppo difficile. Troppo penoso. Si rischia di diventarne quasi folli (follia di cui molti psicoanalisti vivono e che, forse per questa stessa ragione, fanno di tutto per perpetuare). Ebbi la forza, o la fortuna, e non saprei dire perché, di compiere questo passo relativamente presto (a diciannove o vent’anni), confidando dapprima questo “segreto” a qualche amico che, d’altronde, lo sapeva già o ne aveva il presentimento da molto tempo e non capiva perché non gli dicessi niente, e poi rivendicando in modo teatrale e ostentato ciò che mi era impossibile tenere “segreto” ancora a lungo. Potrei scrivere, ispirandomi alla prosa metaforica e floreale di Genet, che arriva un momento in cui si tramutano gli sputi in rose, gli attacchi verbali in una ghirlanda di fiori, in raggi di luce. In breve, un momento in cui la vergogna si trasforma in orgoglio… E quest’orgoglio è politico dall’inizio alla fine, poiché sfida i meccanismi più profondi della normalità e della normatività. Non si riformula ciò che si è partendo da zero: si compie un lavoro lento e paziente per forgiare la propria identità a partire da quella che ci è stata imposta dall’ordine sociale. Per questa ragione non ci si affranca mai dall’ingiuria, né dalla vergogna. Tanto più che il mondo ci lancia a ogni istante dei richiami all’ordine che riattivano i sentimenti che si vorrebbero dimenticare, che si crede a volte di aver dimentica194

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to. Se il personaggio di Divina in Nostra signora dei fiori, dopo aver passato lo stadio dell’infanzia o dell’adolescenza, quando la vergogna la schiacciava, ed essersi trasformata in una figura appariscente della cultura illecita di Montmartre, arrossisce di nuovo quando le viene rivolta un’ingiuria, è perché le è impossibile ignorare le forze sociali che la circondano e la assalgono – e dunque gli effetti che queste ultime hanno inscritto e reinscrivono, continuamente, nel profondo degli individui stigmatizzati. Ognuno di noi lo sa: lo si prova nelle situazioni più banali, dove ci si ritrova colpiti e feriti senza aspettarselo, sebbene si pensasse di essere immuni. E ognuno di noi sa che non basta rovesciare le stigmate, per usare i termini di Goffman, o riappropriarsi dell’ingiuria e risignificarla per far sparire per sempre la sua forza. Camminiamo sempre in bilico tra la significazione offensiva della parola ingiuriosa e la riappropriazione orgogliosa di quest’ultima. Non si è mai liberi o liberati. Ci si emancipa, in diversa misura, dal peso che l’ordine sociale e la sua forza assoggettante fanno pesare su tutti in ogni istante. Se la vergogna è un’“energia trasformatrice”, secondo la bella formula di Eve Kosofsky Sedgwick,90 la trasformazione di sé non si opera mai senza integrare le tracce del passato: conserva questo passato semplicemente perché è il mondo nel quale si è stati socializzati e che resta in larghissima misura presente in noi e intorno a noi, nel mondo in cui viviamo. Il nostro passato è ancora il nostro presente. Di conseguenza ci si riformula, ci si ricrea (come un compito interminabile), ma non ci si formula, non ci si crea. È dunque vano voler opporre il cambiamento o la “capacità d’azione” (agency) ai determinismi e alle forze autoriprodut90   Eve Kosofsky Sedgwick, “Shame, Theatricality and Queer Performativity: Henry James’ The Art of the Novel”, in Touching Feeling. Affect. Pedagogy, Performativity, Durham, NC, Duke University Press, 2002, pp. 35-65.

