Rickert tra storicismo e ontologia 8820433176

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Rickert tra storicismo e ontologia
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RICKERT | TRA STORICISMO E ONTOLOGIA a cura di

a Filosofia

FrancoAngeli.

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RICKERT TRA STORICISMO E ONTOLOGIA a cura di

Mario Signore

FrancoAngeli

Mario Signore, docente di filosofia presso il Dipartimento di filosofia dell’università degli studi di Lecce, esprime i suoi interessi teoretico/scientifici ed eti-

co/antropologici in ricerche che si muovono nell’ambito della filosofia tedesca . dell’800 e ?900, con riferimento all’idealismo, allo storicismo contemporaneo,

alla fenomenologia husserliana, senza mai perdere di vista le relazioni tra filosofia e scienze storico/sociali e politiche. Tra i vari saggi pubblicati si ricordano: Senso e significato in Max Weber (Lecce, 1977); Sinnproblematik in der Beziehung Menschen und Welt, in Aa. Vv., Kultur und Institution (Berlin, 1982); Die Sozialtheorie zwischen Wertphilosophie, Phinomenologie und Hermeneutik, in «Soziologischen Jahrbuch» (1986). Ha curato la traduzione italiana e introdotto le opere di Rickert, // fondamento delle scienze della cultura (Ravenna, 1979/86) e Filosofia valori teoria della definizione (Lecce, 1987). In questa stessa collana è comparsa, a sua cura, il volume Husserl. La «Crisi delle scienze europee» e la responsabilità storica dell’Europa (Milano, 1985).

Progetto grafico della copertina: CarusoAusenda Associati

Copyright

©

1989

by Franco

Angeli

Libri

s.r.1., Milano,

Italy

I lettori che desiderano essere regolarmente informati sulle novità pubblicate dalla nostra Casa Editrice possono scrivere, mandando il loro indirizzo, alla ‘‘Franco Angeli, Viale Monza 106, 20127 Milano”, ordinando poi i volumi direttamente alla loro Libreria.

INDICE

Introduzione, di Mario Signore

pag.

Parte I - Logos e storicità Wert - und - Lebensphilosophie H. Rickert nel suo tempo. La discussione europea sulla scienza e sulla We/tanschauung, di Friedrich H. Tenbruck Logos e storicità, di Nunzio Incardona — I modi d’essere del mondo. Problemi di ontologia, di Mario Signore =

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La sociogenesi del concetto di valore da Lotze a Rickert, di

Jlirgen Gebhardt Filosofia trascendentale dei valori Lebensphilosophie e Historismus nel pensiero di H. Rickert, di Antonello Giugliano A proposito del rapporto tra linguaggio e ontologia in H. Rickert, di Osvaldo Rossi

Dimensione logica e giudizio di valore nella filosofia delia storia di Rickert, di Manlio Corselli Bisogno metafisico e sistema filosofico. Considerazioni su Windelband e Rickert, di Rossella Bonito Oliva

Parte II - Scienza ed epistemologia Tra elaborazione concettuale e Weltanschauung Il naturalismo come scienza e visione del mondo. H. Rickert e il suo rifiuto del naturalismo quale estraniamento dell’uomo, di Bernhard Plé Forme costitutive e forme metodologiche nella teoria della elaborazione concettuale, di Gianna Gigliotti Scienze dello spirito e mondo storico nel confronto DiltheyRickert, di Giuseppe Cacciatore

Sehen und Denken. Considerazioni sul rapporto TroeltschRickert, di Giuseppe Cantillo Il feticcio epistemologico, di Francesco Fistetti Verstehen, Begreifen, Begriffsbildung, di Marcello Catarzi Giudizio e verità in Lask e Rickert, di Agostino Carrino

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Parte III - Dal confronto dialettico al dopo-Rickert Rickert critico di Max Weber, di Franco Bianco L’influenza di H. Rickert negli scritti giovanili di Heidegger, di Armando Savignano Validità e relazione ai valori: tra Weber e Rickert, di Bruno Accarino

Economia pura e storia: H. Rickert e C. Menger, di Vitantonio Gioia La critica di Gadamer a Rickert, di Georgia Apostolopoulou Rickert e Heidegger: il progetto incompiuto di una nuova logica, di Renata Viti Cavaliere

Indice dei Nomi

INTRODUZIONE di Mario Signore

1. Il contesto dei problemi Nelle Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, H. Rickert, ritenendo "ovvio" che le scienze si siano provvedute di metodi adeguati e di conoscenze corrette, sostiene la necessità di partire

"dai compiti che la conoscenza scientifica cerca di assolvere", per cogliere "l’importanza, o più precisamente il valore che i diversi modi e forme del pensiero scientifico hanno per la realizzazione di giusti compiti", precisando, conclusivamente, che per lui "i metodi della ricerca sono [...] dei mezzi, dei quali vogliamo comprendere i rapporti funzionali con gli ultimi fini dell’aitività scientifica" !. Con questo non si tace dell’importanza della metodologia per la scienza, solo che la correttezza delle procedure viene individuata, appunto, nella sua relazione "funzionale" con i supremi fini della scienza e quindi inserita nella "logica" o "dottrina della scienza" (Wissenschaftslehre). E° il medesimo interesse che lo condurrà alla rivendicazione dell’autono-

mia delle Geisteswissenschaften, riproponendo, senza eccessiva preoccupazione per le reazioni dei suoi contemporanei, il problema della Weltanschauung, come problema terminale per la scienza, che non deve disattendere l’esigenza, mai del tutto superata, di "una generale concezione della vita e del mondo" (die allgemeine Welt-und-Lebensanschauung) ?, alla quale deve rispondere chi fa sua la "professione" della scienza 3. 1. Ivi, 4? ed., J. C. B. Mohr, Tiibingen 1921, p.15. Il corsivo è nostro.

2. Ivi, pp.10 ss. 3. Per approfondire anche altri aspetti del problema impostato da Rickert è utile confrontare M. Weber, Wissenschaft als Beruf, in Gesammelte Aufsctze zur Wissen-

Certamente, chi ha vissuto l’esperienza della pervasività delle scienze particolari, e della frammentazione delle discipline, conseguenti allo sviluppo scientifico dei secoli XIX e XX, con tutti i costi che ciò ha richiesto per l’inevitabile disattenzione verso "i problemi decisivi per un’umanità autentica", non poteva non farsi carico del rinnovato bisogno di ridefinire la scienza per aprirla all’istanza della "totalità". Proprio tenendo d’occhio la ricerca specialistica, della quale in ogni senso non si può prescindere, s’impone a Rickert una riconsiderazione dell’importanza della filosofia, che se ha perduto i contenuti riferibili ai vecchi problemi, ormai di competenza delle scienze specialistiche, viene chiamata in causa per i problemi "derivati dallo sviluppo del concetto di mondo", al quale si collegano tutte quelle domande che oggi debbono costituire l’oggetto della filosofia: "che cosa s’intende per ‘mondo’? Quali sono i compiti delle scienze specifiche nei suoi confronti? Quali interrogativi ci vengono posti dal mondo inteso come totalità, e in che cosa consiste, quindi, il lavoro filosofico di'per s62::4: Inquadrata nelle discussioni logiche, la riflessione rickertiana dimostra la sua validità nel mettere in evidenza gli sconfinamenti dello scientismo e nello smascherarne i presupposti, anche i meno evidenti. Pur partendo dalla fondazione gnoseologica di Menger e costruendo due tipi di scienze e di concettualizzazione, a seconda dello scopo della conoscenza, Rickert si spinge a dimostrare, in modo esemplare, che la scienza "nomologica" offre meno possibilità conoscitive di quelle ipotizzabili, per cui è poco sostenibile, perché contraddittorio, richiamarsi al metodo nomologico, del quale per altro non va messa in discussione la legittimità, come al solo metodo adeguato ad indagare scientificamente la realtà empirica. Sarebbe lecito affidarsi esclusivamente al metodo nomologico, se non fossero pensabili altre forme ed esperienze conoscitive da affidare alla scienza, oltre quelle

ipotizzate da Menger: appena si amplia il campo della scienza per adeguarla alle sue vere finalità, ci si accorge della inadeguatezza del metodo nomologico a scendere sul piano delle valutazioni, in quanto interessato ad afferrare soltanto le uniformità, senza potere, di conse-

schaftslehre, Mohr, Tiibingen 1922, 4 Auflage, 1973, pp.582-613; tr. it., La politica come professione, Einaudi, Torino

1948. Vedere pure, M. Signore. Senso e signifi-

cato in Max Weber, Messapica, Lecce 1977, pp. 37-77. 4. H. Rickert, Vom Begriff der Philosophie, in "Logos" I, 1910; tr. it.,7/ concetto

di filosofia, in Filosofia, valori, teoria della definizione (a cura di M. Signore) Milella, Lecce 1987, p.1.

guenza giungere scientificamente a giudizi di valore, relativamente alle forme conoscitive: "giudizi sulla scientificità o sulla sua non scientificità di un metodo sono giudizi di valore e presuppongono dunque essi stessi già un criterio di valore a cui si commisuri l’’oggettività’ della scienza. Da ciò consegue che le scienze naturali sconfinano dalla loro competenza nel momento stesso in cui dichiarano giusto solo il loro metodo. Questo è un giudizio di valore. Quanto più si aderisce alla posizione delle scienze naturali, che vuole e deve essere avalutativa, tanto più ci si deve astenere da ogni giudizio sul valore o sul non valore di un metodo scientifico" 5. Ribadendo la sua distanza dalle posizioni mengeriane, orientate a sottomettere la storia

alla scienza nomologica, Rickert vuol difendere l’autonomia conoscitiva della scienza storica, in quanto adatta a cogliere oggetti "forniti di senso", sottraendola alla pervasività del modello conoscitivo naturalistico, sia pure senza farla ricadere entro i limiti dell’esperienza immediata sostenuta dalla Lebensphilosophie e dalle varie forme di intuizionismo *. Una difesa che, in verità, non si limita all’intenzione

gnoseologica e metodologica, ma apre ben presto all’imprescindibile bisogno e capacità dell’uomo di inserire il suo agire in un mondo pieno di significati. Mondo ricco di senso, del quale egli non dubita un istante, convinto che "la vita psichica è per il più delle volte, e forse sempre, vita valutativa” 7; che la rimozione di questo modo d’essere

dell’uomo a tutto favore di una forma di conoscenza senza rapporti con i valori produce una "paralisi mentale"8; e che, infine, "un tal mondo non può mai diventare il nostro habitat, in esso siamo dispersi nella miseria, sconfinati. Freddo tremendo ci si presenta l’aspetto di questo macchinario del mondo" ?. Coerentemente con questa impostazione di fondo, la scienza non solo non è più posta a "modello" generale e assoluto di ogni forma di analisi e di considerazione della realtà, ma, al contrario, si vede richia5. H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, cit., p.490. Per il dibattito con Menger, cfr. H. Rickert, Die Probleme der Geschichstphilosophie, C. Winters, Heidelberg 1924 (1° ediz. 1905), pp. 9 ss; e C. Menger, Untersuchungen liber die Methode der Socialwissenschaften und der politischen Okonomie insbesondere, in Gesammelte Werke, Mohr, Tiibingen 1969, pp.16-22; e all’interno il saggio di V. A. Gioia, Economia pura e storia: H. Rickert e C. Menger, n978ss" d 6. Per la differenza rickertiana nei riguardi della Lebensphilosophie vedere H. Rickert, Die Philosophie des Lebens, Mohr, Tiibingen 1920, p.35; e H. Rickert, A/-

Igemeine Grundlegung der Philosophie, Mohr, Tiibingen 1921, p.10. 7.H. Rickert, Allgemeine Grundlegung der Philosophie, cit., p.283. 8. Ivi, p.VII. 9. Ivi, p.90.

10 mata ad un compito, per così dire, più elevato, o almeno più complesso, quale è quello di fondare una Weltanschauung e quindi di aprirci ad una formazione concettuale che renda possibile il raggiungimento di questo obiettivo. E a questo punto si riscopre la funzione non delegabile della formazione concettuale storica. Al di là di ogni pretesa subordinazione delle Ku/turwissenschaften all’egemonia delle scienze naturali, anche queste ultime, lungo una indicazione già abbastanza rilevante in W. Windelband, vengono inevitalmente inserite nel gioco del nostro comportamento individuale, e sottoposte a tutte quelle trasformazioni ed evoluzioni di senso, dovute al fatto, individuato in modo ormai irreversibile da Weber, "che noi siamo esseri culturali dotati della capacità e della volontà di assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli un senso" !9, L’obiettivo rickertiano di una logica delle scienze culturali doveva portare anche alla scoperta gnoseologica di quella plurivocità della realtà, che avrebbe confutato in modo radicale il naturalismo, con la

sua pretesa di fare della conoscenza una mera immagine della realtà, allo stesso modo in cui avrebbe consentito a Rickert di collocarsi in quel clima del "ritorno a Kant", per quanto tale "ritorno" abbia voluto dire in termini di consapevolezza della possibilità di "calcolare" il mondo reale, senza fare ricorso alla formulazione generale del sapere, al di là, o al di qua, di quel garantismo epistemologico, che pure Rickert vuol perseguire, ma comunque entrato in crisi a fronte di una concezione del sapere scientifico, basata su di una nuova mappa dell’intelletto generale e delle sue condizioni statutarie, che vede l’episteme interno alla dimensione del Beruf, in una inarrestabile crescita esponenziale dei punti di vista e delle soluzioni, per adottare una conclusione weberiana. E proprio la fiducia weberiana nel Kulturmensch dotato della capacità e della volontà di prendere consapevolmente posizione nei riguardi del mondo e di conferirgli un senso, diviene un presupposto trascendentale, che però non si spinge fino ad escludere la mutevolezza dei punti di vista concreti, che orientano il senso della realtà empirica. L'esercizio della Wertbeziehung, pur col richiamo al valore trascendentale, al quale Rickert non rinuncia, non garantisce contro il

cambiamento e l’incertezza del futuro umano

!!. Le idee di valore

10. M. Weber, Die "Objektivitàt" sozialwissenschafticher und sozialpolitischer

Erkenntnis, in Gesammelte Aufsditze zur Wissenschaftslehre, cit., pp.180-181; tr. it., L’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, in Il metodo delle scienze storico sociali (a cura di P. Rossi) Einaudi, Torino 1958, p.96.

11. Cfr. ivi, p.213; tr. it., cit., pp.134-135.

16] gettano luce sempre e soltanto su di un segmento del fiume fluttuante e caotico della realtà. Weber aveva espresso il pathos, in verità al-

quanto estraneo a Rickert, di questo irrefrenabile movimento, con il . Faust di Goethe: "dinanzi a me il giorno e dopo me la notte, il cielo al di sopra e al di sotto i flutti" !2. Weber vive la situazione con la freddezza virile dello scienziato che ha fatto la svolta metodologica ed esistenziale della Wertfreiheit, Rickert, espressione più forte della "cultura dei professori", della borghesia colta liberale e protestante vorrebbe tentare la conservazione di questo mondo spirituale e culturale da una crisi, che viene colta come crisi storica mondiale, attraverso il concetto di una "scienza del valore" dell’umanità culturale storica !3. Sotto l’aspetto logico, su questo punto, Rickert concorda con Windelband e con Weber, in quanto tutti e tre riconoscono la mutabilità storica dei valori. "Ma in realtà la differenza è profonda, perché Windelband e Rickert sperano che, nonostante tutto, lo sviluppo culturale agevolasse una realizzazione cumulativa dei beni culturali, e con ciò, in fin dei conti, anche una conoscenza dei valori, per principio sempre validi, ma realizzati soltanto man mano. A questa speranza, Max Weber oppose la sua tesi del mutamento storico inevitabile dei valori" !4. La fatica dell’avvicinamento ai valori "sempre" validi è appagata non solo dalla certezza del compimento, per quanto parziale questo possa configurarsi, ma anche dalla prospettiva della "conoscenza" dei valori. Prospettiva, in verità, che va incontro a non poche difficoltà e che pone più problemi di quanti non sia in grado di risolvere. E che si tratti delle difficoltà in cui s’involge quasi tutto il neokantismo, sia nella versione della scuola di Marburg che, col suo programma di ricerca delle condizioni di possibilità del mondo culturale, intende fare del neocriticismo la filosofia delle "condizioni" dell’esperienza in tutte le sue manifestazioni; sia nella versione della scuola del Baden, impegnata a rivendicare l’autonomia delle Geistes/Kulturwissenschaften anche riproponendo, come accennavamo sopra, il problema della Weltanschauung in quanto problema terminale per la scienza, che pur impegnata ormai, e necessariamente, per altre vie, 12. "Vor mir den Tag und hinter mir die Nacht; den Himmel iiber mir und unter mir die Wellen" (W. Goethe, Faust, atto I, scena II; citato da M. Weber, ivi, p.214; tritcitpsl36))

13. Su questa impostazione vedere in questo volume il saggio di J. Gebhardt, La sociogenesi del concetto di valore da Lotze a Rickert, pp. 95 ss. 14. Vedere su questo punto, in questo volume, il saggio di F. H. Tenbruck, H. Rickert nel suo tempo. La discussione europea sulla scienza e sulla Weltanschauung, in particolare la n. 17, p. 60.

12 non può del tutto prescindere da "una generale concezione della vita e del mondo" !5. Pur nella privilegiata posizione della Heidelberger Tradition, che raccoglieva i più significativi fermenti culturali europei del periodo pre-bellico, e nomi che segneranno il futuro della speculazione filosofica, teologica e giuridica di tutta la prima metà del 7900, da Troeltsch a Jellinek,

a Radbruch, a Simmel, Lask, Lukédcs,

Bloch, Jaspers !9, non vanno taciute, appunto, le difficoltà che gli stessi temi ed istanze del neocriticismo si portano inevitabilmente con sé, già a partire dal programma windelbandiano di affidare alla filosofia lo specifico compito di fissare in forma concettuale l’unità intrinseca della frammentaria e molteplice esperienza del mondo, alla

ricerca di un equilibrio, mai definitivamente costituito, tra l’esigenza imprescindibile della "pura concettualità" e la pressione irrefrenabile esercitata dal fiume dell’esperienza umana nella sua concretezza e ricchezza . In questa doppia fedeltà, alla sfera concettuale pura e alla vita concreta, il neokantismo, si trova costretto, già con Windelband e poi, ancor di più, come abbiamo visto, con Rickert, almeno a postula-

re una sfera trascendente di valori, ed un’oggettività del mondo alla quale le nostre conoscenze debbono uniformarsi, per garantirsi la certezza delle operazioni gnoseologiche, e a tematizzare la "relazione, logica e non psicologica, che si instaura nel giudizio tra le categorie e i valori", prestando "grande attenzione ... alla dinamica del rapporto soggetto-oggetto” !7. Come ha ampiamente dimostrato nelle sue opere Rickert, ma, anche Lask, il quale con la sua "panarchia del logos", se da un punto di vista affida alla logica come scienza normativa la validità e la certezza delle conoscenze,

dall’altro mantiene l’impre-

scindibilità del dato rispetto alle forme logiche, e quindi l’insuperabile a-logicità del contenuto del conoscere. Nel tendere verso (in-tendere) un contenuto, nella dinamica "intenzionale" delle categorie, la razionalità dell’oggetto, che si manifesta nella loro irriducibilità ad unità, penetra, per così dire, nelle categorie e "ne stabilisce la differenziazione" !8. Siamo di fronte al sempre ritornante problema di una teoria della conoscenza che s’infrange inesorabilmente nell’antica questione del rapporto soggetto-oggetto, non risolto mai definitiva15. H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, cit., MIE 16. Per un approccio più puntuale al panorama storico/geografico del neokanti-

smo e neocriticismo vedere l'ampia introduzione di G. Gigliotti a // neocriticismo tedesco (a cura di G. Gigliotti), Loescher, Torino 1983, pp.11-30. 17. G. Gigliotti, (a cura). // neocriticismo tedesco, cit., pp.23-24. 18. Ivi, p.26. Opportunamente qui viene richiamato il concetto husserliano di /rtentionalitàt.

13 mente, almeno quando non si vuole irretirlo nelle due forme opposte, ma speculari, dell’idealismo e del positivismo, che, rispettivamente,

tagliano il nodo dell’oggetto a favore del Soggetto come tutto, o il nodo del soggetto a favore di un oggetto tutto trascendente. Il contesto filosofico generale dell’Heidelberger Tradition sembra orientato a mostrare, pur nell’insicurezza che questo orientamento si porta dietro, "come i problemi dell’individualità e dell’irrazionalità fossero operanti all’interno stesso della logica categoriale e della validità razionale difese dal neocriticismo" 19, Naturalmente non vanno qui sottaciute le inequivocabili distinzioni, tra due filosofi tanto vicini nella posizione dei problemi, quanto distanti nella loro soluzione. Se li accomuna la forte attenzione per la funzione dell’a-logico nella relazione soggetto-oggetto e nella composizione del problema gnoseologico, mentre per Lask il polo materiale del rapporto è l’elemento originario, per Rickert, come abbiamo già avuto modo di vedere, questo è una datità in sé indifferenziata, che attende di essere determinata nella sua particolarità solo dalla forma logica, verso la quale, per altro, fa da stimolo nel richiamarla a sconfiggere la sua irrazionalità. Mentre per E. Lask scopo finale del conoscere è "la ragione archetipa dell’oggetto", ragione originaria inaccessibile alla soggettività in quanto "dopo il peccato originale del conoscere non è più possibile impadronirsi del senso trascendente, ma del senso conflittuale immanente" 29, per Rickert la soggettività mantiene inalterata la sua funzione gnoseologica, in quanto "al contenuto valido di valore e al dovere dell’elemento oggettivo deve corrispondere un riconoscimento valutante nell’elemento soggettivo. Altrimenti il giudicare è logicamente senza senso" 2!. Per Lask il "materiale" è logicamente impenetrabile e l’intero contenuto del campo dell’essere è irrazionale, "sia che si tratti del contenuto più concreto o di quello più astratto nel senso teoretico della logicità naturalistica" 22, e quindi non è mai razio-

19. Ibidem. In verità la Gigliotti attribuisce quest’orientamento speculativo, in particolare, alla posizione di E. Lask, per altro interrotta nel suo sviluppo dall’immatura scomparsa del filosofo. A noi pare di poterla cogliere come linea, a volte sotterranea, a volte più scoperta, di tutta la riflessione che qualifica il contesto culturale del quale ci occupiamo, sostenuti in questo dall’influsso che questa interpretazione ha esercitato sulle scienze storico-sociali e su alcune tendenze della filosofia contemporanea, costringendole, per così dire, ad aprirsi nuove strade. 20. E. Lask, Zum System der Wissenschaften, in Gesammelte Schriften, Tiibingen 1923, Bd II, p.426. 21. H. Rickert, Urteil und Urteilen, in "Logos", 1912, p. 240. 22. E. Lask, Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre, in Gesammelte Schriften, cit., Bd. II, p. 78.

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nalizzato dal conoscere, visto che la soggettività è incapace di esperire il senso nella sua struttura originaria e non le resta che trasformarla artificiosamente "affinché il senso possa divenire immanente alla soggettività. Il conoscere risulta da una ’proiezione’ della verità oggettiva sul comportamento del soggetto; nella soggettività il senso oggettivo riceve un luogo di realizzazione o di esperienza [...], è il sostrato del senso oggettivo” 23. Per Rickert, al contrario, irrazionale è l’individuale, che attende di essere "razionalizzato" attraverso il raggiungimento dell’universale; conoscere e giudicare coincidono e il giudizio si qualifica per il suo contenuto logico, come "il vero e proprio atto di conoscenza" che si contrappone alle decisioni alternative del soggetto che afferma o nega 4. In questo clima culturale, in cui si fa sempre più pressante la sfida dell’irrazionale, "irrazionalità del materiale, ma non irrazionalismo" 25 in Lask; elemento alogico come datità indifferenziata in attesa di

forma logica, in Rickert, si mostra predominante in entrambi i filosofi il sentimento della "paura di fronte all’elemento ontico, all’elementa-

re, che il positivismo ottocentesco aveva mostrato come un brutale e insensato meccanismo". Questa paura "aveva portato Rickert nella sua prima fase a fare del materiale ’reale’ - sia naturale sia storico un risultato della trasformazione da parte del soggetto conoscente, nella sua ultima fase ad ’irrigidire’ sempre più i valori e il mondo dei valori in un regno a sé. Lask è ugualmente dominato, come Rickert, da questa paura; ma al contrario di Rickert egli fa emergere il materiale ontico in tutta la sua potente originarietà rispetto al pensiero e al soggetto conoscente. In ciò Lask rappresenta quindi propriamente ciò che riempie lo ’spazio vuoto” tra Rickert e Heidegger" 20. E° interessante cogliere, in questa fase di ricostruzione del contesto filosofico, in cui Rickert opera e sviluppa il suo universo teoretico, 0 almeno di individuazione di alcune essenziali linee di tendenza, la "paura speculativa" del mondo, come un motivo che coinvolge filosofi di aree diverse, impegnati però tutti a fare i conti con gli esiti di un panlogismo destinato a produrre esiti nichilistici, e di un positivismo inesorabilmente orientato ad esaltare una versione "tecnica" della ra-

23. Cfr. ivi, pp.81 ss., 195 ss.; e nel presente volume il saggio di A. Carrino, Giudizio e verità in Lask e Rickert, da cui è presa la citazione, pp. 303 ss. 24. Cfr. H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis. Einfùhrung in die Transzendentalphilosophie, Tiibingen 1904, pp.74 ss. 25. E. Lask, Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre, cit., p.213. 26. A. Carrino, Giudizio e verità in Lask e Rickert, cit. Dello stesso autore vedere, anche, L’irrazionale nel concetto, Comunità e diritto in Emil Lask, Napoli 1983.

15 gione, dopo tanto esercizio metafisico. E se ad Heidegger, si è appena accennato, anche se mettiamo conto di ritornare sul discorso, è ad E. Husserl che pensiamo, e non solo per il riferimento laskiano all’/ntentionalitàt o Intentionieren o Hingelten, ma proprio per la messa tra parentesi del mondo, che qualcuno ha voluto interpretare come risorgente platonismo, e comunque come una sorta di alterità, di "male", di paura del mondo, che non annichila, ma spinge a ricostruirne l’amicizia, reinterrogandolo, dopo averlo messo tra parentesi (epoché metodologica), per riproporlo senza "durezze", come mondo todo pensado nell’attitudine a coglierlo senza residuo nell’attività conoscitiva che ne esaurisce il senso, guardandolo, per così dire, senza l’in-

tervento dell’organo della vista, o affrontandolo nella sua visualizzazione che lo ripropone in tutta la sua originarietà, rispetto al soggetto conoscente. Strade differenti quelle di Husserl, Rickert, Heidegger, Lask ?7 percorse per raggiungere il medesimo obbiettivo: ristabilire l’amicizia col mondo, evitando le scorciatoie del riduttivismo sotto qualsiasi forma esso si ripresenti. Il discorso poi dell’efficacia dei differenti espedienti speculativi è, naturalmente, altra cosa da ciò che qui vogliamo limitarci a dimostrare, e cioè l’esistenza di un orizzonte problematico in cui è possibile collocare l'impegno filosofico, di pensatori diversi. Ed in questo orizzonte a Rickert va riservata una collocazione di punta avanzata, come

espressione di quell’urgenza del filosofare che si coglie nel clima stesso della discussione culturale, e che aveva già spinto Windelband a riconoscere il bisogno metafisico del pensiero umano di concentrare la sua frammentaria e molteplice esperienza del mondo e riflettere su se stesso; che aveva orientato Husserl verso il progetto di una filoso-

fia come "scienza rigorosa", cioè capace di recuperare alla fatica del filosofare tutti gli aspetti della realtà che apparivano irrimediabilmente sottratti alla sua influenza, e che porta, infine, Rickert a porre il pensiero al di là della vita, per non vederlo dissolto nel caotico movimento di questa, a ipotizzare un cosmo da opporre al chaos, a riproporre una volontà di sistema, che attraverso la dura fatica del concetto, ridìa conto dell’antico e mai risolto conflitto tra l’eracliteo fluire di ogni cosa e la calma immutabilità del pensiero parmenideo 8.

27. Cfr. G. Gurwitsch, Les tendences actuelles de la philosophie allemande. E. Husserl, M. Scheler, E. Lask, M. Heidegger, Paris 1930. 28. Cfr. H. Rickert, Die Philosophie des Lebens, Tiibingen 1920; Geschichte und System der Philosophie, e, infine, Die Grenzen der naturwissenschaftlicher Begriffsbildung, cit., pp.12 ss.

