Ricordi di un impiegato 8876924477, 9788876924477

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Ricordi di un impiegato
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fa®: FEDERIGO

TOZZI

RICORDI DI UN IMPIEGATO =>

PICCOLA BIBLIOTECA UNIVERSALE 26

Prefazione di Marco Marchi

Copyright © 1994 by Edizioni Studio Tesi srl via Cairoli, 1 - 33170 Pordenone

ISBN 88-7692-447-7 1° edizione novembre 1994

FEDERIGO TOZZI RICORDI DI UN IMPIEGATO

Edizioni Studio Tesi

In Ricordi di un impiegato, come sempre in Tozzi, autobiografia e cultura si saldano. Persino la valutazione in chiave positiva avanzata da Borgese per Tre croci come unico romanzo tozziano «di materia del tutto impersonale» si rivela in questo senso deficitaria, visto che le tragiche disavventure dei fratelli Gambi attingono alla cronaca dei librai antiquari Torrini di Siena e che soprattutto nella delineazione di uno di essi, Giulio, c'è anche, in sottofondo,

l’anima di Tozzi: una semplificazione, una troppo facile annessione ad un volontaristico programma Obiettivante e ricostruttivo, di patrocinio verghiano, fiduciosamente suggellato da un titolo come Tempo di edificare. Sta di fatto che nel diarismo narrativo dei Ricordi la componente autobiografica gioca un ruolo essenziale, di assoluto rilievo. A garantire del rimando a vicende della vita dell’autore intervengono dati bio-. grafici ineludibili come il soggiorno impiegatizio dell’aiuto-applicato Federigo Tozzi, in servizio alla

stazione ferroviaria di Pontedera dal 1° marzo 1908 (e quindi, per trasferimento, dal 1° maggio all’ufficio dell’Archivio di Firenze), e la sua condizione di giovane lontano dalla propria città, distante da una VII

situazione familiare ‘a lui ostile e da una fidanzata che lo ama. Di più: il diarismo dell’opera ricalca, con riprese e sovrammissioni talvolta esatte (si pensi all'episodio del dentista empolese sorpreso a esercitare il suo mestiere nella camera d’affitto in cui l'impiegato vive), luoghi della corrispondenza fra Tozzi ed Emma Palagi, di lì a poco — il 30 maggio 1908, con il ritorno di Federigo a Siena, erede della

trattoria “Il Sasso” e dei poderi di Castagneto e Pecorile — sua moglie. A ribadire l’importanza dell’elemento direttamente desunto dalla vita basterà solo accennare, infine, che

anche un fatto estremamente implicante e decisivo della biografia tozziana come la morte del padre trovava originariamente riscontro nel testo. L’attacco

del brano al 6 aprile che recita: «La malattia di Attilia m’impensierisce; e le scrivo con una apprensione

che non mi lascia più pace. Se potessi avere un giorno di permesso e andare a Firenze» rimpiazza, al controllo dell’autografo, un primitivo e sufficientemente sorprendente «Come finirà la malattia del babbo? Voglio domandarlo al suo medico», secondo un variantismo indicativo della complessa elaborazione cui un testo nato intorno al 1910 sarebbe andato incontro nel diventare, alla vigilia della prematura e improvvisa scomparsa di Tozzi, quello che oggi leggiamo.

Un distanziamento, una sostanziale decantazione del più puntuale e incidente autobiografismo di partenza, tanto che allora (si tratta di acquisizioni critico-documentarie recenti) il personaggio che redigeva in prima persona quei resoconti non aveva nep-

pure un nome. Se l’estensore restava anonimo, non erano presenti

o non si muovevano intorno a lui con

la consistenza di personaggi narrativamente efficienVII

ti, dialoganti e ad ogni modo incaricati della creazione e dei rinnovati sviluppi di una trama, neppure i familiari dell’antefatto e dell’epilogo della storia, l’indimenticabile figura di Drago, la stessa Attilia evocata da Leopoldo nei termini sostitutivi di una «povera rosa» appassita e destinata a ricondurre la ‘ pagina di Tozzi, con esiti straordinari, al tema conti-

nuo della morte, qui altrettanto straordinariamente bilanciato (e non smentito da una banale risorsa per concludere a lieto fine) dalla registrazione stupefatta e insieme inorridita della vita che rinasce. La biografia di Tozzi, dunque, nei modi via via più liberi e ibridi di una tranche cronologicamente concentrata ma allineabile a quelle offerte dalle narrazioni romanzesche di Pietro Rosi di Con gli occhi chiusi o di Remigio Selmi del Podere: storie di un’unica storia tra le quali Ricordi di un impiegato, fungendo da raccordo e fornendo loro continuità, si incunea. Ma anche la letteratura e la cultura, in queste cangianti proiezioni di sé che Tozzi effettua scrivendo, intervengono: fin dall'inizio, costantemente,

pure quando l’autoritratto, per via di esibizione culturale appunto, preveda le oltranze di un autore che non risulti per coincidenza un “impiegato” come Federigo Tozzi sposatosi con l’«atta a casa» Emma Palagi, bensì i tratti di un simbolistico-superomistico eroe votato alla sconfitta come il Paolo dell’omonimo poema in prosa, 0 quelli en travesti, di autorizzazione janettiana, dell’isterica protagonista di Adele. L’impiegato stesso, d'altronde, è topos collaudatissimo e di continuo aggiornato, rivisitato all'insegna del nuovo, di una tradizione narrativa europea di matrice ottocentesca che va da Balzac e Flaubert a De Marchi, a D'Annunzio, a Kafka. Svevo stesso, tra

autobiografia e mediazione culturale di tipo realistaIX

naturalista, vi si era rivolto, con risultati già modernamente remunerativi, vestendo i panni dell’inettitudine di Alfonso Nitti, il giovane e senile bancario del

suo romanzo d’esordio Una vita. Ma chi è Leopoldo Gradi? Ambizioso e disadattato fino all’angoscia, velleitario e bloccato dalle proprie incapacità e dalla paura degli altri, Leopoldo è sostanzialmente

un falso «giovane

impiegato»

(secondo il titolo definitivo dell’opera che un uso invalso ha sconsigliato di ripristinare come Ricordi di un giovane impiegato), che gioca su questo

piano, tragicamente e leopardianamente, la sua risolutiva credibilità di personaggio novecentesco del disagio, della divisione e dello smacco esistenziale.

In modo analogo, Giovani si sarebbe intitolata l’unica raccolta novellistica dell’autore, secondo un

tema privilegiato e ricorrente, scelto peraltro — come ha sottolineato di recente Luperini — «perché capace di catalizzare una serie di interessi psicologici risalenti già al periodo della elaborazione di Adele. James, Janet, Ribot e le precoci consultazioni della «Revue Philosophique» si combinano

con Leopardi,

riconducendo Tozzi alla modernità di scrittori di prim’ordine come Svevo e Pirandello. Scrive Luperini: Se l’inettitudine era per Pirandello un male del secolo, il frutto di una crisi storica dei “vecchi” e dei “giovani” (si

veda il suo Arte e coscienza d'oggi, 1893), per Tozzi è il carattere stesso di una condizione che può durare anche oltre di essa. L’inettitudine, per lui, è la “malattia”

stessa della giovinezza.

Del resto, che il naturalismo e altre categorie culturali valutate attive nell’attraversamento critico e

Xx

comunque nella loro rilevanza avessero avuto a che fare con la genesi di un testo come

i Ricordi, fu

Giacomo Debenedetti a sottolinearlo nella sua storica lettura dell’opera di Tozzi, anche se la drastica

svolta operata a partire da un celebre saggio del 1963 (quella cioè che individuava, con coraggiosa . inversione di tendenza, la modernità dell’autore non nel da sempre celebrato Tre croci, ma in Con gli

occhi chiusi) restava incerta sulle modalità di intervento di una pur inequivocabile e radiosamente antinaturalistica inaugurazione del romanzo italiano del Novecento. Tozzi, da autodidatta insaziabile e vorace come un'“ape impazzita» (pericolosità della

metafora, trattandosi di presunti entusiasmi e inadeguatezze di uno scrittore in sospetto di ingenuità non meno che di patologia), rimaneva un rabdomante dotatissimo ma fondamentalmente privo di confortanti indirizzi e strumenti di verifica, inconsa-

pevole. E tuttavia, proprio le lettere di Novale, al di là della vita e parte integrante della vita, avevano testimoniato fin dal 1902 — fra tanti autori e titoli di opere citati — pure di una entusiastica lettura degli Ideali della vita di William James e quindi; sebbene in cifra, dell'acquisto avvenuto sullo scorcio del 1907

di un «libro di psicologia» identificabile con i Principii del pragmatista americano. Si può affermare insomma che Tozzi era già nato un tempo — è la sua protostoria letteraria affidata ai pochi documenti residui del 1903, in versi e in prosa — scrittore di cultura: poi la vita, semmai, si era resa

responsabile di penose impossibilità e inconcludenze dell’esercizio artistico. Quando tra il 1907 e il 1908 lo scrittore rinasce, a promuovere e corroborare la sua ripresa agiscono, assieme a situazioni bio-

grafiche di rilievo, testi. Anche una antica nota di XI

Emma

a Novale, relativa all’influenza di Lombroso

nella rievocazione tozziana di un superato periodo di reale squilibrio psicologico (energie consumatesi non a caso, a quell’epoca, in doloroso silenzio creativo), risulta informazione sufficiente a delegittimare l'immagine di uno scrittore poi accreditato da certa critica come totalmente

naif e magari psicotico, 0

almeno a sollecitare il problema di quali cognizioni un autore così freudianamente stimolante ai fini di una sua piena decodifica avesse potuto disporre. Già un

recensore

contemporaneo

di Tozzi,

d'altronde, in un giudizio su Con gli occhi chiusi pertinente e agevolmente estensibile ai Ricordi, aveva con molta acutezza notato: «Si direbbe naturalismo: ma non è neanche questo». Così Luigi Pirandello; nel recensire nell’aprile del 1919 un libro fresco di stampa e nel percorrere nei suoi significati fondamentali

il recupero di Debenedetti

e le sue

notomizzanti e spesso magistrali disamine di un’intera opera narrativa. E tuttavia, per forza di cose, proprio circa Ricordi di un impiegato non tutto ciò che Debenedetti sostiene appare oggi sottoscrivibile, a cominciare dalla esclusiva valorizzazione dell’ultima redazione dell’opera mediante

mortificazione dei

Ricordi venuti prima, e in particolare non della primissima, allora ignota, redazione originaria, ma di

una versione intermedia scelta da Borgese (per Debenedetti un prodotto artatamente tagliato e contraffatto, a favore di una asciutta oggettività alla maniera di Tre croci) per la loro pubblicazione sulla «Rivista letterari», all'indomani della morte di Tozzi. Scriverà Debenedetti nel Romanzo del Novecento: Un racconto che aspira, in modo oscillante e senza un’eccezionale disponibilità di mezzi, a un modulo

XII

naturalistico volta a volta irritato da una vena di crudeltà

e perfino di sadismo, reso contrito da inflessioni masochistiche. [...] Un modulo naturalistico, infine, smorzato

o messo qua e là in sordina da un certo intimismo crepuscolare che lo intride e lo soffonde.

E altrove, nell’ipotizzare un’analoga pesante “naturalizzazione” dell’opera da attribuire all’eliminazione di pagine di incremento predisposte dall'autore stesSO:

L'importante è che Borgese le abbia tolte proprio rovesciando le medesime ragioni per cui Tozzi le aveva aggiunte. Sono proprio quelle aggiunte ad alterare il rapporto tra il personaggio e il mondo, il modo del personaggio di esserci nel mondo, che non è più la partecipazione al mondo e alla vita, caratteristica dei personaggi veristi,