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trici dell’ordine sociale e delle norme sessuali, o un pensiero della “libertà” a un pensiero della “riproduzione”… poiché queste dimensioni sono inestricabilmente legate e relazionalmente imbricate. Tener conto dei determinismi non significa affermare che niente possa cambiare. Ma gli effetti dell’attività eretica, che mette in discussione l’ortodossia e la ripetizione di quest’ultima, possono essere solo limitati e relativi: la “sovversione” assoluta non esiste, non più dell’“emancipazione”; si sovverte qualcosa in un momento preciso, ci si sposta un po’, si compie un gesto di scarto, un passo laterale. Per dirla in termini foucaultiani: non bisogna sognare un impossibile “affrancamento”; tutt’al più si può attraversare qualche frontiera istituita dalla storia e che costringe le nostre esistenze. Per me fu dunque capitale la frase di Sartre nel suo libro su Genet: “L’importante non è quel che si fa di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi.”91 Costituì presto il principio della mia esistenza. Il principio di un’ascesi: di un lavoro di sé su di sé. Questa frase, tuttavia, assunse nella mia vita un doppio senso e valse, in modo contraddittorio, sia in ambito sessuale sia in ambito sociale: nel riappropriarmi e nel rivendicare il mio essere sessuale ingiuriato nel primo caso; nello strapparmi dalla mia condizione sociale di origine nel secondo. Potrei dire: da un lato divenendo ciò che ero e dall’altro rigettando ciò che avrei dovuto essere. I due movimenti, per me, andarono di pari passo. Ero segnato nel profondo da due verdetti sociali: un verdetto di classe e un verdetto sessuale. Non si sfugge mai alle sen  J.-P. Sartre, Santo Genet, commediante e martire, cit., p. 51 [Saint Genet, comédien et martyr, cit., p. 55]. 91

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tenze di questo tipo. E porto in me il segno dell’una e dell’altra. Ma poiché in un momento della mia vita entrarono in conflitto l’una con l’altra, dovetti forgiare me stesso facendo giocare l’una contro l’altra.

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Quello che sono oggi prese forma dall’incrocio di questi due percorsi: ero venuto a Parigi con la doppia speranza di vivere liberamene la mia vita gay e di diventare un “intellettuale”. La prima parte di questo programma si realizzò senza grandi difficoltà. Ma la seconda non aveva portato a nulla: dopo aver fallito i miei tentativi sia di entrare nell’insegnamento secondario sia di portare a termine la tesi di dottorato, mi ritrovai senza lavoro né prospettive. Fui salvato dalle risorse che offriva la subcultura gay. I posti in cui si va a rimorchiare favoriscono, in una certa misura, una permeabilità tra le classi sociali. Vi si incontrano persone che altrimenti non si avrebbe l’occasione di frequentare, dato che appartengono ad ambienti differenti o provengono da orizzonti lontani. Questo rende possibile fenomeni di solidarietà e aiuto reciproco che non sono vissuti direttamente come tali nel momento in cui si producono, non più della “trasmissione culturale” evocata prima. In un luogo gay al tempo molto frequentato, il giardino pubblico dietro Notre-Dame, conobbi un ragazzo con cui ebbi una breve relazione. Avevo venticinque anni e non sapevo più cosa fare. Facevo molta fatica ad accettare l’evidenza: mi toccava rinunciare alle utopie su cui avevo così ingenuamente progettato la mia vita futura fin dal mio ingresso all’università. Fluttuavo, 201