16 2. Scienza, filosofia e Weltanschauung Ma proprio la particolare posizione di Rickert entro il contesto di riflessioni, del quale abbiamo voluto rilevare alcune uniformità di tendenze, pur nella varietà delle differenti soluzioni prospettate, richiede un ulteriore livello di problematizzazione, magari tematizzando alcuni aspetti del suo programma speculativo che appare, a tutta prima, essersi liberato di ogni obiezione, e dei rischi di chi sente fino

in fondo la "dura fatica del concetto", senza però pervenire mai, in modo definitivo, ad una composizione della conflittualità.

Sicuramente uno dei grossi nodi tematici che vale la pena di riprendere riguarda la scienza, in merito alla quale ci pare necessario un ulteriore approfondimento. In un saggio esemplare del 1910, Vom Begriff der Philosophie ®, Rickert, ponendosi in modo "preoccupato" il problema della "scienza filosofica", propone un’argomentazione sulla scienza in generale, che merita di essere ripresa almeno nelle sue linee essenziali. Immediatamente trapela l’imbarazzo del filosofo, che pur avendo risolto in modo definitivo i problemi connessi allo statuto e al fine del filosofare, non può non misurarsi col fenomeno inarrestabile della proliferazione delle scienze particolari, che, rispetto alla filosofia, mostrano subito

la loro posizione privilegiata e le proprie certezze epistemologiche. "Perché 1 filosofi parlano tanto della concezione della loro scienza, invece di affrontare i problemi, come fanno altri ricercatori? Non sono d’accordo nemmeno sull’oggetto! Se tale meraviglia dovesse includere un rimprovero, esso non è giustificato. E’ vero che nelle altre scienze l’incertezza sull’oggetto sussiste soltanto in casi eccezionali, quando cioè, sorgono nuove discipline, o quando nuove scoperte oltrepassano i limiti delle vecchie discipline" 3°. Ma ciò che appare una posizione di privilegio, rispetto a quella della filosofia, viene quasi subito collegata direttamente al "limite" interno a ciascuna scienza particolare: "Ma le scienze specifiche devono tale vantaggio soltanto al fatto che sono scienze specifiche, che si limitano, cioè, a parti del mondo" 3. Di qui discendono, per Rickert, almeno due conseguenze che meritano di essere rilevate. La prima è per così dire "interna" alla discussione tra filosofi, e riguarda la riapertura del discorso sulla filosofia 29. "Logos" I, 1910, 1, pp.1-34; tr. it., in Filosofia, valori, teoria della definizione (a cura di M. Signore), Milella, Lecce 1987, pp.1-34.

30. Ivi, tr. it., cit., p.l. 31. Ibidem. Il corsivo è nostro.

BI come scienza e, quindi, sul suo oggetto. L’altra è una sorta di ricaduta della prima conseguenza e riguarda, appunto, la ridefinizione della scienza in quanto tale. Partiamo da quest’ultimo effetto, anche perché, se nel saggio che abbiamo preso in esame può apparire tema marginale, certo non lo è nell’economia complessiva del pensiero rickertiano, sin dall’inizio impegnato sul fronte della discussione della conoscenza scientifica, sia per coglierne polemicamente i limiti (Grenzen) sia per tentarne una riproposizione di "senso" 32, E allora vediamo di individuare gli elementi che qualificano le scienze differenziandole dalla filosofia, almeno da alcuni punti di vista. La

posizione di Rickert è esplicita e parte dal riconoscimento che "caratteristico per la situazione scientifica odierna è che ogni parte della realtà è divenuta oggetto di uria singola disciplina" 33. La proliferazione ad infinitum delle scienze particolari ha posto dei problemi anche alla filosofia, che si è vista costretta a ridefinire il proprio oggetto, giacché, se all’inizio esso comprendeva tutti i problemi della realtà, ora ha dovuto subire un graduale esproprio col trasferimento di questi, alle singole scienze, che ne hanno acquistato la competenza. Ma la questione non si esaurisce nella mera constatazione della parcellizzazione dell’oggetto unico, ma si apre a considerazioni di ordine, per così dire, qualitativo e coinvolge problematiche di natura sia costitutiva che metodologica. "Tutti i processi fisici e spirituali - dice Rickert - vengono esaminati dalle singole scienze in modo oggettivizzante, e la filosofia deve accettare passivamente i risultati di questo lavoro. In nessuna parte della realtà degli oggetti essa trova il più piccolo spazio per una problematica ed una elaborazione specificatamente filosofica" 34. Qui il momento speculativo a cui perviene Rickert riveste un significato fondamentale, anche per una più adeguata collocazione del filosofo nell’orizzonte del dibattito filosofico, e per non ridurne il con-

tributo entro i limiti del Methodenstreit, a sua volta conchiuso nella questione epistemologica dell’autonomia delle scienze storico-sociali. Vogliamo dire che il ruolo di Rickert non si esaurisce nell’ambito della fondazione delle scienze storico-sociali, né in quello degli studi di logica e di metodologia, ma si impone all’interno di un programma più vasto, che ha come

obbiettivo un vero "sistema filosofico", da

contrapporre all’angoscia della incombente "paralisi mentale" 3, che 32. Basti ricordare due opere, per altro già citate: Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung e Der Gegenstand der Erkenninis. 33. H. Rickert, Vom Begriff der Philosophie, cit., tr. it., cit.,p.13. 34. Ivi, p.14. 35. Cfr. H. Rickert, Allgemeine Grundlegung der Philosophie, Mohr, Tiibingen

18 avrebbe dovuto far seguito alla pervasività, appunto, delle scienze particolari e alla frammentazione del sapere conseguente allo sviluppo scientifico nei secoli XIX e XX, con l’inevitabile disattenzione verso "i problemi decisivi per una umanità autentica". E’ l’angoscia, determinata dagli sconfinamenti delle scienze naturali e del naturalismo in genere, che produce quel bisogno di dettare una Wel/tanschauung esaustivamente e universalmente valida, che si coglie in fondo alla riflessione rickertiana e che consente di dargli una collocazione più adeguata nel dibattito filosofico a noi più vicino, e di considerarne, quindi, non esaurita l’attualità, anche al di là del livello di approvazione dei risultati. In questa direzione interpretativa, la difesa rickertiana della "conoscenza storica", va al di là delle pur importanti sottolineature del valore scientifico autonomo di un’attitudine di ricerca, quella storica appunto, spesso relegata nel mondo letterario per negarle qualsiasi attendibilità scientifica, sintomo inconfutabile per Rickert di quell’avanzata del "naturalismo" con il suo progetto di mondo in cui finiremmo "dispersi nella miseria, sconfinati" 3°. L’obiettivo è più ambizioso, infatti l’impostazione epistemologica e metodologica non è mai, per così dire, wertffrei, in quanto sottende sempre modi diversi dell’essere umano ?7 e produce il prevalere di punti di vista e di visioni complessive del mondo e dell’uomo. Vista più attentamente, l’impostazione di Rickert tende a smascherare gli "elementi trascendenti", che sono latenti nelle discipline che fanno riferimento al modello conoscitivo della scienza naturale, e che, al contrario delle Weltanscha-

uungen esplicite, confidano nella legittimazione scientifica per imporsi, deprivando l’uomo della sua capacità e del diritto di essere consapevole dei fini ultimi e di dare significato al suo mondo 8. In questo senso va inteso l’orientamento teoretico rickertiano, pel quale "quanto più diventa chiara la differenziazione tra l’essere reale e la validità (Geltung) irreale, tanto più autonoma diverrà la visione del mondo (Weltanschauung) da quella rappresentazione del mondo (Weltbild) che le scienze naturali e la storia abbozzano" 39. Ma una volta messe a nudo le implicite "relazioni teoretiche ai valori" che insieme alle esplicite concettualizzazioni, generalmente, so1921, p.VII. 36. Ivi, p.90. 37. Cfr. Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, cit., p.514. 38. Cfr. in questo volume, il saggio di B. P1é, // naturalismo come scienza e visione del mondo. H. Rickert e il suo rifiuto del naturalismo quale estraniamento dell’uomo, pp. 189 ss. 39. H. Rickert, Al[gemeine Grundlegung der Philosophie, cit., p.170.

19 no sottese alle costruzioni naturalistiche della realtà, appare evidente a Rickert il significato per così dire "originario", o almeno fondamentale dell’attitudine valutativa e l’incontestabilità della supposizione di valori validi assolutamente nella vita attiva. Da qui dovrebbe risultare anche chiaro, sostiene Rickert, "che all’uomo attivo e dotato di vo-

lontà, il mondo si presenta [...] come processo di sviluppo che, riferito ai valori, si differenzia in elementi accidentali e essenziali; vale a

dire che l’uomo pratico deve in tal senso sempre pensare in modo storico, con riferimento a valori, non solo in modo generalizzante, per quanto sia piccola quella posizione spaziale e temporale del corso singolo e individuale delle cose a cui si limita il suo interesse. Una rappresentazione di questa porzione per opera di una concettualizzazione individualizzante riferita a valori contiene allora per lui una necessità [...], dal momento che egli si rende consapevole dei valori su cui riposa la sua vita" 4°. Come da qui poi Rickert sarà costretto ad aprirsi la via che lo condurrà a costruirsi un sistema di valori validi 4, appare sin d’ora evidente, ma pensiamo di approfondire quest’altro aspetto importante dell’evoluzione del pensiero del filosofo, più in là. Posta l’esigenza, a questo punto non prescindibile, di ridefinire la filosofia come "dottrina della scienza", con la necessità del riferimen-

to alla "totalità", rispondere a questo bisogno diventa possibile per Rickert, passando attraverso la tematizzazione del "mondo" come re-

altà totale, e quindi come qualcosa di più delle singole parti della realtà, che costituiscono l’oggetto della ricerca scientifica. Ma sottratto alla filosofia il "problema puro della realtà" disperso nei contenuti particolari e "fattuali" delle singole scienze, la "realtà totale a cui appartiene ogni parte, e senza la quale non esisterebbe, non potrà mai essere né trovata, né data per certa. Può essere pensata come qualcosa da cercare senza poterla mai trovare” ‘2. Si apre quindi il compito infinito della filosofia, che la costringe a fare i conti con quel concetto di realtà totale "che esiste soltanto come esigenza, e che ha validità",

cioè ad un concetto nel quale "la realtà si congiunge ad un valore", sottraendola, sotto questo aspetto, all'indagine delle scienze specialistiche. Questo, però, significa l’insufficienza del concetto di mondo

confrontato con la realtà, insufficienza che spinge a riformularlo an-

40. H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, cit., p.500. 41. Cfr. ad esempio, H. Rickert, Die Probleme der Geschichtsphilosophie, Win-

ter, Heidelberg 1924 (1° ediz. 1905) pp. 115 ss.; tr. it., La filosofia della storia, in P. Rossi (a cura), Lo storicismo tedesco, Utet, Torino 1977, pp.341-423. 42. H. Rickert, Vom Begriff der Philosophie, cit.; tr. it., cit., p.15.

20 ch’esso in relazione al concetto di valore. In questo modo è anche definita la specificità della filosofia, rispetto alle scienze specialistiche: "Tutti i problemi puri della realtà sono problemi concernenti parti della realtà, e appartengono quindi alla ricerca scientifica", che "dovrà, dunque, trattare le valutazioni,

nonché i beni, in modo oggettivante, prescindendo [...] dalla validità dei valori implicati [...]"; in conseguenza di ciò, alla filosofia non resta più il problema "puro" della realtà, per cui "il suo lavoro inizia con i problemi dei valori" 4. Affidando alla scienza il problema "puro" della realtà e alla filosofia i problemi dei valori, viene definitivamente consumata la separazione tra scienza e filosofia e viene riaperto il problema di una possibile reciproca relazione e collaborazione: sarà il problema che impegnerà Rickert fino alla fine, in quanto riguarderà il ruolo stesso del "filosofare" nel rapporto inevitabile con la realtà. Problema antico, che si ripropone puntualmente ogni qualvolta diviene urgente il coinvolgimento del momento speculativo nel momento pratico, e si sente tutta l’insoddisfazione per la rottura insanabile tra i due momenti. E proprio sulla via di questo chiarimento Rickert introduce la distinzione tra valori e valutazioni, precisando preliminarmente che "finché si è trattato della valutazione, ponendo in primo piano il soggetto reale e le valutazioni, non si è ancora raggiunto [...] ciò che è importante per la filosofia. Una filosofia delle valutazioni non è una filosofia dei valori, anche se porta questo nome" 4. Cioè, non è una filosofia, in quanto, per Rickert non è possibile dedurre dalla natura generica del soggetto valutante, la molteplicità contenutistica dei valori, "ed è proprio questa molteplicità che è importante per la filosofia, in quanto solo in base alla sua conoscenza noi possiamo avere una We/tanschauung come interpretazione del senso della vita” 4. Ma lavorare con le distinzioni, come fa Rickert, certo

non aiuta a perseguire l’unità, e una volta posta a fondamento della filosofia e della Wel/tanschauung, la molteplicità dei valori nella loro

trascendenza rispetto alla realtà, il soggetto valutante, anche un ipote-

tico soggetto generale, non può che rimanere soggetto "vuoto", riproponendo ancora una volta il problema che si intendeva porre a soluzione. All’Io rimane preclusa la possibilità di fondare una Weltanschauung, che, per Rickert, ha bisogno di un principio "oggettivo", che non gli potrà essere assicurato dal soggetto valutante o dal soggetto in genere. 43. Ibidem.

44. Ivi, p.16. 45. Ibidem.

21 Malgrado tutto, però, Rickert non esclude, anzi pretende che la filosofia dei valori non perda di vista la realtà, in cui è possibile indivi-

duare i valori nella loro molteplicità e determinatezza, e riconosca inoltre che il concetto di realtà, con i valori ad essa inerenti, fa parte integrante del concetto di filosofia intesa come assiologia. Qui la filosofia dei valori deve affacciarsi nella sfera "culturale" se vuol comprendere il valore, per coglierne la molteplicità così come questa si mostra nel corso dello sviluppo storico. In definitiva l’assiologia non analizza soggetti, ma realtà oggettive, in quanto portatrici di valori. E anche quando sembra che questi dipendano dai soggetti, questo è solo un inganno fuorviante tendente a ridurre l’assiologia a psicologia; in realtà, la stessa particolarità e molteplicità delle valutazioni da prendere in considerazione dipendono "dalla particolarità e molteplicità degli oggetti culturali con cui il soggetto si confronta, e finché si tratta soltanto di conoscere i valori stessi nella loro particolarità e molteplicità, l’indagine sui soggetti valutanti è superflua e forse anche sconcertante" 46, E la scienza? Anch’essa va colta dalla filosofia come un bene culturale a cui rivolgersi, per mettere in evidenza quel valore di verità che in essa viene storicamente tradotto nel bene della scienza. E qui viene fuori l’ambivalenza della relazione tra filosofia e scienza. Da una parte quest’ultima è realtà viva, storicamente in svolgimento, complessità non riducibile, col suo intrinseco valore di verità, che le imprime un inarrestabile movimento di progresso. Dall'altra parte, quando la filosofia dei valori, l’assiologia si rivolge ad essa, viene clamorosamente "semplificata", in quella realtà oggettiva che è degna di considerazione in quanto portatrice di un valore, operante al di là e indipendentemente dalla fabbrilità dei singoli o della comunità degli scienziati. Che è come

dire che la scienza, finché rimane entro l’orizzonte

culturale e storico assolve al compito di seguire e di promuovere il progresso e il cambiamento, ma quando viene assunta a tema del discorso filosofico, diviene valore e quindi si sottrae a quel destino della "falsificabilità", che l’epistemologia contemporanea ha ormai inserito nello statuto della scienza moderna. Così la filosofia sembra autocondannarsi alla più assoluta incomprensione della scienza #7.

46. Ivi, p.17. 47. Su questo problema, cfr., in questo volume, il saggio di F. Fistetti, // feticcio epistemologico, pp. 269 ss.

22 3. Rickert-Weber-Rickert

Già al livello dei problemi messi a fuoco fino a questo punto, anzi proprio in merito ad essi, il rapporto Rickert-Weber acquista un significato ed un valore del tutto particolari. Mettere a confronto i due intellettuali tedeschi, pressocché coetanei, significa da un lato dare conto di uno dei momenti più qualificanti del dibattito culturale, filosofico e socio-politico della Germania, e forse dell’Europa, dei primi del 7900, vero laboratorio di idee e di riflessione filosofica sul quale, forse, varrebbe la pena di lavorare interpretativamente con maggiore energia; dall’altro lato far esplodere, per così dire, i limiti reciproci, le aporie interne e le irrisolte difficoltà delle due posizioni teoriche. Si potrebbe affermare che Rickert e Weber agiscano l’uno sull’altro, reciprocamente, come cartina di tornasole, come riprova della coerenza interna e degli effetti esterni delle due elaborazioni concettuali. In questa prospettiva ci pare possa essere interpretata la differenziata lettura che i due pensatori offrono del fenomeno e del senso della scienza nella cultura moderna occidentale. Per Rickert come per Weber, il confronto con l’ethos dell’occidente passa attraverso l’analisi, che in entrambi diviene anche smascheramento, della pervasività della scienza, per mettere in evidenza la conseguente perdita, come abbiamo visto, dell’originario significato umano della vita, una volta consegnata alla razionalità tecnica e al destino della mutabilità priva di senso. Ma una volta messa a punto l’analisi, le posizioni si differenziano, nell’intento più o meno esplicito di individuare una via d’uscita, che parta dall’investigazione delle possibilità di ridare alla scienza il valore e il senso perduti. Su questa strada l’orientamento positivo e ottimistico di Rickert si scontra con la visione tragica, pur virilmente accettata, che domina la teorizzazione weberiana.

L’indiscussa congiunzione simbiotica di teoria e prassi, di valore e conoscenza produce in Rickert un atteggiamento costruttivo, inteso

ad individuare tutte le possibilità del sapere, e innanzitutto del sapere filosofico, di indirizzare e determinare la prassi umana; e dei valori di

essere valori per l’agire senza essere immanenti all’azione. La forte istanza della Wel/tanschauung, che abbiamo visto operante in maniera determinante nel discorso rickertiano sulla scienza e contrapposta al destino della specializzazione, è senz’altro l’oggetto dell’estensione, prospettata da Rickert, del compito della filosofia anche all'ambito della elaborazione scientifica, al fine di cogliervi quel nucleo di verità e di valore che in essa è operante, e che non le consente di essere estranea a quello spirito di cambiamento che si accompagna ad ogni vera tensione teleologica. Ciò che guida la conoscenza, per

23 Rickert, non è un valore operante soltanto nella sfera teoretica, ma un dovere trascendente, che porta ad individuare, in maniera prescrittiva,

il vero da accettare e il falso da rifiutare. Come egli ribadisce, "ciò che rende significativo il mio giudicare e guida la mia conoscenza è il Sollen garantito dalla necessità del giudizio, che io ho nell’affermare di riconoscerlo" 48, che è come dare una svolta assiologica alla teoria della conoscenza, con la conseguenza inevitabile di identificare Wa-

hreith e Sollen, di condurre la logica sul piano della Wertwissenschaft *° e di aprire la strada di una "teoreticità come un valore che riposa su se stesso e come validità trascendente" 59, E’ questa la strada che conduce a realizzare quella congiunzione tra filosofia e scienza, che immediatamente poteva apparire definitivamente compromessa. La Weltanschauung, pur nella sua peculiarità, in quanto /ogica che "riflette necessariamente sulle mete u/time della teoria, prendendo così il posto della metafisica" 5!, senza fermarsi a qualcosa di provvisorio, nella sua ricerca della chiarezza del senso della vita, si distingue dalla

scienza solo per la consapevolezza che "è proprio della natura della contemplazione teoretica escludere una qualsiasi connessione tra completezza e totalità, e questo per l’inesauribilità o in-finità del materiale, per l’individuo mortale che si occupa della scienza" 52. Ma al di là di questa distinzione, "la filosofia può... essere definita un’attività scientifica che cerca di trovare un punto fermo, nell’eterna corrente

evolutiva, che si ferma per prendere coscienza di ciò che ha raggiunto, in riferimento al significato della vita. Ci vuole il coraggio della verità, che è anche il coraggio dell’errore; la limitazione voluta, la rinuncia, sono giustificate perché la contemplazione teoretica pur ponendosi le massime mete e tendendo verso la fine, necessita di tali

punti del perfezionamento" 53. Di segno diverso appare, a questo punto, il risultato dell’indagine weberiana, la quale intende attenersi rigorosamente alla "realtà effettuale", che è quello di uno scatenato "politeismo", determinato anche dall’assenza di un "profeta", e che lo porta ad accogliere il significato avalutativo di una scienza, la quale rinuncia alla pretesa di essere fondamentale per il costituirsi di una We/tanschauung. Non diversamen48. H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis, cit., p.201.

49. Cfr. il già citato saggio di F. Fischetti, // feticcio epistemologico. 50. H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis, cit., p.277.

51. H. Rickert, Vom System der Werte: in "Logos", IV, 3, 1913; tr. it., // sistema dei valori (a cura di M. Signore), in Filosofia, in valori, teoria della definizione, cit.,

p.66. 52. Ibidem. 53. Ibidem.

24 te da Nietzsche, il quale si chiede il significato dei valori tradizionali e demolisce l’ingenuo ottimismo di coloro i quali pretendono di celebrare nella scienza e nella tecnica il mezzo per pervenire alla felicità, Weber, interrogandosi sulla scienza, pone un problema che supera i limiti della consistenza in sé delle scienze, e a suo modo si ritrova anch’egli nella filosofia, anche se professionalmente non avanza alcuna pretesa filosofica. Il ritrovarsi infatti nella filosofia è piuttosto il frutto di quella fedeltà ad un concetto di scienza critico e problematizzante, che accompagnerà Weber per tutta la vita, che non quello di pervenire, come fa Rickert, alla filosofia rivelatrice di quel di più che si na-

sconde anche nelle scienze. E ciò in coerenza con quella filosofia "sobria" e "onesta", quanto decisamente limitata, di scienziato e di intellettuale, dalla quale "si può pretendere soltanto la probità intellettuale, per cui sappia comprendere come la verifica dei fatti, dei rapporti matematici o logici e dell’interna struttura delle creazioni dello spirito da una parte, e dall’altra la risposta alla questione intorno al valore della civiltà e dei suoi contenuti singoli, e quindi intorno al modo in cui si debba agire nell’ambito della comunità civile e delle società politiche, siano due problemi assolutamente eterogenei" 54. E’ l’intrascendibilità di questa eterogeneità che distanzia Weber da Rickert, come lo differenzia inequivocabilmente da tutti i filosofi e dagli autori delle grandi sintesi del secolo XIX 55. Ciò deriva a Weber dall’aver assunto quel concetto di "razionalizzazione", che lo porta lontano dalle visioni del mondo, dalle quali ha inteso di liberarsi non solo attraverso la formulazione di un concetto di realtà, intesa come "infinità indeterminata priva di senso oggettivo" ° e che lo sospinge, tutt’al più, ad acquisire i presupposti del conoscere come presupposti dell’analisi della realtà, ma anche, e innanzitutto, con l’accoglimento, nell’ambito della scienza, di quell’"ateismo scientifico", che è nietzscheano non solo nel significato, ma anche nel linguaggio, e che risulta a Weber l’unico modo possibile per 54. M. Weber, Wissenschaft als Beruf, in Gesammelte Aufsditze zur Wissenschaft-

slehre, Mohr, Tiibingen 1973, pp.601-603; tr. it., in // lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1948, p.29. 55. Rickert è pienamente consapevole di questa distanza da Weber, causata dal-

l’insostenibilità, per lui, del teoreticismo che deriva dall’eterogeneità assoluta tra i due momenti. Cfr., su questo punto, H. Rickert, Max Weber und seine Stellung zur

Wissenschaft, in "Logos" 15, 1926, pp. 231 ss. e, in questo volume, il saggio di F. Bianco, Rickert critico di Max Weber, pp. 323 ss. 56. M. Weber, Die 'Objektivitàt' sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, in Gesammelte Aufsàtze zur Wissenschaftslehre, cit., p.171; tr. it., in Zi metodo delle scienze storico-sociali, a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino 1958, p.85.

25 pensare onestamente, cioè per recuperare quell’onestà di cogliere la "scienza razionalistica" nella sua irreversibile suddivisione in campi specializzati e tecnicamente differenziati. Proprio in coerenza con le conseguenze che discendono da questa assunzione, a chi fa la professione di scienza potrà essere richiesta la semplice probità intellettuale, che "ci impone di mettere in chiaro che oggi tutti coloro i quali vivono nell’attesa di nuovi profeti e di nuovi redentori si trovano nella stessa situazione descritta nel bellissimo canto della scolta idumea, durante il periodo dell’esilio, e che si legge nell’oracolo di Isaia: Una voce chiama da Seir in Edom: quanto durerà ancora la notte? E la sentinella risponde: verrà il mattino, ma è

ancor notte. Se volete domandare tornate un’altra volta’" 57. Razionalizzare non è, quindi, dissacrare, ma constatare "onestamente il fatto

storico che l’oggi è, religiosamente parlando, giorno feriale”"' 58, Tornando

ora a Rickert, dobbiamo dire che non manca la con-

sapevolezza della fine, della temporalità della ricerca e quindi della scienza. Ma si tratta di una temporalità sempre trascesa dalla convinzione che gli sforzi individuali e particolari sono un momento necessario della totalità in-finita del processo evolutivo sovraindividuale. Alla scienza, a questo punto, viene riservato un punto mediano tra totalità infinita e particolarità finita, nel quale comunque avrà un rilievo differente, che ne farà qualcosa di più di una semplice scienza specialistica. Il destino specialistico della scienza viene, per Rickert sconfitto in quell’"amore contemplativo e impersonale per la scienza, cioè della ’filosofia’ nel vero senso della parola, che congiunge la completezza del presente con la prospettiva del futuro’ 5?. Di fronte ad una crisi, che appariva ormai

irreversibile,

della

filosofia

sistematica,

Rickert

intende,

non senza coraggio, recuperare un filosofare che anche attraverso la scienza "mette l’ultima pietra all’edificio dei sistemi dei valori, inteso come base per una We/tanschauung unitaria e comprensiva", facendo sua, in ultima analisi, una "volontà di sistema", che

altri riteneva irrimediabilmente perduta, a alla quale M. Weber sentiva di poter sostituire, concessione massima alla sistematicità, una tavola di valori, come schema costruito soltanto con "lo scopo

57.M. Weber, Wissenschaft als Beruf, cit., p.613; tr. it., cit., p.42. 58. Cfr. K. Lòwith, Dio uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, Morano, Napoli 1966, p.179. Cfr. M. Weber, Roscher und Knies und die logischen Probleme der historischen Nationalòkonomie, in Gesammelte Aufsiitze zur Wissenschaftslehre, cit., pp.1-145. 59. H. Rickert, Vom System der Werte, cit.; tr. it., cit., p.68.

26 di essere un mezzo di orientamento tipico ideale non già di insegnare una propria filosofia" 90.