Oppure: Niente del Leopoldo del testo di Borgese smentisce la fiducia che l’uomo può capire tutto dell’uomo: e quando si dice capire, si intende per cause ed effetti. La narrativa naturalistica nega il mistero, l’imponderabile. E si dica soltanto, contraddicendo Debenedetti, se

il sociologicamente più compatto Leopoldo avallato da Borgese partecipi, da personaggio naturalista, «al mondo e alla vita». In realtà, fino dalla sua primitiva configurazione (il testo si può ora leggere in appendice al “Meridiano” mondadoriano delle Opere, e una sua discussione è nel mio Federigo Tozzi. Ipotesi e documenti, edito

da Marietti nel 1993), l'impiegato che la scrittura di XII

Tozzi mette in scena è frutto della combinazione che si diceva, e autobiografia e cultura (fosse quest’ultima naturalismo rovesciato, crepuscolarismo, vocia-

nesimo, 0 — come esemplarmente accade nell’episodio aggiunto dell’ortolano — jamesismo) avrebbero continuato a interagire nel corso degli anni, e quin-

di, direttamente o per sottoscritti e attualizzati recuperi, nella compagine di un diario inclusivo, miscidato e potenzialmente infinito, neppure compiutamente assestatosi (è ancora l’autografo a dimostrarlo) nell’imminenza di una già predisposta stampa in rivista. Possono valere da supporto a queste osservazioni

le aggiunte — effettuate per assemblaggio di materiali preesistenti — in coda alle giornate 15 marzo e 17 marzo, la cui estrinsecità rispetto alla secca narrazio-

ne fornita da Borgese è in effetti rilevabile, con deviazioni indugianti finanche nelle zone di quel crepuscolarismo che Debenedetti riscontrava attivo in quella redazione più breve. Esemplare a questo riguardo è pure l’immagine fra tristezza e allegria del carosello dei cavalli di legno presente nell’aggiunta al 30 marzo, al pari delle corazziniane bare e agonie dell'anima prelevate da altri contesti e ascritte tout

court alle annotazioni di Leopoldo Gradi in data 11 marzo; la stessa «povera rosa», che diventa «d’Attilia»

nell’immissione, rivela la sua dipendenza da un genere come la prosa lirica del frammentismo. Ed è così, d’altra parte, che il rude aiuto-applicato delle

ferrovie Leopoldo Gradi autore di un diario crudamente registrativo ed efficace, cronaca di un mondo turbato e magicamente sospeso che sa più di pionieristica, impacciata e aurorale rilevazione scientifica che di matura confessione, si ritrova persino, poco

plausibilmente, a dare stridenti saggi della propria XIV

sensibilità sfocianti in retorica vociana (16 marzo). Debenedettiane dissonanze o borgesiane stonature? Il pronunciamento, specie per chi sia stilisticamente familiarizzato con le “distrazioni” di Tozzi e con l’analogismo onirico-espressionistico della sua prosa, si fa talvolta pressante. Ma al di là di qualsiasi suggestione rintracciabile nel testo così come lo lasciò l’autore e come giustamente il figlio Glauco Tozzi lo pubblicò nel 1960, varrà anche ripensare alle ragioni dell’antico rifiuto editoriale giunto a Tozzi nel settembre del 1911, allorché la rivista «La Lettura», pur definendo i Ricordi (allora non più di un racconto) «un delizioso studio di piccola vita», segnalò come elemento negativo l’incapacità del testo a uniformarsi a «novelle che sono

veri, brevi romanzi,

interessanti

special-

mente nell’intreccio». Nel corso degli anni, in effetti, l’intreccio dei Ricordi si complicò, e tuttavia qui

Tozzi restò essenzialmente fedele, a salvaguardia della “profondità” che gli premeva, a quella che fu la sua più autentica poetica: Ai più interessa un omicidio o un suicidio; ma è egualmente interessante se non di più, anche l’intuizione e quindi il racconto di un qualsiasi misterioso atto nostro; come potrebbe esser quello, per esempio, di un uomo che a un certo punto della sua strada si sofferma per raccogliere un sasso che vede, e poi prosegue la sua passeggiata. (Come leggo i0)

È utile notare come i motivi addotti dal periodico e dalle teorizzazioni dell’autore fossero poi rimbalzati nel giudizio, centrato e favorevole, che delle novelle

di Tozzi avrebbe dato il troppo equivocato Borgese. In quelle novelle che senza incertezze apparivano al XV

critico-leaderdiTozzi degne «di stare a paro con le più solenni dei russi, che ricordano per profondità di scandaglio», «spesso manca il cosiddetto intreccio»: una premessa alla loro impopolarità, non certo un difetto. Borgese presupponeva, ancora in termini di cultura, l'apporto decisivo in Tozzi delle letture dei grandi scrittori russi, Tolstoj e Dostoevskij in testa. Ma proprio una consistente e insospettata frequentazione di cultura squisitamente scientifica — dal Lombroso

richiamato da Emma

a un compendio

d’autore dei Tre saggi sulla sessualità di Freud — consentì a Tozzi, all'insegna della consapevolezza,

una fondamentale possibilità di accredito al suo narrare le anomalie del quotidiano, al suo spregiudicato cogliere e fissare con rigore e crudeltà ineguagliati, abbattendo confortanti confini tra il normale e il patologico, il mistero di «atti nostri» antinaturalisticamente inesplicati e inesplicabili: come quelli, appunto, registrati nel corso delle sue giornate, tra solitudine e incontri, dal ferroviere Leopoldo Gradi.

È a questo discrimine culturale che ilbomplessivo

autobiografismo della narrativa tozziana si divarica, risolvendosi volta a volta, secondo riconoscibili “maniere”, in un autobiografismo del profondo

come quello di Con gli occhi chiusi e dei Ricordi, o in un autobiografismo che, soggetto a controllo razionalizzante, a ideologizzazione, ridotto finanche

a rassicurante messaggio conciliativo, si rivela di gran lunga meno interessante. Stiamo insomma con

Debenedetti e con Baldacci nel ritenere che nell’ambito di questo narratore ai vertici del Novecento italiano c'è un Tozzi (doppiamo pure il linguaggio della «Lettura» e di Tozzi saggista) che interessa di più. Ha scritto Baldacci:

XVI

Insieme con Svevo e Pirandello, Tozzi è un moderno

perché ha rinunciato a capire come stanno le cose, perché ha rinunciato al diritto di giudizio e di condanna, perché ha limitato al massimo il proprio ruolo e si è imposto di non evadere dalla mera rappresentazione.

Autoimposizioni e strategie perfettamente calibrate, di finalizzazione e denuncia tutt’altro che natura-

listiche, alle quali ancora una volta fa eco — nella sicura individuazione di sintonie e immancabili contrassegni novecenteschi della scrittura — la consapevolezza di un autore che, pur riferendosi ad altri, sa di poter parlare di sé: E credo nessun altro scrittore come il Pirandello senta il male e la cattiveria come una condizione naturale che

non può essere abolita. [...] Egli pensa al male perché ama il bene: come il casto pensa le oscenità. (Luigi Pirandello)

Marco Marchi

XVII

RICORDI DI UN IMPIEGATO

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3 gennaio

Strapparmi dalle ubriacature di ozio e di vagabondaggio, a cui mi sono liberamente abbandonato dai quindici ai vent'anni, mi pare una crudeltà raffinata. E mi offendo se qualcuno tenta di convincermi che anche io devo pigliare una strada meno comoda ma più seria. Un gio-

vane intelligente e innamorato non ha diritto di fare il proprio comodo? L’amore mi occupa tutto quanto l’animo; e mi pare l’unico mestiere che si confaccia alla mia coscienza e alla mia superbia. Non sembri strano che io mi senta anche molto ambizioso; anzi, per questo moti-

vo, non voglio lavorare come tutti gli altri; e persisto nel proponimento di attendere, di giorno in giorno, una sorte privilegiata quale me la figuro. E non ammetto transazioni. 5 gennaio Alla fine, sono messo tra l’uscio e il muro da

mio padre; che, mostrandomi la sfilata dei fra3

telli e delle sorelle, mi convince di concorrere

alle Ferrovie dello Stato. Un’occhiata, tra timida e dispettosa, a mia madre incinta e ancora giovane, mi fa chinare la testa e piangere. 1 febbraio Più di tutto, quando so che gli esami sono ‘andati bene, mi dispiace lasciare la fidanzata. L’amo da vero la mia Attilia; e ad andarmene

da Firenze, per essere mandato chi sa in quale stazione, mi sento colpevole come di un delitto. Prendo la fotografia di Attilia; e, bagnandola volentieri di lagrime, le giuro, come se avessi dinanzi lei stessa, che non è colpa mia. Mangio e bevo le mie lagrime con una ingordigia che mi fa disperare anche di più. Mia madre mi sorprende; e con un viso, dove

mi par di leggere una contrarietà assoluta e immutabile, quasi un’ostinazione egoistica, mi dice: «Vorresti portarti la moglie in casa nostra? Forse, ti pare che siamo pochi senza di lei?». Io non ho il coraggio di risponderle; ma, con un tremito fin dentro i nervi del cervello, le fac-

cio capire che non sono punto disposto a cedere. E, allora, mi meraviglio di riuscire, per la

prima volta, a non ubbidire a mia madre. La guardo meglio, quasi spaventato di me stesso; ed ella, senza più curarsi di me, apre i cassetti del canterano per ricontare la biancheria che . 4

dovrò portare con me. Le camicie sono tre soltanto, le mutande due, i giubbettini di lana

mancano, i fazzoletti devono essere cifrati perché la lavandaia non li mescoli con quelli di altri o li perda, i solini non reggono più l’amido. Quando ha finito, mi dice:

«La tua fidanzata dovrebbe pensare a rifarti il corredo, se tu sei certo che pensa a te!». Io, esaltato dalla gioia di difendere Attilia,

tolgo dal fondo del tavolino, che mi fa da nascondiglio, dove credo che non frughi nessuno, un involto ben chiuso; e riesco ad aprirlo

con sveltezza delicata: «Guarda: mi ha regalato già questa cravatta!» Mi pare così bella che mi si bagnano un’altra volta gli occhi. Mia madre, vedendomi a quel modo, non la osa toccare per rigirarla dalla parte della costura; ma la dispregia: } «Non ti durerà né meno un mese. E seta poco buona». Io, allora, mentisco:

«Mi comprerà anche un paio di scarpe». Mia madre diviene pallida: «E tu non ti vergogni a farti rivestire da lei?». Sto per confessare che ho mentito; e sento che il respiro mi gonfia il petto come se scoppiasse. E le rispondo: «Tu non la conosci, e non puoi pensare male di lei». «Jo le donne le conosco meglio di te». Tremando, le chiedo:

5

«Quando l’hai veduta?»

«Dalla fotografia non mi piace. Perché si pettina a quel modo». Trovo, più volentieri di prima, un’altra menzogna:

«Gliel’ho detto io». «Non ci credo. Tu non dirai mai a una donna come si deve pettinare. È lei che comanderà sempre te». «Credi, se le voglio bene, che io la obbediSca».

Intanto esamina di sbieco la fotografia, stesa sul tavolino; con gli occhi di donna incinta,

scintillanti e le palpebre abbassate: sembra agi-

tata e che pensi perfino la bocca. La sua vici-

nanza è più forte del pensiero di Attilia: è necessario che anche mia madre le voglia bene. Io le chiedo: «Mi prometti di parlarle una volta sola, prima che io vada via”. «Lo dirò a tuo padre». Arrossisco e mi sento avvilire, benché con un

senso di piacere stravolto. Inaspettatamente, dall’uscio restato aperto, entrano le mie tre sorelle, tutte dai sette ai dodici anni. Ho appena il tempo di rivoltare sottoso-

pra la fotografia; e mia madre, accostatele insieme passando loro una mano su i capelli, mi dice sorridendo: «Ti vergogni perfino di te stesso!» Io, restato solo, cerco di racapezzarmi se mi sono vergognato di me stesso o di loro.

6

2 febbraio Ieri sera, a tavola, avevano una gran voglia di ridere di me; perché mia madre deve aver detto a tutti della fidanzata. Soltanto gli occhi della sorellina più piccola sembravano incapaci di fissarmi ironicamente; per quanto ella, guardando attorno, cercasse

come di obbedire agli altri; credendo di far bene. Mio padre mi disse: «Tu ci scriverai almeno due volte per settimana. Prima di qualunque altra persona, tu penserai ai tuoi genitori».

Volevo rispondergli ch’egli alludeva alla mia fidanzata, ma mi mancò la forza. Io non osavo né meno di dire che amavo. Invece, chiesi:

«Quando partirò?» «Ti chiameranno, credo, per la fine del mese». :s* I miei due fratelli sgranarono gli occhi, e “divennero serî. Il minore di me e dell’altro,

disse: «Ti manderemo qualche cartolina illustrata». Ma mia madre non fu contenta: «Metterete i saluti con il vostro nome quando gli scriveremo noi».

Mio padre, dopo aver finito una pietanza, disse: «All’impiego, metterai giudizio; e non penserai a nessuna grullaggine. Se ti lascerai divagare, il tuo stipendio resterà sempre lo stesso. E prima di lasciarti pigliare la testa dalle cose che spettano agli uomini già indipendenti, ti sarà molto 7)

utile farti guidare da me. Tu mi scrivi, e io ti rispondo». I miei fratelli risero, ma smisero subito. Il

padre continuò: «L’obbedienza ai genitori, non fa vergogna a nessuno. Tutti hanno obbedito. E se tu volessi prendere moglie quando ancora sei troppo giovane, io non ti darò il mio consenso».

Le sorelle e i fratelli si misero a gridare, ridendo e battendo le posate sopra .i piatti. Mio padre disse: «Voi fate silenzio, e qualcuno vada a prendere il dolce che mangeremo per salutare la prossima partenza di Leopoldo».

Ora mi domando perché ho mangiato il dolce

e perché m’ero dimenticato di Attilia. 2 marzo, mattina

Alla stazione c’era tutta la mia famiglia. Mio padre era nervoso e ha tenuto sempre le mani in tasca; ma la soddisfazione che io abbia trovato un impiego lo faceva essere perfino sgarbato con le persone che urtava. Mia madre aveva un’accigliatura feroce; e io ho avuto sempre paura che indovinasse dove si era nascosta, per salutarmi, la mia fidanzata. I fratelli sbadigliavano e parlavano della scuola; le sorelle s'erano vestite a festa; e le due più grandi cercavano di

farsi notare. Quando il treno s'è mosso, io mi son sentito 8

sollevare l'animo, ma non sono riuscito a rivedere la mia fidanzata.