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indeciso e inquieto. Che cosa sarei diventato? Una sera questo ragazzo invitò a cena uno dei suoi amici, che venne con la sua compagna. Lei lavorava a “Libération”, un quotidiano di sinistra nato agli inizi degli anni settanta con il sostegno di Sartre e di Foucault. Simpatizzammo. Ci rivedemmo. Mi chiese degli articoli… Fui tenace e mi aggrappai alla possibilità inaudita che mi si presentava. Fu così che, a poco a poco, divenni giornalista. Per essere più preciso: giornalista letterario. Scrivevo recensioni di libri, realizzavo interviste (la prima fu a Pierre Bourdieu a proposito della Distinzione: me ne ricordo come fosse ieri). Questo mestiere rappresentava per me un modo imprevisto di accedere e di partecipare al mondo intellettuale. Non aveva la forma con cui lo avevo immaginato nei miei sogni di adolescente o di studente. Ma vi somigliava. Pranzavo con editori, frequentavo autori… Presto strinsi dei legami d’amicizia con molti di loro, addirittura molto stretti con Pierre Bourdieu e Michel Foucault… Mi ero appena deciso a rinunciare alla mia tesi e, per le coincidenze della vita, rese possibili da un incastro di necessità sociali e di decisioni azzardate, ecco che mi ritrovavo a frequentare tutti i grandi nomi del pensiero contemporaneo. Non restai a lungo in quel giornale: si stava già trasformando in uno dei principali vettori della rivoluzione conservatrice sulla quale mi sono soffermato più volte in questo libro. Nella grande offensiva allora in cantiere per organizzare (perché fu molto organizzata) la conversione a destra del campo politico-intellettuale, un elemento centrale, se non decisivo, era rappresentato ovviamente dall’ambito filosofico e delle scienze sociali e dall’accesso di queste allo spazio pubblico, in particolar modo allo spazio mediatico. Ero troppo legato a Bourdieu e a Foucault, troppo attaccato a difendere il pensiero critico, l’eredità del Maggio ’68… Divenni presto indesiderato. Ma avevo avuto il tempo di farmi conoscere. E il direttore di un settimanale, che non sopportava il fatto che Bourdieu lo 202

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sdegnasse e declinasse tutti i suoi inviti – era diventata un’ossessione personale –, m’invitò a unirmi alla sua squadra. Non mi piaceva questo giornale. Non mi era mai piaciuto. Per di più era ancora più impegnato nella svolta neoconservatrice rispetto a quello che avevo appena lasciato. Esitai a lungo. (“Bisogna guadagnarsi da vivere,” mi ripeteva Bourdieu per convincermi. “Le rilascerò un’intervista, così avrà un po’ di pace per due anni.”) A ogni modo non avevo troppa scelta: bisognava pur vivere, in effetti! È un eufemismo affermare che dai primi giorni mi sentii a disagio al “Nouvel Observateur”. Tuttavia il mio nome sarebbe stato associato per diversi anni a questo giornale che detestavo con tutto me stesso. Non riuscii mai ad accettare questa situazione: ancora una volta mi sentivo in bilico. Non si trattava solo di una semplice avversione, ma di un sentimento di repulsione molto più profondo. Un piccolo clan universitario considerava le pagine letterarie di questa rivista come un territorio esclusivo, e le utilizzava in modo vergognoso per gestire i propri affari e cercare d’imporre alla scena politico-intellettuale sia il proprio potere sia una deriva verso il pensiero reazionario. Portavano avanti a ogni istante una guerra contro tutto ciò che gettava ombra su di loro, e contro tutto ciò che era e intendeva restare di sinistra. La mia presenza disturbava i loro piani. E ogni mio articolo, ogni mia intervista scatenava il loro furore, che si esprimeva sia in invettive sia in minacce. (La vita intellettuale non è sempre molto bella, se vista da vicino. La realtà non corrisponde affatto alla visione idealizzata che se ne può avere quando si aspira a farne parte.) Dopo una serie di crisi e di dispute di una brutalità sconvolgente, decisi di non sprecare le mie energie in queste lotte estenuanti e sterili. Conclusi, pertanto, che questo lavoro sarebbe stato solo una fonte di reddito e che avrei approfittato del mio stipendio per scrivere libri. Tutto sommato queste esperienze penose rappresentarono un 203