4. Dal valore alla filosofia trascendentale dei valori

L’impegno rickertiano per la costruzione di un "sistema dei valori" doveva inevitabilmente richiedere un più adeguato approfondimento del rapporto tra vita e valore, dal quale far emergere la possibilità/necessità della concettualizzazione del "valore come valore in generale". In questo itinerario, Rickert rileva, con evidente insoddisfazione,

che "la moderna filosofia dei valori è generalmente più una filosofia della vita valutante che dei valori stessi, e ciò significa che essa non è capace di distinguere il valore dall’atto del valutare, dunque di comprendere concettualmente il valore come valore in generale" 91. E una volta assimilata la filosofia dei valori, alla filosofia della vita la prima non può che evidenziare i medesimi limiti della seconda. Se, infatti, il filosofo della vita non può limitarsi e rinchiudersi nella vita, ma, sem-

pre che voglia far filosofia, deve aprire questa ad una relazione con qualcosa che trascende, o comunque, è l’"altro" dalla vita, "così anche in una filosofia dei valori, la considerazione dell’uomo valutante

non è sufficiente. Piuttosto dobbiamo porlo in relazione con i valori che esistono indipendentemente, che dunque non derivano da una mera valutazione, ma anzi indicano la direzione e il contenuto alla vita che valuta" ®2. Di qui l’urgenza rickertiana di indagare più adeguatamente proprio quel "mondo dei valori" del quale si è usi parlare molto, senza coglierne peculiarità e molteplicità 93. E quando si intraprende questo compito, a cui attende, come abbiamo visto, rigorosamente Rickert, risalendo alle origini della filosofia dei valori, bisogna fare i conti con Kant, ponendo Nietzsche, tutt'al più, come "epigono di Kant" e portando "le indicazioni di Nietzsche in connessione con la filosofia trascendentale, se si vuole mantenerle scientificamente feconde" *. Come si può facilmente vedere, la considerazione scientifi60. M. Weber, Gesammelte Aufsitze zur Religionssoziologie, Mohr, Tiibingen 1971; Cfr. le conclusioni del saggio di F. Bianco. Rickert critico di Max Weber, cit.; di F. Fistetti, // feticcio epistemologico, cit., e di B. Accarino, Validità e relazione ai valori: tra Weber e Rickert, in questo volume, pp. 355 ss. 61. H. Rickert, System der Philosophie, I. Allgemeine Grundlegung der Philosophie, Tiibingen 1921, pp.47-48. 62. Ivi, p.48. 63. Cfr. Ibidem. 64. Ibidem.

04.) ca del valore è possibile, rickertianamente parlando, solo all’interno

di un orizzonte trascendentale, in cui la stessa azione del valutare acquista senso, e realizza ciò che è valido nel tempo, sempre in connes-

sione, con ciò che vale "per sé", col "valore per sé", con quel concetto ‘ultimo e indeducibile" col quale pensiamo il mondo, cioè con quell’"altro dalla realtà", il quale non può, quindi, essere determinato che come "ir-reale". "I valori come tali non sono mai reali, ma valgono, cioè non devono essere chiamati reali i valori, bensì i beni nei quali si realizzano e nei quali noi li troviamo. Anche il senso che una realtà riceve grazie a un valore, non appartiene all’essere reale, ma scaturisce soltanto da un valore valido e pertanto anch’esso ir-reale" 55. E qui, per esemplificare, Rickert richiama da una parte il giudizio psichico-reale, e dall’altrail suo contenuto logico-irreale, il solo "vero" e teoricamente "valido", e quindi assolutamente indipendente dallo psichico, che in sé non può essere né vero né falso, in quanto mero essere reale: ciò che può essere vero o falso, e quindi teoricamente fornito di senso (o di valore), è il senso logico più che l’atto reale dell’intendere. In questa direzione, Rickert sosterrà che "arte, scienza, anche religione, diritto, politica, ecc. significano in primo luogo realtà fornita di senso e, in secondo luogo, formazioni (Gebilde) che sono tanto poco reali come il contenuto valido delle verità scientifiche, e per questo noi le chiameremo sempre irreali formazioni di senso della cultura (irreale Sinngebilde der Kultur), per distinguerle dalle realtà storico-culturali alle quali esse sono inerenti [...]" 99. Ora, è proprio sul concetto di ir-reale che bisogna insistere ancora,

per non rinchiuderlo nel trascendente, con la conseguenza di vedere il sistema dei valori ridotto a sistema chiuso, malgrado le esplicite riven-

dicazioni di "apertura" presenti, specialmente, in Vom System der Werte. Per evitare ogni ipostatizzazione metafisica del valore questo va definito irreale nel senso del "trascendentale 9”, e come tale costituisce un mondo, per così dire, a portata di mano del nostro esperire: "Noi ’erleben’ i valori irreali così immediatamente come gli oggetti 65. H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, cit.,

.406. i 66. Ivi, p.407. In Vom System der Werte, Rickert aveva ritenuto "importante rilevare che la filosofia dei valori si occupa soprattutto della validità dei valori", e che "non ci si deve quindi limitare alle realtà connesse ad essi" (tr. it., cit., p.41). Questa posizione, come abbiamo visto, è ampiamente illustrata e sostenuta in System der Philosophie, cit., e ritorna in alcune pagine di Ku/turwissenschaft und Naturwissenschaft, Mohr, Tiibingen 1926; tr. it., /l fondamento delle scienze della cultura, a cura di M. Signore, Longo, Ravenna 1979 (1986). 67. Cfr., H. Rickert, System der Philosophie, cit., p.160.

28 realmente essenti, anzi l’irreale gioca ad ogni passo della nostra vita [...] un ruolo assolutamente decisivo. Noi non ’viviamo’, cioè non vo-

gliamo e agiamo senza i valori che danno la direzione alla nostra volontà e alle nostra azioni" 8. Ma qui è il punctum crucis della posizione rickertiana: il rapporto vita-valori deve necessariamente essere capovolto. Se è vero che non agiamo, ovvero non è pensabile azione "sensata" senza i valori, è pur vero che sono questi a costituire, per così dire a retro, se non ab alto, la direzione delle azioni. In definitiva non dalla vita al valore, bensì dal valore alla vita, ovvero, per usare

un’efficace espressione rickertiana, "soltanto ciò che vale, senza essere vivente, rende vivente la vita" 9°. Si tratta di un capovolgimento che non solo rende inattendibile qualsiasi Lebensphilosophie e insostenibile qualsiasi forma di Historismus, ma chiama in causa un soggetto vivente/valutante, che non è un io empirico, ma il concetto del soggetto sovraindividualmente valutante e teoretico-conoscitivo, il quale deve

premettere la validità dei valori teorici come assoluti 7°. Il soggetto sovraindividuale, che ha il suo presupposto logico nella "soggettività generale" di Lotze e nella coscienza normale di Windelband ”!, è richie-

sto, secondo Rickert, dall’essenza stessa di ogni formazione concettuale scientifica, che "consiste nella distinzione dell’elaborazione essenziale da quella non-essenziale, e questa separazione presuppone [...] un soggetto che con riguardo a uno scopo riconosciuto come ripieno di valore, esegue la separazione dell’essenziale dal non essenziale" 72. La logica della scienza del valore storico-culturale si impianta nel complesso delle esperienze individuali, incentrato sulla persona nella forma di vita dello studioso e sul concetto di soggetto trascendentale. Conseguentemente, la "cultura" viene determinata da Rickert "nel senso delle scienze storiche del tempo, come fenomeno dei popoli storici a differenza dei popoli naturali astorici; egli sistema il regno irreale dei valori sovrastoricamente validi e lo concilia col regno della vita empirica tramite un terzo regno, quello del ’senso’" 73. Ma anche l’introdu68. Ivi, p.120. 69. Ivi, p.318. Cfr., all’interno, la puntuale esegesi di A. Giugliano, nel suo saggio, Filosofia trascendentale dei valori. Lebensphilosophie e Historismus nel pensie-

ro di H. Rickert, pp. 119 ss. 70. Cfr. H. Rickert, Kul/turwissenschaft und Naturwissenschaft, cit., pp. 267 ss; tr it., cit., pp. 169 ss. 71. Cfr. per questo riferimento, il saggio di J. Gebhardt, La sociogenesi del concetto di valore da Lotze a Rickert, in questo volume, pp. 95 ss. 72. H. Rickert, Die Grenzen der Naturwissenschaftlichen egriffbildung, cit., p.669. 73.J. Gebhardt, La sociogenesi del concetto di valore da Lotze a Rickert, cit., p.116.

29 zione del concetto di ’senso’, assunto da Lotze e sistematizzato, serve

a Rickert per confermare la validità oggettiva del sistema di valori, come orizzonte regolativo irreale: "il senso dell’atto della valutazione non è un essere psichico, in quanto si riferisce ai valori, ma non è nemmeno un valore, in quanto si riferisce soltanto ai valori. In qualità di terzo mondo intermedio collega gli altri due mondi. L’interpretazione del senso non è quindi né constatazione di essere, né soltanto comprensione di un atto soggettivo riguardo al suo significato per il valore, bensì presa di posizione nei confronti di ciò che è valido" 74, Ora, di fronte a un sistema di valori valido oggettivamente, inteso come "compito", come orizzonte regolativo irreale, bisogna chiedersi quale concreto rapporto esso riesca effettivamente a instaurare con il decorso degli eventi storici, e quali siano le inevitabili conseguenze di una definitiva ir-relazione tra valori irreali e storia, per la comprensibilità stessa della storia. Se una filosofia come dottrina dei valori irreali non può mai diventare storica, giacché in quanto irreali i valori non sono riducibili al divenire della vita storica, "l’Historismus è da contestare. Non esiste filosofia storica". In quanto al filosofo "solo se gli riesce di articolare la sua pienezza non storicamente, bensì sistematicamente, e così di eliminare tutto ciò che è meramente storico,

egli può sperare di pervenire alla filosofia" 7. Da questo punto di vista, Rickert è l’opposto di una impostazione filosofico-storica che colga nel sistema dei valori un’azione storica e perciò una sintesi individuale del presente. Riconducendo il suo "sistema di valori", a valori puramente formali, apriorici e razionalmente necessari, Rickert lo

rende non solo indifferente, ma anzi opposto all’infinito fluire del divenire. Opposizione che si fa risentire sul sistema, che è costretto a negarsi a qualsiasi "apertura", in quanto reso inaccessibile agli imprevedibili elementi di novità che caratterizzano l’azione storica, pena la perdita del suo carattere razionale e della capacità di configurare una "visione del mondo" sistematica e definitiva. Non solo. Gli effetti dell’opposizione si colgono anche sugli eventi storici, ridotti a pura fatticità, non deducibile dalla ragione apriorica, puro materiale empirico e intuitivo su cui si poggiano valori formali, che non appartengono alla sfera dell’essere, ma solo a quella della validità. Il problema del rapporto tra essere e dovere, fattualità e valore, che nella realtà storica troviamo tutt’al più distinti, ma mai totalmente separati, viene risolto da Rickert "mediante la distinzione tra beni culturali puramen74. H. Rickert, Vom Begriff der Philosophie, cit., tr. it., cit., p.27. 75. H. Rickert, Die Philosophie des Lebens, Darstellung und Kritik der philosophischen Modestròmungen unserer Zeit, Mohr, Tiibingen 1920, p.41.

30 te storici e valori culturali formali o validità, astratti e soprastorici, che si insediano semplicemente in quelli: una soluzione indubbiamente decisa e acuta, ma anche difficilmente comprensibile. Il nodo gordiano della storia viene tagliato e da esso viene disciolto e isolato come filo conduttore un unico filo grigio e sottile" 79. Resterebbe solo l’alternativa tra idea e storia, tra criterio di valutazione e vita, se la realtà non ci offrisse in maniera incontrovertibile idee e valori riempiti di contenuto storico reale. Ma, insiste Rickert, nemmeno alla totalità degli elementi storico empirici può corrispondere alcun concetto di valore ideale, che è sempre assolutamente incommensurabile, fino all’estraneità apriorica.

5. Il gioco dei binomi e delle influenze Nel contesto culturale nel quale Rickert sviluppa la sua riflessione filosofica, gli argomenti del dibattito risultano, come

abbiamo

già

ampiamente rilevato, molti, e vivace appare il tono del confronto, quasi a testimonianza della ricchezza e, quindi, dell’importanza che il periodo riveste, per cui valeva la pena, secondo noi, di darne adegua-

tamente conto, proprio per non fare andare disperso tutto questo patrimonio. Per convincersi ancora di ciò, qualora ce ne fosse bisogno, basta aggiungere, a quello che già si è cercato di documentare, quello che potremmo chiamare il gioco dei binomi e delle influenze. Comprendiamo che non sempre il "gioco"è fruttuoso per l’obiettivo che si vuole raggiungere, e che quello degli accostamenti può divenire un vezzo che produce più confusione di quanta non se ne voglia dissipare. Ma nel caso dei binomi Rickert-Dilthey, Rickert-Troeltsch, e di

Rickert-Heidegger per le influenze, la loro presa in considerazione può aiutare a cogliere, per differenza e/o per sviluppo, altri momenti della speculazione rickertiana, senza cadere in forme deprecabili di

violenza interpretativa. a) Il primo binomio sicuramente essenziale a questo proposito, riguarda la relazione Rickert-Dilthey 7”. caratterizzata sin dall’inizio da una differenziazione

che, già annunciatasi

nei riguardi di Windel-

76. E. Troeltsch, Der Historismus und seine Probleme, in Gesammelte Schriften,

Tiibingen 1922; tr. it., Lo storicismo e i suoi problemi (a cura di G. Cantillo e F. Tessitore), Napoli 1985, p.185. 77. Cfr. G. Cacciatore, Scienze dello spirito e sondi storico nel confronto Dilthey-Rickert, all’interno di questo volume, pp. 223 ss.

5 band, sembra radicalizzarsi di fronte a Rickert. In risposta alle critiche che Windelband e Rickert gli muovevano per aver egli posto la psicologia a fondamento delle scienze dello spirito, Dilthey respingendo il formalismo neokantiano e il dualismo kantiano di esistenza e valore, proponendo un soggetto conoscente, come "uomo tutto quanto", vuol mostrare un’attitudine diversa di fronte al problema classico della conoscenza: "Nelle vene del soggetto conoscente costruito da Locke, Hume e Kant non scorre sangue vero, ma la linfa rarefatta di

una ragione intesa come pura attività di pensiero. Al contrario, il mio aver avuto a che fare, da storico e da psicologo, con l’uomo tutto quanto, mi ha condotto a prendere per base questo essere nella molteplicità delle sue forze, questo essere valente, senziente e rappresentante, anche nello spiegare la conoscenza e i suoi concetti [...]. Alle

domande che ciascuno di noi ha da rivolgere alla filosofia, non può rispondere l’assunto di un rigido a priori della nostra facoltà di conoscenza, ma solo una storia dell’evoluzione umana che prenda le mosse dalla totalità del nostro essere" 78. A ben interpretare la pagina dell’Einleitung, non è tanto l’accusa di psicologismo che preoccupa Dilthey, anche perché la sente illegittima rispetto alla sua posizione complessiva, quanto il bisogno di mettere in evidenza i limiti del fenomenismo kantiano, che pretenderebbe di aprire un rapporto col mondo esterno, prescindendo, per così dire, dalla certezza dell’io, in quanto essere volente, senziente, rappresentante, cioè vita. E quando nel processo del conoscere s’impone la "vita", anche l’oggettività, grande problema per i gnoseologisti, cambia di segno, e la relazione interno/esterno richiede "uno spazio più comprensivo di quello che apre la pur necessaria formalizzazione scientifica dei processi reali del mondo; e tale spazio è concesso dall’esperienza costante di una relazione, necessariamente sovradimensionata rispetto a quella esclusivamente conoscitivo-teoretica, tra coscienza e articolarsi delle attività pratico-volitive" 7°. Alla luce di questa posizione diltheyana, la teoria delia conoscenza di Rickert doveva apparire "una teoria della conoscenza senza soggetto" e, quindi, decisamen-

78. W. Dilthey, Einleitung in den Geisteswissenschaften, in Gesammelte Schriften I, Stuttgart-Gottingen 1966, p.XVIII; tr. it., a cura di G. A. De Toni, Firenze 1974, pp.9-10. Il corsivo è nostro. 79. G. Cacciatore, Scienza dello spirito e mondo storico nel confronto DiltheyRickert, cit.; Cfr. W.Dilthey, Beitrige zur Losung der Frage vom Ursprung unseres Glaubens an die Realitàt der Aussenwelt und seinem Recht, in Gesammelte Schriften V, cit., pp.127 ss.; tr. it., Per la fondazione delle scienze dello spirito. Scritti editi e

inediti, (1860-1896), a cura di A. Marini, Milano 1985, pp. 265 ss.

932, te differenziata rispetto a quella di Dilthey 8°. E certamente lo è, anche se il problema dell’oggetto e del correlato soggettivo non ci pare semplificabile nella formula della "conoscenza senza soggetto", per via dell’articolata funzione che Rickert attribuisce alla soggettività, a seconda che si ponga come correlato del mondo esterno, del mondo esistente in sé, o come contenuto della coscienza. E’ vero che non è

possibile accogliere tutte quelle posizioni tendenti a comprendere ontologicamente in modo unitario, sia al loro interno, che nella relazio-

ne tra di loro, soggetto e oggetto, interno ed esterno, per cui bisogna rinunciare alla "speranza di gettare [...] un ponte ontologico e scientificamente fondato tra i corpi e la vita psichica" 8!. Ma questo limite è posto, perché, allo stato della riflessione scientifica, "il mondo sensibile [...] che per molti coincide con il mondo in generale, si fa riconoscere scientificamente [...] solo [...] quando lo si suddivide tra le di-

verse discipline, assegnando a ciascuno un ambito particolare" 82. Ora, la rimozione del limite riguarda la possibilità effettiva di sottrarsi al destino della divisione del lavoro scientifico, che sembrerebbe

avvalorare la convinzione diffusa, per cui la scienza si svilupperebbe esclusivamente se ha a che fare con le parti del mondo e rinuncia al tutto del mondo, e a qualsiasi possibilità di porlo sotto un sistema concettuale coerente in se stesso. Come si vede il problema non è affatto rimosso, né semplificato. Rickert sembra piuttosto voler ricercare una strada diversa da quelle già sperimentate, con poco successo, dagli idealismi e dai positivismi, e lo fa nella direzione di un’amplificazione del concetto di Erfahrung, reso capace di "ritenere tutto ciò che percepiamo attraverso i sensi, psichico o fisico che sia, come un mero frammento della nostra esperienza, quindi come qualcosa che richiede necessariamente di essere completato da un essente impercepibile, non sensoriale, qualora ne debba sorgere un ’mondo’" 83. Dove, estendere il concetto di esperienza non è, necessariamente, oltre-

passarlo. Rickert ribadisce in vari contesti di voler rimanere fedele a ciò che attraverso la conoscenza è riscontrabile come immediatamen-

te vissuto, per cui estendere il concetto di esperienza può voler dire soltanto tematizzare quelle forme, già note all’uomo, che ontologicamente non si lasciano comprendere entro il solito dualismo di psichi-

co e fisico. L'estensione del concetto di esperienza richiederà la ricerca di quel terzo tipo di essere, che esiste al di là di quello fisico e psi80. Cfr. G. Gigliotti, // neocriticismo tedesco, cit., pp.192 ss.

81. H. Rickert, Grundprobleme der Philosophie, Mohr, Tiibingen 82. Ivi, p.76. 83. Ivi, p.77.

1934, p.75.

33 chico, e che si mostra con evidenza proprio a chi vuole confrontarsi con la totalità dell'esperienza, sia pure come orizzonte, e non limitar-

si esclusivamente all’esperienza scientifica. D’altra parte, rileva Rickert, "se il mondo dell’esperienza consiste soltanto di processi psichici e fisici, non comprendiamo in che modo si potesse giungere non diciamo alla conoscenza, ma al semplice riconoscimento di un mondo comune a tutti noi" 84. La vita psichica, come tale, non conduce oltre il singolo individuo, e il mondo psichico di per sé non dà nessuna conoscenza. Di qui il bisogno di individuare altre forme che consentano di uscire dalla doppia clausura, per costruire un mondo per tutti, cioè di quelle forme della "comprensione", che aprono alla sfera dell’esperienza dotata di senso, che riabilita il mondo corporeo, come strumento espressivo del senso, visto che concretamente "nella famiglia, nella vita professionale, nella comunità del popolo partecipa sempre anche un corpo come mezzo espressivo del senso, e perciò, ontologicamente non si può ignorare la sua esistenza" 85. L’ontologia "pluralistica" di Rickert richiederà la conoscenza di tutte le forme sensate che completano l’essere del mondo empirico, al di là del mondo sensibile psico-fisico, e quindi, in definitiva la chiarezza sul-

l’universo dei valori che è alla base della totalità sensata di un mondo "intelligibile", cioè, ancora una volta, richiederà una filosofia dei va-

lori, ed un sistema di valori universali, come garante del riconoscimento sistematico dell’universo delle cose dotato di senso. Ma di questo abbiamo già argomentato, sottolineando anche i rischi speculativi a cui Rickert si espone. E’ interessante, invece, far rilevare la ri-

presa del ruolo del soggetto, come pre-condizione dell’essere del mondo dell’esperienza, capace di sottrarsi al rischio dell’oggettivazione, grazie proprio all’attitudine di prendere posizione nei riguardi dei valori, riconoscendoli come tali, e quindi trascendendo la mera consuetudine contemplativa, giacché "esso valuta nel senso più esteso della parola, affermando o negando, anche, anzi proprio, nel riconoscimento" 86, Un soggetto che, in definitiva, potremmo chiamare "sintetico" (sintesi di soggetto-oggetto-relazione-valutazione), che anche in quanto sintesi deve mantenere la sua soggettività, cioè non deve essere pensato come obiettivo, se non vuole perdere la peculiarità di "soggetto che riconosce". Rickert, quindi, non ci pone di fronte alla scomparsa del soggetto, tout-court come si è voluto ipotizzare confrontandolo con Dilthey, 84. Ivi, pp.78-79. 85. Ivi, p.90. 86. Ivi, p.118. Cfr., pure, Vom System der Werte, cit., tr. it., cit.

34 ma solo alla messa in scacco del soggetto psicologico, e ha voluto esprimere tutte le riserve possibili nei riguardi della pretesa della psicologia di porsi a fondamento di una teoria della conoscenza 87. E, ciò che ci pare più importante, Rickert non trascura di rilevare le limitazioni interne alle posizioni meramente gnoseologiche, teorico/contemplative delle varie teorie della conoscenza, che vengono complessivamente respinte come inadeguate a dar conto dei possibili livelli del conoscere. b) L’indiscussa fecondità della relazione Rickert-Troeltsch, il se-

condo dei binomi sui quali ci stiamo intrattenendo, ha varie e sicure testimonianze, la più attendibile delle quali dev’essere considerata, certamente, quella dello stesso Rickert, che sopravvisse al suo interlocutore. G. Cantillo ricostruisce le fasi e imomenti di questo dialogo serrato e ravvicinato 88,utilizzando, tra gli altri scritti citati, il saggio di Troeltsch del 1919, Uber Begriff einer historischen Dialektik. Win-

delband - Rickert und Hegel, al quale pure noi vogliamo fare riferimento entro i limiti di questa introduzione, che vuole solo evidenzia-

re alcuni nodi problematici sviluppati all’interno del volume. Schematicamente, rileviamo i punti di fruttuoso attrito tra i due filosofi tedeschi. Uno dei punti in questione riguarda senz'altro la differenza tra lo scienziato naturale e lo storico, che discende dalla differenza dei due oggetti della conoscenza. Nel caso dello storico e della scienza storica, secondo Troeltsch non è in questione soltanto il "punto di vista" dello storico, ma la particolarità dell’oggetto, che richiede allo scienziato della storia di immergersi intuitivamente in esso per ritrovarvi non solo la sua soggettività logica, ma anche i valori che inevitabilmente "segnano" l’oggetto storico, che così si offre all’"esperienza vissuta" della "soggettività logica dello storico". Coerentemente con questa impostazione appare insostenibile, per il pensiero storico, la contrapposizione tra il piano temporale e individuale, mutevole e imprevedibile delle formazioni di valore storiche e il piano intemporale, irreale del "sistema dei valori", che abbandona

la storia al destino dell’incomprensione, anche per il fatto che Rickert, secondo Troeltsch, costituisce una teoria inadeguata a cogliere la dinamica della vita storica, mostrando interesse per la "costituzione dell’oggettività, quindi dell’oggetto compiutamente

e staticamente

87. Sulle critiche di Rickert a Dilthey e al presunto psicologismo di questi, vedere il documentato saggio di G. Cacciatore, cit., in questo volume, pp. 223 ss. 88. Cfr., in questo volume il saggio di G. Cantillo, Sehen und Denken. Considerazioni sul supporto Troeltsch-Rickert, pp. 251 ss.

35 considerato". A questo va aggiunta la fedeltà rickertiana al concetto matematico kantiano del tempo, che non gli consente di cogliere il tempo storico, lo porta a pensare l’oggettività storica in analogia alle "cose spaziali", e gli impedisce di concepire lo "sviluppo" in modo congruente col dinamismo dell’oggetto storico. Rickert reagirà alle annotazioni di Troeltsch, non riconoscendosi in

alcuna di esse e approfittando per ribadire, ancora una volta, la sua diffidenza nei riguardi di tutti gli espedienti, più o meno espliciti, orientati ad immettere nella teoria della storia momenti irrazionali e metafisici che "non possono essere compresi concettualmente ma, devono soltanto essere rivissuti". E° la medesima differenza nei riguardi delle Lebensphilosophie, che abbiamo già avuto modo di registrare, che qui opera anche a fronte delle contestazioni di Troeltsch, non sempre attento, secondo Rickert, alle sue effettive posizioni espresse in modo articolato, a partire dalle prime edizioni delle Grenzen 89. Ma in un quadro così ampio di differenziazioni, su un punto Rickert e Troeltsch appaiono concordi. Ma si tratta anche qui di un accordo su di una differenza radicale, che Rickert accoglie, questa volta senza contestare, facendo proprie le espressioni che Troeltsch, in un misto di devozione e di distacco, volle dedicargli nella sua Der Historismus und seine Probleme %, in cui riprende alcuni temi del saggio del 1919: "’Io concordo con Rickert in punti essenziali, e da lui ho ri-

cevuto gli stimoli più forti, per cui anche in quest'opera prendo dappertutto le mosse da lui. Ma il nostro modo di considerare le cose è ora fondamentalmente diverso. Io credo di poter vedere (sehen), ciò

che egli ritiene di poter soltanto pensare (nur denken)”". A questo, Rickert non ha bisogno di aggiungere altro, riconoscendosi nella distinzione tra "voler vedere" e "voler pensare", che con la sua pregnanza rende impossibile un’intesa completa °. Il che vuol dire, come conclude Cantillo che "dietro la troppo netta contrapposizione tra Sehen e Denken, che nella conoscenza sono sempre compresenti, si può scorgere, forse, la ’divergenza’ tra un pensiero filosofico mosso da un forte impulso a mediare nella conoscenza la ’vita’ e le ’forme’, e un pensiero più criticamente avvertito dell’inconciliabile ’scissio89. Cfr. H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, cit., pp. 395 ss. Oltre al saggio di Cantillo, vedere su questi temi, il saggio, già citato, di A. Giugliano, Filosofia trascendentale dei valori, "Lebensphilosophie" e "Historismus" nel pensiero di Heinrich Rickert, sempre in questo volume. 90. Tiibingen 1922, Aalen 1961; tr. it., Lo storicismo e i suoi problemi, a cura di G. Cantillo e F. Tessitore, Napoli 1985. 91. Cfr. H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, cit., pp. XXVII-XXIX.

36 ne’, che sempre si riproduce tra il ’discorso’ della conoscenza e ’l’intuizione’ della vita" °?. c) L'influenza esercitata da Rickert su Heidegger °3 trova riscontro già in alcuni scritti giovanili, in cui il secondo esplicitamente si richiama al primo. Il riferimento a Rickert è già esplicito nella tesi di laurea, in cui gli esprime la gratitudine di averlo avviato agli studi logici moderni °, e nello scritto per l’abilitazione, dedicato proprio al filosofo dei valori. Nella raccolta di saggi Zur Sache des Denkens, e precisamente in Mein Weg in die Phiinomenologie, ricostruendo le tappe più significative dei suoi studi universitari, a partire dai primi corsi presso la Facoltà di Teologia dell’ Università di Friburgo (19091910), Heidegger ricorda esplicitamente l’importanza dei seminari di H. Rickert per l’orientamento dei suoi interessi di ricerca, sia pure all’interno dell’attenzione affatto casuale e occasionale destatagli dalla filosofia di Husserl, le cui Logische Untersuchungen gli sembrarono aver influenzato alcune opere di Lask e quindi anche di Rickert, che dedicando al giovane allievo caduto in guerra nel 1915 la sua opera Der Gegenstand der Erkenntnis, testimoniava il suo debito verso di

Jui25. Sta di fatto che i temi "rickertiani della natura e della storia, della

logica e del giudizio, del valore come discrimine metodologico tra il conoscere scientifico-naturalistico e quello storico furono da lui [Heidegger] studiati a fondo negli scritti giovanili e faranno anche più a lungo sentire la loro influenza" %. E proprio in Rickert, Heidegger troverà un alleato nella lotta contro lo psicologismo e la intollerabile invadenza del positivismo, nonché quella coraggiosa presa di posizione a favore del rinnovamento della logica, inteso come uno dei compiti della filosofia, chiamata a riprendere senza stanchezza le vie della logica e della teoria del conoscere, la cui "natura filosofante" e l’ine-

92. G. Cantillo, Sehen und Denken. Considerazioni sul rapporto Troeltsch-Rickert, cit., in questo volume. 93. Su questo problema vedere, nel volume, il saggio di A. Savignano, L'influenza di H. Rickert negli "Scritti giovanili" di Heidegger, pp. 339 ss. e quello di R. Viti Cavaliere, Rickert e Heidegger: Il progetto incompiuto di una nuova logica, pp. 403 ss. 94. Cfr. M. Heidegger, Die Lehre vom Urteil im Psychologismus, Leipzig 1914, pp. 2 ss.; tr. it., La dottrina del giudizio nello psicologismo, in Scritti filosofici (a cura di A. Badolin), Padova 1972, pp. 9 ss. 95. Cfr. M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Max Ninmeyer, Tiibingen 1969; tr. it., Tempo ed Essere, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1980, pp. 184 ss. 96. R. Viti Cavaliere, Rickert e Heidegger: Il progetto incompiuto di una nuova logica, cit, in questo volume.