Scrivo in treno, su un libretto appoggiato al ginocchio; e ho voglia di togliere dalla tasca della giubba la bella rosa, chiusa e dura, che mi aveva dato Attilia; e, a toccarla, credo che mi

porti fortuna. 2 marzo, mezzodî

Il disaccordo per la fidanzata, lasciato tra me e la mia famiglia mi sconcerta. Che, forse, è necessario ch'io doventi cattivo; per non rinun-

ciare al rispetto del mio animo? Sarei, forse, per accostarmi a quella cattiveria che dicono indispensabile imparare? Io, fin qui, credo di poterne fare a meno; per sempre. È così difficile, dunque, essere buoni? Quando mi riesce, tutte

le cose sembrano belle. Nessuno capisce come io amo Attilia. Vicino a lei, un’estasi meravigliosa prende la mia volontà e i miei sensi. Il tempo non esiste più, ma soltanto uno spazio infinito. Quando ella mi parla, le stringo le mani; per ringraziarla. Sono tre ore che viaggio, e ho sempre pensa-

to a lei; e mi sembra che ella sia sempre fuori del vagone, correndo come il treno; per non lasciarmi. Vi sono dolcezze che fanno male quanto il dolore. E so che questa primavera io sono come un importuno, che non riesce a dire quat-

9

tro parole. Sono imbarazzato, e ho paura perfino del mio riso. Talvolta dormendo

mi tornano

sensazioni

della realtà che mi fanno stupire. Ma la realtà sentita nel sogno ha il sapore che le dà in quel momento la mia anima. Io la mesuro con la mia consueta abitudine; e, forse, non è che un vago abbozzo che vive dentro di me. Ora, invece, sento il sapore della morte che verrà senza sapere come; proprio per la stessa ragione che ho cominciato a vivere.

2marzo

Arrivo a Pontedera dopo le venti. Prendo la valigia, pesante e incomoda, e mi presento al

capostazione. Quando entro nella sua stanza, non si alza da sedere. EF un uomo anziano, con

la barba grigia; ha il berretto rosso e fuma a pipa. La lampadina elettrica, che pende sopra la scrivania, fa pochissima luce; e distinguo male

gli altri impiegati, che stanno lì a guardarmi. Il capostazione mi domanda: «E pratico del servizio. Io arrossisco e rispondo: «No; è la prima volta che entro in una stazio-

ne. Ho fatto gli esami un mese fa». Egli guarda gli altri, che sembrano adirati e scontenti. Poi, rassegnato, mi ordina: Domattina, alle sette, si trovi qui».

Uscendo,

odo

che

impreca 10

contro

la

Direzione compartimentale di avergli mandato un impiegato inetto e non uno già pratico. Io mi sento subito offeso ed esasperato; ma,

per abituarmi subito alle contrarietà, do la mia valigia ad un facchino, che sento chiamare Drago; e gli dico che mi porti ad una trattoria dove ci sia anche da dormire. Per la strada, mi cammina alquanto indietro; e mi osserva senza smettere mai. Io mi stizzisco e

affretto il passo; lo pago e mi siedo ad una tavola della trattoria. Drago sarebbe rimasto volentieri a bevere un bicchiere di vino con me; e, offeso che io non

lo inviti, mi sogguarda con un’ironia provocante e maligna. La padrona dell’albergo, prima di avvicinarsi, mi studia lungamente; appuntellandosi con ambedue le mani agli stipiti della porta. Allora, abbasso gli occhi io. Quando li rialzo, vedo che non c’è più. La sento, invece, sbraitare con

Drago; che approva mugulando dentro la gola rauca. Non me ne vado, perché il peso del mio corpo è più forte di me. Un macchinista mangia una coppia d’uova, dà un’occhiata al giornale aperto e una a me. Divengo impaziente; e batto con le nocche il piatto vuoto che ho dinanzi. Odo un rumore di sedie smosse,

un vocio sommesso;

e una

donna, alta e imponente, viene a domandare quel che voglio. E la cameriera. «Mangiare rispondo. «Allora, mando la padrona». Ti

Questa che aspettava dietro la porta, sopraggiunge; e ambedue mi guardano tacendo. Il macchinista mi fissa così intensamente che io debbo voltarmi dall’altra parte. Con un voce che cerco di rendere grata, domando: «Che cosa C'È. Ma la padrona è anche più scorbutica, e vuol farmi intendere che io non debba essere tanto esigente:

«Vuole una minestra, una coppia d’uova, una bistecca...». «Una bistecca». Ella non mi nasconde la sua aria di offesa: «Non vuole la minestra?» «No».

«Ma c'è un brodo eccellente». E guarda il macchinista, perché si metta con lei. Tuttavia, tengo duro: «o voglio una bistecca». Allora, con uno sdegno che non perdona, mi risponde: «Sissignore».

Mi ci vuole poco a capire che sono molto antipatico; e il macchinista me lo dimostra in un modo lampante con i suoi sguardi. Mangio e vado a letto; e, prima, devo confer-

mare a quanti si trovano nella trattoria che io sono il nuovo impiegato. E, ora, dovrei scrivere ad Attilia; ma, per la

prima volta, sento che il mio animo è ingombro di quel che ho fatto e veduto durante la giornata. Posso scrivere a lei di queste cose? E il mio 12

sentimento somiglia a un topolino sorpreso in una stanza che si è empita di gente prima d’avere avuto il tempo di ritrovare il suo buco. Perciò, quantunque i miei occhi la cerchino al buio, non posso scriverle. Però, ridiscendo dal letto; per togliere di tasca la sua rosa e infilarla nella cornice dello specchio. 3 marzo

Mi alzo prestissimo. Odo due o tre sirene, e apro la finestra. L’Arno e tutto il paese sono coperti di nebbia; ma, sopra un fabbricato, distinguo il piccolo pennacchio di fumo che esce da una delle sirene. Un treno arriva. Su l’argine del fiume, camminano a fila, in senso

contrario al treno, tre giovinette.

Mi vesto e vado all’ufficio. I miei colleghi

fanno colazione con il pane e una fetta di rigatino. Sono molto impacciato; ed evito di parlare.

Frattanto, entra il gestore. Se non avesse gli occhiali e il berretto nero con le righe d’oro, lo prenderei per un contadino basso e tarchiato, che ha i baffi biondi e gli occhi di un celeste chiarissimo e freddo. Io mi tolgo il cappello, ed egli mi chiede con un'aria tra indagatrice e maliziosa: «Perché ieri sera non venne a cenare con noi?

Le avevamo fatto preparare il posto». 13

«Non sapevo dove fossero». Egli non mi crede, e mi rimprovera: «Fh, non ci vuole mica tanto! E lì; guardi». E mi accenna una piccola osteria di fianco al piazzale della stazione. I miei colleghi stanno attenti a quel che gli rispondo. «Verrò Oggi».

Ma il gestore non ha finito: «Ha trovato la camera. «NO».

«Ci abbiamo pensato noi. La prenderà da Agostino, il corriere che va a Pisa». Io lo ringrazio; ed egli, garantitosi che non mi sono già inteso, come ho saputo dopo, con il

vicegestore, suo nemico, si dà una fregatina alle mani; e dice con una bonarietà affettata:

«Insegnategli quel che deve fare». Ed esce. Ma, mentre io sto per domandarmi se ho commesso qualcosa di male, i miei colleghi fanno una risata. Uno prende un seggiolone, e lo attraventa contro quello del bigliettaio; il quale comincia a bestemmiare. Quelle bestemmie m’impacciano, e me ne sto ai vetri della porta esterna, guardando che gente càpita nel piazzale: pochi facchini; molti barrocci carichi, con sopra un impermeabile o una coperta rossa. Drago, che passeggia lì fuori dei vetri, appena mi scorge, sputa. Io racconto tutto al bigliettaio, ed egli mi dice: «Se non gli paghi da bere, non smetterà mai». 14

Dopo mezz'ora, posso lavorare. Ma i registri sono così pieni di correzioni e di scarabocchi che io non so quel che devo scrivere. 3 marzo, ore quattordici

Dopo aver mangiato, sono stato a vedere la camera. E dentro il paese; e dopo una scala strettissima e oscura, devo attraversare una stanza piena di pacchi. In una stamberga, che non ha né finestra né uscio, un uomo

russa.

Una donna mi spiega che è un facchino a riposarsi del servizio notturno. La camera mia ha la finestra con un’inferriata enorme;

e sento un puzzo opprimente:

l’aria

entra da un cortiletto che appartiene alle carceri del paese; e sembra che il cilindro di una macchina elettrica debba smuovere tutti i fondamenti della casa. Mi verrebbe da piangere; ma, non avendo tempo per scegliere meglio, fisso il prezzo. Per le vie, sono guardato da tutti. Le ragazze, che tornano a lavorare negli stabilimenti industriali, ridono di me. Qualcuna dice forte:

«Com'è brutto! Pare un prete». Io mi fermo e la guardo. Quella abbassa il capo con le compagne, e si sforza di non ridere. Ma, dopo pochi passi, il vento mi butta il cappello sotto le ruote del tranvai elettrico, che giunge da Pisa con molto fracasso. Si è sporcato di fango, e la tesa recisa. Le ragazze, fermatesi 15

tutte insieme, si torcono dal ridere. Certamente,

io devo imparare ad abituarmi a tutto; e devo mostrare di non prendermela.

Ma come

mi

sento offeso! Prima di rientrare in stazione, mi verrebbe

voglia di passeggiare lungo l’Arno; ma non c'è più tempo. Sono molto triste. 5 marzo

Passo i giorni in una angoscia, che non ha rimedio. Sono irritabilissimo anche. Non imparo

bene quel che devo fare. Anch'io prendo la colazione con il pane e il maiale salato; beven-

do, poi, un bicchiere di vino rosso al buffet della stazione. Ma non partecipo mai ai giuochi chiassosi dei miei colleghi; e non chiacchiero.

Talvolta, coloro che vengono per le spedizioni, domandano al bigliettaio: «Quello è l'impiegato nuovo?. «Sd. Mi guardano con un’aria di compatimento burlesco e dicono: «Com'è buffo!» Il collega, per difendermi da un’ostilità che mi ferisce, risponde:

«Ma è buono». Credo che questa parola faccia nel loro cuore lo stesso effetto che nel mio; ma, invece; non ci credono; e se ne vanno senza mai finire di

riguardarmi. Se c'è Drago fuori dell’atrio, tornax

16

no perfino in due o in tre; insieme con lui. E

stanno lì a parlare di me, sottovoce. E l’ultima occhiata è sempre cattiva. Perché mi giudicano così male? Io guardo il naso tenero e rosso di Drago. Ma sono riescito a scrivere una lettera lunga

ad Attilia. Essi non sanno che io amo e che non sarebbero capaci di farmi lasciare da lei. Tutti i dispetti e tutte le insolenze mi possono fare, ma questa no! I suoi occhi, buoni e sereni, non si

cambierebbero mai. 5 marzo, sera Vado a mangiare insieme con il gestore, Dante Brilli, e con un giovinotto di Firenze,

aiuto applicato come me, che si chiama Marcello Capri. Il padrone della nostra osteria lavora ad una fabbrica di mattoni, e torna soltanto nelle ore che anché noi abbiamo riposo;

ma non aiuta la moglie, che deve cucinare e servire a tavola, tenendo quasi sempre in collo uno dei suoi due figli. I nostri compagni di mensa appartengono al

personale viaggiante; e noi ordiniamo le pietanze due ore prima, perché l’ostessa ha un numero così ristretto di buoni clienti che fa la spesa a seconda dei loro gusti. Senza questo sistema, troveremmo soltanto uova sode e insalata. Oggi vi ho trovato Drago; che ha salutato soltanto il gestore, con una voce che per farmi 17

capire il rancore piglia una specie di lucidità tagliente. Perché non gli pago da bere, e così facciamo pace? Non glielo pago, perché so che mette tutti contro di me. È arrivato a tal punto che anche il capostazione non m'ha più quella bontà. dei primi giorni. M’hanno detto che se riescirà ad avere dalla sua il vicegestore, può darsi anche che mi mandino in qualche stazione di montagna, lontano da Firenze. È molto benvisto perfino dal sindaco di Pontedera perché, quando deve fare le spedizioni del suo vino, Drago sta attento che non gliene portino via né meno un fiasco. Sedendosi voltato verso di me, si fa portare un litro; e ne offre un bicchiere al gestore. E io, invece, lo perdono. Ha

una gran voglia d’attaccare briga con me, e cerca tutti i pretesti per trascinarmi in discorso. Prima d’andarsene, dice:

do gli uomini senza baffi non li posso sopportare». E il Brilli mi domanda: «Perché non se li lascia crescere? Sa che lei è un bel tipo? O perché vuole stare sbaffato? Qua a Pontedera lo prenderanno tutti in uggia». Io rispondo: «Me ne sono accorto; ma non voglio cedere». Il gestore, allora, mi compate: «E lei se ne pentirà». Il Capri, invece, vuol mettere la cosa in burlet-

ta; e racconta che anche il vicegestore mi vuol consigliare di non rasarmi altro che la barba. Allora, il Brilli risponde: 18

«Quegli deve pensare piuttosto alle sue magagne. Non so come facciano a tenerlo in una pubblica amministrazione». E per il bisogno di sentirci affezionati a lui, ci paga mezzo litro in due. Non m'è possibile rifiutare e né meno stare lontano da quel dissidio. Per di più, l’ostessa mi chiede: «Perché, la prima sera, non ha voluto mangia-

re da me? Perché, forse, la mia bottega le pare troppo modesta? Si vede subito che lei è abituato male; ma bisogna che si adatti anche lei. Il signor Brilli mangia più volentieri qui che in qualunque altra locanda; e lei è da meno di lui». Il gestore dice, ridendo: «Forse, dentro di sé, si tiene da più di me.