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impulso straordinario: mi spinsero a cambiare strada per orientarmi verso direzioni nuove; mi spinsero a mobilitare tutta la mia energia per trasformarmi ancora una volta. Le mie prime aspirazioni alla scrittura furono letterarie: misi in cantiere due romanzi, ai quali dedicai molto tempo, tra la metà e la fine degli anni ottanta. Il primo progetto s’ispirava alle mie relazioni – e alle mie conversazioni – con Dumézil e Foucault. Volevo descrivervi tre generazioni di gay attraverso un legame d’amicizia. Tre epoche, tre vite: segnate da permanenze e cambiamenti. Scrissi un centinaio di pagine. Un po’ di più, forse. Fino al momento in cui, facendo fatica ad avanzare, lasciai questo mucchio di fogli in un cassetto. Ogni tanto tornavo su quello che chiamavo “il mio romanzo”, immaginando che un giorno sarei riuscito a terminarlo. Ma quando lessi La biblioteca della piscina di Alan Hollinghurst,92 che aveva un progetto simile al mio, ne ammirai la maestria e misurai il divario tra il mio abbozzo e un’opera riuscita: e così lo gettai letteralmente nella spazzatura. Il mio secondo progetto di romanzo doveva avere per protagonista una coppia ispirata da quella formata da Benjamin Britten e Peter Pears, e avrebbe trattato il tema della creatività che si sviluppa all’interno di una relazione amorosa. All’epoca avevo una vera e propria passione per Britten soprattutto per le sue opere scritte per la voce di Pears (Peter Grimes, Billy Budd, Death in Venice…). Mi mancava la tenacia? O il talento romanzesco? O, più semplicemente, mi resi conto che stavo recitando una parte? Animato da vecchie ambizioni e incapace di rinunciarvi, mimavo un gesto. Mi immaginavo scrittore, ma non ero portato a diventarlo. A poco a poco mi distaccai da queste tentazioni letterarie, senza mai dimenticarle veramente:   Alan Hollinghurst, La biblioteca della piscina, tr. it. di E. Capriolo, Milano, Mondadori, 1989 [The Swimming-Pool Library, London, Chatto & Windus, 1988]. 92

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rimpiango ancora, a volte, di non aver avuto la pazienza o la forza di continuare su questa strada. Un filo comune legava questi tentativi abortiti: in entrambi i casi l’interesse era rivolto alla storia gay e alla soggettività gay. È strano ma non ho mai avuto l’idea di costruire un racconto dedicato alle classi sociali, partendo ad esempio dal percorso di un figlio delle classi popolari che si allontana dalla sua famiglia e restituendo, all’interno di questa cornice, la vita di due o tre generazioni, con ciò che le separa e ciò che continua comunque a unirle. A ogni modo non proseguii più con le mie incursioni nel mondo della narrativa e arrivai così a ciò che mi attirava da tempo e che avevo indugiato a realizzare: scrivere sulla vita intellettuale e sulla storia del pensiero. Iniziai con due libri d’interviste (con Georges Dumézil e con Claude Lévi-Strauss). Si trattava, all’inizio, di un’estensione della mia attività giornalistica. Ma passare alla dimensione di un libro cambiava tutto. Mentre realizzavo il primo, nel 1986, Dumézil mi suggerì di scrivere una biografia di Foucault, deceduto due anni prima. Mi accompagnò nei primi passi e mi passò numerose informazioni e documenti, prima di spegnersi a sua volta. Questo rappresentò per me un modo di rendere omaggio a Foucault, in un’epoca in cui il suo nome e la sua opera erano insultati e diffamati dalle squadre neoconservatrici che si erano impossessate di tutti i luoghi di espressione, facendo credere che la loro ideologia e i loro anatemi fossero condivisi da tutti, e perfino che regnasse ormai un nuovo “paradigma” nelle scienze sociali (mentre si era trattato semplicemente di un tentato colpo di mano). Questo libro intempestivo e ambizioso ebbe successo e giocò, credo, un ruolo importante nella resistenza che cominciò a manifestarsi nello spazio pubblico rispetto alla controrivoluzione ideologica che prosperava. Fu subito tradotto in diversi paesi. Questo mi permise di partecipare a convegni, 205