37 vitabile contatto con le cose rendono sempre aperte. Questa "apertura" è ciò che, per Rickert, e poi anche per Heidegger, rende possibile la costruzione di una logica, che partendo dalla confutazione dello psicologismo e della sua infondatezza teoretica, sappia aprirsi al divenire degli eventi umani, per coglierli non più attraverso il "mitico rapporto di io e mondo, mente e materia, soggetto e oggetto tipico della moderna teoria del conoscere", che esaurisce tutto nell’analisi esplicativa di un oggetto reso immobile, bensì in quel connotato di "senso" specitico dell’accadere umano, che nel riferimento al valore mo-

stra la sua originalità e irripetibilità e la non inclusività in una concezione meramente cronologica del tempo. Heidegger, che pure non rimarrà, come si sa, a lungo fedele alla posizione rickertiana, nel suo

saggio giovanile Der Zeitbegriff in der Geschichtswissenschaft

die-

tro la sicura lezione di Rickert, individua il significato "qualitativo"

del tempo storico, differenziandolo dal tempo della fisica inteso alla ricerca delle regolarità possibili e dell’unità dell’immagine fisica del mondo e della loro "misurabilità". Il valore qualitativo del tempo storico, dipenderà dal fatto che, come sostiene Heidegger, la storia e la

scienza storica assumono a proprio oggetto l’uomo non come obiettivo biologico, ma in quanto l’idea della cultura viene realizzata nelle sue prestazioni corporeo-spirituali", e si prefigge di rappresentarsi il "nesso degli oggetti e degli sviluppi delle obiettivazioni della vita umana nella loro unicità ed irripetibilità comprensibile in rapporto ai valori della cultura" %8, Riecheggiano qui alcuni problemi posti nelle pagine rickertiane delle Grenzen, e di Naturwissenschaft und Kulturwissenschaft, e che nell’Heidegger uscito dall’attenzione giovanile per Rickert saranno risolti in modo completamente diverso. Ma al di là del ruolo che nei due filosofi svolgerà il modello teoretico conoscitivo, lungo lo sviluppo del loro pensiero e della loro sempre più differenziata attitudine speculativa, resta importante rilevare l’istanza comune del rinnovamento della logica, da praticare lavorando intorno al concetto di valore e al suo rapporto con la storia e con la temporalità dell’esistenza. E proprio sul differente modo di intendere il "valore", maestro e discepolo si divideranno, mostrando quanto fosse irrinunciabile, anche per la logica, il riferimento a questa variabile non indifferente %. 97. In Friihe Schriften, Frankfurt a. M. 1978; tr. it., /! concetto di tempo nella scienza della storia, in Scritti filosofici, cit., pp. 210-231. 98. Ivi, pp. 426-27; tr. it., pp. 223-224. 99. Cfr. la conclusione di R. Viti Cavaliere, nel suo Rickert e Heidegger: Il progetto incompiuto di una nuova logica, cit., e ancora il saggio di A. Savignano, L'in-

38 6. Conclusione

Se non si perde di vista il "valore", la filosofia viene posta nella condizione di riscoprire il suo specifico nella capacità di estendere il concetto di "esperienza", per coglierne quel significato "totale", che la spinge molto al di là dei limiti che la scienza positiva pretende di imporle. Tale riscoperto compito originario pone la filosofia a contatto con il mondo dei significati, cioè con quel terzo modo d’essere del mondo", che, come sostiene Rickert, si identifica con il "mondo del

comprensibile", senza richiedere una radicale differenziazione o disattenzione nei riguardi del "sensibile", o il ricorso ad una interpretazione metafisica della differenza. Una filosofia del "comprensibile" richiede, naturalmente un’attitudine alla "comprensione" e filosofi aperti all’interesse specifico per il Verstehen. Tra questi vogliamo collocare, conclusivamente, Rickert, che almeno a partire dalla seconda edizione delle Grenzen fa suo, esplicitamente, il problema del "comprendere", aprendo un altro spazio di confronto e di differenziazione non solo con Dilthey, ma anche con Simmel, Spranger, Weber,

Jaspers, Troeltsch. Anche all’interno di questo nuovo spazio problematico, Rickert si muove con estrema coerenza, esorcizzando con energia tutte le inter-

pretazioni vitalistiche e interioristiche della istanza del "comprendere", che pure va comunque considerata come il guadagno più considerevole dello sviluppo delle scienze storiche. Ma a fronte dell’ Er/eben e del Nacherleben diltheyani, Rickert sente ancora di dover garantire la "comunicazione" del senso, per evitare che questo resti rin-

chiuso negli insondabili recessi della vita interiore. Per questo si affretta a precisare che "il senso compreso oscilla, per così dire, liberamente tra l’individuo, nel quale vive realmente, e noi che semplice-

mente lo comprendiamo come individuale senza riviverlo" 19, Si tratta della costante preoccupazione che lo porta a difendere il piano "astratto" di una filosofia trascendentale, anche per quell’esercizio del "comprendere" riferito agli eventi individuali, e che per essere va-

lido universalmente deve riferirsi a valori, intesi come "principi teoretici" !0!, AI contrario, la sola vita psichica non condurrebbe mai oltre il singolo individuo e non sarebbe, quindi, in grado di garantire fluenza di H. Rickert negli scritti giovanili di Heidegger, cit.,in questo volume. 100. H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildun, cit., p. 585. 101. Cfr. Su questo punto P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Einaudi, Torino 1971, pp. 145 ss.

39 una "comprensione di senso" valida nel suo significato universale. Di qui la posizione rickertiana contro quelle ontologie dualistiche, che ammettendo il dualismo psichico/fisico si precludono qualsiasi possibilità di comunicazione di senso. L’esercizio del Verstehen richiede perciò il superamento del dualismo in un terzo modo d'essere del mondo, che si identifica con il "mondo del significato" o mondo del "comprensibile", nel quale è possibile cogliere la predominanza del "senso irreale", di quei significati astratti delle formazioni di senso, che costituiscono i poli formali del molteplice materiale storico, e nel quale, infine, è possibile guadagnare quel reale portatore delle formazioni di senso che è il "particolare individuale", come intero che trascende la semplice somma delle parti. Da un altro punto di vista, però, quando si ha a che fare con l’esperienza del "senso", e con le forme intelligibili

o comprensibili, divie-

ne possibile l’esperienza della totalità, cioè cogliere il significato di quell’intero, che si fa garante, per Rickert, della comunicabilità del senso particolare e individuale. Accade qui ciò che è riscontrabile nella ricerca del "senso" di una frase. Come rammenta Rickert, noi siamo abituati a parlare sia del "senso" delle singole parole, che dei "significati" di frasi intere. Perciò si potrebbe supporre che così come la frase si compone di parole, il senso si componga di significati in modo tale che il senso della frase sia la semplice giustificazione o nient'altro che la somma dei singoli significati delle parole. Ma si tratta di una concezione inappropriata. "Il senso di una frase si distingue fondamentalmente dalla semplice somma [...]. Scegliamo quale esempio un ’senso’ comprensibile teoricamente come vero o falso. Le singole parole e la loro semplice somma non sono né vere né false. Solo il senso dell’intera frase possiede la differenza teoretica" 102. Questa conclusione, riferita al piano del rapporto tra i significati delle singole parole e la totalità della frase sensata, qui ci interessa per i suoi risvolti ontologici, in quanto l’intera forma sensata dev'essere diversa per principio, cioè ontologicamente, relativamente al suo essere, dalla semplice somma. "Qui possiamo dire - conclude Rickert che solo come membri di una totalità i significati delle parole entrano nella sfera sensata teoretica" 103, Se poi, prendendo le mosse dalle forme ricche di senso della totalità della frase, vogliamo pervenire a "totalità maggiori", possiamo estendere l’attitudine della comprensione al senso della verità, come "tutto sensato", che si lascia scoprire come senso esteso complessivo 102. H Rickert, Grundprobleme der Philosophie, cit., p. 83.

103. Ivi, p. 85.

40 dei singoli trattati scientifici e delle varie scienze, che così possono essere considerate come parti di un tutto sempre più esteso, consentendoci di risalire fino alla totalità inespressa. "Il concetto della scienza totale come quello di una forma sensata, include anche ciò che ancora non è riconosciuto e che tuttavia ’esiste’ in qualche modo. Si tratta, come possiamo dire altrimenti, della scienza come ’ideale’"’ 194,

Si tratta di un’ermeneutica fondata sulla certezza di questo ideale in cui si scopre l’ultimo tutto a cui tutte le forme sensate appartengono come parti. Ma in questo risalimento all’infinito, il rischio dello scacco del Verstehen viene totalmente eliminato, giacché "sotto l’aspetto ontologico, universale, anche la forma ’ideale’ dev'essere in qualche modo già presente, anche se nessun uomo può dire di conoscerla nel suo contenuto"! Grazie a questa presenza "l’eros filosofico come brama di completezza, non rinuncia all’appagamento. Non rimane con l’in-finito, sebbene sia consapevole del fatto che il suo discorso sul finito sarà nient'altro che un ’balbettare’" !°. La corrente del cambiamento, che pure coinvolge il filosofo e la filosofia, non produce dispersione; ciò che il filosofo è riuscito a conquistare con la fatica del filosofare, resta fissato all’ancoraggio sicuro della "forma ideale", che è anche il punto di rilancio del suo inarrestabile esercizio. La filosofia come inizio dell’esperienza umana e come momento terminale superiore della dinamicità storica, nel quale questa si ricompone in un’unità di senso, che la rende comprensibile. Rickert si fa filosofo

del Verstehen per cercare nella scientificità della storia !97,

104. 105. 106. 107. greifen,

“comprensione” la garanzia della

/bidem. Ivi, p. 86. H. Rickert, Vom Sistem der Werte, cit.; tr. it., cit., p. 68. Su questo punto vedere, all’interno del volume, M. Catarzi, Verstehen, BeBegriffsbildung, pp. 293 ss.

Parte prima : LOGOS E STORICITÀ. WERT - UND - LEBENSPHILOSOPHIE

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HEINRICH RICKERT NEL SUO TEMPO. LA DISCUSSIONE EUROPEA SULLA SCIENZA E SULLA WELTANSCHAUUNG * * di Friedrich H. Tenbruck

Heinrich Rickert, dopo Wilhelm Windelband il secondo rappresentante del neokantismo tedesco sudoccidentale, occupò nel suo tempo

una posizione importante nella filosofia — basti pensare al suo ruolo svolto in «Logos internationale Zeitschrift fiir Philosophie der Kultur» — e nella vita spirituale germanica. Ciò fu dovuto al suo interesse instancabile e, prescindendo dall’opera della vecchiaia, esclusivo per la «logica», che secondo l’uso linguistico di quel tempo indicava la teoria della conoscenza, e che condusse Rickert anche al tentativo di mostrare / limiti della formazione concettuale nelle scienze naturali (2 voll., I ediz. 1896-1902), per ottenere spazio per quelle ‘Geisteswissenschaften” che egli chiamò «scienze culturali». Dall’ambiente intorno a queste discipline e dai cultori di queste gli provenne notorietà, mentre non si sa niente di una recezione particolare tra i cultori delle scienze naturali. Se già negli anni ’30 la fama di Rickert incominciò ad impallidire, oggi i suoi insegnamenti sono quasi dimenticati. Per io meno essi non fanno più parte del patrimonio vivo delle scienze storiche alle quali Rickert si era rivolto in primo luogo, e nelle altre scienze culturali esse sono appena un pallido ricordo. L’autocomprensione logica di tutte ** Trad. di M. Signore, rivista dall’autore. Siglario delle opere citate Gr = H. Richert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, 1902. L=H. Lotze. Logik (1874), 1912. Pr = W. Windelband, Proludien. 2 Bde, 1921. Rw = H. Rickert, W. Windelband., 1915.

Mss = Max Weber, // metodo delle scienze storico-sociali. Introduzione e traduzione di P. Rossi, Torino 1982. Sw = H. Rickert, “Vom System der Werte”, Logos, IV, 1913; tr. it. di M. Signore in Filosofia, valori, teoria della definizione, Lecce

1987.

WL = Max Weber, Gesammelte Aufscitze zur Wissenschaftslehre, 1951.

44 queste discipline sta correndo oggi, insieme alla teoria della scienza e dell’ermeneutica per traiettorie del tutto diverse, dove manca l’interesse materiale all'opera di Rickert. In ciò, Rickert condivide la sorte

del neokantismo che è da tempo dimenticato e al quale la filosofia dedica ormai solo timide attenzioni retrospettive!. La sua opera, anche se ridotta alla metodologia, è rimasta invece

una sfida per le scienze sociali, che Rickert aveva soltanto sfiorato. Col passare del tempo, essa acquistò un’importanza tale, che portò le parti relative della sua opera fuori dell’aria culturale tedesca, alla quale fin’allora era stata limitata. Mentre, quindi, la sua fama diminuì in

Germania, Rickert entrò nell’orizzonte culturale francese grazie a Raymond Aron (La philosophie critique de l’ histoire, 1935); giunse in Italia con le indicazioni di Carlo Antoni (Dallo storicismo alla so-

ciologia, 1939), di R. Federici (La filosofia dei valori di H. Rickert, 1933) e con Pietro Rossi (Lo storicismo tedesco contemporaneo, 1956); e attraverso la mediazione di immigrati tedeschi giunse infine anche in America con H. St. Hughes (Consciousness and Society, 1953). Ma dappertutto l’interesse per il contributo di Rickert per le

1. In Germania si fa risentire l’interesse per il neokantismo con i lavori di H. L. Ollig (Der Neukantianismus, 1979), di W. Flach e H. Holzhey (Erkenntnistheorie und Logik im Neukantianismus, 1980) o anche in quello di H. Schnidelbach (Philosophie in Deutschland 1831-1933, 1983), interesse che però supera appena il carattere di un ricordo generico. Sugli antecedenti del neokantismo informa ora K. Ch. K6hnke (Entstehung und Aufstieg des Neukantianismus, 1986) che ricorre accuratamente alle fonti. Invece di interessarsi soltanto delle affermazioni e degli argomenti dei neokantiani, egli si interroga «sulle condizioni storiche dello sviluppo del neokantismo, dei motivi e dei problemi, ai quali esso voleva porsi come risposta filosofica» (304). Il lavoro, ricco

di notizie e esigente, inizia ad alto livello, ma termina con un piatto sospetto di ideologia e alla fine perde i suoi meriti; esso favorisce quindi il punto di vista, secondo il quale non occorra occuparsi delle questioni oggettive del neokantismo. A tale riguardo, mi sono pronunciato esplicitamente in una dettagliata analisi, ora in «Idee», n. 78, Lecce 1988. 2. Specialmente in America, della filosofia tedesca a cavallo dei due secoli, si è presa notizia solo con grande ritardo. I mediatori decisivi furono emigranti tedeschi, quali A. Salomon, E. Cassirer (vedere la voce Neo-Kantianism nell’Encyclopedia Britannica del 1958) e A. Brecht (Political Theory: The Foundations of 20th Century Political Thought, 1959). L'interesse americano si ridusse subito al suo significato metodologico per le scienze sociali. Di recente, a tale riguardo, Toby Huff (Max Weber and the Methodology of the Social Sciences, 1984) e Guy Oakes, con diversi arti-

coli, hanno offerto contributi essenziali. Ma allo spirito americano corrisponde di più Th. E. Willey (Back to Kant, 1978) che, con ricchezza di cognizioni, riduce il neokantismo al suo presunto contenuto politico, alla difesa della democrazia liberale. Kéohnke seguì questo modello.

45 scienze culturali si restrinse ben presto alla sua importanza per le scienze sociali, e qui a sua volta al ruolo che svolse per il concetto della sociologia di Max Weber. Oggi, Rickert continua a vivere non come logico, come egli intendeva essere considerato, ma come autorità per le scienze sociali culminate con Max Weber. Poco tenuta presente dagli storici della scienza, la sua opera non fa più parte di problemi trattati dalle scienze culturali, e nella sociologia essa viene di solito ridotta alle parti metodologiche. Questa situazione è insoddisfacente per più aspetti. La scienza acquista continuità tramite la sua memoria, che, volendo giustizia storica, interpreta l’opera di un autore integralmente e dalla prospettiva

della sua intenzione. Nel nostro caso ciò diventa ancor più importante, visto che Rickert cooperò ad un capitolo della storia della scienza, che non dobbiamo dimenticare se vogliamo comprendere i problemi odierni. Perciò vorrei mostrare qui di seguito, come l’opera di Rickert era situata in questa storia e come egli rispose ad un dibattito (Diskussionslage) europeo. Per questo scopo occorre innanzitutto rimettere allo scoperto l’intenzione propria di Rickert in contrasto con la solita riduzione della sua opera alla sola metodologia.

1. Scienza e Weltanschauung in Heinrich Rickert

Per primo bisogna ora osservare che Rickert non cominciò con la metodologia che cercò piuttosto di superare. Piuttosto ovviamente, egli ammise che le scienze dispongono di metodi esatti e di conoscenze affidabili. Lo occupava invece la questione, se le loro conoscenze rendono giustizia al supremo fine della scienza. «Partiamo», dice nell’introduzione, «dai compiti che la conoscenza scientifica cerca di assolvere. Ci interessa l’importanza, o più precisamente il valore che i diversi modi e forme del pensiero scientifico hanno per la realizzazione di questi compiti. Per noi, i metodi della ricerca sono quindi [...] dei mezzi, dei quali vogliamo comprendere i rapporti funzionali con gli ultimi fini dell’attività scientifica» (Gr 15). L’idoneità dei procedi-

menti per il raggiungimento di conoscenze valide dev’essere esaminata sotto l’aspetto dell’idoneità di queste conoscenze per l’adempimento dei supremi fini della scienza. Quindi invece della metodologia, «logica» o, come Rickert preferiva dire, «dottrina della scienza» (Wissenschaftslehre) (Gr 15). In breve, l’opera di Rickert si sviluppò sotto l’influsso della questione del fine e del senso, 0, come disse poi Max Weber, della «professione» della scienza. Ciò però non rappresenta per Rickert una questione, in quanto

46 per lui è sicuro, che la scienza trovi il suo compito supremo nella fondazione di una Weltanschauung. Egli inizia con la confessione franca: «In fondo si tratta qui di seguito di un problema concernente la generale concezione di vita e di mondo (Lebens - und Weltanschauung)» (Gr 10) e chiarisce inequivocabilmente: «An-

che la nostra via deve infine condurre ad una completa Lebens und Weltauffassung» (Gr 14). Con questa confessione introduttiva, l’opera di Rickert pare squalificata e a diritto dimenticata per il lettore odierno. Visto che la scienza moderna, e in particolare la scienza sociale, si è presentata nella lotta contro le Weltanschauungen come baluardo contro le ideologie, la confessione di Rickert pare un’indiscutibile ricaduta nelt’oscurantismo. Mentre egli richiede, nella introduzione, una Weltanschauung dalla scienza, oggi il lettore si trova dappertutto messo in guardia contro questo passo. E se mai il lettore si aspetti ancora una Weltanschauung, non lo fa certamente dalla scienza, che da tempo ha esclu-

so questo fine dai suoi compiti. Lasciamo aperto, per il momento, se si può cancellare la questione di Rickert così semplicemente. Prima comunque, bisogna comprenderla. Poiché ciò che Rickert chiama Weltanschauung «con un’espressione non molto felice, ma della quale difficilmente si può fare a meno» (Gr 7), come egli stesso annota, è piuttosto l’approssimativo punto di orientamento per la sua questione che non il criterio fisso della sua risposta. E quasi un’espressione di imbarazzo per poter concettualizzare una situazione del tempo. Si è spesso rimproverato a Rickert che si sia limitato alle formalità del conoscere e che abbia evitato le questioni materiali, che occupavano il tempo; però egli praticò la «logica» non per passione, ma per dovere e per rassegnazione. La filosofia sarebbe costretta a rinunciare ad ogni metafisica a causa dell’autonomizzazione delle singole scienze; che però a loro volta si mostrerebbero incapaci di fornire una Weltanschauung, che rimane comunque — lo premette Rickert — il supremo compito da riconoscere e la costante esigenza degli uomini. In questa situazione, la «logica» diventa la continuazione della filosofia con altri mezzi, al servizio del compito della scienza di sviluppare una We/tanschauung. Come «dottrina della scienza» (Wissenschaftslehre) fa sì, ora, che le sin-

gole scienze spieghino una Weltanschauung pur nel loro sviluppo autonomo. Ne risulta una costruzione peculiare dell’opera. Nell’introduzione si dichiara, tanto fermamente quanto in modo indeterminato, l'obbligo della scienza di sviluppare una We/tanschauung, proposito che scompare ben presto completamente dall’indagine.

47 «Questo trattato cerca, quindi, non di dare una Lebens - und Weltanschauung stessa [...], ma di mostrare e di criticare i mezzi, con

cui [...] si può ottenere una Wel/tanschauung» (Gr 10). Ciò avviene, com’è noto, esaminando i diversi metodi, in riguardo alla loro idoneità di rendere possibile le conoscenze, che servono alla costruzione di una Weltanschauung. Così Rickert scoprì una lacuna, per la quale responsabilizzò la formazione concettuale delle scienze naturali, cosicché l’esecuzione del suo proposito diventò la fondazione di una formazione concettuale storica, che deve rendere capace le scienze culturali di contribuire, at-

traverso le loro conoscenze, ad una Weltanschauung. Non occorre approfondire questo punto, ma esso getta luce sul punto di partenza di Rickert. Le indagini logiche stesse possono e devono essere completamente indipendenti; la loro correttezza non dipende comunque dall’impegno di sviluppare una Weltanschauung, dichiarato nell’introduzione. Ad un altro livello, queste indagini seguono tuttavia le direttive dell’introduzione. Rickert poteva scoprire una «lacuna», soltanto, perché egli applicò un criterio che andò oltre i limiti del rigore concettuale. Ciò si chiarisce del tutto nella questione centrale, se le scienze culturali si devono servire della formazione concettuale «scientifico-naturale» o di quella «storica».

Poiché

ambedue

forniscono

risultati «corretti»,

la scelta tra loro dipende quindi dal fine, che assegniamo alla conoscenza. Il merito specifico di Rickert consiste nella scoperta, che il lavoro scientifico non riesce mai a dare un'immagine della realtà, ma piuttosto evidenzia in essa certi rapporti, che interessano lo studioso. Pertanto la scelta tra i due modi della formazione concettuale dipende dai fini ultimi che assegniamo alla scienza. Chi dimentica ciò, attenendosi meramente alla «correttezza» dei metodi, non è in grado di apprezzare la forza e l’importanza dell’argomentazione di Rickert. Dietro le considerazioni logiche sta muta, ma dominante, la domanda circa il senso della scienza.

2. L’orizzonte della discussione in Germania

Quindi in questo senso la «questione della Weltanschauung» era la forza spingente e predominante dietro le indagini logiche. Malgrado ciò che debbono al lavoro preparatorio di Windelband, le indagini logiche sono l’inconfondibile risposta di Rickert a questa questione, il cui merito ci occuperà più tardi. Aspettandosi dalla scienza una Weltanschauung, e generando il proprio compito solo da questa postula-

48

zione, Rickert segue la convinzione che era alla base della discussione tedesca. Il tenore della discussione (Diskussionslage) tedesca si ripercuote già nell’introduzione di Rickert, in cui senza alcun tentativo di fondazione e persino senza commento, la Wel/tanschauung, compresa come

compito supremo della scienza, ritorna quasi in maniera convenzionale: Ciò poteva fare Rickert, che d’altra parte spinse piuttosto fino alla pedanteria la postulazione logica della chiarezza, dell’esattezza, della coerenza e della completezza, soltanto nella consapevolezza di esporre una cosa ovvia e già generalmente stabilita. Nell’omaggio al suo maestro, Rickert descrisse come Windelband era giunto alla sua filosofia dei valori, compresa come il compito di sviluppare una We/tanschauung. «Sul reale ci devono istruire soltanto le scienze individuali, che indagano tutte le sue parti» (RW 19). La filosofia non è più in grado di riunire i risultati di queste in una immagine unitaria del mondo (Weltbild) (RW 18). Ma non troviamo alcun sostegno in questa realtà per cui «tutta la nostra esistenza» rimarrebbe «uno scorrere e svolgersi insignificante e futile», in cui «manchereb-

be qualsiasi posto per il volere morale, o il sentire artistico o la vita del divino» (RW 19). Ma «tutti noi crediamo nella vita, nel sopraindi-

viduale, che vincola ed impegna il singolo». I valori validi «ci compaiono dinnanzi come ciò che deve essere eternamente, senza dover essere; e inserendo nella realtà ciò che è valido, la nostra vita riceve un

senso, che fa sì che essa valga la pena di essere vissuta» (RW 19 sg.) Quindi, secondo Rickert, Windelband risponde ad una questione già esistente vedendo il compito della filosofia nel dare «una Weltanschauung in modo tale, che essa ci insegni a comprendere unitariamente la varietà della nostra vita carica di senso» (RW 20).

Magari ancora più chiaramente si espresse Windelband stesso. Con il sorgere delle scienze speciali tutti gli oggetti sembrano distribuiti completamente e pare che «ad una scienza della We/tanschauung si possa rinunciare definitivamente»; ma quelle scienze stesse sono ora un fatto, che a sua volta dev'essere reso oggetto di una propria scienza. «Accanto alle altre scienze si pone... una teoria della scienza. Se non è più una conoscenza del mondo che comprende tutte le altre idee, è ora un’autoriconoscimento della scienza... Alla ‘dottrina della scienza’ si trasferisce il nome della filosofia, rimasto privo di oggetto» (PrI, 19).

E Windelband descrisse l’esigenza di una Wel/tanschauung come una manifestazione valida del tempo. Dopo il «ristagno del pensiero filosofico» si rafforzano «dei motivi di pensiero, diretti verso il rile-

49 vamento di uno sfondo spirituale della vita nel pensiero, nella fantasia, nella volontà. A questi mutamenti si associarono però intense correnti in altri ambienti. Turbata nel più profondo a causa delle sorti violente e delle sovversioni potenti della vita pubblica, presa dal bisogno febbrile di una nuova autorealizzazione, l’anima del popolo richiedeva l’espressione nello stesso tempo determinata e determinante di ciò, che la commuoveva..., esigeva, in un atteggiamento imperati-

vo, una Weltanschauung dalla filosofia, senza la quale ancora nessun tempo è giunto ad una realizzazione creativa» (Pr /, 149). Le scienze individuali non la possono fornire e non le lasciano neppure spazio. Cercando una We/tanschauung, la filosofia lascia esistere le scienze speciali intoccate ed imperturbate, esamina però la loro pretesa di riprodurre tutta la realtà (Pr I, 60 sg.) e scopre quindi il regno dei valori che si realizzano nella storia. La filosofia, considerata come dottrina della Weltanschauung, conduce la «battaglia per un contenuto spirituale della vita», e dà buoni risultati nel «far fronte alle esigenze intellettuali del tempo» (Pr I, 165). Così, la «dottrina della scienza» in

Rickert e in Windelband corrisponde non tanto ad una discussione astratta sulla teoria della conoscenza, ma piuttosto alla consapevolezza della situazione storica reale della scienza dopo la fine della metafisica. Il sentimento dell’insufficienza delle singole scienze era generalmente diffuso; già Hermann

Lotze ritenne che «la resistenza inces-

sante, che si oppone al loro esclusivo dominio su tutto il pensabile» consistesse sostanzialmente in esigenze logiche (L 179), e concluse sperando «che con più misura e più riservatezza, ma con uguale entusiasmo la filosofia si innalzi sempre di nuovo al tentativo di comprendere il corso del mondo, invece di calcolare meramente» (L 608). An-

che se egli usa l’espressione Weltanschauung, solo poche volte, la sua importanza era riconosciuta, considerando il suo sviluppo, un dovere della filosofia; a questa convinzione egli contribuì con l’idea, gravida di conseguenze, che i valori, non «siano», ma «valgono»?. Tanto più Dilthey parlò di Weltanschauung; è stato anzi probabilmente lui a conferire all’espressione il suo valore nell’uso scientifico, classificando i sistemi della filosofia come tipi di We/tanschauung e dichiarando, dopo la fine della metafisica, la filosofia direttamente «dottrina della Weltanschauung»; mentre Windelband e Rickert la trasformaro-

3. Per Lotze e il suo influsso, vedere il recente E. W. Orth, Rudo/ph Hermann Lotze. Das Ganze unseres Welt - und Selbstverstindnisses in Grundprobleme der grossen Philosophen, a cura di J. Speck, IV, 1986. Cfr. qui nota 17.