Marcello Capri soggiunge: «Me ne sono avvisto anche io. Tu non sai trattarci da pari a pari. Perché? Qui, siamo tutti uguali». Io domando: «Perché vi mettete in testa queste cose?».

Allora il Brilli mi redarguisce senza riguardo: «È la verità; e lei non si permetta di parlare così con i suoi superiori».

Mi sento disgustato, e capisco che è meglio tacere; e appena mi riesce di masticare gli ultimi bocconi. Ma siccome la mattina non avrei

tempo e la sera mi addormento subito, tutti i giorni, prima di alzarmi da tavola, scrivo una lettera ad Attilia. La lettera è quasi sempre lunga e non discorro più con i miei due commensali. Il gestore, irritato, mi chiede: 19

«Ma che cosa scrive?» L'ostessa dice: «Non si può sapere».

Io, cercando di rendermelo più benigno, gli rispondo: «Sono fidanzato a Firenze». L’ostessa, aguzzando gli occhi e il viso, rincalZa:

«Mi pare impossibile che lei possa voler bene a una donna. E così cupo!» Credo che si tratti di uno scherzo confidenziale; ma il Brilli e Marcello Capri l’approvano. Intanto, il figlio maggiore dell’ostessa inciampa in un fiasco; cade e piange. Ed ella mi guarda in modo come se ne avessi colpa io. 6 marzo Attilia si è ammalata; e mi ha fatto scrivere da una sua amica; ma non ho notizie molto esatte.

Sparagio, un facchino che non se la dice con Drago, mi avverte che nella mia camera, ogni mercoledì, ci sta un dentista a cavare i denti. Io

lo faccio sapere al capostazione, che mi accorda il permesso di andare a sorprenderlo. Infatti, l’uscio è aperto; e c'è sopra un cartello con questa scritta :

Giulio Boschetti, dentista di Empoli, estrae e cura i denti dalle dieci alle dodici. Io entro; quegli mi crede un cliente e mi fa un inchino, dicendo giulivamente: 20

«Si accomodi». Vedo che i miei libri e le mie camicie sono State messe in terra; e sul tavolino è aperta una cassetta piena di strumenti lucenti, con qualche goccia di sangue. Io gli grido: «Ma questa è la mia camera». Il dentista si turba. «E la mia camera, le dico. Esca di qui». «Jo non ne so niente. Vada dal padrone di casa». Io vado, ma c’è soltanto la moglie. Sono incollerito da vero. i «Perché si permettete... È una cosa vergognosa. Mi renderà i denari, e me ne anderò subito».

La moglie, aggiustandosi in fretta il vestito, si Scusa:

«Che cosa c'è di male? Abbiamo fatto sempre COSÌ.

«Doveva avvertirmi. E io non avrei preso la camera». «I denari glieli renderà il mio marito». Io grido anche più forte: «DOV'È?» «Non lo so». Ritorno dal dentista e gli dico: «In tanto, se ne vada».

I miei colleghi, quando lo sanno, si divertono; e mi trovano, lì per lì, un’altra camera. Quando torno a prendere la mia roba, e il padrone mi rende i denari, ci manca poco che non chieda scusa io a lui. Questo incidente mi 21

fa pentire d’essere venuto via da casa senza che mio padre abbia approvato il mio desiderio d’ammogliarmi. E mi dico che non devo fare di testa mia le cose più importanti. Devo sempre evitare che mi accadano cose spiacevoli; perché io, poi, non le so reggere. Nello stesso tempo, ho quasi il desiderio di trovarmi a cose simili; per avvezzarmi a tutto. Perché, magari, non sono stato derubato? Andrei dai carabinieri, mi farei restituire la roba; e lo scriverei a casa. Ne sono esaltato, e farei

amicizia volentieri con il cavadenti. Come mi sono divertito a gridare a quel modo con la moglie del padrone! Ormai, non temo più di nulla; e spero che io mi trovi nella camera nuova a qualche avventura; che m’invidierà tutto il paese. Non potrebbe darsi che qui mi dovessi difendere da qualcuno che tenterà di entrarmi in camera di notte? Non può darsi che io faccia ammirare il mio coraggio dalla padrona? E mi ripeto il suo nome, che m'hanno detto proprio ora: Dina Calamai. Anche Sparagio vedrà chi sono io. Dovranno dire tutti: come siamo contenti che Leopoldo Gradi è venuto a Pontedera! Se, poi, porterò la moglie qua, le faranno tutti la festa. E, per poco, non mi par di vedere la stazione infiorata. Pontedera è il miglior paese che ci sia; e Drago ha ragione che io gli paghi bere.

22

7 marzo

Il capostazione è traslocato; e per due giorni funzionano gli applicati. La moglie di lui, malata di cuore da parecchi anni, viene portata in poltrona dentro uno scompartimento. Egli ci bacia tutti, ad uno per volta, dai superiori al più inferiore; e i facchini stanno un quarto d’ora con il cappello in mano. Il nuovo capostazione ha sei figlie e un ragazzo. E molto anziano, magro e nervosissimo. Introduce subito alcune modificazioni; tutti rim-

piangono l’altro; e specialmente gli addetti alla gestione aizzano lo scontento. Egli se ne accorge; e si decide, per puntiglio, a continuare il suo metodo. Ma preferisco parlare di me. È strano come io legga volentieri le lettere che Attilia, sempre malata, mi fa scrivere dalla sua amica! Quando

su la busta vedo quella calligrafia allungata e grossa, somigliante un poco alle mandorle, le apro più in fretta; come se lo facessi per deferenza e per rispetto a lei. E ho notato che la terza lettera, benché io non la conosca, e lei non conosca me, non sembra dettata da Attilia

come la prima. Si sente che ha come un’amicizia per me. E perché so che anche lei legge le lettere mie, mi vengono scritte perfino meglio;

come se avessi di più da dire. Non la vorrei questa mescolanza di sentimenti! Ma, oggi, ne ho saputa una bella. Ho saputo

che la Calamai è l’amante del vicegestore. Il 23

Brilli, quando gli hanno detto che ora è la mia padrona di casa, fattomi un visaccio, mi tenta: «Scopra, senza destare sospetti, a che ora stan-

no insieme, e me lo riferisca. Ne è capace? Io, con due o tre persone influenti del paese, capi-

to lì; e lo costringiamo a chiedere un’altra resi-

denza. Basta che lei sappia fare, e in quanto allo scandalo ci penso io. Con uno scandalo simile, le garantisco che a Pontedera non ci potrà restare né meno un’ora. Anche per lei, caro signor Gradi, non è bello reggere il moccolo! Se la padrona di casa, dove sto io, non fosse una donna più che illibata e onesta, non mi ci terrebbero né meno legato a catena». E, poi, lasciandosi prendere dalla bramosia dell’inimicizia, dopo due boccate di sigaro, prosegue: «Non lo capisce che anche lei si compromette, se tollera questa tresca? Invece, può trarne un vanto, se lei è il primo a toglierla di mezzo. Può essere la sua fortuna. Dia retta a me. Del resto,

prima glielo dico tisco che non le rola». Io, invece, ho padrona; perché

con le buone; e poi, le garanpermetto di rivolgermi la pamezza voglia di avvertire la si guardi dal pericolo di ogni

sorpresa. Se non faccio così è perché non si

creda che anche io la corteggio. Ma, dianzi, mentre uscivo di camera mia, ho visto Drago escire da quella della padrona. Il suo viso allegro e il suo camminare in punta di piedi m'hanno scoperto ogni cosa: Drago se la. inten24

de con lei, di soppiatto; quando il vicegestore è certamente in ufficio. Con il cuore in sussulto, e indeciso se lo dico

al Brilli, il facchino mi ferma appena ho sceso le scale: «Se lei non dice ad anima viva che m'ha visto su in casa, io le prometto la mia amicizia. Sono sincero».

«Capisco, invece, che vi volete garantire di me e seguitare a sparlare di me con tutti! Ora che potrei farvi del male, avete paura». «Che Dio mi tolga gli occhi in questo istante,

mentre pronuncio queste parole, se ho un’intenzione simile! Venga con me a bere un bicchiere di vino, che le pago io; e non se ne

parli più. Santa Lucia benedetta, che mi protegge la vista, mi gastighi come vuole; se ne sono meritevole!».

E, presomi per mano, mi porta nella strada. Dopo aver bevuto insieme, egli va in paese e io alla stazione. Ma ho il cuore troppo grosso, e informo subito il gestore; benché sia un poco difficile, quando si vuol parlare di nascosto, non dare nell’occhio agli altri. Il gestore resta muto e il suo viso si congestiona gradatamente fino a doventare irriconoscibile. Per riflettere a come deve prendere la cosa, stringe il labbro di sotto tra il pollice e l'indice; ma capisco che gli è molto difficile. Alla fine, lascia andare una

risata; che fa volgere quanti si trovano sotto la tettoia della stazione. Io ho paura che sia per farmi compromettere; ma egli, accarezzandomi 25

il viso, mi dice: «Non potrei essere più contento! Bravo Gradi!

Si comporti bene anche all’ufficio e farà carriera prima degli altri». Intanto, la padrona, convinta che le sarebbe

impossibile trovare un altro inquilino meno pettegolo e meno curioso di me, tutte le volte che mi vede mi fa più festa che se fosse mia madre. In camera non mi manca nulla; e mi tiene due

brocche d’acqua invece che una. Ha cambiato la catinella vecchia e scortecciata con una quasi nuova, rigata di rosso dentro e fuori; e trovo

tutto in ordine. Confesso che, perciò, quando sto solo in camera, mi sento meno triste.

La finestra risponde in una vigna trasandata; di fianco, ci sono i due binari che vanno

da

Empoli a Pisa. Accanto alla vigna, molti orti, divisi da muriccioli. Dinanzi all’uscio di casa un pozzo; e vi prendono l’acqua per mezzo di una lunga stanga messa in bilico sopra un sostegno verticale. Sotto la mia camera, dorme la donna addetta alle latrine della stazione; e suppongo

che uno dei due deviatori sia il suo amante. E, oggi, contento che posso non aver più paura di Drago, mi sono messo per la prima volta la cravatta regalatami da Attilia. 9 marzo Tutte le volte che mi s’avvicina un uomo

26

che

io non conosco, ne ho paura; qualche volta, anche se si tratta di un amico. Non ho paura

proprio di lui, ma delle conseguenze che ne posso derivare al mio spirito quand’egli cominci a parlare. A certe persone, per questo, non ho mai volu. to essere avvicinato. Mi ricordo che io, trovan-

domi per una strada a pena fuori di Firenze, dopo le case del sobborgo, dovevo passare davanti al cancello verde di un orto. Tutte le volte che, prima di esserci vicino, vedevo l’orto-

lano fermo al cancello aperto, o tornavo in dietro o passavo dalla parte opposta della strada; evitando di voltarmi a lui. E se certe persone conoscessero le tracce inestinguibili che hanno lasciato in me, ne sarebbero stupite. Quando penso che io sono fatto di tante strisce che corrispondono ad altrettanti giorni, mi domando se esisto io 0 le cose che ora ho dinanzi agli occhi. E mi domando che cosa significa vivere. Perché, dunque, io non potrò mai dimenticare i miei anni passati; che si sono sparsi come

muschio sopra le pietre? Quanti occhi e quanti sguardi io rivedo ancora, che fecero tremare e sgomentare la mia anima!

C'era, poi, un uomo con i piedi deformi e ripiegati in dentro che andava a sedersi, tutto il giorno, sotto le Logge dei Lanzi. Appoggiava le grucce al muro e stava lì a chiacchierare con certi uomini; che, per campare, facevano di tutti 27

i mestieri. Ma, per lo più, erano adoprati per far portare, con il carretto a mano, alla stazione, i

bagagli dagli alberghi.

O quando qualcuno

cambiava casa. Me ne ricordo tre. Un uomo, un

poco gobbo e la barba nera; un altro con i baffi bianchi e le braccia tatuate; un altro, bassetto, . con i baffi neri e il vestito doventato verde,

sempre lo stesso. Quello con le grucce, che non poteva lavora re, mi guardava sempre in un modo che io avevo preso ad odiarlo. Egli guardava le mie gambe come per volermele stroncare. Quando il sole non era più da quella parte, andavano a sedersi su le scale del Palazzo Vecchio. C'era anche un giovinotto, scemo, che

passava con il corbello pieno di trucioli su le spalle. Era magro e il mento aguzzo: gli occhi.di un verde nero. Mi dava sempre noia, e una

volta mi prese per un braccio. i Sentivo ribrezzo per un compagno di scuola, un imbecille, grasso, gli occhi porcini e un braccio paralizzato al quale mancava il pollice. Se riesciva a prendermi le mani, dovevo mettermi

a gridare per non piangere. Ma risognavo sempre; come un incubo, una

donna con gli occhi castagni, che avevano dentro un lume quasi rosso; secca e gialla. Non so

chi fosse. Mentre un prete, alto e gli occhi neri e lucenti, mi scoraggiava: tornavo a casa così triste, ‘che .

avevo voglia di morire. Una volta, a primavera, in vece di andare a scuola, feci una lunga cam28

minata per via delle Campora. Mi trovai in un punto così bello che me ne ricordo ancora. C'era il granturco già con le spighe, e in mezzo l’acqua di un botro che scintillava, chiara e trasparente. Le siepi erano fiorite; e mi piaceva d’incontrare con la fronte e con le | mani i fili dei ragni tra olivo e olivo. Le viti erano potate e legate con i salci nuovi.