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di tenere conferenze… A poco a poco il giornalista si allontanava da me, o piuttosto ero io ad allontanarmi da lui. Continuai, certamente, a pubblicare ogni anno qualche articolo, a realizzare qualche intervista, ma si diradavano sempre di più e quasi tutto il mio tempo venne così dedicato a scrivere libri e a partecipare ad attività universitarie all’estero. Avevo cambiato mestiere. Questa nuova vita mi poneva al centro di autori e lavori che rinnovavano il paesaggio intellettuale, interessandosi a questioni che fino ad allora erano state ampiamente trascurate dalla ricerca. Avevo voglia di essere parte integrante di questo movimento. Mi misi a scrivere opere più teoriche: la prima a uscire fu Riflessioni sulla questione gay, seguita da Une morale du minoritaire. Mi ci era voluto del tempo per pensare in prima persona. Perché, per sentirsi legittimi, è necessario essere stati legittimati da tutto il proprio passato, dal mondo sociale, dalle istituzioni. Malgrado i sogni un po’ folli di giovinezza, non mi risultò facile sentirmi all’altezza – vale a dire socialmente autorizzato – di scrivere libri, e a maggior ragione libri teorici. Ci sono i sogni. E c’è la realtà. Far coincidere i due non richiede solo ostinazione; sono altrettanto necessarie delle circostanze favorevoli. A casa, durante la mia infanzia, non c’erano libri. Contrariamente al modo in cui Sartre si dipinge in Le parole – autobiografia di gioventù che vuole restituire la storia di una “vocazione” e perfino di una “missione”, vale a dire di una predestinazione sociale alla vita letteraria e filosofica – io non ero “richiesto”.93 Scrivere non costituì per me la chiamata di un futuro già contenuto nei miei giochi e nei miei numeri di ragazzino, eseguiti sotto lo sguardo di adulti meravigliati ed esterrefatti dal mio utilizzo precoce della parola. Al contrario! Mi aspetta  Jean-Paul Sartre, Le parole, tr. it. di L. De Nardis, Milano, Il Saggiatore, 2011 (1964), p. 121 [Les Mots, Paris, Gallimard, 1977 (1964), p. 139]. 93

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va un altro destino: dover riportare i miei desideri al livello delle mie possibilità sociali. Dovetti così battermi – innanzitutto con me stesso – per accordarmi facoltà e crearmi diritti, per altri acquisiti. Dovetti progredire a tastoni su strade che, per qualche privilegiato, somigliavano a un percorso con le frecce. Spesso dovetti perfino tracciare io stesso questi cammini, dal momento che quelli esistenti si rivelavano chiusi a persone come me. Il nuovo statuto che acquistai alla metà degli anni novanta e il nuovo ambiente internazionale in cui mi trovai inserito giocarono per me, in modo differito, il ruolo che l’habitus di classe e le vie regali del percorso scolastico e universitario giocano prima per altri. Passai così molto tempo in viaggio in Europa, in America Latina e soprattutto negli Stati Uniti: tenevo conferenze a Chicago, parlavo nei convegni a New York o a Harvard, insegnavo a Berkeley, soggiornavo a Princeton… Ricevetti un premio a Yale. I miei lavori sulla storia intellettuale, sull’omosessualità, sulla soggettività minoritaria mi avevano così condotto dove le mie origini di classe, situate negli abissi del mondo sociale, non mi avrebbero mai lasciato sperare di arrivare e, di fatto, mi avevano dato poche possibilità di arrivare.