50 no in una «dottrina della scienza»4. Ma anche in campi del tutto diversi il lavoro scientifico sulla Weltanschauung fu considerato un fatto naturale. Persino W. Wundt parlò de «l’impulso all’unità della ragione umana stessa, che non vuole accontentarsi di riconoscere il particolare..., ma che vuole giungere ad una We/tanschauung», ed egli concluse con la convinzione che ciò che è necessario dovrebbe essere anche possibileS. E la enfatizzò con l’allusione a «l’enigma del mondo» di Heackel, a «l’energetica» di Ostwald, al «Riduzionismo»

di

Mach, dimostrando in che modo una Wel/tanschauung si sia presentata, nelle loro vedute, sotto la bandiera dell’«antimetafisica»*. Questi esempi rimandano a quella situazione, che Windelband de-

scriveva come «la battaglia per un contenuto spirituale della vita». Messa di fronte alla proliferazione delle scienze particolari, alla lotta tra le ideologie politiche e, infine, al cambiamento delle condizioni di vita, l’opinione pubblica richiese sempre più fortemente una Weltanschauung, che non ci si aspettava più dalla religione. In questa situazione,

la scienza

si presentò

con

la convinzione,

che essa

stessa

avrebbe dovuto condurre ed avrebbe condotto ad una Weltanschauung fondata. Così, D.F. Strauss dichiarò, senza esitare, in La nuova

e la vecchia fede, nel 1872, che la scienza moderna sarebbe la Weltanschauung moderna; e non diversamente si leggeva nello scritto A! letto di morte del secolo di Ludwig Biichner del 1899. Allora quasi tutte le discipline si sono cimentate con lo sviluppo di una Weltanschauung, mentre la filosofia era quella che sotto l’approvazione generale tentò ciò più fermamente. In parte si evitava l’espressione — come fece il neokantismo di Marburg — cercando ugualmente una Weltanschauung, sebbene si scegliessero vie diverse. Così la filosofia si stava trasformando sempre di più in una We/tanschauungslehre come nell’opera di Dilthey e di Husserl, ma anche in quella di Jaspers (La psicologia delle Weltanschauungen, 1919), Spranger (Forme di vita, 1914), Scheler (La Weltanschauung filosofica, 1929) e nella teologia (F. Gogarten, 1932; R. Guardini, 1935), finché la sua storia fu 4. Una breve rassegna offre W. Dilthey, Das Wesen der Philosophie in: Dilthey, Riel, Wundt e altri, Systematische Philosophie, 1908, soprattutto pp. 37 ss., 55, 62. J. Wach (Die Typenlehre Trendelenburgs und ihr Einfluf auf Dilthey, 1926) ha ricordato che il maestro di Dilthey, Trendelenburg aveva già presentato una simile classificazione delle We/tanschauungen (Ueber den letzten Unterschied der philosophischen Systeme, 1847). H. Glockner ha ripubblicato questo lavoro nel 1944. 5. Così W. Wundt nel suo contributo Metaphysik per la raccolta di scritti sopra citati (nota 4), p. 106 e p. 132.

6. Questo nel capitolo Die Metaphysik in der Naturwissenschaft der Gegenwart, nel contributo suddetto, pp. 122-131.

SI scritta da K. Joel con / mutamenti della Weltanschauung, 2 voll., 1928/34, e da H. Meyer con La storia della Weltanschauung occidentale, 5 voll., 1947-1950. In questo fiume potente la posizione della scuola tedesca sudoccidentale rappresentò soltanto una variante. Dato che tutti gli sforzi si insabbiano già nell’impostazione (principi, fini, metodi), invece di fondare una Weltanschauung compiuta,

ben presto si allargò il dubbio se la scienza fosse ancora effettivamente in grado di fondare una We/tanschauung. Così, al margine e nell’ambiente più esteso intorno alla scienza, sorsero circoli e movimenti originali e spesso autorevoli che possedevano i loro propri messaggi col carattere di Weltanschauung — si pensi a Stefan George, Rudolf Steiner, Paul Ernst, Rudolf Pannwitz —; mentre Nietzsche diede al-

l’esigenza di avere una Weltanschauung l’espressione più potente e più influente con la sua critica radicale della scienza. In questa situazione, Rickert partiva senza spiegazioni preliminari, dalla convinzione che lo sviluppo di una Wel/tanschauung fosse il compito supremo della scienza. Se si vuol vedere in questa impostazione un passo fatale e deviante, che svaluta tutta la sua opera, allora bisognerebbe responsabilizzare tutta la scienza tedesca per il suo imperdonabile vagheggiamento della Wel/tanschauung. Da qui non manca molto per pervenire ai luoghi comuni (Klischee) del ‘cammino speciale» (Sonderweg) della cultura tedesca, nel quale persino la scienza si sarebbe chiusa nei confronti del progresso della razionalità moderna. La ricerca di una Weltanschauung — termine intraducibile — sembra sia proprio della cultura tedesca, e appare accompagnare la presunta fuoriuscita di questa dal cammino europeo della scienza. Ma tale ricerca faceva però parte di una pressante problematica europea, essenzialmente determinata dalla delusione nei riguardi della scienza. La ricerca di una We/tanschauung era in corso dappertutto, sebbene assumesse forme diverse.

3. Scienza e Weltanschauung:una discussione europea Per primo, occorre ricordarsi del fatto, che in Europa si evidenziarono profondi cambiamenti, quando nel 1890 una nuova generazione si presentò con quelle domande e quelle risposte rivoluzionarie, che sin d’allora determinarono la situazione spirituale con notevoli conseguenze politiche. Per questa generazione la sfida consisteva — se si possono ridurre i loro motivi di partenza in una formula — nella perdita della fede nel carattere razionale del mondo, della vita e della storia. Scoprendo l’impenetrabilità irrazionale della realtà, si misero in

S2 dubbio le forme cognitive tradizionali, che nei secc. XVII/XIX si erano elaborate basandosi sulla fede nella ragionevolezza della realtà. Dobbiamo a H. St. Hughes, per quanto io sappia, l’unica e comunque ancora insuperata descrizione di questo capitolo della storia spirituale europea, che dopo l’Illuminismo e Marx ed Engels, divenne storia mondiale. Con precisione, Hughes scrive: «Ci sono determinati periodi storici in cui un numero di pensatori avanzati, lavorando in

genere indipendentemente l’uno dall’altro, propongono delle vedute sulla condotta umana tanto differenti da quelle comunemente accettate in quel tempo — e tuttavia in relazioni così evidenti tra di loro — che insieme sembrano costituire una rivoluzione intellettuale. La decade degli anni ’90 dell’800 era uno di quei periodi». (Consciousness and Society. The Reorientation of European Social Thought 18901930, New York 1958, p. 33). © Mentre da un lato sarebbe ingiusto criticare, a causa di alcune in-

sufficienze, il tentativo di Hughes di ricostruire quella situazione europea sotto l’aspetto dei problemi percepiti, tentativo che non fu mai ripetuto né raggiunto, è tuttavia necessario tener presente che il suo lavoro da pioniere riuscì a cogliere la realtà dell’unità culturale europea solo in modo unilaterale. Benché egli riconosca con chiarezza adeguata che «erano tedeschi, austriaci, francesi, italiani —

più che

inglesi, americani o russi — che in genere producevano il fondo di idee, che giunse poi a sembrare più caratteristico per il nostro tempo» (p. 13), e addirittura aggiunga: «Inoltre, spesso giunsero a teorie sorprendentemente simili tra di loro e alla sola distanza di alcuni anni» (ibidem), egli si accontenta dell’opinione, che queste teorie «in relazione così manifesta tra di loro», furono tuttavia prodotte da autori che «in genere lavoravano indipendentemente l’uno dall’altro». Egli delinea esattamente la scena; ma la questione trascura quali aspetti in comune e quali legami condussero quei pochi paesi sul palcoscenico, lasciando occupare agli altri la posizione dello spettatore o del commesso. Resta suo il merito di aver riconosciuto il globale processo come «revolt against Positivism» — probabilmente la denominazione «lotta intorno al positivismo» sarebbe preferibile — in cui Durkheim, Sorel, Bergson, Freud, Dilthey, Windelband, Rickert, Troeltsch, Max

Weber, Croce, Pareto, Mosca, Michels erano i protagonisti principali. Ma non era in grado di porre inoltre la domanda intorno agli aspetti comuni e alle relazioni, che spieghino perché furono proprio questi paesi ad essere presi da un simile processo, caratterizzato dal profilo chiaro e dall’impeto elementare, mentre gli altri restarono degli spettatori. Hughes registra accuratamente la provenienza culturale dei protagonisti, che naturalmente era quasi sempre radicata nella rispet-

DO tiva storia spirituale della propria nazione; egli indagò anche sui riferimenti espliciti ad autori stranieri, ma data la loro rarità concluse tuttavia con l’affermazione dell’indipendenza dei loro lavori. A questa conclusione giunge Hughes, perché si attiene ai riferimenti diretti (inoltre, per lo più espliciti) dei protagonisti tra di loro, cioè lasciando da parte la comunicazione indiretta. La sua prestazione scientifica, ancora insostituibile, fu possibile solo perché scelse la «via regale della storia intellettuale» (p. 10) che gli indicò i grandi «innovatori». Ma sebbene si evidenziarono bene le singole teorie, anche la ‘via regale’ trova i suoi limiti nel fatto, che gli argomenti e le situazioni, alle quali le teorie rispondono, rimangono nascosti al buio; poiché essi possono essere appresi non tanto attraverso le opere degli autori, quando piuttosto da discussioni e da fonti simili. Infine, anche la distanza storica richiede il suo prezzo. Noi ci troviamo di fronte ad autori con un’opera conclusa e la cui importanza è accertata. Ma essi stessi si conoscevano, al limite, attraverso le singole pubblicazioni, il cui valore nel corso del tempo non era ancora certo, e addirittura, nella maggior parte dei casi, non era neanche immediatamente deducibile. Inevitabilmente, loro si orientavano sugli argomenti, sui problemi, sulle situazioni attraverso la loro valutazione personale della discussione generale. Così i concreti contesti di discussione si evidenziano appena. Attraverso la formula generica «revolt against positivism», essi sono, per così dire, globalmente compresi. Conformemente, Hughes, occupandosi di Dilthey, Windelband, Rickert e Weber, deve accontentarsi di riferirsi alla caratteristica e alla coerenza della storia spirituale tedesca, senza cioè approfondire le singole situazioni reali» (Reallage) della discussione spirituale e scientifica (p. 9). Allo stesso modo del

marxismo, anche il positivismo rimane una variabile generica, senza che si renda evidente, quando e come entrò nella conoscenza, diventando una sfida scientifica in Germania (e ben diversamente in Au-

stria). È sintomatico che Karl Lamprecht non venga mai menzionato, benché i suoi lavori rappresentavano il segnale dell’infiltrazione positivista tra gli storici tedeschi. Non diventa chiaro perché proprio Comte e Spencer si trovarono ante portas in Germania. Rimane non menzionato l’influsso esercitato, oltre i confini nazionali, da autori, che oggi sono quasi dimenticati, mentre al loro tempo erano considerati delle «stelle» di primo ordine, come, p. es., Taine con la sua teoria relativa all'ambiente (milieu).

E manca del tutto la domanda circa

l’eventualità e le condizioni di uno scambio oltre i confini nella «rivolta contro il positivismo», e quindi la conoscenza di Sorel, Bergson, Durkheim, o Michels, Mosca, Pareto, o Gumplowicz, o anche Win-

54 delband e Rickert, prendendo in considerazione anche l’eventualità,

che si poteva essere informati su problemi e argomenti trattati anche senza leggere direttamente gli scritti. La generazione, che si presentò nel 1890 (accanto a precursori quali Marx e Nietzsche, che solo allora giunsero ad esercitare il loro ef-

fetto) era unita, non tanto attraverso una dottrina condivisa, ma piuttosto tramite domande affini, nella disputa appassionata circa il ruolo e l’importanza della scienza. Anche l’interessamento verso le situazioni sociali e le politiche reali, che si era sviluppato in modo caratteristico alla fine del secolo, riportò inevitabilmente alla domanda: fino a che punto la scienza è responsabile? Fino a che punto è capace di risolvere i problemi che ne risultano? Per questa generazione, la fede nella scienza del XIX sec. aveva cominciato a vacillare; essa si presentò sul palcoscenico del tempo con la delusione inquietante, che gli immensi progressi cognitivi della scienza non avessero portato al risultato atteso, ovvero al progresso culturale. In Germania, per esprimere tale delusione, si offrì la formula generica della mancanza di Weltanschauung (Weltanschauungsdefizit) nella scienza, che esigeva le conseguenze, le verifiche e gli sforzi corrispettivi. Ma anche, dove non si disponeva di questa formula espressiva, si trattò sempre delle stesse delusioni e delle medesime sfide, relative cioè al valore della Weltanschauung. Questo vale comunque per la Francia, dove Ernest Renan (che in-

sieme a Hippolyte Taine dominò per decenni la vita spirituale della nazione) aveva formulato la predominante religione della scienza in L’avenir de la science , degli anni 1848/49. Essa culminò nella postulazione di «organizzare scientificamente l’umanità», includendo però il programma in modo ancora più evidente nello scritto La riforma intellettuale e morale del 1871, dove Renan dichiarò che «la cultura spirituale, la cultura dell’anima» sono dei doveri santi, e concluse con

la confessione: «la cultura dell’anima è la nostra religione». Ben 40 anni dopo la redazione de L’avenir de la science, Renan lo

pubblicò nel 1890 con una prefazione, che sulla nuova generazione francese esercitò un influsso tanto efficace, come quello esercitato sulla rispettiva generazione in Germania, dalla critica radicale della scienza di Nietzsche. Ora, Renan descriveva la fede nel progresso, che punterebbe solo alla felicità del maggiore numero, come una condizione di massima umiliazione, perché si stava rinunciando alla cultura dell’uomo. Ora si rese conto, che la liberazione delle scienze individuali aumentava sì, in continuazione, la conoscenza dei fatti, però non procurava il nuovo «catechismo» necessario. La scienza aveva sostituito la religione senza fornire una nuova istanza morale. E così Renan con-

SÒ cluse nel 1892 con la domanda preoccupata: «de quoi vivra-t-on après nous?» che ebbe immediata e sempre nuova risonanza?. In Francia, Renan aveva sostenuto il compito culturale della scien-

za, partendo, in fin dei conti, dall’aspettativa, che essa avrebbe fondato una Weltanschauung valida. Quindi, la sua più tarda disperazione si basava sugli stessi motivi, che in Germania furono globalmente indicati come «mancanza di Weltanschauung» della scienza; anche se gli accenti furono messi diversamente nei due paesi. Tutto ciò che egli espose d’ora in poi si poteva ritrovare quasi letteralmente in Lotze, Dilthey, Windelband, Rickert o altrove in Germania: che la scien-

za, cogliendo il «naturale» riducesse il «soprannaturale»; che disgregasse la religione, senza fornire un «catechismo» valido; che non conoscendo degli «ideali validi» favorirebbe la «decadenza morale». Per lo meno Nietzsche aveva trovato la formula ancora più incisiva nel nichilismo della scienza. Renan non andò oltre la sua constatazione opprimente, poiché ritenne la scienza del suo tempo valida per la conoscenza della realtà. Invece la generazione del 1890 partì con l’accusa rivoluzionaria, che le scienze particolari — presumendo che i fatti si lasciano osservare e spiegare in modo univoco — si attenevano in modo unilaterale e superficiale ai fatti. Non abbiamo la possibilità di esporre qui i motivi per cui si riconobbe l’avversario ora nel «naturalismo», ora nel «positivismo» o nel «determinismo» o altrimenti nel «razionalismo» o nell’«intellettualismo».

Condivisa

invece

era la critica, che l’attuale

scienza riducesse la realtà ai fatti esteriori, che attraverso la loro calcolabilità stimolerebbe sì l’intelletto, ma che proprio per lo stesso motivo non istruirebbe l’uomo su se stesso e sulla sua condotta nella realtà. Dappertutto esso costrinse ad una revisione delle idee e dei concetti fin'ora sviluppati’. E dappertutto mirava a scoprire quei contenuti, quei significati e valori che, al di là dei meri interessi, occupano l’uomo nel suo comportamento dotato di senso. 7. Così in Feuilles détachées, 1892. L’ultima resa dei conti di Sorel con Renan in

Le système historique de Renan, 4 voll. 1905/6. Cfr. H. Barth, Masse und Mythos. Die Theorie der Gewalt: G. Sorel, 1959, pp. 67 ss. e L. Mangoni, op. cit., pp. 24 ss. 8. In particolare, le discussioni furono condizionate dalle situazioni reali diverse;

così in Francia attraverso la Comune di Parigi, il bonapartismo incombente del generale Boulanger e l’affare Dreyfus. Anche le differenze nelle tradizioni religiose e spirituali conferirono caratteri differenti alla lotta sulla Weltanschauung nei due paesi. 9. A titolo di esemplificazione sia qui rilevato soltanto che allora la suddivisione classica delle facoltà psichiche, insieme con le opposizioni corpo-anima (Leib-Seele) e spirito-corpo (Geist-Kòrper), fu sempre più soppiantata dall’idea che l’«agire» (Handeln) costituisce la condizione fondamentale unitaria dell’uomo.

56 In Germania tale partenza assunse un aspetto meno rivoluzionario,

poiché poteva far seguito alle tradizioni e aspirazioni vive delle Geisteswissenschaften, che avevano sempre concentrato la loro forza ed indagine sul senso dell’agire e dell’avvenire, con particolare riguardo alla sua dimensione sopra razionale. Perciò Dilthey, Windelband e Rickert si limitarono a rimobilitare le Geisteswissenschaften rispetto alla loro giusta autocomprensione. In Francia, invece, la partenza doveva risultare più radicale. Nel suo saggio Essai sur les données immédiates de la conscience del 1889, Henri Bergson ruppe in modo rivoluzionario con la lunga tradizione razionalista che alla fine si era riaffermata nel positivismo, rafforzandone determinati aspetti. Come Nietzsche, che forse era stato il

‘padrino’ di questa idea, egli dichiarò che la ragione era lo strumento della vita, ma incapace di riconoscerla. Come Dilthey, Windelband e Rickert restrinse l’ambito della ragione, perché essa cogliesse soltanto delle uniformità; come strumenti, queste uniformità erano certamente indispensabili, ma nello stesso tempo generebbero l’illusione del determinismo, mentre la vita si realizzerebbe tramite la libertà incalcolabile e la creazione spontanea. George Sorel seguì tale impostazione. Entrambi cercarono il livello della realtà precluso alla ragione e vissuto dall’uomo come sensato. Ed entrambi vi cercarono la fonte della morale e della religione. Ora non abbiamo l’occasione di approfondire questo aspetto. Ma è chiaro che Bergson e Sorel miravano, come si espresse Windelband, «al rilevamento di uno sfondo spirituale della vita nel pensiero, nella fantasia, nella volontà» (Pr I, 149) e

che condussero «la lotta per un contenuto spirituale per la vita» (Pr I, 165). Evidentemente cercarono di interpretare la scienza in modo tale che offrisse l'appoggio per una Weltanschauung. Dunque possiamo considerare l’opera di Rickert come una variante della discussione e della impostazione della questione europea. Pertanto, volendo valuta-

re l’importanza storica e materiale della sua opera, dobbiamo considerarlo su questo sfondo. Prima di procedere a tale valutazione, vorrei ancora abbozzare l’ulteriore sviluppo della discussione europea. Il distacco dalla vecchia fede nella scienza e Renan, e la nuova critica del positivismo di Bergson e Sorel condussero alla rimobilitazione e alla riformulazione del positivismo. Dove i nuovi movimenti scientifici cercarono di fondare una Weltanschauung, la vecchia promessa di rendere superflue le Weltanschauungen attraverso la scoperta dei fatti, si rovesciò ora nel-

l’ambizione di fornire da sé una Weltanschauung. Dalla vecchia pretesa di sostituire i fatti ai valori, nacque quella nuova di desumere i valori dai fatti. Soprattutto Emile Durkheim spinse in avanti questa

ST innovazione del positivismo, tramite il suo programma di fondare la morale su una scienza, che si avvale di fatti (science de la morale) ar-

ticolandosi nelle rispettive specializzazioni (crimonologia, ecc.)!0. Con ciò si profilò uno sviluppo gravido di conseguenze, ovvero la trasformazione della lotta della scienza per lo sviluppo di una Weltanschauung, nella lotta delle Weltanschauungen di stabilire una nuova scientificità. L'avvio fu offerto dall’articolo Après une visite du Vatican, che Ferdinando Brunetière pubblicò nel 1895 nella rivista «Revue des deux mondes», considerata dal mondo colto l’organo dell’avanguardia spirituale. Nell’articolo si parlò di «bancarotta della scienza» con la spiegazione: «La scienza ha perduto il suo prestigio, e la religione ha riconquistato una parte del suo». Ciò era un’idea altamente esplosiva per paesi come la Francia o l’Italia, in cui la lotta per uno stato laicistico era ancora in pieno corso. Non c’è da stupirsi, che Durkheim rivendicasse subito la capacità della scienza (cioè del positivismo) di «regolamentare positivamente la condotia» con l’osservazione: «Si elle n’a pas d’autre utilité pratique, elle ne vaut pas la peine que counte», procedendo, convinto della vittoria: «Essa non sarà più esposta all’accusa di

bancarotta»!!. E non c’è da stupirsi che la scuola italiana del positivismo reagisse altrettanto prontamente (La pretesa ‘Bancarotta della Scienza’, una risposta, [di Enrico Morelli], Palermo, 1895; e Arturo Graf, Contro la bancarotta della scienza, Torino, 1895).

Così ebbe inizio la disputa esasperata sulla vera concezione della scienza, che di recente Luisa Mangoni ha ricostruito con precisione,

come Una crisi fine secolo. La cultura italiana e la Francia tra 800 e 900 (1985). Si trattò soprattutto di una disputa sulla vera Weltanschauung che si inasprì nella lotta circa la scienza sociale giusta. Essa si allargò ad una disputa pubblica, interpretando in modo sempre più radicale i diversi concetti di scienza come decisioni principali: pro e contro la realizzazione delle idee del 1789, la democrazia, il parla‘ mentarismo, il laicismo, il socialismo, il progresso, l’educazione e la morale, addirittura la grandezza della nazione o del genio latino!?.

L’uno dopo l’altro, essa coinvolse tutti i gruppi, diversi per la loro Weltanschauung oppure per aspetti politici o sociali; e prese gli aspetti di una scalata non soltanto in Georges Sorel con la sua filosofia ri-

10. Durkheim conclude già il suo primo grande lavoro De /a division du travail social, del 1892, con l’idea di una science de la morale, che più tardi avrebbe elaborato in una disciplina sociologica a sé. 11. Così alla fine del suo articolo istruttivo Crime et santé sociale del 1895, che si oppone a G. Tarde, in E. Durkheim, Textes, présentation de Victor Karady, II, p. 180. 12. Cfr. a tale riguardo, il lavoro indicato di Luisa Mangoni, p. 203.

58 voluzionaria e militante e con gli appelli costanti. Qui rientra anche la coscienza inlessibile del proprio messaggio, con cui Durkheim insisteva sulla correttezza della professione «scienza = positivismo = servizio all’umanità». Questa radicalizzazione dell’opinione pubblica generò quell’atmosfera avvelenata che fece parte delle cause spirituali della prima guerra mondiale. Le riflessioni sulla violenza (1908) di Georges Sorel furono «un fulmine nell’aria di temporale. Bisogna considerarle come una delle prime cannonate della guerra mondiale»,

come scrisse Michael Freund!3. Fin qui lo sviluppo della discussione francese — italiana, che rimase estranea alla Germania, e che per lo più fu seguita soltanto a grandi tratti. Viceversa, la Francia non ebbe alcuna notizia del relativo svi-

luppo tedesco — cioè di Dilthey, Windelband, Rickert, Weber ed altri. È un fatto significativo, che nel 1899 Durkheim persino ‘bandì’ praticamente Georg Simmel, perché non aderiva alla Weltanschauung del positivismo!4. L’Italia invece guardò alla Francia con Ferrero, Lombroso, Mosca, e Pareto; ma anche alla Germania con Croce e Michels. Tutto sommato però, non si giunse ad una discussione europea sul ‘valore di Weltanschauung” della scienza, sul quale si erano accese le questioni fondamentali, inasprendosi in una disputa sul concetto giusto delle scienze culturali e sociali. La prima guerra mondiale invece pose a lungo fine alla possibilità di recuperare tale discussione!5.

4. Windelband, Rickert, Weber: la logica della scienza culturali

Inserendo Rickert in questo contesto, si evidenziano il motivo e il merito della sua opera. Dietro l’eccesso, con cui curava la logica e la sistematica, compare l’uomo, che si occupò delle grandi questioni del tempo. Si è spesso criticata la sua «mancanza di contenuto»!9. Ma la rinuncia esprime anche la sua lucidità e responsabilità. Mentre tutti cercavano ed offrivano We/tanschauung, Rickert prese la posizione 13. M. Freund, Georges Sorel, II ediz.,1972, p. 194.

14. E sufficiente accennare al fatto che Simmel, il quale nel 1898, nel vol. I di «L’Année Sociologique», viene indicato come membro del comitato, più tardi non viene più menzionato da Durkheim. 15. In seguito al contratto di Versailles, le tre potenze vincitrici si impegnano al boicottaggio della scienza tedesca. Una rappresentazione corretta dei fatti viene fornita da B. Schròder-Gudehus, Deutsche Wissenschaft und internationale Zusammenarbeit, Ginevra, 1966; ma purtroppo, il significato e le conseguenze del boicottaggio vengono giudicati in modo completamente sbagliato. 16. Così p. es. già Max Scheler. Cfr. H. L. Ollig, Neukantianismus, 1982, p. 50.

D9 dell’osservatore. Egli non intendeva fornire una Weltanschauung, ma verificare se le singole scienze erano in grado di svilupparla o meno. Mentre Dilthey confidava semplicemente nella natura e funzione immutabili delle Geisteswissenschaften, Rickert che apparteneva alla nuova generazione, si rese conto che il processo di scientificazione doveva cogliere, dividere e trasformare anche queste discipline. Le scienze sociali stavano autonomizzandosi; l'osservazione scientifica avanzava, e la scienza storica, che una volta era stata unita attraverso concezioni e valori comuni, stava frantumandosi in discipline isolate

e fazioni ideologiche. Rickert vide la situazione della prospettiva di tutta la generazione del 1890: «sembrò che si avvicinasse in qualsiasi scienza il momento della fine per tutti i punti di vista valutativi». (MSS 103). y In questo naturalismo, la sua generazione aveva aperto varie brecce, come le scoperte nel campo del significato dell’esistenza. Ora invece, un numero crescente di interpretazioni della realtà umana lottavano per il primato. Rickert, con la sua domanda generale e con l’intenzione di scoprire una soluzione valida, si ritirava da questa scena.