Mi fermavo a guardare i frutti e i cipressi lungo i confini e in cima alle strade che portavano alle case dei contadini. Mi pareva che io potessi vedere la terra doventare quei frutti e quegli alberi. Il sole era dolcissimo; perché sempre basso, e la sua luce s’intratteneva tra le piante. Gli uccelli volavano dai rami sopra la strada e andavano negli altri campi. Essi facevano scuotere le gocciole della rugiada; anche

addosso a me. Le finestre dei contadini erano

chiuse con sportelli verniciati di rosso; e l’erba cresceva da per tutto, anche su i margini della strada. Mi sentivo tanto contento di essere solo,

e non mi ricordavo affatto di niente. Io volevo fuggire e non tornare più a casa. Il cielo mi abbagliava. Mentre. stavo così, io mi volsi e vidi vicino a

me un uomo che mi guardava sogghignando. Mi venne da piangere, e non ho più dimenticato quei campi.

29

10 marzo

Dico all’ostessa che il brodo non è buono. Ella fa gli occhi rossi, e il gestore sostiene che la rimprovero troppo rudemente. Perciò, in un | momento che ho meno da fare, vado a trovarla,

° con il pretesto di bere.

Sta cucendo un grande lenzuolo; e i suoi bambini si trastullano con una sedia. «Signora Marianna, non credevo di offenderla dianzi». Mi guarda con i suoi occhi troppo dolci e arrossisce. E, dopo un sospiro, mi risponde: «E lei si è preso a male che io non abbia potuto nascondere il mio animo?» «NO».

«Dunque facciamo la pace. Beva questo vino bianco; molto migliore di quello che beve tutti i giorni».

E mi versa in un bicchiere un vino che scintilla. Per farla più contenta, lo sorseggio schioccando la lingua; poi, la saluto anche da fuori, dopo aver chiuso la porta a vetri. È poverissima, e mi farà credito per un mese intero; e, non sapendo scrivere, si fida di quel che appunto da me in un mio libretto. Dopo cena, ho dovuto terminare il conteggio quindicinale, che sarà spedito al Controllo di Torino. Il capostazione non c’era, l’applicato dormiva in un sofà, con il berretto fin sopra la bocca. Verso la mezzanotte, esco sotto la tettoia. La pianura è nebbiosa, e accendo una Sigaretta. 30

Mi par di sentire un brulichio indistinto per tutta la pianura: forse, la nebbia sgocciola sopra il fogliame e sopra i campi erbosi; forse, il vento umido trascorre. Anche le stelle debbono essere bagnate. Ma quella solitudine mi stordisce e m’assorda; e mi fermo a guardare le due verghe del binario, come se cercassi di comprendere quel che mi vogliono dire. Le guardo e non posso comprendere. Ad un tratto, una massa fragorosa mi rasenta; un fischio, correndo, è rotto dall’aria.

Il direttissimo! Ho saputo che travolse un guardiano, portandogli via la testa infissa al gangio d’un fanale. 11 marzo

Se ieri sera io fossi morto! Invece, nell’aria c'è

già la lucentezza della primavera, e io desidero tanto di vivere. Perché è possibile che io muoia? La stazione, dov’'io debbo stare a catena

come un cane dentro il casotto di legno, è piccola; ma la campagna si stende liberamente. Non è possibile che un giorno io me ne vada di qui? Il cipresso dell’orto,

a mezzogiorno, paré più

leggero della sua ombra; la lucentezza abbarba-

glia; e dovento pazzo fino al punto di chiedermi se anche le mie mani non sembrino verniciate di rosso, quasi come il cancello del campo. 31

Perfino questa casa, in tanta luce, pare nuova. Che m’importa se i germogli sono già più grossi? Che m'importa se questi campi sono dolci, se la mia anima non è ancora più dolce di

loro? Dianzi, il meriggio m’aveva tutto chiuso entro i campi e gli alberi: io non avrei potuto escire.

E in quella luce pareva che non ci fosse più niente; all’infuori della mia anima. Ah, come avrei voluto sentirmi bene sotto a

questo tetto ricoperto di semprevivi, quasi verdi anch’essi come gli orti attorno attorno! Questi

orti che paiono fatti per contenere l’acqua che odo e non vedo, dietro uno dei muri, dietro

quello del salcio, pisciolare come quando si raccoglie o nel palmo della mano o in una foglia di cavolo. E come gli altri salci, con quel verde pallido,

scherzano tra il verde azzurro e turchino dei

cavoli; ma meno chiari delle lattughe! Per la mia anima non ci sono che bare e agonie, che passano l’una dopo l’altra; con qualche ghirlanda comprata per farle abbracciare il feretro; povera ghirlanda che ha paura di scivolare ai sobbalzi delle ruote. E, s'apro la finestra, mi sento afferrare il cuore, e portare giù a capofitto nella strada. Povera rosa d’Attilia, siamo rimasti io e tu soli.

Io e tu come in una realtà deserta e in solitudine; e nessuno pensa a noi. Ma noi due non ci possiamo dimenticare.

Tu tra le pagine del libro, che di quando in 32

quando apro per rivederti, ti sforzi di conservare il tuo colore che adesso pare sangue raggrumato. Ma non bisogna raccontare a nessuno, né di

noi né della nostra storia così semplice che la crederebbero idiota. La nostra storia consiste ‘ del resto nell’averti avuta e nell’averti amata sempre di più. I viottoli dei campi spariscono tra l'erba di un verde quasi nero; che trabocca dalle siepi dei biancospini. Mentre le ombre sono turchine proprio come il cielo, Forse anche lo stecconato, vecchio e aperto dalle spaccature, è per mettere fuori le sue gemme e i suoi fiori. Oggi ho bisticciato con il gestore, che non mi parla più quantunque mangiamo sempre accan-

to. Non crede che io non abbia mai parlato, fuori d’ufficio, al vicegestore. Lavoro anche la domenica; ma, stasera, esco tre ore prima. Avrei voglia di fare una gita in barca, fino al ponte sottile, che si vede laggiù dove il fiume fa gomito e scompare. Ma non trovo il barcaiolo. Allora, m’incammino verso la parte opposta. Gli argini sono verdi, l'Arno un poco lutulento; incontro una famiglia e poi due amanti.

Giungo fino a Calcinaia, un paesello che si riflette grigio dentro l’acqua. Intanto si fa sera. Un traghettatore, dall’altra sponda, mi domanda

se voglio passare; ma mi sembra troppo tardi. Cammino un poco sul letto asciutto del fiume, dove sono molte orme. 33

Il sole va giù prestissimo. Le montagne sembrano d’oro un istante, e il fiume luccica; poi, i riflessi si spengono. Mi soffermo per ascoltare i suoni di una chitarra: una voce di donna canta. E una canzone ilare. Poi tace ogni cosa. Soltanto l’acqua del fiume fa un brusio monotono,

urtando in un

macigno bianco come la luna.

Io sto fermo ancora, finché tutta la campagna

non è illuminata. Poi sbaglio la strada, e un cane mi si avventa. Urlo; ma nessuno mi risponde. Torno in dietro a corsa, ritrovo il sentiero

stretto sopra l’argine; e cammino lì. Sono annoiato; ma il chiaro di luna mi piace molto. Guardo lungamente le pianure, dove qualche lume casalingo è acceso. Aspetto che il fragore di un treno passi. Quando entro nell’osteria, non ci sono più

pietanze. Restano le acciughe sotto la salsa di zenzeri e un piatto di lattuga, dove io trovo un ciuffo di capelli. E questa volta taccio. Il gestore mi osserva. La luna è lenta come il peso della mia stanchezza. Sale su e riscenderà come una camminata inutile; come me, che non ho nulla da dire.

Ma i miei pensieri sono rimasti tutti per la strada: di mano in mano che ero per giungere qui, la mia anima li perdeva. Ma mi viene da ridere a vedere la luna tanto bassa, giù negli acquitrini del canapale!

16 marzo

Il servizio non va bene; sbaglio facilmente le cifre e non mi riesce a fare le somme lunghe nei registri. Almeno, se imparassi a telegrafare! Mi annoierei meno

e durerei meno

fatica; ma non

riesco a leggere in tempo le striscioline di carta dove sono segnate le trasmissioni; e, mentre sto

lì con la testa che mi doventa legata, entra un applicato con un telegramma da fare; mi dà un: urtone e piglia il mio posto. Le prime volte, restavo così mortificato, che non mi sarei fatto mai più vedere in stazione; poi mi veniva l’idea

di rispondere con lo stesso garbo e restavo vicino agli apparecchi, sempre sul punto di provocare; mentre l’applicato, telegrafando, mi

occhiava come se avessi voluto fare l’ozioso. Mi sentivo mortificato anche di più, e restavo due

o tre ore senza parlare a nessuno; così turbato nel viso, che tutti se ne avvedevano.

Ma, pro-

prio allora, scrivevo ad Attilia; e le mie lettere erano belle. È sempre malata: pare che abbia la pleurite. E credo che guarirà perché le voglio bene. In quanto alle lettere che mi scrive la sua amica, ora sono imbarazzato di riceverle e peggio a leggerle. Ed evito, con fermezza, di pensare anche a lei mentre scrivo io. Mi dimenticavo di dire che, ormai, quasi tutti i

giorni, torno dalla signora Marianna; a bere quel vino bianco. Oggi vi trovo una bella ragazza, che si chiama Nèmora. Il cognome non lo

so. È vestita di nero perché le è morta la DI

mamma, Oggi piove. Baleni che sembrano umidi; e la pioggia chiara chiara sotto le nuvole grigie. Se piovesse anche dentro la mia anima! Sentire, dopo, quella freschezza

che resta

nell’oliveta. Le foglie dei pioppi tremolano come. in estate il canto delle cicale. Per i solchi lunghi cantano non so quali uccelli, e i miei pensieri

sono umidi. Sono stato tanto lontano, e prima di tornare non osavo fermarmi a nessuna porta; né meno a quelle che avevano odore di rose, e forse avrei trovato una dolcezza di sorriso. Perché, per avvicinarsi alla mia anima, biso-

gna essere molto pazienti. Allora io non ti nego più la mia mano, 0 uomo con la giovinezza tranquilla come il rispetto che io voglio. Allora io acconsento ai tuoi sguardi, e m’avvio a sentire la tua amicizia purché sia pura come i miei propositi e le cose che non ti dico. Allora,

o uomo, sono contento

che la tua ombra entri tra le pareti della mia casa. Ma tu non hai la voce come l'elemosina chiesta, e le tue scarpe non sono lavate dalla pioggia. Tu non hai bisogno di me, e perciò non ti amo; e non ti voglio né meno conoscere. Vedo un tetto sotto la pioggia! Così basso, così corto, sopra alla casa dove non entra nessuno, che nessuno guarda; tranne qualche

ragazzo che va a sporcarla! Una sera, ma una sera sola, vi ho visto dalla

parte dell’ombra, due innamorati fermi. Ogni 36

tanto guardavano in su per assicurarsi che non

li vedesse nessuno. Una notte un briaco ci sì è rotto la testa. E, poi, sempre silenzio. I suoi muri morti, e il tetto così stanco che mi

vien voglia di farlo appuntellare. Sopra ci ho visto un gatto morto prima impu. tridire; poi doventare schiacciato come la pelle sola; poi tanto sottile che s'è attaccato alle tegole; poi la pelle s'è sfatta, e sono apparse le ossa;

poi anche le ossa sono sparite. Soltanto, nel mezzo di una tegola, c'è rimasta una macchia nerastra. Ma si laverà anche quella. Nella chiesa vicino a casa mia non c’è quasi mai nessuno. Le cappelle sono chiuse da grossi cancelli di legno. All’altare maggiore, un enorme quadro dipinto a olio; che rappresenta la Madonna,

con i

piedi sopra un serpe e sopra una mezzaluna. I ceri alti quanto il quadro. Di quando in quando, un cappuccino esce dal coro; s’inginocchia segnandosi, dinanzi alla Madonna,

e resta a

pregare. Le cime dei cipressi si vedono muovere, dalle finestre; ma senza né meno un fruscio leggiero. Soltanto qualche lampada a olio si sente scoppiettare. Fuori, nel muro, e dietro un’inferriata,

la statua d’un cappuccino che tiene un teschio in mano.