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In occasione della consegna di quel premio, dovevo pronunciare un discorso piuttosto formale. Quando mi chiesero il titolo e la sintesi decisi di rileggere in modo critico i libri che mi avevano portato fino a questa ricompensa e a questa cerimonia. Volevo riflettere sul modo in cui si costituisce retrospettivamente il proprio passato, attraverso le categorie teoriche e politiche disponibili nella società in cui si vive. Cominciai evocando la morte di mio padre, la giornata passata con mia madre ad aprire cartoni di vecchie foto, la riscoperta dell’universo nel quale un tempo avevo vissuto e che ritornava alla memoria in ognuna di queste foto… Dopo aver descritto la mia infanzia da figlio di operaio, mi chiesi perché non avevo mai avuto l’idea o la voglia di riflettere su questa storia, perché non avevo mai pensato a partire da essa. Citai un passaggio di un’intervista di Annie Ernaux che mi aveva toccato molto: a una domanda sull’influenza che l’opera di Bourdieu aveva esercitato sul suo lavoro, lei raccontò che, impegnandosi fin da molto giovane nel percorso letterario, nel 1962 aveva scritto nel suo diario: “Vendicherò la mia razza.” Vale a dire, precisava, il mondo da cui proveniva, quello dei “dominati”. Esitò ancora sulla forma da adottare per portare a termine questo progetto. Qualche anno più tardi, proseguiva, “la scoperta dei 209

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Delfini 94 sulla scia del ’68 e sullo sfondo di un malessere personale e pedagogico” costituì per lei “un’ingiunzione segreta” a “immergersi” nella memoria per “scrivere la lacerazione dell’ascensione sociale, la vergogna e così via”. Come lei, sentivo la necessità nel contesto di un movimento politico e dell’effervescenza teorica che l’accompagnava, di “immergermi” nella memoria e di scrivere per “vendicare la mia razza”. Ma fu un’altra “razza” che m’impegnai a vendicare, e dunque un’altra memoria che iniziai a esplorare. I movimenti collettivi, fornendo agli individui il mezzo di costituirsi come soggetti della politica, offrono loro allo stesso tempo le categorie attraverso cui possono percepire se stessi. Queste griglie di lettura di sé si applicano al presente, sicuramente, ma anche al passato. Gli schemi teorici e politici precedono e danno forma al modo in cui si pensa se stessi e creano così la possibilità di una memoria allo stesso tempo collettiva e individuale: è a partire dalla politica contemporanea che si guarda indietro, per riflettere sul modo in cui si sono esercitati i meccanismi della dominazione e dell’assoggettamento e in cui si sono operate le riformulazioni di sé prodotte dai processi di resistenza, siano stati essi coscienti di se stessi o semplicemente messi in pratica giorno dopo giorno. Questi quadri politici della memoria definiscono, in larga misura, il bambino che si è stato e l’infanzia che si ha vissuto. Tuttavia, e già Halbwachs attirava la nostra attenzione su questo punto, se è vero che la memoria collettiva, quella del gruppo a cui si appartiene o nel quale ci si identifica e che si contribuisce in questo modo a creare, costituisce la condizione della memoria individuale, è altrettanto vero che ogni individuo s’inscrive in più gruppi. Successivamente o simultanea94   Pierre Bourdieu, Jean-Claude Passeron, I delfini. Gli studenti e la cultura, tr. it. di V. Baldacci, Bologna, Guaraldi, 1971 [Les Héritiers. Les étudiants et la culture, Paris, Minuit, 1964].