Diede la risposta in due parti, che bisogna ben distinguere. Prima di tutto si volta contro l’idea che le scienze culturali debbano imitare le scienze naturali che afferrano soltanto le regolarità calcolabili ed immutevoli. Proprio per la loro caratteristica ce ne occupiamo soltanto come di problemi tecnici, che non stimolano le nostre valutazioni. Queste entrano in gioco non nella dominazione della realtà attraverso regolarità conosciute, ma nel nostro comportamento individuale che

cerca di realizzare valori ed ideali nella concreta realizzazione della realtà. Già Windelband aveva detto: «Basta pensare al fatto che il nostro sentimento cede, non appena il suo oggetto si moltiplica o si rivela uno sotto mille... Tutte le nostre sensazioni di valore si radicano nella singolarità ed incomparabilità del nostro oggetto» (Pr I, 155). Più drasticamente si espresse poi Max Weber, sostenendo «che noi siamo esseri culturali dotati della capacità e della volontà di assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli un senso» (MSS 96). In questa direzione, Rickert cercava di delineare una logica delle

scienze culturali; essa può essere considerata la controparte dell’opera Les règles de la méthode sociologique di Durkheim, e avrebbe potuto ottenere un simile effetto, se Rickert non avesse assegnato un secondo fine alla sua impresa, al quale ritornerò tra breve. Il merito di Rickert, che resta valido, fu la scoperta gnoseologica della plurivocità (Vieldeutigkeit) della realtà; ovvero la radicale confutazione del naturalismo, che considerava la conoscenza come un’immagine della real-

60 tà, o comunque dei suoi tratti principali. Max Weber riassunse brevemente il pensiero principale di Rickert: Allorché cerchiamo di riflettere sul modo in cui la realtà si presenta immediatamente a noi, la vita ci offre una molteplicità, senz’altro infinita, di pro-

cessi che sorgono e scompaiono in un rapporto reciproco di successione e di contemporaneità, ‘in’ noi e ‘al di fuori di noi [...] Ogni conoscenza concettuale della infinita realtà da parte dello spirito umano finito poggia infatti sul tacito presupposto che soltanto una parte finita di essa debba formare l’oggetto della considerazione scientifica, e perciò risulta ‘essenziale’ nel senso di essere ‘degna di essere conosciuta’ [...] Ciò che per noi ha significato non può essere naturalmente determinato attraverso alcuna indagine del dato empirico, che sia condotta ‘senza presupposti’; al contrario la determinazione di ciò è il presupposto per stabilire che qualcosa diviene oggetto dell’indagine. (MSS 34, 85, 90).

E segue: «La conoscenza delle scienze della cultura nel nostro so è vincolata a presupposti ‘soggettivi’ in quanto essa si occupa tanto di quegli elementi della realtà che hanno una relazione — quanto indiretta — con i processi a cui attribuiamo un significato

sensolper cul-

turale» (MSS 98).

Rickert sviluppò in tal modo coerentemente una logica compatta delle scienze culturali, che qui non occorre esporre. Max Weber lo seguì in questo senza riserve, com’è documentato molto bene. La rottura avviene soltanto, dove Rickert persegue un fine più ambizioso. Si rende conto, che l’ambiguità della realtà vale anche per le scienze culturali, per cui gli storici per esempio forniscono immagini contradditorie, a seconda dell’attribuzione di importanza ai vari aspetti della realtà. Un'immagine generalmente valida della storia può risultare quindi soltanto dalla validità di valori generali. Spesso si criticò, che egli avesse costruito un sistema di valori oggettivi. Posta così, l’affermazione non risulta corretta. Il suo saggio relativo (Su/ sistema dei valori «Logos», 1913) rifiuta espressivamente una tale impostazione!7. Rickert stabilisce soltanto in via d’ipotesi, che la storia fornirà

17. Il saggio documenta ancora una volta, che Rickert aveva parlato del sistema oggettivo dei valori soltanto in modo ipotetico. Esso chiarisce che le scienze non possono fornire Weltanschauung. Anche se la filosofia deve essere anche Weltanschauungslehre — e questo rimane il suo compito supremo — essa oltrepassa con ciò la sfera dei suoi compiti scientificamente risolvibili. In ogni caso, anch’essa non può conoscere contenutisticamente il sistema oggettivo dei valori, ma soltanto sistematizzarlo formalmente. Quanto fecondo e illuminante ciò possa essere, è dimostrato dal saggio apparso in «Logos» (tr. it., in Filosofia, valori, teoria della definizione, a cura di M. Signore, Milella, Lecce 1987) che, pertanto, resta uno dei capolavori di

61 — alia pari delle scienze naturali — conoscenze oggettive e generalmente valide, solo a condizione che esista un sistema di valori oggettivi. Sempre con molte riserve, ne sperava la costruzione, e a lungo cercò di esporre la probabilità e la necessità di un tale sviluppo delle scienze storiche. In quanto a ciò, Salvatore Veca osserva acutamente: «La validità che è richiesta per i nostri modi di ordinamento della realtà è infatti per Rickert una validità incondizionata»; «per Weber possiamo dire [...] c'è una molteplicità di modi ‘validi’»!8. Però Veca non vede, che

intorno a questo problema Rickert impostava soltanto considerazioni ipotetiche sull’ulteriore sviluppo della scienza storica. Max Weber, al pari di tutta la sua generazione, ritiene pericoloso il «politeismo dei valori»: «Soltanto un sicretismo ottimistico, quale risulta talvolta prodotto dal relativismo storico-evolutivo, può illudersi teoricamente dell’estrema gravità di questo stato di cose, oppure sottrarsi praticamente dalle sue conseguenze» (MSS 65). ma il politeismo sembrò a Weber lo stato naturale, superabile soltanto attraverso la religione. Non aderiva alle illusioni rickertiane. Per Weber, le scienze della cultura non possono mai desumere dalla realtà valori universalmente validi; anzi già nella scelta dei fatti e delle questioni aderiscono a posizioni, relative ai valori soggettivi, perché l’individuo può e dovrebbe prendere posizione nei confronti del mondo. In tal Rickert, anche se purtroppo, passò quasi inosservato. Rickert vede chiaramente che tutti i valori possono essere superati storicamente. Le sue esposizioni stanno del tutto sulla linea di Lotze, di Windelband e quindi anche in quella di Weber: i valori non «sono», ma «valgono». Essi sono «aderenti ai beni culturali», e pertanto si pongono di fronte a noi in modo esigente solo laddove vengono realizzati in questi. Max Weber ha ricondotto queste concezioni del neokantismo del Baden a formule che in linea di principio anche Lotze, Windelband e Rickert avrebbero potuto accettare: «Soltanto in base al presupposto della fede nei valori ha senso, in ogni caso, il tentativo di formulare giudizi di valore dall’esterno. Giudicare la validità di tali valori è però una questione di fede» (MMS 62) oppure «E la fede, che sempre è in qualche forma presente in tutti noi, nella validità sovraempirica delle ultime e supreme idee di valore, non esclude, ma reca con sé l’incessante mutabilità dei punti di vista concreti da cui la realtà empirica deriva un significato» (MSS 134-35). Sotto l’aspetto logico, in questo punto vi è poca differenza tra Windelband, Rickert e Weber, poiché tutti e tre confermavano la mutabilità storica dei valori. Ma in realtà la differenza è profonda, perché Windelband e Rickert speravano che, nonostante tutto, lo sviluppo culturale agevolasse una realizzazione cumulativa dei beni culturali, e con ciò, in fin dei conti, anche una conoscenza dei valori, per principio sempre validi, ma realizzati soltanto man mano. A questa speranza, Max Weber oppose la sua tesi del mutamento storico inevitabile dei valori. 18. S. Veca, Il metodo e le condizioni dell’oggettività, in Max Weber e l’analisi

del mondo moderno. A cura di P. Rossi, 1981, p. 7.

62 senso, le scienze culturali (e sociali) continuano a costituire una con-

troversia fra i diversi valori — vuol dire fra le discordi Weltanschauungen — controversia che mai potrà essere risolta attraverso il riferimento ai fatti. In tutto ciò si fa notare la grande importanza — non ancora scoperto dagli interpreti — delle conoscenze sulla storia delle scienze reali, per l’opera di Weber. Ora posso soltanto accennare che, come si rileva da una attenta lettura della sua «Wissenschaftslehre», a questo riguardo Weber fu determinato nelle sue idee da Windelband e non da Rickert. Nell’opera di Windelband, Weber trovò già preparato quel pensiero, che lo divideva da Rickert: che la scienza segue la luce dei grandi problemi culturali: «La luce, che emana da quelle supreme idee di valore, cade sempre su una parte finita, e continuamente mutevole, dell'immensa e caotica corrente degli avvenimenti che fluisce nel tempo» (MSS 135).

A dirla ancora più chiaramente: il famoso saggio di Weber L’oggettività conoscitiva della scienza sociale prende le mosse, sì, da Rickert, ma infine si volta contro di lui. «Nelle scienze della cultura uma-

na la formazione dei concetti dipende dalla posizione dei problemi, e quest’ultima varia con il contenuto della cultura stessa. Il rapporto tra il concetto e il suo contenuto nelle scienze della cultura comporta ia transitorietà di ogni sintesi siffatta» (MSS

128). Insomma, le scienze

della cultura e della vita sociale resteranno mutevoli; la loro oggettività si limita all’imputazione causale. E impossibile arrivare ad una scienza culturale o sociale universalmente valida e oggettiva, come Rickert sperava. Fin qui sul rapporto di Weber con Rickert.

5. Heinrich Rickert nel nostro tempo Rivolgendo lo sguardo sul passato, noi possiamo vedere quello che Rickert può ancora insegnare al nostro tempo. Insieme a Droysen ed a Dilthey, Rickert appartiene a una lunga

formazione di studiosi che hanno fatto sì che le scienze della cultura si rendessero consapevoli della loro specificità e del loro legame nell’ambito di un compito comune. Insieme a Windelband ed a Weber, Rickert — cioè il neokantismo sudoccidentale — ci ricorda 1’ importanza, che le scienze culturali hanno, attraverso la proiezione della loro propria formazione concettuale, per il futuro umano e culturale, poiché i nostri valori più personali si accendono a ciò che è singolare

63 e incomparabile. Non dovremmo dimenticare, che il neokantismo lottava per le scienze culturali proprio per il motivo della loro importanza culturale. Il merito specifico e duraturo di Rickert consiste però nella dimostrazione che la conoscenza non possa condurre ad una copia della realtà di per sé, bensì colga di essa soltanto i componenti che, in base ai nostri «interessi di valore» ci appaiono come «importanti» nel senso di «interessanti» («degni di essere conosciuti»). Pertanto tutte le questioni metodologiche risultano secondarie rispetto alla questione dei fini — cioè rispetto alla questione di che cosa vogliamo conoscere della realtà inesauribile. I nostri punti di vista valutativi stanno a base di tutta la conoscenza delle scienze sociali e culturali. In tale maniera Rickert (e il Neokantismo) affrontava il naturalismo, ossia la fede che i concetti e i risultati delle scienze racchiudessero e riproducessero la realtà empirica. Nella misura in cui il Neokantismo è caduto in oblio, anche le scienze culturali e sociali sono ricadute nel naturalismo. Già Weber aveva scritto: «Sebbene sempre ricorra l’opinione che sia possibile ‘assumere dalla materia stessa’ quei punti di vista, ciò deriva dall’illusione ingenua dello specialista il quale non riflette che egli ha dapprima isolato, in virtù delle idee di valore con cui si è inconsapevolmente accostato alla materia, un ri-

stretto elemento per la sua trattazione» (MSS 97). Le discipline nella loro routine professionale, le loro teorie, le correnti e gli indirizzi non sono consapevoli dei punti di vista valutativi che dirigono il loro lavoro. Sempre tendono alla convinzione di aver colto la realtà oggettivamente vera ed essenziale, e pertanto si coinvolgono in lotte insolubili in base ai fatti. Ciò accade già all’interno della stessa disciplina, quando per esempio la storia politica viene spinta in disparte dalla storia economica, e questa a sua volta, dalla storia della vita quotidiana, poi dalla storia delle mentalità e ora dalla storia delle donne, rispettivamente nella convinzione di aver scoperto la vera storia. A quale immagine storica dobbiamo riferirci? E nelle altre discipline non accade forse lo stesso come anche tra di loro? Il cambiamento degli indirizzi acquista un carattere casuale, e le diverse teorie si sottraggono al giudizio. Non si riesce davvero a comunicare, perché si crede che i fatti decideranno le questioni, mentre di fatto manca il consenso sui punti di vista valutativi, secondo cui si selezionano e valutano i fatti, e, dato che siamo esseri culturali, hanno importanza nella nostra presa di posizione. Così la cultura e le scienze culturali e sociali ricadono in quel naturalismo ingenuo, dal quale Rickert le aveva liberate. E indifferente che ci si rifaccia a Popper o a Gadamer, ora si crede di nuovo che. le connessioni ‘di fatto’ delle ‘co-

se’ costituiscano i problemi delle scienze, mentre invece realmente le

64 nostre questioni — vale a dire i nostri fini della conoscenza — costituiscono la scelta dei fatti, dei problemi. In maniera più sofisticata il naturalismo ingenuo e redivivo domina l’universo del discorso scientifico. Si vanifica lo sforzo ed il rendimento del neokantismo!?. Per dirla con Max Weber, manca la discussione sui valori che effettivamente danno alla conoscenza il fine e l’oggetto. E poiché questa manca, la discussione (in cui presuntivamente interesserebbero soltanto i fatti) non può più portare alla chiarezza. Ne risultano conseguenze pratiche, individuali e sociali. Le scienze ci offrono un sempre crescente numero di concezioni diverse. Su qualsiasi cosa possiamo farci istruire dalle più diverse discipline e indirizzi, sia pubblicamente che in privato. Ma se, p. es., nell’educazione ci dobbiamo attenere alla psicologia, alla psicoanalisi, alla pedagogia, alla sociologia o ad un’altra disciplina, questa scelta viene affidata al caso e al gradimento. Così la scienza corre il rischio di trasformarsi in un’impresa priva di senso, che produce dei risultati cognitivi senza rendersi conto di cosa — e perché — «è degno di essere conosciuto». Per questo motivo, proprio anche nelle intenzioni pratiche, la scienza produce più problemi di quanti non riesca a risolvere, e perde con ciò la fiducia pubblica riposta in essa. Mentre da una parte ci si appoggia sempre di più alla scienza in tutte le sue cose, le asserzioni, le informazioni e le istruzioni si fanno accidentali e incoerenti. Nel 19. La formula «interessi guida della conoscenza» passa oggi per una scoperta di Habermas, ma per primo è stata sviluppata e fondata sistematicamente da Windelband, Rickert e Weber: logicamente, la conoscenza può (intra) prendere due vie, interessandosi, detto in breve, o per il regolare ripetibile, o per il particolare irripetibile; la decisione segue i nostri «interessi di conoscenza» e con ciò, in fin dei conti, il sen-

so che vogliamo dare alla scienza. Perciò ognuno, ogni scienza culturale e sociale deve affrontare questa scelta e quindi la domanda su quale debba essere il senso del suo lavoro. Habermas non si è mai occupato di questa argomentazione in profondità. Le sue note obiezioni contro Rickert e Weber ripetono soltanto il suo punto di vista, senza approfondire seriamente i vari autori. Perciò, in lui gli interessi guida della conoscenza assumono

un carattere del tutto diverso. Nella sua nota ripartizione, Habermas

prescrive alle scienze i loro interessi guida per la conoscenza; affidando l’«orientamento» alle Geisteswissenschaften e 1’«emancipazione sociale» alle scienza sociali. Il problema fondamentale è semplicemente eluso. Non ogni singolo di per sé deve prendere la decisione sulla via, sul senso, sul fine delle scienze culturali e sociali, e assumerne la responsabilità. Dell’importanza culturale fondamentale che il neokantismo attribuiva alla scelta tra le due vie, non si parla neppure. Ma quanto fondamentale sia questa alternativa e quanto profondamente sia segnata nell’andamento delle scienze sociali nelia loro storia, ho trattato dettagliatamente in Die unbewdiltigten Sozialwissenschaften oder die Abschaffung des Menschen, 1984. Si possono leggere anche come commento alle conseguenze dell’oblio del neokantismo.

65 fallimento degli specialisti si annuncia: finché la scienza rimane schiava del suo naturalismo essa causa e deve causare disorientamento, invece di portare alla chiarezza e ad uno sguardo generale, in conformità del suo compito. Le istituzioni scientifiche difettano ovunque di conoscenza delle premesse filosofiche e delle fondamenta delle scienze particolari; più precisamente, difettano della conoscenza della logica delle scienze culturali, così come Rickert la sviluppò e come Weber la perfezionò. Le scienze sono oggi retrocesse dalla posizione della irreprensibile correttezza, in modo tale da essere incapaci di rendere possibile una Weltanschauung. Ma sfugge il fatto che la problematica di fondo torna a presentarsi. In ogni caso la scienza non può fare sì che l’uomo si disabitui al bisogno della ricerca di una Weltanschauung. Quanto più la scienza si premunirà della neutralità dell’oggettività, tanto più i bisogni di una Weltanschauung si trasferiranno a sfere quasi religiose, alle ideologie e a forme spontanee associative. Cosicché essi costituiranno un pluralismo caotico, nel quale è imminente, sul piano mondiale, la guerra civile delle più diverse Weltanschauungen, alla ricerca della futura forma di una cultura globale. Alla scienza sfugge che — come disse Windelband — anche il nostro tempo è in cerca di una espressione di quello che lo muove e di uno «sfondo spirituale della vita nel pensiero». E le sfuggono le conoscenze che devono derivare dal fatto che essa, mentre retrocede dalle questioni della We/tanschauung, dà spazio allo stesso irrazionalismo che essa stessa denuncia.

La scelta dei fatti e l'elaborazione dei concetti resteranno appunto i mezzi decisivi per la nostra rappresentazione della realtà a cui devono orientarsi, inevitabilmente, il nostro pensare ed il nostro agire. La fe-

de naturalistica, che dai fatti si possono desumere le risposte e gli orientamenti adeguati, coinvolge la scienza nella lotta di Weltanschauungen, senza rendersene conto. Le discussioni e le questioni delle scienze culturali e sociali, sebbene vengano imperniate sui fatti, alla fine non possono essere decise attraverso i fatti. Cosicché gli avversari, imprigionati nella fede naturalistica, finiscono con l’entrare nel re-

ciproco sospetto di ideologia. Con ciò la lotta delle Weltanschauungen viene rimessa alle forze reali. La scienza non può nutrire la speranza che essa sia capace di impostare questa lotta prestandosi a raggiungere maggiore consapevolezza dei nostri valori ultimi. Per quanto il Neokantismo fosse erroneo nella sua speranza che la scienza ci avrebbe fornito una Weltanschauung complessiva, esso pur sempre riteneva alto il compito della scienza relativo a ciò. Rickert, pienamente consapevole della gravità della situazione, sviluppava una concezione e un complesso di stru-

66 menti idonei a ottenere maggiore chiarezza su questa problematica. In tal senso l’opera di Rickert, liberata degli aspetti peculiari del personaggio del suo tempo, risulta assai attuale. Però si potrà conferire alla sua opera tale funzione soltanto, quando la ricerca, invece di fermarsi alla filologia, la collochi nel grande contesto della storia del-

la scienza e dei suoi problemi materiali, come Max Weber fece praticamente. Ciò richiede anche, che ricostruiamo il contenuto europeo dei problemi reali in cui l’opera di Rickert si inserisce. Nei confronti di questioni comuni e situazioni simili, i paesi scelsero allora vie diverse, senza pervenire ad una discussione comune, che poi la guerra mondiale troncò del tutto. Ancora oggi, nelle discussioni su questioni concrete ci troviamo vincolati dalle nostre differenti tradizioni, delle qua-

li bisogna rendersi consapevoli. In questo senso, e per questo motivo, ho cercato di collocare l’opera di Rickert all’interno della sua epoca europea, che generò così efficacemente le idee che impegnano il nostro secolo e lo coinvolgono ancora.

LOGOS E STORICITÀ di Nunzio Incardona

Lo sfero sistematico nel suo primordio ancestrale può essere che abbia radicato talmente la fondamentazione dei concetti necessari per la determinazione della scienza e del conoscere, da avere singolarizzato lo stesso concetto in quanto tale nella imperscrutabilità del principio che se ne fa termine fino a sé stesso e fino dunque alla reidentificazione di ciò che rimane pur sempre a principio. In questo senso ciò che se ne può in qualche modo pensare rimane affidato alla forza del segno che se ne fa espressione; ma in questo stesso senso la forza del segno tradisce la necessità di un rinserramento assoluto che custodisca in qualche modo, ma pur sempre determinante, l’interezza di ciò che rimane in un suo acme estremo ma anche coinvolto nella sua stessa potenza di condizionatezza.

In questo, ciò che rimane è pur

sempre quanto si è determinato secondo un primordio ancestrale dello sfero sistematico dal cui punto di vista la scienza della quale la filosofia è capace, soltanto fino a un certo punto riesce a identificare il limite di collimazione con la filosofia in quanto e se filosofia, in questo, riesca a sua volta a identificare intrinsecamente a sé stessa il movimento del suo essere costituito e il dato del suo costituirsi. In questo limite e a partire da questo punto di vista, il dinamismo e il dato, in quanto termini intrinseci alla costitutività della filosofia e alla sua potenza di scienza, hanno subito, storicamente, il pre-giudizio di una necessità che ne ha esercitato la possibilità di alternanza per parte fino a configurare come intera la proprietà della filosofia (se e in quanto speculativa e non soltanto critica) di configgere l’identico nella vincolatezza assoluta di dinamismo e di atto di costituzione e nella relazionale liberazione dall’essere costituito del dato come datività. Si è così storicamente determinata una situazione nei cui confronti lo speculativo della filosofia è riuscito soltanto a rimanere un impedimento a identificare questa situazione con la posizione o con il termine dell’atto in quanto sia concepito o in quanto sia concetto intrinseco a sé e determinante al porre; e dunque si è storicamente consumato fino in

68 fondo il giudizio, scisso dal suo stesso principio di anticipate? a o diviso dalla sua stessa potenza di anticipazione, secondo il quale il dato come datività se non termina nel limite che gli è proprio in quanto risultante intrinsecato dai termini stessi dello sfero sistematico compiuto in scienza e conoscenza, rimanendo per questo fisso sempre ad un inizio sempre più remoto e sfuggente, rimane l’errante principio che, libero e arbitrario com’è, libera la scienza dalla sua possibilità intrin-

seca e ne fa una necessitata conoscenza dovuta al caso degli arbitrari e liberi riconoscimenti del primordio ancestrale. La destinazione originaria della filosofia alla scienza conosce dunque una sorta di scacco iniziale dovuto per un verso alla necessità di lasciare libero e arbitrario il dato come datività e per altro verso alla impossibilità di radicalizzare questa necessità fino ad annullarla. Quella necessità e questa impossibilità, d’altra parte, sono, più propriamente, non già soltanto l’atto di impotenza dell’atto condizionato a questa terminazione della filosofia nella e come scienza, ma soprattutto il termine di condizionatezza assoluta del giudizio come limite del concetto e del concetto come inizio limitato al giudizio. Che questo sia diventato poi, storicamente, il pre-giudizio sistematico che dello sfero iniziale ha assunto estensivamente la sua stessa costitutiva impotenza speculativa, non è soltanto storia moderna del concetto: è soprattutto la esposizione critica di un logos requisito e dissolto dalla sua prospettazione storica come cancellazione suggestiva della sua stessa aporia costitutiva. In questo senso il concetto come datività tutta internata non soltanto al concetto in quanto tale, ma, di questo e da questo, alla consecutiva primaria ed esaustiva scienza di ciò che dal concetto è determinato come rideterminato al giudizio, diventa il ter-

mine di fronteggiamento del logos nei cui confronti disegna la percezione netta di tutto quanto è assoggettabile alla scienza nello stesso senso secondo il quale questo stesso, elementarmente, rigetta il logos di qua dalla scienza e dal concetto, quasi a ricostituirlo intero e inte-

gro dalla stessa frammentazione dei suoi lapilli generativi: fino all’atto occulto che, condensandone e disperdendone le ceneri ancestrali, imagina all’inizio una potenza che si dà ad essere posseduta, nel termine, come atto. In questo senso il pre-giudizio assume di fare scienza per sé e scienza fino alla stessa condizionatezza originaria delle condizioni uv fino alla stessa condizionabilità estrema dell’estremo termine della scienza come conoscenza definita o come sistematica consecuzione per concetto di concetti. Può essere dunque che la filosofia, nella sua storia anche se per questo non immediatamente secondo la storicità del suo divenire, non

69 abbia sperimentato fino in fondo le aporie di una sorta di comportamento del logos che atteggia la sua capacità di apparenza secondo la compattezza, per certi versi, ottusa della concatenazione dei concetti chiamati, dalla nota fondatezza di una imperscrutabile, impensata datività, a darsi, e a scomparire in quanto tali, come scienze: e scienza

secondo la frammentazione, per così dire, apocrifa della propria stessa iniziata autorità. In relazione a questo, così come non si è data storia del logos, né può ulteriormente darsi storia del concetto (che non sia il ri-conoscimento del suo stesso infondato essere costituito), è sembrato, per ingenua, alternata opposizione, naturale il farne la sto-

ria che è stato possibile conoscerne sulla base (o sul surrettizio fondamento) della riassuntiva vincolatezza degli elementi che in qualche modo è stato possibile identificare e individuare come a loro volta segmenti divisi da una interezza internata nel logos e definita per concetto. A questo modo, e fin dall’inizio di una datività tanto più elementare quanto meno conosciuta come tale, il concetto appare condizionato dalla potenza del logos come luogo ancestrale dell’occultamento della possibilità che è chiamato ad avere talmente atto per sé da non potere essere tale se non mediante il logos occultante a questo modo. Ma a questo modo in quanto appunto lo stesso logos sia interamente dovuto ad una condizionatezza dell’origine che lascia senza principio il principio che si può in qualche modo, soltanto perché riconosciuto, pensare. Lo sfero classico di questa predeterminata condizionalità del concetto è la potenza di definizione che lega la progressione del concetto all’orizzonte del principio; non soltanto secondo il topos dell’episteme come pensante presunzione dell’ente in quanto essere, ma, di più, secondo un logos che prolunga la sua potenza di occultamento fino a quel termine nel quale la stessa progressione del concetto fa termine fino all’essere iniziato che lo condiziona e fino dunque al principio che è possibile pensare: che è, criticamente, ciò che dello stesso principio è ciò stesso che è necessario; e però necessario in quel modo per il quale ciò che il principio, a questo modo, è, ciò stesso che il necessario diventa: e dunque che ciò che è necessario (del principio) sia; così come che (essendo) ciò che è del principio sia necessario. La versione classica di questa determinatezza originaria che riguarda il principio nello stesso termine secondo il quale questa relazionalità vincolando logos e concetto determina la fondata fondatezza della logica, non è aristotelica soltanto per genitura storica, è aristotelica per

una autorità critica che è lo stesso spazio di restrizione dello speculativo all’anankdion originario fino al principio di restrizione del principio alla incontraddittorietà come criterio formale e come iniziato