Incontro sempre la mendicante che non ha più viso; come se le ulcere rosse le togliessero a poco a poco tutta la testa; e le restassero soltanto le braccia e le gambe. Ed ella potesse muo#)/4

versi e camminare ancora. Quando rialzo la testa, perché mi pare che la mia angoscia se ne sia andata, mi accorgo di

non essere solo: c'è tutta la stanza che mi guarda. Io non posso muovermi senza essere veduto! E, quando me ne vado, girando la chiave dell’uscio, credo di chiudere là dentro una vita

più vasta della mia. Io mi rimprovero di essere cattivo; perché, alla fine, il peggio è per me. Sento, in vece, il

rimpianto di tante cose buone che vengono spontanee; da sé. Sono io, dunque, che ho voluto restare lonta-

| no da questa realtà così dolce! E perché? Sono io che ho chiuso la mia anima per sempre; come quando, da ragazzo, volevo stare solo e mi mettevo a guardar dall’uscio socchiuso quelli che dentro la stanza parlavano. Sono io che me ne pento, e poi faccio sempre lo stesso; inebriando la mia anima con una risata.

Ho fame e non mangio; ma mi piace di conoscere questa bontà che torna sempre, come se fosse innamorata della mia anima. Mi piace di sentire questo rimprovero; purché la giornata finisca presto attraversando, senza lasciarvi il segno, lo spessore della mia giovinezza. Allora mi par di sfuggire alla morte, nascondendomi

in me stesso; con una paura

che mi mozza il respiro. Mentre negli spazi della mia esistenza passa la sua ombra; e io

chiudo gli occhi per non vederla. E, qualche volta, ho paura di non riaprirli più. 38

17 marzo

Marcello Capri amoreggia con la figlia d’un ingegnere.

Lei si mette a una finestra che

risponde sul piazzale della stazione, e si può vederla anche dal nostro ufficio. Credo che non abbia ancora sedici anni; bion-

da e rosea; ma grassa come una donna matura. Hanno trovato il mezzo per scriversi di nascosto, e lei sè innamorata da vero. E siccome le

sue lettere sono sgrammaticate, il Capri storce sempre la bocca e gli viene da ridere. Mi domanda: «Che mi consigli tu? Devo lasciarla? Dio mio, non sa né meno mettere una parola su la carta senza fare qualche sbaglio! Senti come è scritta questa frase!». Io, che prendo tutto sul serio, gli rispondo; perché non la lasci: «Imparerà! Non va sempre a scuola?. «Fa la prima tecnica». Anche

il Capri è biondo

e roseo;

e dà

un’occhiata agli spropositi e una alla finestra. Dopo aver lavorato un quarto d’ora, mi domanda: «Mi scrivi tu una lettera per lei?». «Volentieri; purché tu mi ripassi le somme». «Accetto».

Prendo un foglio di carta pulita, e fingo di riflettere. 5: Il Capri è contento e soddisfatto; ma, quando vede che non rifletto più, si raccomanda: 39

«Meglio che tu puoi». Terminata la lettera, gliela consegno. Egli la legge e la ricopia subito; cambiando certe parole che non ha mai adoperato. A cena, come per compensarmi, ha voluto che il Brilli si riconciliasse con me; giurandogli che io non me la intendo con il vicegestore. Il Brilli non s'è convinto, ma per timore di esigere troppo da me, non s'è fatto pregare molto. Da quando gli ho scritto la lettera, il Capri mi prende a braccetto; e cerca di farmi essere allegro. Alla fine, però, si perde d’animo; e, per non annoiarsi più con me, finge che abbia bisogno di lasciarmi. Allora, io mi sento proprio abbandonato da tutti. Dianzi, quando il gestore s'è riconciliato, ho

tentato di confidarmi con lui, parlandogli anche della mia famiglia, ma ho capito subito che non gli facevo piacere e che mi giudicava quasi

male. Invece non vorrei confidarmi con il Capri perché ha due anni meno di me ed è d’animo troppo leggiero. Quando mi racconta che a Firenze era amico anche di qualche canzonettista, io mi stacco subito da lui e gli dico che mi parli d’altro. Il Capri mi guarda ridendo, a qualche passo di distanza; poi, si avvicina un’altra volta; e ricomincia a parlare anche peggio di prima; divertendosi specialmente con le parole oscene. Io gli chiedo: «Perché tu sei così». «E tu perché vuoi codesta castità”. 40

«Mi sei antipatico».

«E tu a me. Anzi, non capisco perché non ti piacciono le canzonettiste e perché tu voglia

subito fare all’amore sul serio! Già, non ci

credo. Tu devi essere più astuto di quel che non pare. Hai fatto il prete prima d’impiegarti alle ferrovie?» Io mi metto a ridere; e il Capri mi dice:

«Perché, allora, non bestemmi anche tu? Senti

quanto è bella questa parola che ti pare sporca! Provati a dirla: vedrai che ci pigli gusto anche tu. E perché non andiamo tutti e due dalla tua padrona di casa, per doventare suoi amanti anche noi?. Io m'allontano da lui; ma egli mi riprende a braccetto; e continua:

«Se tu non vuoi, significa che agli amici non vuoi bene. Se tu mi fossi amico, mi daresti retta».

Io, per tagliare corto, gli rispondo: «Non mi piace: è tropo vecchia». «Vecchia? Si vede che non te ne intendi. Se io

fossi nel tuo posto, vorrei mangiare e dormire

senza spendere nulla. Ci dovrebbe pensare lei! E perché, invece, vuoi prendere moglie”. Io non so come rispondergli, e giro la testa da un’altra parte. Se dovessi convincerlo da vero,

non mi riescirebbe. È bene ch’egli non mi dica più una parola su questa cosa, perché così non farò una parte troppo da poco; una parte che mi spiace più di qualunque altra. Perché, dunque, ci sarebbe tra me e la mia famiglia questa 41

specie di lite silenziosa se io non amassi da vero Attilia? La voce d’Attilia nasce dalla mia; ha toni di timidezza, perché, per udirla, mi metto zitto. Parlando, m’intende dalla voce: lei sola

m’intende. Già è stata tutta mia soltanto perché le ho parlato. In salotto non c’è nessuno. Ma le sedie e il canapè hanno tra loro una dolcezza tranquilla; ed io non ho potuto aprire la porta senza chiedere scusa e senza dire bongiorno. C'è il canapè convinto d’avere un’onestà, che si deve vedere guardandolo. E il silenzio della stanza è riempito dal canapè e dalle sedie. 18 marzo

In una bella mattinata, debbo tornare a dietro con l’anima opaca; perché, a mezzo del mio sogno, c’era come un coltello invisibile che l’ha tagliata in due parti. Avere avuto paura della stanchezza, e aver sentito una sofferenza aspra; avere tutta l’anima trapassata, sentendo la diffidenza dei miei sogni! Ed entrare in casa con la paura di non escire più! E la mia giovinezza come un’acqua bollente che è impossibile stia immobile! Ma c’è proprio bisogno che la mia anima prenda quest’arie di scontentezza quasi allegra? 42

Mi pare verniciata a nuovo e non ancora asciut-

ta bene; come i cancelli del binario. Eppure io ricavo dal passato certe deliziose manie, come quando si ha voglia di rifrugare in un cassetto; pur sapendo che non c’è niente di cui abbiamo proprio bisogno. Allora tutte quelle cose che ‘ Ora ci sono inutili, e che una volta abbiamo adoprate, mettono un’ebrietà di scontentezza

che non ha proprio nessun senso. E così nella mia anima: vi sono ricordi che avrebbero la pretesa di essere considerati da più di quel che siano. Ma devo far notare che sono ricordi che di per se stessi non hanno nessuna importanza: piuttosto cercano di accomodarsi a certi stati d’animo che mi vengono adesso. Sono direi,

come rispondenze simboliche: scherzi inutili del passato, senza né meno che mi venga in mente d’andare proprio io a buttarlo all’aria. Ed è proprio strano che certe cose, a cui non pensavo né meno più, ora le riveda tanto bene! Per esempio: stamani sotto casa mia c'erano

due ciechi: uno suonava il violino e l’altro la chitarra. Io ho sentito subito nella mia anima avanzarsi una freschezza morale che mi ha dato molto a riflettere. Ma, riflettendo, in vece che di

ricavarci qualche utile, e magari saggia, speculazione per me, m'è parso che quella freschezza fosse la stessa di una giornata forse marzolina: quando vedevo il vento salire 0 scendere, a ondate, su per una collina di grano tutto verde. Mi ci sono arrabbiato, dopo. Ma come? Una sensazione interamente morale poteva diventa-

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re un ricordo piacevole? Un ricordo che non aveva niente di speciale in se stesso? Certo non si riferiva allo stato d’animo che io avrò avuto quel giorno, perché anzi mi sarebbe addirittura impossibile ritrovarlo. Che cosa avrebbero pensato gli altri di me? Io ero condannato ad essere compreso soltanto da pochissime persone pazienti, troppo poche: per tutte le altre, io doventavo un uomo volgare, un uomo da non distinguersi più dalla folla. E, in tanto, il vento saliva o scendeva per quel poggetto di grano tutto verde: e io mi trovavo solo a risolvere questa specie di problema. Ma la mia anima, che con me è molto buona,

mi aiutò: io dovevo ritrovare lungo i giorni del mio passato, che non avevo mai buttato via, molte cose. Io dovevo riprenderli, leggerli dalla prima all’ultima riga perché erano come pagine lette soltanto a metà e anche meno. Dovevo ‘ ritrovarvi tanti significati che avevo abbandonato, 0 per distrazione 0 per suggerimento sbagliato della mia volontà; che si crede, ogni volta, sempre infallibile. Oh, ma non era cosa da farsi lì per lì! Anzi, credo di non aver né meno cominciato. Dovevo anzi tutto essere molto più sincero

con me, magari anche riescendo brutale verso ‘persone che non si attendevano da me tutta quanta la verità. E dovevo convincermi, subito, per intuizione, che il mio sentimento si era sviluppato soltanto in sogni ed in estasi; che non avevano niente a che fare con l’esistenza che 44

dovevo condurre. Questo è stato il cattivo scherzo del violino e

della chitarra; perché mi sono risvegliato come dopo il supplizio di un inganno; e con il preciso compito di non balbettare più in vece che di parlare: le parole erano leggi. Ma perché quel poggio di grano tutto verde? Se ci penso bene, può darsi che esso stia là come un punto di partenza, molto visibile, da dove mi devo rifare a prendefe il mio passato. Non può avere altro senso: e, d’altra parte, sono portato ad escludere che sia un innocuo ricordo. Non so né meno che poggio sia: non lo riconosco, ‘anzi. (Ora è bene che pianga un

poco, in vece di scrivere!). A piangere, mi piace come a ridere: è la stessa

allegrezza, ma un poco dolorosa e aspra; come una fanfara improvvisa che fa tremare anche la finestra. Alla fine, sono tornato tra i pioppi dell’Arno; perché sento che la mia anima si fa più leggiera; imitando forse l’acqua che corre e pare immobile, tanto è limpida e silenziosa. Tremo anche io con i pioppi; e, se mi fermo, credo che la stesa dell’erba nata tra i gambàni mi si raduni intorno; perché mi sembra di fare amicizia anche con l’aria. Non sono doventato erba anch’io, per farmi falciare insieme con tutta quella del campo? Tutto ciò che Attilia scrive mi piace. Ella è un essere vivente anche per me. Ogni sua parola si muove dentro la mia stanza, e la sento respirare. 45

Invece, quando parlo io, sento che il mio silenzio si fa anche più grande. E allora, tornato a casa, posso capire se mi sono comportato

come dovevo. Come sarà dolce stare vicino a una chiesa di campagna, con quel poco di verde delle siepi e con i cipressi alti! Come sarà dolce confessarsi sul punto di morte, e sentire l’anima! E rivedere, a un tratto, qualche viso che non

smetterà di guardarmi. 19 marzo

Il fratello di mio padre stava in Mugello, e veniva a trovarci ogni tre o quattro anni; per

qualche giorno e basta. ‘A sentirlo parlare, mi annoiavo subito e guar-

davo soltanto le sue palpebre arrossate da una infiammazione cronica. Egli raccontava che andava a lavarsele a una sorgente distante parecchie miglia dal paese; sopra l’asino. L'acqua gliele guariva, ma poi peggioravano lo stesso. Mio padre gli diceva che non se le lavava abbastanza. Oggi mi scrivono ch'è morto, ma io penso soltanto alle sue palpebre; come se fossero restate vive. Io non volevo che mia madre mi dicesse che ero stato tante volte malato. Voglio essere sano. E, perciò, ora che è morto, non l’amo più mio

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zio! Bisognerebbe che fosse vivo e giovane, invece!