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mente.95 Questi gruppi s’incrociano a volte; evolvono sempre e si trasformano senza sosta. Allo stesso modo la “memoria collettiva” e, con lei, le memorie individuali e il passato degli individui non solo sono plurali, ma cambiano. Si elaborano in spazi e temporalità multiple, eterogenee, che sarebbe vano voler riportare a unità, o cercare di gerarchizzare decretando quali siano importanti e quali no. Dopo tutto, il primo libro di Annie Ernaux, Gli armadi vuoti, del 1974, non evoca solo il mondo sociale della sua infanzia e della sua adolescenza; racconta anche l’esperienza traumatica di una ragazza di vent’anni che fa un aborto clandestino.96 E quando ritornò più tardi, negli Anni, sul momento in cui prese corpo in lei il progetto di scrivere per recuperare tutto quello che aveva “rifuggito come vergognoso” e che diventava “degno di essere ritrovato”, sottolineò fino a che punto “la memoria che cessa di essere umiliata” aveva tracciato davanti a lei un avvenire tanto politico quanto letterario e intellettuale, in cui avrebbe potuto riappropriarsi delle differenti tappe della sua traiettoria, delle differenti dimensioni costitutive della sua personalità: “Lottare per il diritto delle donne ad abortire, battersi contro l’ingiustizia sociale e comprendere come sia diventata la donna che è, sono per lei un tutt’uno.”97 Quando il marxismo dominava la vita intellettuale francese, in ogni caso a sinistra, all’epoca dei miei studi, durante gli anni sessanta e settanta, le altre “lotte” sembravano “secondarie” o 95   Cfr. Maurice Halbwachs, Les Cadres sociaux de la mémoire [1925], Paris, Albin Michel, 1994; La Mémoire collective [manoscritto del 1932-1938, a cura di Gérard Namer], Paris, Albin Michel, 1997. 96   Annie Ernaux, Gli armadi vuoti, tr. it. di R. Petri, Milano, Rizzoli, 1996 [Les Armoires vides, Paris, Gallimard, 1974]. 97   Annie Ernaux, Gli anni, tr. it. di L. Flabbi, Roma, L’Orma Editore, 2015, p. 132 [Les Années, Paris, Gallimard, 2008, p. 121].

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erano perfino denunciate come “deviazioni piccoloborghesi” che distoglievano l’attenzione dalla sola lotta degna d’interesse, dalla sola “vera” battaglia, quella della classe operaia. Insistendo su tutte le dimensioni che il marxismo aveva lasciato da parte – la soggettivazione sessuata, sessuale o razziale, tra le altre… – perché concentrava la sua attenzione esclusivamente sull’oppressione di classe, i movimenti designati come “culturali” furono portati a proporre altri modi di problematizzare l’esperienza vissuta, e a trascurare in larga misura l’oppressione di classe. Dobbiamo ammettere che la censura esercitata dal marxismo, che respingeva fuori dai quadri della percezione politica e teorica un insieme di questioni come il genere o la sessualità, non poteva essere aggirata se non censurando o rimuovendo tutto quello che il marxismo ci aveva abituato a “percepire” come l’unica forma di dominazione? E che, di conseguenza, la scomparsa del marxismo, o almeno la sua cancellazione in quanto discorso egemonico a sinistra, sarebbe stata la condizione necessaria per permettere di pensare politicamente i meccanismi dell’assoggettamento sessuale, razziale ecc. e della produzione delle soggettività minoritarie? È probabile. Ma perché scegliere tra le differenti lotte, contro differenti modalità di dominazione? Se ciò che siamo si situa all’intersezione di molteplici determinazioni collettive, e dunque di molteplici “identità”, di molteplici modalità di assoggettamento, perché stabilirne una piuttosto che un’altra come fulcro della preoccupazione politica? Certo, si sa che ogni movimento ha la tendenza a imporre come primordiali e prioritari i suoi principi specifici di divisione del mondo sociale. Ma se è vero che sono i discorsi e le teorie che ci fabbricano come soggetti della politica, non abbiamo allora il compito di costruire discorsi e teorie che ci permettano di non trascurare nessun aspetto, di non lasciare fuori dal campo della percezione o fuori dal cam212