70 principio di riconoscimento dei concetti secondo scienza e conoscenza. Che questo, più letteralmente, significhi che lo stesso principio è direttamente ciò che dipende dall’anankàion, non è soltanto la prescrizione aristotelica (che tiene luogo del concetto a principio) per la quale il principio è (necessario che sia) gnorimotàten e anypòtheton poiché è, più propriamente, criticamente appunto, la necessità che dal principio si dia quel conoscere che è iniziato dalla conoscenza suprema (ciò stesso che è conosciuto come il più noto) allo stesso modo

per il quale questo stesso è interamente identico, all’inizio, in quel suo termine proprio che è la scienza in quanto scienza certa della privatezza (assolutezza) a principio, per il principio, di ogni condizione. L’interezza del logos interno a questa situazione critica del principio è poi diventata l’intera logica della scienza del principio in quel suo termine (hegeliano) che ha dovuto spostare l’anankàion come lo stesso elementare orizzonte di assolutezza del pensare che ne esaurisce ogni possibile diversa definizione; ma ha anche occupato tutto lo spazio necessario allo speculativo per espandersi talmente che di questo è rimasta intatta ancora la possibilità radicale così come da quello spazio occupato, necessitato e necessitante, è sembrato possibile soltanto l’alternativa degli spazi liberi dovuti ai casi esistenziali o agli arbitri storici e prammatici. L’interruzione non ha diviso la linea di totalizzazione che corre e conclude dall’anankàion aristotelico alla assolutezza hegeliana, ma ne

ha disegnato una sottostante passione che è rimasta, per molti versi pur concettualmente infante, a contemplare il paradosso di un iperuranio teoretico aristotelico-hegeliano interrato nell’oscurità dei propri inaccessibili inferi; ma anche così questa passione ha preteso per sé una vita che non sia soltanto la vitalità del suo evento storico, ma an-

che la necessità del suo diventare, come tale, scienza del suo atto contemplativo. Si è così determinato storicamente un phatos della razionalità assolutizzata che se ha lasciato da una parte il logos e da una parte ancora il principio, ha fatto di questo stesso termine per sé e per il proprio atto di conoscenza: riconoscendosi così soltanto e soprattutto come necessitata koinè che non ha vissuto e consumato soltanto l’età del suo decadere dall’evento classico, ma anche l’evento di un suo ricorrente tornare a fare storia per sé e pur sempre secondo la contemplante tragicità della sua necessità di scienza e conoscenza. La polarizzazione degli elementi costitutivi di questa che è una vera e propria diaspora del discorso filosofico, va perseguita radicalmente, o meglio va radicata, nel tema che ne globalizza tutti i significati lasciandone intera la struttura; in questo senso il divenire storico e critico di queste posizioni deve essere ricompreso in ciò che lo

RI espone più compiutamente essendo, appunto, il tema dialettico in realtà la stessa dialettica come tema che svolge compiutamente l’assunto problematico di una fondazione del conoscere che abbia principio nella certezza della scienza. Per questo, infatti, è legittimo addurre l’alessandrinismo classico come l’esponente storico di un divario che da sempre identifica la koinè dei processi storico-critici e della determinazione filosofica. La polemica della scuola megarica nei confronti della dialetticità del discorso filosofico (aristotelicamente calibrato in

un suo modo teoretico più critico che speculativo) se prammatizza il discorso fino a teorizzarlo come necessitatamente retorico, per lo stesso verso occulta nell’astrattezza dei suoi paradossi la latenza di una flessione del logos annidato interamente nella fluente inconsapevolezza della storia fino al termine di storicità dello stesso logos e fino dunque alla legittimità di dare per pensante la somma dei concetti definibili da ciò che si conosce piuttosto che costituenti ciò che si conosce o almeno ciò per cui si conosce. Così che Eubulide può proporre i suoi paradossi non già soltanto per opporre l’assuntività della condizione iniziale alla tautologicità della negazione che ne consegue inutilmente, ma soprattutto per indicare una direzione di discorso che coglie delle aporie del logos la teticità della forma nella quale le stesse aporie, esprimendo il logos, lo definiscono limitandolo a questo stesso assolutamente: per cui il fatto che ad ogni modo il concetto, pur che sia, si esprime nel linguaggio finisce per diventare l’atto di una espressione totalizzante per la quale ciò che si conosce è secondo l’espressione in quanto espressione puramente linguistica. Se storicamente questo segna il passaggio dal momento critico-teoretico delle costruzioni sistematiche del pensiero socratico-platonico e aristotelico a quello storico-critico delle polemiche delle scuole successive, la flessione che ne deriva relativamente al discorso filosofico segna più propriamente il passaggio ad una accentuazione del carattere storico delle categorie del pensiero che trova la sua giustificazione in una più appropriata lettura della sofia come Phrònesis e dunque come saggezza per ciò stesso dominata dall’interesse etico e comunque interessata alla struttura della conoscenza soltanto in quanto finalizzata all’attività morale. Da questo punto di vista l’attività speculativa rimane un esercizio di astrazione che per sé non ha più un significato teoretico. Questo passaggio non segna soltanto il momento di una transizione puramente storica; è invece segno di una transizione formale che identifica la forza di necessitazione di categorie le quali pur estranee intrinsecamente ai processi di formazione del concetto e della conoscenza e dunque in qualche modo indipendenti dalla potenza specula-

12 tiva del pensiero, riescono a fare atto per sé talmente da pretendere di essere, come questo fare atto per sé, termine intrinseco della potenza speculativa e comunque termine appropriato degli atti formali del pensiero. Da questo punto di vista il movimento di transizione scava sempre nella confluenza storica delle proprie superfici fino a saldare le proprie stagioni in una ricorrente riproposizione che di fronte all’imperio delle costruzioni sistematiche del pensiero insegue la congiura vitalistica e disegna il probabilismo delle più dimesse regioni del conoscere servito dalla scienza della storia e dalle certezze prammatiche. Si tratta dunque di una sorta di destino della caduta del logos dalla imperscrutabilità della sua stessa determinazione, nella acquisizione di veggenza positiva per la quale sia possibile che la necessità del contemplare destini il pensare agli oggetti corrispondenti alla stessa estensione dell’orizzonte mondano. In questi termini il divario può prodursi astrattamente soltanto nel limite secondo il quale lo stesso concetto di scienza identifica il conoscere per una parte determinato dalla positività immobile dei dati naturali e per l’altra predeterminato dalla positività mobile del dato storico: per cui la latenza dello sforzo puramente intellettuale che in qualche modo ogni concetto di storia implica, si esaurisce e si esprime nella pressione filosofica che gonfia il dato storico fino a ridurlo nella necessità pregiudiziale di una sua fondamentale categorizzazione. In questo senso la stessa storicità non è tanto determinata come tale o in quanto dovuta ad un immediato concetto di storia, quanto espressa ed esposta dalla caduta del logos dall’altezza delle sue aporie nella latente estensione dei problemi /ogici che ne derivano.

La storicità dunque come ambiente di caduta del logos dalla stessa aporeticità della sua struttura, non casualmente è tanto più avvertita criticamente quanto più deriva la sua stessa categorizzazione da una sorta di sistema sinottico della pura episteme e dell’assoluto compimento: che non hanno come autori una metafisica e una scienza della logica, ma dell’una e dell’altra un paradossale incremento storico di attività critica e di cogenza teoretica per le quali dopo Hegel, e pur sempre, in questo, dopo Aristotele, la tesi filosofica si riduce ad un

ipotetico viaggio di ritorno assai limitato e limitante come consumo storico di un periplo minore dell’odissea del conoscere cui rimane ignoto il supremo atto ulisside del pensare. L’invocato ritorno a Kant non segna soltanto il momento esemplare di quella odissea ma marca più propriamente il tempo di una distanza la cui età, di là dalla sua cronaca, ha storia per una distanza da Hegel segnata dalla sua stessa ascendenza aristotelica: per cui l’odissea di questo ritorno è dovuta

HO alla distanza degli elementi che il viaggio filosofico dalle origini al 1860 ha depositato nelle sue varie stazioni, dal primordio elementare che è pur sempre un modo che il principio ha ed è di esprimere il suo inaccessibile rinserramento per la possibile intrinsecazione ad esso dell’atto radicale del pensare. Il rinserramento inaccessibile può, d’altra parte, essere frantumato soltanto dal maglio teoretico e dalla dirompente forza di penetrazione dello speculativo che intrinseca la radicalità all’atto: ma questo stesso implica un concetto talmente appropriato di determinazione da rendere speculativo ciò per cui non è con questo stesso che dalla appropriatezza di questo si determina una sua disappropriazione per la quale risulti accessibile l’appropriazione della determinazione del concetto: nel cui rapporto evidentemente la filosofia è la parte ambigua che amministra e spartisce equamente l’interezza di una disponibilità che consegue ancora per una parte la scienza, e il suo essere appropriato che le si adegui a questo modo, e ciò che è che è la stessa vitalità di ciò che si dà ad essere conosciuto secondo la sperimentazione di identità che ne risulta necessaria. Nasce così una dualizzazione sistematica o una tautologizzazione dicotomica per la quale la scienza si reduplica, moltiplica l’essere conosciuto del quale necessita come indefinitamente adeguato. Da questo punto di vista il processo di tautologizzazione implica una dicotomia fondamentale che tiene luogo criticamente della stessa privazione di potenza dello speculativo che comporta; per cui il rapporto dicotomico natura-storia identifica la koinè intellettuale e culturale di un momento della filosofia europea che dopo Hegel e fino alle varie culture filosofiche del Novecento ripropone una sorta di momento alessandrino del filosofare pregiudicato dalla sua incapacità di fronteggiare l’hegelismo del pensiero e la immobilità del suo compimento. Lo scenario tutto piattamente culturale di questo momento del filosofare europeo non contempla l’arditezza e l’ambiguità di nuovi paradossi, ma disegna la distesa acquiescenza dei tanti sentieri che vanno diramandosi per l’acquisizione e la nobilitazione delle tante scienze che hanno concetto nella assolutizzata datità del concetto sradicato financo dalla elementarità della propria iniziata datività. Indubbiamente 1’hegelismo del pensiero e il suo germe aristotelico, di questa iniziata datività hanno consumato in assoluto l’intera, estrema datività per cui o si continua a fare cultura della filosofia financo nella presunzione di riscattare il teoretico con il filo ruvido e tranciante dell’ascia della interruzione manovrata nei sentieri nella cui acquietata odissea della diramazione dei viaggi alligna illusoriamente fertile la cultura della filosofia; o il discorso radicalizza la sua stessa fondamentazione, scom-

74 pagina ogni hegelismo, ne interra il germe e fa per sé principio per la intrinsecazione del principio al pensare e al suo dinamismo speculativo. Non è, in verità, questa, una alternativa, poiché nel primo caso la cultura della filosofia ha identificato la sua potenza di espansione fino a identificare la stessa filosofia alla sua capacità mondana di estensione e nel secondo caso il caso non soltanto non è, ma non è come tale possibile e mai sarà un caso: se è, comincia già ad essere, e non per caso, con la sua stessa iniziale e fondamentale proposizione. I casi della cultura della filosofia hanno avuto, d’altra parte, testo sufficiente negli autori che alla fine dell’Ottocento problematizzano la determinazione critica, e neo-critica delle scienze dello spirito fino a irrigidire il problema nella dicotomizzazione categoriale della scienza che in Heinrich Rickert assume il suo rilievo più assertorio: la storia e la natura fanno da appendice categoriale della scienza che a sua volta si trova necessitata ad un confronto con la formazione dei concetti fortemente condizionata dalla ascendenza kantiana della scienza come scienza propria della scienza della natura. Ma a sua volta anche la scienza fa da termine in qualche modo epithetico ad un intero che di sé stessa può essere frammentato come ricerca o come esposizione dal punto di vista di ciò che di essa la logica riesce a dividere e a distinguere in rapporto alla stessa legittimità del concetto. Il logos dunque esprime la sua originaria appartenenza all’atto che bisognerebbe riuscire a derivarne o a pensarne, nel termine strutturale dell’esercizio che se ne può acquisire; e questo esercizio, la logica cioè in un suo senso depotenziato e prammatico, è in realtà la consecuzione organica di una distinzione che trova agevole dividere scientificamente ricerca ed esposizione: la logica, infatti, per Rickert, solitamente, e si potrebbe aggiungere, per prassi, distingue tra ricerca scientifica ed esposizione scientifica. Questa distinzione, d’altra parte, serve rickertianamente a stabilire la legittimità e la validità di una supposizione fondamentale che riguarda l’ambiguità del concetto in quanto sia ad un tempo forma per sé in quanto riesca ad essere segno e segno della forma in quanto questo identifichi la struttura di necessità della esposizione. In realtà, e molto più semplicisticamente, il concetto a questo modo identifica un mezzo fondamentale di esposizione relativamente alle «scienze della natura» e correlativamente ad un limite che identifica a sua volta una costituzione del concetto dovuta più alla scoperta di ciò che eccede questo limite (o di quello che Rickert definisce una lacuna del sapere) che al risultato di ciò che di qua da questo limite il concetto come mezzo riesce a fare conoscere o a determinare come scienza. La logicità della distinzione dovrebbe assicurare fondamento criti-

75 co e scientifico a ciò che ne consegue: che è una sorta di filosofia non direttamente tale della storia, ma in quanto e se la storia sia a sua vol-

ta scienza; e dunque si può ragionevolmente ipotizzare, senza necessità di impiegare acume speculativo, che le scienze della natura riescono a fuggire ad una maldestra tautologizzazione per la quale la filosofia della storia come scienza è a sua volta scienza in senso proprio ed esaustivo. Da questo punto di vista il problema della formazione dei concetti implica non già la questione della determinazione del concetto come tale, ma la possibilità di delimitazione del concetto alla pluralità di una estensione che è rigidamente regolata dalla spartizione di una condizionante dualità dovuta alla natura per una parte e alla storia per l’altra: tra l’una e l’altra il concetto disegna la impensabilità di un intero la cui sussistenza è però assicurata dal mistero della logicità della distinzione che consente di bloccare i concetti ai limiti della scienza naturale e di estenderli o piuttosto di coestenderli all’orizzonte delle scienze storiche o della storia come scienza vera e compiuta. In questo la filosofia è il principio di movimento del concetto come termine di una propria pluralità estesa per una parte e coestensibile per l’altra parte. Rimane ad ogni modo che ciò che può essere identificato per sé come intero rispetto alla distinzione logica è una sorta di idea della logica per sé considerata che sospende il logos in maniera inutilmente platonica nel limbo di una filosofia che è senza sé stessa nella stessa misura secondo la quale riesce ad essere il meccanismo di limitazione dei concetti nella loro costituzione e nel loro uso. In questo senso logos e storicità diventano più propriamente i termini depotenziati di una inattingibile elementarità del logos nei cui confronti anche la dimensione originaria e taletiana della ricerca rimane una evoluta e raffinata forma di scienza dei primordi e di una catastrofe concettuale che irrigidisce questi primordi nell’eidos di un intrascendibile orizzonte platonico. Questo può spiegare, anche se non lo giustifica, il puntiglio critico di una posizione che assegna al concetto la funzione in assoluto o la organicità di un suo essere funzionale alla scienza come scienza divisa sul termine che ne deriva in quanto identificato nella sua formazione

(il concetto) e su ciò che

questo stesso consente di conoscere o determina come ulteriore compimento del compimento che lo riguarda propriamente. Il concetto come dato di acquisizione di quella formazione di sé stesso che coincide con la stessa direzione di quello che Rickert definisce il «lavoro scientifico-naturale»», è d’altra parte un termine essenziale allo stesso principio della scienza come scienza storica o della filosofia come scienza della scienza della storia: in un modo talmente assoluto che

76 per Rickert l’analisi dell’essenza della formazione dei concetti (limitati alle scienze della natura), definendo il metodo delle scienze della natura, fornisce la condizione critica dalla quale derivare la validità della scientificità della storia in quanto questionata nel rapporto con la scientificità della natura o con il metodo della scienza della natura. Il questionamento, è in realtà, apparente poiché Rickert non ha difficoltà a confessare che i limiti della formazione dei concetti funzionali alle scienze della natura stanno esattamente nel senso che non posseggono quando la ricerca investe /a parte, della scienza propria alla e della storia; e dunque si tratta di un singolare trattato di economia filosofica secondo la quale l’avere senso appartiene alla paradossale potenza di una formazione dei concetti limitata o trascesa dalla perdita o dal possesso del senso per mezzo della scienza che se ne produce. Non è casuale quindi che il grado di perfezione della scienza in quanto sia dovuto alle scienze della natura, coincida con la crisi della

scienza e cioè con la banalità della scoperta di un vuoto di concetto che apre nel sapere una lacuna che va necessariamente colmata con un diverso grado di perfezione della scienza. Ma, appunto, è fatale che in questo senso l’episteme identifichi un suo compimento che a sua volta è necessitato non soltanto a individuare la storia come orizzonte inclusivo ed internamente autoestensivo della perfezione (della scienza), ma a categorizzare da questo stesso il concetto per cui così come si può parlare di concetti scientifico-naturali, si riesce a parlare di «concetto storico» fino a stabilirne l’essenza. La capacità autoestensiva della perfezione della scienza è, in realtà, l’atto di ostensione

di una essenza che viene data come propria del concetto in quanto storico: e questo stesso identifica un orizzonte di interezza che, attra-

verso la storicità della storia, la storicità del concetto e la storicità della scienza, discrimina nettamente ed acuisce il divario fra tutto ciò che appartiene alla natura e alle sue scienze e tutto ciò, che sotto il nome di scienze storiche, non identifica soltanto la storia in senso stretto ma tutte le scienze che non sono scienze della natura. L’orizzonte di compimento e di restrizione delle scienze empiriche che non siano scienze della natura, alla storicità della scienza suprema è dunque, più propriamente, il limite di compimento della potenza di ostensione di tutto questo come e nella essenza del concetto in quanto storico; e storico secondo come la univocità di questa categoria pluralizza ciò del quale è termine che va tripartito secondo come è necessario che dalla storia risulti quella apodittica necessità di sé come storicità che fa storica la scienza ad essa adeguata e altrettanto storico il concetto che ne scopre, per sé, l’essenza interamente adeguata. Il punto di vista che governa queste posizioni non può essere deter-

n minato se non tenendo presente il fatto che si tratta pur sempre di una versione, nemmeno trascendentalizzata, della interpretazione critica delle condizioni che determinano una conoscenza come conoscenza scientifica in senso filosofico; e può sembrare quindi arbitrario l’assunto di definire il concetto non soltanto perché risulta a sua volta definito da ciò nei cui confronti il concetto è mezzo e strumento, ma soprattutto per il fatto, critico a sua volta, secondo il quale l’oggetto di definizione, se è la storia, è almeno presuntivamente, tutto internato alla soggettività degli atti che lo costituiscono: /a scienza, in questo caso, e cioè la potenza del concetto storico di determinarsi come giudizio e come atto di conoscenza, rischierebbe di rimanere una presunzione criticistica assuntivamente dominata dalla sua stessa paradossale volontà di potenza. Ma anche così questo ad ogni modo non delinea né tollera il dissidio classico che divide ogni teoria dell’azione dalla scienza che se ne fa, surrettiziamente, contemplante giudizio astratto; è, più semplicemente, la ripercussione di un dissidio che Rickert amministra equamente distribuendolo fra natura e storia e tra formalità logica del rapporto fra le scienze dell’una e dell’altra e attività scientifica tendente a coprire i campi di indagine dell’una e dell’altra nel limite di reciproca esclusiva includenza. La posizione di Rickert a questo riguardo trancia pesantemente ogni questione possibile poiché l’attività dello storico è intesa in senso strettamente teoretico in quanto l’analisi dello storico non procede per mezzo della valutazione pratica, ma per mezzo di un suo specifico sistema di riferimento che, ap-

punto, farebbe teoretica e scientificamente teoretica la ricerca propria della storia come scienza. È chiaro dunque come sia la storia, non in quanto tale, ma in quanto scienza a costituire ad un tempo il logos e il suo interno occultamento rispetto ad una determinazione che rende /ogica l’adeguazione di storicità e teoreticità: logica se non altro nel senso secondo il quale questa adeguazione sfugge ad una propria interna ragione concettuale che non sia dalla stessa storia come logos a questo modo concetto a sua volta organicamente adeguato alla storia e, per potenza della volontà storica, attivisticamente identificato. Soltanto così si può in qualche modo intendere come Rickert riesca a ritenere fondamentale la definizione di storia come «concettualizzazione individualizzante» senza, bisognerebbe pur dire, farsi prendere dal panico di una suggestione della soluzione del suo stesso problema così riduttivamente e semplicisticamente ottenuta. Ma bisogna pur riconoscere che questa tesi non è soltanto una soluzione metaproblematica, ma la convalidazione criticistica di una linea di coerenza di posizioni, che sulla base di una assoluta impotenza dello speculativo, non hanno scampo se

78 non nel rifugio di uno scientismo astratto per un verso o di un prammatismo teorico per altro verso. D'altra parte a questa definizione Rickert perviene dalla necessità di intendere come propria delle scienze della natura la generalizzazione come dato imperscrutabile, da questo punto di vista, del fenomeno della singolarità o del dato della individualità. La prassi individualizzante viene così predicata in termini assoluti e piuttosto che avere concetto è attività adeguata ad una formazione del concetto che coincide a sua volta con l’assunzione piena della individuità come tale: il sapere come meccanismo di consapevolezza interna a questa prassi, è storia ed essendo storia in questi termini è scienza. Il sistema di riferimento assicura dunque a questa prassi la sua dimensione astratta; e si potrebbe addirittura sostenere che, a questo modo, il sistema di riferimento secondo il quale,

l’analisi valutativa non è tale praticamente, è pur sempre un processo di privazione dell’agire da sé stesso nello stesso senso secondo il quale la sua stessa individualizzazione lo teorizza (lo concettualizza) e lo

ricostituisce universalizzandolo nel riferimento a ciò da cui il soggetto agente è ispirato per l’azione: i valori, appunto, e cioè i termini che giustificano, senza principio proprio, la stessa attività valutativa. Il tautologismo trascendentale che il valore implica, nella sua stessa teoria, è propriamente una delimitazione criticistica del valore come termine del sistema di riferimento, alla sua potenza di fare atto per ciò che proprio in questo viene costituito o essenzializzato; per cui il fatto che i valori abbiano quella validità assoluta per la quale sono universali e normativi, dipende dalla necessità di trascendentalizzare, all’interno del sistema, la validità del riferimento e cioè la assolutezza di questa relazione che costituisce ad un tempo la filosofia come filosofia della storia e la storia come scienza della cultura. D'altra parte l’ambiguità di quello che per sé non riesce ad essere una definizione della scienza, è necessitata da un principio di universalità che ha co-

me soggetto la individuità dei propri stessi termini di individuazione; per il che si comprende come e quanto pesi su questa posizione il destino mitico della cultura come autentica scienza universale che ha atto nella stessa particolarità del soggetto come soggetto storico o come agire pratico. In questo senso è altrettanto e inutilmente tautologica una definizione che intendesse cogliere il sistema dei rapporti e del giudizio in un concetto proprio, perché, in questa prospettiva, la conoscenza non può non essere se non lo stesso prendere posizione di fronte al valore: di fronte cioè alla (necessitata e necessitante) irrealtà dell’oggetto che rende valida la conoscenza. Le lunghe, puntigliose analisi che Rickert consuma nelle sue opere (dal 1892 con Der Gegenstand der Erkenntnis fino alle ultime edizio-

79 ni di Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung) degli elementi che concorrono a strutturare le forme varie della estensione dei valori, della loro efficacia teorica e delle soggettività storiche che ne sono ad un tempo spettatrici e attrici, non può nascondere il fatto che, da un punto di vista rigorosamente astratto, la storia e la sua filosofia, la filosofia della storia e la scienza, la scienza storica e la sua potenza di sistema di riferimento sono in realtà tanti luoghi comuni di una simulazione teorica del logos che nasconde la pretesa di esprimerlo compiutamente nell’atto aperto ed esplicito di una trasgressione fondamentale per la quale la storicità, rickertiana se così si può dire, o se si preferisce, propria di un sistema del riferimento fondato nel e dal giudizio di valore come professato atto di conoscenza, è lo stesso terreno di annullamento del logos nell’ethos. La storicità cioè, a questo modo, è l’atto di una trasgressione platonizzata che converte nella virtù della estensione esplicata e della chiarezza senza residui proprie degli oggetti storici, il vizio di una intenzione implicata e di una oscurità imperscrutabile che annidano nel logos l’aporia della sua stessa determinazione prima ancora che il problema della sua esterna-

zione come espressione e come validità iniziale della consecuzione degli atti del comprendere. In questi termini si compie il destino di un irenismo critico che ha assecondato, scientificamente, la caduta del logos fino alla sua potenza di coestensione all’ethos e ai suoi soggetti, che non può non avere atto se non nella riduzione della filosofia a cultura: che è d’altra parte, un esito definitivo della stessa possibilità della filosofia di non essere talmente da rimanere essa stessa come punto limite di una originazione di elementi determinanti che debbono riattraversare il fuoco dei primordi per riattingere il senso delle aporie del logos. D'altra parte anche l’irenismo critico di Rickert non riesce a nascondere alla progressione delle proprie analisi e alla estensività del proprio campo di espressione (felicemente coincidente con il progresso storico e con la stessa evoluzione del fatto culturale assunto come valore e come categoria avvalorante) la fragilità di un suo momento focale nei cui confronti la sua posizione finisce per designare, senza volerlo, il paradigma di un dubbio che non investe soltanto il momento specifico della intenzionalità dei predicati di valore, ma con questo, lo stesso sistema di riferimento che costituisce la filosofia come filosofia della storia e questa come scienza ultimativa della stessa filosofia. La domanda aperta da Rickert, nelle pagine sulla filosofia della storia scritte nel 1905 in onore di Kuno Fischer, sulla capacità, da parte dei predicati di valore, di stabilire un fatto indipendentemente dallo scopo valutativo, è in realtà un dubbio esplicito sulla stessa in-

80 tenzionalità dei predicati di valore poiché se è vero che per Rickert il predicato di valore ha la duplice funzione di accertare i fatti e di caratterizzarli teoreticamente, rimane che per lo stesso Rickert il dubbio sulla possibilità di stabilire un fatto indipendentemente dallo scopo valutativo proprio del predicato di valore, finisce per coinvolgere in questa intenzionalità pura e dunque indeterminata e indeterminante, l’intero sistema di riferimento che fa da principio e da struttura della filosofia come filosofia della storia e di questa come scienza ultimativa della filosofia in quanto tale e delle filosofie. In questo senso la cultura e i suoi mondi configurano un pio esodo che rickertianamente tollera la prescrizione del Sinn come regno del soggetto e delle sue storie. Ma in questo stesso senso una filosofia a questo modo è soltanto scienza ultimativa non tanto della filosofia come filosofia della storia, ma della filosofia della storia come risolutiva scienza della insussistenza teoretica della sua stessa, così indeterminata fondazione.

I MODI D’ESSERE DEL MONDO. PROBLEMI DI ONTOLOGIA di Mario Signore

Il concetto di «mondo» viene colto in Rickert nella sua duplice accezione: a. come orizzonte entro il quale si colloca l’essere, oggetto dell’analisi della filosofia e delle scienze particolari; b. come oggetto esso stesso del filosofare, e come oggetto «privilegiato» nel suo significato di «mondo come tutto». Tutto questo significa che il concetto di mondo fa i conti con la filosofia, e che, per Rickert, la filosofia affida la sua ragione d’essere quasi esclusivamente al compito di definire l’essere del mondo come «tutto». Infatti, come

sostiene Rickert, se da «una parte alla filosofia ven-

gono sottratti vecchi problemi, dall’altra se ne aggiungono di nuovi derivanti dallo sviluppo del concetto di mondo». Da questo punto di vista, «cos'è il mondo nell’insieme è una questione che può essere risolta soltanto dalla filosofia». «Che cosa si intende per ‘mondo’? Quali sono i compiti (e i limiti) delle scienze specifiche nei suoi confronti? Quali interrogativi ci vengono posti dal mondo inteso come totalità, e in che cosa consiste quindi il lavoro filosofico di per sé?»!. Sono interrogativi coi quali ha inizio e si sviluppa il pensiero filosofico. E tutti hanno, più o meno esplicitamente il «mondo» come punto di riferimento essenziale. Tematizzare i modi d’essere del mondo significa, quindi, entrare nel cuore dei problemi filosofici e del filosofare rickertiani. Un filosofare e una filosofia che si sforzano di non dimenticare che sono «un prodotto della storia» e che il loro «senso può essere compreso solo in modo molto lacunoso se non si tiene conto del... caratte1. H. Rickert, Grundprobleme der Philosophie, Verlag von J.C.B. Mohr (Paul Siebeck),Tiibingen 1934, p. 55.

82 re nazionale e storicamente condizionato della cultura complessiva, generale che essi producono?. «Nella vita culturale storica (e la vita culturale non può che essere storica), non esistono ‘esseri umani in genere”, ma solo parti di popoli e creazioni. Colui che non si convince di questo o lo considera filosoficamente irrilevante, si è fermato alla ‘Aufklcirung’ del XVII secolo»3. Premesse che abbiamo voluto rilevare sin dall’inizio, perché ci pa-

re diano, da subito, un orientamento alla soluzione dei problemi «ontologici» inevitabilmente connessi agli interrogativi che ci siamo posti in apertura e che riguardano, appunto, l'essere del mondo, e che vanno immediatamente verso la riformulazione della domanda sull’ontologia in senso non più «monistico», ma «pluralistico». Se si crede che tutto nel mondo ‘sia’ nell’‘essenza’ la medesima cosa, allora

a ragione si potrebbe presumere, considerando la molteplicità del mondo, che la domanda filosofica del mondo si sottrae ad ogni risposta scientifica, giacché non sarebbe mai possibile comprendere in modo scientifico la molteplicità data nel suo essere, come perfettamente ‘identica’. Di fronte a tale rischio, uno dei maggiori compiti dell’ontologia è di rendere sin dall’inizio esplicita la molteplicità dell’essere del mondo e di rendere giustizia al pluralismo del mondo, che si impone ad una riflessione incondizionata*.