Un’operaia di una manifattura viene tutti i giorni nell’osteria, alle tredici precise; quando ci siamo noi. Mangia, senza sedersi, la minestra e

basta; poi si mette dietro i vetri della porta. È brutta e magra. Quando passa la diligenza, che porta dal paese i pacchi postali, comincia a piangere; ma non si sente. I suoi occhi si apro-

no, seguendo tutti i movimenti del vetturino;

che, saltato a terra, cammina con le gambe piegate a roncola. Poi, quando la diligenza torna in paese, la ragazza saluta la signora Marianna; e va al lavo-

ro, dietro la sfilata delle compagne. Il marito dell’ostessa mi dice: «Quel vetturino,

che è addetto al servizio

postale, le ha fatto fare un figlio. E ora non la guarda né meno». Io prendo le sue parti; ma il gestore, che non la può soffrire, risponde: «Troppo tardi se ne pente». Non oso contraddirlo, anche perché non saprei come, ma domando: «E non C'è la possibilità che la sposi®». | «ome dovrebbe fare? Ha già fatto così con altre due. E questa stupida che viene nella mia bottega lo sapeva bene come me! Ma gli volle dare retta lo stesso». La signora Marianna aggiunge:

«Jo l'ho brontolata tante volte, perché viene

qui a disturbare i miei avventori; ma spera di 47

fargli pietà. È proprio stupida». «Non le parla né meno. «Quando gli viene l’estro di farla andare, di nascosto, in casa sua. E poi la rimanda via subito)».

«Ma troverà qualcuna che si vendicherà» dice il mattonaio. 26.marzo

Ho riveduto Nèmora; e le ho parlato. Perché le ho parlato se non avevo niente da dirle? E perché, dai vetri dell’ufficio, sto sempre attento che non entri nessuno nell’osteria? Quando, dianzi, l'ho vista parlare con un carbonaio, mi son sentito ingelosire; e stringevo in

mano il croccino della porta; perché, se mi veniva un pretesto qualunque, sarei andato dalla signora Marianna; e le sarei passato vicino. Nèmora le cuce un vestito; e sta, dalla matti-

na alla sera, con lei; meno quando noi andiamo a mangiare. Perché non mi sono staccato un

bottone dalla giubba e non sono andato a farmelo riattaccare? Perché mi batteva troppo il cuore, e non volevo che Nèmora

fosse certa

che mi piace. Perché ha parlato a quel carbonaio se qui a Pontedera una ragazza non deve

parlare a nessuno, quando non vuole che se ne parli subito male? E poi, io stesso ho per lei come un risentimento, perché mi fa comportare

male con Attilia. Che mi piaccia, non c'è dub48

bio; e vorrei che mi amasse. Ma vorrei fosse lei

la prima a dirmelo; per sentirmi scusato di più. Qualcuno mi dice: «Perché non sta volentieri a Pontedera? Potrebbe sposare la figlia del vicegestore, che è

ricchissimo, o una di quelle del capostazione; ‘ vivendosene tranquillo!»

Io non ho il coraggio di dire a tutti che sono fidanzato a Firenze e che, qua a Pontedera,

avrei scelto Nèmora. Invece, quando scrivo ad Attilia, mi dimentico d’ogni cosa; sono sincerissimo e senza nessun rimorso, benché abbia deliberato di nasconder-

le di Nèmora. Non glielo dirò mai. Ne sono sicuro. Non perché sia capace di mentirle; ma

perché se per Nèmora io la lasciassi, smetterei piuttosto di scriverle e glielo farei sapere. Non devo, anzi, vantarmi di questa lealtà? Stasera, intanto, l’osteria era piena di gente

allegra che cantava; e io mi sentivo anche più irritato del solito e stavo con la testa bassa tra le mani. Avevo visto Nèmora

escire mentre io entravo;

e lo struggimento, che mi pigliava ripensando a lei, mi faceva tenere gli occhi chiusi. Un’altra oscurità era nel mio animo; più tetra e molesta. Non dovevo dimenticare Attilia! Sentivo, su la

faccia, le mani fredde e incapaci a muoversi. Ma di tra il vocio, ho udito chiedere con antipatia: «Perché è sempre così taciturno”. Non potevano alludere altro che a me, e il cuore mi si è chiuso ancora di più. Ma sono

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restato fermo, aspettando quello che qualcuno avrebbe risposto. È passato, forse, mezzo minuto; e un altro ha detto: Lo sveglierò io! Gli romperò la chitarra su la testa!». Sono restato fermo lo stesso; con tutta la mia

volontà. Non volevo ma una voce energica «Ognuno è padrone lasciatelo fare». E io non mi sono

né meno parare il colpo, m'ha difeso: di contenersi come vuole. mosso finché non se ne

sono andati tutti. Non mi sono né meno curato

di vedere chi era quello con la chitarra. Quando ho rialzato la testa, ho guardato subito il lume nel mezzo della stanza; e, allora, Drago, con una dolcezza inesprimibile, m'ha detto: «Quando ci sono io, non abbia paura».

Ma io ero così preso da quel che pensavo, che non lho né meno ringraziato. Anzi, forse, non

l'ho voluto ringraziare. Dopo, ho saputo che la signora Marianna vuol farmi dire dal gestore che io nella sua bottega devo essere lieto come tutti gli altri; perché ha paura di perdere gli

avventori che vogliono divertirsi e ridere. 27 marzo E quasi mezzanotte,

e accompagno,

fino a

casa sua, una donna che ha il marito in prigione da quindici anni. Ha paura che il vetturino 50

della posta le si avventi addosso come ieri sera. O devo smettere di parlare a Nèmora o sono deciso a sposarla. Me l’ha detto la signora

Marianna. E io stesso riconosco che ha ragione;

ma non so quel che decidere, benché proprio ora abbia impostato una lettera ad Attilia. Anzi, . le ho scritto con passione; perché sta sempre peggio.

Marcello Capri, tra qualche giorno, sarà traslocato a Firenze; e, perciò, non lavora quasi più. Il suo lavoro lo debbo fare io, ed egli non fa altro che occhieggiare la figlia dell’ingegnere. Si guardano per mezz’ore intere, senza più rite-

gno. I facchini e i barrocciai, accoccolati dove batte

il sole, ci si divertono e ridono a crepapelle. Qualcuno carica la pipa e va a fumarla lì; per godersi ambedue gli innamorati. Tutto il paese lo sa, e noi ci aspettiamo che capiti l'ingegnere in stazione.

Ad un tratto, un donnone robusto è muscoloso piglia per le spalle la ragazza, la tira verso la tenda e le dà due schiaffi. I facchini e i barrocciai si alzano; e, andando

fin sotto la finestra, bestemmiano e gridano giocondamente. Il Capri resta male; ma, per il meglio, si deve rassegnare. E, accesa una siga-

retta, va sul piazzale.

Ogni domenica, una figlia del capostazione

viene a passeggiare sotto la tettoia; e un suo fratello, molto più giovane di lei, la tiene per la vita. SI

Tutti me la indicano; e mi spronano a guar-

darla almeno un poco. E come ho fatto il viso rosso, quando, uscendo su la porta, ho incontrato Nèmora che attraversava i binari per andare a una casa fuori del paese! La figlia del capostazione ha smesso subito di passeggiare.

29 marzo

Sono due notti che non dormo, per terminare un lavoro affidato a me. Bevo il terzo caffè; ma

gli occhi non mi stanno più aperti. Quantunque abbia presa la migliore lampadina, non riesco a vederci bene. L’applicato è andato a casa; il telegrafista dorme nella sua stanza. Io sbaglio, perché i facchini si sono riuniti facendo un gran baccano insieme con la sorella di uno di loro. Potrei farli tacere e mi arrabbio invece. Pare che si travolgano tra le casse; poi ridono tutti insieme. Anche la ragazza bestemmia. Certe notti, dopo aver guardato il cielo stellato, credevo di perdermi; e i pochi passi dalla mia casa mi parevano chilometri e chilometri. Uno sbigottimento angoscioso mi spingeva tra quelli spazii, senza lasciarne né meno uno; e

le nuvole ventavano sopra la mia testa. Io avevo paura di non essere più come gli altri, e mi convincevo di non tornare mai più. Ma allora mi vidi steso morto, sopra un letto di campa52

gna, con un prete che leggeva in un libro; e da quella volta mi son creduto sempre un altro. Perché bisogna credere a quel che si pensa. Nell’oliveta ci si vede anche soltanto con le stelle. Dentro

le siepi, qualche insetto si move;

facendo frusciare la terra e le foglie. Un uomo, che zappa tutto il giorno, torna a casa. Ma io non gli ho mai visto bene il viso. Io capisco che è stracco, e trascina una gamba. Le sere che non passa, guardo la terra del campo; perché mi fa pensare a lui; come se egli fosse piuttosto di terra che di carne come me. 30 marzo

Un barrocciaio minaccia di accoltellare un mio collega, che deve applicare un regolamento rinnovato dal capostazione. Adesso c'è una grande vendita di conigli, di galline e di oche. Tutti i venerdì, la panchina è ingombra di gabbie che attendono i treni diretti. Non ho né meno tempo per mangiare; e gli speditori vengono a sollecitarmi fin dentro l’osteria. Ma i facchini gironzano intorno alle gabbie delle galline, e riescono a trarre fuori le uova di tra le stecche; aiutandosi con uno stecco lungo. Il più abile è arrivato a beverne sette. Ma io invidio tutta quella gente ricca ed elegante, che viaggia nei treni di lusso. 53

Stasera, quando un treno s'è rimesso in moto, ho intraveduto due sposi che, ritti in mezzo allo scompartimento, si baciavano. È il bacio più castamente appassionato che io potessi vedere. Tanto l’uomo che la donna dovevano aver dimenticato tutto, e con le bocche attaccate

insieme pigliavano quella felicità che è concessa soltanto poche volte. Facendo la strada lungo lo stecconato dei binarii, incontro l’innamorata del Capri. Non entra più in paese; e pensando ch'io l’abbia vista schiaffeggiare, fa quasi l'atto di tornare a dietro e pare ebbra di vergogna. Ma quando siamo a pochi passi l’uno dall’altra, mi fissa con gli occhi chiarissimi che brillano; poi sparisce di corsa nel portone di casa. Io non ho fatto amicizia con nessuna persona del paese; e ho già chiesto ad un ispettore il mio trasloco in qualche città; a Firenze per esempio. È impossibile che io viva qui. Oggi, in trattoria, ho trovato, vicino al mio posto, un collega processato per aver preso cin-

quecento lire dalla cassetta della stazione. Ma la benevolenza e l’amicizia dei testimoni lo hanno fatto assolvere; ed egli spera che l’Amministrazione lo riprenda in servizio. È solo e povero. Noto con quanta disinvoltura parla con noi e quanto riesce a farsi rispettare. Nessuno

lo

disprezza. Passa, anzi, le giornate dentro il nostro ufficio, quantunque il capostazione glie54

lo abbia vietato. Con me s'è voluto giustificare, dicendo che tutti fanno così. E quando gli ho risposto che non è vero, mi ha guardato con un sorriso disprezzante. Esagera sempre il suo tono d’importanza; ‘ anche con l’ostessa che deve avere da lui molti denari.

Desidera che lo mandino in qualche stazione solitaria della maremma;

e si capisce che tenta

di riabilitarsi; e sta sempre in orecchio che non sparlino di lui. Farò male, ma non mi sento a mio agio in

compagnia di questo spostato; che mi dice, con rancore: «Perché l’Amministrazione ha voluto tenermi qui? Io ho sempre chiesto di essere mandato in qualche stazione, dove possa, nelle ore libere,

passeggiare solo tra i boschi, dove io possa stare molte ore senza parlare ad alcuno. Così io sarei felice». Perché non ho voglia di alzare gli occhi, se c'è già la luna? L’oscurità che c’è dentro di me m’inebria. Perché mi piace di più questa tristezza più grande del chiaro di luna; mi piace tanto questo silenzio! La luna se ne andrà senza ch’io abbia alzato gli occhi. Il corno della luna un poco storto e consumato da tutte questore di vento, mi fa la stessa compassione dei cavalli di legno che sbattono EE.

girando attorno al carosello perché son tagliati male. Ma almeno il carosello mi dà un’allegrezza che mi stordisce, come se avessi bevuto troppo e come se tutta la mia giovinezza mi facesse sbattere la testa nel muro senza capire più nulla. Al meno quei cavalli hanno lo stomaco e la bocca pieni di legno, e non sentono la fame. 5 aprile Dall’ufficio vedo la montagna lucchese, che verdeggia tra case, ponti e strade.

Quando entro nell’osteria, la signora Marianna allatta la sua bambina. Il marito sta con le mani appoggiate al marmo del tavolino, dove tengono i fiaschi e le forme del cacio. Il bambino più grande, con il moccio al naso,

spezza un piatto; ne busca e lo mettono a piangere fuori dell’uscio. La signora Marianna ha dovuto lasciare in terra la sua bambina, per serVire me.

Mentre si riabbottona il vestito, mi chiede:

«Che cosa mangia. «Che cosa c'è?». Non se ne ricorda subito, e sbaglia; ma poi ci

azzecca: «Le paste nel sugo». «Si spicci».

Ella sorride e dice: «Ha sempre fretta».

Intanto divento nervosissimo, quantunque il gestore mi chieda: «Vuole bevere l’acqua?» «Sì: non mi sento bene». «Beva il vino, Dio...

E mi empie il bicchiere. È rosso più del solito; - e, dopo avermi guardato a lungo, mi domanda: «Perché non vuole stare a Pontedera. Dal tono della voce, capisco che non si è punto affezionato a me; perciò non rispondo; ed ascolto gli osti, che cominciano un litigio. La signora Marianna dice: «Perché non tieni un poco la bambina in collo? Io ho da cuocere questa carne». «Tienla tu; io ho sudato fino ad ora, a contare i mattoni».