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po d’azione nessun ambito dell’oppressione, nessun registro della dominazione, nessuna assegnazione all’inferiorità, nessuna vergogna legata all’interpellazione ingiuriosa? Teorie che ci permettano anche di essere pronti ad accogliere ogni nuovo movimento che vorrà portare sulla scena politica problemi nuovi e parole inascoltate e inattese?98 Questa conferenza a Yale per me rappresentava una vera e propria prova nel senso, tra gli altri, di un momento chiave in un percorso iniziatico. Fu subito dopo averla pronunciata che mi s’impose l’idea di riprendere, da dove lo avevo lasciato, il libro iniziato poco dopo la morte di mio padre – e al quale avevo immediatamente dato come titolo Ritorno a Reims – e abbandonato qualche settimana più tardi. Iniziai a leggere freneticamente tutto quello che poteva avere dei rapporti con questi temi. Sapevo che un progetto simile – scrivere sul “ritorno” – può essere condotto a buon fine solo attraverso la mediazione, dovrei dire il filtro, di riferimenti culturali: letterari, teorici, politici… Aiutano a pensare e a formulare quello che si cerca di esprimere, ma soprattutto permettono di neutralizzare il carico emotivo che sarebbe indubbiamente troppo forte, se si dovesse affrontare il “reale” senza questo schermo. Mi ero ripromesso, tuttavia, di leggere il romanzo di Raymond Williams Border Country99 solo dopo aver terminato il mio ultimo capitolo. Avevo il presentimento che mi avrebbe lasciato un’impronta troppo forte. Così ho aspettato. Lo richiudo oggi, al momento di concludere. L’intreccio parte quando un professore dell’università di Londra apprende che suo padre ha appena avuto un attacco cardiaco e ha i giorni contati. Si 98   Didier Eribon, The Dissenting Child: A Political Theory of the Subject, discorso tenuto il 9 aprile 2008, in occasione della consegna del James Robert Brudner Memorial Prize. 99   Raymond Williams, Border Country, Cardigan, Parthian, 2006 (1960).

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affretta a prendere il treno. Inizia così un itinerario a ritroso che parte dall’infanzia nelle classi popolari gallesi e arriva al ritorno in famiglia prima del lutto annunciato, passando attraverso l’allontanamento dall’ambiente di origine e il malessere e la vergogna che ne sono gli effetti quasi inevitabili. Con l’obbligo, una volta tornato, di rivivere mentalmente infanzia e adolescenza. Al centro di questa storia si trova, ovviamente, la partenza per l’università, grazie al sostegno dei genitori, coscienti che i loro sacrifici avrebbero portato alla separazione dal figlio. Nell’ultima pagina il protagonista comprende che non è possibile “ritornare”, abolire le frontiere instaurate dopo tanti anni. Ci si può, tutt’al più, impegnare a riconciliarsi con se stessi e con il mondo che si è lasciato, cercando di raccordare il presente al passato. Così dichiara, con molta lucidità, che ha “misurato la distanza” e che, “misurando la distanza”, “si pone fine all’esilio”. Ha ragione? Ha torto? Non sono certo di poterlo stabilire. Quello che so è che, alla fine del romanzo, quando il figlio viene a sapere della morte del padre, con il quale ha avuto appena il tempo di riallacciare un legame di affetto scomparso o semplicemente dimenticato, mi sono venute le lacrime agli occhi. Avrei pianto? Ma per che cosa? Per chi? Per i personaggi del romanzo? Per mio padre? Con una stretta al cuore ho ripensato a lui, rimpiangendo di non averlo rivisto. Di non aver cercato di capirlo. Di non aver tentato, in passato, di parlargli. Di avere lasciato che la violenza del mondo sociale prevalesse su di me, come aveva prevalso su di lui. Qualche anno prima, visto che mi trovavo nuovamente senza una rendita regolare e sicura, mi venne naturale intraprendere le azioni necessarie per entrare nell’università francese. I miei libri e i miei insegnamenti americani me ne conferirono il diritto. Dopo una lunga deviazione, ritrovavo così gli spazi 214

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che avevo dovuto lasciare alla fine degli anni settanta perché non ero socialmente abilitato ad appartenervi. Oggi insegno lì. Quando annunciai a mia madre che mi avevano offerto un posto, mi chiese emozionata:“E di che diventi professore? Di filosofia?” “Di sociologia, piuttosto.” “Che cos’è? C’entra la società?”

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