Qui il pluralismo ontologico relativo ai modi d’essere del mondo è richiesto anche per risolvere il problema della compatibilità tra filosofia e scienza, contro la tendenza a contrapporle in un’alternativa che andrebbe, e spesso va, senz'altro a tutto svantaggio della filosofia. La domanda fondamentale per questo tipo di ontologia, allora, non potrà che riguardare, anche, la pluralità semantica della parola «essere», che Rickert scopre attraverso il procedimento «empirico» dell’andar per tentativi a cogliere i generi particolari dell’essere del mondo e a individuarne i limiti rispetto alla loro effettiva possibilità di predicare la totalità del mondo. Nell’impegno rickertiano di ricostruire una «mappa» dell’essere del mondo, ripetiamo, con metodo empirico, da un lato, e genealogico del filosofare dall’altro, il primo concetto di essere del mondo,

col

quale inevitabilmente occorre fare i conti è quello dell’«essere assegnato ai corpi». A questo riguardo l’ontologia non può non fare i conti col materialismo (che proprio dal punto di vista ontologico «identifica l’essere del mondo in genere con l’essere esteso nello spazio»), e 2. Cfr. H. Rickert, op. cit., Vorwort, pp. V - VII. 3. Ivi, p. VII. 4. Ivi, p. 56.

83 la filosofia non può sottrarsi alla domanda relativa al concetto meccanico di mondo corporeo, senza con questo tradire la sua specifica funzione che, per Rickert, è quella di cogliere la «totalità». Ed infatti, anche il mondo corporeo può essere concepito come «totalità», e quindi come tale può interessare non soltanto le specifiche scienze naturali, ma anche la filosofia. «Il mondo corporeo è, anche se non ‘la’ totalità del mondo, comunque una totalità», che può essere determinata come una totalità «quantitativa», che però non si esaurisce in una mera somma di parti, ma richiede già un allargamento di significato, che rifiutando, in quanto limitata, la comprensione «meccanica» del mondo, accede a quella «organica», in cui le parti, sono sostituite dalle «membra», che sono tali solo in rapporto alla totalità del corpo (lettura ontologica dell’apologo di Menenio Agrippa). «Persino se fosse possibile concepire la totalità del mondo materialisticamente come corpo, l’ontologia non dovrebbe mai avere un aspetto meccanicistico, perché allora rimarrebbe perplessa di fronte a quelle totalità che di fatto sono più di mere somme, di fronte al mondo dell’essere vivo corporeo». Perplessità, e stupore, se vogliamo, che si accentuano se, proseguendo in questa analisi dei modi d’essere del mondo, l’ontologia si imbatte (e ciò è inevitabile) in quell’ulteriore contenuto di esse-

re che è la psichicità, che ci costringe a fare i conti non solo con la totalità consistente in estese formazioni corporee (meccaniche e/o organiche che siano), ma anche con quella totalità che si rifà a quelle formazioni dell’anima (e/o psichiche), «che non possono essere intese né

come meccaniche, né come organiche, perché semplicemente non-

corporee»9. Ma qui si ripropongono difficoltà, in verità, antiche quanto è antica la riflessione filosofica, più matura, e rinascono problemi che assillarono in particolare i filosofi dell’età moderna fino a Cartesio e a Spinoza. Sono i problemi, che qui elenchiamo soltanto, del dualismo tra meccanico e biologico per i corpi estesi, tra interno ed esterno per le formazioni non-corporee; del dualismo tra corporeo e incorporeo, tra fisico e psichico; della causalità psico-fisica e del parallelismo psico-fisico, che solo chi pretende di far rinascere il dogma del monismo, può pensare di risolvere in maniera definitiva. Ciò che può fin d’ora essere accolto come decisamente insoddisfacente, se non addirittura insostenibile, sia sul piano dell’essere fisico,

che su quello dell’essere psichico, è qualsiasi pretesa di comprenderli

5. Ivi, p. 63. 6. Ivi, pp. 64-65.

84 ontologicamente in modo unitario, sia al loro interno, che nella relazione tra di loro. «Nel mondo fisico esiste, accanto a quello meccani-

co, l’essere organico. Nella vita psichica troviamo processi elementari, ed accanto delle totalità, quali forme (Gestalten) che non si lascia-

no scomporre in elementi»?: insufficienza, ma anche ineliminabilità della psicologia associazionistica, non alternativa comunque al gestaltismo. Ma ciò che risulta per lo più impossibile è ancora la pretesa di fondare una relazione ontologica tra i due ambiti complessi (psichico e fisico), cioè una relazione capace di soddisfare l’esigenza di «comprendere l’unità del mondo come totalità». Bisogna rinunciare, a meno che non si percorrano altre strade possibili alla filosofia, alla «speranza di gettare... un ponte ontologico e scientificamente fondato tra i corpi e la vita psichica». Per questa strada la filosofia che mirasse in ogni modo alle totalità senza peraltro volere entrare in conflitto con la ricerca particolare delle singole scienze e cercando di comprendere il «tutto del mondo» (Wel/tganze) unitariamente, fallirebbe il suo obiettivo. «Il mondo sensibile (di cui

abbiamo trattato finora), che per molti coincide con il mondo in genere, si fa riconoscere scientificamente... solo... quando lo si suddivide

tra le diverse discipline, assegnando a ciascuno un ambito particolare»8. E possibile sottrarsi al destino della divisione del lavoro scientifico, che avvalora la convinzione che «la scienza si sviluppa soltanto se si limita alle parti del mondo, e rinuncia a porre filosoficamente il tutto del mondo sotto un sistema concettuale coerente in se stesso»? E una domanda non retorica, che ha assalito filosofi non solo della tempra di Rickert, ma anche Husserl ed Heidegger, Weber e i Francofortesi, e che riguarda la sopravvivenza stessa della filosofia e il sogno, «finito» o da realizzare di una filosofia «als strenge Wissenschaft».

Forse, la via di una risposta a questa domanda passa attraverso un’estensione del concetto di esperienza, che consenta di «ritenere tutto ciò che percepiamo attraverso i sensi, psichico o fisico che sia, come un mero frammento della nostra esperienza, quindi come qualcosa che richiede necessariamente di essere completato da un essente impercepibile, non sensoriale, qualora ne debba sorgere un ‘mondo’»?. Qui va subito precisato che quando Rickert propone un’estensione del concetto di esperienza non vuole cadere nel malinteso di chi è

7.Ivi, p. 75. 8. Ivi, p. 76. 9. Ivi, p. 77.

85 convinto che per estendere il concetto di esperienza, bisogna necessariamente superarlo, oltrepassando, appunto, l’esperienza. Rickert a più riprese ribadisce di voler rimanere strettamente a ciò che attraverso la conoscenza è riscontrabile come immediatamente vissuto, per cui estendere il concetto di esperienza può voler dire solo tematizzare quelle forme, già note all’uomo, «che ontologicamente non si lasciano comprendere entro il solito dualismo psichico-fisico». Questa posizione Rickert sostiene anche attraverso l’esplicita diffidenza nei riguardi dei termini «spirito» e «spirituale», che rimandano, nell’uso

più comune, a un principio «superiore», ed introducono un elemento di valore, che certo non può essere introdotto almeno in questa fase della riflessione filosofica, che vuole fare a meno dei giudizi di valo-

re, per attenersi per quanto è possibile ai fatti. L'estensione del concetto di esperienza consisterà dunque nella ricerca di quel terzo tipo di essere, che esiste al di là di quello fisico e psichico, che si mostra con evidenza proprio a chi voglia osservare la totalità dell’esperienza, e non limitarsi esclusivamente all’esperienza

scientifica. D'altra parte, pur rimanendo nell’ambito delle scienze, va notato che queste consistono di proposizioni costituite da parole che acquistano rilevanza se ad esse corrispondono dei «significati» che non necessariamente coincidono con le parole percepite. Cioè, vogliamo dire che le parole in genere, e quindi anche quelle delle scienze, al di là della loro percettibilità come suoni o segni, manifestano il loro senso o significato, che dev'essere definito anche dal punto di vista ontologico, «cioè con riguardo al tipo di essere che gli è proprio», e alla collocazione (sempre che sia possibile) di questo nuovo modo di essere «nel mondo sensibile che consiste solo di forme (Gebilde) psichiche e

fisiche»!9. A prima vista potrebbe apparire scontato il fatto che il mondo del senso possa essere immediatamente assimilato alle forme psichiche del mondo sensibile. Ma appena ci si soffermi un poco a rivedere le cose, riprendendo per un momento la distinzione tra l’essere fisico e l’essere psichico, si deve rilevare che l’uno, l’essere fisico, può essere percepito in modo identico da un numero qualsiasi di individui, mentre l’altro, quello psichico, è accessibile immediatamente solo ad un individuo per vol-

ta. Ora, «se il mondo dell’esperienza consistesse soltanto di processi psichici e fisici, non comprenderemmo in che modo si potesse giun-

10. Ivi, p. 80.

86 gere non diciamo alla conoscenza, ma al semplice riconoscimento di un mondo comune a tutti noi»!!. La vita psichica, come tale, non conduce mai oltre il singolo individuo, e il mondo fisico di per sé non dà nessuna conoscenza. Devono esistere quindi delle forme che, come l’essente psichico, non siano fi-

siche e che nonostante ciò possano essere esperite da più individui e vissute in comune, come identiche, dal maggior numero possibile di uomini. L’esistenza di queste forme sui generis che naturalmente va dimostrata, e la cui dimostrazione è anch’essa compito della filosofia, serve anche a provare l’insufficienza del dualismo psichico-fisico, cioè di una ontologia dualistica, per un concetto aperto di esperienza. Ribadiamo che, per l’ontologia dualistica nel mondo non potrebbero esistere delle forme incorporee e tuttavia accessibili a tutti. Di qui la necessità di un superamento del dualismo e l’apertura ad un «terzo modo di essere del mondo», a quello appunto del «significato», che rende possibile l’effettuarsi, verificabile nella realtà, della comunicazione tra gli uomini. Se non ci fossero i significati delle parole, che nell’immediata esperienza di più individui sono identici..., la comunicazione tra gli uomini che la attuano, tramite il linguaggio, non sarebbe possibile. Quando pronunciamo delle parole per comunicare tramite esse con qualcun altro, presupponiamo che egli capisca lo stesso significato che intendiamo con le parole. Altrimenti ci sarebbe solo ciò che chiamiamo ‘malinteso’, ammesso che questa parola possa avere un senso, senza una qualche comprensione tra gli uomini!?.

Già da ciò si evince la necessità di ipotizzare un mondo del «comprensibile», che si differenzi dal mondo del «sensibile», senza per questo ricorrere ad una interpretazione «metafisica» della differenza, nè a forme di idealismo di tipo platonico. Limitandoci al mondo dell’esperienza, secondo Rickert, così come facciamo l’esperienza delle forme sensibili (sinnlich), altrettanto sperimentiamo le forme intelli-

gibili o comprensibili. D'altra parte, proprio quando si ha a che fare con l’esperienza del

«senso», e quindi con le forme intelligibili o comprensibili, è possibile, pure, fare l’esperienza della totalità e coglierne il significato più corrente, cioè capire cos'è la totalità. Si pensi al «senso» di una frase, per riutilizzare l’esempio del linguaggio che Rickert privilegia. Siamo abituati a parlare sia del «sen11. Ivi, pp. 78-79. 12. Ivi, p. 79.

87 so» delle singole parole, che dei «significati» di frasi complete. Perciò si può supporre che così come la frase si compone di parole, il «senso» si componga di significati in modo tale che il senso della frase sia la semplice giustificazione o nient'altro che la «somma» dei singoli significati delle parole. Ma si tratta di un’idea inappropriata. Il senso di una frase si distingue fondamentalmente dalla semplice somma... Scegliamo quale esempio un «senso» comprensibile teoricamente come vero o falso. Le singole parole e la loro semplice somma non sono nè vere nè false. «Solo il senso dell’intera frase possiede la differenza teoretica»!!. Questa conclusione, che è già legittima sul piano gnoseologico del rapporto tra le singole parole coi loro significati, e la totalità di una forma sensata, qui interessa per i suoi risvolti ontologici, in quanto l’intera forma sensata dev'essere diversa per principio, cioè ontologicamente, relativamente al suo essere, da una semplice somma. «Qui possiamo dire — sostiene Rickert — che solo come membri di una totalità i significati delle parole entrano nella sfera sensata teoretica»!4. Siamo, se è consentito il richiamo, sulla soglia di una teoria della parola come teoria della metafora che si è liberata delle tecniche dell’identità e della sostituzione (Jacobson) e si avvia verso l’innovazione se-

mantica, che cogliendo la «tensione» tra identità e differenza, evidenzia la possibilità che certe figure (e quindi le parole) possiedono di creare un nuovo contesto referenziale, in cui il senso letterale viene sì distrutto, ma si ottiene la contropartita di una «innovazione» di senso a livello dell’intero enunciato, innovazione ottenuta mediante la «torsione» del senso letterale delle parole!. Siamo, in definitiva, di fronte ad

una teoria della metafora che esce dai limiti della linguistica generale per entrare nella metafora viva, nella metafora come ontologia. Naturalmente l’esemplificazione qui introdotta può essere estesa, in quanto «non solo le forme ricche di senso, che si manifestano tramite le singole frasi sono delle totalità (Ganzheiten) ontologiche qualitativamente distinte, rispetto ai singoli significati delle parole di cui si compongono, ma a loro volta esse stesse si inseriscono come parti in totalità maggiori». Un trattato scientifico, ad esempio, in quanto composto da forme sensate (le frasi scientifiche) si inserisce come

parte in un contesto

maggiore, vale a dire nel contesto della scienza a cui le frasi appar13. Ivi, p. 83. 14. Ivi, p. 85. 15. Cfr. P. Ricoeur, La métaphore vive, Paris, Editions du Seuil, 1975; tr. it., La metafora viva, Jaca Book, Milano 1981.

88 tengono. «Questa (la scienza) si compone di molti trattati o di opere complessive che tramite il senso della verità diventano parte di un senso esteso complessivo»!6. Ma questo non è ancora l’ultimo tutto, il

tutto definitivo teoretico. Così come i trattati si uniscono nel tutto sensato di una scienza, anche le varie scienze possono essere considerate come parti di un tutto ancora più esteso, anche di quel tutto che non sia ancora del tutto espresso attraverso le frasi scientifiche. Il concetto della scienza totale come quello di una forma sensata, include anche ciò che ancora non è riconosciuto e che tuttavia ‘esiste’ in qualche modo. Si tratta, come possiamo dire altrimenti, della scienza come ‘ideale’, che tramite l’uomo che lo riconosce dev'essere ancora ‘realizzato’. In questo ideale abbiamo poi l’ultimo tutto, a cui tutte le forme sensate

appartengono come parti, e, sotto l’aspetto ontologico, universale, anche questa forma ‘ideale’ dev'essere in qualche modo già presente, anche se nessun uomo può dire di conoscerla nel suo contenuto!7.

Qui, l'ideale del tutto, benché sotto certi aspetti è già presente, sia

pure come istanza regolativa, serve a garantire quel concetto dinamico di scienza e di progresso scientifico, che rende meno perversi gli effetti della parcellizzazione della ricerca, della esasperata divisione del lavoro scientifico, denunciati da Husserl nella Krisis. Sarebbe, se-

condo noi, produttivo approfondire le convergenze, volute o occasionali tra la funzione di questo ideale del tutto o del tutto come ideale adottato da Rickert come intuizione correttiva di una scienza, che frantumata, rischia di cadere nel non-senso (sinnlos), col «tutto» ori-

ginario espresso nella Lebenswelt husserliana e nell’invito di Husserl al ritorno al mondo della vita in funzione terapeutica per la crisi delle scienze, in quanto crisi del significato umano della scienza!8. Conseguenza che diviene più plausibile se usciamo con Rickert dal contesto dell’essere intelligibile, identificato fino ad ora con quello del senso teoreticamente comprensibile, e dall’ambito dell’esperienza

scientifica e dal suo ideale di verità, per mettere in risalto altri modi di esperienza, non necessariamente identificabili con le forme sensate

espresse attraverso i valori della verità o dell’errore teoretici. Sempre rimanendo all’interno dell’esperienza delle forme non percepite sensibilmente, ma nemmeno psichicamente sperimentate, noi

16. H. Rickert, Grundprobleme der Philosophie, cit., p. 85. 17. Ivi, p. 85-86. 18. Cfr. E. Husserl, Die Krisis der europdischen Wissenschaften und die transzendentale Phinomenologie, L’Aja 1959; tr. it., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1961.

89 incontriamo altre forme di comunicazione, di espressione, di esperienza pratica, che non hanno come scopo il vero o il falso. Scriviamo

poemi, produciamo opere d’arte, viviamo socialmente, commerciando tra gli uomini, e tutto questo è rivelativo della complessità dell’ambito dell’essente che si trova all’interno del mondo dell’esperienza, e che non può essere ridotto soltanto all’ambito del fisico o dello psichico. Insufficienza del «dogma» del dualismo psico-fisico che costringe la filosofia a costituire un differente concetto ontologico del mondo dell’esperienza. «Complessità» che appare ancora più irriducibile se fermandoci ancora a quel modo d’essere del mondo che si esprime anche ontologicamente, come abbiamo visto, attraverso l’esperienza del «senso»,

analizziamo gli infiniti portatori di senso, che come il linguaggio, la frase, il contesto, si colgono al di là dell’esperienza fisica e psichica, nell’esperienza intelligibile della «comprensione». A questo proposito, Rickert elenca i vari tipi di linguaggi non parlati e non uditi, di parlanti non percepibili sensibilmente, eppure intelligibili: il «linguaggio» musicale, il linguaggio dell’opera pittorica, lo sguardo, il gesto dello stringere la mano a qualcuno, tutti, a volte, più «eloquenti» di tanti altri linguaggi. E ancora, l’espressione del volto che ha per esempio «la capacità di farci comprendere senza parole ciò che avviene dentro l’uomo», laddove la parola «volto» viene usata in modo traslato, ed un «volto» viene attribuito non solo agli uomini e agli animali, ma anche alle cose che possono essere intese come portatrici di forme sensate, come «dicitrici» senza lingua di cose comprensibili. Il «volto» come luogo ontologico del «dire» non detto, la Leiblichkeit come mediatrice dell’agire sociale, come portatrice di forme di comportamento ripieno di senso, richiamano immediatamente, da un lato la posizione teoretica di un E. Lévinas, intesa a tener salda proprio l’esigenza del pluralismo ontologico, al di là della tentazione idealistica o positivistica ma, ancor prima, parmenidea della reductio ad unum di una totalità che ha preteso di cancellare la «traccia dell’altro», imponendo alla filosofia l’itinerario di Ulisse, «la cui avventura nel mondo non è stata che un ritorno alla sua isola natale, una compiacenza nel medesimo, una misconoscenza dell’altro»!?.

19. E. Lévinas, La signification et le sens, in «Revue de Métaphisique e de Morale», 1964, 2, pp. 125-56; la citazione è a p. 140. Del medesimo autore vedere, Totalità e infintito, Milano 1980; Altrimenti che essere , Milano 1983; En decouvrant l'existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1974; tr. it., La traccia dell'altro, Pironti, Napoli 1985; Di Dio che viene all'idea, Milano 1986. Cfr. E. Rickert,

Grundprobleme der Philosophie, cit., p. 89.

90 Dall’altro, richiama la «corporeità», di cui argomenta M. MerleauPonty, la quale costituisce la vera natura comune tra i soggetti in relazione (che per Rickert si esprime proprio nel modo d'essere intellegibile, non fisico né psichico, delle forme dotate di senso) e che ci ren-

de familiari gli uni agli altri, per cui si può dire che nell’agire e nell’esperienza dei soggetti agenti vi è sempre un «orizzonte di familiarità», che è costituito dal mondo corporeo e che ci consente di cogliere anche quegli elementi intercorrenti nella relazione, che vanno al di là della comunicazione diretta?°. E, se vogliamo, la Leiblichkeit di Alfred Schutz, quel «corpo», che con i suoi cambiamenti funge da «indice» delle esperienze vissute altrui, che possono essere colte nel loro significato nella contemporaneità della relazione socio-ambientale in una faccia-a-faccia tra i corpi, in cui il senso intenzionato dei soggetti si esprime in tutta la sua realtà sintomatica, sottraendosi ai limiti della forma psichica, e divenendo comunicazione, in un’esperienza che non è psichica, senza essere neppure corporea?!. A questo punto, tornando a Rickert, non soltanto si individua la

sfera autonoma delle forme di esperienza dotate di senso, ma si riabilita il mondo corporeo come portatore di senso. Infatti, «nella famiglia, nella vita professionale, nella comunità del popolo partecipa sempre anche un corpo come mezzo espressivo del senso, e in quanto a ciò ontologicamente non si può ignorare la sua esistenza»??. Ma il programma di una ontologia pluralistica, come quella teorizzata da Rickert non si esaurisce nella riabilitazione della corporeità. L’ontologia deve fare i conti con la totalità e quindi abbisogna della conoscenza di tutte le forme sensate che completano l’essere del mondo empirico, al di là del mondo sensibile psico-fisico. Ma dire questo significa far chiarezza sull’universo dei valori che stanno alla base della totalità sensata di un mondo

«intelligibile», e con ciò la

teoria dell’essere intelligibile sfocia necessariamente in una filosofia dei valori (allo stesso modo in cui la teoria della lingua come portatrice di senso aveva richiesto una teoria del valore di verità o di errore 0 comunque un sistema di concetti). Il concetto di un sistema di valori universali è, per Rickert, l’unico

mezzo che può condurre ad un riconoscimento sistematico dell’universo delle cose dotato di senso. 20. Cfr. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Paris 1945; tr. it., Fenomenologia della percezione, Milano 1965. 21. Cfr. A. Schutz, Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt, Springer, Wien — 1932; tr. it., La fenomenologia del mondo sociale, Il Mulino, Bologna 1974. 22. E. Rickert, Grundprobleme der Philosophie, cit., p. 90.

Si A questo punto, il rischio che si affaccia, teorizzando un sistema

universale di valori, è che si trascenda proprio quell’esperienza che fino ad ora ha costituito l’orizzonte obbligante entro il quale Rickert si è mosso per costruire il suo pluralismo ontologico. Rickert appare consapevolmente preoccupato di fronte a questo rischio, al punto che, ribadendo che la vita dotata di senso della quale noi facciamo esperienza è solo la vita umana, si affretta ad affidare «il compito di riconoscere il ‘mundus intelligibilis» in base a un sistema di valori, non più all’ontologia generale, ma a quella parte della filosofia che si caratterizza come antropologia e che riconosce «che siamo capaci di comprendere il ‘mondo’ solo partendo dall’uomo»?3. Ma questa consapevolezza, non schiaccia inesorabilmente l’ontolo-

gia sulla metafisica, estraendola dalla metafisica, ma porta Rickert ad individuare un ulteriore modo d’essere del mondo, che è quello del mondo «profisico» (che non è quello fisico nè quello meta-fisico), il quale si costituisce in riferimento ad un uomo come soggetto profisico, capace di cogliere l’essere prima di tutto il mondo sperimentabile fatto di oggetti, in quanto si pone come pre-condizione dell’essere del mondo dell’ esperienza, non identificandosi tout-court con il soggetto psichico, la cui vita psichica consistente in processi svolgentisi nel tempo, si lascia oggettivare. Però proprio il pericolo di questa oggettivazione richiede un soggetto capace di sottrarsi a questo rischio. Si tratta di una «premessa» al riconoscimento del mondo dell’esperienza, che Rickert assimila a quell’Io che Kant definiva «appercezione trascendentale» o «conoscenza in genere», sia pure con l’aggiunta di un contenuto che riempia la forma vuota dell’individualità e porti l’ontologia, che si occupa delle pre-messe di tutta l’esperienza concreta, al di là della semplice conclusione che a tutti gli oggetti dell’esperienza sia da aggiungere mentalmente un io-soggetto profisico. Ma che cos’è questo contenuto dell’io-soggetto profisico, ovvero «che cosa è proprio dell’essenza del riconoscere e in quanto a ciò, necessariamente, anche dell’essenza del soggetto riconoscente non obiettivabile, che pre-mettiamo ad ogni conoscenza come soggetto?»24. Per rispondere a questa domanda bisogna riconoscere che il soggetto richiesto da ogni oggetto riconosciuto nel pensare universale non si libera mai da un comportamento alternativo, cioè dal prendere posizione (aut — aut) nei riguardi dei valori. Il soggetto riconoscente

PI RIVISPISIE 24. Ivi, p. 118.

92 non è mai un soggetto puramente contemplativo, cioè meramente che osserva. «Esso valuta nel senso più esteso della parola, affermando o negando, anche, anzi proprio, nel riconoscimento». Si presenta quindi come un soggetto sintetico (sintesi tra soggettooggetto-relazione-valutazione), che anche come sintesi deve mantenere il carattere di soggetto, cioè non deve essere pensato come obiettivato se non vuole perdere l’essere peculiare che gli è proprio come soggetto che riconosce. «L’io che valuta non appartiene alla realtà psicofisica, che si lascia oggettivare, e per il suo carattere di atto sintetico neanche al mondo intellegibile che comprendiamo oggettivandolo»?9. Perciò non è collocabile nel mondo concreto dell’esperienza. Di qui l'autonomia ontologica di questio, inteso come premessa del riconoscimento del mondo dell’esperienza, ma anche la specificità del tipo di determinazione possibile per l’essere profisico, che non è la determinazione causale dell’essere psico-fisico, bensì la determinazione di valore, che richiede come fondamentale, ed effettivamente esistente, la libertà.

Una libertà che non vale solo per il soggetto teoretico, cioè inteso nell’atto del riconoscere, ma anche lì dove si tratta del comportamento del soggetto rispetto ad altri valori che non siano solo quelli della verità. Si tratterà allora di una libertà che avrà a che fare con l’agire dell’uomo, nel senso che solo un soggetto libero che, valutando, ha compreso un senso come positivo o negativo e prende, agendo, posizione nei riguardi di questo, «si lascia» influenzare «in qualche modo da esso», costruendo già una sorta di «congiunzione» tra mondo reale e mondo intelligibile, di unificazione del mondo dalla parte del senso e del valore, che eviti la frantumazione della totalità del mondo, inevi-

tabile per la scienza oggettivante. Giunti a questo punto, al discorso filosofico e scientifico non spetta che «tacere», accontentandosi di avere investigato i modi d’essere del mondo, dal punto di vista dell’essere psico-fisico, di quello intelligibile (o della comprensione del senso) e di quello profisico. Questo perché anche secondo Rickert, una filosofia, che pretenda di essere una scienza, non potrebbe avere altra risorsa che l’essere immanente alla conoscenza e d’altra parte, l’articolazione in essere sensibile, intelligibile e profisico può soddisfare tutte le esigenze di una filosofia che riconosca i suoi limiti e che individui l’inizio e la fine del filosofare all’interno, non al di fuori o al di sopra, del mondo della cono-

25. Ivi, p. 118. 26. Ivi, p. 119.

93 scenza. Limitazione che vale anche per l’ontologia generale. Ma nemmeno la consapevolezza dei limiti può proibire e impedire, definitivamente, l’istanza di un’unità più alta, quella proposta e offerta dalle metafisiche.

Che è come dire, che, quando il pensiero filosofico intraprende la strada dell’unità e dell’unificazione, cosa, per Rickert, inevitabile, se si vuol fare filosofia?7, rischia di non potersi più sottrarre al destino di una sistematizzazione metafisica. Destino al quale, secondo noi, Rickert non si è sottratto, sia pure restando solo al livello di “istanza”.

27. Chiara su questo punto la posizione di Rickert in Vom Begriff der Philosophie, in «Logos», I, 1910, 1, pp. 1 - 34; tr. it., Su! concetto difilosofia, in Filosofia, valori, teoria della definizione (a cura di M. Signore), Milella, Lecce 1987.

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