Ella piange; ed egli si incollerisce di più, dicendo a noi: «È la miseria nostra. Quando non avevamo

bisogno di stare qui, ci volevamo più bene». Ella si cheta; ma il gestore mi cozza il gomito, e mi dice: «o gli taglierei la gola con questo coltello». I bocciolidi rosa sono come punte di matite rosse; ma non le adopro. E il vento non si sa quel che vuol fare e da che parte viene. Aspetto una buona notizia di Attilia; e questi brividi freddi sono più voluttuosi dei raggi del sole.

57

6 aprile La malattia di Attilia m’impensierisce; e le scrivo con una apprensione che non mi lascia più pace. Se potessi avere un giorno di permesso e andare a Firenze! Mentre rosicchio il pezzetto di pane della colazione, entra un ispettore seguito dal gesto-

re: si fa silenzio all'improvviso. L'ispettore dà un’occhiata troppo indifferente ai miei registri, e si siede ad un altro tavolino per trovare un errore di calcolo, per cui da tre mesi sono in movimento

cinque

o sei alti personaggi

dell’Amministrazione. E pallido e sembra sofferente. Il gestore lo guarda; poi, chiede il permesso di andarsene. Allora entra un altro ispettore con la faccia tutta torta da grinze enormi, con la bocca tirata da

una parte e gli occhi a punta sotto gli occhiali cerchiati d’oro. Il silenzio aumenta. Ma l’ispettore non guarda nessuno;

parla sorridendo con il suo collega,

che gli dimostra una deferenza molto palese. Poi, chiede:

«C'è l'impiegato che deve dare gli schiarimenti?». Un applicato, ch'era rimasto all’uscio, risponde più disinvolto che può: «SONO io».

E le contestazioni cominciano. Suona il mezzodì; ed essi ciarlano ancora,

moltiplicano e sommano. Ma il conto non va 58

bene lo stesso. L’ispettore, che è entrato per primo, sospira parecchie volte; e il secondo è più che mai arcigno. L'impiegato impallidisce, ma sostiene con vivacità di non essere colpevole. Quelli non gli credono; e, alla fine, si alzano. La conversazione tra noi impiegati riattacca

— immediatamente. 7 aprile

Marcello Capri partì ieri sera. Gli fecero una cena di addio, alla quale non presi parte, perché ero troppo stanco. Mi promise di passare dalla mia famiglia. Ho riveduto la sua innamorata. Sembra che abbia pianto, ed ha una serietà ridicola. 9 aprile Comincia il caldo. Io ricopio l’inventario della stazione; ma mi stanco quasi subito, e mi debbo riposare quasi ogni quarto d’ora. I miei occhi s’attaccano alla campagna. 10 aprile

Nèmora non è stata più dalla signora Marianna. E io non penso più a lei; per quanto mi sembri impossibile. Ma l'ho dimenticata da vero. 59

12 aprile Un controllore, con la faccia enorme e mala-

ticcia, parla di propaganda socialista insieme con un applicato, nella stanza del telegrafo. Io metto al protocollo alcune lettere; e su la pianura pisana il cielo si empie di nuvoloni. Un apparecchio si muove, e comincia a battere su la striscia di carta; simile ad uno scricchio-

lio noioso. L’applicato leva di bocca la pipa, smette di dare retta al controllore e apre il movimento dell’apparecchio. Allora si ode una serie di colpettini metallici, che lasciano, rapidamente, su la striscia di carta i loro segni azzurri. Poi,

l’applicato risponde; e dà un ordine nella stanza

vicina. 16 aprile Ricevo due lettere. Una mi dice che m'è nata una sorellina; un’altra che Attilia sta molto male.

Allora, mostro la prima al capostazione; e ottengo il permesso di stare due giorni a Firenze. Sono quasi presago di non tornare più

a Pontedera, e metto nella valigia tutta la mia roba. Saluto in fretta i colleghi e parto. Il gestore appena mi risponde; invece il vicegestore mi

dà perfino la mano. Anche Drago non ha più

voglia di essere mio amico, e vado a salutare la signora Marianna proprio per convenienza.

60

Salendo in treno, avrei piacere che ci fosse qualcuno a salutarmi; qualcuno che mi chiudesse lo sportello come si fa con le persone a cui si vuol bene. E, invece, non c’è nessuno. L’applicato di servizio mi dà un’occhiata di traverso,

quasi malevola; e non risponde all’ultimo “ cenno che gli mando con la mano. Tuttavia, prima di sedermi e di guardare chi c’è nello scompartimento, m’affaccio. M’ero affezionato più di quel che credevo a Pontedera; ma mi prometto di non tornarci più; a costo di perdere l’impiego. Nèmora dove sarà a quest'ora? Negli stabilimenti industriali, le vetrate sono già illuminate dalle lampadine dentro; una donna si fa alla finestra e si ritrae prima ch'io abbia potuto vedere se la riconosco. La stazione si nasconde. Allora, metto dentro la rete la valigia; e mi

siedo. Tengo le mani in tasca, e sono molto triste. Di questi due mesi, mi resta soltanto una velatura di fastidio e di tedio. 17 aprile

Sono arrivato a Firenze dopo la mezzanotte. Cammino

impacciato come se non ci fossi mai

stato. E siccome domattina voglio subito vedere Attilia, senza che se ne accorgano quelli di casa, vado a dormire in un albergo. Come sto meglio a Firenze! Quasi, mi vien fatto di baciare i guanciali del letto! Ma vorrei essere subito da Attilia. 61

In treno ho domandato a un uomo anziano se ficevo bene o no ad andare prima dalla fidanzata; e gli ho raccontato delle due lettere. Quell’uomo non m'ha voluto dare il suo parere, e ha smesso di parlarmi. Ma, ormai, anche se ho fatto male, sono già dentro l’albergo. Mi sveglierò prestissimo. 18 aprile Attilia era già morta. Non so perché, quando l'ho saputo a mezze scale, avendolo domandato a una donnetta che scendeva piangendo, mi son domandato se non dovessi tornare a dietro. Quelli della sua famiglia non mi conoscevano e non sapevano nulla. Mi pareva che Attilia mi volesse far paura e che io non la dovessi vedere; e anche non mi pareva vero che fosse morta. Ma stando lì, come se m’avessero fermato, ho

cominciato a piangere. E ho pianto quasi una mezz'ora. Quando sono stato sicuro che potevo non piangere più, mi son fatto alla porta e ho bussato; stando con un piede pronto a rifare le scale. E venuta ad aprirmi la mamma; che io avevo visto parecchie volte insieme con Attilia. Senza dirmi nulla, mi guarda. I suoi occhi neri sono

molli di pianto. Prima ch'io possa aprire bocca,

mi riviene da piangere; e mi fa piacere ch’ella mi veda piangere. 62

Allora, timidamente, mi chiede:

«Vuol passare. Faccio un passo innanzi, ma ella mi chiede anche:

«Chi è?» Non voglio dire che io facevo all'amore con sua figlia; e balbetto, invece, il mio nome. Poi, senza badare più a lei, finisco d’entrare; do

un'occhiata alla casa e capisco qual’è la camera. Come

se ne avessi avuto il permesso,

mi ci

avvicino, un poco in punta di piedi; ma, prima di entrare anche lì, mi volto alla mamma; e me la vedo accanto a me, senza ch'io l'avessi senti-

ta camminare: mi guarda con una meraviglia paurosa. Allora, non ho né il coraggio di spiegarle chi sono e né meno di entrare nella camera. Singhiozzo forte e nascondo la faccia la muro. Dalla camera, esce il padre già vestito di nero. Gli prendo le mani e gliele bagno di lacrime. Balbetto un’altra volta: «La voglio vedere». ; E penso una cosa insensata: “Se Attilia mi sentisse piangere così, ne avrebbe piacere. Ella sa che io l'amo”. Ma senza spiegare chi sono, mi dico che non posso entrare: mi sembra quasi una profanazio-

ne al pudore di Attilia.

E non posso ritardare

più, in nessun modo, il momento di vederla.

Quando ho spiegato tutto, non mi rispondo-

no nulla; soltanto la madre mi dice: «Entri».

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Ma ho paura di vederla! Prima chiudo gli occhi; e, poi, soltanto per non urtare forse il letto, li riapro guardando più in alto di dove è stesa. Vedo soltanto la punta di quattro candele accese sul comodino; e un rosario intrecciato ai

ferri del letto. Devo abbassare gli occhi! Incontro la faccia di Attilia. Fo per baciarla subito, tanto le sono vicino e quasi la tocco con il mento; ma le guardo le mani incrociate sul petto. Mi sento girare la testa. Le mani sono

diacce e la pelle del viso è bianca e un poco umida. Come se mi troncassero il collo con un colpo solo, le bacio la bocca. Non piango più, ma quando mi pare che dentro gli occhi, simili a una colla intorbidita, sia restato lo stesso

sguardo di una volta, mi si piegano le gambe e vengo meno. Ripresi i sensi, cerco un’altra volta quello sguardo, che dev'essere stato per me; e non c’è più nulla: tutta la faccia è lavata dalla morte. Fino a sera fatta, non ho avuto animo d’andare a casa. Anzi, non ci volevo andare. Mia madre stava bene, tutti erano allegri. Io

riescivo così a fingere, che m’hanno creduto soltanto stanco e un poco sperso. La bambina Stava cheta e teneva gli occhi aperti; tutta fasciata sotto le lenzuola. Mio padre ha avvicinato la lampada elettrica al suo viso, dietro la testa,

perché non le facesse male, e io la potessi guardare. La bambina, in quell’istante, quasi avesse sentito la luce, ha stirato la bocca; e le labbra le

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sono come entrate dentro, Mi sono alzato in punta di piedi, per vederle meglio gli occhi e ho voluto pensare allo sguardo di Attilia. Mia madre come se fosse insospettita, m’ha chiesto: «Perché la fissi così”. 19 aprile I genitori di Attilia non mi lascerebbero mai andare. Io sono stato una mezza giornata intera accanto ad Attilia; che verranno a portare via

stasera. Come passa il tempo! Prima, sono tornato un poco a casa mia; e ho detto a mia madre: «Se non hai scelto già il nome, la devi chiamare Attilia». «Non mi piace. E perché hai pensato a questo nome.

La verità non gliela voglio dire, perché sarei sicuro che non glielo metterebbe; ma, lì per lì,

le invento: «L'ho pensato in treno. Se vuoi che le voglia più bene che alle altre sorelle, chiamala così. Non ho anche io il diritto di scegliere il nome a una mia sorella?» «Giacché tu sei tornato a Firenze per vederla appena nata, se mi prometti di non confonderti più la testa con nessuna ragazza, la chiameremo così, Ma potevi trovare un nome che mi piacesse di più». 65

‘E sono andato ad accompagnare la mia fidanzata fino al cimitero di Trespiano; chiedendole perdono per mia madre. 20 aprile Dovrei già tornare a Pontedera, ma mio padre mi promette di recarsi da un pezzo grosso delle Fetrovie, suo amico, perché mi diano il posto a

Firenze o in qualche altro paese più grande.

22 aprile Resto a Firenze.

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V Prefazione di Marco Marchi 1 Ricordi di un impiegato

Piccola Biblioteca Universale JOSEPH ConRAD, Domani ITALO Svevo, Una burla riuscita HERMANN HESSE, Notizie straordinarie

da un altro pianeta BoRJs L. PASTERNAK, La fanciullezza di Zenia Ljuvers ARTHUR SCHNITZLER, Sottotenente Gustl MARCEL PROUST, // raggio di sole sul balcone

FRANCESCO GUICCIARDINI, Diario del viaggio in Spagna MICHAIL BuLGAKOv, Diorama moscovita

RAR SO 0 Ni J. L. BORGES - A. Boy CAsaRES, / dodici segni

dello zodiaco

ADOLFO BioY CASARES, Un viaggio inatteso

THOMAS MANN, La volontà di essere felici WILLIAM FAULKNER, Fumo RAINER MARIA RILKE, Re Bohusch

ROBERT Musit, I/ compimento dell'amore HEINRICH BOLL, Visto di transito ARTHUR SCHOPENHAUER, Magnetismo animale

e magia

VOLTAIRE, Zadig Guy DE MAUPASSANT, // delitto

di compare Boniface BLAISE PAscaL, Della necessità della scommessa DIpEROT, Questo non è un racconto

II libro dello splendore STEFAN ZWEIG, Gli occhi del fratello eterno OTTO WEININGER, Ebraismo e odio di sé

CesaRE MUSATTI, Ebraismo e psicoanalisi

GIOVANNI VERGA, Storia di una capinera FEDERIGO TOZZI, Ricordi di un impiegato LUIGI PIRANDELLO, Amori senza amore RENATO SERRA, Esame di coscienza di un letterato

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PICCOLA BIBLIOTECA UNIVERSALE

Periodico settimanale n: 26 - 1994 Registr. Per. Trib. di Pordenone n. 384/1993 Direttore responsabile: Nico Nanni

Finito di stampare in Cles (TN) nel mese di novembre 1994

presso lo Stabilimento Nuova Stampa di Mondadori per conto di Edizioni Studio Tesi srl - Pordenone

«E quando me ne vado, girando la chiave dell’uscio, credo di chiudere là dentro una vita più vasta della mia»

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